Testimoni di giustizia - Master APC

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Testimoni di giustizia - Master APC
Università di Pisa
Dipartimento di Scienze Politiche
MASTER IN ANALISI, PREVENZIONE E CONTRASTO DELLA
CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E DELLA CORRUZIONE
Testimoni di giustizia
Una questione di identità
CANDIDATA:
IRENE CATERINA SICURELLA
ANNO ACCADEMICO 2014/2015
INDICE
INTRODUZIONE
1
IL PUNTO DI VISTA LEGISLATIVO:
UNA GENESI IMPURA
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1.1 Le leggi degli anni ‘70 e ‘80
3
1.2 I “pentiti” di mafia e la legge n. 82 del 1991
5
1.3 Gli anni 2000. Nascono i testimoni
9
1.4 Le sfide normative di oggi. La nuova proposta di legge per un’identità
legislativa dei testimoni di giustizia
2. L’AUTOPERCEZIONE: CHI SONO E COME SI RACCONTANO I
TESTIMONI DI GIUSTIZIA
15
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2.1 I racconti
25
2.2 L’identità persa, ritrovata e moltiplicata: la storia di Pino Masciari
45
3. UNO SGUARDO ALLA CORRUZIONE: TESTIMONE DI GIUSTIZIA E
WHISTLEBLOWER
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3.1 Lacune linguistiche e legislative
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3.2 Identità complesse
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3.3 Le differenze
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4. LE LORO VOCI
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4.1 Intervista a Gennaro Ciliberto
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4.2 Intervista a Gianluca Maria Calì
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4.3 Intervista a Tiberio Bentivoglio
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CONCLUSIONI
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BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE
Le vicende dei testimoni di giustizia sono ancora poco conosciute e soggette a diversi
fraintendimenti. Si tratta, secondo le ultime stime, di circa 80 persone sottoposte a specifiche
misura di tutela in ragione del pericolo che corrono dopo aver rilasciato dichiarazioni riguardo a
un determinato fatto delittuoso di cui sono stati, appunto, testimoni. La maggior parte di loro
sono normali cittadini, inseriti nel tessuto economico e sociale del loro territorio, molto spesso
commercianti o imprenditori che si sono trovati a confrontarsi con le richieste estorsive della
criminalità organizzata di stampo mafioso.
Analizzando le diverse storie dei testimoni si rileva subito come quella dell’identità sia una
questione chiave per comprendere a fondo l’argomento. Si tratta in particolare e da molti punti di
vista di un’identità mancata o messa in seria discussione, a partire da una definizione giuridica
manchevole che ancora non garantisce a pieno un regime di gestione specifico per i testimoni,
fino ad arrivare all’esperienza diretta delle più estreme misure di tutela, il programma speciale di
protezione, che costringe le persone protette a privarsi totalmente della propria identità,
cambiando nome e cognome, trasferendosi di nascosto in altre località del paese, smettendo di
lavorare, non potendo muoversi liberamente, curarsi o avere contatti con la vita precedente.
Nella prima parte di questo lavoro la questione dell’identità viene affrontata da un punto di vista
normativo; la figura del testimone di giustizia ha infatti avuto una genesi legislativa “impura”
essendo per lungo tempo stata assimilata a quella del collaboratore, quel soggetto che, dopo aver
commesso dei crimini e spesso in ragione della possibilità di accedere a dei meccanismi premiali,
decide di autoaccusarsi e rivelare le informazioni di cui è in possesso riguardo all’organizzazione
criminale di cui ha fatto parte. Questa mancata definizione iniziale ha determinato una
contaminazione tra i due profili che ha sconfinato l’ambito normativo ed è arrivata a interessare
anche la percezione sociale di questi soggetti, ancora spesso confusi con i cosiddetti “pentiti”. A
questo si è aggiunto, come molti di loro hanno ripetutamente denunciato, l’assenza di un
trattamento adeguato e dignitoso e di quelle garanzie che spetterebbero a chi, senza far parte del
mondo della delinquenza, decide di denunciare. Ed è proprio a partire dai loro racconti,
interviste, libri e interventi di vario genere, analizzati nel secondo capitolo, che si riescono a
cogliere le più significative sfumature della percezione e della declinazione del tema dell’identità,
1
di come essa sia stata spesso persa, taciuta, riacquistata e quale nuovo valore abbia acquisito
dopo le denunce e l’ufficializzazione dello ​status​ di testimone.
Nel terzo capitolo si affronta invece una riflessione comparativa tra la figura del testimone di
giustizia e il cosiddetto ​whistleblower​, il segnalatore di atti illeciti sul luogo di lavoro, cercando di
analizzarne gli elementi di distanza e gli aspetti di sovrapposizione. Partendo dalle analisi del
profilo del ​whistleblower ​e del suo atto di segnalazione, si riescono infatti a trarre spunti e linee di
riflessione utili per delineare e chiarire anche la complessa identità del testimone di giustizia che,
proprio in ragione del suo atto di presa di parola e di difesa della verità, rivela molti aspetti
sovrapponibili al “soffiatore di fischietto”.
Il quarto capitolo raccoglie, infine, le interviste a un testimone di giustizia e a due imprenditori
vittime di mafia.
2
1. IL PUNTO DI VISTA
LEGISLATIVO:
UNA GENESI IMPURA
1.1 Le leggi degli anni ‘70 e ‘80
L’incertezza che circonda il tema dell’identità quando si parla di testimoni di giustizia è
strettamente correlata al percorso delle leggi che hanno portato alla definizione giuridica del loro
status​. Anche e soprattutto dal punto di vista legislativo, infatti, la figura del testimone di giustizia
non ha avuto definizione chiara fin da subito, ma è stata costruita a partire da una riflessione che
riguardava l’adozione di nuovi approcci per contrastare specifici tipi di fenomeni criminali.
La storia dei testimoni di giustizia dal punto di vista giuridico-normativo ha le sue primissime
origini tra la seconda metà degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, quando, in un contesto socio-politico
peculiare e unico nella storia dell’Italia repubblicana, vengono introdotti una serie di nuovi
provvedimenti legislativi. Il significativo e critico allarme sociale nato in tutto il paese dal
diffondersi del terrorismo, della lotta eversiva e del fenomeno dei sequestri di persona a scopo di
estorsione costituisce il principale ​input sull’onda del quale il legislatore ha provveduto alla
progressiva elaborazione di interventi normativi specificamente studiati per contrastare questi
nuovi tipi di criminalità che stavano mettendo a rischio l’incolumità istituzionale e dei cittadini. Si
rendeva così necessario un approccio alla persecuzione di questi reati di tipo nuovo, che fosse
modellato per contrastare una criminalità che sempre di più si allontanava dalla delinquenza
individuale, ma trovava invece nel sodalizio tra i suoi membri e nella sua dimensione
organizzativa e strategica i suoi elementi caratteristici e di forza. Le nuove norme, oltre a
introdurre organismi investigativi specializzati e forme di coordinamento tra gli uffici addetti alle
indagini, si concentrano sullo studio di nuove misure per favorire la rottura del vincolo
associativo, come mezzo fondamentale per disgregare dall’interno i gruppi criminali. Le nuove
leggi agiscono infatti principalmente su due fronti: da un lato l’aggravamento delle sanzioni a
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carico degli autori dei reati e dall’altro la concessione di speciali attenuanti per chi si adoperasse
per evitare il verificarsene di ulteriori.
Il decreto legge n. 625 del 15 dicembre 1979, convertito con modificazioni nella legge n. 15 del 6
febbraio 1980 intitolata “Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza
pubblica”, introduce nuove figure di reato (associazione con finalità di terrorismo e di eversione,
attentato con finalità di terrorismo o di eversione, sequestro di persona a scopo di terrorismo o
eversione) punite con pene più gravi rispetto a delitti analoghi ma non caratterizzati dalla finalità
terroristica o di eversione e prevedendo riduzioni di pena per chi, dopo aver commesso reati di
questo tipo in concorso con altri, se ne fosse dissociato, si fosse adoperato per evitare che
l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori o avesse aiutato concretamente le
autorità nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti.
Due anni più tardi, le “Misure per la difesa dell'ordine costituzionale” previste dalla legge n. 304
del 28 maggio 1982, oltre a rendere ancora più favorevoli gli effetti dell’attenuante della
“collaborazione attiva”, introducono quella della cosiddetta “dissociazione” per coloro che prima
della condanna definitiva avessero reso piena confessione di tutti i reati commessi e si fossero
adoperati per eliminarne le conseguenze dannose e per impedirne di altri. La questione della
dissociazione viene poi ulteriormente specificata nella legge n. 34 del 18 febbraio 1987, “Misure a
favore di chi si dissocia dal terrorismo”, dove trova una nuova e più dettagliata definizione (art.
1):
si considera condotta di dissociazione dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o
condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione all’ordinamento costituzionale,
ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha
appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività
effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il
permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo di lotta politica.
Le leggi sul terrorismo rispondono, così, all’esigenza concreta e contingente di trovare nuovi
strumenti per contrastare forme di delitto nuove e particolarmente pericolose, facendo leva sulle
crisi ideologiche e di coscienza che stavano nascendo in molti giovani terroristi o loro
fiancheggiatori i quali stavano assistendo a un progressivo aumento del grado di violenza della
lotta armata dei loro gruppi di riferimento. Il profilo del dissociato era quindi quello di una
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persona estremamente politicizzata che si trovava, con l’​escalation di violenza a cui andava a
contribuire, a mettere in dubbio le modalità della propria rivendicazione. Si trattava quindi in
primo luogo di un rifiuto ideologico-politico di persone che non si riconoscevano più nelle
decisioni, per lo più operative, del proprio gruppo e che iniziavano ad ammettere il fallimento del
proprio progetto di lotta, che non aveva trovato quegli esiti e quel sostegno popolare che
avevano ipotizzato potesse avere.
1.2 I “pentiti” di mafia e la legge n. 82 del 1991
La figura del dissociato è in seguito servita come base legislativa per introdurre quella del
collaboratore di giustizia per i fatti di mafia. Sono stati molti i dubbi iniziali sull’applicabilità di
questo approccio ai membri delle associazioni mafiose. L’incertezza maggiore riguardava in
particolare l’effettiva validità del cosiddetto “pentimento”, che, se nei giovani terroristi nasceva
dalla volontà di allontanarsi da strategie eversive violente e da ideologie politiche in via di
fallimento, negli affiliati delle organizzazioni di tipo mafioso aveva molte più probabilità di essere
utilizzato opportunisticamente per accedere al meccanismo premiale, per avere sconti di pena, se
non addirittura per risolvere conflittualità interne all’organizzazione stessa. Un contributo
decisivo al dibattito arriva soprattutto grazie alle riflessioni di Giovanni Falcone che sosteneva,
come ben riassunto da Loris D’Ambrosio, che:
a determinare una sorta di reazione di rigetto nei confronti delle collaborazioni “mafiose”
erano l’istintiva e tutto sommato comprensibile ripulsa verso i delatori, la non adeguata
professionalità con cui, talora, erano state vagliate le dichiarazioni dei pentiti e, infine, la
tendenza ad affrontare il problema in maniera emozionale, sulla base di schemi mentali
precostituiti e inidonei a consentire soluzioni chiare e soddisfacenti. La reazione di rigetto
poteva essere superata solo se si riusciva a cogliere appieno l’aspetto storicamente più
importante e positivo della intera “vicenda collaborativa”: quello rappresentato dalla
circostanza che, per la prima volta da molti anni, autorevoli membri di organizzazioni criminali
avevano ritenuto di abbandonare la tradizionale omertà.1
La portata storica del pentitismo e le ragioni di Falcone sono state concretamente e visibilmente
misurate nel corso del Maxiprocesso di Palermo della seconda metà degli anni ‘80, dove grazie
1
D’AMBROSIO Loris, ​Collaboratori e testimoni di giustizia​, Cedam, Padova, 2002, p. 17.
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alle dichiarazioni, tra gli altri, dei “pentiti” Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno si è riusciti
per la prima volta, oltre che a condannarne i massimi vertici, ad avere una visione chiara della
dimensione organizzativo-verticistica di Cosa Nostra e dei suoi meccanismi, allora ancora poco
conosciuti. L’istituzione della possibilità di collaborare con la giustizia nasce quindi da una
specifica filosofia di contrasto alla mafia che si basa sull’idea di una disarticolazione
dell’organizzazione dal suo interno e non può prescindere dalla consapevolezza che solo dalla
diretta testimonianza dei protagonisti dei fatti criminali si è in grado di venire a conoscenza di
determinati elementi altrimenti non acquisibili. Per questi motivi, sempre secondo Falcone, per
favorire la collaborazione bisognava spingersi verso scelte legislative particolarmente coraggiose,
che comprendessero norme premiali di portata consistente: l’imputato di mafia doveva, infatti,
trovarsi nelle condizioni di poter ponderare la scelta della giustizia, nonostante i rischi di vendette
e rappresaglie a cui sapeva di sottoporsi rompendo il vincolo al silenzio e all’omertà che aveva
sancito la sua entrata nell’organizzazione. I meccanismi premiali dovevano così essere
contestualmente accompagnati dall’introduzione di specifiche garanzie riguardo la protezione e
l’incolumità dei cosiddetti “pentiti”, che si trovavano, a causa delle loro denunce, in serio rischio
di vita.
