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L’insiemistica della monade (Volume 2) RACCONTI E ALTRO by ROBERTO CYBBOLO LACCHE’ 1 Questa opera è soggetta alla licenza Creative Commons Puoi regalarlo a chi vuoi a patto di rispettare questa licenza: “Attribuzione – non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0” Copertina copyleft: “Il vuoto nell’ombra” Copylefteratura (2014) per contatti: [email protected] 2 ROBERTO CYBBOLO LACCHE’ L’INSIEMISTICA DELLA MONADE RACCONTI E ALTRO II 3 4 RACCONTI DI SFIGHE E SUPEREROI 5 6 FUMETTI Mi viene in mente un qualcosa che accendeva molto la mia fantasia di ragazzo: la mitica città di Kandor! Se ricordo bene, era una città del pianeta Krypton, il pianeta col sole rosso di Nembo Kid, miniaturizzata e catturata dal pirata spaziale Brainiac, violaceo-verdino con elettrodi sul capo e sguardo bieco che, paradossalmente, la salvò dalla distruzione del pianeta che esplose poco tempo dopo, ma la condannò in una bottiglia attaccata a bombole che riproducevano l’atmosfera di Krypton, sotto una luce rossa come quella del sole di origine. La bottiglia fu poi sottratta al pirata da Nembo Kid stesso in uno dei suoi tanti duelli rappresentati sui gloriosi Albi del Falco degli anni sessanta. Il supereroe colla mantellina rossa la conservava, tenuta a lustro e sorvegliata amorevolmente, presso la sua Fortezza della Solitudine sita sulla calotta polare, inaccessibile agli umani, con la segreta speranza di restituirla alla sua grandezza naturale insieme ai suoi abitanti. Sono curiosi e bizzarri i ricordi! Sono brandelli di memoria che vagano in un immenso lago amniotico di esperienze e vengono a galla sulla sollecitazione di avvenimenti casuali che accendono scintille elettriche che provocano delle sinapsi nel cervello e danno emozioni, brividi, angosce o sentimenti di abbandonato piacere. Non riesco a spiegarmi altrimenti il fenomeno… Sono uscito stamattina dalla mia baita in montagna per fare una tonificante passeggiata e, subito dopo la radura del bosco, sono andato a sbattere contro una immensa parete di vetro senza fine… e non mi capacito della possibilità reale che possa esistere al di là del vetro quella faccia enorme, gelatinosa e distorta, vagamente somigliante al capo di un polipo che sembra sia molto interessata a quello che accade qui! 7 SUPERZETA Mi chiamo Alfred, come quello di Batman, e sono il maggiordomo della contessa Zenobia, e non aggiungo altro per preservarle la sua identità segreta. Sto scrivendo in una nicchia della grotta segreta della mia padrona per cercare un consiglio o un sistema per risolverle i suoi problemi. E’ tutto nato qualche giorno scorso. La contessa Zenobia era dal parrucchiere Jean Claude, il parrucchiere esclusivo delle contesse, ed era sotto il casco per asciugare la sua permanente. D’un tratto si diffuse nell’aria un odorino di pelo strinato e si udì uno sfrigolio di frittura di pesciolini di paranza: la contessa prese accidentalmente nel cervello una scossa di tot volts, ma rimase straordinariamente viva e per di più acquistò dei superpoteri, come volare, vedere coi raggi X, ultraudito, invulnerabilità e altri. La mia generosa contessa, coperta da un cappello alla cosacca, con la testa ancora fumante, si diresse subito da Armand, il sarto delle contesse, e si fece confezionare subito un abitino con gonnellino e mantella con il marchio ZETA sul petto per essere sempre pronta ad ogni richiamo dell’umanità e potersi cambiare a supervelocità in una cabina del telefono. Tornò a casa in volo e invisibile e mi fece partecipe del suo segreto, piangendo come un bimbo, però, perché aveva la testa come quella di un malato di alopecia cui avessero rimesso a posto il cuoio capelluto con un ferro da stiro. Povera contessa Zenobia, alias SuperZETA, difensore dei deboli e degli oppressi sull’intero pianeta! Come suo devoto maggiordomo ho provato diversi metodi empirici per ovviare al problema di presentazione della supereroina, ma non ho trovato l’accettazione della contessa ai miei suggerimenti. Ho provato con una cuffia sul tipo di quella del neonato di Roger Rabbit, con bottoncino alla gola, facendola passare per un’eccentricità della sua divisa, ma non ha abboccato. 8 Ho provato con parrucche di diverso tipo e taglio e colore, ma quando la contessa come superZeta si alza in volo, volano anche i posticci e rimane ridicolmente semicalva e strinata come un bosco amazzonico. Ho provato a fissarle dei toupets con mastici e collanti, compreso quello dei pesci rossi nella doccia, ma superZeta è allergica alle composizioni chimiche degli stessi e si copre di bubboni, o meglio, superbubboni che assomigliano a fichi d’india, che spaventano i bambini al luna park quando prende al volo le carrozzine deragliate dell’otto volante. E’ per questo che sto scrivendo. Spero che qualcuno di voi possa trovare una soluzione al problema anche perché col cranio alla nuda la mia contessa sta prendendo anche un superraffreddore con conseguente supersinusite e credo che non possa più proteggere il mondo fino a primavera inoltrata. 9 ANIMALAND Sul quarto pianeta di Honv, nel secondo quadrante del sistema di Bint, esiste nella città dei desideri una bottega molto pittoresca che vende animali di tutto l’universo. Il padrone, Kokuo, è incrocio di un crogiuolo di razze, gigantesco, avvolto in pellami vari, con un colbacco di bradut che sormonta la sua faccia da Kirg con occhi a furbe feritoie buie ed il corpaccione innestato su cingoli indipendenti semoventi in molibdeno, probabile risultanza di una scappatella giovanile di sua madre. La sua bottega è un insieme di gabbie e gabbiette e l’atmosfera che si respira è molto esotica tra urla, gorgheggi e versi vari degli animali più impensati e rari a trovarsi nelle galassie. Lì a destra è la gabbia del babirussa gigante di Knotl che mangia solo insetti e si gratta in continuazione cogli unghioli di vetro; là a sinistra è la gabbietta del cercocircasso verde di Oly che mangia solo bacche e urla sempre la sua rabbia per la forzata prigionia. Laggiù in quella vasca ci sono due dugonghi di Rroz, il pianeta acquatico, immersi nel loro liquido amniotico verde smeraldo, con quei musi prognati e quei quattro occhi sempre vigili e sospettosi. Nel gabbione centrale ben rinforzato ed elettrificato c’è il raptor di Xur, ferocissimo, l’unico animale che combatte per il cibo facendo uso delle arti marziali. Poi, tra gli altri e altri ancora, ci sono io, dentro questa gabbietta piccolissima di due metri per due, terrestre solo ed impotente. Ho provato a fuggire più volte, ma Kokuo mi ha sempre ripreso e mi ha picchiato molto duramente con la sua protesi in alluminio, ma senza lasciare segni per non rendermi invendibile. Peraltro non saprei più dove andare senza una navicella e senza più coordinate. Sì, anche io sono in vendita, anzi, secondo quello che ho sentito dire da Kokuo, oggi una grassa signora di 10 Bombs, cui è morto un criceto di Fhar, dovrebbe venire a prendermi per alleviare la sua solitudine. Problemi d’alimentazione per me non ce ne sono: i terrestri sono considerati gli spazzini delle galassie. Spero di essere trattato bene e prego di non essere abbandonato questa prossima estate sulla Via Lattea… 11 NUOVO MITO Sono stato allevato in età adolescenziale a panini con nutella, ovomaltina e sane letture di buoni libri, ma anche fumetti. E’ per tutta quella nutella e ovomaltina che da qualche anno ho periodici brufoli che sembrano ernie ed è per tutti quei fumetti che sono di vedetta su questo cornicione. Sono cresciuto col mito dei Super-eroi, da Nembo Kid, poi diventato Superman, a Batman e Robin, Freccia Verde e Saetta, Flash, Lanterna Verde, Jonn’z Jones il segugio di Marte, la legione dei Super-eroi, Nembo Star, fino a decadere negli eroi della Marvel sempre più bitorzoluti di muscoli e anche forse di cervello, con l’Uomo-Ragno, Hulk, Capitan America. Oggi, invece delle strepitose coppie di allora, esistono solo Dolce e Gabbana, ma non credo siano tanto super...e poi non sono invulnerabili. Sono qui, dunque, memore dei miei piccoli valori di ragazzino pieno di fantasia, che scruto l’orizzonte nebbioso di questa periferia urbana alla ricerca di uno svolazzare di mantelline che ci vengano a salvare. Non verrà nessuno e mi sto convincendo ogni giorno sempre di più che forse la salvezza è solo in noi stessi. E’ per questo che da due giorni sono qui su questo cornicione scivoloso di muffe con il mio nuovo costume rosso e giallo e un mantello lucido e i guanti e una maschera a coprire la mia vera identità che deve rimanere segreta. Sono qui in attesa che qualcuno mi chiami e abbia bisogno di me e scruto il cielo per vedere proiettata sulle nuvole gonfie di pioggia una richiesta di aiuto sullo stile del logo a pipistrello del vecchio Batman. Ed allora, quando sarà, io accorreròòòOOOOOOAAAAAAAAARRRRRRRGGGGGHHH.... ............... 12 FATO CINICO E BARO Sono convinto che nel mondo metafisico siano già state prese decisioni per ognuno di noi da tempo inenarrabile, secondo il nostro metro di misura, e ritengo che la finalità di tutto questo rientri in un disegno che ci sfugge completamente, oltre che per lo scopo, anche per una certa stranezza e bizzarria di realizzazione. Mai freddo fu più intenso come l’anno scorso in India: cadde addirittura la neve e scese in posti dove era una novità assoluta a memoria d’uomo, in posti caldi ed esotici come Calcutta. Yappur il tassista si svegliò di mattina presto e vide la sua città coperta di neve farinosa. La toccò con mano, l’assaporò divertito e rimase qualche minuto imbambolato a guardare vispi ragazzini infagottati di scialli che correvano lungo i rigagnoli ghiacciati delle fogne a cielo aperto in uno schiamazzo felice e sorpreso. Avviò il suo taxi antidiluviano verso la stazione ferroviaria e rimuginò con una certa preoccupazione che avrebbe dovuto far revisionare per la settima volta questa macchina che stava ormai arrivando al lumicino. Attese per tutta la mattina tra sfaccendati e varia umanità il treno proveniente da Bombay e poi caricò un passeggero, straniero, per portarlo in un albergo di centro città. Continuava a nevicare e Yappur lavorava molto di frizione e marce basse per non perdere aderenza al terreno con la sua carretta. Lungo un viale accadde. La macchina sbandò nel traffico di carri e carrettini per evitare un pedone pigro e distratto; il tassista sterzò, controsterzò e poi pigiò disperatamente i freni di fronte a una pacifica vacca sacra, ma fu tardi, e la povera bestia giacque esanime nella neve mentre una chiazza di sangue si allargava nel bianco ormai sporco. 13 Yappur scese dall’auto incurante delle proteste del turista e venne circondato da molta gente. Penso sempre che la folla è ingovernabile nella sua facilissima governabilità e credo di avere ragione. Una voce nel gruppo lo insultò per il sacrilegio, poi due, poi tre e Yappur si sentì spintonato e tirato per il giaccone. Poi avvertì dei colpi in un crescendo di urla sempre più disumane, percepì sangue colargli dalla testa e poi cessò sbalordito di udire qualsiasi cosa e morì, linciato da una comunità fanaticamente religiosa, per aver ucciso inconsapevolmente con un taxi una vacca sacra a Calcutta sotto una nevicata. Destino più strano di così.... 14 LA FINE DI WURDALAK “Tra poco sarò senza padrone, servo mortale di un principe che credevo immortale e che invece sta disfacendosi nella maniera più umiliante e impietosa che possa esistere per un terribile vampiro, per il mio Signore Wurdalak. Il mio padrone giace nella sua bara, irriconoscibile dall’altera figura di tempo addietro; rantola incosciente canticchiando nella sua demenza poesiole magiare e tristi nenie rumene. Nulla ormai ricorda del passato, ma s’accende per frasi smozzicate di filastrocche della sua infanzia, come un qualsiasi paziente di geriatria in cura per Alzheimer o marasma senile: la sua mente è vuota, con i ricordi cristallizzati da un abbraccio vischioso di sangue pieno di grassi, trigliceridi, colesterolo, e il suo corpo si disgrega per colpa d’altri corpi. Com’è potuto accadere che il dominatore del buio sia regredito a tal punto? E’ colpa dell’uomo, del suo sangue che nutre il mio Signore, sangue ormai appiccicoso del colesterolo di troppi latticini e formaggi, di troppe uova e di carne rossa infetta, dell’acido urico di troppi insaccati, dello zucchero di troppi dolci, del mercurio dei pesci. Wurdalak morirà presto, ma io, suo devoto servitore, sto preparando una mia rivincita per riabilitarne almeno la figura, ora caricaturale, che stringe il cuore nel ricordo di tempi terribili di onnipotenza. Sto annotando minuziosamente ogni danno fisico e mentale che occorre al mio Signore, dall’aumento della carie per troppo saccarosio fino al principio di cirrosi epatica per gli alti tassi etilici nel sangue di giovani vergini catturate presso discoteche sperdute nella campagna. Egli agonizza e morirà, in corpo e spirito, ma io lo farò risorgere, almeno nella fama, con puntigliose denunce di cui immagino titoli cubitali nella storia della giustizia: Wurdalak Vs/ McDonald, …Wurdalak Vs/ Galbani, Invernizzi, Aia, Arena, Rovagnati, Sammontana, Algida… Tremate, tremate…” 15 RAMON E IL VAMPIRO Ebbi un incontro con un vampiro, qualche tempo passato, uno degli ultimi vampiri. Lo controllai, adornato di una resta d’agli e armato di un grande crocifisso, seduto su una fredda panca di marmo posta davanti a lui semisdraiato all’alba nella sua bara. Avevo scoperto la bara casualmente andando a rendere omaggio ad un vecchio parente in un cimitero di paese sperduto tra le colline: l’avevo vista semiaperta e vuota dentro una piccola cappella di famiglia sbrecciata e abbandonata e mi ero incuriosito. Dopo qualche appostamento avevo prima intuito e poi compreso in tutta la sua evidenza che era la bara di vampiro. Appagai successivamente la mia curiosità immobilizzandolo nel suo sarcofago, come accennato, con il crocifisso e l’aglio, mentre sbatteva gli occhi cerchiati come un allocco: era pallidissimo, emaciato, scheletrico quasi nella sua magrezza, ed aveva uno sguardo triste più che minaccioso e una amara piega della bocca atteggiata ad un mesto sorriso con i due canini ingialliti dal tempo. I miei concetti di controllo e di sicurezza, nella mia superficialità ed ignoranza, si sciolsero come la neve al sole quando un pallido raggio di luce del primo mattino filtrò nella cripta ed il vecchio vampiro parlò con voce rauca, ma ferma, senza alcuna reazione di orrore all’alba nascente. Mi disse qualcosa di sé, compito e signorile, troppo debole per alzarsi dal suo macabro giaciglio. “Come vede, amico mio, il giorno e la notte non fanno differenza per i vampiri: la vecchia letteratura si è sbizzarrita con tante stupidaggini. Non fugga, non le farò nulla di male, ma le devo rivelare che anche il crocifisso e l’aglio mi lasciano del tutto indifferente: se volessi, e anche se potessi, lei non avrebbe scampo qui davanti a me... Le ho detto se potessi perché ormai non posso più muovermi per la debolezza e l’inedia e attendo serenamente una mano pietosa che ponga fine ai miei lunghi giorni. Che senso ha vivere senza poter apprezzare quello che la natura ha predisposto per te e per la tua natura? 16 Mi cibo esclusivamente di sangue di vergine o di sangue di uomo....e sto morendo di fame, a poco a poco, per consunzione in mancanza dell’alimento. Non esistono quasi più vergini di questi tempi, solo bimbette prescolari o quasi che non hanno alcun sapore e che mi rifiuto di succhiare per quanto sono sciocche, immature e prive di quell’aura sensuale delle vergini di una volta, affascinanti e già donne, e soprattutto non esistono quasi più uomini intesi nel senso virile del termine latino, caratterialmente uomini che abbiano la dignità della sofferenza e che sappiano amare od odiare limpidamente come una volta e sappiano avere verso loro stessi la giusta indulgenza o la giusta riprovazione. Tutte mezze calzette, oggi, tutti ometti sparuti e fragili, di quella fragilità figlia dell’ignavia, anche quelli più prestanti, amico mio, e il mio alimento scarseggia sempre più e io sono stanco e debole e mi sto estinguendo poco a poco.” Mi sentii impietosito per quell’essere diafano garbato e irrimediabilmente deluso e lo guardai in silenzio senza voler aggiungere concetti spiacevoli alla già sgradevole sua situazione. Mi parve che intuisse qualcosa di quello che pensavo e allargò il volto rugoso e grigiastro in un sorriso speranzoso come un miserabile davanti a una chiesa soddisfatto da qualche spicciolo. Quello che avvenne poi non ebbe bisogno di essere evidenziato da discorsi, quasi come un dialogo tra uomini di una volta, muto e rispettoso in uno scambio di sguardi fermi, decisi e carichi di sentimenti duri come roccia, ma anche teneri come un fiore appena reciso. Mi offrì, serenamente complice, un piolo di frassino e un mazzuolo e si distese severo ad occhi chiusi nella bara in un lieve fruscio del mantello polveroso. Colpii deciso per soffocare la pena verso quell’essere...colpii al cuore come mi richiese in silenzio il vampiro. Io, Ramon, ho colpito ancora al cuore e ancora ne soffro. 17 DARWIN LA SAPEVA LUNGA Oggi, primo settembre duemilasessantadue festeggio centodieci anni. Sono un sereno sopravvissuto stanco e sto con un sorriso ebete guardando il mio bis-bis nipotino che è nato da tre giorni, nella sua culla computerizzata autoprogrammata che governa automaticamente la temperatura dell’ambiente e disinfetta l’aria dai batteri e sorveglia il piccolo con una rilassante musichetta di campanellini cinesi. Quanta strada ha percorso l’umanità da quando ero ragazzino a oggi e quanti scogli ha superato per la caparbietà di voler proseguire nel vivere. Vado indietro nel tempo alle scoperte di terreni da bonificare per giacenze di bidoni di acidi e morchie dense e alle esplorazioni di praterie di diossine e asbesto; volo sulle ali della memoria agli esperimenti nucleari sotterranei in Cina e nel mare a Mururoa; mi soffermo su Cernobyl e su chissà quante altre centrali atomiche che hanno perduto anch’esse spifferi pesanti, ma noi non l’abbiamo mai saputo. Rinnovo con dolore il ricordo delle ultime piogge radioattive di quaranta anni fa in seguito alle varie guerre sante che ci caricarono di uranio impoverito, carbonchio, tifo petecchiale, peste e chissà quant’altro, tutto per tutti uguale, trasportato nell’aria da un vento imparziale e democratico. Mi si riaffacciano alla mente anche le vecchie polemiche sui cibi transgenici e sui mangimi imbottiti di antibiotici e ricordo i vecchi fertilizzanti a base di DDT e sorrido mestamente ai vecchi telegiornali che parlavano dell’aria pregna di benzene e polveri fini... Quanti ostacoli ad un semplice onesto voler vivere tranquilli! Ma tutto è stato superato nell’inestinguibile gioia e volontà di vivere e nell’entusiasmo dell’uomo che permette a sé stesso un adattamento ammirevole per il proseguimento della specie. Sono qui seduto che rifletto, con la mia bombola “long life”e la mia valigetta di sopravvivenza attaccata alla schiena 18 e mi intenerisco a guardare il sangue del mio sangue, il mio nipotino in fasce, e sorrido comprensivo, o forse completamente rimbambito, con una lacrima che scende dal mio volto rugoso, nel vederlo agitare nella culla con vitalità i suoi piccoli e ancora teneri zoccoli...... 19 IL GRANDE PELLECCHIA E’ scomparso oggi, ne danno notizia i congiunti intervenuti nella “room”, Pellecchia. Frequentava la chat denominata “Over sempre”. Era affabile, brillante, comprensivo e tollerante con tutti e tutte, sempre disposto a giocare, sempre disponibile ad ascoltare sfoghi e trovare una parola giusta che potesse squarciare un velo. Per LadyErotic, una divorziata trentacinquenne, era un alto signore brizzolato, charmeur, con uno speciale magnetismo nello sguardo e nella voce, signore di stile e comportamento, elegantemente allusivo, attento e sensibile nel farla sentire donna desiderabile e interessante… Per GretelLsb, una spigolosa ragazza di diciannove anni, era un caro amico, un compagno di confidenze, gay, non ancora trentenne, incoraggiante e complice con uno spirito frizzante che la faceva sentire a suo agio senza complessi di colpa o dubbi esistenziali… Per BombaMafalda, una aggressiva donna single molto politicizzata, era un piacevole compagno di percorso, un estroverso giornalista sempre presente e pieno di comunicativa, un aperto quarantenne disincantato che riusciva a smussare angoli e a disinnescare scoppi di ira e indignazione in tiepida rassicurante ironia… Per CiccioHomer, studente di economia politica prossimo alla laurea, era un amico, un coetaneo di ventisei anni compagno di bisboccia e spalla di battute fulminanti per i presenti nella stanza…Era un grande, Pellecchia, ciccione pigro e vulcanica mente sempre pronta al riso e allo scherzo… Per Ibiscanuto, era uno stimato spirito pacato di terribile vecchio esperto della vita, pungente e acuto come il suo cervello di lucido sessantenne provato nel corpo,ma non nella mente… Altri ed altre parlarono spesso o di rado con Pellecchia e qualche spirito maschile ebbe ammirazione per lui; qualche spirito femminile fu tentato di offrire il cuore e il sentimento, virtualmente, ma poi neanche tanto… 20 I congiunti di Pellecchia, l’infermiere Antonio e il collega Mario, della clinica privata “Raffreddore di Sigmund Freud”, hanno spento per l’ultima volta il suo portatile nella stanza dodici al terzo piano, reparto dei non autosufficienti: trattamento deciso multivitaminico e blando di “Control”, con permesso di comunicazione con l’esterno… Che esterno avrebbe mai potuto vedere il loro assistito, tetraplegico, deforme come un mucchietto di stracci, su una sedia a rotelle? Antonio e Mario sanno che non digiteranno più, non più quello che veniva loro dettato con un filo di voce: non sarebbero mai capaci di sostituirlo… Si sono guardati muti e tristi: anche loro hanno perduto Pellecchia… 21 SCARABESISTENZA Sto rotolando una pallina di cacca e sto riflettendo… E’ forse un bene avere un’attività preminentemente fisica senza impegno cerebrale: devo solo decidere se fermarmi o andare avanti, a destra o a sinistra, e ho, quindi, tempo di pensare e di ricordare. Non riesco a pensare molto bene, ma ricordo qualcosa di vago e indistinto… Un letto, mi pare, e poi una luce abbacinante che calamitava me e altre lucine tremule variamente colorate in un bianco sfolgorante luminoso. Dalla luce fuoriuscivano corpi di bambini sparati al rallentatore verso una palla bluastra insieme ad animali e piante e cose di ogni specie… Mi sto stupendo del mio lessico: un’acquisizione misteriosa… Mi sta perseguitando una parola nella mente: reincarnazione, e mi sento un perdente, un peccatore forse, uno sfigato di diverse vite senza legge del compenso. Mi sovviene ancora altro: fallito e suicida…non capisco che significhi, ma mi ronza in testa, e un’altra figurazione… scarabeo stercoraro… chissà… forse io… chissà perché… Ho la sensazione di non avere mai compreso nulla, neanche quando ero altro, stelo d’orzo, geometra al catasto o insegnante presso una scuola elementare, lemure o lichene grigiastro, foca ammaestrata o locusta vorace, e mi chiedo anche adesso: che senso ha spingere una pallina di cacca lungo un crinale, sapendo che rotolerà di nuovo giù, per poi risospingerla ancora? 22 LA VERA STORIA DI N.K. Il Presidente dell’Associazione degli Scienziati concluse, grave, il suo drammatico intervento: “…Signori, si sta avvicinando, secondo le mie teorie e i miei calcoli, un nuovo tempo per noi, un tempo che cancellerà quanto prima la nostra civiltà…Bisognerà prepararsi sollecitamente a partire dal nostro mondo…” Venne sbeffeggiato dai colleghi scettici e vecchie rivalità e invidie ridicolizzarono il suo autorevole discorso. Solamente Jor-El annuì severamente e ritornò a casa pensieroso. Predispose, dopo notti insonni, con l’aiuto della moglie, una piccola astronave per il suo unico figlio Kal-El, e attese il previsto evento disastroso, senza speranza per sé ed il suo popolo, ma fiducioso per l’avvenire del suo stesso sangue. Il Presidente dell’Associazione ebbe, purtroppo, ragione e nuovi fenomeni mai accaduti scossero il mondo immerso in quella bolla protettiva di aria circondata da acqua… Jor-El predispose la partenza del missile e salutò accoratamente il figlio: “Figliolo, non sarai mai solo. Sarai accompagnato da me e tua madre sotto forma di impulsi che ti insegneranno tutto lo scibile nel tuo lungo prossimo viaggio. Avrai un futuro da eroe del bene e della giustizia perché al di fuori di questo mondo, all’esposizione diretta dei raggi di sole che qui viene filtrato dalla cupola d’acqua che ci protegge, acquisirai superpoteri. Vai, figliolo mio, e che la forza della ragione sia con te…” Il missile partì nell’istante della rovina del mondo. Il vento d’autunno scosse la grande foglia e la staccò dall’albero scuotendola in un vortice fresco: la goccia di rugiada scivolò dalla superficie innervata e si frantumò in minuscole piccole gocce mentre un granello impercettibile esplose nell’aria verso terra. Il piccolo Kal-El uscì incolume dal missile disintegrato alle pendici di un piccolo formicaio e si guardò intorno fiducioso nel proprio destino appreso durante il suo lungo viaggio… 23 Una piccolissima feroce ed agguerrita formichina rossa lo sorprese in silenzio, lo serrò all’improvviso velocemente tra le sue tenaglie e lo trascinò nel formicaio come provvista per il freddo prossimo inverno. Finisce qui la vera storia di Kal-El del mondo di Krypton, conosciuto anche come Nembo Kid… 24 CONTO ALLA ROVESCIA “La morte è soltanto un aspetto dell’essere e, forse, neanche quello definitivo”. Nel duemilaottantanove comparve il Frequenzimetro Vitale, una specie d’orologio da polso a cristalli liquidi. Dopo il duemilacinquanta la scienza fece passi da gigante nella conoscenza, e ripetute manipolazioni genetiche di dna e di mitocondri aprirono la porta arcana per determinare la durata della vita. Un’ossessiva e martellante educazione filosofica a non temere la morte, un misto tra stoicismo di Seneca e rigoroso pragmatismo venato di fatalismo arabo, completò il quadro. Il capitalismo dell’era dell’idrogeno ebbe il suo varo naturale con la migliore organizzazione della vita nell’attesa dell’ineluttabilità della morte naturale. L’organizzazione di una popolazione planetaria si poggia sull’organizzazione e la razionalizzazione di quotidianità della base, del singolo, ed allora tutti, grandi e piccini, ebbero il loro frequenzimetro d’ordinanza che indossarono con ordinata rassegnazione sullo stesso polso appena sopra l’orologio classico digital-barometro-contapassi. Dopo qualche brivido iniziale, retaggio di tempi trascorsi, nel vedere un numero di cinque cifre grande, i giorni da vivere, e quattro più piccoli, le ore e i minuti della giornata, che scattano a ritroso, ci si abitua e si diventa indifferenti. L’indottrinamento a non temere la morte e ad accettarla con serenità e lungimiranza organizzativa nei confronti dei cari che rimangono è stato instillato in maniera capillare e i più vicini al traguardo, quelli che ormai hanno soltanto due o tre cifre grandi, si preparano al salto verso uno dei pochi misteri ancora da deflorare predisponendo ogni eventualità al meglio per il permanere di persone care ed eredi. Per le morti accidentali esiste l’Assicurazione planetaria obbligatoria che risarcisce gli eredi per il dolore di una perdita non prevista e non annunciata dal frequenzimetro. Per i refrattari, inguaribili personaggi attaccati alla vita 25 nonostante tutto l’apparato propagandistico, esiste, ma solo per le ultime due ore di esistenza, una fiala di morfina distribuita previa presentazione di ricetta medica dei vitalmedici. Mort è sempre stato un pigro e un menefreghista, di poco senso pratico. Sono tre giorni che ha il suo frequenzimetro spento, forse guasto, e sono tre giorni che si dice che deve andare nel laboratorio di quartiere per la riparazione e la registrazione. Rimanda sempre, per un ascolto rapito di buona musica endocranica o per una intrigante videotelefonata olografica con qualche sua amica simpatica e fantasiosa, ma non può più rimandare oltre: ha già avuto un rimbrotto dal vitalvigile di quartiere, che è responsabile dell’organizzazione del quadrante B della città. Facile! Un polso con un quadrante nero in mezzo a tanti polsi con cifre rosse che si muovono non passa certo inosservato… Eccolo là, Mort, davanti al banco del laboratorio di fronte ad un addetto in camice bianco con il suo frequenzimetro lucido e attivo. “Sono tre giorni che non va…guardi un poco quello che c’è da fare…riparate questo o me ne date uno nuovo?” “Faccia vedere, lo devo esaminare, prima…” Mort si sfila l’aggeggio e lo porge al tecnico. “Quanto le era rimasto?” “Da vivere?” “Sì, certo…” “Guardi, con precisione proprio non lo ricordo…mi pare seimilacinquecento…” Il tecnico annuisce e soppesa per il bracciale il piccolo contatore, poi lo scuote delicatamente vicino ad un orecchio per ascoltare chissà quale ingranaggio fuori posto. “Che ne dice?” 26 “Non saprei: forse la pila nucleare è difettosa o forse lei ha picchiato da qualche parte con il braccio senza accorgersene…” Il tecnico si gira indietro verso una enorme scaffalatura a muro alla ricerca di uno specifico cassettino per prendere una pila di ricambio e provarla. Le riparazioni, in genere, si fanno sempre con il concetto dell’esclusione: si esclude una possibilità, poi un’altra, poi un’altra… Fruga in un cassettino, guarda una pila, la ripone, cerca con lo sguardo una etichetta informativa. Intanto agita il frequenzimetro vicino all’orecchio: non si sa mai… Un piccolo lampo di accensione: si materializzano delle cifre. “Ehi, ma è strano assai! Ora funziona, ma è curioso: qualche microchip dissaldato forse…Segna tutti zero, grandi e piccoli…” Si rigira verso Mort, ma non c’è nessuno al di là del banco di fronte a lui. Si sporge. Mort giace come un fagotto informe sul pavimento con una curiosa aria sorpresa e gli occhi sbarrati. Sarà un gran daffare per l’Assicurazione, di fronte agli eredi, nell’ambito delle responsabilità…Si dovrà stabilire se Mort è morto naturalmente per come enuncia il frequenzimetro o se sia rimasto vittima di qualche incidente inspiegabile… Mort, da vivo, pigro e menefreghista, non ha mai acceso un’assicurazione facoltativa per incidenti extra previsioni: reputava sufficiente l’assicurazione “Zero ore”… 27 TANTI PICCOLI EROI DI MONDI PARALLELI Lo mise a fuoco. Silvanòs Berluskonìdis, l’anziano austero presidente greco, visita Istambul per il primo storico incontro diplomatico ufficiale tra greci e turchi dopo la risoluzione dell’annoso contenzioso sulla sovranità dell’isola di Cipro. Il problema, squisitamente politico-strategico, è stato recentemente risolto salomonicamente con il patrocinio e l’egida dell’ONU. Cipro è stata distrutta e affondata con la sistemazione di novantasei ordigni nucleari prelevati dagli arsenali atomici dei maggiori paesi produttori in una giusta ripartizione proporzionale. Clima festoso nella capitale economica turca nonostante un’acquerugiola fosforescente e appiccicosa che scorteccia la pelle. Berluskonìdis, protetto da un grande ombrello in fibra di piombo, si rivolge alla folla plaudente con un sorriso severo e ampi gesti del braccio. Il suo aspetto segaligno e allampanato, con il profilo tipicamente greco e una corona di capelli argentei da grande patriarca, ed il suo incedere lento, sorretto da un bastone pomellato in argento, contrastano con la figura bassa e rotonda del presidente turco, untuoso e vagamente somigliante a Mussi, ma senza occhialini, con un impermeabile militare stazzonato ed un fez rosso stinto… Lo mise a fuoco. Il successore di Gavroscìly, Maresciallo Silvàniy Byerlùskoff, è eletto unanimemente dalla Duma per acclamazione, per la prima volta in assoluta trasparente democrazia, nella contingenza di dovere organizzare un fronte comune contro la mafia russa, e visita le province remote di Vladivostok, acclamato dalla comunità locale. Il biondo premier, il più giovane della storia della Russia e della confederazione delle repubbliche sovietiche, non ancora quarantenne, ha attraversato in pochi giorni l’intero comprensorio confederale e ha intrattenuto rapporti 28 improntati alla massima e fattiva collaborazione con calmucchi e tagiki, turkmeni e georgiani e altri ancora, con il suo sorriso felino e accattivante e la sua divisa di generale di corpo d’armata perfettamente in ordine in ogni occasione. Si sono scambiati freddi sorrisi di circostanza soltanto con il rappresentante della Cecenia, il piccolo e tenace Violanteff, per ovvi motivi: Byerlùskoff non ha ancora metabolizzato l’ottenimento dell’autonomia del popolo ceceno tramite la lotta indipendentista culminata con la distruzione dell’Hermitage e dell’ala nord del Kremlino, solamente tre anni prima. Il giovane statista però, con astuta e consumata abilità diplomatica, ha rovesciato l’insuccesso politico trasformandolo in successo economico ed è riuscito ad ottenere la cogestione perenne dei giacimenti petroliferi della provincia recalcitrante in cambio di ottomila distributori automatici di wodka-cola sul territorio. Ma le ferite sono ancora fresche, come testimoniano un occhio di vetro del premier ceceno, che sostituisce quello perduto ad una proiezione propagandistica con Maria Defilippìskaia Konstanzòva, e una mano di legno di Byerlùskoff, frutto in un attentato che ha visto perire il suo fidato guardiaspalla Emile Fedesky. Lo mise a fuoco. Conclude il suo discorso ricorrente del giorno del ringraziamento con le parole “God bless America” nello spiazzo antistante la Casa Bianca, davanti ad una selva di microfoni. E’ raggiante, Syl Bèrlooscon, e ammicca ai vari famosi giornalisti presenti, con i pollici alzati e battute scoppiettanti di tipico umorismo di concreto texano. Alto e bello come un divo di Hollywood, Bèrlooscon è il presidente con il più alto indice di popolarità fin dai tempi di Kennedy. E ora è lì, davanti alle televisioni di tutti gli Stati Uniti d’America, a certificare il suo successo con il compimento dell’ultimo atto politico della sua lungimirante capacità 29 visionaria ambientalista a prosecuzione di vecchi sogni del suo vecchio maestro George W.Bush. Mai più alcun incendio in America. L’ultimo albero, l’albero simbolo, quello sotto il quale aveva fatto alla nazione la sua promessa con la mano sul petto, quello che resisteva nel centro di Central Park, a New York, è stato abbattuto proprio oggi. L’America non avrà più incendi devastanti di parchi naturali e foreste, dall’Alaska fino in New Mexico, e la produttività di fiammiferi e stuzzicadenti, per la protetta industria americana, conoscerà impennate e successi duraturi per i prossimi dodici anni con un incremento delle esportazioni del duecentocinquanta per cento. Bèrlooscon sorride felice abbracciato alla First Lady e accarezza la sua mascotte, il simpatico criceto Faxinow, appoggiato spaurito e tremante tra i microfoni. Lo mise a fuoco. E’ riuscito nel suo intento. Siede pigro e assorto su un dondolo all’ombra di un gigantesco patio in una faraonica villa di Bogotà. Riflette, don Silvino Berluscones, in tuta mimetica, fascio di muscoli e nervi addestratissimi, con lo sguardo assorto perduto lontano, mentre una giovane campesina gli carezza ‘los cocones’ attraverso la divisa sporca di fango e sangue. Guardie del corpo armate fino ai denti proteggono quella strana intimità sciatta e distratta sorvegliando l’alto muro di cinta e le siepi di canapa (indiana). Berluscones, in realtà, sta provando un altro più piacevole orgasmo. E’ riuscito, finalmente. E’ il padrone incontrastato dell’intero sud America. Ha annesso alla Colombia, con il suo agguerrito esercito rivoluzionario cocainese, il Perù, l’Equador, e poi il Venezuela ed il Brasile, ed è sceso al Paraguay, all’Uruguay, e ancora più giù al Cile e all’Argentina. Le sue pupille sembrano quelle di Zio Paperone, con il simbolo del dollaro, ma in realtà hanno stampata 30 l’immagine di enormi e innumerevoli foglie di coca di sterminate piantagioni da Cuzco a Bariloche. E’ stato geniale nell’aver compreso, finalmente primo dopo tanti semplici rubagalline da pochi milioni di dollari, che sarebbe dovuto scendere a patti con le varie tentacolarità del potere capitalistico. Ottenne il beneplacito alle sue iniziative espansionistiche, quello che voleva, con l’intuizione brillante di una diversificazione della distribuzione. Promise eroina e cocaina tagliate alla stricnina o alla Coccoina, la colla, per le classi meno abbienti e più ribollenti: pensionati al minimo della sociale, new global, girotondini, critici sinistrorsi clintoveltroniani, intellettualoidi gramsciani e calvinisti (nel senso di Italo); e garantì eroina e cocaina di primissima qualità per gli allineati benestanti e produttivi, con premi in dosi speciali per i migliori rastrellatori di spazi pubblicitari: un semplice uovo di Colombo. Ed ora è lì, in quel patio, solo con sé stesso ed il suo trionfo, Berluscones, padrone del mondo, con quella campesina spaurita che cerca di spremergli un’infinitesimale parte di successo… Lo mise a fuoco. Il primo santo vivente della storia della cristianità. Sua Santità Papa Silvius I è proclamato santo in una piovosa domenica di settembre con un’atipica celebrazione liturgica dove il Pontefice prende parte come protagonista eletto anziché elettore. Il meccanismo di beatificazione e poi di canonizzazione è cominciato anni prima, da quando fu visto camminare sulle acque del laghetto di Milano 3 benedicendo i gabbiani dell’idroscalo e intrattenendosi a parlare con i numerosi cani spisciacchiosi del parco Lambro ed il sindaco Albertini, tutti insieme e senza interprete. Furono archiviati nuovi segnali della santità di questo uomo fragile, quasi macilento, sempre malinconico e umile. 31 Fu visto imporre le sue mani su una povera vecchina terremotata di una località sperduta dell’Appennino in un sommesso e pio: “Mi consenta”. La vecchina morì sul colpo accasciandosi tra le grida isteriche d’ammirazione e celebrazione dei presenti. Volle imporre le mani anche sul sindaco, della giunta di centrosinistra, ma il primo cittadino si schermì con un inchino rinculando velocemente. E’ dato di sapere, consultanto gli archivi vaticani, che in diverse benedizioni ‘urbi et orbi’ dalla finestra dello studio che volge su Piazza S.Pietro, si sono avuti miracoli senza alcuna spiegazione scientifica. D’Alema ha cominciato a parlare in latino, Mastella e De Mita, finalmente, in italiano; Bertinotti è divenuto frate secolare laico e si è ritirato in un monastero tra le gole dell’Irpinia e Marco Pannella è divenuto bulimico e ora pesa centoventisei chili. Il miracolo più grande di tutti, tuttavia, fu la conversione all’islamismo dell’onorevole Bossi. Sua Santità Silvius I ora benedice e benedice… Lo mise a fuoco. E’ circondato da un’aura celeste abbacinante ed il suo capo chiostrato di una fluente chioma azzurrina cinerea è sormontato da un triangolo d’oro splendente. Cori d’angeli tessono lodi e canti al dio Silvio, unus et unus, per evitare confusioni fastidiose e caotiche ripartizioni di potere con Piersilvi figli e spiriti santi fini (gianfranchi). Spande il suo sguardo paterno a contemplare il mondo e l’universo tutto, l’universo uno, l’universo due e l’universo tre con piscina condominiale, e tremano gli eserciti ed i popoli, in genuflessione e stridor di denti, per il peso della terribile giustizia divina corretta dall’arcangelo Cirami, e di dolorosi condoni fiscali. Ed i fassinidi si pascono del dolore e della sofferenza nella vita in peccato mentre in alto i cuori levano gli storacidi e i tremontidi in comunione ai buttiglionidi soavi. 32 Ed Egli contempla la sua opera creata a Sua immagine e somiglianza fin dalla presentazione, con la testa della Medusa in cinemascope e le musiche di Ennio Moricone in senso-sourround… Fu bacchettato mentalmente, il distratto allievo Xur, nell’asettico laboratorio scientifico dell’Istituto Stellare di bioetica di Kmor, illuminato da pallide luci ultraviolette per la lezione di biologia intrauniversale parallela che prevedeva esperimenti in vitro extrastellari. Il severo professore calò un tentacolo pesante ed urticante sulla giovine schiena del maldestro studente apprendista intento ad esaminare vetrini di culture di mondi similari paralleli. Fu sferzato da un telepatico richiamo stizzoso. “Così non va, mio giovane inesperto Xur, non va. Non poni la giusta doverosa attenzione nel maneggiare quei vetrini: ti percepisco distratto e negligentemente disordinato. Stai correndo il grande rischio di mescolare i brodi di cultura che già sono diversi per altre asinine commistioni di tuoi colleghi allievi, rispetto a come furono creati in laboratorio secondo astruse formule computerizzate e calcoli perfetti. Diventerà un’impresa impossibile il riuscire ad evolvere una qualsiasi reazione chimica in maniera razionale e soddisfacente. Già un tuo collega zuccone del corso precedente mescolò qualche vetrino contaminando le qualità organolettiche di un mondo con un altro… Ma tu lo sai che nel mondo B, ti dico di circa sei o sette corsi precedenti, si poteva esaminare soltanto un piccolo chansonnier su navi di crociera che era accompagnato al pianoforte da un semplice batterio di nome Confalonieri e nel mondo F uno statista tombolotto con il soprattacco faceva le corna in fotografie ufficiali come un qualsiasi goliarda dell’università ludofrenica di Mercurio?” Il pallido Xur, vergognoso e timido, si profuse in tormentate scuse, con la mente a soqquadro, ma il danno, 33 ormai, era stato commesso, e i mondi dall’A alla Q divennero pressoché inservibili ed inutili nel goffo esperimento… 34 LA GIUSTA CAUSA Esce di casa, varato come una motonave, Josè Padilla, non quello della musica lounge, oggetto anche di un lancio classico di bottiglia, vuota, da parte di Clorinda, la moglie. “Vai al sussidio, buono a nulla che non sei altro! C’è da pagare la luce, parassita!” Josè è un uomo normale di mezza età appena sovrappeso, né bello né brutto, con due baffi e una mosca, alto, pigro, mite sognatore o forse semplicemente fancazzista. Esce evitando miracolosamente lo pseudobattesimo da varo e trotterella indifferente lungo il riposante immenso ombrato vialone di tigli alla volta del centro. Non si è mai compreso, con il senno di poi, se Josè sia stato un giovane pensionato, un disoccupato, un perdigiorno semplice oppure un perdigiorno di prima classe con trascorsi di giocatore di carte e di biliardo e annessi debiti o crediti. Josè assorbe epidermicamente suoni e odori e colori del viale: l’aroma dei tigli che stormiscono dolcemente ad una leggera brezza, fumo disperso in refoli effimeri e fugaci di sigarette d’ottima marca e popolari incatramate, urla gioiose di bimbi che rincorrono una palla multicolore, richiami salaci del venditore di cocco, fruscii di giornali che si sgualciscono a letture più o meno attente, cadenze di passi strascicati, decisi, oziosamente vaganti senza meta oppure diretti qui o là. Calura asfissiante in città e i tigli possono poco, anzi stordiscono. Tarda mattina e stranamente sempre meno gente, quasi che tutti si voglia cercare riparo fresco dentro casa o dentro un negozio provvisto, magari, di aria condizionata. Josè arriva nell’immensa assolata piazza del Magnifico, con in fondo la residenza del Magnifico, il Presidente, riverberata dal sole come una maiolica e cotta da raggi implacabili che lo scroscio delle due monumentali fontane figurative postavanguardiste non rinfresca neanche in metafora. 35 Panchine marmoree bollenti e deserte, poca ombra sotto giovani alberelli, sole quasi a picco. Josè ha un improvviso dolore lancinante, luminoso e puro, lungo il braccio sinistro fino alla spalla, e geme e stramazza a terra: pensa ad un infarto e ride dentro di sé amaro all’idea che non si vince nulla nell’indovinare. Un raro passante con notevole riporto a banana, strano oggi quanta poca gente c’è in giro, si avvicina e contempla l’infartuato offrendo generici servigi, untuoso e timoroso insieme, in pieno sudore, bagnato come una pantegana. S’accosta marziale anche un alto uomo d’aspetto quasi nobile di ‘hidalgo’, forse, di chi è abituato a comandare, e spuntano fuori come funghi o elfi magici altre figurette di persone curiose: un presepio estivo di comparse sudate senza pecorelle e caldarrostaio. Il Marziale ordina con voce stentorea baritonale: “Aria: lasciategli l’aria da respirare, fatevi più in là, non stategli troppo appresso! E lei, Querula Pantegana, non stia lì ad agitarlo. Non si dovrebbero muovere persone che hanno malori.” Si fanno sotto un Gobbo Servizievole, che appone la sua giubba arrotolata sotto il capo di Josè, e una Massaia Materna che prende la mano del sofferente fratello in Cristo e comincia a pregare sommessa sorridendo per infondere coraggio con giaculatorie funeree sul regno dei morti tra sporte piene di ciuffi di porri e peperoni verdi e gialli e frutta di stagione. S’avvicinano Ciuffetto Sfaccendato e Brufolo Vispo, due ragazzi curiosi che non hanno soldi bastanti per un ingresso alla piscina comunale. Marziale ‘hidalgo’ impartisce ordini e organizza i soccorsi come un Nelson in feluca estiva Nike con fodera e retina traspirante. “Ehi tu, Brufolo Vispo, corri al bar lì di fronte e ritorna con una brocca d’acqua, e tu, Ciuffetto Sfaccendato, corri alla cabina a telefonare al soccorso. Signora Materna Massaia, non lo asfissi, per favore...” Le guardie di scorta all’ingresso del poco lontano palazzo del Magnifico allungano il collo per comprendere 36 cosa stia succedendo e sembrano Smilzi Varani in grigioverde: forse parlottano tra loro, oppure vibrano le lingue all’aria torrida. S’avvicina al gruppo pietoso Sergente Varano dal baffo azzimato. Materna Massaia inacidisce verso Marzialehidalgo roteando gli occhi bovinfideisti: “Cosa vuole capirne lei di gente che sta per morire? Gli tengo la mano e prego la Vergine beata del Magnifico che non soffra troppo…” Josè è inquieto, ma debole, e soggiace ad un dolore secco come un punteruolo nel cuore: fugaci pensieri di vampiri resistenti alla luce, quelli nuovi di cinematografia che non sa più cosa raccontare. Ricordi di un’ultima partita a poker, di un debito da estinguere tra pochi giorni, del macellaio Ramiro che picchia con il batticarne i morosi sulle giunture delle articolazioni, a fare male, e questa rompicoglioni cornacchia con i porri che attira la sfiga del cosmo sul suo cuore nero di paura di morire. Un sospiro asmatico come scarburato. Ritorna sollecito, Brufolo Vispo, con una brocca, seguito da un personaggio nuovo con grembiulino nero, Barman Pigro, che ha mollato la vecchia Faema argentata con tre clienti punti interrogativi al bancone. Si fa dappresso anche Passante Indifferente, un dinoccolato informatico freddo nonostante l’afa, che esamina Josè attraverso occhialoni spessi come fosse un blocco di sistema a schermata blu con codici strani. Marziale ordina vago, a tutti e nessuno o uno in particolare: “Forza, ragazzo, inumidiscigli la fronte, ma fallo respirare…E lei, Sergente Varano, può sollecitare un’ambulanza per questo povero essere? Quel Ciuffetto Sfaccendato laggiù in cabina sembra incapace di fare una telefonata…Gioventù d’oggi senza esperienza e voglia di apprendere…” 37 Il Varano urla qualcosa verso Indolente Iguana Semplice al portone laggiù: Iguana Semplice s’irrigidisce e scompare quasi subito all’interno di una palazzina. Passanti radi, processionarie più o meno operose che neanche si fermano, occhieggiano con braccia cariche di sacchetti di supermercato variopinti, e tirano in lungo quasi in fila indiana o, a piacere, in ordine sparso, e scompaiono dietro le fontane che barbagliano e gorgogliano. Innaturale improvviso silenzio d’umani: solo l’ansare scoordinato di Josè del punteruolo e vago allungare di colli di soccorrenti verso l’altro capo della piazza del Magnifico. Vociare scomposto che si avvicina come una ola da stadio con lo stesso brusio. E’ un attimo: appare la testa di un corteo per un capodanno cinese scaduto. Urla e striscioni e filastrocche rancorose contro il Magnifico: una manifestazione… Marzialhidalgo si erge con fiero cipiglio a fronteggiare l’anarchia planetaria verso la massa ancora lontana che cresce e lievita di stendardi e cartelli ed elmetti e pentole. Cerca consensi con stile e autorità da capitano, anche coraggioso, di lungo corso: poche parole carismatiche con voce grave per l’equipe di primo soccorso all’aperto che assiste Padilla. “Si dovrà andare via di qui, ma non lo spostate: ne va della sua vita.” Josè percepisce nel dolore che qualcosa sta andando storto: sembra quasi che si sia rotta una catena di S.Antonio della solidarietà e che ognuno pensi solo a se stesso come di fronte ad un nuovo naufragio. Visioni in delirio di salvagenti vivaci a paperella e scrosci delle fontane che sembrano innaturalmente minacciosi, come una risacca scontrosa su scogli. Si sente per poco Josè ‘Titanic’ Padilla, con soccorritori intorno, ma di fatto solo. Massaia Materna prega seria, non sorride più, e nemmeno lo guarda…ma scruta oltre verso l’angolo di piazza occupato dai rivoltosi, preoccupata, e le sue litanie ora sono multicomprensive ecumenicosmiche. 38 Pantegana Bagnata si sta allontanando furtivamente: pare, a Josè, che stia anche squittendo qualche scusa leptospirosica verso gli astanti attraverso quei radi baffi spioventi, con il riporto che si sta sciogliendo come una banana flambè. Scuse perdute nel vuoto dell’inquietudine dei presenti. Gobbo servizievole esita utilitaristico: ha la sua giubba sotto il capo dell’infartuato e gli spiace lasciarla lì…ha bei tasconi capaci e ha le zip che frusciano da macho. Poi si decide: svuota solamente le tasche, da sotto il capo di Josè, prendendo le chiavi di casa e le sigarette, e s’allontana celermente a zigzag come un dromedario ubriaco con la gobba che pare ondeggiare ai balzi di vogliosa prudenza a mettersi al riparo. Ciuffetto ha abbandonato la cabina telefonica, ha puntato la folla come un furetto, una marmotta, e ha fatto un cenno a Brufolo Vispo di andare via e velocemente: il compare recepisce e si allontana senza neanche un augurio o una scusa seguito da Barman Indolente, ora sollecito e improvvisamente di nuovo professionale, che si precipita a tirare giù la saracinesca del bar con dentro ancora i tre punti interrogativi di un ristretto e due lunghi macchiati. S’allontanano tutti come scialuppe impazzite. Dalla parte opposta a quella dei rivoltosi fa capolino, sferragliando come un gigantesco meccano, un’autoblindo seguita da un muro embricato di plexiglas ed elmetti che riluccicano al sole come testuggini con protezione solare otto, quella media. Boato di sfida tra cartelli agitati: prove di film mitologico con scontri d’arena e pollici versi, e ruggiti di camionette e rutti di prime bottiglie con cencio che brucia. I Varani del palazzo del Magnifico dimenticano il quadro samaritano della piazza assolata di poco prima e serrano i cancelli, accorti, e si appostano dietro sacchetti di sabbia sfilando le mitragliette: si difende una nuova neodiga dello Zuiderzee dalla piena... mitragliette al posto di dita, nel muro delle idee. Il Sergente Varano lascia soccorritori e agonizzante rimuovendo ogni afflato umanista e corre verso la garitta a 39 riacquistare la sua posizione dove lo aspetta Iguana Indolente Semplice che ora sembra appena più elettrizzato rispetto al curioso tiepido di prima. Massaia Materna lascia la mano di Josè che ormai rantola e piange sommessa facendo l’appello di tutte le varie Madonne conosciute e non conosciute in scansione euristica: così almeno sembra al Passante Indifferente, informatico, in disparte, che ora mette però le ali ai piedi, leggero come un mouse, in cerca di un riparo. Padilla gli è apparso come un crash di sistema, la Massaia Materna non è poi così potente come antivirus e l’hidalgo autoritario vuole solamente salvare la faccia, ma frigge come una scheda madre difettosa. Massaia Materna nota con rancore la fuga dell’informatico senza cuore, si leva in piedi, poderosa come una dispensa, esorta un’ultima Madonna e corricchia di piedi piatti, tenendo le scarpe con le mani, verso un angolo di piazza deserto: porri e frutta giacciono orfani accanto ad un futuro concime nella piazza che ormai diviene un conosciuto videogioco. Marzialhidalgo considera strategicamente la posizione indifendibile e si congeda con brusca signorilità dal povero Josè che presagisce nebbiosamente guai sovrapposti ad altri guai in una specie di punteruolo che scaccia un altro punteruolo. E’ terreo, Josè, e mormora appena un informale: “Mi aiuti…, la prego…” all’indirizzo del Marziale che è abituato a comandare. Quest’ultimo pare avere dimenticato il suo vecchio corso di ufficiale di complemento, dove si distinse nel governare plotoni di reclute, e la sua carica di responsabilità di presidente dell’assemblea condominiale. Rincula con dignità, ma inesorabilmente, in indifferenza colpevole tradita solo da uno sguardo quasi commemorativo, verso l’angolo già battuto a piedi nudi dalla Massaia Materna, lasciando perle di saggezza speranzosa per il povero fancazzista infartuato: parole dignitose d’esortazione, lapsus di condoglianze, ancora esortazioni… 40 “Tenga duro, tenga duro…” Josè rimane solo con il suo dolore mentre nell’immensa piazza del Magnifico, davanti al palazzo del Magnifico, si avvicinano, in schieramenti opposti, manifestanti contro il Magnifico e la truppa della sua polizia. Le autoblindo sono diventate sei, per magica autoblindopartenogenesi, e si sono affacciati sulla scena anche un carro armato e un camioncino con la pompa dell’acqua. Di là, in opposto, si va avanti spingendo cassonetti pieni di materiale combustibile. Urla, comandi secchi, provocazioni, qualche sparo… Come andrà a finire, per Josè, non ha molta importanza: sta morendo tra i due fuochi. Ultima immagine per Josè, ultima visione: un mortaio di marmo cimiteriale con pestello di legno...con lui pinolo o foglia di basilico odoroso per un pesto da ultima cena. Addio mondo crudele. Josè, varato poco prima dalla madrina, sua signora Clorinda, affonda come un Titanic qualsiasi, doppia coppia di assi e re, di fronte a ad un tris di jack… COLPO DI STATO Il popolo oppresso dalla miope politica del Presidente Magnifico si è ieri sollevato contro le ingiuste istituzioni autoritarie ed ha conquistato il Palazzo governativo travolgendo ogni resistenza delle truppe mercenarie della Polizia e dell’Esercito. Si lamenta un morto per la giusta causa: un nostro dirigente del movimento, persona coerente di specchiata onestà, Josè Padilla, non quello della musica lounge, che è stato travolto da un’autoblindo mentre cercava il dialogo con il comandante delle truppe di difesa del dittatore. Il nuovo Presidente Marziale Hidalgo ha dichiarato che la piazza del Magnifico sarà dedicata al nome dell’unica vittima della breve e intensa rivoluzione e si chiamerà piazza del martire Josè Padilla della rivoluzione di giugno. 41 SVENTATO UN COLPO DI STATO Le truppe valorose fedeli al Presidente Magnifico hanno respinto un proditorio attacco di pochi facinorosi decadenti e privi di valori che hanno cercato di assaltare il palazzo presidenziale. L’atto criminale è stato respinto con determinazione dalle truppe e anche da civili che si sono affiancati ai militari nella difesa dei valori immutabili ed immensi della politica di stato del nostro Presidente. Purtroppo si lamenta un morto, un martire, tra i difensori della legalità, un onesto uomo della strada che con la sua vita ha fatto professione di fede nei confronti della politica del Magnifico. Il Presidente ha dichiarato che l’uomo, l’eroe, Josè Padilla, non sarà dimenticato nella storia del nostro popolo, e sarà celebrato in una sua data ricorrente come salvatore della patria a difesa dei valori della famiglia e della tradizione. Il macellaio Ramiro è divenuto intrattabile in questi giorni e nessuno al circolo ha il coraggio di organizzare una partitina al poker con lui: ha già pestato con il batticarne una Pantegana Bagnata con tristo riporto a banana che ha fatto una battuta di spirito sui martiri civili che non onorano i debiti di gioco. 42 LA PAROLA DI DIO Il fondo scuro della vetrina di Olympic, in piazza San Carlo a Torino, rimanda in effetto specchio la curiosa immagine di un ometto traccagnotto tra camicie e pantaloni variopinti in saldo. Modesto, l’apologia del rotondo, con testone quasi pelato, pancetta prominente, occhi bovini a palla, espressione mansueta e pigra, esamina prezzi e capi di vestiario nel primo pomeriggio di un giorno d’agosto come un bue da sacrificare alla divinità Canicola. Rumina perfino: una caramella alla menta. Atmosfera magicamente irreale. I portici della piazza e di Via Roma deserti con sagome lente lontane, calura sfiancante e riverbero agostano stordente. Modesto si gode le vetrine all’ombra e il silenzio della città svuotata dei vacanzieri e dei rimasti residenti occupati in pacifiche pennichelle pomeridiane. S’aggira per il centro in aberrante tenuta da cittadino sconfitto: pantaloncini corti colore sabbia del deserto da cui fuoriescono due bianchi sedani pelosi, canottiera bianca sudormaculata, calzini blu marino su sandali e marsupio in finta pelle. Basta veramente poco per godere della vita, almeno per certe persone che si amano e stanno bene in propria compagnia. Modesto strascica il passo senza fretta oziando davanti all’edicola del giornalaio, alla boutique, al negozio di ricercate ‘delikatessen’, Paissa, e si bea dei tagli di sole tra i portici, un qualcosa di vagamente metafisico alla De Chirico, senza persone, senza ostacoli alla purezza delle sole linee geometriche di luce e di ombre. Percepisce un lontano scalpiccio dietro di sé, ma non vuole dargli importanza. Trasale con un misto di rassegnazione, fastidio e ironia all’udire una voce garbata e suadente. “Vuole ascoltare la parola di Dio?” Risponde fermo e arcigno, a scrostare socievolezze. 43 “No, grazie. Non mi interessa.” “Non le interessa la parola di Dio?” “Non mi interessa ascoltare lei che parla della parola di Dio, per lo meno adesso: se ci pensa è molto diverso, no?” “Eppure, gentile signore, questo dovrebbe essere un buon momento per ascoltare me che le parlo della parola di Dio: nessuno può distrarci e questi momenti potrebbero costituire una splendida occasione di arricchimento per lei che ascolta e per me che avrei l’onore di farmi portavoce…” Modesto, fino a quel momento distratto da una bottiglia di grappa dalla forma inconsueta, esamina immusonito il volenteroso apostolo. E’ un giovanotto dinoccolato altissimo e quasi scheletrico con due enormi orecchie a sventola. Viene quasi da ridere a Modesto, (da che pulpito), nel notare l’abbigliamento tipico di circostanza urbanpastorale: camiciotto con colletto rigido monumentale anni settanta, a quadroni vivaci del tipo canovaccio da cucina, ficcato in pantaloni semiascellari con tasche alla carrettiera, fuori moda e anche fuori stagione, pesanti, caldi, strozzati da una cinta consunta ben sopra l’ombelico del giovane perticone. Costui ha anche un sorriso che vuole essere accattivante, ma appare indisponente, giallo, molto giallo, deturpato da un nasone spropositato sormontato da occhiali a montatura pesante e a lenti spesse come culi di bicchiere. Un ciuffo appena untuoso a coprire una fronte ampia e fruncolosa. Modesto nota anche il colorito diafano, gessoso, del ragazzone che sorride sfacciatamente sereno e malizioso piegato verso di lui con una borsa nera carica probabilmente di opuscoli propagandistici. Ha un vago senso di repulsione, di diffidenza, e si guarda intorno alla vista di qualche altro passante, ma prende coscienza d’essere solo, solo con il pennellone dal muso di talpa. E si irrigidisce. 44 “Senta, le ho detto che non mi interessa, grazie. Mi lasci in pace…” Si rigira esageratamente interessato verso una piramide di barattoli di frutta esotica sciroppata. “Temete Dio e dategli gloria, perché è giunta l’ora del suo giudizio…Apocalisse 14,10…” Modesto è investito e sorpreso dalla citazione. Il giovane diafandumbo, da sorridente che era, spara il messaggio con voce stridula e atteggiamento ieratico e partecipe, serissimo, con gli occhi spalancati attraverso i due culi di bicchiere, in curiosa rappresentazione grottesca di un Harry Potter cresciutello, terrorizzato e terrorizzante. Assume poi un tono asettico e professionale nel citare la fonte che obiettivamente, in genere, incute una certa soggezione e inquietudine: con l’Apocalisse, infatti, il pelo aggriccia e le mani corrono alle pudende in vaghi laicoesorcismi. Modesto, in effetti, si rigira frastornato verso il giovanottone, quasi spaventato dalla veemenza della citazione, pensieroso sugli effetti del caldo e sulla ricca aneddotica di brutti incontri metropolitani, e cerca di mantenere una disarmante freddezza. Gli sibila un dignitoso: “Mi lasci in pace! Non ho voglia e tempo di ascoltare quello che dice!” Perticone, strizzando quel condominio d’occhi e abbozzando di nuovo un sorriso irritante, provoca con voce bassa e innaturale. “Non pensa che la sua inquietudine debba ricevere conforto nell’accettazione e nella consapevolezza del significato della parola di Dio?” Modesto comincia ad avere voglia di urlare. Non ne ha il tempo. Avviene una seconda trasfigurazione. Predicator lascia cadere pesantemente la borsa in terra con un tonfo e si lancia a braccia levate in una nuova breve filippica con voce ispirata di profeta di sventure. 45 “E’ avvolto in mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio… dalla bocca gli esce una spada affilata per colpire con essa le genti…Apocalisse 19, 13-15” Pronuncia i versetti con occhi liquidi e spiritati e voce rotta dall’ansia, quasi gridando, per poi planare nel citare la fonte con stile da centralino per taxi e spianare la bocca digrignante in un sorriso. Le smisurate orecchie appaiono come ali pipistrellesche e conferiscono al predicatore un qualcosa di gotico. Modesto ha un susseguirsi di reazioni che dal fastidio iniziale, poi intarsiato di sufficienza e poi di indignazione, virano verso quel tipico adirarsi che si confonde con l’impotenza e la paura. L’adrenalina cominci a pulsare nelle tempie del rotondetto sfaccendato che decide di troncare ogni contatto con il giovane giraffone pazzo. Gira i sandali e cerca di allontanarsi in signorile indifferenza. E’ immobilizzato lievemente da una mano artigliante e soprattutto dalla solita voce stridula che raspa nel cervello come carta vetrata. “Serpenti, razza di vipere, come potete scampare alla condanna della Geenna? ... Matteo 23, 33”. Si rigira inviperito, è il caso di dirlo, verso il lungo profeta di disgrazie, Modesto, indignato per il contatto fisico, e volge lo sguardo a destra e a manca alla ricerca di un vigile o di un passante per una comune crociata contro il predicatorprevaricante. Nessuno. Negozi e bar chiusi. Orario inclemente: buono solamente per sfaccendati pigri e predicatori zelanti. Si trova davanti al Caffè Torino, il più antico e blasonato della piazza, chiuso per ferie, alle prese con un invadente preoccupante lungo individuo che accende sospetti circa la sua ecumenica volontà di affratellante proselitismo. 46 Cerca di divincolarsi e di allontanarsi e strattona da sé quella mano ossuta che lo brancica per l’ascolto della parola di Dio. Il movimento è scomposto, dettato da rabbia, e il gesto nel divincolarsi è inconsulto e fa scivolare il buon Modesto sui lucidi testicoli bronzei levigati del torello sul pavimento davanti al caffè Torino. E’ tradizione cittadina sabauda pesticciare con noncuranza durante il passeggio, preferibilmente con il piede sinistro, sui testicoli imponenti del torello bronzeo rampante che è incastonato tra i marmi della pavimentazione davanti l’atrio del vecchio famoso caffè Torino di Torino. Si dice che porti bene: prosperità e fortuna. E’ inutile rilevare che il torello, ancorché di bronzo, ha le sue fortunate appendici genitali consunte da secoli di disinvolti strofinii, e le ha anche, quindi, scivolose e leggermente avvallate. Modesto slitta sullo scroto del toro e frana pesantemente di nuca sul marmo tiepido vicino ad una colonna di seggioline impilate e assicurate con catenella. Ha una scarica di elettricità violenta, buio assoluto nerissimo senza rumori e senza tempo, e poi penombra disarticolata e confusa in una sensazione di scorrere di liquido caldo dalla nuca nell’appannamento della vista. Resta a terra inebetito strizzando gli occhi sempre più vitrei mentre la vita sembra abbandonarlo. Distingue la sagoma dell’alto predicatore pazzo che gli si avvicina con il volto trasfigurato verso il suo viso. Lo riconosce dalle orecchie e dagli occhiali massicci che flirtano esteticamente con i quadroni sgargianti del camiciotto. Pare, a Modesto, di distinguere strani bagliori attraverso le spesse lenti, di gioia zelante per una consapevolezza di utilità. Gli sembra di intuire un abbozzo di sorriso, ma potrebbe essere anche una smorfia malvagia di incontenibile gioia… Chissà. 47 Modesto ha la consapevolezza di essere in balia del predicatore, ma si sente troppo spossato e sempre più svuotato di energia per pensare anche solamente di contrastarlo. Vede quella chiostra di dentoni gialli atteggiati ad un sorriso, vede un lampo tra le lenti, e percepisce ancora il freddo della stretta di quella mano artigliante fredda. Ode la solita voce ossessiva che gli sembra quasi garrula e felice. “Chiunque adora la Bestia e la sua statua…berrà il vino dell’ira di Dio…e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell’Agnello…” Modesto rabbrividisce in pieno agosto di freddo, del freddo della vita che se ne va, e pensa in pochi attimi al torello di piazza San Carlo e alle sue proprietà taumaturgiche tramandate da secoli di superstizione. Associa come blando esorcismo il torello all’Apocalisse e al predicatore che dardeggia fieri sguardi volti a dare maggiore significato a quanto recitato. Chiude gli occhi senza porsi troppe domande, ormai allo stremo, mentre la stridula voce ritorna piana e cita la fonte dell’ultimo versetto: “Apocalisse 14,10.” Modesto, uscito per godersi il silenzio e la riacquisizione di spazi in sua sola compagnia, muore, forse emendato dei suoi peccati, ascoltando la parola di Dio. 48 MINISTORIE DI MORTI STUPIDE PER IL TROPPO CALDO Un’afa soffocante a suscitare ribellioni e buoni propositi: positivizzare. La nuova parola d’ordine di Giorgio: positivizzare. Reduce da un periodo nero di incidenti, lutti familiari e di amici, problemi di lavoro e di salute, il buon Giorgio, giovane di tratti e modi gentili e di spiccata sensibilità, decise che avrebbe dovuto instradare un inevitabile nuovo corso di eventi con il suo pensiero positivo. Serenità, dunque, e una maggiore armonia nella quotidianità della sua vita, con tempi nuovi scanditi nella calma, nell’assaporare sensazioni positive con tempi umani liberi da forzature imposte dalle vecchie circostanze. Giorgio, immobile nel suo letto bollente, fece progetti di nuova vita. Basta con il fumare, con i fast food di plastica, con la fretta che immusonisce nell’insoddisfazione e nell’incapacità di afferrare momenti belli della giornata che passano, sì, passano, ma veloci e quasi sempre non recepiti tra gli sguardi vuoti di colleghi o cipigli diffidenti di passanti frettolosi e distratti per il prossimo. Giorgio si disse: comincerò da domani. E dormì, nonostante la calura opprimente, il sonno del giusto, di chi è in pace con la propria coscienza. Il giorno dopo si destò con lo spirito del saggio monaco tibetano e si sorrise allo specchio con fiducia e complicità, in benessere con se stesso. Si vestì con calma: una vestitura da torero o da samurai, piena di consapevolezze, rituale. Consumò una frugale colazione, olimpico nella consapevolezza di un buon assorbimento di prana, masticando piccoli bocconi come pile di energia vitale da sfruttare con saggezza per tutta la giornata. Quasi faceva meno caldo, seppure fosse molto caldo. Ed uscì pervaso di serenità, con il suo sorriso stampato come nuovo distintivo sul suo bel volto incorniciato da una nuova luce. 49 Gli sembrava di essere parte del mondo, adesso, e sorrideva alla città e ai passanti diffidenti e torvi ferocemente rassegnati alla solita ripetitività senza anima delle loro giornate. Il sole di rame contraccambiava dispettosamente, ma Giorgio non se ne curava. Qualcuno sgranava gli occhi, qualcun altro li abbassava quasi colpevolmente. Qualcuno si sentiva inferiore… “Che cazzo hai da guardare e da ridere… Ricchione…Sei solo un ricchione!!!” Forse fu troppa birra, forse l’insofferenza per il troppo caldo, forse la provocazione di un sorriso troppo aperto e fiducioso. Giorgio si accasciò con gli occhi sbarrati verso l’azzurro del cielo, con uno squarcio nel ventre, mentre la sconfitta delle solite cose fuggì stringendo tra le mani un bollente coccio di bottiglia insanguinato. Il gigantesco sanbernardo trotterellava al crepuscolo dietro il finanziere sul ciglio dell’autostrada del Brennero. Caricò improvvisamente il suo istruttore che urtò con il capo l’asfalto rimanendo esanime a terra. Il cagnone si agitò con una curiosa frenetica danza sul corpo del militare e riuscì a legarlo con il lungo guinzaglio di cuoio, da cui si era liberato, al garde-rail. Si allontanò, poi, nel buio, latrando sommessamente con una intonazione corporativa appena malevola. L’impatto fu abbastanza forte e il ragazzo ebbe un contraccolpo che lo lasciò un poco stranito. Tanta gente intorno: l’aria della sera appena più fresca favoriva le uscite alla ricerca di un minimo di refrigerio. Il ragazzo assunse un’aria amichevole, quasi allegra e complice, dopo lo scontro, per affrontare con sportività e civismo uno sguardo di persona abbastanza adirata. L’adirato era uno di quei classici bulli palestrati di periferia con il taglio di capelli alla tedesca, da terzino sinistro di una squadra di Bundes Liga, cortissimi davanti 50 ed esageratamente lunghi e spianati come da una motofalciatrice ben più sotto della nuca. Aveva un tatuaggio enorme con la solita ragnatela sul gomito, banalissimo, e una barba ispida di tre o quattro giorni che evocava cavalli di frisia e filo spinato. Era con una ragazza che sembrava su misura per lui, come da catalogo Vestro: una burrosa rotondetta con minigonna eccessiva che evidenziava due cosciotti da porchetta frascatana insalamati in calze nere a rete, truccata pesantemente a cazzuolate, con uno sguardo malizioso e bovino insieme, e lo smalto scrostato, a tinta violentissima arancio, sulle dita dei piedi con sandali alla schiava, e delle mani in arrossamento perenne. Il truce terzino cominciò a sacramentare rifiutando qualsiasi complicità, cercando assensi tra gli sguardi indifferenti del capannello vicino dei presenti. “Brutta faccia di merda, vengo da destra, non lo sai? La mia donna s’è sbucciata un ginocchio e s’è sfranta le calze a rete… Che cazzo hai da ridere? Gliele paghi tu le calze? Ti diverti a rovinare le serate ai cristiani?” La voce cresceva in un rauco squadernare di insulti sempre più violenti e adrenalina sempre meno trattenuta. Vennero chiamati all’appello la mamma del giovane e i suoi defunti più cari. Venne nominato il nome di Dio invano e in maniera oscena. Il ragazzo manteneva, con ammirevole autocontrollo, fotoimpresso quel sorriso, ora più vacuo e smarrito, e aveva sgranato gli occhi per l’esagerazione della reazione. Guardava l’energumeno e la folla, la porchetta che ruminava una gomma e contraccambiava lo sguardo come se contemplasse un cassonetto straboccante durante uno sciopero dei netturbini. Fissava il ragnatelato che ormai aveva il collo turgido prossimo all’ esplosione e lo sguardo iniettato di sangue. Sperava in uno scherzo di cattivo gusto e auspicava un cicchetto e una pacca sulla spalla con due birrette al bar vicino. 51 Fu un attimo. Non si rese conto di nulla. Venne sbattuto contro la sbarra della corrente elettrica che aveva dietro la nuca e fu subito buio con le ultime immagini di denti arrotati in ruggito bestiale e una frangetta corta corta da terzino tedesco mossa da una brezzolina schizzata di saliva rabbiosa. Poi il buio. Venne estratto dalla sua vetturetta, floscio, da braccia caritatevoli mentre una nuova scenografia dell’allegoria della pietà si andò a creare tra le urla sconnesse della bovina e le goffe scuse mormorate a fonemi gutturali del toro da monta che venne caricato brutalmente su una pantera della Polizia. Il pubblico ritornò a casa tra l’annoiato e il divertito apprezzando anche un leggero calo di temperatura. Il Luna Park si spostò dopo due giorni verso una ridente località montana. Neanche un graffio o una ammaccatura sulle due vetturette dell’autoscontro. 52 SUCCHIARE IN PERFETTA LETIZIA Tra qualche anno, speriamo pochi. Ognuno di noi, anche un onorevole peone di un partitino sotto il cinque per cento, ha una sua storia importante da raccontare, un suo aneddoto che gli ha cambiato l’esistenza o il concetto di intendere la vita. Omero Treossi, l’acuto figlio di un macellaio di un paesino, mi raccontò la sua risalente al periodo scolare. Castelsassofrassodisottosopravicinoalfiumesulcolle era, allora, una ridente piccola comunità di poche centinaia di anime ingenuamente spoliticizzate, con due spacci di generi, alimentari e non, un bar ristorante circolo con annessa bocciofila, una chiesetta, un ufficio postale e una scuola senza spazi per le affissioni in periodo elettorale. Il paesino era dunque un’oasi di serenità. La scuola era anomala, rivolta alla comunità esigua e a qualche ragazzo delle campagne circostanti. Era un basso fabbricato, di quattro o cinque stanzette, dipinto di un giallo sporco che non era riuscito a cancellare una vecchia scritta “Vinceremo”. L’edificio racchiudeva le sezioni di scuola elementare, media inferiore e liceo classico, seppure rappresentato in soli due anni, quelli ginnasiali. Gli alunni, ovviamente eterogenei da un punto di vista anagrafico, erano disposti tra le stanzette a gruppi di uno o due o pochi, come stanchi partecipanti a quasi inutili commissioni della Camera dei Deputati, con volenterosi ed entusiasti giovani professorini precari che venivano dalla città a giorni alterni per le lezioni: un giorno lezione e un giorno incazzatura per lo “status” di precari. Il piccolo Omero frequentava con discreto profitto la terza media inferiore ed era il solo allievo della sua classe: un caso di tenera cronaca di telegiornale studioapertico o emiliofedista a stornare attenzioni da cortei di disoccupati organizzati. 53 Una mattina, in pieno ripasso, aprendo il suo libro di Geografia, quasi gratuito, notò qualche pagina curiosamente bianca. Alzò la mano, come un bravo allievo rispettoso e, al cenno della sua insegnante, si avvicinò alla cattedra con il libro per partecipare la sua scoperta. Le pagine che riguardavano Cuba e la Palestina erano totalmente bianche. La pagina della Corea del Nord era molto sbiadita. Inspiegabile. Il piccolo si incuriosì alla ricerca di altre stranezze e cominciò a sfogliare gli altri libri di testo. Fu un susseguirsi di altre sorprendenti pagine bianche. Sul libro di Storia mancava il testo sulla Rivoluzione d’Ottobre e su quello di Educazione Civica stava scolorendo buona parte di tutta la Costituzione a partire dall’articolo 1, quello che oggi fa tanto ridere soprattutto in Basilicata. Il testo di Latino era pieno di macchie bianche a leopardo e tante altre pagine apparivano scolorite: era un libro praticamente inservibile. Sul libro di Matematica non vi era alcun accenno all’insiemistica. La professoressa uscì dall’aula, seguita dal piccolo Omero, per andare a parlarne con il collega che insegnava, per il biennio ginnasiale, a due svogliati contadinotti con la mente perduta dietro al fienile insieme alla Zaira, la scema del villaggio. Lo stupore aumentò. Anche i libri del ginnasio apparvero mancanti di note e capitoli interi. Il docente non riuscì a trovare testi su Marx e su Hegel e i due ragazzi svogliati, elettrizzati dalla cosa insolita, cercarono invano capitoli su San Francesco, su Robin Hood, sulla Rivoluzione Francese, ed il loro libro di testo di Latino si aprì su pagine completamente bianche. Perfino il libro di Chimica presentava un foglio bianco in corrispondenza dei radicali liberi. Si guardarono come allocchi, i due professori, senza darsi spiegazioni accettabili, quando sopraggiunse la 54 materna signora della nutrita classe elementare, di ben sei virgulti, tra maschietti e femminucce, che sventolava un sussidiario con diverse pagine senza testo e due altri libricini che risultarono essere un Corso pratico per l’attività del Patchwork e un Manuale per la manutenzione di forni a microonde, questi ultimi apparsi sui banchi dal nulla. I corsi della giornata si conclusero bruscamente e i tre docenti si avviarono presso la locale piccola stazione dei Carabinieri presieduta da un solerte Maresciallo. La scuola appariva addormentata, come tutto il paesino, del resto, ma tutti erano appostati nel buio della notte a cogliere eventi anomali o a scorgere arcane presenze. Il piccolo Omero, con il padre a fianco armato di coltellaccio per disossare quarti di bue, diede un sobbalzo. “Guardate lassù…” Qualche centinaio di occhi si volse verso il tetto della scuola. Una sagoma di deltaplano scura, con una scritta, “Polisportiva Aviovolo Milano Due” stava planando sui coppi dell’edificio. Una figura snella inguainata in una tuta aderente nera si sfilò l’imbracatura e scomparve tra gli abbaini della soffitta della casa. Il maresciallo mormorò a bassa voce: “State all’erta, ma rimanete fuori: entro io che sono armato”. Si smarrì nell’aria qualche ave, pater e gloria del parroco e di due o tre fedeli apprensive, e il tutore dell’ordine entrò nella scuola con torcia spenta e Beretta regolamentare. Si aggirò circospetto tra le stanze alla ricerca dell’intruso che si era calato all’interno dal tetto. Udì un rumore di risucchio provenire da un’aula. Spalancò con un calcio la porta della stanza e accese la torcia puntandola verso un angolo da cui proveniva il curioso rumore. Uno spettacolo raccapricciante: una sagoma nerovestita rattrappita e ingobbita su una pila di libri. Succhiava pagine da un libro aperto. 55 Si volse con un gemito di fastidio iroso. Fu per il Maresciallo una rivelazione. Era Letizia Moratti, ministro della pubblica Istruzione, quasi irriconoscibile, inguainata in una tuta aderente nera avvolta da un tabarro nero. Non aveva più la sua riconoscibile cofana rossiccia smorta in testa. Aveva i capelli irti, rosso fiamma, a mezza strada tra lo stregone delle matite Caran d’Ache e la Medusa coi serpentelli. Aveva lo sguardo dell’invasata con due occhi cerulei morti iniettati di sangue e un’espressione malevola culminante in un sorriso innaturale di vampiro, ma non la figura classica del vampiro con i canini sviluppati. Lei era un vampiro alla Murnau o alla Herzog, con i due incisivi zatteroni davanti allungati come due spilloni, e rideva con una vocina chioccia come uno studentello sorpreso con il Bignami in mezzo alle cosce durante un compito in classe. Si erse in una certa fierezza dovutale anche dallo stato di Ministra e soffiò selvatica come un gatto affamato all’indirizzo del Maresciallo. “Alzi le mani, signor Ministro, e stia ferma. Non mi costringa a gesti di cui potrebbe pentirsi”. La Moratti ghignò minacciosamente: “Parlerò di lei al buon Pisanu: credo che il Gennargentu possa esserle più adatto, visto che manca di rispetto ad un rappresentante del Governo, che dico del Governo, del Buongoverno. Che cosa vorrebbe fare? Spararmi? Ma lo sa lei, cribbio, che io sono immortale e sono anche protetta da una oleosa pellicola invulnerabile impostami dalle dirette mani dell’Unto d’Arcore?” Il Maresciallo ebbe la presenza di spirito di tenerle bordone, dandole filo per parlare mentre con la torcia lampeggiava in alfabeto morse verso la finestra. “Perché questi gesti, Ministra? Cui prodest? A chi giova?” “Eccoooooo, un altro comunista traditore che sa il latino… 56 Le risponderò come l’onorevole Bondi: Vergognaaaaa, vergognaaaaa… Questa è una missione, questo è un esperimento. Questa piccola scuola è per me un laboratorio per sperimentare quanto vado propugnando da anni circa il concetto di istruzione, circa il concetto del sapere. Il piccolo padre, d’Arcore, disse, con un abbraccio al popolo italiota, che nuovi tempi saranno per i nostri eredi, e tutti i pargoli inizieranno il loro percorso di conoscenza a cinque anni, almeno all’inizio, e ci sarà un computer in ogni casa e l’inglese per tutti. Arriveremo, almeno con due o tre legislature, (il Maresciallo rabbrividì), a minicorsi formativi intrauterini con auricolari e disegni di animazione per corsi di creatività con le costruzioni Chicco. Basta con le lingue morte senza praticità, basta con teorie senza agganci pragmatici con la vita di tutti i giorni. Produttività e imprenditorialità. Iniziative e investimenti. E così “Gira la ruotaaaaaa oh oh oh”. E’ tempo che ognuno sappia far funzionare un forno a microonde e un decespugliatore per la sua villetta con il prato all’inglese nel suo condominio del tipo di quelli di Milano due e tre e quattro e cinque. E’ giusto che si sappia parlare al prato all’inglese in inglese e che si sia padroni della lingua. E’ giusto che si vada a sfoltire il sapere di cose inutili che sono solamente state indottrinate dai comunisti. Chi era Karl Marx? Non era un pacificatore: era ed è tuttora un pericolo. Meglio Groucho con i suoi fratelli a riunire una famiglia davanti a un’offerta quasi regalo governativo di un decoder per apprezzare i nuovi corsi formativi di psicologia divulgata quasi gratis alle masse da trasmissioni come Grande Fratello. Io plano da diverse notti in questa scuola per riscrivere i libri di testo del futuro, che saranno offerti a peso in offerta speciale in tutti i grandi magazzini. Io sto succhiando inchiostri tossici di educatori comunisti per liberare la gioventù dall’inutile e dal banale. 57 “Ab ovo”? Molto meglio l’ovetto Kinder per una sana merendina… “Quoque tu, fili…”? Meglio Qui, Quo e Qua per una spensierata giovinezza disimpegnata. “Conosci te stesso” di quell’ex calciatore, quel Socrates? Un plagio assoluto della nuova enciclopedia multimediale che è offerta con comode rate e con il noleggio temporaneo a prezzi stracciati di un tutor integrativo, con relativo numero verde, a sostegno dell’ingrato precario comunista ingiustamente scazzato. Un nuovo futuro per i nostri figli: tanti Mulini Bianchi requisiti per nuove scuole di origami, di decoupage o di ikebana, di aeromodellismo, di collezionismo di schede telefoniche, materie vissute e pratiche di una vita di tutti i giorni. Basta con vecchi stereotipi, viva gli impianti stereo!!! E poi velinologia, tecnica del sorpasso in autostrada, filosofia bancaria, insabbiologia applicata…le nuove materie per il giovane di domani…” Parlava stridula con gli occhi sbarrati in un sorriso lucidamente folle e il maresciallo indietreggiava mentre il mostro sembrava ingigantire di statura come se avesse anch’esso dei soprattacchi come il suo protettore. Si sentì perduto, il tutore del solo ordine, e cominciò a raccomandarsi l’anima a Dio, sparacchiando qualche colpo verso l’entità che rantolava divertita malignamente. All’improvviso, però, come nei buoni vecchi films di una volta, come nel film di Frankenstein, quando i villici armati di bastoni e fiaccole irrompono nel castello del mostro, i castelsassofrassesi sfondarono le porte, attirati dalla decodifica dei lampi della torcia da parte del piccolo Omero, che faceva anche un corso privato a pagamento a Scuola Radio Elettra, ed entrarono nella sala dove stava per consumarsi la tragedia. La Moratti rimase di sasso senza frasso, sorpresa da tanta proterva determinazione del popolino a remare contro, e rinculò in difensiva, inorridita da tanta ingratitudine. 58 Arretrò anche per un insopportabile puzzo di aglio: i contadini avevano addosso intere reste di grandi bulbi e sembrava di essere ad una festa popolare hawaiana. Avevano – “Horresco referens” – falci e martelli sovrapposti a formare una sorta di croci che inquietarono il mostro inchiodandolo verso un angolo cieco. La Letizia aveva ora uno sguardo spaurito, di animale braccato, al riverbero di lame che l’accecavano, nel mezzo di un rumoroso coro di invettive. I bagliori delle falci al chiaro di luna, concentrati sulla sua figura, cominciarono a strinarla sulla criniera irta del capo. Divenne vieppiù rinsecchita e cominciò a perdere bave di inchiostro dalla bocca atteggiata ad una orribile smorfia dolorosa. Vecchie citazioni latine e greche, autori biasimati, intere nazioni ripresero il ruolo di una loro immortale esistenza, e Fenoglio e Primo Levi e Gramsci si riaffacciarono sull’antologia, e la storia recente rivide figure scomparse ed episodi che la Letizia avrebbe voluto dimenticati, e vecchie circolari scolastiche riguardanti il diritto allo studio e alla gratuità di mezzi si gonfiarono innaturalmente di ingombrante presenza come sotto effetto di anabolizzanti. E la Costituzione brillò a fuoco nella penombra della scuola, in pianto e stridore di denti del vampiro governativo che si estinse in uno sfrigolio di cenere dispersa nel vento a concimare melanzane. La voce dell’Unto, pensieroso di fronte ad una sfera di cristallo, mentre osservava quanto accaduto alla sua emissaria, ruppe il silenzio della concentrazione dell’assemblea degli accoliti. “Mi si consenta di dire che è solamente un incidente di percorso ininfluente: da domani mandiamo in avanscoperta la Letizia due, quella clonata con successo pochi mesi fa…” Omero mi ha detto che gli svegli insegnanti precari di Castelsassofrassodisottosopra stanno organizzando ancora oggi, da allora, in strenua resistenza semiclandestina, 59 alternative gite scolastiche in Costarica e Cuba per lo studio della geografia e di nuove formative lingue morte come il Tolteco, assolutamente improduttive sotto l’aspetto imprenditoriale, ma assai feconde di significati per uno sviluppo di logica e ragionamento per una nuova civiltà. 60 COME E’ DELIZIOSO ANDAR… Ogni tanto sorrido tra me e me a fantasticherie da persona sadica, in un umorismo nero, senza pietà per i soccombenti individuati come stupida gente senza recupero. Spero sempre che una delle mie rappresentazioni mentali, una delle più cattive, si realizzi in un prossimo ipotetico futuro. Un simpatico nonnino diafano con pochi radi capelli candidi, su una voluminosa carrozzella a motore elettrico, con le gambe ricoperte da una vivace coperta scozzese, procede a velocità da paralitico in una splendida giornata di sole su un marciapiede semideserto nella città d’agosto svuotata dei vacanzieri. Il fragile motorizzato, appena ronzante, traballa sulle buchette del marciapiede, ma mantiene un sorriso pacioso ed uno sguardo sereno e tranquillo. Attraversa, rispettoso di un semaforo verde, un grande corso… Nel rientrare sul marciapiede di fronte, prospiciente un bar ricevitoria pieno di vitelloni di ogni età nullafacenti, si accorge di una automobile che ostruisce il suo passaggio e lo blocca sulla strada. Il vecchietto, senza scomporsi, alza un lembo della coperta scozzese e mette alla luce un lustro bazooka incorporato al lato destro della sua carrozzella. Spara un colpo devastante, incendiario: la carrozzella è ben costruita ed assorbe il rinculo tremendo accogliendo il senilcommando nell’imbottitura dello schienale. L’automobile si disintegra in un boato che richiama fuori dal bar tutti gli avventori. Uno di loro, oltre che sorpreso, è esagitato: è il proprietario dell’automobile. Si fa incontro all’artigliere, minaccioso con un cacciavite. L’anziana creatura scopre l’altro lembo della coperta, sul lato sinistro, quello della mitragliatrice ultimo modello a 61 tanti colpi al secondo che spara a colpo singolo o a raffica: spara una breve raffica. I compari dell’ex automobilista rimangono indecisi tra la vendetta di gruppo mediante linciaggio e la sola prudente ingiuria urlata in più dialetti: optano per la seconda. Il canuto nonno spara una raffica più lunga, a ventaglio facendo perno su una ruota, sorridendo, senza una parola; poi esplode altri due colpi di bazooka nel bar e lancia con un certo insospettato vigore una bomba a mano… Infine, tra una nuvolaglia nera acre e spessa e qualche lingua di fuoco, tra gemiti e deboli rantoli di agonizzanti, il veterano veteRambo sale sul marciapiede e continua la sua passeggiata sulla carrozzella… Accende più in là, come fosse successo nulla, uno stereo sotto il sedile, con una bella mazurca romagnola a volume esorbitante. Fremono i vetri degli appartamenti sulla via; qualcuno s’affaccia e scruta… Una dolce vecchietta tremula, con un corsetto imbottito e un dolce sguardo da affettuosa nonnina, è indecisa se utilizzare un bel fucile da caccia grossa col mirino telescopico, caricato a pallottole dum dum, o un ruspante vaso di azalee ripieno di nitroglicerina, ma questa è un’altra fantasia… 62 SUPEREROI AL FANDANGO CAFE’ Mi chiamo Ivo, creativo ed ‘alter ago’ di Sandra, la regina della notte al Fandango Cafè di Mirandola. In realtà sono anche il custode di segreti che oggi, però, ho voglia di rivelare per non lasciare pensieri a metà in persone sveglie che hanno intuito qualcosa di strano che accade nel nostro covo: potrebbero arrivare a conclusioni sbagliate e tutto questo sarebbe ingiusto. Che cos’è il Fandango Cafè? E’ un grande presepio profano, pieno di lucine multicolori ed echi di musiche varie che adrenalizzano e anestetizzano corpi e coscienze. E’ un tempio della notte. Si cerca un minimo di benessere sereno nella diversità degli stili dei vari ‘dj’ che propongono musicalitinerari diversificati per un benessere del corpo nel sudore della danza e per il benessere dello spirito nello stupore di tutte queste lampadine intermittenti variopinte che si riflettono nel bicchiere colmo di ‘mohito’ che la regina della notte ammannisce agli amici con disinvoltura deliziosa. Il presepio si anima di figurine, neo pastorelli metropolitani, artigiani, devoti adoratori di Lounge e Ska, e il buio della campagna circostante si accende di stelle anche sotto un terribile temporale che sembra voler squassare le tende arabe sotto scrosci di tempesta. Ma c’è dell’altro. Il Fandango è come la grotta di Batman ed io sono come Alfred, il maggiordomo del giustiziere vestito da pipistrello. Ciò per dire che tutto è spesso diverso da come appare e che l’abito non fa il monaco. Vedete quel ricciolino al bancone del bar? Pare una macchietta da commedia all’italiana degli anni settanta, un Alvaro Vitali con la parrucca, ma è…tenetevelo per voi…un supereroe che salva il mondo. Si chiama Maggini, forse Formaggini, forse Maggiani…non ha importanza… E’ la sua identità segreta. 63 Si presenta tutte le sere verso le ventitrè al bancone del bar che sembra un’astronave di Jack Daniel. E’ un concentrato di tic e di stereotipi comportamentali che lo rendono insospettabile nella sua goffaggine. Cammina come un ‘pied noir’ marsigliese, ma con le emorroidi sanguinanti, assumendo un’aria drammaticamente truce barbagliando sguardi carichi di intensità sofferta a destra e a sinistra nel mentre che si ravvia ripetutamente con ampi gesti la sua chioma riccioluta. E’ alto un cazzo e un barattolo, altro motivo di insospettabilità, ma si erge a petto in fuori, circondato da giacca sportiva color ghiaccio di una taglia più piccola, rimboccata alle maniche, dalle spalle imbottite che gli conferiscono un aspetto da piccolo ‘trumeau’. Fuma una sigaretta dietro l’altra espirando con un curioso gioco di labbra che convoglia il fumo dentro le pupille. Strizza quindi gli occhi ed inspira nervosamente come un Humphrey Borgath con le piattole perché, mentre strizza gli occhi affumicati, si palpa i pantaloni con studiata indifferenza a carezzare un qualcosa che potrebbe apparire un’anaconda. Michael Jakson, al confronto, appare un catechista. Ricciolo forse Maggiani, che si qualifica abitualmente come ex giocatore del Milan, magari un Carneade delle giovanili, si palpa a due mani, ad una mano sola, come se spostasse un cuscino, guardandosi attorno, sbuffando nubi di fumo, strizzando gli occhi, ravviandosi i capelli ripetutamente con sguardo in tralice verso lo specchio. Tutto questo contemporaneamente, come un prestigiatore folle che aumenta il coefficiente di difficoltà dei suoi numeri. Nel frattempo parla con interlocutori vari gesticolando animatamente come un commerciante di auto usate. Luma qualche gnoccona di passaggio con occhio lubrico e tattilità ripetuta dello strumento che assume ritmi frenetici semimasturbatori. Non ride mai. 64 Io so il perché. E’ compenetrato nel suo ruolo di identità segreta e vigila sulla comunità. Sbircia, senza farsene accorgere, al di fuori alla ricerca di un segnale che potrebbe comparire tra le nubi cariche di pioggia. Talvolta il segnale luccica. Il sindaco di Mirandola, il paese poco distante dal fantasmagorico presepio vivente del Fandango Cafè, accende una luce proiettando nel cielo scuro di temporale una sagoma illuminata di un riccio. Qualcuno sta scassinando il bancomat dell’ufficio postale e c’è bisogno di aiuto. Ricciolo scorge il segnale nel cielo e schizza come una pallina da flipper verso il piano di sotto, verso le ‘toilettes’, per indossare ad ultra velocità il suo costume da supereroe. Ho appena il tempo di buttare un cuscino di poltroncina al piano di sotto: Ricciolo spesso inciampa al terzo gradino e rotola a fine scale al piano di sotto facendo stridere vertebre e cartilagini minori. Io, Ivo, come Alfred di Batman, prevengo e assecondo, creativo e impareggiabile. Dopo pochi secondi una sagoma sfreccia da un finestrino dei gabinetti del Fandango verso il cielo. Una stranita ballerina, come nei fumetti classici, esclama assonnata: “E’ un uccello? E’ un aereo? E’ un lancio del nano?” E il suo compagno, entusiasta, esclama: “Ma no, cara: è Truzzoman che va a salvare il mondo e va a difendere la gente onesta dai delinquenti”. A volte, come in certi siti letterari internautici, dove circolano personaggi con doppi pseudonimi, il nostro eroe viene chiamato con il suo secondo nick: Super Truzzo. Si intravede in una frazione di tempo infinitesimale, sotto una mantellina rossonera, un pigiamone di flanella aperto davanti con due bottoni enormi, come il costume di Superpippo, e cade qualche mandorla pelata sulla folla che attonita fissa il cielo dopo avere smesso per poco di agitarsi sulla pista. 65 Crepitano allora applausi a scena aperta da parte di tutti i ballerini: i ‘dj’ delle tende annunciano al microfono la nuova missione, la regina della notte del Fandango gongola per la pubblicità di ritorno e io mi commuovo e spando una lacrima di tenerezza. Truzzoman forse è già davanti all’ufficio postale di Mirandola e anche oggi la gente onesta può uscire a prendere il gelatino al bar senza timore di essere importunata dai soliti delinquenti che sono già stati assicurati al maresciallo della locale stazione dei Carabinieri. Me lo figuro, il maresciallo, con lacrime di commozione e un sorriso complice: “Grazie, Truzzoman, anche questa notte sarà tranquilla…” Il supereoe non proferisce una parola, anche perché ha il fumo della sigaretta di prima che gli va di traverso e non sta bene che un supereroe tossisca o si strozzi, e rivola a razzo verso il Fandango seminando mandorle, uvetta passa, noccioline e cicche di Marlboro. Quando ritornerà, si ritrasformerà in un suonato ex calciatore del Milan con un’anaconda in mezzo alle gambe: io sarò lì e gli offrirò una flute di champagne. Poi mi affretterò a frastornare con qualche battuta brillante due o tre pulzelle con i jeans a vita bassissima che cominciano ad avere qualche sospetto sull’identità segreta di Truzzoman. E farò uno sgambetto al Ricciolo che risale le scale, per renderlo goffo e insospettabile, buono per le prossime missioni a salvare il mondo. Lancerà due sacramenti e mi guarderà male. Poi capirà e si preoccuperà di ravviarsi il ricciolo all’indietro. E l’ex giocatore del Milan avrà ancora salva la sua identità segreta che ora solo qualcuno di voi conosce. Mi raccomando, amici: siate riservati…ssshhhhh… 66 EMICRANIA Per prima saltò la scheda madre miniaturizzata del lobo frontale sinistro. Il sistema di videoscrittura si bloccò con uno sfrigolio maligno e il visualizzatore multimediale collegato alle cornee cominciò a funzionare solamente in bianco e nero. L’indispensabile scheda era ancora in tagliando e mi fu celermente sostituita con un modello coreano in vantaggiosa promozione, ma il sistema non fu più stabile come prima. Mi trovai spesso in situazioni imbarazzanti, infatti, incapace di distinguere modelli di lettere d’amore con prospetti di spese condominiali e reclami rivolti al commercialista: una vera e propria macro confusione. Poi, dopo pochi giorni, cessò di funzionare il filamento dell’antenna digitale innestato nella narice destra e non riuscii più a collegarmi con i programmi satellitari della CNN e delle televisioni italiane e arabe. Non fu una gran perdita, in definitiva: l’inconveniente mi privò senza troppi rimpianti del Cyberprocesso del Lunedì e mi fece rinunciare al telegiornale del pronipote di Emilio Fede su Rete Quattro per i Bestioni d’Orione, e fui poi impossibilitato a seguire le trasmissioni di Tele Yemen, con sottotitoli cristiani per i non mussulmani. Ma sicuramente il guasto costituì un fastidio: le palpebre chiuse mi proiettavano un confuso effetto neve con doppi contorni d’immagini memorizzate in precedenza nel processo di sintonia. Si fuse di colpo, in seguito, anche il filamento di ricezione telefonica impiantato nella narice sinistra: a chi voleva comunicare con me apparivo come utente in apparecchio duplex sempre occupato. Inoltre riuscivo a telefonare solamente a numeri verdi archiviati nel database dell’ippocampo, e solo ed esclusivamente in orari notturni. I migliori cervelloni della Planet Digital International si riunirono a consulto per esaminare il mio caso. 67 Mi studiarono accuratamente con estenuanti prove di laboratorio e provarono soluzioni alternative per i miei problemi, inclusi procedimenti di galvanoplastica e ricromatura della calotta cranica. Per un breve periodo di tempo andai in giro perfino con una curiosa antenna parabolica argentata fissata sulla nuca come fosse un cappellino per proteggermi dal sole radioattivo. Nel frattempo, però, perdetti anche la capacità comunicativa dei comandi di sintesi vocale, per una persistente raucedine da anidride solforosa in eccesso nell’aria, e conseguentemente non riuscii più a far funzionare nemmeno il forno a microonde, il modello semplice semplice con autoassemblatore d’ingredienti impostato sulla ‘nouvelle cuisine venusienne’, e il ferro da stiro autostirante con fischio di vapore overdrive modulato su techno rock… Oggi, tre settembre duemilacentoventisette, è scaduta definitivamente la garanzia delle mie componentistiche cibernetiche neuroinnestate e nessun tecnico vuole più arrischiarsi a mettere le mani nella mia testa per reimpiantare qualcosa di funzionante… Mi sono ridotto, come una misera creatura d’esistenza primaria semplice, a correre tutte le mattine sul rullo nel giardino pensile idroponico bonsai del terrazzo condominiale, in compagnia del mio cane meccanico che sembra vero, e trascorro le giornate ad accudire le mie piante sintetiche sul balcone antiradiazioni. Ogni tanto provo a leggere un vecchio libro usando pittoreschi occhiali dalla pesante montatura in tartaruga, di quasi due secoli fa, e per questo eccentrico passatempo snob mi hanno soprannominato con sufficienza bonaria “l’antiquario col cervello in pappa”. Ho sempre un continuo lancinante mal di testa e mi sento trivellato da fastidiosi ronzii in senso-surround dolby stereo. La mutua governativastrale mi passa, a contributo parziale per redditi similbirmani, solamente l’aspirina con estensione “com” da scaricare presso il sito planetario 68 sanitario “Doctor Use and Mabuse.Ohi”, ma il mio minimodem a fibra ottica collocato nel gran simpatico ogni tanto fa i capricci e si blocca. Neanche a dirlo: quasi sempre quando sono solamente al trenta per cento dello scaricamento… 69 ALI DI FARFALLA E TERREMOTI IN CINA Barth Foolish è un grasso coglione. Sta usando l’asciugacapelli con i piedi, anche letteralmente, con i piedi appunto dentro la vasca piena a metà d’acqua, mentre il rubinetto continua a piangere torrenziale. Abita un minialloggio al ventitreesimo e ultimo piano di un mega condominio in periferia di una popolare cittadina della California. Scivola sulla saponetta in agguato come un caimano sul fondo della vasca e si lascia sfuggire dalle mani il phon che cade nell’acqua frizzando come un barile bucato di birra, ma senza schiuma. Barth si dimena, come un rapper sotto exstasy, e crolla nella vasca, curiosamente composto e seduto, sfrigolante cadavere, a tappare lo scarico con il suo grosso culone cellulitico. I rubinetti non conoscono la pietà e la solidarietà con un minuto di silenzio, e quello della vasca del panzone continua dunque la sua sola semplice funzione di erogare acqua. Si viene a creare uno scheletro di classico problema matematico: un rubinetto aperto fa uscire dieci litri d’acqua in un minuto. Sapendo che la vasca di Ciccio Barth è capiente per trecentottanta litri, quanto tempo ci vorrà perché l’alloggio del coglione, di ottanta metri quadri, sia allagato? Nessuno risolverà mai questo problema, almeno empiricamente, perché l’ex bagnante vive nel suo alloggio da solo, e per altri motivi che saranno noti a breve. L’acqua, tuttavia, cocciuta come un somaro, avanza su piastrelle di bagno verdine, esplorando poi, con curiosità, nuove pianure come la moquette del soggiorno zona-letto. L’ambiente è ospitale e, se l’acqua corrente conoscesse il latino, potrebbe fare sfoggio di cultura enunciando “hic manebimus optime”, pur senza certezze circa la durata della permanenza nell’appartamento, che ormai è solo un contenitore. 70 Il mega condominio, infatti, è stato costruito a risparmio su materiali e criteri di sicurezza. Il pavimento è generoso, ma non sa e non vuole farsi carico di tutta l’alta marea di lacrime per i problemi pesanti dell’alloggio. Ad un certo punto crolla, per idropisia, ed anche perché sopraffatto da un esaurirsi della sua capacità di sopportazione. Precipita a peso morto sull’alloggio sottostante e aumenta le preoccupazioni del pavimento collega del ventiduesimo piano. Si crea un effetto domino che velocemente, in una sorta di scaricabarile burocratico, trasferisce ogni problema sempre più giù e sempre più pressante, fino ad arrivare al pian terreno in una macerazione non solo esistenziale di cumulo di macerie. Le pareti di un condominio popolare, per parte loro, sono verticalmente invidiose dei pavimenti che si affrancano dalle responsabilità con personalità autonoma e corporativa. Decidono, quindi, di emulare certi comportamenti orizzontali, accartocciandosi, anch’esse fino a terra, in una nuvola pudica di calcinacci a nascondere le ultime vergogne della casa. Il crollo di un intero palazzo di ventitré piani, è notorio, non è affare da prendere con leggerezza, soprattutto partendo dall’argomento più semplice del peso. Qualche migliaio di tonnellate di tutto il condominio, ormai liofilizzato, va a premere su un punto del terreno che anni prima fu giudicato edificabile in maniera molto superficiale da qualche commissione tangentofaga. E’ consequenziale, perciò, che il suolo sprofondi rassegnato, offendendo le tubature più sotto: della luce e, soprattutto, del gas. Lo sanno tutti: il gas è permaloso e pretende rispetto. Preso a pietrate, il gas s’incazza e alza la voce di parecchio, a maggiore ragione se viene anche aizzato da qualche scintilla di cavo elettrico lì vicino che cospira come 71 Iago, riportandogli i pettegolezzi del quartiere circa il fiato putrido d’alitosi. Ecco, dunque, che un tubo portante maestro esplode con fragore spaventoso di macerie e un boato sensosurround. Volano ovunque, come proiettili, pietre e vetri appuntiti e pezzi di cemento armato con tondini di ferro taglienti e sporgenti. Uno di questi ultimi, pomicione, vuole saggiare la consistenza del metallo di un’autocisterna che, trecento metri più in là, sta rifornendo uno dei più grandi distributori di benzina della zona. E’ una delusione totale. L’autocisterna è anzianotta e in uno stato convalescienziale, malaticcia: si apre, arrendevole, come un kiwi molto maturo. L’unica differenza è che un kiwi non esplode se a contatto con mozziconi accesi o scintille. L’autocisterna sì. Il distributore di benzina è pieno come un ovetto di giornata: quello sarebbe stato l’ultimo travaso. Si creano, così, i presupposti per una gigantesca festa nazionalpopolare, un’americanata classica con falò visibile a chilometri di distanza, eccezionalmente senza musica country. Il problema dei falò è che hanno una fame da lupi e se si avvicinano a cisterne sotterranee di distributori di benzina, piene, non resistono alla leccornia, golosi, e vogliono assaggiare. E’ dunque d’effetto, in tutti i sensi, più potente di un qualsiasi rodeo o partita di baseball, un’esplosione similnucleare che espande la sua forza mostruosa in ogni direzione. Compreso il basso. Proprio in prossimità della famigerata faglia di Sant’Andrea. Che soffre il solletico e che quindi si agita sfagliandosi. 72 Le varie piattaforme sedimentate, in pennichella, una sull’altra, sono svegliate da questo scomposto agitarsi e si adirano. Inoltre questo violento spiffero proveniente dall’alto non fa bene alla salute di nessuno. Le varie placche starnutiscono e si ributtano nel loro letto che, però, si è spostato più giù. L’aspetto più evidente di questo riguardarsi in salute è la sparizione dell’intera California nell’Oceano Pacifico. Ecco: adesso un attimo di riflessione alla luce di una teoria che affascina sempre… Quella del battito d’ali di una farfalla qui che, casualmente, nell’ambito della teoria dell’ordine nel caos, dovrebbe generare un terremoto in Cina. Si parla di Cina e le considerazioni sono quindi, ovviamente, ciniche, in ipercinesi di situazioni. Che caspita starà succedendo adesso in Cina, se tanto mi dà tanto, a fronte di un tuffo d’asciugacapelli nella vasca d’un alloggetto al ventitreesimo piano di un condominio della California? 73 ALITI DI VENTO Mi chiamo Vito, in arte Jean Paul, e gestisco un negozietto di parrucchiere per signora in periferia. Cambio spesso le shampiste, quelle classiche con la faccia da porchetta e gli occhi bovini rimmellati a cazzuolate, per preservare il mio segreto e non farmi scoprire, oltre che per risparmiare sui contributi. In realtà sono un supereroe, ma nulla d’iconografico come Superman o Batman: io sono un supereoe schivo e riservato, senza mantellina o maschera, senza costume dai colori vivaci. E non volo. Ho solo un piccolo distintivo sul petto che raffigura una A rossa in campo bianco, come gli Aspiranti della parrocchia. E’ l’iniziale del mio nome da battaglia di supereoe: Alitix. Ho scoperto di avere acquisito i miei superpoteri la sera del dieci agosto, la notte di San Lorenzo, di due anni fa, dopo una cena a base di peperonata fredda piena d’ogni ben di dio, cucinata amorevolmente da mia madre. C’erano le melanzane, i peperoni gialli e rossi, le patate, i fagioli borlotti e i fagiolini, i fagioli piatti, tanto pomodoro e tantissima cipolla, molto origano e una punta di peperoncino. Feci anche la scarpetta, uno stivalone, con una pagnotta intera, pucciando il sughetto denso e appetitoso. Mi sdraiai dopo cena su un prato a vedere le stelle cadenti. Quante ne vidi! Le sentii anche cadere con dei rumori assordanti che sembravano lamenti colitici intestinali. Poi capii che ero io, pieno d’aria come una mongolfiera e assai costipato per la cena da considerarsi in ogni tempo e in ogni latitudine come indigesta. Caddi in stato comatoso per qualche giorno ed ebbi un accenno di blocco intestinale che mi lasciò lunghi strascichi. 74 Ritornai gradatamente alla normalità, ma mi sentivo strano, e dopo qualche settimana, casualmente, mentre lavoravo in negozio su una massaia cicciottosa che pennichellava su Novella 4000, ebbi un accenno di rigurgito che soffocai educatamente con un singhiozzo strozzato. La cliente grassoccia fu beneficiaria istantaneamente di una serie splendida di brillanti colpi di sole e di una permanente che pareva scolpita. Io trasecolai dalla sorpresa e la signora uscì felice come una pasqua con una testolina che era da sfilata pret à porter. Rimasi come un allocco a guardarla allontanarsi, attraverso la vetrina, e sbadigliai. La vetrina divenne tersa come un cristallo di gioielleria, priva d’aloni, ditate, polvere, e luccicò al sole come un diamante. Nel mentre che fissavo il vetro, meravigliato dell’accaduto, entrò un tossico con una taglierina per rapinarmi. Gli urlai in faccia, terrorizzato: “No! Non farlo! Ti darò tutto quello che vuoi…” Gli alitai con la forza della disperazione e gli occhi sgranati di paura anche un ‘assassino’ pieno di sibilanti. Strabuzzò gli occhi, come in crisi d’astinenza e mi chiese, barcollante, un Alka Seltzer per digerire, disse proprio così, il mio fiato denso che era tale e quale all’aroma di una pantegana a fettine, stufata al vino dal sapore di tappo, conegrina ed erbette spisciacchiate da barboncini nani, con contorno di cavoli amari al catrame bollente. Scappò via zigzagando, con una nuova acconciatura punk a creste di gallo verdi e gialle. Realizzai d’avere in me un qualcosa di nuovo, di diverso, e cercai di impratichirmi nell’uso delle mie nuove doti. Riuscii a saldare due fili elettrici di un asciugacapelli difettoso, solo schioccando la lingua con un lungo alitare. Poi lucidai a specchio il pavimento con un soffio robusto. 75 Riuscii a rinviare il pagamento dell’affitto del locale semplicemente scusandomi, con aria mortificata, davanti al padrone, che mi condonò gli ultimi due mesi a patto che non lo trattenessi più per un braccio. E aiutai il vigile di quartiere che rincorreva uno scippatore: fronteggiai quest’ultimo, con le mani sui fianchi e a gambe larghe in mezzo al marciapiede, e gli zaffai sulla faccia un semplice “Fermo!” con la effe iniziale cintura nera di karate. Si cristallizzò come un membro dell’equipaggio di Star Treck su un pianeta alieno e fu poi acciuffato dal vigile che lo portò via piangente ed in preda a conati di vomito. Ho quindi un ultra fiato. E soffierò dove occorrerà, per salvare il mondo, o almeno migliorarlo. Sto già iniziando, discreto come sempre, senza troppo farmi notare. Intanto, quest’estate non ci sono zanzare in tutto il quartiere. Poi riesco ad accendere le sigarette dei passanti senza accendino: è sufficiente che io dica che non fumo. Al bar sotto casa hanno smesso di tenere acceso il jukebox fino a tarda notte: mi sporgo incazzato dal quinto pianto gridando e sbavando di farla finita e dopo due o tre minuti di apnea il bar chiude e si può tutti dormire tranquilli. Inoltre nessuno soffre più d’insonnia nel quartiere: qualcuno ha intuito una parte dei miei superpoteri e a sera c’è un pellegrinaggio di gente sconosciuta che mi bussa alla porta di casa per chiedermi che ora è, o se ho del basilico o il sale. Io saluto chi mi sta davanti, che inspira come se facesse le inalazioni a Salsomaggiore, e poi c’è un fuggifuggi generale per le scale al grido di “buonanotte, buonanotte e grazie tante…”. E il giardinetto della piazza non ha più erbaccia. A dire la verità non ha proprio più erba e gli alberi sono spogli come in autunno inoltrato, anche se siamo a luglio. Ho, tuttavia, delle contrarietà. 76 Non posso prendere l’ascensore per non allarmare i condomini con l’idea di una fuga di gas; inoltre farei la figura di un pollo fregato al mercato con l’acquisto di due chili di pesce marcio. E non posso neanche prendere il tram o l’autobus. L’ultima volta che lasciai il posto a sedere ad una donna incinta, accadde che partorì prematuramente sul bus un bel bimbo che non smetteva più di piangere, con una manina paonazza a tapparsi il nasino. Sono gli inconvenienti di un supereroe che non ha più una sua vita indipendente e deve mettersi al servizio del cittadino… E la calunnia è un venticello… 77 LETTERA DI SUPER INTENTI Spettabile Redazione, scrivo per testimoniare un’esperienza occorsami recentemente e per avere una Vostra autorevole opinione circa una mia futura condotta comportamentale. Camminavo rasente i muri, qualche giorno fa, a notte fonda, sotto una fitta pioggia, per calmare il mio spirito inquieto. Tuonava e lampeggiava sempre più violentemente e fui costretto a cercare un riparo per non calmarlo, il suddetto mio spirito, definitivamente con una prevedibile polmonite fulminante. Mi fermai sotto la tettoia di un’edicola di giornali, nel mezzo di un corso alberato, e attesi che spiovesse. Abbandonai le mie riflessioni, distratto dall’intensificarsi della pioggia che era divenuta davvero torrenziale, molto più di prima. Fui investito improvvisamente da una scarica elettrica dolorosa che mi lasciò tramortito a terra di fronte all’edicola squarciata, tra riviste di culinaria con mestoli in omaggio di Suor Germana e videocassette pornografiche coperte da triangolini strategici. Mi tastai febbrilmente e realizzai con sollievo che non avevo subito danni fisici, a parte l’emanazione di un curioso odore di bruciaticcio dalle orecchie e dalle narici. Mi levai in piedi e guadagnai velocemente un altro rifugio correndo per uno o due isolati, anche perché l’edicola, provvista di efficace antifurto, ululava in maniera accusatoria nella notte. Nel frattempo il tempo migliorò e cessò di piovere. Non proprio zuppo, ma abbastanza umido, decisi di ritornare a casa per una doccia ristoratrice e un buon sonno. Mi incamminai lungo il marciapiede con questo proposito. Sentii una voce roca, assonnata, urlare infastidita: chi è? Chi è? 78 Non c’era nessuno intorno. Non mi posi molti interrogativi: avevo solo voglia di ritornare a casa. Un’altra voce ruppe il silenzio della notte e la cadenza del mio passo svelto: chi è a quest’ora? Bastardo, qui c’è gente che tra un po’ lavora!!! Rimasi perplesso. Una plafoniera per i citofoni, davanti a me, brillava e diverse voci, insonnolite e irate, chiedevano chi avesse suonato. Accelerai il passo per non avere complicazioni, anche perché qualcuno aveva minacciato di scendere in strada. Rallentai presso un altro portone e udii distintamente rumori lontani di campanelli. Notai la plafoniera. Tutte le targhette dei nomi lampeggiavano e udii altre voci, sempre insonnolite o aggressive. Il mio ritorno a casa fu costellato da una scia di campanelli trillanti e da voci non proprio amichevoli che chiedevano, insultavano o che promettevano brutali esperienze sodomite. Una voce si trasformò direttamente in una secchiata d’acqua che mi sfiorò le scarpe e un’altra voce, la più ringhiosa di tutte, si tramutò in uno sparo da un balcone, che fortunatamente non mi colpì. Arrivai presso il portone di casa mia e la plafoniera dei citofoni si trasformò in un albero di Natale con le lucine intermittenti mentre altre voci si unirono al coro delle maledizioni di tutta la via. Allora compresi, finalmente. Rientrai precipitosamente in casa, silenzioso e veloce come un capitone, e realizzai che quella scarica elettrica del temporale mi aveva conferito un super potere come qualche ultraeroe dei fumetti. Facevo, e faccio tuttora, suonare le plafoniere dei citofoni al mio passaggio! Ecco, spettabile Redazione, perché scrivo. 