capitolo 4

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capitolo 4
CAPITOLO QUATTRO BRUNO
BENECK
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Foto Renato Ferrini
Bruno Beneck, classe 1915, è il terzo presidente della FIPAB, che ribattezza immediatamente FIBS.
Fondatore della Juventus 48 di Torino, è già in Consiglio federale, con il ruolo di responsabile della comunicazione, durante la
seconda presidenza Ghillini, quando gli succede dopo l’assemblea di Firenze.
Uomo di cinema e di TV, frequentatore della Roma di Cinecittà, dà immediatamente un’impronta mirata all’immagine del baseball
e rilancia il softball dando il via, di fatto, al campionato federale.
L’illuminazione degli stadi, l’introduzione dei giocatori italo-americani, i grandi eventi del baseball-spettacolo, la campagna per
l’ingresso delle due discipline nel novero degli sport olimpici, sono i tratti fondamentali di una presidenza che ha innegabilmente
dato un’accelerazione con la quale il movimento, nel bene e nel male, continua tutt’oggi a confrontarsi.
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I quattro mandati di Bruno Beneck alla presidenza federale furono caratterizzati da un elevatissimo numero di ‘prime volte.’
Uno dei primi atti del governo di Beneck fu per altro un ritorno alle origini: con il nuovo presidente si tornò a parlare
di Federazione Italiana Baseball Softball (FIBS) e l’autarchica sigla FIPAB (Federazione Italiana Palla a Base) finì definitivamente in archivio.
La fine degli anni ’60 del ventesimo secolo fu caratterizzata da considerevole tumulto un po’ ovunque e il mondo
del baseball non fece eccezione. Beneck varò il primo campionato di softball, portò la nazionale di baseball al primo
Mondiale della sua storia, si inventò la Coppa intercontinentale e ne organizzò in Italia la prima edizione, aprì le porte
della nazionale ai cosiddetti ‘oriundi’, sconfisse finalmente l’Olanda in 3 edizioni consecutive dell’Europeo e, con uno
storico fuoricampo di Castelli, anche nel primo Mondiale organizzato in Italia. Ci prese a tal punto gusto, che organizzò anche il primo Europeo di softball, ma i tempi del dominio azzurro erano ancora lontani e l’Olanda vinse.
Beneck fu un presidente vulcanico ma, dirà la storia, non troppo lungimirante. Il suo baseball riempì in diverse occasioni gli stadi, ma senza conquistare quella popolarità alla quale il presidente federale puntava.
Quando venne investito del ruolo di presidente, Beneck lasciò l’incarico di responsabile della comunicazione. Ma un
decennio dopo le relazioni pubbliche non sembravano essere il suo forte. Alla fine della stagione 1977 il baseball italiano fece il più storico dei suoi passi falsi: il Rimini non si presentò allo spareggio scudetto e il titolo venne assegnato
solo ad inverno inoltrato al Parma, dopo tutto l’iter della giustizia sportiva. Al Mondiale 1978 Beneck adottò come
inno della manifestazione la canzone ‘Aggiungi un posto a tavola’ e il brano del fortunato musical divenne oggetto di
pubblica ironia, quando Beneck cacciò dallo stadio di Parma il super tifoso Serafino.
Forse Beneck, che nel 1971 assunse la presidenza della Federazione europea, perse di vista ‘le piccole cose’, che per un
amante del baseball dovrebbero sempre essere punto di riferimento. Beneck trovò spazi sui giornali, ma non riuscì a
far diventare i suoi sport una parte della vita quotidiana. La televisione, dopo qualche approccio promettente, finì con
l’ignorarlo. Il movimento non lo amava e lo faceva rumorosamente capire, anche negli stadi.
Al suo fianco intanto cresceva un giovane vice presidente, la cui figura cominciava a diventare ingombrante, soprattutto a livello internazionale: Aldo Notari.
Bruno Beneck puntò tutto sul baseball olimpico. Ne fu un alfiere e considerò una sua vittoria il fatto che il baseball
fosse stato introdotto ai Giochi di Los Angeles come sport dimostrativo. Investì risorse nel progetto ‘Probabili Olimpici’,
tramite il quale riuscì a radunare i migliori giovani italiani. Del lavoro del Club Italia non vedrà i frutti.
Ottenuta la qualificazione per Los Angeles, Beneck tentò il tutto per tutto: voleva una medaglia olimpica e qualcuno
gli fece credere di poterla ottenere. Una nazionale imbottita di ‘oriundi’ vinse con la Repubblica Dominicana, ma venne affondata da Stati Uniti e Taiwan. Le Olimpiadi furono la tomba della presidenza Beneck, che al ritorno dai Giochi
dovette affrontare il crollo del suo sistema e l’umiliazione del commissariamento da parte del CONI. In questo volume
è stata affidata quella vicenda, vitale per la storia del nostro baseball, ad un testimone oculare dei fatti come il giornalista Giorgio Gandolfi, che la racconterà da un punto di vista certamente diverso rispetto alle cronache dell’epoca.
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Foto Renato Ferrini
PER LA FIAMMA DI OLIMPIA di Giorgio Gandolfi. Bruno Beneck, BB per gli amici, era un astigiano (Castelnuovo Calcea,
primo agosto del 1915) cresciuto a Torino, dove si era sposato
e dove aveva iniziato a lavorare per il cinema, lanciando iniziative come la pubblicità con le diapositive nell’intervallo dei
film. Era così bravo che poi finì a Roma dove lavorò per la Metro Goldwin Mayer, diventando anche procuratore di alcune
attrici, fra le quali Gina Lollobrigida
I parenti della moglie, la bella e simpatica ‘Gegia’, al secolo
Maria Teresa, gestivano un cinema in pieno centro, in piazza
Benefica, nel popolare quartiere Cit Turin. Aveva all’attivo anche tantissimo sport nonché due figlie, Daniela ed Anna, entrambe nate a Torino prima del trasferimento a Roma e destinate a diventare campionissime del nuoto.
Beneck era stato giocatore di calcio nei Balon Boys e nelle
giovanili della Juventus. Durante il periodo d’anteguerra era
stato nella Scuola allievi ufficiali di Parma, venendo tesserato
dalla squadra crociata per la serie C. Aveva esordito in prima
squadra segnando due gol, come raccontano le cronache del
tempo. Leggiamo sulla ‘Gazzetta di Parma’ del 20 febbraio
1941: “ ...per l’occasione la squadra crociata ha in serbo una
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buona novità: infatti come centro attacco esordirà Bruno Benech (cognome scritto all’italiana, com’era obbligatorio allora,
nda) che fece parte della squadra riserve del Torino e che attualmente è ufficiale nella nostra città....”
In effetti Beneck si trovava a Parma come ufficiale dei bersaglieri, effettivo per meriti di guerra , aggregato alla divisione corazzata Littorio , presso la Scuola di applicazione , che
aveva sede nel Palazzo ducale del Giardino pubblico. Era un
ottimo calciatore, attaccante per l’esattezza. A Torino aveva
giocato fra le riserve granata ed era inevitabilmente amico di
molti campioni (alcuni dei quali sarebbero periti a Superga), in
particolare di Ossola e di Raf Vallone, che poi sarebbe diventato un importante protagonista nel cinema.
Per due anni, ’37 e ‘38, era stato anche giocatore di basket
per la Ginnastica Torino, divisione nazionale. Primeggiava nel
salto in alto, tanto è vero che fu campione militare per due
anni. Come militare era stato volontario in Africa e paracadutista nel battaglione San Marco.
Bruno Beneck aveva scoperto il baseball nel dopoguerra.
Aveva fondato la Juventus ‘48, con la quale giocava in prima
base, e partecipato al movimento per unificare le varie Leghe
sorte al nord e al sud, dove era attiva la Federazione italiana
baseball softball di cui era presidente il principe Steno Borghese. Beneck era succeduto a Max Ott alla guida della LIB,
Lega italiana baseball, ma per rispetto verso quello che ha
sempre considerato il ‘padre del baseball’, aveva accettato alle
condizioni di essere soltanto vice presidente. Di queste vicende, fino alla riunificazione, si occupa con dovizia di particolari
il capitolo 2.
C’era anche Beneck in Spagna in occasione della prima gara
internazionale, protagonista il Firenze. Poi venne il trasferimento a Roma ed il lavoro nell’ambito del cinema, quindi il
passaggio alla nascente televisione, nella quale avrebbe avuto un ruolo importante all’interno della ‘Domenica sportiva’,
diretta dall’amico Aldo De Martino. Ricordiamo i suoi servizi
a Parma a metà degli anni ‘60, puntualmente trasmessi dalla
RAI, realizzati col concorso di alcune cantanti, la Caselli e la
Zanicchi, che si prestarono per fingere di essere appassionate
di baseball. A questo punto Beneck tornò nell’ambiente come
presidente della Incom Lazio, coinvolto da Giulio Glorioso e da
Giuseppe Bilancioni. Il mondo del baseball fu affascinato dalla
sua persona e nel 1969 ebbe la maggioranza assoluta nell’Assemblea di Firenze a discapito di Ghillini, diventando presidente della FIPAB, destinata presto a diventare FIBS. Fautore
dei diamanti illuminati e del gioco spettacolo, introdusse l’uso
degli oriundi, a suo modo di vedere per ridurre il gap con la
Nazionale olandese, che aveva a disposizione diversi antillani.
Nel 1975 riportò così in Italia il titolo continentale.
Nel 1969 a Varsavia lanciò l’idea del baseball olimpico , contro il parere degli stessi americani che ritenevano il baseball
‘troppo professionistico’. Coinvolse anche il presidente del
CIO Samaranch. Dopo un viaggio a Cuba, questi dichiarò:
“Viaggiando per il mondo ho scoperto quanto sia popolare
e diffuso il baseball: d’ora in avanti seguirò con particolare
attenzione e simpatia le vostre richieste”. La pressione di Be-
Foto Renato Ferrini
Una feluca della goliardia bolognese per tutti alla presentazione del Mondiale 1978
neck, che era spalleggiato da altre federazioni, fu tale che il
CIO decise di ‘promuovere’ il baseball e il tennis come sport
dimostrativi alle Olimpiadi di Los Angeles ‘84.
Nel 1970 il baseball venne accettato anche all’Universiade di
Torino dove registrò il maggior successo assieme alla pallavolo: nella finale fra Cuba e Usa, nell’ampliato stadio di via Passo
Buole, c’erano seimila spettatori e fra questi il presidente della
FIAT, Gianni Agnelli e quello della FISU , Primo Nebiolo.
Due anni dopo era eletto dirigente dell’anno in occasione
dei mondiali disputati in Corea, gli stessi Mondiali che nel 1978
avrebbe portato in Italia e per la prima volta in Europa, con
uno straordinario successo di pubblico. Vice presidente della
Federazione mondiale e presidente della Federazione Europea, rilanciò la pratica del softball dando il via a campionati
regolari dopo la fase pionieristica degli anni ‘50.
Nel 1984 portò ai Giochi dimostrativi di Los Angeles una
formazione imbottita di oriundi, ma forte anche di giovani
promesse emerse dal Club Italia, il gruppo azzurro che aveva
realizzato proprio per valorizzare il ‘prodotto’ italiano: Carelli,
Fochi, Manzini, Bianchi, Ceccaroli, Mari, Costa, Bagialemani, a
conferma dell’importanza di questo vivaio.
La figura di Beneck cominciava forse ad assumere troppa
importanza nel mondo sportivo, come il ‘suo’ baseball, che
aveva propri stadi illuminati a differenza delle altre discipline. Quando, al termine delle Olimpiadi, venne sfiduciato dai
membri del Consiglio federale per un buco in bilancio, Beneck
si dimise e il CONI si affrettò ad istituire un processo sommario. Al suo posto subentrò come Commissario speciale il segretario generale del CONI, Mario Pescante. L’inchiesta della
magistratura si risolse con un nulla di fatto: nessuna ombra di
peculato.
Nominato presidente onorario della FIBS da Everardo Dalla
Noce, Bruno Beneck è scomparso a Roma il 23 ottobre del
2003.
La figura di Beneck è vivida nel ricordo di Giorgio Castelli,
il più grande campione emerso durante i suoi mandati: “Ho
conosciuto Beneck quando era stato appena eletto alla presidenza - ricorda Castelli con un filo di commozione - e senza
mezzi termini voglio dire che il suo avvento diede una svolta
memorabile al movimento. Bruno Beneck è la persona alla
quale si deve il merito dell’organizzazione dei primi grandi
eventi in Italia”.
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GIORGIO CASTELLI di Giorgio Gandolfi. Chiunque all’epoca
- sono passati 55 anni - poteva sognare. E il sogno era un
gioco nuovo, da farsi sui prati di primavera e poi fra i suoni
dell’estate.
Giorgio Castelli era uno di quei ragazzi che sognavano
e crescevano in un quartiere dove la gente era povera,
molto uguale e molto felice, pur non sapendolo. Le finestre
aperte, senza inferriate, bambini con la faccia sporca di pane
e marmellata ed altri che scalpitavano in strada, urla da
pellerossa, i duelli con spade improvvisate dopo avere visto
l’ultimo film sui pirati. Volavano anche sassate, non c’era
asfalto sulle strade: qualcuno cominciava a scaldarsi i muscoli
per giocare a baseball, sport esatto come una partita a scacchi,
elegante come una raffinata rievocazione di costumi.
Nel 1951 c’era già un gruppo di universitari che giocavano
su un improvvisato diamante sorto a ridosso del torrente:
portavano con orgoglio la scritta Cus Parma sulle divise e,
secondo una nota dei tempi, “erano parecchi, inesperti e
privi di materiale, gli ‘adepti’.” I loro nomi restano scolpiti
nella memoria degli appassionati: Roncoroni, Giovannelli,
Campanini, Righi, Cavalli, Dall’Argine, Notari, Pisi, Morini,
Simonetti, Mora, Sacca e Cantoni...
E più avanti ci furono i ragazzini come Giorgio Castelli.
Nei giorni scorsi ha festeggiato i suoi primi 55 anni: come lui
l’hanno fatto molti altri ex ragazzi di via Isola, la manciata di
case sorte attorno alla chiesa. Dietro c’era la foschia che si
alzava dai campi, perché tutto attorno era campagna. Ogni
chiesa aveva un ‘suo’ sport: il calcio , soprattutto, oltre al ping
pong e al calcio balilla, ma anche il baseball cominciava a farsi
strada nel pigro perimetro delle abitudini cittadine, superando
l’intricata foresta del regolamento. In via XX settembre, si
giocava a gerlo: e il vetro del vicino che andava in frantumi
esprimeva le prime ambizioni dei potenziali fuoricampisti.
Sorto grazie al Piano Fanfani, il quartiere di via Isola, al di
là del canale Volturno, era fatto di cortili verdi e case senza
riscaldamento e ascensore. Ad aiutare don Domenico Magri
in parrocchia nel ‘60 era arrivato come coadiutore, don Sergio
Sacchi, un pretino bravissimo a giocare a calcio, dotato di
santa pazienza e un sorriso radioso. Rimase sei anni, poi finì
a Baganzola quindi a San Vitale prima di ritornare nella ‘sua’
via Isola.
“La chiesa - ricorda - era da completare. Le strade polverose,
tanti bambini, una mandria. Farli giocare era un problema.
La parrocchia cominciò ad acquistare degli orti, spianando il
terreno. Nelle scuole c’erano i doppi turni, cosicché avevamo
‘clienti’ sia al mattino che al pomeriggio. Fra questi c’era Castelli
ed una passione: il baseball, che stava germogliando, grazie
a due ‘maestri’ davvero unici come Nino Cavalli e Guido
Pellacini. Quest’ultimo era come una goccia di miele, sempre
disponibile, aperto, cordiale coi ragazzi. E poi Luciano Laschi
e Gianni Gatti, che erano di poco più vecchi dei loro allievi,
ma fecero un lavoro straordinario. C’era povertà nella zona, ma
tanta spontaneità ed amicizia. Soltanto in un quartiere come
questo, senza le distrazioni del centro cittadino, poteva nascere
un campione come Castelli, che era bravissimo in tanti sport fin
quando Pellacini gli diede un ultimatum: “Devi scegliere uno
sport”. E scelse il baseball. Avrebbe potuto giocare in America,
aveva le carte in regola ma era troppo attaccato alla famiglia.
