capitolo 4
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CAPITOLO QUATTRO BRUNO BENECK 81 Foto Renato Ferrini Bruno Beneck, classe 1915, è il terzo presidente della FIPAB, che ribattezza immediatamente FIBS. Fondatore della Juventus 48 di Torino, è già in Consiglio federale, con il ruolo di responsabile della comunicazione, durante la seconda presidenza Ghillini, quando gli succede dopo l’assemblea di Firenze. Uomo di cinema e di TV, frequentatore della Roma di Cinecittà, dà immediatamente un’impronta mirata all’immagine del baseball e rilancia il softball dando il via, di fatto, al campionato federale. L’illuminazione degli stadi, l’introduzione dei giocatori italo-americani, i grandi eventi del baseball-spettacolo, la campagna per l’ingresso delle due discipline nel novero degli sport olimpici, sono i tratti fondamentali di una presidenza che ha innegabilmente dato un’accelerazione con la quale il movimento, nel bene e nel male, continua tutt’oggi a confrontarsi. 82 I quattro mandati di Bruno Beneck alla presidenza federale furono caratterizzati da un elevatissimo numero di ‘prime volte.’ Uno dei primi atti del governo di Beneck fu per altro un ritorno alle origini: con il nuovo presidente si tornò a parlare di Federazione Italiana Baseball Softball (FIBS) e l’autarchica sigla FIPAB (Federazione Italiana Palla a Base) finì definitivamente in archivio. La fine degli anni ’60 del ventesimo secolo fu caratterizzata da considerevole tumulto un po’ ovunque e il mondo del baseball non fece eccezione. Beneck varò il primo campionato di softball, portò la nazionale di baseball al primo Mondiale della sua storia, si inventò la Coppa intercontinentale e ne organizzò in Italia la prima edizione, aprì le porte della nazionale ai cosiddetti ‘oriundi’, sconfisse finalmente l’Olanda in 3 edizioni consecutive dell’Europeo e, con uno storico fuoricampo di Castelli, anche nel primo Mondiale organizzato in Italia. Ci prese a tal punto gusto, che organizzò anche il primo Europeo di softball, ma i tempi del dominio azzurro erano ancora lontani e l’Olanda vinse. Beneck fu un presidente vulcanico ma, dirà la storia, non troppo lungimirante. Il suo baseball riempì in diverse occasioni gli stadi, ma senza conquistare quella popolarità alla quale il presidente federale puntava. Quando venne investito del ruolo di presidente, Beneck lasciò l’incarico di responsabile della comunicazione. Ma un decennio dopo le relazioni pubbliche non sembravano essere il suo forte. Alla fine della stagione 1977 il baseball italiano fece il più storico dei suoi passi falsi: il Rimini non si presentò allo spareggio scudetto e il titolo venne assegnato solo ad inverno inoltrato al Parma, dopo tutto l’iter della giustizia sportiva. Al Mondiale 1978 Beneck adottò come inno della manifestazione la canzone ‘Aggiungi un posto a tavola’ e il brano del fortunato musical divenne oggetto di pubblica ironia, quando Beneck cacciò dallo stadio di Parma il super tifoso Serafino. Forse Beneck, che nel 1971 assunse la presidenza della Federazione europea, perse di vista ‘le piccole cose’, che per un amante del baseball dovrebbero sempre essere punto di riferimento. Beneck trovò spazi sui giornali, ma non riuscì a far diventare i suoi sport una parte della vita quotidiana. La televisione, dopo qualche approccio promettente, finì con l’ignorarlo. Il movimento non lo amava e lo faceva rumorosamente capire, anche negli stadi. Al suo fianco intanto cresceva un giovane vice presidente, la cui figura cominciava a diventare ingombrante, soprattutto a livello internazionale: Aldo Notari. Bruno Beneck puntò tutto sul baseball olimpico. Ne fu un alfiere e considerò una sua vittoria il fatto che il baseball fosse stato introdotto ai Giochi di Los Angeles come sport dimostrativo. Investì risorse nel progetto ‘Probabili Olimpici’, tramite il quale riuscì a radunare i migliori giovani italiani. Del lavoro del Club Italia non vedrà i frutti. Ottenuta la qualificazione per Los Angeles, Beneck tentò il tutto per tutto: voleva una medaglia olimpica e qualcuno gli fece credere di poterla ottenere. Una nazionale imbottita di ‘oriundi’ vinse con la Repubblica Dominicana, ma venne affondata da Stati Uniti e Taiwan. Le Olimpiadi furono la tomba della presidenza Beneck, che al ritorno dai Giochi dovette affrontare il crollo del suo sistema e l’umiliazione del commissariamento da parte del CONI. In questo volume è stata affidata quella vicenda, vitale per la storia del nostro baseball, ad un testimone oculare dei fatti come il giornalista Giorgio Gandolfi, che la racconterà da un punto di vista certamente diverso rispetto alle cronache dell’epoca. 83 Foto Renato Ferrini PER LA FIAMMA DI OLIMPIA di Giorgio Gandolfi. Bruno Beneck, BB per gli amici, era un astigiano (Castelnuovo Calcea, primo agosto del 1915) cresciuto a Torino, dove si era sposato e dove aveva iniziato a lavorare per il cinema, lanciando iniziative come la pubblicità con le diapositive nell’intervallo dei film. Era così bravo che poi finì a Roma dove lavorò per la Metro Goldwin Mayer, diventando anche procuratore di alcune attrici, fra le quali Gina Lollobrigida I parenti della moglie, la bella e simpatica ‘Gegia’, al secolo Maria Teresa, gestivano un cinema in pieno centro, in piazza Benefica, nel popolare quartiere Cit Turin. Aveva all’attivo anche tantissimo sport nonché due figlie, Daniela ed Anna, entrambe nate a Torino prima del trasferimento a Roma e destinate a diventare campionissime del nuoto. Beneck era stato giocatore di calcio nei Balon Boys e nelle giovanili della Juventus. Durante il periodo d’anteguerra era stato nella Scuola allievi ufficiali di Parma, venendo tesserato dalla squadra crociata per la serie C. Aveva esordito in prima squadra segnando due gol, come raccontano le cronache del tempo. Leggiamo sulla ‘Gazzetta di Parma’ del 20 febbraio 1941: “ ...per l’occasione la squadra crociata ha in serbo una 84 buona novità: infatti come centro attacco esordirà Bruno Benech (cognome scritto all’italiana, com’era obbligatorio allora, nda) che fece parte della squadra riserve del Torino e che attualmente è ufficiale nella nostra città....” In effetti Beneck si trovava a Parma come ufficiale dei bersaglieri, effettivo per meriti di guerra , aggregato alla divisione corazzata Littorio , presso la Scuola di applicazione , che aveva sede nel Palazzo ducale del Giardino pubblico. Era un ottimo calciatore, attaccante per l’esattezza. A Torino aveva giocato fra le riserve granata ed era inevitabilmente amico di molti campioni (alcuni dei quali sarebbero periti a Superga), in particolare di Ossola e di Raf Vallone, che poi sarebbe diventato un importante protagonista nel cinema. Per due anni, ’37 e ‘38, era stato anche giocatore di basket per la Ginnastica Torino, divisione nazionale. Primeggiava nel salto in alto, tanto è vero che fu campione militare per due anni. Come militare era stato volontario in Africa e paracadutista nel battaglione San Marco. Bruno Beneck aveva scoperto il baseball nel dopoguerra. Aveva fondato la Juventus ‘48, con la quale giocava in prima base, e partecipato al movimento per unificare le varie Leghe sorte al nord e al sud, dove era attiva la Federazione italiana baseball softball di cui era presidente il principe Steno Borghese. Beneck era succeduto a Max Ott alla guida della LIB, Lega italiana baseball, ma per rispetto verso quello che ha sempre considerato il ‘padre del baseball’, aveva accettato alle condizioni di essere soltanto vice presidente. Di queste vicende, fino alla riunificazione, si occupa con dovizia di particolari il capitolo 2. C’era anche Beneck in Spagna in occasione della prima gara internazionale, protagonista il Firenze. Poi venne il trasferimento a Roma ed il lavoro nell’ambito del cinema, quindi il passaggio alla nascente televisione, nella quale avrebbe avuto un ruolo importante all’interno della ‘Domenica sportiva’, diretta dall’amico Aldo De Martino. Ricordiamo i suoi servizi a Parma a metà degli anni ‘60, puntualmente trasmessi dalla RAI, realizzati col concorso di alcune cantanti, la Caselli e la Zanicchi, che si prestarono per fingere di essere appassionate di baseball. A questo punto Beneck tornò nell’ambiente come presidente della Incom Lazio, coinvolto da Giulio Glorioso e da Giuseppe Bilancioni. Il mondo del baseball fu affascinato dalla sua persona e nel 1969 ebbe la maggioranza assoluta nell’Assemblea di Firenze a discapito di Ghillini, diventando presidente della FIPAB, destinata presto a diventare FIBS. Fautore dei diamanti illuminati e del gioco spettacolo, introdusse l’uso degli oriundi, a suo modo di vedere per ridurre il gap con la Nazionale olandese, che aveva a disposizione diversi antillani. Nel 1975 riportò così in Italia il titolo continentale. Nel 1969 a Varsavia lanciò l’idea del baseball olimpico , contro il parere degli stessi americani che ritenevano il baseball ‘troppo professionistico’. Coinvolse anche il presidente del CIO Samaranch. Dopo un viaggio a Cuba, questi dichiarò: “Viaggiando per il mondo ho scoperto quanto sia popolare e diffuso il baseball: d’ora in avanti seguirò con particolare attenzione e simpatia le vostre richieste”. La pressione di Be- Foto Renato Ferrini Una feluca della goliardia bolognese per tutti alla presentazione del Mondiale 1978 neck, che era spalleggiato da altre federazioni, fu tale che il CIO decise di ‘promuovere’ il baseball e il tennis come sport dimostrativi alle Olimpiadi di Los Angeles ‘84. Nel 1970 il baseball venne accettato anche all’Universiade di Torino dove registrò il maggior successo assieme alla pallavolo: nella finale fra Cuba e Usa, nell’ampliato stadio di via Passo Buole, c’erano seimila spettatori e fra questi il presidente della FIAT, Gianni Agnelli e quello della FISU , Primo Nebiolo. Due anni dopo era eletto dirigente dell’anno in occasione dei mondiali disputati in Corea, gli stessi Mondiali che nel 1978 avrebbe portato in Italia e per la prima volta in Europa, con uno straordinario successo di pubblico. Vice presidente della Federazione mondiale e presidente della Federazione Europea, rilanciò la pratica del softball dando il via a campionati regolari dopo la fase pionieristica degli anni ‘50. Nel 1984 portò ai Giochi dimostrativi di Los Angeles una formazione imbottita di oriundi, ma forte anche di giovani promesse emerse dal Club Italia, il gruppo azzurro che aveva realizzato proprio per valorizzare il ‘prodotto’ italiano: Carelli, Fochi, Manzini, Bianchi, Ceccaroli, Mari, Costa, Bagialemani, a conferma dell’importanza di questo vivaio. La figura di Beneck cominciava forse ad assumere troppa importanza nel mondo sportivo, come il ‘suo’ baseball, che aveva propri stadi illuminati a differenza delle altre discipline. Quando, al termine delle Olimpiadi, venne sfiduciato dai membri del Consiglio federale per un buco in bilancio, Beneck si dimise e il CONI si affrettò ad istituire un processo sommario. Al suo posto subentrò come Commissario speciale il segretario generale del CONI, Mario Pescante. L’inchiesta della magistratura si risolse con un nulla di fatto: nessuna ombra di peculato. Nominato presidente onorario della FIBS da Everardo Dalla Noce, Bruno Beneck è scomparso a Roma il 23 ottobre del 2003. La figura di Beneck è vivida nel ricordo di Giorgio Castelli, il più grande campione emerso durante i suoi mandati: “Ho conosciuto Beneck quando era stato appena eletto alla presidenza - ricorda Castelli con un filo di commozione - e senza mezzi termini voglio dire che il suo avvento diede una svolta memorabile al movimento. Bruno Beneck è la persona alla quale si deve il merito dell’organizzazione dei primi grandi eventi in Italia”. 85 86 Archivio Tuttobaseball GIORGIO CASTELLI di Giorgio Gandolfi. Chiunque all’epoca - sono passati 55 anni - poteva sognare. E il sogno era un gioco nuovo, da farsi sui prati di primavera e poi fra i suoni dell’estate. Giorgio Castelli era uno di quei ragazzi che sognavano e crescevano in un quartiere dove la gente era povera, molto uguale e molto felice, pur non sapendolo. Le finestre aperte, senza inferriate, bambini con la faccia sporca di pane e marmellata ed altri che scalpitavano in strada, urla da pellerossa, i duelli con spade improvvisate dopo avere visto l’ultimo film sui pirati. Volavano anche sassate, non c’era asfalto sulle strade: qualcuno cominciava a scaldarsi i muscoli per giocare a baseball, sport esatto come una partita a scacchi, elegante come una raffinata rievocazione di costumi. Nel 1951 c’era già un gruppo di universitari che giocavano su un improvvisato diamante sorto a ridosso del torrente: portavano con orgoglio la scritta Cus Parma sulle divise e, secondo una nota dei tempi, “erano parecchi, inesperti e privi di materiale, gli ‘adepti’.” I loro nomi restano scolpiti nella memoria degli appassionati: Roncoroni, Giovannelli, Campanini, Righi, Cavalli, Dall’Argine, Notari, Pisi, Morini, Simonetti, Mora, Sacca e Cantoni... E più avanti ci furono i ragazzini come Giorgio Castelli. Nei giorni scorsi ha festeggiato i suoi primi 55 anni: come lui l’hanno fatto molti altri ex ragazzi di via Isola, la manciata di case sorte attorno alla chiesa. Dietro c’era la foschia che si alzava dai campi, perché tutto attorno era campagna. Ogni chiesa aveva un ‘suo’ sport: il calcio , soprattutto, oltre al ping pong e al calcio balilla, ma anche il baseball cominciava a farsi strada nel pigro perimetro delle abitudini cittadine, superando l’intricata foresta del regolamento. In via XX settembre, si giocava a gerlo: e il vetro del vicino che andava in frantumi esprimeva le prime ambizioni dei potenziali fuoricampisti. Sorto grazie al Piano Fanfani, il quartiere di via Isola, al di là del canale Volturno, era fatto di cortili verdi e case senza riscaldamento e ascensore. Ad aiutare don Domenico Magri in parrocchia nel ‘60 era arrivato come coadiutore, don Sergio Sacchi, un pretino bravissimo a giocare a calcio, dotato di santa pazienza e un sorriso radioso. Rimase sei anni, poi finì a Baganzola quindi a San Vitale prima di ritornare nella ‘sua’ via Isola. “La chiesa - ricorda - era da completare. Le strade polverose, tanti bambini, una mandria. Farli giocare era un problema. La parrocchia cominciò ad acquistare degli orti, spianando il terreno. Nelle scuole c’erano i doppi turni, cosicché avevamo ‘clienti’ sia al mattino che al pomeriggio. Fra questi c’era Castelli ed una