79 Ho un super potere e potrei anche sacrificarmi e proteggere il mondo dedicandomi con tutto me stesso al benessere e alla tranquillità della società. Ho pensato anche ad una divisa mascherata e ad un rifugio segreto, ovviamente senza citofono, con un solo portiere. Sono soltanto perplesso circa le mie potenzialità: per questo richiedo una Vostra opinione. A che caspita mi può servire il fare impazzire tutti i citofoni della città e come posso disciplinare questa mia nuova dote per combattere la criminalità che imperversa indisturbata? Vi ringrazio per la cortese risposta e mi scuso per il brusco interrompere questa lettera, ma ogni due o tre minuti mi suonano alla porta. E’ la ventisettesima volta che vado ad aprire, ma non c’è nessuno… P.S. Scusate se non firmo la presente, ma devo preservare la mia identità segreta. 80 SOGNI A RISCHIO Muzio ondeggia, nella scala dei valori descrittivi, tra l’essere insignificante e il quasi repellente. E’ un lungagnone quarantenne ingobbito, con un gran pomo d’Adamo e due mele di coup-rose sulle guance scavate. Ha uno sguardo da erbivoro perseguitato e radi capelli neri simili a filamenti di tungsteno forforoso. Ha un soprannome poco lusinghiero nel quartiere, forse per il suo frequentare Bruto in maniera troppo assidua. Lo chiamano Muzio Prepuzio. Bruto è un energumeno cinico con un torbido passato di marchettaro per signore inquiete e adiposi commendatori desiderosi di soffrire. Manda avanti per pura sopravvivenza un’edicola sotto gli alberi del viale: fumetti usati, videocassette e dvd, quasi tutta roba porno, e gialli, nel vero senso della parola, unti e bisunti accatastati in cassette di legno per la frutta. Lo chiamano il pornaio per via della mercanzia che è prevalentemente costituita da sfilatini, ciriole e baguettes esposte, qualcuna sotto cellofan, insieme a rosette, maggioline, pagnottelle più o meno grassocce e aperte, con pelo e senza. Muzio trascorre i suoi pomeriggi abbarbicato all’edicola di Bruto e sfoglia qualche rivista per rifarsi gli occhi e dare additivi alla sua fantasia di solitario. L’edicolante yeti mastica amaro, però, in fondo, ha anche un minimo di compagnia, per cui brontola, ma lascia correre. “Stai attento a non sgualcire quella rivista, altrimenti te la faccio pagare…in tutti i sensi.” Muzio Prepuzio è fuori di melone, sconvolto dalle grazie di Kalaika, ‘nomen omen’, ungherese amante della stereofonia e della quadrifonia, che è immortalata in pagine che sembrano un vapoforno, con tanti sfilatini accatastati sul suo poppabancone. Anche gli erbivori si eccitano. 81 Muzio sfoglia le pagine, torna indietro per un fermo immagine su un particolare di primo piano, avanza frenetico, ripassa metabolizzando, gusta con soddisfazione facendo frusciare la rivista esageratamente in emozione preonanistica. Bruto freme: permettere qualche sbirciata a scrocco per la compagnia può anche andare bene, ma farsi rovinare la merce è proprio da ebeti. “T’ho detto di non rovinarmi la rivista…” Esce dal gabbiotto e spintona a mano aperta l’airone cinerino che nel frattempo ha abbandonato Kalaika al suo destino di commessa fornarina sul bancone del pornaio. Bruto che dà una spinta è roba da documentario: pare che non faccia sforzo… Allarga le sue manone e stende le braccia steroidee e tatuate. La vittima, specialmente se è dinoccolata e malferma come Muzio, sembra portata via dalla bora e atterra qualche metro più in là, generalmente seduta, tra lamenti per la botta sacrale e scuse a scongiurare reazioni ulteriori più violente. Muzio Prepuzio atterra vicino ad una panchina e non ha il tempo di scusarsi perché sviene accarezzandola con una tempia. Buio totale per tempo indefinibile. Nel nero si apre una porticina e filtra una luce rossastra insieme ad una voce suadentinguinale. “Ciao Muzio. Mi presento: sono Giorgina, Giorgina Spelvin, la porno attrice protagonista del famoso film “Il diavolo in Miss Jones”... Ti ricordi di me? Fu una prova di recitazione maiuscola: ma avevo anche dei compagni di recitazione maiuscoli… in tutti i sensi…” Ride disinvolta, la Giorgina, ed esce alla luce con la sua bella capigliatura riccioluta e rossa e lo sguardo da birbacciona che la rese tanto simpatica. 82 Muzio, anche nei sogni e negli svenimenti, ha una buona memoria e si ricorda perfettamente della reginetta del porno di qualche tempo fa. “Sa-sa-salve, signora Giorgina. Che-che ci fa qui adesso? Sono svenuto…” “Ma carino, sono venuta qui per alleggerire le tue pene e darti un poco di piacere, no?” L’attrice si spoglia velocemente, senza un minimo di erotismo, come in un filmetto di quarto ordine, diretta a voler godere con lo svenuto Muzio che rimane imbambolato a rimirare la scena. Giorgina è ancora ben fatta, gallinella vecchia che fa buon brodo, e conquista per i modi spicci e sbarazzini dritti al sodo. Muzio spera che sia veramente sodo e, cosa da immaginare nel suo paradossale, chiude gli occhi nella sua realtà di svenuto con gli occhi chiusi, lasciando ogni iniziativa alla riccioluta rossa. La goduria rem-traumatica viene interrotta dalla voce grave di un medico di pronto soccorso che, mentre lo tasta in cerca di fratture, chiede con indifferenza professionale: “Come va, giovane? Ha preso una bella botta, lo sa?” Ora le prescrivo un sedativo per lenire il dolore e favorire il sonno: stia a casa qualche giorno e faccia bei sogni…” Muzio, tutto contento a casa sua con il miraggio di qualche giorno di riposo e di tante fantasie indisturbate, dopo aver preso una pillolina bianca, sorride alla sua prima notte di mutuato sognatore. Viene abbracciato dal nero mentre il suo cervellino elabora e macina speranze e desideri. Il Muzio onirico spera in un incontro con Kalaika o in una rivincita con Giorgina Spelvin, ma è un sonno inquieto e la porticina non si apre. Filtra finalmente una luce, ma è un’atmosfera opprimente. La luminosità è opaca e di un innaturale colore violetto. Il sognatore ode delle risatacce lontane, malevole, di scherno, e voci canzonatorie in coro sguaiato. 83 “L’hai beccato, l’hai beccato, Prepuziaccio, l’hai beccato…” Si agita nel sonno, l’erbivoro, e suda con un presentimento ricordando il suo incontro con la vecchia volpe Giorgina… Fece sesso senza protezione, cazzo, travolto dalla passione e dalla Giorgina che pareva assatanata! E adesso tutto il sogno è pervaso da una minacciosa luce d’alone violetta, come di sogno infetto, come nella pubblicità per la prevenzione dall’AIDS. Inorridisce: i suoi sono sogni conclamati! E’ terrorizzato e spalanca gli occhi in un pantano di emozioni e sudore… Muzio non sogna più, da allora, ed è triste e terrorizzato. Ha i suoi sogni a rischio ed ha perduto ogni speranza: frequenta una rumorosissima sala giochi aperta ventiquattro ore su ventiquattro e ha paura di addormentarsi… Bruto trascorre noiosi pomeriggi da solo e ogni tanto ha qualche crisi di rimpianto per la sua incontrollabile violenza. Non è dato di sapere se Giorgina Spelvin sia ancora viva, ancorché ossuta vecchietta pensionata, o già icona su lapide. Kalaika, in un ambulatorio di Budapest, ha appena ritirato le sue analisi che le notificano una inequivocabile sieropositività… 84 ARISTOTELICHE MELE BACATE UNITA’ DI LUOGO E’ una piazzetta di ridente località turistica a strapiombo sul mare. Atmosfera da Rio Bo: la piazza è acciottolata irregolarmente, contornata da casette basse bianche di calce luminosa con persiane di un bel verde brillante. Balconcini traboccano di gerani rossi e surfinie bianche e lilla e sovrastano di cornice un piccolo bar, con due tavolini fuori, un negozio di generi alimentari e una fontanella chiocchiolante. Un muricciolo sghimbescio di pietra avvolge due panchine con un melo striminzito e chiude la piazza, verso il lato mare offrendo un senso di protezione rispetto agli aguzzi scogli sottostanti. Riposante rumore di risacca e odore salmastro. UNITA’ DI TEMPO Quasi tramonto: c’è ancora luce, ma le ombre s’allungano tremolanti, come percorse da leggeri brividi di brezza marina. Cromatismi purpurei aranciati e spruzzi dorati qui e là a risaltare l’azzurro carico d’amore di vita che il mare si scambia con il cielo. UNITA’ D’AZIONE L’approccio è come da carica d’orologio manuale o di pupazzo a molla: dalla staticità dell’immagine d’azioni e figurine varie al caos piacevole di suono e movimento. Un turista straniero con moglie sorride, beota, contemplando uno scontrino: sta pagando due chinotti come una notte presso un “quattro stelle”. Il padrone del bar è sornione e indifferente: si direbbe che da lui un chinotto costi abitualmente un mutuo… La commessa della bottega di generi alimentari fuma sulla soglia calcolando introiti eccedenti dovuti ad un’opportunistica taratura della bilancia. Una vecchia sul balconcino struscia energicamente due pattine sul balcone. 85 Nevica d’agosto sul dehors del bar e sulla coppia di turisti turlupinati. Da un altro balcone un grassone in canottiera si cimenta in giardinaggio: pota e getta di sotto rami secchi di gerani e innaffia a pioggia le piantine e qualche passante che smadonna. Un cane sguinzagliato si accoccola vicino al melo. Bisogno grosso. Il padrone guarda il mare, assorto e assente, inalando odore di poesia. Peccati veniali, se si vuole, non certo la mela d’Eva… La sera bussa alla piazzetta. Ambarabà ciccì coccò: tre civette, di norma, sul comò. Tre civette rumene, invece, con gonne grandi come fazzoletti e rossetti esagerati, stazionano su una panchina tubando tra loro fitto fitto, attendiste e scosciate a corrente alternata, con occhio sfrontato sull’incombente struscio serale. A passo d’uomo compare un’auto che sembra un sinistro presepe lampeggiante. Brividi di fresco e d’altro per le tre civette. Il presepe si blocca proprio davanti alla panchina e smonta un alto pastorello in divisa che chiede i documenti, accigliato. Tre zampette porgono tre fogli che sembrano lenzuoli. Nell’aria serale odore di pizza, anche se la bottega sta per chiudere. Il bar interloquisce con aroma di caffè e un dolciastro d’orzate. Le rumene scrutano il presepe come tre innocenti caldarrostaie. Attesa in rispetto quasi adorante. I computers s’inceppano spesso: non parlano rumeno. Voce dall’interno dell’auto lampeggiante: “Chi è Elèna?” Si leva dalla panchina la più smilza e alta delle tre, pallida come la casa di fronte, e per di più senza persiane verdi a ravvivare lo smorto. 86 Una mano fa segno di avvicinarsi. Elèna ha la morte nel cuore. E’agganciata da due occhi freddi ed è abbracciata da una voce paterna che attende. “Il permesso di soggiorno è scaduto.” Silenzio. Sensazione di baratro. Il domatore delle civette, in realtà domatore di gazze ladre, non sente ragioni: ogni sera c’è un tanto da portare a casa o altrimenti cinghiate a sangue. Ora, invece, c’è una mano ingorda che struscia pollice e indice e minaccia più del domatore, almeno per l’immediato. Elèna non può, non vuole, non sa. Le altre due sono in regola. Non possono fare altro che spollinarsi con la cipria rivolgendole uno sguardo di solidarietà sterile. Il domatore invece farà male: sarà una notte dolorosa. La mano d’adesso, tuttavia, può fare male da subito. Situazione senza uscita. La civetta smorta non riesce più ad ascoltare il rumore e l’odore del mare. E’ sopraffatta da odore di ricordi, di formaggio di capra, d’erba selvatica e cavoli, di rayon di calze smagliate. Un muro, rispetto ad un cancello che deve essere sempre aperto o chiuso, è concettualmente più elastico e imprime più varie ricezioni, soggettive e contingenti. Elèna vede il muricciolo come un trampolino rivolto verso la libertà. E’ una stampellona: sembra Olivia, solo più smorta. Tre passi e un salto, senza una parola. Raccapriccio disperato delle due civette superstiti per ora in regola. Isteria della coppia beota. Indifferenza d’inquilini al balcone: una continua a sbattere neve pelosa e l’altro ad imitare l’uomo della pioggia, ma è quasi buio e forse non hanno visto. Il padrone del bar ha la bocca che sa di ferro e s’affaccia dal muro verso gli scogli ricordando due capezzoli che ora chiamano fiele. 87 Gracchiare di voci da una trasmittente. Un fagotto di panni bianchi si confonde tra la spuma del mare ora scuro. Brezza. Stormire di foglie di melo. Sipario. 88 CINICA STORIA D’ASTOLFO SENZA LUNA Uno che si chiama Astolfo non esordisce bene in qualsiasi storia, per di più se è anche senza luna. Se si aggiunge che è disoccupato, separato prossimo al divorzio, esaurito e posseduto dal demone del gioco, alternativamente black jack e ruota, con una sfiga cosmica che lo manda in giro come un pezzente, la qualsiasi storia diviene una tragedia tendente al grottesco. Astolfo è anonimo e insignificante: è visto da chiunque ‘attraverso’. Ha dalla sua soltanto un briciolo di fantasia, convogliata sul monotematico gestire l’ipotetica vincita del secolo, e una rassegnazione fatalista con un qualcosa di mistico, tanto che Giobbe e San Gerolamo potrebbero sembrare due volenterosi dilettanti. Facile preda del mobbing, sul lavoro, frustrato nelle iniziative e negli entusiasmi, è regredito, nell’ambito delle definizioni professionali ufficiose e parallele, da impiegatuccio anonimo di quart’ordine a pelandrone con mutua facile, da redimere con tanti calci in culo. Dopo alcuni richiami verbali, multe, accertamenti sanitari, sospensioni temporanee sempre più lunghe, è stato messo in strada con la classica scatola di cartone piena di effetti personali di una carriera mancata. Se n’è andato con la roulette di bachelite in scala cinquanta a uno, con otto mazzi di carte e uno chabot, e con una scatola di biscotti di metallo piena di fiches variopinte. La moglie, concreta e piena di buon senso, si è trasformata in licantropo nel sapere che la magra liquidazione ha preso il volo, ancora calda, tra Sanremo e Saint Vincent, e ha tirato giù tutti gli altri santi con pittoresche esclamazioni blasfeme. Una parola tira un’altra, come le ciliegie, ma anche come le bombe a mano e, all’incrocio senza semafori, il frontale tra le parole ‘fallito’ e ‘stronza’ ha squassato come con una mannaia un’unica storia in due storie parallele, 89 intese in senso matematico, che non s’incontreranno mai più. Di qui l’esaurimento. Astolfo surroga la solitudine con la ricerca del sistema invincibile per sbancare tutti i casinò dell’orbe terracqueo e si chiude in sé stesso parlando con le fiches e chiamandole anche per nome con affetto e tenerezza. Talvolta le accarezza e le bacia. Non si vive, tuttavia, di solo sussidio di disoccupazione e Astolfo, con una luna che più nera non si può, lavoricchia per l’appunto in nero sfiancandosi nelle attività più strampalate e faticose. Diviene un fenomeno da telegiornale, unico bianco caucasico raccoglitore di pesche nel cuneese, tra quattrocento cinesi e senegalesi che gli fanno per rivalsa scherzi da prete delle loro terre d’origine, ma la bobina del servizio televisivo per il Regionale prende fuoco accidentalmente lasciando Astolfo anonimo, seppure con qualche banconota per il disturbo. Lo lasciano quasi subito anche le banconote, in una brevissima seduta di ruota a Saint Vincent, ridente località della Valle d’Aosta con un casinò, ridente solo per chi vince. S’intestardisce sul rosso e, rigido sull’attenti, con una mano sul cuore e una sui testicoli, si canta mentalmente l’Internazionale in ispanocastrista fluente, ma il banco è reazionario e sette uscite nere di seguito lo collocano all’imbocco del casello autostradale per un autostop alle ore ventitré che è anche paradossalmente, in alcune tradizioni popolari di certe località, il numero cabalistico del culo. E’ inutile aggiungere che piove come Dio la manda e che Astolfo non ha un ombrello. Dopo due ore d’attesa a bagnomaria in considerazioni esistenziali di contrappasso che lo vedono, in altra dimensione, dare una congrua mancia a Rockfeller come compenso per una lucidata alle scarpe, Astolfo è risucchiato dalla realtà di una macchina che gli si ferma accanto schizzandogli addosso un pozzangherone gelato con due tinche e un cavedano. Rischia di essere risucchiato anche dall’autista, un commerciante di Chivasso, pederasta in crisi d’astinenza, e 90 si produce nella sua migliore imitazione di stuntman fiondandosi fuori dell’auto a centoventi in prossimità di Torino, sotto il più epocale nubifragio degli ultimi venti anni, con un braccio a proteggere il cavallo dei pantaloni e l’altro aperto ad ala spezzata di passero per attutire il colpo. In effetti, il braccio diviene un’ala spezzata, nel senso che scrocchia all’impatto con l’asfalto e si frattura. Il più significativo martire cristiano a scelta, di fronte allo stoicismo rassegnato di Astolfo, viene retrocesso di categoria. Nella fradicia notte il nostro eroe s’incammina zoppicando verso la città, centrato periodicamente, come l’orsetto del Luna Park, da ghiaiottolini aguzzi e da schizzi di pozzanghere da parte di automobilisti con mirino a raggi infrarossi. E’ schiaffeggiato nell’ordine da una carpa, da una scarpa e infine da una scarpata, sul fondo della quale è rimbalzato con i denti dopo uno scivolone, e perde tempo ed energie per districarsi da un amo e da una lenza gettata da un camionista. Quasi all’alba, finalmente, Astolfo, ormai ritirato di quindici centimetri e con una colonia di girini nelle scarpe, nonostante la temperatura dell’acqua piovana sia solo di sette gradi, è in prossimità della sua casetta. E’ insonnolito, frastornato dalle batoste ricevute fin da dentro il casinò, con quell’ossuta vecchina menagramo, superstiziosa, che gli ravanava ripetutamente le natiche, ed è ancora sognante, a dispetto di tutto, di un domani migliore con una vincita stratosferica. Attraversa una stradina anonima del suo quartiere dormitorio. Via Anacardo Spillaccheri. Non c’è nemmeno una descrizione su chi è stato, che cosa abbia fatto nella sua vita, se la sua vita sia stata breve o lunghissima, se sia stato un martire, un eroe o un pensatore, e viene da chiedersi se sia addirittura esistito. L’unico dato oggettivo è che ha un nome e un cognome da rigurgiti. Piove sempre. 91 Astolfo, ormai stremato, è travolto da un Porsche Cayenne con paraurti rinforzato antilavavetri semaforici, di uno che ha fretta, ha sbagliato strada e si è perso. Anche Astolfo si sta perdendo. I pezzi. Sente freddo. Pensa che ha perduto quattrocento euri al casinò, una scarpa sull’autostrada, che ha quasi perduto la verginità e un braccio, sempre in autostrada, e che adesso sta perdendo anche la vita, carneade in una via anonima dopo una scialba esistenza senza alcunché da tramandare ai posteri. Astolfo cerca la luna per morire con un bagliore di luce, ma è notte senza luna e deve accontentarsi dei fari del Porsche, anzi, di un faro solo perchè l’altro si è distrutto sul suo bacino. Astolfo pensa ad una vincita da sceicco del Brunei, ad un trapianto di colonna vertebrale in oro tempestata di rubini e s’illumina di luce propria in un sorriso che anestetizza dal dolore. Poi, però, un pensiero rovina un’agonia da potenziale eroe a epilogo di una vita da sfigato. Che cazzo di via è Via Anacardo Spillaccheri? Pensa ad un altro mancato attimo di celebrità a suggellare la sua esistenza. Certo se stesse per morire nella centralissima Via Roma o a Via Garibaldi, di sabato pomeriggio con i negozi aperti e tanta gente in giro… Ha ragione Wharol. Con un sorriso estremo, però, Astolfo recupera una buona morte. Pensa ad una postuma Via Astolfo senza luna, anonima come via Anacardo Comesichiama…materna e accogliente per un nuovo supersfigato di turno centrato da carrozzino elettrico di paraplegico ubriaco… Poi buio. Senza luna. E senza Astolfo. 92 PER SENTIRSI MIGLIORI Un suggestivo tramonto purpureo non può, da solo, accendere i volti delle tre figure presso il portico del vecchio cascinale: sono presenti anche sensazioni, emozioni. La giovane sta parlando animatamente, con trasporto e convinzione. Ondeggia alla brezza la sua coda di cavallo bionda. I genitori di lei, anziani e stanchi, ascoltano. La mamma trattiene a stento il pianto: ogni tanto porta un fazzolettino alla bocca a mascherare dolorosi stati d’animo in maniera maldestra. “Mi capite? Devo crescere, scoprire, arricchirmi. Devo conoscere il mondo e aumentare l’esperienza per migliorare. Non piangere, mamma: è un distacco provvisorio. Ritornerò: magari più buona, migliore. Andrò a fare del bene, laggiù, mamma. Sono in tantissimi ad avere bisogno di chi possa aiutarli: non hanno nulla...” Lunghe pause di silenzio mentre la luce gradatamente affievolisce. Sguardi muti a chiedere altro non detto, nella penombra, e a rispondere con bagliori decisi. Poi una voce piatta, quasi rassegnata: “Comincia a rinfrescare: ritorno dentro.” Il padre lancia uno sguardo neutro alla moglie dagli occhi lucidi e alla figlia che sembra brillare di una luce nuova. Gira la sua sedia a rotelle con le sue braccia ancora energiche seppure ossute, con faticosa disinvoltura, ed entra nella casa ansimando leggermente, con un cigolio delle ruote tagliente come un rasoio. 93 SE MISS SFIGA VUOL FLIRTARE Un giorno del duemilacentotrenta, la professoressa Vanessa Levi Montalcini, di centosei anni, pronipote del premio Nobel Rita del secolo precedente, dopo un ennesimo passaggio dello spot pubblicitario televisivo olografico riguardante Sguisch, il preservativo per i giovani, s’incazzò come un crotalo scippato dei sonagli. Forte delle sue conoscenze, professionali e derivanti dall’importante parentela, la vegliarda promosse una riunione clandestina presso l’istituto sperduto tra le campagne del Chianti denominato “Casa di Cura degli ex giovani schifati dalla Madonna della Porziuncola”. Radunò canuti rappresentanti dell’Accademia della Crusca, dei Lincei, le Pantere Grigie di vari quartieri popolari urbani ed altre associazioni di terza età in odore d’insofferenza e ribellione, occhieggiate con discrezione dalla Digos, come “Orgoglio del pannolone”, “Dentiere rampanti” “Gay con l’Alhzeimer” e “Portaerei in disarmo”. La battagliera Vanessa tracciò una linea di sotterranea rivoluzione per controbattere allo strapotere della gioventù nella vita sociale di tutti i giorni e, come si sa, ogni rivoluzione contempla gesti sanguinosi e si nutre di vittime. Cominciarono a sparire di soppiatto, quindi, rappresentanti autorevoli della gioventù e del giovanilismo, fautori di messaggi rivolti al popolo dei giovani, guide spirituali, guru e maitres à penser del prepuberale, e la cronaca nera si alimentò d’inspiegabili rinvenimenti d’imberbi sfigurati e di veline massacrate, protagonisti di Genius o della TV dei Ragazzi, trovati in cassonetti o in angoli bui delle città. Le autorità brancolavano nel buio, ma qualche virgulto sveglio e intraprendente ebbe alcune intuizioni e organizzò una controffensiva. Uno di questi, in prima linea, fu Giovanbattista Costanzo Vento, gran maestro venerabile della loggia massonica P.38, bisbisbisnipote di Maurizio, di discendenza spuria per una relazione adulterina, all’epoca, del popolare 94 anchorman e di una soubrettina di nome Flavia Vento, solo acerba, anche di cervice, e nulla più. Giovanbattista subodorò lo zampino di vegliardi rancorosi, nelle sparizioni di suoi coetanei, e organizzò un convegno volto a decidere una controffensiva. I migliori rappresentanti della gioventù si diedero appuntamento, come carbonari, nel retrobottega della famosissima sala giochi “Erettils games” della capitale. Erano presenti bande come i “Poppanti senza futuro”, gli intellettuali del “Carpe diem”, in divisa sgargiante con sospensorio fosforescente in bella mostra, e addirittura i “DestriSinistri per la Gnocca unita”, i più ingovernabili per le loro concezioni anarchiche, secondi a pericolosità solamente al gruppo spontaneista “Noidurievoino”. Dalla riunione scaturì un piano di reazione. E cominciarono a scomparire anche vecchi malfermi. Anacleto Ferrarotti, sociologo di tradizione come il suo prozio, fu ritrovato senza la sua dentiera cavallina da competizione in un orinatoio pubblico. La nota gastronoma Germana quarta, di novantasei anni, lontana discendente, da un primigenio frutto del peccato, della famosa suora in relazione carnale con un oscuro gastronomo dell’epoca di nome Bigazzi, fu rinvenuta senza vita dietro il ristorante “Da Giggi er Cornacchione”, senza toupet e deflorata con il matterello per le pappardelle fatte in casa da cucinare al sugo di lepre. Cominciò, dunque, una guerra sotterranea trasversale di contrapposizione tra giovani e anziani, strisciante, clandestina, senza esclusione di colpi, mentre i pubblicitari fiutarono il vento e diversificarono finalmente i loro messaggi. A Sguish, il preservativo ‘casus belli’, fu affiancato Sbreng, il preservativo della terza età, inamidato, accelerante con turbo alla cordite, ai sapori di nocino, di alkermes e di fernet Branca. Si diceva, per l’appunto, che tutte le rivoluzioni si nutrono sempre di martiri innocenti sacrificati in nome della causa. 95 O forse le vittime sono soltanto persone assai sfigate… Come Giobbe. Un nome e una garanzia, in biblica associazione d’idee di piaghe e relativi cocci per grattarsele… Giobbe soffriva di crisi di panico e insonnia ed era solito uscire ad ore da vampiri in cerca di distrazione e di schiaffi d’aria gelida della notte a rinfrescare i lobi temporali bollenti d’angoscia. Nulla sapeva, il poveraccio, di quanto stesse accadendo intorno a lui, troppo preso dalla paura del buio e di morire, ansante in pellicola di sudore gelato una notte sì e l’altra pure. E una sera comparve Miss Sfiga, un’impalpabile svampita bruttarella dai capelli stopposi, piallata come una tavola, semicieca senza età con due culi di bicchiere al posto degli occhiali. Dopo lunghi appostamenti morbosi, gli bussò direttamente ad una spalla per fare conversazione. Giobbe non si sentiva molto socievole, tra una notte in bianco e una con incubi tremendi, e declinò l’offerta, anche perché l’interlocutrice fastidiosa aveva un alito da pantegana. Decise di uscire, anzi, perché prossimo a noti tremori. Miss Sfiga, querula, si permise di insistere per due paroline soltanto, tanto per passare il tempo, in simpatia e cordialità. Giobbe neanche rispose e si avviò per le strade deserte in nuovo itinerario a casaccio. Ed attraversò, senza saperlo, la terra di nessuno. Di là, verso le villette rococò, lo seguivano con lo sguardo presbiti pattuglie di pantere grigie in assetto di guerra con dentiere d’acciaio inossidabile e pannoloni rostrati. Di qua, lungo il perimetro del palazzone prefabbricato in cartongesso dalla linea molto avveniristica e mostruosamente moderna, era sorvegliato da malevoli adolescenti dal brufolo esplosivo anticarro. La signorina Sfiga, nel frattempo, appiccicosa come una carta moschicida, si lamentava della sua solitudine 96 insistendo ancora per una piacevole conversazione e, magari, anche un cicchetto in un bar per aumentare la complicità. S’aggrappò al braccio del suo prescelto. Giobbe aveva le sue madonne ed era infastidito da questa invadenza. Strattonò il braccio per camminare da solo, ma invano. In quel mentre fu agganciato da lazos, da qui e da là, e fu stirato come un grissino torinese da una mandria di vecchi bavosi pieni di propoli e ginseng e di giovani energetizzati a merendine. Entrambi i gruppi, strafatti in comune di ACE, lo reclamavano come trofeo. Fu interrogato. Giobbe era confuso. La Sfiga, sempre più svampita, incurante degli eventi, gli biascicava all’orecchio vicissitudini della sua vita in una confidenzialità assolutamente fuori luogo, innaffiando di sputacchiazzi il timpano giù giù fino alla coclea. “Quanti anni hai?” La voce era stereofonica, catarrosa e tremolante da una parte e squillante e ridanciana dall’altra. “Cinquantatre. Perché? Che cosa ho fatto?” Il catarroso nell’ombra sbottò come il Brontolo accigliato di Biancaneve e i sette nani. “E’ giovane, è giovane, lo sapevo: è nostro…” La vocina squillante e impertinente, il Peter Pan della situazione, interloquì: “E’ irrigidito come un infartuato brizzolato, quasi un morto, sicuramente rincoglionito assai, magari anche già pensionato a sbafo: è senza dubbio nostro…” Giobbe, per sopramercato, riusciva ad udire anche la voce di Sfiga che gli proferiva amicizia eterna interessandosi dei suoi problemi con attenzione esagerata e tatto sudato colloso in palpamento similerotico. “Di che mese sei?” “Gennaio, ma che significa?” Brontolo nell’ombra, ridacchiò: 97 “Significa che sei più vicino ai cinquantadue: sei giovane, sei giovane…” “Ti alzi la notte per pisciare?” Peter Pan era strafottente. “Qualche volta: soffro d’insonnia…” “Ecco, lo vedete: soffre di prostata. E’ vecchio ed è nostro…” La Sfiga, intanto, perduta ogni timidezza, sfacciata, si stava dichiarando con leggerezza e poesia sbattendo le lunghe ciglia di occhi miopi da geco. In Giobbe aveva trovato l’uomo per la sua vita, per sempre… Dalla parte di Brontolo si levò una voce pacata, ma ferma, di uno che poteva anche sembrare Dotto o mastro Joda dopo un corso di dizione. “Non c’è una regola fissa per determinare lo status di giovane o vecchio. Bisognerebbe stabilirla in una riunione apposita. Propongo, pertanto, nella considerazione che è stato catturato nella terra di nessuno, che lui sia di tutti…” Quel ‘lui’ presagiva poco di buono. Inoltre l’esondante e passionale Sfiga si stava sforzando di baciarlo sulla bocca con la lingua e Giobbe cominciò ad avere una sudarella gelata diffusa e un tremore incontrollato. “Lo potete vedere: è giovane, magari anche drogato. Guardate com’è in crisi…Strafatto di chissà che cosa…” “Ma no: è vecchio. Guardate che tra poco si piscerà addosso o avrà un aneurisma…E’ bianco come un pitale”. Attimi di silenzio. Solo un bisbigliare metafisico di Sfiga, con alitosi incommensurabile da pozzo nero, che parlava di nozze e di viaggi ai Caraibi. “Che sia di tutti, allora…” Dotto-Joda sancì il destino di Giobbe come una lapide, e tutti urlarono selvaggiamente come contro una pattuglia della Celere. Giobbe si sentì trafiggere un fianco e si tastò una freccia nel costato. 98 Poi fu colpito da una sassata ad una spalla. Era immobilizzato dai lazos tesi come corde di violino. I lampioni erano fiochi e l’umidità della notte punteggiava di nebbiolina la strada. Giobbe udì altre grida belluine e sentì altri colpi, sempre più duri e dolorosi. Era atterrito, tra le risate malvagie e il tentativo di darsi una spiegazione circa quello che gli stava capitando tra capo e collo, ed era confuso nell’udire l’inopportuna petulante voce di Sfiga che parlava di arredamenti per un salotto in stile vecchia america, cosa che non aiutava la concentrazione verso la razionalità. Poi fu il buio totale, con una sassata ad una tempia, e fu il silenzio. Ma prima del silenzio… Giobbe udì ancora Sfiga che stava rigirando la frittata, volubile e capricciosa. “Forse è meglio che restiamo buoni amici, forse non sei il mio tipo, non ti merito, mi sono spinta troppo in là, è stato un momento di debolezza, ora che ti vedo meglio sotto il lampione non sei il mio genere d’uomo anzi preferisco le donne, ti pensavo un altro più somigliante a Brad Pitt, sarà per un’altra volta, mi aspetta un mio amico guardia notturna, accidenti a me e quando prendo certe iniziative, forse sono io troppo superficiale, giuro che è solo una sbornia passeggera, ti prego non pensare male di me, ho gli ormoni isterici me lo ha detto anche il medico, ho una miopia che rasenta la cecità e vado troppo spesso a tastoni, oddio, so che non conta, ma sei davvero minidotato, scusa, scusa, scusa…” Giobbe morì a cinquantatre anni, rifiutato dai giovani e dai vecchi, perseguitato dalla Sfiga e poi travolto da scuse e ripensamenti, davvero sfortunato in nebulosa linea di demarcazione sul suo essere, ma ebbe almeno l’ultima magra soddisfazione di disegnare sulle labbra, non si sa bene verso chi, un adirato vaffanculo che uscì, estremo rantolo, se non come un esorcismo, almeno come una liberazione. 99 ONIRICI PERCORSI E REALI TRAGUARDI DI ATTILA ZAPPING Esordì inconsapevolmente dopo una cena esagerata, Attila Zapping, ed entrò, russando con rumore di betoniera, nel mondo dei sogni che sembrano veri, roteando sotto le palpebre gli occhi basedowiani a palla. Nel buio della sua cameretta l’aria divenne fumosa e purpurea e una voce di roveto ardente, identica e sovrapposta a quella di una pasta con le sarde ardente e al dente, ovviamente con finocchietto selvatico, rimbombò nei lobi temporali di Attila in fase REM con tono da non ammettere repliche e da esigere sudditanza assoluta. “Questo mondo sta disgregandosi nei suoi valori essenziali ed è necessario un processo catartico che ripristini antichi fasti e indiscussa morale. Tu sei il mio prescelto, Attila Zapping, il braccio della mia ira giusta che dissolverà il marcio d’ogni dove…” Attila tacque, nel sonno, comprimendosi l’addome che sembrava volesse esplodere come una mina antiuomo e, trasudando una bottiglia di vermentino troppo fresco, assunse un’onirica espressione rispettosa nell’attesa di ordini. La stanza girava tra fumi e porpora come un calcinculo in un Luna Park a tarda sera e la voce eruppe terribile e ineludibile come un blob di zucchero filato in frontale su una camicia di lino nuova nuova. “Comincerai a sgrassare questo mondo secondo quello che è necessario per ribadire antiche idee… Sterminerai tutti i negri ebrei comunisti omosessuali con l’AIDS, tanto per cominciare…” Attila pigolò tra i guanciali, in zelo e perplessità: “Esistono davvero? Tutti insieme in una sola persona? Ce ne saranno tre o quattro in tutta la terra: dove vado a prenderli? In Wyoming o dove? Ce n’è qualcuno in Wyoming? Esiste un ‘low cost’ per il Wyoming? 100 E se ce ne fosse un altro in Australia o nelle isole Tonga?” “Uomo di poca fede: comincia dai comunisti, oppure dagli omosessuali… Se poi hai voglia di compiacermi guarda se esiste un ‘low cost’ per Nairobi o Monrovia, ché molto avresti da lavorare… …E dove tu passerai nel mio nome non crescerà più l’erba…” La voce era perfida e sottile, ora, acuminata come una lisca di scorfano nella zuppetta di pesce che era seguita alla pasta con le sarde, sempre ardente come un roveto, anche perché pregna di peperoncino di Soverato, a bruciare le pareti dello stomaco. La camera girava vorticosamente centrifugando damigiane di sudarella gelida in aria spessa e colori cupi e sanguigni. “Mi attiverò presto per servirti, anche se non ho ben chiaro il tuo disegno…” “Mangerai la parmigiana multistrati con le melanzane e la mozzarella alla mia destra…” Attila si rigirò più volte come una sogliola alla mugnaia nel sonno agitato, per armarsi, e aprì, sonnambulo, il cassetto del comodino per prendere il cannoncino portatile al plasma, uguale a quello di Doom. Strappò il lenzuolo a motivi di fiori di campo e spighe e si cinse di una sua striscia la fronte come un Rambo figlio dei fiori. Frugò a tentoni con una mano sotto il letto a cercare le cartucciere per il mitragliatore da tanti colpi al secondo. Il caldo era da clima tropicale: uno squagliarsi liquido di tensione emotiva e anche pesantezza intestinale che toglieva il fiato in dispnee da palude. Attila si rotolava nel letto come fosse tra massi e cespugli di una jungla e meditava di intrufolarsi a spallate nel locale sotto casa, il “Night’s Rejnas”, a depennare dal lunghissimo elenco di giustiziandi il Trio Lescano, alias Armando, Ugo e Cosimo, tre ‘drag queen’ alte e spigolose come granatieri di Sardegna, bravissime nelle imitazioni di Madonna, Mina e Patty Pravo. Cominciò a sparacchiare alla cieca raffiche di mitra nel sogno e raffiche di vento nel reale buio. 101 Raggi violacei abbaglianti del cannoncino al plasma incenerivano all’istante i suoi bersagli. Udiva urla disumane, preghiere speranzose, singhiozzi, e percepiva odore di carne bruciata, uguale a quello degli spiedini d’agnello alla brace, sempre della cena, dopo la zuppetta di pesce. Cominciò ad esaltarsi, nel crepitio del mitragliatore e nel vedere sagome crollare come birilli, in un delirio d’onnipotenza da giustiziere della notte sotto alto patrocinio e immunità diplomatica. Rideva magnificamente malevolo al grido di battaglia “Unno per tutti” e lanciava bombe a mano verso negritudini e lazzaretti a riguernicare picassianamente in natura morta consorzi sociali bacati. La voce del roveto ardente, dello spiedino ardente, lo incitava promettendogli gloria imperitura e lui, spiritato, si gettava dietro una palma o sotto un tavolo senza mai lasciare il grilletto, novello personaggio di Matrix balzellante lungo pareti di locali notturni, ristoranti, banche, chiese, sezioni Arci, gay e anche non, a Torino, Roma, Nairobi, Amsterdam, ché anche i tossici avrebbero avuto il fatto loro, e soprattutto Pechino, covo dei peggiori comunisti, e il cannoncino bruciava tra le mani come una pentola ribollente di pasta e fagioli afferrata senza presine. Combattè tutta la notte, Attila Zapping, teletrasportato dal Nepal alla Bolivia, dal Nebraska alla Namibia, e fece una strage planetaria sputacchiando nell’aria qualche nocciolo di ciliegia di troppo. E venne alfine mattina. Aprì gli occhi alla prima luce, zuppo e gonfio come una rana, e inorridì per l’incubo. Arrivò in ritardo, quella mattina, al Centro d’Assistenza Anziani dove prestava opera come apprezzato volontario armato d’inesauribile pazienza e disponibilità mite. Era stravolto e incredulo sul suo inconscio violento, lui che, a dispetto del nome, non avrebbe mai ucciso una mosca, pacifico e sensibile verso i deboli e gli indifesi, prudente e circospetto già solo al farsi la barba col rasoio elettrico. 102 Si chiese se nella realtà sarebbe stato capace di sprigionare un’energia distruttiva come nel sogno. Ebbe la sua risposta poco dopo al Centro. Vide una scena che gli mandò il sangue alla testa. Un suo collega infermiere dall’aria laida pastrugnava furtivamente una povera vecchietta stralunata e immobile su una carrozzella per un ictus. La poverina roteava gli occhi come un iguana, terrorizzata e diafana, emettendo deboli singulti a richiamare l’attenzione, ma invano. Attila non stette troppo a riflettere. Afferrò il tubo del catetere del suo assistito, lì presso anche lui su una sedia a rotelle sottosaccottata, e lo strinse al collo del collega. Diede forti strapponi provocando gorgoglii multifonti da parte dell’infermiere, agonizzante nel soffocamento, e da parte del vecchietto, intubato col catetere, che fischiava dalla dentiera, come un’aragosta bollita, nell’aria della stanza impregnata di spisciacchiamenti vari di paura e dolore. E uccise. Stavolta davvero. Per una giusta causa reale. Ma il Procuratore, in seguito, non ne volle sapere… Un piccolissimo atto autonomo di giustizia reale, rispetto ad una crociata onirica dettata da un roveto ardente, fruttò dieci anni di galera per omicidio preterintenzionale. Nella considerazione del vitto nel penitenziario, ad Attila non comparve più nei suoi sogni alcuna autorità a comandare servizi catartici. Anzi, smise anche di dormire le sue otto ore filate sonnecchiando con un occhio solo: un vigilare in dormiveglia per guardarsi le terga dal suo compagno di cella che, imitando la voce di un roveto ardente, gli chiedeva ogni notte una sottomissione cieca e assoluta sibilandogli di un dardo di fuoco e di un piacere divino e dirompente… 103 SURREALTRASH DI OCCASIONI COLTE E MANCATE Vicolo Ombroso, uno stretto carruggio, potrebbe essere anche una cartellina di poco valore di un nuovo Monopoli. Echi di diversi programmi televisivi risuonano nell’aria agostana della sera, troppo contigui tra gli antichi palazzotti contrapposti tra loro per sole due o tre bracciate. Le finestre spalancate per l’afa incorniciano bagliori catodici intermittenti e canottiere inquiete. Placido ragioniere Belvedere è stravaccato sul divano con le palpebre pesanti di birra mentre lo schermo rimanda chiacchiere tra sorrisi e insulse musichette e il vicino della finestra di fronte, quasi astante in pochi metri d’aria, si sventaglia con svogliatezza mista a rassegnazione e lo squadra di tanto in tanto. Dalla televisione di Placido, che aggrotta la fronte tra l’incredulo e il curioso, improvvisamente proviene uno sfrigolio più intenso e le immagini si distorcono in luminosità azzurrina a rilievo che si espande nel buio. Si materializza nella stanza la nota passerotta Giusyornella Pappataci, velinotta seminuda, splendida e soda, vedette della nota trasmissione trash “Sarò tua, come li mortacci”, che urlacchia giuliva ed esagerata pro indice d’ascolto: “Mi hai vintoooooo, Placidooooo! Se sei in regola con l’abbonamento alla card per le trasmissioni dell’emittente ‘Tele Cogli One (Uan) – Cogli le tue trasmissioni’ mi hai vinto e per questa sera starò con te, e faremo cose da bollino rosso…” “…Io?…Sì, sì, …Sono in regola con l’abbonamento: non faccio altro che seguire ‘Tele Cogli One (Uan)’. Non so che fare nelle serate d’agosto: sono solo e senza amici…” “Bene, bene, ragioniere bricconcello e morboso… Ma come sei vestito? Sembri Fantozzi dopo la famosa cipollata…” “Eh? Uh, sono in tenuta estiva casalinga, dopo cipollata, per l’appunto, e birra…” 104 “Ti si vede il pistolino attraverso la feritoia del boxer, caro Belvedere, ahahah… che tenerezza e che tenerume…Bleah…” “Ah, scusa, scusa: il boxer è largo perché fa caldo e sudo molto…” “Gli imprevisti della diretta, ahahahah… Sono preparata a questi spettacoli indecorosi, e anche ad altro: indici d’ascolto, pollici, pollicini, ahahah...Beurp… Piuttosto: sei contento d’avermi vinto? Sei stato estratto tra oltre mezzo milione di abbonati…” “Che bello…Sono frastornato…E ora?” “Ora staremo insieme per tutta la notte e potremo fare l’amore in sexy reality show: sei contento Placido?” “Io…veramente…non so…mi sembra tutto irreale, non so se sono pronto…preparato…all’altezza. Dio, che caldo boia, stasera…” Il ragioniere anguilleggia sul divano davanti alla Pappataci. Lei sorride lasciva passandosi la lingua sui denti confetti e guardando studiatamente in camera. Il vicino, troppo vicino, ha notato il tramestio e occhieggia attento con i gomiti puntati sul davanzale, con la pupilla lucida e un rivolo d’acquolina da lupo cattivo. Maledice col pensiero il buon Placido, inadeguato, e la sua fortuna cosmica, in abbozzo pronunciato d’erezione attraverso elegantissimi slip verdini fosforescenti in microfibra con scritta annessa in rosso “Provami e diventeremo amici”. Giusyornella Pappataci, vero animale da palcoscenico, capta un precipitare d’eventi e di share: il ragioniere è collegiale e molluscoide e il popolo dei telespettatori della notte predilige programmi forti e d’iniziativa, soprattutto in queste serate torride d’agosto. Il tecnico del suono, ad un suo cenno, amplifica sospiri mandrillici e risatine isteriche di sottofondo. La passerotta, marmorizzata in un sorriso falso da prestasoldi, cinguetta tra i denti in estremo tentativo: “Allora Placido? Maialiamo? Non siamo più in fascia protetta…” 105 Cambia poi tonalità di voce, la Giusyornella, da Compagnia dei Taxi, molto asettica e professionale. “Accettiamo proposte anche al numero 89912345678, da telefoni fissi. Chiamate, chiamate, chiamate… e scegliete per noi una posizione bizzarra che esalti la trasmissione e accenda passionalità nuove tra i telespettatori… e ricordate: ‘Sarò tua, come li mortacci’, per le fantasie della vostra notte…” Il vicino sospira e ghigna programmatico mentre Placido si guarda intorno schiacciato da aspettative e timidezza. “Non saprei, signorotta passerotta Pappataci… Vogliamo fare una partitina a Scarabeo?” La temperatura della stanza scende, e sbiadisce l’intensità del sorriso della velinotta che si raffredda anche in propositi; i telespettatori notano un vistoso ammosciamento capezzolare e un atteggiamento colloquiale più impersonale: “Mi delude, ragioniere… Il suo vicino di casa di fronte mi pare più promettente… Credo che lei stia perdendo la sua vincita…” Il vicino, difatti, ha gli occhi bianchi da cartone animato, enormi, con le scritte: “Inserire la linguetta nell’apposita fessura”, sulla pupilla destra, e “In caso di emergenza rompere il retro”, sulla sinistra, e brontola represso, ormai in doloroso accenno d’attacco priapesco. Risuonano risatacce da caserma dei telespettatori e la Pappataci ammicca, sguaiata, in puro avanspettacolo style. Placido, invece, è artigliato allo scroto da un senso d’oppressione e di liberazione insieme: ansia da prestazione sconfinante nel terrore per la proposta d’erotica performance, per gli inevitabili pettegolezzi del quartiere, per la consapevolezza del suo essere minidotato, per il disagio di doversi immedesimare nella parte di macho, non consona a lui, timido peggio di un castoro. La liberazione è nel sollievo di non vedersi più come preda della Pappataci che ora punta il suo vicino di là del vicolo, contraccambiata in crescendo di animaleschi mugolii. 106 La passerotta, infatti, lascia uno sguardossimoro, carico di cinismo e compassione, verso il ragioniere, e si lancia dalla finestra verso la stanza del vicino, a non più di due o tre metri. Placido riesce solo ad intravedere un lesto balzo da un lato di un paio di slip fosforescenti e poi uno sbattere di finestra, accompagnato da una voce arrembante: “Sono in regola con abbonamenti. Seguo da sempre la trasmissione “Sarò tua, come li mortacci” e mi lavo due volte al giorno con “Sapoglione”, il detergente intimo per pistoni machi e parti basse competitive. Dai, spogliati che ti adopro…” La stanza di Belvedere ripiomba nell’oscurità abituale di un televisore che trasmette normali programmi a ventuno pollici. La surrealtrasmissione ora si gira nell’altro alloggio. Gli iniziali “Buuuhhh” corali di disapprovazione sono rapidamente sostituiti da gemiti di pubblico appagato da immagini forti e dal coretto delle altre passerotte velinotte che intonano, allusive, un ritornello: “Sbav, sbav e dopo un Vov”. Placido scruta attraverso le tendine della finestra chiusa e distingue le sagome di due corpi ballonzolanti alla luce argentea del video. Subentra una tranquilla eccitazione per il mite mancato vincitore che riflette sul sapere osare e sulla sua mancata occasione. Fa spallucce, rassegnato nel caldo della tarda sera, e sbircia ancora, allungando il collo, vagamente eccitato. Di là, singhiozzi e urla belluine sono inframmezzati da intermezzi pubblicitari ritardanti, applausi e telefonate in diretta. Di qui, invece, alfine, in perfetta solitudine, parte una continuata carezza furtiva… Come una furtiva lacrima... E dal televisore, sintonizzatosi indipendentemente ora sulla rete “Tele Canti e Tele Suoni”, Lucio Dalla, in piena forma, canticchia magicamente solo per lui: “Disperato erotico stomp”… 107 EXS Il giovane Rufus “Double” ha una sua sensibilità, propria del tempo, selvatica e poco sviluppata, cinghialesca, semmai sia possibile verificare che esistano ancora cinghiali in questo postatomico duemilanovantasei. Si vive tra macerie, alla giornata, dopo un trentennio abbondante di pioggia radioattiva e soli artificiali di mezzanotte su cieli violacei fosforescenti. La genesi di un lampo che ne richiamò altri è ormai dimenticata, spazzata via, come allora lo furono corpi e valori. La vita, tuttavia, è tenace, anche se si è trasformata da vite fertile in edera velenosa, e si abbarbica ovunque qualcuno respiri, pur senza fertilizzanti per la mente e senza il superato concetto classico di umanità. Rufus è un figlio del suo tempo: è un mutante. Il mondo ormai è popolato quasi solamente da mutanti che si aggirano tra macerie con semplici bisogni primari come mangiare, dormire, difendersi, prendersi piacere senza alcun raziocinio, regressi a trogloditi. Il giovane è chiamato anche “Double” per la sua curiosa caratteristica di mutante: il suo organo riproduttivo è sdoppiato sul pube in due protuberanze che divaricano verso i fianchi, notevoli e interessanti da un punto di vista femminile, se prese singolarmente, mostruose, però, nell’insieme da deforme alieno. Double non ha mai sentito nominare Bartolomeo Colleoni, triorchide fascinoso della storia antica degli uomini del vero medioevo, ma conserva un ancestrale inconsapevole senso di superbia legato alla sua doppia virilità sproporzionata, macho postmedievale di semplici equazioni concettuali: due meglio di uno per un doppio godimento, per una vita migliore, per il potere. Vive cacciando topi e tutto quello che si muove, Rufus, impegnato soltanto a sopravvivere. Si nutre di topi, appunto, e d’altro che si muove, ad eccezione di donne, di femmine: quelle servono per il 108 piacere, da sottomettere e ipnotizzare, semplicemente calando i pantaloni mimetici. Ne ha viste tante, di lerce, carine, abbrutite, disperate, inebetite, sfatte, giovani e vecchie, spalancare gli occhi in meraviglia terrorizzata, talvolta ingorda, e ne ha tratto emozioni per nutrire il suo io nell’orgoglio e in un rozzo complesso di superiorità. La brunetta del garage sembra carina, sotto quello strato di sporcizia che è una tuta unta di morchia. Rufus la sta fissando mentre lei contratta con un vecchio per quello che una volta poteva essere uno spinterogeno. Il vecchio impreca, ma lei ha già fatto il prezzo: prendere o lasciare. L’uomo lascia, minacciando qualcosa, e la brunetta, senza parlare, gli punta contro una balestra apparsa da chissà dove. Il vecchio si ritira senza un briciolo di dignità. Ora tocca a lui. La ragazza vende anche sé stessa, a quanto si dice in giro, ma Rufus conta sull’aspetto di bel ragazzo e sull’arma segreta per sorvolare su una marchetta e magari anche divertirsi. La brunetta non manifesta emozioni. Guarda Rufus. E lo soppesa. Il giovane sorride con sufficienza e provoca con voce roca. “Scommettiamo che faccio un giro gratis? E scommettiamo che lo faccio per due volte?” Il sorriso diviene risata irridente. Il macho è pieno di sé e gesticola con i pantaloni per proporre la sua mercanzia alla quale non si può resistere. La brunetta è imperturbabile. Immobile. Con la balestra a portata di mano, ma tranquilla. Rufus si abbassa i pantaloni mostrando due notevoli erezioni, con gli occhi luccicanti rivolti alternativamente su sé stesso, narcisisticamente ammirato, e sulla brunetta. 109 E’ impettito e gonfia il petto come quelle vecchie statue d’eroi del passato, semidistrutte tra altre macerie. “Hai capito ora perché mi chiamano “Double”, carina?” Il suo sorriso di trionfo scolorisce, però, ad un ghigno enigmatico della brunetta. La ragazza guarda lo spettacolo con freddezza divertita. Poi punta gli occhi sul giovane e armeggia colla tuta. Double è un primitivo semplice e non sa cogliere le sfumature: pensa che anche questa donna sta perdendo la testa. La brunetta mette in mostra due gambe tornite perfette, appena unte di morchia. E allarga le mani lentamente per un’eccezionale presentazione di un triangolo magico: tre splendide vagine, di cui due contigue poco sotto un ventre piatto ed elastico, sopra quella che dovrebbe essere l’unica naturale, tutte rosate, morbide, socchiuse, circondate da pelame riccioluto lucido, eccitanti. Lo fissa con un sorriso storto. “Tutto lì, Double? Sai come chiamano me, ragazzaccio presuntuoso? Treppola, chè vuol dire tre volte trappola…” Rufus rimane muto e immobile, incantato dalla visuale, bastonato nell’orgoglio, e la sua doppia virilità ne risente fino alla vergogna. Treppola ride di gola con sarcasmo indicando i due gommosi lombrichi violacei che pendono verso i fianchi del giovane mutante e si riveste lentamente, sfiorandosi, con sguardo torbido, mentre provoca il ragazzo passandosi la lingua tra le labbra. “Ci vuole altro per me, ragazzino…” Rufus esce sconvolto dal garage e corre a perdifiato nel crepuscolo verso il burrone, quello che era un parcheggio sotterraneo, ora a cielo aperto, in una voragine profonda decine di metri. Corre e piange assaporando una nuova sensazione mai provata di impotenza e sconfitta. E’ strana e capricciosa la vita. Sempre e in qualsiasi situazione. 110 Glabra di sentimenti dopo il botto d’anni prima, puramente vegetativa, soffocante come una liana ruvida, si sta trasformando in un qualcosa di più complesso, frastagliata da abbozzi di sensazioni e di valori, nuovi germogli. Forse per tutti. Rufus è scottato dall’orgoglio. Ritornano a galla vecchissimi concetti in letargo da decenni. Di superiorità. Stavolta tradita. E l’offesa è una mazzata di proporzioni planetarie, ché una nuova ameba in evoluzione è stata colpita nel vivo con tre taglienti trappole che hanno decapitato i due serpenti del potere. E’ strana e capricciosa la vita. Offre consapevolezze in assenza di speranze. E non fornisce supporti o puntelli a chi ha imparato la verità; anzi, decide di abbandonare il campo. Rufus, il nuovo macho, si lancia nel burrone profondo inseguito dalle risate di scherno di una rivale che rinnoverà l’antica lotta per il dominio del mondo. 111 SGUARDI E LAME NEL RISPETTO La giovane albanese è una porchetta albina insaccata in calze a rete. Guarda imbarazzata intorno a sé, saltellando di pupille celestissime dalla pista da ballo al suo ragazzo col ciuffo malandrino e gli occhi acquosi da predatore, fino ai tavoli davanti e intorno nel locale. La musica assorda e le luci ipnotiche e intermittenti evidenziano fermi-immagine di sguardi che fuoriescono dalla penombra colorata. La ragazza si sente osservata ed è a disagio. Pensa che è meglio prevenire determinate reazioni che poi subirne di altre più dolorose. Il suo ragazzo è di sangue caldo e picchia come un fabbro per gelosie che, tuttavia, sono sempre ingiustificate. Meglio prevenire... “Enver, mi sento guardata in modo troppo insistente: sono imbarazzata…” “Chi è?” “Quel ragazzo che ride laggiù tra tutta quella gente che gli sta parlando… Lo vedi? Lo hai proprio di fronte…” “Sì, lo vedo… Se continua, dopo averlo visto lo piangerò, quel bastardo…” “Stai calmo, Enver: te l’ho detto solo perché non si creino equivoci. Mi mette solamente a disagio la sua insistenza…” Di là della sala, tra invasati zampettanti galvanicamente a tempo, si squarcia asimmetrica l’immagine di una comitiva che pare festeggiare un giovane sorridente, proprio il tizio che imbarazza la pallida albanese. Qualcuno indica la sala e i ballerini, o forse indica proprio la bionda slavata a disagio; tutti ridono forte e il ragazzo al centro del gruppo viene strattonato e si china spesso a destra e a sinistra per captare messaggi mormorati direttamente nelle orecchie, ad scansare i decibels della musica. 112 Ride felice, annuisce, e tiene sempre lo sguardo fisso verso il tavolo della coppia albanese. Enver si sta innervosendo. E’ un sangue caldo senza troppa riflessione e con molta passionalità istintiva. Guarda il gruppo di fronte con espressione sempre più torva. Il ragazzo di là non batte ciglio e continua a sorridere in penombra nel buonumore generale tra pacche amichevoli e bevute con brindisi. Enver si sente frustrato. Anzi, per meglio dire brutalmente: preso per il culo. Da un bastardo con una comitiva di gente che sta bene, e lo si vede dai vestiti: granosi italiani con un lavoro decente. Tutti bastardi. Accidenti a loro, ché lui sì è svenato una giornata e mezzo di cantiere per portare la sua donna a ballare. E si deve fare il sangue marcio in terra straniera e inospitale, piena di arroganti che, soltanto perché hanno i soldi, si possono permettere di guardare le donne degli altri che stanno peggio. Enver fa un gesto con la mano diretto laggiù: cazzo hai da guardare? Di là c’è adesso irrisione in indifferenza totale. Si ride, si fissa da questa parte passando tra i ballerini, si guarda con un’insistenza che è offensiva e merita d’essere messa a posto. “Stai fermo, Enver, ti prego…” Il lamento è flebile, rassegnato, un belato senza convinzione, ché la slavata ragazza conosce bene il suo uomo dal ciuffo ribelle. Enver si alza e si fruga in tasca alla ricerca della sua sicurezza. La ragazza piange senza che nessuno se ne accorga. Lui avanza nella sala incurante dei ballerini tarantolati, sfiorandoli, con lo sguardo gelato fisso al tavolo dei suoi nemici felici. Si trova di fronte al tipo al centro della comitiva, quello che ride sfrontatissimo. “Lo hai capito che hai rotto il cazzo? 113 Lo sai che non si guardano le donne degli altri?” Il ragazzo continua a sorridere, appena di meno, e replica con voce quasi divertita: “Pensi che valga la pena che io possa guardare la tua donna?” E’ una risposta strafottente pronunciata nell’imbarazzo generale degli amici e delle amiche: tutti in apprensione per la percezione istintiva di qualcosa di tremendo che sta per succedere. Il festeggiato, che sembra proprio un festeggiato, continua a sorridere con un’aria stanca e l’espressione fissa verso la ragazza bionda laggiù che piange. Enver è ancorato a concetti d’onore montanaro, di valori agresti di duro territorio da domare con il farsi largo a proclami di rispetto. Rispetto da ottenere e mantenere. Estrae dalla tasca un serramanico e con la velocità di un crotalo colpisce al torace due, tre, quattro volte, il damerino che ride, senza dire una parola, guardandolo fisso per volerlo vedere morire e vedere il rispetto nei suoi occhi. La vittima s’accascia senza un lamento, senza un’espressione particolare, solamente senza più sorridere. Urla, disperazione, rumore di seggiole metalliche trascinate a terra insieme a bicchieri e bottiglie. “Disgraziato, che hai fatto?” “Guardava la mia donna. Mi ha offeso…” Una ragazza con le mani nei capelli e una disperazione senza sollievo mormora a mezza bocca come una cantilena, con lo sguardo sperso: “Era cieco, era cieco, era cieco, era cieco, era cieco…” Enver non sa chiedere scusa. Non è stato educato a chiedere scusa. Lascia cadere la lama e rimane immobile come una statua davanti alla sua vittima a terra. E muore dentro… Per non essere riuscito a vedere in due occhi morti il rispetto nella confusa sensazione d’essere stato preso per il culo da altro. 114 UN CASO UMANO Caro Direttore/ cara Redazione/ cari Donna Letizia/ Nonna Firmina/ Zia Pina/ Dottoressa Birigozzi sessuologa/ Dottor Paolo Bidet psicologo/ Padre Bazed Boggio/ Suora Eufrasia/ Frà Pistillo/ Don Lamazza, chiedo un consiglio su come comportarmi a fronte di avvenimenti sconcertanti che mi vedono, purtroppo, passiva protagonista confusa. Sono una donna ancora piacente, dignitosamente posizionata con un lavoro semplice, senza figli, molto innamorata di mio marito anche se preoccupata per sue recenti bizzarre manie. Bat-tista, questo il nome convenzionale di mio marito, scelto da qualche tempo proprio da lui che si chiama in realtà Cosimo, è disoccupato da un’eternità e assai fantasioso nel trascorrere piacevolmente il suo troppo tempo libero. Fin dall’infanzia è sempre stato un acceso ammiratore di Bat-man e di lui, da sempre, tutto colleziona. Ha perfino il tazzone di caffelatte con sopra scritto “POW” a colori psichedelici, che è il fumetto del rumore di un cazzottone dell’eroe verso la mandibola di un malvagio. Possiede anche un cimelio rarissimo: la carta igienica con le ali di pipistrello serigrafate made in Repubblica di San Marino. Bat-tista ha visto quarantasette volte il film “Bat-man il ritorno”, per tacere le innumerevoli volte di tutte le altre pellicole, colleziona tutti i fumetti che riguardano le vicende di Gotham City e si documenta su qualsiasi fonte che parli del suo beniamino. Partecipa molto delle vicende di Bat-man digrignando i denti con mugolii solidali e picchia i pugni sul tavolo quando legge del Joker, del Pinguino e di Freezer che, credo, siano nemici dell’uomo pipistrello. Aggiungo solamente, tanto per rendere più concreta la situazione drammatica anche da un punto di vista economico, che abbiamo sottoscritto un abbonamento con leasing presso un mobilificio per sostituire il tavolo sinistrato almeno ogni due mesi. 115 Mio marito in questi ultimi tempi sta assecondando la sua mania in un vero e proprio parossismo incontrollato. Ha fatto modificare la nostra vecchissima Micra in una sorta di bat-mobile e ha speso un mutuo dal carrozziere che scuote la testa incredulo ogni volta che lo incrocia, incredulo di tanta fortuna piovuta dal cielo, ché si è fatto una Mercedes Kompressor metallizzata. La Micra mi fa impressione, ché sembra uno scarafaggio crestato punk, tutto nero, il colore della notte per come dice mio marito, ma io ci viaggio per amore anche se Bat-tista parte sempre sgommando con una seconda rabbiosa e lo stereo a palla con gli U2 o il coretto di Prince (Batmaaannn) che fa rimbombare i vetri delle finestre vicine. A ciò devo aggiungere particolari assai imbarazzanti: Bat-tista, infatti, ghigna tutto goduto con una mascherina e le orecchie finte a punta e prova a creare una cortina fumogena con lo starter dell’aria ingolfando il motore, per la gioia del carburatorista che ci vede assidui clienti e si sta informando dal concessionario Mercedes del carrozziere. Inoltre il paese è piccolo e la gente mormora. Due settimane fa abbiamo traslocato in una grotta fuori paese, che lui chiama bat-caverna: una fungaia umida e buia che un bieco contadino ci ha affittato a prezzi da strozzo. Ho dovuto confezionare una tuta da Bat-man in flanellona pesante per evitare al mio lui ricadute di sinusite e recrudescenze di reumatismi. Bat-tista, per scaldarsi e combattere l’umidità, si gratifica con cinque e anche sei ore giornaliere di tapis roulant e pesi per rinforzare la muscolatura e si esercita ad agitare in superba iconografia il soprabito tagliato con le forbici a foggia di ali di pipistrello principe di Galles. Io, nonostante tutto, continuo ad amarlo. Lui dice che mi ama. Anche se ha fatto venire da Napoli un suo cuginetto alla lontana, femminiello, Rosario detto Carmen, e lo chiama Robin accarezzandolo con affetto. Da due giorni mi sta facendo il lavaggio del cervello e insiste che devo fare la donna di Bat-man e che devo bat- 116 tere lungo la tangenziale per pagare l’affitto della batcaverna e il carrozziere della Micra bat-turbo, ché mi ha prosciugato tutti i risparmi. Mi ha procurato una calzamaglia a rete nera con sbrilluccichini e mi chiama in continuazione Cat-woman e vuole che io faccia ‘miao’ con movenze sexy e poi gli accarezzi la patta dei pantaloni felinamente per fare un’esercitazione. Come posso uscire da questo incubo? Ho pensato di rivolgermi a Flash, il fotografo sulla piazza della chiesa, nostro amico di famiglia, ma il paese è piccolo e la gente mormora. Lo scemo del villaggio, mica tanto scemo secondo me, s’è offerto volenterosamente d’aiutarmi e mi ha dato un orologio che fa ‘zee zee zee’, come quello di Superman regalato a Jimmy Olsen, per chiamarlo in caso di bisogno. Lo scemo del villaggio si fa chiamare Membro Kid e gira sempre con una mantellina e tre gambe nude. E altri ancora hanno messo gli occhi su di me. Al circolo ARCI del paese, per esempio, ci sono quattro o cinque tipacci sempre arrapati che si fanno chiamare la Legione degli Ultra-eroi. Spacciano dietro la scuola l’eroina e si toccano gli ultrapacchetti ogni volta che passa una donna come me vestita con gli sbrilluccichini, e qualcuno dice anche di avere un superpotere da provare. Aiutatemi. Vi prego. Non vivo più tranquilla e faccio brutti sogni, sogni che da erotici iniziali degenerano poi in un incubo, ché sono spesso violentata dall’incredibile Hulk, proprio quando è verde e arrabbiato, e mi sveglio sempre sudata e con qualche livido. E trovo Rosario/Carmen/Robin a ridosso del lettone, col rossetto dark, che mi guarda geloso con gli occhi iniettati di sangue sormontati dalle mie ciglia finte e si sfrega le nocche delle mani arrossate mentre Bat-tista russa come un bufalo chiamando nel sonno l’Enigmista perché non riesce a risolvere le parole incrociate. 117 E si agita per difendere Gotham City. E colpisce all’impazzata. POW. POW. Come sul tazzone di caffelatte. Colpisce il mio stomaco e talvolta anche più in basso. Esiste un antidoto per l’insana passione di mio marito? Una specie di kriptonite o un’arma segreta che lo faccia rinsavire? Vi prego ancora: aiutatemi con buone parole e onesti consigli. In fede Cat-woman disperata, nell’aria, triste: Cat-etere. 118 ARRIVANO I BRIGGHEDOVIGI Tutto va storto oggi, a Tommaso, e l’attendere il proprio turno nella sala d’aspetto di un ambulatorio medico per fastidiosi dolori generici non agevola il ritrovamento del buonumore. La stanza è depressogena, con le sue seggioline di plastica giallo uovo imbullonate tra di loro come in un cinema all’aperto. Alle pareti spiccano le solite stampe di fari nella tempesta, di pesci tropicali, di vedute di città sparite, di manifesti che invitano ad un controllo prostatico o minacciano anatemi a fumatori e promiscui omosessuali e non. Inoltre c’è un pienone di gente che rende l’aria viziata e appiccicosa. Parlano tutti insieme accavallando concetti e resoconti, accalorati ad arricchire un qualcosa che sembra una saga misteriosa per iniziati. Tommaso capta qualche parola nel mucchio, squadrando fisionomie, senza comprendere bene di cosa si stia discettando. Percepisce soltanto eccitazione preoccupata di tutti. La vecchietta di fronte, ossuta, con due culi di bicchiere per occhiali, biascica sdentata: “Mia nuora è andata al supermercato a fare la provvista dell’acqua minerale con il furgone di mio fratello. Caricheremo tutte le provviste e ce ne andremo al cascinale in collina. E speriamo bene: mio cognato sta già scavando delle trincee sul posto…” “Ah, c’è solo da sperare, signora mia: da sperare su tutto, ché anche le provviste stanno scarseggiando. I discount hanno ormai gli scaffali vuoti e c’è già chi sta speculando alla borsa nera sulla pasta e il riso. Al supermercato sotto casa mia, stamattina, c’è stata una rissa per uno scatolone di succhi di frutta all’ACE e c’è scappato un morto, lapidato con barattoli di tonno sott’olio. Un mortonnato.” 119 Enuncia queste informazioni una signora imponente, massiccia e severa come un trumeau, conscia della gravità della notizia che ha appena dato ai presenti. Si gira intorno sussiegosa e con lo sguardo sollecita interazioni. Un omone pelato dal collo taurino, con gli occhiali alla Matrix, mascelluto di benitiana memoria, impreca sommesso e poi spara le sue opinioni: “Bisogna solo aspettarli. Ma organizzati. E poi sparare subito ad uccidere. Anche io ho fatto provvista, ma dall’armaiolo vicino alla stazione: tutta roba legale e registrata. Ho anche, però, altra robetta extra per accoglierli, i bastardi…” Tommaso fatica a focalizzare l’argomento di cui si parla. E’ allarme confuso traboccante di reazioni spontanee, ma riguardo a chi o a che cosa? Un vecchio pensionato cadente come la sua giacca su spalle troppo scavate mormora: “Speriamo che il dottore non faccia troppe storie burocratiche per i controlli sanitari e per la prescrizione degli antibiotici. Di fronte a certi avvenimenti non è giusto risparmiare sulla salute, no?” Incalza la vecchia talpa sdentata sputacchiando: “Ma no, figuriamoci: scoppierebbe una sommossa. Gli ospedali sono presi d’assalto per avere chinino e vitamine e per le analisi del sangue. Gli infermieri sono docili perché hanno paura di reazioni scomposte. All’ospedale di San Prospero della Peronospera hanno impiccato a furore di popolo un medico che faceva storie, con i lacci delle fleboclisi, e si sono accaniti sulla sua infermiera con un clistere bollente di catrame. Anche la televisione ha detto che bisogna cautelarsi e che il problema è serio… Con la salute non si scherza…” Tommaso frigge di curiosità. “Scusate: ma di cosa state parlando?” Voci in coro dei presenti, incredule. “Ma come: non lo sa?” “No. Cosa dovrei sapere?” 120 “Ma non la vede la tele, non legge i giornali, non parla con nessuno?” “Veramente faccio vita molto ritirata. Che è successo?” “O mio Dio, come siamo messi, povero lei! Non sa, dunque, che stanno arrivando?” “No, non so nulla: chi sta arrivando?” Coro liberatorio all’unisono, urlato con raccapriccio. Manca solamente il tuono scenografico da film ad esaltare emozioni. “I brigghedovigi.” Refrattarietà di Tommaso, stridente, scettica per come lui si chiama. “Ah. E chi sono?” Alla domanda, peraltro legittima, nella sala d’aspetto del medico si crea un’atmosfera di diffidenza e irritazione per l’improntitudine senza rispetto di Tommaso. Inoltre è palpabile il turbamento generale ad un notare discrepanze nella simultaneità delle risposte. La vecchina occhialuta infatti prorompe: “Marziani.” L’omone mascelluto mastica: “Comunisti islamici. Forse pure omosessuali e malati.” La signora severa enuncia: “Extracomunitari armati e infetti.” Il vecchio pensionato dimesso: “Una mutazione incontrollata di un batterio letale, Dio ci scampi.” Lo dice sottovoce con segno della croce accluso e sguardo rivolto alla parete, disperso tra un faro nel mare del nord e un avvertimento contro gli ictus. Aleggiano mormorii di altri presenti e un senso di straniamento per le variegate definizioni di questi “brigghedovigi”. Tutti si guardano interrogativi, vagamente in cagnesco, e Tommaso si lascia scappare un risolino di scherno. “Mi pare che abbiate le idee piuttosto confuse, eh?” L’omone pelato è nervosissimo e digrigna i denti: “Ecco un altro disfattista che non crede a nulla e demolisce tutto con il sarcasmo. Crede in qualche cosa, lei? A Dio padre, alla famiglia, ad una vita serena senza minacce? O anche lei è un comunista culattone?” 121 Tommaso si fa guardingo senza retrocedere: “Vorrei solo sapere con esattezza chi sono questi brigghecosi…mai sentiti finora…” “Brigghedovigi, brigghedovigi, signore mio, e lei deve stare molto attento a questa sua leggerezza, ché potrebbe bere tra qualche giorno acqua contaminata o mangiare verdura radioattiva…” La vecchia semicieca è apocalittica. Il pensionato salice piangente rincara la dose: “Si parla già di qualche migliaio di morti, in Cina e a Singapore, e il laboratorio di malattie infettive di Parigi ha già messo le mani avanti dicendo che un vaccino non sarà approntato prima del quattordici aprile del duemilaventotto alle ore dodici e venti. Per ora andiamo avanti con la vecchia penicillina sperando che sia sufficente. E avanti con tante vitamine.” Tommaso curioso. “Ma non era chinino? Ah, penso d’aver capito. Ma allora è una malattia o cosa?” La signora imponente scuote il capo con decisione e striduleggia: “Sono barconi pieni che approdano dappertutto, pure davanti a Fregene e Fiumicino. La Protezione Civile sta meditando di mobilitare motosiluranti alla faccia di quelli della Caritas.” “Quelli della Caritas, lo si dovrebbe ormai sapere, per il sangue di Cristo, sono tutti cattocomunisti e dovrebbero essere affondati insieme ai barconi. Sono tutte barche con le bandiere rosse e la mezzaluna. Si ingroppano tra di loro nelle stive, porci schifosi senza Dio, mi scusino, gentili signore…” L’omone pelato s’incupisce. Poi esplode in piedi attingendo dal borsellone nero una rivoltella enorme che pare un cannone. “Ecco come devono essere accolti i brigghedovigi.” Tommaso si raggomitola per istinto di conservazione e cancella all’istante il suo sorrisetto di sufficienza. Il vecchio pensionato guarda l’omone come per la prima volta e poi mormora: 122 “Una forma di virus mai vista, enorme e resistente, carnivora, dicono: un nuovo batterio negro africano…” La vecchia con i culi di bicchiere sbotta: “Infettano tutta l’acqua col cianuro e la loro pipì per cattiveria e per la loro religione o per loro usi e costumi.” La donna severa: “Imbrattano tutti i campi coltivati con i loro escrementi e mordono le mucche direttamente vive dentro le stalle: un’atroce agonia per quelle povere bestie…” Tommaso pensa alle pisciate religiose e alle mucche azzannate da indefinibili zombies vestiti da stafilococchi e non ce la fa più. Sbotta e ride aperto di gola piegandosi in due sulla seggiola gialla mentre gli altri inorridiscono per la reazione. La donnona: “Mio Dio: che questo giovane non sia già stato infettato tramite qualche puntura d’insetto o sulla metropolitana o in qualche circolo vizioso Anpi Acli Dadaumpa? Gli ha preso al cervello direttamente. O che non abbia bevuto acqua da una fontanella collegata all’acquedotto…” L’omone armato brandisce il suo cannone: “Questo qui è una quinta colonna che aprirà un varco agli altri. Deve essere dell’Arci Gay: guardate che pantaloni stretti e che capelli lunghi. Vaffanculo ai senzadio: io gli sparo, io mi difendo…” Esplode due colpi, poi tutto il caricatore su Tommaso che rimbalza come una pallina di ping pong sulla parete schizzando di sangue sedie, parete e mutuati vicini in attesa che si agitano come meduse per asciugarsi e ripulirsi subito, nella speranza di non essere stati contagiati dal sangue impuro. Tommaso s’accascia in terra senza un lamento, disarticolato, con occhi vitrei marmorizzati in incredulità, mentre s’allarga una pozza di sangue sul pavimento della sala d’aspetto. Il vecchio pensionato si porta un fazzoletto alla bocca: “Adesso bisogna stare attenti a respirare, ché il contagio è per via aerea…” 123 Tutti i presenti, compresi quelli che hanno paura del contagio da sangue, si tamponano subito la bocca con fazzoletti o salviettine di carta. Il mascelluto assassino, efficentissimo, tira fuori dal borsone una mascherina antinfortunistica e ricarica la rivoltella senza smettere di guardare Tommaso esanime, per paura che possa risvegliarsi come un inestinto assetato di sangue coi canini vampiri. La vecchia quattrocchi si fa il segno della croce: “Mi sento un pochino più tranquilla, ora, ché questo giovane non mi piaceva tanto. Troppo strafottente. E poi chi non ha paura di nulla vuol dire che la semina, la paura…” La donna trumeau: “Chi semina vento raccoglie tempesta. Qualcuno guardi se ha i documenti e se è italiano: dall’aspetto mi pare un cipriota o un polacco o uno zairese albino. Frugatelo, ma solo se avete dei guanti…” S’affaccia il medico dal suo studio, piccolo e pallido, con aria rassegnata e un elmetto da minatore giallo come le sedie della sala d’aspetto, richiamato dagli spari. Fa capolino dietro di lui una paziente in sottoveste, mammellocadente e con lo sguardo torbido da gaudeamus igitur di ultima spiaggia. Il medico, forte anche di una specializzazione, sentenzia l’evidenza: “E’ morto.” Qualcuno dei presenti, assorbito da altre preoccupazioni ché non un morto sforacchiato in un ambulatorio medico, accende una radiolina sintonizzata su un radiogiornale, per aggiornarsi sulle ultime notizie. Mormorio di tutti. “Cosa dice dei brigghedovigi? Cosa dice?” Il medico fiuta l’aria guardingo e getta in aria confezioni gratuite di antibiotici vari e tubetti di vitamine. Sgattaiola fuori dello studio con insospettabile dinamismo, sempre con l’elmetto, mentre una voce appena tremula si diffonde dalla radio e cattura l’attenzione di tutti i presenti: 124 “E’ notizia dell’ultima ora. I brigghedovigi sono sbarcati anche sulla penisola italiana. Il Commissario della Protezione Civile nutre un certo ottimismo e ha dichiarato che l’esercito sta setacciando le campagne alla ricerca di qualche esemplare vivo da interrogare e studiare da vicino. La Caritas sta approntando campeggi di prima accoglienza e lancia un appello alla solidarietà di tutto il popolo italiano per la donazione di coperte e capi di vestiario. Il ministro della Sanità ha annunciato una commissione di studio per la predisposizione di un vaccino e ha richiesto al Consiglio dei Ministri uno stanziamento extra di fondi dal tesoretto per la profilassi dei brigghedovigi con sulfamidici generici importati direttamente dalla Svizzera. Il Ministro della Difesa smentisce il Commissario della Protezione Civile assicurando una vigilanza assidua di tutto l’esercito alle frontiere alpine, per i brigghedovigi montani, con il riutilizzo delle casematte della prima guerra mondiale. Il Ministro dei Beni culturali ha promosso una sovvenzione per un progetto di film documentario da utilizzare a scopo didattico per il prossimo anno scolastico. Il problema, ha rilevato, è cercare un regista giovane, sano e combattivo, che abbia voglia di riprendere da vicino l’evoluzione dei brigghedovigi fino dalle cellule staminali. Vi terremo informati con il prossimo notiziario.” Scambi di sguardi apprensivi, nella sala d’aspetto del medico disertore. C’è poi un arraffare frenetico di mani adunche a ghermire tubetti, blister, scatolette di medicinali, garze, cerotti, profilattici, supposte antinfiammatorie, sciroppi per la tosse e altro esposto nella vetrinetta dello studio, indipendentemente dall’uso che se ne potrà fare in seguito. La paziente mammellocadente si riveste con calma nascondendo nei mutandoni quattro o cinque scatole di carnitina e integratori di magnesio e potassio. Il cadavere di Tommaso, intanto, comincia ad irrigidirsi nella sala d’aspetto. Tutti i pazienti lo scavalcano preoccupati di non inzaccherarsi le scarpe di sangue ed escono urlando isterici, 125 come nella scena della fuga dalla sala cinematografica, quella del vecchio film “The Blob”. Per la paura dell’arrivo dei brigghedovigi... Qualcuno scruta il cielo plumbeo. Il pelato assassino, ormai vaccinato sul campo, spara a qualche piccione in volo e poi ad una pantegana che fa capolino da un tombino. Centra infine un prete in clergyman, troppo moderno per essere un vero prete, forse comunista, forse islamico, forse pedofilo… 126 BRACCHI E DUGONGHI Il dugongo è caposala: si evince dal golfino blu che fascia una divisa immacolata. Legge le analisi senza tradire emozioni. Il degente interessato, di fronte a lei, si rassetta nervosamente il pigiama cascante sul corpo scheletrico e si passa una mano sui pochi capelli residui. La caposala sorride al mughetto balsamico, equa e solidale. “Bene, benissimo, caro: adesso l’accompagnerò nel laboratorio analisi per qualche altro prelievo. Lei è una roccia. Nulla di preoccupante.” Il paziente, vecchio bracco mansueto, annuisce speranzoso: se avesse la coda, l’agiterebbe festosamente mendicando con lo sguardo una grattata dietro le orecchie. Il dugongo assume un’aria marziale stringendo al petto la cartella clinica e modula l’espressione secondo il protocollo ‘indiscutibilmente professionale’. Flauteggia con voce che non ammette repliche: “Mi segua da vicino. Dobbiamo andare solamente in fondo al corridoio.” Il malato uggiola in annuire sommesso. La caposala spalanca la porta e s’immette nel corridoio che è invaso da carrozzelle, lettini, infermieri affaccendati, parenti di pazienti, bimbi queruli, madri lacrimanti, uomini pensierosi, medici veloci in movimenti galvanici. Il degente si rattrappisce dietro il golfino blu che fende la calca, Pollicino di corsia. La caposala è un bulldozer, ma il corridoio è davvero intasato d’ogni genere di umanità. Il dugongo barrisce: “Permesso, permesso, fate largo. Attenzione: uomo morto che cammina. Uomo morto che cammina…” I presenti si appiattiscono verso le pareti e con sguardi sgomenti accarezzano il piccolo bracco che si guarda intorno frastornato. 127 Il dugongo si volge indietro con un’impercettibile strizzata d’occhio che vorrebbe essere complice. Così almeno recepisce, spera, il già prima definito roccia. Molto confuso. Con un groppo alla gola e la proiezione, in pochi attimi, di un’intera vita sullo sfondo del corridoio, sulla porta del laboratorio analisi. La voce insiste: “Permesso, fate largo: uomo morto che cammina…” 128 PRIMO MAGGIO 2003 – POLVERE DI FOGLIE Cielo splendido al largo di San Diego, California. L’azzurro intenso, come polarizzato da un potente filtro fotografico, si fonde con il blu cobalto dell’oceano, un tappeto di foglie spumeggianti appena increspato da una brezza insistente e piacevole. Il ponte della portaerei è gremito fino all’inverosimile. Il Presidente è raggiante: “Vi ringrazio tutti sentitamente. Ammiraglio Kelly, Capitano di Vascello Card, ufficiali e marinai della portaerei Uss Abraham Lincoln, miei concittadini Americani: la fase principale dei combattimenti in Iraq è terminata. Nella guerra in Iraq, gli Stati Uniti e i nostri alleati hanno prevalso. E ora la nostra coalizione è impegnata nella ricostruzione e nel garantire la sicurezza del Paese. In questa battaglia, abbiamo combattuto per la causa della libertà e della pace nel mondo. La nostra nazione e la coalizione sono orgogliose di questa impresa, e siete stati voi, le Forze Armate degli Stati Uniti, ad averla compiuta. Il vostro coraggio, la vostra determinazione nell'affrontare il pericolo per il vostro Paese e l'uno per l'altro, hanno reso possibile questo giorno. Grazie a voi, la nostra nazione è più sicura. Grazie a voi, il tiranno è stato sconfitto e l'Iraq è libero…” Garriscono all’aria salmastra striscioni di benvenuto, e i pantaloni e le casacche dei marinai si animano, concitati, sui corpi di una gioventù attenta e orgogliosa, ingaggiando una lotta giocosa con il vento. E’ tutto un incrociare di sguardi, tra soldati e comandanti e autorità, in commistioni di gratitudine e fierezza per consapevolezze e intenti parimenti sconfinati. “...Uniti difendono questi principi di sicurezza e di libertà con tutti i mezzi della diplomazia, della polizia, dei servizi segreti ed economici. Stiamo lavorando con un'ampia coalizione di nazioni che riconoscono la minaccia e la nostra comune responsabilità nel far fronte a tale minaccia. 129 L'impiego della forza è stato e rimane la nostra ultima risorsa. Tutti, amici e nemici allo stesso modo, sanno che la nostra Nazione ha una missione: reagiremo alle minacce rivolte contro la nostra sicurezza e difenderemo la pace…” Bart è defilato, timido. E’ lì presente con uno strano agitarsi di sentimenti nell’intimo. “…Gli uomini che abbiamo perso sono stati visti per l'ultima volta mentre compivano il loro dovere. La loro ultima azione su questa Terra è stata quella di combattere un grande male e di portare la libertà agli altri. Tutti voi, in questa generazione di militari, avete accettato la più grande responsabilità della storia. State difendendo il vostro Paese e proteggendo gli innocenti dal male. Ovunque andiate portate un messaggio antico ma sempre valido. Usando le parole dette dal profeta Isaia "Ai prigionieri: ‘Uscite!’, e a quelli che sono nelle tenebre: ‘Venite alla luce!’…” E’ un tripudio di applausi e di berretti lanciati in aria. I militari si abbracciano sull’immenso ponte della nave lasciando che il protocollo e la disciplina si dissolvano per un attimo nell’incontenibile gioia per l’adempimento di una missione importante. Qualcuno improvvisa una danza, qualcun altro saltella per riuscire a carpire tra le tante teste lo sguardo commosso del Presidente laggiù tra i microfoni. Bart è urtato violentemente da un gigantesco mulatto imponente come una sequoia e perde l’equilibrio annaspando sul bordo del ponte. Un piccolo portoricano, nello sbracciarsi, gli assesta una gomitata allo sterno. Bart indietreggia risucchiando aria e poggiando il piede sul nulla… Nessuno si accorge di niente, al momento: del resto, rigogliose foglie verdi avide di vita, nervose e tese, o masticate come berretti, non portano il lutto per una foglia ingiallita che diviene estranea alla comunità… 130 Non se ne accorgono neanche, forse, impegnate a sostenersi vicendevolmente nella compagnia e nell’unica comune funzione di succhiare linfa e offrire ombra e riparo. Il cadere da una portaerei è come precipitare da un palazzo di oltre dieci piani e l’impatto con il mare, da oltre sessanta metri, è per lo più definitivo e non morbido come si potrebbe credere. E’ un’altezza, tuttavia, che permette di elaborare ultime perplessità e di impadronirsi di estreme verità contingenti, avvolte nel terrore della fine, sulla bontà di un discorso e su certezze e reali valori della vita: quel famoso avanzamento veloce nel ralenty che relativizza il tempo rimasto a disposizione. “…Grazie per il servizio prestato al nostro Paese e alla nostra causa. Dio vi benedica e continui a benedire l'America.” 13.04.2005 131 FIGLI E FIGLIASTRI DELLA STORIA Ci piovvero addosso parole sferzanti come acqua gelida. Il Comandante Li Pa era un idolo di pietra: “Non dovrà essere tollerata alcuna forma di resistenza e siete stati istruiti su come dovrete comportarvi.” Fu una riunione brevissima con ordini secchi e indiscutibili nella loro cruda chiarezza. Ci guardammo tra noi, sgomenti dentro e impassibili fuori, professionali, con l’angoscia di qualche tiro mancino organizzato dal destino. Avremmo potuto trovarci di fronte qualche nostro parente o amico: sapevamo che non avremmo potuto fare eccezioni. Dal comando arrivò un segnale paterno, un abbraccio consolatorio affinché il nostro morale restasse saldo e la nostra determinazione incrollabile nel rispetto degli ordini: fu servito tè al gelsomino e birra di riso. Si bevve senza parlare tra noi, gravati da macigni di responsabilità, speranze, irragionevolezze, echi di un monolite a scolpire la mente con ordini. Poco dopo urla rauche di comando ci frustarono riportandoci all’azione. Abbandonammo tazzine e bicchieri, e ci precipitammo fuori ai nostri mezzi con uno scalpiccio paradossalmente disordinato di passi calcati nella disciplina. E si fece il mio destino, il destino di Wot Vo Dao, carrista della settantottesima Brigata corazzata di stanza a Pechino, il tre giugno del 1989. Ci dirigemmo verso la Piazza Tien An Men sferragliando lungo gli immensi viali semideserti. Ci fu un confabulare tra il nostro capo colonna e qualche ragazzo esagitato e piangente. Vedevo dalla feritoia un gesticolare frenetico con espressioni tristi, ma non mi era concesso indugiare in riflessioni. Un carrista dell’esercito cinese del 1989 poteva solamente essere devoto a Deng nel ricordo, forgiato da Deng, di Mao Ze Dong. 132 Ricordo un’aria pesante quel tre giugno: per il caldo afoso e per il fumo dei nostri carri, che rendevano l’atmosfera irrespirabile. I giovani si ritirarono verso la piazza distante dietro di loro. La colonna avanzò con prudenza, ma regolarmente. All’improvviso vidi davanti a me una camicia sventolante al vento, uno stendardo con due occhi che erano un manifesto di dignità. Scorsi lo sguardo: freddo, determinato, parente degli sguardi dei nostri comandanti alla riunione in caserma, parente degli sguardi dei miei commilitoni nel mentre che sorseggiavamo la birra di riso e il tè al gelsomino. Dovetti frenare per non travolgerlo. Cambiai rotta spingendo il mezzo a destra, ma anche il giovane si spostò a destra sempre davanti al carro. Aveva due sacchi di plastica che lo bilanciavano, come fossero zavorre, e per un attimo pensai che fossero pieni di libri, di sapere, utili per conferirgli stabilità ed equilibrio. Sembrava un vigile, con i due sacchi appesi alle due braccia aperte. Deviai a sinistra, per sorprenderlo e avanzare. Anche lui scartò a sinistra. Non rideva, non scherniva. Il suo ciuffo gli copriva parzialmente la fronte, ma gli occhi con cui fissava me dietro la feritoia erano decisi: non mi avrebbe fatto passare. Avevo una visuale limitata. Il mitragliere Go Chen, sopra la torretta, urlava e bestemmiava all’indirizzo del ragazzo e m’invitava a procedere, anche se sul suo corpo, ma non sparò neanche una raffica. Io non potei: percepii quel giovane come un mio fratello. Poi lo perdetti di vista e potei proseguire. Non mi posi molte domande: dovevo prendere posizione sulla Piazza Tien An Men. Non mi chiesi, quindi, se fu travolto, mitragliato, arrestato, ucciso. 133 Ritornai in caserma con la colonna, dopo qualche tempo, depresso per le troppe idee confuse che agitavano la mia mente. I miei superiori erano furenti: quel rallentamento fu ripreso dalle televisioni di tutto il mondo. Dissero per colpa mia. Go Chen dimostrò che la mitragliatrice era inceppata e mi fissò come se contemplasse un’anatra crocefissa cosparsa di miele per la laccatura. Parlare di processo è un azzardo: si parlò d’esempio. Fui schiaffeggiato in pubblico, davanti ai miei commilitoni, e poi fui trascinato, dopo essere stato privato della camicia con le mostrine, al centro dell’immensa piazza d’armi della caserma, davanti a tutta la truppa schierata. Qualcuno mi tese una coppa di vino di riso. Fui fatto inginocchiare e fui bendato. Udii, preso alla sprovvista, solamente lo sparo, inaspettato in irragionevole speranza di clemenza. Poi fu il buio immediato, dalla nuca ad avvolgermi nell’eco del rimbombo, a dissolversi nel silenzio più assoluto mentre mi accasciavo in avanti. E ora, da allora, sono condannato a cercare quel giovane e non avrò la pace della mia anima finché non l’avrò trovato. Grande è Pechino e grande è la Cina, e non è vero che i morti sanno tutto: non tutti, almeno… E non mi dà conforto l’essere un martire come lui, perché io non ho una fotografia o un filmato o un articolo sui giornali, come lui, perché solamente io so d’essere un martire. Graffia, l’invidia, nell’inevitabilità di quello che mi è accaduto, e mi rode dentro crudelmente. Non ho ucciso un innocente, in dispregio agli ordini di Deng e dei miei generali, e ho per questo pagato con la mia vita. Sono stato condannato a morte nell’infamia, e il mio corpo giace nella terra argillosa dietro la caserma, senza contrassegni e senza un nome da piangere nel tempo. 134 Ma la mia condanna spirituale, quella peggiore, per come posso dirlo ora che so, è nello scontare l’invidia verso quell’ eroe sconosciuto, eppure famoso per sempre nella storia degli uomini, con il non sapere dove può essere, quel giovane senza sorriso, dove stia vagando la sua anima probabilmente liberata con un uguale colpo alla nuca. E continuerò a cercarlo, dunque, fino a quando non avrò modo di ritrovarmelo di fronte e leggere nella sua ombra una verità che ho solo intuito; continuerò, angosciato e tradito dalla storia, senza calcoli o riferimenti circa il tempo, per trovare la mia pace. 135 136 RACCONTI LONG SIZE 137 138 MUSICA ROCK Dalla pagina Cultura e Spettacoli del “New Day Boulletin” 3 novembre 1999 ROCK MALEDETTO VENTI ANNI FA I VALDEMAR’S BROTHERS “Quasi tutte le fonti informative nell’ambito della storia del rock tralasciano la musica e l’immagine dei VALDEMAR’S BROTHERS, ma è indubbio che le loro sonorità, la loro particolare preparazione musicale e la loro inconsueta formazione, unite alle vicende uniche vissute al di fuori della sala di incisione, hanno scolpito il totem di un gruppo di culto, maledetto, al di fuori di tutti gli schemi conosciuti nel panorama della musica contemporanea. La loro storia comincia nel 1976 a Chelsea, quartiere di Londra, in uno scantinato umido ed arrangiato artigianalmente a sala prove e luogo di incontro. Quattro studenti di ceto abbiente, tre di Arte ed uno di Filosofia, Brett Wind, John Bradley, Ben Cross e Jonas Green, amici da tempo per il loro comune interesse per la musica e l’esoterica, decidono di costituire un gruppo musicale rock, anche se la loro formazione non si può certo definire ortodossa: chitarra elettrica, organo Hammond, violoncello e percussioni esotiche varie come tabla indiani e jembe africani. I loro tentativi di amalgama dei suoni e delle ispirazioni si alternano al loro passatempo preferito di discussioni e approfondimenti degli aspetti più nascosti e magici delle religioni orientali. Il più carismatico dei quattro, Jonas Green, il ‘filosofo’, pungola il gruppo alla finalità della creazione di uno stile e di una sonorità accentuatamente originali: “Noi non apparteniamo ad alcuna scuola o corrente musicale; noi siamo una corrente musicale ed abbiamo un nostro stile, musicale e di vita, con i nostri interessi per la magia e le religioni, e la nostra ideologia decadente, o se volete, nihilista, nell’osservazione del mondo che ci circonda.” Questa dichiarazione di intenti diventerà nel 1978 una presentazione alla stampa in occasione del primo ed unico 139 disco “PRESENCES”, edito da una piccola casa indipendente londinese, la Skull’s Jewels Records, specializzata nella scoperta e nel lancio di gruppi definiti ‘maledetti’ per il loro stile di vita o per la loro musica fuori dai canoni classicheggianti dell’ hard-rock, esente da commercializzazioni, zuccherose e altre volte dozzinali, sia come musica che come testi. Il disco, otto pezzi tra cui una suite di 21 minuti, senza appoggi mediatici e senza una ragione precisa, sfonda in tutti i mercati cogliendo impreparata anche la piccola casa discografica che si deve appoggiare alla ‘major’ Wong per la distribuzione ed il soddisfacimento delle innumerevoli richieste nel mondo. Si conteranno 19 milioni di copie vendute e per un primo disco sono tante. Il successo è inspiegabile, ma il disco entra in tutte le più importanti classifiche, vi permane per moltissime settimane e diventa l’argomento di discussione di salotti sociologici in TV, di rubriche radiofoniche e di quasi tutta la stampa, specializzata e no. La rivista Rolling Stone dedica al gruppo uno speciale con interviste, fotografie, la pubblicazione dei testi del disco in un inserto straordinario di cinquanta pagine, onore mai riservato prima nemmeno ai Beatles. Si moltiplicano i ‘fans clubs’ nel mondo e si discute nei consigli di amministrazione delle case discografiche del fenomeno, da un punto di vista strettamente musicale. La musica, supportata da testi non banali ed inquietanti che celebrano descrizioni suggestive di strani riti iniziatici e di templi antichi e sperduti, effettivamente è originale, struggente ed irritante, diabolica ed ipnotica; in una parola: sulfurea. Farà proseliti ed imitatori in tutto il mondo con discreti risultati commerciali che, però, non si avvicineranno mai al prototipo dei “VAL”. Il perché è riconducibile al gruppo stesso, alle personalità dei quattro, alle loro stravaganze e capricci, al loro modo di pensare che è stato come quello di una sola persona. La causa principale del loro successo è dovuta al loro affiatamento in sala di incisione, con i loro suoni omogenei ed integrati tra di loro come un unico pazzo e mostruoso strumento, ed al loro affiatamento nella vita con 140 atteggiamenti e pensieri espressi anch’essi da tutti e quattro come un solo individuo. Il fenomeno esplose musicalmente e si sviluppò socialmente nell’immagine che il gruppo rifletteva verso un mondo giovanile in fermento, privo di certezze (come sempre del resto), alla ricerca di valori o sensazioni tali da dare un senso all’esistenza. I quattro cominciarono a prendere gusto al successo e lo alimentarono con interviste scandalose sui loro interessi esoterici, sulle loro sperimentazioni nella penombra del loro scantinato con invocazioni a questa o a quella spiritualità. Diedero il congedo all’inibizione e si presentarono, forti del loro carisma, come effettivamente avevano desiderato anni prima, discutendo su demoni iraniani o su sanguinarie sette indiane: diedero di loro, con esibizionismo e senza vergogna, l’immagine di un gruppo sdradicato dalla realtà e perduto verso suggestioni decadenti, di un gruppo privo di quella morale benpensante che avrebbe potuto rassicurare tanti genitori, di un gruppo appunto ‘maledetto’, e rafforzarono questa immagine con estemporaneità di gusto dubbio, ma di facile presa su ragazzi superficiali in cerca di icone da prendere a modello. Brett Wind girava per le vie di Londra con un grosso gatto nero su una spalla e indossava solo ed immancabilmente abiti viola, comprese stole di preti cattolici. Ben Cross si faceva notare spesso seduto a gambe penzoloni sui cornicioni di qualche alto palazzo del centro con un paio di occhiali da sole a forma di pipistrello, schermati all’esterno con carta stagnola, che lo rendevano di fatto cieco, con un crocefisso legato ad una caviglia, a testa in giù. John Bradley era l’esibizionista più efferato e non perdeva occasione, in pubblico, di mostrare le sue parti basse decorate con amuleti africani ed ex-voto d’argento finemente cesellati o con ‘piercing’ di spille indiane: raccapricciante! Jonas Green sembrava il più sobrio, ma il suo atteggiamento silenziosamente tenebroso mascherava una condizione di trance ipnotico quasi permanente dovuta a qualche strano fungo peyote messicano. 141 Erano quindi quattro personalità alquanto disturbate, almeno secondo i canoni di valutazione ‘normale’, ed anche le loro ossessioni, le loro manie ed il loro comportamento si integravano perfettamente tra di loro. Si presentavano quasi sempre in quattro e si diceva che vivessero tutti e quattro insieme in un nuovo scantinato completamente rimesso a nuovo ed arredato come una sala per sedute spiritiche, con mobili turchi, asiatici ed una invidiabile biblioteca dell’occulto con manoscritti e libri antichi per provati iniziati al mondo della magia. La loro popolarità nel 1979 ha dell’incredibile se si considera che avevano prodotto un solo disco e non avevano presenziato mai ad un concerto o ad una apparizione come musicisti in TV! Il 2 novembre 1979 avvenne l’episodio che li distrusse e li consacrò definitivamente nella storia del rock. I VALDEMAR’S BROTHERS si suicidarono tutti e quattro insieme lasciandosi andare dai merli del castello di Windsor, dove erano ospiti del Principe ereditario, e si sfracellarono ai piedi dell’alto muro di cinta morendo tutti sul colpo. L’autopsia rivelò che erano tutti sotto effetto di un particolare tipo di mescalina ed erano morti recando in bocca una giada indiana ed un pezzettino di legno proveniente dall’Egitto. Sui freddi tavoli dell’obitorio venne fuori un’altra scoperta: avevano le schiene tatuate con simbologie atzeche e sui loro petti erano altresì tatuate delle strane scritte in ebraico e altre lingue a prima vista sconosciute. Si riuscì a sapere, mesi dopo, che quelle scritte erano invocazioni demoniache, ma non credo sia il caso di approfondire l’argomento. Si può, però, con certezza affermare che il macabro evento generò una impressione ed un senso di sgomento tali che per molti altri mesi si parlò del gruppo maledetto. Poi, come tutte le vicende umane, il fenomeno si attenuò, si ridusse ad un pettegolezzo, una critica musicale, una recensione sul testo di un brano di quell’unico disco, un trafiletto di cronaca nera su un pazzo che si era gettato dal balcone di casa sua con in mano una foto di quel gruppo. 142 Oggi si ascolta raramente quel disco e gli estimatori del VALDEMAR’S BROTHERS sono una ristretta cerchia di persone a caccia di suggestioni diverse dalle solite, malvista dai nuovi fruitori di musica, levigata, elettronica ed anonima nelle sue sonorità, ritmata quel tanto che basta per muoversi, stordirsi, non pensare. I testi dei brani musicali di oggi parlano di minimalità quotidiane che nulla hanno a che spartire con le descrizioni di antichi templi affogati nella jungla in Cambogia o con la cronaca rapita e sanguigna di un sacrificio umano presso una comunità Maya in un plenilunio sulle Ande. Quell’unico disco ormai è sbiadita storia della musica rock e la fugace attenzione data da qualche testo sull’argomento è solo il ricordo ed il rispetto musicale di qualcuno che ha vissuto quegli anni con tante emozioni, ma senza i coinvolgimenti estremi che distrussero i VALDEMAR’S BROTHERS”. BOB LAKE Willie era strano. Aveva sedici anni, l’età del vero clown sbruffone e ridanciano, l’età dei primi amori e delle prime sfide ingenue alla società all’insegna della ribellione, l’età della logorroica gioia di comunicare al mondo la propria esistenza. Era strano, o per lo meno, appariva strano perché tutte queste caratteristiche tipiche dei sedici anni non c’erano, forse ancora non c’erano, ma tutto lasciava istintivamente pensare, soprattutto ai suoi compagni di scuola, che non ci sarebbero mai state. I suoi compagni, come tutti i sedicenni, non davano valore alla loro età con discorsi di clown, sfide, gioia di comunicare, ma con una parola più semplice: un neologismo. ‘Ficaggine’. Willie non era proprio quello che si dice un ‘fico’, un ‘grande’, o quello che si vuole per descrivere un ragazzo socievole, comunicativo, simpatico, frizzante, amico per i compagni e terra di conquista per le compagne. Era sempre serio, accigliato, ed il suo sguardo profondo di occhi neri e inquieti non era mai fermo per troppo tempo su questo o 143 quella: trapassava ed andava oltre, quasi non ci fosse niente di interessante da soffermarsi a vedere. Tutto sembrava non interessare a Willie, soprattutto tutto ciò che interessava al branco: il pomicio, il cinema, la spinellata a casa di questo o quell’amico in assenza dei genitori, un videogioco o un collegamento ad Internet, il tempo per la caccia alle rane o il campionato degli Spurs o dei Red Sox davanti alla TV con una birretta e patatine calde e croccanti. Era un ragazzo alto, dinoccolato, riflessivo quasi nei suoi comportamenti, anche quelli più istintivi; bello a suo modo, se si può definire bella una faccia piena di brufoli, con l’accenno di una lieve peluria, incorniciata da una chioma esagerata fino alle spalle, anni ’70, con scriminatura in mezzo alla fronte e un vezzoso piccolo anello d’argento a forma di teschio dietro l’orecchio destro che prendeva una ciocca dei capelli e la identificava nella sua diversità, perché tinta di verde cupo. L’abbigliamento abituale, jeans e maglietta o felpa, a seconda della stagione, scarponcini Nike e un giubbottino di panno leggero con impressa la figura della mummia degli Iron Maiden col dito medio in un inequivocabile messaggio, lo rendevano inconfondibile anche a distanza e a scuola lo avevano soprannominato ‘Bruce’, come Bruce Dickinson, il cantante degli Iron Maiden. Il soprannome era stato dato per una immediata identificazione, non per simpatia o cameratismo e scorreva su Willie come una cosa senza importanza: l’avrebbero potuto chiamare anche Gengis Khan o Lazzaro, per quel che gli importava. Il suo sguardo inquieto ed indifferente allo stesso tempo si animava di accesi bagliori solamente quando si parlava di musica. Willie era l’esperto di musica, quella strana, vecchia, dagli anni ’60 agli anni ’80 esclusi, che lo rendeva ai suoi compagni appena interessante per qualche superficiale quesito o richiesta di parere, per altro non vincolante. Non aveva quindi, con la sua strafottente indolenza, grandissime qualità nell’apprendimento scolastico – “può dare di più, signora” – né particolari interessi sportivi e 144 sociali, un mediocre fra mediocri, anzi il mediocre dei mediocri, ma se si parlava di musica…..di certa musica…. S’illuminava non per la disco o per pop commerciale, non per afro ritmata o jazz, ma solo per un tipo particolare di musica, forte, violenta nelle sonorità e nei testi, ‘metal’, come si definisce, ed aveva qualche lampo di interesse per tutto ciò che evocasse alla sua mente mondi estranei ed antichi ormai scomparsi come qualche cosa di psichedelico o new age o la musica celtica, ma tutto alquanto tenebroso ed assolutamente non solare, come tanto ne è stato prodotto. Era fiero della sua collezione musicale stipata in un'unica grande parete della sua stanza, tutti i cd allineati per il dorso in verticale, in ordine alfabetico, su scaffali da lui spolverati regolarmente che incorniciavano un superbo impianto stereo ‘esoterico’, un misto dei più bei singoli pezzi di varie marche, che veniva esaltato da un’amplificazione sapientemente distribuita ai quattro lati della stanza, in modo strategico per un ascolto emozionante, ‘da sballo’, con i tweeter piccoli in vista su mensoline ed un magnifico subwoofer a scomparsa sotto la poltroncina di ascolto posta di fronte alla parete opposta ai cd, tappezzata di stampe di Frazetta, fantastiche ed inquietanti, belle nel loro genere, alternate ad un poster di Hendrix e a manifesti delle copertine dei dischi degli Iron Maiden, dei Megadeth, dei Sepultura e dei Metallica. Che bella la sua stanza buia, schermata da una pesante tenda cremisi che nascondeva tutta la parete della finestra! Willie vi respirava la sua atmosfera sdraiato sul suo letto o stravaccato sulla sua poltrona ascoltando questo o quello dei suoi gruppi preferiti alla fioca luce porpora del suo abatjour velato con una vecchia sottoveste color prugna trovata chissà dove, fissando un puntino bianco di neon della lampada di emergenza, disattivata, posta sopra i manifesti, tra parete e soffitto, ed il puntino lattiginoso sembrava l’occhio del capo branco di tutti quei personaggi appesi al muro che lo guardavano truci o beffardi. Una mattina di novembre plumbea per un imminente temporale, fredda, ma non ancora troppo, mentre si avviava 145 a scuola con uno striminzito zainetto sdrucito e pieno di scritte e simboli, con il suo giubbottino sopra una felpa nera con la scritta “SEE THE PRESENCES”, incontrò Ron, il suo compagno di banco. “Ciao Ron” “Ciao Willie”. Esitazione, poi: ”Stamattina la Sig.na Steinfield interroga ed io non so proprio un cazzo; non l’ascolto da un mese buono e poi siamo rimasti noi due o forse anche Lisa e Jerry; ho paura che scorrerà il sangue. Tu che fai, entri?” Willie lo guardò di traverso, poi rispose: ”Non lo so, non me ne frega niente… e tu?” Ron sgranò gli occhi terrorizzato: “Io non posso non entrare: se mio padre lo viene a sapere mi brucia il culo con la fiamma ossidrica e tu lo sai che lo farebbe, vero?” Il padre di Ron, idraulico, era una montagna di muscoli governata da Bud in lattina fredda gelata che gli dava ordini su come vivere, ed a scuola tutti conoscevano i metodi correzionali che la birra suggeriva a quell’armadio. “Allora in bocca al lupo. Ma io non ho problemi se non entro: mio padre e mia madre sono in Florida al sole e contenti per un’eredità. E’ morto mio zio e tre giorni fa è arrivato un telegramma da uno studio notarile. Io penso che me ne andrò a vedere Hoacks, se gli fosse capitata qualche cosa di strano, poi me ne tornerò a casa. Ti telefonerò oggi pomeriggio per sapere come è andata; salutami anche Lisa e Jerry.” Ron invidiò il suo compagno mentre si allontanava dalla parte opposta e lo gratificò con un commento gridato da lontano “Che culo che hai, stronzo!” Willie ridacchiò dentro di sé per il messaggio in lontananza e proseguì in direzione opposta a quella della scuola. Dopo tre o quattrocento metri la sig.na Steinfield ed i suoi compagni di scuola erano già fantasmi persi in una lontana brughiera e Willie pensò ad altro guardando senza 146 particolare interesse le nuvole nere che si accalcavano sulla cittadina, la via che percorreva, con le sue case di legno di uno o due piani dipinte in modo sgargiante e le vetrine e le persone affaccendate in andirivieni, le macchine in sosta ed in circolazione. Disprezzo e gioia nel sentirsi diverso ed incompreso: “Schiavi che siete” pensò rivolto ai compagni di scuola e forse anche ai tanti passanti, indaffarati come formiche. Si portò al fondo della via e scantonò in un vicolo più piccolo, tranquillo, ma anche più sporco e mal tenuto. “HOACKS HA TUTTO”. In fondo una piccola insegna lo chiamava. Il titolare era uno scorbutico vecchio sdentato e sudicio che alitava zaffate di birra e gin. Aveva avuto un passato turbolento di sensibile studente umanista, infaticabile romantico mozzo ed ora aveva definito i suoi rapporti con la vita e la società come bottegaio. Willie era un cliente assiduo di Hoacks e spesso lo andava a trovare in quel negozietto dove il vecchio commerciava roba usata di tutti i generi, di tutte le provenienze e di tutti i prezzi che, però, erano sempre concorrenziali con quelli della via principale della cittadina. Il ragazzo si trasformava in un cane antidroga ogni volta che entrava nel locale ed andava alla ricerca solamente di ciò che poteva interessargli: dischi, cd, musicassette ed occasionalmente stampe, manifesti, locandine. La bottega di Hoacks era uno stanzone di circa settanta metri quadrati abbastanza squadrato da poter contenere tre file di scaffalature piene zeppe di tante cose funzionanti e guaste, piccole e grandi, fragili e indistruttibili, ma comunque piene di polvere di giornate e giornate inerti e sempre uguali. Alle pareti laterali all’ingresso quattro mobili con vetrine, bassi e lunghi, due per lato, scortavano le tre file degli scaffali fino in fondo dove troneggiava un bancone di quattro o cinque metri. I mobili bassi erano tutto un luccichio, nelle vetrine, perché contenevano piccoli oggettini di bigiotteria, giocattoli di latta, specchietti e perline, ma i loro pianali superiori, scoperti, erano pieni di scartoffie, 147 libri, fumetti vecchi, alcuni ben tenuti, calendari ed altre testimonianze cartacee del tempo andato. Dietro il bancone, sormontato da un vecchio e malandato registratore di cassa, c’era Hoacks, sempre seduto ed appoggiato al muro su due delle quattro gambe di una decrepita sedia Tonet capitata lì chissà come, mezza spagliata, con una bottiglia di gin che sporgeva da un cassetto ed una lattina di birra aperta in un altro. Un vecchio portacenere da grandi magazzini, alto un metro e pieno di cartaccia e lattine vuote, ammaccato in più punti e pieno di cicche in cima, fungeva da ultimo arredo per la postazione del vecchio. Dalla parte opposta, la porta a vetri, piccola, con un campanello che suonava appena si apriva, e la vetrina, assolutamente vuota con un cartello uguale all’insegna dipinto in rosso su fondo bianco. Tutto era avvolto nella luce spettrale del neon centrale, annegato in una nube grigio-azzurrognola di fumo stagnante di sigarette Senior Service senza filtro che Hoacks consumava, tra una sorsata di gin e una di birra, in ragione di trenta o quaranta nella giornata di lavoro. La pulizia non era di quel posto, se non di rado, ma la polizia lo frequentava spesso nella figura dello sceriffo di Contea Jennings per controlli sulla provenienza di qualcosa che, magari somigliante, compariva nelle descrizioni di furti nella zona. Tutto comunque andava pigramente per il suo verso, con lo sceriffo benevolmente diffidente e guardingo, il vecchio sempre scorbutico, sempre più asmatico, ma in fondo un buon diavolaccio, e la clientela: curiosi, studenti in cerca di dischi o cd, massaie non tanto agiate in cerca di piatti o stoviglie, ‘bricoleurs’ con pochi soldi in cerca di utensileria varia, hobbisti e collezionisti in genere. Willie apparteneva alla seconda ed anche all’ultima categoria ed Hoacks lo conosceva bene. Il campanello della porta suonò. “Ciao Hoacks, come te la passi?” Il vecchio deformò la bocca sdentata in quello che poteva essere anche un sorriso e triturò due o tre parole che Willie non capì. Il ragazzo girellò tra gli scaffali ed i banchi esaminando tutto quello che vedeva senza 148 apparente attenzione sotto lo sguardo sornione del vecchio: Hoaks si stava divertendo e pregustava un maggior divertimento nel vedere la faccia del suo giovane cliente appena avesse tirato fuori da un cassetto del bancone un articolo per lui sicuramente interessante. Willie si accorse dell’espressione del vecchio: “Hai qualcosa per me Hoacks? Qualcosa che vale la pena di ascoltare?” Il vecchio, con gli occhi luccicanti di birra, gin e malcelata soddisfazione, rispose: “Conosci bene un gruppo degli anni ’70, i Vandemar’s Brothers? Li conosci bene bene?” “C’è poco da conoscere Hoacks: purtroppo hanno fatto solo un disco, il più bel disco che ho, e amen.” “Questo lo so, il disco te l’ho venduto io. Io ti ho chiesto se li conosci bene come persone, oltre che come musicisti.” “Poco, Hoacks. Non si parla mai di loro e non li conosce più nessuno, o fanno finta perché non ne vogliono parlare.” “Bene, allora ti dirò qualcosa prima di farti vedere qualcosa.” Si alzò dalla sedia, si diresse alla porta, la chiuse a chiave e mise il classico cartellino ‘TORNO SUBITO’. Tirò la tendina e si volse verso Willie: “Sai quanti anni ho Willie? Me ne danno settanta, ma ne ho cinquanta scarsi, mal portati certo, ma vedi, io bevo, fumo e… altro. Hai letto l’articolo di ieri sul New Day Boulletin sui Val? Un articolo pietoso e superficiale: una merdata, sissignore, una cartocciata di merda lanciata sulle tombe di quei ragazzi. Tu non lo sai, ma io li ho conosciuti ed ero un loro amico di bisboccia. E’ stato più di venti anni fa, quando ero mozzo in Inghilterra e loro non erano nessuno, quattro studentelli con pochi soldi e tanta sfiducia e odio nel prossimo e nel mondo intero. A prima vista erano degli stronzi, sai? Grandi stronzi pieni di sé. Consideravano gli altri come mongoloidi ed avevano giudizi per tutti, dai comuni mortali ai professori ai politici ai religiosi: non se ne salvava uno e la loro stima incondizionata si spostò sempre più marcatamente verso un'altra dimensione, un altro mondo popolato di creature soprannaturali, intelligenti, 149 diaboliche, ma evidentemente superiori in qualsiasi confronto con i miseri omuncoli di qui. Il loro interesse per l’occulto si allargò a dismisura verso tutto quello che rappresentava per loro la grandiosità, la maestosità, l’originalità opposte alla banalità, al quotidiano, al trito e ritrito della vita impastoiato dai principi morali, dagli obblighi, dalla solidarietà. Jonas mi descrisse alcuni esperimenti di evocazioni che avevano fatto su un certo Libro dei Morti di non so che popolo, non egiziani, e mi provocava ad aggiungermi al gruppo: eravamo molto affini nell’ambito del bere e del fottere: dello sperimentare, come diceva Brett. Ma al di là di queste piacevoli cose, non avevo altri punti di contatto con quei ragazzi e i loro discorsi mi rompevano i coglioni a lungo andare: loro credevano in una redenzione dalle miserie umane attraverso il sangue, la pulizia intesa come soppressione di inutilità, la grandezza maestosa del male contro quello che anche oggi si chiama bene ed è un’accozzaglia di meschinerie, insincerità, ipocrisia e quant’altro. Dicevano così, e si immedesimarono sempre più in un loro ruolo di aspiranti giustizieri e vendicatori per conto di forze che pensavano di conoscere molto bene. Divennero sempre più intrattabili e anche come compagni di bisboccia diventarono insopportabili: erano casini grossi se qualcuno li contraddiceva, sia che si discutesse di musica che di altro. La loro megalomania insieme alla loro sensibilità assolutamente superiore a quella di chiunque li portò a creare quel capolavoro che conosci: testi nuovi, originali, tremendi perché veri, e nessuno li vuole conoscere: parole scolpite nella roccia della loro disperazione! E la loro musica: quei dialoghi strazianti tra quel violoncello e quella chitarra tirata allo spasimo, l’Hammond con il leslie che cementava quegli urli di dolore evidenziati da quei campanelli beffardi, da quel tamburino, da quelle sbarre di tek percosse con violenza e rispetto per la natura, crudele, diabolica, ma alta anni luce ed inattaccabile da qualsiasi ometto, fosse anche Prometeo, sempre ometto. Il suono, la sperimentazione, l’innovazione, tutto conosci dei Val, ma non puoi cogliere in pieno quegli stridii e quelle successioni indiavolate di accordi e note 150 perché non li hai conosciuti personalmente. Io lo so, anche se uno o due mesi dopo l’uscita del disco li mandai a cagare tutti e quattro perché non li reggevo più: non volevano più essere interrotti in qualsiasi cosa facessero, suonassero o dicessero, e divennero maniaci di questa regola che da tutti doveva essere rispettata. Provarono altre sonorità ed altri accordi e testi per un secondo disco che volevano uscisse a Pasqua del 1979, come prova della loro resurrezione dallo stato di larve a quello di uomini. Assistei ad una sola prova in quello scantinato di cui parla quel cazzone di Bob Lake e rimasi sconvolto, non tanto dalle musiche e dai testi, sempre all’altezza del loro primo disco, se non superiori, quanto da strani rituali in lingue sconosciute. Erano chini su dei libroni di carta pergamena, vestiti con mantelli neri e viola, incappucciati come il Klux, e salmodiavano delle cantilene lugubri da accapponare la pelle. Me ne andai disgustato pensando che si erano bevuti il cervello; non capivo che dal loro punto di vista, sbagliato o giusto non lo so e non mi interessa, stavano raggiungendo un traguardo, una meta più alta di quella ottenuta con il loro primo disco. Me ne andai e non li vidi più. Seppi da un tecnico dello studio di incisione della Skull che il loro disco era stato bocciato da un pirillo in giacca giallo canarino e cravatta a papillon celeste e immaginai che non l’avessero presa molto bene. Infatti le cronache di quei giorni, se mi ricordo bene, furono costellate da episodi di violenza becera e gratuita dei Val in locali di prima, seconda e infima categoria con baldracche di ogni età. Peyote e pasticche a valanga e torrenti di whisky, gin e birra. La loro autodistruzione era pari al loro disprezzo per tutto il genere umano. Una mattina verso le sei, nel porto di Manchester, davanti ad una bancarella notturna di hot-dog e panini vari che stava per chiudere, ti vedo Jonas, ondeggiante come la bandiera dei pirati sotto una leggera brezza, vestito tutto di nero, incerto su cosa chiedere. Il venditore era impaziente e lo guardava con degnazione e scoglionamento. Poi cominciò a chiudere gli sportelli della bancarella, indifferente al fatto che aveva un cliente davanti che doveva decidere cosa mangiare. Jonas non reagì, non disse nulla, si voltò e mi 151 vide. Mi venne incontro senza calore e mi salutò come se ci fossimo visti il giorno prima. Col tono di uno che riprende una conversazione interrotta da una sorsata di birra mi disse: “Tu non condividi, ma almeno capisci vero?” Non risposi, lo guardai soltanto e lo vidi stanco e deluso di tutto. “Noi non siamo stati capiti, ma non ce ne frega niente perché la nostra resurrezione è prossima.” Infilò una mano dentro il mantello nero e tirò fuori una cosa scura: “Tieni questo cd per ricordarci. E’ il nostro secondo lavoro. E’ stato bocciato e non avrà un futuro. Questo è il master e non esistono copie.” Mi porse un cd dalla copertina nera con sopra scritto di traverso in bianco WARNING e basta, senza titoli, senza nomi. “La scritta non è il titolo, è un reale avvertimento. Tu ci conosci e sai che non ci piace mai essere interrotti. Ascoltalo come ci piacerebbe che lo ascoltassi.” Girò i tacchi e se ne andò nella nebbia. Il gorno dopo lessi che i Val partivano per Windsor ospiti del principe. Il resto lo hai letto sul giornale.” Willie stette per tutto il tempo del racconto con il respiro fievole, quasi a non turbare l’atmosfera affascinante e maledetta che si era creata con l’evocazione della storia dei suoi miti. Seguiva le parole smangiate dal vecchio e al di là della sua spalla vedeva il film della storia raccontata e le sue pupille si ingrandivano nello sforzo della percezione di tutti i particolari. Non interruppe mai Hoacks, rapito, e lo seguì con lo sguardo alla fine del discorso fin quando prese qualcosa dal cassetto del bancone. Allora il suo sguardo divenne elettrico come un temporale estivo, pieno di lampi e luci improvvise tra le nubi. Vide il cd nero con la scritta bianca di traverso. “E’ per me, Hoacks, dillo, è per me?” Il vecchio si commosse: “Sì Willie, ho pensato tanto a chi darlo; non vendo solo per commercio: io sono anche un romantico e voglio che 152 certe cose che ho vadano a chi sicuramente le apprezzi. Sì Willie, è per te e te lo regalo: accettalo come un omaggio al milionesimo cliente. So che lo terrai come una reliquia e questo mi basta. Io non ho più la forza e la volontà di capire, di cercare di comprendere i giri tortuosi di questi qui: mi sto rincoglionendo e mi rilasso quando posso con della merda condita con ARP Odissey, Yamaha, Obherheim ed altre menate elettroniche. Tum, tum, tum, tum.” E mimò un’ipotetica batteria house, monotona come un rosario. Willie sorrise e si volse verso la porta: “Ti porterò una stecca di Senior, Hoacks, grazie.” “Ricordati, ragazzo, l’avvertimento: non interrompere mai quel cd se sta suonando e lascialo andare fino alla fine” Lo sceriffo Jennings guardò con indifferenza il suo aiutante da dietro un mucchio di scartoffie poste disordinatamente sulla sua scrivania: “Barney, va a spostare le auto sotto la tettoia: Laurie dal Meteo mi ha telefonato che è in arrivo una grandinata di quelle buone. Non salveremo i campi di quel rompiballe di Scat e nemmeno la bancarella di Sue al mercato, ma almeno risparmieremo le spese del carrozziere.” Willie era in fregola e tagliava a lunghe falcate la grande via frequentata per tornare subito a casa. Aveva gli occhi di un febbricitante, lucidi ed eccitati per quell’inaspettata sorpresa di Hoacks. Aveva tantissime aspettative e speranze – solo chi è collezionista può capire lo stato d’animo di un individuo che è venuto in possesso di qualche cosa di raro, anche se solo per pochi, o per lui solo – e nella sua mente danzavano selvaggiamente pensieri di trionfo, orgoglio e soddisfazione. Tagliò sull’erba del prato antistante la casa per abbreviare il percorso, non salutò la vicina intenta a spazzare le abbondanti foglie gialle perché le passò davanti come una meteora senza vederla, ed entrò in casa come un guardone con la nuova pornocassetta stretta al petto, mentre qualche rado gocciolone di pioggia cominciava a picchiettare in terra. 