Il Posto Che Cercavo

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Il Posto Che Cercavo
NICHOLAS SPARKS
IL POSTO CHE CERCAVO
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A Rhett e Valerie Little,
persone meravigliose, splendidi amici.
Ringraziamenti
Come sempre, devo ringraziare mia moglie, Cathy, per il
sostegno che mi ha dato durante la stesura di questo romanzo.
Tutto ciò che riesco a fare è merito suo.
Ringrazio anche i miei figli: Miles, Ryan, Landon, Lexie e
Savannah. Che cosa posso dire?
L’arrivo di ciascuno di voi è stato per me una benedizione, e
sono fiero dei miei ragazzi.
Un lungo applauso alla mia agente Theresa Park per il suo
prezioso aiuto. E auguri alla sua nuova agenzia, Park Literary
Group (per tutti gli aspiranti scrittori là fuori). Sono onorato di
averti co-me amica.
Devo particolare riconoscenza alla mia editor Jamie Raab, non
solo per la cura con cui rivede i miei dattiloscritti, ma anche per
la fiducia che mi dimostra. Non so dove sarebbe finita la mia
carriera senza di te e ti sono grato per la tua generosità e la tua
disponibilità.
Larry Kirshbaum e Maureen Egen sono amici e colleghi ed è
stato un privilegio per me lavorare con loro. Sono semplicemente
il massimo nel loro campo.
Anche la produttrice Denise DiNovi merita un ringraziamento per
i film che ha tratto dai miei romanzi, nonché per il tempismo delle
sue telefonate, che rallegrano sempre la mia giornata.
Grazie anche a Howie Sanders e Dave Park, i miei agenti
cinematografici e televisivi della UTA, e a Richard Green della
CAA.
Un ringraziamento a Lynn Harris e Mark Johnson, che hanno
contribuito a fare di Le parole che non ti ho detto lo stupendo
film che è diventato. Grazie di non aver mai smesso di credere
nel romanzo.
Un grazie speciale a Francis Greenburger. Lui sa perché… sono
in debito nei suoi confronti.
E per finire, grazie a tutte le persone che lavorano con tanto
impegno dietro le quinte e che, nel corso degli anni, sono
diventate come una famiglia per me: Emi Battaglia, Edna Farley e
Jennifer Romanello dell’ufficio stampa; Flag, che ha compiuto
l’ennesimo miracolo con la copertina originale; Scott Schwimer,
il mio avvocato; Harvey-Jane Kowal, Shannon O’Keefe, Julie
Barer e Peter McGuigan. Sono fortunato ad avere la
collaborazione di gente fantastica come voi.
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Seduto tra il pubblico nello studio televisivo, Jeremy Marsh non
riusciva a fare a meno di sentirsi insolitamente vistoso. C’erano
solo altri cinque o sei uomini in platea in quel pomeriggio di metà
dicembre. Si era vestito di nero, ovviamente. E con i capelli scuri
ondulati, gli occhi azzurri, appena un’ombra di barba, aveva
decisamente l’aria del vero newyorkese qual era. Mentre
studiava l’ospite sul palcoscenico, non mancò di lanciare
un’occhiata furtiva alla bionda che si trovava tre file davanti a lui.
La sua professione richiedeva spesso la capacità di fare più di
una cosa nello stesso tempo.
La bionda era solo una del pubblico, ma come osservatore
esperto non poté evitare di notare quanto fosse interessante con
la maglietta corta aderente e i jeans a vita bassa. Da un punto di
vista giorna-listico, s’intende.
Si sforzò di concentrarsi nuovamente sull’ospite. Quella guida
spirituale era una vera sagoma, pensò. Sotto la luce impietosa
dei riflettori l’uomo aveva un aspetto emaciato, mentre affermava
di udire delle voci dall’oltretomba. Era riuscito a creare un clima
di falsa intimità, atteggiandosi a fratello o miglior amico di tutti, e
la maggior parte dei presenti, compresa la bionda in jeans e la
donna a cui si stava rivolgendo, lo fissava con espressione
ammaliata, come se fosse veramente un dono dal cielo. Il che
aveva senso, rifletté ancora Jeremy, dal momento che era lì che
finivano immanca-bilmente le persone care quando se ne
andavano. Gli spiriti dell’oltretomba erano sempre circonfusi da
un chiarore angelico e avvolti in un’aurea di pace e serenità. Non
aveva mai sentito di una guida spirituale che entrasse in contatto
con quell’altro luogo più rovente. Un caro estinto non dichiarava
mai di trovarsi lì ad arrostire su uno spiedo o a bollire in un
calderone di olio per motore, per esempio. Jeremy riconosceva
di essere cinico. E comunque, doveva ammettere che si trattava
di una trasmissione riuscita. Timothy Calusen era bravo, molto
meglio degli altri ciarlatani di cui aveva scritto nel corso degli
anni.
«So che è difficile», continuò Clausen parlando nel microfono,
«ma Frank ti sta dicendo che ormai è tempo di lasciarlo andare.»
La donna a cui si stava rivolgendo con tanta, tanta enfasi,
sembrava sul punto di svenire. Sulla cinquantina, portava una
camicetta a righe verdastre ed esibiva una chioma fulva che
separava e si attorcigliava in tutte le direzioni. Teneva le dita
intrecciate all’altezza del petto e aveva le nocche bianche da
quanto le stringeva.
Clausen fece una pausa e si portò la mano alla fronte, entrando
di nuovo in contatto con «l’altro mondo», come lo chiamava lui.
L’intero pubblico, in rispettoso silenzio, si sporse in avanti sulle
poltroncine. Tutti sapevano che cosa stava per accadere: la
donna era già la terza persona che la guida aveva scelto tra di
donna era già la terza persona che la guida aveva scelto tra di
loro quel giorno. Non a caso Clausen era l’unico ospite di quella
puntata del popolare talk show.
«Ricordi la lettera che ti scrisse?» chiese lui. «Prima di morire?»
La donna trattenne il fiato. L’assistente di studio che le reggeva il
microfono glielo avvicinò di più alla bocca, in modo che anche i
telespettatori a casa potessero udirla chiaramente.
«Sì, ma come fa lei a sapere…?» balbettò.
Clausen non la lasciò finire. «Ricordi che cosa c’era scritto?»
«Sì», ansimò la donna.
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Clausen fece un cenno affermativo con la testa, come se avesse
letto anche lui la lettera. «Parlava del perdono, vero?»
Seduta sul divano, la presentatrice del programma, il più seguito
talk show pomeridiano in tutta l’America, spostava lo sguardo
dall’una all’altra. Aveva un’espressione stupita e insieme
soddisfatta. Le guide spirituali sono sempre un successo per
l’ascolto.
Mentre la donna in mezzo al pubblico annuiva, Jeremy notò che
il mascara aveva cominciato a colarle sulle guance. Le
telecamere zoomarono su di lei per inquadrarla più da vicino. Un
picco del pathos televisivo pomeridiano.
«Ma come fa…» ripeté la donna, allibita.
«Si riferiva anche a tua sorella», mormorò Clausen. «Non
soltanto a se stesso.»
Lei lo fissò come ipnotizzata.
«Tua sorella Ellen», aggiunse la guida spirituale e, a tale
rivelazione, la donna si lasciò sfuggire un verso roco. Le lacrime
le scaturirono copiose come da un annaffiatore automatico.
Clausen – ab-bronzato e azzimato, con il completo nero e
nemmeno un capello fuori posto – continuava a dondo-lare la
testa come uno di quei finti cagnolini che si appoggiano accanto
al lunotto della macchina. Il pubblico continuava a fissare la
donna in assoluto silenzio.
«Frank ti ha lasciato anche qualcos’altro, vero? Qualcosa che
appartiene al vostro passato.»
Nonostante il calore prodotto dalle luci di scena, la donna
sembrò impallidire. In un angolo dello studio, nascosto alla vista
dei più, il produttore alzò un dito ruotandolo a mo’ di elicottero.
Si avvicinava il momento dell’interruzione pubblicitaria. Clausen
lanciò un’occhiata quasi impercettibile in quella direzione.
Soltanto Jeremy parve accorgersene, e si domandò per
l’ennesima volta come mai gli spettatori non si chiedessero come
la comunicazione con il mondo degli spiriti potesse sincronizzarsi con tanta precisione con le pause pubblicitarie.
Clausen proseguì. «Una cosa di cui nessun altro poteva essere a
conoscenza, una chiave, giusto?»
La donna annuì di nuovo continuando a singhiozzare.
«Non pensavi che l’avrebbe conservata, vero?»
Bene, ecco il pezzo forte, pensò Jeremy. Un’altra adepta sulla
via della conversione.
«Viene dall’albergo dove trascorreste la luna di miele. La mise lì
in modo che tu, ritrovandola, ripensassi ai momenti felici trascorsi
insieme. Non vuole che lo ricordi con sofferenza, perché lui ti
ama.»
«Ooohhhh…» singhiozzò la donna.
Il suo gemito venne interrotto da un imprevisto ed entusiastico
applauso. Tutto a un tratto il microfono le venne allontanato e le
telecamere zoomarono altrove. Trascorso il suo momento di
celebrità, la donna crollò sulla sedia. A un segnale della regia, la
presentatrice si alzò dal divano e si mi-se davanti all’obiettivo.
«Ricordate che tutto ciò che vedete è reale. Nessuna di queste
persone ha mai incontrato prima d’ora Timothy Clausen.»
Sorrise. «Torneremo con un’altra dimostrazione tra pochi
minuti.»
Ancora applausi, mentre la trasmissione si interrompeva per
lasciare posto agli spot. Jeremy si appoggiò alla spalliera.
Come giornalista investigativo specializzato in argomenti
scientifici, lui si era fatto un nome scrivendo di personaggi come
quello. In genere, amava ciò che faceva ed era fiero del proprio
me-stiere, che considerava un prezioso servizio pubblico, una
professione talmente speciale da avere i propri diritti elencati nel
Primo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti
d’America. Per la sua rubbrica su Scientific American aveva
intervistato premi Nobel, spiegato in termini divulgativi le teorie
di Stephen Hawking e Albert Einstein, e una volta gli era stato
attribuito il merito di aver creato un tale subbuglio nell’opinione
pubblica da indurre la FDA a ritirare dal commercio un
pericoloso antidepressivo. Aveva scritto molto anche sul
progetto Cassini, sullo specchio difettoso del telescopio spaziale
Hubble, ed era stato uno dei primi a denunciare pubblicamente
come frode l’esperimento di fusione a freddo condotto nello
Utah.
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Purtroppo, nonostante il riconosciuto peso intellettuale della sua
rubrica, non guadagnava molto.
rubrica, non guadagnava molto.
La maggior parte delle entrate gli derivava dai suoi articoli come
freelance, e così era sempre a caccia di storie che potessero
interessare i direttori di quotidiani e riviste. Il suo raggio d’azione
si era ampliato sino a comprendere ogni fenomeno «insolito», e
negli ultimi quindici anni aveva fatto ricerche e studi nei campi
della parapsicologia, delle guide spirituali, dei guaritori e dei
medium. Aveva denunciato frodi e mistificazioni. Aveva visitato
case infestate dagli spiriti, cercato prove dell’esistenza di
creature misteriose e indagato sulle origini delle leggende
metropolitane. Scettico per natura, possedeva la rara capacità di
spiegare i concetti scientifici più complessi in un linguaggio
comprensibile anche da un lettore medio e i suoi pezzi erano stati
pubblicati su centinaia di giornali in tutto il mondo. Secondo lui
l’attività di verifica scientifica era nobile e importante, anche se
non tutti l’apprezzavano. Spesso, la posta che riceveva dopo la
pubblicazione di un suo articolo del genere era costellata di
espressioni come «idiota», «deficiente» o, la sua preferita, «servo
del governo». Ormai aveva capito che il giornalismo investigativo
era una missione improba.
Mentre era immerso in tali riflessioni, osservava il pubblico che
parlava animatamente. Chiedendosi chi sarebbe stato il
successivo prescelto. Lanciò un’altra occhiata furtiva alla bionda
che si stava controllando il trucco in uno specchietto da borsetta.
Jeremy sapeva che le persone scelte da Clausen ufficialmente
non erano in combutta con lui, anche se la sua apparizione era
stata annunciata con grande anticipo e i suoi seguaci avevano
letteral-mente fatto a pugni per ottenere i biglietti per la
trasmissione. Questo significava che il pubblico era costituito in
maggioranza da individui che credevano fermamente nella vita
dopo la morte. Ai loro occhi Clausen era una figura molto seria e
rispettabile. Come poteva conoscere particolari tanto intimi della
vita di ciascuno, se non parlava con gli spiriti? Ogni bravo
illusionista, però, aveva il suo repertorio e poco prima dell’inizio
della trasmissione Jeremy non solo aveva capito il trucco, ma ne
aveva anche raccolto la prova fotografica.
Demolire la credibilità di Clausen sarebbe stato un’opera
meritoria e sarebbe servito di lezione a quel mistificatore.
L’uomo apparteneva al peggior tipo di imbroglioni. E poi, con il
suo pragmati-smo Jeremy si rendeva conto che occasioni del
genere si presentavano raramente e voleva trarne il massimo
vantaggio possibile. Dopo tutto, Clausen era all’apice della
celebrità e in America la fama contava più di tutto. Si concesse
di fantasticare su che cosa sarebbe successo se la guida
spirituale ora avesse deciso di scegliere proprio lui. Era
altamente improbabile – sarebbe stato come vincere il primo
premio alla lotteria – e comunque quella era già una storia
eccellente. Ma l’eccellenza e lo straordinario spesso erano
separati da semplici capricci del fato e, al termine
dell’interruzione pubblicitaria, Jeremy si sentì animato
dall’ingiustificata speranza che, per qualche motivo, Clausen sce-
gliesse di concentrarsi sul suo caso.
E, come se neppure Dio in persona fosse contento del
comportamento di quell’uomo, fu proprio ciò che accadde.
Tre settimane più tardi, l’iverno si era ormai abbattuto con tutta
la sua forza su Manhattan. Era giunto dal Canada un fronte
freddo che aveva fatto rpecipitare le temperature vicino allo zero
e dai tombini si levavano sbuffi di vapore che in un attimo si
condensavano sui marciapiedi ghiacciati.
Non che importasse a qualcuno. I coriacei abitanti di New York
manifestavano la loro abituale indifferenza per le questioni
meteorologiche continuando la vita di sempre. La gente lavorava
sodo per tutta la settimana e il venerdì sera voleva uscire a tutti i
costi, in particolare se c’era un motivo per festeggiare. Nate
Johnson e Alvin Bernstein stavano festeggiando già da un’ora,
assieme a una ventina di amici e giornalisti – alcuni di Scientific
American – che si erano riuniti in onore di Jeremy. In gran parte
erano già parecchio su di giri e si stavano divertendo
immensamente, soprattutto dato che i giornalisti tendono ad
essere attenti al portafoglio e quella sera Nate avrebbe offerto a
tutti.
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Nate era l’agente di Jeremy e Alvin, un cameraman freelance, il
suo migliore amico. Si erano ritrovati in un locale trendy
suo migliore amico. Si erano ritrovati in un locale trendy
dell’Upper West Side per celebrare l’apparizione di Jeremy a
Primetime Live della ABC. Durante la settimana erano andate
in onda delle anticipazioni della trasmissione in cui Jeremy
prometteva scottanti rivelazioni, e le richieste di interviste erano
fioccate nello studio di Nate da ogni parte del paese. Quel
pomeriggio aveva chiamato anche la redazione di People ed era
stato fissato un incontro per il lunedì mattina successivo.
Non c’era stato il tempo di prenotare una saletta privata per la
riunione, ma nessuno sembrava farci caso. Con il lungo bancone
di granito e la sapiente illuminazione, quel locale affollato era un
inno allo yuppismo. Mentre i giornalisti di Scientific American
indossavano logore giacche di tweed ed erano riuniti in un angolo
a discutere di fotoni, il resto degli invitati pareva essere arrivato lì
direttamente dopo una giornata di lavoro a Wall Street o
Madison Avenue. Con le costose giacche di stilisti italiani appese
alle spalliere delle sedie e le cravatte di Hermès allentate, gli
uomini erano impegnati a mettere in mostra i propri Rolex e a
radiografare con gli occhi le donne presenti. Le quali, appena
arrivate dall’ufficio nelle agenzie di pubblicità o nelle case editrici,
portavano vestiti firmati e tacchi impossibili e sorseggiavano i
loro martini fingendo di ignorarli. Anche Jeremy aveva messo gli
occhi su una rossa alta all’altro capo del bancone, che sembrava
guardare nella sua direzione. Si chiedeva se lo avesse
riconosciuto per via delle anticipazioni televisive oppure se
avesse soltanto voglia di compagnia. La donna distolse per un
attimo lo sguardo, ma poi tornò a fissarlo e a quel punto lui
attimo lo sguardo, ma poi tornò a fissarlo e a quel punto lui
sollevò il bicchiere accennando a un brindisi.
«Avanti, Jeremy, non distrarti», disse Nate dandogli una
gomitata. «Sei in TV! Non ti interessa sapere come sei andato?»
Lui si voltò verso lo schermo e si vide seduto di fronte a Diane
Sawyer. Che strano, pensò, trovarsi in due luoghi nello stesso
momento. Ancora non riusciva a crederci. Niente di quanto era
successo nelle ultime tre settimane gli sembrava vero, nonostante
gli anni di esperienza professionale.
Sullo schermo, Diane lo stava descrivendo come «il giornalista
scientifico più autorevole d’America». Non solo la storia si era
rivelata esattamente come lui sperava, ma Nate stava prendendo
accordi con Primetime Live per una sua collaborazione
regolare, con la possibilità di ulteriori apparizioni anche a Good
Morning America. Sebbene molti giornalisti snobbassero la
televisione rite-nendola meno seria rispetto agli altri mezzi di
informazione, in realtà in segreto la consideravano una specie di
Santo Graal, per via dei grandi guadagni. E così, nonostante le
congratulazioni si spre-cassero, l’aria fremeva di invidia, una
sensazione estranea a Jeremy quanto i viaggi nello spazio.
Dopo tutto, si diceva, i personaggi come lui non erano certo ai
vertici del gradimento televisivo…
almeno finora.
«Ti ha appena definito autorevole?» chiese Alvin. «Ma se i tuoi
articoli parlano dello Yeti e della leggenda di Atlantide!»
«Shh», lo ammonì Nate, gli occhi incollati alla televisione. «Sto
cercando di sentire. Potrebbe essere importante per la carriera
di Jeremy.» In qualità di suo agente, Nate si faceva sempre
promotore di eventi che potevano «essere importanti per la sua
carriera», per la semplice ragione che l’attività di freelance non
era poi tanto remunerativa. Anni prima, quando era ancora
all’inizio, Jeremy gli aveva proposto l’idea di un libro e da allora
avevano continuato a collaborere diventando amici.
«Come vuoi», disse Alvin senza prendersela.
Nel frattempo, su uno schermo alle spalle di Diane Sawyer,
venivano trasmesse le battute conclusive del programma
televisivo in cui Jeremy aveva finto di essere uno che soffriva
ancora per la morte prematura del fratello, un ragazzo che
Clausen affermava di aver contattato nell’altro mondo.
«È qui con me», diceva la guida spirituale. «Vuole che tu lo lasci
andare, Thad.» L’inquadratura successiva era un primo piano di
Jeremy che interpretava un uomo tormentato. Clausen
dondolava la testa sullo sfondo, con un’aria di compassione o da
mal di pancia, a seconda dei punti di vista.
«Tua madre non ha mai tolto nulla dalla sua camera, la stanza
che voi condividevate. Ha insistito perché rimanesse tutto come
prima e tu sei stato costretto a dormirci da solo», proseguì
Clausen.
«Sì», esclamò Jeremy.
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«Ma tu avevi paura di stare lì dentro, e per la rabbia, prendesti
qualcosa di suo, qualcosa di molto personale, e lo seppellisti in
giardino.»
«Sì…» ansimò Jeremy, come se l’emozione gli impedisse di dire
altro.
«Il suo sospensorio!»
«Oooohhhhhh», singhiozzò Jeremy, portandosi le mani al viso.
«Lui ti vuole bene, ma tu devi capire che adesso è in pace. Non
nutre risentimento verso di te.»
«Ooohhhh», gemette Jeremy di nuovo, contorcendo ancora di
più la faccia.
Nel bar, Nate osservava la scena con la massima
concentrazione, mentre Alvin sghignazzava alzando il suo
bicchiere di birra.
«Dategli l’Oscar!» gridò.
«Un’interpretazione notevole, vero?» ribatté Jeremy ridendo.
«Ehi, voi due», li interruppe Nate, irritato. «Parlate durante la
pubblicità.»
«Come vuoi», ripeté Alvin. Quella era sempre stata la sua
espressione preferita.
Nello studio di Primetime Live le immagini sullo schermo
sfumarono e la telecamera tornò a inquadrare Diane Sawyer e
Jeremy, seduti l’uno di fronte all’altra.
«Perciò niente di ciò che diceva Clausen era vero?» chiese la
conduttrice.
«Nemmeno una parola», confermò Jeremy. «Tanto per
cominciare non mi chiamo Thad e, pur avendo cinque fratelli,
non ne ho perso nessuno da ragazzo. Sono ancora tutti vivi e
vegeti.»
Diane lanciò un’occhiata al suo blocco di appunti. «Quale
tecnica ha usato Clausen, allora?»
«Ecco, vede, Diane», cominciò Jeremy.
Nel bar, Alvin si protese verso di lui. «L’hai chiamata proprio
Diane? Come se voi due foste amici?»
Diane? Come se voi due foste amici?»
«Per favore!» esclamò Nate, sempre più esasperato.
Sullo schermo, Jeremy intanto continuava a parlare. «… in
sostanza Clausen è un attento osservatore. Prima di tutto è bravo
a capire le persone ed è un asperto nel fare vaghe associazioni
cariche di pathos e a rispondere ai segnali lanciati dal pubblico.»
«Sì, certo, ma è stato anche molto preciso. Non solo con lei, ma
anche con gli altri ospiti. Sapeva i loro nomi. Come ha fatto?»
«Ho parlato del mio povero fratello Marcus prima della
trasmissione. Mi sono limitato a inven-tarmi una vita immaginaria
e a ‘diffonderla’ in maniera forte e nitida.»
«Ma come hanno fatto queste informazioni ad arrivare alle
orecchie di Clausen?»
«I professionisti come lui usano tutta una serie di trucchi, tra i
quali microfoni nascosti e ‘ascoltatori’ prezzolati che girano tra il
pubblico che aspetta di entrare in sala. Prima di andare a
sedermi, ho scambiato due chiacchiere con molti altri spettatori,
cercando di capire se qualcuno manifestasse un interesse insolito
per la mia storia, e in effetti un uomo mi è sembrato
particolarmente incuriosi-to.» Sullo schermo alle loro spalle
venne inquadrata la fotografia scattata da Jeremy con la piccola
macchina fotografica nascosta nell’orologio, un gadget
supertecnologico che aveva prontamente messo in conto spese a
Scientific American. Era un patito dell’alta tecnologia e certi
giocattoli gli piacevano quasi quanto farli pagare agli altri.
«Chi è la persona che compare nella foto?» gli chese Diane.
«Quest’uomo si mescolava tra il pubblico in studio, spacciandosi
per un abitante di Peoria. Ho scattato questa foto poco prima
della trasmissione, mentre parlavamo. È possibile ingrandirla
ulteriormente?»
La regia lo accontentò e Jeremy indicò allora un particolare.
«Vedete la spilla con la bandiera americaba sul risvolto della sua
giacca? Non si tratta di un semplice ornamento decorativo, in
realtà è una trasmittente in miniatura collegata a un registratore
dietro le quinte.»
Diane era stupita. «Come fa a saperlo?»
Jeremy sorrise. «Si dà il caso che ne abbia una anch’io».
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A questo punto estrasse dalla tasca della giacca una spilla
identica a quella nella foto, con un fi-lo lungo e sottile che la
collegava a un apparecchio trasmittente.
«Questo modello in particolare è di fabbricazione israeliana»,
«Questo modello in particolare è di fabbricazione israeliana»,
spiegò Jeremy mentre la telecamera inquadrava l’oggetto, «ed è
molto sofisticato. Ho sentito dire che viene utilizzato dalla CIA,
ma ovviamente non posso confermarlo. Comunque, si tratta di
una tecnologia estremamente avanzata: il piccolo microfono è in
grado di cogliere i dialoghi in un ambiente affollato e rumoroso e,
grazie a un particolare sistema di filtri, anche di isolarli.»
Diane esaminò l’oggetto con aria affascinata. «E lei è sicuro che
quello fosse proprio un microfono, e non una semplice spilla?»
«Vede, come sa, è da molto tempo ormai che indago
approfonditamente nel passato di Clausen e una settimana dopo
la trasmissione sono riuscito a ottenere altre foto.»
Una seconda immagine comparve sullo schermo. Sebbene un
po’ sgranata, ritraeva la stessa persona che indossava la spilla
con la bandiera degli USA.
«Questa foto è stata scattata in Florida, all’esterno dell’ufficio di
Clausen. L’uomo vi sta entrando. Si chiama Rex Moore e, in
effetti, è un dipendente di Clausen e lavora per lui da due anni.»
«Ooohhhh!» esclamò Alvin e l’audio della trasmissione, ormai
quasi giunta al termine, fu coperto dalle esclamazioni degli altri
presenti, invidiosi e non. La bevuta a sbafo aveva compiuto la
sua magia e ora Jeremy venne inondato di sinceri complimenti.
«Sei stato fantastico», dichiarò Nate. A quarantatré anni, basso e
«Sei stato fantastico», dichiarò Nate. A quarantatré anni, basso e
stempiato, mostrava un debole per le giacche troppo strette in
vita. Ma era animato da un’inesauribile energia e, come tutti gli
agenti, sprizzava fervido ottimismo.
«Grazie», rispose Jeremy, ingollando l’ultimo sorso di birra.
«Un ottimo incentivo per la tua carriera», proseguì Nate. «È il
tuo biglietto per entrare come ospite fisso in televisione. Potrai
smettere di affannarti alla ricerca di pezzi per i giornali, o di inseguire storie di UFO. Ho sempre detto che eri fatto per lo
schermo.»
«Lo hai sempre detto», riconobbe Jeremy, alzando gli occhi al
cielo come se stesse recitando una battuta che conosceva a
memoria.
«Sul serio. Continuo a ricevere telefonate dai produttori di
Primetime Live e GMA che ti vogliono nelle loro trasmissioni.
Tipo ‘Ultime notizie dal fronte della scienza’ e roba simile. Un
grande trampolino di lancio per un reporter scientifico.»
«Sono un giornalista», lo corresse Jeremy. «Non un reporter.»
«Tant’è», replicò Nate, agitando la mano come per scacciare
una mosca immaginaria. «Come ho sempre detto, hai l’aspetto
giusto per la televisione.»
«Devo riconoscere che Nate ha ragione», aggiunse Alvin
«Devo riconoscere che Nate ha ragione», aggiunse Alvin
ammiccando. «Voglio dire, altrimenti come potresti avere più
successo di me con le donne pur essendo del tutto privo di
personalità?» Per anni lui e Jeremy avevano bazzicato gli stessi
bar per rimorchiare.
Jeremy scoppiò a ridere. Alvin Bernstein – un nome che faceva
venire in mente un ragioniere preciso e occhialuto – non aveva
certo l’aria del ligio impiegato. Da adolescente aveva visto Delirious, il video di Eddie Murphy, e aveva deciso di adottare lo
stesso look tutto pelle dell’attore, un guardaroba che
scandalizzava Melvin, il suo compìto genitore. Del resto, la pelle
si accordava ai tatuaggi. Alvin riteneva i tatuaggi una
fondamentale espressione del suo originalissimo gusto estetico, e
li sfoggiava orgogliosamente su entrambe le braccia, fino alle
scapole. Il che era complementare ai numerosi piercing alle
orecchie.
«Allora, hai ancora intenzione di fare un viaggetto al Sud per
indagare su quella storia di fantasmi?» gli chiese Nate. A jeremy
sembrava quasi di vedere le rotelle del suo cervello che giravano
vorticosamente. «Dopo l’intervista per People, ovviamente.»
Jeremy si scostò una ciocca di capelli scuri dagli occhi e segnalò
al barista di servirgli un’altra birra. «Credo di sì. Primetime o
no, devo comunque pagare le bollette e pensavo di riuscire a
ricavarci un pezzo per la mia rubrica.»
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«Però ti terrai in contatto, d’accordo? Non come quando andasti
in incognito a stare con i Righ-teous and Holy.» Si riferiva a un
lungo atricolo scritto da Jeremy per Vanity Fair a proposito di
una setta religiosa; in quell’occasione era sparito per tre mesi.
«Mi terrò in contatto», promise lui. «Stavolta è diverso. Dovrei
cavarmela in meno di una settimana per riuscire a scrivere sulle
‘Luci misteriose nel cimitero’. Non è un granché.»
«Ehi, per caso ti serve un cameraman?» si intromise Alvin.
Jeremy gli lanciò un’occhiata. «Perché? Vuoi venire anche tu?»
«Ma naturale. Un viaggetto caldo durante l’inverno. Magari
conosco pure una bellezza del Sud mentre tu raccogli
informazioni. Ho sentito dire che le donne di laggiù possono farti
impazzire, in senso buono. Sarà come una vacanza esotica.»
«Non dovevi girare delle scene per Law and Order la settimana
prossima?»
Nonostante l’aspetto poco raccomandabile, Alvin era un
professionista serio, molto richiesto sul mercato.
«Sì, ma mi libererò per giovedì», rispose. «E poi, senti, se
davvero vuoi lanciarti in televisione, come suggerisce Nate,
potrebbe essere utile raccogliere un po’ di documentazione
potrebbe essere utile raccogliere un po’ di documentazione
filmata su quelle luci misteriose.»
«Sempre ammesso che ci sia qualcosa da filmare.»
«Tu comincia a indagare, poi mi fai sapere. Io intanto mi tengo
libero.»
«Anche se ci fossero davvero delle luci, è una storia da poco»,
lo avvertì Jeremy. «Non interessa a nessuno della televisione.»
«Fino al mese scorso forse no», osservò Alvin. «Ma dopo averti
visto stasera, sarà diverso. Sai come funziona… tutti quei
produttori che battono le loro piste per assicurarsi per primi il
colpo grosso. Se GMA viene a bussare alla tua porta, puoi stare
certo che sarà seguito a ruota da Today e da Dateline. A
nessuno di loro piace essere lasciato fuori. Non vogliono
rischiare il licenziamento o essere costretti a spiegare ai dirigenti
perché hanno perso il treno. Credi a uno che in televisione ci
lavora. Conosco quella gente.»
«È vero», confermò Nate, interrompendoli. «Non puoi mai
sapere cosa succederà e organizzarti in anticipo potrebbe essere
una buona idea. Stasera hai bucato lo schermo, inutile girarci
intorno. E
se riuscirai a procurarti un filamto delle luci, potrebbe essere
proprio quello che serve a GMA o a Primeline per decidere di
ingaggiarti.»
ingaggiarti.»
Jeremy scrutò il suo agente. «Dici sul serio? È davvero una storia
da niente. La raggione che mi ha spinto a sceglierla è che avevo
bisogno di qualcosa di leggero, dopo Clausen. Stare dietro a
quel tipo mi ha tenuto impegnato per quattro mesi.»
«E guarda che ne hai ricavato», osservò Nate posandogli un
braccio sulle spalle. «So che questa potrebbe essere solo una
montatura, ma con delle riprese d’effetto e una buona inchiesta
giornalistica di supporto magari piace a quelli della televisione.»
Jeremy rimase in silenzio per qualche istante. «D’accordo», disse
infine. Poi guardò Alvin. «Io vado là martedì. Vedi se riesci a
raggiungermi per venerdì. Ti chiamerò prima per dirti qualcosa di
più.»
Alvin bevve una sorsata di birra. «Bene, amici», dichiarò in tono
solenne, gonfiando il petto,
«parto per la terra delle lagune costiere e dei granchi. E prometto
che non costerò troppo.»
Jeremy rise. «Sei mai stato al Sud?»
«No. E tu?»
«Sono stato a New Orleans e Atlanta», rispose Jeremy. «Ma
quelle sono città, e le città si somigliano dappertutto. Per questa
quelle sono città, e le città si somigliano dappertutto. Per questa
storia, invece, ci addentriamo nel profondo Sud. Il posto si
chiama Boone Creek, è un paesino del North Carolina. Dovresti
vedere il loro sito web. Parla delle azalee e dei sanguinelli che
fioriscono in aprile e mostra una foto del cittadino più illustre del
luogo. Un tizio di nome Norwood Jefferson.»
«E chi è?»
«Un uomo politico. Pare abbia fatto parte del senato del North
Carolina dal 1907 al 1916.»
«E a chi importa?»
10
«Infatti», disse Jeremy con un cenno d’assenso. Lanciò
un’occhiata all’estremità opposta del bar e notò con disappunto
che la rossa se n’era andata.
«Dove si trova questo posto per l’esattezza?»
«Proprio tra ‘nel bel mezzo del nulla’ e ‘dove mai siamo finiti?’
Alloggerò al Greenleaf Cottages, definito dall’azienda turistica
come ‘pittoresco e rustico, ma moderno’. Qualunque cosa
significhi.»
Alvin scoppiò a ridere. «Ha tutta l’aria di una vera avventura.»
«Non preoccuparti. Tu sarai perfettamente a tuo agio da quelle
parti.»
«Ne sei sicuro?»
Jeremy osservò gli indumenti di pelle, i tatuaggi e i piercing.
«Assolutamente», rispose. «Sono praticamente certo che
vorranno adottarti.»
11
2
Jeremy arrivò nel North Carolina il martedì successivo, il giorno
dopo la sua intervista per People. Era passato da poco
mezzogiorno; quando aveva lasciato New York stava
nevischiando, mentre lì, sotto la distesa infinita del cielo azzurro,
l’inverno sembrava ancora molto lontano.
Consultando la cartina che aveva acquistato all’aeroporto, aveva
scoperto che Boone Creek si trovava nella contea di Pamlico,
centosessanta chilometri circa a sudest di Raleigh e – se il tragitto
poteva essere indicativo – a un’enorme distanza da quella che lui
riteneva la civiltà. Il paesaggio ai lati della strada appariva piatto
e desolato, interessante da guardare quanto la pasta per la pizza.
Le fattorie erano separate da esili boschetti di pini e, visto lo
scarso traffico, Jeremy doveva fare appello alla sua forza di
volontà per non pigiare a tavoletta sull’acceleratore solo per
vincere la noia.
Ma doveva ammettere che non era poi tutto così negativo. Di
sicuro la parte che riguardava la guida, per lo meno. La leggera
vibrazione del volante, il rombo del motore e la sensazione della
velocità stimolavano la produzione di adrenalina, soprattutto negli
uomini (una volta aveva scritto un articolo in proposito). Vivere
in una metropoli rendeva superfluo il possesso di un’automobile
e lui non aveva mai trovato una giustificazione valida per
affrontare quella spesa. Preferiva farsi trasportare da un posto
all’altro dagli affollati treni della metropolitana o da tassisti
spericolati. Spostarsi in città era rumoroso, frenetico e, in base al
temperamento del tassista, anche pericoloso, ma essendo un
newyorkese di nascita, aveva finito da tempo per accettare la
cosa come uno dei tanti aspetti tipi-ci della vita del luogo in cui si
sentiva a casa.
Pensò alla sua ex moglie e si disse che Maria avrebbe
apprezzato un viaggio come quello. Nei primi anni di matrimonio
noleggiavano spesso una macchina per andare in montagna o
sull’oceano, a volte trascorrevano molte ore per strada. Si erano
conosciuti a una festa organizzata da un editore; a quel tempo
Maria scriveva per Elle. Quando le aveva chiesto se voleva
andare a bere un caffè in un bar vicino, non immaginava che lei
avrebbe finito per diventare l’unica donna che avrebbe mai
amato. Dapprima si era domandato se non avesse commesso un
errore invitandola perché in apparenza non avevano niente in
comune. A differenza di lui, quella ragazza era esuberante ed
emotiva, ma non appena l’aveva baciata sulla porta del suo
appartamento ne era rimasto conquistato.
Aveva imparato ad apprezzare la sua forte personalità,
l’infallibile istinto nel rapportarsi agli altri e il modo in cui pareva
accettarlo nella sua interezza, senza giudicarlo, con tutti i pregi e i
difetti.
Un anno dopo si erano sposati in chiesa, circondati da amici e
Un anno dopo si erano sposati in chiesa, circondati da amici e
parenti. Lui allora aveva ventisei an-ni, non collaborava ancora
c o n Scientific American, però stava crescendo
professionalmente. Anche se riuscivano a stento a pagare l’affitto
di un piccolo appartamento a Brooklyn, Jeremy aveva affrontato
le difficoltà e gli ostacoli con l’entusiasmo travolgente dell’amore
e della gioventù. Maria, invece, era giunta presto alla conclusione
che il loro legame fosse forte solo in teoria ma costruito su basi
poco solide. Inizialmente il problema era semplice: mentre lei
doveva restare in città per la-12
voro, lui viaggiava molto inseguendo le sue storie dovunque lo
portassero. Spesso stava via per intere settimane e la sua
giovane moglie, al contrario di quanto affermava, doveva essersi
resa conto che quelle numerose assenze le pesavano troppo.
Poco dopo il loro secondo anniversario, mentre Jeremy si
preparava per l’ennesima partenza, Maria si era seduta sul letto
accanto a lui e lo aveva guardato seria con i suoi occhi marroni.
«Non funziona», aveva detto semplicemente, lasciando che le
parole aleggiassero un momento nell’aria. «Tu non sei mai a
casa, e non è giusto per me… per noi.»
«Vuoi che molli il lavoro?» le chiese allora lui, provando una
stretta di panico alla bocca dello stomaco.
«No, però magari potresti trovare un impiego qui in città. Che so
io, al Times, oppure al Post. O
al Daily News.»
«Abbi pazienza, non sarà sempre così», la supplicò lui. «È
soltanto per un po’.»
«Lo avevi già detto sei mesi fa», ribatté lei. «Non cambierà mai.»
Con il senno di poi, Jeremy capiva che avrebbe dovuto
prenderlo come un avvertimento. All’epoca, però, aveva una
storia da scrivere, stavolta su Los Alamos. Quando la salutò, lei
gli sorrise incerta e lui rimase inquieto ripensando alla sua
espressione mentre saliva sull’aereo, tuttavia al suo ritorno
sembrava quella di sempre e trascorsero quasi tutto il week-end
a letto. Maria cominciò a parlare di volere un bambino e,
nonostante il nervosismo che provava all’idea, anche lui era
attratto dalla prospettiva. Si convinse di essere stato perdonato,
ma in realtà l’armatura protettiva del loro rapporto era stata
incrinata e, a ogni sua assenza successiva, si aprivano
impercettibili crepe. La rot-tura decisiva avvenne un anno dopo,
a un mese di distanza da una visita medica nello studio di un
ginecologo che li mise davanti a un futuro che non avrebbero mai
immaginato. Più ancora dei suoi viaggi, quella notizia preannunciò
la fine del loro matrimonio.
«Non posso restare», gli disse lei in seguito. «Vorrei, e una parte
di me continuerà sempre ad amarti, ma non ci riesco.»
Non ebbe bisogno di aggiungere altro e, nei solitari momenti
dopo il divorzio, a volte lui si chiedeva se Maria l’avesse mai
amato veramente. Avrebbero potuto farcela, si diceva. In fondo,
però, comprendeva il motivo che l’aveva spinta a lasciarlo e non
nutriva rancore nei suoi confronti. Di tanto in tanto si sentivano
per telefono, anche se lui, tre anni più tardi, non era riuscito a
trovare la forza di partecipare al matrimonio della sua ex moglie
con un avvocato di Chappaqua.
Erano già sette anni che aveva divorziato, e doveva ammettere
che quella era stata l’unica esperienza veramente triste della sua
vita. Sapeva che non molti potevano dire la stessa cosa. Non si
era mai ammalato gravemente, era pieno di amici e conoscenti,
aveva superato l’infanzia senza i traumi psicologici che
sembravano affliggere tanti della sua generazione. Tutti i suoi
parenti stretti – fratelli, cognate, genitori e persino i quattro nonni
ultranovantenni – godevano di buona salute. Erano anche
affiatati; nel fine settimana l’intero clan, sempre più numeroso, si
riuniva ancora nella casa del Queens dove lui era cresciuto. Ora
aveva diciassette nipoti e, sebbene a volte in quelle occasioni si
sentisse fuori posto per la sua condizione solitaria in una famiglia
di persone felicemente sposate, i suoi fratelli evitavano di fargli
domande che potessero metterlo in imbarazzo.
Ormai aveva superato il trauma, almeno in gran parte. Durante
viaggi come quello, in certi momenti provava ancora una fitta di
rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere, ma capitava
sempre più di rado e per fortuna il divorzio non lo aveva inacidito
nei confronti delle donne.
Ricordò che un paio di anni prima aveva seguito una ricerca sulla
percezione della bellezza che analizzava se dipendeva da norme
culturali o era geneticamente determinata. A questo scopo era
stato chiesto a diverse donne, più o meno belle, di tenere in
braccio un neonato e poi era stata misu-rata la lunghezza del
contatto visivo tra i due. L’esperimento aveva rilevato una
correlazione diretta tra bellezza e contatto visivo: i bambini
guardavano più a lungo le donne belle, suggerendo così che la
percezione umana della bellezza fosse istintiva. Lo studio aveva
avuto grande risonanza su News-week e sul Times.
Jeremy avrebbe voluto scrivere un articolo per confutare la tesi,
che a suo parere trascurava alcuni aspetti fondamentali. Sapeva
che la bellezza esteriore poteva attrarre l’attenzione immediata –
13
lui stesso non era immune al fascino di una top model – ma
aveva sempre ritenuto che l’intelligenza e la passione fossero gli
elementi che alla lunga esercitavano una maggiore influenza.
Erano caratte-ristiche difficili da percepire a prima vista, e la
bellezza non vi giocava alcun ruolo. L’avvenenza fisica poteva
prevalere sulle altre qualità a breve termine, ma nel medio e
lungo periodo erano le norme e i valori culturali – soprattutto
quelli assorbiti dalla famiglia – a rendere una persona più o me-
quelli assorbiti dalla famiglia – a rendere una persona più o meno attraente ai nostri occhi. Il direttore, tuttavia, aveva cestinato
la sua idea reputandola «troppo soggettiva» e gli aveva suggerito
di scrivere invece un articolo sull’abuso di antibiotici nel mangime
per polli, che rischiava di tramutare lo streptococco in una nuova
peste bubbonica. Non c’era da stupirsi, considerò ora
malinconicamente Jeremy; dato che quell’uomo era vegetariano
e aveva una moglie bellissima ma di certo non brillante.
I direttori dei giornali, pensò. Era giunto ormai da tempo alla
conclusione che fossero quasi tutti degli ipocriti. Ma come
accadeva nella maggior parte delle professioni, gli ipocriti
avevano la tendenza a essere iperattivi e politicamente avveduti –
in poche parole, personalità in grado di far sopravvivere
l’azienda – ed erano loro a distribuire non solo gli incarichi, ma
anche i compensi.
Chissà se sarebbe uscito presto da quel giro, come sosteneva
Nate, rifletté ancora. Probabilmente Alvin aveva ragione a dire
che i produttori televisivi non erano diversi, ma la televisione
pagava bene, il che significava che lui avrebbe potuto scegliere i
progetti da seguire senza doversi sempre affannare. Maria aveva
visto giusto quando lo aveva rimproverato per il carico di lavoro
che si sob-barcava. E, in quindici anni, la mole non era affatto
diminuita. Forse i suoi articoli adesso erano di più alto profilo, o
magari avevano meno problemi a piazzare un pezzo grazie alle
conoscenze acquisite, ma questo non aveva diminuito affatto la
fatica di doversi inventare argomenti sempre nuovi e originali.
fatica di doversi inventare argomenti sempre nuovi e originali.
Ogni anno doveva produrre una decina di articoli per Scientific
American, un paio di inchieste più complesse e un’altra
quindicina di pezzi brevi, alcuni dei quali in linea con il tema della
stagione. È Natale? Ci vuole una storia sul vero san Nicola, nato
in Turchia, divenuto vecovo di Myra e famoso per la sua
generosità, l’amore verso i bambini e la protezione dei marinai. È
estate? Ci vuole una storia: a) sul riscaldamento del pianeta e
sull’innegabile aumento di 0,8 gradi della temperatura negli ultimi
cento anni, che preannuncia una lenta desertificazione, oppure b)
su come il riscaldamento del pianeta potrà portare a una nuova
era glaciale e trasformare i continenti in un’unica tun-dra gelata.
Per il Giorno del Ringraziamento, d’altro canto, era indicato un
articolo sulla vera vita dei Padri Pellegrini, che in realtà non
comprendeva solo amichevoli cene con gli indigeni americani, ma
anche la ciccia alle streghe di Salem, le epidemie di vaiolo e una
riprovevole tendenza all’ince-sto. Le interviste a famosi scienziati
e gli articoli su satelliti o progetti della NASA erano sempre
tenuti in considerazione e facili da piazzare in qualsiasi periodo
dell’anno, al pari degli scoop su droghe (pesanti e leggere),
sesso, prostituzione, gioco d’azzardo, alcol, cause legali con
rimborsi milionari e qualunque cosa, assolutamente qualunque,
sul soprannaturale, che in gran parte non aveva niente a che fare
con la scienza e riguardava piuttosto ciarlatani come Clausen.
Doveva ammettere che tutto il suo lavoro di giornalista era molto
diverso da come se l’era immaginato. Alla Columbia – era stato
diverso da come se l’era immaginato. Alla Columbia – era stato
l’unico tra i suoi fratelli a frequentare l’università e il primo in
assoluto della famiglia a laurearsi, cosa che la madre non
mancava mai di sottolineare con gli estranei – aveva preso una
doppia specializzazione in fisica e chimica, con l’intenzione di
diventare professore. Una sua amica che collaborava al giornale
universitario lo aveva convinto a preparare un pezzo – basato in
gran parte sulle statistiche – sui criteri utilizzati per i voti nei test
d’ammissione.
Dopo che il suo articolo aveva provocato una serie di
dimostrazioni studentesche, Jeremy capì di avere il pallino della
scrittura. Ma la sua scelta professionale non cambiò sino alla fine
dei suoi studi, quando il padre venne truffato da un promotore
finanziario che gli fece perdere circa 40.000 dollari.
La famiglia era in difficoltà – suo padre faceva l’autista di
autobus e quei soldi erano una buona parte dei suoi risparmi – e
allora Jeremy decise di saltare la festa di laurea per mettersi sulle
tracce del truffatore. Come un indemoniato, setacciò tribunale e
pubblico registro, intervistò i soci del tizio e raccolse appunti
dettagliati.
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Il destino volle che l’ufficio del procuratore distrettuale di New
York avesse pesci più grossi da pigliare di un artista della truffa
porta a porta, così Jeremy fece controlli incrociati sulle proprie
fonti, condensò le note e scrisse il suo primo esposto. La casa di
famiglia venne salvata e il New York Magazine pubblicò
l’articolo. Il direttore lo convinse poi che la professione
accademica non lo avrebbe condotto da nessuna parte e, con
una sagace miscela di lusinghe e retorica sull’inseguimento dei
propri sogni, propose a Jeremy di scrivere un articolo sul
Leffertex, un antidepressivo all’epoca sottoposto alla terza fase
delle prove cliniche e che aveva suscitato l’interesse della
stampa.
Jeremy accettò il suggerimento e investigò sugli effetti di quel
farmaco per due mesi a proprie spese. Alla fine, il suo lavoro
indusse l’industria produttrice a ritirare la richiesta di vaglio da
parte della FDA. Successivamente, invece di recarsi al MIT per
il master, si trasferì in Scozia, dove seguì le ricerche degli
scienziati impegnati a studiare il mostro di Loch Ness: il suo
primo pezzo di denuncia di una montatura. Raccolse la
confessione sul letto di morte di un famoso chirurgo, il quale
ammise che la foto del mostro scattata nel 1933 – quella che
aveva portato la leggenda sotto la luce dei riflettori – era un falso
realizzato una domenica pomeriggio assieme a un amico. La sua
carriera era cominciata.
Quindici anni a caccia di storie, pensò, e che cosa ne aveva
ricavato? Era un single trentasetten-ne che viveva in uno
squallido monolocale dell’Upper West Side, e attualmente si
stava dirigendo in uno sperduto paesino per indagare su alcune
misteriose luci che si diceva apparissero in un cimitero. Scrollò il
misteriose luci che si diceva apparissero in un cimitero. Scrollò il
capo, ancora una volta sconcertato di fronte alla strada
imboccata dalla sua vita. Il grande sogno. Era sempre là fuori, e
lui era ancora animato dalla passione e dal desiderio di afferrarlo. Solo che adesso cominciava a chedersi se la televisione
fosse lo strumento giusto per farlo.
La storia delle luci misteriose nasceva da una lettera ricevuta da
Jeremy un mese addietro. Dopo averla letta, il suo primo
pensiero fu che si trattava di un ottimo spunto per un articolo da
pubblicare nel periodo di Halloween. A seconda di come lo si
svolgeva, poteva interessare a Southern Living oppure a
Reader’s Digest per il numero di ottobre. Se fosse risultato più
letterario, magari sarebbe stato adatto anche per Harper’s o per
il New Yorker. D’altro canto, se la cittadina in questione stava
cercando di trarne vantaggio – come era accaduto a Roswell, nel
New Mexico, con gli UFO – quella curiosa vicenda poteva
trovare spazio su uno dei maggiori quotidiani del Sud, che
l’avrebbe poi passata ai giornali locali. Oppure, se riusciva a
essere stringato, andava bene anche per la sua rubrica. Pur
ribadendo la serietà dei contenuti della rivista, il direttore di
Scientific American non na-scondeva infatti il suo desiderio di
aumentare il numero degli abbonati, cosa di cui non si stancava
mai di parlare. Sapeva bene che il pubblico andava matto per le
storie di fantasmi. Avrebbe borbot-tato qualcosa a mezza voce,
lanciando un’occhiata alla foto della moglie mentre valutava
l’articolo, ma non si sarebbe lasciato scappare un pezzo del
genere. I direttori amavano le «bufale» quanto i profani, perché
gli abbonati erano la linfa del sistema. E per quanto fosse triste
ammetterlo, le bufale stavano diventando sempre più frequenti
sui mezzi d’informazione.
In passato lui aveva indagato su sette diverse apparizioni di
fantasmi, di cui quattro erano finite nella sua rubrica di ottobre.
Alcune erano abbastanza banali – visioni spettrali che nessuno
era in grado di documentare scientificamente – ma tre
riguardavano i poltergeist, presunti spiritelli dispet-tosi in grado
di spostare oggetti e di creare danni all’ambiente circostante.
Secondo gli esperti del paranormale, i poltergeist generalmente
erano attratti da una persona più che da un luogo. Comunque, in
tutti i casi che aveva studiato, compresi quelli ben documentati
dalla stampa, alla base di quegli eventi misteriosi c’era sempre
stato l’inganno.
Ma le luci di Boone Creek sembravano diverse; a quanto pareva
la loro apparizione era abbastanza prevedibile da indurre
l’azienda turistica del luogo a promuovere un «Giro delle dimore
storiche e del cimitero infestato dagli spiriti», durante il quale,
così prometteva il dépliant, i visitatori avrebbero visto non solo
edifici risalenti alla metà del Settecento, ma anche, clima
permettendo, «le anime inquiete dei nostri antenati durante la loro
marcia notturna nell’oltretomba».
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Il dépliant, corredato di foto dell’amena cittadina e di frasi
melodrammatiche, gli era stato reca-pitato assieme alla lettera.
Mentre guidava, Jeremy ricordò il contenuto della missiva.
Egregio signor Marsh,
mi chiamo Doris McClellan e due anni fa ho letto il suo
articolo su Scientific American dedicato al poltergeist che
infestava Brenton Manor a Newport, nel Rhode Island.
Avevo pensato di scriverle già allora, ma poi mi è passato di
mente. Adesso, però, visto come stanno le cose nella mia
città, credo sia giunto il momento di farlo.
Non so se ha mai sentito nominare il cimitero di Boone
Creek, nel North Carolina, che secondo la leggenda è
abitato dagli spiriti degli ex schiavi. Durante l’inverno – da
gennaio ai primi di febbraio – tutte le volte che si alza la
nebbia sembra che sulle lapidi si accendano luci azzurre
danzanti. Alcuni dicono che assomigliano alle luci
stroboscopiche, altri giurano che sono grandi come palloni
da basket. Ho potuto osservarle con i miei occhi, e a me
ricordano invece le palle luccicanti delle discoteche. In ogni
caso, lo scorso anno sono arrivati alcuni esperti della Duke
University per studiare il fenomeno. Dovevano essere
meteorologi o geologi o roba del genere. Anche loro videro
le luci, ma non seppero trovare una spiegazione razionale e
il giornale locale pubblicò un lungo articolo su quel mistero.
Forse, se venisse qui, lei potrebbe scoprire di che cosa si
tratta veramente.
Se ha bisogno di ulteriori informazioni, mi chiami da Herbs ,
il numero del ristorante è…
Dopo aver letto la lettera, lui aveva dato un’occhiata al dépliant
dell’agenzia di promozione turistica. Aveva guardato le
didascalie che accompagnavano le immagini delle dimore
storiche della città, saltato le notizie sulla parata e il ballo sull’aia,
ed era rimasto perplesso nel leggere che il giro turistico del
sabato sera per la prima volta comprendeva anche una visita al
cimitero. Sul retro del dépliant – circondate da figure svolazzanti
tipo quelle del fantasmino Casper – erano riportate le
testimonianze della gente che aveva visto le luci e un brano di un
articolo del giornale locale. Al centro, campeggiava la foto
sgranata di una luce brillante (la didascalia affermava che era
stata scattata al cimitero).
Non era certo un fenomeno paragonabile a quello del Borely
Rectory – un grande edificio vitto-riano sulla riva settentrionale
del fiume Stour nell’Essex, in Inghilterra – , la casa infestata da
spiriti più famosa al mondo, dove le «apparizioni»
comprendevano cavalieri senza testa, sinistre musiche d’organo e
rintocchi di campana, ma era abbastanza per solleticare la sua
curiosità.
Non essendo riuscito a trovare l’articolo citato nella lettera – il
sito web del giornale locale non aveva un archivio – Jeremy
aveva telefonato a diversi dipartimenti della Duke University e
alla fine era riuscito ad arrivare al progetto originale della ricerca.
Era stato scritto da tre laureandi, e lui riteneva inutile contattarli.
Il resoconto finale non conteneva nessuna delle informazioni che
cercava, limitandosi a documentare l’esistenza delle luci e a
dimostrare il buon funzionamento dell’attrezzatura utilizzata dagli
studenti. E poi, se aveva imparato qualcosa in quindici anni di
attività, era a fidarsi esclusivamente del proprio lavoro.
Ecco, era quello lo sporco segreto di chi scriveva per le riviste.
Mentre i giornalisti affermavano di condurre di persona le
proprie ricerche, e la maggior parte ne faceva alcune, in genere
tutti si ba-savano largamente sulle opinioni e le mezze verità
pubblicate in passato. Per questo capitava spesso che
commettessero errori, per lo più trascurabili; a volte, però,
prendevano delle vere e proprie can-tonate. Ogni articolo su
ogni rivista conteneva qualche errore, e due anni prima lui aveva
scritto qualche pezzo al riguardo, rivelando le abitudini tutt’altro
che lodevoli dei colleghi.
16
Il suo direttore, tuttavia, si era rifiutato di pubblicarlo. E nessun
altro si era mostrato disponibile a farlo.
Mentre osservava le querce che sfilavano ai lati della strada, si
disse che forse aveva davvero bisogno di un cambiamento di
carriera, e all’improvviso rimpianse di non aver approfondito
prima quella storia di fantasmi. E se non c’era nessuna luce? E se
l’autrice della lettera fosse una squi-librata? E se non fosse
esistita nemmeno una leggenda popolare su cui basare l’articolo?
Scrollò la testa. Era troppo tardi per crogiolarsi nei dubbi. Ormai
era quasi arrivato, e Nate stava già facendo un giro di telefonate
a New York.
Nel portabagagli aveva tutta l’attrezzatura necessaria per andare
a caccia di fantasmi (secondo le indicazioni de Il vero
ghostbuster, un libro che aveva comperato per scherzo dopo un
paio di aperitivi di troppo): una macchina fotografica Polaroid,
una reflex da 35 mm, quattro videocamere con i cavalletti, un
registratore audio e dei microfoni, un rivelatore di microonde,
una bussola, occhiali a infrarossi, computer portatile e altri
ammennicoli vari.
Doveva fare le cose per bene. La caccia ai fantasmi non era
cosa da dilettanti.
Come c’era da aspettarsi, il suo direttore aveva protestato per il
costo degli ultimi gadget che, a quanto pareva, erano essenziali in
indagini del genere. La tecnologia progrediva rapidamente, e gli
strumenti di ieri sembravano utensili dell’età della pietra, gli aveva
spiegato Jeremy mentre fantasti-cava di prendere anche lo zaino
con fucile laser usato da Bill Murray e Harold Ramis in
con fucile laser usato da Bill Murray e Harold Ramis in
Ghostbusters. Gli sarebbe piaciuto vedere la faccia del direttore
davanti a tale attrezzatura. Comunque, il ca-po aveva digrignato i
denti come un coniglio fatto di anfetamine prima di decidersi a
firmare l’auto-rizzazione per l’acquisto. E chissà come se la
sarebbe presa se la storia fosse finita in televisione, anziché nella
rubrica della sua rivista.
Sorridendo all’idea, Jeremy girò la manopola della radio su
diverse stazioni – che diffondevano musica rock, hip-hop,
country, gospel – per sintonizzarsi infine su un canale locale che
stava man-dando in onda un’intervista a due pescatori di sogliole
che discutevano appassionatamente della necessità di abbassare
il limite di peso degli esemplari che potevano essere catturati. Il
conduttore, in apparenza straordinariamente interessato
all’argomento, parlava con un forte accento del Sud. Seguirono
le pubblicità di una mostra di armi e vecchie monete alla Loggia
massonica di Grafton e gli aggiornamenti sui cambiamenti di
squadra del circuito Nascar.
Vicino a Greenville, il traffico aumentò mentre percorreva la
tangenziale che passava nei pressi del campus della East
Carolina University. Attraversò le acque ampie e limacciose del
fiume Pamlico e svoltò su una superstrada rurale. Il nastro
d’asfalto si stringeva a mano a mano che si addentra-va nella
campagna, fiancheggiato da nudi campi invernali e da fitti boschi,
con una fattoria isolata che spuntava qua e là. Una mezz’ora
dopo si ritrovò nei pressi di Boone Creek.
dopo si ritrovò nei pressi di Boone Creek.
Dopo il primo, e unico, semaforo il limite di velocità scendeva a
quaranta all’ora e Jeremy rallentò, mentre si guardava intorno
sgomento. A parte cinque o sei casette prefabbricate piazzate disordinatamente ai lati della strada, e un paio di incroci, l’insieme
era dominato da due distributori di benzina fatiscenti e un
gommista, con un’insegna posta in cima a una torre di pneumatici
usati che sarebbe stata considerata ad alto rischio di incendio in
qualunque altro posto. Un minuto dopo si ritrovò all’altro capo
del paese, dove finiva il limite di velocità urbano. Accostò al
ciglio della strada e si fermò.
I casi erano due: o avevano messo delle fotografie di un’altra
località sul sito web, oppure lui si era sbagliato. Consultò
nuovamente la cartina stradale, ma sembrava che quella fosse
proprio Boone Creek. Lanciò un’occhiata allo specchietto
retrovisore, chiedendosi dove mai fossero nascoste le stradine
tranquille e alberate. Le azzalee in fiore. Le donne carine con i
vestiti di cotone.
Mentre rifletteva, scorse la punta di un campanile bianco che
faceva capolino appena sopra la linea degli alberi e decise di
imboccare una delle traverse che aveva appena superato. Dopo
una serie di curve il paesaggio cambiò di colpo e lui si ritrovò ad
attraversare una cittadina decrepita che un tempo doveva essere
stata attraente e pittoresca. Verande ornate da vasi di fiori e
bandiere america-ne tentavano di rendere graziose casette
dall’intonaco scrostato e con i segni della muffa sotto le
grondaie. I giardini erano ombreggiati da gigantesche magnolie,
ma i cespugli di rododendri accura-17
tamente potati mascheravano solo in parte le crepe nelle
fondamenta. Eppure, l’atmosfera nel complesso era abbastanza
accogliente. Alcune coppie di anziani in tuta, seduti sulle verande,
scorgendolo alzarono il braccio in un cenno di saluto.
Jeremy era perplesso, si chiedeva come mai quella gente
l’avesse riconosciuto, ma dopo un po’
si rese conto che lì c’era l’abitudine di salutare tutti quelli che
passavano in macchina. Proseguendo da una via all’altra
raggiunse infine la confluenza del torrente Boone con il fiume
Pamlico, intorno a cui si era sviluppata la città. Il centro, che
doveva essere stato prosperoso e vivace, aveva un’aria alquanto
decadente. In mezzo ai negozi con le vetrine chiuse da assi
inchiodate scorse un paio di ne-gozietti d’antiquariato, un bar,
un’osteria chiamata Lookilu e un barbiere. Sembrava che gli
affari non andassero troppo bene e che la maggior parte dei
negozi ancora aperti stessero lottando per sopravvivere. L’unico
segno di modernità erano le magliette dai colori sgargianti con la
scritta SONO
SOPRAVVISSUTO AI FANTASMI DI BOONE CREEK! in
mostra nella vetrina di un emporio.
Il ristorante dove lavorava Doris McClellan non fu difficile da
individuare. Si trovava verso la fine dell’isolato, in un edificio di
fine secolo restaurato e tinteggiato di un bel rosa pesca. C’erano
diverse auto posteggiate davanti, e dalle finestre si intravedevano
i tavoli apparecchiati in sala e sulla veranda. Dato che erano tutti
occupati, Jeremy decise di tornare più tardi per scambiare
quattro chiacchiere con Doris.
Prese mentalmente nota dell’ubicazione dell’agenzia di
promozione turistica, che si trovava in un’anonima costruzione di
mattoni un po’ più avanti, e poi tornò in direzione della
superstrada.
Giunto a una stazione di benzina, si fermò, si tolse gli occhiali da
sole e abbassò il finestrino. Il benzinaio, un uomo di mezza età
brizzolato con una tuta lurida e un berretto da baseball, si alzò
lentamente dalla sedia e si incamminò verso l’auto, ruminando
quello che probabilmente era tabacco da masticare.
«Serve qualcosa?» Aveva un inconfondibile accento del Sud e i
denti macchiati di marrone. Sul suo cartellino di riconoscimento
c’era scritto TULLY.
Jeremy gli chiese indicazioni per raggiungere il cimitero, ma
invece di rispondergli, l’uomo lo scrutò attentamente.
«Chi è morto?» chiese infine.
«Come, scusi?» domandò Jeremy allibito.
«Va a un funerale, no?» ribatté il benzinaio.
«No, volevo soltanto visitare il cimitero.»
L’uomo annuì. «Sa, ha proprio l’aria di uno che deve andare a
un funerale.»
Jeremy si guardò i vestiti: giacca nera su dolcevita nero, jeans
neri e scarpe Bruno Magli nere.
Quel tipo aveva ragione.
«È solo che mi piace il nero. Comunque, da che parte devo
andare…»
Il benzinaio sollevò la visiera del berretto e parlò lentamente.
«Nemmeno a me piacciono i funerali. Mi fanno pensare che
dovrei entrare in chiesa, una volta o l’altra, per sistemare le cose
prima che sia troppo tardi. A lei è mai successo?»
Jeremy non sapeva esattamente cosa rispondere. Non era una
domanda che si sentiva rivolgere spesso, soprattutto in risposta a
una richiesta di indicazioni stradali. «Non credo», dichiarò alla
fine.
Il benzinaio tirò fuori uno straccio dalla tasca e cominciò a
strofinarsi via il grasso dalle mani.
«Lei non è di queste parti, vero? Ha un accento strano.»
«New York», gli confermò Jeremy.
«Ne ho sentito parlare, ma non ci sono mai stato», disse l’altro.
Guardò la macchina. «È sua?»
«No, l’ho presa a noleggio.»
L’uomo annuì, restando in silenzio per un po’.
«Senta, a proposito del cimitero», lo incalzò Jeremy, «può dirmi
come ci arrivo?»
«Direi di sì. Quale cerca?»
«Mi pare si chiami Cedar Creek.»
Il benzinaio lo guardò in modo strano. «Che cosa ci va a fare,
laggiù? Non c’è niente da vedere.
Ci sono cimiteri più belli dall’altra parte della città.»
18
«Veramente, mi interessa soltanto quello.»
L’uomo non sembrava ascoltarlo. «Ha dei parenti lì?»
L’uomo non sembrava ascoltarlo. «Ha dei parenti lì?»
«No.»
«È uno di quei grandi speculatori del Nord? Magari ha in mente
di costruire un complesso resi-denziale o un centro commerciale
là sui terreni?»
Jeremy scrollò la testa. «No. Veramente sono un giornalista.»
«A mia moglie piacciono i centri commerciali. E anche i
complessi residenziali. Potrebbe essere una buona idea.»
«Ah», sospirò Jeremy, chiedendosi quanto tempo ancora
sarebbe andata avanti la cosa. «Vorrei poterla aiutare, ma non è
il mio campo.»
«Deve fare benzina?» chiese l’uomo, spostandosi verso il retro
della macchina.
«No, grazie.»
Il benzinaio aveva già svitato il tappo del serbatoio. «Normale o
super?»
Jeremy si agitò sul sedile e poi si disse che a quell’uomo poteva
far comodo un cliente. «Normale, credo.»
Dopo aver azionato la pompa, il benzinaio si tolse il berretto e si
passò una mano tra i capelli mentre tornava verso il finestrino.
«Se ha qualche problema con la macchina, passi pure di qui.
Riparo entrambi i tipi, e a un buon prezzo.»»
«Entrambi i tipi?» Jeremy non capiva.
«Straniere e nazionali», rispose l’uomo. «Che cosa credeva?»
Senza aspettare risposta, scosse la testa, come se quel cliente
fosse un idiota. «A proposito, mi chiamo Tully. E lei?»
«Jeremy Marsh.»
«È un commercialista?»
«Un giornalista.»
«Non abbiamo commercialisti in città. Però c’è qualcuno a
Greenville.»
«Ah», commentò Jeremy senza preoccuparsi di correggerlo.
«Senta, per il cimitero, allora…»
Tully si strofinò il naso e lanciò un’occhiata alla strada prima di
tornare a fissarlo. «Senta, a quest’ora non vedrà niente. I
fantasmi non escono prima di sera, se è qui per questo.»
«Come, scusi?»
«Se non ha parenti al cimitero, allora dev’essere qui per i
fantasmi, giusto?»
«Lei ha sentito parlare dei fantasmi?»
«Certo. Li ho anche visti con i miei occhi. Ma per i biglietti deve
andare all’agenzia turistica.»
«Ci vuole il biglietto?»
«Le pare che si possa entrare così in casa degli altri?»
Jeremy impiegò qualche istante a seguire il filo del ragionamento.
«Ah, giusto», disse infine. «Il giro delle dimore storiche e del
cimitero infestato, giusto?»
Tully lo fissò come se fosse l’individuo più ottuso mai comparso
sulla faccia della Terra. «Naturale che parliamo del giro», disse.
«Che cosa credeva?»
«Non so», ribatté Jeremy. «Ma se mi dice come arrivarci…»
Tully scrollò il capo. «E va bene, va bene», rispose, come se
all’improvviso si fosse spazientito.
Alzò un dito per indicare la direzione.
«Quello che deve fare è tornare in centro e seguire la strada
«Quello che deve fare è tornare in centro e seguire la strada
principale verso nord fino a raggiungere l’incrocio a circa sei
chilometri fuori dalla città. Svolta a destra e continua fino alla
bifor-cazione, e poi segue la strada che passa dalla casa di
Wilson Tanner. Svolta di nuovo a sinistra dove c’era lo
sfasciacarrozze, prosegue diritto per un po’ e si trova davanti il
cimitero.»
Jeremy annuì. «Grazie», disse.
«Sicuro di aver capito?»
«Biforcazione, casa di Wilson Tanner, ex sfasciacarrozze», recitò
a memoria. «Grazie ancora dell’aiuto.»
«Si figuri, è stato un piacere. Sono sette dollari e quarantanove
centesimi.»
19
«Accetta carte di credito?»
«No, non mi sono mai piaciute. Non mi va che il governo sappia
tutto quello che faccio. Non sono affari degli altri.»
«In effetti, è un problema», replicò Jeremy tirando fuori il
portafoglio. «Ho sentito che il governo ha spie dappertutto.»
Tully annuì con aria d’intesa. «Scommetto che per voi
commercialisti è ancora peggio. Mi ricordo che quando…»
commercialisti è ancora peggio. Mi ricordo che quando…»
Nei quindici minuti successivi Tully continuò a parlare
ininterrottamente. Jeremy fu informato sui capricci del tempo, gli
assurdi decreti del governo, e sul fatto che Wyatt – l’altro
benzinaio – lo avrebbe imbrogliato se fosse andato da lui a fare il
pieno, dal momento che manometteva il contato-re delle pompe
non appena l’autocisterna si allontanava. Ma soprattutto, venne a
sapere dei problemi fiscali dell’uomo che – ostinandosi a
considerarlo un commercialista – chiedeva la sua opinione sulle
varie deduzioni e detrazioni.
Tully aveva già avuto il tempo di rimpirsi la guancia un paio di
volte con il tabacco, quando finalmente fu interrotto dall’arrivo di
una macchina che si fermò sull’altro lato del distributore.
L’autista sollevò il cofano e lui diede un’occhiata al motore prima
di toccare alcuni cavi e sputare per terra. Poi dichiarò che il
guasto si poteva aggiustare, ma che essendo molto occupato, ci
sarebbe voluta almeno una settimana. L’altro non sembrava
avere fretta e, come se niente fosse, i due si misero a
chiacchierare a proposito della signora Dungeness e di un
opossum che era entrato nella sua cucina la notte prima
mangiando tutto quello che c’era nella fruttiera.
Jeremy ne approfittò per allontanarsi. Si fermò al supermercato a
comprare una cartina del luogo e una serie di cartoline che
raffiguravano le bellezze di Boone Creek, e in breve si ritrovò
sulla strada sinuosa che conduceva fuori città. Come per magia,
sulla strada sinuosa che conduceva fuori città. Come per magia,
riuscì a trovare sia l’incrocio sia la bifor-cazione, ma purtroppo
mancò la casa di Wilson Tanner. Facendo un po’ di retromarcia,
raggiunse infine una stradina sterrata quasi completamente
nascosta dalla fitta vegetazione.
Dopo averla imboccata avanzò con cautela tra le buche finché il
bosco cominciò a diradarsi. Superò un cartello che segnalava
Riker’s Hill – dove c’era stata una battaglia durante la Guerra
Civile
– e qualche istante più tardi si fermò davanti al cancello del
cimitero di Cedar Creek. Sullo sfondo si «elevava» l’altura di
una collina solitaria che sembrava l’unica in quella parte dello
stato, dato che per il resto i dintorni erano piatti come le sogliole
di cui Jeremy aveva sentito parlare alla radio.
Delimitato da colonnine di mattoni e da un’inferriata arrugginita, il
cimitero era adagiato in un lieve avvallamento e dava
l’impressione di essere sul punto di sprofondare. Il campo era
ombreg-giato da grandi querce coperte di rampicanti, su cui
dominava un’enorme magnolia centrale. Dal tronco massiccio
spuntavano radici aeree che si protendevano sopra il terreno
come lunghe dita ar-tritiche.
Se un tempo quello era stato un luogo pieno di pace per l’eterno
riposo, ora aveva l’aria decisamente trascurata. Il vialetto di
ghiaia che partiva dal cancello principale era pieno di buche e
coperto da un manto di foglie. Sulle rade macchie di erba
spontanea c’erano rami caduti sparsi un po’ ovunque e il terreno
irregolare ricordava la superficie ondulata del mare. Vicino alle
lapidi, quasi tutte sbrecciate, erano spuntate le erbacce.
Tully aveva ragione, si disse Jeremy. Non c’era molto da vedere
lì. Ma come cimitero infestato dagli spiriti era perfetto. E
soprattutto telegenico. Sorrise. Sembrava un fondale disegnato a
Hollywood.
Scese dall’auto e si sgranchì le gambe prima di tirare fuori dal
bagagliaio la macchina fotografica. L’aria era pungente, ma non
gelida come a New York, e lui inspirò a fondo un gradevole
odore di resina e di erba medica. Il cielo ora era solcato da
cumuli e un falco solitario volteggiava in lontananza. Il pendio di
Riker’s Hill era punteggiato di pini e nei campi che si
estendevano alla sua base c’era un capannone per il tabacco
abbandonato. Con il tetto di metallo semidistrutto, era inclinato
di lato e sembrava pronto a crollare al primo alito di vento.
Intorno, non c’erano altri segni di civiltà.
20
Jeremy spinse il cancello arrugginito che cigolò sui cardini e si
avventurò lungo il vialetto.
Guardò le lapidi e fu sorpreso dalla mancanza di iscrizioni, ma
poi si rese conto che dovevano essere state dilavate dagli agenti
poi si rese conto che dovevano essere state dilavate dagli agenti
atmosferici. Le poche ancora decifrabili risalivano al Settecento.
Poco più avanti sorgeva una cappella funeraria diroccata e molti
altri monumenti funebri erano danneg-giati o in rovina. Lui non vi
scorse segno di atti di vandalismo, ma solo la decadenza naturale
delle cose. Sembrava che nessuno fosse più stato sepolto lì da
decenni, il che spiegava lo stato di abban-dono.
Si fermò all’ombra della magnolia, chiedendosi che aspetto
avrebbe avuto quel luogo in una notte di nebbia. Probabilmente
sinistro, si disse, il che avrebbe potuto far galoppare
l’immaginazione di una persona impressionabile. Ma se davvero
c’erano delle luci inspiegabili, da dove venivano?
Forse i «fantasmi» non erano altro che un riflesso dovuto alle
particelle d’acqua che componevano la nebbia, però non
c’erano lampioni o altre fonti di illiminazione artificiale che
potessero giustifi-care il fenomeno. Un’altra causa avrebbero
potuto essere i fari delle automobili, ma nelle vicinanze c’era solo
la strada di campagna da cui lui era arrivato e la gente avrebbe
già da tempo collegato le due cose.
Decise che doveva trovare una buona carta topografica della
zona, oltre alla cartina stradale che aveva appena acquistato.
Magari avrebbe fatto un salto alla biblioteca civica, anche per
approfondire la storia del cimitero e della cittadina. Voleva
sapere quando erano state viste le luci per la prima volta, il che
avrebbe potuto fornirgli qualche indizio per scoprirne l’origine.
Ovviamente, avrebbe pure dovuto trascorrere un paio di nottate
in quel lugubre cimitero, sempre ammesso che la nebbia fosse
disposta a collaborare.
Si aggirò per i vialetti secondari scattando qua e là foto che gli
sarebbero servite da raffronto con altre, più vecchie, del
cimitero. Voleva verificare com’era cambiato nel tempo, e
cercare di capire quando – o perché – era stato abbandonato.
Fotografò anche la magnolia. Era la più grande che avesse mai
visto. Aveva il tronco scuro e rugoso, e quei rami bassi che
sarebbero stati una pacchia per lui e i suoi fratelli, da piccoli. Vi
si sarebbero arrampicati per ore, se non fossero stati circondati
da defunti, naturalmente.
Mentre riguardava le immagini digitali per accertarsi che fossero
sufficienti, colse un movimento con la coda dell’occhio.
Alzò la testa e vide una donna che avanzava verso di lui. Portava
jeans, stivali e un maglione azzurro in tinta con la borsa di tela;
aveva i capelli castani che le sfioravano le spalle. La carnagione,
leggermente olivastra, le rendeva superfluo il trucco; ma fu il
colore degli occhi ad attirare più di tutto la sua attenzione; a
distanza, sembravano quasi violetti. Chiunque fosse, aveva
parcheggiato la macchina proprio dietro la sua.
Per un attimo Jeremy si chiese se la donna intendesse chiedergli
di andarsene. Forse il cimitero era pericolante e chiuso al
pubblico. O forse il suo arrivo proprio in quel momento era una
pubblico. O forse il suo arrivo proprio in quel momento era una
semplice coincidenza.
Lei intanto continuava ad avvicinarsi.
A pensarci bene, era una coincidenza piuttosto attraente, si disse
Jeremy. Raddrizzò la schiena e infilò la macchina fotografica nella
custodia. Poi le rivolse un sorriso smagliante.
«Salve», disse.
Al suo saluto, la donna rallentò l’andatura, come se lo avesse
notato solo in quel momento. Aveva un’espressione divertita, e
lui si aspettava quasi che si fermasse. Invece, mentre lo superava
decisa, gli parve addirittura di udire una risata.
Fissandola in silenzio in segno di aperto apprezzamento, Jeremy
la guardò proseguire imperter-rita e, prima di riuscire a
trattenersi, fece un passo nella sua direzione.
«Ehi!» la chiamò.
A quel punto lei si voltò, ma continuò a camminare all’indietro, la
testa piegata di lato con aria interrogativa. Jeremy vide di nuovo
quell’espressione divertita sul suo viso.
«Sa, non dovrebbe fissare la gente in quel modo», gli disse lei.
«Alle donne piacciono gli uomini che sanno essere discreti.»
21
Si girò di nuovo, si sistemò la borsa sulla spalla e proseguì
spedita. Da lontano lui la sentì ridere ancora.