Ed è stato proprio sulla base di queste premesse che si è arrivati all’emanazione del decreto legge
del 15 gennaio 1991, convertito il 15 marzo dello stesso anno nella legge n. 82, che istituisce le
“Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di
coloro che collaborano con la giustizia”. La legge n. 82 è stata di fondamentale importanza per
dare cornice giuridica a uno strumento della lotta alle mafie, per rispondere alla necessità di tutela
di questi soggetti e per legittimarne la loro posizione processuale. In particolare, nella legge
vengono definite le disposizioni per l’utilizzo di speciali misure di protezione per assicurare
incolumità e, ove necessario, assistenza a chi, genericamente, “collabora con la giustizia”. In
questo modo però non è stata effettuata fin da subito la differenziazione che sta alla base di una
delle più importanti rivendicazioni che tutt’oggi molti testimoni di giustizia cercano di portare
avanti, ovvero quella con i collaboratori. La legge nasce, infatti, per tutelare quei soggetti che
occupano una posizione all’interno dell’organizzazione o che hanno avuto contatti assidui e
profittevoli con esse e che, dopo un atto di pentimento e rifiuto del proprio passato o per
accedere ai meccanismi premiali, si autodenunciano e raccontano ciò di cui sono a conoscenza.
Nella stessa legge sono stati inclusi, però, anche i testimoni, ovvero quei soggetti che non hanno
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compiuto delitti o fatto parte di organizzazioni criminali, ma che anzi spesso fanno parte del
normale tessuto economico e sociale e si sono trovati ad essere a conoscenza o, come in molti
casi, ad essere vittime di determinati reati di cui hanno deciso, per molteplici ragioni, di riferire
all’autorità e che, a causa di tali denunce, si trovano nel medesimo pericolo di rappresaglie da
parte di chi è stato oggetto delle loro dichiarazioni. La legge sancisce così la necessità della
garanzia della protezione e proprio in nome di questa necessità vengono assimilati e riuniti due
profili, aventi entrambi diritto alla tutela, ma biograficamente, sociologicamente e giuridicamente
distanti.
L’inclusione e l’incardinamento del regime tutorio del testimone di giustizia in quello previsto per
i collaboratori ha quindi causato una pericolosa contaminazione, anche a livello di percezione
sociale, tra i diversi soggetti protetti e un conseguente trattamento indifferenziato, anche in
termini di rigidità e di diritti garantiti, tra individui imputati e testimoni estranei ai fatti. Sono
infatti molte le storie di testimoni di giustizia che hanno denunciato di essere stati trattati
ingiustamente, di essersi visti privati di diritti fondamentali, di essere stati destinati a vite solitarie
e di sofferenza per rallentamenti burocratici, indifferenze istituzionali e mancanze normative e
che per tali trattamenti hanno portato avanti rivendicazioni o compiuto gesti eclatanti, come
l’incatenamento davanti al palazzo del Viminale, e estremamente sofferti, come i vari casi di
tentativi di suicidio.
Nella codificazione del regime tutorio della legge n. 82 l’assimilazione delle due figure è avvenuta
sulla base di un effettivo punto di coincidenza delle condizioni in cui questi individui si vengono
a trovare dopo la loro scelta di denuncia. Sia i collaboratori che i testimoni, trovandosi in una
situazione di grave pericolo, diventano, infatti, destinatari di misure di tutela specifiche per la loro
condizione, il cosiddetto programma speciale di protezione, in quanto rivelatesi inadeguate le
misure ordinarie di tutela ordinarie adottabili dall’autorità di pubblica sicurezza. Il livello di
pericolo è misurato tenendo conto sia della qualità e rilevanza delle dichiarazioni rese sia delle
capacità di reazione o intimidazione che possono essere esercitate da parte del gruppo criminale
al quale appartengono le persone accusate.
Nella normativa si stabilisce, inoltre, che le misure di protezione possano essere revocate o
modificate in relazione all’attualità del pericolo corso dall’individuo che vi è sottoposto, al suo
non rispetto degli impegni assunti (la commissione di reati indicativi del mutamento o della
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cessazione del pericolo conseguente alla collaborazione, la rinuncia espressa alle misure, il rifiuto
di accettare l'offerta di adeguate opportunità di lavoro o di impresa, il ritorno non autorizzato nei
luoghi dai quali si è stati trasferiti, nonché ogni azione che comporti la rivelazione o la
divulgazione dell’identità assunta, del luogo di residenza e delle altre misure applicate) o alla
mutata idoneità delle misure stesse. Un particolare importante è che il tempo trascorso dall’inizio
della collaborazione e dall’inizio dei procedimenti penali nei quali sono state rese le dichiarazioni
assume valore indicativo ai fini della revoca o meno delle misure.
Per le persone sottoposte a tutela vengono previste dalla legge anche misure di assistenza che
comprendono una sistemazione alloggiativa, le spese per i trasferimenti, le spese per esigenze
sanitarie quando non sia possibile avvalersi delle strutture pubbliche ordinarie, l'assistenza legale
e l'assegno di mantenimento nel caso di impossibilità di svolgere attività lavorativa.
Nella legge n. 82 vengono inoltre definiti gli impegni che le persone nei cui confronti è stata
avanzata proposta di ammissione alle misure di protezione sono tenute ad assumersi (art. 13).
Esse sono infatti obbligate a rilasciare all’autorità proponente completa e documentata
attestazione riguardante: il proprio stato civile, di famiglia, patrimoniale, gli obblighi a loro carico
derivanti dalla legge, da pronunce dell’autorità o da negozi giuridici, i procedimenti penali, civili e
amministrativi pendenti, i titoli di studio e professionali, le autorizzazioni, le licenze, le
concessioni e ogni altro titolo abilitativo di cui siano titolari. Gli interessati sono inoltre chiamati
a: osservare le norme di sicurezza, sottoporsi a interrogatori o altri atti di indagine, non rilasciare
ad altri soggetti dichiarazioni concernenti i fatti, non aver nessun tipo di contatto con persone
addette al crimine né altri collaboratori, specificare beni posseduti o controllati. Quest’ultimo
impegno, sin dalla legge n. 82, è specificamente richiesto esclusivamente ai collaboratori. Ai fini
del reinserimento sociale dei collaboratori e delle altre persone sottoposte a tutela è inoltre
garantita la conservazione del posto di lavoro o il trasferimento ad altra sede o ufficio e la
possibilità di utilizzo di documenti di copertura.
Nell’art. 9 viene specificato anche il carattere di attendibilità, novità e completezza che devono
avere le dichiarazioni del denunciante al fine dell’applicazione delle speciali misure di protezione.
La legge n. 82 sancisce inoltre l’istituzione della Commissione centrale di protezione presso il
Ministero dell’Interno, l’organo amministrativo che adotta lo speciale programma di protezione
composto da un Sottosegretario di Stato all'Interno che la presiede, da due magistrati e da cinque
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funzionari e ufficiali. L’attuazione e la specificazione delle modalità esecutive delle misure di
protezione sono affidate invece al Servizio centrale di protezione, istituito nell’ambito del
Dipartimento di pubblica sicurezza con decreto del Ministro dell’Interno di concerto con il
Ministro del Tesoro. Il Servizio si articola in una struttura centralizzata con sede a Roma ed in
altre strutture diffuse sul territorio: i nuclei operativi di protezione (​NOP​), ai quali è demandato il
compito di tenere fisicamente i rapporti con i collaboratori e i testimoni di giustizia. Spetta
proprio ai ​NOP​, tenendo conto della variegata composizione della popolazione protetta,
affrontare le emergenze legate all’attuazione dello speciale programma di protezione siano esse
abitative, scolastiche, amministrative, sanitarie, lavorative, psicologiche. Per questo motivo si è
spesso sentita l’esigenza di un incremento numerico di questo gruppo di funzionari e di un
potenziamento delle loro competenze operative.
1.3 Gli anni 2000. Nascono i testimoni
La prima legge sui testimoni di giustizia ha avuto un ​iter parlamentare molto travagliato ​visto che
la sua data di presentazione risale all'11 marzo 1997 e quella della sua emanazione al 13 febbraio
2001. A partire dalla fine degli anni ‘90, infatti, le Relazioni semestrali del Ministero dell’Interno
sui programmi di protezione avevano gradualmente sottolineato la necessità di operare una
distinzione normativa “tra la posizione di colui che rendeva la propria testimonianza su fatti
appresi in virtù di una pregressa appartenenza alla criminalità, organizzata e non, e quella di chi,
non provenendo dal mondo della delinquenza, assumeva la qualità di testimone”.2 Per questi
individui, infatti, la “collaborazione” aveva quasi sempre significato l’allontanamento dalla
località di origine, spesso accompagnato dal cambio delle generalità, dai disagi e dalle crisi
personali e familiari ad esso connessi, dalla cessazione o compromissione dell’attività lavorativa.
All’inizio del 2001 viene così ​approvata la legge n. 45 intitolata “Modifica della disciplina della
protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché
disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza”, grazie alla quale il testimone di
giustizia viene per la prima volta riconosciuto dal punto di vista normativo. La nuova legge
apporta specifiche integrazioni alla legge del ‘91 introducendo significativi cambiamenti dal
​Relazione al parlamento sui programmi di protezione (1 gennaio - 10 giugno 1998)​, Nota integrativa​, in D’AMBROSIO,
Collaboratori e testimoni di giustizia​ cit., p. 245.
2
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punto di vista della definizione giuridica del profilo del testimone e, conseguentemente, del suo
trattamento specifico. Il legislatore opta per la tecnica della cosiddetta interpolazione: interviene
sulla legge con integrazioni, modifiche e innesti, svelando così la volontà di aggiornare,
coordinare e risistemare le norme preesistenti, ma mancando l’opportunità di creare una
normativa ​ad hoc ​per i testimoni in grado di risolvere la confusione originaria che li accomunava
ai collaboratori.
La prima grande novità è sicuramente la modifica del titolo stesso del decreto dove vengono
ufficialmente introdotti i testimoni di giustizia e che muta in “Nuove norme in materia di
sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia nonché
per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia”.
Questo è un fatto particolarmente rilevante perché sin dal titolo del decreto viene prevista
l’esistenza di due figure nettamente distinte. La legge n. 45, però, è particolarmente significativa
anche perché dà la prima definizione normativa del profilo del testimone gettando le basi per la
costruzione di una sua identità giuridica definita ed esplicitamente separata da quella dei
collaboratori. La nuova legge introduce, infatti, con il CAPO II bis - ​Norme per la protezione dei
testimoni di giustizia​, due articoli (16-​bis e 16-​ter​) riguardanti la definizione e la tutela esclusivamente
di questi soggetti. Il primo articolo qualifica i testimoni come:
coloro che assumono rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le
dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato ovvero di persona informata
sui fatti o di testimone, purché nei loro confronti non sia stata disposta una misura di
prevenzione, ovvero non sia in corso un provvedimento di applicazione della stessa.
Vengono quindi chiariti l’equivoco e la confusione nati con la legge n. 82, dando definizione del
testimone come vittima, persona informata o che ha assistito ai fatti, con la condizione che non
siano state disposte nei suoi confronti misure di prevenzione. Si prevede, inoltre, che le misure di
protezione previste per i collaboratori di giustizia vengano estese anche ai testimoni e a coloro
che “coabitano o convivono stabilmente (...) nonché (...) a chi risulti esposto a grave, attuale e
concreto pericolo a causa delle relazioni intrattenute con le medesime persone” (art. 2, comma
5).
La nuova legge provvede anche ad alcune modifiche del regime tutorio prevedendo, in totale,
quattro possibili tipi di misure:
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1. le misure urgenti, adottate dall'autorità provinciale di pubblica sicurezza ​in situazioni
particolarmente gravi che non consentono di attendere la decisione della Commissione
centrale.
2. il piano provvisorio di protezione, una misura contingente attuata nell’immediatezza
dell’inizio della collaborazione o della testimonianza nel caso di situazioni di particolare
gravità. Esso ha durata massima di centottanta giorni con possibilità di prolungamento
nel caso non siano ancora state definite le misure di tutela da adottare e può avere il
contenuto e predisporsi nella modalità d’attuazione di ognuna della altre due forme di
tutela.
3. le speciali misure di protezione, attuate dal prefetto nel luogo di residenza, prevedono la
permanenza del soggetto nel luogo d’origine e misure di vigilanza e tutela ​in loco​. Il
contenuto di queste misure di tutela può essere rappresentato (art. 13, comma 4):
oltre che dalla predisposizione di misure di tutela da eseguire a cura degli organi di
polizia territorialmente competenti, dalla predisposizione di accorgimenti tecnici di
sicurezza, dall’adozione delle misure necessarie per i trasferimenti in comuni diversi da
quelli di residenza, dalla previsione di interventi contingenti finalizzati ad agevolare il
reinserimento sociale nonché dal ricorso, nel rispetto delle norme dell’ordinamento
penitenziario, a modalità particolari di custodia in istituti ovvero di esecuzione di
traduzioni e piantonamenti.
4. Se anche le speciali misure di protezione si rivelassero insufficienti, esse possono altresì
essere sostituite da un programma speciale di protezione, che può comprendere, oltre alle
disposizioni previste dalle speciali misure (art. 13, comma 5):
il trasferimento delle persone non detenute in luoghi protetti, speciali modalità di
tenuta della documentazione e delle comunicazioni al servizio informatico, misure di
assistenza personale ed economica, cambiamento delle generalità, misure atte a favorire
il reinserimento sociale del collaboratore e delle altre persone sottoposte a protezione
oltre che misure straordinarie eventualmente necessarie.
Questa codificazione porta con sé una fondamentale novità, ovvero l’ancoraggio della
graduazione delle misure di protezione alla oggettiva situazione di pericolo del soggetto. ​La scelta
tra misure speciali di protezione e programma speciale di protezione non dipende infatti dalla
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qualità o dalla rilevanza delle dichiarazioni rese, ma esclusivamente dell'oggettiva situazione di
pericolo a cui il soggetto è sottoposto e le misure previste devono essere mantenute fino alla
effettiva cessazione del rischio, indipendentemente dallo stato e dal grado in cui si trova il
procedimento penale in relazione al quale i soggetti destinatari delle misure hanno reso
dichiarazioni.