153 Si impose la calma ed il controllo dell’eccitazione per poter meglio assaporare il momento: adesso ti sfili il giubbotto, prendi una bella lattina dal frigo – ma sono le dieci e mezza del mattino: e chissenefrega! – vai in bagno, pisci, ti lavi le mani, scaldi lo stereo, accendi un bastoncino alla vaniglia, inserisci questa meraviglia, Gesù, questo tesoro, questa chicca, ti siedi sulla tua poltrona e fissi il tuo puntino; e ti lasci andare verso Orione o Machu Picciu o la Terra del Fuoco e vada in culo il mondo! Sembrava un monaco tibetano per la calma e la meticolosità dei suoi gesti, ma dentro friggeva ed immaginava un attacco suggestivo sulla falsa riga della suite del primo disco: quanti pezzi saranno? Ci sarà una suite, una novità espressiva: che so, una risata agghiacciante, un rumore di fondo strano e ricercato? Mi deluderanno? No, mai! Fuori ormai pioveva a dirotto e qualche tuono interrompeva il rumore deciso dello scrosciare della pioggia. Inserì il cd, regolò il volume ad un livello di accettabile piacevole stordimento, ed attese, seduto ad occhi chiusi, poi aperti a fissare intensamente il mostro del poster dei Metallica, quello di “Jump in the fire”, poi Jimi, poi il barbaro di Frazetta. Ed il suono fu. Suono, non melodia, puro suono di leslie fischiante accompagnato da campanellini impertinenti mentre la voce grave del violoncello discuteva animatamente con un’isterica chitarra dalla muta scalata, più fluente nella stiratura di note magiche. Willie era perso dietro a quei discorsi a quattro voci: ognuno di loro aveva da dire la sua opinione, autorevole ed intelligente, nel descrivere le immense poderose colonne di un tempio birmano nel folto di una inestricabile foresta piena di pericoli striscianti e velenosi. La cantilena di antichi monaci, o maghi, accompagnava un carro, un affusto circondato da fascine e fiori violacei tirato da due coppie di yak coperti di ghirlande e dipinti con strani simboli. Il misticismo delle scene incalzava e diveniva parossistico: ora Willie vedeva l’affusto dall’alto, con sopra adagiata una donna bellissima ed inanimata, ma la scena era già variata e la processione era 154 diretta verso una piramide atzeca scolpita di tante figure stilizzate e minacciose e bagliori di lame ed ossidiana si riflettevano sulla radura in un silenzio sepolcrale rotto solamente dai passi del corteo. Altre immagini, altri suoni, altre parole urlate, sussurrate, recitate. Poi il buio. Ed il silenzio. Fu buio solo per due o tre secondi, poi si accese la piccola barra del neon di emergenza e la stanza fu illuminata di una luce fievole bianco-verdastra accompagnata dal sottile ronzio regolare della lampada accesa. Fuori ora tuonava violentemente e la pioggia era mista a grandine e picchiettava con fragore su tetti, auto e marciapiedi. Willie imprecò sottovoce, rimase per alcuni secondi disorientato, come riportato alla realtà da una seduta spiritica o di ipnosi. Si voltò verso l’impianto stereo e vide i led spenti. Non c’era logica in questo: era spento anche l’abat-jour sul comodino! Quindi era vago, impercettibile, diffuso senso di panico per qualcosa che stava per accadere: “Ricordati, ragazzo, l’avvertimento: non interrompere mai quel cd se sta suonando e lascialo andare fino alla fine”. “Grazie tante, Hoacks, ma che cazzo ne so se sopraggiunge un black-out? Fanculo al tempo!” Volle allentare l’inquietudine e prese la lattina di birra per una sorsata; alzò la testa e gli parve di scorgere qualcosa di inconsueto. Jimi Hendrix, dal suo manifesto del disco “Axis: bold as love”, quello sgargiante che lo raffigurava con gli Experience al centro di un’iconografia indiana con divinità e cobra, lo squadrava sogghignando e i due Experience alternavano il loro sguardo ora su di lui ed ora sui serpenti schierati dietro di loro in parata, quasi volessero trattenerli. A Willie si gelò il sangue e freneticamente cercò dentro di sé giustificazioni e scuse per la violazione di una prescrizione, di un ordine, che gli era stato dato: “Non è colpa mia, non è colpa mia, non dipende da me!” 155 Fissò ancora la parete e vide, ed inoltre sentì. Vide il barbaro guerriero di Frazetta che sembrava venire verso di lui al di fuori del manifesto e percepì il mulinare nell’aria della sua ascia insanguinata e sentì lo scricchiolio delle ossa frantumate dei suoi nemici sotto i suoi passi. I suoi occhi erano fiammeggianti e l’espressione dello sguardo sembrava determinata a schivare la pietà e la comprensione. Venne poi distratto dai vari manifesti delle copertine degli Iron Maiden: tutte quelle mummie ridacchiavano chiocce, beffardamente, e lo indicavano con quelle oscene dita bendate. Ascoltava quel misto di squittio e singhiozzi goduti paralizzato sulla sua poltrona. Poi vide distintamente il Golem del manifesto dei Metallica che si piegava attraverso il manifesto verso di lui e lo indicava con la sua mano gigantesca ed artigliata mentre una voce possente e baritonale gli imponeva: “Stai fermo, non muoverti.” In quell’istante dal nulla fuoriuscirono dei cavi metallici che immobilizzarono Willie sulla poltrona: corde di chitarra e di violoncello che segavano la giovane e tenera pelle del ragazzo a sangue. Willie stava per gridare. Una manciata di tasti d’organo, bianchi e neri, perfettamente lucidi nella penombra verdolina, si materializzò dal nulla e riempì la bocca del ragazzo fino alla gola, mentre una mano ed un braccio scheletrici, sporchi d’erba e fango, fuoriuscirono dallo sfiato del subwoofer sotto la poltrona; la mano artigliò il ragazzo ai testicoli ed una voce eruppe dai tweeter ai lati della stanza: “Stai calmo Willie, è tutto scritto e non ti puoi opporre. Non hai dato retta al nostro amico, non ci hai capito neanche tu.” Willie avrebbe voluto discolparsi e giustificarsi, ma i tasti in bocca gli comprimevano la glottide e non riuscì che a mugolare disperatamente, agitandosi per quanto era possibile, stretto dalle corde metalliche. Allora pianse silenziosamente di dolore, terrore e rassegnazione e calde lacrime cominciarono a scendere sulle sue guance brufolose con accenno di peluria. Due piattini di ottone, due strumentini musicali etnici di qualche orchestrina medio- 156 orientale apparvero dal niente e coprirono gli occhi del ragazzo premendo a sangue sui globi oculari, ma Willie, stranamente, nel dolore lancinante, poteva continuare a vedere, seppure coperto dai due dischetti lucenti. Forse sarebbe stato meglio non vedere, ed anche non sentire. Dal Golem del manifesto la voce di Jonas Green parlò, terribile e cavernosa: “Ora, in omaggio alla tua goffa devozione, potrai ascoltare tutto il cd, poi sarai nostro.” E l’impianto stereo cominciò a funzionare e a diffondere quella musica maledetta, mentre fuori continuava a piovere e l’energia elettrica ancora non era tornata, e Willie potè ascoltare tutto il cd con le sue atmosfere ed i suoi incubi, ma non fu in grado di apprezzare pienamente quella musica terribile, nel dolore di strette metalliche e viscide, mentre nell’aria della stanza si diffondeva un miasma che copriva l’aroma della vaniglia del bastoncino d’incenso con fetore di carne in decomposizione, palude e fiori morti. Sembrava che anche i personaggi dei manifesti andassero a tempo con la musica. Le mummie, ed i guerrieri di Frazetta, si agitavano impercettibilmente al tempo delle tabla e atteggiavano le labbra in quello che poteva essere un sorriso di beatitudine e soddisfazione, ma in realtà era un ghigno di sadico piacere. Le armi dei guerrieri tintinnavano, e frusciavano macabramente sensuali le bende di quelle oscene mummie, confondendosi con il suono metallico e stridente della chitarra, mentre rivoli di sangue colavano da sotto i piattini dorati posti sugli occhi di Willie e purpuree strie allargavano e slabbravano la pelle delle braccia e delle gambe del ragazzo. Si spensero le ultime note dell’ultimo brano dei Valdemar’s Brothers e solo la pioggia battente ed il ronzio sottile del neon di emergenza riempivano la stanza, oltre al sordo battere del cuore impazzito di Willie e al suo respiro costretto ed affannoso. I cavi straziavano il petto: la felpa era lacerata, ma stringevano ancora sulla carne viva. I cobra di Hendrix si mossero serpeggiando insieme e saettarono le loro lingue verso la poltrona; le mummie 157 ciangottavano come scimmie ed erano freneticamente agitate. Il Golem era ormai fisso e così il barbaro ed i guerrieri, quasi appagati dai loro tentativi di venire fuori dai manifesti. Jimi Hendrix urlò: “Purple haze” seguito dal coro dei due Experience. Fu un urlo disumano, disperato come lo fu la sua vita, eppure un comando imperioso e non contrastabile. I serpenti dietro di lui puntarono su Willie e, avvinghiandolo tra le loro spire e mordendolo ripetutamente sul viso e su tutto il corpo, lo risucchiarono nella parete con un forte rumore di risacca. Il ragazzo, intorpidito dal veleno e dal dolore pungente dei morsi dei cobra, entrò letteralmente nella parete schizzando di sangue i manifesti e l’intonaco e frantumando i mattoni del tramezzo in un rumore di crollo di macerie mentre cavi metallici, tasti d’organo, piattini d’ottone e la mano artigliata del subwoofer scomparivano nel nulla in una risata agghiacciante, di quelle che avrebbe sperato ascoltare Willie, magari più comodo e disimpegnato. Quel riso freddo e repellente non riuscì a smorzare il rumore delle ossa del ragazzo frantumate nell’impatto col muro, né quel rumore, simile all’accartocciamento di una pallina da ping pong, della testa schiacciata tra i mattoni. Tutto finì e tornò come prima. Tornò l’energia elettrica, ma l’impianto stereo era ormai spento ed anche l’abat-jour non diffondeva la sua luce purpurea. La parete sembrava intatta, senza sbreghi né chiazze di sangue, con il suo intonaco immacolato ed integro coperto da tanti poster e manifesti allineati, inanimati, belli da vedere. Fuori continuava a piovere, ma tutto era tornato come prima, tranne il fatto che Willie non c’era più. Una o due ore dopo qualcuno entrò furtivamente senza fare rumore nella stanza di Willie: era Hoacks. Sapeva cosa fare: estrasse delicatamente il cd nero dall’impianto stereo, diede un’occhiata penetrante alla parete in direzione della copertina del disco “The best of the Iron Maiden” popolata di tante e tante mummie con buffi travestimenti, ridanciane ed isteriche, e vide ciò che voleva vedere: una minuscola mummia sul fondo del disegno, semicoperta, ma 158 inconfondibile, con un ciuffo verde cupo dei suoi capelli sporgente dalle bende insanguinate, trattenuto da un minuscolo anellino d’argento raffigurante un teschio! Non c’era espressione in quella minuscola mummia. Aveva gli occhi coperti da due dischetti dorati e la bocca era coperta dalle bende, eppure per Hoacks aveva un aspetto conosciuto. Sorrise sinistramente, poi si rivolse verso una foto sul comodino: i Vandemar’s Brothers in uno dei loro momenti più fulgidi della loro carriera, e mormorò: “Jonas, con questo fanno tre. Al quarto lasciami in pace!” Dalla fotografia incorniciata in ebano tra ciondoli esotici di poco prezzo, attraverso il vetro pulitissimo e brillante che la copriva, uscì una voce scostante e divertita allo stesso tempo: “Ti lasceremo in pace Hoacks, per sempre. Avremo altro da fare, nuovi tentativi e nuovi esperimenti con un nuovo nome. Ascolta, Ben dice se ti potrebbe piacere il nome Purgatorio per il nuovo gruppo: ti va?” 159 CONSULENZE PREMATRIMONIALI Premetto che la presente analisi è solamente uno stereotipo di esempi comuni abbastanza generalizzato ed esemplificato, assolutamente incompleto. La presente ricerca, per aspiranti conviventi legalizzati o meno, può essere consultata, senza obblighi vincolanti, come una sorta di vademecum di scelta di vita nell’esame sommario delle tipologie delle coppie più comuni di oggi. Si dovrà avere solamente lo spirito di considerare che si era stati avvertiti quando un domani si sarà recepito di avere preso una grande fregatura La folgorazione futura della consapevolezza dell’ineluttabile trappola in cui ci si sarà cacciati non contemplerà l’obbligo di ridere sportivamente da persone di mondo: quindi se ne può approfittare ora, sempre che ci sia da ridere. COPPIA SPORTIVA Lui, da ragazzo, faceva la bandiera alla palina del segnale di divieto di sosta, ponendosi in orizzontale con la sola forza delle braccia, e ci restava paonazzo per almeno due minuti sforzandosi di sorridere naturalmente. Lei, da ragazza, faceva footing al parco per salutismo dinamico e per attirare sguardi maschili sul suo personale veramente plastico. Lui, ora, per imitare quell’attore che salta le staccionate in piena forma, si è causato già un danno di dodici milioni di dentista. Lei, ora, corre pochissimo perché si è già procurata una mastite per il vizio di non voler mettere il reggiseno nonostante abbia una quarta misura, pendula. Entrambi, tuttavia, non demordono e si sottopongono a torture varie sotto forma di piegamenti, flessioni, torsioni e saltelli vari. Spenderanno in avvenire un pozzo in attrezzi ginnici e cyclette per il mantenimento della forma fisica. 160 Potrebbero avere un sereno futuro di soddisfazione con una duplice partecipazione alle Olimpiadi degli Ottuagenari. L’esperto prevede affiatamento, in terza età anche con bombole d’ossigeno, e complicità salutista. COPPIA INTELLETTUALE Lui, da ragazzo, componeva versi sciolti ermetici inseguendo qualche poeta enigmatico particolarmente arrabbiato col mondo ed in ogni discorso metteva sempre almeno una parola tra “positivismo logico”, “permeazione”, “decerebrazione mediatica”. Lei, da ragazza, leggeva Kerouac e Ginsberg e aveva un aspetto costantemente incazzoso-sognante, tipico dell’esistenzialista incompresa. Lui, ora, scivolato pigramente da florilegi di poeti slavi a Mogol, quello di Lucio Battisti pre-Panella, che rispetto al suddetto Mogol è indubbiamente più emetico che ermetico, si addormenta dopo due minuti di un qualsiasi talk show o salta col telecomando da TVEROS, dove danno “Giovannona coscialunga”, a Piero Angela e ad un suo documentario sui marsupiali, spesso confondendosi. Lei, ora, legge Bovè e oscuri romanzieri turkmeni e prepara per cena solo ed esclusivamente minestre di miglio biologico: cene tristissime e pallide col riassunto del libro turkmeno. Futuro oscuro e in bilico, a seconda dell’affiatamento, per il Consulente prematrimoniale: se lui scendesse al Corriere dello Sport come unica lettura si potrebbe arrivare al divorzio. L’esito infausto potrebbe profilarsi anche con l’intercambiabilità dei ruoli, con lei che legge solo Donna Letizia e lui che legge solamente Alberoni, sforzandosi poi, ahilui, di applicarlo al pratico. COPPIA SOCIEVOLE Lui, da ragazzo, metteva insieme complessini musicali partendo da due chitarristi a caso, organizzava gite, sapeva 161 le date e i prezzi di tutti i concerti e conosceva tutti gli ostelli della gioventù. Lei, da ragazza, era la reginetta del Piper e di tutte le feste e non stava mai più di tre minuti senza ballare mentre fumava e beveva e parlava, tutto simultaneamente, con uno dei suoi innumerevoli spasimanti. Lui, ora, socializza al bar, allo stadio o davanti alla TV con i suoi amici in occasione della partita della Nazionale: è campione regionale di rutto alla birra ed un accanito giocatore di ramino con entrata al raddoppio. Lei, ora, quando lui va al bar o allo stadio, è la regina madre della balera del quartiere confinante, ma balla molto meno perché, con quella quinta di seno, per i suoi cavalieri il ballo è solo un pretesto. In compenso è semialcolizzata e ha i denti color liquirizia per quanto fuma. Vari studi di valenti ricercatori ipotizzano un futuro infausto per questa tipologia di coppia, per debiti di gioco di lui, al video poker o in estenuanti partite a carte o al biliardo al bar, e per voli pindarici di lei, rimorchiata da baldo pensionato con coupè color vinaccia. Sono, infatti, ragionevolmente prevedibili diverse risse da pronto soccorso, di lui, e relazioni adulterine o semplici minimalismi di corna su corna da sala di ballo, di lei. L’esperto consiglia, in pervicace volontà di mantenimento d’una così pericolante relazione, di evitare la procreazione, per scoraggiare l’aumento di bastardi bari o di figli di madre poco seria, campioncini di tip tap. COPPIA CONFIDENZIAL-SCATOLOGICA Lui, da ragazzo, sapeva a memoria le date di ricorrenza di tutti i cicli mestruali delle sue compagne di scuola, calcolate con elaborate formule empiriche sulla base della brufolosi periodica frontale e, sollecitando cameratismo e complicità goliardica, sganciava qualche puzzetta nell’ora di latino perché la vecchia professoressa era sordastra. Lei, da ragazza, precocemente maliziosa e molto sportivamente femminile (vale a dire poco), sapeva riconoscere un’erezione di un suo compagno di scuola fin 162 da cinquanta metri, talvolta divulgava a voce alta con commenti sarcastici l’accadimento del poverino, e ruttava come un camallo di Genova dopo tre lattine di chinotto. Sotto il suo banco esisteva un insieme di depositi otorinici appiccicati a più riprese a palline, e talvolta anche a piccole sculture, che avevano una funzione curiosamente prensile e minacciosa verso gli ignari distratti compagni di scuola, come un insieme di piante carnivore. Lui, ora, gira per casa nudo con pancia da piccolo Buddah, con lo scroto ad altezza ginocchio, e prova a fare modulazioni polifoniche simultanee tra sopra e sotto. Lei, ora, si pone in posizione ad uovo sul water ridendo gaiamente a lui che si tura il naso mentre si taglia le unghie dei piedi. Il consulente prematrimoniale ipotizza un’unione perfetta nel trionfo della brutalità, nel genere splatter o pulp, fino allo scoppio della bolla del sogno e dell’irrealtà: se i due, però, prendessero coscienza della loro situazione nella realtà, potrebbero far sfociare la loro relazione in degenerazioni omicide o suicide. COPPIA PIA Lui, da ragazzo, schivava i compagni con gli occhi cerchiati, dormiva nella posizione di Don Bosco, a pancia su con braccia conserte, su lenzuola gelate, ed evitava gitarelle promiscue al mare. Lei, da ragazza, invece dei pannolini, usava i ciripà che poi rilavava e stirava per fare un fioretto, aveva capelli da prima spremitura di frantoio per annullare qualsiasi tentazione ed era segretamente innamorata dell’insegnante di religione. Lui, ora, gira col cilicio sotto la camicia, come Formigoni, e considera molto peccaminoso carezzare la guancia di sua moglie alla presenza dei due figli (due copule in trenta anni, al buio, alla missionaria, vestiti). Lei, ora, si confessa a giorni alterni, ogniqualvolta prende accidentalmente a calci nelle gonadi suo marito nel sonno. 163 Sono una coppia molto unita, a parte le gonadi di lui, internamente frantumate e sempre più illividite da calci isterici notturni. Il sabato pomeriggio è festa grande in casa loro con la recita del Rosario in ginocchio sui ceci. Alcuni ricercatori pongono il dubbio sulla durata della cementazione di questa tipologia di coppia con il volere rilevare le uniche due nubi all’orizzonte che potrebbero essere rappresentate dalla conoscenza fortuita, da parte di lui, della collega dell’Ufficio Prestiti che, di sera, fa la spogliarellista e deve pagare urgentemente un mutuo per la casa, disponibile come un’infezione, a prezzo trattabile, o dalla visione assolutamente fortuita, da parte di lei, dei California Dream Men. Ovviamente l’unica nube, a scelta indifferentemente tra le due precitate, potrebbe diventare un temporale con grandine in arrivo se si frequentano amici comuni goliardi e sabotatori che godono sadicamente nel presentare colleghe disponibili o California’s boys. COPPIA MODERNA (esiste anche la rivista, vietata ai minori) Lui, da ragazzo, aveva gli occhi cerchiatissimi, girava con chili di calendarietti da barbiere pieni di donne nude e spiava le compagne di scuola nel gabinetto. Lei, da ragazza, si chiudeva per ore nel bagno della scuola per pratiche, solitarie e non, con otto-dieci compagni più grandi e intervenivano sempre pattuglie di bidelli sambernardo per ritrovarla; a volte faceva sfoggio di mania esibizionista aprendo le gambe quando era interrogato il più emotivo della scolaresca che cominciava a recitare Dante a tempo di rap. Lui, ora, gira sempre a bischero sciolto, in casa e fuori, ha tre denunce per atti osceni in luogo pubblico, non distingue più una donna da un uomo da una capra, presenta in continuazione nuovi amici, amici carnivori carnali, alla sua lei, e ha prenotato, con intelligente lucida 164 preveggenza, un posto letto fisso al sanatorio di mezza montagna più vicino per l’immediato futuro. Lei, ora, gira sempre con le calze a rete, però è ingrassata per troppe pillole anticoncezionali e sembra un culatello ben accuratamente fasciato; è maliarda, non distingue più un uomo da una donna da un somaro e presenta al suo lui le peggiori trappole che si possa conoscere: roba da camminare con gli stivaloni da pesca nel fiume! Tutti gli esperti sono concordi nell’affermare che questa è una coppia veramente affiatata finché regge l’aspetto fisico e l’animosità entusiastica delle prestazioni. L’unico neo sarà costituito dal sopraggiungere della vecchiaia che renderà la coppia patetica, anzi, peripatetica, alla ricerca di piacere ormai solo più a pagamento. Prevedibili mutui di Viagra ed estratti di yoyoba e ginseng. COPPIA LAVORATRICE Lui da ragazzo studiava anche la notte dormendo solo due o tre ore, faceva le ricerche in otto volumi, conosceva a memoria i primi tredici tomi della Treccani e faceva già domande di concorsi per un lavoro sicuro e gratificante. Lei, da ragazza, alternava letture semplici e divertenti di svago come l’Enciclopedia Britannica e letture impegnative come “La cibernetica applicata alle macchine” “Crollo del cervello bicamerale” “Corso di swaili-ungherese con notazioni in croato” e scriveva curricula vitae di trenta pagine. Lui, ora, trascorre tre ore in casa con la sua lei, in una settimana, sperduto tra concorsi come esaminatore, corsi da master, conferenze e convegni, e gira con portatile di sessanta chili con l’unica concessione erotica nella sua vita che è il salvaschermo di Pamela Anderson in bikini. Lei, ora, sovrintende a tutte le riunioni parrocchiali di volontariato e frequenta corsi di cucito, patchwork, cucina tailandese e primo soccorso ai criceti in difficoltà. A tempo perso fa la guida turistica delle vestigia di Appio Numanzio 165 nella necropoli etrusca più vicina e la critica cinematografica per gli intervalli nelle riunioni di condominio di tutta la zona nord della città. E’ considerata unanimemente una coppia eccezionalmente stabile fino a che lui non capisca che esistono donne come la Pamela Anderson che possono sfilarsi anche il bikini. Anche lei, del resto, potrebbe avere uno shock salutare nello scoprire che il graffito sulla parete rupestre raffigurante lo scettro del re in realtà è un altro scettro. COPPIA CON PROLE Lui, da ragazzo, odiava i bambini e non perdeva mai l’occasione di picchiarne qualcuno. Smise quando trovò un bambino di sette anni campione juniores di karatè. Lei, da ragazza, sognava di avere otto, dieci pargoli tutti allattati naturalmente e sognava felicemente ingenua una famiglia rumorosa e felice. Lui, ora, dopo il primo errore, per sua imperizia ed eccessivo entusiasmo, al suo primo “coitus interruptus”, e dopo i continui successivi sabotaggi di lei che gli ha bucato sistematicamente tutti i profilattici, alterna brevi periodi in casa con i suoi dieci figli a lunghi periodi di riposo presso la casa di cura “Madonna del dolore progestormonale” e ha curiosi scatti di riso irrefrenabile che lo trasfigurano in un coguaro della Patagonia. Lei, ora, perfettamente soddisfatta e realizzata come donna e come madre, ha solo l’inconveniente di avere due capezzoli come vecchie trombette di bicicletta della nonna, per l’appunto a peretta e neri. Coppia indecifrabile, di difficile studio, ancora non perfettamente esplorata in senso compiuto: lui potrebbe rinsavire e diventare un bravo padre di famiglia dopo opportuna castrazione chimica, ma potrebbe anche lasciare la sua lei vedova dopo un tuffo nel vuoto della tromba delle scale della casa di cura. Lei, a volte, abbandonata la maschera della mammina entusiasta, soprattutto con i figli ritornati a casa dalla 166 scuola, tutti e dieci, ha delle crisi che possono sfociare nel cannibalismo o nell’autoflagellazione. Il sottoscritto consulente prematrimoniale, al pari della plebiscitaria maggioranza dei suoi colleghi, considera questa tipologia di coppia ad altissimo rischio. 167 PICCOLI UOMINI Eravamo due ragazzi inseparabili, Karl ed io, accomunati dalla passione per interminabili partite di calcio e per le belle studentesse disinvolte del nostro liceo. Le nostre inclinazioni ed interessi culturali, profondamente diversi, ci separarono per diversi lidi: io mi tuffai con anima e corpo sullo studio della letteratura e filosofia medievale e Karl, più pragmatico, s’immerse nel mondo della fisica e della chimica attirato dalla possibilità di usufruire d’attrezzati laboratori di ricerca. Il destino, come sempre sovrano e capriccioso, ci riunì, da uomini ormai fatti, nell’Università, come docenti: io di letteratura medievale, e Karl di fisica e chimica. Esercitavo la mia professione in un’austera aula fredda con polverose enormi vetrate di fronte ad una frotta di occhialuti ragazzi posati e rispettosi della storia e dell’antico in genere e godevo di una certa fama di piacevole conversatore. Karl invece era poco conosciuto perché era davvero blindato dentro un laboratorio quasi inaccessibile dell’Università ed usciva molto raramente, sempre più emaciato, con uno sguardo spiritato d’eccitazione e di febbrile curiosità infantile da ragazzino ingordo di dolciumi. I primi capelli brizzolati e le prime avvisaglie d’artrosi non ci fecero dimenticare il nostro rapporto d’adolescenti, e la sorpresa iniziale si tramutò in un confortevole prosieguo di conversazione appena interrotta, seppure quasi quindici anni prima, in una magia di relatività di tempo. La scintilla dell’amicizia riaccese vecchi sentimenti sopiti ed il motore tossicchiante della comunicazione riprese a rombare fluido con tanti giri di disinvolto piacere e curiosità nel raccontarsi e nel raccontare le proprie aspettative e i propri interessi presenti. Colpii solamente di striscio Karl con il mio entusiasmo per il medievalismo mitteleuropeo nella letteratura e nella filosofia: assentì per cortesia mal celando una qualche distrazione per assillanti suoi problemi segreti e sorrise con 168 una partecipazione al mio entusiasmo, che mi apparve decisamente fittizia. Mi raccontò di sé, poi, e i suoi occhi grigi si accesero di fiammelle entusiaste come per una sagra domenicale del nostro paese di ragazzi rubacuori calciatori in erba. Fu vago: mi parlò di un progetto, di esperimenti su cavie, di rivoluzionaria scoperta, ma non approfondì mai troppo quanto mi decantava. Quello che mi raccontò sommariamente fu soltanto un omaggio alla vecchia amicizia rinnovata e alla necessità di aprire appena un poco la valvola dello sfogo con un amico per allentare la pressione di progetti forieri di tensioni ed angosce. Ci si frequentò con regolarità, per quanto lo potessero permettere i nostri orari, le mie lezioni ed i suoi esperimenti, e si evitò, tacitamente d’accordo, di insistere su argomenti professionali. Ci rifugiammo in piacevolezze da scapoli, argomentando su studentesse vivaci e sulla qualità di questa o quella birra e sul campionato di calcio e sul rincaro dei prezzi dei concerti e dei soprabiti in loden: banalità, per l’appunto, per trascorrere qualche ora nella bambagia di una piacevole compagnia disinteressata proiettata su antichi affetti e complicità. Cosa volere di meglio? Trascorsero diversi mesi e poi qualche anno. Eravamo una consolidata coppia d’amici, leggermente più rotondi, sempre scapoli impenitenti, ma discreti e riservati donnaioli, sempre presi dalle nostre professioni, io dal mio medievalismo e Karl dai suoi misteriosi esperimenti. Era imbolsito leggermente, anche lui, ma in maniera diversa da me, con un viso affilato e teso a contrasto con il corpo appena più cascante. Il suo sguardo era sempre febbrile e assorto per sue riflessioni parallele. La sua disponibilità di tempo per le nostre birre in qualche taverna diventò sempre più ridotta e il suo comportamento alquanto sfuggente. Scomparve del tutto, improvvisamente, per un lungo periodo, e mi rassegnai a bere il mio boccale da solo 169 meditando su antiche concezioni dell’uomo e approfondendo le mie lezioni per i giorni a seguire. Dopo qualche mese fui avvicinato da Karl, una sera ventosa e fredda, mentre uscivo per una buona cena calda. Apparve dal buio di un vicolo, si materializzò davanti a me, intabarrato come un sicario d’altri tempi, con uno sguardo luccicante di eccitazione, e mi bisbigliò velocemente delle scuse e un invito a casa sua per meravigliose rivelazioni. Si accese anche allora quella scintilla che alimentò il motore appena più rugginoso della nostra amicizia; accettai con una fanciullesca curiosità nella consapevolezza di riuscire ad aprire, forse, per quella sera, un grandissimo metaforico barattolo di marmellata. Sorrisi dentro di me immaginando Karl come un barattolo di confettura di mirtilli e lo seguii in silenzio verso il suo alloggio poco distante. Era il tipico appartamento da scapolo spesso assente. Un ingresso che dava in una sala piena di riviste e libri sparsi da ogni parte. Un divano in fondo alla parete con una coperta a testimoniare qualche notte trascorsa a rimuginare su qualche astrusa teoria. Qualche piatto pieno di briciole, lì in terra, e là, sul tavolo, vicino alla lampada di vetro verde, accanto ad appunti scritti fitti fitti con formule incomprensibili. Su tutto stagnava un insopportabile odore di cattivo tabacco e di chiuso, quel chiuso polveroso che una sola giornata di pallido sole non potrebbe mai dissipare completamente con le finestre aperte. Mi indicò una sedia a dondolo in noce, pesante e solida e mi accomodai di fronte a lui che sprofondò nel divano giallo stinto fiorato di vinaccia. La mia attenzione fu attratta da un pestello di bronzo sulla scrivania a fermare una risma di fogli zeppi d’altri appunti e formule e mi soffermai sulla fattura dell’oggetto, molto sobria, e sul luccichio caldo come la luce bassa e soffusa di una lampada a stelo a fianco dell’orrendo divano. Fui imperiosamente catturato da parole frenetiche che eruppero nella stanza caoticamente a raffica. 170 “Ce l’ho fatta, Robert, ce l’ho fatta: la rivoluzione della creazione, della storia dell’uomo, il cambio delle prospettive per il futuro dell’esistenza di tutti…ce l’ho fatta, finalmente, dopo anni e anni di tentativi e sacrifici…ce l’ho fatta, Robert…”. Tesi le mani a difesa per proteggermi da quella valanga in piena d’entusiasmo e imposi la calma e l’ordine per una quieta esposizione degli avvenimenti; gli sorrisi e lo invitai a calmarsi. Comprese la situazione di stallo che aveva creato e chiuse gli occhi per riordinare le sue idee; inspirò profondamente e si appoggiò con una certa rilassatezza allo schienale del divano. Poi rivelò frenandosi nell’isteria dell’entusiasmo: “Ho inventato un qualcosa che cambierà la storia dell’uomo e dell’ambiente e migliorerà la qualità della vita di tutto il mondo. Robert, ho inventato il dimensionatore molecolare”. Le mie cognizioni di fisica e chimica sono state sempre risibili e quindi aggrottai le sopracciglia come un cugino di un volgare pitecantropo eretto. Mi spiegò con l’entusiasmo di un padre che descrive il sangue del suo sangue. “Ti ricordi Gulliver? Qualche racconto di fantascienza dove gli uomini possono mutare le loro dimensioni? Riesci ad immaginare una macchina, la mia macchina, quella che ho costruito, che rimodella istantaneamente le molecole di un uomo e le dimensiona secondo un preciso piano di programmazione? Riesci ad intravedere i vantaggi dell’umanità per questa invenzione che rasenta il divino? Ho definito un marchingegno che sembra una vecchia macchina fotografica su un treppiede. L’ho sperimentato su qualche topo… Funziona! Funziona veramente! Ho tarato le dimensioni volute per il mio topo e ho attivato il dimensionatore molecolare: sono riuscito a miniaturizzarlo e ad ingrandirlo a piacimento senza alcun effetto sgradevole collaterale. Il topo è divenuto piccolo come 171 una capocchia di spillo e poi grande come un vitello: una sensazione esaltante e di onnipotenza. Capisci quello che può significare per il genere umano, Robert? Ti rendi conto dei benefici rapportati agli annosi problemi di sovrappopolazione, di fabbisogno alimentare ed energetico? Non provi brividi lungo la schiena all’idea di potere sfruttare illimitatamente quello che la natura offre ora in maniera sempre più insufficiente? Prova ad immaginare: una intera città in un orto di pochi metri quadrati, con ministrutture particolarmente resistenti ad eventi sismici e con architetture più compatte a prova di qualsiasi catastrofe naturale, e risorse alimentari infinite e abbondanti per popolazioni che con due o tre piante di pomodori e di peperoni possono superare il problema dell’approvvigionamento. Poi l’acqua… Il problema dell’acqua risolto per sempre con abbondanza… E l’inquinamento… Cosa mai può inquinare una popolazione numerosa come quella della città di Shangai o di Mexico City in un’area equivalente a mezzo campo di calcio?” Parlava velocemente e sparava raffiche di concetti fantasiosi illuminandosi nel viso, già raggiante di suo nella soddisfazione, all’aggiungere ipotesi mirabolanti di sopravvivenza agiata e d’esistenza tranquilla per tutto il genere umano. Mi prese per mano e mi guidò nel suo mondo perfetto; mi espose aspetti di funzionalità mai immaginate e rideva contento come un bambino nello svelare al suo amico profano piccoli segreti di un nuovo grande gioco. Le sue parole si accavallavano nella mia mente come una ribollente risacca rombante e si sostituivano violente a preesistenti concetti, nuove onde fragorose che coprivano altri concetti ancora come altri flutti schiumanti in una caletta seminascosta e buia circondata da rocce aguzze. Ho detto risacca, ed era proprio come una risacca, sempre più incalzante… 172 Le sue ondate, ritirandosi per fare posto ad altre ondate di pensieri sconvolgenti, lasciavano per un attimo nella mia mente quel tipico vuoto che scopre per pochissimo, in un piccolo specchio d’acqua, pericolosi scogli affioranti e ruvidi. Le sue parole scoprirono dentro di me obiezioni e perplessità che si accesero improvvisamente con una luce sinistra e con associazioni innaturali ed irriverenti. Karl parlava e parlava, ma io ascoltavo sempre meno perduto dietro altre mie interne sonorità che evocavano altri scenari ed altre immagini possibiliste. Mentre Karl si affannava con l’entusiasmo del venditore d’enciclopedie porta a porta e mi decantava i vantaggi di una globale miniaturizzazione o di qualche ipotetico macroingrandimento a scopi scientifici, io venni catturato da sequenze documentaristiche di file turbolente di accesi tifosi ad una partita di calcio di cartello, da code estenuanti ad uno sportello postale, da incroci urbani intasati per qualche malfunzionamento dei semafori. Mi figurai un autista od un pedone o un acceso ammiratore impaziente. Immaginai un piccolissimo bagliore di un oggettino personale da polso ed una istantanea crescita di una sagoma umana di furbo meschinello tendente a prevaricare. Ebbi una visione di un altro impercettibile bagliore e di un’altra sagoma ancora più grande volta al ripristino dell’ordine sociale, ed ancora bagliori vari di schieramenti e di solidarietà verso la prima o la seconda sagoma umana, bagliori preludenti a crescite disumane come dimensioni e violenza di intenti. E mi si affacciò alla mente il ricordo di un vecchissimo cartone animato di Tom e Jerry, ora angosciante, alle prese con una pozione magica che li rendeva sempre più grandi fino all’insufficienza surreale di contenimento, da parte del pianeta Terra, delle loro enormi figure minacciose ed egotiche a cavalcioni dei due poli in una eterna ed allora, solo allora, esilarante scazzottata. Karl continuava a parlare, ma ormai, per me, in pieno incubo, erano solo più farneticazioni. 173 Alle sue parole di progresso e collaborazione tra simili contrapponevo dentro di me l’atavico concetto della prevaricazione dell’uomo sull’uomo e antichi roghi medievali sfavillavano nella mia mente per purificare il genere umano dal genere umano in un delirio crescente di violenze, sangue e stragi in eterne guerre con un’arma fenomenale ed estrema in più rispetto a prima. Karl esitò, per un attimo, ad esporre così baldanzosamente il suo progetto: dovevo essere terribile da vedere con il mio cervello nudo e marcio corroso dai vermi della sfiducia e dell’assenza di speranza. Mi levai di scatto dalla materna sedia a dondolo e lo colpii come una saetta con la prima cosa che ebbi tra le mani: il luccicante pestello di bronzo. Infierii con la violenza della pietà, per finire tutto presto, per me, per Karl, per tutto il genere umano, e non smisi neanche dopo che il mio amico rimase esanime e riverso su quell’orrendo divano: il sangue si confuse con quegli orridi fiori vinaccia e mi schizzò sulle mani provocandomi un sentimento di pulizia interiore, come se fossi stato lavato per un sacrificio. Ora sono qui, davanti ad un meccanismo nuovo che sembra una vecchia macchina fotografica su un treppiede. Sto fissando quello che sembra un obiettivo e stringo tra le mani una peretta di un lungo cavetto nero, come per volermi fare un autoscatto. Sono convinto di avere salvato l’umanità da un tristo futuro, ma sono anche convinto che per amore di giustizia e mia pace interiore io debba pagare per avere ucciso il mio amico Karl che è lì sul divano e che sembra mi guardi da quella maschera di sangue che è la poltiglia del suo viso. Ho bruciato ogni suo appunto con tutte quelle formule per me incomprensibili ed ho legato la peretta alla mia mano… Quando la schiaccerò, trascinerò quell’osceno strumento con me verso il basso, verso una tinozza che ho riempito di acido per distruggere questa arma finale. Forse nella caduta sarò attirato, legato come sono, dentro la tinozza ed avrò una atroce, ma misericordiosa 174 morte rapida, o forse verrò sbalzato in qualche angolo della stanza dove attenderò… Attenderò un topo che forse mi sarà grato per certi suoi incubi ai quali ho messo la parola fine e, magari, mi vorrà manifestare il suo apprezzamento… 175 IL PORTINAIO ED IL POVERO MENENIO AGRIPPA Sono sconvolto… Non dormo da tre notti e tre giorni, terrorizzato da qualcosa che potrebbe essere una mia allucinazione o la scoperta di una terribile verità… Una persona amica mi aiuti asciugando la mia fronte imperlata di sudore ghiacciato, e vegli e vigili per difendermi da incubi tremendi. E’ cominciato tutto quattro notti fa. Mi accingevo, insonnolito, a dormire. Accesi il piccolo stereo sul comodino per lasciarmi cullare da qualche melodia riposante. A poco a poco si confusero, nel dormiveglia, immagini, paesaggi, progetti, idee caotiche senza senso e ordine. Avvertii anche qualcosa di nuovo nel buio, con il perdersi della musica: un progressivo aumento di un brusio indistinto di molte presenze in attesa di un evento. Poi udii una voce calda, baritonale. “Preso atto del numero valido dei partecipanti a questa assemblea, dichiaro aperta la presente riunione di condominio e propongo la candidatura alla presidenza del sottoscritto signor Cervello. Nominerò il signor Stomaco e il signor Fegato come segretari. L’ordine del giorno della presente riunione verterà sulle pericolose fughe di gas nella cantina dello stabile, sulla manutenzione del suddetto stabile e su varie ed eventuali. Se nessuno ha da eccepire sulle candidature, si può dare inizio al dibattito.” Mi agitai nel letto temendo l’inizio di un brutto sogno, con una spiacevole arsura, e udii altre voci tra cui una stridula e acida. “Era ora che si parlasse di quelle fughe di gas, signor Cervello! Uno di questi giorni salteremo tutti in aria. Lo dico da sempre e sono diventata verde di bile, ma mai nessuno che mi ascolti…” 176 “Non dica questo, signora Milza, perché io, nel mio piccolo, solidarizzo: si figuri che quello spiffero quasi continuo mi sta creando anche gravi problemi infiammatori. Piuttosto gli altri, quelli dei piani alti: direi che sono proprio insensibili ed egoisti.” “Non cominciamo a promuovere la rissa del tutti contro tutti, egregia signora Emy Orroide. Le parlo da moderatore: ognuno ha i suoi problemi. Che dovrei dire io che ho due vicine mezze sorde che ascoltano musica snervante a tutte le ore del giorno a volume da discoteca? Anzi, visto che sono il presidente di questa assemblea di condominio, metterò a verbale anche che ci si debba moderare con i rumori molesti.” “Cosa vuole mettere a verbale? Guardi che io ci sento bene. E’ la vicina di pianerottolo che è sorda, ed è di destra, prepotente e fascista, senza rispetto per alcuno, col volume a palla anche quando tutti dormono. Che c’entro io?” “Ha parlato la compagna racchia orecchia sinistra…come se non fossimo tutti sulla stessa barca, …fascista a me, poi? Perché sono a destra nello stabile? Guarda, carina, che ho anche io la staffa, e pure il martelletto, e con una falcetta sarei una comunista doc. Modera le parole prima di accusare e di dare qualifiche politiche a casaccio.” “Signore e signori, calma, calma, per favore…” S’impose, su tutte, la voce del cervello, del mio cervello, autorevole, – ma un cervello non ha solamente la voce della coscienza o della ragione? – Mi rigirai nel letto inquieto. Chi parlava sembrava vero, vivo e, soprattutto, autonomo, e la cosa non mi piacque affatto. “Presidente…” “Dica pure, signor Fegato.” “Sto rodendo me stesso dalla rabbia. 177 Mi dolgo per le signore orecchie, comuniste o fasciste che siano, e per l’infiammata signora Orroide, ma torniamo a bomba, ai gas. Lei dovrebbe assumere l’iniziativa e lanciare un qualche messaggio al portinaio affinché vada in farmacia e acquisti del carbone vegetale: dicono che sia una mano santa. Tra l’altro, tutti si faticherebbe meno nello smaltire quella fastidiosa corrente, e Tino, il signor Tenue, ci guadagnerebbe anche in salute nel parcheggiare dentro il garage quelle merde di macchine inquinanti.” “Vero, vero, caro signor Fegato.” “Coinvolga anche il signor Aquilino Naso, presidente, e condizioni il portinaio a porre rimedio a questo schifo.” Ebbi la sensazione angosciante che il portinaio fossi considerato proprio io, me medesimo, immobile e teso come una corda di violino a captare il più piccolo sospiro nella notte e nel buio della mia stanzetta. Cominciai a sudare copiosamente. “Bene, allora. Signor Naso, le trasmetterò comunicazioni olfattive inequivocabili sull’inconveniente e faremo pressioni congiunte sul portinaio perché acquisti il carbone vegetale. Scriva pure, signor segretario Stomaco, verbalizzi, e passiamo quindi senz’altro ai problemi di manutenzione…” Verbalizzare da parte di uno stomaco… Cominciavo a credere in un sabotaggio del barattolino dell’origano in cucina, forse con qualche fungo messicano strano e nocivo. Pensai – se questo è l’inizio della pazzia, è alquanto bizzarra e imprevedibile ma, al contempo, mi posi domande sull’efficienza del mio portierato, se avevo spazzato bene, se avevo passato la cera, lo straccio, se avevo pulito bene vetri e finestre. Risi irrispettosamente all’idea di essere soltanto il portinaio di un condominio turbolento, ma il presidente dell’assemblea mi richiamò all’ordine e al rispetto procurandomi una fortissima emicrania che mi si affacciò improvvisa e dolorosa e mi consigliò l’immobilità in attesa di tempi migliori. 178 “Aspetti, signor presidente. Ho taciuto con mio fratello fino ad ora, ma adesso parlo perché non ne posso più. I vetri fanno schifo, puliti soltanto quando capita con degli stracci sudici. Io e mio fratello vediamo lungo, ma non si può tollerare che il portinaio pulisca i vetri senza lavarsi le mani dopo avere potato le unghie dei signori Piedi: suvvia, un minimo di decenza, no?” “Cosa avrebbe da dire su di noi, signor Bellocchio destro? Sia prudente con certe affermazioni: abbiamo tutti bisogno di manutenzione, mica solo lei e suo fratello. Non abbiamo colpe se la pulizia viene fatta in maniera approssimativa o disorganizzata. E poi non si lamenti e ricordi qualche anno fa, quando era molto peggio. Il portinaio puliva tutto lo stabile con una sola spugna ruvida e rosicchiata e con la stessa acqua saponata sciacquava piani alti e piani bassi. Meno male che ora usa la pompa a getto, sicuramente più igienica. Mi domando e dico: perché avremmo dovuto sentirci più puliti, prima, con la stessa acqua che serviva per sciacquare anche quei due Coglioni del piano di sopra…” “E adesso che c’entriamo noi? Non ci rompete, eh?” “State zitti voi, coglioni Coglioni!” “Ma come vi permettete, piedacci puzzolenti di cacio! Li piedacci vostri, Piedi!” “Signori, per cortesia, un poco di contegno, vi prego…” L’emicrania mordeva col ruggito delle voci alterate che si insultavano. Tutto assurdo: organi del mio corpo che parlavano, autonomi, critici, litigiosi… “Vorremmo interloquire anche io e mio cugino Paul Mone, signor presidente.” “Prego, esponga signor Ai Mone.” 179 Troviamo inammissibile che il portinaio abbia deciso di spostare la guardiola in questo quartiere malsano e pieno di gas di scarico. Abbiamo una certa età, ormai, e ci siamo molto sacrificati per migliorare il nostro stato di efficienti mantici, smettendo perfino di fumare, per rispetto nostro, del nostro amico, il signor Amore Cuore, e di altri inquilini. Ci è dovuto un minimo di riconoscenza e collaborazione. Concorda signor Cuore?” “Mi associo, mi associo: sacrosante parole.” “Solidarizziamo anche noi: stiamo molto meglio da qualche anno grazie ai signori Paul e Ai Mone, ex fumatori, inquilini civili e degni di rispetto.” “Grazie signori Guido Reni e Tony Renis.” “Anche se…” “Dica signor Guido…” “Questo pelandrone di portinaio innaffia poco, beve robaccia e ci sottopone a sforzi ripetuti che, ormai, alla nostra età, dovrebbero essere dosati sobriamente, per quando ne vale davvero la pena, magari in compagnia…ma, signor presidente, invece, … costui agisce prevalentemente da solo… Ed inoltre è ghiotto di asparagi: un ‘tour de force’ in certi periodi. Roba da non credere. ” Rabbrividii. Seguivo la grottesca assemblea, soggiocato, e recepivo interventi scontenti e mugugni, ma arrivai ad impermalirmi per questa sfacciata esposizione di mie abitudini segrete. Che diamine! Un minimo di riservatezza e comprensione! E poi volevano cambiare aria… I soldi non li fabbrica neanche Rockfeller: quindi appartamentino in periferia sporca di smog, cari signorini. Vincessi al superenalotto ve la farei vedere: chalet a mezza collina con orto e alberi e cani da guardia e… …E poi sarò padrone di abbuffarmi di asparagi, almeno a stagione? La testa mi stava scoppiando. 180 “Intraprenderemo un’azione sindacale, signor presidente. Ogni tanto, senza preavviso, cesseremo di respirare o tossiremo la nostra protesta nella colazione di quell’essere, quando ha le mani occupate. Lo metteremo alle strette: traslocherà prima o poi.” “Vi darò una mano anche io, cari vicini. E’ sufficiente che mi metta a zoppicare e che qualche volta faccia l’imitazione della coratella del macellaio sul banco di marmo: l’amico se la farà addosso… sempre che non sia un duro insensibile e non mi faccia crepare…” Un cuore crepato di crepacuore: una situazione alla Jonesco, surreale. Ridevo istericamente dentro di me nonostante il dolore lancinante alle tempie. Avevo gli occhi lacrimanti: pizzicavano come per qualche bruscolino sotto le palpebre, ma non osavo sfregarmeli, neppure delicatamente, perché mi ero appena grattato soprappensiero altre parti, basse, e temevo una reazione o una vendetta. “E poi dovrebbe muoversi di più questo portinaio: é pigro. E’ un sedentario e la spazzatura rimane tutta sullo stomaco – vero signor Stomaco? – e anche io faccio fatica a smaltire i rifiuti. In più ho anche quei problemi di parcheggio di cui si parlava prima… del resto lo spazio è quello che è: o aria o altro no?…” “La capisco, Tino, oh, scusi la confidenza, signor Tenue…” “Ma no, si figuri, diamoci del tu.” “Beata l’appendice Beatrice che ha osato ribellarsi e ha piantato tutti… ” “Lo farei anche io e non escludo in futuro di prendere in esame la possibilità…” “Brava, signorina Fellea, però, dico io, è anche ingiusto che qualcuno possa andarsene e qualcun altro no: le solite sperequazioni tra figli dell’oca bianca e bastardacci!” “Che le devo dire, signor Pancreas: è la vita che è così, ingiusta e sperequata di suo. 181 Non se la prenda con me: in fondo la decisione mi costerebbe sacrifici immensi. Potrei finire in bocca ad un gatto vicino al Policlinico. Lo sa la fine che ha fatto la signora Milza del condominio della sorella del portinaio? E’ stata sezionata e poi bruciata: una fine orribile…” Percepii terrorismo psicologico nella voce arrogante della signorina Cistifellea che si rivolgeva al signor Pancreas con il sussiego di chi è pieno di boria e calcoli, soprattutto calcoli. “Signori, è tardi, cerchiamo di concludere. Proporrei di verbalizzare che il condominio si adopererà affinché venga effettuata una più accurata pulizia e venga spostata la sede della guardiola, magari verso la campagna. Indiremo a breve una assemblea straordinaria per organizzare scioperi selvaggi per il conseguimento dei nostri scopi, con le buone o con le cattive, e qualcuno di voi cominci a studiare qualche piano concreto di sabotaggio. Per quanto mi concerne, offro fin d’ora tutta la mia disponibilità a convogliare qualsiasi messaggio verso il portinaio in maniera che venga recepito senza discussioni o resistenze. Prima di chiudere qualche altra domanda?” “Scusatemi tutti se sono ignorantello, tutto muscolo e istintività, ma non si fa prima a cambiare portinaio? Morto un portinaio se ne fa un altro, no? Lo dice anche il proverbio…” Non compresi subito da dove provenisse quella vocina. Mi resi conto, però, che il cervello si stava adirando violentemente… “Eccolo qua: la solita testa di cazzo! Lei parla, parla, e dice solo minchiate, signor mio! Se riflettesse invece di fare soltanto ginnastica, sempre su e giù, probabilmente riuscirebbe a comprendere che il portinaio non si può cambiare e che queste sono le regole! Ci teniamo questo imbecille e possiamo solamente fare in modo che cambi qualche idea, entro certi limiti ragionevoli, perché quando interviene lei, solita testa di cazzo, la ragionevolezza va farsi benedire. 182 Faccia silenzio, …e si adopri per sole funzioni innocenti. Lei, un giorno, ci rovinerà tutti con la sua esuberanza imprudente e ignorante! Basta ! Chiudiamo qui l’assemblea. Ci aggiorneremo nei prossimi giorni. Per ora buona notte a tutti…” Percepii un battimani, (un battimani?) di commiato cortese: mi resi conto, sempre nel dormiveglia, che era un battere di denti. Spalancai gli occhi all’alba, ansante e seduto sul letto. I piccoli led dello stereo mi fissavano nemici o almeno questo era il mio stato d’animo: mi sentivo minacciato da tutto e da tutti, soprattutto da me stesso, da dentro. Urlai di raccapriccio all’idea che tutti i giorni scarrozzo fuori organi ostili che rispondono a mie sollecitazioni, che godono di sensazioni piacevoli e soffrono per dolori improvvisi. Ho realizzato, infatti, che non è così, almeno per me. Sono loro che scarrozzano me! Forse voi non ne avete ancora coscienza, ma siete solo dei portinai di condomini formati da litigiosi inquilini scontenti, in lotta con voi per i ‘loro’ diritti. Pensavo di essere un padrone di qualcosa, del mio corpo, della mia vita, del mio destino. Sono soltanto un portinaio, invece, un dipendente da licenziare, e chi comanda sono i miei organi. Mi sovviene il vecchio apologo di Menenio Agrippa. Forse anche lui, poveruomo, ebbe i miei incubi sulle rive dell’Aniene: chissà se trovò un aiuto… Aiutatemi, vi prego, e guardatevi dentro: potreste essere ancora in tempo per una soluzione, semmai ne esista una… La vita vera è fuori…o è dentro?... 183 SI MUORE UNA VOLTA SOLA? “No! Ti prego, non farlo, non farlo…” Sussurrò stranito con gli occhi sbarrati dalla paura. Davanti a sé, nella penombra luccicante di neon pallidi e di pioggia nel vicolo, era presente una bocca di rivoltella e poco dietro, alla distanza di un braccio proteso, un ghigno malvagio di una figura scura coperta da un cappellaccio che non riusciva a nascondere un bagliore di sguardo cattivo. “No! Ti prego, non farlo, non farlo…” Monotono come un disco rotto, rallentato dalla paralisi del terrore, implorante e carico di persuasione speranzosa, stridulo nell’isteria dell’impotenza: si ascoltò mentre parlava e si dibatteva mentalmente tra la consapevolezza del suo essere ridicolo e ripugnate senza dignità e la speranza d’essere convincente. Stagnava odore di paura mescolato a quello dell’asfalto bagnato e di spazzatura fradicia accatastata vicino a cassonetti straboccanti. Percepì il brillare di una capsula d’oro di quel ghigno malevolo, e il rumore secco dello scatto del cane della rivoltella che s’alzava sotto la contrazione delle dita. Fu un attimo: un caleidoscopio di schegge d’immagini e situazioni. Avvertì lo schiocco asciutto della percussione, l’azzannare del cane rabbioso, e fu assordato dal rombo di un tuono e accecato dal lampo di una vampata aranciata. Ruotarono intorno a lui lucido asfalto nero e lattiginose presenze di luci fredde nel buio fitto. Ancora sensazioni: una brevissima fitta dolorosa nel costato, scalpiccio di passi lontani, pensieri incoerenti a ruota libera al di fuori dello spazio e del tempo… “Mio Dio, che succede ora? Pensavo di sentire male, dolore insopportabile, e invece un colpo brevissimo e improvviso come un pugno e poi più nulla… Che freddo strano: mi sento come un termosifone che è spurgato e svuotato dell’aria…sto rilasciando calore e mi sto 184 imbevendo di freddo…ossigeno che brucia i polmoni, acqua, aria, umidità maleodorante… Com’è bagnata e fredda questa strada…com’è duro l’asfalto contro il mio corpo…” Aprì gli occhi, dopo attimi senza tempo, e rivide il vicolo. Si rivide in piedi nel vicolo, sorpreso, poi incredulo, poi, infine, terrorizzato nell’angoscia dell’inesplicabile. Ebbe ancora la percezione della notte, ma in un’altra atmosfera, come se un bravo regista con un valente direttore di fotografia avessero adottato un nuovo filtro per un effetto speciale di nuovi giochi di luce. Tutto virava su un celeste azzurro algido, metallico, quasi cromato, con infinite variazioni, dall’acquamarina chiarissimo al blu petrolio quasi nero, in una strepitosa variazione monocromatica, come un dagherrotipo, di quelli vecchi ingialliti color seppia, ma di un futuro cibernetico di alluminio anodizzato e acciai. Si esaminò perplesso con un rapido colpo d’occhio: in piedi, (strano, no?), di nuovo nello stesso vicolo, davanti ad una bocca di pistola cobalto, impugnata da una figura celestina, più scura, con un sorriso acido stampato nel volto bieco bluastro. ‘Dejà vu’ su tonalità celeste. Fredda: quasi asettica. Supplicò di nuovo, considerò naturale il supplicare come prima, sbigottito nell’irragionevolezza della situazione, e rivisse lo stesso tormento e le stesse sensazioni del vicolo pozzangheroso di pioggia e puzzolente d’immondizia. Movimenti appena rallentati, quasi in un agitarsi sott’acqua, aria appena meno mossa, velocità ridotta di reazioni, suoni, colori, odori: già, odori… Odore d’ozono a bruciare la gola e gli occhi lacrimanti stille celesti fredde d’incomprensione sgomenta. Udì lo sparo, di nuovo, come prima, con un’eco immensa a squassare corpo e tensione, e scorse l’attimo della vampata, stavolta di metano verde, dalla bocca di fuoco, e il ghigno solito, e si riaccasciò inerte in confusione d’idee. 185 “Che mi sta succedendo? Non ero già morto? Quanto tempo è trascorso? Perché questa seconda morte in questo nuovo mondo di dimensione tutta celeste? Perché nessun dolore fisico, ma accresciuta angoscia interiore?” Seppe, lo sentì intimamente, mentre si arrovellava con domande e supposizioni, che avrebbe potuto riaprire gli occhi: i bulbi oculari fremevano nelle orbite come in un nuovo stato REM, un nuovo incubo. Si scoprì a fissare nella mente un concetto non molto divertente: un nuovo incubo. Contò mentalmente fino a tre e spalancò gli occhi, pronto ad ogni evenienza, ma tutto fu oltre ogni attesa: si guardò intorno sforzandosi di non urlare. Fucsia. Lampone. Vinaccia. Lilla. Porpora. Viola. Rivolse lo sguardo atterrito verso il vicolo conosciuto, nuovo vicolo come un tramonto purpureo di “Via col vento” con un acciottolato innaturale color mirtillo e una luce violacea come di cattedrale, come filtrata da vetri pregevolmente lavorati da valenti artigiani. Fu preso dal panico per l’incomprensibile e curiosità per l’impossibile da definire. Percepì odore di marmellata, dolciastro, di vaniglia, forse di sangue fresco, anche stomachevole, in una realtà immutata se non nel colore e nelle sue tonalità di colore. Immutata. Già. La vide prima con gli occhi della mente e poi verificò con le pupille dilatate: la stessa rivoltella spianata su di lui, stavolta rossa, e uno sguardo viola, come quello della locandina di “Hannibal”, luccicante d’odio con un sorriso assomigliante a quello di un vampiro assetato di sangue. Si ascoltò ancora una volta supplichevole, convincente in modo fallimentare. Velocità variabile, a scatti, nevrotica, delle preghiere e del susseguirsi di scene già viste: il cane alzato ancora una volta, lo sparo secco, la vampa nera come uno sbuffo di fuliggine da una caldaia di vecchia locomotiva a vapore, il cadere in un limbo senza colore, forse ancora per poco, in un confondersi di passi e odori che si dileguano come i 186 colori, tutti risucchiati da un’invisibile cappa di grande cucina d’albergo che ronza confusamente nei sotterranei. Nel buio dei suoi occhi chiusi seppe che avrebbe veduto qualcosa di diverso ancora ed ancora e pensò con raccapriccio che quell’incubo sarebbe stata la sua condanna eterna per la sua vita dissoluta (quale vita? Quella multicolore, quella celeste, quella rossa? E quanto durano queste vite? E per quali finalità?). Si trattenne dal riaffrontare una nuova luce sconosciuta: si cullò un attimo in più nella pace del silenzio buio senza odori dei suoi occhi chiusi. Anche stavolta perdette la nozione del tempo e dimenticò: eoni, anni, anni luce, parsec, secondi, attimi… Si limitò a considerare dentro di sé, ormai rassegnato, che era trascorso del tempo. Percepì la presenza di qualcuno davanti a sé e si preparò ad affrontare il suo nuovo incubo. Riaprì gli occhi ed ebbe davanti a sé un mondo verde dal muschio alla palude allo smeraldo all’acqua di un mare mosso e sporco in un odore d’alghe, d’erba tagliata fresca che stordiva. La luce irradiata di questo nuovo inferno era come quella di una sala operatoria sfalsata dai numerosi camici verdi cerati d’infermieri e chirurghi. Associò nel verde i pericoli di un’intricata foresta sconosciuta piena di strida e di rumori di animali allertati per la caccia o la difesa. La mente fu invasa da giganteschi iguana, ramarri, camaleonti dalla lingua saettante e dagli occhi mostruosamente indipendenti…da silenziosi mamba in attesa acciambellati tra rami nascosti da foglie e foglie di tante tonalità di verde, chiari, scuri, cupi, brillanti, freddi di brina e rugiada stillante come lacrime di solitudine. Lo vide ancora una volta, il suo carnefice: verde come un basilisco o una malvagia creatura di un bosco di fiabe per adulti. Non rideva stavolta. Si lasciò cadere in ginocchio fissandolo e singhiozzò verso la sua rivoltella diretta contro il suo viso: 187 “Pietà, ti prego! Che sta succedendo? Quanto durerà questo inferno?” L’essere armato parlò con voce grave. “Sta per finire, non avere paura. Anche i fantasmi devono morire, prima o poi…” Percepì lo sparo e in un attimo vide il viso del suo giustiziere, serio stavolta, e girovagò nei meandri della sua mente alla ricerca d’ultime intuizioni e risposte cadendo senza alcun dolore nel verde sempre più cupo. Ebbe l’ultima immagine di una vampa rossa e l’ultima percezione di un odore di prato bagnato. Poi una sensazione cullante di pace e di serenità che affievoliva sempre di più. Poi il nulla. Anche i fantasmi devono morire, prima o poi… 188 LA POLTRONCINA N.123 “Al fuoco! Al fuoco! Sta bruciando il Lux! Accorrete, presto!” Lingue di fuoco serpeggiavano oltre i tetti della piazza verso il cielo nero della notte e l’aria era piena di pulviscoli di cenere che si diffondevano vorticosamente su tutto il paese tra la concitazione della gente che accorreva verso il cinematografo per dare una mano, curiosare, vedere la fine dell’evento. Dopo diversi minuti accorse l’autopompa dei vigili del fuoco della vicina città, a sirena spiegata, ed il brusio divenne un urlo liberatorio: “Eccoli, eccoli: ma forse sarà tardi, sta bruciando tutto e cominciano a crollare le travi del tetto!” I vigili, efficienti ed indifferenti al dramma del paese, indirizzarono le loro pompe sul fabbricato e diressero gli scrosci d’acqua dove pareva che il fuoco avesse fatto più presa. Domarono le fiamme verso l’alba e tutto quello che rimase della sala cinematografica fu solamente un cumulo di macerie bagnate fumiganti circondate da ormai pochi curiosi nottambuli e da qualche passante che si avviava al lavoro. Tutto questo ieri. Il mio paese è proprio quello che si può definire in uno stereotipo documentaristico “una ridente e gaia località dell’entroterra abitata da gente operosa e schiva, ricca di interessanti spunti artistici e di meravigliosi scorci paesaggistici.” Mi piace il mio paese, tranquillo seppure a pochi chilometri dalla città. C’era tutto anche cinquant’anni fa: il cinematografo, il negozio di dischi, la biblioteca, piccola e ordinata, il negozio di abbigliamento con sfizioserie alla moda, il meccanico carrozziere che riparava anche le moto, e tanti altri negozi e servizi che rendevano piacevole e comoda, nel sapersi accontentare, la vita. Certo, ho saputo che oggi c’è addirittura il negozio dei telefonini e il centro servizi informatici, ma anche allora non ci si poteva lamentare ed io lì ho vissuto per ventidue anni con la mia mamma, che Dio l’abbia in gloria, dal 1944 al 1966. 189 Abitavamo in un vicolino a ridosso del centro del paese dietro la chiesa seicentesca di S.Venanzio in un piccolo appartamento in tufo a piano terra con un cortiletto antistante piantato a rose e salvia: un quadretto idilliaco per noi due, soli purtroppo, in quanto mio padre, mai conosciuto, era ancora disperso in Russia. Mia madre lavorava come una schiava e faceva le pulizie per le scuole materne, la panetteria e presso due o tre famiglie, le più abbienti del paese. Sopportava pazientemente i capricci del destino e i suoi dolori di angina che a momenti inattesi la facevano soffrire con smorfie di dolore. Io studiavo e non avevo tanti grilli per il capo, se non una incontenibile passione per il cinema. Trovavo il modo di intrufolarmi al Lux ogniqualvolta cambiava il programma, con la pioggia, il sole, il caldo e il freddo, sia che avessi finito i miei compiti o fossi rimasto indietro, sia che avessi qualche spicciolo o che fossi in bolletta. Ho visto tantissimi films, d’avventura, del terrore, d’amore e di fantascienza e tutti mi sono rimasti impressi nella memoria insieme al giorno in cui li ho visti per la prima, ma anche seconda o terza volta. Entravo tra i primi, al primo spettacolo, e mi piazzavo al mio posto, sempre quello, in fondo alla sala con stucchi ingialliti e tende logore color vinaccia: la poltroncina 123, la penultima dell’ultima fila a sinistra. Aspettavo senza fretta lo scorrere delle diapositive pubblicitarie, allora non c’erano ancora i piccoli cortometraggi, guardavo con distrazione il cinegiornale, la “Settimana Incom”, mi facevo più attento ai “prossimamente” e mi immergevo in un altro mondo dall’inizio dei titoli di testa della pellicola fino alle musiche struggenti della fine. Ne ho viste tante! Ho cominciato a frequentare il Lux verso i dieci anni ed ho riso con Totò e con Sordi in bianco e nero, ho pianto con Visconti e sono rimasto senza parole con Fellini. Ah, le emozioni dei films di Val Guest: “I vampiri dello spazio”, “L’astronave atomica del dottor Quatermass” e il mio Dracula preferito, Cristopher Lee, quello alto alto, e quel grande istrione, Vincent Price ne “La maschera di cera”! Non tralascerò poi i polpettoni storici della serie di 190 Ursus e di Maciste: erano avvincenti, ma scomparvero come stupidaggini senza importanza quando entrarono in scena gli americani: “Ben Hur”, “Cleopatra” ed altri ancora, colossali, anzi ‘Kolossal’ secondo le cronache d’allora. Poi vennero i primi films psicologici di Antonioni, sociali di Bellocchio e Germi, e la commedia all’italiana, e si cominciò a far spazio la cinematografia inglese e francese, quest’ultima relegata ad un ruolo marginale fino allora con i soli films di Jean Gabin e di Renoir. Per fare breve il discorso, dirò che ho visto tutto quanto era possibile vedere al cinema del mio paese, senza perdere uno spettacolo, anche a dispetto dei divieti ai minori, e che la mia passione, andando avanti negli anni, si trasformò sempre di più in monomania. Mia madre mi rimproverava, ma senza forze, ed io, che nel frattempo avevo smesso cogli studi, arrivai ai miei diciotto anni facendo lavoretti saltuari, aiutando mia madre, e non perdendo mai una prima al Lux al primo spettacolo seduto su quella scomoda e dura poltroncina di legno in ultima fila. Quello che accadde nel novembre del 1966 cambiò radicalmente le mie concezioni su ciò che è l’esistenza. Mia madre non stava molto bene, ormai ingrigita dagli anni e dalle fatiche, ed un giorno mi chiese, mentre uscivo, di portarle delle gocce che aveva ordinato al farmacista, un nuovo ritrovato per la sua angina che la tormentava sempre più spesso. Non ricordo bene ciò che le risposi perché avevo i miei pensieri rivolti altrove: al Lux. Il figlio del proprietario del cinema era subentrato al padre nella gestione della sala ed era entusiasta del suo lavoro a tal punto che aveva progettato, sullo stile di alcuni cinema d’essai della città, una volta a settimana, una programmazione tematica di quattro pellicole diverse per quattro spettacoli, films non recenti, a basso costo di noleggio quindi, ma di qualità, inerenti una tematica particolare, fantascienza o dramma sociale o altro, oppure un omaggio ad un grande maestro o attore del cinema. Per quella disgraziata settimana era prevista una programmazione che avrebbe avuto come comune denominatore Bette Davis. Si sarebbero tenuti solamente 191 tre spettacoli, invece di quattro, per l’indisponibilità dell’operatore alla cinepresa e la prima proiezione sarebbe avvenuta alle ore 17. Che peccato! Mi consolai pensando al valore dei tre titoli: “Eva contro Eva”, “Che fine ha fatto Baby Jane?” e “Piano, piano dolce Carlotta”: tre capolavori da rivedere molto più che volentieri! Mi avviai a passo deciso verso il cinema. Eravamo quattro gatti, i soliti sfaccendati, il nostalgico di Bette Davis, ed io, il cinefile, l’amante del cinema per il cinema, sempre solo nella mia poltroncina 123 in fondo, nella penombra delle luci abbassate, ma non ancora spente, in infantile frenesia nell’attesa dello spettacolo. Vidi tutte e tre le proiezioni e dimenticai ovviamente l’incombenza della commissione per mia madre. Non sto qui a commentare quelle immagini, quella fotografia in bianco e nero, quelle musiche avvincenti e quella recitazione superba: non ne ho più voglia da allora… Ritornai a casa verso tarda sera accompagnato dallo sferragliare della saracinesca del cinema che la maschera ormai tirava giù per la fine della giornata. Ero spensierato, purtroppo, ed ancora annegato nelle atmosfere tragiche e drammatiche delle tre vicende che avevo rivissuto da spettatore appassionato per un’ennesima volta. Aprii l’uscio di casa e ebbi la folgorazione che avevo dimenticato qualcosa che mi aveva detto la mamma… sì, la medicina per la sua angina! Povera mamma, pensai, la prenderò domattina presto. Camminavo a passi leggeri per non svegliarla: era tutto buio. Inciampai in qualcosa di imprevisto; accesi allora la luce e vidi il corpo di mia madre a terra, con il volto tirato in una smorfia di dolore e gli occhi sbarrati in un’espressione di sofferenza. Gridai aiuto, chiamai i vicini, scossi il corpo della mia vecchia per cercare di rianimarlo e la coprii di baci e parole senza senso dettate dall’emozione e dalla consapevolezza di averla perduta per sempre. Nello scoprire che non era più, fui pervaso da un gelido senso di rimorso e di rimpianto: forse era stata colpa mia, forse tutto si era verificato per la mia negligenza! I vicini accorsi avevano chiamato il medico. 192 Il buon uomo cercò di rincuorarmi: “Era inevitabile, prima o poi, sai? Probabilmente avrà sofferto molto poco. Sii forte e cerca di pensarla felice e libera da quel peso al petto.” Non ricordo più cosa accadde nelle ore successive: mi si affastellano alla mente immagini spezzettate di vicini consolatori, del medico, dell’ambulanza che portava via mia madre, del silenzio della mia casa, del buio e della mia solitudine. Ero distrutto e sconvolto per l’angoscia del mio futuro da solo e per quel tarlo che rodeva il mio cuore: avrei potuto salvarla ed ero al cinema. Diventano ora più nitide le immagini. Girovagai senza meta per tutta la notte e l’alba mi trovò piangente ed infreddolito sul cavalcavia della circonvallazione del paese mentre si spegnevano le luci del distributore di benzina giù in basso ed il sole cominciava a baluginare da dietro il colle sovrastante il paese. Ero fuori di me, come lo può essere un figlio molto unito alla madre cui ha appena fatto un torto. Nel rimescolio tormentato dei miei pensieri, sconclusionato e privo della freddezza necessaria in tale occasione, ricordo che improvvisamente mi lanciai nel vuoto dal parapetto del cavalcavia, senza una parola e senza un’emozione. Avvertii un forte colpo alla testa e riuscii a percepire, solo per un attimo, un rumore di pane raffermo che si spezza; poi il buio ed il silenzio in un’incosciente, anch’essa per un attimo, sensazione di una carezza calda sul mio viso: il mio sangue che colava dalla testa schiacciata. Poi più nulla. Come si può definire nel mio stato la cognizione del tempo? Trascorsero attimi o secoli, non lo so, ma dopo, e dico solamente dopo, sentii un rumore indistinto, sembrava il rombo di una cascata, od un tuono, e stentavo a riconoscerlo. Aprii gli occhi e notai tutto intorno a me una nebbiolina spessa e fredda, lattiginosa, che sul cavalcavia non c’era. Mi guardai le mani e mi tastai il corpo e la testa: avevo le mani verdastre dalla pelle avvizzita e umida ed individuai subito la deformazione del mio cranio, semiaperto fin sopra l’occhio sinistro, rinsecchito e, strano 193 fenomeno, senza sangue nonostante l’ampio squarcio. Avvertii una sensazione di tranquilla sorpresa e capii di trovarmi nel metafisico, in un ambiente al di fuori di ogni immaginazione mentre quel rumore di tuono o cascata assumeva distintamente la tonalità di una voce possente e penetrante. “Vigliacco! Hai voluto sfuggire il rimorso nel più ingiusto dei modi. Pensi che la tua misera vita abbia compensato anni di sofferenze e di delusioni che tu, prevalentemente solo tu, hai arrecato a tua madre?” Si materializzò dalla nebbia in un piano sibilare di refoli d’aria gelida l’immagine di mia madre, grigia, muta che mi guardava tranquilla con due occhi sereni, ma accusatori. Avrei voluto correre da lei, abbracciarla, gridarle tutto il mio amore ed il mio dispiacere doloroso, ma non potevo… mi sentivo legato, anzi inchiodato al mio posto. Mi guardai intorno e, nella nebbiolina che si diradava, distinsi un ambiente a me familiare semibuio con un odore caratteristico di fumo, detersivo forte e celluloide: il Lux! Mia madre scomparve nel nulla e rimasi solo io, spettro invisibile ai vivi, nella sala cinematografica che era stato il mio rifugio e la mia essenza della gioia di vivere. Avvertii dolori lancinanti ai polsi e alle caviglie rinsecchite: ero fissato con grossi chiodi rugginosi di cantiere ai braccioli ed alle gambe della mia poltroncina di legno, la mia solita poltroncina da vivo, la 123, e non potevo assolutamente muovermi, compresso anche dallo schienale rigido che rendeva il sedile veramente scomodo: ora che ero costretto in una posizione statica notavo la differenza. Dai fori dei chiodi ai polsi, e presumo anche dalle caviglie che non potevo vedere, non fuoriusciva sangue. Vedevo distintamente i tendini che, scoperti, insieme ai muscoli della mano e alla carne, erano diventati scuri, marrone scuro, e a contrasto con la mia pelle verde rinsecchita davano alle mie braccia e alle mie mani una fisionomia di mostro di palude… “Il mostro della palude nera” mi scoprii a citare. Le capocchie schiacciate dei grossi chiodi comprimevano le mie membra sulla superficie di legno della poltroncina e non avevo possibilità di muovermi: i miei 194 tentativi goffi di schiodarmi, con rotazioni dei polsi e leve tra gambe e schiena contro il sedile mi procuravano fitte atroci alle carni già martirizzate. Potevo girare solamente la testa ed osservare l’ambiente circostante: il mio caro cinema deserto e semibuio con i fregi più grandi nella prospettiva della penombra e le tende più scure ed immobili. Questa possibilità di limitato movimento mi sembrò quasi un lenitivo rispetto alla situazione dolorosa e pensai che, dopo tutto, la mia penitenza per le mie colpe, se tale era, era fisica e non assoluta. Come mi sbagliavo! Risuonò la terribile voce di prima, molto prima, poc’anzi, non so: il tempo aveva cessato di esistere. “Espierai in ciò che ti è stato più caro, più caro di tua madre, e perderai il senso di ciò che per te era più significativo, e solamente quando avrai ben chiara nella tua percezione la sproporzione che hai dato ai valori della tua vita senza meriti, potrai conoscere la pace eterna dello spirito.” Furono colpi di maglio quelle parole, colpi che affossarono ancora più profondamente i miei resti in quella poltroncina, con i chiodi che premevano e procuravano fitte lancinanti lacerandomi la carne ed i nervi già scossi dalla mia riconosciuta colpa. Una forza invisibile mi immobilizzò la testa devastata rivolgendola verso lo schermo della sala ed artigli, uncini invisibili, mi strapparono le palpebre dagli occhi striandomi luminosamente il cervello di un dolore indicibile. Cercai di urlare, ma nessun suono uscì dalla mia bocca storta ed udii soltanto le pulsazioni del mio dolore che battevano e battevano sullo squarcio della testa. Ristetti lì per qualche tempo, inviso a me, ed invisibile al mondo dei vivi. Nei giorni appresso ebbi modo di capire che il mio sedile appariva ora chiazzato di qualche sputo o macchia di gelato, ora scheggiato o con qualche chiodino sporgente: la poltroncina 123 rimase sempre vuota, non occupata da alcuno, amante del cinema o sfaccendato. Giorni e giorni trascorsero in un susseguirsi di proiezioni e in un alternarsi di spettatori, alcuni vicinissimi a me, che parlavano tra loro 195 dei fatti loro, commentavano, si emozionavano e si immedesimavano nelle vicende delle innumerevoli proiezioni. Percepivo i palpiti e l’angoscia dei miei vicini nell’assistere a scene drammatiche e captavo il loro buonumore di fronte a situazioni esilaranti e positive. Alla prima proiezione, dopo la condanna senz’appello di quella voce roboante, pensai, con una piccola perfida gioia meschina, tutta da vivo, con la logica del vivo, che le mie sofferenze, tutto sommato fino ad allora solo fisiche, si sarebbero stemperate nella curiosità ed interesse per i nuovi spettacoli che avrei dovuto presenziare forzatamente. Ma ancora una volta mi sbagliavo, e me ne resi conto in avvenire, al punto tale che ho riveduto completamente il mio metro di giudizio sul concetto dell’estetico assaporare la vita tramite la cinematografia. Sono rimasto inchiodato come un’anatra per molto tempo ed i miei tessuti invisibili agli altri fuorché a me stesso si sono deteriorati progressivamente in una figura purulenta e fetida, sempre vigilato da un continuo dolore fisico – che contraddizione di termini, vero? – che mi ha percorso l’intimo come una scarica elettrica o un taglio lento di lamiera rugginosa come i miei chiodi. Questo è, e lo ripeto, il mio contraddittorio supplizio fisico per la mia entità assolutamente spirituale, ma un ben altro martirio mi ha sconvolto la mente procurandomi atroci fitte al cervello già provato molto tempo fa: mi ha straziato, più di tutto, il cinema, certo cinema, sempre più deteriore e commerciale, banale e volgare, disimpegnato e velleitario. Sono stato costretto, ho dovuto assistere a proiezioni indegne che, nello scorrere del tempo, si sono susseguite come parodie di capolavori, scimmiottamenti di pietre miliari nella storia cinematografica. E queste pellicole sono scese a livelli sempre più beceri ed escatologici in un crescendo di volgarità gratuita di linguaggio ed in una crudezza di immagini che hanno debellato la forza dell’immaginazione con rutti, scoregge ed ammiccamenti del peggiore avanspettacolo di rivista di quart’ordine. Il buon cinema di una volta si era rarefatto al Lux ed il buon film spiccava come una gemma, nella sala semivuota, tra altre 196 proiezioni di basso valore che trascinavano verso il fondo anche la sensibilità del pubblico. Anche i presenti erano contaminati dalla malata inventiva dei nuovi registi e dalla rozzezza dei nuovi attori ed il livello qualitativo del pubblico, da un punto di vista di educazione cinematografica, scendeva di giorno in giorno con commenti ad alta voce, risa sguaiate e disamore che tradiva una semplice fruizione di un prodotto per passare il tempo senza alcuna motivazione. Il proprietario della sala, quello che aveva organizzato quelle splendide sedute d’allora, fiutò il vento, da buon animale commerciale, e si adeguò ai gusti della massa. Il vecchio fascinoso cinema d’essai venne sostituito da ‘maratone’ di pellicole tagliate in malo modo per prendere più spazio, accavallate l’una all’altra in una babele di situazioni pecorecce e squallide alle quali partecipava anche qualche bravo attore, mio vecchio idolo, ora in disarmo. L’antico dolore dei vecchi chiodi su quella che ora mi appariva una massa putrescente indistinta era ormai poca cosa rispetto al montare dell’indignazione, della delusione e del senso di schifo che il mio cervello provava quotidianamente nel vedere abbraccicamenti di servette con vecchi satiri, violenza gratuita per il gusto di schifare e pseudo-ideologia venduta come verità di vita assoluta, tradotta in situazioni grottesche e senza senso in un intercalare di ‘stronzo’, ‘vaffanculo’, ‘bella figa’ ed altro ancora tra peti e cagate, stupri e stragi in un mare di merda e sangue che hanno violentato ed ucciso l’arte, la poesia, la vita stessa. Ho dovuto subire un castigo atroce, con le palpebre asportate per vedere obbligatoriamente tutto quello che scorreva sullo schermo, immobile e scomodo, straziato nel mio essere anche da colonne sonore vuote, sparate sui miei timpani da un nuovo sadico operatore. Ho dovuto memorizzare, come prima, ben altri titoli e situazioni e vicende. Per un “Decameron” di Pasolini, forse un gesto di pietà del mio giudice, mi sono dovuto sorbire una teoria di bagasce col prurito vaginale, uno stuolo di stupidi cornuti con la diarrea e fratacchioni gaudenti e tante altre 197 piacevolezze in un sottofondo di musichette insulse da caserma piene di doppi sensi. Ho goduto di altri gesti misericordiosi ed ho partecipato alle atmosfere piene di dolore di “Grazie zia” di Samperi, e poi ho dovuto soccombere nella rassegnazione piena di astio di fronte a plotoni di zie, nonne, in sottoveste, nude, cellulitiche e volgari con nipoti odiosi e brufolosi, repellenti nel fisico e nel comportamento. Avevo apprezzato Totò e la prima commedia all’italiana rispettosa del vivere civile e civile nella sua rappresentazione ed ora sobbalzavo nell'assistere a squallide situazioni di periferia urbana, forse anche vere nella realtà quotidiana della vita, ma girate con svogliatezza e con quell’ammiccamento ed invito disgustoso al ridere per ridere nel vedere un culo flaccido o un’erezione mancata con conseguenti maledizioni in brutale lessico. Questa era la mia vera punizione e a poco a poco ne presi coscienza e dai miei occhi vividi senza palpebre colarono sempre più frequentemente calde lacrime salate che bruciavano sulle mie ferite ed acuivano la mia sofferenza. Poi una sera la catarsi, la purificazione definitiva. Non so quanto tempo sia trascorso: ho smesso ben presto di contare i giorni sopraffatto dal dolore e dalla costrizione su quella poltroncina 123. Le pellicole si susseguivano alle pellicole in un cicaleccio nella sala sempre più maleducato ed io friggevo nella mia postazione sperando, pregando e sperando. Una sera, finalmente, e lo dico partendo da due considerazioni distinte, terminò l’ultima proiezione e terminò il mio castigo. Nella penombra della sala ormai vuota si smaterializzarono nel nulla i chiodi, all’improvviso, e mi sentii libero: mi guardai i polsi e mi sporsi per vedere lo stato delle mie caviglie, ma distinsi solamente un’aura bianca e lattiginosa come quella nebbiolina di tanto tempo prima. Il dolore era scomparso di colpo e non avevo più la percezione della testa squarciata e degli occhi senza le palpebre. Mi abituai subito alla nuova condizione e vidi me stesso come ero, integro e sano, in una luce fievole. Ero pervaso da una calma olimpica come se tutto quello che 198 avevo sopportato non fosse mai accaduto e vidi da lontano la mia vecchia mamma , anch’essa ora trasformata in una pallida aura bianca, che veniva verso di me tranquilla e serena. S’accostò a me, radiosa ed eterea e mi indicò con un sorriso un mozzicone acceso, tre seggiolini più in là del mio scranno di tortura. Ebbi la folgorazione del supremo volere e le contraccambiai il sorriso con immutabile affetto e con la frenesia interiore, smodatamente felice, del mio prossimo affrancamento. Mi chinai verso quella piccola brace fumante che si distingueva nel buio tra carte di gelato e fiocchi rinsecchiti di pop-corn e presi quella cicca con delicatezza. Mi avvicinai al pesante tendaggio lungo il lato della sala ed accostai il mozzicone al tessuto polveroso. Nel silenzio della sala vuota udimmo il sottile sfrigolio della cenere ardente che mordeva la stoffa e distinguemmo un cerchietto nero orlato da una fiammella che si allargava velocemente scoppiettando in una voluta di fumo azzurrino. Il cerchio si sformò in varie direzioni e la fiammella si moltiplicò in lingue impertinenti ed invadenti che si sparsero per tutte le direzioni: la tenda oltraggiata ondeggiò, toccò e fece partecipi le altre tende della sua sventura, poi, a brandelli roventi e fumanti, cadde sopra la fila di seggiolini davanti a quella del mio 123: uno scoppiettio, uno sfrigolare più intenso ed un acre fumo di legno stagionato. Allora partimmo, abbracciati ed uniti come un unico essere, mia madre ed io, senza più rimpianti e rimorsi per esistenze che si potrebbero configurare in un film, forse bello o forse insignificante, ma vissuto con tutta l’anima. Tutto questo ieri. 199 LE STRAORDINARIE DISAVVENTURE DEL MIO AMICO LEOPOLDO Sono rimasto profondamente influenzato, da giovane, nel leggere un particolare piccante sonetto del Belli, il libro “Io e lui” di Alberto Moravia e ancora quei fumetti molto stilizzati di Willy della serie “Il mio migliore amico”. Ho successivamente improntato i miei rapporti personali con la mia “attrezzatura di piacere” ad una amichevolezza colloquiale venata da affetto e complicità buffamente antropomorfe. Ho cominciato subito con un battesimo ed un solo nome mi è venuto spontaneo e perfettamente attagliante: Leopoldo. Leopoldo è un nome elastico, accorciabile con graziosi e leziosi diminutivi, ed è anche un nome importante che rende l’idea di una presenza che può contare e dire la sua in ogni momento: è un nome forse impropriamente quasi onomatopeico, per come lo si possa pronunciare, evocativo dell’ aspetto fisico associato al nome stesso. Si può partire da un normale Poldino o Poldo ad indicare una creaturina simpatica ed indifesa che dorme, un Poldino che evoca tenerezza, carnalità rosea da puttino, odore di borotalco e immagini di innocenza. Si può proseguire ad indicare aspetti subdoli di una personalità contorta: Leo, irrisolto, scandito come una fucilata di altolà, ad evocare un essere guardingo indeciso se tornare a dormire il sonno dell’innocente o attaccare briga più o meno insolentemente e tuffarsi nei gorghi del piacere della vita. Chiamato Leo, il mio migliore amico si barcamena nell’eterna indecisione tra il dire e il fare, tra il comportarsi da cicala o da formica, tra il rivelarsi allegro compagno di bisboccia o esangue poeta spiritualista. Leo è eternamente a metà strada con un piede (perdonate l’arditissima metafora) su due staffe tra la pigrizia sonnolenta e il voler fare tanto con (è il caso di dirlo) dura attività. 200 Si può ancora variare finendo di chiamare il mio migliore amico con il nome importante delle grandi occasioni: Leopoldo, scandendo bene le sillabe con voce stentorea che annuncia il presentarsi di una figura altera e importante che può e deve suscitare ammirazione e timori (ma non è detto che ciò possa sortire un effetto automatico). Quando chiamo il mio amico con il nome di Leopoldo, con il nome per intero e calcando l’accentazione sulla ‘o’ di mezzo appena più aperta del normale, omaggio la fierezza e la nobiltà dei ‘bassi’ intenti, la generosità e l’entusiasmo per la vita e per ciò che è vitale, ed il mio amico sembra compenetrato nell’onere della sua mansione e si pone in posa impettita di maestoso aspetto, almeno fino a che non prevarrà su di lui, come su tutti, il tempo perfido e tiranno o una più semplice risata di scherno o disprezzo di estimatrici di ben altre individualità. Perdonate il dilungarmi su una banale presentazione, ma l’affetto nell’amicizia fa tracimare in logorrea che, peraltro, può rendere simpatico il mio amico e può rendere più agevole una sua identificazione nell’ambito della rievocazione di certe sue disavventure occorse tempi addietro. Circa venticinque anni fa… DI QUANDO LEOPOLDO VENNE ACCECATO RIPETUTAMENTE Qualche dotto medico trasalirà di un certo malsano piacere nel leggere la citazione di una infezione da “staphilococcus àureus”, il volgare e subdolo italianizzato stafilococco della famiglia di quei cocchi dalla forma vagamente a grappolo che ha sintomatologie variabili e diverse localizzazioni. Quello di cui fui affetto io, ‘àureus’, si localizzò presso il mio amico e ci tenne per diversi mesi in ambasce con fastidiose manifestazioni che si ripercossero come un maglio sul capino del povero Poldino riducendolo ad uno 201 stato pressappoco lombricaceo in un deserto di congetture apprensive che soffocarono i cattivi pensieri goderecci. Svolazzai come ape, di fiore in fiore, ma molto meno felice e compensando con l’Enterogermina, assaggiando varie assortite qualità di antibiotici prescritti da un bonario anziano urologo, ma non si riuscì a trovare il bandolo di questa perfida infezione che non dava dolore, ma inibiva me ed ancora di più Poldino, rispetto a naturali pratiche che alla luce dell’affezione si rivelavano imbarazzanti. Trascorse un’estate, la stagione migliore per fortificare lo spirito ed il morale del mio amico, nella più completa casta malinconia, con un Poldino sempre più smorto e depresso, e sopraggiunse l’autunno che portò i primi freddi e le prime bronchiti. Fui avido dei primi e delle seconde e curai quest’ultime con un nuovo antibiotico che miracolosamente e casualmente mi rimise a nuovo i bronchi e anche gli slip. Ci guardammo, dopo qualche giorno dell’ennesima cura, come due naufraghi in vista di un’isola, Poldino e io, ma aspettammo giudiziosamente di festeggiare al dopo di una visita di controllo presso il bonario anziano urologo. Era, costui, un candido vecchietto severo e poco alto con un’aria di mitezza assoluta. Ci facemmo esaminare con trepidazione e malcelata soddisfazione del buon esito di questa cura casuale e interrogammo il vegliardo, io a voce e Poldino, quasi Leo, con un rinnovato colorito roseo di speranza ed un monosguardo curioso. “Allora ce l’abbiamo fatta, dottore? E’ finito questo calvario finalmente…” “Calma, calma: siamo a metà strada…:l’infezione ha sformato il condotto uretrale ed è nostro compito porre rimedio…” Mi fece sdraiare con i pantaloni a mezz’asta, sempre innocuo, mite e candido, su un lettino con una strana vaschetta in zona tattica, e si girò, dandomi le spalle, verso un carrellino. Sentii uno sferragliare di attrezzi e fui pervaso da un certo senso di inquietudine. 202 Leo ridiventò velocemente Poldino e si fece piccolo piccolo a nascondersi come un tremebondo criceto sotto una foglia di insalata. Si girò, il vegliardo luminare, e mi diede l’impressione che avesse mutato impercettibilmente espressione, appena più dura, con un sorriso forse vagamente monnalisico senza particolari significati. Aveva in mano un tubettino di pomata di nome Uretral. Per chi non sa: l’Uretral è una pomata in tubetto che si applica in zona genitale in presenza di infiammazioni all’uretra, come può presumersi dal nome stesso. Il tubetto è provvisto di cannula che dovrebbe essere inserita nel condotto uretrale. Dico ‘dovrebbe’ perché non ho mai avuto il coraggio di spingere questa cannula per più di tre o quattro millimetri in occasione di una precedente uretrite… L’anziano urologo afferrò a tradimento Poldino che cercava di mimetizzarsi da foruncolo e inserì al brucio (proprio al brucio) la cannula strizzando il tubetto. “Dovrebbe fungere vagamente da anestetico” mi disse con voce sempre più severa e impersonale mentre estrasse dalla tasca del camice un gigantesco mollone in ferro. Prese Poldino per la collottola (che c’è da ridere?) e lo murò vivo nella sua pelle brancandolo con il mollone che aveva denti voraci e molla molto funzionante e dolorosamente costringente. Non riuscii a sentire le reazioni di Poldino, Dino a questo punto, forse Ino, in piena overdose di crema uretrale forse anestetica: gemetti io, anche per lui, mentre il laido medico mi ridiede le spalle e disse perentoriamente di stare fermo mentre grufolava tra altri ferri strani. Cominciò una sudarella innaturale per il mese di novembre: spacciarla per sudore di commozione per il giorno dei morti trascorso da poco mi parve irrispettoso. Era proprio e solamente strizza, paura, inquietudine, timore. Il candido mostrino si rigirò verso di me con un ferretto da calza ricurvo… 203 Presagii il giusto con qualche chilo di pere ruggine di sudore che colavano dalla fronte e tremai per il mio povero lombricriceforuncolo Dino ormai esangue. Il vegliardo tolse di colpo il mollone di ferro che aveva sbranato tessuti come una chiusura lampo tirata su troppo di fretta e attese una frazione di secondo per dare una sadica illusione di benessere nello stordimento psichedelico uretralico in pomata da spaccio in discoteca dietro l’ospedale. Dino si sentì riavere, come me del resto, e aprì l’occhio lacrimoso, forse per individuare un cameriere e ordinare due birre, ma il perfido urolocanuto lo brancò a tradimento, sempre per la collottola, e lo accecò all’istante con il ferro da calza. Seppi che il ferro da calza era una specie di catetere, ma non seppi apprezzare in quel momento l’ampliamento della mia conoscenza con il sordido vecchio che rigirava il ferro poggiandosi su di me in maniera da tenermi abbastanza immobilizzato sul lettino con la vaschetta strategica. Capii istantaneamente a intuito il perché della vaschetta, ma strenuamente feci resistenza con il cervello invaso da immagini eroiche di Enrico Toti e la sua stampella conficcata nella fronte dell’urologo, con Nino Bixio, con i fratelli Cairoli e con l’eroe dei due mondi in camicia rossa come la mia vista nei confronti di quell’essere repellente che stava arrecando sofferenza a me e al povero Ino ai minimi storici. Il dramma, nella solita relatività di tempo che intercorre in casi drammatici come questo, cessò all’incanto con l’estrazione del ferro. Il povero Dino si accasciò su sé stesso per tirare il fiato (per come può tirare il fiato un Dino) e anche io mi rilasciai soddisfatto e fradicio per l’ardua prova superata. Fu sensazione di brevissima durata: attimi. Il naziurologo si rigirò verso di noi con un catetere (prego voler notare la proprietà conoscitiva, ora, dello strumento) appena più grande e disse con impersonalità beffarda, non so se a me o a Dino: “Non abbiamo ancora finito, stia calmo…” 204 E’ autolesionista, per me e per Poldo, rivangare l’intera seduta su quel lettino con vaschetta che, ci tengo a dirlo, non fu utilizzata, con quel vecchio macellaio che rigirava cateteri sempre più grandi di diametro, come cacciaviti, nell’occhio del povero Poldo. Fui attorniato dagli spiriti di santi uomini che mi fecero coraggio… Il San Sebastiano di Raffaello mi batteva una mano sulla spalla, ma non si rendeva conto che con un moncherino di una sua freccia mi trapassava un fianco… No!!! Era il figliendrocchiologo con un catetere in tasca ancora di una misura più grande… Aveva quasi fretta di terminare l’operazione, il bastardavicenna, paventando mie reazioni inconsulte del tipo calci alle gengive o cintura alla base della nuca con sbattimento al tappeto. Oggi, con la mente più sgombra ed una certa ironia di fondo tipica del passato pericolo, posso dire che mi sono vaccinato, ammesso che possa esistere un vaccino, contro la polmonite, la pleurite e quant’altro possa interessare i polmoni: sembravo uscito da una doccia, colante sudore freddo freddo novembrino in uno studio medico costituito da una stanza a soffitti molto alti e quindi fredda e anche umida. Il piccolo Poldino era ormai terrorizzato ed aveva assunto le sembianze ambigue di un involtino e poteva benissimo confondersi con qualche interiora di pollo o cartocciata di trippa. Come Dio volle tutto finì al quinto catetere del diametro di un mignolo di piccolo scolaro di scuola elementare. Invano Poldino reclamò del collirio a damigiane. Si chiuse allora in dignitoso silenzio, avvolto su sé stesso nel suo dolore lancinante che, però, smorzava a poco a poco. Il luminare, appena scomposto per la fatica di tenermi fermo e di agitare le sue ferramenta, mi mise in mano un pacco di ovatta a tamponare la pomata che fuoriusciva 205 come la mayonnaise dei tubetti da un esausto Poldino in coma, e mi dette qualche consiglio bonario. “Adesso prenda un taxi e vada subito a casa senza prendere molte scosse e stia tranquillo aspettando il momento di fare la pipì…: sentirà un poco di bruciore…” Tutto qui, dietro pagamento di oltre lire cinquantamila di venticinque anni fa. E attesi serenamente il mio ultimo momento di ormai piccola sofferenza, preparato psicologicamente, trepido e affettuoso verso il mio amico che era, forse a ragione, più diffidente di me. Mi sembrava di sentirlo, Poldo: “E’ un nazi fottuto quel medico…Siamo sicuri che finisca con un poco di bruciore? Mah…..Boh…..Mahhhhh” Quando si dice la ragione dell’istinto… Mi piazzai a denti stretti davanti al water, nel momento topico, e attaccai. Bruciore sì, ma poi…ne abbiamo passate ben altre vero Poldo? Il criminale esperto in ‘catetering’ omise di dirmi che aveva frantumato qualche centinaio di vasi capillari… Trasformai il water in un set di Dario Argento e quasi svenni in associazione alla musica di “Profondo Rosso”. Mi fa molto senso il sangue: soprattutto il mio. Maneggiai il mio sempre più piccolo amico con due sole dita utilizzate come pinzette da entomologo per i successivi quindici giorni, con la paura di rompere un piccolissimo puttino di porcellana Capodimonte pallido pallido che solo io ascoltavo squittire come un impaurito coniglietto implume monocolo… DI QUANDO LEOPOLDO VENNE AFFETTATO PER IL SUO BENE Si dice che dopo i venticinque anni comincia il declino fisico di un uomo. Si evince da particolari trascurabili: a volte la caduta dei capelli, un abbozzo di impercettibile pinguedine, un affaticamento della vista o un qualche aspetto 206 infiammatorio delle articolazioni, un primo colpo della strega o un primo attacco di artrosi…o una minore elasticità della pelle… Venni estratto dal fato cinico e baro per l’ultimo premio e il presentatore della manifestazione di premiazione, un onirico Pippobaudo che popolava i miei incubi, pronunciò la fatidica frase: “The winner is… Leopoldo!!!” Povero Poldino: rabbrividì di piacere o forse di inconscio dispiacere e divenne tutto rosso. Era qualche tempo che si aveva qualche problema, Leopoldo ed io. Notate: il problema riguardava Leopoldo, non Poldo o Poldino o Dino, ed era moderatamente imbarazzante ed anche alquanto doloroso. Per riassumere in poche parole: nell’ambito di una minore elasticità della pelle, scoprimmo che Leopoldo, nel massimo delle sue “performances”, era meno elastico di anni prima e tendeva a screpolare il suo piccolo guinzaglio che era diventato liso e fragile in una fenomenologia chiamata balanopostite (complimenti alla fantasia del nominatore: roba fina, vagamente esotica, evocatrice di avocados e papayas). Il suo piccolo guinzaglio aveva un nome buffo, simillatino, Frenulo, alquanto plebeo e ridicolo. Frenulo, probabilmente permaloso ed invidioso del successo della belva tenuta al suo freno, si divertiva a fare dispettucci screpolandosi sul più bello oppure ostacolando estetiche spinte armoniche di rappresentazioni teatrali private della carica dei seicento che, spesso, si riducevano ad una farsa di carica dei centouno o di mesta parata di quarantaquattro gatti. Valenti dermatologi consigliarono le creme idratanti più costose ed esclusive e mi feci una certa cultura di marche valide e di prodotti sintetici e naturali. Arrivai a spaventare con la mia competenza giovani ruspanti farmaciste che ebbero di me probabili concetti errati di estremo dandy decadente o di inveterato pederasta. Ma erano solamente palliativi che sopperivano sempre più precariamente al problema di fondo che veniva 207 procrastinato nell’essere affrontato: Frenulo diveniva sempre più inadeguato e tendeva a rovinare prestazioni da applausi a scena aperta del mio amico Leopoldo che spesso era impossibilitato anche a dare corso anche ad una sola richiesta di bis. Fu un periodo imbarazzante. Si dovette arrivare ad una soluzione drastica: sopprimere Frenulo in un intervento chirurgico di frenuloctomia. Poldino aveva una fifa blu – in fondo era affezionato al suo guinzaglio - e ci vollero giorni e giorni di lavaggio del cervello (!?!) per fargli capire che era una cosa necessaria. Le tentai tutte per convincerlo. Gli parlai malissimo di Frenulo che calunniai con le dicerie più infamanti; lo blandii con il fargli balenare la possibilità di esaltanti nuovi successi, neanche fosse stato un direttore di orchestrina afrocubana, gli proposi tournèes all’estero, ricchi premi e cotillons, e lo interessai con dicerie di speranze di maggiore sviluppo e maggiore potenza… Abboccò come un bambino scemo o come un veteromaschilista ancora più scemo: la prospettiva di aumentare le sue dimensioni e ‘performances’ lo convinse ad accettare, ‘obtorto collo’ (e non ridete, dai) la realtà, un poco come quei tanti internauti che bazzicano quei siti che promettono allungamenti prodigiosi della canna dell’organo con quelle perette e quelle campane di vetro o con i pesetti da legare in cima… Si fissò quindi una data e già ci furono i primi ripensamenti e le prime perplessità nel conoscere alcuni futuri particolari dell’intervento: anestesia locale. Tremai per il mio povero amico e anche, se permettete, per me che sono provvisto di fervida fantasia e che mi giravo nella mente la filmografia del mio futuro intervento. E’ qui che si vede il coraggio dell’uomo: nel come si crea le sue motivazioni giuste per affrontare le avversità della vita. Io mi motivai e motivai soprattutto Poldino con la prospettiva di tempi lunghi di vacche magre e di digiuni ascetici di fronte alla scelta di un rifiuto di intervento. 208 E venne il fatidico giorno. Entrai nella sala e ci fu il primo momento di panico: tante donne, infermiere, assistenti all’operazioncina in qualità di appetibili (in altre occasioni) universitarie. Fu la mia fregatura: prevalse la dignità della sofferenza nel modello iconografico dell’uomo statico e tetragono di fronte al dolore in presenza di pulzelle. Ne approfittò un’infermiera Labrador, la più massiccia e meno femminile, la più somigliante ad un fratino del seicento: mi fece l’anestesia locale con un’iniezione a tradimento sul capino del povero Poldino che, frastornato e intimidito da tutta quella gente che guardava, era praticamente del volume di una cornea e fissava la sala con il suo monocolo pallido e assorto come un aspirante suicida in piena crisi depressiva. Fu più l’impressione che il dolore. L’impressione rimase in me mentre Poldino si fece una dormita coi fiocchi inerte come un lumacotto dei boschi novembrini, uno di quei lumacotti senza guscio che sono soggetti ad essere schiacciati da trattori e da contadini e montanari ubriachi. Il dottore che operava chiese imperiosamente il bisturi elettrico e io impallidii: ero rimasto fermo all’immagine della sedia elettrica…al massimo al tostapane… Armeggiò con una cosa che sembrava un coltello elettrico per affettare l’arrosto e si piegò verso di me ed il mio povero amichetto. Si diffuse nell’aria uno sfrigolio sinistro accompagnato da un nauseabondo odore di barbecue e di carne alla brace senza spennellature di olio e senza ramoscellate di rosmarino. Sembrava di essere al pic nic di Pasquetta in qualche località agreste del Canavese e mi aspettavo da un momento all’altro di ascoltare la hit parade da qualche radiolina a palla. Finì tutto alla svelta invece, con me sdraiato che venivo medicato e il piccolo Poldino imbavagliato con una garza. Fui mandato a casa, anche questa volta senza troppe spiegazioni, e lasciai riposare il più possibile il piccolo 209 tremebondo coniglietto garzato fino al momento di dover cedere a richiami impellenti di quello che si chiama anche natura umana o bisogno di mingere. Inorridii anche questa volta nello sbendare il piccolo Tutan-poldino. Al posto del volgare Frenulo aveva un crostone nero che gli dava un’aria da piccolo profugo vietnamita orbo sopravvissuto ad una bordata di napalm. Lo maneggiai con la stessa cura dell’altra volta, ma stavolta per circa un mese, provando una lontana sensazione di attesa da lebbrosario nel percepire il distacco del crostone bruciaticcio. Il povero Poldino venne trattato a immagini di nonne defunte e di evocazioni antieccitanti inerenti la fame nel mondo per diversi giorni e si immalinconì non poco sempre col capino reclinato e una bella fasciatura candida e morbida. Io cominciai a capire vagamente lo stato d’animo di Leopardi e la sua situazione fisica di rachitico con gobba, ma non scrissi nulla per esorcizzare quello stato d’animo: tanta era la paura di un qualche strappo ribelle del piccolo faraone imbalsamato… DI QUANDO LEOPOLDO PATI’ DISAGI CONDOMINIALI Si affacciò un altro problema, tempi dopo, per il mio tartassato amichetto. Non riguardò propriamente lui, ma i suoi due cugini del piano di sotto: problemi di coabitazione e di densità abitativa. Fino ad allora si era trovato un armonico convivere tra me, Poldino ed i suoi due parenti al piano di sotto: non esistevano problemi di condominio, come succede spesso in tanti comprensori che sembrano popolati da brave integerrime persone che si sbranano una volta a semestre per ridicoli contenziosi. Non esistevano problemi di parcheggio, di consumo d’acqua o di energia, di riscaldamento, e tutti si andava d’amore e d’accordo nel pieno rispetto di tutti anche se ho 210 sempre avuto molta più confidenza con Leo che non con i due suoi cugini. Un giorno, comunque, accadde qualcosa di strano e inizialmente irrilevante. Un pelazzo inguinale si trasformò in serpe in seno, forse meglio dire in serpe in inguine, e si rivolse, adirato per chissà quale motivo, contro appunto l’inguine del sottoscritto per trascendere a vie di fatto con una punzecchiatura appena fastidiosa sotto pelle. Doveva essere veramente invelenito per motivi seri, quel pelazzo, perché fece diventare rosso il mio inguine che cominciò a sentirsi vagamente a disagio. Non si diede molto risalto a questa prima bega di condominio, mai avvenuta fino a quel momento, e si cercò di minimizzare l’accaduto con secchiate di acqua fredda per sbollire gli animi. Fu un’analisi superficiale, da portinaia ignorante che si crede geometra… Il rossore si concentrò in un certo particolare punto dell’inguine, vicino al cugino di sinistra di Poldino, e si venne a creare un fenomeno lento e costante di clandestina appropriazione abusiva di alloggio, un qualcosa come occupazione di esponenti di centro sociale o di infiltrazione di rumeni in qualche capannone abbandonato. Sta di fatto che il mio inguine, lungi dall’essere un capannone, non era neanche abbandonato e il cugino di sinistra dovette appoggiarsi in maniera invadente sul cugino di destra mentre un imbarazzato Poldo guardava dall’alto una situazione incresciosa senza potere intervenire se non con qualche segnalazione di disagio in slip progressivamente sempre più stretti e scomodi. Nel giro di qualche giorno, all’insegna dei vecchi detti: “aggiungi un posto a tavola” oppure “dove si mangia in tre, si mangia anche in quattro”, mi ritrovai a fissare con un certo sgomento e con una certa preoccupazione i miei piani bassi ed un inizio di dolore nel constatare che i cugini stavano diventando tre e che si stava veramente pigiati come datteri natalizi. 