passione: il baseball, che stava germogliando, grazie a due ‘maestri’ davvero unici come Nino Cavalli e Guido Pellacini. Quest’ultimo era come una goccia di miele, sempre disponibile, aperto, cordiale coi ragazzi. E poi Luciano Laschi e Gianni Gatti, che erano di poco più vecchi dei loro allievi, ma fecero un lavoro straordinario. C’era povertà nella zona, ma tanta spontaneità ed amicizia. Soltanto in un quartiere come questo, senza le distrazioni del centro cittadino, poteva nascere un campione come Castelli, che era bravissimo in tanti sport fin quando Pellacini gli diede un ultimatum: “Devi scegliere uno sport”. E scelse il baseball. Avrebbe potuto giocare in America, aveva le carte in regola ma era troppo attaccato alla famiglia. Oggi sarebbe diverso, purtroppo i tempi sono cambiati, non ci sono più questi legami. La spontaneità di allora permetteva di fare quello che si voleva ma il rapporto con la famiglia era davvero sacro.” Oggi il 55enne Giorgio Castelli è un felice papà che vive in campagna. Gli occhi gli si illuminano quando parla di via Isola: “Avevo scoperto la gioia per lo... sport a sei anni seguendo mio nonno che andava a giocare a bocce all’osteria del ‘Sordo’. In viale dei Mille avevamo cominciato a giocare a gerlo ma poi, trasferendomi in via Isola, scoprii che alcuni ragazzi avevano un guantone strano. Assieme ad altri andammo a rovistare negli scatoloni degli ‘stracci america’ in Ghiaia e trovammo guanti da softball con 4-5 dita. A casa ‘sequestrai’ il mattarello in cucina, mia mamma aveva sempre tanta pazienza, lo limai ben bene ed ecco la mazza da baseball. In via Isola cominciarono ad affluire ragazzi di altre zone come Gatti di viale delle Rimembranze, Iaschi di San Lorenzo. Gente di estrazione sociale diversa, ma ben presto unita dalla passione per il baseball e legata da una grande amicizia. Si viveva alla giornata, senza alcuna programmazione come fanno i giovani d’oggi. Ogni strada poteva diventare un campo, uno stadio. Giocavamo, ci divertivamo, non eravamo mai stanchi”. In via Isola, con l’Astra, arrivarono i primi scudetti giovanili del baseball. Castelli divenne un campione. Poteva emigrare negli Stati Uniti, tentare la grande avventura. Anzi era già negli States, in Florida, a giocare, ma dall’Italia gli arrivavano i messaggi della famiglia, dell’allora presidente federale Beneck, del tecnico della nazionale, Morgan: “Ero in America in prova dai Reds di Cincinnati, era stato Giulio Glorioso a fare il mio nome al club americano. Dopo la prova avrei giocato sicuramente nel singolo A, per dare modo ai tecnici di valutare le mie caratteristiche. Nell’occasione qualcuno scrisse che avrei ricevuto cento milioni per la firma, ma non era vero. Non si è nemmeno parlato di cifre. Mi ripetevano: torna a casa altrimenti perdi il diritto di giocare in Nazionale già al prossimo campionato europeo. Furono tutti determinanti, assieme alla nostalgia per Parma. Rinunciai al mio sogno americano, a giocare in Major League. Anni dopo mi sono rivisto in Gigi Riva: anche a lui deve essere rimasto tanto rammarico per non avere giocato con la Juventus o il Milan. E’ chiaro che mi sarebbe piaciuto, almeno fare un tentativo, anche se sapevo che arrivare al vero professionismo era un’impresa disperata. Però oggi seguendo in Tv le partite degli americani, ho l’impressione che mi sarei potuto togliere qualche soddisfazione”. Com’era allora la vita di un ragazzo come Castelli ? La risposta la diede sua madre, la signora Emma, quando si presentò un giornalista di ‘Gente’, il settimanale che dedicò a Giorgio due pagine della prestigiosa rivista con il titolo: Non vale cento milioni il piccolo divo del baseball. “Giorgio - rispose - si allena tre volte la settimana come tutti A FIANCO: Castelli mostra orgoglioso il tricolore 87 Archivio Tuttobaseball Archivio Tuttobaseball Bertoni e Castelli Castelli con Beneck ‘regista’ gli altri. Non ha una ragazza fissa. Va a ballare la domenica pomeriggio con i suoi amici. Un paio di volte al mese va anche al cinema e alla sera guarda la televisione con noi”. Castelli è stato il primo a sfondare la barriera dei 100 fuoricampo, a polverizzare il muro delle 1000 valide. Sono passati esattamente 30 anni da quel 19 settembre del 1976, quando Giorgio Castelli, sul diamante di Grosseto, battè il suo 100° fuoricampo. Un’impresa che il catcher rammenta in modo vago: “Ricordo i festeggiamenti dei compagni e soprattutto la pagina che la ‘Gazzetta di Parma’ mi dedicò qualche giorno dopo. Tutto qua. Allora non si esagerava con i festeggiamenti come avviene oggi per ogni nonnulla. Certamente fu una bella impresa, sono felice di averla realizzata”. Come detto, Castelli ottenne il record a Grosseto, dopo due tentativi andati a vuoto nella giornata di sabato. Al terzo turno, davanti alle telecamere del TG2 Sport, che trasmetteva la partita, alle 17 in punto sull’1 a 0 per la Germal contro la Betagru, ecco l’oriundo locale Criscuolo cercare di mettere in difficoltà anche Castelli con le sue curve. In precedenza gli aveva concesso una base intenzionale, stavolta cerca di giocarselo: il primo lancio è uno strike alto ed esterno, il secondo una palla più bassa. Tutta la potenza di Castelli si scarica su questa pallina e ne scaturisce una battuta da tre punti, che si esaurisce almeno quindici metri dopo la rete di recinzione, sul lato sinistro del diamante. Immaginarsi gli applausi dei compagni ma anche dello sportivissimo pubblico maremmano che, da autentico buongustaio del gioco, ha 88 sempre saputo apprezzare i campioni del baseball, a qualsiasi squadra appartenessero. Il suo primo fuoricampo Castelli lo aveva realizzato il 16 giugno del 1968 nell’incontro Tanara-Cus Genova vinta dai parmigiani per 25 a 6. Aveva appena 17 anni, studiava da geometra poi sarebbe andato all’Università per diventare medico: “Finii per rinunciare dopo il quinto anno, la media era del 25, ma gli impegni di gioco mi impedivano di rendere al massimo“. Nel 1970 in Colombia il suo esordio nel Mondiale, l’anno dopo è a Cuba, nel ’73 in Olanda, due anni dopo a Barcellona: è l’inizio di una carriera prestigiosa. Agli Europei del 1973 in Olanda registra una media-battuta stratosferica (.518), soltanto il fuoriclasse Hamilton Richardson lo supera. Nell’82 eccolo battere la valida numero mille! Sono le 21,45 del 7 agosto: ha già al suo attivo 121 presenze in Nazionale (diventeranno 124 con 133 battute valide e 12 fuoricampo), ha partecipato a 5 Mondiali, ha vinto 4 scudetti, 7 titoli ‘juniores’ e 5 Coppe dei Campioni. Il 31 gennaio del 1984, l’Agenzia ‘Ansa’ trasmetteva questa notizia: “L’addio al baseball da parte di Giorgio Castelli, il più prestigioso giocatore dei diamanti italiani, ha indotto la Federazione, con una delibera del presidente Beneck, a togliere dalla Nazionale la maglia numero 24, vale a dire la casacca indossata dall’atleta parmigiano in 124 incontri.” Dice la delibera: “Per ricordare l’eccezionale contributo dato da questo giocatore durante l’eccezionale carriera in azzurro”. Castelli aveva 33 anni e lasciava conservando tutti i record d’attacco della Serie nazionale, compresa la triplice corona (più fuoricampo, media battuta e punti battuti a casa), perdendo soltanto quello stagionale dei fuoricampo battuto nell’ultimo torneo da Carelli ed Hernandez, autori rispettivamente di 37 e 34 battute-punto contro le 24 del catcher parmigiano; il primato resisteva dal 1974. Dopo tanti anni la sua media battuta resiste là in alto, sulla vetta dei più grandi del nostro baseball: .421, una media mostruosa se si considera che è andato per 2.525 volte alla battuta, ottenendo 1.064 valide e venendo eliminato al piatto soltanto 97 volte. Era quasi impossibile metterlo strike out! Disse di lui Bruno Beneck: “E’ stato l’azzurro più determinante nella storia della Nazionale. Ricordo come se fosse ieri il fuoricampo decisivo contro l’Olanda ai Mondiali del ’78. E’ stato determinante anche per la nostra crescita”. Gigi Cameroni, ex allenatore della Nazionale: “Già da ragazzino si vedeva che sarebbe diventato il più grande Archivio Tuttobaseball Archivio Tuttobaseball Idolo delle folle Il 100° fuoricampo festeggiato con i compagni giocatore della nostra storia, sia per prestanza fisica che per coordinazione. Passione, caratteristiche fisiche, freddezza e dedizione sono stati i quattro cardini del suo successo”. Giampiero Faraone, allenatore della Nazionale: “Per me allenarlo è sempre stata una grossa soddisfazione, perché lo reputo il migliore in assoluto, superiore ad oriundi e stranieri”. Aldo Notari: “Castelli è riuscito nell’impresa, difficilissima, di dimostrare che anche in Italia, volendo, un giocatore di scuola nazionale poteva essere alla pari degli americani. E’ una figura di immenso valore, non solo per il baseball italiano ma per quello europeo”. Infine Guido Pellacini: “Castelli era fornito di doti superiori, ho potuto constatarlo quando iniziò a giocare ed aveva appena otto anni. A quell’età, e non credo di esagerare, dimostrava già una decina d’anni di esperienza. Una serietà incredibile ed una mentalità professionistica lo hanno portato a raggiungere i più alti traguardi in campo nazionale ed internazionale”. 89 IL PRIMO CAMPIONATO DI SOFTBALL di Riccardo Schiroli. Il percorso che porta al primo campionato ufficiale di softball femminile è piuttosto tortuoso. Come abbiamo visto, nell’immediato dopoguerra il softball era sport maschile piuttosto diffuso. Dal 1952 diviene anche, con la disputa della prima partita ufficiale, anche uno sport femminile. E’ difficile fornire una data precisa, ma è certo che tra la fine del 1949 e il 1950 una prima attività organizzata nasce a Milano, grazie alle sorelle Zambelli. Dall’autunno del 1951 inizia ad allenarsi anche il Torino. Al riguardo della stagione 1951 possiamo riportare una testimonianza di Mario Bretto: “Si trattava di una attività amatoriale. Potremmo quasi definire quel che facevamo una scampagnata folcloristica. Però non va dimenticato che la società tentava di darsi un’organizzazione, con tanto di direttivo”. Dicevamo del 1952: mentre il softball maschile scompare quasi definitivamente dalla scena (divenendo a tutti gli effetti un’attività amatoriale per ex giocatori di baseball; la FIBS varerà un campionato solo nel 2008), al campo “Bernini” di Torino si disputa il 24 aprile la prima partita di softball femminile. Per la cronaca, la vincono le Yankee Milano (12-5) sul Torino BC. Il primo arbitro di softball è Mario Bretto. Nel 1952 non verranno giocate altre partite Dagli appunti di Renato Germonio, pioniere del softball e membro della Hall of Fame, si ha l’impressione che nella prima metà degli anni ’50 il softball femminile fosse visto inizialmente come un vero e proprio ‘derby’ tra le città di Torino e Milano. Sono infatt 4 le squadre ad incrociare le armi: a Milano l’Inter e il Milano e a Torino i Tigers di Bianca Germonio e il Torino di ‘Pucci’ Meschieri. Queste squadre giocano anche gare ufficiali, che però la FIPAB non riconosce, tanto che l’albo d’oro del softball italiano si aprirà con la stagione 1969. Interessante comunque è sul periodo il contributo di Giancarlo Mangini, che parla anche di una attività in espansione verso altre città del nord. 90 Ecclesia Ecclesia La prima partita di softball del 24 aprile 1952, giocata al campo “Bernini” di Torino: Ernesta “Pucci” Campioni è il catcher del Torino, V. Zambelli è il battitore delle Yankee Milano e Mario Bretto è l’arbitro Una foto del Torino che ha disputato a Napoli l’11 ottobre 1959 l’ultima partita di quella era “Mi era giunto all’orecchio che, nella vivace Torino di allora, i pionieri del baseball Renato Germonio, Piero Spinelli e C avevano diffuso il verbo tra le tifose, creando diverse squadre soft. Pucci Meschieri, eccezionale grinta tuttofare, Donatella Spinelli, la classica Carla Ferrero, la fiumana (e tuffatrice internazionale) Zinna Mihic: erano le sacerdotesse più in vista della nuova disciplina. Rientravo in Italia da Londra per una nuova stagione di baseball e un tarlo rodeva la mia dura testa istriana, nonostante i miei compiti da, ehm... giovanissimo allenatore-giocatore, non fosse mai che i primigeni pionieri lombardi restassero indietro in fatto di ‘pupe’. Detto fatto, Sim Sala Bim! Ecco l’Ambrosiana di via Rossetti, con le sorelle Zambelli, le Sommacompagna, le Mazza, le Ottaviani sisters. Fanciulline prodigio intente, sul grande campo antistante il Leone XIII, a carpire i segreti dei maschietti, si trattasse di palla soffice o dura. Duri allenamenti g-i-o-r-n-a-l-i-e-r-i, progressi incredibili, un clima da ‘Facciamo il Tifo Insieme’ (con Ester Williams, preciso). Sull’altra sponda, a Città Studi, il robusto CUS Milano di Gigi Cameroni, l’amico avversario dello stesso sito nostro (la mitica via Carpaccio), con il fenomeno Eugenia Carpani, una Carolina Morace ante litteram (bionda, era la figlia dell’arbitro internazionale di calcio), Anna Pegan (moglie di Gigi), Vera del Re, Wanda Caminada, le Burlini la forte Cicci Scanziani. Un super team, che però (attenzione) perderà il primo titolo femminile (13-12) contro le mie sorprendenti (e non pronosticate) arancioblu. Anno di grazia: 1953; staccato il blocco ‘torinese’ (Torino, Alessandria, Genova, Verona etc.). Si rifaranno poi le cussine, in mezzo al tifo infernale ma sportivissimo, che caratterizzava il primo softball. Nel 1955 un consistente gruppo di azzurri, attuali o futuri, mette a rumore il baseball meneghino. Con me e mio fratello Sergio, Gigi Manca, Folicaldi, Cerea, Zaino e altri trasmigrano dall’Ambrosiana all’Inter Libertas, trainando con sé alcuni pezzi da novanta del team femminile (Pucci e Vittoria Zambelli su tutte) e a rimpolpare così le fila nerazzurre. Morale: secondo titolo per il sottoscritto, cui l’amico Jimmy Strong (manager Ecclesia resiste il Genova. Una certa attività continua anche a Napoli. Proprio Napoli e Torino sono le ultime realtà ad arrendersi: alla fine del 1959 risultano le uniche squadre in attività e disputano l’ultima partita l’11 ottobre. Il softball femminile finisce così nell’oblio per quasi un decennio. Commenta Giancarlo Mangini: “Fu per il disinteresse federale, e conseguente scarsa propaganda? Fu perché il softball era poco diffuso in Europa, dove si giocava solo in Olanda, Belgio, Inghilterra e Cecoslovacchia? Di tutto un po’, comunque una tristezza...” Il Car Renault Torino esulta: ha appena vinto il primo scudetto