qui - Sconfinare
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w w w . s c o n f i n a re . n e t È un g i o r n a l e c r e a t o d a g l i s t ud e n t i d i S c i e n z e I n t e r n a z i o n a l i e D i p l o m a t i c h e d i G o r i z i a c h e a t t r a v e r so i l g i o r n a l i sm o v o g l i o n o c o n f r o n t a r si c o n l a r e a l t à d i c o n f i n e ( e n o n so l o ) . L'EDITORIALE Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori!” scriveva Calvino nel suo Barone Rampante. È un esercizio che l’intera redazione ha dovuto fare, nella realizzazione del numero che avete ora tra le mani. Un solo tema, drammaticamente attuale: il Muro. Fisico o astratto, passato, presente o futuro. Nella storia, nella letteratura, soprattutto nella geopolitica. A partire da una mappa realizzata dall'associazione UQAM, Chaire Raoul Dandurand en études stratégiques et diplomatiques dell'Università del Quebec a Montreal, abbiamo deciso di analizzare in primo luogo ogni barriera che esiste nel mondo attuale per poi, ovviamente…sconfinare. Cercando sul vocabolario il significato della parola “muro”, ciò che si legge è: “struttura muraria di sviluppo verticale che può essere elemento costitutivo di edifici, come facciata esterna o complesso di pareti interne, oppure può svolgere funzione di sostegno, di recinzione, di delimitazione, di divisione”. La funzione più triste del muro viene per ultima: quella di dividere. Il muro è da sempre servito per separare persone o territori, famigliari, amici: l’ha fatto fin dalla Muraglia Cinese, costruita nel III a.C. sotto il regno di Chin ShihHuangTi. La verità è che attualmente le barriere presenti nel mondo sono moltissime, spesso ignorate, a dimostrazione di come i passi fatti dall’umanità verso la coesistenza pacifica sono vani, laddove sono. Sparsi da Oriente a Occidente, edificati nel passato e negli ultimi anni in quantità sempre maggiori, questi muri sono la vergogna del nostro mondo, un separatore tangibile che innalza non solo pietre e cemento, ma anche l’ideologia del “diverso”. A cosa servono le nuove tecnologie, la comunicazione di massa, i social network? Le distanze sono veramente accorciate come pensiamo? L’esperienza del Muro di Berlino, che STORIA Die Berliner Mauer Perché Osimo? IMMIGRAZIONE L'Europa dei muri Qualcuno non si fida Pagine 2 e 3 Pagine 4 e 5 di Viola Serena Stefanello e Giulia Lizzi “ divideva Germania Est da Germania Ovest post Seconda Guerra Mondiale, è stata una lezione evidentemente non imparata a pieno. È chiaro in America con il “muro di Tijuana”, così come nelle varie parti d’Europa dove si risponde all’emergenza immigrazione erigendo barriere. D’altronde, se la cortina di ferro che attraversava il Vecchio Continente (toccando Gorizia stessa) è stata ormai abbattuta da tempo, essa è ancora intatta in Corea. E vi sarebbero ancora decine e decine di barriere da elencare, soprattutto in aree sensibili all’immigrazione (come Ceuta e Melilla) o su frontiere sensibili tra Paesi belligeranti incapaci di raggiungere accordi (come in Kashmir o nel Sahara Occidentale). Se le muraglie tangibili sono tantissime, quelle astratte e simboliche, poi, sono purtroppo infinite. Che si parli di pregiudizi verso persone di altre etnie, nazionalità, lingue o orientamenti sessuali, costituiscono ostacoli difficilissimi da abbattere, per i quali non basta un trattato di pace tra due n° 43 - Inverno 2015/16 Direttore: Lorenzo Alberini Capo R.: Guglielmo Zangoni Governi o la fine di una crisi politica. A volte, però, qualcuno ci ha provato, come Franco Basaglia, “padre” della legge sulla chiusura dei manicomi, o Ludwik Lejzer Zamenhof, l’inventore dell’esperanto, lingua franca che avrebbe dovuto unire tutti i popoli del mondo. C’è poi chi, guardando un muro, ha visto un’opera d’arte. È il caso non soltanto degli street artist, ma anche di quei poeti e scrittori che, da Leopardi a Sylvia Plath, hanno visto non soltanto un limite, ma anche una via di fuga dalla monotonia e dal reale. Scoprendo di tanti muri, ci siamo resi conto di trovarci davanti a un mondo incatenato nel suo piccolo, che passa il tempo ad osservare chi si avvicina e a innalzare separazioni sempre più grandi e minacciose. Allo stesso tempo ci piace credere, però, di far parte di un’umanità che va progredendo, a prescindere da momenti di crisi di passaggio che noi e il mondo stiamo attraversando. All in all, we’re just another brick in the wall. * * * I MURI DEL NOSTRO TEMPO CULTURA "The Wall" Pink Floyd Il mare oltre la siepe Pagina 1112 Sconfinare 2 Inverno 2015/16 DIE BERLINER MAUER: VIVIAMO ANCORA LA SUA EREDITÀ? Il più famoso tra i muri della storia contemporanea continua a gettare la propria ombra sull’Europa. D di Nicolò Brugnera a Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente".Con queste parole, nel 1946, Winston Churchill descriveva la situazione che si era creata in Europa al termine della Seconda Guerra mondiale. Un gelo paradossale che era calato fra Stati Uniti ed URSS, e di conseguenza tra i vari Paesi consociati, ex alleati nella lotta contro il nazismo.Di ciò era esempio Berlino: la città, al termine del conflitto, era stata divisa in quattro zone, ognuna rispettivamente sotto l'influenza di americani, francesi, inglesi e sovietici. In un primo momento, questo controllo da parte delle potenze straniere era più che altro formale ed il transito era consentito da settore a settore. Nel 1948 gli Alleati decisero di reintrodurre il marco come moneta corrente nelle loro zone, scatenando l'ira di Stalin, che bloccò gli accessi alla città. Fu durante questo periodo che ebbe luogo il cosiddetto “ponte aereo”, missione lanciata dal presidente americano Harry Truman per rifornire Berlino. Durò circa un anno, e poco dopo nacquero formalmente le due repubbliche tedesche separate, peggiorando ulteriormente i rapporti tra i due blocchi.Poi, la notte del 12 agosto 1961, la Storia lasciò in città un segno indelebile. I vertici della DDR, infatti, di comune accordo con l'Unione sovietica di Nikita Chruščёv, decisero di innalzare un muro tra il loro settore e quello occidentale. Nell'idea iniziale, doveva servire a contenere la massiccia emigrazione verso l'Occidente dei cittadini del blocco orientale che, attratti dal miglior stile di vita, vedevano l'ovvio e più "comodo" sbocco nella città più importante della Germania.Man mano, però, questo muro si ingrandì fino ad avvolgere completamente i settori non comunisti della città, assumendo un significato più elevato nell'immaginario collettivo e diventando die Mauer ("il" Muro): quello di rappresentazione fisica della precitata cortina di ferro.Questa divisione, che si tradusse anche in una competizione tra le due parti di Berlino, ebbe risvolti drammatici: non era raro infatti che i vopos, le famigerate guardie di confine, aprissero il fuoco contro chi cercasse di passare al di là del muro. In mille morirono nel tentativo.I rapporti tra le due Germanie cominciarono a normalizzarsi negli anni Settanta, quando il cancelliere della Repubblica federale tedesca Willy Brandt, con la cosiddetta Ostpolitik, tese una mano agli ormai ex Sconfinare non identifica alcuna posizione politica, in quanto libera espressione dei singoli membri che ne costituiscono il Comitato di Redazione. Sconfinare è un periodico regolarmente registrato presso il Tribunale di Gorizia in data 20 maggio 2006, n° di registrazione 4/06. Editore e Propetario: Assid Associazione studenti di scienze internazionali e diplomatiche. Direttore: Lorenzo Alberini Capo Redattore: Guglielmo Zangoni rivali dell'Est.Il 9 novembre 1989, infine, il fatto decisivo. Complice una dichiarazione ambigua di un leader della DDR, migliaia di berlinesi festanti presero a picconate il muro, celebrando la riunificazione della città, che precedette di un anno quella dell'intera nazione.Questo avvenne anche a causa, o grazie, allo stato di crisi in cui versava l'Unione Sovietica, di cui fino ad allora si era temuto l'intervento, come a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968.Tuttavia, fonti riportano di un malumore di alcuni leader europei di allora, in particolare il presidente francese François Mitterrand e la premier inglese Margaret Thatcher, riguardo alla riunificazione delle due Deutscher Republiken. Come sostiene il giornalista Lucio Impaginazione e grafica: Alessandro Beghelli, Sofia Biscuola, Marco Busetto, Martina Corti, Timothy Dissegna, Michele Faleschini, Alessia Sofia Giorgiutti, Giulia Lizzi, Richard Puppin, Viola Serena Stefanello, Guglielmo Zangoni. Stampato da: Tipografia Budin, via Gregorcic 23, Gorizia (GO) Redazione: Lorenzo Alberini, Alessandro Beghelli, Sofia Biscuola, Nicolò Brugnera, Marco Busetto, Giulia Calibeo, Guido Alberto Casanova, Francesco Caslini, Rachele Caracciolo, questa diffidenza, causata dalla memoria storica delle due Guerre mondiali, può aver influenzato il conseguente processo di integrazione europea. Die Mauer, dopo 26 anni dal suo crollo, fa sentire ancora la sua presenza anche all'interno della Germania stessa. L'area della ex DDR infatti, nonostante l'euforia iniziale per la riunificazione del Paese e la stipula di un “patto di solidarietà” per aiutare i lander orientali ad uscire dalla crisi economica in cui versavano, è ancora arretrata. Si è inoltre diffuso un fenomeno detto Ostalgie, neologismo per indicare la nostalgia per l'Est, per i suoi prodotti simbolo e per la ex Repubblica democratica stessa, la quale era sì uno Stato autoritario, ma al contempo era assai attenta in fatto di politiche sociali e welfare.In tutto ciò, tutti sanno che anche a Gorizia vi era un muro che separava l'Italia dalla ex Repubblica Jugoslava. Eretto nel 1947, detiene il “record” di longevità dei muri europei della guerra fredda, in quanto fu abbattuto solo nel 2004, con una celebrazione in Piazza della Transalpina alla quale parteciparono l'allora primo ministro Romano Prodi ed il presidente sloveno Janez Drnovšek.Proprio in questa piazza la divisione tra blocco occidentale ed orientale era molto evidente, con la presenza di un'enorme stella rossa posta sulla facciata della stazione di Nova Gorica e presidi militari da entrambe le parti fino all'uscita della Slovenia dalla Jugoslavia nel 1991. Dopo gli accordi di Schengen, la divisione di questa piazza ha ormai perso di significato, ma la pavimentazione continua ad indicare dove una volta passava il “muro di Gorizia”. *** Cecchi, Riccardo Cincotto, Alessia Cordenons, Martina Corti, Sofia Dall'Osto, Ilaria Del Rizzo, Timothy Dissegna, Michele Faleschini, Alessia Sofia Giorgiutti, Giulia Lizzi, Luca Marano, Giulia Mastrantoni, Giacomo Netto, Benedetta Oberti, Arianna Orlando, Paola Pellegrino, Barbara Polin, Richard Puppin, Cecilia Rocco, Claudia Russo, Caterina Simonetti, Viola Serena Stefanello, Giulio Torello, Alessandro Venti, Guglielmo Zangoni. Sconfinare Inverno 2015/16 3 PERCHÈ OSIMO? Neppure gli accordi del 1975 hanno eliminato decenni di diffidenza reciproca I di Guglielmo Zangoni l 10 Novembre 1975, meno di mezzo secolo fa, venne deciso, in calce, nero su bianco, il presente del Carso, di Trieste, delle relazioni italojugoslave e della diplomazia eurobalcanica. Le controversie riguardanti la gestione amministrativa delle zone carsiche e istriane ha radici storiche molto profonde. Territori dal difficile inquadramento storico-geografico, dovuto ad una multietnicità che per secoli fino al 1900 ha resistito più o meno pacificamente e che i due conflitti mondiali hanno contribuito ad insanguinare. Dal 1947, anno della Conferenza di Parigi, dove i ministri degli esteri si riunirono con il compito di elaborare tra gli altri il trattato di pace con l’Italia, il problema del confine orientale finì per diventare uno dei temi caldi delle discussioni diplomatiche che seguirono il secondo conflitto mondiale. Ognuna delle grandi potenze aveva una sua ipotesi riguardante il confine giuliano: da quella statunitense a quella francese, via via meno favorevoli alla tesi di Roma fino alle posizioni sovietiche, più in linea con quelle di Belgrado, che avanzavano rivendicazioni non solo sulla VeneziaGiulia, Trieste e Gorizia comprese, ma addirittura su aree del Friuli mai prima di allora messe in discussione. L’esito di queste discussioni fu nefasto. Non solo non si giunse ad una soluzione definitiva ma addirittura si arrivò a dividere in due blocchi amministrativi l’intera area da allora rinominata Territorio Libero di Trieste (TLT) in due zone d’influenza: la ZONA A, comprendente Trieste e Gorizia, al Governo Militare Alleato degli eserciti britannico-statunitensi e la ZONAB, a sua volta divisa in due parti (il distretto italo-sloveno di Capodistria e il distretto italo-croato di Buie) agli jugoslavi. Il TLT, che avrebbe dovuto funzionare come uno Stato indipendente, ben presto si trasformò in un monstrum geopolitico senza paragoni. La nomina di un Governatore da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non arrivò mai e per anni l’area costituì niente di più che un guazzabuglio di genti. Una delle conseguenze di tale sciocchezza diplomatica fu che da Pola, così come da alcuni centri urbani istriani (Capodistria, Parenzo, Orsera, ecc.), partì oltre il 90% della popolazione etnicamente italiana, da altri (Buie, Umago e Rovigno) si desumono percentuali inferiori ma sempre molto elevate di esuli dalmati e istriani che fuggirono dalla promessa d’epurazione etnica condotta senza remore dagli ufficiali di Tito. In un successivo scenario di guerra fredda d’inizio anni 50, gli Stati Uniti, alle prese con la costruzione di una fitta rete di alleanze in funzione anticomunista, giunsero dapprima in Spagna, riuscendo a superare la riluttanza francese a rapportarsi con il regime franchista ottenendo il controllo di un certo numero di basi militari e impianti portuali, e successivamente nella Jugoslavia di Tito. Già nel 1951, la Jugoslavia figurava tra i paesi che ricevevano aiuti militari americani, ma l’obiettivo statunitense era quello di spingere Tito verso un’alleanza con Grecia e Turchia che desse vita a un blocco balcanico implicitamente vicino alla NATO e quindi “amministrabile” dal sistema atlantico. In quest’articolato contesto s’inserisce la città di Trieste, e fu proprio a causa della “non decisione” riguardante il destino di quella che fu la perla dell’impero austroungarico che nel 1953 non si arrivò a nessuna alleanza balcanica ma, bensì, ad un trattato d’amicizia con la volontà di rinunciare a costituire il Territorio Libero di Trieste e, di conseguenza a mantenere la divisione in zone da assegnare, in seguito, ad Italia e Jugoslavia. Seguirono proteste violentissime che sfociarono nei moti triestini del 1953 in quella che venne definita la “rivolta di Trieste”. La conseguenza umana di tutto ciò che fu il successivo ed inevitabile Memorandum di Londra del 1954 fu un ulteriore ondata di esuli. Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Umago e Ciffanova videro trasformarsi i propri cittadini in stranieri, così come già era avvenuto per i fratelli di Zara, di Fiume, di Pola e del resto dell’Istria in precedenza. Ad Osimo (AN), nel 1975 le delegazioni di Roma e Belgrado, rappresentate rispettivamente da Mariano Rumor e Milos Milic, firmarono un’intesa che riconfermava le decisioni prese 21 anni prima e che costrinse l’Italia a rinunciare ad una serie di contenziosi e rivendicazioni, in particolare quelle concernenti i diritti degli istriani e dei dalmati che erano stati costretti a lasciare i territori destinati dalla Jugoslavia alla fine della seconda guerra mondiale. Ciò che il governo italiano contava comunque di sviluppare con il corrispondente jugoslavo consisteva in una rete di relazioni particolarmente amichevoli sul piano politico e proficue su quello economico. In effetti, negli anni successivi, l’Italia sarebbe divenuta uno dei maggiori partner commerciali della Jugoslavia. Il TLT, Territorio Libero di Trieste, un nome, una condanna. Trieste, Gorizia, la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia non conobbero pace fino al 1975 ma, ad essere più coerenti, non la conobbero neppure allora. Solo con il disfacimento sovietico per le strade e nelle piazze dell’estremo confine orientale d’Italia si poté finalmente parlare di un muro abbattuto. Un muro fisico che oggi però resiste nell’immaginario collettivo. Italiani e sloveni, dopo aver patito pene atroci per più di un secolo, faticano ancora a superare le reciproche riserve in nome di una cooperazione veramente transfrontaliera, obiettivo che deve impegnare non solo le due amministrazioni pubbliche ma anche e soprattutto l’Europa intera. * * * IL “SAPER VEDERE” OLTRE LE BARRIERE DEL GIORNALISMO T di Guglielmo Zangoni Quando l'aumento di quantità non sempre corrisponde ad un aumento di qualità roppi, nel giornalismo odierno, i “muri”, le barriere che si frappongono tra chi scrive e chi legge. Spesso si avverte la presenza di filtri e setacci di diversa misura e colorazione, che ogni giorno trattengono dagli articoli la loro essenza. Gli enormi passi avanti di tecnologia, comunicazione e distribuzione delle notizie, hanno da un lato favorito l’abbattimento di barriere spazio-temporali, dall’altro costituito un’impervia muraglia cinese che ostruisce la piena comprensione di ciò che realmente accade, di ciò che davvero, noi lettori, dovremmo aver la possibilità di conoscere ed analizzare in chiave critica. Oggi la vera informazione è una nave alla deriva in balia di una nuova concezione di giornalismo, dove la libertà di stampa è senza regole e permette di diffondere notizie di qualsiasi genere senza nessun tipo di controllo. Girovagando tra le testate, rimbalzando da un titolo all’altro, il lettore si ritrova innondato da un’eccedenza di informazioni, spesso senza poter comprendere quali siano i punti salienti degli avvenimenti che caratterizzano il mondo che lo circonda e la società in cui si trova. Il giornalismo d’oggi è lo specchio dei nostri tempi: le informazioni sono come merci da vendere e non svolgono più la loro funzione fondamentale. Il web, i social, i giornali online, ad oggi i principali generatori d’informazioni -più o meno fondate- che affollano le nostre bacheche influenzano le nostre opinioni e rischiano di causarci una sorta d’indigestione. Non sempre, infatti, ad un aumento di quantità corrisponde un aumento di qualità. E’ necessario, quindi, puntare ad un nuovo giornalismo, non più solo ad una rivisitazione di quello passato come è stato fatto finora; questo deve farsi, infatti, veicolo d’informazione della società moderna per la società moderna e strumento capace di abbattere i muri del pregiudizio e dell’ignoranza, svincolandosi, per quanto possibile, da sfumature eccessivamente politiche. In conclusione, è fondamentale che il giornalismo riscopra la sua funzione sociale, in un certo senso simile a ciò che Da Vinci definiva il “saper vedere”: riconoscere e riordinare ciò che si vede sapendolo poi comunicare ai propri lettori. * * * 4 Sconfinare Inverno 2015/16 L’EUROPA DEI MURI ALLE PRESE CON L’EMERGENZA MIGRATORIA L'ingombrante esistenza di un muro è sempre difficile da dimenticare. Oggi più che mai. I di Michele Faleschini l fatto che molti europei abbiano perso familiarità con l'ingombrante esistenza di un muro non significa che si siano dimenticati cosa esso sia e cosa comporti una sua presenza nel continente. Oggi questa presenza si è fatta più imponente. Più che di muro al singolare, è di muri che si dovrebbe parlare. Negli ultimi anni sono sorte infatti diverse recinzioni e barriere metalliche o di filo spinato che, seppur non destando lo stesso scalpore del muro ungherese recentemente ultimato, hanno comunque precluso buona parte degli ingressi via terra nella zona comunitaria. Si pensi al confine tra Bulgaria e Turchia, sigillato da una barriera di 160 km, oppure alla recinzione sul fiume Evros, tra Grecia e Turchia. O ancora, a quello in fase di progettazione a Calais, in cui frattempo numerose barriere sono state erette per impedire l'accesso al porto ai migranti. Guardando a questi progetti, alcuni terminati, altri in costruzione, viene da chiedersi come mai i muri siano considerati da molti governi l'unica manovra efficace per arginare il flusso migratorio incontrollato. Dal momento che la questione è veramente delicata, occorre prima indagare le cause che hanno portato a queste costruzioni, cercando di estraniarsi dal clima catastrofico e allarmista che pervade buona parte del vecchio continente (governi nazionali compresi) e infine capire quale debba essere il ruolo delle istituzioni europee, che alla prova dei fatti non sembrano essere riuscite a gestire la situazione. In poche parole, bisogna capire se il muro è ciò di cui l'Europa e i migranti hanno bisogno oggi. Come esempio più lampante prendiamo il famigerato muro ungherese: una prima parte è stata completata già alla fine di agosto, sul confine con la non comunitaria Serbia. Una seconda parte è stata costruita sul confine con la Croazia, dimostrando come il governo ungherese sia sempre disposto a dispiegare filo spinato e barriere metalliche ovunque ce ne sia il bisogno. A dispetto delle dichiarazioni provenienti dai vertici ungheresi e delle flebili e non coese risposte dei vari stati e delle istituzioni europee, la costruzione del muro, rinforzato all'inverosimile, non può che ricordarci quegli anni nei quali, seppur in contesti completamente differenti, il diritto fondamentale di migliorare la propria vita, di sopravvivere e a trovare rifugio in un paese sicuro veniva ripetutamente violato. Fa inoltre riflettere, se non preoccupare, il fatto che molte nazioni che fino a trent'anni fa erano divise da barriere simili a quelle odierne, oggi si rifiutino di affrontare un impegno che l'Europa si è assunta nei loro confronti in più occasioni (si pensi solo ai milioni di sfollati nel secondo dopoguerra o alle crisi conseguenti alla frantumazione del blocco sovietico e jugoslavo negli anni 90). Nonostante le tonnellate di acciaio riversate al fine di rendere il confine ermetico, le persone in viaggio verso i paesi del centro e nord Europa non si sono arrese, intraprendendo deviazioni e cambi di direzione che hanno esteso la cosiddetta “rotta migratoria” ad un numero crescente di Paesi. Come già ricordato, quello dell'Ungheria non è un caso isolato. Come in un gioco al rialzo, ogni paese balcanico, e non solo, è pronto ad innalzare il suo muro qualora gli altri stati permettano il passaggio dei migranti, mettendo così in difficoltà le successive nazioni presenti sul “percorso della speranza”. Questo gioco non è però a somma zero. A farci le spese sono infatti principalmente due categorie: da una parte, quella delle migliaia di persone che affrontano questo viaggio, dall’altra l'Unione Europea, che in questa cosiddetta crisi sta perdendo un'opportunità concreta. Infatti, dopo anni di sfiducia progressiva nei confronti dell'immigrazione (secondo un sondaggio dell'Eurobarometer solo un terzo degli intervistati ha espresso un'opinione positiva nei confronti dell'immigrazione da paesi terzi) una gestione accurata e sopratutto comunitaria avrebbe potuto dimostrare non solo la capacità di saper affrontare situazioni non ordinarie, ma anche quella di saper continuare a fare del lavoro di squadra la forza principale dell'Unione. Certo, non tutto è perduto, ma fino ad ora le azioni dell'UE, tra cui mini-summit, compromessi al ribasso, innocui avvertimenti e deboli richiami all'azione comune, non hanno sortito il risultato sperato. Bisogna comunque confidare che lo raggiungano, poiché se c'è una domanda a cui possiamo sicuramente rispondere, è proprio quella che le neonate recinzioni ci impongono di porci: i muri, nell'Europa di oggi, non servono e non devono servire. Quello che serve è una serie di soluzioni e provvedimenti di certo più impegnativi ed elaborati, ma che possano veramente condurre ad una risoluzione della crisi, trasformandola in una gestione comune ed ordinata, con tutti i sacrifici che ciò comporta. Urge un dibattito che ponga finalmente al centro della questione i diretti interessati: i migranti, che le barriere non hanno saputo fermare. E tutto questo lasciando da parte, ancora una volta, i vecchi e freddi muri. * * * Inverno 2015/16 Sconfinare 5 QUALCUNO NON SI FIDA: L'EUROPA RISCOPRE LE FRONTIERE Sulla scia della grande ondata migratoria che ne sta sconvolgendo le tradizionali regole di convivenza ed equilibri di potere, l’Europa riscopre le frontiere I di Guido Alberto Casanova l 2015 sembra essere l'annus horribilis dell'Europa. Oltre al rischio défault greco e all'annuncio da parte del Regno Unito di un prossimo referendum sulla cosiddetta "Brexit", la vera minaccia per l'UE è il dissenso sorto in merito alla questione dei migranti. Per capire l'attuale crisi bisogna prendere in considerazione due elementi di fondamentale importanza: il crollo de facto degli accordi di Dublino e il funzionamento di Schengen. I primi stabilivano che i migranti che avessero voluto chiedere asilo in UE lo avrebbero potuto fare solo nel paese di arrivo: ma, data l'evidente insostenibilità per Italia e Grecia (paesi di per sé ancora in grossa difficoltà) di clausole del genere dovuta all'arrivo di centinaia di migliaia di migranti sulle proprie coste, i paesi in questione hanno iniziato a non seguire più le disposizioni e gli accordi sono perciò diventati lettera morta. Quindi ora una volta arrivati in Europa i migranti hanno la possibilità di scegliere dove deporre la propria domanda d'asilo. Ed è qui che entra in gioco l'accordo di Schengen, che garantisce libertà di movimento all'interno dei paesi UE (tranne che per il Regno Unito e l'Irlanda) al prezzo di un rafforzato sistema di protezione delle frontiere esterne coi paesi non-Schengen. Perché se da una parte i controlli ai confini interni sono stati aboliti di norma, questi sempre secondo l'accordo possono essere ristabiliti in casi eccezionali e comunque temporanei. Tuttavia gli sviluppi recenti stanno portando i vari paesi europei a considerare un'eventuale modifica corale degli accordi: processo lungo e dagli esiti incerti, indice però che l'attuale sistema crea più di qualche disappunto nelle varie dirigenze europee. Da parte loro, i numeri sono piuttosto chiari: se nel 2014 sono stati 219mila i migranti arrivati in Europa attraverso i vari corridoi mediterranei, nei primi due quadrimestri del 2015 questi sono stati già più di 350mila. Ma altre stime fissano numeri ben più alti. Davanti a questa emergenza l'Europa si presenta divisa: quando a maggio Bruxelles presentò un progetto per ripartire tra i paesi UE i migranti arrivati in Italia e Grecia l'opposizione di vari paesi fece naufragare il progetto delle quote obbligatorie, rimpiazzandolo poi con uno di accoglienza su base volontaria. Riconosciuta quindi la debolezza delle istituzioni europee in materia, ogni paese ha poi seguito una propria agenda: la Francia ha chiuso Ventimiglia ai migranti, l'Ungheria ha costruito un muro alla propria frontiera meridionale (giustificando la mossa con la difesa delle frontiere comunitarie e con la lotta all'immigrazione clandestina), il Regno Unito giudicando insufficienti gli sforzi francesi a Calais ha rinforzato le proprie posizioni sul luogo, e la Germania (nonostante l'annuncio d'accogliere le richieste d'asilo di tutti i siriani) ha aumentato i controlli alle frontiere con l'Austria, imitata poi da altri paesi centroeuropei. Allo scenario disordinato va poi aggiunto che nel 2015 Germania, Ungheria, Italia, Francia, Austria e Svezia raggruppate hanno ricevuto ben più della metà di tutte le domande d'asilo presentate in Europa: una situazione estremamente disequilibrata che rischia di esacerbare tensioni già esistenti tra i vari paesi europei. È però importante notare come una gran parte dei migranti arrivati in Europa siano in effetti rifugiati: essi infatti non migrano per motivi economici ma per scappare alle persecuzioni e alle guerre dei loro paesi, e in quanto tali l'Europa ha l'obbligo internazionale (dettato dagli accordi di Ginevra del '51 e dal diritto consuetudinario) di non respingerli. Se si esamina poi la questione alla luce dei dati demografici, l'apporto migratorio sarebbe una manna per certi paesi europei la cui popolazione invecchia rapidamente: per esempio, senza immigrazione la Germania dovrebbe ritrovarsi nel 2080 con una popolazione diminuita del 38% e pari a circa a 50mln d'abitanti. Invece, altri Paesi, come ad esempio il Regno Unito, pur senza immigrazione manterrebbero il proprio numero attuale, mentre la Francia addirittura aumenterebbe. Se messi quindi in relazione alle politiche migratorie, i dati demografici risultano piuttosto interessanti. Ma quello che più conta in questo momento è il fatto che il consenso attorno a quello che era uno dei punti cardine della costruzione europea, cioè Schengen, sta crollando. I partiti euroscettici, maggiormente di destra, avanzano nei sondaggi e nelle elezioni, l'ostilità verso Bruxelles s'intensifica e la messa in discussione dei valori su cui si erano fondate le istituzioni europee scuote la legittimità del progetto europeo. Sembra proprio che i paesi europei si siano dovuti svegliare di soprassalto: nei loro sogni era la figura mitica di Europa a custodire l'omogeneità tra di loro. Ma dopo il risveglio arriva sempre la realtà: Europa non ha cancellato le frontiere, ce le ha fatte dimenticare, ma queste restano tracciate. E' bastato uno scossone migratorio per farci aprire gli occhi intorpiditi dal sonno, farci notare quelle linee dimenticate e farci ricordare come si usano. Ed è così