La sostanziale novità specifica per quanto riguarda il regime tutorio dei testimoni di giustizia è
contenuta, invece, nell’articolo 16-​ter (“Contenuto delle speciali misure di protezione”), che
disciplina la misura dello speciale programma di protezione e la differenzia, per gli aspetti
patrimoniali e di reinserimento sociale, da quella prevista dall’articolo 13 del medesimo decreto
legge per i collaboratori di giustizia. Il programma per i testimoni dà loro diritto a:
1. misure di protezione per sé e per i familiari fino alla cessazione del pericolo;
2. misure di assistenza volte a garantire un tenore di vita personale e familiare non inferiore
a quello precedente. Questo punto rappresenta una delle criticità ancora dibattute della
lettera della legge, che non specifica nel dettaglio su quali parametri basare la valutazione
del tenore di vita;
3. la capitalizzazione del costo di assistenza, in alternativa alla stessa.
4. il mantenimento del posto di lavoro in aspettativa retribuita, se dipendenti pubblici;
5. la corresponsione di una somma a titolo di mancato guadagno, sempre che i testimoni
non abbiano ricevuto un risarcimento ai sensi della legge sull’usura (legge n. 44/1999);
6. mutui agevolati.
Inoltre, se lo speciale programma di protezione include il definitivo trasferimento in altra località,
il testimone di giustizia ha diritto ad ottenere l'acquisizione dei beni immobili dei quali è
proprietario al patrimonio dello Stato, dietro corresponsione dell'equivalente in denaro a prezzo
di mercato.
Il trattamento dei testimoni acquista in questo modo un importante elemento discriminante
rispetto a quello dei collaboratori, ovvero la garanzia di un’assistenza economica calibrata per
poter riacquisire non solo l’indipendenza economica, ma lo stesso tenore di vita precedente alle
denunce. In questa misura, che ancora molto spesso trova difficile attuazione ed è legata
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esclusivamente al programma speciale di protezione, risiede il principio del riconoscimento del
debito che lo Stato ha nei confronti del testimone, a cui deve essere in grado di riconoscere e
garantire i medesimi diritti e il medesimo livello di vita che aveva prima dell’acquisizione dello
status​.
Nella nuova legge non sono però state specificamente disciplinate per i testimoni le speciali
misure di protezione; non sono infatti previste forme di assistenza economica per le attività dei
testimoni che rimangono nei luoghi d’origine e che, posti spesso di fronte alla pervasività delle
associazioni criminali o a una scarsa e impaurita reazione da parte del territorio e della
cittadinanza, si trovano a subire gravi danni nelle loro attività imprenditoriali come perdite di
commesse, riduzione della clientela o interruzione di rapporti di fornitura.
Riguardo alle dichiarazioni rese, la legge non prevede più il limite derivante dal riferimento all'art.
51 comma 3-bis c.p.p., dunque i testimoni possono essere ammessi alle speciali misure di
protezione indipendentemente dal reato in ordine al quale rilasciano dichiarazioni e non sono
richiesti i requisiti della completezza o novità delle dichiarazioni che si richiedono invece ai
soggetti già militanti in organizzazioni criminali.
Il Servizio centrale, inoltre, viene ufficialmente diviso in due sezioni, ciascuna dotata di personale
e strutture autonomi, che hanno competenze l’una sui collaboratori e l’altra sui testimoni. Questo
significativo riconoscimento della necessità di una differenziazione di trattamento dei testimoni
rispetto ai collaboratori è il risultato di una prassi che, anche se non ancora normativamente
regolata, era già presente negli organi istituzionali che gestivano i testimoni. Già esisteva, infatti,
un’apposita sezione del Servizio centrale che si occupava del loro trattamento e che garantiva
loro la possibilità di ottenere un aumento del 50% dell’assegno di mantenimento, il rimborso
spese per prestazioni mediche private, il trasferimento in alloggi preventivamente controllati dai
funzionari e contributi straordinari per favorire iniziative imprenditoriali dopo l’uscita dal
programma. La pratica operativa già riconosceva due aspetti importanti: il trattamento
differenziato per le due figure e speciali misure economiche per l’assistenza e il reinserimento
sociale dei testimoni. L’attività normativa mostra quindi, oltre a una scarsa accuratezza di tipo
definitorio, anche un ritardo rispetto alla consuetudine pratica.
La legislazione è stata in seguito completata dal decreto ministeriale n. 161 del 23 aprile 2004,
“Regolamento ministeriale concernente le speciali misure di protezione previste per i
13
collaboratori di giustizia e i testimoni, ai sensi dell'articolo 17-​bis del decreto-legge 15 gennaio
1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, introdotto
dall'articolo 19 della legge 13 febbraio 2001, n. 45” che provvede alla codificazione del regime
tutorio di collaboratori e testimoni e ​stabilisce i criteri che la Commissione centrale deve
applicare nelle fasi di istruttoria, formulazione e attuazione delle misure di protezione.
Il decreto ministeriale n. 138 del 13 maggio 2005, intitolato “Misure per il reinserimento sociale
dei collaboratori di giustizia e delle altre persone sottoposte a protezione, nonché dei minori
compresi nelle speciali misure di protezione” provvede invece a regolamentare un altro aspetto
fondamentale della vita del testimone, e quindi della sua identità, dopo l’acquisizione dello ​status​,
ovvero la sua dimensione lavorativa e professionale. In particolare ai testimoni dipendenti
pubblici ammessi alle speciali misure, ma trasferiti in comuni diversi da quello di residenza, viene
assicurata la ricollocazione presso altre sedi dello stesso ente o presso altri enti; ai testimoni
dipendenti pubblici ma ammessi al programma speciale e quindi trasferiti in località protetta
viene garantita la collocazione in aspettativa retribuita; per i testimoni dipendenti privati ammessi
alle speciali misure che per ragioni di sicurezza si trovano impossibilitati a proseguire l’attività
lavorativa e per quelli ammessi al programma speciale è mantenuto il posto di lavoro con
sospensione degli oneri retributivi e previdenziali a carico del datore di lavoro e vengono
rimborsati eventuali contributi volontari versati.
Un ulteriore apporto in questo senso è stato dato dal decreto legge 31 agosto 2013, n. 101,
convertito dalla legge 30 ottobre 2013, n.125, che conferisce il diritto “ad accedere (...) ad un
programma di assunzione in una pubblica amministrazione con qualifica e funzioni
corrispondenti al titolo di studio e alle professionalità possedute, fatte salve quelle che richiedono
il possesso di requisiti specifici”. La legge, però, ha ad oggi trovato attuazione solamente in
Sicilia, regione a statuto speciale che ha potuto recepire più velocemente la legge attraverso la sua
assemblea regionale. Attualmente, infatti, tutti i testimoni di giustizia siciliani aventi diritto hanno
trovato un posto nella pubblica amministrazione. Purtroppo, però, in fase di applicazione della
norma si sono incontrate numerose difficoltà: i beneficiari siciliani, che per motivi di sicurezza
non possono restare nell’isola, sono stati assunti tutti nella medesima amministrazione, l’ufficio
romano della Regione Sicilia, con conseguenti problemi di sicurezza, tutela, nonché di
sovraffollamento di personale e quindi di scarsa valorizzazione del lavoro.
14
1.4 Le sfide normative di oggi. La nuova proposta di legge per
un’identità legislativa dei testimoni di giustizia
Dal 2001 ad oggi il dibattito sui testimoni di giustizia, pur avendo conosciuto alternate fasi di
discussione e di esposizione mediatica, non si è mai spento. Sempre più testimoni si sono
impegnati per far conoscere le loro storie e per portare avanti le loro rivendicazioni in sede
politica, confermando l’esigenza di un ripensamento, anche normativo, della questione.
Nell’ottobre del 2014 Camera e Senato hanno approvato all’unanimità una Relazione redatta
dalla Commissione parlamentare antimafia a seguito di un’inchiesta sul sistema di protezione dei
testimoni di giustizia. La Relazione ripercorre la storia normativa dello ​status di testimone di
giustizia e riconosce la sua genesi “impura” nel decreto numero 8, trasformato poi in legge n.
82/1991, voluto e ideato per disporre misure ​extra ordinem per la lotta alle associazioni mafiose e
sottolinea come l’assenza di disposizioni specificamente dedicate ai testimoni di giustizia non sia
stato frutto di una dimenticanza. La Relazione, infatti, definisce chiaramente la testimonianza
come:
l’estrinsecazione del diritto alla denuncia o dell’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria che lo
richiede e, pertanto, attiene, secondo il codice di rito, al meccanismo ordinario di
riaffermazione della legalità e non a quello straordinario di lotta all’illegalità.3
Si fa quindi una nettissima distinzione fra due figure che, oltre a essere spinte da motivazioni
differenti e a trovarsi in posizioni socialmente e giuridicamente distanti, sono riconosciute come
soggetti definitori di due diversi paradigmi. Da una parte esiste, infatti, un paradigma della legalità
e dell’ordinarietà rappresentato dal testimone, un normale cittadino che assolve con la
testimonianza il proprio dovere di solidarietà sociale, di verità e di giustizia, esercitando un diritto
(denuncia) e sottoponendosi ad un obbligo (riferire all’autorità) e trovandosi, a causa di queste
scelte “ordinarie”, in una situazione di pericolo per la propria vita. Dall’altra parte, invece,
troviamo un paradigma dell’illegalità, del “fuori dall’ordinario”: la situazione in cui lo Stato è
costretto a predisporre, trovandosi di fronte a una particolare tipologia di criminalità organizzata
che si regge sul potere di assoggettamento e sul vincolo al silenzio che lega i suoi membri, oltre
che uno specifico meccanismo di tutela, anche delle consistenti misure premiali per chi decide di
​Relazione sul sistema di protezione dei testimoni di giustizi​, approvata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul
fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere il 21 ottobre 2014, relatore: Davide Mattiello,
p. 8.
3
15
rompere questi vincoli denunciando se stesso ed altri ed esponendo così l’organizzazione alla
possibilità di essere conosciuta, nonché colpita, nei suoi meccanismi organizzativi ed operativi.
La legge n. 45 del 2001 ha in seguito dato definizione normativa autonoma al testimone di
giustizia ridefinendo anche il rapporto tra questa figura e lo Stato “che non si fonda, né può
fondarsi, sulla premialità o sull’assistenzialismo, bensì sul riconoscimento e la garanzia dei diritti
pregressi”4. Il testimone quindi
essendo colui che adempie a un dovere civico, non può essere retribuito per le sue
dichiarazioni ma, al contrario, deve essere posto nella condizione di renderle in sicurezza e
senza che la difesa statale possa per lui risolversi in un danno economico, lavorativo o sociale.5
La Relazione sottolinea inoltre come, a causa delle mutazioni delle organizzazioni criminali,
anche inerenti alle loro scelte operative, che più raramente si risolvono in atti sanguinari eclatanti,
si sia verificato e si stia verificando un mutamento del concetto stesso di pericolo che necessita di
essere ripensato non più nell’ottica emergenziale dei primi anni ‘90, ma di essere più strettamente
calibrato e rimodellato sui vari contesti di provenienza degli individui che prestano
testimonianza.
Un’ulteriore analisi riguarda il malcontento sempre più evidente dei testimoni riguardo al
trattamento ricevuto e alle garanzie dovute e non rispettate, che ha portato a episodi sempre più
frequenti e sistematici di rimostranze, rivendicazioni, manifestazioni di dissenso e di delusione
per la mancanza del supporto istituzionale. Le problematiche che più di altre si sono messe in
evidenza durante le varie audizioni dei testimoni su cui è stata costruita l’inchiesta parlamentare
riguardano in particolare: un ​deficit informativo, per cui la maggior parte dei testimoni, al
momento della denuncia, non possiede le informazioni necessarie e complete per comprendere
che cosa, dal punto di vista pratico, comporterà la loro scelta; la non idoneità delle sistemazioni
logistiche, spesso alloggi isolati e da tempo abbandonati che versano in discutibili condizioni;
l’inadeguatezza del sistema di reinserimento socio-lavorativo, in particolare viene notata una non
attuazione della norma che prevede la garanzia del mantenimento di un tenore di vita uguale a
quello precedente alle denunce; una disparità di trattamento tra i diversi testimoni, nonché la
lentezza e la burocratizzazione delle procedure. Si evidenzia così un’esigenza molto sentita di
rimettere mano all’intero sistema di applicazione delle misure di tutela, in un’ottica che preservi e
4
5
​Ibidem​.
​Ibidem​.
16
rispetti la parità del rapporto tra Stato e testimone, a cui va riservato un trattamento dignitoso
che garantisca l’incolumità sua e della sua famiglia, la preservazione dei suoi diritti di uomo e
cittadino, la possibilità di non perdere l’attività economica e il lavoro e, nel caso, di avere tutti i
mezzi necessari per un reinserimento completo in un nuovo tessuto sociale.
La politica si trova così di fronte a diverse tipologie di problemi da affrontare nel dibattito sulla
nuova normativa:
1. in primo luogo la necessità sempre più sentita di risolvere l’iniziale equivoco definitorio
nato con la legge del 1991 e di identificare in maniera univoca la figura del testimone di
giustizia, dedicandogli una legge separata e indipendente;
2. stabilire con chiarezza le condizioni di accesso allo ​status di testimone, individuando
criteri oggettivi di valutazione delle tipologie di soggetti.
3. provvedere al potenziamento del regime di protezione e al suo buon funzionamento.
