qui - Sconfinare

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qui - Sconfinare
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È un g i o r n a l e c r e a t o d a g l i s t ud e n t i d i S c i e n z e I n t e r n a z i o n a l i e D i p l o m a t i c h e d i G o r i z i a
c h e a t t r a v e r so i l g i o r n a l i sm o v o g l i o n o c o n f r o n t a r si c o n l a r e a l t à d i c o n f i n e ( e n o n so l o ) .
L'EDITORIALE
Se alzi un muro,
pensa a ciò che resta
fuori!”
scriveva
Calvino nel suo Barone Rampante. È
un esercizio che l’intera redazione ha
dovuto fare, nella realizzazione del
numero che avete ora tra le mani. Un
solo tema, drammaticamente attuale:
il Muro. Fisico o astratto, passato,
presente o futuro. Nella storia, nella
letteratura,
soprattutto
nella
geopolitica. A partire da una mappa
realizzata dall'associazione UQAM,
Chaire Raoul Dandurand en études
stratégiques
et
diplomatiques
dell'Università del Quebec a
Montreal, abbiamo deciso di
analizzare in primo luogo ogni
barriera che esiste nel mondo attuale
per poi, ovviamente…sconfinare.
Cercando sul vocabolario il significato
della parola “muro”, ciò che si legge è:
“struttura muraria di sviluppo verticale
che può essere elemento costitutivo di
edifici, come facciata esterna o
complesso di pareti interne, oppure può
svolgere funzione di sostegno, di
recinzione, di delimitazione, di
divisione”. La funzione più triste del
muro viene per ultima: quella di
dividere. Il muro è da sempre servito per
separare persone o territori, famigliari,
amici: l’ha fatto fin dalla Muraglia
Cinese, costruita nel III a.C. sotto il
regno di Chin Shih­Huang­Ti. La verità
è che attualmente le barriere presenti nel
mondo sono moltissime, spesso
ignorate, a dimostrazione di come i passi
fatti dall’umanità verso la coesistenza
pacifica sono vani, laddove sono. Sparsi
da Oriente a Occidente, edificati nel
passato e negli ultimi anni in quantità
sempre maggiori, questi muri sono la
vergogna del nostro mondo, un
separatore tangibile che innalza non solo
pietre e cemento, ma anche l’ideologia
del “diverso”. A cosa servono le nuove
tecnologie, la comunicazione di massa, i
social network? Le distanze sono
veramente accorciate come pensiamo?
L’esperienza del Muro di Berlino, che
STORIA
Die Berliner Mauer
Perché Osimo?
IMMIGRAZIONE
L'Europa dei muri
Qualcuno non si fida
Pagine 2 e 3
Pagine 4 e 5
di Viola Serena Stefanello
e Giulia Lizzi
“
divideva Germania Est da Germania
Ovest post Seconda Guerra Mondiale, è
stata una lezione evidentemente non
imparata a pieno. È chiaro in America
con il “muro di Tijuana”, così come
nelle varie parti d’Europa dove si
risponde all’emergenza immigrazione
erigendo barriere. D’altronde, se la
cortina di ferro che attraversava il
Vecchio Continente (toccando Gorizia
stessa) è stata ormai abbattuta da tempo,
essa è ancora intatta in Corea. E vi
sarebbero ancora decine e decine di
barriere da elencare, soprattutto in aree
sensibili all’immigrazione (come Ceuta
e Melilla) o su frontiere sensibili tra
Paesi
belligeranti
incapaci
di
raggiungere accordi (come in Kashmir
o nel Sahara Occidentale).
Se le muraglie tangibili sono tantissime,
quelle astratte e simboliche, poi, sono
purtroppo infinite. Che si parli di
pregiudizi verso persone di altre etnie,
nazionalità, lingue o orientamenti
sessuali,
costituiscono
ostacoli
difficilissimi da abbattere, per i quali
non basta un trattato di pace tra due
n° 43 - Inverno 2015/16
Direttore: Lorenzo Alberini
Capo R.: Guglielmo Zangoni
Governi o la fine di una crisi politica. A
volte, però, qualcuno ci ha provato,
come Franco Basaglia, “padre” della
legge sulla chiusura dei manicomi, o
Ludwik Lejzer Zamenhof, l’inventore
dell’esperanto, lingua franca che
avrebbe dovuto unire tutti i popoli del
mondo. C’è poi chi, guardando un
muro, ha visto un’opera d’arte. È il caso
non soltanto degli street artist, ma anche
di quei poeti e scrittori che, da Leopardi
a Sylvia Plath, hanno visto non soltanto
un limite, ma anche una via di fuga
dalla monotonia e dal reale.
Scoprendo di tanti muri, ci siamo resi
conto di trovarci davanti a un mondo
incatenato nel suo piccolo, che passa il
tempo ad osservare chi si avvicina e a
innalzare separazioni sempre più grandi
e minacciose. Allo stesso tempo ci piace
credere, però, di far parte di un’umanità
che va progredendo, a prescindere da
momenti di crisi di passaggio che noi e
il mondo stiamo attraversando. All in
all, we’re just another brick in the wall.
* * *
I MURI DEL NOSTRO TEMPO
CULTURA
"The Wall" Pink Floyd
Il mare oltre la siepe
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Sconfinare
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Inverno 2015/16
DIE BERLINER MAUER: VIVIAMO ANCORA LA SUA EREDITÀ?
Il più famoso tra i muri della storia contemporanea continua a gettare la propria ombra sull’Europa.
D
di Nicolò Brugnera
a Stettino nel Baltico
a
Trieste
nell'Adriatico una
cortina di ferro è scesa attraverso
il continente".Con queste parole,
nel 1946, Winston Churchill
descriveva la situazione che si era
creata in Europa al termine della
Seconda Guerra mondiale. Un
gelo paradossale che era calato
fra Stati Uniti ed URSS, e di
conseguenza tra i vari Paesi
consociati, ex alleati nella lotta
contro il nazismo.Di ciò era
esempio Berlino: la città, al
termine del conflitto, era stata
divisa in quattro zone, ognuna
rispettivamente sotto l'influenza
di americani, francesi, inglesi e
sovietici. In un primo momento,
questo controllo da parte delle
potenze straniere era più che altro
formale ed il transito era
consentito da settore a settore.
Nel 1948 gli Alleati decisero
di reintrodurre il marco come
moneta corrente nelle loro
zone, scatenando l'ira di Stalin,
che bloccò gli accessi alla città.
Fu durante questo periodo che
ebbe luogo il cosiddetto “ponte
aereo”, missione lanciata dal
presidente americano Harry
Truman per rifornire Berlino.
Durò circa un anno, e poco
dopo nacquero formalmente le
due repubbliche tedesche
separate,
peggiorando
ulteriormente i rapporti tra i due
blocchi.Poi, la notte del 12
agosto 1961, la Storia lasciò in
città un segno indelebile. I
vertici della DDR, infatti, di
comune accordo con l'Unione
sovietica di Nikita Chruščёv,
decisero di innalzare un muro
tra il loro settore e quello
occidentale. Nell'idea iniziale,
doveva servire a contenere la
massiccia emigrazione verso
l'Occidente dei cittadini del
blocco orientale che, attratti dal
miglior stile di vita, vedevano
l'ovvio e più "comodo" sbocco
nella città più importante della
Germania.Man mano, però,
questo muro si ingrandì fino ad
avvolgere completamente i
settori non comunisti della
città, assumendo un significato
più elevato nell'immaginario
collettivo e diventando die
Mauer ("il" Muro): quello di
rappresentazione fisica della
precitata
cortina
di
ferro.Questa divisione, che si
tradusse anche in una
competizione tra le due parti di
Berlino,
ebbe
risvolti
drammatici: non era raro infatti
che i vopos, le famigerate
guardie di confine, aprissero il
fuoco contro chi cercasse di
passare al di là del muro. In
mille morirono nel tentativo.I
rapporti tra le due Germanie
cominciarono a normalizzarsi
negli anni Settanta, quando il
cancelliere della Repubblica
federale tedesca Willy Brandt,
con la cosiddetta Ostpolitik,
tese una mano agli ormai ex
Sconfinare non identifica alcuna posizione politica, in
quanto libera espressione dei singoli membri che ne
costituiscono il Comitato di Redazione.
Sconfinare è un periodico regolarmente registrato
presso il Tribunale di Gorizia in data 20 maggio 2006,
n° di registrazione 4/06.
Editore e Propetario: Assid Associazione studenti di
scienze internazionali e diplomatiche.
Direttore: Lorenzo Alberini
Capo Redattore: Guglielmo Zangoni
rivali dell'Est.Il 9 novembre
1989, infine, il fatto decisivo.
Complice una dichiarazione
ambigua di un leader della
DDR, migliaia di berlinesi
festanti presero a picconate il
muro,
celebrando
la
riunificazione della città, che
precedette di un anno quella
dell'intera
nazione.Questo
avvenne anche a causa, o
grazie, allo stato di crisi in cui
versava l'Unione Sovietica, di
cui fino ad allora si era temuto
l'intervento, come a Budapest
nel 1956 e a Praga nel
1968.Tuttavia, fonti riportano
di un malumore di alcuni
leader europei di allora, in
particolare il presidente
francese François Mitterrand e
la premier inglese Margaret
Thatcher, riguardo alla
riunificazione delle due
Deutscher Republiken. Come
sostiene il giornalista Lucio
Impaginazione e grafica: Alessandro Beghelli, Sofia
Biscuola, Marco Busetto, Martina Corti, Timothy Dissegna,
Michele Faleschini, Alessia Sofia Giorgiutti, Giulia Lizzi,
Richard Puppin, Viola Serena Stefanello, Guglielmo
Zangoni.
Stampato da: Tipografia Budin, via Gregorcic 23, Gorizia
(GO)
Redazione: Lorenzo Alberini, Alessandro Beghelli, Sofia
Biscuola, Nicolò Brugnera, Marco Busetto, Giulia Calibeo,
Guido Alberto Casanova, Francesco Caslini, Rachele
Caracciolo, questa diffidenza,
causata dalla memoria storica
delle due Guerre mondiali, può
aver influenzato il conseguente
processo di integrazione
europea.
Die Mauer, dopo 26 anni dal
suo crollo, fa sentire ancora la
sua presenza anche all'interno
della Germania stessa. L'area
della ex DDR infatti,
nonostante l'euforia iniziale per
la riunificazione del Paese e la
stipula di un “patto di
solidarietà” per aiutare i lander
orientali ad uscire dalla crisi
economica in cui versavano, è
ancora arretrata. Si è inoltre
diffuso un fenomeno detto
Ostalgie, neologismo per
indicare la nostalgia per l'Est,
per i suoi prodotti simbolo e
per la ex Repubblica
democratica stessa, la quale era
sì uno Stato autoritario, ma al
contempo era assai attenta in
fatto di politiche sociali e
welfare.In tutto ciò, tutti sanno
che anche a Gorizia vi era un
muro che separava l'Italia dalla
ex Repubblica Jugoslava.
Eretto nel 1947, detiene il
“record” di longevità dei muri
europei della guerra fredda, in
quanto fu abbattuto solo nel
2004, con una celebrazione in
Piazza della Transalpina alla
quale parteciparono l'allora
primo ministro Romano Prodi
ed il presidente sloveno Janez
Drnovšek.Proprio in questa
piazza la divisione tra blocco
occidentale ed orientale era
molto evidente, con la
presenza di un'enorme stella
rossa posta sulla facciata della
stazione di Nova Gorica e
presidi militari da entrambe le
parti fino all'uscita della
Slovenia dalla Jugoslavia nel
1991. Dopo gli accordi di
Schengen, la divisione di
questa piazza ha ormai perso di
significato,
ma
la
pavimentazione continua ad
indicare dove una volta
passava il “muro di Gorizia”.
***
Cecchi, Riccardo Cincotto, Alessia Cordenons, Martina
Corti, Sofia Dall'Osto, Ilaria Del Rizzo, Timothy
Dissegna, Michele Faleschini, Alessia Sofia Giorgiutti,
Giulia Lizzi, Luca Marano, Giulia Mastrantoni,
Giacomo Netto, Benedetta Oberti, Arianna Orlando,
Paola Pellegrino, Barbara Polin, Richard Puppin,
Cecilia Rocco, Claudia Russo, Caterina Simonetti,
Viola Serena Stefanello, Giulio Torello, Alessandro
Venti, Guglielmo Zangoni.
Sconfinare
Inverno 2015/16
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PERCHÈ OSIMO?
Neppure gli accordi del 1975 hanno eliminato decenni di diffidenza reciproca
I
di Guglielmo Zangoni
l 10 Novembre 1975, meno di
mezzo secolo fa, venne
deciso, in calce, nero su
bianco, il presente del Carso, di
Trieste, delle relazioni italojugoslave e della diplomazia eurobalcanica.
Le controversie riguardanti la
gestione amministrativa delle zone
carsiche e istriane ha radici storiche
molto profonde. Territori dal difficile
inquadramento storico-geografico,
dovuto ad una multietnicità che per
secoli fino al 1900 ha resistito più o
meno pacificamente e che i due
conflitti mondiali hanno contribuito ad
insanguinare. Dal 1947, anno della
Conferenza di Parigi, dove i ministri
degli esteri si riunirono con il compito
di elaborare tra gli altri il trattato di pace
con l’Italia, il problema del confine
orientale finì per diventare uno dei temi
caldi delle discussioni diplomatiche che
seguirono il secondo conflitto
mondiale. Ognuna delle grandi potenze
aveva una sua ipotesi riguardante il
confine giuliano: da quella statunitense
a quella francese, via via meno
favorevoli alla tesi di Roma fino alle
posizioni sovietiche, più in linea con
quelle di Belgrado, che avanzavano
rivendicazioni non solo sulla VeneziaGiulia, Trieste e Gorizia comprese, ma
addirittura su aree del Friuli mai prima
di allora messe in discussione.
L’esito di queste discussioni fu
nefasto. Non solo non si giunse ad una
soluzione definitiva ma addirittura si
arrivò a dividere in due blocchi
amministrativi l’intera area da allora
rinominata Territorio Libero di Trieste
(TLT) in due zone d’influenza: la
ZONA A, comprendente Trieste e
Gorizia, al Governo Militare Alleato
degli eserciti britannico-statunitensi e la
ZONAB, a sua volta divisa in due parti
(il distretto italo-sloveno di Capodistria
e il distretto italo-croato di Buie) agli
jugoslavi. Il TLT, che avrebbe dovuto
funzionare come uno Stato
indipendente, ben presto si trasformò in
un monstrum geopolitico senza
paragoni. La nomina di un Governatore
da parte del Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite non arrivò mai e per anni
l’area costituì niente di più che un
guazzabuglio di genti. Una delle
conseguenze di tale sciocchezza
diplomatica fu che da Pola, così come
da alcuni centri urbani istriani
(Capodistria, Parenzo, Orsera, ecc.),
partì oltre il 90% della popolazione
etnicamente italiana, da altri (Buie,
Umago e Rovigno) si desumono
percentuali inferiori ma sempre molto
elevate di esuli dalmati e istriani che
fuggirono dalla promessa d’epurazione
etnica condotta senza remore dagli
ufficiali
di
Tito.
In un successivo scenario di guerra
fredda d’inizio anni 50, gli Stati Uniti,
alle prese con la costruzione di una fitta
rete di alleanze in funzione
anticomunista, giunsero dapprima in
Spagna, riuscendo a superare la
riluttanza francese a rapportarsi con il
regime franchista ottenendo il controllo
di un certo numero di basi militari e
impianti portuali, e successivamente
nella Jugoslavia di Tito.
Già nel 1951, la Jugoslavia figurava
tra i paesi che ricevevano aiuti militari
americani, ma l’obiettivo statunitense
era quello di spingere Tito verso
un’alleanza con Grecia e Turchia che
desse vita a un blocco balcanico
implicitamente vicino alla NATO e
quindi “amministrabile” dal sistema
atlantico.
In quest’articolato
contesto
s’inserisce la città di Trieste, e fu
proprio a causa della “non decisione”
riguardante il destino di quella che fu la
perla dell’impero austroungarico che
nel 1953 non si arrivò a nessuna
alleanza balcanica ma, bensì, ad un
trattato d’amicizia con la volontà di
rinunciare a costituire il Territorio
Libero di Trieste e, di conseguenza a
mantenere la divisione in zone da
assegnare, in seguito, ad Italia e
Jugoslavia.