Jeremy rimase lì a bocca aperta, una volta tanto a corto di
battute.
Aveva capito, lei non era interessata. Niente di grave. Tuttavia,
la maggior parte delle persone avrebbe risposto al suo saluto.
Magari non farlo era un’abitudine del Sud, si disse. O forse era
stufa degli uomini che la fermavano in continuazione. Oppure,
non voleva essere disturbata mentre…
mentre…
Mentre faceva che cosa?
Eh, già, sospirò Jeremy, era proprio quello il problema del
giornalismo. Lo aveva reso troppo curioso. In realtà, non erano
fatti suoi. E poi, si ricordò che si trovava in un cimitero.
Probabilmente lei era venuta a visitare la tomba di qualche
parente. È quello che faceva la gente normalmente, giusto?
Aggrottò la fronte. L’unica differenza era che normalmente i
cimiteri erano ben tenuti, mentre quello aveva l’aspetto di San
Francisco dopo il terremoto del 1906. Avrebbe potuto seguirla,
per vedere che cosa stava combinando, ma aveva un’esperienza
sufficiente con le donne per sapere che spiare era considerato
molto peggio che fissare. E lei non sembrava aver gradito il suo
sguardo di ammirazione.
Jeremy si sforzò di non seguirla con gli occhi mentre scompariva
dietro una quercia, la borsa di tela che dondolava a ogni suo
passo aggraziato.
Solo allora riuscì a ricordarsi che non era il momento di pensare
alle belle ragazze. Aveva un lavoro da svolgere ed era in ballo il
suo futuro. Soldi, successo, televisione… Bene, e adesso?
Aveva visto il cimitero, tanto valeva dare un’occhiata anche ai
dintorni. Così, per farsi un’idea del luogo.
Tornò verso la macchina e salì, compiaciuto di non aver lanciato
nemmeno un’occhiata alle sue spalle per vedere se lei lo stesse
osservando. Era un gioco tra loro due. Ovviamente, ciò
presuppo-neva che le interessasse quello che lui stava facendo,
cosa di cui non era affatto sicuro.
Un rapido sguardo dal suo posto al volante gli confermò quel
sospetto.
Accese il motore e partì lentamente sforzandosi di concentrarsi
sulla guida. Proseguì lungo la strada per vedere se più avanti ci
fossero altri incroci, e intanto cercava con gli occhi eventuali
mulini a vento o tetti metallici di capannoni. Niente. E non c’era
neppure una fattoria.
Fece inversione e ripercorse la strada alla ricerca di un bivio che
lo portasse in cima a Riker’s Hill, ma anche stavolta senza
successo. Mentre tornava in vista del cimitero si domandò a chi
appar-tenessero i campi circostanti in la collina, se si trattasse di
suolo pubblico o privato. L’ufficio del registro locale gli avrebbe
fornito le informazioni che gli servivano. Il giornalista dall’occhio
acuto che era in lui notò che la macchina della donna era sparita
e questo gli provocò una lieve fitta di delusione, inspiegabile
quanto fugace.
Guardò l’ora. Erano passate da poco le due e ormai
probabilmente il ristorante si stava svuotan-do. Sarebbe passato
a fare quattro chiacchiere con Doris. Forse lei avrebbe potuto
«illuminarlo» sull’argomento.
Abbozzò un sorriso per la sua battuta e si chiese se la donna del
cimitero l’avrebbe trovata divertente.
22
3
Quando Jeremy raggiunse l’ Herbs, c’erano pochi tavoli sulla
veranda ancora occupati. Mentre saliva i gradini d’ingresso tutti i
commensali si azzittirono e si voltarono a guardarlo. Lo fissavano
in sielnzio, con le mandibole che continuavano a ruminare e
l’espressione curiosa delle mucche al pascolo. Lui li salutò con la
mano e un cenno del capo, come aveva visto fare dai vecchi del
posto.
Poi si tolse gli occhiali da sole e aprì la porta. All’interno, i
tavolini quadrati erano sistemati nelle due stanze principali
dell’edificio, separate da una scala. Sulle pareti color pesca
risaltavano delle decorazioni, che davano al locale un aspetto
accogliente e campagnolo. Sul retro, si scorgeva un angolo della
cucina.
Di nuovo quelle espressioni da mucca al suo passaggio. La
conversazione cessò. Gli sguardi lo seguirono. Al suo cenno del
capo e della mano, gli occhi si abbassarono e il mormorio delle
voci riprese. Evidentemente quel saluto funzionava un po’ come
una bacchetta magica, si disse Jeremy.
Mentre era lì in piedi a giocherellare con gli occhiali, una
cameriera uscì dalla cucina. Era una venticinquenne alta e magra
dal viso aperto e solare.
«Siediti pure dove ti pare, tesoro», cinguettò. «Sarò da te fra un
minuto.»
Dopo essersi accomodato a un tavolo vicino alla finestra,
osservò la cameriera che si avvicinava. Il suo cartellino la
identificava come RACHEL. Ce l’avevano tutti quelli che
lavoravano in città?
si chiese Jeremy. Forse era un’altra regola. Come quella del
saluto.
«Che cosa vuoi da bere?»
«Potrei avere un cappuccino?» azzardò lui.
«No, mi spiace. Però abbiamo del caffè.»
Jeremy sorrise. «Un caffè va bene.»
«Perfetto. Il menù è sul tavolo, se vuoi ordinare da mangiare.»
«Veramente, mi chiedevo se Doris McClellan fosse qui.»
«Oh, è in cucina», rispose Rachel allegramente. «Vuoi che te la
chiami?»
«Se non ti è di troppo disturbo.»
Lei sorrise. «Ma figurati.»
Lei sorrise. «Ma figurati.»
La osservò tornare verso la cucina e aprire la porta a battente.
Un attimo dopo comparve una donna che lui immaginò essere
Doris. Era il contrario di Rachel: bassa e tozza, con radi capelli
bianchi, indossava un grembiule, ma senza cartellino, sopra un
vestito a fiori. Doveva avere una sessantina d’anni. Si fermò
davanti al suo tavolo, si mise le mani sui fianchi e sorrise.
«Beene», disse, allungando le vocali. «Lei dev’essere Jeremy
Marsh.»
Lui sbatté gli occhi. «Mi conosce?»
23
«Ma certo. L’ho vista venerdì scorso a Primatime Live.
Immagino che abbia ricevuto la mia lettera.»
«Infatti, grazie.»
«Ed è venuto a Boone Creek per scrivere un articolo sui
fantasmi?»
Jeremy alzò le mani. «Così pare.»
«Chessorpresa», disse lei tutto d’un fiato. «Perché non mi ha
avvertito del suo arrivo?»
«In effetti, mi piace cogliere le persone di sorpresa. A volte
rende più facile ottenere da loro informazioni precise.»
«Chessorpresa», ripeté lei. Passato lo stupore iniziale, scostò una
sedia. «Le spiace se mi siedo al suo tavolo? Penso sia venuto qui
per parlare.»
«Non vorrei farle passare dei guai con il suo capo, distraendola
in orario di lavoro.»
Doris si guardò alle spalle ed esclamò: «Ehi, Rachel, secondo te
il capo se la prenderà se mi siedo un attimo? Questo signore
vuole parlare con me».
La ragazza fece capolino oltre la porta della cucina, con in mano
una caffettiera.
«No, non credo che se la prenderà», rispose. «Le piace molto
parlare. Soprattutto con un uomo così attraente.»
Doris si voltò. «Visto? Nessun problema.»
Jeremy sorrise. «Dev’essere un bel posto dove lavorare.»
«Infatti.»
«Deduco che il capo qui è lei.»
«Colpevole», rispose Doris, e gli occhi le lampeggiarono
lusingati.
«Da quanti anni è in attività?»
«Quasi trenta, ormai. Colazione e pranzo. Servivamo cibi sani
molto prima che diventassero di moda, e abbiamo le migliori
omelette della zona. Non le trova così neanche al Raleigh.» Si
sporse in avanti. «Ha appetito? Dovrebbe provare uno dei nostri
panini. Tutti ingredienti freschi, facciamo persino il pane in casa.
Dal suo aspetto, direi che le farebbe bene mangiare un
boccone…» Lo osservò attentamente. «Scommetto che le piace
il panino al tonno con il pesto. Comprende insalatina, pomodori,
cetrioli, e la ricetta del pesto è mia.»
«Veramente non ho molta fame.»
Arrivò Rachel con due tazze di caffè.
«Come preferisce… ma quando devo raccontare una storia, mi
piace farlo davanti a un buon pasto. E in genere tendo a
dilungarmi parecchio.»
Jeremy capitolò. «Il pollo al pesto mi sembra un’ottima idea.»
Doris sorrise. «Puoi portarci due Albemarle, Rachel?»
«Certo», rispose la cameriera, lanciando a lui un’occhiata piena
di apprezzamento. «A proposito, chi è il tuo amico? Non l’ho
mai visto da queste parti.»
«Si chiama Jeremy Marsh», rispose Doris. «È un famoso
giornalista che vuole scrivere un articolo sulla nostra bella
cittadina.»
«Davvero?» chiese Rachel mostrandosi interessata.
«Sì», confermò Jeremy.
«Oh, grazie al cielo», esclamò lei strizzando l’occhio. «Per un
attimo ho pensato che fosse venuto per un funerale.»
Jeremy rimase a bocca aperta mentre la ragazza si allontanava.
Doris rise. «Tully è passato di qua dopo che lei gli aveva chiesto
informazioni per raggiungere il cimitero», spiegò. «Evidentemente
doveva aver capito che io c’entravo con il suo arrivo, e voleva
accertarsene. In ogni caso, ci ha ripetuto tutta la conversazione
avvenuta tra di voi, e Rachel non sa proprio resistere alla
tentazione di fare una battuta.»
«Ah», disse Jeremy.
Doris si sporse in avanti. «Scommetto che Tully l’ha rintronata di
chiacchere.»
«Un pochino.»
24
«Quell’uomo parlerebbe con una scatola da scarpe se non ci
fosse nessuno ad ascoltarlo. Non so come abbia fatto sua moglie
Bonnie a sopportarlo. Ma dodici anni fa è diventata sorda,
perciò lui adesso si sfoga con i clienti. Non c’è niente da fare,
quando ci si ferma al suo distributore bisogna stare ad ascoltarlo.
Ieri mi è toccato mandarlo via da qui a forza. Non riesco a
combinare niente se mi sta tra i piedi.»
Jeremy sollevò la tazza di caffè. «La moglie è diventata sorda?»
«Secondo me, il buon Dio si è reso conto che aveva sofferto
abbastanza. Quella donna è una santa.»
Lui rise e bevve un sorso. «Come mai Tully ha pensato che fosse
stata lei a contattarmi?»
«Tutte le volte che qui succede qualcosa di insolito, la colpa
ricade su di me. Forse dipende dal fatto che sono la sensitiva
della città.»
Jeremy la guardò in silenzio e Doris sorrise.
«Mi pare di capire che non crede ai sensitivi», osservò.
«Infatti.»
La donna si stropicciò il grembiule. «Be’, in genere non ci credo
La donna si stropicciò il grembiule. «Be’, in genere non ci credo
neanch’io. Nella maggior parte dei casi si tratta di imbroglioni.
Ma esiste qualcuno che possiede delle doti.»
«Allora… lei è in grado di leggermi nel pensiero?»
«No, non faccio niente del genere», replicò Doris scrollando il
capo. «Almeno di solito. Ho un ottimo intuito riguardo alla gente,
ma la lettura del pensiero era più una facoltà di mia madre.
Nessuno poteva nasconderle niente. Sapeva persino in anticipo
che cosa le avrei regalato per il compleanno, e questo rovinava
gran parte del divertimento. Il mio dono è diverso: sono una
rabdomante. E
riesco anche a indovinare il sesso di un bambino prima che
nasca.»
«Capisco.»
Doris lo guardò intensamente. «Lei non è convinto.»
«D’accordo, ammettiamo che lei sia una rabdomante. Ciò
significa che è in grado di trovare l’acqua e di dirmi dove devo
scavare un pozzo.»
«Esatto.»
«E se le chiedessi di sottoporsi a una prova, controllata
scientificamente, sotto scrupolosa super-visione…»
scientificamente, sotto scrupolosa super-visione…»
«Potrebbe controllare lei stesso e, anche se dovesse riempirmi di
aggeggi come un albero di Natale per essere sicuro che non la
sto imbrogliando, per me non ci sarebbero problemi.»
«Capisco», ripeté Jeremy, pensando a Uri Geller. Quell’uomo
era così sicuro dei propri poteri di telecinesi da presentarsi in una
trasmissione inglese in diretta, nel 1973, davanti a un pubblico in
cui c’erano numerosi scienziati. Si era messo un cucchiaio in
equilibrio sul dito e le due estremità della posata avevano
cominciato a curvarsi verso il basso sotto gli sguardi attoniti dei
presenti. Solo parecchio tempo dopo era saltato fuori che, prima
di entrare in studio, aveva piegato più volte il cucchiaio per
indebolire il metallo.
Doris sembrava avergli letto nel pensiero.
«Senta che cosa le dico… può mettermi alla prova quando e
come vuole. Ma non è venuto qui per questo. Lei desidera
conoscere la storia dei fantasmi, giusto?»
«Ha ragione», confermò Jeremy, contento di essere finalmente
arrivato al punto. «Le spiace se registro la sua testimonianza?»
«Faccia pure.»
Lui infilò la mano in tasca e ne estrasse un registratore portatile.
Lo appoggiò sul tavolo e schiacciò il pulsante di avvio.
Lo appoggiò sul tavolo e schiacciò il pulsante di avvio.
Doris bevve un sorso di caffè prima di cominciare. «Bene, la
storia risale all’ultimo decennio dell’Ottocento. All’epoca, in
questa città esisteva ancora la schiavitù e la maggior parte dei
negri viveva in un luogo chiamato Watts Landing. Non resta più
nulla di quel villaggio, a causa di Hazel, ma allora…»
«Mi scusi… Hazel?»
25
«L’uragano del 1954. Si abbatté sulla costa vicino al confine del
South Carolina. Sommerse gran parte di Boone Creek, e quello
che rimaneva di Watts Landing venne spazzato via.»
«Ho capito. Vada pure avanti.»
«Dunque, come stavo dicendo il villaggio non esiste più, ma
intorno alla fine del secolo era abitato da circa trecento persone.
La maggior parte di loro discendeva dagli schiavi arrivati qui dal
South Carolina durante la Guerra di Aggressione nordista, quella
che voi chiamate Guerra Civile.»
Strizzò l’occhio e Jeremy sorrise.
«Poi arrivò la Union Pacific per costruire la ferrovia che avrebbe
dato un grande impulso econo-mico alla zona. Almeno, così
dicevano. La linea ferroviaria doveva passare esattamente in
mezzo al cimitero dei neri. Bene, a capo di quella comunità c’era
una donna che si chiamava Hettie Doubilet.
Veniva dai Caraibi, non so da quale isola, e quando venne a
sapere che avrebbero dovuto dissotter-rare i corpi e trasferirli
altrove, rimase sconvolta e cercò di convincere le autorità a
cambiare il tracciato. I funzionari della contea, tuttavia, non ci
pensavano minimamente e non le promisero neppure di esporre
le sue ragioni.»
In quel momento arrivò Rachel con i panini. Posò i due piatti sul
tavolo.
«Lo provi», lo invitò Doris. «Lei è tutto pelle e ossa.»
Jeremy afferrò il panino e lo assaggiò. Era buonissimo. Diede un
altro morso e Doris sorrise.
«Meglio di quello che si mangia a New York, vero?»
«Senza dubbio. I miei complimenti al cuoco.»
Doris gli lanciò un’occhiata quasi civettuola. «Lei è un vero
gentiluomo, signor Marsh», disse e Jeremy venne colpito dal
pensiero che, da giovane, quella donna doveva aver spezzato
diversi cuori.
«A quel tempo, molti qui erano razzisti», riprese a raccontare lei.
«Alcuni lo sono ancora, però adesso si tratta di una minoranza.
«Alcuni lo sono ancora, però adesso si tratta di una minoranza.
Dato che viene dal Nord, probabilmente penserà che io stia
men-tendo, ma non è così.»
«Le credo.»
«Non è vero. Nessuno di voi del Nord ci crede, ma non
importa. Tornando alla nostra storia, Hettie Doubilet era infuriata
con i funzionari della contea e la leggenda dice che, quando le
vietaro-no l’ingresso nell’ufficio del sindaco, lei lanciò una
maledizione su noi bianchi. Annunciò che, se le tombe dei suoi
antenati fossero state profanate, anche a quelle dei nostri
sarebbe toccata la stessa sorte. Gli spiriti dei neri avrebbero
vagato per la Terra cercando di tornare al loro luogo originario
di eterno riposo e, lungo il cammino, avrebbero calpestato
Cedar Creek; alla fine l’intero cimitero sarebbe sprofondato.
Ovviamente, quel giorno nessuno le prestò ascolto.»
Doris addentò il panino. «Bene, per farla breve, i neri spostarono
i corpi in un altro cimitero, la ferrovia venne costruita e in seguito,
proprio come aveva detto Hettie, il cimitero di Cedar Creek
cominciò ad avere dei problemi. Dapprima ci furono solo delle
lapidi spezzate, come se fosse opera di qualche vandalo. Le
autorità, convinti che i responsabili fossero i seguaci di Hettie,
misero delle guardie all’ingresso. Ma gli incidenti continuarono a
verificarsi, nonostante la presenza delle guardie. E con il passare
degli anni le cose peggiorarono. Lei c’è stato, giusto?»
Jeremy annuì.
«Ha visto quello sfacelo, allora. Sembra che il terreno stia
cedendo, proprio come aveva predet-to Hettie. Dopo qualche
anno cominciarono a comparire anche le luci. E da allora la gente
ha creduto che si trattasse degli spiriti degli schiavi che
attraversavano il cimitero.»
«Oggi Cedar Creek non viene più utilizzato?»
«No, venne abbandonato definitivamente intorno al 1970, ma già
prima molti preferivano far seppellire altrove i loro cari. Adesso il
cimitero è di proprietà della contea, e nessuno si occupa più
della manutenzione.»
«Sono mai state condotte indagini per scoprire la causa del
presunto affondamento?»
«Non ne sono sicura, ma credo di sì. Un sacco di gente ricca
aveva dei parenti sepolti lì e l’ultima cosa che volevano era che la
tomba dei nonni venisse inghiottita dalla terra. Ho sentito dire che
sono arrivati degli esperti da Raleigh per studiare il fenomeno.»
«Si riferisce agli studenti della Duke?»
26
«Oh no, non loro, tesoro. Quelli erano soltanto dei ragazzi e
sono venuti qui l’anno scorso. No, parlo di molto tempo fa.
All’incirca quando è iniziato lo sprofondamento.»
«Però non sa che cosa scoprirono.»
«No, mi spiace.» Fece una pausa e nei suoi occhi si accese una
luce maliziosa. «Ma penso di avere una spiegazione abbastanza
plausibile.»
Jeremy la guardò. «E sarebbe?»
«L’acqua», rispose lei semplicemente.
«Perché è convinta che sia quella la ragione?»
«Non dimentichi che sono una rabdomante. Sento dov’è
l’acqua. E le dico che il terreno lì sta sprofondando a causa
dell’acqua presente nel sottosuolo. Ne sono sicura.»
«Non lo metto in dubbio», commentò Jeremy.
Doris scoppiò a ridere. «Lei è impagabile, signor Marsh. Lo sa
che la sua faccia assume un’espressione serissima quando
qualcuno le dice qualcosa a cui lei non vuole credere?»
«Davvero?»
«Le assicuro che è così. E io lo trovo carino. Mia madre non
avrebbe avuto difficoltà con lei. È
così facile capire ciò che pensa.»
«Se è vero, mi dica che cosa sto pensando in questo momento.»
Doris esitò. «Ecco, come sa, le mie doti sono altre. E poi, non
voglio spaventarla.»
«Avanti, mi spaventi pure.»
«E va bene.» Gli lanciò un’occhiata penetrante. «Allora,
proviamo. Ma si ricordi che io non ho il dono di leggere nel
pensiero. Mi capita di avvertire… delle sensazioni, di tanto in
tanto, e solo se si tratta di emozioni molto forti.»
«Ho capito», disse Jeremy stando al gioco. «Ma vorrei farle
notare che si sta cautelando.»
«Adesso la smetta.» Doris gli prese le mani. «Posso?»
Jeremy annuì. «Prego.»
«Ora si concentri su qualcosa di molto personale di cui io non
posso essere a conoscenza.»
«Va bene.»
Lei gli strinse le mani. «Sia serio. Finora ha soltanto giocato con
me.»
me.»
«D’accordo», rispose lui. «Penserò a qualcosa di personale.»
Jeremy chiuse gli occhi. Pensò al motivo per cui Maria alla fine lo
aveva lasciato e, per un minuto o due, Doris non disse niente. Si
limitò a rimanere lì a fissarlo in silenzio, come se volesse in-durlo
a fornirle qualche elemento su cui lavorare.
Lui aveva già fatto quell’esperimento. Innumerevoli volte. Ne
sapeva abbastanza per starsene zitto e, visto che lei non parlava,
capì di aver vinto. All’improvviso Doris sussultò – un gesto
scontato, pensò Jeremy, che faceva parte della messinscena – e
subito dopo gli lasciò le mani.
Lui riaprì gli occhi. «Allora?»
Doris ora lo guardava in maniera strana. «Niente», rispose.
«Ah», osservò Jeremy. «Immagino che non fosse in vena, oggi,
eh?»
«Come le ho detto, sono una rabdomante.» Sorrise, quasi a
scusarsi. «Ma posso dirle con certezza che lei non aspetta un
bambino.»
Lui ridacchiò. «Devo riconoscere che ci ha azzeccato.»
Doris gli sorrise prima di abbassare lo sguardo sul tavolo. Poi
rialzò la testa. «Mi spiace, non avrei dovuto farlo. Era fuori
rialzò la testa. «Mi spiace, non avrei dovuto farlo. Era fuori
luogo», disse.
«Non importa», replicò lui, sincero.
«No», insisté lei. Lo guardò negli occhi e gli prese di nuovo la
mano, stringendogliela dolcemente. «Mi spiace davvero.»
Jeremy non sapeva bene come reagire, ma rimase colpito
sull’espressione di compassione sul viso di lei.
Venne assalito dall’irritante sensazione che avesse indovinato più
di quanto potesse verosimil-mente sapere della sua vita privata.
27
Le facoltà paranormali, le premonizioni e le intuizioni sono
semplicemente il prodotto dell’inte-razione tra esperienza, buon
senso e conoscenze acquisite. La maggior parte delle persone
sottova-luta la quantità di informazioni accumulate nel tempo, e il
cervello umano è in grado di stabilire correlazioni come
nessun’altra specie – o macchina – sa fare.
La nostra mente, tuttavia, impara a scartare la maggior parte
delle informazioni ricevute dal momento che, per orientare le
azioni, non serve ricordare tutto. Naturalmente, alcune persone
hanno una memoria migliore di altre – come dimostrano i test – e
si sa che questa funzione può essere esercitata. Anche se tutti
registriamo il 99,99 per cento delle esperienze della nostra vita, è
registriamo il 99,99 per cento delle esperienze della nostra vita, è
proprio quello 0,01 per cento in più a fare la differenza tra un
individuo e l’altro. In alcuni soggetti ciò si manifesta nella
capacità di ricordare i dettagli più banali, o di eccellere come
studiosi o scienziati, o ancora di interpretare accuratamente dati
finanziari e diventare milionari. In altri, si sviluppa l’abilità di
leggere nella mente del prossimo e queste persone – con la loro
dote innata di attingere ai ricordi, al buon senso e all’esperienza,
e di correlare le informazioni conservate in maniera immediata e
accurata – sembrano avere poteri soprannaturali.
Ma quello che aveva fatto Doris andava in qualche modo oltre.
Lei sapeva, pensò Jeremy. O almeno, questa fu la sua prima
sensazione, finché non si aggrappò a una spiegazione logica di
quanto era accaduto.
E infatti non era successo proprio niente, si disse per rassicurarsi.
Doris non aveva indovinato; era stato solo il suo sguardo a fargli
credere che lei avesse intuito cose che non poteva conoscere. E
quella convinzione veniva da lui stesso, senza che ci fossero
prove in tal senso.
La scienza possedeva sempre le risposte, si disse ancora. Ma
nonostante tutto, Doris gli dava l’impressione di essere in buona
fede. E se credeva nelle proprie capacità, che male c’era? A lei
probabilmente sembravano misteriose.
Ancora una volta, la donna parve leggergli nel pensiero.
«Bene, a quanto pare le ho dato la conferma che sono pazza,
eh?»
«No, affatto», rispose Jeremy.
Lei afferrò il panino. «In ogni caso, visto che siamo qui per
gustarci un buon pranzo, forse sarà meglio comportarci da
persone normali per un po’. C’è qualcos’altro che posso
raccontarle?»
«Mi parli della città di Boone Creek», disse lui.
«Che cosa vuole sapere?»
«Mah, qualunque cosa. dato che dovrò trattenermi qui per
qualche giorno, tanto vale che impari a conoscere meglio il
posto.»
Passarono la mezz’ora seguente a parlare… be’, in realtà fu
quasi sempre Doris a farlo. Ancora più di Tully, lei sembrava
essere al corrente di tutto ciò che accadeva in città. e non grazie
alle sue presunte doti – per sua stessa ammissione –, ma perché
le notizie viaggiavano velocemente in una piccola comunità come
quella.
Jeremy venne così a sapere chi si vedeva con chi, con chi era
ostico lavorare, e anche che il re-verendo della locale chiesa
ostico lavorare, e anche che il re-verendo della locale chiesa
pentecostale aveva una relazione con una sua parrocchiana. Ma
la cosa più importante, almeno secondo Doris, era che se ti si
rompeva la macchina, non dovevi assolutamente chiamare il
servizio di carroattrezzi di Trevor, perché a qualunque ora del
giorno lui era ubriaco.
«Quell’uomo è un pericolo sulle strade», dichiarò la donna. «Lo
sanno tutti, ma dato che suo padre è sceriffo, nessuno interviene.
In fondo, però, non c’è da sorprendersi. Anche lo sceriffo
Wanner ha i suoi problemi, con i debiti di gioco.»
«Ah», commentò Jeremy come se fosse al corrente degli
avvenimenti. «Giusto.»
Alla fine rimasero entrambi in silenzio e lui guardò distrattamente
l’ora.
«Immagino che debba andare», disse Doris.
Jeremy recuperò il registratore e lo spense prima di rimetterlo in
tasca. «Già. Volevo passare in biblioteca prima che chiuda.»
«Bene, il pranzo glielo offro io. Non capita tutti i giorni di avere
una celebrità da queste parti.»
28
«Una breve apparizione a Primetime non fa di nessuno una
«Una breve apparizione a Primetime non fa di nessuno una
celebrità.»
«Oh, io mi riferivo alla sua rubrica.»
«L’ha letta?»
«Tutti i mesi. Mio marito, che Dio lo benedica, aveva la passione
per il fai-da-te e leggeva sempre Scientific American. Dopo la
sua morte, non me la sono sentita di interrompere
l’abbonamento.
E devo dire che lei è un tipo perspicace.»
«La ringrazio», disse lui.
Doris si alzò da tavola e lo accompagnò verso la porta. I pochi
clienti rimasti girarono lo sguardo verso di loro. Va da sé che
avevano ascoltato ogni parola e non appena i due furono usciti
dal locale, cominciarono a borbottare tra di loro. A detta di tutti,
si trattava di un avvenimento eccezionale. «Doris ha detto di
averlo visto in TV?» chiese uno.
«Mi sembra che abbia partecipato a un talk show.»
«Di sicuro non è un commercialista», aggiunse un altro. «L’ho
sentito parlare di un articolo di giornale.»
«Chissà come fa Doris a conoscerlo. Voi l’avete capito?»
«A me pare un tipo simpatico.»
«Io trovo che sia proprio un bel ragazzo», dichiarò Rachel.
Nel frattempo, Jeremy e Doris, inconsapevoli dell’agitazione
creata all’interno del locale, si erano fermati sulla veranda.
«Alloggia al Greenleaf?» chiese Doris. E dopo aver ricevuto un
cenno di assenso, proseguì: «Sa dove si trova? È in campagna».
«Ho una cartina», rispose Jeremy con il tono del viaggiatore
esperto. «Sono sicuro che lo troverò. Piuttosto, può dirmi come
arrivare alla biblioteca?»
«Certo», rispose Doris. «È proprio qui dietro.» Indicò la strada.
«Vede quella casa di mattoni?
Con i tendoni blu?»
Jeremy annuì.
«Giri a sinistra e arrivi fino allo stop. Poi svolti a destra nella
prima via e troverà la biblioteca poco più avanti. È un grande
edificio bianco. In origine era Casa Middleton, dato che
apparteneva a Horace Middleton prima di essere acquistata
dalla contea.»
«Non è mai stata costruita una nuova biblioteca?»
«Questa è una piccola città, signor Marsh, e poi c’è un sacco di
spazio lì. Vedrà.»
Jeremy le tese la mano. «Grazie. Mi è stata di grande aiuto. E il
pranzo era delizioso.»
«Faccio del mio meglio.»
«Le dispiace se magari torno a farle altre domande? Mi pare che
lei sia al corrente di molte co-se.» «Non si faccia scrupoli, e
venga pure tutte le volte che vuole. Sarò sempre a sua
disposizione, ma le chiedo soltanto di non scrivere nulla che ci
faccia sembrare un branco di sempliciotti. Molta gente, me
compresa, ama questo posto.»
«Tutto ciò che scrivo corrisponde alla vertità.»
«Lo so», disse lei. «È per questo che le ho mandato la lettera.
Ha una faccia affidabile, sono sicura che metterà a tacere la
leggenda una volta per tutte e nel modo migliore.»
Jeremy la guardò stupito. «Lei non crede che ci siano dei
fantasmi a Cedar Creek?»
«Oh, cielo, no. Io so che non ci sono spiriti lì. Lo ripeto da anni,
ma non mi ascolta nessuno.»
«Allora perché mi ha chiesto di venire qui?»
«Allora perché mi ha chiesto di venire qui?»
«Perché la gente non capisce che cosa stia accadendo e
continuerà a credere nei fantasmi finché non avrà trovato una
spiegazione. Vede, da quando è stato pubblicato quell’articolo
sugli studenti della Duke, il sindaco ha abbracciato l’idea come
un forsennato e molti hanno cominciato ad arrivare qui sperando
di vedere le luci. Il cimitero è già pericolante e la situazione sta
peggiorando.»
Riprese fiato prima di continuare. «Ovviamente, lo sceriffo non fa
niente contro i ragazzotti che bazzicano lì o i forestieri che si
aggirano tra le tombe senza un briciolo di sale in zucca. Lui e il
sin-29
daco sono compagni di caccia e poi quasi tutti qui, eccetto me,
ritengono che fare pubblicità ai fantasmi sia una buona
opportunità per il turismo. Da quando sono state chiuse la
tessitura e la miniera, la città si va impoverendo e, secondo me,
loro vedono in questa trovata una specie di ancora di salvezza.»
Jeremy guardò la sua macchina e poi si girò di nuovo verso
Doris, pensando a quello che gli aveva detto. Era perfettamente
logico, ma…
«Si rende conto che mi sta dando una versione diversa rispetto a
quello che ha scritto?»
«Niente affatto», ribatté lei. «Io le ho scritto solo che c’erano
«Niente affatto», ribatté lei. «Io le ho scritto solo che c’erano
delle luci misteriose nel cimitero attribuite a una vecchia
leggenda, che la maggior parte della gente pensa siano coinvolti
dei fantasmi e che gli esperti della Duke non erano riusciti a
scoprire la vera origine del fenomeno. Questo è tutto vero.
Rilegga la mia lettera, se non mi crede. Io non mento, signor
Marsh. Potrò sembrare stramba, ma non sono una bugiarda.»
«Allora perché vuole che io discrediti la storia?»
«Perché non è giusto», rispose lei semplicemente. «Gente che
passa di lì in continuazione, turisti che si accampano nelle
vicinanze… non è rispettoso nei confronti dei morti, anche se ora
il cimitero è abbandonato. E inserire quella curiosità in
un’iniziativa meritoria come il Giro delle dimore storiche è del
tutto sbagliato. Ma attualmente sono una voce che gira nel
deserto.»
Jeremy rifletté sulle sue parole, poi infilò le mani in tasca. «Posso
essere franco?» chiese.
La donna annuì e Jeremy disse: «Se lei è convinta che sua madre
fosse una veggente e di essere in grado di cercare l’acqua e di
predire il sesso dei nascituri, allora mi sembra…»
Laciò la frase a metà e lei lo fissò.
«Che dovrei essere la prima a credere ai fantasmi?»
Jeremy annuì.
«In effetti, è così. Solo che non credo ce ne siano in quel
cimitero.»
«E perché no?»
«Perché ci sono stata e non ho avvertito nessuna presenza
sovrannaturale.»
«Sa fare anche questo, allora?»
Lei scrollò le spalle senza rispondere alla domanda. «Posso
essere franca io, adesso?»
«Certo.»
«Un giorno, imparerà qualcosa che la scienza non può spiegare.
E quando accadrà la sua vita cambierà in maniera per lei
impensabile.»
Lui sorrise. «È una promessa?»
«Sì», rispose la donna. Fece una pausa, guardandolo negli occhi.
«Devo dire che è stato un piacere pranzare con lei. Non mi
capita spesso di stare in compagnia di un uomo così affascinante.
Mi ha fatto quasi tornare giovane.»
«Anche per me è stato un vero piacere.»
Si voltò per andarsene. Durante il pranzo il cielo si era
rannuvolato e, pur non essendo minaccioso, dava l’impressione
che l’inverno fosse alle porte. Jeremy si tirò su il bavero mentre
si incamminava verso la macchina.
«Signor Marsh?» lo chiamò Doris da dietro.
Jeremy si voltò. «Sì?»
«Mi saluti Lex.»
«Lex?»
«Sì», confermò lei. «Lavora nella biblioteca. Chieda al banco
delle informazioni.»
Jeremy sorrise. «Lo farò.»
30
4
La biblioteca si rivelò un’imponente costruzione gotica, diversa
da tutti gli altri edifici cittadini.
Sembrava fosse stata prelevata direttamente da una collina
rumena e trapiantata a Boone Creek da qualche spirito
impertinente.
Occupava quasi tutto l’isolato e la sua facciata a due piani era
adornata di finestre lunghe e strette, un tetto a punta molto
inclinato e un portone di legno ad arco, con tanto di giganteschi
battenti.
Edgar Allan Poe ne sarebbe stato entusiasta, anche se la gente
del luogo aveva fatto quello che poteva per ingentilire la severa
architettura. L’esterno di mattoni – senza dubbio in origine di un
colore bruno rossastro – era stato tinteggiato di bianco, le
finestre avevano imposte nere e il vialetto d’ingresso era
fiancheggiato da aiole di violette che circondavano anche il
pennone portabandiera. Una simpatica targa incisa a caratteri
dorati recitava: BENVENUTI ALLA BIBLIOTECA DI
BOONE CREEK. Nonostante gli sforzi, però, l’insieme era
stonato. Era come andare a trovare un ragazzo ricco nel suo
elegante palazzo in città, pensò Jeremy, ed essere accolti sulla
porta da un maggiordomo con pal-loncini e pistola a spruzzo.
Nell’allegro ingresso giallo pallido bene illuminato – se non altro
l’edificio era coerente nella sua incoerenza – si trovava un banco
a L con il lato più lungo rivolto verso l’interno, dove lui scorse
un’ampia stanza a vetri riservata ai bambini. A sinistra c’erano i
bagni e a destra, oltre un’altra vetrata, si apriva quella che
doveva essere la sala principale. Jeremy salutò con un cenno del
capo e della mano la signora anziana dietro alla scrivania. Lei gli
sorrise – ricambiando il saluto prima di tornare a immergersi nella
lettura – e lui superò la pesante porta a vetri fiero della propria
capacità di adeguarsi rapidamente alle abitudini locali.
La sala principale, tuttavia, gli causò un moto di delusione. Sotto
i neon abbaglianti c’erano solo sei scaffali di libri, raggruppati al
centro di un ambiente poco più grande del suo appartamento. Ai
lati della porta erano collocati due computer antiquati, mentre
sulla destra in fondo c’era un angolo lettura con una esigua
collezione di periodici. Nella stanza erano distribuiti anche
quattro piccoli tavoli e Jeremy vide solo tre persone presenti in
sala, compreso un anziano con un apparecchio acusti-co che
sistemava i volumi sugli scaffali. Mentre dava un’occhiata
intorno, gli venne lo sconfortante dubbio di aver acquistato più
libri in vita sua di quelli che c’erano nella biblioteca.
Si avvicinò al banco delle informazioni, ma senza troppa
sorpresa lo trovò deserto. Si appoggiò al piano del banco, in
attesa di Lex. Immaginò fosse l’uomo canuto che aveva visto
sistemare i libri, il quale, tuttavia, non accennò a raggiungerlo.
sistemare i libri, il quale, tuttavia, non accennò a raggiungerlo.
Jeremy guardò l’ora. Dopo un paio di minuti, la guardò
nuovamente.
31
Trascorsi altri due minuti, si schiarì rumorosamente la voce e
l’uomo finalmente si accorse di lui. Jeremy lo salutò, l’altro lo
salutò a sua volta e poi tornò a sistemare i libri negli scaffali. Era
evidente che non voleva farsi travolgere dallo stress
dell’iperattività. L’efficienza del Sud era leggen-daria, si disse
Jeremy. E quello un posto davvero incredibile.
Nel piccolo ufficio affollato al primo piano, lei guardava fuori
dalla finestra. Sapeva che sarebbe arrivato, lo aspettava. Doris le
aveva telefonato poco prima raccontandole dell’uomo in nero di
New York che era venuto per scrivere un pezzo sulla storia dei
fantasmi del cimitero.
Scrollò la testa. C’era da scommetterci che lui avrebbe dato
retta a Doris, si disse. Quando si metteva in mente qualcosa,
sapeva essere piuttosto persuasiva, senza farsi troppi problemi
sulle possibili ripercussioni che un articolo del genere avrebbe
avuto. Lei aveva già letto quello che scriveva il signor Marsh e
conosceva esattamente il suo modus operandi. Non gli sarebbe
bastato dimostrare che i fantasmi non c’entravano niente – un
fatto su cui non c’erano dubbi – perché no, il signor Marsh non
si sarebbe fermato lì. Avrebbe intervistato la gente con quei suoi
si sarebbe fermato lì. Avrebbe intervistato la gente con quei suoi
modi accattivanti, li avrebbe indotti a confidarsi con lui e poi
avrebbe fatto una cernita delle loro dichiarazioni prima di rigirare
la verità come meglio gli pareva. Una volta concluso il lavoro di
taglia e cuci che sarebbe passato per un articolo, i lettori di tutto
il paese si sarebbero fatti l’opinione che gli abitanti di Boone
Creek fossero una massa di creduloni, sciocchi e superstiziosi.
Oh, no. non le piaceva affatto che lui fosse lì.
Chiuse gli occhi, rigirandosi distrattamente tra le dita alcune
ciocche dei suoi capelli castani. Il fatto era che nemmeno a lei
piaceva che un sacco di gente estranea si aggirasse per il
cimitero. Doris aveva ragione: era una mancanza di rispetto e da
quando erano arrivati quei ragazzi della Duke la situazione era
precipitata. Ma perché non avevano continuato a tenere la cosa
sotto silenzio?
Quelle luci comparivano da decenni e, pur essendone tutti a
conoscenza, nessuno ci badava. Certo, di tanto in tanto capitava
che qualcuno andasse a dare un’occhiata – soprattutto dopo che
si erano fermati a bere al Lookilu, o gli adolescenti – ma le
magliette con le scritte? Le tazze da tè che raffiguravano i
fantasmi? Le cartoline scadenti? L’accoppiata con il giro delle
dimore storiche?
Non capiva bene il motivo di tutte quelle iniziative. E poi, perché
era tanto importante incre-mentare il turismo nella zona? Certo, i
soldi attiravano parecchio, ma la gente non abitava lì perché
voleva diventare ricca. La maggior parte di loro, perlomeno.
C’era sempre qualcuno pronto a riem-pirsi le tasche, a
cominciare dal sindaco. Ma lei aveva sempre pensato che i suoi
concittadini vives-sero a Boone Creek per i suoi stessi motivi:
l’emozione che ti prendeva quando il sole al tramonto
trasformava il fiume Pamlico in un nastro dorato, i vicini di casa
gentili e disponibili, il fatto che i bambini potevano scorrazzare
all’aperto e che tutti uscivano di notte senza nessun pericolo. In
un mondo sempre più incalzato dagli impegni, Boone Creek era
una cittadina che non aveva nemmeno provato ad adeguarsi alla
modernità e in fondo era proprio questo a renderla tanto
speciale.
Lei amava tutto di quel luogo: il profumo di resina e di mare nelle
prime ore del mattino in primavera, le afose serate estive che
rendevano la pelle lucida, il colore acceso delle foglie in autunno.
Ma soprattutto, amava la gente e non riusciva a immaginarsi di
vivere altrove. Si fidava delle persone che conosceva, parlava
con loro, le piacevano. Ovviamente, molti suoi coetanei non la
pensavano come lei e, dopo essere partiti per andare
all’università, erano andati ad abitare da un’altra parte.
Anche lei si era trasferita per qualche tempo, ma non aveva mai
abbandonato l’idea di tornare; e aveva fatto bene, si disse,
perché da un paio d’anni era in ansia per la salute di Doris. E poi
sapeva anche che avrebbe finito per fare la bibliotecaria, come
sua madre, nella speranza di rendere la città orgogliosa di
quell’istituzione.
No, la sua non era una professione brillante e nemmeno
remunerativa, ammise. La biblioteca era un cantiere sempre
aperto e la prima impressione che dava era ingannevole. Il
pianterreno ospitava solo la sezione di narrativa contemporanea,
mentre al primo piano c’erano i classici, altri titoli di autori
contemporanei e collezioni uniche. Dubitava che il signor Marsh
si fosse reso conto che la biblioteca occupava anche il piano
superiore, dato che le scale si trovavano sul retro dell’edificio,
ac-32
canto alla sala per i bambini. Uno degli svantaggi di occupare
una dimora privata era che l’architettura non era pensata per
favorire l’accesso al pubblico. Ma quel posto le era congeniale.
Il suo ufficio al piano superiore era quasi sempre tranquillo e si
trovava vicino a una delle sezio-ni che preferiva. In una saletta
adiacente erano conservati i titoli rari, volumi che lei aveva
acquisito grazie a donazioni, vendite all’asta e visite a librerie e
mercanti in tutto lo stato, portando avanti un progetto iniziato da
sua madre. Aveva anche incrementato una collezione di vecchi
manoscritti e mappe storiche, alcuni risalenti a prima della Guerra
Civile. Era questa la sua passione. Era sempre alla ricerca di
qualcosa di speciale e non disdegnava di ricorrere al fascino
personale, alle lusinghe o alle suppliche per ottenere ciò che
personale, alle lusinghe o alle suppliche per ottenere ciò che
voleva. Se non funzionava, allora accennava alla possibilità di
deduzioni fiscali e – essendosi impegnata a fondo per coltivare
contatti con commercialisti di tutto il Sud – spesso riceveva
l’opera che le interessava prima ancora che altre biblioteche
venissero a conoscenza della sua disponibilità sul mercato. Pur
non avendo le possibilità economiche della Duke, della Wake
Forest o della University of North Carolina, la sua biblioteca
godeva di crescente considerazione nello stato, se non nel paese.
Sì, lei la considerava la sua biblioteca, così come quella era la
sua città. E adesso l’attendeva un forestiero intenzionato a
scrivere una storia che avrebbe potuto danneggiare la sua gente.
Oh, l’aveva visto arrivare, eccome. L’aveva guardato scendere
dalla macchina e dirigersi spedito verso l’ingresso con quella
tracotante camminata metropolitana. Era solo l’ennesimo
esemplare di una razza giunta da qualche luogo lontano, gente
convinta di possedere una comprenzione più profonda del
mondo reale. Qualche anno prima si era invaghita di uno che la
pensava così, e ora era decisa a non farsi contaggiare più da
simili idee.
Un cardellino si posò sul davanzale della finestra. Lo osservò
qualche istante, schiarendosi le idee, poi sospirò. D’accordo, si
disse, era meglio scendere a parlare con il signor Marsh di New
York. Dopo tutto, stava aspettando proprio lei. Si era spinto fin
lì e l’ospitalità del Sud – oltre che il suo incarico – le imponeva di
lì e l’ospitalità del Sud – oltre che il suo incarico – le imponeva di
aiutarlo a trovare quello che cercava. E magari così sarebbe
riuscita a tenerlo d’occhio. Avrebbe filtrato le informazioni in
modo da fargli apprezzare i lati positivi della vita in una piccola
comunità.
Sorrise. Sì, poteva gestire il signor Marsh. E poi doveva
ammettere che era un uomo piuttosto attraente, anche se non ci
si poteva fidare di lui.
Jeremy Marsh aveva l’aria annoiata.
Passeggiava lungo uno dei corridoi tra gli scaffali, con le braccia
conserte, esaminando i titoli di autori contemporanei. Di tanto in
tanto corrugava la fronte, come se si domandasse perché mai
non c’era niente di Dickens, Chaucer o della Austen. Se glielo
avesse chiesto, si disse lei, sarebbe stato divertente rispondergli
con un «Chi?» per vedere la sua reazione. Conoscendolo –
anche se ammetteva di non conoscerlo affatto, e che la sua era
una semplice supposizione –, sapeva già che l’avrebbe fissata
senza spiccare parola com’era accaduto qualche ora prima al
cimitero. Gli uomini, pensò.
Sempre così prevedibili.
Si sistemò il maglione, ritardando di un altro istante il momento
dell’incontro. Sii professionale, si ammonì avanzando verso di lui.
Dopo tutto sei in missione.
«Suppongo che stia cercando me», esordì, sforzandosi di
sorridere.
Udendola, Jeremy alzò lo sguardo e per un attimo parve come
paralizzato. E poi, d’un tratto, il suo viso si illuminò di un sorriso
di riconoscimento. Era un sorriso amichevole – con quella
fossetta impertinente – ma un po’ troppo esperto e non riusciva
a celare la determinazione negli occhi.
«Lei è Lex?» le chiese.
«È il diminutivo di Lexie. Lexie Darnell. Lo usa Doris.»
«È la bibliotecaria?»
«Quando non mi aggiro per i cimiteri ignorando gli uomini che mi
fissano, ci provo.»
«Chessorpresa», disse lui, cercando di imitare l’accento di Doris.
Lei andò a raddrizzare alcuni libri sullo scaffale che l’uomo aveva
appena esaminato.
33
«Il suo accento non è quello giusto, signor Marsh», disse.
«Sembra che stia contando le lettere per un cruciverba.»
Lui le sorrise disinvolto, per nulla turbato dalla sua osservazione.
Lui le sorrise disinvolto, per nulla turbato dalla sua osservazione.
«Crede?» chiese.
Decisamente un dongiovanni, pensò lei.
Continuò a raddrizzare i libri. «Bene, mi dica, signor Marsh, in
che cosa posso esserle utile?
Suppongo che stia cercando notizie sul cimitero.»
«La mia fama mi precede.»
«Doris ha telefonato per avvisarmi del suo arrivo.»
«Ah», fece lui. «Avrei dovuto immaginarlo. Una donna
notevole.»
«È mia nonna.»
Chessorpresa, pensò Jeremy. Circostanza interessante. «Le ha
parlato anche del nostro delizioso pranzetto?» domandò.
«Veramente, no.» Lei si scostò una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, pensando che la sua fossetta avrebbe fatto venire
voglia a un bambino di infilarci il dito. Finì di sistemare i libri e si
voltò a guardarlo, parlando con voce ferma. «Senta, che ci creda
o meno, ho parecchio da fare», asserì.
«Devo esaminare una montagna di documenti entro oggi. Che
genere di informazioni stava cercando?»
Lui scrollò le spalle. «Qualunque libro riguardi la storia del
cimitero e della città. quando sono iniziate le luci. Tutti gli studi
fatti in passato. Articoli che citano la leggenda. Vecchie mappe.
Notizie su Riker’s Hill e topografie. Cronache locali. Roba del
genere.» Fece una pausa, scrutando i suoi occhi violetti. Erano
davvero insoliti.
«Devo ammettere che è sorprendente, non trova?» chiese,
appoggiandosi allo scaffale.
Lexie lo fissò. «Come, scusi?»
«Incontrarla prima al cimitero e ora qui. E poi il fatto che quella
lettera fosse proprio di sua nonna. Bizzarra coincidenza, non
crede?»
«Devo confessare che non mi colpisce molto.»
Jeremy non si lasciò scoraggiare. Era molto difficile che
succedesse, soprattutto quando le cose si facevano interessanti.
«Bene, visto che sono appena arrivato, forse lei potrebbe
mostrarmi dove va la gente da queste parti per rilassarsi un po’.
Voglio dire, c’è un posto dove bere un caffè? Oppure mangiare
un boccone?» Fece una pausa. «Magari più tardi, quando avrà
finito di lavorare?» domandò.
«Solo se le va.»
«Temo di dover declinare l’invito», rispose Lexie, ritrovando un
contegno. «Ma grazie lo stesso.» Lo guardò negli occhi finché lui
alzò le braccia in segno di resa.
«Va bene, ho capito», disse sfacciatamente. «Ma non può
biasimarmi se ci ho provato.» Sorrise, di nuovo con quella sua
fossetta ammiccante. «Sarebbe possibile iniziare subito le
ricerche? Se non è troppo impegnata con le pratiche da sbrigare,
s’intende. Posso sempre tornare domani.»
«Vorrebbe cominciare da qualcosa in particolare?»
«Speravo di poter leggere l’articolo pubblicato sul giornale
locale. Non ci sono ancora riuscito.
Non ce l’avrebbe qui, per caso?»
Lei annuì. «Dev’essere nella sala dei microfilm. Abbiamo
fotografato tutte le edizioni degli ultimi anni, perciò non sarà
difficile recuperarlo.»
«Magnifico», disse lui. «E notizie sulla città in genere?»
«Sono nello stesso posto.»
Lui si guardò intorno, incerto su dove andare. Lei si incamminò
verso l’atrio.
verso l’atrio.
«Da questa parte, signor Marsh. Troverà di sopra quello che le
serve.»
«C’è un di sopra?»
Lexie si voltò. «Se mi segue, prometto che glielo mostrerò.»
Jeremy dovette affrettare il passo per starle dietro. «Le spiace se
le faccio una domanda?»
Lexie aprì la porta a vetri. «Niente affatto», rispose in tono
neutro.
34
«Perché si trovava al cimitero stamattina?»
Invece di rispondergli, lei si limitò a fissarlo impassibile.
«Ecco, la mia era semplice curiosità», riprese Jeremy. «Ho
l’impressione che non molta gente vada là a trovare i parenti.»
«Lei continuò a tacere e, nel silenzio, la curiosità di lui aumentò
sino a trasformarsi in imbarazzo. «Non ha intenzione di
rispondermi?» chiese.
Lei sorrise e, cogliendolo di sorpresa, gli strizzò l’occhio prima di
uscire dalla sala. «Le ho detto che poteva farmi una domanda,
uscire dalla sala. «Le ho detto che poteva farmi una domanda,
signor Marsh, non che avrei risposto.»
Mentre si incamminava di nuovo davanti a lui, Jeremy non
riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Gran bel pezzo di ragazza,
non c’era che dire. Sicura di sé e affascinante, anche se aveva
decli-nato il suo invito a uscire con lui.
Forse, tutto sommato, Alvin aveva ragione, pensò. Forse le
donne del Sud possedevano veramente qualcosa di particolare
che poteva far impazzire un uomo.
Attraversarono l’ingresso, superarono la sala per i bambini e
Lexie lo condusse su per una scala.
Giunto in cima, Jeremy si guardò intorno.
Chessorpresa, pensò di nuovo.
Quel posto aveva ben altro che qualche scaffale traballante con
dei volumi appena pubblicati.
Molto altro. E anche un’intensa atmosfera gotica, con tanto di
odore di muffa e un’aria da biblioteca privata. Con le pareti
rivestite di quercia, i pavimenti di mogano e i tendaggi damascati,
la vasta sala aperta al pubblico era ben diversa di quella al
pianterreno. Negli angoli erano sistemate poltrone im-bottite e
imitazioni di lampade Tiffany. Sulla parete dirimpetto c’era un
caminetto con sopra un dipinto e le finestre, per quanto strette,
caminetto con sopra un dipinto e le finestre, per quanto strette,
facevano filtrare la giusta dose di luce per conferire al tutto un
aspetto accogliente e domestico.
«Adesso capisco», disse Jeremy. «Quello di sotto era solo
l’antipasto. Il vero banchetto comincia adesso.»
Lei annuì. «La maggior parte dei nostri visitatori viene qui in
cerca di titoli recenti di autori noti e quindi ho allestito l’area al
pianterreno apposta per loro. La sala di sotto è piccola perché
prima del trasferimento ospitava i nostri uffici.»
«E ora dove si trovano?»
«Da quella parte», rispose lei, indicando oltre lo scaffale più
lontano. «Accanto alla sala dei libri rari.»
«Wow», esclamò lui. «Sono impressionato.»
Lei sorrise. «Venga, le faccio fare un giro e intanto le racconto la
storia di questo edificio.»
Nei minuti successivi chiacchierarono amabilmente aggirandosi
tra gli scaffali. Jeremy venne a sapere che la casa era stata
edificata nel 1874 da Horace Middleton, un capitano che aveva
fatto fortuna trasportando legname e tabacco. Middleton l’aveva
fatta costruire per la moglie e i suoi sette figli, ma purtroppo non
ci aveva mai abitato. Poco dopo il suo completamento la moglie
era morta e lui aveva deciso di trasferirsi a Wilmington con i figli.
era morta e lui aveva deciso di trasferirsi a Wilmington con i figli.
L’edificio era rimasto vuoto per molto tempo, poi era stato
occupato da un’altra famiglia fino agli anni Cinquanta, quando
infine era stato venduto alla Historical Society, che
successivamente l’aveva ceduto alla contea per destinarlo a sede
della biblioteca.
Jeremy ascoltava attentamente. Camminavano piano, e di tanto
in tanto Lexie si interrompeva per mostrargli i suoi libri preferiti.
Ben presto si rese conto che era molto più preparata di lui,
specialmente sui classici, ma a pensarci bene, era logico. Perché
sarebbe diventata bibliotecaria se non avesse amato i libri?
Come se gli avesse letto nel pensiero, lei si fermò e indicò con il
dito una targhetta su uno scaffale.
«Questa sezione forse riguarda di più il suo campo, signor
Marsh.»
35
Lui guardò la targhetta su cui c’era scritto
SOPRANNATURALE/MAGIA. Rallentò senza fermarsi,
leggendo soltanto qualche titolo, compreso uno sulle profezie di
Michel de Nostredame. Nostradamus, com’è universalmente
conosciuto, pubblicò nel 1555 cento profezie straordinariamente
vaghe in un libro intitolato Centurie, il primo di dieci da lui scritti.
Delle mille profezie di Nostradamus, soltanto una cinquantina
sono state ritenute attendibili a tutt’oggi, attestando così la sua
percentuale di successo a un 5 per cento.
percentuale di successo a un 5 per cento.
Jeremy infilò le mani in tasca. «Potrei darle qualche valida
indicazione in materia, se vuole.»
«Volentieri. Purtroppo in questo caso devo ammettere di aver
bisogno di aiuto.»
«Ha mai letto questa roba?»
«No. francamente non è un argomento che mi interessi molto.
Cioè, sfoglio i volumi quando arrivano, guardo le illustrazioni e
leggo qua e là per vedere se le conclusioni sono appropriate, ma
niente di più.»
«Buona idea», riconobbe lui. «Trovo che sia un ottimo metodo.»
«Comunque, alcune persone in città non vogliono che la
biblioteca conservi libri su questi argomenti, soprattutto quelli
sulla magia. Temono che possano avere un influsso negativo sui
giovani.»
«È così. Sono tutte bugie.»
Lei sorrise. «Può darsi, ma le sfugge il punto. Loro vogliono che
siano eliminati perché ritengono che sia possibile evocare il male
e che i ragazzi, leggendo queste storie, possano incidentalmente
ispirare Satana a venire a creare scompiglio nella nostra città.»
Jeremy annuì. «Gioventù impressionabile nel religioso Midwest.
Ha senso.»
«Non vada in giro a riferire che gliel’ho detto io, però. È chiaro
che questa è una conversazione assolutamente privata,
d’accordo?»
Jeremy alzò due dita. «Parola di scout.»
Camminarono in silenzio per qualche istante. Il sole invernale
faticava a bucare le nubi grigie e Lexie si fermò ad accendere
alcune lampade. Un alone giallastro si diffuse per la stanza.
Mentre si rialzava, lui colse una traccia del suo profumo floreale.
Indicò distrattamente il ritratto appeso sopra il caminetto. «Chi
è?»
Lexie seguì il suo sguardo. «Mia madre», rispose.
Jeremy le rivolse un’occhiata interrogativa e lei fece un profondo
respiro.
«Dopo l’incendio della vecchia biblioteca, nel 1964, mia madre
si assunse l’incarico di trovare un edificio per ricostruirne una
nuova, un’impresa giudicata irrealizzabile da tutti gli altri. Aveva
solo ventidue anni, ma cominciò a sommergere di richieste
contea e stato per trovare i fondi, organizzò vendite di
beneficenza e bussò personalmente alle porte degli imprenditori
locali, implorando-li finché non si decidessero a firmarle un
assegno. Impiegò anni, ma alla fine ci riuscì.»
Mentre parlava, Jeremy guardava alternativamente lei e il ritratto.
C’era una somiglianza che avrebbe dovuto notare subito. In
particolare negli occhi. Le sue iridi violette lo avevano colpito
subito, ma adesso, guardandola più da vicino, notò anche una
sfumatura di azzurro sul contorno che chissà perché gli ricordava
il colore della gentilezza. E sebbene il pittore avesse cercato di
rendere quella sfumatura, la realtà superava l’arte in bellezza.
Quando Lexie ebbe finito il racconto, si scostò una ciocca di
capelli dietro l’orecchio. Lo faceva spesso, notò Jeremy. Forse
era un tic nervoso. Il che significava, evidentemente, che in quel
momento era lui a innervosirla. Buon segno.
Si chiarì la voce. «Dev’essere una donna affascinante», osservò.
«Mi piacerebbe conoscerla.»
Il sorriso di Lexie vacillò leggermente, come se volesse
aggiungere qualcosa, ma poi si limitò a scrollare la testa. «Le
chiedo scusa», disse. «Abbiamo divagato abbastanza. Lei ha del
lavoro da sbrigare e io la trattengo.» Indicò verso la sala dei libri
rari. «Le mostro dove resterà confinato nei prossimi giorni.»
«Crede che ci vorrà tanto?»
«Voleva le fonti storiche e l’articolo, giusto? Vorrei poterle dire
«Voleva le fonti storiche e l’articolo, giusto? Vorrei poterle dire
che tutte le informazioni sono state catalogate, ma non è così.
dovrà rassegnarsi a fare un po’ di noioso lavoro di ricerca.»
«Non ci sono tanti libri da consultare, vero?»
36
«Non si tratta solo di libri, anche se ne possediamo parecchi che
possono servirle. Penso che troverà alcune delle notizie che le
interessano nei diari. Mi sono prefissa di raccoglierne il maggior
numero possibile dagli abitanti della zona e adesso la collezione è
piuttosto ricca. Ce n’è qualcuno che risale addirittura al XVII
secolo.»
«Per caso, non ha anche quello di Hettie Doubilet?»
«No. Però ce ne sono un paio che appartenevano ai residenti a
Watts Landing e persino uno di un uomo che si considerava uno
storico dilettante. Purtroppo è vietato prenderli in prestito e le ci
vorrà un po’ di tempo per consultarli tutti. Alcuni sono quasi
illegibili.»
«Non vedo l’ora», rispose lui. «Il nostro lavoro di ricerca è il mio
pane.»
Lei sorrise. «Sono pronta a scommettere che è anche piuttosto
bravo.»
Lui la guardò malizioso. «Eccome. Sono bravo in tantissime
cose.»
«Non ne dubito, signor Marsh.»
«Mi chiami Jeremy», disse lui.
«Non credo che sia una buona idea.»
«È un’ottima idea, si fidi.»
Lei sbuffò. Quell’uomo ci prova sempre. «È un’offerta allettante,
sul serio», disse. «E ne sono lusingata. Ma non la conosco
abbastanza bene da fidarmi di lei, signor Marsh.»
Jeremy sorrise mentre lei si voltava. Aveva già conosciuto quel
tipo di donna. Quelle che tenevano gli uomini a distanza in genere
avevano un che di brusco e scostante, invece il suo
atteggiamento risultava quasi… ecco, incantevole e bonario.
Forse dipendeva dall’accento. Il modo suaden-te con cui
pronunciava le parole probabilmente avrebbe convinto persino
un gatto ad attraversare un fiume a nuoto.
No, si corresse, non era solo l’accento. Né la sua prontezza di
spirito, che lo divertivano molto.
E neppure quegli occhi stupefacenti o il modo con cui indossava i
jeans. Certo, l’avvenenza contri-buiva, ma c’era dell’altro. Che
cosa, esattamente? Non la conosceva, non sapeva niente di lei.
cosa, esattamente? Non la conosceva, non sapeva niente di lei.
A pensarci bene, aveva parlato molto di libri e di sua madre, ma
senza rivelare nulla di personale.
Lui era lì per scrivere un articolo, eppure, con un’improvvisa fitta
di malinconia, si rese conto che avrebbe preferito trascorrere le
ore successive in compagnia di Lexie. Voleva parlare con lei
mentre passeggiavano per il centro di Boone Creek o, meglio,
mentre cenavano in un romantico ri-storantino fuori mano, loro
due da soli, per conoscersi meglio. Lei era sempre una creatura
misteriosa e lui amava i misteri. Conducevano sempre a qualche
sorpresa e, intanto che la seguiva nella sala dei libri rari, non poté
fare a meno di pensare che il suo viaggio nel Sud di colpo era
diventato molto più interessante del previsto.
La sala dei libri rari era piccola, probabilmente un’ex camera da
letto, e divisa da un tramezzo di legno. Le pareti erano color
sabbia, il soffitto bianco e il pavimento di parquet consumato ma
ancora in buone condizioni. Al di là del divisorio c’erano alti
scaffali di libri. In un angolo era collocata una teca di vetro che
somigliava a un cofanetto di tesori, con accanto un televisore e
un videoregistratore, senza dubbio per visionare videocassette
relative alla storia del North Carolina. Di fronte alla porta, sotto
la finestra, c’era un antico scrittoio con serranda avvolgibile.
Lexie indicò a Jeremy di sedersi a un tavolo sulla destra con un
lettore di microfilm e poi aprì l’ultimo cassetto dello scrittoio e
tirò fuori una scatola di cartone.
Posò la scatola sul tavolo, esaminò i fogli trasparenti e ne scelse
uno. Si chinò su di lui, accese il proiettore e infilò il lucido,
muovendolo finché l’articolo comparve al centro dello schermo.
Lui colse di nuovo una traccia del suo profumo e un istante dopo
aveva davanti l’articolo.
«Può iniziare da questo», gli disse. «Vado a vedere se riesco a
trovarle altro materiale.»
«Ha fatto in fretta», osservò lui.
«Non è stato difficile. Ricordavo la data dell’articolo.»
«Notevole.»
«Veramente, no. Venne pubblicato il giorno del mio
compleanno.»
37
«Ventisei?»
«Più o meno. Ora vado.»
Si voltò e tornò verso la porta.
«Venticinque?» le chiese lui dal tavolo.
«Continui pure a tirare a indovinare, signor Marsh. Ma io non
«Continui pure a tirare a indovinare, signor Marsh. Ma io non
gioco.»
Lui rise. Sarebbe stata decisamente una settimana avvincente.
Jeremy rivolse la sua attenzione all’articolo e iniziò a leggerlo.
Era scritto come si aspettava: un marcato approccio
sensazionalista, con sufficiente arroganza da indurre a credere
che tutti gli abitanti di Boone Creek avessero sempre saputo di
vivere in un luogo speciale.
Non apprese niente di nuovo o quasi. L’articolo si occupava
della leggenda originale, riferendo-la grosso modo come aveva
fatto Doris, tranne qualche piccola variazione. Stando a quanto
c’era scritto, Hettie si era recata dai funzionari della contea, non
dal sindaco, ed era originaria della Loui-siana e non dei Caraibi.
Il particolare interessante era che si diceva avesse lanciato la sua
maledizione fuori dalle porte del municipio, e che per questo era
stata messa in prigione. Quando l’indomani mattina le guardie
erano andate ad aprire la cella per rilasciarla, avevano scoperto
che era sparita. In seguito, lo sceriffo si era rifiutato di arrestarla
nuovamente perché temeva che potesse maledire anche la sua
famiglia. Ma tutte le leggende erano così: mentre passavano di
bocca in bocca venivano modificate in modo da renderle più
intriganti. E lui doveva ammettere che la storia della sparizione
della donna era curiosa. Doveva verificare se davvero era stata
arrestata e poi era evasa.
Si guardò alle spalle. Nessuna traccia di Lexie, per il momento.
Tornando a fissare lo schermo, pensò che valesse la pena di
leggere la cornaca di Boone Creek, e così spostò il microfilm nel
proiettore per dare un’occhiata ad altri articoli del giornale. Vi
era raccolta una settimana di notizie per un totale di quattro
pagine – il periodico usciva ogni martedì – e non impiegò molto a
farsi un’idea di quanto succedeva in città. Era una lettura
istruttiva, a patto di non cercare pezzi che commentassero fatti
avvenuti altrove o che fossero anche lontanamente coin-volgenti.
Scoprì che un giovane scout patriottico aveva ridipinto la facciata
della sede dei veterani di guerra, che una nuova lavanderia era
stata aperta sulla via principale e che in una seduta del consiglio
comunale si era discusso se mettere o no uno stop in Leary Point
Road. In prima pagina comparivano articoli su un incidente
stradale in cui erano rimasti feriti un paio di abitanti del luogo.
Si appoggiò alla spalliera della sedia per riflettere.
Quella cittadina era esattamente come se l’aspettava, pensò.
Sonnolenta, tranquilla e «speciale»
come affermano di essere tutte le piccole comunità, ma niente di
più. Era il genere di collettività che continuava a esistere più per
forza di inerzia che per qualche peculiarità distintiva e che
sarebbe scomparsa lentamente nei decenni successivi con
l’invecchiamento della popolazione. Non c’era futuro lì, almeno
non a lungo raggio…
non a lungo raggio…
«Sta leggendo della nostra esaltante città?» gli chiese lei.
Jeremy saltò sulla sedia, sorpreso di non averla sentita avvicinarsi
e stranamente rattristato dallo stato delle cose. «Infatti. E devo
ammettere che è interessante. L’iniziativa di quel giovane scout è
stata davvero notevole.»
«Jimmie Telson», disse lei. «È un bravo ragazzo. Ottimi voti e
grande giocatore di basket. Suo padre è morto lo scorso anno,
ma lui offre spesso i suoi servizi come volontario, pur dovendo
lavorare la sera in una pizzeria. Siamo orgogliosi del suo
comportamento.»
«Sono d’accordo.»
Lei sorrise, pensando: come no. «Ecco», disse, posando una pila
di libri sul tavolo, «questi do-vrebbero bastarle per cominciare».
Lui diede una scorsa ai titoli. «Non mi aveva appena detto che
avrei fatto meglio a consultare i diari? Questi sono libri di storia
generale.»
«Lo so. Ma non le interessa prima approfondire il periodo
storico in cui si collacano i diari?»
Lui esitò. «Suppomgo di sì», ammise.
«Bene», commentò lei, tirandosi distrattamente la manica del
maglione. «Ho trovato anche un libro di storie di fantasmi che
potrebbe interessarle. C’è un capitolo che parla di Cedar
Creek.»
38
«Magnifico.»
«Allora la lascio lavorare. Tornerò tra un po’ per vedere se le
occorre altro.»
«Deve proprio andare?»
«Sì. Come le ho detto, ho parecchio lavoro da sbrigare. Lei può
restare qui, oppure sedersi nella sala principale. Ma le sarei grata
se non portasse i libri di sotto. Nessuno di questi volumi è
ammesso al prestito.»
«Non oserei mai», le assicurò lui.
«Adesso, se vuole scusarmi, signor Marsh, dovrei proprio
andare. Le ricordo che la biblioteca rimane aperta fino alle sette,
ma la sala dei libri rari chiude verso le cinque.»
«Anche per gli amici?»
«Loro possono restare tutto il tempo che vogliono.»
«Allora ci vediamo alle sette?»
«No, signor Marsh. Alle cinque.»
Lui rise. «Forse domani mi permetterà di restare più a lungo.»
La donna s’incamminò verso la porta senza rispondere.
«Lexie?»
Si voltò. «Sì?»
«Mi è stata di grande aiuto finora. Grazie.»
Lei gli rivolse un sorriso sincero, irresistibile. «Non c’è di che.»
Jeremy trascorse più di un’ora a spulciare notizie sulla città.
sfogliò i libri a uno a uno, soffer-mandosi sulle fotografie e
leggendo i capitoli che riteneva più interessanti.
La maggior parte dei testi riguardava la storia più antica della
città e lui prese appunti su un blocco di carta. Ancora non
poteva sapere che cosa sarebbe stato importante per le sue
ricerche, così ben presto le annotazioni riempirono due pagine.
L’esperienza gli aveva insegnato che il modo migliore per
affrontare una storia come quella era partire dai dati certi e
allora… che cosa era assodato? Che il cimitero era stato
utilizzato per più di un secolo senza avvistamenti di luci
utilizzato per più di un secolo senza avvistamenti di luci
misteriose. Che le luci erano apparse per la prima volta un
centinaio di anni prima e che da allora erano tornate
regolarmente, ma solo nelle notti di nebbia. Che molte persone le
avevano viste, rendendo assai improbabile l’ipotesi che si
potesse trattare di una semplice suggestione. E infine, che adesso
il terreno lì stava sprofondando.
In conclusione, a quel punto non ne sapeva molto di più di
quando aveva cominciato. Come ogni mistero, anche quello era
costituito da una serie di frammenti disparati da assemblare. E la
leggenda era essenzialmente un tentativo di collegare i pezzi in un
insieme plausibile. Ma dato che alla base c’era un presupposto
falso, ciò significava che alcuni pezzi, quali che fossero, erano
stati tra-scurati oppure ignorati. E quindi Lexie aveva ragione:
doveva leggere tutto per non tralasciare alcun elemento.
Non c’erano problemi, anzi, quella era la parte più divertente. La
ricerca della verità spesso era più coinvolgente della stesura delle
conclusioni, e lui si ritrovò immerso nell’argomento. Venne a
sapere che Boone Creek era stata fondata nel 1729 – il che ne
faceva una delle comunità più antiche di tutto lo stato – e che per
un lungo tempo era stata solo un piccolo centro di scambi
commerciali.
Nel corso del secolo era diventata un porto fluviale secondario
nella rete interna e la sua crescita venne accelerata
dall’introduzione dei battelli a vapore a metà dell’Ottocento.
dall’introduzione dei battelli a vapore a metà dell’Ottocento.
Verso la fine del XIX
secolo l’espansione della ferrovia raggiunse il North Carolina,
causando l’abbattimento di numerose foreste e l’apertura di
molte cave. Ancora una volta la città fu interessata dal
cambiamento, essendo una sorta di porta d’ingresso per gli
Outer Banks. In seguito il suo sviluppo aveva seguito quello
dell’economia dello stato, anche se la popolazione era rimasta
costante fino al 1930 circa. L’ultimo censimento evidenziava un
calo demografico, com’era del resto prevedibile.
Lesse anche il capitolo dedicato al cimitero nel libro di storia di
fantasmi. In questa versione, Hettie si era rifiutata di cedere il
passo sul marciapiede alla moglie di un funzionario della contea
39
che le veniva incontro. Tuttavia, il fatto di essere considerata una
sorta di guida spirituale di Watts Landing le evitò l’arresto, e
allora la parte più razzista della cittadinanza decise di darle una
lezione, causando ingenti danni al cimitero dei neri. Hettie si
infuriò e maledisse il cimitero di Cedar Creek, dichiarando che
gli spiriti dei suoi antenati avrebbero calpestato il suolo finché la
terra l’avrebbe inghiottito del tutto.
Jeremy rifletté sul fatto che sino a quel momento aveva trovato
tre versioni diverse della stessa leggenda.
Un particolare davvero interessante era che l’autore del libro, un
Un particolare davvero interessante era che l’autore del libro, un
certo A.J. Morrison, aveva aggiunto un poscritto in cui affermava
che il cimitero di Cedar Creek aveva cominciato davvero a
sprofondare. Riferiva che, secondo i rilievi fatti, il terreno si era
abbassato di quasi mezzo metro, ma non forniva una spiegazione
del fenomeno.
Jeremy guardò la data di pubblicazione. Il libro era stato scritto
nel 1954 e, a giudicare dall’aspetto attuale, secondo lui il
cimitero era sprofondato almeno di altri novanta centimetri. Si
annotò di cercare i risultati dei rilievi dell’epoca e di quelli
effettuati in seguito.
Mentre era intento ad assorbire quelle informazioni, tuttavia, non
riusciva a fare a meno di guardarsi alle spalle di tanto in tanto,
nella remota speranza di vedere entrare Lexie.
All’altro capo della città, lungo il percorso verso la
quattordicesima buca e con il cellulare pre-muto all’orecchio, il
sindaco ascoltava con la massima attenzione le parole del suo
interlocutore nonostante il fruscio sulla linea. In quella parte della
contea c’era poco campo e lui si chiedeva se, alzando la mazza
di ferro sopra la testa, sarebbe riuscito a capire meglio quello
che gli veniva detto.
«Era da Herbs? Oggi a pranzo? Hai detto Primetime Live?»
Annuì, fingendo di non accorgersi che il suo avversario, che a
propria volta faceva finta di cercare dove fosse finita la pallina
dopo l’ultimo tiro, l’aveva appena calciata oltre un albero in
posizione migliore.
«Trovata!» esclamò il compagno di gioco, preparandosi a un
altro tiro.
Quell’uomo non era nuovo a certi stratagemmi e francamente il
sindaco non se ne curava troppo, dato che aveva appena fatto la
stessa cosa. Altrimenti, gli sarebbe stato impossibile conservare i
suoi tre handicap di vantaggio.
Mentre l’interlocutore finiva di parlare, il suo avversario lanciò
ancora la pallina tra gli alberi.
«Direi che è molto interessante», concluse il sindaco, con la
mente occupata a elaborare le possibili implicazioni. «Ti ringrazio
di avermi telefonato. Abbi cura di te. Ciao.»
Richiuse il cellulare proprio mentre il suo avversario si
avvicinava.
«Chissà dov’è andata.»
«Non mi preoccuperei troppo», replicò il sindaco, valutando gli
improvvisi sviluppi in città.
«Sono sicuro che la pallina finirà esattamente dove vuoi tu.»
«Chi era al telefono?»
«Il destino», annunciò il sindaco. «E se giochiamo bene le nostre
carte, potrebbe essere la nostra salvezza.»
Nel tardo pomeriggio, mentre il sole ormai scendeva oltre la
cima degli alberi e le ombre cominciavano ad allungarsi sul
pavimento, Lexie infilò la testa nella sala dei libri rari.
«Come va?»
Jeremy voltò il capo e sorrise. Poi raddrizzò la schiena e si passò
la mano tra i capelli. «Bene», rispose. «Ho scoperto un sacco di
cose.»
«Ha già trovato la risposta magica?»
«Non ancora, ma ci sono vicino. Me lo sento.»
Lei entrò. «Ne sono lieta. Ma come le ho detto prima, in genere
chiudo questa sala verso le cinque, in modo da poter gestire tutte
le persone che vengono qui dopo il lavoro.»
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Lui si alzò dal tavolo. «Non c’è problema. Tra l’altro, sono un
po’ stanco. È stata una lunga giornata.»
«Tornerà domattina, giusto?»
«Tornerà domattina, giusto?»
«Ci contavo. Perché?»
«Ecco, in genere ogni giorno rimetto tutti i volumi a posto.»
«Sarebbe possibile tenere da parte questi libri, per il momento?
Sono sicuro di doverli consultare ancora domani.»
Lei ci rifletté un attimo. «Sì. Ma devo avvertirla che, se non si
presenterà all’orario di apertura, penserò di aver sbagliato a
giudicarla.»
Lui annuì con aria seria. «Le prometto che non la deluderò. Non
sono quel tipo di uomo.»
Lei alzò gli occhi al cielo, pensando: Santo cielo, ci risiamo. Però
doveva ammettere che era te-nace. «Sono sicura che dice così a
tutte le ragazze, signor Marsh.»
«No», ribatté lui appoggiandosi al tavolo. «In realtà, sono molto
timido. Quasi un eremita, direi.
Esco molto di rado.»
Lei scrollò le spalle. «Mi baso su quello che so. Essendo lei un
giornalista della grande metropoli, me lo ero immaginato come un
dongiovanni.»
«E la cosa la preoccupa?»
«No.»
«Bene. Perché, vede, la prima impressione a volte può
ingannare.»
«Oh, me ne sono resa subito conto.»
«E come?»
«Sa, la prima volta che l’ho vista al cimitero, credevo che fosse lì
per un funerale.»
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5
Quindici minuti più tardi, dopo aver percorso una strada asfaltata
che poi diventava sterrata – bisognava dire che lì avevano un
debole per le sterrate – Jeremy si ritrovò a parcheggiare nel bel
mezzo di un pantano, proprio di fronte all’insegna dipinta a mano
del Greenleaf Cattages. Questo gli fe-ce pensare che non
bisognava mai fidarsi delle promesse dell’agenzia turistica locale.
