Figlie di Mami Wata - Università degli studi di Trieste
Transcript
Figlie di Mami Wata - Università degli studi di Trieste
UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI TRIESTE FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA COR SO DI LAUR EA I N SCI E NZE E TECNI C HE DELL’I NTE RCULTUR ALI TÀ Figlie di Mami Wata Strategie simboliche delle donne nigeriane prostitute/tuite in Italia TESI DI LAUREA TRIENNALE IN STORIA DELLE RELIGIONI Relatore Prof.ssa Ileana Chirassi Colombo Laureanda Chiara Pilotto Correlatore Dott.ssa Hermine Letonde Gbedo Anno Accademico 2004/05 1 INDICE 3 Introduzione 1. Il caso specifico: la prostituzione nigeriana in Italia 8 14 1.1 Globalizzazione, migrazione, prostituzione: l’organizzazione del traffico dalla Nigeria 1.2 Costa degli Schiavi: una storia di partenze e contaminazioni 2. I poteri rituali: lo sforzo del “doverci essere” 25 31 2.1 Nuove disuguaglianze, nuovi poteri 2.2 Il corpo femminile oggetto di attacco 3. Mam i Wata: processi di antropo-poiesi tra modello m itico e incarnazione 37 45 52 57 3.1 La possessione come fenomeno culturale 3.2 Mami Wata e gli spiriti delle acque 3.3 Donne nigeriane migranti: la memoria nei corpi posseduti Appendici 62 68 72 Intervista 1 Intervista 2 Intervista 3 84 Bibliografia 2 INTRODUZIONE L’idea di questa ricerca nasce dal tirocinio da me svolto nei mesi di marzo e aprile 2005 presso il Progetto Stella Polare di Trieste, realizzato dal Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute. Un servizio che si occupa di donne migranti vittime della tratta che desiderano intraprendere percorsi di fuoriuscita da situazioni di grave sfruttamento sessuale e lavorativo, avvalendosi dell’art.18 del D.L. 286/98 sull’immigrazione. Il progetto parte dalla rilevata necessità di considerare i nuovi scenari della prostituzione migrante, sviluppatasi a partire dalla metà degli anni Ottanta, nel quadro di quel sistema-mondo caratterizzato da molteplici interdipendenze tra le diverse parti del globo e, in particolare, dalla divisione internazionale del lavoro basata su un unico modello di sviluppo, quello capitalista. Di questa congiuntura storico-economica sono forse la massima espressione i movimenti migratori che seguono la rotta dal Sud verso un Nord del pianeta considerato simbolo di ricchezza e benessere. La femminilizzazione del lavoro intesa in senso ampio nell’ambito delle migrazioni solleva questioni specifiche, chiamando in causa lo sfruttamento di forza lavoro inteso anche come sfruttamento del corpo femminile. Impone dunque una riflessione di carattere globale sulle relazioni di genere e sulla loro organizzazione nell’immaginario simbolico di culture differenti. E ovviamente quanto tutto questo possa rientrare nella fenomenologia della migrazione, intesa come spostamento di individui e di gruppi per bisogno ed insieme per scelta. In questa prospettiva è necessario chiedersi anche quanto le migrazioni favoriscano la costruzione di quella globalizzazione che oggi tutti viviamo come fenomeno di quella surmodernità, definita da Augè attraverso la triplice figura dell’eccesso di tempo, di spazio e di individualità. Trattando proprio la sovrabbondanza spaziale del presente, Augè scrive: «Essa comporta modificazioni fisiche considerevoli: concentrazioni urbane, trasferimenti di popolazione e moltiplicazione di ciò che chiamiamo “non-luoghi”, in opposizione alla 3 nozione sociologica di luogo, associata da Marcel Mauss e da tutta una tradizione etnologica a quella della cultura localizzata nel tempo e nello spazio» (Augè 1993: 36). La migrazione può apparire dunque come l’emblema di una cultura che sfugge ai confini, rifiutando il concetto di cultura fissa e immutabile. Ed è bene sottolineare come la produzione di valori, la produzione culturale che segna ogni esperienza umana e ne permette il realizzarsi, venga attivata efficacemente anche nel contesto di immigrazione, dove l’immigrato e l’emigrato sono figure inscindibili, distinte solo per comodità teorica. Sottolinea infatti Augè: «Viviamo in un mondo in cui ciò che gli etnologi chiamavano tradizionalmente “contatto culturale” è diventato un fenomeno generale. La prima difficoltà di un’etnologia del “qui” è che essa ha sempre a che fare con l’“altrove” senza che lo statuto di questo “altrove” si possa costituire in oggetto singolo e distinto (esotico)» (Augè 1993: 99-100). In questo lavoro la prostituzione nigeriana in Italia viene inglobata in una visione d’insieme che tenta di restituire il senso delle pratiche e dei discorsi dei soggetti coinvolti, senza isolarli in un hic et nunc pericoloso, che limiterebbe una reale comprensione del fenomeno. Cercheremo invece di capire il fenomeno basandoci invece su un necessario approfondimento culturale volto a garantire l’efficacia delle metodologie pratiche d’intervento. La mia attenzione si è rivolta soprattutto alla rottura dei legami che la migrazione comporta, rottura particolarmente “grave” e ricca di implicazioni se si tiene conto del fatto che soggetti migranti sono qui giovani donne sole che vanno ad inserirsi in una situazione difficile a livelli multipli. Sarà importante quindi cercare di capire anzitutto il senso della loro collocazione di genere nell’ambito della cultura del paese d’origine. Emerge chiaramente come l’impatto con la modernità occidentale e l’economia di mercato abbiano prodotto una generale riorganizzazione dei rapporti comunitari e familiari e una conseguente “reinvenzione della tradizione” anche per quanto riguarda la costruzione del “sacro”, la costruzione del simbolico di referenza come risposta culturale alla “crisi della Presenza” per usare la terminologia di Ernesto De Martino. 4 Nel primo capitolo ho riassunto brevemente le dinamiche del traffico di donne, mettendo in luce il suo radicamento in un sistema di socialità, definito da Latouche “logica del dono”, nel quale gioca un ruolo fondamentale l’organizzazione dell’immaginario dei soggetti coinvolti, chiamata a supportare le mafie locali attraverso il rimando ai poteri rituali. L’ipotesi di questo lavoro consiste nel considerare il debito da estinguere non soltanto come obbligo materiale, ma soprattutto come vincolo nei confronti di una cultura e di un sistema di appartenenze ad un mondo identificato e compiuto sul piano umano e “extraumani”, il simbolico religioso.. Ho ritenuto quindi importante cercare di esplorare l’universo simbolico delle popolazioni del sud della Nigeria, prendendo a modello il politeismo delle popolazioni cosiddette yoruba che molta influenza ha avuto nell’ area della Costa degli Schiavi in genere in tutta la zona centromeridionale dell’attuale Nigeria. Ho avuto così l’occasione anche di cercare di chiarire il concetto di vodu, spesso utilizzato in modo fuorviante dall’informazione di massa per parlare della prostituzione nigeriana in Italia. Seguendo l’analisi di Marc Augé è stato dimostrato come il “dio oggetto” contribuisca non solo a rappresentare, ma anche a generare le relazioni tra uomini, facendo del corpo il luogo privilegiato di sperimentazione o meglio di costruzione del sacro. La zona del resto, come molte parti dell’Africa ma in genere molta parte del Terzo e Quarto mondo, è stata – ed in qualche misura lo è tuttora – molto ricca di movimenti di tipo “religioso” legati a figure di leader carismatici, “profeti”, personaggi che si propongono come mediatori tra extraumani e umano, molto ben studiati in un sempre importante testo di Vittorio Lanternari. L’influsso del Cristianesimo in particolare riformato nella zona ha dato origine alla proliferazione di nuovi movimenti religiosi sincretici, centrati appunto sulla figura di un “profeta”. In particolare i “profeti” rivitalizzano le pratiche tradizionali sul modello salvifico e taumaturgico proposto, in particolar modo, dal Pentecostalismo angloamericano. Le “cause” vanno certamente considerate nel contesto di subordinazione economico-politica e di “spossessamento culturale” dei nativi ai quali l’impatto con una cultura “altra” in possesso di saperi e di poteri “dominanti”, quella dei bianchi, poteva contribuire a delineare la prospettiva culturale “biblica” di un’Apocalisse, intesa come 5 evento assolutamente dirimente superata con l’avvento di un “Nuovo Regno”, una situazione radicalmente nuova. Non ci soffermeremo sulla struttura dei movimenti pentecostali ma affermiamo che il riconoscimento dei doni dello Spirito sottolineati dai movimenti pentecostali - potere di guarire, profezia, parlare e capire le lingue (quindi tornare nella situazione precedente Babele) - facilità l’intreccio degli adepti delle chiese pentecostali con le pratiche tradizionali della cosiddetta “stregoneria” Nel capitolo secondo ho messo in luce l’importanza dei poteri rituali, considerando soprattutto la riplasmazione dei discorsi sulla “stregoneria” in quanto risposta alle contraddizioni che emergono dalla “modernità africana”. Quest’ultima sembra tesa, da una parte, alla ricerca competitiva e individualistica di potere e ricchezza, dall’altra appare impegnata a pensare i mutamenti del corpo sociale e la sua riproduzione. Ho tentato quindi di mostrare come il corpo femminile venga reso icona delle contraddizioni sopra descritte, per essere trasformato in oggetto d’attacco nei discorsi sulla “stregoneria”, riprodotti anche nel contesto migratorio e sui quali sarebbe necessario un approfondimento specifico anche per i rapporti con i movimenti cristiani pentecostali ai quali abbiamo accennato. Nel capitolo terzo il corpo, messo al centro nell’esperienza della possessione e della trance, viene valutato come memoria incarnata, portatore di segni che comunicano legami e appartenenze e veicolano la necessità di estinguere un “debito simbolico” di cui il corpo stesso è caricato. La possessione è considerata come fenomeno culturale che chiama in causa processi di antropo-poiesi basati sulla costruzione dell’alterità. Di tale fenomeno viene messo in rilievo il carattere di transizionalità legato alla sfida storica tra tradizione e modernità. In particolare l’esperienza della possessione mette in evidenza una figura centrale dell’extraumano nigeriano che risulterà in stretto rapporto con il simbolico delle protagoniste del nostro interesse, si tratta di Mami Wata. A MamiWata ed alla sua presenza tra le donne nigeriane in Italia rimanda il lavoro di Beneduce. Il modello di Mami Wata costituisce un’ulteriore prova di come il corpo femminile giochi un ruolo strategico nell’immaginario simbolico con notazioni che troviamo stranamente ricorrenti anche nell’immaginario europeo. 6 Mami Wata in una proiezione che ritroviamo assolutamente presente anche nell’immaginario culturale dell’occidente rappresenta la donna come “mostro”, metà umana e metà pesce, ha valenze di sirena, dona ricchezze ma non discendenza . E assurge esplicitamente a simbolo di quella rottura dei legami ormai decisa, ma continuamente temuta che abita l’inconscio delle migranti. Emerge da questo studio la realtà di quel mondo “magico” la cui presenza come luogo sempre aperto di soluzione delle crisi esistenziali è stato opportunamente sottolineato da Ernesto De Martino. Il mondo simbolico delle prostitute riflette le strategie messe in atto per superare il rischio di non esserci, la malattia, la morte, ma anche i bisogni incalzanti di un quotidiano che non si gestisce, gli sconvolgimenti provocati dai cambiamenti socio-economici Essi vengono pensati all’interno di un orizzonte simbolico attraverso il quale reintegrare la crisi individuale nel mondo dell’intersoggettività, dei valori, della cultura. Le interviste poste in appendice sono il risultato di una serie di colloqui avuti con donne provenienti da Benin City: attraverso le loro esegesi individuali ho potuto confrontare, chiarire e approfondire quanto rilevato dalla documentazione bibliografica. 7 IL CASO SPECIFICO: LA PROSTITUZIONE NIGERIANA IN ITALIA 1.1 Globalizzazione, migrazione, prostituzione: l’organizzazione del traffico dalla Nigeria La prostituzione nigeriana si afferma in Italia a partire dalla metà degli anni ’80, quando il fenomeno della tratta di esseri umani prende piede in Europa e numerose donne, provenienti soprattutto dall’Africa, dall’America Latina e dall’Europa dell’Est, forti della loro volontà di trovare condizioni di vita migliori e di garantire un benessere per la famiglia lasciata nel paese d’origine, affidano il loro progetto migratorio nelle mani di mafie locali che promettono un’occupazione sicura nel luogo di destinazione in cambio di alti costi per il viaggio e per i documenti. E non chiariscono il tipo di occupazione .. La recessione economica mondiale di quel decennio, accentuando i profondi squilibri tra Nord e Sud del mondo, ha dato origine a una massiccia spinta migratoria dai paesi più poveri, i quali hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita già precarie e hanno dovuto far fronte all’emergere della crisi debitoria. In questo periodo storico la Nigeria, quinto produttore di petrolio al mondo, da cui la sua economia dipende per il 90%, vive un momento di grandi difficoltà in seguito al crollo dei prezzi dell’oro nero. I programmi di aggiustamento strutturale guidati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale acuiscono la crisi, dando avvio a processi di liberalizzazione e privatizzazione con alti costi sociali. Dal 1966, anno in cui vengono scoperti i giacimenti petroliferi nella zona del delta del Niger a sud-est del Paese, quest’area ha assistito a un notevole sviluppo con la costruzione di porti e di industrie volte allo sfruttamento del greggio, nel quale ha avuto preponderanza il ruolo degli investimenti stranieri e delle società multinazionali, quali Shell e Eni. Qui inoltre la popolazione si è addensata arrivando dalle regioni del Nord e abbandonando le campagne, provocando una grossa crescita delle città con la proliferazione di bidonvilles. Dall’indipendenza nel 1960, la Nigeria ha avuto una situazione politica instabile, con frequenti colpi di stato militari e una forte corruzione. Le rivalità per assicurarsi il controllo 8 economico dell’area petrolifera hanno prodotto tensioni interetniche, che sono sfociate nel 1967 nella guerra civile del Biafra scoppiata in seguito alle rivendicazioni secessioniste degli Ibo, abitanti della zona del Delta, e conclusasi nel 1970 con la loro sconfitta. Nel corso di questi anni la società civile si è organizzata e continua a lottare contro gli espropri, gli abusi e il gravissimo inquinamento provocati dalle compagnie del petrolio, sostenute da una costante e violenta repressione poliziesca ad opera del governo nigeriano. Nel suo rapporto del 2004 Amnesty International ha denunciato la violazione di diritti economici e sociali, primi fra tutti il diritto alla salute1. La storia della Nigeria si inscrive dunque in quella nuova forma di dominio e di controllo economico e politico conosciuto come neocolonialismo. Protettorato britannico dal 1901, la Nigeria si presenta come stato indipendente nel 1960 con l’adozione di una costituzione federale. Il modello occidentale dello Statonazione, che ha guidato la nascita dei nuovi stati mimetici nel periodo della decolonizzazione, segna confini che racchiudono una molteplicità di popoli diversi. La Nigeria comprende oltre un centinaio di realtà culturali molto varie fra loro, tra le quali al Nord gli Hausa-Fulani, di religione islamica, gli Yoruba al sud-ovest e gli Ibo nella zona deltizia. Questa suddivisione appare comunque alquanto approssimativa e non considera in modo adeguato le numerose differenze di cui è necessario tener conto. La modernizzazione dell’economia nigeriana, basata su un modello di sviluppo capitalistico che trova nella crescita e nell’accumulo la sua logica fondante, ha prodotto profondi cambiamenti nello stile di vita, nei sistemi relazionali e nei valori delle popolazioni autoctone. Al fine di comprendere le contraddizioni interne all’Africa postcoloniale e le riorganizzazioni operate sul piano dell’immaginario simbolico per interrogarle, è utile soffermarsi sulla riflessione di Serge Latouche (2000), il quale mette in rilievo la pregnanza del legame sociale nell’esistenza della maggior parte dei popoli africani. L’autore sottolinea come tale legame, fondato sul principio di solidarietà che contraddistingue i rapporti intercomunitari, vada messo in relazione con una rappresentazione della povertà (distante da quella occidentale) intesa come mancanza di sostegno da parte della collettività. 1 “Nigeria. Are human rights in the pipeline?” in http://web.amnesty.org/library/Index/ENGAFR440202004 9 I fenomeni che si avvicinano alla cosiddetta “stregoneria” appaiono come tentativi di trovare una risposta alla minaccia dell’accumulo individualistico secondo una logica di mercato. L’approfondimento segue. Latouche evidenzia come lo scambio, basato sulla logica del dono1, serva al contrario a rafforzare il legame, rendendo tutti allo stesso tempo creditori e debitori passeggeri. Il dovere di ricambiare stringe rapporti a cui non si può venire meno e il suo senso esula dalla mera materialità dell’oggetto e non si esaurisce con la contropartita, dato che l’attenzione è rivolta ai beni simbolici che ne derivano: il riconoscimento sociale, il rafforzamento delle relazioni di potere, l’affermazione di identità. Lo scambio mercantile e l’introduzione della monetarizzazione spersonalizzano il rapporto tra chi dà e chi riceve, l’economico ingloba totalmente il sociale. Nonostante l’imposizione della logica del mercato concorrenziale in Africa, l’autore sostiene che si conservi un doppio linguaggio e un doppio sistema di pratiche, che fa coesistere la sfera oblativa e informale, marginale rispetto alla legge e all’ufficialità, con quella dell’economico stricto sensu. Il mondo dell’informale risulta dunque caratterizzato dall’incorporazione dell’economico nel sociale. Latouche ne distingue quattro livelli, che vanno dalla società vernacolare o oikonomia neoclanica ai traffici. La prima consiste nei «modi in cui i naufraghi dello sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali» (Latouche, 2000: 164); «L’economia è messa al servizio della rete, e non la rete al servizio dell’economia» (Latouche, 2000: 165). In questo settore occupano un posto di rilievo le donne, il cui lavoro è fondato sulla pluriattività e sul non professionalismo. I livelli che seguono sono definiti in base a una progressiva perversione della logica del dono. Come ultimo Latouche distingue il modello dei traffici, intesi come il commercio d’importazione e d’esportazione praticato ai margini della legalità. Oggetto di questo contrabbando possono essere beni alimentari, vestiti, droga, armi, esseri umani. Questi 12 L’autore fa riferimento all’analisi di M. Mauss sul dono come scambio caratterizzato dal triplice obbligo di dare, ricevere, ricambiare e fondato quindi sulla reciprocità. Per approfondire M. Mauss, Essai sur le don, Paris, Presses Universitaires de France, 1950 (trad. it. Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 2002). 10 scambi, in cui la logica del dono degenera, restano comunque legati all’organizzazione basata su una socialità in reti. Le frontiere della Nigeria risultano essere uno dei luoghi di smistamento dei principali traffici in Africa. Il traffico di donne viene gestito da mafie locali con una struttura complessa e ben organizzata, che ha forti basi nella società nigeriana. Le ragazze avviate alla prostituzione in Italia provengono soprattutto da Benin City, nello stato degli Edo, anche se la maggior parte di loro ha un passato di migrazione interna dal villaggio alla città. In una prima fase, quando il fenomeno appena sorto non era ancora conosciuto, le persone venivano reclutate soprattutto nei grandi centri urbani e non erano coscienti dell’attività che avrebbero dovuto svolgere nel luogo di destinazione. Oggi tutti sanno qual è la fonte di guadagno delle ragazze che tornano ricche dall’Europa, lo stesso governo si preoccupa di organizzare campagne per denunciare il traffico attraverso l’informazione di massa. Da un lato le donne che partono sono quindi consapevoli di ciò che le attende, anche se non immaginano le dure condizioni di lavoro e di sfruttamento che dovranno affrontare per esercitare la prostituzione su strada. Dall’altro le mafie si sono spostate per il loro reclutamento dalle città ai villaggi, dove le informazioni sono meno diffuse, con un relativo abbassamento dell’età e del livello di scolarizzazione di chi parte. Il reclutamento avviene tramite uno sponsor, a volte può essere la stessa donna che si occuperà delle ragazze in Italia, e si basa su una rete amicale-parentale. Chi decide di partire viene nella maggior parte dei casi da famiglie poligamiche, quindi molto numerose, in cui è soprattutto femminile il ruolo di bread-winner. La scelta è sostenuta spesso dalla famiglia che vede nei futuri guadagni della figlia un mezzo per superare le difficoltà economiche e accrescere il proprio benessere. La stigmatizzazione sociale delle donne partite per l’Europa non risiede tanto nell’essere riconosciute come prostitute, quanto nel fallimento del loro progetto migratorio nel caso dell’espulsione da parte del paese di destinazione: molte delle persone rimpatriate vengono ripudiate dalle famiglie perché si presentano senza denaro3. 3 Il progetto ALNIMA, realizzato da COOPI, Tampep onlus, SRF e CeSPI nel 2004, è stato rivolto in Nigeria alle donne rimpatriate, spesso abbandonate dalle famiglie, al fine di promuovere il loro reinserimento sociolavorativo nel paese d’origine, evitando in questo modo un loro ulteriore reclutamento da parte dei trafficanti. 11 In Nigeria la prostituzione appare diffusa soprattutto nel sud del Paese, in corrispondenza delle zone occupate dalle compagnie petrolifere, ma le donne che migrano in Europa raramente hanno già avuto un passato sulla strada. La scelta di intraprendere il viaggio è sostenuta per molte dalla speranza di realizzare un percorso personale di autodeterminazione ed autonomia: il loro progetto migratorio ha obiettivi chiari e concreti che mirano alla realizzazione di un miglioramento delle condizioni di vita. E’ necessario considerare che la società tradizionale è fondamentalmente patriarcale e che le vie di emancipazione per la donna nigeriana sono ostacolate da condizioni economiche difficili e dal compito di farsi carico della famiglia. L’asimmetria di genere ancora una volta come ovunque presente è sottolineata dal fatto che sono i figli maschi ad avere la precedenza nell’accesso all’istruzione. Inoltre si ricorda che in Nigeria è diffusa la pratica delle mutilazioni genitali femminili e che nel nord islamico viene applicata integralmente la sharî’a, con la tristemente nota lapidazione delle adultere. Il costo per il viaggio e i documenti viene anticipato dai trafficanti. Il patto per la restituzione del debito assume un carattere fortemente simbolico in quanto inserito in un’esperienza di migrazione che porta distanza e pericolo di oblio rispetto al paese d’origine. Il dramma esistenziale vissuto da queste donne trova vistosi riscontri nella costruzione del loro universo simbolico dove espresso, le pratiche di “stregoneria” e dalla possessione, la presenza della figura extraumana Mami Wata filtrano la paura di tradire i legami di parentela e lignaggio ma rappresentano anche i vincoli di memoria (Beneduce 2002) a una tradizione collettiva e a un passato costruiti su un’organizzazione del simbolico che non trova più riscontro nella nuova realtà del luogo d’arrivo e chiama continuamente a un confronto e a doveri precisi. Il giuramento per la restituzione del debito può avvenire attraverso un contratto sottoscritto davanti a un notaio, in cui è prevista una garanzia sotto forma di beni da parte della famiglia. Quello che caratterizza il traffico di donne dalla Nigeria è il juju compiuto per ottenere una forma di controllo sulla persona a cui è rivolto. Il juju avviene raccogliendo elementi del corpo della ragazza, come capelli, unghie, peli pubici, o anche abbigliamento 12 intimo, i quali si crede continuino ad essere parte della persona stessa e vengono utilizzati come mezzo di ricatto e minaccia di sventura, malattia, morte. Viene di solito effettuato da un babalawo in Nigeria il quale, su richiesta della madame, si appella alla forza del proprio vodu per caricare di potere l’insieme degli elementi. La figura della madame è un altro elemento che distingue la prostituzione nigeriana. Investita di un ruolo ambiguo che la vede benefattrice e sfruttatrice insieme, è la donna che compra le ragazze dai trafficanti, di solito uomini, e alla quale deve essere pagato il debito, che oggi sembra ammontare a una cifra che va dagli 80.000 ai 120.000 euro e che di solito riesce ad essere estinto in due o tre anni di lavoro. La madame è spesso un’ex prostituta con una storia simile a quella delle donne su cui ha il controllo. Vive insieme a loro, le avvia al mestiere e richiede una quota dei loro guadagni come contributo per la casa e per il joint, il posto di lavoro sulla strada. Si instaura così un rapporto verticale tra lei e le ragazze, che devono assicurarle rispetto e lealtà. Nello stesso tempo diventa il punto di riferimento principale per affrontare la nuova vita in un paese estraneo. Le rappresentazioni del corpo e della malattia, che caratterizzano la zona dell’Africa occidentale qui considerata, attivano nel contesto della prostituzione un linguaggio basato su segni fisici, sofferenze, infermità, i quali costituiscono i sintomi di angosce e paure dovute alla rottura di un rapporto con il proprio paese e all’abbandono delle diverse appartenenze al mondo umano o sovrumano. Le donne nigeriane in Italia raccontano frequentemente del loro legame con Mami Wata, il cui culto è diffuso nel sud del paese ed è connotato dall’esperienza della possessione e della trance. Questi aspetti dell’immaginario delle ragazze provenienti da Benin City, che qui sono stati solamente accennati e che verranno approfonditi nei capitoli seguenti, determinano una reazione di diffidenza o di disinteresse nei confronti delle possibilità di fuoriuscita dalla prostituzione previsti in Italia dall’art.18 del D.L.286/98, come rilevano i servizi che se ne occupano. I panegirici centrati sulla “paura del vodu”, alla cui diffusione concorrono i mass media, non migliorano la comprensione dell’universo simbolico di queste donne: esse risultano essere sempre oggetto di discorsi altri e vengono dipinte esclusivamente come vittime o schiave passive.. 