Oggi sarebbe diverso, purtroppo i tempi sono cambiati, non
ci sono più questi legami. La spontaneità di allora permetteva
di fare quello che si voleva ma il rapporto con la famiglia era
davvero sacro.”
Oggi il 55enne Giorgio Castelli è un felice papà che vive in
campagna. Gli occhi gli si illuminano quando parla di via Isola:
“Avevo scoperto la gioia per lo... sport a sei anni seguendo mio
nonno che andava a giocare a bocce all’osteria del ‘Sordo’. In
viale dei Mille avevamo cominciato a giocare a gerlo ma poi,
trasferendomi in via Isola, scoprii che alcuni ragazzi avevano
un guantone strano. Assieme ad altri andammo a rovistare
negli scatoloni degli ‘stracci america’ in Ghiaia e trovammo
guanti da softball con 4-5 dita. A casa ‘sequestrai’ il mattarello
in cucina, mia mamma aveva sempre tanta pazienza, lo
limai ben bene ed ecco la mazza da baseball. In via Isola
cominciarono ad affluire ragazzi di altre zone come Gatti di
viale delle Rimembranze, Iaschi di San Lorenzo. Gente di
estrazione sociale diversa, ma ben presto unita dalla passione
per il baseball e legata da una grande amicizia. Si viveva alla
giornata, senza alcuna programmazione come fanno i giovani
d’oggi. Ogni strada poteva diventare un campo, uno stadio.
Giocavamo, ci divertivamo, non eravamo mai stanchi”.
In via Isola, con l’Astra, arrivarono i primi scudetti giovanili
del baseball. Castelli divenne un campione. Poteva emigrare
negli Stati Uniti, tentare la grande avventura. Anzi era già
negli States, in Florida, a giocare, ma dall’Italia gli arrivavano
i messaggi della famiglia, dell’allora presidente federale
Beneck, del tecnico della nazionale, Morgan: “Ero in America
in prova dai Reds di Cincinnati, era stato Giulio Glorioso a fare
il mio nome al club americano. Dopo la prova avrei giocato
sicuramente nel singolo A, per dare modo ai tecnici di valutare
le mie caratteristiche.
Nell’occasione qualcuno scrisse che avrei ricevuto cento
milioni per la firma, ma non era vero. Non si è nemmeno
parlato di cifre. Mi ripetevano: torna a casa altrimenti perdi
il diritto di giocare in Nazionale già al prossimo campionato
europeo.
Furono tutti determinanti, assieme alla nostalgia per Parma.
Rinunciai al mio sogno americano, a giocare in Major League.
Anni dopo mi sono rivisto in Gigi Riva: anche a lui deve essere
rimasto tanto rammarico per non avere giocato con la Juventus
o il Milan. E’ chiaro che mi sarebbe piaciuto, almeno fare un
tentativo, anche se sapevo che arrivare al vero professionismo
era un’impresa disperata. Però oggi seguendo in Tv le partite
degli americani, ho l’impressione che mi sarei potuto togliere
qualche soddisfazione”.
Com’era allora la vita di un ragazzo come Castelli ? La risposta
la diede sua madre, la signora Emma, quando si presentò un
giornalista di ‘Gente’, il settimanale che dedicò a Giorgio due
pagine della prestigiosa rivista con il titolo: Non vale cento
milioni il piccolo divo del baseball.
“Giorgio - rispose - si allena tre volte la settimana come tutti
A FIANCO: Castelli mostra orgoglioso il tricolore
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Bertoni e Castelli
Castelli con Beneck ‘regista’
gli altri. Non ha una ragazza fissa. Va a ballare la domenica
pomeriggio con i suoi amici. Un paio di volte al mese va anche
al cinema e alla sera guarda la televisione con noi”.
Castelli è stato il primo a sfondare la barriera dei 100
fuoricampo, a polverizzare il muro delle 1000 valide.
Sono passati esattamente 30 anni da quel 19 settembre
del 1976, quando Giorgio Castelli, sul diamante di Grosseto,
battè il suo 100° fuoricampo. Un’impresa che il catcher
rammenta in modo vago: “Ricordo i festeggiamenti dei
compagni e soprattutto la pagina che la ‘Gazzetta di Parma’
mi dedicò qualche giorno dopo. Tutto qua. Allora non si
esagerava con i festeggiamenti come avviene oggi per ogni
nonnulla. Certamente fu una bella impresa, sono felice di
averla realizzata”.
Come detto, Castelli ottenne il record a Grosseto, dopo
due tentativi andati a vuoto nella giornata di sabato. Al terzo
turno, davanti alle telecamere del TG2 Sport, che trasmetteva
la partita, alle 17 in punto sull’1 a 0 per la Germal contro la
Betagru, ecco l’oriundo locale Criscuolo cercare di mettere
in difficoltà anche Castelli con le sue curve. In precedenza
gli aveva concesso una base intenzionale, stavolta cerca
di giocarselo: il primo lancio è uno strike alto ed esterno, il
secondo una palla più bassa. Tutta la potenza di Castelli si
scarica su questa pallina e ne scaturisce una battuta da tre
punti, che si esaurisce almeno quindici metri dopo la rete
di recinzione, sul lato sinistro del diamante. Immaginarsi gli
applausi dei compagni ma anche dello sportivissimo pubblico
maremmano che, da autentico buongustaio del gioco, ha
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sempre saputo apprezzare i campioni del baseball, a qualsiasi
squadra appartenessero.
Il suo primo fuoricampo Castelli lo aveva realizzato il 16
giugno del 1968 nell’incontro Tanara-Cus Genova vinta dai
parmigiani per 25 a 6. Aveva appena 17 anni, studiava da
geometra poi sarebbe andato all’Università per diventare
medico: “Finii per rinunciare dopo il quinto anno, la media era
del 25, ma gli impegni di gioco mi impedivano di rendere al
massimo“.
Nel 1970 in Colombia il suo esordio nel Mondiale, l’anno
dopo è a Cuba, nel ’73 in Olanda, due anni dopo a Barcellona:
è l’inizio di una carriera prestigiosa. Agli Europei del 1973
in Olanda registra una media-battuta stratosferica (.518),
soltanto il fuoriclasse Hamilton Richardson lo supera.
Nell’82 eccolo battere la valida numero mille! Sono le 21,45
del 7 agosto: ha già al suo attivo 121 presenze in Nazionale
(diventeranno 124 con 133 battute valide e 12 fuoricampo), ha
partecipato a 5 Mondiali, ha vinto 4 scudetti, 7 titoli ‘juniores’
e 5 Coppe dei Campioni.
Il 31 gennaio del 1984, l’Agenzia ‘Ansa’ trasmetteva questa
notizia: “L’addio al baseball da parte di Giorgio Castelli, il
più prestigioso giocatore dei diamanti italiani, ha indotto
la Federazione, con una delibera del presidente Beneck, a
togliere dalla Nazionale la maglia numero 24, vale a dire la
casacca indossata dall’atleta parmigiano in 124 incontri.”
Dice la delibera: “Per ricordare l’eccezionale contributo
dato da questo giocatore durante l’eccezionale carriera in
azzurro”.
Castelli aveva 33 anni e lasciava conservando tutti i record
d’attacco della Serie nazionale, compresa la triplice corona (più
fuoricampo, media battuta e punti battuti a casa), perdendo
soltanto quello stagionale dei fuoricampo battuto nell’ultimo
torneo da Carelli ed Hernandez, autori rispettivamente di
37 e 34 battute-punto contro le 24 del catcher parmigiano; il
primato resisteva dal 1974.
Dopo tanti anni la sua media battuta resiste là in alto, sulla
vetta dei più grandi del nostro baseball: .421, una media
mostruosa se si considera che è andato per 2.525 volte alla
battuta, ottenendo 1.064 valide e venendo eliminato al piatto
soltanto 97 volte. Era quasi impossibile metterlo strike out!
Disse di lui Bruno Beneck: “E’ stato l’azzurro più
determinante nella storia della Nazionale. Ricordo come se
fosse ieri il fuoricampo decisivo contro l’Olanda ai Mondiali
del ’78. E’ stato determinante anche per la nostra crescita”.
Gigi Cameroni, ex allenatore della Nazionale: “Già da
ragazzino si vedeva che sarebbe diventato il più grande
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Idolo delle folle
Il 100° fuoricampo festeggiato con i compagni
giocatore della nostra storia, sia per prestanza fisica che per
coordinazione. Passione, caratteristiche fisiche, freddezza e
dedizione sono stati i quattro cardini del suo successo”.
Giampiero Faraone, allenatore della Nazionale: “Per me
allenarlo è sempre stata una grossa soddisfazione, perché
lo reputo il migliore in assoluto, superiore ad oriundi e
stranieri”.
Aldo Notari: “Castelli è riuscito nell’impresa, difficilissima, di
dimostrare che anche in Italia, volendo, un giocatore di scuola
nazionale poteva essere alla pari degli americani. E’ una figura
di immenso valore, non solo per il baseball italiano ma per
quello europeo”.
Infine Guido Pellacini: “Castelli era fornito di doti superiori,
ho potuto constatarlo quando iniziò a giocare ed aveva appena
otto anni. A quell’età, e non credo di esagerare, dimostrava
già una decina d’anni di esperienza. Una serietà incredibile ed
una mentalità professionistica lo hanno portato a raggiungere
i più alti traguardi in campo nazionale ed internazionale”.
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IL PRIMO CAMPIONATO DI SOFTBALL di Riccardo Schiroli. Il
percorso che porta al primo campionato ufficiale di softball
femminile è piuttosto tortuoso. 
Come abbiamo visto, nell’immediato dopoguerra il softball
era sport maschile piuttosto diffuso. Dal 1952 diviene anche,
con la disputa della prima partita ufficiale, anche uno sport
femminile.
E’ difficile fornire una data precisa, ma è certo che tra la
fine del 1949 e il 1950 una prima attività organizzata nasce
a Milano, grazie alle sorelle Zambelli. Dall’autunno del 1951
inizia ad allenarsi anche il Torino.
Al riguardo della stagione 1951 possiamo riportare una
testimonianza di Mario Bretto: “Si trattava di una attività
amatoriale. Potremmo quasi definire quel che facevamo
una scampagnata folcloristica. Però non va dimenticato che
la società tentava di darsi un’organizzazione, con tanto di
direttivo”.
Dicevamo del 1952: mentre il softball maschile scompare
quasi definitivamente dalla scena (divenendo a tutti gli effetti
un’attività amatoriale per ex giocatori di baseball; la FIBS varerà
un campionato solo nel 2008), al campo “Bernini” di Torino si
disputa il 24 aprile la prima partita di softball femminile. Per
la cronaca, la vincono le Yankee Milano (12-5) sul Torino BC. Il
primo arbitro di softball è Mario Bretto. Nel 1952 non verranno
giocate altre partite
Dagli appunti di Renato Germonio, pioniere del softball e
membro della Hall of Fame, si ha l’impressione che nella prima
metà degli anni ’50 il softball femminile fosse visto inizialmente
come un vero e proprio ‘derby’ tra le città di Torino e Milano.
Sono infatt 4 le squadre ad incrociare le armi: a Milano l’Inter
e il Milano e a Torino i Tigers di Bianca Germonio e il Torino di
‘Pucci’ Meschieri. Queste squadre giocano anche gare ufficiali,
che però la FIPAB non riconosce, tanto che l’albo d’oro del
softball italiano si aprirà con la stagione 1969.
Interessante comunque è sul periodo il contributo di
Giancarlo Mangini, che parla anche di una attività in
espansione verso altre città del nord.
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Ecclesia
Ecclesia
La prima partita di softball del 24 aprile 1952, giocata al campo “Bernini” di Torino: Ernesta
“Pucci” Campioni è il catcher del Torino, V. Zambelli è il battitore delle Yankee Milano e
Mario Bretto è l’arbitro
Una foto del Torino che ha disputato a Napoli l’11 ottobre 1959 l’ultima partita di quella era
“Mi era giunto all’orecchio che, nella vivace Torino di allora,
i pionieri del baseball Renato Germonio, Piero Spinelli e C
avevano diffuso il verbo tra le tifose, creando diverse squadre
soft. Pucci Meschieri, eccezionale grinta tuttofare, Donatella
Spinelli, la classica Carla Ferrero, la fiumana (e tuffatrice
internazionale) Zinna Mihic: erano le sacerdotesse più in vista
della nuova disciplina.
Rientravo in Italia da Londra per una nuova stagione di
baseball e un tarlo rodeva la mia dura testa istriana, nonostante i
miei compiti da, ehm... giovanissimo allenatore-giocatore, non
fosse mai che i primigeni pionieri lombardi restassero indietro
in fatto di ‘pupe’. Detto fatto, Sim Sala Bim! Ecco l’Ambrosiana
di via Rossetti, con le sorelle Zambelli, le Sommacompagna,
le Mazza, le Ottaviani sisters. Fanciulline prodigio intente, sul
grande campo antistante il Leone XIII, a carpire i segreti dei
maschietti, si trattasse di palla soffice o dura. Duri allenamenti
g-i-o-r-n-a-l-i-e-r-i, progressi incredibili, un clima da ‘Facciamo
il Tifo Insieme’ (con Ester Williams, preciso).
Sull’altra sponda, a Città Studi, il robusto CUS Milano di
Gigi Cameroni, l’amico avversario dello stesso sito nostro (la
mitica via Carpaccio), con il fenomeno Eugenia Carpani, una
Carolina Morace ante litteram (bionda, era la figlia dell’arbitro
internazionale di calcio), Anna Pegan (moglie di Gigi), Vera del
Re, Wanda Caminada, le Burlini la forte Cicci Scanziani. Un super
team, che però (attenzione) perderà il primo titolo femminile
(13-12) contro le mie sorprendenti (e non pronosticate) arancioblu. Anno di grazia: 1953; staccato il blocco ‘torinese’ (Torino,
Alessandria, Genova, Verona etc.).
Si rifaranno poi le cussine, in mezzo al tifo infernale ma
sportivissimo, che caratterizzava il primo softball.
Nel 1955 un consistente gruppo di azzurri, attuali o futuri,
mette a rumore il baseball meneghino. Con me e mio fratello
Sergio, Gigi Manca, Folicaldi, Cerea, Zaino e altri trasmigrano
dall’Ambrosiana all’Inter Libertas, trainando con sé alcuni
pezzi da novanta del team femminile (Pucci e Vittoria Zambelli
su tutte) e a rimpolpare così le fila nerazzurre. Morale: secondo
titolo per il sottoscritto, cui l’amico Jimmy Strong (manager
Ecclesia
resiste il Genova. Una certa attività continua anche a Napoli.
Proprio Napoli e Torino sono le ultime realtà ad arrendersi: alla
fine del 1959 risultano le uniche squadre in attività e disputano
l’ultima partita l’11 ottobre. Il softball femminile finisce così
nell’oblio per quasi un decennio.
Commenta Giancarlo Mangini: “Fu per il disinteresse federale,
e conseguente scarsa propaganda? Fu perché il softball era
poco diffuso in Europa, dove si giocava solo in Olanda, Belgio,
Inghilterra e Cecoslovacchia? Di tutto un po’, comunque una
tristezza...”
Il Car Renault Torino esulta: ha appena vinto il primo scudetto di softball
Inter baseball) aveva affidato, oltre che la prima base, la sezione
donne. Il risultato della finale sul Torino dell’ottima Meschieri
fu di 28-13. Staccate Verona, Genova, Cus Milano, Juve Torino,
Ambrosiana e Tigers Torino nell’ordine.
