Un sistema che non va più in moto_P.Aversa

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Un sistema che non va più in moto_P.Aversa
UN PAESE CHE NON VA PIÙ IN MOTO.
Autopsia di una crisi annunciata.
Di Paolo Aversa
La notizia che annuncia la chiusura della Malaguti non è purtroppo l’unico
segnale a testimoniare le difficoltà dell’industria Italiana legata alla produzione di
moto e scooter. Il tonfo della caduta di Verlicchi e Moto Morini avevano già
indicato il pessimo stato di salute della industria motociclistica italiana, che vede
in Bologna uno dei suoi maggiori centri. Oggi il collasso di alcune storiche
imprese e le evidenti difficoltà di altre non solo mettono in luce lo spettro di una
possibile debacle della motor valley nostrana, ma ci stimolano ad interrogarci sulle
cause che hanno portato un sistema industriale di fama mondiale a perdere alcune
delle sue punte di diamante. Individuare con chiarezza i perché di questo
naufragio dovrebbe essere il primo passo verso un possibile recupero volto a
contenere le evidenti ripercussioni economiche e sociali. Tuttavia non è facile
disegnare i contorni di una crisi derivata in parte da problemi sistemici, ma in
parte anche causata da discutibili scelte strategiche delle singole imprese.
La negativa congiuntura internazionale e la crisi dei consumi sono di certo tra
i fattori che hanno determinato la contrazione della domanda di moto e scooter in
Italia e nei paesi dell’area Europea. E’ intuitivo che la diminuzione del potenziale
di spesa pro-capite, ha portato ad una ridefinizione delle priorità per i singoli e le
famiglie. Di fronte alla difficoltà a far fronte alle spese di base, l’acquisto di una
moto o uno scooter è spesso percepito come accessorio, e quindi evitabile. Questo
fenomeno assume dimensioni diverse a seconda delle differenti situazioni
nazionali. Non a caso l’ACEM (associazione che riunisce tutti i produttori europei
di moto, scooter e accessori) nel suo comunicato stampa di questo mese ha
evidenziato come il calo delle immatricolazioni nei primi 6 mesi del 2011 abbia
presentato i valori più preoccupanti in Grecia (-26,42%), Italia (-16,29%) e Spagna
(-16,61%), che paradossalmente, per condizioni climatiche e abitudini culturali,
dovrebbero essere tra i paesi in cui è più diffuso l’uso dei veicoli a due ruote. Altri
paesi europei che presentano un’adozione più modesta di moto e scooter si sono
sostanzialmente tenuti su valori positivi, o del tutto comparabili a quelli del primo
semestre 2010: Belgio +9,10%, Svizzera +7,43%, Germania +1,73%, Francia
+2,43%, mentre il Regno Unito ha subito una riduzione del -2,00%.
Il decremento di registrazioni di moto di media e grossa cilindrata (–7.69%,
corrispondente a 48.509 veicoli), è stato più del doppio di quello di scooter e
ciclomotori (-3,35%, corrispondente a 10.295 veicoli). Questo dato si può
interpretare alla luce delle abitudini d’uso dei centauri europei. Infatti le moto
sono viste in genere come leisure, ovvero più un hobby da praticare nel tempo
libero, che un quotidiano mezzo di locomozione. Pertanto, acquistare una
motocicletta viene sempre più interpretato come un bene accessorio o addirittura
di lusso, poiché i costi ad esso connessi sono significativi e in crescita continua, a
causa dei costanti incrementi sulle tasse di possesso, sull’assicurazione, sul
mantenimento, e sul carburante. Gli scooter invece vengono sempre di più visti
come mezzi di trasporto quotidiano, nonché una soluzione al traffico che
congestiona in particolar modo le principali aree urbane. In quest’ottica, gli
scooter di grossa cilindrata hanno avuto una buona diffusione negli ultimi 10 anni,
rispondendo a esigenze di mobilità su tratte più lunghe, e per usi più intensi del
mezzo. Il veicolo a due ruote non scompare quindi dalle nostre strade, ma il suo
acquisto diventa meno diffuso, e la sua sostituzione con un nuovo mezzo più
sporadica, forte del fatto che il miglioramento degli standard di qualità rende i
veicoli più longevi.
Un altro fenomeno interessante è legato al fatto che il possesso di un veicolo
motorizzato a due ruote diventa sempre di più un’espressione del lifestyle
individuale, di definizione (quasi edonistica) della personalità del consumatore. Se
è vero che le nostre abitudini alimentari, il nostro abbigliamento, l’arredamento
della nostra casa raccontano qualcosa di noi, il mezzo di locomozione che
utilizziamo contribuisce anch’esso a definire il nostro io di fronte alla collettività.
