CREATIVITA` AL SERVIZIO DEL MALATO

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CREATIVITA` AL SERVIZIO DEL MALATO
CREATIVITA’ AL SERVIZIO DEL MALATO
ARNALDO PANGRAZZI
- EDIZIONI CAMILLIANE
(Sintesi a cura di Maria Raffaelli)
Nella parabola del buon Samaritano Gesù ci ha lasciato l’immagine
più eloquente di come si deve amare. Egli stesso nel corso della sua missione tra gli uomini ha dimostrato una speciale predilezione per gli infermi. La maggior parte dei suoi
interventi miracolosi è diretta verso di loro. I gesti di spalmare il fango sugli occhi del cieco (Gv 9,6), di bagnare con la saliva la lingua del sordomuto (Mc 7,33), di guarire i lebbrosi (Lc 17,12), manifestano il suo profondo amore per gli ammalati.
Gesù è sensibile all’uomo nella sua totalità e i suoi interventi mirano a ristabilire la salute
nel senso pieno della parola. Alle volte guarisce il corpo, come con la suocera di Pietro;
altre volte lo spirito, come con Zaccheo. Alle volte guarisce con la sua presenza (Mt 9,2022) o con la sua parola (Lc 7,14), altre volte con il suo perdono (Gv 8,3-11) o con le sue
mani (Mt 8, 14-16).
Non tutti coloro che lo vedono o incontrano sono però guariti, molti rimangono ancora
nelle loro infermità.
Gesù non è venuto, infatti, per togliere la sofferenza, ma per infondere in essa la speranza: “Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!”
(Gv 16,33). Non è venuto per condannarla ma per portarla in una prospettiva di fede:
“Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio” (Gv 9,3). Non è venuto per spiegarla ma per rendersi partecipe di essa:
“Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però
non come voglio io ma come vuoi tu!” (Mt 26,39).
Nel disegno di salvezza, quindi, la missione di Gesù non era di liberarci
dalla sofferenza, ma di assumerla e trasformarla: “Egli si è caricato del-
le nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori...per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,45).
LA MALATTIA ALLA LUCE DEL MISTERO PASQUALE
Tramite Cristo la croce diventa simbolo non di sconfitta, ma di vittoria. La croce rimane la
risposta alla sofferenza e riceve il suo significato da Colui che l’ha portata ed è morto su
di essa. La più commovente immagine dell’amore di Dio per noi è proprio lì sulla croce
dove il Cristo appare nudo al mondo in totale donazione d’amore.
Il mistero pasquale è un paradosso perché esprime la teologia della speranza
nell’immagine della croce, la teologia della vita di fronte alla morte. Vivere il mistero pasquale significa accettarne e integrarne entrambi i momenti: il venerdì santo e la Pasqua
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di risurrezione. Il mistero pasquale ci ricorda che la speranza di risurrezione
ha la sua origine nell’oscurità e nella morte e che Cristo non ha tolto la morte, ma l’ha trasformata in sorgente di vita.
La fede è un invito a guardare all’infermità in questa
prospettiva, traducendo le croci in opportunità di crescita, consapevoli che, come dice Dio: “I miei pensieri non sono i vostri pen-
sieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8).
Ogni prova, quindi, può divenire una esperienza di risurrezione se contemplata nella prospettiva di Dio.
LA NOSTRA PRESENZA ACCANTO AL MALATO
Gesù ci ha dato l’esempio sul come incontrare il nostro prossimo: ha amato con il suo
sguardo, ha guarito con le sue mani, ha ascoltato i lamenti dei tribolati, ha dato fiducia
agli afflitti, è entrato nel cuore delle persone e le ha guidate a Dio.
Uno dei più grandi bisogni umani è quello di essere ascoltato. Il malato è una delle persone che ha maggior bisogno di essere ascoltato. Il parlare di sé favorisce la liberazione di
tensioni interiori, diminuisce la solitudine e crea un senso di comunione con il prossimo.
Colui che ascolta offre una delle espressioni più genuine di ospitalità all’altro.