che l'Europa, ma soprattutto i suoi paesi, ha riscoperto le frontiere. * * * Inverno 2015/16 Sconfinare 6 CEUTA E MELILLA: UNA SOLUZIONE SBAGLIATA PER IL MEDITERRANEO OCCIDENTALE Una soluzione sbagliata per il Mediterraneo occidentale. di Guido Alberto Casanova Oggi le principali vie migratorie di ridistribuzione dei migranti a livello numeri parlano di quasi 8000 arrivi nel I n un momento in cui l'occhio europeo è puntato sulla tempesta politica dei migranti non bisogna perdere di vista quello che solo pochi anni fa era uno dei principali ingressi verso l'Europa: il Mediterraneo occidentale. Per impedire l'afflusso di migranti subsahariani e nordafricani, già alla fine degli anni '90 la Spagna iniziò la costruzione di barriere protettive attorno alle proprie enclave marocchine di Ceuta e Melilla, col beneplacito dell'UE. sono i europeo Balcani ed secondo il canale di quote Sicilia. obbligatori Ceuta e e, oltre ad Melilla essere però non avversato sembrano dagli estassistere europei, è all'aument stato o dei affossato numeri anche per migratori merito che si verificano in Grecia, Italia ed della Spagna, un paese la cui salute Ungheria. Non è un caso se il progetto economica non è esattamente tedesca. I 2014 e soli 2000 nei primi tre quadrimestri del 2015. La chiave sembra essere stata trovata nella cooperazione col Marocco: in cambio di ghiotti accordi politici, economici e commerciali, il paese maghrebino ha accettato il ruolo di gendarme a guardia dei confini europei sud-occidentali. Un ruolo che sta interpretando piuttosto alla lettera, col risultato che sempre più migranti si dirigono verso le coste libiche e le incertezze che al di là di quelle li attendono. * * * LINE OF CONTROL: L’INFINITA DISPUTA TRA DUE SUPERPOTENZE NUCLEARI Il Kashmir, conteso da India e Pakistan, è l’area con la più alta densità di militari al mondo. I di Alessandro Beghelli l Kashmir è la regione nordoccidentale del subcontinente indiano, tra il Karakorum e i rilievi prehimalayani, controllata per due terzi del territorio dall’India e per il resto dal Pakistan. Il conflitto nell’area, che dura da oltre mezzo secolo, a lungo sottostimato e dimenticato, vede la sua nascita al tempo della partizione del subcontinente indiano dopo il ritiro della potenza coloniale britannica. Lo Jammu, la Valle del Kashmir e il Ladakh sono sotto controllo indiano e vengono denominati genericamente Jammu e Kashmir. Il Pakistan amministra l’Azad Kashmir e i cosiddetti Territori del Nord, il Gilgit e il Baltisan, dove troneggiano le alte vette della catena dell’Himalaya, Hindu Kush e Karakoram. È l’area con la più alta densità di presenza militare di tutto il pianeta - più o meno un soldato ogni otto abitanti. India e Pakistan nel corso degli anni hanno combattuto tre guerre: nel 1947, nel 1965 e nel 1999, oltre alla guerra per la secessione del Bangladesh. A causa del suo impatto sulle relazioni tra i due paesi, il conflitto influisce direttamente sulla pace e la stabilità di quella regione asiatica che contiene un quinto della popolazione mondiale. La Line of Control è il nome dato alla linea di demarcazione militare che divide le zone del Kashmir controllate dall’India da quelle controllate dal Pakistan. Nonostante essa non costituisca legalmente un confine internazionale, svolge de facto questa funzione. La linea fu stabilita al termine della guerra indopakistana del 1947, come linea del cessate il fuoco dietro cui dovevano attestarsi gli eserciti dei due belligeranti. La linea prese il nome di Line of Control con la firma dell'accordo di Simla del 2 luglio 1972. A causa di un errore nell'accordo di cessate il fuoco, la linea non copre tutta la frontiera tra le due nazioni ma si interrompe in un punto (indicato come NJ9842) lasciando completamente senza demarcazione la zona del ghiacciaio Siachen in cui, a partire dal 1984, avvennero diversi scontri militari, prima che un cessate il fuoco nel novembre del 2003 ponesse fine ai combattimenti. A partire dal 1990, l'India ha iniziato a costruire dal suo lato della Line ofControl una barriera di separazione, per isolare la frontiera ed impedire sconfinamenti ed infiltrazioni di guerriglieri. Per questo motivo, il Pakistan negli anni ha avanzato importanti proteste diplomatiche alla comunità internazionale. La barriera, completata nel 2004, copre 550 dei 740km di lunghezza della Line of Control e consiste in recinzioni elettrificate, sensori di movimento e telecamere termiche, mentre la "terra di nessuno" in mezzo alla Line ofControl è stata riempita con migliaia di mine. Il 21 settembre 2015, una riunione dei comandanti dell'esercito di entrambe le fazioni ha dato vita ad un accordo per il ridimensionamento della tensione tra India e Pakistan. Entrambe le parti hanno convenuto di dover dar prova di moderazione, rispettare il cessate il fuoco del 2003 e ridurre gli attacchi contro aree civili. I due paesi, recentemente, hanno raggiunto un back-channel agreement che non debba comportare la ridefinizione dei confini per risolvere la disputa sul Kashmir. L’accordo comprende una demilitarizzazione progressiva, maggiore autonomia al territorio del Kashmir e una maggiore circolazione delle merci e delle persone tra le due nazioni. Per la popolazione del Kashmir, la Line of Control non è solo il simbolo dell’interferenza dello Stato nella vita sociale, ma anche un oggetto dalla forte carica emotiva che rappresenta l'importanza di alleanze transfrontaliere. In questo senso, le zone situate lungo la Line of Control rappresentano una struttura sociale in cui la presenza militare dello stato è considerata un simbolo di autorità, non di protezione. Il concetto stesso di mostrare la propria forza ai vicini è una caratteristica formante del tessuto di fondo delle relazioni diplomatiche tra India e Pakistan, due superpotenze nucleari impegnate per più di mezzo secolo in una tragica guerra troppo spesso dimenticata. * * * Inverno 2015/16 Sconfinare 7 UN MURO NEL DESERTO: BARRIERA TRA POPOLI E INTERESSI A separare il Sahara Occidentale controllato da Rabat e quello sotto il FrontePolisario sta una barriera di 2700km. di Varinia Merlino C i troviamo tra Mauritania, Algeria e Marocco, dove vive un popolo diviso tra territori occupati, zone libere e campi profughi. In uno di questi è avvenuto nel 2011 il rapimento di tre cooperanti: Rossella Urru, Ainhoa Fernandez de Rincon e Enric Gonyalons. Sequestrati nel campo profughi Saharawi di Hassi Raduni, nel deserto algerino sudoccidentale, dopo 270 giorni di prigionia vennero liberati dietro il pagamento di un riscatto. Fu il primo caso di rapimento di cooperanti occidentali in un campo profughi saharawi. Si trovavano sul luogo al servizio di tre differenti ONG: Rossella affiancava la Mezzaluna rossa per verificare la qualità e la gestione degli aiuti umanitari. Aiuti che non cessano di arrivare a questa popolazione, che da anni vive in una situazione di stallo. La guerra combattuta si è conclusa ventiquattro anni fa in Sahara Occidentale, ma non si è ancora giunti ad una soluzione. Da quando la Spagna, nel 1975, si è ritirata dal cosiddetto Sarah Spagnolo, una lunga e controversa lotta per il territorio è in corso. Il Marocco sosteneva che i due territori che formavano il Sahara Spagnolo – la regione del Saguía el-Hamra più a Nord e il Río de Oro più a Sud – fossero stati parte del regno del Marocco prima di essere occupati dalle forze di Madrid. La Corte internazionale di giustizia dell’Aja, però, non accolse le richieste di Marocco e Mauritania di spartirsi il territorio e l’Assemblea generale dell’ONU affermò il diritto all’autodeterminazione della popolazione saharawi che abitava la colonia spagnola, da esercitarsi tramite referendum. Allo stesso tempo, però, in un accordo segreto il governo di Madrid garantiva a Marocco e Mauritania il diritto a succedergli nel controllo e nell’amministrazione delle due regioni. Nell’ottobre 1975 il governo di re Hassan II dava dunque il via alla “Marcia Verde”, inviando circa 350mila marocchini a riprendersi i territori desiderati. Nella successiva spartizione con la Mauritania, a Rabat andò il controllo di tutto il Sanguía el-Hamra e della parte settentrionale del Río de Oro, mentre il resto della regione passò sotto la giurisdizione di Nouakchott. La reazione della popolazione saharawi fu inevitabile e sotto la guida del Fronte Polisario (movimento indipendentista) iniziò il contrattacco. Nei primi anni di lotte il Fonte ebbe la meglio, tanto che la Mauritania si ritirò dal conflitto nel 1979. Ma il Marocco, soprattutto per consolidare l’amministrazione e il controllo dei territori occupati in seguito alla Marcia Verde, a metà degli anni Ottanta iniziò a costruire delle barriere di sabbia e sassi. Oggi, 2.700 km di barriera dividono tutto il Sahara Occidentale da Sud a Nord ed entrano anche in territorio marocchino, costituendo il confine de facto tra le aree amministrate dal governo di Rabat e quelle rimaste invece sotto il controllo del Fronte Polisario. Lungo il muro, conosciuto anche come Berm, ci sono migliaia di militari che controllano il passaggio da un fronte all’altro. Dalla fine della sua costruzione (1987) per il fronte saharawi è molto difficile avvicinarglisi perché lungo la sua totale estensione si trova il campo minato continuo più grande al mondo. Questa costruzione per il Marocco ha una funzione strategico-difensiva, mentre secondo il Fronte serve al Morocco per sfruttare le miniere di fosfati del Sarah Occidentale e la cosa sull’Oceano Atlantico, una delle più pescose al mondo. Un'importante ricchezza è anche quella dei giacimenti petroliferi costieri, sebbene le Nazioni Unite permettono solo la ricerca e non lo sfruttamento fino al celebrarsi del referendum di autodeterminazione. Referendum, però, sempre rinviato. Dal cessate il fuoco del 1991 si attende una votazione che ad oggi non è ancora avvenuta. Nel 1991 la Missione delle Nazioni Unite per il referendum in Sahara Occidentale (Minurso), aveva il compito di stabilire le regole e i tempi della consultazione, determinando chi avrebbe avuto diritto al voto e definendo quale sarebbero state le opzioni tra cui scegliere. Due punti molto ardui da districare sia per Rabat che per il Fronte Polisario: limitare il voto ai soli abitanti della regione secondo i risultati del censimento condotto nel 1974 dalla madrepatria spagnola avrebbe significato escludere tutti i marocchini che negli anni, sulla spinta del governo, si era trasferiti nelle “province meridionali sahariane” e che, sperava Rabat, avrebbero potuto votare a favore dell’annessione del Sahara Occidentale al Marocco. D’altro canto per il Fronte Polisario la possibilità di scegliere la completa indipendenza rimane una conditio sine qua non, esattamente come escludere questa possibilità lo è per il Marocco. Da anni si susseguono tentativi di negoziazione e compromesso senza giungere ad un accordo. Oggi, quindi, a dividere in due queste terre è una barriera non solo materiale ma ideologica tra due popoli che sembrano non voler scendere a compromessi. La popolazione saharawi è costretta a vivere in campi profughi e dipendere completamente dagli aiuti internazionali, che nel 2004 sono finiti anche sotto inchiesta dell’Ufficio Antifronde della Commissione Europea a causa della deviazione di tonnellate di cibo di prima necessità, per il valore di 10 milioni all’anno, verso l’Algeria e la Mauritania. Oltre alle difficoltà legate alla sopravvivenza, inoltre, c’è il rischio che tra i giovani di questo popolo, disillusi e senza un lavoro, possano infiltrarsi gruppi terroristici. A rivendicare il rapimento dei tre cooperanti nel 2011 fu infatti il gruppo dissidente dell'AQMI, il Movimento per l’unicità e la jihad in Africa Occidentale. La situazione di stallo presente ancora oggi, dunque, non può far altro che aggravare i problemi. Non solo tra Marocco e il Fronte, ma con forze esterne che cercheranno di fomentare questo astio in modo che la questione rimanga aperta. * * * Inverno 2015/16 Sconfinare 8 LA DESILUSIÒN AMERICANA Storia di attimi della vita di Ty, figlio di un immigrato clandestino messicano negli Stati Uniti T di Alessia Sofia Giorgiutti y veniva dall'Ohio, abitava in Texas e gli mancava la neve. La mattina mi svegliavo sentendolo parlare spagnolo con sua madre, ma lui era un americano. Fine. “Da dove viene la tua famiglia? Da quale parte del Messico?”. “Noi siamo dell’Ohio.”. “Sì, me lo hai detto, ma da dove…”. “Veniamo dal fottuto Ohio, capito?”. A Ty H. non piaceva parlare di se stesso come un messicano, come uno che appena dice “three” si capisce immediatamente che l'inglese non è la sua lingua madre. Gli piaceva andare alle quinceañeras delle cugine, così poteva provarci con le loro amiche più carine, ma sognava una biondina che giocava a softball e faceva volontariato per una delle chiese battiste della città. Lei, dal canto suo, temeva di rimanere incinta se solo lui avesse avuto modo di toccarla. Quando andava al liceo, gli altri studenti credevano che fosse andato a letto con almeno un paio di ragazze, ma molto probabilmente al tempo era ancora vergine; la gente a scuola credeva anche che si drogasse, ma in quel caso non aveva tutti torti. Gli dava “ la droga un gigantesco lepricauno irlandese, che aveva la "roba buona": era un esperto e non ne faceva mistero. Una sera, Desperado in pugno, mi raccontò di quella volta a Tijuana: aveva un amico bastardo che aveva causato una rissa per una tipa di cui il giorno dopo non si ricordava nemmeno il nome. Si erano fumati l’inferno, andata e ritorno, ma alla fine Ty, che poi era pure l’amico bastardo, era finito nel letto di una signorina con le unghie laccate e un sedere da paura. Ovazione generale. Il giorno dopo era senza portafoglio. La settimana dopo aveva la candida. Nove mesi dopo era arrivata una lettera con foto allegata di una neonata che avrebbe potuto essere sua figlia. Mancava solo una sparatoria con Los Zetas per dargli il premio come “Sceneggiatura non originale più scontata del secolo”. Tuttavia Ty era stato anche un'altra volta nei pressi di Tijuana, ma nessuno lo sapeva. Era andato a Coronado, San Diego per una vacanza piena di Cali-vibes prima di mollare il college. Aveva nuotato fino al largo, dove iniziava il pattume marittimo messicano portato dalla corrente: aveva aguzzato la vista e scorto una sottile striscia di sabbia, forse Rosarito, e aveva pensato a suo padre, che Obama aveva rimandato in Messico. Nel 1973, suo padre si era detto “Vamos pal'norte!" ed era arrivato dal deserto nel bagagliaio di un coyote di Mexical. Si era ammazzato di lavoro per dare un futuro a Ty; Obama invece, tagliandolo fuori dalla legge degli "11 Millions Dreams", gli aveva dato il foglio di via per "El bordo", il canale del fiume Tijuana dove i deportati si aggrovigliavano come vermi: così