Moderno, decisamente quel posto non lo era. Non lo sarebbe
stato nemmeno trent’anni prima.
Si trattava di un complesso formato da sei piccoli bungalow in
riva al fiume. Erano di legno, con l’intonaco scrostato e il tetto di
lamiera, e si raggiungevano percorrendo dei sentierini che si
diparti-vano da un bungalow centrale dove immaginò ci fosse la
reception. Doveva ammettere che l’insieme era pittoresco, ma il
lato rustico riguardava probabilmente la presenza di zanzare e
alligatori, il che non rendeva certo più allettante la prospettiva di
soggiornare lì.
Mentre cercava di decidere se fosse il caso di disdire la
prenotazione – durante il viaggio aveva notato che c’erano degli
hotel a Washington, a una quarantina di minuti da Boone Creek
– udì il rombo di un motore che risaliva la strada e un attimo
dopo scorse una Cadillac marrone che si avvicinava
sobbalzando paurosamente nelle buche. Rimase sorpreso nel
sobbalzando paurosamente nelle buche. Rimase sorpreso nel
vedere che si arrestava proprio accanto a lui, sollevando una
spruzzata di ghiaia.
Un uomo sovrappeso e pelato balzò fuori dall’auto con la faccia
stralunata. Portava un paio di calzoni verdi di poliestere e un
girocollo blu, e aveva l’aria di chi si è vestito al buio.
«Signor Marsh?»
Jeremy venne colto di sorpresa. «Sì?»
L’uomo girò intorno alla macchina. Tutto in lui sembrava
muoversi frettolosamente.
«Sono contento di averla incontrata prima che si registrasse in
albergo! Volevo avere l’occasione di parlarle! Non so dirle
quanto siamo tutti entusiasti della sua visita!»
Ansimava mentre tendeva la mano e stringeva vigorosamente
quella di Jeremy.
«Ci conosciamo?» chiese lui.
«No, no, è ovvio.» L’uomo rise. «Sono il sindaco Gherkin.
Come la marca di sotteceti… ma lei può chiamarmi Tom.» Altra
risata. «Sono passato solo per darle il benvenuto nella nostra
bella città.
mi scusi per l’aspetto. Avrei voluto riceverla in ufficio, ma sono
venuto direttamente dal campo di golf non appena mi hanno
informato del suo arrivo.»
Jeremy gli lanciò un’altra occhiata sconcertata. Se non altro,
adesso c’era una spiegazione per quel bizzarro abbigliamento.
«Lei è il sindaco?»
42
«Dal 1994, per la precisione. È una specie di tradizione di
famiglia. Prima di me mio padre, Owen Gherkin, è stato sindaco
di Boone Creek per ventiquattro anni. Nutriva un profondo
attacca-mento alla città, mio padre. Conosceva tutto quello che
c’era da sapere di questo posto. Ovviamente, fare il sindaco qui
è solo un’occupazione part-time. È un incarico onorifico. In
realtà, io sono un uomo d’affari, se vuole sapere la verità. Sono il
proprietario dell’emporio e dell’emittente radio in centro.
Trasmettiamo vecchi successi. A lei piacciono?»
«Certo», rispose Jeremy.
«Bene, bene. Me lo immaginavo. L’ho capito non appena l’ho
vista. Mi sono detto: ‘Quest’uo-mo sa apprezzare la buona
musica’. Non sopporto proprio tutte quella nuove diavolerie che
la gente si ostina ad ascoltare di questi tempi. Mi fanno venire il
mal di testa. La musica deve consolare l’anima. Capisce che
mal di testa. La musica deve consolare l’anima. Capisce che
cosa intendo?»
«Certo», ripeté Jeremy, cercando di seguire il di seguire il
discorso.
Il sindaco rise. «Lo sapevo. Ecco, come le ho detto, siamo tutti
emozionati al pensiero che sia venuto qui per scrivere un articolo
sulla nostra città. È proprio quello che ci serve. Voglio dire, chi
non apprezza una bella storia di fantasmi? La gente da queste
parti è davvero eccitata al riguardo, questo è sicuro. Prima gli
esperti della Duke, poi il giornale locale. E adesso un giornalista
della metropoli. La voce si va diffondendo, e questo è un bene.
Pensi che giusto la settimana scorsa siamo stati interpellati da un
gruppo dell’Alabama che ha intenzione di trascorrere questo
week-end a Boone Creek per fare il Giro delle dimore storiche.»
Jeremy cercò di riprendere il controllo della situazione. «Come
faceva a sapere che ero qui?»
chiese.
Il sindaco Gherkin gli posò amichevolmente una mano sulla
spalla e, ancor prima che lui se ne rendesse conto, si stavano
avviando verso il bungalow centrale. «Le notizie corrono, signor
Marsh.
Si diffondono come un incendio. È sempre stato così: fa parte
del fascino di questo posto. Oltre alle bellezze naturali, certo.
del fascino di questo posto. Oltre alle bellezze naturali, certo.
Abbiamo alcune delle migliori riserve di caccia e pesca dello
stato. La gente arriva da ogni parte, anche le celebrità, e la
maggior parte alloggia qui al Greenleaf. Se vuole saperlo,
questo è un piccolo angolo di paradiso. Un bungalow tutto per
sé nel bel mezzo della natura. Di notte potrà ascoltare il canto dei
grilli e degli uccelli. Scommetto che poi vedrà quei grandi
alberghi di New York sotto una luce diversa.»
«Questo è sicuro», riconobbe Jeremy. Quell’uomo era
decisamente un politico.
«E non deve preoccuparsi dei serpenti.»
Lui sgranò gli occhi. «I serpenti?»
«Forse ne avrà sentito parlare, ma le assicuro che quello dello
scorso anno è stato solo uno spia-cevole malinteso. C’è gente
senza un briciolo di buonsenso. Come le ho detto, però, non
deve preoccuparsi. In genere i serpenti non escono prima
dell’estate. Ovviamente, non le conviene andare in giro a
rovistare tra i cespugli per stanarli. Quei mocassini possono
essere molto pericolosi.»
«Uh», mugolò Jeremy, cercando di ritrovare la voce mentre nella
sua mente si formava un’immagine agghiacciante. Lui odiava i
serpenti. Ancor più degli alligatori e delle zanzare. «Veramente,
stavo pensando…»
Il sindaco Gherkin sospirò abbastanza forte da interrompere la
sua risposta e poi si guardò intorno, come per dimostrargli
quanto apprezzava il paesaggio circostante. «Allora, mi dica,
Jeremy…
non le spiace se la chiamo per nome, vero?»
«No.»
«Molto gentile da parte sua. Davvero molto. Allora, Jeremy, mi
chiedevo se per caso non arriverà qualche troupe televisiva a
seguire la sua indagine giornalistica.»
«Non ne ho idea», rispose lui.
«Ecco, se lo faranno, gli stenderemo il tappeto rosso. Gli
mostreremo un po’ della genuina ospitalità del Sud. Guardi, li
ospiteremo gratis al Greenleaf. E, ovviamente, torneranno a
casa con un servizio coi fiocchi. Molto meglio della storia che lei
ha raccontato a Primetime. Quello che abbiamo qui è
autentico.»
43
«Lo sa, vero, che io sono prima di tutto un giornalista della carta
stampata? In genere non ho niente a che fare con la
televisione…»
«No, certo che no», concordò il sindaco, ammiccando. «Lei
faccia il suo lavoro, e poi vediamo cosa succede.»
«Dico sul serio», replicò Jeremy.
Altra strizzata d’occhi. «Naturale.»
Lui non sapeva più cosa replicare – soprattutto perché
quell’uomo poteva anche avere ragione –
e un attimo dopo il sindaco Gherkin aprì la porta della reception.
Sempre ammesso che si potesse chiamarla tale.
La piccola stanza decrepita ricordava l’interno di una capanna di
tronchi. Alle spalle della scrivania traballante era appeso un
persico trota; dappertutto, lungo le pareti e sul piano dello
schedario, c’erano roditori impagliati: castori, lepri, scoiattoli,
opossum, moffette e un tasso. A differenza di altri esemplari che
aveva visto, tuttavia, la loro posa era quella degli animali braccati
che cercano di difendersi. Fauci spalancate, corpi inarcati, denti
e artigli scoperti. Jeremy stava osservando i dettagli, quando
scorse in un angolo un orso che lo fece trasalire. Come i suoi
compagni di sventura, aveva le zampe protese in avanti, pronto
ad attaccare. Sembrava di essere a metà tra la sala di un mu-seo
di storia naturale e il set di un film dell’orrore a basso costo, il
tutto compresso nello spazio di uno sgabuzzino.
Seduto con i piedi appoggiati sulla scrivania c’era un uomo
Seduto con i piedi appoggiati sulla scrivania c’era un uomo
corpulento e barbuto che guardava la televisione. L’immagine
sullo schermo era sfocata, con linee verticali che l’attraversavano
ogni due secondi rendendo impossibile riconoscere il
programma.
L’uomo si alzò e continuò a sollevarsi fino a torreggiare su di lui.
Doveva essere alto almeno due metri e aveva le spalle più ampie
di di quelle dell’orso impagliato nell’angolo. Indossava una tuta e
una camicia a quadri, e andò a prendere un modulo che posò
sulla scrivania.
Indicò il modulo e poi Jeremy. Non sorrise, anzi, aveva l’aria di
volergli strappare le braccia e usarle per picchiarlo prima di
impagliare anche lui e appenderlo al muro.
Gherkin scoppiò a ridere, tanto per cambiare.
«Non si faccia intimidire da questo qui, Jeremy», si affrettò a
dire. «Jed non parla molto con i forestieri. Riempia il modulo e
potrà andare nella sua cameretta in paradiso.»
Jeremy stava fissando Jed con occhi sgranati, pensando che era
la creatura più spaventosa che avesse mai visto in vita sua.
«Sa, lui non è solo proprietario del Greenleaf, ma è anche
consigliere comunale e tassidermi-sta», spiegò Gherkin. «Non
trova che il suo lavoro sia incredibile?»
«Incredibile», ripeté Jeremy, sforzandosi di sorridere.
«Se volesse andare a caccia da queste parti, si rivolga a lui.
Vedrà che resterà soddisfatto.»
«Me ne ricorderò.»
La faccia del sindaco si illuminò all’improvviso. «Lei caccia,
vero?»
«Non molto, a dire la verità.»
«Chissà, magari potrebbe cambiare idea mentre è qui. Le ho già
detto che la caccia all’anatra da queste parti è spettacolare,
vero?»
Mentre Gherkin parlava, Jed picchiettò con il dito carnoso sul
modulo.
«Avanti, cerca di non intimidirlo», si intromise il sindaco. «Viene
da New York. È un grande giornalista di città, perciò vedi di
trattarlo bene.»
Tornò a rivolgere la propria attenzione all’ospite. «A proposito,
Jeremy, volevo informarla che il comune sarà ben lieto di offrirle
il soggiorno qui.»
«Non è necessario…»
«Basta così», lo interruppe Gherkin con un gesto della mano.
«La decisione è già stata presa ai piani alti.» Strizzò l’occhio.
«Vale a dire da me. Ma è il minimo che possiamo fare per un
ospite tanto di riguardo.»
«Allora, grazie.»
44
Jeremy prese la penna e cominciò a compilare il modulo,
sentendo su di sé gli occhi di Jed e tre-mando al solo pensiero di
quello che sarebbe potuto accadere se avesse cambiato idea
circa il suo soggiorno lì. Gherkin lo guardava da sopra la spalla.
«Le ho già detto che siamo entusiasti della sua visita?»
Dall’altra parte della città, in un bungalow bianco con le persiane
azzurre che dava su una via tranquilla, Doris stava rosolando
pancetta, cipolla e aglio mentre in un’altra pentola cuoceva la
pasta. Lexie stava tagliando pomodori e carote sul lavello. Dopo
aver chiuso la biblioteca era passata dalla nonna, come faceva
spesso durante la settimana. Pur abitando per conto suo poco
distante, cenava sovente con Doris. Le vecchie abitudini erano
dure a morire.
La radio sul davanzale trasmetteva musica jazz e le due donne
non si erano dette molto, a parte le solite chiacchiere in cucina.
Per Doris, il motivo di quel relativo silenzio era la lunga giornata
Per Doris, il motivo di quel relativo silenzio era la lunga giornata
di lavoro al ristorante. Dopo l’infarto avuto due anni prima si
stancava molto più facilmente, anche se non voleva ammetterlo.
Per Lexie la ragione era Jeremy Marsh, e si guardava bene
dall’accennare a lui con la nonna. Doris aveva sempre avuto un
interesse molto spiccato per la sua vita privata e lei aveva
imparato che era meglio evitare l’argomento appena possibile.
Sapeva che la nonna era benintenzionata. Semplicemente non
riusciva a capire come mai una ragazza che aveva più di
trent’anni non si fosse ancora sistemata, e ormai succedeva
spesso che lo domandasse anche ad alta voce. Nonostante la
sua vivace intelligenza, Doris era di vecchio stampo; si era
sposata a vent’anni e aveva trascorso i quarantaquattro
successivi con il marito che adorava, fino a quando lui era morto,
tre anni prima. Dopo tutto Lexie era cresciuta con i nonni, e
poteva condensare i crucci di Doris nei suoi confronti in poche
semplici parole: era ora che lei conoscesse una brava persona, si
sposasse, si trasferisse in una casa con la staccionata bianca e
avesse dei figli.
La sua idea non era poi così strana, pensò Lexie. Da quelle parti,
almeno, era ciò che ci si aspettava da una donna. E se doveva
proprio essere sincera, certe volte anche lei desiderava una vita
del genere. Almeno in teoria. Ma prima voleva conoscere la
persona giusta, qualcuno che la ispirasse, che la rendesse fiera di
chiamarlo il suo uomo. La differenza tra lei e Doris stava proprio
lì. La nonna sembrava convinta che tutto quello che una donna
lì. La nonna sembrava convinta che tutto quello che una donna
poteva ragionevolmente aspettarsi era che un uomo fosse
onesto, di sani principi morali e lavoratore. E forse, in passato,
erano quelle le qualità più importanti. Lei, però, non era disposta
a sceglierne uno solo perché era gentile, onesto e aveva un buon
impiego. Chissà, magari aveva ambizioni irrealizzabili, ma voleva
anche provare la passione. Senza quella, un uomo poteva essere
gentile o responsabile finché voleva, ma lei avrebbe continuato
ad avere l’impressione di essersi «accontentata». Non sarebbe
stato giusto, per nessuno. Voleva un uomo sensibile e affettuoso,
ma che nel contempo sapesse affascinarla. Voleva qualcuno che
si offrisse di massaggiarle i piedi dopo una lunga giornata in
biblioteca, ma anche che la sfidasse in-tellettualmente. Un uomo
romantico, certo, che le comperava dei fiori anche senza un
motivo particolare.
Non era chiedere troppo, no?
Secondo Glamour, Ladies’ Home Journal
e Good
Housekeeping – tutte riviste femminili che arrivavano in
biblioteca –, sì. Ogni articolo di quelle riviste sembrava ribadire
che dipendeva esclusivamente dalla donna mantenere acceso il
fuoco di una relazione sentimentale. Ma una relazione non
doveva essere appunto tale? Non doveva basarsi sull’impegno di
entrambi i partner a soddisfarsi a vicenda?
Il problema di molte coppie sposate di sua conoscenza stava
proprio lì, si disse. Le cose in un matrimonio andavano bene
finché esisteva un equilibrio tra esaudire i propri desideri e
accontentare il compagno, finché la moglie faceva ciò che
desiderava il marito e viceversa. Le difficoltà nasceva-no quando
uno dei due cominciava a comportarsi come preferiva senza
riguardi verso l’altro. Un marito a un certo punto decideva di
avere rapporti sessuali più intensi e li cercava al di fuori del
matrimonio, una moglie decideva di volere più affetto e questo la
portava a fare esattamente la stessa cosa. Un buon matrimonio,
come qualsiasi rapporto a due, significava subordinare le proprie
neces-45
sità a quelle dell’altro, sapendo che la cosa era reciproca. E
finché i due tenevano fede alla propria parte del patto, tutto filava
liscio.
Ma se non provavi un’autentica passione per tuo marito, potevi
aspettarti di riuscirci? Lexie non ne era convinta. Doris,
naturalmente, aveva la risposta pronta. «Dai retta a me, tesoro,
la passione si spegne dopo un paio d’anni», avrebbe detto,
sebbene i nonni avessero avuto un tipo di rapporto
assolutamente invidiabile. Il nonno era un uomo romantico di
carattere. Sino alla fine aveva continuato a essere galante con
Doris, ad aprirle le porte e a tenerla per mano quando
camminavano per strada. Era sempre stato sollecito e fedele. Era
evidente che adorava la moglie e ripeteva spesso quanto si
sentisse fortunato di averla incontrata. Dopo che lui era morto,
anche una parte di Doris aveva cominciato a morire. Prima
l’infarto, ora l’aggravarsi dell’artrite; era come se il destino
volesse farli restare insieme per sempre. Questo fatto, oltre al
consiglio di Doris, che cosa significava? Che la nonna era stata
semplicemente fortunata a scegliere un uomo simile? Oppure che
aveva visto qualcosa in lui, qualcosa che le aveva fatto capire
che era l’uomo giusto?
E soprattutto, si poteva sapere perché mai adesso lei ripensava
al matrimonio?
Forse perché si trovava lì da Doris, nella casa dov’era cresciuta
dopo la marte dei suoi genitori.
Cucinare assieme alla nonna le dava sicurezza e le faceva tornare
in mente quando, da piccola, pensava che un giorno anche lei
avrebbe abitato in una casa come quella. Assi stagionate sul
pavimento; un tetto di lamiera che riecheggiava il tamburellare
della pioggia; finestre antiquate con gli infissi pitturati così tante
volte che ormai era quasi impossibile aprirli. E ora viveva in una
casa del genere, o quasi. A prima vista le due abitazioni
sembravano somigliarsi – erano state costruite nella medesima
zona – ma lei non era mai riuscita a riprodurre i profumi di quella
della nonna. Gli stufati della domenica, l’odore di sole delle
lenzuola, il leggero sentore di muffa della sedia a dondolo do-ve
il nonno si rilassava la sera. Aromi come quelli parlavano di una
vita trascorsa in armonia e, tutte le volte che lei apriva la porta,
veniva assalita dai vividi ricordi d’infanzia.
Naturalmente aveva sempre immaginato che alla sua età avrebbe
avuto un marito, magari anche dei figli, ma non era andata così.
Per due volte ne aveva avuto la tentazione: prima la lunga storia
con Avery, iniziata all’università, e poi un’altra con un ragazzo di
Chicago che un’estate era venuto a trovare il cugino a Boone
Creek. Era il classico tipo dall’ingegno versatile: parlava quattro
lingue, aveva frequentato la London School of Economics e si
era pagato l’università con una borsa di studio per il baseball.
Era affascinate e unico, e ben presto Lexie si era innamorata di
lui. Aveva creduto che sarebbe rimasto lì, che con il tempo si
sarebbe affezionato al posto quanto lei, ma una mattina aveva
saputo che era ripartito per Chicago. Non si era neppure preso il
disturbo di salutarla.
E poi? Non molto, in realtà. C’erano stati altri due flirt durati
circa sei mesi, ma ai quali non pensava più molto. Uno era stato
con un medico, l’altro con un avvocato; entrambi le avevano
chiesto di sposarli, ma lei non aveva provato l’eccitazione o la
magia o qualunque cosa fosse che ti faceva capire che non
dovevi cercare altrove. Negli ultimi due anni gli appuntamenti
erano diradati sempre di più, fatta eccezione per Rodney
Hopper, il vicesceriffo. Erano usciti più o meno una decina di
volte, in occasione delle iniziative benefiche alle quali lei doveva
partecipare. Anche Rodney era nato e cresciuto lì e da bambini
avevano giocato sull’altalena dietro la chiesa episcopale. Lui
aveva avuto un debole per lei fin da allora e negli anni seguenti le
aveva chiesto spesso di uscire a bere qualcosa insieme al
aveva chiesto spesso di uscire a bere qualcosa insieme al
Lookilu. A volte Lexie si chiedeva se non doveva accettare la
sua corte e fidan-zarsi con lui, ma Rodney… ecco, era un po’
troppo interessato a perscare e cacciare e sollevare pesi, e
troppo poco ai libri e a ciò che succedeva nel resto del mondo.
Era un bravo ragazzo, però, ed era convinta che sarebbe stato
un buon marito. Ma non per lei.
E tutto questo dove l’aveva portata?
Lì da Doris, tre volte alla settimana, pensò, in attesa delle
inevitabili domande sulla sua vita sentimentale.
«Che ne dici di lui?» domandò Doris come se le avesse letto nel
pensiero.
Lexie non riuscì a trattenere un sorriso. «Di chi?» domandò con
finto candore.
«Jeremy Marsh. Di chi credevi che stessi parlando?»
«Non ne ho idea. Per questo te l’ho chiesto.»
46
«Smettila di evitare l’argomento. Ho saputo che ha trascorso un
paio d’ore in biblioteca.»
Lexie scrollò le spalle. «Mi ha fatto una buona impressione. L’ho
aiutato a trovare qualche libro e a iniziare le ricerche. Tutto qui.»
«Non gli hai parlato?»
«Certo che abbiamo parlato. Come hai detto tu, si è fermato per
un bel po’.»
Doris aspettò che Lexie aggiungesse altro, ma vedendo che
restava in silenzio, sospirò. «Be’, a me è piaciuto», disse. «Mi è
sembrato un perfetto gentiluomo.»
«Oh, eccome», concordò Lexie. «Assolutamente perfetto.»
«Non mi sembri convinta.»
«Che cosa vorresti che dicessi?»
«Be’, è rimasto abbagliato dalla tua brillante personalità?»
«E che importanza ha? Si fermerà in città solo per pochi giorni.»
«Ti ho mai raccontato di come conobbi tuo nonno?»
«Molte volte», rispose Lexie, ricordando benissimo la storia. Si
erano incontrati su un treno diretto a Baltimora; lui veniva da
Grifton ed era in viaggio per sostenere un colloquio di lavoro che
non avrebbe mai affrontato, decidendo di restare con lei.
«Allora sai che è molto probabile che tu conosca qualcuno
«Allora sai che è molto probabile che tu conosca qualcuno
quando meno te l’aspetti.»
«Lo ripeti sempre.»
Doris strizzò l’occhio. «Solo perché ritengo che ti faccia bene
sentirtelo dire.»
Lexie portò in tavola l’insalata. «Non preoccuparti, io sono
felice. Amo il mio lavoro, ho buoni amici e il tempo per leggere,
correre e fare ciò che mi piace.»
«E non dimenticare la fortuna di avere me.»
«Certo», concordò Lexie. «Come potrei farlo?»
Doris ridacchiò, continuando a seguire la cottura del sugo. Per
un attimo in cucina regnò di nuovo il silenzio e Lexie tirò un
sospiro di sollievo. L’argomento alla fine era stato toccato e sua
nonna non aveva insistito troppo. Adesso avrebbero potuto
godersi in pace la cena.
«Io l’ho trovato piuttosto attraente», osservò invece Doris.
Lexie non rispose; prese i piatti e le posate e li mise sul tavolo.
Forse era meglio fingere di non averla sentita, si disse.
«E tanto perché tu lo sappia, in quell’uomo c’è molto di più di
quello che credi», proseguì la nonna. «Lui è diverso da come
immagini.»
immagini.»
Fu il tono in cui lo disse che attirò la sua attenzione. L’aveva già
sentito altre volte in passato…
quel giorno in cui voleva uscire con gli amici del liceo, e Doris
l’aveva dissuasa, o quando aveva programmato un viaggio a
Miami e lei l’aveva sconsigliata di partire. Nel primo caso, i suoi
amici erano rimasti coinvolti in un incidente stradale; nel secondo,
erano scoppiati dei disordini in città che avevano coinvolto anche
l’albergo dove intendeva andare.
Sapeva che a volte Doris provava delle particolari sensazioni.
Non con l’intensità di sua madre, ma anche se di rado lei dava
spiegazioni più precise, Lexie non dubitava che intuisse sempre la
verità. Del tutto inconsapevole che le linee telefoniche erano
roventi per via dei pettegolezzi sulla sua presenza in città, Jeremy
era sdraiato a letto sotto le coperte e guardava il notiziario locale
in attesa delle previsioni meteo. Rimpiangeva di non aver seguito
l’impulso e di non aver cambiato albergo.
Se lo avesse fatto, ora non sarebbe stato circondato dagli orribili
manufatti di Jed.
Era evidente che quell’uomo aveva un sacco di tempo libero.
E un sacco di proiettili. O pallettoni. O la parte anteriore di un
pick-up. O cosa diavolo gli serviva per uccidere gli animali. In
camera sua c’erano dodici roditori impagliati. A parte l’orso, era
circondato da esemplari di tutte le specie zoologiche del North
Carolina.
Per il resto la camera non era male, se non ci si aspettava un
collegamento superveloce a Internet, o di poterla riscaldare
senza accendere il caminetto, nonché il servizio in camera, la TV
via ca-47
vo oppure una linea telefonica diretta per l’esterno. Il telefono
era ancora a disco. Da quanto tempo non ne vedeva più di
simili? Dieci anni? Persino sua madre si era arresa alla modernità
a tale riguardo. Jed, invece, no. Nossignori. Era evidente che il
buon vecchio amico aveva le sue idee circa quello che era
importante per il comfort dei clienti.
C’era però un aspetto positivo ed era la veranda coperta sul
retro, che dava verso il fiume. C’era persino una sedia a dondolo
e Jeremy accarezzò l’idea di sedersi per un po’ lì fuori, ma poi gli
tornarono in mente i serpenti. Il che lo portò a chiedersi a quale
razza di malinteso si riferisse Gherkin.
La cosa non gli piaceva affatto. Avrebbe dovuto farsi spiegare
meglio e avrebbe anche dovuto chiedere dove poteva
recuperare della legna da quelle parti. Faceva un freddo cane lì
dentro, ma chissà perché lui sospettava che Jed non avrebbe
alzato la cornetta se avesse provato a telefonargli alla reception.
E poi quell’uomo gli faceva paura.
E poi quell’uomo gli faceva paura.
Proprio allora sullo schermo comparve il meteorologo.
Facendosi coraggio, jeremy uscì velocemente dal letto per alzare
il volume. Con movimenti rapidi e rabbrividendo sistemò l’audio
e poi tornò a rifugiarsi sotto le coperte.
Il volto del meteorologo venne immediatamente sostituito dalla
pubblicità. E ti pareva.
Jeremy stava valutando l’idea di recarsi al cimitero, ma prima
voleva scoprire se fosse prevista la nebbia. In caso negativo, ne
avrebbe approfittato per riposare. Era stata una lunga giornata; si
era svegliato nel mondo moderno, era tornato indietro di
cinquant’anni e adesso si trovava a dormire in mezzo al gelo.
Non era cosa da tutti i giorni.
E poi, ovviamente, c’era Lexie. Lexie Vattelapesca. Lexie la
misteriosa. Lexie che flirtava, si ritraeva e flirtava di nuovo.
Perché aveva flirtato con lui, questo era sicuro. Il modo in cui
continuava a chiamarlo signor Marsh? Il fatto che affermasse di
averlo inquadrato fin da subito? Il commento sul funerale?
Decisamente civettuola.
Oppure no?
Riapparve il meteorologo, così giovane da sembrare fresco di
studi. Avrà avuto al massimo ven-titré, ventiquattro anni e quello
studi. Avrà avuto al massimo ven-titré, ventiquattro anni e quello
doveva essere il suo primo impiego. Aveva un’aria da cerbiatto
spa-ventato ma entusiasta. Se non altro, però, sembrava
competente. Non incespicava nelle parole e lui comprese quasi
subito che non sarebbe uscito di lì. Cielo sereno per tutta la
serata e nemmeno un accenno alla nebbia neanche per il giorno
successivo.
Figurarsi.
48
6
Il mattino seguente, dopo la doccia sotto un debole fiotto
d’acqua tiepida, Jeremy infilò jeans, maglione e giacca di pelle
marrone e si diresse verso Herbs, che sembrava essere il posto
migliore dove fare colazione. Entrando nel locale notò il sindaco
Gherkin seduto al bar, intento a conversare con due tipi in giacca
e cravatta, mentre Rachel era impegnata a servire ai tavoli. Jed
sedeva nell’angolo più lontano e, visto da dietro, sembrava una
montagna. In uno dei tavoli centrali c’era Tully in compagnia di
altri tre uomini e, com’era prevedebile, stava tenendo banco. Al
suo arrivo, i presenti lo accolsero con un cenno del capo e della
mano e il sindaco alzò la tazza in un gesto di saluto.
«Buongiorno, signor Marsh», gridò Gherkin. «Sta pensando a
tutte le belle cose che può scrivere sulla nostra città?»
«Sono sicura di sì», intervenne Rachel.
«Spero che abbia trovato il cimitero», borbottò Tully. Si sporse
verso gli altri al suo tavolo.
«Quello è il commercialista di cui vi ho parlato.»
Jeremy ricambiò i cenni di saluto, ma senza aprire bocca. Non
era mai stato mattiniero e per di più non aveva dormito bene a
causa del freddo, nonché degli incubi sui serpenti. Si accomodò
causa del freddo, nonché degli incubi sui serpenti. Si accomodò
al tavolo e Rachel lo raggiunse subito, con in mano il bricco del
caffè.
«Nessun funerale, oggi?» lo stuzzicò.
«No, ho optato per un look più casual», spiegò lui.
«Caffè?»
«Sì, grazie.»
Dopo aver capovolto la tazza sul piattino, Rachel la riempì fino
all’orlo. «Vuoi la specialità del giorno? Gli altri ci si sono buttati
come avvoltoi.»
«E quale sarebbe?»
«Omelette Carolina.»
«Volentieri», rispose Jeremy affamato, anche se ignorava di che
si trattasse.
«Con fiocchi d’avena e pane tostato?»
«Perché no?»
«Arriva in un minuto.»
Jeremy si mise a sorseggiare il caffè mentre dava un’occhiata
all’ultima edizione del giornale locale. Lesse tutte e quattro le
pagine, compresa la prima, che conteneva un lungo articolo sulla
signorina Judy Roberts che aveva appena festeggiato il suo
centesimo compleanno, un traguardo raggiunto dall’1,1 per
cento della popolazione. L’articolo era corredato di una foto del
personale della 49
casa di riposo che reggeva la torta con una sola candelina
davanti alla faccia della signorina sdraiata a letto con aria
comatosa.
Guardò fuori dalla vetrina, chiedendosi come gli fosse venuto in
mente di sfogliare la stampa locale. Sul marciapiede c’era un
distributre automatico di USA Today e lui si stava già frugando
nelle tasche alla ricerca di moneta quando un agente in uniforme
gli si mise seduto di fronte.
L’uomo aveva un aspetto minaccioso e palestrato: i bicipiti gonfi
gli tiravano le cuciture delle maniche e gli occhiali da sole a
specchio che sfoggiava erano fuori moda almeno da vent’anni.
Teneva la mano posata sulla fondina della pistola e aveva in
bocca uno stuzzicadenti. Non disse niente, ma rimase lì a fissarlo
con aria intimidatoria, dandogli tutto il tempo per specchiarsi
nelle sue lenti.
«C’è qualche problema?» domandò infine lui.
Lo stuzzicadenti scivolò da un angolo all’altro della bocca.
Lo stuzzicadenti scivolò da un angolo all’altro della bocca.
Jeremy piegò il giornale, chiedendosi che cosa diamine stesse
succedendo.
«Jeremy Marsh?» esordì l’agente.
«Sì?»
«Lo supponevo.»
Sopra il taschino della camicia dell’agente, Jeremy notò un
distintivo lustro con inciso il nome.
Un’altra targhetta identificativa.
«Lei è lo sceriffo Hopper?»
«Il vice Hopper», lo corresse il poliziotto.
«Mi scusi», disse Jeremy. «Ho fatto qualcosa di sbagliato,
agente?»
«Non so», replicò Hopper. «L’ha fatto?»
«Non che io sappia.»
Il vice Hopper spostò ancora una volta lo stuzzicadenti nella
bocca. «Ha intenzione di trattenersi qui a lungo?»
«Una settimana, più o meno. Sono venuto per scrivere un
«Una settimana, più o meno. Sono venuto per scrivere un
articolo…»
«Lo so perché è qui», lo interruppe l’altro. «Volevo solo
controllare di persona. Mi piace scambiare due chiacchiere con i
forestieri che bazzicano la nostra città.»
Mise l’accento sulla parola forestieri, come se fosse offensiva.
Jeremy era perplesso da quella palese ostilità.
«Ah», disse.
«Ho saputo che ha intenzione di passare molto tempo in
biblioteca.»
«Ecco… in effetti credo che…»
«Mmm», borbottò il vice, interrompendolo di nuovo.
Jeremy sollevò la tazza e bevve un sorso di caffè per guadagnare
tempo. «Scusi se glielo chiedo, vice Hopper, ma non capisco
bene che cosa stia succedendo.»
«Mmm», ripeté Hopper.
«Non starai dando fastidio al nostro ospite, vero, Rodney?»
chiese Gherkin dall’altro capo della sala. «È un visitatore di
riguardo, sai, interessato al folclore locale.»
Il vice Hopper non batté ciglio, continuando a fissare Jeremy con
Il vice Hopper non batté ciglio, continuando a fissare Jeremy con
aria contrariata. «Scambiavo solo due chiacchiere con lui,
sindaco.»
«Allora adesso lasciagli fare colazione in pace», lo redarguì
Gherkin. Fece un cenno con la ma-no. «Venga, Jeremy. Vorrei
presentarle un paio di persone.»
Con un sospiro di sollievo, lui si alzò dal tavolo.
Al bar, il sindaco gli presentò un avvocato dall’aria emaciata, e
un medico corpulento che lavorava in una clinica della città.
Entrambi lo scrutarono come aveva fatto Hopper poco prima.
Con so-spensione di giudizio, come si dice. Intanto Gherkin
stava ripetendo per l’ennesima volta quanto la cittadinanza fosse
emozionata per la sua visita. Si sporse verso gli altri due e rivolse
loro uno sguardo pieno di complicità.
«Potremmo finire persino a Primetime Live», bisbigliò.
«Ma no», commentò lo scheletrico avvocato.
50
Jeremy era in imbarazzo. «Ecco, come stavo cercando di
spiegare al sindaco ieri…»
Gherkin gli diede una pacca sulla schiena, interrompendolo.
«È fantastico», commentò. «Andremo in onda su una rete
nazionale.»
Gli altri annuirono.
«A proposito, Jeremy», disse il sindaco di punto in bianco,
«vorrei invitarla stasera a una cena informale con un piccolo
gruppo di amici. Niente di speciale, ovviamente, ma le
permetterà di fare qualche conoscenza.»
Lui alzò le mani. «Non è necessario, davvero…»
«Sciocchezze», tagliò corto il sindaco. «È il minimo che le
dobbiamo. E tenga presente che alcuni di loro hanno visto con i
loro occhi i fantasmi, così potrà raccogliere delle testimonianze
diret-te. Quei racconti fanno venire i brividi.»
A quel punto tutti e tre lo fissavano pieni di aspettativa. Jeremy
esitò un istante, e questo bastò a Gherkin per concludere che
aveva accettato l’invito.
«Diciamo alle sette?» chiese.
«Sì… certo. Va bene», concordò Jeremy. «Dove ci
incontreremo?»
«Glielo farò sapere più tardi. Immagino che la troverò in
biblioteca, giusto?»
«È probabile.»
Il sindaco lo guardò malizioso. «Allora scommetto che avrà già
conosciuto la nostra graziosa bibliotecaria, la signorina Lexie?»
«Sì, infatti.»
«Una donna ammirevole, non trova?»
Il tono allusivo con cui pronunciò quelle parole lasciava trapelare
tutta una serie di implicazioni tipica da conversazioni tra maschi.
«Mi ha aiutato molto», disse Jeremy.
Il medico e l’avvocato sorrisero, ma prima che qualcuno potesse
aggiungere altro arrivò Rachel, ondeggiando sui fianchi e
fermandosi un po’ troppo vicino a lui. Gli toccò un braccio.
«Vieni, tesoro. È arrivata la colazione.»
Jeremy guardò il sindaco.
«Vada pure, ci mancherebbe», disse Gherkin agitando le mani.
Lui seguì Rachel al tavolo. Per fortuna il vice Hopper se n’era
andato e così si sedette al suo posto mentre la cameriera gli
metteva il piatto davanti.
«Buon appetito. L’ho fatta dare speciale, dato che vieni da New
«Buon appetito. L’ho fatta dare speciale, dato che vieni da New
York. Quanto mi piace quella città!»
«Oh, ci sei stata?»
«Veramente no. Ma vorrei tanto. Mi sembra così… sofisticata
ed eccitante.»
«Dovresti vederla. Non esiste un altro posto simile in tutto il
mondo.»
Lei sorrise civettuola. «Ma come, signor Marsh… questo è forse
un invito?»
Jeremy spalancò la bocca. Cosa diavolo…?
Rachel, dal canto suo, non sembrò fare caso alla sua espressione
allibita. «Potrei anche accettare, tesoro», cinguettò. «E mi
farebbe piacere portarti in giro per il cimitero di notte, quando
vorri andarci. Di solito finisco di lavorare verso le tre.»
«Lo terrò presente», mormorò lui.
Nei venti minuti successivi, mentre Jeremy mangiava, Rachel
tornò al tavolo tre o quattro volte, riempiendogli la tazza di caffè
con un sorriso radioso stampato sulla faccia.
Jeremy si avviò verso la macchina, cercando di riprendersi da
quella che avrebbe dovuto essere una piacevole colazione.
quella che avrebbe dovuto essere una piacevole colazione.
Il vice Hopper. Il sindaco Gherkin. Tully. Rachel. Jed. Le
cittadine di provincia non si poteva affrontarle così, di prima
mattina, si disse.
51
Decise che il giorno dopo avrebbe bevuto un caffè da qualche
altra parte, anche se da Herbs il cibo era davvero ottimo. Come
aveva detto Doris, sembrava che gli ingredienti fossero arrivati
direttamente dalla campagna quella mattina.
Comunque, l’indomani un bel caffè altrove, si ripeté. E di certo
non alla macchinetta del distributore di Tully, non voleva restare
invischiato in una conversazione infinita quando aveva un sacco
di cose da…
Scrollò la testa e tirò fuori le chiavi dell’auto dalla tasca mentre
ricominciava a camminare. Se non altro, la colazione era finita.
Guardò l’ora e vide che mancava poco alle nove. Ottimo.
Lexie si ritrovò a guardare fuori dalla finestra dell’ufficio proprio
mentre Marsh entrava nel parcheggio.
Jeremy Marsh. Non era riuscita a scacciare quel pensiero dalla
mente nemmeno per un momento. E adesso, eccolo lì in
persona. Aveva cercato di vestirsi in maniera più casual per
confondersi con la gente del posto. E ce l’aveva quasi fatta,
considerò lei.
Ora basta, si disse, era ora di mettersi al lavoro. Le pareti del
suo ufficio – il cui mobilio essen-ziale era costituito solo da uno
schedario grigio e una moderna scrivania con una sedia girevole
–
erano rivestite di ripiani pieni zeppi di libri da cima a fondo, messi
in verticale e in orizzontale. Per mancanza di spazio i documenti
erano impilati un po’ dappertutto: negli angoli, sotto la finestra,
sull’unica altra sedia presente nella stanza, mentre le pratiche
considerate da lei più urgenti occupa-vano il piano della
scrivania.
A fine mese doveva presentare il bilancio e aveva una serie di
cataloghi editoriali da spulciare prima di inoltrare gli ordini
settimanali. A questo andavano aggiunte la ricerca di un oratore
per il pranzo di aprile degli Amici della Biblioteca e la
preparazione del Giro delle dimore storiche, di cui faceva parte
anche quel vecchio edificio. Insomma, non le restava neanche un
attimo per respirare.
C’erano due impiegate che l’aiutavano in quel lavoro, però
sapeva con esperienza che le cose proce-devano più spedite se
non delegava. Il personale andava bene per consigliare titoli
usciti di recente o cercare i testi che servivano agli studenti, ma
l’ultima volta che aveva lasciato a una sua collabo-ratrice la
scelta dei volumi da ordinare, alla fine si era ritrovata con sei libri
scelta dei volumi da ordinare, alla fine si era ritrovata con sei libri
diversi sulle orchidee, che erano il fiore preferito della ragazza.
Quella mattina si era seduta al computer per stilare un elenco
delle priorità della giornata, ma non era approdata a nulla. Per
quanto si sforzasse, la sua mente aveva continuato a girare
intorno a Jeremy Marsh. Non voleva pensare a lui, ma le parole
allusive di Doris erano bastate a sollecitare la sua curiosità.
Lui è diverso da come immagini.
Che cosa significava? si chiese per l’ennesima volta. La sera
prima, quando l’aveva incalzata, sua nonna si era chiusa a riccio,
sostenendo di non aver voluto dire niente di particolare. Poi la
conversazione si era spostata su altri argomenti: il lavoro,
aneddoti sulle persone di loro conoscenza, le prospettive per
l’imminente Giro delle dimore storiche. Doris era presidentessa
della Historical Society e il giro era uno degli avvenimenti più
importanti del luogo, anche se non richiedeva grandi preparativi.
In genere ogni anno venivano scelte le stesse case, oltre a
quattro chiese e alla biblioteca. Mentre la nonna parlava del più e
del meno, lei aveva continuato a ripensare alla sua affermazio-ne.
Lui è diverso da come immagini.
E che cosa significava? Un tipico newyorkese? Un dongiovanni?
Un uomo in cerca di un flirt veloce? Uno che si sarebbe preso
gioco della città non appena se la fosse lasciata alle spalle? Un
giornalista che voleva scrivere un articolo a tutti i costi, anche se
così feriva la sensibilità della gente? E poi, perché mai doveva
interessarle? Sarebbe rimasto lì solo pochi giorni, e dopo la sua
partenza tutto sarebbe tornato come prima. Grazie al cielo.
Oh, sì, aveva già sentito le voci che giravano quella mattina. Dal
panettiere, aveva udito due donne che parlavano di Jeremy
Marsh. Di come avrebbe reso famosa la città, di come ora le
cose 52
sarebbero un pochino migliorate economicamente. Quando
l’avevano vista, l’avevano investita di domande su di lui e le
avevano esposto le loro opinioni sull’origine delle luci misteriose.
Dopo tutto alcune persone erano sinceramente convinte che ci
fossero gli spiriti. Altri, invece, non lo credevano affatto, come il
sindaco Gherkin, per esempio. No, lui aveva un punto di vista
diverso e considerava le indagini di quel giornalista come una
specie di scommessa. Se il signor Marsh non fosse riuscito a
identificare la causa del fenomeno, la città ci avrebbe guadagnato
ed era proprio su questo che puntava il sindaco. Dopo tutto, lui
era al corrente di particolari ignoti ai più.
Erano anni che si indagava su quel mistero. A parte lo storico
locale – che secondo lei era giunto a ipotizzare una spiegazione
plausibile – in passato da fuori erano arrivati almeno due volte
degli esperti per fare delle ricerche, ma senza ottenere particolari
risultati. Gli studenti della Duke, poi, erano stati invitati a venire lì
dal sindaco in persona, che sperava non approdassero a niente.
dal sindaco in persona, che sperava non approdassero a niente.
E in effetti, il flusso turistico nella zona da allora era aumentato.
Forse avrebbe dovuto riferirlo al signor Marsh il giorno prima,
considerò. Ma lui non le aveva chiesto niente in proposito, e così
non glielo aveva detto. E poi era troppo occupata a respingere le
avance e a mettere bene in chiaro che non nutriva interesse nei
suoi confronti, per pensarci. Oh, sì, quell’uomo aveva cercato di
essere galante… ecco, alla sua maniera lo era anche stato, ma
questo non cambiava il fatto che lei non aveva nessuna intenzione
di lasciarsi andare alle emozioni. La sera prima aveva provato
quasi sollievo quando era uscito dalla biblioteca.
E poi Doris era saltata fuori con quella sua ridicola osservazione,
il cui significato, in sostanza, era: Lexie, ti consiglio di
approfondire la sua conoscenza. Quello che la turbava di più era
sapere che la nonna non parlava mai a vanvera. Per qualche
misteriosa ragione, evidentemente vedeva qualcosa di speciale
in… Jeremy.
A volte lei odiava le premonizioni della nonna.
Ovviamente, avrebbe agito a modo suo. Dopo tutto aveva già
fatto la prova con un «forestiero di passaggio» e non desiderava
ripercorrere quella strada. Nonostante i propositi, però, doveva
ammettere che tutta la faccenda la lasciava un po’ spiazzata.
Mentre era immersa in simili riflessioni, sentì la porta dell’ufficio
aprirsi cigolando.
«Buongiorno», disse Jeremy infilando dentro la testa. «Mi era
sembrato di vedere una luce quassù.» Lei ruotò la sedia, e notò
che lui si era sfilato la giacca e la teneva sulle spalle.
«Salve.» Annuì educatamente. «Stavo giusto cercabdo di
cominciare a fare qualcosa.»
Lui le mostrò la giacca. «C’è un posto dove metterla? Sulla
scrivania della sala dei libri rari non c’è molto spazio.»
«La dia pure a me. C’è un appendiabiti qui dietro la porta.»
Jeremy entrò e le consegnò la giacca, che lei appese accanto alla
propria. Lui diede un’occhiata in giro per l’ufficio.
«Allora è questa la plancia di comando, eh? Il luogo dove si
decide tutto?»
«Esatto», confermò lei. «Non molto spazioso, ma sufficiente allo
scopo.»
«Mi piace il suo sistema di archiviazione. Anch’io ne ho uno
simile a casa», osservò Jeremy indicando a pila di documenti
sulla scrivania.
Lexie non riuscì a trattenere un sorriso, mentre lui faceva un
passo verso la scrivania e guardava fuori dalla finestra.
«Bel panorama, anche. Si vede fino alla casa vicina. E anche il
parcheggio.»
«Mi sembra di umore piuttosto irascibile, stamattina, o sbaglio?»
«E come potrei non esserlo? Ho dormito in una ghiacciaia piena
di animali morti. O meglio, ho cercato di dormire. Continuavo a
sentire strani rumori provenienti dal bosco.»
«Mi chiedevo che impressione le avrebbe fatto il Greenleaf. Ho
sentito dire che è piuttosto rustico.» «L’aggettivo ‘rustico’ è un
eufemismo. E poi, stamattina a colazione… c’era mezza città.»
«Ne deduco che è stato da Herbs», osservò lei.
«Esatto», confermò Jeremy. «Lei non c’era, però.»
53
«No, troppo chiassoso. Io ho bisogno di un po’ di tranquillità
per cominciare la giornata.»
«Avrebbe dovuto avvisarmi.»
Lei sorrise. «Avrebbe dovuto chiedermelo.»
Jeremy rise e Lexie fece un cenno con la mano verso la porta.
Mentre lo accompagnava nella sala dei libri rari, sentì che era
Mentre lo accompagnava nella sala dei libri rari, sentì che era
tornato di buonumore, nonostante la stanchezza, ma questo non
bastava a convincerla a fidarsi di lui.
«Per caso, conosce il vicesceriffo Hopper?» domandò Jeremy.
Lei lo guardò sorpresa. «Rodney?»
«Sì, mi pare si chiami così. Qual è il suo problema? Mi è
sembrato un po’ turbato dalla mia presenza in città.»
«Oh, le assicuro che è innocuo.»
«Con me era piuttosto aggressivo.»
Lei scrollò le spalle. «Probabilmente ha saputo che passa del
tempo qui in biblioteca. Vede, è un po’ protettivo quando si
tratta di questo. Sono anni che ha un debole per me.»
«Vuole metterci una buona parola, per favore?»
«Ci proverò.»
Jeremy parve sorpreso, come se si fosse aspettato un’altra
risposta mordace.
«Grazie», disse.
«Nessun problema. Ma veda di non farmene pentire.»
Continuarono a camminare in silenzio fino alla sala dei libri rari.
Lei entrò per prima e accese la luce nella stanza.
«Ho riflettuto sulla sua ricerca e credo che ci sia qualcosa che
dovrebbe sapere.»
«E cioè?»
Gli parlò delle due indagini precedenti riguardanti il cimitero e poi
aggiunse: «Se mi lascia un po’ di tempo, vedrò di recuperarle».
«Molto gentile da parte sua», disse lui. «Ma come mai non me ne
ha parlato ieri?»
Lei sorrise senza rispondere.
«Mi lasci indovinare», proseguì lui. «Perché non gliel’ho
chiesto?»
«Sono solo una bibliotecaria, non so leggere nel pensiero.»
«Come fa sua nonna? No, aspetti, Doris è una rabdomante,
giusto?»
«Lo è davvero. Sa anche predire il sesso dei bambini prima che
nascano.»
«Così ho sentito.»
Gli occhi di lei lampeggiarono. «È vero, Jeremy. Mia nonna è in
grado di farlo.»
Lui sorrise. «Sbaglio o mi ha appena chiamato Jeremy?»
«Sì. Ma non ricamarci troppo su. Me l’avevi chiesto tu, ricordi?»
«È vero, Lexie.»
«Non tirare troppo la corda, adesso», ribatté lei, ma Jeremy si
accorse che, mentre parlava, il suo sguardo indugiava su di lui, e
questo gli piacque.
Gli piacque immensamente.
54
7
Jeremy trascorse la mattinata chino su una pila di libri e sui due
articoli che Lexie aveva trovato.
Il primo, scritto nel 1958 da uno studioso di folclore della
University of North Carolina a pubblicato sul Journal of the
South, sembrava una replica dell’esposizione della leggenda fatta
da A.J. Morrison. L’articolo citava qualche passo di quell’opera,
riassumeva la leggenda e descriveva la permanenza di una
settimana del professore nel cimitero. Per quattro sere aveva
visto le luci. Sembrava che avesse condotto almeno un tentativo
preliminare per scoprirne la causa: aveva contato il numero delle
abitazioni nella zona circostante (ce n’erano diciotto nel raggio di
un miglio e, stranamente, nessuna su Riker’s Hill), nonché delle
auto che erano passate entro un paio di minuti dalla comparsa
delle luci. Per due sere in questo caso il lasso di tempo era stato
di meno di un minuto. Nelle altre due, invece, non si era
verificato il passaggio di nessuna macchina, il che sembrava
escludere che le luci «fantasma» fossero causate dal riflesso dei
fari.
Il secondo articolo riportava soltanto qualche indicazione in più.
Pubblicato nel 1969 su Coastal Carolina, una piccola rivista
fallita nel 1980, segnalava il fenomeno dello sprofondamento del
cimitero e le sue conseguenze. L’autore citava tra l’altro la
leggenda e la vicinanza di Riker’s Hill e, pur non avendo visto
personalmente le luci (era stato lì d’estate), attingeva
abbondantemente ai testimoni oculari prima di speculare su varie
ipotesi di cui Jeremy era già a conoscenza.
La prima erano i cosiddetti fuochi fatui, ovvero l’accenzione
spontanea di gas prodotti dalla vegetazione in decomposizione
nelle zone paludose. Jeremy sapeva che, in una zona costiera
come quella, l’idea non poteva essere scartata del tutto, anche se
la reputava improbabile, dato che le luci comparivano nelle notti
fredde e nebbiose. Oppure, poteva trattarsi di «luci sismiche»,
cariche elet-trostatiche generate dall’attrito tra le rocce sotto la
crosta terrestre. Veniva anche avanzata nuovamente la teoria dei
fari delle automobili, poi quella della luce stellare rifratta o ancora
della fosfore-scenza del legno in decomposizione o di
determinate specie di funghi. Anche le alghe, si precisava,
potevano essere fosforescenti. L’autore citava persino
l’eventualità che si trattasse dell’effetto No-vaya Zemlya, per cui
i raggi di luce vengono curvati da strati adiacenti d’aria a diverse
temperature e sembrano ardere. E per finire, affermava che
poteva trattarsi di fuochi di Sant’Elmo, creati dalle scariche
elettriche generate dagli oggetti appuntiti durante i temporali.
In altre parole, tutto era possibile.
Per quanto inconcludenti, gli articoli servirono a Jeremy per
mettere ordine nelle sue idee. Secondo lui, le luci avevano a che
fare con la geografia, ossia con la configurazione fisica del posto.
fare con la geografia, ossia con la configurazione fisica del posto.
La collina dietro Cedar Creek era il punto più alto in tutte le
direzioni e l’abbassamento del suolo del cimitero rendeva la
nebbia più densa in quell’area. Il che creava le condizioni per un
fenomeno di riflessione o rifrazione della luce.
55
Doveva solo individuare la fonte, e per farlo aveva bisogno di
scoprire quando le luci erano state notate per la prima volta.
Non in modo generico, ma gli serviva una data precisa che gli
permettesse di collegarle agli avvenimenti accaduti allora in città.
Se all’epoca c’era stato un grande cambiamento – un nuovo
progetto urbanistico, una nuova fabbrica, o qualche infrastruttura
– lui avrebbe trovato la causa che cercava.
Anche se avesse potuto osservare le luci, cosa su cui non
contava affatto, il suo lavoro sarebbe stato più facile. Nel caso in
cui fossero comparse a mezzanotte, per esempio, senza che
passassero automobili, lui avrebbe potuto perlustrare la zona,
segnando l’ubicazione di case abitate con le finestre illuminate, la
posizione dell’autostrada o magari verificando anche il traffico
fluviale. Pensava che persino le barche di grosse dimensioni
potessero essere una fonte di luce.
Riguardò i libri una seconda volta e annotò i cambiamenti
avvenuti in città nel corso degli anni, con particolare attenzione a
quelli che risalivano a fine Ottocento.
Con il passare dei minuti l’elenco si allungava. All’inizio del
Novecento c’era stato una specie di boom edilizio, durato dal
1907 al 1914, che aveva interessato in particolare la zona
settentrionale della città. Il porticciolo era stato ampliato nel
1910, nel 1916 e ancora nel 1922; l’attività estrattiva in quel
periodo era intensa, con cave di pietra e miniere di fosforo. I
lavori della ferrovia erano iniziati nel 1898 e proseguiti fino al
1912 in varie zone della contea. Nel 1904 era stato ultimato un
ponte sul fiume, e tra il 1908 e il 1915 erano stati costruiti tre
nuovi complessi industriali: una tessitura, una miniera si fosforo e
una cartiera. Delle tre, solo la cartiera era ancora attiva – la
tessitura aveva chiuso tre anni prima, la miniera nel 1987 – e
questo faceva escludere le altre due strutture.
Ricontrollò i dati per assicurarsi che fossero corretti, poi impilò i
libri in modo che Lexie potesse rimetterli a posto. Si appoggiò
alla spalliera della sedia stirandosi la schiena,e guardò l’orologio.
Era quasi mezzogiorno. Tutto sommato erano state ore ben
spese, pensò. In quel momento la porta alle sue spalle si aprì e
lui si voltò.
«Salve», lo salutò Lexie. «Come va?»
«Bene, grazie.»
Lei si infilò la giacca. «Senti, sto andando a mangiare, vuoi che ti
porti qualcosa?»
«Vai da Herbs?» domandò Jeremy.
«Se l’hai trovato affollato per colazione, dovresti vedere a
pranzo. No, ma dopo posso passare di lì a farmi fare un panino,
se lo desideri.»
Lui ebbe un attimo di esitazione.
«Senti, che ne dici se vengo con te? Vorrei sgranchirmi un po’ le
gambe. Sono stato seduto qui tutta la mattina e mi piacerebbe
scoprire un nuovo locale. Magari poi potresti farmi da guida nei
dintorni.» Tacque per un istante. «Sempre che tu sia d’accordo,
s’intende.»
Lexie stava per opporre un rifiuto, ma poi le tornarono in mente
le parole della nonna e la sua determinazione vacillò. Doveva
accettare o no? Nonostante i buoni propositi, per colpa di Doris
finì per rispondere: «Ma certo. Però ti avverto che devo tornare
qui presto, e non credo che potrò esserti molto utile.»
Lui parve sorpreso almeno quanto lei, ma si riprese subito, si
alzò e la seguì fuori. «Va bene comunque», disse. «Qualsiasi
informazione mi aiuterà a colmare i vuoti. Mi serve sapere che
cosa succede in un posto come questo.»
«Intendi nella nostra cittadina di campagna?»
«Non ho mai detto che è una cittadina di campagna. Sono parole
tue.»
«Già, ma è quello che pensi. Io amo questa città.»
«Non ne dubito», concordò lui. «Altrimenti, perché ci vivresti?»
«Perché non è New York, tanto per cominciare.»
«Ci sei mai stata?»
«Ho abitato a Manhattan, sulla Sessantanovesima Ovest.»
Lui rischiò di inciampare. «Ma è a pochi isolati da dove sono
io.»
Lei sorrise. «Piccolo il mondo, non trovi?»
Affrettando il passo, Jeremy la raggiunse mentre imboccava le
scale. «Stai scherzando, vero?»
56
«No», rispose lei. «Ci ho vissuto per un anno con il mio ragazzo.
Lui lavorava per la Morgan Stanley mentre io facevo tirocinio
nella biblioteca della New York University.»
«Incredibile…»
«Incredibile…»
«Che cosa? Che lavoravo a New York e poi me ne sono
andata? Oppure che abitavo vicino a lei? O che vivevo con il
mio ragazzo?»
«Be’, tutto quanto», rispose lui. «Scusami, ma…» Stava
cercando di immaginarsi quella bibliotecaria di provincia che si
aggirava per il suo quartiere.
Vedendo la sua espressione stupita, Lexie si mise a ridere.
«Siete tutti uguali, sai?» disse.
«Chi?»
«Voi newyorkesi. Siete convinti che non esista al mondo una
città migliore, e che nessun altro posto abbia qualcosa da
offrire.»
«Hai ragione», riconobbe Jeremy. «Ma solo perché a confronto
qualsiasi altro posto impallidi-sce.»
Lexie lo scrutò. Non puoi aver detto quello che credo di aver
sentito, vero?
Lui scrollò le spalle con aria innocente. «Insomma, andiamo…
Greenleaf Cottages non si può certo paragonare al Four
Season o al Plaza, giusto? Anche tu devi riconoscerlo.»
Il suo atteggiamento spavaldo la irritava, e affrettò ancora di più
il passo. Decise in quell’istante che Doris non sapeva proprio di
che cosa parlava.
Jeremy, tuttavia, non intendeva mollare. «Avanti, ammettilo… lo
pensi anche tu, no?»
A quel punto erano arrivati alla porta d’ingresso della biblioteca
e lui gliel’aprì. Alle loro spalle, la donna anziana seduta al banco
li osservava curiosa. Lexie rimase zitta finché non furono usciti.
«Le persone non vivono negli alberghi», replicò poi, piccata.
«Ma nelle comunità. Ed è proprio ciò che abbiamo noi qui, una
comunità. Dove la gente si conosce e si aiuta a vicenda. Dove i
bambini possono giocare fuori di sera senza avere paura degli
estranei perché tutti li proteggono.»
Lui alzò le mani. «Ehi», reclamò, «non fraintendermi. Le
comunità mi piacciono. Ci sono cresciuto anch’io. Da piccolo,
conoscevo tutte le famiglie del mio quartiere, che abitavano lì da
tempo.
Perciò, credimi, so bene quanto siano importanti le relazioni tra
vicini di casa. Quello che voglio di-re è che esistono anche a
New York, dipende da dove vivi. Certo, il quartiere dove sto
adesso è pieno di single e di uomini d’affari, e la popolazione
cambia continuamente. Ma prova ad andare a Park Slope, a
Brooklyn, oppure ad Astoria nel Queens, e vedrai bambini nei
Brooklyn, oppure ad Astoria nel Queens, e vedrai bambini nei
parchi che giocano a basket e a calcio, proprio come a Boone
Creek.»
«Come se certe cose ti fossero mai interessate.»
Si pentì della propria durezza non appena ebbe pronunciato
quelle parole acide, ma Jeremy non parve prendersela.
«Eccome», disse. «E credi che, se avessi dei figli, non rimarrei lì.
Ho un sacco di fratelli che vivono in città, e tutti abitano in
quartieri dove ci sono tanti bambini e la gente li tiene d’occhio.
Per molti versi, è uguale a qui.»
Lei non rispose, fissandolo con aria di diffidenza.
«Senti», proseguì lui accomodante, «non voglio litigare. Ma
credo che i bambini crescano bene finché i loro genitori si
occupano di loro, ovunque vivano. Non è vero che le città di
provincia hanno il monopolio dei valori morali. Sono convinto
che, se scavassi un po’, troverei anche qui molti ragazzini con dei
problemi.» Sorrise, per farle capire che non si era offeso. «E
inoltre, non so proprio come abbiamo finito per parlare di
bambini. D’ora in avanti non toccherò più l’argomento. Volevo
solo dire che sono rimasto sorpreso di sapere che hai abitato a
New York, a poca distanza da dove vivo io.» Fece una pausa.
«Tregua?»
Lexie lo fissò per un attimo, trattenendo il fiato. Forse aveva
Lexie lo fissò per un attimo, trattenendo il fiato. Forse aveva
ragione lui, si disse. No, era così. E
doveva ammettere che era stata lei a prendersela. Quando uno
ha la mente confusa, può succedere.
Ma in che situazione si stava cacciando?
«Tregua», concordò infine espirando. «A una condizione.»
«E quale sarebbe?»
«Devi guidare tu. Io oggi sono senza macchina.»
57
Lui parve sollevato. «Nessun problema», disse cercando le
chiavi in tasca.
Dato che nessuno dei due era particolarmente affamato, Lexie
condusse Jeremy in una piccola drogheria, dove acquistarono
una confezione di cracker, dei succhi di frutta e diversi tipi di
formaggi. Tornati in macchina, lei mise il sacchetto sul pavimento
e domandò: «C’è qualche posto in particolare che ti piacerebbe
visitare?»
«Riker’s Hill. C’è una strada che raggiunge la cima?»
Lei annuì. «Non è asfaltata, in origine serviva a trasportare il
legname e adesso la usano soprattutto i cacciatori di cervi. Il
fondo è sconnesso… non so se puoi andarci con la tua
macchina.»
«Non preoccuparti. L’ho presa a noleggio. E sto facendo
l’abitudine alle strade di qui.»
«D’accordo», ribatté lei. «Ma poi non dire che non t’avevo
avvertito.»
Non parlarono molto mentre uscivano dalla città, superavano il
cimitero di Cedar Creek che si scorgeva a distanza tra la
vegetazione. Riker’s Hill incombeva sulla sinistra con aria truce e
minac-ciosa nella luce invernale.
La prima volta che era stato al cimitero, Jeremy era arrivato più
o meno fino a quel punto prima di tornare indietro. Ora la strada
sembrava dirigersi verso il retro di Riker’s Hill. Sporgendosi in
avanti sul sedile, Lexie scrutò fuori dal parabrezza.
«Il bivio è poco più avanti», disse. «È meglio che rallenti.»
Jeremy ubbidì e, mentre lei continuava a fissare davanti a sé, si
voltò a guardarla e notò l’ombra di una ruga di concentrazione
tra le sue sopracciglia.
«Ecco… qui», annunciò lei, indicando un punto.
Aveva ragione: la strada per la collina era tutta sassi e buche,
Aveva ragione: la strada per la collina era tutta sassi e buche,
come quella di accesso al Greenleaf, ma in condizioni peggiori.
Subito dopo aver svoltato, l’auto cominciò a sobbalzare e
Jeremy rallentò ulteriormente.
«Riker’s Hill appartiene al demanio?»
Lexie annuì. «Circa vent’anni fa lo stato acquistò la collina da
una delle grandi compagnie di legname, mi pare la Weyerhaeuser
o la Georgia-Pacific. Credo che volessero trasformarla in una
riserva naturale, ma poi è rimasto tutto fermo.»
Fiancheggiata da pini sempre più fitti, la strada si stringeva, ma le
sue condizioni migliorarono a mano a mano che salivano a zigzag verso la sommità. Di tanto in tanto scorgevano un sentiero
che s’inoltrava nel bosco.
Dopo un po’ la vegetazione si diradò scoprendo porzioni di cielo
sempre più ampie; avvicinandosi alla cima, la collina era più
spoglia. C’erano molti tronchi tagliati, meno di un terzo degli
alberi era rimasto ancora in piedi. La salita si fece meno ripida
finché non raggiunsero un pianoro. Lexie disse a Jeremy di
fermarsi e poi scesero dall’auto.
Lei si incamminò al suo fianco a braccia conserte. L’aria lassù
era più fredda, il vento pungente.
Anche il cielo pareva più vicino; le novole non erano solo un
ammasso grigio, ma si contorcevano e si sfilacciavano dando vita
ammasso grigio, ma si contorcevano e si sfilacciavano dando vita
a forme suggestive. Sotto di loro si vedeva la città, con le case
allineate lungo le strade, una delle quali conduceva al cimitero di
Cedar Creek. Appena fuori dall’abitato l’acqua limacciosa del
fiume sembrava ferro liquido. Lui scorse il ponte dell’autostrada
e più in là un vecchio ponte ferroviario, mentre un falco dalla
coda rossa si librava alto sulla pianura. Dopo un po’ Jeremy
riuscì a individuare anche la biblioteca e il Greenleaf, con i
bungalow seminascosti dalla vegetazione.
«Un panorama spettacolare», disse.
Lexie indicò verso i bordi della città. «Vedi quella casetta laggiù?
Un po’ di lato, vicino allo stagno? È dove abito io adesso. E là?
Quella è la casa di Doris. Ci sono cresciuta. A volte, da piccola,
guardavo verso la collina e mi immaginavo di vedere me stessa
che osservava la città da quassù.»
Lui sorrise. Il vento le scompigliava i capelli.
58
«Da ragazzina venivo spesso qui con i miei amici e ci restavamo
per ore. D’estate il calore fa tremolare le luci delle case, come se
fossero stelle. E poi le lucciole… in giugno ce ne sono così tante
che sembra ci sia un’altra città in cielo. Anche se tutti
conoscevano questo posto, non ci veniva mai molta gente. Per
noi è sempre stato una specie di rifugio segreto.»
Tacque e si rese conto di essere un po’ nervosa. Non riusciva
proprio a capirne la ragione.
«Mi ricordo che una volta era stato annunciato un grande
temporale. Io e le mie amiche convin-cemmo un ragazzo a
portarci quassù con il suo furgone. Sai, uno di quei mezzi con le
ruote enormi che possono scendere sino in fondo al Grand
Canyon. Volevamo guardare i lampi, senza considerare che
saremmo stati nel punto più alto di tutta la zona. Quando
cominciarono, all’inizio fu bello. Il cielo si illuminava a giorno, a
volte con una saetta, altre volte con una luce a intermittenza, e
noi contavamo fino a sentire il tuono, per capire la distanza. Ma
all’improvviso il temporale si avvicinò.
Il vento soffiava talmente forte da scuotere il furgone e la pioggia
era così fitta che non si vedeva più niente. E poi i lampi
cominciarono a cadere sugli alberi intorno a noi. Dal cielo
piovevano saette gigantesche che facevano tremare il terreno e le
cime dei pini prendevano fuoco sprizzando scintil-le.» Mentre lei
parlava, Jeremy la osservava. Era la prima volta che raccontava
qualcosa di sé da quando si erano conosciuti e cercò di
immaginarsi come doveva essere allora. Che tipo era Lexie al-le
superiori? Una ragazza allegra e carina? Oppure una secchiona,
che trascorreva l’intervallo in biblioteca? D’accordo, era storia
vecchia – a chi importava più del liceo? – però lo incuriosiva il
suo passato.
«Chissà che paura ti sarai presa», disse. «I lampi possono
arrivare a cinquantamila gradi, sai. È
dieci volte la temperatura sulla superficie del Sole.»
Lei sorrise divertita. «Non lo sapevo. Però hai ragione, credo di
non essere mai stata così terro-rizzata in vita mia.»
«E come andò a finire?»
«Il temporale passò, come sempre. Una volta che ci fummo
ripresi dallo spavento, tornammo a casa. Ma ricordo che Rachel
mi stringeva così forte la mano da lasciarmi i segni delle unghie
nella pelle.»
«Rachel? Non sarà per caso la cameriera di Herbs, vero?»
«Sì, proprio lei.» Lexie incrociò di nuovo le braccia e lo guardò.
«Perché me lo chiedi? Ti ha fatto il filo stamattina a colazione?»
Jeremy era un po’ imbarazzato. «Ecco, non la metterei
esattamente in questi termini. Mi è parsa solo un po’…
sfacciata.»
Lexie scoppiò a ridere. «Non mi sorprende. Lei è… ecco, è
Rachel. Siamo amiche da quando eravamo bambine e io la
considero ancora come una specie di sorella. Penso che sarà
sempre così, ma dopo essere andata all’università e poi a New
sempre così, ma dopo essere andata all’università e poi a New
York… be’, al mio ritorno non è più stato niente come prima. Il
nostro rapporto è cambiato. Non fraintendermi, Rachel è una
ragazza simpatica e divertente, e non ha un briciolo di cattiveria,
però…» Lasciò la frase a metà.
«Però adesso tu vedi il mondo con altri occhi?» le suggerì lui.
Lexie sospirò. «Sì, suppongo che sia così.»
«Credo che capiti a tutti, crescendo», commentò Jeremy.
«Scopri chi sei e che cosa vuoi e poi ti rendi conto che le
persone conosciute fino a quel momento non ti capiscono più. E
così conservi i ricordi meravigliosi, ma intanto vai avanti da solo.
È assolutamente normale.»
«Lo so. Ma in una città come la nostra è più difficile. Ci sono
poche persone sui trent’anni, e ancora meno single. Il mondo qui
è piccolo.»
Jeremy annuì, poi sorrise. «Trenta?»
Lei di colpo si ricordò che il giorno prima aveva cercato di
indovinare la sua età.
«Già», rispose con una scrollata di spalle. «Sto invecchiando,
temo.»
«Oppure ti mantieni giovane», ribatté lui. «Questo almeno è
quello che penso di me. Tutte le volte che comincio a
preoccuparmi per l’età, mi abbasso i pantaloni sui fianchi in
modo da mostrare 59
l’elastico delle mutande, mi metto il berretto da baseball con la
visiera all’indietro e me ne vado in giro per il centro commerciale
ascoltando musica rap.»
Quella descrizione suscitò in lei una risatina spontanea.
Nonostante l’aria frizzante, la scaldava la consapevolezza,
inaspettata eppure stranamente inevitabile, di trovarsi bene in sua
compagnia.
Non era sicura che questo le piacesse – anzi, era abbastanza
convinta del contrario – e per un attimo si sforzò di conciliare le
due opposte sensazioni. Concluse che era meglio ignorarle e si
portò un di-to al mento. «Sì, ti ci vedo proprio. Mi sembra che
lo stile di abbigliamento sia importante per te.»
«Senza ombra di dubbio. Infatti, giusto ieri la gente è rimasta
piuttosto impressionata dal mio look. Compresa te.»
Lexie rise. «Scommetto che viaggi molto per lavoro, vero?»
domandò poi.
«Quattro o cinque volte l’anno per un paio di settimane alla
volta.»
«Eri mai stato in città come questa?»
«No», ammise lui. «Ogni luogo ha il suo fascino, ma
sinceramente non ho mai visto un posto come questo. E tu dove
sei andata? Voglio dire, oltre a New York.»
«Ho frequentato l’università a Chapel Hill e ho passato diverso
tempo a Raleigh. Durante il liceo sono andata anche a Charlotte,
per seguire la squadra di calcio della scuola che partecipava al
campionato. E una volta ho visitato Washington, ma non ho mai
fatto un viaggio all’estero.»
«Sono sicuro che l’Europa ti piacerebbe. Le cattedrali, la
bellissima campagna, il caffè e le piaz-ze cittadine. Lo stile di
vita… sarebbe perfetto per te.»
Lexie chiuse gli occhi. Sarebbe bello, pensò, ma…
Ecco qual era il punto. Il ma. C’era sempre un ma. La vita
aveva la perfida tendenza a rendere sempre più rare le
opportunità di viaggiare. Per la maggior parte della gente non
erano realizzabili.
Come per lei. Non poteva portarsi dietro Doris e nemmeno
lasciare la biblioteca per troppo tempo.
Ma perché mai lui le stava dicendo quelle cose? Per dimostrarle
quanto fosse più evoluto? Be’, grazie tante, lo sapeva già.
E tuttavia, in quel momento alla sua mente si affacciò un’altra
vocina che le suggeriva che lui stava cercando di lusingarla. Era
come se volesse dirle che lei era diversa dagli altri, più aperta al
mondo di quanto si aspettava. Che sarebbe stata a suo agio
ovunque.
«Sì, mi piacerebbe viaggiare», ammise, tentando di mettere a
tacere le voci che lottavano dentro di lei. «Dev’essere bello,
avendone la possibilità.»
«A volte sì. Ma che tu ci creda o meno, la cosa più interessante
è incontrare persone nuove. E
quando ripenso a tutti i posti che ho visitato, in genere mi tornano
in mente facce, invece che luoghi.»
«Adesso non fare il romantico», disse lei. Oh, certo che era
difficile resistere a Jeremy Marsh.
Prima lo sciupafemmine e ora il grande altruista; viaggiatore, ma
ben radicato; giramondo, ma consapevole delle cose che
contano davvero. Lei era sicura che, se quell’uomo fosse in
grado di far sentire gli altri – e soprattutto le donne – in sintonia
con lui. Il che non faceva che confermare la sua prima
impressione.
«Può darsi che io sia un romantico», rispose Jeremy, lanciandole
un’occhiata.
un’occhiata.
«Sai che cosa mi piaceva di più di New York?» disse lei per
cambiare argomento.
Lui la fissò con aria interrogativa.
«Il fatto che succedeva sempre qualcosa. C’erano sempre
persone che camminavano di corsa sui marciapiedi e taxi che
sfrecciavano per le strade a qualunque ora. C’era sempre un
luogo dove andare, qualcosa da vedere, un nuovo ristorante da
provare. Era esaltante, soprattutto per una che veniva da una
città come questa. Era come essere su Marte.»
«E perché non ci sei rimasta?»
«Avrei potuto farlo, certo. Ma quello non era il mio posto. Si
può dire che la ragione che mi ci aveva portato non esisteva più.
Ero andata lì per stare con qualcuno.»
«Ah», disse Jeremy. «Lo avevi seguito a New York?»
Lei annuì. «C’eravamo conosciuti all’università. Sembrava
così… perfetto, credo. Era cresciuto a Greensboro, veniva da
una buona famiglia, era intelligente. E anche molto bello.
Abbastanza da 60
far perdere la testa a una donna. Mi guardò e io mi ritrovai a
seguirlo nella metropoli. Non potevo farne a meno.»
seguirlo nella metropoli. Non potevo farne a meno.»
Jeremy si agitò. «Allora è così che è andata?»
Lei sorrise tra sé. A un uomo non faceva piacere sentirsi dire
quanto era bello un altro, soprattutto se c’era stata una relazione
seria.
«Per un anno circa fu tutto stupendo. Ci fidanzammo
addirittura.» Rimase assorta per un po’, poi fece un sospiro.
«Iniziai il tirocinio nella biblioteca universitaria. Avery cominciò a
lavorare a Wall Street e un bel giorno lo trovai a letto con una
delle sue collaboratrici. Evidentemente non era l’uomo giusto per
me, così quella sera stessa feci le valigie e tornai qui. Non l’ho
più rivisto.»
Il vento si era rinforzato e ora accarezzava il pendio con un
leggero fischio, portando con sé un vago odore di terra.
«Hai fame?» chiese lei per cambiare di nuovo argomento. «È
molto bello stare qui a chiacchierare, ma se a quest’ora non
mangio qualcosa tendo a diventare irritabile.»
«Muoio di fame», rispose lui.
Tornarono alla macchina e si divisero il pranzo. Jeremy aprì la
scatola di cracker. Poi, notando che da lì il panorama non era
granché, fece manovra, raggiunse l’altro lato della collina e
parcheggiò in modo da avere il muso della macchina rivolto
parcheggiò in modo da avere il muso della macchina rivolto
verso la città.
«Quindi, sei tornata qui, hai cominciato a lavorare in biblioteca
e…»
«Esatto», lo interruppe lei. «È quello che ho fatto negli ultimi sette
anni.»
Lui fece un rapido calcolo mentale e arrivò alla conclusione che
lei doveva avere trentun anni.
«Altri fidanzati da allora?» le chiese.
Con il succo di frutta tra le gambe, Lexie prese un pezzo di
formaggio e lo mise su un cracker, mentre rifletteva se fosse il
caso di rispondergli. Al diavolo, si disse, tanto tra pochi giorni se
ne an-drà. «Certo. Ho avuto qualche storia.» Gli raccontò
dell’avvocato, del dottore e, per ultimo, di Rodney Hopper. Non
fece parola del ragazzo di Chicago.
«Bene… bene. E mi sembra che ora tu sia felice», commentò lui.
«Infatti», si affrettò a concordare Lexie. «Tu non lo sei?»
«Quasi sempre. Di tanto in tanto mi lascio prendere dallo
sconforto, ma credo che sia normale.»
«Ed è in quei casi che porti i pantaloni a vita bassa?»
«Esatto», rispose lui con un sorriso. Afferrò una manciata di
cracker, ne mise un paio in equilibrio sulla gamba e ci posò
sopra del formaggio. Quando alzò lo sguardo, era serio. «Ti
spiace se ti faccio una domanda personale? Naturalmente non
sei tenuta a rispondere. Non me la prenderò, stai tranquilla. La
mia è solo curiosità.»
«Intendi più personale ancora che raccontarti dei miei ex
fidanzati?»
