Aspetti etici della cura del morente in residenza

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Aspetti etici della cura del morente in residenza
Aspetti etici della cura del morente in residenza
I.Orlando
Coordinatore Responsabile Istituto Enrico Andreoli di Borgonovo Val Tidone (Pc)
Sezione Nursing SIGG
L’istituzionalizzazione degli anziani è fenomeno non generalizzato in Italia, ma
comunque rilevante specie nei casi in cui la persona molto vecchia, in fase avanzata di
malattia, gravemente non autosufficiente, non può più essere accudita a casa, dalla
famiglia, dai servizi domiciliari, dalla badante. Sono questi gli anziani che arrivano nelle
strutture oggi e vi rimangono definitivamente fino alla morte.
“I vecchi lo sanno che quelli sono posti “dove si va a morire”.
1
La permanenza nelle strutture è, quindi, definitiva, in pochissimi casi temporanea (per
dare sollievo alla famiglia) e la degenza è sempre più breve, poiché l’anziano arriva
“alla fine” di un percorso di invecchiamento e di perdita dell’autonomia vissuto a casa
propria.
Nelle residenze, il profilo degli ospiti si è gradualmente modificato in questi anni, le
attese delle famiglie anche, vi è un complesso sistema di richiesta di aiuto, di delega, di
collaborazione tra caregiver e operatore professionale.
Dietro a questo fenomeno vi sono le ragioni note riguardanti il peso della cura che grava
sulle famiglie, l’insufficienza dei servizi domiciliari, la difficoltà a fronteggiare il
processo del morire.
La realtà della morte oggi nei suoi tratti di innominabilità, di estraneità, di
banalizzazione e nascondimento riguarda tutti, compreso chi opera nelle residenze che
talvolta gestiscono l’assistenza senza disporre di una cultura adeguata, di strumenti
tecnici e personali sufficienti. Anche nelle residenze dove la morte è di casa vi è la
spinta alla rimozione del pensiero della morte, vi è un imbarazzo verbale ed emozionale,
che si manifesta nella incapacità diffusa di dare un nome alle emozioni che si provano e
la necessità di rifugiarsi nel “controllo professionale” della situazione, che può portare
alla indifferenza. Del resto la morte dei vecchi è tra tutte le morti quella più
“naturale”.
“La morte è resa naturale dalla vecchiaia: quando un vecchio muore è giusto, non ci si commuove
più, non si avverte più la perdita significativa di un membro del gruppo. E’ una morte
insignificante, per cui si muore soli, per ineluttabilità biologica, senza partecipazione. La
vecchiaia diventa solo la condizione che precede la morte. In questa visione invecchiare significa
morire. E’ una morte lenta, insidiosa, che diviene pensiero costante e quotidiano per chi è
consegnato in tale situazione”.2
La prima morte, il primo momento del morire può essere proprio l’ingresso in residenza,
perché al tempo della vita si sostituisce il tempo delle cure, alla persona con la sua
storia di vita si sostituisce il ruolo codificato dell’ospite, del paziente, del morente. Le
nostre residenze sono pensate più come “depositi”, che come luoghi da abitare, e
l’espropriazione di questa necessità umana di spazio personale è effettivamente una
piccola morte anticipata. Tuttavia, talvolta, per fortuna, le storie accadono in modo
1
F. Dell’Orto Garzonio, P. Taccani, Conoscere la vecchiaia, Carocci Faber, Roma, 2002, pag. 108
Maria Grazia Soldati, Sguardi sulla morte. Formazione e cura con le storie di vita, Franco Angeli, Milano,
2003, pag. 114
2
1
diverso e proprio dall’ingresso in residenza prende il via una ripresa, un recupero di
energie e di vitalità straordinaria.
Nelle residenze si corre il rischio di realizzare quella contraddizione che Sandro
Spinsanti rinviene tra “la miseria del morire in solitudine” e “la miseria di non avere
lo spazio di solitudine necessario per morire”.