di softball Inter baseball) aveva affidato, oltre che la prima base, la sezione donne. Il risultato della finale sul Torino dell’ottima Meschieri fu di 28-13. Staccate Verona, Genova, Cus Milano, Juve Torino, Ambrosiana e Tigers Torino nell’ordine. Fu l’ultimo anno in pratica di Inter e Ambrosiana ed iniziò l’era del Cus Milano (divenuto Bipantol, arriverà a sfidare le squadre olandesi), passato da Cameroni, come me troppo impegnato nel baseball, all’ex arbitro Alfio D’Aprile e poi definitivamente a Pietro Troiani, ex pitcher ambrosianista e grande azzurro dell’atletica veronese. Furono campionati vinti a gogò (5 in fila), poi il softball iniziò a svanire in tutte le città tranne Napoli, regno del professor Fatatis”. Mangini parla di ‘titoli vinti’, ma come sappiamo il primo titolo italiano di softball femminile sarà assegnato solo nel 1969. Un certo fermento a partire dal 1955 lo conferma comunque Mario Bretto, che però puntualizza: “Molte delle formazioni avevano solo buone intenzioni, ma non erano in grado di giocare per un intero torneo. L’organizzazione era approssimativa e il numero di tesserati era scarso. Le partite si giocavano quando le squadre potevano e non c’erano arbitri federali, perché quelli disponibili la FIPAB li utilizzava per il baseball. Proprio per questa mancanza di affidabilità la Federazione non si decise a varare un campionato”. Ricordiamo comunque anche alcune delle grandi protagoniste degli albori del softball italiano attive a Torino: Ernesta “Pucci” Meschieri, Marisa Delù, Stella Belloni, Olimpia Zanola, Sergina Bretto Stando all’analisi sul tesseramento negli anni ’50, completata tra il 2007 e il 2008 da Roberto Buganè, le squadre attive in quel decennio sono Cus, Ambrosiana, Yankee e Bipantol a Milano, Monza, Genoa, Coas Napoli, Cus Padova, Tergeste, Circolo Venezian Trieste, Bentegodi Verona, Juventus, Tigers, CN Gei e Torino nel capoluogo piemontese. Ma così come sono nate, molte squadre scompaiono. A Milano rimane il solo Bipantol, a Torino restano Torino e Tigers, Nel 1968 il presidente della Lazio Bruno Beneck presenta il rilancio del softball femminile all’Acqua Acetosa a Roma. Secondo un cronista, molte giocatrici dell’ISEF di Napoli indossano per l’occasione la maglia della sezione softball della Lazio. Beneck, che si candida alla carica di presidente della Federazione, promette il rilancio del softball. Nasce la Commissione nazionale softball (CONAS) e Renato Germonio ne diviene il presidente. Con lui collabora Elio Bertirotti. Lo stesso Mangini si impegna “a diffondere con ogni mezzo allora possibile il rinato verbo, quasi invasato”. Proprio nel 1968, il softball fu vicinissimo ad entrare nel programma olimpico, grazie all’intraprendenza dell’allora Segretario generale della Federazione mondiale (ISF), un giovane statunitense di nome Don Porter. Il softball suscitò interesse presso il CIO a Città del Messico, ma l’ingresso nel programma venne in effetti dilazionato fino al 13 luglio 1991, quando a Birmigham (Gran Bretagna) venne presa la decisione di varare il torneo Olimpico di softball. Le prime Olimpiadi della palla soffice si disputeranno ad Atlanta nel 1996. Nel 1969 a Torino rinascono 4 squadre: Car Renault, Renoir Claudier, Ciadit e Amatori. Si forma anche la squadra delle New Stars ad Avigliana, una trentina di chilometri dal capoluogo. L’ultimo ostacolo per l’avvio di un’attività ufficiale riguarda le divise. Renato Germonio definisce la disputa su quale tipo di abbigliamento debbano avere le giocatrici di softball come ‘la guerra delle mutande’. Quando il 5 maggio 1969 inizia il primo campionato di softball, secondo la testimonianza di Germonio, le squadre attive in Italia sono circa 200 e la nuova disciplina è letteralmente esplosa: si gioca dall’Adige alla Sicilia. Il primo campionato ufficialmente organizzato dalla FIBS vede al via 15 squadre suddivise in 2 gironi. Dal girone torninese emergono la Car Renault e il Renoir Claudier, che si dividono i 2 scontri diretti e vincono tutte le altre partite. Dal sud emerge il Napoli, che il 4 ottobre 1969 si presenta al campo di via Pensieri a Livorno come la grande favorita per il titolo. In una partita combattutissima, il Car Renault si impone (1312) alle napoletane, che poi battono (26-16) il Renoir Claudier. Il girone di finale sembra destinato alla ripetizione, perché nella terza partita il Renoir Claudier arriva in vantaggio 6-2 al settimo inning; imprevedibilmente, crolla a quel punto sotto il peso di 6 errori. I 7 punti segnati nella parte alta del settimo bastano al Car Renault Torino per contenere il ritorno delle avversarie 91 NASCE LA NAZIONALE DI SOFTBALL di Riccardo Schiroli. “Bruno Beneck sapeva che ero un appassionato di softball, uno sport che avevo imparato a conoscere a Londra, nei primi anni ‘50. Ero lì per studio, lavoro (poco: caricature, vignette, qualche canzone da crooner nei club). Diciamo che gozzovigliavo, in attesa della stagione successiva di baseball, da disputarsi a Milano sul versante Ambrosiana. Per sgranchirmi le gambe andavo ad ‘Hyde Park’ non solo ottimo ‘terreno di caccia’ alle ‘girls’. Era pieno di yankees, con diamanti che si incrociavano e turbinio di palle, soprattutto da softball. Erano coinvolti British e stranieri, era una sorta di Central Park al di qua dell’Oceano”. Così Giancarlo Mangini si appassiona al softball: “Nel nord Italia, a differenza del centro sud, avevamo optato subito per il baseball, pronubo Max Ott, lumando con un certo distacco il parente minore. Confesso che mi ci volle pochissimo per adeguarmi alla palla più grossa e al lancio di sottomano, che controllavo in scioltezza”. Non avrebbe pensato che si sarebbe trovato ad allenare la prima Nazionale di softball: “Certo, tra appassionato e allenatore della Nazionale passa una bella differenza. Forse influì anche il fatto che io avevo fatto capire al presidente che avrei smesso col baseball, non appena avessi finito la mia carriera di giocatore”. Lo stimolo di dare il via all’attività della Nazionale di softball è evidentemente quello giusto per Mangini, che alla soglia dei 40 anni forma, nel 1969 (con Gianni Sbarra ed Enrico Sandulli, il professor Fatatis era il direttore sportivo), il primo staff tecnico azzurro. “C’era da fare tutto. In verità in quel periodo il problema era che non c’erano giocatrici” ricorda Mangini. Mangini inizia da Napoli la sua prima selezione, poi si porta a Torino e Forlì: “Il problema più che altro erano le lanciatrici. A parte Donatella Spinelli di Torino, praticamente non ne avevamo”. La futura Nazionale inizia a confrontarsi con squadre delle varie basi NATO. “Ci volle tanto coraggio. Ci trovavamo contro delle matrone - sorride Mangini - ma le nostre erano ragazzine”. Che comunque vincono tre incontri: a Finale Ligure (19-11) a Roma (7-3) e ad Ascoli Piceno (15-5). “Quelle gare - ricorda Mangini - rivelarono il potenziale della quindicenne romagnola Milva Ceccarelli, che gli americani definivano ‘born to play’. Tra le giovani ricordo anche la romana Orietta Clarck e la napoletana Di Pinto. Ovviamente si misero in luce anche le veterane Pucci Meschieri Campioni e Carla Ferrero”. Il 1970 è l’anno dei primi incontri tramandati ai posteri come ‘ufficiali’. Si tratta di tre amichevoli con l’Olanda, giocate ad Haarlem, Finale Ligura e Novara. L’Italia le perde tutte e tre: “L’Olanda era per noi un grande esempio - suggerisce Mangini 92 Archivio Torino Junior e vincere (9-7) la partita che assegna il primo scudetto del softball italiano. Queste le campionesse d’Italia: G. Wolk, S. Wolk, Dorini, Pedriali, Meschieri, Germonio, Vegni, Manzoni, Carenzo, Morelli. Gli arbitri della finale sono Cerrai di Roma e Pedacchia di Nettuno. 24-6-1953: Torino e Genova in campo al “Motovelodromo” per la prima partita con pubblico pagante. L’incasso sarà di 7500 lire Lo score della prima vittoria della Nazionale di softball sull’Olanda - confrontarci con loro ci servì molto”. Allo staff tecnico si aggiunge Tino Soldi. Dal 19 al 25 giugno 1972 l’Italia ospita a Reggio Calabria la prima Coppa Intercontinentale. Le azzurre perdono tutte le partite (con Canada, Stati Uniti e Zambia), ma l’Italia del softball conosce Donna Lo Piano, la grande lanciatrice delle Raibestos Brakettes, la squadra che era stata vestita di bianco, rosso e blu per rappresentare gli Stati Uniti. “Lei e Joan Joyce lanciavano missili a livello degli uomini” ricorda Mangini. Prima di chiudere la sua parentesi alla guida della Nazionale, Giancarlo Mangini fa comunque in tempo a festeggiare la prima vittoria sull’Olanda. Accade il primo giorno dell’agosto 1973 a Zandvorf, quinto di una serie di test match che era iniziata con quattro sconfitte. Le azzurre passano in vantaggio al secondo inning, grazie alle valide di Barolo e Borghino sul lanciatore olandese Mulder, e finiscono con il dominare (8-3) la partita. L’Olanda gioca abbastanza male in difesa (5 errori) e le mazze azzurre (8 valide) sanno approfittarne, colpendo al momento giusto. Borghino (3 su 4 ed un triplo) fa la parte del leone. Trevisan (5 valide e 3 strike out) firma il successo in pedana di lancio. Archivio Tuttobaseball Sfila la Nazionale italiana al Mondiale 1970 IL PRIMO MONDIALE DI BASEBALL di Giorgio Gandolfi. E’ una Nazionale imbottita di giovani quella che il 19 novembre 1970 esordisce a Cartagena, in Colombia, sotto la guida del tecnico americano Chet Morgan, di stanza a Parma perché ingaggiato dalla Tanara nel tentativo di dare corpo alle proprie ambizioni. Tanti giovani... minorenni, ma anche qualche anziano, secondo logica, del calibro di Giulio Glorioso (39 anni) e Alfredo Lauri (35), colonne del baseball romano. Completano il gruppo Ennio Paganelli (20 anni), Giorgio Castelli (19), Roberto Ceccotti (19) ottimo prospetto del Ronchi dei Legionari, Carlos Passarotto (25), Ivan Cavazzano (25), Claudio Iaschi (22), Giampaolo Mirra (24), Luigi Ugolotti (20), Giacomo Bertoni (19), Gianni Gatti (25), Stefano Malaguti (26), Giuseppe Silva (21), Alfredo Meli (26), Pietro Monaco (27), Federico Corradini (22) e Gianni Lercker (26) . E’ un’avventura in piena regola per quasi tutti, il loro primo Mondiale di baseball sotto l’egida della Federazione internazionale; in realtà si tratta della 18° edizione, considerato che la manifestazione partì nel 1938 in Gran Bretagna, con la partecipazione di due sole nazioni: appunto i padroni di casa e gli Stati Uniti che, incredibile ma vero, vennero battuti. Stavolta la Federazione italiana, presieduta da Bruno Beneck, ha deciso di mettere la testa fuori dal suo isolamento, di dare un’occhiata attorno, in mezzo alle grandi. In effetti ci sono quasi tutte: Cuba, USA, Porto Rico, Colombia, Venezuela, Repubblica Dominicana, Guatemala, Nicaragua, Antille Olandesi, Italia, Canada e Olanda, che si classificheranno nell’ordine dopo sedici giorni di sfide abbastanza equilibrate, tanto è vero che Cuba nelle due finali supererà gli Stati Uniti per 3 a 1 e 5 a 3. Già il viaggio dalla Spagna su un aereo colombiano non è il massimo come assistenza, ma il peggio doveva venire nella sistemazione alberghiera. Ce lo ricorda Giorgio Castelli con queste parole: “Arrivammo in Colombia con due spedizioni, noi del nord con i romani due giorni prima con atterraggio a Cartagena, i cosiddetti ‘milanesi’ con i dirigenti federali con volo a Bogotà. Sembravamo una squadra diretta al fronte, 93 Archivio Tuttobaseball Castelli a punto sul campo di Cartagena de las Indias poca esperienza, poche alternative, tanto è vero che faceva un caldo boia e noi saremmo scesi in campo con una divisa fatta di stoffa spessa due dita. Immaginarsi le sudate. Il peggio però fu l’arrivo in piena notte nell’albergo che ci attendeva, una palazzina gestita da un greco che spiccicava qualche parola d’italiano. Quando entrammo nelle stanze trovammo delle pale di ventilazione che sembravano eliche d’aereo. Un incubo. Ma quando spostammo le lenzuola ci accorgemmo che erano piene di ‘cucarachas’, gli scarafaggi giganti tipici di queste zone. Ci mettemmo di buona lena all’opera di rimozione, visto che cascavamo dal sonno, e finalmente riuscimmo a dormire. Al mattino, fatta la colazione, il greco ci invitò a visitare la piscina: c’erano due spanne d’acqua piene di rane! Con l’arrivo di Notari e del segretario Ceccotti, traslocammo quasi subito in un albergo sul mare di Cartagena: noi al quarto piano, gli olandesi, che erano già arrivati, al secondo. Ad aspettarci un cartello scritto a mano: Benvenuti ai campioni d’Europa. Alcuni giorni dopo, in seguito alle nostre sconfitte, qualcuno con una penna aggiunse: Campioni di che?” Bene o male l’Italia esordisce al Mondiale contro il Guatemala 94 ìn una gara molto equilibrata con cinque valide a testa, altrettanti errori (2) ma con un solo punto di vantaggio per gli avversari. Un buon inizio, dunque, anche se col Portorico il punteggio sarebbe stato più severo, 4 a 0. Il meglio l’Italia l’avrebbe fornito contro gli Stati Uniti che si presentano per l’occasione in campo con alcuni autentici giganti, almeno rispetto agli italiani che come altezza, peraltro, non erano dei pigmei. Lasciamo la parola al protagonista di quella partita, Giacomo Bertoni: “Perdemmo di misura, 3 a 2, ma è il caso di dire che non lo avremmo meritato visto che i loro punti furono la conseguenza di situazioni abbastanza fortuite. Io ero in vena, i miei 19 anni mi permettevano di sparare delle autentiche cannonate e poi il pubblico colombiano era tutto per noi e per me non mancava l’urlo ‘ponchalo, ponchalo’ (mettilo strike out). In verità ne ‘ponchai’ almeno una decina, ma la fortuna era dalla loro parte, specie quando l’arbitro non chiamò un doppio gioco, lasciando così due corridori in base. In battuta c’era un mancino che, nel tentativo di schivare un lancio, colpì involontariamente la pallina che finì in terza base, Archivio Tuttobaseball Archivio Tuttobaseball Mondiale 1970. Azzurri in campo e con Max Ott superando il nostro difensore e permettendo ai due americani in base di andare a punto. Vi giuro che è vero. Alla fine comunque ricevemmo molti applausi ed i complimenti degli stessi americani: alcuni, parlando con Glorioso, gli dissero che non sapevano che in Italia ci fosse il baseball...” Bertoni divide la camera con Castelli, il suo ricevitore. Giocatore del Rimini, non immagina che la sua vita futura sarebbe stata quella parmigiana, in tandem con l’amico Giorgio. Con sua grande sorpresa, Bertoni