Come si ascolta? Innanzitutto si ascolta con tutta la persona:
- si ascolta con il proprio sguardo sapendo cogliere espressioni, reazioni e preoccupazioni;
- si ascolta con il tocco umano imparando ad individuare dove c’è bisogno di affetto e calore e dove l’intimità di gesti umani mette a disagio la persona;
- si ascolta con l’udito sapendo distinguere, dal tono della voce, la intensità dei sentimenti
e il significato dei messaggi e del linguaggio usato.
L’ascolto si perfeziona quando, chi fa visita al malato, fa uso di una varietà di risorse allo
scopo di offrire una presenza più benefica. Tra queste possono risultare di particolare utilità le seguenti:
- il silenzio come espressione profonda di rispetto e di unione con l’altro;
- gesti di affetto che possono parlare più forte di qualsiasi parola;
- il sorriso come strumento per trasmettere serenità e conforto.
Certo, l’infermo ha bisogno di ascolto. C’è però la tendenza a porlo nel ruolo del bisognoso, del dipendente, di chi può essere di peso alla società. In realtà il malato ha un contributo vitale da prestare, specialmente a chi sa leggerne il linguaggio e recepirne i messaggi.
Innanzitutto egli è il testimone della condizione umana e del bisogno che l’uomo ha di Dio.
Il suo contributo è di rivelarci la nostra natura. In questo senso diventa “maestro di vita”
perché ci educa a vivere con la consapevolezza della fragilità umana.
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Inoltre la sua storia suggerisce che la riduzione degli stimoli esterni può propiziare il risveglio interiore.
Un altro messaggio è l’invito a far tesoro degli aspetti semplici della vita senza consumarsi nella corsa alle cose materiali. Il malato diventa portavoce di una nuova saggezza che
esorta ad “umanizzare” le relazioni e il tempo. Viviamo in un periodo storico in cui i mezzi
di comunicazione sociale sono divenuti più rapidi, le distanze più brevi, i bisogni più urgenti e la gente sembra essere più irrequieta, più esigente ed impaziente. Si vuole ottenere subito ciò che sta a cuore e i desideri devono essere soddisfatti secondo il nostro
tempo, non secondo le stagioni di Dio.
Il “paziente” è colui che pratica la pazienza dovendo attendere i risultati delle analisi,
l’arrivo del medico, l’esito di una terapia, l’alba di un nuovo giorno dopo una notte interminabile, il ritorno a casa o la morte.
La sua testimonianza è uno stimolo ad accettare e valorizzare l’attesa come momento formativo. Di conseguenza, il malato non ha solo bisogno di essere ascoltato ma propone un
messaggio. La sua storia si mette a confronto con la nostra storia. E’ importante che,
mentre si cerca di perfezionare la capacità di ascoltarlo sempre meglio, non si perda di
vista l’insegnamento che gratuitamente dispensa a beneficio della nostra crescita umana
e spirituale.
L’IMPATTO CON LA MALATTIA
L’impatto con la propria fragilità umana mette in moto una dinamica che gradualmente
porta il malato a una nuova lettura del mondo e a una diversa percezione di se stesso.
Questo processo inizia con l’esperienza del ricovero in ospedale; esperienza che crea un
senso di rottura improvvisa con le precedenti strutture e sconvolge la sensazione di relativa sicurezza che sosteneva la vita.
Fa parte del processo di maturazione imparare ad affrontare con serenità queste situazioni e cambiamenti, riconoscendo umilmente i propri limiti e accettando positivamente le
proprie perdite, sostenuti dall’appoggio del prossimo.
Se il senso di identità personale, precedente alla malattia, era legato al proprio lavoro o
ruolo sociale, il sentirsi improvvisamente confinato in un letto, priva la persona di quelle
attività e funzioni che simboleggiavano tale identità. Il superamento di questa crisi dipende dalla capacità di recuperare le componenti redentive dello stato di dipendenza. Essere
dipendenti non significa essere deboli, anzi, l’accettazione serena di tale situazione rispecchia spesso una notevole forza interiore. La dipendenza è un invito a valorizzare l’arte
del ricevere oltre che del dare, nella consapevolezza che c’è una profonda e molteplice
interdipendenza tra queste due fondamentali espressioni dell’animo umano.