Seguirono proteste violentissime che
sfociarono nei moti triestini del 1953 in
quella che venne definita la “rivolta di
Trieste”. La conseguenza umana di
tutto ciò che fu il successivo ed
inevitabile Memorandum di Londra
del 1954 fu un ulteriore ondata di esuli.
Capodistria, Isola, Pirano, Buie,
Umago e Ciffanova videro
trasformarsi i propri cittadini in
stranieri, così come già era avvenuto
per i fratelli di Zara, di Fiume, di Pola e
del resto dell’Istria in precedenza.
Ad Osimo (AN), nel 1975 le
delegazioni di Roma e Belgrado,
rappresentate rispettivamente da
Mariano Rumor e Milos Milic,
firmarono un’intesa che riconfermava
le decisioni prese 21 anni prima e che
costrinse l’Italia a rinunciare ad una
serie di contenziosi e rivendicazioni, in
particolare quelle concernenti i diritti
degli istriani e dei dalmati che erano
stati costretti a lasciare i territori
destinati dalla Jugoslavia alla fine della
seconda guerra mondiale.
Ciò che il governo italiano contava
comunque di sviluppare con il
corrispondente jugoslavo consisteva in
una rete di relazioni particolarmente
amichevoli sul piano politico e proficue
su quello economico. In effetti, negli
anni successivi, l’Italia sarebbe
divenuta uno dei maggiori partner
commerciali della Jugoslavia.
Il TLT, Territorio Libero di Trieste,
un nome, una condanna. Trieste,
Gorizia, la Venezia Giulia, l’Istria e la
Dalmazia non conobbero pace fino al
1975 ma, ad essere più coerenti, non la
conobbero neppure allora. Solo con il
disfacimento sovietico per le strade e
nelle piazze dell’estremo confine
orientale d’Italia si poté finalmente
parlare di un muro abbattuto. Un muro
fisico che oggi però resiste
nell’immaginario collettivo. Italiani e
sloveni, dopo aver patito pene atroci
per più di un secolo, faticano ancora a
superare le reciproche riserve in nome
di una cooperazione veramente
transfrontaliera, obiettivo che deve
impegnare non solo le due
amministrazioni pubbliche ma anche e
soprattutto l’Europa intera.
* * *
IL “SAPER VEDERE” OLTRE LE BARRIERE DEL GIORNALISMO
T
di Guglielmo Zangoni
Quando l'aumento di quantità non sempre corrisponde ad un aumento di qualità
roppi, nel giornalismo
odierno, i “muri”, le
barriere
che
si
frappongono tra chi scrive e chi
legge. Spesso si avverte la presenza
di filtri e setacci di diversa misura e
colorazione, che ogni giorno
trattengono dagli articoli la loro
essenza. Gli enormi passi avanti di
tecnologia, comunicazione e
distribuzione delle notizie, hanno
da un lato favorito l’abbattimento
di barriere spazio-temporali,
dall’altro costituito un’impervia
muraglia cinese che ostruisce la
piena comprensione di ciò che
realmente accade, di ciò che
davvero, noi lettori, dovremmo
aver la possibilità di conoscere ed
analizzare in chiave critica.
Oggi la vera informazione è una
nave alla deriva in balia di una nuova
concezione di giornalismo, dove la
libertà di stampa è senza regole e
permette di diffondere notizie di
qualsiasi genere senza nessun tipo di
controllo. Girovagando tra le testate,
rimbalzando da un titolo all’altro, il
lettore si ritrova innondato da
un’eccedenza di informazioni, spesso
senza poter comprendere quali siano i
punti salienti degli avvenimenti che
caratterizzano il mondo che lo
circonda e la società in cui si trova.
Il giornalismo d’oggi è lo specchio
dei nostri tempi: le informazioni sono
come merci da vendere e non
svolgono più la loro funzione
fondamentale. Il web, i social, i
giornali online, ad oggi i principali
generatori d’informazioni -più o meno
fondate- che affollano le nostre
bacheche influenzano le nostre
opinioni e rischiano di causarci una
sorta d’indigestione. Non sempre,
infatti, ad un aumento di quantità
corrisponde un aumento di qualità.
E’ necessario, quindi, puntare ad un
nuovo giornalismo, non più solo ad
una rivisitazione di quello passato
come è stato fatto finora; questo deve
farsi, infatti, veicolo d’informazione
della società moderna per la società
moderna e strumento capace di
abbattere i muri del pregiudizio e
dell’ignoranza, svincolandosi, per
quanto possibile, da sfumature
eccessivamente politiche.
In conclusione, è fondamentale che
il giornalismo riscopra la sua funzione
sociale, in un certo senso simile a ciò
che Da Vinci definiva il “saper
vedere”: riconoscere e riordinare ciò
che si vede sapendolo poi comunicare
ai propri lettori.
* * *
4
Sconfinare
Inverno 2015/16
L’EUROPA DEI MURI ALLE PRESE CON L’EMERGENZA MIGRATORIA
L'ingombrante esistenza di un muro è sempre difficile da dimenticare. Oggi più che mai.
I
di Michele Faleschini
l fatto che molti europei
abbiano perso familiarità
con
l'ingombrante
esistenza di un muro non
significa che si siano dimenticati
cosa esso sia e cosa comporti una
sua presenza nel continente. Oggi
questa presenza si è fatta più
imponente.
Più che di muro al singolare, è di
muri che si dovrebbe parlare. Negli
ultimi anni sono sorte infatti diverse
recinzioni e barriere metalliche o di
filo spinato che, seppur non
destando lo stesso scalpore del muro
ungherese recentemente ultimato,
hanno comunque precluso buona
parte degli ingressi via terra nella
zona comunitaria. Si pensi al
confine tra Bulgaria e Turchia,
sigillato da una barriera di 160 km,
oppure alla recinzione sul fiume
Evros, tra Grecia e Turchia. O
ancora, a quello in fase di
progettazione a Calais, in cui
frattempo numerose barriere sono
state erette per impedire l'accesso al
porto ai migranti. Guardando a
questi progetti, alcuni terminati, altri
in costruzione, viene da chiedersi
come mai i muri siano considerati
da molti governi l'unica manovra
efficace per arginare il flusso
migratorio incontrollato. Dal
momento che la questione è
veramente delicata, occorre prima
indagare le cause che hanno portato
a queste costruzioni, cercando di
estraniarsi dal clima catastrofico e
allarmista che pervade buona parte
del vecchio continente (governi
nazionali compresi) e infine capire
quale debba essere il ruolo delle
istituzioni europee, che alla prova
dei fatti non sembrano essere
riuscite a gestire la situazione. In
poche parole, bisogna capire se il
muro è ciò di cui l'Europa e i
migranti hanno bisogno oggi.
Come esempio più lampante
prendiamo il famigerato muro
ungherese: una prima parte è stata
completata già alla fine di agosto,
sul confine con la non comunitaria
Serbia. Una seconda parte è stata
costruita sul confine con la Croazia,
dimostrando come il governo
ungherese sia sempre disposto a
dispiegare filo spinato e barriere
metalliche ovunque ce ne sia il
bisogno. A dispetto delle
dichiarazioni provenienti dai vertici
ungheresi e delle flebili e non coese
risposte dei vari stati e delle
istituzioni europee, la costruzione
del muro, rinforzato all'inverosimile,
non può che ricordarci quegli anni
nei quali, seppur in contesti
completamente differenti, il diritto
fondamentale di migliorare la
propria vita, di sopravvivere e a
trovare rifugio in un paese sicuro
veniva ripetutamente violato. Fa
inoltre riflettere, se non preoccupare,
il fatto che molte nazioni che fino a
trent'anni fa erano divise da barriere
simili a quelle odierne, oggi si
rifiutino di affrontare un impegno
che l'Europa si è assunta nei loro
confronti in più occasioni (si pensi
solo ai milioni di sfollati nel
secondo dopoguerra o alle crisi
conseguenti alla frantumazione del
blocco sovietico e jugoslavo negli
anni
90).
Nonostante le tonnellate di
acciaio riversate al fine di rendere il
confine ermetico, le persone in
viaggio verso i paesi del centro e
nord Europa non si sono arrese,
intraprendendo deviazioni e cambi
di direzione che hanno esteso la
cosiddetta “rotta migratoria” ad un
numero crescente di Paesi. Come
già ricordato, quello dell'Ungheria
non è un caso isolato. Come in un
gioco al rialzo, ogni paese
balcanico, e non solo, è pronto ad
innalzare il suo muro qualora gli
altri stati permettano il passaggio
dei migranti, mettendo così in
difficoltà le successive nazioni
presenti sul “percorso della
speranza”.
Questo gioco non è però a
somma zero. A farci le spese sono
infatti principalmente due categorie:
da una parte, quella delle migliaia di
persone che affrontano questo
viaggio, dall’altra l'Unione Europea,
che in questa cosiddetta crisi sta
perdendo un'opportunità concreta.
Infatti, dopo anni di sfiducia
progressiva
nei
confronti
dell'immigrazione (secondo un
sondaggio dell'Eurobarometer solo
un terzo degli intervistati ha
espresso un'opinione positiva nei
confronti dell'immigrazione da paesi
terzi) una gestione accurata e
sopratutto comunitaria avrebbe
potuto dimostrare non solo la
capacità di saper affrontare
situazioni non ordinarie, ma anche
quella di saper continuare a fare del
lavoro di squadra la forza principale
dell'Unione. Certo, non tutto è
perduto, ma fino ad ora le azioni
dell'UE, tra cui mini-summit,
compromessi al ribasso, innocui
avvertimenti e deboli richiami
all'azione comune, non hanno sortito
il risultato sperato. Bisogna
comunque confidare che lo
raggiungano, poiché se c'è una
domanda a cui possiamo
sicuramente rispondere, è proprio
quella che le neonate recinzioni ci
impongono di porci: i muri,
nell'Europa di oggi, non servono e
non devono servire. Quello che
serve è una serie di soluzioni e
provvedimenti di certo più
impegnativi ed elaborati, ma che
possano veramente condurre ad una
risoluzione
della
crisi,
trasformandola in una gestione
comune ed ordinata, con tutti i
sacrifici che ciò comporta. Urge un
dibattito che ponga finalmente al
centro della questione i diretti
interessati: i migranti, che le barriere
non hanno saputo fermare. E tutto
questo lasciando da parte, ancora
una volta, i vecchi e freddi muri.
* * *
Inverno 2015/16
Sconfinare
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QUALCUNO NON SI FIDA: L'EUROPA RISCOPRE LE FRONTIERE
Sulla scia della grande ondata migratoria che ne sta sconvolgendo le tradizionali regole di
convivenza ed equilibri di potere, l’Europa riscopre le frontiere
I
di Guido Alberto Casanova
l 2015 sembra essere
l'annus
horribilis
dell'Europa. Oltre al
rischio défault greco e
all'annuncio da parte del Regno
Unito di un prossimo
referendum sulla cosiddetta
"Brexit", la vera minaccia per
l'UE è il dissenso sorto in
merito alla questione dei
migranti.
Per capire l'attuale crisi bisogna
prendere in considerazione due
elementi di fondamentale
importanza: il crollo de facto degli
accordi di Dublino e il
funzionamento di Schengen. I
primi stabilivano che i migranti
che avessero voluto chiedere asilo
in UE lo avrebbero potuto fare
solo nel paese di arrivo: ma, data
l'evidente insostenibilità per Italia
e Grecia (paesi di per sé ancora in
grossa difficoltà) di clausole del
genere dovuta all'arrivo di
centinaia di migliaia di migranti
sulle proprie coste, i paesi in
questione hanno iniziato a non
seguire più le disposizioni e gli
accordi sono perciò diventati
lettera morta. Quindi ora una volta
arrivati in Europa i migranti hanno
la possibilità di scegliere dove
deporre la propria domanda
d'asilo. Ed è qui che entra in gioco
l'accordo di Schengen, che
garantisce libertà di movimento
all'interno dei paesi UE (tranne
che per il Regno Unito e l'Irlanda)
al prezzo di un rafforzato sistema
di protezione delle frontiere
esterne coi paesi non-Schengen.
Perché se da una parte i controlli
ai confini interni sono stati aboliti
di norma, questi sempre secondo
l'accordo possono essere ristabiliti
in casi eccezionali e comunque
temporanei. Tuttavia gli sviluppi
recenti stanno portando i vari
paesi europei a considerare
un'eventuale modifica corale degli
accordi: processo lungo e dagli
esiti incerti, indice però che
l'attuale sistema crea più di
qualche disappunto nelle varie
dirigenze
europee.
Da parte loro, i numeri sono
piuttosto chiari: se nel 2014 sono
stati 219mila i migranti arrivati in
Europa attraverso i vari corridoi
mediterranei, nei primi due
quadrimestri del 2015 questi sono
stati già più di 350mila. Ma altre
stime fissano numeri ben più alti.
Davanti a questa emergenza
l'Europa si presenta divisa: quando
a maggio Bruxelles presentò un
progetto per ripartire tra i paesi UE
i migranti arrivati in Italia e Grecia
l'opposizione di vari paesi fece
naufragare il progetto delle quote
obbligatorie, rimpiazzandolo poi
con uno di accoglienza su base
volontaria. Riconosciuta quindi la
debolezza delle istituzioni europee
in materia, ogni paese ha poi
seguito una propria agenda: la
Francia ha chiuso Ventimiglia ai
migranti, l'Ungheria ha costruito
un muro alla propria frontiera
meridionale (giustificando la
mossa con la difesa delle frontiere
comunitarie e con la lotta
all'immigrazione clandestina), il
Regno Unito giudicando
insufficienti gli sforzi francesi a
Calais ha rinforzato le proprie
posizioni sul luogo, e la Germania
(nonostante
l'annuncio
d'accogliere le richieste d'asilo di
tutti i siriani) ha aumentato i
controlli alle frontiere con
l'Austria, imitata poi da altri paesi
centroeuropei. Allo scenario
disordinato va poi aggiunto che
nel 2015 Germania, Ungheria,
Italia, Francia, Austria e Svezia
raggruppate hanno ricevuto ben
più della metà di tutte le domande
d'asilo presentate in Europa: una
situazione
estremamente
disequilibrata che rischia di
esacerbare tensioni già esistenti tra
i vari paesi europei. È però
importante notare come una gran
parte dei migranti arrivati in
Europa siano in effetti rifugiati:
essi infatti non migrano per motivi
economici ma per scappare alle
persecuzioni e alle guerre dei loro
paesi, e in quanto tali l'Europa ha
l'obbligo internazionale (dettato
dagli accordi di Ginevra del '51 e
dal diritto consuetudinario) di non
respingerli. Se si esamina poi la
questione alla luce dei dati
demografici, l'apporto migratorio
sarebbe una manna per certi paesi
europei la cui popolazione
invecchia rapidamente: per
esempio, senza immigrazione la
Germania dovrebbe ritrovarsi nel
2080 con una popolazione
diminuita del 38% e pari a circa a
50mln d'abitanti. Invece, altri
Paesi, come ad esempio il Regno
Unito, pur senza immigrazione
manterrebbero il proprio numero
attuale, mentre la Francia
addirittura aumenterebbe. Se messi
quindi in relazione alle politiche
migratorie, i dati demografici
risultano piuttosto interessanti. Ma
quello che più conta in questo
momento è il fatto che il consenso
attorno a quello che era uno dei
punti cardine della costruzione
europea, cioè Schengen, sta
crollando. I partiti euroscettici,
maggiormente di destra, avanzano
nei sondaggi e nelle elezioni,
l'ostilità verso
Bruxelles
s'intensifica e la messa in
discussione dei valori su cui si
erano fondate le istituzioni
europee scuote la legittimità del
progetto europeo. Sembra proprio
che i paesi europei si siano dovuti
svegliare di soprassalto: nei loro
sogni era la figura mitica di
Europa a custodire l'omogeneità
tra di loro. Ma dopo il risveglio
arriva sempre la realtà: Europa
non ha cancellato le frontiere, ce le
ha fatte dimenticare, ma queste
restano tracciate. E' bastato uno
scossone migratorio per farci
aprire gli occhi intorpiditi dal
sonno, farci notare quelle linee
dimenticate e farci ricordare come
si usano. Ed è così che l'Europa,
ma soprattutto i suoi paesi, ha
riscoperto
le
frontiere.