era diventato un altro "cane" che guaiva "dietro il recinto" guardando la bottega di Ralph Lauren dall'altra parte del confine. Ora se ne stava da qualche parte a ridosso del muro, là, nella Zona Norte, fra i drogati, le prostitute e la migra con i fucili. Era nella Bordertown degli invisibili; era dietro un Muro che invece di crollare si rafforzava ogni giorno: alle lamiere e alle staccionate dell'Operaciòn Muerte del 1994 si erano aggiunti i sensori nel terreno, le telecamere ad infrarossi, le torrette di guardia e il filo spinato. Qualche ora dopo, Ty guidava verso Imperial Beach, diretto al Border Field State Park. Percorsa una strada polverosa ed infinita, aveva lasciato cinque dollari di pedaggio ad un baracchino: infine era sceso fino alla spiaggia, a 200 iarde da Tijuana. Il muro si stendeva fino all'oceano per circa 300 piedi: la parte terminale, quella che si tuffava nelle onde, non era più composta da sezioni di lamiera o di cemento, bensì da semplici pali posizionati a pochi centimetri l'uno dall'altro. Dall'altra parte c'erano due turiste giapponesi che facevano foto alla cortina e un gruppo di ragazzini che giocavano con la pelota: quando la Border Patrol si girava, il gruppo mandava il pallone a due ragazzi oltre il muro. Ridevano di gusto ogni volta che ce la facevano. Si intuiva che la frontiera fosse il reale motivo per cui quei ragazzi erano giunti al muro. La notte esso si sarebbe ulteriormente popolato: i disperati indocumentados avrebbero guardato gli agenti e gli agenti avrebbero guardato a loro volta i disperati indocumentados. Tutti avrebbero aspettato il momento giusto: chi per saltare oltre la barriera e chi per sparare. Da qualche parte, qualcuno avrebbe costruito altre croci di legno per ricordare coloro che quella notte sarebbero morti. Di tutti gli esseri viventi, solo gli uccelli notturni avrebbero potuto attraversare la frontiera senza bagnarsi di sangue. Nel vento, infatti, non vi erano, nè mai ci sarebbero stati, documenti da richiedere o muri da scavalcare. Nel vento, gli uccelli sarebbero stati gli unici a volare liberi. *** STREET ART: UN MURO PER DIFENDERSI DAL CONFORMISMO Non soltanto graffiti. Quando l’arte non si ammira al museo, ma si vive per strada di Fabiola Piamarta Le strade sono il più grande museo a cielo aperto del mondo. Vi si ha accesso gratuitamente, gli artisti convivono e si confrontano, le opere si giudicano per il loro impatto estetico e la loro forza comunicativa”. Queste parole, del duo di street artist italiani Wally e Alita, in arte Orticanoodles, spiegano alla perfezione quella che è la street art: una corrente artistica che si esprime in varie e originali manifestazioni e che si serve di spazi aperti, strade e soprattutto di muri. Gli artisti utilizzano tecniche diverse quali poster, sticker, stencil, installazioni, performance, spray, marker, gessi, carboni, lapis, proiezioni video e molto altro. Non si tratta, quindi, soltanto dei famosi graffiti, ma di un intero universo espressivo che fa delle città enormi mostre a cielo aperto. JR, ad esempio, è un artista francese, o meglio un “photograffeu”, che si serve di pannelli impermeabili: ricopre i muri, spesso quelli delle favelas, di foto di volti in bianco e nero, per parlare di “impegno, libertà, identità e limiti”. Diverse sono invece le opere di Obey, artista italiano che ricopre muri e oggetti tipicamente urbani come lampioni o cestini con sticker recanti l’imperativo “OBBEDISCI”. Negli adesivi vede un mezzo “per far reagire le persone”: crede che nel momento in cui queste si chiederanno cosa è quella scritta, cosa rappresenta, inizieranno a mettere in discussione anche tutti gli altri simboli. Altro artista molto conosciuto, soprattutto sul web, è Banksy, artista inglese che con la tecnica degli stencil realizza opere di “guerrilla art”: immagini di provocazione urbana a sfondo satirico, che molto spesso denunciano multinazionali e consumismo. Questi tre diversi artisti dagli stili e gli strumenti tanto diversi hanno in comune, oltre all’impegno sociale, il fatto di voler esporre le proprie opere alla massa, che è il loro numerosissimo pubblico. Sono artisti che vogliono lanciare dei messaggi e delle idee che facciano poi nascere riflessioni e domande. Lo stesso JR diceva infatti in un’intervista: “Vorrei portare l’arte in luoghi improbabili, creare progetti di così grande impatto che le persone che li vedono siano poi costrette a porsi delle domande”. Opere che costringano a osservare, a fermarsi, a interrogarsi. Opere che nascono per vari motivi e con diversi significati: sovvertire l’idea che si ha di “opera d’arte bella”, ma anche criticare un sistema che vuole vedere i muri coperti soltanto di pubblicità. È un’arte nuova, di denuncia, che si rivolge alle persone parlando di “oggetti, miti e linguaggi della società dei consumi”: un’arte spesso anonima rivolta, coerentemente, ad una massa che non ha volto. Un tipo di corrente, la street art, che ha scelto sia il luogo d’esposizione migliore sia i mezzi più chiari e diretti per esprimere il suo messaggio. Le persone sono circondate da muri e pareti tutti i giorni, ci camminano a fianco, ci passano sopra il palmo della mano, ci sbattono contro, li scavalcano e li demoliscono, a volte per sempre, a volte per costruirne altri. Ma un muro può anche essere tanto altro, e gli street artist ce lo dimostrano ogni giorno, dovunque. Lo stesso Banksy, con ogni probabilità il più famoso artista di strada al mondo, in un’intervista rispondeva “[le compagnie pubblicitarie] si credono capaci di strillare i loro messaggi sulle nostre facce da ogni superficie disponibile, ma a noi non è permesso dare risposte. Hanno intrapreso la sfida e il muro è l’arma che abbiamo scelto per difenderci.” * * * Inverno 2015/16 9 Sconfinare LA “CORTINA DI FERRO” DEL SUDEST ASIATICO E C’è una parte del mondo dove la Guerra Fredda non è mai finita: la barriera tra le due Coree di Arianna Orlando siste una barriera tra due nazioni che, per certi versi, possono far pensare alle due Germanie: è quella costruita tra la Corea del Nord e la Corea del Sud. La prima, definita da Terzani “l’incubo della società totalitaria di Orwell fatto realtà”, è la nazione più isolata del mondo, mentre la seconda rientra di diritto tra i paesi più moderni e tecnologici. La divisione della penisola coreana in due all'altezza del 38° parallelo Nord si protrae da più di sessant’anni. Risale agli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, nel contesto della Guerra Fredda. La linea fu stabilita in corrispondenza del confine tra i due Stati dall’armistizio che il 27 luglio 1953 portò alla conclusione della Guerra di Corea. Unione Sovietica e Stati Uniti delimitarono le loro zone d’influenza creando un'area smilitarizzata che sopravvive ancora oggi e, nonostante la denominazione, è uno dei luoghi con la maggior presenza militare al mondo. La Zona Demilitarizzata Coreana (ZDC) è una striscia di terra lunga circa 246 chilometri che divide 122 villaggi, 240 strade, molteplici ferrovie e soprattutto milioni di persone. Tale terra di nessuno, detta anche “zona cuscinetto”, è larga circa 4 chilometri e venne a crearsi quando le due parti in guerra fecero arretrare le truppe di 2.000 metri dalla Linea di demarcazione militare coreana. Quest’ultima corrisponde al vero e proprio muro che divide i due Stati e indica la posizione del fronte al momento dell’armistizio. E’ importante sottolineare che la zona di separazione, oltre ad essere centralmente attraversata da questa barriera fisica, è delimitata da alti sbarramenti di filo spinato che costituiscono i confini delle due nazioni, sorvegliata da oltre 1.000 posti di guardia controllati da 2 milioni di soldati (37 mila dei quali americani), disseminata di mine antiuomo e monitorata grazie a sofisticatissimi apparecchi come il Kinect, un dispositivo in grado di distinguere persone, animali e oggetti rilevando battiti cardiaci e fonti di calore. Dunque, le due Coree si inseriscono nella spiacevole lista composta dai Paesi che hanno scelto di definire il proprio territorio con una barriera simbolo di ostilità e discordia. Ufficialmente le due nazioni sono ancora in guerra poiché quello del 1953 fu soltanto un semplice armistizio, non un trattato di pace. Quali sono state, però, le cause storico-politiche che hanno portato ad una scissione così netta e difficilmente revocabile della penisola?La Corea fu per secoli uno stato vassallo dell’Impero Cinese, ma a seguito della Prima guerra sino-giapponese, la Cina dovette riconoscerne l’indipendenza. Dopo il dominio giapponese, la Seconda Guerra Mondiale e il conflitto coreano, i sovietici iniziarono ad influenzare il Nord della penisola e lo affidarono al dittatore comunista Kim Il-sung, mentre il Sud divenne filo-statunitense. Tale divisione, sia materiale che ideologica, rappresenta da allora la matrice delle radicali differenze tra Corea del Nord e del Sud. Attualmente la discrepanza più tangibile tra questi due mondi è di tipologia politico-economica. La Corea del Nord, ufficialmente denominata “Repubblica Democratica Popolare di Corea”, è uno Stato autoritario governato da una dittatura e fondato sull’ideologia juche, caratterizzata da ideali quali comunismo, totalitarismo e isolazionismo. Essa venne teorizzata da Kim Il-sung, “Presidente Eterno della Repubblica” dal 1994 e nonno dell’attuale dittatore Kim Jong-un, in carica dal 2011. La Corea del Sud, invece, è una democrazia semipresidenziale, formalmente conosciuta come “Repubblica di Corea”. Dal punto di vista economico, se fino agli Anni Settanta l’economia nordcoreana era più avanzata di quella sudcoreana, oggi la situazione è nettamente rovesciata. È sufficiente guardare una foto satellitare della penisola per rendersi conto del colossale divario tra le due Coree. Il Nord è tetro, simile ad un deserto. Le luci del Sud, invece, sono il simbolo del recente balzo economico. A tal proposito l’Economist ha scritto from barefoot to broadband, ossia “dai piedi nudi alla banda larga”, espressione che indica il passaggio dall’arretratezza al titolo di primo Paese al mondo per connessioni internet a banda larga. Dall’altra parte della “cortina di ferro”, invece, si trova un paese ancora estremamente povero e isolato, dove l’attività imprenditoriale privata e il possesso di una casa sono proibiti. Il reddito medio della Corea del Nord è 15 volte inferiore a quello della Corea del Sud. Ciò nonostante, il muro maggiormente solido ed inamovibile è quello che separa la nazione in cui diritto allo studio e tutela delle libertà personali sono fondamentali da quella dove il livello di rispetto dei diritti umani è uno dei più bassi del mondo, secondo Human Rights Watch e Amnesty International. In Corea del Nord il controllo dello Stato sulla vita dei cittadini è molto serrato: possedere una semplice radio è reato, le persone vengono condannate a morte frequentemente per reati politici e sono attivi diversi campi di internamento per gli oppositori del regime. Tuttavia, talvolta s’intravedono spiragli di luce oltre il muro. Il 20 ottobre 2015 novanta sudcoreani hanno potuto incontrare per la prima volta i loro familiari nordcoreani, da cui si erano separati dopo la fine della guerra tra le due Coree. L’incontro è stato possibile grazie ad un accordo raggiunto a settembre tra i governi di Seoul e Pyongyang. Segno che una collaborazione, se ricercata, è possibile. * * * PEACE LINES: L’ABBATTIMENTO DELLE BARRIERE IRLANDESI Ora, forse, le Peace Lines che dividono le città irlandesi vanno verso lo smantellamento. degli irlandesi cattolici, questi muri che personali, è ancora della politica nazionale le acque di Viola Serena Stefanello continuarono ad essere costruiti dolorosamente vivo nella memoria hanno cominciato a muoversi in a Belfast, Derry e comune. Nonostante ciò, il Belfast questa direzione. L'ex primo ra il 1969 al 16 soprattutto Portadown nel tentativo di City Council ha cominciato a ministro dell'Irlanda del Nord, il Settembre 2011, oltre raffreddare gli animi anche ben dopo vagliare delle soluzioni concrete per protestante Peter Robinson, nel 2011 90 barriere di metallo la firma dell'accordo del 10 Aprile demolizione dei muri entro il ha dichiarato che la demolizione e cemento o reticolati di filo 1998 che pose fine ai trent'anni di la2023. Allo stesso tempo, diverse delle barriere è propedeutica per spinato sono stati costruiti nella conflitti interni conosciuti come "the comunità locali hanno deciso di affrontare la piaga del razzismo e di sola Belfast, a dividere Troubles". collaborare attivamente avviando altre forme di intolleranza, per A partire dal 2008 ha cominciato a nettamente i quartieri cattolici svilupparsi, nell'opinione pubblica degli esperimenti di apertura plasmare una società coesa in grado avanti. da quelli protestanti. Si tratta irlandese, un dibattito sulla volontaria, sostenute anche di La andare strada verso una economicamente dall' I nternational delle "Peace Lines" e sono possibilità di abbattere queste Fund riconciliazione, ci si augura priva for Ireland. diffuse in tutta l'Irlanda del strutture, che simbolizzano tutt'oggi Chiaramente, anche nel mondo scontri, è quindi stata imboccata.di Nord, costruite per minimizzare il profondo sospetto che continua a Sono tempi lontani da quando gli scontri tra nazionalisti scorrere nella società irlandese. Un Michael McConnell scriveva la sua irlandesi, principalmente sondaggio tenutosi nella capitale nel Only Our Rivers Run Free: "I cattolici, e unionisti, in gran 2011 ha però dimostrato che il 69% wander her hills and her valleys / dei residenti sono ancora convinti And still through my sorrow I see / parte protestanti. A land that has never known Pensati come strutture temporanee dell'utilità delle Peace Lines, in freedom /And only her rivers run a partire dall'Agosto del 1969, quanto a loro parere vi è ancora la free." quando cominciò il ciclo di rivolte possibilità che la violenza politica scaturito dalla campagna per i diritti rinasca dalle proprie ceneri: il * * * civili e per la non-discriminazione ricordo delle tragedie, sia nazionali T Sconfinare MURO COME FRONTIERA: IL LIMES ROMANO 10 N Alla riscoperta di quei muri che hanno protetto l’Impero Romano ell'immaginario collettivo, pensando al limes dell'Impero romano viene in mente un muro massiccio, presidiato da legionari in tenuta da guerra e continuamente all'erta. Dall'altra parte, dei barbari assetati di sangue pronti a fare terra bruciata dei territori civilizzati romani, se solo non ci fosse quel muro a fermarli, e a dimostrare allo stesso tempo Andrea la grandezza foto di Veronica Sauchellidi Roma. Quasi una “cortina di ferro” ante litteram. La situazione all’epoca era tuttavia più complessa e diversificata da provincia a provincia.Innanzitutto la parola latina