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IL SIGNIFICATO DELLA MALATTIA
E’ chiaro che di fronte alla malattia il primo compito è di fare tutto il possibile per eliminarla e superarla, utilizzando le risorse e le tecniche a disposizione. Purtroppo non sempre gli sforzi umani assicurano i risultati desiderati. L’uomo moderno, forse più che nel
passato, è incline a ribellarsi al destino; la strada dell’accettazione è spesso lunga e tortuosa. Come ogni crisi, anche l’incontro con la malattia, specie se grave, può snodarsi
lungo due direzioni: una che avvicina maggiormente a Dio e ai fratelli, l’altra che aliena.
La scelta del percorso dipende molto dall’interpretazione che la persona dà alle cause e
agli scopi della propria sofferenza.
Certo, la sofferenza non è facile da capire o da spiegare: essa rappresenta una espressione intensa dell’imperfezione umana. In un certo senso la sofferenza più che un problema
rimane un mistero. Il problema è una difficoltà che si può risolvere e di cui ci si può liberare. Il mistero fa parte della realtà umana e si matura divenendone coscienti. Quanto più
si vive nello spirito del mistero tanto più risulterà facile interpretare e dare significato
all’intera esistenza.
In questo quadro non è tanto importante ottenere delle risposte alle ricorrenti domande
sul perché del dolore, quanto piuttosto essere aperti sul come utilizzarlo per renderlo un
momento propizio di grazia, uno strumento di crescita e redenzione, un modo per approfondire l’unione con il prossimo e con Dio.
La sofferenza contribuisce a portare alla luce le risorse interiori della persona come: la
pazienza, il coraggio, la perseveranza, e matura altri valori quali: la tolleranza, il perdono,
la preghiera.
IL SIGNIFICATO DELLA PREGHIERA
La preghiera resta il legame che unisce l’uomo a Dio. Nella preghiera c’è
posto per il silenzio dell’uomo e per il silenzio di Dio, per le attese
dell’uomo e per le attese di Dio. Chi prega comunica, è in relazione, non si
considera autosufficiente, vive di speranza; la speranza, e certezza insieme, che Dio cammina con gli uomini.
A lui ci si rivolge, non tanto per ottenere miracoli o ricevere risposte ai propri interrogativi, quanto per ricevere luce per vivere diversamente la malattia. La vera preghiera è quella di colui che comunica le proprie pene e preoccupazioni e poi si pone in ascolto…, in ascolto di ciò che Dio vuole.
Ma a quale Dio ci si rivolge nel tempo della sofferenza?
Al Dio della croce. Questo è un Dio forse meno cercato, meno ricordato, meno compreso.
Eppure la croce testimonia il Dio che più ci ama, il Dio che sconvolge con il suo amore:
un amore senza limiti e senza condizioni. Il malato è invitato a guardare e a comunicare
con questo Dio che può illuminargli il cammino e aiutarlo a trasformare la sofferenza in
preghiera.
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IL SORRISO: UN CONTRIBUTO ALLA SALUTE
Uno dei segreti per affrontare positivamente le avversità è di mantenere uno spirito fiducioso e ottimista. Portare il sorriso sul volto significa trasmettere la gioia del cuore. Il sorriso è un dono prezioso che Dio ha affidato ad ogni uomo perché lo condivida, lo porti
alla luce, non lo nasconda. Senza sorriso il ricco resta povero, il saggio manca di calore.
San Tommaso diceva che l’uomo deve saper sorridere sui suoi errori; san Filippo Neri vedeva nel buon umore la strada che conduce alla salvezza.
Nel tempo della sofferenza il sorriso rappresenta un’efficace risorsa, personale e pastorale. Per il malato il sorriso è salute perché contribuisce ad alleggerire il peso della sua situazione e ad illuminare bonariamente le sue debolezze e i suoi disappunti.
Per chi si accosta all’ammalato, il sorriso è ricchezza umana che trasmette accoglienza,
sgela la rigidità dei rapporti e crea un clima di distensione e spontaneità.
Ogni sorriso rivela la bontà di Dio e l’originalità dell’uomo.