* * *
Inverno 2015/16
Sconfinare
6
CEUTA E MELILLA: UNA SOLUZIONE SBAGLIATA PER IL MEDITERRANEO OCCIDENTALE
Una soluzione sbagliata per il Mediterraneo occidentale.
di Guido Alberto Casanova
Oggi le principali vie migratorie di ridistribuzione dei migranti a livello numeri parlano di quasi 8000 arrivi nel
I
n un momento in cui
l'occhio europeo è puntato
sulla tempesta politica dei
migranti non bisogna perdere di
vista quello che solo pochi anni fa
era uno dei principali ingressi verso
l'Europa:
il
Mediterraneo
occidentale. Per impedire l'afflusso
di migranti subsahariani e
nordafricani, già alla fine degli anni
'90 la Spagna iniziò la costruzione
di barriere protettive attorno alle
proprie enclave marocchine di
Ceuta e Melilla, col beneplacito
dell'UE.
sono i
europeo
Balcani ed
secondo
il canale di
quote
Sicilia.
obbligatori
Ceuta e
e, oltre ad
Melilla
essere
però non
avversato
sembrano
dagli estassistere
europei, è
all'aument
stato
o
dei
affossato
numeri
anche per
migratori
merito
che si verificano in Grecia, Italia ed della Spagna, un paese la cui salute
Ungheria. Non è un caso se il progetto economica non è esattamente tedesca. I
2014 e soli 2000 nei primi tre
quadrimestri del 2015. La chiave
sembra essere stata trovata nella
cooperazione col Marocco: in cambio
di ghiotti accordi politici, economici e
commerciali, il paese maghrebino ha
accettato il ruolo di gendarme a guardia
dei confini europei sud-occidentali. Un
ruolo che sta interpretando piuttosto alla
lettera, col risultato che sempre più
migranti si dirigono verso le coste
libiche e le incertezze che al di là di
quelle li attendono.
* * *
LINE OF CONTROL: L’INFINITA DISPUTA TRA DUE SUPERPOTENZE NUCLEARI
Il Kashmir, conteso da India e Pakistan, è l’area con la più alta densità di militari al mondo.
I
di Alessandro Beghelli
l Kashmir è la regione
nordoccidentale
del
subcontinente indiano, tra il
Karakorum e i rilievi prehimalayani,
controllata per due terzi del territorio
dall’India e per il resto dal Pakistan. Il
conflitto nell’area, che dura da oltre
mezzo secolo, a lungo sottostimato e
dimenticato, vede la sua nascita al
tempo della partizione del
subcontinente indiano dopo il ritiro
della potenza coloniale britannica. Lo
Jammu, la Valle del Kashmir e il
Ladakh sono sotto controllo indiano e
vengono denominati genericamente
Jammu e Kashmir. Il Pakistan
amministra l’Azad Kashmir e i
cosiddetti Territori del Nord, il Gilgit e
il Baltisan, dove troneggiano le alte
vette della catena dell’Himalaya, Hindu
Kush e Karakoram. È l’area con la più
alta densità di presenza militare di tutto
il pianeta - più o meno un soldato ogni
otto abitanti. India e Pakistan nel corso
degli anni hanno combattuto tre guerre:
nel 1947, nel 1965 e nel 1999, oltre alla
guerra per la secessione del
Bangladesh. A causa del suo impatto
sulle relazioni tra i due paesi, il
conflitto influisce direttamente sulla
pace e la stabilità di quella regione
asiatica che contiene un quinto della
popolazione
mondiale.
La Line of Control è il nome dato alla
linea di demarcazione militare che divide
le zone del Kashmir controllate dall’India
da quelle controllate dal Pakistan.
Nonostante essa non costituisca
legalmente un confine internazionale,
svolge de facto questa funzione. La linea
fu stabilita al termine della guerra indopakistana del 1947, come linea del cessate
il fuoco dietro cui dovevano attestarsi gli
eserciti dei due belligeranti. La linea prese
il nome di Line of Control con la firma
dell'accordo di Simla del 2 luglio 1972. A
causa di un errore nell'accordo di cessate il
fuoco, la linea non copre tutta la frontiera
tra le due nazioni ma si interrompe in un
punto (indicato come NJ9842) lasciando
completamente senza demarcazione la
zona del ghiacciaio Siachen in cui, a
partire dal 1984, avvennero diversi scontri
militari, prima che un cessate il fuoco nel
novembre del 2003 ponesse fine ai
combattimenti. A partire dal 1990, l'India
ha iniziato a costruire dal suo lato della
Line ofControl una barriera di separazione,
per isolare la frontiera ed impedire
sconfinamenti ed infiltrazioni di
guerriglieri. Per questo motivo, il Pakistan
negli anni ha avanzato importanti proteste
diplomatiche alla comunità internazionale.
La barriera, completata nel 2004, copre
550 dei 740km di lunghezza della Line of
Control e consiste in recinzioni elettrificate,
sensori di movimento e telecamere
termiche, mentre la "terra di nessuno" in
mezzo alla Line ofControl è stata riempita
con
migliaia
di
mine.
Il 21 settembre 2015, una riunione dei
comandanti dell'esercito di entrambe le
fazioni ha dato vita ad un accordo per il
ridimensionamento della tensione tra India
e Pakistan. Entrambe le parti hanno
convenuto di dover dar prova di
moderazione, rispettare il cessate il fuoco
del 2003 e ridurre gli attacchi contro aree
civili. I due paesi, recentemente, hanno
raggiunto un back-channel agreement che
non debba comportare la ridefinizione dei
confini per risolvere la disputa sul
Kashmir. L’accordo comprende una
demilitarizzazione progressiva, maggiore
autonomia al territorio del Kashmir e una
maggiore circolazione delle merci e delle
persone tra le due nazioni.
Per la popolazione del Kashmir, la Line
of Control non è solo il simbolo
dell’interferenza dello Stato nella vita
sociale, ma anche un oggetto dalla forte
carica emotiva che rappresenta l'importanza
di alleanze transfrontaliere. In questo senso,
le zone situate lungo la Line of Control
rappresentano una struttura sociale in cui la
presenza militare dello stato è considerata
un simbolo di autorità, non di protezione. Il
concetto stesso di mostrare la propria forza
ai vicini è una caratteristica formante del
tessuto di fondo delle relazioni
diplomatiche tra India e Pakistan, due
superpotenze nucleari impegnate per più di
mezzo secolo in una tragica guerra troppo
spesso
dimenticata.
* * *
Inverno 2015/16
Sconfinare
7
UN MURO NEL DESERTO: BARRIERA TRA POPOLI E INTERESSI
A separare il Sahara Occidentale controllato da Rabat e quello sotto il FrontePolisario
sta una barriera di 2700km.
di Varinia Merlino
C
i troviamo tra
Mauritania, Algeria e
Marocco, dove vive
un popolo diviso tra territori
occupati, zone libere e campi
profughi. In uno di questi è
avvenuto nel 2011 il rapimento
di tre cooperanti: Rossella
Urru, Ainhoa Fernandez de
Rincon e Enric Gonyalons.
Sequestrati nel campo profughi
Saharawi di Hassi Raduni, nel
deserto
algerino
sudoccidentale, dopo 270 giorni di
prigionia vennero liberati
dietro il pagamento di un
riscatto. Fu il primo caso di
rapimento di cooperanti
occidentali in un campo
profughi
saharawi.
Si
trovavano sul luogo al servizio
di tre differenti ONG: Rossella
affiancava la Mezzaluna rossa
per verificare la qualità e la
gestione degli aiuti umanitari.
Aiuti che non cessano di
arrivare a questa popolazione,
che da anni vive in una
situazione di stallo.
La guerra combattuta si è
conclusa ventiquattro anni fa in
Sahara Occidentale, ma non si è
ancora giunti ad una soluzione.
Da quando la Spagna, nel 1975, si
è ritirata dal cosiddetto Sarah
Spagnolo, una lunga e
controversa lotta per il territorio è
in corso. Il Marocco sosteneva
che i due territori che formavano
il Sahara Spagnolo – la regione
del Saguía el-Hamra più a Nord e
il Río de Oro più a Sud – fossero
stati parte del regno del Marocco
prima di essere occupati dalle
forze di Madrid. La Corte
internazionale di giustizia
dell’Aja, però, non accolse le
richieste di Marocco e Mauritania
di spartirsi il territorio e
l’Assemblea generale dell’ONU
affermò
il
diritto
all’autodeterminazione
della
popolazione saharawi che abitava
la colonia spagnola, da esercitarsi
tramite referendum. Allo stesso
tempo, però, in un accordo
segreto il governo di Madrid
garantiva a Marocco e Mauritania
il diritto a succedergli nel
controllo e nell’amministrazione
delle due regioni.
Nell’ottobre 1975 il governo di
re Hassan II dava dunque il via
alla “Marcia Verde”, inviando
circa 350mila marocchini a
riprendersi i territori desiderati.
Nella successiva spartizione con
la Mauritania, a
Rabat andò il
controllo di tutto il
Sanguía el-Hamra
e della parte
settentrionale del
Río de Oro,
mentre il resto
della regione passò
sotto
la
giurisdizione di
Nouakchott. La
reazione della
popolazione
saharawi
fu
inevitabile e sotto
la guida del Fronte
Polisario
(movimento
indipendentista)
iniziò
il
contrattacco.
Nei primi anni di
lotte il Fonte ebbe
la meglio, tanto
che la Mauritania
si ritirò dal
conflitto nel 1979.
Ma il Marocco,
soprattutto per
consolidare
l’amministrazione e il controllo dei
territori occupati in seguito alla
Marcia Verde, a metà degli anni
Ottanta iniziò a costruire delle
barriere di sabbia e sassi. Oggi,
2.700 km di barriera dividono tutto
il Sahara Occidentale da Sud a
Nord ed entrano anche in territorio
marocchino, costituendo il confine
de facto tra le aree amministrate dal
governo di Rabat e quelle rimaste
invece sotto il controllo del Fronte
Polisario.
Lungo il muro, conosciuto anche
come Berm, ci sono migliaia di
militari che controllano il
passaggio da un fronte all’altro.
Dalla fine della sua costruzione
(1987) per il fronte saharawi è
molto difficile avvicinarglisi perché
lungo la sua totale estensione si
trova il campo minato continuo più
grande al mondo. Questa
costruzione per il Marocco ha una
funzione
strategico-difensiva,
mentre secondo il Fronte serve al
Morocco per sfruttare le miniere di
fosfati del Sarah Occidentale e la
cosa sull’Oceano Atlantico, una
delle più pescose al mondo.
Un'importante ricchezza è anche
quella dei giacimenti petroliferi
costieri, sebbene le Nazioni Unite
permettono solo la ricerca e non lo
sfruttamento fino al celebrarsi del
referendum di autodeterminazione.
Referendum, però, sempre
rinviato. Dal cessate il fuoco del
1991 si attende una votazione che
ad oggi non è ancora avvenuta. Nel
1991 la Missione delle Nazioni
Unite per il referendum in Sahara
Occidentale (Minurso), aveva il
compito di stabilire le regole e i
tempi della consultazione,
determinando chi avrebbe avuto
diritto al voto e definendo quale
sarebbero state le opzioni tra cui
scegliere. Due punti molto ardui da
districare sia per Rabat che per il
Fronte Polisario: limitare il voto ai
soli abitanti della regione secondo i
risultati del censimento condotto
nel 1974 dalla madrepatria
spagnola avrebbe significato
escludere tutti i marocchini che
negli anni, sulla spinta del governo,
si era trasferiti nelle “province
meridionali sahariane” e che,
sperava Rabat, avrebbero potuto
votare a favore dell’annessione del
Sahara Occidentale al Marocco.
D’altro canto per il Fronte Polisario
la possibilità di scegliere la
completa indipendenza rimane una
conditio sine qua non, esattamente
come escludere questa possibilità lo
è per il Marocco. Da anni si
susseguono
tentativi
di
negoziazione e compromesso senza
giungere ad un accordo.
Oggi, quindi, a dividere in due
queste terre è una barriera non solo
materiale ma ideologica tra due
popoli che sembrano non voler
scendere a compromessi. La
popolazione saharawi è costretta a
vivere in campi profughi e
dipendere completamente dagli
aiuti internazionali, che nel 2004
sono finiti anche sotto inchiesta
dell’Ufficio Antifronde della
Commissione Europea a causa
della deviazione di tonnellate di
cibo di prima necessità, per il
valore di 10 milioni all’anno, verso
l’Algeria e la Mauritania. Oltre alle
difficoltà legate alla sopravvivenza,
inoltre, c’è il rischio che tra i
giovani di questo popolo, disillusi e
senza un lavoro, possano infiltrarsi
gruppi terroristici. A rivendicare il
rapimento dei tre cooperanti nel
2011 fu infatti il gruppo dissidente
dell'AQMI, il Movimento per
l’unicità e la jihad in Africa
Occidentale.
La situazione di stallo presente
ancora oggi, dunque, non può far
altro che aggravare i problemi.
Non solo tra Marocco e il Fronte,
ma con forze esterne che
cercheranno di fomentare questo
astio in modo che la questione
rimanga
aperta.
* * *
Inverno 2015/16
Sconfinare
8
LA DESILUSIÒN AMERICANA
Storia di attimi della vita di Ty, figlio di un immigrato clandestino messicano negli Stati Uniti
T
di Alessia Sofia Giorgiutti
y veniva dall'Ohio,
abitava in Texas e gli
mancava la neve. La
mattina mi svegliavo sentendolo
parlare spagnolo con sua madre, ma
lui era un americano. Fine. “Da
dove viene la tua famiglia? Da
quale parte del Messico?”. “Noi
siamo dell’Ohio.”. “Sì, me lo hai
detto, ma da dove…”. “Veniamo
dal fottuto Ohio, capito?”. A Ty H.
non piaceva parlare di se stesso
come un messicano, come uno che
appena dice “three” si capisce
immediatamente che l'inglese non è
la sua lingua madre. Gli piaceva
andare alle quinceañeras delle
cugine, così poteva provarci con le
loro amiche più carine, ma sognava
una biondina che giocava a softball
e faceva volontariato per una delle
chiese battiste della città. Lei, dal
canto suo, temeva di rimanere
incinta se solo lui avesse avuto
modo di toccarla. Quando andava al
liceo, gli altri studenti credevano
che fosse andato a letto con almeno
un paio di ragazze, ma molto
probabilmente al tempo era ancora
vergine; la gente a scuola credeva
anche che si drogasse, ma in quel
caso non aveva tutti torti. Gli dava
“
la droga un gigantesco lepricauno
irlandese, che aveva la "roba
buona": era un esperto e non ne
faceva mistero.
Una sera, Desperado in pugno, mi
raccontò di quella volta a Tijuana:
aveva un amico bastardo che aveva
causato una rissa per una tipa di cui il
giorno dopo non si ricordava nemmeno
il nome. Si erano fumati l’inferno,
andata e ritorno, ma alla fine Ty, che poi
era pure l’amico bastardo, era finito nel
letto di una signorina con le unghie
laccate e un sedere da paura. Ovazione
generale. Il giorno dopo era senza
portafoglio. La settimana dopo aveva la
candida. Nove mesi dopo era arrivata
una lettera con foto allegata di una
neonata che avrebbe potuto essere sua
figlia. Mancava solo una sparatoria con
Los Zetas per dargli il premio come
“Sceneggiatura non originale più
scontata del secolo”. Tuttavia Ty era
stato anche un'altra volta nei pressi di
Tijuana, ma nessuno lo sapeva.