Il morire in solitudine non è tanto l’essere materialmente abbandonati a se stessi,
quanto il vivere in mezzo a gente indifferente che ha spezzato i ponti di contatto
affettivo tra sé e il morente. 3
Al tempo stesso il rumore costituito dall’affaccendarsi nelle cure quotidiane, da
presenze inutilmente ciarliere preoccupate di colmare l’horror vacui che si prova di
fronte alla malattia, impedisce al morente di trovare quello spazio di solitudine di cui ha
bisogno per riappropriarsi di sé, della sua esistenza in un momento solenne della vita, in
ambienti spesso non idonei, perché non rispettosi della riservatezza, che non qualificano
lo spazio del vissuto in termini di rispetto, di padronanza, di determinazione, ma che
confinano dietro un paravento, separando artificialmente ciò che non deve essere
guardato dagli altri, ma che è in realtà violentato e banalizzato dalla inevitabile
presenza di estranei.
E in questa configurazione degli spazi, il parente, già segnato dall’imbarazzo della
malattia e della morte, è reso più impacciato, si incattivisce, rinuncia a svolgere il
proprio ruolo, abdicando a quella parte che gli appartiene in modo insostituibile, la
vicinanza affettiva.
Eppure alle nostre residenze è conferita una sorta di delega ad accompagnare la morte.
Sorge quindi la domanda che apre a una questione eticamente rilevante:
Quale capacità di cure, quali competenze affettive, emotive, spirituali hanno
coloro che professionalmente si prendono cura della persona che sta morendo?
In altre parole, quale visione della vita e della morte si ha nelle residenze?
Quale ethos caratterizza le nostre residenze, che si propongono di diventare
dimora della vita nella sua interezza fino a comprendere anche la morte?
In molti casi questa domanda non viene nemmeno messa a tema, e questa è la prima
questione etica: vi è una “miseria culturale” nel fare che, pure, è spesso un fare bene,
attento e sensibile grazie alla bellezza di tante persone che si occupano della cura degli
anziani ricoverati. Quello che manca è l’esercizio riflessivo che porta a consapevolezza
il sentimento spontaneo della vita e lo coniuga nei gesti tecnici di tutti i giorni, lo
trasforma in patrimonio di tutti, stile condiviso nel quotidiano.
Nella cura è sempre implicata l’organizzazione della cura, che è problema culturale,
sociale, sanitario, economico. Se la cura è il “testo” che scriviamo ogni giorno,
l’organizzazione è il “contesto” in cui comunichiamo parole, gesti: ciò significa che il
valore del messaggio può essere fortemente condizionato dal contesto in cui si esprime.
Quando non vi è consapevolezza di questa rilevanza si rischia di non essere presenti a se
stessi, agli altri, di non avere senso critico di fronte alle cose che facciamo, di muoverci
per inerzia, ripetendo dei cliché, lavorando bene “per caso”.
3
D.Amadori, F.De Conno, Libro italiano di cure palliative, Paletto editore, Milano, 2003, pag. 324
2
“In tutti alberga una quotidiana e ‘banale’ inattenzione e distrazione che dobbiamo
sorvegliare perché non diventi l’istanza che decide” scrive Ivo Lizzola.
Si rimane cioè, in buona fede, dentro l’anonimo “si fa” dei gesti comuni, delle
convenzioni, delle abitudini.
Negli ultimi anni in Italia si sta affermando una nuova tipologia di residenza, non
esclusivamente dedicata agli anziani, ma dove gli anziani sono comunque presenti:
l’hospice. È un luogo dove prevale la persona sulla malattia, dove è data rilevanza alla
famiglia e dove l’attenzione all’accompagnamento alla morte, alla cura del morente con
il correlato delle cure palliative è la base della filosofia assistenziale. Già come “spazio”
l’hospice si configura in modo da facilitare il rispetto della persona, la cura della qualità
della vita, la presa in carico di tutte le dimensioni umane, l’approccio supportivo alla
famiglia, che può rimanere accanto al malato, dormire con lui, continuare ad accudirlo,
il progetto di stare nella situazione di una malattia inguaribile, di una morte imminente,
in cui si scatenano sentimenti naturali di paura, di angoscia, di rabbia.
I bisogni di cui ci si prende cura in hospice sono i bisogni del corpo, quelli psico-emotivi,
sociali, spirituali, perché l’obiettivo essenziale della cura è quello di garantire la
migliore qualità di vita possibile, rendendo possibile il percorso di coinvolgimento di
tutti, del paziente, del familiare e dell’operatore, della stessa comunità.