si vede arrivare in albergo tre talent scout americani, che lo fotografano e gli chiedono cento dettagli sulla sua vita. “Mi dissero chiaro e tondo” ricorda Bertoni “Che ero pronto per giocare in America e che presto le loro squadre si sarebbero fatte vive: immaginarsi la mia... fibrillazione, andare a giocare negli USA, il sogno di noi tutti. Invece quando tornammo in Italia non successe nulla, anche perchè a Bollate era nato un contrasto con la società per via del mio tesseramento per il Rimini e la Federazione, a sua volta, non aveva alcun interesse a lasciarmi andare negli Stati Uniti, perchè in questo caso non avrei più potuto giocare con la Nazionale. Tanto è vero che poi cambiarono le regole del tesseramento, per cui un minorenne com’ero io non veniva automaticamente svincolato, anche se si spostava di 300 chilometri. Così quando mi trasferii a Parma, frequentando ogni giorno Castelli, ci accontentavamo di andare in viale Piacenza a vedere nascere lo stadio e a sognare che il baseball diventasse una grande realtà” . Come in pratica fu dalla metà degli anni ’70 alla metà degli ’80, prima del grande crollo. Ma torniamo al Mondiale colombiano, alle successive partite. Ancora una sconfitta di misura con le Antille Olandesi (4-2), più netta con Cuba ( 9-1), una figura discreta col Nicaragua (6-2). Poi viene la sfida con l’Olanda. Il meglio dell’attacco azzurro è espresso da Giorgio Castelli, che alla fine del torneo presenterà un biglietto da visita ragguardevole: 14 battute valide in 39 turni con due tripli, un doppio ed un fuoricampo interno, proprio a spese degli ‘oranjes’. Una battuta lunga e penetrante che dà modo a Giorgio di galoppare a casa base dopo avere spedito a punto altri due compagni. Anche Passarotto (8 valide complessive ), Iaschi ( 7 ), Cavazzano (5) e Ceccotti, alias Cicotti secondo gli score locali (6), danno una buona mano nell’arrotondare il bottino finale (6 a 2), contraddistinto da 10 valide contro 8, 0 errori contro 3. Il torneo si chiude con due nette sconfitte ad opera di Venezuela ( 11-1) e Domincana (10-1). Nel complesso un solo successo, doppiamente importante, più il fiore all’occhiello rappresentato da quel 3 a 2 sfortunato con gli USA. Con 359 di media battuta Castelli si conferma leader della squadra (Paganelli è a quota 500, ma con una valida in due turni), seguito da Ceccotti 231, Passarotto 229, Lauri 200, Cavazzano 192, Jaschi 189, Mirra 172 quindi Ugolotti e Bertoni 167. In difesa 12 errori di Passarotto, 3 a testa di Cavazzano, Mirra e Malaguti. Con 6 out in seconda Castelli dimostra che con lui è difficile rubare. Sul monte di lancio Bertoni totalizza 17 strike, out concedendo 22 valide, con una media punti guadagnati di 4.42 in 18 riprese. La miglior media è di Lauri (1.35) con 12 valide e 5 kappa; Paganelli 2.45 ( 3.2 inning, 5 valide), Silva 3.18 ( 25 valide in 22 riprese lanciate), Glorioso 4.50 ( 8 valide in 6 riprese), Lercker 6.60 ( 25-15), Corradini 13.50 ( 14-6.2), infine Gianni Gatti utilizzato per due riprese con 27.00 ( 9 valide). Gli unici due fuoricampo al passivo sono addebitati a ‘Chico’ Corradini, 17 le basi gratis di Bertoni. Nel complesso una media di 5.14 con 120 valide in 87.2 inning. L’unica vittoria sul monte, con l’Olanda, è opera di Teddy Silva. L’Italia torna a casa dal suo primo mondiale con un bilancio soddisfacente: meglio di così non si poteva fare contro i colossi americani. 95 Il diploma di partecipazione al primo Mondiale di softball del tecnico azzurro Tino Soldi IL SOFTBALL SI FA MONDIALE di Riccardo Schiroli. Nel 1974 il presidente Beneck decide di partecipare al Mondiale di softball, del quale si svolgeva la terza edizione negli Stati Uniti, precisamente nel Connecticut. Al neo manager Tino Soldi viene affiancata Donna Lopiano, la numero uno dei lanciatori dell’epoca. Lopiano ha appena 28 anni e un caratteraccio. “Altroché” - ricorda Tino Soldi - quando si arrabbiava sembrava un toro, buttava per aria tutto. Dopo la sconfitta con gli Stati Uniti mi vennero a chiamare per paura che distruggesse l’albergo. Io ammetto che mi faceva anche paura”. Lavorare con Donna Lopiano cambia per sempre il modo di intendere il lancio del softball per i tecnici italiani. “Noi conoscevamo solo il movimento a fionda” - confida Soldi - e lei ci fece capire che, a quei livelli e contro quei battitori, non saremmo riusciti ad ottenere nulla, a quel modo. Fu Donna, che ci introdusse al movimento del lancio a mulinello”. I risultati sono stupefacenti, perché la giovanissima Italia vince 3 delle 7 partite disputate (contro Portorico, Nuova Zelanda ed Isole Vergini), cedendo a Canada e Taiwan con un solo punto di scarto. “Donna puntava molto su Nadia Barolo, che allora aveva appena 14 anni - continua Tino Soldi - le insegnò il movimento a mulinello e ottenne risultati davvero incredibili, tanto che Nadia divenne il nostro lanciatore numero uno per quel torneo. Ricordo che si comportò molto bene anche Carla Martignago”. Se i risultati sul campo furono ottimi, lo si deve anche al periodo di preparazione svolto a Caserta. “Quello è uno dei ricordi più particolari che ho. Noi eravamo in albergo a Caserta, ma avevamo qualche problema per allenarci, visto che il campo comunale era in brutte condizioni. Si offrì di aiutarci un certo Commendator Schiavone, offrendoci un suo terreno. Ci garantì che lo avrebbe reso utilizzabile e messo a nostra disposizione in pochissimo tempo. Infatti gli bastò una notte per spianarlo”. Donna Lopiano interrompe la sua collaborazione con la Nazionale italiana subito dopo il Mondiale. Aveva completato 96 il dottorato di ricerca e iniziato la sua fortunata attività professionale fuori dal campo. Tino Soldi è invece ancora il manager in occasione del Mondiale 1978, che si gioca in San Salvador. “Ci parlavano di guerriglia e di ‘Sendero luminoso’ e noi facevamo fatica a capire. Però tutti avevamo notato che i poliziotti erano giorno e notte con la nostra delegazione”. Il risultato sul campo è per altro ancora una volta sorprendente. Le azzurre chiudono con 4 vittorie (Nicaragua, Belize, Panama e Guatemala) e 4 sconfitte, cedendo per altro con un solo punto di scarto a Stati Uniti e Nuova Zelanda. Nei suoi anni da CT, a Tino Soldi non riesce però di avere la meglio sull’Olanda, che sconfigge le sue azzurre 6 volte nei test del 1975 e vince a Rovereto nel 1979 il primo Campionato europeo della storia. L’Italia conta su uno staff di lanciatori, affidato alle cure del canadese Dave Pearce, che ha le stelle in Cena, Barolo e Martignago. Dopo aver dominato Belgio, Svezia e Spagna, le azzurre vincono il primo confronto con le olandesi (1-0) ai supplementari, ma si devono arrendere nella rivincita (3-1) e nella bella (5-0), lasciando alle arancioni il trofeo. “L’Olanda era davvero una bestia nera per noi - ricorda Rita Ramieri - bisogna ammettere che erano molto più preparate dal punto di vista atletico ed erano anche ragazze di taglia nettamente superiore alla nostra. Avevano però un difetto: giocavano in maniera abbastanza prevedibile, noi eravamo decisamente più creative. Dave Pearce continuava a ripeterci che non avremmo mai vinto, se non ci avessimo creduto. Ma la nostra volontà e la nostra creatività non bastarono”. Nata nel 1951, Rita Ramieri passò al softball dall’atletica, sport che le stava dando soddisfazioni: “Già, ero vicina alla Nazionale. Mia sorella mi attirò ad un allenamento magnificandomi le magliette che regalavano. Allora, era il 1969, non era così facile vedere articoli americani. Poi, fu amore a prima vista e nel 1970 partecipai al mio primo campionato. Nel 1971 vincemmo il nostro primo campionato come San Saba”. A SINISTRA: la stampa si occupa della debuttante azzurra Nadia Barolo AL CENTRO E A DESTRA: Donna Lopiano nel 1974 e oggi DONNA LOPIANO di Riccardo Schiroli. Nata nel 1946, Donna Lopiano è stata uno dei più grandi lanciatori di softball di tutti i tempi. Nella sua carriera vanta 183 vittorie (con appena 18 sconfitte) e 1633 strike out (con solo 384 basi) in 817 riprese lanciate, 3 titoli da MVP, 6 primi posti e 4 secondi posti nel campionato nazionale. Con l’intera formazione delle Brakettes, rappresentò gli Stati Uniti al primo Mondiale di softball, giocato a Melbourne (Australia) nel 1965. La sua carriera fuori dal campo è ancora più brillante. Laureata nel 1968 al Connecticut State College, ottiene un Master (1969) e completa il dottorato Ph.D. (1974) alla University of Southern California. Nel 1992 viene nominata Direttore generale della Women’s Sport Foundation, carica che ricopre ancora. Questa Fondazione si occupa di garantire pari opportunità alle donne nel mondo dello sport, offrendo un supporto fino ad un milione di dollari all’anno complessivi a diversi programmi di sostegno alle donne che praticano sport. “Posso dire che, per quanto mi riguarda, Donna Lopiano mi ha fatto fare il salto di qualità come lanciatore” ricorda Nadia Barolo, che all’epoca aveva solo 17 anni. “Quello che mi ha colpito maggiormente, è stata la sua mentalità vincente, la sua visione oltre quello che noi consideravamo ‘i nostri limiti’. Durante l’anno intenso di allenamenti in preparazione dei mondiali, mi ha trasferito una quantità di informazioni e, soprattutto, mi ha insegnato l’approccio mentale da utilizzare in allenamento, in partita, nel post partita, che continuano ad essermi utili ancora oggi, nel mio lavoro e nella mia vita privata. Nadia conferma che Lopiano era già allora persona di carattere: “Le espressioni ‘non posso’ o ‘non riesco’ non facevano parte del suo vocabolario. Anzi, si infuriava molto se qualcuno osava pronunciarle in sua presenza! Gli allenamenti erano molto intensi (non eravamo abituate a quei ritmi), ma Donna Lopiano prese in mano una squadra di ragazze, alcune, come me, giovanissime, e la trasformò in un team in grado di competere con squadre come il Canada, Formosa, Nuova Zelanda. Credo che i risultati parlino da soli. Ancora oggi rammento le sue parole più famose, che usava in continuazione: concentrazione e determinazione. Ammetto che ci piaceva prenderla in giro, imitando il suo accento quando le pronunciava”. Donna Lopiano ci teneva moltissimo a fare una bella prestazione contro la squadra degli Stati Uniti: “Purtroppo andò male. Fece partire me come lanciatrice, pensando di impressionarle per l’innovazione. Sono stata infatti la prima lanciatrice ad introdurre in Italia il lancio a mulinello. Mi fece anche fare il riscaldamento dietro le tribune, per non scoprire la sua tattica prima della partita. Il risultato fu che gli Stati Uniti fecero un bel ‘batting practice’ contro di me. Il primo inning fu interminabile. Riuscivano a battere in qualsiasi parte del campo. Comunque questo non mi scoraggiò, e successivamente mi presi le mie rivincite. Per Donna fu invece una tragedia; in seguito ci spiegò che lei aveva dovuto lottare duramente (in quanto italiana) per conquistarsi la stima degli americani ed in quella partita c’era molto di più che una semplice sconfitta sul campo di softball”. 97 Foto Renato Ferrini Vic Luciani in allenamento a S. Giovanni in Persiceto prima del Mondiale 1978 LA VITTORIA SUGLI USA DEL 1973 di Maurizio Caldarelli. Sotto la spinta del presidente Beneck, il baseball italiano fa un grosso balzo in avanti negli anni Settanta, decennio nel quale l’Italia è chiamata a prendersi importanti responsabilità organizzative. La prima è la Coppa intercontinentale, alla quale farà poi seguito il Mondiale ‘78. Sul campo arrivano soddisfazioni impagabili. Il 5 settembre 1973, proprio durante il primo trofeo intercontinentale della storia (disputato sui diamanti di Parma e Bologna), l’Italia batte gli Stati Uniti. A firmare la storica vittoria è un grande homer di una delle stelle dell’epoca, Vincenzo Luciani, meglio conosciuto da tutti come Vic, per essere rientrato in Italia dopo aver fatto anche esperienze professionistiche in Venezuela, dove si era trasferito piccolissimo insieme alla famiglia. “Io però non mi sono mai sentito un oriundo – tiene a precisare Luciani – perché ho sempre utilizzato il mio passaporto italiano e a 26 anni ho fatto anche il militare”. Quella gara il Vic non l’hai mai scordata: “E come potrei? C’era un’atmosfera magica quella notte all’Europeo di Parma. Ci avevano visti all’opera altre due volte, ma gli Stati Uniti avevano un fascino particolare. Per questo ci saranno stati diecimila, forse undicimila spettatori”. “La gara – prosegue Luciani – fu bellissima e durissima e la nostra squadra, allenata da Bill Arce, si comportò alla grande. Anche a causa di qualche errore di troppo in difesa, ci trovammo sotto 3-0 al 4° inning. Recuperammo il 3-3 al 5° ed al settimo ci portammo addirittura in vantaggio, grazie ad un lunghissimo fuoricampo di Sal Varriale, accompagnato a casa da Giorgio Castelli”. 