Era andato a Coronado, San Diego
per una vacanza piena di Cali-vibes
prima di mollare il college. Aveva
nuotato fino al largo, dove iniziava il
pattume marittimo messicano portato
dalla corrente: aveva aguzzato la vista e
scorto una sottile striscia di sabbia,
forse Rosarito, e aveva pensato a suo
padre, che Obama aveva rimandato in
Messico. Nel 1973, suo padre si era
detto “Vamos pal'norte!" ed era arrivato
dal deserto nel bagagliaio di un coyote
di Mexical. Si era ammazzato di lavoro
per dare un futuro a Ty; Obama invece,
tagliandolo fuori dalla legge degli "11
Millions Dreams", gli aveva dato il
foglio di via per "El bordo", il canale del
fiume Tijuana dove i deportati si
aggrovigliavano come vermi: così era
diventato un altro "cane" che guaiva
"dietro il recinto" guardando la bottega
di Ralph Lauren dall'altra parte del
confine. Ora se ne stava da qualche
parte a ridosso del muro, là, nella Zona
Norte, fra i drogati, le prostitute e la
migra con i fucili. Era nella Bordertown
degli invisibili; era dietro un Muro che
invece di crollare si rafforzava ogni
giorno: alle lamiere e alle staccionate
dell'Operaciòn Muerte del 1994 si erano
aggiunti i sensori nel terreno, le
telecamere ad infrarossi, le torrette di
guardia e il filo spinato.
Qualche ora dopo, Ty guidava verso
Imperial Beach, diretto al Border Field
State Park. Percorsa una strada
polverosa ed infinita, aveva lasciato
cinque dollari di pedaggio ad un
baracchino: infine era sceso fino alla
spiaggia, a 200 iarde da Tijuana. Il muro
si stendeva fino all'oceano per circa 300
piedi: la parte terminale, quella che si
tuffava nelle onde, non era più composta
da sezioni di lamiera o di cemento,
bensì da semplici pali posizionati a
pochi centimetri l'uno dall'altro.
Dall'altra parte c'erano due turiste
giapponesi che facevano foto alla
cortina e un gruppo di ragazzini che
giocavano con la pelota: quando la
Border Patrol si girava, il gruppo
mandava il pallone a due ragazzi oltre il
muro. Ridevano di gusto ogni volta che
ce la facevano. Si intuiva che la
frontiera fosse il reale motivo per cui
quei ragazzi erano giunti al muro. La
notte esso si sarebbe ulteriormente
popolato: i disperati indocumentados
avrebbero guardato gli agenti e gli
agenti avrebbero guardato a loro volta i
disperati indocumentados. Tutti
avrebbero aspettato il momento giusto:
chi per saltare oltre la barriera e chi per
sparare. Da qualche parte, qualcuno
avrebbe costruito altre croci di legno per
ricordare coloro che quella notte
sarebbero morti. Di tutti gli esseri
viventi, solo gli uccelli notturni
avrebbero potuto attraversare la
frontiera senza bagnarsi di sangue. Nel
vento, infatti, non vi erano, nè mai ci
sarebbero stati, documenti da richiedere
o muri da scavalcare. Nel vento, gli
uccelli sarebbero stati gli unici a volare
liberi.
***
STREET ART: UN MURO PER DIFENDERSI DAL CONFORMISMO
Non soltanto graffiti. Quando l’arte non si ammira al museo, ma si vive per strada
di Fabiola Piamarta
Le strade sono il
più
grande
museo a cielo
aperto del mondo. Vi si ha
accesso gratuitamente, gli artisti
convivono e si confrontano, le
opere si giudicano per il loro
impatto estetico e la loro forza
comunicativa”.
Queste parole, del duo di street
artist italiani Wally e Alita, in
arte Orticanoodles, spiegano alla
perfezione quella che è la street
art: una corrente artistica che si
esprime in varie e originali
manifestazioni e che si serve di
spazi aperti, strade e soprattutto
di muri. Gli artisti utilizzano
tecniche diverse quali poster,
sticker, stencil, installazioni,
performance, spray, marker,
gessi, carboni, lapis, proiezioni
video e molto altro. Non si tratta,
quindi, soltanto dei famosi
graffiti, ma di un intero universo
espressivo che fa delle città
enormi mostre a cielo aperto.
JR, ad esempio, è un artista
francese, o meglio un
“photograffeu”, che si serve di
pannelli impermeabili: ricopre i
muri, spesso quelli delle favelas, di
foto di volti in bianco e nero, per
parlare di “impegno, libertà, identità
e limiti”. Diverse sono invece le
opere di Obey, artista italiano che
ricopre muri e oggetti tipicamente
urbani
come
lampioni o cestini
con sticker recanti
l’imperativo
“OBBEDISCI”.
Negli adesivi vede
un mezzo “per far
reagire le persone”:
crede che nel
momento in cui
queste si chiederanno
cosa è quella scritta,
cosa rappresenta,
inizieranno a mettere
in discussione anche
tutti gli altri simboli. Altro artista
molto conosciuto, soprattutto sul
web, è Banksy, artista inglese che
con la tecnica degli stencil realizza
opere di “guerrilla art”: immagini di
provocazione urbana a sfondo
satirico, che molto spesso
denunciano multinazionali e
consumismo.
Questi tre diversi artisti dagli stili e
gli strumenti tanto diversi hanno in
comune, oltre all’impegno sociale, il
fatto di voler esporre le proprie
opere alla massa, che è il loro
numerosissimo pubblico. Sono
artisti che vogliono lanciare dei
messaggi e delle idee che facciano
poi
nascere
riflessioni
e
domande. Lo stesso
JR diceva infatti in
un’intervista:
“Vorrei portare l’arte
in
luoghi
improbabili, creare
progetti di così
grande impatto che
le persone che li
vedono siano poi
costrette a porsi
delle domande”.
Opere
che
costringano a osservare, a fermarsi,
a interrogarsi. Opere che nascono
per vari motivi e con diversi
significati: sovvertire l’idea che si ha
di “opera d’arte bella”, ma anche
criticare un sistema che vuole
vedere i muri coperti soltanto di
pubblicità. È un’arte nuova, di
denuncia, che si rivolge alle persone
parlando di “oggetti, miti e linguaggi
della società dei consumi”: un’arte
spesso
anonima
rivolta,
coerentemente, ad una massa che
non ha volto.
Un tipo di corrente, la street art,
che ha scelto sia il luogo
d’esposizione migliore sia i mezzi
più chiari e diretti per esprimere il
suo messaggio. Le persone sono
circondate da muri e pareti tutti i
giorni, ci camminano a fianco, ci
passano sopra il palmo della mano,
ci sbattono contro, li scavalcano e li
demoliscono, a volte per sempre, a
volte per costruirne altri. Ma un
muro può anche essere tanto altro, e
gli street artist ce lo dimostrano ogni
giorno, dovunque. Lo stesso
Banksy, con ogni probabilità il più
famoso artista di strada al mondo, in
un’intervista rispondeva “[le
compagnie pubblicitarie] si credono
capaci di strillare i loro messaggi
sulle nostre facce da ogni superficie
disponibile, ma a noi non è
permesso dare risposte. Hanno
intrapreso la sfida e il muro è l’arma
che abbiamo scelto per difenderci.”
* * *
Inverno 2015/16
9
Sconfinare
LA “CORTINA DI FERRO” DEL SUD­EST ASIATICO
E
C’è una parte del mondo dove la Guerra Fredda non è mai finita: la barriera tra le due Coree
di Arianna Orlando
siste una barriera tra
due nazioni che, per
certi versi, possono far
pensare alle due Germanie: è
quella costruita tra la Corea del
Nord e la Corea del Sud. La
prima, definita da Terzani
“l’incubo della società totalitaria
di Orwell fatto realtà”, è la
nazione più isolata del mondo,
mentre la seconda rientra di
diritto tra i paesi più moderni e
tecnologici.
La divisione della penisola
coreana in due all'altezza del 38°
parallelo Nord si protrae da più di
sessant’anni. Risale agli anni
immediatamente successivi alla
Seconda Guerra Mondiale, nel
contesto della Guerra Fredda. La
linea fu stabilita in corrispondenza
del confine tra i due Stati
dall’armistizio che il 27 luglio 1953
portò alla conclusione della Guerra
di Corea. Unione Sovietica e Stati
Uniti delimitarono le loro zone
d’influenza creando un'area
smilitarizzata che sopravvive ancora
oggi e,
nonostante la
denominazione, è uno dei luoghi
con la maggior presenza militare al
mondo. La Zona Demilitarizzata
Coreana (ZDC) è una striscia di terra
lunga circa 246 chilometri che
divide 122 villaggi, 240 strade,
molteplici ferrovie e soprattutto
milioni di persone. Tale terra di
nessuno, detta anche “zona
cuscinetto”, è larga circa 4 chilometri
e venne a crearsi quando le due parti
in guerra fecero arretrare le truppe di
2.000 metri dalla Linea di
demarcazione militare coreana.
Quest’ultima corrisponde al vero e
proprio muro che divide i due Stati e
indica la posizione del fronte al
momento dell’armistizio. E’
importante sottolineare che la zona
di separazione, oltre ad essere
centralmente attraversata da questa
barriera fisica, è delimitata da alti
sbarramenti di filo spinato che
costituiscono i confini delle due
nazioni, sorvegliata da oltre 1.000
posti di guardia controllati da 2
milioni di soldati (37 mila dei quali
americani), disseminata di mine
antiuomo e monitorata grazie a
sofisticatissimi apparecchi come il
Kinect, un dispositivo in grado di
distinguere persone, animali e
oggetti rilevando battiti cardiaci e
fonti
di
calore.
Dunque, le due Coree si
inseriscono nella spiacevole lista
composta dai Paesi che hanno scelto
di definire il proprio territorio con
una barriera simbolo di ostilità e
discordia. Ufficialmente le due
nazioni sono ancora in guerra poiché
quello del 1953 fu soltanto un
semplice armistizio, non un trattato
di
pace.
Quali sono state, però, le cause
storico-politiche che hanno portato
ad una scissione così netta e
difficilmente revocabile della
penisola?La Corea fu per secoli uno
stato vassallo dell’Impero Cinese,
ma a seguito della Prima guerra
sino-giapponese, la Cina dovette
riconoscerne l’indipendenza. Dopo
il dominio giapponese, la Seconda
Guerra Mondiale e il conflitto
coreano, i sovietici iniziarono ad
influenzare il Nord della penisola e
lo affidarono al dittatore comunista
Kim Il-sung, mentre il Sud divenne
filo-statunitense. Tale divisione, sia
materiale
che
ideologica,
rappresenta da allora la matrice delle
radicali differenze tra Corea del
Nord
e
del
Sud.
Attualmente la discrepanza più
tangibile tra questi due mondi è di
tipologia politico-economica. La
Corea del Nord, ufficialmente
denominata
“Repubblica
Democratica Popolare di Corea”, è
uno Stato autoritario governato da
una dittatura e fondato sull’ideologia
juche, caratterizzata da ideali quali
comunismo, totalitarismo e
isolazionismo. Essa venne teorizzata
da Kim Il-sung, “Presidente Eterno
della Repubblica” dal 1994 e nonno
dell’attuale dittatore Kim Jong-un, in
carica dal 2011. La Corea del Sud,
invece, è una democrazia
semipresidenziale, formalmente
conosciuta come “Repubblica di
Corea”. Dal punto di vista
economico, se fino agli Anni
Settanta l’economia nordcoreana era
più avanzata di quella sudcoreana,
oggi la situazione è nettamente
rovesciata. È sufficiente guardare
una foto satellitare della penisola per
rendersi conto del colossale divario
tra le due Coree. Il Nord è tetro,
simile ad un deserto. Le luci del Sud,
invece, sono il simbolo del recente
balzo economico. A tal proposito
l’Economist ha scritto from barefoot
to broadband, ossia “dai piedi nudi
alla banda larga”, espressione che
indica il passaggio dall’arretratezza
al titolo di primo Paese al mondo per
connessioni internet a banda larga.
Dall’altra parte della “cortina di
ferro”, invece, si trova un paese
ancora estremamente povero e
isolato,
dove
l’attività
imprenditoriale privata e il possesso
di una casa sono proibiti. Il reddito
medio della Corea del Nord è 15
volte inferiore a quello della Corea
del
Sud.
Ciò nonostante, il muro
maggiormente solido ed inamovibile
è quello che separa la nazione in cui
diritto allo studio e tutela delle libertà
personali sono fondamentali da
quella dove il livello di rispetto dei
diritti umani è uno dei più bassi del
mondo, secondo Human Rights
Watch e Amnesty International. In
Corea del Nord il controllo dello
Stato sulla vita dei cittadini è molto
serrato: possedere una semplice
radio è reato, le persone vengono
condannate a morte frequentemente
per reati politici e sono attivi diversi
campi di internamento per gli
oppositori del regime.
Tuttavia, talvolta s’intravedono
spiragli di luce oltre il muro. Il 20
ottobre 2015 novanta sudcoreani
hanno potuto incontrare per la prima
volta i loro familiari nordcoreani, da
cui si erano separati dopo la fine
della guerra tra le due Coree.
L’incontro è stato possibile grazie ad
un accordo raggiunto a settembre tra
i governi di Seoul e Pyongyang.
Segno che una collaborazione, se
ricercata,
è
possibile.
* * *
PEACE LINES: L’ABBATTIMENTO DELLE BARRIERE IRLANDESI
Ora, forse, le Peace Lines che dividono le città irlandesi vanno verso lo smantellamento.
degli irlandesi cattolici, questi muri che personali, è ancora della politica nazionale le acque
di Viola Serena Stefanello
continuarono ad essere costruiti dolorosamente vivo nella memoria hanno cominciato a muoversi in
a Belfast, Derry e comune. Nonostante ciò, il Belfast questa direzione. L'ex primo
ra il 1969 al 16 soprattutto
Portadown nel tentativo di City Council ha cominciato a ministro dell'Irlanda del Nord, il
Settembre 2011, oltre raffreddare gli animi anche ben dopo vagliare delle soluzioni concrete per protestante Peter Robinson, nel 2011
90 barriere di metallo la firma dell'accordo del 10 Aprile demolizione dei muri entro il ha dichiarato che la demolizione
e cemento o reticolati di filo 1998 che pose fine ai trent'anni di la2023.
Allo stesso tempo, diverse delle barriere è propedeutica per
spinato sono stati costruiti nella conflitti interni conosciuti come "the comunità locali hanno deciso di affrontare la piaga del razzismo e di
sola Belfast, a dividere Troubles".
collaborare attivamente avviando altre forme di intolleranza, per
A
partire
dal
2008
ha
cominciato
a
nettamente i quartieri cattolici svilupparsi, nell'opinione pubblica degli esperimenti di apertura plasmare una società coesa in grado
avanti.
da quelli protestanti. Si tratta irlandese, un dibattito sulla volontaria, sostenute anche di La andare
strada
verso
una
economicamente
dall'
I
nternational
delle "Peace Lines" e sono possibilità di abbattere queste Fund
riconciliazione,
ci
si
augura
priva
for
Ireland.
diffuse in tutta l'Irlanda del strutture, che simbolizzano tutt'oggi Chiaramente, anche nel mondo scontri, è quindi stata imboccata.di
Nord, costruite per minimizzare il profondo sospetto che continua a
Sono tempi lontani da quando
gli scontri tra nazionalisti scorrere nella società irlandese. Un
Michael McConnell scriveva la sua
irlandesi,
principalmente sondaggio tenutosi nella capitale nel
Only Our Rivers Run Free: "I
cattolici, e unionisti, in gran 2011 ha però dimostrato che il 69%
wander her hills and her valleys /
dei residenti sono ancora convinti
And still through my sorrow I see /
parte protestanti.
A land that has never known
Pensati come strutture temporanee dell'utilità delle Peace Lines, in
freedom /And only her rivers run
a partire dall'Agosto del 1969, quanto a loro parere vi è ancora la
free."
quando cominciò il ciclo di rivolte possibilità che la violenza politica
scaturito dalla campagna per i diritti rinasca dalle proprie ceneri: il
* * *
civili e per la non-discriminazione ricordo delle tragedie, sia nazionali
T
Sconfinare
MURO COME FRONTIERA: IL LIMES ROMANO
10
N
Alla riscoperta di quei muri che hanno protetto l’Impero Romano
ell'immaginario
collettivo, pensando
al limes dell'Impero
romano viene in mente un muro
massiccio, presidiato da legionari
in tenuta da guerra e
continuamente all'erta. Dall'altra
parte, dei barbari assetati di
sangue pronti a fare terra bruciata
dei territori civilizzati romani, se
solo non ci fosse quel muro a
fermarli, e a dimostrare allo
stesso
tempo Andrea
la grandezza
foto di Veronica
Sauchellidi
Roma. Quasi una “cortina di
ferro” ante litteram. La situazione
all’epoca era tuttavia più
complessa e diversificata da
provincia a provincia.Innanzitutto
la parola latina limes stava ad
indicare il confine, la frontiera,
non necessariamente fortificata,
oltre alle strade militari che in età
tarda costeggiavano addirittura
l'intera regione. I Romani
interpretavano questo limes come
qualcosa di mobile, anche
quando in età imperiale
cominciarono a costruirvi dei
muri di delimitazione.