limes stava ad indicare il confine, la frontiera, non necessariamente fortificata, oltre alle strade militari che in età tarda costeggiavano addirittura l'intera regione. I Romani interpretavano questo limes come qualcosa di mobile, anche quando in età imperiale cominciarono a costruirvi dei muri di delimitazione. Esempio sono i tre diversi valli edificati tra il I e il II secolo d.C. in Britannia: il più antico, e di recentissima scoperta, è quello del Gask Ridge, ordinato dal governatore Giulio Agricola tra il 79 e l'83 d.C., abbandonato però poco dopo. Il secondo, nonché il più famoso, il vallo di Adriano, è stato voluto dall'omonimo imperatore nel 122: lungo 118 km, dall'attuale Newcastle al Golfo di Solway, andava a tagliare da parte a parte l'Inghilterra. Il terzo in ordine di tempo è quello di Antonino Pio, costruito nel 142 circa un centinaio di chilometri a nord, e che puntava a una migliore difendibilità perché lungo soltanto 60 km. Tutti e tre comunque vennero concepiti per fermare la spinta delle tribù indigene dei caledoni, i cosiddetti Pitti, che mai accettarono di scendere a patti coi Romani. Queste opere, specialmente il Vallo di Adriano, furono così significative ed importanti per la storia dell'isola che andarono ad influenzare diversi aspetti della società come la lingua (l'inglese wall deriva da lì), la religione (molte pietre provenienti dal muro vennero in seguito considerate sacre) e la percezione stessa dei Pitti nei confronti dell'Impero, suscitando ammirazione per gli odiati invasori. Altro limes fondamentale per Roma, e fortificato per larga parte in età imperiale sempre dal prudente Adriano, era quello germanico-retico, un immenso sistema di forti, palizzate e torri di guardia che andava a chiudere il confine tra i fiumi Reno e Danubio, per una lunghezza totale di 548 km.Questo muro, a differenza dei valli britannici, rappresentava la capacità di Roma di fondersi con i popoli vicini, creando una vera e propria civiltà di confine. Nonostante la soluzione bellica e quella della deportazione fossero sempre valide e pronte ad essere utilizzate nei confronti delle tribù riottose, I MURI LIQUIDI DELLA DISCRIMINAZIONE Inverno 2015/16 di Nicolò Brugnera esse comportavano anche una vasta gamma di soluzioni diplomatiche: trattati di alleanza militare, varie gradazioni di autonomia locale, concessione di terreni e di cittadinanza per le tribù e le città considerate strategiche. Anche molti imperatori si fecero le ossa amministrando province del limes, prendendo poi il potere con legioni “miste” formate tra i barbari di quei territori: quello dell'arruolamento era infatti un altro sistema utilizzato da Roma per inglobare le popolazioni indigene.Questo fu il caso anche di Settimio Severo, ideatore del poco conosciuto Limes Tripolitanus nel 193: un sistema di fortificazioni in Libia per contenere le scorrerie dei garamanti, predoni del deserto sahariano mai domi nei confronti di Roma, che non conobbero mai il livello di integrazione delle province nordeuropee. Tutti questi muri simbolizzano la visione che i Romani avevano di tali strutture: sì difensiva e di controllo, ma con un'apertura mentale oltre che fisica, rappresentata dalle porte sempre presenti verso le popolazioni al di là del muro. * * * In una società sempre più “liquida”, sarebbe bene che le barriere mentali venissero abbattute una volta per tutte O di Alessandro Venti ttobre 2014, Italia. Una manifestazione in cui si scontrano i sostenitori e gli oppositori del ddl Scalfarotto sull’omofobia. Interviene la polizia che si inserisce tra l’una e l’altra fazione per evitare degenerazioni in potenziali atti di violenza. Un muro umano di gilet catarifrangenti e manganelli. Nella stessa piazza un megafono scandisce le rivendicazioni degli uni, mentre gli altri rispondono a coro. Nessuno ascolta. Ci concediamo la licenza poetica di chiamarlo “muro del suono”. Ora, invece, facciamo un salto indietro al 1969, giugno, New York. Mi spiace, neanche stavolta sono notizie allegre: ci troviamo in un locale, lo “Stonewall Inn”, neanche troppo in. Una sera come un’altra, la solita retata della polizia per catturare “le checche dello Stonewall”. Stavolta però qualcuno reagisce, forse Sylvia Rivera, attivista transgender, innescando una reazione a catena che porta poliziotti ed avventori a barricarsi gli uni nel locale e gli altri all’esterno, simulando un vero e proprio assedio, completo di ariete, che si racconta fosse un parchimetro della zona. In mezzo: le mura dello Stonewall. Il fatto che il locale si chiami così mi offre un pretesto divertente per includere l’episodio in questo articolo. Anche se, considerata l’importanza degli Stonewall Riots, precursori dei moderni Gay Pride, un modo per includerli nel pezzo lo avrei trovato comunque. Ma ora torniamo ai giorni nostri. Siamo a luglio a Homs, in Siria, un’altra tragedia del terrorismo. I morti questa volta sono due, gettati da un tetto per poi essere lapidati dalla folla. Un video a testimoniare tutto questo: la regia, ancora una volta, dell’ISIS. I due erano sospettati di essere omosessuali. Gli astanti hanno dei volti insofferenti quando lanciano le pietre, i bambini non piangono, sembra quasi che il sangue dei due (forse) gay non sgorghi, che non siano caduti e che le pietre siano lanciate per una partita di bocce. Ci dev’essere forse un muro invisibile, che distorce la percezione degli esecutori di un omicidio che ci è difficile interpretare se non leggendo in esso le tinte buie di odio e discriminazione. Un elemento comune a questi episodi? Tutti ci offrono delle interessanti suggestioni circa gli avvenimenti che riguardano da vicino la questione del dialogo tra la comunità LGBTQ (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer) ed il resto della società. Ripensando a questi fatti ci si rende conto per davvero del fatto che “muro” non è solo “struttura edilizia parallelepipeda avente le due dimensioni d’altezza e larghezza notevolmente prevalenti rispetto alla terza dimensione”, come riportato nell’Enciclopedia Treccani. “Muro” sono i parchimetri e le pistole, sono le pietre lanciate da ed ai nostri fratelli siriani, è il bisogno di utilizzare manganelli per mantenere l’ordine nelle piazze. Un muro che io, per adesso, chiamerei “ci siamo dimenticati che siamo tutti esseri umani”. Abbiamo quindi intuito che di muri ce ne sono di diversi, fisici e non. Molti sono stati abbattuti, parecchi sono ancora in piedi, altri in via di costruzione. D’altro canto, osserviamo una tendenza sempre più comune in tempi recenti: di pari passo rispetto alla graduale trasformazione della società che sembra destinata a diventare “liquida”, così afferma Zygmunt Bauman, ci accorgiamo anche di come i muri con cui ci confrontiamo oggi sono essi stessi sempre meno fisici, meno concreti. Sì, fluidi, forse, sfuggenti e talvolta invisibili, ma non per questo meno solidi. Anzi, forse proprio perché non li vediamo, facciamo fatica ad individuarli, nei nostri atteggiamenti, nei nostri pensieri e soprattutto negli stereotipi. L’uomo del ventunesimo secolo si deve confrontare quindi con una missione ardua da portare a termine, soprattutto perché non basteranno delle ruspe ad aprire un varco: stavolta saranno necessari tempo e volontà politica, ma anche la partecipazione e la disponibilità al dialogo da parte di tutte le parti in causa. Le pietre non dovranno essere impilate per costruire barriere, non dovranno essere scagliate contro altri uomini per uccidere, dovranno invece comporre ponti che uniscano persone, culture ed identità diverse. Un’ultima suggestione, che pare più un paradosso. Generalmente ci riferiamo al concetto di progresso come ad una pars construens, che quindi si installa su una base già consolidata, tendendo a crescere, verso l’alto (“upgrade” appunto). Nel XXI secolo, forse, dovremmo riconsiderare questa concezione del progresso e ricalcolare il percorso della società. E sempre nel XXI secolo, forse, è giunto il momento di distruggerli, questi muri. * * * “ Inverno 2015/16 Sconfinare 11 GREAT FIREWALL: COME IL GOVERNO CINESE HA CATTURATO IL "CALABRONE INTERNET" Come funziona il Golden Shiel Project del Governo di Pechino e perché i cittadini non vi si ribellano? di Barbara Polin Se apri una finestra per avere un po’ d’aria fresca, ti devi aspettare che entri qualche mosca”: così, negli anni Ottanta, il leader cinese Deng Xiaoping sintetizzava quello che sarebbe stato il rapporto tra la Cina e il resto del mondo. Se infatti era gradita come aria fresca la libertà economica e gli investimenti stranieri, meno lo erano le mosche dell’Occidente, quali i diritti politici o la libertà d’espressione, capaci di infettare l’ideologia del partito comunista e di minarne la stabilità. Da qui, un sistema di censura capillare e sistematico, alla cui azione repressiva si è unita la forza propositiva della propaganda di Stato. A metà degli anni ’90, tuttavia, ha iniziato a ronzare, davanti a quella che è stata la finestra di Mao, una presenza ben più minacciosa di una mosca della democrazia o dei diritti umani: il calabrone Internet, troppo grande e rumoroso per poter essere schiacciato senza conseguenze, ma, se intrappolato all’interno di un barattolo di vetro, sfruttabile come via di stabilizzazione del potere comunista. Il barattolo di vetro in cui si trova rinchiusa Internet è il “Golden Shield Project”, un progetto di censura e sorveglianza realizzato con l’obiettivo di bloccare contenuti indesiderati al governo, la cui portata tanto estesa lo fa conoscere come Great Firewall of China, in omaggio alla Grande Muraglia Cinese. I suoi mattoni sono fatti da firewall e da server proxy, ovvero server che indirizzano le comunicazioni degli utenti ad altri dispositivi. La malta che incolla i mattoni fra di loro, impedendo a chi ci è rinchiuso di spostarli e sbirciare fuori, ha varie componenti: il meccanismo DNS poisoning è la calce, e consiste nell’impostare uno o più server a dare risultati di ricerca errati quando un utente cerca un determinato sito web, ad esempio Facebook o Youtube. L’HTTPS hijacking è l’acqua, che serve a dirottare dati criptati, e le parole proibite sono la sabbia. La libertà in genere è pesantemente monitorata, e qualsiasi sito che, anche casualmente, inizi con “free”, è destinato a non essere raggiunto dagli utenti. Tuttavia, Pechino ha intuito che rinchiudere 477 milioni di utenti all’interno di un recinto spoglio, al di fuori del quale si estende un giardino di delizie interattive, sarebbe stato un’altra Tienanmen: ha quindi optato per la costruzione di un Internet parallelo a quello occidentale, le cui componenti sono progettate per filtrare contenuti che possano turbare la coscienza socialista del popolo cinese, come nel caso di Baidu, motore di ricerca equivalente a Google. Nella Repubblica popolare, i cinesi sono dunque utenti, non cittadini digitali, ma per quanto quest’idea abbia ancora qualche adepto, non è neppure certo che desiderino diventarlo: agli albori di internet, molti sostenevano che l’inevitabile flusso di informazioni che ne sarebbe seguito avrebbe fatto da catalizzatore in un processo di democratizzazione per paesi illiberali come la Cina. Eppure, a tutt’oggi, da dietro il muro, non si sente rumore di picconi. Il cittadino medio cinese possiede infatti tutto quello che un suo equivalente occidentale smania per avere sul proprio cellulare, da Youku Toudu per vedere i video demenziali ad Alì Babà per farsi recapitare a casa il televisore nuovo. Tanta disponibilità materiale è da confrontarsi con il rischio di essere “walled”, cioè arrestati e fatti ritirare dal consesso della società civile e digitale, se scoperti a cercare di oltrepassare il muro alla ricerca di materiale per riempire i vuoti storici e i danni politici. Il rischio si fa concreto, e quindi meno affascinante, anche per il fatto che è possibile oltrepassare il Great Firewall attraverso l’uso delle VPN, ovvero le reti virtuali private, connesse a un server che può essere posizionato in qualsiasi Stato, che solitamente trasmettono dati criptati per la sicurezza dell’utente, così come è possibile essere scoperti e arrestati come “nemici del popolo”. L’esistenza di pertiche per il salto, come le VPN o i proxy server indipendenti, non sono però premesse per il crollo del Great Firewall: il partito ha impiegato l’equivalente di un miliardo e mezzo di dollari per costruire l’emulazione informatica della Grande Muraglia, e continua tutt’ora a investire nel suo continuo consolidamento. Inoltre, per quanto lo stesso Partito sia attraversato da correnti contrarie alla censura, e nonostante i programmatori del Great Firewall stipendiati dal governo, e la stessa ricca tecnologia cinese in cui sono stati allevati soffrano dell’ombra del Muro e del suo peso, nessuna opposizione politica ed economica è stata ispirata dal vento della libertà d’espressione. I cittadini, che potrebbero espugnare la Città Proibita e far crollare di conseguenza il muro, sono impegnati a ordinare sul sito web del loro ristorante preferito il piatto caldo del giorno. Il calabrone, intanto, continua a scontrarsi con il vetro. *** “THE WALL”, PINK FLOYD: COSTRUZIONE DI UN CAPOLAVORO E Cosa sta dietro a uno dei grandi successi della band britannica che ha rivoluzionato il rock. sistono barriere e barriere. Architettoniche, mentali, naturali, fisiche. Barriere che si innalzano e altre che vengono demolite. Esistono barriere insormontabili e altre che solo apparentemente sembrano tali.