La letteratura italiana fra Cinquecento e Seicento I parte

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La letteratura italiana fra Cinquecento e Seicento I parte
UTE
Anno 2011/2012
La letteratura italiana
fra Cinquecento e Seicento
I parte
Programma
(per punti sintetici)
1. L’età della Controriforma:
a. il teatro di GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINZIO
b. l’ “universo infinito” di GIORDANO BRUNO
2. Il Rinascimento italiano e l’Europa:
a. ERASMO DA ROTTERDAM
b. FRANÇOIS RABELAIS
c. WILLIAM SHAKESPEARE
3. Il “classicismo moderno”: TORQUATO TASSO
a. la favola pastorale
b. il poema eroico
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NELL’ORIZZONTE DELLA CONTRORIFORMA
1. UN ASSETTO SOCIALE DI LUNGA DURATA
L’epoca delimitata dalle date 1559 e 1690 è caratterizzata, in tutta Europa, da quella che gli
storici chiamano società di Antico regime: il termine suggerisce una distinzione nettissima rispetto
alla società borghese che si affermerà con i movimenti rivoluzionari della fine del secolo XVIII, e
mette in evidenza soprattutto la componente dell’assolutismo. L’intero orizzonte sociale è in effetti
dominato dalle grandi monarchie assolute e da durissimi meccanismi di repressione verso ogni
dissenso e devianza sociale, che si richiamano a valori gerarchici considerati indiscutibili;
rigidissime sono le strutture economiche e sociali, controllate dalla nobiltà e dall’aristocrazia, che
comprimono fortemente le classi borghesi e mantengono in condizioni di estrema miseria i
contadini e le plebi delle città.
Questa situazione si definisce già all’inizio del Cinquecento, nell’età delle guerre d’Italia; ma
nella seconda metà del secolo e nel corso del Seicento essa si impone in modo sempre più netto,
anche per effetto di circostanze esterne e di una terribile crisi economica, che (…) accentua
drammaticamente un processo di rifeudalizzazione, cioè un ritorno a strutture di tipo feudale e a un
dominio sociale basato su un sistema di privilegi e sulla proprietà terriera. Le strutture feudali non
erano del resto mai crollate totalmente: erano state rivestite di nuovi valori ideologici e di nuovi
modelli culturali dalla società di corte, che ora si stabilizza e si rafforza, continuando la sua vita
sontuosa, il suo consumo di oggetti e di beni di lusso. L’ordine rigidamente gerarchico della società
si definisce attraverso la distinzione delle forze sociali in categorie nettamente delimitate: cosi si
elabora la classificazione dei tre «stati» della nobiltà, del clero, della borghesia, che si riallaccia a
un’antica classificazione medievale, e che colloca la borghesia in una posizione totalmente
subalterna rispetto alle altre due classi, dotate di prerogative di ogni tipo, di diritti considerati di
origine divina.
Questo mondo tuttavia è molto diverso da quello del vero e proprio feudalesimo e non ne
conserva gli antichi equilibri. Le scoperte geografiche hanno aperto all’Europa nuove vie di
comunicazione per i commerci e rivelato nuove immense risorse naturali da sfruttare; le nuove
invenzioni e tecniche hanno modificato gli scambi e i rapporti tra gli uomini e tra l’uomo e la natura,
che si rivelano mutabili, non dati una volta per tutte; la Riforma protestante ha spezzato l’unità
religiosa del mondo cristiano e ha mostrato che la fede può essere vissuta in modi assai diversi; le
conquiste della nuova scienza impongono un’immagine aperta e dinamica dell’universo. (…).
La società di Antico regime si impone in un contesto internazionale: ogni situazione anche
locale e marginale si ripercuote su tutte le altre, anche su quelle più lontane. Di fronte ai molti
fattori di turbamento e di novità il sistema reagisce rafforzando il controllo all’interno dei singoli
Stati europei e proiettandosi fuori del continente, verso le nuove terre scoperte e raggiunte dai
viaggiatori, con un colonialismo che diviene violenta rapina. In campo economico, una profonda
impronta lasciano le guerre devastanti che percorrono l’Europa; e tutto il continente, sia pure in
gradi e con tempi diversi, vive lunghe stagioni di instabilità.
(…) In molti casi la miseria provoca lo spopolamento delle campagne, forme di vagabondaggio e di
irregolarità sociale e un aumento della popolazione delle grandi città; ma in alcune fasi la povertà,
le guerre, le carestie, le pestilenze, portano a una spaventosa riduzione degli abitanti delle stesse
città. Lo stato di malessere è all’origine di numerose rivolte, a cui partecipano forze sociali diverse,
il che costituisce un fatto nuovo nella storia europea. Ma non mancano fasi di sviluppo, con la
diffusione di nuovi beni e di nuovi consumi: e un dato economico e sociale di notevole importanza
è costituito dalla coltivazione di nuovi prodotti agricoli originari delle Americhe (canna da zucchero,
pomodoro, patata, mais, cacao) e dalla conseguente modificazione della alimentazione quotidiana.
All’interno di questo quadro generale, le situazioni sono comunque diverse da paese a
paese, poiché esistono zone prospere e sviluppate (in primo luogo l’Inghilterra e l’Olanda, in parte
la Francia) e zone arretrate e povere (la Spagna, la Germania continentale, gran parte dell’Italia).
Le ragioni di queste differenze risalgono sia alla congiuntura economica, sia alle strutture sociali,
sia al contesto geografico e politico.
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2. L’ITALIA SOTTO LA DOMINAZIONE SPAGNOLA
Sottoposta definitivamente alla dominazione spagnola col trattato di Cateau-Cambrésis del
1559, l’Italia vive dapprima un periodo di pace e stabilità, di cui si sentono alcuni benefici effetti fino
all’inizio del secolo XVII; ma la crisi economica europea, le intollerabili condizioni di vita delle classi
più povere, i riflessi negativi che sulla penisola hanno i conflitti tra le grandi potenze, portano nel
corso del Seicento a una inarrestabile decadenza, che fa toccare al nostro paese - dal punto di
vista sociale, economico, politico - uno dei punti più bassi della sua storia.
La pace e la stabilità sono d’altra parte molto relative: esse sono sostenute da durissime
forme di repressione di ogni dissenso all’interno dei possedimenti spagnoli e dei singoli Stati
indipendenti, e accompagnate dall’esplosione di vari e violentissimi conflitti locali. La vita sociale è
dovunque dominata dalla nobiltà e dall’aristocrazia, che consumano beni ma non promuovono
alcuna espansione produttiva, e preferiscono riaffermare comunque i loro modi di vita, imponendo
con la forza i loro privilegi, anche al di fuori di ogni legalità formale. Le classi inferiori sono
sottoposte a uno spietato sfruttamento e ogni trasgressione ai valori gerarchici e religiosi viene
duramente punita; scarsissima è la mobilità sociale e ben pochi sono gli individui che possono
sperare in un mutamento delle proprie condizioni. L’esistenza quotidiana è spesso cupa e terribile,
minacciata in ogni momento dalle violenze e dalle malattie, dai poteri pubblici e dalle calamità
naturali. La miseria, la crudeltà, la paura si affacciano dappertutto. Turbe di mendicanti e di
vagabondi percorrono le strade. Le merci sono povere e scarse. La superstizione è un dato
costante nei rapporti sociali.
Oltre che sul suo spietato apparato repressivo, il dominio spagnolo in Italia poggia
sull’autorità della religione cattolica e sullo spirito della Controriforma, di cui la Spagna è zelante
propugnatrice; ma esso dimostra anche di sapersi relativamente adattare ai caratteri e alle
tradizioni dei singoli territori dominati. Nelle regioni meridionali si rafforzano feudi e latifondi, che si
trovano in condizioni di estrema arretratezza, e se nel corso del secolo XVI alcune città risentono il
benefico effetto della circolazione di ricchezze spagnole (alla fine del Cinquecento Napoli è la città
più popolosa d’Europa, economicamente e socialmente vivacissima, malgrado vi siano presenti i
contrasti più stridenti), la crisi economica e il malgoverno suscitano nel secolo successivo un forte
e crescente malcontento, che si esprime nella grande rivolta antispagnola del 1647, iniziata a
Napoli sotto la guida di Masaniello e, dopo i primi successi, crudelmente stroncata. Nel Milanese il
regime spagnolo è parzialmente temperato dalla persistenza delle tradizionali autonomie
dell’aristocrazia lombarda e dall’azione assistenziale di un clero cattolico di grande qualità: si
registrano perfino positivi segni di sviluppo dell’agricoltura, sebbene malgoverno, prepotenze e
calamità varie provochino momenti di estrema depressione (come quello della peste del 1630-31,
descritto dal Manzoni nei Promessi Sposi).
L’apertura delle nuove vie di navigazione attraverso l’Atlantico in un primo momento
danneggia solo in parte i centri commerciali italiani: Genova ne trae anzi dei vantaggi, ponendosi
sotto la protezione spagnola e divenendo, nella seconda metà del secolo XVI, un polo finanziario
di importanza mondiale, che controlla i traffici tra la Spagna e il Nord dell’Europa e quelli con l’Italia
meridionale. Nonostante le sue strutture politiche assai deboli, Genova vive quindi un periodo di
notevole prosperità, che declinerà solo col decadere della potenza spagnola.
Venezia mantiene la funzione di centro dei traffici con l’Oriente, malgrado la nuova situazione
internazionale e i difficili rapporti con l’Impero turco, che oscillano tra scontri militari e compromessi
diplomatici e commerciali; dopo la perdita di Cipro (1570) essa contribuisce in modo determinante,
con le forze di una lega voluta dal papa Pio V, alla sconfitta dei Turchi a Lepanto (1571); lo Stato
veneziano resta comunque molto forte, grazie ai suoi domini di terraferma e alle sue strutture
oligarchiche, rivitalizzate alla fine del secolo XVI dall’azione di un gruppo di «giovani» patrizi.
Gelosa della sua autonomia e della sua tradizione di tolleranza verso le attività intellettuali,
Venezia si oppone alle ingerenze del Papato nella sua vita interna (clamorosa la vicenda
dell’interdetto di cui fu protagonista Paolo Sarpi), e tiene, in linea di massima, un orientamento
antispagnolo; peraltro nella seconda metà del secolo XVII la sua floridezza economica e la sua
autonomia politica diminuiscono.
Tra i principati indipendenti, il Granducato di Toscana vede un progressivo indebolimento della
forza commerciale e finanziaria delle sue città, nonostante esse vengano giuridicamente
equiparate a Firenze (…). Tra varie difficoltà si dibatte il Ducato degli Estensi, che perde la città di
Ferrara ed è costretto a trasferire la sua sede a Modena. Di una certa prosperità gode il Ducato di
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Mantova alla fine del secolo XVI (…). Soprattutto nella fase iniziale di questo lungo periodo si
distingue lo Stato montano e italo-francese dei duchi di Savoia, posto a cavallo delle Alpi
occidentali, tra la Val Padana e il Rodano: dopo aver subito una lunga occupazione francese
durante l’ultima fase delle guerre d’Italia, lo Stato sabaudo estende notevolmente il suo territorio
(…) e a un certo punto sembra divenire un punto di riferimento per quanti in Italia sperano in una
politica antispagnola. A partire dall’ultima fase della Guerra dei Trent’anni, la Savoia deve però
piegarsi a un ruolo subalterno sotto il controllo della vittoriosa potenza francese.
Dello Stato della Chiesa, che non è solo un organismo politico, ma anche la base territoriale della
Controriforma, parleremo nel paragrafo seguente.
Per gran parte dell’arco cronologico in questione tutta la politica degli Stati italiani gravita, in
un modo o nell’altro, nell’orbita spagnola, ma nella seconda metà del secolo XVII la Spagna, pur
mantenendo tutti i possedimenti italiani, appare minacciata da più parti: gli Stati indipendenti della
nostra penisola, che la lunga crisi ha notevolmente indebolito nelle loro strutture interne, subiscono
ormai l’egemonia della potenza francese, e dappertutto si impongono modelli culturali e di
comportamento che vengono dalla Francia. Si avvertono nel contempo i segni di una nuova
apertura civile e culturale, di cui seguiremo lo sviluppo nell’epoca successiva.
3. LA CHIESA DELLA CONTRORIFORMA
Con il Concilio di Trento (1545-63) la Chiesa di Roma fissa il programma della sua risposta
alla Riforma protestante: dopo le incertezze e gli arretramenti della prima metà del secolo XVI, il
Papato e le gerarchie ecclesiastiche si impegnano in una grande opera di ristrutturazione. Si
eliminano certe forme più evidenti di corruzione o di costume mondano della vita del clero, si
codificano rigorosamente dogmi e norme di comportamento, si impone un controllo assoluto su
ogni espressione di religiosità e su ogni momento della vita dei fedeli e si reprimono in maniera
sistematica e feroce tutte le forme di eresia.