211 Leopoldino, che è sempre stato abituato ad avere una certa libertà di movimento, era praticamente relegato in un angolo a stretto contatto con i suoi cugini mentre il nuovo inquilino, sempre rosso di rabbia e livore, si espandeva come un ultracorpo di fantascienza americana degli anni cinquanta ingrandendosi come un rotondo baccellone e procurando un certo fastidio anche a me che cominciai ad avere problemi di postura. Provai a mandare un ufficiale giudiziario per uno sfratto sotto forma di una pomata all’ittiolo, prima, e di qualche altro intruglio più forte, poi, ma senza esito. Ed intanto avevo qualche difficoltà ad accavallare le gambe, a sedermi, a coricarmi di fianco nel letto, a farmi una doccia con una bella insaponata di spugna strofinata sopra pensiero senza eccessive attenzioni. Poldino cominciò a diventare ombroso e malinconico e i due cuginetti divennero intrattabili. Poveretti! Fate conto di vedere due individui abituati da sempre in un locale spazioso piazzati improvvisamente senza alcuna spiegazione in un loculo mentre un nuovo vicino si frega anche l’armadio quattro stagioni: intollerabile. Decisi, anche in qualità di amministratore dello stabile, di porre radicalmente rimedio al sopruso, anche perché cominciavo ad avere dei seri problemi di deambulazione, ormai alla cavallerizza, e di postura sia seduta che sdraiata. Avvertivo inoltre un tambureggiamento interno continuo, tipico dell’infezione da ascesso, a tutte le ore, e a nulla potevano valere i soliti appelli stizziti: “Silenzio che qui c’è gente che dorme e che domani va a lavorare!!!” Optai per il Pronto Soccorso con il tremebondo Poldino che mi tirava dall’altra parte invocando interventi più diplomatici. Si fece una votazione democratica e ottenni l’appoggio incondizionato dei due cugini che erano veramente allo stretto pre-marmellata. Poldino si rassegnò e ci avviammo verso una nuova disavventura. 212 Un’astanteria di Pronto Soccorso è un qualcosa di indefinibile tra un lazzaretto, un mercatino delle pulci, una corte dei miracoli medievale con litanie in gramelot e un set televisivo della TV del dolore senza Cocuzza o Costanzo: gemiti, lamenti, sirene, rotelle di lettighe che girano freneticamente e ti striano i lobi temporali immersi nelle tue preoccupazioni e ti lasciano galleggiante e stordito in un pungente odore di alcool tra mormorii e giaculatorie. Una cosina allegra che dura una media di tre o quattro ore a seconda della gravità delle tue condizioni. La condizione “pelazzo che provoca ascesso inguinale cucurbitaceo doloroso” è praticamente agli ultimi posti, prima solamente di unghie incarnite e cedente dentino da latte: praticamente maglia nera rispetto a spettacolari incidenti con ossa esposte, infarti, profonde escoriazioni cruente con fabbisogno di punti di sutura a seguito di episodi di cronaca nera, testimonianze di armi da fuoco o di incendi più o meno dolosi e dolorosi. Mi rassegnai, dunque, insieme ai miei amici, con la sola consolazione di un imminente drastico sfratto dell’intruso, terzo incomodo tra i due cugini, che mi rendeva somigliante al vecchio Bartolomeo Colleoni, nobile capitano di ventura curiosamente famoso anche per essere un triorchide, cosa che ha acceso bizzarre fantasie presso l’immaginario collettivo femminile. Dopo tempo immemorabile venni introdotto in un bugigattolo che fungeva da antisala operativa e attesi su un lettino, sdraiato come un verme, frettolosamente svestito da un distratto infermiere, che cessassero le urla di dolore della sala vera e propria oltre un tramezzo. E’ strano come nulla mai abbia contorni definiti. Era una situazione drammatica: luce pallida e fredda di neon, odore di etere, urla belluine di dolore a pochi metri, fantasie sanguinose e andirivieni assente e febbrile di varia umanità, eppure mi sentii imbarazzato in una veste leggera di ridicolo con i miei due cugini all’aria insieme all’usurpatore e un Poldino che avrebbe voluto travestirsi da anonima suppostina piretica per neonati, piccolissima, per 213 poi sparire in un magico ‘puff’ anche dentro uno slip di Cicciobello, il bambolotto che parla e vomita. Eravamo adagiati su un lettino, io ed il condominio. Ogni tanto passava qualche infermiere o, peggio, qualche infermiera. Davano un’occhiata professionale più o meno interessata alla zona depressa e sparivano verso altri lidi alla volta di altre urla di martiri. Qualcuno/a allungava il collo e avvicinava il viso a esaminare meglio il triste spettacolo; un becero odioso, forse neanche diplomato e solamente portantino, ardì anche toccare e strizzare la parte dolente e pulsante e rimediò un gemito scomposto che avrebbe potuto nascondere anche una maledizione permanente. Entrò improvvisamente il ‘deus ex machina’ in camice verde appena imbrattato di conserva. Esaminò a colpo d’occhio la situazione professionalmente, seppure giovine e non particolarmente navigato. Emise una sentenza con ordini che, alla luce di conoscenze e approfondimenti successivi, si rivelarono asinini: ordinò un’iniezione anestetica sull’ascesso, la bestia. Un infermiere mi mise in bocca un legnetto da mordere mentre un ago cercò invano di darmi la pace nella zona di guerra. Sentii un impercettibile ‘zziiiccc’ tipico di incisione da bisturi e rabbrividii mentre il già piccolissimo Poldino recitava la fiaba della Principessa sul pisello imitando un vero gelido minuscolo primavera Findus: imitazione perfetta anche per il colorino verdastro del mio amico protagonista. L’imbarazzo di essere al cospetto di giovani tettute praticanti bonazze scomparve di fronte al dolore preternaturale di una strizzata selvaggia della parte per una sana spremitura liberatoria assolutamente sadica, quasi cambogiana. E poi finì velocemente il tutto con l’introduzione veloce di qualche decimetro di garza a drenare l’incisione… Una firmetta e l’invito a ritornare dopo una settimana… 214 Non ebbi, come in altre precedenti occasioni, a fronteggiare effetti collaterali sorprendenti, a parte una buffa anomala inclinazione nella minzione per il tirare della garza. Ritornai a cuore leggero, dopo una settimana, con lo spirito sereno di una ritrovata armonia nel condominio, con i due cugini di Poldino ritornati al loro spazio vitale naturale e con Poldino stesso sempre meno diffidente seppure ancora inquieto: quando si dice l’animalità istintiva che prevede le sventure… Mi presentai nella stanza che mi fu indicata per il controllo e la rimozione della garza e la conquista di una agognata normalità dopo l’invasione debellata degli ultracorpi. Una stanza spoglia con una brandina e un tavolino di ferro con scartoffie, una boccia di alcool, pinze, qualche cerotto e altre cosette appena sinistre per me sprovveduto e meno animale del mio amichetto sensitivo. Dietro il tavolino presenziava una virago radamente baffuta come un’otaria che associai idealmente ad un Volvo Turbo Intercooler con cabina-notte e aria condizionata. Fu sbrigativa: neanche un ‘buongiorno’ di risposta al mio, ma solo un gesto risoluto del capo a metà tra un picciotto di Sciacca e un graduato prussiano con elmo e chiodo. “Giù pantaloni e mutande.” Un poco come dire lugubre e integralista: “penitenziàgite”…almeno mi parve… Si avvicinò a me imbarazzato ed esaminò lo spettacolo di un condominio ordinato e pulito con i sigilli di garza sporgenti della polizia giudiziaria per lo sfratto eseguito qualche giorno prima. Il mio amico, inspiegabilmente Leo in quel momento, chissà perché, si calò subitaneamente nella parte di Poldino che più ino non poteva essere e guardò la megera con crestina campionessa di greco-romana con un certo odio monocolo mentre i due cuginetti si raggrinzirono dalla timidezza e dal freddo. 215 La bieca infermiera, in realtà, forse, scaricatore di porto a Livorno operato maldestramente a Casablanca, afferrò il mozzicone di garza sporgente dalla incisione ormai abbondantemente drenata e diede una tiratina decisa a sfilare il nastrino inaugurale per un nuovo varo di future attività goderecce. E’ superfluo raccontare che il drenaggio avvenuto aveva seccato la garza nella ferita e l’estrazione così disinvolta fu come una ceretta gigante a strappo sui peli pubici o una strofinata cattiva a due dita sopra i baffi o le basette: da provare quanto è dolorosa! Mi piegai su me stesso in un timido dignitoso ‘offff’ appena sussurrato e ebbi modo di incrociare lo sguardo mio liquido di dolore con quello monocolo ridanciano di Poldino che pareva mi volesse dire: “Lo sapevo che sarebbe finita così…” Gli sorrisi, solo mentalmente, per non ingenerare equivoci con la Volvoinfermiera, e gli mandai un affettuoso messaggio mentale… “Stasera andiamo a festeggiare, Leo, e se ti comporterai bene e mi farai fare bella figura, facciamo anche il bis e ci divertiremo un mondo. Sei contento, Leo?” Una vocina interiore mi rispose semplicemente con un misto di avidità e divertimento : “Urca…sarebbe anche l’ora…devo recuperare e nonostante questa vecchia padella baffuta qui davanti mi sta venendo un certo appetito…” 216 LA SENTINELLA E’ abrasivo e non ride mai; è di pochissime parole, ma la comunità, se proprio è esagerato dire che gli vuole bene, lo rispetta, se non altro per gratitudine, e lo tiene in notevole considerazione. Il vecchio Amos, dai capelli folti di argento e piombo, asciutto e spigoloso come un pruno, sempre in salopette di jeans e camicia a quadri, impolverato e unto di morchia, vive ai margini della nostra Contea, verso il deserto rivolto al New Mexico, sulla camionabile per il confine, in una roulotte presso una baracca che funge da stazione di servizio e officina, all’imboccatura della gola degli Shoshones. Non c’è molto traffico lungo quella strada e Amos non si prende l’ernia ammazzandosi di lavoro. Si cuoce sotto una tettoia di fogli di bandone scacciando mosche fastidiose, fumando e bevendo bottigliette di Coke, stringendo gli occhi di ghiaccio al riverbero di rame del sole per la polvere e per focalizzare l’imboccatura della valle angusta che introduce in un canyon stretto quasi inaccessibile che finisce in un precipizio. Ogni mattina, a turno, qualcuno della comunità della Contea lo va a trovare per portargli qualcosa da mangiare preparata da qualche nostra donna: pasticcio di tacchino con fagioli, sformato di mais con uova, due fette di crostata di frutta, una tazza di cioccolata semifredda. Il fornitore di turno scende sbrigativo dal pick up con un capace cesto di vimini, coperto da una tovaglia che sembra un’altra camicia del benzinaio, e allunga un braccio all’interno della cabina di guida per prendere i soliti due pacchetti di Lucky Strike con un esagerato numero di scatole di fiammiferi. Non mancano mai, per Amos, scatole di fiammiferi, tutti i giorni. Al sabato, invece, tocca sempre a me, di fisso, andare a trovarlo, in qualità di sceriffo della Contea, per sincerarmi delle sue condizioni e per altro. 217 Gli porto, allora, oltre al solito cesto di viveri e alle sigarette con i fiammiferi, due casse di Coke in bottigliette, quelle verdastre spesse scanalate come bombe ananas, e una puttana già contrattata e pagata dal nostro sindaco qualche giorno prima. Solo il sabato, quindi, Amos abbozza un sorriso, anche se storto, guardando in tralice la ragazza mai bellissima, sempre curiosa e spaesata, sempre silenziosa perché le si raccomanda di non parlare troppo. Il sabato equivale a doppia razione di tutto, per quanto riguarda viveri, sigarette e fiammiferi che sono già molto abbondanti nei giorni normali. Nessuno, infatti, va a trovare Amos alla domenica: la comunità si raduna nella chiesetta battista vicina alla scuola e prega innalzando canti tremolanti a Dio; poi tutti si sparpagliano verso le loro case instradati da scie di odori di capretto allo spiedo con patate o di bistecche affumicate al barbecue. Il lunedì si ricomincia con la solita spola verso il distributore di benzina tra lo sterrato e la polvere di lato alla camionabile che taglia la radura come un rasoio scuro. Amos è sempre là. Solo. La puttana del sabato non c’è più. Quando il concittadino buon samaritano ritorna al paese viene subissato di domande circa quella peccaminosa presenza che è divenuta assenza. Poi tutti si torna alle nostre incombenze quotidiane con un impercettibile senso di sollievo, facendo finta che tutto sia normale. Gli autisti su quella strada brulla sono comprensivi e offrono passaggi, soprattutto a ragazzette facili che possono pagare in natura: almeno ci fa piacere pensare che sia così, ipocritamente. Ma sappiamo che non è vero. Però Amos è importante per noi: ha potere. Il potere della sentinella. Il potere di chi ci protegge e rischia per la nostra tranquillità. Chiunque venisse un sabato con me verso quella specie di accampamento si porrebbe diverse domande. 218 Perché la Coke in bottigliette e non in pratiche lattine? Perché tutti quei fiammiferi? Perché quegli stracci sul fondo del cesto dei viveri? Perché quella pochissima socievolezza e confidenza nei confronti della ragazza che è, tutto sommato, amichevole e simpatica? A tutte le domande esistono risposte, anche se a volte alcune di queste ultime sono difficili da assimilare. Si deve fare una breve premessa, per soddisfare queste curiosità, e si deve partire dalla stretta valle che volge verso il canyon. Quel posto arido e terroso, sovrastato da rocce rossastre che al tramonto diventano viola, è l’anticamera di un enorme ossario di indiani a cielo aperto. Vennero spinti nella gola oltre un secolo fa da un arrogante esercito regolare e vennero sterminati senza pietà per risparmiare su concessioni di territori da adibire a riserva. Non si ha molta voglia di parlarne, giù al paese, forse per evitare di riesumare ricordi di cui non si dovrebbe essere fieri, forse direttamente per vergogna. Si sparò molto, con mitraglie e fucili automatici, e i pochi non colpiti trovarono la morte con un volo disperato nel precipizio, in fondo alla stretta vallata, tra pietre aguzze e sterpi taglienti, cibo per corvi e avvoltoi. Il vecchio Amos è la sentinella alla gola e sorveglia l’angusto sentiero che si addentra verso il canyon respingendo o placando, secondo le volte, l’irrefrenabile ira di spiriti che risalgono dal baratro, ingiustamente relegati in quella landa inospitale senza una dovuta sepoltura. Gli Shoshones di un tempo, alteri e impavidi con tatuaggi e pitture sul corpo che conferivano loro potenza e coraggio, sono divenuti esseri inquieti e feroci di aria spessa e polvere e cercano una vendetta per calmare la loro sete di rivincita. L’osservatore attento può notare che il vigile custode gira sempre con una bottiglietta di Coke dentro una tasca dei suoi logori jeans, una bottiglietta strana di un colore anomalo rossastro, con uno stoppaccio al posto del tappo, 219 imbevuto di benzina, e un tascone della camicia è troppo pieno di fiammiferi per un pacchetto avviato di Lucky Strike. Tutto il perimetro dell’area di servizio è disseminato di bottigliette di Coke riempite di benzina, semisepolte nel terreno, con lunghi stoppacci sporchi di morchia, come se si fosse in una fantasiosa trincea munita di armi per contrastare attacchi. E il sabato sera avviene un rituale atroce. Si prende il suo piacere, Amos, con la sgualdrina in soggezione per lo strano ambiente che sgocciola inquietudine nella sera, e leva grugniti e rauche grida che liberano il suo corpo e mettono sull’avviso gli spiriti che lo spiano oltre il sentiero. I suoi versi animali si mescolano con i singhiozzi di un piacere, spesso finto, della ragazza pagata dal sindaco, e di là del passo sagome di aria cupa, dipinte con colori di guerra, si ridestano e risalgono dal precipizio in fondo al canyon. Nel momento culminante del suo orgasmo, sempre all’aperto dietro la roulotte sotto una tettoia, su un materasso sporco, Amos si prende per sé maggiore piacere ricevendo contrazioni più violente e incontrollate nel mentre che taglia a sorpresa e tradimento la gola della sua occasionale compagna con una fulminea rasoiata. E’ un rito rapido, violento, collaudato e consolidato nel tempo, ogni sabato con una donna diversa, e l’uomo si leva con un peso ancora palpitante tra le braccia e si reca con occhio spiritato verso lo stretto valico a depositare il cadavere ancora tiepido su un ciglio del dirupo. Un’aria innaturale riesce a spostare il povero corpo esanime e lo spinge giù dove altra aria confusa si muove in immaginifico digrignare di denti. Amos ritorna alla sua officina con un mormorio di rantoli nelle orecchie, di spiriti che si compiacciono soddisfatti nella loro sete di sangue e vendetta. Ecco perché per noi Amos è importante. E’ la sentinella che tiene a bada le belve, il guardiano che le alimenta e che ha stabilito con loro un rapporto di mostruosa confidenza. 220 E finché sarà così poche volte dovranno essere incendiate piccole bottiglie di Coke a monito per gli spiriti più esagitati e smaniosi e la comunità sarà tranquilla e la Contea sarà salva. Ma io so, come sceriffo di questa zona, che i tempi stanno cambiando… Una specie di tam tam sotterraneo pare che si sia diffuso nell’atmosfera, e sempre più difficoltoso è per il sindaco il trovare qualche donna di piacere ignara che voglia guadagnarsi una congrua somma per un sabato di lussuria nel deserto. La Contea sta diventando un posto per persone costumate e timorate di Dio, ma i mostri del canyon strepitano la loro brama di carne. Il vecchio Amos parla con loro e ha esposto le difficoltà della nostra comunità. Ci sono stati bagliori di sorrisi malevoli nell’aria densa della notte al gran burrone. Una vecchia iena crivellata a suo tempo da un rilucente Remington, alla luna, ha proposto, con supponenza fastidiosa che non ammette repliche, che i guerrieri potranno accontentarsi anche di pie massaie, di buone donne che preparano pasticci di tacchino o torte di frutta. Il loro capo, dipinto con colori confusi nel buio, ha balenato le zanne con un concetto ineccepibile: la carne palpitante e tiepida di morte recente non ha connotazioni particolari o ceto sociale… La sentinella ha annuito e mi ha riferito le nuove condizioni. Serio e laconico. Come sempre. Il suo sguardo grave strinato da polvere e sole ramato non ha tradito emozioni o pietà: questo è il prezzo della pace di una comunità maledetta come la nostra e solo lui è il tramite accettato per il mantenimento di questa tranquillità che costa sangue. Ha fatto un primo nome, sommesso, di una nostra concittadina che tutti conosciamo molto bene… …E’ toccato a Grace, come ha suggerito Amos. Si è deciso in una riunione maledetta. 221 C’ero io, che sono lo sceriffo, il sindaco insieme al pastore battista, il farmacista e qualche altro ometto con uno spaccio d’alimentari o una quarantina di cavalli in un pascolo dietro le spalle. Grace è vedova, oltre che vecchia, senza parenti a reclamarla o a vendicarla, semmai sia possibile. Vive di una pensione onesta e si diletta al cucito. Ci siamo trovati tutti d’accordo. Sono andato a prendere la poveretta con il mio vice, a notte fonda, per portarla in una cella del mio ufficio, pronta per sabato, imbavagliata perché il paese non sentisse, pur sapendo tutti ogni cosa, tranne che lei. Sembra tutto ipocritamente naturale, anche se è una roulette russa. Si è concertato per il futuro di preferire le donne sole, zitelle o vedove, con precedenza per quelle più avanti negli anni. Poi toccherà alle altre anziane e qualche marito o figlio o nipote dovrà chinare il capo, sottomesso. Poi si scenderà d’età senza guardare tanto per il sottile. Il sindaco ha promesso che amplierà il suo giro di reclutamento di puttane anche in altre contee, se non altro per ritardare questo stillicidio. Io, però, che vedo lungo, respiro nell’aria rassegnazione e sgomento, e tremo per Sally, mia moglie, per quando sarà. Non trascorrerà tantissimo tempo: non abbiamo figli e resterebbe solamente una persona per piangerla. Io. Sto ribollendo giorno dopo giorno, mentre aspetto il prossimo sabato per portare la vecchia Grace ad Amos. Resterà impassibile, lui, ma ghigneranno di soddisfazione gli spiriti della gola vicino al distributore di benzina sulla camionabile per il New Mexico. Gli Shoshones già sanno quello che accadrà e gli spiriti di morti senza giustizia hanno l’eternità per aspettare la loro vendetta attraverso concetti di tempo che noi vivi non potremo mai comprendere. M’irrita l’atteggiamento del villaggio: il non sapere o non volere uscire fuori di questa situazione. 222 Mi appare meno puro anche Amos, la sentinella, l’uomo che tiene a bada gli spiriti offrendo loro carne fresca ancora pulsante di passione vitale in un ultimo orgasmo. Lo odio, ora che so che alla fine si scoperà mia moglie per poi tagliarle la gola nel momento dell’orgasmo e offrirla ancora calda agli spiriti del burrone per soddisfare la loro sete di vendetta. Mi chiedo se potrei fuggire con Sally, incurante di tutto e tutti, e se sarei riacciuffato, e da chi... Altre idee mi striano dolorosamente il cervello, in questa notte d’incubo, per risolvere in modo definitivo questa agonia senza fine. Mi rigiro nel letto, sudato, e ipotizzo che cosa potrebbe essere la nostra vita senza Amos o senza la settimanale offerta votiva. Potrebbero arrivare fino alle nostre case? Potremmo difenderci? Sapremmo difenderci con sufficiente sangue freddo? Ho l’angoscia nel sospettare che possano, prima o poi, servirsi da soli, senza rituali, dilaniando direttamente da loro carni di vivi senza distinzione di sesso, tenuti a freno solamente fino a quando esisterà la sentinella e si protrarrà questo assurdo rituale che umilia pronipoti di dispensatori di giustizia. Ho portato Grace alla stazione di servizio. L’ho dovuta colpire col calcio del fucile: si agitava troppo. Un livido può essere anche un modo per rendere più incosciente e accettabile un ultimo giorno di vita. Ho chiesto una cosa alla sentinella. Lui è rimasto sempre impassibile, ma stavolta ha tradito un qualcosa d’inquieto nel suo sguardo. Mi ha risposto che se ne riparlerà per la prossima settimana. Eccomi ad un nuovo sabato di passione, con una nuova vittima, la signorina Pendleton, quella che cucina, che 223 cucinava, per essere preciso come un becchino professionale, il più buon pasticcio di tacchino della contea. Ho trascorso una settimana infame ad arrovellarmi sul piano che salverà la mia Sally dall’inevitabile suo destino. Sarò deciso, chiaro, definitivo. Amos ha preso tra le braccia il corpo svenuto della vecchia Pendleton e mi ha fatto un cenno di consenso. E’ stato accettato l’incontro. Il benzinaio chiude la donna nella sua roulotte e mi porge una bottiglia di Coke invitandomi ad accendere il sigaro. Rifiuto. Ho i miei perché…e anche un fucile a pompa tra le mani… Amos si stringe nelle spalle, indifferente, e mi fa strada verso la gola degli Shoshones. Sul ciglio del burrone, nel crepuscolo che scurisce, si materializza lentamente un’aura spessa che prende i contorni di guerrieri dagli occhi avidi di vendetta e di sangue. Salgono dall’abisso con colori di guerra che stravolgono lineamenti in una nebbia densa che sa di putrido, e ghignano digrignando denti che sembrano zanne. Mi trovo di fronte alle antiche vittime di miei predecessori massacratori nel nome della giustizia e della legge. Ho la pelle d’oca e ho una paura fottuta. Loro lo sentono: gli spiriti dei morti convivono con la paura e la riconoscono nell’aria. Devo essere deciso. “Uno scambio.” “Che significa, Sceriffo?” Il capo ha un tono beffardo e la sua aura scintilla fosforescente nel buio, circondata da occhi, tanti, lucidi nella penombra, malevoli. “Tutto: per me e mia moglie. Tutto insieme.” Risata di gola aperta, di trionfo, di tutti gli spiriti. Amos mi guarda con diffidenza, in disparte di lato. 224 “Sembrerebbe che la giustizia stia per fare il suo corso, lunghissimo, certo, ma inesorabile, Sceriffo, e tu dovresti essere il rappresentante della legge del compenso, di adesso…” E’ un parlare che mi ferisce, sarcastico, ma devo corazzarmi con l’indifferenza, per Sally, per me. “Allora?” “D’accordo, Sceriffo.” Amos ha compreso che sarà esautorato dal suo incarico e sta cercando un fiammifero per accendere la sua bottiglietta e ripristinare gerarchie e funzioni nel potere della sentinella. Lo centro in pieno petto con un colpo solo, sparato quasi a sorpresa senza mirare, e lo mando ad urtare le rocce dietro di lui con violenza come una marionetta senza fili. Giace inarticolato con gli occhi di ghiaccio ormai vitrei che continuano a guardarmi accusatori. Gli spiriti osservano impassibili. “Questa notte, dunque, al villaggio, per poi sparire per sempre.” Assensi divertiti. Si avviano lievi in un branco numeroso senza spessore verso la roulotte dove è rinchiusa la signorina Pendleton. Il corpo di Amos viene avvolto da una nube grigia che si tinge di purpureo nel rumore di uno squittio inquietante di topi voraci. Non voglio soffermarmi a pensare alla sentinella, che ho ucciso a tradimento, a quella donna e a quello che le faranno. Non posso, ora. Metto in moto il furgone come un automa e mi dirigo al villaggio. Tutto è pronto. Ho saccheggiato tutta la dinamite disponibile della miniera di zolfo poco distante e ho avuto tempo a sufficienza per minare ogni casa del villaggio. Ho riposato pochissimo durante questa ultima settimana. 225 Sally dorme. Non sa nulla: è innocente e dorme da innocente respirando come una bimba. Esco verso il garage. Lì c’è il detonatore che innescherà le esplosioni in tutte le case. Basterà spingere una leva verso il basso. La mia Sally sarà salva e veglierò su di lei per sempre come una sentinella, una nuova sentinella innamorata. Ecco: basta spingere… Dio mio, che cosa ho fatto! Per di più inutilmente. Sono assediato da spiriti che vogliono entrare in casa e prendere anche me e la mia Sally, stordito da urla guerresche lontane attutite dalla notte e da un odore nauseante di bruciato e di morte. La sete di vendetta non si è placata con il sangue di tutto il villaggio al bagliore di fuochi e di lamenti e gli spiriti dei morti che hanno avuto torti dalla giustizia non riconoscono patti e restituiscono l’inganno con gli interessi. Avrei dovuto pensarci prima. Ora non posso fare altro che evitare sofferenze maggiori della semplice morte. Preferisco così che assistere impotente al dilaniare la mia adorata moglie, nell’attendere una sorte identica per me stesso. Ho ancora il fucile a pompa. Adesso a Sally, gioia mia, dal sonno alla pace. Fortunata lei: si sta agitando nel sonno come sotto un incubo, si lamenta per qualcosa che percepisce senza vedere, ma è incosciente, grazie a Dio, e non soffrirà. Poi a me, se avrò il coraggio, se non altro per espiare i miei errori di velleitaria sentinella e di meschino uomo di legge… 226 PASSIONI E PASSIONI Le giornate cominciavano ad allungarsi ed il primo pomeriggio era più che tiepido per una primavera in boccio di metà aprile. Lo sguardo dell’uomo, smontato dall’Alfetta senza contrassegni, era uno specchio di mare, scuro e appena increspato, come quello alla fine di una giornata serena d’estate: quasi un precorrere i tempi per insopprimibili desideri di refrigerio nel caldo precoce. Osservò pensieroso l’edificio di fronte, il commissario Luca Sperlozzi: una palazzina degli anni cinquanta di quattro piani, dalla facciata granigliata verdina stinta ed intrisa di smog grigio, una delle tante della zona. Il quartiere Italia di Roma, parlando in termini superficiali d’architettura, è piacevolmente vario. Per erte e declivi ornati di rododendri e robinie, dall’alto della dritta Corso Regina Margherita e della sinuosa Via Morgagni, fino alla stazione Tiburtina, in basso a ridosso del cimitero del Verano, si susseguono casermoni di case popolari del ventennio, villette patrizie decadute o rimesse a nuovo per sedi di consolati e ambasciate, immerse nel verde, e diverse tranquille palazzine dell’immediato dopoguerra. Delle ultime, questa verdina si stagliava tra due alti pini, come rispettabile condominio, con la porta a vetri dalle rifiniture in ottone, l’atrio in penombra con le piante di ficus appena rinsecchite ai margini di una dignitosa guida stinta color vinaccia. Il commissario ignorò un capannello di gente curiosa e il suo mormorio da anticipato rosario vespertino, fece un cenno al piantone che salutò deferente, e sgusciò nel piccolo ascensore vetrato, ingabbiato in una rete metallica annerita dalla polvere, che aveva ancora, dalla parte della tastiera dei piani, l’impronta giurassica della gettoniera a cinque e dieci lire, legno chiaro su pannelli scuriti da fumo e tempo. Tutti hanno una dote fisica che può rendere seducenti: Luca Sperlozzi aveva gli occhi, variabili di tonalità cromatica 227 secondo le emozioni, dall’acquamarina al blu petrolio, con uno sguardo intenso, spesso liquido e febbricitante, inafferrabile per una mobilità che metteva a disagio. L’uomo, normolineo, appena brizzolato con taglio a spazzola cortissimo, atletico e apparentemente svagato, lasciò scorrere, dall’ascensore lento, la vista in parata sui quattro piani semibui di marmi chiari cinerini, vagamente funebri, con piante grasse e altri ficus sui pianerottoli. Ebbe un leggero moto di buonumore nel notare sottovasi pacchiani di tinte accese giallo uovo o aragosta a trasgredire su quanto d’austero e rispettabile, proprio della casa severa. Una vecchia minuta in vestaglietta, terzo piano, al passaggio dell’ascensore, incrociando gli occhi del commissario, chinò rispettosamente la testa in un saluto garbato e partecipe della ferale novità. Vaghi odori di conegrina, soffritti e mele cotte volteggiavano su per la tromba delle scale con echi di note compresse in volume civile, allegre e ossessive, dell’ultimo DJ Francesco, provenienti da chissà quale piano, esaltate in bassi gravi ad accarezzare lo stomaco. Le portiere dell’ascensore, rumorose e classiche a molla, si richiusero da sole con un fastidioso sbatacchiare dietro Sperlozzi, all’ultimo piano. L’uomo entrò in un alloggio con la porta aperta a metà, passando davanti ad un altro agente che sorvegliava l’ingresso. Il portone di fronte a quello sorvegliato fremette appena per l’emozionante cosa insolita recepita da una coppia di mezza età curiosa attraverso uno spiraglio. All’interno dell’alloggio da esaminare si respirava tanfo di chiuso mascherato da deodorante di falso bosco. Un sommesso fischiettare attirò il commissario verso una stanza in particolare. Era il solerte fotografo della Omicidi, già da qualche tempo sul posto, vispo e gesticolante in saluto confidenziale. Scattava garrulo qua e là con il flash, fischiettando: immortalava, con la disinvoltura e l’indifferenza 228 dell’abitudine, i particolari oggettivamente più rilevanti della scena del delitto. Già. Il commissario Luca Sperlozzi era lì, in servizio, per indagare su un omicidio, e stava ispezionando l’appartamento di Nora Guasconi, nubile, trentanove anni, impiegata al catasto, incensurata, trovata morta dalla portiera dello stabile incuriosita, durante i suoi giri di ronda, per la porta dell’alloggio inspiegabilmente socchiusa a tarda mattina. La defunta padrona di casa giaceva seduta scompostamente su mattonelle sbiadite, appoggiata ad una parete vicino ad un divano in similpelle nera, con la lingua penzoloni e gli occhi sbarrati, in una posa innaturale del collo, probabilmente sbattuta più volte contro il muro, a giudicare da una stria di sangue che da un’altezza di circa un metro e sessantacinque colava rada fino alla nuca scarmigliata della vittima sul pavimento. Luca lasciò il suo sguardo brado in esplorazione distratta della stanza. Fu poi attratto dall’espressione del viso della donna e cominciò a ricamare d’intuito professionale. Era scostante e altera, seppure morta, con un aggrottare di fronte che sembrava volesse fare notare il disappunto per un volgare comportamento perpetrato nei suoi confronti. Gli occhi erano di vetro opaco, spalancati, grigi e fondi senza espressione, ma le sopracciglia parlavano come per dire ancora a qualcuno in un impossibile discorso postumo: “Com’è stato possibile che si sia permesso di strozzare proprio me?” Il cadavere aveva, in effetti, dei lividi violacei sul collo. Apparve, a Luca, come una donna non troppo significante: una calza velata calata al polpaccio, due bigodini sopra la fronte a vigilare su un’eccentrica frangetta, una sottoveste lilla morbida che le conferiva, con la scollatura che lasciava intravedere un seno appena afflosciato, un qualcosa di sciatto. 229 Ebbe un leggero moto di fastidio, il commissario, nel notare anche le due logore ciabatte di stoffa: pensò con irriverenza che mancavano solamente le classiche pattine di feltro per preservare la cera del pavimento. La bocca della vittima, aperta vanamente a risucchiare aria, con la lingua di fuori, era atteggiata ad un ghigno, a metà tra lo stupore e il disprezzo, che lasciò in Luca l’impressione di un’epidermica antipatia, come al pensiero che fosse solo appisolata, seppure con gli occhi aperti, e che, appena da sveglia, avrebbe subito piantato qualche grana. La immaginò da viva: supponente, altezzosa, in netto contrasto con l’aspetto fisico non proprio signorile e alquanto già sfiorito. Sguinzagliò di nuovo lo sguardo all’intorno, da segugio allenato, alla ricerca di qualche indizio. La stanza era un insieme di mobili radunati con gusto discutibile e con la presunzione di un certo senso estetico che oggettivamente mancava del tutto. Una libreria rustica, poco fornita, riempita a metà di tascabili e di qualche libro d’arte troppo nuovo per essere stato apprezzato, era accostata al divano nero di stile svedese, con le gambe striminzite in ferro battuto nero squadrato con orrendi supporti ottonati di base. Due poltroncine di fronte al divano, dello stesso stile e colore, e alcune stampe dozzinali di famosi acquerelli, appese al muro con evidente pigrizia, conferivano alla sala l’aspetto di un salotto banale senza palpiti di vissuto. Più in là un tavolino, che fungeva da mobile bar, con alcune bottiglie d’amari e di brandy e, aspetto assai più interessante, due bicchieri mezzi pieni, vicini ad un portacenere che evidenziava due tipi diversi di mozziconi di sigarette. Nora Guasconi probabilmente doveva avere fumato leggero: lo testimoniava un pacchetto semivuoto e qualche cicca nel portacenere. L’assassino, o almeno l’ospite che aveva bevuto dal secondo bicchiere, aveva fumato invece una sigaretta forte e senza filtro, ‘papier mais’, di carta gialla, francese. 230 Un primo sottile brivido per l’inquirente attento. Il fotografo si congedò, sempre fischiettando, con un sorriso, e lasciò la scena del delitto al solo commissario che a piccoli passi misurò la sala alla ricerca di fotografie incorniciate, di biglietti, di lettere, di testimonianze: un breve passeggiare iniziale per avere un quadro di sintesi su cui cominciare ad elaborare una storia e magari anche un movente. Sperlozzi sollevò con una penna qualche carta e aprì con un fazzoletto alcuni cassetti a caso. Tra poco sarebbero arrivati quelli della Scientifica e avrebbero frugato con maggiore sicurezza a preservare l’integrità di qualche eventuale impronta. Poi l’emozione interiore di un cospicuo inaspettato bingo. Tra le tante cose era talmente in primo piano, sopra il tavolino delle bottiglie e del portacenere, che a prima vista nemmeno lo aveva notato. Un registratore. Era piccolo, di quelli vecchi da battaglia, con il microfono incorporato, monofonico, a pile, poggiato tra le bottiglie, tenuto lì da tanto, senza la sua custodia di pelle nera, impolverato alquanto. Fremette, Luca, in una sua speranza. E a volte le speranze diventano concrete certezze. C’era dentro una cassetta: era alla fine, già ascoltata o, meglio ancora, forse registrata. Il commissario sperò che la vittima avesse registrato un dialogo per un qualche motivo di chiarimento e che il registratore si fosse spento da sé a fine nastro. Pigiò il tasto di riavvolgimento della cassetta con un fazzoletto e attese incrociando le dita. Nel frattempo curiosò sopra una mensola dove campeggiava una foto sfocata che, però, gli parve curiosamente familiare. Ritraeva la donna con un uomo davanti ad un molo: era lui, con un giaccone alla marinara, il familiare a Sperlozzi, che trasformò il suo sguardo in un mare in tempesta con onde spumeggianti. 231 Pescò dentro di sé nella memoria, indietro nel tempo, fino a suoi vecchi trascorsi di ex marinaio, subito dopo il servizio militare, prima della scuola di Polizia, e si illuminarono scorci di La Spezia, di Napoli, di Malta, solari e mossi da una brezza indimenticabile. I suoi occhi si sintonizzarono e si fusero con altri, ora: occhi neri affascinanti, e il processo della memoria lo catapultò sotto un sole cocente, in un odore di salsedine penetrante, tra nomi, giorni, luoghi lontani, sensazioni intense e convivenze forzate in lunghe rotte di navigazione d’alto mare. Si riagganciò alla realtà con il rumore dello scatto del piccolo registratore che aveva ricaricato la cassetta all’inizio. Si concentrò sul punto rosso del led luminoso e schiacciò il pulsante d’ascolto con impazienza frenata a stento. Udì un tramestio, un ciabattare sommesso strascicato, il rumore di un riempire bicchieri, lo scatto di un accendino e l’aspirare di una sigaretta e provò ad immaginare visivamente la scena. Lasciò andare la fantasia chiudendo gli occhi ed ebbe l’impressione che la donna strizzasse i suoi, profonde macchie di bitume, urticati dal fumo. Poi ascoltò l’echeggiare di un lontano rumore di chiavi inserite nella serratura del portone d’ingresso, una cadenza di passi decisi e pesanti, un sospiro vicino che era uno sbuffare, e poi ancora una risatina nervosa e ammiccante, e una voce mascolina, che lo fece trasalire, rivolta alla donna con un saluto freddo metallico. Quella voce… Armando Gotiri: l’uomo sfocato familiare della foto. Nella mente del commissario s’accesero le lampadine bluastre notturne del mercantile “Subazia”, e poi balenarono gli ottoni di un cargo cipriota e di una rugginosa petroliera ucraina insieme a trascorsi di navigazione, episodi di giovinezza non tanto recente, e un affiorare di ricordi di un periodo di crescita e di esperienze. Era la voce di Armandino: la stessa voce fredda e metallica d’allora, ombrosa e gentile sulla difensiva, sempre. 232 E ancora una voce: stridula, acida, sarcastica. La voce di Nora Guasconi, malignamente divertita. “Ti stavo aspettando, ammiraglio, e ti stavo preparando anche da bere: dovere d’ospitalità... Accomodati. Me ne dovrai raccontare di cose, di persona, perché al telefono ci si fraintende e perché ti voglio proprio vedere in faccia mentre me le dirai…” Sperlozzi udì una risatina malevola della donna e un sospiro dell’uomo, poi percepì lo scatto di un accendino e il suo sguardo corse al portacenere dove era evidente un mozzicone giallo. La donna proseguì. “Allora, ammiraglio, bell’Armando, ho inteso bene quello che mi hai confessato al telefono ieri? Dobbiamo mettere una bella pietra sulla nostra storia di passione devastante che ci ha accompagnato per questi mesi deliziosi? Ho il sospetto, lo sai che sono sospettosa e piena di fantasia, che tu mi stia scaricando con un nuovo sistema pittoresco per poter continuare una tua vita di puttaniere con qualche nuova conoscenza di qualche altro lido. I marinai sono tutti uguali o no? E poi, te lo dico francamente, non credo molto a queste conversioni sulla via di Damasco: di San Paolo ce n’è stato uno solo, mi pare, e poi tu ti chiami Armando e non mi suona bene la folgorazione di Armando sulla via di Damasco…” La donna rideva di gola come una iena, crudelmente, e l’uomo che l’ascoltava taceva. “Spiegami, dunque, questa crisi mistica, questo nuovo flusso della coscienza che ti sta indirizzando verso altre scelte di vita, scusa, no, che ti reindirizza verso la tua vecchia vera scelta di vita, verso il tuo originario essere a tuo agio con te stesso. Cerca di convincermi che hai scoperto, dopo anni di incoscienza, di essere un’altra persona e che io ho perduto tempo prezioso con un uomo sbagliato. 233 Sei un uomo sbagliato perché sei un farfallone incallito che si è trovato un’altra donna o perché hai realizzato di essere in realtà un ‘ricchione’?” Il commissario trasalì per quest’ultima frase udita forte e chiara, diretta come uno schiaffo, carica di disprezzo e tagliente nel tono, con un sarcasmo a ferire profondamente. Udì il rumore di un bicchiere poggiato sul tavolino, forse quello di Armando, e un sospiro lungo, forse volto a riordinare le idee per una spiegazione, per una confessione definitiva e limpida a chiudere una relazione troppo sfaccettata di ombre e dubbi. Ascoltò la voce di Armando Gotiri, pacata, ma decisa. “Se sono qui è per ribadire quanto ti ho detto al telefono: non ho paura dei miei fantasmi. Gradirei, però, il rispetto: almeno lo stesso rispetto che ti porto…” “Rispetto? Per uno come te? Dopo che mi hai illusa per diversi mesi? Io dovrei credere nel tuo rispetto, in te che una mattina all’improvviso mi telefoni e mi comunichi che non ti senti più di avere una relazione con me perché stai percependo la tua vera natura di, come dici tu, ‘gay’? Parliamoci chiaro, caro Armando. Se non è vero quello che mi racconti, sei un ammirevole bastardo fantasioso, una persona che sorprende, e, di fatto, mi hai sempre sorpreso piacevolmente in più occasioni. Allora ci diamo un taglio. Ora. Mi dici che hai scherzato e che frequenti in verità un’altra donna. Io capisco, soffro, ti tiro un bicchiere o un portacenere, ti maledico, tu ti offendi e te ne vai, io piango e mi dispero, poi me ne faccio una ragione nel futuro e, magari, tra un anno ci facciamo anche una rimpatriata e ci faremo morire a vicenda per come lo abbiamo fatto parecchie volte. D’accordo? Ma se è vero quello che mi hai confessato, puoi dirlo con tutte le parole appropriate che ti pare, rimani ai miei 234 occhi sempre e solamente un frocio che mi ha preso per il culo, e io odio essere presa per il culo, soprattutto se mi affeziono e se comincio a fare qualche castello in aria sull’avvenire. Lo sai che non sono così emancipata e moderna. Cosa vorresti che ti dica? Che capisco? Che la cosa mi eccita? Che sono disposta anche a vedere e a partecipare?” “Io non voglio nulla, Nora, a parte il fatto che tu non sia volgare… Ti ho detto di certe mie intimità che sono ancora vive e pulsanti, ti ho detto di me in tutta sincerità proprio per il rispetto che ti porto. Mi considero a posto con la coscienza e libero da un peso: non posso più sopportare una doppia vita, ora che ho chiari determinati concetti, diviso tra mie amicizie e te in uno sdoppiamento di personalità con continui cambi di travestimento mentale. Non c’è alcuna presa in giro, quindi, ma solo onestà, che potrà anche farti male, ma che dovrebbe essere apprezzata, seppure rude e inattesa…” “Apprezzamento di che? Del fatto che mi scarichi per qualche giochino dentro un cinema o in un parcheggio con qualche altro finocchio come te? Mi fa incazzare che ho perduto tempo, tempo prezioso con te, mentre la vita va avanti e s’invecchia, e lo scoprire che adesso devo ricominciare tutto da capo, perché il mio uomo preferisce i maschietti alle donne, è avvilente e mi lascia con un senso d’amarezza che deve trovare uno sfogo. E poi te l’ho detto: non ci credo. E’ una scusa per troncare meglio: tu sei un bastardo che non ha il coraggio delle sue azioni. Preferisci coprirti di ridicolo piuttosto che ammettere che sbavi per qualcun’altra parcheggiata chissà dove. Ma io ti sego, parola mia. 235 Io non sono una santa donna comprensiva che capisce e benedice: io ti sputtano per mari e per monti e arriverò ad affiggere manifesti dappertutto. Non puoi trattarmi così, non me, non ora, non dopo così tanto tempo…” “Che vuol dire ‘io ti sputtano’? Vuoi farmi del male, di compensazione, perché io non te ne voglio fare con il fingere?” “Tu mi stai facendo malissimo, Armando. Mi stai abbandonando come una scarpa vecchia, come una cosa che non ti serve più, senza sensibilità, senza pensare a come mi lasci. Per una donna è dura accettare i quaranta, soprattutto da sola, ed è ancora più difficile nella memoria di un qualcosa che è stato e che non sarà più, forse mai più. E tutto questo casino che mi stai facendo crollare addosso, caro il mio maschione, è causato da un qualcosa che è una scusa bella e buona per i tuoi porci comodi, oppure da un qualcosa che per me è doppiamente offensivo, per il tempo che ti ho dedicato e per la mia femminilità che è insultata dopo mesi di tue finzioni. Io ti sputtanerò, Armando: sarò cattivissima e ti rovinerò. Aspettati una mia visita alla Capitaneria di Porto di Civitavecchia, aspettati di vedere sorrisetti di compatimento dei tuoi amici e colleghi. Li avviserò tutti e a tutti dirò chi sei veramente: un frocio bastardo che prende per il culo una persona che lo ha amato. Ci penso da ieri, mentre sto bollendo di rabbia, a come devo fare per rovinarti. Lo vedi? Sono una persona civile: ti ascolto, ti faccio accomodare in casa mia, la casa che conosci come le tue tasche per tutte le volte che l’hai girellata di stanza in stanza nudo, ti offro da bere, cerco una composizione pacifica, una spiegazione razionale che possa permettermi un recupero. Forse sbaglio anche io, no? 236 Se ho sbagliato in qualche mio comportamento sono disposta a ravvedermi. Sono stata soffocante? Troppo impegnativa? Non credo di essermi comportata come una che asfissia il proprio uomo: non sono mai stata a chiedere il perché e il per come di certe assenze di settimane, non ho mai fatto domande sul tuo lavoro, sui tuoi imbarchi, sui tuoi spostamenti. Ed ora mi devo sorbire una pappardella edificante di buona coscienza sull’onda della quale devo farmi una ragione che tu mi molli definitivamente per qualche maschietto? Come donna, secondo te, dovrei prenderla sportivamente? Converrai con me che, quando mi vendicherò, sarà solamente una reazione normale. Del resto ho una mia dignità, di donna, di donna che ha amato e ha dato i suoi sentimenti, con una certa età e reputazione da salvare, con anni futuri da rimettere in moto con inizi faticosi sempre più in salita: avrò sicuramente buoni motivi per essere avvelenata, no?” Luca ascoltava con lo sguardo intenso rivolto alla foto che ritraeva una coppia sfocata, felice e sorridente. Pensava, in maniera professionale, che l’inchiesta stava andando tutta in discesa, con una cassetta registrata che costituiva la prova di un omicidio e spiegava il movente, e soprattutto portava, per coincidenza fortunata, ad identificare l’assassino per nome e cognome. Si immobilizzò nel cercare di ascoltare rumori, reazioni. Udì la voce dell’uomo, un soffio grave. “Mi dispiace osservare certe reazioni da parte tua, Nora, soprattutto con la coscienza di essere a posto e di averti detto la verità. Nessuna scusa pittoresca, nessun’altra donna in caldo da qualche parte. Sto maturando delle convinzioni, in certi momenti anche dolorosamente, e le sto portando alla luce per il mio 237 processo di crescita, perché non cresci e invecchi solo tu, Nora… Vecchi fantasmi, demoni, comunque affascinanti, si stanno riaffacciando nella mia vita e ci sto facendo i conti per sapere chi sono e cosa voglio. Sono ‘gay’. Lo sono sempre stato, probabilmente, solo che prima ero in letargo o in bilico e non avvertivo dentro di me una piena consapevolezza. E’ tutto vero, te lo ripeto definitivamente: nessun trucchetto per scaricarti a favore di un’altra donna. Puoi chiamarmi come più ti piace: ti capisco. Ma non posso permetterti altre reazioni che esulino da quello che è la nostra complicità e la nostra intimità. Che c’entra la Capitaneria di Porto? Gli amici e i colleghi? Questo è rancore di persona che tende solamente a fare del male e io mi devo difendere”. Sperlozzi sentì l’uomo alzarsi in piedi dalla poltroncina, captò un rumore molto sommesso dello schiacciamento della sigaretta nel portacenere, un lieve muoversi di questo sul tavolino, e udì la donna. “Chiamati ‘gay’ o chiamati come altro ti pare, per darti una verniciatura di rispettabilità: per me sei un frocio bastardo che mi ha preso in giro e te la farò pagare…e…cosa vuoi fare? Credi di farmi paura? Vuoi fare la rappresentazione dell’uomo con le palle? Non mi fai paura, ricchione, non mi fai… ah… ah…” Il commissario annuì: ci siamo, ecco. La donna era stata brancata per il collo da una stretta ferrea, cercava di reagire con il carisma della femmina adirata, più che con risposte di carattere fisico, incredula. Sperlozzi la sentì rantolare e sbattere contro il muro con più tonfi accompagnati da singhiozzi e risucchi d’aria nervosi. Provò ad immaginare il suo sguardo grigio acceso di paura e odio, senza profondità, senza più passione, già morto prima della vera morte. 238 Armando Gotiri la stava strozzando picchiandola violentemente contro la parete per farla tacere, e intanto le stringeva il collo. Lei reagiva per come poteva, con sibili rauchi e muovendosi scompostamente, intontita dalle testate nel muro, accesa solo da istinto di conservazione. Risuonò un tintinnare delle bottiglie sul tavolino, forse sfiorato, un rumore del divano urtato e un suo conseguente cigolio di sfregamento dei piedini sulle mattonelle. Ancora il sibilo della donna, scarico, quasi un fischio, tra i tonfi al muro sempre più radi. Poi il silenzio, quasi irreale, rotto da un respiro solo. Udì solamente un rifiatare affannoso e si figurò Armando Gotiri che cercava di ricomporsi prima di uscire dall’appartamento. Riconobbe poco dopo, infatti, un rumore affrettato di passi e il cigolare della porta d’ingresso aperta e non richiusa. In ultimo un lontanissimo discendere le scale. Poi ancora un lunghissimo silenzio: il solo fruscio del nastro che girava e girava fino alla fine e lo scatto secco del registratore che si spegneva. Il commissario Luca Sperlozzi pensò con la fronte aggrottata che, per stavolta, aveva avuto una bella dose di fortuna. La Scientifica avrebbe confermato, anche se con maggiore dovizia di particolari, quello che lui aveva appena ascoltato ed ampliato con immaginazione ed intuito, lampante e veramente semplice. Era stato un delitto passionale, sì, di passioni e passioni, non premeditato, una reazione ad un annunciato ricatto con un colpevole da rintracciare e catturare. Luca scrutò di nuovo la foto, la coppia, il suo vecchio amico Armando Gotiri sorridente. Il suo sguardo si fece cupo come un lago in ombra, e molte immagini e ricordi si agitarono su un fondo senza fine, frenetici nel voler venire a galla, compressi troppo a lungo in uno stato di apnea dolorosa. 239 Fu il ritorno del passato, sepolto e quasi dimenticato, a reclamare il suo posto con prepotenza nella disarmante sfacciataggine dell’assoluta sincerità almeno con se stesso. Si rivolse ancora una volta verso la vittima appoggiata alla parete, Luca Sperlozzi. Si confermò le sue impressioni iniziali: una donnetta che avrebbe potuto suscitare anche un’infinita pena samaritana. Le coprì pietosamente il volto con un centrino posto sopra il divano. Lasciò poche raccomandazioni secche al piantone sul piano, nell’attesa dell’ascensore per scendere. Si avviò, poi, stanco e pensieroso, all’ingresso giù al piano terra, ad attendere la Scientifica all’aperto, a respirare aria pura senza correzioni di lavande o di sughi a sobbollire per qualche pastasciutta. Fu circondato da tanti caotici pensieri abbracciati ad immagini, odori, sapori di tempi andati. “Ti dovrò dare la caccia, adesso, Armandino… Sei indifendibile. Spero tanto, però, di non riuscire a prenderti…caro… Metti gli oceani tra noi, Armandì, e non ti fare beccare…” Al portone della casa, travolto da fantasmi e ricordi, si mise gli occhiali da sole, per avere una sua intimità umida in un accenno di pianto liberatorio, e nell’attesa, ignorando i curiosi, si accese una sigaretta francese, ‘papier mais’, di carta gialla senza filtro: una comune passione di affascinanti tempi andati di altre passioni. 240 ACROSTICO PELOSO Talvolta accade di trovare libri o giornali su una panchina ai giardini pubblici, dimenticati o, sovente, abbandonati lì volontariamente per una gioiosa voglia di condivisione. Ieri mattina presto, come ipnotizzato, in preda ad un irrefrenabile desiderio di uscire che non so giustificare, anche io ho rinvenuto su un muretto un eccentrico quaderno dalla copertina a fiori e dalle pagine color fucsia trattenute da anelli, molto appariscente, vergato da una fitta grafia a mano, chiara, ordinata, con brani preceduti da date, come un diario. Sembrava che aspettasse me o che io fossi certo di trovarlo. Avido di curiosità, l’ho ghermito con eccitazione e mi sono precipitato a casa per immergermi nella lettura e per sapere… “30 giugno S veglia all’alba: è il momento migliore per andare a cercare rocce interessanti per la mia collezione. La luce radente evidenzia meglio le venature e le sfumature di colore di ciottoli che, con il sole alto, perderebbero certe loro caratteristiche nel riverbero del giorno. Ho scoperto da pochissimo una piccola radura pietrosa quasi inaccessibile, poco distante dalla mia baita isolata. Sto ambientandomi da poco in questo posto dimenticato da Dio e dagli uomini: è una recente scelta di vita per uscire da una mia situazione di fragilità e di esaurimento. Vivo da eremita e ricarico le batterie in solitudine: coltivo il solo interesse di raccogliere pietre belle e non comuni, almeno per me. Oggi è stata caccia grossa in questo luogo che sembra magico. Ho trovato dei sassi mai visti, sferoidi, assolutamente lisci, con particolari sfumature che li fanno somigliare a 241 piccole melanzane luminose, quelle rotonde bianche e violacee. Ne ho raccolti di diverse grandezze e ho provato un formicolio incontrollabile ed un’oppressiva inquietudine. 1 luglio I nnaturale appetito: l’averlo mi stupisce e mi rende di buon umore. La calma del posto trasmette entusiasmo e rende positivi. Stamattina ho riassaporato antichi piaceri di una maggiore cura per il mio corpo. Mi sono gratificato con una doccia frizzante d’acqua fredda, a lasciare senza respiro e a tonificare la pelle, e con un’accurata rasatura. Ho notato un pelo nero sul naso e ho sorriso indulgente allo specchio con una fatalista meditazione effimera sulla vecchiaia che avanza e che si manifesta anche con ipertricosi superflua. Ho cercato invano d’estirparlo con una pinzetta. Il pelo era saldamente abbarbicato al naso ed il tentare di strapparlo mi ha procurato delle fitte come di spillo a pungere. Per un attimo ho avuto l’impressione che il pelo ‘volesse evitare’ la presa delle pinzette. Non ho permesso di rovinarmi la giornata per così poco. Sono andato in giro per le pietraie senza insistere. 2 luglio A ppena sveglio ho avvertito un forte bruciore al naso. Sono rimasto sorpreso, davanti allo specchio, scorgendo il pelo di ieri più spesso e più lungo. Ho prurito con un solletico che si dirama all’interno delle narici fino ad arrivare al seno paranasale. Ho applicato alla radice una pomata all’ittiolo per venirne a capo empiricamente, ma un comando interiore mi ha ingiunto di lavare il viso. 242 Pencolo confuso tra disagio e tranquillità non convinta, immerso in riflessioni angosciose che s’affacciano come fossero evase da un campo recintato, e sono blandito da voci interiori rassicuranti che verniciano con una patina di naturalezza e di serenità la realtà che mi sta occorrendo. 3 luglio M i sento inquieto: oggi ho cominciato ad avere paura. Alle prime luci dell’alba ero già davanti allo specchio del bagno per vedere quello che avevo sentito formicolare per tutta la notte in agitato dormiveglia. Non esiste più il pelo, almeno nell’accezione ordinaria del termine. Al suo posto un piccolo cavetto elettrico nero e lucido: sporge dal naso che è gonfiato arrossandosi. Ho provato ad afferrarlo con le dita per strapparlo, ma ho percepito una scossa dolorosa e ho notato che il pelo, il cavetto, la cosa, inequivocabilmente si muove di sua iniziativa. Sono sopraffatto da un’emicrania furibonda. Da dentro mi si ordina di non pensare e di sdraiarmi in veranda: obbedisco spossato. La giornata si è dipanata tra incubi, forse generati dalla mia fantasia, e inaspettati bagni di benessere interiore, volti a rasserenarmi, in serotonico cullare di pensieri tranquillizzanti da parte di qualcosa o qualcuno nella mia testa. Ho il cervello in condominio con altre presenze: lo avverto in momenti di lucidità, sempre meno frequenti, come quando mi accorgo di mangiare carne cruda sanguinolenta direttamente dal piatto nel frigo. Non comprendo cosa stia accadendo: forse tutto ha attinenze con quelle pietre levigate che sembrano piccole melanzane… 4 luglio 243 O dio dividere la mia esistenza con questa cosa schifosa e viva che continua a crescere sul naso. Lei percepisce il mio odio e credo che lo contraccambi. Vorrei scendere in paese, andare da un medico, in farmacia, per risolvere il problema ma questo verme nero, perché ormai è un lombrico vivo, m’impone di rimanere alla baita e di mangiare. Ignoro se sia lui che mi parla e mi gestisce come un pupazzo: so soltanto che ascolto voci che non ammettono discussioni o contestazioni. Odo dentro di me messaggi suadenti, rivolti con gentilezza ma categorici, e mi sovviene la vicenda sui riflessi del cane di Pavlov: se non assecondo con pronta decisione inviti e comandi, sono percorso da dolorose scariche elettriche. Ho difficoltà respiratorie: avverto il condotto nasale pieno, probabilmente di quel verme che mi sta scavando il cervello. Vorrei scappare, ma sono costretto a scrivere. E’ deciso, non so se da me, che qualcuno dovrà sapere… 5 luglio D eliziosa è l’elica del ventilatore che gira e rinfresca: non esco quasi più. Passo il giorno nella baita ad ascoltare la crescita del verme, respirando con la bocca, con un insopportabile mal di testa. M’infastidisce la luce ed ho socchiuso le persiane. Faccio la spola tra letto e frigorifero anche se ho la sgradevole sensazione di essere diventato io stesso cibo per questo essere che mi scava dentro e che non è più neanche gentile come i giorni scorsi. 6 luglio 244 E spiro ed inspiro affannosamente. Mi sento come un automa senza volontà, inerte sul letto o a scrivere questo resoconto. Ormai rantolo con un senso d’oppressione nel petto e la testa mi sta scoppiando. Mi sono sorpreso a piangere in un barlume di lucidità sempre più raro. Sto scrivendo di questa sofferenza, anche se intuisco che quella cosa lucida nera può comprendere quanto io registro. Potrebbe impormi di cancellare queste ultime righe e di bruciare la pagina ed invece lascia fare. Ci sarà un perché anche per questo, credo… 7 luglio N ell’armadietto farmaceutico del bagno ho due confezioni di Tavor. Tante volte, stanotte, ho pensato di farla finita: il verme, ancora più grande, pareva dormire. In realtà ha controllato, vigile, ed ogni volta che ho provato a levarmi dal letto mi ha tramortito con micidiali scariche elettriche. Piango senza saperlo, forse mangio, probabilmente dormo. Di certo esiste solamente il fatto che la cosa cresce e si espande dentro di me, nella mia testa. Sono suo. 8 luglio T rattengo a fatica un brivido di raccapriccio. Il naso è quasi scomparso, ridotto ad un ammasso gelatinoso purpureo. Vi si agita sopra sinuosamente un’anguilla nera, lucida, viscida, che saggia l’aria e la temperatura, che, non so come, vede e ispeziona l’ambiente circostante e sorveglia i miei movimenti. Si stanno moltiplicando le voci dentro di me. 245 Nella lucidità sempre più rara e scheggiata sono sopraffatto dal concetto evangelico di Legione e ipotizzo di possessioni diaboliche. Non riesco più a distinguere se sto respirando autonomamente, così otturato ed oppresso, e se sto scrivendo per mia volontà o su commissione di chi vuole diffondere questo resoconto raggelante per un suo disegno. Il cervello ormai non mi appartiene quasi più: l’ho realizzato con la certezza di un san Paolo folgorato dalla rivelazione della verità. Sono bersaglio di endorfine elargite secondo criteri che a me sfuggono, per continuare a vivere senza troppo soffrire, senza troppo riflettere, soprattutto senza reagire. Non riesco a pensare fino a quanto durerà e cos’altro dovrò vedere. Vegeto anestetizzato. 9 luglio R ido isterico nell’impotenza agghiacciante a reagire. Sono sfinito, debolissimo: respiro sibilando e deglutisco con infinita pena. Mi è stato ordinato di scendere al paese a notte fonda e di lasciare questo quaderno su una panchina o un muretto del giardino pubblico. Comando perentorio. Ho rarissimi sprazzi sempre più brevi di consapevolezza: scrivo con l’impressione di essere guidato con suggerimenti e di non essere in pieno possesso delle mie facoltà anche se ho un’estrema speranza d’autonomia. Sto chiedendo aiuto, nonostante tutto… Annoto, tuttavia, le impressioni come se presentassi un vademecum comportamentale, un manuale d’istruzioni. Ho un presentimento che si sta trasformando rapidamente in certezza: domani sarà il mio ultimo giorno di vita da umano. L’anguilla, il serpente, s’impossesserà completamente di me ed attuerà nuove tattiche di sopravvivenza per mimetizzarsi in questo nostro mondo. 246 Sono troppo stanco perché immagini un suo nuovo stadio di vita: mi vengono alla mente lezioni di biologia con spiegazioni di metamorfosi d’insetti, nomi scientifici…, larva, pupa, crisalide…, livrea, cambio della muta dei rettili... Mi assilla, tuttavia, una semplice domanda: sarà convivenza, tra me e lui, o loro, semmai possa chiamarsi tale, non voluta, dolorosa e parassitaria, o conquista colonizzatrice? Mi sento come la carcassa-dispensa di un insetto ferito, ancora vivo, che funge da rifugio per larve di vespa, nutrendole con il suo corpo. Tra poco scenderò a valle...” 10 luglio O ggi, in totale indifferenza, sono stupito di come sto soccombendo senza reagire a quanto è successo: mi sento un ingranaggio insignificante. Ho scritto a comando su questo quaderno ridicolo e adesso lo abbandonerò su un muretto di un giardino per comunicare la mia storia a qualcuno che dovrà avere informazioni e conferme su qualcosa che sta avvenendo. Mi sento un passacarte passivo ossessionato di riassumere quanto accadutomi in questi ultimi giorni. E’ questione di qualche istante ancora e poi morirò, anche se non so come... Che Dio abbia pietà di me. Addio.” Ora so. Ho un ritorno d’immagini con due piccole pietre rotonde bianche e viola lisce. Le ho raccolte qualche tempo fa sul greto del fiume, mentre ero a pescare, affascinato dalla forma e dal colore sgargiante. Lascerò questo quaderno, appena letto, in un altro giardino, stavolta in città. 247 Dovrò solamente avere cura di coprirmi il volto con una sciarpa, anche se fuori stagione, e di scegliere un orario in cui si possa incrociare meno gente possibile. La mia anguilla è irrequieta. Il messaggio letto, tuttavia, pare tranquillizzarla. Siamo stati, da notare il plurale, attenti e abbiamo letto un diario che lascia trapelare un’inquietante verità. Un altro più spaventoso messaggio, tuttavia, si legge tra le righe, tra le pagine del quaderno, come un diabolico acrostico… L’invasione è davvero cominciata… 248 GLI ARTIGLI DELLA NOIA Prologo. Mi sono appropriato di una storia, una sorta di messaggio in bottiglia, e vorrei condividerla. E’ un insieme di vicende intrise di violenza, malessere esistenziale, stati d’animo mutevoli, ricordi, riflessioni. Potrà suscitare fastidi, forse, in animi benpensanti. Spero, invece, che provochi considerazioni più profonde intessute sui concetti della comprensione e della pietà, intesi come il volere essere sempre di sostegno accanto all’uomo, in ogni caso fino all’estremo. E’ infatti intendimento coraggioso e nobile l’amare concretamente il prossimo, aiutandolo in qualche modo, in questi tempi bui fondati sulla mancanza del rispetto, della dignità, e sul calcolo a proprio favore per ogni cosa del quotidiano. 1. Pomeriggio. Il cammello che deve passare per la cruna dell’ago. Ecco. Ogni sabato pomeriggio il mio cammello deve espletare un ‘check in’ esistenziale, trotterellando fra diverse riflessioni in un ripercorrere ricordi, alla ricerca di un’oasi dove dissetarsi e trovare riposo. Ogni volta, purtroppo, s’accascia prima e sprofonda in sabbie mobili o si perde in miraggi pelosi ormonalmente tentatori, o ancora con ‘cattive’ amicizie, per come dice sempre mia madre. Rido divertito per l’ardita immagine, in questo sabato pomeriggio arancione a poltrire nel letto. Cambio sovente posizione: ora fetale, ora distesa al limite dello stiramento dei tendini, nudo sotto le coperte, con i reni che d’istinto e senza cognizione spingono l’uccello a svolazzare. Attendo la decisione del bradipo satrapo per una doccia che lavi ogni pensiero ricorrente. 249 S’affacciano eterne domande, proprio in momenti come questi, quando il cervello abbassa la guardia distratto, non impegnato dal lavoro, oppure è stordito da qualche altra meraviglia di carattere amichevole o vaginalcopulereccio. Chi sono, dove vado, che faccio, perché, a che scopo… gli eterni quesiti da massimi sistemi… o da pippe mentali… Mi sento un testimone legato ad una sedia, coinvolto di presenza alla recita di un rosario di vecchine arteriosclerotiche. Eppure ogni sabato pomeriggio comincio sempre così e recito idee e pensieri come madonne, anche se poi non mi rispondo ‘ora pro nobis’. Mi frega l’istruzione, o nozionismo che sia, quel qualcosa che assomiglia a cultura con quel minimo di sapere che nutre istinto e logica corrosa dal cinismo. Forse è solamente spettacolarizzazione a quiz, con crocette da apporre in esame di scuola guida, ma non tanto e non sempre, e soprattutto senza vincite o premi o ancora attestazioni. Ho frequentato un buon liceo classico senza infamia e senza lode e ho appreso qualche verità occidentale, raramente qualcun’altra orientale, per un futuro carico di ipotetiche soddisfazioni. Adesso sghignazzo amaro ad occhi chiusi. Mio padre sognava l’avvocato dal sangue del suo sangue. Mia madre, sorella senza tempo di Frate Indovino, s’adeguava, ché per lei basta la salute e la serenità. Io, invece, ho piantato tutto senza troppe spiegazioni, proprio dopo il diploma, frantumando le preziose e delicate porcellane cinesi da sogno di famiglia: la classica rottura di ming. Ho lavorato, quasi subito, come magazziniere, la prima attività trovata che non m’istigasse al suicidio immediato. Lo scopo principale di tale scelta banale era quello di uscire di casa per essere indipendente, per non subire il malessere quotidiano di una televisione accesa su stronzate con montepremi o tronfie opinioni discordanti strillate senza vergogna, per non dovere ascoltare pettegolezzi su chi 250 non sa vivere, su chi è peggio, per non essere scorticato da lamenti e ricatti. Il mio “Disco inferno”: Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te pensa ai tuoi genitori è tutto per il tuo bene è una buona famiglia abbi cura di te non eravamo così i nostri tempi erano migliori ringraziamo dio per non essere come siamo migliori di tanti altri dovremmo faremo farai dovrai la vita è sofferenza ascolta l’esperienza i capelli bianchi la vita è sacrificio bisogna avere fede una brava ragazza l’educazione è tutto il rispetto per gli anziani ci vuole un minimo di ordine la vita è disciplina il sudore del lavoro l’impegno buoni proponimenti la spina dorsale tirare fuori gli attributi per farsi valere bisogna sapersi comportare olio di gomito sudore della fronte se comandassi io i soldi non crescono sugli alberi una vita sana concretezza le chiacchiere stanno a zero non bisogna cullarsi sugli allori il mondo è pieno di furbi non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te fregatene di tutto i sani compromessi molti nemici molto onore i figli bastoni della vecchiaia i valori di sempre dio vede e provvede il tuo futuro il tuo futuro il tuo futuro il tuo futuro Cazzo: ogni endovenosa era accompagnata da un mio cazzo esclamativo interiore ad invocare il dio del silenzio. E ora occupo questo alloggetto all’ultimo piano, ammobiliato, ché mi costa un pozzo, ma mi permette di spararmi una sega, talvolta mentale, talvolta semplicemente fisica, ogni tanto, senza complessi di colpa e nella convinzione che non diventerò esaurito o cieco. E un problema credo d’averlo risolto. Però rimangono i distillati dei classici, non facilmente rimovibili come quelli dei miei vecchi. Mi perseguita quel sadico di Socrate, per esempio, da cui tutto parte, forse, con il suo ‘conosci te stesso’. O Cartesio: ‘cogito, ergo sum’. 251 Mi domando se Cartesio abbia avuto davvero certe convinzioni solo per il fatto di porsi delle domande, o forse credeva alla cicogna. Anche io mi pongo domande, infatti, ma non sono poi così tanto sicuro di esistere, anche se non mi chiamo Cartesio, in slancio raro di umiltà cosmica. Perché le aspettative erano altre, in maniera piana, sotto tutti i punti di vista: il bastante per tutto senza drammi e voglie del di più. E invece, per come recita il regolamento, si deve vivere lavorando la terra col sudore e si deve partorire nel dolore: una ruota della fortuna completamente inceppata dalla ruggine, almeno secondo il triangolo luminoso con l’occhio iracondo. S’affacciano anche tutti gli altri dispensatori di verità nella storia dell’uomo, poeti, narratori, uomini macerati nella dispepsia mentale, peggio degli psicofarmaci, ad ingannare con concetti d’amore, di donne angelicate, di amicizia nel tempo, di verità conquistate nella macerazione della sofferenza, di valori più o meno di valore. E bussa alle tempie anche la storia, ‘magistra vitae’, che ha sempre avuto una classe d’asini ripetenti, alla faccia di Vico, vero fico. Mi rigiro nel letto da sogliola in olio bollente e il rumore dei pensieri sfratta quello lontano del traffico sotto casa. I pensieri fanno più rumore di certi silenzi. I miei latrano come una muta di cani rabbiosi e affamati. Spolpano ricordi sputandone filamenti bavosi come fossero bistecche avariate e a me tocca raccattare il tutto con lo scopino spelacchiato della mia logica, da preoccupato, rivivendolo. Anche se non ne ho troppa voglia. In effetti sto da qualche tempo esemplificando la vita su concetti primari che mi consentano di vivere poche necessarie emozioni senza complicarmi la vita con confezioni in carta regalo o fiocchi e nastrini che nascondano spille avvelenate. Pochissime verità, dunque. 252 Il lavoro da affrontare stoicamente per la necessità di pagare tutto. La figa per le emozioni: cicciotta, odorosa e ospitale. Gli amici per non essere soli. Il resto sono soltanto chiacchiere da bar. Me lo dico con vigore stringendo i pugni dentro il letto, ma una vocina perfida di qualche figura retorica, che sia coscienza o sia noia o sia la fatina merdona rompicoglioni, che deve frantumare il buonumore per contratto sindacalesistenzale, mi ronza che tutto è più complesso. E il cammello del sabato pomeriggio zoppica tra le dune abbacinanti d’un sole basso che infastidisce. Anche perché io sono notturno, infatti. Amo il neon, le luci artificiali, le disco, i pub, la notte che risveglia gli ormoni nella tentazione del non vedibile e del non essere visto. La notte rende il mio cammello un ruminante mannaro con voglia di sangue e di violenza per dimenticare il vicino di caffè al bar che soffia sul suo cappuccino lungo con la schiuma e la spolverizzata di cacao, per dimenticare sguardi tristi di problemi d’affitto, di lavoro, di pene d’amore, di macigni da rotolare avanti, di spese, di salute. La salute, già: cartina al tornasole tra la vita e la morte. Fossi stato San Giovanni Bosco, che sapeva quando uno era malato prossimo a morire, già al solo vederlo, mi sarei impiccato dopo cinque minuti. Con la notte, soprattutto al sabato sera, compaiono a fianco gli amici. E non sono più solo. Sniffy, simpatico e fragile, sistematicamente senza una breccola, con un nomen omen circa le sue narici devastate. Carlomagno, un fighetta brillante pieno di lira e di spade per uso personale, con donna in agguato che sa attendere. Il Serpe, il più brutale e sanguigno, sano nella sua violenza, senza un passato, senza un marchio che non sia quello del suo cric che si porta sempre appresso. Mi chiedo da sempre come ci siamo assortiti e dove. Non lo ricordo più. 253 Forse in sala biliardo o attorno ad un tavolo di ramino con rientro a raddoppio. O forse allo stadio, in curva, sgomitando e saltando come ossessi in un urlare morti e madonne a squarciagola contro tutti i fuori tribù. O ancora dal Gobbo in autoavvelenamento cosciente da panini sulla soglia del metafisico. Non ricordo più, e chissà perché. So solamente che con loro mi sento in armonia con la vita, per come la intendo, e sono pronto a castigarla e a dimostrare a tutti, compreso il direttore barbuto di questo Luna Park, che posso fregarmene d’ogni legge naturale. Ma ne sei sicuro davvero? La solita vocina stronza. E’ quel tipo di domanda che rompe il dormiveglia piacevole, che spezza ritmi e fantasie, che ammoscia l’uccello che sta gonfiandosi sotto le coperte in prove d’otturazione. Pensa anche lui. Pensa a fighe disponibili, a labbra prensili come le mani delle scimmie, di morette pallide e corvine con quella peluria da rendere luccicante di saliva, di rosce sfacciate con gli occhi verdi, di bionde slavate e viziose con qualche spilla sulle grandi labbra da ciucciare con buona volontà per una ricompensa. Vaffanculo alla vocina. M’accendo una sigaretta e guardo il soffitto in attesa di figure e ombre che si materializzino da mostruose macchie d’umidità. Per vedermi un film. Di qualche sabato trascorso o di quello che sta per accendersi. E’ ancora presto, ma la luce vira sul porpora e la fibrillazione sta cominciando; il rumore del traffico sta riproponendosi scacciando pensieri di verifica fatti con il bilancino truccato. Lo so che è truccato, oppure è solamente quella vocina che è stata creata per la sola funzione di rompere i coglioni, ma ora s’avvicina la sera ed è già buio. 254 Gli amici tireranno fuori dalle sabbie mobili il mio cammello e stasera andremo a prendere a calci in culo la noia per dimenticare il non senso di questa vita di merda. Tutto rimandato al prossimo sabato, allora, cara vocina stronza. E vaffanculo. 2. Ore 22 Gli urlo strozzato: “Porca puttana! Vaffanculo, Sniffy, a te e anche a Carlomagno e al Serpe: mandaceli da parte mia!” Frantumo il cordless a terra in ira incontrollata ruggendo di delusione e scazzo contro dio e qualche madonna. Picchio anche due cazzotti nel muro perché sono immediatamente consapevole di avere causato un danno, ché un cordless buono costa un tot, e soprattutto perché il vicino ha da dire qualcosa di lamentoso: bercio un vaffanculo anche a lui, il mio piatto di minestra che non si nega mai a nessuno. Poi intono a voce alta, isterico e provocatorio, qualche coro da stadio – vieni, vieni, vieni a pescare con noi: ci manca il verme - e saltello a piedi pari sul letto sfatto facendo ballonzolare i coglioni, belli tosti e attaccati, ché sono ancora nudo, umido di doccia, e devo sbollire l’incazzatura. Non fa piacere prendere bidoni dagli amici, soprattutto il sabato sera, all’ultimo momento, poco prima del rito della vestizione e delle decisioni. Ogni sabato sera è creato per stare tutti insieme. Ma questo di oggi no. La diserzione generale era nell’aria da qualche settimana, dopo un periodo prolungato di stanca, e prevedevo che prima o poi sarebbe avvenuto lo sbarco generale, anche se facevo finta che tutto andava per il meglio comunque. 255 Forse Sniffy è il più giustificato di tutti: ha una prelazione cui non può sottrarsi per annosi problemi d’ordine finanziario che vanno a stridere con la sua passione per le piste. Senza che lui sappia sciare. Da pochi giorni Sniffy coltiva figa importante, di inquieta ragazza innamorata con molto grano al seguito. Il mio amico spera, con opportune future mietiture, di superare fastidi economici per acquistare strisce di neve dal Moretto che, talvolta, fa credito, solo se gli dai il culo, ma che ha una terza gamba che mette paura. Carlomagno, a differenza di Sniffy, non ha problemi economici, ma sta combattendo per amore una guerra di logoramenti mentali. Sta delirando da qualche tempo di cambiamenti e sta lottando senza le sue due spade giornaliere: prova a farsi chiamare semplicemente Carlo, disarmato e con qualche crisi dolorosa. Sorseggia meta di tanto in tanto, per non vomitarsi l’anima addosso, e sta spendendo un botto di psico-Girmi, il migliore in elegantissimo studio al centro, da centoventi a seduta. Si fa centifrugare il cervello in positività costruttiva per fare contenta Verena, dal nome enigmatico e dal sorriso di iena. La sua donna sbava ed è contenta: ha potere e un ascendente da Giove in ottima forma e personalità, mentre Carlo è un semplice Urano cagone. Lo frolla da ingorda con marinature di giacca e cravatta e discorsi seri di matrimonio e prospettive concrete di scrivanie e belle conoscenze. E così, proprio oggi, il bastardo egoista senza spade, Carlo semplice, ha deciso una conversione a U rispetto alle vecchie abitudini di cameratismo sociale di fine settimana. Il Serpe, invece, dopo critiche sempre più pesanti al gruppo, ha deciso, anche lui in questo sabato, per lo strappo definitivo e ha mandato a dire a Sniffy che cambia territori e compagnie: siamo troppo morbidi e lui si considera un duro. 256 Chissà che cosa intende per concetto di duro…, ché una cicatrice lungo una guancia fino al mento non costituisce necessariamente carta d’identità, anche perché il taglierino ha colpito senza affondare troppo. E poi va a finire che il vero duro sono proprio io che non ho bisogno di strisce e spade o del cric del Serpe, il suo unico vero amico, per come dice lui, quando spranga vetrine o parabrezza o crani. Io assumo solamente qualche mentina con figurine strane a rilievo, quasi soltanto di sabato, quel tanto per sentire l’adrenalina che smeriglia come carta vetrata dentro le vene, una specie di idraulico liquido che stura i condotti mentali intasati da anestesie quotidiane. E ho il vezzo della bottiglina piatta di metallo, piena di qualsiasi roba oltre i quarantacinque gradi, per oliare l’impianto di riscaldamento. Si fottano. Basterò da me. Mi autoeleggo presidente e dichiaro aperta la riunione di condominio per discutere l’ordine del giorno su come governare questo sabato sera di merda. Nel frattempo mi guardo allo specchio e penso che con questo sguardo torbido e questo colorito d’alabastro pallido non ho età. Faccio prove di esibizionista: mi scappello l’uccello spalancando il terzo occhio e assumo posizioni plastiche e ambigue da rivista patinata underground similpornointellettuale. Mi dico giudiziosamente d’andarci piano, però, ché sono già barzotto e carico e non mi sembra giusto spandere seme a raggiera istoriando lo specchio per poi rimanere gocciolante e appiccicoso negli slip per tutta la notte, magari poi anche a secco di fronte a ipotetiche occasioni. La tentazione, tuttavia, è forte, e indugio in tre o quattro colpetti di polso sciolto, ipnotizzato dalla magia del paguro alla cocque che scompare e ricompare tra la mia mano come per un gioco di prestigio. Intanto medito sull’abbigliamento da solitario del sabato sera in funzione di programmi vari che prendano a calci in culo la noia. 257 Opto per una tenuta pratica che non impacci movimenti e mi faccia sentire a mio agio in qualsiasi momento: classico denim e giubbotto di pelle con tasche capienti. La riunione del condominio è ancora ferma ai convenevoli civili con offerta di salatini e del prosecco. Sotto sotto, però, prevedo bagarre, ché l’essere da solo aumenta ed esalta fantasie e inventiva, quando non deprime. Il paguro, nel frattempo, sta diventando un’aragosta accesa e dura ed è meglio che smetta e che m’infili gli slip museruola. Mi sorrido esagerato, accendo una paglia e strizzo gli occhi per il fumo, e penso che ho un’accattivante faccia come il culo. Indosso i jeans, provo sguardi, espressioni facciali col mozzicone pendulo, e mi sistemo il pacco come un’icona con le reliquie di un santo. Poi, per caricarmi meglio, faccio il personaggio multitasking. Accendo lo stereo a palla per trovare concentrazione e conforto e rivolgo un pensiero grato ai Judas Priest d’annata che bruceranno emozioni in eterno. Nel contempo poppo dalla boccia smezzata sul comodino. E mi deodoro anche: mi si accendono odori che richiamano figa e piastrelle di doccia alla vaniglia, e la museruola ha un fremito. Fantasie da immolare per questa nottata, spero. Indosso una felpa nera come un paramento per celebrare la messa. Funebre per le vittime. Una manata di gel da grufolare nei capelli con quel qualcosa di inespresso tra caos e marchio. E ancora pensieri. Adesso stanno indossando l’elmetto da soccer e giocano ad evitare lo scazzo montante, per il bidone della brigata, e gli artigli della noia, da spuntare con forbici esplosive di ira da kamikaze. 258 Mi preparo per una meta esaltante alla faccia di chi ha bisogno del meta per fare wrestling con i suoi problemi. Controllo il corredo: sigarette, accendino, chiavi dell’auto, tirapugni affilato di recente, fazzoletti, cellulare, mentine con il rilievo di quadrifoglio, che portano bene, e la bottiglina piatta piena di grappa, che è la mia copertina di Linus. I condomini nel cervello cominceranno a dire la loro mentre scenderò le scale dinoccolato, con le due teste formicolanti di strane idee. Anzi già parlano: sento dire che non ho troppi soldini e che la macchina è in riserva e il cellulare anche. Carlomagno brilla per la sua assenza e per la sua Alfa. Del cellulare posso fare a meno perché stasera non squillerà da parte di nessuno e sono troppo incazzato per socializzare con qualche numero. Mi calo nella parte del personaggio dignitoso, del samurai metropolitano, e lascio telefonino e le chiavi dell’auto sul comodino sibilando concetti astiosi generali sull’indifferenza di dio verso gli umani. Quindi stasera programma pedonale, contemplativo, alla ricerca della sorpresa fai da te con poco, delle nozze coi fichi secchi, a zonzo per vedere varia umanità e riflettere su come invertire il volano della sfiga per i prossimi sabati. E vaffanculo al condominio, ché sento la noia che mi sta artigliando una spalla. 3. Ore 23 Può cominciare a pulsare la notte. Esco di casa e non appena mi richiudo il portone alle spalle sono colto dallo smarrimento di un capo di cotone in centrifuga. Il cervello esplode in sinapsi caotiche. Il rombo delle automobili e del traffico serale si assomma alle facce degli automobilisti e pedoni: la squinzia assente con un vacuo sorriso che fa le bolle con la gomma dietro un parabrezza acquario, l’autista impaziente che sta 259 due automobili più dietro, col cappelletto dalla visiera ad abbaino, marine hip hop in libera uscita. Poi ci sono i pedoni: pochi, ostili o morbosamente curiosi, quando non menefreghisti ad occhi bassi e passo svelto. Ronzano i pensieri e le sensazioni. Mi sento orfanello, stasera, senza i miei amici, senza macchina, senza pila, trasognato in prospettive di galleggiamento per le prossime ore, senza troppe curiosità ed entusiasmi da euforia di situazione diversa, ché la novità da soli rende spesso esitanti. Un piccolo sorso di bumba mi scalda ed equilibra addolcimenti e tristezze. Ricordi di altri sabati si sovrappongono, in piacere e rimpianto, al passo con la mia andatura sotto un porticato di luce gialla che scalda ed estranea al tempo stesso. La riunione interna di condominio è al culmine nella discussione del primo, fondamentale e unico ordine del giorno: che fare? Una voce sopra tutte, della signora Trippa del piano di sotto, graffia stridula: nutrirsi e vedere gente, tanto per cominciare. I condomini, stranamente tutti d’accordo, urlano all’unisono: dal Gobbo, dal Gobbo… Mi dirigo deciso verso un chiosco mobile all’aperto, parcheggiato tutte le notti in una piazza vicina, con seggiole e tavolini di plastica anche a meno quattro, con automobili in tripla fila, con una scia di odori che rasenta la fumeria d’oppio farcita con oli d’essenze esotiche. L’olio d’essenza del Gobbo è quello di semi, usato al limite della mutazione in morchia per macchinari vari: spande un odore nauseante che ti impregna anche gli abiti, in friggitoria di cose aliene. E’ accompagnato dall’afrore di salamini e wurstel alla griglia che rilasciano grasso come bombe ad orologeria, dall’aspro nell’aria di crauti acetati con acquaragia, dal muffo di panini dai companatici fantasiosi ed improbabili, unti di sciolina. 260 So quindi come farmi male, ma almeno vedrò qualche volto amico abituale e mi sentirò meno solo. Magari avrò modo di combinare qualcosa con altri. Accelero il passo in preda ad una fame da licaone, buon segno di voglia di dire e fare e baciare. Il chiosco è un presepio con lucine variopinte e neon di stelle comete schizzate di sugna. Il Gobbo armeggia con palette e coltelli e dal pulpito fumigante guarda sornione la platea degli affamati sotto di lui. Prepara panini con una sigaretta in bocca, si gratta il culo o i coglioni, prende i soldi, tocca il pane e afferra un wurstel con le mani callose, sacramenta contro il freddo o contro chi paga con banconote da cinquanta. E’ una serata di vaffanculo anche per lui, dunque, e mi sento solidale. Ordino la mia razione di sopravvivenza, o anche sopramorienza, a seconda delle prospettive: grassi, tanti, proteine, qualche carboidrato naufrago e minacce assortite per il fegato. Mi guardo intorno: poca gente. O tutti già andati a fare danni, o ancora non arrivati per il rifocillamento. Al tavolino in fondo c’è Samantha, con l’acca, che smangiucchia una piadina ripiena come un canotto di clandestini. Mi tengo distante: non mi va di fare discorsi esistenziali seri sul concetto d’identità. Samantha, in effetti, si chiama Oronzo, è alto un metro e novantadue e pesa centoquindici chili. E’ un omone mite e stempiato di buon appetito. In realtà sotto il cappotto e il maglione indossa biancheria intima femminile e sotto i pantaloni di fustagno ha calze a rete con la riga dietro e culottes color lampone, di quelle scosciate di fianco, con lo spacco. Come cazzo abbia fatto a reperire taglie per il suo corpaccione, è un mistero gaudioso. Si esibisce pochissimo, gratificato dalla sua essenza femminile riservata, e non conclude mai sul concreto un 261 qualche incontro perché non è convinto ed è timido: una donna cannone angelicata del dolce stil novo o del circo del Gobbo, con uccello che non è dato di sapere quanto sia di carattere. Ogni tanto si confida, quando è particolarmente malinconico, ed è delicatamente umano a dispetto della stazza da mercantile, con occhi messaggi che luccicano in bottiglia. Quando si esibì con noi, alcuni mesi fa, seguiva attentamente discorsi sul senso della vita dello Sniffy, alle prese con i suoi soliti problemi finanziari. Cominciò a parlare anche lui, non invitato, ma aveva una voce cullante e ha un aspetto che incute soggezione, perché se s’incazza potrebbe farti male male. Parlò di smarrimenti, di ricerca di una tranquillità interiore, di equilibri. Poi tirò giù la zip della felpa accollata e ci fece vedere il negligé colore avorio con annesso reggiseno, riempito di qualche fazzoletto, tra biondi pelazzi trogloditici. Sorridemmo come beoti, non troppo apertamente, ché le mani di Samantha sono due badili, e fummo catturati da quel fare dolce e dentro le righe a contrasto dell’aspetto di camallo in libera uscita. Samantha mi ha visto e mi saluta con un cenno. Gli agito la mano rimanendo presso il Gobbo in attesa del panino. Non ho voglia di fare discorsi impegnati stasera: già girano i coglioni per conto mio. E poi, tra pantaloni di velluto e scarpe, intravedo calze velate fumè e penso che oggi sia sul sentimentale torbido. Mi guardo intorno e faccio l’appello: c’è il tamarro con figa insaccata in pelle nera, pronti per la disco, il minitour dei puttanieri con stereo a palla, i quattro del poker di mezzanotte, studentelli assortiti che si credono coriacei e navigati solo perché mangiano qualcosa dal Gobbo che spignatta e smadonna in mezzo ad un fumo sempre più di categoria euro uno. Pago, sbocconcello distratto, tirato per il braccio da pensieri e programmi tra i più disparati. 262 Scuoto la testa da solo, insoddisfatto ed annoiato, con le immagini del branco dei sabati scorsi che mi perseguita e m’immalinconisce. Bisogna reagire, cazzo, che è senz’altro meno elegante di “in piedi, soldato”, di Matrix, mi pare... Centro la pattumiera con mezzo panino gocciolante e mi dirigo verso la stazione. In una stazione c’è sempre da vedere, da fare, e verso mezzanotte arrivano le prime edizioni dei quotidiani. Ecco, mi frego da solo: sono un semplice magazziniere con studi interrotti per pigrizia, ma mi piace leggere, amo documentarmi, discutere, controbattere, farmi idee personali. E ho sviluppato lessico e dialettica che male si sposano con l’aggressività e la voglia di non sapere per stare meglio. Mi merito un vaffanculo anche io. Accendo una paglia riparandomi contro un muro e m’incammino, gobbo come il Gobbo, ma senza panini, verso la stazione, azzannato da pensieri del passato e scorticato dal presente con la noia uggiolante che mi lecca i polpacci e graffia con i suoi artigli. Malessere e incazzatura montano a neve e ora proprio non ho bisogno di mentine strane, ché sono bello carico e aggressivo che basta e avanza. Mi accontento di bagnare appena le labbra alla mia bottiglina piatta: la mia camomilla personale che mi fa tendere pacificamente un braccio alla vita senza che io debba per forza spezzare il suo. Anche se vorrei picchiare qualcuno e i pretesti si rimpiccioliscono passo dopo passo fino a divenire insignificanti. Per stare meglio e convogliare una certa ferocia urbana nel cosmo in armonia con questo mondo violento. Mi batto una mano sulla spalla per congratularmi per la bella immagine con un sorriso verde acido. E me la prendo con una lattina maltrattandola a calci stizzosi. 263 Il buon ragazzo lavoratore dei giorni feriali sta lasciando il posto ad una bestiaccia notturna di savana che fino a ieri cacciava in branco e adesso deve fare tutto da sé. Dio, che palle… 4. Ore 24 La stazione ferroviaria, a mezzanotte, ha qualcosa di irreale, sospesa tra uno scenario di film dell’orrore e il luna park che ingolosisce i bambini viziosi a caccia di emozioni forti. I tossici escono dai tombini nella nebbia della notte, replicanti zombies di Michael Jackson in ‘Killer’, e le puttane, i trans e i finocchi lanciano richiami da sirene, sbattendo le ciglia lunghe di gazzelle da macellare e sculettando con brio. Altri guardano altri per come si può guardare qualche prosciutto che cammina, da spolpare fino all’osso. Qualche sabato fa avrei avuto l’uccello di marmo, pieno da scoppiare, e mi sarei trovato nella stazione con i miei amici facendo finta d’essere davanti al banchetto del venditore di dolciumi del mercato rionale a decidere il gusto della caramella da rubacchiare. Oggi, invece, mi sento bastonato dentro, demoralizzato senza complici, risate cameratesche, fantasia di gruppo, orfanello dalle unghie rosicchiate e dai polpastrelli inoffensivi. Mi guardo intorno in attesa di un’erezione mentale che non arriva, nonostante stimoli vari nascano da ogni parte. E penso al da farsi mentre m’accendo una sigaretta. Il più bieco da farsi per alleggerirmi di tossine d’angoscia. Non è la stessa cosa, tuttavia, il prendere a calci, senza compagnia, un barbone isolato in un cantuccio semibuio, soltanto perché dorme avvolto nel cartone e russa come un maiale. Non si ride poi tanto, difatti, da soli, e il puzzo del piscio e del vino del cartoccio non trasmette l’abituale buonumore 264 acido e la voglia di vendetta contro la natura così crudele, seppure per interposta persona. Manca il fiato degli altri soldati di ventura con cui condividere la sortita e la conquista di un piccolo territorio occupato dal nemico. La vittoria ha bisogno d’essere divulgata e celebrata insieme ai compagni di spedizione punitiva. Il vecchio laggiù, quindi, per questa sera è salvo, e mi fa pena, stranamente, adesso che manca la voce perfida del Serpe che studia castighi da somministrare con la scientificità di una vivisezione. La mancata vittima è circondata da sacchi di plastica di supermercato pieni di stracci: è il manuale vivente del come dormire avvolti da un armadio quattro stagioni portatile per tenersi caldi e avere a portata di mano l’intera proprietà. La lumaca metropolitana col guscio di cellofan che puzza di sudore e vomito. Mi recito un rosario di vaffanculo allo schifo di certe situazioni e alla rabbia che richiamano. Ci fosse anche solamente quel fighetta di Carlomagno, gli ammollerei un calcio nei denti, a quel vecchio, tanto per vederlo contorcersi e per omologarmi ancora una volta nel concetto che la vita è crudele, la mia piccola verità da non dimenticare, appresa da autodidatta cui piace leggere senza sistematicità. Scaccerei anche quella rompicoglioni che è la noia, che sbraita nel cervello come una madre apprensiva per ricordarti di mettere la sciarpa con questo freddo. Fanculo anche a lei, non mia madre, o forse anche lei, ma soprattutto alla noia. Il pisciatoio al binario venti attira attenzioni di vario genere: dalla pisciata semplice ad altro di più complesso. Riverbera d’una luce bianca intervallata dall’andirivieni scuro di sagome elettriche. Sembra la casina, anzi, il cesso di Hansel e Gretel: un posticino da fiabe perverse luminoso nella boscaglia nera della città di notte. In gruppo, solitamente, germogliano idee di malignità, da attivare con creatività sadica. 265 Oggi, da trovatello quale mi sento, invece è mortorio. Infatti non è la stessa cosa andare da soli a far finta di pisciare bilanciando l’uccello gommoso davanti agli occhioni di una mammola in libidine che sbava e spera nel colpaccio mentre srotola la lingua per farti capire e promettere. Qualcuno, ogni tanto, di quelli più vaccinati di altri, s’inginocchia di colpo e prende di sorpresa, con la bocca che è una pompa idrovora, e la faccia come il culo, di fronte ad altri che guardano tra invidia e immedesimazione e si segano più freneticamente del solito, in rituale collettivo. Spettacolo smanettatorio che neanche al Mugello. Ricordo il Serpe che si materializzava all’improvviso da una cabina di cesso chiuso, che era una palude per l’intasamento dello scarico, e cominciava a dare scappellotti dietro la nuca di qualche aspirapolvere in ginocchio, sempre più forti, ridacchiando cattivo senza dire nulla, fino a che la sorpresa era sfrattata dal dolore e poi dalla paura. Sniffy faceva la faccia truce e mostrava il tirapugni luccicante e Carlomagno minacciava con modi civili e ineluttabili da ragioniere della mala. Era l’età della tangente sul pompino. Riscuotevamo successo. Portafogli grassocci passavano di mano. La paura sgocciolante si confondeva lungo le maioliche bianche istoriate da schizzi di liberazione. Qualcuno, ma molto raramente, godeva di più e mugolava implorando anche qualche pedata, e noi si era generosi oltre la filantropia e calzavamo gli anfibi con la punta di ferro. E ora? Potrei solamente subire un tarantolato che succhia, per passare dieci minuti, per una forma di eretica pietà, e si esaudirebbe una botta di culo vagheggiata dall’inginocchiato che ha evitato il castigo della sorte e sta sgodazzando con il torcicollo. No. Oggi è troppo avvilente e poco divertente, per me, e non mi farebbe effetto neanche un quadrifoglio sotto la lingua: troppo depresso anche per le mentine che portano fortuna. 266 Meglio andare laggiù, verso i fattorini della cooperativa, a vedere se ci sono già le prime edizioni dei quotidiani. Raffredderò cattivi pensieri con l’occhieggiare qualche titolo, arraffare una copia e leggere alla luce del lampione immediatamente fuori della stazione. Starò tranquillo per qualche minuto. I tossici che squadrano tutto come squali ubriachi sanno che è meglio evitarmi per un concetto metropolitano innato, darwiniano, di selezione della specie. Eccomi alla luce smorta, con un’altra sigaretta penzolante. Cerco d’interessarmi allo spaccio delle verità, con la noia che da dietro una spalla mi sgomita troppo da vicino e curiosa su qualche titolo dicendo, non richiesta, la sua in disincanto totale. La noia è un brutto cliente per parlarci assieme: è tuttologa e sempre troppo piena di sé. Ecco perché rompe i coglioni. Annuso l’odore del piombo e dell’inchiostro fresco della stampa, nella notte, e i polpastrelli rossi per il freddo s’anneriscono diventando milanisti. Scivolano auto di passaggio con rumori ovattati dalla notte. A momenti tante. Ora poche. Si muove incessantemente la corte dei miracoli che muta in soggetti, ma non in categorie: passanti frettolosi, esseri barcollanti, portaerei rossicce che ancheggiano sotto i portici sfarfallando la borsetta in classica iconografia del puttanesimo. Continuo a sfogliare le pagine distrattamente, con l’uccello barzotto per pensieri liquidi che sono passati dal pisciatoio e si stanno espandendo negli slip e sotto i portici. Accarezzo l’idea di una pompa etero, senza preliminari, senza corteggiamenti e smarronamenti, tanto per svuotarmi, trascorrere un quarto d’ora, alleggerirmi da tensioni, scandire e cazzottare il tempo con colpi ripetuti come le succhiate. 267 Mi frega la desolazione del portafogli rispetto ad una marchetta appena decente. Mi incarto dentro e appallottolo il giornale rabbiosamente in simmetria. L’ingiustizia della vita e della natura umana passa anche nel mancato svuotamento delle palle, soprattutto quando se ne ha voglia, nell’inadeguatezza tra la domanda e l’offerta in transazioni di carattere sessuale, e anche nelle complicazioni affettive, se non si pensa a puttane, ché ci si illude che storie d’amore possano durare per sempre e invece ploppano dopo due o tre settimane per assenza di dialogo. La verità è che non si parla. Soprattutto a bocca piena. Soprattutto a testa premuta sulla pancia in trivellazione dell’esofago. Mi guardo intorno con astio verso il mondo, senza troppi soldi, senza stimoli, con pensieri tristi e senza speranza. Perché chi vive sperando, muore cagando. Non mi faccio, dunque, illusioni, e gironzolo per qualche tempo fuori e dentro la stazione, con idee confuse che s’accatastano pesanti. Guardo la varia umanità, qualche rara figa svelta, e sogno soprapensiero la principessa che dopo mezzanotte non si trasforma in zucca, o roba del genere, ma incrocio, per lo più, soltanto facce sfatte, viaggiatori assonnati, due madame arcigne per il turno di notte e tante puttane torve che pensano che la vera zucca sono proprio io. Vaffanculo ancora a tutti, ché questa è la serata dei vaffanculo perché sta andando in vacca e in completa solitudine. Cacciare di notte da soli è faticoso e richiede risorse che oggi non ho: soldi, pazienza, crudeltà, fame. Stasera, invece, mi sento romantico, anche se sono passato per praterie di immagini di pompini assortiti, e mi sento fragile, incalzato da voci che potrebbero provenire dalla via di Damasco, e mi chiedo di dubbi e di ciò che è giusto e sbagliato. 268 Gironzolo ancora, inquieto, fanculizzando anche i prioni della filosofia che s’agitano dentro il mio cervello frizzantino. Bisognerebbe parlare… 5. Ore 1 “Serata fredda…” Cerco di imbastire uno straccio di civile conversazione. La porchetta fluorescente rumina una gomma e mi guarda attraverso senza dire nulla. “Rilassati: ti faccio compagnia e ci facciamo due chiacchiere…” Tiro fuori la bottiglina piatta per celebrare la nascita di un’amicizia con un cicchetto in comune, ma vengo gelato di brutto. “Con quella faccia mi spaventi i clienti. Che cazzo vuoi? Non lo vedi che sto lavorando? Non ho mica tempo da perdere coi sognatori rompipalle. E vattene, dai…” Mi scoppia qualche vena sparsa tra cuore e cervello e tiro un calcio ad una colonna. Mi faccio anche male ad un alluce e le bestemmie si inanellano con sciolta facilità. “Sei proprio un catrame, stronza sifilitica di merda. Uno cerca di essere educato, di rompere il ghiaccio con gentilezza, senza che si debba andare necessariamente a prendersi lo scolo a casa tua, e tu mi ripaghi con la cortesia di un caimano. Proprio vero: questo è il sabato dei vaffanculo. E tu stai vincendo anche la bambolina che ti ficcherei tra quelle chiappone da cinghiala…” La porchetta non appare per nulla impressionata. Continua a ruminare. Poi con voce stanca mi spiega come stanno le cose. “Il mio amico sta laggiù dentro il Mercedes: la vedi la sigaretta accesa? Ecco: tu adesso te ne vai senza dire più nulla. 269 Altrimenti io fischio in maniera strana e lui viene qui per sapere se ho bisogno di aiuto. Non gira a mani nude e nemmeno con un tirapugni, ma ti buca veloce e da seduto lì dentro non si vede bene che è il doppio di te. Fidati. Alza i tacchi e vattene, stronzetto, che mi sta scappando la voglia di fischiare…” Alzo, beffardo, la bottiglina per un brindisi, a lei e al suo pappa laggiù, tracanno un sorso robusto, e mi squaglio con dignità, rigido come uno stoccafisso, sotto lo sguardo compassionevole di altre lavoratrici testimoni. Fischietto “piccolo grande amore” per darmi un tono, per sfregio, per incazzatura mia personale assai bruciante, con la voglia prepotente di scalciare, ruotare frenetico le braccia coi pugni foderati di anelli contro qualche stronzo mulino a vento di passaggio. La depressione si sta facendo strada nelle pieghe del cervello col passo del leopardo e a spallate robuste. Sì: perché l’ira sta andando a braccetto con la voglia di fare due chiacchiere da tranquilli con qualcuno qualsiasi, per il gusto di stare in compagnia, di dire, di non essere solo. Mi sento uno zabaione sbattuto a cucchiaiate violente, tra la voglia di far piangere qualcuno per odio e il desiderio di entrare nel mondo di qualcun altro, o magari anche lo stesso odiato, per comprendere e magari riappacificarmi. Bello, il termine ‘pacificarsi’. Cazzo, che memoria: è un termine usato nel film “Bird”, la biografia di Charlie Parker, un’anima sola e inquieta. Puttana Eva, è brutto assai sapere di Charlie Parker, amarlo come musicista, amarlo come persona, conoscere la sua biografia. E’ la conferma, mi dico, di quanto si stia meglio senza sapere un cazzo di nulla, beati gli ignoranti, diceva qualcuno, mentre io sono sempre troppo curioso, anche se disordinato e troppo personale in senso naif. 270 Cammino a testa bassa e non mi accorgo che ho valicato la zona delle mignotte per entrare in quella delle ‘regine’. Potrebbe andare bene anche fare due chiacchiere con un trans o un travesta, ché ho intuito spesso in varie occasioni che hanno anche loro una sensibilità, anche se adesso provo imbarazzo al pensiero di quella volta che spogliammo la vecchia Cinzia giù ai Mercati Generali. Cinzia è Vitaliano, un vecchio frocio in disarmo che cerca di raccogliere un pranzo e mezza cena a forza di pompe senza dentiera, vestito da soubrette degli anni cinquanta. Più che una gazzella, è un bue muschiato, grosso e grasso, ridicolo, privo di gusto, con una vocina chioccia che trasuda un buonumore falso a nascondere fame e disperazione. Lo mettemmo in mezzo facendolo parlare della sua vita, di quando era la regina dei Mercati e dettava legge a forza di sculettate. Parlava con orgoglio di giorni andati e non si rendeva conto del tempo impietoso. Serpe lo faceva bere da un cartoccio di vino. Quando Cinzia si impappinò di fisso nelle descrizioni e cominciò ad appoggiarsi a Sniffy e a me, Carlomagno dichiarò aperta la stagione di caccia e fece la telecronaca, con voce appassionata, di una corsa tris da milioni. E noi spogliammo Cinzia lasciandola con i mutandoni della nonna a rabbrividire nel freddo della notte. Chiedeva pietà, piangeva e chiamava le tante madonne del rosario, ché i travesta sono in genere molto pii, e le chiamava tutte per sé. Il Serpe, ad ogni invocazione, faceva il verso del collezionista di figurine – ce l’ho, ce l’ho, mi manca…-. Poi Carlomagno terminò la telecronaca dichiarando la Turris Eburnea come doppione e ce ne andammo dopo aver fatto un falò del capetto da boutique di Cinzia. Si dissolvono le immagini di imprese andate dell’allegra brigata, si diluiscono in vaghi rimorsi di verme solitario, e 271 mi viene incontro un piccolo capannello di tre trampolieri dalle giunture velate e nodose su tacchi a spillo esagerati. O meglio, a dire il vero: sto andando io incontro a loro. Stanno parlando animatamente di qualche sgarbo o di qualche sensuale algerino da dividersi nel tempo libero. Sono vistosi e sgargianti, truccati come mascheroni, esaltati sotto la luce crudele dei lampioni senza ombre di altra gente intorno. Gesticolano, marcano il tono della voce, ché penso sempre a Wanda Osiris sotto amfetamine, teatralizzano con improvvisi colpi di testa indietro a smuovere capelli vetrificati da chili di lacca, forse autentici e forse no, rossi lampone, verde alga, neri corvini. E’ uno sbrilluccicare di anelli che sono armi improprie e fasciano dita di boscaioli, e ridacchio dentro di me pensando alle seghe in associazione doppia di idee. Sono così preso dal guardare il terzetto delle grazie isteriche che non mi accorgo che quella che sembra Satanik, la rossa lampone, ha un doberman al guinzaglio, piuttosto inquieto. Graziella e Graziealcazzo mi vedono venire incontro e si scostano appena guardandomi maliarde. Vengo investito da una corrente d’aria in un esagerato sbattere di ciglia. Satanik mi è di spalle e non s’avvede del mio incedere. Lei no. Ma il cane sì. Ed è animale da difesa. Lancia un abbaiare veloce d’avvertimento, una specie di banzai canino, o latra un Geronimo, urlo di guerra di cane pellerossa, e s’avventa ad un braccio. Sento un ‘cric’ che forse è uno ‘strap’. E mi sento il braccio indolenzito. Satanik, che è alta un metro e novanta buoni e potrebbe partecipare alle Olimpiadi nella lotta grecoromana, tira una strattonata che quasi strozza il coyote mannaro. Poi mi squadra con altezzosità e mi biascica un affettato: 272 “Scusssa…” Proprio con tre esse, e in falsetto. Mentre io mi tasto il braccio, mortificato e anche appena impaurito, troppo frastornato per mandarle un vaffanculo diretto. Volevo fare due chiacchiere, vaffanculo sì, ma a me… Il braccio non è rotto, ma il giaccone di pelle sulla manica sembra una grata da clausura. Graziella e Graziealcazzo mi sorridono con commiserazione e qualche flebile segreta speranza consolatoria dietro pagamento d’una marchetta in amicizia. Satanik ha già archiviato il piccolo incidente, forte anche del porto d’armi a quattro zampe, e si è già girata verso di loro e continua un accalorato discorso su quel cazzo di algerino che dovrebbe avere le orecchie che fischiano come locomotive. Il doberman ghigna sputacchiando pelle di giaccone, mortacci suoi. E io m’allontano con un braccio formicolante, un giubbotto da buttare, il morale sotto i tacchi e la bottiglina che è quasi finita. Insoddisfatto e sempre più velenoso. Potrei anche uccidere, adesso. Anche se è un discorso di marea: potrei anche uccidere, ma adesso sbollisce e ho voglia di parlare, però prenderei a calci qualcuno, ma poi vorrei sapere qualcosa di lui, e che cazzo c’entrano le ultime notizie del giornale di prima? Confusione. Penso al giornale zeppo di notizie deprimenti, al pisciatoio, al Gobbo, a Samantha, e mi scolo l’ultimo sorso. Accendo la penultima paglia, ché sono in debito anche di queste. Che staranno facendo i miei amici? Sniffy e Carlomagno stanno scopando. Il Serpe o scopa o picchia. Io sto scappando inseguito dalla noia che morde peggio di quel merdoso di doberman. Gran bella serata… 273 6. Ore 2 Non so proprio se l’uscire da solo in questa nottata di merda sia stata una bella idea. Mi gratta tutto sulla pelle, e in modo molto diverso rispetto agli altri sabati con i miei amici. E’ un percepire abrasivo, quasi tagliente, e problematico con risvolti dolorosi rispetto a consolidate convinzioni. La violenza programmatica di membro di un branco, poi riciclata in violenza di scazzo furibondo da solitario, si sta trasformando ancora in qualcosa d’altro che è una violenza particolare, rivolta contro di me, nel guardare le stesse situazioni di sempre con altri occhi. Mi sento impreparato, debole. Ruggisce qualcosa dentro, ma come il leone dei films, verso un punto non ben centrato, con la voglia di azzannare per ritrovare le mie verità confermate, e il dubbio, che si sta affacciando, sul fatto che certe teorie forse non sono esatte e non c’è nulla da azzannare. Che palle: si sta mettendo in moto un processo di revisionismo circa le spedizioni punitive notturne. Cammino ristretto nelle spalle, con il braccio indolenzito, senza più fumo, senza più bumba, con pochi dindi e una certa prepotente voglia di scopare all’abbandonata, con qualche delicatezza e due parole, fare l’amore, insomma, locuzione che tanto mi ha sempre fatto ridere mentre ora mi da l’impressione che possa essere il raggiungimento di un’oasi. E’ probabile che la mia atavica assenza di romanticismo sia dipesa da squinzie in saldo che assomigliavano a salamelle, da ragazze troppo pretenziose e avide di sentimento rispetto ad una semplice veloce cavalcata a sud sudest. Resta il fatto che adesso ci vorrebbe per me una bimbetta di quelle meno smandrappate del reame, di quelle che poi ti dicono con voce da catechismo che ti vogliono bene. Minchia, che spappolamento di vecchie convinzioni, e come mi sto ammorbidendo: mi sento uno stracchino fuori 274 frigo, comincio ad avere la gola secca e faccio un pensierino su un piccolo quadrifoglio da sciogliere sotto la lingua. Ma poi mi dico: a che pro? E procedo, attendista e vigile, col passo della pantera rosa in erezione… Dal buio mi si materializzano due pipistrelle stivalate, nere nere, piene di borchie e spilloni, che mi vengono incontro chiacchierando a voce bassa. Magari vanno ad imbucarsi a qualche festa. O ne sono appena uscite. Faccio la faccia del simpatico, duro, ma simpatico, e sorrido storto con aria di bravo giovane vissuto e di mondo. Quando mi passano a fianco azzardo un approccio che è quasi un capolavoro di cameratesco galateo di strada. “Dove andate, ragazze? Serata interessante? Posso aggregarmi a voi, se volete… Ho qualche mentina da sballo…” Non sprecano neanche un garbato rifiuto. Accentuano soltanto indifferenza condita di risatine, quelle piccole stronze che pensano di avere inventato la figa dell’era moderna. Poi, a distanza di sicurezza, sotto la luce di lampioni, con altra gente abbastanza vicina e rassicurante, sparano l’obice di mortaio: “Vaffanculo, sfigato… Le mentine usale come supposte e ficcatele nel culo…” Mormoro i morti al loro indirizzo, senza neanche la grinta sufficiente per urlarlo all’intera strada. Maledico i miei amici assenti, ché sarebbe andata in altro modo, se ci fossero stati: si sarebbero udite soffocate invocazioni di pietà e di aiuto, delle troie portajella, nel rumore di pugni dentati sulla loro ferramenta attaccata con le spille da balia. Poi mi dico che sarebbe anche incominciata in altro modo, così, tanto per farmene una ragione: il branco non parte tanto con l’idea di cercare dialoghi e compagnia quanto con l’intento di divertirsi alle spalle di chi deve 275 espiare qualche peccato, a insindacabile giudizio dell’assessorato alle violenze metropolitane. Magari il Serpe avrebbe anche esibito il suo uccello e Carlomagno avrebbe fatto il banditore d’asta per l’asta, con me e Sniffy piegati in due dalle risate con un formicolio tra le cosce e la voglia di ammucchiare le corvacce contro una colonna del porticato per sentire il rumore di tessuti strappati. Scuoto la testa tra ipotesi e realtà, sempre più confuso, e strascico la mia camminata verso il fiume alla ricerca di persone che conosco e per ricaricare il thermos di bumba. Il lungofiume è pieno di localini zeppi di fauna fino all’alba. Il paradiso di chi vuole farsi qualche pera umida, di chi, bello cotto a quarantacinque gradi, vuole poi dormire dodici ore di seguito per svegliarsi con un mal di testa stratosferico, il paradiso di chi a volte tocca il paradiso afferrandolo per i peli d’una figa passabile e ospitale. Mi stupisco di non averci pensato prima. I costi, dal contabile magazziniere che è in me, sono analizzati all’istante come contenuti e sopportabili: qualche birra e qualche tequila, magari un panino… Poi basta fare il brillante con gli amici degli amici degli amici sperando che tra loro ci sia la famosa pelosa inguinale che occorre per concludere degnamente la notte. Stronzo bradipo che sono, di tardi riflessi e reazioni. S’accende un barlume di entusiasmo, camerata di diffidentissima speranza, perché una voce insistente, proveniente da dentro o da dietro le chiappe, mi soffia che andrò in bianco. So chi è: la riconosco subito perché mi insegue da tutta la sera. La fanculizzo anche a voce alta, e suono per sfregio cinque o sei campanelli di una citofoniera già mezza penzoloni d’un palazzo che sembra una cripta. Ma sì, al fiume, al fiume, verso la musica latina, lo ska, la birra, la figa, altri amici, la gente, il clan, la tribù di ognuno per sé e dio per tutti, ché poi, a ben pensarci, si fanno tutti i cazzi loro e chi ha figame sottobraccio non pensa certo a dividerlo con il conoscente brillante di turno. 276 Mi sa che la voce fanculizzata ha ragione. Stasera ha sempre ragione, pare… Incrocio altri rari passanti. Una troia enorme che mi fa l’occhiolino, e tremola il budino che copre i polmoni con scossoni che dovrebbero arrapare. Una coppia che tra poco s’attaccherà a corrente continua, ché sento odori di carne eccitata. Una guardia notturna… Le guardie notturne sono tra le persone che odio di più, con quelle facce sempre incazzate, che ti guardano come se tu fossi una merda o un delinquente matematico. Si fanno forti della trentotto e della radio: li vorrei vedere a culo scoperto dietro la stazione… Monta l’odio, l’incazzatura sta facendo free climbing tra i miei pensieri: buon segno, perché vuol dire che riprendo quota. Dai, soldato, al fiume a scaldarsi colla bumba. Dai che forse riprendiamo la situazione in mano e ce la togliamo dal culo, che brucia assai... 7. Ore 3 “Vuoi fumo? Neve? Altro?” Il supermercato parlante potrebbe essere napoletangiamaicano o semplicemente marocchino. Mi spia senza eccessivo timore: non ha nulla da perdere. E’ un disperato guerrigliero di tutte le notti e ha odiosi capelli rasta che puzzano di zolfo e resine e gli fanno da elmetto per le sue battaglie in trincea. Odio i capelli rasta: li associo a stronzi che escono dal cervello invece delle idee, in costruttività che non mi è sintonica. “Guarda che non ho nemmeno paglie. Ne hai?” “Abbiamo tutto, qui, fratello…” Ride storto, e penso che è meglio essere figli unici. Mi molla due rolli unti già fatti, prelevati direttamente da un qualcosa che sembra la cartucciera di Rambo in astinenza, sotto un giaccone. 