13 La complessità del fenomeno e il suo intrecciarsi con componenti religiose, culturali, storiche ed economiche globali, rende necessario riconsiderarle invece come soggetti di pratiche simbolizzate che costituiscono un linguaggio: da un lato, per riuscire ad operare nella direzione di un incontro che favorisca la promozione dei diritti e contribuisca all’eliminazione di ogni tipo di sfruttamento, dall’altro, per restituire dignità a tutte coloro che investono in maniera attiva su un progetto di miglioramento di sé e della propria vita. 1.2 Costa degli Schiavi: una storia di partenze e contaminazioni L’indagine sull’immaginario simbolico delle donne nigeriane in Italia deve necessariamente cominciare con uno sguardo alla dimensione culturale del loro luogo d’origine. La zona della Costa degli Schiavi comprende la parte meridionale del Togo, del Benin e della Nigeria ed è stato il territorio occupato per secoli dagli Yoruba, che oggi si trovano concentrati soprattutto in Nigeria. In questo lavoro si prende a modello l’organizzazione del simbolico propria degli Yoruba, in quanto essa ha influenzato ed è stata a sua volta condizionata dagli altri gruppi occupanti il territorio dell’attuale Nigeria, dando origine a un’omogeneità culturale riconosciuta da tutti coloro che si sono occupati di studiare quest’area4. Il termine Yoruba ha una storia complessa che riflette quella delle popolazioni che sta a designare. Come riportato in un libro del capitano Clapperton del 1826, esso sembra essere stato usato per la prima volta in un manoscritto in lingua araba del sultano degli Hausa, del regno di Sokoto, per indicare il popolo di Oyo. L’estensione del nome sembra dovuta allo sforzo di evangelizzazione dei missionari nei primi decenni del XIX secolo e fu utilizzata dall’amministrazione britannica in funzione dell’unificazione dei diversi regni sotto l’autorità del sovrano di Oyo. «Il nome yoruba si applica a un gruppo linguistico di più milioni di persone [...], oltre al loro linguaggio comune, gli Yoruba sono uniti da una stessa cultura e dalla tradizione della loro origine comune dalla città di Ife, ma non sembra che abbiano mai 4 Vedi, ad esempio, Métraux 1971 e Verger 1982. 14 costituito un’unica entità politica e c’è da dubitare che, prima del XIX secolo, si chiamassero gli uni gli altri con uno stesso nome»5. I regni yoruba erano caratterizzati da una cultura agricola e urbana sviluppata già nel periodo precoloniale e, nonostante fossero legati da deboli rapporti non sempre pacifici, l’identità yoruba venne unificata nel mito attraverso una comune discendenza dall’antenato “mitico” Odoudoua, fondatore della città di Ife. Oyo costituiva il regno più potente, a cui molti degli altri erano legati da una relazione di dipendenza: dovevano mostrare fedeltà e fare omaggio al re, in cambio della sua protezione. Questo regno era inoltre al centro di una rotta carovaniera trans-sahariana che lo inseriva nelle reti commerciali provenienti dall’Africa Settentrionale e lo metteva in contatto con il mondo mediterraneo. Furono proprio i mercanti a promuovere il processo di islamizzazione che, dalla fine del XVIII e per tutto il XIX secolo, venne incrementato da una serie di jihad sviluppatesi contro la penetrazione europea e contro le popolazioni non ancora convertite. Queste probabilmente contribuirono alla fine di Oyo, individuabile intorno al 1830. All’inizio del XVIII secolo i Portoghesi registrarono scontri tra Oyo e il re del Dahomey: quest’ultimo nel 1727 distrusse il piccolo regno di Uidah, il cui porto divenne il luogo di imbarco degli schiavi venduti agli Europei e reclutati tra i suoi nemici. La religione yoruba riflette la complessità della struttura politica: è la religione degli orisha, un modello simbolico avanzato, un politeismo costituito da un articolato pantheon di divinità legate da complicati rapporti genealogici e gerarchici. Il famoso africanista di Francoforte Leo Frobenius così illustrava il simbolico religioso yorouba agli inizi del XX secolo «La religione yoruba, tale e quale si presenta in questo momento (1910), non è diventata omogenea che gradualmente. La sua uniformità è il risultato dell’adattamento e dell’amalgama progressivi di credenze venute da differenti direzioni»6. Pierre Verger fa notare che il pantheon degli orisha non è sempre unico e identico in tutte le parti del territorio considerato yoruba, ma dipende dalla storia delle città di cui ciascuna divinità è protettrice. Per esempio Odoudoua, fondatore di Ife, ha mantenuto un 5 S. O. Biobaku cit. in Verger 1982. Per approfondire vedi S.O. Biobaku, Sources of Yoruba history, Oxford, 1973. 6 L. Frobenius cit. in Verger 1982. Per approfondire vedi L. Frobenius, Mythologie de l’Atlantide, Paris, 1949. 15 carattere più temporale che divino, com’è evidente dal fatto che nel suo culto le persone incaricate di invocarlo non sperimentano la trance di possessione. L’orisha è in principio un antenato divinizzato che può controllare le forze della natura, come il tuono, il vento, le acque dolci o salate, o può rappresentare un’attività precisa, quali la caccia, la lavorazione dei metalli, la conoscenza e l’uso delle piante. Ogni orisha contribuisce a difendere la dinastia del re o il potere del capo assicurando stabilità e continuità, nello stesso tempo il sovrano ha carattere sacro, in quanto discendente della divinità. La religione yoruba è dunque legata alla nozione di famiglia, una famiglia estesa, derivante da un antenato mitico comune ed ingloba i vivi e i morti. I miti narrano che la metamorfosi da uomo a dio sia avvenuta in un momento di profonda agitazione, rabbia o rimpianto: la materia scompare, rimane solo il potere, chiamato àse, forza immateriale che esiste in sé e rappresenta l’orisha come essere potente. La forza dell’orisha può essere raccolta in un vaso piantato nel terreno che si pone come base concreta e tangibile della potenza alla quale affidare le offerte e sulla quale viene versato il sangue degli animali sacrificati. Oltre all’oggetto, anche il corpo dell’uomo funge da mezzo attraverso il quale l’orisha può tornare sulla terra e ricevere le dimostrazioni di reverenza e rispetto dei discendenti che lo hanno invocato. Sull’elégùn, la persona prescelta, l’àse si cala durante la trance di possessione. I prescelti, sia maschi che femmine, sono definiti “donne dell’orisha”, per indicare il rapporto di sottomissione e dipendenza dell’uomo nei confronti del dio. Durante la sua performance umana, ogni dio presenta una forte caratterizzazione e si differenzia dagli altri per la complessa personalità e i suoi attributi: Ogun, dio della guerra e del ferro, si mostra aggressivo e violento; Shango, dio del fulmine, porta una doppia ascia in mano (è interessante notare lo stesso simbolo di Zeus nel pantheon greco) e appare energico e autorevole; Yémaja, dea dei fiumi, è protettrice e talvolta arrogante. Le cerimonie in cui il dio viene invocato durano per giorni e seguono uno schema ben definito di pratiche rituali, che consistono in offerte e sacrifici e trovano il loro momento centrale nella trance di possessione, accompagnata da un complesso musicale di danze con ritmi differenziati in rapporto a ciascun orisha. Ogni lignaggio ha il proprio dio, che riserva i suoi benefici al solo gruppo familiare e diventa ereditario in senso patrilineare: i figli seguono quindi l’orisha del padre, anche se il 16 culto di un’altra divinità può essere indicato per divinazione. Con la divinazione effettuata da un sacerdote, detto babalawo, viene anche designato l’elégùn, il quale dovrà compiere un percorso di iniziazione che comincia in tenera età. Il babalawo è il portavoce di Orunmila, il quale custodisce la conoscenza dei destini individuali, ma non può essere considerato un vero e proprio orisha. L’iniziazione del babalawo non comporta una perdita di coscienza, come quella degli elégùn nel momento in cui vengono posseduti, ma il suo apprendistato consiste nell’imparare i miti e i saperi tradizionali, raccolti in 256 odu (segni). Ogni individuo è legato a uno di questi, il quale serve a conoscerne l’identità profonda. La divinazione permette di individuare la causa di un problema e il sacrificio per la sua risoluzione. Il babalawo ha anche il ruolo di guaritore e riceve suggerimenti da Orunmila sulle radici e le piante da usare. E’ praticata l’oniromanzia per ottenere informazioni sulla volontà di un dio o per predire il futuro. La causa di malattia, morte e sventure viene solitamente imputata al fenomeno della “stregoneria”, legata soprattutto al mondo femminile, i cui poteri possono essere trasmessi da madre a figlia. L’influenza degli Yoruba è stata enorme sui popoli con cui sono entrati in contatto: dal punto di vista religioso c’è stata tolleranza e apertura, tanto da portare alla costituzione di pantheon in cui le divinità di origini diverse venivano integrate nella struttura tradizionale del regno che si espandeva. Lo stesso è avvenuto per i vicini orientali del regno di Benin, gli Edo o Bini, che costituiscono oggi il gruppo etnico maggioritario delle donne che arrivano in Italia con il traffico. Il termine vodu, utilizzato molto spesso per parlare del sistema simbolico di quest’area, è una parola di origine fon e yoruba che rimanda letteralmente al significato generico di “divinità”. Nonostante ciò, il suo uso sembra riferirsi specificamente al “dio oggetto”, secondo la definizione data da Marc Augé, ovvero alla raffigurazione antropomorfa della divinità sotto forma di immagini e statuette in legno o in pietra, a cui vengono attribuiti i poteri e lo spirito del dio. Come scrive Métraux, «...un vodu è un “dio”, uno spirito, la sua “immagine”, tutto quello che gli Europei designano con il nome di “feticcio”» (Métraux 1971: 23). Non a caso la parola feticcio7 fu introdotta dai primi colonizzatori portoghesi 7 Per feticcio intendiamo un oggetto, considerato carico di poteri, che l’uomo stesso fabbrica per venerare. 17 dell’Africa Occidentale per indicare gli “idoli” che qui venivano adorati, anche se essi ne estesero l’uso per contrassegnare oggetti di culto di tipo diverso. E’ interessante sottolineare la comparazione che ne fa Augé, riprendendo un’osservazione avanzata da Vernant, con il kolossós greco, doppio del morto, «come il morto stesso è un doppio del vivo»8, anche se il kolossós rimanda al mistero e all’ignoto dell’aldilà, mentre il vodu sottolinea la dimensione di familiarità tra dei e uomini. Scrive Augé che «quasi anticipando lo sforzo dell’etnologo, essi (i sacerdoti e gli indovini) hanno sempre saputo che il linguaggio degli dei serve solo a esplicitare la pratica degli uomini e hanno provato a esplorare un mondo in cui le parole non sono superate dalle cose, né le parole e le cose dagli dei, ma in cui l’individualità umana, incapace di identificarsi totalmente con le parole, con le cose o con gli dei, si riflette continuamente per meglio comprendersi » (Augé, 2002: 14). Viene sollevata quindi la questione dell’identità, umana in primo luogo, ma anche del singolo, la quale chiama necessariamente in causa il suo rapporto con l’alterità. La prima forma di alterità con cui l’uomo entra in rapporto è quella della natura, la materialità bruta che costituisce l’impensabile che è necessario pensare e interpretare. La relazione è ciò che dà senso a questa materia, e la materia è la base sulla quale questa relazione può rappresentarsi. Attraverso il simbolo, che mette in rapporto realtà o esseri, ma anche sistemi simbolici differenti9, questa relazione non viene solo rappresentata, ma viene generata. Il “dio oggetto” è propriamente un simbolo, che tenta di rispondere alla triplice domanda alla base di ogni dispositivo simbolico: Che cosa sono? Chi sono? Che cos’è l’altro? Tale dispositivo simbolico trova il proprio fondamento nella vita sociale, è il linguaggio che ne permette la stessa esistenza e la produce. 8 J.-P. Vernant cit. in Augè 2002:12. Per approfondire vedi J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs. Études de psychologie historique, Maspero, Paris, 1965 (trad.it. Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino). 9 «Ogni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici in cui, al primo posto, si collocano il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l’arte, la scienza, la religione. Tutti questi sistemi tendono a esprimere taluni aspetti della realtà fisica e della realtà sociale e, ancor di più, le relazioni che intercorrono tra questi due tipi di realtà e quelle che intercorrono tra gli stessi sistemi simbolici» cit. in Augé 2002: 44. Per approfondire vedi C. Lévi-Strauss, “Introduction à l’oeuvre de Marcel Mauss” in M. Mauss, Sociologie et anthropologie, Puf, Paris, 1950). 18 Così, per esempio, ogni vodu ordina il gruppo, nel duplice senso di rappresentarlo (si è visto il legame di ogni divinità con il lignaggio, a partire dalla dinastia reale) e di organizzare al suo interno le differenze sociali, mettendole all’opera attraverso la pratica: i semplici fedeli si distinguono dai sacerdoti, gli iniziati dai non iniziati. La materia prima di questa relazione è il corpo, che diventa significante e significato insieme: corpo degli dei in rapporto al corpo degli uomini, corpo in rapporto all’oggetto. Il “dio oggetto” si presenta con sembianze antropomorfe, ha fame e sete, può essere rappresentato un infinito numero di volte eppure rimane uno, quel dio. Il nome gli conferisce un’identità precisa che viene mantenuta, la sua moltiplicazione rispecchia quella della discendenza, come lo stesso accade per il sovrano che incarna l’antenato divinizzato. Viceversa, il corpo umano si avvicina all’oggetto, tende a confondersi con la pura materialità: è la morte, che è necessario ritualizzare. Allo stesso tempo il corpo umano è segnato dal dio, come dimostrano le scarificazioni durante un'iniziazione, o la trance di possessione in cui viene messo al centro e si fa mezzo della manifestazione della divinità, o ancora la malattia e la morte: esso stesso assurge quindi a simbolo. Questi segni significano la relazione tra sistemi simbolici diversi, messi in luce, resi trasparenti, dagli “specialisti della chiaroveggenza”. Gli “dei oggetto” diventano quindi i mediatori che traducono linguaggi differenti, permettendo di passare da un sistema all’altro. Sono dunque oggetti sociali totali, come Augé li definisce parafrasando Mauss: «Il dio oggetto è l’istanza e il luogo per i quali è necessario passare per andare da un individuo all’altro, da un punto a un altro o da un ordine simbolico a un altro, ma anche da sé a sé poichè l’intimità e l’interiorità individuali sono plurali. L’oggetto simbolo e feticcio afferma e nega la frontiera; più esattamente ne afferma la realtà dando la possibilità ed esplicitando la necessità di varcarla: riafferma in ogni istante la frontiera, moltiplicando eventualmente i divieti, per suggerire la possibilità e la necessità del passaggio» (Augé 2002: 136). L’autore sottolinea l’importanza delle esegesi individuali che danno di uno stesso pantheon e di una medesima mitologia varianti diverse e interpretazioni a volte divergenti: da questi racconti personali è necessario iniziare una comparazione, in quanto essi riformulano continuamente i problemi riguardanti l’essere, l’identità e la relazione. 19 La parola vodu è passata ad indicare la religione sincretica di Haiti che ebbe origine in seguito all’interazione e alla fusione di elementi yoruba, fon e congo, i gruppi maggioritari vittime della tratta, con le istanze del cattolicesimo. Altri sincretismi ebbero luogo nel nuovo mondo con la deportazione delle popolazioni del Golfo di Guinea, come il candomblè brasiliano e la santería cubana. Le numerose divinità del pantheon originario sono state accostate ai santi cattolici, la trance di possessione è rimasta al centro delle pratiche rituali, l’organizzazione sacerdotale si è mantenuta, i riti di iniziazione danno accesso a quelle che sono diventate delle “microsocietà” (Bastide 1990), slegate dall’organizzazione familiare e che si configurano come sette o confraternite indipendenti. I culti tradizionali sono serviti come elemento di coesione e come piattaforma sulla quale gli schiavi deportati hanno potuto ricostruire un’identità collettiva che permettesse la loro sopravvivenza nel nuovo mondo. Scrive Métraux che «il culto degli spiriti e degli dei, così come la magia, furono per lo schiavo contemporaneamente un rifugio e una forma di resistenza all’oppressione» (Métraux, 1971: 29). Il vodu haitiano fu il sostegno alle prime rivolte contro i bianchi e alle rivendicazioni d’indipendenza a cavallo tra il XVIII e XIX secolo. In tutto il mondo colonizzato l’urto con la cultura occidentale e l’acculturazione favorita dall’attività missionaria hanno prodotto riorganizzazioni all’interno dei sistemi simbolici tradizionali, rispondendo alla necessità di pensare le nuove congiunture storiche e di recuperare un modo dell’essere nel mondo, minacciato dal dominio dei bianchi. Nuovi movimenti religiosi profetici, spesso scaturiti nella formazione e proliferazione di chiese, sono sorti in Africa. In generale, l’influenza della tradizione escatologica giudaico-cristiana ha dato origine a queste “tecnologie del sacro” (Balandier 1990) messianiche e millenariste che profilano l’avvento di nuovi regni di pace e giustizia per rispondere all’insicurezza generata dalla colonizzazione e proseguita con la decolonizzazione e la formazione di élites locali e di nuovi governi occidentalizzati. Questi movimenti hanno carattere sincretico. Oltre a riguardare il processo di cristianizzazione che ha coinvolto gran parte dell’Africa nera, si verificano anche all’interno del quadro islamico, come nel caso del Mahadismo (Mahdi è il messia) diffusosi in Somalia, 20 Senegal, Sudan e nei sultanati hausa del nord della Nigeria, dove nel 1923 è stata anche introdotta, a Lagos e a Ibadan, la setta islamica degli Ahmadiyya, fondata in India, la quale prende il nome dall’atteso profeta Ahmad. Il complesso mitico-rituale tradizionale viene rielaborato e riadattato, mantenendo alcune delle strutture tipiche dell’organizzazione sociale, come la poligamia, in contrasto con l’insegnamento cristiano. Tutti i nuovi movimenti religiosi sembrano d’altro canto sostenere la lotta antifeticista e antistregonica, che rompe solo formalmente con il complesso tradizionale. L’occupazione europea ha infatti contribuito al sorgere di gravi problemi per le popolazioni autoctone, interpretati come gli effetti di un’azione malefica: malattie sconosciute, disagio sociale, corruzione dei costumi e dei valori morali che fondavano il gruppo, rottura dei legami comunitari. Questi pericoli vengono reinterpretati come interventi del diavolo, “forze sataniche”, producendo parallelismi tra la tradizionale “stregoneria” o il culto di vodu e un concetto di Male, fondato sull’opposizione dualistica di tradizione giudaico-cristiana, fino ad allora estraneo a quei popoli. Balandier sottolinea come la nascita dei nuovi movimenti religiosi risalga alla vecchia colonizzazione e non debba essere considerata esclusivamente una risposta culturale ai processi di modernizzazione: nei primi anni del ‘700 si afferma in Congo la “setta degli antoniani”, sorta in seguito alle rivelazioni ricevute da Donna Beatrice, che annuncia l’avvento di un’età dell’oro in cui i nativi potranno godere degli stessi beni dei bianchi. In Africa si devono distinguere due modalità di risoluzione della crisi attraverso l’innovazione religiosa, in corrispondenza allo specifico tipo di sfruttamento coloniale avvenuto nella parte occidentale del continente. Nelle zone dell’Africa orientale, centrale e meridionale le nuove chiese hanno carattere emancipazionista e anticolonialista e sono sorte come risposta al problema delle terre da cui i nativi erano stati espropriati e usati come manodopera per le piantagioni degli europei. Lo sfruttamento coloniale diretto ha portato a una politica di segregazione, della quale l’esempio più noto è il caso del Sudafrica con il Native Land Act del 1913 e l’Urban Act del 1923. Qui sono nate le chiese di tipo etiopista e sionista, che hanno trovato nell’Antico Testamento, e in particolare nella figura di Mosè, il modello da adattare alla propria ideologia di liberazione dalla schiavitù dei bianchi. La reinterpretazione della Bibbia viene intesa in 21 senso nazionalista e pararivoluzionario: sono chiari i contenuti politici e sociali di questi movimenti che lottano contro l’oppressione bianca e ne rifiutano i modelli e gli stili di vita. La setta dei Mau Mau in Kenya e il movimento Kimbangista in Congo hanno lo stesso carattere irredentista. Quello che li accomuna è anche l’innesto di pratiche rituali tradizionali sul modello della liturgia cristiana: la possessione ad opera di Dio, il battesimo come rito di purificazione, la confessione. Dopo l’acquisizione dell’indipendenza questi movimenti sono passati a posizioni integriste e hanno assunto la forma di chiese evangeliche. In Africa occidentale lo sfruttamento coloniale si manifesta invece in modo indiretto: i bianchi promuovono la sostituzione dei prodotti coltivati, in funzione del mercato europeo, ma le terre rimangono di proprietà dei nativi. L’impatto più forte è dato dallo scontro con una cultura tecnologicamente superiore che assurge a modello e incanta; nello stesso tempo l’inurbamento porta alla disgregazione della struttura sociale tradizionale basata sulla famiglia allargata e sull’organizzazione clanica. Questo produce una sensazione di “spossessamento culturale” (Lanternari 1983: 166) e di minaccia per la perdita d’identità. Non trova radici il messianismo che ha caratterizzato i nuovi movimenti religiosi nelle altre parti dell’Africa, né viene promosso l’anticolonialismo e la lotta contro i modelli occidentali. L’urgenza è quella di ricostituire le basi di una socialità che viene a mancare, le nuove chiese hanno dunque una funzione surrogativa e compensativa laddove lo squilibrio di forze non permetterebbe un confronto sul piano politico e militare. I nuovi gruppi, che in un momento successivo daranno origine a vere e proprie chiese, nascono nelle città intorno a una figura carismatica che si propone come un padre o un fratello maggiore all’interno di una “grande famiglia”, riformulando così i rapporti verticali in seno al tradizionale sistema parentale. La maggiore influenza deriva dal pentecostalismo anglo-americano, diffusosi attraverso le missioni occidentali nel secondo dopoguerra, il quale costruisce la piattaforma sulla quale le chiese “spirituali” e “carismatiche” andranno a formarsi, riprendendo la formula dei doni carismatici dello Spirito Santo: guarigione, glossolalia e profezia. Le guarigioni attraverso la preghiera sono effettuate dal leader del gruppo, sul modello del Gesù taumaturgo, dispensatore di miracoli. Le cerimonie hanno una forte valenza 22 emotiva e si basano su canti, danze, glossolalia, possessioni collettive da parte dello Spirito Santo, confessioni pubbliche che permettano di combattere le “evil forces” stregonesche e diaboliche, favorendo il confronto diretto con gli altri. Il carattere terapeutico di questi movimenti si inscrive in una concezione della malattia che trova le sue origini nel comportamento umano, nell’infrazione di norme, in un conflitto all’interno della comunità: la malattia non riguarda mai solo il singolo, ma è sempre sociale. Centrali sono i sogni e le visioni del profeta-fondatore: essi appaiono come rivelazioni e preannunciano l’avvento di un’era di benessere e prosperità, che nell’Africa occidentale non assume connotazioni politiche, ma è strettamente legata alla vita mondana, alla ricchezza e alla salute. Il riferimento biblico privilegiato è il Nuovo Testamento: umanitarismo universalista, miracolismo, discesa dello Spirito Santo sono i tratti che ne vengono recepiti. A queste caratteristiche corrisponde il filone delle “chiese di guarigione mediante preghiera”, sviluppatosi durante la prima metà del Novecento dall’esperienza nigeriana delle chiese di “Aladura” (preghiera), nate dall’opera di ex adepti delle missioni cristiane e sviluppatesi tra i nativi immigrati nelle città. Il modello occidentale è incoraggiato e sostenuto. Proprio questo “etnocentrismo invertito”, basato sul confronto con una cultura considerata superiore, viene accolto dalla borghesia autoctona e dai governi come spinta modernizzatrice. Questa ricerca mimetica appare evidente all’interno del movimento di innovazione religiosa guidato da Harris e diffusosi in Costa d’Avorio e in Costa d’Oro. La sua dottrina è centrata sulla necessità dell’istruzione per “diventare come i bianchi”: «Se voi sarete fedeli a quel ch’io vi dico, voi diverrete come i bianchi, mangerete sulla tavola come i bianchi, siederete su sedie come i bianchi, avrete case con più piani come i bianchi»10. L’atteggiamento di rigetto per la cultura nativa e di adesione totale ai modelli occidentali sembra delineare quella che Lanternari ha definito la manifestazione di «una delle crisi più gravi e compromettenti», conseguente ad una perdita di valori non così facilmente rimpiazzabili. Tuttavia, la fusione sincretica degli elementi tradizionali con quelli nuovamente introdotti non riduce la complessità culturale di questi popoli a una semplice imitazione. Al contrario, essa fornisce il materiale attraverso cui delineare un nuovo orizzonte operativo. 