98 Le emozioni di quel match non erano finite: “All’ottavo gli USA pareggiarono i conti, ma al 10° trovammo la forza per vincere”. E Luciani racconta quella legnata che mise al tappeto gli yankee: “Mi ricordo il nome del mio avversario: Lukevics. Andai sul conto pieno, tre ball e due strike. Al lancio successivo picchiai la pallina lontano, a destra. Rimbalzo su muretto e quindi caduta dall’altra parte. Iniziò una festa interminabile, che coinvolse la squadra ed i tifosi. Che bello! Riuscimmo anche a far scatenare una persona tranquilla come l’avvocato Morgantini, che era il capo delegazione”. E da quella sera Vic Luciani diventò la bestia nera degli Usa: “Nel 1980 – racconta – durante la Coppa del mondo firmai tre doppi e li battemmo per la seconda volta”. Della storica vittoria del 1973 Luciani ricorda anche un gustoso aneddoto: “Ad un certo punto della partita scese nel dugout il presidente Beneck, per incoraggiarci. Eravamo sul 5-3. Io ero il capitano della squadra e gli feci una mangiata di faccia e lo invitai a tornarsene in tribuna, anche per scaramanzia. Alla fine mi abbracciò e mi perdonò, ma solo perché avevo battuto il fuoricampo della vittoria”. Quella vittoria al supplementare addolcì in qualche maniera anche la sconfitta patita qualche settimana prima ad Haarlem nella finale del Campionato europeo e consentì alla fine di chiudere al 6° posto quella competizione, con tre vittorie (le altre contro Taiwan e Argentina). “A quei tempi non era facile mettere in campo la squadra migliore – sottolinea Luciani – a causa dei soldi. La Federazione non prevedeva né diarie, né Foto Renato Ferrini Ancora Luciani, capitano azzurro, durante la cerimonia di apertura dei Mondiali ‘78 al ‘Gianni Falchi’ rimborsi spese, ma solo un piccolo contributo per quello che il giocatore rimetteva venendo in Nazionale e molti rifiutavano. Comunque indossare la maglia azzurra era motivo di grande orgoglio. Non si disputavano tante partite come ora, ma ogni volta era una soddisfazione immensa. Io sono stato per otto anni il capitano e sono felice di aver dato il mio contributo. In più di dieci anni di Nazionale ho visto passare decine e decine di giocatori ed ho provato gioie immense come il trionfo all’Europeo di Haarlem nel 1977. Sono stato dieci anni ad alti livelli”. “Il baseball di quei tempi – secondo Luciani – era meno tecnico di quello attuale, ma il livello degli italiani probabilmente era più alto. E dove non si arrivava con le capacità si arrivava con il cuore. Quella maglia era una seconda pelle ed eravamo pronti a morire per difenderla. Nella scelta dei giocatori si guardava alla qualità e ce n’erano di ragazzi interessanti: Castelli, Rinaldi, Bazzarini, Di Raffaele, Cherubini, Costantini, Argentieri”. “Ed anche quando negli anni aumentò il numero dei giocatori con il doppio passaporto – aggiunge – non cambiò lo spirito. Avevamo un gran gruppo, composto da giocatori che per anni hanno fatto la storia di questo sport e che sono rimasti legati alla nostra terra, come Romano, Orrizzi, Colabello”. “Il merito – sottolinea Luciani – era anche di un grandissimo presidente, che ci seguiva passo passo, che ci stimolava e ci teneva insieme. Eravamo orgogliosi di giocare per l’Italia. Quegli anni furono caratterizzati anche da una cura maniacale nei rapporti con l’esterno. Mi ricordo che ci erano molto vicini giornalisti famosi come Enzo Tortora, che diventò un caso diplomatico per un articolo sul baseball, tanto da essere espulso da Cuba, Stefano Germano, Everardo Dalla Noce”. “Ricordo con piacere – aggiunge – l’influsso positivo degli allenatori di quegli anni, Guilizzoni, Montanini, Ambrosioni. Ed anche il segretario Massimo Ceccotti”. “Si badi bene, non erano nemmeno anni pionieristici e la Nazionale era lo specchio del campionato. Lasciai perché avevo una certa età, ma un gruppo a quel modo, credetemi, non l’ho più ritrovato”. Nato a Cellino Attanasio (Teramo) il 25 giugno 1946, Vic Luciani è stato uno dei migliori interni (giocava seconda base ed interbase) del nostro baseball. Rientrato in Italia dal Venezuela nel 1971, indossa la casacca del Cus Genova. Nel 1972 si trasferisce alla Fortitudo Bologna, dove rimane fino al 1981, vincendo 3 titoli italiani e 1 Coppa campioni. Miglior battitore del campionato nel 1977 (media .390), indossa la casacca azzurra per 47 volte. Appesi gli spikes al chiodo, inizia la carriera di allenatore a Bologna nel 1982. Nel 1984 vince il suo primo scudetto da manager. Nel 1986 passa sulla panchina del Grosseto, con cui conquista il tricolore nel 1986 e 1989. In Maremma, dove vive, allena fino al 1991. Dopo la non troppo fortunata esperienza di Novara, sembra uscito dal grande giro. Torna nel 2005 come coach del Grosseto e nel 2006 accetta di guidare in corsa una squadra di serie A1: il Parma, in evidente crisi. Luciani lo guida alla salvezza. 99 Archivio Tuttobaseball Gli azzurri posano per la foto ricordo dopo la vittoria dell’Europeo 1977 TRE TITOLI EUROPEI DI BASEBALL DAL 1975 AL 1979 di Giorgio Gandolfi. La stagione 1975 è un vero punto di svolta, visto che per la prima volta si giocano tre gare a settimana. E’ anche il primo campionato nel quale si fa ricorso all’innesto massiccio dei giocatori impropriamente definiti ‘oriundi’; si tratta di autentici cittadini italiani; è la risposta di Beneck ad un’Olanda che vince schierando cittadini olandesi nati nelle colonie. Il presidente Bruno Beneck presenta la nuova stagione all’Assemblea del 15 febbraio a Parma con un intervento vigoroso, da arrivo in scivolata in seconda base: “Il nostro sviluppo è stato notevole” - dice - anche se il contributo federale non è mai risultato adeguato, considerato che abbiamo costruito diamanti per 5 miliardi e mezzo di lire senza il minimo aiuto da parte del Coni. Ci siamo costruiti i diamanti da soli, con tanti sacrifici e non penso che gli amici di Grosseto e Firenze siano pentiti”. Invece proprio da Grosseto, in comunione con Parma, partirà la crociata che nell’84 porterà alle sue dimissioni. “Io non faccio drammi sul passivo della Federbaseball, 166 milioni di lire, sono soldi spesi bene. I debiti vanno riconosciuti in funzione della nostra crescita. Siamo un po’ pazzi, un po’ poeti”. Beneck sa che la scelta di affidarsi ai giocatori di scuola americana non è condivisa da tutti: “Molti sono stati pronti a fare le cassandre dimenticando che i nostri ‘oriundi’ sono autentici italiani, con tanto di passaporto, non hanno avuto i valori notarili degli Altafini e dei Sivori, per non dire degli antillani di cui fa incetta l’Olanda”. Come si vede Beneck non aveva alcuna sudditanza nei confronti del signor calcio o dei ‘potenti’ dell’epoca, sempre 100 pronto a dire quello che pensava. Così nel week end successivo partiva il campionato dove troviamo Craig Minetto, possente lanciatore da record, Danny Guerrero, Bob Ciccone, Tom Resigno, Tony Di Santo, cui si deve un fuoricampo di 107 metri per la Mobilcasa Firenze, John Criscuolo, Salvatore Taormina, Bob Gentile ed altri ancora come Roma, Bruno, Germano, il solito Michele Romano, Eddy Orrizzi, Mansilla, De Simone, Martone, Di Sanzo, Bonfonte, i due Spica nel Bollate, Punaro, Armellino, Basile, Croce, Prisco, Bordino, Casale. C’è un’altra novità importante: l’obbligo dei quattro under 18 italiani nella partita intermedia. Ancora oggi si discute se fu autentica salvaguardia del patrimonio nazionale. Darà modo in effetti a molti prospetti di inserirsi nel vivo del gioco, al punto da entrare di diritto nella storia del baseball: Trinci, Radaelli, Manzini, Matteucci, Borroni sono alcuni degli esempi. Il giovane Stefano Manzini nella Bernazzoli Parma, è terzo come percentuale strike out dopo Minetto e Di Raffaele, davanti a Corradini, Basile, Scerrato e Foppiani; Manzini è primo assoluto fra gli under precedendo Matteucci, Moro, Trinci, Marussich, Martinini e Del Santo. La novità era però invisa al pubblico e i detrattori del progetto, ieri come oggi, fanno notare che il solo Radaelli ha avuto una carriera regolare come lanciatore, tra questi prospetti. Il Milano manda addirittura una squadra giovanile a giocare all’estero sotto la guida del futuro presidente Alberto Koelliker: ci sono Braga, Giulianelli, Omiccioli, Cossu, Citi, Alessandro Ambrosioni, nipote di Silvano e Mauro Mazzotti, destinato a diventare il tecnico di tanti scudetti. Torna a giocare Castelli dopo che voci incontrollate l’avevano dato pronto al ritiro. Viaggia con una media... deludente, ‘soltanto’ 400, lui che aveva abituato i tifosi ad esibirsi sui Archivio Tuttobaseball Haarlem 1977. Da sinistra: John Noce, Craig Gioia, Giulio Montanini, Sal Varriale, Bob Ciccone e Peter Tranquillo A DESTRA: il logo dell’Europeo del 1977 500! Intanto Aldo Notari è stato in Messico, dove ha rappresentato Beneck, presidente della Confederazione europea, al congresso straordinario delle nazioni americane. I risultati sono stati superiori ad ogni aspettativa, la linea politica voluta da Beneck è stata accettata. A Città del Messico si è fatto un primo discorso serio a favore del baseball nei Giochi Olimpici. E’ incredibile che la volontà di uscire allo scoperto sia partita proprio dal piccolo ‘Davide’ Italia e non dal gigante ‘Golia’ degli USA. E’ nata così la Confederazione americana dove ci sono tutti (Iglesia della Colombia, Oropesa del Messico e così via). Tutti tranne i rappresentanti della Major League. Quando la Nazionale si raduna in vista degli Europei di metà agosto a Barcellona, si scoprono tanti buchi: i potenziali azzurri ‘italiani’ preferiscono rinunciare, c’è addirittura chi sostiene che non vogliano perdere le ferie, ma più probabilmente il dissenso riguarda l’utilizzo dei giocatori di scuola americana. Per fortuna, è il caso di dirlo, ci sono gli ‘oriundi’. Dell’elenco di trenta azzurrabili avevano risposto soltanto Bernicchia, Castelli e Cavazzano; in lista d’attesa Cattani, Vandi, Luongo e Massellucci. Avevano rinunciato Bazzarini (matrimonio), Laurenzi, Costantini, Bertoni, Fornia, Ugolotti (matrimonio), Luciani (infortunato), Argentieri, Rinaldi. Praticamente l’intera squadra: come affrontare l’Olanda senza questi titolari ? Nel 1971 aveva esordito in Nazionale il primo oriundo, un certo Campisi che non lasciò alcuna traccia. Ma il nucleo della squadra di Morgan era formato da tutti quelli che avrebbero scritto pagine importanti della storia azzurra (Glorioso, Faraone, Castelli, Bertoni, Meli, Monaco, Rinaldi, Luciani, Silva, Passarotto, eccetera). Era stata però l’Olanda a vincere, nel 1971 a Bologna (4-2) e Parma, dove si inaugurava il nuovo stadio, nella gara decisiva (1-0, contro il solito Beidschat), dopo aver conquistato (7-3) il diritto a disputare la ‘bella’ grazie ad una grande prova di Bertoni. Gli olandesi si erano ripetuti nel 1973 in casa (7-6 e 6-2). All’Europeo di Barcellona il vento cambia. Sul diamante sorto sulla montagnola, dove è di scena il Luna park e che più avanti diventerà la sede dei Giochi olimpici. L’Italia stavolta si presenta con forze in grado di rivaleggiare con quelle olandesi: in campo ci sono Ciccone, Di Santo, Martone, Miele, Orrizzi, Romano, Russo, Spica, Varriale, il meglio dei nostri ‘oriundi’. Ed è un trionfo. Nel giro di tre giorni, i primi tre d’agosto, in un caldo torrido, stritoliamo tutti gli avversari sotto il peso di 17 fuoricampo di cui quattro ad opera del silenzioso Mike Romano, tre di Di Santo e due a testa di Castelli, Ciccone, Orrizzi e Spica. Un’autentica samba alla quale gli oranje non erano abituati (5-1, 9-4, 9-4 i punteggi che umiliano i campioni d’Europa ). Hanno un bel dire i giornalisti olandesi, recriminando sull’utilizzo degli ‘oriundi’. Ricordo di avere scritto sulla ‘Gazzetta dello Sport’ che “L’Olanda deve godere di un bel sole, visto che ha schierato otto giocatori che non hanno nulla da invidiare ai ragazzi africani”. In verità avevo usato l’aggettivo ‘negretti’, allora non si rischiava l’accusa di razzisti. Sul monte di lancio i formidabili Romano e Martone più Cherubini, Foppiani, Miele, Peretti, Re. In verità Miele era partito male, visto che aveva concesso un fuoricampo da due punti all’antillano Lewis e nulla aveva potuto nel duello con il fuoriclasse Urbanus, oltretutto venendo sostituito troppo tardi. I lanciatori azzurri portano a casa 69 kappa concedendo 40 valide in 60 riprese. Nella partita decisiva l’Olanda è senza Urbanus e gli azzurri ne approfittano portandosi sul 6 a 0, 101 Archivio Tuttobaseball La difesa azzurra all’Europeo 1977 Urbanus viene schierato in seconda ma il fuoricampo di Di Santo chiude ogni possibilità di rimonta Dopo 21 anni di attesa (ma allora non c’erano gli olandesi), torna dunque a sventolare la bandiera tricolore; l’Italia di Beneck e Ambrosioni (con Bill Arce come direttore tecnico) trionfa. A chi importa se qualcuno scrive che hanno vinto i ‘paisà d’America’ ! Non ci fossero stati loro, forse non avremmo potuto neppure schierare la Nazionale. Ora comincia il difficile: nel 1977 l’Italia deve difendere il titolo in caso degli arrabbiatissimi (diciamo così) olandesi. La premessa è rappresentata dalla Nazionale juniores, che vince gli Europei a Parma. Ricordiamo come se fosse ieri l’immagine di Beneck che premia il capitano degli azzurrini, Claudio Corradi. In campo tanti futuri campioni: Borghino, Brusati, Camusi, Catanzani, Cianfriglia, Blanchetti, Carelli, Manzini, Radaelli, Trinci, Da Re, Corradi, Bardiani, Gastaldo, Giorgi. Il lavoro, dunque, premia. Se gli stranieri e gli oriundi sono bravi, quelli che crescono al loro fianco saranno di ottima levatura. Dipende sempre della qualità del prodotto da manipolare. L’Olanda sta perdendo alcuni dei pezzi più pregiati: Richardson, uno dei primi ex pro a giocare in Europa, Maat, Leurs, campioni che ci facevano impazzire. Richardson agli esterni prendeva palle impossibili, dopo trenta-quaranta metri di corsa. “Valida... valida... no, l’ha presa!” Era l’urlo che si spezzava in gola. Il 27 luglio ad Haarlem riprende il duello. Stavolta sono rimasti a casa Castelli (infortunato) e Miele, per motivi personali. 