Di conseguenza, la scelta di uno specifico motoveicolo non è semplicemente
motivata dal suo livello d’innovazione e utilità funzionale, ma anche dalla scelta di
una marca, di un brand che incorpora un immaginario di valori e sensazioni con le
quali si condividono delle affinità. Le aziende della motor valley italiana, pur
godendo di una storia affascinante e talvolta legata al mondo delle corse e di un
approccio quasi artigianale, non hanno sempre saputo sviluppare in maniera
adeguata i propri marchi, valorizzando il presente attraverso un passato non solo
interessante, ma che dovrebbe anche essere distintivo rispetto alla concorrenza. La
miopia manageriale nella rivalutazione di queste risorse intangibili si radica
talvolta in un approccio tradizionalista, nato ai tempi in cui bastava “fare le cose
per bene” per aver successo. Le sfide della nuova globalizzazione, scandita ai ritmi
frenetici di internet e dei social network, ha invece bisogno di competenze
“dinamiche” che spesso non si trovano in dirigenze di vecchio stampo, o incapaci
di garantire un reale e profondo rinnovamento attraverso passaggi generazionali,
troppo spesso basati su successioni familiari e clientelismi, invece che su nuove
reali capacità imprenditoriali.
Se la moto diventa un lusso e uno status symbol, il suo mercato è normale che
si contragga, come avviene per tutti i settori industriali che non sono di massa.
Pertanto la torta dei profitti si restringe, e volenti o nolenti è opportuno
comprendere che non ci sarà spazio per tutti i produttori, ma solo per le imprese
che sanno evolversi e rispondere alle nuove regole del gioco. Nel mondo delle
moto e degli scooter, un mercato sempre più ridotto e legato fondamentalmente
alla meccanica e all’elettronica, l’innovazione è senza dubbio una strada vincente.
Innovare per un’impresa significa saper ridefinirsi continuamente, reinventare il
proprio genoma, ricombinare le risorse esistenti per lanciare prodotti e soluzioni in
linea con esigenze più o meno espresse dal mercato. E non basta solo innovare:
bisogna anche farlo prima degli altri, mantenere il tasso innovativo costante (o
addirittura crescente), senza però ridurre i profitti o diventare non competitivi in
termini di costi. Lusso o non lusso, in un periodo di crisi e il consumatore pone
particolare attenzione al listino prezzi. Com’è facile immaginare, perseguire
l’innovazione non è solo difficile, ma anche dannatamente costoso. Sulla scia dei
trend già da anni consolidati nell’industria automobilistica, il settore delle due
ruote ha visto progressivamente ridursi il ciclo di vita medio dei suoi prodotti.
Infatti ogni veicolo a due ruote viene riprogettato mediamente ogni tre anni. La
crescente complessità tecnologica di moto e scooter ha spinto alla formazione di
reti di fornitura articolate, costituite da componentisti sempre più avanzati e
competitivi. I fornitori sono sempre più organizzati, esigenti e tecnologicamente
avanzati. Il livello di complessità gestionale che ne deriva (e i suoi relativi costi)
sono pertanto lievitati, ed è diventato difficile per le imprese mantenere
competitivo il costo finale del prodotto, specie quando la produzione viene
effettuata in zone che, come l’Italia, presentano costi della manodopera a dir poco
proibitivi, e infrastrutture non sempre adeguate. La teoria economica ci insegna
che in questi casi tre sono i principali modi per contenere i costi e presentarsi al
mercato con prezzi appetibili. La prima soluzione è quella di delocalizzare la
produzione in territori dove il costo del lavoro è più basso, mantenendo in Italia i
servizi ad alto valore aggiunto, come la progettazione e l’innovazione tecnologica.
Ovviamente questo tipo di soluzione comporta significative ripercussioni sociali
derivate dalla riduzione delle attività manifatturiere, con relativi problemi di
perdita di posti di lavoro. Le aziende italiane in cui la componente sociale e il
legame tra imprenditore e lavoratori sono storicamente molto solidi spesso non
sono disposte a intraprendere questa strada. Quelle che lo sono, si scontrano
duramente con le parti sociali portando spesso a compromessi forse più dannosi
della delocalizzazione stessa. La seconda alternativa è quella di ingrandire la
dimensione di scala dell’impresa stessa, in modo tale da ridurre l’incidenza dei
costi fissi di produzione sul singolo prodotto. Ovviamente crescere di dimensioni
non è solo difficile, ma è anche una caratteristica estranea alle imprese italiane,
storicamente piccole o piccolissime se comparate alla media internazionale, e che
non hanno accesso ad un mercato di capitali fluido e pronto a finanziare idee che
potrebbero incentivare la crescita organizzativa. Acquisizioni e fusioni restano
ancora una scelta non comune per la piccola-media imprenditoria nostrana, che
fatica a scollarsi dalla logica del capitano d’impresa che solitario decide le sorti
del suo bastimento, e che piuttosto che condividere il comando, preferisce
affondare con la sua ciurma. La crescita dimensionale è inoltre raggiungibile
tramite la diversificazione della produzione in settori sinergici e complementari.