L’inchiesta, la relativa Relazione e due risoluzioni di Camera e Senato hanno costituito la base per
la proposta di legge n. 3500 che, sottoscritta da tutti i gruppi parlamentari, è stata presentata alla
Camera per la prima lettura il 15 dicembre del 2015. La nuova normativa, pensata esclusivamente
per i testimoni, mirerebbe a raggiungere quella definizione legislativa che è stata per così tanti
anni mancante; prevedendo una legge indipendente, slegata da quella sui collaboratori di giustizia
e che contenga indicazioni specificamente dirette alla tutela di questi soggetti, si risponderebbe
all’esigenza di dare indipendenza e riconoscimento giuridico alla figura del testimone.
Il progetto di proposta di legge è stato presentato anche in occasione del convegno “La Carta dei
diritti e dei doveri per la protezione a favore dei testimoni e collaboratori di giustizia. Dalla
presentazione del Rapporto del Gruppo di lavoro alle proposte di riforma del sistema” tenutosi
all’Accademia dei Lincei, a Roma, il 26 ottobre del 2015 e coordinato dal viceministro
dell’Interno e presidente della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle
speciali misure di protezione Filippo Bubbico. In occasione del convegno sono stati presentati i
risultati del gruppo di lavoro alle proposte di riforma in attività dall’inizio del 2015 e formato da
procuratori, professori di psicologia, economia, diritto, sociologia, rappresentanti dei ministeri
dell’Interno e dell’Istruzione, da prefetti e dall’ex direttore del Servizio centrale di protezione.
Durante la presentazione dei lavori il tema della determinazione di un profilo identificativo del
17
testimone è stato uno dei più ricorrenti, sintomo di una ancora viva necessità di capire innanzi
tutto chi siano i testimoni, chi abbia diritto ad acquisire questo ​status e quali siano diritti e i doveri
che ne conseguono. Dal dibattito è in particolare risultato evidente che esiste a tutti gli effetti una
definizione teorica “pura” e riconosciuta di testimone, individuato in quel cittadino estraneo ai
contesti di criminalità che si trova casualmente ad assistere ad un reato e per spirito civico, di
legalità e verità consegna alle autorità la sua testimonianza riguardo a quello specifico fatto e
proprio per questo rischia di vedere stravolta la propria vita personale e familiare dal punto di
vista affettivo, sociale, economico e della propria incolumità fisica. Ancora più evidente, però, si
è resa la necessità di approfondire le situazioni specifiche dei reali testimoni, il cui profilo
aderisce solo in parte a questa definizione-modello. Molto spesso, infatti, i testimoni sono, da
una parte, vittime del reato che denunciano, in particolare si tratta per la maggior parte di
imprenditori vittime del ​racket delle estorsioni mafiose, e dall’altra familiari di individui inseriti
nelle organizzazioni criminali o ad esse tangenti, che decidono di spezzare un certo tipo di
cultura criminale familiare (si tratta in questo caso nella quasi totalità di famiglie mafiose o che
hanno rapporti di qualche tipo con la criminalità organizzata). In entrambi i casi si delineano,
inoltre, ulteriori separazioni e “gradazioni” di profili in base al livello della consapevolezza e
libertà della vittima e del familiare o affine, al grado di coinvolgimento nelle attività criminali che
ha riguardato quella persona e a quello di soggiogamento a cui era sottoposta. Si tratteggiano così
i contorni del cosiddetto testimone “​borderline​”, definito dalla Commissione antimafia come
“quell’individuo che instaura con l’attività criminale un rapporto ambiguo, in alcuni casi
prendendo l’iniziativa del rapporto con estorsori e usurai per ottenere benefici e che denuncia
solo quando si trova in difficoltà economica oppure quegli individui provenienti da nuclei
familiari composti da persone inserite nell’associazione o ad esse contigui che hanno tratto dei
benefici economici o sociali dall’appartenenza dei loro congiunti a gruppi criminali”.6 Si
riconosce così l’esistenza di una figura non completamente “incontaminata”, che si è trovata in
una situazione di tangenzialità, prossimità, se non di coinvolgimento più o meno passivo rispetto
alle organizzazioni criminali; una figura ibrida non estranea al contesto e alla cultura criminosi
per cui è necessario, secondo la proposta di legge, ridisegnare i confini legislativi prevedendo, se
necessario, la creazione di un ​tertium genus, ​una figura a metà strada tra il collaboratore e il
6
Rosy Bindi durante l’incontro “La Carta dei diritti e dei doveri per la protezione a favore dei testimoni e collaboratori
di giustizia. Dalla presentazione del Rapporto del Gruppo di lavoro alle proposte di riforma del sistema”, Accademia
dei Lincei, Roma, 26 ottobre 2015.
18
testimone normativamente definita nelle sue specificità. Per poterlo fare la Commissione
antimafia denuncia il bisogno di integrare la figura stessa del testimone di giustizia attraverso
l’aggiunta del requisito della “terzietà” del dichiarante rispetto al contesto e ai fatti. L’art. 2 della
proposta dà infatti una modificata definizione dei testimoni di giustizia come:
1. coloro che rendono nell’ambito di un procedimento penale dichiarazioni di fondata
attendibilità intrinseca rilevanti per le indagini o per il giudizio, anche indipendentemente
dal loro esito;
2. assumono rispetto al fatto delittuoso oggetto delle loro dichiarazioni la qualità di persona
offesa dal reato ovvero di persona informata sui fatti o di testimone;
3. sono terzi rispetto ai fatti dichiarati, in particolare non hanno riportato condanne per
delitti connessi a quelli per cui si procede e non hanno consapevolmente rivolto a
proprio profitto l’essere venuti in relazione con il contesto delittuoso di cui rendono
dichiarazione. Si specifica inoltre che non escludono la terzietà del dichiarante le
condotte realizzate in ragione dell’assoggettamento verso i singoli o le associazioni
criminali oggetto delle dichiarazioni né i meri rapporti di parentela, di affinità o di
coniugio con indagati o imputati per il delitto per cui si procede o per delitti ad esso
connessi;
4. non sia stata disposta nei loro confronti una misura di prevenzione ovvero non sia in
corso un procedimento di applicazione della stessa.;
5. si trovano in una situazione di grave, concreto e attuale pericolo, rispetto alla quale risulti
l’assoluta inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente
dall’autorità di pubblica sicurezza, valutata tenendo conto di ogni utile elemento e in
particolare della rilevanza e qualità delle dichiarazioni rese, della natura del reato, dello
stato e del grado del procedimento, delle caratteristiche di reazione dei singoli e dei
gruppi criminali oggetto delle dichiarazioni.
In particolare, la proposta di legge va nella direzione di una personalizzazione del trattamento
tutorio eliminando la distinzione tra speciali misure in località d’origine e in altra località, ma
prevedendo una serie di misure di tutela, di assistenza economica e di risocializzazione tra le quali
optare tenendo conto, di volta in volta, della diversità di vicende e contesti e delle esigenze di
19
ciascun testimone. Per quanto riguarda le speciali misure di protezione esse sono individuate (art.
4):
caso per caso, secondo la situazione di pericolo e la condizione personale, familiare, sociale ed
economica dei testimoni di giustizia e degli altri protetti e non possono comportare alcuna
perdita né compressione dei diritti goduti se non per situazioni temporanee ed eccezionali
dettate dalla necessità di salvaguardare l’incolumità personale.
Nello stesso articolo viene specificata la preferenza che deve essere assicurata, nella scelta delle
misure di protezione, alla tutela ​in loco ​e la conseguente “eccezionalità” delle misure in località
protetta, da adottare esclusivamente “quando le altre forme di tutela risultano assolutamente
inadeguate rispetto alla gravità e all’attualità del pericolo, e devono comunque tendere a
riprodurre le precedenti condizioni di vita.” Particolarmente significativa è anche la
specificazione, sintomo di un’attuale carenza di attenzione nei confronti delle condizioni di vita
dei testimoni, che va a loro e agli altri protetti assicurata in ogni caso “un’esistenza dignitosa”
(art. 4, comma 3). L’art. 5 provvede a codificare le diverse misure di tutela che potrebbero
consistere in:
a) misure di sorveglianza e accompagnamento;
b) accorgimenti tecnici di sicurezza per le abitazioni, per gli immobili e per le aziende;
c) misure necessarie per gli spostamenti;
d) trasferimento in luoghi protetti;
e) documenti di copertura;
f) cambiamento delle generalità;
g) ogni altro accorgimento necessario.
Le misure di sostegno economico prevederebbero invece (art. 6):
a) la corresponsione delle spese non continuative che il testimone sostiene in conseguenza
dell’applicazione delle speciali misure;
b) la corresponsione di un assegno periodico in caso di impossibilità a svolgere l’attività
lavorativa;
c) la sistemazione alloggiativa, con la specificazione che essa debba essere idonea a garantire
la sicurezza e la dignità dei testimoni e che debba corrispondere alla categoria catastale
della dimora abituale precedente;
20
d) le spese per esigenze sanitarie;
e) l’assistenza legale;
f) un indennizzo forfettario e onnicomprensivo a titolo di ristoro per il pregiudizio subìto a
causa dell’applicazione delle speciali misure di protezione;
g) la corresponsione di una somma a titolo di mancato guadagno derivante dalla cessazione
dell’attività lavorativa del testimone;
h) l’acquisizione al patrimonio dello Stato, dietro corresponsione dell’equivalente in denaro
secondo il valore di mercato, dei beni immobili di proprietà del testimone.
Le misure di reinserimento sociale e lavorativo dovrebbero invece consistere in (art. 7):
a) conservazione del posto di lavoro o trasferimento presso altre amministrazioni o sedi;
b) individuazione e svolgimento, non oltre sei mesi dal trasferimento in località protetta, di
attività, anche lavorative non retribuite, volte allo sviluppo della persona umana e alla sua
partecipazione sociale;
c) spese e misure necessarie per supportare le imprese dei testimoni di giustizia;
d) mutui agevolati;
e) reperimento di un posto di lavoro equivalente per posizione e mansione a quello
precedentemente svolto;
f) capitalizzazione del costo dell’assegno periodico qualora i testimoni non abbiano
riacquistato l’autonomia lavorativa o il godimento di un reddito proprio. La
capitalizzazione dovrebbe essere corrisposta sulla base di un concreto progetto di
reinserimento lavorativo e con un’erogazione graduale commisurata alla progressiva
realizzazione del progetto. In questo modo la legge cercherebbe di evitare, come è più
volte accaduto, situazioni di dispersione del valore economico legate anche al lungo
periodo di assenza dal mondo del lavoro del soggetto coinvolto;
g) accesso del testimone, in alternativa alla capitalizzazione e qualora non abbia riacquistato
l’autonomia economica, a un programma di assunzione nella pubblica amministrazione.
Questo provvedimento considera l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni come
extrema ratio subordinata al fallimento delle alternative confacenti al singolo testimone,
nell’idea di perseguire, per quanto possibile, la reintegrazione dell’attività lavorativa
pregressa.
21
Al fine di evitare, come spesso accaduto, estensioni senza termine delle misure di tutela, la legge
prevederebbe anche una loro durata stabilita. Sarebbero infatti mantenute fino alla cessazione del
pericolo attuale, grave e concreto e, dove possibile, gradualmente affievolite. Nel caso tale
situazione di pericolo si protragga oltre il termine di sei anni, i testimoni in località protetta
sarebbero trasferiti definitivamente e, se necessario, sottoposti al cambio delle generalità. Le altre
misure sarebbero invece mantenute fino a quando i testimoni non abbiano raggiunto
nuovamente l’autonomia economica.
La proposta di modifica della legge prevederebbe, inoltre, l’istituzione della figura del cosiddetto
“referente” del testimone di giustizia. La creazione, all’interno del sistema tutorio, di un soggetto
di riferimento che assista e accompagni il testimone era già stata ipotizzata dalla ​Relazione sui
testimoni di giustizia​, presentata da Angela Napoli e approvata dalla Commissione parlamentare
d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare il 19 febbraio 2008 che
proponeva, con l’obiettivo di una rimodellazione in un’ottica relazionale della gestione del
testimone di giustizia, la figura del cosiddetto “​tutor​” (punto d):
una persona che si ponga come interlocutore - per conto del TdG - degli organi amministrativi
e più in generale della pubblica amministrazione. Dotato di poteri adeguati allo scopo,
normativamente definiti, affianca il testimone nella risoluzione di tutte le problematiche che
sorgono dal momento della collocazione sul territorio.
Sull’onda di questa riflessione, il referente, secondo l’art. 14 della nuova legge, sarebbe tenuto a:
a) informare regolarmente il testimone di giustizia e gli altri protetti sulle misure speciali applicate,
sulle loro conseguenze, sulle loro possibili modifiche, sulla loro attuazione, nonché sui diritti,
patrimoniali e non patrimoniali, interessati dal programma di protezione e degli altri protetti;
b) individuare e quantificare il patrimonio, attivo e passivo, e le obbligazioni del testimone di
giustizia e degli altri protetti;
c) collaborare con la Commissione centrale e con il Servizio centrale di protezione esprimendo
pareri sui provvedimenti di proroga, modifica e revoca del programma di protezione,
informando sull’andamento del programma medesimo, sulla necessità di adeguarlo alle
sopravvenute esigenze dell’interessato, nonché sulla condotta e sull’osservanza degli impegni
assunti;
d) gestire, o contribuire a gestire, con il consenso degli interessati, il patrimonio e i beni aziendali,
le situazioni creditorie e debitorie e ogni altro interesse patrimoniale del testimone di giustizia e
22
degli altri protetti se questi non possono provvedervi a causa delle dichiarazioni rese o
dell’applicazione del programma di protezione;
e) proporre i progetti di reinserimento sociale e lavorativo e verificare la loro concreta
realizzazione;
f) proporre i progetti di capitalizzazione, contribuire alla loro concreta realizzazione e
rendicontare periodicamente alla Commissione centrale l’utilizzazione delle somme attribuite ai
sensi dell’articolo 7, comma 1, lettera f);
g) collaborare tempestivamente per assicurare l’esercizio di diritti che potrebbero subire
limitazione dall’applicazione delle speciali misure di protezione;
h) mantenere il segreto su ciò che riguarda il testimone di giustizia e gli altri protetti e concordare
con il Servizio centrale di protezione le modalità di incontro e di contatto con gli stessi, nonché
di divulgazione dei dati concernenti i medesimi.