Il movimento hospice è importante e apprezzabile, vi è, però, il timore che l’hospice
diventi un’isola, lasciando che altri luoghi, le residenze geriatriche ad esempio,
continuino a sottovalutare il dolore, la morte, l’accompagnamento alla morte, il
supporto nella elaborazione del lutto. Non in tutte le residenze è messo a disposizione
di anziani e famiglie lo psicologo o, semplicemente, un tempo sufficiente per gli
operatori per stare in ascolto, per perdere tempo a parlare con l’anziano, sedendosi
accanto per vegliarlo, per seguirlo. La filosofia dell’hospice, per certi aspetti, deve
entrare nei modelli residenziali delle strutture per anziani, contestualizzando in questa
particolare realtà un sapere tecnico (le cure palliative) e un approccio relazionale
incentrato sulla persona.
In hospice si mettono in evidenza alcune questioni cruciali dell’assistenza, che mettono
a dura prova l’ethos comune di assistenza in un’équipe. Molti di questi dilemmi
riguardano anche le strutture geriatriche.
Annamaria Marzi, responsabile di un importante hospice emiliano (Casa “Madonna
dell’Uliveto” di Montericco di Albinea, in provincia di Reggio Emilia) in un saggio che
raccoglie l’esperienza di progettazione e di gestione del servizio hospice, elenca alcune
delle questioni più ricorrenti4:
•
iniziare, proseguire, ridurre o sospendere un qualsiasi tipo di alimentazione artificiale
(parenterale attraverso un catetere venoso centrale o un port-a-cath o enterale attraverso
un sondino naso-gastrico-digiunale o attraverso una PEG) con tutti i quesiti etici che ne
stanno alla base: bisogna alimentare il paziente perché ha fame e sete o solo perché è
inaccettabile sospendere questa forma minima di terapia? Ancora, alimentare il paziente
artificialmente è una forma di terapia dovuta o è un mezzo straordinario? Sta emergendo
nei familiari la paura che il loro caro muoia per la fame e lo stato di progressiva
denutrizione prima che per l’aggravamento della malattia? E’ più semplice e decisamente
meno problematico continuare ad alimentare il paziente (riducendo semmai gli alimenti
4
Annamaria Marzi, Antonella Molini, L’hospice al servizio del malato oncologico grave e della sua
famiglia, McGraw-Hill, Milano, 2005, pag. 160-161
3
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artificialmente somministrati a quantità spesso irrisorie) piuttosto che con lui iniziare a
discutere il tema del significato dell’alimentazione in una fase avanzata e irreversibile di
malattia?
Trattare o meno un’infezione urinaria o polmonare o altre sepsi nella fase terminalissimaagonica sapendo da una parte che il mancato inizio di una terapia antibiotica potrebbe
essere la causa finale di morte per il paziente, ma anche d’altra parte che subentrerà
successivamente una nuova ulteriore infezione e proponendo la scelta della sola terapia
del sintomo febbre-agitazione con farmaci adeguati (antipiretici, ghiaccio, umidificazione
delle mucose, fenotiazine per la febbre e per l’agitazione spesso a essa connessa?)
Iniziare, proseguire o sospendere un programma di idratazione parenterale scegliendo la
via meno fastidiosa e più fisiologica per il paziente (ipodermoclisi) coinvolgendo i familiari
nella cura del cavo orale (umidificazione delle mucose, umettazione delle labbra, se
riesce assunzione di piccole ripetute quantità di alimenti freschi, come gelati, frullati,
succhi di frutta anche preparati dai familiari, caramelle congelate di succo di pompelmo,
cucchiai di granatina al gusto preferito dal paziente, un sorso di coca-cola fresca, ecc.)?
Continuare a curare giornalmente le piaghe da decubito anche se le condizioni del malato
peggiorano rapidamente e progressivamente e la loro cura spesso crea solamente un
aumento del dolore nel paziente?
Trasfondere con insistenza il paziente anche se spesso tale metodica si concretizza solo in
un lieve, transitorio e poco significativo miglioramento della qualità di vita del paziente?