Il buon umore è la risorsa interiore che permette di versare olio sulle ferite, che aiuta ad
alleggerire le ansietà. Dove regna questa capacità di relativizzare le cose, di non prendere
la vita troppo seriamente, esistono le condizioni per la salute interiore e per un’esistenza
serena.
E’ soprattutto negli ospedali che c’è bisogno del sorriso. Gli operatori sanitari sono chiamati a distribuire questa medicina generosamente, senza il contagocce. Donare un sorriso significa divenire
promotori di guarigione e di salute, creando un clima umanizzante
che promuove la fiducia e rapporti più amichevoli.
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IL RUOLO DEL SOSTEGNO UMANO NELLA MALATTIA
Di fronte alla situazione di precarietà creata dalla malattia, quale tipo di aiuto può offrire
la comunità cristiana per meglio accompagnare e sostenere il morale di chi è nella prova?
Innanzitutto è importante che i malati siano trattati come persone, non come malattie.
Accostarsi a loro in maniera diversa del solito significherebbe acutizzare il loro disagio. La
presenza di volti tristi o depressi non è gradita. Il desiderio del malato non è di sentirsi
commiserato ma amato; di essere trattato non con timore ma con rispetto e comprensione. Quando si visita qualcuno è bene regolarsi secondo i bisogni della situazione. Spesso
una visita breve che rinvigorisce è preferibile a una lunga che stanca e indebolisce.
Nel corso della comunicazione una delle trappole ricorrenti è la tendenza a consolare il
malato con l’uso di clichés come:”Non preoccuparti, tutto andrà bene!”, “So quello che
provi”, “Dio ci manda solo quello che possiamo sopportare”, “Dio ti ha scelto perché ti
ama di un amore speciale”, “Sorridi, vedrai che tutto andrà bene!”.
Sono frasi che non consolano; espressioni cui si ricorre per superare il proprio disagio,
non per sollevare chi soffre. A volte un silenzio rispettoso può essere un documento della
propria umanità presente all’umanità dell’altro. Il silenzio, così temuto nelle relazioni umane, non è necessariamente un segno di debolezza ma può esprimere un momento sacro di unione con un fratello.
Il più grande conforto che possiamo offrire agli altri è il dono della nostra presenza: ascoltando, stringendo la mano, ricordando il passato, vegliando in silenzio.
UNA NUOVA VISIONE DELLA VITA
A conclusione di un raduno di malati cancerosi una donna commentava: “Non avrei im-
parato tanto dalla vita se non avessi avuto il cancro!”. Questo male che corrode dentro
può creare spazio per la crescita di una nuova spiritualità che consiste nella scoperta di
se stessi e della vita e di una nuova presenza nel mondo.
La scoperta di se stessi è legata all’affiorare di intensi sentimenti, forse mai sperimentati.
La malattia fa toccare, in prima persona, ciò che significa sentirsi vulnerabili, tristi, irascibili, scoraggiati. Allo stesso tempo però, c’è la presa di coscienza delle proprie risorse e
della propria determinazione per affrontare il futuro e si intensifica il bisogno di ricorrere
alla preghiera e alla fede per attingervi forza e conforto. Molti scoprono nell’incontro con
la malattia talenti e carismi personali nascosti che ora ricevono attenzione e sono coltivati.
La scoperta della vita scaturisce da una profonda convinzione che l’esistenza è un dono.
Come tale non ha niente di sicuro, di definitivo; alla luce della precarietà umana si sviluppa una filosofia di vivere “un giorno alla volta” senza preoccuparsi eccessivamente del
domani. Se si tratta di un giorno difficile si chiede la grazia e la forza per sopravvivere; se
di un bel giorno si cerca di goderselo come meglio si può.
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L’incertezza del futuro rafforza la spiritualità del presente basata sulla valorizzazione delle
cose ordinarie che assumono colori più trasparenti: il verde dell’erba sembra più verde e
l’azzurro del cielo sembra più azzurro di prima.
La nuova presenza nel mondo è caratterizzata, oltre che da una visione nuova della realtà, da una lettura diversa dei propri valori e del proprio contributo agli altri.