Fu l’ultimo anno in pratica di Inter e Ambrosiana ed iniziò l’era
del Cus Milano (divenuto Bipantol, arriverà a sfidare le squadre
olandesi), passato da Cameroni, come me troppo impegnato
nel baseball, all’ex arbitro Alfio D’Aprile e poi definitivamente
a Pietro Troiani, ex pitcher ambrosianista e grande azzurro
dell’atletica veronese. Furono campionati vinti a gogò (5 in
fila), poi il softball iniziò a svanire in tutte le città tranne Napoli,
regno del professor Fatatis”. 
Mangini parla di ‘titoli vinti’, ma come sappiamo il primo titolo
italiano di softball femminile sarà assegnato solo nel 1969.
Un certo fermento a partire dal 1955 lo conferma comunque
Mario Bretto, che però puntualizza:
“Molte delle formazioni avevano solo buone intenzioni,
ma non erano in grado di giocare per un intero torneo.
L’organizzazione era approssimativa e il numero di tesserati era
scarso. Le partite si giocavano quando le squadre potevano e
non c’erano arbitri federali, perché quelli disponibili la FIPAB
li utilizzava per il baseball. Proprio per questa mancanza
di affidabilità la Federazione non si decise a varare un
campionato”.
Ricordiamo comunque anche alcune delle grandi
protagoniste degli albori del softball italiano attive a Torino:
Ernesta “Pucci” Meschieri, Marisa Delù, Stella Belloni, Olimpia
Zanola, Sergina Bretto
Stando all’analisi sul tesseramento negli anni ’50, completata
tra il 2007 e il 2008 da Roberto Buganè, le squadre attive in
quel decennio sono Cus, Ambrosiana, Yankee e Bipantol a
Milano, Monza, Genoa, Coas Napoli, Cus Padova, Tergeste,
Circolo Venezian Trieste, Bentegodi Verona, Juventus, Tigers,
CN Gei e Torino nel capoluogo piemontese.
Ma così come sono nate, molte squadre scompaiono. A
Milano rimane il solo Bipantol, a Torino restano Torino e Tigers,
Nel 1968 il presidente della Lazio Bruno Beneck presenta
il rilancio del softball femminile all’Acqua Acetosa a Roma.
Secondo un cronista, molte giocatrici dell’ISEF di Napoli
indossano per l’occasione la maglia della sezione softball della
Lazio.
Beneck, che si candida alla carica di presidente della
Federazione, promette il rilancio del softball. Nasce la
Commissione nazionale softball (CONAS) e Renato
Germonio ne diviene il presidente. Con lui collabora Elio
Bertirotti. Lo stesso Mangini si impegna “a diffondere con
ogni mezzo allora possibile il rinato verbo, quasi invasato”.
Proprio nel 1968, il softball fu vicinissimo ad entrare nel
programma olimpico, grazie all’intraprendenza dell’allora
Segretario generale della Federazione mondiale (ISF), un
giovane statunitense di nome Don Porter.
Il softball suscitò interesse presso il CIO a Città del Messico,
ma l’ingresso nel programma venne in effetti dilazionato fino
al 13 luglio 1991, quando a Birmigham (Gran Bretagna) venne
presa la decisione di varare il torneo Olimpico di softball. Le
prime Olimpiadi della palla soffice si disputeranno ad Atlanta
nel 1996.
Nel 1969 a Torino rinascono 4 squadre: Car Renault, Renoir
Claudier, Ciadit e Amatori. Si forma anche la squadra delle New
Stars ad Avigliana, una trentina di chilometri dal capoluogo.
L’ultimo ostacolo per l’avvio di un’attività ufficiale riguarda le
divise. Renato Germonio definisce la disputa su quale tipo di
abbigliamento debbano avere le giocatrici di softball come ‘la
guerra delle mutande’.
Quando il 5 maggio 1969 inizia il primo campionato di
softball, secondo la testimonianza di Germonio, le squadre
attive in Italia sono circa 200 e la nuova disciplina è letteralmente
esplosa: si gioca dall’Adige alla Sicilia.
Il primo campionato ufficialmente organizzato dalla FIBS
vede al via 15 squadre suddivise in 2 gironi. Dal girone torninese
emergono la Car Renault e il Renoir Claudier, che si dividono i
2 scontri diretti e vincono tutte le altre partite. Dal sud emerge
il Napoli, che il 4 ottobre 1969 si presenta al campo di via
Pensieri a Livorno come la grande favorita per il titolo.
In una partita combattutissima, il Car Renault si impone (1312) alle napoletane, che poi battono (26-16) il Renoir Claudier. Il
girone di finale sembra destinato alla ripetizione, perché nella
terza partita il Renoir Claudier arriva in vantaggio 6-2 al settimo
inning; imprevedibilmente, crolla a quel punto sotto il peso di
6 errori. I 7 punti segnati nella parte alta del settimo bastano
al Car Renault Torino per contenere il ritorno delle avversarie
91
NASCE LA NAZIONALE DI SOFTBALL di Riccardo Schiroli.
“Bruno Beneck sapeva che ero un appassionato di softball, uno
sport che avevo imparato a conoscere a Londra, nei primi anni
‘50. Ero lì per studio, lavoro (poco: caricature, vignette, qualche
canzone da crooner nei club). Diciamo che gozzovigliavo, in
attesa della stagione successiva di baseball, da disputarsi a
Milano sul versante Ambrosiana. Per sgranchirmi le gambe
andavo ad ‘Hyde Park’ non solo ottimo ‘terreno di caccia’ alle
‘girls’. Era pieno di yankees, con diamanti che si incrociavano e
turbinio di palle, soprattutto da softball. Erano coinvolti British
e stranieri, era una sorta di Central Park al di qua dell’Oceano”.
Così Giancarlo Mangini si appassiona al softball: “Nel nord
Italia, a differenza del centro sud, avevamo optato subito per
il baseball, pronubo Max Ott, lumando con un certo distacco
il parente minore. Confesso che mi ci volle pochissimo per
adeguarmi alla palla più grossa e al lancio di sottomano, che
controllavo in scioltezza”.  
Non avrebbe pensato che si sarebbe trovato ad allenare
la prima Nazionale di softball: “Certo, tra appassionato e
allenatore della Nazionale passa una bella differenza. Forse
influì anche il fatto che io avevo fatto capire al presidente
che avrei smesso col baseball, non appena avessi finito la mia
carriera di giocatore”.
Lo stimolo di dare il via all’attività della Nazionale di softball
è evidentemente quello giusto per Mangini, che alla soglia dei
40 anni forma, nel 1969 (con Gianni Sbarra ed Enrico Sandulli, il
professor Fatatis era il direttore sportivo), il primo staff tecnico
azzurro. 
“C’era da fare tutto. In verità in quel periodo il problema era
che non c’erano giocatrici” ricorda Mangini. 
Mangini inizia da Napoli la sua prima selezione, poi si porta
a Torino e Forlì: “Il problema più che altro erano le lanciatrici.
A parte Donatella Spinelli di Torino, praticamente non ne
avevamo”.
La futura Nazionale inizia a confrontarsi con squadre delle
varie basi NATO.
“Ci volle tanto coraggio. Ci trovavamo contro delle matrone
- sorride Mangini - ma le nostre erano ragazzine”.
Che comunque vincono tre incontri: a Finale Ligure (19-11) a
Roma (7-3) e ad Ascoli Piceno (15-5).
“Quelle gare - ricorda Mangini - rivelarono il potenziale della
quindicenne romagnola Milva Ceccarelli, che gli americani
definivano ‘born to play’. Tra le giovani ricordo anche la romana
Orietta Clarck e la napoletana Di Pinto. Ovviamente si misero
in luce anche le veterane Pucci Meschieri Campioni e Carla
Ferrero”.
Il 1970 è l’anno dei primi incontri tramandati ai posteri come
‘ufficiali’. Si tratta di tre amichevoli con l’Olanda, giocate ad
Haarlem, Finale Ligura e Novara. L’Italia le perde tutte e tre:
“L’Olanda era per noi un grande esempio - suggerisce Mangini
92
Archivio Torino Junior
e vincere (9-7) la partita che assegna il primo scudetto del
softball italiano. Queste le campionesse d’Italia: G. Wolk, S.
Wolk, Dorini, Pedriali, Meschieri, Germonio, Vegni, Manzoni,
Carenzo, Morelli. Gli arbitri della finale sono Cerrai di Roma e
Pedacchia di Nettuno.
24-6-1953: Torino e Genova in campo al “Motovelodromo” per la prima partita con
pubblico pagante. L’incasso sarà di 7500 lire
Lo score della prima vittoria della Nazionale di softball sull’Olanda
- confrontarci con loro ci servì molto”.
Allo staff tecnico si aggiunge Tino Soldi.
Dal 19 al 25 giugno 1972 l’Italia ospita a Reggio Calabria
la prima Coppa Intercontinentale. Le azzurre perdono tutte le
partite (con Canada, Stati Uniti e Zambia), ma l’Italia del softball
conosce Donna Lo Piano, la grande lanciatrice delle Raibestos
Brakettes, la squadra che era stata vestita di bianco, rosso e blu
per rappresentare gli Stati Uniti.
“Lei e Joan Joyce lanciavano missili a livello degli uomini”
ricorda Mangini. 
Prima di chiudere la sua parentesi alla guida della Nazionale,
Giancarlo Mangini fa comunque in tempo a festeggiare la
prima vittoria sull’Olanda. Accade il primo giorno dell’agosto
1973 a Zandvorf, quinto di una serie di test match che era
iniziata con quattro sconfitte.  Le azzurre passano in vantaggio
al secondo inning, grazie alle valide di Barolo e Borghino sul
lanciatore olandese Mulder, e finiscono con il dominare (8-3)
la partita. L’Olanda gioca abbastanza male in difesa (5 errori)
e le mazze azzurre (8 valide) sanno approfittarne, colpendo
al momento giusto. Borghino (3 su 4 ed un triplo) fa la parte
del leone. Trevisan (5 valide e 3 strike out) firma il successo in
pedana di lancio.
Archivio Tuttobaseball
Sfila la Nazionale italiana al Mondiale 1970
IL PRIMO MONDIALE DI BASEBALL di Giorgio Gandolfi. E’ una
Nazionale imbottita di giovani quella che il 19 novembre
1970 esordisce a Cartagena, in Colombia, sotto la guida del
tecnico americano Chet Morgan, di stanza a Parma perché
ingaggiato dalla Tanara nel tentativo di dare corpo alle proprie
ambizioni.
Tanti giovani... minorenni, ma anche qualche anziano, secondo
logica, del calibro di Giulio Glorioso (39 anni) e Alfredo Lauri
(35), colonne del baseball romano. Completano il gruppo Ennio
Paganelli (20 anni), Giorgio Castelli (19), Roberto Ceccotti (19)
ottimo prospetto del Ronchi dei Legionari, Carlos Passarotto
(25), Ivan Cavazzano (25), Claudio Iaschi (22), Giampaolo Mirra
(24), Luigi Ugolotti (20), Giacomo Bertoni (19), Gianni Gatti (25),
Stefano Malaguti (26), Giuseppe Silva (21), Alfredo Meli (26),
Pietro Monaco (27), Federico Corradini (22) e Gianni Lercker
(26) .
E’ un’avventura in piena regola per quasi tutti, il loro
primo Mondiale di baseball sotto l’egida della Federazione
internazionale; in realtà si tratta della 18° edizione, considerato
che la manifestazione partì nel 1938 in Gran Bretagna, con la
partecipazione di due sole nazioni: appunto i padroni di casa
e gli Stati Uniti che, incredibile ma vero, vennero battuti.
Stavolta la Federazione italiana, presieduta da Bruno
Beneck, ha deciso di mettere la testa fuori dal suo isolamento,
di dare un’occhiata attorno, in mezzo alle grandi. In effetti ci
sono quasi tutte: Cuba, USA, Porto Rico, Colombia, Venezuela,
Repubblica Dominicana, Guatemala, Nicaragua, Antille
Olandesi, Italia, Canada e Olanda, che si classificheranno
nell’ordine dopo sedici giorni di sfide abbastanza equilibrate,
tanto è vero che Cuba nelle due finali supererà gli Stati Uniti
per 3 a 1 e 5 a 3.
Già il viaggio dalla Spagna su un aereo colombiano non è
il massimo come assistenza, ma il peggio doveva venire nella
sistemazione alberghiera. Ce lo ricorda Giorgio Castelli con
queste parole: “Arrivammo in Colombia con due spedizioni,
noi del nord con i romani due giorni prima con atterraggio a
Cartagena, i cosiddetti ‘milanesi’ con i dirigenti federali con
volo a Bogotà. Sembravamo una squadra diretta al fronte,
93
Archivio Tuttobaseball
Castelli a punto sul campo di Cartagena de las Indias
poca esperienza, poche alternative, tanto è vero che faceva un
caldo boia e noi saremmo scesi in campo con una divisa fatta
di stoffa spessa due dita. Immaginarsi le sudate. Il peggio però
fu l’arrivo in piena notte nell’albergo che ci attendeva, una
palazzina gestita da un greco che spiccicava qualche parola
d’italiano. Quando entrammo nelle stanze trovammo delle
pale di ventilazione che sembravano eliche d’aereo. Un incubo.
Ma quando spostammo le lenzuola ci accorgemmo che erano
piene di ‘cucarachas’, gli scarafaggi giganti tipici di queste
zone. Ci mettemmo di buona lena all’opera di rimozione, visto
che cascavamo dal sonno, e finalmente riuscimmo a dormire.
Al mattino, fatta la colazione, il greco ci invitò a visitare la
piscina: c’erano due spanne d’acqua piene di rane! Con l’arrivo
di Notari e del segretario Ceccotti, traslocammo quasi subito
in un albergo sul mare di Cartagena: noi al quarto piano, gli
olandesi, che erano già arrivati, al secondo. Ad aspettarci un
cartello scritto a mano: Benvenuti ai campioni d’Europa. Alcuni
giorni dopo, in seguito alle nostre sconfitte, qualcuno con una
penna aggiunse: Campioni di che?”
Bene o male l’Italia esordisce al Mondiale contro il Guatemala
94
ìn una gara molto equilibrata con cinque valide a testa,
altrettanti errori (2) ma con un solo punto di vantaggio per
gli avversari. Un buon inizio, dunque, anche se col Portorico
il punteggio sarebbe stato più severo, 4 a 0. Il meglio l’Italia
l’avrebbe fornito contro gli Stati Uniti che si presentano per
l’occasione in campo con alcuni autentici giganti, almeno
rispetto agli italiani che come altezza, peraltro, non erano dei
pigmei.
Lasciamo la parola al protagonista di quella partita,
Giacomo Bertoni: “Perdemmo di misura, 3 a 2, ma è il caso
di dire che non lo avremmo meritato visto che i loro punti
furono la conseguenza di situazioni abbastanza fortuite. Io
ero in vena, i miei 19 anni mi permettevano di sparare delle
autentiche cannonate e poi il pubblico colombiano era tutto
per noi e per me non mancava l’urlo ‘ponchalo, ponchalo’
(mettilo strike out). In verità ne ‘ponchai’ almeno una decina,
ma la fortuna era dalla loro parte, specie quando l’arbitro non
chiamò un doppio gioco, lasciando così due corridori in base.
In battuta c’era un mancino che, nel tentativo di schivare un
lancio, colpì involontariamente la pallina che finì in terza base,
Archivio Tuttobaseball
Archivio Tuttobaseball
Mondiale 1970. Azzurri in campo e con Max Ott
superando il nostro difensore e permettendo ai due americani
in base di andare a punto. Vi giuro che è vero. Alla fine
comunque ricevemmo molti applausi ed i complimenti degli
stessi americani: alcuni, parlando con Glorioso, gli dissero che
non sapevano che in Italia ci fosse il baseball...”
Bertoni divide la camera con Castelli, il suo ricevitore.
Giocatore del Rimini, non immagina che la sua vita futura
sarebbe stata quella parmigiana, in tandem con l’amico
Giorgio.
Con sua grande sorpresa, Bertoni si vede arrivare in albergo
tre talent scout americani, che lo fotografano e gli chiedono
cento dettagli sulla sua vita.