277 Pago e lo squadro: forse mi frega o forse no. Forse ha intorno amici in attesa di un segnale d’allarme per sbranarmi. Forse non succederà nulla, ché sto in fase depressogena, a questo punto della notte. Le lucine lungo il fiume, la musica di vario genere e gli occhi scintillanti di bumbe assortite di vari esemplari di zoo, quasi tutti in via di autoestinzione, non mi caricano a sufficienza per come avrei sperato. Idea fottuta, quella di venire fino qui: non c’è nessuno che io conosca e mi sento più solo di prima, sempre artigliato dalla stronza dama di compagnia. In effetti il mio sguardo passa oltre, verso le luci della città dall’altra sponda del fiume, sopra i mulinelli dell’acqua, scuri e luccicanti, vivi di piccoli nuotatori con leptospirosi, ebbri di felicità per il raggiungimento della fine tra danze e canti in rimasugli di lattine di birra. Il cervello sta diventando onirico e surrealista. Le pantegane hanno le cuffie nere con la barra bianca trasversale fosforescente, con la scritta ‘Rari Nantes sani’, e rodono incessantemente la riva di pietra e cemento per farla crollare nel fiume e farne territorio di conquista. Avrebbero vita facile e vitto abbondante, mi dico guardando i tavoli straboccanti di comitive allegre e ciarliere. Non solo quelle, però, che s’intersecano anche storie nere d’emozioni cupe. Brillano occhi rapaci di pensieri, di vendette, di rancori verso altri o anche solo verso la vita, e le bollicine delle birre deflagrano come mine antiuomo, anche se siamo davvero pochissimi, nel mondo, che riescono ad ascoltarne i boati. Non so se sono partito, per la bumba scolata del tutto o per il rollo che sto fumando con indifferenza. E’ uno stato d’animo particolare, tra la resipiscenza e la debolezza dell’indifferenza di un malato grave rassegnato. In effetti mi sento un malato grave, inguaribile, con la fatina merdona rompicoglioni travestita da infermiera che insiste per farmi un clistere di verità spinose o di realtà nude ustionanti. 278 Sento che potrebbe farmi bene, ma mi brucia il culo per l’essere solo, annoiato, senza amici chissà dove, con odio montante per tutti, da quei due che stanno pomiciando laggiù nella penombra fino a quel buon samaritano rasta del cazzo che gioca a fare il piccolo imprenditore dopo che ha fatto il piccolo chimico. Il fumo che mi ha venduto fa cagare. Lui mi guarda da lontano, sornione, a metà tra il sogghignante per il fatto che io adesso so, e lo sfacciato che vuole la rissa per guadagnare qualcosa di più con uno straordinario o un cottimo. Sostengo lo sguardo e poi entro in un locale per rimboccare la mia copertina di Linus. Il barista non fa una piega. Indico una boccia di grappa con le foglioline dentro e poi indico la mia bottiglietta di metallo. Glugluglu. Riempie fino all’orlo; io pago, sorseggio abbondantemente da subito per trovare sollievo in surrogato di calore umano mancante. Mi guardo poi intorno: buio e luci violente a faretti, musica trance, odore di merda del fiume, chiacchiericcio vicino senza significati particolari, risate esagerate, brancicamenti furtivi, forse qualche uccello all’aria accalappiato da manine lazos. Dovrei eccitarmi mentre invece mi porto appresso tra le gambe un cadavere, anche se laggiù in fondo una squinzia senza vergogna è china di sguincio sopra un filetto con l’osso di un selvaggio che mugola. Fanno tutti finta che non esistano: lei mormora sissignore varie volte e lui invoca il dio delle squinzie ringraziandolo per la grazia santificante che è piombata su di lui questa notte. Non so cosa io stia facendo qui dentro: ho la sensazione di perdere tempo in una dimensione dove il tempo non esiste più, sfrattato dal già. Già visto, già vissuto, già accaduto, già metabolizzato. Già. Un incubo. 279 Il buio degli occhi chiusi spegne lucine, immagini, rumori, odori, e scompaiono fighe paffutelle, occhi lucidi di desiderio, sensazioni di potere, amici, amici, amici. Sniffy, Carlo, Serpe, vaffanculo: dove siete? Dove sei, ragazza volenterosa di percorrere la strada accidentata dei miei pensieri? Dov’è la tua manina esitante e poco esperta che mi gratta con le unghie maldestre i coglioni per afferrarmi l’uccello? Dov’è il tuo sorriso pallido e vergognoso di risposta a mie oscene proposte disperate per avere pace? Mi sento uno stupidello ragazzo viziato, ora, che vuole i giocattoli tutti per sé, che vuole avere ragione, che vuole che la noia anneghi nel fiume e nessuno la senta per salvarla. Esco dal locale, confuso, in pieno malessere. Qualche tavolino è vuoto adesso: gli onesti amanti del divertimento senza pensieri stanno portando le loro fighe a casa. Qualcun altro farà un ultimo tour a mignottilandia, più giù verso gli ospedali, dove a quest’ora passeggiano solamente le più disperate balcane ancora palpitanti d’aborti freschi, già sulla breccia, perché si vuole così dall’alto del ministero della pianificazione puttanesca. Ancora musica, in tono minore con l’ora tarda, e un pigro sciabordio lungo la sponda del fiume. Rasta è ancora là, con una birra in bottiglia e gli occhi lucidi. Il figlio di puttana mi ha ripuntato e ora ride. Sono troppo incazzato e sfatto per potere essere anche socievole: gli sfilo uno dei miei migliori medi degli ultimi tempi, un vaffanculo muto che rimbomba tra le lucine a ottomila decibels. Rasta si scuote. Viene verso di me, serio adesso. Dovrei allertare i sensi in organizzazione d’accademia militare: tirapugni tra le dita, sguardo vigile sulle mani del nemico, soprattutto su quella della bottiglia, analisi dell’ambiente circostante a individuare complici e altri nemici potenziali. 280 Invece me ne sto fregando, ché il cervello è pieno di bumba, di figa, di ombre di amici che mi sorridono in un andare e venire nel buio tra musica, fumo, risate varie. Me lo dico come se mi schiaffeggiassi: sono ciucco, porca puttana. Rasta ha uno sguardo da alieno con gli stronzi in testa, da vendicatore. “Perché il dito?” “Perché il fumo che mi hai venduto è merda di cammello, stronzo.” Glielo biascico, impastato, con un urlo liberatorio per sfogare da qualche parte tensioni e malessere. La noia pare ritirarsi, ché sento altre sensazioni nelle gambe e nello stomaco. Qualcuno si volta per seguire il dialogo, qualcun altro fa finta di nulla o addirittura si scosta sentendo puzza di rissa. Rasta non dice nulla. Scatta in avanti all’improvviso e avverto rumore di cocci e tagli uniti da un dolore alla fronte. Un sapore amarognolo di birra mi cola lungo il viso in bocca insieme a sangue. Mi sento spinto indietro e perdo l’equilibrio. Annaspo cercando una presa ad un tavolo, ad una sedia. Trovo il nulla puro e luminoso. Davanti e dietro. Dietro, soprattutto, ché è lì che sto cadendo. All’improvviso impatto nell’acqua del fiume. E’ fetida, dal sapore di merda e petrolio, densa, fredda, molto fredda. E mi dico che sono fregato. Non so nuotare. Mi sembra che alghe vadano a imprigionare le mie gambe per trattenerle verso il fondo, e ho la sensazione che le pantegane mi stiano guardando come ad uno spettacolo da circo e che battano le zampe per un bis. Potrei chiedere aiuto, ma ho paura ad aprire bocca. Penso che potrei inghiottire uno stronzo di geometra della periferia nord o di una massaia obesa di due isolati più in là, e poi non voglio dare soddisfazione a quel rasta di 281 merda che mi sta guardando dalla sponda con occhi selvaggi. Sta respirando forte, in frenesia a fiotti, e qualcuno lo sta tirando per un braccio. Ecco, mi dico: vedi che esistono gli amici? Poi ci sono fighette che urlano – salvatelo, salvatelo. – Sono deterrenti per il mio orgoglio: farei una figura del cazzo a chiamare aiuto ora. La corrente mi trasporta via come un sacco di stracci e le figure rimpiccioliscono in urla sempre più ovattate sommerse dallo sciabordio dell’acqua e dal mio mulinare frenetico delle braccia. Vado a fondo e ritorno in superficie, risucchiato da un fiume pompinaro, anche se mi sforzo di rilassarmi e di fare il morto a galla. Poche chiacchiere: tra poco, lo so, sarò morto sul serio e verrò ripescato molto più in là, gonfio come una zampogna, magari sbocconcellato come trionfo di ciccia alla merda, nuova specialità del giorno, della casa, per topacci di fogna. Si distorce la percezione del tempo, mentre annaspo, zavorrato dal povero giubbotto bistrattato: la percezione di morire tra poco, nitida, mi proietta nella mente il film della mia vita. Scorre una storia neorealista metropolitana davanti agli occhi che bruciano di nafta. Mi scopro, con sorpresa, menefreghista, circa le estreme conseguenze, e bendisposto, sempre verso le stesse. Va bene così: grazie tante e vaffanculo a tutti. La ruota gira veloce, sempre più veloce, tra i mulinelli d’acqua melmosa. Ci si innesta l’immagine di un criceto che corre, isterico nel cervello, tra urla di eccitazione di vecchie zie grasse di cui ho perduto la memoria, quelle che ti succhiano il pisellino mentre sei nella culla in attesa che ti cambino il pannolino, e fanno il verso del tacchino represso di libidini. Ciao pà e mà bell’affare che avete fatto e ciao Sniffy e Carlo e Serpe e figame vario di poche sere e padrone del magazzino e città di morti che non sanno di esserlo io lo sto 282 per diventare e lo so e adesso mi sento migliore e figo ché non vale la pena sbattersi per cosa soldi successo figa piacere con la noia che poi vince sempre perché mancano significati e spinte e dove riposare sereni senza pensare e senza porsi domande vaffanculo alla fregatura che è questa esistenza ché non mi sbatto un cazzo di vivere se deve vincere il rasta o il pappa dentro il mercedes o il gobbo che t’avvelena ogni notte ho altro in testa io da sempre e oggi ho scoperto che non è possibile ottenerlo e gli amici sono un’aspirina per un mal di testa cosmico che nessun pompino riuscirà a scacciare per cui è meglio che mi tolga dai coglioni anche perché non voglio dare soddisfazione a questa stronza noia che continua a ripetermi mentre sprofondo che ha ragione lei ha ragione lei ha ragione lei ha ragione lei e spero che esista il dio del buio per non continuare a rimanere solo ché ho paura in fondo anche se non me ne frega più nulla ché voglio smettere di pensare e soffrire ragazzi dove siete accidenti a voi che mi avete lasciato solo e ora farei due chiacchiere con Samantha per sprofondare giù meglio con coraggio e anche una regina andrebbe bene a menarmelo mentre tocco il fondo felice di scamparla e raggiungo il mio cammello nel deserto e guardo l’orizzonte a cercare palme ma vedo sole e luce che squarcia il buio della nafta bella presa per il culo saranno quasi le quattro adesso e stanno scoppiando i polmoni e i pensieri nel nulla nero m’accendo di un’estrema verità che mi fa sorridere perché sta smettendo di farmi paura si vive soli e si muore soli ultimo vaffanculo 283 NUOVA IMPRENDITORIA Le palpebre a mezz’asta mi lasciano intravedere il lardoso Larry, roscio sbiadito confusamente in una luce verdognola. Mi scuoto poco a poco per comprendere il perché, il cosa, il da quanto, il come e riprendere il controllo delle mie facoltà. Gli occhi stanno abituandosi alla luce: è un neon pallido in una camera dalle pareti lattuga. Comprendo, dal lavandino, da un armadietto e da un alberello di fleboclisi vicino a me, che è una stanza d’ospedale e io sono a letto, e faccio mente locale di quanto accaduto e di quanto dovrà accadere. Tasto il materasso lungo il mio fianco, sotto le coperte, e mi tranquillizzo al pensiero che tutto torna. Mi rilasso, allora, e sorrido con espressione beata di puerpera che ha provato un’immensa soddisfazione in evacuazione dopo sofferenza e sforzi sovrumani. Larry ha la camicia sbottonata a mezzo petto per il grande caldo e mi spia con curiosità trepidante facendo ballonzolare una catena d’oro, di diversi etti, con santino accluso. Si accorge di me cosciente, e ansima, sudato: “Grande Phil. Bingo, finalmente. Sei presente, vero? Guarda chi c’è: il tuo amico Larry. Ti ricordi di Larry? Non ti chiedi perché sono qui? Vuoi che ti accomodo meglio il cuscino? Hai bisogno di qualcosa? Da bere? Vuoi dell’acqua? Hai bisogno dell’infermiera? Lo sai? Qui ci sono infermiere da sballo: bel postaccio, davvero. Ci si può morire senza troppi dispiaceri. Lo sai perché sono qui, Phil? Mi senti, Phil? Lo senti zio Larry?” E’ un frantoio di punti interrogativi e mi annega di parole gommose. Ho la bocca impastata, ma riesco a mormorargli, torvo, un – piantala – con occhi levati al cielo da Giobbe che chiede pietà per le piaghe ulcerose, ancora senza un coccio per grattarsi. 284 Rifletto a velocità della luce, studio l’ambiente, tendo l’orecchio a rumori e prendo confidenza con il corpo tastandomi sotto le coperte, toccando qui e là. Gli mormoro con voce stanca e rassegnata: “Perché sei qui?” E’ viscido e ributtante, il cassonetto dai rossi capelli. Si deterge la fronte imperlata con un fazzoletto da quarantena. “Ma perché ti sono amico, Phil…” Pasturo nel vago. “Cioè?” Tracima per come voleva, e lo voleva da tanto tempo, da fin quando mi hanno portato in questo ospedale privo di sensi, da chissà quanto prima ancora. “Io penso agli amici, soprattutto quando sono in difficoltà come te, Phil, mi capisci? Ecco, Phil. Lo sai di che cosa mi occupo adesso, vero? Sì, sì, sempre nel campo dei morti, ma con altro stile e altra imprenditorialità. Grande gente, gli arabi. Mi dirai: che cazzo c’entrano gli arabi col tuo lavoro di sarto d’asole? E io ti rispondo: c’entrano, c’entrano. Hai presente i loro kamikaze? Ecco, se c’entrano. Mi sono detto: cazzo, Larry, perché non cambiamo registro e diventiamo puliti, inattaccabili, immacolati di bucato con candeggina della migliore qualità? E’ l’uovo di Colombo, mi sono detto. Mi tengo vicino ad un ospedale, magari ad un ospedale oncologico, che è meglio, e attendo con calma i ricoverati. Li studio, esamino la loro situazione finanziaria, m’informo sulle loro aspettative, speranze, desideri, necessità, personali e familiari. Poi intervengo. Li recluto per il mio lavoro. Da killer semplice divento titolare di un’impresa di killers che dopo il lavoro scompaiono nel nulla, capisci? Tutto pulito. 285 Non ci sono legami, concatenazioni, moventi, prove. Chi mi commissiona il lavoro paga di più, molto di più, per la catena di montaggio che ho messo in piedi, ma usciamo tutti puliti, capisci?” Me lo guardo da dopo sbronza. “Non ho capito un cazzo, Larry. Fammi un disegnino.” “Dai, Phil, è semplice: adesso ti spiego. Devo ammazzare un qualche figlio di puttana perduto da qualche parte per conto di un altro figlio di puttana che paga tanto e bene, ma vuole essere tranquillo circa il fatto che nessuno mai arrivi a lui, okay? Io so dov’è il figlio di puttana da ammazzare. Lo potrei ammazzare io stesso, come ho sempre fatto fino a poco tempo fa, mi segui? Però l’errore umano è sempre in agguato: potrei commettere qualche minima stronzata e potrei farmi pizzicare, e chi paga potrebbe trovarsi in brutte acque e potrebbe anche incazzarsi direttamente con me, prima di finire spremuto dagli sbirri come mandante. Ebbene: nulla di tutto questo, Phil. E lo sai perché? Perché vado a trovare mister sfiga inevitabile, all’ospedale, con faccia deferente e buone intenzioni. Gli parlo amichevolmente, gli faccio una proposta indecente, lo recluto. E’ abbastanza facile: devo trovare il quasi terminale che ancora si muove e che ancora è lucido. Vuole figa da sballo prima di morire? Io gliela procuro. Per due o tre notti di fila? Va bene. Di quelle proprio zozze e viziose che fanno le peggiori cose? D’accordo: mi segui? Oppure vuole iscrivere il figlio all’università, ma piange miseria? Ecco zio Larry che paga la retta. O ancora vuole un bel conto in banca per la futura vedova che ancora lo tromba mentre lo piange? Nessun problema: paga la ditta Larry. In cambio, Larry il capoufficio chiede che venga sbrigata una pratica. 286 Io sono per la verità della medicina nei confronti dei malati. Perché mentire, illudere, prendere per il culo chi soffre? Io certifico la verità, onestamente, senza troppi fronzoli o enfasi. Io dico, con tranquillità di lago di sera – Amico, stai morendo. Avrai sì e no qualche settimana. Realizza i tuoi sogni e concludi alla grande e senza dolore la tua esistenza. Amico, io ti offro ricchezza o realizzazione dei tuoi più intimi desideri, e tu mi fai un favore. Ti sbarazzi di un figlio di puttana che mi vuole fare del male, nel modo che ti dico io. Tutto qui. E poi, invece di soffrire ancora e di bucarti di morfina per non rotolarti coi morsi nella pancia, ti schiacci questa capsuletta rossa tra i denti e muori felice in modo rapido e indolore. E io sistemo tuo figlio, tua moglie, ti riempio di figa da oggi a domani per tutta la notte, ché ti fanno uscire gli occhi fuori delle orbite e i coglioni dalla pelle avvizzita – Capisci, Phil? Io gli canto questo con voce soave. La quasi salma mi guarda di merda, almeno all’inizio. Poi riflette. Se ho la botta di culo, che proprio in quel momento gli si è liberata la mandria dei cani rabbiosi nello stomaco o nel polmone, sono a posto. Si contorce soffocando qualche madonna nel dolore e comincia a considerare le cose dal mio punto di vista. Una quasi buona azione remunerata con una buona morte e con tanti soldi o tante scopate per una notte da sballo eterno. Mi capisci, Phil, adesso?” Strabuzzo gli occhi e mi irrigidisco in una smorfia di dolore. Poi esalo: “Che cazzo c’entro io, Larry?” 287 Spegne il sorriso beota e sfodera un’aria contrita: è un duttile imprenditore furbo che potrebbe vendere auto usate senza cambio automatico anche ad un focomelico. Dà un’occhiata alla cartella clinica appesa alla sponda del letto e scuote la testa: assume l’aria dell’allevatore di maiali con la fattoria decimata dalla peste suina. “Stai messo male, Phil. Te lo dico da amico, in tutta sincerità, per quello che leggo qui. E non mi sei piaciuto tanto, in questi ultimi tempi al bar, sempre stanco, caracollante, con occhiaie che sembrano calamari e un aspetto sfatto. Stai messo male, davvero. Qui leggo di metastasi allo stomaco e prossima dimissione: ti faranno morire a casa, Phil, e mi dispiace. Ti hanno fatto analisi varie d’urgenza, da che stai qui. Tutto con maledetta professionale fretta per riprenderti almeno per i capelli. Cazzo, se mi dispiace, Phil, ma la vita è fatta anche di gomitate nei denti da parte della morte, no? Sei crollato da Bart, al pub, come un sacco vuoto. Ma io ti tenevo d’occhio, sai, perché zio Larry pensa sempre agli amici…” Sorride d’un pallore parrocchiale apprensivo. Bestemmio sottovoce un cristo, per contrappasso. “Mi stai reclutando, ciccione di merda? Sto messo proprio così male?” Si alza dalla sedia. E’ pesante, sudato, goffo, eppure si sforza d’essere leggiadro e sereno. “Ti danno poche settimane, Phil. Ho parlato con un dottorino sveglio di questa astronave che è di quel bastardo del dottor Gonzales. Purtroppo sì, amico mio: sei messo malissimo. E ho pensato a te. Ti serve qualcosa? Vuoi figa, fumo tosto, roba pesante? Hai gusti particolari e preferisci un maschio con tre gambe? Hai 288 problemi economici per la tua famiglia? Devi sistemare debiti o affari andati a male? Larry, il tuo amico Larry è qui, Phil: parla e sarai esaudito. Mi devi solo promettere che mi toglierai di torno un figlio di troia che mi procura problemi, proprio Gonzales, vaffanculo a lui e a tutti i messicani che non sanno stare al loro posto. Lui non ascolta niente e nessuno: vuole fare l’imprenditore oltre che il primario, fanculo a quel naso da mostriciattolo dei boschi. Questo è un lavoro per me, non per altri: ti commissiono per me stesso, mi capisci? Capisci gli amici? E io ti prometto il paradiso sotto tutti i punti di vista…” Ha lo sguardo del cane bastardo, speranzoso, e se avesse una coda la dimenerebbe uggiolando con schizzi di bava dappertutto per l’eccitazione. Me lo figuro che da un momento all’altro possa zompare la sponda del letto vicino alla testata, come se sia un polpaccio di donna mestruata. Bene, bene, mi dico inespressivo: Larry ha parlato e ha spiegato esaurientemente quello che per me era già nell’aria. E però la concorrenza è forte in tutti i campi, anche in quello delle potenziali salme su ordinazione. Tasto il materasso lungo il mio fianco, come prima da appena sveglio, e confermo il ritrovamento di quello che dovrebbe esserci. Sfilo il braccio da sotto le coperte, impugnando una Glock con silenziatore già avvitato, parcheggiata lì da quando mi hanno ricoverato. Caro dottor Gonzales, efficiente come uno svizzero a dispetto del nome da manzo con chili. Ingordo dottore che non s’accontenta dei proventi di primario e vuole diversificare i suoi affari con molta mano d’opera in casa a basso prezzo. Larry adesso ha uno sguardo da acciuga sott’olio e suda copiosamente indietreggiando di due passi. 289 Balbetta interiezioni lamentose senza avere proprio ben compreso tutto, ma intuisce che qualcosa non quadra. “Che cazzo fai, Phil? Cosa vuoi fare? Io ti ho fatto solo una proposta: puoi accettare o rifiutare e siamo amici sempre come prima. Cosa vai a pensare? Io non ti farei soffrire, Phil. In cambio del tuo lavoro ti darei una capsula di quelle infallibili: dieci secondi in tutto. Neanche te ne accorgeresti: è cianuro puro. Che fai? Metti giù quella pistola. Stavo solo parlando con un amico…” Divento sveglio nel massimo splendore: una trasfigurazione miracolosa, modello Emmaus. Mi siedo sul letto e tengo una lezioncina sul perché e percome con voce piana e accademica dottorale, soprattutto con la pistola spianata e ferma. “Nulla di personale, Larry, ci mancherebbe, ma io sono già stato pagato. Mercato concorrenziale, capisci? Il dottor Gonzales è arrivato prima di te e mi ha rimpinzato il conto in banca. Mia moglie sarà contenta, almeno di questo. E poi, Larry, le tue puttane sifilitiche non possono competere con le infermiere di questo posticino. Il tuo rivale in affari ha provveduto anche sotto questo aspetto, qualche giorno fa, in una stanzetta appartata per controlli: un vero signore e un invidiabile datore di lavoro. Sono svuotato ancora adesso, pensa un po’… Dai, Larry, fattene una ragione: hai perduto. Sono anche io per la verità ad ogni costo: hai perduto, ché negli affari nuovi si vince, ma spesso si perde anche. Però anche io non ti farò soffrire: sono un ottimo tiratore e tu non lo sapevi…” Lo centro, ancora catatonico, prima sul pomo d’adamo e poi al corpo grosso. Stunf. Stunf: sospiri ovattati e quasi carezzevoli. Schizza zampilletti dappertutto come un clistere in mano ad un’infermiera ubriaca, e mi immagino le 290 bestemmie multietniche della filippina che passerà per le pulizie. Ciccio roscio Larry defunge laboriosamente: rotola a terra con grugniti da macelleria suina per lo sfiato della trachea che prende aria in stereofonia. Si scuote un poco per poi rimanere immobile e raffreddarsi gradatamente in una pozza di sangue nero. Poso la Glock sul comodino, apro l’armadio e ficco una mano in una tasca del soprabito. Mi siedo sul letto. Pigio il campanello. E attendo. Dopo poco tempo s’apre la porta della stanza ed entra un naso spropositato di colorito messicano, olivastro, con sotto due baffetti neri spioventi. E’ seguito immediatamente da una siepe untuosa di capelli corvini appiccicosi a incorniciare uno sguardo da coyote che abbraccia la stanza e si sofferma sul cinghialone a terra. E’ in camice bianco, molto professionale, il dottor Gonzales, con le mani intrecciate dietro la schiena e uno stetoscopio che esce dalla tasca sul petto, dove è appuntata la targhetta con le generalità. Mormora circospetto con fare serio diagnostico: “Tutto bene senza problemi?” “Tutto bene, Gonzales.” “Ora toccherebbe a lei, senor Phil…” Sfila dalla tasca del camice una scatolina e l’apre per prelevare una pasticca rossa. Lo squadro severo e poi gli sorrido aperto. “C’è un cambiamento di programma, Gonzales. Ho deciso anche io di aprire una nuova attività, da solo, dato che la concorrenza sta sparendo velocemente…” Si irrigidisce: Ha compreso tutto al volo, ma non si sa spiegare il come. Lo assecondo: “Le spiego tutto io, dottore. Lei teneva d’occhio Larry e il grassone puntava lei, ma io tenevo d’occhio tutti e due, con discrezione. E avevo le idee che friggevano in olio bollente. 291 Mi sono detto: basta pasturare prima l’uno e poi l’altro…” “Le analisi…” “False, Gonzales. Io, finora, godo di ottima salute. Glielo può certificare Consuelo, l’infermiera della scorsa notte: l’ho rivoltata come due calzini e probabilmente si rinfresca le cosce ancora adesso dopo tutti i graffi e i morsi che ha rimediato, Si è anche divertita, credo, anche se tutto questo non è importante, ora.” “Che cosa vuole? Soldi? Che io abbandoni la piazza?” “Di più, o di meno, a seconda delle prospettive, dottore. Lei adesso muore, senza soffrire, ché me la cavo discretamente come tiratore, e poi simuleremo una piccola tragedia. Avevo una seconda pistola nel cappotto dentro l’armadietto, questa, silenziata pure lei, e documenti falsi per ricominciare daccapo. Vede, Gonzales: eravamo tutti amici, siete stati tutti amici, pressanti, vicini, premurosi, ma senza sapere un cazzo di me. Non ho moglie, non ho figli, però conosco bravi falsari e amiche di cuore che si prestano a fare scherzi a lunga scadenza. Costano poco perché sono gente che si sa accontentare di poco, in fondo onesta. Complimenti, comunque, a Larry e a lei, ché avete individuato un nuovo businnes davvero interessante…” Porta avanti le braccia a farsi schermo, ma ha la fronte spaziosa ed esposta. Stunf. Unico e solo. Fiorisce una rosellina tra gli occhi che diventano tre di cui due fissi di bambola, vitrei, e uno infiammato. Crolla senza un lamento, più dignitoso di Larry, anche se devo riconoscere che qui ho lavorato in maniera più pulita. Mi cambio, con calma, studio traiettorie e scena, e accomodo i due imprenditori falliti nella maniera tale da far 292 sembrare tutto un regolamento di conti tra malato e dottore. Cancello accuratamente tutte le mie impronte. Metto la Glock tra le dita rattrappite di Gonzales. A Larry infilo la mia casacca da malato e gli lascio sul comodino i miei documenti contraffatti con la sua foto: muoio io per la legge. Gli incastro tra le dita la seconda pistola tiepida facendo aderire bene i polpastrelli. Prelevo il suo ferro, raduno i suoi abiti insanguinati e getto tutto in una sacca che abbandonerò più tardi in qualche cassonetto lontano. Io divento un altro: Emmaus due il ritorno, alto, slanciato, vigoroso, elastico nel passo, con il sorriso accattivante del bravo cacciatore di teste per cacciare, appunto, altre teste, con nuovi documenti crocchianti che di vecchio hanno solamente il nome di Phil. Ho in tasca due agendine zeppe di commissionari clienti facoltosi, vigliacchetti e pigri, e di malati ancora validi, ma prossimi ad una dipartita, e qualche caramellino letale dentro due scatolette di metallo. Tra qualche annetto mi vedo a Papeete a mangiare scampi e aragoste con splendido figacciume locale e d’importazione. Ché il delitto, se ben compiuto, paga: eccome. Esco silenziosamente dalla stanza e saluto mentalmente, con una certa dose di affetto e comprensione, il coyote unto e il chinghialone roscio, aspiranti imprenditori, vittime di nuove economie di mercato, finiti in bancarotta. Alhoa, gente. 293 FAI L’IRRIVERENZA, PAGA PENITENZA Pirlandelliana tragedia in matto unico, anzi no L’inguacchio a seguire è un parto, nel senso di partire di testa, concepito inizialmente come atto unico teatrale per cercare di emulare un lavoro a quattro mani che ho divorato con curiosità ed interesse, intitolato “Drammaiale”, di Malos Mannaja, cui va l’affettuosa dedica di quanto scritto, e Lapo Orage. Col tempo, lo sfrigolare delle idee in una parvenza di caotico ordine mi ha fatto considerare l’ipotesi espressiva di una struttura più aperta, ‘hellzapoppiniana’ o, per dirla meglio, ma senza allarmare troppo, anarcoitoinsurrezionalista. Le famose unità aristoteliche sono state prepensionate senza neanche la mobilità da un desiderio di surrealismo ioperrealista (non è un refuso) che mi ha consentito maggiore libertà di movimento senza costrizioni. La pièce è divenuta un insieme di sipari fuori contesto, legati tra di loro nel loro essere slegati. Ogni scena galleggia nel vuoto del nulla o si confonde nel tutto del tutto: un insieme di eventi in tragedia, senza punti di riferimento esistenzialmente certi, un poco come nella vita, ma con i miei limiti espressivi: per l’appunto una stragedia pirlandelliana in atto unico, anzi no, come da sottotitolo. Personaggi e interpreti L’INTERVISTATORE, alias il giornalista o i giornalisti, alias lo psicanalista, alias la coscienza, alias il confessore, alias il medico, alias la vicina di casa della porta accanto, alias a scelta… E’ il provocatore-spalla di quel dialogo che tanto piace a qualcuno per vivacizzare i pensieri L’INTERVISTATO: spesso cybbolo, a volte casualmente qualcun altro a misura di cybbolo. L’essenza del narcisista o dell’affogando che chiede un salvagente senza amarena IL CORIFEO: tipico di ogni tragedia che si rispetti, composto di quattro omologatti più quattro veteri inani, ovviamente complementari 294 S’alza il sipario sulla scena nera. Dal buio si fa strada una fioca luce che disegna la sagoma di una persona che si sporge verso un’altra con un registratore portatile. Rumore di mormorii, di orchestra che è in procinto di eseguire un concerto, di urla lontane di bambini d’asilo miste a urla di manifestazione o di protesta a scelta: contro il precariato, per la pace nel mondo o la difesa del difendibile indifeso, contro la cassa integrazione, in corteo oppure in girotondo insieme ai bimbi di poco prima, pacificamente o sgrillettando contro le forze del bene e delle more del partito dell’amore. Silenzio all’improvviso mentre mugghia il corifeo dei quattro omologatti con i quattro veteri inani, gli uni che scandiscono slogans pubblicità progresso: Due fustini is mej che uan, Ma fan finta, fioei d’un can mentre i veteri inani controcantano, con alzate di spalle gobbartritiche, interiezioni celtiche del tipo “vadavielcu” in accordo minore, per l’impossibilità di comprendere, essenzialmente per pigrizia o egoistica distrazione, le ultime funzionalità informatiche, motoristiche, televisive, e relativi libretti di istruzioni. Le scosciature delle veline, inoltre, sempre più inguinaluterine, incupiscono i veteri inani. Si sentono infatti defraudati degli ultimi brandelli di moralità moralista e vedono rosso come il mancante bollino televisivo preservinfanti. Esiste tuttavia anche una possibilità di bieca semplice invidia andropausica. Ammutolisce, infine, anche il corifeo variegato e scende un silenzio carico di aspettative. Poi la voce, beffarda, giornalistica, paracula. “Da dove vogliamo cominciare?” “Direi ‘(z)ab ovo’: il mio zabaione esistenziale preferito, energetico e sferzante. 295 Dall’alba dei dinosauri che è già confluita, ma che per me confluisce ancora e forse confluirà anche in eterno, nel tramonto dei dinosauri. Siamo tutti dinosauri, del resto: da sempre e per sempre. Abbiamo un premier tirannosauro, fortunatamente rex solo in pectore, almeno per ora; e siamo circondati da brontosauri erbivori ingombranti e inconcludenti e da tanti dimetrodonti che pignoleggiano su tutto lo scibile puntualizzabile…” “Tu che dinosauro pensi di essere?” “Uno stego… no: un misegosauro, nel senso che mi sfinisco di pippe mentali ponendomi quesiti esistenziali che vanno dall’alba dei tempi alla fine del mio tempo.” “Beh, è coerente: un misegosauro eccitato da fantasie a tripla ics d’alto contenuto egotico vietate ai minori di diciotto eoni, pardon, neuroni.” “Guarda che io sono di una umiltà cosmica: è mio padre che si preoccupa del genere umano tra quattromila anni e ha aneliti di sofferenza all’idea di una estinzione dello stesso, neanche fossero tutti sua progenie da uno spermatozoo di centoventisette chilometri, del peso di qualche tonnellata.” “Che fregnaccia!” “Appunto: quella che mai potrebbe accogliere quella bestia mostruosa. In questo caso, altro che pillola abortiva: ci vorrebbe un quintale di dinamite.” “Torniamo alla tua comica umiltà cosmica…” “Mica del tutto vera, ora che ci penso meglio. Alterno umiltà a coscienza democritea, quella della scintilla divina, per poi ritornare sinusoidale all’umiltà, in pianto e stridore di denti al buio, ché la scintilla fa sempre cilecca dopo qualche punto interrogativo e mi si bagnano le polveri sottili.” “Beh, te ne devi rendere conto: non sei divino, ma sei umano, no?” “Più che umano, upiede, anzi uàllera, ché i quesiti irrisolti lasciano l’autostima in guardaroba e perdi anche lo scontrino per ritirarla.” 296 “Sei già stanco di parlare, vero?” “Non saprei. Il fatto è che da sempre, a livello semiconscio, e da tempi recenti, addentato da un nano ad un polpaccio, modello in cretaceo, tanto per continuare a dinosaurizzare, pensierini sotto la cenere cui ritornerò, e immagino e sogghigno con simpatia per il mio lettore contento e solidale cui dedicherò questo coacervo di lucciole semidee che sono null’altro che risultanze di simbiosi scambiate in regolari telefonate settimanali e troppo rari incontri di persona, assai ricchi. Parto bello carico, stavolta, forte di accumuli in mesi di riflessione e di astinenza vergale, (Ahahah che hai capito? Non scrivo da tanto tempo). Voglio divertirmi con giochi di parole meditati, con accostamenti metadialettici arditi e sorprendenti, con la memoria rivolta a tante concettualità scambiate come le figurine, riguardanti il tutto e il nulla, cui mi piace aggiungere o togliere paradossalmente ancora un qualcosa anche se qualcuno, lo so, scuoterà la testa. Epperò ecco che capolineggia di nuovo l’umiltà: cui prodest questa torrenziale eiaculazione? Una terapia antidepressiva a surrogare un periodo di solitudine o a festeggiare un ritorno d’euforia? Un dispiegare le ali di pavone per sollecitare applausi o quanto meno benevola attenzione di qualche cricca come quella di Mirò? Ah, queste esigenze di catalogare, di definire… Mi chiedo, e questa è una ulteriore domanda, che senso abbia che io esprima i miei tormenti, anche perché prima di me ben più brillantemente sono passati Geremia, Torless e Portnoy e financo Marcello Marchesi mallopparo oltre a chissà quanti altri ancora. Continuo, dunque, solo per vedere l’effetto che fa. E continuo anche per fare un minimo d’ordine per iscritto, una sorta di testamento spirituale, se vuoi, da rileggermi tra quindici o venti anni, scandalizzatissimo e devastato dalla demenza senile. 297 Invece, magari per scherzo del destino, mi applaudirò fino a spellarmi le mani, radicato in convinzioni che ora sono solamente intuizioni che mi vedono titubante. Sempre da vedere, beninteso, di arrivarci…” “Allora vai avanti e la butti sul filosofico?” “Sai, per Hobbes, partendo dal semplice clito, l’origine del mondo, ché amo la carnalità edonista della vita, sono approdato a Eraclito, già scherzo paradossale profetico e semantico. Mi sono detto: sciò, sciò filosofia, ma Schopenauer, equivocando su un possibile richiamo, si è inserito nel Cartesio lasciandomi rose e Spinoza in esigenze trascendenti ancorché confuse. Hai voglia a dire Kant che ti passa: un Vico secco! E il vecchio Karl è stato, ahimé, soppiantato dal più frizzante Groucho. Poi sono sopraggiunti i cinepanettoni e Boldi, Bondi, non ricordo bene, e tutto è precipitato, ma questo è un altro discorso.” Nel gioco delle luci e delle ombre, dopo che si è ripristinato il sipario, precipitato anche lui alla parola Bondi, una sorta di jattura in lingua antica mai del tutto decifrata, il registratore si trasforma in una penna. Il giornalista si siede su una poltrona ora visibile e prende appunti, assorto, divenendo un analista. L’intervistato si sdraia su un divanetto materializzatosi dal nulla: ecco, occasionalmente, un esempio di nulla con l’aggiunta di qualche cosa (ahahah). Il corifeo swingeggia, per quanto riguarda i quattro omologatti: I tormenti della filosofia Nulla son per la buonanima di zia E per quanto si discerna su Platone Nulla esime dal sentirsi un po’ coglione L’altra metà del corifeo semplicemente flatuleggia all’unisono, ché i quattro veteri inani sono diventati superficiali circa la filosofia, troppo presi come sono dal 298 mantenersi abbarbicati alla vita, e il vecchio adagio “Tromba di culo, sanità di corpo: chi non scoreggia è un uomo morto” è divenuto il loro nuovo vangelo esemplificato, abbozzo d’avanguardia del ministro delle esemplificazioni circa i nuovi rapporti con la Santa Sede, da definire. C’è da dire che lo scatolone dei ricordi, dopo un certo crinale anagrafico, si riempie di scatologia spicciola di varia consistenza, sempre più unico e interesse vitale pressante in tutti i sensi. E’ da notare, comunque, che in impeto di fattiva collaborazione, vanno a tempo, in levare aria, come similtromboni d’orchestrina dixieland. “Dunque lei pare che stia divenendo aggressivo, vero? Si sente aggressivo?” “In un certo senso sì. Anzi. In più di un certo senso: in tanti sensi.” “Mi spieghi, per favore: la ascolto.” “Cominciamo con il dire che non so nuotare e che tuttavia vivo perennemente a galla sul livello del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Galleggio, sentendomi anche naturalmente un poco stronzo, riflettendo sul fatto che mi girano gli zebedei per la vita che mi abbandona poco a poco, mentre mi piacerebbe vivere a lunghissimo, ma in salute e vigoria, fisiche e mentali. E allo stesso tempo rimugino sul fatto che tutto questo non ha un senso e che sono prigioniero di parole, luoghi comuni, regole scritte e non scritte, bon ton, modi di dire e di fare, baciare, lettera e testamento, retorica, lapidi di lemmi scolpiti nella storia che sono quanto di più vuoto ed inutile, spesso utopico, anzi tricerautopico, tanto per rinfrescare di nuovo l’allegro mondo dei dinosauri e non recidere il filo erettile. E io da misegosauro mi trasformo in apatosauro (esiste, esiste) senza più voglie.” “Quindi una sorta di dibattimento tra lo spassarsela, con la consapevolezza che non durerà efficientemente in eterno, e l’approfondimento sul perché si possa o meno spassarsela, mantenendo la stessa consapevolezza alla 299 quale se ne aggiungono altre che riguardano l’ignoranza, l’utopia, l’impotenza circa il padroneggiare lo spasso. Mi aiuti: è così?” “Più o meno: diciamo che è un incubo per come la si rigira. Più passa il tempo e sempre meno efficacia hanno certi luoghi comuni riguardanti la primavera in fiore, il sorriso di un bimbo, il cinguettare di un uccellino, il sentirsi leggero dopo una buona azione, lo sguardo di un cane, il profumo rasserenante del pane fresco, il tepore di un corpo accanto, etc., etc., etc…. datemi un secchio ché vomito…” “E questo monta malumore?” “Monta a neve una incazzatura che guarnisce tutti i possibili tiramisu della migliore pasticceria del paese, per essere proprio sinceri.” “Ha voglia di scendere in dettagli, in esempi?” “Adesso proprio no: sono sfiancato. L’argomento in sé, lo scegliere le parole accuratamente, il riguardare più volte quello che si è scritto attento alle sfumature, il cercare di non ripetersi in maniera arteriosclerotica: sono tutte operazioni che liofilizzano qualche etto di neuroni. Aggiunga che devo porgermi in maniera interessante, magari anche molto autoironico, ché fa simpatia, e allora si renderà conto che lo sforzo è davvero da ernia al lobo frontale, semmai esista, ché ho a che fare pure con un lettore medico puntiglioso. Ma tanto è metafora… Mi viene in mente Nicola Insauna, un personaggio del brano teatrale Grammaiale: mi sento a lui affine, in qualche modo, con le idee che mi sfuggono metafora dalla fontanella riapertasi sulla sommità del cranio. E non c’è verso di riprenderle se non già cambiate e spesso quasi irriconoscibili: tutto scorre, compresa la memoria. Ed ecco l’umiltà cosmica che sopraggiunge di nuovo: le mie idee sono probabili cazzate che spuntano metafora dalla patta dei pantaloni lasciata aperta per l’incipiente smemorellite acuta detta anche più volgarmente rincoglionimento.” Il Corifeo, con i soli veteri inani, si produce in una salva di pernacchie ad esaltare lo scorrimento del tutto. 300 Gli omologatti ridacchiano, amari come cavoli, alla loro prima resipiscenza di tante future altre: la resipiscenza nel culo, che assai li forgerà. “Rimandiamo a domani quello che si può fare male oggi: lo faremo peggio, o meglio, a seconda delle prospettive che, però, non sono incoraggianti.” La luce cala velocemente mentre tutto il Corifeo, voci in falsetto miagolanti dei quattro omologatti, e baritonali scatarranti dei quattro veteri inani, intona una ninna nanna seguita da melodie zuccherose oltre la soglia diabetica del tipo ‘Bella, dolce cara mammina, la più bella del mondo, duduuannnnnn…’. Poi attaccano, chansonniers citazionisti di Gipo Farassino, il celebre motivetto: ‘Sono contento di morire, ma mi dispiaceee. Mi dispiace di morire, ma son contentooo…’, ma sullo stile di un austero funebre coro greco-ortodosso. E’ ora di un momento di digressione per conoscere meglio il Corifeo di questa stragedia pirlandelliana. I quattro omologatti, una volta detti anche quattro mici al bar, sono giovani cespuglioni brufolosi con una bella aria da boyscout e un’espressione vitellonesca innocua, dallo sguardo occhialuto sospeso tra speranza e meraviglia, quel tipico connubio che produce nel tempo i veri figliendrocchia con un pulloverino di pelo sullo stomaco. Per ora indossano magliette variopinte che ricordano la bandiera della pace e credono a buona parte di tutto anche se non proprio tutto, ché, per esempio, tale Noemi è incredibile e anche indifendibile insieme a papy. I quattro veteri inani sono gli omologatti di cinquanta anni prima, all’ultimo stadio di cinismo sorretto da problemi intestinali e vascolari che richiedono concentrazione nel disperato tentativo di restare aggrappati alla vita. Ci sarebbero anche diversi problemi cerebrali nell’alveo della demenza senile, ma questi riguardano sempre altri. Non hanno più rispetto, inibizioni e buona creanza, all’insegna del “tanto c’è chi fa peggio di me, meno male che Silvio c’è” da cantare stipati in sei milioni dentro una 301 piazza, da fonte di questore ubriaco, accompagnati da la russa con un bocchino, grattandosi i maroni mordicchiati da formiconi verdini... Sono brutti, non di natura, ma imbruttiti da gocce cinesi d’esperienza che hanno scavato rughe, sollevato gobbe e acceso dolori reumatici. Non parlano: borbottano acri, meteorizzano maligni per far sapere quanto “sa di sale lo pane altrui”. Guardano storti, ascoltano male e quasi soltanto quello che riguarda loro e basta. Tutti e otto, pazienti ancora per poco e spazientiti da tanto, provengono dal medesimo studio, dallo stesso protolaboratorio ancestrale pieno di fiale, pasticche, gabbiette, manuali e mangimi promozionali, una stanzetta con un lettino di metallo, un microscopio e un computer a registrare le diagnosi perfide per il Fido di turno e una stampante ad emettere ricevute fiscali, sempre, come rese di conti. Coesistono tutti e otto, con i primi a cercare d’apprendere dai secondi, pessimi maestri. Sono tutti uniti da qualche cosa di estemporaneo costante, come profughi di un’ennesima isola dei Famosinonfamosichisselifrega, l’isola che in realtà non c’è, ora neanche più nelle favole, e cercano di sopravvivere rompendosi a vicenda le noci di cocco. Il Corifeo offre loro un’occasione di visibilità nell’ambito della comunicazione di un disagio e di una protesta, ma il ministro dell’esemplificazione sta riducendo loro progressivamente ogni spazio vitale e ogni parte per qualunque tragedia, perché tutto va bene, madama la marchesa, e bisogna pensare in rosa capezzone, pardon, capezzolo, sorridendo positivi, anche se sieropositivi. Il Corifeo sarà dunque destinato in futuro a comparsate, magari in supplenza di qualche corista influenzato, durante l’esecuzione pubblica dell’inno della libertà di Goffredo Apicella. Lo sparo accende il buio. 302 Esplode il silenzio a cancellare urla scomposte e brusii poi sostituiti da un ronzio uniforme metallico. Poi, di nuovo buio in sala, rotto dal solo ronzio continuo fastidioso. Solo voci nel nero. “Dove sono? C’è qualcuno?” “Stai calmo: ci sono io.” “Chi sei? Non riesco a vedere nulla…” “Ah, l’umana curiosità irrefrenabile. Mi senti e siamo al buio: accontentati almeno per ora.” “Cosa è successo?” “Hai urtato una pallottola.” “Sono morto? Siamo nell’aldilà? Sei Dio? San Pietro? Berlusconi? Bonaiuti? Pupo?” “Come corri. Diciamo che sei in una situazione per cui sarai obbligato a fare delle scelte: una specie di Lascia o Raddoppia, di Rischiatutto, di elezione anticipata per autoincaprettamento in lodi vari e assortiti o anche per scandalo con veline o escort bituminose. Una situazione, a seconda di come la vuoi vedere, magmatica o smegmatica, mi capisci?” “Beato te che sei così allegronzo. Io ho mal di testa e tanta confusione. Cosa dovrei scegliere?” “Se vivere o morire, per esempio.” “Ah!... Ma non è già tutto scritto?” “Certo che lo è, ma manca la tua certificazione ufficiale, il tuo ‘Dichiaro di voler vivere’ oppure ‘Fanculo a tutti, sono troppo stanco per continuare’.” “Una specie di ’notaio conferma’? Lo sai? Mi stai cominciando a divertire oltre che ad affascinare: chi cazzarola sei?” “Sono te: è per questo che ti piaccio…” “Se così fosse, mi staresti sulle scatole: io mi odio alquanto.” “Frasi di circostanza, bello. Vittimismo e falsa modestia. In realtà ti ritieni simpatico, divertente, più intelligente della media a rasentare lo snobismo più sarcastico. Sei un istrione innamorato di te stesso, cioè anche di me.” 303 “Dio, che confusione. Mi pare di comprendere, dunque, che siamo in coma e che devo scegliere se uscirne da vivo o da cadavere, vero?” “Siamo, siamo: parole scomposte. Sei in coma. Io ti sto assistendo.” “Ah: sei la mia coscienza allora, eh?” “Chiamami come vuoi: coscienza, aura, angelo custode, spirito guida turistica, tutor, carta jolly, ospite d’onore, voce interiore a recuperare…” “I valori di una volta.” “Non farmi ridere, vecchio maiale. Tu conoscevi solo Iva e Lori, quella coppia scambista di Cantù molto disponibile. Tu non devi recuperare nulla. Devi solo scegliere se continuare a vivere o se vuoi morire.” “E’ allora tempo di bilanci? Come si può riflettere e fare un bilancio con questo ronzio del cacchio che mi trapana il cervello?” “Il ronzio del cacchio serve a farti respirare e tu sei stato trapanato da un calibro trentotto.” “Chi è stato il bastardo? Perché? Così gratuitamente… E perché riesco a ragionare compiutamente nonostante tutto?” “Ha qualche importanza? Non depistare il tuo scopo. Pensa ad una stigmata larga come un buco di culo piacerecentrico, da portare con una certa dignità almeno fino alla tua scelta.” “Va bene: allora bilancio sia.” “Mi fa piacere sentirti propositivo: forza, cominciamo…” “Da dove cominciamo?” “Suggerirei il sistema frattale, minimalista, quello secondo il quale tutte le strade portano a Roma, se non altro per muoversi dall’impantanamento su problematiche da massimi sistemi.” “A parte che ho perplessità notevoli proprio circa i massimi sistemi, ché non ho capito a cosa serva la mia certificazione di scelta su un qualcosa di già scelto: il solito sgaiattolare confessionale eh? Un colpo al divino e un colpo all’umano, eh? 304 Beh, comunque non vorrei partire dalla vecchia megera che sgrulla tutte le mattine il suo lercio tappeto dalla finestra proprio mentre passo io sotto…” “E perché no? Un frattale vale l’altro: la vecchia megera, il truzzo che ti imbottiglia con l’auto in doppia fila per fare colazione, l’onorevole che parla di moralità dopo avere patteggiato una, si badi bene, modesta condanna per qualcosa di famigerato e schifoso, la biondina del Grande Fratello, il bavoso senza arte né parte, essenzialmente ricco solamente di sfiga, che rifiuta l’offerta di quindicimila euro nella speranza di pescare un pacco da mezzo milione alla trasmissione a premi, e poi ancora ed ancora ed ancora… Hai solo l’imbarazzo della scelta circa il punto di partenza del bilancio.” “Sai cosa c’è? Una estrema confusione. E’ lei che comanda e soffoca. Parto da stupidaggini che mi creano malessere e mi dirigo come un salmone isterico per la riproduzione verso la sorgente dei soliti triti e ritriti problemi esistenziali con gli annessi quesiti classici: chi sono, da dove vengo, perché, per come, e compagnia bella. Poi ritorno sulla terra davanti alla venditrice di broccoli al mercato rionale, che ti frega sistematicamente dieci o venti centesimi con la bilancia truccata o con il resto sbagliato, una specie di giochino delle tre carte, e mi carpio in doppio avvitamento verso l’alto per cercare di riuscire a carpire anche solo un sommesso russare di Dio, o dio, o quello che sia, senza esito, ovviamente. Intanto irritano i confronti con i cari, coi meno cari, coi carini, coi cariati, tanto per aggiungere confusione alla confusione.” “Che vuoi dire?” “Lo sai meglio di me che cosa voglio dire, per tutti quei mal di stomaco dal nervoso che mi sono sorbito. Il concetto lo abbiamo di comune accordo battezzato paura della proiezione. Vedi un vecchio, noti le sue manie, pensi che prima o poi succederà anche a te, semmai arriverai ad essere vecchio. 305 Ma è paura generica: il vecchio è un bavoso sconosciuto con lo sguardo privo di familiarità. Poi posi gli occhi su tuo padre, o tua madre, o qualcuno di conosciuto di famiglia in odore prossimo (pessimo) di pannolone. E la paura, che nel frattempo si è evoluta in sommarie conoscenze della legge del Mendel, diviene terrore al pensiero che proprio quelle odiosità, odiosità odiose per affetto, possano trasferirsi come un raffreddore nel tuo cervello che ha già qualche crepa di suo per un discorso semplicemente anagrafico. E da qui la consapevolezza che tutto gira fuori della tua logica che cerca una scappatoia soprannaturale senza trovarla e s’impegola sempre più nelle contraddizioni della realtà che assomiglia sempre più ad un incubo. O anche viceversa.” “Continua che mi interessi: sono cose già dette un’enormità di volte come un disco rotto, ma stavolta ci stai mettendo espressività. La potenza di un buco nel costato che arieggia meglio i tessuti e ossigena con corrente d’aria fresca ahahah.” “Sarai anche la mia coscienza, ma sei davvero stronzo.” “Più o meno quanto te, caro Agostino in sedicesimo...” Qualsiasi metodologia volta alla ricerca di risposte riguardo il libero arbitrio del comatoso viene a cadere per la rottura della macchina che tiene in vita lo sfigato con il ronzio fastidioso. Il rumore cessa allargando il silenzio nella sala semibuia del teatro, sgomentando il pubblico. Perfino il Corifeo rimane silente e disarmato. La scena muta nella penombra con la comparsa d’un confessionale. La voce, inizialmente beffarda, poi interessata, poi ancora complice, diviene apprensiva, di quell’appiccicoso che vorrebbe essere samaritano. “Parlami, dunque, figliolo, diletto cybbolo, e liberati…” “Cominciamo con il dire che non sono solo, ma siamo tanti cybboli, quasi tutti molto incazzati, anche coscienti 306 che forse di questi tempi, invece di chiamarla ‘padre’, preferiremmo essere orfani. Noi siamo, alla facciazza sua, Legione.” “Ommisignur, Madonnina benedetta, sant’Alfonso de’ Liguori protettore del prepuzio! Percepisco dell’astio…” “Astiooo? Ostiaaa, altroché, papy. Mi fioriscono battute che scambio con il più anticlericale di noi: lo sa perché piazza San Pietro è interdetta alle automobili? Perché è zona pedo-nale: del resto i bimbetti a piedi si brancicano meglio di quelli col motorino…” “Figliolo, figlioli, turba, legione, ascoltatemi…” “Ci dica, ci dica, papy.” “Siamo tutti addolorati, qualcuno di noi s’è anche beccato l’AIDS o l’epatite, ché i bambini di oggi sono promiscui e poco amanti dell’igiene. Io ho il petto sanguinante e il fiato corto e mi prostro di fronte all’umanità per scusarmi a nome di tutti gli altri servi di Dio.” “Lei ha il petto sanguinante per giochetti sadomaso di frusta o di alabarda spaziale con qualche moccioso travestito da Goldrake, ha il fiato corto postorgasmo da rotterdam di implumi terga e l’unica cosa credibile che possiamo prendere per buona riguarda la prostrazione della sua prostata infiammata dall’abuso dell’uso del fuso. Circa i servi di Dio, ci piacerebbe che Dio cambiasse impresa di pulizia. Ci sono ancora, secondo lei, margini di dialogo?” Il confessore singhiozza sommessamente mentre si levano cori gregoriani da parte del Corifeo, dagli omologatti con voci squillanti e apocalittiche: Dio vi vede, Dio vi vede Mentre vi ingroppate prede Tenerelle ed innocenti, Mentre digrignate i denti ai quali rispondono gravi i veteri inani, in sinergia complementare coi bietoloni, carichi di sguardi livorosi 307 verso il confessionale che si restringe fino ad apparire come una bara, ingobbiti vieppiù: Dio potrebbe incenerirvi Bombardarvi, annichilirvi Ed invece nel clichè Siete vivi e Lui non c’è La scena cambia in porpora a confondere il porporato nella cassa che si dissolve poi nel buio più siderale. Dopo buio e brusio, utili a cambiare la scena, spiove una luce verdina di neon su uno studio medico. La voce è professionale ed è una voce difficilissima da riprodurre: curiosa, ma il più possibile asettica, tranquillizzante, ma acoinvolta, anche se forse è tutto un cine, circa l’assenza di coinvolgimento, ché certi medici si sentono, e fortunatamente lo sono, buoni pastori. “…Allora, mi dica ancora: va di corpo?” “Faccio lo stronzo molto spesso, dottore, anche se uno stronzo diverso rispetto a quello galleggiante nel bicchiere dell’analista, lì inteso come idiota o come uno che si sente tale nell’impotenza. In altre contingenze faccio lo stronzo in tutti i sensi. In senso metaforico paraculeggio con il debole per ritirarmi col forte, al volante, al bar, dove posso, trascurando rispetto ed elargendo pietà a mio piacimento: nessun problema di stitichezza, ché faccio lo stronzo tutti i giorni, magari anche senza saperlo. Stronzeggio regolare. In senso classico, invece, tanto per aumentare l’autostima, una sorta di guardarsi allo specchio e farsi l’occhiolino ammiccando, mi sollevo dalla tazza e guardo quel piccolo relitto in sessantaquattresimo della Moby Prince adagiato su un fianco. Lo contemplo con aria accigliata e poi esclamo con disprezzo malcelante trionfo e orgoglio: ‘Sei proprio uno stronzo’. E tiro la catena rinfrancato.” 308 “Allora i suoi problemi non sono intestinali… Lei ha qualche difficoltà in campo emozionale… soggetto ansioso… autostima… depressogeno… “ “Mi sa di sì, dottore, e lo dovrebbe evincere dallo sguardo fiducioso di bracco che rivolgo a lei come ad un demiurgo. Lo sa? Un mio amico, suo collega, mi chiama Pippo, Pippo Condriaco, per le mie ansie, ubbie, per il mio preoccuparmi d’ogni sensazione fuori posto spiata con zelo. E il bello della faccenda è che penso tutti i santi giorni alla morte sperando che sia lieve, improvvisa, apoplettica, che non mi faccia soffrire, ché ho terrore del dolore. E poi scaturiscono domande. Perché si deve soffrire? Che senso ha? Credo che il ministro della esemplificazione, figura che mi colpisce tanto di questi tempi complicatissimi, sia in ferie alle Canarie o a bruciare scartoffie con il cannello dell’acetilene e non può rispondere. Neanche lei può rispondere. E il quesito ne genera altri a macchia d’olio, tutti viscidi e soffocanti. La decisione di soffrire o non soffrire a chi spetta? Parliamo di Nonno Libero Arbitrio e della sua fiction? Subire: la parola da tanti milioni in montepremi, che pochi conoscono nel suo peso che sotterra. Perché subire? In ossequio a quale legge galattica non scritta e forse mai neanche spiegata per saecula et saeculorum? Io sono magnanimo, a volte. Posso comprendere il subire una classe politica che viaggia in auto blu con la ruota d’escort e pretende di darci lezioni di morale, posso comprendere una prevaricazione che mi possa inquadrare come vittima, un sacrificio, una restrizione, finanche Brunetta che mi prende per invidia a calci negli stinchi o a testate nelle palle, ché sono un omone di un metro e ottanta, ma perché devo subire dolore e striature cocenti nell’animo in contemplazione di un non sense generale su come va il mondo e su come va la mia persona invecchiando e perdendo denti, capelli e colpi di tutti i generi?” “Lei è torrenziale, amico mio, e fagocitante: la sala d’aspetto è stracolma di supposte, di bustine, di viagradipendenti, di sartani (sarta chi può e chi non può 309 zompa). Lei sta facendo subire ad un microcosmo, senza rendersene conto, una sfibrante attesa che nessuna rivista di Novella Duemila o Panorama può anestetizzare o quanto meno lenire …” “Ci ho pensato, invece, e mi sono detto ‘vai in monade’. Siamo troppi e forse potrei dare l’esempio e togliermi dai coglioni per primo, ma senza soffrire, istantaneo come un caffè che non sa di nulla…” “Ma no, è tutto molto più semplice: le prescrivo delle goccine che la metteranno in condizione di combattere le sue ansie e paranoie fregandosene bellamente.” “Ma le goccine, dottore, sono un interruttore on/off… Leggo ogni tanto che scoprono sempre nuovi interruttori: la molecola x aumenta la voglia di trombare, il gene z inibisce la voglia di mangiare, la molecola pdl aumenta appetiti di onnipotenza, la molecola pd provoca piacere nel tafazzarsi lo scroto. Sono sgomento, dottore: è mai esistita una reale, autonoma, sana voglia di decidere senza condizionamenti chimici, naturali o artificiali che siano, senza un codice genetico, senza una educazione precotta precostituita preprostituita? Che disegno c’è sotto? Si muore in ansia e di ansia: hanno provato a tranquillizzarci fin da bambini con le caprette che fanno ciao a Heidi, ma io sono sempre atterrito da Heidegger. Aiuto, dottore: risposte, non farmaci…” “Prenda queste gocce e se ne faccia una ragione…” “Questa è dipendenza. Ho smesso di fumare, per paura di soffrire nel soffiare, ho smesso di bere, per paura della dipendenza dalla pendenza, e lei me ne offre un’altra sotto forma di gocce per stare tranquillo? Non potrebbe darmi l’eutanasia, o almeno l’ignoranza, o l’oblio, o il ritorno ad uno stato fetale predinosaurico al di fuori del nulla o del tutto? Va bene, va bene: considererò la sua prescrizione come un vaccino, come un training autogeno, come un’anticamera, rispetto ad un qualcosa di più definitivo…” Il medico sorride pallido e benevolo alzandosi dalla sedia e accompagnando gentilmente alla porta il paziente che sventola come un ventaglio i fogli rossi delle ricette per 310 l’ipertensione, per la depressione, per il morbo di e per la sindrome di, perlana, ammorbidito, ma anche confuso e felice per una vita di plastica. Cala la luce e sopraggiunge il nero. E’ d’uopo, ora, una breve digressione sul pubblico presente in sala, mentre si approntano cambiamenti alla scenografia. Quelli del pubblico con simpatie politiche destrorse, maggiori o minori che siano, tranne qualche eccezione conciliante o in preda a sonno comatoso, sono già usciti dal teatro, smadonnando in celtico, sghignazzando in sfida sguaiati, battendo ironicamente le mani, soprattutto spernacchiando, e non sempre nello stesso tempo e a tempo del Corifeo dei veteri inani. Qualcuno pronuncia oscure minacce, qualcun altro grida il solito crudo messaggio ‘andate a lavorare’, qui molto più innocuo e comodo rispetto al contesto dell’ex carcere della Maddalena. Lì, a fronte dello stesso messaggio, si trascorrerebbe la notte combattendo i morsi della fame e del gelo con spiedini alla brace di destrorsi imprudenti: sarebbe l’evoluzione della specie che una volta mangiava bambini, perché oggi i bambini, per moda, sono solamente abusati, proprio nel senso di buso. E comunque la sala si è tristemente svuotata di più della metà degli spettatori, come da abituale ‘trend’ di partecipazione elettorale. Chi rimane pisola, applaude fuori tempo, sempre o quasi sulle scoregge dei veteri inani già troppo citati, (lo scatologico è sulcesso) oppure annuisce scuotendo la testa in complicità fittizia, ridacchia nervosamente perché non capisce il vero senso di quanto recitato. O perché, più semplicemente, si annoia, ma non trova elegante gridare che il re è nudo ad una pièce teatrale dove dal palcoscenico si grida in continuazione che il re è nudo. Si informa anche, en passant, che certi re, escludendo l’ovvio Pipino il Breve, hanno anche il pisello piccolo, ma 311 assai vorace, ma questo è un altro breve, di altezza, ma purtroppo non di durata governativa. Poi, tra i rimanenti, c’è quello attento, quello che è arrivato a leggere fino a qui, e l’altro attento, a non dire minchiate, che sono io che sto concludendo la digressione col dubbio di avere detto già troppe minchiate… L’intervistatore di turno si è moltiplicato per intervistogenesi ed è un folto gruppo di persone armate di microfoni davanti ad una tribuna alla Cetto la qualunque da dove uno ieratico similcybbolo nero, e non soltanto di umore, sta per declamare. “I have a dream. Ho fatto un sogno. E non sono Veltroni. Ho visto distintamente un’assemblea di vassalli in riunione di condominio (riunione protetta) per la discussione del tema: lotti(mi)zzazione delle potenzialità del paese. Tal Calderoli, con Brunetta al fianco come una spina, ad altezza fegato, con un Tremonti al tramonto della sua inventiva in finanza creativa, e un Sacconi con quel testone buono pieno di segatura cattiva, e la Gelmini appena rientrata dal suo viaggio di nozze. Ha tagliato anche questo di quattro giorni come tutte le spedizioni di cartoline, per una certa coerenza comportamentale coi tagli alla scuola. Si mormora che per risparmiare vieppiù si sia tagliata da sola i suoi reggiseni con le forbicine delle unghie e li abbia fatti cucire da una bidella precaria di una scuola materna di Cinisello Balsamo. Si teme, o forse si auspica, che possa decidere di tagliarsi in futuro prossimo anche le vene. Sono tutti seduti intorno ad un tavolo, con il solo Brunetta in piedi ancorché apparentemente seduto. I dialoganti verranno citati per comodità con la sola iniziale, per esemplificare, come richiede da subito Calderoli. C.: “Vorrei parlare subito del recupero funzionale della Rupe Tarpea per l’esemplificazione di alcuni problemi d’ordine sociale e sanitario, circa gli immigrati clandestini e coloro che gravano enormemente sul bilancio delle spese 312 sanitarie con handicap di vario genere, fastidiosi per tutti, ma soprattutto per gli albergatori delle nostre belle valli. Avrei tuttavia in animo una prioritaria interrogazione alla signora collega G. circa un problema ipotetico di confusione o sovrapposizione nell’ambito del mio progetto di esemplificazione del linguaggio. Se chiamassi il ministero dell’esemplificazione con il più semplice ministero dell’Es. incorrerei in spiacevoli equivoci psicanalitici?” G.: “Non saprei, caro C., e dovrei approfondire il problema dall’alto della mia incommensurabile ignoranza, che mi scuso se non è pari alla sua, ma penso che non dovrebbero sussistere problemi. Al massimo, in eventualità negative da accertare, si potrebbe esemplificare in altro modo grafico, per esempio in ministero del Les…” S. scuote il testone in diniego con curioso rumore di sfregamento di segatura su acciottolato: “Assolutamente non è possibile questa ultima proposta: si potrebbero ingenerare equivoci con una patologia chiamata appunto Les, una malattia autoimmune, il Lupus Eritematosus. Sai che tristezza fare le esemplificazioni con la fiamma ossidrica, roba da pianto greco, affetti dalla sindrome di Sjogren, senza una lacrima da poter versare, oppure esemplificare il giro delle escort con la sindrome sicca, che poi è una banale, ma in questo caso disastrosa, secchezza delle fauci che dovrebbero essere sbavanti all’inverosimile. No, no, assolutamente no…” B.: ”E se esemplificassimo con creatività, quindi non necessariamente dall’inizio, e partissimo da qualche sillaba dopo, chessò, a caso, da fica? Suona anche bene, stimola i bamboccioni e i fannulloni e s’armonizza con il partito dell’amore: il ministero della fica. Eh? Eh?” C.: ”Non mi opporrei: è anche celodurismo padano ahahah. Che ne pensi T.?” T.: ”Intevessante. Penso agli sviluppi pev un dopo, pev un futuvo migliove. Una tassazione sui pvoventi della fica… in genevale, in pavticolave.” C.: ”Guarda che sono ministro senza portafoglio…” 313 T.: ”Tu sì, ma tutti i puttanievi che conosciamo…” B.: ”Non pensiamo a loro, ché tanto non pagheranno mai neanche se intercettati, ma ai bamboccioni segaioli senza la paghetta di papà per andare a puttane…” T.: ”Geniale, B.: aumentiamo il salavio ai padvi facendo contenti anche i sindacati e tutte le pavti sociali e poi istituiamo una tassa sulle paghette ai bamboccioni e una tassa sulle fvequentazioni mignottesche, da suddiviveve tva clienti e, vivaddio, anche sulle tvoie, ché è ova che paghino le tasse anche lovo. La cavtolavizzazione del mevetvicio, sbav, sbav, sbav...” G.: ”Sì, che paghino, paghino anche loro, che guadagnano un pozzo senza un minimo d’istruzione promuovendomi un sistema culturalfilosofico alternativo, a me antagonista…” C.: ”Allora vada per il ministero della fica? B.S.G.T. in coro: “Vada, vada…” C.: ”Sarà contento anche il boss. Me lo vedo con gli occhi lucidi che annuncia in conferenza stampa il perfezionamento del primo parto del partito dell’amore: il ministero della fica. Pota, che spettacolo! Altro che aborti! Bersani morirà di pugnette ahahah.” B.: ”Sta già morendo di pugnette, se hai visto le borse sotto gli occhi dopo le elezioni… indipendentemente…” Rumore caotico dei giornalisti che si sovrappongono in una babele di domande e richieste di spiegazioni sul sogno. Il similcybbolo nero, in realtà, ha voluto soltanto fare una discutibile satira becera di alleggerimento apparente che ha svegliato gli ultimi due destrorsi del pubblico, quelli in sonno letargico, che sono usciti senza rimpianti nonostante la chiusa impietosa sul povero Bersani che avrebbe dovuto strappare almeno un ghigno. Il Corifeo, che in genere dovrebbe esaltare gli eventi, dorme in una massa informe quasi fusa di omologatti e veteri inani tra fischi, sibili e squittii da incubi ingestibili. Tutto diventa nero come il similcybbolo. Dal buio delle quinte emergono due sagome di porte aperte. 314 Davanti a una c’è il cybbolo in tuta vecchia riciclata per casa, piena di buchetti vari che lo rendono triste come un Tuttouncamolo imbalsamato. Davanti l’altra c’è un meraviglioso mammifero di sesso femminile completamente nudo che squadra la mummia con occhi maliziosi e tette che sfidano la legge di gravità e un triangolo di peli così bello da sembrare trascendente. La nuda cinguetta con voce velinica: “Salveee, sono la sua vicina di casa, l’innocente ragazza della porta accanto. Piaceeereee della sua conoscenza…” “Salve… Sono frastornato per tutto questo bendidio e non mi capacito: sogno o son desto? Sa, io sono molto spesso dietrologo…” “Ehhhh, come corre, porcellino. Già s’interessa a pratiche trasgressive sul lato B?” “Nooo, per carità, per quanto, ora che mi ci fa pensare…No, mi scusi: è che sono sospettoso, diffidente, credo sempre meno a tutto, compresi i colpi di fortuna, e temo soprattutto l’invidia degli dei. Poi credo nella legge di compensazione per cui a fronte di una botta di culo simile, il suo culo per l’appunto, dovrò per lo meno prendermi un ictus da priapismo (sarà mai possibile?) o un’infezione venerea o anche soltanto un definitivo banalissimo infarto… E poi, soprattutto, queste cose non accadono mai nella realtà. Quindi sto vivendo un sogno, ma Calderon e William mi stanno pungolando i neuroni in cavalcate selvagge e quindi mi comincia a scoppiare la testa nel tentare di discernere… Mi capisce?” “Veramente no: io sono solamente l’innocente ragazza della porta accanto e la guardo con fare ammiccante. Lei mi capisce?…” “Forse sì, forse no. Forse lei è il risultato di un rimescolamento galattico molecolare, un’allucinazione da peperonata, forse la realtà è altro: lei è una stortignaccola gobba cingalese che mi sta tendendo la mano scheletrica per avere un tozzo di pane. Oppure forse lei è Madre Teresa resuscitata che vuole sottopormi a qualche prova a premi metafisici e io confondo tutto con il sogno di Pamela 315 Anderson sull’isola deserta sola con me in pratiche fellone di fellatio. O viceversa, of course.” “Ma che dice? Sono vera, autentica, se mi permette, e anche soda: tocchi, tocchi, sprimacci …” “Lo farei a piene mani invocando come attenuante generica la Bibbia, i grappoli d’uva, le spighe e i covoni, ma ho paura che ci si stia muovendo in terreno acquitrinoso malsano. Già mi pare di sentire accuse di maschilismo, nonostante non sia ben chiaro se questo è sogno o realtà. Sento le voci: ‘ecco, ecco: sempre la solita situazione della femmina puttana e del maschio cacciatore che subisce fascini e feromoni’.” “Guardi che questo è solo uno spettacolo: mi trasformo istantaneamente in maschione con tre gambe, l’innocente ragazzo della porta accanto con lo straripante manico del macho vileda tra le mani…Cambio anche voce, baritonale come una carta vetrata… Ssalve, piacere della sua conoscenza: che fa? Guarda il pacco?” “Salve… Sono frastornato per tutto questo bendidio e non mi capacito: sogno o son desto? Sa, io sono molto spesso dietrologo…” “Stiamo ricominciando in loop? Si sta alloopando?” “No, guardi sono confuso, sempre più confuso. Adesso dovrei, per par condicio, rispondere da verginella con vampate di rossore e le sise tremolanti d’emozione… Mi sta scoppiando un mal di testa terribile. Quel cacchio di William con tutte le sue fisime sulle rappresentazioni, le maschere, le trasposizioni tra sogni e realtà, oddio… Credo che mangiasse davvero pesante… Fosse vivo oggi, lo tratterei come John Lennon. Da ammirato fan, rovinato nell’esistenza per tutta la vita che potrei vivere beatamente seguendo la ruota della Fortuna e Chi vuol esser miliardario. E invece ancora quesiti… “Ritorno la ragazza innocente della porta accanto, tanto per non stressarla ulteriormente. 316 E mi vesto istantaneamente per non procurarle crisi da misegosauro, ché la conosco, sa, e ho tenerezza e pietà per lei…” “Che ne sa un sogno di ciò che è reale? E come si può pilotare un sogno verso i propri desideri? Lo sa? Matrix, il film, per me è quasi istigazione al suicidio, forse perché le scene sono più romanticamente grandiose di quelle di un Capezzone decadente che con la faccia del bravo compunto ragazzo fa il punto della situazione bacchettando qui e là e dando ganascini a destra e mai a manca. Con Capezzone, con i portavoce in genere, ché anche di là non si scherza, più che suicidarsi viene voglia di ridere. Amaro, ma ridere. Credo che si possa morire dalle risate amare, per un attacco di bile mentre ci si strozza increduli e indecisi se considerare tutto questo come tutto o nulla, sogno o realtà, con tutti gli annessi e connessi del totem del non sense, della sofferenza, degli accostamenti bizzarri tra una realtà birmana, tanto per dire, e un week end di ferragosto sulla Salerno-Reggio Calabria…” “Si calmi, si calmi, caro vicino di casa. Guardi: mi sto incartapecorendo per solidarizzare con lei e le sfodero un mesto sorriso guardandola con occhi stanchi mentre mi ravvio la crocchia grigia: è contento?” “Vaffanculo, vicina di casa della porta accanto, chiunque tu sia. Sto esplodendo di cose trattenute non dette che faticano a essere vomitate fuori. Mi sembra d’essere stato già fin troppo esaustivo, oltre che estenuante. Mi sento anche io una istigazione al suicidio, seppure vivente…” “Si calmi, la prego, le sto anche tremoleggiando la voce…” “Vaffanculo al quadrato! Qui tutto sta divenendo paradossale e stanno mancando punti di riferimento, certezze, verità. Deflagrano i luoghi comuni e il frocio è anche di destra, il razzista è di sinistra, il pacifista è armato. 317 Tra qualche anno ci sarà financo l’ostensione alternativa da parte di una mafia inequivocabilmente imperante senza dubbi alcuni: sarà l’ostensione della tazzina da caffé con le impronte corporali di Sindona. La verità unica e assoluta è l’assenza di verità unica e assoluta e da tutto questo, dal tutto, scaturisce il nulla più totale. Mi dica, caro essere innocente della porta accanto: io dove sono? E soprattutto: che ci faccio? E ancora: perché?” “Non ho risposte per lei, caro vicino della porta accanto. Le volevo solamente fare compagnia per rendere meno paurosa l’esistenza, stordendola con la mia innocenza pelosa e poco innocenteeeeee… “ Le figure sbiadiscono nel buio mentre si chiudono le porte con due tonfi sommessi e la scena ritorna nera come l’anima di chi scrive, ammesso che esista un’anima. Il corifeo ormai tace, ché nulla è più da evidenziare e nulla più vuole evidenziare, sconfitto e piegato. Nel silenzio di smarrimento e riflessione di fine spettacolo uno sparo echeggia nella sala e uno del pubblico s’accascia sulla poltroncina: il solito debole che capitola da subito alla prima consapevolezza sofferente, al primo stormir di foglie e alla prima rottura di coglioni. Cala nel contempo, quasi rispettosamente per la contingenza, il sipario con un fruscio sinistro non necessariamente di sinistra: un fruscio trasversale. Gli attori, il corifeo e il residuo pubblico s’affannano verso la poltroncina fumante per un tentativo disperato d’ultimo soccorso con esclamazioni addolorate, pietiste, scomposte, madonnemistiche, ossignordamoreaccesiche e compagnia cantante. Qualcuno, magari il più curioso, ipotizzo io perfidamente, s’appoggia con la mano allo schienale e non sa che si è beccato l’AIDS per il contatto casuale col sangue schizzato che contamina un polpastrello mangiucchiato fino alla carne viva, solito ansioso essere che qualche psicologo dice che è bisognoso d’affetto. Le probabilità che 318 questo avvenga sono di una a un milione, ma il fato cinico e baro che governa l’umanità così ha deciso. L’onifago autocannibale uscirà dal teatro, ignaro, e farà proseliti del nuovo credo di distruzione, prossima verità tra le tante galleggianti in assenza di verità. Il Corifeo ha un ultimo sussulto e i quattro più quattro si ergono sull’attenti davanti alla salma del suicida, sghimbescia sulla poltroncina, e salutando militarmente intonano in loop infinito la seguente frase: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli!” 319 320 RACCONTI NERI 321 322 GIALLO ESTETICO “Lui è sempre stato molto attento all’aspetto fisico ed al suo modo di porgersi per cui si è plasmato con estenuanti esercizi in palestra, si è vestito dai migliori sarti e si è forgiato il carattere con persone piacevoli e intelligenti e con letture gratificanti lo spirito. Lei è sempre stata fiera del suo personalino svelto e fine e lo ha esaltato con capi d’alta moda e un trucco discreto e intrigante ed è sempre stata orgogliosa della sua sensibilità e ironia: due belle persone, intelligenti e ricche di spiritualità, innamorate di loro stesse oltre che del prossimo, in un vivere piacevole e molto sociale per la gioia di apprezzare, apprezzarsi e sapere di essere apprezzate. Si sono conosciuti ad un vernissage di un comune amico pittore e si sono piaciuti dopo pochi sguardi di intesa reciproca. Hanno mescolato gli effluvi di Eau Sauvage e Eau d’Issey in un’unica appagante fragranza dopo un matrimonio semplice e sobrio davanti a pochi sceltissimi amici e hanno diviso momenti piacevoli a lungo e intensamente. Hanno commesso solo un errore, ma grave, tutti e due: sono rimasti invischiati nell’abitudine di giorni e giorni di quotidianità e hanno perduto quella rigorosa lucidità estetica che li contraddistingueva per adagiarsi in una tolleranza sempre più giustificativa. Un giorno hanno riaperto gli occhi della loro antica sensibilità e hanno visto i loro corpi ormai sfatti da cocktails e cene esotiche, stanchi e rugosi, avvolti in pigiami o vestaglie che mai potrebbero accostarsi al concetto di erotismo e si sono uditi, dopo anni di silenzio, per una prima volta, lui con i suoi rutti dopo una birra davanti alla televisione e lei con le sue esclamazioni di cittadina che protesta, querula, acida, in lotta col mondo intero. Hanno scoperto di aver dimenticato come si ama carnalmente, come si amavano, perduti in sfibranti preliminari poi sostituiti anno dopo anno da un rapido anonimo contatto solo meccanico. 323 Si sono resi conto dell’errore tutti e due, nello stesso momento, e si sono specchiati uno negli occhi dell’altra….hanno avuto uno sprazzo di pietà, no, direi di amore, sì, ancora amore.” “Lei dice che è andata così, dottore?” “Sì, penso proprio di sì.” Il medico legale, psichiatra, annuì allo Sceriffo e alzò gli occhi da documenti che aveva consultato sbirciando ancora una volta fuggevolmente i due corpi abbracciati con due coltelli conficcati nel torace che si guardavano ancora con occhi vitrei in un ultimo soprassalto di complicità perduta. Ebbe un fremito che forse era di invidia… 324 DEVOZIONE Non può chiamarsi paese, e nemmeno villaggio, Okoote, nel centro del Ruanda: può, forse, definirsi comunità, con quattro o cinque grandi capanne, una tettoia e il bungalow della missione che funge da ospedale, chiesa e centro di aggregazione di un gruppo di qualche famiglia hutu ancora dimenticata dal mondo civile (quello della guerra civile) nel mezzo di una impervia foresta lussureggiante e inestricabile. Oggi è festa grande ad Okoote: è stato superato, almeno per qualche giorno, il problema della fame, atavico, e le donne sorridono, mentre allattano i loro piccoli, con i seni penduli, e battono radici ed erbe in rudimentali mortai di legno per farne una pasta da accompagnare alla carne che arrostisce lentamente allo spiedo. I guerrieri masticano soddisfatti foglie di tabacco e curano il fuoco guardandosi con soddisfazione e gli occhi stretti a fessure per il fumo acre di legna verde. E’ diffuso nell’aria un penetrante aroma di incenso che non sembra provenire dal bungalow di Don Pietro… Manca stranamente alla festa proprio il solo Don Pietro… Uno sguardo appena più attento farebbe scorgere, vicino al gigantesco spiedo che gira, una tonaca nera fermata al vento da un grande messale; ci si chiederebbe, inoltre, il perché di un certo gioioso e irrispettoso andirivieni di bambini dal bungalow del prete, tutti con qualche oggetto in mano che esaminano con curiosa spensieratezza: ampolline da messa, una radiolina, una padella, scatolette di medicinali… Ora di pranzo, alfine… Il capo della comunità, un vecchio hutu sdentato e rugoso, intona, con voce ferma e in stentato italiano, una preghiera, tra il gruppo compunto: “Signore, che Ti sei manifestato nella frazione del pane, benedici la nostra mensa e santificaci con la Tua presenza…” Il gruppo mormora nel suo dialetto: “Grazie, Don Pietro…” 325 GIALLO IN DUE TEMPI E DUE SPAZI UNA GRAVE PERDITA Oggi pomeriggio, nella piccola cappella dell’Addolorata, alla destra del transetto del duomo del ricco centro brianzolo, si celebrerà una novena di preghiera: ricorre il trigesimo della scomparsa di T., ragioniere, impiegato di banca. Se ne è andato, tra i migliori, come sempre in genere, improvvisamente, trenta giorni fa lasciando un vuoto ed una perdita incolmabile nella comunità. Era benvoluto e stimato dai colleghi e dai clienti, amatissimo dalla moglie e dai familiari, tutti, ancora oggi, distrutti e uniti nel dolore. L’Interpol ipotizza che possa trovarsi in Giamaica o in qualche altra isola caraibica. Si presuppone che sarà molto difficile rintracciarlo, considerando che si è dileguato con un importo di circa quarantacinque milioni di dollari… DARK LADY Il ragioniere T. si affacciò con la testa nel bagno maiolicato pieno di vapore. B. era una cosa sola con una stimolante doccia tiepida che esaltava gli aromi di spezie esotiche del bagnoschiuma. “Esco per un poco, ma ritorno…stai tranquilla…” e scomparve ridendo con due enormi valige rigide. Ritornò nell’elegante bungalow dopo due ore circa, si cambiò con un completo di lino bianco, stazzonato leggerissimo, e raggiunse B. presso il bar del villaggio turistico: lei era appena un poco soprappensiero, vagamente inquieta e apprensiva… “Tutto a posto: esistono anche qui le banche…” e rise guardandola maliziosamente. Rise anche lei, meccanicamente, sospirando di sollievo e pensando a un momento propizio per la seconda parte di un piano, la parte che conosceva solo lei. 326 Il ragioniere ordinò champagne e poi ancora champagne: si ironizzò parecchio nell’immaginare varie facce al di là del mondo sorprese dolorosamente per quel colossale ammanco in banca; si rise molto nell’ipotizzare reazioni scomposte e isteriche… Lui le sussurrò qualche segreto e lei sorrise…un sorriso freddo da iena… Poi andarono teneramente abbracciati fino al faro sulla scogliera, nell’aria frizzante della sera, immersi in propri pensieri cullati dalla risacca. Contemplarono il mare da lassù, onnipotenti, forse più onnipotente B. del ragioniere che era sul ciglio del burrone e guardava in basso le rocce aguzze… B. spinse con freddezza e ristette ad ascoltare il colpo sordo. Individuò il corpo disarticolato del suo ex compagno di viaggio, semi coperto dalle onde, e corse via con un satanico entusiasmo, raggiante, al bungalow per recuperare la pesantissima carta di credito nella cassetta porta valori: sapeva il codice, sapeva conquistare la fiducia in pochissimo tempo, sapeva vivere, voleva vivere, però indipendente, sola, senza legami… Nella cassetta blindata elettronica non c’era nulla, solo due o tre mazzette di banconote… Ritornò al faro come un’invasata e si calò con svelta prudenza febbrile tra le rocce per frugare un corpo… Sono molto voraci i granchi tropicali… Alla luce della luna vide un corpo straziato che sembrava ghignare di trionfo e un tesserino magnetico sminuzzato da imparziali chele… 327 TROPPO IN ANTICIPO AGLI APPUNTAMENTI Roberto ebbe modo di comprendere che non si dovrebbe mai arrivare con molto anticipo agli appuntamenti. Era stravaccato su una panchina sotto un albero, al crepuscolo, e attendeva amici per una pizza in compagnia. Rumore uniforme di scroscio di fontana e urla gioiose e discorsi accalorati tutto intorno. E’ bello lasciarsi andare in queste occasioni a pigre osservazioni sul mondo minimale che ci circonda con i pensieri in libertà senza guinzaglio. E’ ancora più bello se ogni tanto, nell’ambito di un’afa insopportabile, si leva un refolo di aria che dia l’illusione del sollievo. Roberto si guardava intorno e ipotizzava su situazioni a venire mentre osservava il presente intorno a lui. Altre panchine. Una piena di marocchini con un cartone di birre; una con due innamorati alla moda con piercing e tatuaggi vari; un’altra con speculare sfaccendato dall’aspetto, però, più truce e trasandato. E intorno bambini chiassosi, qualche mamma pettegola, musi di faina semisepolti dalle ombre più lunghe degli alberi: varia umanità. La notò subito all’altro capo del giardino della piazza. Immagine di capodoglio ferito grigiazzurro. Arrancava con un bastone pratico , ma poco elegante. Aveva una chioma argentea spettinata corta apparentemente della consistenza del filo di ferro: Roberto ironizzò interiormente su uno splendido taglio a ‘scodella’. Strascicava il passo bilanciandosi tra il bastone e una sporta semipiena. Si sentì scrutato. La vecchia, corpulenta e sfatta, colava verso di lui con una vestaglietta leggera celestina a piccoli fiori, tipica delle vecchiette che non si spostano molto dal loro quartiere. Si fermò davanti a lui con uno sguardo indagatore, anche esso celestino e freddo come la vestaglietta, seppure senza fiorellini, e atteggiò un sorriso umile di circostanza. 328 “Mi permette, bravo giovane, di sedermi un poco alla sua panchina? C’è troppa brutta gente in giro e io sono vecchia e mi reggo a stento in piedi…” Roberto si scostò verso un capo della panca educatamente e con un sorriso di solidale condiscendenza. La vecchia parve rinvenire nell’aria buonumore, alzando il naso verso le cime degli alberi come un cane da caccia, poi si volse verso l’ospite improvvisato con sguardo ghiacciopuntuto. Ansimava per una cattiva respirazione, quasi risucchiava l’aria come per uno sviluppato enfisema, e il petto budinoso ondeggiava sotto la vestarella leggera. “Meno male che esiste anche la brava gente. Almeno non mi sento proprio sola e in balia di chi vuole fare del male. E’ pieno di gente che ce l’ha con i vecchi. A cominciare dai figli…Ma quand’è che si toglie di torno ‘sto rudere? Dicono così dentro di loro, sa? E una povera vecchia come me, piena di acciacchi e di dolori, si sente sola sempre di più, e anche inutile.” Roberto per cortesia si era girato verso la vecchia che parlava. Sentiva il suo curioso modo di ansimare risucchiando l’aria e percepì un sentore di liquirizia e menta. Pensò alla nonnina troppo vicina con quella probabile dentiera, gialla, e quello sguardo che chiedeva qualcosa ed era al contempo di ghiaccio con bagliori freddi alla luce del crepuscolo. Assentì benevolmente alle lamentele dell’anziana persona con un sorriso vacuo e un leggero fastidio per essere stato interrotto nel suo processo di rilassamento solitario. Anche un vago inspiegabile malessere. La vecchia tracimava con maggiore calore e risucchiava l’aria come un mantice. “Le gambe non mi reggono più. La farmacia qui dietro è chiusa per ferie e dovevo prendere delle medicine. E’ 329 passato il giovane avvocato che abita nel mio stabile, quello là di fronte, una casa tranquilla, per fortuna. Si è offerto di fare un salto fino all’altra farmacia in fondo alla via. Era esitante, forse pensava che non l’avrei pagato. Io gli ho dato la ricetta e anche i soldi, compresi gli spiccioli: non mi faccio certo guardare indietro, io, sa?” Assunse un’aria grottesca di bambina offesa col broncio e la ragnatela di rughe divenne più evidente e impietosa. Roberto era fisicamente a disagio: troppa afa, l’aria che mancava, ed era anche imbarazzato per il torrenziale debordare della nonna che continuava a raffica. Ebbe un impeto di evangelica tolleranza buonista e fece finta di nulla, seppure trafitto come una farfalla dallo sguardo indagatore acuminato come una spilla. Ah, questi vecchi diffidenti, fragili, rompicoglioni!!! Nuovo risucchio. “Vede quel signore laggiù? Ha ottantadue anni! Lo direbbe mai? Guardi che passo… Io ho tanti acciacchi, ma mi difendo ancora: ho settantasette anni. Mi tengo benino perché mangio poco: stasera, per esempio, un pezzettino di formaggio e un bicchiere di latte o un frutto. Non bevo vino e non sciupo soldi per certe robacce che si mangiano oggi. Nulla è più buono dell’insalata…” Roberto cominciava ad essere stordito. Le chiacchiere invadenti, quel curioso rumore di risacca, quell’aroma indefinibile di liquirizia e menta e la luce che si abbassava nell’afa che opprimeva. Guardava sempre più frequentemente l’orologio da polso sperando in una irragionevole sgroppata del tempo. Sudava copiosamente stuzzicato da un persistente crescente mal di testa. La vecchia sembrava più tonica, forse per la minore luce che non riverberava più dalle finestre oblique di fronte, forse per la soddisfazione di avere trovato compagnia ad alleviare la sua solitudine. 330 Parlava e parlava: di flebite, di diete, di figli ingrati, del quartiere e della gente malvagia che lo aveva invaso. Roberto si sentiva ora decisamente male, a corto di fiato e debilitato. Inventò su due piedi la scusa più banale. “Mi scusi tanto, signora, ma devo proprio andare…” La vecchia farfugliò qualche scusa con una voce esageratamente tremula e sorrise debolmente, con gli occhi comunque sempre vigili e senza espressione. Roberto si levò dalla panca con enorme fatica e cercò di allontanarsi verso la fontana. Caracollava quasi come un cavallo azzoppato, svuotato di energie e desideroso solo di tanto riposo. Si diresse alla fontana con passo malfermo per rinfrescarsi il volto. Vide riflesso sulla superficie dell’acqua il suo viso e rabbrividì di raccapriccio. Era una faccia di pergamena, rinsecchita e asciugata come uno stoccafisso, grigia, come una mummia imbalsamata disidratata da tempo immemorabile. Ebbe un mancamento e scivolò in terra con lo sguardo rivolto verso la panchina dalla quale si era levato poco prima. E comprese. La vecchia lo squadrava da lontano con indifferenza e il suo corpaccione aveva ora una maggiore tonicità e consistenza: sembrava più grande e più soda, massiccia e granitica come un monumento. Pareva quasi che sorridesse beffarda con labbra avvizzite violacee e con quella dentiera gialla che ora, nell’immaginifico del sofferente, appariva da vampiro. A Roberto venne in mente la mutazione del capodoglio nella strega-piovra grigia e neroviolacea enorme del film d’animazione “La sirenetta” e si chiese se la vecchia gli avesse rubato proprio tutte le energie, con quell’asmatico inspirare, e lo avesse precipitato verso un punto di non ritorno senza neanche la possibilità di mangiare ancora una nuova pizza con amici. 331 Delirò di ultima cena, di dovere richiamare i pensieri bradi, di mentine e canini e di soffi ad aspirare energia vitale, vita vera e propria. Pensieri incongruenti, illogicità, deliri canicolari. Scroscio della fontana come rombo a lavare il cervello e a cancellare grida e risate. Calò la sera e fu buio. 332 LA SERENA VITA DEL BORGO Il borgo è piccolo e raccolto, un piccolo quartiere che sembra un paesino staccato dalla città, e molta gente viene appositamente da fuori per assaporare magiche atmosfere di tempi andati. Casupole basse con i balconcini pieni di gerani dalle tinte accese, le persiane di un bel verde smeraldo e piccoli portoni sormontati da ‘vasistas’ di vetri lavorati offrono il respiro di un’aria bohemiènne tra odori e vetrine intriganti e acciottolato irregolare e pulito. Occhieggia dal fondo della bottega del caffè il rubizzo Mario, il barman e padrone del bar vineria, che mette in bella mostra ogni mattina croccanti vaporosi croissants e tramezzini ben farciti. La panettiera Marta sorride soddisfatta da dietro il bancone, piacevolmente stordita da un penetrante odore di pizza appena sfornata. Il giornalaio del piccolo chiosco tipico, come quelli di una volta, con la banderuola a galletto, scruta il movimento del borgo con un saluto per i conosciuti passanti. Dalla finestra al quarto piano la vecchia signora Cesira ritira le lenzuola di un bianco accecante sotto l’occhio indulgente del buon Vincenzo, il vigile, perché non è ora di bucato e non si dovrebbe tenere biancheria appesa ai balconi. Escono da un portoncino le due vecchie sorelle, l’istituzione del borgo, le sorelle Paciocche. Sono due candide vecchine che suscitano tenerezza e simpatia, avvolte in due scialli uguali di lana violetta, con un involto sotto le loro braccia ossute. Percorrono il breve tratto di via del borgo con aria serena, salutando tutti e prenotando la spesa per il loro ritorno. Armando il macellaio assente con un cenno e anche Marta dà la voce per il pane. Le due anziane sorelle arrivano al fondo della via e spariscono verso il caos della città: chi non le conosce 333 potrebbe preoccuparsi per quei due fragili esseri tremuli che escono dal paese delle fiabe. Gli abitanti del quartiere, invece, tornano alle loro faccende sapendo con fiducia che, al massimo, ritorneranno nel primo pomeriggio. Sono due adorabili zitellone, le sorelle Paciocche, Elisa ed Emma. Trascorrono la mattinata fuori casa per fare del movimento e tenersi in forma, camminando a lungo verso le antiche rovine archeologiche in una salubre passeggiata, e soddisfano la mania tipica di molti anziani di portare qualche avanzo da mangiare ai loro animali preferiti. Elisa ha simpatia per i piccioni. Emma per i gatti. Escono tutte le mattine con il loro pacchetto sotto il braccio: pane tritato, di Elisa, e carne macinata, di Emma. Sono contente: oggi, poi, è bel tempo e c’è un sole tiepido che scalda. Ritornano di solito verso la tarda mattinata o appena prima dell’ora del sonnellino pomeridiano. Ritirano la loro spesa da Armando che chiude sempre per ultimo. A quell’ora poca gente è in giro, soprattutto quella che viene da fuori. Il buon Armando fa trovare loro un pacco di carne macinata, due fettine, anche la busta del pane di Marta, una bottiglia di vino e talvolta un barattolo di caffè per la moka da parte di Mario. Le due arzille vecchiette passano dietro il bancone del macellaio e depositano sulla pesa bassa le loro borse della spesa… Molti vengono fin dall’altro capo della città a servirsi dal macellaio Armando che è famoso per i suoi piccioni ruspanti e per il coniglio che fa venire direttamente dal contadino… 334 DICE LA SABBIA DEL DESERTO Spero che tu possa comprendere il significato della carezza del vento del Sahara e le parole sussurrate dalla sabbia di questo deserto che punge delicatamente la tua pelle, sotto questa brezza al morire del giorno, in discorsi d’avvertimento. Ti vedo assorto e rapito, accoccolato sul crinale di un’altura, ad osservare una teoria di dune che scuriscono al tramonto mosso, mentre l’aria raffredda e le ombre allungano una scura coltre su palmizi lontani. Il cielo è terso ora, senza riverberi, con il sole che rapidamente scompare all’orizzonte, e i colori sono più accesi in un purpureo espandersi che stupisce e lascia sgomenti. Sensazioni già da me provate, splendide, di struggimento che invoglia a piangere di gioia per la grandezza della natura anche nei suoi aspetti più desolati. Spero che tu possa apprezzare l’ultimo mio abbraccio di polvere e granelli di rena che il vento sospinge laggiù oltre quella gobba più pronunciata di altre. Ascoltami prima che io mi allontani. Non oltrepassare mai quella duna. Ascolta lo spavento dei saggi berberi che non osano avventurarsi oltre, verso quella landa che si perde in quelle lontane gole rocciose. Non insistere per dirigerti di là. Leggi in quei volti smerigliati, di cuoio, la paura che salva l’esistenza nel rispetto di ciò che si conosce e si teme. Io non volli prestare loro attenzione, derisi l’antica sapienza dei popoli del deserto, e ora non posso che avvertirti mentre accarezzo i tuoi abiti sudati che odorano di benzina e latte fermentato di cammella. Ti pizzico la pelle del viso e cerco di chiuderti gli occhi irrequieti per evitarti il mio stesso atroce destino. Ero come te, non tanto tempo fa: baldanzoso ed entusiasta della vita, curioso come quei babbuini che vidi a Gibilterra, impertinente e sfacciato come quei ragazzini svegli di Tunisi dal sorriso candido come sale marino. 335 Sfidai le terre aride. Ero bene equipaggiato: cammelli e dromedari, guide, viveri e acqua. Mi sentivo il signore del deserto e mi pavoneggiavo in abiti non miei come se fossi a casa mia. Gli accompagnatori indigeni scuotevano il capo tra compianto e divertimento incredulo. Essi sapevano chi è il vero padrone delle zone che avevo deciso di esplorare. Cercarono di dissuadermi dal continuare oltre queste dune che ora tu contempli al tramonto. Mi parlarono sommessamente del Signore degli Scorpioni e del suo territorio da non profanare. Li apostrofai come servi codardi, senza rispetto per il loro sapere, impudente, e mi avventurai orgogliosamente da solo oltre quella gobba, a tardo pomeriggio, con il fresco, ignorando brezze carezzevoli e sabbia sul volto che mi scongiuravano di non proseguire. Ahimè: non conoscevo il linguaggio del vento e della sabbia. Avevo deciso di pernottare in prossimità di una gola, quella laggiù lontana, che sembrava quasi a portata di mano in un effetto ottico traditore delle deboli percezioni umane. Avevo con me poco bagaglio e un dromedario che stranamente recalcitrava, neanche fosse stato un altro zotico berbero della mia carovana. Procedevo a piedi e lo trattenevo per la cavezza; ero costretto a strattonarlo, di tanto in tanto, per evitare che s’impiantasse nella sabbia finissima che stava raffreddando velocemente al crepuscolo, curiosamente rossastra in un contrasto cromatico splendido e inquietante. Mi venne in mente un’associazione d’idee pittoresca, con immagini di mummie polverizzate di antichi musei: avevo la sensazione, infatti, di camminare nella polvere sedimentata e solidificata di secoli di storia. Il rossiccio, con l’incedere del buio, assunse toni violacei di sangue. 336 Il cammello improvvisamente scartò per qualche ombra o per un cedimento del passo e mi sorprese disattento. Mi sfuggì il laccio dalle mani e vidi la bestia fuggire, verso la direzione da dove eravamo venuti, in un galoppo sfrenato di animale impaurito. Valutai con freddezza che non mi ero allontanato poi troppo, ma che non avrei dovuto proseguire oltre: avevo con me solamente una borraccia e uno zainetto con pochi viveri e un caffettano arrotolato per affrontare i rigori della notte. Mi volsi intorno ed ebbi i primi avvisi d’ansia per nuove percezioni mai provate prima. Rumori. I rumori del deserto nella sera incombente illuminata da una luna che appariva come un ghigno storto a deridermi per l’imprudenza e la superficialità. Tutto intorno a me ormai dominavano i colori blu petrolio, violaceo sempre più scuro, nero e un fievole baluginare lattiginoso che conferiva al paesaggio un’aura spettrale. Percepivo nell’atmosfera circostante un odore persistente di polvere e di terra riarsa che rifiatava. E ancora i rumori… Uno sfregare sommesso di creature che fuoriuscivano dalla sabbia nel silenzio di un’aria morta senza più vento. Alla luce fioca distinsi piccole sagome luccicanti di nero e rabbrividii: scarabei…e scorpioni… Mi maledii per il pressappochismo e per la smania di curiosità non disciplinata dalla prudenza. Mi posi in difensiva, attento a non pestare nulla che si agitasse, scrutando nel buio febbrilmente un riparo che mi concedesse il piacere di sdraiarmi per riposare. Le dune parevano scomparse: solo un’immensa scura distesa piatta e uniforme brulicante intorno a me di impercettibili strofinii. Poi avvertii altro e la mia inquietudine cominciò a trasformarsi in vera paura. Udii un sordo brontolio grave e notai il riaffiorare di una nuova brezza, gelida, che smuoveva il terreno in sbuffi. 337 Mi stavo abituando alla poca luminosità e potei osservare, con raccapriccio, intorno a me, in controluce, un muoversi ondeggiante a pochi millimetri dal suolo, uniforme, scuro lucido molto frastagliato, di zampe, d’antenne, di chele, di pungiglioni. La brezza aumentò d’intensità sollevando mulinelli di sabbia umida e luccicante di umori di insetti. I mulinelli si cercavano e si univano tra loro sospinti dall’aria e la sabbia acquistava una sua consistenza propria che aumentava d’altezza e che pareva dotarsi di sua autonomia nel movimento. Mi coprii il volto a proteggermi dal vento che stava diventando violento: sollevava sabbia e insetti e davanti a me si stava materializzando qualcosa. Distinsi un essere grottesco e orrendo, un impasto di sabbia densa e fine impalpabile come cenere, frammisto a gusci lucidi di scarabei luccicanti e di chele e corazze di scorpioni neri brillanti alla luna. L’essere creato dal vento si concretò come un gigante, rispetto a me, dalle movenze controllate e severe e da una sua fisionomia umana minacciosa. Mi fissava sogghignando. I bagliori delle sue pupille erano due grandi scarabei fosforescenti nella notte. La sua sagoma somigliava al corpo di un lebbroso, con insetti che individuavo come ulcere e ferite su una pelle di talco granulato spesso, ora violaceo. Poi trasalii di raccapriccio nel concentrarmi ancora su quello che ipotizzai fosse il volto. Allo sguardo maligno si era aggiunto un profilo disegnato da vari tipi di scorpioni e la bocca del mostro era una chiostra di scorpioncini albini con due lunghi innaturali pungiglioni bianchi al posto dei canini per il più mostruoso dei terrificanti vampiri. Compresi agghiacciato. Era il Signore degli Scorpioni, il principe del Male di quel territorio che io stavo profanando con la mia presenza. Rimasi immobile, affascinato dalla visione, terrorizzato come un lèmure. 338 La creatura si riscosse di vita propria e il suo sguardo si palesò vivo mentre il vento cessò d’incanto evidenziando di nuovo l’eco di un incessante brulichio, discreto e assordante insieme, in schizofrenica percezione della realtà. Venne verso di me, il mostro, con quello spaventoso ghigno di cheratina rilucente, diabolico Arcimboldo sahariano. Mi sentii avvolgere e stringere da un abbraccio di talco, polvere, sabbia, mentre percepii un risalire dai miei piedi d’altre creature che mi zampettavano sui polpacci. Subii, all’improvviso, innumerevoli punture, tutte insieme, lancinanti, per tutto il corpo, che mi paralizzarono nel terrore, e vidi il mostro chinarsi su di me con il suo volto orribile. Urlai e urlai a perdifiato nella notte, inascoltato. Poi ebbi la percezione dello smarrimento di me, della mia figura come uomo in carne ed ossa e sangue, nella consapevolezza di una condanna ad una maledizione per la mia superbia. Mi disfeci nel dolore e nella sofferenza. Semplicemente. Mi decomposi in una metamorfosi che trasformò la carne di uomo in cibo per le creature del deserto, per poi mutare ancora in sabbia polverosa fina che è quella di ora che ti mormora consigli, condannata ad essere viva e sospinta dal vento. Ora posso solamente avvertire i curiosi che passano da queste parti sperando che m’intendano. Posso solamente sperare di riuscire a salvare un’anima per riuscire a trovare pace con la mia anima nell’eterno riposo in questo terribile deserto. Salvati, ti prego. Ascolta il mio soffio per quello che conserva d’umano. Salvami, ti prego… 339 PECCATI DI GOLA “Il solo modo di liberarsi di una tentazione è cedervi”. Citò teatralmente Oscar Wilde con voce calda e baritonale, levando un calice scintillante per un brindisi, e rise fissandola ironico e tagliente negli occhi. Lei si abbandonò ad una sguaiata risata di gola priva d’inibizioni rispondendo allo sguardo con malizia di altro sguardo febbricitante lucido. Erano a cena, seduti ad un massiccio tavolo di rovere finemente apparecchiato con una tovaglia immacolata di Fiandra, al lume di candele innestate su argenti lucenti. Rossori montavano sui loro volti accaldati illuminati dai bagliori del vino rubino che rifrangeva purpurei raggi dai trasparenti calici di cristallo. Le fiamme scoppiettanti del camino sollecitavano calore e intesa nella passione. L’immenso salone nobile e austero, nella penombra, sembrava rimpicciolirsi accogliente in complicità di prospettive per la coppia intenta ad un pasto erotico e vorace. Piluccavano con le mani, direttamente da una leccarda di peltro brunito, brani d’arrosto saporito e scuro, cotto in vino aromatizzato con chiodi di garofano e alloro e bacche di ginepro, e un effluvio appetitoso d’intingolo denso stordiva le narici frementi dei due convitati. Sorrisi maliziosi d’emozioni intense, per i due amanti, e atmosfera intrigante a solleticare attimi lussuriosi, sugo colante sulle mani e sui volti accesi in sorrisi felini con lampi di canini avidi: era vivida, nell’aria spessa, l’animalità e la condivisione di consapevolezze nella resa a tentazioni vagheggiate e subite con voluttà. Il marito di lei, intrigante tentazione e arrosto sugoso, impotente ed ancora tiepido, era muto testimone, ad ogni morso minore… 340 APOCRIFO VANGELO Si può definire una scalinata come difficoltosa e anarchica? Questa lo è: immensa, interminabile, larghissima e ripida senza mancorrenti. E’ di un bianco accecante di marmi e travertini lucidi: riverbera una luce che abbacina per come è naturale che sia tra le ore quattordici e le quindici di un giorno strano di fine aprile, afoso e pieno di sole, straordinariamente caldo. In cima ad essa svetta un edificio massiccio che appare come un rifugio solido, un luogo di culto per importanti simbologie, un tempio dedicato ad una pretesa verità assoluta. Grandi colonne semplici, senza rastremature, con capitelli squadrati senza ornamenti, incorniciano una facciata candida e austera sormontata da un frontespizio d’architettura neoclassica privo di qualsiasi decorazione. Si direbbe proprio un tempio, concettualmente nudo, per una pretesa verità assoluta che, semmai esistente, nuda dovrebbe essere sempre rappresentata. Rumori ovattati e sfiniti nella calura soffocante. Folla che sale e che scende in sommesso strusciare o picchiettare di suole sulla pietra calda: tanta gente, indifferente, perduta nei meandri delle proprie esigenze e dei propri pensieri. Sal, detto anche Nazarè, ha appena ricevuto qualcosa da un gruppo di personaggi vestiti di nero in fondo alla scalinata, vicino ad un’automobile importante scura con i vetri schermati. E’ molliccio, efebico, quasi femmineo, e si distingue facilmente tra le varie sagome degli armadi scuri senza sguardo, nascosti da occhiali da sole. Deve portare il pacchetto in cima, dentro l’edificio, e guarda la ripida sequenza scoscesa dei gradini con preoccupazione. Suda. 341 E’ rasato, con il cranio lucido, ha un orecchino scintillante all’orecchio sinistro, vari tatuaggi sulle braccia, una barba di pochi giorni trascurata. Veste una canottiera mimetica, bagnata a chiazze sul petto e sotto le ascelle, e un paio di pantaloni verdini leggeri con tante tasche. Uno degli uomini in nero gli prende improvvisamente il mento con una mano, rudemente, e lo fissa attraverso occhiali da sole scurissimi con fare minaccioso e autoritario. Un altro lo sgomita sfottente mormorandogli qualcosa all’orecchio. Una spinta di un altro ancora e Sal s’incammina senza voltarsi e comincia a salire la scalinata sotto il sole cocente strascicando i mocassini usurati. Canicola estiva fuori stagione: manca il respiro e il giovane ansima, senza abitudine a sforzi fisici. Incespica su un gradino e sbatte un ginocchio dolorosamente puntellandosi con un braccio. Viene sorretto ed aiutato a rialzarsi da un passante che conosce. “Grazie, Cirenè.” Il pacchettino pesa ad ogni gradino sempre di più: sembra scottare al tatto. Il caldo e l’erta rendono problematico l’equilibrio. La salita sembra non finire mai e le colonne antistanti l’entrata del tempio appaiono ancora distanti. Da una finestra prospiciente l’immenso slargo con la scalinata, ad un piano alto di un palazzo severo, un uomo scruta il passaggio della folla mentre avvita disinvolto un mirino telescopico ad un fucile di precisione. Ribarcolla e s’affloscia ancora una volta, l’efebo in canotta mimetica, davanti ad una signora accaldata che trasale d’apprensione per una possibile rovinosa caduta. La donna l’aiuta a rialzarsi, materna, e gli asciuga il viso con un fazzoletto di carta. Sal la guarda con riconoscenza e cerca di continuare il suo percorso. 342 Si ferma improvvisamente per un attimo ed estrae da una tasca dei pantaloni un cellulare. Guarda in basso verso il lontano gruppo in nero che lo sorveglia ed effettua una chiamata. Parla concitato. “Perché io, pà? Sono stanco ed ho paura…” L’uomo del palazzo di fronte, con il fucile ormai poggiato su un treppiede, dalla finestra, nota la sosta del giovane e sogghigna amaro scuotendo il capo. Sal, stravolto, continua a dirigersi verso la cima, rigato in volto dal sudore, nell’indifferenza di chi sale e di chi scende, scrutato in basso dai lupi neri e in alto dal killer. Altri quattro o cinque scalini bollenti. Eco di uno schiocco secco nell’aria, e un nugolo di piccioni spaventati s’alza in volo da un cornicione. Stramazza, Sal, detto Nazarè, colpito al costato, sbilenco sulla scalinata, con lo sguardo sbarrato e le braccia aperte a croce come le ali spiegate di un altro piccione che vuole volare via. Il pacchettino che stringeva tra le mani rotola giù senza che alcuno lo voglia raccogliere. Si rannuvola il tempo, ora, e s’alza un vento capriccioso a creare piccoli vortici di cartacce e foglie secche. Lassù, all’ombra delle gigantesche colonne, in una luce adesso grigia, qualcuno ignaro sta chiudendo le porte del tempio. 343 UNA SOLA ZANZARA Il corridoio era interminabile e angusto, semibuio di piombo. Aveva porticine di ferro brunito numerate, a destra e a sinistra, e intervallate regolarmente, come un angosciante albergo da incubo. Risuonavano passi cadenzati sull’umido pavimento d’ardesia, di lui e del secondino che lo precedeva con un sinistro sferragliare di chiavistelli. Era, costui, una figura scheletrica altissima, macilenta, che si voltava indietro di tanto in tanto per controllare di essere seguito, pur senza alcuna preoccupazione che lui potesse fuggire. Aveva un volto patibolare, grigio e scavato, con un ghigno beffardo pensieroso. Si arrestò davanti ad una porta e l’aprì. Con un solenne gesto del braccio gli fece cenno d’entrare. Annunciò grave: “Qui dentro sconterai i tuoi peccati.” Gli richiuse la porta alle spalle con un lancinante cigolio. Lui udì al di là il grattare della chiave nella serratura e i passi allontanarsi. Poi solamente silenzio pesante. Si volse intorno ad esaminare il luogo. La cella era un cubicolo senza finestre, due metri per due per altri due metri e mezzo d’altezza, con una lampada pallida incastrata nel soffitto e protetta da una ghiera con un vetro antisfondamento. Notò una particolarità curiosa, esaminando la porta: bordi gommati a combaciare strettamente con gli stipiti. La serratura non lasciava filtrare luce da fuori: era schermata da un piccolissimo pannello aderente esterno. Una minuscola presa d’aria al soffitto permetteva il ricambio dell’aria senza riuscire, però, a cancellare un tanfo di muffa e chiuso. 344 Era circondato da pareti bianche, immacolate, a dare risalto ad un pavimento d’ardesia grigio come quello del corridoio senza fine. Nessun tipo d’arredamento. Non esisteva un letto, un comodino, un armadietto, un bugliolo per inevitabili bisogni fisiologici: solo quattro pareti schiarite crudamente da una lampadina incastrata al soffitto, e una sagoma di porta di ferro gommata ai bordi. Si sentì sotto vuoto, isolato, e fu preso dal panico. Subentrò poi a fatica una tiepida rassegnazione e qualche abbozzo di progetto, per puro istinto di conservazione, per sopravvivere alla noia del nulla. Si lasciò andare a ricordi e a pensieri senza ordini logici. Fu distratto dallo scorgere una zanzara in alto sulla parete di fronte: risaltava nitidamente sul bianco dell’intonaco. Accadde in un attimo: un gesto di ribellione, di reazione, d’attestazione d’essere ancora vivo e decisionale, nonostante tutto. Smanacciò la parete all’improvviso a schiacciare l’insetto. Risuonò nel loculo il rumore dello schiaffo dato a mano aperta sul muro. La ritirò subito, sorpreso, come se si fosse scottato. Dalla macchiolina nera sul muro fuoriuscì un getto di sangue abbondante, illogico e innaturale. Gli schizzò sulla mano. Rimase stupito a contemplare il fenomeno, indietreggiando di un passo, chiedendosi perplesso che stesse accadendo. Il flusso, quasi uno spillare di vino novello vivace e luccicante, non accennava a diminuire, anzi, sembrava aumentare d’intensità, ed un mormorio di scroscio regolare sul pavimento, come di rubinetto aperto, riempì il silenzio del piccolo locale. Rimase come un allocco a guardare spruzzi di rimbalzo spargersi a raggiera sulla pietra grigia. Pensò ad una tubatura dell’acqua, rugginosa, sottotraccia a pelo della parete, ma lo zampillo era rubino, 345 luminosamente chiaro, e la cella cominciò ad essere pervasa da un odore disgustoso e penetrante, tipico di un mattatoio. Quello era inequivocabilmente sangue. Ebbe una reazione isterica: urlò ed urlò fino a rimanere senza fiato, rauco a strozzarsi, arretrando contro la parete opposta. Di fronte, dove prima era una minuscola zanzara nera, una fonte sgorgava dal muro allagando la cella, ormai torrenziale, e maculando di schizzi scarlatti le pareti e le sue gambe. Si volse intorno per cercare qualcosa a tamponare quella fuoriuscita devastante. Nulla. Rimase immobile, ipnotizzato dall’emorragia, fissando il muro e la cascatella purpurea brillante, fluida e insieme densa. Fu pervaso dall’inquietudine, dopo qualche tempo, quando percepì una sensazione di fradicio colloso all’altezza del polpaccio. Realizzò con orrore che la cella si stava allagando, che non riusciva più a distinguere il pavimento e che, soprattutto, il flusso non accennava a fermarsi e il livello del sangue tumultuosamente continuava a salire. Aveva l’impressione di essere in una vasca o in un tino pieno di mosto ribollente in fermentazione. Sbirciò angosciato la porta, la serratura, la presa d’aria sopra di lui. Si sentì di colpo in trappola: la consapevolezza della morte del sorcio, con o senza spiegazioni razionali. Bussò freneticamente sul muro, sui muri, per dare un segnale di vita all’esterno, per richiamare l’attenzione, e gridò per ricevere un aiuto. Nessun accenno di vita da fuori, e nella cella risuonava il rombo di una vivace rapida sempre più violenta e abbondante. La mostruosa marea era ormai alla vita, fredda, anomala, stordente di un lezzo di morte. 346 Cercò di chiudere con le mani il punto da cui fuoriusciva, premendo isterico e febbrile, senza ragionare. Ne ricavò un aumento del getto, a catinelle, che lo inondò in volto. Tossì e sputò qualcosa di dolciastro nauseabondo. Il livello, nel frattempo, aumentava e si ritrovò ad annaspare prigioniero di una massa liquida appena vischiosa che lo attanagliava al petto. Gridò ancora a squarciagola ripetutamente, sempre meno convinto, sempre più sconfortato, e cercò di rimuovere la piccola griglia del bocchettone dell’aria sul soffitto, saltellando per come poteva, scivolando sul pavimento viscido, frenato come se ci fossero state alghe a circondargli e trattenergli le gambe. Si ferì dolorosamente le mani, ma la griglia rimase fissa e solida. Nel frattempo cominciò ad essere lambito alle spalle da onde in un raccapricciante spumeggiare di bollicine mosse. Cominciò a piangere in singhiozzi convulsi e chiamò ancora disperato il secondino. Riecheggiò la profezia del suo accompagnatore: “Qui dentro sconterai i tuoi peccati.” Cominciò ad annaspare con il sangue alla gola, e saltò ancora più volte, frenetico, strappandosi le unghie alla ricerca di un appiglio agli stipiti della porta nella cella. Poi fu il nero, inevitabile, con una sensazione sgradevole di galleggiamento, di nausea, di soffocamento. Reagì con un’estrema apnea, poi subì l’invasione lacerante dei bronchi e perse conoscenza in un’implosione crudele. Il nulla... Ebbe un’inquietante sensazione inspiegabile di dejà vu, ma senza riuscire a disciplinarla in ricordi specifici e nitidi: solo impressioni impalpabili prive del supporto della memoria. Percorse, oppresso nel petto e d’umore tetro, nella convinzione di una prima volta, un corridoio infinito e buio 347 che riecheggiava dei passi pesanti di lui e di un secondino, stranamente familiare senza motivo. Lui si chiedeva del perché ghignasse malignamente: non poteva saperlo. Il secondino lo precedeva tranquillo e sicuro scandendo mentalmente, per un’ennesima volta, numeri per un rituale d’espiazione. Sorrideva disincantato e implacabile, talvolta volgendosi all’indietro quasi distratto a controllare se era seguito, immerso in suoi complicati calcoli interiori che prevedevano sottrazioni di milioni d’annegamenti ad altri infiniti milioni di scorte a peccatori presso una celletta spoglia con una sola zanzara straordinaria, sempre viva e poi schiacciata, pressoché eterna nel suo rigenerarsi per una volta ancora. Dopo… Una zanzara per scontare peccati. 