L’industria motociclistica Italiana presenta a tal proposito esempi di eccellenza,
quali la bergamasca Brembo, leader nella produzione d’impianti frenanti sia per le
moto che per le auto, che ha tra i suoi vanti quello di essere stata citata tra le
Fortune 500. Infine una terza soluzione può essere la creazione di reti cooperative
tra le varie imprese facenti parte di uno stesso settore. In questo modo, pur
mantenendo l’individualità delle singole organizzazioni, si possono distribuire i
costi comuni, accorpare gli acquisti delle materie prime per ottenere prezzi più
vantaggiosi, aumentare il proprio potere di mercato nei confronti di attori influenti,
e soprattutto condividere ed alimentare un corpus di conoscenze comuni tramite lo
scambio e la circolazione di capitale umano ad alto potenziale. L’Italia dei distretti
rappresenta anche qui un ottimo esempio di logica sistemica (basti pensare ai
distretti del tessile a Prato, delle biotecnologie a Mirandola, o della calzatura a
Montebelluna). Forse però l’inasprirsi della competizione internazionale e la
difficoltà di proteggere la proprietà intellettuale in un mondo sempre più
permeabile alla diffusione di conoscenze strategiche, ha portato ad abbandonare le
logiche di squadra, e i distretti hanno finito per trasformarsi in raggruppamenti
geografici d’imprese in competizione più che in cooperazione, che non
condividono molto di più del codice di avviamento postale. Poco ascoltati sono
stati finora gli inviti dai vertici di Confindustria a “fare sistema” e mettere da parte
personalismi in favore di un miglioramento generalizzato delle leve competitive.
A tutto questo si aggiunge una competizione sempre più aggressiva, dove i giganti
dell’est asiatico, in primis le quattro “furie” giapponesi Honda, Yamaha, Suzuki e
Kawasaki, ma di recente anche nuovi attori provenienti dalla Cina, dal Taiwan, e
dall’India affrontano i mercati internazionali con innovazioni continue, enormi
economie di scala. Abituati a vedere Honda e Ducati testa a testa nelle gare di
moto, ci è forse difficile percepire la differenza di scala tra le imprese giapponesi e
quelle italiane. In verità mentre la produzione di Honda nel 2010 è stata di circa 18
milioni di veicoli, Ducati, forse uno dei marchi Italiani che gode di maggiore
salute, si aggira in poche decine di migliaia. E mentre Honda può contare di avere
alle spalle un gruppo leader nella produzione di altri prodotti quali le automobili e
i motori marini, Ducati è un’azienda che produce moto e nulla più. I grandi volumi
di vendita delle imprese orientali sono dovuti anche alla struttura della domanda
nei paesi emergenti. Come la Vespa Piaggio e il Cucciolo Ducati seppero
rispondere al bisogno di mobilità in Italia negli anni del dopoguerra, i paesi
emergenti si basano oggi sul trasporto a due ruote, attraverso motocicli di piccola
dimensione e bassissimo contenuto tecnologico: un mercato che assorbe ogni anno
milioni di nuovi veicoli, ma dove i produttori italiani hanno pochissime possibilità
di business, visto che la nostra produzione è decisamente troppo avanzata e
costosa per le esigenze di quel tipo di domanda.
Come in un grande processo evolutivo, i cambiamenti ambientali stanno
penalizzando le caratteristiche tradizionali delle aziende italiane nel settore delle
moto e degli scooter. Paradossalmente, gli aspetti che hanno reso l’industria
motociclistica Italiana celebre dagli anni del boom economico fino a poco tempo
fa hanno determinato un’incapacità a ripensare il nostro modello di business, e
adattarlo alle nuove esigenze dei mercati. Le nostre aziende, ingessate in strutture
organizzative una volta di successo, hanno speso troppo tempo a ricercare la
formula magica che le ha portate al successo nel passato, non capendo che le
regole del gioco sono purtroppo cambiate, e quello che ieri era vincente ora non lo
è più. E’ la fine di un’epoca? Può darsi. Di sicuro alcune aziende nostrane
“illuminate”, e che hanno saputo muoversi anzitempo, sono in buone condizioni di
salute, e lasciano intravedere un futuro più roseo di quello che è toccato a
Malaguti. Tuttavia l’industria motociclistica nel suo complesso pare indirizzata
verso un futuro di ridimensionamento e specializzazione. La speranza è che la
moto italiana, con la sua proverbiale e istrionica capacità di reinventarsi quando
ormai le sorti della gara sembrano decise, abbia la forza ancora una volta di
superare i concorrenti all’ultima curva e allungare verso un’inaspettata volata da
podio, proprio come faceva il grande Agostini, negli anni quando sentire il rombo
di una motocicletta italiana faceva sospirare di ammirazione, e non di nostalgia.
Paolo Aversa, Ph.D.
Paolo Aversa è Post-Doctoral Research Fellow alla University of Pennsylvania, Philadelphia,
USA. Ha finalizzato i suoi studi di dottorato alla Università di Bologna. I suoi interessi sono
concentrati su strategie d’impresa, con particolare attenzione all’industria motociclistica e
automobilistica. Nel 2011 ha vinto il Best Ph.D. Paper Prize della European Academy of
Management con un lavoro sull’industria motociclistica Italiana.