Ucraina o Kosovo, quando si può applicare il principio di
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Ucraina o Kosovo, quando si può applicare il principio di
Ucraina o Kosovo, quando si può applicare il principio di autodeterminazione? “IMG_4737”, Foto di Alexandra (Nessa) Gnatoush, licenza CC BY 2.0, www.flickr.com “Nei prossimi giorni, che noi cerchiamo di rendere sicuri, noi agogniamo per un mondo fondato su quattro libertà fondamentali: La prima è la libertà di parola e di espressione- ovunque nel mondo La seconda è la libertà di ciascun individuo di adorare Dio secondo il proprio credo- ovunque nel mondo. La terza è la libertà dal bisogno che, tradotto in termini mondiali, significa intese economiche che assicurano a ciascuna Nazione una vita in tempo di pace nel benessere per i propri cittadini- ovunque nel mondo. La quarta è la libertà dalla paura che, tradotto in termini mondiali, significa una riduzione in tutto il globo degli armamenti a tal punto e in modo così radicato che nessuno Stato sarà nella posizione di mettere in atto un’aggressione fisica contro qualsiasi vicino- ovunque nel mondo.” Queste parole sono state pronunciate da Roosevelt in un discorso rivolto al Congresso il 6 gennaio 1941; l’intento era quello di convincere i parlamentari americani a porre fine alla politica di isolamento del continente statunitense e intervenire nella seconda guerra mondiale. L’apporto delle truppe americane è stato decisivo, ma alla fine nessuno è uscito vincitore dal conflitto ed è così emersa prepotentemente la consapevolezza che la guerra e ogni risoluzione violenta di conflitti doveva essere bandita dal piano internazionale. Dalle ceneri di una civiltà distrutta da continui bombardamenti nasce un Nuovo Ordine internazionale, alla base del quale vi è la rinuncia da parte di uno Stato di una parte della propria sovranità. Esempio magistrale di questa volontà è l’articolo 11 della nostra Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” Il passo fatto dagli Stati potrebbe apparire piccolo, ma in realtà è epico: vi è una totale inversione delle tendenze che hanno dominato i rapporti internazionali per tutti i secoli precedenti; l’esigenza di creare un diritto, per lo meno una serie di norme, che regolano i rapporti fra Stati è sempre esistita: prima “incarnazione” di questo tentativo è lo ius gentium romano. Nel 1648, però, si apre una nuova visione, il modello di Westphalia, che vede come soggetti del panorama sovra-nazionale gli Stati che non riconosco entità superiori; il diritto internazionale, quindi, diventa il diritto “inter nationes” (tra le Nazioni), di coesistenza. Punti chiave di questa nuova concezione sono cinque: primo fra questi è il concetto di autonomia, ossia la capacità di darsi regole. Nonostante si utilizzi lo stesso termine, questa tipologia di autoregolazione non può essere paragonata a quella lasciata ai privati nell’ordinamento interno: mentre quest’ultima è frutto di una concessione dello Stato, quindi derivata, quella del diritto “inter gentes” è originaria e, quindi, vi è una coincidenza fra i soggetti che creano le regole e i destinatari delle stesse. Ulteriore peculiarità è che gli Stati sono tra di essi, almeno in questo periodo embrionale, pari sia sul piano formale sia su quello sostanziale; si può capire come questa regolamentazione sia estremamente frammentata e incompleta in quanto nasce da rapporti multilaterali, sulla semplice volontà degli Stati. Questi, per l’appunto, quando dovevano risolvere un conflitto avevano due modalità: quella diplomatica oppure quella bellica; negli anni, l’influenza dell’etica, ha fatto sì che si procedesse verso una “umanizzazione” dello scontro armato. Avendo presente questi elementi è possibile capire la svolta rivoluzionaria che si ha con il Nuovo Ordine internazionale: quello che prima era un punto indiscusso del diritto internazionale, la sovranità dello Stato, viene ora limitata dall’entità statuale stessa per favorire l’instaurazione della pace. Il discorso di Roosevelt, in realtà, può essere studiato sotto due diversi aspetti: quello sopra prospettato, come base del nuovo corso di relazioni internazionali fondato su rapporti pacifici