“Mi dissero chiaro e tondo” ricorda Bertoni “Che ero pronto
per giocare in America e che presto le loro squadre si sarebbero
fatte vive: immaginarsi la mia... fibrillazione, andare a giocare
negli USA, il sogno di noi tutti. Invece quando tornammo in
Italia non successe nulla, anche perchè a Bollate era nato un
contrasto con la società per via del mio tesseramento per il
Rimini e la Federazione, a sua volta, non aveva alcun interesse
a lasciarmi andare negli Stati Uniti, perchè in questo caso non
avrei più potuto giocare con la Nazionale. Tanto è vero che poi
cambiarono le regole del tesseramento, per cui un minorenne
com’ero io non veniva automaticamente svincolato, anche se
si spostava di 300 chilometri. Così quando mi trasferii a Parma,
frequentando ogni giorno Castelli, ci accontentavamo di
andare in viale Piacenza a vedere nascere lo stadio e a sognare
che il baseball diventasse una grande realtà” .
Come in pratica fu dalla metà degli anni ’70 alla metà degli
’80, prima del grande crollo.
Ma torniamo al Mondiale colombiano, alle successive partite.
Ancora una sconfitta di misura con le Antille Olandesi (4-2), più
netta con Cuba ( 9-1), una figura discreta col Nicaragua (6-2).
Poi viene la sfida con l’Olanda. Il meglio dell’attacco azzurro è
espresso da Giorgio Castelli, che alla fine del torneo presenterà
un biglietto da visita ragguardevole: 14 battute valide in 39
turni con due tripli, un doppio ed un fuoricampo interno,
proprio a spese degli ‘oranjes’. Una battuta lunga e penetrante
che dà modo a Giorgio di galoppare a casa base dopo avere
spedito a punto altri due compagni. Anche Passarotto (8
valide complessive ), Iaschi ( 7 ), Cavazzano (5) e Ceccotti, alias
Cicotti secondo gli score locali (6), danno una buona mano
nell’arrotondare il bottino finale (6 a 2), contraddistinto da 10
valide contro 8, 0 errori contro 3.
Il torneo si chiude con due nette sconfitte ad opera di
Venezuela ( 11-1) e Domincana (10-1). Nel complesso un solo
successo, doppiamente importante, più il fiore all’occhiello
rappresentato da quel 3 a 2 sfortunato con gli USA. Con 359
di media battuta Castelli si conferma leader della squadra
(Paganelli è a quota 500, ma con una valida in due turni),
seguito da Ceccotti 231, Passarotto 229, Lauri 200, Cavazzano
192, Jaschi 189, Mirra 172 quindi Ugolotti e Bertoni 167. In
difesa 12 errori di Passarotto, 3 a testa di Cavazzano, Mirra e
Malaguti. Con 6 out in seconda Castelli dimostra che con lui è
difficile rubare. Sul monte di lancio Bertoni totalizza 17 strike,
out concedendo 22 valide, con una media punti guadagnati
di 4.42 in 18 riprese. La miglior media è di Lauri (1.35) con 12
valide e 5 kappa; Paganelli 2.45 ( 3.2 inning, 5 valide), Silva 3.18
( 25 valide in 22 riprese lanciate), Glorioso 4.50 ( 8 valide in 6
riprese), Lercker 6.60 ( 25-15), Corradini 13.50 ( 14-6.2), infine
Gianni Gatti utilizzato per due riprese con 27.00 ( 9 valide).
Gli unici due fuoricampo al passivo sono addebitati a ‘Chico’
Corradini, 17 le basi gratis di Bertoni. Nel complesso una media
di 5.14 con 120 valide in 87.2 inning. L’unica vittoria sul monte,
con l’Olanda, è opera di Teddy Silva.
L’Italia torna a casa dal suo primo mondiale con un bilancio
soddisfacente: meglio di così non si poteva fare contro i colossi
americani. 95
Il diploma di partecipazione al primo
Mondiale di softball del tecnico azzurro
Tino Soldi
IL SOFTBALL SI FA MONDIALE di Riccardo Schiroli. Nel 1974
il presidente Beneck decide di partecipare al Mondiale di
softball, del quale si svolgeva la terza edizione negli Stati Uniti,
precisamente nel Connecticut. Al neo manager Tino Soldi
viene affiancata Donna Lopiano, la numero uno dei lanciatori
dell’epoca. Lopiano ha appena 28 anni e un caratteraccio.
“Altroché” - ricorda Tino Soldi - quando si arrabbiava sembrava un toro, buttava per aria tutto. Dopo la sconfitta con gli
Stati Uniti mi vennero a chiamare per paura che distruggesse
l’albergo. Io ammetto che mi faceva anche paura”.
Lavorare con Donna Lopiano cambia per sempre il modo di
intendere il lancio del softball per i tecnici italiani.
“Noi conoscevamo solo il movimento a fionda” - confida Soldi - e lei ci fece capire che, a quei livelli e contro quei battitori,
non saremmo riusciti ad ottenere nulla, a quel modo. Fu Donna, che ci introdusse al movimento del lancio a mulinello”.
I risultati sono stupefacenti, perché la giovanissima Italia
vince 3 delle 7 partite disputate (contro Portorico, Nuova
Zelanda ed Isole Vergini), cedendo a Canada e Taiwan con un
solo punto di scarto.
“Donna puntava molto su Nadia Barolo, che allora aveva
appena 14 anni - continua Tino Soldi - le insegnò il movimento
a mulinello e ottenne risultati davvero incredibili, tanto che
Nadia divenne il nostro lanciatore numero uno per quel
torneo. Ricordo che si comportò molto bene anche Carla
Martignago”.
Se i risultati sul campo furono ottimi, lo si deve anche al
periodo di preparazione svolto a Caserta.
“Quello è uno dei ricordi più particolari che ho. Noi eravamo
in albergo a Caserta, ma avevamo qualche problema per
allenarci, visto che il campo comunale era in brutte condizioni.
Si offrì di aiutarci un certo Commendator Schiavone,
offrendoci un suo terreno. Ci garantì che lo avrebbe reso
utilizzabile e messo a nostra disposizione in pochissimo
tempo. Infatti gli bastò una notte per spianarlo”.
Donna Lopiano interrompe la sua collaborazione con la
Nazionale italiana subito dopo il Mondiale. Aveva completato
96
il dottorato di ricerca e iniziato la sua fortunata attività
professionale fuori dal campo.
Tino Soldi è invece ancora il manager in occasione del
Mondiale 1978, che si gioca in San Salvador.
“Ci parlavano di guerriglia e di ‘Sendero luminoso’ e noi
facevamo fatica a capire. Però tutti avevamo notato che i
poliziotti erano giorno e notte con la nostra delegazione”.
Il risultato sul campo è per altro ancora una volta
sorprendente. Le azzurre chiudono con 4 vittorie (Nicaragua,
Belize, Panama e Guatemala) e 4 sconfitte, cedendo per altro
con un solo punto di scarto a Stati Uniti e Nuova Zelanda.
Nei suoi anni da CT, a Tino Soldi non riesce però di avere la
meglio sull’Olanda, che sconfigge le sue azzurre 6 volte nei
test del 1975 e vince a Rovereto nel 1979 il primo Campionato
europeo della storia.
L’Italia conta su uno staff di lanciatori, affidato alle cure
del canadese Dave Pearce, che ha le stelle in Cena, Barolo e
Martignago. Dopo aver dominato Belgio, Svezia e Spagna,
le azzurre vincono il primo confronto con le olandesi (1-0) ai
supplementari, ma si devono arrendere nella rivincita (3-1) e
nella bella (5-0), lasciando alle arancioni il trofeo.
“L’Olanda era davvero una bestia nera per noi - ricorda Rita
Ramieri - bisogna ammettere che erano molto più preparate
dal punto di vista atletico ed erano anche ragazze di taglia
nettamente superiore alla nostra. Avevano però un difetto:
giocavano in maniera abbastanza prevedibile, noi eravamo
decisamente più creative. Dave Pearce continuava a ripeterci
che non avremmo mai vinto, se non ci avessimo creduto. Ma la
nostra volontà e la nostra creatività non bastarono”.
Nata nel 1951, Rita Ramieri passò al softball dall’atletica, sport
che le stava dando soddisfazioni: “Già, ero vicina alla Nazionale.
Mia sorella mi attirò ad un allenamento magnificandomi
le magliette che regalavano. Allora, era il 1969, non era così
facile vedere articoli americani. Poi, fu amore a prima vista e
nel 1970 partecipai al mio primo campionato.
Nel 1971 vincemmo il nostro primo campionato come San
Saba”.
A SINISTRA: la stampa si occupa della debuttante
azzurra Nadia Barolo
AL CENTRO E A DESTRA: Donna Lopiano nel 1974 e
oggi
DONNA LOPIANO di Riccardo Schiroli. Nata nel 1946, Donna
Lopiano è stata uno dei più grandi lanciatori di softball
di tutti i tempi. Nella sua carriera vanta 183 vittorie (con
appena 18 sconfitte) e 1633 strike out (con solo 384 basi) in
817 riprese lanciate, 3 titoli da MVP, 6 primi posti e 4 secondi
posti nel campionato nazionale. Con l’intera formazione delle
Brakettes, rappresentò gli Stati Uniti al primo Mondiale di
softball, giocato a Melbourne (Australia) nel 1965.
La sua carriera fuori dal campo è ancora più brillante. Laureata nel 1968 al Connecticut State College, ottiene un Master
(1969) e completa il dottorato Ph.D. (1974) alla University of
Southern California.
Nel 1992 viene nominata Direttore generale della Women’s
Sport Foundation, carica che ricopre ancora. Questa Fondazione si occupa di garantire pari opportunità alle donne nel
mondo dello sport, offrendo un supporto fino ad un milione
di dollari all’anno complessivi a diversi programmi di sostegno alle donne che praticano sport.
“Posso dire che, per quanto mi riguarda, Donna Lopiano mi
ha fatto fare il salto di qualità come lanciatore” ricorda Nadia
Barolo, che all’epoca aveva solo 17 anni.
“Quello che mi ha colpito maggiormente, è stata la sua mentalità vincente, la sua visione oltre quello che noi consideravamo ‘i nostri limiti’. Durante l’anno intenso di allenamenti in
preparazione dei mondiali, mi ha trasferito una quantità di
informazioni e, soprattutto, mi ha insegnato l’approccio mentale da utilizzare in allenamento, in partita, nel post partita,
che continuano ad essermi utili ancora oggi, nel mio lavoro e
nella mia vita privata.
Nadia conferma che Lopiano era già allora persona di
carattere: “Le espressioni ‘non posso’ o ‘non riesco’ non
facevano parte del suo vocabolario. Anzi, si infuriava molto se
qualcuno osava pronunciarle in sua presenza!
Gli allenamenti erano molto intensi (non eravamo abituate
a quei ritmi), ma Donna Lopiano prese in mano una squadra
di ragazze, alcune, come me, giovanissime, e la trasformò in
un team in grado di competere con squadre come il Canada,
Formosa, Nuova Zelanda. Credo che i risultati parlino da soli.
Ancora oggi rammento le sue parole più famose, che usava
in continuazione: concentrazione e determinazione. Ammetto che ci piaceva prenderla in giro, imitando il suo accento
quando le pronunciava”.
Donna Lopiano ci teneva moltissimo a fare una bella prestazione contro la squadra degli Stati Uniti: “Purtroppo andò
male. Fece partire me come lanciatrice, pensando di impressionarle per l’innovazione. Sono stata infatti la prima lanciatrice ad introdurre in Italia il lancio a mulinello. Mi fece anche
fare il riscaldamento dietro le tribune, per non scoprire la sua
tattica prima della partita. Il risultato fu che gli Stati Uniti fecero un bel ‘batting practice’ contro di me. Il primo inning fu interminabile. Riuscivano a battere in qualsiasi parte del campo.
Comunque questo non mi scoraggiò, e successivamente mi
presi le mie rivincite.
Per Donna fu invece una tragedia; in seguito ci spiegò che
lei aveva dovuto lottare duramente (in quanto italiana) per
conquistarsi la stima degli americani ed in quella partita c’era
molto di più che una semplice sconfitta sul campo di softball”.
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Foto Renato Ferrini
Vic Luciani in allenamento a S. Giovanni in Persiceto prima del Mondiale 1978
LA VITTORIA SUGLI USA DEL 1973 di Maurizio Caldarelli. Sotto la
spinta del presidente Beneck, il baseball italiano fa un grosso
balzo in avanti negli anni Settanta, decennio nel quale l’Italia è
chiamata a prendersi importanti responsabilità organizzative.
La prima è la Coppa intercontinentale, alla quale farà poi seguito
il Mondiale ‘78. Sul campo arrivano soddisfazioni impagabili.
Il 5 settembre 1973, proprio durante il primo trofeo intercontinentale della storia (disputato sui diamanti di Parma e
Bologna), l’Italia batte gli Stati Uniti. A firmare la storica vittoria è un grande homer di una delle stelle dell’epoca, Vincenzo Luciani, meglio conosciuto da tutti come Vic, per essere
rientrato in Italia dopo aver fatto anche esperienze professionistiche in Venezuela, dove si era trasferito piccolissimo insieme alla famiglia. “Io però non mi sono mai sentito un oriundo
– tiene a precisare Luciani – perché ho sempre utilizzato il mio
passaporto italiano e a 26 anni ho fatto anche il militare”.
Quella gara il Vic non l’hai mai scordata: “E come potrei?
C’era un’atmosfera magica quella notte all’Europeo di Parma.
Ci avevano visti all’opera altre due volte, ma gli Stati Uniti
avevano un fascino particolare. Per questo ci saranno stati
diecimila, forse undicimila spettatori”.
“La gara – prosegue Luciani – fu bellissima e durissima
e la nostra squadra, allenata da Bill Arce, si comportò alla
grande. Anche a causa di qualche errore di troppo in difesa, ci
trovammo sotto 3-0 al 4° inning. Recuperammo il 3-3 al 5° ed
al settimo ci portammo addirittura in vantaggio, grazie ad un
lunghissimo fuoricampo di Sal Varriale, accompagnato a casa
da Giorgio Castelli”.
98
Le emozioni di quel match non erano finite: “All’ottavo gli
USA pareggiarono i conti, ma al 10° trovammo la forza per
vincere”.
E Luciani racconta quella legnata che mise al tappeto gli
yankee: “Mi ricordo il nome del mio avversario: Lukevics.
Andai sul conto pieno, tre ball e due strike. Al lancio successivo
picchiai la pallina lontano, a destra. Rimbalzo su muretto e
quindi caduta dall’altra parte. Iniziò una festa interminabile,
che coinvolse la squadra ed i tifosi. Che bello! Riuscimmo
anche a far scatenare una persona tranquilla come l’avvocato
Morgantini, che era il capo delegazione”.
E da quella sera Vic Luciani diventò la bestia nera degli Usa:
“Nel 1980 – racconta – durante la Coppa del mondo firmai tre
doppi e li battemmo per la seconda volta”.
Della storica vittoria del 1973 Luciani ricorda anche un
gustoso aneddoto: “Ad un certo punto della partita scese nel
dugout il presidente Beneck, per incoraggiarci. Eravamo sul 5-3.
Io ero il capitano della squadra e gli feci una mangiata di faccia
e lo invitai a tornarsene in tribuna, anche per scaramanzia. Alla
fine mi abbracciò e mi perdonò, ma solo perché avevo battuto
il fuoricampo della vittoria”.
Quella vittoria al supplementare addolcì in qualche maniera
anche la sconfitta patita qualche settimana prima ad Haarlem
nella finale del Campionato europeo e consentì alla fine di
chiudere al 6° posto quella competizione, con tre vittorie (le
altre contro Taiwan e Argentina). “A quei tempi non era facile
mettere in campo la squadra migliore – sottolinea Luciani – a
causa dei soldi. La Federazione non prevedeva né diarie, né
Foto Renato Ferrini
Ancora Luciani, capitano azzurro, durante la cerimonia di apertura dei Mondiali ‘78 al ‘Gianni Falchi’
rimborsi spese, ma solo un piccolo contributo per quello che il
giocatore rimetteva venendo in Nazionale e molti rifiutavano.