10 cit. in Lanternari 1983: 198. 23 Il modello ciclico del tempo, l’eterno ritorno su cui si configura il complesso miticorituale tradizionale con funzione di destorificazione e risoluzione della crisi, subisce l’impatto terrorizzante con la tradizione escatologica giudaico-cristiana fondata sulla linearità della storia da un archè a un eschaton. De Martino sottolinea come questo sia il momento in cui il futuro diventa tema culturale, nei termini di una catastrofe imminente che segnerà l’inizio di un mondo nuovo e salvifico. L’apocalisse culturale dei popoli africani viene istituzionalizzata in modelli socializzati di comportamento e sottratta alla “nuda crisi” senza riscatto che sfocerebbe nella solitudine dei disturbi psicopatologici: è questo il senso della proliferazione di sette e chiese a cui ancora oggi assistiamo in Africa. 24 2. I POTERI RITUALI: LO SFORZO DEL “DOVERCI ESSERE” 2.1 Nuove disuguaglianze, nuovi poteri I termini “stregoneria”, “magia”, “occulto” sono espressioni utilizzate con significati non sempre chiari e in contesti molto diversi. Essi nascono soprattutto come prodotto delle categorie interpretative dell’osservatore esterno, anziché costituire delle realtà esistenti nelle società osservate. Dal punto di vista evoluzionista, le pratiche magiche sono caratterizzate da una fondamentale irrazionalità che le colloca al livello più basso dello sviluppo dell’umanità, il quale culmina nel pensiero scientifico. E’ Malinowski a mettere per primo in luce la funzione pragmatica del mondo magico, volto alla risoluzione delle frustrazioni psicologiche dell’uomo. In questo lavoro s’intende considerare in particolar modo la posizione assunta da Ernesto de Martino, il quale individua nel mondo magico lo «scandalo»11 della «natura culturalmente condizionata», nella quale «vive e si esprime un dramma culturale definito». Il mondo magico esprime infatti «il rischio di perdere la propria anima e il riscatto relativo»: «Nel mondo magico l’anima può essere perduta nel senso che nella realtà, nell’esperienza e nella rappresentazione essa non si è ancora data, ma è una fragile presenza che [...] il mondo rischia di inghiottire e vanificare. Nel mondo magico l’individuazione non è un fatto, ma un compito storico, e l’esserci è una realtà condenda. Di qui un complesso di esperienze e di rappresentazioni, di misure protettive e pratiche, che esprimono ora il momento del rischio esistenziale magico, ora il riscatto culturale, e che formano, nella loro drammatica polarità, il mondo storico della magia» (De Martino 2003: 75). Sotto l’influenza della morale cristiana che ha imposto il bipolarismo Bene/Male come chiave di lettura di un ampio e complesso insieme di fenomeni, il termine “stregoneria” ha assunto connotati negativi, perchè associata al concetto di “magia nera” in 11 Lo “scandalo” a cui l’autore si riferisce è, in primo luogo, la possibilità di fenomeni paranormali, quindi di “psichicità che torna alla natura”, per un mondo, quello occidentale, che fonda il suo percorso storico e il suo esistere sul pensiero scientifico. De Martino si propone di riflettere non solo sul mondo magico, ma anche sull’approccio occidentale ad esso, rivalutando, come primo passo, la categoria interpretativa di realtà. Vedi De Martino 1948 (ried. 2003). 25 opposizione alla “magia bianca” a fini benefici. A partire da questa considerazione, per evitare semplicistiche riduzioni, ci si riferisce a tali fenomeni in quanto ritual powers, valutando il magismo (De Martino 2003) non solo come insieme di discorsi, ma anche come sistema di pratiche, di modi d’agire sul mondo. Lo studio di Evans-Pritchard sugli Azande del Sudan anglo-egiziano mette in luce il carattere di razionalità e di coerenza della “stregoneria”12, che viene ricondotta a un discorso attraverso il quale spiegare la sventura. Evans-Pritchard elabora una distinzione teorica tra witchcraft e sorcery che andrà ad influenzare molti lavori successivi sull’argomento. La “stregoneria” (witchcraft) consiste in un potere psichico; essa corrisponde a una particolare caratteristica fisica, interna al corpo dello stregone, ereditaria, tramandata da un genitore ai figli dello stesso sesso. Sia le donne che gli uomini possono esercitare i suoi poteri. La “fattucchieria” (sorcery) si esercita attraverso i riti magici ed è invece un potere acquisito. I moventi di witchcraft e sorcery sono gli stessi: rancori personali, invidie, gelosie che si scatenano tra individui della stessa condizione sociale. Entrambe si oppongono alla “magia buona”, finalizzata al compimento della giustizia e legata a un ordine morale che deve essere rispettato. Essa può essere usata come arma di vendetta dalla vittima della “stregoneria” o della “fattucchieria”, grazie all’individuazione del responsabile ad opera di un oracolo. De Martino fa notare la contraddittorietà apparente del rischio di non esserci come obiettivo dell’atto magico, ma sottolinea che «attraverso la fattura e la controfattura il rischio di non esserci e il relativo riscatto riceve un’altra ulteriore umanizzazione e intensificazione. L’uomo ora controlla tutti i momenti del dramma magico, non soltanto la sua lisi, ma anche la produzione del rischio» (De Martino 2003: 109). Accanto all’accusa contro un nemico considerato responsabile dei propri mali, Lewis evidenzia i casi di stregoneria “introspettiva”, che consistono in autoaccuse: l’autore li accosta alla possessione periferica per la forma comune di attacco indiretto e inscrive entrambi in un contesto di rapporti di forza nel quale sono gli individui più deboli a cercare 12 Si riporta qui il termine “stregoneria” perchè utilizzato dall’autore stesso. L’uso delle virgolette rimanda alla sua non completa esattezza, come chiarito più sopra. 26 voce13. L’autore sottolinea anche come possessione e “stregoneria” possano presentarsi combinati in una medesima società: è il caso dell’Europa del XVI e XVII secolo, quando la “stregoneria”, di cui le donne erano i soggetti più accusati, veniva imputata alla possessione diabolica o comunque al patto con il diavolo. Il caso della stregoneria “estroversa”, la forma di attacco diretto rappresentata dalla fattura, sembra esistere soprattutto nei rapporti fra eguali, o come azione di un superiore nei confronti di un suo subordinato. Essa sarebbe associata a comportamenti antisociali, ritenuti immorali. E’ frequente che i soggetti più coinvolti siano le donne. Lewis ritiene possibile che le due forme possano costituire anche momenti consecutivi: una donna che ha imparato a controllare il proprio spirito può esercitare l’attività divinatoria, acquisendo un’autorità che minaccia il potere dell’uomo: da qui l’associazione con la “fattucchieria”, legata anche a cambiamenti socio-economici radicali. Quello che l’autore mette in luce è il rapporto tra stregoneria (e possessione) e potere. Negli studi postmoderni questa relazione viene riproposta alla luce dei processi di modernizzazione delle economie e delle società africane: lungi dal porre fine ai discorsi sulla “stregoneria”, essi sembrano avere dato origine a una loro proliferazione. «Sorcery/witchcraft is by definition associated with inequality – that is, with power» (Geschiere 1997: 228n). Geschiere parla esplicitamente di “modernità della stregoneria”, in ragione del suo svilupparsi in relazione ai cambiamenti socio-politico-economici nell’Africa coloniale e postcoloniale. Quello che viene messo in luce è il carattere sperimentale e innovativo dei poteri rituali: essi servono a dare senso a un mondo in mutazione per poter continuare ad agire su di esso, per dare ragione allo sforzo di empowerment degli individui. Alla base di questa necessità sta il confronto tra locale e globale e le sfide lanciate alle società conosciute come “tradizionali”. Come osservano J. e J. Comaroff (1993), il colonialismo non ha sottratto all’Africa la capacità di agire sul mondo, né la globalizzazione è servita a rendere uniformi le culture in funzione del mito del progresso. Le tecniche e i simboli che caratterizzano i poteri «diventano potenti precisamente in ragione delle circostanze storiche in cui acquistano significato; cioè dei processi che legano le culture e le comunità locali alle forze sempre 13 Rimando al capitolo 3 per un approfondimento sul tema della possessione. La possessione qui connessa alla stregoneria è quella ad opera di spiriti periferici, non appartenenti al culto principale. 27 più globali che premono su di esse» (Comaroff 1993: xxii). I ritual powers si collocano dunque alla frontiera tra mondi diversi, costituiscono pratiche di confine necessarie a preservare un sistema di valori in cui riconoscersi, aprendosi contemporaneamente a nuove possibilità di significazione. Esemplare in questo senso è l’ambiguo rapporto élite-villaggio che si inscrive nella “modernità africana”: la migrazione di uomini e donne verso la città provoca sentimenti di incertezza e sospetto da parte di chi rimane nella comunità d’appartenenza, i cui confini si disfano, diventano permeabili e non più chiaramente definiti. Le nuove ricchezze acquisite dai lavoratori urbani non sono controllabili, non se ne conosce l’origine, appaiono incomprensibili. Nel suo studio sulla stampa popolare nigeriana, Bastian (1993) rileva come il concetto Igbo di bene, mma, abbia un carattere essenzialmente attivo, in quanto produzione di una ricchezza che va a beneficio dell’intera comunità. L’autore osserva che uno dei segni più forti del mma consiste nell’avere dei figli, non solo per ragioni di discendenza e riproduzione di legami, ma anche come fonte di ricchezza materiale e spirituale, dato che la ridistribuzione materiale contribuisce all’arricchimento spirituale e rende possibile assumere la forma umana dell’antenato morto, acquisendone i poteri. Le immagini accostate a chi è accusato di “stregoneria” sono particolarmente eloquenti: la trasformazione in uccello notturno, il “mangiare il cuore” della propria vittima, le riunioni notturne durante le quali ciascuno divora la prole, rappresentano individui che distruggono i propri discendenti e mirano ad un accumulo individualistico del bene comune. Per i nonresident che tornano al villaggio mostrando una nuova ricchezza, questa è l’accusa. Essi vengono riconosciuti come presenze aliene, appartenenti alla modernità della vita urbana, alla quale viene spesso accostata l’idea di una sessualità impropria e dell’assenza di legami stabili14. D’altro canto, gli anziani del villaggio vengono accusati allo stesso modo per averli esclusi dalla partecipazione alla comunità, e di conseguenza, a quella più ampia delle forze ancestrali. 14 Bastian rimanda a uno studio di Luise White sulla prostituzione a Nairobi (“Bodily Fluids and Usufruct: Controlling Property in Nairobi, 1917-1939”, Canadian Journal of African Studies 24). L’autore sottolinea che anche durante la sua ricerca ad Onitsha, Nigeria, gli anziani resident si lamentavano del fatto che i loro «nonresident brothers» credessero di poter sposare «chiunque piacesse loro» e che «loose women» (donne libere, dissolute), nelle aree urbane, tentassero di ingannare giovani uomini innocenti conducendoli al matrimonio, «o peggio» (Bastian 1993: 160n). 28 Geschiere raccomanda di non ridurre tali fenomeni a mere spinte egualitarie e livellatrici delle diseguaglianze all’interno di una società. I poteri rituali sembrano, oggi più che mai, insinuarsi in ogni ambiente e assumere caratteri ambigui, essendo posti anche al servizio di chi vuole mantenere i nuovi privilegi acquisiti. L’autore riferisce di come i politici camerunesi vantino le straordinarie doti dei loro nganga, assoldati per garantire loro il potere e per intimorire gli avversari e invocati durante la propaganda politica. Attraverso la ricerca sul campo svolta in Camerun agli inizi degli anni Settanta, Geschiere rileva come i discorsi su questi poteri rituali abbiano cambiato forma e si presentino di fatto come fenomeni nuovi, in corrispondenza delle nuove disuguaglianze prodotte dalla globalizzazione capitalistica e dalla rottura dei legami comunitari. Nel caso del Camerun, la competitività politico-economica ha generato conflitti interetnici tra i Beti del centro-sud e i Bamileke che occupano le aree nord-occidentali del Paese. I primi rappresentano l’élite al potere, mentre tra i secondi è emersa una classe di imprenditori e uomini d’affari che controlla l’economia nazionale. I Beti vengono accusati di “mangiare lo Stato” (evu), rimodellando la simbologia tradizionale dell’antropofagia. Di contro, i Beti incolpano i nemici di esercitare la famla15, che non consiste più nell’uccisione delle vittime, ma nella loro trasformazione in zombie da sfruttare come manodopera per il loro arricchimento, usati di notte nelle “piantagioni invisibili” (Geschiere 1997). Lo stesso accade per l’ekong delle zone sud-occidentali, intorno a Duala. La possibilità che questi nuovi lavoratori vengano venduti richiama inoltre il passato della tratta degli schiavi, attiva anche sulle coste del Camerun. La proprietà di nuovi beni di consumo (una casa in muratura con televisione e frigorifero, una macchina di lusso...) caratterizza i detentori di famla o ekong. Geschiere individua il segreto del dinamismo dei discorsi sulla “stregoneria” nel loro legame con le nozioni di “flusso” e “apertura”: «Il mercato mondiale rappresenta, come la stregoneria, una breccia pericolosa nella chiusura della comunità locale» (Geschiere 2000: 26). In Nigeria, accuse di “stregoneria” si sono diffuse con l’emergere della ricchezza derivante dal petrolio, accompagnata dal declino dell’agricoltura, dal sovraffollamento delle città che hanno raccolto disoccupati e nuovi poveri, e da una ridefinizione della struttura sociale dettata dall’aumento della competitività tra i diversi gruppi. 15 Geschiere sottolinea l’inadeguatezza dei termini sorcellerie o witchcraft per parlare dei fenomeni citati, preferendo riportare le denominazioni usate dai soggetti coinvolti. 29 Secondo uno studio di Barber (1982) sulle reazioni popolari al petro-naira, il concetto yoruba di ricchezza derivante dal lavoro è stato messo in discussione dagli enormi guadagni petroliferi nelle mani di pochi: tra questi, il numero esiguo di nigeriani che ne hanno potuto beneficiare sono stati uomini della classe media o funzionari governativi, grazie alla corrotta gestione dei rapporti con le compagnie occidentali che detengono il monopolio dello sfruttamento dei giacimenti. Il parallelo incremento della piccola criminalità, dovuto alle condizioni di vita sempre più difficili della popolazione, è stato definito la vera minaccia del Paese dall’opinione pubblica, manipolata dall’élite al potere che vedeva in pericolo le sue sicurezze e le sue proprietà. Queste tensioni hanno dato origine all’immagine popolare del rapitore di bambini che ne utilizza il sangue per fare medicines con cui ottenere una ricchezza senza fine, moralmente rifiutata perchè conseguita senza sforzo e senza il consenso della comunità. Gli esempi sopra citati pongono l’accento sulla riplasmazione creativa dei discorsi sui poteri rituali, a partire da nozioni ed immagini legati ad elementi tradizionali che devono essere ripensati per poter trovare risposte culturali nuove alle sfide contemporanee dell’essere nel mondo. Questa “invenzione della tradizione”16 costituisce «...lo sforzo di ampio respiro che gli uomini e le donne [...], tra i più esclusi dalla globalizzazione, intraprendono per ripensare il mondo e per potersi rappresentare come attori e non come vittime passive»17. 16 Si riprende il concetto di “invenzione della tradizione” elaborato da E. J. Hobsbawm. Lo storico sottolinea come l’invenzione di una tradizione «...si verifichi più frequentemente quando una rapida trasformazione della società indebolisce o distrugge i modelli sociali ai quali si erano informate le “vecchie” tradizioni, producendone di nuovi ai quali queste non sono più applicabili; oppure quando le vecchie tradizioni, le loro carriere istituzionali e i loro promotori non si dimostrano più abbastanza adattabili e flessibili, o vengono comunque eliminati...» (Hobsbawm 2002: 7). L’autore mette in luce come la formalizzazione di nuove tradizioni non sia limitata alle cosiddette “società tradizionali”, ma si estenda anche a quelle “moderne”. 17 B. Jewsiewicki, cit. in Geschiere 2000: 25. 30 2.2 Il corpo femminile oggetto di attacco Analizzando i discorsi sulla “stregoneria” nella zona dell’Africa Occidentale considerata, appaiono frequenti le accuse nei confronti delle donne, a partire dall’ereditarietà matrilineare dei poteri, i quali sembrano costituire una qualità “immanente” del corpo femminile, rendendo ogni donna potenziale pericolo e quindi oggetto di sospetto. Bastian (1993) mette in rilievo le differenze esistenti tra poteri maschili e femminili negli Igbo della Nigeria meridionale, portando alla luce come i primi consistano in una conoscenza potenziata, garantita dalla capacità di utilizzare medicines e acquisita solitamente attraverso un processo di apprendimento, che si contrappone all’innata capacità delle donne di esercitare la “stregoneria”. Ingredienti attivi di queste medicines risultano essere spesso parti del corpo femminile legate alla funzione riproduttiva che, secondo l’analisi di Matory (1993), sono considerate alienabili in un contesto di mercificazione capitalistica, dove i simboli della fertilità vengono ora usati come strumenti di potere in “money-making magic”. Eloquenti sono anche le pratiche di autoaccusa: per le donne Igbo, la confessione avviene in uno spazio pubblico, il mercato, e comincia con la svestizione, fino a mostrare il corpo nudo. Bastian sottolinea come lo spogliarsi consista in un’ammissione della propria malvagità e in una disponibilità ad essere giudicate pubblicamente dalla folla che si raduna in queste occasioni, affermando di essere pronte per «essere pulite» (Bastian 1993: 146). Tale gesto segnala anche la consapevolezza della propria differenza, in quanto praticato solamente da un’altra categoria di persone, i malati di mente, che perdono così la loro identità e i loro nomi. Allo stesso modo la “strega”, spogliandosi, rinuncia alla propria identità separata. Segue una confessione verbale che consiste nell’elencare i nomi delle proprie vittime e i motivi della loro uccisione: attraverso le parole, quella che era stata un’accumulazione individualistica viene esternata e condivisa, «proprio come la ricchezza spirituale è ridistribuita dagli anziani attraverso i proverbi» (Bastian 1993: 147). 31 L’estirpazione del maligno richiede una partecipazione collettiva: al termine della confessione, la folla lapida l’accusata18. Al contrario, la confessione da parte di un uomo igbo avviene solitamente sul letto di morte, nella propria casa e circondato dai propri famigliari. Questi sono invitati a conoscere i suoi poteri per poterli perpetuare e, in ogni caso, non possono avere nessun interesse a rendere pubblica l’accusa, dal momento che questa si ritorcerebbe sull’intero lignaggio. Nel precedente paragrafo è stato evidenziato il legame tra poteri rituali e produzione/riproduzione nell’Africa postcoloniale. In particolare è emersa l’equivalenza tra l’acquisizione di ricchezza e potere e il consumo di vita umana, quest’ultimo spesso connesso a un mondo esterno riconosciuto come più potente (il mondo dei bianchi che impone la sostituzione delle colture tradizionali, guida la tratta degli schiavi, introduce nuovi beni di consumo...). «I corpi femminili sono metonimie delle relazioni sociali che producono attraverso il matrimonio, la procreazione, la cura; sono inoltre metafore dell’integrità del corpo sociale. Il loro smembramento fisico e il rapimento dei figli sono immagini omologhe di un processo sociale ambiguo»19 (Matory 1993: 81). Nell’Africa postcoloniale il corpo femminile è diventato oggetto di nuovi attacchi: «la modernizzazione [...] ha creato una nuova categoria di streghe nelle “femmes libres” urbanizzate» (Austen 1993 : 100-101). Per comprendere la reinvenzione dei discorsi sulla “stregoneria” nel mondo contemporaneo, è necessario dare uno sguardo alla specifica organizzazione dei rapporti di genere nel contesto delle comunità tradizionali delle popolazioni che abitano il sud della Nigeria. La famiglia poliginica, in cui si generano rivalità e gelosie fra mogli di uno stesso uomo, costituisce il luogo privilegiato dello scatenarsi delle accuse. E’ stato osservato che il 18 La lapidazione, riportata da Bastian, non è sicuramente l’unico modo di punire la donna che si autoaccusa. Si veda l’intervista 3 in appendice, nella quale la mia informatrice racconta di aver assistito a una confessione pubblica dopo la quale l’accusata fu costretta a mangiare il cuore di una capra. Si ricorda che la lapidazione è prevista dall’ortoprassi ebraica, espressa in particolare nel Levitico e nel Deuteronomio,testi fondamentali del Pentateuco come atto formale di messa a morte in seguito all’accusa di adulterio (e in casi precisati di stupro, condannando sia l’uomo che la vittima). Tale pratica punitiva è stata recepita dalla sharî’a islamica, applicata nel diritto islamico il fiq ,come risulta tra l’altro tutt’oggi proprio nel nord della Nigeria. 