fra Stati democratici; dall’altra parte, però, questi principi che si sono posti come colonne portanti della nuova costruzione si sono rilevati nel corso dei decenni un’arma a doppio taglio. Il rapporto ISPI 2015, in particolare la produzione di Alessandro Colombo “La crisi generale dell’ordine internazionale”, mette in luce le crepe che indeboliscono le fondamenta di questo sistema. Elemento peculiare di tutta la struttura è, infatti, la conformazione “americano- centrica”, portatrice dell’ideologia fondata sull’endiadi democrazia- mercato; Roosevelt affermava “una vita in tempo di pace nel benessere” questo perché si credeva che l’espansione democratica portasse necessariamente con sé la pace, terreno fecondo per far costruire intese economiche. La volontà di esportare questi concetti si è dovuta, però, scontrare con realtà come quella russa o quella cinese: potenze imprescindibili dal panorama internazionale, ma che non sono liberal- democratiche. Possiamo affermare, in via generale, che vi è stato un generale fallimento della vocazione internazionalistica del Nuovo Ordine. Un esempio di questo è la crisi ucraina. Il 21 novembre 2013 sono iniziate una serie di manifestazioni, che prendono il nome di Euromaidan, per protestare nei confronti della decisione del governo ucraino di sospendere i preparativi degli accordi di associazione e libero scambio con l’Unione Europea. La crisi della Crimea rappresenta una conseguenza, se non il culmine, degli scontri: la Russia, nel marzo 2014, ha spostato le sue truppe militari nella penisola e ha bloccato il movimento delle navi ucraine, con le sue navi da guerra, verso il porto di Sebastopoli. Vi è, però, da precisare che solo presumibilmente le truppe possono essere definite di appartenenza dell’esercito russo, in quanto non vi era alcun elemento di identificazione. Il 16 marzo 2014 si è tenuto il referendum della penisola della Crimea e della città di Sebastopoli; Il referendum è stato preceduto, il 4 marzo 2014, dalla richiesta del parlamento della Crimea che la Repubblica, se fosse divenuta indipendente, sarebbe potuta entrare nella Federazione russa. L’11 marzo 2014 la Repubblica ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza dall’Ucraina; la Corte internazionale di Giustizia ha affermato, in un parere del 22 luglio 2016, la legittimità delle dichiarazioni di indipendenza, purché queste non siano intervenute in situazioni nelle quali non vi sia stato l’uso illegittimo della forza o la violazione delle norme di diritto internazionale, tra le quali le regole rivolte a tutelare la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati. Appare sin da subito ben chiaro come la dichiarazioni di indipendenza della penisola della Crimea non possa essere considerata legittima, proprio perché vi è stata una sprezzante violazione dei principi sopra elencati dalla Corte internazionale. La base giuridica che viene posta a legittimazione dell’iniziativa è il parere della Corte Internazionale di Giustizia sul Kosovo. Prima di vedere se questo precedente si possa applicare al caso della penisola è necessario introdurre il principio di autodeterminazione dei popoli e il rispetto dell’integrità territoriale, in ragione dei quali la Russia ha giustificato il proprio intervento militare. Il principio di autodeterminazione dei popoli emerge con il fenomeno della decolonizzazione, che vede la proliferazione di nuovi Stati che, in un periodo anteriore, coincidevano con le popolazioni che erano soggette ad un dominio coloniale. Il primo riferimento a questo principio lo si trova nella dichiarazione relativa alle relazioni amichevoli e alla cooperazione fra gli Stati del 1970, dove si afferma che esso è il “divieto di ricorrere a qualsiasi misura coercitiva suscettibile di privare i popoli del loro diritto all’autodeterminazione”. Quindi, titolare di questo diritto è il popolo, mentre destinatari del relativo obbligo sono gli Stati; è necessario notare che questo è un raro caso in cui i popoli possono qualificarsi come soggetti di diritto internazionale, anche se caratterizzati da una soggettività estremamente limitata. L’atto finale di Helsinki ci offre una definizione ancora più accurata