Trattare alcuni sintomi resistenti e refrattari alle comuni terapie farmacologiche con la
sedazione palliativa come unica alternativa per una morte priva di sintomi e dignitosa per
il malato? Il problema non è così semplice, perché sia per ciascun malato sia per ciascuna
famiglia si esplicita nelle più varie e profondissime sfumature: quand’è il momento giusto
per quel malato per iniziare il programma farmacologico di sedazione? Abbiamo voluto e
avuto il tempo necessario per accennargli perlomeno la possibilità e le modalità della
sedazione farmacologia? Abbiamo ancora timori come singoli operatori e come équipe che
una sedazione troppo profonda e rapida possa anticipare la morte del paziente? Siamo
quindi ancora confusi o meno tra sedazione palliativa come possibilità ultima del controllo
del sintomo per il bene del paziente e slow eutanasia? Tra i tanti proposti in letteratura,
qual è il protocollo farmacologico ottimale per quel paziente? Come équipe ci siamo
chiariti una volta per tutte i concetti, le modalità, le indicazioni, le differenze tra
sedazione leggera o profonda, transitoria o definitiva oppure intermittente?
Questi sono i problemi che tutti i giorni l’accompagnamento della persona che sta morendo pone al cuore
e all’intelligenza delle persone che l’assistono e che richiedono, con fatica, umiltà, rispetto delle
convinzioni altrui, oltre alla necessità di prendere decisioni spesso rapide e concordate, sempre alla
ricerca di un “ethos comune di cura”.
Ne discendono alcune indicazioni di comportamento per affrontare tali problematiche:
•
•
•
•
cercare di prevenire le decisioni critiche, prenderle per tempo con paziente e
familiari
riconoscere la massima importanza alla informazione e alla comunicazione lungo
ogni giornata, seguendo le variazioni continue delle condizioni del malato
(condivisione terapeutica)
avere la consapevolezza che in questo genere di problemi nessuna figura
professionale per quanto preparata può decidere da sola: è l’incontro assiduo,
sistematico della intera équipe curante a trovare le decisioni più appropriate,
anche da un punto di vista emotivo
non esiste una decisione buona per tutti i casi, ma ogni situazione va affrontata
ogni volta ricominciando pazientemente ad ogni storia
In pratica si tratta di imparare a convivere con l’incertezza.
Scrive ancora la Marzi:
4
Le cure palliative rappresentano un ambito sanitario che viaggia sul crinale tra giusto e ingiusto,
che nell’assistenza è particolarmente, per così dire, “scivoloso”. Credo che richieda molto
coraggio abbandonare temporaneamente la strada dei protocolli, del controllo assiduo dei
parametri di laboratorio, per valutare, in base alla situazione complessiva del malato, quali sono i
veri bisogni e approfondire sistematicamente costi-benefici dell’intervento terapeutico. Si tratta
di ricercare un cambiamento culturale che affronti la malattia inguaribile evitando:
• un’interpretazione della vita unicamente biologica
• la negazione della morte
• la ricerca di una morte non consapevole né lucida
• una visione della vita come capacità di essere produttivi
• ingenuità e idealizzazione dei vantaggi derivanti dall’applicazione delle tecnologie
• attese irreali rispetto all’efficacia di tecniche e farmaci
e in conclusione di questa riflessione si ribadisce
La possibilità di prendere la decisione migliore è frutto del lavorare insieme.
Attraverso un confronto costante, incontri finalizzati, studio e formazione continua, con il
supporto di esperti e soprattutto consapevolezza e contatto con il limite dell’équipe curante.
Questa è la vita di équipe in hospice dove non si è mai sicuri, dove si cerca e si ricerca
continuamente, anche per tentativi ed errori, la strada migliore per dare sollievo e
accompagnamento, quello che dovrebbero fare la medicina e l’assistenza sempre, se intende
prendersi cura del malato e della sua famiglia. Ciò implica un continuo lavoro culturale, sia
all’interno dell’équipe che nei confronti dell’utenza e del territorio. 5
Si ritorna, inevitabilmente, alla relazione che è la sostanza professionale e umana del
lavoro di cura che non può essere altro che “responsabilità dell’altro”, in quanto è
opera di una persona che si rapporta a un’altra persona.
In questo spazio-tempo del curare e del morire vi è un bisogno straordinario di
riconoscimento e di riconoscenza umana.