“The Wall” le racchiude un po’ tutte e le demolisce a suon di chitarre, voci e pelle d’oca. È la storia di Pink (personaggio inventato ricollegabile a Roger Waters e, in parte, a Syd Barrett, voce e chitarra dei Pink Floyd fino al 1968), rockstar che con il passare del tempo crea un muro psicologico dietro al quale si chiude, spersonalizzandosi e arrivando progressivamente a una malinconica infermità mentale. Le difficoltà vengono simbolicamente rappresentate come una serie di mattoni a costruzione di quella barriera che lo allontanerà dalla realtà, portandolo al completo isolamento. Nel disco si ripercorrono le principali tappe della vita di Pink, dai problemi scolastici e familiari (“One Of My Turns”) allo stress fisico e psicologico causato dalla vita da rockstar, diviso tra un manager che lo troverà in uno stato catatonico e lo spingerà sul palco (“Comfortably Numb”), i fan e, allo stesso tempo, in balìa della solitudine (“Nobody Home”) che lo porterà ad aprire un vero e proprio processo mentale di analisi della propria vita, rappresentato dal brano “The Trial”, in cui le figure ingombranti della sua vita sono chiamate a testimoniare. A conclusione del processo, il giudice decreta l’abbattimento del muro, simbolo dell’alienazione. Le vicende del protagonista, però, sono soltanto la trasposizione musicale di qualcosa di reale. Pubblicato il 30 Novembre 1979, l’album, composto da due dischi e ventisei brani, racchiude diversi avvenimenti che hanno reso protagonista la band di Roger Waters, David Gilmour, Richard Wright e Nick Mason. La genesi del disco è infatti da ricercare in una serie di episodi di qualche anno prima, nel 1977, durante il tour del concept album “Animals”. Dopo i primi anni Settanta di partecipazione del pubblico ai concerti in religioso silenzio, inizia il periodo degli stadi, affollati da migliaia di spettatori che si accalcano sulle transenne, cantano insieme agli artisti e diventano un’unica, indistinta massa, percepita dal palco quasi con timore. Waters raccontò del clima snervante generato dal tour e del senso di distacco provato nei confronti del pubblico, tanto da arrivare, durante la tappa di Montreal, a sputare letteralmente sul pubblico della prima fila, infastidito dall’eccesso di schiamazzi. Un gesto da cui scaturì una vera e propria catarsi creativa sfociata nell’idea di un nuovo concept, quello dell’incomunicabilità tra artista e pubblico: il muro, per l’appunto. Il bassista percepì l’idea del rapporto musicista – massa come quello tra un dittatore e il popolo da lui controllato. A ciò si aggiunse il non indifferente buco finanziario della società di intermediazione a cui la band si era rivolta per gestire i ripetuti problemi con il fisco inglese. Come se non bastasse, dopo la chiusura del tour del ’77, Waters si trovò ad essere l’unica, vera anima creativa, essendo gli altri componenti impegnati in progetti solisti o dediti ad altre passioni. Infatti, nonostante la tensione derivante dall’impegnativo tour, il bassista si trovò catapultato in un periodo di grande produttività, influenzato dalle numerose vicende personali, oltre che legate alla band: la prematura morte, in guerra, del padre, una madre iperprotettiva, la rigida e autoritaria educazione scolastica, fino ad arrivare allo stressante divorzio. Il risultato? Nonostante l’iniziale demo lontana dal risultato finale, nonostante la perplessità di David Gilmour rispetto all’intero progetto, nonostante l’inquietudine di Waters che di Giulia Calibeo mette a dura prova l’ascoltatore, il singolo “Another Brick in the Wall”, pubblicato una settimana prima dell’uscita dell’album, raggiunse il primo posto in tutto il mondo e fu bandito, peril messaggio antiautoritario (“We don't need no education. We don't need no thought control”), dai regimi del Sudafrica e della Corea del Nord. Trenta milioni di copie è la stima delle vendite attuali. “The Wall” è la sintesi perfetta della qualità del suono derivante da acuta professionalità tecnologica, cura minuziosa degli arrangiamenti, potenza evocativa dei disegni di copertina a cura di Gerald Scarfe, già collaboratore della band, ritorno alla forma – canzone tradizionale, cara a Waters, con il ruolo centrale degli arrangiamenti orchestrali, dinamiche narrative complesse supportate da testi brevi, spesso semplici, l’innesto di voci, rombi d’aereo, pianti e sussurri fuori campo che scandiscono il ritmo del susseguirsi dei brani.“The Wall” è molto più che un album; è l’adattamento discografico di una vita, di qualsiasi vita, tanto che si apre a molteplici livelli di interpretazione personale; è la creazione e, allo stesso tempo, la demolizione del muro più pericoloso che ci sia: quello mentale. *** 12 PIETRE DI MEMORIA Sconfinare Inverno 2015/16 Per molti “Muro del Pianto”. La storia di ciò che rimane dell’antico Tempio di Gerusalemme K di Paola Pellegrino otel, muro, è ciò che rimane dei quattro muri di sostegno del Tempio di Gerusalemme, costruiti intorno al 20 a.C. In particolare era il muro che reggeva la piazza sacrale da occidente in seguito all’ampliamento voluto da Erode il Grande. Volendo farsi accettare come sovrano di quella Giudea che dal 37 a.C. era sotto la sua giurisdizione e conscio dell’importanza e del valore simbolico che il santuario rivestiva per gli israeliti, Erode decise infatti di dare avvio ad una delle più imponenti opere urbanistiche del suo tempo. Colmò i fossati alzando valli e livellando la roccia tagliò il monte che sorgeva a nord-ovest incastonandovi un’enorme spianata, l’odierna al-Haram al-Sharif, per permettere a tutti i goyim, i gentili, di salire al Monte del Tempio senza entrare nel recito sacro, permesso solo agli ebrei. Cronache dell’epoca narrano che il rinnovato tempio giunse a vantare una magnificenza tale da superare persino il tempio di Davide, costruito dal figlio Salomone, e simbolo dell’alleanza tra Dio e gli uomini. I lavori si conclusero nel 64 d.C., ma solamente sei anni dopo le truppe comandante da Tito, rotto l’assedio, varcarono le mura di Gerusalemme e nell’impazzare della battaglia diedero fuoco al tempio. Le fiamme si portarono via non soltanto il centro della fede, ma il fulcro della vita sociale e culturale, e con esso l’intero sistema comunitario e legislativo. Con la ribellione del 132 d.C. gli ebrei “ vennero definitivamente espulsi dalla Giudea e fu loro impedito di recarsi in preghiera presso le rovine del tempio, mentre Gerusalemme prese il nome di Aelia Capitolina. Durante l’epoca bizantina vennero accumulate macerie e rifiuti nell’area del tempio, ma il muro occidentale si preservò diventando, nelle epoche successive, base e contrafforte per nuovi edifici che andavano via via edificandosi e che finirono per inglobarlo quasi completamente. All’inizio del VIII secolo si diffuse una nuova esegesi della diciassettesima sura del Corano, che identificava la spianata come luogo dove sorgeva “il tempio più remoto” al quale giunse Maometto durante il miracoloso viaggio notturno. Il muro occidentale acquisì allora un nuovo significato: venne ribattezzato stalla di Buraq, perché proprio lì, secondo la tradizione, il Profeta vi aveva legato il suo destriero alato Buraq. La dicitura muro del pianto, diffusa tra i non-ebrei, è invece imprecisa e fa probabilmente riferimento al modo di pregare nei pressi di esso, oscillando il capo e appoggiandolo alle pietre. Con la nascita di Israele e l’immediato conflitto che scaturì con i Paesi limitrofi Gerusalemme Est passò sotto il dominio Giordano e agli ebrei venne nuovamente vietato di recarsi nel Luogo Santo. Il diritto alla preghiera venne riacquisito solamente il 7 giugno 1967 quando la città venne riunificata sotto controllo israeliano. Oggi davanti al muro si apre un grande piazzale e le fenditure dell’antico basamento sono colme di desideri, preghiere e speranze lasciate da fedeli provenienti da ogni parte del mondo. Dopo quasi duemila anni, quella spoglia roccia non ha perso il suo significato e la cicatrice della distruzione del tempio rimane, vivida e pulsante, nella memoria religiosa ebraica. Un segno che si fa sentire nei giorni di dolore come in quelli di gioia: è presente nella frantumazione del calice e nel giuramento dello sposo sotto il baldacchino nuziale, nei saluti della gente durante le festività di kippur e pesach, nella parete lasciata senza intonaco nelle case, nel lutto e nel digiuno nel giorno di Tisha b’Av. Paradossalmente è proprio questa infelice memoria che ha permesso all’ebraismo di sopravvivere e rinnovarsi. Un popolo che, da itinerante e diviso nello spazio, si è ritrovato unito e coeso nel tempo. Su questa dimensione ha costruito la sua identità e lì vi ha edificato i suoi santuari attraverso lo studio della Torah e l'osservanza dei precetti biblici. Per vivere il presente all’ebreo è necessario interrogare il passato, e nel dialogo tra le epoche il tempo perde il suo andamento lineare non essendoci più distinzione tra ieri, oggi e domani. Zakhor. Memoria. Un tempio vivo, in perenne costruzione. Un muro intriso di storia ma sostegno, base e contrafforte per il futuro. * * * IL MARE OLTRE LA SIEPE: IL VAGO POETICO LEOPARDIANO Il limite in Leopardi di Alessia Cordenons Il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago”: nel suo Zibaldone, Giacomo Leopardi scrive poche parole che potrebbero riassumere l’anima e il sentire di un’intera epoca. Per il romantico – qual è stato, nella sua prima fase poetica, anche Leopardi, seppur con la propria esperienza assolutamente peculiare - il limite non circoscrive e non misura, ma suscita un’inquietudine frustrante perché impossibile da spegnere completamente; il muro non limita l’orizzonte del pensiero, ma lo espande, stimolando nell’uomo la facoltà poetica per eccellenza: l’immaginazione, “prima fonte della felicità umana”. Ciò che è presente, concreto e definito è, quindi, anche impoetico. Il poetico, per il primo Leopardi, è il bello aereo, che sfuma e appare inafferrabile, e che per essere percepito esige incertezza. Lo sguardo che dall’ ermo colle indugia sulla siepe è il limite alla percezione visiva, ma proprio perché è impossibile, per l’occhio, abbracciare ciò che sta oltre, le possibilità sono infinite: è il bello vero, di cui il sapere “fa strage”. Ciò che è sconosciuto è anche immenso, e ciò che è immenso ci dà l’illusione di un desiderio totalmente appagato. Eliminata la siepe, l’Infinito leopardiano non avrebbe ragion d’essere: ai piedi del colle vedremmo il paesaggio nella sua concretezza, che esclude qualsiasi altra fantasia. Se il termine muro, per definizione, ci rimanda al concetto di ostacolo, la poetica leopardiana – e, più in generale, quella romantica della Sehnsucht e dello Streben – rappresentano un tentativo (per quanto consapevolmente vano) di fare proprio ciò che sta al di là, di astrarre per comprendere meglio ciò che è già conosciuto. Il muro, mentale o fisico, è un meccanismo di autodifesa, che va paradossalmente contro la nostra natura. Abbatterlo o scavalcarlo? Difficile. Ma basterebbe qualche secondo per sedersi dal proprio lato e prendere rapidamente coscienza dell’immensità che potremmo trovare dall’altro. *** Inverno 2015/16 Sconfinare IL PARADOSSO AUSTRALIANO: DISUGUAGLIANZE CHE NON TI ASPETTI 13 Per di molti, l’Australia è la nuova Terra Promessa. Ma per gli autoctoni somiglia spesso a un inferno sulla terra. I di Sofia Dall'Osto l deserto australiano non ha limiti. É una distesa infinita di terra rossa e cielo azzurro. Per centinaia di chilometri non una montagna, non un edificio interrompono lo sguardo. La terra è un tutt'uno con il cielo e a guardarla è facile chiedersi se non sia questa la trasposizione terrena dell'infinito di cui tanto parlano i poeti. Una pianura immensa e vuota, libera. Senza barriere. Come il suo outback, anche lo Stato australiano è associato a libertà e benessere. Prima per qualità della vita secondo l'OCSE, con ben tre città (Melbourne, Adelaide, Perth) classificate tra i primi dieci migliori centri in cui vivere secondo The Economist, l'Australia è un baluardo a cui spesso si fa riferimento vagheggiando una vita migliore. Tuttavia, c'è una questione tanto preoccupante quanto trascurata, se non del tutto ignorata, specialmente fuori dall'Australia: quella degli indigeni. È facile, quando si fa riferimento ai cosiddetti aborigeni, cadere nei soliti cliché e pensare a un piccolo popolo primitivo che vive bravamente nelle riserve a cui è stato destinato, caccia con i boomerang e cuoce carne di canguro. Si è invece inconsapevoli della scia di violenze, discriminazioni e disuguaglianze che questo popolo ha dovuto fronteggiare per più di duecento anni, e che perdurano tutt'oggi, nel XXI secolo, proprio nella civilissima “ Australia. Fino a metà del secolo scorso i resoconti storici australiani non menzionavano le “frontier wars”, gli scontri per il possesso delle terre con cui i bianchi hanno decimato la popolazione nativa; fino al 1962 gli aborigeni non godevano del diritto di voto, e poco si parlava della stolen generation: suoi membri sono tutti quei bambini aborigeni che tra fine Ottocento e il 1970 sono stati prelevati con la forza dalle proprie famiglie e cresciuti in missioni religiose, strutture statali o famiglie bianche. Ciò accadeva per fare in modo che perdessero contatto con le proprie origini: veniva loro inculcato che essere aborigeni fosse una colpa. Ariguardo, le stime sono discordi: chi parla di più di 50 000 bambini, chi invece di 100 000. Un vero e proprio “whitewashing”, un revisionismo bianco della storia che, sommato ai soprusi, ha contribuito a innalzare un muro di diffidenza e incomprensione tra bianchi ed indigeni, che ancora oggi risulta molto difficile da penetrare. É infatti impensabile poter cancellare facilmente, con dichiarazioni pubbliche e iniziative, anni e anni di violenze e traumi, i quali tuttora segnano la vita di molti aborigeni. Benché la situazione sia sicuramente migliorata rispetto al secolo scorso e nel 2008, dopo tanti anni di imbarazzi e tentativi impacciati, il premier laburista Kevin Rudd abbia rivolto scuse ufficiali alle stolen generations, l'Australia è ancora da considerarsi un paese arretrato dal punto di vista della tutela delle minoranze. In un rapporto di quest'anno, Amnesty International esprime le proprie riserve riguardo alle condizioni degli indigeni ed in particolare evidenzia come questi costituiscano il 27,4% dei detenuti maggiorenni, nonostante essi siano il 2.3% della popolazione adulta totale. Ancora più scioccante è constatare il tasso di criminalità minorile, con i giovani aborigeni tra i 10 e i 17 anni che, pur formando il 6% della popolazione di quella fascia d'età, costituiscono il 58% degli incarcerati. A fronte di questi dati, è comprensibile interrogarsi sull'effettiva innocenza dei nativi australiani. Tuttavia, per completare il quadro sono necessarie anche altre considerazioni. In primis, gli aborigeni soffrono di un'inadeguata, se non degradante, disparità anche per quanto riguarda gli alloggi. Nel 2008, il 25% degli indigeni adulti viveva in case sovraffollate, contro il 4% dei nonindigeni. Secondo l'Organizzazione Mondiale per la Sanità, gli indigeni hanno un'aspettativa di vita di 17 anni inferiore rispetto ai bianchi, e contraggono più facilmente malattie associate a condizioni disagiate come polmonite, scabbia e tracoma. Anche l'alcolismo è una piaga: infatti, in alcuni centri abitati lontani dalla costa (per esempio, nel Territorio del Nord) ci si accorge della vicinanza di un gruppo di aborigeni senza nemmeno vederli: è intuibile dal forte odore di sudore e alcol che raggiunge le narici. Inoltre, nel quinquennio 20082012, gli uomini indigeni sono deceduti per cause legate all'abuso di alcol con un ritmo 5 volte maggiore rispetto ai non indigeni. Tutto ciò è il risultato di decenni di politiche discriminatorie e razziste: se da un lato sono ancora troppo pochi i bianchi che affrontano con sensibilità e comprensione la questione indigena, dall'altro per questi ultimi l'integrazione è difficile, e prevalgono diffidenza e chiusura. A scuola, per strada, nei locali, è raro incontrare gruppi di