L’assistenza del referente, inoltre, si protrarrebbe per la durata del programma di protezione e,
comunque, finché il testimone di giustizia e gli altri protetti non abbiano riacquistato la propria
autonomia economica.
Nella concezione di una “dinamizzazione dell’assistenza”7, la nuova legge cerca quindi di
risolvere il ​deficit informativo denunciato da molti testimoni attraverso l’istituzione di una figura
di riferimento che si occupi anche della questione della gestione delle informazioni da trasmettere
alla Commissione centrale, nonché della richiesta, se così è stato indicato dal testimone, di un
sostegno di tipo psicologico. La Commissione risolve in questo modo un altro dei punti di
maggior dibattito. Se da molti era infatti stato sostenuto che fosse necessario prevedere per legge
un supporto psicologico ai testimoni, la Commissione antimafia propende invece per interpretare
l’assistenza psicologica come un servizio di cui il testimone può decidere di usufruire o meno,
sostenendo l’idea che non sia necessario optare per un approccio assistenzialista e sottoporre le
persone tutelate a servizi o trattamenti non esplicitamente richiesti. La Commissione, infatti,
sostiene che il sistema di gestione dei testimoni di giustizia, come inteso dalla proposta di legge,
possa addirittura diventare pratica esemplificativa di “cosa dovrebbe essere il welfare​”8, ovvero
una garanzia di uguali diritti per tutti, ma applicati in maniera differenziata a seconda del contesto
e delle condizioni di partenza di ciascuno.
7
Rosy Bindi durante l’incontro “La Carta dei diritti e dei doveri per la protezione a favore dei testimoni e collaboratori
di giustizia. Dalla presentazione del Rapporto del Gruppo di lavoro alle proposte di riforma del sistema”cit.
8
​Ibidem​.
23
Sempre nell’ottica della creazione di un valido sistema informativo e di sostegno che accompagni
il testimone in tutti i momenti del processo di denuncia, la proposta di legge prevede la creazione
di uno specifico sito ​internet del Ministero dell’Interno che contenga tutte le informazioni utili sui
programmi di protezione, sulle modalità e sui luoghi per la presentazione della denuncia e
sull’eventuale presenza nei territori di associazioni di sostegno.
Per quanto riguarda, invece, i doveri del testimone essi sono stati definiti come quelli riguardanti
esclusivamente l’osservanza delle regole di sicurezza.
Infine, sull’onda della vicenda di Lea Garofalo che, dopo essere stata estromessa e in seguito
riammessa al programma di protezione, poi volontariamente abbandonato per le ristrettezze a cui
destinava lei e la figlia, venne uccisa dal compagno ‘ndranghetista di cui aveva denunciato le
attività illegali, la proposta di legge prevederebbe la possibilità di accedere al cambiamento delle
generalità anche per soggetti non rientranti nello ​status di testimoni di giustizia, ma che si trovano
in una condizione di pericolo a causa della volontà di recidere il legame derivante da rapporti di
parentela, affinità, coniugio o convivenza con indagati, imputati o condannati per gravi reati o da
rapporti con persone vittime di gravi delitti.
La proposta di legge n. 3500 è ad oggi assegnata alla II Commissione Giustizia.
24
2. L’AUTOPERCEZIONE: CHI
SONO E COME SI
RACCONTANO I TESTIMONI
DI GIUSTIZIA
2.1 I racconti
La questione dell’identità è innanzi tutto una questione di percezione di se stessi rispetto agli altri,
l’insieme di caratteristiche uniche che differenziano la singola persona dal resto degli individui,
ma anche quegli aspetti che la rendono affine a determinati gruppi sociali come la nazionalità,
l’etnia, la religione, la classe sociale, la professione. I testimoni di giustizia, dal momento della
denuncia prima ancora che in quello dell’acquisizione ufficiale del loro ​status​, sono sottoposti a
un vero e proprio trauma rispetto a molti di questi aspetti fondativi dell’identità. I testimoni di
giustizia “nascono” infatti quando chi denuncia si ritrova in una condizione di grave pericolo di
vita, quindi proprio quando la sopravvivenza dell’identità è messa in discussione. Le misure di
protezione, inoltre, limitano i soggetti tutelati in moltissime delle loro attività quotidiane, prime
fra tutte gli spostamenti, la frequentazione di luoghi affollati e la conseguente possibilità di
nutrire e mantenere le relazioni sociali e di svolgere attività di vario genere. Vengono quindi
messi in discussione una serie di pratiche che partecipano in maniera determinante alla
costruzione e all’esercizio dell’identità dell’individuo. Ciò avviene in modo ancora più drastico ed
evidente nel momento in cui i testimoni sono sottoposti al programma speciale di protezione,
che prevede che le persone tutelate siano trasferite in altra località, non abbiano contatti con
nessun familiare né altri conoscenti del luogo d’origine, usino documenti di copertura che,
sebbene teoricamente temporanei e volti alla mimetizzazione delle persone, non permettono di
esercitare alcuni diritti fondamentali come lavorare, votare, essere curati nella propria regione. In
termini di percezione della propria identità, inoltre, avere documenti di copertura significa
innanzi tutto rinunciare al proprio nome, l’elemento più rappresentativo dell’identità, le parole
con cui gli individui si sono sempre presentati al mondo e agli altri per distinguersi, per essere
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riconoscibili. Avere dei documenti di copertura comporta anche l’obbligo di non raccontare di sé
a nessuno, essere costretti a inventarsi una falsa vita precedente, non avendo così modo di
esercitare la propria vera identità nei rapporti sociali. Quest’ultimo aspetto è particolarmente
sofferto nel caso siano presenti, sotto il programma di protezione, anche i figli dei testimoni, a
cui è necessario insegnare a presentarsi agli altri tassativamente con un nome diverso e a non
tradire la propria identità.
Molte delle persone che hanno sperimentato queste condizioni di sofferenza sentono
conseguentemente il bisogno, anche proprio in un tentativo di riaffermazione della propria
identità, originaria e nuova, di cercare vie per esprimersi, parlare, farsi conoscere, rivendicare i
loro diritti, tentare di risvegliare le istituzioni e di far loro presente l’insostenibilità delle
condizioni di vita legate al loro ​status​. L’atto di “far sentire la propria voce”, infatti, è prova della
necessità di portare messaggi e informazioni su se stessi che si pensano ancora non conosciuti,
segno di rivendicazioni che spesso riguardano la necessità di fare luce sulla propria presenza, un
modo per dire “ci sono, ed esisto, anche io”. Esistono infatti diversi servizi giornalistici,
interviste e inchieste che raccontano le condizioni dei testimoni e realizzati con la loro
collaborazione, nonché loro interventi in televisione, in radio, nelle scuole e in convegni,
manifestazioni da loro promosse, siti e pagine ​web ​da loro gestite, associazioni fondate e libri
scritti.
È interessante evidenziare come diversi testimoni di giustizia abbiano sentito la necessità di fare
conoscere la loro storia attraverso un prodotto editoriale complesso come il libro, che permette
un’articolazione più completa della narrazione di una vicenda, svelando l’esigenza di far
conoscere alla collettività, con un prodotto concreto e non volatile, le premesse e gli sviluppi
dettagliati della propria storia di vita. Hanno fatto questa scelta testimoni come Piera Aiello con il
suo ​Maledetta mafia. Io, donna, testimone di giustizia con Paolo Borsellino​, Ignazio Cutrò, fondatore e
presidente dell’​Associazione nazionale testimoni di giustizia​, la cui storia è raccontata da Benny
Calasanzio Borsellino nel libro ​Abbiamo vinto noi. La vera storia di Ignazio Cutrò l’imprenditore che ha
detto no alla mafia​, Gianfranco Franciosi con ​Gli orologi del diavolo​, scritto per Rizzoli con la
collaborazione del giornalista Federico Ruffo, Pino Masciari che con sua moglie Marisa ha
pubblicato ​Organizzare il coraggio​, Mario Nero che con Gabriele Ferraresi ha pubblicato ​Il testimone​,
memoriale che ha ispirato anche un’omonima ​fiction televisiva, o Maria Stefanelli, vedova di un
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boss della ‘ndrangheta che ha scritto, insieme alla giornalista Manuela Mareso, la sua
autobiografia, ​Loro mi cercano ancora​.
Analizzando il dato testuale di questo materiale e degli altri svariati testi prodotti dai testimoni di
giustizia è possibile ricostruire e rintracciare elementi costanti di come i testimoni si
autopercepiscono, raccontano se stessi e la loro scelta, definiscono la loro condizione, le criticità
del sistema di protezione, l’assoggettamento del territorio alla criminalità organizzata, la reazione
delle autorità e della cittadinanza.
Sono state, in particolare, analizzate le interviste, i siti e i libri dei seguenti testimoni:
-
Piera Aiello, originaria di Partanna, in provincia di Trapani, sposata a Nicola Atria, figlio
del mafioso Vito Atria, ucciso del 1985. Nel 1991 è testimone dell’omicidio del marito di
cui decide di denunciare gli assassini. È la prima testimone di giustizia donna italiana. Da
quel momento, affidandosi al giudice Paolo Borsellino, inizia la sua collaborazione con la
polizia e la magistratura e viene allontanata, insieme alla figlia piccola, dalla sua casa e dal
suo paese. Si unisce a lei in questa scelta anche la giovane cognata Rita Atria, che dopo la
strage di via D’Amelio, si suiciderà gettandosi dal balcone della sua casa. Piera Aiello,
dopo un periodo nel programma di protezione, si è rifatta una vita con una nuova
identità lontano da Partanna ed è oggi presidente dell’associazione ​Rita Atria​.
-
Salvatore Barbagallo, titolare di un’impresa di trivellazioni. Sotto le minacce del clan
Mancuso gli vengono imposti lavori gratuiti, assunzioni, cessione di attrezzature. A
seguito delle sue denunce ha perso la sua attività e la sua casa è ora intestata, a causa di
un’asta truccata, alle persone che aveva denunciato. Oggi vive con la moglie solo grazie
all’aiuto della ​Caritas​.
-
Gaetano Caminiti, imprenditore del quartiere reggino di Pellaro, titolare di un punto
SNAI nella sua città. La cosca Latella gli chiede di vendere l’attività e il rifiuto
dell'imprenditore ottiene in risposta ​una lunga serie di minacce e atti vandalici che si
concretizza nel 2009 nell’incendio dell’attività, e poi, nel 2011, in un ​tentato omicidio ai
suoi danni. La sua testimonianza ha portato alla condanna degli imputati del processo
“Azzardo”. Nonostante la tutela, la 'ndrangheta non ha mai smesso di minacciarlo.
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-
Mario Caniglia, imprenditore nel settore agricolo originario di Scordia, in provincia di
Catania. Dopo aver ricevuto richieste estorsive da parte della mafia della zona, avverte i
carabinieri. Armato di una microspia riesce a raggiungere i suoi estorsori che vengono
consegnati alla giustizia. Ha rinunciato al trasferimento in località protetta ed è rimasto in
Sicilia, dove vive sotto scorta.
-
Giuseppe Carini, ​studente di medicina che testimonia nel processo per l’omicidio di
Padre Pino Puglisi, che conosceva e frequentava e di cui denuncia i mandanti. Dopo le
sue dichiarazioni, nel 1995 viene inserito nel programma speciale di protezione. Vive
tutt’oggi in località protetta.
-
Rossella Castiglione, originaria di Strongoli, in provincia di Crotone. Durante le faide tra i
clan della zona, negli anni ‘80 e ‘90, vengono assassinati anche due suoi fratelli. Diventa
testimone di giustizia insieme agli altri membri della sua famiglia con cui entra nel
programma di protezione.
-
Gennaro Ciliberto, responsabile della sicurezza di un’azienda che dopo aver denunciato
infiltrazioni camorristiche nel sistema di costruzione delle autostrade, di cavalcavia e altre
opere pubbliche è stato costretto, per ritardi nella concessione della tutela, a vivere in
macchina e a cambiare continuamente località per più di tre anni. Ora è sottoposto al
programma speciale di protezione.
-
Luigi Coppola, titolare di un autosalone a Boscoreale, in provincia di Napoli. Dopo aver
denunciato i clan camorristici che lo taglieggiavano e aver fatto arrestare più di venti
persone, tra cui il boss Pesacane, è stato inserito nel programma speciale di protezione ed
è stato costretto a chiudere l’attività. Dopo dieci anni è tornato a Pompei dove ha
cercato, con moltissime difficoltà, di riavviare la sua impresa. È oggi portavoce dei
testimoni di giustizia campani e ha fondato il ​Movimento per la lotta alla criminalità
organizzata​.
-
Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, provincia di Agrigento. Presidente e
fondatore dell’​Associazione nazionale testimoni di giustizia​. Dopo aver denunciato per anni i
suoi estorsori, entra nel 2006 nel programma di protezione. Decide in seguito di fare
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ritorno nella sua terra e grazie alla legge del 2013 è assunto nella pubblica
amministrazione. Cura un suo sito personale: www.ignaziocutro.it.