19 Tutte le citazioni di questo paragrafo sono state tradotte da chi scrive. 32 disagio aumenta per le donne inserite in un sistema poligamico non musulmano, perchè costrette a provvedere da sole a se stesse e ai propri figli, solitamente molto numerosi. Differentemente nel diritto islamico vige il dovere del mantenimento delle mogli da parte del marito. L’organizzazione virilocale prevede l’introduzione della nuova sposa nella casa dell’uomo. Per essere ammessa a pieno titolo nella famiglia del marito, la donna deve dargli dei figli. La sterilità viene spesso imputata all’intervento dei poteri delle altre mogli. La rivalità si fonda inoltre su un sistema ereditario sbilanciato a favore del genere maschile, scatenando ostilità tra i fratellastri. Una credenza diffusa è quella di impedire ai propri figli di mangiare il cibo preparato dalle altre mogli, dato che l’avvelenamento della “stregoneria” passa soprattutto attraverso l’ingestione. Bastian sottolinea inoltre come la mobilità femminile all’interno del sistema virilocale predisponga maggiormente al contatto con “evil forces”. Oltre ad avere la funzione di moglie e madre, la donna si occupa di vendere al mercato i prodotti ricavati dall’attività agricola del marito. Tra gli Yoruba, le donne si organizzano in associazioni (egbé) che servono a raccogliere le risorse, organizzare gli scambi e concedere piccoli crediti a rotazione. L’egbé è rappresentata da un capo, la Íyálóde. Le diverse associazioni sono predisposte a networks regionali, in modo da estendere la propria attività anche in altre città. La partecipazione allo spazio pubblico del mercato contrasta con il ruolo domestico della donna: tale esposizione viene spesso associata ad una corruzione di costumi, distante dalla “purezza” della casa. «Queste attività femminili producevano l’indebitamento dei mariti verso le mogli; l’accumulazione di una maggiore liquidità di denaro rispetto ai propri uomini, attraverso la quale le madri “influenzavano” i figli; il trascurare gli obblighi domestici e riproduttivi per inseguire il profitto lontano, per cui le donne erano rappresentate come “prostitute”» (Apter 1993: 117-118). Le piccole commercianti iniziano a mettere in discussione il dominio maschile sia nell’ambito privato che in quello pubblico: esse sabotano la riproduzione del corpo umano e sociale20. 20 Matory (1993) analizza la riplasmazione, nel corso della storia, dell’immagine del “mounting” che caratterizza il rapporto di sottomissione tra dio e uomo (durante la possessione) e tra il re e le sue “mogli”, con la funzione di perpetuare il potere di Shango, sovrano ancestrale del regno di Oyo. L’autore mette in luce la descrizione delle Íyálóde, definite da alcuni storici yoruba come “childless”, “antireproductive”, “without a nor33 Il loro potere economico viene rappresentato dal sangue mestruale, considerato capace di inibire la potenza maschile e simbolo, allo stesso tempo, di fertilità e di impossibilità momentanea di concepimento, la cui periodicità può essere associata alle riunioni mensili degli egbé. Inoltre, le “streghe” sono considerate in grado di sottrarre all’uomo i suoi fluidi vitali, rendendolo impotente; minano le relazioni pubbliche degli uomini, organizzandosi in società, anch’esse chiamate egbé, a cui si può accedere donando un membro della famiglia che verrà diviso e consumato collettivamente. Apter osserva che l’intervento coloniale, volto all’incremento dell’attività agricola a sostegno della coltivazione di prodotti destinati al mercato occidentale, fa proliferare le piccole commercianti indipendenti, che riescono a gestire un esiguo capitale da riservare alle figlie (così come ereditari in senso matrilineare sono i poteri della “stregoneria”). L’autore nota come «lo sviluppo dell’economia di cacao intensificò l’eziologia esistente della stregoneria» (Apter 1993: 120). In questo contesto storico-economico si colloca la comparsa del movimento Atinga. Esso ha avuto origine nel sud della Costa d’Oro, ma a metà degli anni ’40 si è diffuso, arrivando una decina d’anni dopo nella Nigeria occidentale, in territorio yoruba, dove si è affermato in coincidenza della salita vertiginosa dei prezzi del cacao sul mercato mondiale. Apter sostiene che questo movimento antistregonico sia nato dall’esigenza di trovare risposte alle insostenibili contraddizioni generate dall’economia del cacao e afferma l’opportunità di metterlo in relazione coi fenomeni simili verificatisi in seguito alla scoperta del petrolio in Nigeria21. Il culto si organizzava in danze pubbliche, durante le quali uomini e donne, posseduti dallo spirito Atinga, acquisivano il potere di individuare le “streghe”. I suoi seguaci preparavano “antiwitchcraft medicines” da vendere a chi volesse ottenere una sorta di immunità. mal domestic life”. Esse, in quanto commercianti e finanziatrici di guerre, sono capaci di influenzare le istituzioni reali e sovvertono la logica del “mounting”: «...invece di rappresentare il palazzo, rappresentano se stesse e le altre donne nelle azioni collettive e nei consigli di stato» (Matory 1993: 67). 21 Vedi Barber 1982. 34 Era l’élite commerciale emergente a sostenere il movimento, formata da uomini ricchi ed influenti che miravano ad introdursi nella sfera commerciale dominata dalle donne. Uno dei tratti che caratterizzava il movimento Atinga consisteva nella pratica di distruggere i templi e gli altari degli orisha, risparmiando quelli delle divinità maschili con funzione antistregonica: le sacerdotesse yoruba detenevano infatti poteri rituali positivi e importanti per la comunità, predicendo il futuro e conferendo forza al re contro i nemici e le sventure. Esse venivano temute e rispettate. Il culto degli orisha permetteva di placare e canalizzare le potenze distruttive della “stregoneria”, presenti in ogni corpo femminile e mai del tutto estirpabili, verso un comune beneficio. Il movimento Atinga riportava l’identificazione tra culto degli orisha e “stregoneria” in termini esclusivamente negativi. Apter sottolinea come «chiaramente, uno scontro di genere stava prendendo forma, asserendo l’ascendenza del potere maschile su quello femminile nella sfera rituale, sociale, economica» (Apter 1993: 121). E’ interessante notare come il movimento Atinga sia stato trasversale, raccogliendo seguaci anche tra cristiani e mussulmani. Si può ipotizzare che d’impianto cristiano, sul modello battesimale, sia stata la pratica del lavare l’accusata con l’acqua contenuta nel “sacrificial pot”, in seguito alla sua confessione e alla consegna degli oggetti legati al suo potere. Apter insiste sul fatto che «dobbiamo considerare il culto Atinga in relazione all’imporsi dell’economia di mercato. Entrambi sono di origine straniera, il primo costituisce un mezzo attraverso il quale le contraddizioni prodotte dal secondo possono essere esplorate» (Apter 1993: 121). Il corpo femminile viene attaccato in quanto metafora di una circolazione di beni non controllabile, di un’accumulazione nascosta che minaccia la logica produttiva e riproduttiva del gruppo. Esso viene quindi immobilizzato nei tribunali pubblici in attesa della sua purificazione. Beneduce mette chiaramente in luce il riattualizzarsi di queste rappresentazioni nell’immaginario delle donne nigeriane prostitute/tuite in Italia: «le accuse di stregoneria sono [...] estremamente frequenti. Esse si situano evidentemente all’interno di uno scenario sociale ed economico dove s’intrecciano variabili numerose e complesse: una 35 competitività feroce, la possibilità di esercitare una libertà e un potere sconosciuti, ai quali si accompagnano però invidie e gelosie, la paura per le conseguenze connesse alla loro attività (infezioni, infertilità ecc.), l’ossessione di guadagnare soldi a sufficienza per pagare il debito contratto nel corso dell’emigrazione clandestina e per inviare denaro alla famiglia nel paese d’origine, lo stato di marginalità e precarietà sociale nel paese ospite dove sono oggetto di una massiccia stigmatizzazione morale...» (Beneduce 2002: 175n). 36 3. MAMI WATA: PROCESSI DI ANTROPO-POIESI TRA MODELLO MITICO E INCARNAZIONE 3.1 La possessione come fenomeno culturale Nel continente africano il fenomeno della possessione è presente nei complessi mitico-rituali di molte culture, caratterizzate da differenti organizzazioni del simbolico, ed è stato mantenuto e riattualizzato nonostante l’espansione delle religioni monoteistiche, Cristianesimo e Islam, trovandosi spesso al centro delle liturgie dei nuovi movimenti e delle nuove chiese. La possessione è intesa come discesa della divinità nel corpo di una persona la cui identità viene sostituita con quella del suo ospite, del suo “cavallo”, secondo la metafora più usata, risultando essere il posseduto la sua “cavalcatura”, la sua “montatura”, definizioni queste che rappresentano il carattere asimmetrico del rapporto e la condizione di subordinazione e dipendenza dell’uomo nei confronti dell’essere sovrumano. La possessione della divinità o dello spirito avviene attraverso la trance, termine al quale ci riferiamo per ogni stato alterato di coscienza che comporta un contatto diretto con l’extraumano e una forma potenziata di conoscenza. Erica Bourguignon si è occupata di distinguere la trance come fenomeno generale dalla trance di possessione, sottolineando come quest’ultima sia possibile solo in quei contesti culturali che prevedono la discesa della divinità come modello esplicativo per determinati comportamenti e disturbi. Inoltre Bourguignon mette in luce la partecipazione prevalentemente femminile alla trance di possessione e il suo manifestarsi soprattutto nell’Africa sub-sahariana e nord-orientale22, in seguito riorganizzata nel contesto rituale delle culture afro-americane. Il Cristianesimo rifiuta la possibilità di possessione da parte del dio in ragione della sua trascendenza e ammette esclusivamente la possessione diabolica e la conseguente cura terapeutica a carattere esorcistico. 22 Per approfondire vedi E. Bourguignon, Psychological Anthropology. An Introduction to Human nature and Cultural Difference, Holt, Rinehart and Winston, New York, 1979 (trad. it. Antropologia psicologica, Laterza, Roma-Bari, 1983). 37 Nel mondo islamico tale fenomeno è considerato possibile solo ad opera degli jnoun (sing. jinn), “spiritelli” riconosciuti dal Corano e costituiti di vapore e fuoco, che presentano una connotazione ambigua, non esclusivamente negativa. Durante il processo di islamizzazione la presenza di queste figure ha favorito l’interazione con le modalità del simbolico di quelle culture extraislamiche che prevedevano pratiche di sperimentazione del sacro volte ad un contatto diretto con gli esseri sovrumani, come la possessione. Scrive Lewis che «...nella misura in cui le credenze tradizionali possono essere adattate in modo da rientrare in uno schema musulmano nel quale l’assolutezza di Allâh rimane indiscussa, l’islam non chiede ai nuovi aderenti di abbandonare la loro abituale fiducia in tutte le loro forze mistiche. Lungi da ciò. Nel voluminoso magazzino di angeli, jinn e diavoli, il cui numero costituisce una legione, molte di queste forze tradizionali trovano una casa ospitale; e sono citati passi coranici per giustificare la loro esistenza come fenomeni reali»23. Tale sincretismo è favorito dalla diffusione capillare del sufismo nell’Africa occidentale, in seguito al contatto con i mercanti berberi provenienti dal Maghreb, che promuove la formazione di nuove confraternite (turuk, sing. tarîqa), come la murudiyya fondata da Amadu Bamba in Senegal alla fine del XIX secolo. Le turuk costituiscono la forma di organizzazione principale del misticismo islamico, caratterizzate da una precisa gerarchia, con a capo il maestro (shaykh) che funge da mediatore tra dio e gli uomini, in quanto detentore e dispensatore della baraka. Il concetto di baraka è di derivazione preislamica e ancora oggi sta a designare una forza benefica, non individuabile in qualche entità precisa. Nel contesto islamico è passata ad indicare la grazia distribuita dai marabutti, trasmessa ereditariamente. L’importanza della baraka dà origine al culto dei “santi” (walî), fortemente sentito nell’ambito delle confraternite, i cui membri compiono pellegrinaggi alla tomba del “santo” fondatore, sperando di partecipare al suo potere24. Da queste visite spesso ci si aspetta guarigioni da malattie o sterilità, tanto che l’islam ortodosso rifiuta queste pratiche, 23 cit. in W. Ende e U. Steinbach (a cura di) 1993: 206-207. Per approfondire Lewis I. M. (a cura di), Islam in Tropical Africa, London, 1966. 24 Tali pellegrinaggi (ziyârât, sing. ziyâra) talvolta vengono considerati di uguale valore, dunque sostituivi, dell’hajj alla Mecca. La baraka è ritenuta essere presente in tutto ciò che rientra nel luogo di sepoltura del santo: la terra, pezzettini della coperta posta sul sepolcro e altri oggetti possono essere utilizzati come protezione dalle forze maligne. 38 definendole shirk (idolatria) in quanto non finalizzate alla comunicazione con dio. Di fatto gli stessi capi delle confraternite hanno funzione anche di guaritori, oracoli e medium. Essi possono vedere gli jnoun che causano malattie e morti e talvolta possono averli come servi, acquisendo in questo modo i loro segreti. Il rituale liturgico delle turuk prevede danze estatiche (hadra)25 a carattere terapeutico, volte a placare lo spirito e derivanti da una cultura mediterranea preislamica e precristiana. Ricorrendo alla potenza mediatrice del santo, il rito ha carattere esorcistico, in quanto l’obiettivo finale resta quello di espellere gradualmente gli jnoun sconosciuti. Al contrario, presso la confraternita marocchina Hamadsha il rituale di possessione ha valore adorcistico, stabilendo un’alleanza perenne con lo spirito (Beneduce 2002). Esempi di possessione nel contesto islamico africano sono rappresentati dal culto bori tra gli Hausa, dai geni holey e hawka in ambiente songhay, da quelli zar (sar, zahr) nell’Africa orientale (Somalia, Etiopia, Sudan, Egitto). L’appartenenza del fenomeno della possessione al mondo mediterraneo è evidenziata da Ernesto De Martino, il quale nel corso del suo studio sul tarantismo salentino ne individua gli antecedenti storici nella vita religiosa greca, a cui la Puglia partecipò come parte della Magna Grecia. De Martino ipotizza un complesso arcaico protomediterraneo che avrebbe determinato le strutture del coribantismo, la possessione sperimentata dalla comunità dei Coribanti nella Grecia del V secolo a.C. e di cui riporta testimonianza Platone nell’Eutidemo e nello Ione in relazione al complesso coreutico-musicale a fini terapeutici. Le stesse strutture presentano, secondo l’etnologo, il tarantismo pugliese, i culti africani zar e bori e i loro derivati afro-americani, in particolare il vodu haitiano. Osservando la specificità femminile del menadismo e in generale dei culti orgiastici greci, l’autore rileva che «...è nozione “psicologica” sin troppo elementare – e non occorre certo la psicanalisi per venirne in possesso – che proprio la aspra pressione sociale esercitata sul mondo femminile in una società di tipo androcratico comporta il ritorno del represso sotto forma 25 «Il termine hadra significa letteralmente “presenza”. Presso i primi sufi, la nozione designava la presenza divina in un momento preciso dell’unione estatica. Nel sufismo popolare, in particolare presso gli Hamdacha, si chiama hadra una liturgia che comporta delle danze estatiche e una musica rituale strumentale, designando così tale termine anche la seconda parte del rituale, consapevoli che la prima parte del rituale è costituita da canti intonati invece da seduti» (Aouattah, cit. in Beneduce 2002: 180n). Per approfondire vedi A. Aouattah, Ethnopsychiatrie maghrébine. Représentations et thérapies traditionnelles de la maladie mentale au Maroc, L’Harmattan, Paris, 1993. 39 di sintomi nevrotici cifrati incompatibili con qualsiasi ordine culturale e richiedenti perciò un adeguato trattamento preventivo e risolutivo...» (De Martino 2002: 206) e continua: «...nel menadismo e in altri culti orgiastici femminili, l’aspetto “fuga” della crisi [...] appare riplasmato e orientato per entro un orizzonte mitico-rituale: onde la fuga come sintomo chiuso, cifrato, irrelato non è, nel menadismo, “ripetuta” nella sua immediatezza critica, ma ripresa e dischiusa ad un significato, fatta defluire e regolata sino al suo termine risolutivo» (De Martino 2002: 207). La relazione tra la condizione di subordinazione e le pratiche di possessione è teorizzata da I. M. Lewis, padre di quello che è stato definito il “paradigma della marginalità”, e lo stesso Métraux, per il vodu haitiano, mette in luce «il piacere che procura a gente schiacciata dalla vita il diventare centro di attenzione e il sostenere una parte soprannaturale e rispettata»26. Lewis distingue tra due forme di possessione: quella periferica, a differenza della possessione centrale, non serve a sostenere il codice morale dominante della società e concerne quelle “creature periferiche” (come le donne in moltissimi casi) che vivono una situazione di isolamento e frustrazione, escluse dal potere. In esse l’invasione dello spirito si manifesta sotto forma di una crisi individuale che favorisce l’espressione dei loro desideri e lamentele, altrimenti senza voce. La malattia che affligge chi è posseduto costituisce, secondo l’autore, una forma di attacco indiretto perchè subìto dal soggetto stesso, in contrasto con la stregoneria come forma di offensiva diretta verso un altro individuo. La risoluzione di tale crisi consiste in una cura catartica a carattere esorcistico, mentre nella possessione centrale la discesa dello spirito nel corpo viene invocata ritualmente e apporta un accrescimento dello status sociale dell’individuo che ne è protagonista27. 26 cit. in De Martino 2002: 193. Lewis non accoglie la distinzione operata da altri autori tra possessione e sciamanesimo. De Heusch (Pourquoi l’épouser? Et autres essais, 1971) specifica che nella prima si assiste alla discesa della divinità nel corpo di un individuo, il quale non può controllarla, mentre lo sciamano decide volontariamente di intraprendere il viaggio di salita verso l’extraumano. Il carattere volontario dell’estasi sciamanica è messa in luce da Eliade (Le chamanisme et les tecniques arcaiques de l’extase, 1968). Dopo la fase di crisi iniziale, determinata dalla scelta dello spirito e definita “malattia iniziatica”, lo sciamano acquista all’interno della società un ruolo di rilievo, conferitogli dal rapporto privilegiato che egli intrattiene con le potenze soprannaturali. Lo sciamanesimo è connesso alle culture nord-asiatiche ed è stato esteso all’area nord-americana, nella quale sono stati evidenziati i suoi caratteri terapeutici, considerando lo sciamano come medicine man. Lewis definisce lo sciamano una persona che ha imparato a dominare gli spiriti e può introdurli intenzionalmente nel proprio corpo, ma individua questo fenomeno anche nel continente africano, distaccandosi dalle interpretazioni precedenti (vedi The Shaman’s Quest in Africa, Cahiers d’Etudes africaines, 1997). La dicotomia possessio27 40 La perifericità della possessione è segnata anche dal legame tra la marginalità dell’individuo che viene colpito e una sua maggiore vicinanza all’estraneo, all’Altro. Scrivendo del culto songhay degli spiriti holey, studiato da Jean Rouch28, Lewis nota che «...alcuni sono associati con popolazioni confinanti (come gli Hausa ed i Tuareg), ed altri con animali. Un’aggiunta moderna a questa moltitudine di spiriti è quella dei folletti europei, che con sempre maggiore frequenza si presentano non chiamati, alle sedute in cui le donne giocano una parte così importante» (Lewis 1993: 65) e aggiunge più avanti come «...molti degli spiriti [...] debbano rappresentare e riflettere il contatto periferico con popoli stranieri ed un’esposizione tangenziale alle nuove esperienze» (Lewis 1993: 72). Gli studi sulla possessione hanno da sempre sottolineato il carattere psicopatologico dei sintomi che identificano la crisi di possessione, in particolare ricondotti ad attacchi di isteria, disturbo di personalità multipla e dissociazione. Beneduce (2002)29 parla di “sovrainterpretazione terapeutica”30 mettendo in luce la difficoltà, da parte occidentale, di pensare la possessione e affermando il bisogno di riconoscere la “confusione dei generi” che le è consustanziale31. La necessità di considerare l’aspetto religioso, liberandolo da questa sovrainterpretazione medica, è espressa da De Martino all’inizio della sua ricerca etnografica sul tarantismo: la sua ipotesi di lavoro si fonda sulla valutazione della possessione in Puglia come fenomeno culturale, caratterizzato da una propria autonomia simbolica e determinato da condizionamenti storici, economici, sociali, religiosi. Anche Métraux afferma chiaramente che «la possessione non può essere spiegata unicamente in termini di psicopatologia» (Métraux 2001: 132) e ne sottolinea il carattere di teatralità, mascheramento e rappresentazione. ne-sciamanesimo viene messa in discussione da altri autori, che da un lato ne sottolineano la continuità e la familiarità, considerandoli differenti modalità di sperimentare la trance o fasi consecutive di una medesima esperienza di contatto con l’extraumano, dall’altro mettono in primo piano la necessità di riflettere sulla specificità dei contesti culturali, senza voler a tutti i costi ricondurre tali fenomeni a una tipologia chiara o a un unico modello, i quali risulterebbero essenzialmente etic (Beneduce 2002). 28 Vedi J. Rouch, La religion et la magie songhay, PUF, Paris, 1960. 29 Vedi anche Beneduce e Taliani 2001. 30 Per approfondire vedi, ad esempio, J.-P. Olivier de Sardan, Possession, affliction et folie: les ruses de la thérapisation, “L’Homme”, 1994. 31 «...i culti di possessione fanno e dicono molte cose ad uno stesso tempo in virtù della poliedricità strutturale del loro dispositivo: ciò che è comune a tutti i riti ma che, in questo caso, si estende ben oltre il tempo rituale.[...] I generi operanti nei rituali di possessione (ed usiamo il termine “genere” nel senso proprio che assume nella retorica), più che rischiare di essere “confusi”, sono pertanto esposti al rischio di essere trascurati...» (Beneduce 2001: 18). 41 Beneduce sostiene che «siamo costretti a rovesciare l’assunto che definiva la possessione come un idioma della malattia, più spesso mentale, e considerare come altrettanto valido il suo reciproco: è la malattia a rappresentare un idioma della possessione» (Beneduce 2002: 87). Inoltre, l’approccio medico non ha preso in esame le differenti rappresentazioni di persona e di corpo su cui la possessione trova il suo terreno di sperimentazione e ha finito col considerarla una pratica tradizionale propria delle società non occidentali, occultando il suo carattere di transizionalità «fra culture, fra mondi, fra appartenenze, fra gruppi, fra forme e discorsi di potere, fra antropologie» (Beneduce 2001: 16). Il riconoscimento di tale transizionalità è necessario in particolar modo nel momento in cui la possessione viene indagata presso quelle culture che hanno vissuto un passato di colonizzazione e un brusco confronto con la modernità. L’imporsi egemonico dei monoteismi cristiano ed islamico non ha necessariamente prodotto la scomparsa dei sistemi simbolici tradizionali, né questi possono essere considerati oggi delle mere “sopravvivenze”, essendo mutati in relazione a nuove esigenze ed aspettative. Fa notare Augè che «i movimenti profetici in se stessi costituiscono un’anticipazione, se non la profezia, di una situazione oggi generalizzata e condivisa da tutti: la mondializzazione del pianeta. I popoli colonizzati sono stati i primi a farne l’esperienza perchè sono stati i primi a subirla [...]