Il linguaggio della sofferenza porta alle fonti della vita. Le preoccupazioni del lavoro e del
denaro che prima assorbivano tanto tempo ed energia, ora si svestono della loro importanza. Ciò che traspare è il bisogno e il valore delle relazioni umane, dell’amicizia, del calore umano.
LA SFIDA DELL’INVECCHIAMENTO:
LA VECCHIAIA SI PREPARA DA GIOVANI
Insita nel cuore di ogni uomo è la tendenza a negare o a resistere ai mutamenti. Si vive
nell’illusione che l’invecchiamento capiti solo ad altri, non a noi, perché abbiamo imparato
a mantenerci giovani. In realtà non possiamo sfuggire al nostro destino. Anzi, la qualità
dei nostri anni futuri dipende molto dalla nostra capacità di prepararci fin d’ora, qualunque sia la nostra età, a questo riguardo.
Tra le strategie che possono aiutarci a invecchiare saggiamente, metterei in evidenza le
seguenti:

E’ importante, innanzitutto, prendere coscienza dell’evolversi della nostra storia e
del nostro corpo. Si invecchia ogni giorno e non solo fisicamente. La persona che
saremo domani è il risultato di tutte le esperienze intessute oggi, di tutte le opportu
nità educative sfruttate o mancate.
In secondo luogo un futuro più sereno scaturisce dall’iniziativa di incrementare il nu-
mero di persone che costituiscono la base del nostro sostegno umano. Se si costruisce la vita solo attorno a una persona, quando questa muore ci si sente soli e sperduti nel mondo. E’ perciò saggio cercare di prevenire l’isolamento cercando di allargare il cerchio delle amicizie così da poter superare meglio le crisi, avvalendosi del
contributo di varie relazioni umane.

In linea con questo processo di espansione si colloca la capacità di interiorizzare di-
versi valori per dare significato alla vita, evitando il rischio di ritenere la vecchiaia
come un periodo di inutilità e di emarginazione dal mondo. Se una persona vede nel
lavoro l’unico valore su cui poggia la sua dignità, quando sopraggiunge il pensionamento non avrà che dispiacere a riempire i propri giorni.
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
forse il modo più giovanile per prepararsi al futuro è di essere contenti, facendo emergere il bambino che c’è in ognuno di noi. Le persone che godono maggiormente
la terza età sono coloro che diffondono un senso di allegria. L’allegria e il buon umore danno un tono di gioia e di distensione all’esistenza. Chi sa cogliere i risvolti
comici della vita, di se stesso e degli altri, non invecchia ma si diverte, guardando
benignamente alla realtà.

Infine la qualità del proprio domani dipende dall’abilità della persona a saper inte-
grare la componente esteriore con quella interiore, il proprio passato con il futuro.
C’è il pericolo che l’essere vincolati all’esteriorità delle cose renda superficiali; d’altro
canto la tentazione a rifugiarsi o a ritirarsi nel proprio mondo può germinare
l’egoismo. La disponibilità ad integrare dinamicamente entrambi questi momenti
porta a scoprire Dio che si rivela sia nella creazione esterna sia nelle voci ed aspirazioni interiori.
Chi valorizza solo il passato rischia di diventare nostalgico e ignaro delle opportunità
del presente; chi si preoccupa costantemente del futuro rischia di dimenticare
l’insegnamento del passato.
La capacità di integrare entrambe queste dimensioni aiuta a vivere il presente più creativamente perché i ricordi del passato illuminano il cammino verso l’avvenire.
In sintesi, gli anziani sono i profeti e i maestri del nostro destino. La loro storia ispira a
trasformare le perdite in opportunità, le crisi in benedizioni.
Ognuno è chiamato a responsabilizzarsi per il proprio domani, consapevole che le azioni e
gli atteggiamenti di oggi sono il fondamento dell’avvenire quando la terza età, a Dio piacendo, sarà la nostra età.
P. ARNALDO PANGRAZZI, Camilliano, ha svolto
per alcuni anni il suo apostolato negli Stati Uniti
come cappellano di ospedale.
Attualmente è docente di Pastorale sanitaria e di
Formazione pastorale clinica presso l’Istituto internazionale “Camillianum” di Roma.
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