Scrive Marie de Hennezel:
« Raccontare la propria vita, prima di morire. Il racconto è un atto e per chi ha un’autonomia
spesso molto ridotta, quell’atto assume tutta la sua importanza. C’è un bisogno di dare forma alla
vita, e di comunicare a qualcun altro questo processo che le conferisce un senso. Una volta
concluso il racconto, la persona sembra in grado di mollare la presa e di morire” 6
La consapevolezza dell’identità personale del morente può invertire la distanza che
spesso si coglie nel confronto tra il linguaggio scientifico dell’approccio tecnico
dell’operatore (medico, infermiere, operatore socio-sanitario..) e il linguaggio narrativo
del paziente: parole differenti, con statuti diversi che segnano una distanza relazionale.
Il linguaggio tecnico tende a spiegare, induce il silenzio nell’altro e, al tempo stesso,
teme il silenzio dell’altro e per questo si agghinda di frasi fatte con cui risolve
l’imbarazzo del non saper cosa dire, il linguaggio narrativo, invece, seleziona, omette,
aggiunge, connota più che denotare una storia che ha il diritto di mantenere il proprio
mistero, pur offrendosi alla comunicazione. Ne risulta così che paradossalmente la
trasparenza del linguaggio tecnico si trasforma per difficoltà di relazione tra curantecurato in “menzogna” o “mezza verità”, mentre la ricchezza del linguaggio personale,
nel racconto di sé, diviene rivelativa dei significati e delle emozioni che sono implicate
nell’esperienza esistenziale.
5
6
ibi, pag. 173
Marie de Hennezel, La morte amica, Rizzoli, Milano, 1996, pag. 162-163
5
E’ sottile, ma molto importante la differenza tra un’assistenza individualizzata e
un’assistenza personalizzata: se la prima cerca di piegare lo standard della cura alla
specificità di un soggetto unico, è solo la seconda che riconosce la complessità della
persona, perché si attua:
“attraverso la conoscenza della storia passata e presente e nel suo utilizzo nello svolgersi della
cura e dell’accompagnamento nella vita quotidiana.
E’ una cura ristoratrice di unità, poiché pone attenzione alle particolarità della persona, sa riallacciare, nella globalità dell’intervento professionale, le dimensioni dei bisogni bio-fisiologici,
relazionali e socioculturali, spesso frammentati per necessità di descrizione teorica, ma che nella
persona si esprimono in modo integrato”. 7
Un’amica psichiatra così racconta l’accudimento della propria madre, novantasettenne,
demente, fino alla morte:
“….dopo la frattura del femore, altre patologie si aggiunsero: polmonari, cardiache,
vascolari, neurologiche, intestinali… aggravando il quadro organico che già si era
deteriorato dopo gli 87 anni. La dimissione dalla lungodegenza, protrattasi per due mesi,
ha definito una diagnosi tipica di quelle persone che sottoposte ai test delle scale
psicometriche comunemente usate in geriatria, vengono considerate “deteriorate senza
possibilità di reversibilità”. Non riconosceva e non riconosce spontaneamente i luoghi e le
persone, neppure noi figli. In certi momenti ha difficoltà a distinguere le fasi del giorno e
della notte,a capire senza aiuti in quale stagione ci si trovi, non sa sempre cosa farsene di
un cibo che si trova in bocca, non ha il controllo degli sfinteri. Ma.. però… nel però, nel
ma bisogna cercare, perché è proprio lì che ci si nasconde tanto.
Ma.. continua a stupire per la passione che dimostra di fronte alla bellezza di una forma,
di un colore, di uno spettacolo relazionale umano o naturale”.
La vecchia madre tutti i pomeriggi vuole uscire in carrozzina per guardare il tramonto:
“puntuale come un orologio svizzero, all’ora del tramonto, passando per la strada che va ad
Aguzzano da Campremoldo, la si può vedere in posizione strategica, d’estate o d’inverno, in ogni
stagione, pur che non piova o il sole non sia completamente offuscato dalle nubi o dalla nebbia,
appena fuori dal portone di ingresso della cascina dove viviamo, da quando lei abita con noi. …
aspettiamo che il sole si lasci guardare… e poi osserviamo e commentiamo ogni cambiamento
percettivo di un paesaggio esteriore e interiore, che, fino al nascondersi definitivo dell’immagine
del sole dietro la linea dell’orizzonte, si presenta con una mutevolezza che non finisce di
stupire”.8
In questo modo può avvenire quell’addomesticamento della morte, che fa sì che “non si
muoia come capita”, perché “non si sta al mondo come capita”, perché “non ci si
rapporta come capita”, ma ci si pone in ascolto dell’altro, per fargli vivere da
protagonista la sua esistenza, anche se all’apparenza sembra non averne più il potere.
