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I BAMBINI DELL’ASILO I bambini dell’asilo sono nel cortile dell’asilo e io sono con loro: anzi, sono uno di loro. È appena iniziata la primavera ed è ora dell’intervallo. L’asilo è un edificio degli anni Sessanta, vicino al cimitero, cui si arriva da un vialetto alberato. Si entra in un cortile che dà accesso alle varie aule: sulla sinistra c’è un prato con i giochi e sulla destra, verso nord, un accenno di bosco. È il 1983 e mi hanno detto che sono un mezzano: all’asilo ci sono i piccoli, i mezzani e i grandi, i grandi hanno cinque anni, i mezzani quattro e i piccoli tre. Odio l’asilo, le maestre e tutti i miei compagni tranne Raffaele, che è il mio amico, e Beatrice, che è la ragazzina che mi piace ma lei non lo sa. Ogni tanto ci guardiamo, io e Beatrice. Anzi, io la guardo sempre, lei ogni tanto. Passo il tempo solo con lei e Raffa. Oggi sono stranamente euforico: sarà la primavera, sarà il primo sole dopo l’inverno, sarà l’aria frizzantina, sarà che il latte la mia mamma lo compra in una lat- 37 teria vicino all’Icmesa. Insomma, per qualche motivo sono tutto contento, e il mondo sembra meraviglioso, come quelli magici disegnati dalla matita di quel pederasta di Walt Disney: gli alberi sono in fiore e gli uccellini cinguettano froci sui rami. Qualcosa del genere, Something like that direi, se fossi il piccolo Frank Sinatra. Mi avvio verso l’altalena multipla, grande, un ippopotamo di ferro giallo e rosso dove ci si sta su anche in sei, uno di quei giochi dove si continua spingere e spingere e spingere fino a quando qualcuno si fa male. Ho il mio bel grembiulino bianco, stirato di fresco, la mia brava pettinatura da scolaretto con la riga da party, le mie calzette e i miei bei sandaletti blu della Primigi. Non porto più il pannolino ormai da qualche mese. Sono un ganzo. Come hobby, a casa, mi piace giocare con i pupazzetti dei Masters tipo He-man (che si chiama così per far capire che non è una donna, dato che porta i capelli come la Carrà). Come si gioca con questi pupazzetti? Se ne prende uno e lo si tiene in mano, poi se ne prende un altro con l’altra mano e, a seconda se è un amico o un nemico, si agisce in due diversi modi: se è un amico si fa dire al primo pupazzetto: «Ehi, ciao amico!» e poi all’altro: «Ehi, ciao come va?» e in risposta: «Bene amico!» per finire con un: «Dai, andiamo amico!» e: «Ok, amico!» A questo punto si simula che i due pupazzetti camminino e vadano da qualche parte, 38 tipo sul divano. Se invece sono nemici li si fa semplicemente cozzare l’uno contro l’altro facendo dei versi con la bocca. Almeno, io ci giocavo così. Mio cugino più grande li bruciava con l’accendino, gli tagliava gli arti con un coltello da pane o se li infilava nel culo e iniziava a correre. Ma lui era un ragazzo difficile, dicevano. Torniamo all’asilo. L’altalena è occupata, ci sono su cinque grandi, cinque come le dita di una mano, cinque figli di cinque puttane che ora spero siano tutti in carcere. I figli e, perché no, anche le madri che li hanno cagati fuori da quelle fregne slabbrate. Cagne. Già da lontano mi sento pesare i loro sguardi truci addosso. Ma il mondo è fantastico, la vita è una gioia, l’amore è nell’aria, sono a Topolinia, sorrido, mi manca un dente. «Ehi, ciao amici», esordisco. Con questo entusiasmo potrei lavorare nel settore televendite in futuro, penso. Silenzio. Non mi danno la mano. «Posso salir…» accenno tentando di posare un sandaletto sull’altalena. Non ho il tempo di finire la frase che una sberla, di una violenza inaudita per un bambino, mi gira la testa di lato. Nel regno animale o nel mondo di Walt Disney sarebbe più o meno così: questa è la storia di un giovane gatto che chiameremo Gattino, che non 39 ha mai avuto a che fare con altri gatti. È viziato, coccolato, abituato a stare al caldo in appartamento, a mangiare i suoi croccantini, a fare la pupù nella lettiera: basta un miao e a Gattino viene servito il suo Whiskas. Gattino un bel giorno decide di saltar fuori dalla finestra aperta e di andarsene a fare un giro giù in strada. Ah, che bel sole c’è! All’angolo, vicino alla tabaccheria e alla sala biliardi, in una cascina abbandonata, abita un branco di gatti randagi. Gattino, incuriosito e allegro alla vista dei suoi simili, si avvicina: «Ehi, ciao gente! Come butta? Io sono Gattino!» Gattone, che è un gatto poco più anziano di lui, una cicatrice sull’occhio e il buco del culo sempre sporco, come benvenuto gli stacca mezzo orecchio a morsi e gli dà il benservito con una zampata. Il povero Gattino, ferito, deluso, triste, annoiato e asciutto se ne torna a casa frignando con la sua bella coda toelettata tra le zampe. Ecco come ci disegnano le cose quegli imbroglioni! Ho ancora la testa girata di lato. Vedo il cortile, i bambini si rincorrono, sento le loro risa rimbombare; altri bambini sono seduti in cerchio, due rondini disegnano degli otto con le loro traiettorie. 88. Heil Hitler! Una suora di un’altra classe attraversa lo spiazzo con passo deciso, seguita dalla sua ombra, si ferma 40 all’ingresso di un’aula, fa la conchetta con la mano e si annusa l’alito, entra nell’aula e chiude la porta dietro di sé. È la prima sberla della mia vita dopo quella in ospedale, e fa male. Non è solo il dolore fisico, è qualcos’altro: è la mia prima lezione dai cortili. Il sorriso muta improvvisamente in una smorfia, il viso si colora di porpora, gli occhi si stringono, il naso si arriccia e si inumidisce. Comincio a correre. Corro con il vento a favore, usando finalmente appieno la potenzialità dei miei sandaletti Primigi che non riuscirò mai a sfruttare del tutto, per via di un esponenziale, quanto, a un occhio attento, altrettanto prevedibile, crescita del piede. Corro forte, con le lacrime che si staccano dal viso e si perdono per strada. Corro sin dietro all’edificio, in fondo, in una zona dove non va mai nessuno perché è sempre all’ombra ed è piena di alberi e cespugli. Mi strappo questo dannato grembiulino di dosso e lo getto a terra. Mi tornerà utile, forse, un giorno per giocare al dottore con Benedetta. Mi nascondo in uno dei cespugli e finisco le lacrime. Non sarò mai più lo stesso. Ciao ciao purezza. Tutto era cominciato così: una mattina in cui dormivo sonni tranquilli, ero stato svegliato alla buon’ora 41