. I soggetti colonizzati hanno fatto una triplice esperienza che è oggi anche la nostra e che loro hanno pagato dolorosamente: l’esperienza dell’accelerazione della storia, del restringimento dello spazio e dell’individualizzazione dei destini»32. In questo senso s’impone la necessità di prendere in considerazione anche l’aspetto politico della possessione, in quanto discorso e pratica dell’identità. E’ possibile quindi parlare di modernità della possessione? Si è visto precedentemente come Lewis abbia messo in luce il confronto con l’alterità che caratterizza il fenomeno. D’altra parte, tale relazione sta alla base della definizione del sacro (das Heilige) che Rudolf Otto identifica con il “tutt’altro ambivalente”, insieme fascinans e tremendum, che chiama l’uomo a un rapporto. L’autonomia ontologica che Otto conferisce alla categoria del sacro, ripresa da Eliade con il 32 cit. in Beneduce 2002: 288 n. 42 concetto di ierofania, “manifestazione del sacro”, apre la strada alla comparazione delle religioni ma rimanda a un assoluto che trascura l’indagine storica. Tale impasse sarà superato dall’affermazione dell’origine e della costruzione umana del sacro, considerato come genomenon, messa in rilievo da Pettazzoni e abbracciata da De Martino come punto di partenza di tutta la sua riflessione. Il sacro inteso come prodotto dell’uomo muta in rapporto al divenire storico, cambia a seconda degli scopi e dei bisogni che mano a mano si presentano. Non a caso è proprio Pettazzoni a chiarire l’origine del concetto monoteistico di dio, rispondendo alla disputa sul presunto “monoteismo primordiale” che lo vedeva contrapporsi al gesuita Schmidt: lo storico delle religioni italiano dimostra il significato politico dell’invenzione del dio unico, mettendola in relazione alla costruzione identitaria del popolo ebraico, pronto ad affermarsi Altro rispetto alle culture politeiste, “idolatre”, che occupavano la Siro-Palestina. Olivier de Sardan sottolinea che «le sopravvivenze fisse non sono dei fenomeni naturali, automatici, ma il prodotto di strategie simboliche contemporanee che bisogna spiegare. L’astoricità apparente di un culto, lungi dall’essere un’evidenza, è sempre un enigma»33. Sono dunque tali strategie simboliche che in questo lavoro si tenta di indagare. Il dato fornitoci da Lewis sugli spiriti “stranieri” è riscontrabile in numerosi casi e in tutte le parti del mondo, laddove si sono verificati rapporti di forza asimmetrici. I nomi stessi di questi esseri li identificano come colonnelli, governatori, comandanti o schiavi, li inseriscono in una gerarchia che riflette quella vissuta nella situazione coloniale, l’iconografia li rappresenta con abiti e aspetto dei bianchi34. Questa mimesi è stata interpretata da antropologi e dagli stessi colonizzatori come forma di resistenza: di fatto è possibile ritenere che il significato di questa pratica abbia finito con l’incorporare questa funzione, attribuitagli dall’esterno. Tuttavia il processo mimetico non si limita a questo, né sembra corretto ricondurlo a un mero assorbimento della visione dell’Altro, come conseguenza della deculturazione. 33 cit. in Beneduce 2002: 101. Si vedano, un esempio fra tutti, le belle immagini del dio maya Maximón, agghindato alla maniera di un ranchero spagnolo, nel documentario “Demoni e cristiani nel nuovo mondo” di Werner Herzog, 1999. Del resto la somiglianza tra divinità ed europei sarà motivo di rilievo nel ritratto di Mami Wata, affrontato nel prossimo paragrafo. 34 43 Piuttosto, è stato messo in luce il suo carattere trasformativo: «definirsi nel linguaggio intellettuale dell’avversario non significa sottomettersi irrimediabilmente a lui. Ciò che conta, in effetti, è la possibilità di esprimere significati autonomi [...], poiché [...] è pensandosi o riflettendosi negli altri che meglio si rafforza la propria identità»35. In questa costruzione dinamica del proprio Sé il corpo gioca un ruolo fondamentale e viene posto al centro del rituale: Beneduce, riprendendo l’analisi svolta da Zempléni sui rab delle popolazioni wolof e lebu36, sottolinea innanzitutto il carattere del corpo come luogo materiale, “ricettacolo”, “altare” del dio, connesso alla logica sacrificale propria della possessione rituale. Nel caso degli orisha yoruba o dei vodu fon, il sangue dell’animale sacrificato viene versato sulla testa dell’elégun o del vodunsi: il corpo stesso del posseduto diventa offerta alla divinità, un’offerta ripetuta, il cui carattere sacro non è che periodico, deciso dall’essere sovrumano stesso. Esso esprime un debito simbolico inestinguibile «che minaccia sempre di distruzione l’adepto. Il contratto sacrificale di fatto non associa dei pari, il partner umano essendo originariamente debitore nei confronti di un essere al quale egli non può che sottomettersi, e che per questa ragione assume la figura di un dio»37. La trance di possessione costituisce una tecnica del corpo messa in atto attraverso il rituale, il quale le conferisce una propria funzione di comunicazione sociale tramite quel carattere di rappresentazione di cui Métraux si è occupato. Recuperando l’origine etimologica del termine, si arriva a comprendere quel “rendere presente” che la performance permette e legittima: «l’individuo in trance non è in alcuna maniera responsabile dei suoi atti né delle sue parole. Egli ha cessato di esistere come persona. Un posseduto può dunque, in tutta impunità, esprimere pensieri che, nella sua normale condizione, esiterebbe a formulare a voce alta» (Métraux 2001: 129)38. Questa volontà di staccarsi dal gruppo e dalle sue leggi ordinarie paradossalmente reintegra il soggetto all’interno di un nuovo sistema di relazioni, grazie a una nuova 35 Amselle, cit. in Beneduce 2002: 102. Per approfondire A. Zempléni, Possession et sacrifice, in Aa.Vv., De la fête à l’extase, 1986. 37 Mercier, cit. in Beneduce 2002: 131. Per approfondire J. Mercier, Corps pour corps, corps à corps. De la régulation sacrificielle de la possession à la mise en corps du sacrifice par la possession, in “L’Homme”, 1993. 38 Come si è già visto, questo aspetto è stato messo in luce anche da Lewis (1993). E’ il caso delle donne somale, da questo autore analizzato, per le quali la possessione ad opera degli spiriti sar si configura come richiesta di oggetti di lusso che deve essere soddisfatta dagli uomini. Lewis la interpreta come deterrente a una situazione di trascuratezza e deprivazione all’interno di una relazione coniugale sbilanciata a favore del sesso maschile. 36 44 affiliazione al gruppo degli adepti, alla confraternita. Si è osservato che l’idioma della possessione è per eccellenza la malattia: la sua cura consiste proprio nella socializzazione. Per De Martino significa trascendere la situazione nel valore socialmente condiviso, nel mondo della cultura. Nei contesti in cui ciascuno spirito appartiene a un lignaggio preciso e allo stesso tempo lo definisce (Augé 2002), come nel caso degli orisha yoruba, la possessione, in quanto pratica, funziona anche come memoria condivisa e incorporata (Beneduce 2002) che serve a riaffermare i legami di parentela, e più in generale, i legami di un gruppo. La questione della memoria sarà affrontata nei seguenti paragrafi. Ci basti evidenziare ora come nella memoria di un gruppo, per quanto finzionale e costruita secondo precise strategie, la storia dell’incontro con l’Alterità giochi un ruolo fondamentale, innestandosi nella mitologia di un popolo: la possessione si risolve allora in un dispositivo per pensare il diverso, la propria condizione di subalternità, se stessi. 3.2 Mami Wata e gli spiriti delle acque Il culto di Mami Wata è diffuso nell’Africa occidentale e centrale. Sembra che la sua origine derivi dal Golfo di Guinea, da cui si sarebbe propagato, acquisendo il nome di Mamba Muntu nell’area del Congo e dello Zambia. La diffusione di questa divinità si considera relativamente recente, connessa al confronto con la modernità provocato dall’introduzione dell’economia di mercato e dalla conseguente influenza degli stili di vita e di consumo occidentali nel XX secolo39. Tuttavia è bene tenere in considerazione come il suo culto si inserisca in quei complessi mitico-rituali tradizionali che trovano nelle divinità delle acque figure rilevanti dal punto di vista dell’organizzazione del simbolico. Nel pantheon yoruba numerose divinità sono legate ai fiumi e da questi prendono il nome: Oshun, Oba, Yémaja, quest’ultima indicata in alcune fonti come figlia di Olokun, dea del mare40. Yémaja è 39 A sostegno di questa ipotesi si veda, in particolar modo, Frank 1995. I rapporti genealogici tra le divinità sono complessi e spesso contraddittori, come già sottolineato nel capitolo 1. Talvolta Olokun è designata, al contrario, come figlia di Yémanja. Inoltre è da ricordare l’ambiguità sessuale che caratterizza, in particolar modo, queste divinità delle acque, a volte riportate come maschili, a volte come femminili. 40 45 diventata una figura molto popolare nel candomblè brasiliano, spesso rappresentata in forma di sirena e sincretizzata come Nostra Signora della Concezione (Verger 1982). Mami Wata è il nome, in pidgin English, che sta per “Mother of Water”, anch’essa appartenente al mondo delle acque, talvolta assimilata ad Olokun o considerata sua figlia. Viene ritratta come una donna molto bella ed attraente, con la pelle chiara, vestita con abiti costosi e alla moda e arricchita di gioielli. Tiene in una mano un pettine e nell’altra uno specchio, oggetto che di frequente viene posto sugli altari a lei dedicati. Secondo Drewal41 lo specchio rimanda alla superficie dell’acqua, che si configura come confine tra mondo degli spiriti e mondo umano. Esso avrebbe anche il significato di passaggio dal presente al futuro: di fatto Mami Wata conferisce ai suoi adepti il potere di divinazione. Lo stesso autore trova nello specchio anche una metafora del processo mimetico attraverso il quale i devoti riproducono il mondo di questa divinità sulla terra, con gli altari riempiti degli oggetti che sempre l’accompagnano. Essi ne imitano i movimenti durante le trance di possessione, muovendo le braccia come chi sta nuotando. Inoltre lo specchio indica la sua vanità e costituisce un mezzo che i fedeli possono usare per attirarla. Mami Wata viene raffigurata solitamente con metà corpo di pesce e risulta sempre accompagnata da un serpente che le circonda i fianchi e le spalle. Questa immagine iniziò a diffondersi in Africa a cavallo tra il XIX e XX secolo grazie a una cromolitografia, stampata ad Amburgo, che ritraeva un’incantatrice di serpenti di origine indiana e che è stata nel tempo considerata dagli africani l’esatto ritratto di Mami Wata. Drewal mette in luce alcuni elementi dell’immagine che rimandano alla figura di una sirena, sostenendo che questo simbolo sia di derivazione europea42. Il serpente evoca l’emblema del dio yoruba Oshoumaré, o Dã nel pantheon dahomey, messo in relazione all’arcobaleno. Dio della fecondità, esso sembra rappresentare l’elemento acquatico nell’atmosfera, in coppia con la sirena, appartenente alle acque terrestri. Secondo Bastian43 costituisce l’elemento virile nell’ideologia di Mami Wata. 41 Drewal pone un forte accento sul carattere creativo e trasformativo della mimesi nel culto di Mami Wata. Non è dello stesso parere B. Siegel, che sostiene l’origine indigena del simbolismo della sirena in Africa. Vedi B. Siegel, Water Spirits and Mermaids: the Copperbelt Case, 2000, in www.ecu.edu/african/sersas/Siegel400.htm. 43 M. Bastian, Nwaanyi Mara Mma: Mami Wata, the More Than Beautiful Woman, in http://server1.fandm.edu/departments/Anthropology/mami.html. 42 4 46 La tematica del corpo femminile ricondotto all’ambiente acquatico o terrestre degli esseri striscianti (ma anche a quello aereo degli uccelli) trova di fatto fondamento in tutta la tradizione occidentale: dalla topografia cosmica platonico-aristotelica, passando per la mitologia greca, il Cristianesimo organizzerà il binomio Eva-serpente, riproducendo la negatività del femminile. La completezza dell’umanità viene riconosciuta nello stare sulla terra, in posizione eretta; tutte le altre forme ne costituiscono delle metamorfosi degradate. La mostruosità, che appare solitamente dalla vita in giù, diventa anche l’indice della perversità della donna, simbolo di riproduzione incessante di vita in quanto materia, evocatrice di un piacere che trascina verso il basso (laddove strisciano i rettili). «Sul simbolo di Eva si incrostano così le precipitazioni che progressivamente la cultura greca dei filosofi, da Platone in poi, aveva accumulato intorno al corpo, dal quale l’anima nella sua parte più eletta e più nobile, l’intelletto almeno, doveva cercare di tenersi il più possibile distaccata» (Chirassi Colombo 1986: 75). La stessa mostruosità assume il carattere di un sapere altro, straniero, “magico”, in contrapposizione alla conoscenza razionale, prettamente maschile. Considerando queste caratteristiche della donna sirena o serpentiforme, riprodotte perfettamente nell’immagine di Mami Wata, potrebbe essere fondata l’ipotesi di Drewal su una sua possibile derivazione europea. Inoltre, il colore chiaro della pelle di questa divinità viene connesso all’incontro coi colonizzatori bianchi, che arrivavano dal mare. Racconta il francese Andre Brue, nel 1700, che la sua nave fu affiancata da una canoa di neri, i quali sacrificarono un gallo agli «dei del mare» (Drewal 1988: 161-162). Bastian modera questa interpretazione mettendo in luce come il colore bianco possa servire ad indicare il contatto con il mondo degli spiriti, con l’alterità extraumana, connessa con la trasparenza44. La relazione tra il simbolismo di Mami Wata e l’arrivo degli Europei è rafforzato anche dal potere di cui la divinità dispone in quanto dispensatrice di ricchezza e beni di 44 Beneduce sostiene che «...possiamo allo stesso tempo ipotizzare che la bianchezza rivesta, se non nei miti, altri significati nei comportamenti di donne avviate alla prostituzione in paesi europei, ossessionate dalle mode e dall’estetica occidentali, dal valore della bianchezza quale sinonimo di bellezza: la consuetudine di sbiancare la pelle con prodotti cosmetici si aggiunge così a quei significati rituali e ci fa ricordare quanto scriveva Frantz Fanon relativamente ai sogni di “lattificazione” dei neri» (Beneduce 2002: 169n). 47 lusso ai suoi adepti, che devono rimanerle fedeli, pena malattie, morte e sventura. La divinità viene descritta come uno “spiritual husband”, termine che sta ad indicare il particolare tipo di legame coi suoi prescelti, costruito sulla base dei rapporti di genere propri delle culture patriarcali a cui facciamo riferimento (Bastian 1997: 126). In questo senso, dunque, la relazione si fonda sulla subordinazione e la dipendenza dell’individuo: se questo è un uomo, la divinità esige che eviti qualsiasi contatto sessuale con le donne “umane”; se è una donna, non può sposarsi né avere figli, ma le è lecito intrattenere più relazioni e manifestare i suoi “capricci” agli uomini che frequenta, chiedendo soldi, gioielli, vestiti, cosmetici (Bastian 1997: 124). La solitudine del fedele e il suo isolamento rispetto al gruppo segnalano l’impatto dell’economia capitalistica e la nascita di nuovi stili di consumo, che rivoluzionano il sistema dei legami sociali e di parentela fondanti la vita delle società tradizionali. Barbara Frank ha comparato il culto originario degli spiriti dell’acqua con quello recente di Mami Wata presso i Ron, popolazione della Nigeria centrale, facendo emergere il peso di economie diverse, le quali determinano la costruzione simbolica di complessi differenziati di norme morali. La vita dei Ron si basa su un’agricoltura di sussistenza e la famiglia è ordinata su due livelli: la famiglia nucleare lavora i suoi campi e utilizza il raccolto per sé, mentre l’intero lignaggio si occupa di un terreno comune, i cui prodotti vengono gestiti dal capo e servono da riserva nei mesi difficili. Inoltre, la scalata sociale avviene attraverso l’organizzazione di feste da parte degli uomini che mostrano la loro generosità in questa occasione di redistribuzione delle risorse. Il consumo o l’accumulo individuali sono considerati comportamenti antisociali, rappresentati come atti connessi alla “stregoneria”. Gli spiriti dell’acqua (hural) sono proprietari di ricchezza e costituiscono la proiezione dei desideri materiali. Solo i chiaroveggenti possono interagire con loro, chiedendo aiuto nei momenti di bisogno. L’accordo assume la forma di un contratto, attraverso il quale gli uomini promettono una contropartita. In base al favore che viene chiesto, l’estinzione del debito assume una portata diversa, fino al sacrificio umano nel momento in cui l’aiuto è stato di grande rilievo. 48 All’inizio del XX secolo, il passaggio all’economia di mercato e alla monetarizzazione degli scambi, con l’arrivo di compagnie straniere interessate allo sfruttamento delle miniere di stagno, ha visto molti giovani uomini intraprendere percorsi di indipendenza dal gruppo. Il denaro diventa l’emblema del guadagno che si può ottenere e spendere individualmente, senza essere controllati da altri. Mami Wata rappresenta questo nuovo ideale di vita. Il destino senza figli che impone ai suoi fedeli sta ad indicare l’assenza di quella discendenza che prima fondava l’esistenza del gruppo e determinava la priorità del legame sociale e di parentela. I due differenti culti corrispondono, secondo l’autrice, a due diversi tipi di scambio, a cui si associano un sistema di valori e un concetto di moralità specifici: il ciclo a lungo termine, finalizzato alla riproduzione del gruppo, e fondato sulla logica del dono (Latouche 1997) e il ciclo a breve termine, che mira al profitto individuale45. L’attenzione all’aspetto del patto, del contratto, che assume il rapporto tra spiriti e uomini, è messa in luce anche da Bastian (1997) che approfondisce lo studio degli ogbanje in relazione al culto di Mami Wata presso gli Igbo della Nigeria sud-orientale. Quest’ultimo costituisce un modo per ripensare i rapporti di discendenza in un mondo urbanizzato in cui la vita appare mobile e dove l’esogamia assume una forma più estrema, coinvolgendo gruppi etnici differenti e individui stranieri (come gli Europei). Gli ogbanje (“returning children”) sono persone considerate “married in the water”, appartenenti, prima di nascere, al ndi otu, la comunità degli spiriti, a cui hanno giurato di tornare. Queste persone muoiono precocemente oppure all’inizio della pubertà, talvolta anche prima del matrimonio: il loro ritorno al ndi otu avviene, infatti, proprio in quei momenti della vita in cui è necessario creare legami con il resto della comunità umana. Esse portano dei segni 46 che permettono di riconoscerle e vengono trattate con particolare cura dagli esseri umani, in modo tale da scongiurare il loro ritorno al ndi otu. Se gli ogbanje vengono meno all’alleanza sancita con 45 Questa distinzione è stata formulata da Parry e Bloch. Per approfondire vedi J. Parry e M. Bloch, Money and the Morality of Exchange, Cambridge, 1989. 46 I segni che marcano la presenza dell’essere sovrumano sono frequenti anche nei casi di possessione ad opera di Mami Wata. Alcuni suoi adepti portano sulla fronte il bindu induista, presente anche in molte sue raffigurazioni, il quale deriva dall’influenza dei mercanti indiani sulle coste dell’Africa occidentale a partire dai primi decenni del XX secolo (Drewal 1988). Beneduce racconta di una donna nigeriana incontrata al Centro Frantz Fanon che mostra una cicatrice sul braccio come prova del suo essere un ogbanje (Beneduce 2001: 38n). Del resto la malattia inflitta sul corpo dei posseduti è uno dei primi sintomi dell’invasione di uno spirito. Questi marchi sul corpo permettono di considerare la possessione come memoria incarnata. 49 il mondo degli spiriti, questi continueranno a tormentarli durante la loro esistenza sulla terra. Secondo Bastian, il culto di Mami Wata può essere inserito nello stesso sistema di patti e alleanze tra entità sovrumane e individui “married in the water”. Le donne che vengono riconosciute come “figlie” della divinità, di solito attraverso la divinazione, non possono rompere il legame facilmente. Esse sono considerate sue reincarnazioni e le assomigliano in tutto: sono belle, ricche e prive di legami. Per gli Igbo, sono ritenute esse stesse ogbanje (Bastian 1997: 125). La loro appartenenza al mondo delle acque si mostra tramite visioni e sogni o si manifesta attraverso un comportamento inusuale, che appare disturbato. Per diventare sacerdotesse è necessario intraprendere un percorso di apprendistato, scandito da diverse cerimonie, diviso in più fasi, durante le quali le donne compiono offerte al fiume, si vestono di bianco e dipingono il proprio viso dello stesso colore, perfezionano la danza e la trance, preparano il proprio altare personale dedicato alla divinità. Alla fine è prevista un’uscita pubblica dell’iniziata, che si reca al mercato vestita di bianco portando sulla testa un cesto di offerte. Il mercato è il luogo degli scambi e dell’acquisizione di ricchezza: mostrandosi qui, la “figlia” di Mami Wata comunica al resto della comunità la sua identità e la sua nuova appartenenza47. La percezione della differenza degli ogbanje, il riconoscimento fisico, attraverso i segni del corpo, della loro natura non totalmente umana, conduce a una riflessione sui processi di costruzione dell’alterità e, in senso complementare, sulle modalità di “antropopoiesi” (Beneduce 2001) che sottendono questi culti e la loro riorganizzazione. E’ necessario inoltre prestare attenzione alla configurazione marcatamente femminile della divinità: attraverso il dinamismo mitico-rituale viene messa in gioco prima di tutto la definizione della natura della donna che viene relegata al mondo selvaggio della foresta e delle acque, al di fuori dei confini del villaggio, presenza lontana dalla vita comunitaria, per cui spesso costituisce una minaccia. In questo senso si vedrebbe riprodotto il binomio natura/cultura in relazione all’opposizione donna/uomo. Considerando la prospettiva di genere, ma non riducendo la complessità dei fenomeni ad essa, Remotti sottolinea che «uomini e donne hanno da costruire l’umanità: essi lo fanno unendosi e collaborando, ma anche separandosi e opponendosi. Quando il fare l’umanità diventa soprattutto una 47 Per un racconto approfondito delle diverse fasi dell’iniziazione si veda Nevadomsky e Rosen 1988. 50 faccenda culturale (al di là della nascita fisiologica e della biologia), la separazione e l’opposizione tra le due forme di umanità – maschile e femminile – si manifestano in modo pronunciato»48. Le “figlie” di Mami Wata e i bambini ogbanje costituiscono una sorta di “terzo genere” (Beneduce 2001): né umani né spiriti, essi formano un “cumulo di possibili” che è necessario socializzare, in primo luogo attraverso l’attività rituale, in modo tale che l’alterità sia portata dentro la persona e dentro il gruppo, in qualche maniera “addomesticata”. In questo senso si può comprendere anche il ruolo delle chiese pentecostali, le quali si occupano spesso del riconoscimento della possessione: esso porta la persona ad accettare il suo destino, mirando a normalizzare la relazione con l’essere sovrumano, piuttosto che tentare di rompere il legame. Tuttavia le nuove chiese africane, sul modello cristiano, tendono a vedere in queste possessioni il pericolo di un intervento diabolico e di forze del male, e si offrono quindi come vie di salvezza e guarigione49. L’atteggiamento apparentemente ambiguo del Pentecostalismo africano gioca tutto a favore dei processi di invenzione della tradizione. Come ha messo in luce Marshall-Fratani (2001), il suo successo risiede proprio nella capacità di saper mediare in situazioni conflittuali e difficilmente gestibili di identificazione multipla. La conversione, il diventare un “born-again”, attiva l’assimilazione di identità differenti dentro un sistema di pratiche e discorsi che propone la lotta contro il passato e il locale (compresi gli antichi legami comunitari e le “evil forces” tradizionali), in favore di una “vera vita in Cristo” segnata da ricchezza e benessere. È interessante notare come le problematiche sollevate dal Pentecostalismo siano le stesse inerenti alla costruzione del modello mitico di Mami Wata e alla sua incarnazione umana. Tale incarnazione rimanda a una possessione estrema, permanente e identificante, che si stacca dal modello tradizionale, caratterizzato dalla discesa temporanea del sovrumano e da un rapporto saltuario, se pur costante, con l’umano. 