Quest’opera, che infonde nuova vitalità alle antiche tradizioni della Chiesa, si suole
designare col termine di Controriforma, che sottolinea come essa si proponesse di arginare il
processo originato dalla Riforma protestante. (…) Per ciò che riguarda l’Italia, si può fondatamente
indicare tutta la fase storica compresa all’incirca tra il 1550 e il 1660 proprio come l’età della
Controriforma, dato il dominio incontrastato che la Chiesa esercita sulla vita sociale del paese.
Il Papato della Controriforma fa proprie, in parte, le ambizioni del Papato medievale: si
pone come monarchia religiosa, istituita da Dio non solo per trasmettere agli uomini la verità divina
ma anche per costringerli, con tutti i mezzi, ad adeguare il loro comportamento a quella verità. Il
Papato e la Chiesa non solo rivendicano la loro funzione di guida assoluta della vita religiosa, ma
guardano con sospetto ogni esperienza spirituale che si sviluppi spontaneamente, al di fuori del
loro controllo. Siamo però molto lontani dalla teocrazia medievale: ora la minaccia della Riforma,
l’eredità della cultura umanistica, i nuovi rapporti internazionali, le nuove strutture di governo
dell’assolutismo conferiscono al legame tra religione e autorità un carattere di uniformità razionale
che era ignoto alla Chiesa medievale. La Chiesa adotta, ai propri fini, tutti i metodi e le tecniche
della società moderna e tende a eliminare dal suo patrimonio di tradizioni tutto ciò che era rimasto
per secoli indefinito e lasciava spazio ad esperienze religiose innovative o imprevedibili: quanto
non può essere rigidamente controllato è ora respinto nell’ambito del proibito, che viene facilmente
identificato con l’eresia e con l’azione del demonio; si tracciano con estremo rigore i confini tra la
verità e l’errore, tra il lecito e l’illecito.
La forte attenzione che già la cultura della prima metà del secolo XVI aveva rivolto al
comportamento sociale, induce d’altra parte la Chiesa a dare sempre maggiore importanza alla
condotta esteriore, alle forme visibili della religiosità, ai riti e alle cerimonie. Anche in quest’ambito
tutto viene reso rigoroso e coerente. (…). Parallelamente si diffonde la nuova figura del devoto
cristiano, che orienta tutta la sua esistenza verso finalità religiose, e crescono il terrore del peccato
e del demonio, il severo moralismo nei costumi quotidiani, il disprezzo o l’orrore nei confronti della
corporeità, la repressione della sessualità.
Anche la complessa rete degli ordini religiosi si razionalizza per rafforzare la sua presenza
nella vita sociale: viene regolata in modo nuovo la vita monastica, si combattono le tendenze
eterodosse al suo interno, e sorgono nuovi ordini, impegnati proprio a difendere la Chiesa e i suoi
programmi. L’ordine dei Gesuiti (la Compagnia di Gesù), assume un ruolo-guida nella cultura
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ecclesiastica e religiosa; accanto a esso esercita una forte influenza, specialmente nella fase finale
del secolo XVI, quello degli oratoriani o filippini (fondato nel 1564 da san Filippo Neri).
La promozione di una più severa religiosità si accompagna strettamente alla repressione
dell’eresia: viene rilanciato il Tribunale dell’Inquisizione, riorganizzato nel 1542 come Sacra
Congregazione dell’Inquisizione romana e universale (detto Santo Uffizio), che conduce
un’accanita politica di ricerca e smascheramento degli atteggiamenti eterodossi, e provoca la
condanna al rogo di eretici veri o presunti. La persecuzione degli eretici si rivolge anche contro
ebrei ed emarginati. La persecuzione delle streghe conosce poi un’incredibile espansione in tutta
Europa, anche nei paesi protestanti. L’intolleranza del resto è comune sia alla Chiesa cattolica sia
a quelle protestanti: in ogni paese riformato si hanno infatti durissime persecuzioni contro i cattolici
e contro i riformati di tendenze diverse da quella lì dominante.
L’azione controriformistica si appoggia totalmente sulle strutture di potere istituite dal
Papato tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, sul suo sistema amministrativo,
politico, diplomatico, culturale, che distribuisce privilegi e carriere, che favorisce comportamenti di
ambizioso e spesso cinico arrivismo. (…). In questo senso i pontefici attribuiscono un ruolo sempre
più determinante alla città di Roma, immagine-scena del potere della Chiesa, polo diplomatico e
religioso internazionale (e questa valorizzazione di Roma comporta la continuazione del brutale
sfruttamento delle campagne e dei centri minori dello Stato pontificio). Magnifiche opere d’arte
nascono dal proposito di utilizzare la cultura in due direzioni conviventi e opposte: da una parte si
vuole agire sulle masse, per rafforzare la loro devozione e il rispetto dell’autorità; dall’altra si vuole
conferire un’immagine prestigiosa alla potenza materiale.
(…) La fase di maggior prestigio, di più intense iniziative culturali, artistiche, urbanistiche, di
più decisa affermazione dell’autorità di Roma anche sul piano politico, coincide con i pontificati di
Clemente VIII (1592-1605, Ippolito Aldobrandini), di Paolo V (1605-1623, Camillo Borghese) e di
Urbano VIII (1623-1644, Maffeo Barberini), che dovremo ricordare più volte in seguito. Ma la
politica ambiziosa di Urbano VIII, che promuove la sontuosa fioritura dell’arte barocca a Roma, è
minata da varie contraddizioni; e proprio in quegli anni vari fattori riducono il peso del Papato sulla
scena europea (…) e Roma si avvia a diventare una città provinciale e arretrata, ancora centro
della cultura e dello spettacolo barocco, ma tagliata fuori dai grandi eventi della storia: l’Europa si
muove verso nuovi orizzonti, anche se gli effetti della Controriforma lasciano tracce durevoli,
soprattutto sulla società e sulla cultura italiana. (…)
4. PEDAGOGIA E CONTROLLO DELLA CULTURA NELLA CONTRORIFORMA
La Controriforma attribuisce grande importanza all’educazione e all’istruzione, attraverso le
quali cerca di ottenere un consenso articolato, vasto, duraturo ai dogmi e alle norme cattoliche; ma
educazione e istruzione si organizzano secondo livelli diversi, rispecchiando i vari gradi della
gerarchia sociale e prevedendo severe distinzioni, esclusioni, discriminazioni. Grande attenzione si
presta all’educazione religiosa e ideologica del popolo e delle classi subalterne, affiancata da
iniziative assistenziali, di beneficenza e carità per i poveri: iniziative spesso generose, ma
comunque tese a controllare la marginalità sociale, ad allontanare i potenziali pericoli che essa
rappresenta. Con l’azione caritativa della Chiesa convergono gli interventi degli Stati assolutistici
volti a reprimere ogni deviazione: proprio tra Cinquecento e Seicento si diffondono in tutta Europa
le nuove istituzioni «chiuse» (ospedali, lazzaretti, ospizi, ecc.), in cui vengono internati e separati
dal resto della comunità i malati, i pazzi, i poveri, i vagabondi.
L’educazione popolare è in chiave soprattutto religiosa e mira ad estirpare le sopravvivenze
di antichi culti popolari e a diffondere le nuove forme di devozione (il culto dei santi, in primo
luogo): generalmente è un’educazione dall’alto, gestita dal clero e dalle classi dirigenti. In
opposizione al principio protestante del libero esame e della conoscenza diretta della Bibbia, si
impedisce al popolo ogni rapporto immediato e critico con i testi sacri: ogni diffusione della Bibbia
in volgare viene ostacolata. In alcuni casi i giovani più intelligenti delle famiglie del popolo vengono
ammessi a studiare nei seminari ecclesiastici e quindi avviati alla carriera sacerdotale: si ha così
un ricambio sociale delle gerarchie della Chiesa e una parziale promozione culturale delle classi
subalterne, ma solo in quanto alcuni esponenti di queste vengono assorbiti integralmente nei
sistemi della Chiesa e delle classi dominanti.
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Quando si rivolge al popolo nel suo insieme, la cultura non passa quasi mai attraverso la
scrittura, bensì attraverso la parola dei sacerdoti e dei predicatori, attraverso le arti figurative (il
clero si prende grande cura della pittura sacra, controllandone le immagini in funzione degli effetti
che esse possono suscitare), attraverso le forme di pubblico spettacolo (dalle grandi scenografie
urbane alle cerimonie e feste religiose, al teatro vero e proprio). Alle arti della scena e della visione
si riconosce un’alta capacità di persuasione, per cui la Chiesa è indotta a utilizzarle ampiamente ai
propri fini (con particolare abilità si impegnano in esse i gesuiti).
Per ciò che riguarda l’istruzione, la Chiesa si impadronisce di tutti i suoi gradi, facendo
sparire quasi completamente le scuole pubbliche laiche che nei secoli precedenti si erano diffuse
in alcuni centri comunali: si creano allora scuole di diverso grado gestite direttamente dalle
istituzioni ecclesiastiche e dagli ordini religiosi. L’alfabetizzazione resta comunque a livelli
bassissimi e sono molto rari i membri delle classi popolari che riescono a ricevere i primi rudimenti
dell’istruzione; grandissima cura è invece posta nell’istruzione dei membri della nobiltà e della
borghesia cittadina. Rigorosa è poi la formazione del clero, per la quale vengono istituiti i seminari.
(…) Una preminenza assoluta in campo educativo fu presto acquisita dai Gesuiti, che fondarono
scuole in tutta Europa per tutti i livelli dell’istruzione, organizzando in modi nuovi quella superiore: a
tale scopo crearono dei collegi, regolati da leggi rigide, che per tutto il periodo dell’educazione
scolastica tenevano gli studenti separati dal resto della vita sociale. (…). Nei collegi si
raggiungevano anche i livelli più alti di formazione, soprattutto nel campo della filosofia, della
teologia, di alcune scienze e tecniche. Le università mantenevano le loro funzioni tradizionali,
soprattutto nelle discipline della filosofia, della medicina, del diritto; ma erano sempre più
rigidamente sottoposte alle autorità ecclesiastiche, e al loro interno veniva favorita e promossa la
filosofia aristotelica e tomistica come espressione ufficiale della tradizione cattolica.
Il controllo della cultura comportava anche la violenta repressione di tutte le manifestazioni
che contraddicevano il programma controriformistico: obiettivo principale di tali scrupoli censori era
la produzione libraria, che con la diffusione della stampa veniva pericolosamente a contatto con un
pubblico molto più ampio di quello dei dotti e del clero. Si sottopose a un esame attento,
scrupoloso, continuo, tutto ciò che era stato scritto nel passato e tutto ciò che si scriveva nel
mondo contemporaneo: la data del 1559 ha un valore esemplare per definire i limiti di questa
epoca, anche perché in quell’anno venne pubblicato il primo organico Index librorum prohibitorum
(Indice dei libri proibiti), ossia l’elenco di tutti i libri la cui lettura e il cui possesso dovevano essere
considerati, in vario modo, peccaminosi (…).
L’onnipresenza della censura creò naturalmente numerose difficoltà all’editoria e costrinse
autori e stampatori a trovare nuovi e sempre più sottili modi per ingannare i censori ed eludere il
loro controllo: si elaborarono linguaggi mascherati, ambigui, ironici, ma atti a trasmettere ai lettori
messaggi sotterranei; si diffuse l’uso di dediche a personaggi illustri e rispettabili, che potevano
fungere da schermo e da protezione; si ebbero edizioni clandestine, canali alternativi di
circolazione, diffusione di testi in manoscritti (più difficilmente controllabili che non le stampe).
5. INTELLETTUALI E LUOGHI ISTITUZIONALI LAICI
Sarebbe però erroneo inscrivere la cultura italiana di quest’epoca nell’ambito della
Controriforma. La letteratura per noi più interessante si sviluppa per lo più fuori dal controllo
ecclesiastico, e numerosi sono gli intellettuali laici, appartenenti alla nobiltà o comunque legati alle
corti e alle strutture politiche e amministrative dei vari Stati laici (…).
Ancora forte è il peso culturale delle corti, anche se in Italia la loro vivacità sembra di molto
diminuita rispetto alla prima metà del Cinquecento, sia per la crescente durezza dell’assolutismo
dei principi, sia per il rigoroso controllo morale della Chiesa, sia, più tardi, per i negativi effetti della
depressione economica. Comunque, nelle corti, la posizione degli uomini di cultura che vogliano
dedicarsi soltanto alle lettere e agli studi è difficile e i principi sono poco disposti a comportarsi da
puri e disinteressati mecenati (…).