Esempio sono i tre diversi
valli edificati tra il I e il II
secolo d.C. in Britannia: il più
antico, e di recentissima
scoperta, è quello del Gask
Ridge, ordinato dal governatore
Giulio Agricola tra il 79 e l'83
d.C., abbandonato però poco
dopo. Il secondo, nonché il più
famoso, il vallo di Adriano, è
stato voluto dall'omonimo
imperatore nel 122: lungo 118
km, dall'attuale Newcastle al
Golfo di Solway, andava a
tagliare da parte a parte
l'Inghilterra. Il terzo in ordine
di tempo è quello di Antonino
Pio, costruito nel 142 circa un
centinaio di chilometri a nord,
e che puntava a una migliore
difendibilità perché lungo
soltanto 60 km. Tutti e tre
comunque vennero concepiti
per fermare la spinta delle tribù
indigene dei caledoni, i
cosiddetti Pitti, che mai
accettarono di scendere a patti
coi Romani. Queste opere,
specialmente il Vallo di
Adriano,
furono
così
significative ed importanti per
la storia dell'isola che andarono
ad influenzare diversi aspetti
della società come la lingua
(l'inglese wall deriva da lì), la
religione
(molte
pietre
provenienti dal muro vennero in
seguito considerate sacre) e la
percezione stessa dei Pitti nei
confronti
dell'Impero,
suscitando ammirazione per gli
odiati
invasori.
Altro limes fondamentale per
Roma, e fortificato per larga
parte in età imperiale sempre
dal prudente Adriano, era
quello germanico-retico, un
immenso sistema di forti,
palizzate e torri di guardia che
andava a chiudere il confine tra
i fiumi Reno e Danubio, per
una lunghezza totale di 548
km.Questo muro, a differenza
dei
valli
britannici,
rappresentava la capacità di
Roma di fondersi con i popoli
vicini, creando una vera e
propria civiltà di confine.
Nonostante la soluzione bellica
e quella della deportazione
fossero sempre valide e pronte
ad essere utilizzate nei
confronti delle tribù riottose,
I MURI LIQUIDI DELLA DISCRIMINAZIONE
Inverno 2015/16
di Nicolò Brugnera
esse comportavano anche una
vasta gamma di soluzioni
diplomatiche: trattati di
alleanza
militare,
varie
gradazioni di autonomia locale,
concessione di terreni e di
cittadinanza per le tribù e le
città considerate strategiche.
Anche molti imperatori si
fecero le ossa amministrando
province del limes, prendendo
poi il potere con legioni “miste”
formate tra i barbari di quei
territori:
quello
dell'arruolamento era infatti un
altro sistema utilizzato da Roma
per inglobare le popolazioni
indigene.Questo fu il caso
anche di Settimio Severo,
ideatore del poco conosciuto
Limes Tripolitanus nel 193: un
sistema di fortificazioni in Libia
per contenere le scorrerie dei
garamanti, predoni del deserto
sahariano mai domi nei
confronti di Roma, che non
conobbero mai il livello di
integrazione delle province
nordeuropee.
Tutti
questi
muri
simbolizzano la visione che i
Romani avevano di tali
strutture: sì difensiva e di
controllo, ma con un'apertura
mentale oltre che fisica,
rappresentata dalle porte
sempre presenti verso le
popolazioni al di là del muro.
* * *
In una società sempre più “liquida”, sarebbe bene che le barriere mentali venissero abbattute una volta per tutte
O
di Alessandro Venti
ttobre 2014, Italia. Una
manifestazione in cui si
scontrano i sostenitori e gli
oppositori del ddl Scalfarotto
sull’omofobia. Interviene la polizia che
si inserisce tra l’una e l’altra fazione per
evitare degenerazioni in potenziali atti
di violenza. Un muro umano di gilet
catarifrangenti e manganelli. Nella
stessa piazza un megafono scandisce le
rivendicazioni degli uni, mentre gli altri
rispondono a coro. Nessuno ascolta. Ci
concediamo la licenza poetica di
chiamarlo “muro del suono”.
Ora, invece, facciamo un salto indietro al
1969, giugno, New York. Mi spiace,
neanche stavolta sono notizie allegre: ci
troviamo in un locale, lo “Stonewall Inn”,
neanche troppo in. Una sera come un’altra,
la solita retata della polizia per catturare “le
checche dello Stonewall”. Stavolta però
qualcuno reagisce, forse Sylvia Rivera,
attivista transgender, innescando una
reazione a catena che porta poliziotti ed
avventori a barricarsi gli uni nel locale e gli
altri all’esterno, simulando un vero e
proprio assedio, completo di ariete, che si
racconta fosse un parchimetro della zona.
In mezzo: le mura dello Stonewall. Il fatto
che il locale si chiami così mi offre un
pretesto divertente per includere l’episodio
in questo articolo. Anche se, considerata
l’importanza degli Stonewall Riots,
precursori dei moderni Gay Pride, un
modo per includerli nel pezzo lo avrei
trovato comunque.
Ma ora torniamo ai giorni nostri. Siamo
a luglio a Homs, in Siria, un’altra tragedia
del terrorismo. I morti questa volta sono
due, gettati da un tetto per poi essere
lapidati dalla folla. Un video a testimoniare
tutto questo: la regia, ancora una volta,
dell’ISIS. I due erano sospettati di essere
omosessuali. Gli astanti hanno dei volti
insofferenti quando lanciano le pietre, i
bambini non piangono, sembra quasi che il
sangue dei due (forse) gay non sgorghi, che
non siano caduti e che le pietre siano
lanciate per una partita di bocce. Ci
dev’essere forse un muro invisibile, che
distorce la percezione degli esecutori di un
omicidio che ci è difficile interpretare se
non leggendo in esso le tinte buie di odio e
discriminazione.
Un elemento comune a questi episodi?
Tutti ci offrono delle interessanti
suggestioni circa gli avvenimenti che
riguardano da vicino la questione del
dialogo tra la comunità LGBTQ (Lesbian,
Gay, Bisexual, Transgender, Queer) ed il
resto della società. Ripensando a questi fatti
ci si rende conto per davvero del fatto che
“muro” non è solo “struttura edilizia
parallelepipeda avente le due dimensioni
d’altezza e larghezza notevolmente
prevalenti rispetto alla terza dimensione”,
come riportato nell’Enciclopedia Treccani.
“Muro” sono i parchimetri e le pistole, sono
le pietre lanciate da ed ai nostri fratelli
siriani, è il bisogno di utilizzare manganelli
per mantenere l’ordine nelle piazze. Un
muro che io, per adesso, chiamerei “ci
siamo dimenticati che siamo tutti esseri
umani”.
Abbiamo quindi intuito che di muri ce ne
sono di diversi, fisici e non. Molti sono stati
abbattuti, parecchi sono ancora in piedi,
altri in via di costruzione. D’altro canto,
osserviamo una tendenza sempre più
comune in tempi recenti: di pari passo
rispetto alla graduale trasformazione della
società che sembra destinata a diventare
“liquida”, così afferma Zygmunt Bauman,
ci accorgiamo anche di come i muri con cui
ci confrontiamo oggi sono essi stessi
sempre meno fisici, meno concreti. Sì,
fluidi, forse, sfuggenti e talvolta invisibili,
ma non per questo meno solidi. Anzi, forse
proprio perché non li vediamo, facciamo
fatica ad individuarli, nei nostri
atteggiamenti, nei nostri pensieri e
soprattutto negli stereotipi. L’uomo del
ventunesimo secolo si deve confrontare
quindi con una missione ardua da portare a
termine, soprattutto perché non basteranno
delle ruspe ad aprire un varco: stavolta
saranno necessari tempo e volontà politica,
ma anche la partecipazione e la
disponibilità al dialogo da parte di tutte le
parti in causa. Le pietre non dovranno
essere impilate per costruire barriere, non
dovranno essere scagliate contro altri
uomini per uccidere, dovranno invece
comporre ponti che uniscano persone,
culture ed identità diverse.
Un’ultima suggestione, che pare più un
paradosso. Generalmente ci riferiamo al
concetto di progresso come ad una pars
construens, che quindi si installa su una
base già consolidata, tendendo a crescere,
verso l’alto (“upgrade” appunto). Nel XXI
secolo, forse, dovremmo riconsiderare
questa concezione del progresso e
ricalcolare il percorso della società. E
sempre nel XXI secolo, forse, è giunto il
momento di distruggerli, questi muri.
* * *
“
Inverno 2015/16
Sconfinare
11
GREAT FIREWALL: COME IL GOVERNO CINESE HA CATTURATO IL "CALABRONE INTERNET"
Come funziona il Golden Shiel Project del Governo di Pechino e perché i cittadini non vi si ribellano?
di Barbara Polin
Se apri una finestra
per avere un po’
d’aria fresca, ti
devi aspettare che entri qualche
mosca”: così, negli anni Ottanta, il
leader cinese Deng Xiaoping
sintetizzava quello che sarebbe stato
il rapporto tra la Cina e il resto del
mondo. Se infatti era gradita come
aria fresca la libertà economica e gli
investimenti stranieri, meno lo erano
le mosche dell’Occidente, quali i
diritti politici o la libertà
d’espressione, capaci di infettare
l’ideologia del partito comunista e di
minarne la stabilità. Da qui, un
sistema di censura capillare e
sistematico, alla cui azione
repressiva si è unita la forza
propositiva della propaganda di
Stato. A metà degli anni ’90, tuttavia,
ha iniziato a ronzare, davanti a
quella che è stata la finestra di Mao,
una presenza ben più minacciosa di
una mosca della democrazia o dei
diritti umani: il calabrone Internet,
troppo grande e rumoroso per poter
essere
schiacciato
senza
conseguenze, ma, se intrappolato
all’interno di un barattolo di vetro,
sfruttabile come via di
stabilizzazione del potere comunista.
Il barattolo di vetro in cui si trova
rinchiusa Internet è il “Golden Shield
Project”, un progetto di censura e
sorveglianza realizzato con l’obiettivo di
bloccare contenuti indesiderati al
governo, la cui portata tanto estesa lo fa
conoscere come Great Firewall of
China, in omaggio alla Grande
Muraglia Cinese. I suoi mattoni sono
fatti da firewall e da server proxy,
ovvero server che indirizzano le
comunicazioni degli utenti ad altri
dispositivi. La malta che incolla i
mattoni fra di loro, impedendo a chi ci è
rinchiuso di spostarli e sbirciare fuori, ha
varie componenti: il meccanismo DNS
poisoning è la calce, e consiste
nell’impostare uno o più server a dare
risultati di ricerca errati quando un
utente cerca un determinato sito web, ad
esempio Facebook o Youtube.
L’HTTPS hijacking è l’acqua, che serve
a dirottare dati criptati, e le parole
proibite sono la sabbia. La libertà in
genere è pesantemente monitorata, e
qualsiasi sito che, anche casualmente,
inizi con “free”, è destinato a non essere
raggiunto dagli utenti.
Tuttavia, Pechino ha intuito che
rinchiudere 477 milioni di utenti
all’interno di un recinto spoglio, al di
fuori del quale si estende un giardino di
delizie interattive, sarebbe stato un’altra
Tienanmen: ha quindi optato per la
costruzione di un Internet parallelo a
quello occidentale, le cui componenti
sono progettate per filtrare contenuti che
possano turbare la coscienza socialista
del popolo cinese, come nel caso di
Baidu, motore di ricerca equivalente a
Google.
Nella Repubblica popolare, i cinesi
sono dunque utenti, non cittadini
digitali, ma per quanto quest’idea abbia
ancora qualche adepto, non è neppure
certo che desiderino diventarlo: agli
albori di internet, molti sostenevano che
l’inevitabile flusso di informazioni che
ne sarebbe seguito avrebbe fatto da
catalizzatore in un processo di
democratizzazione per paesi illiberali
come la Cina. Eppure, a tutt’oggi, da
dietro il muro, non si sente rumore di
picconi. Il cittadino medio cinese
possiede infatti tutto quello che un suo
equivalente occidentale smania per
avere sul proprio cellulare, da Youku
Toudu per vedere i video demenziali ad
Alì Babà per farsi recapitare a casa il
televisore nuovo. Tanta disponibilità
materiale è da confrontarsi con il rischio
di essere “walled”, cioè arrestati e fatti
ritirare dal consesso della società civile e
digitale, se scoperti a cercare di
oltrepassare il muro alla ricerca di
materiale per riempire i vuoti storici e i
danni politici.
Il rischio si fa concreto, e quindi
meno affascinante, anche per il fatto che
è possibile oltrepassare il Great Firewall
attraverso l’uso delle VPN, ovvero le
reti virtuali private, connesse a un server
che può essere posizionato in qualsiasi
Stato, che solitamente trasmettono dati
criptati per la sicurezza dell’utente, così
come è possibile essere scoperti e
arrestati come “nemici del popolo”.
L’esistenza di pertiche per il salto, come
le VPN o i proxy server indipendenti,
non sono però premesse per il crollo del
Great Firewall: il partito ha impiegato
l’equivalente di un miliardo e mezzo di
dollari per costruire l’emulazione
informatica della Grande Muraglia, e
continua tutt’ora a investire nel suo
continuo consolidamento. Inoltre, per
quanto lo stesso Partito sia attraversato
da correnti contrarie alla censura, e
nonostante i programmatori del Great
Firewall stipendiati dal governo, e la
stessa ricca tecnologia cinese in cui sono
stati allevati soffrano dell’ombra del
Muro e del suo peso, nessuna
opposizione politica ed economica è
stata ispirata dal vento della libertà
d’espressione. I cittadini, che potrebbero
espugnare la Città Proibita e far crollare
di conseguenza il muro, sono impegnati
a ordinare sul sito web del loro ristorante
preferito il piatto caldo del giorno. Il
calabrone, intanto, continua a scontrarsi
con il vetro.
***
“THE WALL”, PINK FLOYD: COSTRUZIONE DI UN CAPOLAVORO
E
Cosa sta dietro a uno dei grandi successi della band britannica che ha rivoluzionato il rock.
sistono barriere e barriere.
Architettoniche, mentali,
naturali, fisiche. Barriere
che si innalzano e altre che vengono
demolite.
Esistono
barriere
insormontabili e altre che solo
apparentemente sembrano tali.“The
Wall” le racchiude un po’ tutte e le
demolisce a suon di chitarre, voci e
pelle d’oca.
È la storia di Pink (personaggio
inventato ricollegabile a Roger Waters e,
in parte, a Syd Barrett, voce e chitarra dei
Pink Floyd fino al 1968), rockstar che
con il passare del tempo crea un muro
psicologico dietro al quale si chiude,
spersonalizzandosi e arrivando
progressivamente a una malinconica
infermità mentale. Le difficoltà vengono
simbolicamente rappresentate come una
serie di mattoni a costruzione di quella
barriera che lo allontanerà dalla realtà,
portandolo al completo isolamento. Nel
disco si ripercorrono le principali tappe
della vita di Pink, dai problemi scolastici
e familiari (“One Of My Turns”) allo
stress fisico e psicologico causato dalla
vita da rockstar, diviso tra un manager
che lo troverà in uno stato catatonico e lo
spingerà sul palco (“Comfortably
Numb”), i fan e, allo stesso tempo, in
balìa della solitudine (“Nobody Home”)
che lo porterà ad aprire un vero e proprio
processo mentale di analisi della propria
vita, rappresentato dal brano “The Trial”,
in cui le figure ingombranti della sua vita
sono chiamate a testimoniare. A
conclusione del processo, il giudice
decreta l’abbattimento del muro,
simbolo dell’alienazione. Le vicende del
protagonista, però, sono soltanto la
trasposizione musicale di qualcosa di
reale.