Comunque indossare la maglia azzurra era motivo di grande
orgoglio. Non si disputavano tante partite come ora, ma ogni
volta era una soddisfazione immensa. Io sono stato per otto
anni il capitano e sono felice di aver dato il mio contributo. In
più di dieci anni di Nazionale ho visto passare decine e decine
di giocatori ed ho provato gioie immense come il trionfo
all’Europeo di Haarlem nel 1977. Sono stato dieci anni ad alti
livelli”.
“Il baseball di quei tempi – secondo Luciani – era meno
tecnico di quello attuale, ma il livello degli italiani probabilmente era più alto. E dove non si arrivava con le capacità si
arrivava con il cuore. Quella maglia era una seconda pelle ed
eravamo pronti a morire per difenderla. Nella scelta dei giocatori si guardava alla qualità e ce n’erano di ragazzi interessanti:
Castelli, Rinaldi, Bazzarini, Di Raffaele, Cherubini, Costantini,
Argentieri”.
“Ed anche quando negli anni aumentò il numero dei
giocatori con il doppio passaporto – aggiunge – non cambiò
lo spirito. Avevamo un gran gruppo, composto da giocatori
che per anni hanno fatto la storia di questo sport e che
sono rimasti legati alla nostra terra, come Romano, Orrizzi,
Colabello”.
“Il merito – sottolinea Luciani – era anche di un grandissimo
presidente, che ci seguiva passo passo, che ci stimolava e ci
teneva insieme. Eravamo orgogliosi di giocare per l’Italia.
Quegli anni furono caratterizzati anche da una cura maniacale
nei rapporti con l’esterno. Mi ricordo che ci erano molto vicini
giornalisti famosi come Enzo Tortora, che diventò un caso
diplomatico per un articolo sul baseball, tanto da essere
espulso da Cuba, Stefano Germano, Everardo Dalla Noce”.
“Ricordo con piacere – aggiunge – l’influsso positivo degli
allenatori di quegli anni, Guilizzoni, Montanini, Ambrosioni.
Ed anche il segretario Massimo Ceccotti”.
“Si badi bene, non erano nemmeno anni pionieristici e la
Nazionale era lo specchio del campionato. Lasciai perché
avevo una certa età, ma un gruppo a quel modo, credetemi,
non l’ho più ritrovato”.
Nato a Cellino Attanasio (Teramo) il 25 giugno 1946, Vic
Luciani è stato uno dei migliori interni (giocava seconda base
ed interbase) del nostro baseball.
Rientrato in Italia dal Venezuela nel 1971, indossa la casacca
del Cus Genova. Nel 1972 si trasferisce alla Fortitudo Bologna,
dove rimane fino al 1981, vincendo 3 titoli italiani e 1 Coppa
campioni. Miglior battitore del campionato nel 1977 (media
.390), indossa la casacca azzurra per 47 volte. Appesi gli spikes
al chiodo, inizia la carriera di allenatore a Bologna nel 1982. Nel
1984 vince il suo primo scudetto da manager. Nel 1986 passa
sulla panchina del Grosseto, con cui conquista il tricolore nel
1986 e 1989.
In Maremma, dove vive, allena fino al 1991. Dopo la non
troppo fortunata esperienza di Novara, sembra uscito dal
grande giro. Torna nel 2005 come coach del Grosseto e nel
2006 accetta di guidare in corsa una squadra di serie A1: il
Parma, in evidente crisi. Luciani lo guida alla salvezza.
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Archivio Tuttobaseball
Gli azzurri posano per la foto ricordo dopo la vittoria dell’Europeo 1977
TRE TITOLI EUROPEI DI BASEBALL DAL 1975 AL 1979 di
Giorgio Gandolfi. La stagione 1975 è un vero punto di svolta,
visto che per la prima volta si giocano tre gare a settimana. E’
anche il primo campionato nel quale si fa ricorso all’innesto
massiccio dei giocatori impropriamente definiti ‘oriundi’; si
tratta di autentici cittadini italiani; è la risposta di Beneck ad
un’Olanda che vince schierando cittadini olandesi nati nelle
colonie.
Il presidente Bruno Beneck presenta la nuova stagione
all’Assemblea del 15 febbraio a Parma con un intervento
vigoroso, da arrivo in scivolata in seconda base: “Il nostro
sviluppo è stato notevole” - dice - anche se il contributo
federale non è mai risultato adeguato, considerato che
abbiamo costruito diamanti per 5 miliardi e mezzo di lire
senza il minimo aiuto da parte del Coni. Ci siamo costruiti i
diamanti da soli, con tanti sacrifici e non penso che gli amici di
Grosseto e Firenze siano pentiti”.
Invece proprio da Grosseto, in comunione con Parma, partirà
la crociata che nell’84 porterà alle sue dimissioni.
“Io non faccio drammi sul passivo della Federbaseball, 166
milioni di lire, sono soldi spesi bene. I debiti vanno riconosciuti
in funzione della nostra crescita. Siamo un po’ pazzi, un po’
poeti”.
Beneck sa che la scelta di affidarsi ai giocatori di scuola
americana non è condivisa da tutti: “Molti sono stati pronti
a fare le cassandre dimenticando che i nostri ‘oriundi’ sono
autentici italiani, con tanto di passaporto, non hanno avuto
i valori notarili degli Altafini e dei Sivori, per non dire degli
antillani di cui fa incetta l’Olanda”.
Come si vede Beneck non aveva alcuna sudditanza nei
confronti del signor calcio o dei ‘potenti’ dell’epoca, sempre
100
pronto a dire quello che pensava. Così nel week end successivo
partiva il campionato dove troviamo Craig Minetto, possente
lanciatore da record, Danny Guerrero, Bob Ciccone, Tom
Resigno, Tony Di Santo, cui si deve un fuoricampo di 107 metri
per la Mobilcasa Firenze, John Criscuolo, Salvatore Taormina,
Bob Gentile ed altri ancora come Roma, Bruno, Germano, il
solito Michele Romano, Eddy Orrizzi, Mansilla, De Simone,
Martone, Di Sanzo, Bonfonte, i due Spica nel Bollate, Punaro,
Armellino, Basile, Croce, Prisco, Bordino, Casale. C’è un’altra
novità importante: l’obbligo dei quattro under 18 italiani
nella partita intermedia. Ancora oggi si discute se fu autentica
salvaguardia del patrimonio nazionale. Darà modo in effetti
a molti prospetti di inserirsi nel vivo del gioco, al punto da
entrare di diritto nella storia del baseball: Trinci, Radaelli,
Manzini, Matteucci, Borroni sono alcuni degli esempi. Il
giovane Stefano Manzini nella Bernazzoli Parma, è terzo come
percentuale strike out dopo Minetto e Di Raffaele, davanti a
Corradini, Basile, Scerrato e Foppiani; Manzini è primo assoluto
fra gli under precedendo Matteucci, Moro, Trinci, Marussich,
Martinini e Del Santo. La novità era però invisa al pubblico e
i detrattori del progetto, ieri come oggi, fanno notare che il
solo Radaelli ha avuto una carriera regolare come lanciatore,
tra questi prospetti.
Il Milano manda addirittura una squadra giovanile a giocare
all’estero sotto la guida del futuro presidente Alberto Koelliker:
ci sono Braga, Giulianelli, Omiccioli, Cossu, Citi, Alessandro
Ambrosioni, nipote di Silvano e Mauro Mazzotti, destinato a
diventare il tecnico di tanti scudetti.
Torna a giocare Castelli dopo che voci incontrollate l’avevano
dato pronto al ritiro. Viaggia con una media... deludente,
‘soltanto’ 400, lui che aveva abituato i tifosi ad esibirsi sui
Archivio Tuttobaseball
Haarlem 1977. Da sinistra: John Noce, Craig Gioia, Giulio Montanini, Sal Varriale, Bob Ciccone e Peter Tranquillo
A DESTRA: il logo dell’Europeo del 1977
500!
Intanto Aldo Notari è stato in Messico, dove ha rappresentato Beneck, presidente della Confederazione europea,
al congresso straordinario delle nazioni americane. I risultati
sono stati superiori ad ogni aspettativa, la linea politica voluta
da Beneck è stata accettata. A Città del Messico si è fatto un
primo discorso serio a favore del baseball nei Giochi Olimpici.
E’ incredibile che la volontà di uscire allo scoperto sia partita
proprio dal piccolo ‘Davide’ Italia e non dal gigante ‘Golia’ degli USA. E’ nata così la Confederazione americana dove ci sono
tutti (Iglesia della Colombia, Oropesa del Messico e così via).
Tutti tranne i rappresentanti della Major League.
Quando la Nazionale si raduna in vista degli Europei di metà
agosto a Barcellona, si scoprono tanti buchi: i potenziali azzurri ‘italiani’ preferiscono rinunciare, c’è addirittura chi sostiene
che non vogliano perdere le ferie, ma più probabilmente il
dissenso riguarda l’utilizzo dei giocatori di scuola americana.
Per fortuna, è il caso di dirlo, ci sono gli ‘oriundi’. Dell’elenco di
trenta azzurrabili avevano risposto soltanto Bernicchia, Castelli e Cavazzano; in lista d’attesa Cattani, Vandi, Luongo e Massellucci. Avevano rinunciato Bazzarini (matrimonio), Laurenzi,
Costantini, Bertoni, Fornia, Ugolotti (matrimonio), Luciani (infortunato), Argentieri, Rinaldi. Praticamente l’intera squadra:
come affrontare l’Olanda senza questi titolari ?
Nel 1971 aveva esordito in Nazionale il primo oriundo, un
certo Campisi che non lasciò alcuna traccia. Ma il nucleo della
squadra di Morgan era formato da tutti quelli che avrebbero
scritto pagine importanti della storia azzurra (Glorioso,
Faraone, Castelli, Bertoni, Meli, Monaco, Rinaldi, Luciani, Silva,
Passarotto, eccetera). Era stata però l’Olanda a vincere, nel
1971 a Bologna (4-2) e Parma, dove si inaugurava il nuovo
stadio, nella gara decisiva (1-0, contro il solito Beidschat), dopo
aver conquistato (7-3) il diritto a disputare la ‘bella’ grazie ad
una grande prova di Bertoni. Gli olandesi si erano ripetuti nel
1973 in casa (7-6 e 6-2).
All’Europeo di Barcellona il vento cambia. Sul diamante
sorto sulla montagnola, dove è di scena il Luna park e che più
avanti diventerà la sede dei Giochi olimpici. L’Italia stavolta si
presenta con forze in grado di rivaleggiare con quelle olandesi:
in campo ci sono Ciccone, Di Santo, Martone, Miele, Orrizzi,
Romano, Russo, Spica, Varriale, il meglio dei nostri ‘oriundi’.
Ed è un trionfo. Nel giro di tre giorni, i primi tre d’agosto, in
un caldo torrido, stritoliamo tutti gli avversari sotto il peso
di 17 fuoricampo di cui quattro ad opera del silenzioso Mike
Romano, tre di Di Santo e due a testa di Castelli, Ciccone,
Orrizzi e Spica. Un’autentica samba alla quale gli oranje
non erano abituati (5-1, 9-4, 9-4 i punteggi che umiliano i
campioni d’Europa ). Hanno un bel dire i giornalisti olandesi,
recriminando sull’utilizzo degli ‘oriundi’. Ricordo di avere
scritto sulla ‘Gazzetta dello Sport’ che “L’Olanda deve godere
di un bel sole, visto che ha schierato otto giocatori che non
hanno nulla da invidiare ai ragazzi africani”. In verità avevo
usato l’aggettivo ‘negretti’, allora non si rischiava l’accusa di
razzisti.
Sul monte di lancio i formidabili Romano e Martone più
Cherubini, Foppiani, Miele, Peretti, Re. In verità Miele era
partito male, visto che aveva concesso un fuoricampo da due
punti all’antillano Lewis e nulla aveva potuto nel duello con
il fuoriclasse Urbanus, oltretutto venendo sostituito troppo
tardi. I lanciatori azzurri portano a casa 69 kappa concedendo
40 valide in 60 riprese. Nella partita decisiva l’Olanda è senza
Urbanus e gli azzurri ne approfittano portandosi sul 6 a 0,
101
Archivio Tuttobaseball
La difesa azzurra all’Europeo 1977
Urbanus viene schierato in seconda ma il fuoricampo di Di
Santo chiude ogni possibilità di rimonta
Dopo 21 anni di attesa (ma allora non c’erano gli olandesi),
torna dunque a sventolare la bandiera tricolore; l’Italia di Beneck e Ambrosioni (con Bill Arce come direttore tecnico) trionfa. A chi importa se qualcuno scrive che hanno vinto i ‘paisà
d’America’ ! Non ci fossero stati loro, forse non avremmo potuto neppure schierare la Nazionale.
Ora comincia il difficile: nel 1977 l’Italia deve difendere il
titolo in caso degli arrabbiatissimi (diciamo così) olandesi.
La premessa è rappresentata dalla Nazionale juniores,
che vince gli Europei a Parma. Ricordiamo come se fosse ieri
l’immagine di Beneck che premia il capitano degli azzurrini,
Claudio Corradi. In campo tanti futuri campioni: Borghino,
Brusati, Camusi, Catanzani, Cianfriglia, Blanchetti, Carelli,
Manzini, Radaelli, Trinci, Da Re, Corradi, Bardiani, Gastaldo,
Giorgi. Il lavoro, dunque, premia. Se gli stranieri e gli oriundi
sono bravi, quelli che crescono al loro fianco saranno di
ottima levatura. Dipende sempre della qualità del prodotto
da manipolare.
L’Olanda sta perdendo alcuni dei pezzi più pregiati:
Richardson, uno dei primi ex pro a giocare in Europa, Maat,
Leurs, campioni che ci facevano impazzire. Richardson agli
esterni prendeva palle impossibili, dopo trenta-quaranta
metri di corsa. “Valida... valida... no, l’ha presa!” Era l’urlo che
si spezzava in gola.
Il 27 luglio ad Haarlem riprende il duello. Stavolta sono
rimasti a casa Castelli (infortunato) e Miele, per motivi personali.
102
Lo staff tecnico vede il debutto di Silvano Ambrosiani come
manager; con lui ci sono Faraone, Montanini, Guilizzoni e John
Noce, con Roberto Frinolli preparatore atletico ed il medico
dottor Lazzari. Fra gli azzurri la solita mescolanza. Landucci,
dopo due anni in Italia, non ha ancora imparato la lingua.
Studia all’università da... disc-jockey. Vuole diventare un
radiocronista sportivo. Orrizzi parla con accento romagnolo,
Craig Gioia è alto, snello, un volto da attore del cinema. In effetti
è un divo della TV americana, ha già girato una quindicina
di film, due dei quali con Charles Bronson. Studia ancora
all’università. Bob Ciccone spezza il cuore alle sue tifose. E’
laureato in sociologia. Orrizzi poteva giocare nei Cardinals ma
avrebbe dovuto interrompere gli studi, lasciare l’università col
rischio di finire nel Vietnam. Meglio studiare. Dice che andrà
in Alaska, a cercare petrolio. Sappiamo che, al contrario, è
finito al caldo, in Africa. Giacchetti della Biemme Bologna, che
aveva avuto offerte per giocare in America a football, insegna
psicologia in una prigione. Ha avuto un permesso di sei mesi
per fare... aggiornamento professionale in Italia. Quelli di casa
nostra sono Bernicchia, Morville, Di Raffaele, Corradi, Carelli
e Scerrato. Completano il gruppo Colabello, Fazio, Romano,
Varriale, Spica, Portogallo, Luciani, Alfieri.
L’Olanda, come sempre, accoglie l’Italia con spirito polemico.
Brucia il fatto che i nostri oriundi sono forti, se non più forti, dei
loro giocatori provenienti dal Borneo olandese, dalle Antille ed
altre colonie. Oltretutto manca il braccio possente di Urbanus.