Lui le rivolse un sorriso impacciato e d’un tratto lei se lo
immaginò come doveva essere stato da ragazzino: viso stretto
senza rughe, frangetta dritta, maglietta e jeans sporchi per aver
giocato all’aperto.
«Avanti», disse, «fammi questa domanda.»
Lui parlò con gli occhi fissi sul coperchio del succo di frutta,
come se provasse imbarazzo a guardarla in viso. «Quando siamo
arrivati quassù, mi hai indicato la casa di tua nonna. E hai detto
che sei cresciuta lì.»
Lei annuì. Si era chiesta quando ci sarebbe arrivato.
«Infatti», confermò.
«Come mai?»
Lexie guardò fuori dal finestrino, cercando per abitudine
l’autostrada che portava fuori città.
Una volta individuatala, parlò a voce bassa.
«I miei genitori stavano tornando da Buxton, negli Outer
Banks… Si erano sposati lì e possedevano una casetta sulla
spiaggia. Non è comodissimo arrivarci da qui, ma la mamma
giurava che era il posto più bello della Terra, così mio padre
comperò una barchetta per poterla raggiungere senza dover
prendere il traghetto. Era il loro piccolo rifugio, un luogo dove
stare soli senza che nessuno li 61
disturbasse. Dalla veranda si vede il faro e a volte anch’io vado
laggiù, come facevano loro, per scappare da tutto e da tutti.»
Tacque un istante e sulle labbra le comparve un mezzo sorriso.
«Quella sera, mentre tornavano in città, i miei erano stanchi»,
riprese. «In macchina ci vogliono un paio d’ore da lì, e l’ipotesi
più plausibile è che mio padre si sia addormentato al volante e
l’auto sia precipitata dal ponte. Quando la polizia la recuperò, il
mattino seguente, erano entrambi morti.»
Jeremy rimase in silenzio per un bel po’. «È terribile», disse
infine. «Quanti anni avevi?»
«Due. Quella notte ero da Doris e il giorno dopo lei si recò
all’ospedale con il nonno. Quando rientrarono, mi spiegarono
all’ospedale con il nonno. Quando rientrarono, mi spiegarono
che da allora sarei rimasta a vivere con loro. E così feci. Ma è
strano; voglio dire, so che cosa è successo, ma non mi è mai
sembrato del tutto reale. Non ho mai avuto la sensazione che mi
mancasse qualcosa nella mia infanzia. Per me, i nonni erano
come dei genitori, con l’unica differenza che li chiamavo per
nome.» Sorrise. «Fu una loro idea. Credo non volessero che io li
vedessi come nonni, dato che mi avrebbero cresciuto loro. Però
non potevo nemmeno chiamarli papà e mamma.»
Quando ebbe finito si voltò a guardarlo, notando le spalle che gli
riempivano il maglione e di nuovo quella fossetta impertinente.
«Adesso tocca a me fare domande», disse. «Ho parlato anche
troppo e so che la mia vita deve sembrarti noiosa paragonata alla
tua. Non per la storia dei miei genitori, naturalmente, ma per
quello che faccio qui.»
«Non è vero per niente. È molto interessante. È come… leggere
un nuovo libro, quando voltando pagina trovi sempre vicende
inaspettate.»
«Bella metafora.»
«Sapevo che ti sarebbe piaciuta.»
«Allora, che cosa mi racconti di te? Come sei diventato
giornalista?»
Lui le parlò degli anni all’università, della sua intenzione di
diventare professore e degli eventi che l’avevano portato
dov’era adesso.
«Hai molti fratelli, giusto?»
Lui annuì. «Cinque fratelli maggiori. Sono il piccolino della
famiglia.»
«Non so perché, ma non ti ci vedo con dei fratelli.»
«E perché?»
«Mi sembri più un figlio unico.»
Jeremy scrollò la testa. «È un peccato che tu non abbia ereditato
le doti parapsicologiche del resto della famiglia.»
Lei sorrise, poi distolse lo sguardo. In lontananza due falchi dalla
coda rossa si libravano in cerchio sopra la città. Posò la mano
contro il finestrino e avvertì il freddo del vento sulla pelle.
«Duecentoquarantasette», disse.
Lui la guardò. «Come, scusa?»
«Sono le donne che hanno consultato Doris per sapere il sesso
del loro nascituro. Da bambina le vedevo sedute in cucina con la
nonna. Ed è buffo, ma ancora oggi ricordo di aver pensato che
avevano tutte lo stesso aspetto: luce negli occhi, pelle luminosa e
avevano tutte lo stesso aspetto: luce negli occhi, pelle luminosa e
un’esaltazione sincera. Il vecchio detto popolare che le donne
incinte brillano è vero, e ricordo che anch’io volevo essere come
loro da grande. Doris parlava un po’ con quelle donne, per
essere sicura che fossero convinte di volerlo sapere, poi le
prendeva per mano e restava immobile, in silenzio. Erano tutte
all’inizio della gravidanza e pochi secondi dopo lei dava il suo
verdetto.» Lexie sospirò. «Indovinava ogni volta.
Duecentoquarantasette donne e duecentoquarantasette diagnosi
esatte. Doris segnava tutto in un taccuino, i loro nomi e le date
delle visite. Se vuoi, puoi verificare tu stesso. Lo tiene ancora in
cucina.»
Jeremy rimase a fissarla in silenzio. Era statisticamente
impossibile, pensò, un colpo di fortuna inaudito. Un evento che
rasentava i limiti della credibilità, ma comunque solo un colpo di
fortuna.
Ed era convinto che sul taccuino fossero annotati solo i casi
positivi.
62
«So che cosa stai pensando», disse lei, «ma puoi controllare
anche con l’ospedale. O le donne.
Puoi chiedere a chi ti pare se ha mai sbagliato. Non è successo
una sola volta. Persino i dottori in città ti diranno che è un suo
dono naturale.»
«Hai mai pensato che magari conosceva qualcuno che faceva
ecografie?»
«Non era così», rispose lei decisa.
«Come fai a saperlo con sicurezza?»
«Perché è stato allora che ha smesso, quando quella tecnologia è
arrivata anche qui. Non c’era più ragione che le donne
andassero da lei, una volta che potevano vedere di persona
l’immagine dei propri figli. Le visite cominciarono a diminuire e
poi cessarono quasi del tutto. Adesso vengono una o due donne
l’anno, in genere si tratta di gente di campagna che non ha
un’assicurazione sanitaria.
Direi che ormai le doti di Doris non sono più così richieste.»
«E le sue facoltà di rabdomante?»
«Lo stesso», rispose lei. «Tutta la parte orientale dello stato
poggia su un vasto bacino idrico.
Basta scavare un pozzo ovunque in questa zona per raggiungere
la falda. Ma quando lei era giovane e viveva nella contea di
Cobb, in Georgia, i contadini andavano a casa sua a supplicarla
di aiutarli, soprattutto durante i periodi di siccità. E anche se
all’epoca aveva solo otto o nove anni, riusciva sempre a trovare
all’epoca aveva solo otto o nove anni, riusciva sempre a trovare
l’acqua.»
«Interessante», disse Jeremy serio.
«Ne deduco che continui a non crederci.»
Lui si spostò sul sedile. «Ci sarà una qualche spiegazione
razionale. C’è sempre.»
«Non credi a nessun genere di magia?»
«No», rispose lui.
«È triste», osservò lei. «Perché a volte esiste.»
Jeremy sorrise. «Chissà, magari m’imbatterò in qualcosa che mi
farà cambiare idea proprio mentre sono qui.»
Anche lei sorrise. «Lo hai già fatto. Solo che sei troppo caparbio
per crederci.»
Finita la loro colazione al sacco, Jeremy mise in moto la
macchina e ridiscesero sobbalzando Riker’s Hill, con le ruote
anteriori misteriosamente attratte da ogni buca. Gli
ammortizzatori gemeva-no e cigolavano, e quando arrivarono in
fondo, lui aveva le nocche bianche per lo sforzo di stringere il
volante.
Ripercorsero la strada dell’andata. Mentre superavano il
cimitero di Cedar Creek, Jeremy lanciò un’occhiata alla sommità
della collina; nonostante la distanza, si vedeva chiaramente il
punto dove avevano parcheggiato.
«C’è tempo per andare in qualche altro posto? Mi piacerebbe
fare un salto al porticciolo, alla cartiera e magari al ponte della
ferrovia.»
«Sì», rispose lei. «A patto di non trattenerci troppo. Sono tutti
nella stessa zona.»
Dieci minuti più tardi parcheggiarono di nuovo l’auto. Erano
all’estremità del centro cittadino, a pochi isolati da Herbs,
accanto alla passerella pedonale di legno che si allungava in riva
al Pamlico.
Il fiume era largo quasi un chilometro e mezzo e la corrente
impetuosa formava creste bianche e mulinelli. Sull’altra sponda,
accanto al ponte ferroviario, la cartiera – una struttura imponente
– lanciava in aria nuvole di vapore da due alte ciminiere. Una
volta scesi dall’auto, Jeremy si stirò la schiena e Lexie incrociò le
braccia. Aveva le guance arrossate.
«Fa sempre più freddo o è solo una mia impressione?»
domandò.
«In effetti si gela», concordò lui, «ma forse è solo perché siamo
stati in macchina con il riscaldamento acceso.»
Lei si avviò decisa verso la passerella e Jeremy faticò a starle
dietro. Dopo un po’ rallentò e si appoggiò alla balaustra, mentre
lui osservava il ponte di ferro. Sospeso in alto sul fiume per
permettere il passaggio di imbarcazioni di grandi dimensioni, era
sorretto da grossi cavi metallici portanti.
63
«Non so quanto tu intenda avvicinarti», disse lei. «Se avessimo
più tempo, potremmo andare al di là del fiume fino alla cartiera,
ma forse si vede meglio da qui.» Indicò l’altra sponda. «Il porto
è là, vicino all’autostrada. Dove sono ormeggiate tutte quella
barche a vela.»
Jeremy annuì, stupito che fosse così piccolo.
«Possono attraccare anche grandi imbarcazioni?»
«Credo di sì. A volte qualche yacht che arriva da New Bern si
ferma nel porto per un paio di giorni.»
«E le chiatte?»
«Il fiume è stato dragato per consentire il passaggio delle chiatte
per il legname, ma in genere ormeggiano dall’altra parte. Ecco,
laggiù», disse indicando un’insenatura, «in questo momento ce ne
sono giusto un paio cariche.»
Lui seguì il suo sguardo, poi cercò di fare il punto del sito.
Riker’s Hill in lontananza, il ponte e la cartiera sembravano
perfettamente allineati. Una coincidenza? Oppure un particolare
del tutto tra-scurabile? Guardò verso la cartiera, chiedendosi se
di notte la parte più alta delle ciminiere fosse illuminata. Doveva
verificare.
«Che tu sappia, tutti i tronchi vengono trasportati alla cartiera
con le chiatte, oppure si utilizza anche la ferrovia?»
«Sinceramente non ci ho mai badato. Ma sono sicura che non
sarà difficile scoprirlo.»
«Sai a che ora passano i treni?»
«No. A volte sento il fischio anche di notte, e spesso mi capita di
dovermi fermare al passaggio a livello in città, ma non so darti
una risposta precisa. Posso dirti, però, che la cartiera fa molte
spe-dizioni, e lì c’è una fermata.»
Jeremy annuì, continuando a fissare il ponte.
Lexie sorrise e proseguì: «So che cosa stai pensando. Che forse
è il riflesso dei fari dei treni che passano sul ponte la causa delle
luci nel cimitero, giusto?»
«Ci ho pensato, sì.»
«Ci ho pensato, sì.»
«Non è così», obiettò lei scrollando il capo.
«Ne sei sicura?»
«I treni che passano di notte si fermano nel piazzale della cartiera
per poter essere caricati il mattino dopo. I fari della locomotiva,
perciò, sono rivolti nella direzione opposta rispetto a Riker’s
Hill.»
Jeremy andò a mettersi vicino a lei alla ringhiera. I capelli
scompigliati dal vento le davano un’aria da ragazzina mentre
infilava le mani gelate nella tasca della giacca.
«Adesso capisco perché ti è piaciuto crescere qui», le disse.
Lei si girò e si appoggiò alla ringhiera con la schiena per
guardare verso la città: le piccole bot-teghe con la bandiera
americana, l’insegna colorata di un barbiere, un giardinetto
ricavato all’estremità della passeggiata. Sul marciapiede, i
passanti entravano e uscivano dai negozi, carichi di borse.
Nonostante il freddo, nessuno sembrava avere fretta.
«Certo, devo ammettere che non è New York», commentò.
Lui rise. «In fondo, probabilmente anche ai miei genitori sarebbe
piaciuto crescere i figli in un posto come questo. Con grandi prati
verdi e boschi per giocare liberamente. E persino un fiume do-ve
fare il bagno d’estate. Dev’essere stato… idilliaco.»
«Lo è ancora. È quello che tutti dicono della vita qui.»
«Deve essere stato bello per te.»
Sul suo viso passò un’ombra di tristezza. «Sì, ma poi io sono
andata all’università. Un sacco di gente da queste parti, invece,
non può farlo. È una contea povera, la città è in crisi da quando
la tessitura e la miniera di fosforo hanno chiuso, così i genitori
non pensano sia importante dare una buona istruzione ai figli. È
per questo che a volte è difficile… cercare di convincere i
ragazzi che si può fare altro nella vita che lavorare nella cartiera
al di là del fiume. Io vivo qui per scelta. Ma per molti altri restare
è l’unica possibilità.»
64
«Succede dappertutto. Nessuno dei miei fratelli è stoto
all’università, perciò anch’io sono una specie di mosca bianca,
solo perché non mi ha mai pesato studiare. I miei genitori
appartengono alla classe operaia e hanno sempre vissuto nel
Queens. Il mio papà era autista di autobus. Ha passato
quarant’anni seduto dietro al volante finché non è andato in
pensione.»
Lei sorrise. «Che buffo. Ieri ti avevo etichettato come un
rampollo di buona famiglia. Sai, il por-tiere di casa che ti saluta
per nome, scuole private, cene da cinque portate, un
maggiordomo che annuncia le visite.»
Jeremy fece una smorfia. «Prima figlio unico e ora anche questo?
Comincio a pensare che mi giudichi un ragazzo viziato.»
«No, non viziato, solo…»
«Non dirlo», la interruppe alzando una mano. «Preferisco non
saperlo. Soprattutto dal momento che è una falsità.»
«Come sai che cosa stavo per dire?»
«Perché per ora ne hai sbagliate due su due e nessuna era
particolarmente lusinghiera.»
Lei abbozzò un sorriso. «Mi spiace. Non volevo offenderti.»
«Invece sì», ribatté lui sorridendo. Si girò e si appoggiò a sua
volta con la schiena alla ringhiera.
Il vento lo sferzò in viso. «Ma non preoccuparti, non me la
prenderò. Dal momento che non sono un ricco ragazzo viziato.»
«No. Sei un giornalista imparziale.»
«Esattamente.»
«Anche se rifiuti di avere una mente aperta riguardo a tutto ciò
che può essere un mistero.»
«Esatto.»
Lei rise. «E che mi dici del presunto mistero delle donne? Non
credi nemmeno a quello?»
«Oh, no, so che c’è», rispose Jeremy, pensando a lei in
particolare. «Ma è diverso dal credere nella possibilità della
fusione fredda.»
«Perché?»
«Perché le donne sono un mistero soggettivo, non oggettivo.
Non puoi misurare niente di loro scientificamente, anche se
esistono determinate differenze genetiche tra i sessi. Le donne
risultano misteriose agli uomini solo perché non si rendono conto
che hanno un modo diverso di affrontare la realtà.»
«Davvero?»
«Certo. È una questione legata all’evoluzione e alla strategia
migliore per preservare la specie.»
«E tu sei un esperto in materia?»
«Ho una certa conoscenza del problema, sì.»
«E allora ti consideri anche un esperto di donne?»
«No, non proprio. Sono timido, ricordi?»
«Uuh, huh, me lo ricordo. Ma non ci credo.»
Jeremy incrociò le braccia. «Lasciami indovinare… credi che io
abbia qualche problema di affi-dabilità?»
Lei lo guardò. «Direi che questo riassume il concetto, sì.»
Lui rise. «Che ci posso fare? Il giornalismo investigativo è un
mondo affascinante e ci sono schiere di donne che vorrebbero
entrare a farne parte.»
Lexie alzò gli occhi al cielo. «Ma ti prego!» esclamò. «Non sei
mica un attore di Hollywood o un divo del rock. Scrivi per
Scientific American.»
«E allora?»
«Be’, sarò anche una ragazza del Sud, ma stento a credere che
la tua rivista abbia fan in tutto il paese.»
Lui la guardò trionfante. «Temo che tu ti sia appena contraddetta
da sola.»
«Ti credi molto intelligente, vero, signor Marsh?»
«Oh, siamo tornati al signor Marsh?»
65
«Forse. Ancora non ho deciso.» Si fermò una ciocca di capelli
dietro un orecchio. «Ma hai omesso il fatto che tu non hai
bisogno delle fan per… avere successo. Ti basta farti vedere nei
posti giusti e sfoderare il tuo fascino.»
«E tu mi trovi affascinante?»
«Direi che alcune donne ti troverebbero tale.»
«Ma tu no.»
«Non stiamo parlando di me, ma di te e in questo momento stai
cercando di cambiare argomento. Il che probabilmente significa
che ho ragione e non vuoi ammetterlo.»
Lui le lanciò un’occhiata di ammirazione. «Lei è molto sveglia,
signorina Darnell.»
Lexie annuì. «Me l’hanno detto.»
«E affascinante», aggiunse convinto.
Lei gli sorrise e distolse lo sguardo. Lo rivolse verso la
passerella, oltre la strada verso la città e quindi in alto verso il
cielo, poi sospirò. Decise che non avrebbe risposto al
complimento. Tuttavia, si sentì arrossire.
Come se le avesse letto nel pensiero, Jeremy cambiò di nuovo
argomento. «Allora, come sarà questo fine settimana?»
«Tu sarai ancora qui?» chiese lei.
«Probabilmente sì, almeno fino a sabato. Ma ero curioso di
sapere che cosa ne pensassi tu.»
«Vuoi dire a parte lo sconvolgere la vita di un sacco di persone
per qualche giorno?» chiese lei.
«Be’… è una necessità in questo periodo dell’anno. Il Giorno
del Ringraziamento e Natale passano in un blocco solo e poi non
c’è più niente da festeggiare fino a primavera. E intanto fa freddo
e piove… così, diversi anni fa, il consiglio comunale decise di
organizzare il Giro delle dimore storiche e di aggiungere qualche
evento per dare vita a un fine settimana memorabile. Quest’anno
si sono in-ventati la visita al cimitero, l’anno scorso la parata,
quello precedente il ballo sull’aia. Ormai è diventata una
tradizione della città e tutti gli abitanti l’aspettano con ansia.» Lo
guardò. «Per quanto possa sembrare provinciale, è divertente.»
Jeremy pensò a quello che aveva letto sul dépliant. «Ci sarà un
ballo?» chiese con finta sorpresa.
Lei annuì. «Venerdì. Nel cortile del magazzino di tabacco
Meyer, in centro. Ci sarà musica dal vivo e tutto quanto. È
l’unica sera dell’anno in cui la taverna Lookilu resta vuota.»
«Be’, se sarò qui, spero che ballerai con me.»
Lei gli sorrise e poi lo guardò con un’espressione quasi seduttiva.
«Sai che ti dico? Se avrai risolto il mistero delle luci, ballerò con
te.»
«È una promessa?»
«Sì», rispose lei. «Ma a patto che tu prima risolva il mistero.»
«Ci sto», ribatté lui. «Non vedo l’ora. Quando si tratta di foxtrot…» Scosse il capo e fece un profondo respiro. «Tutto quello
che posso dirti è che spero che tu riesca a tenere il ritmo.»
Lei rise. «Ci proverò.»
A braccia conserte, guardò verso il colle che cercava invano di
bucare le nuvole. «Stasera», disse. Lui aggrottò la fronte.
«Stasera?»
«Vedrai le luci, se andrai al cimitero.»
«Come fai a saperlo?»
«Si sta alzando la nebbia.»
Lui seguì il suo sguardo. «Da cosa lo capisci? Non mi sembra
che sia cambiato niente.»
«Guarda al di là del fiume alle mie spalle», disse lei. «La parte più
alta delle ciminiere è già avvolta dalle nuvole.»
«Sì, come no…» disse lui perplesso.
«Girati e vedrai.»
Lui voltò la testa all’indietro, poi tornò a guardare davanti a sé,
quindi la girò un’altra volta, esaminando il profilo della cartiera.
«Hai ragione», disse.
«Naturale.»
66
«Scommetto che hai sbirciato senza che me ne accorgessi,
vero?»
«No», rispose lei. «Lo sapevo e basta.»
«Ah», replicò lui. «Un altro dei misteri di cui sopra?»
Lei si staccò dalla ringhiera. «Se vuoi definirlo così», disse.
«Avanti, andiamo adesso. Si è fatto tardi e devo tornare in
biblioteca. Tra mezz’ora ho un incontro di lettura con i bambini.»
biblioteca. Tra mezz’ora ho un incontro di lettura con i bambini.»
Mentre si incamminavano verso la macchina, Jeremy notò che
anche la cima di Riker’s Hill era nascosta dalle nuvole. Sorrise
tra sé. Ecco come aveva fatto, si disse. Guardando da quella
parte aveva dedotto che doveva succedere lo stesso anche al di
là del fiume. Ingegnoso.
«Bene», disse con aria sorniona, «visto che a quanto sembra hai
delle doti nascoste, come fai a essere così sicura che ci saranno
le luci stanotte?»
Lei impiegò qualche momento per rispondere.
«Lo so e basta.»
«Allora siamo d’accordo. Mi converrà andare a dare
un’occhiata, che ne pensi?» Non appena ebbe pronunciato
queste parole gli tornò in mente la cena a cui era stato invitato e il
pensiero gli provocò un moto di stizza.
«Che cosa c’è?» domandò lei, perplessa.
«Oh, il sindaco ha organizzato una cena per pochi intimi a cui
dovrei partecipare anch’io», disse. «Un incontro di
presentazione, per così dire.»
«In tuo onore?»
Lui sorrise. «La cosa ti impressiona?»
Lui sorrise. «La cosa ti impressiona?»
«No, mi sorprende.»
«Perché?»
«Perché non ne ho saputo niente.»
«Anche a me l’hanno detto solo stamattina.»
«È sorprendente lo stesso. Ma io non mi preoccuperei per le
luci, anche se vai a cena dal sindaco. In genere compaiono molto
tardi. Hai tutto il tempo di vederle.»
«Ne sei certa?»
«È stato quando le ho viste io. Poco prima di mezzanotte.»
Lui si fermò di scatto. «Aspetta un attimo… anche tu hai visto le
luci? Non me l’avevi detto.»
Lei sorrise. «Non me l’avevi chiesto.»
«Continui a dire così.»
«Sai, signor Giornalista, è solo perché tu continui a dimenticarti
di chiedere.»
67
8
Dall’altra parte della città, da Herbs, il vicesceriffo Rodney
Hopper rimuginava sulla sua tazza di caffè, chiedendosi dove
diavolo fossero finiti Lexie e quel… city boy.
Era passato in biblioteca per fare una sorpresa a Lexie e portarla
fuori a pranzo, per dimostrare a City Boy come stavano
esattamente le cose. Magari lei gli avrebbe permesso persino di
prenderla sottobraccio mentre l’accompagnava alla macchina,
mentre City Boy guardava invidioso.
Oh, sapeva bene che cosa ci trovava City Boy in Lexie. Doveva
essersene accorto per forza.
Che diamine, era impossibile non notarlo, pensò Rodney. Lexie
era la ragazza più bella di tutta la contea, probabilmente dello
stato intero. Magari addirittura del mondo, per quanto lo
riguardava.
In altre circostanze, non si sarebbe preoccupato di un tizio
venuto a fare ricerche in biblioteca, e inizialmente non vi aveva
dato peso. Ma quando aveva cominciato a sentire i pettegolezzi
che giravano sul forestiero arrivato in città, aveva voluto
controllare di persona. E le voci erano più che fon-date: bastava
dargli un’occhiata per capire che aveva un aspetto cittadino.
Quelli che facevano ricerche in biblioteca dovevano essere
Quelli che facevano ricerche in biblioteca dovevano essere
anziani, con l’aria distratta dei professori, e tanto di occhiali,
gobba e alito cattivo. Il tipo però non era affatto così; no,
sembrava appena uscito da una boutique del centro. Ma questo
non sarebbe bastato a preoccuparlo più di tanto; senonché i due
adesso erano in giro per la città, da soli.
Rodney corrugò la fronte. Ma dove si erano cacciati?
Non erano lì da Herbs. E nemmeno al Pike’s Diner. No, aveva
dato un’occhiata al parcheggio, ma niente. Avrebbe potuto fare
qualche domanda alla gente, però poi la voce si sarebbe sparsa
e non era certo che fosse un’idea tanto buona. Gli amici lo
prendevano in giro a causa di Lexie, soprattutto quando diceva
che avevano un altro appuntamento. Gli ripetevano che era
meglio se la di-menticava, che usciva con lui solo per farlo
contento, ma non era vero. Lei accettava sempre quando lui
glielo chiedeva, giusto? Ci pensò su. Ecco, quasi sempre, in ogni
caso. Alla fine della serata non lo baciava mai, ma questo non
era rilevante. Lui era paziente e sapeva che il momento stava
arrivando. Ogni volta che uscivano si avvicinavano a qualcosa di
più serio. Era sicuro. Lo sentiva. I suoi amici parlavano così solo
perché erano gelosi.
Aveva sperato che Doris potesse dargli qualche delucidazione,
ma purtroppo non c’era nemmeno lei. Gli avevano detto che era
dal commercialista, e che sarebbe tornata di lì a poco. Peccato
che la sua pausa pranzo era quasi al termine e lui non poteva
aspettarla. E poi, magari avrebbe fatto finta di non sapere niente.
Aveva sentito che trovava simpatico City Boy, e allora… non
era strano?
68
«Scusa, tesoro», disse Rachel. «Ti senti bene?»
Rodney alzò lo sguardo e la vide in piedi accanto al tavolo con in
mano il bricco del caffè.
«Sì, Rachel, tutto a posto», rispose. «È solo una di quelle
giornate storte.»
«I delinquenti ti fanno penare?»
Rodney annuì. «Puoi ben dirlo.»
Lei sorrise, con aria partecipe, ma lui non sembrò accorgersene.
Ormai era da tempo che la vedeva come una specie di sorella.
«Vedrai che le cose miglioreranno», lo consolò lei.
Lui concordò. «Probabilmente hai ragione.»
Rachel serrò le labbra. A volte era preoccupata per Rodney.
«Sicuro di non avere tempo di mangiare un boccone? So che vai
di fretta, ma posso dire in cucina di prepararti un piatto veloce.»
di fretta, ma posso dire in cucina di prepararti un piatto veloce.»
«No, non ho fame. Ho una bibita energetica in macchina per
dopo. Non ti preoccupare.» Allungò la tazza. «Però berrei
volentieri dell’altro caffè.»
«Sicuro», rispose lei riempiendogli la tazza.
«Senti, per caso hai visto Lexie da queste parti? Magari ha preso
qualcosa da portare via?»
«Oggi non si è fatta vedere. Hai provato in biblioteca? Posso
chiamarla lì, se è urgente.»
«No, niente di importante.»
Lei rimase ferma accanto al tavolo, come se fosse indecisa su
quello che doveva dire. «Ti ho visto mentre parlavi con Jeremy
Marsh stamattina.»
«Con chi?» domandò Rodney.
«Il giornalista di New York. Non ricordi?»
«Ah, sì. Ho pensato fosse giusto presentarmi.»
«Un bel tipo, non trovi?»
«Io non so giudicare se gli altri uomini sono belli o no», borbottò
il poliziotto.
il poliziotto.
«Be’, lui lo è. Non smetterei mai di guardarlo. Cioè, con quei
capelli… Mi verrebbe voglia di passarci le dita. In città non si fa
che parlare del suo arrivo.»
«Grandioso», mormorò Rodney, sentendosi ancora peggio.
«Mi ha invitato a New York», si vantò lei.
A queste parole, Rodney drizzò le orecchie, chiedendosi se
avesse sentito bene. «Davvero?»
«Be’, in un certo senso. Ha detto che dovrei proprio vederla e,
anche se non ha usato tante parole, mi è parso di capire che gli
farebbe piacere se andassi a trovarlo.»
«Ah sì?» fece lui. «Sono contento per te, Rachel.»
«Che ne pensi di lui?»
Rodney si agitò sulla sedia. «Non abbiamo parlato molto.»
«Dovresti parlarci, invece. È molto interessante e brillante. E poi
ha dei capelli… Ti ho già detto quanto sono belli?»
«Sì», rispose Rodney. Bevve un altro sorso di caffè cercando di
prendere tempo finché non avesse chiarito la situazione. Possibile
che lui avesse invitato Rachel a New York? Oppure era stata lei
ad autoinvitarsi? Non sapeva cosa pensare. Certo, anche Rachel
ad autoinvitarsi? Non sapeva cosa pensare. Certo, anche Rachel
era attraente, e City Boy decisamente tipo da provarci con una
donna, ma… ma… Rachel tendeva a esagerare e Lexie e City
Boy erano in giro da soli e nessuno sapeva dove. C’era qualcosa
di strano, no?
Cominciò a scivolare sul sedile. «Senti, Rachel, se vedi Lexie,
puoi dirle che sono passato?»
«Certo. Vuoi che ti metta il caffè in un bicchiere di plastica da
portare via?»
«No, grazie. Ho lo stomaco un po’ sottosopra.»
«Oh, mi spiace. Se vuoi ho del Maalox sul retro. Vado a
prendertelo?»
«Grazie, Rachel», rispose Rodney gonfiando il petto e cercando
di darsi un’aria marziale, «ma non mi serve.»
69
In un altro punto della città, proprio fuori dall’ufficio del
commercialista, il sindaco Gherkin si affrettò per raggiungere
Doris.
«Proprio la donna che cercavo», disse.
Lei si voltò e aspettò che si avvicinasse. Vedendolo con la
giacca rossa e i calzoni a scacchi le venne istintivamente da
chiedersi se quell’uomo fosse cieco. Nove volte su dieci si
vestiva in maniera ridicola.
«Che cosa posso fare per te , Tom?»
«Ecco, come avrai sentito, o forse no, stiamo organizzando una
serata speciale per il nostro ospite, Jeremy Marsh», le disse.
«Sta scrivendo un articolo, e…»
Doris terminò mentalmente la frase, pronunciando le ultime
parole insieme a lui.
«… tu sai quanto può essere importante per la nostra città.»
«L’ho sentito», ribatté. «E sarà vantaggioso soprattutto per la tua
attività.»
«Io ho a cuore il bene dell’intera comunità», protestò Gherkin.
«Ho passato tutta la mattinata per cercare di organizzare tutto nel
modo migliore. Ma speravo che tu potessi aiutarci preparando
qualcosa da mangiare.»
«Vuoi che ti fornisca la cena?»
«Non a titolo gratuito, s’intende. La città sarà ben lieta di
rimborsarti le spese. Abbiamo intenzione di incontrarci alla
vecchia piantagione Lawson, appena fuori città. Ho già parlato
con i proprietari ed hanno accettato volentieri. Sarà una riunione
informale, e potremmo usarla come lancio promozionale per il
Giro delle dimore storiche. Ho già parlato anche con il giornale e
sono d’accordo che passerà un fotografo…»
«E quando dovrebbe avvenire questa piccola riunione
informale?» lo interruppe lei.
Lui la fissò per un attimo, sconcertato da quella interruzione.
«Ecco, stasera, è naturale… Come stavo dicendo…»
«Stasera?» lo interruppe di nuovo lei. «Vuoi che prepari la cena
per la tua piccola riunione stasera?»
«È per una buona causa, Doris. So che è imperdonabile da parte
mia dirtelo così all’ultimo momento, ma potrebbero succedere
grandi cose e dovviamo muoverci in fretta se vogliamo
approfittar-ne. Entrambi sappiamo che tu sei l’unica in grado di
gestire la situazione. Niente di sofisticato, naturalmente. Pensavo
che avresti potuto preparare il tuo famoso pollo al pesto, ma
senza i panini…»
«Jeremy Marsh, almeno, è al corrente di tutto questo?»
«Certo che lo sa. Gliene ho parlato stamattina e mi è parso
sinceramente entusiasta.»
«Davvero?» domandò lei perplessa.
«E speravo che potesse venire anche Lexie. Sai quanto è
importante quello che fa lei per la città.» «Dubito che accetterà.
Odia questo genere di iniziative, se non sono strettamente
necessarie. E
questa non mi pare così imprescindibile.»
«Forse hai ragione tu. In ogni caso, come stavo dicendo, vorrei
approfittare della serata per promuovere il nostro giro.»
«Ti sei forse dimenticato che sono contraria all’idea di usare il
cimitero come attrazione turistica?» «Niente affatto», rispose lui.
«Ricordo esattamente che cosa mi hai detto. Però vorrai far
sentire la tua voce, no? Se non vieni, non ci sarà nessuno a
esporre il tuo punto di vista.»
Doris rimase a fisserlo in silenzio. Quell’uomo sapeva
decisamente quali tasti pigiare. E poi aveva ragione, pensò. Se
non andava anche lei alla riunione, già immaginava che cosa
avrebbe finito per scrivere Jeremy, sentendo solo la campana del
sindaco e del consiglio comunale. Era d’accordo con Tom; lei
era l’unica in grado di gestire una situazione del genere così,
all’ultimo momento. Si era preparata per quel fine settimana e
aveva già pronto un sacco di cibo in cucina.
«D’accordo, Tom», si arrese. «Me ne occuperò io. Ma non
pensare nemmeno per un secondo che servirò a tavola tutte
quelle persone. Sarà un buffet e io siederò con tutti voi.»
Il sindaco Gherkin sorrise. «Non ti avrei mai chiesto di fare
altrimenti, Doris?»
70
Il vicesceriffo Rodney Hopper era fermo in macchina sull’altro
lato della strada di fronte alla biblioteca, e stava cercando di
decidere se fosse il caso di entrare. La macchina di City Boy era
di nuovo nel parcheggio – il che significava che i due erano
tornati da dove mai erano stati – e si vedeva la luce accesa
nell’ufficio di Lexie.
Se la immaginò alla scrivania, con i piedi appoggiati sulla sedia e
le ginocchia piegate, che si rigirava una ciocca di capelli tra le
dita mentre leggeva un libro. Avrebbe voluto andare a parlarle,
ma sapeva di non avere una buona ragione per farlo. Non
passava mai in biblioteca solo per scambiare due chiacchiere
perché, a dire la verità, aveva paura di disturbarla. Lexie non
glielo aveva mai proposto, e tutte le volte che lui cercava di
portare la conversazione sull’argomento, cambiava discorso.
Da un lato era giusto, visto che lei era lì per lavorare, ma allo
stesso tempo Rodney pensava che, se lo avesse incoraggiato in
tal senso, il loro rapporto avrebbe fatto un altro passettino in
avanti.
Scorse una figura che passava davanti alla finestra e si chiese se
City Boy fosse nell’ufficio con lei. Ci mancava solo quello. Prima
a pranzo insieme – cosa che lui e Lexie non avevano mai fatto –
e adesso una visita amichevole sul posto di lavoro. Il solo
pensiero bastava a mettero di cattivo umore. In meno di un
giorno City Boy aveva fatto un sacco di progressi, eh? Chissà,
forse era il caso di parlargli di nuovo per chiarire la situazione,
per far capire senza equivoci a quel presuntuoso come stavano le
cose.
Anche se, doveva ammetterlo, nemmeno lui sapeva più a che
punto erano le cose con Lexie. Fi-no a ieri si sentiva abbastanza
soddisfatto del loro rapporto. Sì, certo, non del tutto. Avrebbe
preferito che le cose procedessero un po’ più speditamente. Ma
il fatto era che, fino a ieri, sapeva di non avere concorrenti,
mentre oggi quei due erano seduti di sopra, probabilmente a
ridere e scherzare, e lui era in macchina a guardarli da fuori.
Ma poi, chi lo diceva che Lexie e City Boy erano lì a
spassarsela? Magari lei si stava occupan-do… di robe da
bibliotecaria, mentre City Boy era chiuso in una stanza a sfogliare
qualche libro ammuffito. Forse Lexie si mostrava gentile con lui
solo perché era un forestiero venuto a visitare la città. Ci pensò
su un attimo e poi decise che era ragionevole. Accidenti, tutti in
città si stavano dando un gran daffare per accogliere il nuovo
venuto, giusto? Sindaco in testa. Quella mattina, quando era
riuscito a bloccare il tipo, proprio mentre stava per chiarire con
riuscito a bloccare il tipo, proprio mentre stava per chiarire con
lui dov’erano i paletti, il sindaco (in persona!) lo aveva aiutato a
mettersi in salvo. E poi, bam! Ecco che City Boy e Lexie vanno
a cogliere fiori e a guardare l’arcobaleno insieme.
Ma forse si sbagliava, si disse ancora.
Comunque, lo irritava da morire non avere il controllo della
situazione e stava preparandosi a entrare in biblioteca, quando i
suoi pensieri vennero interrotti da qualcuno che batteva sul vetro.
Impiegò un istante a mettere a fuoco il viso che lo guardava da
fuori.
Il sindaco. Era la seconda volta che quell’uomo compariva nel
momento sbagliato.
Rodney abbassò il vetro del finestrino e fu investito da una
corrente d’aria gelida. Aggrappando-si con le mani, Gherkin
infilò dentro la testa.
«Proprio l’uomo che cercavo», disse. «Passavo di qua e,
quando ho visto la tua macchina, mi è venuto in mente che
stasera mi serve un rappresentante delle forze di polizia.»
«A che scopo?»
«La piccola riunione, è ovvio. In onore di Jeremy Marsh, il
nostro illustre ospite. Stasera alla piantagione Lawson.»
Rodney sbatté gli occhi. «Stai scherzando, vero?»
«Niente affatto. Anzi, ho incaricato Gary di preparare per lui le
chiavi della città.»
«Le chiavi della città», ripeté Rodney sconfortato.
«Mi raccomando, però, acqua in bocca. Dev’essere una
sorpresa per tutti. Ma dal momento che la cosa ha preso un tono
più ufficiale, gradirei la tua presenza. Darebbe un tocco…
cerimonioso al-l’occasione. Contavo di averti al mio fianco
mentre gli consegno le chiavi.»
71
Rodney gonfiò appena il petto, lusingato. Anche se non aveva
nessuna intenzione di accettare.
«Credo che questo ruolo spetti al mio capo, non trovi?»
«Sicuro. Però sappiamo entrambi che lui è a caccia su per i
monti. E in sua assenza, questo è il genere di incombenza che
ricade su di te.»
«Non saprei, Tom. Dovrei trovare qualcuno che mi sostituisca. È
un peccato, ma non credo proprio di riuscirci.»
«È un vero peccato, sì. Del resto capisco, il dovere è dovere.»
Rodney tirò un sospiro di sollievo. «Grazie.»
«Certo però che a Lexie avrebbe fatto piacere vederti.»
«Lexie?»
«Ma naturale. Come direttrice della biblioteca è tra gli invitati.
Sono giusto passato di qui per dirglielo. Forse mi aiuterà a
intrattenere il nostro ospite, se tu proprio non vuoi venire.»
Raddrizzò la schiena. «Comunque, come ti ho detto, capisco.»
«Aspetta!» esclamò Rodney, la mente in fermento, mentre
cercava di riprendersi. «Hai detto stasera, giusto?»
Il sindaco annuì.
«Mi sono appena ricordato che Bruce è in servizio, perciò è
probabile che riesca a farcela.»
Gherkin sorrise. «Benissimo», disse. «Ora entro a informare la
signorina Darnell. Ma forse eri qui anche tu per parlare con lei?
Vai pure, aspetto volentieri il mio turno.»
«No», rispose Rodney. «Dille soltanto che ci vediamo stasera.»
«Lo farò, vicesceriffo.»
Dopo aver recuperato dell’altro materiale per Jeremy e aver
fatto un salto in ufficio, Lexie si ritrovò circondata da una ventina
di bambini, in braccio alle mamme o seduti sul pavimento intorno
a lei. Era già il terzo libro che leggeva a quel gruppo, e come
sempre c’era un gran chiasso nella stanza. Su un tavolino
accostato alla parete c’erano biscotti e bibite; nell’angolo più
lontano alcuni bambini, meno interessati alle fiabe, si divertivano
con i giocattoli messi a disposizione. Altri pasticcia-vano con le
tempere su un tavolino di fortuna allestito da lei. La stanza era
dipinta a colori vivaci e anche gli scaffali con i giochi avevano
tinte accese. Nonostante le proteste di alcuni volontari e impiegati anziani, che volevano che i piccoli se ne stessero seduti
tranquilli ad ascoltare, Lexie li lasciava muovere liberamente per
la stanza. Voleva che fossero felici di andare in biblioteca, anche
se ciò comportava un po’ di confusione. Negli anni precedenti,
c’erano stati dei bambini che avevano giocato per mesi prima di
cominciare a prestarle attenzione, ma a lei andava bene così.
L’importante era che continuassero a venire.
Quel giorno, però, mentre leggeva, la sua mente era distratta dal
ricordo del pranzo con Jeremy.
Anche se non era stato un vero e proprio appuntamento, erano
entrati in confidenza e questo un po’
la sconcertava. A ripensarci, si rendeva conto di essersi aperta
con lui più di quanto ne avesse intenzione e cercava di capire
come fosse potuto accadere.
Ma perché mai continuava a rimuginarci su?
Non le piaceva affatto considerarsi nevrotica, e quell’autoanalisi
incessante non era da lei. E
poi, si diceva, più che un appuntamento era stata una visita
guidata. Ma per quanto cercasse di non pensarci, l’immagine di
Jeremy continuava ad affiorarle alla mente: il suo sorriso mezzo
storto, l’espressione divertita mentre lei parlava. Non poteva fare
a meno di chiedersi che cosa avesse pensato della sua vita lì, per
non dire di lei. Era persino arrossita quando le aveva detto che la
trovava affascinante. Ma che stava succedendo? Forse, pensò,
era colpa del fatto che, confidandosi con lui, si era resa
vulnerabile.
Si ammonì mentalmente a non farlo più. Eppure…
Non era stato poi tanto male, doveva ammetterlo. Parlare con
una persona nuova, qualcuno che non conosceva già tutti e non
era al corrente di ogni avvenimento in città, era come una ventata
di aria fresca. Si era dimenticata di quanto potesse essere
piacevole. E poi lui l’aveva sorpresa. Doris 72
aveva ragione, almeno in parte. Lui non era come immaginava.
Era brillante e intelligente, e pur ri-fiutandosi di aprire la mente
alla possibilità del mistero, aveva considerato in modo bonario il
suo diverso punto di vista. Si era preso gioco anche di se stesso,
facendola ridere.
facendola ridere.
Mentre continuava a leggere e ai bambini – grazie al cielo non
era un libro troppo complicato –
la sua mente rifiutava di fermarsi.
E va bene, lui le piaceva. E se doveva proprio essere sincera,
avrebbe voluto trascorrere più tempo insieme, riconobbe con se
stessa. Ma nemmeno questa consapevolezza riusciva a mettere a
tacere la vocina interiore che l’ammoniva a non lasciarsi
coinvolgere troppo. Doveva procedere con cautela, perché –
per quanto andassero d’accordo in apparenza – Jeremy Marsh
avrebbe potuto fe-rirla, se solo lei glielo avesse permesso.
Jeremy era chino su una serie di stradari di Boone Creek risalenti
alla metà dell’Ottocento. Più erano antichi, più informazioni
contenevano e, mentre esaminava i cambiamenti della città nel
corso dei decenni, prendeva appunti su appunti. Partendo da un
piccolo villaggio raccolto intorno a una decina di strade, quel
centro abitato si era espanso in tutte le direzioni.
Conosceva già l’ubicazione del cimitero, ma notò che,
tracciando una linea ipotetica tra la cartiera e la collina, lo si
attraversava di netto. La distanza complessiva superava di poco i
quattro chilometri e mezzo e lui sapeva che la luce poteva
rifrangersi così lontano, anche nelle notti di nebbia.
Si chiese se la cartiera prevedesse anche un terzo turno di
lavoro, rimanendo illuminata per tutta la notte. Con una giusta
densità di nebbia e un’illuminazione artificiale sufficiente si
sarebbe potuto spiegare il fenomeno delle luci in un battibaleno.
Riflettendoci, capì che avrebbe dovuto notare la linea
immaginaria che collegava la cartiera a Riker’s Hill anche quando
si era trovato in cima alla collina. Invece, si era lasciato incantare
dal panorama mentre chiacchierava con Lexie.
Stava ancora cercando una spiegazione per l’improvviso
cambiamento nell’atteggiamento di lei.
Ieri sembrava indifferente e sulle sue, mentre oggi… ma oggi era
un altro giorno, giusto? E danna-zione, non riusciva proprio a
togliersela dalla mente, e poi non pensava a lei solo nei soliti
termini di una notte e via. Non ricordava l’ultima volta che gli era
capitato. Forse con Maria, considerò, ma era passato un sacco
di tempo. Una vita intera, quando lui era una persona del tutto
diversa. Eppure, la conversazione tra loro due sulla collina era
stata così naturale, così spontanea che, nonostante dovesse finire
di esaminare le carte stradali, il suo unico desiderio era
conoscerla meglio.
Strano, pensò, e prima di rendersi conto di ciò che faceva si alzò
dalla scrivania e si avviò verso le scale. Sapeva che lei stava
leggendo un libro ai bambini e non voleva disturbarla, ma
all’improvviso moriva dalla voglia di vederla.
all’improvviso moriva dalla voglia di vederla.
Scese le scale, svoltò l’angolo e si avvicinò alla parete a vetri.
Impiegò solo un istante a individuare Lexie seduta sul pavimento,
circondata dai bambini.
Leggeva con trasporto e lui sorrise delle sue buffe espressioni: gli
occhi sgranati, la bocca aperta a «O», il modo in cui si sporgeva
in avanti per sottolineare un passaggio particolare della storia. Le
madri l’ascoltavano sorridenti. Alcuni bambini erano
perfettamente immobili; altri invece si agitavano come se fossero
sotto l’effetto di anfetamine.
«Una donna eccezionale, vero?»
Jeremy si voltò, sorpreso. «Sindaco Gherkin. Che cosa ci fa
qui?»
«Oh bella, veramente ero venuto per parlare con lei. E con la
signorina Lexie. Riguardo alla ce-na di stasera. È tutto pronto.
Credo che rimarrà piacevolmente impressionato.»
«Non ne dubito.»
«Come dicevo, è una donna eccezionale, non trova?»
Jeremy non rispose e il sindaco ammiccò. «Ho visto il modo in
cui la guarda. Gli occhi spesso tradiscono un uomo, perché gli
occhi dicono sempre la verità.»
«E questo che cosa significa?»
Il sindaco sogghignò. «Mah, non saprei. Perché non me lo dice
lei?»
«Non c’è niente da dire.»
«Naturalmente.»
73
Jeremy scrollò il capo. «Senta, signor sindaco…»
«Oh, lasciamo perdere. Stavo solo scherzando. Ma vorrei
parlarle un momento della nostra piccola riunione di stasera.»
Gli riferì il luogo dell’appuntamento, dandogli indicazioni per
raggiungerlo che erano piene di riferimenti locali. Sembrava che
fosse stato Tully a insegnargli la strada.
«Crede che riuscirà ad arrivarci?» domandò Gherkin quando
ebbe finito.
«Ho una cartina», rispose Jeremy.
«Potrebbe servirle, ma ricordi che quelle stradine sono molto
buie. È facile perdersi, se non si sta attenti. Potrebbe farsi
accompagnare da qualcuno del posto.» Lanciò un’occhiata
eloquente oltre la vetrata.
«Crede che dovrei chiederlo a Lexie?» domandò Jeremy.
Gli occhi del sindaco lampeggiarono. «Dipende da lei. Se pensa
che accetterà. Molti uomoni qui la considerano il premio della
contea.»
«Dirà di sì», dichiarò lui più speranzoso che convinto.
Il sindaco lo guardò dubbioso. «Forse sta sopravvalutando le
sue capacità. Ma se ne è così sicuro, allora il mio compito qui è
terminato. Ero venuto per invitare la signorina Lexie io stesso,
ma dato che ci penserà lei a farlo, la saluto e le do appuntamento
a stasera.»
Girò sui tacchi e uscì.
Pochi minuti più tardi Lexie terminò la lettura. Mentre la
guardava chiudere il libro, Jeremy provò un brivido d’adrenalina.
Fu una sensazione che lo lasciò scosso. Quando gli era capitato
l’ultima voltà?
Le mamme chiamarono i bambini e tutti cominciarono a uscire
con un gran vocìo. Un attimo dopo Lexie seguì il gruppo fuori
dalla stanza e, scorgendolo, gli andò incontro.
«Deduco che sei pronto a leggere i diari», osservò.
«Se hai tempo di andare a prenderli», rispose lui. «Devo ancora
finire di guardare gli stradari e, veramente, sono venuto qui anche
per un altro motivo.»
«Ah sì?» Lei piegò la testa incuriosita.
Mentre parlava, lui si accorse di provare uno strano fremito allo
stomaco. Che buffo.
«Il sindaco è passato a dirmi che la cena di stasera sarà alla
piantagione Lawson. Siccome teme che non sappia arrivarci da
solo, mi ha suggerito di farmi accompagnare da qualcuno del
posto. Ec-co, in pratica sei l’unica persona che conosco in città,
e mi chiedevo se ti andava di accompagnar-mi.» Lexie rimase in
silenzio per un po’.
«Dovevo immaginarlo», disse infine.
La sua risposta colse Jeremy di sorpresa.
«Come hai detto, scusa?»
«Oh, non sei tu. È il sindaco, e il suo modo di fare. Sa che io
cerco sistematicamente di evitare eventi del genere, a meno che
non riguardino la biblioteca. Immaginava che gli avrei risposto di
no se me l’avesse chiesto lui, così ha fatto in modo che fossi tu a
invitarmi. E infatti, eccoci qua.»
Jeremy rimase allibito e cercò di ricostruire il dialogo con
Gherkin, ma ne ricordava solo degli spezzoni. Chi aveva tirato
fuori l’idea che lui poteva farsi accompagnare da Lexie?
«Perché all’improvviso ho l’impressione di trovarmi nel bel
mezzo di uno sceneggiato televisivo?»
«Perché è così. Si intitola Vita nel Sud.»
Jeremy la fissò, confuso. «Credi davvero che il sindaco l’abbia
fatto apposta?»
«Ne sono sicura. A prima vista può sembrare un sempliciotto,
ma ha l’innata capacità di indurre le persone a fare esattamente
quello che lui vuole, e per di più convincendole che è stata una
loro idea fin dall’inizio. Secondo te, per quale altro motivo tu
saresti ancora al Greenleaf?»
Jeremy infilò le mani in tasca, pensieroso. «Be’, tanto perché tu
lo sappia, non devi sentirti ob-bligata a venire con me. Troverò
quel posto anche da solo.»
Lei si mise le mani sui fianchi e lo guardò. «Vuoi scaricarmi?»
74
Jeremy trasalì, incerto su come rispondere. «Ecco, veramente
pensavo solo che, siccome il sindaco…»
«Vuoi che venga con te o no?» lo incalzò lei.
«Sì, lo vorrei, ma se tu non…»
«Allora chiedimelo di nuovo.»
«Come, scusa?»
«Chiedimi di venire con te stasera. Perché ti fa piacere, e non
ricorrendo alla scusa che non sai come arrivare lì. Di’ qualcosa
del tipo: ‘Mi piacerebbe molto portarti fuori a cena stasera.
Posso passare a prenderti più tardi?»
Lui la guardò, cercando di capire se faceva sul serio. «Vuoi che
dica così?»
«Se non lo farai, sarà ancora un’idea del sindaco e io non ci
verrò. Ma se me lo chiedi devi farlo seriamente, quindi usa il
tono giusto.»
Jeremy si sentiva insicuro come uno scolaretto. «Mi piacerebbe
molto portarti fuori a cena stasera. Posso passare a prenderti più
tardi?»
Lei gli sorrise, posandogli una mano sul braccio.
«Certo, signor Marsh», rispose con l’accento del Sud, «ne sarei
felice.»
felice.»
Qualche minuto più tardi, con la testa ancora in subbuglio,
Jeremy osservava Lexie tirare fuori i diari da una cassetta
custodita nella sala dei libri rari. Le donne di New York non
parlavano in quel modo, si diceva. Non sapeva se definirla
ragionevole, irragionevole o a metà strada tra le due cose.
Chiedimelo di nuovo e usa il tono giusto. Che genere di
donna si comportava in quel modo? E perché diavolo lui lo
trovava tanto… irresistibile?
Non sapeva perché, ma d’un tratto l’articolo e la possibilità di
andare in televisione erano diventati solo dettagli secondari.
Mentre guardava Lexie non potreva fare a meno di pensare alla
sensazione di calore che gli aveva trasmesso la mano di lei
lievemente posata sul suo braccio.
75
9
Più tardi quella sera, mentre la nebbia s’addensava tutt’intorno,
Rodney Hopper cercava di far parcheggiare alla meglio le auto
nella piantagione Lawson, pensando che gli sembrava di essere a
un concerto di Barry Manilow.
Negli ultimi venti minuti aveva visto arrivare in allegra
processione tutto il gotha cittadino. C’erano i dottori Benson e
Tricket, Albert il dentista, gli otto membri del consiglio comunale,
compresi Tully e Jed, il sindaco, i dipendenti dell’agenzia di
promozione turistica, l’intera dirigenza scolasti-ca, i nove
commissari di contea, i volontari della Historical Society, tre
commercialisti, tutto il personale di Herbs, il barista del Lookilu,
il barbiere e persino Toby, che per campare svuotava i pozzi
neri, e ora si era messo tutto in tiro. La piantagione Lawson non
era tanto affollata nemmeno nel periodo di Natale, quando
veniva sontuosamente decorata e aperta al pubblico il primo
venerdì di dicembre.
E stavolta era diverso. Non si trattava di una festa tra amici e
conoscenti, che si riunivano per stare in compagnia prima della
frenetica maratona natalizia. Quella era una serata in onore di una
persona che non aveva niente a che fare con la città, e a cui non
importava affatto di loro. Peggio ancora, pur essendo lì in veste
ufficiale, Rodney si rese conto all’improvviso che avrebbe anche
potuto fare a meno di stirarsi la camicia e lucidarsi le scarpe,
perché tanto Lexie non lo avrebbe neanche notato.
Sapeva tutto. Dopo che Doris era tornata da Herbs per
preparare la cena, il sindaco era passato al ristorante e le aveva
comunicato la terribile notizia di Jeremy e Lexie. Rachel gli aveva
telefonato immediatamente. In questo senso lei era sempre molto
carina; era al corrente di ciò che provava per Lexie e non lo
aveva mai preso in giro, come tanta altra gente. Aveva avuto
l’impressione che nemmeno lei fosse rimasta entusiasta del fatto
che Lexie e Jeremy sarebbero arrivati insieme, ma Rachel era più
brava a nascondere i suoi veri sentimenti mentre in quel momento
lui avrebbe voluto essere altrove. Tutto di quella sera lo metteva
di cattivo umore.
Soprattutto la reazione della città. A quanto ricordava, i suoi
concittadini non erano stati altrettanto esaltati da quando il
Raleigh News & Observer aveva inviato un reporter per
scrivere un articolo su Jumpy Walton e il suo tentativo di emulare
i fratelli Wright. Jumpy, che non aveva tutte le rotelle a posto,
voleva costruire una copia del famoso biplano per celebrare il
centenario dell’avia-zione a Kitty Hawk. Aveva dichiarato di
aver quasi finito il prototipo, ma quando, tutto orgoglioso, aveva
aperto la porta del fienile per mostrare la sua creazione, il
giornalista si era reso conto che lui 76
non aveva la più pallida idea di quello che stava facendo.
L’aeroplano nel fienile somigliava a un gigantesco pollo di fil di
L’aeroplano nel fienile somigliava a un gigantesco pollo di fil di
ferro e assi di compensato.
E adesso la città scommetteva sull’esistenza dei fantasmi nel
cimitero e sulla capacità di City Boy di mettere il mondo ai loro
piedi con quella notizia. Rodney ne dubitava molto. E
sinceramente non gli fregava niente che il mondo venisse lì o
meno, finché Lexie rimaneva parte del suo mondo.
Dall’altra parte della città, più o meno alla stessa ora, Lexie uscì
sulla veranda proprio mentre Jeremy risaliva il vialetto con un
mazzo di fiori di campo. Pensiero gentile, pensò lei, sforzandosi
di mascherare il nervosismo che l’aveva torturata fino a pochi
minuti prima.
Essere una donna a volte era faticoso, e quella sera lo era stato
più del solito. Per prima cosa, ovviamente, c’era stata la
questione di decidere se si trattasse di un vero appuntamento,
oppure no.
Certo, era più simile a un appuntamento della loro uscita a
pranzo, ma non era esattamente una cena a lume di candela per
due e non era più sicura di aver fatto bene ad accettare. E poi,
c’era il problema dell’abbigliamento e di quale immagine voleva
dare di sé, non solo a Jeremy, ma a tutti quelli che li avrebbero
visti insieme. Se a questo si aggiungeva il fatto che si sentiva più a
suo agio con i jeans e non aveva intenzione di mettere niente di
scollato, le cose si complicavano al punto che alla fine aveva
gettato la spugna. E così aveva optato per una mise
professionale: tailleur pantalone marrone e camicia avorio.
Ed ecco che adesso lui si presentava disinvolto con il suo look
casual, come se si trattasse di una serata qualunque.
«Hai trovato casa mia», osservò Lexie.
«Non è stato difficile», replicò Jeremy. «Mi avevi fatto vedere
dove abitavi da Riker’s Hill, ricordi?» Le porse i fiori. «Per te.»
Lei li prese sorridendo. Era incantevole. E anche sexy. Ma
«incantevole» gli parve più appro-priato.
«Grazie», disse. «Com’è andata la lettura dei diari?»
«Bene», rispose lui. «Ma non ho trovato niente di eccezionale in
quelli che ho letto finora.»
«Non ti scoraggiare», lo spronò con un sorriso. «Chissà che
cosa troverai.» Odorò i fiori. «Sono molto belli. Dammi un
secondo per metterli in un vaso e prendere il cappotto, e sono
pronta.»
Jeremy spalancò le braccia. «Ti aspetto qui.»
Un paio di minuti dopo erano a bordo della sua macchina e si
dirigevano dalla parte opposta rispetto al cimitero. La nebbia si
andava infittendo e Lexie guidava Jeremy sulle strade secondarie
andava infittendo e Lexie guidava Jeremy sulle strade secondarie
finché imboccarono un lungo viale fiancheggiato da querce
centenarie. A un certo punto lui rallentò avvicinandosi a
un’imponente siepe che immaginò delimitasse una rotonda. Si
chinò in avanti sul volante, non sapendo da che parte svoltare.
«Forse ti converrebbe parcheggiare qui», suggerì Lexie. «Dubito
che troveresti posto più avanti, e poi così potremo andarcene
senza problemi quando vogliamo.»
«Sei sicura? Non si vede ancora la casa.»
«Fidati», replicò lei. «Secondo te, per quale ragione mi sono
portata il cappotto?»
Lui ebbe un attimo di esitazione, poi accettò il consiglio. Perché
no? si disse. Pochi istanti dopo camminava nella nebbia mentre al
suo fianco Lexie, infreddolita, si stringeva al collo il bavero del
cappotto. Costeggiarono la siepe curva e all’improvviso si
trovarono davanti la vecchia dimora ge-orgiana illuminata a
giorno.
Ma non fu la casa ad attirare per prima l’attenzione di Jeremy,
bensì la selva di automobili. Ce n’erano a decine, parcheggiate
qua e là, i musi puntati in tutte le direzioni, come se fossero
pronte a una fuga precipitosa. Molte altre vagavano nei paraggi
alla ricerca di un seppur minimo spazio dove fermarsi.
Jeremy si fermò a guardare la scena.
Jeremy si fermò a guardare la scena.
«Credevo che fosse una piccola riunione tra amici.»
77
Lexie annuì. «Questa è la versione del sindaco di una riunione
per pochi intimi. Non dimenticare che conosce quasi tutti nella
contea.»
«E tu sapevi che sarebbe stato così?»
«Certo.»
«Perché non me lo hai detto?»
«Come non mi stanco di ripeterti, tu continui a dimenticarti di
chiedere. E poi, credevo che lo sapessi.»
«Come potevo immaginare quello che aveva in mente?»
Lei sorrise, lo sguardo rivolto alla casa. «Fa una certa
impressione, vero? Anche se non so se te lo meriti.»
Lui sbuffò, divertito. «Sai una cosa, comincio ad apprezzare sul
serio il tuo fascino del Sud.»
«Grazie. E non devi preoccuparti per stasera. Non sarà
stressante come temi. Tutti saranno gentili con te e, in ogni caso,
ricorda che sei l’ospite d’onore.»
ricorda che sei l’ospite d’onore.»
Doris doveva essere la cuoca più organizzata ed efficiente del
mondo, pensò Rachel, visto che era riuscita a preparare la cena
in tempo e senza intoppi. E ora, invece di essere relegata in
cucina a spignattare per tutta la sera, lei poteva aggirarsi tra la
folla con il suo abito da sera simil-Chanel.
Quando scorse Rodney che si avvicinava al portico, rimase a
guardarlo ammirata.
L’uniforme pulita e stirata gli dava un’aria marziale, sembrava
uno di quei marine che si vedevano nei manifesti della Seconda
guerra mondiale appesi nella sede dei veterani. Molti altri poliziotti avevano troppe birre e troppe cosce di pollo intorno alla
vita, e invece Rodney, durante le ore libere, si allenava
seriamente nella palestra che aveva allestito in garage. Dato che
teneva la saraci-nesca alzata, certe volte, tornando a casa dal
lavoro, lei si fermava lì a chiacchierare con lui, dato che erano
vecchi amici. Le loro famiglie abitavano vicino e sua madre
conservava ancora delle foto di loro due da bambini che
facevano il bagno insieme nella vasca. Non erano molti i vecchi
amici che potevano dire altrettanto.
Prese dalla borsetta il lucidalabbra e se lo passò sulla bocca,
conscia del suo debole per il vicesceriffo. Certo, si erano persi di
vista per un po’, pensò, ma ufficialmente le cose stavano
cambiando. Due estati prima si erano ritrovati seduti vicini al
cambiando. Due estati prima si erano ritrovati seduti vicini al
Lookilu e lei aveva notato la sua espressione mentre seguiva un
servizio in televisione sulla morte di un ragazzino in un incendio a
Raleigh. Vederlo lì, con gli occhi lucidi, l’aveva commossa
profondamente. E poi c’era stata quella volta, a Pa-squa,
quando l’ufficio dello sceriffo aveva organizzato la caccia alle
uova nella Loggia massonica.
Lui l’aveva presa da parte e le aveva rivelato alcuni dei
nascondigli più fantasiosi che era riuscito a escogitare. Sembrava
più emozionato dei bambini, il che contrastava in modo buffo con
i suoi bicipiti scolpiti. Lei allora aveva pensato che sarebbe stato
un marito e un padre ideale.
A ripensarci ora, forse era stato quello il momento in cui i suoi
sentimenti per Rodney erano cambiati. Non si era trattato di un
colpo di fulmine, ma a mano a mano aveva capito che forse
poteva avere qualche chance con lui. Certo, bisognava
considerare che Rodney era cotto di Lexie. Lo era da sempre e
sempre lo sarebbe rimasto; a volte non era facile per lei
accettarlo, mentre in altri casi non le importava più di tanto,
anche se doveva ammettere che si sentiva un po’ delusa.
Mentre avanzava tra la folla, rimpianse di avergli parlato di
Jeremy Marsh a pranzo. Doveva immaginare il motivo del suo
cattivo umore. Ormai in città non si parlava d’altro che di Lexie e
Jeremy. Era stato il droghiere – quello da cui si erano fermati a
comperare da mangiare – a sparare il primo colpo, e poi la
notizia si era diffusa a macchia d’olio dopo che il sindaco aveva
dichiarato che sarebbero arrivati insieme alla riunione. Certo che
le sarebbe piaciuto visitare New York, ma ripensando alla frase
di Jeremy, piano piano si era resa conto che il suo non era stato
un invito vero e proprio, quanto una cosa detta tanto per fare
conversazione. A volte lei dava troppi significati a situazioni del
tutto banali.
E pensare che Jeremy Marsh era così… perfetto.
78
Istruito, intelligente, affascinante, famoso e, soprattutto,
forestiero. In fondo, però, Rachel sentiva che non sarebbe mai
stata alla sua altezza e cominciava a nutrire il deprimente
sospetto che lo sapesse pure Rodney. Quanto a Rodney, viveva
lì, e non aveva intenzione di andarsene, il che da un certo punto
di vista rappresentava un altro vantaggio, e poi doveva
riconoscere che a modo suo anche lui era un uomo responsabile
e attraente.
«Ciao, Rodney», lo salutò con un sorriso.
Lui si voltò a guardarla. «Oh, ciao, Rachel, come va?»
«Bene, grazie. Una gran bella festa, vero?»
«Eccome», rispose l’altro con una nota di sarcasmo nella voce.
«Come va dentro?»
«Bene. Hanno appena issato lo striscione.»
«Che striscione?»
«Quello di benvenuto. Con il nome di Marsh a grandi lettere
azzurre e tutto il resto.»
Rodney esalò un respiro, curvando lievemente le spalle.
«Grandioso», disse.
«Dovresti vedere che cosa ha in serbo il sindaco per lui. Non
solo lo striscione e la cena, ma ha fatto fare anche una copia
delle chiavi della città.»
«L’ho saputo.»
«E ci sono pure i Mahi-Mahi», proseguì lei riferendosi a un
quartetto vacale. I quattro abitavano in città e si esibivano
insieme da quarantatré anni. Sebbene ormai due di loro usassero
il bastone e uno soffrisse di un tic nervoso che lo costringeva a
stare sul palco a occhi chiusi, erano ancora il gruppo musicale
più famoso nel raggio di cento chilometri.
«Grandioso», ripeté Rodney.
Il suo tono la colpì. «Scommetto che tu preferiresti non sapere
niente, vero?»
niente, vero?»
«Infatti.»
«E allora, perché sei venuto?»
«Mi ah convinto Tom. Un giorno o l’altro imparerò a capire le
sue intenzioni prima che apra bocca.»
«Vedrai che andrà tutto bene», lo consolò lei. «Voglio dire, hai
visto quanta gente c’è stasera, e vogliono tutti parlare con
Jeremy. Vedrai che lui e Lezie non potranno appartarsi in un
angolino co-me se niente fosse. Scommetto che non riusciranno
a scambiarsi nemmeno dieci parole in tutta la serata. E tanto
perché tu lo sappia, ti ho messo da parte un piatto di cibarie, nel
caso fossi troppo occupato per andare a prendere qualcosa al
buffet.»
Rodney ci rifletté su, poi sorrise. Rachel pensava sempre a lui.
«Grazie, Rach.» Per la prima volta si accorse di com’era vestita
e notò i cerchietti d’oro che aveva alle orecchie. «Sei carina,
stasera», aggiunse.
«E tu sei gentile.»
«Vuoi restare qui a farmi compagnia per un po’?»
Lei sorrise a sua volta. «Volentieri.»
Jeremy e Lexie si insinuarono tra le auto parcheggiate avanzando
verso la casa con il fiato che si condensava per il freddo. A un
certo punto lui vide che la gente in arrivo si fermava sulla porta
prima di entrare, e impiegò solo un istante a riconoscere Rodney
Hopper in piedi lì davanti. Anche Rodney si accorse di lui nello
stesso momento e il suo sorriso si trasformò in una smorfia.
Persino da lontano appariva grosso, geloso e, soprattutto,
armato, e Jeremy non si sentiva affatto tranquillo.
Lexie seguì il suo sguardo. «Oh, non ti preoccupare per
Rodney», gli disse. «Sei con me.»
«È proprio questo che mi preoccupa», ribatté lui. «Ho
l’impressione che non sia affatto felice di vederci arrivare
insieme.»
Lexie non poteva dargli torto, ma se non altro la rassicurava il
fatto che Rodney era in compagnia di Rachel. Lei aveva la
capacità di tenerlo calmo e spesso aveva pensato che fosse la
donna perfetta per lui. Tuttavia, non aveva ancora trovato il
modo di affrontare la conversazione senza ferirlo.
79
«Se preferisci, lascia che sia io a parlare», suggerì a Jeremy.
«Contavo su questo.»
Il volto di Rachel s’illuminò mentre loro si avvicinavano ai
gradini.
«Ehi, ciao!» esclamò. Quando furono vicini, accarezzò la giacca
di Lexie. «Sei un incanto, Lex.»
«Grazie, Rachel!», rispose lei. «Anche tu stai benissimo.»
Jeremy non disse niente, continuava a fissare il pavimento per
evitare le occhiatacce che Rodney lanciava nella sua direzione.
Nell’improvviso silenzio che seguì, le due donne si scambiarono
uno sguardo d’intesa, poi Rachel fece un passo avanti.
«Ed ecco qui il signor Famoso Giornalista», cinguettò.
«Scommetto che stasera avrà tutte le donne ai suoi piedi.» Gli
rivolse un sorriso smagliante. «Scusa, Lexie, ma mi permetti di
accompagnarlo dentro? So che il sindaco lo sta aspettando.»
«Vai pure», rispose lei. Poi si rivolse a Jeremy: «Ti raggiungo tra
un minuto».
Rachel lo prese sottobraccio e, prima che lui se ne rendesse
conto, lo trascinò via. «Dimmi un po’, hai mai visto una
piantagione del Sud così bella?» gli chiese.
«Veramente no», rispose Jeremy chiedendosi se stava per essere
condotto nella fossa dei leoni.
Mentre si allontanavano, Lexie inviò un silenzioso grazie
all’amica, che le strizzò l’occhio.
Poi si rivolse a Rodney.
«Non è come pensi tu», cominciò, ma lui alzò le mani per
fermarla.
«Senti», disse, «non devi giustificarti con me. Ci sono già
passato, ricordi?»
Lei capì che stava parlando del Ragazzo di Chicago, e il suo
primo istinto fu di ribattere che questa volta non si sarebbe
lasciata trascinare dalle emozioni. Però gli aveva già fatto una
promessa simile in passato, quando lui l’aveva gentilmente
avvertita che quel tipo non aveva nessuna intenzione di rimanere
in città.
«Non so che cosa dirti», mormorò in tono colpevole.
«Non mi devi dire niente.»
Infatti, pensò lei. Non stavano insieme, né tra loro c’era mai stata
una storia, eppure chissà perché aveva la strana sensazione di
parlare con un ex marito, subito dopo il divorzio, quando le ferite
erano ancora aperte. Per l’ennesima volta si chiese perché
Rodney non la lasciasse perdere, ma una vocina nella sua testa le
ricordò che era stata lei a tenere accesa la speranza negli ultimi
due anni, anche se da parte sua si trattava più di un bisogno di
sicurezza e di conforto che di un interesse romantico.
«Ecco, tanto perché tu lo sappia, non vedo l’ora che le cose
tornino alla normalità», buttò lì.
«Anch’io», rispose lui.
Rimasero in silenzio e Lexie guardò dall’altra parte,
rimprovarandolo tacitamente di non saper tenere a freno i suoi
sentimenti.
«Rachel è molto carina, vero?» disse tanto per rompere il
ghiaccio.
Rodney chinò il mento sul petto prima di tornare a guardarla. E
per la prima volta quella sera lei vide l’ombra di un sorriso sul
suo volto.
«È vero.»
«Esce ancora con Jim?» domandò lei, riferendosi all’addetto alle
disinfestazioni. Durante le vacanze li aveva visti insieme sul
furgone verde con l’enorme blatta sopra, mentre erano diretti a
Greenville per cena.
«No, è finita», rispose Rodney. «Sono usciti una volta soltanto.
Mi ha detto che il furgoncino puzzava di disinfettante e che lei
aveva starnutito tutta la sera.»
Nonostante il nervosismo, Lexie scoppiò a ridere. «Certe cose
possono capitare solo a Rachel.»
«Le è passata. E non le è rimasta alcuna amarezza o
risentimento. Lei si rimette sempre in sella, sai com’è.»
«A volte penso che dovrebbe scegliere dei cavalli migliori. O
almeno, senza blatte giganti sul tetto del furgone.»
80
Lui rise, come se pensasse la stessa cosa. I loro occhi si
incrociarono per un istante, poi Lexie voltò la testa e si scostò
una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Adesso sarà meglio che vada dentro», disse.
«Lo so», replicò lui.
«Tu non vieni?»
«Non ho ancora deciso, non ho intenzione di trattenermi a lungo.
E poi, sono in servizio. La contea è grande e c’è solo Bruce di
pattuglia in questo momento.»
Lei annuì. «Be’, se non ci vediamo dopo, allora ti saluto. Stammi
bene, d’accordo?»
«Sicuro. Arrivederci.»
Lei fece un passo verso la porta.
«Ehi, Lexie?»
Si voltò. «Sì?»
Lui degluttì. «Anche tu sei carina.»
La tristezza con cui pronunciò quelle parole le spezzò quasi il
cuore e le fece salire le lacrime agli occhi. «Grazie», rispose.
Rachel e Jeremy si mantennero ai margini della folla mentre lei gli
mostrava i ritratti dei vari membri della famiglia Lawson, che non
solo si assomigliavano nelle varie generazioni, ma anche tra
maschi e femmine. Gli uomini avevano tratti effeminati e le donne
tendevano a essere mascoli-ne; sembrava quasi che i pittori si
fossero sempre serviti del medesimo modello androgino.
Jeremy apprezzava il fatto che Rachel lo tenesse occupato e in
disparte, anche se si rifiutava di lasciargli il braccio. Sentiva la
gente intorno che parlava di lui, ma non era ancora pronto ad
affron-tarla, anche se la situazione un pochino lo lusingava. Nate
era riuscito a radunare solo un decimo di quelle persone per
celebrare la sua apparizione in TV, e aveva dovuto offrire da
bere a tutti per indurre anche quei pochi a venire.
Lì era diverso. Lì, nell’America di provincia, dove la gente
giocava a bingo, andava al bowling e guardava le repliche di
Matlock in televisione. Da quant’era che non vedeva una tale
quantità di capelli azzurrognoli e vestiti di poliestere? Forse da
sempre, si disse e mentre rifletteva su queste cose, Rachel gli
strinse il braccio per ottenere la sua attenzione.
«Preparati, tesoro. Lo spettacolo sta per cominciare.»
«Come, scusa?»
Lei indicò con la testa verso la folla alle loro spalle.
«Salve, Tom, come va?» disse poi, mostrando quel suo sorriso
Holliwoodiano.
Il sindaco Gherkin era l’unico nella stanza a sudare e la sua
pelata brillava sotto le luci. Non diede segno di sorpresa
vedendoli sottobraccio.
«Rachel! Incantevole come sempre. E così stai mostrando al
nostro ospite l’illustre passato di questa nobile casa?»
«Facciuo del mio meglio», ribatté lei.
«Bene, bene, mi fa piacere.» Scambiarono ancora qualche
chiacchiera di circostanza prima che Gherkin venisse al punto.
«Non vorrei interromperti, visto che sei così gentile da
raccontare la storia della nostra bella piantagione, ma ora
dobbiamo dare inizio alla serata», disse. «Ti spiace?»
«Niente affatto», rispose Rachel, e un attimo dopo il sindaco si
era sostituito a lei al fianco di Jeremy e lo conduceva in mezzo
alla folla.
A mano a mano che avanzavano, la gente taceva e si faceva da
parte come il Mar Rosso al passaggio di Mosè. Alcuni
sgranavano gli occhi, altri allungavano il collo per vedere meglio.
Si alzarono degli oohh e aahh di meraviglia, mentre i presenti
bisbigliavano l’uno con l’altro che doveva essere proprio lui.
«Sono contento che finalmente sia arrivato», disse Gherkin a
denti stretti mentre continuava a sorridere agli astanti. «Per un
attimo mi sono preoccupato.»
81
«Forse dovremmo aspettare Lexie», obiettò Jeremy, cercando di
non arrossire. Tutta quella storia, soprattutto il fatto di essere
scortato dal sindaco come una reginetta del ballo, era un po’
troppo America di provincia per i suoi gusti, per non dire
ridicolo.
«Le ho già parlato e ci aspetta là.»
«Dove là?»
«Lei sta per incontrare il consiglio comunale, naturalmente. Ha
già conosciuto i membri Jed e Tully, ma ce ne sono altri. E poi ci
sono i commissari della contea. Anche loro sono molto lusingati
dalla sua venuta qui. Estremamente lusingati. E non si
preoccupi… tutti sono pronti a darle le loro testimonianze sui
fantasmi. Ha con sé il registratore, vero?»
«Ce l’ho in tasca.»
«Bene, bene. Mi fa piacere. E…» Per la prima volta distolse lo
sguardo dalla folla per rivolgerlo a lui. «Immagino che stasera si
recherà al cimitero…»
«In effetti, è così e a questo proposito vorrei essere sicuro…»
Gherkin riprese a parlare come se non l’avesse sentito, mentre
annuiva e salutava con la mano la folla. «Vede, in qualità di
sindaco ritengo mio dovere assicurarle che non ha niente da
temere dall’incontro con quegli spiriti. Certo, sono uno
spettacolo unico. Farebbero svenire anche un elefante.
Ma finora nessuno ha riportato danni, a sccezione di Bobby Lee
Howard, che dopo è andato a sbattere contro un cartello
stradale. L’incidente, però, non è attribuibile a quello che aveva
visto, quanto al fatto che si era scolato una confezione da dodici
lattine di birra prima di mettersi al volante.»