-
Pietro Di Costa, originario di Tropea, in provincia di Vibo Valentia, titolare di un istituto
di vigilanza. Ha denunciato soprusi, intimidazioni e i trattamenti usurai della cosca
Mancuso ed è, dal 2011, testimone di giustizia. Dopo un periodo in località protetta è
tornato in Calabria.
-
Francesco Di Palo, titolare della ​Venere Srl di Matera, società che produceva vasche
idromassaggio, è stato testimone chiave di uno dei processi più importanti in Puglia
sull’intreccio tra criminalità, imprenditoria e politica nella città di Altamura. Ha chiesto di
essere escluso dal programma di protezione perché lo Stato non gli pagava l’affitto in
località protetta​.
-
Gianfranco Franciosi, meccanico navale e produttore di barche da corsa. È diventato
ufficialmente infiltrato civile della Polizia italiana nei ​narcos spagnoli e colombiani e anche
grazie a lui è stato possibile portare a termine, nel 2009, l’operazione ​Albatros​, il più
grande sequestro di cocaina da parte di polizie europee. Dopo un periodo nel programma
di protezione è tornato nel suo paese d’origine dove vive con la famiglia e dove cerca di
riportare in piena attività la sua azienda.
-
Valeria Grasso, imprenditrice siciliana che ha deciso di investire in una palestra nel
quartiere San Lorenzo a Palermo, proprietà di alcuni membri del clan Madonia che
hanno cercato di estorcerle il pizzo. All’inizio del 2015, dopo le denunce e un lungo
periodo vissuto in località protetta con i suoi tre figli, ha deciso di ritornare a Palermo
dove ha fondato l’associazione ​Legalità e libertà​.
-
Luigi Leonardi, imprenditore che a causa del ​racket della camorra ha perso le sue due
fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola,
Giugliano e Melito, in provincia di Napoli. Ha presentato, nell’arco di dodici anni,
diciotto denunce per le richieste estorsive ricevute, che hanno fatto parte di un processo
che ha portato alla condanna di più di sessanta persone, appartenenti a diversi clan
camorristici. Ha subito negli anni diversi atti di violenza, tra cui incendi ai negozi,
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pestaggi e un sequestro. È in attesa di sapere quali saranno le misure di tutela a lui
destinate.
-
Innocenzo Lo Sicco, imprenditore edile di Palermo che nel 1997 ha denunciato il ​racket
delle estorsioni della cosca dei fratelli Graviano di Brancaccio. Dalle denunce è nato un
processo che ha portato all’arresto di ventisette persone. Da quel momento non ha mai
voluto cambiare generalità, si è sempre mostrato a volto scoperto ed è riuscito,
recuperando tramite processi civili il valore di ciò che gli era stato estorto, a tornare a fare
l’imprenditore.
-
Cosimo Maggiore, imprenditore di San Pancrazio Salentino vittima di estorsioni che nel
2006 denuncia i suoi aguzzini, facendo arrestare il capo della frangia torrese della Sacra
Corona Unita. Ha subito svariate minacce ed è stato vittima di un accoltellamento.
-
Rocco Mangiardi, imprenditore titolare della ditta di autoricambi ​Mangiardi di Lamezia
Terme che dal 2000 al 2007 subisce le richieste estorsive della cosca dei Giampà fino a
quando decide di denunciare. Ha scelto di rimanere in Calabria, dove vive sotto tutela.
-
Giuseppe Masciari, imprenditore calabrese nel settore dell’edilizia. Dopo aver denunciato
vari boss della ‘ndrangheta ed esponenti politici per le richieste estorsive che subiva sugli
appalti che si aggiudicava, viene inserito nel programma di protezione con la moglie e i
due figli. Oggi vive lontano dalla Calabria.
-
Pietro Ivano Nava, di Sesto San Giovanni, testimone involontario dell’omicidio del
giudice Rosario Livatino nel 1990. Dopo aver permesso la cattura dell’assassino
Domenico Pace è stato inserito in un programma di protezione. Ora vive all’estero.
-
Mario Nero, testimone oculare di un omicidio compiuto da membri della Sacra Corona
Unita, è stato costretto a fuggire dal suo paese d’origine e ad entrare nel programma
speciale di protezione insieme alla sua famiglia, che dopo un periodo ha deciso di tornare
a casa lasciandolo solo.
-
Luigi Orsino, proprietario di un negozio di arredamento e abbigliamento a Portici, in
provincia di Napoli. Subisce richieste di pizzo e gravi aggressioni da parte del clan
camorristico dei Vollaro, che denuncia alle autorità. È stato costretto a chiudere le attività
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ed è stato sfrattato dalla sua casa. Si è trasferito in un’altra località dove vive con la
moglie sostenuti solo dalla sua pensione di invalidità.
-
Francesco Paolo, ​originario di ​Cancello Arnone, in provincia di ​Caserta, è un
imprenditore nel settore lattiero-caseario. Ha denunciato e fatto arrestare il suo estorsore,
un membro del clan La Torre di Mondragone. Rimane sotto programma di protezione
insieme a tutta la sua famiglia per un anno e mezzo. Ora è riuscito, con grandi difficoltà,
a riavviare una piccola attività.
-
Carmelina Prisco, testimone oculare di un omicidio di camorra nell’agosto del 2003 a
Mondragone, viene sottoposta al programma speciale di protezione. Per le difficilissimi
condizioni in cui si trova arriva a tentare ripetutamente il suicidio, finché non decide di
uscire definitivamente dal programma. Oggi è tornata a vivere, in estreme difficoltà
economiche, in Campania.
-
Maria Mirella Rimedio, prima testimone di giustizia della Calabria. Anche grazie alle sue
testimonianze sono stati arrestate più di duecento persone, membri dei clan del
crotonese. È stata trasferita, insieme ai suoi tre figli, lontana dal suo paese e vive ancora
moltissime difficoltà riguardo al programma di protezione. Nonostante questo continua a
collaborare con la giustizia.
-
Nello Ruello proprietario di un negozio di ottica a Vibo Valentia. Paga per dieci anni il
pizzo fino a quando non decide di denunciare i suoi estorsori e usurai, nove membri del
clan Lo Bianco - Barba, che vengono tutti condannati. Vive a Vibo Valentia sottoposto a
misure di tutela.
-
Gaetano Saffioti, ​imprenditore di Palmi che opera nel settore edilizio da circa trent’anni.
Nel 2002, con le sue denunce, ha fatto scattare l'operazione "Tallone d'Achille" contro i
clan Bellocco e Piromalli. Da allora vive in regime di protezione da parte delle forze
dell'ordine.
-
Maria Stefanelli, originaria di Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, si
trasferisce in Liguria dove sposa Francesco “Ciccio” Marando, boss narcotrafficante
nell’area di Torino, stabilendo così un’alleanza tra la sua famiglia, appartenente alla locale
di Varazze, e quella del marito. I Marando e gli Stefanelli, però, non riescono a spartirsi
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gli affari e scoppia una faida che porta all’uccisione di vari membri dei clan, compreso
Ciccio. Maria, temendo per l’incolumità sua e della figlia inizia a fuggire e decide di
testimoniare.
-
Ulisse, nome di copertura di un testimone oculare di un omicidio di camorra avvenuto
nel 1990, che decide di denunciare immediatamente ai carabinieri. Solo nel 1994 viene
inserito nel programma di protezione. È oggi presidente onorario dell’associazione ​Rita
Atria​ e vive in località protetta.
-
Benedetto Zoccola, vicesindaco di Mondragone e imprenditore. Per il suo rifiuto di
subire le estorsioni, è oggetto di diverse minacce e attentati, tra cui due bombe davanti
alla sua abitazione e allo studio del suo commercialista. Vive sotto scorta.
La prima importante definizione che, nel raccontare le loro storie, i testimoni fanno di se stessi è
spesso una definizione al negativo. Scontando ancora le conseguenze della contaminazione, a
livello legislativo come di percezione sociale, con la figura del collaboratore di giustizia, i
testimoni sono tuttora impegnati in una battaglia per una definizione linguistica adeguata e per
questo costretti a definirsi innanzi tutto “non collaboratori” e a prendere le distanze da questa
errata sovrapposizione.
“Non sono né un bandito né un pentito.” - Pietro Di Costa
“Mi arrabbio quando mi classificano, come è successo, come collaboratore di giustizia. Molti
non sanno la differenza.” - Rocco Mangiardi
“Io non sono un 'pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la
macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un 'pentito' e un testimone con
un'immacolata fedina penale.” - Pietro Ivano Nava
“La gente confonde le due figure, io stessa a volte sono stata trattata con la stessa diffidenza
con cui si tratta un pentito. Ma i collaboratori con le mafie prima ci hanno fatto affari e poi si
sono pentiti; noi testimoni, invece, le mafie le abbiamo prima subite e poi denunciate.” Carmelina Prisco
“Io venivo additata come una pentita. Io, una testimone.” - Carmelina Prisco
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“Perché ci trattavano da pentiti?” - Ulisse
Un altro dato interessante che si evince da questi racconti riguarda la narrazione del momento e
dell’atto della denuncia. La condizione di testimone di giustizia è solo relativamente volontaria.
Pochissimi, infatti, sapevano quali sarebbero state le loro condizioni di vita e i pericoli che
avrebbero corso nel momento in cui hanno deciso di sporgere denuncia. In quasi tutti i casi
analizzati, infatti, la volontarietà dell’atto si ferma all’azione di denuncia e nessuno dei testimoni
dichiara di aver saputo che cosa significasse dal punto di vista concreto diventarlo. Nella totalità
dei racconti il momento della denuncia viene descritto come punto di totale svolta e la
narrazione della loro vita è quasi sempre divisa nelle due parti del prima e del dopo la denuncia e
l’acquisizione dello ​status​.
“Essere divenuto testimone di giustizia mi ha devastato non solo fisicamente, ma anche sul
profilo umano e sociale.” - Gennaro Ciliberto
“Non mi aspettavo nulla in cambio, io volevo solo fare la cosa giusta e poi tornare alla mia
vita.” - Gianfranco Franciosi
“Pensavo che la mia storia finisse quando andavo a denunciare, in realtà lì è iniziata una nuova
vita.” - Valeria Grasso
“E poi sono diventata testimone di giustizia e da lì inizia tutta un’altra parte della mia vita.” Valeria Grasso
“Dal giorno delle denunce il sottoscritto è passato da una persona normale a ​status​ di
testimone di giustizia. Questo passaggio è stato un punto molto importante.” - Gaetano
Saffioti
La denuncia è spesso il momento in cui una vita, fatta di determinati legami affettivi,
professionali e sociali, di opportunità professionali e abitudini personali, giunge a una sorta di
termine coatto. Incomincia invece una vita all’insegna, in particolar modo, di due sensazioni
predominanti: quella del pericolo e quella della solitudine.
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“Mi sono ritrovato da solo. Io ho paura.” - Gaetano Caminiti
“Non abbiamo rapporti sociali, di amicizia.” - Rossella Castiglione
“Siamo in mezzo all’oceano su una zattera.” - Gennaro Ciliberto
“Mi sento stanco e vecchio.” - Gennaro Ciliberto
“Quasi come un burrone dei castelli del Medioevo.” - Gennaro Ciliberto
“La mia non paura della morte è il mio vero incubo.” - Gennaro Ciliberto
“Vivo sempre blindato con un giubbotto antiproiettile, non esco la sera, non frequento luoghi
di aggregazione, non vado allo stadio, non prendo la metropolitana.” - Gennaro Ciliberto
“Questa storia mi ha portato a perdere tutto.” - Luigi Coppola
“Ero arrivato a un punto di vita vegetativo.” - Ignazio Cutrò
“Io sono una persona isolata.” - Francesco Di Palo
“Vivo questa situazione drammaticamente, in una realtà drammatica.” - Francesco Di Palo
“Rinuncio alla mia vita, rinuncio alla mia vita.” - Francesco Di Palo
“Siamo soli.” - Gianfranco Franciosi
“Una cosa che è devastante è restare da soli, è la paura di parlare.” - Valeria Grasso
“Non sono solo un uomo, sono un uomo solo.” - Cosimo Maggiore
“Sono un apolide… un cittadino del mondo, non ho cittadinanza, non ho niente. Non posso
esistere.” - Mario Nero
“Chi prende questo ​status​ è come un missionario che va in Africa. È una vita piena di rinunce.”
- Gaetano Saffioti
“C’è stato l’isolamento totale.” - Gaetano Saffioti
“In due anni di vita sotto protezione ero riuscita a perdere tutto.” - Maria Stefanelli
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I testimoni, pur non subito consapevoli delle condizioni di vita che si prestano ad affrontare, si
rivelano invece estremamente consapevoli del valore simbolico e sociale che il loro gesto fin
dall’inizio assume. Causato in principio da ragioni e condizioni personali, diventa subito un atto
di rottura con un determinato tipo di sistema e mentalità. Questo è valido ed è ancora più
percepibile quando si tratta di testimoni di mafia, spesso vissuti a contatto con i membri delle
organizzazioni criminali e abituati, per questo, a un certo tipo di cultura del silenzio, dell’omertà,
dell’accondiscendenza, della violenza.