348 SCENOGRAFIA PER UNA FESTA DI COMPLEANNO L’inquadratura è dall’alto, in grandangolo, ad abbracciare l’intera stanza nera con particolari ambiguamente distinguibili. Fotografia seppiata tendente al giallo. Camera sopra le pale di un ventilatore da soffitto, che girano lentissime impallando ad intervalli regolari volutamente la ripresa. Sonoro d’aria mossa. Si apre una porta e una lama di luce trafigge il buio della stanza. Una vecchia negra, grassa, vestita con un ampio gonnellone a colori sgargianti e con un fazzoletto annodato sul capo, entra silenziosamente nella penombra con un secchio d’argilla violacea. Veloce cambio d’inquadratura sul volto in primo piano. Ha una smorfia di disgusto che ricaccia indietro nell’iniziale quieta naturalezza. Le pale del ventilatore al soffitto non riescono a disperdere un lezzo di morte e putrefazione. Camera a girare lentamente nell’ambiente indugiando in particolari. Sopra una branda, su un materasso sporco e cimicioso, giace composta una giovane africana nuda, cadavere in incipiente stato di decomposizione, con la bocca e gli occhi socchiusi. E’ stata una bella donna: slanciata e proporzionata. Ora è un corpo che comincia a cedere ai segni della putredine. Cambio inquadratura con la camera a livello del comodino, orizzontale, a riprendere la vecchia che depone il secchio a terra. La ‘maman’ scioglie, da una bustina di carta, una polverina che sembra cenere in un mezzo bicchiere d’acqua sul comodino accanto al letto e la rimescola con un dito che ha un’unghia esageratamente lunga, smaltata di verde smeraldo, rilucente nell’ombra. 349 Si allarga il campo di ripresa sulla gestualità della vecchia. Costei bagna delicatamente le rigide labbra screpolate della ragazza e le fa filtrare il liquido con pazienza nella bocca immobile. Le cosparge, poi, d’argilla il corpo ulcerato e corrotto, salmodiando una nenia inintelligibile a bassa voce. Le massaggia, infine, le tempie con i polpastrelli, parlandole dolcemente, materna: “Oggi sia la tua festa…” Inquadratura di primo piano sul volto del cadavere. Gli occhi della morta si spalancano per pochi istanti con una sinapsi di sinistro bagliore fluorescente. Si spengono, poi, nella solita indifferenza insensibile di sempre. La scena si dissolve in nero con il rumore del ventilatore in eco a scemare. Inquadratura fissa dall’interno di un’automobile, in soggettiva, a riprendere un finestrino appena abbassato. Fotografia in blu nitido con illuminazione fredda esterna di neon. Voce fuori campo impersonale. “Quanto?” Si stampano cinque dita nere sul finestrino dell’auto. Tonfo sordo sul vetro. Dissolvenza nel silenzio dal blu al nero. Inquadratura lenta e particolareggiata, molto precisa e nitida: la camera si muove con regolarità esasperante, senza mai fermarsi, verso un punto indefinito in avanti su sfondo nero. La fotografia è sul blu con giochi cromatici tra le diverse fonti d’illuminazione. La luna piena rischiara un vicolo cieco fondendo la sua luce lattiginosa con quella gialla dei fari di un’automobile abbandonata con gli sportelli spalancati. 350 Luccicano vicini alla vettura, a terra, un paio d’occhiali da miope, con una lente incrinata e una stanghetta deformata come per un violento strappo. Bitume grigio piombo. Di sfuggita un muro sbreccato che costeggia la stradina, istoriato di scritte e graffiti d’arte metropolitana. Un cellulare trilla monotono invano sull’asfalto poco più là, lampeggiando in sincrono con la suoneria. Poi un braccio: staccato e solo, innaturale, con brandelli di maglietta, in una stria di sangue che s’allunga oltre verso il fondo della via nel nero. Di seguito sono ripresi ancora una scarpa slacciata ed ancora dopo brani di stoffa. Non si riesce a distinguere con certezza se questi ultimi sono ciò che rimane di un paio di pantaloni: sono chiazzati di sangue. La fotografia cambia impercettibilmente virando dal blu al rosso nel procedere della camera verso il fondo della scena rappresentato da un muro scuro che appare progressivamente di un inquietante colore ruggine a dissolversi nel nero. Seduta in fondo, appoggiata al muro, scomposta in terra come una bambola, una giovane negra sta addentando vorace un cuore. La camera fa uno zoom lentissimo ad avvicinare in primo piano la donna e i particolari circostanti. Un uomo è inerte tra le sue gambe aperte in una pozza di sangue: ha un’espressione stupita con occhi sbarrati di vetro. Il corpo seminudo è coperto di morsi ed ha il torace squarciato. Un rumore di masticazione e di strappo di tessuti rompe il silenzio della notte. La camera allunga il campo molto lentamente, mentre il rumore è amplificato in eco con un sovrapporsi di battito di cuore che rimane poi solo a diradarsi, esaltato in frequenze basse, in dissolvenza fotografica dal rosso al nero per ritornare di nuovo ad un rosso sangue uniforme e acceso. 351 Sopra il sottofondo ad esaurimento, una voce calda e naturale, fuori campo, recita: “Una puttana festeggia il suo compleanno perfino se è una schiava negra e zombie. Deve solamente appartenere ad un padrone buono, giusto e comprensivo, come la ‘maman’con il secchio d’argilla…” La voce, dopo qualche attimo di silenzio esitante, esplode in una risata irrefrenabile, diabolica, pastosa, che è amplificata al massimo in dissolvenza fotografica da rosso a nero. Questa non è una novità: è un effetto come quello del videoclip “Thriller” di Joe Dante, con Michael Jackson, sempre, tuttavia, efficace e disorientante. Il nuovo è nel calare progressivamente di volume, senza arrivare alla soglia del silenzio, in sovrapposizione ad un coro infantile di bimbi in crescendo che canta festosamente “Happy birthday”. Chiusura della scena ad imitazione dello spegnimento di un televisore: linea brillante bianca, molto intensa, orizzontale a mezzo schermo, che diviene un punto accecante a centro inquadratura che sfuma nel nulla. Leggero sfrigolio. Poi il nero assoluto con il silenzio. E, forse, una nuova diffidenza per le puttane… 352 IL POZZO Si sporse troppo e un senso di vertigine gli fece perdere l’equilibrio. Cadde giù nel pozzo con un urlo lacerante amplificato dall’eco. Fu un tuffo interminabile e doloroso, con urti abrasivi lungo le pareti disseminate di pietre aguzze. Sprofondò nell’acqua nera con un tonfo pieno e quei momenti d’apnea, nel mentre che risaliva in superficie, indolenzito, gli parvero senza fine. Gli bruciavano gli occhi e la pelle, ed avvertiva un curioso odore d’acido con una spiacevole sensazione di corrosione. Guardò in cima all’imboccatura del pozzo, alla luce, strizzando gli occhi, ed evidenziò qualche sporgenza nel cunicolo: decise di issarsi su prudentemente. Non fece caso ad un luccicare nerastro e bruno lungo il condotto del pozzo. Quando appoggiò una mano su una parete, per saggiare la presa, ebbe una puntura lancinante che lo riprecipitò in acqua. Scolopendre: lucidi neri centopiedi velenosi, urticanti e viscidi. La mano gonfiò subito tambureggiando fitte sorde che traforavano il cervello. Urlò isterico in incipiente panico. Ebbe poi un’altra inquietante impressione: che le pareti del pozzo si muovessero. Razionalizzò il fenomeno come un’illusione ottica dovuta alle migliaia di chilopodi brulicanti lungo il tunnel. Si ricredette presto. L’acqua acida aveva strani riflussi che cercavano di tirarlo a fondo e il cono di luce in cima a volte sembrava scomparire come per un restringimento delle pareti anguste. Gli venne in mente una parola: peristalsi. Impazzì di paura invocando aiuto, tenendosi a galla con movimenti scomposti e frenetici. 353 Il pozzo, in effetti, vivo, deglutì ancora una volta tirando giù nell’acqua centinaia di vermi. L’uomo non poteva sapere che la sua carne, ora frollata dalla paura, risultava più tenera e appetitosa. Fu risucchiato in fondo nell’acqua ribollente, terrorizzato, carico d’adrenalina, e perse conoscenza in una morte ambigua: forse annegato, forse divorato, forse ancora direttamente digerito da un pozzo vivo e famelico. 354 IO NON FESTEGGIO HALLOWEEN Sono trascorsi sei anni, ma ricordo ancora. Fu davvero straziante ciò che si presentò alla vista dei soccorritori dopo l’incendio. La vecchia “Derek’s Coffins”, la fabbrica delle bare che serviva tutta la Contea, bruciò violentemente in pochissime ore senza dare la possibilità d’intervenire ad alcuna squadra di vigili del fuoco. Dentro era pieno di segatura e trucioli sparsi. L’ambiente era da sempre disordinato, con le bare ammonticchiate, le une sulle altre, vicino alle cataste di assi da lavorare con la sega circolare e con la pialla elettrica. Il buon Booth, lo Sceriffo, aveva spesso rimproverato il signor Derek affinché provvedesse ad una maggiore pulizia dell’ambiente e ad un maggiore ordine. Per la sicurezza, diceva. Riceveva degli assensi cortesi, ma infastiditi, e i due ragazzi alle prese con la sega e la piallatrice continuavano imperterriti a fumare le loro sigarette fatte a mano davanti al loro principale che masticava, peraltro, il suo immenso sigaro cubano. L’incendio rimosse ogni rimandare incenerendo tutto come stoppia. Il bancone di lavoro fu ritrovato carbonizzato, rovesciato con tutti gli utensili sparsi intorno, abbrustoliti, nerastri o lucidi di fiamma. Il coroner esaminò i corpi dei due ragazzi e del signor Derek. Avevano cercato di fuggire tra le fiamme e il fumo denso che li accecava, ma non avevano fatto in tempo. Non fu dato di sapere più alcun particolare: il medico legale fece una faccia scura e sibillina e si abbottonò per sempre sull’argomento. Patirono di sicuro una morte orribile, ma forse anche misericordiosa, nel morso atroce del fuoco, ma anche in un soffocamento velocissimo per il fumo acre e spesso. Nessuno ebbe modo di osservare i tre cadaveri. 355 Dopo poco tempo non se ne parlò più, per pudore ed orrore. Neanche quando otto mesi dopo, all’ultima sera d’ottobre, ad Halloween, morì lo Sceriffo nel rogo della sua casa. Il suo corpo non fu mai più ritrovato e l’evento terribile fu attribuito ad un corto circuito che aveva avuto buon gioco sulla vecchia casa di legno. Io, invece, m’insospettii per qualcosa che sentii dire in giro. Si vociferava di tre bambini che giravano per le case, intabarrati fino ai piedi da brandelli scuri bruciati. La vecchia signora Higgins affermò che dalla finestra aveva visto che indossavano delle maschere scurissime, quasi nere, davvero spaventose, e che camminavano con un’andatura strana ballonzolante, anche se non poteva scorgere i loro piedi coperti da quegli orribili stracci. S’affacciò dopo il loro passaggio e percepì un disgustoso odore di carne bruciata. Da allora in poi, ogni anno, la sera di Halloween, una casa del paese brucia sempre inspiegabilmente insieme ai grandi fuochi della festa e non si riesce a recuperare la o le vittime del rogo. Qualcuno dice di avere scorto gironzolare tre ragazzini mascherati, tutti in nero, che gridano contro le case illuminate il loro classico “Dolcetto o scherzetto” con innaturali voci cavernose… E’ per questo motivo che in prossimità di ogni Halloween, dalla morte di sei anni fa dello Sceriffo Booth, diffidente come sono e con la mia sensibilità molto ricettiva, parto verso la fine di ottobre e ritorno dopo la festa dei morti. Quei tre bambini mi puzzano tanto di spiriti adulti affamati e vendicativi, morti bruciati vivi in un denso fumo nero, con le gambe tranciate da una sega circolare impazzita di una fabbrica di bare andata a fuoco molto tempo fa… 356 NON DI SOLO FRASSINO… Patzholu, il vampiro con nome di demone assiro, aprì gli occhi iniettati di sangue al morire del giorno. Era compostamente adagiato in una sobria bara di legno incatramato deposta all’interno di una grotta riadattata a stalla. Assi di legno tarlato coprivano l’imboccatura dell’accesso in una parete con una porticina. Il vampiro si levò dal suo sarcofago e si scrollò la polvere dal suo caffettano scuro. S’avvicinò cautamente ad una feritoia tra due assi per contemplare l’avvenuto calare della sera. Vide le luci fievoli del paese poco lontano e cullò voraci pensieri passandosi meccanicamente la lingua sulle labbra riarse. Si sarebbe presto saziato di sangue caldo per allontanare il freddo dicembrino che merlettava sulle ossa con continue fitte sotto il tabarro appoggiato negligentemente sulla veste. Udì uno scalpiccio di passi e zoccoli e s’appiattì contro una parete, seminascosto da una greppia. Accarezzò l’unica mucca per tenerla tranquilla. La porta si spalancò con una spallata data dall’esterno, e una voce ruppe il buio: “Vieni, donna: questo è un riparo. Non è un granché, ma c’è tepore, una mucca da mungere, e del fieno per riscaldarsi. Scendi dall’asino e non affaticarti oltre: non vorrei che ne patisse il bimbo”. La donna s’affacciò e si guardò intorno. Poi sorrise stanca e si adagiò sopra un mucchio di paglia tenendosi la pancia enorme prossima al parto. “Credo che sia l’ora, uomo… Sta spingendo: è irrequieto”. Lui legò l’asino e si volse apprensivo. Poi trasalì per un rumore proveniente da dietro la greppia. “Chi c’è? C’è qualcuno?” 357 Emerse dall’oscurità Pathzolu, col suo caffettano scuro, avvolto nel mantello nero, con sguardo severo e di rapina. Si presentò altero con voce possente di bassi toni. “Che cosa fate qui? Siete entrati senza permesso e vi siete accomodati come se foste a casa vostra…” Si genuflesse, in segno di rispetto, l’uomo, con voce contrita, e rispose battendosi il petto: “Perdonate, mio signore: la notte è fredda e la mia donna sta per sgravarsi. Abbiamo pensato che la stalla fosse deserta e abbandonata. Non abbiamo veduto luci e non abbiamo udito rumori di vita dall’esterno. Faccio appello al tuo senso d’ospitalità per permettere alla mia donna di dare alla luce mio figlio. Ti prego, mio signore, acconsenti affinché si possa trascorrere la notte presso di te al coperto…” Il vampiro occhieggiò sopra la spalla dell’uomo ad esaminare la donna cristallizzata in una smorfia di dolore. Ebbe la mente attraversata da molti pensieri. Ricordò vaghi sapori di tempo immemorabile, del sangue di donne gravide e di bambini appena nati per la sola funzione d’essere di nutrimento a creature della notte come lui. Scacciò immagini d’avidità golosa e la sensazione inebriante del potere sulla vita e sulla morte con un senso d’inspiegabile inquietudine, sopraffatto anche da un fetido lezzo d’aglio che si sprigionava dalla figura inginocchiata. “Levati in piedi, uomo, e tranquillizzati. La mia nobiltà d’animo m’impedisce d’essere tracotante e privo di sensibilità nei vostri confronti. Trascorrerete qui la notte, nel tepore contro il freddo. Abbi solamente la buona creanza di depositare fuori di qui la tua resta d’aglio sotto il mantello. E’ un odore odioso che m’ammorba…” L’uomo si levò con un sorriso di gratitudine: “Non ho reste d’aglio, mio signore. 358 L’odore che percepisci è dato dal mio mantello che tante reste ha avvolto ultimamente, e probabilmente dal mio alito: solo di pane azzimo ed agli ci siamo nutriti in questi lunghi giorni di peregrinare”. La creatura notturna storse il naso, infastidita, pensando che non avrebbe potuto chiedere all’uomo di posare fuori il mantello: faceva davvero freddo in quella sera. La donna, nel frattempo, gemeva sommessamente, per le prime serie doglie. Pathzolu valutò prossimo il parto e fu ripercorso da strani cattivi pensieri ingordi che cercò di dominare. Si passò la lingua sui canini frementi in brividi di trattenuto piacere e fissò, curioso, la donna che stava distendendosi sulla paglia premendo le mani sul grembo in smorfie di dolore. Qualcosa di misterioso, intimamente, cancellò ogni pensiero: ridivenne il padrone di casa. “Presto, uomo, corri a prendere quella brocca piena d’acqua. La tua donna è prossima al parto: dobbiamo aiutarla. Accenderò una fiaccola affinché si possa vedere e prestare aiuto”. Staccò una torcia dal muro e si girò di spalle verso la parete, mentre l’uomo prendeva la brocca e la donna non guardava. L’accese con uno sguardo di brace e la fissò a tre sbarre poste a cono sulla parete, dalla parte della partoriente, a rischiarare la stalla. La donna ebbe un fremito d’inquietudine, nel vedere un volto esangue, di pergamena giallastra, malevolo o quanto meno serio e minaccioso, ma fu sopraffatta da ultime fitte dolorose al ventre. Il suo uomo, nel frattempo, s’avvicinò con la brocca e panni di lino sottratti dal magro bagaglio sulla groppa dell’asino. Trasalì anche lui, apprensivo, nel vedere alla luce la figura imponente presso di loro. 359 Metteva soggezione, in effetti, Pathzolu, col caffettano scuro, altissimo, magro, avvolto in un tabarro spesso, nero, con uno sguardo febbricitante d’occhi arrossati e una pelle d’avorio che sembrava morta. La donna gemette ancora, più forte, e cominciò a respirare con affanno, premendo il ventre e spingendolo, in sudore copioso per lo sforzo. Il suo uomo s’inginocchiò presso di lei e le tenne la mano tra le sue. Poi le asciugò il bel volto distorto dalla sofferenza con uno dei panni di lino. Il vampiro non ebbe più tentazioni, in quel momento, cui pensare. Si chinò sulla donna e cercò di aiutarla nel parto. “Ecco, ecco: ci siamo quasi…spingi, donna, che sta uscendo ed ha voglia di vivere… Forza, donna, ci siamo quasi: un ultimo sforzo…” La donna lanciò un ultimo grido liberatorio che scivolò nella stalla come il suo sudore ad annunciare nuova vita. Il suo uomo s’affrettò a farle sentire la sua presenza stringendole la mano e Pathzolu tirò verso di sé con delicatezza il corpicino del bimbo che stava nascendo. Si meravigliò, il vampiro, di una strana luce aleggiante nella stalla, ora, proveniente dalla coppia e soprattutto dal bambino coperto di sangue e placenta. Si lasciò togliere di mano il bimbo, senza reazioni, dal padre, che recise rapidamente il cordone ombelicale e che diede una piccola pacca sulle terga del neonato. Il piccolo urlò a squarciagola di vitalità. La donna sorrise esausta e disse al marito: “Lascialo in braccio al nostro benevolo signore, affinché lo scaldi con il suo pesante mantello…” L’uomo offrì il piccolo al vampiro che lo afferrò meccanicamente per avvolgerlo tra le pieghe del suo tabarro. Il neonato emanava un’innaturale luce che cominciò a diventare sempre più intensa. Pathzolu ne fu abbagliato e provò un senso di malessere crescente, di calore cocente, frastornato dai suoi soliti 360 cattivi pensieri, stordito dal fetore dell’aglio, inquieto per i sorprendenti sviluppi che la vicenda stava prendendo. La luce divenne sempre più forte e la creatura della notte cominciò ad avere paura nel provare un dolore lancinante che recideva nervi e arterie e muscoli, morti e non morti che fossero. Sensazione di dissoluzione in assenza di sangue. Depose con un senso di sfinimento il bimbo sul ventre della madre e si schermò gli occhi a ripararsi dalla luce abbacinante. La coppia assisteva attonita all’evento senza darsi spiegazioni. Il bimbo osservava il vampiro, tranquillo. Pathzolu si sentì sciogliere dentro, privo d’energia, e presentì rassegnato la sua fine. Contraccambiò dolorosamente lo sguardo del neonato e poi fissò la coppia con dignità a mascherare un indicibile dolore intimo d’autodistruzione e disfacimento. Riuscì soltanto a mormorare poche parole d’augurio alla coppia con voce rotta di sofferenza in un soffio fuggente. Cadde nella paglia senza un gemito, decomponendosi in polvere fina che si confuse col terriccio della stalla. Così morì Pathzolu, il vampiro col nome di un demone assiro, terrore della Galilea, la notte del venticinque dicembre, presso una stalla di Betlemme. Non morì tradizionalmente per un paletto di frassino nel cuore… 361 RIFLESSI E RICORDI Mi è servito molto praticare judo, qualche anno fa… Ha sviluppato la prontezza dei miei riflessi, fisici e mentali: lo sa che ero un fenomeno al flipper? Facevo scommesse con i miei compagni di scuola e integravo la paghetta settimanale di mio padre adottivo. Mi è stato utile più volte in diverse occasioni: per evitare qualche automobilista distratto o folle, per mantenere l’equilibrio, fisico in posti traballanti, o psichico in situazioni che normalmente richiedono autocontrollo. E mi è stato utile anche ieri: per autodifesa. Il tizio già non mi piaceva da lontano. Beccheggiava come un peschereccio con mare a forza sette, con uno sguardo vacuo ed un aspetto trasandato. Sembrava che fosse il cane a portarlo a spasso e non il contrario. L’animale era uno splendido esemplare di pitbull, pezzato bianco e nero, elastico e muscoloso, dallo sguardo dolce e intelligente. Ne parlano male, di questa razza, ma io sono convinto che sia una questione di padroni: sono loro che forgiano il carattere di queste bestie che, per natura, lo dicono anche gli etologi, sono tranquille e affettuose. Il padrone, invece, offriva un’aria da sudicio, con i capelli lunghi e stopposi da spremuta di frantoio, con la barba di qualche giorno, una giacca a vento militare stazzonata piena di macchie, jeans sdruciti e scarpe da ginnastica del color grigio umanità indifferente. E puzzava come una capra. Mi venne da ridere al pensiero di una capra che portava a spasso un cane. Me lo vidi venire incontro: il cane tirava da ossesso ansando come un mantice, con la lingua penzoloni e un filo di bava. Mi soffermai con un sorriso: dedicato solo al cane, mi creda. Il tizio mi squadrò malevolo e mi disse, proprio così, come glielo riporto adesso: 362 “Cazzo hai da guardare?” Cercai d’essere conciliante. Non amo attaccare briga: non si sa mai come può andare a finire. Gli risposi sorridendo che mi piaceva il cane e che era una bella bestia. Mi urlò di farmi gli affari miei, non disse proprio così, e si chinò verso l’animale, mentre la sua voce saliva di tono, senza motivo, sono sincero, e cominciò ad insolentirmi fino ad insultarmi. Rimasi senza parole, interdetto, pensando che l’uomo dovesse avere dei problemi. Lui, nel frattempo, aveva sciolto il pitbull, gridando ancora verso di me, incitandolo con delle pacche rudi sulla testa e indicandomi. Il cane, lo notai subito, cambiò espressione e fu sollecitato nell’eccitazione. Vede che tutto combacia con il discorso dell’educazione che si dovrebbe impartire a questi animali? Vede che è una questione di padroni e non di bestie? L’animale cominciò a ringhiare e a fissarmi minaccioso. Il suo padrone m’indicava e gesticolava gridando frasi sconnesse. Lo percosse con il guinzaglio. Il pitbull scattò verso di me. E’ qui che entra in gioco la prontezza dei riflessi e la memoria di qualche anno giovanile di palestra. Vidi la sagoma dell’animale lanciarsi con un balzo verso la mia gola. Mi spostai prontamente di lato con il tronco, con invidiabile tempismo, e nello stesso momento serrai al volo, con le mani, il cane alla gola lasciandomi trascinare dal suo slancio verso terra. Caddi sopra la bestia, con un colpo di reni in torsione, senza abbandonare la presa, con una morsa ferrea, e strinsi. Premetti ancora sul collo fino a che il cane cominciò ad essere in debito d’ossigeno. 363 Uggiolò penosamente, ma non avrei certo più potuto, a questo punto, permettermi di lasciarlo libero. Il suo sguardo si opacizzò e l’uggiolio divenne un rantolo che si smorzò in un soffio. Il cane giacque esanime e io allentai la presa con prudenza. Il padrone della bestia cessò progressivamente d’urlare insulti ed incitamenti come se si fosse scaricata una molla dentro di lui. Immaginai che avesse una chiave dietro la schiena, come un pupazzo meccanico, e che ormai i giri fossero alla fine. L’uomo ormai sillabava frasi mozze, sillabe, sconvolto dalla mia reazione, con uno sguardo perduto verso il suo cane a terra immobile, e con un’espressione di sorpresa mista a dolore e a paura. Penso d’essere apparso terrificante. Mi sentivo i muscoli del viso tesi e le mascelle dolorosamente serrate. Ero, inoltre, dispiaciuto e contrariato per quanto ero stato costretto a compiere, seppure per difendermi. L’adrenalina scorreva a fiumi nelle mie vene, ed avevo un tremore incontrollabile nel cercare di imbrigliare i molti pensieri che s’affacciavano alla mente. L’uomo aveva cercato di uccidermi tramite il suo cane. Era un folle. Io mi ero difeso. Era stata una necessità. E’ solamente questione d’educazione, per tutti, uomini e animali, e l’ambiente familiare marchia un individuo nei suoi comportamenti per tutta la vita. Forse era razzismo, una banale questione razzista. Non avrei mai creduto che potessero verificarsi ancora episodi d’intolleranza simile. Deve credermi: non è piacevole sentirsi apostrofare, dopo anni di dura integrazione, come ‘sporco negro’. Mi sono laureato qui in Italia, sono quasi quaranta anni che vivo qui, mi sento perfettamente integrato nella 364 comunità: ho un lavoro, ho una famiglia…mi sono sposato con un’italiana…ho dei figli italiani… Non so, poi, che successe, commissario. Forse fu quello ‘sporco negro’, gridato più volte con odio e disprezzo, ad accendermi vecchi ricordi, dimenticati e sepolti, della mia primissima infanzia nel villaggio natale. Si accesero consunti nascosti interruttori di confuse immagini sfocate, d’abitudini della mia famiglia di sangue, quando forse non ero ancora in grado di comprendere perché troppo piccolo. Le ripeto, non so cosa mi accadde. Squadrai l’uomo che ancora balbettava qualcosa sui negri, fissando ora me ed ora il suo cane morto, e lo attaccai per farlo tacere. Poi non ricordo più nulla, commissario. Lei mi sta parlando di un uomo divorato da vivo, a morsi, ferocemente, mentre io ho memoria di una bestia da cui difendersi, di un nemico da abbattere. Io ricordo soltanto crudeli epici scontri lontanissimi dentro una foresta inestricabile, con nemici enormi e spaventosi, e mi rivedo dietro un masso, terrorizzato, piccolissimo, tremante per urla disumane… Stento a crederlo, commissario, ed ho orrore di quanto mi dice: mi considero una persona mite, controllata, …e da molto tempo sono vegetariano… 365 VOLONTARIATO Padre Julio Cardamomo è un anziano gesuita diafano e asciutto come una pallida tamerice ed il suo volto è intagliato nelle rughe di una vita intensa a contatto con la sofferenza e il dolore. Guarda immobile Basilio che gli rimanda un sorriso stanco e speranzoso da un letto troppo grande. Basilio è un vecchio sfatto dagli occhi buoni di bambino e da tempo immemorabile lavora per la comunità come volontario: ha fatto di tutto, sempre sereno, con un sorriso pacioso appena meno stanco di quello di ora. Padre Cardamomo è il responsabile della struttura, la Casa, un qualcosa a metà tra un centro d’accoglienza e un piccolo ospedale per bisognosi, e conosce Basilio fin dagli inizi. Lo fissa impenetrabile, agitato da ricordi d’entusiasmi antichi e da pensieri presenti volti a preoccupazioni future. Basilio è molto malato e non è dato di sapere per quanto dovrà giacere nel lettone. Il gesuita ripercorre nebbiosi sentieri di memoria perduti tra paesaggi assolati o temporaleschi. Quaranta anni fa, forse… “Padre, mi chiamo Basilio. Sono senza casa e senza famiglia. Potrei rendermi utile qui dentro presso di lei, se vuole: mi piace aiutare il prossimo…” Ricorda un corpo più magro e nervoso e una voce limpida, e rivede la situazione di quei giorni d’esordio. Quanto c’era da fare! Si stava cominciando allora, in assoluto precariato, sorretti da entusiasmo e incrollabile fede, spinti dall’energia della gioventù ancora non contaminata dalle incomprensibilità della vita. Il giovane padre Cardamomo accolse l’imberbe Basilio presso la comunità e fece un prezioso acquisto per i successivi quaranta anni. Basilio aveva inventiva, oltre che entusiasmo, e possedeva capacità organizzative fuori del comune. 366 L’anziano padre rievoca aneddoti che hanno scandito momenti esaltanti e deprimenti nel plasmare l’organizzazione umanitaria e nel dare una fisionomia reale alla Casa. Basilio è sempre stato in prima linea, combattente alla baionetta di fronte alla disperazione, alla malattia e alla morte: il braccio secolare del prete scavato da rughe di tormento nel dubbio e nell’incertezza di fare bene. Ed ora è abbandonato sopra un letto grande e attende il suo destino con un sorriso stanco di speranza riposta nella mente del diafano giunco che lo fissa senza espressione come un totem. Padre Julio Cardamomo è dibattuto tra affetto per il suo collaboratore di sempre e tra considerazioni pratiche che pongono la struttura da lui creata al di sopra d’ogni cosa. Volge le spalle con decisione al vecchio volontario e versa una bottiglietta di succo di frutta in un bicchiere di carta. Versa anche poche gocce d’altro e nell’aria si diffonde un odore inusuale di mandorle amare. Offre il bicchiere con un sorriso meccanico al vecchio Basilio, padre Julio Cardamomo, con occhi liquidi senza espressione. Per stasera ci sarà un posto in più per un disperato che bussa, come tanti, ogni giorno alla Casa ed un letto grande si renderà utile. Basilio beve fiducioso con uno sguardo di gratitudine… 367 INTOLLERANTE VECCHIA ZIA Dopo una certa età, in genere, si comincia ad avere paura del nuovo nella consapevolezza nebulosa di una propria fragilità fisica e mentale scandita dal tempo. Non è stato d’animo di tutti, sia ben chiaro, ma di molti. Si comincia ad avere nostalgia di tempi andati, meno elastici rispetto a novità e mode, diffidenti rispetto alla tecnologia, timorosi rispetto all’intero genere umano che si pensa che congiuri da Vladivostok a Tenerife contro la propria persona. Più avanza l’età e più si acuisce tale modo di sentire. Mia zia, per esempio, veleggiava per gli ottantanove anni. Parlava con Dio come se fosse una voce interiore di roveto ardente e raccontava ispirata di avere ricevuto il messaggio che non era ancora la sua ora, benché affardellata da un reimpianto di protesi femorale e da un’artrosi galoppante più di Varennes. Diceva che non aveva paura di morire, ma stava attentissima alle correnti d’aria, a mangiare poco e a non stancarsi troppo. Odiava nell’ordine: i negri, i cingalesi, gli arabi e tutti gli immigrati extracomunitari, gli ebrei, i comunisti, i preti, i vicini di casa (ebrei), l’amministratore del condominio (forse della Margherita), chi le parlava troppo svelto o a voce troppo bassa, perché era sorda come una campana, gli spendaccioni e, in generale, tutto il mondo senza distinzioni tra religione, razza, ceto sociale, quoziente d’intelligenza. Diceva che eravamo troppi, forte del fatto che la voce interiore divina le ribadiva sovente che non era ancora la sua ora, e invocava una guerra totale o una pandemia a potare rami secchi. Con queste premesse, il successivo passo di rimpianto per una giovinezza in orbace fu più breve di quello di una quaglia. All’insegna del classico ‘quando c’era lui…’, perfezionò una cantilena da ripetere a volontà come un disco rotto e favoleggiò un’età dell’oro senza delitti e senza droga, senza 368 finocchi, senza comunisti, nell’ordine e nella disciplina più ferrei. A quell’epoca lei pedalava felice in bicicletta circondata da uno stuolo di corteggiatori, tutti bravi ragazzi di buona famiglia, e faceva più sacrifici di Santa Teresa per mettere soldini da parte, tranquilla, tuttavia, perché poteva girare da sola senza essere importunata da malintenzionati. Era migliore l’aria, era migliore l’acqua, i pomodori avevano un altro gusto e la carne faceva ancora ‘muuu’ nel piatto. Funzionava tutto, dai treni ai rifugi antiaerei per i bombardamenti, e c’era rispetto per gli anziani e per tutti, a parte gli ebrei e i negri. Le prime volte che ascoltavo queste rievocazioni da Film Luce, mi stupivo che Heidi non era stata ancora inventata e che il mondo potesse essere bello anche senza le caprette che ti fanno ciao. Inveiva contro il presente generalizzato sparando a raffica, per fortuna solo metaforicamente, su tutto il Parlamento, non risparmiando nessuno, né quello con l’erre moscia, né quello secco come uno scheletro e alto, né l’altro traccagnotto e unto dal Signore, di cerone, col riportino dei capelli tinti a miracolosa crescita annuale. Gracchiava con voce stridula come una cornacchia, nelle sue invettive, perché dimenticava sempre l’apparecchio acustico, e copriva le notizie del telegiornale che ascoltavo già di per sé a volume da concerto metal. Inoltre mi ballonzolava davanti allo schermo gesticolando mentre commentava le notizie. Annuivo distrattamente col capo a darle ragione, forte di conoscere a memoria tutta la solfa replicata da anni, e mi contorcevo come un capitone per cercare di vedere oltre che di sentire. Lei continuava, intollerante e saccente, depositaria del verbo della giustizia e della saggezza, probabilmente convinta anche d’essere fatta di spirito di prima qualità, trasparente come il cristallo. Si dipanavano quindi proposte di stragi e fucilazioni di massa, deportazioni nel deserto, affondamenti di traghetti, 369 bombe assortite e menefreghismo totale nei confronti di qualsiasi tipo di bisognoso, all’insegna del motto ‘ognun per sé e Dio per quasi tutti’. Io ascoltavo il telegiornale con un orecchio e mia zia con l’altro, camaleonte nell’udito, oltre che nello sguardo, con occhi e orecchie indipendenti. E mi stranivo, mezzo strabico e mezzo rincoglionito. La vegliarda era una macchinetta che parlava a stantuffo e non c’era verso di potere staccare la spina. La sua intolleranza era irritante come la sua vocetta sgraziata e piagnucolosa. Un giorno mi sostituii con decisione al suo roveto ardente e decretai che era arrivata al capolinea. La soffocai con un cuscino senza troppa fatica e senza preoccuparmi di cosa potesse pensare nell’ultimo istante. Mi caricai al pensiero di essere stato forse, in tempi precedenti, una delle tante sue vittime designate anche io… La resistenza fu breve, da vecchina dimessa di ottantanove anni, disperatamente scalciante e attaccata alla vita, e la morte fu attribuita successivamente ad un infarto. E ora, finalmente, in completa tolleranza verso il genere umano, posso ascoltarmi in santa pace il telegiornale, agli albori della mezza età, ecumenicamente comprensivo verso tutto e tutti, con piccoli embrionali odi in incubatrice e una personale voce interiore di roveto ardente che mi dice, per ora, che ho quasi sempre ragione… 370 UN VOLARE D’AIRONI E PIPISTRELLI Sera di periferia urbana. Chitarra distorta proveniente dal quarto piano in assolo di “In-a-gadda-da-vida”. Ritmartello ossessivo e note lancinanti come un barrito d’elefante atterrito. Ubriacatura di suoni e tribalità. Nell’aria lezzo dolciastro di cassonetti. Tremolio verdineon in insegne tristi. Voci. Zaffate di fumo e birra. Timbri crudeli. Confabulare. “E’ buona questa roba?” “La migliore. Potenziata in laboratorio. Olanda. Gratis…Sballo straordinario…” “Dov’è la fregatura?” “Domani o dopodomani al massimo verrai a leccarmi il culo per riaverla. E pagherai anche per oggi.” “Così cara?” “Già.” “Bene, dammi, e che dio ti stramaledica. Vaffanculo.” “Vedremo poi chi dirà vaffanculo…” Fuma/Tira/Punge una vena. La stanza è in penombra con mattonelle esagonali rosse e blu che tanfano rancido di latte rappreso. Intermittenza arancio: l’insegna della pizzeria all’angolo. Rosso sangue: scorre attraverso le palpebre sconvolte da venticinque watt di lampadina da comodino. Respirare convulso. Sensazioni. Emozioni. Sensazioni di spinta centrifuga, di concetti che insistono contro le pareti del cranio, che premono sui lobi frontali, che scavano a bucare i timpani dall’interno, che 371 urtano i globi oculari per scalzarli, che intasano le narici e la gola. Dolorose. Epistassi: un rigagnolo di sangue dal naso. C’è pressione crescente… dentro. Presenza, presenza: non lasciarsi dominare del tutto. Immagini, voci: in piedi soldato, non ho tempo di sanguinare, voglio scendere, lo stiamo perdendo... Urla distorte in eco di jungla: prede o predatori. Angoscia per l’ignoto nascosto tra la macchia. Odori amplificati da parabola nasale di Palomar: sapone di Marsiglia laggiù nel bagno incrostato di ruggine, sugopronto alle olive stuccato su tre piatti giurassici nell’acquaio, odore di calcare, tenue, da una galassia lontana, polvere…idee rigettate… Ancora sensazione di violenza sempre più forte da dentro. Flash di voliera con uccelli impazziti che sbattono contro le maglie di una rete indeformabile. Fotogrammi in avanzamento veloce. Becchi sanguinanti. Ali ferite. Ferite. Primi piani in fotografia sgranata e colore sbiadito. Sangue. Poi deflagrazione. Silenziosa: ancora più spaventosa…uno scoppiare muto… Nero. Esalazione di polvere di sempre. “Coprite quello schifo, diosanto!” “Subito, Commissario. Ha ragione: mai visto nulla di simile” Puzza di morte. L’agente ricopre con un lenzuolo il corpo riverso sul pavimento, in un mare di sangue, con la testa sbocciata e aperta a fiore come per un’esplosione interna: uno 372 spettacolo raccapricciante esaltato dalla simmetria fredda e cromatica di esagonali mattonelle rosse e blu di terraferma. Esce in preda a conati di vomito. Il Commissario si muove circospetto, vigile di fronte ad una scena da incubo mai immaginata, tutta intorno. Le pareti, la cornice della finestra, i regolini del soffitto, tutto quanto ad una certa altezza, insomma, è agganciato da pipistrelli avvolti nelle loro ali, a testa in giù, tremanti per il freddo o la fame, sconvolti per la luce del lampadario, unico trofeo non conquistato. Il Commissario s’avvicina prudente verso la tenda ad esaminare un pipistrello scuro che pare fissarlo tra le ali accartocciate con occhi dilatati di lemure. Odore d’umido e tiepido: orina e grotta sotterranea. “Da dove sbucano fuori questi?” Una voce prende forma, forma, sì, nella stanza. Proviene dal pipistrello. “Dalla testa.” “Ma che succede?” “Dalla testa: eravamo prigionieri e volevamo uscire dalla gabbia. Una gabbia troppo piccola, limitante. Eravamo costretti. Soffrivamo impotenti.” “Impossibile. Sto diventando matto…” “No. E’ solo una favola per adulti. Siamo idee. Siamo concetti. Abbiamo pudore e siamo timidi, ma amiamo la libertà e l’indipendenza. Stanotte voleremo via nel buio e troveremo una mente libera dove nidificare. Chissà: forse un giorno voleremo alla luce come aironi…” Gli infermieri portano via il cadavere senza curarsi dell’ambiente, in fragranza di lisoformio e lattice borotalcato. 373 I pipistrelli sono immobili, la luce del lampadario è spenta e la stanza balugina soltanto della lucina gialla sul comodino. Presumere di scorgere pipistrelli è morboso. L’agente è dabbasso. Il commissario spalanca la finestra facendo entrare aria frizzante e aroma di pizza e forno a legna, e chiude dietro di sé la porta della stanza. Senza sbattere, …delicatamente. Idee nella notte screziate d’arancio… 374 OCCHI BLU “La carrozzina, fuori mano nel centro commerciale, beccheggiava lievemente e appariva incustodita. Andai a curiosare. Un fagottino s’agitava piano farfugliando divertito suoni senza senso sotto una trapunta, avvolto in una sciarpa che gli lasciava visibili soltanto gli occhi. Fui colpito: aveva due occhioni di un blu particolare profondo come l’oceano, con venature pervinca, innocenti e curiosi, liquidi e fragili, mobilissimi. Intravedevo le ciglia aggrottate nel tipico modo di porsi domande dei bimbi che ancora non sanno parlare. Avvicinai una mano per carezzarlo. Una trasformazione improvvisa mi lasciò senza fiato. Il piccolo emerse dalle spire della sciarpa trasfigurato in un viso rugoso da demone livido, ghignando giallastro e malevolo, e m’azzannò la mano staccandomela di netto. Fui proiettato a terra contro una parete da una forza nervosa di reazione, troppo sorpreso per provare dolore, mentre l’essere, seduto dentro la carrozzina con la bocca rigata di sangue, mi fissava sfidandomi con occhi cobalto ora gelidi e disumani. Si spinse fuori della mia vista come un paraplegico isterico, colle mani adunche, rotolando le ruote freneticamente, ansando con un brontolio di belva braccata. Provai ad urlare, ma non riuscii, sentendomi mancare nella paura e nella sorpresa di quell’incubo. Svenni…” Contemplo il moncherino fasciato, maculato di sangue, che risalta tra le lenzuola, e la flebo che stilla lenta. Poi guardo il medico, e l’agente che sta prendendo appunti. Sono stanco e debole. Non so chi m’abbia raccolto, come qualcuno si sia accorto di me esanime senza una mano e con un braccio zampillante sangue. 375 Ora giaccio in un letto e sto rendendo una deposizione incredibile su un bimbo mostro con innaturali occhi blu che mi ha strappato una mano a morsi. Terribile. E m’accorgo, solo ora, che il dottore e l’agente hanno occhi blu, di un blu riuscito a definire solamente una volta, e che mi guardano con attenzione sollecita e comprensione esagerata. Sorridenti. Ma noto che per un attimo i loro sguardi si sono incrociati. E m’è parso di intuire un impercettibile cenno d’intesa... 376 BUCATO CHE PIU’ BIANCO NON SI PUO’ E’ un garrire al vento di lenzuola bianchissime, visto dalla finestra della caserma dei Carabinieri, nel sole più accecante. “Impensabile davvero questa vicenda, vero maresciallo?” “Già.” “E poi inimmaginabile la persona… Ma vai a conoscere il mondo…” “Vero: la meno sospettabile. E poi per quale movente…” “La vecchia Filomena: fragile e minuta, baffuta e sdentata come una vecchia megera. Se non avesse confessato di sua spontanea volontà, non l’avremmo beccata mai, forse…” “Chissà. A volte si arriva alla verità anche per altre vie che non siano una confessione: esiste la deduzione, il ragionamento, e parlano anche gli indizi. Per esempio quel continuo apparente bruciare di stoppie…” “Certo però che…” “Ascolta bene, Quagliarulo: sono convinto che ci saremmo arrivati lo stesso, prima o poi. Quando in un paesino spariscono persone con cadenza ciclica regolare, alla fine la verità è obbligata a venire a galla.” “Ha ragione, maresciallo, ma qui, nella considerazione delle motivazioni che hanno spinto la vecchia Filomena a fare ciò che ha fatto, la verità sarebbe venuta a galla molto poi, senza il suo confiteor. E poi perché? Per il bucato più bianco, alla faccia di due fustini in cambio di uno, nel rispetto della tradizione antica, oltre che nella pazzia più assurda…” “Quagliarulo: nei paesetti come questo si fa il bucato al torrente ancora oggi. E c’è una rivalità accesa tra lavandaie sul candore delle lenzuola. E si lava ancora col ranno, con la cenere…” “Sì, ma…” 377 “Ma le vecchie tradizioni occulte sepolte in polverosi messali blasfemi, le vecchie ricette e i filtri e le magie, per alcune vecchie mammane, non muoiono mai e la cenere di cristiano, è cosa risaputa fin dai tempi delle streghe, rende il bucato più bianco della neve…” “Due più due, maresciallo, vero come il sole. E anche sedici morti accertati, per tacere di altri bucati che forse non sono stati confessati…” “Bucati candidi, però, Quagliarulo: come nessuno mai…” Le lenzuola di neve, fuori, sembrano assentire, scosse dal vento. 378 INDIANE SOTTRAZIONI Aria depurata e luci soffuse rossastre. Gorgogliare di reazioni chimiche e ronzii di macchinari. Odore di formaldeide, etere, alcool. Presenze e voci in penombra: una innaturale. “Come ti senti, Charan?” “Bene: ho una sensazione di leggerezza.” “Dolore? Fastidio?” “No: sto bene…” “Ti senti lucido?” “Sì.” “Ricordi… Hai ricordi nitidi?” “Sì…Nitidi…” “Potresti rievocarli? Ne saresti in grado?” “Penso di sì…” “Raccontati dall’inizio, allora: una sintetica autobiografia, se vuoi…” “Sì…dunque…Fatemi sintonizzare… Ecco, sì. Mi ricordo interminabili partite a pallone su un terreno fangoso vicino al fiume, padre Gange, subito fuori Benarès, con una palla di stracci, in tantissimi, venti o trenta contro venti o trenta, allegri nell’indigenza, rumorosi e felicemente sudici nell’essere impiastricciati di fango… Mi rivedo pieno d’escoriazioni: mai una partita senza ferite e brandelli di pelle e qualche grammo di carne lasciato tra brecciolino rado, ma aguzzo, sul campetto in riva al fiume… Mi ricordo del piccolo Kishore: di quando andò a raccogliere il pallone finito tra il canneto del fiume… Rivivo il balzo della sagoma nera, l’urlo, lo sguazzare d’acqua limacciosa, lo schizzare del sangue e il rumore di un frantumarsi d’ossa: maledetto coccodrillo…” “Cerca di rimanere calmo e di non lasciarti coinvolgere dalle emozioni…” “Provo ancora adesso un dolore cocente…” “Dobbiamo sospendere questo colloquio?” “No, no: ho desiderio di comunicare. 379 Voi non sapete quanto…” “Mantieni la calma, allora, o saremo costretti a smettere…” “D’accordo. Vado oltre nel tempo: una scansione naturale… Anni dopo: esercito, sparatorie, sangue. Mi ricordo di quando fui inviato con il mio plotone a fronteggiare una manifestazione nell’immensa piazza del mercato contro una folla che era la forza della disperazione e dell’odio. Toccavo la paura tastandomi litri di sudore rappreso nella divisa. I coccodrilli del fiume facevano meno paura di quella folla affamata per odi e rancori oltre che per fame…” “Ci rendiamo conto delle emozioni dolorose: vuoi andare avanti?” “Sì: ce la faccio. Qualcuno sparò inciampando sui nervi fragili e fummo sommersi da mascelle affamate che vollero vendicare fin da subito piccoli corpi scheletriti senza vita. Fu buio, doloroso, attorno a me. Mi svegliai nell’ospedale di Benarès con una sensazione d’assenza nel dolore più atroce, anche perché mancavano antidolorifici… E scoprii quanto può essere difficile rigirarsi lentamente in un letto senza un braccio e mezza gamba.” “Sì, possiamo comprendere. Lo sappiamo: leggi di fisica e medicina. Continua…” “Ho in me il marchio di pianti e lacrime salate e rieducazione sempre più frettolosa e indifferente. Poi l’emarginazione ingrata, il sostare intere giornate, interminabili come un rivolo di resina lungo un albero, accovacciato, presso il mercato, a sorridere mesto, ché è esercizio difficile per un orgoglioso come sono sempre stato, e attendere qualche piastra o una rupia di manica larga da cuori compassionevoli.” “Sì, ti abbiamo raccolto proprio lì…” “Infatti mi ricordo di voi e della vostra proposta. 380 Eravate partecipi delle mie disgrazie, complici e solidali nel comprendere; e sorridevate rassicuranti… Mi convinse lei, dottore, o lei, dottoressa? Questo non lo rammento bene, ma credo che possa essere stata lei, dottoressa, con la sua voce materna e dolce e la promessa di coperte calde e di un pasto decente sotto un tetto al riparo dal monsone insistente… Parlaste difficile vendendomelo come facile e glorioso. Raccontaste di progresso, d’esperimenti, di nobiltà d’animo per lo sviluppo dell’umanità, di medicine nuove, di test, di soldi, e faceste leva sulla mia indigenza e sulle mie mutilazioni… Eravate gentili e tutti i giorni v’intrattenevate con me e m’incoraggiavate, anche se mi lamentavo per dolori lancinanti. Voi sorridevate in un fare consolatorio. Io precipitavo nel buio di un’iniezione abbracciato dai vostri sorrisi… Poi mi svegliavo nell’orrore. Una volta mi destai senza l’ultima mano, poi senza l’ultimo piede, poi bendato per tutto il torace con insopportabili formicolii al moncherino della gamba superstite, gonfio, livido, smaniante. Mi gonfiai come un otre e avevo difficoltà nel respirare. E voi mi rincuoravate sorridenti inalberando il vessillo del progresso. E’ tutto chiaro e ancora bruciante: come fosse ieri…” “Ed ora cosa pensi?” “Penso che sarò costretto ad esservi ancora utile, la migliore cavia umana che voi abbiate mai avuto… Ma penso anche che siete d’una crudeltà inaudita e vi odio, per quello che mi è possibile, intensamente, perché non potete immaginare quanto io abbia sofferto e quanto soffro… E, gonfio da scoppiare, spero d’esplodervi in viso, per intrufolarmi nelle vostre bocche, nelle vostre narici, nelle vostre orecchie, e cominciare a corrodervi dall’interno, contagiandovi del nulla che mi avete infettato…” 381 “Basta ora: stai perdendo il controllo e le tue emozioni ti danneggiano… Chiudiamo qui il nostro colloquio. Lo riprenderemo domani, se e quando ti sarai calmato. Per ora ti aiuteremo noi con farmaci. Poi dovrai aiutarti da te e collaborare…” Il click di un pulsante premuto. Il cessare d’ogni voce: una è sintetizzata da impulsi elettrici mediante astrusi e complessi marchingegni da laboratorio del dottor Moreau. Pare proprio d’essere lì, in quel laboratorio maledetto, con i due medici assorti e professionali che annotano con freddezza dati chimici e spengono lo speciale registratore. Abbassano poi la luce, i due medici. Il laboratorio s’immerge in una luce violetta riposante e sinistra. E l’abbarbagliare del grande cilindro, colmo di liquido amniotico e formaldeide, intricato di cavi ed elettrodi, in cui è imprigionato un cervello pulsante, appare meno vivo e impressionante, nel laboratorio farmaceutico per le sperimentazioni su cavie umane di New Delhi. 382 ADESSO SANNO, E SANNO ANCHE ATTENDERE Non si può fuggire dai propri demoni: ti rincorrono e ti riprendono sempre, inattesi e sorprendenti, anche quando sembra che hai finalmente trovato la pace e la serenità interiore. E dilaniano peggio di prima. Ero convinto d’averli seminati, i miei demoni, nascosto da quattro giorni in una stanzetta sordida di un motel di frontiera. Avevo una scorta di lattine di birra, una stecca di sigarette e qualche genere alimentare per la sopravvivenza secondaria. Ascoltavo i rumori del traffico della statale, sdraiato sopra un letto sfiancato come un’amaca, fumando, bevendo, con i nervi tesi a captare segnali che solo io potevo percepire. La portoricana con l’aspirapolvere, quella del servizio in camera, con i capelli come uno zerbino di cocco, si teneva lontana dalla mia stanza, dopo un primo tentativo d’intrusione castrato con qualche bestemmia cavernosa. S’era segnata, pia, roteando gli occhi da serva scema di ‘Via col vento’, e da quel momento cominciò a ciabattare nei pressi della mia porta in punta di piedi come per un saggio di danza. Il padrone del motel, un uomo di mondo, già saldato per due settimane riguardo la camera, sapeva stare al suo posto, in portineria. Io ero solo, dunque, e speravo che non mi riacciuffassero... Non aiutano, di notte, se si è inquieti, le luci intermittenti dei neon dell’insegna di un motel: avessi avuto una pistola, o anche solo una fionda, avrei risolto il problema in maniera drastica. Ero, invece, sciabolato da schizzi violetti, poi arancio, poi ancora verdini, con una pausa nera per lo scoppio di un neon probabilmente celeste. 383 Una mia verità discutibile: alle due e mezza anche gli autisti più nottambuli si fermano, in genere, per un sonnellino. Assaporavo, quindi, solo fumo e silenzio. Cigolò all’improvviso un’anta dell’armadio. Mi dissi, arreso e stanco, che forse il mio scheletro d’armadio era di nuovo alle mie costole. Distinsi la sagoma di una donna scarmigliata tra i lampi colorati dell’insegna di fuori. Lei. Aveva un aspetto maggiormente spettrale, in riverberi d’arancio e verdino, e macchie scure su una pelle disfatta e diafana, ulcerata profondamente, ributtante al solo vedere, con occhiaie profondamente infossate e uno sguardo mesto e severo, liquido. Inutile l’agitarsi, per me: non era più una sorpresa da qualche tempo. Stavolta, però, m’apparve con un’espressione maggiormente determinata. “Non potrai mai sfuggire ai tuoi rimorsi, Al. Gli scheletri degli armadi conoscono le ante di tutti gli armadi del mondo e viaggiano velocemente in equilibrio sull’onda dei ricordi di chi cerca il dimenticare…” La figura rantolava un qualcosa che voleva essere un risolino malinconico. Mi preparai per il ripasso: sfibrante e doloroso. La donna ricominciò a parlare con voce dimessa e roca. “Riesci a vederle queste macchie scure nella penombra, Al? Lo sai che cosa sono, vero? Lividi, e ferite coagulate. Sono anche gli urti contro la porta della cantina, dove mi seppellisti viva: ricordi? E’ stato terribile. Perché lo hai fatto? Avresti potuto abbandonarmi lasciandomi un messaggio, una lettera: avrei compreso. Avrei sofferto, ma avrei rispettato la tua decisione e me ne sarei fatta una ragione giustificandoti. 384 Invece mi hai causato una sofferenza indicibile e una morte orrenda. Cerchi di dimenticare alla periferia del mondo, ma non riesci, vero, Al? In effetti, è impossibile: è stata una fine troppo crudele…” Inutile controbattere: era un copione già vissuto. E poi non avevo attenuanti: ero stato davvero un bastardo. “Stavolta sarà diverso, Al… Sono stanca di correrti dietro per cercare di smuovere un briciolo di rimorso dal tuo cuore di ruggine. Stavolta capirai. Definitivamente. Hai commesso una leggerezza, nel tuo liberarti di me in maniera così crudele, lo sai? Li hai educati a odori e sapori. Hanno apprezzato. Adesso sanno, e sanno anche attendere, come hanno pazientato con me, per giorni e notti, stringendomi in un angolo buio di quella cantina, curiosi, senza sapere ancora nulla. Da stanotte conoscerai la verità sul come sono stata e forse il tuo cuore sarà scalfito da una stilettata di pietà. Adesso vado, Al… Tanto ci rivedremo tra poco tempo…” Si ritrasse impalpabile nell’armadio lasciandomi nuovamente solo con le luci intermittenti, tra il fumo e l’odore leggerissimo della birra, di quando intiepidisce. Cercai di pensare ad altro. Mi aveva ripreso. Mi avrebbe ripreso ancora. Per sempre. Forse no. Stavolta aveva parlato di capolinea. Non sapevo se esserne contento o maggiormente inquieto... Tutto ebbe inizio, poco dopo, con un rumore di cracker spezzato, quasi impercettibile, nella danza tra buio e luci da luna park dentro la camera, attraverso la tapparella. 385 Non diedi molta importanza al rumore. Lo scricchiolio, tuttavia, si ripeté: un biscotto, una galletta sbriciolata, stavolta accompagnato da un leggerissimo fruscio e dal cigolio dell’anta dell’armadio che si schiudeva. Mi rizzai a sedere sul letto e diedi un tiro alla sigaretta, ma forse più una poppata disperata ad un capezzolo. Premetti più volte l’interruttore della lampada sul comodino, ma la stanza in quel momento era senza corrente elettrica. Fuori, invece, l’arancio, il verdino e il violetto, con la pausa del celeste scoppiato, saltellavano una macumba contro l’anta lucida dell’armadio. Mi parve di intravedere qualcosa di luccicante che si muoveva. Il rumore dei crackers frantumati ora era continuo e stava tramutandosi in un rumore di pop corn frugati da una mano febbrile dentro un bicchierone di cartone al cinema. Il fruscio era aumentato in un brulichio, in una spiacevole sensazione di creature in movimento. Premetti più volte l’interruttore della luce, nel panico. La lampadina all’improvviso s’accese, fioca, ma impietosa e raggelante. Il pavimento era cosparso di scarafaggi lucidi e frenetici. Uscivano a frotte dall’armadio, come se all’interno ci fosse stato un disinfestatore con un badile che li scaricava fuori. Stavano invadendo l’intera stanza occupando ogni spazio tutto intorno al letto. Rimasi senza fiato, inorridito da una visione così schifosa. Mi resi conto che l’impatto visivo era frastornante, che gli scarafaggi sono repellenti, sì, ma anche sostanzialmente innocui, e però fui richiamato ad una vigile attenzione dalle ultime parole di lei – adesso sanno, e sanno anche attendere -. Continuavano ad uscire dall’armadio, vomitati a plotoni, stratificandosi intorno a me in un tappeto lucido e 386 zampettante che cresceva e s’alzava verso le sponde del letto. Il ripiano del comodino era già invaso da uno strato uniforme nerastro che sembrava fissarmi. Distinguevo antenne rivolte verso di me. Mi stavano guardando. Mi stavano aspettando. Attendevano la mia morte per inedia, per paura, per un infarto. Per poi assaggiarmi nella memoria degli odori e dei sapori che ricordavano di lei. Inutile agitarmi: sarebbe stata una fine inevitabile a meno di non uscire dalla stanza. Ma erano troppi, schifosi ed elettrici, e non avevo il coraggio di scavalcarli pestandone qualche centinaio con quel rumore che raschia la spina dorsale. Il livello degli scarafaggi cresceva in una promiscuità di zampe, antenne, corpi umidi e luccicanti alla luce fioca della lampadina, semicoperta sempre da loro, in una girandola di colori esterni, ora infernali da sopportare. La notte scivolò estenuante in sgocciolio di sudore e pensieri, e con la prima luce dell’alba sperai in un miracolo e nel ritorno alla normalità fuori d’ogni incubo. Cessarono soltanto le luci dell’insegna del motel che si spense. Crebbe ancora, invece, il livello degli insetti. La stanza era invasa fino all’altezza del materasso e l’anta dell’armadio era ormai quasi del tutto aperta sotto la spinta di una miriade di altri scarafaggi. Mi sentivo naufrago su un’isola deserta, circondato da una marea bruna che sciabordava lungo le sponde del letto con un curioso rumore di sfregamento, in paziente attesa. Cominciai ad urlare, a pregare, a bestemmiare, a chiamarla per porre fine al tormento dell’attesa, ma il ruggito di un aspirapolvere coprì le mie invocazioni d’aiuto e il padrone del motel era davvero uomo di mondo per scomodarsi a curiosare. Allora piansi. Come un bambino. 387 Piansi per me, per la paura di morire divorato dagli scarafaggi, e non fu, dunque, un pianto di liberazione e redenzione. Il brulicare di milioni di zampette continuò a graffiare il cervello già tagliuzzato dai continui sbriciolamenti di biscotti e gallette. Ero senza fumo, senza birra. Perdetti la cognizione del tempo, con altre girandole di colori intermittenti, con altro muoversi ipnotico d’antenne sempre più lunghe e di zampette sempre più intraprendenti. Vigilanza, vigilanza, resistere… Svegli… Ma le palpebre diventavano sempre più pesanti. E il mare di scarafaggi s’increspava in onde nere brillanti scricchiolanti che inducevano all’arrendersi e all’abbandonarsi in sfinimento. Mi osservavano, zampettando vicini, e attendevano la mia morte. Non avrei potuto resistere all’infinito. Sopraffatto dalla stanchezza e dalla tensione, dopo tempo estenuante, finalmente chiusi gli occhi… Sto bene, adesso, in questa stanza bianca. Il bianco rasserena e sbiadisce ricordi allucinanti e sensazioni dolorose. Sono tranquillo, intontito da qualcosa che m’inebetisce, ma solido di una pesantezza sfinita che mi tranquillizza. La stanza è imbottita fino al soffitto altissimo ed è illuminata a giorno da una luce calda e uniforme. E non ha armadi… Sono finalmente sereno: forse ho pagato… M’inquieta soltanto, a volte, un lieve sfregare sotto il pavimento imbottito... Ma cerco di scacciare, a fatica, pensieri… 388 I COLLEZIONISTI E’ particolarmente doloroso ricordare… Quando, tra le luci strobo e i faretti psichedelici di una discoteca, martellato da una musica ossessiva, si riesce a notare uno sguardo di giada fisso su di te con attenzione, si è autorizzati a pensare che la serata possa prendere una piega gradevole. Mi accadde proprio questo. Lei aveva una criniera fulva che agitava compostamente nel ballo. Era un bel tipo: alta, slanciata, molto tonica e sensuale nelle movenze. Ballava e mi fissava con un’espressione tra il sognante e l’analitico. Le sorrisi e fui abbagliato da una chiostra di denti candidi in lampi verdi di sguardo magnetico. Si dipanò l’approccio classico da discoteca: due chiacchiere direttamente dentro le orecchie, a trasmettere sensazioni e tepore d’alito in cambio d’odori di splendida pelle sudata e profumo, un drink a schermare occhiate avide reciproche, e poi la fatidica proposta. “Vuoi venire a vedere la mia collezione?” Non mi chiese in cosa consistesse la mia collezione e la naturalezza dell’accettare la situazione mi piacque e m’eccitò. Mi si aggrappò al braccio e si fece pilotare verso l’uscita, completamente fiduciosa. La bestia feroce dentro di me cominciò a fremere in cattivi pensieri e proiezioni mentali d’immagini forti. Il viaggio verso casa mia fu soprattutto troppo lungo, ma finalmente arrivammo. Abitavo da solo in un villino in stile liberty con ringhiere di ferro battuto piene di ghirigori inquietanti e col portone lavorato in spirali e incisioni morbide. La introdussi direttamente nella sala della collezione, buia, nello scantinato, dopo pochi gradini dall’ingresso. Lei si dimostrò docilissima e curiosa. 389 Quando accesi la luce pregustai una reazione di quelle a me molto care, seppure prevedibili, d’urla isteriche e suppliche. L’immensa stanza, dal soffitto a volta e con, in fondo, un enorme letto a baldacchino con lenzuola nere di seta, era tappezzata da corpi di donne nude imbalsamate. Erano accovacciate, infilzate al muro con robuste aste d’acciaio, con i volti appoggiati contro la parete, come fossero insetti di una spettacolare collezione. Un lavoro pulito. Avevo appeso ogni preda con un’unica sbarra appuntita, a bloccarla a metà della schiena raggomitolata contro la parete, con le ginocchia piegate e le braccia tese sulla testa posta di profilo con occhi vitrei. Le avevo dissanguate e poi svuotate delle interiora, da perfetto imbalsamatore, ed ogni giorno le spolveravo con accuratezza ravviando le loro capigliature e ritoccando l’incarnato con un buon fondo tinta. La donna della discoteca, tuttavia, non ebbe reazioni fuori controllo. Osservò le pareti così originalmente arredate senza lasciare trapelare la benché minima emozione. Le afferrai un braccio per legarla al letto. Ero sconcertato dal suo reagire che aveva qualcosa d’affascinante. Mi dissi in tumulto interiore: ecco una donna con carattere e personalità, finalmente, ecco forse una complice da risparmiare, chissà… Reagì, invece, all’improvviso, strattonando il braccio e liberandosi, mentre con l’altra mano mi mise davanti al viso una rivoltella brunita. Mi sorrise enigmatica con una certa aria di sufficienza. “Interessante, davvero… Ma non intendo fare parte della tua raccolta, caro il mio collezionista. Piuttosto sai che facciamo ora? Andiamo a casa mia, e ti farò vedere cosa colleziono io: sono convinta che rimarrai stupito. Sono un tipo originale anche io…” 390 Rimasi imbambolato dalla sorpresa e lei approfittò per rendermi inoffensivo con un paio di manette apparse dal nulla. Sorrideva sempre, maliziosa e sensuale. Forse quella sera avrei avuto finalmente la botta di fortuna che un uomo cerca sempre per tutta una vita circa il concetto di complicità. Era seducente, elegante nel portamento, controllata nelle reazioni. Contemplò ancora una volta l’enorme salone decorato dalle tante donne imbalsamate e spillate alla parete. Poi mi spinse via con gentilezza, premendo appena la pistola contro un fianco, senza più parlare. Salimmo in auto, ma stavolta guidò lei, con una mano sola, senza mai abbandonare l’arma con l’altra. Abitava in una casa con un muretto di cinta seminascosto da alte siepi, isolata, poco fuori la città. Anche lei non accese subito la luce. Mi condusse verso la cantina illuminando le scale con una torcia. Mentre scendevamo la rampa, la sentivo ansimare e pensai, in stupido narcisismo, che forse certi miei desideri si sarebbero potuti esaudire in ogni modo con l’esaltazione delle sensazioni in un gioco di coppia. M’introdusse in una sala immensa che in penombra luccicava solamente per una miriade di specchi tutto intorno a quello che presumevo dovesse essere un letto. Mi spinse, sempre ammanettato. Era il letto, in effetti, rivestito di un drappo di latex rosso fino a terra. Con cautela mi legò alla testiera in pesante ferro battuto. Poi cominciò lentamente a spogliarmi, con delicatezza, mentre mi vezzeggiava facendo le fusa con voce roca. Mi tolse le scarpe e le calze. Poi mi sfilò i pantaloni e gli slip, sospirando appena. Infine materializzò dal nulla un rasoio e lacerò la camicia senza scalfirmi, con attenzione. Nello scuro notai il suo sguardo di gioia farsi febbrile. 391 Accese infine la luce. E vidi. Una stanza mostruosa. Aveva le pareti foderate di specchi, come il soffitto. A parte il letto, era arredata solamente da un numero esagerato di mensole, su ognuna delle quali era poggiato un gran barattolo di vetro. L’orribile era nei vasi. Ognuno di questi conteneva una testa d’uomo in una soluzione trasparente. Alla luce, ora che mi stavo abituando, potevo notare occhi spalancati, labbra stirate in un’ultima espressione di dolore, di sorpresa, di paura. Non riuscii a contare quante teste ci fossero in quella stanza che ora luccicava in un rimando di immagini di specchi. La donna mi sorrise con un fare equivocamente materno. “Ti piace la mia collezione? E’ originale quanto la tua, vero? Nasce dal fatto che fin da bambina ero soprannominata ‘Mantide’, per il mio modo di trattare i maschietti…” Non mi disse più nulla. Urlai impotente, in adrenalina pura, mentre la donna balenava il rasoio alla luce. Supplicai e piansi, e infine proposi, atterrito e disperato, un sodalizio. Lei tagliò l’aria con un gesto rapido e vissi l’ultima sensazione del fiato che si disperde senza più pressione mentre la vista diviene opaca e la vita s’affievolisce in un soffio di trachea. Un colpo di tosse, fiotti di sangue, un vano risucchiare aria. Poi il buio con ultimi bagliori di lama nel cervello, specchi, luce e riverberi di vasi e pupille spente che mi guardavano. E’ doloroso ricordare, senza più il corpo, chissà dove, affogato per il capo dentro un barattolo di vetro poggiato su 392 una mensola, talvolta osservato con un’espressione che a suo modo potrebbe essere chiamata anche d’affetto, dalla mantide fulva dagli occhi di giada, e talvolta testimone dell’acquisizione di un nuovo esemplare per una collezione da completare per chissà quando… 393 394 RACCONTI PER RIDERE CHE MAMMA HA FATTO I GNOCCHI 395 396 TRAGICOMICA STORIA DI UN PULITORE DI VETRI IMMIGRATO CLANDESTINO KENIOTA Vorrei farvi partecipi di un surreale diario-sfogo di uno sfortunato keniota immigrato clandestinamente in Italia. Il concepimento delle situazioni sfigatissime accadute all'immigrato è avvenuto verso gennaio del duemiladue nell'ambito di uno spazio adibito a protoblog o, forse, forum a margine dello spazio riservato alle chat sul sito di Publiweb che allora frequentavo. L'iniziativa ebbe un certo successo ed un notevole seguito e si verificò una divertente interazione con altre figure create da brillanti altri frequentatori dello spazio: nacque quindi un avvocato trafficone per il permesso di soggiorno, un altro clandestino slavo con un suo tipico slang, una segretaria dell'avvocato. Si dipanò quindi una serie di vicende che vennero raccontate con una cadenza quasi giornaliera. Poi, come tutte le cose, anche questa finì e cambiai rotte di navigazione. Ho riletto in questi giorni qualcosa e mi sono scoperto ancora divertito dalle mirabolanti avventure di Mombasa Tunctu, il protagonista. Ho deciso quindi di proporre la sua storia sotto forma di diario. Si può sorridere, forse, o ridere apertamente delle disgrazie surreali e comiche di qualcuno, lo si è fatto fino dai tempi di Plauto, ma, nei confronti di Mombasa Tunctu, il keniota del provocatorio esondare di parole e slang fintonegro, credo che si rida verde, si rida amaro in una accettazione impotente, fatalista, ancorché riluttante di certe realtà osservate con un occhio ingenuo e candido, ma non si sa quanto. L’intento della divulgazione, del resto, è anche quello di fare leggermente pensare. Buon divertimento a chi avrà voglia di seguirmi. 397 Comincia la sagra di Mombasa Tunctu Mi sdo ambiendando rabidamende in Idalia, meraviglioso baese. L’aldro ieri un'agenzia inderinale mi ha ghiesdo gosa sabessi fare e io risbosdo ghe sono laureado in ingegneria gibernediga gon gabagidà di galgolare logaridmi e drigonomedria a memoria. Mi hanno mandado ai mergadi generali a sgarigare le gassedde di aggua minerale ghe fa fare i galgoli. Ghe sbiridosa addinenza! Allora mi sono ingazzado e ho gomingiado a vendere semafori all'erba gogli aggendini, no forse mi gonfondo....non sono angora moldo bradigo della lingua. Ora mi arrangio vendendo aggendini e sigaredde di gondrabbando berò faggio boghi affari. Sarà berghè sono vigino ad un dubergolosario brovingiale? Bulisgo vedri di audo al semaforo, sembre davandi all'osbedale, ma le audoambulanze non riesgo ad agghiabbarle e ho danda fame. Ho, gomungue, smesso guasi subido di lavare vedri: ber drobba siggidà. Infaddi ieri sdavo lavando vedro di jaguar a sbudazzade, ma badrone jaguar non ha gabido e gradido e mi ha dado dande legnade su grobbone: sono duddo saggagnado e livido...Mi ha faddo ..nero. Allora adesso vendo aggendini, fazzoleddini di garda, ogghiali da sole. ...Non vedo l'ora ghe arrivi giugno con i suoi drenda gradi berghè adoro moldo la sdagione invernale: adesso ghe sdagione è, gon guesdo freddo della madonna? A volde mi domando: siamo duddi fradelli o siamo duddi figli unigi? ...e magari anghe orfani? Beadi idaliani guando vanno a Malindi, ghe mangiano minesdra ghenioda di brodo di fagogero e nogi di goggo: non si diga ghe fa sghifo! Essa è digeribile. 398 Io ho sullo sdomago da ieri sera dre aggendini e un ogghiale di falso sdilisda, e non erano neanghe buoni. Dovrò brogurarmi un alga-seldzer (ber la gronaca, gli aggendini erano garighi e ogni volda ghe mi viene da fare un ruddino sbrugiagghio il malgabidado ghe mi sda di fronde)!! Ora vado all'ingrogio a dare il gambio a Sdanilslaw e mi sa ghe sdasera divendo riggo. Sdanislaw infaddi sda vendendo caramelle, ma non dige ghe sono burgadive: oggi io, invece, sono garigo di dandissimi fazzoleddini di garda... Vida amara ber Mombasa, gome gagghi. Adaddamendo e gombendio Ho avudo soddobango a brezzi insosdenibili in nadura un biglieddo di bresendazione a solerde funzionario di bubbliga sigurezza ber mio visdo di soggiorno: burdrobbo, gosdui è moldo avido e drobbi aggendini e rolegs findi dovrò vendere ber soddisfare le sue brame (vuole gombrare jaguar!!!). Gomungue non mi sgoraggio e gomingio subidaneamende... Nel fraddembo gon moldo affeddo benso a mio benefaddore e brego mio grande sbirido ghenioda ber lui e ber suo fuduro brosbero e sereno. “Signore, boni dua bodende mano su gabo di nosdro fradello.... ma non galgarla drobbo......grazie!” Biù dardi, in sobrassaldo di orgoglio ghenioda, ho abbrondado un Gombendio gombordamendale ber idaliani riguardo a exdragomunidari di golore. Vorrei gonosgere il barere di idaliani, da amigi, brima di brendere il foglio di via insieme a dande legnade. GOMBENDIO BER IDALIANI SU COMBORDAMENDI DA DENERE DI FRONDE A EXDRAGOMUNIDARIO. 1.) Dare del du è moldo demogradigo, ma bredendere il Voi e il didolo di bwana o badrone è veramende eggessivo. 399 2.) Mai sdrofinare ai bandaloni la mano gon la guale si è sdredda la mano dell'exdra, neanghe furdivamende. 3.) Un gabo di vesdiario regalado berghè smesso non deve avere bughi gome dana di fagogero: è guesdione di dignidà. 4.) Non è obbligadorio gomingiare a fumare da ora ber giusdifigare l'agguisdo di aggendino; benso ghe l’offerda di un lavoro onesdo, umile e in nero (gioè biango) sia miglior gesdo di benefigenza ghe si bossa fare. 5.) Evidare di meddere mano alla fondina del bisdolone, se avede il bisdolone, al solo udire ghe l'exdra barla arabo, viene beggado aggovaggiado su dabbedino, gira gon Gorano soddo braggio. Se non avede bistolone non gorrere a gambe levade verso biù vigino Gommissariado. 6.) Abbiade bresende sembre ghe duddo mondo è baese e l'exdra davandi a voi magari ha due lauree e un G.I.(guoziende indelleddivo) risbeddo al guale voi fare figura da imbala: l'abido non fa l'exdra-monaco. 7.) Evidare biedismi del dibo: bovero negro. E' evidende ghe duddo giò va gendellinado sembre senza generalizzazione, nè bosidiva, nè negadiva. Ghe mio gombendio sia urlo di gondendezza ber aver vendudo duddi fazzoleddini a semaforo. A gaggia di nuovo lavoro Sdamaddina vado per un nuovo lavoro a vedere: gergano gualguno ber la barde di un re mago ber la brossima ebifania. Se la sfango devo dirare avandi solo fino a digembre a bulire vedri e vendere aggendini, boi gambo di rendida gon la nodoriedà, obbure bosso rigiglarmi nel Grande Fradello nove, dado ghe sono biù simbadico dell'aldro fradello Mandingo. Gome uldima aldernadiva bodrei sgalzare fradello Idris da gualghe drasmissione delevisiva, ma io faggio difo ber sguadra bolisbordiva Nairobense: inderesserebbe a gualguno gui? Gredo brobrio di no... 400 Offresi lavamagghine E’ andada male anghe oggi: il re mago lo hanno breso e non sono io. Il regisda, un bogo sdrano, voleva brendere me, ma mi sono obbosdo berghè mi voleva gonosgere bibligamende. Bazienza! Domani un aldro giorno gome digeva Rozzella. Ho già in mende aldra addividà. Se nel fraddembo gergo gualguno ghe abbisogni di avere la sua jaguar bulida, ber boghi euro lugido e sdriglio garrozzeria: sono addrezzadissimo gon brusga da gavalli e garda vedrada. Mi bresendo Mi rendo gondo ghe non mi sono angora bresendado ber ghi leggerà gueste annodazioni: io sono Mombasa Tunctu, ghenioda figlio di ghenioda, alguando sfigadello, ma sembre allegro e bieno di sorbrendendi drovade ber gergare di bodere vivere dranguillo. Io sogno fuduro garigo di gomodidà, gome leone re di foresda, ma io, a differenza di leone, vorrei dande gose eleddronighe e audomadighe all'uldimo grido di nuovo gadalogo iGhea: forno eleddrigo per guginare zebra in umido, sgaldabagni eleddrigo per fare doggia galda in gasa senza fare bagno in sdagno bieno di gaimani, rasoio eleddrigo ber fare barba e gamuffarmi davandi a gommissario ghe fa aggerdamendi ber visdo di soggiorno... Non voglio solo sedia eleddriga ber una mia bardigolare avversione ingonsgia... Ber il resdo, saludo amigi daliani e egsdragomunidari, siano ladino-amerigani, siano bolagghi, siano albanigi, ghe mi vogliono regludare solamende ber gosedde bogo ghiare... Un albanigo mio amigo mi ha brobosdo lavoro di sgorda e aggombagnamendo lungo Adriadigo ber gide di gomidiva in biggole grogiere gon ebbrezza della folle velogidà: mi disbiage ma non so nuodare e se ganoddo si sgonfia o viene Finanza bosso solo bregare mio sbirito di grande ibbobodamo...e boi, sghiavisda o gondrabbandiere gon salvagende a baberella, sarei veramende ridigolo. 401 Gomungue grazie dell'offerda, gome grazie a offerda di fare gaddivo uomo nero diedro lambione in sdrada ber sbavendare ghi viene ber molesdare donne ghe lavorano su dangenziale vesdide gome se fosse sembre esdade, ma io non mi sendo gaddivo, semmai solo nero, guesdo sì.... E ora mi faggio un bel brindisi gon liquore di goggo fermendado gon ladde di gammello e guano di iguana: delizioso....digono i sopravvissudi. Gin gin e brosberidà. Mi do da fare Oggi moldo da fare ber garigare furgongino Ford DransiD del sessandaguaddro revisionado ghenioda ber andare a mergadino fierisdigo. Digono ghe inguina, ma io benso ghe bianghi sono razzisdi ber baura di gongorrenza gommergiale: io gugino a vabore wursdel di andilobe davandi marmidda, per gui... Ho ogni gosa ber domani: brododdi ardigianali gheniodi faddi a mano gon sblendidi magghinari in laboradorio di Seddimo Dorinese. Venderò buff in belle d'imbala a forma di ibbobodamo, sguldure di indigeni gheniodi in legno di sandalo, moldo soddili e sdilizzade, ghe donne sbordive bossono usare gome bundina da disegno su sedia, bubazzi raffigurandi gammelli e dromedari. Ber me la differenza dra gammello e dromedario sda solo nelle legnade ghe hanno breso: anghe io avevo gobba guando rubbi biaddi che lavavo in risdorande. Mi saggagnarono a dovere! Sbero dando ghe domani affari vadano bene anghe berghè devo bagare affiddo di monoleddo in monologale ber dodigi bersone: monoleddo sembra gome gasa-vaganze berghè gi dormiano in dre, ma non insieme. Sono oddimisda gomungue berghè ho anghe gli indramondabili aggendini e ogghiali di falso sdilisda ghe vanno sembre e boi ho bordamonede ber euro, faddi in legno di teg a forma di iguana dormiende gon goggodrillo 402 vigino ghe sda ber divorarlo: una gosina di gusdo e moldo originale. Ho anghe eurogonverdidori euro-gonghiglie, imbordadi da Ghenia, ma guelli mi sa ghe ne vendo boghi boghi. Alba risplende su bolveri fini Sdanodde ho avudo un brovino gome disg-joghey in logale di brovingia denominado "Polvereden", non so se mi sbiego. Mi sono bresendado gon gabelli afro (barrugga su desda rasada dibo brima versione di gandande Seal ghe aveva desda gome melanzana, sgura sgura e lugida), e fagevo fighissimo, gon soddo braggio miei disghi di mia derra, Ghenia, ber far ballare damarri e druzzi logali. Volevano asgoldare, berò, solo musiga deghno (sgusate se non bronungio bene Tekno) e non hanno abbrezzado miei disghi di AlBaobab e Romina, Ballo del Guà Guà, Gugini di Savana, e Viddoria (non guella delle Sbige Girls, ma guella del lago). Mi hanno faddo dando male gon boddigliade di magnum, fordunadamende vuode, su sballe e balle e mi sono dovudo defilare dravesdendomi da bortacenere: purtroppo sono sdado usado e ora sono bieno di andiesdedighe brugiadure. Gi vorrebbe bomada di Uanna Marghi, ma non si riesge biù a drovarla... Brasiliano invege sì... Ora lavora in guartiere bene di Dorino, la nodde, gon nome di Gonsuelo...Ghe vida ragazzi. Ora vado fare sbesa ber nudrirmi. Moldo ringarado zebu ber golba del freddo o della siggidà o della filiera imbazzida, ma io ribiego su sbezzadino di armadillo: g’è bogo da ridere berghé zebu e armadillo sono garni ghe idaliani mangiano duddi i giorni, solo ghe le ghiamano ingonsabevolmende vidella, ghissà berghè boi. Sembre un bo di biù arena di da ....Barola di Frangesgo Amadori....10+ 403 Sgonfordo e brogeddi La realdà è ghe ormai guesda derra sda divendando inosbidale...io vorrei emigrare ber il mio eldorado, il mio far wesd.... Gaserda, Gasaldibringibe, bosdi di oberosidà e immense disdese di nadura e bomodori. Gi si deve meddere d'aggordo solo gon gaborale ghe organizza durni Sfiga guodidiana Gome solido anghe oggi gagga salida fino garodide e devo sdare addendo a non fare onda. Al mio semaforo sdavo bulendo vedro a magghina ferma. G'era dendro sblendido mammifero gon ogghi verdi e belle da laddigino di gabra ghenioda. Mi sono imbambolado gome guando asbiro funghi sdrani di beriferia Nairobi e sono affogado in suoi ogghi. Boi le ho deddo: "Sblendida greadura, volere du fare oloduria (gedriolo di mare) gon me duo baguro bernardo ber ederna simbiosi?" Mi è sembrado di essere boedigo ghenioda e avevo sorrisone di ginguandasei dendoni bianghi, ma il mammifero si è drasformado in alligadore digrignande e ghiamado vigili, bolizia, gommissariado e bassandi vari. Io sgabbado gon moldi lividi e bozzi, boi faddo berdere mie dragge travesdendomi da dombino in via limidrofa. Segondo me la bella idaliana fadda danda gonfusione e eguivogado gon gedriolo...Bovero guore sbezzado di ghenioda... Buona domenica Bodrebbe sembrare ghe io sia uno di guelli ghe la domeniga maddina suona a gambanello e vuole dare buon giorno e gadalogo agenzia viaggi (non è gadalogo?) e viene ringorso gon mazza di baseball o gesoie da giardino o viene mandado direddamende a gagare. 404 Beh io sono un bò diverso; indando io gomingio a gomunigare alle ore nove e drenda bassade, guasi le diegi, invege delle sei di guelli, e boi sono allegro e non ho faggia breoggubada gome guelli ghe sembra siano sembre gol dubbio del gondo gorrende sgoberdo o di aver lasgiado rubineddo di gas aberdo in gasa: sono sembre drisdi, ma anghe gaboggioni berghè ogni domeniga sono lì davandi a sdesso gambanello (dranne guelli beggadi da sobragidada mazza di baseball). Oggi domeniga egologiga e io disoggubado a semaforo deserdo. Farei gualsiasi lavoreddo diedro bagamendo di boghi euro. Mi fischiano oregghie ber baddudaggie da gaserma e sendo ghe non viene abbrezzada volonderosidà di bravo ghenioda. Lavoro noddurno Guando gende normale si alza io vo a leddo sdango mordo ber mio nuovo lavoro di sabadi e domenighe sera. Io faggio uomo-nero ber denere buoni bambini ghe fanno basdardi gon baby-sidders ghe vogliono fare drombodrombo gon loro fidanzadi. Sbiego: gobbia di genidori vuole fare bagordi di sabado sera gon amigi al ginema, al risdorande, al brivè ber sgambio gobbie egg. egg. gome iene ridens in savana a blenuilunio e lasgia sua o sue gradure in mano a giovane babysidder sembre garuggia ma gon dandi brufoli. Brufoli sono solo dembesda ormonale di garenza d'amore e babysidder abbrofidda della serada in alloggio signorile gon fornido mobile bar ber gombensare garenze gon suo ragazzo ghe abbare dobo mezz'ora ghe gobbia è andada via, gome sgiagallo affamado. Se greadura affidada dorme dranguilla gome gazzella va duddo bene, ma se biggolo basdardo rombe marroni gome bedulande biggolo sgimbanzè, allora babysidder ghiama me e io ber modiga somma faggio uomonero ghe sbavenda biccolo basdardo e mi meddo anghe dendi findi da vambiro e ringorro greadura per sdanze alloggio fino a ghe boverino 405 non si nasgonde in dazza del gesso e gi rimane fino a tardissima sera addormendandogisi. Gli affari vanno benino berghè molde babysidders vogliono fare drombo-drombo al sabado sera e ber guesdo mese affiddo è sdado già pagado. Sbero solo ghe bimbi sgassamarroni non delefonino a delefono azzurro berghè aldrimendi devo gombaddere gon genidori ingazzadi gome grodali di deserdo nabimiano e devo invendarmi aldra gosa fandasiosa e birodegniga. Ah, geniale invendiva ghenioda! Meglio i gani ber prossimo lavoro ...Gome demevo. Arrivado sdamaddina a gasa ber dormire, dobo avere faddo baby sidder, ho drovado genidore ingazzado gome elefande imbizzarrido ghe mi asbeddava gon asgia. Ho fadigado moldissimo a seminarlo, gon gorse brolungade da bravo bodisda degli aldibiani, gon ingegnosi dravesdimendi da semaforo, da gassoneddo e da banghina di giardineddo... Sono drafelado e sdanghissimo. Da domani gambio lavoro e gambio anghe indirizzo per evidare aldri ingontri ghe una volda fagevo solo in sdagno baludigo vigino Nairobi. Da domani faggio dog sidder e bordo fuori vendi, vendigingue gani alla volda al giardineddo, memore di gome guando fagevo in ridagli di dembo in Ghenia basdore di gnu, gabre e fagogeri addomesdigati: e ghe gi vorrà mai? Borderò gon me langia gon veleno dossigo paralizzande ber gagneddi biù vivagi, e bolbeddine di iguana ber avere duddi soddo gondrollo. Ai gani biagerà l'iguana? Sbero solo di non ingondrare vigile ghe fa mulde a possessori di gani senza saggheddino ber guano di gane. Io non bosso bordarlo con vendi gani: mi gi vuole bedoniera! Beh sberiamo bene, male ghe va farò mio solido sorriso gharmand (sdo imbarando frangese da amigo senegalese) e 406 gergherò di fargli ghiudere ogghio, obbure glielo ghiuderò io gon aggendino. Aggeso. Gambierò angora Dornado adesso da basseggiada gon vendi gani nel mio nuovo lavoro di dog sidder: insuggesso gombledo e dovrò angora gambiare! Moldo diffigoldoso infaddi bordare a sbasso biggolo yorgshire duddo beli ghe sembra dobosgi insieme ad alano gon sella e briglie e a masdino naboledano gon museruola di didanio... In biù boi anghe boxer, ghe guando gammina lasgia sgia di bava gome gamaleonde indisbosdo di sdomago, gollie isderigo berghè si sende drasgurado, roddwiler geloso di naboledano berghè freguenda balesdra e ha addominali biu svlubbadi e ghihuahua ghe si infila nei bughi di gulo dei sobragidadi gani grossi ber fare sgherzo di gulo e io divendo bazzo. Ho dovudo dranguillizzare gon langia dossiga un pasdore dedesgo e due basdori sardi ghe volevano fregarmi il tedesgo e ho dovudo fare fuggi-fuggi vedendo da londano vigile ghe misurava aldezze guani dei gani gon gendimedro e masghera andigas. Ghe vidaggia. Ora gergherò aldro da fare e gomimgerò la giornada a semaforo gon amigo Sdanislaw: lavoreremo in dandem. Uno lava e l'aldro asgiuga.... Mi do sembre da fare Sdo sgabbando ber andare in Gomune. Ieri è nevigado e benso ghe gergheranno bersone ber bulire giddà da neve affinghè vegghieddi non gadano gome zebre ubriaghe vigino enodega ghe vende liguore di goggo. Io, da bravo ghenioda, gergo di inserirmi nel dessudo gonneddivo della sogiedà (l'ho gobiada da draddado sogiologigo e mi bare ghe suona bene). Mi offro volondario e magari gonosgo anghe sindago Giuffeddino (ha una desda ghe sembra un govone di fieno) Ghiambarini... 407 Dungue vediamo se ho duddo: guandi OGH, biumino OGH, berreddone baraoregghie OGH, forgone.... Soddisfazione (almeno demboranea) E' un miracolo che io parli con perfetta padronanza lessicale Alighieriana, Boccaccesca, Manzonica e con pronuncia da speaker del TG? No! Solo applicazione e sacrificio e maratone notturne al CEPU. Ho studiato nella mia stanzetta con dietro le spalle, in piedi, un tutor che non ho mai capito se mi voleva assistere amorevolmente o sodomizzare e quindi ho imparato molto in fretta. Nella stanzetta a fianco c'era Del Piero. Credo sia un gran ciuccio a scuola perchè il suo tutor lo ha bacchettato spesso sulle dita dei piedi e lui piangendo urlava: "La prego no, signor tutor, coi piedi ci mangio!" Il tutor gli diceva:"Del Piero, due più due fa quattro e non tre, e poi sulla tua maglia tu hai scritto dieci e non IO, somaro!" Alla ricreazione facevamo merenda insieme, io con il mio panino con fettina di gnu e lui con il budino danone (alla purga) che gli manda il suo nemico Inzaghi. Gli ho toccato colle mani la faccia per vedere se la sua barbetta e basette elaboratissime se le facesse col lampostyl: sono vere! Allora gli ho detto che conosco degli spacciatori molto più onesti perchè tagliano meglio. Ora vado a fare la spesa. Mi sa, berò, che forse dimendigo tuddo alla svelda...sono fordi mie radigi di negridudine... Farò abbonamendo a GEBU... Imbrendidore Sdamaddina mi sono messo d'aggordo gon Sdanilsaw a semaforo e ho lui deddo: berghè lavare solo vedri di audo e bensare in biggolo? 408 Faggiamo imbresa di lavaggio vedri di negozi o uffigi no? Sdanislaw si è allora fiondado in vigina enodega per fare brobosda e padrone ha aggeddado, ma voleva pagare solo in vodga. Sdanislaw ha aggeddado, io no berghè a me biage solo rafiagoggo, liguore garadderisdigo ghenioda la gui rigedda è segreda e dale rimane anghe ber sobravvissudi. La sogiedà si è già sgiolda e io faggio imbrendidore ber me da solo. Sdo andando a ghiedere in luminoso negozio-uffigio vigino a ingrogio: dudde vedrine verdi e grande insegna di Badania libera....dande bersone gon allegri fazzoleddi verdi ghe barlano in idioma ingombrensibile... Sberiamo bene, ma io sono sembre oddimisda e su segnalazione di giovane allegro ghe rideva gome maddo sdo andando da onorevole Borghezio ghe, mi hanno deddo, ama moldo fare biageri a egsdragomunidari gome me, simbadigo ghenioda. Mi bresenderò dra bogo e gli dirò: "Eggellenza, bosso fare gualgosa ber lei?" Sberiamo ghe non mi risbonda il solido: "Va a gagher" berghè mi indrisderei. Una ne fo e gendo ne penso Dorno adesso, dobo berigliosa nodde, da studio di Eggellenza Borghezio ghe boi mi ha mandado effeddivamende a gagare. Suoi amigi invege mi hanno faddo gorrere gome gazzella inseguida da leone gon fame arredrada. Ora sdo rifleddendo e riordinando idee... Devo fare gualgosa ber meddere insieme il bane e lo gnu ber domani a branzo. Benso che dovrò bassare da agenzia inderinale ber lavoro a dembo... Allora.... Al mergado generale è bassada la Finanza ghe ha faddo mulde (duddi in nero, ahahahah, nessun ghenioda berò), guindi no; duddi sdanno smeddendo di fumare guindi non vendo biù aggendini; vedri da bulire basda berghè al semaforo adesso gi sda Sdanislaw gon masdro Lindo... 409 Sdo bensando di fare gigolò nero mandingo in logale nighd ber fare ballare annoiade donne idaliane in gerga di mozioni fordi. Mumble mumble....sdasera basso a logale alla moda.... Forse ardisda Gome volevasi dimosdrare.... ho aggalabbiado, da solido sfigado, solo assessore a durismo, sdrano, ghe gon mano brensile di gorilla delle nebbie mi doggava soddo gonnellino di foglie di banano, abbundo il banano, dra sguardi di disgusdo di vegghie garambane rugose ghe sembravano babbagalline gon giuffo. Sono sgabbado gome musdelide seguendo gonsiglio di amiga, dravesdido da Dony Manero, di febbre di sabado sera, ghe ha faddo drobba lambada (no ballo,brobrio lambada gon aggendo su brima a). A usgida da logale drendy ho faddo gonosgenza gon guaddro simbadigi fradelli nigeriani ghe mi hanno brobosdo di unirmi a loro ber fare numero di nighd, sdrib masghile: i Nigerianafro dream men.... Gi devo bensare, berò, berghè mi hanno deddo ghe è un numero duddo giogado su dre gambe di ognuno, sono moldo esuberandi gome addrezzadura di biagere, e io addualmende ho brosdada gome gozzo di belligano ghe fa indigesdione e boi sono mandingo gon emme minusgola (solida sfiga)... Al massimo bodrei fare masgodde... Medafisiga ghenioda Ghenioda è moldo addraddo da broblemadiga esisdenziale, sobradduddo guando viene morso da vibera gornuda in zona deserdiga o girgondado in savana da brango di ligaoni digiuni da due seddimane. Varie sguole di bensiero sbaziano su varie inderbredazioni sulla medafisiga. Sguola di reingarnazione 410 Si ibodizza ghe si bossa morire in savana durande bennighella divoradi da brango di leoni e gi si bossa ringarnare in sgadoledda Scimmiendhal, obbure in gnu, se moglie non era drobbo fedele, obbure in sgarabeo sdergoraro se si ha molda sfiga: gheniodi sfigadi girano munidi di zaino gon maschera andigas e guandi da eleddrigisda ber ibodesi biù sfigada. Sguola glassiga di baradiso e inferno. Si vuole ghe guando si muore si vada in baradiso o inferno o burgadorio a segonda di gondodda in vida: se ghenioda da vivo ha fornigado anghe fuori sua unione gon moglie, viene bunido gon legge di daglione in inferno e verrà sodomizzado ber l’edernidà da feroge fogoso mandrillo… Guando, ber abidudine, biagerà mandrillo, verrà sodomizzado gon ramo nodoso di baobab agidado da diavolo ghenioda ghe sghignazzerà a sendire urla di dolore, aldrimendi ghe inferno è? In baradiso solida noia gon gongerdi dribali e nessun drombo-drombo, al solido… Burgadorio vedrà ghenioda sosbeso dra benefighe sensazioni di fresga garezza di erba di savana su viso sberanzoso e dorrenziale bibì di elefande di bassaggio, sembre su viso sberanzoso… Sguola adea Si gollega gongeddualmende al nulla, rabbresendado boedigamende da bugo di gulo di negro a mezzanodde in nodde senza luna in una garbonaia, invisibile, inesisdende… Sguola animisda Alla morde gi si dramuda in maderiale ghe gondinua a fare barde di universo ghenioda: giodola di mais, guano d’iguana, ombrellone di baglia ber villaggio durisdigo, gambiale in brodesdo… 411 Anghe in guesdo gaso è solo guesdione di sfiga e ghenioda animisda ghe sda ber morire ingrogia anghe dida dei biedi e langia al gielo abbassionadi lamendi in swailii. Baradiso Immagino paradiso gome grande infermeria funzionande fornida di duddi andibiodigi possibili, gon leddini rifaddi bulidi gon lenzuola bianche gome faggia di Mighael Jagson. Immagino comodino vigino a leddo gon boddiglia d’aggua bulida invece ghe giodola di bozzo biena di greadurine di dio ghe gi sguazzano dendro gome bisgina fagendo fanghi ber loro reumadismi. Belle infermiere bassano gon babbagallo, guello ghe non ganda dra fresghe frasghe di foresde gheniode, sono gendili, offrono bisgoddi Gendilini e dazza di ladde, non guello in bolvere ghe sembra forfora. Ogni dando bassa doddore, gon barba bianga e driangolo diedro desda maesdosa e dige: “Duddo bene Mombasa? Duddi gondendi figli miei?” e non ordina mai a infermiera di fare me glisdere di galabroni, ber miei meridi di bravo ghenioda gui in derra… Gualguno invece ha glisdere di galabroni berghè non drobbo buono brima: si ghiama glisdere burgadorio… o burgadivo? Mah! Forse sono sdado drobbo redorigo: influenza di libri redorigi afrigani ghe barlano di buoni sendimendi. Uldimamende ho leddo “Guore”, “Biggole donne gresgono”, “Sdadisdiga dissenderia dra bambini biafrani” “Bugiardino ghinino ber gurare malaria”: dudda roba isdruddiva. Mai gabido sdoria di gammello e ago: brovado io, ma mio gammello urlava dando forde berghè sbaddeva gobba in gruna. Allora faddo bassare ago dendro cammello: cammello mordo bugado gome ganoddo gon gobbe sgonfiade. 412 Gendosessandasei Su falsa riga di messaggi dendendi a greare benessere, sberando ghe si gugghi e si guadagni, e sobraduddo ghe si grei anghe ber me benessere, broverò anghe io a fare bubbligidà a mia figura in biena iniziativa imbrendidoriale fandasiosa e greadiva... “Gara donna idaliana gazzella, esberdo mandingo felinide gon fame arredrada fin da dembo di bermanenza in Ghenia dove, bovero negro, andava anghe lì in biango, di sda gergando ber fare guello ghe brima della sdagione delle grandi biogge fa fagogero gon fagogera, zebro gon zebra, leone gon leonessa, babbone gon brodedda nigeriana. Sono felinide, sgaddande, e odoro di savana (non dobo bassaggio di mandria di gnu). Se sei dudda un fermendo di ormoni imbazzidi solo all'idea ghe io bossa sfiorardi gon miei labbroni dumidi, delefona al numero cendosessandasei29.14 di ghenia....boi mio fradello masai mi manderà bergenduale. Sgondi ber gomidive. Rigghi bremi e godillons. Faggio anghe sdrib levandomi gon mosse sensuali e brovogandi gonnellino di foglia di banana e rimango nudo gome sgimbanzè sgordigado da leone bardigolarmende ingazzado. A buona indendidrige... Giao ... sgrivede numerose anghe a mia e-mail [email protected], non mangherò di risbondervi e di allegare mia fodo ribresa di nodde senza luna in savana mendre bascolo iene ridens.” Fandasia ghenioda senza limidi (gosa non si deve fare ber mangiare anghe solo due basdongini findus o sgadoledda di donno). Due guori e una gabanna Si dige sbesso: due guori e una gabanna. Bosso offrire una gamionada di gabanne, a ghi vuole. 413 In Ghenia è bieno di gabanne ghe lì si ghiamano dugul, non nel senso del duo, ma brobrio nel senso di dugul. Sono fadde dudde gon fango e guano d'iguana e biume di dugano e foglie di banano. Sono biene di inseddi svilubbadi ghe arrivano ad avere anghe fino a dodigi zambedde fornide di zoggoli e mordono gome vambiri in grisi di asdinenza di blasma e biastrine. Manga galdobagno berghè fa galdo di suo ber gui vai a gagare in mezzo a savana dra iene e serbendelli non brobrio amighevoli. Manga anghe agua gorrende e allora vai a lago a brendere segghio bigghiando goggodrillo imberdinende.... Gredo, frangamende, ghe sarebbe meglio baida in val d'aosda gon moguedde alda come belo di sgimmia e imbiando sdereo ghe diffonde musiga da bomigio, gon segghiello gon boddiglia di liguore di goggo. Ghiudo ogghi e immagino: admosfera romandiga gon Baobabbobby Solo ghe ganda "Brendi guesdo in mano zingara"... Adoro bersone romandighe. Erodismo ghenioda Leggo sbesso su rivisde dimendigade in gassoneddo o asgoldo a MaurizioGosdanzoshow vigende moldo erodighe e mio animalesgo isdindo bergebisge l’essenza dell’arazzosidà, dedda anghe arrabamendo, ghe aleggia dra guesdi eggidandi messaggi e gonfessioni. Gerde dorride desgrizioni mi ribordano alla mende vegghi rigordi di mie brime iniziazioni sessuali gheniode gon mia inseparabile bandegana di sedigi ghili ghe viveva gon me in mio dugul a Nairobi dre guando ero bambino… Rigordo ghe giogavamo a infermiera e doddore e mi diverdivo a garezzare suoi lunghi baffoni mendre lei mi guardava sognande sguiddendo gon un bel sorriso da roditore a due dendoni due. Imbarai bradighe sadomasoghisde gon mia amande bandegana: le facevo nodi marinari alla goda e lei gemeva di dolore e biagere… 414 Le meddevo soddo naso grosso bezzo di formaggio di gabra ghenioda e guando lei brovava a mordere lo facevo sgombarire imbrovvisamende e lo mordevo io facendola soffrire: ero già un biggolo ghenioda basdardo dendro e rimasi folgorado da induido di dandi audisdi a semaforo di giddà idaliana dobo moldi anni guando mi ridissero ghe ero basdardo dendro: duddi moldo induidivi idaliani! Le regalai gombledino di foglia di banana da nodde ed era moldo sexy la mia amiga, dudda grigia gon goda riggioluda e ammiggande: buro erodismo ghenioda. La mia bandegana si brese ber me una godda mosdruosa. Io, invece, mi bresi la lebdosbirosi e sono vivo ber miragolo… Boi, gome dudde le gose, anghe guesd’amore finì e io mi bresi una godda drasgressiva ber una dolge dimida iguana gon lunga lingua vorace, ma guesda è aldra sdoria d’amore… Arde bovera Non berdo mai di visda mie origini, dra mie moldebligi addividà, e benso ad arredare mia gabanna in villaggio a beriferia di giddà nadale, ber guando ridornerò riggo e famoso: Nairobi dre, villaggio duddo nuovo gon nuove infrasdruddure e servizi aggiornadi ed effigendi. Bassa ogni gingue minudi navedda ghe borda in gendro giddà: beggado ghe gon guesda siggidà la navedda dendro ganale asgiuddo la dobbiamo garigare in sballa noi bendolari… Dandissimi dugul, villedde a sghiera, indonagade fresghe fresghe gon guano d’iguana d’imbordazione, fango di brima gualidà e bambù a norma GEE (Ghe E’ Eggezionale). Ho aggeso muduo vendennale e devo arredare ora mia umile ma gonfordevole dimora. Gualguno ha aggeso disdraddamende sua umile dimora e ora bagherà ber vendanni a vuodo… 415 Mi fa ridere gongeddo idaliano di “Arde bovera” riferido ad arredamendo: gosda un ogghio della desda e lasgia agguirende gome bagnande su lago Viddoria girgondado da gaimani, ovvero smarrido e gonfuso… Gui in Ghenia arrediamo guasi duddo gon arde bovera ghenioda: di siedi e dormi e mangi e gobuli ber derra su sduoia bovera indreggiada di ginesdra e beli di rinogeronde e biume di gagadua. Ber derra è duo armadio quaddro sdagioni (nosdro armadio è due sdagioni berghè non esisdono biù mezze sdagioni), dua gredenza e disbensa è buga in fondo ghe è anghe duo frigorifero ber gosa da gonservare in fresgo: non devi farlo sabere berò a bandegane e bibisdrelli gigandi e, gosa biù imbordande, non devi gonfonderdi gon aldro bugo ghe serve ber duoi bisogni aldrimendi mangi male e fai duoi bisogni sobra mandria di bandegane e bibisdrelli affamadi ghe di sdanno fregando mais. Eggo arde bovera ghenioda: biù bovera di gosì… e gosda veramente bogo, a meno ghe du non voglia sduoia firmada da grande arghideddo ghenioda Le Gorbusier…indreggiada gon giunghi, liane e sguame di goggodrillo a sgargianti golori di Mosghino o Dolge e Gabbiano… Dele Ghenia Sdo bensando, gon vulganiga fandasia imbrendidoriale di giovane ghenioda rambande, a una drasmissione delevisiva di gioghi a sguadre sullo sdile di “Gioghi senza frondiere”. La ghiamerò:”Medigi senza frondiere”. Bardegiberanno Ghenia, Uganda, Gongo, Giad, Nigeria e Ghana. Sono un fermendo di iniziadive e brevedo già gioghini moldo diverdendi. Gosdruzione di modello di audomobile gon sabbia mobile: le sguadre, munide di salvagende a baberella e basdone gaggia-bidone (serbende) devono fare modello di audomobile gome fosse gasdello di sabbia, senza affogare e sobradduddo senza fare imidazione di basdo galdo ber alligadori voragi di balude. 416 Fil rouge: vinge gongorrende ghe bassa addraverso villaggio abbandonado in balia di bandegane di seddanda ghili esberde di garadè senza brendersi besde bubbonica o golera. Gorsa a ibbodromo gon gavalledde da sella, moldo comuni in gambi goldivadi di Ghana. Uniga differenza è ghe non si vinge ber ingolladura, ma ber andennadura. Gara di daglio gabelli gon maghede: favoridi ugandesi ber molda bradiga in animade discussioni dribali di gualghe dembo fa… Gara di vagginazioni dra medigi senza frondiere: si deve baddere regord di oddogendo iniezioni andigolera all’ora di medigo di Zambia ghe guesd’anno non gongorre berghè mordo di dengue… Vorrei boi meddere gualghe personaggio di variedà a gondorno a manifesdazione sbordiva: bensavo a Banariello ghe fa numero di marsubio, ma gui riderebbe nessuno berghè siamo duddi biù o meno gon sdesso marsubio ghe fa dando ridere voi idaliani. Andrebbe forse meglio Galeazzi, gome rigedda domenicale in drasmissione dibo “Sereno Variabile”: il Galeazzi al forno gon erbedde. Gon un Galeazzi al forno gon erbedde gi mangerebbe indero villaggio masai ber dre giorni gon gandi e balli e ringraziamendo animisda al dio dell’abbondanza ber boveri gheniodi. Rigghi bremi e godillons… Le ossa di Galeazzi verrebbero boi dade in benefigenza ber gosdruzione nuova sguola elemendare di villaggio Bizzeria Sdo govando mio sogno di abrire bizzeria dibiga ghenioda. Ho già breso gondaddi gon mio amigo di Nairobi ber abbrovigionamendo ingrediendi dibigi ber dibighe bizze alla ghenioda e sdo sgrivendo in buona galligafria il menu da soddoborre a gliendi. 417 Bizza gon funghi I funghi, moldo bardigolari di golore verde e viola, provengono da bendigi Ruwenzori e vengono gonsumadi brevalendemende in Ghenia da sgiamani e sdregoni medigi in villaggi masai in oggasione di fesde e funerali. Si vogifera ghe diano alluginazioni, ma io, a barde mio gugino ghe si è messo a ballare fox drod gon goggodrilllo in balude, non mi sono aggordo mai di nulla, anghe berghè non so ballare e ero indendo a vorage bedding gon iena ridens ghe si è diverdida assai: io meno berghè mordeva drobbo e rideva in gondinuazione gome se soffrisse solledigo. Bizza gon iguana E’la bizza glassiga di Ghenia, fargida gon iguana ghe da sapore bardigolare. Bizza gabriggiosa Si fa gon guello ghe rimane in gugina, a gabriggio del pizzaiolo: uova di belligano, iguana, gode di bandegane ghe mangiano in redroboddega senza bagare affiddo, gavalledde e scarabei sdergorari (sono guelli ghe sembrano olive nere) Bizza guaddro sdagioni E’ guella brugiada berghè da noi esiste solo esdade e fa moldo galdo Bizza del mandrillo Non è bizza gon beberongino biggande ber asbirande gobuladore idaliano, ma bizza gon vero gulo a sdrisge rosse e blu di mandrillo, moldo gromadiga e abbedidosa, se è d’aggordo mandrillo. Da bere: ladde di gammello fermendado gon guano d’iguana e dadderi, bevanda gradevole ber ghi sopravvive, indigada sobradduddo su bizza gon funghi: gualghe gliende riesge a gamminare su baredi o deglama a memoria indera obera omnia di Leobold Senghor in senegalese andigo a dembo di darandella di Malindi. 418 Boggale biggolo, medio, magnum (gol boggale magnum viene dada anghe vasghedda vomidoria). Rimane solo broblema di finanziadore: gualguno di voi è disbosdo a bardegibare? Bage Gosì non va.... duddi drobbo eleddrigi e lidigiosi.. e bensare che sono felige: vendudo quaddro euroconverdidori a semaforo, boi abro ledderina e leggo gose che rimesgolano sensibilidà di ghenioda. E bensare ghe si bodrebbe assaborare bage inderiore asgoldando l'emozione di guore ghe badde gome galobbo di imbala felige berghè ha abbena drombado imbalessa. Brobongo di sdemberare animi gon bevuda di gheniodi: ladde fermendado di fagogero mesgolado gon guano di drambolieri di balude e dadderi. Ber gemendare boi brogesso di bage gonsiglierei di broseguire gon riduale masai dendro gabanna gon movimendi ghe vengono ghiamadi gome 'ansimare di giraffa ghe fadiga in amore gon goggodrillo'(di gredo...). Beh, mio barere ho esbresso e sbero sia asgoldado. Semandiga Sdo gomingiando ad abbrezare sfumadure linguisdighe idaliane gergando di leggere moldo. Mi ha golbido moldo gongeddo di 'onomadobeiga', forse berghé anghe noi gheniodi ne faggiamo moldo uso in nosdro linguaggio: basda leggere nosdro boeda Balazzesghi nel brano "Rio Baobabo". Da noi in Ghenia, ber esembio, villaggio ghe brugia ber drobba siggidà lo ghiamiamo sfriggg, e masai sghiaggiado da elefande imbizzarrido lo ghiamiamo sfriddd. Bersona malada di grave infezione drobigale, senza sberanze, non la ghiamiamo: alziamo solo ogghi al cielo, linguaggio di gorbo. 419 Invege bambino grassoddello sberdudo in foresda e rinvenudo da gaggiadore ghe non mangia da dre giorni lo ghiamiamo mmmmmhhhhhhmmmmbono gon sguodimendo di gabo e rodolamendo di ogghi umidi di gommozione, esembio di linguaggio onomadobeigo e di gorbo. Guando gi si agguadda diedro gesbuglio ber brobri bisogni, invege, anghe gui gon linguaggio misdo, ghiamiamo l'oberazione col nome di uuuuummmmmmmffffffff e sdringiamo froge naso in buffa smorfia ber odore ghe sembra somigliare a budrefazione di resdo di gazzella dobo basdo di giaguaro di guindigi giorni brima. Semandiga swaili... Gongorso a gonservadorio Abbena dornado ber ferie (uffigialmende rimbadriado berghé sbrovvisdo di bermesso di soggiorno), mi sdo imbargando in dudda fredda su garredda di mare insieme ad aldri fradelli berghè mio amigo mi ha gomunigado ghe Rai di Dorino ha indeddo gongorso ber bosdo di suonadore di jembe, nosdro damburo ghenioda, nell’ambido dell’Orghesdra Sinfoniga della Rai. Buoi gabire se mi lascio sgabbare oggasione, io, bolisdrumendisda valende bardigolarmende bravo nel suonare jembe. Jembe si suona gon mani, ammesso ghe iene abbiano lasgiado sdare due falangi guando basgolavi gabre in savana, aldrimendi mano, sola, obbure si berguode gon femore di imbala, ber marge gravi e solenni, gon gubi rindogghi e aria seria di ghenioda addolorado, obbure si berguode gon due gosgioddi di gavalledda gigande essiggadi ber fare jazz afrigano gon molde rullade e swing ghenioda indervallado da esblosioni di gioia ghe gulminano in urleddi dribali dibo: “EEEHIAAAA”, “AAAHHHAALAAAYOUUUUU” eggedera, baddendo biedi nudi su derreno in feligidà animalesca, evidando berò sgorbioni e vibere gornude ghe non amano danda esuberanza. Bianghi indelledduali ghiamano giò musiga edniga, ber noi è musiga sgaggiadueballedinoia. 420 Ora mi imbargo gon guore gonfio di speranza… Mi sembra di sendire musiga di leggenda di bianisda dell’ogeano indiano, grosso suggesso ghenioda brimo in glassifiga in Madagasgar, ma bianoforde è sgordado, nel senso di dimendigado, a derra… Malingonia di emigrande gon emigrania e mal di mare… Gongorso non suberado Gongorso a gonservadorio, dando ber gambiare, è andado male. Eravamo ginguemila dra negri suonadori di jembe, negri findi suonadori di jembe, gualghe biango, rumeno o albanese, suonatore (gredo findo) di jembe, duddi senza permesso di soggiorno, e un brofessore di jembe (jembologo). Siamo sgabbadi a gambe levade, dibo inseguimendo in savana da barde di rinogeronde arazzado, ber due buoni modivi. Il brimo era commissario gon blodone gelere ghe chiedeva dogumendi e garigava furgoni di sbrovvisdi; il segondo era il gondraddo finalmende in ghiaro ghe la Rai soddoboneva a suonadori di jembe. Uniga rabbresendazione in un anno, gon unigo golbo di jembe dado gon femore di imbala in margia funebre nuova gombosda ber vegghia gesdione Rai ber un gombenso di due euri al neddo di dasse: roba ghe guadagno il dobbio a semaforo in boghe ore soddo Nadale o fesda di solidariedà a poveri gheniodi… Duddo da rifare dungue… Sdo bensando di drovare bresdanome ber abrire risdorande o bizzeria dibiga ghenioda, mio vegghio insobbrimibile ballino. Oldre ghe bresdanome, berò, mio sogio deve bresdare anghe moldi euri berghè ho sbeso duddo ber invesdimendi... di bandegane: basda gon le sgadoledde...invege ghe Simmen-dhalba semigiega, del vero gibo fresgo... 421 Adozioni e dentiere Sono biuddosdo ingavolado oggi berghè ho avudo la folgorazione sul signifigado dell’ indendere idaliano “adozione a disdanza”. Italiano vuole adoddare a disdanza, indeso gome disdanza… di sigurezza, berghè avede baura di adoddare bambino gannibale e demede ghe se dendede a lui mano o braggio gon affeddo ridornade a gasa monghi e sboggongelladi. In realdà italiano buò sdare dranguillo: bambini gheniodi perdono dendi da ladde a due anni e dendi da garne a guaddro anni ber garenze vidaminighe, sgorbudo e biorrea infandile. Meno male ghe in Ghenia esisdono omogenizzadi di fagogero e gazzella: sarebbe dura masdigare bragiole, anghe se i bambini bisognosissimi di affeddo si mangiano le unghie gon le gengive. Gi guadagnano dendisdi gheniodi ghe fanno brodesi a buon brezzo gon dendi di iguana. Sdavo bensando di imbordare bolveri ber bulizia dendiere di iguana…(solida fandasia di imbrendidore rambande)… Obbure Masdro Lindo ber dendiere…Esisde? Gome fissadivo ber dendiere gon dendi di iguana usiamo invege SuberAddagg o Saradoga, guello ber la doggia di guella gnoggona… Ho sendido barlare di giliegi in fiore ber la brimavera… Gui gi si berde ber baobab in fiore… Giri in bigigledda felige gome uggello del baradiso in baradiso senza avvoldoi affamadi e vedi solo fiori: in realdà gobrono drongo nodoso enorme di baobab. Guando arrivi a sendire aroma fiori è drobbo dardi: smarrisgi dua dendiera di iguana su grande drongo e vai avandi ber gualghe mese a semolini di miglio ghe freghi a belligani o dugani di foresda in beriferia di Nairobi: solida sfiga di giovane ghenioda fragile gome giovane zebroddo ghe deve ringorrere bisgione (anghe in Idalia zebroddi inseguono bisgione, mi bare, vero? O è gondrario?eheheh)… 422 Auguro nodde serena a idaliani: ghe abboggino dendiere dendro bigghiere su gomodino: domaddina gualguno, o meglio gualgosa sorriderà non abbena aberdo ogghi e duddi gomingeranno bene giornada… Gendro New Age La mia imbrendidorialidà sda avendo sboggo finalmende e un mirabile gendro newage sda ber sorgere ber benessere sdanghi e sdanghe di benisola. Vulganiga fandasia ghenioda mi bermedde di soddoborre a dua addenzione (noda:do del du fraderno), garo leddore o cara leddrige, novidà gheniode già abbligade a gendri benessere vigino Nairobi. Fanghi dinamigi: gon sabbie, mobili, biene di animaleddi dra gui sanguisughe ghe brogurano benefigo massaggio in immersione. E’ gonsigliabile salvagende funzionande dibo Didanig. Massaggio ghenioda Sghiandu: lo fa un mio gugino alla londana, Bongo Roggo Siffredo, ber lei, forse ber lui, boh, devo ghiedere a Roggo. Massaggio donifigande, defadigande, drombifigande. Grisdalloderabia ghenioda: si brendono duddi grisdallini di bigghiere avudi in gambio di gongessione mineraria di smeraldi e si massaggia desda di sdressado gon langi ribedudi di sbollimendo rabbia ber fregadura bresa gome benedrazione a dradimendo di gabo brango bufalo ingagghiado ber broblemi di famiglia. Dobo oggasionale male di desda iniziale si vedono gongiunzioni asdrali e bianedi e gi si rigongiunge gon divinidà animisda in abbraggio sbiriduale. Fienagioni: direddamende in mangiadoie ber fagogeri addomesdigadi, gon variande esglusiva di massaggio gengivale dei suddeddi fagogeri (gon loro gengive). 423 Riflessologia ber addivazioni girgoladorie: direddamende su dermidaio gosbarsi di miele. Garandido aumendo riflessi. Broborrei inoldre di ridurre a misura eurobeea idrogolonderabia: in Ghenia si bradiga gon brobosgide di giovane elefandino. Ber realdà idaliana broborrei giovane brobosgide di dabiro gon sedude di due volde al dì ber ulderiori due sedude in sdagno alligadori ber evacuazione e donifigazione musgoli ber evidare suddeddi, bermalosissimi… Duddo guesdo lo brevederei in realdà vigina a nadura., immersa in nadura, a sdreddo gondaddo gon nadura…bosdo gome Sarno (va bene anghe ber fanghi) o Golfiorido (moldo materiale ber grisdalloderabia) o delda Bo (buono ber sabbiadure). Ber massaggi ginesi mio amigo ghenioda ghe lavora a Roma mi suggerisge uno ghe fa massaggi ‘ggi dua o ‘ggi sua o ‘ggi vosdri, ma non ho gabido berghè rideva mendre lo digeva… New Age ghenioda Anghe io, a volde, medido e mi sendo ghenioda new age… Aggiradi gon girgosbezione e brudenza in savana solo gon duoi bensieri e evida erba alda ghe è rifugio di brango leoni affamadi e fai addenzione a sobraggiungere di mandria isderiga di gnu ghe gorrono sembre da gualghe barde e galbesdano duddo guello ghe drovano a loro bassaggio… Gura gon amore duo gorbo gome fosse sbirido, ma sdai moldo addendo guando fai bagno in balude infesdada da gaimani voragi : biuddosdo vai in giro zozzo e buzzone obbure munisgidi di lungo bambù ber denere londani osbidi di sdagno. Risbedda sembre duoi fradelli di savana avendo maggiore risbeddo ber guelli di dribù gannibale. 424 Sii sembre allegro nel duo lavoro a semaforo berghè di due emorroidi non frega una mazza ad audisda idaliano ghe gorre sembre ber bargheggio libero ingagghiado gome fagogero usdionado da riflessi di sole su lago Viddoria. Non fare diffigile in amore e gogli sembre brima mela, gome dige nodo boeda ghenioda Branduardi: giovane donna di dua dribù, giovane gazzella di basgolo, giovane gorilla di nebbia, se g’è nebbia, duddo fa brodo ber esuberanza di giovane ghenioda. Abbi vida morigerada in due abidudini: boghi semafori, boghe magghine da lavare, bogo basdo da gonsumare gon boghi euri, boghi aggendini vendudi e boghi galgi in gulo. Sobradduddo bogo liguore di goggo fermendado gon guano d’iguana e dadderi. Abbi serenidà berenne in duo sbirido, gonsiderado gome figlio di donnaggia di male affare di duo universo obbure orfano, e ridi sembre ghe bianchi sono dranguilli berghè di gredono sgemo… Brovogazioni Mendre asbeddo gualguno gon euri ber bizzeria, sembre mio sogno bringibale, rifleddo su brovogazioni e disgussioni di gomunidà di web dendro alguni forum lidigiosi sbesso bieni di indervendi violendi: drobbo bello sbeddagolo rileggere duddo di seguido dobo due ore!!! Anghe in Ghenia si fanno brovogazioni in forum o ghad ghenioda. In genere barde uno gon moldo sbirido o voglia di lidigare e medde sgorbiongino soddo sedile di aldro (noi abbiamo gome BG - bersonal gombuder - dei bei balloddolieri e siamo duddi soddo sdessa gabanna, digidiamo su balloddoliere e barliamo dra noi: progresso ghenioda). Aldro allora dige gon messaggio su balloddoliere: “Se sgobro ghi mi ha messo sgorbiongino soddo gulo, io sodomizzo gon brodesi gornea di orige” (grande gazzella gon gorna svilubbadissime), e gomingia magumba sgozzando gallo. 