Pubblicato il 30 Novembre 1979,
l’album, composto da due dischi e
ventisei brani, racchiude diversi
avvenimenti che hanno reso
protagonista la band di Roger Waters,
David Gilmour, Richard Wright e Nick
Mason. La genesi del disco è infatti da
ricercare in una serie di episodi di
qualche anno prima, nel 1977, durante il
tour del concept album “Animals”.
Dopo i primi anni Settanta di
partecipazione del pubblico ai concerti in
religioso silenzio, inizia il periodo degli
stadi, affollati da migliaia di spettatori
che si accalcano sulle transenne, cantano
insieme agli artisti e diventano un’unica,
indistinta massa, percepita dal palco
quasi con timore. Waters raccontò del
clima snervante generato dal tour e del
senso di distacco provato nei confronti
del pubblico, tanto da arrivare, durante la
tappa di Montreal, a sputare
letteralmente sul pubblico della prima
fila, infastidito dall’eccesso di
schiamazzi. Un gesto da cui scaturì una
vera e propria catarsi creativa sfociata
nell’idea di un nuovo concept, quello
dell’incomunicabilità tra artista e
pubblico: il muro, per l’appunto. Il
bassista percepì l’idea del rapporto
musicista – massa come quello tra un
dittatore e il popolo da lui controllato.
A ciò si aggiunse il non indifferente
buco finanziario della società di
intermediazione a cui la band si era
rivolta per gestire i ripetuti problemi con
il fisco inglese. Come se non bastasse,
dopo la chiusura del tour del ’77, Waters
si trovò ad essere l’unica, vera anima
creativa, essendo gli altri componenti
impegnati in progetti solisti o dediti ad
altre passioni. Infatti, nonostante la
tensione derivante dall’impegnativo
tour, il bassista si trovò catapultato in un
periodo di grande produttività,
influenzato dalle numerose vicende
personali, oltre che legate alla band: la
prematura morte, in guerra, del padre,
una madre iperprotettiva, la rigida e
autoritaria educazione scolastica, fino ad
arrivare allo stressante divorzio.
Il risultato? Nonostante l’iniziale
demo lontana dal risultato finale,
nonostante la perplessità di David
Gilmour rispetto all’intero progetto,
nonostante l’inquietudine di Waters che
di Giulia Calibeo
mette a dura prova l’ascoltatore, il
singolo “Another Brick in the Wall”,
pubblicato una settimana prima
dell’uscita dell’album, raggiunse il primo
posto in tutto il mondo e fu bandito, peril
messaggio antiautoritario (“We don't
need no education. We don't need no
thought control”), dai regimi del
Sudafrica e della Corea del Nord. Trenta
milioni di copie è la stima delle vendite
attuali. “The Wall” è la sintesi perfetta
della qualità del suono derivante da acuta
professionalità tecnologica, cura
minuziosa degli arrangiamenti, potenza
evocativa dei disegni di copertina a cura
di Gerald Scarfe, già collaboratore della
band, ritorno alla forma – canzone
tradizionale, cara a Waters, con il ruolo
centrale degli arrangiamenti orchestrali,
dinamiche narrative complesse
supportate da testi brevi, spesso semplici,
l’innesto di voci, rombi d’aereo, pianti e
sussurri fuori campo che scandiscono il
ritmo del susseguirsi dei brani.“The
Wall” è molto più che un album; è
l’adattamento discografico di una vita, di
qualsiasi vita, tanto che si apre a
molteplici livelli di interpretazione
personale; è la creazione e, allo stesso
tempo, la demolizione del muro più
pericoloso che ci sia: quello mentale.
***
12
PIETRE DI MEMORIA
Sconfinare
Inverno 2015/16
Per molti “Muro del Pianto”. La storia di ciò che rimane dell’antico Tempio di Gerusalemme
K
di Paola Pellegrino
otel, muro, è ciò che
rimane dei quattro muri
di sostegno del Tempio
di Gerusalemme, costruiti intorno al
20 a.C. In particolare era il muro che
reggeva la piazza sacrale da occidente
in seguito all’ampliamento voluto da
Erode il Grande. Volendo farsi
accettare come sovrano di quella
Giudea che dal 37 a.C. era sotto la sua
giurisdizione
e
conscio
dell’importanza e del valore
simbolico che il santuario rivestiva
per gli israeliti, Erode decise infatti di
dare avvio ad una delle più imponenti
opere urbanistiche del suo tempo.
Colmò i fossati alzando valli e
livellando la roccia tagliò il monte che
sorgeva a nord-ovest incastonandovi
un’enorme spianata, l’odierna al-Haram
al-Sharif, per permettere a tutti i goyim, i
gentili, di salire al Monte del Tempio
senza entrare nel recito sacro, permesso
solo agli ebrei. Cronache dell’epoca
narrano che il rinnovato tempio giunse a
vantare una magnificenza tale da
superare persino il tempio di Davide,
costruito dal figlio Salomone, e simbolo
dell’alleanza tra Dio e gli uomini. I lavori
si conclusero nel 64 d.C., ma solamente
sei anni dopo le truppe comandante da
Tito, rotto l’assedio, varcarono le mura di
Gerusalemme e nell’impazzare della
battaglia diedero fuoco al tempio. Le
fiamme si portarono via non soltanto il
centro della fede, ma il fulcro della vita
sociale e culturale, e con esso l’intero
sistema comunitario e legislativo.
Con la ribellione del 132 d.C. gli ebrei
“
vennero definitivamente espulsi dalla
Giudea e fu loro impedito di recarsi in
preghiera presso le rovine del tempio,
mentre Gerusalemme prese il nome di
Aelia
Capitolina.
Durante l’epoca bizantina vennero
accumulate macerie e rifiuti nell’area del
tempio, ma il muro occidentale si
preservò diventando, nelle epoche
successive, base e contrafforte per nuovi
edifici che andavano via via edificandosi
e che finirono per inglobarlo quasi
completamente.
All’inizio del VIII secolo si diffuse una
nuova esegesi della diciassettesima sura
del Corano, che identificava la spianata
come luogo dove sorgeva “il tempio più
remoto” al quale giunse Maometto
durante il miracoloso viaggio notturno. Il
muro occidentale acquisì allora un nuovo
significato: venne ribattezzato stalla di
Buraq, perché proprio lì, secondo la
tradizione, il Profeta vi aveva legato il
suo destriero alato Buraq.
La dicitura muro del pianto, diffusa tra
i non-ebrei, è invece imprecisa e fa
probabilmente riferimento al modo di
pregare nei pressi di esso, oscillando il
capo e appoggiandolo alle pietre. Con la
nascita di Israele e l’immediato conflitto
che scaturì con i Paesi limitrofi
Gerusalemme Est passò sotto il dominio
Giordano e agli ebrei venne nuovamente
vietato di recarsi nel Luogo Santo. Il
diritto alla preghiera venne riacquisito
solamente il 7 giugno 1967 quando la
città venne riunificata sotto controllo
israeliano.
Oggi davanti al muro si apre un grande
piazzale e le fenditure dell’antico
basamento sono colme di desideri,
preghiere e speranze lasciate da fedeli
provenienti da ogni parte del mondo.
Dopo quasi duemila anni, quella spoglia
roccia non ha perso il suo significato e la
cicatrice della distruzione del tempio
rimane, vivida e pulsante, nella memoria
religiosa ebraica. Un segno che si fa
sentire nei giorni di dolore come in quelli
di gioia: è presente nella frantumazione
del calice e nel giuramento dello sposo
sotto il baldacchino nuziale, nei saluti
della gente durante le festività di kippur e
pesach, nella parete lasciata senza
intonaco nelle case, nel lutto e nel
digiuno nel giorno di Tisha b’Av.
Paradossalmente è proprio questa infelice
memoria che ha permesso all’ebraismo
di sopravvivere e rinnovarsi. Un popolo
che, da itinerante e diviso nello spazio, si
è ritrovato unito e coeso nel tempo. Su
questa dimensione ha costruito la sua
identità e lì vi ha edificato i suoi santuari
attraverso lo studio della Torah e
l'osservanza dei precetti biblici. Per
vivere il presente all’ebreo è necessario
interrogare il passato, e nel dialogo tra le
epoche il tempo perde il suo andamento
lineare non essendoci più distinzione tra
ieri, oggi e domani.
Zakhor. Memoria. Un tempio vivo, in
perenne costruzione. Un muro intriso di
storia ma sostegno, base e contrafforte
per
il
futuro.
* * *
IL MARE OLTRE LA SIEPE: IL VAGO POETICO LEOPARDIANO
Il limite in Leopardi
di Alessia Cordenons
Il poetico, in uno
o in altro modo,
si trova sempre
consistere
nel
lontano,
nell’indefinito, nel vago”: nel suo
Zibaldone, Giacomo Leopardi
scrive poche parole che
potrebbero riassumere l’anima e il
sentire di un’intera epoca. Per il
romantico – qual è stato, nella sua
prima fase poetica, anche
Leopardi, seppur con la propria
esperienza
assolutamente
peculiare - il limite non
circoscrive e non misura, ma
suscita un’inquietudine frustrante
perché impossibile da spegnere
completamente; il muro non
limita l’orizzonte del pensiero, ma
lo espande, stimolando nell’uomo
la facoltà poetica per eccellenza:
l’immaginazione, “prima fonte
della felicità umana”. Ciò che è
presente, concreto e definito è,
quindi, anche impoetico.
Il poetico, per il primo Leopardi, è
il bello aereo, che sfuma e appare
inafferrabile, e che per essere
percepito esige incertezza. Lo
sguardo che dall’ ermo colle indugia
sulla siepe è il limite alla percezione
visiva, ma proprio perché è
impossibile, per l’occhio, abbracciare
ciò che sta oltre, le possibilità sono
infinite: è il bello vero, di cui il
sapere “fa strage”. Ciò che è
sconosciuto è anche immenso, e ciò
che è immenso ci dà l’illusione di un
desiderio totalmente appagato.
Eliminata la siepe, l’Infinito
leopardiano non avrebbe ragion
d’essere: ai piedi del colle vedremmo
il paesaggio nella sua concretezza,
che esclude qualsiasi altra fantasia.
Se il termine muro, per
definizione, ci rimanda al concetto di
ostacolo, la poetica leopardiana – e,
più in generale, quella romantica
della Sehnsucht e dello Streben –
rappresentano un tentativo (per
quanto consapevolmente vano) di
fare proprio ciò che sta al di là, di
astrarre per comprendere meglio ciò
che è già conosciuto.
Il muro, mentale o fisico, è un
meccanismo di autodifesa, che va
paradossalmente contro la nostra
natura. Abbatterlo o scavalcarlo?
Difficile. Ma basterebbe qualche
secondo per sedersi dal proprio lato e
prendere rapidamente coscienza
dell’immensità che potremmo
trovare
dall’altro.
***
Inverno 2015/16
Sconfinare
IL PARADOSSO AUSTRALIANO: DISUGUAGLIANZE CHE NON TI ASPETTI
13
Per di molti, l’Australia è la nuova Terra Promessa. Ma per gli autoctoni somiglia spesso a un inferno sulla terra.
I
di Sofia Dall'Osto
l deserto australiano non ha
limiti. É una distesa infinita
di terra rossa e cielo azzurro.
Per centinaia di chilometri non una
montagna, non un edificio
interrompono lo sguardo. La terra è
un tutt'uno con il cielo e a guardarla
è facile chiedersi se non sia questa la
trasposizione terrena dell'infinito di
cui tanto parlano i poeti. Una pianura
immensa e vuota, libera. Senza
barriere.
Come il suo outback, anche lo Stato
australiano è associato a libertà e
benessere. Prima per qualità della vita
secondo l'OCSE, con ben tre città
(Melbourne, Adelaide,
Perth)
classificate tra i primi dieci migliori
centri in cui vivere secondo The
Economist, l'Australia è un baluardo a
cui spesso si fa riferimento
vagheggiando una vita migliore.
Tuttavia, c'è una questione tanto
preoccupante quanto trascurata, se non
del tutto ignorata, specialmente fuori
dall'Australia: quella degli indigeni. È
facile, quando si fa riferimento ai
cosiddetti aborigeni, cadere nei soliti
cliché e pensare a un piccolo popolo
primitivo che vive bravamente nelle
riserve a cui è stato destinato, caccia con
i boomerang e cuoce carne di canguro.
Si è invece inconsapevoli della scia di
violenze,
discriminazioni
e
disuguaglianze che questo popolo ha
dovuto fronteggiare per più di duecento
anni, e che perdurano tutt'oggi, nel XXI
secolo, proprio nella civilissima
“
Australia.
Fino a metà del secolo scorso i
resoconti storici australiani non
menzionavano le “frontier wars”, gli
scontri per il possesso delle terre con
cui i bianchi hanno decimato la
popolazione nativa; fino al 1962 gli
aborigeni non godevano del diritto di
voto, e poco si parlava della stolen
generation: suoi membri sono tutti quei
bambini aborigeni che tra fine
Ottocento e il 1970 sono stati prelevati
con la forza dalle proprie famiglie e
cresciuti in missioni religiose, strutture
statali o famiglie bianche. Ciò accadeva
per fare in modo che perdessero
contatto con le proprie origini: veniva
loro inculcato che essere aborigeni fosse
una colpa.
Ariguardo, le stime sono discordi: chi
parla di più di 50 000 bambini, chi
invece di 100 000. Un vero e proprio
“whitewashing”, un revisionismo
bianco della storia che, sommato ai
soprusi, ha contribuito a innalzare un
muro di diffidenza e incomprensione tra
bianchi ed indigeni, che ancora oggi
risulta molto difficile da penetrare. É
infatti impensabile poter cancellare
facilmente, con dichiarazioni pubbliche
e iniziative, anni e anni di violenze e
traumi, i quali tuttora segnano la vita di
molti aborigeni.
Benché la situazione sia sicuramente
migliorata rispetto al secolo scorso e nel
2008, dopo tanti anni di imbarazzi e
tentativi impacciati, il premier laburista
Kevin Rudd abbia rivolto scuse ufficiali
alle stolen generations, l'Australia è
ancora da considerarsi un paese
arretrato dal punto di vista della tutela
delle minoranze. In un rapporto di
quest'anno, Amnesty International
esprime le proprie riserve riguardo alle
condizioni degli indigeni ed in
particolare evidenzia come questi
costituiscano il 27,4% dei detenuti
maggiorenni, nonostante essi siano il
2.3% della popolazione adulta totale.
Ancora più scioccante è constatare il
tasso di criminalità minorile, con i
giovani aborigeni tra i 10 e i 17 anni
che, pur formando il 6% della
popolazione di quella fascia d'età,
costituiscono il 58% degli incarcerati.
A fronte di questi dati, è comprensibile
interrogarsi sull'effettiva innocenza dei
nativi australiani.
Tuttavia, per completare il quadro
sono necessarie anche altre
considerazioni. In primis, gli aborigeni
soffrono di un'inadeguata, se non
degradante, disparità anche per quanto
riguarda gli alloggi. Nel 2008, il 25%
degli indigeni adulti viveva in case
sovraffollate, contro il 4% dei nonindigeni. Secondo l'Organizzazione
Mondiale per la Sanità, gli indigeni
hanno un'aspettativa di vita di 17 anni
inferiore rispetto ai bianchi, e
contraggono più facilmente malattie
associate a condizioni disagiate come
polmonite, scabbia e tracoma.
Anche l'alcolismo è una piaga:
infatti, in alcuni centri abitati lontani
dalla costa (per esempio, nel Territorio
del Nord) ci si accorge della vicinanza
di un gruppo di aborigeni senza
nemmeno vederli: è intuibile dal forte
odore di sudore e alcol che raggiunge
le narici. Inoltre, nel quinquennio 20082012, gli uomini indigeni sono
deceduti per cause legate all'abuso di
alcol con un ritmo 5 volte maggiore
rispetto ai non indigeni.