I gentiluomini di corte, d’altra parte, non sono più in grado di proporre una immagine
globale di sé, secondo il modello offerto dal Cortegiano del Castiglione: il tempo dell’assolutismo è
anche il tempo in cui all’interno delle corti le funzioni si specializzano e si affermano ruoli parziali. E
ai letterati toccano posizioni subalterne, funzioni pratiche limitate e determinate. Alla figura del
cortigiano ricco di cultura, che tratta alla pari col principe e sa dirigerne i progetti più vasti, si
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sostituisce quella del segretario, che impiega la sua penna e il suo ingegno per svolgere servizi
politici, diplomatici, amministrativi, o per organizzare i minuti rapporti quotidiani, e che vede sempre
più ridotto e circoscritto il tempo da dedicare allo studio e alla ricerca letteraria vera e propria.
La vita degli intellettuali di corte (per lo più nobili o di piccola nobiltà impoverita) è segnata da
conflitti e disagi e si consuma nella vana aspirazione a trovare corti veramente munifiche, principi
veramente liberali, disposti a riconoscere il valore della letteratura e a concederle uno spazio
adeguato (esemplari in tal senso le drammatiche vicende del Tasso). (…) Singolare è la vicenda
del Marino che, dopo varie traversie, si impone come scrittore di successo, rispettato ed esaltato
dalle corti proprio come poeta. In generale le corti favoriscono soprattutto le specializzazioni utili
nel campo dello spettacolo (…).
Ma - fenomeno nuovo - si moltiplicano le bizzarre figure degli scrittori-avventurieri, militari e
servitori di principi, che si inseriscono nel mercato librario con testi che appagano la curiosità del
pubblico per la cronaca contemporanea, che narrano sorprendenti esperienze di viaggio, incontri e
intrighi, disastri e battaglie: negli spazi lasciati aperti da una società violenta, tra guerre,
vagabondaggi, commerci, imposture, si muove, soprattutto nel Seicento, tutto un mondo di frati
sfratati, di nobili rovinati, di mercanti falliti, di soldati disertori, di ingegnosi imbroglioni, pronti a
tentare la letteratura con scritti rapidi e improvvisati, che incontrano un certo successo e paiono
continuare, in un mondo tanto mutato, il metodo dell’Aretino. A loro si aggiungono le nuove figure
degli attori girovaghi della commedia dell’arte, intellettuali che quasi rinunciano a ogni precisa
identità sociale, per affidarsi alla pura immagine scenica di attori-maschere, che si possono esibire
in tutti gli ambienti, dalle corti più fastose alle piazze più misere.
Ed esistono poi gli artisti senza radici, che non si riconoscono in nessun luogo e in nessun
ruolo e la cui vita poggia tutta sul loro talento, sulla capacità di osservare il mondo, di partecipare a
tutti i suoi aspetti, anche a quelli più «bassi», più poveri e marginali (è il caso del più grande pittore
italiano del tempo, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, 1573-1610).
Gli intellettuali hanno dunque spesso difficili rapporti con le corti e patiscono di varie forme
di sradicamento e di insicurezza sociale, ma trovano una sorta di zona protetta nelle accademie,
(…). La maggior parte di queste accademie ha prospettive culturali modeste: (…) eludendo i grandi
problemi del presente, gli intellettuali riuniti nelle accademie affrontano temi spesso futili,
impegnandosi in un esercizio tutto «chiuso» della letteratura, ridotta a codice per iniziati, che pare
avere il solo scopo di riprodurre se stesso, di sopravvivere in mezzo al vuoto. (…)
(da STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA – Dal Cinquecento al Settecento, G. FERRONI
Ed. EINAUDI, Milano 1991, pag. 169-189)
6. L’ITALIA FUORI D’ITALIA
Nella seconda metà del Cinquecento e all’inizio del Seicento la cultura italiana appare in
piena espansione internazionale. I grandi modelli elaborati all’epoca delle guerre d’Italia
raggiungono ora grande diffusione, contribuendo in modo essenziale al sorgere in tutta Europa di
nuove esperienza artistiche e letterarie. Soprattutto Francia, Inghilterra e Spagna si mostrano
ricettive alle forme italiane: dal petrarchismo alla letteratura arcadica, dalla novellistica al poema
cavalleresco, dalla commedia alla tragedia, dalla trattatistica morale alla riflessione storico-politica.
L’imitazione e la rielaborazione di modelli italiani è poi particolarmente evidente nel campo delle
arti figurative.
A ciò si aggiungono l’attività di mercanti e finanzieri italiani nelle più importanti città europee
e l’emigrazione di molti intellettuali del nostro paese nelle corti delle monarchie assolute o in
ambienti cittadini dell’Europa settentrionale. Quest’ultimo fenomeno presenta motivazioni diverse,
che vanno dal mero desiderio di far fortuna e di sottrarsi alle difficoltà in cui si dibattevano le corti
italiane, alla ricerca di ambienti e di luoghi al riparo dalla Controriforma e dal dominio spagnolo.
(…) Resta il fatto che le relazioni internazionali nei campi più diversi danno vita a un nuovo
contesto culturale europeo, a cui l’Italia partecipa a pieno titolo: le maggiori figure di intellettuali del
tempo (Bruno e Campanella, Sarpi e Galilei) operano scelte che non sarebbero concepibili senza
la rete di rapporti che essi stabiliscono con dotti e signori di tutta Europa. Rapporti di questo
genere vengono allacciati anche da poeti come Tasso e Marino, che impongono il proprio prestigio
fuori d’Italia. (…)
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Nel corso del secolo XVII la nostra cultura perde audacia e problematicità; e, dopo la
tormentata vicenda di Galilei, perde anche quel fascino che aveva sempre esercitato sul resto
d’Europa. Fuori d’Italia, e soprattutto in Francia, essa continua a imporsi quasi solo attraverso le
varie forme dello spettacolo: gli italiani diventano sempre più noti come tecnici del divertimento,
dell’intrattenimento sociale, della finzione teatrale. Musicisti, scenografi, attori e autori drammatici
circolano in tutta Europa; i nuovi generi italiani dell’opera per musica, del balletto di corte, della
commedia dell’arte suscitano dappertutto mode, varianti e imitazioni. Mantiene intatto il suo
ascendente anche la grande arte barocca (uno dei maestri del barocco romano, Gian Lorenzo
Bernini, viene ad esempio chiamato a Parigi tra il 1665 e il 1668).
Alla fine del Seicento, gli aspetti che caratterizzano l’immagine del’Italia di fronte alle culture
straniere sono da una parte il sistema religioso-ecclesiastico (con ciò che rimane del peso politico
della Chiesa romana), dall’altra l’abilità tecnica degli artisti, soprattutto di quelli che mirano a
suscitare effetti spettacolari, ultima testimonianza di un glorioso passato. Nel volgere di meno di un
secolo, il centro della cultura europea si sposta irrimediabilmente altrove.
(op. cit., pag. 203-204)
7. CONCLUSIONI SUL CINQUECENTO
Uno sguardo retrospettivo induce ad abbandonare la tradizionale immagine d’un
Cinquecento come espressione culminante della serena armonia presentita sin dal primo
Umanesimo. Questo dell’armonia, nel Rinascimento, è piuttosto un mito, una tensione ideale verso
una meta che pare sempre sfuggire quanto più ci s’illude di stringerla da vicino: un dover essere,
un presentimento, piuttosto che una conquista. Si pensi che accanto al bel sogno e al grande
«giuoco» del Furioso, ossia al perseguito equilibrio di intelligenza, di sensibilità e di grazia, sta
l’amara, lucida, demistificante meditazione del Machiavelli; che, accanto all’ideale di vita del
Cortegiano, con la sua sintesi di cortesia, di valore, di relazioni umane aristocratiche, che
congiungano all’eleganza il vigore, la capacità di costruire una realtà più autenticamente umana,
stanno i crolli repentini di tanti Stati italiani, il sacco di Roma, l’assedio di Firenze: la fine d’un
mondo. (…)
La Riforma protestante, quasi all’inizio del secolo, e, a metà, quella cattolica, le guerre
imperialistiche che sconvolgono l’Italia, in primo luogo, e il nascere violento dell’assolutismo
insieme politico e religioso potevano lasciare sussistere l’ideale dell’armonia soltanto come un bel
sogno. In realtà essi proponevano con urgenza sempre maggiore un più radicato sentimento del
limite umano, dei duri condizionamenti dell’avventura dell’uomo nel mondo e inducevano a un
approfondimento della problematica culturale ed esistenziale, fra le inquisizioni e i roghi degli
eretici.
L’età che si è qui chiamata della Controriforma è immersa in questa problematica non
nuova, ma svoltasi progressivamente nel corso del secolo e dialetticamente compresente sin
dall’inizio alle idealità umanistiche che ne avevano ispirato la civiltà. Giunge ora ad esprimersi una
generazione di scrittori nati intorno alla metà del secolo, che di esso hanno conosciuto soprattutto
un’idea di civiltà al tramonto e l’inizio d’un disinganno che si farà più acuto nel Seicento; in
letteratura, prevale un concetto di arte raffinata, nella ricerca d’un dominio dell’intelligenza e della
tecnica su una realtà che risulta sempre più arduo comprendere in una visione organica
rasserenatrice. C’è in questa età una dialettica fra la volontà d’un ossequio alle regole, che
consenta una sia pur illusoria capacità di imporre un ordine intellettuale organico alla vita, e un
senso di instabilità, di certezze che tramontano. Tutto questo in un mondo in cui si fanno sempre
più difficili, anche per il letterato, il vivere e lo scrivere, sotto le varie censure e in una realtà politica
che richiede non le libere avventure, ma la subordinazione del pensiero alla ragion di stato.
(da LETTERATURA ITALIANA – 2 Dal Rinascimento all’Illuminismo, M. PAZZAGLIA
Ed. ZANICHELLI, Bologna 1993, pag. 283-284)
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TORQUATO TASSO
1. SPLENDORE E CRISI DELLA CORTE FERRARESE.
Non si può parlare dell’opera di Tasso senza tener conto della cultura ferrarese del secolo
XVI che, raccolta attorno alla corte estense, cerca di costruire un sistema di forme letterarie volte a
suscitare un nobile «piacere» in dame, signori, cavalieri, cortigiani, funzionari. Essenziale per
questa cultura è la rivendicazione di una continuità con la precedente tradizione locale, impostasi a
livello nazionale nel primo trentennio del secolo, grazie all’Ariosto; anzi si assiste a un tentativo di
istituzionalizzare quella tradizione, trasformandola in qualcosa di duraturo, in opposizione alle
tendenze normative e moralistiche che prevalgono nell’Italia della Controriforma.
La corte estense presenta ancora forti caratteri «laici», e la cultura che essa promuove è
ricca di curiosità e di aperture. Essa tiene conto dei modelli classicistici nazionali, ma resta animata
da un gusto tutto particolare per il romanzesco, le forme edonistiche e fantastiche, l’avventura, lo
spettacolo. La corte ama dilettarsi con immagini di pura evasione, in cui la vita quotidiana si esalti
in forme leggere e perfette: tende a scenografie splendenti dove trionfino le «armi» e gli «amori»,
l’eroismo militare e cavalleresco, come l’erotismo più languido ed estenuato.
Sotto i duchi Ercole II (1534-1559) e Alfonso II (1559-1597) Ferrara si propone di
confermare e difendere la propria caratteristica di centro produttore di una cultura cortigiana
piacevole ed edonistica: per questo offre spazio a intellettuali di corte che si presentano come
professionisti, creatori di forme di consumo per un pubblico aristocratico. Questa produzione
comporta anche un confronto insistito con la letteratura classica, con le discussioni sui generi
letterari che intorno alla metà del secolo imperversano in tutta Italia (…).
L’ambiente letterario ferrarese partecipa intensamente ai dibattiti e agli esperimenti sul
poema eroico (difendendo il modello «romanzesco» rappresentato dall‘Orlando furioso), sulla
tragedia e sulla favola pastorale. Molto vivace è l’attività musicale, specie per ciò che riguarda i
madrigali. Si organizzano nuovi tipi di feste, sfruttando scenografie naturali (l’isoletta di Belvedere,
sul Po, viene adibita a luogo di delizie, giardino spettacolare) oppure giocando su atmosfere militari
e cavalleresche (negli anni Sessanta si diffonde l’uso di elaboratissimi tornei, chiamati cavallerie).
Rappresentante esemplare della cultura ferrarese fu GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINZIO (15041573), suprema autorità letteraria sotto il ducato di Ercole II, studioso ed erudito molto attento alle
discussioni sulla poetica aristotelica. Egli cercò di conciliare le proprie convinzioni teoriche con le
esigenze del pubblico cortigiano e si impegnò come autore in generi letterari diversi, spaziando
dalla tragedia (una delle più importanti tragedie del Cinquecento è la sua Orbecche,) al poema
cavalleresco, alla novella, a generi intermedi che egli definì con i termini di tragicommedia e di
satira atta alle scene. (…).