persone “misti”. A livello politico, il primo deputato aborigeno, Ken Wyatt, è stato eletto solo nel 2010. Il numero di bambini aborigeni in affidamento è tanto elevato da parlare di una nuova stolen generation. Ancora oggi esistono muri, persino nelle democrazie occidentali più avanzate, e l'Australia ne è un chiaro esempio. La questione è molto controversa e di difficile soluzione: ritornare indietro non è più possibile. L'unica strada auspicabile per un sedicente governo “avanzato” è preservare la cultura aborigena e attuare misure concrete per avvicinare i due popoli. Dall'altro lato, sarebbe necessario che anche gli aborigeni facessero dei passi verso la popolazione bianca, smettendo di considerarla “colonizzatrice” e rendendosi consapevoli che un nuovo futuro deve essere necessariamente volto all'incontro. *** SYLVIA PLATH E IL FARDELLO DI UNA MENTE INGOMBRANTE di Sofia Dall'Osto Si può fuggire dai muri autoimposti? Esiste una via di incessantemente poesie, racconti, lettori più incauti che Plath “gioca insegnante con il ruolo di madre, fuga dalla un romanzo, fiabe per bambini, alla roulette russa con sei e per la poesia è disponibile solo centinaia di lettere e un diario. pallottole nella pistola”. Tragica, la notte. Si sente rinchiusa tra le mente?” Questo si domanda Sylvia Plath nella sua poesia “Apprehensions”, nel maggio 1962. Plath non è un'autrice nota al grande pubblico, specialmente fuori dai paesi anglosassoni: americana, classe 1932, è scrittrice e poetessa dalla precoce età di otto anni. Fino alla morte, a trentuno, scrive Appartenendo ai cosiddetti confessional poets, è impossibile separare la sua produzione dalla sua vita. I suoi versi, totalmente centrati sull’interiorità, costituiscono una sorta di autoanalisi, potentissima e tragica. Potentissima, tanto che il poeta americano Robert Lowell avverte i perché depressione e pensieri di suicidio svolgono un ruolo centrale nella sua vita e nella sua produzione. Questa poesia ne è un esempio, ma non parla di tristezza fine a se stessa: si vede piuttosto Plath alle prese con la lotta per affermarsi sia come madre a tempo pieno che come moglie e scrittrice. L’autrice ha infatti consacrato la sua intera esistenza alla scrittura e allo studio, per potervi eccellere. Nel 1950 scrive nel suo diario: “Sono ciò che provo, che penso e che faccio. Voglio esprimere il mio essere con tutta la pienezza possibile perché da qualche parte ho scovato l’idea di poter dare un senso alla mia esistenza in questo modo.” Dopo il matrimonio con il poeta Ted Hughes e la nascita dei due figli, si trova impossibilitata a conciliare il suo lavoro di quattro mura della sua stanza, che nei versi di Apprehensions si colorano di bianco, grigio, rosso e nero. Colori che rappresentano la depressione, la vulnerabilità e il dolore che la poetessa affronta: la sua anima, fatta di “due buste di carta […] e terrore”, è letteralmente accartocciata e inerme di fronte a barriere mentali e sociali. Tuttavia sopra a questi muri, al di là della malattia e dell'angoscia, si crea un cielo “infinito, verde, impossibile da toccare./Angeli vi nuotano, e anche le stelle, indifferenti”. Plath è forte abbastanza da riconoscere sia il dolore che la speranza di fuga da esso. E a sue spese ci insegna che i muri possono essere anche inconsistenti: forse le barriere che ci limitano di più sono quelle che creiamo noi stessi, nelle nostre menti. *** 14 Sconfinare MURI LINGUISTICI: TRA CHIUSURA ED UNIFORMITÀ S olitamente, quando si pensa alla parola muro, lo si fa in riferimento ad una barriera fisica costruita con lo scopo di impedire il contatto tra gruppi di persone, sia per motivi politici (si consideri il Muro di Berlino che, per quasi 40 anni, divise in due un'intera nazione) che per salvaguardare e proteggere i propri confini da fattori esterni destabilizzanti. Tuttavia, questa parola può evocare foto didelle Veronica Andrea Sauchelli anche barriere di tipo diverso, invisibili agli occhi, che si pongono ugualmente come ostacolo alle interazioni tra gli individui. Le divisioni basate sull'aspetto linguistico, ad esempio, hanno sempre inciso molto sulle disposizioni ad agire dei popoli, determinando, in taluni casi, la tendenza ad abbattere i muri comunicativi, laddove fossero presenti, e, in altri, quella ad erigerli.Con il passare dei secoli, a seconda di quella che era la potenza dominante (o comunque più influente) dell’epoca, si è affermata, in nome della necessità di comprendersi gli uni con gli altri e di pari passo con Modelli a confronto: dall'esperanto al catalano essa, una lingua che la faceva da padrona nella comunicazione quotidiana tra persone distanti per cultura ed usi. Limitandoci al solo contesto europeo, si sono alternate, tra le altre, lingue come il latino ed il francese. Forse però, non tutti sanno che, verso fine ‘800, si ideò una lingua, tuttora esistente, che, nella speranza del suo creatore, avrebbe dovuto prendere il posto dell’inglese, odierna lingua franca. È il caso dell’Esperanto, fenomeno che merita un’attenzione particolare in quanto codice linguistico creato non come metodo di affermazione di una data cultura sulle altre, bensì come strumento di unione. La sua ideazione si attribuisce a Ludwik Lejzer Zamenhof, medico e linguista polacco che, tra il 1882 e il 1887, partendo da vocaboli e regole grammaticali di lingue diverse, elaborò forme e strutture del nuovo idioma. Malgrado le ambizioni di Zamenhof, oggi l’Esperanto conta un numero esiguo di parlanti che, per quanto difficilmente definibile, si colloca tra i 200,000 ed i 2 milioni. Prescindendo dalle elevate possibilità e capacità di diffusione e, al contempo, dalla relativa facilità di apprendimento dell’inglese, alcuni fatti contribuiscono a spiegare il perché della sorte dell’Esperanto. Tra queste si possono individuare non solo la costante mancanza di supporto da parte di un qualche governo o organizzazione internazionale, ma anche gli esasperati nazionalismi e ideologismi del ‘900. A cavallo tra le due Guerre Mondiali, gli esperantisti, con le loro ambizioni pacifiste oltre che anti-nazionaliste, vennero perseguitati sia dai sovietici (Stalin parlò di “lingua delle spie”), che dai nazisti (nel suo Mein Kampf, Hitler si scagliò contro Zamenhof, di origini ebraiche, perché colpevole di aver pensato una lingua comune alla diaspora ebraica). Con il tempo la situazione non migliorò: negli anni del maccartismo, per esempio, l’Esperanto diviene pericolosamente collegato alla minaccia comunista. Opposta alla tendenza internazionalista dell’Esperanto è la volontà di preservare una lingua, spesso il proprio dialetto. Volontà che nasce come spontanea e naturale conseguenza della percezione che la propria lingua madre sia minacciata da fattori come la comunicazione globale e gli spostamenti dai propri luoghi di origine che le nuove generazioni sono, in molti casi, costrette a compiere. Di conseguenza, le tipicità e le varietà delle tradizioni linguistico-culturali stanno progressivamente venendo meno.A fotografare questa tendenza è un progetto, disponibile on-line dal 2009, denominato Atlante Unesco delle lingue minacciate e in pericolo che, erede del Libro Rosso Unesco, è finalizzato ad individuare le lingue a rischio d'estinzione nel mondo. Inverno 2015/16 a cura di Richard Puppin e Michele Faleschini Secondo il documento, dei 6000 idiomi diffusi in tutto il globo, ben 2500 rischiano di scomparire: numeri che dimostrano come la realtà alla quale le generazioni precedenti erano abituate stia lasciando il passo, ad una velocità mostruosa, ad una in cui c’è il serio pericolo che scompaiano alcune tra le tradizioni più caratterizzanti di interi popoli. Soltanto in Europa si contano 100 diverse lingue parlate e, di queste, solo un quarto sono riconosciute come ufficiali; alcune, inoltre, sono parlate da meno di 100 persone: la loro scomparsa sembra inevitabile.Appare invece improbabile che scompaiano quelle lingue assunte da alcuni popoli come capisaldi dei loro valori identitari e come tratti politico-culturali distintivi: si pensi al Corso o al Basco, ma anche alla lingua catalana, discriminata nel periodo franchista e ora formalmente riconosciuta dal governo di Madrid, parlata dall'85% (e capita dal 97%) dei Catalani (secondo l'ultimo censimento del 2004). Enunciate queste opposte tendenze ad agire in materia di muri comunicativi, appare tuttavia chiaro come l'aspetto linguistico, data l'importanza che assume e sempre assumerà per l’uomo, sia soggetto ad un continua e travagliata evoluzione che lo scenario di un mondo globale non può fare altro che esasperare. * * * OLTRE IL MURO DEL CARCERE a cura di Timothy Dissegna S e proviamo a pensare al cemento armato, la prima cosa che ci verrà in mente molto probabilmente è un muro: in fondo, questo prodotto serve essenzialmente per l'edilizia, rendendo indanneggiabili gli immobili che va a ricoprire. Ma per chi ha avuto la possibilità di entrare in un carcere da mero visitatore, il pensiero va immediatamente alle pareti che avvolgono la struttura. Ne è ottimo esempio la casa circondariale di Tolmezzo, visitabile da alcune classi dei licei del Friuli-Venezia Giulia. Per chi non conoscesse il posto, basti dire che il paese è uno dei più freddi che ci sia in Friuli e ospita il famigerato 41bis, ossia il regime speciale di detenzione dei condannati per associazione mafiosa. Nei fatti, un casone di altro cemento armato, appena dopo l'ingresso dell'impianto, isolato completamente dal mondo. Quando si arriva all'ingresso del carcere tolmezzino, ma la cosa varrà sicuramente per quelli di Udine, Rebibbia, Sanvittore e altri, l'imponenza di quel muro tra “dentro” e “fuori” diventa un ostacolo contro cui è Visita alla casa circondariale del carcere di Tolmezzo per avere uno sguardo più ampio e critico sulle condizioni dei carcerati in Italia impossibile non scontrarsi. Non perché si sia essenzialmente animati da pensieri libertari, disgusto per la giustizia o perché si vorrebbe un'amnistia per tutti, quanto per il fatto che si è all'ingresso di un vero e proprio mondo parallelo, un luogo che ha interrotto ogni rapporto con la quotidianità dei cittadini “liberi”. Fila ordinata, silenzio tombale, lo stridore dei cigolii che preannunciano l'aprirsi del portone blindato: è questo il rito quasi dantesco, che spetta a qualsiasi visitatore si appresti ad “entrare in contatto” con un universo che ragiona con unità di tempo molto diverse dal presente che conosciamo solitamente. E il passaggio, quantomeno fisicamente, è breve. Due passi e si è in una corte interna, con le torrette di guardia attorno e un immenso monolite grigio che si erge sulla destra: la “casa” per i mafiosi qui ospitati. Entrare nel carcere, non nell'invalicabile 41bis, è come vestire i panni di Alice e lanciarsi al di là dello specchio, trovandosi però di fronte ad un luogo ben diverso dal Paese delle Meraviglie: i corridoi sono deserti, le celle minuscole altrettanto. I detenuti sono stati trasferiti per il momento in un altro piano: non è uno zoo, in fin dei conti, per cui si può solo immaginare cosa significhi trascorrere lì settimane, anni, vite intere. Una condanna nella condanna. Un particolare spezza il fiato al visitatore: un orologio appeso sulla parete d'ingresso. Le lancette ferme, come a preannunciare l'atmosfera che regna pesante tra quelle mura inscalfibili: qui non siamo nel “nostro” mondo, ma in un “non-luogo”, come direbbe l'antropologo Marc Augé, dove ogni istante è uguale a quello passato e, molto probabilmente, a quello futuro. In tutto ciò i carcerati sono in compagnia delle guardie carcerarie, anime divise tra questa bolla di cemento e una vita fuori che scorre senza guardarli in faccia. Vuoi l'assenza di persone, vuoi il silenzio profondo in cui ogni cosa lì dentro è immerso, ogni passo diventa un boato che echeggia tra le celle aperte. Ce ne sono poche, perché sono quelle dismesse, altrimenti bisognerebbe chiedere il permesso dei detenuti che vi alloggiano. Una sorta di proprietà privata del nulla: che bel paradosso. Fatto sta che questi spazi sono così piccoli che uno sguardo li riempie tutti, e sono senza mobilio e letti. Immaginarseli abitati è impossibile. Al termine della visita, di circa due ore, si ritorna sui propri passi, con il freddo carnico che aggredisce appena rimetti il naso all'aperto. Il cancello torna ad aprirsi, questa volta per il viaggio inverso, e il “fuori” si materializza oltre. Raggiungerlo è ancora una volta questione di istanti e l'impressione che questa sia una metafora della realtà diventa sempre più concreta, mentre il tonfo sordo separa definitivamente i due mondi. Lascio alle spalle una dimensione che i cittadini non vogliono vedere, pattumiera umana in cui gettare chi sbaglia e in cui relegarlo il più a lungo possibile. Quelle persone hanno sbagliato, nessuno lo nega, ed è sacrosanto che scontino la pena lì dentro. Ma poi? Il timer ad un certo punto scatterà e queste persone torneranno fuori. E se sbaglieranno ancora, sarà il fallimento di un sistema che mette solo la polvere dall'altra parte del muro, ricoprendola di cemento armato. * * * Inverno 2015/16 " Sconfinare 15 OLTRE LA BARRIERA: SCONTRI TRA CULTURE NEL TRONO DI SPADE Popolo Libero o Bruti? Il relativismo culturale colpisce a fondo anche nel mondo di fantasia della celebre serie Game of Thrones. di Viola Serena Stefanello L'inverno sta arrivando." Lo sa bene chi segue la fortunata serie TV di HBO Game ofThrones, meglio ancora chi ha letto la saga fantasy da cui la serie è tratta, le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin. Per fortuna, a proteggere dall’incombente inverno Westeros, dove la maggior parte delle vicende si svolgono e la lotta per ottenere il Trono di Spade è spietata, si staglia a nord un enorme muro, conosciuto come la Barriera. Cominciata a costruire oltre 8000 anni prima degli anni in cui svolge la trama principale da Brandon in Costruttore, antenato degli Stark, lunga quasi 500km per un'altezza di oltre 200m, è un confine che divide due realtà diametralmente diverse. Da una parte il mondo profondamente feudale fatto di corti, intrighi e guerre sanguinarie per la successione dove si avvicendano Lannister, Baratheon, Stark, Tyrell e le altre casate, dall'altra l'anarchia, l'"inciviltà", l'inverno perenne, con tutti i disagi che in un universo tanto distante dal nostro ciò può comportare. La Barriera non serve soltanto a delimitare un regno: è allo stesso tempo un muro volutamente impenetrabile e ostile contro tutti gli abitanti del Nord estremo. Ad assicurarsi di ciò stanno i Guardiani della Notte, la confraternita giurata che vive nelle varie fortezze costruite sulla Barriera in totale 19, la maggior parte delle quali in disuso o in rovina. Chi c’è, però, dall'altro lato? Nel corso della storia ci vengono