48 cit. in Beneduce 2001: 31. Vedi R. I. J. Hackett, Mermaids and End-Time Jezebels: New Tales from Old Calabar, in http://web.utk.edu/˜rhackett/mermaids.htm . 49 51 Le figlie di Mami Wata sono la divinità stessa: in quanto soggetti totalmente altri, esse danno forma a quel “terzo genere” sopra citato. Al contrario, donne afflitte da problemi di sterilità, le cui cause vengono individuate nell’azione di Mami Wata attraverso la divinazione, devono rendere benevola la divinità che potrà elargire fecondità, ma non porterà loro ricchezza e bellezza: queste donne non saranno scelte per rappresentarla nel mondo degli esseri umani. Agli uomini, Mami Wata può infliggere malattie veneree. Sottolinea Bastian che «la connessione tra malattie veneree e prostituzione è ben conosciuta, perciò non sorprende che donne di una bellezza eccezionale, che fanno sesso per soldi, vengano chiamate “mami watas” in alcune zone». Di fatto Mami Wata è anche associata a una sessualità eccessiva e smodata. Beneduce riporta, tra i disturbi riscontrati nelle donne nigeriane incontrate al centro etnopsichiatrico Frantz Fanon di Torino e aventi un passato di prostituzione, il sintomo frequente di vermi che percorrono il corpo. Nella rappresentazione del corpo e della malattia di molti gruppi etnici in Nigeria, i vermi sono «evocatori di quelle illness entities di cui parla Oliveri de Sardan» (Beneduce 2002: 166) e vengono connessi alla sessualità sfrenata e trasgressiva di cui si è detto sopra. Inoltre, il tema ricorrente nei racconti popolari della “donna ribelle” portata in città da uno straniero che si rivela essere uno spirito malvagio, mette in luce come la modernità sia spesso rappresentata in quanto luogo non addomesticato e non addomesticabile, associato alle acque, che è necessario socializzare. L’accumulo individuale di ricchezza, l’ostentazione della bellezza esteriore, l’assenza di legami e l’allontanamento dal ruolo di mogli e madri, rende le donne prostitute incarnazione perfetta di Mami Wata, alla quale si deve rendere omaggio affinché garantisca successo, autonomia e arricchimento. 3.3 Donne nigeriane migranti: la memoria nei corpi posseduti I processi migratori sono una delle espressioni più controverse della globalizzazione, nei quali trova perfetto compimento quella “individualizzazione dei destini” di cui parla Augè: «ciascun individuo costruisce allora la sua identità all’incrocio fra spazi di 52 comunicazione diversi, oscillando lungo il crinale della differenza» (Fabietti e Matera 1999: 30). La costruzione dell’identità si fonda necessariamente sulla memoria: essa gioca un ruolo decisivo nella selezione di quegli elementi che servono a definire il gruppo in opposizione a ciò che viene considerato Altro. La memoria è dunque un prodotto culturale che coinvolge sia il ricordo che l’oblio, mira ad obiettivi specifici e a poste in gioco di carattere politico. Secondo Augè, essa si fonda su uno spazio condiviso e temporalizzato, caricato di valenze simboliche, che contribuisce a costituire il rapporto di ogni individuo con se stesso (identità), con gli altri (relazione) e con un passato comune (storia). Si è già accennato più sopra alla trance di possessione come memoria condivisa e incorporata, tenuto conto del suo carattere assertivo e performativo. Connerton introduce il concetto di habit-memory, inteso come capacità di riprodurre una certa performance. Essa rimanda direttamente a quelle pratiche del corpo che mettono in atto delle rappresentazioni, ripetute ritualmente nel tempo (Beneduce 2002). L’autore sottolinea come la possessione, in quanto tecnica del corpo, trovi la sua efficacia nell’essere sottratta alla consapevolezza dell’individuo. Infatti, la trance ha inizio da una perdita di coscienza e produce un’amnesia: il posseduto, tornato in se stesso, non ricorderà più le parole dette e i movimenti compiuti. Questo meccanismo sembra diventare canale privilegiato per la riproduzione di una memoria sociale, in ragione di quel rappresentare che è sempre un ricordare, rimandando a eventi e personaggi del passato di cui il gruppo diventa testimone e spettatore. Sottolinea Beneduce come questa memoria venga attivamente prodotta (al punto da poter parlare di amnesia strategica) e debba essere percepita «non come mera espressione di marginalità quanto piuttosto sua rappresentazione simbolica e, insieme, atto di trascendenza» (Beneduce 2002: 274). De Martino ha messo in luce l’importanza della ripetizione nel complesso miticorituale, sostenendo la sua funzione di rievocazione della crisi, la quale viene fatta attivamente tornare e riesce ad essere padroneggiata dal soggetto: «la presenza in crisi è esposta al rischio di non essere autentica presenza, cioè di patire il ritorno del passato non oltrepassato, in cui si è perduta e a cui è rimasta legata: un ritorno che, in quanto crisi, ha luogo nella forma cifrata e servile del sintomo psichico dal quale “si è agiti”. Il piano 53 dell’alterità radicale si configura pertanto come ripresa e risoluzione del simbolismo chiuso e passivamente subito [...]. Appunto per questo il “tutt’altro ambivalente” si articola nella ripetizione rituale di un mito: le varie crisi individuali ricorrenti in un dato regime di esistenza sono tolte dal loro isolamento individualistico e trattate in forma socializzata e istituzionale mediante modelli di risoluzione che attuano la reintegrazione delle alienazioni e la pedagogia del mondo dei valori»50. Nel caso delle donne nigeriane immigrate in Italia, questa rimemorazione collettiva non è possibile. L’individualizzazione dei destini «porta alla necessità di pensare da soli un nuovo rapporto con la realtà, senza più la protezione dei corpi sociali “intermedi”» (Fabietti e Matera 1999: 30). La donna migrante sperimenta una possessione ordinaria (Beneduce 2001, 2002), privata dell’assetto rituale e quindi non socializzata. Questa stessa possessione costituisce insieme una risorsa e un vincolo, un arricchimento che disegna i contorni della propria identità, dando senso al mondo, e un debito inestinguibile nei confronti del proprio “spiritual husband”. Sembra di riconoscere nei sintomi che le donne accusano (ma anche nelle loro parole, nella loro eziologia, nel modo di raccontarsi) il rischio di quella “nuda crisi” che De Martino analizza come effetto dell’assenza di ogni orizzonte simbolico capace di reintegrare il terrore di non esserci e della mancanza di quel terreno intersoggettivo sul quale ritrovare e ricostruire valori condivisi. Nei racconti di molte donne nigeriane la sofferenza o la malattia, un progetto migratorio fallito, le difficili condizioni di vita in un paese straniero, rispondono a una precisa chiamata: è Mami Wata che, trascurata, punisce chi ha trasgredito il patto di alleanza e l’ha tradita, o chi non ha assecondato la sua scelta ed è partita senza adempiere ai suoi doveri di eletta. I disturbi manifestati e il destino di adepta sono situati «all’interno di un preciso orizzonte dove confluiscono a uno stesso tempo registro tradizionale e progetti individuali» (Beneduce 2002: 172). Ed è ancora una volta il corpo ad essere al centro, ponte tra passato, presente e futuro; un corpo che, nell’esperienza della prostituzione, è stato in altro modo posseduto, «o 50 E. De Martino 1961 (2002: 64). Per segnalare la rievocazione della crisi, De Martino riprende il termine psicanalitico “abreazione” e definisce lo sciamano un abreagente professionale. La funzione della ripetizione viene messa in luce attraverso il celebre episodio del bambino e della “madre-rocchetto” riportato da Freud nel suo Al di là del principio di piacere (1920). Anche ne La terra del rimorso, De Martino riflette sul ritorno del simbolismo del morso in “successive stagioni rituali”, come dimostrazione della sua autonomia culturale. 54 meglio, spossessato, preso nelle dialettiche dell’immaginario sessuale delle società ospiti, sottoposto a ricatti e minacce o alla manipolazione che vi hanno sovrapposto il discorso morale e quello medico, catturato dalle logiche dell’adesione mimetica, teso nella realizzazione di sogni di ricchezza e di un potere dalle espressioni ambigue, rivolto ad affermare desideri, identità e motivi egemonici connessi alle “questioni di genere”...» (Beneduce 2001: 37). I sintomi della chiamata, che parlano il linguaggio del corpo attraverso la malattia e la sofferenza, sono l’espressione di una memoria incorporata e diventano quindi metafore incarnate di tale memoria: essi sembrano tessere un discorso che evoca eventi passati ed esperienze recenti, conflitti tra mondi culturali diversi, tra differenti linguaggi, tra «prospettive morali in competizione fra loro» (Beneduce 2002: 176)51. Ma parlare di memoria perde il suo senso nel momento in cui non vi è condivisione. Scrive Beneduce che «il corpo può allora diventare sì luogo di memoria, ma di una memoria ossessivamente rivisitata, interrogata senza tregua, nella solitudine, essendo ormai lontano quel senso sociale che connota le forme di possessione [...] e ne fa “pratiche morali” di una memoria culturale e collettiva. Corpo interrogato nei suoi più piccoli rumori [...], alla ricerca spasmodica di un valore (anche nel senso economico del termine...), di una risposta ai propri assilli identitari; corpo che quando disvela un possibile senso si fa nuovamente corpo-vincolo... » (Beneduce 2001: 37). I vincoli di memoria rimandano al legame con l’alterità e al debito inestinguibile che ne deriva, un legame che appartiene alla vita passata e che non trova riscontro fattuale nel luogo della nuova esistenza, un rapporto che non disegna più appartenenze, faticoso da sostenere da sole. E’ anche una relazione che ha segnato un modello di vita preciso, di autonomia e arricchimento, che in un paese estraneo forse si dimostra ancora più difficile da portare a compimento perchè dure, molto più di quanto si sia immaginato prima della partenza, sono le condizioni per realizzarlo. I fallimenti, gli ostacoli, i disagi rafforzano il sentimento di debito nei confronti del proprio “spiritual husband”, che va placato e reso benevolo: sono 51 In questo senso s’intenda la sensazione di vermi che percorrono il corpo, di cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente, che rappresenta una sessualità poco controllata: di questo sintomo sembrano soffrire molte delle donne che hanno vissuto o vivono l’esperienza della prostituzione (Beneduce 2002). 55 frequenti i casi in cui le donne tornano in Nigeria per adempiere ai loro compiti, troppo a lungo trascurati, e per riaffermare quell’alleanza propiziatoria. 56 APPENDICI Le pagine che seguono contengono le interviste da me svolte per indagare pensieri, credenze, opinioni, memorie e sentimenti di alcune donne nigeriane in Italia, seguendo il modello di quella che si definisce ricerca qualitativa a fini conoscitivi. Le donne intervistate sono state contattate prima dell’incontro e hanno quindi scelto deliberatamente di incontrarmi. Molte persone hanno rifiutato di fissare un appuntamento «per parlare di queste cose», confermando un atteggiamento di diffidenza e riservatezza su questi temi, già riscontrato da altri. A tutte ho premesso che l’intervista avrebbe avuto come obiettivo quello di acquisire informazioni sugli aspetti simbolico-rituali delle popolazioni della Nigeria, evitando a priori di svolgere un’indagine sulle esperienze personali di prostituzione. Ho creduto infatti che non fosse opportuno inasprire le difficoltà già presenti nell’interazione e che dovesse essere rispettata la riservatezza dovuta a esperienze probabilmente dolorose, non facilmente trattabili con un’estranea, in modo da riuscire a costruire un rapporto di fiducia e di rispetto. Le conversazioni si sono svolte sulla base di uno schema flessibile e non standardizzato di interrogazione, lasciando che la voce delle intervistate seguisse con libertà il percorso tracciato dai loro pensieri e dalle loro emozioni. Il mio intervento è servito solamente a limitare le divagazioni eccessive (che talvolta ho riassunto brevemente durante la trascrizione delle interviste) e a stimolare la discussione sugli argomenti più pertinenti alla mia ricerca. A questo proposito ho scelto l’intervista non-strutturata come metodologia da utilizzare, non presentando domande predefinite e uguali per tutte, ma tenendo a mente dei temi molto generali che volevo fossero toccati. In questo modo le intervistate hanno avuto la possibilità di esprimersi nella maniera che preferivano e le loro digressioni si sono rivelate utili per l’emergere di sotto-temi non previsti, ma ugualmente interessanti per la mia indagine. Per non urtare pudori su argomenti che avrebbero potuto essere ritenuti tabù secondo il codice di comportamento della cultura d’appartenenza, ho preferito cominciare ogni intervista con domande indirette, spersonalizzando l’argomento da trattare e lasciando a 57 ciascuna la libertà di scegliere se raccontare di sé. In ogni caso, per ognuna è stato possibile intuire il grado di coinvolgimento nei fatti narrati e il modo di organizzarli nel pensiero. Le donne nigeriane intervistate provengono dal sud della Nigeria: G. e A. sono nate nell’Edo State, mentre Q. proviene dal Delta State. Tutte hanno comunque un passato di migrazione interna dal villaggio natio a Benin City, da cui sono partite per l’Italia. Conoscono Mami Wata e hanno qualcosa di lei da raccontare, confermando con le loro informazioni le mie ricerche bibliografiche. Due di loro si dichiarano cristiane, G. (intervista 1) appartiene probabilmente a una chiesa pentecostale, mentre A. (intervista 3) si dice cattolica. Q. (intervista 2) non specifica la sua appartenenza a qualche gruppo religioso, ma accenna alle molte chiese, sicuramente protestanti, del sud della Nigeria e sembra, fra tutte, quella che ha sperimentato più da vicino il culto di Mami Wata e degli ogbanje, raccontando della possessione della sorella e di una sua possibile, ma ignorata, appartenenza al mondo sovrumano. Q. introduce spontaneamente il tema dell’emigrazione e del fallimento del progetto migratorio della sorella, da lei connesso proprio al legame trascurato con Mami Wata, la quale sembra vendicarsi di ciò. Nelle sue parole compare chiaramente il problema della rottura dei rapporti con la cultura d’origine e l’insicurezza e la sofferenza che ne derivano, acuite dal rimpatrio forzato che appare incomprensibile, in quanto evento, accaduto in un paese estraneo di cui nulla ancora si conosce, che la costringe a tornare, chiamando in causa quei vincoli di memoria che è necessario interrogare: «Ha pensato che le è successo questo perché non aveva fatto i riti per calmare lo spirito» (Intervista 2). Tale rottura di legami fonda tutta l’eziologia di Q. sulla proprie e altrui sventure: «…La mia vita non è andata bene fino adesso. Da bambina in chiesa mi dicevano che ero posseduta» (ibid.). La cura della relazione si mostra come necessità urgente, si presenta come ritorno al mondo di appartenenze umane e sovrumane là, da dove si è partite, rivitalizzando quel senso della ripetizione socializzata che è insieme ricordare e far presente, per tentare di trovare risposte alle nuove esigenze della Presenza in crisi. «Bisogna continuare a portare le offerte […], lo spirito riappare ogni volta che ha bisogno di qualcosa» (ibid.), «è come uno che vuole farti un regalo e vuole qualcosa in cambio. Lui ti porta fortuna però tu devi fare quello che vuole lui» (intervista 1): la propria cultura d’origine, attraverso i molteplici legami stabiliti sul piano del simbolico, chiama 58 instancabilmente a un rapporto, sotto forma di un debito inestinguibile di cui non è possibile dimenticarsi. Tutte le donne intervistate hanno messo chiaramente in luce questo dovere di contropartita che esige continuamente di essere estinto, ma sempre si rinnova. In questo paradossale dovere vengono inscritte anche tutte le contraddizioni che sembrano emergere dalla “modernità africana”, travolta dalla globalizzazione, scatenando infinite creazioni a partire dal materiale simbolico della tradizione: Ogun, dio yoruba del ferro, diventa il responsabile degli incidenti stradali in macchina (intervista 3); Mami Wata appare nei film americani e tenta gli esseri umani con «le cose belle tipo i soldi, i gioielli, i vestiti belli» (intervista 1), nel blood-money le vittime umane vengono uccise per profitto (e si accenna forse al contrabbando di organi?) e pare che un’identica minaccia sia vissuta da chi, tornando dall’Europa, porta addosso i simboli della modernità e ne diventa il capro espiatorio, come racconta A.: «Da Lagos alla mia città ho dovuto mettermi i vestiti di mia madre [...]. Ho dovuto vestirmi come un’africana per non farmi riconoscere». Il riconoscimento a cui A. allude rimanda allo scoprire un’identità cambiata, incerta, diversa da quella che aveva prima di partire; sottolinea la sua differenza, acquisita stando lontano. In questo quadro composto da una ricchissima varietà di elementi (dove sembra che il vodu si coniughi addirittura con il rastafarianesimo), il confine tra alterità e identità si mostra sempre più labile e confuso, «sono gli spiriti stessi ma non li riconosci sotto forma umana» (intervista 2). L’alterità, con cui continuamente si ha a che fare, dev’essere portata nel mondo della socialità umana, dev’essere addomesticata, controllata in qualche modo. Diventa salvifica l’azione delle chiese cristiane diffuse grazie a secoli di missioni ed evangelizzazione. L’invenzione della tradizione gioca tutta a favore del dualismo Bene/Male che riconosce nel Dio unico la forza benefica e potente, capace di contrastare il Satana dei vodu, degli spiriti dell’acqua e delle divinità del fecondo pantheon originario, ma non per cancellarle, piuttosto per sconfiggerle, quando ci riesce, in ragione di quel processo creativo di mimesi in cui l’adesione all’Altro, in questo caso l’Occidente e il suo monoteismo, serve sempre in qualche modo a ritrovare se stessi, a ricostituirsi come attori della storia, nella storia. A. (intervista 3) lo spiega bene: «ci sono i pagani, loro non credono in Dio, credono in Mami Wata, è un potere dell’acqua, è forte, però è diverso da quello di Dio, io credo che quello di Dio sia più forte» e aggiunge il racconto di quei genitori, disperati per la morte dei 59 figli uccisi da una “strega”, che «hanno lasciato la chiesa perchè dicevano che la chiesa non vedeva [...]. Sono andati dal vodu perchè chi li aveva uccisi doveva venire fuori». Le chiese protestanti diventano inoltre il luogo del riconoscimento della propria differenza, della non totale appartenenza al mondo umano: «Dava segni strani, in chiesa le hanno detto che era posseduta» (intervista 2), «in chiesa succede per esempio che una persona perde i sensi. [...] Nella chiesa cristiana quando si mettono a pregare è ovvio che cadono da soli [...]. Dicono che è un potere che non puoi cancellare, che questo potere di Mami Wata è del diavolo, non è di Dio, ed è vero questo» (intervista 3). Nella figura di Mami Wata, tale differenza è anche quella del corpo femminile: «Una che è ogbanje viene mandata in chiesa per disturbare, per sedurre gli uomini, anche perchè sono molto belle. [...] Loro vanno in chiesa in minigonna, tutti si girano, tutti ti mettono gli occhi addosso, attirano l’attenzione» (ibid.). Ritorna l’immagine della donna non completamente antropomorfa, appartenente al mondo acquatico e animale, il cui corpo assume caratteri di mostruosità : «non devono andare in spiaggia da sole perchè se tu butti loro acqua addosso, è facile che cambino, non riescono più a stare in piedi come noi, perchè hanno metà corpo di pesce» (intervista 3). Tale mostruosità è anche il segno di una deviazione alla norma androcentrica, è il segno di una femminilità ribelle, che ambisce a una propria autonomia e quindi diventa essa stessa il simbolo della rottura dei legami comunitari con il mondo umano, contravvenendo al ruolo della donna in quanto riproduttrice del corpo sociale: «loro fanno fatica a sposarsi anche perchè un uomo per loro deve essere un servo, uno schiavo, deve fare tutto. Una sola l’ho vista sposata però è morta. Non fanno neanche figli. [...] In Africa una donna che non fa figli è un uomo.» (ibid.). Infine, nella differenza dell’essere femminile si annida anche il mistero di un sapere superiore, di un “potere magico” facilmente avvicinato alle forze ambigue della modernità occidentale e dei suoi modelli di benessere, inevitabilmente ricondotto all’immagine della “strega”, ma ben sottolineato anche nel ritratto di Mami Wata: «Se io fossi Mami Wata adesso, ogni giorno mi vedresti diventare più giovane, più ricca, nonostante faccia un lavoro di merda. Tu non riesci a capire perchè, però ti insospettisci... » (ibid.). 60 Credo sia facile immaginare, dopo queste riflessioni, come la costruzione del sacro giochi un ruolo decisivo anche nell’esperienza di migrazione e prostituzione di molte donne nigeriane, nelle cui parole è necessario riconoscere lo sforzo del dover essere nel mondo. 61 Intervista 1 G. è una donna edo di 26 anni. È nata in un villaggio vicino a Benin City, ma già da bambina si è trasferita in città. Suo padre ha due mogli, da sua madre ha avuto 6 figli. G. dice di appartenere a una chiesa apostolica e di non credere al vodu, ma non sa spiegare cos’è. Si trova da 4 anni in Italia. Conosci Mami Wata? Mami Wata e i suoi figli vivono nei fiumi, perché ci sono tanti fiumi nella zona di Benin City. Sono il diavolo. Ma il diavolo non è una figura più legata al cristianesimo? Quei vodu, che loro dicono vodu vodu, ci sono tanti nomi nella nostra lingua legati a quel vodu che usano… Ci sono vodu diversi, chiese diverse anche… Ci sono tante chiese legate a tanti nomi, non è solo una cosa in particolare. E Mami Wata è uno di questi nomi? Mami Wata è uno di quei nomi del vodu… Ci sono tanti che adorano Mami Wata, tanti che adorano quell’altro che si chiama ogbanje, figlio di Mami Wata che si trova nell’acqua come sua madre. Ci sono i figli, maschi o femmine, di Mami Wata, si chiamano ogbanje. Mami Wata è una donna comunque... C’è Mami Wata donna e c’è Mami Wata maschio. E come sono raffigurati? Come ti ho detto, io ho visto le foto, non l’ho mai vista così al naturale, ci sono tanti americani che hanno girato questi film dove c’è Mami Wata. È vero che Mami Wata ha la pelle bianca? Non so. I figli quindi stanno nell’acqua con lei? Sì, passano la loro vita dentro l’acqua Escono però per incontrare gli uomini? 62 Io non so, io ho guardato i film che gente ha girato, io non posso credere a un film, però tanta gente dice che tanti film sono reali, raccontano la storia dei figli di Mami Wata che escono dall’acqua, vengono sulla terra, si vestono come un umano normale, a convincere, a tentare altra gente a diventare come loro. Per farli diventare loro seguaci? Sì seguaci, per distruggere il mondo. Quindi sono cattivi? Sì, cattivi, soprattutto perchè fanno parte del diavolo, perchè loro hanno quella forza del diavolo, di maledizione… Anche Mami Wata? Sì. Ma Mami Wata non porta anche fortuna, ricchezza? Però la fortuna di Mami Wata non è fortuna di…È come uno che deve farti un regalo e vuole qualcosa in cambio. Lui ti porta fortuna però tu devi fare quello che vuole lui. E lei cosa vuole in cambio? Vuole in cambio che tu diventi la sua schiava, che tu possa andare fuori, ti dà un po’ di forza per andare a cercare altra gente… Ad ammazzare, a portare tipo le cose belle, sai che alla gente piacciono molto le cose belle tipo i soldi, i gioielli, i vestiti belli, con tutte quelle cose usa affittare gente, tentare la gente per farla diventare come loro… E quindi vivono in questo mondo pieno di ricchezza… Ma perché vivono nell’acqua? Non lo so.. Ci sono anche le sacerdotesse di Mami Wata? Sì, c’è priestess, c’è priest… Maschi e femmine. Io ho visto delle foto in cui loro portavano dei vestiti bianchi. Sì, loro usano soprattutto le cose bianche. E si dipingono anche la faccia di bianco… Sì, loro usano… Come si chiama? Non mi ricordo. Ci sono le feste durante le quali Mami Wata entra nel corpo delle persone che attratto a sé… Sì, loro fanno feste, così ho sentito, non so com’è, la mia mamma mi ha raccontato la storia. E tu non hai mai visto queste feste? 