Ma la vita culturale ferrarese, che costituisce lo sfondo necessario per comprendere le
opere di Tasso e di Guarini, era minacciata da varie difficoltà politiche e dinastiche. (…)
Con la morte di Alfonso II (1597), la città e il territorio di Ferrara passarono sotto la diretta
giurisdizione dello Stato della Chiesa. Aveva così bruscamente termine una brillante vita cittadina,
laica e cortigiana, mentre al più vicino erede di Alfonso, Cesare d’Este, rimase il titolo di duca di
Modena e Reggio. La corte si trasferì a Modena, dove, pur tra tante nostalgie per lo splendore del
passato, si svilupparono alcune esperienze importanti per la letteratura del secolo XVII (si possono
ricordare i nomi di Tassoni e di Testi).
(da STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA – Dal Cinquecento al Settecento, G. FERRONI
Ed. EINAUDI, Milano 1991, pag. 205-206)
2. LA GERUSALEMME LIBERATA
Tasso iniziò a scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme nel 1559, durante il soggiorno a
Venezia e la concluse nel 1575. L'opera fu pubblicata integralmente nel 1581 con il titolo di
Gerusalemme liberata. In seguito il poeta vi rimise mano, eliminando tutte le scene amorose e
accentuando il tono religioso ed epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme
Conquistata: in realtà la Conquistata fu subito dimenticata e la redazione che continuò ad avere
grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri, fu la Liberata.
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Trama
Siamo nel sesto anno di guerra. Goffredo di Buglione, per ispirazione divina, raduna i
Crociati, dispersi dietro egoistiche ambizioni e dimentichi ormai dell’alta impresa, e riaccende nei
loro cuori l’ardore religioso e guerriero: viene perciò acclamato comandante supremo e guida i
cavalieri cristiani a stringere d'assedio Gerusalemme.
Da questo momento si susseguono le varie fasi del conflitto. La città è strenuamente difesa dal re
Aladino e dagli eroi musulmani Clorinda, Argante, Solimano; mentre fra i cristiani si distinguono per
il loro valore Tancredi e Rinaldo, capostipite della Casa d’Este.
Alla lotta partecipano le forze celesti e quelle infernali: i demoni, per aiutare i musulmani,
seminano tra i Crociati discordie e suggestioni peccaminose, per distoglierli dal nobile fine
religioso. A rendere ancor più difficile la loro condizione, sopraggiunge una tremenda siccità e,
cosa ancor più grave, un incantesimo operato dal mago Ismeno su una selva, i cui alberi
servirebbero per fabbricare la macchine da guerra necessarie per espugnare la città.
Diventa dunque decisivo l’intervento di Rinaldo: costui, liberato dalla maga Armida, che lo
aveva affascinato ispirandogli una passione sensuale, dopo essersi confessato e purificato,
scioglie l’incantesimo della selva. I Crociati possono così sferrare l’attacco decisivo contro la città e
distruggono contemporaneamente un forte esercito egiziano venuto in soccorso dei musulmani,
liberando il Sepolcro di Cristo.
Alla struttura epica, relativamente lineare, si intrecciano le grandi storie d’amore, ora tenere
e sognanti (l’amore di Erminia per Tancredi), ora patetiche e tragiche (l’amore di Tancredi per
Clorinda), ora marcatamente sensuali (gli amori di Armida e Rinaldo). La tematica sentimentale si
contrappone e si intreccia così a quella epica, dando origine a varie peripezie, rese ancor più
accattivanti dall’elemento fantastico, e creando una perfetta sintesi tra epopea e romanzo.
(liberamente tratto da Pazzaglia, op. cit.)
3. IL SISTEMA DELLE FORZE E DEI PERSONAGGI DEL POEMA
Protagonista collettivo del poema è l’esercito crociato (sostenuto dagli interventi divini) che
rappresenta i valori con cui l’autore e il suo pubblico esplicitamente si identificano. Quanto ai
pagani, si distinguono tra coloro che vengono presi d’assedio a Gerusalemme e coloro che
agiscono altrove: ne risulta un insieme eterogeneo di popoli e personaggi i quali incarnano tutto ciò
che è barbaro e lontano dai valori morali e civili; essi possono contare sull’aiuto delle forze
infernali, ma solo finché Dio non impedisce loro di agire. Contrapponendo il mondo cristiano a
quello pagano, Tasso procede con notevole schematismo ideologico, che esclude quei momenti di
solidarietà e di alleanza tra lo schieramento cristiano e quello saraceno, frequenti nella poesia
cavalleresca italiana fino ad Ariosto.
Il campo del bene e il campo del male sono insomma irrevocabilmente separati. In
entrambi, però, risaltano alcuni personaggi che raggiungono una autonomia ignota alla tradizione
cavalleresca: la grande vicenda collettiva viene qui a incarnarsi in intense esperienze individuali
che ne complicano i significati, ne arricchiscono le sfumature, vi inseriscono risvolti segreti e
inquietanti, capaci di mettere in dubbio la stessa rigida distinzione tra bene e male. Gli eroi
dell’epica antica - che pure Tasso tiene molto presenti - si trasformano in personaggi travagliati da
incertezze e contraddizioni. Essi non si distinguono dalle masse solo per il loro smisurato valore,
ma anche per le loro qualità psicologiche, la loro inquietudine e problematicità. Benché tra loro
diversi, sono legati gli uni agli altri da corrispondenze che sembrano tradurre le diverse facce
dell’io del poeta, dando corpo ai suoi vari desideri e fantasmi. Ognuno dei grandi personaggi della
Liberata contiene insomma elementi autobiografici, ma immersi in intensi sviluppi narrativi.
Tra gli eroi cristiani spiccano il capitano Goffredo e due giovani di origine italiana, Rinaldo e
Tancredi. Meno suggestivo è il primo, ispirato in gran parte dall’Enea virgiliano, e caratterizzato da
atteggiamenti morali e religiosi che ne fanno un esemplare eroe controriformistico. In lui (che ha il
compito di dare omogeneità all’azione dei Crociati) Tasso esprime un’istanza di ordine, che
corrisponde al modello di «unità» che egli cerca di realizzare nel poema; tuttavia il rigore di
Goffredo è spesso insidiato dal dubbio, dalla difficoltà di prendere rapide decisioni e di tenere unito
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un esercito composito come quello cristiano. Il comportamento eroico e religioso di Goffredo non
appare così del tutto semplice e lineare, ma contrastato e drammatico.
Rinaldo, la cui partecipazione è essenziale per la riuscita dell’impresa, rappresenta invece
l’eroismo allo stato puro, la giovinezza tutta rivolta all’azione fisica, la decisa volontà di
affermazione (lo muovono «d’onor brame immoderate ardenti»). È un eroe «solare», che viene
momentaneamente traviato non da un ripiegarsi su di sé, ma dalla sua disponibilità e audacia.
Dopo essersi liberato della magia erotica di Armida, trova con facilità la via della purificazione, che
gli permette di distruggere la selva infernale. In lui si concentrano gli aspetti più squillanti e
«positivi» della tradizione cavalleresca che Tasso aveva già vagheggiato nel giovanile Rinaldo (del
cui protagonista questo eroe ripete non casualmente il nome).
Figura «malinconica» e notturna è invece Tancredi, chiuso in un dramma interiore generato
dall’amore per la guerriera pagana Clorinda. È questo amore a separarlo dall’esercito cristiano, a
provocare in lui distrazioni e atti mancati. Tancredi si rende protagonista di un «errore»
sconvolgente, quando, dopo un lungo duello, uccide proprio l’amata Clorinda, scoprendone
l’identità solo nel momento in cui la donna, in punto di morte, gli chiede di essere battezzata.
Turbato dai propri fantasmi, Tancredi non riesce a vincere i malefici della selva, e anche il suo
contributo alla battaglia finale per la presa di Gerusalemme si risolve in un’impresa tutta
individuale: il duello con Argante, che si svolge in un luogo appartato, lontano dalla scena
principale. In Tancredi resiste l’immagine «cortese» dell’eroe vittima di una malattia d’amore
immedicabile; ma quell’immagine si complica di più sottili sfumature, tanto che il personaggio può
apparire quasi come un primo esempio di eroe romantico.
Quanto agli eroi pagani, Tasso li fissa in immagini di forza rovinosa, priva di prospettive
morali e razionali. Essi rimandano all’eroismo più elementare e cieco della tradizione cavalleresca,
condannato alla sconfitta per il suo carattere «barbarico». Su tutti emergono le due figure di
Argante e di Solimano, la cui forza smisurata vuole affascinare e insieme turbare il lettore: nella
loro azione si insinua una vena di tragica malinconia, che si connette all’attesa di una fine
irrimediabile, quasi nel desiderio di dissolvere insieme a se stessi il proprio mondo e la propria
civiltà.
Un posto particolare spetta alle eroine pagane, che hanno la funzione - per cosi dire
ideologica - di distogliere gli eroi cristiani dai loro obiettivi, ma che si impongono come immagini di
affascinante femminilità, tanto lontane da quelle consuete della tradizione romanzesca.
Con Clorinda, Armida ed Erminia, Tasso crea tre figure che corrispondono ad altrettante proiezioni
sociali e individuali della donna. Clorinda si ricollega alla figura della donna-guerriera, ma presenta
un lato segreto e inafferrabile (complicato dalla storia delle sue origini cristiane e dalla richiesta di
battesimo in punto di morte). Il suo fascino sta nel mostrarsi e nel ritrarsi, nel non potersi rivelare in
quanto donna se non dileguandosi e cancellandosi.
Quella di Armida, la maga allettatrice che travia con la sua bellezza i cavalieri cristiani, è invece
un’esplicita immagine erotica, esprime una sontuosa fascinazione teatrale e segna il trionfo della
sensualità, in un mondo di apparenze e di sinuosi splendori. Innamoratasi del prigioniero Rinaldo e
da lui abbandonata, essa cerca un’improbabile vendetta amorosa, fino a trasformarsi, nel finale, in
una debole e remissiva fanciulla, che Rinaldo accetta come sposa.
Erminia, all’opposto, è una bellezza tutta raccolta in se stessa, che sempre sceglie di mettersi da
parte e nascondersi: il suo amore inconfessato per Tancredi si nutre a lungo di ricordi, attese,
esitazioni, paure, aspira ad annullarsi in una comunicazione dolce e spontanea, al di là di ogni
conflitto, estranea alle schermaglie e alle lotte con cui l’amore è solito affermarsi nella vita sociale.
Il suo desiderio più profondo - realizzato nel finale - è quello tutto materno di assistere, proteggere
e consolare l’eroe ferito.
(da STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA – Dal Cinquecento al Settecento, G. FERRONI
Ed. EINAUDI, Milano 1991, pag. 227-232)
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NOTE BIOGRAFICHE ESSENZIALI
GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINZIO (1504-1573)
1504 – Gianbattista Giraldi detto Cinzio nasce a Ferrara, dove studia medicina e filosofia.
1530 – consegue il dottorato in arti speziali e mediche.
1531 – è chiamato a ricoprire la cattedra di dialettica all’Università di Ferrara.
1541 – viene chiamato alla corte degli Este come precettore e insegnante di materie umanistiche
del giovane Alfonso d’Este, figlio del Duca Ercole II.
1547 – è nominato segretario del Duca, per il quale allestisce sfarzosi spettacoli teatrali, feste e
banchetti, come aveva già fatto l’Ariosto una ventina di anni prima.
1547-63 – viaggia e compie delicate missioni diplomatiche a Torino, a Firenze e a Venezia,
alternando l’attività diplomatica a quella di letterato e di tragediografo.
1561 – con la salita al trono estense del Duca Alfonso II, Giraldi si dimette dal suo prestigioso
incarico e torna alla sua poco amata attività di medico.
1563 – lascia Ferrara prima per Torino, dove soggiorna alla corte dei Savoia, poi per Pavia.
1571 – torna nella città natale, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita gravemente malato,
finché la morte non lo coglie nel dicembre del 1573.
GIORDANO BRUNO (1548-1600)
1548 – Filippo Bruno nasce a Nola, presso Napoli, da una famiglia di modeste condizioni.
1562 – compiuti i primi studi a Nola, si trasferisce a Napoli, dove frequenta l’università.
1565 – entra nell’ordine domenicano con il nome di Giordano, distinguendosi subito per la forte
personalità e lo spirito polemico; percorre però rapidamente i gradi della carriera ecclesiastica.
1576 – accusato di aver letto libri proibiti (Erasmo), fugge da Napoli e abbandona l’abito.
1577-78 – passa di città in città, da Noli a Savona, Torino, Venezia, Padova; Bergamo, Brescia,
fino a Ginevra, capitale del calvinismo, al quale aderisce formalmente; ma l’anno seguente è
arrestato e processato per diffamazione; lascia dunque la città.