Tutto ciò è il risultato di decenni di
politiche discriminatorie e razziste: se
da un lato sono ancora troppo pochi i
bianchi che affrontano con sensibilità e
comprensione la questione indigena,
dall'altro per questi ultimi l'integrazione
è difficile, e prevalgono diffidenza e
chiusura. A scuola, per strada, nei
locali, è raro incontrare gruppi di
persone “misti”. A livello politico, il
primo deputato aborigeno, Ken Wyatt,
è stato eletto solo nel 2010. Il numero
di bambini aborigeni in affidamento è
tanto elevato da parlare di una nuova
stolen generation.
Ancora oggi esistono muri, persino
nelle democrazie occidentali più
avanzate, e l'Australia ne è un chiaro
esempio.
La questione è molto controversa e
di difficile soluzione: ritornare indietro
non è più possibile. L'unica strada
auspicabile per un sedicente governo
“avanzato” è preservare la cultura
aborigena e attuare misure concrete per
avvicinare i due popoli. Dall'altro lato,
sarebbe necessario che anche gli
aborigeni facessero dei passi verso la
popolazione bianca, smettendo di
considerarla “colonizzatrice” e
rendendosi consapevoli che un nuovo
futuro deve essere necessariamente
volto all'incontro.
***
SYLVIA PLATH E IL FARDELLO DI UNA MENTE INGOMBRANTE
di Sofia Dall'Osto
Si può fuggire dai muri auto­imposti?
Esiste una via di incessantemente poesie, racconti, lettori più incauti che Plath “gioca insegnante con il ruolo di madre,
fuga
dalla un romanzo, fiabe per bambini, alla roulette russa con sei e per la poesia è disponibile solo
centinaia di lettere e un diario. pallottole nella pistola”. Tragica, la notte. Si sente rinchiusa tra le
mente?”
Questo si domanda Sylvia Plath
nella sua poesia “Apprehensions”,
nel maggio 1962. Plath non è
un'autrice nota al grande pubblico,
specialmente fuori dai paesi
anglosassoni: americana, classe
1932, è scrittrice e poetessa dalla
precoce età di otto anni. Fino alla
morte, a trentuno, scrive
Appartenendo ai cosiddetti
confessional poets, è impossibile
separare la sua produzione dalla
sua vita. I suoi versi, totalmente
centrati
sull’interiorità,
costituiscono una sorta di autoanalisi, potentissima e tragica.
Potentissima, tanto che il poeta
americano Robert Lowell avverte i
perché depressione e pensieri di
suicidio svolgono un ruolo
centrale nella sua vita e nella sua
produzione.
Questa poesia ne è un esempio,
ma non parla di tristezza fine a se
stessa: si vede piuttosto Plath alle
prese con la lotta per affermarsi
sia come madre a tempo pieno
che come moglie e scrittrice.
L’autrice ha infatti consacrato la
sua intera esistenza alla scrittura e
allo studio, per potervi eccellere.
Nel 1950 scrive nel suo diario:
“Sono ciò che provo, che penso e
che faccio. Voglio esprimere il
mio essere con tutta la pienezza
possibile perché da qualche parte
ho scovato l’idea di poter dare un
senso alla mia esistenza in questo
modo.” Dopo il matrimonio con il
poeta Ted Hughes e la nascita dei
due figli, si trova impossibilitata a
conciliare il suo lavoro di
quattro mura della sua stanza, che
nei versi di Apprehensions si
colorano di bianco, grigio, rosso e
nero. Colori che rappresentano la
depressione, la vulnerabilità e il
dolore che la poetessa affronta: la
sua anima, fatta di “due buste di
carta […] e terrore”, è
letteralmente accartocciata e
inerme di fronte a barriere
mentali e sociali. Tuttavia sopra a
questi muri, al di là della malattia
e dell'angoscia, si crea un cielo
“infinito, verde, impossibile da
toccare./Angeli vi nuotano, e
anche le stelle, indifferenti”. Plath
è forte abbastanza da riconoscere
sia il dolore che la speranza di
fuga da esso. E a sue spese ci
insegna che i muri possono essere
anche inconsistenti: forse le
barriere che ci limitano di più
sono quelle che creiamo noi
stessi, nelle nostre menti.
***
14
Sconfinare
MURI LINGUISTICI: TRA CHIUSURA ED UNIFORMITÀ
S
olitamente, quando si
pensa alla parola muro, lo
si fa in riferimento ad una
barriera fisica costruita con lo scopo
di impedire il contatto tra gruppi di
persone, sia per motivi politici (si
consideri il Muro di Berlino che, per
quasi 40 anni, divise in due un'intera
nazione) che per salvaguardare e
proteggere i propri confini da fattori
esterni destabilizzanti.
Tuttavia, questa parola può evocare
foto didelle
Veronica
Andrea
Sauchelli
anche
barriere
di tipo
diverso,
invisibili agli occhi, che si pongono
ugualmente come ostacolo alle
interazioni tra gli individui. Le divisioni
basate sull'aspetto linguistico, ad
esempio, hanno sempre inciso molto
sulle disposizioni ad agire dei popoli,
determinando, in taluni casi, la tendenza
ad abbattere i muri comunicativi,
laddove fossero presenti, e, in altri,
quella ad erigerli.Con il passare dei
secoli, a seconda di quella che era la
potenza dominante (o comunque più
influente) dell’epoca, si è affermata, in
nome della necessità di comprendersi
gli uni con gli altri e di pari passo con
Modelli a confronto: dall'esperanto al catalano
essa, una lingua che la faceva da
padrona nella comunicazione quotidiana
tra persone distanti per cultura ed usi.
Limitandoci al solo contesto europeo, si
sono alternate, tra le altre, lingue come il
latino ed il francese. Forse però, non tutti
sanno che, verso fine ‘800, si ideò una
lingua, tuttora esistente, che, nella
speranza del suo creatore, avrebbe
dovuto prendere il posto dell’inglese,
odierna lingua franca. È il caso
dell’Esperanto, fenomeno che merita
un’attenzione particolare in quanto
codice linguistico creato non come
metodo di affermazione di una data
cultura sulle altre, bensì come strumento
di unione. La sua ideazione si attribuisce
a Ludwik Lejzer Zamenhof, medico e
linguista polacco che, tra il 1882 e il
1887, partendo da vocaboli e regole
grammaticali di lingue diverse, elaborò
forme e strutture del nuovo idioma.
Malgrado le ambizioni di Zamenhof,
oggi l’Esperanto conta un numero
esiguo di parlanti che, per quanto
difficilmente definibile, si colloca tra i
200,000 ed i 2 milioni. Prescindendo
dalle elevate possibilità e capacità di
diffusione e, al contempo, dalla relativa
facilità di apprendimento dell’inglese,
alcuni fatti contribuiscono a spiegare il
perché della sorte dell’Esperanto. Tra
queste si possono individuare non solo
la costante mancanza di supporto da
parte di un qualche governo o
organizzazione internazionale, ma anche
gli esasperati nazionalismi e
ideologismi del ‘900. A cavallo tra le
due Guerre Mondiali, gli esperantisti,
con le loro ambizioni pacifiste oltre che
anti-nazionaliste, vennero perseguitati
sia dai sovietici (Stalin parlò di “lingua
delle spie”), che dai nazisti (nel suo
Mein Kampf, Hitler si scagliò contro
Zamenhof, di origini ebraiche, perché
colpevole di aver pensato una lingua
comune alla diaspora ebraica). Con il
tempo la situazione non migliorò: negli
anni del maccartismo, per esempio,
l’Esperanto diviene pericolosamente
collegato alla minaccia comunista.
Opposta
alla
tendenza
internazionalista dell’Esperanto è la
volontà di preservare una lingua, spesso
il proprio dialetto. Volontà che nasce
come spontanea e naturale conseguenza
della percezione che la propria lingua
madre sia minacciata da fattori come la
comunicazione globale e gli
spostamenti dai propri luoghi di origine
che le nuove generazioni sono, in molti
casi, costrette a compiere. Di
conseguenza, le tipicità e le varietà delle
tradizioni linguistico-culturali stanno
progressivamente venendo meno.A
fotografare questa tendenza è un
progetto, disponibile on-line dal 2009,
denominato Atlante Unesco delle
lingue minacciate e in pericolo che,
erede del Libro Rosso Unesco, è
finalizzato ad individuare le lingue a
rischio d'estinzione nel mondo.
Inverno 2015/16
a cura di Richard Puppin
e Michele Faleschini
Secondo il documento, dei 6000 idiomi
diffusi in tutto il globo, ben 2500
rischiano di scomparire: numeri che
dimostrano come la realtà alla quale le
generazioni precedenti erano abituate
stia lasciando il passo, ad una velocità
mostruosa, ad una in cui c’è il serio
pericolo che scompaiano alcune tra le
tradizioni più caratterizzanti di interi
popoli. Soltanto in Europa si contano
100 diverse lingue parlate e, di queste,
solo un quarto sono riconosciute come
ufficiali; alcune, inoltre, sono parlate da
meno di 100 persone: la loro scomparsa
sembra inevitabile.Appare invece
improbabile che scompaiano quelle
lingue assunte da alcuni popoli come
capisaldi dei loro valori identitari e come
tratti politico-culturali distintivi: si pensi
al Corso o al Basco, ma anche alla
lingua catalana, discriminata nel periodo
franchista e ora formalmente
riconosciuta dal governo di Madrid,
parlata dall'85% (e capita dal 97%) dei
Catalani (secondo l'ultimo censimento
del 2004).
Enunciate queste opposte tendenze ad
agire in materia di muri comunicativi,
appare tuttavia chiaro come l'aspetto
linguistico, data l'importanza che
assume e sempre assumerà per l’uomo,
sia soggetto ad un continua e travagliata
evoluzione che lo scenario di un mondo
globale non può fare altro che
esasperare.
* * *
OLTRE IL MURO DEL CARCERE
a cura di Timothy Dissegna
S
e proviamo a pensare al
cemento armato, la prima
cosa che ci verrà in mente
molto probabilmente è un muro: in
fondo, questo prodotto serve
essenzialmente per l'edilizia,
rendendo indanneggiabili gli
immobili che va a ricoprire. Ma per
chi ha avuto la possibilità di entrare
in un carcere da mero visitatore, il
pensiero va immediatamente alle
pareti che avvolgono la struttura.
Ne è ottimo esempio la casa
circondariale di Tolmezzo, visitabile da
alcune classi dei licei del Friuli-Venezia
Giulia. Per chi non conoscesse il posto,
basti dire che il paese è uno dei più
freddi che ci sia in Friuli e ospita il
famigerato 41bis, ossia il regime
speciale di detenzione dei condannati
per associazione mafiosa. Nei fatti, un
casone di altro cemento armato, appena
dopo l'ingresso dell'impianto, isolato
completamente dal mondo.
Quando si arriva all'ingresso del
carcere tolmezzino, ma la cosa varrà
sicuramente per quelli di Udine,
Rebibbia, Sanvittore e altri, l'imponenza
di quel muro tra “dentro” e “fuori”
diventa un ostacolo contro cui è
Visita alla casa circondariale del carcere di Tolmezzo per avere uno sguardo
più ampio e critico sulle condizioni dei carcerati in Italia
impossibile non scontrarsi. Non perché
si sia essenzialmente animati da pensieri
libertari, disgusto per la giustizia o
perché si vorrebbe un'amnistia per tutti,
quanto per il fatto che si è all'ingresso di
un vero e proprio mondo parallelo, un
luogo che ha interrotto ogni rapporto
con la quotidianità dei cittadini “liberi”.
Fila ordinata, silenzio tombale, lo
stridore dei cigolii che preannunciano
l'aprirsi del portone blindato: è questo il
rito quasi dantesco, che spetta a qualsiasi
visitatore si appresti ad “entrare in
contatto” con un universo che ragiona
con unità di tempo molto diverse dal
presente che conosciamo solitamente. E
il passaggio, quantomeno fisicamente, è
breve. Due passi e si è in una corte
interna, con le torrette di guardia attorno
e un immenso monolite grigio che si
erge sulla destra: la “casa” per i mafiosi
qui ospitati.
Entrare nel carcere, non
nell'invalicabile 41bis, è come vestire i
panni di Alice e lanciarsi al di là dello
specchio, trovandosi però di fronte ad un
luogo ben diverso dal Paese delle
Meraviglie: i corridoi sono deserti, le
celle minuscole altrettanto. I detenuti
sono stati trasferiti per il momento in un
altro piano: non è uno zoo, in fin dei
conti, per cui si può solo immaginare
cosa significhi trascorrere lì settimane,
anni, vite intere. Una condanna nella
condanna.
Un particolare spezza il fiato al
visitatore: un orologio appeso sulla
parete d'ingresso. Le lancette ferme,
come a preannunciare l'atmosfera che
regna pesante tra quelle mura
inscalfibili: qui non siamo nel “nostro”
mondo, ma in un “non-luogo”, come
direbbe l'antropologo Marc Augé, dove
ogni istante è uguale a quello passato e,
molto probabilmente, a quello futuro. In
tutto ciò i carcerati sono in compagnia
delle guardie carcerarie, anime divise tra
questa bolla di cemento e una vita fuori
che scorre senza guardarli in faccia.
Vuoi l'assenza di persone, vuoi il
silenzio profondo in cui ogni cosa lì
dentro è immerso, ogni passo diventa un
boato che echeggia tra le celle aperte. Ce
ne sono poche, perché sono quelle
dismesse, altrimenti bisognerebbe
chiedere il permesso dei detenuti che vi
alloggiano. Una sorta di proprietà
privata del nulla: che bel paradosso.
Fatto sta che questi spazi sono così
piccoli che uno sguardo li riempie tutti, e
sono senza mobilio e letti.
Immaginarseli abitati è impossibile.
Al termine della visita, di circa due
ore, si ritorna sui propri passi, con il
freddo carnico che aggredisce appena
rimetti il naso all'aperto. Il cancello torna
ad aprirsi, questa volta per il viaggio
inverso, e il “fuori” si materializza oltre.
Raggiungerlo è ancora una volta
questione di istanti e l'impressione che
questa sia una metafora della realtà
diventa sempre più concreta, mentre il
tonfo sordo separa definitivamente i due
mondi.
Lascio alle spalle una dimensione che
i cittadini non vogliono vedere,
pattumiera umana in cui gettare chi
sbaglia e in cui relegarlo il più a lungo
possibile. Quelle persone hanno
sbagliato, nessuno lo nega, ed è
sacrosanto che scontino la pena lì
dentro. Ma poi? Il timer ad un certo
punto scatterà e queste persone
torneranno fuori. E se sbaglieranno
ancora, sarà il fallimento di un sistema
che mette solo la polvere dall'altra parte
del muro, ricoprendola di cemento
armato.
* * *
Inverno 2015/16
"
Sconfinare
15
OLTRE LA BARRIERA: SCONTRI TRA CULTURE NEL TRONO DI SPADE
Popolo Libero o Bruti? Il relativismo culturale colpisce a fondo anche nel mondo di fantasia della celebre serie Game of Thrones.
di Viola Serena Stefanello
L'inverno
sta
arrivando." Lo sa bene
chi segue la fortunata
serie TV di HBO Game ofThrones, meglio
ancora chi ha letto la saga fantasy da cui la
serie è tratta, le Cronache del Ghiaccio e del
Fuoco di George R. R. Martin. Per fortuna,
a proteggere dall’incombente inverno
Westeros, dove la maggior parte delle
vicende si svolgono e la lotta per ottenere il
Trono di Spade è spietata, si staglia a nord
un enorme muro, conosciuto come la
Barriera.
Cominciata a costruire oltre 8000 anni
prima degli anni in cui svolge la trama
principale da Brandon in Costruttore,
antenato degli Stark, lunga quasi 500km
per un'altezza di oltre 200m, è un confine
che divide due realtà diametralmente
diverse. Da una parte il mondo
profondamente feudale fatto di corti,
intrighi e guerre sanguinarie per la
successione dove si avvicendano Lannister,
Baratheon, Stark, Tyrell e le altre casate,
dall'altra l'anarchia, l'"inciviltà", l'inverno
perenne, con tutti i disagi che in un
universo tanto distante dal nostro ciò può
comportare. La Barriera non serve soltanto
a delimitare un regno: è allo stesso tempo
un muro volutamente impenetrabile e ostile
contro tutti gli abitanti del Nord estremo.