63 Come devo fare per vedere queste feste, se non sei parte di loro non puoi vederle! Le feste loro le fanno dentro l’acqua, a mezzanotte, quando tutti dormono. Però io non le ho mai viste, è soltanto una storia. Per te è solo una storia, proprio non ci credi a queste cose? Io non credo se non vedo coi miei occhi. Ma ti viene un po’ di paura a sentire queste storie? Quando ero piccola piccola sì, però dopo sono cresciuta, non mi fanno paura. Fin da piccola appartenevi a questa chiesa apostolica? Sì. Prima hai detto che non hai mai visto Mami Wata, solo nei film… I film, sì, perché ci sono tanti film. Se uno vuole girare il film l’importante è incontrare i vecchi che sanno queste storie, loro ti raccontano la storia, tu scrivi e dopo puoi usarle per girare un film. Però si può riuscire a vedere Mami Wata… Qualcuno la vede? E come devo fare a vedere Mami Wata, io non lo so… Io non lo so se qualcuno l’ha vista. Di solito chi crede a Mami Wata vive nel villaggio o nella città? Nel villaggio. E deve necessariamente esserci un corso d’acqua? Perché ci sono tanti fiumi in Nigeria, soprattutto in Edo State. Mami Wata allora si trova nei fiumi. Io sono stata al fiume solo due volte perché ho paura dell’acqua, anche del mare… Allora gente che va al fiume ha detto che dopo le sette di sera nessuno può andare al fiume perché dalle sette di sera se vai al fiume trovi le cose strane, trovi una persona che da qua è corpo e da qua è pesce, forse c’è gente che ha visto, però tanti che l’hanno visto tornano a casa che non parlano più, tanti rimangono male, stanno male perché l’hanno vista… Tanti muoiono. Queste persone che l’hanno vista sono i bisnonni di tanti anni fa, quando c’era proprio quella religione in Nigeria, perché adesso quella religione non esiste più tanto come ai tempi dei miei bisnonni. E anche nel mare c’è Mami Wata? Io ho trovato un altro nome: Olokun. Yoruba, è di Yorubas. Olokun è Yoruba? 64 No, Olokun non è degli Yoruba, Shango è yoruba… Gli Yoruba sono un’altra cultura in Nigeria che forma 5-6 città che parlano questo yoruba. Sono quelli che hanno creato questo vodu che si chiama Shango. Shango è stato nominato dai figli di Mami Wata, come raccontano nelle storie perché io queste cose non le ho mai viste in vita mia, girano le voci… Shango è un nome per il quale loro usano il rosso, i vestiti rossi… E’ il dio del fulmine? Sì, quando c’è il temporale. Una volta ho sentito che in un villaggio c’era una donna che crede tanto a Shango, a casa sua ha tutti questi vodu di Shango. Queste statuette? Pittura i muri di rosso, fa queste immagini con la sabbia… Quando dici “vodu” intendi tutte queste immagini? Sì, perché tutti i vodu sono immagini, i vodu non parlano, non mangiano, è per quello che io non posso credere a una cosa che non parla, che non mangia, che non ascolta né parla, penso che sia gente ignorante… Per esempio questa cosa (prende in mano il contenitore dello zucchero), come faccio ad adorare questo che non parla? In quel villaggio… Questa è una cosa che noi abbiamo sentito tutti in Nigeria, che questa donna che crede tanto a Shango aveva ospiti a casa sua, una donna ha rubato i soldi da Shango. Dall’altare che lei aveva a casa sua? Sì. Loro hanno fatto una festa che dura sette giorni, va tanta gente che crede a quelle cose, ballano, cantano… Lei cercava i suoi soldi, nessuno ha detto chi ha preso i soldi. Allora lei è andata da Shango, si è messa in ginocchio e ha pregato Shango, ha detto «Shango, io ti do sette giorni per far venire fuori chi ha rubato i soldi di Shango». Allora dopo sette giorni pioveva tanto, pioveva, pioveva, è cominciato questo fulmine, questo fulmine è andato proprio a casa di quella donna, l’ha fatta rimanere in ginocchio con i soldi che aveva rubato sul cuore, non parlava più. Poi la gente che ha visto questa cosa ha chiamato il marito di lei e gli ha detto: «Questo è grave, lei ha rubato i soldi di Shango», perché quando ci sono i fulmini dicono che è Shango che sta cercando chi ha rubato i suoi soldi. Purtroppo lui ha chiamato la donna, la donna ha chiesto a loro cosa doveva portare, una capra, una gallina, una bottiglia di champagne, una bottiglia di certe cose che loro usano per fare i sacrifici per Shango, per chiedere a Shango di lasciare stare la donna, di non ammazzarla… E poi il 65 marito ha portato tutte quelle cose e dopo sette giorni la donna è tornata viva, normale… Ma io non ho visto coi miei occhi, perciò non credo. Durante i sacrifici c’è una festa? Sì, con gente che crede come loro. Quindi io posso scegliere la divinità che voglio adorare? Sì, dipende dalla famiglia, dalle persone che conosci… Dai bisnonni. Viene tramandato da generazione a generazione. E Olokun allora? Olokun è bianco, loro adorano Olokun col bianco, si pitturano di bianco, c’è una cosa che loro usano, non so com’è in italiano perché ci sono tante cose in Africa che non ci sono qua. Olokun è figlia di Mami Wata, è femmina, anche lei legata all’acqua, sta nell’acqua e può uscire a prendere le persone come gli altri figli di Mami Wata. E Yémaja? E’ un nome yoruba, anche Osu e Olorun sono yoruba, perché Mami Wata, Olokun e Shango sono nati nelle città degli Yoruba e poi sono arrivati dappertutto in Nigeria. Di queste cose gli Yoruba sanno meglio di me, perché tanti Yoruba credono in queste cose, loro fanno le feste e tanti anni fa loro usavano usare umani per fare i sacrifici per queste cose. Osu è una cosa che è legata soltanto al diavolo, che parte dalle cose nere. Però tutte queste cose sono nate dal fiume, perché sono tutti figli di Mami Wata. Mami Wata aveva una figlia/o che si chiamava ogbanje, da ogbanje è nata Olokun, Shango… E gli orisha? Orisha sì, quello è un altro nome degli Yoruba. Le donne che sono sacerdotesse di Mami Wata si possono sposare? Sì, ma solo fra di loro, fra i seguaci. E possono avere figli? Di quello non ho idea. Io so che Mami Wata può lasciarti avere figli oppure no… Anch’io ho sentito di tanta gente che va a pregare il fiume a mezzanotte, questi genitori che adorano Olokun, di notte loro vestono di bianco e vanno al fiume a chiedere a Mami Wata un figlio o una figlia… Si dice che Mami Wata ti dà un figlio, lo lascia crescere e dopo riprende suo figlio, non te lo dà così, gratis. 66 E perché se lo riprende? Non lo so. E’ vero che è gelosa Mami Wata? Sì, ho sentito che è troppo gelosa. Anche con gli uomini che ha è gelosa? Devono esserle fedeli? Sì, è gelosa. …. C’è tanta gente che ci crede. Penso che siano matti. Non mi interessa di loro. Ma possono mandare delle maledizioni? Sono una persona che non crede alle maledizioni, non credo ci sia qualcuno che può mandare maledizioni, perché non credo che quelle cose esistano. Tanti dicono che ti mandano maledizioni, sfortuna, ma io a queste cose non credo, io credo che in questa vita ti possa capitare qualsiasi cosa, può capitare a qualsiasi persona. E’ che io sono nigeriana, ho tanti dubbi nella testa perché se sai queste storie qua, non sai a quello che credi, a quello che non credi… Finché non vedi coi tuoi occhi. In Nigeria ci sono 150 lingue diverse, io non capisco niente delle altre, solo English e pidgin English… Ci sono culture e modi di fare diversi. Così tanto diversi? Tanto tanto, per esempio gli Ibo nel sud della Nigeria, quelli credono soltanto a questa cosa che si chiama blood-money, i soldi che si fanno col sangue, loro usano umani per farlo. La storia degli Ibo è molto diversa dalle storie delle altre persone in Nigeria, gli Ibo credono tanto a questi vodu, usano questi organi umani per fare soldi. Tanti dicono che è difficile trovare un uomo ibo che si sposi con una donna yoruba, di Benin, di qualsiasi altra parte… Si sposano fra di loro. E tanti di loro usano i loro genitori per avere soldi, li portano nella foresta dove non c’è gente, dove si trovano gli uomini che rimangono nella foresta per aiutarli. Quando arrivi là solo, ci sono altre persone là che si chiamano secret cot, è un gruppo di 15-20 uomini che fa queste cose di notte, ci sono tanti tipi di secret cot, tanti vestiti di nero, di bianco, di rosso. Quando il corpo è a letto lo spirito parte, finché non torna lo spirito loro non ci si può svegliare. Ho un sacco di film, tanti raccontano di gente che crede al vodu per fare maledizioni a qualcuno o per rubare il marito alle altre donne. 67 Intervista 2 Q. è una ragazza ijo di 23 anni. È nata in un villaggio nel sud-est della Nigeria, in River State, ma nell’infanzia si è trasferita a Benin City. Suo padre ha avuto due mogli, lei è l’ultima di 7 figli. Durante l’intervista non si lascia registrare, sembra intimorita. Prima di incominciare la conversazione le spiego che non voglio rivolgerle domande personali, ma all’inizio della discussione le sue risposte vertono sempre sulla sua storia o sulle esperienze di familiari, su cui, di conseguenza, cerco di indagare con discrezione. All’improvviso interrompe l’intervista stizzita, dicendo che non vuole raccontare niente di sé. Tornando a domande generali riusciamo a riprendere la conversazione. Il suo atteggiamento rimane comunque infastidito, sembra che non abbia nessuna voglia di rispondere alle mie domande. Se tu mi dovessi spiegare cosa significa vudu, come lo faresti? Juju? No, non conosco il termine vodu. Juju è lo spirito, come Mami Wata, che entra nel corpo. Devi andare al fiume dove c’è il tuo Mami Wata, prendere l’acqua, dargli da mangiare. Quando una persona viene posseduta non è più se stessa, è comandata dal juju. Finché non riconosce di essere posseduta, rimarrà disturbata. Per tornare in sé deve fare il sacrificio, le offerte al juju. Può capitare a tutti, donne, uomini, bambini. Questo succede nei posti dove ci sono fiumi, come nel Delta State. E’ capitato anche a mia sorella quando aveva circa vent’anni. Dava segni strani, in chiesa le hanno detto che era posseduta, lei subito non ha dato peso a quello che le dicevano. A quale chiesa apparteneva? In Nigeria ci sono tante chiese con tanti nomi, dove delle persone si autoproclamano sacerdoti e hanno delle visioni. Credono al dio della Bibbia, a Gesù, a Maria… Solo in chiesa riescono a vedere se sei posseduta. Mia sorella (figlia di mia nonna) voleva andare in Europa, ha fatto tutti i documenti. Una volta arrivata in Germania la carta (visto d’ingresso?) che aveva si è trasformata. E’ stata presa dalla polizia e questa ha scoperto che la carta era falsa ed è stata rimpatriata in Nigeria. Ha pensato che le è successo questo 68 perché non aveva fatto i riti per calmare lo spirito. Quando è tornata è andata a farli per Mami Wata ed è tornata normale, così ha potuto tornare in Europa. Ha offerto un pollo e ha raccolto l’acqua con un piatto. Loro (posseduti o sacerdoti?) sanno a che juju, a che Mami Wata appartengono. Tu credi a queste cose? Io no, ma ho visto quello che è successo a mia sorella. Come si manifestano questi disturbi? Per esempio la mia vita non è andata bene fino adesso. Da bambina in chiesa mi dicevano che ero posseduta. Mia madre non era con me. Ho vissuto con la nonna, lei era una levatrice, sapeva esattamente dove stava uno spirito. Chi riesce a capirlo sono gli uomini e le donne che sono già stati posseduti. Quando si è calmato lo spirito con le offerte, il legame con lui finisce? No, bisogna continuare a portare le offerte, per esempio ogni tre mesi, lo spirito riappare ogni volta che ha bisogno di qualcosa. E cosa vuole? Quelli cattivi vogliono sangue e causano morti nei fiumi che nessuno sa spiegare. Chi sono gli ogbanje? Sono gli spiriti che possiedono le persone. Di notte quando senti rumori strani significa che Mami Wata è uscita e sta cercando qualcosa. Se le dai qualcosa ti aiuta. Prende spesso le donne, si trasforma in essere umano tramite il concepimento. Una donna Mami Wata non ha mai rapporti con gli uomini perché Mami Wata ha un unico uomo che vive nell’acqua. Quando lei si trasforma in essere umano e vuole avere rapporti con uomini, arriva il compagno ad impedirglielo. Una volta in Senegal ho sentito che ogni volta che una donna Mami Wata provava ad avere dei rapporti, il compagno con la forza dello spirito spingeva via l’uomo (ride). Le donne Mami Wata sono diverse dalle donne che sono state possedute. Le possedute hanno meno forza, sembrano matte. Le donne Mami Wata sono più potenti e molto belle. Non mangiano pesce. Mami Wata infatti ha il corpo di pesce dalla vita in giù… Quando Mami Wata arriva all’acqua si trasforma in pesce. Mami Wata porta fortuna, ricchezza? 69 Alcune Mami Wata danno ricchezza, ma a delle condizioni. Si mettono con un uomo e gli promettono ricchezza ma a condizione che non esca con nessun altra. Se lui rispetta questo avrà fortuna. Le donne Mami Wata sono delle sacerdotesse? No, sono gli spiriti stessi ma non li riconosci sotto forma umana. Non ci sono sacerdotesse. Solo i native doctors sanno identificarli, loro si vestono di bianco. Anche il compagno di una bella ragazza può non sapere che lei è una Mami Wata, ma può accorgersi che lei si comporta in modo strano. Capita anche che un uomo che cerca ricchezza si rivolga a un native doctor affinché lo metta in contatto con una Mami Wata. Se nella tua zona gli uomini di solito hanno più di una moglie, non è strano che le unioni con una Mami Wata siano monogamiche? Se tu hai più mogli prima, devi lasciarle. Se ti azzardi ad avere rapporti con altre, ti ammazza. (Insisto sul termine vodu ma ripete di non conoscerlo). Esiste solo Mami Wata tra gli spiriti che possiedono? Sì, poi so che ci sono witch in Nigeria. Witch uccidono, ma sono persone cattive, non spiriti. Si dice che è meglio non accettare cibo dalla gente. Se ti fanno visita appena hai avuto un bambino possono fargli del male. Perché ti fanno del male? Per gelosia, invidia. Non vogliono il progresso, la ricchezza, non vogliono che la persona stia meglio di loro. Come fanno ad uccidere? Ti uccidono pronunciando il nome di tua madre per prenderle lo spirito. O usano gli indumenti intimi per arrivare a te. Quindi witch è cattivo... E il juju? Il juju è buono, non ti fa male, solo ti disturba. Nel tuo villaggio c’erano molte persone che venivano possedute da Mami Wata? Sì, è frequente. Quando sei andata a vivere a Benin City hai notato delle differenze? Lì credevano a cose diverse? No, anche a Benin City c’erano le stesse cose. 70 La vita di una donna Mami Wata com’è? Cosa fanno? Svolgono vite normali, non si sposano, sono ricchissime, tutto quello che fanno ha successo. Possono essere venditrici di stoffe o di olio di palma al mercato. Quando una donna desidera un figlio può andare dal native doctor o al fiume. Nel primo caso il bambino è buono e vivrà. Nel secondo caso non vive a lungo perché è cattivo. Se non hai fatto quello che Mami Wata voleva, se non è contenta, può riprenderselo. Conosci la parola “orisha”? Yémaja? No, non so. 71 Intervista 3 A. ha 29 anni e proviene da Ishan, Edo State. In Nigeria ha frequentato 2 anni di università, iscritta a Medicina, poi ha abbandonato gli studi per partire per l’Italia, dove vive da 6 anni. Puoi raccontarmi quello che sai di Mami Wata? Mami Wata è metà pesce e metà persona, non ho mai visto che esista qui in Europa, però è molto diffusa in Africa, non solo in Nigeria, anche in altri paesi, io ho un’amica ghanese che mi ha raccontato che è uguale anche da loro. Io ho visto con i miei occhi… Perché anche vodu è legato a questa cosa di Mami Wata. Io ho un’amica a cui è successo… Queste persone che si chiamano Mami Wata non devono andare in spiaggia da sole perché se butti loro acqua addosso, è facile che cambino, non riescono più a stare in piedi come noi, perché hanno metà corpo di pesce. È successo a questa che è andata in spiaggia e io l’ho visto con i miei occhi… Hanno dovuto portarla fuori perché non stava più in piedi, è caduta, poi batteva i piedi, batteva… L’hanno portata a casa perché è svenuta. C’era una signora… Sai i rasta qui in Italia, rasta in Africa è diverso, qui vedo che mettono qualcosa, non pettinano più i capelli, invece in Africa crescono dalla nascita. Le donne che hanno i capelli così sono molto potenti, vedono oltre, loro dicono così, oltre... Non so se è vero, io non ci credo tanto perché sono cattolica. Allora una signora l’ha portata dal vodu, facevano delle cose perché la ragazza era Mami Wata, dato che è stata nell’acqua è diventata metà donna e metà pesce. Allora lei è dovuta stare sopra il vodu per 7 giorni senza mangiare, poteva mangiare solo native chalk, non so il nome in italiano, è una polvere bianca però con sale… Cosa intendi per “deve stare sopra il vodu”? Non te lo posso dire, devi vedere con i tuoi occhi, sono tante cose, non so come spiegarti il vodu… Se vedi il vodu ti spaventi anche perché vedi sangue sopra, i cibi africani che usano per fare i sacrifici… Come le persone fatte con sabbia. Delle statuette? Statuette, non solo però… Ci sono quelli fissi fatti intorno a una casa perchè ci sono più vodu, vodu può essere fatto come questa parte del bar (indica il bancone), però ci sono 72 tante cose messe sopra, tipo cocco, fanta, aranciata… La barca… Simboli di tante cose… Anche i serpenti, galline, coccodrilli… Mami Wata è vodu? No, non lei, lei è stata messa sopra questa cosa per non morire, per non andare via, dopo 7 giorni è guarita, è tornata con i piedi normali. E’ rimasta distesa senza fare niente, in quel momento era Mami Wata. Non parlava neanche. Ti dico una cosa: esistono queste cose perché le ho viste con i miei occhi, però non ci credo, nel senso che io credo in Dio. Però queste cose sono vere. E poi cosa è successo, dopo questi 7 giorni? Lei è tornata persona, è cambiata, però non mi sono interessata più perché in Africa è frequente, succede a tante persone. Normalmente in Africa succede che questa ragazza che è svenuta, quando poi va in chiesa… Capita in chiesa anche? Sì, soprattutto lì, nelle chiese protestanti, non in quelle cattoliche. I miei genitori sono protestanti, io sono l’unica cattolica. Loro quando tornano a casa raccontano. In chiesa succede per esempio che una persona perde i sensi, solo che in spiaggia tu vedi, se uno ha il costume, cosa succede... Vedi che chi entra nell’acqua è stata portata da altre persone. E succede spesso in spiaggia? Sì. A volte si dice, quando si va in spiaggia, «speriamo di non vedere Mami Wata oggi…». Nella chiesa cristiana quando si mettono a pregare, è ovvio che cadono da soli, dicono così, io non ho mai visto… In quelle chiese cosa pensano di Mami Wata? Dicono che è un potere che non puoi cancellare, che questo potere di Mami Wata è del diavolo, non è di dio, ed è vero questo. E’ comunque una figura positiva per qualcosa? Sì, ci sono i pagani, loro non credono in Dio, credono in Mami Wata, è un potere dell’acqua, è forte, però è diverso da quello di dio, io credo che quello di dio sia più forte. La mia amica dice che in Ghana è uguale. La donna di cui mi parlavi prima era Mami Wata dalla nascita? O Mami Wata è entrata nel suo corpo in un preciso momento? Da quando è nata, non puoi diventarlo dopo. 73 E’ un ogbanje? Sì, esistono anche gli ogbanje però gli ogbanje puoi cancellarli, Mami Wata non puoi. O va via o resta. L’ogbanje è uno spirito, può fare quello in chiesa, quelli del vodu non possono, perché è una di loro. Lo spirito di ogbanje o di Mami Wata è come quello del vodu nel senso che non è un potere di dio. Ti racconto le cattiverie che fanno quando vanno in chiesa. Una che è ogbanje viene mandata in chiesa per disturbare, per sedurre gli uomini, anche perché sono molto belle. Perché sono ogbanje di Mami Wata? Sì. E’ un potere di Satana, non è di Dio… Dicono, non so se è vero, che la chiesa cattolica non ha potenza, non sono tanto forti in preghiera, la messa dura un’oretta e basta, non preghiamo tanto. Invece dicono che quelli che appartengono alla chiesa protestante sono più forti, pregano di più, con la Bibbia. Non so se questo è vero perché sono loro che dicono questa cosa. Loro vanno in chiesa in minigonna, tutti si girano, tutti ti mettono gli occhi addosso, attirano l’attenzione. Anche gli uomini possono essere legati a Mami Wata? Meno, ne ho visto soltanto uno mi pare. Io so però che Mami Wata può essere anche una figura positiva, che ti dà ricchezza, fortuna… Mami Wata ti dà, quelli che vengono sono ricchi, però non dura, muoiono. Perché Mami Wata non vive per sempre, viene, diventa ricca, poi muore. Se io fossi Mami Wata adesso sarei molto ricca, molto bella, ma la mia ricchezza non dura, la mia bellezza non dura perché la mia bellezza non è naturale, viene dall’acqua. Se io fossi Mami Wata adesso, ogni giorno mi vedresti diventare più giovane, più ricca, nonostante faccia un lavoro di merda. Tu non riesci a capire perché, però ti insospettisci… C’era una che era Mami Wata ed è morta a 31 anni, era molto molto bella. Loro fanno fatica a sposarsi anche perché un uomo per loro deve essere un servo, uno schiavo, deve fare tutto. Una sola l’ho vista sposata però è morta. Non fanno neanche figli. E questo è strano per una donna in Nigeria? Una donna che non fa tanti figli è una brutta cosa in Africa, vuol dire che Dio ti ha maledetta. Mami Wata sa che è più forte di te, ha un potere soprannaturale, se tu sai chi è lei… 74 Come si fa a capirlo? E’ molto difficile, dipende dai comportamenti. Ad esempio, se tu vuoi beccarli butti loro dell’acqua addosso e viene rivelato. Possono farti male, se non sei forte in preghiera ti possono maledire, se ti maledicono e poi muoiono, nessuno può più togliere la maledizione dopo, tu rimani così. Non so qui perché non ho mai visto, però in Africa succede questa cosa. Non sai in Italia se c’è Mami Wata? Io non so perché non frequento tanto i miei connazionali, mi faccio i fatti miei. Ho molto lavoro, quando torno a casa sono distrutta e non ho voglia di vedere nessuno. Conosco delle nigeriane… Stando con le amiche abbiamo parlato un paio di volte di Mami Wata, ma non credo lo siano. E questo “rito vodu” che viene fatto prima che le ragazze arrivino in Italia? E’ fatto per minacciare e basta. Non è vodu, si chiama juju, siete voi italiani che lo chiamate vodu. Il juju non è anche uno spirito che può possederti? Ogni tipo di vodu ha il suo nome, io non posso dirti tutto perché non mi viene più in mente, solo qualcosa… Quello del ferro si chiama Ogun, quello del fulmine si chiama Thunder, si chiama Shango anche, però in inglese Thunder. Se tu mandi una maledizione a qualcuno può succedere qualcosa, non può uccidere al momento, però può rivelare la persona. Mi diceva una mia amica un giorno che sua cognata aveva rubato i soldi al suocero, ma non era la prima volta, i soldi continuavano a sparire. Allora lui ha iniziato a maledirla però spogliato… Quando piove, proprio ti prende… La donna è caduta e ha iniziato a confessare che è stata lei che ha preso i soldi. Lui era nudo al momento della maledizione perché voleva si avverasse contro la persona che gli aveva rubato i soldi. E’ solo una cattiveria secondo me… Perché se strappi soldi e mandi una maledizione, è ovvio che arriva. Perché era nudo? Quando si nasce, si viene al mondo nudi. Mandi maledizioni però con pianto, con il cuore amareggiato, non col sorriso, perché in Africa già c’è povertà, ovvio che se tu hai 5 euro è tanto per te… Per cui lui non l’ha fatto perché era contento, lui non voleva farlo, ma dato che la sparizione dei soldi succedeva spesso, l’ha fatto. Mi puoi spiegare il juju, quando ti prendono le unghie, i capelli…? 