1581 – è a Parigi dove tiene lezioni sulla filosofia tomista, sostenuto dal re Enrico III.
1583 – si reca a Londra, dove frequenta la corte elisabettiana e pubblica diverse opere. Entrato in
polemica e in conflitto con personalità universitarie oxfordiane, lascia l’Inghilterra.
1586 – ramingo per l’Europa, giunge a Wittemberg, in Germania, dove elogia Lutero.
1591 – torna in Italia, con grave rischio, invitato a Venezia dal nobile Mocenigo, che lo consegnerà
poi al tribunale dell’Inquisizione; due anni dopo il processo viene trasferito al S. Uffizio a Roma.
1600 – dopo sei anni si giunge alla sentenza, che condanna Bruno al rogo come eretico.
TORQUATO TASSO (1544-1595)
1544 – nasce a Sorrento, da un gentiluomo letterato, in servizio presso il principe di Salerno.
1554/57 – iniziati gli studi a Napoli, segue il padre a Roma, poi a Bergamo e a Urbino.
1560 – è a Padova, dove studia eloquenza; sarà poi ammesso all’Accademia degli Eterei.
1565 – è a Ferrara al servizio del cardinale Luigi d’Este, che seguirà in Francia, dopo la morte del
padre (1570). Riprende il progetto di un poema sulla prima Crociata.
1572 – passa al servizio del duca Alfonso II; qualche tempo dopo si manifestano i primi segni del
suo squilibrio mentale.
1577 – si autoaccusa al Tribunale dell’Inquisizione, che lo assolve. Invitato dal duca a ritirarsi in
convento, fugge per qualche tempo da Ferrara.
1579/86 – tornato a Ferrara, viene rinchiuso per sette anni nell’ospedale Sant’Anna; in questi anni
viene pubblicata la prima edizione integrale della Gerusalemme liberata, assieme ad altre opere.
1586 – liberato dal duca di Ferrara, si reca a Mantova dai Gonzaga, poi a Roma
1588 – è a Napoli, ospite del monastero di Monte Oliveto; quindi a Roma da Scipione Gonzaga.
1594 – Clemente VIII gli accorda una pensione e gli promette l’incoronazione poetica.
1595 – muore nel convento romano di Sant’Onofrio, il 25 aprile.
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ERASMO DA ROTTERDAM (1469-1536)
1469 – nasce a Rotterdam Geert Geertsz, umanista e teologo, conosciuto con lo pseudonimo di
Desiderius Erasmus; è associato a Rotterdam, ma vi trascorre solo gli anni della prima infanzia.
1483 – rimasto orfano, riceve tuttavia un’ottima educazione e formazione culturale.
1492 – viene ordinato sacerdote, ma chiederà in seguito di essere dispensato dagli uffici sacri.
1499-1509 – viaggia in Francia, Inghilterra, Italia, frequentando centri culturali e studiando antichi
manoscritti; amico del re Enrico VIII e di Thomas Moore; insegna greco a Cambridge.
1514 – torna a Basilea, dove cura la pubblicazione del testo del Nuovo Testamento, nella versione
greca e latina da lui redatta con l'aggiunta dei suoi commenti.
1519 – dopo l’affissione delle “tesi” luterane a Wittemberg, Erasmo, pur condividendo molti aspetti
delle critiche di Lutero, rifiuta una collaborazione diretta con lui.
1529 – lascia Basilea, che adotta le dottrine della riforma luterana, e si trasferisce a Friburgo.
1536 – muore a Basilea, dove era temporaneamente tornato.
FRANÇOIS RABELAIS (1494-1553)
1494 – François Rabelais nasce a Chinon en Touraine e riceve una formazione teologica.
1520 – diventa frate verso; manifesta molto presto una curiosità di tipo umanistico, si interessa agli
autori antichi e più tardi corrisponde con altri umanisti celebri.
1523 – a seguito dei commenti di Erasmo sul testo greco dei Vangeli, la Sorbona tenta di impedire
lo studio del greco. Rabelais cambia ordine religioso e diventa benedettino, ma non si piega
facilmente alle regole monastiche
1528 – abbandona l'abito per frequentare l'università. Va a Parigi, dove comincia gli studi di
medicina e avrà due figli nati dalla relazione con una vedova.
1532 – si trasferisce a Lione, grande centro culturale dove fiorisce il commercio dei libri e dove
pubblica Pantagruel.
1534 – pubblica Gargantua. Il papa lo assolve dai crimini di apostasia e irregolarità.
1547 – ritorna a Parigi come medico del cardinale du Bellay che accompagna nei suoi viaggi.
1550 – ottiene dal re un privilegio di edizione per tutte le sue opere, con l'interdizione a chiunque di
stamparle o modificarle senza il suo consenso.
1553 – Muore a Parigi.
WILLIAM SHAKESPEARE (1564-1616)
1564 – William Shakespeare nasce a Stratford-upon-Avon. Ebbe una formazione classica.
1582 – sposò Anne Hathaway, dalla quale avrà tre figli.
1582-95 – inizia la sua carriera teatrale, unendosi a una delle tante compagnie che visitavano
Stratford annualmente, e ottiene i primi successi.
1593-94 – a causa di una epidemia di peste, i teatri inglesi rimasero chiusi; alla riapertura
Shakespeare fonda una propria compagnia teatrale
1596 – muore il suo unico figlio maschio; nello stesso anno la famiglia si fregia di uno stemma.
1597 – compra una residenza a Stratford, acquisto che testimonia il notevole guadagno ottenuto
con l’attività teatrale.
1603 – dopo la morte di Elisabetta I, il nuovo re Giacomo I, adotta la compagnia, che si fregiò così
del titolo di The King's Men ("Gli uomini del re"), nella quale Shakespeare ricoprì il ruolo di
amministratore, oltre a quelli di drammaturgo e attore.
1611 – si ritirò nella sua città natale, Stratford.
1613 – acquista una casa a Londra e sembra che non produsse più drammi.
1616 – il 25 marzo Shakespeare fa testamento; muore il 23 aprile dello stesso anno. John Ward,
un vicario di Stratford, mezzo secolo dopo raccontò che William, dopo aver passato una serata, in
cui bevve molto alcol, morì di una febbre contratta in quell'occasione.
13
TESTI
14
GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINZIO
ORBECCHE
(1541)
ARGOMENTO – Orbecche figliuola di Sulmone Re di Persia, essendo fanciulla, fanciullescamente
diede indizio al padre che Selina sua mogliera e madre di lei si giaccia col suo primogenito.
Sulmone, trovatigli 'nsieme, gli uccise. Dopo alcuni anni Orbecche, senza che 'l padre ne sapesse
nulla, prese per marito un giovane d'Armenia, detto Oronte. Intanto volendola maritare Sulmone a
un Re de' Parti, si scuopre l'occulto maritaggio e che sono nati d'essi due figli. Sulmone finge
essere di ciò contento e dopo uccide Oronte et i figliuoli. Poi colla testa e colle mani del marito ne
fa dono alla figliuola la quale, vinta dallo sdegno e dal dolore, uccide il padre e dopo se stessa.
Atto IV, Scena Prima
[In questa scena il Messo riferisce al Coro delle donne persiane le atrocità di cui è stato testimone,
cioè l’uccisione, da parte del re Sulmone, di Oronte e dei suoi figlioletti, ndr]
Messo
Giace nel fondo di quest’alta torre,
in parte sì solinga e sì riposta,
che non vi giunge mai raggio di sole,
un luogo dedicato a’ sacrificii
che soglion farsi da’ re nostri a l’ombre,
a Proserpina irata, al fier Plutone;
ove non pur la tenebrosa notte,
ma il più orribil orrore ha la sua sede.
Quivi Sulmon fatt’ha condurre Oronte,
(Oronte miser, che pensava omai
che fosser giunti al fin gli affanni suoi)
da due, che d’improviso l’avean preso,
mentre egli ragionando il tenea a bada.
E venuto il re poi ne l’alta torre,
co le sue proprie mani il prese e disse:
«Ti voglio far mio successor del regno
Oronte, in questo luoco». E questo detto,
pigliar gli fe’ le braccia a que’ malvagi,
ch’ivi l’avean condotto, e ambo le mani
gli fe’ por sopra un ceppo, e da le braccia
levogliele il crudele in due gran colpi,
con un grave coltello. E dopo, alquanto
trattosi a dietro, prese in man le mani,
le porse a Oronte, lui dicendo: «Questo
è lo scettro che t’offro, a questo modo
ti vo’ far re. Come ne sei contento?
Fa ch’io lo sappia». Oronte allor rivolto
verso lui disse: «Ahi traditore, è questa
la fè ch’astretta m’hai? È questo quello,
che da tua parte mi narrò Malecche?
Ma segui, empio tiranno, eccoti il collo,
percotilo, malvagio, eccoti il petto,
aprilo col tagliente empio coltello,
che d’altra mai che d’una real mano
(se sì spietata dir real si deve)
morir non devea Oronte. Ma se ’n cielo
regna pietà, se Dio l’umane cose
mira con occhio giusto, aspra vendetta
t’aspetta, traditore». A queste voci
sorrise quel crudel, come chi cosa
oda, che scherna, o che si prenda a gioco.
E senza altro più dir, ambedue i figli,
che fatti avea condur prima d’Oronte
nel luoco oscuro e in disparte porre,
prese per mano. I quai, semplici, a l’avo
facevan festa, come che far vezzo
volesse loro il micidiale iniquo.
Ma vider ben, non passò molto tempo,
il lor error, perch’egli, preso il primo,
cui poco giovò aver de l’avo il nome,
nudolli il petto, e prese a lui le mani
dietro gliele legò. Poi tra le gambe
postosi il fanciullo, che pur chiedeva,
come meglio sapea, mercè e pietade,
quasi agnello innocente, col coltello
crudelmente svenollo, e così morto
lo gettò a’ piè del miserello Oronte.
(…)
_______________
15
GIORDANO BRUNO
DE L’INFINITO UNIVERSO E MONDI
(1584)
Io tengo un infinito universo, cioè effetto della infinita divina potenzia, perché io stimavo cosa
indegna della divina bontà e potenzia che, possendo produr oltra questo mondo un altro ed altri
infiniti, producesse un mondo finito. Sì che io ho dichiarato infiniti mondi particolari simili a questo
della Terra; la quale con Pittagora intendo uno astro, simile al quale è la Luna, altri pianeti ed altre
stelle, le qual sono infinite; e che tutti questi corpi sono mondi e senza numero, li quali
costituiscono poi la università infinita in un spazio infinito; e questo se chiama universo infinito, nel
quale sono mondi innumerabili (…). Di più, in questo universo metto una providenza universal, in
virtù della quale ogni cosa vive, vegeta e si move e sta nella sua perfezione; e la intendo in due
maniere, l’una nel modo con cui è presente l’anima nel corpo, tutta in tutto e tutta in qual si voglia
parte, e questo chiamo natura, ombra e vestigio della divinità; l’altra nel modo ineffabile col quale
Iddio per essenzia, presenzia e potenzia è in tutto e sopra tutto, non come parte, non come anima,
ma in modo inesplicabile.
LA CENA DELLE CENERI
(1584)
Pure, di nuovo gli confirmava, che l’universo è infinito; e che quello costa d’una inmensa eterea
reggione; è veramente un cielo, il quale è detto spacio e seno, in cui sono tanti astri, che hanno
fissione in quello, non altrimenti che la terra: e cossì la luna, il sole ed altri corpi innumerabili sono
in questa eterea reggione, come veggiamo essere la terra; (…).
Questi sono gli grandi animali, de’ quali molti con lor chiaro lume, che da’ lor corpi diffondeno, ne
sono di ogni contorno sensibili. De’ quali altri sono effettualmente caldi, come il sole ed altri
innumerabili fuochi; altri son freddi, come la terra, la luna, Venere ed altre terre innumerabili.
Questi, per comunicar l’uno all’altro, e participar l’un da l’altro il principio vitale, a certi spacii, con
certe distanze, gli uni compiscono gli lor giri circa gli altri, come è manifesto in questi sette, che
versano circa il sole; de’ quali la terra è uno, che, movendosi circa il spacio di 24 ore dal lato
chiamato occidente verso l’oriente, caggiona l’apparenza di questo moto de l’universo circa quella,
che è detto moto mundano e diurno. La quale imaginazione è falsissima, contra natura ed
impossibile: essendo che sii possibile, conveniente, vero e necessario, che la terra si muova circa
il proprio centro, per participar la luce e tenebre, giorno e notte, caldo e freddo; circa il sole per la
participazione de la primavera, estade, autunno, inverno; verso i chiamati poli ed oppositi punti
emisferici, per la rinnovazione di secoli e cambiamento del suo volto (…).