presentati dei personaggi che poco o nulla hanno a che fare con i lord, i soldati e gli uomini di corte che affollano Westeros: sono quelli che fin dall’inizio ci sono presentati come Bruti. In gran parte non esseri soprannaturali o selvaggi, ma centinaia o addirittura migliaia di persone divise in una miriade di tribù e clan differenti, a tratti in guerra tra loro ma principalmente impegnati nella costante lotta contro le condizioni ambientali avverse. Persone che, a sud della Barriera, vengono descritte propriamente come barbari: "crudeli, schiavisti, assassini, ladri (...) che si accoppiano con giganti e demoni, rapiscono le bambine nel cuore della notte e bevono sangue da corna cave." Popolazioni che, in effetti, per secoli hanno lottato selvaggiamente con i Guardiani della Notte, e che talvolta sono riuscite a penetrare oltre la Barriera, compiendo razzie e omicidi nei terreni degli Stark. In ogni storia vi sono sempre, però, per lo meno due versioni. A scoprire ciò in Game of Thrones è Jon Snow che, da Guardiano della Notte e bastardo di casa Stark, suo malgrado si trova prima catturato dai Bruti e, in secondo momento, vi si integra per un periodo, innamorato di una di loro, Ygritte. Così si svela lo spaventoso relativismo culturale che per i primi libri è stato proprio non soltanto dei personaggi nativi di Westeros ma del lettore stesso che, immerso nella narrazione in prima persona, non può che discriminare a prescindere i Bruti. Non si tratta infatti di selvaggi feroci, al limite del bestiale, ma di un Popolo Libero, come essi si definiscono, semplicemente diametralmente opposto in cultura, usi e costumi dalla società feudale dei Sette Regni. Alcuni clan, certamente, risultano essere esattamente primitivi come ci si poteva aspettare, ma per la maggior parte si tratta di un persone fiere e consapevoli della propria diversità che, grazie al proprio isolamento e al proprio essere completamente liberi da restrizioni A rendere evidenti e tragiche le conseguenze di una simile ignoranza culturale reciproca è un contesto di crisi profonda: infatti, con l'effettivo inasprirsi dell'inverno e il risvegliarsi dei temibili Estranei, la pressione dei Popoli Liberi sulla Barriera aumenta, e tra i Guardiani crescono le tensioni sul fatto che si debba o no permettere loro di mettersi in salvo da questa parte del miro. Qui si dispiega in tutto il suo orrore il profondo solco che il muro ha scavato tra gli uomini che abitano i divisi territori del Nord: per i Guardiani della Notte, non si ha davanti un Popolo Libero, ma soltanto dei Bruti. É il riconoscimento dell'altro, tanto diverso, come membro di pieno diritto della razza geografiche, si esprime nella totale umana che viene a mancare. É la basilare mancanza di nobili, re e religioni concessione del diritto alla sopravvivenza organizzate. Loro è una libertà estrema, altrui. vincolata da poche ma chiare leggi, che li E dove tra esseri umani non vi è porta a disprezzare coloro che vivono a sud nemmeno la concessione di riconoscere della Barriera, i quali "si inginocchiano" che si è sulla stessa barca - neppure nel davanti a un capo non scelto da loro e non momento in cui questa sta affondando capiscono che "gli dei hanno creato la terra non vi può essere che tragedia, che si tratti per essere condivisa da tutti gli uomini, e di mondi di fantasia o della realtà. che i re con le loro corone e le loro armature di ferro l’hanno rubata *** sostenendo che fosse di proprietà loro". SCOPRIRE BALTIMORA: IL RAZZISMO NEL MARYLAND D di Giulia Mastrantoni a studentessa in scambio extraeuropeo, sono arrivata a Baltimora con tutto l’entusiasmo che la passione per i viaggi può ispirare; ho trovato un Inner Harbor assolato, un Patapsco River dal blu intenso e un razzismo inaspettato. Oltre all’elevato tasso di criminalità locale di cui in Europa è giunta fama tempo addietro, nella città del Maryland vi è una netta divisione sociale caratterizzata da manifestazioni razziste che si esprimono in ogni ambito. Su 621.000 abitanti, circa il 64% della popolazione è afroamericana o nera, poco più dell’1% è di razza mista; questi dati fanno di Baltimora la quinta città statunitense per numero di residenti neri o afroamericani. Il Baltimore Sun ha recentemente riportato le parole del Police Commissioner Anthony W. Batts, il quale nel 2012, anno del suo arrivo, si è visto “avvisare” circa l’obbligo non scritto di promuovere lo stesso numero di ufficiali bianchi e neri. La meritocrazia? Non è una priorità; prima di quella a Baltimora bisogna occuparsi del problema di arginare il razzismo, che può sfociare in rappresaglie pericolose anche solo per una promozione “bianca” di troppo. Nel Novembre 2015 le Il razzismo nei confronti della popolazione afroamericana è un argomento sempre pressante negli Stati Uniti: anche in un altrimenti placido Maryland ronde sono state aumentate, la polizia è stata caldamente incoraggiata ad instaurare un rapporto personale con i residenti di ciascun quartiere e iniziative per il supporto dei meno abbienti sono state messe in atto nella speranza di appianare le differenze tra “razze”. Dal punto di vista storico, non è una novità che la convivenza tra afro-americani e bianchi a Baltimora faccia fatica a trovare un equilibro; Obama aveva affrontato il problema durante una conferenza stampa riportata dal New Yorker lo scorso maggio, dicendo “This is not new, and we shouldn’t pretend that it’s new”. Lo scorso Ottobre, due giorni prima di arrivare a Baltimora, sono stata testimone di una manifestazione per i diritti dei neri a Washington DC, poco distante dall’US Capitol. Magliette con scritte piene di rabbia e di voglia di giustizia venivano sventolate in strada e mostrate a chiunque avesse l’ardire di fermarsi per capire cosa stesse succedendo. Nel 2014 il Baltimore Sun aveva condotto un’inchiesta dalla quale era risultato che più di 100 residenti del Maryland si erano visti risarcire in denaro a seguito di decisioni della corte per “police brutality and civil rights violations”; il totale dei risarcimenti ammontava a più di 6 milioni di dollari statunitensi. Tra le varie denunce, vi era quella di percosse a un indiziato ammanettato nel quadro di un arresto dalla dubbia legittimità. Inutile aggiungere che la maggior parte delle vittime in questione erano di razza afroamericana. Ai problemi relativi agli attriti culturali-razziali, si aggiunge anche quello della povertà: a Baltimora il 25% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Lo scrittore britannico Herbert George Wells scrisse: “Our true nationality is mankind”. Allora cos’è andato storto nella capacità umana di essere umani? Esistono fin troppe spiegazioni sociologiche. L’unica cosa che vale realmente la pena di ricordare è che, come disse Abraham Lincoln “Achievement has no color”. * * * Sconfinare 16 Inverno 2015/16 UN CAVALLO DI CARTAPESTA PER ABBATTERE IL MURO DELLA MALATTIA MENTALE Domenica 25 Marzo 1973, a Trieste, iniziava una lunga lotta che ancora non vede la sua conclusione N di Ilaria Del Rizzo ella giornata di domenica 25 marzo 1973, uno strano rumore scuote la quiete della città di Trieste. Volgendo lo sguardo verso la fonte di tale confusione, la prima cosa che si riesce a scorgere è un’alta sagoma di colore azzurro, un cavallo, per la precisione. Marco Cavallo. Avvicinandosi ancora di più, ci si accorge che l’animale, realizzato interamente in legno e cartapesta, si trova a capo di un corteo di uomini e donne, che avanzano stringendo tra le mani bandiere e cartelloni con aria di festa. Colui che ha reso possibile lo svolgersi della piccola manifestazione si trova proprio lì in mezzo, confuso tra la folla: il suo nome è Franco Basaglia. L’uomo dal sorriso disteso e l’aria pacata che ha contribuito all’elaborazione della legge 180/78, imponendo la progressiva chiusura di tutti i manicomi presenti nel territorio italiano. Basaglia inizia il suo percorso nel 1962, quando diventa direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Qui viene a contatto con la dura realtà del luogo, nel quale, più che occuparsi della cura e del sostentamento delle persone internate, ci si preoccupa di rinchiudere e di segregare le stesse, poiché considerate pericolose qualora dovessero venire a contatto con l’esterno. Egli decide quindi di operare una radicale trasformazione dell’ambiente manicomiale, che può considerarsi uno degli esempi perfetti e maggiormente riusciti di ciò che si definisce istituzione totale. Esso infatti s’impadronisce interamente delle vite di coloro che vi risiedono, annientandone completamente l’individualità e facendoli entrare in quello che lo stesso Basaglia definisce un «vuoto emozionale». Grazie all’aiuto della moglie Franca Ongaro e di un gruppo di giovani colleghi, lo psichiatra veneziano stabilisce delle nuove regole di organizzazione e di comunicazione all’interno dell’ospedale, che comprendono anche l’abolizione delle sedicenti pratiche mediche adottate fino a quel momento. La svolta più importante consiste nella creazione di una comunità terapeutica, composta da tutti i malati, dai medici e dal personale, che hanno in questo modo la possibilità di incontrarsi e di confrontarsi sulla gestione degli spazi e delle attività. Costretto a lasciare Gorizia per l’opposizione che le sue idee incontrano, Basaglia si trasferisce nel 1971 a Trieste, dove, appoggiato dall’amministrazione locale, mette in atto un programma d’intervento che prevede la chiusura del manicomio cittadino e la creazione di strutture alternative di accoglienza per i degenti. Marco Cavallo rappresenta simbolicamente l’apertura dell’ospedale psichiatrico verso l’esterno. La sua ideazione è merito di una donna risiedente nella struttura triestina, la quale, attraverso un disegno da lei realizzato, ha dato inizio a un progetto che ha coinvolto non solo coloro che vivono e lavorano dentro il manicomio, ma anche diversi artisti locali. Questi hanno avuto accesso al padiglione “P” – uno dei primi a essere stato modificato dalla riforma – e hanno contribuito alla creazione di laboratori dove gli internati potessero esprimersi attraverso la pittura e il disegno. È proprio in queste stanze che l’animale di cartapesta è stato plasmato, rinchiudendo in sé le speranze e i sogni dei malati. «Il Laboratorio “P” è stato uno degli strumenti fondamentali per arrivare al superamento dell'istituzione manicomiale. Grazie ad esso il mondo esterno è entrato “dentro” e i matti sono usciti “fuori”. Le problematiche interne al manicomio sono diventate problematiche sociali, del territorio, e le persone internate hanno IL MURO INVISIBILE DI HARRY BERNSTEIN Recensione di un libro sottovalutato di Sofia Biscuola Esistono infiniti tipi di muri e di barriere: alcuni costituiti da calce e mattoni, altri da pregiudizi e preconcetti radicati da secoli. Questi ultimi sono i più difficili da abbattere poiché sono invisibili ai più, radicati nel profondo, ma a volte risultano talmente lampanti che non possono essere taciuti. A tali divisioni, il giornalista Harry Bernstein, all’ età di 92 anni, dedica parte del più originale dei testamenti, la più preziosa delle eredità: la sua memoria. “Era una piccola strada tranquilla, che si notava difficilmente rispetto alle altre ben più ampie, ma ciò che la rendeva eccezionale era il fatto che noi vivevamo da una parte e loro dall’altra. Noi eravamo gli ebrei e loro i cristiani.” L’autore racconta la sua infanzia vissuta nel Lancashire, un piccolo shakespeariana memoria. Solo insieme, villaggio industriale dell’Inghilterra del ribellandosi a tutto e tutti, riusciranno a Nord, durante il periodo della Prima Guerra Mondiale. Ultimo di cinque fratelli, il piccolo Harry vive in un’umile casa che si trova su una strada abitata da un lato solo da ebrei e dal lato opposto solo da cristiani, come se fosse attraversata da un “muro invisibile” che divide i suoi abitanti secondo il loro credo religioso. Due mondi, con le loro usanze, credenze e pregiudizi, si fronteggiano da secoli a pochi metri di distanza. L’unica cosa che li accomuna è l’estrema povertà contro la quale entrambe le parti combattono faticosamente. Ma quel muro avrà vita breve: due giovani di nome Lily, la sorella di Harry, e Arthur, ragazzo cristiano, si innamorano perdutamente, di un amore puro e innocente, di iniziato a usufruire delle risorse offerte dalla società», afferma Peppe Dell’Acqua – uno dei principali collaboratori di Basaglia, nonché ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste – nel suo libro “Non ho l'arma che uccide il leone”. Nel giorno previsto per far sfilare lungo le vie della città Marco Cavallo insieme ai suoi creatori, si presenta un inconveniente: la figura azzurra risulta essere troppo alta per attraversare il muro dell’ospedale. L’episodio sembra quasi rappresentare la paura che i malati provano nel dover superare quella barriera che finora li ha tenuti rinchiusi ma, in un certo senso, anche protetti dall’esterno. È allora che Basaglia, aiutato da alcuni uomini, decide di abbattere con una panchina parte della recinzione che circonda la struttura per riuscire a far passare il cavallo. La demolizione del muro che separa l’interno – ovvero l’ospedale, luogo di contenimento – dall’esterno – la città come ambiente vitale e dinamico – rappresenta simbolicamente la riacquisizione da parte dei malati del loro diritto di essere cittadini. Non vi è dubbio che quella messa in opera da Basaglia sia stata una vera e propria rivoluzione, anche se la chiusura del manicomio non ha significato la fine del percorso, il coronamento ultimo delle aspettative dello psichiatra. Al contrario, essa ha rappresentato un ulteriore punto di partenza di un lungo percorso che si è dimostrato e si sta dimostrando parimenti arduo. Ancora oggi, nonostante i notevoli progressi compiuti in campo assistenziale, questo progetto non può e non deve dirsi concluso, ma anzi deve fungere da esempio in qualunque contesto che comporti l’oppressione e la limitazione delle libertà fondamentali. * * * sposarsi, incrinando forse per sempre, quel muro invisibile, ottuso e ostile, per lasciar trapelare uno spiraglio di fiduciosa speranza di distensione e cambiamento. "Un ragazzo come te viene dalla nostra strada, dove tutti da una parte si ritengono diversi da quelli dell'altra. Ci hanno fatto crescere così, non è vero? E invece è tutto sbagliato. Non siamo molto diversi uno dall'altro, anzi, non siamo diversi affatto. Siamo tutti essere umani, con gli stessi bisogni, gli stessi desideri, gli stessi sentimenti. E' una bugia quella che non ci vuole uguali. Ma tutto questo cambierà, Harry. Un giorno tutti saranno così evoluti da vedere e capire la verità. Allora, quel muro che separa i due lati della nostra strada crollerà. Un giorno tutto svanirà. Oh, sì, Harry, avremo un mondo migliore." * * *