75 Quella è una minaccia però. Se tu non paghi, portano queste tue parti del corpo… Chi lo fa questo? La madame. Lo fa in Africa. Non lo fa il babalawo? Allora, quello che fa il vodu si chiama babalawo. Se avessi un vodu adesso, tu vieni a casa mia e porti le unghie, tante cose… Alcuni non si chiamano babalawo, alcuni si chiamano Mami Wata perché alcuni che sono Mami Wata hanno il vodu loro, però quelli non chiamano Dio, chiamano il diavolo davanti a te. Se tu sei madame, tu vieni a casa mia, e dici che una ragazza non ti ha pagato in Italia, tu porti le unghie e tante cose e vieni da me, allora io ti dico «cosa faccio con questa ragazza? La uccido?» e tu devi decidere cosa vuoi fare, però io faccio quello che vuoi tu. Allora io non chiamo Mami Wata, io non ho niente a che fare con Mami Wata, io chiamo il diavolo in persona. Altri chiamano Orunmila. Mio padre mi aveva parlato di questo perché io ero curiosa. Il discorso è venuto fuori un giorno mentre parlavo con mio padre e con mio cugino. La famiglia della parte di mio padre non è tanto credente in Dio… Mio cugino si chiama Ifalui, perché suo padre era babalawo, ma è morto. Il ragazzo faceva vodu, lui guardava suo padre come faceva, alcuni lo diventano dopo. Invece quelli di Mami Wata no. Ti spiego perché vengono le Mami Wata. Se in Africa non fai figli è come se ti avessero maledetta, barren si chiamano le donne che non riescono ad averne, non come in Italia quando qualcuno decide di non fare figli perché non c’è lavoro, non c’è speranza. Sono sterili… Alcuni sono sterili, alcuni non è che sono sterili, semplicemente i figli non arrivano. Vanno nel mare, in spiaggia, a pregare, in qualsiasi modo possa arrivare il figlio, loro lo accettano. Per questo arriva una figlia ed è problematica, perché è di Mami Wata. Questa è la causa. Sono i figli che arrivano dall’acqua. Basta che gli altri vedano che la donna ha fatto figli, anche se muore il giorno dopo non ha importanza. In Africa una donna che non fa figli è un uomo, per dire che fa male. Perché è una società in cui si hanno 8-9 figli. Se non ne fai sei uomo, però hai la faccia di una donna. Per questo loro fanno qualsiasi cosa. Cosa succede a una donna che non ha figli? Dio mio… Se il marito la ama la tiene. Sai che in Africa si ha più di una moglie… Ho visto il caso di un cristiano che non si è mai sposato con un’altra, però per sbaglio ha avuto una 76 storia ma è rimasto con la moglie a casa. Ma succede che un uomo si risposa perché i genitori lo spingono, perché se tu muori così, i tuoi beni a chi li lasci? Li lasci a tua moglie e questo non va bene, questa che non ti ha dato un figlio. L’eredità passa solo ai maschi? No, dividono, ma la maggioranza va ai maschi, come in Italia. Però ci sono anche quelli che si sposano con 4, 5 mogli. C’è uno a Ishan che ha avuto 132 figli e 16 mogli… Quello era malato secondo me, non so come faceva. Io conoscevo i figli. Però è ovvio che non è riuscito a mantenere tutti, alcuni erano ladri, alcune facevano le prostitute. C’è un collegamento secondo te tra Mami Wata e la prostituzione? No, sono diversi, non c’entra… Ti stavo dicendo di Orunmila. Questo è un vodu, alcuni chiamano Mami Wata, altri il diavolo, che nella nostra lingua si chiama Esu, Orunmila, Shango,Ogun… Olokun? Olokun è Mami Wata, è “godess of the water”. Ho un’amica cubana che mi ha detto che è uguale anche da lei. Santo Domingo, Cuba, Haiti… Questi vodu hanno lo stesso nome, Shango, Olokun… Olokun c’è anche da loro, Orunmila… Poi agli altri hanno dato un altro nome. Questi tre nomi lei mi ha detto che sono uguali. Non mi ricordo di Orunmila perché sono già sei anni che sono in Italia, mi devi scusare… Solo Orunmila viene chiamato per fare il juju? No, anche Olokun, Shango, però Mami Wata no, non ho mai sentito… Possono chiamarla per disturbarti. E come ti disturba? Non so dirti. Ringrazio il cielo che non mi sia successo mai. Secondo te vieni disturbato attraverso un’altra persona che è Mami Wata? Sì. Non può succedere che io sono sola e comincio a sentirmi male, ad avere dei disturbi anche fisici? Mami Wata non fa questo, però forse possono chiamare il diavolo, ma a questo non ci credo. Possono chiamare Shango a disturbarti. E’ vero che ti vengono dei disturbi. Per Ogun puoi morire di incidente di macchina, perché è il dio del ferro. Possono mandarti maledizioni, dato che tu non vuoi pagarmi, muori di questo. Se tu sei forte puoi anche fare 77 prevenzione. Con le carte (perché ci sono anche in Africa queste cose) possono dirti che c’è qualcuno che vuole ucciderti, allora tu chiedi cosa puoi fare per prevenzione, e questa ti dice che sacrifici devi fare, tu li fai e amen, hai chiuso, non ti succede niente. Però molte cattiverie ti beccano e tu rimani a letto, bloccata, ti vengono tante cose nel corpo che loro fanno, non per ucciderti però, per disturbarti. Può venirti una malattia nel corpo, se tu non vai a fare prevenzione non ti passa, se vai dal dottore non passa, non passa con le medicine. Ti racconto una storia adesso. Nella famiglia di mia madre sono due sorelle. Mia zia abita a New York, è laureata in Lettere. Mio zio faceva il pilota. Sono andati a New York insieme da fidanzati e lì si sono sposati. Lei era incinta. Guarda, è successo a mia zia ma io non riesco ancora a crederci, sono passati 14 anni… Non va bene mangiare nel sonno… Lui era a New York, lui ha mangiato nel sonno, ha sognato di mangiare un cibo africano, quando si è svegliato aveva mal di pancia. Lui è morto. E’ stato avvelenato nel sonno. Però la persona che l’ha fatto l’ha detto dopo. I suoi genitori erano cristiani e non gli hanno creduto, hanno detto «Eh, cosa vuoi che sia, non è vero, dai, non è vero». Mal di pancia, mal di pancia, mal di pancia… Qualcuno dalla Nigeria gli ha fatto questo? Sì, però questa è una strega. Lui l’hanno portato all’ospedale per vedere se c’era qualcosa e il dottore gli ha detto che non aveva niente, gli ha chiesto cosa aveva mangiato e lui ha risposto: «Ho mangiato nel sonno». Hanno dovuto portarlo in Nigeria, è morto in Nigeria. Mia zia era ancora incinta, lui prima di morire ha detto il nome della bambina al telefono. Mia zia è tornata in Africa per il funerale. La persona ha parlato. Io non credevo nella stregoneria, anche se mi hanno sempre parlato di streghe. Allora, la signora era la sorella del padre di lui, e ha fatto una cattiveria così perché lui faceva il pilota, il fratello e la sorella sono medici, tutti e tre erano negli Stati Uniti e non hanno aiutato i suoi figli, per questo lei l’ha fatto fuori. Le hanno chiesto perché l’ha fatto, lei ha risposto per gelosia. Però lei non aveva mai chiesto questo aiuto. Io non ho visto quando ha parlato, è andata mia madre. Ma vicino a casa mia una volta è successo che una signora ha ucciso dei gemelli. Dicono che non si può uccidere i gemelli e poi andare in libertà. Li ha uccisi perché loro giocavano coi suoi figli. I bambini in Africa giocano a calcio con il coperchio della birra. Uno ha vinto ed è cominciato un litigio. Lei per separarli ha usato un bastone, però per lei non era un 78 bastone, era più forte di questo. L’ha dato al ragazzo e il ragazzo dopo tre giorni è morto. Lei era madre dell’altro, lei era una strega, ha confessato. Ha ucciso tutti e due (i gemelli che non erano suoi figli). Per mangiarli lei di notte si trasforma, diventa un gufo e mangia il cuore delle persone. Quella sera ha detto tante cose, ha detto a un ragazzo che gli aveva bloccato la sua stella. Per picchiarla hanno usato rami di platano. Era pieno di gente perché lei lo diceva davanti a tutti, io ho visto coi miei occhi e ho sentito con le mie orecchie, però mio padre ci ha cacciato via dopo, eravamo ancora troppo piccoli. Poi hanno portato una capra viva, non l’hanno uccisa, l’hanno legata viva. Io non ho guardato perché mi faceva schifo. Hanno infilato la mano da dietro e le hanno tolto il cuore, da viva, e l’hanno dato da mangiare alla donna. Dato che lei era riuscita a mangiare una persona, doveva mangiare quello. L’ha mangiato ed è morta dopo sei mesi. Era una cattiva strega, dio mio. Era madre di un amico di mio fratello, che poi se ne è andato, non voleva più stare con lei. Perché ha accettato di mangiare il cuore della capra? Perché altrimenti l’avrebbero uccisa. Perché ha confessato se è così pericoloso? Lei ha ucciso due ragazzi gemelli. I genitori hanno lasciato la chiesa perché dicevano che la chiesa non vedeva. Dato che erano morti i loro bambini, sono andati dal vodu perché chi li aveva uccisi doveva venire fuori. Allora lei non riusciva più a stare in pace, per questo ha confessato. Era nervosa, era come se qualcuno la stuzzicasse. Era un vodu che le dava la forza o era autonoma? Lei non ha nominato nessuno, gli altri abitavano in un’altra zona. Non ha nominato gente in zona che era in stregoneria con lei. Non era autonoma. La stregoneria non deriva da un vodu specifico. Gli stregoni fanno il loro vodu dopo, però chiamano sempre il diavolo. Ma se tu nasci da una madre strega, è ovvio che lo diventi perché ti danno da mangiare. Non è come Mami Wata, è diverso. Per Mami Wata, tua madre va in mare a chiedere aiuto, la figlia viene dalla nascita così. Nella stregoneria è diverso. Io posso essere una strega, ti invito a casa mia, ti metto da mangiare, è ovvio che stanotte vieni con me alla riunione. Diventi una nuova strega, devi fare i riti d’iniziazione. Puoi entrare a qualsiasi età, però Mami Wata è diverso da questo. Anche se io sono un ogbanje, io non posso metterti dentro, perché tu non sei nata ogbanje. Se io sono figlia di una strega, sono strega anch’io? 79 No, se tua madre non ti dà da mangiare non puoi diventarlo. Passa solo per il cibo. Se io sono una strega e qualcuno mi picchia, io posso passare a te i dolori che sento. Solo le donne sono streghe? Anche gli uomini. Però mi pare che le donne siano più cattive. Mio padre mi ha parlato di una strega che non è stata uccisa, è stata giudicata una buona strega dal re. Questa signora aveva un figlio che si è laureato, lei proteggeva solo i suoi figli. Quando andava alle riunioni di notte, le davano da mangiare il cuore delle persone, lei però non lo mangiava, lo metteva da parte. Dopo anni è toccato a suo figlio e le hanno chiesto di mangiare anche lui. Lei si è rifiutata e ha detto che poteva restituire tutti i cuori che le avevano dato, ma suo figlio non doveva essere toccato da nessuno. Lei quindi faceva parte di un gruppo di streghe? Sì, però lei era quella che chiamano una “strega bianca”, invece la strega nera è cattiva, dicono. E la strega bianca che funzione ha? Sono molto buone, possono proteggere. La strega nera a volte mangia suo figlio, invece per quella buona suo figlio è suo figlio, è come se fosse se stessa. Comunque, durante questa riunione si sono messi a litigare e il re ha chiesto che cos’era successo. E’ venuto fuori che c’era qualcosa di segreto. Il figlio non sapeva che la madre era una strega. Io avrei voluto avere una madre così. I gruppi di streghe sono tutti o femminili o maschili? Questo era di donne, ma possono essere anche misti. Ci sono delle associazioni, ognuna ha la sua zona di controllo. Il juju non appartiene alla stregoneria allora? No, riguarda il vodu. Solo per chi va all’estero però. Non succedeva in Africa. E’ un tipo di minaccia, può darsi che non ti uccido, può darsi che ti faccio male nel senso che tu cambi, ma se tu riesci a proteggerti non ti succede niente, basta che ti costruisci una barriera. E come si fa ad avere questa barriera? Devi essere anche forte. Devi farti il vodu anche tu per proteggerti, essere forte nella preghiera. Cosa vuol dire che mi devo fare un vodu? 80 Ti spiego… Io non faccio vodu, a volte vado in chiesa, a volte non ci vado, se ho impegni o devo lavorare, non ci vado spesso… I miei genitori sono cristiani protestanti però mia nonna ci crede, perché lei è tanto vecchia. Non so se tu riesci a credere a queste cose perché succedono in Africa, se tu non vai lì non puoi crederci. Io sono una persona che se non vede coi suoi occhi non crede. Sono stata in Nigeria in ottobre, la Nigeria è cambiata da quando vivevo lì, mio padre dorme col fucile ogni notte per fare la guardia, per via dei ladri. Però se qualcuno mi avesse detto questo, non ci avrei creduto. Io non potevo uscire, sono stata lì 9 giorni e non sono uscita a trovare nessuno, neanche davanti a casa mia. Da Lagos alla mia città ho dovuto mettermi i vestiti di mia madre, che mio padre mi aveva portato. Ho dovuto vestirmi come un’africana per non farmi riconoscere. Ho messo le scarpe da ginnastica, quelle che uso per andare a lavorare in fabbrica, così non mi mettevano gli occhi addosso. Se ti vedono vestita come sei ora cosa fanno? Dicono: «Questa è tornata ricca! O i soldi o muori». Da sola non potevo uscire, ero terrorizzata. Tu vieni da una grande città, ma anche nei villaggi è così? Non so, non sono nata in villaggio però mio padre ha una casa al villaggio e sono stata lì prima di andare all’università, ho fatto l’esame nel villaggio. E’ diverso dalla città. (Mi dice che vuole riprendere a studiare perché non sopporta più il lavoro che svolge in fabbrica, è troppo pesante ed è diventato precario perché il suo contratto viene ora gestito da un’agenzia interinale. Ha provato ad iscriversi al corso di infermeria ma ha avuto problemi con i documenti, nonostante lei abbia un regolare permesso di soggiorno, perché le è stato richiesto un “documento di valore” per dichiarare la sua nazionalità). Comunque è meglio della mia vita in Africa, lì non avrei la mia autonomia, qui vivo da sola, faccio quello che voglio, invece se stai a casa tua coi genitori devi rispettare alcune regole. (Riprendiamo il discorso sulla madame e il juju…). La madame va dal babalawo, ma lui deve fare quello che dice lei, se lei vuole ucciderti o vuole farti del male. Tu pensi che le ragazze che vengono in Italia ci credano? Ovvio che sì, hanno paura. Le ragazze dunque obbediscono alla madame per questo? 81 Sì, però se vengono maltrattate alcune se ne vanno via, scappano, cercano di proteggersi. Secondo te una donna nigeriana come vive l’esperienza della prostituzione? Male, perché vengono obbligate. Ad alcune non è stato detto in Nigeria che sarebbero venute a fare le prostitute. Lo scoprono quando arrivano. Adesso non è più così, perché in Nigeria ci sono tanti progetti per informare la gente che chi viene in Italia fa la prostituzione, prima no, prima non lo sapevano, credimi. C’è qualcuno che parte lo stesso adesso? Se arrivano, sì. Partono perché hanno bisogno di soldi, anche laureati senza lavoro. Le famiglie vivono in condizioni disagiate. Però una cosa che io non riesco a capire è come possano partire lo stesso, pur sapendo che andranno a fare la prostituzione. Prima era sfruttamento. Quelle che scappano e denunciano vengono uccise, se tornano in Africa, non dal vodu, vanno a pagare qualcuno. In Nigeria è diffusa la prostituzione? E’ visibile? No, in Nigeria non è così. E’ vista molto male. Una donna che fuma in Africa è vista come una prostituta, è una donna che va a letto con chiunque. Dato che tu sei da tanti anni in Italia, come ti sembra il ruolo della donna nella società italiana rispetto a quello che ha in Nigeria? E’ diverso. Per esempio la mia sorella più piccola adesso si sta laureando, va all’università, ha un ragazzo… Ha un carattere come me. Però per una donna che non ha studiato, che non ha un suo lavoro, è schiava. E’ come qui, se non hai un tuo lavoro e sei sotto lo stipendio di tuo marito, ovvio che ci sono certe parole che non devi usare. Lì è peggio perché tuo marito può dirti che sposa un’altra, tu non puoi protestare perché alla fine è lui che ti mantiene, invece qui è diverso, non può dire «sposo un’altra», può dirti che va via, che va a stare con un’altra. Invece lì lui si sposa con un’altra e porta quella a casa con te. Le donne soffrono per essere in più mogli di uno stesso uomo? Sì che soffrono, anche se non hanno il diritto di protestare. Qui una donna che soffre può andare in cerca di un lavoro, fare le pulizie, barista… Lì no, non si può fare. C’è gelosia fra le mogli di uno stesso uomo, a volte si uccidono, si avvelenano, perché c’è la preferita del marito e lui non guarda più l’altra. C’era una signora che era stata avvelenata dall’altra moglie con la coda del gatto, non so come è morta. Questa non è stregoneria, è cattiveria proprio, è gelosia. L’ha fatto perché quella donna aveva avuto il primo figlio. Quando 82 muore il marito, la maggioranza dei beni va al primo figlio. Lei ha fatto fuori la madre e poi voleva eliminare il figlio, ma è scappato. Secondo te le ragazze che partono non cercano anche una loro autonomia, un lavoro proprio, una vita per sé? Certo, però arrivano qua ed è una botta in testa. Adesso l’idea dell’Europa è diversa, penso, perché le persone che tornano raccontano. (Torniamo al discorso di Mami Wata, mi dice che non sa delle donne che devo presentarsi al mercato vestite di bianco per mostrare la loro nuova appartenenza). Mami Wata esiste in Africa ed esiste ancora. Non ho mai sentito che Mami Wata decida di venire in Italia. …. Ho visto alla tv una che si è suicidata prima di un esame perché era preoccupata. Se fosse in Africa e avesse studiato, lei si toglierebbe i vestiti, si inginocchierebbe e comincerebbe a pregare con amarezza, con lacrime, perché questa è la sua unica speranza. E’ difficile che la gente si suicidi in Africa, non è visto bene. E’ come una famiglia maledetta, come le donne che non hanno figli. Adesso le donne vanno a studiare come gli uomini, ma 50-60 anni fa stavano a casa, perché era ritenuto una perdita di tempo per loro studiare. 83 BIBLIOGRAFIA Afolabi Ojo G. J. 1971 Yoruba Culture, University of London Press, London. Aghatise E. 2004 Trafficking for Prostitution in Italy, in Violence Against Women, vol.10, 10, pp.11261155. Apter A. 1993 Atinga Revisited: Yoruba Witchcraft and the Cocoa Economy, 1950-1951, in Comaroff J. e Comaroff J. (a cura di), Modernity and its Malcontents. Ritual and Power in Postcolonial Africa, University of Chicago Press, Chicago, pp. 111-128. Ashkanani Z. 1991 Zar in a changing world: Kuwait, in I. M. Lewis, A. Al-Safi, S. Hurreiz (a cura di), Women’s Medicine. The Zar-Bori Cult in Africa and Beyond, Edinburgh University Press, pp. 219-230. Augé M. 1993 Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano (ed. or. 1992, Non-lieux, Seuil) 2002 Il dio oggetto, Meltemi, Roma (ed. or. 1988, Le dieu objet, Flammarion, Paris). Austen R. A. 1993 The Moral Economy of Witchcraft: An Essay in Comparative History, in Comaroff J. e Comaroff J. (a cura di), Modernity and its Malcontents cit., pp. 89-110. 84 Balandier G. 1990 I movimenti di innovazione religiosa nell’Africa nera, in Puech (a cura di), Le religioni nell’età del colonialismo e del neocolonialismo, Laterza, Bari, pp. 259-292. Barber K. 1982 Popular reactions to the Petro-Naira, in “The Journal of Modern Africa Studies”, 20, 3, pp. 431-450. Bastian M. 1993 “Bloodhunds Who Have No Friends”: Witchcraft and Locality in the Nigerian Popular Press, in Comaroff J. e Comaroff J. (a cura di), Modernity and its Malcontents cit., pp. 129-166. 1997 Married in the Water: Spirit Kin and Other Afflictions of Modernity in Southeastern Nigeria, in “Journal of Religion in Africa”, XXVII, 2, pp. 116-134. Bastide R. 1990 I culti afro-americani, in Puech (a cura di), Le religioni nell’età del colonialismo e del neocolonialismo, Laterza, Bari, pp. 43-67. Beneduce R. 2002 Trance e possessione in Africa. Corpi, mimesi, storia, Bollati Boringhieri, Torino. Beneduce R. e Taliani S. 2001 Un paradosso ordinato. Possessione, corpi, migrazioni, in “Antropologia-Annuario”, I, pp. 15-42. Bernardotti A., Carchedi F., Ferone B. (a cura di) 85 Schiavitù emergenti. La tratta e lo sfruttamento delle donne nigeriane sul litorale 2005 domitio, Ediesse, Roma. Bianco C. 1994 Dall’evento al documento. Orientamenti etnografici, CISU, Roma. Brelich A. Introduzione alla storia delle religioni, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1994 Pisa-Roma. Chirassi Colombo I. Melusina o il segno del serpente: avventure storico culturali di una donna anche 1986 serpente, in Melusina. Mito e leggenda di una donna serpente, Utopia, pp. 61-86. Chlyeh A. La possession rituelle à Marrakech, in “Galaxie Anthropologique”, II-III, pp. 143- 1992 149. Comaroff J. e Comaroff J. 1993 Introduction, in Comaroff J. e Comaroff J. (a cura di), Modernity and its Malcontents cit. Corbetta P. 2002 La ricerca sociale: metodologia e tecniche. III. Le tecniche qualitative, il Mulino, Bologna. Corso C. e Trifirò A. 2003 ...e siamo partite! Migrazione, tratta e prostituzione straniera in Italia, Giunti, Firenze. De Martino E. 86 2003 Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino (ed. or. 1948). 2002 2002 2002 La terra del rimorso, Net (ed. or. 1961). Furore Simbolo Valore, Feltrinelli, Milano (ed. or. 1962). La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino (ed. or. 1977). Drewal H.J. 1988 Performing the Other. Mami Wata Worship in Africa, in “The Drama Review”, 32(2), pp. 160-185. Eliade M. (a cura di) 1987 The Encyclopedia of Religion, New York. Ende W. e Steinbach U. (a cura di) 1993 L’islam oggi, Edizioni Dehoniane, Bologna (ed. or. 1984, Der Islam in der Gegenwart, München). Evans-Pritchard E. E. 1976 Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Franco Angeli, Milano (ed. or. 1937, Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, Oxford University Press, London). Fabietti U. e Matera V. 1998 Memorie e identità. Simboli e strategie del ricordo, Meltemi, Roma. Fabietti U. e Remotti F. (a cura di) 1997 Dizionario di Antropologia, Zanichelli, Bologna. Ferchiou S. 87 1991 The possession cults of Tunisia: a religious system functioning as a system of reference and a social field for performing actions, in I.M. Lewis, A. Al-Safi, S. Hurreiz (a cura di), Women’s Medicine. The Zar-Bori Cult in Africa and Beyond, Edinburgh University Press, pp.209-218. Frank B. 1995 Permitted and prohibited wealth: commodity-possessing spirits, economic morals, and the goddess Mami Wata in West Africa, in “Ethnology”, 34, 4, pp. 331-346. Geschiere P. 1997 The Modernity of Witchcraft. Politics and the Occult in Postcolonial Africa, University Press of Virginia (ed. or. 1993, Sorcellerie et politique en Afrique – La viande des autres, Karthala, Paris). 2000 Sorcellerie et modernité: retour sur une étrange complicité, in “Politique Africaine”, 79, pp. 17-32. Hobsbawm E. J. e Ranger T. (a cura di) 2002 L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino (ed. or. 1983, The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge). Kennedy I. e Nicotri P. 1999 Lucciole nere. Le prostitute nigeriane si raccontano, Kaos, Milano. Lanternari V. 1960 1983 Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano. Festa, carisma, apocalisse, Sellerio, Palermo. Latouche S. 88 1992 L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino (ed. or. 1989, L’oc- cidentalisation du monde, La Découverte, Paris). 1997 L’altra Africa. Tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino (ed. or. 1997, L’autre Afrique. Entre don et marchè). Lewis I. M. 1993 Possessione, stregoneria, sciamanesimo. Contesti religiosi nelle società tradizionali, Liguori, Napoli (ed. or. 1986, Religion in context. Cults and Charisma, Cambridge University Press). Marshall-Fratani R. 2001 Mediating the global and local in Nigerian Pentecostalism, in Corten A. e Marshall-Fratani R. (a cura di), Between Babel and Pentecost. Transnational Pentecostalism in Africa and Latin America, Hurst & Company, London, pp. 80105. Matory J. L. 1993 Government by Seduction: History and the Tropes of “Mounting” in OyoYoruba Religion, in Comaroff J. e Comaroff J. (a cura di), Modernity and its Malcontents cit., pp. 58-85. Métraux A. 1971 Il vodu haitiano. Una religione tra leggenda sanguinaria e realtà etnologica, Einaudi, Torino (ed. or. 1958, Le Vaudou haïtien, Gallimard, Paris). 2001 La commedia rituale nella possessione, in “Antropologia-Annuario”, I, pp. 119-138 (ed. or. 1955, La comédie rituelle dans la possession, in “Diogéne”, II, pp. 26-49). Nevadomsky J. e Rosen N. 89 1988 The Initiation of a Priestess. Performance and Imagery in Olokun Ritual, in “The Drama Review”, 32(2), pp. 186-207. Pettazzoni R. 1963 Miti e leggende. Vol I: Africa, Australia, UTET. Simpson G. E. 1980 Yoruba Religion and Medicine in Ibadan, Ibadan University Press. Verger P. 1982 Orisha, Éditions A.M. Métailié, Paris. 90