DE GL’HEROICI FURORI
(1585)
Bench’a tanti martir mi fai suggetto,
pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore,
che con sì nobil piaga apriste il petto,
e tal impadroniste del mio core,
per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto,
de Dio più bella imago ’n terra adore;
pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio,
ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio.
Pascomi in alta impresa;
e bench’il fin bramato non consegua,
e ’n tanto studio l’alma si dilegua,
basta che sia sì nobilment’ accesa:
basta ch’alto mi tolsi,
e da l’ignobil numero mi sciolsi.
16
ERASMO DA ROTTERDAM
ELOGIO DELLA FOLLIA
(1509)
 Comunque di me parlino i mortali comunemente (e non ignoro quanta cattiva fama abbia la Follia
fra i più folli) tuttavia io, io sola, dico, ecco ho il dono di rallegrare gli Dèi e gli uomini. Non appena
mi sono presentata per parlare a questa numerosa assemblea, di colpo tutti i volti si sono illuminati
di non so quale insolita ilarità. (…) Eppure, in tanti secoli, non si è trovato nessuno che desse voce
alla gratitudine con un discorso in lode della Follia (…). E che cos'è poi questa vita? e se le togli il
piacere, si può ancora chiamarla vita? Avete applaudito! Lo sapevo bene, io, che nessuno di voi
era così saggio, anzi così folle - no, è meglio dire saggio - da non andare d'accordo con me.
 (…) E, tanto per cominciare, chi non sa che la prima età dell'uomo è per tutti di gran lunga la più
lieta e gradevole? ma che cosa hanno i bambini per indurci a baciarli, ad abbracciarli, a
vezzeggiarli tanto? Che cosa, se non la grazia che viene dalla mancanza di senno (…). Ma di
dove, di grazia, questa benevolenza per la gioventù? di dove, se non da me? E' per merito mio che
i giovani sono così privi di senno; è per questo che sono sempre di buon umore. Mentirei, tuttavia,
se non ammettessi che appena sono un po' cresciuti, e con l'esperienza e l'educazione
cominciano ad acquistare una certa maturità (…) si allontanano da me, finché non sopraggiunge la
gravosa vecchiaia, la molesta vecchiaia, odiosa non solo agli altri, ma anche a se stessa. Nessuno
dei mortali riuscirebbe a sopportarla se, ancora una volta, impietosita da tanto soffrire non venissi
in aiuto io, e, a quel modo che gli Dèi della fiaba di solito soccorrono con qualche metamorfosi chi
è sul punto di perire, anch'io, per quanto è possibile, non riportassi all'infanzia quanti sono prossimi
alla tomba, onde il volgo, non senza fondamento, usa chiamarli rimbambiti. (…)
 (…) Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, e vivessero sempre sotto
la mia insegna, la vecchiaia neppure ci sarebbe, e godrebbero felici di un'eterna giovinezza. Non vi
accorgete che gli uomini austeri, dediti a studi filosofici, o impegnati in faccende serie e difficili, in
genere sono già vecchi prima di essere stati davvero giovani (…)? Al contrario, i miei bei matti
sono tutti grassottelli, lustri, senza una ruga, immuni, per certo, da qualunque disturbo senile (…).
 (…) osservate con quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano, ebbe cura di
spargere dappertutto un pizzico di follia. Se, infatti, secondo la definizione stoica, la saggezza
consiste solo nel farsi guidare dalla ragione, mentre, al contrario, la follia consiste nel farsi
trascinare dalle passioni, perché la vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica
severità, Giove infuse nell'uomo molta più passione che ragione (…)
 (…) Tuttavia, poiché l'uomo, nato per far fronte agli affari, doveva ricevere in dote un po' più di
un'oncia di ragione, Giove, per provvedere debitamente [affiancò] all'uomo la donna, animale, sì,
stolto e sciocco, ma deliziosamente spassoso, che nella convivenza addolcisce con un pizzico di
follia la malinconica gravità del temperamento maschile. (…) Le donne, infatti, se ponderassero
bene la questione, anche questo dovrebbero considerare come un dono della Follia: il fatto di
essere, sotto molti aspetti, più fortunate degli uomini. In primo luogo hanno il dono della bellezza,
che giustamente mettono al disopra di tutto, contando su di essa per tiranneggiare gli stessi tiranni.
(…) Ma che altro desiderano poi in questa vita, se non piacere agli uomini quanto più è possibile?
Non mirano forse a questo, tante cure, belletti, bagni, acconciature, unguenti, profumi (…)? (…) E
il diletto da nient'altro viene se non dalla loro follia. Che questo sia vero non si può negare solo che
si pensi a tutte le sciocchezze che un uomo dice quando parla con una donna, a tutte le
stupidaggini che fa ogni volta che si mette in testa di ottenerne i favori.
 (…) Se uno tentasse di strappare la maschera agli attori che sulla scena rappresentano un
dramma, mostrando agli spettatori la loro autentica faccia, forse che costui non rovinerebbe lo
spettacolo (…)? Di colpo tutto muterebbe aspetto: al posto di una donna un uomo; al posto di un
giovane, un vecchio; chi prima era un re, d'improvviso diventa uno schiavo; chi era un Dio, ad un
tratto appare un uomo da nulla. Dissipare l'illusione significa togliere senso all'intero dramma. A
tenere avvinti gli sguardi degli spettatori è proprio la finzione, il trucco. L'intera vita umana non è
altro che uno spettacolo in cui, chi con una maschera, chi con un'altra, ognuno recita la propria
parte finché, ad un cenno del capocomico, abbandona la scena. Costui, tuttavia, spesso lo fa
recitare in parti diverse, in modo che chi prima si presentava come un re ammantato di porpora,
compare poi nei cenci di un povero schiavo. Certo, sono tutte cose immaginarie; ma la commedia
umana non consente altro svolgimento.
17
FRANÇOIS RABELAIS
GARGANTUA E P ANTAGRUEL
(1532)
Lettera di Gargantua al figlio Pantagruel
«Carissimo figlio, tra i doni, grazie e prerogative onde il sovrano plasmatore Iddio onnipotente
ha dotato e ornato l’umana natura fin dal principio, singolare ed eccellente sugli altri mi sembra
quello grazie al quale l’uomo può durante la vita mortale acquistare una sorta d’immortalità e nel
corso della vita transitoria perpetuare il nome suo e il suo seme. Il che noi compiamo per mezzo di
coloro che nascono da noi in matrimonio legittimo. (…) Non dunque senza giusta e ragionevole
causa rendo grazia a Dio, mio salvatore, per avermi concesso di poter vedere la mia canuta
vecchiezza rifiorire nella tua giovinezza. E quando per volere di lui, che tutto regge e governa, la
mia anima lascerà questa umana dimora, non mi sembrerà di morire totalmente, ma di passare da
un luogo all’altro, poiché in te e per te io resto nella mia immagine visibile in questo mondo (…).
(…) Il [mio] tempo non era tanto propizio alle lettere e comodo come ora, e non avevo copia di
precettori tali quali tu hai havuto. Il tempo era ancora tenebroso e sentiva l’influsso malefico e
calamitoso dei Goti che avevano distrutto ogni buona letteratura. Ora tutte le discipline sono
rifiorenti, le lingue restaurate: la greca senza la quale sarebbe onta chiamarsi sapiente, l’ebraica, la
caldea, la latina. Sono in uso stampe elegantissime e corrette, inventate al tempo mio per
ispirazione divina come, per contro, l’artiglieria per ispirazione diabolica. Tutto il mondo è pieno di
persone sapienti, di precettori dottissimi, di ben provveduti librai, e parmi che nemmeno al tempo di
Platone o di Cicerone o di Papiniano fosse tanta comodità di studio quanta ora si vede. (…)
Intendo e voglio che tu apprenda le lingue perfettamente. Anzitutto la greca, come vuole
Quintiliano: in secondo luogo la latina, poi l’ebraica per le sante scritture, e parimente la caldea e
l’arabica; quanto alla greca, forma il tuo stile a imitazione di Platone, quanto alla latina di Cicerone:
e non vi sia storia che tu non abbia sempre presente alla memoria (…). Delle arti liberali:
geometria, aritmetica e musica; qualche elemento ti fornii io stesso quando eri ancora bimbo di
cinque o sei anni: prosegui avanti e sappi tutti i canoni dell’astronomia. Lascia stare l’astrologia
divinatrice come inganno e vanità. Del diritto civile voglio tu sappia a memoria i bei testi e me li
illustri con argomenti filosofici. (…) Poi leggi accuratamente i libri dei medici greci, arabi, latini,
senza trascurare i talmudici e cabalisti; e con frequenti anatomie acquista perfetta conoscenza di
quell’altro mondo che è l’uomo. Durante qualche ora del giorno comincia a compulsare le sacre
scritture. (…) Insomma che io veda un abisso di scienza (…).
WILLIAM SHAKESPEARE
MACBETH
(1506-08)
La disfatta di Macbeth
(Atto Quinto, Scena V)
SEYTON: La regina è morta, signor mio!
MACBETH: Avrebbe dovuto morire più tardi; non sarebbe mancato il momento opportuno per udire
una simile parola. Domani, poi domani, poi domani: così, da un giorno all'altro, a piccoli passi, ogni
domani striscia via fino all'ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno rischiarato, a
degli stolti, la via che conduce alla polvere della morte. Spengiti, spengiti, breve candela! La vita
non è che un'ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla
scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota,
piena di rumore e di furore, che non significa nulla.
(Un Messaggero annuncia che la foresta di Birnam si muove, segno dell’imminente disfatta)
MACBETH: (…) Io vacillo nella mia sicurezza, e incomincio a dubitare degli equivoci del demonio,
il quale mentisce pur sembrando dire la verità: "Non temere, finché il bosco di Birnarn non venga a
Dunsinane"... ed ecco che un bosco si avanza verso Dunsinane!... All'armi, all'armi, e fuori! Se ciò
che costui afferma si vede, non c'è né da fuggire di qui, né da indugiare qui. Io comincio ad essere
stanco del sole, e vorrei che la fabbrica del mondo fosse distrutta... Si suoni la campana
d'allarme!... Soffia, o vento, vieni, o naufragio! Voglio almeno morire con le mie armi indosso.
18
TORQUATO TASSO
AMINTA
(1573)
Atto I, Scena 1ª - Silvia ritrosa
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DAFNE - Vorrai dunque pur, Silvia,
dai piaceri di Venere lontana
menarne tu questa tua giovinezza?
Né ’l dolce nome di madre udirai,
né intorno ti vedrai vezzosamente
scherzar i figli pargoletti? Ah, cangia,
cangia, prego, consiglio,
pazzarella che sei.
SILVIA - Altri segua i diletti de l’amore,
se pur v’è ne l’amor alcun diletto:
me questa vita giova, e ‘’l mio trastullo
è la cura de l’arco e de gli strali;
seguir le fere fugaci, e le forti
atterrar combattendo; e, se non mancano
saette a la faretra, o fere al bosco,
non tem’io che a me manchino diporti.
DAFNE - Insipidi diporti veramente,
ed insipida vita: e, s’a te piace,
è sol perché non hai provata l’altra.
(…)
Forse, se tu gustassi anco una volta
la millesima parte de le gioie
che gusta un cor amato riamando,
diresti, ripentita, sospirando:
«Perduto è tutto il tempo,
che in amar non si spende».
O mia fuggita etate,
quante vedove notti,
quanti dì solitari
ho consumati indarno,
che si poteano impiegar in quest’uso,
il qual più replicato è più soave!
Cangia, cangia consiglio,
pazzarella che sei,
ché ‘l pentirsi da sezzo nulla giova.
SILVIA - Quando io dirò, pentita, sospirando,
queste parole che tu fingi ed orni
come a te piace, torneranno i fiumi,
a le lor fonti, e i lupi fuggiranno
da gli agni, e ’l veltro le timide lepri,
amerà l’orso il mare, e ’l delfin l’alpi.
DAFNE - Conosco la ritrosa fanciullezza:
qual tu sei, tal io fui (…)
Ma che non puote il tempo? e che non
puote,
servendo, meritando, supplicando,
fare un fedele ed importuno amante?
Fui vinta, io te ’l confesso, e furon l’armi
del vincitore umiltà, sofferenza,
pianti, sospiri, e dimandar mercede.
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(…)
Così spero veder ch’anco il tuo Aminta
pur un giorno domestichi la tua
rozza salvatichezza, ed ammollisca
questo tuo cor di ferro e di macigno.
Atto I, Scena 2ª – Aminta e Tirsi
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La figliuola conosci di Cidippe
e di Montan, ricchissimo d’armenti,
Silvia, onor de le selve, ardor de l’alme?
Di questa parlo, ahi lasso; vissi a questa
così unito alcun tempo, che fra due
tortorelle più fida compagnia
non sarà mai, né fue.