425 Schizzi di gallo imbraddano derzo ghadder ghe si offende e gomingia a menare alla giega gon affilado maghede rombendo balloddolieri e balle a duddi. Dobo bogo dembo duddi si sghierano gondro duddi e vengono indrododdi in gabanna anghe demibili mamba neri e ragni belosi in gresgendo di urla, insuldi, invogazioni a divinidà di BG e berdide di gonnellini di foglie di banano, e dalvolda anche di banano berghé maghede ghenioda è moldo affilado. Il solido anonimo, dibindo duddo di biango ber non farsi rigonosgere, insulda brava massaia masai ghe alladda bambino e gabra, brebara fogagge di mais e digida su balloddoliere duddo allo sdesso dembo: “Essere inferiore a goggodrillo baralidigo!!!” Lei rebliga: “Vaffagogero!!!” E gosì via… Finisge dobo bogo la seduda di ghiagghierade e si dorna boi duddi amigi gome brima, ma di meno, berghè gualguno lascia sembre forum o ghad offeso, o, forse, berghè non ha biù braggini ber sgrivere su balloddoliere BG, obbure berghè è in osbedale a Nairobi per sindomi di avvelenamendo da sgorbiongino, obbure è sdado rapido da guaddro iguana affamadi e da sei vampiri giganti berghè magumba, da noi, funziona… Ghad dipendenza Non mi sendo bardigolarmende ossessionado dalla ghad, forse berghè devo breoggubarmi di biù a vendere aggendini a semaforo ber racimolare gena. Guando sono in Ghenia fa berò biagere fare due ghiagghiere sul biù e sul meno, sulla gaggia al fagogero di mondagna o sulla gorde ghe si buò fare a graziosa moredda di villaggio masai sberdudo a bendigi di Ruwenzori. E’ evidende ghe la misura e l’eguilibrio devono avere sembre sobravvendo: non possibile sdare duddo giorno in ghad senza breoggubarsi di drivellare nuovo bozzo, di brendere nuovo vaggino ber febbri drobigali, di sdanare biggolo iguana ber gena, di indonagare con guano di iguana dugul gon mansarda e addigo. 426 Gui, guando mi riboso dobo avere lavado vedri, se uno gabisge limide di brobrio equilibrio allora si diverde, sembre ghe commissario non ghieda dogumendi e du li hai sgadudi: allora gagghi amari… o hai bordadile e ghaddi da dragheddo ghe di riborda in Ghenia, o hai finido fino a brossimo riendro… Digono ghe fasgino uomo nero in ghad sia visdoso: in realtà vivo gome orfanello a barde gualghe amiga ghe manda solo bagini bogo gombromeddendi e bure senza lingua… Ghe dipendenza bosso mai avere in guesde gondizioni? Scimmiendhal Anghe da noi g'è grazioso sbod bubbligidario di garne in sgadola: la Scimmienthal, danda buona garne di magago in danda buona geladina di iguana, dibigo biaddo esdivo ghe si aggombagna gon insalada di semolino fredda. Sarebbe garino Sarebbe garino, al di là dell'esdediga gromadiga e musigale di sembligi rigorrendi manifesdazioni bobolari senza seguidi governadivi, ghe il mondo oggidendale si rigordasse anghe di mia gugina ghe ha l'AIDS, di mio nonno ghe ha l'ebola, di mia sorella ghe ha la dubergolosi e di un mio vegghio gombagno di sguola (brimo ramo) ghe ha la febbre del Nilo. Sarebbe anghe un bel fremido se il mondo oggidendale riusgisse a boigoddare le muldinazionali dei diamandi, se riusgisse a denere a freno bodendi suoi rabbresendandi amandi di gaggia grossa di frodo, se riusgisse a disgiblinare il benessere in broborzioni ghe si disgosdino da guelle adduali di gaimano risbeddo a biggolo iguana ghe broduge solo guano. Sarebbe anghe moldo garino smeddere di fare sberimendazioni di nuovi ferdilizzandi in agrigoldura afrigana (ho diversi barendi gon agulei diedro la sghiena e mia zia ha dre sise e guaddro ghiabbe). 427 Sarebbe esdremamende garino bromuovere rigerga di aggua gon sgavi e drivellazioni (sono gingue anni ghe non riesgo a farmi lo shamboo e boi digono ghe aggongiadura rasda e afro sono affasginandi...in realdà sono nidi di bibisdrelli). Gomungue, senza rangore, garo anonimo/a manifesdande, faggio volendieri gambio di mio ramo di baobab o gabanna di fango gon duo gamera dinello e servizi (anghe e sobradduddo guelli sanidari e sogiali). Mio gugino e mio zio Mi hanno brobosdo brogeddo di imbrendidorialidà nel gambo dei bisgoddi a gioggolado a forma di sisedda di donna masai, ma io non abboggo a risghio di sgondrarmi gon agguerrida gongorrenza… Già esisdono dolgeddi gon sisedde di donna: sono bisgoddi ghe vendono dalle bardi di Frasgadi, vigino Roma, e sono bisgoddi duri a forma di donna gon dre sise, come Milano (Milano dre)… Bodrei essere aggusado di blagio e bodrei avere revogado il bermesso di soggiorno ghe è già guasi agonizzande… Ho idea ghe guesda brobosda barde da malevolo amigo di onorevole Borghezio. Eggo allora induizione, sgaddande gome musdelide, di ghenioda rambande: faggiamo bisgoddo gon gulone anzighè sisedde, e io bresendo modelle, mie gugine di villaggio Masai, Abuanua e Gadia (guesd’uldima ha nome eurobeo ber emangibazione di mia zia Badanga). Mie gugine hanno dibigo gulone ghenioda ghe funge anghe da davolino ber saloddo, dove buoi abboggiare bordagenere a forma di biggolo villaggio durisdigo di Malindi, guaddro bigghieri e una boddiglia di liguore di ladde di cammello fermendado gon guano d’iguana e dadderi. Unigo problema bodrebbe essere l'edà mie gugine, una di dodigi e una di guaddordigi anni, ma, si sa, gui da noi donne svilubbano moldo bresdo… 428 Ne sanno gualgosa vegghi borgoni ghe freguendano zone semibuie vigino gimidero gon drenda euro in bogga ber fare drombo-drombo in magghina o diedro siebe, alla ghenioda, nella bosizione della “sveldina di savana” ber sobraggiungere di mandria bufali, inferogida gome gazzella di bolizia …o gondrario… Obbordunida’ Ho seguido disgorsi su bubbigidà e , da bravo giovane ghenioda rambande, ho snuffado la bossibilidà di guadagnare gualghe euro. Vengono offerde, infaddi, molde bossibilidà di lavoro a egsdragomunidari di golore in gambo bubbligidario… Bodrei fare goldivadore di gaffè gon grande gabbello di baglia gon dudda la forfora ghe mi gade addosso e boi va a finire nel gaffè…(Gaffè Segafredo) Bodrei fare gardone animado di mendine, gon guandi bianchi alla Al Jonsdon…(Mendine Dabù) Bodrei fare giogadore di basghed e, modesdamende, gome faggio girare balle io…(Nighe) Bodrei brendere bosdo addiriddura di maggiordomo gon ladde della Lola: lui è solo biango e io, invece, gon frag biango e gombordamendo deferende, darei una noda di esodiga eleganza gon biggolo bambino idioda ghe fa indendidore di ladde insieme a mamma gidrulla…e boi, deddo dra noi, mi biagerebbe gonosgere bibligamende guesda Lola…mi sa ghe è uno sghiando…. Se gualguno vuole suggerirmi bravo degnigo bubbligidario per mia sfolgorande fudura garriera… Brimavera La brimavera s'avvigina e i frungoli gomingiano a fiorire su guangiodde flaggide di ragionieri e geomedri ghe esgono da ledargo... La giraffa addorgiglia gollo a bidone (bidone serbende, non bidone gassoneddo) berghè è miobe, la zebra fa amore 429 gon gnu lidigando ber ghi deve fare masghio e rinogeronde fa amore gon land rover di guardia di bargo. Iena fa da sè e ride anghe...sda sdubida. Io invege gorrerei felige verso gollina a ballare danza brimaverile gon gorilla nella nebbia, ma in realdà andrei ber fregare banane a gorilla nella nebbia berghè ho danda fame. Allora mi arrangerò gui gon arangino o bezzo di bizza guadagnado gon duro lavoro di oddo ore a bulire vedri magghine a semaforo, duddi sborghi di bava di rinogeronde.... Basgua Bassada basgua anghe gui in Ghenia dove, in addesa di nuovo bermesso falso di soggiorno, ho indrabreso nuove iniziadive in mia badria, da bravo giovane rambande jubbie. Durande periodo basguale mi sono indusdriado a gommergiare anghe io uova gome da dradizione. Gioggolado berò drobbo garo da guesde bardi, e allora ho faddo gommergio di uova basguali di belligano, gon la sorpresa berò, ghe gredi… Il gasino è sdado infilare sorpresa in uovo: meddevo dendro belligano orologi da bolso ghe vendo normalmende a semaforo e ghiudevo enorme beggo gon denaglia. Il problema è di assigurarsi ghe orologio esga gon uovo e non senza… Infaddi miei orologi sono duddi impermeabili e li ho dovudi lavare molde volde ber usgida difeddosa…mamma mia gome sborga belligano!!! Boghi affari gomungue: gui in Ghenia si è moldo arredradi e gerde innovazioni sono dure da aggeddare. Gui va di moda biggolo abede di Ruwenzori gon neve finda fadda gon forfora di gabodribù e gon balle di iguana addaggade. Infaddi ho gambiado subido lavoro: drobba fadiga e bogo risuldado. 430 Barista Ho dovudo drasferirmi di gorsa da Ghenia a Maroggo ber gualghe dembo: venivo ringorso da belligani inferogidi gon banza biena di orologi da bolso ber mie uova basguali ghe digevo ieri. In Maroggo non mi sono berso d’animo e ho aberdo bar. Anghe gui ho faddo sfoggio di broverbiale fandasia di giovane ghenioda rambande. Ho invendado, su falsariga del gaffè marogghino ghe bevede in Idalia, il gaffè norvegese. Faggio gaffè, aggiungo panna di ladde, una sbolverizzada di gagao e moldi biggoli drugioli di legno di abedaia di Norvegia. Non biage moldo e mi sa ghe devo ghiudere bar e gambiare di nuovo addividà. 431 MENU VEGETARIANO Il possente incrociatore sconosciuto di circa duecento chilometri di lunghezza stazionava sopra il Mare della Tranquillità della Luna in attesa di una risposta da parte della Terra alla richiesta di un contatto tra popoli che ancora non si conoscevano. L’imperatore Honofrius, dalla sua residenza di Ulàn Bàtor in Mongolia, entusiasta come un ragazzo, aveva convocato l’astropsichiatra Grimp con il grande Olaf, il più titolato chef della Terra ed ora ascoltava interessato la relazione molto articolata di Grimp. “…Eccellenza, è un popolo sconosciuto, il protocollo di accoglienza dovrebbe essere molto semplice, con uno sforzo collaborativo…diciamo alcuni terrestri cavie per i loro studi da imbarcare sul loro incrociatore…una tecnovisita guidata di qualche giorno sul nostro pianeta, escluse beninteso le zone strategiche….discorsi brevi …un pranzo di accoglienza semplice e vegetariano per non urtare alcuna suscettibilità, un menu denotante pacifismo, estetica, operosità, assenza di violenza…” Interruppe l’analisi il grande Olaf: “Avrei elaborato , con il suo permesso, Eccellenza, un menu per l’occasione…” Honofrius si volse interessato verso di lui. “Comincerei con un morbido Flan di carciofi di Oft in fonduta di soja, una tenera Quiche di Spinaci di Plutone spolverizzata di zenzero delle tre Lune. Continuerei con dei tagliolini impastati con timo ed erba cipollina di Hord conditi con un delicato sugo bianco di Aspargi di Fhock e un risotto con radicchio dei Soli verdi…Per finire proporrei un dessert di frutta mista dell’ottava galassia innaffiata dal prezioso vino di Gnur.” Honofrius e Grimp avevano gli occhi luccicanti di desiderio… L’imperatore riflettè pochi secondi, poi diramò l’ordine di organizzare la cerimonia di accoglienza e comandò che venisse trasmesso il protocollo, per una cortese approvazione, all’incrociatore. 432 Cominciò così la guerra che dura da quattro anni. L’ambasciatore dell’incrociatore era, si rivelò poi, un Aspargo del pianeta Jaw e gli Aspargi di Fhock erano suoi simili che avevano colonizzato quel pianetino per alleggerire l’incremento demografico di Jaw. Sono quattro anni che veniamo bombardati da polline radioattivo che ci fa cadere come mosche dopo devastanti enfisemi e sarcomi ai polmoni: io stesso sono quasi alla fine, ma non posso trattenermi dal ridere ancora oggi al ricordare che l’Imperatore Honofrius, con un macabro senso di umorismo vegetariano, fece giustiziare pubblicamente Grimp e il grande Olaf mediante penetrazione opercolare con ananassi di Xandar, più lunghi e sottili dei nostrani, ma provvisti di spunzoni urticanti di silicio molto taglienti ed affilati. 433 TUTTO LO SBRANG MINUTO PER MINUTO SE LA TUA SQUADRA DEL CUORE HA VINTO, GRATIFICATI CON UNO SQUISITO BON BON AL CLHOROCIOCK DI MASTROLINDT, IL VERO CIOCCOLATINO FONDENTE DELLE FONDERIE DI VANADIO DEL SISTEMA DI CASSIOPEA. Gentili spaziospettatori di “Tutto lo sbrang minuto per minuto” buon collegamento spaziotemporale. Il vostro alchoolandroide K-PizzUL14 vi ringrazia per la sintonizzazione telepatica sull’evento sportivo dell’anno luce: la finale di sbrang della Coppa Galattica Occidentale tra le due formazioni di astronavi più accreditate al momento, cioè i gialloblù di Vega contro i bianchi della Via Lattea. Vi ricordo che l’incontro, secondo le nuove regole della Federazione Interstellare Gioco Sbrang, perfezionate sulla falsariga sorprendentemente profetica di un antichissimo rozzo gioco terrestre denominato calcio, va avanti fino alla totale eliminazione degli avversari che devono essere spinti a cannonate laser, cozzi e qualsivoglia sporca tattica, verso le due porte ai bordi dell’immenso quadrato stellare, come da antichi resoconti di memorabili archeologici derby tra Avellino e Napoli, Roma e Lazio, Brescia e Atalanta, preistoriche squadre del periodo terrestre maricolocostanziano. Le due porte, provviste di sensori corrosivi all’acido lippico, secondo le più avanzate novità tecnologiche di Arturo, sono due buchi neri di ampiezza regolamentare che dissolveranno i malcapitati liofilizzandoli per il prossimo sbrang mercato di quarta serie della dimensione successiva. Le riprese olotridimensionali sono della squadra Vhitherb4, capitanata dal regista NazBalan di RAIMED-804, del magnate SylBerl del pianeta Knorr… Ma prima della nuclearizzazione d’inizio, un breve spot pubblicitario…. 434 DONNA, DI QUALUNQUE PIANETA TU SIA, NON PERMETTERE CHE IL TUO LUI FRUGHI CON LE ANTENNE O I TENTACOLI NELLA TUA BORSA SEGRETA DI PERSONALPIACERE. DOTATI DI TAGLIOL, L’UNICA TAGLIOLA VIVA PROVVISTA DI DENTI E LAME ROTANTI CHE PUO’ DIFENDERE LA TUA PRIVACY SELETTIVAMENTE. DA OGGI CON PASSWORD PERSONALIZZABILE. E rieccoci in trasmissione telepatica, amici spaziotelespettatori, per le fasi salienti di questa appassionante finalissima. Si vocifera di stratosferici premi partita in caso di vittoria, da parte degli sponsors delle due squadre: la Sfrixx, olii per macchinari, fritture e penetrazioni, che sponsorizza Vega, e la Granarholl, produttrice del latte di berlutz monomammelluto digeribile ed enzimizzato, che sponsorizza i bianchi della Via Lattea. Si ha anche notizia, però, di qualche velata minaccia di vaporizzazione presso le colonie ferrose di Zagyts, in caso di sconfitta, neanche si fosse nell’antichissima selvaggia Colombia del pianeta Terra del 2005 o in situazioni passate di sbrangscommesse gestite dalla mafia di Aldebaran. Bene: partiti. Lo spazio di gioco è in condizioni ottimali senza alcun passaggio di meteoriti e le condizioni climatiche sono eccellenti con una temperatura variabile tra i duecento gradi sotto zero e i settemiladuecento di bollore doppio brodo. Arbitra il calvandroide CyberColl coadiuvato da due marsupiali a pedali della costellazione del Cigno come guardaorizzonti e dal quarto polipone di Alpha Centauri sig. P alla Paresta. Eccoci nel vivo dell’azione: partita tonica e idrogenata. Vediamo l’incrociatore di Vega, sbrang d’oro del parsec 21415, supportato da due dragamine subatomici, che sta tallonando una corazzata bianca della Via Lattea che è in evidente difficoltà, probabilmente per una turbina 435 menischica non a punto, come ci suggerisce il nostro consulente ortopedemeccanico. La stanno spingendo verso il buco nero con blandizie varie e promesse di riparazioni, ma ecco che improvvisamente il dragamine più vicino spara due rampini che si conficcano negli occhi del pilota della corazzata avversaria. L’arbitro, il calvandroide CyberColl, il più qualificato nelle ultime graduatorie di merito, dopo avere effettuato un ‘replay’ delle sue settantacinque moviole olografiche tridimensionali dalla sua postazione giroscopica, lascia correre tra i fischi telepatici, non di meno assordanti, del pubblico assiepato sugli asteroidi circostanti gremiti in ogni ordine di posti. Prevedo un dibattito infuocato, con lanciafiamme al butano toluetico di ultima generazione, nelle interviste post partita. Il vascello è senza guida e viene praticamente spinto dentro il buco nero…Ecco…Ecco…GOGOGOOAAAAAAALLLL! La corazzata bianca sta scomparendo disintegrata dagli acidi lippici dei sensori e dall’antimateria. Ricomparirà nella dimensione contigua, svalutata di parecchi dob, con un equipaggio da ricostruire psicologicamente…e non solo… Rivediamo l’azione al ralenty con commento dell’esperto di Zululandroid, il grande ospite, con noi, Bisck-tènghiu (scorreranno anche sottotitoli alfanumerici e geroglifici startrekkiani di traduzione simultanea). Altro consiglio della regia di pochi cybernanosecondi… PER L’ARTURIANO CHE NON DEVE CHIEDERE MAI REGALATE IL NUOVO INCENERITORE STORACH A SCOMPOSIZIONE FOTONICA… NON TRADISCE MAI E TUTTO RIDUCE IN CENERE Continuiamo la Spaziocron… 436 INTERROMPIAMO LE TRASMISSIONI PER UNA EDIZIONE STRAORDINARIA CON UNA NOTIZIA CHE CI PERVIENE ORA IN REDAZIONE DALL’AGENZIA ANSIA: SCOMPARSO IN AUTODISTRUZIONE TOTALE L’INTERO SISTEMA SOLARE DI KOPERNIC. UNA ESPLOSIONE NUCLEARE INIZIALE E’ STATA AVVERTITA IN UNA LOCALITA’ SPERDUTA DI NOME IRAQ SUL PIANETA TERRA… L’EPISODIO HA GENERATO ALCUNE REAZIONI DI RISPOSTA E NUOVE ESPLOSIONI NUCLEARI SI SONO AVVERTITE IN LOCALITA’ A NOME AFGHANISTAN DELLO STESSO PIANETA. QUESTI ULTIMI EVENTI, COME SI LEGGE DAL COMUNICATO, HANNO PROVOCATO UNA REAZIONE A CATENA, CON INTERAZIONE CHIMICA INCONTROLLATA DI ENZIMI DI PERMALOSINTEX LIBERATISI NELL’ATMOSFERA DEL SISTEMA SOLARE DA NON MEGLIO IDENTIFICATI LABORATORI CHIMICI SEGRETI, ED HA FATTO PROGRESSIVAMENTE ESTINGUERE UNO AD UNO TUTTI I PIANETI DEL SISTEMA SOLARE CON ESPLOSIONI FOTONICHE DEVASTANTI E TOTALI… IL GOVERNATORE DELLA GALASSIA CENTRALE HA ESPRESSO IL SUO DOLORE CON UN EONE DI SILENZIO PER L’ACCADUTO MANIFESTANDO L’INTENZIONE DI PROMUOVERE UNA SOTTOSCRIZIONE INTERPLANETARIA PER LA RICOSTRUZIONE ARTIFICIALE DELL’INTERO SISTEMA SOLARE, ANCHE SE IN SCALA RIDOTTA GULLIVERIANA PER NON CORRERE DI NUOVO INUTILI RISCHI. IL PONTEFICE, PAPA ASIMOV IV, PER FORTUNA IN VIAGGIO DI PELLEGRINAGGIO SU ORIONE, HA IMPARTITO UNA BENEDIZIONE INTERSTELLARE PER I DUECENTOTTANTA MILIARDI DI VITTIME E SI E’ FATTO PARTECIPE DEL DOLORE DELLE GALASSIE CIRCOSTANTI, PERALTRO USTIONATE DALLE RADIAZIONI DELL’ESTINTO KOPERNIC. HA POI INVITATO TUTTI I POSTCRISTIANI DI RIENTRO PARAEVANGELICO ALLA PREGHIERA E ALLA PENITENZA. 437 TRA QUALCHE PARSEC SINCRONIZZATO SEGUIRA’, IN COLLEGAMENTO TELEPATICO A GALASSIE UNIFICATE, UN APPROFONDIMENTO DELLA DRAMMATICA NOTIZIA, NELLA TRASMISSIONE “STARGATE TO STARGATE” DI ANDROIDE VESP-8000, CON QUALIFICATI OSPITI PER UN DIBATTITO DAL TITOLO “VAGHE STELLE DELL’ORSA”… 438 URSUS E URSULA Un distratto magazziniere soprapensiero accatastò, insieme e alla rinfusa, le pizze di due pellicole pronte per la distribuzione: “Ursus nelle catacombe dei cristiani” e “Ursula vergine da un orecchio”. Fu tratto in inganno, probabilmente, dall’uniformità anonima della scritta a pennarello nero sulle pizze, URS, e da una certa assonanza delle due case produttrici, la San Paolo per Ursus e la San Pauli per Ursula. Si perseverò nell’errore per l’inesperienza di due superficiali macchinisti, quello della sala luci rosse vicino alla stazione, e quello della sala parrocchiale. Costoro incollarono pizze miste per il loro proiettore senza accorgersi delle differenze di contenuti. Nel cinema a luci rosse, un fumoso bordello per soli uomini, dodici o tredici spettatori con un impermeabile sulle ginocchia, anche se era agosto, dopo venti minuti di promettente proiezione con una generosa Ursula molto disponibile, cessarono di massaggiarsi lo scroto o di agitarsi il pirillo, sorpresi da un enorme marcantonio che si aggirava in bui cunicoli con una torcia, tra teschi e vecchi macilenti. Uno degli spettatori, unica eccezione, continuò nella sua pratica vellicante sperando in una qualche sorpresa erotico-necrofila… Nella sala parrocchiale, invece, tra suorine giovani e gentili, una turba di ragazzini chiassosi faceva il tifo per Ursus fischiando all’indirizzo del cattivo centurione in uno sbattere di sedili di legno e di scoppi di gomme da masticare in bolle appiccicose. La proiezione, più tardi diversa, proseguì, ma per poco, in via eccezionale, sul culone nero della madre superiora che s’interpose isterica tra i ragazzi e lo schermo mentre scorrevano sequenze assolutamente sorprendenti. I piccoli risero eccitatissimi commentando la vista di certi “pistolini”, eufemismo infantile, che in realtà apparivano, in primo piano, come gigantesche murene. 439 Quattro ragazzine furono traumatizzate e germinò in loro, da allora, un primo confuso convincimento di scelta lesbica nella vita, soprattutto la biondina slavata con le treccioline da Pippi Calzelunghe, che se le tirò con forza e con gli occhi sbarrati, perduta dietro insospettate evoluzioni accompagnate da urla e singhiozzi animaleschi. Quel giorno le proiezioni furono sospese. Il necrofilo ottimista ci rimase peggio di tutti. Un magazziniere e due macchinisti di proiezione sono tuttora disoccupati con pessime referenze. Ancora ride il commissario che accolse i due esposti… 440 TI SPIEGO DI UNA TETTA INTERMITTENTE Nel duemilasessantaquattro qualche diabolico ed avido spirito commissionò una ricerca bizzarra nel campo della genetica. Tra la gente comune non trapelò nulla, ma qualche addetto ai lavori assistette alla nascita di un nuovo fermento d’idee atte a sovvertire il sistema con nuove conoscenze e applicazioni pratiche. Circa dieci anni dopo, con un bagaglio enorme di sacrifici, tentativi, sperimentazioni su cavie ed umani e spirito di abnegazione di molti ricercatori, si ebbe il primo timido risultato. Il piccolo Jonas nacque nella confortevole e carissima clinica privata di Filadelfia “SempresialodatoHenryFord” e fu il primo parto della nuova scienza. Pesava tre chilogrammi e duecento ed era vispo e rubizzo. Aveva una bella scritta vivace sul pancino deturpato dall’orrendo mozzicone di cordone ombelicale: “Fatti una bella bevuta di X”. I suoi genitori, ingordi di notorietà e bisognosi di sostegno economico per diversi mutui, avevano avuto l’assicurazione che, dopo due o tre mesi al massimo, con opportuni lavaggi a base di sapone neutro, la scritta pubblicitaria sarebbe scomparsa, ma non senza un deflagrante impatto su parenti e vecchie zitellone che notoriamente baciano il pancino dei bimbi appena nati facendo curiosi versi da tacchino in amore. Così fu. I genitori di Jonas ritornarono nell’anonimato, dopo avere sfruttato il famoso quarto d’ora di celebrità di Wharol, carichi di dollari e con una storia da raccontare ai vicini di una nuova villetta nell’assolata e anestetica Miami. L’eccezionalità della prima sperimentazione pratica divenne poi il quotidiano abitudinario con l’ingresso a divorare la grande torta del mercato, prepotente eppure suadente di fruscianti bigliettoni, da parte di tutte le altre multinazionali. 441 Bimbi e bimbe esposti ad un più alto rischio di mortalità per congestione o polmonite da freddo, ma coperti di congrua assicurazione, giravano col pancino scoperto anche a dicembre. I soliti ricercatori rampanti, nel frattempo, avevano definito diverse varianti nella presentazione coreografica del messaggio: fosforescenza, intermittenza sottocutanea come una luce al neon, scorrevolezza del testo come ad un teatro di Broadway, effetto metallizzato, solarizzato, effetto…e… Turbe di genitori raggianti, su l’ultimo modello di familiare a quattro ruote motrici, sgomitavano per nuovi ‘talkshow’. Le ciambelle, tuttavia, si sa che non riescono sempre col buco… I coniugi Wimple, per esempio, dopo l’ennesimo lavaggio del pancino del loro bimbo Barth, si cominciarono a preoccupare e contattarono un avvocato: il piccolo aveva ormai quattro anni e mezzo e la pubblicità di una popolare marca di profilattico cominciava ad essere imbarazzante, anche per l’imminente ingresso del bimbo all’asilo. Qualche ricercatore fornì ai committenti, agitati da possibili risarcimenti stratosferici, una teoria poco rassicurante: gli anticorpi si erano adattati ed avevano riconosciuto, alla fine, come patrimonio naturale genetico, la scritta pubblicitaria ottenuta con la manipolazione dei famosi bastoncini genetici in laboratorio, e difendevano il vistoso messaggio pubblicitario, riconosciuto appunto come patrimonio genetico, dagli aggressivi lavaggi esterni. Si susseguirono alcuni mesi di panico e si moltiplicarono accordi sotterranei tra multinazionali e genitori avidi ed opportunisti silenziosamente minacciosi. Poi, un bel giorno, il solito rappresentante dell’ingegno umano ricco di fantasia e di iniziativa fece qualche esperimento nel suo laboratorio e trovò la quadratura del cerchio: uno spostamento di mira dalla genetica al semplice universo della sanità. E’ dal duemilasettantasei che la pubblicità è entrata prepotentemente nel campo della sanità con 442 l’organizzazione e l’efficienza tipica del nuovo capitalismo planetario permanente. I genitori dei bimbi danneggiati dalle dermolocandine permanenti furono liquidati con pochi piatti di lenticchie come il giusto risarcimento per un semplice incidente di percorso che fu camuffato, in seguito, come un qualche tatuaggio eseguito da un cinese depresso e ubriaco. I committenti dei nuovi inserti pubblicitari pianificarono la loro definitiva campagna promozionale. Si riuscì a sponsorizzare protesi ortopediche, calotte craniche, occhi di vetro, arti artificiali, siliconi e ogni altro di paraumano e sintetico in una canalizzazione ordinata verso una foresta inimmaginabile di postille contrattuali, assicurazioni, prevenzioni e risarcimenti con tabelle e tariffari precisi e legiferati. Oggi, dopo un primo stato di perplessità scandalizzata da benpensanti di fronte alla novità, nessuno più trasecola se in un bar un occhio di una persona qualsiasi, quello di vetro, si illumina come un semaforo in un “beep” gracchiante robotico che invita a bere una aranciata. Nessun passante si meraviglia più di vedere una calotta cranica in argento, non più coperta da un pudico parrucchino, per contratto, che abbarbaglia con riflessi di luce e una scritta scorrevole in carattere “verdana bold” per pubblicizzare la marca di una cera per mobili e argenteria. Nessun amante sobbalza più nel palpare una prorompente soda tetta parlante con voce di tonalità rocouterino-sintetico-lussuriosa, luminescente ad intermittenza come una palla natalizia, che presenta la propria qualità di maneggevolezza e morbidezza elastica come se fosse stata riempita di dieci piani di carta igienica. Valvole mitraliche e ‘pacemakers’ cantano canzoncine mielose e ilari sullo stile del giurassico Trio Lescano, colle rime “cuore-amore” e col nome della ditta produttrice, e gambe di legno o braccia di resina chiedono in giro, con voce metallica entusiasta proveniente da qualche piccolo marchingegno miniaturizzato, se hai mai provato il meraviglioso aroma del caffè sintetico Ics o la splendida zuppa di cereali liofilizzati transgenici della ditta Ipsilon. 443 Il problema, da etico che era all’inizio, si è ormai risolto, con il contemporaneo superamento di qualche difficoltà economica da parte dei manifesti viventi, e si sta ora spostando sul piano più squisitamente estetico e di sociocomunicazione per un fine ultimo e solo di successo di vendite e aumento di consumi. Il problema, ormai, appartiene ai tecnici, ai maestri di pensiero pubblicitario. Ci sarà da lavorare ancora molto e sodo per questa nuova filosofia della pubblicità e molti aggiustamenti dovranno essere praticati in corsa per inesperienze nella conoscenza del nuovo terreno di battaglia. E’ evidente, infatti, che l’effetto commerciale di un messaggio deve avere anche un suo punto di penetrazione nell’immaginario dell’osservatore, ma è altrettanto ovvio che il pubblicizzare mazze da baseball o trapani a punta rinforzata o rossetti o carte bancomat da inserire nell’apposita fessura, con una locandina rumorosa o a colori vivaci o fosforescente, però su un gluteo, può fare ottenere risultati commerciali dubbi, se non addirittura recessivi… 444 NOTARELLE DI COSTUME – IL CITTADINO CHE PROTESTA Inquadrare in una notarella di costume o in una similseria analisi sociologica la categoria del “cittadino che protesta” è impresa ardua per la miriade di sfaccettature che possono notarsi nell’insieme degli atteggiamenti che costituiscono la figura del protestante. Cominciamo con il dividere, per comodità analitica, la grande famiglia in due grandi sommari tronconi: A) - “cittadino che protesta” di conseguenza, di rimbalzo, come reazione ragionevole ad un torto subito da un interlocutore vivo e vegeto in carne ed ossa nell’ambito di una situazione concreta. E’ il protestante banale, normalmente e umanamente reattivo, spesso civilissimo e tedioso, talvolta fregato alla grande, che trova ospitalità in “Mi manda Raitre”, caparbio nel fare valere le sue buone ragioni con tattiche che si perdono tra i meandri di corridoi di palazzi di giustizia, scartoffie, farraginose lungaggini burocratiche, esposti, denunce, enti nazionali di protezione del consumatore o degli uccelli o degli animali in genere, telefoni verdi, rosa, gialli, blu, arcobaleno, scioperi della fame, sit in, manifestazioni varie compresi i girotondi e, solamente in rarissimi casi e a livello pressocchè interamente individuale, colpi di pistola o di accetta, o ancora più raramente, suicidio a mezzo falò tipo vecchio bonzo di Saigon o con volo a planare dal Colosseo. E’ un gruppo che è visto con molto interesse da avvocati e commercialisti che possono spremere ingenti risorse energetiche espresse in euro per piccole o addirittura insignificanti questioni di principio che, come tutti ben sanno, sono quelle che portano alla vera rovina, non soltanto economica. Questo gruppo, a mio parere, è scarsamente interessante, nell’ambito della nota di costume riguardante l’aspetto ‘naif’ della protesta, e lo salterò tranquillamente anche se con qualche piccolo rimpianto nel 445 mancato approfondimento di quelle rare estreme reazioni cruente da cronaca nera di “Studio Aperto” o risibili tra uno zapping su “C’è posta per te”, “Forum” e “la citata “Mi manda Raitre” B) - “cittadino che protesta” per missione sociale, pittoresco ed assai più interessante, convinto della teoria del miglioramento della società nella protesta per il fine della pura e sola protesta, bartaliano o sansonico nei significati più assolutistici, fazioso, senza paure o tentennamenti di fronte a possibili consequenziali bagni di sangue o, quanto meno, reazioni eufemisticamente scomposte. Questo cittadino che protesta per una missione e per una vocazione, questo martire dell’idea condominiale o dello sfascio politico nazionale o della crisi economica globale, si divide, a sua volta in diversi sottogruppi che possono denominarsi nei modi seguenti: 1 - protestante che paga le tasse. 2 - protestante secondo il quale l’intero universo sta congiurando su di lui. 3 - protestante galvanico, di puro e semplice riflesso incondizionato. Tutti e tre i sottogruppi hanno una caratteristica comune: quella di incarnare, nel soggetto estrinsecante le proteste, una prerogativa di assoluto tuttologo informato su quasi tutto lo scibile umano con una immediata dialettica a base di intercalare del tipo: “Sa cosa le dico?” “Di questo passo…”, “Non se ne può proprio più!”, “Dipendesse da me…”, “Non esistono più le mezze stagioni”, “Ma senti cosa mi tocca ascoltare…”, “Mi faccia il piacere…” e l’ipocrita interiezione “Esclusi i presenti.” ed altre varie ed eventuali tra cui, ora che mi ricordo, la minacciosa “Se comandassi io…”, che evoca sanguinosi ‘pogrom’ e pene corporali. Integra inoltre il tutto con l’accenno quasi sempre puntuale ad un facoltoso cugino o importante conoscente di un amico che sa, dell’argomento trattato, sempre di più di tutti (cugino dell’autista di Agnelli, nipote della colf filippina 446 di Pierferdinando Casini, ex commilitone nel reparto assaltatori dell’idraulico di Valeria Marini, etc., etc.). Tanto maggiore è l’ignoranza e la superficialità epidermica nell’affrontare un qualsiasi tipo di argomento e tanto maggiore è la sicumera con cui si snocciolano pareri e opinioni immodeste, prive di approfondimento professionale pestando, spesso e soprattutto, code a congiuntivi e condizionali. Capita, così, di ascoltare il pontificare di protesta senza appello o attenuanti generiche di gente che pensa che aramaico sia un clown della vecchia TV dei ragazzi, Scaramacai, e sanscrito un santo da festeggiare al primo novembre insieme a sanculotto e Santippe. Nulla da eccepire sull’ignoranza: è un difetto sopportabilissimo come tanti altri e nessuno ne è completamente esente. Credo che sia per tutti insopportabile, però, l’ignoranza travestita da sapienza, soprattutto nella polemica di una protesta: quest’ultima presuppone, in genere, un abito carissimo, da carnevale veneziano, ed invece viene presentata con un volgarissimo ‘pret à porter’ confezionato con due straccetti presi a recupero, roba da nozze con i fichi secchi… IL CITTADINO CHE PROTESTA PERCHE’ PAGA LE TASSE Ha una diffusione che è pari a quella della gramigna o di un condono fiscale. E’ abbastanza aggressivo, seppure soltanto a parole, perché è convinto di essere nel giusto perché paga le tasse e quindi assolve i suoi doveri di bravo cittadino. Polemizza su tutto ed in continuazione e pretende il rispetto di chi enuncia verità sacrosante nonostante esista il vecchio detto che la ragione si dà ai cretini: a questa obiezione risponde di costituire l’eccezione alla regola, perché non si sente poi totalmente stupido, forte di una pregevole perizia nel compilare le parole crociate di Batterzaghi. 447 In realtà si sente intimamente depositario del Verbo e carezza l’idea di essere rappresentato come un roveto ardente. La sua protesta, quindi, assume un tono astioso ed apocalittico da crociata o da missione per salvare il mondo occidentale, ed in casi di presunzione illimitata, anche orientale, da soprusi o storture o quant’altro di negativo che possa provenire da mentalità disorganizzate e distorte di tutto il pianeta e oltre. Abbisogna di un pubblico per coinvolgere i più disponibili e fare proseliti. Prolifica in ogni coda o fila: da quella all’apertura di un supermercato, con il carrello pronto alla sgommata iniziale per la ‘pole position’, a quella davanti ad un ufficio postale o ad una banca o ufficio reclami amministrativo, a quella per qualche liquidazione o saldo con guardia giurata che disciplina il traffico, che viene attaccata da una forte emicrania all’individuazione del nostro. In tutte queste occasioni sacramenta moralisticamente, come gustoso antipastino introduttivo, giusto per tastare il polso dei presenti, sul rispetto degli orari, con una taratura di tolleranza di otto secondi, anche se, spesso e volentieri, è un nullafacente o un pensionato con molto tempo libero o un personaggio produttivo che è in ferie o sta bigiando il lavoro come un volgare studentello segaiolo. A volte è addirittura un personaggio produttivo che è sgusciato furtivamente via dall’ufficio come un ladro vaioloso per fare una spesetta abusiva che verrà nascosta nel portabagagli dell’auto. Si intravedono, dall’altra parte del vetro, impiegati, commessi, cassiere che scherzano amabilmente tra loro e ridono e (ohibò) fumano e il nostro si adira come una biscia con una progressione esponenziale che partendo dall’orario da rispettare, anche se mancano dodici minuti all’apertura, si concretizza e si affina in sottili analisi esteticoantropologiche-tecniche sul trucco pesante delle cassiere che sembrano delle troie, sui carrelli mezzi rotti per colpa degli zingari, sulla poca freschezza degli ortaggi o del pesce al mercurio in un crescendo leso-coronarico che sfiora la 448 diffamazione in accese definizioni del personale come massa di pelandroni parassiti fino alla perdita totale dei freni inibitori in una esplosione isterica con epiteti del tipo di: “Bastardi aprite che abbiamo da fare e qui fa freddo e questi altri bastardi con le auto ci stanno affumicando.” Una volta che tutti, in perfetto orario, sono entrati con i loro carrellini, Protestator incalza massaie cicciottose soprappensiero con commenti sulla qualità della merce, rigorosamente a voce tenorizia, con pesanti ironie sul colore della scamorza o sulla consistenza delle mele. Tocca, ovviamente tutto con le mani nude e con la sua psoriasi fungina devastante, per saggiare solamente, senza acquistare nulla, e sparisce verso il reparto frigo per cercare qualche confezione accartocciata da interruzione della catena del freddo, che è il massimo dell’orgasmo da conferma in verifica. Nel ritornare al reparto della frutta, cristona con una poveraccia, con la testa di fuori per suoi problemi con la figlia tossica, che ha brancato un cavolfiore con una mano scheletrica senza guanto, e la riempie di consigli didascalici che variano di bonomia a seconda della tipologia della sua colazione (se anonimamente normale con cappuccino ustionante e pane raffermo, o esaltante, ‘del gallo’, con la sua signora per una volta compiacente e con il tanga e senza bigodini in testa). Attacca, competente, partendo dalle dermatiti semplici fino all’apoteosi di un nuovo virus di AIDS che si sviluppa per contatto da cavolfiori toccati da mani impure. La massaia redarguita piange senza ritegno in pieno collasso nervoso o insegue l’apologeta, individuato come parafulmine, per utilizzare il cavolfiore su di lui come supposta. Interviene il direttore del supermercato che regala un cavolfiore a testa, alla massaia e a Protestator, e dirime una fastidiosa commedia degli equivoci. In prossimità della cassa, il nostro, non domo, inscena il suo cavallo di battaglia che è la filippica alla maniera ciceroniana in tono alternativamente accorato e rancoroso, fino al limite dell’invettiva catilinaria, socialmente partecipe 449 sul numero inadeguato di casse aperte per i tanti clienti ( anche se sono aperte due casse per tre clienti). E’ automatico il suo passaggio in prima posizione di fronte a una fila numerosa nell’eventualità di una sua spesa consistente in un cartoccio di latte e in una confezione di prugne secche lassative rispetto a carrelli pieni come tir degli altri. Una volta ogni tre esce indignato con fiero cipiglio, per avere pagato il sacchetto, bofonchiando che in quel supermercato lui non metterà mai più piede, ma il giorno dopo è ancora lì, con la psoriasi sempre più galoppante, speranzoso in una melanzana, anziché il solito cavolfiore, per preparare una caponata. Se, invece, è in fila alla posta o davanti alla banca, si ingegna di mettere ordine esordendo con vocina neutra appena si profila: “Chi è l’ultimo?” Non sono trascorsi neanche cinque minuti che è divenuto il padrone del vapore, l’anima e la coscienza civile del popolo in fila, il socio di maggioranza della banca o l’aiutante non richiesto della guardia giurata, e mette tutti in fila con ordini perentori e iniziative organizzative (“mettiamoci per due”, “lei non faccia il furbo che l’ho vista e la curo”, “signora non mi metta la borsa tra i testicoli, grazie”). E’ sorprendente la naturalezza con cui ordina il branco, come il miglior pastore del Caucaso addestrato in circolazione, e la maestria disinvolta nel ritornare ai discorsi tipici dell’apertura del supermercato, sparando a raffica sugli impiegati che si preparano, fin da sedici minuti prima dell’apertura degli sportelli. Il vero protestante professionista della situazione infarcisce i suoi anatemi con sobillazioni di tipo politico, trasversali e odiosamente qualunquiste, di destra se si è in comune con giunta di sinistra, o viceversa, e butta lì con noncuranza oscure minacce disordinate di rogo nei confronti di Berlusconi, Casini, Bossi, Fassino, Fini, Boselli, Bordon, (chissà perché poi gli ectopasmatici Boselli e Bordon?) e conclude molto spesso, se anziano, con il classico “ai miei tempi, caro Lei, quando c’era Lui…” tutto 450 rigorosamente maiuscolo, anche nei toni, nell’enfasi celebrativa. La celebrazione del buon costume sale di tono e di livelli con documentate accuse circostanziate nei confronti di Nesi, Reviglio, Agnelli, la Consob, la Confindustria, l’INPS e i disoccupati organizzati in un caotico resoconto di leggende metropolitane e dicerie dell’untore, perché il nostro ha con sé solamente “La Gazzetta dello sport”, ma conosce svariati portinai e cugini di secondo grado degli amici di. Si arriva ad un minuto esatto dall’apertura dello sportello e il cittadino che protesta sta trattando, in cima ad una cassetta come in Hyde Park, lo spinoso problema della raccolta rifiuti che lui paga sotto forma di iniquo balzello per poi vedere i cassonetti bruciati dai soliti delinquenti. E’ realistico anche sentirlo lamentarsi del riscaldamento inquinante, ora troppo alto per cui è uno spreco, ora troppo basso perché lui gira con una pelliccia da yeti dentro casa. Fino a due anni fa andava di moda anche il ‘refrain’ sulle targhe pari e le targhe dispari con resoconto dettagliato dello stato conservativo di tutte le centraline di monitoraggio dell’inquinamento della città Il popolo freme e sembra dalla sua parte. Il cittadino che protesta si sente un Masaniello o un nuovo Pancho Villa e medita una fila suppletiva per l’acquisto di un sombrero alla prossima liquidazione in centro. Si illumina, però, la lucina verde della porta automatica, oppure la guardia giurata fa ampi gesti di entrare e la crociata per un mondo migliore si scioglie come neve al sole davanti ad uno sportello per il pagamento di un conto corrente o per la richiesta di un estratto conto. IL CITTADINO CHE PROTESTA PERCHE’ IL MONDO CE L’HA CON LUI E’ il più aggressivo della famiglia ed il più meschino perché della protesta ne fa un mezzuccio per un suo tornaconto personale: nulla di nobile ed astratto come il protestante del gruppo 1). 451 Questo tipo di cittadino che protesta vive nella convinzione che l’intero mondo, fino oltre Vladivostok e ben più a sud della Nuova Caledonia, congiuri ai suoi danni con tranelli, trappole, dispetti e angherie volte ad un suo completo ed esclusivo nocumento per puro compiacimento sadico dell’intera comunità terrestre. Non ha mai accettato caramelle dagli sconosciuti, come una verità innata dentro di sé, una sua percezione istintiva atavica, e ha dichiarato, molto seriamente, a differenza di Longanesi, l’editore, che lo faceva per scherzo, davanti un banchetto per la raccolta di fondi ‘per’ il terremoto, che lui è assolutamente ‘contro’ rispetto al terremoto, tirando in lungo senza fare un’offerta seppur misera. La sua aggressività è, a suo dire, puramente difensiva nell’impari quotidiana lotta tra il bene (lui) e il male (gli altri, tutti). Le situazioni in cui si esplica questa virulenta reazione, spesso esagerata ed esagitata, sono le più varie, quotidiane e banali e il semplice sorriso del concorrente più vicino nel concorso quotidiano del vivere, che con quel sorriso ribalta una situazione sfavorevole, accresce la sindrome da accerchiamento da Fort Alamo e impone il sacrificio di una clamorosa piazzata sul tipo di una sceneggiata napoletana, però più cattiva nei toni e nel cipiglio. Scene di questo tipo, tra le più comuni, si possono notare in un ristorante affollato dove il nostro ha la sfiga, in realtà, per lui, la congiura, di venire servito tra gli ultimi a fronte di una tavolata di centocinquanta invitati ad un pranzo di matrimonio e nonostante lui sia arrivato, da solo o con timorosa topesca tremula moglie alle undici e mezza quando i camerieri passavano ancora lo straccio per terra. La protesta avviene rumorosamente con forchetta battuta sempre più nervosamente sul bicchiere, fino alla rottura del medesimo, e sale di tono con battimani, segnaletica marinara fatta con il tovagliolo, reiterati richiami a voce alta del tipo “Cameriereeeee, capooo, sssssentaaaaa…”, e un ruggito alla moglie che vuole significare: “adesso mi sentono”, tra gli sguardi preoccupati degli astanti. 452 La scena si conclude spesso con il protestante a digiuno davanti al ristorante, rosso come un tacchino con la iugulare prossima alla disintegrazione, dopo una scenata alla Mario Merola di fronte a ‘o malamente’nella sala di fronte ai presenti con il rituale “Questo locale fa schifo. Non ci metterò mai più piede. Lei non sa chi sono io.” Questo tipo di cittadino che protesta è inconsapevole della grande misericordia cosmica, che lo pervade e che possiede con abbondanza, consistente nel non avere mai trovato sulla sua strada un oste energumeno manesco di due metri e dodici ex sollevatore di pesi e malavitoso, invitati a matrimoni amanti di quelle belle risse da vecchio saloon western, camerieri mannari ex lanciatori di coltelli freddi e professionali, asettici come schizofrenici stupratori silenziosi. E non ha mai trovato sulla sua strada, soprattutto, il sarcastico personaggio che gli abbia risposto a tono: “E lei chi è? Ce lo dica, ce lo dica…Signori tutti zitti, per cortesia, il signore deve dirci chi è…” che è un intervento che dovrebbe trasformare il nostro, per miracolo, in portatovagliolo inanimato di legno dipinto di rosso vergogna, come in una formula magica del medioevo. Protestator, invece, alquanto fortunello e, come si dice a Roma, impunito, si rifugia in un bar con la moglie sempre più dimessa e squittente, ingobbita e rassegnata (questo è vero amore) e attacca bottone con il barista per il tramezzino che ha sapore di rancido. CITTADINO CHE PROTESTA PER RIFLESSO INCONDIZIONATO Il terzo gruppo, quello del cittadino che protesta, galvanico come la famosa rana, per riflesso incondizionato, è il gruppo costituito dai personaggi più imprevedibili, di ogni categoria di benessere o malessere psichico, tutti accomunati da distrazione per immersione in ben altri pensieri che possono variare in un’ampia gamma che va dall’affitto rincarato al pignoramento dei mobili alla sconfitta della propria squadra del cuore fino alla lite con la 453 propria metà che è culminata in tre giorni di digiuno carnalerotico e fino all’ultima dolorosissima fitta proveniente a scelta dal callo del piede sinistro, morbido come un lupino, oppure all’emorroide gonfia e isterica come un kiwi. In genere questi cittadini che protestano si producono in discrete performances sul tram affollato a fronte di un pestone o di una gomitata, oppure al cinema a fronte di quello davanti che non sta mai fermo con la testa, oppure al semaforo a fronte del polacco che vuole assolutamente pulire il vetro dell’auto. Le reazioni vanno da un banale “Scusi un cazzo”, di risposta a civili scuse per un pestone o una gomitata, che può avere seri riscontri degenerativi culminanti in una visita al pronto soccorso per varie ecchimosi, fino alla perdita totale della ragione e del controllo dei nervi che comporta un uso smodato di una catena o di un cacciavite e una denuncia per violenza a privato polacco o inconsapevole spettatore dal capo cotonato al cinema. Siamo tutti, per concludere, chi più e chi meno, cittadini che protestano di una di queste sommarie categorie o forse anche di altre minori o diverse fuori catalogo. Abbiamo i nostri problemi di identità e di visibilità associati ad ancestrali insicurezze che ci rendono oltremodo aggressivi o, molto più semplicemente, rompicoglioni. La speranza dello scrivente è che questo piccolo saggio di costume venga letto da un numero soddisfacente di lettori, quel tanto per non inscenare una nuova protesta sull’analfabetismo, sui cattivi gusti letterari della massa, sulla pigrizia della gente che si spaventa per qualche pagina di troppo, sull’ ingiusto declassamento del genio (io, ovviamente) dotato di capacità descrittive non comuni, etc., etc., … E questo sarebbe soltanto l’inizio: continuerei con l’incomprensione planetaria dei miei sentimenti e delle mie sensibilità fino ai problemi di inquinamento ambientale creati nella valle di Susa con il progetto di alta velocità delle 454 Ferrovie dello Stato e il problema della microcriminalità urbana fomentato dalle macchinette mangiasoldi nei circoli privati e nei bar di periferia. Non tralascerei di certo una panoramica protestataria sul divario sempre maggiore tra prodotto nazionale lordo e produttività e avrei cura di inserire nell’argomento la sempre minore capacità reale del potere d’acquisto degli stipendi e soprattutto delle pensioni, perché conosco personalmente il cugino del pedicure del Governatore della Banca d’Italia, il bravo e misurato Fabio Fazio, quello delle rimpatriate sugli anni sessanta. E poi, se avete una certa disponibilità ed il nervo scoperto nei confronti del problema, vorrei farvi presente che sarebbe ora che quei porci bastardi la smettessero di… 455 LA FESTA DEL PAPA’ NON E’ PER TUTTI Peccato non essere con te, oggi, per poterti manifestare il mio amore ingenuo e tenero, o carismatico e fascinoso padre mio. All’ombra del tuo profilo altero spierei ancora lo scorrere della corrente del fiume con il malcelato orgoglio di essere tuo figlio. Ho sofferto nel rispetto per te, padre, scrutandoti dibattuto in atroci dilemmi e lancinanti lotte interiori, ed ho cercato di sostenerti affettuosamente con la mia inesperienza e un’immensa stima. Ho condiviso i tuoi dubbiosi segreti pensieri, l’angosciarti nella gabbia che imprigionava la tua natura, e ho sperato per un futuro con te al mio fianco, a sorreggermi e consigliarmi. Ti ho visto, infine, piangere di disperazione nella sconfitta di te stesso di fronte alla vita, e mi sono sentito improvvisamente fragile e solo, come solamente fragile e solo può sentirsi un piccolo cucciolo. Ed è accaduto: tra lacrime di dolore e di rimorso che annegano il dominio di sé stessi… Mistero insondabile della natura, l’essere coccodrilli… Fanculo, padre! Te lo dico con spirito straziato, …e che io ti possa rimanere sullo stomaco con forti bruciori! 456 ABBASSO LE DONNE (monologo) Odio le donne. Non perché io abbia altre preferenze dolcegabbaniche: probabilmente la mia è solamente sfortuna in esperienze poco felici che, però, mi hanno segnato assai. Prendiamo le mie donne, per esempio, quelle che sono state per me importanti e significative: Eulalia. (Il nome deve essere pronunciato enfatizzando la ‘a’ centrale come se fosse uno sbadiglio o un’esclamazione esageratamente enorme). Una donnona materna e giunonica, con un faccione da luna piena, che quando sorrideva pareva lo Stregatto di ‘Alice nel paese delle meraviglie’. Un armadione quattro stagioni, perché le stagioni sono solo quattro: fossero state sei, sarebbe stata un armadione sei stagioni. Era disponibile, affettuosa, ormonalmente presente. Per ovvi motivi, considerato che io peso sessanta chili e ho una corporatura slanciata da cingalese a dieta, ci producevamo in ‘performances’ che prevedevano esclusivamente la missionaria classica: io sopra e lei sotto. Una volta provammo il contrario: ribattezzammo la posizione come quella del prelievo fiscale, poi rinominata del rullo compressore. Fui schiaffeggiato da due tettone impazzite e mi saltarono due incisivi. Girai per due o tre giorni con un faccione rosso che sembrava avessi curiosato in un forno a microonde, acceso. Ritornammo dunque alla tradizione, senza troppe esitazioni, soprattutto da parte mia. Però, però… La soddisfazione andò scemando in breve tempo. Ero distratto e non riuscivo a concentrarmi. Cominciai sempre più spesso a provare la sensazione di un viaggio all’estero, in Svizzera, attraverso il Frejus pieno di vaselina, e più ci davo dentro e più mi veniva da pensare 457 alle norme di sicurezza, ad eventuali incendi, alla velocità consentita, al conto corrente, al segreto bancario. E mi ammosciavo: in tutti i sensi. Poi realizzai. Che forse, sì, lei era monumentale dappertutto e aveva anche un punto G, G come le Grotte di Postumia, ospitale come un Club Mediterranèe, ma anche che io non ero forse troppo adeguato. Mi aprì gli occhi il mio migliore amico, franco, leale, e anche tanto stronzo, che poi lo andò a riferire a tutto il quartiere: che l’avevo piccolo. Non poté più durare: perché non riuscii a fare più la mia porca figura con sano menefreghismo, e perché mi trasferii a duecento chilometri di distanza per non subire, quando uscivo di casa, le pernacchie di tutti quelli che incontravo. Subentrò dunque nella mia vita Filomena. Filomeeeeeeeeenaaaaa. (Va pronunciato come un belato flebile e lungo). Era alta, altissima, lunga come una Quaresima, magra, quasi efebica, con due enormi trecce biondissime di grano. Ci adattammo subito, io e lei, sconvolti dalla passione, e metabolizzammo originalmente la posizione della sveltina, la sveltina della Filomena, dove capitava, arrapati come conigli a dieta di salsapariglia e viagra. Io, con il mio metro e sessantacinque scarso di statura, spiccavo un bel salto, anche perché non sempre avevo sotto i pedi due o tre cassette di legno per la frutta, e mi attaccavo alle sue trecce. Poi mi issavo su e mi calavo giù ritmicamente, come alla Palestra “Uomini di buona volontà”. Sembrava di fare esercizi alla sbarra o alla spalliera. Era, invece, Filomeeeeeeeeenaaaaaaaaa. Lei gemeva controllata, svedese come un quadro, e io mi scolpivo i bicipiti come le pagnottelle di Braccio di Ferro. Ma la sfiga è sempre in agguato. La Filomena era secca come una cedola, quasi anoressica, dappertutto, e al posto di un morbido seno più 458 o meno elastico e sporgente permaflexizzato, aveva solo due chiodi puntuti che poi, sperimentai, erano anche affilati. Una trombata con Filomena, quindi, per me che altalenavo come un ginnasta del Circo Togni, rappresentò un doloroso passaggio su un Pastamatic. Orgasmavamo, infatti, sfiniti, e quando mi lasciavo andare dalle trecce, mi ammonticchiavo ai suoi piedi come un mucchio di tagliatelle all’uovo, segato dai due capezzoli assassini che non percepivo nell’istante travolgente del momento culminante. Di conseguenza, con Filomeeeeeeeenaaaaaa finì. Ebbi un ultimo approccio con il mondo femminile tramite Egle. Che cazzo di nomi eh? Egle è un nome per me di valenza onomatopeica. Richiama all’ordine, come un comando secco, gutturale, e offre l’idea della concretezza senza voli fantasiosi e pindarici. Inoltre questo nome breve come un singhiozzo minaccia immagini di controllo e disciplina, similtedesche, e dopo breve tempo inibì le mie pulsazioni mediterranee. Le dicevo: “Egle, ci vogliamo ribaltare?” Sgranava gli occhi freddi come due sofficini e mi chiedeva senza curiosità: “Kosa fuole dire ripaltare?” Che ti metti a fare i disegnini o lezioncine di matematica? Le racconti dei numeri della smorfia? Sessantanove: il cappotto… Naaaaa. Mi raggomitolavo in me stesso covando sordo rancore per la mia incapacità di comunicare e soprattutto per la sua incapacità di apprendere. Ed un giorno le dissi: “Egle, mi sono rotto i coglioni di fare l’amore con la cugina di una lavatrice Aeg con gli occhi da sofficino ancora da friggere. Tra noi è finita.” 459 Egle, ci puoi giurare, compassata come sempre, mi ruttò un: “Prrrosit”. Da allora non ebbi più alcuna donna e cominciai, anzi, ad evitarle. Elaborai, al contempo, una mia teoria filosoficoesistenziale d’equilibrio e benessere quotidiano della mia persona attraverso me stesso, in completa autosufficienza e indipendenza. Chi può conoscere le mie pulsazioni meglio di me? Mi entusiasmai anche, dopo qualche tentativo, e perfezionai teoria e anche pratica, con opportuni accorgimenti acquistati dal giornalaio, tipo “La coppia moderna”, “Fermo Posta”, “Le ore della settimana”. Mi diedi giustificazioni ampie circa la validità dell’onanismo applicato alla crescita dell’uomo affrancato dal bisogno nella consapevolezza di essere splendidamente solo e depositario del suo conoscersi. Una specie di scintilla divina di un Plotino segaiolo, insomma: ho reso l’idea? Ed è così che vado avanti da qualche anno, forte di uno smisurato complesso di superiorità nei confronti delle donne, delle quali posso fare a meno, e mi trombo da me con amore e comprensione amandomi follemente, spesso e volentieri, sesso e volentieri, sempre più spesso e sesso, anche se ho gli occhi cerchiati, ormai in lega, e il cambio automatico. Del resto si attiva meglio la circolazione e non ho più mal di testa. Bene: pianto qui le mie confessioni. Vi ringrazio per l’attenzione rivolta alla mia testimonianza di vita. Grazie, grazie. Scusatemi, c’è qualcuno che può portarmi fuori del palcoscenico, per cortesia? Da qualche settimana sono diventato un poco cieco e non vedo un cazzo per uscire, grazie… 460 STRALUNATA FAVOLETTA DI NOMI Una fresca vedova energica di mentalità aperta, a suo modo estremamente pia e determinata, non fa molta fatica a convincere un parroco semplice e mite di una piccola comunità sperduta tra le montagne. Prudenzia, come primo argomento di persuasione, toccò il tasto dell’universalità dei doni di Dio, da accettare anche nelle negatività peggiori, e citò Giobbe e i suoi pruriti eczematosi. Perorò la sua scelta, poi, per un destino tracciato all’insegna del cristianissimo ‘memento homo quia pulvis es et in pulvirem reverteris’, per una vita proiettata con consapevolezza verso il paradiso senza distrazioni di vita terrena o catodica. Infine ebbe la meglio incondizionatamente quando minacciò, ricattatoria e decisa, di scegliere il nome di Anarcoinsurrezionalista per il suo figliolo appena nato e di non farlo accostare al sacramento del battesimo. Don Firmino impallidì e riconsiderò le altre due motivazioni con maggiore benevolenza capitolando senza più resistenze. E il piccolo neonato di Prudenzia Instato, vedova Terminale, fu battezzato Cancro. Il giovane Cancro, in età scolare, quando la mamma Prudenzia era lontana, era chiamato Carlo in pietosa assonanza approssimativa. Con la mamma nei paraggi, era sommerso da fischi e urlacci gutturali inintelligibili che ne surrogavano il nome. In assenza di entrambi, madre e figliolo, la comunità lo identificava come il ragazzino con il ‘nomaccio’ e qualche vecchia sdentata faceva anche le corna o si segnava o toccava le balle del farmacista che era anche un bell’uomo. I suoi compagni di scuola ci scherzavano poco e spesso si grattavano le tenere nocelle implumi in vista di qualche interrogazione: Cancro, infatti, scrutava di qui e di là con fama jettatoria e la maestra interrogava invariabilmente l’ultimo alunno fatto oggetto delle attenzioni del povero ragazzo. 461 Divenne tassativamente vietato, poi, sempre nell’ambito scolastico, l’insulto malaugurale “ti prendesse un cancro”, sostituito da banalissimi “vaffanculo a te e tre quarti della tua famiglia” perché una volta che Cancro ascoltò la prima giaculatoria, permaloso com’era, fece il diavolo a quattro con l’affilato righello da disegno e mandò tre compagni di classe al pronto soccorso devastati come da un ‘machete’ in Ruanda. Crebbe, Cancro, e divenne un giovane uomo torvo e complessato per il suo imbarazzante nome. Viveva momenti di assoluto tormento esistenziale, incapace di discernere le responsabilità di chi aveva potuto permettere che lui girasse per la valle con le generalità abominevoli di Cancro Terminale. A volte avrebbe voluto uccidere la mamma, col mestolo del paiolo della polenta, e altre volte il vecchio Don Firmino, magari strangolandolo con la stola nel confessionale. Prudenzia, invece, non ebbe mai rimpianti e cercò sempre di convincere il suo virgulto della bontà di una così coraggiosa scelta. Ma Cancro si chiuse in sé stesso, sempre più maligno, schivato dai suoi vecchi compagni di scuola ormai organizzati in comitive piene di ragazze, deriso dai vecchi del paese, piantato in asso, sempre fin dalle presentazioni, da ragazze carinissime, poi carine, poi ancora così così, infine racchie infime somiglianti alle mucche dell’alpeggio. Poi, un bel giorno, conobbe la splendida Dina. Dina abitava nella vallata adiacente. Era una ragazza molto timida, chiusa, proveniente da una famiglia di rossi comunisti militanti, tutti rigorosamente stalinisti ortodossi senza dubbi, duri e puri. Era anche lei, come il buon Cancro Terminale della valle vicina, lo zimbello della sua comunità. Anche lei per il suo nome. Dina Mitarda. Si conobbero alla festa del maiale scannato con le noci: grandinarono il suino con chilate di noci gettate con sano divertimento, e anche con la fionda, e incrociarono i loro 462 sguardi mentre si spegneva quello del maiale lapidato, frollo come non mai. Si piacquero, di là delle loro estrazioni sociali e ideologiche, e si isolarono dal mondo. Papà Mitarda, il vecchio compagno Medardo Mitarda, fiero del suo nome che sembrava quello di un rivoluzionario messicano, non la prese molto bene: sua figlia in tresca con un filo-clericale era un’eresia inconcepibile. Insieme alla moglie, l’ex partigiana Lora Serale Mitarda, pasionaria passionale, detta anche ‘IlCiclo’ Mitarda, di quando era staffetta durante la Resistenza, levò in alto il pugno chiuso, agganciato all’avambraccio come un manico classico d’ombrello e la povera Dina Mitarda si trovò dal giorno alla notte orfana ideale di ideali di famiglia, scomunicata laica della valle, privata anche degli orecchini con la stella rossa. I due innamorati, soli e incompresi da tutti, all’improvviso sparirono e qualche montagnino con esperienze di viaggiatore giurò di averli visti in una città della pianura, sereni e a passeggio con una carrozzina. Era verità: Cancro Terminale e Dina Mitarda si sposarono, solo civilmente, perché il parroco vomitò in sagrestia e poi svenne inorridito, e decisero di convogliare i loro risparmi di una vita, volti a cambiare i loro nomi con costose pratiche burocratiche, in un concreto mutuo per una casa. Si amavano di un amore tenero e struggente. Lei nell’intimità, gorgheggiando, implorava di Crocrò e lui uggiolava di piacere come il loro criceto nella gabbietta in cucina che equivocava e pedalava più frenetico che mai la sua ruotina… Ebbero un figlio e lo chiamarono Giovanni. E la storia potrebbe concludersi qui, a completo lieto fine, se non fosse che Cancro perse la testa in un furibondo litigio con la mamma, ormai anziana donna, e l’uccise a mani nude in un impeto d’ira per la ciclica questione di famiglia sulla scelta del nome dell’erede. Nonna Prudenzia voleva per suo nipotino Terminale il nome di Malato, magari patteggiando con il diminutivo 463 ‘trendy’ di Mal, ad esaltazione della memoria circa i doveri e i precetti di un buon cristiano. Dopo i primi cazzottoni del figlio scese a compromessi dichiarando che si sarebbe ritenuta soddisfatta anche dal complesso nome di Secondo Cancro Benigno, logicamente sempre a gloria di Dio, nel bene e nel male, con la furba piaggeria del perpetuare il nome del padre sul modello di vetuste dinastie americane di miliardari. Singhiozzò, alla fine, semistrangolata, un semplice Ben… La Corte, dopo un ritiro neanche tanto lungo in camera di consiglio, considerò tutte le attenuanti generiche, ravvisandone anche parecchie e, in ossequio a patteggiamento, comminò al matricida Terminale una pena ragionevole. Ad oggi, tra un’amnistia e una buona condotta, tra poco tempo il recluso col ‘nomaccio’ sarà di nuovo libero. Cancro sta finendo di scontare pochi anni ancora di galera, fiducioso in un sereno avvenire con la sua cara Dina Mitarda e il figlioletto Giovanni, educato compromissoriamente in maniera socialdemocratica. La vecchia Prudenzia Instato Terminale riposa in pace, senza i rancori dei vivi, ricongiunta accanto al suo marito dipartito troppo presto, il buon Tino Crasso Maria Terminale, diminutivo di Intestino… Stretta è la foglia e larga è la via, se non salta la Dina, …e così sia… 464 IL GIOCO DELL’OCA Un uccello migratore non meglio identificato, simile ad un ocone sgraziato, proveniente dalle steppe siberiane oltre gli Urali, disegnerà con volo affaticato e sofferente una larga ellittica e cadrà a peso morto, appunto morto, nella fontana di un parco, non prima di avere sganciato una deiezione similbovina sulla piazza centrale della città. Il grosso volatile morirà sul colpo con suoi aviari irrisolti quesiti esistenziali sul perché della necessità di farsi un culo così, anche da indisposto, a volare per ottomila chilometri per respirare la balsamica aria di una civiltà industriale piena di fumi di scarico. L’impatto con la fontana produrrà un rumore di scogliera flagellata dal mare, con annessa sopraedificata casa abusiva, e con schizzi a raggiera attirerà l’attenzione di mamme e bambini lì presso, tutti curiosi come per un nuovo delitto estivo di zii affettati con machete. Sotto gli occhi attoniti dei presenti, due bambini svegli, Marco e Mirko, si disputeranno l’ambita preda come una merendina del Mulino Bianco, tirandola per le ali, ognuno verso la sua parte, giocando all’Isola dei famosi, pur senza esserlo, sfrontati senza frontiere. Nella piazza centrale, frattanto, la signora Paola andrà a prendere un autobus. Distratta, pesterà il mostruoso cumulo preagonico dell’ocone. Sacramenterà alla rinfusa scuotendo il piede con tacco tozzo e spargendo liquami tutto intorno dove il piccolo Giovannino ha proprio lì, poco prima, consumato con scarsa voracità una focaccina disseminando l’area di briciole che si mescoleranno con le risultanze della gestualità pedestre della donna. Sarà promossa in automatico una delle più grandi esercitazioni di volo nella zona con il pattuglione acrobatico “Piccioni zona centro” e quattro o cinque pattuglie agili di “Passeracei tricolori”, ingordi come condor. La fame non fa guardare tanto per il sottile circa il gusto di ciò che riempie lo stomaco, e poi certi cristiani adorano i nidi di rondine… 465 La signora Paola si scuoterà come una tarantolata anche sull’autobus imbrattando pavimento e qualche sedile, troppo furente per fare i conti con una parvenza di senso civico, anche perché si prenderà raffiche di vaffanculo da parte di altri passeggeri maculati di striscio. Un bel gioco dura poco. Marco e Mirko avranno un’ala in mano ciascuno mentre l’ocone ormai frollato dal tira e molla giacerà in mezzo a loro inerte come un vigile ad un incrocio nevralgico. Calerà subito l’interesse per l’iniziativa volta ad una sana competizione per il possesso: del resto è solo un uccello smembrato, non un portafogli pieno scippato ad un bancario. I due bambini abbandoneranno il campo, sudati, con le manine piene di penne e sottopenne, schizzacchiati di sangue aviosiberiano. Il piccolo Defi, diminutivo di Deficiente, uno yorkshire con l’aspetto di un doposci, obeso ed imbottito di pasticche al bromuro per un maggior controllo da parte dell’anziana padrona, poco dopo annuserà quei resti carnosi e rievocherà confusamente vecchi istinti di qualche generazione prima, non ancora soppressi, con una certa acquolina in bocca, sbocconcellando con un accenno di erezione. Peraltro, senza guinzaglio e museruola, come da usi e costumi trasgressivi locali, s’avvicineranno con passo elastico e curiosità ienesca anche Caligola, splendido mastino napoletano dal pelo focato, con catarro da fumatore di toscani, e Ribbentrop, che capisce solo il tedesco, superbo rottweiler con collare chiodato e cordone di bava perenne che sembra una quinta zampa. Il piccolo Defi farà appena in tempo a mordicchiare un’ala. Sarà strattonato allo strozzo dalla padrona e sparirà ringhioso tra le sue braccia protettive da dove le laverà la faccia per gratitudine con lingua rasposa. Caligola e Ribbentrop assaggeranno con morsi voraci cosce, petto e le ali già staccate del volatile fino a che non saranno richiamati, uno in napoletano e l’altro in tedesco, dai rispettivi padroni. 466 Ribbentrop, nonostante l’aspetto feroce e sano, soffre di diverticoli intestinali e disseminerà all’uscita seguente, come un innaffiatoio, buona parte del suo improvvisato pasto, sull’erbetta tenera del parco dove giocano abitualmente anche molti bimbi con palette e secchielli. Caligola, invece, voracissimo, semistranito da un ossetto di traverso, vomiterà comodamente da casa, sul balcone, devastando una zona di passaggio sottostante e due cappellini di rappers che smadonneranno fluentemente. I piccioni del pattuglione acrobatico, invece, scagazzeranno su tetti, giacche, crani, e non solo, per poi stramazzare dopo qualche giorno al suolo per la gioia di cani, gatti e anche topi, tutti senza guinzaglio, anche se è difficile immaginare un topo al guinzaglio, e di chi… La medesima cosa accadrà, in scala bonsai, per i passeracei che, però, sono numerosi come ingiunzioni di sfratto, molti di più rispetto ai piccioni. A questo punto il gioco entrerà nel vivo (si fa per dire). Ritornerà di moda Camus che sarà rieditato in collana classica pocket come vademecum per la sopravvivenza. I giocatori, in pratica tutta la popolazione, tireranno tutte le mattine i dadi o leggeranno nei fondi del caffè per captare spiragli di sopravvivenza alla più tremenda pandemia della storia dell’uomo. Molti finiranno nel pozzo e ci rimarranno fermi molto più che un giro: per sempre. Altri torneranno indietro di tre caselle, all’inceneritore comunale, accompagnati da facce patibolari di monatti in tuta anticontagio e mascherina. Altri ancora vivranno sperando, morendo cantando e anche scagazzando, nell’attesa del vaccino di una famosa annunciata scorta acquistata dal Governo. In realtà l’unica scorta rimasta sarà quella di un ometto dai capelli innaturali e tinti che sorride sempre come per una paralisi, nonostante tutto, perché, unto com’è, scivola via senza farsi nulla anche sopra le pandemie, tra il pianto e lo stridore di denti di un’opposizione bersagliata dalla sfiga. 467 Infatti uno dei cappellini da rapper sporcato da Caligola si scoprirà appartenere al figliolo raffreddato dell’autista dell’onorevole Prodi… Il signor Aia e il cavaliere Arena saranno lapidati sulla pubblica piazza e tutti si butteranno sui maiali, anche quelli dei giardinetti, nascosti con l’uccello di fuori dietro un albero. Poi si ammaleranno anche i maiali, anche per colpa del sesso non protetto, e il gioco dell’oca assumerà connotazioni più drammatiche. Impazziranno di nuovo le mucche e tremeranno le giraffe e gli ippopotami, si mimetizzeranno da peluche le scimmie e i delfini e le foche monache arriveranno a recitare anche il rosario per scampare alla fame dell’umanità. Tutti diverranno smilzi come vietnamiti e si guarderanno intorno con fame e sospetto e con l’ombrello aperto ad evitare scagazzate a pioggia di uccelli superstiti nel cielo di piombo. Vincerà chi sbaraglierà la paura di arrivare a novanta, chi supererà la casella degli imprevisti, che è quella bianca come una vasca di calce viva per disinfettare, e chi riuscirà ad evitare altri oconi direttamente e indirettamente, magari andando in ufficio con la tuta da sommozzatore di profondità con elmetto grigliato di rame. Poi si ricomincerà daccapo, con nuovi giochi: per il potere, per la supremazia, per la ricchezza, ed impazzeranno di nuovo i vari Monopoli con il Parco della Vittoria, il Risiko e, per qualche nostalgico, anche l’Allegro chirurgo che compie le autopsie. E si rivivrà tutti felici e contenti con dieta a base di ceci e carrube, seppure con una densità abitativa per chilometro quadrato ridotta del settanta per cento, ma non si avranno più per molto tempo problemi d’affitto, di traffico e di parcheggio. Pandemia, pandemia, per risibil che tu sia, porterai una gran morìa. 468 GROTTESCA MINIPORNOSTORIA Nel sesso non esistono regole e valgono ogni trasgressione a sorprendere e trucco ad esaltare prestazioni. Questo pensò il ragazzo in buona fede disarmante. E quando uscì dalla bottega del coreano, sorridendo noncurante del bruciore soprannaturale, ebbe l’impressione d’essere cresciuto di statura. S’immaginò un futuro di messaggi promozionali tra la popolazione femminile del quartiere circa il suo nuovo essere maschio, in un tam tam di curiosità, e scacciò l’idea metaforica di essere stato azzannato da un rottweiler alle parti basse. Aveva, di fatto, un piercing trasversalmente apposto al frenulo della sua appendice di piacere, costituito di un chiodo d’argento a forma d’osso, ‘very tribal’, per come gli aveva mentito spudoratamente Koyo con lo sguardo strizzato di volpe al limone. Lui abboccò da subito, soffrì come una bestia facendo rotolare biglie da biliardo di sudore sulla stuoia dello Studio Tattoo Koyo, e poi si sentì padrone del mondo nel rimirare la sua piccola proboscide martoriata somigliante in sedicesimo alla testina infiammata di un boscimano d’iconografia classica, per l’appunto con l’osso in testa, seppure senza capelli afro. Qualche tempo dopo, però, dovette rimangiarsi tutte le sue considerazioni circa trucchi e trasgressioni e sprofondò nel ridicolo e nell’imbarazzo. Ci volle un esperto ferramenta a risolvere un problema. Costui sudò sette camicie, smadonnando e ridendo con un fischio da enfisema, e fu oliato invano con tante banconote per mantenere un silenzio che non fu poi osservato. Del resto l’aneddoto era troppo gustoso per non essere divulgato… Il giovane aveva avuto un incontro torrido con un’altra amante del piercing, in perfetta empatia d’idee circa la meccanica della passione. 469 Lei, sicuramente complementare a lui in visioni concettuali dell’erotico, aveva un piercing costituito da un anello d’argento molto spesso e discretamente grande, almeno quanto l’esibizionismo. Lo aveva, manco a specificarlo, in cima al clitoride. E fino a che si limitarono a piacevoli preliminari tutto filò liscio. Poi, nell’ambito di un prevedibile normale seguito, lui s’impigliò all’anello con il suo osso e non riuscì più a districarsi. Si rise a lungo, nel quartiere, quando il ferramenta traditore raccontò di come trovò i due ragazzi accanto al telefono dopo aver forzato la serratura della porta dell’alloggio. In effetti parevano una scultura cubista surreale: una rivisitazione di ‘Guernica’ ipertricotica. E sembrava di stare in chiesa: aleggiava, infatti, una corale litania di madonne del rosario. E rintronava una curiosa sonorità metallica da cassettina parrocchiale delle elemosine, agitata per eventuali offerte… 470 CINOFILA STORIA MULTIFINALE Un alano, in genere, ha un portamento nobile e fiero. Anche quando è in procinto di defecare. Assume, infatti, un’aria dignitosa: si raggomitola sulle lunghe leve posteriori e fa finta di nulla guardando fisso avanti a sé , con leggero tremore, oppure occhieggia il padrone con un’espressione di scusa per l’increscioso accadimento. L’imbarazzante di questa occorrenza fisiologica assolutamente naturale è dato dal fatto che può avvenire in pieno centro storico, magari sotto i portici ospitali della piazza più importante della città, di fronte a vetrine scintillanti di grandi firme e lusso. Sono testimone di un evento del genere, per come l’ho paventato. Il pastore danese si contorce e si strizza in una postura che potrebbe definirsi picassiana cubista, davanti ad una boutique della centralissima piazza porticata. Assume l’aria tipica del cane stoico che non può esimersi, con tante scuse, dall’evitare la bisogna del bisogno, e si strizza come un tubettone di dentifricio. In questo caso, mi si perdoni la battuta, produce la Pasta del Canealano: lascia, cioè, sul posto una ciambella fumigante che potrebbe apparire un salvagente da crociera. Il padrone dell’enorme bestia si guarda intorno per percepire l’intensità dell’attenzione dei rari passanti. Fa finta di frugarsi nella tasca per prendere una busta della grandezza di un paracadute. Poi, arguendo che nessuno lo ha degnato d’attenzione, strattona il bestione e si allontana con fare indifferente, ché il raccattare il bisognino è roba da benna. Io, però, sono dietro una colonna: osservo e friggo. Balzo fuori all’improvviso e spiano una rivoltella, tanto per non lasciare dubbi su chi ha l’onore e l’onere di dettare le regole del gioco. “Signore, ha dimenticato di raccogliere il ciambellone del suo cane… Faccia che prenderlo e ficcarselo in tasca…” 471 Il padrone del pastore danese assume un’aria di sfida. Poi nota la pistola e diviene innocuo come un chihuahua, seppure con occhi iniettati di sangue e livore: un chihuahua mannaro. Bofonchia, ipocrita: “Non me n’ero accorto.” Si comprende che vorrebbe aizzare il cane, neanche io fossi un hamburger succulento, e rimpiange il giorno della sua scelta, atroce dilemma, tra il suo buon cagnolone attuale, austero e tranquillo, e un feroce dogo cannibale da combattimento. Finale 1 La gente si raduna incuriosita e applaude a scena aperta me, giustiziere antiescrementizio del giorno e della notte, cercando di lapidare il padrone del pastore danese che, povero animale, cerca di rimpicciolirsi a mole yorkshire con dubbi effetti. Il padrone dell’alano schiuma rabbioso, ma furbescamente non reagisce per non fomentare ulteriormente la folla. Raccoglie col fiato grosso e con più badilate il bisogno del cane e lo ripone in un sacco di tela gommata usato normalmente da Babbo Natale per portare i doni agli orfanelli della Bielorussia. Trionfa la giustizia e il senso civico della comunità: l’assembramento cessa poco dopo per magia con il cane da sella e il padrone fantino che galoppano velocemente dietro l’angolo smaterializzandosi sotto una ola entusiasta della folla festante. Finale 2 Il padrone del cane cagone è sciocco e reagisce in maniera scomposta cercando di avventarsi contro me con il guinzaglio rostrato pieno di aculei arrugginiti. Sono costretto a sparare, per coerenza e per non prendermi il tetano. 472 Lo centro nel costato aprendo una voragine che può essere riempita solamente con una presa d’aria condizionata, grande come il buco del culo della sua bestia. Sono processato per direttissima, per omicidio preterintenzionale. Sottofinale - 2 A La giuria popolare è composta di cinofili accaniti abbonati a “Il resto del carlino”, “Cane moderno”, “Cagnara 2000”, “Sorrisi e cagnoni TV” e le dispense dell’enciclopedia Treccani. Mi guardano, naturalmente, in cagnesco. Qualcuno mi squadra con odio e rivive con sdegno le scene più significative del film “L’ammutinamento del Cane”. Sono condannato all’ergastolo più due colpi di striscio di fucile alla tempia, tanto per prendere uno spaghetto maggiore su quello che potrebbe essere una meritata pena di morte. Sottofinale - 2 B La giuria popolare è composta d’accigliate personcine che hanno trascorso l’ultima ora nel bagno del tribunale a liberare con gli stecchini dei gelati le scanalature dei mocassini da abnormi bisogni canini pestati accidentalmente, della consistenza di una polenta taragna, fumanti allo stesso modo. Hanno consumato tre o quattro Mottarelli mandorlati ciascuno e hanno anche accenni di colite spastica perché siamo in dicembre e fa molto freddo. Sono adirati contro i cani in genere, contro i loro padroni, contro il concetto filosofico della ‘canitas’, e giustizierebbero volentieri Lilly e il vagabondo, Charlie, che, peraltro, è già in Paradiso, Lassie e Rin Tin Tin, senza troppe indulgenze per Rex, Balto e i cani da guida per ciechi in generale. 473 I più tolleranti renderebbero sdentato Zanna Bianca con un paio di tenaglie senza anestesia e brucerebbero tutti i libri di Jack London. Sono assolto con formula piena. I familiari della vittima, indignati per la sentenza, fin dalle prime proteste sono fatti oggetto di sputazzate e irrisi con gomitate a tradimento nello sterno dalla giuria stessa, e qualche morso alla iugulare. Sottofinale – 3 C Ottengo una pena minima, tanto per salvare la faccia dei giurati, comunque bendisposti, ed esco dopo pochi mesi, alleggerito da innumerevoli attenuanti generiche. Sono rilasciato in tardo pomeriggio. Nessuno è venuto a prendermi. Me ne torno al mio appartamentino da solo, a metà tra il contento per la mite pena scontata, e l’adirato per l’ingiustizia di aver dovuto soggiornare in carcere per tre anni in ottima condotta mansueta quasi canina. Apro il portone di casa. Mi attendono dietro l’uscio una decina di vendicativi cinofili in agguato. Hanno al guinzaglio, digiuni da giorni, pitbull, dobermann, rottweiler, schnauzer giganti e canalligatori di nuovo incrocio con zanne avvelenate e pungiglione invece della coda scodinzolante. Divengo spezzatino senza patate tra uggiolii di goduria delle bestie inconsapevoli e incitamenti sadici con risatacce di caserma dei loro padroni. Ho la magra consolazione di avere intitolata una sede anticinofila a mio nome dopo cinque anni, quando ormai tutte le mie ossa, tranne due o tre ancora ciucciate da un buongustaio molosso del Caucaso, sono ormai prossime a decomporsi in cenere. Finale 4 Ho scherzato. 474 La pistola è ad acqua. Il padrone dell’alano se la fa addosso senza la stessa dignità del suo cane. E però, poco dopo, comprende che la mia arma è un giocattolo, anche per via dell’evidente tappino rosso. E s’adira, preso per i fondelli, pensando al conto della tintoria per i pantaloni devastati e alla figuraccia che sta facendo, che è il caso di definire ‘di merda’. Parla allora al suo cane in lingua sconosciuta: un incrocio tra tedesco e polacco, sicuramente mittle-europeo, pieno di rancorose aspirate e di scatarri carichi d’odio. Per il pastore danese divengo braciola che cammina: infatti, in realtà, lo splendido esemplare è nient’altro che il temibile Ariovisto, il cane da guinness dei primati del 2005, che ha divorato quarantadue chili di carne in poco meno di un’ora. La folla, fluttuante come sempre, sta dalla parte del vincitore, e si limita a coprire con le mani lo sguardo dei bambini più piccoli, solo per evitare loro gli schizzi di sangue negli occhi. Del mio sangue, beninteso. Qualcuno applaude e incita. Altri scattano fotografie con il cellulare, registrano le urla d’agonia e il rumore di frantoio delle mascelle canine, e fanno il tifo in tedesco chiamando Ariovisto col soprannome Shumi. Qualcuno arriva fino allo spingersi a cagare in piazza a fianco di una colonna, per emulazione del fiero pastore danese, fissando, accovacciato, con sguardo provocatorio i passanti, brontolando in stereofonia di gola, polacco, e d’intestino, ovviamente ceco... Il porticato dell’elegante piazza del centro, dopo poche settimane, sarà adornato da spontanee fioriture di violette e ranuncoli germogliati miracolosamente negli interstizi tra le mattonelle dei marciapiedi, particolarmente fertili. E la morte per cacca finirà in vacca. 475 LA C.I.S. Una delle peggiori casalinghe esistenti è quella isterica scatologica. La casalinga isterica scatologica, che da adesso denomineremo semplicemente CIS, è in genere una moglie efficiente e una madre prolifica sempre attenta ai bisogni della sua famiglia. E’ sottinteso che qui si parla di altri bisogni. La CIS controlla, quasi sempre ad ora di cena, il contenuto del vasino del bimbo più piccolo parcheggiato a fianco del marito. Il piccino mangia come uno yak, defeca e odora come lo stesso yak. In genere, tra il primo e il secondo della cena, urla soddisfatto: “Mamma, fattooooooo.” E’ il segnale. La CIS lo solleva di peso da vasino, lo porta un attimo in bagno per una pulitura sommaria lasciando il vasinoteca con la reliquia sempre a fianco del marito che si sforza di mutare la percezione del puzzo di merda di bimbo, che sempre merda è, in aroma di fettina alla pizzaiola. La mamma efficiente ritorna ed esamina il contenuto del vasino con aria di sensale. Poi la mostra al marito che sta attaccando il contorno. “Come ti sembra? Un poco molliccia, vero?” Il marito mugola a bocca chiusa, sempre sotto sforzo cerebrale fantasioso nella trasmutazione degli odori. La CIS, inoltre, ispeziona sistematicamente ogni sera le mutande di tutta la famiglia alla ricerca delle famigerate ‘sgommate’, ovvero tracce di impronte corporalrettali che in Toscana si chiamano più comunemente ‘loffe vestite’. E si lamenta a voce alta con atteggiamento da martire: “Ecco, vedi Pierino? La tua mutandina è sporca. E che figuraccia ci fa, la mamma, se ti senti male e ti devono portare in ospedale e spogliarti nudo?” “Simonetta, ma che potrebbe dire il tuo fidanzatino?” 476 La CIS ridacchia divertita e acida della situazione anche se Simonetta ha solamente otto anni. “Carlo, accidenti a te. Ma se hai un mancamento in Ufficio io come ci passo?” Infine, a tarda sera, la CIS ispeziona il bagno. Scruta con attenzione professionale la tazza alla ricerca di qualche antiestetica macchiolina o striatura. Poi ispeziona il bidet. E’ da notare una notevole indulgenza di fronte alla presenza di peli pubici: scuote la testa, ma abbozza, sia ben chiaro, solo per i peli pubici. Ed infine lo spazzolino del water.. Può accadere, a volte, che lo spazzolino presenti tra le setole prove inconfutabili di una accurata pulizia della tazza cui non ha fatto seguito una analoga pulizia dello spazzolino stesso. La CIS diviene allora una iena e piomba nella stanza da letto mentre il marito sta socchiudendo gli occhi scivolando nel più celestiale dei coma ristoratori. “Carlo, sei stato l’ultimo ad andare in bagno, lo so. E guarda come hai lasciato lo spazzolino del water.” La CIS brandisce l’attrezzo come una clava e lo avvicina pericolosamente al volto del proprio consorte che per riprendere a macinare il ciclo REM dovrà attendere due ore circa, turbato e timoroso di ulteriori reazioni. La CIS poi ritorna nel bagno trionfante e annega lo spazzolino in un contenitore apposito pieno a piacere di conegrina e/o acido muriatico e/o calce viva. La mattina seguente ripete il percorso scatologico in senso inverso. Il marito, secondo attendibili indagini sociologiche, può diventare alla lunga un omicida semplice o anche complesso con annesse smanie di tortura comprendenti la coprofagia. I figli invece, sempre secondo le stesse fonti di studio, possono diventare durante la pubertà futuri coprofili o potenziali mostri che getteranno la mamma nella fossa biologica della nuova villetta al mare. 477 ECHI DI ECOFUTURO INSOSTENIBILE “Allora è pronto questo volantino?” “Quasi: i compagni del collettivo C.E.S.S.O. stanno approntando il testo.” “Forza, ché è sempre più necessario dare voce alla protesta.” “Ancora un poco di pazienza e siamo pronti.” “Leggi, dai…” “Sì, dunque: abbiamo un titolo che dovrebbe traumatizzare il lettore con una forte provocazione.” “Occacchio, dai, leggi.” “Basta mangiare merda!!! E’ il titolo… Il C.E.S.S.O., Comitato Ecocombattente Sotto Spasmo Opercolare degli anarchici di sottosopra dappertutto indice un corteo di protesta contro la nuova politica governativa in materia di riciclaggio e riorganizzazione dell’ecosistema, politica che puzza di manovre poco chiare e mesta nel torbido. Non siamo disposti alla regressione alimentare e non tollereremo le solite speculazioni governative in conflitto d’interesse a danno del popolo. Partecipate numerosi per far sentire la vostra presenza.” “Mi sembra che possa andare… Speriamo che non finisca tutto in merda…” Una offerta veramente speciale! Da oggi fino alla fine dell’anno, grazie agli ecoincentivi statali, potrete acquistare, pagando fino a duecentoventicinque comode rate mensili senza interessi particolarmente rilevanti, SPLOF, il bioconvertitore di nuovissima generazione capace di ridurre gli sprechi organici fino al sessanta per cento rispetto ai bioconvertitori sperimentali degli anni passati. Una occasione da non perdere e un risparmio che si traduce anche in maggiore potere d’acquisto per tutte le famiglie. Approfittatene!!! 478 Il bioconvertitore SPLOF cambierà in meglio il vostro modo di vivere. “Come va?” “Malissimo: sono in crisi, depresso come non mai.” “Che succede?” “Non vado da tre giorni, ho una fame nera e al mercato vendono solo verze che mi procurano acidità e che non digerisco; e poi sono verze rinsecchite e striminzite, e costano un occhio della testa.” “Ah: un problema serio, dunque…” “Molto serio, anche perché questi bioconvertitori, se non si attivano regolarmente, potrebbero bloccarsi. La portiera del mio stabile, una stitica da competizione, ne ha buttati alla discarica già due, ché non esistevano ancora le rottamazioni dei bioconvertitori, e con quello che costano questi accidenti di cazzobubboli, incentivazioni o meno…” “Dio, come è vero! E come pensi di risolverla?” “Sto pellegrinando di farmacia in farmacia alla ricerca di un lassativo, una purga, della magnesia, ma sono finite tutte le scorte. Mi accontenterei anche della scialappa per i cavalli, ma nulla. Gli enteroclismi sono scomparsi da mesi e poi non so neanche se possano andare bene o inquinare.” “Hai provato con i vecchi rimedi della nonna? Le prugne secche? La frutta cotta? Acqua e limone bollente?” “Seee lalléro: e dove le trovi le prugne secche, la frutta e anche i limoni? Ci solo in giro soltanto verze e cipolle, ma in quell’aggeggio infernale le risultanze delle cipolle vanno bene solo per il riscaldamento o come deodoranti dell’ambiente o al massimo come insetticida.” “Coraggio, non ti abbattere. Ti mando da un medico che conosco: è un essere diabolico che vende alla borsa nera confetti Falqui, Dolci Euchessine e gelatine Rim. Il furbacchione sta facendo una barca di soldi, proprio vero che la merda porta denaro, ma se gli dici che ti mando io magari ti fa uno sconticino… 479 Pensa: mi ha riempito di Fave di Fuca e mi sento come Ambrogio, quello che va come un orologio.” “Grazie, grazie: sei un fratello. Già quello che dici mi rimescola lo stomaco…” “Nonna, nonna, stasera ho amici a cena e ho il bioconvertitore fuori uso: povera me!” “Ma cara: corri subito a comprare SPLOF. E’ in offerta specialissima con ecoincentivi governativi.” “Ma costerà un pozzo, nonna! Posso rateizzarlo?” “Ma certamente, cara, fino a duecentoventicinque mesi con mutuo quasi agevolato e inoltre, ma solo per questo mese, sei anche omaggiata di due quintali di zucchine idroponiche di dubbia falda acquifera e di un quintale di prugne secche sotto solfati di conserva a norma di legge, tutto disinfettato con la mia vecchia e buona candeggina: imperdibile, no?” “Ah, ma allora corro al più vicino rivenditore SPLOF…” “Cari radiospettatori buonasera. Quest’oggi abbiamo come ospite il ministro per l’ambiente che risponderà ai quesiti del pubblico presente in sala riguardo alla nuova campagna civiltà e progresso inerente i nuovi bioconvertitori SPLOF. Buonasera, signor ministro. Mi tolga una curiosità prima di cominciare: cosa significa SPLOF?.” “Buonasera. Colgo l’occasione per salutare i radiospettatori e per augurare a tutti un sereno futuro nonostante questi bui periodi di crisi da cui usciremo brillantemente, ché già stiamo meglio di paesi emergenti come l’Angola, il Burkina Faso e le isole Tonga semisommerse ahahah. Ottimismo, dunque, ottimismo…ahahah” APPLAUSI APPLAUSI - BASTARDI DATECI SOTTO “Grazie, grazie. Bene, per soddisfare la sua legittima curiosità, le dirò che la sigla SPLOF è un riferimento, sotto forma di contrazione letterale, al primitivo concetto circa le 480 funzionalità per cui era stata progettata la macchina: SPLOF come Spremi Loffe. Il progetto iniziale prevedeva un congruo risparmio energetico e contemplava la bioconversione delle cosiddette emissioni gassose intestinali silenziose, le loffe appunto, più dense e ricche dei classici rumorosi peti, in energia pulita per il riscaldamento dell’ambiente con l’integrazione di una componente deodorante. Ulteriori prove di laboratorio hanno successivamente squarciato orizzonti impensabili ampliando a dismisura le funzioni della SPLOF e oggi tutti conoscono le potenzialità di questo rivoluzionario elettrodomestico insostituibile per una decente qualità di vita, tanto che, come tutti sanno, il Governo sta lanciando una massiccia campagna pubblicitaria con lo slogan ‘Una SPLOF per tutti’.” “Bene, grazie signor ministro. Cominciamo dalla prima domanda, del signor Vacca Carlo di Caccamo.” “Buonasera, signor Ministro. Ecco, vorrei sapere se SPLOF funziona anche immettendo come materia prima semplice diarrea o qualche sbroffo sporadico.” “La ringrazio della domanda che mi consente di fare chiarezza, una volta per tutte, sgombrando il campo da ogni equivoco. Sì. SPLOF funziona anche a diarrea e sbroffi. E’ stato positivamente testato addirittura con semplici tracce di sgommate nelle mutande, estratte mediante uno spatolino che è stato poi aggiunto alla pur ricca dotazione di accessori. E’ infatti provvisto di un solidificatore automatico che interagisce con il convertitore e il forno a microonde in una armonica sinergia creativa. E’ sufficiente programmare i giusti tasti seguendo la pagina dei menu sul comodo display amichevole: da una scarica diarroica media, e questa è fonte ufficiale del Ministero della Sanità, si possono ricavare fino a cinque gustosissimi pasticcini al gusto di vera pasta di mandorle siciliana o anche, in alternativa prevista dal menu, una sogliola media, a vapore o alla mugnaia con una spolverizzata di prezzemolo, oppure due cannelloni belli caldi ripieni di spinaci e ricotta.” 481 “Grazie, signor ministro.” “Passiamo alla seconda domanda della signora Leica Cava in Piazza, di Meda. “Signor Ministro, il marchingegno funziona immettendo deiezioni di qualsiasi genere? Cioè, deiezioni ottenute da qualsiasi alimento? E anche deiezioni di animali d’appartamento o di campagna o selvatici?” “Domanda molto interessante signora Caca” “Cava, signor Ministro, in Piazza.” “Sì, Cava, Leica Cava, scusi. SPLOF funziona con qualsiasi tipo di deiezione. E’ stato testato con immissioni di materiali ottenuti dall’elaborazione intestinale di crusca, surgelati ancora gelati e anche squagliati dopo prolungato black out elettrico, verdura e frutta, fresche e anche marce, suole di scarpe bollite, segatura a vapore, cartongesso in umido e calcina sbriciolata saltata in padella con porri passati nel senso di appassiti quasi decomposti. Funziona egregiamente, grazie ad un programmatore di conversione assolutamente versatile: da un paio di suole di scarpe, faticosamente espulse in un processo peristaltico doloroso assai, ché era rimasto anche qualche chiodino, è stato programmato un tiramisu di pasticceria artigianale al caffè che ha poi ottenuto due cappelli di cuoco dalla guida Michelin. La conversione può avvenire programmando, oltre il sapore fondamentale, la consistenza del prodotto e il colore. Si può variare da una consistenza polentacea ad una granulacea, micro e macro, fino alla variante filamentosa che richiama visualmente gli spaghetti. E’ prevista anche una consistenza croccante, un’altra secca e una gradevolmente agrodolce. I colori programmabili vanno da un brillante giallo paglierino fino ad un verde smeraldo che i tecnici assicurano assai vivace. Una sostanziosa e allegra cenetta trasgressiva contempla addirittura i colori violetto e verdino fosforescente insieme ad uno stupefacente rosso fucsia. 482 Una serie di meraviglie, dunque, in questa sciccheria di indispensabile elettrodomestico per la casa, ché la vita, come dice la pubblicità progresso, con SPLOF, è davvero degna di essere vissuta. Inoltre il bioconvertitore SPLOF è stato testato su inconsapevoli volontari disoccupati disorganizzati e in ospedale su pazienti terminali, in accanimento terapeutico, con ricordini di cani, gatti, scimmie, bovini equini suini e ovini, castori e criceti e anche topi e coccodrilli. Il risultato non cambia: il convertitore compie magicamente il suo dovere e il menu di programmazione è assolutamente fantasioso e molto vario. Lei pensi che dalle risultanze intestinali di un procione è stato prodotto un appetitoso pastone al gusto di timballo alla norcina con abbondante spolverizzata di parmigiano grattugiato, tartufi neri e la salsa bechamel. Non è meraviglioso?” “Grazie, signor ministro. E ora un’ultima domanda del signor Tino Tenue di Belsedere, in provincia di Siena.” “Signor ministro, il bioconvertitore SPLOF è prodotto solamente dallo Stato o, come si vocifera, la sua costruzione e distribuzione è appaltata alla stessa ditta che ha prodotto molti anni fa i decoder per la televisione digitale?” “Con lei non parlo, cribbio! Lei è un provocatore comunista e un terrorista senza Dio e mi rifiuto di rispondere a questa domanda capziosa. Mi meraviglio che qualcuno le abbia dato il pass per questa trasmissione e trasecolo che lei sia ancora a piede libero e non sia stato trasformato in polpettinaggio per la filiera governativa.” “Polpettinaggio?” “Giààà, caro il mio terrorista: polpettinaggio per i cani da guardia del Primo Ministro, feroci molossi colagoghi, che poi produrranno come bisonti il materiale da bioconvertire in braciole al sangue per le guardie di scorta…” “Vigilanza, per favore, fermate quell’uomo, il terrorisTino. Sono mortificato con il ministro per l’intrusione inaspettata. 483 La trasmissione volge al termine con i inconvenienti della diretta di cui mi scuso ancora. Un saluto cordiale e un arrivederci alla prossima. Sigla, sigla.” soliti Leggere attentamente. La ringraziamo d’avere scelto il bioconvertitore SPLOF. Il bioconvertitore SPLOF, di ultima generazione, è provvisto di un meccanismo di omogeneizzazione della deiezione permettendo la conversione ottimale indipendentemente dalla consistenza del materiale organico immesso e anche in presenza di residui mal digeriti come bucce di peperoni, chicchi di mais e foglie di cavolo. Il bioconvertitore SPLOF, di ultima generazione, accetta materiale organico deiettivo di qualunque specie animale anche se si suggerisce una certa cautela operativa rispetto a granchi, scorpioni, serpenti velenosi, vedove nere e rinoceronti. Il bioconvertitore SPLOF, di ultima generazione, è provvisto di forno a microonde per la cottura e il riscaldamento del prodotto bioconvertito e anche di un grill elettrico per la tostatura e la gratinatura. Può essere usato anche come pratico scongelatore in pochi istanti e anche come termosifone e deodorante dell’ambiente in cui vivete o diffusore di insetticida In questo ultimo utilizzo arieggiare a lungo l’ambiente prima di soggiornarvi. Il bioconvertitore SPLOF, di ultima generazione, è dotato, nella sua elegante confezione, di un inesauribile ricettario per le programmazioni più sofisticate e fantasiose del materiale introdotto e suggerisce in automatico le giuste modalità di presentazione del prodotto bioconvertito. Farete una eccellente figura con i vostri ospiti o i vostri cari:ogni giorno una specialità nuova di cucina internazionale o regionale. Basterà seguire le istruzioni di programmazione utilizzando i tasti descritti e la vostra tavola sarà imbandita con le più squisite leccornie che mai potreste immaginare. 484 E vi potrete anche sbizzarrire creativamente con l’accluso divertente set di formine in melanina, mono e pluriporzione, e lo spatolino per la raccolta di esigue tracce corporali, e anche miscelando colori e consistenza in ‘nouvelle cuisine’, divertendovi a ribaltare luoghi comuni circa il colore e la compattezza del polpettone alla casalinga o del tacchino ripieno. Si raccomanda di detergere il bioconvertitore SPLOF con una spugna morbida o una mappina da W.C. e con una soluzione di lisoformio e ammoniaca diluiti in acqua. Non esporre a fonti di calore o in ambiente umido. Tenere fuori la portata dei bambini. “Mio nonno buonanima mi diceva che nella vita, tutti i giorni, bisogna mangiare un cucchiaino di merda per sopravvivere, temprarsi e farsi crescere il pelo sullo stomaco…” “Mi viene da ridere e da piangere insieme: se ci vedesse adesso…” “Giààà. Ne ingurgitiamo certe vagonate giornaliere che sembriamo tutti dei piccoli yeti, altro che pelo sullo stomaco… Ma hanno il gusto di macedonia al limone e di zampone con le lenticchie.” “Speriamo solamente che non si guasti mai il bioconvertitore, con quello che costa. Un mio vicino di casa, povero, che non può permettersi di riacquistarne uno nuovo dopo la rottura del suo, sta imparando a farne a meno, a prezzo di enormi sacrifici e di una ammirevole capacità di adattamento, ma dice, assai sconsolato, che è una indubbia vitaccia di merda!!!” 485 NESSUN ALLARMISMO Chiunque tu sia, aiutami, ti prego: sono di strutto. Sono insaccato e depresso, anzi soppressato, da interrogativi, da ipotesi, da informazioni martellanti, da un’angoscia esistenziale che tormenta nell’associazione di idee tra un semplice brutta fine, ad esempio quella di un maialetto infartato (esistono gli infarti suinidi?), e un insopportabile dolore, ad esempio lo stesso maialetto, magari alla sagra del maialetto (dal punto di vista del piccolo suino: che cazzo di festa eh?), macellato in presenza di tutti e soprattutto senza anestesia. Sono perseguitato da immagini, da ultime notizie di agenzia, da un insistente a fastidioso chiacchiericcio tuttologo senza riscontri e senza certezze. E le immagini si fondono con altre immagini in surrealtà che assumono contorni quasi comici. Nelle mie fantasie mi vedo alzare la coppa al cielo, in una botta di culatello, da vincitore di non so che cosa, mentre in realtà sono sdraiato sul letto e guardo un film esorcizzante, “Prosciutto, prosciutto”, senza riuscire ad apprezzarlo, troppo catturato dai meta contenuti, tanto da sorvolare su quella porchetta d’attrice e su quell’altra faccia di salame dell’imbranato protagonista maschile. E il guanciale mi sembra troppo duro, stagionato quasi, e mi giro e mi rigiro nel letto con un forte dolore tra capo e collo. Gli è che tutto quanto stiamo vivendo mi sembra genericamente una grande porcata, tout court, una storia a vellicare gli istinti dei maiali ai giardinetti, quelli che grugniscono dietro alle giovani balie rumene pensieracci sconci sulla propria salsiccia più o meno piccante che invece è obiettivamente soltanto un cicciolo. Cerco di distrarmi, ma la goccia cinese colpisce inesorabile e ripetutamente con cadenza esasperante. I morti diventano, ora dopo ora, sempre di più, sparsi nel porcile globale, e se ne sanno anche i nomi e se ne conoscono anche i connotati e le abitudini: lo dice lo speck 486 con una voce di circostanza che grufola nelle trombe di Eustachio con insistenza graffiante. Tizio nel Texas faceva il porco con quella maiala di sua zia, grande troia. Padre O’Sempronio faceva il maiale con quattro o cinque ragazzini dell’oratorio della sua parrocchia. In Nuova Zelanda qualcuno si rode il fegatello, in Messico ci si guarda con occhi porcini. In Italia, per ora, grazie al monitoraggio degli organi sani preposti, i porcini si raccolgono e basta. Tra qualche giorno si potrebbero raccogliere, accatastare su un carro di monatti, e bruciare in qualche discarica costruita per una vita migliore non da maiali. Si stanno coniando slogans governativi: Mai ali-mentare paure. Fioriscono già le leggende metropolitane: bisogna guardare particolarmente sui nei… o suini… A Roma già mandano li mortacci suini contro il mondo. Mai le bestemmie e le interazioni offensive a base di porco sono state così attuali. Ed è la nemesi del porco che pretende la pari dignità con l’uomo. Del resto, a ben intendere il linguaggio dei maiali, soprattutto quando s’incazzano tra di loro, le interiezioni Dio Uomo, Umana Puttana Eva, Uomo Governo Ladro, sono molto frequenti, quasi quanto i vari ‘porci’ urlacchiati in qualche bettola di periferia urbana. Gli organi di informazione integrano, approfondiscono, richiamano come un inesistente o inefficace vaccino, tranquillizzano col paradosso dello spavento o spaventano col paradosso della tranquillità ostentata come un ciuffo di setole pubiche di porco esibizionista convinto della naturalezza maestosa del suo cazzo a cavaturaccioli. Ho pruriti diffusi, somatizzazione dell’angoscia nutrita da articoli doviziosi di particolari, e mi gratto in continuazione la pancetta, dadolandomela con gli unghioli. Mi sto facendo un sanguinaccio nero nero di paura in quesiti universali esistenziali da porci e sottoporci. 487 Si dice che il virus sia un incrocio tra peste suina e febbre aviaria: un poco come se un corvo si sia ingroppato una scrofa senza preservativo impestandola. Non voglio sapere, non voglio mutare. Già adesso, confusionario, sto accarezzando l’idea di integrazione da esprimere con un nuovo nome: Salvatore Ame, detto Sal Ame, o anche meglio Sal Amen per tutti i secoli dei secoli. Fossi donna mi chiamerei Maya Lona, con l’invidia del salame al pepe. L’Ungheria a ferro e fuoco e il paese di Felino e le città di Milano e di Praga rase al suolo e bruciate per precauzione, a frenare il contagio. Parma, Modena e Piacenza bombardate. Giustiziati erodianamente sulla pubblica piazza in esecuzione sommaria tutti i figli dei cacciatori, i cacciatorini. Mi vedo tra i boia con qualcuno di questi, che l’ardo a Colonnata. Si affastellano luoghi comuni con immaginari articoli prossimi futuri. Ecco la foto della Morta della Madonna di Ferragosto, e giù, particolari raccapriccianti su pustole, sui nei (sì, lo so, mi ripeto, ma è una persecuzione) su testine e nervetti e su zamponi affaticati da troppo camminare da casa a ospedale e ospedale a casa per antivirali e mascherine per respirare più tranquilli, senza garanzie, anche se sono di cotica, cotenna, budellino. Aiutami, ché non ce la faccio più! Sono terrorizzato e mi ausculto ogni cinque minuti la soppressata, pardon, la pressione. Ma il termometro è diventato un wurstel di Merano: sai? Quelli lunghi e fini. E tutto muta in nuance con l’epoca in cui vivo e la procella fuori, un semplice temporale che batte a raffica da qualche giorno, diviene la porcella, e i porcellini che inserzionano su siti di scambisti, di là che siano bisex o rigorosamente etero, sempre comunque solari e mai lunari, mi sono sempre più rosei e fratelli di specie. Aiutami: penso che farò uno sproposito. 488 Giro nudo per casa specchiandomi di tanto in tanto di profilo, con il coltello da affettati in mano, pronto per qualsiasi evenienza, e mi scruto lo scroto e tutto il resto con maschia determinazione funerea. Quando vedrò crescermi la coda a ricciolo sopra il culo mi macellerò. 489 490 TANTO PER DIRE BAGATELLE SPERIMENTALITA’ E INVITI A FERMARSI A PENSARE 491 492 VITA E MORTE Il bimbo per gioco tirò in aria la sfera di vetro che cadde e si frantumò… Si estinse l’universo Gamma14. 493 BLOB – IL RITORNO La mayonnaise impazzita soffocò ad un assaggio la grassa signora che la stava percuotendo ritmicamente con un cucchiaio in una scodella. La donna cadde in terra paonazza dopo diversi singulti e tentativi di tossire e rimase esanime. La salsa si rovesciò dalla scodella sul suo petto, vincitrice. 494 PUNTEGGIATURA Gli piaceva scrivere. Lo considerava un pungolo ed un esercizio per la sua immaginazione, per sé stesso, e provava una certa presuntuosa gratificazione narcisista al pensiero che qualcuno potesse provare una seppur piccola emozione nel leggerlo: del resto nessuno è esente da difetti! Accettò una bizzarra sfida a distanza di una lettrice, anche brava e profonda scrittrice, su una scherzosa minaccia di abolizioni di punteggiature... Del resto, pensò, nel panorama letterario è esistito qualcuno che ha fatto a meno della punteggiatura dando tuttavia pagine indimenticabili allo sterminato popolo dei lettori: James Joyce con il suo interminabile e caotico monologo di Leopold Bloom nell’”Ulisse” e il grande Marcello Marchesi con il suo “Il Malloppo” autoanalitico e perennemente spiazzante nella sua ironia pazza e surreale. Volle misurarsi anche lui, molto immodestamente...e perse la sfida per la sua reale incapacità. Gli incisi di frase, non più arginati da ordinate virgole, punti e virgola e due punti prolificarono come gramigna invadendo il senso principale delle frasi e confondendo i predicati verbali e i soggetti con gli oggetti e gli altri complementi. I congiuntivi, i condizionali e soprattutto i gerundi ruppero le loro catene prorompendo finanche a inizio frase in deturpazioni estetiche fuori norma. I se e i ma si caricarono di troppe responsabilità e confusero con i loro simili però e bensì interi capoversi rendendoli incomprensibili. L’assenza totale di punti fermi, semplici, esclamativi e interrogativi rese le parole ebbre di felicità nell’espandersi sui fogli di carta disordinatamente... Provò ad arginare l’anarchia della morfologia e dell’analisi logica, ma dovette soccombere soffocato da anacoluti, litote, polisindeti e altre forme letterarie ormai imbizzarrite come puledri impazziti alla prima vera galoppata in una pianura. 495 Fu definitivamente sopraffatto e, nell’abbandonare il suo foglio zeppo di frasi senza costrutto logico, sorrise dalla sua stanzetta nell’aria alla sfidante e le mandò mentalmente un saluto. 496 AUTODIFESA DI VILE POETA “Sono da te, mia Regina Fantasia, prostrato ai tuoi piedi in adorazione, dopo avere attraversato tortuosi sentieri a strapiombo sui precipizi senza fondo della logica che morde sé stessa. Sono al tuo cospetto dopo aver combattuto contro gli scherani del pragmatismo e della concretezza che numerosi ho incrociato nel mio viaggio per la più completa mia conoscenza del tuo essere nel confronto delle tentazioni sillogistiche. Sono qui tra figure fantastiche e miti dopo avere scantonato come un prudente viandante dal buio del conformismo di creature uniformi e gelidamente prevedibili senza passione, se non odio e suscettibilità. E tu, ora, magnifica Signora della mia mente, vorresti consegnarmi alla pazzia del senno senza tempo e senza memoria ricusando la mia devozione, perché per te inadeguata e insufficiente, per impormi il peso dell’indeterminazione assoluta? Che ne sarebbe di me, già provato da estenuanti tenzoni con sapienti positivisti logici, con politologi arditi e faziosi, con pratici esseri dialettici che della funzionalità hanno fatto il loro vessillo di denominazione? Perché, ingrata mia Signora, vuoi saggiare la mia debolezza, perché vuoi la mia rovina, il mio annichilimento? Sarò costretto a reagire, a difendermi, difendermi da te... Ho paura dell’estrema fantasia della pazzia, dell’essere murato vivo con me stesso… Perdonami…” Cominciò lentamente e dolcemente a sfregare una gomma da cancellare sullo scritto concitato a matita irto di punte aguzze di sofferenza e tensione. Minuscoli trucioli morbidi di grafite si sparsero sul foglio che assunse l’aspetto di uno scartafaccio grigio uniforme e sgualcito… Visse l’uomo, discretamente a lungo. Morì il poeta… 497 FLIPPER SDING… glutk SKATTLE rattle PCIK pcik pcik SPOCIOCK “WELCOME TO LAS VEGAS” shot shot KRACKKKKK RRRIINGGG Sneeecckkk …..shiuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu CLANG tic 5 0 sdring tic 80 SPLINK SPLINK sdring SPLINK tic tic tic tic 2 5 0 tic 5 0 0 Catciokk catciokk tic tic 2 0 0 0 CLANG fiuuuuuuu tic 4 5 0 0 SPLINK SPLINK tic TADA BONUS rattle rattle 7 0 0 0 x 2 SSSSHHHHUUUUAAAAAAUUUUUAAAAA plink plink Tic tic 2 1 0 0 0 pcick RATATATATA tic SPECIAL TIC TIC Super BONUS tic CLANG 3 1 5 0 0 sdring sdring sdring Catciokk CLANG fiuuuu Catciokk CLANG catciokk Splokk PCIUKK AHAHAHAHAHAHA sput sput tzè SHIT ahahaha... Rattle rattle rattle SBRIIIIIINGGGGG tic tic tic X 2 X 4 3 3 0 0 0 tic 5 0 0 tic rattle 4 1 0 0 0 sbrockk STUMP Good byeeeee.....sdring sdring sdring pung ciock GAME OVER 498 QUESITI TEOLOGICI Un orfano dalla nascita, senza genitori adottivi, nell’impossibilità di onorare il padre e la madre, va all’inferno? L’onanista cieco o su una sedia a rotelle ha una speciale indulgenza plenaria per un peccato già scontato con la menomazione? L’esercitare pratiche di amore orale rientra tra i peccati di lussuria o di gola? E’ prudente, cosa buona e giusta, raccontare la parabola del figliol prodigo con il relativo vitello grasso in Burkina Faso? Circa le parabole: si può sostituire il vitello grasso con un montone nelle missioni indiane? Il barbone che chiede l’elemosina davanti alla chiesa con fede e la speranza della carità rispetta le tre virtù teologali? Il bucare con un ago tutti i preservativi di una catena di montaggio può rendere soldati di Cristo, nel reparto guastatori? La confessione del bere abitudinariamente tutti i giorni il vino della Messa e la relativa espiazione con due pater, ave e gloria, è più o è meno efficace dell’iscrizione agli Alcoolisti Anonimi? Se ci si congiunge carnalmente con una monaca o con un frate consenzienti si è colpevoli alla stessa stregua degli addetti ai lavori, che conoscono meglio il regolamento? Urlare all’improvviso “BO BO SETTETE” dietro una grata che delimita la zona delle monache di clausura facendo sobbalzare la pia canuta sorella è peccato veniale o mortale? 