«Ah», fece Jeremy, cominciando a imitare i gesti del sindaco
verso la folla. «Lo terrò presente.»
Lexie era lì ad attenderlo e lui tirò un sospiro di sollievo quando
vide che lei gli si metteva al fianco mentre veniva presentato
all’èlite del potere locale. La maggior parte di loro si dimostrò
amichevole – sebbene Jed fosse rimasto a braccia conserte con
aria torva – ma lui continuava a guardare Lexie con la coda
dell’occhio. Gli sembrava distratta e si chiedeva che cosa fosse
successo tra lei e Rodney.
Nelle tre ore successive Jeremy non ebbe modo di scoprirlo, né
di rilassarsi, perché la serata prese l’antiquata forma di una
convention politica. Dopo l’incontro con il consiglio – tutti i
membri, escluso Jed, sembravano essere stati imbeccati dal
sindaco e gli ripeterono che quella poteva diventare «la storia più
sensazionale di tutti i tempi», eicordandogli che «il turismo è
importante per questa città» – venne condotto sul palco
addobbato da uno striscione con su scritto: BENVENUTO
JEREMY MARSH!
Tecnicamente non era un vero e proprio palco, ma un lungo
tavolo di legno coperto da una tova-glia rossa di raso lucido.
Lui, imitato da Gherkin, usò una sedia per salirci e si trovò di
fronte a un mare di facce sconosciute. Una volta placato il
clamore della folla, il sindaco fece un lungo discorso introduttivo,
elogiandolo per la sua professionalità e onestà, come se lo
elogiandolo per la sua professionalità e onestà, come se lo
conoscesse da sempre. Inoltre non citò solo l’apparizione
televisiva a Primetime Live – che suscitò sorrisi e cenni
d’assenso, oltre a un’altra serie di oohh e aahh – ma anche una
serie di articoli di successo scritti da lui, compreso un pezzo per
Atlantic Monthly sulle ricerche scientifiche condotte a Fort
Detrick per produrre armi biologiche. Jeremy doveva
riconoscere che, malgrado il suo atteggiamento un po’ goffo, il
sindaco si era preparato accuratamente e sapeva come lusingare
qualcuno. Alla fine della prolusione gli vennero consegnate le
chiavi della città mentre i Mahi-Mahi – che erano in piedi su un
altro tavolo lungo la parete vicina – intonarono una serie di
canzoni: «Carolina on My Mind», «New York, New York» e,
forse la scelta più appropriata, il tema del film Ghostbusters.
Rimase stupito di scoprire che i Mahi-Mahi non cantavano
affatto male, anche se per lui restava un mistero come avessero
fatto a salire sul tavolo. La gente li adorava, e per un attimo
anche Jeremy si sorprese a sorridere e a divertirsi veramente.
Dal basso Lexie gli strizzò l’occhio e questo rese la situazione
ancora più surreale.
Il sindaco poi lo condusse in un angolo, dove c’era una poltrona
dietro un tavolino antico. Con il registratore acceso, Jeremy
passò il resto della serata ad ascoltare una testimonianza dietro
l’altra 82
sull’incontro con i fantasmi. Gherkin aveva fatto mettere in fila le
sull’incontro con i fantasmi. Gherkin aveva fatto mettere in fila le
persone, che chiacchieravano animatamente tra loro in attesa del
proprio turno, come se fossero lì per chiedere un autografo.
Purtroppo, la maggior parte delle storie che ascoltò non
combaciavano. Tutti sostenevano di aver visto le luci, ma
ciscuno0 le descriveva in maniera diversa. Alcuni giuravano che
avevano forma umana, altri che assomigliavano a luci
stroboscopiche. Un uomo disse che ricordavano un costu-me da
fantasma di Halloween, con tanto di lenzuolo. Il più originale fu
un tizio chiamato Joe, che raccontò di aver visto le luci più di una
decina di volte e dichiarò autorevolmente che erano identi-che
all’insegna di Piggly Wiggly, sulla Route 54 nei pressi di
Vanceboro.
Lexie rimase nei paraggi a chiacchierare con varie persone e i
loro sguardi a volte si incontrava-no. Allora lei gli sorrideva
complice, facendo una smorfia buffa, come per dirgli: Hai visto
in che pasticcio ti sei cacciato?
Era diversa da tutte le donne che aveva incontrato negli ultimi
anni, rifletté Jeremy. Non gli na-scondeva le sue opinioni, non
cercava di fare colpo su di lui, né si mostrava impressionata dai
risultati professionali che aveva finora ottenuto. Al contrario,
sembrava valutarlo per ciò che era oggi –
adesso – senza prendere in considerazione né il passato né il
futuro.
A pensarci bene, si disse, quello era uno dei motivi per cui lui
aveva sposato Maria. Non si trattava solo dell’ondata di
emozioni provata la prima volta che avevano fatto l’amore; a
convincerlo che fosse la donna giusta, erano stati piuttosto i
piccoli gesti quotidiani. La sua franchezza nei confronti degli altri,
il modo ferreo in cui l’affrontava quando commetteva qualche
errore, la pazienza con cui lo ascoltava mentre lui camminava
avanti e indietro alle prese con un problema. E sebbene con
Lexie non avesse condiviso nessuna delle banali difficoltà della
vita di tutti i giorni, Jeremy non riusciva a scacciare l’idea che
anche lei, se lo avesse voluto, sarebbe stata brava a risolverle.
Notò che Lexie nutriva un affetto sincero per la gente della sua
città e sembrava genuinamente interessata a quello che dicevano.
Il suo atteggiamento disponibile indicava che non aveva fretta di
correre via, né di interrompere l’interlocutore, e non si faceva
problemi a ridere di gusto se qualcosa la divertiva. Di tanto in
tanto abbracciava qualcuno, poi gli prendeva le mani e
mormorava una frase del tipo: «Sono tanto felice di rivederti». Il
fatto poi che non si rendesse conto di essere fuori del comune,
né che i più la ritenevano tale, gli ricordava una sua vecchia zia
che era stata sempre la ben-voluta nelle cene di famiglia, per via
della sua capacità di dedicarsi completamente agli altri.
Quando infine si alzò dalla poltrona per sgranchirsi le gambe,
Jeremy vide Lexie che gli andava incontro con un’andatura
sottilmente seducente. E mentre la guardava ci fu un istante, uno
sottilmente seducente. E mentre la guardava ci fu un istante, uno
solo, in cui gli parve che quella scena non stesse avvenendo
adesso, ma nel futuro, solo un’altra piccola riunione tra amici in
una lunga serie di riunioni in una minuscola città del Sud in mezzo
al nulla.
83
10
Mentre la gente cominciava ad andarsene, Jeremy rimase per un
momento a chiacchierare sul portico con Gherkin. Lexie e Doris
erano lì in piedi accanto a loro.
«Spero che la serata sia stata di suo gradimento», disse il
sindaco, «e che le abbia permesso di approfondire la storia dei
fantasmi.»
«La ringrazio di tutto, ma non c’era bisogno che vi deste tanta
pena per me», protestò Jeremy.
«Sciocchezze», tagliò corto Gherkin. «Era il minimo che
potessimo fare. E poi, volevo che si rendesse conto di cosa
siamo capaci in questa città quando ci mettiamo in testa un’idea.
Si immagini solo come accoglieremmo quelli della televisione.
Naturalmente, potrà avere un altro assaggio del folclore locale
questo fine settimana. La tranquilla atmosfera di provincia, la
sensazione di fare un viaggio all’indietro nel tempo visitando le
vecchie dimore. È qualcosa di incredibile.»
«Non ne dubito», commento Jeremy.
Gherkin sorrise. «Bene. Mi scusi, ma ora devo tornare dentro.
Un sindaco non smette mai di lavorare, sa.»
«Capisco», ribatté Jeremy. «E grazie per queste», aggiunse,
mostrando le chiavi della città.
«Si figuri, è stato un piacere. Se le merita.» Gherkin gli strinse la
mano. «Però non si faccia venire strane idee. Guardi che non
servono per aprire il caveau della banca, si tratta più che altro di
un gesto simbolico.»
Il sindaco se ne andò e le due donne si avvicinarono ridendo.
Guardandole, lui si accorse che Doris aveva l’aria stanca.
«Chessorpresa», esclamò lei.
«Che cosa?» chiese Jeremy.
«Tu e i tuoi raffinati modi cittadini.»
«Come?»
«Dovevi sentire cosa dicevano di te, ragazzo», lo stuzzicò Doris.
«Fortuna che io avevo capito com’eri fin dal principio.»
Jeremy sorrise con aria impacciata. «È stato tutto un po’
bizzarro, vero?»
84
«Puoi ben dirlo», confermò lei. «Il mio gruppo di studi biblici ha
parlato per tutta la sera di quanto sei bello. Ce n’erano un paio
parlato per tutta la sera di quanto sei bello. Ce n’erano un paio
che volevano che ti trasferissi a casa loro, ma per fortuna sono
riuscita a dissuaderle. E poi non credo che i mariti sarebbero
stati troppo contenti.»
«Te ne sono grato.» Quella sera durante la festa erano passati
con naturalezza a darsi del tu.
«Hai mangiato abbastanza? Se hai fame posso trovarti ancora
qualcosa da mettere sotto i denti.»
«No, sto bene, grazie.»
«Sicuro? La notte è ancora giovane, giusto?»
«Sono a posto», le assicurò lui. Nel silenzio che seguì, Jeremy si
guardò intorno e si accorse che la nebbia si era infittita. «A
proposito, forse ora dovrei andare. Non vorrei perdere la mia
occasione di avere un incontro con il soprannaturale.»
«Non preoccuparti. Non ti perdrai le luci», lo tranquillizzò Doris.
«Compaiono solo più tardi, mancano ancora un paio d’ore.»
Poi, con un gesto che lo sorprese, lo abbracciò stancamente.
«Volevo ringraziarti di aver avuto la pazienza di incontrare tutti
quanti. Non capita spesso di trovare un forestiero che sappia
ascoltare come hai fatto tu.»
«Nessun problema. È stato un piacere.»
Jeremy pensò che Doris era molto simile a sua madre e
istintivamente si girò a guardare Lexie, che era cresciuta con
quella donna.
«Sei pronta?» le chiese.
Lexie annuì in silenzio. Baciò Doris sulla guancia, la salutò e si
avviò insieme a lui verso la macchina. I loro passi facevano
scricchiolare la ghiaia. Lei teneva lo sguardo fisso su un punto
lontano e, dopo qualche passo, Jeremy le diede un colpetto
leggero con la spalla.
«Stai bene? Sei taciturna.»
Lexie scorrò la testa, tornando al presente. «È solo che stavo
pensando alla nonna. Stasera si è strapazzata molto e, forse
esagero, ma sono preoccupata per lei.»
«A me è sembrato che stesse bene.»
«Sì, Doris sembra sempre forte. Ma deve imparare a prendere le
cose con più calma. Ha avuto un infarto un paio di anni fa, e
finge che non sia mai successo. E poi l’aspetta un week-end
faticoso.» Jeremy non sapeva che cosa dire; l’idea che Doris non
fosse più che sana non gli aveva nemmeno sfiorato la mente.
Lexie notò il suo disagio e sorrise. «Però si è divertita, questo è
sicuro. Abbiamo potuto parlare con un sacco di persone che non
vedevamo da tempo.»
«Credevo che qui ci si vedesse in continuazione.»
«È vero. Ma tutti sono sempre molto impegnati e non c’è tempo
di fermarsi a parlare come si deve. Stasera, invece, è stato
bello.» Lo guardò. «Doris ha ragione: la gente ti ha apprezzato
sul serio.» Quest’ammissione sembrò sgomentarla e Jeremy la
guardò, infilando le mani in tasca.
«Be’, non capisco perché ti sorprende. Io sono un tipo amabile,
sai.»
Lei alzò gli occhi al cielo, più divertita che contrariata. Alle loro
spalle la casa stava scomparen-do inghiottita dalla nebbia.
«Senti, so che non sono affari miei, ma com’è andata con
Rodney?»
Lexie esitò un istante, poi disse: «Hai ragione, non sono affari
tuoi».
Jeremy si aspettava di vederla sorridere, ma lei era seria. «Te
l’ho chiesto solo perché mi do-mandavo se non fosse il caso di
sgusciare via dalla città con il favore delle tenebre, per evitare
che lui mi fracassi la testa con le sue mani.»
Questo la fece sorridere. «Non ti succederà niente, stai
tranquillo. E poi, spezzeresti il cuore al sindaco se te ne andassi.
tranquillo. E poi, spezzeresti il cuore al sindaco se te ne andassi.
Non tutti i visitatori vengono accolti con una festa del genere e le
chiavi della città.»
«Sono le prime che mi consegnano. In genere, mi toccano solo
lettere minatorie.»
Lei rise di gusto. Era un suono melodioso. Al buio i suoi
lineamenti erano imperscrutabili, e lui ripensò a come l’aveva
vista animata in mezzo ai suoi concittadini.
85
Arrivati alla macchina, le aprì la portiera e lei, nel salire, gli si
strofinò lievemente contro. Chissà se lo aveva fatto in risposta al
suo colpetto di prima oppure se non se n’era nemmeno accorta,
si chiese Jeremy. Fece il giro dell’auto e si mise al volante. Infilò
la chiave nell’accensione, poi ebbe un attimo di esitazione.
«Che cosa c’è?» chiese lei.
«Stavo pensando…» cominciò lui, lasciando la frase a metà.
Le parole sembrarono rimanere sospese dentro l’auto. Lexie
annuì. «Mi è parso di sentire uno squittio.»
«Davvero? Quello che volevo dire è… so che è tardi, ma
verresti al cimitero insieme a me?»
«Nel caso ti spaventassi?»
«Qualcosa del genere.»
Lei guardò l’ora, pensierosa. Oddio…
Non doveva andare con lui. Assolutamente no. Si era già
sbilanciata accompagnandolo a quella serata, e trascorrere un
altro paio d’ore insieme sarebbe stato eccessivo. Sapeva che
non poteva uscirne niente di buono, non c’era motivo per cui
rispondesse di sì. Ma prima che riuscisse a trattenersi le parole le
stavano già uscendo di bocca.
«Va bene, ma vorrei passare da casa per mettermi qualcosa di
più comodo.»
«D’accordo», disse lui. «Trovo anch’io che tu debba metterti più
comoda.»
«Non avevo dubbi», replicò lei ammiccante.
«Adesso non farti strane idee», ribatté lui con finta indignazione.
«Non penso che ci conosciamo ancora abbastanza.»
«È quello che penso anch’io.»
«Sbaglio, o l’ho già sentito da qualche parte?»
«Be’ la prossima volta, stai attento a quello che dici. E tanto
«Be’ la prossima volta, stai attento a quello che dici. E tanto
perché tu lo sappia, non farti strane idee a proposito di stasera.»
«Non ho nessuna idea. La mia mente è del tutto vuota.»
«Sai che cosa intendo.»
«No», obiettò lui candidamente. «Che cosa intendi?»
«Guida e basta, d’accordo? Sbrigati, altrimenti cambio idea.»
«Va bene, va bene», concluse lui girando la chiave. «Certo che a
volte sei proprio insistente.»
«Grazie. Mi hanno detto che è uno dei miei pregi.»
«Chi te l’ha detto?»
«Ti piacerebbe saperlo, vero?»
La Ford avamzava per le strade nebbiose, rese ancor più
spettrali dalla luce lattiginosa dei lampioni. Giunti nel vialetto di
casa sua, Lexie aprì la portiera.
«Aspetta qui», disse scostandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «Faccio in un minuto.»
Lui sorrise, soddisfatto di vederla nervosa.
«Hai bisogno delle mie chiavi della città per aprire la porta? Te le
«Hai bisogno delle mie chiavi della città per aprire la porta? Te le
presto volentieri.»
«No, grazie. E non montarti la testa pensando di essere speciale,
signor Marsh. Anche mia madre ha ricevuto le chiavi della città.»
«Siamo tornati al signor Marsh? E io che pensavo che fossimo
diventati amici.»
«Io invece comincio a pensare che questa serata ti abbia dato
alla testa.»
Scese dall’auto e si richiuse la portiera alle spalle, nella speranza
di aver detto l’ultima parola.
Jeremy rise, trovandola molto simile a se stesso. Non sapendo
resistere alla tentazione, abbassò il sedile dalla parte di lei e si
sporse sul sedile.
«Ehi, Lexie?»
Lei si voltò. «Sì?
«Visto che potrebbe fare freddo stasera, prendi pure una
bottiglia di vino, se vuoi.»
Lei si mise le mani su fianchi. «E perché? Vuoi farmi ubriacare?»
86
Lui sogghignò. «Solo se sei d’accordo anche tu.»
Lei socchiuse gli occhi, ma anche stavolta sembrava più divertita
che risentita. «A parte che non tengo alcolici in casa, ma
comunque avrei detto di no lo stesso.»
«Non bevi?»
«Non molto», rispose lei. «E adesso, aspetta qui», lo ammonì
indicando il vialetto. «M’infilo un paio di jeans.»
«Ti prometto che non cercherò nemmeno di sbirciare dalla
finestra.»
«Ottima idea. Altrimenti dovrei dire a Rodney quello che hai
fatto.»
«Non mi sembra una bella cosa.»
«Fidati», replicò lei, assumendo un’aria severa, «non lo
sarebbe.»
Jeremy la guardò salire il vialetto di casa, convinto più che mai di
non aver conosciuto nessun’altra come lei in vita sua.
Un quarto d’ora dopo si fermarono davanti al cancello di Cedar
Creek. Jeremy aveva parcheggiato in modo che i fari della
macchina illuminassero il cimitero e il suo primo pensiero fu che li
persino la nebbia sembrava diversa. In certi punti appariva densa
e impenetrabile, in altri era una bruma sottile, e la lieve brezza
l’agitava creando lingue tortuose. I rami più bassi dell’enorme
magnolia erano ombre scure e minacciose e le tombe diroccate
aumentavano l’effetto sinistro del luogo. Era buio pesto e non si
scorgeva neppure una scheggia di luna in cielo.
Lasciò acceso il motore della macchina, poi scese e aprì il
bagagliaio. Lexie diede un’occhiata al suo interno e sgranò gli
occhi.
«Sembra che tu abbia dietro l’attrezzatura per costruire una
bomba.»
«No», rispose lui. «Solo qualche strumento di precisione. Noi
maschi amiamo i nostri giocattoli.
Sai com’è.»
«Pensavo ti fossi portato solo una telecamera.»
«In effetti, ne ho quattro.»
«E che cosa te ne fai?»
«Mi servono per riprendere da ogni angolazione, è naturale. Per
esempio, se i fantasmi cammi-nassero nella direzione sbagliata,
rischierei di non vederli in faccia, no?»
Lei ignorò la battuta. «E questo che cos’è?» chiese invece,
indicando un’apparecchiatura elettro-nica.
«Un rivelatore di microonde. E quest’altro», spiegò lui, indicando
uno strumento a fianco, «serve a rilevare l’attività
elettromagnetica.»
«Vuoi scherzare?»
«No», rispose lui. «È tutto scritto nel manuale ufficiale per
acchiappafantasmi. Spesso di rileva un incremento di attività
degli spiriti nelle zone in cui ci sono alte concentrazioni di energia
e questo serve per captare un campo energetico anormale.»
«Ti è mai capitato di registrare un campo energetico anormale?»
«In effetti, sì. Niente meno in una casa che si presumeva fosse
infestata. Sfortunatamente gli spettri non c’entravano proprio
niente. Il forno a microonde del proprietario non funzionava
bene.»
«Ah», fece lei.
Lui la guardò. «Così non vale. Mi rubi le battute.»
«Non mi è venuto in mente nient’altro, scusa.»
«Non importa. Te le cedo volentieri.»
«e perché hai con te tutta questa attrezzatura?»
«Quando voglio confutare la possibile esistenza di fantasmi, devo
usare tutto ciò che utilizzano gli esperti del paranormale. Non
voglio essere accusato di leggerezza e quella gente ha le sue
regole. E poi, scrivere che hai usato un rilevatore
elettromagnetico fa sempre molta impressione. Chi legge pensa
che tu sappia quello che fai.»
«Ed è così?»
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«Certo. Te l’ho già detto. Seguo il manuale ufficiale.»
Lei scoppiò a ridere. «Allora posso darti una mano? Vuoi che ti
aiuti a portare qualcosa?»
«Porteremo dentro tutta l’attrezzatura. Ma se ritieni che sia
un’attività prettamente maschile, posso cavarmela da solo,
mentre tu ti sistemi le unghie.»
Lei tirò fuori una videocamera e se la mise a tracolla, quindi ne
afferrò un’altra.
«Bene, signor Tutto Muscoli, da che parte?»
«Dipende. Secondo te dove dovremmo piazzarci? Dato che tu
«Dipende. Secondo te dove dovremmo piazzarci? Dato che tu
hai già visto le luci, potresti avere qualche idea.»
Lei indicò verso la magnolia, dove si era diretta la prima volta
che lui l’aveva vista.
«Da quella parte», disse. «Le luci si vedono lì.»
Quel punto era proprio di fronte a Riker’s Hill, sebbene la collina
fosse completamente nascosta dalla nebbia.
«Compaiono sempre nello stesso punto?»
«Non ne ho idea. Ma erano lì quando le ho viste io.»
Nell’ora successiva, mentre Lexie lo riprendeva con una
telecamera, Jeremy preparò l’attrezzatura. Sistemò le altre tre
telecamere sui cavalletti e le posizionò ai vertici di un immaginario
triangolo. Su due di esse applicò dei filtri speciali, poi regolò lo
zoom in modo da inquadrare un’intera area. Verificò il
funzionamento dei telecomandi laser e iniziò a istallare
l’equipaggiamento sonoro.
Attaccò quattro microfoni agli alberi più vicini mentre un quinto
lo mise al centro, dove aveva col-locato anche i rilevatori di
onde elettromagnetiche e di microonde e il registratore.
Mentre si accertava che tutto funzionasse a dovere, si sentì
chiamare da Lexie.
«Ehi, che te ne pare?»
Si girò e vide che aveva inforcato gli occhiali a infrarossi, che le
davano l’aria di un grosso in-setto.
«Molto sexy», rispose. «Direi che hai trovato il tuo stile.»
«Questi occhiali sono favolosi. Vedo tutto qua intorno.»
«Qualcosa di cui dovrei preoccuparmi?»
«A parte un paio di coguari e orsi affamati, mi pare che non ci sia
nessun altro.»
«Ho quasi finito. Devo solo spargere un po’ di farina e tirare il
filo.»
«Farina? Quella per cucinare?»
«Mi serve per assicurarmi che nessuno si avvicini
allequipaggiamento. La farina conserva le im-pronte e il filo mi
rivelerà se qualcuno si è avvicinato.»
«Molto astuto. Però lo sai che siamo soli qui, no?»
«Non si può mai dire», ribatté lui.
«Oh, ma io lo so. Comunque, fai come vuoi mentre continuo a
riprenderti. A proposito, stai venendo benissimo.»
«Con una risata, lui aprì il sacchetto e cominciò a spargere la
farina intorno alle telecamere, cir-condandole con un alone
bianco. Fece lo stesso intorno ai microfoni e al resto
dell’attrezzatura, poi legò il filo a dei rami, in modo da far
formare un ampio quadrilatero, come se si trattasse di circoscrivere la scena di un crimine. Tirò un secondo filo più in basso
a cui appese dei campanellini. Do-po aver terminato
l’operazione, tornò da Lexie.
«Non immaginavo che fosse così complicato», osservò lei.
«Scommetto che cominci a considerarmi sotto una nuova luce,
con più rispetto, vero?»
«Sinceramente no. stavo solo cercando di fare conversazione.»
Jeremy sorrise, poi indicò verso la macchina. «Vado a spegnere i
fari. Mi auguro solo che tutta questa fatica non sia stata inutile.»
Quando spense il motore, il cimitero piombò nelle tenebre e lui
aspettò qualche istante che i suoi occhi si abituassero all’oscurità.
Purtroppo non fu così, perché il cimitero era più buio di una
grotta. Dopo aver raggiunto a tentoni il cancello, inciampò in una
radice sporgente appena oltre l’ingresso e rischiò di cadere.
«Potrei riavere i miei occhiali a infrarossi?» gridò.
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«No», fu la risposta di Lexie. «Come ti ho detto, questi occhiali
sono favolosi. E poi, te la cavi benissimo anche senza.»
«Ma non vedo un accidente.»
«Fai qualche passo in avanti. Non ci sono ostacoli.»
Lui si mosse lentamente con le braccia tese davanti a sé.
«E adesso?»
«Stai andando a sbattere contro una cappella, quindi spostati a
sinistra.» Jeremy notò che il suo tono era un po’ troppo ironico.
«Ne sei proprio sicura?»
«Lo vuoi il mio aiuto, o no?»
«Veramente rivorrei i miei occhiali», rispose lui, quasi
implorando.
«Dovrai venire a prenderteli.»
«Potresti venire tu a portarmeli.»
«Sì, potrei, ma non mi va. È molto più divertente vederti andare
in giro come uno zombie.
in giro come uno zombie.
Adesso vai a sinistra. Ti dirò io quando fermarti.»
Il gioco andò avanti finché lui non la raggiunse e si mise seduto
accanto a lei. Lexie allora si sfilò gli occhiali sogghignando.
«Ecco», gli disse, porgendoglieli.
«Grazie mille, davvero.»
«Figurati. È stato un piacere.»
Nella mezz’ora successiva Jeremy e Lexie si scambiarono
impressioni sulla serata. Lui non riusciva a scorgere il suo viso,
ma sentiva il calore della sua presenza nell’oscurità.
Cambiando argomento, a un certo punto le chiese: «Raccontami
di quando hai visto le luci. Stasera ho ascoltato la testimonianza
di tutti gli altri».
Sebbene i suoi lineamenti fossero in ombra, Jeremy ebbe
l’impressione che la domanda l’avesse trasportata indietro nel
tempo, facendo riemergere un ricordo doloroso.
«Avevo otto anni», disse lei con un filo di voce, «e in quel
periodo continuavo ad avere degli incubi sui miei genitori. Doris
teneva appesa al muro la foto del loro matrimonio e, in sogno, io
me li vedevo sempre vestiti così: la mamma con l’abito bianco,
papà in smoking. Solo che erano intrap-polati nella macchina
finita nel fiume. Era come se io li guardassi dall’esterno dell’auto
e leggessi il panico e la paura sui loro volti mentre l’acqua
riempiva l’abitacolo. La mamma aveva un’espressione molto
triste, sapeva che per loro era la fine, e all’improvviso la
macchina cominciava a inabbis-sarsi più velocemente mentre io
l’osservavo dall’alto.»
La sua voce era stranamente priva di emozione. Sospirò.
«Mi svegliavo gridando. Non so quante volte sia capitato, ma
doveva essere successo abbastanza spesso da far pensare a
Doris che non si trattasse di una fase passeggera. Suppongo che
altri genitori mi avrebbero portato da uno psicologo, e invece
lei… ecco, una notte mi svegliò, mi disse di vestirmi e di mettere
un giaccone pesante, e poi mi trovai qui. Mi promise che
avremmo visto qualcosa di meraviglioso…
«Ricordo che era una notte buia come questa e Doris mi teneva
per mano perché non inciampas-si. Avanzammo tra le lapidi, poi
ci mettemmo sedute ad aspettare finché non ci fu un chiarore e
comparvero le luci. Sembravano animate da una forza viva…
tutto intorno a noi brillava, finché le luci svanirono di nuovo.
Allora tornammo a casa.»
Lui la sentì rabbrividire al suo fianco. «Anche se ero piccola,
avevo capito che cosa era successo e dopo non riuscii più a
prendere sonno, perché sapevo di avere appena visto gli spiriti
prendere sonno, perché sapevo di avere appena visto gli spiriti
dei miei genitori. Era come se fossero venuti a trovarmi. In
seguito, non ebbi più incubi su di loro.»
Jeremy rimase in silenzio.
Lei si chinò in avanti verso di lui. «Mi credi?»
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«Sì», rispose. «Davvero. E anche se non ti conoscessi, la tua
storia sarebbe quella che mi ha colpito di più questa sera.»
«Tanto per mettere le cose in chiaro, non vorrei che la mia
esperienza finisse in un articolo.»
«Ne sei sicura? Potresti diventare famosa.»
«Preferisco di no. Ho appena visto come un po’ di celebrità
possa rovinare una persona.»
Lui rise. «Dato che stiamo parlando in privato, posso chiederti se
sono stati i tuoi ricordi a spin-gerti a venire qui con me stasera?
Oppure era perché volevi goderti la mia esuberante
compagnia?»
«Di sicuro non la seconda», rispose lei, e già mentre lo diceva
capì che non era vero. Pensava che se ne rendesse conto anche
lui, ma nei brevi istanti di silenzio che seguirono intuì che era
rimasto male.
«Scusami», disse.
«Non preoccuparti», tagliò corto lui. «Non dimenticare che ho
cinque fratelli maggiori. Tra noi ragazzi era normale essere
schietti fino alla brutalità, perciò ci sono abituato.»
Lei si raddrizzò. «Be’, per rispondere alla tua domanda… può
darsi che volessi rivedere le luci.
Per me hanno sempre rappresentato una fonte di conforto.»
Jeremy raccolse un bastoncino da terra e lo lanciò lontano.
«Tua nonna è stata molto perspicace ad agire così.»
«Lo è ancora.»
«Hai ragione», convenne lui e proprio in quel momento Lexie si
mosse, come se si allungasse per vedere qualcosa in lontananza.
«Credo che dovresti accendere la tua attrezzatura», disse.
«Perché?»
«Perché stanno arrivando. Non te ne sei accorto?»
Lui stava per fare una battuta sul fatto che era «a prova di
fantasmi», quando si rese conto che ora riusciva a vedere non
soltanto Lexie, ma anche le telecamere. E persino il sentiero
verso la macchina. La luce stava aumentando per davvero, o no?
«Ci sei?» lo incalzò lei. «Guarda che ti stai perdendo la tua
grande occasione.»
Jeremy aguzzò la vista, per assicurarsi che gli occhi non gli
facessero qualche brutto scherzo, poi puntò il telecomando verso
ciascuna delle telecamere. In lontananza si accesero le spie rosse
della registrazione. Lui stava ancora cercando di elaborare il
fatto che in effetti stava accadendo qualcosa, lì.
Si guardò intorno, alla ricerca di auto di passaggio o di case
illuminate, e quando tornò a fissare le videocamere stabilì che
quello non era un parto della sua immaginazione. Gli apparecchi
erano più visibili, e ora sporgeva persino il rilevatore di onde
elettromagnetiche al centro del triangolo.
Afferrò gli occhiali a infrarossi.
«Non ti serviranno», disse Lexie.
Lui se li mise lo stesso, e il mondo prese un alone verdastro
fosforescente. A mano a mano che la luce aumentava, la nebbia
cominciava ad assumere forme circolari.
Jeremy guardò l’ora: erano le 11:44:10. L’avrebbe tenuto a
mente. Si chiese se non fosse sorta la luna… ne dubitava, ma ne
mente. Si chiese se non fosse sorta la luna… ne dubitava, ma ne
avrebbe controllato le fasi una volta tornato nel suo bungalow al
Green-leaf.
Ora però aveva altro di cui preoccuparsi. La nebbia, come
aveva raccontato Lexie, continuava a rischiararsi e lui si sfilò gli
occhiali per guardare a occhio nudo. Il chiarore era lo stesso,
anche se il suo aumento era più evidente con gli occhiali. Non
vedeva l’ora di confrontare le diverse immagini registrate dalle
videocamere, ma per il momento poteva solo stare lì a osservare
di persona il fenomeno.
Trattenendo il fiato, vide la nebbia davanti a loro farsi sempre più
argentea prima di passare a un giallo pallido, quindi a un bianco
opaco e infine a una luminosità quasi accecante. Per un attimo,
un solo istante, gran parte del cimitero fu perfettamente visibile –
come un campo di football illuminato prima della finale – e alcune
porzioni della nebbia luminosa cominciarono a roteare in piccoli
cerchi, per poi espandersi improvvisamente all’intorno come una
stella che esplodeva. In quel mo-90
mento Jeremy ebbe l’impressione di scorgere sagome di persone
o di cose, ma poi la luce cominciò a ritirarsi verso il centro, come
se fosse tirata da un elastico. E prima ancora che avesse tempo
di rendersene conto, tutto ripiombò nell’oscurità.
Jeremy sbatté le palpebre, per assicurarsi che non stesse
sognando, poi guardò l’orologio. L’intero fenomeno era durato
sognando, poi guardò l’orologio. L’intero fenomeno era durato
complessivamente ventidue secondi. Pur sapendo che avrebbe
dovuto alzarsi per andare a controllare l’attrezzatura, rimase lì
immobile a fissare il punto in cui erano appar-si i fantasmi del
cimitero di Cedar Creek.
Frodi, errori in buonafede e coincidenze erano le spiegazioni più
plausibili dei fenomeni cosiddetti paranormali, e fino a quel
momento tutte le indagini di Jeremy a proposito di tali eventi
erano state concluse con esiti di quel tipo. Nella prima categoria
in genere rientravano le situazioni in cui qualcuno crecava di
approfittare in qualche modo del prossimo. Come esempi si
potevano citare il caso di William Newell – che nel 1869
dichiarò di aver trovato nella sua fattoria nei pressi di New York
i resti pietrificati di un uomo colossale, mentre in realtà si trattava
di una statua nota come il Gigante di Cardiff – e quello di
Timothy Clausen, la sedicente guida spirituale.
Si parlava di frode anche per coloro che volevano mettere alla
prova la credulità della gente, non per ricavarci dei soldi, quanto
per il semplice gusto di farlo. Come Doug Bower e Dave Chorley, i contadini inglesi che avevano tracciato un cerchio in un
campo di frumento per far supporre che lì fossero atterrati gli
extraterrestri, oppure il chirurgo scozzese che aveva fotografato
il mostro di Loch Ness nel 1933. In entrambi i casi all’inizio si
era trattato di una pura e semplice burla, ma poi l’interesse
dell’opinione pubblica si era infiammato così velocemente da
rendere difficili le am-missioni.
Gli errori in buonafede, d’altro canto, erano semplicemente tali.
Un pallone meteorologico veniva scambiato per un disco
volante, un orso diventava l’Uomo delle Nevi, un reperto
archeologico era considerato un oggetto misterioso perché
scoperto in un posto molto lontano dal sito originario.
In casi di questo genere, i testimoni avevano effettivamente visto
qualcosa, ma scambiandolo per qualcos’altro.
Le coincidenze spiegavano quasi tutti i casi restanti, ed erano in
funzione del calcolo delle pro-babilità. Per quanto un evento
sembrasse improbabile, finché teoricamente possibile, prima o
poi poteva verificarsi da qualche parte. Bastava pensare al
romanzo Futility di Robert Morgan – pubblicato nel 1898,
quattordici anni prima che il Titanic levasse le ancore –, in cui si
raccontava la storia del più grande e lussuoso transatlantico
dell’epoca che, salpato per il suo viaggio inaugurale da
Southampton, veniva squarciato da un iceberg. I suoi ricchi e
famosi passeggeri finivano in gran parte annegati nelle gelide
acque settentrionali dell’Atlantico per mancanza di scialuppe di
salvatag-gio. Per ironia della sorte, il nome della nave era Titan.
Quello che era appena accaduto lì nel cimitero, però, non
rientrava in nessuna delle tre catego-rie. Le luci non erano
sembrate a Jeremy né il frutto di un inganno né una coincidenza,
e tuttavia non si trattava nemmeno di un errore in buonafede.
Doveva esserci una spiegazione da qualche parte, ma mentre
Doveva esserci una spiegazione da qualche parte, ma mentre
stava seduto lì nel cimitero, ancora scosso dall’esperienza
vissuta, non sapeva proprio dove andare a cercarla.
Anche Lexie nel frattempo non si era mossa. «Allora?» gli chiese
a quel punto. «Che ne pensi?»
«Non saprei ancora», ammise Jeremy. «Di sicuro qui è successo
qualcosa.»
«Avevi mai visto niente del genere?»
«No», rispose lui. «A dire la verità, è la prima volta che
m’imbatto in un fenomeno che mi sembra effettivamente
misterioso.»
«È incredibile, vero?» chiese lei con voce commossa. «Mi ero
dimenticata di quanto potesse essere bello. Ho sentito parlare
delle aurore boreali e forse si tratta di qualcosa del genere.»
Jeremy non rispose. Stava cercando di ricostruire il fenomeno
nella mente. Il modo in cui le luci erano aumentate d’intensità lo
fece pensare ai fari di un’auto che si avvicinava da una curva. La
91
fonte doveva essere per forza un veicolo in movimento, si disse.
Guardò verso la strada, aspettando che passasse qualche
macchina, ma non fu sorpreso di non vederne nessuna.
Lexie lo lasciò riflettere ancora un po’, le sembrava quasi di
sentire il ronzio delle rotelle che giravano nella sua testa. Poi si
chinò verso di lui e gli diede un colpetto sl braccio.
«Ebbene?» chiese. «Che cosa facciamo adesso?»
Jeremy tornò a rivolgerle l’attenzione.
«C’è un’autostrada da queste parti? Oppure una strada
trafficata?»
«Solo quella da cui siamo venuti, che attraversa la città.»
«Huh», fece lui, accigliandosi.
«Come? Niente ‘Ah’ stavolta?»
«Non ancora. Però ci sto arrivando», ribatté Jeremy.
Nonostante l’oscurità, gli parve di vederla sorridere. «Non so
perché, ma credo che tu abbia già una spiegazione per la
comparsa delle luci stasera.»
«Come mai?» chiese lei timida.
«La mia è solo una sensazione. Sono bravo a indovinare i
pensieri della gente, sai. Me lo ha insegnato un certo Clausen.»
«Allora non c’è bisogno che te la dica», scherzò Lexie.
Si sporse in avanti. Nel buio, i suoi occhi erano intensi e
seducenti, e Jeremy ripensò a com’era bella mentre parlava con
la gente alla festa.
«Ricordi quello che ti ho raccontato?» bisbigliò lei. «Ecco, erano
i miei genitori. Probabilmente volevano conoscerti.»
Forse fu il tono da orfana con cui pronunciò quelle parole – un
misto di tristezza e tenacia – ma lui avvertì un groppo in gola e
dovette fare uno sforzo immenso per non prenderla subito tra le
braccia, con l’intenzione di tenerla stretta per sempre.
Mezz’ora più tardi, dopo aver caricato nuovamente in macchina
tutta l’attrezzatura, erano fermi davanti a casa di lei.
Nessuno dei due aveva parlato molto durante il viaggio di ritorno
e quando raggiunsero la porta d’ingresso, Jeremy si rese conto
di aver pensato molto di più a Lexie che alle luci, mentre
guidava.
Non voleva che la serata finisse, non ancora.
Fermandosi davanti alla soglia, lei si portò una mano alla bocca
per nascondere uno sbadiglio, prima di scoppiare in una risatina
imbarazzata.
«Scusa», disse. «In genere non sto alzata fino a tardi.»
«Non importa», rispose lui, guardandola negli occhi. «Sono stato
molto bene stasera.»
«Anch’io», ammise Lexie sincera.
Jeremy fece un piccolo passo in avanti, e quando si rese conto
che aveva intenzione di baciarla, lei finse di cercare qualcosa
nella borsa.
«Penso che sia ora di andare a dormire», dichiarò sperando che
lui cogliesse il messaggio.
«Sei sicura?» domandò Jeremy. «Potremmo guardare le
registrazioni insieme, se vuoi. Magari potresti aiutarmi a capire
che cosa sono in realtà quelle luci.»
Lei distolse lo sguardo con un’espressione rattristata.
«Ti prego, non rovinare tutto», bisbigliò.
«Rovinare che cosa?»
«Questo… tutto…» Chiuse gli occhi nel tentativo di chiarirsi le
idee. «Sappiamo bene perché tu vuoi entrare, e anche se io lo
desiderassi, non te lo permetterei. Quindi, ti prego di non
chiedermelo.» «Ho commesso qualche errore?»
«No, affatto. È stata una giornata magnifica, meravigliosa. A dire
il vero, la migliore da molto tempo.»
il vero, la migliore da molto tempo.»
«Allora che cosa c’è?»
92
«Hai cominciato a corteggiarmi senza tregua fin dal tuo arrivo ed
è chiaro come andrebbe a finire se ti lasciassi varcare la porta.
Ma fra un paio di giorni tu te ne andrai. Quando succederà,
scommetto che sarò io a soffrirne di più. E allora perché
cominciare qualcosa che non puoi portare a termine?»
Con un’altra donna, qualsiasi altra, lui avrebbe rilanciato con una
battuta spiritosa, oppure avrebbe cambiato argomento in attesa
di trovare un’altra maniera per convincerla. Ma mentre la
guardava lì sulla veranda non riusciva a trovare le parole giuste.
Né, stranamente, aveva voglia di farlo.
«Hai ragione», ammise. Si sforzò di sorridere. «Finiamo qui la
serata. Forse è meglio che ora io vada a cercare la fonte di
quelle luci.»
Per un attimo lei non fu sicura di aver sentito bene, ma
vedendolo indietreggiare, lo guardò negli occhi.
«Grazie», disse.
«Buonanotte, Lexie.»
Lei annuì e, dopo un attimo di esitazione, si girò verso la porta.
Jeremy lo interpretò come un congedo e scese dalla veranda
mentre Lexie tirava fuori le chiavi dalla borsa. Stava infilando la
chiave nella toppa, quando si sentì chiamare.
«Ehi, Lexie?
Nella nebbia, lui era solo una sagoma indistinta.
«Sì?»
«So che puoi non credermi, ma l’ultima cosa che voglio è ferirti o
comportarmi in un modo che ti faccia pentire di avermi
incontrato.»
Lei sorrise brevemente, poi si voltò senza dire una parola.
L’assenza di una risposta da parte di Lexie era molto eloquente
e, per la prima volta in vita sua, Jeremy non solo si sentì
insoddisfatto di se stesso, ma desiderò essere una persona
completamente diversa.
93
11
Gli uccelli cinguettavano, la nebbia si era diradata e un procione
scorrazzava sulla veranda del bungalow quando il cellulare di
Jeremy squillò. La luce biancastra del primo mattino filtrava dalle
tende strappate, e lo colpì in un occhio come il gancio di un
pugile professionista.
Un rapido aguardo all’orologio lo informò che erano le otto,
troppo presto per parlare con qualcuno, soprattutto dopo una
nottata in bianco. Cominciava a essere troppo vecchio per
sfacchinate del genere, si disse, mentre con una smorfia afferrava
il telefono.
«Spero che sia importante», borbottò.
«Jeremy? Sei tu? Ma dove ti eri cacciato? Perché non hai
chiamato? Ho cercato di rintracciarti, ma avevi il cellulare
spento!»
Nate, pensò lui richiudendo gli occhi. Buon Dio, Nate.
Nel frattempo, il suo agente continuava a blaterare. Doveva
essere un lontano parente del sindaco, pensò Jeremy. Se li
chiudevano insieme in una stanza e li collegavano a un generatore
mentre parlavano, quei due potevano fornire energia elettrica a
Brooklyn per un mese.
Brooklyn per un mese.
«Avevi detto che ti saresti tenuto in contatto!»
Con uno sforzo, lui si mise seduto sul ciglio del letto; aveva il
corpo tutto indolenzito.
«Scusa, Nate», disse. «Ho avuto parecchio da fare e in molte
zone da queste parti non c’è campo.» «Devi tenermi aggiornato!
Ho provato a chiamarti ieri per tutto il giorno, e c’era sempre la
segreteria. Non puoi immaginare che cosa sta succedendo qui. I
produttori mi danno la caccia a destra e a manca, e hanno tirato
fuori delle idee che dovresti prendere in considerazione. Le cose
si stanno muovendo per davvero. Uno di loro ha proposto un
servizio sulle diete iperproteiche. Sai, quelle che ti garantiscono
che puoi mangiare tutti gli insaccati e le bistecche che vuoi
perdendo peso lo stesso.» Jeremy scrollò la testa, cercando di
seguire il ragionamento del suo agente.
«Aspetta un attimo. Ma che cosa dici? Chi vuole che parli di
quelle diete?»
« GMA. E chi pensavi che fosse? Devo richiamarli per dare una
risposta, ma penso che sia perfetto per te.»
94
Quell’uomo gli faceva venire l’emicrania e Jeremy si massaggiò
la fronte.
«Non ho nessuna intenzione di parlare di una nuova dieta, Nate.
Sono un giornalista scientifico, non Oprah.»
«E allora? Così potrai affrontare l’argomento dal tuo punto di
vista, giusto? Le diete in fondo hanno a che fare con la chimica e
la scienza. Ho ragione o no? accidenti, lo sai che ho ragione e mi
conosci… quando ho ragione, ho ragione. E poi ti sto solo
riferendo le idee che…»
«Ho visto le luci», lo interruppe Jeremy.
«Cioè, voglio dire, se hai qualche proposta migliore, possiamo
discuterne. Ma mi sto muovendo su un territorio sconosciuto e
questa storia della dieta poteva essere un modo per testare…»
«Ho visto le luci», ripeté Jeremy a voce più alta.
Stavolta Nate si fermò. «Ti riferisci alle luci nel cimitero?» chiese.
Jeremy continuò a massaggiarsi le tempie. «Sì, quelle.»
«Quando? Perché non mi hai telefonato? Questo mi dà del
materiale da proporre. Oh, ti prego, dimmi che le hai filmate.»
«Sì, ma non ho ancora visionato le registrazioni, perciò non so
come sono venute.»
«Le luci allora esistono davvero?»
«Le luci allora esistono davvero?»
«Sì. Ma credo di avere scoperto da dove provengono.»
«Allora non è un vero…»
«Ascolta, Nate, sono stanco, perciò stammi a sentire per un
istante, vuoi? Ieri notte sono stato al cimitero e ho visto le luci. E
a essere sincero, capisco perché la gente possa averle prese per
degli spettri, visto il modo in cui appaiono. C’è una leggenda
molto interessante in proposito e questo fi-ne settimana la città
ha organizzato persino un giro turistico lì, per farsi pubblicità. Ma
dopo aver lasciato il cimitero, sono andato alla ricerca della fonte
e penso di averla trovata. Non mi resta che scoprire come e
perché il fenomeno si verifica proprio in quelle condizioni, ma ho
già un’ipotesi e spero di averne la conferma entro oggi.»
Per un attimo Nate rimase senza parole. Ma, da quel navigato
professionista che era, si riprese subito.
«OK, dammi solo un secondo per pensare alla strategia migliore
per presentare la cosa. Sto pensando a quelli della
televisione…»
E a chi altri doveva pensare? si chiese Jeremy.
«Bene, ascolta, che ne dici?» proseguì Nate. «Apriamo con la
leggenda, tanto per dare un’am-bientazione. Cimitero brumoso,
un primo piano di qualche tomba, magari un breve stacco su un
un primo piano di qualche tomba, magari un breve stacco su un
cor-vo dall’aria sinistra, tu che parli fuori campo…»
Quell’uomo era un maestro di cliché hollywoodiani e Jeremy
diede un’altra occhiata all’orologio, pensando che era troppo
presto per parlare di lavoro.
«Sono davvero stanco. Che ne dici di pensarci per conto tuo e
di informarmi più tardi?»
«Sì, sì, si può fare. Sono qui per questo, giusto? Per semplificarti
la vita. Ehi, credi sia il caso che io chiami Alvin?»
«Non ne sono ancora sicuro. Prima fammi dare un’occhiata alle
riprese che ho fatto, e poi gli parlerò e vedremo che cosa ne
pensa lui.»
«Giusto», concordò Nate con voce entusiasta. «Bel piano,
ottima idea! Che notizia fantastica! A quelli piacerà un sacco!
Credimi, gli avevo detto che eri lì per approfondire quella storia
e che non sapevo se saresti stato interessato a parlare dell’ultima
moda in fatto di diete. E adesso che abbiamo della merce di
scambio, impazziranno. Non vedo l’ora di dirglielo. Ascolta, ti
richiamo tra un paio d’ore, quindi vedi di tenere acceso il
cellulare. Le cose possono muoversi in fretta…»
«A presto, Nate. Ci sentiamo più tardi.»
Jeremy si coricò di nuovo sul letto gettandosi il cuscino sopra la
Jeremy si coricò di nuovo sul letto gettandosi il cuscino sopra la
testa, ma non riuscì a riprendere sonno. Con un gemito di
esasperazione, si alzò e si diresse verso il bagno, cercando di
non fare caso alle creature impagliate che sembravano seguire
con gli occhi ogni sua mossa. Stava cominciando a farci
l’abitudine e, mentre si spogliava, appese la salvietta alle zampe
protese di un tasso che era lì in posizione strategica.
95
Saltando dentro la doccia, aprì al massimo il rubinetto e rimase
sotto il getto caldo per una ventina di minuti, fin quasi a scottarsi.
Solo allora cominciò a risentirsi vivo. Meno di due ore di sonno
potevano veramente ridurti a uno straccio, pensò.
Dopo essersi infilato un paio di jeans, prese le videocassette e
salì in macchina. La nebbia aleg-giava sopra la strada come il
ghiaccio secco in evaporazione sul palco di un concerto e il cielo
aveva la stessa tonalità tetra del giorno prima. C’erano tutte le
migliori premesse perché le luci apparissero anche quella notte, il
che non solo era una fortuna per i turisti in arrivo, ma significava
pure che lui avrebbe dovuto chiamare Alvin. Anche se le sue
registrazioni fossero andate bene, Alvin sapeva fare magie con la
telecamera e avrebbe catturato immagini tali da far gonfiare le
dita di Nate a furia di comporre numeri telefonici.
Il primo passo, tuttavia, era verificare che cosa aveva girato, se
non altro per vedere se era riuscito a registrare qualcosa. Non fu
sorpreso dal fatto che al Greenleaf non ci fosse un
sorpreso dal fatto che al Greenleaf non ci fosse un
videoregistratore; si ricordava di averne visto uno nella sala dei
libri rari in biblioteca e, mentre percorreva la strada deserta che
portava in città, si chiese come l’avrebbe accolto Lexie dopo
quello che era successo tra loro. Sarebbe tornata a essere la
bibliotecaria distaccata e professionale? Oppure le belle
sensazioni condivise il giorno prima avevano lasciato il segno?
Chissà, magari lei ricordava solo gli ultimi momenti davanti a
casa sua, quando lui si era spinto troppo in là. Non sapeva
proprio cosa aspettarsi, anche se aveva passato buona parte
della nottata a pensarci.
Finalmente aveva trovato la fonte delle luci, si disse. Come la
maggior parte dei misteri, anche quello non era stato difficile da
risolvere sapendo che cosa cercare, e una rapida verifica su un
sito web della NASA aveva escluso l’unica altra possibilità.
Aveva infatti scoperto che quella era una notte di luna nuova –
ovvero la fase in cui la Luna è nascosta dall’ombra della Terra –
e lui sospettava che le luci apparissero soltanto in quelle
circostanze particolari. Aveva senso: senza il chiarore lunare,
qualunque altra fonte luminosa era più visibile, specialmente se
veniva riflessa dalle particelle d’acqua della nebbia.
Mentre era lì in piedi al freddo, con la risposta a portata di
mano, l’unica cosa a cui era riuscito a pensare era Lexie, rifletté.
Gli sembrava incredibile che la conoscesse solo da un paio di
giorni.
Certo, Einstein aveva teorizzato che il tempo era relativo e forse
quella poteva essere una spiegazione, ragionò. Come si diceva?
Un minuto con una bella donna passa in un’istante, mente un
minuto con la mano su una piastra accesa dura un’eternità? Rise.
Sì, era più o meno così.
Si pentì ancora una volta del proprio comportamento davanti a
casa di Lexie, rimpiangendo di aver insistito troppo. Quando
aveva tentato di baciarla lei gli aveva manifestato i suoi sentimenti
e lui li aveva ignorati. Il Jeremy di sempre avrebbe liquidato la
questione in un istante, senza dargli peso, ma per qualche ragione
stavolta non ci riusciva.
Anche se dopo il divorzio non era certo diventato un eremita,
negli ultimi anni non gli era mai capitato di passare un’intera
giornata a parlare con una donna. In genere usciva con loro a
cena o a bere un aperitivo, imbastiva una conversazione galante
quel tanto che bastava per sciogliere il ghiaccio, e poi passava
subito al sodo. In fondo in fondo sapeva che avrebbe dovuto
crescere per quanto riguardava le relazioni sentimentali, che per
lui era venuta l’ora di sistemarsi. I suoi fratelli non gliene
facevano mistero, e così le loro mogli. Tutti nella famiglia erano
dell’opinione che biso-gnasse aspettare di conoscersi meglio
prima di andare a letto insieme e una volta gli avevano addirittura
combinato un appuntamento con una vicina di casa divorziata
che la pensava allo stesso mo-do. Peccato che poi lei si fosse
rifiutata di incontrarlo una seconda volta, per come si era
rifiutata di incontrarlo una seconda volta, per come si era
comportato in occasione della prima. Il fatto era che, negli ultimi
anni, gli era sembrato più prudente non entrare in confidenza con
le donne che frequentava, preferiva relegarle nel regno delle
perfette sconosciute, dove loro potevano ancora proiettare su di
lui aspirazioni e speranze.
Ed era proprio quello il problema. Non c’erano aspirazioni né
speranze. Almeno, non per quel genere di vita in cui credevano i
suoi fratelli e le sue cognate e a cui, ci scommetteva, ambiva
anche Lexie. Il suo divorzio da Maria lo dimostrava. Lexie era
una ragazza di provincia, con sogni di normalità, e non sarebbe
bastato essere fedeli e responsabili e condividere dei valori. La
maggior parte delle donne voleva qualcos’altro, che lui non era in
grado di offrire. Non perché non lo capisse, o 96
perché non voleva rinunciare alla sua condizione di scapolo, ma
semplicemente perché non poteva.
La scienza era in grado di rispondere a un sacco di domande, di
risolvere tantissimi problemi, ma non di cambiare la sua realtà
individuale. E la realtà era che Maria lo aveva lasciato perché
non era stato, né avrebbe mai potuto essere, il genere di marito
che lei desiderava.
Non aveva mai confessato questa dolorosa verità a nessuno. Né
ai suoi fratelli, né ai genitori, né a Lexie. E in genere, non la
ammetteva nemmeno con se stesso, neppure nei momenti più
solitari.
Giunto in biblioteca, Jeremy provò una fitta di delusione quando
aprì la porta dell’ufficio di Lexie e lo trovò vuoto. La sala dei libri
rari era stata aperta e scorse un biglietto sulla scivania accanto a
delle carte topografiche. Impiegò un istante a leggere quello che
c’era scritto.
Devo occuparmi di alcune faccende personali. Usa pure il
videoregistratore.
Lexie Nessun accenno alla giornata o alla serata precedenti,
nessuna indicazione su quando si sarebbero rivisti. Neppure un
saluto accanto alla firma. Non era proprio anonimo, come
messaggio, ma di sicuro non lo riempiva di palpitante emozione.
Ma forse, si disse, ancora una volta cercava significati nascosti là
dove non ce n’erano. Magari lei quel mattino andava di fretta,
oppure era stata laconica perché pensava di tornare presto.
Quanto alle faccende personali, per le donne potevano
significare qualunque cosa, da una visita medica al-l’acquisto di
un regalo per il compleanno di un’amica.
E in ogni caso lui aveva del lavoro da sbrigare, si disse. Nate
aspettava di sentirlo e c’era in ballo la sua carriera. Si sforzò di
concentrarsi sui risultati delle indagini.
Le registrazioni audio non avevano captato rumori insoliti e
nemmeno i rilevatori indicavano variazioni significative dei campi
energetici. Nelle videocassette, però, c’era tutto ciò che lui
aveva visto la notte precedente e riguardò più volte quelle
immagini prese da varie angolazioni. I filtri speciali applicati alle
telecamere facevano risaltare in maniera molto vivida la nebbia
luminosa. Ma anche se andavano bene per ricavare qualche foto
per un solo articolo sul fenomeno delle luci, le registrazioni erano
ben lontane da un livello televisivamente accettabile. Viste a
velocità normale avevano un che di casalingo e gli ricordavano i
tanti video di scarsa qualità forniti come prova di altri fenomeni
paranormali. Si annotò mentalmente di acquistare una telecamera
professionale, a costo di rendere verde di bile il suo direttore.
Nonostante la qualità scadente delle riprese, riesaminando il
modo in cui le luci erano cambiate nei ventidue secondi in cui
erano state visibili ebbe ulteriore conferma di aver trovato la
risposta al mistero. Estrasse le cassette, studiò le carte
topografiche e calcolò la distanza tra Riker’s Hill e il fiume.
Paragonò le foto del cimitero scattate in precedenza con quelle
che aveva trovato sui libri di storia della città e giunse a una stima
abbastanza accurata del grado di sprofondamento del terreno.
Pur non avendo trovato altre informazioni sulla leggenda di Hettie
Doubilet – le cronache dell’epoca non gettavano alcuna luce
sull’avvenimento – fece una telefonata all’ufficio idrico statale per
chiedere delucidazioni sulle falde sotterranee in quella parte dello
stato, e un’altra al dipartimento che si occupava delle miniere,
per ottenere informazioni sulle gallerie scavate nei decenni
precedenti. Poi fece una breve ricerca su Internet per trovare i
dati che gli servivano e infine, dopo essere stato messo in attesa
per dieci minuti, parlò con un certo signor Larsen, che dirigeva la
cartiera, il quale si dichiarò disposto a fornirgli il suo aiuto.
E con questo, tutti i pezzi del puzzle combaciavano in un modo
che lui era in grado di dimostrare. La verità era stata davanti agli
occhi di tutti fin dal principio. Come per la maggior parte dei
misteri, la soluzione era semplice, e gli venne da chiedersi come
mai nessuno ci fosse arrivato prima.
A meno che, ovviamente, qualcuno invece lo avesse fatto, il che
apriva nuove prospettive.
Nate ne sarebbe stato entusiasta, non aveva dubbi, ma
nonostante i successi della mattinata Jeremy non si sentiva affatto
soddisfatto. Continuava a pensare a Lexie che non era lì per
congratularsi 97
con lui o prenderlo in giro. Sinceramente non gli interessava
come avrebbe reagito, purché ci fosse, e allora si alzò e tornò a
dare un’occhiata nel suo ufficio.
In pratica nulla era cambiato dal giorno prima. Sulla scrivania
c’erano ancora pile di documenti, i libri erano sparsi ovunque, e
il salvaschermo sul computer creava e cancellava motivi colorati.
La segreteria telefonica, vicino a una piantina in vaso,
lampeggiava segnalando la presenza di messaggi. Eppure,
Jeremy non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che, senza
Lexie, quella stanza era vuota.
12
«Il mio uomo di punta!» esclamò Alvin al telefono. «Come ti va
la vita giù al Sud?»
Nonostante il fruscio, nel cellulare di Jeremy la sua voce
risuonava decisamente allegra.
«Sto bene. Ti ho chiamato per sapere se ti andava ancora di
raggiungermi.»
«Ho già preparato l’attrezzatura», rispose Alvin trafelato. «Nate
mi ha chiamato un’ora fa e mi ha raccontato tutto. Ci vediamo
stasera al Greenleaf… Nate ha fatto la prenotazione per me.
Ho un volo nel primo pomeriggio. Non vedo l’ora di
raggiungerti, credimi. Non ne posso più di starmene sepolto
quassù. Sto per impazzire.»
«Ma di che cosa parli?»
«Non hai letto i giornali? Non hai guardato i notiziari in TV?»
«Come no. non mi sono perso nemmeno un’uscita del Boone
Creek Weekly.»
«Come?»
«Lascia stare», tagliò corto Jeremy. «Non ha importanza.»
«Lascia stare», tagliò corto Jeremy. «Non ha importanza.»
«Sarà. Comunque, qui è scoppiata la bufera», lo informò Alvin.
«E intendo roba da Polo Nord, mancano solo gli orsi bianchi in
giro per le strade. Manhattan è praticamente sepolta sotto la
neve.
Te ne sei andato appena in tempo. Da quando sei partito, oggi è
il primo giorno in cui i voli sono quasi in orario. Ho dovuto fare
qualche pressione per trovare un biglietto. Come mai non ne sai
niente?»
Mentre lui parlava, Jeremy accese il suo computer portatile e
cercò il sito delle previsioni meteorologiche su Internet. Sulla
carta geografica nazionale si vedeva il Nordest coperto da una
coltre bianca.
Chessorpresa, pensò. Chi poteva immaginarlo?
«Ho avuto molto da fare, sai», spiegò.
«Io direi piuttosto che ti sei infrattato», rispose Alvin. «Spero
almeno che ne valesse la pena.»
«Ma di che cosa parli?»
«Non fare il finto tonto con me. Siamo amici, ricordi? Nate era in
preda al panoco perché non riusciva a mettersi in contatto con
te, e poi non hai letto i giornali e non hai guardato la TV.
te, e poi non hai letto i giornali e non hai guardato la TV.
Sappiamo entrambi che cosa significa. Fai sempre così quando
ne conosci una nuova.»
98
«Senti, Alvin…»
«È carina? Scommetto che è bella, eh? Fai sempre centro, tu.
Sono un po’ invidioso.»
Jeremy non rispose subito, ma poi alla fine cedette. Tanto, se
Alvin era in partenza, l’avrebbe scoperto quanto prima.
«Sì, è carina, però non è come pensi. Siamo soltanto amici.»
«Non ne dubito», ribatté l’amico ridendo. «Ma il tuo concetto di
amicizia con le donne è un po’
diverso dal mio.»
«Questa volta no», replicò Jeremy.
«Per caso ha una sorella?» chiese Alvin, ignorando le sue
proteste.
«No.»
«Però avrà delle amiche, giusto? E ricordati che non mi
interessano le bruttone…»
interessano le bruttone…»
Jeremy sentì che l’emicrania tornava a impossessarsi di lui e il
tono dell’amico lo fece innervo-sire. «Senti, non sono dell’umore
per queste battute, hai capito?»
Alvin si bloccò. «Ehi, che ti succede?» chiese. «Stavo solo
scherzando.»
«Certe volte non sei divertente.»
«Di’ la verità, ti piace, eh? Cioè, ti piace un sacco.»
«Ti ho già detto che siamo soltanto amici.»
«Non riesco a crederci, ti stai innamorando.»
«No», negò Jeremy.
«Ehi, amico, ti conosco, perciò non fare il furbo. E trovo che sia
fantastico. Un po’ strano, ma fantastico. Scusa, adesso devo
proprio lasciarti se voglio arrivare in tempo all’aeroporto. Il
traffico è micidiale, come sempre. Comunque, sono ansioso di
incontrare la donna che finalmente è riuscita a domarti.»
«Non mi ha domato», protestò Jeremy. «Ma perché non mi
ascolti?»
«Ti sto ascoltando», replicò Alvin. «Ho appena sentito le cose
che non hai detto.»
che non hai detto.»
«Sì, vabbè. Quando arriverai?»
«Intorno alle sette, credo. Ci vediamo. A proposito, salutala da
parte mia. Dille che muoio dalla voglia di conoscere lei e la sua
amica…»
Jeremy interruppe la comunicazione prima che Alvin potesse
terminare la frase e, per sottolineare il proprio disappunto, infilò il
cellulare in tasca.
Ecco perché aveva tenuto il cellulare spento. La sua doveva
essere stata una decisione inconscia, basata sul fatto che a volte
la sua caccia infinita al successo. E adesso lo Spiritosone.
Alvin si sbagliava di grosso, pensò. Sì, erano amici, avevano
trascorso parecchi venerdì sera a bere birra insieme e a guardare
le donne, avevano parlato della vita per ore e tutto il resto. Ma
come faceva a dire che lui si stava innamorando? Era
impossibile.
Dopo tutto, i fatti parlavano da soli. Tanto per cominciare, lui
non era più stato innamorato di una donna da molti anni, e pur
essendo passato tanto tempo, ricordava ancora come si era
sentito al-l’epoca. Era sicuro che avrebbe riconosciuto le
emozioni e, francamente, non era stato così. E poi, considerando
che l’aveva appena conosciuta, tutta la faccenda era ridicola.
Nemmeno sua madre, un’italiana dal temperamento emotivo,
credeva che l’amore vero potesse sbocciare da un momento
all’altro. Anche sua madre voleva che lui si sposasse e mettesse
su famiglia, ma se si fosse presentato a casa sua annunciando che
aveva conosciuto una donna da due giorni e sapeva già che era
quella giusta, lei lo avrebbe picchiato con la scopa.
Sua madre conosceva gli uomini, si disse. Si era sposata
giovane, aveva tirato su sei figli maschi e di sicuro aveva visto
tutto. E sebbene si basasse sul buonsenso e non su prove
scientifiche, il suo ragionamento che l’amore vero non poteva
nascere in un paio di giorni era impeccabile. L’amore poteva
mettersi in moto rapidamente, ma il vero amore aveva bisogno di
tempo per crescere e con-solidarsi. L’amore era, prima di tutto,
dedizione e sacrificio e la convinzione che gli anni trascorsi con
una data persona producevano qualcosa di più grande dei
risultati che i due potevano ottenere separatamente. Soltanto il
tempo, tuttavia, poteva dimostrare che la scelta era stata
azzeccata.
99
Il desiderio, al contrario, poteva accendersi in maniera quasi
istantanea ed era questa la ragione per cui la madre lo avrebbe
bastonato. Per lei era semplice descrivere il desiderio: due
persone sco-privano di andare d’accordo, scoccava l’attrazione
fisica e poi subentrava l’istinto ancestrale di preservare la specie.
Quindi, lui forse desiderava Lexie, ma non poteva amarla.
Quindi, lui forse desiderava Lexie, ma non poteva amarla.
Ecco qua. Caso risolto, si disse. Alvin si sbagliava, Jeremy aveva
ragionee, una volta ancora, la verità lo rendeva libero.
Sorrise per un istante, prima di accigliarsi.
Eppure…
Ecco, il fatto era… che non si trattava proprio di desiderio.
Almeno non quel mattino. Infatti, più che anelare a stringela e a
baciarla, voleva soltanto rivederla. Trascorrere del tempo con
lei. Parlarle. Voleva vederla alzare gli occhi al cielo quando lui
faceva una battuta, sentire la sua mano sul braccio com’era
accaduto il giorno prima. Voleva guardarla mentre si scostava
una ciocca di capelli dietro l’orecchio con un gesto nervoso, e
ascoltarla mentre gli raccontava della propria infanzia. E
poi chiederle quali fossero i suoi sogni e le sue speranze per il
futuro, conoscere i suoi segreti.
Ma la cosa più strana era che non sentiva altre motivazioni per i
suoi impulsi. Certo, non si sarebbe tirato indietro se Lexie si
fosse mostrata disponibile ad andare a letto con lui, ma anche se
non voleva, per il momento gli bastava trascorrere del tempo
insieme.
Era sinceramente interessato a lei. Aveva già deciso che non
l’avrebbe mai più messa nella situazione imbarazzante in cui
l’avrebbe mai più messa nella situazione imbarazzante in cui
l’aveva trascinata la notte prima. C’era voluto molto coraggio,
pensò, per dire ciò che aveva detto Lexie. Più coraggio di
quanto ne avesse lui. Dopo tutto, in quei due giorni non era
nemmeno riuscito a confidarle che era già stato sposato.
Ma se non poteva essere amore e se non era desiderio, che
cos’era? Piacere? Lei gli piaceva?
Certo che sì, ma quel verbo non bastava a definire le sue
emozioni. Era troppo… vago e poco pertinente. Alla gente
piaceva il gelato. Piaceva guardare la TV. Non significava nulla
e non spiegava neppure lontanamente perché, per la prima volta,
aveva voglia di raccontare a qualcuno la verità sul proprio
divorzio. Non la conoscevano nemmeno i suoi fratelli, né i suoi
genitori. Eppure, per qualche motivo voleva assolutamente che
Lexie la sapesse; e in quel momento non riusciva a trovarla da
nessuna parte.
Un paio di minuti dopo il telefono squillò di nuovo e, dopo averlo
tirato fuori dalla tasca, Jeremy riconobbe il numero sul display.
Non era dell’umore giusto per rispondere, ma sapeva di doverlo fare, altrimenti a quel poveraccio sarebbe scoppiata un’arteria.
«Pronto», disse. «Che succede?»
«Jeremy!» gridò Nate. La linea era così disturbata che lui
faticava a distinguere le parole. «Otti-me notizie! Non crederai a
quanto ho avuto da fare. Che casino! Abbiamo una riunione
quanto ho avuto da fare. Che casino! Abbiamo una riunione
telefonica con l’ABC alle due!»
«Fantastico.»
«Aspetta. Non riesco a sentirti. C’è un rumore terribile.»
«Scusa…»
«Jeremy! Ci sei ancora? Non riattaccare!»
«Sì, Nate, sono qui…»
«Jeremy?» gridò Nate sopra il fruscio. «Ascolta, se riesci ancora
a sentirmi, devi chiamarmi in ufficio da un telefono pubblico. Alle
due! Ne va della tua carriera! Del tuo futuro!»
«Sì, ho capito.»
«Oh, è ridicolo», brontolò Nate, quasi parlando tra sé. «Non ti
sento. Premi un tasto se hai capito quello che ho detto.»
Jeremy schiacciò il 6.
«Grandioso! Magnifico! Alle due! E sii te stesso! Tranne il
sarcasmo, però. Queste persone sono piuttosto suscettibili…»
100
Jeremy chiuse la comunicazione, chiedendosi quanto tempo
Jeremy chiuse la comunicazione, chiedendosi quanto tempo
sarebbe occorso a Nate per accorgersi che non c’era più la
linea.
Jeremy aspettò. Poi aspettò ancora un po’.
Camminò su e giù per la biblioteca, passò davanti all’ufficio di
Lexie e si affacciò alla finestra per vedere se c’era la macchina,
mentre dentro di lui sentiva crescere un senso di disagio. Era
solo un presentimento, ma quell’assenza inspiegabile non gli
piaceva affatto. Cercò di rassicurarsi, di-cendosi che prima o poi
lei sarebbe riapparsa e lui avrebbe riso della sua ansia. Ma ora
che aveva concluso le ricerche – non gli restava che finire di
leggere i diari per trovare eventuali aneddoti –
non sapeva che fare.
Tornare al Greenleaf era escluso… non voleva passarci più
tempo dello stretto necessario, anche se cominciavano a
piacergli gli appendiasciugamani. Alvin non sarebbe arrivato
prima di sera e l’ultima cosa che voleva era farsi vedere in giro
per la città, dove correca il rischio di essere messo alle strette dal
sindaco Gherkin. Né voleva starsene chiuso in biblioteca per
tutto il giorno.
Peccato che Lexie non gli avesse lasciato scritto quando tornava.
O almeno dov’era andata. Ri-lesse il biglietto per la terza volta e
lo trovò incomprensibile. La mancanza di dettagli era casuale o
voluta? Nessuna delle due ipotesi lo faceva sentire meglio.
Doveva uscire di lì; era difficile non pensare al peggio.
Dopo aver radunato le sue cose, scese le scale e si fermò
nell’atrio. Si fermò davanti all’anziana signora che stava leggendo
seduta al banco e si sgranchì la voce. Quando lei alzò la testa e
lo riconobbe, si illuminò di un gran sorriso. «Signor Marsh!»
esclamò. «L’ho vista passare prima, ma aveva l’aria
preoccupata, così non l’ho fermata. Che cosa posso fare per
lei?»
Jeremy si sistemò gli appunti sottobraccio, cercando di assumere
un tono disinvolto.
«Sa per caso dov’è la signorina Darnell? Mi ha lasciato un
messaggio per dirmi che usciva, e mi chiedevo quando tornerà.»
«Che strano», rispose la donna, «era qui quando sono arrivata.»
Sfogliò l’agenda sul banco.
«Non ha riunioni in programma e non vedo altri appuntamenti.
Ha guardato nel suo ufficio? Magari si è chiusa dentro. Lo fa
spesso quando di sopra si accumula molto lavoro.»
«Ho guardato», rispose lui. «Non sa per caso se ha un
cellulare?»
«Non ce l’ha, ne sono sicura. Mi ha detto che, quando se ne va,
l’ultima cosa che vuole è qualcuno che la rintracci.»
«Capisco… grazie lo stesso.»
«Posso fare qualcos’altro per lei?»
«No, grazie», disse. «Mi serviva l’auto della signorina per le mie
ricerche.»
«Vuole provare a cercarla da Herbs? Magari è andata ad aiutare
Doris nei preparativi per il fine settimana. Oppure, è tornata a
casa. Il fatto è che Lexie è imprevedibile. Ormai non mi
sorprendo più per quello che fa.»
«Grazie ancora. Se dovesse tornare, può dirle che l’ho cercata?»
Jeremy uscì dalla biblioteca in uno stato di profonda agitazione.
Prima di dirigersi da Herbs, Jeremy passò da casa di Lexie,
dove notò le tendine tirate e l’assenza della macchina nel vialetto.
Anche se la scena non aveva in sé nulla di strano, venne colpito
ancora una volta dalla sensazione che ci fosse qualcosa che non
andava, e la sua inquietudine non fece che aumentare mentre
tornava verso il centro.
Il ristorante a quell’ora era quasi deserto, stavano portando via
le stoviglie della colazione e ap-parecchiavano per il pranzo. Il
personale superava la clientela di quattro a uno e Jeremy impiegò
so-lo un attimo per rendersi conto che Lexie non era neppure lì.
so-lo un attimo per rendersi conto che Lexie non era neppure lì.
Rachel stava pulendo un tavolo e agitò lo straccio verso di lui
quando lo vide.
101
«’Giorno, caro», disse andandogli incontro. «È un po’ tardi, ma
sono sicura che possiamo prepararti qualcosa, se vuoi fare
colazione.»
Lui infilò le chiavi della macchina in tasca. «No, grazie», rispose.
«Non ho fame. Però potresti dirmi se Doris è qui? Vorrei
parlarle un attimo, se ha tempo.»
«Sei tornato di nuovo per lei, eh?» Rachel sorrise e fece un
cenno verso il retro. «È in cucina.
Vado a chiamarla. A proposito, bella festa, ieri sera. La gente
non ha fatto altro che parlare di te per tutta la mattina e il sindaco
è passato di qui per vedere se ti eri ripreso. Credo che sia
rimasto deluso di non trovarti.»
«Mi sono divertito anch’io.»
«Vuoi un po’ di caffè o di tè mentre aspetti?»
«No, grazie.»
Rachel scomparve nel retro e poco dopo apparve Doris che si
asciugava le mani sul grembiule.
Aveva una guancia sporca di farina, e gli sembrò di vederle le
borse sotto gli occhi e che si muoves-se più lentamente del
solito.
«Scusa il mio aspetto», disse lei, «ma stavo impastando. La
serata di ieri mi ha fatto rimanere un po’ indietro con la cucina e
devo prepararmi per la folla che arriverà domani.»
Ricordando le parole di Lexie, Jeremy le chiese: «Quante
persone servirete durante il fine settimana?»
«Chi lo sa?» rispose lei. «In genere ne arrivano circa duecento
per il giro, a volte di più. Il sindaco sperava di avvicinarsi al
migliaio quest’anno, ma io non riesco mai a prevedere con
esattezza quanti verranno a fare colazione o a pranzare qui.»
«Se il sindaco ha ragione, sarà un bel salto quest’anno.»
«Be’, i suoi calcoli vanno presi con beneficio d’inventario. Tom
ha la tendenza a essere eccessi-vamente ottimista, ma riesce
sempre a metterci in ansia per i preparativi. E poi, anche se la
gente non viene per il giro turistico, molti arriveranno per la
parata di sabato. Ci saranno pure le giostre e una mostra di
animali domestici, quest’anno.»
«Chissà che bello.»
«Sarebbe meglio che l’evento non cadesse nel bel mezzo
dell’inverno. Il festival di Pamlico attira sempre moltissimi turisti,
perché si tiene in giugno e in genere per l’occasione viene
allestito anche un luna park. In quei casi sì che devo lavorare,
anche dieci volte più di quanto faccia adesso.»
Jeremy sorrise. «La vita non smette mai di sorprendermi.»
«Non rifiutare niente prima di averlo assaggiato. Ho la strana
sensazione che ti piacerebbe vederlo.»
L’aveva detto come per metterlo alla prova, e lui non sapeva che
cosa rispondere. Alle loro spalle Rachel continuava a pulire i
tavoli e intanto scherzava con il cuoco che stava dall’altra parte
della sala. «Comunque», tagliò corto Doris, traendolo
d’impaccio, «sono contenta che tu sia venuto a trovarmi. Lexie
mi ha detto che ti ha parlato del mio taccuino. Mi ha avvertito
che probabilmente non crederai a una parola di quello che c’è
scritto, ma se ti interessa, te lo faccio vedere volentieri. È di là
nell’ufficio sul retro.»
«Mi piacerebbe, sì», rispose lui. «Lexie mi ha spiegato che hai
registrato tutto.»
«Ho fatto del mio meglio. Probabilmente non è all’altezza dei tuoi
standard, ma del resto non immaginavo che un giorno l’avrebbe
letto qualcun altro oltre a me.»
«Sono sicuro che ne resterò stupito. A proposito di Lexie, sono
qui anche per lei. L’hai vista og-gi? In biblioteca non c’era.»
Dorise assentì. «È passata da casa mia stamattina. È per questo
che ho portato il taccuino. Mi ha raccontato che ieri sera avete
visto le luci.»
«Infatti.»
«E?»
«Spettacolari, ma come sostenevi tu, non si tratta di fantasmi.»
102
Lei gli rivolse un’occhiata soddisfatta. «E scommetto che sei già
risalito alla loro fonte, altrimenti non saresti qui.»
«Credo di sì.»