“Noi ci siamo messi contro un muro di cemento armato.” - Salvatore Barbagallo
“A Reggio Calabria pagano tutti. A chi non paga succede quello che è successo a me.” Gaetano Caminiti
“In Italia c’è poca, poca, poca volontà di denunciare.” - Gennaro Ciliberto
“Comprare le auto da Luigi Coppola significava fare un affronto alla camorra.” - Luigi
Coppola
“Sono stato la nota stonata in quella sinfonia mafiosa.” - Ignazio Cutrò
“Io ho trotto un equilibrio, una pace, una tranquillità.” - Francesco Di Palo
“La società civile di Altamura invece che isolare i delinquenti ha isolato me.” - Francesco Di
Palo
“Nel quartiere di San Lorenzo domina il silenzio, quindi non solo nessun ha detto niente in
quel momento, ma nessuno continuare a dire niente tutt’oggi. L’unica che ha alzato la voce
sono stata io.” - Valeria Grasso
“L’ambiente che mi circondava era molto diffidente.” - Valeria Grasso
“Quello che mi fa rabbia è che la mafia si vince ma non bisogna farlo sapere.” - Innocenzo Lo
Sicco
“Ho imparato che il nostro dito puntato è più forte delle loro pistole.” - Rocco Mangiardi
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“Essere testimone di giustizia vuol dire resistere.” - Rocco Mangiardi
“Io non ero la normalità, erano loro la normalità, chi si piegava, chi si inchinava al cospetto di
questi signori.” - Pino Masciari
“La situazione in cui mi trovavo era quindi un vero accerchiamento, ogni giorno che passava
mi accorgevo di essere dentro un sistema in cui dipendevo dalla volontà di qualcuno più forte
di me.” - Pino Masciari
“Pur non essendo stato scritto sui giornali che ero io il testimone la voce girava e… quando
tornai sotto casa mia… erano tutti a guardare. Più che odio mi sembrava che i loro sguardi
dicessero “ma perché non si è fatto i cazzi suoi?”” - Mario Nero
“Denunciare è tradire una cultura.” - Gateano Saffioti
È inoltre interessante osservare gli artifici retorici in cui i testimoni descrivono la loro
condizione. La metafora, in particolare, rappresenta un espediente della lingua dal grande potere
evocativo capace di creare un rapporto di somiglianza tra due termini che possono essere anche
molto lontani dal punto di vista semantico. Per questo motivo è significativo analizzare quali
siano le metafore e le immagini più utilizzate dai testimoni di giustizia per raccontare la loro
situazione, in modo da intendere quali campi semantici e linguistici ritengano più aderenti a
descrivere le loro vicissitudini. In questo senso particolarmente presente e significativa è
l’immagine della guerra:
“La mia battaglia non è solo contro i criminali, ma anche contro le istituzioni silenti.” Gennaro Ciliberto
“Quasi sempre un testimone di giustizia deve lottare per pretendere un suo diritto.” - Gennaro
Ciliberto
“Siamo in piena guerra.” - Ignazio Cutrò
“Non abbassare mai la guardia, non ti fidare mai di nessuno, non dire mai dove vai, dove sei,
ricordati che sei solo contro un nemico invisibile.” - Ignazio Cutrò
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“Lottare da solo.”- Ignazio Cutrò
“Spesso ho avuto la voglia di rinunciare, ma se rinunci hanno vinto la guerra.” - Francesco Di
Palo
“Dove cazzo dobbiamo andare, in guerra?” - Mario Nero
Molti dei testimoni si percepiscono, quindi, come individui in lotta contro l’organizzazione
mafiosa o criminale che hanno denunciato, ma ancor più nei confronti dello Stato che
denunciano come inadempiente e assente nei loro confronti. Come personaggi in guerra si
sentono esposti alle conseguenze potenzialmente tragiche della battaglia, organizzano strategie di
difesa dagli attacchi che possono ricevere, scelgono le armi più appropriate, si fidano di
pochissime persone perché si sentono traditi proprio da chi doveva occuparsi della loro
incolumità e protezione.
Parlando della propria condizione di vita, i testimoni scelgono spesso, per descriversi, anche la
figura del fantasma, denunciando la sensazione di un’identità perduta, ma soprattutto non più
“visibile” e percepita all’esterno. Molte volte, infatti, non si sentono considerati né dal proprio
ambiente d’origine, che inizia a isolarli, a sospettare di loro, ad avere paura, né dalle istituzioni
che dovrebbero proteggerli e garantire loro una vita dignitosa.
“Non posso continuare a vivere come un fantasma.” - Piera Aiello
“Perdita di identità, si vive da fantasma.” - Rossella Castiglione
“Io sono un fantasma, il mio quotidiano non esiste.” - Innocenzo Lo Sicco
“(...) non potendo uscire, se non come fantasmi.” - Pino Masciari
“Non incontro mai nessuno che mi saluta, nessuno mi conosce. Sono da sempre invisibile,
trasparente.” - Mario Nero
“(...) lunghissimo e difficile periodo di non vita.” - Mario Nero
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“Ora sono diventata un fantasma. Quella è la protezione, la privazione della libertà.” Carmelina Prisco
“Noi siamo dei fantasmi, siamo dei fantasmi su tutto.” - Maria Mirella Rimedio
Un’altra metafora molto ricorrente è quella della malattia: lo ​status di testimone è vissuto come
una condizione in cui ci si trova spesso contro la propria volontà, ma soprattutto che spaventa la
comunità che circonda l’individuo, che lo disconosce e non si avvicina per paura di una sorta di
“contagio”. Essere testimoni di giustizia spesso significa sfidare un sistema corrotto e criminale
che ha radici profonde nel contesto dove si sviluppa e quindi equivale ad essere contagiosi di una
malattia che la massa non vuole, di cui essa ha paura. L’identificazione di un problema, anche
sociale, con una malattia, proprio come avviene quando si paragonano le mafie a un cancro
sociale ed economico che fa ammalare il paese e che va estirpato con tutti i mezzi e a tutti i costi,
porta da una parte a una giustificabile condanna intransigente nei confronti di quel fenomeno,
ma allo stesso tempo a un sollevamento di responsabilità nei confronti di esso, di cui non si
riconoscono quei presupposti, culturali, sociali, politici ed economici che sono invece “interni”.
Come un virus, la mafia sarebbe un agente patogeno esterno che colpisce improvvisamente un
corpo sano e estraneo ad esso. Questo tipo di parallelo svela un’inconsapevolezza o un rifiuto nel
riconoscere quei meccanismi e quei comportamenti già presenti nella società che costituiscono
terreno fertile al proliferare della “malattia mafiosa”.
“Il testimone di giustizia viene additato come un appestato.” - Gennaro Ciliberto
“Siamo considerati lebbrosi, carne da macello.” - Ignazio Cutrò
“La gente diceva che ero un morto che camminava, si svuotavano i bar. Ero trattata come una
lebbrosa.” - Carmelina Prisco
Uno degli altri campi semantici più frequentati dalle narrazioni dei testimoni di giustizia è quello
della burocrazia. Molti di loro infatti lamentano la lentezza burocratica che oltre a provocare
sensibili disagi in termini di pratiche quotidiane, diventa una vera e propria violazione o non
garanzia di diritti. Una delle più frequenti è il prolungamento dei programmi provvisori di
protezione che in moltissimi casi si protraggono nel tempo senza che i testimoni ne conoscano la
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data di termine. I testimoni lamentano anche l’assenza di coordinamento tra le varie agenzie dello
Stato, a causa della quale si ritrovano a subire enormi disagi (uno fra tutti il ritardo, denunciato da
più di un testimone, per il rilascio dei documenti di copertura), spesso anche dal punto di vista
economico (per esempio le cartelle esattoriali che continuano ad arrivare per le attività
imprenditoriali forzatamente abbandonate, che lo Stato dovrebbe invece congelare dal punto di
vista fiscale e contributivo). Non a caso è tuttora molto alto il numero di contenziosi
amministrativi aperti tra i testimoni e il Ministero dell’Interno. Agli occhi dei testimoni, con i loro
ritardi e le loro mancate risposte, le istituzioni perdono di vista la dimensione innanzi tutto
umana delle loro vicende.
“Non siamo lampadine che si accendono e poi si spengono.” - Piera Aiello
“Lo stato impacchettava e mandava in località protetta.” - Mario Caniglia
“Succede quello che potrebbe succedere con una bolletta dell’​Enel​ o con la pratica di un
concorso. Sono una pratica.” - Gennaro Ciliberto
“Dopo aver lottato con la criminalità, inizia una battaglia con una parte dello Stato che non
solo non è vicina ai testimoni, ma non applica la legge.” - Gennaro Ciliberto
“La burocrazia completa il tutto facendo diventare troppo spesso la protezione una tortura alla
quale nessun uomo per bene può resistere.” - Gennaro Ciliberto
“Noi testimoni di giustizia siamo come dei limoni che una volta tolto il succo vengono
buttati.” - Gennaro Ciliberto
“Fui costretto ad essere spostato come un pacco postale in giro per la penisola italiana.” Luigi Coppola
“Abbiamo avuto la dignità di combattere la mafia, ci siamo arresi quando ci siamo trovati
davanti il muro della burocrazia dello Stato.” - Ignazio Cutrò
“Burocrazia micidiale.” - Ignazio Cutrò
“Non siamo pratiche, siamo cittadini per bene.” - Valeria Grasso
“Come se fossimo dei pacchi postali.” - Valeria Grasso
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“Io per lo Stato ero solo il numero di matricola 1663.” - Pino Masciari
“Avevo capito che quel verbale era l’esilio della famiglia Masciari.” - Pino Masciari
“Saremmo stati schiavi per sempre del Ministero dell’Interno.” - Mario Nero
“Siamo un peso.” - Francesco Paolo
“Non basta spostarci come pacchi.” - Francesco Paolo
“Siamo un costo.” - Gaetano Saffioti
Tra i temi più ricorrenti nelle narrazioni e nelle dichiarazioni dei testimoni di giustizia ci sono
proprio quelli legati al loro rapporto con lo Stato. È in queste espressioni che possiamo notare,
oltre alla distanza percepita dai testimoni nei confronti delle istituzioni, tutta la problematicità e
l’insoddisfazione che molti di questi soggetti lamentano riguardo al trattamento che ricevono.
Tra le più frequenti, infatti, se ne trovano alcune che denotano una vera e propria conflittualità
con le istituzioni che, descritte come estremamente manchevoli nei confronti dei testimoni, si
rendono responsabili di un ribaltamento di senso per cui i testimoni arrivano a sentirsi assimilati,
e quindi a descriversi, come i criminali che hanno aiutato a perseguire.
“Ora mi ritrovo in una sorta di galera legalizzata.” - Piera Aiello
“Io mi definisco un esiliato di Stato, un latitante incensurato di Stato.” - Gennaro Ciliberto
“È iniziato il ​fine pena mai​ anche per me.” - Carmelina Prisco
D’altra parte proprio lo Stato, a causa delle sue inadempienze e di ciò che, a causa di esse, arriva a
togliere ai testimoni, viene identificato come il soggetto che più arreca danno alle loro vite e
descritto spesso alla stregua proprio delle associazioni criminali.
“Ho la certezza che mi è stato tolto quasi tutto: sia dalla mafia sia dallo Stato.” - Piera Aiello
“Falsa democrazia delle istituzioni.” - Giuseppe Carini
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“Quello che fa più male a un cittadino onesto è vedere l’indifferenza di questo grosso
palazzo.” - Gennaro Ciliberto
“Perchè lo Stato abbandona chi denuncia?” Gennaro Ciliberto
“Lo Stato non può offendere, umiliandole, le persone.” - Pietro Di Costa
“Siamo così preoccupati da quello che può arrivarci dai “buoni” che ci siamo completamente
dimenticati dei cattivi.” - Gianfranco Franciosi
“A cosa serve essere chiamato testimone di giustizia, quale giustizia?” - Cosimo Maggiore
“Non vogliono capire che la loro vita l’ha distrutta lo Stato e non io.” - Mario Nero
“I palazzi del potere, in questi posti che erano la causa di tutta la nostra sofferenza.” - Mario
Nero
“Ho ricevuto maggior danno dallo Stato di quanto ne abbia ricevuto dalla camorra.” - Luigi
Orsino
“Da un lato mi viene concessa la protezione da vittima della camorra dall’altro sono messo per
strada.” - Luigi Orsino
“Una volta fatto il nostro dovere veniamo trattati come le bestie. Ci vengono negati i diritti.
Questa cosa mi fa capire che quella parte corrotta, brutta, sporca e mafiosa dello Stato vuole a
tutti i costi eliminare la figura del testimone. Nessuno deve parlare.” - Carmelina Prisco
“Se tu anche volessi fare qualcosa, c’è chi te la fa passare. (...) Se tu ricevi dalle istituzioni
questo messaggio cosa fai? ti suicidi completamente. (...) Fai il ragionamento che non c’è via
d’uscita.” - Gaetano Saffioti
Un altro punto problematico del sistema di gestione dei testimoni riguarda la scelta della
tipologia di tutela da adottare. Molti testimoni infatti denunciano la preferenza aprioristica data al
programma speciale di protezione, che dovrebbe essere invece solo l’ultima soluzione da
applicare. Lo spostamento in località protetta, infatti, porta con sé un carico di conseguenze
drastiche e molto spesso definitive per la vita personale, familiare e professionale del testimone.
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Si tratta di lasciare il paese e il territorio d’origine e di rompere i contatti con la vita precedente,
con uno stravolgimento estremo della dimensione relazionale e sociale dell’individuo e dei
familiari che partono insieme a lui, nonché delle sue opportunità di realizzazione professionale.
Rimanere ​in loco​, infatti, permetterebbe ai testimoni, spesso imprenditori o titolari di esercizi
commerciali, di mantenere la loro attività lavorativa che nell’opzione di una tutela in località
protetta rischierebbe di essere chiusa o di fallire.
Rimanere sul territorio ha inoltre un’altra importante conseguenza sulla questione dell’identità:
permette infatti al testimone di giustizia di integrare il suo ​status con l’identità precedente in una
sorta di “​surplus​” di identità: da una parte, infatti, può scegliere di continuare ad essere “sonda”
civica sul territorio che conosce e che gli appartiene, dall’altra essere simbolo della possibilità
stessa della testimonianza. Se i testimoni di giustizia rimangono sul territorio diventano infatti
segnali concreti che la scelta legale e di verità non corrisponde all’anormalità, all’allontanamento
sociale e fisico, ma all’ordinarietà, alla normalità, al proseguimento della propria ​routine di vita,
senza che essa venga sconvolta o messa in discussione.