Una spalla malridotta l’ha messo kappao. I padroni di casa
escogitano anche il trucco di allungare il campo! Incredibile
ma vero. Non potendo spostare i tralicci dell’illuminazione,
li hanno ingabbiati lasciandoli nella zona degli esterni.
Qualcuno rischia di finire all’ospedale per prendere una
pallina vagante. Quando gli azzurri scendono in campo per
allenarsi, lo trovano occupato dall’Olanda impegnata con i
California Angels. In panchina l’ex tecnico azzurro, Bill Arce. Si
fa viva anche la nostra ‘bestia nera’ Richardson, che torna sul
diamante per una singolare sfida organizzata per festeggiare
i 50 anni del baseball olandese: sfidare l’ex stella Usa Hank
Aaron (cinquemila dollari d’ingaggio) nella classica gara dei
fuoricampo. Davanti a diecimila persone, vince Aaron per 6
a 5. Per fortuna Richardson non può giocare, ha una caviglia
scassata. L’Italia può dormire sonni tranquilli.
Normale amministrazione le prime gare, Belgio, Spagna e
Svezia vengono annientate. Varriale e Ciccone fanno a gara nei
fuoricampo contro gli spagnoli, due a testa, otto complessivi,
anche Gioia spara fuori la pallina.
Quando si gioca con l’Olanda, lo stadio come sempre è
strapieno. E’ una sconfitta di misura quella che attende i
ragazzi di Ambrosioni (6-5) che alla fine non appare convinto.
Non tutti gli azzurri hanno reso come sperava. L’ambiente è
piuttosto teso. La tensione aumenta con la seconda sconfitta,
che avviene in condizioni ambientali disastrose.
Piove al punto che al settimo inning la partita è sospesa per
un’ora, in parità (1-1) . Si riprende soltanto a mezzanotte, dopo
un temporale protrattosi per due ore e gli ‘oranje’ prevalgono
su un terreno scivoloso che li mette a loro agio (2-1). E’ il 30
luglio ma la temperatura è invernale. Molti olandesi, ubriachi
a forza di bere birra, prendono di mira Beneck colpendolo
con le lattine. La polizia è costretta a presidiare il dugout
azzurro, dopo che alcuni tifosi hanno derubato gli azzurri di
palline e mazze che erano appoggiate alla rete di recinzione.
Faraone se la prende con un arbitro italiano, Grimoldi, per
una sua decisione e viene espulso. C’è caos anche in tribuna
stampa, siamo costretti ad abbandonare i posti. Ovviamente
è la conseguenza della violenta campagna stampa inscenata
da alcuni giornali contro l’Italia degli oriundi. Al punto che sul
dugout azzurro è comparsa la scritta: “American All Stars”.
Pazienza, perché nella terza partita, giocata in un pomeriggio dalle condizioni climatiche normali, l’Italia vince. Dopo il
deludente Gioia, tocca a Giacchetti lanciare e vincere. Dopo
due inning gli azzurri stravincevano, 5 a 0. Nel finale, l’Olanda
rimontava quattro punti, facendo suonare il campanello d’allarme per la panchina. A questo punto, Ambrosioni rimanda
in campo al nono Gioia e stavolta il pitcher del Parma fa il suo
dovere, dopo avere passato in base il temibile Maat e poi ben
controllato tre antillani (7-4) .
A questo punto, gli azzurri appaiono rincuorati e nel quarto
incontro vincono nuovamente ( 4-1). Scerrato e Di Raffaele
concedono ai padroni di casa appena cinque valide mentre in
difesa Romano è superbo: compie alcuni autentici miracoli al
punto che anche i tifosi avversari finiscono per applaudirlo.
L’Italia vince la partita decisiva con il minimo scarto (10). Romano è il lanciatore iniziale (zero valide), ma viene
fermato da una vescica e Landucci è quello conclusivo e
decisivo (7 riprese, zero valide, 5 kappa). I lanci del novarese
sono micidiali, col suo caricamento nasconde letteralmente
la pallina al punto che Meyer e Richardson, i due tecnici
olandesi, chiedono vanamente a più riprese, il ‘balk’. Niente da
fare, i lanci sono regolari: il problema è degli olandesi, che non
vedono la pallina e girano a vuoto. La fatica ha cominciato ad
avvertirsi soprattutto fra i padroni di casa che in campionato
continuano a giocare due partite contro le tre degli italiani.
Luciani è il migliore in attacco, chiude a mille. Al quinto turno gli subentra il giovane Corradi autore del punto decisivo:
una battuta lunga sul centroesterno che, ingannato dal vento,
perde la pallina e la partita. Giunto in seconda, Corradi è poi
spedito a casa da una gran battuta di Landucci. Ancora Alfieri
il fuoricampista principe. Bernicchia (sostituito da Tranquillo),
Luciani (Corradi), Alfieri, Landucci, Ciccone, Orrizzi, Varriale,
Romano, Spica i neo campioni d’Europa. Come si vede Landucci lancia e batte senza alcun problema. E come batte.
E’ la prima volta che l’Italia vince il titolo in casa della
nazione più titolata come baseball. Beneck è la persona più
felice del mondo e risponde a tono alle pronte polemiche dei
giornali olandesi : “Hanno vinto gli oriundi, non l’Italia” tuona
un giornalista locale. “ Se hanno il passaporto italiano - replica
il presidente - per noi e per il Comitato olimpico vanno bene.
Voi olandesi state a guardare se gli antillani hanno il colore
della pelle diverso dal vostro ?”
Il quotidiano ‘De Telegraaf’ spara un gran titolo: “Oranje
foetsie door Landucci” che vorrebbe dire: ‘Olandesi bidonati
da Landucci’.
Ambrosioni racconta cos’era successo dopo la seconda
sconfitta: “Ho radunato in albergo i giocatori e ho detto loro:
se qualcuno non se la sente di continuare lo dica subito,
domattina Ceccotti gli farà trovare il biglietto per rientrare
in Italia. Ovviamente bluffavo ma i ragazzi mi hanno preso
sul serio. Volevo sollecitarli nell’orgoglio, penso di esserci
riuscito”.
Il bello è che Landucci era stato aggregato alla squadra come
terza base. Poi il forfeit di Colabello aveva indotto i tecnici ad
utilizzarlo sul monte. E’ stato una sorpresa anche per loro. E
che sorpresa!
Non c’è il due senza il tre, è proprio il caso di dirlo: nel 1979
a Trieste e Ronchi dei Legionari, grandi scorpacciate di trippa e
vinelli seri e soprattutto scorpacciata di punti. L’Olanda viene
semplicemente travolta, presa più che mai da... oriundite.
Bastano i risultati per dare un’idea della cavalcata azzurra: 141, 5-0, 8-4 e 8-5. Come a dire: Italia, Italia, Italia!
Ci sono altri giovani del Club Italia, come Dario Borghino, ci
sono i soliti Landucci (1.29 di mpgl) e Romano ( 1.00); in attacco
i bomber sono Russo (.429) , Del Sardo (.400), Di Marco (.385),
Perrone (.364), Spica (.304), Varriale e Ciccone (.300), e poi via
tutti gli altri: Cortese, Costantini, Guzman, Mondalto, Orrizzi,
Vandi, coi lanciatori Avallone, Biagini, Brassea, Colabello,
Landucci, Perrone e Romano. Beneck e Guilizzoni possono
festeggiare il terzo titolo di seguito: peccato che la serie finisca
qua, ma questa è un’altra storia.
103
NASCE LA ESF di Riccardo Schiroli. Nel 1976 Bruno Beneck
fu trai promotori della nascita della Federazione europea di
softball (ESF), della quale fu il primo presidente.
La ESF ha sempre avuto una forte caratterizzazione italiana.
Enrico Bertirotti ne fu primo vice presidente dal 1985 al
2001, gestendo la presidenza ad interim dal 1991 al 1993.
Ricoprì la stessa carica Massimo Romeo nel 2004 e 2005.
Nel 2005 Giovanni Antonio Sanna, vice presidente FIBS nel
secondo mandato di Riccardo Fraccari, è stato eletto vice presidente.
E’ rilevante anche la presenza italiana nella “Hall of Fame” della
Federazione europea.
Nel 1988 fu indotto il dirigente Renato Germonio, nel 1990
fu la volta (per servizio meritorio) di Renzo Ramieri. Nel
1992 vennero indotte le prime giocatrici: Patrizia Caroti e
Rita Ramieri. Lo stesso anno trovò spazio Ernesta (meglio
conosciuta come ‘Pucci’) Meschieri Campioni trai coach.
Enrico Bertirotti fu indotto nel 1997 e Franco Borgia è
stato (2006) il primo arbitro italiano a ricevere il prestigioso
riconoscimento.
La Nazionale di softball durante la tournée in Cina del 1980. Collezione Maurizio Cipriani
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MAURIZIO CIPRIANI di Riccardo Schiroli. Maurizio Cipriani ha
allenato la nazionale di softball dal 1980 al 1983.
“Più che un tecnico - ci racconta - mi ritenevo un istruttore, attività che ho svolto per conto della Federazione fino al 1996. Comunque, al presidente Beneck non avrei mai potuto dire di no”.
Classe 1942, Cipriani aveva guidato la San Saba Roma.
Dal 2 al 23 maggio 1980 Cipriani porta la nazionale in Cina, giocando 6 partite e vincendo quella conclusiva (2-0) contro la selezione di Tienchin. L’Italia partecipa poi alla prima Haarlem Week
e rimedia solo sconfitte, 2 contro le padrone di casa dell’Olanda.
La stagione si conclude con 6 amichevoli con la nazionale cinese, disputate dal 10 al 22 ottobre tra Bollate, Milano, Genova,
Bologna, Roma e Palermo. Le azzurre riescono a strappare due
inusuali pareggi: a Milano (0-0 dopo 9 riprese) e a Palermo (1-1
dopo 11 riprese).
L’Italia partecipa nel 1981 al secondo Campionato europeo. Si
gioca ad Haarlem e Bloemendal in Olanda. C’è grande equilibrio,
ma alla fine le gare decisive vedono le olandesi imporsi per 1-0
e 2-1.
La stagione 1982 concentra nel mese di luglio l’attività ufficiale.
Dal 3 al 13 le azzurre si esibiscono a Lodi, Trento, Parma, Firenze,
Ostia e Napoli. Avversario è ancora una volta la Cina, che vince 5
partite e cede (5-0) solo nella partita di Ostia.
Nel 1983 l’Italia ottiene l’organizzazione del terzo Campionato
europeo, che si gioca a Parma.
“Avevamo una buona squadra - ricorda Cipriani - Monica Corvino
e Donatella Cena erano i lanciatori principali; come altri punti di
forza citerei la terza base Rita Ramieri e i catcher Patrizia Caroti e
Vittoria Trentanove”.
Non basta. L’Italia gioca 5 partite con l’Olanda, ma non segna
nemmeno un punto. Al termine del torneo Beneck non rinnova
la fiducia a Cipriani: “Non ero certo di non essere confermato, ma
diciamo che sapevo che qualcosa sarebbe successo”.
A Cipriani resta la soddisfazione di aver fatto esordire in nazionale Marina Centrone: “La vidi giocare e, anche se era fuori dal
grande giro, la volli assolutamente con me. Era un’atleta incredibile”.
L’attuale manager della nazionale ricorda: “Avevo quasi 22 anni
e giocavo in serie C. Cipriani mi venne a vedere e credo che furono due mie rubate ritardate a convincerlo. Ai primi raduni mi
chiedevo dov’ero finita. Si parlava di tattiche, di lanci diversi, di
approccio alla battuta. Io ero abituata a guardare la palla e colpirla il meglio che potevo”.
Nel gennaio del 1984 Beneck formalizza la sua scelta e chiama
a guidare la nazionale il giovane tecnico di Bollate Chicco Soldi. Nell’agosto si disputa ad Anversa (Belgio) il quarto Europeo,
che vede l’Olanda confermarsi Campione con tre nette vittorie
contro una giovanissima Italia, nella quale muovono i primi passi
future stelle azzurre come Roberta Soldi e Claudia Petracchi.
E’ il primo approccio al varo delle nazionali sperimentali e giovanili, che avranno ottima fortuna durante la presidenza di Aldo
Notari, nel corso della quale si svilupperà il cuore dell’attività di
Chicco Soldi come tecnico federale.
Foto Renato Ferrini
Mondiale 1978. Gli azzurri si preparano in ritiro a San Giovanni in Persiceto
IL MONDIALE SBARCA IN ITALIA di Giorgio Gandolfi. C’è un antefatto al Mondiale di baseball del 1978, il primo Mondiale che
viene ospitato in Italia, la solita ‘pazzia’ di Bruno Beneck. Ovvero il terzo posto della Nazionale Under 18 ai Mondiali in
Argentina. Dopo il titolo europeo in Olanda, Silvano Ambrosioni a fine ’77 è andato a prendersi una grossa soddisfazione
dall’altra parte del mondo col contributo dei coach Guilizzoni
e Guzman nonchè del general manager Ceccotti. Pur giocando in condizioni ambientali difficili, 20-25 gradi più che in Italia, gli azzurrini lasciarono intendere che il futuro del baseball
italiano era in buone mani. “E pensare - diceva Ambrosioni che i cubani per arrivare a questo Mondiale hanno disputato
qualcosa come 40 partite e che il Messico è stato in ritiro per
un mese! I migliori dei nostri? Radaelli, vincente proprio contro Messico e Panama e poi Giorgi, quindi Trinci e Catanzani”.
Chi erano gli altri? Manzini (9 kappa contro il Venezuela),
Mari, Russo, Peracca, Magri, Galli, Costa, Borroni, Castagnetti
tanto per citare alcuni degli azzurrini destinati ad andare
molto avanti in Serie A.
Era rimasto a casa uno dei candidati ad un posto, Mauro
Mazzotti, autentico ‘utility infielder’ (non abbastanza per
Ambrosioni, evidentemente) di cui ricordiamo un fuoricampo
contro Gioia in un’amichevole a Sanremo.
Dopo questa bella notizia, il baseball italiano si tuffa nel
Mondiale, nel tentativo di organizzarlo nel miglior modo
possibile, cercando ovviamente soddisfazioni anche sul piano
tecnico. Gli obiettivi verranno centrati in pieno considerato
che alle gare assisteranno 140.000 spettatori con un incasso
di 250 milioni di lire, cifra che può far sorridere oggi, ma che
all’epoca era davvero rispettabile.
Ovviamente a suo tempo c’è stato chi ha cercato il pelo
nell’uovo, ipotizzando che la Federbaseball aveva in effetti
speso 750 milioni di lire; in verità entrate ed uscite si sono
praticamente equivalse, grazie anche al contributo degli
sponsor e della marea di volontari che in ogni stadio hanno
saputo dare un’efficace assistenza.
Oltretutto il Mondiale ha dato modo ad alcune città di completare gli impianti, Parma per prima. Il ‘Ducato’ ha registrato
la maggiore affluenza per la classica Cuba-Usa, 14.000 paganti, 40 milioni d’incasso; Rimini ha toccato quota 10.000 , Bologna 8.000, ma di più non ce ne stavano. Beneck, Notari, Lenzi
e Zangheri, i ‘boss’ delle varie sedi, avevano l’impressione di
toccare il cielo con un dito anche perchè la TV di stato, incredibile ma vero, era riuscita a trasmettere ‘baseball vero’, con
riprese all’americana e ottenendo ottimi ascolti.