«Buon per te.» Doris indicò alle sue spalle. «Mi spiace di non
potermi fermare a parlare un altro po’, ma ho da fare, perciò
vado subito a prenderti il taccuino. Chissà, magari la prossima
volta potresti scrivere un articolo sui miei straordinari poteri.»
«Non si può mai dire», ribatté lui.
La seguì con lo sguardo mentre entrava in cucina, ripensando al
loro dialogo. Era stato piacevole, ma del tutto impersonale. E poi
Doris non aveva risposto con esattezza alla sua domanda su
dove fosse la nipote. Né aveva buttato lì un suggerimento, il che
sembrava lasciare intendere che, di colpo – per qualche ragione
– considerava l’argomento Lexie off limits. E il fatto non era
positivo.
Quando alzò lo sguardo, la vide tornare. Aveva lo stesso sorriso
affabile di prima, che questa volta tuttavia gli provocò una stretta
allo stomaco.
«Ecco, se vuoi chiedermi qualcosa in proposito, chiamami pure»,
gli disse porgendogli il taccuino. «E non farti problemi a
fotocopiarlo, basta che me lo riporti prima di partire. Per me ha
un valo-re speciale.»
«Lo farò», promise lui.
La donna rimase immobile in silenzio davanti a lui, e Jeremy
pensò che fosse il suo modo per comunicargli che il loro incontro
era teminato. Lui, d’altro canto, non intendeva mollare l’osso.
«Un’altra cosa», disse.
«Sì?»
«Va bene lo stesso se il taccuino lo restituisco a Lexie? Nel caso
la veda oggi?»
«Non c’è problema», rispose lei. «Comunque sappi che mi
troverai qui.»
L’ovvia implicazione di quella risposta rafforzò i suoi peggiori
sospetti.
«Ti ha detto qualcosa di me?» le chiese. «Quando vi siete viste
stamattina?»
«Non molto. Però mi ha avvertito che saresti passato,
probabilmente.»
«Stava bene?»
«A volte», esordì Doris scegliendo con cura le parole, «Lexie è
difficile da capire, perciò non so che cosa dirti. Ma sono sicura
che starà bene, se è quello che vuoi sapere.»
«Era arrabiata con me?»
«No, questo posso dirtelo. Non era affatto arrabiata.»
Lui attese che aggiungesse qualcos’altro. Doris fece un lungo
respiro, il suo volto sembrava improvvisamente più vecchio.
«Sai che mi piaci, Jeremy», disse infine con voce dolce. «Ma mi
stai mettendo in difficoltà. Io devo essere leale con le persone a
cui voglio bene, e soprattutto con Lexie.»
cui voglio bene, e soprattutto con Lexie.»
«E questo che cosa significa?» chiese lui con la bocca
improvvisamente secca.
«Significa che so che cosa vuoi e che cosa mi stai chiedendo, ma
non posso risponderti. Se Lexie avesse voluto farti sapere
dov’era, te l’avrebbe detto lei stessa.»
«La rivedrò? Prima di partire?»
«Non lo so. Starà a lei decidere.»
Quelle parole gli fecero capire definitivamente che se n’era
andata.
«Non capisco perché abbia reagito in questo modo», mormorò.
Doris gli rivolse un sorriso mesto. «Io invece penso che tu lo
sappia.»
Se n’era andata.
Quelle parole gli riecheggiavano nella mente incessanti. Mentre si
dirigeva in macchina verso il Greenleaf, Jeremy cercò di
analizzare i fatti con fredda obiettività. Non si lasciò prendere dal
panico. Non lo faceva mai. Anche lì nel ristorante, per quanto si
sentisse scosso, per quanto desiderasse che Doris gli dicesse di
più, si era limitato a ringraziarla ed era uscito, come se la notizia
non l’avesse sorpreso più di tanto.
103
Non c’era motivo di abbandonarsi al panico. Non era mica
successo qualcosa di terribile a Lexie. Il tutto si riduceva al fatto
che non voleva più vederlo. Forse si era aspettato troppo da lei,
anche se aveva messo subito in chiaro che non era interessata.
Non c’era da stupirsi del suo atteggiamento.
Per quanto apparisse moderna sotto certi aspetti, per altri era
tradizionale e probabilmente si era stufata dei suoi giochetti.
Forse per Lexie era stato più semplice scappare che spiegare il
proprio punto di vista a uno come lui.
E ora che cosa doveva fare? Lei poteva tornare o no. nel primo
caso, non ci sarebbero stati problemi. Ma nel secondo… ecco
che la realtà cominciava a farsi più complicata. Poteva
rassegnarsi e accettare la sua decisione, oppure poteva cercare
di stanarla. Se c’era una cosa in cui era bravo era trovare le
persone. Usando i pubblici registri, le conversazioni amichevoli e
i giusti siti web, aveva imparato a seguire una traccia di briciole
di pane praticamente sino alla soglia di chiunque. Dubitava però
che con lei sarebbe stato necessario ricorrere a tali mezzi. Dopo
tutto, gli aveva già dato la risposta che cercava e lui era sicuro di
sapere dov’era andata. Il che significava che poteva gestire la
situazione come meglio credeva.
I suoi pensieri presero un’altra piega.
Il fatto era che la situazione non combaciava affatto con ciò che
doveva fare. Si ricordò che nel giro di poche ore avrebbe
dovuto affrontare una riunione telefonica che avrebbe avuto
risvolti fondamentali per la sua carriera, e se fosse partito alla
ricerca di Lexie, dubitava che sarebbe riuscito a trovare un
telefono pubblico nel momento giusto. Alvin stava per arrivare.
Forse quella era l’ultima notte di nebbia e sebbene lui potesse
occuparsi delle riprese da solo, l’indomani avrebbero dovuto
lavorare insieme. Per non parlare poi della necessità di
schiacciare un pisolino… lo aspettava un’altra nottata insonne e
si sentiva già stanco morto.
D’altra parte, non voleva che la storia terminasse in quel modo.
Voleva vedere Lexie, aveva bisogno di vederla. Una voce nella
sua testa gli diceva di non permettere alle emozioni di prendere il
sopravvento e, razionalmente, non vedeva quale vantaggio
potesse derivargli dal pedinare Lexie.
Anche se l’avesse trovata, lei probabilmente lo avrebbe ignorato
o, peggio, si sarebbe seccata. E nel frattempo a Nate sarebbe
venuto un infarto, Alvin sarebbe stato furioso e la sua indagine
giornalistica sarebbe finita nel tubo di scarico assieme alla sua
carriera.
Alla fine, la decisione era una soltanto. Parcheggiò davanti al suo
Alla fine, la decisione era una soltanto. Parcheggiò davanti al suo
cottage al Greenleaf e si congratulò con se stesso. Ragionare in
quel modo gli aveva fatto capire i termini del problema. Dopo
tutto, non aveva passato gli ultimi quindici anni a usare la logica e
a occuparsi di scienza senza imparare niente lungo la strada.
Adesso, si disse, gli restava una sola cosa da fare: preparare i
bagagli.
104
13
D’accordo, lo ammetteva, era una vigliaccata.
Non era facile per lei riconoscere il fatto che era scappata via,
ma in fondo erano due giorni che non riusciva a pensare
lucidamente e non poteva certo biasimarsi di non essere perfetta.
Del resto, se fosse rimasta in città, le cose si sarebbero
complicate ancora di più. Non importava che lui le piacesse e
ricambiasse la sua simpatia. Quella mattina al risveglio aveva
deciso che doveva troncare la storia prima che si spingessero
troppo avanti e, quando si era fermata con la macchina su quel
vialetto sabbioso, aveva capito di aver fatto la cosa giusta.
Quel posto non era granché. Il vecchio cottage, semisoffocato
dagli arbusti che lo circondavano, era cadente. Le finestrelle
rettangolari con le tendine bianche erano coperte da una patina
salmastra e le tavole di legno esterne consumate dalla furia degli
uragani. Per certi versi, aveva sempre considerato quel rifugio
una specie di capsula per viaggiare nel tempo; la maggior parte
dei mobili aveva più di vent’anni, le tubature brontolavano
quando apriva l’acqua e per accendere i fornelli c’era bisogno
dei fiammiferi. Ma i ricordi dei giorni trascorsi lì da bambina
avevano sempre l’effetto di cal-marla e, dopo aver appoggiato
sul bancone le provviste acquistate per il fine settimana, aveva
aperto le finestre per arieggiare l’interno. Poi, presa una coperta,
si era sistemata su una sedia a dondolo sulla veranda posteriore,
con l’unico desiderio di restare a guardare l’oceano. In quel
momento, il rumore regolare della risacca era quasi ipnotico e
quando il sole squarciò le nubi, e alcuni raggi di luce si
allungarono verso l’acqua come dita sottili che l’accarezzavano
dall’alto, lei rimase senza fiato.
Le capitava sovente lì. Ricordò di aver visto per la prima volta la
luce che compariva tra le nubi dopo la visita al cimitero con
Doris, quando era ancora piccola. All’epoca, aveva pensato che
i suoi genitori avessero trovato un altro modo per mettersi in
contatto con lei. Era convinta che vegliassero su di lei come
angeli mandati dal cielo, sempre presenti ma senza intervenire,
quasi sapessero che avrebbe sempre preso la decisione giusta.
105
Aveva avuto bisogno di credere in quelle cose per molto tempo,
semplicemente perché si era sentita spesso sola. I nonni erano
affettuosi e meravigliosi, ma per quanto li amasse per la loro
abne-gazione, non si era mai abituata del tutto alla sensazione di
essere diversa dai suoi coetanei. I genitori delle sue amiche
giocavano a pallavolo nei fine settimana e avevano l’aria fresca e
giovanile la domenica mattina in chiesa. E allora lei pensava al
papà e alla mamma che aveva perso.
Non poteva parlare di questo con Doris, né dei sensi di colpa
che quei pensieri le facevano venire. E poi sapeva che le sue
che quei pensieri le facevano venire. E poi sapeva che le sue
parole l’avrebbero fatta soffrire.
La sensazione di essere diversa dagli altri aveva comunque
lasciato il segno. E anche Doris, quando durante l’adolescenza
lei oltrepassava i limiti, spesso lasciava perdere per evitare
discussioni, dandogli così l’impressione di poter stabilire le
proprie regole. Da ragazzina era stata un po’ ri-belle, ma in un
modo o nell’altro era maturata durante gli anni dell’università.
Quella sua nuova consapevolezza l’aveva portata ad abbracciare
l’idea che la maturità significasse valutare i rischi molto prima di
pensare alla ricompensa, e che il successo e la felicità nella vita
stessero tanto nell’evitare gli errori quanto nel lasciare il proprio
segno nel mondo.
Sapeva di aver rischiato di commettere un errore la sera
precedente. Si era aspettata che lui tentasse di baciarla ed era
rimasta compiaciuta da se stessa per la fermezza con cui aveva
risposto alla sua richiesta di farlo entrare in casa.
Era consapevole di aver ferito i suoi sentimenti e se ne
dispiaceva. Ma ciò di cui probabilmente non si era resa conto
era che il battito del suo cuore aveva rallentato solo dopo che lui
si era allontanato, perché una parte di lei avrebbe voluto lasciarlo
entrare, quali che fossero le conseguenze.
Non le importava di quello che sarebbe successo. Peggio
ancora, mentre si rigirava irrequieta nel letto quella notte, aveva
capito che forse non avrebbe avuto la forza per fare di nuovo la
cosa giusta.
In realtà, poteva prevederlo. Con il passare delle ore, mentre era
con lui quella sera, si era sorpresa a paragonarlo ad Avery e al
Ragazzo di Chicago e, con suo stupore, Jeremy aveva retto il
confronto alla grande. Univa in sé lo spirito e il senso
dell’umorismo di Avery e l’intelligenza e il fascino dell’altro, e
inoltre sembrava molto più a proprio agio con se stesso rispetto
a entrambi. Forse erano solo sensazioni legate alla meravigliosa
giornata trascorsa insieme, una cosa che non le capitava da
tempo. Quand’era stata l’ultima volta che aveva fatto un picnic?
O che era salita su Riker’s Hill? Oppure che era stata al cimitero
dopo una festa, quando in genere si infilava direttamente a letto?
Senza dubbio l’esaltazione e l’imprevedibilità le avevano
ricordato i momenti felici che aveva vissuto quando credeva
ancora che Avery e il Ragazzo di Chicago fossero gli uomini dei
suoi sogni.
Ma si era sbagliata allora, come si stava sbagliando adesso.
Sapeva che Jeremy avrebbe risolto il mistero in giornata –
d’accordo, era soltanto una sensazione, ma ne era sicura, dato
che la risposta era in uno dei diari e sarebbe bastato che lui la
trovasse – e non aveva il minimo dubbio che dopo le avrebbe
chiesto di uscire con lui. Se fosse rimasta in città, avrebbero
trascorso gran parte della giornata insieme e lei non voleva che
accadesse. Ma, in fondo, era proprio ciò a cui una parte di lei
ane-lava, e questo la lasciava confusa come non le capitava
ane-lava, e questo la lasciava confusa come non le capitava
ormai da anni.
Doris aveva intuito il suo dilemma quando era passata da lei
quella mattina. Dopo aver infilato qualche cambio di vestiti in una
valigia, era uscita senza fare la doccia e si era presentata di punto
in bianco a casa sua come uno zombie. Non aveva dato
spiegazioni, e nonostante questo Doris aveva assentito in silenzio
quando le aveva detto che doveva andare via. Anche se era
molto stanca, aveva capito che, dopo aver messo in moto il
meccanismo, non aveva previsto l’esito finale. Era proprio
questa la caratteristica delle premonizioni; per quanto fossero
accurate a breve, non c’era modo di sapere quali sarebbero stati
gli sviluppi.
Per quello lei era andata lì, per non impazzire, e sarebbe rientrata
a Boone Creek solo quando la situazione fosse tornata alla
normalità, decise. Non ci voleva molto tempo. Entro un paio di
giorni la gente avrebbe smesso di parlare dei fantasmi, delle
dimore storiche e del forestiero in città, e i turisti in visita
sarebbero stati solo un ricordo. Il sindaco avrebbe ripreso a
giocare a golf, Rachel sarebbe uscita con gli uomini sbagliati e
Rodney probabilmente avrebbe trovato il modo di imbattersi
106
casualmente in lei nei pressi della biblioteca, tirando un sospiro di
sollievo perché il loro rapporto era tornato quello di sempre.
Forse non era una vita esaltante, però era la sua vita e non aveva
intenzione di permettere a nessuno di romperne l’equilibrio. In un
altro luogo e in un altro tempo magari sarebbe stato diverso, ma
certe riflessioni a quel punto non avevano senso. Mentre
continuava a fissare l’oceano, si sforzò di non pensare a ciò che
avrebbe potuto essere.
Sulla veranda, Lexie si strinse la coperta sulle spalle. Era una
ragazza forte e avrebbe superato anche questo, si disse, come
aveva superato tutto il resto. Ne era sicura. Ma nonostante il
conforto offertole da questa consapevolezza, il mare agitato le
ricordava i sentimenti che nutriva per Jeremy e dovette fare
appello a tutte le sue risorse per non scoppiare a piangere.
Tutto era sembrato alquanto semplice una volta presa la
decisione. Jeremy agì velocemente nella sua camera al
Greenleaf, provvedendo alle mosse necessarie. Prendere la
cartina e il portafoglio, per sicurezza. Lasciare lì il portatile
perché non gli serviva. Idem per gli appunti. Infilare nella sacca
anche il taccuino di Doris. Scrivere un biglietto per Alvin da
lasciare alla reception, senza badare al-l’espressione poco
entusiasta di Jed quando glielo avrebbe consegnato. Assicurarsi
da ultimo di avere con sé il caricabatteria del cellulare… e
partire.
Nel giro di meno di dieci minuti era già sulla strada per Swan
Quarter, dove si sarebbe imbarcato sul traghetto per Ocracoke,
un villaggio degli Outer Banks. Da lì si sarebbe diretto a nord
sulla Highway 12 verso Buxton. Immaginava che fosse quella la
strada percorsa da Lexie e, seguendone le tracce, sarebbe
arrivato sul posto in un paio d’ore.
Il viaggio fino a Swan Quarter procedette spedito su strade dritte
e poco trafficate che gli permi-sero di pigiare l’acceleratore
mentre pensava a lei, nel tentativo di scacciare l’ansia. In fondo
l’ansia era un’altra parola per panico e lui si faceva vanto di non
lasciarsi mai prendere dal panico. Tuttavia, ogni volta che era
costretto a rallentare, per esempio attraversando i centri abitati,
si trovava a tamburellare nervosamente sul volante borbottando
tra sé.
Era una sensazione strana e si intensificava a mano a mano che si
avvicinava alla meta. Non sapeva spiegarsela, ma del resto non
aveva nemmeno voglia di analizzarla. Era una delle rare occasioni
in vita sua in cui agiva come un automa, facendo esattamente il
contrario di ciò che gli suggeriva la logica, pensando soltanto a
come avrebbe reagito lei vedendolo.
Proprio mentre cominciava a credere di aver individuato la
ragione del suo strano comportamento, Jeremy si ritrovò al molo
del traghetto a fissare un ometto in uniforme intento a leggere il
giornale. Venne a sapere che i traghetti per Ocracoke non erano
così frequenti come quelli tra Sta-ten Island e Manhattan, e che
quindi aveva perso l’ultima corsa della giornata. Valeva a dire
che poteva tornare il giorno successivo, oppure rinunciare del
che poteva tornare il giorno successivo, oppure rinunciare del
tutto al suo progetto e lui non era disposto a fare nessuna delle
due cose.
«È sicuro che non esista un altro modo per raggiungere il Faro di
Hatteras?» domandò con il cuore in gola. «È molto importante.»
«Be’, potrebbe arrivarci in macchina.»
«Quanto ci vuole?»
«Dipende da quanto va veloce.»
Naturale, pensò Jeremy. «Mettiamo che io vada veloce.»
L’uomo scrollò le spalle come se l’argomento lo annoiasse a
morte. «Cinque o sei ore. Deve andare verso nord fino a
Plymouth, poi prendere la statale 64 per Roanoke Island, quindi
raggiungere Whalebone. Da lì si dirige a sud verso Buxton. Il
faro è proprio laggiù.»
Jeremy guardò l’ora; era già quasi l’una; a occhi e croce sarebbe
arrivato a destinazione proprio quando Alvin sarebbe giunto a
Boone Creek. Niente da fare.
«C’è un altro punto dove prendere il traghetto?»
«A Cedar Island.»
«Magnifico. Dov’è?»
107
«A circa tre ore nella direzione opposta. Ma anche in quel caso
ormai dovrà aspettare fino a domattina.»
Alle spalle dell’uomo Jeremy vide un poster con i vari fari del
North Carolina. Al centro campeggiava quello di Hatteras, il più
imponente di tutti.
«E se le dicessi che si tratta di un’emergenza?» chiese.
L’uomo per la prima volta alzò lo sguardo dal giornale.
«È un’emergenza?»
«Diciamo di sì.»
«Allora chiamerei la Guardia Costiera. Oppure lo sceriffo.»
«Ah», fece Jeremy, cercando di stare calmo. «Vuole dirmi che
non c’è modo di arrivare là adesso? Da qui, intendo.»
L’uomo si portò un dito al mento. «Suppongo che potrebbe
prendere una barca, se ha tanta fretta.» Adesso sì che
cominciamo a ragionare, pensò Jeremy. «E come potrei fare?»
«Non saprei. Non l’ha mai chiesto nessuno.»
Jeremy risalì in macchina e ammise finalmente con se stesso che
si era fatto prendere dal panico. Forse era perché ormai si
trovava lì, oppure perché si era reso conto che le ultime parole
rivolte a Lexie la notte precedente avevano a che fare con una
più profonda verità, anche se qualcosa si era impossessato di lui
e non gli permetteva di tornare indietro. Non ora che si trovava
così vicino alla meta.
Nate aspettava una sua telefonata, ma all’improvviso non se ne
preoccupava più di tanto. Lo stesso valeva per l’arrivo di Alvin;
se tutto andava bene, avrebbero fatto le riprese al cimitero sia
quella sera stessa sia la successiva. Mancavano circa dieci ore
all’apparizione delle luci; con una barca veloce probabilmente
poteva raggiungere Hatteras in due. Ciò gli dava tutto il tempo
necessario per andare laggiù, parlare con Lexie e tornare
indietro, sempre ammesso di trovare qualcuno disposto ad
accompagnarlo.
Ovviamente le incognite erano numerose. Poteva non riuscire a
noleggiare una barca, ma in quel caso, era pronto a guidare fino
a Buxton. Comunque, una volta arrivato, non aveva neppure la
certezza di riuscire a trovarla.
Era una situazione completamente priva di senso. Ma chi se ne
importava? Tutti avevano il diritto di essere un po’ bizzarri, una
volta ogni tanto, e adesso toccava a lui. Aveva dei contanti nel
portafoglio e avrebbe trovato un modo di arrivare a destinazione.
portafoglio e avrebbe trovato un modo di arrivare a destinazione.
Era pronto a correre il rischio e a vedere come si mettevano le
cose con lei, se non altro per dimostrare a se stesso che era in
grado di lasciarla senza pensarci più.
Era proprio quello il punto, lo sapeva. Quando Doris gli aveva
fatto capire che forse non l’avrebbe più rivista, la sua mente era
come impazzita. Era vero, sarebbe partito comunque entro un
paio di giorni, ma questo non voleva dire che lo storia non
dovesse finire così. Non ancora, comunque. Poteva venire a
farle visita lì, lei poteva raggiungerlo a New York e, se era
destino, avrebbero trovato una soluzione. Erano cose che
capitavano tutti i giorni, no? Ma anche se non fosse stato
possibile, anche se lei era decisa a troncare di netto ogni
rapporto con lui, voleva sentirglielo dire. Solo allora sarebbe
potuto tornare a casa con la convinzione di non aver avuto
scelta.
Tuttavia, mentre frenava di colpo nei pressi del primo porticciolo
che trovava lungo la strada, si rese conto che non voleva sentir
dire quelle parole. Non stava andando a Buxton per salutarla o
per sentirsi dire che lei non voleva più vederlo. Al contrario,
pensò stupito, sapeva che era diretto là per scoprire se Alvin
aveva avuto ragione fin dall’inizio.
108
Il tardo pomeriggio era il momento preferito da Lexie. La
morbida luce invernale, unita all’au-stera bellezza naturale del
paesaggio, dava al mondo un’aura surreale.
Persino il faro, pitturato a strisce bianche e nere come una
gigantesca striscia di caramella, da lì appariva simile a un
miraggio e, mentre canninava lungo la spiaggia, lei cercò di
immaginare quanto fosse stato difficile per i pescatori e i marinai
doppiare la punta prima della sua costruzione. Le acque
antistanti la costa, con le secche e i fondali rocciosi, erano
denominate il Cimitero dell’Atlantico e custodivano numerosi
relitti. La Monitor, coinvolta nella prima battaglia tra corazzate
durante la Guerra Civile, era affondata lì. Lo stesso destino
aveva subito la Central America, carica di oro californiano, il
cui naufragio aveva causato la grave crisi economica del 1857.
Si diceva che il va-scello di Barbanera, la Queen Anne’s
Revenge, fosse stato rinvenuto nell’insenatura di Beaufort e gli
U-Boat tedeschi affondati durante la Seconda guerra mondiale
erano la meta preferita dei subac-quei.
Suo nonno era un appassionato di storia e, tutte le volte che
camminavano sulla spiaggia tenendosi per mano, le raccontava
delle navi che erano andate perse nel corso dei secoli. Le riferiva
aneddoti su uragani, secche insidiose ed errori di navigazione che
avevano fatto arenare le imbarcazioni finché non erano state
distrutte dalla forza dei marosi. Pur non nutrendo un interesse
particolare per l’argomento e anzi, spesso spaventata dalle
immagini evocate dal nonno, si sentiva cullata dalla sua parlata
lenta e melodiosa e non si stancava mai di ascoltarlo. Sebbene
fosse ancora molto giovane, intuiva che parlare di quelle cose era
molto importante per lui. Anni dopo, era venuta a sapere che
durante la Seconda guerra mondiale la nave su cui era imbarcato
era stata silurata e lui si era salvato per miracolo.
Quel ricordo le fece provare un’acuta fitta di nostalgia. Le
camminate con il nonno facevano parte di una routine quotidiana
riservata a loro due soltanto e di solito uscivano poco prima di
cena, mentre Doris era ai fornelli. Lui stava seduto in poltrona a
leggere con gli occhiali appoggiati sul naso e, a un certo punto,
chiudeva il libro con un sospiro e lo metteva da parte, poi si
alzava e le chiedeva se voleva andare a vedere i cavalli selvaggi.
L’idea dei cavali la esaltava. Non sapeva perché; non era mai
salita in sella, né ambiva particolarmente a provarci, ma tutte le
volte che il nonno le proponeva di accompagnarlo correva alla
porta in preda all’eccitazione. In genere, i cavalli si tenevano a
distanza dagli uomini e galoppavano via non appena arrivava
qualcuno, ma sull’imbrunire indugiavano a brucare e
abbassavano le difese, anche se solo per poco. Allora era
possibile avvicinarsi abbastanza da vederne i segni distintivi e,
con un po’ di fortuna, li sentiva sbuffare e nitrire come
avvertimento a non avvicinarsi più.
Discendevano dai mustang spagnoli e la loro presenza sugli
Outer Banks risaliva al 1523. Ora una serie di severe leggi
governative ne tutelava la sopravvivenza e loro erano ormai parte
governative ne tutelava la sopravvivenza e loro erano ormai parte
del paesaggio quanto i cervi in Pennsylvania, con l’unico
problema di occasionali sovrappopolamenti. La gente del posto
li ignorava, almeno finché non davano fastidio, mentre per i turisti
erano una delle principali attrazioni. Era molto tempo che Lexie
andava lì, eppure ogni volta la vista dei cavalli la emozionava: la
faceva sentire di nuovo giovane, con tutti i piaceri e le aspettative
della vita ancora da venire.
Desiderava sentirsi così anche in quel momento, se non altro per
sfuggire al peso dell’età adulta, pensò. Doris le aveva telefonato
per dirle che Jeremy era passato a cercarla, il che non l’aveva
sorpresa. Aveva immaginato che si sarebbe chiesto che cosa
avesse fatto di male o perché lei se ne fosse andata, ma era
sicura che presto si sarebbe lasciato tutto alle spalle. Jeremy era
una di quelle persone benedette da un’assoluta sicurezza in se
stesse, sempre in movimento, senza rimpianti per il passato.
Anche Avery era così, e lei ricordava ancora quanto l’avesse
ferita il suo senso di superiorità, la sua indifferenza per il dolore
che le causava. A ripensarci adesso, vedeva i suoi difetti
caratterieli per quello che erano, ma all’epoca non era stata
capace di cogliere i segnali d’avvertimento: il modo in cui il suo
sguardo indugiava sulle altre donne, oppure lo slancio eccessivo
con cui abbracciava quelle che diceva che fossero le sue amiche.
All’inizio, aveva voluto credergli quando affermava di essere
stato infedele una volta soltanto, ma a poco a poco erano
riemersi frasi e spezzoni di dialoghi 109
riemersi frasi e spezzoni di dialoghi 109
che la sua mente non aveva voluto registrare: una sua compagna
di università che tempo prima le aveva riferito che giravano voci
su una storia di Avery con una studentessa; uno dei suoi
collaborato-ri che aveva accennato alle sue assenze ingiustificate
dal lavoro. Lexie detestava considerarsi ingenua, ma lo era stata
e più che di lui, era rimasta delusa da se stessa. Si diceva che
avrebbe superato anche quello, che avrebbe incontrato un uomo
migliore… uno come il Ragazzo di Chicago, il quale le aveva
dimostrato una volta per tutte che non era brava a giudicare gli
uomini. Né, a quanto pareva, di tenerseli.
Era dura ammetterlo, e in certi momenti si chiedeva se non
avesse sbagliato con entrambi. D’accordo, quello con il Ragazzo
di Chicago era stato più un flirt che una storia d’amore, ma
Avery? Lo aveva amato e aveva creduto di essere ricambiata.
Certo, era facile dire che era un mascalzone e che la relazione
era finita solo per colpa sua, però anche lui doveva aver trovato
qualche mancanza nel loro rapporto. Qualche mancanza in lei.
Ma in che senso? Era troppo assillante? Era noiosa? Non lo
soddisfaceva a letto? Ma perché non era corso fuori, quel
giorno, a cercarla, a chiederle perdono?
Erano domande alle quali non aveva mai saputo rispondere. Le
sue amiche le assicuravano che lei non c’entrava, e anche Doris.
Ma nonostante ciò, non le era ancora ben chiaro che cosa fosse
successo. Dopo tutto c’erano sempre due versioni della storia e
successo. Dopo tutto c’erano sempre due versioni della storia e
ancora adesso a volte le veniva voglia di telefonargli per
chiedergli dove lei aveva sbagliato.
Come le aveva fatto notare un’amica, era tipico delle donne
preoccuparsi di aver fatto degli errori. Gli uomini sembravano
immuni da questo genere di insicurezze. E anche se non lo erano,
avevano imparato a nascondere i propri sentimenti oppure a
seppellirli nel profondo in modo da non es-serne feriti. Di solito,
anche lei provava a fare lo stesso, e funzionava. Di solito.
In lontananza, mentre il sole si tuffava nelle acque dello stretto di
Pamlico, con le sue casette bianche di legno la cittadina di
Buxton sembrava una cartolina. Guardò verso il faro e, proprio
come sperava, scorse un piccolo branco di cavalli che brucava
l’erba alla base della torre. Ce n’erano circa una decina, quasi
tutti pezzati, e avevano folte pellicce che li proteggevano dal
freddo dell’inverno. Al centro, due puledri brucavano vicini,
agitando felici le code.
Lexie si fermò a guardarli, con le mani infilate in tasca. Ora che si
avvicinava la sera il vento si era rinfrescato e lei sentiva l’aria
pungente sul naso e sulle guance. Le sarebbe piaciuto fermarsi lì
ancora un po’, ma era stanca. Era stata una lunga e faticosa
giornata.
Suo malgrado, si chiese che cosa stesse combinando Jeremy.
Organizzava altre riprese? Oppure stava per decidere dove
andare a cena? Faceva i bagagli? Ma perché i suoi pensieri
andare a cena? Faceva i bagagli? Ma perché i suoi pensieri
continuavano a tornare su di lui?
Sospirò, conoscendo già la risposta. Per quanto le piacesse
guardare i cavalli, la loro vista le ricordò non tanto un nuovo
inizio, quanto il fatto che era sola. Per quanto si considerasse
indipendente, per quanto cercasse di non badare ai continui
commenti di Doris, non poteva fare a meno di provare un
ardente desiderio di compagnia, d’intimità. Non significava per
forza il matrimonio; a volte, le sarebbe bastato sapere che aveva
un impegno per il venerdì o il sabato sera. Desiderava tanto
trascorrere la mattina della domenica a letto con qualcuno che le
stesse a cuore e, per quanto fosse impossibile, era Jeremy che
s’immaginava accanto a sé.
Lexie si obbligò a scacciare l’idea. Venendo lì aveva sperato di
trovare sollievo dai pensieri che l’opprimevano, ma mentre era in
piedi accanto al faro a guardare i cavalli che pascolavano le
sembrò che il mondo le crollasse addosso. Aveva trentun anni,
era sola e viveva in un posto senza prospettive per il futuro. Suo
nonno e i suoi genitori erano soltanto ricordi lontani, la salute di
Doris era fonte di costante preoccupazione e l’unico uomo che
negli ultimi anni avesse trovato anche lontanamente interessante,
sarebbe partito prima del suo ritorno.
Fu allora che scoppiò a piangere a dirotto, singhiozzando come
una bambina. Mentre infine cominciava a riprendersi vide una
figura che le veniva incontro e, riconoscendola, rimase a fissarla
figura che le veniva incontro e, riconoscendola, rimase a fissarla
at-tonita.
110
14
Lexie sbatté gli occhi, chiedendosi se stesse dognando. Non
poteva essere lui, perché lui non poteva essere lì. Era un’idea
così assurda, così impensabile, che aveva l’impressione di
guardare la scena con gli occhi di un’altra persona.
Jeremy sorrise e posò la borsa. «Sai, non dovresti fissare la
gente in quel modo», disse. «Agli uomini piacciono le donne che
sanno essere discrete.»
Lei continuava a fissarlo. «Tu», disse.
«Io», confermò lui con un cenno del capo.
«Tu… sei qui.»
«Io sono qui», ripeté lui.
Lei lo guardò socchiudendo gli occhi nella luce del crepuscolo e
Jeremy pensò che era persino più carina di quanto ricordasse.
«Che cosa ci fai…?» Esitò, come se ancora non credesse ai suoi
occhi. «Cioè, come hai fatto…?»
«È una lunga storia», rispose Jeremy. Vedendo che lei non si
muoveva, fece un cenno verso il faro. «Allora è questo il posto
dove si sono sposati i tuoi genitori?»
dove si sono sposati i tuoi genitori?»
«Te ne sei ricordato?»
«Io ricordo tutto», disse lui, toccandosi la tempia. «Sai, la
materia grigia qui dentro. Dove si so-no sposati esattamente?»
Parlava in tono disinvolto, come se fosse la conversazione più
normale del mondo, e questo faceva sembrare la scena ancora
più irreale.
«Laggiù», rispose lei. «Dalla parte dello stretto, vicino alla riva.»
«Dev’essere stato molto bello», commentò lui guardando in
quella direzione. «È un posto davvero stupendo. Adesso capisco
perché lo ami tanto.»
111
Invece di rispondere, Lexie fece un respiro profondo, per
riprendere il controllo delle emozioni.
«Jeremy, che cosa ci fai qui?»
Lui esitò. «Non ero sicuro che tu saresti tornata», disse. «E ho
capito che, se volevo rivederti, dovevo venire da te.»
«Ma perché?»
Jeremy continuò a guardare verso il faro. «Era come se non
Jeremy continuò a guardare verso il faro. «Era come se non
potessi farne a meno.»
«Temo di non capire», ribatté lei.
Jeremy si guardò i piedi, poi alzò la testa e le rivolse un sorriso
quasi di scusa. «A dire la verità, ho passato gran parte della
giornata a cercare di capirlo anch’io.»
Mentre stavano in piedi accanto al faro il sole cominciò a
tramontare e il cielo si fece di un grigio cupo. Una brezza umida
e fredda spazzava la sabbia; sollevando la schiuma dalle onde.
In lontananza, una figura avvolta in una pesante giacca scura
dava da mangiare ai gabbiani, lanciando pezzi di pane per aria. A
mano a mano che si abituava alla sua presenza, Lexie sentiva
sce-mare dentro di sé lo choc per l’arrivo di Jeremy. Avrebbe
dovuto essere in collera con lui, perché non aveva rispettato il
suo desiderio di stare da sola, ma in fondo era lusingata da quel
gesto. Avery non si era mai preoccupato di andare a cercarla,
nemmeno il fedele Rodney avrebbe mai pensato di venire lì e,
fino a quel momento, se qualcuno le avesse detto che Jeremy
poteva fare una cosa simile, avrebbe riso di gusto. E invece,
adesso cominciava a insinuarsi in lei la consapevolezza che lui era
diverso da tutti gli altri che aveva conosciuto, che lui era un uomo
capace di sorprenderla.
I cavalli avevano cominciato ad allontanarsi dal faro, brucando
qua e là mentre risalivano la du-na. La foschia si addensava sul
mare, confondendo la linea dell’orizzonte. Le sterne beccavano
la sabbia sulla battigia, muovendosi sulle lunghe zampe sottili in
cerca di piccoli crostacei.
Nel silenzio, Jeremy si avvicinò le mani alla bocca e ci soffiò
dentro, cercando di scaldarle. «Sai arrabbiata con me?» chiese
infine.
«No», ammise lei. «Sorpresa, ma non arrabbiata.»
Lui sorrise e lei ricambiò con un sorriso appena abbozzato.
«Come hai fatto ad arrivare fin qui?» chiese di nuovo.
Jeremy indicò alle sue spalle, verso Buxton. «Mi sono fatto dare
un passaggio da due pescatori diretti da questa parte», disse.
«Mi hanno lasciato giù al porticciolo.»
«Ti hanno dato un passaggio così?»
«Esatto.»
«Sei stato fortunato. In genere i pescatori non fanno questi
favori.»
«Può darsi», ribatté lui. «Ma anche se non sono uno psicologo, è
mia opinione che tutti, persino gli sconosciuti, sappiano valutare
l’urgenza di una richiesta e mostrarsi generosi, se è il caso.» La
l’urgenza di una richiesta e mostrarsi generosi, se è il caso.» La
guardò, schiarendosi la gola. «E poi, visto che non funzionava, mi
sono offerto di pagarli.»
Lei rise di quell’ammissione.
«Lasciami indovinare», disse. «Ti hanno ripulito, eh?»
Jeremy scrollò le spalle. «Dipende dai punti di vista. In effetti, mi
è sembrata una cifra esorbi-tante per un passaggio in barca.»
«È ovvio. Il tragitto è lungo. Bisogna calcolare il costo del
carburante, e poi l’usura della barca…»
«Me ne hanno parlato, sì…»
«E, naturalmente, il tempo impiegato e il fatto che domattina
saranno al lavoro prima dell’alba.»
«Hanno detto anche questo.»
In quel momento anche l’ultimo cavallo scomparve oltre la duna.
«Però sei venuto lo stesso.»
112
Lui annuì, sorpreso almeno quanto lei. «Comunque, mi hanno
fatto capire chiaramente che si trattava di un viaggio di sola
andata. Non hanno voluto aspettarmi, perciò temo di essere
bloccato qui.»
«Ah, davvero? E come hai intenzione di tornare indietro?»
Jeremy fece un sorriso malizioso. «Ecco, si dà il caso che
conosca una persona qui, e avevo intenzione di sfoderare tutto il
mio fascino per convincerla a darmi un passaggio fino a casa.»
«E se io non avessi intenzione di rientrare per un bel po’?
Oppure se ti dicessi di arrangiarti?»
«A questo non ho ancora pensato.»
«E dove intendevi soggiornare durante la tua permanenza qui?»
«Non ho pensato nemmeno a questo.»
«Se non altro sei sincero», commentò lei sorridendo. «Però
dimmi, che cosa avresti fatto se non mi avessi trovata?»
«E dove altro potevi essere andata?»
Lei distolse lo sguardo, compiaciuta che la conoscesse così
bene. In lontananza vide le luci di un peschereccio che avanzava
impercettibilmente.
«Hai fame?» gli chiese.
«Da morire. Non ho mangiato niente per tutto il giorno.»
«Vuoi cenare?»
«Conosci qualche bel posticino?»
«Sì, ne ho in mente uno carino.»
«Accettano carte di credito?» chiese lui. «Ho usato tutti i contanti
che avevo per venire qui.»
«Sono sicura che in un modo o nell’altro ce la caveremo»,
rispose lei.
Si avviarono lungo la spiaggia, allontanandosi dal faro. Mentre
camminavano sulla sabbia com-patta accanto alla battigia, c’era
uno spazio tra di loro che nessuno dei due sembrava voler
colmare.
Avanzavano decisi, i nasi arrossati per il freddo, come se fossero
inesorabilmente attratti da qualche parte.
Nel silenzio, Jeremy ripercorse mentalmente il suo viaggio fin lì,
assalito da un senso di colpa nei confronti di Alvin e Nate. Si era
perso la riunione telefonica – non c’era proprio camnpo mentre
attraversava lo stretto di Pamlico – e si era rassegnato a
chiamare Nate una volta sbarcato, anche se l’idea non lo
rallegrava. Sospettava che lui stesse ribollendo da ore e non
aspettasse altro che la sua telefonata per esplodere, ma aveva
intenzione di proporgli un incontro con i produttori per la
intenzione di proporgli un incontro con i produttori per la
settimana successiva, in cui avrebbe presentato loro le riprese e
la scaletta del servizio. Immaginava, infatti, che sarebbe stato
quello l’argomento della telefonata. E se la sua proposta non
fosse bastata a soddisfarli, se perdere una sola telefonata avesse
significato mettere fine alla sua carriera prima ancora di
cominciare, allora non era poi così sicuro di voler lavorare per la
televisione.
E Alvin… be’, con lui era un po’ più facile. Non poteva tornare
in tempo a Boone Creek per incontrarlo quella sera – se n’era
reso conto quando la barca l’aveva scaricato a detsinazione –,
ma il suo amico aveva il cellulare e lui gli avrebbe spiegato che
cosa era successo. Alvin non sarebbe stato contento di andare
da solo al cimitero, ma si sarebbe ripreso in fretta. Lui era una di
quelle rare persone che non si lasciavano infastidire per più di un
giorno dal risentimento.
E poi, a essere sinceri, Jeremy doveva ammettere che in quel
momento non gli importava niente di niente. L’unica cosa che
contava era camminare con Lexie su una spiaggia deserta nel
mezzo del nulla e il fatto che, mentre avanzavano controvento
nella brezza salmastra, lei lo avesse preso sottobraccio.
Lexie salì per prima gli scalini di legno malandati del vecchio
bungalow e appese la giacca al gancio accanto alla porta.
Jeremy la imitò, lasciando lì anche la sacca. Mentre la guardava
avanzare nel soggiorno, pensò ancora una volta che era
avanzare nel soggiorno, pensò ancora una volta che era
bellissima.
113
«Ti piace la pasta?» gli chiese lei, interrompendo le sue
considerazioni.
«Vuoi scherzare? Sono cresciuto a pasta. Mia madre è italiana.»
«Bene», rispose. «Perché era quello che avevo in mente di
cucinare.»
«Mangiamo qui?»
«Temo di sì», disse Lexie senza voltarsi. «Hai finito i contanti,
ricordi?»
La cucina era piccola, tinteggiata di un giallo sbiadito, con una
carta da parati a fiori che si stac-cava negli angoli, armadietti
logori e un tavolino colorato sotto la finestra. Sul bancone
c’erano ancora le buste della spesa. Lexie tirò fuori una scatola
di cereali e un filone di pane e Jeremy, che la osservava in piedi
accanto al lavello, scorse un lembo della sua pelle sul fianco
mentre si alzava in punta di piedi per sistemare la roba nella
credenza.
«Vuoi una mano?» le chiese.
«No, grazie», rispose lei voltandosi. Si sistemò la camicia, poi
prese un’altra borsa e mise da parte due cipolle e due scatole di
pelati. «Vuoi bere qualcosa mentre io preparo da mangiare? C’è
una confezione di sei bottiglie di birra in frigo.»
Lui sgranò gli occhi, fingendosi stupito. «Hai della birra?
Credevo che non bevessi alcolici.»
«Infatti.»
«A una donna astemia, sei bottiglie di birra possono dare alla
testa», commentò lui. «Se non ti conoscessi, penserei che volevi
fare baldoria questo week-end.»
Lei lo incenerì con un’occhiata, ma nei suoi occhi ci fu un lampo
di divertimento. «Mi bastano e avanzano per andare avanti un
mese, che cosa credi. Allora, ne vuoi una o no?»
Lui sorrise, contento di quello scambio di battute. «Sì, grazie.»
«Puoi servirti da solo? Devo mettere sul fuoco il sugo.»
Jeremy andò al frigo e tirò fuori due bottiglie di Coors Light. Le
stappò, quindi gliene mise una di fianco. «Non mi piace bere da
solo», disse.
Sollevò la bottiglia per brindare e lei fece altrettanto, in silenzio,
poi Jeremy si appoggiò al bancone incrociando le caviglie.
«Tanto perché tu lo sappia, sono bravissimo a tritare le verdure,
«Tanto perché tu lo sappia, sono bravissimo a tritare le verdure,
nel caso ti serva aiuto.»
«Lo terrò a mente.»
Lui sorrise. «Da quanto tempo avete questa casa?»
«I miei nonni l’acquistarono subito dopo la guerra. All’epoca non
c’era nemmeno una strada sull’isola. Dovevi passare con la
macchina sulla spiaggia per arrivare qui. In soggiorno ci sono
delle foto di com’era il posto allora.»
«Ti spiace se do un’occhiata?»
«Fa’ pure. E se vuoi rinfrescarti prima di cena, c’è un bagno in
fondo al corridoio. A destra, nella camera degli ospiti.»
Jeremy andò in soggiorno a guardare le vecchie foto dell’isola,
poi notò la valigia di Lexie accanto all’ingresso. Dopo un attimo
di esitazione, la prese e si diresse lungo il corridoio. Sulla sinistra
vide un’ampia stanza, dove su una pedana c’era un grande letto
matrimoniale, con sopra una trapunta con un motivo a conchiglia.
Alle pareti erano appese altre foto degli Outer Banks.
Immaginando che fosse la camera di Lexie, lasciò la valigia
dietro la porta.
Tornò in corridoio ed entrò nell’altra stanza. Era decorata in stile
navale, con le tende blu e i co-modini e la toletta di legno grezzo.
Mentre si toglieva le scarpe e i calzini ai piedi del letto, si chiese
Mentre si toglieva le scarpe e i calzini ai piedi del letto, si chiese
che effetto gli avrebbe fatto dormire lì sapendo che Lexie era
dall’altra parte del corridoio.
In bagno, si guardò nello specchio sopra il lavandini e si sistemò i
capelli con le dita. Aveva la pelle ricoperta di un sottile strato di
sale e, dopo essersi lavato le mani, si sciacquò anche il viso.
Ora si sentiva meglio. Tornò in cucina mentre una radiolina sul
davanzale trasmetteva le note ma-linconiche di «Yesterday».
«Posso aiutarti adesso?» domandò. Sul banco c’era
un’insalatiera con dentro pezzi di pomodori e olive.
Mentre sciacquava la lattuga, Lexie gli indicò le cipolle. «Ho
quasi finito di preparare l’insalata, ma ti spiacerebbe sbucciare
quelle?»
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«Certo. Vuoi anche che te le sminuzzi?»
«No, non serve. Basta che le sbucci. Il coltello è in quel
cassetto.»
Jeremy prese il coltello e si accinse a sbucciare le cipolle. Per un
attimo rimasero in silenzio, ascoltando la musica. Mentre finiva di
pulire la lattuga Lexie cercava di non fare caso a quanto fossero
vicini, ma non poté evitare di ammirare la grazia disinvolta di
Jeremy, la linea dei suoi fianchi e delle gambe, le spalle larghe, gli
zigomi alti.
Lui sollevò una cipolla sbucciata, ignaro di essere oggetto di
tanta attenzione. «Così va bene?»
«Perfetto», rispose lei.
«Sei sicura che non vuoi che te le tagli?»
«No, se lo facessi, rovineresti il sugo e non te lo perdonerei
mai.»
«Tutti sminuzzano le cipolle. La mia mamma italiana lo fa.»
«Io no.»
«Vuoi dire che metterai queste grosse cipolle tutte intere nel
sugo?»
«No, prima le taglierò a metà.»
«Posso fare almeno quello?»
«No, grazie. Non vorrei metterti alla porta.» Gli sorrise. «E poi,
sono io la cuoca, ricordi? Guarda e impara. In questo momento
immagina di essere… l’apprendista.»
Lui la guardò. Da quando erano rientrati il rossore sulle sue
Lui la guardò. Da quando erano rientrati il rossore sulle sue
guance era sparito, lasciandole la pelle rosea.
«L’apprendista?»
«Che vuoi che ti dica? Tua madre sarà anche italiana, ma io sono
cresciuta con una nonna che ha provato praticamente tutte le
ricette immaginabili.»
«E questo fa di te un’esperta?»
«No, ma Doris lo è, e io sono stata per molto tempo la sua
apprendista. Ho imparato per osmosi, e adesso tocca a te.»
Lui prese la seconda cipolla. «Allora dimmi che cosa c’è di tanto
speciale nella tua ricetta. A parte le cipolle grosse come palle da
baseball.»
Lexie prese la cipolla sbucciata e la tagliò a metà. «Bene, dato
che tua madre è italiana, sono sicura che avrai sentito parlare di
San Marzano.»
«Ma certo», rispose lui. «Sono pomodori. Di San Marzano.»
«Ha-ha, che spiritoso», ribatté lei. «Per la precisione, sono i
pomodori più dolci e profumati, perfetti per il sugo. Adesso,
guarda.»
Tirò fuori un tegame e lo posò da una parte. Poi accese un
fornello e ce lo mise sopra ancora vuoto.
fornello e ce lo mise sopra ancora vuoto.
«Fin qui sono molto colpito», disse lui finendo di sbucciare anche
la seconda cipolla. Prese la birra e tornò ad appoggiarsi al
bancone. «Dovresti avere un programma culinario tutto tuo.»
Ignorando la battuta, lei versò il contenuto dei due barattoli di
pelati nel tegame e poi aggiunse un’intero panetto di burro che
cominciava a sciogliersi.
«Ha l’aria molto sana», commentò. «Il mio medico dice sempre
che avrei bisogno di una dieta con più colesterolo.»
«Te l’ha mai detto nessuno, invece, che hai una spiccata
tendenza al sarcasmo?»
«Mi pare di sì», rispose lui alzando la bottiglia. «Comunque,
grazie per essertene accorta.»
«Hai preparato l’altra cipolla?»
«Sono o non sono l’apprendista?» ribatté lui, porgendogliela.
Lei tagliò a metà anche quella e poi aggiunse tutti e quattro i
pezzi di cipolla nel sugo. Mescolò per un istante con un mestolo
di legno, aspettò che l’intingolo bollisse, quindi abbassò la
fiamma.
«Ecco fatto», disse soddisfatta, tornando al lavandino. «Per ora
«Ecco fatto», disse soddisfatta, tornando al lavandino. «Per ora
abbiamo finito. Sarà pronto tra un’ora e mezzo.»
Mentre si lavava le mani, Jeremy lanciò un’occhiata perplessa al
tegame. «Tutto qui? Niente aglio? Niente sale né pepe? Niente
salsiccia? Niente carne macinata?»
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Lei scrollò il capo. «Soltanto tre ingredienti. Poi la verseremo
sulle linguine e completeremo con una grattata di parmigiano
fresco.»
«Non è molto italiano.»
«Invece, sì. È l’autentica, antica ricetta di San Marzano. Un
paese che si trova in Italia, come tu sai.» Chiuse il rubinetto e si
asciugò le mani con uno strofinaccio. «Visto che abbiamo tempo,
ne approfitterò per fare un po’ di pulizia prima di cena. Ti spiace
se ti lascio da solo?» gli chiese.
«Non preoccuparti per me. Troverò qualcosa da fare.»
«Se vuoi, puoi farti una doccia», disse. «Ti do degli asciugamani
puliti.»
Sentendosi ancora il sale sul collo e sulle braccia, Jeremy accettò
volentieri. «Grazie. Sarebbe fantastico.»
«Bene, vado a prenderli.»
«Bene, vado a prenderli.»
Con un sorriso, Lexie afferrò la birra e gli passò davanti, conscia
del suo sguardo su di sé. Si chiese se anche lui si sentiva
altrettanto imbarazzato.
In fondo al corridoio aprì la porta del ripostiglio, prese un paio di
asciugamani e li posò sul letto nella camera degli ospiti. Sotto il
lavandino del bagno c’era un assortimento di shampoo e una
sapo-netta nuova e tirò fuori anche quelli. Mentre si rialzava,
vide la propria immagine riflessa nello specchio e all’improvviso
si immaginò Jeremy avvolto in una salvietta dopo la doccia.
Quell’immagine la turbò. Fece un lungo respiro, sentendosi
stupida come una ragazzina.
«Ehi?» lo sentì chiamare. «Dove sei?»
«Nel bagno della camera degli ospiti», rispose lei, sorpresa da
quanto suonasse calma la sua vo-ce. Lui le comparve alle spalle.
«Non è che per caso avresti un rasoio da qualche parte?»
«No, mi spiace», rispose lei. «Guarderò nel mio bagno, ma…»
«Non importa», disse Jeremy, passandosi una mano sulla
guancia. «Per stasera mi terrò la barba lunga.»
Andrà benissimo, pensò lei, sentendosi arrossire. Per non tradirsi
si voltò e gli indicò gli shampoo. «Usa pure quello che
preferisci», disse. «Guarda che l’acqua calda impiega un po’ ad
preferisci», disse. «Guarda che l’acqua calda impiega un po’ ad
arrivare, quindi devi avere pazienza.»
«D’accordo», rispose. «Prima però volevo chiederti se posso
usare il telefono. Dovrei fare un paio di chiamate.»
Lei annuì. «È in cucina.»
Mentre gli passava accanto, sentì di nuovo il suo sguardo su di
sé, ma non si voltò per controllare. Entrò invece in camera sua, si
richiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò con la schiena, a
disagio per le strane sensazioni che provava. Non era successo
niente, non sarebbe successo niente, si ripeté. Chiuse a chiave la
porta, sperando che bastasse a tenere lontani certi pensieri. E
funzionò, almeno per un attimo, finché non si accorse che lui le
aveva portato lì la valigia.
Il pensiero che fosse entrato in quella camera pochi istanti prima
le provocò una tale ondata di eccitazione – nonostante i suoi
sforzi per negarlo – infine fu costretta ad ammettere di aver
mentito a se stessa per tutto quel tempo.
Quando Jeremy tornò in cucina dopo la doccia, la stanza era
pervasa dall’aroma del sugo che cuoceva. Finì di bere la birra,
trovò il bidone della pattumiera sotto il lavandino e ci buttò la
bottiglia vuota, quindi ne prese un’altra dal frigorifero. Sul ripiano
inferiore notò un pezzo di parmigiano e un vasetto di olive ancora
sigillato; fu sul punto di prenderne una di nascosto, ma poi ci
ripensò.
Trovato il telefono, compose il numero dell’ufficio di Nate e
glielo passarono subito. Per i primi venti secondi tenne la
cornetta lontana dall’orecchio mentre l’altro dava sfogo alla
propria frustrazione, ma quando alla fine si fu calmato, Nate
reagì positivamente alla sua proposta di organizzare un incontro
per la settimana successiva. Jeremy terminò la chiamata con la
promessa di ritelefonar-gli il mattino seguente.
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Alvin, al contrario, risultò irraggiungibile. Provò una volta e attese
qualche istante dopo essere stato deviato sulla segreteria, poi
riattaccò e riprovò, con lo stesso risultato. L’orologio in cucina
segnava quasi le sei e Jeremy calcolò che Alvin si trovasse da
qualche parte lungo l’autostrada. Sperava di riuscire a parlargli
più tardi.
Non avendo più niente da fare, e dato che Lexie non si vedeva
ancora, uscì dalla porta sul retro e rimase in piedi sulla veranda.
Il freddo era aumentato e il vento continuava a rinforzare.
Sebbene non riuscisse a vedere l’oceano, il fragore delle onde
era incessante e il suo ritmo regolare lo fece cadere quasi in uno
stato di trance.
Dopo un po’, rientrò nel soggiorno buio. Sbirciando in corridoio,
vide una lama di luce che proveniva da sotto la porta della
vide una lama di luce che proveniva da sotto la porta della
camera di Lexie. Non sapendo che cosa fare, accese una
lampada da tavolo vicino al caminetto. Alla fioca luce della
lampada, guardò i titoli dei libri sulla mensola del camino, finché
non si ricordò della sacca che si era portato dietro. Nella fretta
di arrivare lì non aveva ancora dato un’occhiata al taccuino di
Doris. Andò a prenderlo e poi tornò in soggiorno e si accomodò
sulla poltrona. A poco a poco la tensione accumulata sulle spalle
nelle ultime ore cominciò a calare.
Così va bene, pensò. Anzi, benissimo. Quello era il modo in cui
le cose sarebbero dovute rimanere sempre.
Un’oretta prima, sentendo Jeremy chiudere la porta della
camera, Lexie era andata alla finestra e aveva bevuto una sorsata
di birra per calmare i nervi.
La loro conversazione in cucina aveva avuto un tono disinvolto e
superficiale, pensò, si erano tenuti a distanza in attesa che la
situazione si chiarisse. Sapeva che sarebbe dovuta rimanere su
quella strada, una volta tornata di là, ma mentre posava la birra
capì che non voleva affatto mantenere le distanze. Non più.
Pur essendo a conoscenza dei rischi, quando se l’era trovato
davanti all’improvviso tutto in lui l’aveva attratta – la sorpresa di
vederlo arrivare sulla spiaggia, il sorriso pronto e i capelli
spettinati, lo sguardo nervoso e sincero – e in quell’istante
Jeremy era stato sia l’uomo che conosceva sia quello che non
conosceva. Anche se al momento non l’aveva ammesso con se
conosceva. Anche se al momento non l’aveva ammesso con se
stessa, adesso si rendeva conto di voler conoscere la parte che
lui le aveva tenuto nascosta, qualunque fosse e dovunque
portasse.
Fino a due giorni prima non avrebbe mai immaginato che potesse
accadere una cosa del genere.
Era rimasta scottata in passato, e ora si accorgeva di aver
reagito alla sofferenza ritraendosi nella sicurezza della solitudine.
Ma una vita priva di rischi non era una vita vera e, se voleva
cambiare, tanto valeva cominciare subito.
Dopo la doccia, si sedette sul ciglio del letto e aprì la valigia per
prendere una crema per il corpo. Se la spalmò lentamente
dappertutto, gustando la sensazione di freschezza sulla pelle.
Non si era portata niente di speciale da indossare; nella fretta di
partire aveva gettato nella valigia quello che le era capitato
sottomano, e così frugò tra gli indumenti finché trovò i suoi jeans
preferiti. Tutti scoloriti, erano lisi sulle ginocchia e avevano l’orlo
sfrangiato, ma i numerosi lavaggi avevano ammorbidito e
assottigliato la tela e adesso le aderivano alla figura in maniera
molto sen-suale. Era sicura che anche Jeremy se ne sarebbe
accorto, e l’idea le provocò un segreto brivido di piacere.
Poi si infilò una camicia bianca a maniche lunghe, che lasciò fuori
dai calzoni. Arrotolò le maniche fino ai gomiti e tenne un bottone
slacciato, mostrando un accenno di scollatura.
Si asciugò i capelli con il phon e se li spazzolò. Quanto al trucco,
si accontentò di quello che aveva: fard, eyeliner e rossetto.
Peccato che non avesse portato anche del profumo, ma non
poteva farci niente.
Quando fu pronta, si guardò allo specchio, sistemandosi la
camicia fino a essere soddisfatta del risultato. Sorridendo, cercò
di ricordare l’ultima volta che aveva nutrito sincero interesse
nell’appa-rire bella.
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Jeremy era seduto accanto al camino con i piedi appoggiati al
tavolino e quando lei entrò nella stanza, alzò lo sguardo e rimase
a fissarla a bocca aperta.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non ci riusciva, né riusciva a
staccare gli occhi da lei. E di colpo si rese conto del perché
fosse stato tanto importante ritrovarla. Non aveva avuto scelta,
perché sapeva di essersi innamorato di lei.
«Sei… incredibile», mormorò dopo un po’.
«Grazie», rispose Lexie, esaltata dalla sensazione che le
provocava la sua voce arrochita. I loro occhi si incontrarono e in
quel momento lei capì che il messaggio che leggeva nel suo
sguardo ri-specchiava il proprio.
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Per un attimo rimasero entrambi immobili, poi Lexie fece un
lungo respiro e distolse lo sguardo.
Ancora scossa, alzò la bottiglia vuota che reggeva in mano.
«Credo che mi ci voglia un’altra di queste», disse abbozzando un
sorriso. «Ne vuoi una anche tu?» Jeremy si schiarì la voce.
«Grazie, l’ho già presa.»
«Torno tra un istante. Vado a vedere se è pronto il sugo.»
Lexie si avviò in cucina con le gambe deboli e si fermò davanti ai
fornelli. Il mestolo aveva lasciato una macchia di pomodoro sul
bancone e, dopo aver mescolato il sugo, lo rimise esattamente
nello stesso punto. Poi, aperto il frigorifero, prese una birra e il
vasetto di olive e li appoggiò sul piano. Cercò di aprire il vasetto,
ma le tremavano le mani.
«Ti serve aiuto?» le chiese Jeremy.
Lei alzò gli occhi, sorpresa. Non lo aveva sentito entrare e si
chiese se il suo stato d’animo fosse tanto evidente.
«Se non ti spiace», rispose.
Jeremy le prese il vasetto di mano. Lei osservò il guizzo dei
Jeremy le prese il vasetto di mano. Lei osservò il guizzo dei
muscoli del suo avambraccio mentre girava la capsula di
chiusura. Poi aprì anche la bottiglia di birra e gliela porse.
Lui non la guardava, né sembrava voler aggiungere altro. Nel
silenzio della cucina, lo vide appoggiarsi al bancone. La luce era
accesa, ma il buio della sera aveva avvolto la stanza nella
penom-bra.
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Lexie bevve una sorsata di birra, gustandone il sapore,
assaporando tutto di quella serata: il proprio aspetto e il proprio
stato d’animo, il modo in cui lui prima l’aveva guardata. Era
abbastanza vicina da poterlo toccare, se avesse voluto e per un
istante fu sul punto di farlo, poi cambiò idea e si girò verso la
credenza.
Prese l’olio e l’aceto balsamico e li versò in una ciotolina assieme
a sale e pepe.
«C’è un profumino delizioso», osservò Jeremy.
Dopo aver preparato il condimento, lei versò le olive in un’altra
ciotola. «Manca ancora un po’
per la cena», disse. Parlare la faceva sentire più sicura. «Siccome
non contavo di avere compagnia, dovremo accontentarci di
queste come aperitivo. Se fosse estate, potremmo sederci in
queste come aperitivo. Se fosse estate, potremmo sederci in
veranda, ma ci ho provato prima e si muore di freddo. E devo
anche avvisarti che le sedie in cucina non sono troppo comode.»
«Il che significa?»
«Ti va di tornare in soggiorno?»
Jeremy la precedette e si fermò accanto alla poltrona per
recuperare il taccuino mentre Lexie si sedeva sul divano. Posò le
olive sul tavolino, quindi cercò una posizione comoda. Quando
lui le si mise accanto, lei avvertì il profumo dello shampoo che
aveva usato. Dalla cucina arrivavano le note fioche della radio
accesa.
«Vedo che hai il taccuino di Doris», disse lei.
Jeremy annuì. «Sì, me l’ha prestato.»
«E?»
«Ho dato un’occhiata solo alle prime pagine. Ma ci sono molti
più particolari di quanto pensassi.» «Adesso credi al fatto che
abbia indovinato il sesso di tutti quei bambini?»
«No», rispose lui. «Come ti ho detto, potrebbe aver annotato in
seguito solo le previsioni azzec-cate.»
Lexie sorrise. «E come spieghi le differenze tra le varie
annotazioni? A volte a penna, altre a matita, certe volte
frettolose, certe altre più ordinate?»
«Non sto dicendo che il taccuino non mi convince», rispose, «ma
solo che non si può prevedere il sesso di un nascituro tenendo la
mano di una persona.»
«Lo credi tu.»
«No, è impossibile.»
«Non vorrai dire statisticamente improbabile?»
«No», ribadì lui. «Impossibile.»
«D’accordo, signor Scettico. E la sua indagine come va?»
Jeremy iniziò a staccare l’etichetta della bottiglia con il pollice.
«Bene», rispose. «Se non ti dispiace, però, vorrei finire di dare
un’occhiata ai diari in biblioteca. Magari troverò qualche cosa
che dia un po’ di sugo alla storia.»
«Hai scoperto la causa del fenomeno?»
«Sì», rispose lui. «Adesso non mi resta che dimostrarlo. Spero
che il tempo collabori.»
«Stai tranquillo», lo rassicurò lei. «È prevista nebbia per tutto il
fine settimana. L’ho sentito prima alla radio.»
fine settimana. L’ho sentito prima alla radio.»
«Bene. Purtroppo, però, la soluzione non è affascinante quanto
la leggenda.»
«Comunque, è valsa la pena venire quaggiù?»
Lui annuì. «Senza dubbio», mormorò. «Non mi sarei perso
questo viaggio per niente al mondo.» Dal tono in cui lo disse, lei
capì che cosa intendeva veramente e si voltò verso di lui. Posò la
mano sul mento e mise una gamba sul divano, soddisfatta di
quanto fosse intima l’atmosfera, di quanto lui la facesse sentire
desiderabile.
«Allora, qual è la soluzione?» chiese sporgendosi in avanti. «Non
vuoi dirmelo?»
La lampada alle sue spalle la circondava di un alone soffuso e i
suoi occhi brillavano violetti sotto le lunghe ciglia.
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«Preferirei fartelo vedere», rispose lui.
Lei sorrise. «Dato che comunque ti riporterò indietro io. È
questo che intendi?»
«Esatto.»
«E quando vuoi tornare?»
«E quando vuoi tornare?»
«Domani, se possibile.» Scrollò la testa, cercando di riprendere il
controllo delle emozioni. Non voleva rovinare tutto, non voleva
essere troppo esplicito, ma il suo unico desiderio era stringerla
tra le braccia. «Devo vedermi con Alvin. È un mio amico, un
cameraman di New York. Sta venendo qui per fare qualche
ripresa professionale.»
«Viene a Boone Creek?»
«Veramente credo che stia arrivando in città proprio in questo
momento.»
«Adesso? Non dovresti essere lì ad aspettarlo?»
«Forse sì», rispose lui.
Lei rifletté sulla sua risposta, commossa dalle difficoltà che aveva
affrontato per raggiungerla.
«Va bene», rispose. «Possiamo prendere il traghetto della
mattina. Arriveremo in città intorno alle dieci.»
«Grazie», disse lui.
«Domani sera avete intenzione di fare delle riprese?»
Lui annuì. «Ho lasciato un biglietto per Alvin dicendogli di andare
al cimitero stasera, ma dobbiamo fare delle riprese anche
altrove. Domani sarà una giornata piena.»
«E domani sera ci sarà il ballo sull’aia, ricordi? Mi sembra che
avessimo fatto il patto che, se ri-solvevi il mistero, io avrei ballato
con te.»
Jeremy chinò la testa. «Farò il possibile per venirci. Credimi, non
c’è nulla che mi farebbe più piacere.»
Rimasero in silenzio.
«Quando hai intenzione di ripartire per New York?» chiese lei
dopo un po’.
«Sabato. Devo essere in città per un incontro la settimana
prossima.»
Quelle parole le provocarono una stretta al cuore. Pur sapendo
che era inevitabile, sentirglielo dire le causò una profonda
sofferenza. «Torni alla vita eccitante, eh?»
Lui scrollò il capo. «La mia vita a New York è tutt’altro che
eccitante. La maggior parte del tempo la passo a lavorare, a fare
ricerche, oppure a scrivere. E sono attività solitarie. A essere
sincero, a volte può essere molto solitario lì.»
Lei lo guardò scettica. «Non cercare di farmi compassione,
perché non ci casco.»
perché non ci casco.»
Jeremy le lanciò un’occhiata. «E se ti parlassi dei miei sinistri
vicini di casa? Proveresti un briciolo di pietà?»
«No.»
Lui rise. «Al contrario di ciò che puoi pensare, non abito a New
York per il divertimento, ma perché c’è la mia famiglia, perché
mi ci trovo bene. Perché è casa mia. Proprio come Boone
Creek lo è per te.»
«Immagino che tu abbia un buon rapporto con la tua famiglia.»
«Sì, infatti», confermò lui. «Ci ritroviamo quasi tutti i fine
settimana a casa dei miei, nel Queens, per i classici pranzi in
famiglia. Mio padre ha avuto un infarto qualche anno fa e se l’è
cavata per un pelo, però queste riunioni gli piacciono un sacco.
C’è sempre una confusione bestiale: bambini che corrono qua e
là, la mamma in cucina, i miei fratelli con le mogli a chiacchierare
in giardino. Ovviamente, abitano tutti vicini, così si ritrovano
ancora più spesso di me.»
Lei bevve un sorso di birra, cercando di immaginarsi la scena.
«Dev’essere bello.»
«Infatti. A volte, però, è dura.»
Lei lo guardò. «Non capisco.»
Lei lo guardò. «Non capisco.»
Lui rimase in silenzio ruotando la bottiglia tra le mani. «Certe
volte non capisco nemmeno io», ammise.
Forse fu il modo in cui lo disse che la spinse a restare in silenzio.
Rimase a guardarlo intensamente, in attesa che proseguisse.
120
«Hai mai avuto un sogno?» le chiese. «Qualcosa che avevi
desiderato sopra ogni altra e che, quando stavi per raggiungerla,
ti è stata portata via?»
«Tutti abbiamo dei sogni che non si avverano», rispose lei con
voce diffidente.
Lui curvò le spalle. «È vero», ammise. «Hai ragione.»
«Sì, però potresti spiegarti meglio.»
«C’è una cosa che non sai di me», esordì lui, voltandosi a
guardarla.
Quelle parole la misero in allarme. «Sei sposato», disse,
appoggiandosi all’indietro.
Lui scrollò il capo. «No.»
«Allora hai un’altra a New York ed è una storia seria.»
«Allora hai un’altra a New York ed è una storia seria.»
«Nemmeno questo, no.»
Lei lo fissò e le parve di vedere un’ombra di dubbio
attraversargli il viso.
«Non importa», si affrettò a dire. «Comunque non sono affari
miei.»
Lui scrollò il capo e si sforzò di sorridere. «Ci sei andata vicina la
prima volta», disse. «Sono stato sposato. E ho divorziato.»
Aspettandosi qualcosa di molto peggio, lei fu sul punto di
sorridere, ma la sua espressione acci-gliata la bloccò.
«Si chiamava Maria. All’inizio eravamo come cane e gatto, e
nessuno riusciva a capire che cosa ci legasse. Ma scavando
sotto la superficie, condividevamo gli stessi valori e le stesse
convinzioni per quanto riguarda le cose importanti nella vita.
Compreso il desiderio di avere dei figli. Lei ne voleva quattro, io
cinque.» Esitò vedendo l’espressione incredula di lei. «Lo so che
al giorno d’oggi sono tanti, ma entrambi provenivamo da una
famiglia numerosa.» Fece un’altra pausa. «All’inizio non
sapevamo che ci fosse un problema, ma dopo sei mesi lei non
era ancora rimasta incinta, e così facemmo qualche esame. Lei
era a posto, ma venne fuori che, per qualche ragione, io non lo
ero.
Non ci venne data nessuna spiegazione, nessun possibile
rimedio. Il dottore ci disse che a volte poteva capitare. Dopo
quella notizia, lei decise di rompere il matrimonio. E adesso…
voglio dire, amo la mia famiglia, sto bene con loro, ma quando li
incontro mi viene sempre in mente la famiglia che io non potrò
mai avere. So che può sembrare strano, però dovresti essere nei
miei panni per capire quanto volessi dei figli.»
Quando terminò, Lexie rimase a guardarlo, riflettendo su quello
che le aveva detto. «Tua moglie ti ha lasciato perché avete
scoperto che non potevi avere dei figli?» sintetizzò poi.
«Non subito. Ma alla fine è stato così.»
«E i medici non vi hanno consigliato nessuna cura?»
«No.» Sembrava quasi imbarazzato. «Cioè, non dissero che era
del tutto impossibile che io avessi un figlio, ma mi fecero capire
che probabilmente non sarebbe mai successo. E per lei fu
abbastanza.»
«Non avete pensato all’adozione? Oppure a trovare un
donatore? O…»
Jeremy scrollò il capo. «So che è facile giudicarla senza cuore,
ma non era così», rispose. «Bisognava conoscerla bene per
capirla. Era cresciuta con l’idea di diventare madre. Dopo tutto,
le sue sorelle stavano avendo figli una dopo l’altra e anche lei li
le sue sorelle stavano avendo figli una dopo l’altra e anche lei li
avrebbe avuti, con un marito diverso.»
Alzò gli occhi verso il soffitto. «Per molto tempo non ho voluto
crederci. Non volevo pensare di essere imperfetto, ma era così.
So che può sembrare ridicolo, ma da allora mi sono sentito
meno uo-mo. Come se non fossi degno di nessuna donna.»
Proseguì in tono più distaccato. «Certo, avremmo potuto
adottare un bambino; avremmo potuto trovare un donatore. Le
proposi tutte queste soluzioni. Ma lei non se la sentiva. Voleva
essere incinta, voleva sperimentare il parto, e va da sé che
voleva che il figlio fosse di suo marito. Da quel momento in poi le
cose tra di noi cominciarono a deteriorarsi. Non fu solo per
colpa sua. Anch’io cam-biai. Ero lunatico… cominciai a stare via
sempre più spesso per lavoro… non so… forse sono stato io ad
allontanarla.»
Lexie rimase a guardarlo a lungo. «Perché me lo racconti?»
Lui bevve un sorso di birra e tornò a grattare l’etichetta con
l’unghia. «Forse perché voglio che tu sappia che cosa ti aspetta
con uno come me.»
121
Questa risposta la fece avvampare. Scrollò la testa e si voltò
dall’altra parte.
«Non dire quello che non pensi.»
«Che cosa ti fa credere che non lo pensi?»
Fuori ci fu una folata di vento, e lei udì il tintinnio delle
campanelle vicino alla porta.
«Perché è così. Non sei fatto in questo modo, e non c’entra
quello che mi hai appena detto. Io e te… siamo diversi, per
quanto tu voglia credere il contrario. Tu sei là, io qui. Tu hai una
famiglia numerosa che vedi spesso, io ho soltanto Doris e lei ha
bisogno di me qui, soprattutto adesso, con le sue condizioni di
salute. A te piacciono le metropoli, a me le città di provincia. Hai
una carriera che ti piace e io… ecco, io ho la biblioteca e
anch’io amo il mio lavoro. Se uno dei due fosse costretto a
rinunciare…» Chiuse brevemente gli occhi. «So che alcune
persone ci riescono, ma è un compito ingrato quando si tratta di
costruire un rapporto. Tu stesso hai detto di esserti innamorato
di Maria perché condividevate gli stessi valori, gli stessi desideri.
Ma tra di noi, uno dei due dovrebbe sacrifi-carsi. E io non voglio
farlo, non potrei nemmeno pretenderlo da te.»
Abbassò lo sguardo e, nel silenzio che seguì, lui sentì il ticchettio
dell’orologio sopra il camino.
Il suo bel viso era ammantato di tristezza e Jeremy venne assalito
all’improvviso dalla paura di perdere l’unica occasione che
aveva con lei. Allungò il braccio e le girò il viso, costringendola a
aveva con lei. Allungò il braccio e le girò il viso, costringendola a
guardarlo.
«E se io non lo ritenessi un sacrificio?» disse. «Se ti dicessi che
preferirei stare con te piuttosto che tornare alla mia vecchia
vita?»
Il tocco delle sue dita sulla pelle le trasmise una scarica elettrica.
Cercando di ignorare quella sensazione, lei parlò con voce
ferma.
«Allora ti risponderei che anch’io sono stata benissimo negli
ultimi due giorni. Che il modo in cui hai partecipato alla
riunione… ecco, è stato fantastico. E sì, mi piacerebbe che ci
fosse un modo per far funzionare le cose. E poi che sono
lusingata.»
«Ma non vuoi provarci.»
Lexie scrollò la testa. «Jeremy… io…»
«Non importa», la interruppe lui. «Capisco.»
«No, non capisci», ribatté lei. «Hai sentito quello che ho detto
ma non mi hai ascoltato. Vorrei tanto che potesse funzionare tra
di noi. Tu sei intelligente, gentile e affascinante…» Si interruppe,
incerta. «È vero, a volte sei un po’ troppo sfacciato…»
Nonostante la tensione, lui fu costretto a ridere. Lei proseguì,
Nonostante la tensione, lui fu costretto a ridere. Lei proseguì,
scegliendo con cura le parole.
«Il fatto è che gli ultimi due giorni sono stati incredibili, ma io ho
delle esperienze nel mio passato che mi hanno lasciato ferita»,
disse. Brevemente e in tono neutro gli raccontò del Ragazzo di
Chicago, che l’aveva lasciata per tornarsene nella sua città.
Quando ebbe terminato, si sentiva quasi in colpa. «Forse è per
questo che tendo a essere pragmatica. Non sto dicendo che
anche tu sparirai come lui, ma sinceramente puoi garantirmi che
proveremmo lo stesso sentimento reciproco se tutte le volte
dovessimo viaggiare per stare insieme?»
«Sì», rispose lui con voce ferma. «Te lo garantisco.»
Quella risposta sembrò quasi rattristarla. «Puoi dirlo adesso, ma
domani? E tra un mese?»
Il vento fuori soffiava tra le assi del bungalow. La sabbia sferzava
le finestre e le tende erano mosse dagli spifferi nei vecchi infissi.
Jeremy la guardò e si rese conto ancora una volta di amarla.
«Lexie», mormorò. «Io…»
Intuendo che cosa stava per dire, lei alzò le mani per fermarlo.
«Per favore, non farlo. Non sono ancora pronta, va bene? Per
adesso, godiamoci la cena. D’accordo?» Esitò e poi posò la
bottiglia di birra sul tavolino. «Ora sarà meglio che vada a
bottiglia di birra sul tavolino. «Ora sarà meglio che vada a
mettere sul fuoco l’acqua per la pasta.»
Oppresso da un peso sul cuore, Jeremy la osservò alzarsi dal
divano. Lei si fermò sulla porta della cucina e si voltò ad
affrontarlo.
«E tanto perché tu lo sappia, penso che il comportamento della
tua ex moglie sia stato orribile e che lei non sia affatto una
persona positiva come tu hai cercato di dipingerla. Non si lascia
un marito per un problema del genere, e il fatto che tu riesca a
parlarne ancora bene dimostra che è stata lei 122
a sbagliare. Credimi… so che cosa comporta essere un buon
genitore. Avere dei figli significa occuparsi di loro, crescerli,
amarli e sostenerli, e niente di tutto ciò ha a che fare con chi li ha
concepiti, né con l’esperienza della gravidanza.»