Congiunti eran gli alberghi,
ma più congiunti i cori;
conforme era l’etate,
ma ‘l pensier più conforme;
seco tendeva insidie con le reti
ai pesci ed agli augelli, e seguitava
i cervi seco e le veloci damme:
e ’l diletto e la preda era commune.
Ma, mentre io fea rapina d’animali,
fui non so come a me stesso rapito.
A poco a poco nacque nel mio petto,
non so da qual radice,
com’erba suol che per se stessa germini,
un incognito affetto,
che mi fea desiare
d’esser sempre presente
a la mia bella Silvia;
e bevea da’ suoi lumi
un’estranea dolcezza,
che lasciava nel fine
un non so che d’amaro;
sospirava sovente, e non sapeva
la cagion de’ sospiri.
Così fui prima amante ch’intendessi
che cosa fosse Amore.
Atto I, Coro
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O bella età de l’oro,
non già perché di latte
sen’ corse il fiume e stillò mele il bosco;
non perché i frutti loro
dier da l’aratro intatte
le terre, e gli angui errar senz’ira o tosco;
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non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch’ora s’accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce agli altrui lidi il pino;
ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell’idolo d’errori, idol d’inganno,
quel che dal volgo insano
onor poscia fu detto,
che di nostra natura ’l feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l’amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell’alme in libertate avvezze,
ma legge aurea e felice
che natura scolpì: «S’ei piace, ei lice».
Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz’archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri, ed ai susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose,
ch’or tien nel velo ascose,
e le poma del seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l’amata il vago.
Tu prima, Onor, velasti
la fonte dei diletti,
negando l’onde a l’amorosa sete;
tu a’ begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete;
tu raccogliesti in rete
le chiome a l’aura sparte;
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi;
ai detti il fren ponesti, ai passi l’arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d’Amore.
E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d’Amore e di Natura donno,
tu domator de’ Regi,
che fai tra questi chiostri,
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene, e turba il sonno
agl’illustri e potenti:
noi qui, negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l’uso de l’antiche genti.
385
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.
Amiam, ché ’l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce.
Atto IV, Scena 1ª – Silvia innamorata
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DAFNE - O Silvia, Silvia, tu non sai né credi
quanto ’l foco d’amor possa in un petto,
che petto sia di carne e non di pietra,
com’ è cotesto tuo: ché, se creduto
l’avessi, avresti amato chi t’amava
più che le care pupille degli occhi,
più che lo spirto de la vita sua.
(…)
SILVIA - Oh, che mi narri?
DAFNE - Il vidi poscia, allora
ch’intese l’amarissima novella
de la tua morte, tramortir d’affanno,
e poi partirsi furioso in fretta,
per uccider se stesso; e s’avrà ucciso
veracemente. (…)
SILVIA - Ohimè, che tu m’accori, e quel
cordoglio
ch’io sento del suo caso inacerbisce
con l’acerba memoria
de la mia crudeltate,
ch’io chiamava onestate; e ben fu tale,
ma fu troppo severa e rigorosa;
or me n’accorgo e pento.
DAFNE - Oh, quel ch’io odo!
Tu sei pietosa, tu, tu senti al core
spirto alcun di pietate? oh che vegg’io?
tu piangi, tu, superba? Oh maraviglia!
Che pianto è questo tuo? pianto d’amore?
SILVIA - Pianto d’amor non già, ma di pietate.
DAFNE - La pietà messaggiera è de l’amore,
come ’l lampo del tuono.
[CORO] Anzi sovente
quando egli vuol ne’ petti virginelli
occulto entrare, onde fu prima escluso
da severa onestà, l’abito prende,
prende l’aspetto de la sua ministra
e sua nuncia, pietate; e con tai larve
le semplici ingannando, è dentro accolto.
DAFNE - Questo è pianto d’amor, ché troppo
abonda.
Tu taci? ami tu, Silvia? ami, ma in vano.
Oh potenza d’Amor, giusto castigo
manda sovra costei. Misero Aminta!
(…)
SILVIA - Oh potess’io
con l’amor mio comprar la vita sua;
anzi pur con la mia la vita sua,
s’egli è pur morto!
20
GERUSALEMME LIBERATA
(1575)
Canto I, Protasi
sembianza, e d’essa si compiacque, e n’arse.
Oh meraviglia! Amor, ch’a pena è nato,
già grande vola, e già trionfa armato.
1. Canto l’arme pietose e ’l capitano
che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ’l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti.
48. Ella d’elmo coprissi, e se non era
ch’altri quivi arrivàr, ben l’assaliva.
Partì dal vinto suo la donna altera,
ch’è per necessità sol fuggitiva;
ma l’imagine sua bella e guerriera
tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;
e sempre ha nel pensiero e l’atto e ’l loco
in che la vide, esca continua al foco.
(…)
2. O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte
d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte.
58. Ma il fanciullo Rinaldo, e sovra questi
e sovra quanti in mostra eran condutti,
dolcemente feroce alzar vedresti
la regal fronte, e in lui mirar sol tutti.
L’età precorse e la speranza, e presti
pareano i fior quando n’usciro i frutti;
se ’l miri fulminar ne l’arme avolto,
Marte lo stimi; Amor, se scopre il volto.
3. Sai che là corre il mondo ove più versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che ’l vero, condito in molli versi,
i più schivi allettando ha persuaso.
Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.
(…)
Tancredi e Rinaldo
45. Vien poi Tancredi, e non è alcun fra tanti
(tranne Rinaldo) o feritor maggiore,
o più bel di maniere e di sembianti,
o più eccelso ed intrepido di core.
S’alcun’ombra di colpa i suoi gran vanti
rende men chiari, è sol follia d’amore:
nato fra l’arme, amor di breve vista,
che si nutre d’affanni, e forza acquista.
59. Lui ne la riva d’Adige produsse
a Bertoldo Sofia, Sofia la bella
a Bertoldo il possente; e pria che fusse
tolto quasi il bambin da la mammella,
Matilda il volse, e nutricollo, e instrusse
ne l’arti regie; e sempre ei fu con ella,
sin ch’invaghì la giovanetta mente
la tromba che s’udia da l’oriente.
60. Allor (né pur tre lustri avea forniti)
fuggì soletto, e corse strade ignote;
varcò l’Egeo, passò di Grecia i liti,
giunse nel campo in region remote.
Nobilissima fuga, e che l’imìti
ben degna alcun magnanimo nepote.
Tre anni son che è in guerra, e intempestiva
molle piuma del mento a pena usciva.
Canto III, La prima battaglia
46. È fama che quel dì che glorioso
fe’ la rotta de’ Persi il popol franco,
poi che Tancredi al fin vittorioso
i fuggitivi di seguir fu stanco,
cercò di refrigerio e di riposo
a l’arse labbia, al travagliato fianco,
e trasse ove invitollo al rezzo estivo
cinto di verdi seggi un fonte vivo.
1. Già l’aura messaggiera erasi desta
a nunziar che se ne vien l’aurora;
ella intanto s’adorna, e l’aurea testa
di rose colte in paradiso infiora,
quando il campo, ch’a l’arme omai s’appresta,
in voce mormorava alta e sonora,
e prevenia le trombe; e queste poi
dièr più lieti e canori i segni suoi.
47. Quivi a lui d’improviso una donzella
tutta, fuor che la fronte, armata apparse:
era pagana, e là venuta anch’ella
per l’istessa cagion di ristorarse.
Egli mirolla, ed ammirò la bella
2. Il saggio capitan con dolce morso
i desideri lor guida e seconda,
ché più facil saria svolger il corso
presso Cariddi a la volubil onda,
o tardar Borea allor che scote il dorso,
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de l’Apennino, e i legni in mare affonda.
Gli ordina, gl’incamina, e ’n suon gli regge
rapido sì, ma rapido con legge.
3. Ali ha ciascuno al core ed ali al piede,
né del suo ratto andar però s’accorge;
ma quando il sol gli aridi campi fiede
con raggi assai ferventi e in alto sorge,
ecco apparir Gierusalem si vede,
ecco additar Gierusalem si scorge,
ecco da mille voci unitamente
Gierusalemme salutar si sente.
4. Così di naviganti audace stuolo,
che mova a ricercar estranio lido,
e in mar dubbioso e sotto ignoto polo
provi l’onde fallaci e ’l vento infido,
s’al fin discopre il desiato suolo,
il saluta da lunge in lieto grido,
e l’uno a l’altro il mostra, e intanto oblia
la noia e ’l mal de la passata via.
5. Al gran piacer che quella prima vista
dolcemente spirò ne l’altrui petto,
alta contrizion successe, mista
di timoroso e riverente affetto.
Osano a pena d’inalzar la vista
vèr la città, di Cristo albergo eletto,
dove morì, dove sepolto fue,
dove poi rivestì le membra sue.
6. Sommessi accenti e tacite parole,
rotti singulti e flebili sospiri
de la gente ch’in un s’allegra e duole,
fan che per l’aria un mormorio s’aggiri
qual ne le folte selve udir si suole
s’avien che tra le frondi il vento spiri,
o quale infra gli scogli o presso a i lidi
sibila il mar percosso in rauchi stridi.
Dall’alto delle mura Erminia riconosce Tancredi,
il quale si ritrova di fronte a Clorinda
21. Clorinda intanto ad incontrar l’assalto
va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
Ferìrsi a le visiere, e i tronchi in alto
volaro e parte nuda ella ne resta;
ché, rotti i lacci a l’elmo suo, d’un salto
(mirabil colpo!) ei le balzò di testa;
e le chiome dorate al vento sparse,
giovane donna in mezzo ’l campo apparse.
22. Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi,
dolci ne l’ira; or che sarian nel riso?
Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi?
non riconosci tu l’altero viso?
Quest’è pur quel bel volto onde tutt’ardi;
tuo core il dica, ov’è ’l suo essempio inciso.
Questa è colei che rinfrescar la fronte
vedesti già nel solitario fonte.
23. Ei ch’al cimiero ed al dipinto scudo
non badò prima, or lei veggendo impètra;
ella quanto può meglio il capo ignudo
si ricopre, e l’assale; ed ei s’arretra.
Va contra gli altri, e rota il ferro crudo;
ma però da lei pace non impetra,
che minacciosa il segue, e: “Volgi” grida;
e di due morti in un punto lo sfida.
24. Percosso, il cavalier non ripercote,
né sì dal ferro a riguardarsi attende,
come a guardar i begli occhi e le gote
ond’Amor l’arco inevitabil tende.
Fra sé dicea: “Van le percosse vote
talor, che la sua destra armata stende;
ma colpo mai del bello ignudo volto
non cade in fallo, e sempre il cor m’è colto.”
25. Risolve al fin, benché pietà non spere,
di non morir tacendo occulto amante.
Vuol ch’ella sappia ch’un prigion suo fère
già inerme, e supplichevole e tremante;
onde le dice: “O tu, che mostri avere
per nemico me sol fra turbe tante,
usciam di questa mischia, ed in disparte
i’ potrò teco, e tu meco provarte.
26. Così me’ si vedrà s’al tuo s’agguaglia
il mio valore.” Ella accettò l’invito:
e come esser senz’elmo a lei non caglia,
gìa baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
Recata s’era in atto di battaglia
già la guerriera, e già l’avea ferito,
quand’egli: “Or ferma,” disse “e siano fatti
anzi la pugna de la pugna i patti.”
27. Fermossi, e lui di pauroso audace
rendé in quel punto il disperato amore.
“I patti sian,” dicea “poi che tu pace
meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
Il mio cor, non più mio, s’a te dispiace
ch’egli più viva, volontario more:
è tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
omai tu debbia, e non debb’io vietarlo.
28. Ecco io chino le braccia, e t’appresento
senza difesa il petto: or ché no ’l fiedi?
vuoi ch’agevoli l’opra? i’ son contento
trarmi l’usbergo or or, se nudo il chiedi.”
Distinguea forse in più duro lamento
i suoi dolori il misero Tancredi,
ma calca l’impedisce intempestiva
de’ pagani e de’ suoi che soprarriva.
(…)
22
Canto IV, Armida
(…)
28. Dopo non molti dì vien la donzella
dove spiegate i Franchi avean le tende.
A l’apparir de la beltà novella
nasce un bisbiglio e ’l guardo ognun v’intende,
sì come là dove cometa o stella,
non più vista di giorno, in ciel risplende;
e traggon tutti per veder chi sia
sì bella peregrina, e chi l’invia.
13. Tace, e senza indugiar le turbe accoglie
e rincora parlando il vile e ’l lento,
e ne l’ardor de le sue stesse voglie
accende il campo a seguitarlo intento.
Dà il segno Aletto de la tromba, e scioglie
di sua man propria il gran vessillo al vento.
Marcia il campo veloce, anzi sì corre
che de la fama il volo anco precorre.