102 Lo staff tecnico vede il debutto di Silvano Ambrosiani come manager; con lui ci sono Faraone, Montanini, Guilizzoni e John Noce, con Roberto Frinolli preparatore atletico ed il medico dottor Lazzari. Fra gli azzurri la solita mescolanza. Landucci, dopo due anni in Italia, non ha ancora imparato la lingua. Studia all’università da... disc-jockey. Vuole diventare un radiocronista sportivo. Orrizzi parla con accento romagnolo, Craig Gioia è alto, snello, un volto da attore del cinema. In effetti è un divo della TV americana, ha già girato una quindicina di film, due dei quali con Charles Bronson. Studia ancora all’università. Bob Ciccone spezza il cuore alle sue tifose. E’ laureato in sociologia. Orrizzi poteva giocare nei Cardinals ma avrebbe dovuto interrompere gli studi, lasciare l’università col rischio di finire nel Vietnam. Meglio studiare. Dice che andrà in Alaska, a cercare petrolio. Sappiamo che, al contrario, è finito al caldo, in Africa. Giacchetti della Biemme Bologna, che aveva avuto offerte per giocare in America a football, insegna psicologia in una prigione. Ha avuto un permesso di sei mesi per fare... aggiornamento professionale in Italia. Quelli di casa nostra sono Bernicchia, Morville, Di Raffaele, Corradi, Carelli e Scerrato. Completano il gruppo Colabello, Fazio, Romano, Varriale, Spica, Portogallo, Luciani, Alfieri. L’Olanda, come sempre, accoglie l’Italia con spirito polemico. Brucia il fatto che i nostri oriundi sono forti, se non più forti, dei loro giocatori provenienti dal Borneo olandese, dalle Antille ed altre colonie. Oltretutto manca il braccio possente di Urbanus. Una spalla malridotta l’ha messo kappao. I padroni di casa escogitano anche il trucco di allungare il campo! Incredibile ma vero. Non potendo spostare i tralicci dell’illuminazione, li hanno ingabbiati lasciandoli nella zona degli esterni. Qualcuno rischia di finire all’ospedale per prendere una pallina vagante. Quando gli azzurri scendono in campo per allenarsi, lo trovano occupato dall’Olanda impegnata con i California Angels. In panchina l’ex tecnico azzurro, Bill Arce. Si fa viva anche la nostra ‘bestia nera’ Richardson, che torna sul diamante per una singolare sfida organizzata per festeggiare i 50 anni del baseball olandese: sfidare l’ex stella Usa Hank Aaron (cinquemila dollari d’ingaggio) nella classica gara dei fuoricampo. Davanti a diecimila persone, vince Aaron per 6 a 5. Per fortuna Richardson non può giocare, ha una caviglia scassata. L’Italia può dormire sonni tranquilli. Normale amministrazione le prime gare, Belgio, Spagna e Svezia vengono annientate. Varriale e Ciccone fanno a gara nei fuoricampo contro gli spagnoli, due a testa, otto complessivi, anche Gioia spara fuori la pallina. Quando si gioca con l’Olanda, lo stadio come sempre è strapieno. E’ una sconfitta di misura quella che attende i ragazzi di Ambrosioni (6-5) che alla fine non appare convinto. Non tutti gli azzurri hanno reso come sperava. L’ambiente è piuttosto teso. La tensione aumenta con la seconda sconfitta, che avviene in condizioni ambientali disastrose. Piove al punto che al settimo inning la partita è sospesa per un’ora, in parità (1-1) . Si riprende soltanto a mezzanotte, dopo un temporale protrattosi per due ore e gli ‘oranje’ prevalgono su un terreno scivoloso che li mette a loro agio (2-1). E’ il 30 luglio ma la temperatura è invernale. Molti olandesi, ubriachi a forza di bere birra, prendono di mira Beneck colpendolo con le lattine. La polizia è costretta a presidiare il dugout azzurro, dopo che alcuni tifosi hanno derubato gli azzurri di palline e mazze che erano appoggiate alla rete di recinzione. Faraone se la prende con un arbitro italiano, Grimoldi, per una sua decisione e viene espulso. C’è caos anche in tribuna stampa, siamo costretti ad abbandonare i posti. Ovviamente è la conseguenza della violenta campagna stampa inscenata da alcuni giornali contro l’Italia degli oriundi. Al punto che sul dugout azzurro è comparsa la scritta: “American All Stars”. Pazienza, perché nella terza partita, giocata in un pomeriggio dalle condizioni climatiche normali, l’Italia vince. Dopo il deludente Gioia, tocca a Giacchetti lanciare e vincere. Dopo due inning gli azzurri stravincevano, 5 a 0. Nel finale, l’Olanda rimontava quattro punti, facendo suonare il campanello d’allarme per la panchina. A questo punto, Ambrosioni rimanda in campo al nono Gioia e stavolta il pitcher del Parma fa il suo dovere, dopo avere passato in base il temibile Maat e poi ben controllato tre antillani (7-4) . A questo punto, gli azzurri appaiono rincuorati e nel quarto incontro vincono nuovamente ( 4-1). Scerrato e Di Raffaele concedono ai padroni di casa appena cinque valide mentre in difesa Romano è superbo: compie alcuni autentici miracoli al punto che anche i tifosi avversari finiscono per applaudirlo. L’Italia vince la partita decisiva con il minimo scarto (10). Romano è il lanciatore iniziale (zero valide), ma viene fermato da una vescica e Landucci è quello conclusivo e decisivo (7 riprese, zero valide, 5 kappa). I lanci del novarese sono micidiali, col suo caricamento nasconde letteralmente la pallina al punto che Meyer e Richardson, i due tecnici olandesi, chiedono vanamente a più riprese, il ‘balk’. Niente da fare, i lanci sono regolari: il problema è degli olandesi, che non vedono la pallina e girano a vuoto. La fatica ha cominciato ad avvertirsi soprattutto fra i padroni di casa che in campionato continuano a giocare due partite contro le tre degli italiani. Luciani è il migliore in attacco, chiude a mille. Al quinto turno gli subentra il giovane Corradi autore del punto decisivo: una battuta lunga sul centroesterno che, ingannato dal vento, perde la pallina e la partita. Giunto in seconda, Corradi è poi spedito a casa da una gran battuta di Landucci. Ancora Alfieri il fuoricampista principe. Bernicchia (sostituito da Tranquillo), Luciani (Corradi), Alfieri, Landucci, Ciccone, Orrizzi, Varriale, Romano, Spica i neo campioni d’Europa. Come si vede Landucci lancia e batte senza alcun problema. E come batte. E’ la prima volta che l’Italia vince il titolo in casa della nazione più titolata come baseball. Beneck è la persona più felice del mondo e risponde a tono alle pronte polemiche dei giornali olandesi : “Hanno vinto gli oriundi, non l’Italia” tuona un giornalista locale. “ Se hanno il passaporto italiano - replica il presidente - per noi e per il Comitato olimpico vanno bene. Voi olandesi state a guardare se gli antillani hanno il colore della pelle diverso dal vostro ?” Il quotidiano ‘De Telegraaf’ spara un gran titolo: “Oranje foetsie door Landucci” che vorrebbe dire: ‘Olandesi bidonati da Landucci’. Ambrosioni racconta cos’era successo dopo la seconda sconfitta: “Ho radunato in albergo i giocatori e ho detto loro: se qualcuno non se la sente di continuare lo dica subito, domattina Ceccotti gli farà trovare il biglietto per rientrare in Italia. Ovviamente bluffavo ma i ragazzi mi hanno preso sul serio. Volevo sollecitarli nell’orgoglio, penso di esserci riuscito”. Il bello è che Landucci era stato aggregato alla squadra come terza base. Poi il forfeit di Colabello aveva indotto i tecnici ad utilizzarlo sul monte. E’ stato una sorpresa anche per loro. E che sorpresa! Non c’è il due senza il tre, è proprio il caso di dirlo: nel 1979 a Trieste e Ronchi dei Legionari, grandi scorpacciate di trippa e vinelli seri e soprattutto scorpacciata di punti. L’Olanda viene semplicemente travolta, presa più che mai da... oriundite. Bastano i risultati per dare un’idea della cavalcata azzurra: 141, 5-0, 8-4 e 8-5. Come a dire: Italia, Italia, Italia! Ci sono altri giovani del Club Italia, come Dario Borghino, ci sono i soliti Landucci (1.29 di mpgl) e Romano ( 1.00); in attacco i bomber sono Russo (.429) , Del Sardo (.400), Di Marco (.385), Perrone (.364), Spica (.304), Varriale e Ciccone (.300), e poi via tutti gli altri: Cortese, Costantini, Guzman, Mondalto, Orrizzi, Vandi, coi lanciatori Avallone, Biagini, Brassea, Colabello, Landucci, Perrone e Romano. Beneck e Guilizzoni possono festeggiare il terzo titolo di seguito: peccato che la serie finisca qua, ma questa è un’altra storia. 103 NASCE LA ESF di Riccardo Schiroli. Nel 1976 Bruno Beneck fu trai promotori della nascita della Federazione europea di softball (ESF), della quale fu il primo presidente. La ESF ha sempre avuto una forte caratterizzazione italiana. Enrico Bertirotti ne fu primo vice presidente dal 1985 al 2001, gestendo la presidenza ad interim dal 1991 al 1993. Ricoprì la stessa carica Massimo Romeo nel 2004 e 2005. Nel 2005 Giovanni Antonio Sanna, vice presidente FIBS nel secondo mandato di Riccardo Fraccari, è stato eletto vice presidente. E’ rilevante anche la presenza italiana nella “Hall of Fame” della Federazione europea. Nel 1988 fu indotto il dirigente Renato Germonio, nel 1990 fu la volta (per servizio meritorio) di Renzo Ramieri. Nel 1992 vennero indotte le prime giocatrici: Patrizia Caroti e Rita Ramieri. Lo stesso anno trovò spazio Ernesta (meglio conosciuta come ‘Pucci’) Meschieri Campioni trai coach. Enrico Bertirotti fu indotto nel 1997 e Franco Borgia è stato (2006) il primo arbitro italiano a ricevere il prestigioso riconoscimento. La Nazionale di softball durante la tournée in Cina del 1980. Collezione Maurizio Cipriani 104 MAURIZIO CIPRIANI di Riccardo Schiroli. Maurizio Cipriani ha allenato la nazionale di softball dal 1980 al 1983. “Più che un tecnico - ci racconta - mi ritenevo un istruttore, attività che ho svolto per conto della Federazione fino al 1996. Comunque, al presidente Beneck non avrei mai potuto dire di no”. Classe 1942, Cipriani aveva guidato la San Saba Roma. Dal 2 al 23 maggio 1980 Cipriani porta la nazionale in Cina, giocando 6 partite e vincendo quella conclusiva (2-0) contro la selezione di Tienchin. L’Italia partecipa poi alla prima Haarlem Week e rimedia solo sconfitte, 2 contro le padrone di casa dell’Olanda. La stagione si conclude con 6 amichevoli con la nazionale cinese, disputate dal 10 al 22 ottobre tra Bollate, Milano, Genova, Bologna, Roma e Palermo. Le azzurre riescono a strappare due inusuali pareggi: a Milano (0-0 dopo 9 riprese) e a Palermo (1-1 dopo 11 riprese). L’Italia partecipa nel 1981 al secondo Campionato europeo. Si gioca ad Haarlem e Bloemendal in Olanda. C’è grande equilibrio, ma alla fine le gare decisive vedono le olandesi imporsi per 1-0 e 2-1. La stagione 1982 concentra nel mese di luglio l’attività ufficiale. Dal 3 al 13 le azzurre si esibiscono a Lodi, Trento, Parma, Firenze, Ostia e Napoli. Avversario è ancora una volta la Cina, che vince 5 partite e cede (5-0) solo nella partita di Ostia. Nel 1983 l’Italia ottiene l’organizzazione del terzo Campionato europeo, che si gioca a Parma. “Avevamo una buona squadra - ricorda Cipriani - Monica Corvino e Donatella Cena erano i lanciatori principali; come altri punti di forza citerei la terza base Rita Ramieri e i catcher Patrizia Caroti e Vittoria Trentanove”. Non basta. L’Italia gioca 5 partite con l’Olanda, ma non segna nemmeno un punto. Al termine del torneo Beneck non rinnova la fiducia a Cipriani: “Non ero certo di non essere confermato, ma diciamo che sapevo che qualcosa sarebbe successo”. A Cipriani resta la soddisfazione di aver fatto esordire in nazionale Marina Centrone: “La vidi giocare e, anche se era fuori dal grande giro, la volli assolutamente con me. Era un’atleta incredibile”. L’attuale manager della nazionale ricorda: “Avevo quasi 22 anni e giocavo in serie C. Cipriani mi venne a vedere e credo che furono due mie rubate ritardate a convincerlo. Ai primi raduni mi chiedevo dov’ero finita. Si parlava di tattiche, di lanci diversi, di approccio alla battuta. Io ero abituata a guardare la palla e colpirla il meglio che potevo”. Nel gennaio del 1984 Beneck formalizza la sua scelta e chiama a guidare la nazionale il giovane tecnico di Bollate Chicco Soldi. Nell’agosto si disputa ad Anversa (Belgio) il quarto Europeo, che vede l’Olanda confermarsi Campione con tre nette vittorie contro una giovanissima Italia, nella quale muovono i primi passi future stelle azzurre come Roberta Soldi e Claudia Petracchi. E’ il primo approccio al varo delle nazionali sperimentali e giovanili, che avranno ottima fortuna durante la presidenza di Aldo Notari, nel corso della quale si svilupperà il cuore dell’attività di Chicco Soldi come tecnico federale. Foto Renato Ferrini Mondiale 1978. Gli azzurri si preparano in ritiro a San Giovanni in Persiceto IL MONDIALE SBARCA IN ITALIA di Giorgio Gandolfi. C’è un antefatto al Mondiale di baseball del 1978, il primo Mondiale che viene ospitato in Italia, la solita ‘pazzia’ di Bruno Beneck. Ovvero il terzo posto della Nazionale Under 18 ai Mondiali in Argentina. Dopo il titolo europeo in Olanda, Silvano Ambrosioni a fine ’77 è andato a prendersi una grossa soddisfazione dall’altra parte del mondo col contributo dei coach Guilizzoni e Guzman nonchè del general manager Ceccotti. Pur giocando in condizioni ambientali difficili, 20-25 gradi più che in Italia, gli azzurrini lasciarono intendere che il futuro del baseball italiano era in buone mani. “E pensare - diceva Ambrosioni che i cubani per arrivare a questo Mondiale hanno disputato qualcosa come 40 partite e che il Messico è stato in ritiro per un mese! I migliori dei nostri? Radaelli, vincente proprio contro Messico e Panama e poi Giorgi, quindi Trinci e Catanzani”. Chi erano gli altri? Manzini (9 kappa contro il Venezuela), Mari, Russo, Peracca, Magri, Galli, Costa, Borroni, Castagnetti tanto per citare alcuni degli azzurrini destinati ad andare molto avanti in Serie A. Era rimasto a casa uno dei candidati ad un posto, Mauro Mazzotti, autentico ‘utility infielder’ (non abbastanza per Ambrosioni, evidentemente) di cui ricordiamo un fuoricampo contro Gioia in un’amichevole a Sanremo. Dopo questa bella notizia, il baseball italiano si tuffa nel Mondiale, nel tentativo di organizzarlo nel miglior modo possibile, cercando ovviamente soddisfazioni anche sul piano tecnico. Gli obiettivi verranno centrati in pieno considerato che alle gare assisteranno 140.000 spettatori con un incasso di 250 milioni di lire, cifra che può far sorridere oggi, ma che all’epoca era davvero rispettabile. Ovviamente a suo tempo c’è stato chi ha cercato il pelo nell’uovo, ipotizzando che la Federbaseball aveva in effetti speso 750 milioni di lire; in verità entrate ed uscite si sono praticamente equivalse, grazie anche al contributo degli sponsor e della marea di volontari che in ogni stadio hanno saputo dare un’efficace assistenza. Oltretutto il Mondiale ha dato modo ad alcune città di completare gli impianti, Parma per prima. Il ‘Ducato’ ha registrato la maggiore affluenza per la classica Cuba-Usa, 14.000 paganti, 40 milioni d’incasso; Rimini ha toccato quota 10.000 , Bologna 8.000, ma di più non ce ne stavano. Beneck, Notari, Lenzi e Zangheri, i ‘boss’ delle varie sedi, avevano l’impressione di toccare il cielo con un dito anche perchè la TV di stato, incredibile ma vero, era riuscita a trasmettere ‘baseball vero’, con riprese all’americana e ottenendo ottimi ascolti. Si comincia in un’atmosfera di grande entusiasmo, pagine intere sui giornali sportivi, articoli sui quotidiani politici. E’ davvero il momento del baseball, cui risponde il pubblico, altro elemento essenziale, a dimostrazione che esiste un pubblico del baseball, purché gli si offra lo spettacolo almeno su un 105 Archivio Tuttobaseball Foto Renato Ferrini Mondiale 1978. Ambrosioni ‘catechizza’ i suoi piatto d’argento. ‘Stadio’ offre addirittura due pagine, con un articolo in prima di Ermanno Mioli, mentre Mario Mongiorgi e Luca Argentieri presentano campi e protagoniste. Quindici giocatori appartengono al triangolo Parma-Bologna-Rimini, ma è la Germal a dominare con sette elementi: Bertoni, Castelli, Cattani, Guzman, Di Santo, Ciccone, Varriale. Tre campi, 55 partite per la seconda manifestazione organizzata dall’AINBA, il primo torneo che viene disputato lontano dall’area centroamericana. Si adotta per la prima volta il battitore designato, che poi diventerà di attualità anche in campionato. Ambrosioni anticipa che saranno Landucci, Di Marco e Varriale i giocatori adatti a diventare DH. Escono anche due francobolli dedicati al mondiale: uno delle poste italiane, due milioni di esemplari, l’altro di San Marino, che ha anticipato tutti a maggio