Si comincia in un’atmosfera di grande entusiasmo, pagine
intere sui giornali sportivi, articoli sui quotidiani politici. E’
davvero il momento del baseball, cui risponde il pubblico, altro
elemento essenziale, a dimostrazione che esiste un pubblico
del baseball, purché gli si offra lo spettacolo almeno su un
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Foto Renato Ferrini
Mondiale 1978. Ambrosioni ‘catechizza’ i suoi
piatto d’argento. ‘Stadio’ offre addirittura due pagine, con un
articolo in prima di Ermanno Mioli, mentre Mario Mongiorgi
e Luca Argentieri presentano campi e protagoniste. Quindici
giocatori appartengono al triangolo Parma-Bologna-Rimini,
ma è la Germal a dominare con sette elementi: Bertoni,
Castelli, Cattani, Guzman, Di Santo, Ciccone, Varriale. Tre
campi, 55 partite per la seconda manifestazione organizzata
dall’AINBA, il primo torneo che viene disputato lontano
dall’area centroamericana. Si adotta per la prima volta il
battitore designato, che poi diventerà di attualità anche in
campionato. Ambrosioni anticipa che saranno Landucci, Di
Marco e Varriale i giocatori adatti a diventare DH. Escono
anche due francobolli dedicati al mondiale: uno delle poste
italiane, due milioni di esemplari, l’altro di San Marino, che ha
anticipato tutti a maggio con due francobolli. Si discute ancora
dell’ultima edizione, disputata in Colombia (e alla quale non
partecipò l’Italia) in quanto il titolo venne assegnato a tavolino:
Portorico, infatti, rifiutò di giocare lo spareggio al meglio di tre
partite con Cuba in quanto, a suo avviso, si doveva giocare al
meglio di una. Un caso analogo a quanto successo in Italia nel
’77 tra Germal e Derbigum.
L’Italia si presenta in amichevole a Parma contro gli
universitari del Wisconsin, liquidati con quattro punti a uno.
A Bologna viene sostituito l’impianto di illuminazione, “costo
200 milioni di lire” dice l’assessore Mazzetti, che da tifoso di
calcio e basket si fa coinvolgere anche dal baseball per via
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Rick Landucci, grande protagonista del Mondiale 1978
del Mondiale, ma anche per la figlia che gioca a softball. A
Rimini è stata costruita la tribuna in cemento armato al posto
di quella fatta di tubolari di ferro.
L’onore dell’inaugurazione a Bologna, allo stadio dedicato
al giornalista di ‘Stadio’, Gianni Falchi. Si gioca con l’Australia
e prima del via atterrano i paracadutisti sul diamante, cui fa
seguito uno spettacolo curato dal coreografo Paolo Gozlino.
Viene a mancare Mario Del Monaco, che avrebbe dovuto
cantare l’inno di Mameli. Il TG1 si collega in diretta con Bologna
e trasmette tre ore di baseball. Franco Carraro, presidente del
CONI, avrebbe dovuto lanciare la prima pallina ma si defila,
forse teme di prendersi uno strappo, lascia tutta la cerimonia
inaugurale a Gozlino e alla banda musicale di Loffredo.
Gli azzurri danno subito motivo di divertimento battendo
l’Australia (3-0) grazie ai lanci di Landucci, cui risponde un
ottimo Wonnacott. Il tecnico avversario dà una mano agli
azzurri togliendo il suo lanciatore nel momento critico della
partita, dando praticamente via libera all’Italia. Perdiamo
ovviamente con Cuba (6-0), che presenta ai 12.000 spettatori
di Parma la giovane stella Rogelio Garcia. Non c’è partita,
semmai c’è tensione per un episodio avvenuto nel dug out
azzurro, dove ha preso posto (in tutti i suoi 160 chili di peso)
il tifoso Serafino. Beneck lo caccia via, nasce una collutazione,
interviene la polizia per ristabilire la calma e portare fuori
dallo stadio un ospite che non era stato invitato. Battiamo il
Messico, perdiamo con gli Usa, sfioriamo il colpo a sorpresa
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Mondiale 1978. Orrizzi esterna il suo disaccordo con l’arbitro Paz. Finirà espulso
Mondiale 1978. Gli azzurri festeggiano la vittoria sull’Olanda
contro la Corea, che era sotto di due punti, ma acciuffa il
successo in extremis contro uno stremato Landucci.
A Parma è la volta del Giappone ed è in questa occasione
che Castelli viene festeggiato per la 100° presenza in Nazionale. Attorno a lui, però, c’è maretta in quanto, nonostante il suo
curriculum, non è più il capitano, ruolo che gli spetterebbe di
diritto. Beneck ha invece ‘girato’ il grado a Vic Luciani. Dopo
avere battuto contro i belgi il suo secondo fuoricampo, Castelli (che è impegnato col servizio militare e non ha potuto
allenarsi come vorrebbe) annuncia che alla fine del Mondiale
lascerà la Nazionale: “Non lego più con l’ambiente - dice - non
mi aspettavo nulla dalla Federazione per la centesima partita
e così è stato, ma...”
Ci pensano Notari e lo sponsor Salvarani a dargli un
riconoscimento, ma a Castelli non basta. Per Beneck, Luciani
è più leader di Castelli, per cui il capitano è lui.
Contro il Nicaragua perdiamo per 1 a 0 alla dodicesima
ripresa, mentre Cuba avanza come un carro armato stritolando
tutti, americani compresi.
Resta da giocare l’ultima partita proprio contro l’Olanda. Le
scelte dei tecnici lasciano a desiderare perchè Castelli viene
utilizzato come battitore designato. I nove giocatori in campo
sono tutti ‘oriundi’. Il Giorgione nazionale si ‘vendica’ con un
fuoricampo da 120 metri contro gli ‘oranje’. Segnano Guzman
e Spica in un clamore assordante ed è l’inizio di una rimonta
che si completerà nell’ultima ripresa. E’ ancora Castelli a
segnare, su un doppio di Chierico, dopo che era stato espulso
Orrizzi per le proteste contro l’arbitro cubano Paz. Agli extra
inning, Romano va in base su errore della difesa, Luciani
realizza una smorzata di sacrificio e arriva in base ancora su
errore degli olandesi. La bella battuta di Mondalto, al limite
del fuoricampo, viene presa al volo ma dà modo a Michele
Romano di conquistare il punto del successo e con questo il
quinto posto in classifica. Tutto è bene quello che finisce bene
e sulla ‘Gazzetta dello Sport’, Pier Luigi Fadda può titolare:
“Questa è la strada da seguire”.
“Bambini con mazze e guantoni sul greto del torrente Parma
in secca, o nei giardini di Rimini o sui marciapiedi di Bologna.
Gente che paga trentamila lire ai bagarini per un biglietto
Cuba-Usa; turisti americani in vacanza sulle coste romagnole
che si stupiscono, non sapevano che in Italia si giocasse a
baseball. Il più importante quotidiano italiano che sbatte il
baseball in prima pagina con un pezzo di costume. Il baseball,
sport guardato con diffidenza per via delle sue mille regole,
ha vissuto con i Mondiali un momento felicissimo. Nessuno,
neppure Bruno Beneck l’uomo che per primo ‘ha venduto
baseball’ credeva in un simile successo...”
Tuttobaseball, la rivista che dagli Anni ‘60 è uscita puntualmente nelle edicole, in questa occasione batte il suo record di
tiratura, con 10.000 copie.
Insomma, alla fine del Mondiale sono tutti contenti, tutti
felici, vincitori e vinti. Perchè ha vinto il baseball.
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Europeo 1983. Roberto Bianchi portato in trionfo dai compagni di squadra: con il suo fuoricampo allo ‘Jannella’ l’Italia ha appena staccato il biglietto per Los Angeles
GLI EUROPEI ‘81 E ‘83 di Riccardo Schiroli. Dopo i tre titoli
continentali consecutivi, l’Italia del baseball difende la
supremazia nel Vecchio continente all’Europeo di Haarlem. La
serie di scontri con l’Olanda inizia il 12 luglio 1981 con una
vittoria (5-4, con Dave Farina in pedana) che pare essere il
preludio ad un altro trionfo. Ma le cose non vanno così.
Il 16 luglio le due rivali sono fermate al quinto inning dal
maltempo sul punteggio di parità (6-6). Poi sarà solo Olanda,
che torna sul trono d’Europa vincendo tre gare in sequenza:
8-3, 11-7 e 8-1.
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E’ anche a causa di questa sconfitta che all’edizione successiva
dell’Europeo, che si gioca in Toscana e vale un posto ai Giochi
di Los Angeles, si crea un clima di grande aspettativa.
Gli azzurri, allenati da Jim Mansilla, non tradiscono le attese.
Battono l’Olanda (9-5) nella prima fase e la demoliscono
letteralmente (14-1 e 12-2) nelle prime due partite di finale. Il
suggello arriva a Grosseto il 6 agosto. Sul punteggio di 2-2,
alla decima ripresa, Roberto Bianchi colpisce un fuoricampo
che manda l’Italia del baseball in Paradiso.
IL CLUB ITALIA di Maurizio Caldarelli. Uno dei progetti che ha
caratterizzato la lunga presidenza di Bruno Beneck è stato sicuramente il Club Italia 1984. Un club del quale furono chiamati a far parte i giovani prospetti dai venti ai ventiquattro
anni, che avrebbero dovuto indossare la casacca azzurra alle
Olimpiadi di Los Angeles. Degli atleti che inseguivano il sogno americano solo alcuni arrivarono ai Giochi, ma quel lavoro certosino regalò all’Italia giocatori che hanno dominato la
scena per un ventennio e oltre.
“Il Club Italia – sottolinea Gianmario Costa, ex terza base
di Torino e Grosseto, coach azzurro e manager dell’Avigliana
– ha rappresentato un periodo importante della mia vita, non
solo sportiva. Mi ha permesso di crescere anche come uomo,
al fianco di molti miei coetanei, con i quali non dividevamo
ormai solo la passione per il baseball”.
“E’ stato il periodo più fecondo del baseball italiano – gli fa
eco Marco Mazzieri, uno degli esterni più forti di tutti i tempi
– ha formato giocatori che sono stati l’ossatura della Nazionale per 10-12 anni e che sono arrivati a giocare ad alti livelli
anche per un quarto di secolo”.
Inaugurato nel 1981, con il primo raduno, il Club Italia andò
avanti praticamente fino al 1984. Quello ideato da Bruno Beneck fu un progetto che coinvolse i giocatori più emergenti di
quel periodo, che misero ogni momento del loro tempo libero
a disposizione dei tecnici che li seguivano in questa avventura. Il capo allenatore era Jim Mansilla, coadiuvato da tecnici
che gravitavano in nazionale o nel campionato italiano, Mirra,
Faraone, Guzman, Varriale, ma coinvolgeva anche tecnici cubani e statunitensi, che davano il loro contributo durante le
numerose trasferte all’estero. “Per l’epoca – dice Costa – erano
allenamenti all’avanguardia, che consentivano un notevole
accrescimento tecnico. Proprio per questo chi ha fatto parte
del gruppo si è poi quasi sempre distinto in campionato per
tanti anni”.
La stagione del Club Italia iniziava già dal mese di febbraio,
con i raduni sui diamanti dell’Acqua Acetosa a Roma o di Castiglione della Pescaia, oppure con le trasferte a Cuba e negli
Stati Uniti. Con l’inizio del campionato, per i giovani ragazzi
di Beneck iniziava un vero e proprio tour de force. Ogni quindici giorni infatti veniva messa in calendario una sfida tra il
Club Italia ed una squadra della massima serie, in modo da
avere sempre sotto controllo la condizione di quei ragazzi. A
ottobre e novembre, invece, solitamente si preferiva andare
all’estero, dove il tempo era migliore.
“Venne fuori un gruppo legatissimo – ricorda Costa – che è
andato avanti compatto per tanti anni, regalando anche dei
momenti bellissimi alla Nazionale. Personalmente ho indossato l’azzurro per dieci anni, dall’Europeo di Trieste 1979 fino
all’Europeo dell’89”.
“La cosa bella – prosegue – è che nessuno voleva perdere il
posto. Ogni anno arrivavano nuovi ragazzi, ma i veterani lottavano per non uscire dal gruppo e moltiplicavano gli sforzi”.
“La cosa che ha reso unici quei giocatori - secondo Mazzieri – è che avevano la volontà ed il desiderio di diventare dei
giocatori importanti, sapevano soffrire ed avevano la voglia
di dare sempre il massimo. Avevamo la possibilità di giocare
tanto e ad alto livello, questo ci consentì di fare qualcosa di
straordinario, di diventare dei campioni”.
Per mettere in atto il suo progetto Beneck utilizzò anche
dei metodi originali, particolari. Tanto per cominciare i ragazzi
verreno vestiti come militari ed avevano abbigliamento specifico in dotazione per la libera uscita, poi fu messo a loro disposizione uno psicologo e Beneck, per tenere uniti i suoi ragazzi,
pensò addirittura ad un Capodanno da trascorrere insieme.
E ovviamente i ragazzi dovevano conoscere a memoria le
parole dell’Inno di Mameli.
“Questa rigidità militaresca durò poco però – ricorda Costa
– parlammo con Beneck e dopo una discussione le cose migliorarono e dopo due sedute per esempio uscì di scena lo
psicologo”.
“Quel grande gruppo di amici – spiega Massimo Fochi, vicepresidente federale da quando è salito alla presidenza Fraccari, ma bandiera del Parma per un ventennio, sia come seconda base che come lanciatore – ha affrontato tante difficoltà e
sacrifici. Eravamo dei soldatini, e non soltanto nell’aspetto”.
Max Fochi racconta anche alcuni anedotti per far capire
come era la vita nel Club Italia: “Il rientro era stato fissato alle
23. Un giorno rientrammo alle 23,12. Il giorno dopo ci siamo
fatti 12 chilometri di corsa, uno per ogni minuto di ritardo”.
“Eravamo animati da un grande senso di appartenza - continua Fochi - non esistevano giocatori di Parma o di Nettuno,
di Bologna o di Grosseto. Eravamo un’entità unica. E questo ci
faceva superare tanti ostacoli. Raramente siamo andati negli
Stati Uniti. E mai in alberghi a cinque stelle. Il più delle volte ci
giravamo Cuba con un pulmino.
Una notte, mentre rientravamo in albergo, ci beccò un temporale. Fummo costretti a metterci gli asciugamani addosso
perché pioveva dentro. Questo è solo un esempio delle condizioni in cui ci trovavamo, ma non c’importava niente, finché
eravamo insieme”.
“Beneck - dice Costa - lo ricordo come una grande persona. Era sempre vicino a quella che considerava la sua creatura. Ma devo dire che anche noi andavamo fieri di essere parte
integrante di quel gruppo. Sulla nostra maglia di club indossavamo quello scudetto di appartenenza al Club Italia che ci
rendeva visibili all’esterno. Lo ripeto, sono stati degli anni indimenticabili, fondamentali per la mia crescita di giocatore ed
anche di uomo, perché da quell’esperienza ho imparato tante
cose che in futuro mi sono tornate utili nella vita”.
“Il presidente Beneck - aggiunge Fochi - ci considerava tanti
suoi figli. L’ho ritrovato vent’anni dopo in una riunione. Appena mi ha visto è scoppiato in lacrime”.
“Di quell’epoca - conclude Marco Mazzieri - mi sono portato
negli anni tante esperienze di vita. Ho saputo superare meglio
degli ostacoli. Tecnicamente ci ha probabilmente portato al 5°
posto ai Mondiali di Haarlem 2006. Ma lo ricordo per l’unione
con i miei compagni. Rimanevamo anche quaranta giorni in
giro per la Repubblica Dominicana, Cuba o Usa, ma nessuno
si è mai lamentato. Beneck aveva creato un gruppo indissolubile”.
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Max Fochi sul monte alle Olimpiadi di Los Angeles
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Nasce il Club Italia
Esultanza azzurra dopo la vittoria con la Repubblica Dominicana
DA LOS ANGELES ALLA PRESIDENZA NOTARI di Giorgio Gandolfi. C’era qualcosa nell’aria in quelle giornate americane di
Los Angeles 1984 che contrastavano col clima di amicizia (apparente) che sembrava unire (o disunire ?) l’ambiente azzurro
della Nazionale. Abituato alle congiure calcistiche, a Rivera che
cercava di pugnalare Buticchi, alle cronache ‘noir’ che già allora imperversavano, più o meno conosciute, nel nostro sport
nazionale, mi sembrava di avvertire che sorrisi e complimenti
a Bruno Beneck non erano affatto sinceri. In realtà la congiura
dei boiardi navigava a vista, stava per entrare in porto, e gli
aspiranti Bruto si apprestavano a colpire.
