Morfina, amore e whisky

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Morfina, amore e whisky
LA BUONA MORTE
Morfina, amore e whisky
Illustrazione di Guido Scarabottolo
di Gilberto Corbellini
Troppe ipocrisie
sulla fine della vita,
un processo lungo
e doloroso. I consigli
del grande clinico
Giuseppe Remuzzi
C
hi non ha pensato a come
preferirebbe morire? E non
è forse vero che quasi tutti
sceglieremmo una morte
improvvisa, magari nel sonno? E non ci augureremmo
dimorire per cancro. Ebbene questo luogo comune è stato sfidato e, nei primi
giorni del gennaio scorso, unpiccolopsicodramma intellettuale si è consumato
per i cultori di temi medico-sanitari.
Richard Smith, per 25 anni editor del
«British Medicai Journal» e influente
personaggio dell'economica pubblicistico-industriale che ruota intorno alla
medicina, scriveva sul suo blog che una
bella morte non è quella istantanea. E citava il regista Luis Bunuel, per il quale
morire rapidamente priverebbe di alcuni piaceri, come ripercorrere il film della
propria vita, accomiatarsi dagli amici eccetera. Bunuel morì per un cancro al
pancreas, come Steve Jobs, e Smith ritiene che la malattia di cui oggi è preferibile
morire, in compagnia di «morfina, amore e whisky», sia proprio il cancro.
Il modo peggiore di morire sarebbe in
uno stato di demenza, secondo Smith,
che en passant criticava la hybris degli
oncologi, che non lasciano morire in pace i malati, e l'eccesso di investimenti
nell'inutile tentativo di curare il cancro.
I commenti al blog sono stati quasi
200 in poche ore, la maggior parte dei
quali insulti. Un certo numero da parte
di genitori con bambini colpiti dal cancro. Per rintuzzare gli equivoci, Smith
scriveva un nuovo blog in cui precisava
che egli non voleva offendere nessuno,
né sottovalutare l'impegno della lotta
contro il cancro, ma solo esprimere un
personale punto di vista in merito a un
tema spesso discusso, alla luce delmodo
in cui la medicina di fine vita sta cambiando il modo di morire nelle società
più sviluppate.
In effetti, nei Paesi governati da un
classe politica intelligente e benevola, il
tema delle scelte di fine vita è un'emergenza ascoltata, anche come istanza per
migliorare la qualità della convivenza civile. La scelta di come morire, al di là della malattia, che non è nelle nostre disponibilità - salvo alcune forme di suicidio è una sfida culturale non più eludibile.
L'ultimo libro di Giuseppe Remuzzi illustra bene le ragioni per cui l'atteggiamento medico verso le morti degenerative, cioè le morti lente, cronicamente
dolorose e psicologicamente stressanti,
non può continuare a essere quello che
per secoli si è tenuto verso le morti acute,
quando cioè il decorso di infezioni o
traumi per cui non esistevano trattamenti portava rapidamente al decesso.
Anche perché nel mondo occidentale,
oggi, circa un terzo di quello che si spende per la salute è destinato agli ultimi
mesi di vita. Negli Stati Uniti si cominciò
dai primi anni Novanta a incentivare,
anche attraverso le direttive anticipate,
la scelta di morire a casa e senza spendere soldi per trattamenti inutili. Perii momento senza risultati apprezzabili. Però
ci vuole tempo per cambiare i comportamenti, dato che per oltre un secolo si è incoraggiato il ricorso all'ospedale e si è
sovra-drammatizzata la morte. Un po'
più di sincerità e serenità aiuterebbero le
future generazioni a gestire scenari che
saranno complicati evitando involuzioni o scorciatoie.
«Chi vuole prolungare l'agonia della
gente a tutti i costi - scrive Remuzzi parla di dignità della vita. È un vecchio
trucco retorico». Infatti, è spingendo le
persone a morire nella disperazione e
nel dolore che si toglie loro dignità e le si
priva di un diritto fondamentale, cioè la
libertà di vivere fino alla fine aderendo ai
propri valori.
«Forse è ora che i medici - continua
Remuzzi - cambino completamente il loro modo di guardare le cose. Vediamo
sempre la morte come una sconfitta.
Non dovrebbe essere più così. Aver aiutato qualcuno a morire bene, a casa sua,
con un po' di morfina se ha dolore, fra le
cose sue e chi gli vuole bene, è un grande
traguardo a cui dovremmo tendere,
sempre». È auspicabile che l'Ordine dei
medici ascolti le parole di saggezza di un
clinico e ricercatore italiano tra i più riconosciuti internazionalmente.
Remuzzi pensa anche che la questione sia troppo complessa perché si possa
imbrigliare giuridicamente. «Non si
possono stabilire regole che valgano
per tutti; questa è unamateria delicatissima, fatta di pochi punti fermi e moltissime storie, diverse una dall'altra, e di
tante sfumature che coinvolgono la sfera privata delle persone». In realtà, non
serve entrare troppo in dettaglio e alcuni paletti formali sono invece necessari,
soprattutto perché non tutti e non sempre i medici sono disposti a rispettare la
libertà dei pazienti.
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Giuseppe Remuzzi, La scelta. Perché è
importante decidere come vorremmo
morire, Sperling & Kupfer, Milano,
pagg. 180, € 16,00