con due francobolli. Si discute ancora dell’ultima edizione, disputata in Colombia (e alla quale non partecipò l’Italia) in quanto il titolo venne assegnato a tavolino: Portorico, infatti, rifiutò di giocare lo spareggio al meglio di tre partite con Cuba in quanto, a suo avviso, si doveva giocare al meglio di una. Un caso analogo a quanto successo in Italia nel ’77 tra Germal e Derbigum. L’Italia si presenta in amichevole a Parma contro gli universitari del Wisconsin, liquidati con quattro punti a uno. A Bologna viene sostituito l’impianto di illuminazione, “costo 200 milioni di lire” dice l’assessore Mazzetti, che da tifoso di calcio e basket si fa coinvolgere anche dal baseball per via 106 Rick Landucci, grande protagonista del Mondiale 1978 del Mondiale, ma anche per la figlia che gioca a softball. A Rimini è stata costruita la tribuna in cemento armato al posto di quella fatta di tubolari di ferro. L’onore dell’inaugurazione a Bologna, allo stadio dedicato al giornalista di ‘Stadio’, Gianni Falchi. Si gioca con l’Australia e prima del via atterrano i paracadutisti sul diamante, cui fa seguito uno spettacolo curato dal coreografo Paolo Gozlino. Viene a mancare Mario Del Monaco, che avrebbe dovuto cantare l’inno di Mameli. Il TG1 si collega in diretta con Bologna e trasmette tre ore di baseball. Franco Carraro, presidente del CONI, avrebbe dovuto lanciare la prima pallina ma si defila, forse teme di prendersi uno strappo, lascia tutta la cerimonia inaugurale a Gozlino e alla banda musicale di Loffredo. Gli azzurri danno subito motivo di divertimento battendo l’Australia (3-0) grazie ai lanci di Landucci, cui risponde un ottimo Wonnacott. Il tecnico avversario dà una mano agli azzurri togliendo il suo lanciatore nel momento critico della partita, dando praticamente via libera all’Italia. Perdiamo ovviamente con Cuba (6-0), che presenta ai 12.000 spettatori di Parma la giovane stella Rogelio Garcia. Non c’è partita, semmai c’è tensione per un episodio avvenuto nel dug out azzurro, dove ha preso posto (in tutti i suoi 160 chili di peso) il tifoso Serafino. Beneck lo caccia via, nasce una collutazione, interviene la polizia per ristabilire la calma e portare fuori dallo stadio un ospite che non era stato invitato. Battiamo il Messico, perdiamo con gli Usa, sfioriamo il colpo a sorpresa Archivio Tuttobaseball Archivio Tuttobaseball Mondiale 1978. Orrizzi esterna il suo disaccordo con l’arbitro Paz. Finirà espulso Mondiale 1978. Gli azzurri festeggiano la vittoria sull’Olanda contro la Corea, che era sotto di due punti, ma acciuffa il successo in extremis contro uno stremato Landucci. A Parma è la volta del Giappone ed è in questa occasione che Castelli viene festeggiato per la 100° presenza in Nazionale. Attorno a lui, però, c’è maretta in quanto, nonostante il suo curriculum, non è più il capitano, ruolo che gli spetterebbe di diritto. Beneck ha invece ‘girato’ il grado a Vic Luciani. Dopo avere battuto contro i belgi il suo secondo fuoricampo, Castelli (che è impegnato col servizio militare e non ha potuto allenarsi come vorrebbe) annuncia che alla fine del Mondiale lascerà la Nazionale: “Non lego più con l’ambiente - dice - non mi aspettavo nulla dalla Federazione per la centesima partita e così è stato, ma...” Ci pensano Notari e lo sponsor Salvarani a dargli un riconoscimento, ma a Castelli non basta. Per Beneck, Luciani è più leader di Castelli, per cui il capitano è lui. Contro il Nicaragua perdiamo per 1 a 0 alla dodicesima ripresa, mentre Cuba avanza come un carro armato stritolando tutti, americani compresi. Resta da giocare l’ultima partita proprio contro l’Olanda. Le scelte dei tecnici lasciano a desiderare perchè Castelli viene utilizzato come battitore designato. I nove giocatori in campo sono tutti ‘oriundi’. Il Giorgione nazionale si ‘vendica’ con un fuoricampo da 120 metri contro gli ‘oranje’. Segnano Guzman e Spica in un clamore assordante ed è l’inizio di una rimonta che si completerà nell’ultima ripresa. E’ ancora Castelli a segnare, su un doppio di Chierico, dopo che era stato espulso Orrizzi per le proteste contro l’arbitro cubano Paz. Agli extra inning, Romano va in base su errore della difesa, Luciani realizza una smorzata di sacrificio e arriva in base ancora su errore degli olandesi. La bella battuta di Mondalto, al limite del fuoricampo, viene presa al volo ma dà modo a Michele Romano di conquistare il punto del successo e con questo il quinto posto in classifica. Tutto è bene quello che finisce bene e sulla ‘Gazzetta dello Sport’, Pier Luigi Fadda può titolare: “Questa è la strada da seguire”. “Bambini con mazze e guantoni sul greto del torrente Parma in secca, o nei giardini di Rimini o sui marciapiedi di Bologna. Gente che paga trentamila lire ai bagarini per un biglietto Cuba-Usa; turisti americani in vacanza sulle coste romagnole che si stupiscono, non sapevano che in Italia si giocasse a baseball. Il più importante quotidiano italiano che sbatte il baseball in prima pagina con un pezzo di costume. Il baseball, sport guardato con diffidenza per via delle sue mille regole, ha vissuto con i Mondiali un momento felicissimo. Nessuno, neppure Bruno Beneck l’uomo che per primo ‘ha venduto baseball’ credeva in un simile successo...” Tuttobaseball, la rivista che dagli Anni ‘60 è uscita puntualmente nelle edicole, in questa occasione batte il suo record di tiratura, con 10.000 copie. Insomma, alla fine del Mondiale sono tutti contenti, tutti felici, vincitori e vinti. Perchè ha vinto il baseball. 107 Archivio Tuttobaseball Europeo 1983. Roberto Bianchi portato in trionfo dai compagni di squadra: con il suo fuoricampo allo ‘Jannella’ l’Italia ha appena staccato il biglietto per Los Angeles GLI EUROPEI ‘81 E ‘83 di Riccardo Schiroli. Dopo i tre titoli continentali consecutivi, l’Italia del baseball difende la supremazia nel Vecchio continente all’Europeo di Haarlem. La serie di scontri con l’Olanda inizia il 12 luglio 1981 con una vittoria (5-4, con Dave Farina in pedana) che pare essere il preludio ad un altro trionfo. Ma le cose non vanno così. Il 16 luglio le due rivali sono fermate al quinto inning dal maltempo sul punteggio di parità (6-6). Poi sarà solo Olanda, che torna sul trono d’Europa vincendo tre gare in sequenza: 8-3, 11-7 e 8-1. 108 E’ anche a causa di questa sconfitta che all’edizione successiva dell’Europeo, che si gioca in Toscana e vale un posto ai Giochi di Los Angeles, si crea un clima di grande aspettativa. Gli azzurri, allenati da Jim Mansilla, non tradiscono le attese. Battono l’Olanda (9-5) nella prima fase e la demoliscono letteralmente (14-1 e 12-2) nelle prime due partite di finale. Il suggello arriva a Grosseto il 6 agosto. Sul punteggio di 2-2, alla decima ripresa, Roberto Bianchi colpisce un fuoricampo che manda l’Italia del baseball in Paradiso. IL CLUB ITALIA di Maurizio Caldarelli. Uno dei progetti che ha caratterizzato la lunga presidenza di Bruno Beneck è stato sicuramente il Club Italia 1984. Un club del quale furono chiamati a far parte i giovani prospetti dai venti ai ventiquattro anni, che avrebbero dovuto indossare la casacca azzurra alle Olimpiadi di Los Angeles. Degli atleti che inseguivano il sogno americano solo alcuni arrivarono ai Giochi, ma quel lavoro certosino regalò all’Italia giocatori che hanno dominato la scena per un ventennio e oltre. “Il Club Italia – sottolinea Gianmario Costa, ex terza base di Torino e Grosseto, coach azzurro e manager dell’Avigliana – ha rappresentato un periodo importante della mia vita, non solo sportiva. Mi ha permesso di crescere anche come uomo, al fianco di molti miei coetanei, con i quali non dividevamo ormai solo la passione per il baseball”. “E’ stato il periodo più fecondo del baseball italiano – gli fa eco Marco Mazzieri, uno degli esterni più forti di tutti i tempi – ha formato giocatori che sono stati l’ossatura della Nazionale per 10-12 anni e che sono arrivati a giocare ad alti livelli anche per un quarto di secolo”. Inaugurato nel 1981, con il primo raduno, il Club Italia andò avanti praticamente fino al 1984. Quello ideato da Bruno Beneck fu un progetto che coinvolse i giocatori più emergenti di quel periodo, che misero ogni momento del loro tempo libero a disposizione dei tecnici che li seguivano in questa avventura. Il capo allenatore era Jim Mansilla, coadiuvato da tecnici che gravitavano in nazionale o nel campionato italiano, Mirra, Faraone, Guzman, Varriale, ma coinvolgeva anche tecnici cubani e statunitensi, che davano il loro contributo durante le numerose trasferte all’estero. “Per l’epoca – dice Costa – erano allenamenti all’avanguardia, che consentivano un notevole accrescimento tecnico. Proprio per questo chi ha fatto parte del gruppo si è poi quasi sempre distinto in campionato per tanti anni”. La stagione del Club Italia iniziava già dal mese di febbraio, con i raduni sui diamanti dell’Acqua Acetosa a Roma o di Castiglione della Pescaia, oppure con le trasferte a Cuba e negli Stati Uniti. Con l’inizio del campionato, per i giovani ragazzi di Beneck iniziava un vero e proprio tour de force. Ogni quindici giorni infatti veniva messa in calendario una sfida tra il Club Italia ed una squadra della massima serie, in modo da avere sempre sotto controllo la condizione di quei ragazzi. A ottobre e novembre, invece, solitamente si preferiva andare all’estero, dove il tempo era migliore. “Venne fuori un gruppo legatissimo – ricorda Costa – che è andato avanti compatto per tanti anni, regalando anche dei momenti bellissimi alla Nazionale. Personalmente ho indossato l’azzurro per dieci anni, dall’Europeo di Trieste 1979 fino all’Europeo dell’89”. “La cosa bella – prosegue – è che nessuno voleva perdere il posto. Ogni anno arrivavano nuovi ragazzi, ma i veterani lottavano per non uscire dal gruppo e moltiplicavano gli sforzi”. “La cosa che ha reso unici quei giocatori - secondo Mazzieri – è che avevano la volontà ed il desiderio di diventare dei giocatori importanti, sapevano soffrire ed avevano la voglia di dare sempre il massimo. Avevamo la possibilità di giocare tanto e ad alto livello, questo ci consentì di fare qualcosa di straordinario, di diventare dei campioni”. Per mettere in atto il suo progetto Beneck utilizzò anche dei metodi originali, particolari. Tanto per cominciare i ragazzi verreno vestiti come militari ed avevano abbigliamento specifico in dotazione per la libera uscita, poi fu messo a loro disposizione uno psicologo e Beneck, per tenere uniti i suoi ragazzi, pensò addirittura ad un Capodanno da trascorrere insieme. E ovviamente i ragazzi dovevano conoscere a memoria le parole dell’Inno di Mameli. “Questa rigidità militaresca durò poco però – ricorda Costa – parlammo con Beneck e dopo una discussione le cose migliorarono e dopo due sedute per esempio uscì di scena lo psicologo”. “Quel grande gruppo di amici – spiega Massimo Fochi, vicepresidente federale da quando è salito alla presidenza Fraccari, ma bandiera del Parma per un ventennio, sia come seconda base che come lanciatore – ha affrontato tante difficoltà e sacrifici. Eravamo dei soldatini, e non soltanto nell’aspetto”. Max Fochi racconta anche alcuni anedotti per far capire come era la vita nel Club Italia: “Il rientro era stato fissato alle 23. Un giorno rientrammo alle 23,12. Il giorno dopo ci siamo fatti 12 chilometri di corsa, uno per ogni minuto di ritardo”. “Eravamo animati da un grande senso di appartenza - continua Fochi - non esistevano giocatori di Parma o di Nettuno, di Bologna o di Grosseto. Eravamo un’entità unica. E questo ci faceva superare tanti ostacoli. Raramente siamo andati negli Stati Uniti. E mai in alberghi a cinque stelle. Il più delle volte ci giravamo Cuba con un pulmino. Una notte, mentre rientravamo in albergo, ci beccò un temporale. Fummo costretti a metterci gli asciugamani addosso perché pioveva dentro. Questo è solo un esempio delle condizioni in cui ci trovavamo, ma non c’importava niente, finché eravamo insieme”. “Beneck - dice Costa - lo ricordo come una grande persona. Era sempre vicino a quella che considerava la sua creatura. Ma devo dire che anche noi andavamo fieri di essere parte integrante di quel gruppo. Sulla nostra maglia di club indossavamo quello scudetto di appartenenza al Club Italia che ci rendeva visibili all’esterno. Lo ripeto, sono stati degli anni indimenticabili, fondamentali per la mia crescita di giocatore ed anche di uomo, perché da quell’esperienza ho imparato tante cose che in futuro mi sono tornate utili nella vita”. “Il presidente Beneck - aggiunge Fochi - ci considerava tanti suoi figli. L’ho ritrovato vent’anni dopo in una riunione. Appena mi ha visto è scoppiato in lacrime”. “Di quell’epoca - conclude Marco Mazzieri - mi sono portato negli anni tante esperienze di vita. Ho saputo superare meglio degli ostacoli. Tecnicamente ci ha probabilmente portato al 5° posto ai Mondiali di Haarlem 2006. Ma lo ricordo per l’unione con i miei compagni. Rimanevamo anche quaranta giorni in giro per la Repubblica Dominicana, Cuba o Usa, ma nessuno si è mai lamentato. Beneck aveva creato un gruppo indissolubile”. 