Quella Nazionale, frutto del momento e del bisogno, era
nata fra mille incomprensioni, sotto gli attacchi giornalistici
della solita testata che ammetteva gli ‘oriundi’ per l’atletica e
per il calcio, ma che gridava allo scandalo se lo faceva il baseball. Erano i tempi in cui Beneck, sempe forte nei suoi slogan
(“Io vendo baseball”) lanciava la sfida al suono di “Vogliamo
giocatori dilettanti con la mentalità del professionista. Sono le
società che devono darsi per prime una struttura professionistica, nella serietà d’impostazione del lavoro devono ricalcare
quello delle società di calcio”.
Beneck prendeva tutto troppo sul serio. Conquistava nuovi
amici, cercava di farsi strada nell’interno del CONI sbagliando
purtroppo nella scelta delle alleanze: credeva di avere amici
sia in Consiglio federale che nella consulta CONI, dove invece cominciavano a temere la sua intraprendenza, i ventimila
tesserati, gli stadi pieni e illuminati, gli sponsor che facevano
l’occhiolino al baseball.
Il suo maggiore alleato, il partito socialdemocratico, quello
di Saragat, per intenderci, era il più debole: gli altri, nel momento del bisogno, avrebbero avuto il centro o la sinistra a
difenderli nonostante i paurosi buchi in bilancio. I due miliardi
della Federbaseball, poi puntualmente pagati, oggi farebbero
ridere, ma l’occasione era troppo invitante per eliminare un
personaggio ingombrante.
Beneck aveva contro una parte del Consiglio federale, a cominciare dal vice presidente , Aldo Notari. Gli stessi membri
che poi sarebbero entrati nel nuovo Consiglio. Nell’albergo di
Los Angeles, proprio ai confini del quartiere messicano, dove
notte e giorno c’erano decine e decine di poliziotti anche a
cavallo, i giornalisti al seguito della Nazionale non avevano
sentore di quanto fosse in pericolo in quel momento il piccolo
baseball italiano fautore dell’ingresso alle Olimpiadi. Dopo le
prime titubanze, gli organizzatori americani avevano deciso
di accettare soltanto otto squadre nel timore di un ‘buco’ finanziario, considerato che i tifosi americani erano abituati ai
fuoriclasse delle loro Leghe, mentre qui c’erano soltanto dilettanti.
In realtà il torneo dimostrativo era destinato ad un grande successo di pubblico, una media di 48 mila spettatori per
partita, il massimo della capienza dello stadio dei Dodgers,
contro i 46 mila del calcio, ospitato nei mastodontici impianti
(100.000 posti) di Palo Alto e Pasadena. Mediamente vennero
incassati due miliardi e mezzo per giornata, anche se il sabato
e la domenica si giocò ad orari inconsueti per lo sport italia-
no, le 10 del mattino, in modo da permettere agli spettatori
di riversarsi poi al mare. In verità gli organizzatori americani,
dopo lo spettacolo dell’inaugurazione (una bellissima coreografia con duemila ballerine e cinquecento suonatori) furono
autori di uno ‘scherzetto’ che non fu apprezzato da Beneck,
vale a dire che sul tabellone luminoso apparvero i nomi degli azzurri con tanto di località di nascita. Ecco così che i tifosi
americani scoprirono che l’Italia era molto ‘made in Usa’: Farina nato a Mckeesport, Di Marco a Cambridge, Colabello a Milford, Turcio a New Haven, Connecticut, Gagliano a Memphis,
D’Amato a New Brataen, Talarico a New York City, Guggiana
a Long Beach, Chiono a Pittsburgh, idem Lonero, Romano a
Swiendon (Gran Bretagna). Caso strano, questo trattamento
fu riservato soltanto all’Italia: paura degli oriundi, un tentativo
poco elegante di ridicolizzare la nostra nazionale ? In effetti,
ci riuscirono.
Per il Canada venne indicata invece soltanto la residenza,
eppure schieravano molti americani... Il bello è che 16 dei
venti giocatori americani prescelti per i Giochi avevano già firmato mesi prima per le squadre professionistiche, anzi Clark
aveva addirittura avuto un ‘buono’ di 130 mila dollari. Idem il
lanciatore che Taiwan schierò contro gli azzurri. Per ogni giocatore la media dello stipendio era di 100 mila dollari: parliamo di oltre vent’anni fa. Immaginarsi il rapporto con quanto
guadagnavano gli azzurri.
Cionostante sulla ‘Gazzetta dello Sport’ appariva un articolo
a firma di Rino Tommasi nel quale si leggeva: “C’è da giurare
che soltanto la squadra americana, tra le otto che partecipano
al torneo dimostrativo di Los Angeles, è formata da autentici
dilettanti”. Infatti fra loro c’era anche un certo McGwire... che
contro gli azzurri in battuta rimase a secco.
I giapponesi, maliziosamente, mandarono un a prima squadra ad allenarsi per un mese in Arizona e dopo le sconfitte
rimediate con le varie università, innestarono a sorpresa all’ultimo momento 13 elementi frutto di una selezione fra 350
squadre con atleti già pronti per il professionismo del Sol levante.
Roberto Bianchi fu l’autore della valida decisiva contro
la Repubblica Domenicana, proprio come aveva fatto poco
tempo prima a Grosseto contro l’Olanda nel campionato europeo valido per la qualificazione olimpica. Costretto a fare
dei bunt, soltanto a metà partita Mansilla si decise a lasciare
le briglia sorte a Bianchi, che esplose con un poderoso doppio
sul centro che portò Talarico a punto e Carelli in terza. “Questi sono i bunt che sa fare Bianchi” gridò Roberto Montuschi,
l’inviato di ‘Stadio’. Alla fine Bianchi avrebbe chiuso con 4 su 5!
Ma dov’erano i talent scout americani?! Massimo Fochi, già
battezzato Supermax, la grande sorpresa sul monte, almeno
per quelli che non lo conoscevano. Molti giornalisti sintetizzarono la loro ammirazione con una semplice frase: “Sembra
un americano”. Strepitoso il suo finale con i migliori avversari
alla battuta: Crispin è out al volo, Paniagua eliminato da Trinci,
Gomez in base gratis . Due out, corridore in prima. Supermax
non si scompone e firma la sua vittoria più bella lasciando perentoriamente al piatto Aristides Taveras. L’Italia ha vinto, ha
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vinto Fochi. Massimo aveva 19 anni (e Bianchi 23).
Jim Masilla, notate le sue condizioni di forma, l’aveva mandato in campo come rilievo di Farina (6 valide in 7 riprese),
dopo che l’oriundo era stato bucherellato dai bomber dominicani . Proprio quanto sarebbe successo a Colabello (7 valide
in 0.1 riprese!) contro i ‘compatrioti’. Miglior figura avrebbero
rimediato Mari e Turcio, succedutisi nell’ordine. Considerato
che nella partita d’esordio c’erano in campo cinque italiani,
questo significa che, conosciuto lo scherzetto degli organizzatori, sarebbe stato semplicissimo schierare una formazione
tutta nostrana. Anche perchè alla resa dei conti i migliori furono proprio gli azzurri emersi dal Club Italia: Mari media pgl 3.0,
Turcio 5.40, Farina 6.43, Ceccaroli 9.64, Fochi 12,27.....Colabello
243.00. Povero Lou! In attacco, Bianchi il migliore con 5 valide
su dieci turni, Bagialemani con 5, Manzini e Romano con 4, Lo
Nero 3, Gagliano e Talarico con 2. A zero soltanto Costa (con
due soli turni alla battuta). Dov’era dunque la nazionale degli
oriundi ? Avremmo potuto giocare benissimo soltanto con i
nostri ragazzi!
Nelle cronache di ‘Tuttobaseball’ c’è anche un paragrafo che
riguarda l’unico arbitro italiano in campo, il primo ad arbitrare
in una gara delle Olimpiadi. Si tratta di Riccardo Fraccari. “Ottima figura - leggiamo - anche in campo arbitrale dove il nostro Fraccari ha diretto a casa base Corea-Nicaragua ricevendo, come al solito, i complimenti anche dal manager perdente
ad ulteriore riconferma della bontà del lavoro svolto anche in
questo settore”.
Poi le sconfitte con USA e Cina ed il quinto posto, ciononostante cresce la simpatia per tutto quanto è italiano, grazie
anche all’organizzazione della Federazione, che sviluppa a
Rodeo Drive, nel centro ‘in’ della città , una ‘zona franca’ italiana diventata ben presto un punto di riferimento per giocatori,
dirigenti, giornalisti, successivamente copiata nelle successive
Olimpiadi da altri sport. Con gli americani stupiti di scoprire,
attraverso alcune stampe regalate dall’organizzazione, che gli
etruschi giocavano a baseball già duemila anni fa. Tracce di un
gioco simile al batti e corri erano state scoperte in una tomba
di un atleta: c’è chi lancia la pallina e chi la batte con una rudimentale mazza.
Le luci si spensero troppo presto per gli azzurri, saliti sul pulmino del college per imboccare il lungo, interminabile, Sunset
Boulevard, il Viale del tramonto. Così romantico nella storia
del cinema, eppure così squallido con il suo nastro d’asfalto
percorso giorno e notte da un fiume di auto.
E’ settembre quando sulla ‘Gazzetta dello Sport’ appare
un breve trafiletto che annuncia, a sorpresa, le dimissioni di
Bruno Beneck dalla presidenza. Quasi contemporaneamente
‘Il Messaggero’ di Roma pubblica un articolo ‘clamoroso’ con
una tabella nella quale sono riportati i milioni versati ai diversi
giornali per pubblicizzare il baseball. Sembra quasi, dal contenuto del testo, che questi milioni siano finiti nelle tasche dei
giornalisti. Ci sono anche processi interni nei giornali ma presto affiora la verità: quei milioni sono finiti sì ai giornali, ma
alle amministrazioni, quali pagamenti delle inserzioni pubblicitarie, prassi seguita successivamente da altre Federazioni
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ben più indebitate del baseball, atletica e tennis prime di tutti.
Il CONI, schierato Pescante come commissario straordinario,
gira l’incartamento alla magistratura come a dire: “Fate voi, se
ci sono responsabili che siano colpiti”. Il settimanale ‘Panorama’ pubblica un servizio di dieci pagine sullo scandalo del baseball. Il ‘Corriere dello Sport’ è generoso nei dettagli: descrive anche il lussuoso lampadario che Beneck si è fatto mettere
nel suo ufficio. Visto il lampadario, c’è veramente da ridere. Si
tratta di debiti che la Federazione si era impegnata a pagare
col successivo bilancio, anche perchè la partecipazione alle
Olimpiadi era interamente sulla groppa della Fibs.
Fatto sta che la magistratura indaga, mentre le manovre
degli anti-Beneck vanno avanti. All’Assemblea straordinaria
di Roma, il ‘partito’ di Notari ha la maggioranza assoluta. E’
finita l’era di Beneck, inizia quella del Duca di Parma.
La magistratura rimanda al mittente gli incartamenti: non
ci sono azioni penali, Beneck ha agito nel rispetto della legge.
Oramai è tardi, sono già state girate diverse pagine. In compenso il baseball ha preso una mazzata, dalla quale non si
rialzerà più; per diversi anni viene definito lo sport dello scandalo, il pubblico abbandona gli stadi che aveva riempito, il
gioco s’impoverisce anche a causa di discutibili cambiamenti
e forzature alla formula, che culmineranno con la partita dell’under 23. Il baseball ritorna nella normalità, con pallavolo e
basket che lo scavalcano come sponsor, come spettatori. Com’era nel desiderio del ‘grande vecchio’ di turno.
Cosa sarebbe diventato il baseball se Beneck fosse rimasto
alla presidenza dopo le Olimpiadi di Los Angeles? Lui che aveva investito sul campionato e sulle società, lui che andava a
caccia degli sponsor e quando c’erano sapeva corteggiarli, li
seguiva con l’accortezza indispensabile a farli sentire ancora
più importanti di quanto non fossero effettivamente. L’uomo
delle idee, che non aveva paura di circondarsi di gente che
sapeva lavorare e che, anzi, dava loro autorità ed ulteriore
capacità di gestione. In proposito ci viene in mente quanto
ha detto recentemente l’allenatore della Nazionale di pallavolo campione d’Europa Giampaolo Montali in un convivio
del Panathlon: “L’allenatore deve vincere o perdere assieme
alla squadra. Deve sapere coordinare chi lo circonda, perché i
suoi collaboratori saranno più determinanti di lui. Non voglio
‘yesmen’ ma gente che mi dica quello che pensa. Se non sai
valorizzare queste persone, farle crescere al tuo fianco, non
vincerai. Quante volte ho vinto ascoltando questa gente!”
Beneck, l’allenatore-presidente, era fatto così ma aveva un
grosso difetto: si fidava troppo della gente, di certa gente.
Beneck dava fastidio, parlava apertamente, diceva quello che
pensava in un mondo dove occorre essere ambigui, meglio
falsi che sinceri. Lui piemontese, astigiano, parlava e cresceva
l’invidia, la gelosia. Un giorno a Los Angeles, durante le Olimpiadi, gli dissi: “Presidente, attento, sento aria di cospirazione”.
“Ma no, è brava gente” mi rispose. Ci resta il ricordo del sorriso
di Beneck: anche nei momenti di tensione, perché anch’io ho
avuto con lui questi momenti, specie dopo la vicenda di Cuba
(l’autore del pezzo venne allontanato dall’isola in seguito ad
articoli non graditi, ndc). Mi affrontava con un sorriso ed una
L’Italia vola a Los Angeles, vista da Franco Bruna
battuta in piemontese. Pronti, io come lui, a dimenticare, a
causa di quella passione che ci univa per baseball e softball.
Ho qui sottomano la lettera che mi scrisse il 22 giugno del
1981, inviandomi alcune foto “storiche”.
“Caro Giorgio - scriveva - durante la guerra, quando Torino
fu più volte bombardata, si sviluppò un incendio anche nella
casa dove abitavamo in via Vanchiglia e tutte le foto della mia
avventura sportiva giovanile sono state distrutte. Queste due
si sono salvate perché erano state dalla mamma raccolte in un
suo cassetto dove le ritrovai dopo la sua morte. Per me hanno un particolare significato, però per la mamma forse rappresentavano qualcosa, per cui ti prego di tenerle care. Una è
del Beneck ragazzino (14 anni) quando giocava nella squadra
delle Zebrette della Juventus e l’altra invece è del Beneck a
18-19 anni quando giocò in una squadra rappresentativa. Non
ricordo se Uliciana (Unione italiana liberi calciatori) dell’amico
Giglio Panza, che fu direttore a ‘Tuttosport’, o studentesche
(agonali o littoriali!). Quella del mio arrivo in base, si riferisce
al primo derby torinese fra Juventus e Torino, disputato nel
luglio del 1948. Segnai il primo punto nella storia agonistica
della Juventus ‘48... A vincere fu però il Torino per 4 a 3. Prima ancora avevamo giocato nel ’47 ad Alessandria: ti accludo la foto della panchina. Senza immaginare che un giorno
sarei diventato presidente del baseball e che il lavoro svolto
da uno prima di me, Max Ott, piemontese-americano, sarebbe diventato così importante! E’ tutto. Grazie ed abbi cura di
questi piccoli ricordi della mia giovinezza, di questi due lampi
del mio passato“.
La sua amicizia con l’ambiente juventino e granata era rimasta immutata nel tempo. Quando andai a Torino, assunto
da ‘Tuttosport’, mi fece due lettere: una per il direttore Giglio
Panza, l’altra per l’onorevole Catella, presidente della Juventus. Qualche riga di raccomandazione di cui gli fui sempre
grato. C’era tutto l’uomo, il suo stile, in queste lettere, nel suo
impegno quando assumeva una responsabilità. L’uomo che si
battè per il baseball olimpico, che portava un gruppo di giornalisti a Los Angeles, perché dovevano scrivere di baseball,
dovevano vedere com’è il baseball.
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FOTO PAGINA SEGUENTE: 2006 - Gli azzurri durante l’Inno di Mameli al World Baseball Classic - Ezio Ratti