del principio, che è il “diritto di tutti i popoli di stabilire in piena libertàquando e come lo desiderano- il loro regime politico senza ingerenza esterna e di perseguire come desiderano il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale”. Questa dichiarazione ci offre il contenuto stesso dell’autodeterminazione dei popoli: stabilire, in piena libertà, il proprio regime politico senza che ci sia un’ingerenza esterna e perseguire il loro sviluppo economico, politico, sociale e culturale. È così possibile riconoscere l’esistenza di due diversi momenti: il primo consiste in un divieto di ingerenza esterna; il secondo, che ha una valenza interna, può essere riassunto come un diritto alla partecipazione alla vita politica di una Stato. Il principio di autodeterminazione dei popoli va bilanciato con il rispetto dell’integrità territoriale, per il quale gli Stati della comunità internazionale hanno l’obbligo di astenersi dall’interferire nella vita politica di un altro Stato e da qualsiasi attività entro i confini degli Stati. Sicuramente vi sono delle analogie fra il caso della Crimea e quello del Kosovo: in entrambe le situazioni, infatti, vi era un’assenza dell’effettività del governo centrale; in secondo luogo, la separazione è stata indotta da un intervento esterno, in violazione del territorio dello Stato, e, infine, gran parte della popolazione era favorevole all’intromissione. Infatti, anche se la legittimità del referendum della penisola è dubbia per la presenza di numerose, ma solo presupposte, forze militari russe, si presume che in ogni caso l’esisto rispecchi l’idea della popolazione. Nonostante questi elementi di comunanza vi sono delle notevoli discrepanze che fanno sì che i casi non siano sovrapponibili: si deve distinguere fra la mera tutela delle minoranze e il principio di autodeterminazione dei popoli. La Corte suprema del Canada, in relazione alla secessione del Québec, ha affermato che la seconda può riconoscersi soltanto in presenza di oppressione o di gravi violazioni dei diritti umani che comportano anche l’esclusione dalla vita economica, politica e sociale dello Stato di appartenenza. In realtà il principio di autodeterminazione è stato invocato sia dalla Crimea nella dichiarazione dell’11 marzo 2014, sia dalla Russia come ragione del suo intervento: l’argomento che quest’ultimo Stato ha sostenuto si ricollega alla tesi della “remedial secession” in virtù della quale l’autodeterminazione esterna troverebbe un ulteriore ambito di impiego ai sensi del diritto internazionale, come extrema ratio nel caso in cui un’etnia fosse persistentemente privata del suo diritto all’autodeterminazione interna e in più fosse vittima di una brutale persecuzione. Prima di tutto si deve precisare che il diritto alla secessione- rimedio non possa dirsi oggi pienamente accolto nell’ordinamento internazionale; in secondo luogo, in occasione della procedura consultiva sfociata nel già richiamato parere della Corte internazionale di giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo, la Russia ammise l’esistenza di tale diritto può essere “causa di autodeterminazione delle persone, ma solamente in circostanze estreme quando le persone interessate sono costantemente soggette alle più severe forme di oppressione che mettono in pericolo l’esistenza delle persone”. A riguardo, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 2014 l’Alto Commissario dell’OSCE sulle minoranze nazionali ha sostenuto che nessuna grave minaccia di tipo nazionalistico pendesse sui russofoni della Crimea. Non può nemmeno dirsi efficace il tentativo russo di scusare il proprio intervento per ragioni autodeterminazione interna negata, altro caso previsto dalla fattispecie che potrebbe dar causa ad un diritto di secessione-rimedio. Infatti, l’atteggiamento che lo Stato ucraino ha sempre avuto nei confronti della penisola è stato quello di riconoscerle uno statuto di autonomia assai ampio e, come osservato dalla Corte suprema del Canada nel parere sulla secessione del Québec: “Uno Stato il cui governo rispetta i principi di autodeterminazione interna, è titolato a mantenere la sua integrità territoriale sotto le leggi di diritto