109 Archivio Tuttobaseball Max Fochi sul monte alle Olimpiadi di Los Angeles 110 Archivio Tuttobaseball Archivio Tuttobaseball Nasce il Club Italia Esultanza azzurra dopo la vittoria con la Repubblica Dominicana DA LOS ANGELES ALLA PRESIDENZA NOTARI di Giorgio Gandolfi. C’era qualcosa nell’aria in quelle giornate americane di Los Angeles 1984 che contrastavano col clima di amicizia (apparente) che sembrava unire (o disunire ?) l’ambiente azzurro della Nazionale. Abituato alle congiure calcistiche, a Rivera che cercava di pugnalare Buticchi, alle cronache ‘noir’ che già allora imperversavano, più o meno conosciute, nel nostro sport nazionale, mi sembrava di avvertire che sorrisi e complimenti a Bruno Beneck non erano affatto sinceri. In realtà la congiura dei boiardi navigava a vista, stava per entrare in porto, e gli aspiranti Bruto si apprestavano a colpire. Quella Nazionale, frutto del momento e del bisogno, era nata fra mille incomprensioni, sotto gli attacchi giornalistici della solita testata che ammetteva gli ‘oriundi’ per l’atletica e per il calcio, ma che gridava allo scandalo se lo faceva il baseball. Erano i tempi in cui Beneck, sempe forte nei suoi slogan (“Io vendo baseball”) lanciava la sfida al suono di “Vogliamo giocatori dilettanti con la mentalità del professionista. Sono le società che devono darsi per prime una struttura professionistica, nella serietà d’impostazione del lavoro devono ricalcare quello delle società di calcio”. Beneck prendeva tutto troppo sul serio. Conquistava nuovi amici, cercava di farsi strada nell’interno del CONI sbagliando purtroppo nella scelta delle alleanze: credeva di avere amici sia in Consiglio federale che nella consulta CONI, dove invece cominciavano a temere la sua intraprendenza, i ventimila tesserati, gli stadi pieni e illuminati, gli sponsor che facevano l’occhiolino al baseball. Il suo maggiore alleato, il partito socialdemocratico, quello di Saragat, per intenderci, era il più debole: gli altri, nel momento del bisogno, avrebbero avuto il centro o la sinistra a difenderli nonostante i paurosi buchi in bilancio. I due miliardi della Federbaseball, poi puntualmente pagati, oggi farebbero ridere, ma l’occasione era troppo invitante per eliminare un personaggio ingombrante. Beneck aveva contro una parte del Consiglio federale, a cominciare dal vice presidente , Aldo Notari. Gli stessi membri che poi sarebbero entrati nel nuovo Consiglio. Nell’albergo di Los Angeles, proprio ai confini del quartiere messicano, dove notte e giorno c’erano decine e decine di poliziotti anche a cavallo, i giornalisti al seguito della Nazionale non avevano sentore di quanto fosse in pericolo in quel momento il piccolo baseball italiano fautore dell’ingresso alle Olimpiadi. Dopo le prime titubanze, gli organizzatori americani avevano deciso di accettare soltanto otto squadre nel timore di un ‘buco’ finanziario, considerato che i tifosi americani erano abituati ai fuoriclasse delle loro Leghe, mentre qui c’erano soltanto dilettanti. In realtà il torneo dimostrativo era destinato ad un grande successo di pubblico, una media di 48 mila spettatori per partita, il massimo della capienza dello stadio dei Dodgers, contro i 46 mila del calcio, ospitato nei mastodontici impianti (100.000 posti) di Palo Alto e Pasadena. Mediamente vennero incassati due miliardi e mezzo per giornata, anche se il sabato e la domenica si giocò ad orari inconsueti per lo sport italia- no, le 10 del mattino, in modo da permettere agli spettatori di riversarsi poi al mare. In verità gli organizzatori americani, dopo lo spettacolo dell’inaugurazione (una bellissima coreografia con duemila ballerine e cinquecento suonatori) furono autori di uno ‘scherzetto’ che non fu apprezzato da Beneck, vale a dire che sul tabellone luminoso apparvero i nomi degli azzurri con tanto di località di nascita. Ecco così che i tifosi americani scoprirono che l’Italia era molto ‘made in Usa’: Farina nato a Mckeesport, Di Marco a Cambridge, Colabello a Milford, Turcio a New Haven, Connecticut, Gagliano a Memphis, D’Amato a New Brataen, Talarico a New York City, Guggiana a Long Beach, Chiono a Pittsburgh, idem Lonero, Romano a Swiendon (Gran Bretagna). Caso strano, questo trattamento fu riservato soltanto all’Italia: paura degli oriundi, un tentativo poco elegante di ridicolizzare la nostra nazionale ? In effetti, ci riuscirono. Per il Canada venne indicata invece soltanto la residenza, eppure schieravano molti americani... Il bello è che 16 dei venti giocatori americani prescelti per i Giochi avevano già firmato mesi prima per le squadre professionistiche, anzi Clark aveva addirittura avuto un ‘buono’ di 130 mila dollari. Idem il lanciatore che Taiwan schierò contro gli azzurri. Per ogni giocatore la media dello stipendio era di 100 mila dollari: parliamo di oltre vent’anni fa. Immaginarsi il rapporto con quanto guadagnavano gli azzurri. Cionostante sulla ‘Gazzetta dello Sport’ appariva un articolo a firma di Rino Tommasi nel quale si leggeva: “C’è da giurare che soltanto la squadra americana, tra le otto che partecipano al torneo dimostrativo di Los Angeles, è formata da autentici dilettanti”. Infatti fra loro c’era anche un certo McGwire... che contro gli azzurri in battuta rimase a secco. I giapponesi, maliziosamente, mandarono un a prima squadra ad allenarsi per un mese in Arizona e dopo le sconfitte rimediate con le varie università, innestarono a sorpresa all’ultimo momento 13 elementi frutto di una selezione fra 350 squadre con atleti già pronti per il professionismo del Sol levante. Roberto Bianchi fu l’autore della valida decisiva contro la Repubblica Domenicana, proprio come aveva fatto poco tempo prima a Grosseto contro l’Olanda nel campionato europeo valido per la qualificazione olimpica. Costretto a fare dei bunt, soltanto a metà partita Mansilla si decise a lasciare le briglia sorte a Bianchi, che esplose con un poderoso doppio sul centro che portò Talarico a punto e Carelli in terza. “Questi sono i bunt che sa fare Bianchi” gridò Roberto Montuschi, l’inviato di ‘Stadio’. Alla fine Bianchi avrebbe chiuso con 4 su 5! Ma dov’erano i talent scout americani?! Massimo Fochi, già battezzato Supermax, la grande sorpresa sul monte, almeno per quelli che non lo conoscevano. Molti giornalisti sintetizzarono la loro ammirazione con una semplice frase: “Sembra un americano”. Strepitoso il suo finale con i migliori avversari alla battuta: Crispin è out al volo, Paniagua eliminato da Trinci, Gomez in base gratis . Due out, corridore in prima. Supermax non si scompone e firma la sua vittoria più bella lasciando perentoriamente al piatto Aristides Taveras. L’Italia ha vinto, ha 111 vinto Fochi. Massimo aveva 19 anni (e Bianchi 23). Jim Masilla, notate le sue condizioni di forma, l’aveva mandato in campo come rilievo di Farina (6 valide in 7 riprese), dopo che l’oriundo era stato bucherellato dai bomber dominicani . Proprio quanto sarebbe successo a Colabello (7 valide in 0.1 riprese!) contro i ‘compatrioti’. Miglior figura avrebbero rimediato Mari e Turcio, succedutisi nell’ordine. Considerato che nella partita d’esordio c’erano in campo cinque italiani, questo significa che, conosciuto lo scherzetto degli organizzatori, sarebbe stato semplicissimo schierare una formazione tutta nostrana. Anche perchè alla resa dei conti i migliori furono proprio gli azzurri emersi dal Club Italia: Mari media pgl 3.0, Turcio 5.40, Farina 6.43, Ceccaroli 9.64, Fochi 12,27.....Colabello 243.00. Povero Lou! In attacco, Bianchi il migliore con 5 valide su dieci turni, Bagialemani con 5, Manzini e Romano con 4, Lo Nero 3, Gagliano e Talarico con 2. A zero soltanto Costa (con due soli turni alla battuta). Dov’era dunque la nazionale degli oriundi ? Avremmo potuto giocare benissimo soltanto con i nostri ragazzi! Nelle cronache di ‘Tuttobaseball’ c’è anche un paragrafo che riguarda l’unico arbitro italiano in campo, il primo ad arbitrare in una gara delle Olimpiadi. Si tratta di Riccardo Fraccari. “Ottima figura - leggiamo - anche in campo arbitrale dove il nostro Fraccari ha diretto a casa base Corea-Nicaragua ricevendo, come al solito, i complimenti anche dal manager perdente ad ulteriore riconferma della bontà del lavoro svolto anche in questo settore”. Poi le sconfitte con USA e Cina ed il quinto posto, ciononostante cresce la simpatia per tutto quanto è italiano, grazie anche all’organizzazione della Federazione, che sviluppa a Rodeo Drive, nel centro ‘in’ della città , una ‘zona franca’ italiana diventata ben presto un punto di riferimento per giocatori, dirigenti, giornalisti, successivamente copiata nelle successive Olimpiadi da altri sport. Con gli americani stupiti di scoprire, attraverso alcune stampe regalate dall’organizzazione, che gli etruschi giocavano a baseball già duemila anni fa. Tracce di un gioco simile al batti e corri erano state scoperte in una tomba di un atleta: c’è chi lancia la pallina e chi la batte con una rudimentale mazza. Le luci si spensero troppo presto per gli azzurri, saliti sul pulmino del college per imboccare il lungo, interminabile, Sunset Boulevard, il Viale del tramonto. Così romantico nella storia del cinema, eppure così squallido con il suo nastro d’asfalto percorso giorno e notte da un fiume di auto. E’ settembre quando sulla ‘Gazzetta dello Sport’ appare un breve trafiletto che annuncia, a sorpresa, le dimissioni di Bruno Beneck dalla presidenza. Quasi contemporaneamente ‘Il Messaggero’ di Roma pubblica un articolo ‘clamoroso’ con una tabella nella quale sono riportati i milioni versati ai diversi giornali per pubblicizzare il baseball. Sembra quasi, dal contenuto del testo, che questi milioni siano finiti nelle tasche dei giornalisti. Ci sono anche processi interni nei giornali ma presto affiora la verità: quei milioni sono finiti sì ai giornali, ma alle amministrazioni, quali pagamenti delle inserzioni pubblicitarie, prassi seguita successivamente da altre Federazioni 112 ben più indebitate del baseball, atletica e tennis prime di tutti. Il CONI, schierato Pescante come commissario straordinario, gira l’incartamento alla magistratura come a dire: “Fate voi, se ci sono responsabili che siano colpiti”. Il settimanale ‘Panorama’ pubblica un servizio di dieci pagine sullo scandalo del baseball. Il ‘Corriere dello Sport’ è generoso nei dettagli: descrive anche il lussuoso lampadario che Beneck si è fatto mettere nel suo ufficio. Visto il lampadario, c’è veramente da ridere. Si tratta di debiti che la Federazione si era impegnata a pagare col successivo bilancio, anche perchè la partecipazione alle Olimpiadi era interamente sulla groppa della Fibs. Fatto sta che la magistratura indaga, mentre le manovre degli anti-Beneck vanno avanti. All’Assemblea straordinaria di Roma, il ‘partito’ di Notari ha la maggioranza assoluta. E’ finita l’era di Beneck, inizia quella del Duca di Parma. La magistratura rimanda al mittente gli incartamenti: non ci sono azioni penali, Beneck ha agito nel rispetto della legge. Oramai è tardi, sono già state girate diverse pagine. In compenso il baseball ha preso una mazzata, dalla quale non si rialzerà più; per diversi anni viene definito lo sport dello scandalo, il pubblico abbandona gli stadi che aveva riempito, il gioco s’impoverisce anche a causa di discutibili cambiamenti e forzature alla formula, che culmineranno con la partita dell’under 23. Il baseball ritorna nella normalità, con pallavolo e basket che lo scavalcano come sponsor, come spettatori. Com’era nel desiderio del ‘grande vecchio’ di turno. Cosa sarebbe diventato il baseball se Beneck fosse rimasto alla presidenza dopo le Olimpiadi di Los Angeles? Lui che aveva investito sul campionato e sulle società, lui che andava a caccia degli sponsor e quando c’erano sapeva corteggiarli, li seguiva con l’accortezza indispensabile a farli sentire ancora più importanti di quanto non fossero effettivamente. L’uomo delle idee, che non aveva paura di circondarsi di gente che sapeva lavorare e che, anzi, dava loro autorità ed ulteriore capacità di gestione. In proposito ci viene in mente quanto ha detto recentemente l’allenatore della Nazionale di pallavolo campione d’Europa Giampaolo Montali in un convivio del Panathlon: “L’allenatore deve vincere o perdere assieme alla squadra. Deve sapere coordinare chi lo circonda, perché i suoi collaboratori saranno più determinanti di lui. Non voglio ‘yesmen’ ma gente che mi dica quello che pensa. Se non sai valorizzare queste persone, farle crescere al tuo fianco, non vincerai. Quante volte ho vinto ascoltando questa gente!” Beneck, l’allenatore-presidente, era fatto così ma aveva un grosso difetto: si fidava troppo della gente, di certa gente. Beneck dava fastidio, parlava apertamente, diceva quello che pensava in un mondo dove occorre essere ambigui, meglio falsi che sinceri. Lui piemontese, astigiano, parlava e cresceva l’invidia, la gelosia. Un giorno a Los Angeles, durante le Olimpiadi, gli dissi: “Presidente, attento, sento aria di cospirazione”. “Ma no, è brava gente” mi rispose. Ci resta il ricordo del sorriso di Beneck: anche nei momenti di tensione, perché anch’io ho avuto con lui questi momenti, specie dopo la vicenda di Cuba (l’autore del pezzo venne allontanato dall’isola in seguito ad articoli non graditi, ndc). Mi affrontava con un sorriso ed una L’Italia vola a Los Angeles, vista da Franco Bruna battuta in piemontese. Pronti, io come lui, a dimenticare, a causa di quella passione che ci univa per baseball e softball. Ho qui sottomano la lettera che mi scrisse il 22 giugno del 1981, inviandomi alcune foto “storiche”. “Caro Giorgio - scriveva - durante la guerra, quando Torino fu più volte bombardata, si sviluppò un incendio anche nella casa dove abitavamo in via Vanchiglia e tutte le foto della mia avventura sportiva giovanile sono state distrutte. Queste due si sono salvate perché erano state dalla mamma raccolte in un suo cassetto dove le ritrovai dopo la sua morte. Per me hanno un particolare significato, però per la mamma forse rappresentavano qualcosa, per cui ti prego di tenerle care. Una è del Beneck ragazzino (14 anni) quando giocava nella squadra delle Zebrette della Juventus e l’altra invece è del Beneck a 18-19 anni quando giocò in una squadra rappresentativa. Non ricordo se Uliciana (Unione italiana liberi calciatori) dell’amico Giglio Panza, che fu direttore a ‘Tuttosport’, o studentesche (agonali o littoriali!). Quella del mio arrivo in base, si riferisce al primo derby torinese fra Juventus e Torino, disputato nel luglio del 1948. Segnai il primo punto nella storia agonistica della Juventus ‘48... A vincere fu però il Torino per 4 a 3. Prima ancora avevamo giocato nel ’47 ad Alessandria: ti accludo la foto della panchina. Senza immaginare che un giorno sarei diventato presidente del baseball e che il lavoro svolto da uno prima di me, Max Ott, piemontese-americano, sarebbe diventato così importante! E’ tutto. Grazie ed abbi cura di questi piccoli ricordi della mia giovinezza, di questi due lampi del mio passato“. La sua amicizia con l’ambiente juventino e granata era rimasta immutata nel tempo. Quando andai a Torino, assunto da ‘Tuttosport’, mi fece due lettere: una per il direttore Giglio Panza, l’altra per l’onorevole Catella, presidente della Juventus. Qualche riga di raccomandazione di cui gli fui sempre grato. C’era tutto l’uomo, il suo stile, in queste lettere, nel suo impegno quando assumeva una responsabilità. L’uomo che si battè per il baseball olimpico, che portava un gruppo di giornalisti a Los Angeles, perché dovevano scrivere di baseball, dovevano vedere com’è il baseball. 113 FOTO PAGINA SEGUENTE: 2006 - Gli azzurri durante l’Inno di Mameli al World Baseball Classic - Ezio Ratti