(…)
29. Argo non mai, non vide Cipro o Delo
d’abito o di beltà forme sì care:
d’auro ha la chioma, ed or dal bianco velo
traluce involta, or discoperta appare.
Così, qualor si rasserena il cielo,
or da candida nube il sol traspare,
or da la nube uscendo i raggi intorno
più chiari spiega e ne raddoppia il giorno.
15. Ma già distendon l’ombre orrido velo
che di rossi vapor si sparge e tigne;
la terra in vece del notturno gelo
bagnan rugiade tepide e sanguigne;
s’empie di mostri e di prodigi il cielo,
s’odon fremendo errar larve maligne:
votò Pluton gli abissi, e la sua notte
tutta versò da le tartaree grotte.
(…)
30. Fa nove crespe l’aura al crin disciolto,
che natura per sé rincrespa in onde;
stassi l’avaro sguardo in sé raccolto,
e i tesori d’amore e i suoi nasconde.
Dolce color di rose in quel bel volto
fra l’avorio si sparge e si confonde,
ma ne la bocca, onde esce aura amorosa,
sola rosseggia e semplice la rosa.
21. Dan fiato allora a i barbari metalli
gli Arabi, certi omai d’essere sentiti.
Van gridi orrendi al cielo, e de’ cavalli
co ’l suon del calpestio misti i nitriti.
Gli alti monti muggìr, muggìr le valli,
e risposer gli abissi a i lor muggiti,
e la face inalzò di Flegetonte
Aletto, e ’l segno diede a quei del monte.
31. Mostra il bel petto le sue nevi ignude,
onde il foco d’Amor si nutre e desta.
Parte appar de le mamme acerbe e crude,
parte altrui ne ricopre invida vesta:
invida, ma s’a gli occhi il varco chiude,
l’amoroso pensier già non arresta,
ché non ben pago di bellezza esterna
ne gli occulti secreti anco s’interna.
(…)
22. Corre inanzi il Soldano, e giunge a quella
confusa ancora e inordinata guarda
rapido sì che torbida procella
da’ cavernosi monti esce più tarda.
Fiume ch’arbori insieme e case svella,
folgore che le torri abbatta ed arda,
terremoto che ‘l mondo empia d’orrore,
son picciole sembianze al suo furore.
33. Lodata passa e vagheggiata Armida
fra le cupide turbe, e se n’avede.
No ’l mostra già, benché in suo cor ne rida,
e ne disegni alte vittorie e prede.
Canto IX, Solimano
(…)
12. Grida il guerrier, levando al ciel la mano:
“O tu, che furor tanto al cor m’irriti
(ned uom sei già, se ben sembiante umano
mostrasti), ecco io ti seguo ove m’inviti.
Verrò, farò là monti ov’ora è piano,
monti d’uomini estinti e di feriti,
farò fiumi di sangue. Or tu sia meco,
e tratta l’armi mie per l’aer cieco.”
23. Non cala il ferro mai ch’a pien non colga,
né coglie a pien che piaga anco non faccia,
né piaga fa che l’alma altrui non tolga;
e più direi, ma il ver di falso ha faccia.
E par ch’egli o s’infinga o non se ’n dolga
o non senta il ferir de l’altrui braccia,
se ben l’elmo percosso in suon di squilla
rimbomba e orribilmente arde e sfavilla.
(…)
25. Porta il Soldan su l’elmo orrido e grande
serpe che si dilunga e il collo snoda,
su le zampe s’inalza e l’ali spande
e piega in arco la forcuta coda.
Par che tre lingue vibri e che fuor mande
livida spuma, e che ‘l suo fischio s’oda.
Ed or ch’arde la pugna, anch’ei s’infiamma
nel moto, e fumo versa insieme e fiamma.
23
Canto XII, La morte di Clorinda
(…)
52. Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtù si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: “O tu, che porte,
che corri sì?” Risponde: “E guerra e morte.”
53. “Guerra e morte avrai;” disse “io non rifiuto
darlati, se la cerchi”, e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.
(…)
55. Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre ’n moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.
56. L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or più si mesce e più ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
57. Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
58. L’un l’altro guarda, e del suo corpo
essangue
su ’l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
al primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!
59. Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Così tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
(…)
Tancredi chiede al rivale di svelare il suo nome;
al suo rifiuto, si scaglia di nuovo nella lotta.
64. Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.
65. Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtù ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
66. “Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sì; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave.”
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
67. Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
68. Non morì già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: “S’apre il cielo; io vado in pace.”
69. D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
24
sembra per la pietate il cielo e ’l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
70. Come l’alma gentile uscita ei vede,
rallenta quel vigor ch’avea raccolto;
e l’imperio di sé libero cede
al duol già fatto impetuoso e stolto,
ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede
la vita, empie di morte i sensi e ’l volto.
Già simile a l’estinto il vivo langue
al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.
Canto XVI, Armida abbandonata
(…)
36. Volea gridar: “Dove, o crudel, me sola
lasci?”, ma il varco al suon chiuse il dolore,
sì che tornò la flebile parola
più amara indietro a rimbombar su ’l core.
Misera! i suoi diletti ora le invola
forza e saper, del suo saper maggiore.
Ella se ’l vede, e invan pur s’argomenta
di ritenerlo e l’arti sue ritenta.
37. Quante mormorò mai profane note
tessala maga con la bocca immonda,
ciò ch’arrestar può le celesti rote
e l’ombre trar de la prigion profonda,
sapea ben tutte, e pur oprar non pote
ch’almen l’inferno al suo parlar risponda.
Lascia gli incanti, e vuol provar se vaga
e supplice beltà sia miglior maga.
38. Corre, e non ha d’onor cura o ritegno.
Ahi! dove or sono i suoi trionfi e i vanti?
(…)
I cavalieri Carlo e Ubaldo convincono Rinaldo a
non ascoltare le invocazioni di Armida, che lo
supplica di portarla comunque con sé ed esibirla
come trofeo.
51. (…)
Volea più dir, ma l’interruppe il pianto
che qual fonte sorgea d’alpina pietra.
Prendergli cerca allor la destra o ’l manto,
supplichevole in atto, ed ei s’arretra,
resiste e vince; e in lui trova impedita
Amor l’entrata, il lagrimar l’uscita.
e lui commove in guisa tal ch’a freno
può ritener le lagrime a fatica.
Pur quel tenero affetto entro restringe,
e quanto può gli atti compone e infinge.
53. Poi le risponde: “Armida, assai mi pesa
di te; sì potess’io, come il farei,
del mal concetto ardor l’anima accesa
sgombrarti: odii non son, né sdegni i miei,
né vuo’ vendetta, né rammento offesa;
né serva tu, né tu nemica sei.
Errasti, è vero, e trapassasti i modi,
ora gli amori essercitando, or gli odi;
54. ma che? son colpe umane e colpe usate:
scuso la natia legge, il sesso e gli anni.
Anch’io parte fallii; s’a me pietate
negar non vuo’, non fia ch’io te condanni.
Fra le care memorie ed onorate
mi sarai ne le gioie e ne gli affanni,
sarò tuo cavalier quanto concede
la guerra d’Asia e con l’onor la fede.
(...)
56. Rimanti in pace, i’ vado; a te non lice
meco venir, chi mi conduce il vieta.
Rimanti, o va per altra via felice,
e come saggia i tuoi consigli acqueta.”
Ella, mentre il guerrier così le dice,
non trova loco, torbida, inquieta;
già buona pezza in dispettosa fronte
torva riguarda, al fin prorompe a l’onte:
59. “(…) Vattene pur, crudel, con quella pace
che lasci a me; vattene, iniquo, omai.
Me tosto ignudo spirto, ombra seguace
indivisibilmente a tergo avrai.
Nova furia, co’ serpi e con la face
tanto t’agiterò quanto t’amai.
E s’è destin ch’esca del mar, che schivi
gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi,
60. là tra ’l sangue e le morti egro giacente
mi pagherai le pene, empio guerriero.
Per nome Armida chiamerai sovente
ne gli ultimi singulti: udir ciò spero.”
Or qui mancò lo spirto a la dolente,
né quest’ultimo suono espresse intero;
e cadde tramortita e si diffuse
di gelato sudore, e i lumi chiuse.
_____________
52. Non entra Amor a rinovar nel seno,
che ragion congelò, la fiamma antica;
v’entra pietate in quella vece almeno,
pur compagna d’Amor, benché pudica
25
Canto XX, L’ultima battaglia
(…)
5. Si prepara ciascun, de la novella
luce aspettando cupido il ritorno.
Non fu mai l’aria sì serena e bella
come a l’uscir del memorabil giorno:
l’alba lieta rideva, e parea ch’ella
tutti i raggi del sole avesse intorno;
e ’l lume usato accrebbe, e senza velo
volse mirar l’opere grandi il cielo.
6. Come vide spuntar l’aureo mattino,
mena fuori Goffredo il campo instrutto.(…)
7. Vassene, e tal è in vista il sommo duce
ch’altri certa vittoria indi presume.
Novo favor del Cielo in lui riluce
e ’l fa grande ed augusto oltra il costume:
gli empie d’onor la faccia e vi riduce
di giovenezza il bel purpureo lume,
e ne l’atto de gli occhi e de le membra
altro che mortal cosa egli rassembra.
Segue la descrizione degli schieramenti dei due
eserciti e la feroce lotta che si scatena.
Solimano esce impetuoso dalla rocca come
un’idomita e devastatrice forza della natura.
73. Or mentre in guisa tal fera tenzone
è tra ’l fedel essercito e ’l pagano,
salse in cima a la torre ad un balcone
e mirò, benché lunge, il fer Soldano;
mirò, quasi in teatro od in agone,
l’aspra tragedia de lo stato umano:
i vari assalti e ’l fero orror di morte,
e i gran giochi del caso e de la sorte.
74. Stette attonito alquanto e stupefatto
a quelle prime viste; e poi s’accese,
e desiò trovarsi anch’egli in atto
nel periglioso campo a l’alte imprese.
Né pose indugio al suo desir, ma ratto
d’elmo s’armò, ch’aveva ogn’altro arnese:
“Su su,” gridò “non più, non più dimora:
convien ch’oggi si vinca o che si mora.”
(…)
Segue una lunga serie di duelli, finché il
cristiano Raimondo uccide Aladino e si
impadronisce della rocca.
91. Presa è la rocca, e su per l’alte scale
chi fugge è morto o ’n su le prime soglie;
e nel sommo di lei Raimondo sale
e ne la destra il gran vessillo toglie,
e incontra a i due gran campi il trionfale
segno de la vittoria al vento scioglie.
(…)
Intanto Rinaldo ha ucciso Adraste, campione
di Armida; Solimano ha visto da lontano il
duello mortale e ne è profondamente turbato.
104. Lo stupor, di spavento e d’orror misto,
il sangue e i cori a i circostanti agghiaccia,
e Soliman, ch’estranio colpo ha visto,
nel cor si turba e impallidisce in faccia,
e chiaramente il suo morir previsto,
non si risolve e non sa quel che faccia;
cosa insolita in lui, ma che non regge
de gli affari qua giù l’eterna legge?
(…)
106. Così allora il Soldan vorria rapire
pur se stesso a l’assalto e se ne sforza,
ma non conosce in sé le solite ire,
né sé conosce a la scemata forza.
Quante scintille in lui sorgon d’ardire,
tante un secreto suo terror n’ammorza:
volgonsi nel suo cor diversi sensi,
non che fuggir, non che ritrarsi pensi.
107. Giunge all’irresoluto il vincitore,
e in arrivando (o che gli pare) avanza
e di velocitade e di furore
e di grandezza ogni mortal sembianza.
Poco ripugna quel; pur mentre more,
già non oblia la generosa usanza:
non fugge i colpi e gemito non spande,
né atto fa se non se altero e grande.
108. Poi che ’l Soldan, che spesso in lunga guerra
quasi novello Anteo cadde e risorse
più fero ognora, al fin calcò la terra
per giacer sempre, intorno il suon ne corse;
e Fortuna, che varia e instabil erra,
più non osò por la vittoria in forse,
ma fermò i giri, e sotto i duci stessi
s’unì co’ Franchi e militò con essi.
(…)
Dopo Solimano, Rinaldo uccide tutti i
campioni di Armida che, disperata, medita il
suicidio, ma l’eroe la dissuade e si riconcilia
con lei. Infine l’interesse si concentra su
Goffredo, che uccide il re Emireno e invita i
musulmani alla resa.
144. Così vince Goffredo, ed a lui tanto
avanza ancor de la diurna luce
ch’a la città già liberata, al santo
ostel di Cristo i vincitor conduce.
Né pur deposto il sanguinoso manto,
viene al tempio con gli altri il sommo duce;
e qui l’arme sospende, e qui devoto
il gran Sepolcro adora e scioglie il voto.
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