internazionale”. Quindi, è evidente come il caso della “remedial secession”, applicato al Kosovo, non possa essere, invece, utilizzato per i motivi appena esposti al caso della Crimea. La consapevolezza del dovere di adoperare metodi per la risoluzione di conflitti alternativi allo scontro violento, che era cresciuta nell’animo degli uomini politici, ma non solo, alla fine della seconda guerra mondiale sembra, settant’anni dopo, svanita: lo Stato russo ha numerose volte violato il divieto di uso della forza, muovendo le proprie truppe oltre il confine di uno Stato sovrano, ed anche quello di ingerenza negli affari interni delle altre Nazioni. In realtà, lo scontro era voluto da entrambi gli schieramenti: dai filo-russi per consolidare la propria indipendenza all’ombra dello stato russo, dall’Ucraina per bruciare i ponti che ancora la uniscono alla Russia e per costringere la Nato a prendere risolutamente partito contro Mosca. Si capisce, quindi, come la risoluzione di questo conflitto sia estremamente importante e che determinerà un nuovo assetto dell’Ordine Internazionale. SARA VETULLI Sitografia: • Dall’intervento del prof. Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, alla settimana estiva di Motta 2008 su: Pace, giustizia e riconciliazione, organizzata dalla Comunità di via Sambuco 13, Milano. https://cdcm.wordpress.com/tag/nuovo-ordine-internazionale/ • “Di precedenti, analogie, differenze e tesi poco convincenti riguardo alla Crimea”, Enrico Milano http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?p=795 • “Crisi ucraina, tutti i nodi giuridici del referendum in Crimea”, Carmine Finelli http://www.formiche.net/2014/03/19/ucraina-referendum-crimea-russia-diritto/ • “Euromaidan” http://it.wikipedia.org/wiki/Euromaidan • “La crisi in Crimea. Crisi in Crimea, referendum ed autodeterminazione dei popoli”, Antonello Tancredi http://www.sidi-isil.org/wp-content/uploads/2014/05/SIDI-Osservatorio-Tancred i.doc.pdf Bibliografia: Rapporto ISPI 2015, “In mezzo al guado. Scenari globali e l’Italia”; a cura di A. Colombo e P. Magri. Legittimità delle secessioni: Referendum in Crimea autore: allyhook licenza: CC-BY Per concludere il ciclo di approfondimenti sul caldo tema della secessione, oggi Nomodos – Il Cantore delle Leggi si chiede: è possibile creare un nuovo Stato tramite la secessione? I referendum secessionistici sono legittimi? Si proverà di seguito a fornire un’analisi della legittimità del Referendum in Crimea alla luce del diritto internazionale. La Comunità Internazionale si è schierata contro il risultato plebiscitario del referendum in Crimea. Esso è stato indetto dal Parlamento della Crimea il 6 Marzo 2014, tuttavia il voto referendario è stato anticipato da una dichiarazione di indipendenza, l’11 Marzo, da parte del Consiglio supremo della Repubblica di Crimea. Il quesito referendario poneva l’alternativa tra il ritorno alla Costituzione del 92, in cui si dichiarava la Crimea come parte integrante della Ucraina e l’entrata nella Federazione Russa. Il 97% dei votanti, circa l’80% degli aventi diritto, ha optato per questa seconda possibilità. Tutto ciò accadeva mentre i soldati russi bloccavano, seppur senza l’uso della forza, i punti strategici, quali aeroporti e edifici pubblici della Crimea. Proprio in ragione delle modalità in cui si è svolto il referendum, numerosi Stati Europei e gli Stati Uniti si sono schierati contro il suo esito: prima adottando sanzioni ad personam contro la Russia, poi muovendosi nel framework dell’ONU. Gli Stati Uniti hanno presentato in Consiglio di Sicurezza un progetto di risoluzione (S/2014/189), che schierava contro il risultato del referenum: infatti nel paragrafo 3 del progetto veniva sottolineato come “no territorial acquisition resulting from the threat or use of force shall be recognized as legal”. La stessa richiamava poi nel paragrafo 4 la Conferenza di Helsinki del 75 che non permette, salvo previe modifiche consensuali, di apporre modificazioni ai confini europei e il Budapest Memorandum on Security Assurances del 94, il quale ufficializza l’accordo tra USA, Regno Unito e Federazione Russa con l’Ucraina di non proliferazione nucleare da parte di quest’ultima in