Ad assicurarsi di ciò stanno i Guardiani
della Notte, la confraternita giurata che vive
nelle varie fortezze costruite sulla Barriera in totale 19, la maggior parte delle quali in
disuso o in rovina.
Chi c’è, però, dall'altro lato? Nel corso
della storia ci vengono presentati dei
personaggi che poco o nulla hanno a che
fare con i lord, i soldati e gli uomini di corte
che affollano Westeros: sono quelli che fin
dall’inizio ci sono presentati come Bruti. In
gran parte non esseri soprannaturali o
selvaggi, ma centinaia o addirittura
migliaia di persone divise in una miriade di
tribù e clan differenti, a tratti in guerra tra
loro ma principalmente impegnati nella
costante lotta contro le condizioni
ambientali avverse. Persone che, a sud
della Barriera, vengono descritte
propriamente come barbari: "crudeli,
schiavisti, assassini, ladri (...) che si
accoppiano con giganti e demoni,
rapiscono le bambine nel cuore della notte
e bevono sangue da corna cave."
Popolazioni che, in effetti, per secoli hanno
lottato selvaggiamente con i Guardiani
della Notte, e che talvolta sono riuscite a
penetrare oltre la Barriera, compiendo
razzie e omicidi nei terreni degli Stark.
In ogni storia vi sono sempre, però, per
lo meno due versioni. A scoprire ciò in
Game of Thrones è Jon Snow che, da
Guardiano della Notte e bastardo di casa
Stark, suo malgrado si trova prima
catturato dai Bruti e, in secondo momento,
vi si integra per un periodo, innamorato di
una di loro, Ygritte. Così si svela lo
spaventoso relativismo culturale che per i
primi libri è stato proprio non soltanto dei
personaggi nativi di Westeros ma del
lettore stesso che, immerso nella narrazione
in prima persona, non può che discriminare
a prescindere i Bruti.
Non si tratta infatti di selvaggi feroci, al
limite del bestiale, ma di un Popolo Libero,
come essi si definiscono, semplicemente
diametralmente opposto in cultura, usi e
costumi dalla società feudale dei Sette
Regni. Alcuni clan, certamente, risultano
essere esattamente primitivi come ci si
poteva aspettare, ma per la maggior parte
si tratta di un persone fiere e consapevoli
della propria diversità che, grazie al proprio
isolamento e al proprio essere
completamente liberi da restrizioni
A rendere evidenti e tragiche le
conseguenze di una simile ignoranza
culturale reciproca è un contesto di crisi
profonda: infatti, con l'effettivo inasprirsi
dell'inverno e il risvegliarsi dei temibili
Estranei, la pressione dei Popoli Liberi
sulla Barriera aumenta, e tra i Guardiani
crescono le tensioni sul fatto che si debba
o no permettere loro di mettersi in salvo
da questa parte del miro. Qui si dispiega in
tutto il suo orrore il profondo solco che il
muro ha scavato tra gli uomini che abitano
i divisi territori
del Nord: per i
Guardiani della
Notte, non si ha
davanti
un
Popolo Libero,
ma soltanto dei
Bruti. É il
riconoscimento
dell'altro, tanto
diverso, come
membro
di
pieno diritto
della
razza
geografiche, si esprime nella totale umana che viene a mancare. É la basilare
mancanza di nobili, re e religioni concessione del diritto alla sopravvivenza
organizzate. Loro è una libertà estrema, altrui.
vincolata da poche ma chiare leggi, che li
E dove tra esseri umani non vi è
porta a disprezzare coloro che vivono a sud nemmeno la concessione di riconoscere
della Barriera, i quali "si inginocchiano" che si è sulla stessa barca - neppure nel
davanti a un capo non scelto da loro e non momento in cui questa sta affondando capiscono che "gli dei hanno creato la terra non vi può essere che tragedia, che si tratti
per essere condivisa da tutti gli uomini, e di mondi di fantasia o della realtà.
che i re con le loro corone e le loro
armature di ferro l’hanno rubata
***
sostenendo che fosse di proprietà loro".
SCOPRIRE BALTIMORA: IL RAZZISMO NEL MARYLAND
D
di Giulia Mastrantoni
a studentessa in scambio
extraeuropeo, sono arrivata
a Baltimora con tutto
l’entusiasmo che la passione per i viaggi
può ispirare; ho trovato un Inner Harbor
assolato, un Patapsco River dal blu
intenso e un razzismo inaspettato.
Oltre all’elevato tasso di criminalità
locale di cui in Europa è giunta fama tempo
addietro, nella città del Maryland vi è una
netta divisione sociale caratterizzata da
manifestazioni razziste che si esprimono in
ogni ambito. Su 621.000 abitanti, circa il
64% della popolazione è afroamericana o
nera, poco più dell’1% è di razza mista;
questi dati fanno di Baltimora la quinta città
statunitense per numero di residenti neri o
afroamericani. Il Baltimore Sun ha
recentemente riportato le parole del Police
Commissioner Anthony W. Batts, il quale
nel 2012, anno del suo arrivo, si è visto
“avvisare” circa l’obbligo non scritto di
promuovere lo stesso numero di ufficiali
bianchi e neri. La meritocrazia? Non è una
priorità; prima di quella a Baltimora bisogna
occuparsi del problema di arginare il
razzismo, che può sfociare in rappresaglie
pericolose anche solo per una promozione
“bianca” di troppo. Nel Novembre 2015 le
Il razzismo nei confronti della popolazione afroamericana è un argomento sempre
pressante negli Stati Uniti: anche in un altrimenti placido Maryland
ronde sono state aumentate, la polizia è stata
caldamente incoraggiata ad instaurare un
rapporto personale con i residenti di ciascun
quartiere e iniziative per il supporto dei
meno abbienti sono state messe in atto nella
speranza di appianare le differenze tra
“razze”.
Dal punto di vista storico, non è una
novità che la convivenza tra afro-americani
e bianchi a Baltimora faccia fatica a trovare
un equilibro; Obama aveva affrontato il
problema durante una conferenza stampa
riportata dal New Yorker lo scorso maggio,
dicendo “This is not new, and we shouldn’t
pretend that it’s new”. Lo scorso Ottobre,
due giorni prima di arrivare a Baltimora,
sono stata testimone di una manifestazione
per i diritti dei neri a Washington DC, poco
distante dall’US Capitol. Magliette con
scritte piene di rabbia e di voglia di giustizia
venivano sventolate in strada e mostrate a
chiunque avesse l’ardire di fermarsi per
capire cosa stesse succedendo. Nel 2014 il
Baltimore Sun aveva condotto un’inchiesta
dalla quale era risultato che più di 100
residenti del Maryland si erano visti
risarcire in denaro a seguito di decisioni
della corte per “police brutality and civil
rights violations”; il totale dei risarcimenti
ammontava a più di 6 milioni di dollari
statunitensi. Tra le varie denunce, vi era
quella di percosse a un indiziato
ammanettato nel quadro di un arresto dalla
dubbia legittimità. Inutile aggiungere che la
maggior parte delle vittime in questione
erano di razza afroamericana. Ai problemi
relativi agli attriti culturali-razziali, si
aggiunge anche quello della povertà: a
Baltimora il 25% della popolazione vive al
di sotto della soglia di povertà.
Lo scrittore britannico Herbert George
Wells scrisse: “Our true nationality is
mankind”. Allora cos’è andato storto nella
capacità umana di essere umani? Esistono
fin troppe spiegazioni sociologiche. L’unica
cosa che vale realmente la pena di ricordare
è che, come disse Abraham Lincoln
“Achievement has no color”.
* * *
Sconfinare
16
Inverno 2015/16
UN CAVALLO DI CARTAPESTA PER ABBATTERE IL MURO DELLA MALATTIA MENTALE
Domenica 25 Marzo 1973, a Trieste, iniziava una lunga lotta che ancora non vede la sua conclusione
N
di Ilaria Del Rizzo
ella
giornata
di
domenica 25 marzo
1973, uno strano rumore
scuote la quiete della città di Trieste.
Volgendo lo sguardo verso la fonte di
tale confusione, la prima cosa che si
riesce a scorgere è un’alta sagoma di
colore azzurro, un cavallo, per la
precisione.
Marco
Cavallo.
Avvicinandosi ancora di più, ci si
accorge che l’animale, realizzato
interamente in legno e cartapesta, si
trova a capo di un corteo di uomini e
donne, che avanzano stringendo tra
le mani bandiere e cartelloni con aria
di festa. Colui che ha reso possibile
lo svolgersi della piccola
manifestazione si trova proprio lì in
mezzo, confuso tra la folla: il suo
nome è Franco Basaglia. L’uomo dal
sorriso disteso e l’aria pacata che ha
contribuito all’elaborazione della
legge 180/78, imponendo la
progressiva chiusura di tutti i
manicomi presenti nel territorio
italiano.
Basaglia inizia il suo percorso nel
1962, quando diventa direttore
dell’ospedale psichiatrico di Gorizia.
Qui viene a contatto con la dura realtà
del luogo, nel quale, più che occuparsi
della cura e del sostentamento delle
persone internate, ci si preoccupa di
rinchiudere e di segregare le stesse,
poiché considerate pericolose qualora
dovessero venire a contatto con
l’esterno. Egli decide quindi di operare
una
radicale
trasformazione
dell’ambiente manicomiale, che può
considerarsi uno degli esempi perfetti e
maggiormente riusciti di ciò che si
definisce istituzione totale. Esso infatti
s’impadronisce interamente delle vite di
coloro che vi risiedono, annientandone
completamente l’individualità e
facendoli entrare in quello che lo stesso
Basaglia definisce un «vuoto
emozionale». Grazie all’aiuto della
moglie Franca Ongaro e di un gruppo di
giovani colleghi, lo psichiatra veneziano
stabilisce delle nuove regole di
organizzazione e di comunicazione
all’interno
dell’ospedale,
che
comprendono anche l’abolizione delle
sedicenti pratiche mediche adottate fino
a quel momento. La svolta più
importante consiste nella creazione di
una comunità terapeutica, composta da
tutti i malati, dai medici e dal personale,
che hanno in questo modo la possibilità
di incontrarsi e di confrontarsi sulla
gestione degli spazi e delle attività.
Costretto a lasciare Gorizia per
l’opposizione che le sue idee incontrano,
Basaglia si trasferisce nel 1971 a Trieste,
dove, appoggiato dall’amministrazione
locale, mette in atto un programma
d’intervento che prevede la chiusura del
manicomio cittadino e la creazione di
strutture alternative di accoglienza per i
degenti.
Marco
Cavallo
rappresenta
simbolicamente l’apertura dell’ospedale
psichiatrico verso l’esterno. La sua
ideazione è merito di una donna
risiedente nella struttura triestina, la
quale, attraverso un disegno da lei
realizzato, ha dato inizio a un progetto
che ha coinvolto non solo coloro che
vivono e lavorano dentro il manicomio,
ma anche diversi artisti locali. Questi
hanno avuto accesso al padiglione “P” –
uno dei primi a essere stato modificato
dalla riforma – e hanno contribuito alla
creazione di laboratori dove gli internati
potessero esprimersi attraverso la pittura
e il disegno. È proprio in queste stanze
che l’animale di cartapesta è stato
plasmato, rinchiudendo in sé le speranze
e i sogni dei malati. «Il Laboratorio “P” è
stato uno degli strumenti fondamentali
per arrivare al superamento
dell'istituzione manicomiale. Grazie ad
esso il mondo esterno è entrato “dentro”
e i matti sono usciti “fuori”. Le
problematiche interne al manicomio
sono diventate problematiche sociali, del
territorio, e le persone internate hanno
IL MURO INVISIBILE DI HARRY BERNSTEIN
Recensione di un libro sottovalutato
di Sofia Biscuola
Esistono infiniti tipi di muri e di
barriere: alcuni costituiti da calce e
mattoni, altri da pregiudizi e
preconcetti radicati da secoli. Questi
ultimi sono i più difficili da abbattere
poiché sono invisibili ai più, radicati
nel profondo, ma a volte risultano
talmente lampanti che non possono
essere taciuti. A tali divisioni, il
giornalista Harry Bernstein, all’ età di
92 anni, dedica parte del più originale
dei testamenti, la più preziosa delle
eredità: la sua memoria.
“Era una piccola strada tranquilla, che
si notava difficilmente rispetto alle altre
ben più ampie, ma ciò che la rendeva
eccezionale era il fatto che noi vivevamo
da una parte e loro dall’altra. Noi
eravamo gli ebrei e loro i cristiani.”
L’autore racconta la sua infanzia
vissuta nel Lancashire, un piccolo shakespeariana memoria. Solo insieme,
villaggio industriale dell’Inghilterra del ribellandosi a tutto e tutti, riusciranno a
Nord, durante il periodo della Prima
Guerra Mondiale. Ultimo di cinque
fratelli, il piccolo Harry vive in un’umile
casa che si trova su una strada abitata da
un lato solo da ebrei e dal lato opposto
solo da cristiani, come se fosse
attraversata da un “muro invisibile” che
divide i suoi abitanti secondo il loro
credo religioso. Due mondi, con le loro
usanze, credenze e pregiudizi, si
fronteggiano da secoli a pochi metri di
distanza. L’unica cosa che li accomuna è
l’estrema povertà contro la quale
entrambe le parti combattono
faticosamente. Ma quel muro avrà vita
breve: due giovani di nome Lily, la
sorella di Harry, e Arthur, ragazzo
cristiano, si innamorano perdutamente, di
un amore puro e innocente, di
iniziato a usufruire delle risorse offerte
dalla società», afferma Peppe
Dell’Acqua – uno dei principali
collaboratori di Basaglia, nonché ex
direttore del Dipartimento di Salute
Mentale di Trieste – nel suo libro “Non
ho l'arma che uccide il leone”.
Nel giorno previsto per far sfilare
lungo le vie della città Marco Cavallo
insieme ai suoi creatori, si presenta un
inconveniente: la figura azzurra risulta
essere troppo alta per attraversare il muro
dell’ospedale. L’episodio sembra quasi
rappresentare la paura che i malati
provano nel dover superare quella
barriera che finora li ha tenuti rinchiusi
ma, in un certo senso, anche protetti
dall’esterno. È allora che Basaglia,
aiutato da alcuni uomini, decide di
abbattere con una panchina parte della
recinzione che circonda la struttura per
riuscire a far passare il cavallo. La
demolizione del muro che separa
l’interno – ovvero l’ospedale, luogo di
contenimento – dall’esterno – la città
come ambiente vitale e dinamico –
rappresenta simbolicamente la
riacquisizione da parte dei malati del loro
diritto
di
essere
cittadini.
Non vi è dubbio che quella messa in
opera da Basaglia sia stata una vera e
propria rivoluzione, anche se la chiusura
del manicomio non ha significato la fine
del percorso, il coronamento ultimo delle
aspettative dello psichiatra. Al contrario,
essa ha rappresentato un ulteriore punto
di partenza di un lungo percorso che si è
dimostrato e si sta dimostrando parimenti
arduo. Ancora oggi, nonostante i notevoli
progressi compiuti in campo
assistenziale, questo progetto non può e
non deve dirsi concluso, ma anzi deve
fungere da esempio in qualunque
contesto che comporti l’oppressione e la
limitazione delle libertà fondamentali.
* * *
sposarsi, incrinando forse per sempre,
quel muro invisibile, ottuso e ostile, per
lasciar trapelare uno spiraglio di fiduciosa
speranza di distensione e cambiamento.
"Un ragazzo come te viene dalla
nostra strada, dove tutti da una parte si
ritengono diversi da quelli dell'altra. Ci
hanno fatto crescere così, non è vero? E
invece è tutto sbagliato. Non siamo
molto diversi uno dall'altro, anzi, non
siamo diversi affatto. Siamo tutti essere
umani, con gli stessi bisogni, gli stessi
desideri, gli stessi sentimenti. E' una
bugia quella che non ci vuole uguali. Ma
tutto questo cambierà, Harry. Un giorno
tutti saranno così evoluti da vedere e
capire la verità. Allora, quel muro che
separa i due lati della nostra strada
crollerà. Un giorno tutto svanirà. Oh, sì,
Harry, avremo un mondo migliore."
* * *