499 A IOSA “Tu di Pianosa ventosa, ed io di Canosa afosa… Si fa conoscenza a Frabosa, su una pista nevosa, scivolosa, meravigliosa… Si osa…, ma poi è una cosa dolorosa, solforosa, velenosa…penosa… Rosa, Rosa, eri la mia pietra preziosa… Ora è una questione oziosa: non potrai mai essere mia sposa, languorosa ed altezzosa come una vezzosa sciccosa sciantosa maliziosa, lussuriosa come una ventosa, setosa, odorosa di mimosa, deliziosa, briosa, estrosa… Ormai ti sei corrosa, sei una posa… Sei artificiosa come una gazzosa, come una prosa leziosa, cavillosa. Sei smorfiosa, gelosa e malmostosa: è lite annosa, tormentosa. Sei una tosa pelosa, no, peggio, setolosa e gibbosa con la bocca bavosa e la lingua rasposa; hai una voce cavernosa, una pronuncia pastosa, noiosa, quasi acquosa…e sei pure permalosa e nervosa: rasenti il bellicosa ed il rissosa. E sei golosa di certosa, di cimosa, di insalata capricciosa oleosa: sei fin troppo ubertosa, burrosa, lardosa, pesante come una grande losa, legnosa, appiccicosa come cellulosa collosa. Sei cisposa e schifosa. Roba da gettarsi nella Mosa o nel Flumendosa o nel porto di Tolosa nebbiosa in un calo di pressione arteriosa dopo un’endovenosa, con una Seat Arosa polverosa: reazione macchinosa (ahahah) di persona scontrosa. Meglio solo, a Villar Perosa, località montana ariosa, con una gamba gottosa, da persona riottosa, a leggere Giacosa, Vargas Llosa o una poesia mielosa amorosa; meglio “miezze ‘na strada anfosa” oppur ghiaiosa a fissar di notte una nebulosa od una stella luminosa pensando ad un’amica fascinosa, hermosa como una mariposa… Sei pallosa!” “Oronzo, rimango senza parole, no, ne ho una… …Stolto…” 500 SURREALIA ANIMALIA L’estinzione dei velociraptor dipese essenzialmente dalla prevalenza generazionale di troppi esemplari onicofagi… Andare a caccia di prede minacciando con sibili sinistri, ma senza unghioli, ha determinato la loro fine… “Dottore…” “Mi dica tutto con calma, Sire…” “Amo da impazzire enormi grilletti di insalata mista: ne sono un cultore… Mi piace mettere assieme diverse qualità di insalata, qualche foglia di orchidea viola leggermente amara, della valeriana, due foglie di castelfranco, delicata e variegata di giallo e vinaccia, due foglioline di rucola piccante e un po’ di canasta… Mi piace accompagnarle con due ravanelli tagliati fini fini a rondelle, un mezzo cetriolo, una carota piccola cristallina, un mezzo finocchio, del sedano e del cipollino fresco… Impazzisco per l’insalata…” “Sire, ma lei è un leone…” “Sto pensando di abdicare, infatti…” L’ippopotamo travolto da passione si giacque con la fragile gazzella trasgressiva… Ora l’ippopotamo è solo… Le iene, al solito, ridono senza rispetto e vorrebbero presentargli altre gazzelle per continuare a divertirsi malignamente… Lo sciacallo spera che l’ippopotamo si innamori di nuovo… La timida e vergognosa giraffa si è nascosta da qualche parte: non sopporta il ridicolo di una pitonessa miope follemente innamorata, abbarbicata al suo turgido collo, lasciva… La scimmia urlatrice è di specie recentissima: millenovecentosessantotto, l’anno di uscita del film “Duemilauno odissea nello spazio”. Se qualcuno ricorda, la scena dell’evoluzione dell’uomo, con la scimmia che 501 percuoteva con un osso altre ossa, costituisce la nascita della nuova specie. Quella scimmia sbagliò un colpo e cominciò a urlare… L’intelligenza animale si manifesta al massimo della potenzialità nello scarabeo stercoraro. Esso vive in zone desertiche presso greggi di capre o in prossimità di zone frequentate da piccoli animali come ratti selvatici. Evita accuratamente zone di pascolo e alpeggi alpini frequentati da mucche e continuerà a farlo fino a quando non si inaugurerà una palestra per scarabei, o fino a quando non sarà in grado si spingere una carriola… Al solito, le formiche nere e le formiche rosse sono rivali e si combattono, ma, al solito, spesso, un formichiere, con la lingua e con le buone, o un figlio di …malmignatta velenosa, con le cattive, le mettono tutte in riga. 502 DICE UN CAPPELLANO Non sono, queste righe, versi del Poliziano, un trattato yunghiano o freudiano, un libro di Montalbano su un ripiano, un dialogo di Luciano o un brano del Leviatano per un domenicano in un’abbazia sopra il Gargano. E’ solo il ragionare piano d’un argomento arcano: del diffidare urbano nostrano di fronte a un mussulmano di questo od altro meridiano, un comune sentire a Volpiano, Ceprano o Castelvetrano. In questo tempo strano un po’ marziano, un balzano pakistano castano e nano in caffettano senza pastrano col Corano in mano a Merano sarebbe imprudentemente insano e rischierebbe l’ano. Il valligiano ariano similgermano luterano sguinzaglierebbe un alano, belva come un caimano, o un pastore maremmano marcatore come un centromediano… Rimarrebbe, nel giro di un volano, un barracano smozzicato su un divano pacchiano a fianco di un canterano, sporco di sangue e guano, ridotto a un gonnellino di banano o ad un merletto di Burano, dopo una lunga eco d’urlo lontano atroce di indostano… Né destino più ridanciano, è lapalissiano, ci sarebbe a Milano per un mullah afgano, nemmeno discendente di Solimano, di fronte ad uno scherano bossiano devoto al capitano Alberto da Giussano, malvolentieri repubblicano italiano, padano, nato a Desenzano, che butterebbe in un vulcano qualsiasi cosa di iraniano od egiziano: non ha, infatti, tolleranza di monaco tibetano, né pietà di francescano nel mese mariano. Traccerei quindi, come Magellano, una rotta di condotta su un portolano, non certo per un catamarano in ontano, da Fano a Loano, ma per un vivere sano metropolitano nel rispetto umano. Credo che sarebbe, tuttavia, un gesto vano rispetto ad un qualsiasi prevenuto marrano pisquano…come bere il lago di Bracciano neanche fosse vino trebbiano, vermouth Galliano o amaro Lucano, o come volare da gabbiano o pellicano sopra Albano che non ha un oceano Indiano, a 503 ridosso come è dell’agro romano, presso l’altopiano tuscolano del frascatano. Al pari d’un cristiano ai tempi di Diocleziano, o d’un dulciniano ai tempi d’Avignone, il tempo è malsano oggi per un maomettano considerato, a torto, buono per un vespasiano o per San Patrignano... Roba da circo Medrano!!! Quadro di schifo, anzi di Schifano!!! 504 RADIO Stuck…whuoossshhhhhh… UUUUUIIIIIIIiiiiiìììììììììììc…crrrrr..crrrrr…Errediesseeeeeee… I’VE GOT A POWER DDRAA DRA DDRAAAA crrr… Uuuìììììì crrrr mare forza sei in prossimità di capo Pass…sshhhhhuuuuuaaaaaa Crrrr…per il tuo sederino d’oro…uuuiiiiììììì…uuuuiiiiììììì… One o One…crrr…Cinque…. STUNF STUNF STUNF STUNF STUNF STUNF CRASSSSHHHH I’ VE GOT A POWER....DRRAAAAAA STUNF STUNF ccrrrrr... ...verde per viaggiare inform... crrrr...italia…network…SBBRRRAAAAAAAAAAAANNNNNGG GGG STUMP STUMP STUMP “Insomma basta! C’è gente che dorme e che domattina va a lavoro!...” (Ma vaff…) Click. 505 TOUR EIFFEL Bonjour…Sclipp Sclapp sclipp sclapp S’il vous plait…Merci...Stop...CLANG… Strrreeeeekkkkkkkkk sklang STACK GNEEEE...SKKRRRRRIIIIIKKKK...GNEEEE SGNAAAK CREEEK CREEEK CREEEK CREEEK CREEEK... CREEEK CREEEK CREEEK CREEEK CREEEK... STACK Première étage...CLANG Strrreeeeeekkkkkk sklang Sclipp sclapp scliipp sclaapp OOOOOOOHHHHHHHH.....Voilà... It’s wonder...belliss...oooohhhhhhhh Scattle scattle RIIIING scattle DRRRRINNNGGG Attention...Attention...Monsieur NOOONNN NOOON... FLYYYYYSWHOSHOUUUUUUUUU...... SPLAT 506 OMELETTE Tic...tic...SPLACK...Sschoouuuu Tic...tic...SPLACK...Sschoouuuu RATTLE RATTLE SBATTLE SBATTLE SBATTLE SBATTLE RATTLE RATTLE Click...clik...click...SCHACK...SWOSSHHOOUU SDENG...gluglugluoillllllll Sversssssssss...SCHAAAAA..... SFRRRRR....SFRIGGG....FRRRRR...FRRR... SHOP SHOP SHOP....SWUSHHHH...SFRRR...Oplà... SFRRRRR...SFRIGGG...FRRRRRR...FRR... SHOP SHOP SHOP....SWUSHHHH...SFRRR...Oplà... SFRRRRR...SFRIGGG...FRRRRRR...FRR... SHOP SHOP SHOP....SWUSHHHH... SPLAT Porc...Ma vaff...zz.. 507 CYRANO ALTER Cos’è un’ambulanza? E’ l’apostrofo con la sirena tra le parole: “con l’amo arrugginito ho preso il tetano.” 508 SCRITTORE MANCATO Da ta..ta..tanto tempo ho il de..de..scidevio di scviveve qua…qua…qualcoscia, un libvo, vacco..vacco…vaccontini oppure un dia..dia…diavio. Adovo scviveve, viem…viem..viempive pagine e pagine bia…bia…bianche con le mie scensciazioni, i miei penscievi, e poi ascoltave i pave..pave..pavevi di chi mi le…le…legge. Mi pvende pevò lo scon…scon…sconfovto già alle pvime vi…vi…vighe di quando scvivo e devo pven…pven…pvendeve atto che sciono e savò uno scvit..scvitt..ove mancato, e per scempve…. Del vesto… con la lisca, l’evve moscia, e que…que…sta fastidioscia bal…bal..balbuzie anche mentve scvivo, obie…obie…obiettivamente posscio fave poca stvada… 509 TELEGRAFIRONICA Idee leggere, abbozzi, situazioni, pastiches, bagattelle, aforismi, pensieri più o meno profondi, cattiverie e cinismi all’insegna dell’ironia, in ordine sparso, da pigro Invece che a scacchi, come nel film “Il settimo sigillo”, o a poker, come in un raccontino di Woody Allen, volle giocare con la morte a Poker Strip per dare alla sfida con la signora della falce anche un tocco di erotismo all’insegna del motto “amore e morte”. Vinse con un poco di fortuna qualche altro anno di vita, ma rimpianse l’erotismo di tempi andati in una impotenza irreversibile: fu troppo traumatizzante vedere un bacino così nudo, bianco, freddo, …ossuto… Riconobbe la sua vecchia cliente di venti anni prima: le aveva tatuato su un suo giovane nervoso gluteo una farfallina. Inorridì al rivedere la sua opera.: un grasso sformato tacchino adagiato su un puff. Di fronte all’abate dello sperduto convento, per il suo primo colloquio di presentazione, lui, che aveva scelto il ritiro dal mondo per la ricerca di una sua pace interiore, comprese in un istante di essere caduto dalla padella alla brace. Quell’abate lo carezzava troppo fraternamente… La storia d’amore tra la Donna Cannone e l’Uomo Proiettile ha suscitato tenerezza e ha portato nuovi sponsors per il Circo: Oto Melara per lei e Fiocchi Munizioni per lui. Sono innamoratissimi e vogliono un figlio, anzi, una figlia. La chiameranno Mina. Il vile individuo, codardo coniglietto tremulo, sorpreso come al solito da reazioni decise ed immobilizzato dalla sua 510 eccessiva prudenza, fu colpito al petto a bruciapelo: si salvò perché aveva il cuore in gola… Un cavallo di pantalone tentò di brucare un cespuglietto nel bel mezzo d’una sala da ballo: successe un finimondo... Chi lascia la strada vecchia per la nuova…si trova imbottigliato in un cantiere. Troppo drammatici i titoli dei telegiornali, o troppo apprensivo e fantasioso io… “Brucia l’Emilia…” Raccapricciante: mi figuro un donnone che fa la pasta all’uovo mentre arde tra atroci urla per il fornello difettoso… Notizia del giorno sui quotidiani: “Può essere utile il trapianto da un maiale.” Penso che potrebbe essere vero: su certi porci non si avrebbero effetti di rigetto… L’inguaribile ottimista, ingrassando, non perde la linea, ma cambia una linea retta con una linea curva. L’amore comincia a morire nello stesso istante in cui si comincia a percepire nell’altra metà l’odore dei piedi e l’alitosi. Posso dire di avere vinto una discreta somma al Superenalotto, da quando ho smesso di giocare… E’ un eterno ragazzo pieno di fantasia con la sindrome di Peter Pan. E’ diabetico. Cerca l’insulina che non c’è. La colf filippina ha messo al cane, per la passeggiatina, il collare dell’Annunziata del Commendatore. E’ stata licenziata. 511 Lo scrittore lesse l’opinione di alcuni membri dell’Accademia della Crusca circa la questione dei congiuntivi e dei condizionali. Dissentì con astio e ironizzò sull’Accademia. La ribattezzò Accademia della Segala. Il numero di Voltan il domatore di leoni con la testa tra le fauci di Sultan da questa sera è stato soppresso. A Sultan è stato praticato un clistere di dodici litri di camomilla e sapone. Voltan aveva una sessantadue di testa per il suo cappello… Povero Sultan. Anche l’ultimo film del noto regista impegnato del Tagikistan, Zoran Mottenaccorgieff, “Alba senza sole con emicrania”, in quel tipico bianco e nero sgranato volutamente svogliato e provocatorio, ha ottenuto cinque pallini dalla critica e due palle dal pubblico. In Transilvania i metronotte in bicicletta sembrano Hawaiani. Hanno tutti un serto di agli come collana floreale sopra la divisa. C’è anche l’ukulele dei lupi sui monti. In andropausa, tutto quello che viene perduto progressivamente dal cervello, viene spesso acquisito dalla pancia… Sto cominciando ad ingrassare scrivendo queste sciocchezze senza cervello… MENS NANA IN FORFORA VANA 512 SUORE E CACCHINE DI BIMBO Riesco a spingermi con la memoria fino a quando avevo quattro anni circa ed abitavo all’altro capo di Roma, verso la basilica di S.Paolo, in un appartamento piccolo piccolo che trasudava di sacrifici per accogliere una giovane coppia monoreddito, me e una sorellina di due anni scarsi. Di quel periodo ho immagini vaghe e sfocate alternate a scene nitide di eccellente fotografia: un balcone in muratura, senza ringhiere, all’ottavo o al settimo piano di un palazzo verdino, un tappeto nel balcone per giocare in terra con i soldatini e per costruire fortini con scatole di latta di biscotti e pezzetti di proto-Lego ancora in legno colorato. Ricordo sfocato un vecchio Allocchio Bacchini, un televisore posto alla fine di uno stretto corridoio, e ho vaghi richiami di veteroclips musicali trasmessi nel pomeriggio: il duo Fasano, Julia De Palma, Arturo Testa e Gino Latilla, e qualche Carosello serale prima di andare dormire, come era costume allora per i bambini, subito dopo. Ricordo il mio primo libro, nulla di ricercato: il classico Pinocchio in una edizione ingiallita degli anni venti o trenta con belle illustrazioni ad acquerello. Lo lessi attanagliato da un duello: quello tra la fatica della lettura di bambino, che solo allora imparava a scandire le sillabe, e la curiosità di una storia che mi affascinava. Vinse la curiosità, e rivinse ancora due o tre volte, sempre con lo stesso libro e lo stesso inizio: “C’era una volta…Un re…” Ritorno con la mente in quel piccolo alloggio molto luminoso e si accende un caleidoscopio di ordinarie scene quotidiane e colori e luce: quella gialla aranciata calda accecante del sole della mattina nella camera da letto, una luce più ombrata nella cucina esposta a mezzanotte, con un colore verde incubo di broccoli che non mi piacevano, il buio lampeggiante del corridoio in bianco e nero con voci calde e sorrisi… Da questi quadretti di scene familiari la mente spazia gradatamente squarciando i veli del tempo e altre scene si 513 accendono con lo strofinio dei miei piccoli sentimenti di bambino che rendono vivide alcune emozioni. Un sentimento di vergogna e una emozione nell’imbarazzo. Vedo un torpedone rosso sotto casa, quello che mi porta tutte le mattine all’asilo delle monache, una trovata dei miei genitori che vogliono il cosiddetto meglio per il loro virgulto: destinazione via Pannonia, in un altro quartiere lontano di Roma, e loro sono le Suore del Preziosissimo Sangue, un nome allegro per bambini dell’asilo, invogliante. Mi vedo salire ogni giorno su quel torpedone con un cappellino di lana gialla spessa, fatto a mano da mia madre a “tricot”, legato con un bottoncino sotto la gola, appena un poco stretto, ma non tanto da strozzarmi, con una visiera esagerata di cartone rivestita da uno strato pesante della stessa lana gialla: una testa a tuorlo d’uovo di bambino scemo con visierone da piccolo JerryLewis d’aspetto molto tonto. A quattro anni avevo già la percezione del ridicolo e sentimenti di vergogna, anche perché ero segretamente innamorato, per come può esserlo un deficiente con la testa gialla di quattro anni, di una adorabile bambina delle elementari, di circa sette o otto anni, che forse aveva già maliziosamente compreso e giocava a stuzzicarmi con moine da sorellina grande. Mi vedo, a questo punto, già dentro l’asilo delle monache, austero e divertente come una rispettabile polverosa biblioteca universitaria, con la mia valigettina di plastica celeste con dentro i pastelli e un quaderno nero con le pagine ingiallite già da nuove, bordate di rosso, come un messale, su un banco con il calamaio, con un compagno di banco di nome, mi sembra, Funghini, con una parete che era un armadio gigante vetrato con dentro libri e tante costruzioni di legno e giochi istruttivi. Rammento una luce severa, quasi una penombra, nell’aula, mentre scricchiolavano i pennini o le matite copiative sui fogli righettati dei quaderni neri per fare tante O oppure le aste. E qui subentra il mio incubo: suor Virginia. 514 Era una suora traccagnotta e grassottella di mezza età, arcigna, molto rude, assolutamente poco pedagogica per la mia imberbe capacità critica di fruente di un servizio didattico a quattro anni. Quando c’era lei, invece di un’altra suorina più giovane e dolce, non volava una mosca, e tutti noi, credo, si contava mentalmente i minuti per uscire nel cortile e fare una ricreazione rumorosa con due automobiline di metallo a pedali, un pallone, qualche corsa o un nascondino dietro qualche magro alberello, mi pare di fichi. Si riaffacciano ora tante associazioni di idee a immagini sfocate, forse belle, e altre, nette, per me bruttissime. C’era un teatrino nell’istituto, confinante con la chiesa, e mi ricordo la recita pasquale con me che declamavo, rosso di vergogna come un tacchino, una qualche filastrocca: “Din, don, dan, campane a festa din, don, dan, la gente è desta, din, don, dan levate i cuoriiiiiiii…. Per entrare nel teatrino, come attori intendo, si doveva passare per la chiesa, sempre semibuia con una luce colorata scura filtrante da vetri colorati. Ho cominciato da lì a fare le mie prime associazioni suoni colori odori: scalpiccio di passi e pesticcio su marmo e tavole di legno, l’odore d’incenso associato alla polvere delle assi del palcoscenico e all’odore persistente di mele cotte di suor Virginia in una luce strana violacea di vetrata o gialla e violenta di riflettore sulla scena. E questo, forse, è il bello… Poi l’associazione più traumatica, ridicola, vergognosa… Agli odori, suoni e colori di prima mi sovviene di aggiungere la cacca, sotto diverse epifanie, ridicolmente comiche, ma anche plasmanti nel trauma per un giovane carattere di bimbo implume. L’aspetto comico fu quello della cacca di Enzo, un mio compagnuccio roscio roscio di capelli che sembrava una carota ambulante. Se la fece addosso, in chiesa, mentre si cantava tutti a squarciagola “T’adoriam ostia divina…”. 515 “Roberto, oddio, ho mal di pancia, ho mal di pancia, non ce la faccio più…” Poi il silenzio di Enzo, contrito, innaturale, mentre tutti cantavamo con devozione, ed una inattesa rivelazione fuoriuscire dai pantaloni, lunghi, del piccolo fedele. Il condor suor Virginia che piomba con un sinistro e silenzioso sbattere d’ali nere come la pece, frettolosi segni di croce del rapace e della carota, scalpiccio veloce con un onomatopeico ‘ciac, ciac’ di cacchina squacquera di bimbo pesticciata sul marmo: questo è il ricordo nitido di Enzo il carota e della sua cacchina. Poi tutto si spegne: forse Enzo affettato per il minestrone delle suore, forse trasformato in ostie o mele cotte, non lo so, e mi viene di pensare, per concatenazione, alla mia cacchina, la cacca parte seconda, la cacca il ritorno, la cacca 2, con un nuovo protagonista. Me. Io eruppi nelle mie braghette corte piuttosto strette durante la ricreazione nel cortile. Non ricordo se consumavo un pranzo preparato dalla mia mamma con le sue manine d’oro oppure un qualcosa di monacale preparato anonimamente per tutti da qualche suorona grassoccia nelle cantine. Con il senno di poi, presumo, considerando anche l’increscioso episodio del carotino, che il vitto fosse “made in suora”. Non mi trattenei, insomma, ma non ebbi nulla da fare vedere a nessuno e tenni il mio segreto per qualche minuto fino a che non sentii cuocermi la tenera pellicina di culo di bambino di quattro anni da un qualcosa di bollente. Allora, timoroso, ma fiducioso in una benevola comprensione, riferii al condor. Il ricordo qui si frammenta e sfilaccia. Non posso giurare che suor Virginia, sanguigna e rude, non abbia sacramentato, almeno un poco: ricordo qualche bofonchiare mentre venivo sommariamente strofinato vicino ad un rubinetto dietro il cortile. Il trauma che mi è ancora impresso nel ricordo fu nel dopo. 516 Mi rivedo lì, nel cortile, educato e forgiato con spirito di abnegazione apprezzabile, fulcro di un grande girotondo di tutti i miei compagni di aula, anche se non ricordo Enzino il carota. Mi rivedo vergognoso con le labbra strette ad una fessura carica di acerbo odio omicida che fisso la vecchia laida suora nera nera, con le mie mutande piene poste da lei sulla mia testa a scherno e monito per tutta la classe che gira in tondo a me, ridente e inconsapevole di ciò che è giusto e ingiusto. Quanto ho odiato suor Virginia! Era il 1956. Quattro anni dopo si seppe di Kindu, nell’ex Congo Belga, di quella strage di suore missionarie nel Katanga. Non so se fu una coincidenza, se fu una deformazione della notizia da parte mia, se è realmente successo come ho odiosamente vagheggiato… Mi pare che una di quelle suore si chiamasse Virginia e credo, ma forse sognavo solamente, che quelle suore missionarie fossero del “Preziosissimo Sangue”. Avevo otto anni circa, ma non avevo dimenticato. Gioii stoltamente per l’atroce fine di quelle monache fatte a pezzi, senza alcun rimorso o commozione, in piena malvagia gioia vendicativa di ragazzino offeso nel suo io più intimo di quattro anni. Forse, a ben pensarci, è stato il mio primo manifestarmi d’adulto, con una primitiva scheggia impazzita di odio, o solo un naturale crescere umano di impasti orrendi e osceni misti a tenerezze e buoni sentimenti spazzati via, nella contingenza, da una mutanda piena di cacca di bimbo che ha ferito un bimbo più di una spada. 517 DESECRATION BLUES O Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone, La vecchia Sally, scontrosa, è spirata stamattina ad un pallido sole. La vecchia Sally, brontolona, è spirata stamattina ad un pallido sole O Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone. La vecchia Sally, esigente, non potrà più cucinare Lo stufato salato con fagioli messicani. La vecchia Sally, rude, non potrà più lavare al ruscello Strofinando con energia casacche di juta con cenere di ranno. Ed io rimango solo, o Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone, E affogherò la presenza dell’assenza della vecchia Sally nel liquore di canna E ti ringrazierò, o Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone, Al coro delle voci dei miei fratelli neri madidi di sudore. Ti ringrazierò perché hai preso la vecchia Sally, polemica, che è spirata stamattina O Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone. Ti ringrazierò contrito e intimamente sereno Perché mi hai tolto la vecchia Sally, vera rompicoglioni, che è spirata stamattina, O Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone. Lode a te, e grazie, o Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone. 518 UNA SECONDA POSSIBILITA’ “Millenni e millenni addietro, uno spazio di tempo inimmaginabile, avvenne. Non si ha memoria del luogo: è trascorso troppo tempo. Era il periodo delle piogge. Pioveva ogni giorno un’acquerugiola leggera e viscosa di un curioso colore petrolio, oleosa come il petrolio, fosforescente per una forte radioattività. Pioveva ovunque attraverso un’aria grigia e spessa appena mossa da un vento leggero a volte tiepido, a volte freddo, ed un pallido sole giallognolo, quasi verdastro come un aspro limone acerbo, illuminava un mondo grigio filtrando da spesse coltri di nubi gonfie ancora d’inesauribile pioggia viscida. Il ticchettio delle minuscole goccioline faceva da tappeto sonoro di sfondo a qualche rauco richiamo di pochi gabbiani violacei. Questi volteggiavano pigri su un’enorme distesa di spazzatura vicino a rovine corrose di quella che un tempo doveva essere una megalopoli di una qualche civiltà estinta. La pioggia inzuppò, con un denso massaggio di liquidi aghi, un insieme indistinto di materia che, molto tempo prima, era cartone, vetro, alluminio, plastica, legno, metallo, inchiostro, elementi rari e comuni depositati e dimenticati nel tempo in quella radura. L’acqua penetrò strati di silicio di antiche macchine, coperti e protetti da altri strati di cellulosa informe fusa in innaturale omogeneità con metalli leggeri e vetro disciolto da vecchi calori. Solleticò reazioni chimiche sconosciute unendo nel suo abbraccio materiali diversi tra loro. Un raro fulmine cadde sulla distesa dei rifiuti con un fragore lacerante nel silenzio rotto dal continuo scroscio e dalle stridenti grida degli uccelli. Qualcosa fu percorso da un’energia violenta e si mosse. Un magma impastato di spazzatura radioattiva fuoriuscì lentamente dal mare di rifiuti in una forma 519 appena abbozzata d’essere vivente vagamente somigliante ad un antichissimo umano di milioni di anni prima…” Piccoli riflessi di luce nel buio siderale più profondo comunicavano tra loro e qualche giovane spirito apprendeva la storia più antica del mondo con l’energia dell’evoluzione ultima del pensiero. “Fu la creazione dell’uomo, grande Mor?” Calò un silenzio innaturale di meditazione, di riflessione, di placido e calmo sgomento per l’enorme incommensurabile periodo di tempo trascorso nell’ignoranza e solo da poco nella saggezza. Poi, un breve lampo, la risposta di un pensiero. “Fu una seconda occasione. Una seconda possibilità.” 520 PENSIERI SPARSI Il poeta curioso e goloso sbircia nei buchi del groviera per trovare una gemma in una grotta d’oro. Bugiardini: croce e delizia della mia curiosità morbosa e apprensiva. Guardo subito gli effetti collaterali. Rimango stranito, tra il perplesso e il beffardo. Su un foglietto c’è scritto testualmente così: effetti collaterali – la morte. Valuto che gli effetti collaterali enunciati come possibili da un altro bugiardino, espressi in carcinoma alla mammella o al collo dell’utero, intossicazione epatica, emorragia, distacco della retina e quant’altro ragionevolmente serio, non giustificano la fruizione di un semplice ovulo da introdurre vaginalmente per una maggiore lubrificazione. La scienza al servizio di una trombata in menopausa chiede un pesante tributo da pagare. Tutti hanno ragione su tutto…dal loro punto di vista. La parola ‘oggettività’ mi viene da associarla a qualche utensile di misurazione, un goniometro, un manometro, una qualsivoglia valvola che sorvegli qualche flusso: c’è sempre bisogno di un tecnico mandato da chissà chi per la manutenzione e la taratura. I momenti in cui l’ignoranza forse sa essere anche comica seppure terribile. Reparto di ospedale: esce da una stanza un personaggio visibilmente soddisfatto. La moglie apprensiva chiede curiosa, pressante e apprensiva. E lui, orgoglioso, come il possessore di una raccolta di figurine di calciatori, per una volta completa anche del centravanti della Pro Patria: “ …Una malattia rara…” Mi piaceva, una volta, quando non ero distratto come ora, giocare a scacchi. 521 Ho anche evocato immagini per racconti mai scritti surreali o di costume. “La Regina era così bella e affascinante che alfieri e torri riuscirono a stento a tenere a bada quei rozzi pedoni stupratori: ne venne sacrificato uno per l’esempio… L’arrocco di Donna è più lungo di una casella rispetto all’arrocco di Re: è la casella di servizio per il beauty case, i bagagli a mano, la guantiera e le riviste da viaggio”. Non per tutti la gola è, o è stato, un vizio capitale: per esempio per Linda Lovelace. Il lupo, checché possa dire il proverbio, può perdere anche il vizio: con opportune cure farmacologiche e la castrazione chimica. Mi viene da aggiungere che potrebbe essere sufficiente anche qualche pollo d’allevamento pieno di ormoni, ma ho paura di impantanarmi in un discorso troppo complesso: non riesco, poi, ad immaginare un lupo con le tette… Consiglio: non agitate …soprattutto i precoci… tutto prima dell’uso, Ipocrisia del tipico benpensante. Sta lì al semaforo rosso, guardingo, atteggiato benevolmente verso il giovanissimo marocchino che ha un vassoio come una coniglietta di night club pieno di fazzolettini di carta e accendini e spugnette per il vetro della macchina. Il ragazzino parla sorridendo, ma gli occhi tradiscono una speranza troppe volte frustrata: sta raccontando qualcosa di sé al bravo autista che lo squadra paterno. Sta sollecitando un acquisto per compassione, sta calpestando ancora una volta per fame il suo orgoglio pur mantenendo una sua elegante dignità. Ha appena accennato di aver saltato il pasto… L’autista gli dà una pacca sulla spalla sorridendo partecipe e complice: bravo il piccolo buongustaio che salta il pasto… in padella…bravo giovane ometto di mondo che sa vivere dei piccoli piaceri della vita… 522 Con questo non voglio dire che sono per l’adozione totale di tutti i piccoli saltatori semaforici: mi innervosisce solamente certo comportamento Mi immagino su uno Skania turbo intercooler alto, massiccio e imponente, dietro il bravo autista… E si continua con le ipocrisie e le banalità che mi irritano e per le quali tempero la punta di un affilato cinismo per controbattere in maniera da togliere il fiato. “I soldi non hanno odore” oppure, più elegantemente: “Pecunia non olet” che, detto in latino, rende carismatica la saggezza del citante… Che stupidaggine: provate a pulirvi il culo con cinquanta o cento euro! Ovviamente il culo diviene metafora per una retorica figurazione moralistica che bla bla bla bla… Dicono che l’olio versato porti male, che sia un sinonimo di disgrazia… Io credo che se su una grossa grassa chiazza ci scivolasse una odiosa suocera plurimiliardaria che ricadesse poi pesantemente di nuca dopo un salto mortale all’indietro, la nuora o il genero interessati si troverebbero nella stessa condizione mentale di chi ha fatto un bingo nel Nevada. All’anima della disgrazia…se il testamento non prevede un beneficiario cane lupo o coniglietto domestico o santa confraternita neoreligiosa dei “Bambini figli di madre vedova allegra che ricordano tutti i giorni la fine del mondo vicina”… Tutto questo per fare notare che non tutto è come lo si vede o come viene presentato. Posso integrare il concetto con alcuni esempi: “Sono stufo di pedalare sempre, non ce la faccio più!” “Pedala, pedala, che se smetti Robertino ti cava gli occhi”. 523 Non è un dialogo tra ciclisti che parlano dell’allenatore, ma tra criceti, in cricetese squittente, dentro una gabbietta con la ruota. “Mi stai togliendo il fiato...” Non è un’amante sudata e felice, ma una vittima dello strangolatore di Boston. Potrebbe essere anche donna Assuntina a Pozzuoli: la moglie di Gennarino o’ scorreggione, il guappo del quartiere. “La situazione è sotto controllo.” Non è il Ministro dell’Interno durante uno sciopero generale, ma la dolce e al contempo severa infermiera Emma che rapporta alla capo sala l’avvenuto cambio dei pannoloni della camerata ovest dell’Ospizio Geriatrico San Bagnolo dei Pantaloni. “Mettiamoci una pietra sopra.” Non è un litigante dopo un’accesa discussione finita a tarallucci e vino, ma il becchino capo, scusate, il necroforo capo del cimitero monumentale. “Hai occhi dolcissimi.” Non è un innamorato perdutamente partito per la sua lei, ma un cannibale del profondo Mato Grosso di fronte ad un esploratore diabetico. “Si vvai avanti così te perdi ‘na gomma.” Non è Romolo, meccanico di Pietralata, quartiere popolare di Roma, ma il Dott. X., chirurgo plastico, sempre di Roma, che parla ad una sua paziente che ha effettuato presso un concorrente un intervento di siliconaggio al seno. “Incassalo.” Non è un invito di un bancario circa un assegno, ma di un becchino, ops, scusate ancora, di un necroforo. “Adesso mi sono veramente rotto.” 524 Non è lo stufo o lo scocciato per una discussione, ma quello che è scivolato dal predellino dell’autobus preso al volo. “Ci sono due etti in più, lascio?” Non è il salumiere col prosciutto cotto, ma il chirurgo plastico, forse sempre il solito Dott. X., con una tetta al silicone. Quando si dice ‘essere out’… Credevo che l’ultimo miglio della Telecom fosse una nuova specie di mais OGM. Credevo che il Signore degli Anelli fosse il ricettatore al bar sotto casa. Credevo che accendere un mutuo fosse una crudele pratica incivile contro un disabile o un quiz. Credevo che la mostrina fosse quella ragazza di Novi Ligure. Gare innocenti di pub. Il comitato promotore della “Prima gara di bevuta di birra” del pub “La taverna dell’oca arrostita” alla periferia di Monaco di Baviera ha esposto un cartellone informativo per i suoi clienti: SI COMUNICA ALLA SPETTABILE CLIENTELA CHE LA SECONDA GARA DI BEVUTA DI BIRRA, PREVISTA PER IL PROSSIMO MESE, PER MOTIVI DI SICUREZZA E ORDINE PUBBLICO, SI TERRA’ PRESSO LO SPIAZZO ANTISTANTE IL PUB, DALLA PARTE PIU’ LONTANA VERSO IL BOSCO, GRAZIE. La prima gara ha avuto infatti degli effetti collaterali estremamente pericolosi per l’incolumità dei presenti: sono andate in frantumi tutte le vetrine e buona parte dei boccali del grazioso locale. Partecipavano molti concorrenti reduci dal concorso “Mister rutto di Baviera”. Crollo di un mito: ho saputo che l’uomo che non deve chiedere mai è pieno di debiti. 525 Noia. Vita associativa e comunicativa come un ‘loop’ risaputo. Domande ricorrenti, prevedibilità di risposte, feroce divertimento masochista nel sottolineare l’aspetto ‘trendy’ di argomenti salienti. Come hai trascorso l’ultimo dell’anno? Ti sei divertito? TV: ‘dejà vu’. Servizi sempre ‘loop’, buoni dal ‘novantadue o anche prima fino al duemiladodici o anche dopo, se Gorgo Bush lo permetterà. ‘Reportage’ sui soliti quattro esibizionisti denominati ‘orsi bianchi’, ‘surgelorsi’, che fanno il bagno seminudi il primo giorno dell’anno. Il parere autorevole dell’esperto sul come smaltire gli eccessi di calorie assorbite con il cenone di capodanno: mangiare verdure, bere molto. Bollettino delle vittime dei botti per farci sentire migliori. Panoramica giustificativa e tranquillizzante della coscienza sui terremotati e sui cassaintegrati: se non altro il nostro pensiero rimane vigile. Il primo nato dell’anno è di Torino, forse, un minuto dopo la mezzanotte, anzi no, dopo cinquanta secondi: madre felice inquadrata con tetta spremuta. Ricorrerò ad un bravo avvocato per chiedere i danni alla Rai. Sono rimasto accecato da due capezzolate violente sparatemi negli occhi dalla Venier che, strafatta, si agitava in una improbabile macarena in primo piano sullo schermo l’ultima notte del duemiladue. Fortunatamente è stata una cecità provvisoria. Ho riaperto gli occhi in pieno trauma di Maurizio Costanzo sbavante con sassofono. Sono diventato sordo. Ricorrerò ad un bravo avvocato per chiedere i danni a Mediaset. Il mago Fox prevede per il mio oroscopo del 2003 che finirò sul lastrico: sordo e semicieco. 526 Quando l’ottimismo rasenta il surreale. Alle 23,45 del 31 dicembre qualcuno in diretta porge auguri di buon anno da una televisione privata, tra un’asta di un fratino del settecento e l’offerta di un sofà Luigi sedici. Il bello è che sembra che arrivino offerte… Da un’altra parrocchia ti propongono, senza neanche farti gli auguri, automobili a chilometri zero… Per un abbozzo di ‘par condicio’ o di semplice compensazione, almeno nell’ultima notte dell’anno, magari subito dopo il discorso alla nazione, avrei sperato in un bel normalissimo buon film porno senza censura, anche vecchio, chessò, di Linda Lovelace: purtroppo siamo sotto un regime amorale a base di cartoni animati, riproposti per la trentesima volta, e di conti alla rovescia con vip festanti. Posso ormai indovinare con un’approssimazione del tre per cento quante otturazioni ha Stanlio e il numero dei peli che costituiscono i baffetti di Ollio. Posso fornire altri succosi dettagli su: “Il piccolo lord”, “Una poltrona per due”, “La vita è meravigliosa”, “Il cucciolo”, “Willow”, “Sister Act” (uno e due), “La carica dei centouno” (film e cartoon), “S.O.S. fantasmi”. I morti viventi li hanno pressati nello zampone. I vampiri li hanno bloccati con l’aglio per paura che sparissero i sanguinacci. Dove andremo a finire? Il concerto di Capodanno è trasmesso con i sottotitoli per i non udenti a pagina 777 del Televideo? Le società finanziarie di prestiti hanno visto i loro introiti aumentare vistosamente nell’ultima settimana dell’anno: sono stati accesi diversi mutui per potere accendere tanti festosi fuochi d’artificio per festeggiare il nuovo anno. Anche al Monte dei Pegni regna una moderata soddisfazione… I cinesi rappresentano l’ ‘hard discount’ dei giochi pirotecnici. 527 L’economia tutta e la Borsa seguono con trepidazione e interesse il duello economico tra le ‘lobbies’ di Canton e Shangai e quelle di Pozzuoli e San Giorgio a Cremano. Qualche ‘bauscia’ ha provato ad inserirsi nella concorrenza dalle valli del bergamasco, ma rimane un semplice ‘outsider’ pirlotecnico. Mancava ‘baffino’ Tonino Guerra (Gianni, Giaaaaaaannnnniiiii, sono ottimista…) come presenza diretta, ma degni epigoni lo hanno ben sostituito in servizi di (buon) costume televisivo. Sono state setacciate le zone più sconosciute del pianeta alla caccia di personaggi che potessero infondere una certa fiducia nel futuro all’insegna del doversi accontentare di quello che offre la vita. Hanno ripreso un vecchino di ottanta anni che ne dimostra trentadue che vive solo in maniche di camicia in una malga a duemila metri d’altezza con la sola compagnia di una vacca e di un cane. E’ allegro, forse troppo allegro…forse semiciucco. Dice che si sveglia la mattina alle cinque e va a dormire alle otto di sera: la mucca alza i mansueti occhi al cielo. Lo dice come una persona soddisfatta: Parigi val bene una grappa. Quel poco che gli offre la vita, nelle vesti della Rai, è stato un barile di pura acquavite di vinaccia aromatizzata al genepin. Terminate le riprese televisive, rimette la ‘guepiere’ e la sottoveste colore lilla alla mucca perché altrimenti prende freddo. E, intanto, tocca. La vacca ci sta. Il cane è invidioso. Mi scopro sempre più acido e cattivo. Siamo sicuri che la fiaccolata per la pace nel mondo tra le nuove case prefabbricate a San Giuliano non abbia incenerito il nuovo similpaese in compensato? Nessun trapezista in manifestazioni circensi di festeggiamento ha concluso definitivamente senza metafore il vecchio anno? 528 Possibile che non esistano soffocamento di lenticchie? morti accidentali da Forse l’ho sognato, ma qualche politico aveva proposto, nella concomitanza delle festività, casette prefabbricate per i terremotati in marzapane e torrone, modello Hansel e Gretel… Il traffico telefonico nella sera di capodanno è paralizzato non tanto dalle brevi telefonate fatte ai parenti, quanto da quelle brevissime fatte agli amanti, dal chiuso del gabinetto, al riparo da occhi indiscreti. La teoria può essere confermata dall’afflusso abnorme di acqua di scarico di sciacquoni nelle fogne urbane tra le ventitré e le ventiquattro. O è la gelatina avariata del patè di prosciutto della gastronomia sotto casa? Alle sei del mattino del primo gennaio si possono ascoltare, in un silenzio irreale di fine festa, fragorose risate di persone attempate che urlacchiano frasi senza senso o fanno l’imitazione del Gabibbo. Sono genitori ritornati dalla tombola tra arteriosclerotici parenti che riprendono possesso di case affidate per un veglione indipendente ai loro figli. I virgulti hanno festeggiato grandiosamente a mega cannoni di roba buona. Ma non hanno aerato i locali. Papà e mammà non si sono neanche accorti di quelle macchie arancio acido sulla moquette di quello che non ha retto il pakistano. E’ la farmacia il termometro per conoscere la qualità media dei cenoni di fine anno. I prodotti più venduti sono l’Enterogerina, l’Imodium e le perette di enteroclismi monodose… Anche un ascesso ha la sua funzione positiva nel senso della vita. Offre la consapevolezza dell’essere vivo, seppure in un dolore della Madonna. 529 I funerali pubblici mi frastornano: i presenti, in genere, applaudono. Mi aspetto sempre che qualcuno gridi: “Bis”… Ieri mi è anche venuto in mente che la buonanima possa uscire dalla bara e possa prodursi in un profondo inchino. Bacco, tabacco e Baricco riducono l’uomo ad un brocco. La dimensione del livello di sordità di una persona ha facili misurazioni. Per esempio: mia zia di novantuno anni è molto, molto, molto sorda. Io pronuncio, sillabando, con voce stentorea, la parola “mano” e lei capisce “frangiflutti”. Quando si dice di uno che è ‘bastardo dentro’… Mi è venuto in mente uno spot per pubblicità progresso. Ray Charles oppure Stevie Wonder o Josè Feliciano, uno a caso, che rivolto verso il pubblico dice: “Toglietemi tutto, ma non il mio Braille”. Ogni tanto sono convinto di avere confezionato un aforisma o una semplice battuta che valga la pena di tramandare. Questa la riporto da un commento espresso verso un valido poeta che verseggiava di amicizia. “Gli amici sono come i capelli: invecchiando, ne cadono sempre di più.” Una vocina lieve, malferma e assai divertita: “Spingi ancora, …più in alto…” L’altalena sembra volare nel cielo azzurro. Un’altra voce, affettuosa e teneramente responsabile: “Ancora un poco, nonnino, ma poi tocca a me”. 530 VARI QUELLI DI VARIA UMANITA’ Ci sono, ci si convive, ci si può anche riconoscere parzialmente o completamente e non è obbligatorio dichiararlo pubblicamente. E’ un insieme di categorie che esiste e persiste come un perseverare diabolico. Mi brucia tremendamente dirlo: ci siamo dentro più o meno tutti, tutti allineati o catalogati, sicuramente autodefiniti nel buio delle nostre stanzette dalla nostra coscienza, ognuno con il suo piccolo distintivo, la sua cimice all’occhiello, e sicuramente ci sono dentro anche io, almeno parzialmente, almeno in una categoria, spero vivamente in una soltanto, o almeno in poche… Posso anche promettere di ravvedermi, ma pencolerò da una categoria di quello ad un’altra senza potermi staccare dal gran cordone ombelicale di quello… Quello che ha un cane solo per rimorchiare una graziosa proprietaria di cane, e quello che porta il nipotino al giardinetto per rimorchiare le graziose giovani balie. Quello che, quando passa una donna intrigante che lo guarda di sottecchi, tira in dentro la pancia e guarda con indifferenza un punto indefinito all’orizzonte in posa plastica neo-romantica gonfiando il petto. Quello che si mette a sedere sul tram vicino a quello che legge il giornale per risparmiare novanta centesimi perché tanto si leggono sempre le stesse cose, e quello che viaggia in tram senza biglietto vicino alla porta di uscita pronto a scendere se salgono i controllori. Quello che sbircia la fotografia di una gnocca pelosissima che sporge da un cassonetto e si guarda intorno circospetto per non farsi scorgere così morbosamente curioso. Quello che frega il resto alla vecchietta semicieca o al ragazzo un poco tardo. Quello che serve agli ospiti il vino del cartoccio di cartone in una caraffa e dice che quel vino è decantato per tutta la mattina, e quello che spaccia la pasta del hard- 531 discount, peraltro buona, in pasta artigianale comprata in un posto esclusivo che conosce solo lui. Quello che spiaccica le caccole del naso sotto un qualsiasi tavolino che non sia il suo. Quello che guarda con lubrica libidine da satiro una ragazzina che ha un anno in meno o in più di sua figlia. Quello che mette al mondo un figlio per assicurarsi una vecchiaia confortevole. Quello che annacqua il whisky o il cognac dietro il bancone del bar e fa l’offeso se dite che sembra un poco evaporato. Quello che a fine viaggio in treno razzia tutti gli scompartimenti vuoti di riviste e giornali per poter leggere gratis per una settimana. Quello che dice che non bisogna fidarsi mai di nessuno perché tutti te lo vogliono mettere nella portineria. Quello che va spiare le e-mail di altri o entra in innocenti computers di persone private come pirata informatico in cerca di segreti pornografici in nome di una sfida al sistema, e quello che spia le cassette postali dei vicini. Quello che controlla e ricontrolla il conto del ristorante almeno cinque volte. Quello che gioisce segretamente di una disgrazia capitata al prossimo perché per questa volta l’ha scampata lui e assume una faccia contrita con tanti sospiri e interiezioni di conforto. Quello che quando tira fuori il portafogli per pagare qualcosa si guarda intorno per vedere se ci sono malintenzionati interessati al suo portafogli. Quello che è medico e ascolta il paziente sordo chiedere: “Capricorno?” e risponde gelido e professionale “No, Cancro!” Quello che solo dopo che l’automobile è sul carro attrezzi dei vigili si accorge che è l’automobile sua e rincorre il carro attrezzi urlacchiando frasi senza senso. Quello che gira con i vetri appannati, il telefonino all’orecchio, il mozzicone ustionante tra le labbra e la moglie che picchia da davanti i bambini dietro che giocano al 532 campionato di sumo e suona il clacson davanti al pedone sulle strisce. Quello che alla festa di pensionamento del collega si riempie le tasche di pasticcini dicendo che li porta alle creature. Quello che la sera abitualmente mangia solo una minestrina e una fettina di formaggio ed invece stasera che paga il suo amico al ristorante sta triturando il suo settimo antipastino freddo in attesa dei caldi. Quello negativamente invidioso che senza farsi accorgere sputa sulla pista di pattinaggio di ghiaccio nella speranza di far scivolare qualche leggiadro pattinatore. Quello che è avvocato, ma non ha un granché voglia di faticare per pochi spiccioli e si appella quasi sempre alla clemenza della corte. Quello che è ristoratore e da ventiquattro avanzi di arrosto di un matrimonio tira fuori la specialità della casa: polpettone casalingo del giovedì. Quello che è urologo e ridacchia perché uno ce l’ha piccolino o perché un altro si è preso un’infezione venerea. Quello che grida allo scandalo se vede la sua vicina alla finestra di fronte che tromba col postino, però non dice che la vede col binocolo da sopra l’armadio. Quello che pesta una merda di cane e cerca di pulirsi la scarpa sfregandola sul filo del marmo del tuo portone di casa. Quello che è ingegnere e parla di “inattesi problemi incontrovertibili nella tensione delle strutture” quando è appena crollato un suo progettato cavalcavia, fortunatamente senza vittime, dopo un acquazzone definibile solamente medio-forte. Quello che al cinema lascia acceso il telefonino e allo squillo invece di spegnere al brucio scusandosi risponde e colloquia a voce alta, anche da incazzoso, confondendo i dialoghi del film che invece parla di una suora missionaria pietosissima. Ama il prossimo tuo come te stesso? Se l’invito ha connotazioni di reciprocità, è un semplice invito o una minaccia? 533 Ed ho voluto considerare in questa parata degli orrori, peraltro spesso solamente veniali, ma irritantemente veniali, solamente i miserabili e i cialtroni in genere, quelli quotidiani, i dilettanti rubagalline, tralasciando i professionisti mani di velluto o artigli di falco delle prevaricazioni su campo planetario, tralasciando gli affaristi e gli speculatori in grande scala senza frontiere. Sta montando, in una certa confusione prospettica di travi e pagliuzze, la mia ira che lascio scorrere in maniera terapeutica nelle vene al pensiero che esiste veramente tale fauna umana e che ne faccio parte anche io... Poi scoppio in un fragoroso riso liberatorio, isterico e amaro, sicuramente impotente, al pensiero di quanto abbiano sudato e sofferto personalità come quelle di Ippocrate, Aristotele, Avicenna, Pasteur, Curie, Barnard, Montagner, Gallo e tanti altri grandi della medicina che hanno speso anni e anni della loro esistenza per il miglioramento della qualità della vita del genere umano... Mi domando che senso abbia la vita... Forse, ahimè, sto rientrando nella categoria di quelli che dicono che siamo troppi, che ci vorrebbe una bella guerra nucleare, un’epidemia devastante, un castigo divino biblico sotto forma di grandioso tsunami o di invasione di omini verdi col raggio della morte, uno sfoltimento generalizzato…, ma non ho il coraggio di farmi da parte autonomamente per dare il buon esempio… … … … Mi salvo sempre, con quel forse… … … … BANG 534 ACIDE RIFLESSIONI ANCORA ATTUALI L’alibi dell’incomprensione. Come si scrive o si pronuncia granata, in palestinese? E in israeliano? il “BOOM” di una Potrei accettare positivamente gli OGM nell’unica ipotesi di produzione di un fagiolo che possa avere i suoi soliti effetti collaterali al sentore papaia o mango, soprattutto su metropolitana o tram affollatissimo. Ho lo sguardo lungo rispetto allo strisciante revisionismo storico in atto che si vuole proporre sui libri di testo scolastici. Immagino qualche passaggio descrittivo, tra pochi anni, a proposito di divulgazioni per ora ancora innocue e innocenti, su qualche formativo sussidiario per le elementari. “Il fulmine è un fenomeno elettrico che colpisce a caso improvvisamente, anche bambini e innocenti, e distrugge tutto con violenza inaudita: il fulmine è un fenomeno elettrico comunista.” Si vive forse troppo sulla difensiva e ci si presenta sempre più diffidenti aspettando una fregatura, un sopruso o un torto. A volte si richiama quasi ritualmente la sfiga… Un mio amico, nel timore di furto dell’automobile parcheggiata sotto casa sua, ha avuto la brillante idea di montare il ruotino di scorta, quello rosso, che consente soltanto prestazioni d’emergenza. “Tanto l’adopero poco e solo in città”. Stamattina ha trovato sotto casa il ruotino…appoggiato al marciapiede, dove prima c’era la sua macchina. Un mio amico ha un cellulare superlativo: GPRS, MMS,video giochi, tecnologia blue tooth, java, fotocamera, 535 suonerie polifoniche personalizzate, 500 numeri in memoria. Ne è molto soddisfatto. Parla dalla mattina alla sera con segreterie telefoniche o ascolta una voce suadente che comunica che il cliente da lui ricercato non è disponibile. I condoni fiscali sono un poco come le indulgenze plenarie: sono gesti di perdono che richiedono un rituale di espiazione. L’unica differenza è che un’indulgenza plenaria per avere fornicato su una spiaggia è quasi un gesto tenero di comprensione rispetto ad un condono per avere edificato un megacondominio sulla stessa spiaggia dove si è fornicato qualche mese prima. E’ sconfortante notare che il bianco mondo occidentale, generalizzando, si eccita e sbava di morbosa curiosità e segreto piacere alla vista e all’odore del sangue. E’ agghiacciante notare che l’eccitazione e il brivido per versamento di sangue caucasico procede di pari passo con la più totale indifferenza per quotidiane stragi di negritudine. E’ terrorizzante, a questa considerazione, il sentirsi rispondere: “E’ vero, hai perfettamente ragione, scusa. Dovremmo in effetti eccitarci e sbavare di goduria per tutti.” Amo l’autunno per quella sensazione inimitabile di caldo che danno le castagne arrosto e gli scioperi generali. Scioperi dei consumatori. Mi viene malignamente da pensare che se non funzionasse il servizio fognario ci potrebbe essere qualcuno che indice uno sciopero della cacca. 536 Morire il due novembre è un poco come nascere il 25 dicembre: si viene defraudati di una festa e si è vittime di risparmi sui regali e sui fiori. Il passaggio innocuo dall’ora legale all’ora solare, con l’illusione di un’ora benefica di sonno in più, può nascondere insidie e tormenti inenarrabili con un’ora in più di sofferenza, soprattutto se hai cenato con peperonata fredda o cipollata e ti rigiri nel letto con incubi o insonnia. Nell’osservare certa gente mi viene da pensare a Darwin. E lo considero, a volte, uno sprovveduto superficiale. Lui digitava messaggi con punti e G maiuscole e minuscole e lei, lettrice, aveva strani languori che culminarono infine in un orgasmo. La poesia non è sempre così presente come si vuole credere o fare credere. Una stupenda immagine dissolvente per emozione e lacrime di sofferenza spesso è solo una banale visione distorta da una volgarissima cataratta. Il foderare una parete di libri e d’enciclopedie per insonorizzare una stanza da quella di un vicino rumoroso è un gesto di ipocrisia: ma elegante, affascinate e originale. Qualche gobbo ogni tanto si porta fortuna. 537 ANTIPODI Una grotta di vetro scintillante e insieme opaco è l’ambiente, oppure di ghiaccio, con un colore pallido di ametista violacea. Stalattiti e stalagmiti si intersecano in prospettive falsate creando l’illusione di una grata o di una cancellata a trattenere, a imprigionare, a chiudere. Rumore di gocciolio regolare, di stille calcaree che rintoccano tempi arcani. Sensazione di spazio immenso e di incomunicabilità: un qualcosa che evoca riservatezza, ritrosia, esistenza nell’ombra e nella solitudine. Venature di malinconia lungo pareti lisce, ma anche frastagliate di rughe di tempo e memoria. Freddo intenso che abbraccia ogni cosa con brina magica rilucente nella penombra. Alla luce tenue lattiginosa, confusa tra vapori di nebbia morbida come una coltre, si staglia una figura incorporea austera, immobile a capo chino. E’ irrigidita, come un militare che renda onori, davanti ad una lastra pesante di pietra nera lucida che pare illuminarsi dall’interno. Il marmo assume consistenza trasparente in una luce algida che proietta immagini e movimenti. Luminosità crescente. Scena vivida: colore. Una deliziosa bambina con due treccine bionde risplendenti corre con un triciclo lungo un viottolo tra siepi assolate e fiori seguita da sguardi amorevoli di congiunti trepidanti e fieri, soddisfatti e felici. Sono immagini di vitalità solare ed energia che fanno da contrappunto all’atmosfera umida e crepuscolare della grotta di cristallo. L’ombra spia il quadro familiare assorta. Con un tenue sorriso accompagna l’allegro variopinto triciclo che rappresenta ricordi o rimpianti di ciò che fu. O di ciò che sarà: il tempo è un concetto opinabile. Pensieri e preghiere da un mondo verso un altro. La morte e la vita sono concetti relativi. Chi prega chi… 538 PROSPETTIVA Non mi piace quel sorriso esagerato. Mi suona di falso, di debolezza e di difesa, d’elasticità di tessuti in ginnastica facciale. Mi irrita. Accompagna uno spiare attento di rughe, un atteggiare l’espressione ad accettabilità con volto comunicativo, aperto e simpatico, un provare sguardi penetranti che possono essere interpretati come fascinose e profonde sonde interiori. No. Non mi piace. Per fortuna l’incontro dura soltanto il tempo necessario per un dignitoso presentarsi, il tempo di una lavata di faccia, di uno sbiancare il sorriso e di una pettinata vanesia, e termina sbrigativamente con un’ammiccante strizzata d’occhio e con quel risolino indisponente. Da solo, poi, mi tranquillizzo in silenzio e riflessione. Lo stesso volto uguale a quello di prima, ma quello vero, forse il mio, fissa pensoso una parete sempre uguale di piastrelle celestine in un bagno deserto e medita sui misteri e le verità delle prospettive e su chi sia il tenutario effettivo di un’anima. L’altro è in giro… 539 MONDO RANDOM Sorrise debolmente e i parenti intorno al letto piansero di commozione immaginando una liberatoria incoscienza arteriosclerotica. In realtà il vecchio ingegnere si cantava mentalmente un vecchio motivetto ridanciano: “son contento di morire, ma mi dispiace; mi dispiace di morire, ma son contento”. Si pose ultimi interrogativi, curioso come un bimbo, consapevole di non avere risposte, speranzoso di trovarne a breve senza paure, fiducioso. La luce scemò lentamente trasformando i presenti dolenti in ombre e calò un silenzio di sinestetico colore nero, freddo come un lenzuolo di lino in una notte d’inverno. Rimbombò nel buio un basso elettrico, gracidante come un rospo, e una batteria scandì emozioni senza tempo (contraddittorio, invero) a tappeto ritmico per lancinanti chitarre distorte. La luce stuprò lentamente l’oscurità con sensualità estenuante. Lui galleggiava su raggi stroboscopici nel vuoto, ad un suono martellante, musica d’altra esistenza, in uno spazio ferito da sciabolate di fari violenti e sanguigni, solo, in compagnia di un’unica figura possente, lontana e indefinibile, che si agitava elegantemente a tempo. Riflesso incondizionato: schioccare di dita… Fu accarezzato da un mormorio d’acqua scrosciante di una invisibile cascatella mentre una dolce melodia di flauti e sitar dialogava con un cinguettare di uccelli e uno stormire di fronde nella luce riposante di un’alba interminabile. Era solo, tra rocce muschiate di verde brillante, tra il luccicare delle gemme di rugiada su fili d’erba, e scorse una figura solenne, lontanissima, avvolta da una bianca tunica. Sembrava in assorta contemplazione del paesaggio, quasi assente in profonda meditazione. 540 Altro riflesso incondizionato e altro schioccare di dita… Divenne materna e sommessa, la luce, tra dorature di stucchi e velluti cremisi di un immenso teatro vuoto, in avvolgente suono d’archi immortali affiatati da un’eternità. Era in fondo e scorgeva la sola sagoma di un aitante direttore d’orchestra che agitava solennemente la sua bacchetta per dirigere l’invisibile orchestra. Impossibile resistere anche stavolta: schioccò le dita… Sprofondò in un accogliente divano nell’immenso salone di un lussuosissimo albergo deserto. Di fronte a lui una figura seminascosta era immersa nella lettura di un giornale senza data, dalle pagine bianche, inquietante. Il silenzio governava l’ambiente, a parte il frusciare dell’irragionevole giornale. Non osò rompere l’equilibrio incomprensibile e attese, curioso, un segno a spiegare tutto. Fu invaso e conquistato da un sorriso del personaggio che ripiegò il giornale. “E’ tempo di conoscere, dunque, non credi?” “Sì, se è possibile: sono curioso. E poi sono anni che aspetto: credo che sia giusto sapere, se non sono arrogante…” “Puoi schioccare le dita ogni volta a piacimento, fino a che non abbia trovato l’ambiente che ti faccia sentire a tuo agio. Puoi cambiare ogni volta che vuoi: basta un altro schioccare di dita…” “Questa è la verità?” “Questa è una parte della verità… Puoi fermare le tue dita per un istante di millenni o schioccarle in frazioni innumerevoli d’eternità: questa è una parte di verità…” “C’è dell’altro che io possa o debba sapere?” “Lo stai già intuendo…” “La solitudine?” “La scelta.” “Non comprendo.” 541 “La scelta di riprovare a vivere una nuova vita, con nuove consapevolezze che si perderanno quasi tutte dentro un nuovo utero, l’amore per una vita che rimarrà di nuovo impenetrabile e incomprensibile, ma che potrà essere amata di nuovo con maggiore vigore e nuovi propositi, almeno intenzionalmente da qui, in eterno tentativo di miglioramento del proprio essere…” “Nessuno ha scelto di fermarsi? Nessuno è soddisfatto e quieto per l’eternità?” La figura solenne sorrise, benevola e divertita. “Forse è la noia? La mancanza dell’imprevisto… la mancanza di dolore e di sofferenza… l’assenza del reagire e del lottare?” Ebbe per risposta solo un enigmatico sorriso. “Credo di comprendere. Non è dato di conoscere la verità ed allora tanto vale riprendere la vita che è stata sempre, nonostante le tante esistenze, vissuta parzialmente con rimpianti e con progetti incompiuti. Offri un’irragionevole speranza: l’unica verità…” Era ora nel buio più profondo, sprofondato nel nulla, immateriale, con un senso di responsabilità per una decisione da prendere. Gridò nel buio: “Come manifestare la scelta di ricominciare?” Fu proiettato in un ambiente caldo e umido, angusto e morbido, e cominciò a sciogliersi come cera in pensieri sempre più confusi e labili, distratto dal rumore di un battito regolare che lo cullava e lo sprofondava in sensazioni primordiali senza ancora ragione. Udì risate sommesse e dialoghi all’esterno del suo rifugio e si tranquillizzò come un cucciolo di un qualsiasi animale protetto. “Di nostro figlio ne faremo un artista…” 542 SINUSOIDE ESISTENZIALEIDE Fotografia di luce fredda e nitida in taglio sbieco di penombra. Forme luminose in scioglimento: c’era la cera una volta... Puro cilindro di vetro azzurrimbrillante. Vuoto bicchiere: è su quadretti vinaccia rossi e rosa di tovagliato dozzinale su tavolo quadrato desolatamente spoglio. Odore indefinibile stratificato d’alloggio vuoto. Retrogusto di caffè dechiricaffeinato. Scansioni sonore attraverso: è New Cage. Particolare scenico: bollitore sferico lucidovivace arancione è su parallelepipedolmo smaterializzantesi nel vuoto con cassetti assenti di sogni. Il tavolo s’imbastisce in contorni sempre più vaghi su piastrelle ottagonali nere e bianche lucide di pavimento escheriano di stanza sempre più vuota. Singhiozzano campanelli rugginosi, nell’aria, Cagemiti, a striare lobi in rumore di temporali, aspri. Stanza rotante in moto centrifugo con pareti semovibili in alloggio silenzioso vuoto. Sprizzano raggi solari indacoinnaturali a deflorare spazi chiusi da spadellare su costruzione limpida di cubi d’acciaio e vetro con coni concettuosamente contrastanti. Il palazzo è vuoto, dissolventesi in orizzonte di costruzioni miraggi nella luce, di città deserta senza rumori, morta senza vermi. Urbanodore di trascorso, ora assente. Strida d’uccelli finiti in finta jungla sperimentale appuntata in Cagenda. Città che è incubo, panoramicata vorticosamente a salire su landa vuota in campo luuuuungooooo saltellitare a definire palla azzurra striata di panna d’acque paluoverdose senza vita. Tagli ipotalamici di frantumazioni sonore di vetri, lamiera di campane tubolari, tocchi radi, profondi, 543 vanDalìci in aria che diviene nera di nulla assoluto che si spande reiterante in atmosfera di nulla. No. No, che è come un appiglio alla speranza, con le dita infilate nella ‘O’ a reggersi in equilibrium da free climbing. Scintilla, nel buio siderale, che s’ipertrofizza. Suono in crescendooohhhmmm. Raimbow in Curved Air: Terry Riley corre su moogolii cerebrali picchiettando colori e presenze. Si scende senza scudo termico di prevenzione. Vertiginosamente. E’ un carpire di disparati voli, veloce, vita, stormire di foglie in battiti di ciglia confuse panteistupite. Città. Brulicare su scale atonali impazzite. Pigmentazione furiosa di retina: bussano impazientemente sovrapposizioni solari di colori, d’abiti, safene fiancate d’auto, rifrazioni comuni e multiple su forme geometriche pulsanti. Attenzione. Concentrazione. Palazzo lineare di vetracciaio cubico in diastole e sistole. Volo di freccia in alloggio. Postmoderno arredamento cromospiazzante. Rrriley, Rrriley ronza come aria condizionante. Rrraimbowling in Currrved Airrr. Ronza. E’ un ejaculamento d’odore di carne stratificato su sudore, su intingoli rappresi, su lenzuola sfatte di notte insonne, piovigginosa tipica di via lattea spermatica. Tramonta l’aria curva, pschidelizzando l’ottica d’occhio sbarrato su tovaglia quadrettata piena di briciole e piatti sporchi, con bicchiere cilindrico lucente ora pieno. Acqua. Acquasi. E’ similbrodo primordiale apocalittico integrato senza soluzione salina di continuità. Germi. Batteri. Invisibatteri. Silenzio rotto da piatti gettati per terra. Crash. 544 Cage scocciato sgonfia l’aria curva con cocci aguzzi. Il bicchiere si svuota sulla tovaglia orfana di quadretti e briciole e piatti. La stanza perde mobili, di nuovo, smangiati da nanotermiti invisibili che disottagonizzano le piastrelle del pavimento. Assenza d’essenza d’odori. Esplode senza audio il contorno d’alloggio in confini di vetranodizzato trasparente a margine di relittocittà in scena mentale. Sinusoide con onda anomala in alto a giocare con palla azzurra nel buio del cielo, ancora, a perdersi in smisurata cantina nera, fino a prossima scintilla cortocicuitante… A ricominciare… Sì, sì, fò ttutamente. 545 TUP_AMARO PERCEPIRE DEL TEMPO Tu. Non puoi sapere: hai davanti a te ancora anni, o diversa coscienza, né migliore o peggiore, per tastare il polso al movimento febbrile. Scorre invece per me il tempo, scandito da acciacchi e dolorose esperienze, e s’acuisce un feroce abbarbicarsi velenoso ad inezie vitali nell’angoscia del futuro che non si conosce, sempre più inquietamente metaparapatafisico vestito di nulla o di tutto inimmaginabile. Grande Heidegger che sviscerò la paura dall’angoscia fornendomi l’appiglio per uno sfoggio di cultura! Esplodono ricordi in faccia, come fiale di nitroglicerina manipolate senza prudenza, e ciò che per te appare noia per me è vita emorragica che m’abbandona esausta. Tutù. Lo indosso in assurda vita rivissuta da ragazzina acerba, caparbia in esercizi di sbarra per librarsi nell’aria senza pensieri da vecchio nella leggerezza dell’estetica che sbiadisce cattivi pensieri. Tutù pervinca come gli occhi malinconici di mia madre stanca che trepida per sua figlia difforme dalle tradizioni. Tu tu tu tu tu. Occupato. Risponde occupato, un cervello, di tumore che corrode con sottili emicranie che mordono buoni sentimenti e sempre nuovi entusiasti propositi che s’azzuffano con rughe e capelli bianchi. Tu tu tu tu tu more, d’amore, forse, per tutto che ingurgito ingorda e poi digerisco lentamente con dolori di pancia esistenziali. Tupamaro! Reagisco, perdio, e saccheggio ricchezze di vita, non doma, almeno fino a che avrò forza... 546 ONAN DAY La storia la fanno sempre i vincitori. Ed hanno vinto i moralisti da controriforma. Mi trovo, dunque, a narrare di un periodo oscuro cancellato dalla memoria degli uomini, che pure è stato. Per non dimenticarlo. Accadde. Non so come. Un insegnante di religione, un fratacchione rubizzo d’eccessivo barbera, cominciò a rompere il respiro durante una lezione sui sette vizi capitali. Rovesciò il capo all’indietro e si produsse in una riuscita imitazione di una radio a modulazione di frequenza sintonizzata da un ascoltatore ansioso: fischi, muggiti, sospiri, rumori di fondo, melodie lontane. Gli alunni si avvicinarono alla cattedra, storditi da una predica circostanziata sulla lussuria, inframmezzata, peraltro, da uggiolii. L’insegnante di religione, mani in tasca nel saio, si scuoteva in frenetico movimento tra le gambe, come avesse la scabbia o si fosse seduto su un termitaio. La vista fu contagiosa per i più. E si comprese appieno cosa impegnasse in modo così intenso il frate e successivamente gli alunni. E tutti furono contagiati. Fu un rituale assai pagano di masturbazione collettiva. Si scoprì, poi, da gemiti provenienti dalle altre aule contigue e da sbattimenti di banchi lontani, che il fenomeno si era esteso per tutta la scuola. Investì solo i maschietti, disinibiti senza pudore, e lasciò ogni rappresentante del genere femminile, dalle insegnanti alle alunne, senza parole, frastornate in espressioni di meraviglia, apprezzamento, disprezzo, schifo perfino, ma trasparenti come se non esistessero. In effetti, lo spettacolo prodotto non era dei più estetici. 547 Il bidello, nel corridoio, girava con il vassoio dei cappuccini in una mano e l’altra impegnata in disinvolto smanettamento in sincrono con il passo svelto. Alunni sparsi ridevano giocosamente istoriando pareti e pavimenti piastrellati per poi ricominciare come se nulla fosse. E poi fuori da una finestra: si vide Sodomia e Gomorra. Almeno per le pippe. Gente che si masturbava alla fermata del tram, al semaforo, in auto mentre guidava, con donne costernate dappertutto, senza alcuna reazione, neanche di sollievo e aiuto volontaristico, e uomini e ragazzi dappertutto con il loro affare di fuori violentemente scosso a manovella. La scuola perse di significato. Tutti uscirono, le ragazze composte e contrite e gli allievi con i loro zufolini paonazzi tra le mani. Si ascoltò la radio e si vide la televisione. Il fenomeno era generalizzato all’intero paese e l’annunciatore forniva il notiziario sussultando sulla sedia in preda a singhiozzi di piacere, con gli occhi lucidi. Ci furono panoramiche e servizi speciali d’inviati con gli occhi cerchiati stravolti da orgasmi frettolosi. In campagna, in città, in fabbriche. Scaturirono opportunisticamente tavole rotonde televisive con esperti del problema, sessuologi e politici, tutti stravaccati sui divanetti o sulle poltroncine, tutti indaffarati ad avvitarsi e svitarsi il loro pirillo con noncuranza mentre dibattevano del problema. Il noto sessuologo Y, nel frattempo che si agitava un affare spropositato ben sopra il suo ombelico peloso, parlò di vantaggi per alcune allenate categorie, come i boys scouts, già allenati per conto loro a strofinare legnetti per accendere fuochi, e gli addetti a catene di montaggio con scarsa incidenza sindacale, dai tempi molto contratti per una produzione febbrile oltre ogni ragionevole tempo di produzione. Qualche onorevole gridò alla liberazione dei costumi, sfoggiando tra le mani, oltre che il suo affare, anche mutandine d’organza rosa femminili. 548 Qualche altro parlamentare invocò una censura educativa e lo si vide inquadrato smanettante dietro un grosso cartello che recitava “Dio ti vede e diventerai cieco”. Le donne, stranissimo a dirsi, sembravano catatoniche, tutte, paralizzate nello stupore misto all’indifferenza, insignificanti, inutili. Il fenomeno durò diversi giorni. Ci fu un incremento esponenziale delle vendite di segatura e di detergenti per pavimenti e sanitari. Ci furono reazioni titaniche di sovvertimento della tendenza, promosse da organi laici e religiosi d’autorità e prestigio, ma inutili. Alla CEI era un turbinio di tonache svolazzanti sotto gli emicicli e in parlamento tutti gli onorevoli e i senatori riuniti a camere congiunte provarono una sana invidia trasversale bipartizan per l’Unto, per ovvi motivi di scorrevolezza. E l’Unto, appunto, irrorò commessi e colleghi con i pochi residui capelli a sghimbescio sull’ampia fronte sudata, e ricominciò rantolante sotto lo sguardo estasiato di compagni di coalizione. Dopo alcuni giorni il fenomeno, come presentatosi improvvisamente, sparì, e tutti ritornarono normali, anche se sfiniti. La CEI riprese il sopravvento e gli anziani superstiti della congrega tuonarono contro il peccato e la dispersione del seme al vento in improduttiva e sterile attività senza benedizione divina. Le forze politiche al governo, i cui componenti erano vergognosi e a testa bassa, con delle pelli di daino al posto del loro attrezzo di piacere, si arrovellarono a riportare ordine e disciplina. L’Unto, esausto come un olio, ne pensò una delle sue. Oscurare e censurare l’intero periodo, cancellarlo dalla memoria di tutti, per sempre, come mai esistito, pena corsi rieducativi sul modello di ‘Arancia meccanica’, con proiezioni di concerti maratone di Apicella affiancato da coro di centoventi tenori e soprani leghisti a cantare ‘Va’pensiero’ e l’inno di Forzitalia per duecentocinquanta volte, in bergamasco e napoletano. 549 Fu un deterrente terribile che annichilì perfino Bertinotti e Diliberto. Calò il silenzio sull’imbarazzante vicenda. Per sempre. E fu promulgata la Legge 40… Ed ora io, unico custode della memoria, ho esposto accadimenti innominabili per conservarne insegnamento. E promuovo, per il dodici giugno d’ogni anno, l’Onan day, il giorno della pippa, per non dimenticare… Sì, sì, sì, sì… 550 AVIARIO GIRO DELLA MORTE “Carissimo, sento di doverti scuse per occasioni mancate, in questo momento, e mi rammarico di non aver saputo cogliere quanto di meglio tu abbia avuto da potermi offrire con la tua amicizia. Sono agli sgoccioli, ormai, ma uno dei miei ultimi pensieri va a te con gratitudine. Accidenti a questi uccelli, o forse meglio dire: accidenti all’uomo rovina di sé stesso. Un estremo grazie con affetto.” Scrisse il biglietto senza fretta per un suo amico, meditando dolorosamente. Fu distolto dal bussare alla porta. Andò ad aprire. Il postino gli tese una lettera. Si chiuse la porta dietro le spalle. Aprì la busta e lesse: “Carissimo, sento di doverti scuse per occasioni mancate, in questo momento, e mi rammarico di non aver saputo cogliere quanto di meglio tu abbia avuto da potermi offrire con la tua amicizia. Sono agli sgoccioli, ormai, ma uno dei miei ultimi pensieri va a te con gratitudine. Accidenti a questi uccelli, o forse meglio dire: accidenti all’uomo rovina di sé stesso. Un estremo grazie con affetto.” Scrisse il biglietto senza fretta per un suo amico, meditando dolorosamente. Fu distolto dal bussare alla porta. Andò ad aprire. Il postino gli tese una lettera. 551 Si chiuse la porta dietro le spalle. Aprì la busta e lesse: “Carissimo, sento di doverti scuse per occasioni mancate, in questo momento, e mi rammarico di non aver saputo cogliere quanto di meglio tu abbia avuto da potermi offrire con la tua amicizia. Sono agli sgoccioli, ormai, ma uno dei miei ultimi pensieri va a te con gratitudine. Accidenti a questi uccelli, o forse meglio dire: accidenti all’uomo rovina di sé stesso. Un estremo grazie con affetto.” Scrisse il biglietto senza fretta per un suo amico, meditando dolorosamente. Fu distolto dal bussare alla porta. Andò ad aprire. Il postino gli tese una lettera. Si chiuse la porta dietro le spalle. Aprì la busta e lesse: “Carissimo… 552 MODI DI DIRE Si dice che pesticciare la cacca porti bene… Forse è una leggenda che serve a consolare chi affonda in pagnotte di guano di pastore danese o chi si sfianca il nervo sciatico per mantenersi in equilibrio su bisognino scivoloso di yorkshire colitico. Un poco come i soldi che non danno la felicità: è un modo di dire tipico di chi supera i cinque milioni di euro di reddito imponibile annuo. Non lo so, quindi, se è un bene o un male, se è vero o falso... La mia vita, peraltro, scorre sempre all’insegna del biblico augurio programmatico post mela e quindi mi spacco in quattro tra lavoro, con orari impossibili, e casa, con un marito che a posteriori è ben lontano dal concetto di principe azzurro, e quando sarà partorirò anche nel dolore. In compenso ho un mutuo da pagare e uno stipendio intristente, sono alquanto insoddisfatta, e, per di più, ho le scarpe fetide e impiastricciate che suscitano penosa impressione e ribrezzo… 553 MUSIC - AL Non capisco quanti siamo con Al. E chi. Echoes… Uno, nessuno, più probabilmente centomila, o solo sei in cerca d’auto al parcheggio per raggio per sei e ventotto volante… Forse un milione, come i posti di lavoro: …nero futuro… futtuto in tuta in kamion, salma mater. E se prima eravamo in dieci piccoli indiani a ballare l’hully gully… Il nostro caro angelo, Alh. Scarabeota anagrammo: una minima dose per uso personale. Hal. Novemila. Novella tremila. Giro giro tondo…Casca il mondo… Confuso e felice, però mi sento tut- tut- tut- tutelato al cubo. Vo lume. Percepisco:… soliiiii nella campagnaaaaaaaaa, Violaaaaa, Soli-darietà, soprattutto soli ed età, da parte di tutti, Viola bacia tutti, quasi tutti, qualcuno. Uno. Dei Mods. Uno, due, tre, stella. La stella molare. Vaghe stelle della morsa in borsa. Tra le dita dislessico giusto pio piorroico… E fischia fischia fischia fischia la locomotiva Zanicchi. In alcuni momenti mi sembra di avere il cervello come i testi delle canzoni di batti e ribattiato e una vecchia bretone odia Beethoven come l’uva passa mentre vado in diagonale per la via lattea ascoltando campane tibetane del governatore della Libia e sventolo una bandiera bianca dal ponte di Mesina Grazianeddu. 554 O è Brooklin? Aragostello della gioventù. I favolosi Anni sessanta. S’è santa andrà in paradiso. Anni settanta: di piombo sfuso. S’è tanta, riporremo gli avanzi in frigo. Avanzi Savoia. Anni ottanta. Ho tanta paura: novanta, la paura… come gli anni, di me. Ed io tra di voi nella triste Pomezia con quella faccia un po’ così di Geova. Mi ricordo Piero Focaccia far Cita a Recco: permette signora la guardo da un’ora… O cinque minuti e poi. Bella donna è lei: un’ora sola ti vorrei… Edmondo!? In che mondo d’ogni peccato vivo più di un’ora senza te? Il mondo non s’è fermato mai un momento… Mondochiwan d’immaginazione al potere, quello riscattato dalle camicie rosse garibaldine nella rivoluzione d’ottobre o settembre andiamo è tempo di migrar a mietere il grano… Al contadino non far sapere quanto angoscia subire il potere. O pigliarlo nel sedere. Perché mi guardi così? Ciao figlia mia… Ci somigli molto… Ah! Sei proprio tu: ma non dovevamo vederci più? Tu- tu- tu- occupato. Adesso tiro un fil rouge di canapa, anche la catena, e lascio il campo Tony Dall’Ara libero…Vvoglio vvivereee… La rosa dei ventimila spettatori paganti, terreno perfettamente agibile, arbitro PapaGiovanni…Resta. Resta cummè, Mi metto il frac. 555 Crac. Tip tap come Fred Astaire. Tip tap tip tap tic tac tic tac tic tac tic… Tic Tic Tic Tic Tac Stack error overflow etc.etc.etc. Jump. 556 MARMUTANGOLO (BIFIDO) Vorrei esserti marmutangolo bifido per nostri giochi in codice, salsofrassici fuori tempo e luogo in ruolo mutevole. E rido nel larvare espressioni virgolettate a punto interrogativo di lettori curiosi che non sanno di chiavi ad uovo di Colombo per penetrare segrete stanze. E rido di te, bonariamente, di te qualsiasi che comprendi o forse no, e che, se comprendi, ridi di gola da riempire. Cos’è mai marmutangolo bifido? Un rivisitare concetto dinamico di supercazzula, un id neutro riacico e milotico, una sclerocreatura mitologica che alita su nuca brividosa, un attrezzo d’oscura masseria per spremere fluidi di frantoio orgasmico, una teoria strampalata matematicastrale di congiunzioni favorevoli, un gioco da tavolo misterioso con istruzioni in cuneiforme. Che importa? Manie definizioniste anarcodislessiche. So soltanto che stamane, in giro, in solitudine amica scandita da ghiaccioli, ho pensato che vorrei esserti marmutangolo bifido, e di corsa, a casa, ho scritto a te queste righe pelvindecifrabili per vedere l’effetto che fa… E rido ancora, stavolta marmutangolo bifido pacioso, ché qualcuno dei ‘te’ che leggerà, compilerà schedine totosessiche senza vincere alcunché. Un alcunché caldo con zucchero q.b. e panna da gustare in venti sparsorighe a spianare rughette d’espressione attenta. Pitoneschi abbracci ed oltre. 557 CRETINI A CONFRONTO Fin da sempre, in positivo e quasi azzardoso intendere la vita, l’America ha dato molta importanza al concetto dell’occasione che il fato riserva ad ogni essere umano. Il dissacrante e cinico Andy Wharol sintetizzò questo tipo di filosofia con la celebre frase sul famoso quarto d’ora di celebrità per tutti nella vita, solamente da sapere cogliere. La cinematografia americana, spesso e volentieri, ha rinverdito da sempre questo concetto nell’ambito del suo ‘sogno’ dove tutto può essere possibile con sacrificio, con fatica, con lotta e con sagacia intuitiva. Parecchi films, quindi, hanno proposto il tema in varie salse e sfondi contestuali, in scenari di guerra, di commedia brillante e di dramma, con maggiore o minore superficialità e successo. Dallo zuccheroso Frank Capra in avanti è stato un susseguirsi di sfigati (a cominciare da John Doe) che poi sono assurti al rango di eroi. Con il passare del tempo, il tema è stato estremizzato in una sorta d’entusiasmo infantile tipicamente americano, e sono state proposte nuove alternative in ogni campo, ovviamente miscelate con altri miti della puritana e manichea morale americana che sintetizza sempre tutto in buoni e cattivi senza troppe distinzioni. Il tema, dunque, è stato trattato in pura goliardia parodistica, per esempio, con Jerry Lewis che scimmiottava godibilmente Jeckyll e Hyde, fino al patriottismo becero improntato su onore e sacrificio dei vari Rocky di Stellone, tutti non troppo acuti, tutti eroi, addirittura ambasciatori ideologici all’estero, o anche in sfondo di satira e denuncia, senza troppe pretese, ad esempio in “Eroe per caso”, zuppo dei soliti buoni sentimenti. L’estremizzazione è degenerata, infine, in un’affascinante prospettiva, colta anche nel vecchio continente, e anche in Italia dal velenoso duo letterario Fruttero e Lucentini, che hanno analizzato in più riprese il concetto della prevalenza del cretino. 558 E di cretini si parla, ora, in ambito di fama e saggezza, nell’incapacità di sapere o volere discernere la verità dal bluff, in speranza buonista o in satira di costume feroce. Due films incarnano sapientemente questa teoria, seppure con angolazioni molto lontane tra loro. “Forrest Gump” e “Oltre il giardino”. Come sintetizzare le due pellicole in maniera breve e tale da invogliare a cimentarsi in un confronto? Semplicemente dicendo che si tratta di due cretini, nel senso fisico del termine, sottosviluppati mentali, che per occasioni e capricci vari del destino, sono elevati al rango di ‘eroi’, persone famose da seguire per il loro modo di pensare, guide spirituali, depositari della verità. Mi piace, in questa ottica, soffermarmi sulle diversità stilistiche dei due registi e sul come hanno affrontato lo stesso tema. Robert Zemeckis, (la trilogia di “Ritorno al futuro”), il regista di “Forrest Gump”, della stessa palestra e clan di Spielberg, Lucas e Dante, è un devoto seguace, coerentemente con il suo mentore Spielberg, della concettualità sposata con una buona commercializzazione, con ottimi effetti speciali, con sapienti dosaggi tra drammaturgia strappalacrime, ironia, meraviglioso senso della ripresa scenica, ritmo e quant’altro serve a confezionare una buona pellicola di successo, con annesse colonne sonore e fotografia e attori di grido. Hal Ashby, (L’ultima corvèe), è un buon regista discontinuo poco duttile rispetto alla commercializzazione del suo prodotto, fiero avversario dell’estabilishment, sicuramente di minor successo del collega, amato da una nicchia di contestazione. “Forrest Gump”, interpretato da Tom Hanks, bravissimo in alcuni momenti e gigione in altri, è un cretino innestato in una storia mirabolante a grappolo, generatrice di tante altre storie, dove la plausibilità è messa in discussione da continue strizzate d’occhio al pubblico. Più che una storia è appunto un insieme di vicende dove va a confluire in sapiente dosaggio l’amore, la memoria, l’ironia, la guerra, l’amicizia e tutto quello che 559 costituisce valore per l’americano medio, in una confezione luccicante di nastrini e carta stagnola, tra musiche accattivanti (Three Dog Night, su tutti) e risate garbate in effervescenza d’idee (Elvis Presley citato agli esordi, tra le altre). Il film è supportato egregiamente da cospicui ben ideati effetti speciali che rendono la storia, da un punto di vista visivo, un magnifico cartone animato con l’alternarsi di cinegiornali manipolati a mirabilie di veri e propri trucchi scenici (basta pensare alla resa visiva di Gary Sinise, rielaborata in maniera tale da farlo sembrare senza gambe dopo un cruento bombardamento: il trionfo del computer. Il cretino Forrest Gump - Tom Hanks è un concentrato della prevalenza del cretino che riesce ad emergere in molteplici attività, sempre con successo, in esilarante citazionismo a passeggio per epoche diverse, consolatorio per un pubblico semplice che magari sogna tuttora di essere contaminato da radiazioni galattiche sconosciute e di diventare il nuovo Superman. Il cretino Gump offre possibilità d’immedesimazione, non tanto nella cretinaggine quanto nel possibilismo (assai remoto, invero) di situazioni per tutti, in favolistico narrare. Il film è godibile, commercialmente parlando: ha ritmo, ha personalità, seppure in schemi rozzi che l’ironia cerca di nascondere tra le varie vicissitudini del protagonista. Passiamo invece ad “Oltre il giardino”. Il film è più soft in toni e trovate accattivanti, molto meno scoppiettante in azione, più ragionato e anche, a mio avviso, più poetico, forse anche per una recitazione davvero grandiosa di Peter Sellers, proprio lui, clown per tutta una carriera, cimentatosi in un film agrodolce che è poi stato il suo penultimo prima di morire. Anche qui c’è un abbozzo di storia d’amore, stravolto, però, da impertinenza e sberleffi. E si sviluppa un’occasione che toccherà picchi di conseguenze inimmaginabili, con ironia a pacchi che sconfina nel sarcasmo satirico, e con personalità registica e recitativa in invidiabile equilibrio. Cosa c’è di più, almeno secondo me, di tale per cui io preferisco questo tratteggio di cretino rispetto all’altro? 560 C’è vetriolo, veleno, diretti contro il potere con maggiore veemenza rispetto all’altra pellicola, e la sola sequenza finale è emblematica e vale la visione del film stesso, con il deficiente Sellers che pare camminare addirittura sulle acque come un nuovo Messia. C’è meno ritmo, ma maggiore stimolo alla riflessione in dialoghi deliziosamente a doppio senso interpretativo, c’è genialità inventiva nel presentare una storia sola e semplice senza effetti speciali, senza trucchi da Hollywood, con, però, ottima fotografia, ottimi interpreti comprimari davvero notevoli, Melvin Douglas e Shirley McLaine, e anche, se vogliamo scendere in piacevoli dettagli, qualche guizzo sonoro che, sempre a mia opinione, sovrasta i tanti successi dell’epoca sciorinati dall’altra pellicola solo a scopo cronografico. Parlo di un arrangiamento, davvero splendido, di un classico già utilizzato nel cinema da Stanley Kubrick in “2001 Odissea nello Spazio”, “Also sprach Zarathustra” di Richard Strauss, rielaborata in chiave jazz da Eumir Deodato, fantastica ed elegantissima ad accompagnare l’esordio del tocco giardiniere verso modi nuovi oltre il suo giardino. Non a caso il brano è stato ripreso recentemente dalla Coca Cola per pubblicizzare i suoi prodotti in parodia del film “Broken Flower”, con un attore che è la fotocopia di Bill Murray. Per concludere: mi è piaciuto citare questi due films nell’ambito di una personale analisi di un fenomeno quasi esclusivamente americano che, tuttavia, spesso e volentieri riesce ad incantare anche il più convinto europeista attaccato a saggi antichi valori di equilibrio e obiettività. Ho lasciato filtrare la mia personale preferenza, per il film di Ashby e Sellers, pur apprezzando l’altro, e attendo in un futuro più o meno prossimo il ritornare cinematograficamente sull’argomento, chè il soggetto è davvero immortale, anche perché i cretini non sono in via di estinzione da sempre. Ed è tutto, poi, da dimostrare se ciò sia una disgrazia o una fortuna… 561 L’UOMO CHE GRUFOLA L’uomo che grufola, inquieto, vaga senza meta incessantemente, rovistando alla rinfusa in cervelli e cassonetti, alla ricerca del prezioso che può accarezzare speranze di serenità placida. Ha occhi febbricitanti, mentre rimesta nel buio, con il petto che brucia per morsi di demoni insoddisfatti. Rinviene qualcosa di fresco e vivo tra i rifiuti, ogni tanto, l’uomo che grufola, e s’accende di una luce innaturale dimenticando domande esistenziali cui non sa rispondere. Sovente, tuttavia, fruga invano. Allora s’allontana nella notte, infelice, prendendo a calci un barattolo, ingobbito su sé stesso, incrollabile nella speranza di poter trovare un cuore o una voce rara, tra le sacche di plastica unte, alla prossima uscita. E si canta mentalmente un blues sognando di fare l’amore ad un cervello. 562 L’UOMO CHE SI RITIRA L’uomo che si ritira diviene ogni giorno più piccolo e raggomitolato nell’orgoglio roccioso rispetto alla statua che era, solare e snella, scolpita da maestri e da padri. E’ come un totem esposto alla pioggia e perde colori raggrinzendo agli insulti del tempo in crepe dolorose. Il tempo non è solo pioggia o grandine, o sole che secca e che cuoce. Il tempo è anche parola, concetto: se ne percepisce lo scorrere nell’ascoltare e non riuscire a comprendere o condividere quanto espresso. Ed è insulto maggiore di una tempesta. E l’uomo che si ritira si protegge in sé stesso, divenendo più piccolo in fiera indipendenza, ammutolendo, sempre più malinconico e incurvato in un nodo di legno rugoso prossimo a spaccarsi di crepacuore. Potrà germogliare di nuovo, l’uomo che si ritira, un domani, se troverà nuova linfa e amore, in tempo sereno, di chi saprà penetrare il suo nocciolo duro con una dolce carezza o una parola gentile. 563 L’UOMO CHE SOGNA L’uomo che sogna è da sempre inchiodato al muro del pianto da siringhe che stillano in vena blandizie, a stordire debolezze e languori. Fabbrica storie nella nebbia e plasma figure di chi ama, ma il vento soffia via petali e foglie lontano, tra i rovi di un buio dirupo. Soffre, allora, l’uomo che sogna, e digrigna i denti nel sonno per combattere l’armata degli incubi con la preghiera che torni una semplice brezza. Per poter fare l’amore in eterno, immortale come una bolla di sapone che esplode nel cielo azzurro marezzato di papaveri rossi di passione e di grano saraceno maturo. E sorride, del sorriso di un bimbo, ancora crocefisso, nell’attesa fiduciosa di nebbie materne che lo abbraccino con volti e parole in carezzare di mente. 564 LA DONNA CANNONE La donna cannone è una libellula leggera imprigionata in una gabbia di ciccia. Attende accanto ad un platano, all’ombra, e parla, socievole e dolce, con un sorriso che è una richiesta d’aiuto. E’ dolorosamente disinvolta, mentre chiacchiera del più e del meno, bilanciandosi sulle caviglie gonfie, ma sorride sempre e scruta con occhio chiaro il fondo del pozzo di chi le è vicino. Commenta un passaggio d’atleti di corsa, il traffico, il tempo, una processione, una sfilata, e dichiara silenziosamente che è principessa di un regno incantato in cui vuole, ospite, un cavaliere nobile e audace che le uccida il drago della solitudine che la tiene prigioniera. Ha i capelli stopposi e la tuta, stinta e sformata, trema in risata argentina, mentre i suoi occhi chiari si velano per troppe speranze disattese. Le dico, muto, che l’amo, ma da codardo pietista poeta, sorridendole cortesemente pallido, e la lascio volare di nuovo, delusa, leggera, caparbia, accanto al platano all’ombra, vicino ad un altro spettatore sorpreso, ché vuole sempre sfuggire al suo drago. 565 LA DONNA CON IL CELLULARE Non esistono donne brutte: esistono donne sole. Come la donna con il cellulare. Occupa un tavolo d’angolo nel ristorante cinese e guarda ogni tanto con curiosità distratta l’acquario con i pesci tropicali. Mangiucchia, svogliata, una zuppa di pollo e sorseggia tè al gelsomino, staccando a fatica gli occhi dal cellulare poggiato sul tavolo. A volte lo avvicina al suo volto strizzato di presbite per essere mestamente sicura di essere dimenticata, sperando di divenire per un attimo protagonista. Attende. Da sempre. Attende che un numero possa riscaldarla più di quanto non riesca a fare il tè che fuma dalla tazzina. Si guarda intorno, la donna con il cellulare, sorridendo, mite e pudica, di sé, demodée, con i capelli a crocchia ed un abbigliamento eccentrico d’anziana in scarpe da tennis e calzini sotto un gonnellone amish. Sorride garbata e discreta a chi incrocia con lo sguardo, magari fantasticando su una possibile telefonata. E sbircia ancora in tralice, con finta disinvoltura, un display sempre spento, mentre si raffreddano la zuppa di pollo e il tè al gelsomino, mentre diradano e aumentano e diradano ancora battiti di un cuore che si contrae come la bocca di un pesce dell’acquario. 566 LA CONDANNA DELLA STORIA Ha radi capelli lunghi, candidi. Sbava sudicio. Ghigna, repellente, e chioccia: “Ecco il nuovo giovane assistente… Vuoi sapere qualcosa di me?” Diffido del suo sorriso giallo insano. Piega la bocca in espressione sardonica amara. “Esistono pochissime verità nella storia dell’uomo, pisciasotto, perché sono custodite gelosamente dagli dei, invidiosi e diffidenti peggio dell’uomo. Rubarle e diffonderle è sacrilegio. Te lo dice chi non crede agli dei e adora la Storia. Eppure, forse, anch’essa è una divinità: m’ha condannato, infatti, offesa dalla mia divulgazione d’una sua verità, benché essa sia rimasta sempre inascoltata da tutti. Sono stato dannato all’immortalità, nella frustrazione dell’inutilità della mia esistenza: quanto di più atroce, per un uomo animato da propositi positivi.” Rantola, affaticato, e lo sguardo acquoso s’incupisce in cattivi pensieri. “Sono obbligato a vagare nel tempo e nello spazio per avere diffuso segreti di dei che forse non esistono, per una scintilla divina partecipata agli uomini, da nuovo Prometeo, senza permesso. Pago anch’io, ora legato a questo letto di contenzione, e in futuro sarò testimone in qualche altro campo di battaglia del mondo d’ogni tempo, a presenziare senza significato. Non stupirti, poppante: ho vissuto tragedie ovunque e ho udito pianti a Babilonia, Troia, Cartagine, Waterloo, Hiroshima, Berlino e Dresda, come Varsavia, e Leopoldville e Badgad, sempre impotente, disatteso, violentato a notare la fiamma sacra mai custodita in un focolare di saggezza.” Sono incredulo, tra l’essere testimone d’una farneticazione e il dubbioso d’assistere ad un evento eccezionale fuori d’ogni razionalità. Il vecchio mi sfida. “Lo sai chi sono, ragazzo? 567 Sono un penitente immortale, ladro di saggezza che è stata una manciata di perle ai porci. Sono Giovambattista Vico e tu, forse, neanche m’hai sentito mai nominare. La Storia s’è vendicata obbligandomi al viverla, inascoltato, tutta in ogni tempo e luogo fino a che esisterà l’uomo. Mi consola, vivaddio per me, d’essere alla fine…” Sorride stanco, accarezzando pensieri d’apocalisse. Rabbrividisco all’idea d’un irrazionalmente vero. 568 LA DONNA CHE PASSEGGIA SULLE NUVOLE Rotonda, corporea, eppure leggiadra, invoglia ad abbracci e coccole. Parla sempre con un sorriso stanco di chi ha vissuto, sofferto e cercato di dimenticare, e fissa negli occhi con uno sguardo profondo e inerme come uno stagno all’approssimarsi dell’inverno. Dice con calma rassegnata che è in rosso, giustifica chi le ha fatto del male, e non parla mai male di nessuno sprofondando chi l’ascolta in rimorsi e nell’invidia dell’ammirazione. Progetta in continuazione evoluzioni, cambiamenti, e sogna domani migliori mentre annega il presente in un brindisi dopo un altro brindisi dopo un altro brindisi appoggiando la sua guancia su una carezza, facendo le fusa da pigra soddisfatta. La donna che passeggia sulle nuvole ha spalle grandi e robuste, un andare lento e regolare non facile da arrestare, e una forza inaspettata: solleva pesi enormi, per lavoro, per la casa, per aprirsi varchi, per ordinare stanze ed esistenza allargando spazi alla luce del sole, che ama, e alle novità che riempiono una vita. Tollera e accetta, la donna che passeggia sulle nuvole, ché la pioggia di lassù disinfetta ogni ferita e l’aria frizzante rende leggeri e quindi anche felici, seppure in una malinconia che un sorriso stanco evidenzia nel suo salutare con un fiducioso bacio a fior di labbra su labbra, delicato, sigillo di amicizia duratura. 569 BAMBINI STESI AD ASCIUGARE piove acqua e guano sul volto silvano neanche fossi eric draven eretto come un’antenna sull’abbaino più alto del palazzo a scrutare mondo e vita con pensieri funerei in estasi mistica ed echi di chitarre elettriche overdrive ad uncinare spiacevolezze mentali di assenze mentre annuso aria elettricanforata qualche Sancho Panza mi ha avvertito d’andarci piano ma trovo che concetti d’equilibrio e di dosaggio siano perplessità di piccolo cabotaggio esistenziale soprattutto nel contemplare dall’alto l’esistenza degli uomini in distorto vedere una realtà che è virtuale realtà virtuale percepita da una mente che sogna vivendo e vive sognando pensieri depressogeni ora nel tramonto violaceo al morire del giorno ché il morire è sempre d’ogni cosa uno due tre toccherebbe proprio a te laggiù scorgo una veranda rigata di lacrime e una donna che stende il suo bambino ad asciugare ha portato stamattina a scuola un pallido cappottino sporco tendendolo per manica e strusciandolo sull’asfalto bagnato mentre amorevolmente elargiva lezioni d’esperienza e ripetizioni di vita trascinando a rimbalzelli lo zainetto colmo di merendine e sussidiario di anna freack alza la saracinesca in fondo alla piazza sotto il porticato l’uomo che vende incubi in confezioni regalo e formato famiglia anche con comodi finanziamenti a tasso zero virgola ché c’è sempre una virgola a depistare il così dal così passanti occhieggiano la vetrina nera come un’anima dannata e qualcuno entra per trovare una pace all’incontrario camminano svelti i corvi sul marciapiede schivando le merde d’anime che volano a giri concentrici sopra i tetti scivolosi sempre più scuri quando non rimangono appollaiate sui fili della rete tranviaria da pesca morphing morfologico mentre morfeo sussurra promesse in promenade sulla piazza don chisciotte don quixotte don quixote don quijote e poi peyote e ancora peyote portata da un amico per una 570 trasfigurazione da cristo fumante a braccia aperte in immaginifica croce sull’abbaino più alto del palazzo sotto la pioggia che chiedo a me stesso e ai corvi e alle anime volanti il perché di tutto come il cappottino sporco portato per manica a scuola ad imparare lezioni di vita mentre il bimbo asciuga nella veranda campana di vetro è uno spirituale sentire nel freddo che brucia come l’alito di un demone che tenta e invoglia ad una scelta con un succhiare cervello come chela di crostaceo ormonazzo e poi volare e sognare di comprendere e possedere la verità agitando le braccia in imitazione contrapposta e sbeffeggiante delle pale di mulini a vento mentre le feritoie di un tombino ti ridono di non avere paura mentre t’avvicini gravitazionale come la mela di eva passata a newton per altri peccati tuttora irrisolti peyote peyodler poi zero decibels in encefalogramma piatto di portata da servire freddo con lacrima christi 571 STRO Dicono che quando qualcuno sta per morire vede tutta la sua vita scorrere come un film in sorprendente relatività di tempo. Sono scivolato dal balcone all’undicesimo piano mentre fissavo una tenda. E tutto quanto dicono mi pare proprio una stro 572 CEREBROLASER Il credere m’appare polvere che si posa su sogni in movimento e il vento a volte deposita più oltre i granelli sedimentati da un’eternità di secondi a ricoprire altri sogni Credere dunque al vento, mi dice una voce, ma l’aria è anche immobile e i colori compreso il blu di Spezia prolungano rizomi abbarbicati alla memoria Credere in cosa dunque Nell’angoscia del non sapere che promuove consequenzialità emozionali Nella speranza d’un nulla corposo e ricco Nell’attesa e nella curiosità che permettono di decorare il nulla di quanto più aggrada e mantengono l’interruttore acceso su on E poi credere nell’off inevitabile che transuma da uno stato d’animo ad un altro …credo… e ancora credere nelle sovrapposizioni della noia sulla felicità del possesso sulla noia del desiderio sul possesso E ancora nelle assenze della conoscenza per la serenità e della mancata conoscenza per l’inquietudine che è da amare come una donna passionale e il sapere e il non sapere s’intrecciano in trame a fili doppi che raschiano la pelle ruvidi in sofferto piacevole martirio di chi non ha nulla da fare senza miniera o fabbrica o barca da pesca nella burrasca Il credere è privilegio Il non credere è un altro privilegio L’importante è avere coscienza dell’essere sballottati e dell’inadeguatezza L’importante è avere la fortuna del tempo per pensare Anche se forse sarebbe meglio non pensare Ecco Credo nell’incoerenza del cambiare idea dopo un attimo in capriccio apparente 573 Credo nella fragilità rispetto al tempo e all’esperienza fino alla delusione dopo un’illusione Credo nel sogno notturno che priva del timone e non fornisce rotte preordinate da seguire rispetto al sogno diurno dentro un carro armato E per finire credo che un così frattalico pensare sia proprio di un irrisolvibile affascinante caos da vivere fino a che è previsto E credo che poi forse si vedrà o forse no Credo che per qualche tempo vincerà sempre l’inquietudine 574 L’UNITA’ DI MISURA DEL TEMPO L’aula è gremita di vispi virgulti rampanti. Il brusio è spezzato da una voce decisa. “Premessa: occorre innanzitutto definire il tempo. Che cos’è il tempo? Uno spazio dove sequenzializzare ogni azione? Un percorso più o meno tortuoso canalizzato di attività? Un comodo marcatore di inizio e fine nell’infinito come punto di riferimento per la vita? Una convenzione per quantificare semplicemente un prima, un adesso e un dopo?” Silenzio resinoso d’attenzione ad esaltare una pausa ad effetto studiata. “Il tempo, signori, è semplicemente uno stato d’animo. Percepibile e al contempo inafferrabile, mutevole e fragile, opprimente o fuggevolmente leggero. Soltanto se siete convinti di questo potrete esprimervi al meglio. Tempo come stato d’animo, dunque. Con un suo peso specifico variabile nel momento della sua misurazione, perché il tempo ha un suo peso. E la misura di uno stato d’animo è data da?...” Aspettativa elettrica degli ascoltatori. Ancora una pausa. “Dal sorriso, signori. Dal sorriso.” Brusio confuso nell’aula e incrociarsi di sguardi sorpresi. “Pensateci. Una giornata, lemma convenzionale per definire una piccola porzione di tempo, può essere brevissima o interminabile e lo si può desumere da un sorriso, o da un’assenza di sorriso, già da appena svegli. Una vecchiaia artrosica e piena d’altri malanni può essere percepita come intollerante in un digrignare rancoroso di denti contro il mondo intero. E’ una vecchiaia lunga, infinita quasi, nel ruminare torti subiti, recriminazioni e rimpianti. 575 Ma può essere anche un periodo da vivere con saggia serenità nel contraccambiare con fiducia sorrisi a persone vicine che sorridono a loro volta per alleggerire uno stato d’animo, per alleggerire il peso del tempo. Il sorriso verso un bel gesto, verso una cortesia, verso un’attenzione al proprio io da parte di altri io sorridenti non rende lieve un qualsiasi stato d’animo e quindi il tempo? E, al contrario, l’irrigidimento delle mascelle in aria difensiva e torva, lo sguardo diffidente, la fisiognomica burbera del pensare che il mondo congiuri contro il proprio io, non rendono lo stato d’animo gravato da ansia in un tempo pesantissimo che non scorre mai? Ecco: meditate su questi concetti esemplificati e frastagliate nuove ipotesi nella considerazione del sorriso come più attendibile misura del tempo stato d’animo e del suo peso. E sarete pronti per il vostro lavoro.” La voce tace abbracciando la sala con un silenzio carezzevole. Dopo un attimo di rapimento, una sorta di magia mistica, esplode un fragoroso applauso dei presenti galvanizzati dalla folgorazione nella conoscenza. L’aula poi si svuota lentamente in un mormorio rilassato. I giovani rappresentanti della Smile, leader nel mondo, sfollano verso i loro uffici con nuove consapevolezze circa il loro luminoso futuro di rappresentanti di sorrisi porta a porta. 576 INDICE RACCONTI DI SFIGHE E SUPEREROI .................................................................... 5 FUMETTI...................................................................................................................... 7 SUPERZETA ................................................................................................................ 8 ANIMALAND.............................................................................................................. 10 NUOVO MITO ........................................................................................................... 12 FATO CINICO E BARO........................................................................................... 13 LA FINE DI WURDALAK........................................................................................ 15 RAMON E IL VAMPIRO.......................................................................................... 16 DARWIN LA SAPEVA LUNGA............................................................................... 18 IL GRANDE PELLECCHIA..................................................................................... 20 SCARABESISTENZA............................................................................................... 22 LA VERA STORIA DI N.K. ..................................................................................... 23 CONTO ALLA ROVESCIA ...................................................................................... 25 TANTI PICCOLI EROI DI MONDI PARALLELI ................................................. 28 LA GIUSTA CAUSA ................................................................................................. 35 LA PAROLA DI DIO ................................................................................................. 43 MINISTORIE DI MORTI STUPIDE PER IL TROPPO CALDO ....................... 49 SUCCHIARE IN PERFETTA LETIZIA ................................................................. 53 COME E’ DELIZIOSO ANDAR….......................................................................... 61 SUPEREROI AL FANDANGO CAFE’................................................................... 63 EMICRANIA ............................................................................................................... 67 ALI DI FARFALLA E TERREMOTI IN CINA ...................................................... 70 ALITI DI VENTO....................................................................................................... 74 LETTERA DI SUPER INTENTI.............................................................................. 78 SOGNI A RISCHIO................................................................................................... 81 ARISTOTELICHE MELE BACATE....................................................................... 85 CINICA STORIA D’ASTOLFO SENZA LUNA..................................................... 89 PER SENTIRSI MIGLIORI...................................................................................... 93 SE MISS SFIGA VUOL FLIRTARE ...................................................................... 94 ONIRICI PERCORSI E REALI TRAGUARDI DI ATTILA ZAPPING ............ 100 SURREALTRASH DI OCCASIONI COLTE E MANCATE ............................. 104 EXS............................................................................................................................ 108 SGUARDI E LAME NEL RISPETTO .................................................................. 112 UN CASO UMANO................................................................................................. 115 ARRIVANO I BRIGGHEDOVIGI ......................................................................... 119 BRACCHI E DUGONGHI ..................................................................................... 127 PRIMO MAGGIO 2003 – POLVERE DI FOGLIE............................................ 129 FIGLI E FIGLIASTRI DELLA STORIA............................................................... 132 RACCONTI LONG SIZE............................................................................................. 137 MUSICA ROCK....................................................................................................... 139 CONSULENZE PREMATRIMONIALI................................................................. 160 PICCOLI UOMINI ................................................................................................... 168 IL PORTINAIO ED IL POVERO MENENIO AGRIPPA................................... 176 SI MUORE UNA VOLTA SOLA?......................................................................... 184 LA POLTRONCINA N.123 .................................................................................... 189 577 LE STRAORDINARIE DISAVVENTURE DEL MIO AMICO LEOPOLDO . 200 LA SENTINELLA..................................................................................................... 217 PASSIONI E PASSIONI......................................................................................... 227 ACROSTICO PELOSO .......................................................................................... 241 GLI ARTIGLI DELLA NOIA .................................................................................. 249 NUOVA IMPRENDITORIA.................................................................................... 284 FAI L’IRRIVERENZA, PAGA PENITENZA........................................................ 294 RACCONTI NERI......................................................................................................... 321 GIALLO ESTETICO ............................................................................................... 323 DEVOZIONE............................................................................................................ 325 GIALLO IN DUE TEMPI E DUE SPAZI ............................................................ 326 TROPPO IN ANTICIPO AGLI APPUNTAMENTI .............................................. 328 LA SERENA VITA DEL BORGO......................................................................... 333 DICE LA SABBIA DEL DESERTO..................................................................... 335 PECCATI DI GOLA ................................................................................................ 340 APOCRIFO VANGELO .......................................................................................... 341 UNA SOLA ZANZARA ........................................................................................... 344 SCENOGRAFIA PER UNA FESTA DI COMPLEANNO ................................. 349 IL POZZO ................................................................................................................. 353 IO NON FESTEGGIO HALLOWEEN ................................................................. 355 NON DI SOLO FRASSINO… ............................................................................... 357 RIFLESSI E RICORDI........................................................................................... 362 VOLONTARIATO .................................................................................................... 366 INTOLLERANTE VECCHIA ZIA.......................................................................... 368 UN VOLARE D’AIRONI E PIPISTRELLI ........................................................... 371 OCCHI BLU ............................................................................................................. 375 BUCATO CHE PIU’ BIANCO NON SI PUO’..................................................... 377 INDIANE SOTTRAZIONI ...................................................................................... 379 ADESSO SANNO, E SANNO ANCHE ATTENDERE ..................................... 383 I COLLEZIONISTI .................................................................................................. 389 RACCONTI PER RIDERE CHE MAMMA HA FATTO I GNOCCHI ................. 395 TRAGICOMICA STORIA DI UN PULITORE DI VETRI IMMIGRATO CLANDESTINO KENIOTA.................................................................................... 397 MENU VEGETARIANO......................................................................................... 432 TUTTO LO SBRANG MINUTO PER MINUTO................................................. 434 URSUS E URSULA ................................................................................................ 439 TI SPIEGO DI UNA TETTA INTERMITTENTE................................................ 441 NOTARELLE DI COSTUME – IL CITTADINO CHE PROTESTA................ 445 LA FESTA DEL PAPA’ NON E’ PER TUTTI ..................................................... 456 ABBASSO LE DONNE.......................................................................................... 457 STRALUNATA FAVOLETTA DI NOMI .............................................................. 461 IL GIOCO DELL’OCA ............................................................................................ 465 GROTTESCA MINIPORNOSTORIA ................................................................... 469 CINOFILA STORIA MULTIFINALE .................................................................... 471 LA C.I.S. ................................................................................................................... 476 ECHI DI ECOFUTURO INSOSTENIBILE ........................................................ 478 NESSUN ALLARMISMO....................................................................................... 486 578 TANTO PER DIRE....................................................................................................... 491 VITA E MORTE....................................................................................................... 493 BLOB – IL RITORNO............................................................................................. 494 PUNTEGGIATURA ................................................................................................. 495 AUTODIFESA DI VILE POETA........................................................................... 497 FLIPPER ................................................................................................................... 498 QUESITI TEOLOGICI............................................................................................ 499 A IOSA ...................................................................................................................... 500 SURREALIA ANIMALIA ........................................................................................ 501 DICE UN CAPPELLANO....................................................................................... 503 RADIO....................................................................................................................... 505 TOUR EIFFEL ......................................................................................................... 506 OMELETTE.............................................................................................................. 507 CYRANO ALTER..................................................................................................... 508 SCRITTORE MANCATO ....................................................................................... 509 TELEGRAFIRONICA ............................................................................................. 510 SUORE E CACCHINE DI BIMBO...................................................................... 513 DESECRATION BLUES........................................................................................ 518 UNA SECONDA POSSIBILITA’........................................................................... 519 PENSIERI SPARSI ................................................................................................. 521 VARI QUELLI DI VARIA UMANITA’ .................................................................. 531 ACIDE RIFLESSIONI ANCORA ATTUALI........................................................ 535 ANTIPODI................................................................................................................. 538 PROSPETTIVA ........................................................................................................ 539 MONDO RANDOM................................................................................................. 540 SINUSOIDE ESISTENZIALEIDE ....................................................................... 543 TUP_AMARO PERCEPIRE DEL TEMPO.......................................................... 546 ONAN DAY............................................................................................................... 547 AVIARIO GIRO DELLA MORTE ......................................................................... 551 MODI DI DIRE........................................................................................................ 553 MUSIC - AL ............................................................................................................. 554 MARMUTANGOLO (BIFIDO) ............................................................................. 557 CRETINI A CONFRONTO .................................................................................... 558 L’UOMO CHE GRUFOLA..................................................................................... 562 L’UOMO CHE SI RITIRA...................................................................................... 563 L’UOMO CHE SOGNA .......................................................................................... 564 LA DONNA CANNONE.......................................................................................... 565 LA DONNA CON IL CELLULARE ...................................................................... 566 LA CONDANNA DELLA STORIA........................................................................ 567 LA DONNA CHE PASSEGGIA SULLE NUVOLE............................................ 569 BAMBINI STESI AD ASCIUGARE ..................................................................... 570 STRO ......................................................................................................................... 572 CEREBROLASER................................................................................................... 573 L’UNITA’ DI MISURA DEL TEMPO ................................................................... 575 579 580 581 582