cambio, tra le altre cose, della garanzia dei suoi confini territoriali. Date tutte queste considerazioni (inter alia) la risoluzione concludeva al paragrafo 5: “this referendum can have no validity, and cannot form the basis for any alteration of the status of Crimea; and calls upon all States, international organizations and specialized agencies not to recognize any alteration of the status of Crimea on the basis of this referendum and to refrain from any action or dealing that might be interpreted as recognizing any such altered status”. Il Consiglio voleva cioè porsi in forte antitesi con l’esito del referendum e con l’annessione della Crimea alla Russia, non riconoscendo nessuna validità legale e sollecitando gli stati membri a prendere in considerazione alcuna modificazione della sovranità nazionale ucraina. L’argomentazione principale era quella che atteneva alle modalità in cui si era addivenuti all’annessione: con l’uso della forza. Sotto questo profilo però, la risoluzione appare debole; infatti, sebbene la presenza russa in Crimea durante la votazione sia stata indubbiamente rilevante nel determinarne l’esito, l’uso della forza vero e proprio non vi è stato. Ma non serve scendere ulteriormente nel merito, infatti tale progetto è stato subito bloccato dal veto apposto della Federazione Russa. Una riflessione è qui d’uopo: la votazione riguardava direttamente un membro del Consiglio di Sicurezza, pertanto la Russia si sarebbe dovuta astenere secondo l’art 27 della Carta, che enuncia il principio per cui nessuno può giudicare in questioni che riguardano se stesso (“nemo iudex in re sua”). Tuttavia la bocciatura di tale draft non ha impedito all’Assemblea Generale di adottare il 27 Marzo 2014 una risoluzione (n. 68/262) sull’integrità territoriale dell’Ucraina, che richiede agli stati Membri di non interferire con l’integrità della nazione Ucraina, di non riconoscerne l’autonomia e di non compiere «any action or dealing that might be interpreted as recognizing any such altered status». In conclusione, sulla legittimità del referendum in Crimea e sull’annessione della stessa alla Russia è anche intervenuto il Consiglio d’Europa. Questo con il parere n. 763/2014 (Commissione di Venezia) ha evidenziato la violazione dell’integrità territoriale. Infatti una secessione può essere legittima, secondo la Commissione, solo con il consenso del governo (ucraino) e comunque con il pieno rispetto dei diritti umani. Ha poi sottolineato come il diritto all’autodeterminazione dei popoli NON comprenda il diritto alla secessione. Per queste ragioni secondo la Commissione di Venezia l’annessione russa rappresenta violazione del principio della salvaguardia dell’integrità territoriale, della sovranità degli Stati, del non intervento negli affari interni di un altro Stato e del principio pacta sunt servanda. Si vuole concludere con uno spunto critico: quando la Corte di Giustizia Internazionale era stata chiamata ad esprimersi sulla secessione del Kosovo nel 2008, essa aveva sostenuto che nel diritto internazionale non ci fosse una norma che vietasse la secessione. È pur vero che nei casi precedenti in cui il Consiglio era dovuto intervenire rispetto a fenomeni secessionistici, lo aveva sempre fatto in modo repressivo (Rhodesia del Sud 1965, Cipro del Nord 1983, invasione irachena del Kuwait 1990). Ma questi orientamenti erano dovuti a violazioni gravi di ius cogens e non invece alle dichiarazioni di indipendenza per se. Così si spiega invece perché la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non era stata dichiarata contraria alle norme di diritto internazionale. Ma allora perché, se lo stesso Consiglio ha escluso che sia stata violata una norma di ius cogens nel caso della Crimea, la dichiarazione di indipendenza non è stata considerata legittima? Certamente le ragioni per schierarsi contro l’annessione della Crimea alla Russia, avvenuta indubbiamente con ingerenze russe seppur mai sfociate in aggressioni vere e proprie, sono molteplici. Ma a parere di chi scrive la soluzione del problema non può essere affidata al diritto internazionale il quale sul punto è incerto, ma semmai a soluzioni politiche, economiche e diplomatiche.