E’ prestare attenzione alla forma che l’altro ha, senza volergli imporre la forma che ho
in mente io, operatore, servizio, modello di cura… e quindi riconoscere, dare spazio,
assecondare non solo i bisogni, ma anche i desideri, ritualizzandoli nella loro
significatività personale.
La morte rischia altrimenti di essere:
7
M.G.Soldati, op. cit. pag 116)
8
Gabriella Mezzadri, La mia mamma … “dalla briglia sciolta”, tesi finale del Master “Relazioni e
sentimenti nelle professioni educative e di cura”, c/o Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza,
a.a. 2004/2005
6
“evento solitario e selvaggio”, evento che è stato impoverito, “essendogli stati tolti e resi senza
senso i riti, le parole, i sentimenti che lo rendevano un tempo evento da affrontare e superare
collettivamente e la morte un avvenimento da conoscere in una qualche maniera già durante la
vita stessa”. 9
Lavorare in questa ottica ci fa capire perché molti anziani, ospiti delle nostre residenze,
spesso esprimono il desiderio di voler morire in struttura piuttosto che in ospedale,
perché la residenza può essere “casa” e la relazione di cura “relazione affettiva” che
accoglie e accompagna.
Bisogna saper fare bene l’assistenza, ma bisogna anche emanciparsi dall’assistenza,
perché il primo atto etico di cura è liberare la persona che ho davanti, personalizzando
tutto quello che faccio per lei. Non può compiersi un atto assistenziale in senso pieno se
non vi è un approccio educativo alla persona, anche quando questa non è più in grado
di esprimersi, perché la malattia ne ha devastato il corpo e l’intelligenza: di fronte al
“catorcio” rimane comunque la responsabilità di una cura “personale”, “attenta”, anche
se l’altro “sembra non esserci più come identità personale”.
In conclusione:
ƒ
curare la persona anche nella fase terminale della vita è un’esperienza complessa
di relazione
ƒ
se è vero che “si è sempre soli quando si muore”, è altrettanto vero che la
relazione curante sottrae la morte alla miseria della solitudine
ƒ
la morte in residenza non riguarda solo chi muore, ma anche chi resta: il
compagno di stanza, l’amica di conversazione, il familiare. Anche queste persone
hanno bisogno di attenzione, perché il morire dell’altro è sempre una piccola
morte di sé
ƒ
il contesto organizzativo della cura è fattore fondamentale di qualità (della vita e
del morire)
ƒ
serve maggiore attenzione agli spazi di vita e serve ritrovare una ritualità
adeguata che accompagni l’evento della morte
ƒ
dobbiamo aiutare l’operatore ad acquisire non solo competenze tecniche, ma
anche competenze affettive
ƒ
Il “sapere dei pratici”, quelli che lavorano nei servizi e “maneggiano” corpi,
emozioni, sentimenti deve essere oggetto di riflessione per trasformarsi in cultura
e sorreggere coscientemente le decisioni
ƒ
Le residenze devono farsi carico della formazione e del supporto agli operatori,
per non impoverire la cura
Infine siamo consapevoli che dobbiamo intraprendere percorsi di approfondimento
filosofico e mantenere un atteggiamento di ricerca e di attenzione.
Scrive Simone Weil
9
M.G. Soldati, op. cit., pag, 44
7
“L’attenzione è lo sguardo oltre, dove c’è attesa di assoluto”.
Firenze,12 novembre 2005
BIBLIOGRAFIA
M. DE HENNEZEL, La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire, Rizzoli, Milano,
1996
M. PETRINI, La cura alla fine della vita. Linee assistenziali etiche pastorali, Quaderni di
“Anziani oggi” n. 12, settembre 2003, CEPSAG
D. AMADORI, F. DE CONNO, Libro italiano di cure palliative, Paletto editore, Milano,
2003
A. MARZI, A. MORLINI, L’hospice al servizio del malato oncologico grave e della sua
famiglia, McGraw-Hill, Milano, 2005
F. DELL’ORTO GARZONIO, P. TACCANI, Conoscere la vecchiaia, Carocci Faber, Roma,
2002
M. G. SOLDATI, Sguardi sulla morte. Formazione e cura con le storie di vita, Franco
Angeli, Milano, 2003
8