Si voltò verso la cucina e scomparve. La radio trasmetteva le
note di «I’ll Be Seeing You» di Billie Holiday. Con un groppo in
gola Jeremy si alzò per seguirla, sapendo che quel momento
poteva non tornare mai più. Aveva capito all’improvviso che
Lexie era stata la ragione della sua venuta a Boone Creek; lei era
la risposta che aveva cercato per tutto quel tempo.
Si appoggiò allo stipite della cucina e la guardò mentre metteva
sul fuoco un’altra pentola.
«Grazie di quello che hai detto.»
«Grazie di quello che hai detto.»
«Figurati», rispose lei senza alzare gli occhi. Cercava di mostrarsi
forte di fronte alla stesse emozioni che agitavano anche lui e
l’ammirava sia per la sua passione che per il suo riserbo.
Tuttavia, fece un passo verso di lei, sapendo di dover correre il
rischio.
«Scusa, dato che non so se ce la farò a venire domani sera»,
disse porgendole la mano, «vuoi ballare con me?»
«Qui?» Lei alzò lo sguardo sbigottita, il cuore in tumulto.
«Adesso?»
Senza aggiungere altro, lui la raggiunse e le prese la mano.
Sorridendo, se la portò alla bocca e le baciò le dita prima di
metterla in posizione. Poi, con gli occhi fissi nei suoi, la cinse in
vita con l’altro braccio e l’avvicinò a sé. Le accarezzò con il
pollice il dorso della mano, sussurrò il suo no-me, e lei si lasciò
guidare.
La melodia si diffondeva in sottofondo, mentre loro giravano
lentamente in cerchio. Dapprinci-pio Lexie si sentiva un po’ in
imbarazzo, ma poi si rilassò abbandonandosi al calore del suo
corpo.
Il suo respiro le scaldava il collo, mentre la sua mano scendeva
ad accarezzarle la schiena; lei chiuse gli occhi e gli si strinse
contro, appoggiandogli la testa sulla spalla e sentendo scivolare
contro, appoggiandogli la testa sulla spalla e sentendo scivolare
via anche l’ultima briciola di determinazione. Era quello che
aveva desiderato fin dall’inizio e ora entrambi si muovevano a
ritmo con la musica nella minuscola cucina, persi l’uno nell’altra.
Le onde sulla spiaggia continuavano a infrangersi senza sosta e il
vento sferzava il bungalow per poi sparire nella notte sempre più
buia. Il sugo sobbolliva piano sul fornello.
Quando alla fine della canzone lei alzò il capo per guardarlo in
viso, lui la cinse con le braccia.
Le sfiorò le labbra con le sue, prima di premerle con più
decisione. Si ritrasse e poi la baciò di nuovo, e stavolta lei
rispose al bacio, lasciandosi avvolgere dal suo abbraccio. La sua
lingua umida la inebriava e gli mise una mano sul volto per
accarezzargli la barba corta e ispida sulla guancia. Lui reagì
baciandole il viso e affondando la testa nel suo collo.
Continuarono a baciarsi a lungo così, con intensità e senza fretta,
finché Lexie si staccò dall’abbraccio. Spense i fornelli e poi,
prendendolo per mano, lo condusse verso la camera da letto.
Fecero l’amore lentamente. Mentre si muoveva sopra di lei, lui le
sussurrava il proprio amore e ripeteva il suo nome come una
preghiera. Le sue mani non si fermavano mai, come se volesse
dimostrare a se stesso che lei era vera. Rimasero a letto per ore,
facendo l’amore, ridendo piano, acca-rezzandosi.
Alla fine Lexie si alzò e s’infilò un accappatoio; Jeremy si mise i
jeans e tornarono insieme in cucina per finire di preparare da
mangiare. Lei accese una candela e lui ammirò il suo viso radioso
alla luce della fiamma mentre gustava quella cena deliziosa. Per
qualche motivo, il fatto di mangiare insieme in cucina, lui senza
camicia e lei nuda sotto l’accappatoio, sembrava quasi più intimo
di quanto fosse successo prima.
Dopo la cena, tornarono a letto e Jeremy la strinse a sé, felice di
tenerla tra le braccia. Quando infine Lexie si addormentò, lui
vegliò sul suo sonno. Di tanto in tanto le scostava i capelli dagli
occhi, rivivendo quella serata, ricordandone ogni particolare con
l’assoluta certezza di aver incontrato la donna con la quale
voleva trascorrere il resto della vita.
Poco prima dell’alba Jeremy si svegliò e si accorse che Lexie
non era più con lui nel letto. Si mise seduto, tastò le coperte per
accertarsene, poi si alzò e si infilò i jeans. I vestiti di lei erano
ancora sul pavimento, ma mancava l’accappatoio. Jeremy
rabbrividì leggermente per il freddo, poi incrociò le braccia e si
avviò per il corridoio.
123
La trovò seduta nella poltrona davanti al camino, una tazza di
latte posata sul tavolino accanto a lei. Teneva in grembo il
taccuino di Doris aperto verso l’inizio, ma non stava leggendo.
Aveva lo sguardo perso nel nulla fuori della finestra.
Si avvicinò piano, facendo scricchiolare le assi del pavimento e
lei trasalì. Quando lo vide, gli sorrise.
«Ciao», disse.
Nella luce fioca, Jeremy intuì che qualcosa non andava. Si
sedette sul bracciolo e le cinse le spalle con un braccio.
«Stai bene?» mormorò.
«Sì», rispose lei.
«Che cosa stai facendo qui nel cuore della notte?»
«Non riuscivo a dormire», rispose. «E poi, tra poco dobbiamo
muoverci, se vogliamo prendere il traghetto.»
Lui annuì, anche se la sua risposta non lo convinceva.
«Ce l’hai con me?»
«No», rispose lei.
«Ti penti per ciò che è successo?»
«No», ripeté. «Non è nemmeno questo.» Non aggiunse altro e
Jeremy la strinse a sé, cercando di crederle.
«Un libro interessante», disse per cambiare argomento. «Spero
di poterlo leggere con calma più tardi.»
Lexie sorrise. «Era da parecchio tempo che non lo aprivo.
Vederlo qui mi ha fatto tornare in mente molti ricordi.»
«Ah sì?»
Lexie esitò, poi indicò sulle sue ginocchia la pagina aperta.
«Quando lo hai guardato ieri, eri già arrivato a questo punto?»
«No», rispose lui.
«Leggilo.»
Jeremy lesse rapidamente. Per molti versi l’annotazione era
identica a tutte le altre. I nomi di battesimo dei genitori, l’età, lo
stato della gravidanza e poi il fatto che si trattava di una bambina.
Quando ebbe finito, la guardò.
«Non ti dice niente?» gli chiese.
«Non capisco che cosa mi stai chiedendo», ammise lui.
«I nomi Jim e Claire non significano niente per te?»
«No.» Lui la guardò in viso. «Dovrebbero?»
Lexie abbassò gli occhi. «Erano i miei genitori», disse a bassa
voce. «Questa è l’annotazione che prevedeva che sarei stata una
femmina.»
Jeremy la fissò, perplesso.
«Stavo pensando a questo», proseguì lei. «Crediamo di
conoscerci, ma tu non sai nemmeno il nome dei miei genitori. Né
io quello dei tuoi.»
Lui provò una stretta alla bocca dello stomaco. «E questo ti
preoccupa? Il fatto che non pernsi che ci conosciamo
abbastanza?»
«No», ribatté lei. «Quello che mi preoccupa è che non so se
riusciremo mai a conoscerci bene.»
E poi, con una tenerezza che gli straziò il cuore, lo abbracciò
stretto. Rimasero lì per un po’ sulla poltrona, desiderando
entrambi che quel momento potesse durare per sempre.
124
16
«E lui sarebbe il tuo amico?» chiese Lexie.
Indicò discretamente la cella di detenzione. Pur essendo vissuta a
Boone Creek per tutta la vita, non aveva mai avuto l’onore di
visitare il carcere della contea… fino a quel giorno.
Jeremy annuì. «Normalmente non si comporta così», le bisbigliò.
Quel mattino presto, avevano preso le loro cose e chiuso il
bungalow sulla spiaggia, entrambi ri-luttanti ad abbandonarlo.
Una volta scesi dal traghetto a Swan Quarter, il segnale del
cellulare di Jeremy era stato sufficiente per fargli ascoltare i
messaggi in segreteria. Nate gliene aveva lasciati quattro relativi
all’incontro della settimana successiva; Alvin, invece, solo uno
affannoso, in cui diceva di essere stato arrestato.
Lexie aveva accompagnato Jeremy alla sua auto, poi lui l’aveva
seguita fino a Boone Creek, preoccupato per Alvin, ma anche
per lei. Il suo umore sconcertante, iniziato prima dell’alba, era
rimasto tale anche nelle ore successive. Sebbene non si fosse
sottratta quando lui l’aveva abbracciata sul traghetto, era rimasta
zitta a guardare le acque dello stretto di Pamlico. Non aveva
sorriso né aveva reagito quando le aveva stretto la mano.
Stranamente, per tutto il tempo aveva continuato a raccontargli
dei numerosi naufragi avvenuti al largo della costa e, quando lui
dei numerosi naufragi avvenuti al largo della costa e, quando lui
aveva provato a spostare la conversazione su temi più personali,
lei aveva cambiato argomento oppure non aveva risposto affatto.
Intanto Alvin languiva nella prigione della contea, con l’aria –
almeno agli occhi di Lexie – di essersi meritato quel trattamento.
Indossava una maglietta dei Metallica nera, pantaloni e giacca di
pelle e un nbracciale di cuoio con le borchie e li fissava con gli
occhi spalancati e il viso congestio-125
nato. «Cioè, mi spieghi che razza di città è questa? Succede mai
qualcosa di normale qui?» Era sbottato in quel modo all’arrivo di
Lexie e Jeremy e aveva le nocche delle dita bianche a furia di
stringere le sbarre. «Senti, per favore, vuoi farmi uscire di qui?»
Rodney stava in piedi alle loro spalle con aria corrucciata, a
braccia conserte, ignorando del tutto Alvin come aveva fatto
nelle ultime otto ore. Quel tizio sbraitava troppo per i suoi gusti,
e poi lui era molto più interessato a Jeremy e Lexie. Secondo
Jed, City Boy non era tornato al Greenleaf la sera prima e
sapeva che lei non aveva dormito a casa sua. Poteva trattarsi di
una coincidenza, ma ne dubitava, il che voleva dire che
probabilmente avevano trascorso la notte insieme. La cosa non
gli piaceva affatto.
«Sono sicuro che troveremo una soluzione», disse Jeremy
conciliante, non volendo irritare ulteriormente Rodney. Gli era
parso profondamente contrariato dal loro arrivo. «Ora dimmi
che cosa è successo.»
«Vuoi sapere che cosa è successo?» ripeté Alvin alzando la
voce. Aveva lo sguardo allucinato.
«Te lo dico io. Questo posto è uno schifo, ecco cosa è
successo! Prima mi sono perso mentre cercavo di trovare questa
stupida città. Stavo guidando sull’autostrada, ho superato un
paio di distributori e ho continuato diritto. Lì non sembra che ci
sia una città, no? E poi mi sono perso per ore nel bel mezzo di
un acquitrino. Sono riuscito a tornare indietro solo alle nove. E
ho pensato che qualcuno avrebbe saputo dirmi dov’era il
Greenleaf, giusto? Cioè, che problema poteva esserci? Città
piccola, unico posto per dormire e così via. E invece no, mi sono
perso di nuovo! E questo dopo che un benzinaio mi aveva
rintronato per mezz’ora a furia di chiacchiere…»
«Tully», lo interruppe Jeremy.
«Cosa?»
«Il tizio con cui hai parlato.»
«Sì, può darsi… così alla fine arrivo al Greenleaf, giusto? E quel
tipo gigantesco e peloso non mi accoglie proprio
amichevolmente, anzi, mi guarda male, mi rifila un tuo messaggio
e mi ficca in una camera piena di animali morti…»
«Le camere sono tutte così.»
«E chi se ne frega!» brontolò Alvin. «E, ovviamente, figuriamoci
se tu ti fai vedere…»
«Scusami.»
«Vuoi lasciarmi finire?» abbaiò Alvin. «Bene, leggo il messaggio
e seguo le tue indicazioni fino al cimitero, dove arrivo giusto in
tempo per vedere le luci ed è fantastico, sai. Per la prima volta
do-po ore non sono esasperato, giusto? Così mi dirigo verso
quel posto, il Lookilu, per bere qualcosa. È
l’unico locale aperto a quell’ora. Ci sono solo un paio di persone
dentro, e mi metto a chiacchierare con una certa Rachel. Va
tutto alla grande. Ce la spassiamo e poi entra questo tizio, che
sembra abbia appena inghiottito un porcospino…» Indicò
Rodney, che sorrise senza scoprire i denti.
«Come che sia, poco dopo torno verso la macchina e poi mi
ritrovo questo tizio che batte con la torcia sul mio finestrino e mi
dice di scendere dall’auto. Io gli chiedo perché e lui mi ripete di
scendere. E poi inizia a domandarmi quanto ho bevuto e sostiene
che forse non dovrei guidare. Io gli di-co che sto bene e che
sono venuto per lavorare con te… e a quel punto mi ritrovo
chiuso in cella! Adesso, fammi uscire!»
Lexie si voltò. «È andata così, Rodney?»
Lui si schiarì la gola. «Fino a un certo punto. Si è dimenticato di
raccontare la parte in cui mi ha chiamato grosso e ottuso sceriffo
di provincia e ha detto che mi avrebbe denunciato per abuso di
potere, se non lo lasciavo andare. Mi è sembrato così
irragionevole che ho pensato fosse drogato o ri-schiasse di
diventare violento, così l’ho portato dentro per il suo bene. Ah, e
poi mi ha chiamato anche stupido ammasso di muscoli.»
«Mi stavi perseguitando! Non avevo fatto niente!»
«Volevi guidare dopo aver bevuto.»
«Un paio di birre! Avevo bevuto un paio di birre!» Alvin aveva
di nuovo l’aria stralunata.
«Chiedi al barista! Te lo dirà lui!»
«L’ho già fatto», disse Rodney, «e mi ha detto che ti sei scolato
sette bicchieri.»
126
«Mente!» gridò Alvin, girando lo sguardo allucinato su Jeremy.
Appoggiò il viso alle sbarre, l’espressione stravolta. «Erano un
paio di birre! Lo giuro, Jeremy! Non mi sarei messo al volante se
avessi bevuto troppo. Lo giuro sulla Bibbia di mia madre!»
Jeremy e Lexie guardarono Rodney. «Stavo solo facendo il mio
Jeremy e Lexie guardarono Rodney. «Stavo solo facendo il mio
lavoro.»
«Il tuo lavoro! Il tuo lavoro!» esclamò Alvin. «Arrestare degli
innocenti! Qui siamo in America, e non puoi farlo! Ma vedrai!
Quando avrò finito con te, non potrai più nemmeno fare la
guardia giu-rata davanti al supermercato! Mi hai sentito!
Nemmeno davanti al supermercato!»
Era chiaro che le cose tra i due erano andate avanti così per tutta
la notte.
«Lasciami parlare con Rodney», mormorò Lexie alla fine.
Quando lei uscì con il vicesceriffo, Alvin si chetò.
«Ti tireremo fuori di qui», gli assicurò Jeremy.
«Non ci sarei dovuto finire proprio!»
«Lo so, ma con il tuo comportamento non hai certo mogliorato la
situazione.»
«Lui mi sta perseguitando!»
«Lo so, però lascia che ci pensi Lexie. Se ne occuperà lei.»
Fuori in corridoio, Lexie si girò a guardare Rodney. «Che cosa
sta succedendo veramente?» gli chiese.
Lui evitò di incontrare il suo sguardo, e tenne gli occhi fissi verso
la cella.
«Dove sei stata stanotte?» le chiese.
Lei incrociò le braccia. «Ero al bungalow sulla spiaggia.»
«Con lui?»
Lexie esitò, cercando la risposta migliore. «Non ci sono andata
con lui, se è questo che intendi.»
Rodney annuì in silenzio, come se sapesse che lei non gli aveva
detto tutto, ma preferisse non insistere.
«Perché lo hai arrestato? Sinceramente.»
«Non volevo. Se l’è cercata lui.»
«Rodney…»
Lui si voltò verso di lei e chinò il mento sul petto.
«Ronzava intorno a Rachel, e sai come diventa lei quando beve:
tutta civettuola e senza un briciolo di buonsenso. Sì, lo so che
non è affar mio, ma qualcuno deve pur darle un occhio.» Fece
una pausa. «Comunque, quando è uscito, sono andato a parlargli
per capire se per caso dopo aveva intenzione di passare a casa
di Rachel e che genere di persona era, e lui ha cominciato a
insultarmi. Io non ero dell’umore migliore…»
Lexie ne conosceva la ragione, e quando Rodney s’interruppe,
non disse niente. Dopo un po’ lui scrollò la testa, come se
cercasse ancora di trovare una giustificazione al suo
comportamento. «Il fatto è che aveva bevuto e voleva mettersi al
volante. E questo è illegale.»
«Era oltre i limiti di legge?»
«Non lo so. Non ho pensato di controllare.»
«Rodney!» esclamò lei.
«Mi ha fatto arrabbiare, Lexie. È maleducato, ha un’aria
sospetta e ronzava intorno a Rachel, e poi mi ha insultato e
quando ha detto che lavorava con quel tizio…» Fece un cenno
con la testa in direzione di Jeremy.
Lexie gli posò una mano sulla spalla. «Adesso, per favore,
ascoltami. Sai che finirai nei guai se lo tieni in cella senza un
motivo. Soprattutto con il sindaco. Se scopre quello che hai fatto
a uno della televisione… soprattutto dopo tutta la pena che si è
dato per fare in modo che la storia venga fuori bene… ti spellerà
vivo.» Lasciò che le sue parole facessero il loro effetto prima di
continuare. «E
poi sappiamo benissimo entrambi che, prima lo rilasci, prima se
poi sappiamo benissimo entrambi che, prima lo rilasci, prima se
ne andranno tutti e due.»
«Ci credi davvero che lui se ne andrà?»
Lexie lo guardò negli occhi. «Partirà in aereo domani.»
127
Per la prima volta Rodney sostenne il suo sguardo. «Lo
seguirai?»
Lexie impiegò qualche istante per rispondere alla domanda che
lei stessa si era posta per tutta la mattina. «No», bisbigliò.
«Boone Creek è casa mia. E io resterò qui.»
Dieci minuti dopo Alvin attraversava il parcheggio con Jeremy e
Lexie mentre Rodney li guardava dalla porta della prigione.
«Non dire niente», lo ammonì Jeremy tenendolo per un braccio.
«Cammina e basta.»
«È un campagnolo con pistola e distintivo!»
«Non è vero», replicò Lexie. «È una brava persona, checché tu
ne pensi.»
«Mi ha arrestato senza motivo!»
«E inoltre, si prende cura della gente che vive in città.»
Raggiunta la macchina, Jeremy fece cenno ad Alvin di salire di
dietro.
«Ma non finisce qui», borbottò Alvin salendo. «Ho intenzione di
telefonare al procuratore distrettuale. Quel tizio va licenziato.»
«La cosa migliore che puoi fare è scordarti tutta la faccenda»,
disse Lexie guardandolo attraverso la portiera aperta.
«Scordarmi la faccenda? Ma sei pazza? Ha commesso un
errore, e lo sai anche tu!»
«È vero, ma siccome non ti sono state mosse accuse, alla fine
lascerai perdere comunque.»
«E chi saresti tu per dirmi così?»
«Mi chiamo Lexie Darnell», rispose lei strascicando le vocali.
«Sono un’amica di Jeremy, ma vivo qui e ho molta stima per
Rodney. Tutti in città ci sentiamo più sicuri grazie al nostro
vicesceriffo. D’altro canto, tu ripartirai domani e lui non ti darà
più fastidio.» Sorrise. «E poi, ammettilo, pensa che storia potrai
raccontare quando tornerai a New York!»
Alvin la guardò incredulo prima di voltarsi verso l’amico. «È lei?»
chiese.
Jeremy annuì.
«È carina», osservò Alvin. «Magari un po’ troppo saccente, ma
carina.»
«Meglio ancora, cucina come un’italiana.»
«È brava come tua madre?»
«Forse anche meglio.»
Alvin annuì, poi rimase in silenzio per qualche istante. «Immagino
che tu sia d’accordo con lei nel consigliarmi di lasciar perdere.»
«Infatti. Lei capisce la gente di qui molto meglio di te e di me, e
finora ha sempre avuto ragione.» «Allora è pure sveglia, eh?»
«Molto», ammise Jeremy.
Alvin fece un sorriso sornione. «Scommetto che siete stati
insieme stanotte.»
Jeremy non rispose.
«Dev’essere davvero speciale per…»
«Ehi, ragazzi, guardate che sono qui!» si intromise Lexie. «Vi
avverto che sento tutto quello che dite.»
«Scusa», disse Jeremy. «Sai, le vecchie abitudini.»
«Adesso possiamo andare?»
Jeremy guardò Alvin, che parve valutare le alternative.
«D’accordo», disse infine con una scrollata di spalle.
«Dimenticherò tutto quanto. A una condizione, però.»
«E sarebbe?» chiese Jeremy.
«È da ieri che non mangio, e tutto questo parlare di cibo italiano
mi ha messo fame. Offrimi il pranzo e non solo scorderò la
faccenda, ma ti dirò anche come sono venute le riprese di ieri
sera.»
128
Rodney li guardò andare via prima di rientrare in ufficio. Si
sentiva stanco morto perché non aveva dormito. Sapeva che non
avrebbe dovuto arrestare quel tizio, ma la cosa non lo turbava
granché. Voleva solo fargli un po’ di pressione, e quell’arrogante
si era messo a blaterare, insultando-lo… Si massaggiò la fronte.
Basta, non voleva più pensarci. Quello che invece lo
preoccupava era il fatto che Lexie e Jeremy avessero trascorso
la notte insieme. I sospetti erano una cosa, le prove tutt’altra e lui
si era accorto del loro comportamento quella mattina. Rispetto
alla festa, sembrava che qualcosa fosse cambiato tra i due. Ma
non ne aveva avuto l’assoluta certezza finché lei non gli aveva
dato quella risposta sibillina. Non ci sono andata con lui, se è
questo che intendi. No, avrebbe voluto ribattere, non è questo
che intendo. Volevo sapere se eri lì con Jeremy. Ma la sua
risposta evasiva era bastata e non bisognava essere uno
scienziato per dedurre che cosa era successo.
Tale considerazione gli spezzò quasi il cuore e ancora una volta
rimpianse di non riuscire a comprenderla. Certe volte in passato
gli era sembrato di essere a un passo dal capire come funzionava
la sua testa, ma… ecco, questo fatto dimostrava che non era
così, giusto? Perché diavolo Lexie aveva permesso che
accadesse di nuovo? Non le era bastata l’esperienza fatta con il
primo forestiero di passaggio in città? Non si ricordava quanto
aveva sofferto dopo? Non sapeva che sarebbe rimasta scottata
un’altra volta?
Certo che lo sapeva, si disse lui, ma forse aveva deciso – almeno
per una sera – di non pensarci.
Rodney cominciava a non poterne più di quella storia. Era stanco
di essere ferito da lei. Certo, l’amava ancora, ma le aveva dato
tutto il tempo necessario per chiarire i suoi sentimenti per lui. Era
giunto il momento che Lexie prendesse una decisione, in un
senso o nell’altro.
Sbollita la rabbia, Alvin esitò un istante sulla soglia di Herbs
scorgendo Jed seduto in fondo al ristorante. A sua volta, Jed si
scorgendo Jed seduto in fondo al ristorante. A sua volta, Jed si
accigliò mentre lui, Jeremy e Lexie prendevano posto a un tavolo
vicino alla vetrina.
«Il nostro amichevole albergatore non sembra entusiasta di
vederci», bisbigliò Alvin agli amici.
Jeremy guardò l’uomo di soppiatto. Jed strinse gli occhi. «Ma
che strano, era così socievole.
Devi averlo fatto arrabbiare.»
«Io non ho fatto proprio niente. Mi sono limitato a presentarmi
alla reception.»
«Forse non gli piace il tuo aspetto.»
«Non capisco che cosa c’è che non va nel mio aspetto.»
Stai scherzando, vero? pensò Lexie.
«Non saprei», rispose Jeremy. «Forse non gli piacciono i
Metallica.»
Alvin si guardò la maglietta, poi scrollò il capo. «E chi se ne
frega», disse.
Jeremy strizzò l’occhio a Lexie, che gli sorrise distrattamente.
«Le riprese sono andate benissimo ieri sera», annunciò Alvin
«Le riprese sono andate benissimo ieri sera», annunciò Alvin
aprendo il menu. «Ho registrato la scena da due angolazioni
diverse e stanotte ho riguardato il tutto. Incredibile. Quelli della
televisione ne andranno pazzi. A proposito, adesso che mi viene
in mente, devo telefonare a Nate. Dato che non riusciva a
mettersi in contatto con te, ieri ha continuato a tormentarmi. Non
so come tu faccia a sopportarlo.»
Vedendo lo sguardo perplesso di Lexie, Jeremy si chinò verso di
lei. «Sta parlando del mio agente», disse.
«Verrà anche lui qui?»
«No. È troppo impegnato a sognare la mia futura carriera. E poi
non saprebbe che cosa fare fuori da New York. È il genere di
persona che pensa che Central Park andrebbe riempito di
grattacieli e condomini.»
Lei gli sorrise brevemente.
«Allora, che mi dite di voi due?» domandò Alvin. «Come vi siete
conosciuti?»
Vedendo che Lexie non era incline a rispondere, Jeremy si agitò
sul sedile.
129
«Lei dirige la biblioteca e mi ha aiutato nelle ricerche sulla storia
«Lei dirige la biblioteca e mi ha aiutato nelle ricerche sulla storia
della città», disse rimanendo sul vago.
«Allora avete passato parecchio tempo insieme, eh?»
Con la coda dell’occhio Jeremy vide che Lexie distoglieva lo
sguardo.
«C’era molto materiale da guardare», rispose.
Alvin guardò l’amico, intuendo che qualcosa non girava per il
verso giusto. Sembrava che quei due avessero avuto un litigio tra
innamorati e l’avessero superato, ma stessero ancora leccandosi
le ferite.
«Bene… capisco», disse, decidendo di lasciar perdere per il
momento. Si mise a guardare i piatti, mentre Rachel arrivava
ondeggiando i fianchi.
«Ciao, Lex, ciao, Jeremy», disse lei avvicinandosi. «Ciao,
Alvin.»
Lui alzò lo sguardo. «Rachel!» esclamò.
«Non avevi detto che saresti passato per la colazione?» disse lei.
«Ormai avevo perso le speranze.» «Scusami», ribatté lui
lanciando un’occhiata agli altri. «Mi sono svegliato tardi.»
Rachel infilò la mano nella tasca del grembiule e prese il blocco
delle ordinazioni, poi afferrò la matita che teneva dietro
l’orecchio. Ne mordicchiò la punta. «Che cosa vi porto?»
Jeremy ordinò un panino; Alvin chiese la zuppa di astice. «Io non
ho fame», disse Lexie. «C’è Doris?»
«No, oggi non è venuta. Era stanca e ha deciso di prendersi una
giornata libera. È rimasta qui a cucinare fino a tardi ieri sera.»
Lexie la guardò intensamente per decifrare la sua espressione.
«Ti assicuro, Lex», aggiunse Rachel facendosi seria, «che non
devi preoccuparti. Quando l’ho sentita al telefono mi è sembrato
che stesse bene.»
«Magari faccio un salto da lei lo stesso», rispose Lexie. Guardò
gli altri seduti al tavolo e poi si alzò. Rachel si fece da parte per
lasciarla passare.
«Vuoi che venga con te?» le chiese Jeremy.
«No, non importa», rispose lei. «Hai da fare, e anch’io ho delle
faccende da sbrigare. Che ne di-ci di vederci in biblioteca più
tardi? Volevi finire di dare un’occhiata ai diari, giusto?»
«Se non ci sono problemi», rispose lui, ferito dal suo tono
distratto. Avrebbe preferito trascorrere il pomeriggio con lei.
«Facciamo per le quattro, allora?»
«Facciamo per le quattro, allora?»
«Va bene», concordò Jeremy. «Ma fammi sapere se c’è
qualcosa che non va, d’accordo?»
«Come ha detto Rachel, sono sicura che Doris sta bene. Le
riporto il taccuino, se non ti dispiace.» «Ma certo, fai pure.»
Lexie si rivolse ad Alvin. «Piacere di averti conosciuto.»
«Il piacere è stato mio.»
Un attimo dopo era uscita e Rachel si stava dirigendo in cucina.
Non appena le due donne furono a distanza di sicurezza, Alvin si
chinò in avanti sul tavolo.
«E adesso, spara, amico mio.»
«Che vuoi dire?»
«Lo sai perfettamente. Prima ti innamori di lei. Poi passate la
notte insieme. Ma quando siete arrivati alla prigione, vi
comportavate come due lontani conoscenti. E adesso lei trova la
prima scusa buona per andarsene.»
«Doris è sua nonna», gli spiegò Jeremy. «E Lexie è preoccupata
per lei. Non sta benissimo di salute.»
«Come ti pare», ribatté Alvin, scettico. «Quello che voglio dire è
che tu la guardavi con gli oc-chioni da cucciolo abbandonato e
che tu la guardavi con gli oc-chioni da cucciolo abbandonato e
lei faceva di tutto per fingere di non accorgersene. Avete litigato
o cosa?»
130
«No.» Jeremy si guardò intorno nella sala. In un tavolo d’angolo
c’erano tre membri del consiglio comunale seduti assieme
all’anziana impiegata della biblioteca. Loro lo salutarono
agitando la mano. «Veramente, non so bene che cosa sia
successo. Un attimo prima tutto andava alla grande e quello
dopo…»
Dato che non proseguiva Alvin si appoggiò allo schienale.
«Tanto non sarebbe durata comunque», commentò.
«Magari sì», obiettò Jeremy.
«Ah sì? E come? Hai intenzione di trasferirti qui nella Zona
Morta? Oppure verrà lei a New York?»
Jeremy giocherellò con il tovagliolo senza rispondere, perché non
voleva essere costretto a pensare a ciò che era ovvio.
Nel silenzio, Alvin sospirò. «Bene, ho capito che sarò costretto a
frequentare questa signora», disse. «Non ti ho mai visto così
preso da nessuna dai tempi di Maria.»
Jeremy non replicò, sapendo che l’amico aveva ragione.
Jeremy non replicò, sapendo che l’amico aveva ragione.
Doris era a letto con la schiena appoggiata ai cuscini e alzò lo
sguardo sopra gli occhiali da lettura quando Lexie si affacciò alla
porta della camera.
«Posso entrare?»
«Lexie», esclamò lei. «Che cosa ci fai qui? Entra, entra…»
Posò da una parte il libro aperto che teneva in grembo. Era
ancora in pigiama e, a parte l’aspetto cereo dell’incarnato, non
sembrava malata.
Lexie attraversò la camera. «Rachel mi ha detto che oggi eri
rimasta a casa e sono venuta a vedere come stavi.»
«Sto bene. Volevo solo riposarmi un po’, tutto qui. Pensavo che
tu fossi andata al mare, però.»
«Infatti», rispose lei sedendosi sul ciglio del letto. «Ma sono
tornata.»
«Ah.»
«Jeremy è arrivato lì», disse.
Doris mise le mani avanti come per difendersi. «Non prendertela
con me. Non gli ho detto do-v’eri. E non gli ho nemmeno detto
di venire a cercarti.»
di venire a cercarti.»
«Lo so.» Lexie le stinse il braccio per rassicurarla.
«Allora come ha fatto a trovarti?»
Lexie unì le mani in grembo. «Gli avevo parlato di quella casa
l’altro giorno e ha fatto due più due. Non puoi immaginare la mia
sorpresa quando me lo sono visto comparire davanti sulla
spiaggia.»
Doris la studiò attentamente prima di raddrizzarsi un poco a
sedere. «Allora… siete stati insieme ieri notte?»
Lexie annuì.
«E?»
Lexie non rispose subito, ma dopo un attimo le sue labbra si
curvarono in un sorriso. «Gli ho preparato il tuo famoso sugo di
pomodoro.»
«Oh?»
«È rimasto impressionato.» Si passò una mano tra i capelli. «A
proposito, ti ho riportato il taccuino. L’ho lasciato in salotto.»
Doris si tolse gli occhiali e cominciò a pulire le lenti con un lembo
del lenzuolo. «Questo però non spiega perché sei tornata.»
«Jeremy aveva bisogno di un passaggio. È arrivato un suo amico
di New York, un cameraman, per riprendere le luci. Lo faranno
anche stanotte.»
«Com’è questo suo amico?»
Lexie ci pensò un po’ su. «Sembra un incrocio tra un punk e un
motociclista con la giacca di pelle nera, ma per il resto niente da
dire…»
131
Vedendo che rimaneva in silenzio, Doris le prese la mano e gliela
strinse teneramente, guardandola negli occhi.
«Vuoi parlare del vero motivo per cui sei qui?»
«No», rispose lei, accarezzando con un dito le impunture della
trapunta. «In realtà, no. devo riuscire a cavarmela da sola.»
Doris annuì senza replicare. A Lexie piaceva mostrarsi
coraggiosa, e in quei casi era meglio non dire niente.
17
Jeremu guardò l’ora mentre, in piedi sulla veranda di Herbs,
aspettava che Alvin parlasse con Rachel. Il suo amico stava
dando il meglio di sé e lei non sembrava avere fretta di salutarlo,
il che in circostanze normali sarebbe stato considerato di buon
auspicio. Tuttavia, secondo Jeremy, Rachel non sembrava tanto
interessata ad Alvin, quanto a mostrarsi educata, e lui non
l’aveva capito. Ma del resto, aveva sempre avuto difficoltà ad
interpretare gli indizi.
Quando alla fine si separarono, Alvin lo raggiunse con un sorriso
trionfante, come se si fosse già dimenticato del tutto degli
avvenimenti della sera prima. E probabilmente era così.
«Hai visto?» bisbigliò quando fu vicino a Jeremy. «Credo di
piacerle.»
«E perché non dovresti?»
«Proprio quello che dico anch’io», concordò lui. «Accipicchia,
che donna. Mi piace il suo modo di parlare. È così… sexy.»
«Tu trovi tutto sexy», osservò Jeremy.
«Non è vero», protestò Alvin. « Quasi tutto.»
Jeremy sorrise. «Chissà, forse la incontrerai stasera al ballo.
Magari riusciamo a fare un salto lì prima di tornare al cimitero.»
«Ci sarà un ballo stasera?»
«Al vecchio magazzino del tabacco. Ho sentito che
parteciperanno tutti, e sono sicuro che ci sa-rà anche lei.»
«Bene», disse Alvin scendendo dalla veranda. Ma poi, quasi
parlando tra sé, aggiunse: «Mi do-mando perché non me l’ha
detto».
132
Rachel sfogliò distrattamente il blocco delle ordinazioni mentre
guardava Alvin lasciare il ristorante.
Era rimasta un po’ sulle sue quando le si era seduto accanto la
sera prima al Lookilu, ma dopo che le aveva spiegato il motivo
della sua presenza in città e che conosceva Jeremy, si erano
messi a chiacchierare e lui aveva passato l’ora successiva a
parlare di New York. La descriveva come il paradiso in Terra e
quando gli aveva accennato che un giorno le sarebbe piaciuto
andarci, le aveva scarabocchiato il suo numero di telefono sul
blocco, dicendole di chiamarlo. Aveva addirittura promesso che
le avrebbe trovato dei biglietti per lo spettacolo Regis and Kelly,
se le interessava.
Per quanto il suo fosse stato un gesto carino, Rachel sapeva che
Per quanto il suo fosse stato un gesto carino, Rachel sapeva che
non gli avrebbe telefonato. Non le erano mai piaciuti i tatuaggi e,
pur non avendo molta fortuna con gli uomini nel corso degli anni,
da tempo ormai si era data la regola di non uscire con uno che
avesse più buchi di lui nelle orecchie.
Ma doveva ammettere che non era solo quello il motivo della sua
mancanza di interesse; in un certo senso, anche Rodney
c’entrava.
Rodney passava spesso al Lookilu per accertarsi che nessuno si
mettesse al volante dopo essersi ubriacato e quasi tutti i clienti
abituali lo sapevano. Si muoveva per il bar, salutava qua e là e
quando aveva la sensazione che avessi alzato troppo il gomito, ti
esponeva i suoi sospetti avvisandoti che avrebbe tenuto d’occhio
la tua macchina. Dopo questo ammonimento piuttosto
intimidatorio – soprattutto per chi in effetti ci aveva dato dentro –
aggiungeva che sarebbe stato lieto di accompagnar-ti a casa.
Era il suo modo per tenere gli ubriachi lontano dalle strade e così
nei quattro anni precedenti non aveva mai dovuto arrestare
nessuno. Persino il gestore del Lookilu non protestava più per il
suo arrivo; certo, all’inizio non gli faceva piacere l’idea di un
agente che pattugliasse il locale, ma dal momento che nessuno
sembrava aversene a male, alla fine si era rassegnato, ed era
arrivato al punto da chiamare lui stesso Rodney se pensava che
qualcuno avesse bisogno di un passaggio.
La sera precedente, Rodney era arrivato come al solito e l’aveva
vista seduta al bar. In genere, le sorrideva e andava a scambiare
quattro chiacchiere con lei, ma stavolta, vedendola in compagnia
di Alvin, per un attimo aveva assunto un’aria quasi ferita. Una
reazione insolita, che tuttavia era scomparsa in un lampo per
essere sostituita dalla rabbia. Sembrava quasi che fosse geloso e
forse era stato per quel motivo che lei era uscita dal locale poco
dopo di lui. Mentre tornava a casa aveva ripen-sato alla scena,
cercando di capire se fosse successo davvero o se non fosse
stata solo una sua impressione. E più tardi, mentre era a letto,
era giunta alla conclusione che non le sarebbe spiaciuto affatto se
Rodney fosse stato geloso.
Forse, aveva pensato, c’era ancora qualche speranza per loro.
Dopo essere andati a prendere l’auto di Alvin, rimasta nel
parcheggio del Lookilu, lui e Jeremy tornarono al Greenleaf.
Alvin fece una rapida doccia, Jeremy si cambiò e trascorsero le
due ore successive ad analizzare la questione delle luci nel
cimitero. Per Jeremy concentrarsi sul lavoro era una via di fuga,
l’unico modo per non pensare a Lexie.
Le riprese di Alvin erano straordinarie come lui aveva detto. Le
guardarono al rallentatore e la nitidezza delle immagini permise a
Jeremy di cogliere dettagli che prima gli erano sfuggiti.
Soprattutto, c’erano alcuni fotogrammi che, isolati e ingranditi,
avrebbero permesso agli spettatori di capire meglio il fenomeno
avrebbero permesso agli spettatori di capire meglio il fenomeno
in corso.
Poi presero in considerazione i risultati delle ricerche storiche
fatte da Jeremy in biblioteca, per dare un’interpretazione a quello
a cui avevano assistito. Ma mentre lui presentava senza soste
prove dettagliate – le tre versioni della leggenda, cartine, appunti
sulle cave, tabelle idriche, vari progetti edilizi, nonché le proprietà
della luce rifratta – Alvin cominciò a sbadigliare. Non aveva mai
nutrito eccessivo interesse per il lato minuzioso del lavoro di
Jeremy e alla fine lo convinse a portarlo oltre il ponte fino alla
cartiera in modo che potesse rendersi conto di persona della
situazione.
133
Mentre Alvin sistemava le telecamere, Jeremy passeggiò per
conto suo e nel silenzio del cimitero i suoi pensieri tornarono
inevitabilmente a Lexie. Riandò mentalmente alla loro notte
insieme e cercò di capire che cosa l’avesse spinta ad alzarsi
prima dell’alba. Sapeva che, nonostante i suoi di-nieghi, lei
nutriva qualche rammarico, e forse persino rimorso, per ciò che
era accaduto tra loro, ma non ne capiva la ragione.
Certo, lui stava per partire, ma le aveva ripetuto più volte che
avrebbero trovato un modo per continuare a vedersi. Ed era
anche vero che non si conoscevano bene, ma nonostante il breve
tempo trascorso insieme, Jeremy non aveva dubbi che avrebbe
tempo trascorso insieme, Jeremy non aveva dubbi che avrebbe
potuto amarla per tutta la vita. Doveva soltanto darsi una chance.
Però Alvin aveva ragione, si disse. Per quanto potesse essere in
ansia per la nonna, il comportamento di Lexie al ristorante
suggeriva che stesse cercando una scusa per allontanarsi da lui.
Non capiva se lo avesse fatto perché lo amava e non voleva
soffrire troppo per la sua imminente partenza, oppure perché in
fondo non le piaceva più di tanto.
Era sicuro che la notte precedente anche lei avesse provato le
sue stesse emozioni. Ma ora…
Avrebbe preferito trascorrere il pomeriggio con lei. Avrebbe
voluto che gli confidasse i propri crucci e gli permettesse di
consolarla; avrebbe voluto abbracciarla, baciarla e convincerla
che sarebbe riuscito a trovare un modo di far funzionare il loro
rapporto, a dispetto delle difficoltà. Avrebbe voluto dirle quello
che aveva nel cuore: che non poteva più pensare di vivere senza
di lei e che i suoi sentimenti erano autentici. Ma soprattutto,
avrebbe voluto avere la conferma che lei lo ricam-biava.
In lontananza, Alvin stava spostando telecamera e cavalletto in
un’altra posizione, concentrato nel lavoro e ignaro dei suoi
tormenti. Jeremy sospirò e poi si rese conto che era giunto in
quella parte del cimitero dove aveva visto sparire Lexie la prima
volta che l’aveva incontrata.
Dopo un attimo di esitazione, cominciò a guardare le lapidi
Dopo un attimo di esitazione, cominciò a guardare le lapidi
mentre un’intuizione si faceva strada nella sua mente. Impiegò
solo pochi istanti per trovare l’ovvia conferma. Salendo una
piccola altura, si fermò davanti a un cespuglio incolto di azzalee.
Era circondato da rami e sterpi, ma la zona antistante sembrava
pulita. Accovacciandosi, spostò i fiori che lei doveva aver avuto
nella borsa e di colpo capì perché né Doris né Lexie volevano
che la gente girasse per il cimitero.
Nella fioca luce invernale, fissò le tombe di Claire e James
Darnell, chiedendosi come avesse fatto a non capirlo prima.
Di ritorno dal cimitero, Jeremy lasciò Alvin al Greenleaf e si
diresse verso la biblioteca, ripensando mentalmente al discorso
che si era preparato per Lexie.
Giunto davanti alla biblioteca, vide che l’esterno era affollato.
C’erano gruppetti di due o tre persone fermi sul marciapiede,
che indicavano verso l’alto e osservavano l’architettura, come se
stessero facendo un assaggio del Giro delle dimore storiche. La
maggior parte teneva in mano lo stesso dé pliant che Doris gli
aveva spedito e molti leggevano ad alta voce le didascalie che
spiegavano le peculiarità dell’edificio.
All’interno, anche il personale era intento nei preparativi. Alcuni
volontari spolveravano e spaz-zavano il pavimento, altri stavano
portando delle lampade da lettura e Jeremy immaginò che, in
occasione del giro ufficiale, le lampade sul soffitto sarebbero
state spente per conferire all’ambiente un’atmosfera più calda.
Superò la sala per bambini, notando che sembrava più in ordine
e proseguì verso le scale. La porta dell’ufficio di Lexie era aperta
e lui si fermò un istante prima di entrare. Lei era china accanto
alla scrivania, che era quasi vuota. Come tutti gli altri, stava
facendo del suo meglio per eliminare le scartoffie, infilando varie
pile di documenti sotto il tavolo.
«Ciao», disse Jeremy.
Lexie alzò lo sguardo. «Oh, ciao», rispose alzandosi e
aggiustandosi la camicia. «Mi hai sorpreso mentre cercavo di
rendere più presentabile il mio ufficio.»
«Ti aspetta un fine settimana molto impegnativo.»
134
«Già, in effetti avrei potuto pensarci prima», replicò lei indicando
con un gesto intorno a sé.
«Ma devo essermi beccata un grave caso di svogliatezza.»
Sorrise, bella anche nel suo stato leggermente stralunato.
«Succede ai migliori», commentò Jeremy.
«Già, ma a me in genere no.» Invece di avvicinarsi a lui, afferrò
«Già, ma a me in genere no.» Invece di avvicinarsi a lui, afferrò
un altro plico di documenti e si rituffò sotto la scrivania.
«Come sta Doris?»
«Bene», rispose lei da sotto la scrivania. «Come aveva detto
Rachel, si è un po’ strapazzata, ma domani sarà di nuovo in
forma.» Lexie rispuntò fuori e prese un’altra pila di carte. «Se ti
capita, passa a farle un saluto prima di andare via. Ne sarà
contenta.»
Per un attimo lui rimase a guardarla, ma poi, cogliendo le
implicazioni di quello che aveva appena detto, fece un passo
nella sua direzione. Lexie girò intorno alla scrivania, in modo di
mantenere la distanza tra di loro.
«Che succede?» domandò Jeremy.
Lei spostò qualche oggetto sulla scrivania. «Ho da fare, tutto
qui», rispose.
«Intendevo tra di noi», insistette lui.
«Niente.» La voce di lei era neutra, come se stesse parlando del
tempo.
«Non mi guardi nemmeno.»
Lexie a questo punto alzò la testa, guardandolo per la prima
volta. Jeremy avvertì la sua ostilità, anche se non sapeva se ce
l’avesse con lui o con se stessa. «Non so che cosa dirti. Ti ho già
spiegato che ho molto da fare. Che tu lo creda o no, sono un po’
di fretta.»
Jeremy intuì che stava cercando una scusa qualsiasi per litigare.
«Posso aiutarti in qualche modo?» chiese.
«No, grazie. Ce la faccio da sola.» Lexie posò un altro pacco di
carte sotto la scrivania. «Come sta Alvin?» gli chiese da sotto.
Jeremy si massaggiò la nuca. «Non è più arrabbiato, se è questo
che intendi.»
«Bene. Siete riusciti a fare le riprese che volevate?»
«Quasi tutte», rispose lui.
Lei si sporse un’altra volta, cercando di darsi un’aria
affaccendata. «Ti ho tirato fuori di nuovo i diari. Sono sulla
scrivania nella sala dei libri rari.»
Jeremy abbozzò un sorriso. «Grazie.»
«E se ti viene in mente qualcos’altro che possa servirti prima che
tu parta», aggiunse lei, «resterò qui ancora per un’oretta. Il giro
inizia alle sette, perciò dovrai uscire di qui al massimo per le sei e
mezzo, dato che a quell’ora spegneremo le luci centrali.»
mezzo, dato che a quell’ora spegneremo le luci centrali.»
«Credevo che la sala dei libri rari chiudesse alle cinque.»
«Visto che partirai domani, mi sono detta che potevo
contravvenire alle regole per una volta.»
«E anche perché siamo amici, giusto?»
«Ma certo», rispose lei con un sorriso forzato. «Perché siamo
amici.»
Jeremy uscì dall’ufficio e si diresse nella sala dei libri rari,
ripetendosi mentalmente quel dialogo per cercare di dargli un
senso. Il loro incontro non era andato come previsto.
Nonostante la sfac-ciataggine della sua ultima battuta, in fondo
sperava che lei lo seguisse, anche se in qualche modo sapeva
che non l’avrebbe fatto. Il pomeriggio trascorso da soli non li
aveva aiutati a superare l’im-passe, anzi, aveva peggiorato le
cose. Se prima lei gli era sembrata distante, adesso si
comportava come se fosse radioattivo.
Per quanto il suo atteggiamento lo turbasse, per certi versi era
comprensibile. Forse non avrebbe dovuto essere così… fredda,
ma tutto era dovuto al fatto che lui viveva a New York e lei lì. Il
giorno prima in quella casetta sulla spiaggia per lui era stato facile
convincersi che le cose si sarebbero aggiustate da sole, come
per magia. E ci aveva creduto. Era quello il punto. Quando due
persone si volevano bene, trovavano sempre una soluzione.
persone si volevano bene, trovavano sempre una soluzione.
135
Sapeva che aveva tendenza di guardare troppo avanti, ma era il
suo modo di agire quando doveva affrontare un problema.
Cercava soluzioni, faceva supposizioni, analizzava le implicazioni
a lungo termine per valutare con cura i potenziali esiti. E, forse, si
aspettava che lei facesse lo stesso.
Quello che non si aspettava era di essere trattato come un
appestato. O che lei si comportasse con diffidenza. O come se
pensasse che la notte precedente fosse stata un errore.
Guardò la pila di diari sulla scrivania e si sedette. Cominciò a
separare quelli che aveva già sfo-gliato dagli altri, tirandone fuori
quattro. Fino a quel momento i sette che aveva letto non si erano
dimostrati molto utili – anche se un paio descrivevano funerali di
famiglia avvenuti a Cedar Creek –
così decise di aprirne uno nuovo. Invece di partire dalla prima
pagina, si appoggiò allo schienale della sedia e sfogliò le pagine
leggendo brani a caso. Il diario abbracciava il periodo dal 1912
al 1915 ed era stato scritto da un’adolescente di nome Anne
Dempsey. Per la maggior parte si trattava di annotazioni
personali sulla vita quotidiana. Chi le piaceva, che cosa
mangiava, i suoi pensieri su genitori e amici e il fatto che nessuno
sembrava capirla. L’unico aspetto originale di Anne era che i
suoi crucci e le sue paure somigliavano molto a quelli degli
suoi crucci e le sue paure somigliavano molto a quelli degli
adolescenti moderni. Lettura interessante, ma poco utile allo
scopo, si disse. Lo mise da parte insieme agli altri che aveva
scartato.
Anche gli altri due diari – scritti entrambi intorno agli anni Venti –
si rivelarono per la maggior parte cronache personali. Un
pescatore annotava minuziosamente merce e pescato; nell’altro,
una vivace maestra di nome Glenara descriveva lo sbocciare
della sua storia d’amore con un dottore di passaggio in un
periodo di otto mesi, e annotava riflessioni su alunni e conoscenti
in città. C’erano inoltre un paio di passaggi relativi agli
avvenimenti mondani in città, che sembravano consistere
principalmente nell’osservare le barche a vela sul fiume Pamlico,
nell’andare a messa, giocare a bridge e passeggiare per il centro
il sabato pomeriggio. Cedar Creek non veniva mai nominato.
Si aspettava che anche il quarto diario fosse una perdita di
tempo, ma lasciar perdere voleva dire andare via e lui non
poteva immaginare di farlo senza aver cercato di parlare ancora
una volta con Lexie, se non altro per mantenere aperti i canali di
comunicazione. Il giorno prima sarebbe potuto entrare da lei
dicendo la prima frase che gli passava per la mente, ma il recente
andamento altale-nante della loro relazione, oltre alla sua
evidente agitazione, gli rendevano impossibile pensare a qualcosa
da dire o anticipare la sua eventuale reazione.
Doveva rimanere distante? Doveva provare a parlarle, pur
Doveva rimanere distante? Doveva provare a parlarle, pur
sapendo che lei cercava la lite? Doveva fingere di non aver
notato il suo atteggiamento e comportarsi come se lei
desiderasse ancora sapere qual era la causa delle luci misteriose?
Doveva invitarla a cena? Oppure stringerla tra le braccia?
Ecco qual era il problema quando le emozioni intorbidavano le
acque. Era come se Lexie si aspettasse da lui che facesse o
dicesse esattamente la cosa giusta al momento giusto, qualunque
fosse. E questo, si disse, non era bello da parte sua.
Sì, l’amava. Sì, era preoccupato per il loro futuro. Ma laddove
lui voleva cercare una soluzione, lei sembrava aver già gettato la
spugna. Ripensò alla loro conversazione.
Se ti capita, passa a farle un saluto prima di andare via…
Non «se ci capita».
E il suo commento conclusivo? Ma certo. Perché siamo amici.
Lui aveva dovuto mordersi la lingua per stare zitto. Amici?
avrebbe voluto replicare. Dopo ieri notte, tutto quello che sai
dire è che siamo amici? Non significo altro per te?
Non era il modo di parlare a una persona che ti sta a cuore. Non
era il modo di trattare un uomo che speri di rivedere, e più ci
pensava, più gli veniva voglia di risponderle per le rime. Ti tiri
indietro? Posso farlo anch’io. Vuoi litigare? Sono pronto.
Dopo tutto, non aveva fatto niente di male.
Dopo tutto, non aveva fatto niente di male.
Quello che era successo la notte precedente era dipeso da
entrambi in uguale misura. Lui aveva provato a spiegarle come si
sentiva; lei non aveva voluto ascoltarlo. Lui aveva promesso che
avrebbe fatto in modo di far funzionare le cose; lei aveva
scartato l’idea fin dal principio. E in fin dei conti era stata lei a
condurlo in camera da letto, non viceversa.
Guardò fuori dalla finestra serrando le labbra. No, pensò, non
sarebbe più stato al suo gioco. Se lei voleva parlargli, bene,
altrimenti… Altrimenti significava che la storia era destinata a
finire così, 136
e lui non poteva farci niente. Non si sarebbe umiliato a pregarla
in ginocchio, quindi stava a lei fare la prossima mossa. Sapeva
dove trovarlo. Decise di andarsene non appena terminata la
lettura del diario e di tornare al Greenleaf. Magari così lei
avrebbe finalmente capito che cosa voleva, e comunque che lui
non aveva nessuna intenzione di stare lì a farsi maltrattare.
Non appena Jeremy fu uscito dall’ufficio, Lexie si maledì per non
aver gestito meglio la situazione. Aveva pensato che andare da
Doris le avrebbe chiarito le idee, e invece era servito solo a procrastinare l’inevitabile. E così si era ritrovata con Jeremy che
entrava baldanzoso nel suo ufficio co-me se non fosse cambiato
niente. Come se non fosse sul punto di andarsene.
Certo, lei sapeva che sarebbe partito, che l’avrebbe lasciata lì
proprio come aveva fatto quell’altro, ma la fiaba che lui le aveva
raccontato la sera precedente continuava a incantarla,
alimentando fantasie in cui i protagonisti vivevano felici e
contenti. Se era riuscito a rintracciarla nella casa dei suoi, se
aveva avuto il coraggio di dirle quelle parole, non avrebbe potuto
anche trovare una ragione per rimanere?
In fondo sapeva anche che lui nutriva la speranza che lo seguisse
a New York, ma non capiva perché. Non si rendeva conto che
non le interessava il successo o il denaro? Che non l’appassionavano lo shopping, né il tearto, né ci teneva a comprare cibo
thailandese nel cuore della notte? La vi-ta non era fatta di quelle
cose. La vita era passare del tempo insieme, avere il tempo di
passeggiare tenendosi per mano, di conversare in pace
guardando il tramonto. Non era esaltante, ma forse non c’era
davvero niente di meglio. Del resto, com’era quel vecchio detto
popolare? Nessuno sul letto di morte rimpiange di non aver
lavorato di più. O di aver passato troppo tempo a godersi un
pomeriggio tranquillo? O in famiglia?
Non era tanto ingenua da non capire che la vita moderna aveva
le sue seduzioni. Ricchezza, bellezza, fama e frequentare le feste
più esclusive: solo così sarai felice. Secondo lei erano un
mucchio di assurdità, il credo dei disperati. Altrimenti, perché
tante persone ricche, belle e famose si dorga-vano? Perché non
riuscivano a tenere in piedi un matrimonio? Perché continuavano
a farsi arrestare? Secondo lei, Jeremy era stato sedotto da quel
a farsi arrestare? Secondo lei, Jeremy era stato sedotto da quel
mondo frenetico, sebbene non volesse ammetterlo.
Lo aveva intuito fin dal loro primo incontro e si era ripetuta che
non doveva farsi coinvolgere emo-tivamente. Tuttavia, si pentiva
del suo comportamento di poc’anzi. Non si sentiva pronta ad
affrontarlo quando lui si era presentato nel suo ufficio, ma forse
sarebbe stato meglio dirglielo apertamen-te, invece di rifugiarsi
sotto la scrivania e negare che ci fossero problemi.
Sì, si sarebbe dovuta comportare meglio. Quali che fossero le
differenze tra di loro, Jeremy si meritava almeno questo.
Ma certo, si ripeté lui. Perché siamo amici.
Il modo in cui l’aveva detto gli rodeva ancora e scrollò la testa
bettendo distrattamente con la penna sul taccuino. Doveva finire
il lavoro. Si sgranchì le spalle per allentare la tensione e prese
l’ultimo diario che gli restava da sfogliare. Gli bastò aprirlo per
rendersi conto che era diverso da tutti quelli che aveva letto
prima.
Più che di un diario fatto di annotazioni personali, si trattava di
una raccolta di saggi con titolo e data, scritti tra il 1955 e il 1962.
Il primo riguardava la costruzione della chiesa episcopale di St.
Richard nel 1859 e la scoperta, durante gli scavi per le
fondamenta, di quello che sembrava essere un antico
insediamento di indiani Lumbee. Il saggio occupava tre pagine ed
era seguito da uno sul destino della conceria McTauten’s,
costruita sulle rive del torrente Boone nel 1974. Il terzo saggio,
che provocò un’involontaria smorfia di stupore da parte di
Jeremy, riportava le opinioni dell’autore su ciò che era realmente
accaduto ai coloni di Roanoke Island nel 1587.
A quel punto Jeremy si ricordò vagamente che uno dei diari era
appartenuto a uno storico dilettante e cominciò a sfogliare le
pagine più rapidamente… scorse i titoli, cercando nei testi dei
riferi-137
menti interessanti… passò alle pagine successive… e si fermò di
colpo quando gli sembrò di aver visto qualcosa. Tornò indietro
di qualche pagina e rimase come paralizzato quando ritrovò il
passo che aveva attirato la sua attenzione.
Sia appoggiò allo schienale sbattendo gli occhi mentre
accarezzava la pagina con le dita.
Risolto il mistero delle luci
Nel cimitero di Cedar Creek
Nel corso degli anni, alcuni abitanti della nostra città hanno
segnalato la presenza di fantasmi nel cimitero di Cedar
Creek e tre anni fa il Journal of the South pubblicò un articolo
sul fenomeno, senza tuttavia offrire una soluzione al
mistero. Dopo aver condotto indagini per conto mio, credo
di aver risolto l’enigma del perché le luci appaiono solo in
determinate condizioni e non in altre.
Posso affermare categoricamente che i fantasmi non
esistono. Le luci in realtà sono quelle della cartiera
Hernrickson e sono influenzate dal treno che passa sul
ponte, dalla posizione di Riker’s Hill e dalle fasi lunari.
Jeremy proseguì la lettura trattenendo il fiato. Sebbene l’autore
non avesse cercato di spiegare il motivo del graduale
sprofondamento del cimitero – senza il quale le luci non
sarebbero state affatto visibili –, la sua conclusione era
sostanzialmente la stessa a cui era giunto lui.
Solo che, chiunque fosse, ci era arrivato quarant’anni prima.
Quarant’anni…
Infilò un pezzo di carta come segnalibro e chiuse il volume per
leggere il nome dell’autore sul frontespizio. La sua mente riandò
brevemente alla prima conversazione avuta con il sindaco. E con
questo, i suoi sospetti si incastrarono gli uni negli altri come le
tessere di un puzzle.
Owen Gherkin.
Il diario era stato scritto dal padre del sindaco, che, stando alle
parole di Tom Gherkin, «conosceva tutto quello che c’è da
sapere su questo posto». Che aveva capito la causa delle luci.
Che senza dubbio ne aveva parlato al figlio. Il quale a sua volta
sapeva che non c’era mai stato niente di soprannaturale nelle
luci, ma aveva finto che fosse altrimenti. Il che significava che il
sindaco Gherkin gli aveva mentito fin dal principio, nella speranza
di approfittare di lui per attirare nella sua città ignari visitatori.
E Lexie…
La bibliotecaria. La donna che gli aveva accennato alla
possibilità di trovare nei diari la risposta che cercava. Il che
significava che aveva letto il saggio di Owen Gherkin. E che a
sua volta gli aveva mentito, per fare il gioco del sindaco.
Si chiese quanti altri in città fossero a conoscenza della verità.
Doris? Forse. No, si corresse velocemente. Anche lei doveva
saperlo. La prima volta che si erano visti gli aveva detto senza
esitazione ciò che le luci non erano. Ma come il sindaco e Lexie
non aveva detto ciò che erano, anche se probabilmente ne era a
conoscenza.
E questo significava… che tutta la faccenda era stata una
montatura fin dall’inizio. La lettera.
Le indagini. La festa. Una montatura a sue spese.
E adesso Lexie si voleva tirare indietro, ma non prima di avergli
raccontato la storia di Doris che l’aveva portata al cimitero a
vedere gli spiriti dei genitori. E poi quella commovente storiella
dei genitori che avevano voluto conoscere anche lui.
Coincidenze? O un piano prestabilito? E adesso il modo in cui lei
si comportava…
Come se volesse farlo andare via. Come se non provasse niente
per lui. Come se avesse saputo che cosa sarebbe successo…
Era stato progettato tutto? E in caso affermativo, perché?
138
Jeremy prese il diario, si alzò e si diresse nell’ufficio di Lexie,
deciso a ottenere qualche risposta. Non si accorse nemmeno di
sbattere la porta uscendo, né delle espressioni sui volti dei
volontari che si voltarono a guardarlo. La porta di Lexie era
socchiusa e lui la spalancò entrando nell’ufficio.
Con la scrivania finalmente sgombra, lei aveva in mano un
barattolo di cera per mobili e stava strofinando il piano con un
panno per far splendere il legno. Alzò lo sguardo mentre Jeremy
solle-vava il diario.
«Oh, ciao», disse, sforzandosi di sorridere. «Ho quasi finito.»
Jeremy la guardò. «Puoi smettere di recitare», dichiarò.
Nonostante la distanza che li separava, lei avvertì la sua collera e
Nonostante la distanza che li separava, lei avvertì la sua collera e
istintivamente si scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Di che cosa parli?»
«Di questo», rispose lui, mostrandole il diario. «L’hai letto,
vero?»
«Sì», disse lei, riconoscendo il diario di Owen Gherkin.
«Lo sapevi che c’è un passo che riguarda le luci di Cedar
Creek?»
«Sì», ripeté lei.
«Perché non me ne hai parlato?»
«L’ho fatto», obiettò lei. «Ti ho parlato dei diari la prima volta
che sei venuto in biblioteca. E se non ricordo male, ti dissi che
potevi trovare lì le risposte che cercavi, ricordi?»
«Non fare giochetti», ribatté lui, socchiudendo gli occhi. «Sapevi
quello che cercavo.»
«E lo hai trovato», replicò lei, alzando la voce. «Non vedo quale
sia il problema.»
«Il problema è che ho perso un sacco di tempo. Questo diario
conteneva la risposta fin dal principio. Non c’è assolutamente
nessun mistero. Non c’è mai stato. E tu hai retto questa piccola
farsa per tutto il tempo.»
«Quale farsa?»
«Non provare a negarlo», tagliò corto lui. Le mostrò il diario.
«Ho la prova qui in mano, non di-menticarlo. Mi hai mentito. Mi
hai mentito spudoratamente.»
Lexie lo guardò. Avvertiva il calore della sua rabbia e sentiva la
propria crescere di conseguen-za. «È questo il motivo per cui sei
venuto nel mio ufficio? Per lanciarmi contro accuse?»
«Tu lo sapevi!» gridò lui.
Lei si mise le mani sui fianchi. «No», disse. «Non lo sapevo.»
«Ma lo avevi letto!»
«E allora?» obiettò lei. «Ho letto anche l’articolo sul giornale, se
è per questo. E pure i saggi scritti da altri. Come potevo
immaginare che Owen Gherkin avesse ragione? Da quanto ne
sapevo, tirava a indovinare quanto gli altri. Sempre ammesso poi
che l’argomento mi interessasse. Pensi davvero che abbia
dedicato più di qualche minuto alla cosa prima del tuo arrivo in
città? Non me ne importa niente! Non mi è mai importato! Sei tu
quello venuto a indagare. E se avessi letto il diario due giorni fa,
non saresti stato sicuro nemmeno tu. Sai bene che avresti
comunque condotto personalmente le tue indagini.»
«Non è questo il punto», ribatté lui, scartando la possibilità che
lei avesse ragione. «Il punto è che tutta questa faccenda è una
montatura. Il giro, i fantasmi, la leggenda… è una montatura bella
e buona!»
«Ma di che cosa parli? Il giro riguarda le dimore storiche, anche
se è vero che ci hanno aggiunto pure il cimitero. Capirai! Tutto
sommato si tratta di un week-end diverso nel mezzo della
stagione morta. Nessuno è stato raggirato, nessuno ci ha
rimesso. E poi dimmi una cosa, pensi davvero che la maggior
parte della gente creda davvero ai fantasmi? Quasi tutti lo dicono
solo perché è divertente.»
«Doris lo sapeva?» domandò lui, interrompendola di nuovo.
«Del diario di Owen Ghrkin?» Scrollò il capo, furiosa per il fatto
che lui non volesse ascoltarla.
«E come faceva a saperlo?»
«Ecco», disse lui, alzando il dito come un insegnante che
sottolinea un concetto a uno studente.
«È questa la parte che non capisco. Se non volevi che il cimitero
venisse incluso nel giro e se non lo 139
voleva neppure Doris, perché non siete andate al giornale a
voleva neppure Doris, perché non siete andate al giornale a
raccontare la verità? Perche mi avete voluto coinvolgere in
questo giochetto?»
«Io non volevo coinvolgerti. E non è un gioco. È un innocuo fine
settimana che tu stai ingigantendo a dismisura.»
«Non sto ingigantendo niente. Siete stati tu e il sindaco a farlo.»
«Adesso sono dalla parte dei cattivi anch’io?»
Vedendo che Jeremy non rispondeva, lei sbottò. «Allora perché
ti avrei dato il diario, tanto per cominciare? Perché non te l’ho
tenuto nascosto?»
«Non saprei. Forse c’entra il taccuino di Doris. Voi due me lo
avete sbandierato sotto il naso fin dal mio arrivo. Forse
immaginavate che non sarei venuto fin qui solo per quello e allora
avete esco-gitato tutta questa montatura.»
«Ma ti rendi conto di quanto sei ridicolo?» Si appoggiò con le
mani alla scrivania, il viso in fiamme.
«Ehi, sto solo cercando di capire perché sono stato trascinato in
questo posto.»
Lei alzò le mani per fermarlo. «Non voglio sentire altro.»
«Ci scommetto.»
«Esci», disse, gettando il barattolo di cera nel cassetto della
scrivania. «Tu non appartieni a questo posto, e io non voglio più
parlare con te. Tornatene da dove sei venuto.»
Lui incrociò le braccia. «Finalemnte ti sei decisa a tirare fuori
quello che stavi pensando da stamattina.»
«Ma guarda, sei diventato capace di leggere nel pensiero?»
«No, ma non c’è bisogno di leggere nel pensiero per capire il
motivo del tuo comportamento.»
«Benissimo, allora lascia che sia io a leggerti nel pensiero, eh?»
sibilò lei, stanca del suo atteggiamento di superiorità, stanca di
lui. «E vuoi sapere che cosa vedo?» Si rendeva conto che aveva
parlato abbastanza forte da farsi sentire in tutta la biblioteca, ma
non le interessava. «Vedo un uomo che è molto bravo a dire le
cose giuste, ma che quando si arriva al dunque, non agisce in
maniera coerente.»
«E questo che cosa significa?»
Lei lo guardò, con i muscoli del corpo tesi dalla collera.
«Credi non sappia cosa pensi veramente della nostra città? Che
per te questo posto non è altro che un’uscita sull’autostrada?
Che in fondo non riesci a capire che cosa ci trovino di bello da
queste parti? E che, nonostante quello che mi hai detto l’altra
queste parti? E che, nonostante quello che mi hai detto l’altra
notte, per te l’idea che tu possa trasferirti a vivere qui è
assolutamente ridicola?»
«Non ho detto questo.»
«Non ce n’era bisogno!» gridò lei, detestandolo per la sua aria
sicura. «È questo il punto. Quando parlavo di sacrificio, sapevo
benissimo che secondo te ero io quella che doveva sradicarsi.
Che avrei dovuto lasciare la mia famiglia, gli amici, la casa,
perché New York è molto meglio. Che avrei dovuto fare la
parte della brava donnina che segue il suo uomo ovunque lui
voglia andare. Non ti è mai passato per la testa che dovessi
essere tu a lasciare tutto.»
«Stai esagerando.»
«Ah davvero? E su che cosa? Sul fatto che dovessi essere io
quella che si trasferiva? Oppure avevi intenzione di prendere un
giornale di offerte immobiliari domattina prima di partire? Ecco,
guarda, ti facilito le cose», disse, afferrando il telefono. «Il signor
Reynolds ha l’ufficio proprio qui di fronte e sono sicura che
sarebbe felicissimo di mostrarti un paio di case stasera, se hai
intenzione di acquistare.»
Jeremy la guardava in silenzio, incapace di negare quelle accuse.
«Non hai niente da dire?» domandò lei sbattendo la cornetta con
forza. «Il gatto ti ha mangiato la lingua? Allora, spiegami almeno
questo. Che cosa intendevi esattamente quando hai detto che
avremmo trovato un modo per far funzionare la cose? Credevi
che mi sarei accontentata di starmene qui ad aspettare una tua
visita di tanto in tanto per una sveltina, senza alcuna prospettiva
di un futuro insieme? Oppure pensavi di approfittare delle tue
visite per convincermi dei miei errori, dal mo-140
mento che ritieni che io stia sprecando la mia vita qui e che sarei
molto più felice trotterellandoti dietro?»
La rabbia e la frustrazione erano evidenti nella sua voce; come le
implicazioni di ciò che stava dicendo. Per un po’, rimasero in
silenzio.
«Perché non mi hai detto queste cose ieri sera?» domandò infine
lui, abbassando la voce di una ottava.
«Ci ho provato», rispose lei. «Solo che tu non volevi ascoltare.»
«Allora perché…?»
Lasciò la domanda a metà, il suo significato era comunque
lampante.
«Non lo so.» Lei girò la testa. «Sei un bel ragazzo, siamo stati
bene insieme. Forse ero dell’umore giusto e basta.»
Lui la fissò. «È stato solo questo per te?»
Lui la fissò. «È stato solo questo per te?»
«No», ammise lei, leggendo il dolore nel suo sguardo. «Non ieri
notte. Ma non cambia il fatto che sia finita, giusto?»
«Vuol dire che molli tutto?»
«No.» Con suo sgomento, Lexie si sentì salire le lacrime agli
occhi. «Non farmi questo. Sei tu che te ne vai. Sei tu che sei
venuto nel mio mondo, non il contrario. Io ero soddisfatta fino al
tuo arrivo. Magari non completamente felice, magari un po’ sola,
ma soddisfatta. Mi piace la mia vita qui.
Mi piace poter passare a trovare Doris se non si sente bene. Mi
piace leggere una fiaba ai bambini in biblioteca. E mi piace anche
il nostro piccolo giro delle dimore storiche, anche se hai
intenzione di trasformarlo in qualcosa di orribile per fare colpo in
televisione.»
Erano in piedi l’uno di fronte all’altra, immobili e alla fine senza
più parole. Adesso che era stato detto tutto, entrambi si
sentivano prosciugati.
«Non essere così», disse lui.
«Così come? Come una che dice la verità?»
Invece di aspettare la sua risposta, Lexie prese la giacca e la
borsa e si diresse verso la porta.
borsa e si diresse verso la porta.
Jeremy si scostò da parte per lasciarla passare e lei lo superò
senza dire un’altra parola. Aveva fatto pochi passi fuori
dall’ufficio, quando lui trovò il coraggio di parlare di nuovo.
«Dove vai?»
Lexie fece un altro passo, poi si fermò sospirando. Si voltò e
rispose: «A casa». Si asciugò una lacrima dalla guancia e
raddrizzò le spalle. «Proprio come farai tu.»
141
18
Più tardi quella sera Alvin e Jeremy piazzarono le telecamere
accanto alla passerella sul fiume Pamlico. A tratti arrivava fin lì il
suono della musica nel magazzino di tabacco Meyers, dove si
stava svolgendo il ballo. I negozi in centro avevano chiuso per la
serata e persino il Lookilu era deserto. Avvolti nei loro giacconi,
sembravano soli.
«E poi?» chiese Alvin.
«È tutto», disse Jeremy. «Poi se n’è andata.»
«E tu non l’hai seguita?»
«Non voleva che lo facessi.»
«E come fai a dirlo?»
Jeremy si strofinò gli occhi, ripetendosi mentalmente per la
centesima volta la discussione di quel pomeriggio. Le ultime ore
erano passate in maniera confusa. Ricordava vagamente di
essere tornato nella saletta dei libri rari per rimettere la pila di
diari sullo scaffale e di essere uscito chiudendo a chiave la porta.
Durante il tragitto di ritorno, aveva rimuginato su ciò che lei gli
aveva detto, e il senso di rabbia e tradimento che provava si era
mescolato con la tristezza e il rimpianto. Si era sdraiato nella sua
stanza al Greenleaf, riflettendo se avrebbe potuto affrontare
meglio la situazione. Non sarebbe dovuto piombare
precipitosamente nel suo ufficio come aveva fatto. Davvero quel
diario lo aveva mandato così in collera? Era arrabbiato perché
era stato ingannato? Oppure era soltanto in collera con Lexie e,
come lei, cercava una scusa per litigare?
Non ne era scuro, né Alvin aveva saputo fornirgli una risposta,
dopo che gli aveva raccontato gli avvenimenti. Tutto ciò che lui
sapeva era di essere esausto e che, nonostante avesse delle
riprese da fare, l’istinto lo spronava ad andare a casa di Lexie
per vedere se era possibile rimediare in qualche 142
modo. Sempre ammesso che lei fosse in casa. Da quanto ne
sapeva, si trovava al ballo assieme a tutti gli altri.
Jeremy sospirò e ripensò agli ultimi istanti in biblioteca. «L’ho
capito dal modo in cui mi ha guardato.»
«Allora è finita.»
«Sì, è finita», confermò Jeremy.
Nell’oscurità Alvin scrollò il capo e si girò. Non riusciva proprio
a concepire che il suo amico si fosse preso una scuffia tanto forte
per una donna in così pochi giorni. Lei non era affascinante, e
non incarnava l’immagine rispettosa che si era fatto delle donne
del Sud.
Ma non era importante. Alvin sapeva che era una cosa
passeggera e non aveva dubbi che Jeremy l’avrebbe superata
non appena fosse salito sull’aereo per tornare a casa.
Jeremy superava sempre tutto.
Al ballo, il sindaco Gherkin era seduto in un angolo con il mento
appoggiato alla mano.
Aveva sperato che jeremy si facesse vedere, preferibilmente con
Lexie, ma non appena arrivò, sentì le chiacchiere dei volontari
che parlavano della discussione in biblioteca. Secondo loro si era
trattato di una cosa grossa, che aveva a che fare con uno dei
diari e con una montatura di qualche genere.
A ripensarci adesso, il sindaco rimpianse di aver donato il diario
di suo padre alla biblioteca, ma quando l’aveva fatto non gli era
sembrato tanto importante e poi conteneva resoconti accurati
della storia cittadina. La biblioteca era il suo posto. E chi poteva
immaginare quello che sarebbe successo in quindici anni? Chi
poteva prevedere che la tessitura sarebbe stata chiusa, la miniera
abbandonata e che centinaia di persone sarebbero rimaste
disoccupate? Che molte giovani famiglie sarebbero andate via
per non tornare più? Che la città si sarebbe trovata costretta a
lottare per la sopravvivenza?
Forse non avrebbe dovuto aggiungere il cimitero al giro. Forse
Forse non avrebbe dovuto aggiungere il cimitero al giro. Forse
non avrebbe dovuto reclamizzare i fantasmi quando sapeva che
le luci erano solo quelle del turno di notte alla cartiera. Ma il fatto
era che la città aveva bisogno di un richiamo, qualcosa che
inducesse la gente a visitarla, a fermarsi lì un paio di giorni tanto
per capire che posto meraviglioso fosse. Con un sufficiente
passaggio turistico Boone Creek si sarebbe potuta trasformare in
un luogo di villeggiatura per anziani come Oriental, Washington o
New Bern. Era l’unica speranza per la città, secondo lui. I
pensionati volevano locali accoglienti dove mangiare e riunirsi, e
negozi per fare shopping. Non sarebbe accaduto subito, ma era
l’unico progetto che aveva e doveva pur cominciare da qualche
parte. Grazie al tour nel cimitero con le sue luci misteriose,
avevano venduto un centinaio di biglietti in più per il giro e
l’arrivo di quel giornalista aveva offerto loro la possibilità di farsi
conoscere a livello nazionale.
Certo, aveva sempre saputo che Jeremy Marsh sarebbe arrivato
alla soluzione. Non era questo a preoccuparlo. Anche se avesse
raccontato la verità su una rete televisiva nazionale, o nella sua
rubrica, il risultato sarebbe stato che la gente avrebbe parlato
comunque di Boone Creek e a qualcuno sarebbe venuta la
curiosità di visitarla. E qualsiasi pubblicità era meglio che nessuna
pubblicità. A patto, però, che lui non usasse il termine
«montatura».
Era una parola così brutta, e non era in linea con quanto
accaduto. Certo, lui sapeva da che cosa erano provocate le luci,
ma quasi tutti gli altri ne erano all’oscuro e comunque, che male
c’era? Il fatto era che esisteva una leggenda, esistevano le luci e
alcune persone credevano si trattasse di fantasmi. Altri
reggevano il gioco, convinti che ciò rendesse la città diversa e
speciale. E adesso c’era bisogno di questo, più che mai.
Se Jeremy Marsh portava con sé ricordi positivi della città, lo
avrebbe capito. Se non aveva ricordi piacevoli, non era detto
che lo capisse. E in quel momento il sindaco Gherkin non sapeva
con quale impressione Jeremy sarebbe ripartito l’indomani.
«Il sindaco ha l’aria preoccupata, non trovi?» osservò Rodney.
143
Rachel si voltò a guardare, fiera che loro due fossero stati
insieme per gran parte della serata.
Non la disturbava nemmeno il fatto che lui ogni tanto lanciasse
un’occhiata verso l’ingresso e scru-tasse la folla alla ricerca di
Lexie, per la semplice ragione che comunque sembrava contento
anche di stare con lei.
«Sì, forse. Ma ha sempre quell’espressione.»
«No», obiettò Rodney. «È diverso. Deve avere qualche pensiero
serio.»
«Vuoi parlargli?»
Rodney ci pensò. Come al sindaco – e a quanto pareva, a tutti
quanti – gli era giunta voce della discussione in biblioteca, ma a
differenza degli altri lui aveva un’idea abbastanza precisa di
quanto stava accadendo. Era riuscito a mettere insieme i pezzi,
soprattutto dopo aver notato l’espressione di Gherkin. D’un
tratto aveva capito che il sindaco era preoccupato per il modo in
cui Jeremy avrebbe descritto al mondo il loro piccolo mistero.
Per quanto riguardava la discussione, aveva cercato di avvertire
Lexie. Era inevitabile che succedesse. Ma Lexie era la donna più
testarda che avesse mai conosciuto, una che faceva sempre a
modo suo. Poteva essere volubile, e adesso anche jeremy ne
aveva avuto un assaggio. Sebbene Rodney avrebbe preferito che
lei non si sottoponesse di nuovo a quella tortura, era sollevato di
sapere che la storia era praticamente finita.
«No», rispose a Rachel, «non c’è molto da dire. Ormai la cosa
gli è sfuggita di mano.»
Lei corrugò la fronte. «Che cosa gli è sfuggito di mano?»
«Niente», tagliò corto lui con un sorriso. «Non è importante.»
Rachel lo guardò un istante e poi scrollò le spalle. Stavano in
piedi vicini, mentre la band suonava un pezzo dopo l’altro. La
gente scendeva in pista a ballare e lei cominciò a battere il
tempo.
Rodney, assorto nei suoi pensieri, sembrava non fare caso ai
ballerini. Voleva parlare con Lexie.
Venendo lì era passato davanti a casa sua e aveva visto le luci
accese e l’auto nel vialetto. Inoltre, aveva ricevuto un rapporto
da un agente e sapeva che City Boy e l’altro personaggio da
cartone animato stavano mettendo le telecamere sulla passerella
pedonale. Il che significava che la discussione non era ancora
stata risolta.
Se, alla fine del ballo, le luci da Lexie erano ancora accese,
magari poteva fare un salto da lei, come aveva fatto la sera dopo
la partenza del Ragazzo di Chicago. Aveva la sensazione che lei
non si sarebbe sorpresa del suo arrivo. Probabilmente sarebbe
rimasta a guardarlo sulla porta per un attimo, prima di farlo
entrare. Poi avrebbe preparato del decaffeinato, proprio come
l’ultima volta e si sarebbero seduti sul divano, dove lui l’avrebbe
ascoltata sfogarsi per ore e rimproverarsi della propria stupidità.
Annuì tra sé. La conosceva meglio di quanto conoscesse se
stesso.
Tuttavia, non si sentiva pronto a farlo. Tanto per cominciare, lei
aveva bisogno di un po’ di tempo per riflettere sulla cosa. E poi
lui doveva riconoscere di essere un po’ stanco di fare la parte
del fratello maggiore, e non era sicuro di sentirsi dell’umore
del fratello maggiore, e non era sicuro di sentirsi dell’umore
giusto per stare lì ad ascoltarla. Si stava divertendo e non era
così ansioso di terminare la serata con una depressa.
Inoltre, la band non era affatto male, molto meglio di quella
dell’anno precedente. Con la coda dell’occhio guardò Rachel
ondeggiare a tempo con la musica, lusingato dal fatto che avesse
cercato la sua compagnia, proprio come aveva fatto la sera della
festa. Lui si era semrpe sentito a suo agio con lei, ma
stranamente, negli ultimi tempi, ogni volta che la vedeva gli
sembrava più carina della precedente. Senza dubbio era solo la
sua immaginazione, però non poteva fare a meno di pensare che
quella sera era particolarmente graziosa.
Rachel si accorse del suo sguardo e gli sorrise imbarazzata.
«Scusa», disse, «questa canzone mi piace molto».
Rodney si schiarì la voce. «Vuoi ballare?» le chiese.
Lei sgranò gli occhi. «Davvero?»
«Non sono granché come ballerino, però…»
«Mi piacerebbe molto», lo interruppe lei prendendolo per mano.
144
Seguendola sulla pista, Rodney si disse che avrebbe rimandato a
più tardi la soluzione dei problemi di Lexie.
Doris era sulla sedia a dondolo in salotto e fissava distrattamente
la finestra, chiedendosi se Lexie sarebbe passata da lei. L’istinto
le diceva di no, ma era una di quelle volte in cui avrebbe
desiderato tanto sbagliarsi. Sapeva che Lexie era sconvolta –
non si trattava tanto di una premonizio-ne, quanto di un fatto – e
che tutto dipendeva dall’imminente partenza di Jeremy.
Per certi versi si pentiva di aver spinto la nipote verso di lui. A
ripensarci adesso, avrebbe dovuto immaginare che poteva finire
in quel modo, ma allora perché si era data tanto da fare per
mettere in moto il meccanismo? Per il fatto che Lexie era sola?
Perché la vedeva fossilizzata nella sua routine da quando si era
innamorata di quel giovanotto di Chicago? Perché aveva capito
che lei era spaventata al pensiero di innamorarsi di un altro?
Per quale ragione Lexie non era riuscita a godersi semplicemente
la compagnia di Jeremy? In realtà, era quello che voleva che
facesse. Lui era intelligente e affascinante e Lexie avrebbe solo
dovuto capire che al mondo esistevano anche uomini come lui.
Doveva rendersi conto che non tutti erano come Avery o quel
giovane di Chicago. Invece, Lexie aveva preso la cosa
terribilmente sul serio, e ora era in ansia per lei.
Certo, alla lunga si sarebbe ripresa, Doris ne era certa. Avrebbe
finito per accettare la realtà dei fatti e avrebbe trovato il modo di
andare avanti. Con il tempo, si sarebbe perfino convinta che era
stata una bella esperienza. Se c’era una cosa che sapeva, era
stata una bella esperienza. Se c’era una cosa che sapeva, era
che Lexie aveva un ottimo istinto di sopravvivenza.
Doris sospirò. Anche Jeremy era innamorato, considerò. Se
Lexie si era presa una cotta, quella di lui era molto più forte e poi
sua nipote aveva imparato l’arte di gettarsi le storie dietro le
spalle e continuare a vivere fingendo che non fossero mai
successe.
Povero Jeremy, pensò. Non era giusto nei suoi confronti.
Su nel cimitero di Cedar Creek, Lexie guardava nella nebbia
sempre più fitta il punto dov’erano stati seppelliti i genitori.
Sapeva che Jeremy e Alvin avrebbero ripreso il ponte e Riker’s
Hill dalla passerella pedonale, e quello significava che quella sera
se ne sarebbe potuta rimanere da sola con i suoi pensieri.
Non intendeva trattenersi a lungo, ma qualcosa l’aveva spinta ad
andare lì. Aveva fatto lo stesso quando erano finite le sue storie
con Avery e il Ragazzo di Chicago e, mentre puntava il raggio
della torcia elettrica sulla lapide con i nomi dei suoi genitori,
desiderò che fossero lì per parlare con lei.
Sapeva di essersene fatta un’immagine idealizzata, che mutava
con il suo stato d’animo. A volte le piaceva pensarli allegri ed
estroversi; altre volte se li immaginava come ascoltatori silenziosi.
In quel momento li voleva saggi e forti, in grado di darle il
consiglio giusto per mettere un po’ di chia-rezza nella sua vita.
Era stanca di commettere errori. Non aveva fatto altro, si disse
Era stanca di commettere errori. Non aveva fatto altro, si disse
scoraggiata, e in quel momento era sul punto di sbagliare di
nuovo, qualunque fosse la sua decisione.
Sull’altra riva del fiume la nebbia permetteva di vedere solo le
luci della cartiera, mentre la città era avvolta da una bruma
spettrale. Secondo l’orario in possesso di Jeremy il treno stava
per arrivare e Alvin controllò un’ultima volta la telecamera rivolta
verso Riker’s Hill. Era quella l’inquadratura cruciale. L’altra sul
ponte era più facile, ma poiché Riker’s Hill era distante e avvolta
dalla nebbia, non era affatto sicuro che la telecamera sarebbe
riuscita a riprendere bene la scena. Non aveva un teleobiettivo,
che era ciò che gli serviva in quel caso. Pur essendosi portato
dietro i migliori obiettivi e le pellicole più sensibili, avrebbe
preferito che Jeremy gli menzionasse questo particolare prima
della sua partenza da New York.
145
Però in quei giorni Jeremy era un po’ confuso e forse lo si
poteva perdonare. In genere, in una situazione simile, avrebbe
continuato a ridere e a dare battute una dopo l’altra, mentre
adesso non aveva quasi spiccato parola da due ore. Invece delle
riprese facili e divertenti che si era immaginato, quelle ultime ore
erano state più simili al lavoro vero e proprio, soprattutto a causa
del freddo. Non era venuto lì per quello, ma tant’era… avrebbe
alzato la parcella e inviato il conto a Nate.
Intanto Jeremy era appoggiato alla balaustra a braccia conserte e
guardava un banco di nubi.
«Ti ho detto che mi ha chiamato Nate prima?» chiese Alvin,
cercando ancora una volta di coinvolgere l’amico.
«Ah sì?»
«Mi ha svegliato dal sonnellino», proseguì Alvin, «e si è messo a
sbraitare con me perché non tenevi acceso il cellulare».
Nonostante l’umore pensieroso, Jeremy sorrise. «Ho imparato a
tenerlo spento il più possibile.»
«Già… be’, avresti potuto dirmelo.»
«Che cosa voleva?»
«Il solito. Gli ultimi aggiornamenti. Ma senti questa: mi ha chiesto
se potevi prendere un campione.»
«Un campione di cosa?»
«Immagino che si riferisse ai fantasmi. Della melma o qualcosa
del genere. Gli è venuto in mente che potevi mostrarlo ai
produttori quando vi incontrerete la settimana prossima.»
«Della melma?»
«L’ha detto lui», ribatté Alvin alzando e mani.
«Ma lo sa che si tratta semplicememnte delle luci che vengono
dalla cartiera.»
Alvin annuì. «Certo che lo sa. Ha pensato che poteva essere un
tocco interessante. Sai, l’asso nella manica per fare colpo su di
loro.»
Jeremy era incredulo. Nate aveva avuto molte idee folli nel corso
degli anni, ma questa le superava tutte. Lui era fatto così.
Qualunque cosa gli passasse per la mente gli usciva di bocca, e
metà delle volte non si ricordava nemmeno di averla detta.
«Vuole che lo richiami», aggiunse Alvin.
«Lo farei», rispose Jeremy, «ma ho lasciato il cellulare al
Greenleaf.» Si interruppe. «Non gli hai raccontato del diario,
vero?»
«Quando ha chiamato non sapevo nemmeno che esistesse»,
rispose Alvin. «Me ne hai parlato solo dopo. Come ti dicevo, mi
ha svegliato dal sonnellino.»
Jeremy assentì pensieroso. «Se ti richiama, tienitelo per te ancora
per un po’, d’accordo?»
«Non vuoi che sappia che il sindaco ha organizzato tutta questa
montatura?»
«No», confermò lui. «Non ancora.»
«Non ancora o mai?» chiese Alvin.
Jeremy non rispose subito. Era questo l’interrogativo
fondamentale, no? «Non ho ancora deciso.» Alvin guardò
ancora una volta attraverso l’obiettivo. «Sarà dura», osservò.
«Potrebbe non basta-re per ricavarne un servizio, sai. Voglio
dire, le luci sono uno spettacolo, ma devi renderti conto che la
soluzione del mistero non è tanto avvincente.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Per la televisione. Non sono sicuro che gli interessi sapere che
le luci sono causate dal passaggio di un treno.»
«Non si tratta solo del passaggio del treno», lo corresse Jeremy.
«Dipende dal modo in cui le lu-ci della cartiera sono riflesse dal
treno su Riker’s Hill e da come agisce la nebbia, che è più fitta
sul fondo del cimitero che sta sprofondando.»
Alvin finse di sbadigliare. «Scusa, dicevi?»
«Non è affatto noioso», ribatté Jeremy. «Non ti rendi conto di
quanti elementi devono combi-narsi per creare il fenomeno? Le
cave hanno modificato le falde acquifere e hanno fatto
sprofondare 146
sprofondare 146
il cimitero. E poi devi ricordare la posizione del ponte ferroviario
e le fasi lunari. E la leggenda? E
l’ubicazione della cartiera e l’orario dei treni?»
«Fidati, è noioso con la N maiuscola. Sinceramente sarebbe
stato più interessante se tu non avessi trovato la soluzione. Il
pubblico televisivo ama i misteri. Soprattutto in posti come New
Orleans e Charleston o in altri luoghi alla moda e romantici. Ma
le luci riflesse a Boone Creek, North Carolina? Pensavi davvero
che alla gente di New York o Los Angeles possa importare?»
Jeremy aprì la bocca per ribattere, ma poi gli tornò in mente che
Lexie aveva detto esattamente la stessa cosa, e lei viveva lì.
Alvin lo guardò nel silenzio.
«Se vuoi seriamente sfondare in TV, devi rendere la storia più
appetibile e il diario di cui mi hai parlato potrebbe essere quello
che ti serve. Potresti impostare il servizio seguendo il filo delle
tue ricerche, per poi tirare fuori il diario alla fine, come colpo di
scena. Forse sarà sufficiente ad attirare l’attenzione dei
produttori, se presenti la cosa nel modo giusto.»
«Secondo te dovrei gettere la città in bocca ai lupi?»
Alvin scrollò il capo. «Non ho detto questo. E sinceramente, non
so nemmeno se il diario basterà. Ti sto solo dicendo che, se non
so nemmeno se il diario basterà. Ti sto solo dicendo che, se non
riesci a procurarti della melma, sarà meglio che valuti l’ipotesi di
utilizzare il diario, se non vuoi fare la figura dell’idiota alla
riunione.»
Jeremy girò lo sguardo. Sapeva che il treno sarebbe arrivato
entro pochi minuti. «Lexie non mi rivolgerebbe più la parola»,
disse. Scrollò le spalle. «Sempre ammesso che abbia ancora
occasione d’incontrarla.»
Alvin non rispose e Jeremy si voltò a guardarlo.
«Secondo te, che cosa dovrei fare?»
L’altro fece un profondo respiro. «Per me la risposta è semplice:
dipende da che cosa è più importante per te, giusto?»
147
19
Jeremy dormì male l’ultima notte al Greenleaf. Lui e Alvin
avevano finito di girare – al passaggio del treno, Riker’s Hill si
era illuminata fiocamente della luce riflessa – e dopo aver
esaminato le riprese, avevano deciso che il materiale era
sufficiente a dimostrare la teoria di Jeremy, a meno che non
intendessero usare un equipaggiamento migliore.
Durante il tragitto verso il Greenleaf, tuttavia, lui non pensava né
al mistero né alla guida. La sua mente riandò invece agli ultimi
giorni. Ricordò la prima volta che aveva scorto Lexie nel
cimitero e il loro veloce scambio di battute in biblioteca. Pensò al
pranzo su Riker’s Hill e alla visita alla passerella. Tornò allo
stupore che aveva provato per la festa organizzata in suo onore e
a come si era sentito la prima volta che aveva visto le luci al
cimitero. Ma soprattutto, si soffermò sui momenti in cui si era
reso conto di essersi innamorato di lei.
Possibile che tante cose fossero accadute in un paio di giorni
solamente? Una volta entrato nella sua stanza al Greenleaf,
cercò di individuare il momento esatto in cui tutto aveva
cominciato ad andare a rotoli. Non ne era sicuro, ma adesso
aveva l’impressione che lei tentasse di sfuggire ai propri
sentimenti, e non soltanto lui. Perciò, quando aveva cominciato a
rendersi conto di nutrire dei sentimenti nei suoi confronti? Alla
festa, come era successo a lui? Al cimitero? Prima, quel
pomeriggio?
Non conosceva la risposta. Sapeva solo che l’amava e che non
poteva pensare di non rivederla più. Le ore trascorrevano lente.
Il volo da Raleigh era a mezzogiorno, perciò mancava poco alla
sua partenza da Boone Creek. Si alzò prima delle sei, finì di fare
i bagagli e li caricò in macchina. Dopo 148
essersi assicurato che Alvin avesse acceso le luci nel bungalow,
uscì nella frizzante aria mattutina e si diresse verso la reception.
Jed si accigliò, come aveva immaginato. Aveva la chioma ancora
più scompigliata del solito e i vestiti spiegazzati, il che gli fece
dedurre che si era appena alzato. Jeremy posò la chiave sul
bancone. «Davvero un gran bel posticino questo», disse. «Lo
consiglierò ai miei amici.»
L’espressione di Jed, se possibile, si fece ancora più torva, ma
lui si limitò a rivolgergli un sorriso indisponente. Mentre tornava
verso il suo bungalow vide un paio di fari che avanzavano nella
nebbia. Per un istante pensò che si trattasse di Lexie e il battito
del suo cuore accelerò. Quando l’au-to divenne riconoscibile,
però, la sua trepidazione svanì di colpo.
Il sindaco Gherkin, avvolto in un giaccone e in una sciarpa, scese
dall’auto. Senza la baldanza che lo aveva caratterizzato negli
incontri precedenti, avanzò verso Jeremy nell’oscurità.
«Sta facendo i bagagli, immagino», disse.
«Ho appena finito.»
«Mi auguro che Jed non le abbia presentato il conto.»
«No», rispose Jeremy. «A proposito, grazie per questo.»
«Si figuri. Era il minimo che potessimo fare per lei, come ho
detto. Spero che il soggiorno nella nostra bella città le sia
piaciuto.»
Jeremy annuì, notando la sua espressione preoccupata. «Sì,
certo», rispose.
Per la prima volta da quando lo conosceva il sindaco sembrava
senza parole. Con il passare dei minuti il silenzio tra di loro
diventò sempre più imbarazzante. Gherkin, a disagio, si sistemò
la sciarpa. «Ecco, ero passato solo per dirle che gli abitanti di qui
sono stati felici di conoscerla. Parlo a nome della città e le
garantisco che ha fatto un’ottima impressione.»
Jeremy infilò la mano in tasca. «Perché tutta quella montatura?»
Gherkin sospirò. «Si riferisce all’aggiunta del cimitero al giro?»
«No, intendo al fatto che suo padre annotò la soluzione del
mistero nel suo diario e che lei me l’ha tenuto nascosto.»
mistero nel suo diario e che lei me l’ha tenuto nascosto.»
Per un attimo il viso di Gherkin assunse un’espressione triste.
«Ha ragione, sa», disse dopo un momento. La sua voce era
esitante. «Mio padre risolse il mistero; immagino che fosse
destinato a farlo.» Lo guardò negli occhi. «Lo sa perché
cominciò a interessarsi tanto alla storia della città?»
Jeremy scrollò la testa.
«Durante la Seconda guerra mondiale era arruolato nell’esercito
assieme a un certo Lloyd Shaumberg. Costui era tenente, mentre
mio padre era un soldato semplice. Allora non c’erano soldati di
professione a combattere sul fronte. La maggior parte delle
persone arruolate era gente civile: pa-nettieri, macellai,
meccanici. Shaumberg era uno storico, o almeno così diceva mio
padre. In realtà, era soltanto un insegnante di storia in un liceo
del Delaware, ma papà giurava di non aver mai incontrato un
ufficiale altrettanto colto. Per intrettenere i suoi uomini, gli
raccontava storie del passato, storie che non conosceva quasi
nessuno e che li distraevano dalla paura della guerra. Comunque,
per farla breve, dopo lo sbarco in Italia il plotone dove c’erano
anche Shaumberg e mio padre fu circondato dai tedeschi. Allora
Shaumberg ordinò ai suoi uomini di arretrare, mentre lui gli
avrebbe coperto le spalle. ‘Non ho scelta’, disse loro. La sua
era una missione suicida, lo sapevano tutti, ma era fatto così.»
Gherkin fece una pausa. «Alla fine Shaumberg morì, mentre mio
padre sopravvisse e, una volta tornato a casa, decise che
sarebbe diventato uno storico anche lui per onorare la memoria
del suo amico.»
Vedendo che Gherkin non aggiungeva altro, Jeremy lo guardò
con aria interrogativa. «Perché me l’ha raccontato?»
«Perché, per come la vedo», rispose il sindaco, «nemmeno io
avevo molta scelta. Tutte le città hanno bisogno di rivendicare
qualcosa come proprio, qualcosa di unico e di caratteristico che
le identifichi. A New York c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Avete Broadway e Wall Street e l’Empire State Building e la
Statua della Libertà. Ma da queste parti, dopo la chiusura di
tante attività industriali e commerciali, mi sono reso conto che
l’ultima cosa che ci restava era una leggenda. E le leg-149
gende… ecco, sono soltanto relitti del passato e una città ha
bisogno di ben altro per sopravvivere.
Ecco quello che stavo cercando di fare, volevo solo trovare il
modo di tenere viva questa città, e poi è arrivato lei.»
Jeremy distolse lo sguardo, ripensando ai negozi chiusi che aveva
visto al suo arrivo, ricordando quello che gli aveva detto Lexie
sulla chiusura della tessitura e della miniera di fosforo.
«È venuto qui per darmi la sua versione della storia?»
«No», disse Gherkin. «Volevo farle sapere che è stata tutta una
mia idea. Il consiglio comunale e gli abitanti non c’entrano. Può
darsi che abbia sbagliato, può darsi che lei non sia d’accordo
con il mio operato. Ma ho fatto ciò che ritenevo giusto per la mia
città e la gente che ci vive. Le chiedo so-lo di tenere a mente che
nessun altro era coinvolto, quando scriverà il suo articolo o
preparerà il suo servizio. Se vuole sacrificare me, non c’è
problema. E credo che mio padre capirebbe.»
Senza aspettare una risposta, Gherkin tornò alla macchina e
svanì nella nebbia.
Mentre l’alba tingeva il cielo di un grigio cupo, Jeremy stava
aiutando Alvin a caricare in macchina le ultime cose, quando
arrivò Lexie.
Scese dalla macchina ed era come la prima volta che l’aveva
vista, gli occhi violetti imperscrutabili mentre sosteneva il suo
sguardo. Teneva in mano il diario di Owen Gherkin. Per un
attimo rimasero l’uno di fronte all’altra come se non sapessero
che cosa dirsi.
Fu Alvin, in piedi accanto al bagagliaio aperto, a rompere il
silenzio.
«Buongiorno», disse.
Lei si sforzò di sorridere. «Ciao, Alvin.»
«Ti sei alzata presto.»
Lei lo ignorò, guardando verso Jeremy.
«Vado a dare un’ultima controllata alla camera», dichiarò allora
Alvin, anche se nessuno dei due sembrava prestargli ascolto.
Quando se ne fu andato, Jeremy fece un profondo sospiro.
«Pensavo che non saresti più venuta», disse.
«A essere sincera, non sapevo neanch’io che cosa avrei fatto.»
«Sono felice che tu sia qui», disse lui. La luce grigia gli fece
tornare in mente la loro passeggiata sulla spiaggia nei pressi del
faro e, con una fitta al cuore, si rese conto di quanto l’amava.
Sabbene il suo primo istinto fosse di colmare la distanza che li
separava, la posa rigida di lei lo dissuase dal farlo.
Lexie indicò la macchina. «Vedo che hai caricato tutto e sei
pronto a partire.»
«Già», ribatté lui. «È tutto pronto.»
«Avete finito di fare le riprese?»
Lui esitò, scontento della banalità di quel dialogo. «Sei venuta fin
qui per chiedermi del lavoro e per vedere se avevo caricato la
macchina?»
«No», rispose lei.
«Allora perché?»
«Per scusarmi del modo in cui ti ho trattato ieri in biblioteca. Non
avrei dovuto agire così. Non è stato giusto nei tuoi confronti.»
Lui le rivolse un mezzo sorriso. «Non importa», disse.
«Sopravviverò. Comunque, scusami anche tu.»
Lei gli porse il diario. «Ti ho portato questo, nel caso ti servisse.»
«Credevo che non volessi che lo usassi.»
«Infatti.»
«Allora perché me lo dai?»
«Perché avrei dovuto parlartene prima, e non voglio che tu creda
che ci sia qualcuno qui coinvolto in un complotto. Mi rendo
conto che puoi aver pensato che la città volesse ingannarti, e
questa è un’offerta di pace. Ma ti garantisco che non c’era sotto
nessuna montatura…»
150
«Lo so», la interruppe Jeremy. «È passato di qui il sindaco.»
Lei annuì, poi abbassò lo sguardo a terra prima di rialzare gli
Lei annuì, poi abbassò lo sguardo a terra prima di rialzare gli
occhi su di lui. Gli sembrò che volesse dirgli qualcosa, ma poi
avesse rinunciato.
«Allora vado», dichiarò, infilando le mani nelle tasche del
cappotto. «Sarà meglio che ti lasci finire i preparativi per la
partenza. E poi non sopporto gli addii.»
«Così questo è un addio?» domandò lui cercando di guardarla
negli occhi.
Lei piegò la testa di lato con un’espressione triste. «Per forza,
no?»
«Ah, è così? Sei venuta qui per dirmi che è finita?» Si passò le
dita tra i capelli, accigliato. «Non credi che anch’io abbia il diritto
di dire la mia?»
Lei rispose con voce calma. «Ne abbiamo già parlato, Jeremy.
Stamattina non sono venuta qui per litigare, né per farti
arrabbiare. Ma perché mi dispiace di come ti ho trattato ieri. E
perché non volevo che pensassi che questa settimana non ha
significato niente per me. Al contrario.»
Quelle parole lo colpirono come schiaffi, ma trovò la forza di
ribattere: «Però sei comunque decisa a troncare la storia.»
«Sono decisa a essere realistica», rispose lei.
«E se ti dicessi che ti amo?»
Lei lo guardò a lungo prima di distogliere lo sguardo. «Non
dirlo.»
«Lui fece un passo verso di lei. «Ma è così», ripeté. «Ti amo.
Non posso farci niente.»
«Jeremy… per favore…»
Lui agì in fretta, intuendo che stava per sfondare le sue difese,
spinto dal coraggio della speranza. «Voglio che tra di noi
funzioni.»
«Non possiamo», rispose lei.
«Ma certo che possiamo», ribatté lui, girando intorno alla
macchina. «Possiamo trovare il modo insieme.»
«No», ribadì lei, con voce più decisa. Fece un passo indietro.
«Perché no?»
«Perché sposerò Rodney, va bene?»
Quelle parole lo paralizzarono. «Ma di che cosa parli?»
«Ieri sera, dopo il ballo, è passato da me e abbiamo aprlato a
lungo. Lui è onesto, gran lavoratore, mi ama e poi vive qui. E tu,
invece, no.»
Jeremy la guardò allibito. «Non ci credo.»
Lei sostenne il suo sguardo, impassibile. «Credici.»
Vedendo che lui non parlava, gli porse il diario, poi alzò la mano
in un breve cenno di saluto e si allontanò indietreggiando, più o
meno come aveva fatto il primo giorno al cimitero.
«Addio, Jeremy», gli disse prima di risalire in macchina.
Ancora paralizzato dallo choc, lui udì il motore che si avviava e
la guardò girarsi di spalle mentre faceva manovra. Avanzò e mise
una mano sul cofano per fermarla, ma quando la macchina si
mise in movimento lasciò scivolare le dita sulla carrozzeria umida
e poi si scostò per farla passare.
Per un attimo gli parve di vedere il luccichio delle lacrime nei suoi
occhi, ma quando lei girò lo sguardo dall’altra parte, comprese in
maniera definitiva che non l’avrebbe più rivista.
Avrebbe voluto gridare, urlarle di fermarsi. Voleva dirle che
poteva rimanere lì, che voleva ri-manerci, che se partire
significava perderla, allora non valeva la pena tornare a casa. Ma
le parole rimasero intrappolate dentro di lui e lentamente l’auto
gli sfilò accanto, accelerando mentre si avviava lungo la strada.
Jeremy rimase in piedi a guardare la macchina che veniva
inghiottita dalla nebbia, finché si videro solo le luci dei fanali
posteriori. Poi svanì del tutto e anche il rombo del motore si
perse tra gli alberi.
151
20
Jeremy trascorse il resto della giornata in uno stato di trance.
Ricordava a stento di aver seguito Alvin sull’autostrada verso
Raleigh, mentre continuava a guardare nello specchietto
retrovisore sperando di vedere Lexie che arrivava dietro di lui.
Non gli aveva lasciato dubbi circa il suo desiderio di chiudere la
storia. Ciononostante, sentiva una scarica di adrenalina tutte le
volte che scorgeva in lontananza una macchina simile a quella di
lei e rallentava per farsi raggiungere e dare un’occhiata più da
vicino. Così facendo, aumentava la distanza dall’auto di Alvin e
pur sapendo che avrebbe dovuto prestare attenzione alla strada
che aveva davanti, passava la maggior parte del tempo a
guardarsi indietro.
Dopo aver riconsegnato la macchina a noleggio, attraversò il
terminal per raggiungere il cancello d’imbarco. Mentre superava i
negozi gremiti e schivava la gente sul suo cammino, si chiese
ripe-tutamente come mai Lexie fosse tanto decisa a rinunciare a
tutto ciò che avevano condiviso.
Sull’aereo, i suoi pensieri vennero interrotti dall’arrivo di Alvin.
«Grazie per aver fatto in modo che stessimo seduti vicino», disse
lui con voce carica di sarcasmo. Poi sistemò la borsa nello
scomparto sopra la poltrona.
«Come?» chiese Jeremy distratto.
«I posti. Credevo ci avresti pensato tu quando hai fatto il check
in. Per fortuna, ho chiesto quando mi hanno dato la carta
d’imbarco. Ero stato messo nell’ultima fila.»
«Scusa», disse Jeremy. «Devo essermene dimenticato.»
«Già, direi.» Alvin si lasciò cadere sulla poltrona accanto a lui e
lo guardò. «Te la senti di parlarne?»
152
Jeremy esitò. «Non credo ci sia molto da dire.»
«Lo so, ma sfogarti ti farà bene. Non hai visto gli ultimi
programmi in televisione? Bisogna e-sprimere i propri sentimenti,
liberarsi dai sensi di colpa, parlare davanti agli altri dei propri
problemi.» «Magari più tardi», borbottò lui.
«Come vuoi», disse il suo amico. «Se non ne vuoi parlare, per
me è lo stesso. Schiaccerò un pisolino.» Si appoggiò allo
schienale e chiuse gli occhi.
Jeremy guardò fuori dal finestrino e Alvin dormì alla grande per
tutto il volo.
Sul taxi dall’aeroporto La Guardia fino a casa Jeremy venne
bombardato dal frastuono della metropoli: uomini d’affari che
camminavano a passo spedito con le loro ventiquattrore, mamme
che spingevano il passeggino e intanto cercavano di tenere in
equilibrio le borse della spesa, il puzzo dei gas di scarico, i
clacson e le sirene della polizia. Era del tutto normale, un mondo
nel quale era cresciuto e che aveva sempre dato per scontato;
ma mentre guardava fuori dal finestrino per cercare di orientarsi,
il suo pensiero riandò stranamente al Greenleaf e alla sensazione
di pace assoluta che aveva sperimentato lì.
Arrivato al suo condominio, trovò la cassetta delle lettere piena
zeppa di pubblicità e fatture; afferrò il mucchio di posta e si avviò
su per le scale. Nel suo appartamento tutto era come l’aveva
lasciato. Riviste sparse per il salotto, lo studio ingombro di roba
come al solito e solo tre bottiglie di Heineken in frigorifero. Dopo
aver lasciato la valigia in camera da letto, stappò una bottiglia di
birra, prese il portatile e la sacca e andò alla scrivania.
La sacca conteneva tutte le informazioni raccolte nei giorni
precedenti: appunti e fotocopie degli articoli, la macchina
fotografica digitale con le foto scattate al cimitero, la cartina e il
diario. Mentre tirava fuori le cose, gli cadde sulla scrivania un
pacchetto di cartoline e gli ci volle qualche istante per ricordare
di averle acquistate il primo giorno che era arrivato a Boone
Creek. La prima era un panorama della città vista dal fiume. Le
sfilò dalla busta e cominciò a guardarle. Raffiguravano il
municipio, la sagoma vaga di un airone azzurro sulle rive del
torrente Boone, e alcune barche a vela in un pomeriggio
soleggiato. Poi si trovò davanti una foto della biblioteca.
Si fermò a contemplarla, immobile, pensando ancora una volta a
quanto amasse Lexie.
Ma ormai era tutto finito, si disse, riprendendo a guardare la
serie di cartoline. Ne seguiva un’altra sgranata che ritraeva
Herbs e una con la città vista da Riker’s Hill. L’ultima cartolina
era un’immagine del centro cittadino sulla quale indugiò a
riflettere.
Si trattava della riproduzione di una fotografia in bianco e nero
risalente agli anni Cinquanta. In primo piano, si vedeva il teatro
con un gruppo di spettatori ben vestiti in attesa davanti al
botteghi-no; sullo sfondo un albero di Natale nello spiazzo
erboso vicino a Main Street. Sui marciapiedi c’erano coppie che
guardavano le vetrine decorate a festa o che passeggiavano
tenendosi per mano.
Mentre esaminava le foto, Jeremy si sorprese a pensare a come
venivano celebrate le feste a Boone Creek cinquant’anni prima.
Al posto delle vetrine coperte con le assi, c’erano marciapiedi
affollati di donne con il foulard e uomini con il cappello e bambini
che indicavano in alto un ghiacciolo che pendeva da un’insegna.
Gli tornò in mente il sindaco Gherkin. La cartolina non illustrava
solo lo stile di vita di Boone Creek mezzo secolo prima, ma
anche la speranza del sindaco per il futuro. La scena sembrava
un’il-lustrazione di Norman Rockwell, ma con l’atmosfera del
Sud. Tenne in mano la cartolina per un po’, pensando a Lexie e
chiedendosi come avrebbe presentato il suo servizio.
L’appuntamento con i produttori televisivi era fissato per il
martedì pomeriggio. Nate si incontrò prima con Jeremy nel suo
ristorante preferito, lo Smith and Wollensky. Era di ottimo
umore, felice di rivedere il suo protetto e di saperlo nuovamente
in città, sotto il suo occhio vigile. Non appena si furono seduti,
cominciò a parlare delle riprese fatte da Alvin, sostenendo che le
immagini erano 153
fantastiche, come «quella casa infestata di Amityville, però
reale», e assicurandogli che i produttori ne sarebbero rimasti
entusiasti. Jeremy rimase seduto in silenzio quasi tutto il tempo,
ascoltando le chiacchiere di Nate, ma quando vide uscire dal
ristorante una donna che aveva i capelli castani della stessa
identica lunghezza di quelli di Lexie, provò un tuffo al cuore e si
scusò alzandosi per andare in bagno.
Quando tornò, Nate stava guardando il menu. Jeremy aggiunse
del dolcificante al tè freddo che aveva ordinato e lesse anche lui,
poi disse che avrebbe ordinato il pesce spada. Nate lo fissò
stupito.
«Ma questo posto è famoso per le bistecche», protestò.
«Lo so. Ma mi va qualcosa di più leggero.»
Nate si accarezzò distrattamente l’addome, chiedendosi se non
dovesse seguire l’esempio. Alla fine corrugò la fronte e posò il
menu. «Io prenderò la costata», decise. «È tutta la mattina che ci
penso. Ma dove eravamo rimasti?»
«L’incontro», gli ricordò Jeremy e Nate si sporse in avanti.
«È vero che non ci sono fantasmi?» chiese Nate. «Al telefono mi
hai accennato di aver visto le luci ma di esserti fatto un’idea
abbastanza precisa sulla loro origine.»
«Esatto», confermò Jeremy. «Niente fantasmi.»
«Allora di che cosa si tratta?»
Jeremy tirò fuori gli appunti e spiegò a Nate quello che aveva
scoperto, cominciando dalla leggenda e illustrando passo passo i
risultati delle ricerche. Lui stesso si rendeva conto di quanto
suonasse monotona la sua voce. Nate lo ascoltava annuendo
spesso, ma alla fine lui scorse delle rughe di preoccupazione sulla
fronte dell’agente.
«La cartiera?» disse Nate. «Speravo si trattasse di qualche test
del governo o roba simile. Che so, le prove di un nuovo aereo
militare.» Fece una pausa. «E sei proprio sicuro che non sia un
treno militare? Quelli dei telegiornali vanno pazzi per queste
treno militare? Quelli dei telegiornali vanno pazzi per queste
cose. Progetti di armi segrete eccetera. Magari hai sentito in giro
qualche strana voce.»
«Mi spiace», rispose Jeremy in tono piatto, «ma si tratta
semplicemente della luce riflessa dal treno. Nessuna voce
sospetta.»
Guardò Nate e capì che stava valutando velocemente la
situazione. Ormai Jeremy sapeva che lui aveva un fiuto migliore
dei direttori dei giornali quando si trattava di proporre delle
storie.
«Non è molto», disse. «Hai scoperto quale versione della
leggenda era quella vera? Magari potresti lavorare sull’aspetto
razziale.»
Jeremy scrollò il capo. «Non sono nemmeno riuscito ad avere
conferme dell’esistenza di Hettie Doubilet. A parte le leggende,
non ho trovato alcuna traccia di lei nei documenti ufficiali. E il
villaggio di Watts Landing è sparito da molto tempo.»
«Senti, non voglio fare il guastafeste, ma devi gonfiare un po’ la
storia se vuoi che funzioni. Se non ti mostri entusiasta, non si
esalteranno nemmeno loro. Ho ragione o no? certo che ho
ragione.
Avanti, sii sincero con me. Hai trovato qualcos’altro, vero?»
«A che cosa ti riferisci?»
«Alvin», rispose Nate. «Quando è passato a portarmi i video, gli
ho chiesto che ne pensava del materiale raccolto, tanto per avere
la sua impressione, e lui mi ha detto che hai trovato un’altra cosa
interessante.»
Jeremy mantenne un’espressione distaccata. «Ti ha detto così?»
«Testuali parole», confermò Nate con aria compiaciuta. «Ma
non ha voluto spiegarmi di che si trattava. Ha detto che dovevi
farlo tu. Il che significa che è roba grossa.»
Mentre fissava Nate, gli sembrava che il diario stesse bruciando
la tela della sua sacca. Nate gio-cherellava con la forchetta, in
attesa.
«Ecco», esordì Jeremy, capendo che il tempo per prendere una
decisione era definitivamente scaduto.
Vedendo che taceva, Nate si sporse in avanti. «Sì?»
154
Quella sera, al termine dell’incontro, Jeremy si ritrovò solo nel
suo appartamento a guardare distrattamente il mondo esterno.
Aveva cominciato a nevicare, i soffici fiocchi erano un turbinio
ipnotico alla luce dei lampioni.
L’incontro era cominciato bene; Nate aveva montato a tal punto
i produttori da fargli brillare gli occhi all’idea di quanto stavano
per sentire. Poi Jeremy aveva parlato della leggenda, notando un
crescente interesse da parte loro quando aveva nominati Hettie
Doubilet, e illustrato il suo approccio alle indagini. Aveva
alternato la storia di Boone Creek con il racconto delle sue
ricerche per arrivare a una spiegazione del fenomeno e più di una
volta i produttori si erano scambiati un’occhiata, chiaramente
intenzionati a convincerlo a partecipare al programma.
Ma adesso che era a casa, con il diario sulle ginocchia, sapeva
che non avrebbe lavorato per lo-ro. La sua storia – il mistero del
cimitero di Boone Creek – era come un bel romanzo che si
sgonfia-va alla fine. La soluzione era troppo semplice, troppo
banale e quando si erano salutati lui aveva avvertito la loro
delusione. Nate aveva promesso di mantenersi in contatto, come
avevano fatto anche loro, ma Jeremy era certo che non ci
sarebbero state altre telefonate.
Per quanto riguardava il diario, se l’era tenuto per sé, come
aveva fatto anche con Nate al ristorante.
Più tardi fece una telefonata al sindaco Gherkin. La sua proposta
era semplice: Boone Creek non avrebbe più detto ai turisti che
partecipavano al Giro delle dimore che avrebbero avuto la
possibilità di vedere i fantasmi nel cimitero. L’espressione
«infestato dagli spiriti» sarebbe stata tolta dal dé-
«infestato dagli spiriti» sarebbe stata tolta dal dépliant che pubblicizzava l’iniziativa, al pari di ogni riferimento a un
possibile legamen delle luci con il sovrannaturale. Invece,
sarebbe stato dato più spazio alla storia della leggenda e i turisti
sarebbero stati avvisati che avrebbero potuto assistere a uno
spettacolo straordinario. E anche se qualche visitatore, di fronte
al fenomeno delle luci, si fosse chiesto se si trattasse dei fantasmi
della leggenda, le guide non dovevano mai fare allusioni del
genere. Per finire, Jeremy chiese al sindaco di togliere le tazze e
le magliette in vendita nel suo emporio in centro.
In cambio, promise che non avrebbe mai parlato del cimitero di
Cedar Creek in televisione, nella sua rubrica o in altri articoli.
Non avrebbe svelato il progetto del sindaco di trasformare la sua
città in una versione horror di Roswell, né avrebbe rivelato a
nessuno in città che lui era stato sempre a conoscenza della vera
causa delle luci.
Gherkin accettò l’offerta. Dopo aver riagganciato, Jeremy
telefonò ad Alvin, pretendendo da lui il silenzio sull’intera
faccenda.
155
21
Nei giorni successivi all’incontro fallimentare con i produttori
televisivi, Jeremy si concentrò sulla ripresa della sua routine
professionale. Andò a parlare con il direttore di Scientific
American.
Avendo delle scadenze da rispettare e ricordando vagamente
qualcosa che gli aveva suggerito Nate, accettò di scrivere un
pezzo sui possibili rischi di una dieta a basso contenuto di
carboidrati. Passò ore in Internet, esaminando innumerevoli
testate, cercando altre storie potenzialmente interessanti.
Rimase deluso di venire a sapere che Clausen – con l’aiuto di
una famosa agenzia pubblicitaria di New York – era uscito
indenne dalla tempesta scatenata dal suo intervento a Primetime
e, ironia della sorte, era addirittura in trattative per un
programma televisivo. Era stupefacente la dabbenag-gine della
gente pronta a credere al primo arrivato, si lamentò.
Piano piano lui stava rimettendosi in pista, o almeno così
credeva. Sebbene gli capitasse ancora spesso di pensare a Lexie
e di chiedersi se fosse impegnata nei preparativi per le nozze con
Rodney, faceva di tutto per scacciare dalla mente quei pensieri.
Erano troppo dolorosi. Per distrarsi, cercò di riprendere la vita
che conduceva prima di conoscerla. Il venerdì sera andò in un
locale. Non fu un granché. Invece di mescolarsi alla folla e di
locale. Non fu un granché. Invece di mescolarsi alla folla e di
cercare di attirare l’attenzione delle donne in piedi intorno a lui,
passò gran parte della serata seduto al bar con una birra davanti
e se ne andò molto prima di quanto avrebbe fatto un tempo. Il
giorno dopo andò a trovare la sua famiglia nel Queens, ma alla
vista dei fratelli e delle cognate che giocavano con i bambini
tornò prepotente in lui il rimpianto per ciò che non poteva essere.
Il lunedì a mezzogiorno, mentre imperversava un’altra bufera di
neve, si era finalmente convinto che era finita. Lei non gli aveva
telefonato e lui neppure. A volte, quelle poche giornate con
Lexie cominciavano a sembrargli simili al miraggio su cui aveva
indagato. Non potevano essere state 156
reali, si diceva, ma mentre era seduto alla scrivania si ritrovò a
guardare ancora una volta le cartoline e alla fine appese quella
della biblioteca sul muro alle sue spalle.
Per la terza volta quella settimana, ordinò il pranzo al ristorante
cinese sotto casa, poi si appoggiò allo schienale della sedia,
valutando la giustezza delle scelte compiute. Per un attimo si
chiese se anche Lexie stesse per mettersi a tavola, ma i suoi
pensieri vennero interrotti dal cicaleccio del citofono.
Afferrò il portafoglio e si diresse verso la porta. Alzò la cornetta
e udì una voce femminile.
«È apero, salga pure.»
Rovistò tra le ricevute, prese una banconota da venti e abbassò
la maniglia nell’istante in cui qualcuno bussava dall’altra parte.
«Che velocità», disse. «In genere ci vuole…»
Gli mancò la voce quando, aperta del tutto la porta, vide chi gli
stava davanti.
Lui e la persona sulla soglia rimasero a scrutarsi in silenzio, finché
Doris gli sorrise.
«Sorpresa», gli disse.
Lui sbatté gli occhi. «Doris?»
Lei batté i piedi per scrollarsi via la neve.
«Là fuori è scoppiata una bufera», disse, «e fa un freddo che
temevo di non farcela. Il taxi continuava a sbandare.»
Jeremy continuava a fissarla in silenzio, cercando di dare un
senso alla sua presenza lì.
Lei si sfilò la borsa dalla spalla e lo guardò negli occhi. «Vuoi
tenermi qui in piedi sul pianerottolo, o hai intenzione di farmi
entrare?»
«Sì… certo… prego…» rispose lui, facendole segno di
accomodarsi.
Doris gli passò accanto e posò la borsa sul tavolino accanto alla
porta. Si guardò in giro mentre si toglieva il cappotto. «Carino
qui», disse, girando per il salotto. «È più grande di quanto
pensassi.
Ma le scale sono state micidiali. Dovete assolutamente fare
aggiustare l’ascensore.»
«Sì… lo so.»
Guardò fuori dalla finestra. «La città è bellissima, anche sotto la
neve. E così… indaffarata.
Capisco perché la gente ami vivere qui.»
«Che cosa ci fai qui?»
«Sono venuta a parlarti, è ovvio.»
«Di Lexie?»
Lei non rispose subito. Fece un sospiro, poi disse con distacco:
«Tra le altre cose. A proposito, non avresti un po’ di tè? Sono
ancora infreddolita.»
«Ma…»
«Abbiamo molte cose di cui parlare», disse lei con voce decisa.
«So che hai molte domande da farmi, ma ci vuole il suo tempo.
Allora, mi offriresti un tè?»
Jeremy andò nel cucinino e scaldò una tazza d’acqua nel
microonde. Dopo averci immerso una bustina di tè, tornò in
salotto e trovò Doris seduta sul divano. Le porse la tazza e lei
bevve subito un sorso per scaldarsi.
«Mi spiace di non averti telefonato, forse avrei dovuto farlo.
Vedo che sei scioccato. Ma preferi-vo parlarti di persona.»
«Come hai fatto a scoprire dove abitavo?»
«Me lo ha detto il tuo amico Alvin.»
«Hai parlato con lui?»
«Ieri. Aveva lasciato il suo numero a Rachel, così l’ho chiamato
e lui è stato così gentile da darmi il tuo indirizzo. Mi è spiaciuto
non averlo incontrato quando è venuto a Boone Creek. Al
telefono, mi è sembrato un vero gentiluomo.»
Jeremy comprese che Doris sfogava il proprio nervosismo
parlando del più e del meno e decise di non dire niente, in attesa
che lei trovasse il coraggio di tirare fuori la ragione per cui era
venuta.
Il citofono suonò di nuovo e lei guardò verso la porta. «È il mio
pranzo», disse Jeremy, irritato da quell’interruzione. «Torno
subito.»
157
Si alzò dal divano, schiacciò il pulsante di apertura e aprì la porta
d’ingresso; mentre aspettava, lanciò un’occhiata a Doris e vide
che si stava liscando la camicetta. Per qualche motivo, il fatto
che fosse nervosa lo aiutava a calmarsi. Fece un profondo
respiro e uscì sul pianerottolo, andando incontro al fattorino che
stava salendo le scale.
Poi tornò dentro e stava per posare il sacchetto di cibo sul
banbone della cucina, quando sentì Doris alle sue spalle.
«Che cosa hai ordinato?»
«Manzo con broccoli e riso fritto.»
«Che buon profumino.»
Il suo tono buffo gli strappò un sorriso. «Mi fai compagnia?»
«Non vorrei privarti del tuo cibo.»
«Ce n’è in abbondanza», rispose lui, tirando fuori dei piatti. «E
poi, non sei stata tu a dirmi che ti piace parlare davanti a un buon
pasto?»
pasto?»
Doris si sedette al tavolo con lui.
Ancora una volta, Jeremy decise di lasciare che fosse lei a
parlare e per un po’ mangiarono in silenzio.
«Molto gustoso», disse infine Doris. «Non ho fatto colazione e
non mi ero resa conto di avere tanta fame. Certo che è un bel
viaggio arrivare qui. Sono partita all’alba e il volo era in ritardo.
Il tempo poi ce l’ha messa tutta per bloccarmi e per un po’ ho
temuto che non saremmo nemmeno de-collati. E poi ero così
nervosa. Era la prima volta che volavo.»
«Davvero?»
«Non ne ho mai avuto motivo. Quando Lexie viveva qui mi
aveva chiesto un paio di volte di venire a trovarla, ma all’epoca
mio marito non stava troppo bene e così non se ne fece nulla.
Poi lei tornò. Era veramente a pezzi allora. So che probabilmente
la ritieni una persona forte e decisa, ma è solo ciò che vuol far
credere agli altri. Sotto sotto è come tutti ed era distrutta da ciò
che era successo con Avery.» Doris esitò. «Ti ha parlato di lui,
vero?»
«Sì.»
«Soffriva in silenzio, si mostrava coraggiosa, ma io intuivo che
era sconvolta. Non sapevo come aiutarla. Lei faceva di tutto per
era sconvolta. Non sapevo come aiutarla. Lei faceva di tutto per
nasconderlo, tenendosi occupata, correndo da una parte
all’altra, parlando con tutti e sforzandosi di dare l’impressione di
stare bene. Non puoi immaginare quanto mi facesse sentire
impotente.»
«Perché mi dici questo?»
«Perché anche adesso si comporta allo stesso modo.»
Jeremy spostò il cibo nel piatto con la forchetta. «Non sono
stato io a chiudere la storia, Doris.»
«So anche questo.»
«Allora perché ne parli con me?»
«Lexie non vuole ascoltarmi.»
Nonostante la tensione, Jeremy scoppiò a ridere. «Immagino che
questo significhi che mi ritieni più malleabile.»
«No», rispose lei. «Ma spero che tu non sia testardo quanto lei.»
«Anche se volessi riprovarci, dipende sempre da lei.»
Doris lo guardò attentamente. «Lo credi davvero?»
«Ho cercato di parlarle. Le ho detto che volevo trovare il modo
di far funzionare le cose tra di noi.»
di far funzionare le cose tra di noi.»
Invece di rispondere direttamente, Doris gli chiese: «Sei stato
sposato, vero?»
«Molto tempo fa. Te lo ha detto Lexie?»
«No, l’ho capito fin dal nostro primo incontro.»
«Di nuovo le tue doti paranormali?»
«Niente del genere. Dipende piuttosto dal tuo modo di interagire
con le donne. Ti comporti con una sicurezza che ai loro occhi ti
rende irresistibile. Nel contempo, ho la sensazione che tu capisca
che cosa vogliono le donne, ma che per qualche motivo non sia
disposto a darti completamente.»
158
«E questo che cosa c’entra?»
«Le donne amano le storie da fiaba. Non tutte, è ovvio, ma la
maggior parte cresce sognando l’uomo pronto a rischiare tutto
per loro, pur sapendo che potrebbero restarne ferite.» Fece una
pausa. «Un po’ come hai fatto tu quando hai raggiunto Lexie al
mare. È per questo che si è innamorata di te.»
«Lei non è innamorata di me.»
«Invece, sì.»
«Invece, sì.»
Jeremy aprì la bocca per negare, ma non ci riuscì. Si limitò a
scrollare la testa. «Comunque non ha più importanza adesso.
Sposera Rodney.»
Doris lo guardò. «Non è vero. ma prima di pensare che lei ha
detto così per scaricarti, devi sapere che lo ha fatto soltanto
perché in quel modo, se tu fossi partito, lei non sarebbe rimasta
sveglia di notte a domandarsi perché non eri più tornato.» Si
fermò, lasciando che le sue parole facessero effetto. «E poi non
le avrai creduto sul serio, vero?»
Jeremy si ricordò la sua prima reazione di sconcerto e incredulità
quando Lexie gli aveva detto di Rodney.
Doris gli prese una mano.
«Sei un brav’uomo, Jeremy. E meritavi la verità. È per questo
che sono venuta.»
Si alzò da tavola. «Ora devo andare a prendere l’aereo. Se non
torno entro sera, Lexie capirà che c’è in ballo qualcosa.
Preferisco che non sappia della mia capatina qui.»
«È stata una gran sfacchinata per te. Potevi telefonarmi.»
«Lo so. Ma dovevo guardarti in faccia.»
«Perché?»
«Per capire se anche tu eri innamorato di lei.» Gli diede una
pacca sulla spalla prima di tornare in salotto dove c’era ancora la
sua borsa.
«Doris?» la chiamò Jeremy.
Lei si voltò. «Sì?»
«Hai trovato la risposta che ti auguravi?»
Lei sorrise. «La vera domanda è: tu l’hai trovata?»
159
22
Jeremy camminava su e giù per il salotto. Doveva pensare,
valutare le alternative, per capire che cosa fare.
Non c’era tempo per l’indecisione. Non ora, dopo quello che
aveva saputo. Doveva tornare indietro. Doveva prendere il
primo volo disponibile e andare di nuovo a cercarla. Parlarle,
convincerla che quando le aveva detto di amarla, non era mai
stato più serio di così in cita sua. Dirle che non poteva nemmeno
pensare di vivere senza di lei. Che era disposto a fare tutto il
necessario affinché potessero rimanere insieme.
Prima ancora che Doris fosse salita sul taxi, lui stava già
telefonando all’aeroporto.
Venne messo in attesa per un tempo che gli parve infinito. La sua
collera aumentava di minuto in minuto, finché un impiegato gli
fornì assistenza.
L’ultimo volo per Raleigh partiva tra novanta minuti. Anche con il
bel tempo ci sarebbero voluti tre quarti d’ora soltanto per il
tragitto fino all’aeroporto, ma l’alternativa era prendere il volo o
aspettare fino all’indomani.
Doveva agire in fretta. Afferrò una sacca di tela dall’armadio, ci
buttò dentro due paia di jeans, due camicie, calzini e biancheria.
buttò dentro due paia di jeans, due camicie, calzini e biancheria.
Si infilò il giaccone e si mise in tasca il cellulare. Prese il
caricabatteria dalla mensola. Il portatile? No, non gli serviva.
Che altro?
Ah, già. Corse in bagno e controllò il contenuto del beauty. Si
ricordò del rasoio e dello spazzo-lino e prese anche quelli.
Spense le luci e il computer e prese il portafoglio. Aveva contanti
sufficienti per arrivare all’aeroporto… per il momento gli
sarebbero bastati. Con la coda dell’occhio vi-de il diario di
Owen Gherkin mezzo nascosto sotto una pila di giornali. Lo mise
nella sacca insieme al beauty, cercò di pensare a cos’altro
potesse servirgli, poi ci rinunciò. Non c’era più tempo. Afferrò le
chiavi sul tavolino nell’ingresso, diede un’ultima occhiata in giro,
poi chiuse a chiave la porta e si precipitò giù dalle scale.
160
Fermò un taxi, disse all’autista che aveva fretta, poi si appoggiò
allo schienale con un sospiro, sperando per il meglio. Doris
aveva ragione: a causa della neve il traffico era rallentato e
quando si fermarono in mezzo al ponte che attraversava l’East
River, Jeremy imprecò sottovoce. Per rispar-miare tempo al
controllo di sicurezza, si sfilò la cintura e la mise nella sacca
assieme al mazzo di chiavi. Il tassista gli lanciò un’occhiata dallo
specchietto. Aveva l’espressione annoiata e guidava veloce, ma
non abbastanza. Jeremy si morse la lingua, sapendo che non
sarebbe servito a niente irri-tarlo.
I minuti passavano. La neve, che aveva smesso di cadere per un
po’, ricominciò a turbinare nell’aria, riducendo la visibilità.
Mancavano quarantacinque minuti al decollo.
Il traffico rallentò nuovamente e Jeremy sospirò forte, guardando
l’orologio. Trentacinque minuti. Dieci minuti dopo, arrivarono
all’uscita per l’aeroporto e si diressero verso il terminal.
Finalmente.
Nell’attimo in cui il taxi si fermò, Jeremy aprì la portiera e gettò
al tassista due banconote da venti. Dentro al terminal, esitò solo
un istante per guardare sul tabellone dei voli in partenza a quale
cancello doveva presentarsi. Dopo aver fatto la fila – per fortuna
corta – per ritirare il biglietto elet-tronico, si diresse al controllo
di sicurezza. Provò un tuffo al cuore vedendo una lunga coda,
ma poi si rianimò, quando venne aperta una nuova postazione. I
passeggeri in attesa cominciarono a fluire da quella parte e
Jeremy ne superò tre di slancio.
Mancavano dieci minuti alla partenza del volo e, una volta
superati i controlli, Jeremy si mise a correre sempre più veloce.
Facendosi largo tra la folla, tirò fuori la patente, mentre leggeva il
numero dei cancelli d’imbarco.
Quando raggiunse il suo aveva il respiro affannoso e stava
sudando.
«Ce l’ho fatta?» chiese ansimando.
«Solo a causa di un lieve ritardo», rispose la donna al banco, ,
inserendo i suoi dati nel computer. La hostes accanto alla porta
gli lanciò un’occhiata severa.
Preso il suo biglietto, chiuse la porta subito dopo che Jeremy si
fu avviato per la rampa. Quando raggiunse l’aeroplano,
ansimava.
«Ci staccheremo dalla rampa tra poco. Lei è l’ultimo
passeggero, quindi può sedersi dove preferisce», gli annunciò
l’assistente di volo facendosi da parte per lasciarlo passare.
«Grazie.»
Percorse il corridoio, ancora incredulo di avercela fatta, e vide
una poltrona libera vicino al finestrino in una delle file centrali.
Stava sistemando la sacca nello scomparto superiore, quando
riconobbe Doris, tre file dietro di lui.
Lei ricambiò il suo sguardo sorridendo senza dire niente.
L’aereo atterrò a Raleigh alle tre e mezzo e Jeremy attraversò il
terminal insieme a Doris. Vicino all’uscita, lui indicò alle sue
spalle.
«Devo prendere un’auto a noleggio», disse.
«Devo prendere un’auto a noleggio», disse.
«Ti do un passaggio volentieri io», rispose lei. «Vado da quella
parte.»
Vedendo che lui esitava, sorrise e aggiunse: «E ti lascerò
guidare».
Jeremy non scese mai sotto i centoventi di media, risparmiando
quarantacinque minuti sul tragitto di tre ore; arrivarono alla
periferia della città quando imbruniva. Con la mente affollata da
immagini casuali di Lexie, lui non si accorgeva del tempo che
passava, né ricordava molto del viaggio.
Ripensava incessantemente a quello che voleva dirle e cercava di
anticipare le sue risposte, ma si rese conto di non avere idea di
come sarebbe andata. Non aveva importanza. Ormai era lì e
voleva andare fino in fondo.
Le strade di Boone Creek erano deserte quando arrivarono.
Doris si girò verso di lui.
«Ti spiace lasciarmi a casa mia?»
Lui la guardò, rendendosi conto che non avevano scambiato
nemmeno una parola per tutto il viaggio. Con la mente fissa su
Lexie, non ci aveva fatto caso.
161
161
«Non ti serve la macchina?»
«Fino a domani, no. E poi è troppo freddo per andare in giro a
piedi stasera.»
Seguendo le indicazioni di Doris, Jeremy raggiunse la sua
abitazione. Davanti al piccolo bungalow bianco, vide il giornale
appoggiato alla porta. Uno spicchio di luna spuntava appena
sopra la linea del tetto e alla luce fioca Jeremy si guardò nello
specchietto. Sapendo che mancavano solo pochi minuti
all’incontro con Lexie, si passò una mano tra i capelli.
Doris notò il suo gesto nervoso e gli accarezzò una gamba.
«Andrà tutto bene», gli disse. «Fidati di me.»
Lui si sforzò di sorridere, nel tentativo di nascondere le proprie
perplessità. «Qualche consiglio dell’ultimo minuto?»
«No», rispose lei. «E poi hai già preso tutto ciò che avevo da
darti. Dopo tutto sei qui, no?»
Jeremy annuì e Doris si sporse sul sedile e lo baciò sulla guancia.
«Bentornato a casa», gli sussurrò.
Jeremy ripartì, facendo fischiare le gomme mentre si dirigeva
verso la biblioteca. Lexie aveva detto che teneva aperto per chi
voleva andarci dopo il lavoro, giusto? Ne avevano parlato una
voleva andarci dopo il lavoro, giusto? Ne avevano parlato una
volta, no? Sì, ne era sicuro, ma accidenti se riusciva a ricordare
quando. Era stato il giorno in cui si erano conosciuti? Quello
successivo? Sospirò, rendendosi conto che il suo bisogno
ossessivo di ripercorrere con la mente le tappe della loro storia
era solo un tentativo di calmare i nervi. Aveva fatto bene a
venire? Sarebbe stata contenta di vederlo? Avvicinandosi alla
biblioteca, aveva perso ogni sicurezza.
Il centro cittadino gli apparve con i contorni nitidi, a differenza
dell’immagine sfumata che ne serbava nel ricordo. Superò il
Lookilu e vide cinque o sei macchine parcheggiate fuori. Altre
macchine erano nei pressi della pizzeria, mentre un gruppo di
adolescanti indugiava sul marciapiede. A prima vista aveva
creduto che stessero fumando, ma poi si era reso conto che il
fumo era causato dal loro fiato che si condensava per il freddo.
Svoltò di nuovo; in fondo all’incrocio scorse l’edificio della
biblioteca con le luci accese. Parcheggiò l’auto e scese nell’aria
gelida della sera. Fece un profondo respiro e si avviò
bruscamente verso la porta d’ingresso.
Al banco non c’era nessuno, perciò diede un’occhiata alla sala di
lettura attraverso le porte a vetri, per vedere se Lexie fosse lì.
Nessun segno di lei.
Immaginando che si trovasse nel suo ufficio o nella sala al piano
superiore, imboccò velocemente il corridoio e salì di corsa le
superiore, imboccò velocemente il corridoio e salì di corsa le
scale, poi si fermò a guardarsi intorno. Da lontano, notò che la
porta dell’ufficio era chiusa e che nessuna luce filtrava
dall’interno. Provò ad abbassare la maniglia, ma la porta non si
aprì e allora si mise a girare tra gli scaffali mentre si dirigeva
verso la sala dei libri rari.
Chiusa anche quella.
Fece un percorso a zig zag nella sala principale, camminando a
passo svelto senza badare alle occhiate della gente che di sicuro
lo aveva riconosciuto, poi scese al pianterreno. Mentre si
avvicinava alla porta, si disse che avrebbe dovuto controllare
prima se c’era la macchina di Lexie fuori, e si chiese come mai
non l’avesse fatto.
I nervi, gli rispose una voce nella sua testa.
Non aveva importanza. Se non era lì, probabilmente era a casa.
L’anziana impiegata che di solito era seduta nell’ingresso stava
arivando con una pila di libri tra le braccia e il suo sguardo si
illuminò quando lo vide avvicinarsi.
«Signor Marsh?» lo chiamò con voce cantilenante. «Non mi
aspettavo di vederla nuovamente.
Che cosa ci fa qui?»
«Cercavo Lexie.»
«Se n’è andata un’oretta fa. Credo che volesse passare da
Doris. So che l’aveva chiamata nel pomeriggio e non aveva
ottenuto risposta.»
162
Jeremy mantenne un’espressione neutra. «Oh?»
«E Doris non era nemmeno da Herbs, questo lo so per certo.
Ho provato a dire a Lexie che probabilmente stava sbrigando
qualche commissione, ma sa quanto si preoccupa quella ragazza.
È co-me una chioccia. A volte la fa diventare pazza, ma Doris sa
che è il suo modo di dimostrarle il suo affetto.» Fece una pausa,
rendendosi conto che Jeremy non aveva spiegato il motivo del
suo ritorno.
Prima che potesse aggiungere altro, lui la precedette.
«Senta, mi piacerebbe molto fermarmi a chiacchierare con lei,
ma devo proprio parlare con Lexie.»
«Si tratta ancora della sua ricerca? Magari posso aiutarla io. Ho
la chiave della sala dei libri rari, se le occorre.»
«Non è necessario, ma grazie lo stesso.»
L’aveva già superata quando udì la sua voce alle spalle.
L’aveva già superata quando udì la sua voce alle spalle.
«Se dovesse tornare, devo dirle che è passato?»
«No», rispose lui senza voltarsi. «È una sorpresa.»
Uscì dalla biblioteca e venne colto da un brivido di freddo. Salì
in macchina, imboccò il viale principale, lo percorse fino ai
margini della città mentre il cielo diventava sempre più buio.
Sopra le cime degli alberi brillavano migliaia di stelle. Milioni. Si
chiese che spettacolo si dovesse vedere dalla cima di Riker’s
Hill.
Imboccò la strada di Lexie e provò un senso di sconfitta quando
vide la casa buia e nessun segno della sua macchina. Non
fidandosi dei propri occhi, passò davanti all’edificio lentamente,
sperando di essersi sbagliato.
Se non era in biblioteca e nemmeno a casa, dov’era?
Si erano incrociati per strada dopo che lui aveva accompagnato
Doris? rifletté. Qualcuno lo aveva superato in macchina? Non gli
sembrava, ma in realtà non gli aveva badato. E comunque
avrebbe riconosciuto di sicuro la sua auto.
Decise di passare da Doris, tanto per essere sicuro, e attraversò
la città a velocità sostenuta tenendo d’occhio le altre auto di
passaggio, fino a raggiungere il villino bianco.
Gli bastò un’occhiata per capire che Doris era già andata a letto.
Si fermò lo stesso sul ciglio della strada, cercando di indovinare
dove fosse Lexie. La città non era grande e le alternative erano
poche. Il suo primo pensiero fu per Herbs, ma sapeva che la
sera era chiusa. Non aveva visto la sua macchina davanti al
Lookilu né altrove in centro. Magari stava sbrigando qualche
incombenza domestica, come fare la spesa, o restituire una
cassetta a noleggio, oppure ritirare qualcosa in lavanderia…
oppure… oppure…
E a quel punto comprese d’un tratto dove fosse.
Jeremy strinse forte il volante, cercando di prepararsi per la fine
del suo viaggio. Aveva un peso sul petto e respirava troppo
velocemente, come gli era successo quando si era seduto
sull’aereo. Era difficile credere che si fosse svegliato a New
York, convinto di non rivedere mai più Lexie e che adesso fosse
a Boone Creek, intenzionato a fare qualcosa che riteneva
impossibile. Mentre percorreva le strade buie, pensava con ansia
alla possibile reazione di lei.
Il chiaro di luna ammantava il cimitero di una luce quasi
azzurrognola e le lapidi sembravano ardere come se fossero
illuminate internamente. La recinzione di filo spinato conferiva un
tocco spettrale al luogo. Mentre Jeremy si avvicinava all’ingresso
del cimitero, riconobbe la macchina di Lexie parcheggiata
accanto all’entrata.
accanto all’entrata.
Parcheggiò l’auto di Doris lì vicino e scese nel silenzio rotto solo
da ticchettio del motore che si raffreddava. Le foglie frusciavano
sotto i suoi piedi e lui fece un profondo respiro. Posò una mano
sul cofano della macchina di Lexie e sentì che era ancora caldo.
Non era arrivata da molto tempo.
Oltrepassò il cancello e vide la magnolia, le foglie nere e lucide
come se fossero spalmate di olio. Scavalcò una radice sporgente
e ricordò la notte in cui era avanzato a tentoni in mezzo alla
nebbia. Fatti pochi passi udì il richiamo di un gufo da un albero
vicino.
Lasciò il vialetto. Oltrepassò una cappella diroccata,
camminando lentamente per non fare rumore, e si arrampicò sul
lieve pendio. Sopra di lui la luna splendeva in cielo come una
lampada ap-163
pesa a un lenzuolo nero. Gli parve di udire un basso mormorio e
quando si fermò per ascoltare, provò un’intensa scarica di
adrenalina. Era giunto fin lì per trovarla, per trovare se stesso e il
suo corpo si preparava a qualunque cosa lo aspettasse. Arrivò in
cima alla piccola altura, sapendo che i genitori di Lexie erano
sepolti sull’altro lato.
Mancava pochissimo, ormai. Tra un attimo avrebbe visto Lexie e
lei lui. Avrebbe sistemato definitivamente le cose, lì dove tutto
era cominciato.
Lexie era in piedi proprio dove si era immaginato, inondata dal
chiarore argenteo della luna. Aveva un’espressione aperta e
dolente, gli occhi che brillavano nel buio. Portava una sciarpa
intorno al collo e un paio di guanti neri che facevano sembrare le
sue mani due ombre.
Parlava sottovoce e lui non riusciva a capire le parole. Mentre la
guardava, lei tacque e girò la testa. Rimasero a guardarsi in
sielnzio per un tempo interminabile.
Lexie sembrava paralizzata mentre lo fissava. Alla fine distolse lo
sguardo e tornò a posarlo sulle lapidi, e Jeremy si rese conto che
non aveva idea di cosa stesse pensando. All’improvviso ebbe la
sensazione di aver sbagliato a tornare. Lei non lo voleva lì, non lo
voleva più. Con un groppo in go-la stava per girarsi, quando
notò l’ombra di una smorfia divertita sul viso di Lexie.
«Sai, non dovresti fissare la gente in quel modo», disse lei. «Alle
donne piacciono gli uomini che sanno essere discreti.»
Jeremy tirò un sospiro di sollievo e fece un passo avanti
sorridendo. Quando fu abbastanza vicino da poterla toccare,
allungò la mano e gliela posò sul fondoschiena. Lei non si
sottrasse, anzi, si abbandonò contro di lui. Doris aveva avuto
ragione.
Era a casa.
«No», le mormorò tra i capelli, «alle donne piace un uomo che le
segue fino in capo al mondo, o persino a Boone Creek, se
necessario.»
La strinse a sé e le sollevò il viso per baciarla, sapendo che non
l’avrebbe lasciata mai più.
164
Epilogo
Jeremy e Lexie erano seduti vicino, avvolti in una coperta, e
guardavano la città sotto di loro.
Erano passati tre giorni dal ritorno di lui a Boone Creek. Le luci
bianche e gialle della città, con qualche punto verde o rosso,
tremolavano nell’aria tersa e dai comignoli si vedevano levarsi
baffi di fumo. Il fiume scorreva come carbone liquido, riflettendo
il cielo di pece. Sulla riva opposta le luci della cartiera di
diffondevano in tutte le direzioni, illuminando il ponte ferroviario.
Nei due giorni precedenti lui e Lexie avevano trascorso molto
tempo a parlare. Lei si scusò per avergli mentito a proposito di
Rodney e gli confessò che andare lì al Greenleaf la mattina della
sua partenza era stata la cosa più difficile che avesse mai fatto in
vita sua. Gli descrisse l’agonia della settimana trascorsa da sola,
una sensazione che Jeremy conosceva bene. Da parte sua, lui le
disse che, sebbene Nate non fosse entusiasta della sua decisione,
il direttore di Scientific American era disposto a farlo lavorare
da Boone Creek, a patto che si recasse regolarmente a New
York.
Jeremy non le parlò della visita ricevuta a New York; la seconda
sera che era in città, Lexie lo aveva portato a cena a casa della
nonna e Doris lo aveva preso da parte, chiedendogli di non dire
niente.
niente.
«Non voglio che pensi che abbia interferito nella sua vita», gli
disse con occhi luccicanti. «Che tu ci creda o no, è convinta che
sia io quella insistente.»
Certe volte gli riusciva difficile credere di essere proprio lì con
lei; d’altra parte, però, gli sembrava altrettanto strano essersene
andato prima. Stare con Lexie gli risultava naturale, come se lei
fosse la casa che aveva sempre cercato. Sebbene lei in
apparenza la pensasse allo stesso modo, non volle ospitarlo a
casa sua. «Non desidero dare ai vicini motivo di fare
pettegolezzi», gli spiegò. In ogni caso, lui si trovava abbastanza
bene anche al Greenleaf, sebbene, rivedendolo, Jed non lo
avesse degnato neppure di un mezzo sorriso.
«Allora credi che Rachel e Rodney facciano sul serio?»
domandò Jeremy.
165
«A quanto pare, sì», rispose Lexie. «Ultimamente hanno passato
un sacco di tempo insieme. Lei si illumina tutte le volte che lo
vede entrare da Herbs e ti giuro che lui arrossisce. Credo che
siano proprio fatti l’uno per l’altra.»
«Non riesco ancora a credere che mi avevi detto di volerlo
sposare.»
Lei lo colpì scherzosamente con la spalla. «Basta, non
parliamone più. Ti ho già chiesto scusa. E
vorrei che tu non me lo ricordassi per il resto dei miei giorni,
grazie tante.»
«Ma è una bella storia.»
«Lo dici tu, perché fa fare bella figura a te e mette me in cattiva
luce.»
«Io sono stato bravo.»
Lexie lo baciò sulla guancia. «Hai ragione.»
Jeremy l’attirò a sé, mentre una stella cadente solcava il cielo.
Rimasero seduti in silenzio per un po’. «Hai da fare domani?» le
chiese lui.
«Dipende», rispose lei. «Che cosa avevi in mente?»
«Ho telefonato al signor Reynolds e devo vedere qualche casa.
Mi piacerebbe che venissi anche tu. In un posto come questo,
non vorrei finire nel quartiere sbagliato, sai.»
Lei gli si strinse contro. «Volentieri.»
«E mi piacerebbe anche portarti a New York una delle prossime
settimane. La mamma insiste nel volerti conoscere.»
«Anche a me farebbe piacere incontrarla. E poi, mi è sempre
piaciuta quella città. Ci vivono alcune delle persone più carine
che abbia mai conosciuto.»
Jeremy alzò gli occhi al cielo.
Sopra di loro, baffi di nuvole coprivano la luna e all’orizzonte si
intuiva un temporale in arrivo.
Tra qualche ora avrebbe cominciato a piovere, ma per allora, lui
e Lexie sarebbero stati al coperto a casa sua, a bere vino in
salotto, mentre le gocce tamburellavano sul tetto.
Dopo un po’, lei si voltò a guardarlo. «Grazie di essere tornato.
Di esserti trasferito qui… di tutto.» «Non avevo scelta. L’amore
fa strani scherzi.»
Lei sorrise. «Anch’io ti amo, sai.»
«Lo so.»
«Che cosa? Non hai intenzione di dirmelo?»
«Perché, devo?»
«Altroché! E vedi di usare il tono giusto. Devi dirlo come se lo
pensassi davvero.»
Lui sorrise, chiedendosi se Lexie avrebbe corretto il suo tono
per sempre. «Ti amo, Lexie.»
Da lontano giunse fino a loro il fischio del treno e Jeremy scorse
un puntino di luce che si avvicinava nel paesaggio buio. Se fosse
stata una notte di nebbia, le luci sarebbero apparse entro pochi
minuti nel cimitero. Lexie parve leggergli nel pensiero.
«Allora, dimmi, signor Giormnalista Scientifico, dubiti ancora
dell’esistenza dei miracoli?»
«Te l’ho appena detto. Sei tu il mio miracolo.»
Lei gli appoggiò la testa sulla spalla e gli prese la mano. «Parlo
dei miracoli veri. Quando succede qualcosa che non avresti mai
ritenuto possibile.»
«No», rispose lui. «Credo che, scavando a fondo, si trovi
sempre una spiegazione per tutto.»
«Anche se un miracolo accadesse a noi?»
Aveva parlato con un filo di voce e lui la guardò. Nei suoi occhi
vide il riflesso delle luci della città.
«Di che cosa parli?»
Lei fece un profondo respiro. «Doris mi ha dato una bella notizia
Lei fece un profondo respiro. «Doris mi ha dato una bella notizia
oggi pomeriggio.»
Jeremy la scrutò, senza riuscire a capire che cosa intendesse,
anche se l’espressione del suo viso da esitante si faceva animata
e infine trepidante. Lei lo guardò aspettando che dicesse
qualcosa, ma la mente di lui si rifiutava ancora di registrare le sue
parole.
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C’era la scienza e poi c’era l’inspiegabile, e Jeremy aveva
trascorso tutta la vita cercando di ri-conciliare i due aspetti.
Viveva nella realtà, disprezzava la magia e provava compassione
per chi credeva a tutto. Mentre guardava Lexie, cercando di
capire che cosa volesse dirgli, le sue ferme convinzioni
cominciarono a vacillare.
No, non sapeva spiegarlo né ci sarebbe mai riuscito in futuro.
Era qualcosa che sfidava le leggi della biologia, si scontrava con
l’immagine di sé che si era costruito. In una parola soltanto, era
impossibile, ma quando Lexie gli fece posare dolcemente la
mano sull’addome, lui credette con improvvisa, euforica certezza
alle parole che pensava di non udire mai.
«Il nostro miracolo è qui», mormorò lei. «È una bambina.»
Iniziato a copiare a Roma il 25-10-05
Finito il 03-12-2-05
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