“Andare via è una sconfitta.” - Mario Caniglia
“(...) sfidare lo Stato per rimanere nei luoghi d’origine.” - Mario Caniglia
“Programma di protezione? Io lo chiamo programma sfascia-vite.” - Luigi Coppola
“Io non voglio rimanere in Calabria, io rimango in Calabria. Perché la mafia si combatte in
questa maniera: rimanendo sul territorio.” - Pietro Di Costa
“L’unica cosa che non rifarei è andare via di qua.”- Gianfranco Franciosi
“Il vero messaggio l’ho dato io. Io sono tornata a Palermo, sono tornata a casa mia.” - Valeria
Grasso
“Ho scelto l’auto blindata, perché andare via voleva darla vinta a loro. Che avevo denunciato a
fare? Resto a Lamezia.” - Rocco Mangiardi
“Sono convinto che dove vivi e lavori, là servi a qualcosa.” - Rocco Mangiardi
42
“Non aveva senso andare altrove, l’avremmo data vinta a questi ‘ndranghetisti.” - Rocco
Mangiardi
“Si è testimoni di giustizia per sempre, non solo nel periodo di protezione.” - Francesco Paolo
“La vita all’interno del programma di protezione è umanamente insopportabile e insostenibile,
perché inaspettatamente ti ritrovi proiettato in una dimensione completamente sconosciuta a
quello che potrebbe essere qualsiasi immaginario umano. Ci si ritrova privati nell’immediato
dell’identità, ti vengono portati via i documenti, ti viene dato un nome fittizio, la carta di
identità fittizia arriva dopo tempo improponibile (...), vieni cancellato dal sistema sanitario,
diventa impossibile curare le malattie.” - Carmelina Prisco
“La mia scelta è stata quella di stare qua perché credo che più di quello che ho dato è quello
che posso dare, perché è più importante il dopo-denuncia contrariamente a quanto si pensa.” Gateano Saffioti
“Restando nel territorio sei una sonda, sei il termometro degli umori, degli altri imprenditori,
anche della società civile che è quella più sorda, ma anche dello Stato.” - Gaetano Saffioti
“La risposta diversa si dà restando sul territorio.” - Gaetano Saffioti
Nei discorsi dei testimoni è quindi ben presente l’idea che sul territorio la testimonianza possa
estendere il suo valore e possa arrivare ad assumere una nuova dimensione di “testimonianza
sociale”, una continuazione della testimonianza giudiziaria che ricorda al cittadino stesso e agli
altri il valore positivo di ciò che ha scelto di fare.
Particolarmente significativa è anche la diffusa considerazione e descrizione di se stessi come
cittadini normali e uguali agli altri, individui che hanno compiuto una scelta di verità, coerenza e
giustizia che necessitano sia considerata innanzi tutto come ordinaria, per rivendicare il principio
secondo cui in una società funzionale chiunque si trovi nella loro situazione sia portato ad agire
esattamente nello stesso modo. Si evidenzia così in modo chiaro anche la volontà di esortare alla
denuncia chiunque sia nelle condizioni di farlo.
“Ho denunciato per una questione di coscienza.” - Gennaro Ciliberto
43
“La scelta che ho fatto è una scelta di vita.” - Gennaro Ciliberto
“Non sono un eroe, sono un padre di famiglia.” - Ignazio Cutrò
“Non è incoscienza?” “No, è dignità.” - Ignazio Cutrò
“Il messaggio del testimone di giustizia deve essere quello di una persona normale.” - Valeria
Grasso
“Denunciare è una scelta che conviene, ma non perché in cambio hai qualcosa, conviene a noi
stessi perché saremo liberi per sempre.” - Valeria Grasso
“Sono un cittadino come voi. Non mi pregio di essere un eroe.” - Luigi Leonardi
“Essere testimone di giustizia è resistere e riprendersi la propria dignità e quindi libertà.” Rocco Mangiardi
“Io sono rimasto un cittadino normale.” - Rocco Mangiardi
“Prima di essere testimoni di giustizia siamo dei cittadini.” - Rocco Mangiardi
“Il testimone di giustizia (...) deve trasmettere la bellezza della denuncia.” - Rocco Mangiardi
“Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l'uno né l'altro.” Pietro Ivano Nava
“Tu per dire agli altri “cambiate”, devi essere il primo a cambiare.” - Gaetano Saffioti
Anche da queste premesse deriva la convinzione, condivisa dalla maggior parte dei testimoni, di
aver fatto, nonostante sacrifici inattesi e spesso considerati ingiusti, la scelta corretta. Proprio in
ragione del loro coraggio, della verità delle loro dichiarazioni e della valenza sociale del loro
gesto, molti di loro dichiarano di non avere pentimenti e di essere pronti a fare la scelta
nuovamente, se fossero, però, garantiti migliori trattamenti e il pieno rispetto delle disposizioni di
legge e dei diritti che da esse derivano.
“Sì, lo rifarei. Ma a condizioni diverse.” - Gaetano Caminiti
44
“Se tornassi indietro denuncerei tutto, solo che starei attento a chi denunciare chiedendo
protezione nero su bianco.” - Gennaro Ciliberto
“Tornassi indietro farei esattamente quello che ho fatto, forse di più.” - Gianfranco Franciosi
“Lo rifarei, perché quella è l’unica strada che io conosco.” - Luigi Leonardi
“Non ho nessun pentimento, pur essendo blindati, mi sento più libero di prima.” Innocenzo
Lo Sicco
“È stata una scelta dura, dolorosa. Ma l’ho fatta in tutta coscienza e ne sono orgoglioso.” Innocenzo Lo Sicco
“Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono
stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego
nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono.”- Pietro Ivano Nava
“Lo rifarei ancora oggi.” - Nello Ruello
“Penso che denunciare sia un dovere, non una scelta. Rifarei il mio dovere nuovamente e
tranquillamente.” - Benedetto Zoccola
2.2 L’identità persa, ritrovata e moltiplicata: la storia di Pino Masciari
Il caso dell’imprenditore edile Giuseppe Masciari è particolarmente esemplificativo di come
l’identità di un testimone possa essere stravolta, messa in crisi e in seguito riacquistata e
rafforzata di nuovi significati. Giuseppe “Pino” Masciari è originario di Serra San Bruno, un
piccolo paese in provincia di Vibo Valentia e, dopo aver rilevato nel 1988 l’azienda di costruzioni
del padre, diventa con il tempo uno dei maggior imprenditori della Calabria nel settore
dell’edilizia. La ​Masciari Costruzioni​, altra azienda in suo possesso, inizia a occuparsi di edilizia
pubblica e a partecipare a importanti gare d’appalto per la realizzazione di lavori. Con la crescita
delle aziende e dei cantieri, iniziano però anche le prime intimidazioni da parte della ‘ndrangheta,
che gli impone il pizzo, rallenta i lavori, intercede con le banche; allo stesso tempo cominciano
anche le richieste parallele da parte di quel sistema politico-istituzionale-massonico che, spesso in
45
accordo con le stesse organizzazioni criminali, inizia a pretendere la sua percentuale sui lavori.
Per poter proseguire nella sua attività Masciari si trova quindi costretto alla corresponsione del
3% delle sue entrate ai mafiosi e del 6% alla parte collusa della politica, nonché ad altri tipi di
imposizioni come assunzioni pilotate o la scelta forzata di alcuni fornitori di manodopera e
materiali. Nei primi anni ‘90 l’imprenditore decide di ribellarsi a queste imposizioni e di rivolgersi
ai Carabinieri per denunciare tutto, iniziando così ad essere bersaglio di svariate rappresaglie della
criminalità organizzata come minacce, furti, incendi, danneggiamenti di mezzi e cantieri. L’attività
ne subisce velocemente il contraccolpo, Masciari subisce gravissime perdite economiche ed è
costretto a licenziare tutti i suoi operai fino a quando nel 1996 la ​Masciari Costruzioni ​viene
dichiarata definitivamente fallita.
Le denunce di Masciari portano all’arresto di 41 affiliati alle cosche mafiose, tra cui decine di capi
di importanti famiglie ‘ndranghetiste come i ​Vallelunga di ​Serra San Bruno​, i Sia di ​Soverato​, gli
Arena di ​Isola Capo Rizzuto e i Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica, nonché di un magistrato
colluso. Il rischio di ritorsioni derivato dalle dichiarazioni rese determina la sua entrata, il 17
ottobre del 1997, nel programma speciale di protezione. Masciari, sua moglie Marisa e i loro due
figli vengono trasferiti prima in un casolare semiabbandonato nella provincia di Ravenna, poi in
un piccolo appartamento di Mestre e in seguito in varie altre destinazioni. Così Pino Masciari e
sua moglie descrivono il momento della partenza:
Quando accesi il motore per partire mi accorsi che ci stavamo davvero lasciando alle spalle le
nostre vite e i nostri sogni, quello che avevamo costruito con impegno e sacrificio. Non
stavamo lasciando il certo per l’incerto, stavamo lasciando il certo per spiccare un salto nel
vuoto.9
Ho chiuso casa mia, ho chiuso quello che era un pezzo della mia vita fatta di cose spensierate,
di sogni, di affetti, di quella che è una vita completa di una giovane donna accanto a un uomo,
a una famiglia appena nata. Quella notte la porta di quella casa, la porta del mio cuore si è
chiusa. Ed è stato il momento più duro.10
Durante i difficili anni del programma di protezione, Masciari e la sua famiglia vivono momenti
di vera sofferenza in cui nessun aspetto della vita precedente, oltre la loro esistenza corporea e la
MASCIARI Pino e MASCIARI Marisa, ​Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la 'ndrangheta​, Add Editore, Torino,
2010, p. 83.
10
Marisa Masciari intervistata per il documentario ​Pino Masciari. Storia di un imprenditore calabrese di Alessandro Marinelli,
2014.
9
46
loro unione familiare, sembra essere mantenuto. Nei loro racconti è molto forte il senso di
perdita dell’identità, prima sentita come ingombrante e rischiosa, come quell’elemento che li ha
messi in pericolo, e poi completamente persa nella mimetizzazione del programma e in tutte le
sue limitazioni.
Avevo capito, dopo tanti anni..io ero orgoglioso di portare il mio cognome, Masciari, avevo
capito che era un cognome pesante da portare, avevo capito che non lo potevo più utilizzare.11
Pensatevi chiusi in una casa che non è vostra, in un luogo che non conoscete, dove non
conoscete nessuno e dove vi dovete nascondere perché non potete dire chi siete veramente,
neanche al vicino di casa cui, semmai doveste fare amicizia, non potreste raccontare nulla di
voi. Vorrei che per un attimo vi diceste: “io da domani mattina sono in un altro posto (...), io
da domani non posso più usare il mio nome, io da domani non sono più nessuno”.12
In una simile situazione, angosciata perfino dall’impossibilità di svolgere un’attività lavorativa o
continuare quella interrotta e, per di più, soggetto a cambiamento di abitudini, luogo di vita,
relazioni sociali, generalità d’identificazione, il testimone di giustizia diventa uno nessuno e
centomila.13
Durante la sua permanenza nel programma di protezione Pino Masciari ne sperimenta varie
inefficienze: ​accompagnamenti con veicoli non blindati o con la targa della località protetta, viene
fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, subisce intimidazioni, viene lasciato senza
scorta durante i processi in Calabria, registrato negli alberghi con il suo vero nome e senza
documenti di copertura. Alla fine del 2004, però, la Commissione centrale del Ministero degli
Interni notifica all’imprenditore il termine del programma speciale di protezione. Tra le
motivazioni si indica che i processi sono terminati, anche se in realtà sono ancora in corso di
trattazione. Dopo aver fatto ricorso al TAR, a febbraio 2005 Masciari viene ufficialmente escluso
dal programma e non gli viene più garantita la scorta neanche per recarsi in tribunale a
testimoniare. Nel gennaio 2009 il TAR emette la sentenza stabilendo il diritto di Masciari alla
sicurezza. Ad aprile dello stesso anno, non avendo ancora ricevuto alcuna risposta
sull’ottemperanza della sentenza da parte della Commissione centrale, Masciari inizia uno
Pino Masciari intervistato per il documentario ​Pino Masciari. Storia di un imprenditore calabrese​ cit.
MASCIARI Pino e MASCIARI Marisa, ​Organizzare il coraggio​ cit., p. 89.
13
​Ivi​, p. 241.
11
12
47
sciopero della fame che termina a maggio, quando la Presidenza della Repubblica si assume
l’impegno della sua sicurezza assegnandogli scorta e tutela adeguate.
Questa fase particolarmente sofferta del percorso conosce l’iiantervento e la partecipazione della
società civile che inizia a reagire e ad affiancarsi alle rivendicazioni di Masciari. Da alcune
associazioni antimafia e dai ​meetup di Beppe Grillo nasce infatti il gruppo degli “Amici di Pino
Masciari”, cittadini che si impegnano a fornire a Masciari, con la loro presenza, una “difesa
popolare non violenta”. Viene fondato anche un ​blog sul quale viene redatto quotidianamente il
diario degli spostamenti e degli appuntamenti dell’imprenditore, in modo da fare conoscere a più
persone possibile la sua storia e la sua quotidianità. Seguendo il diario del blog e la diretta
streaming degli spostamenti di Masciari chiunque infatti è in grado di “guardargli le spalle” e di
contribuire alla possibilità di fargli esercitare la sua cittadinanza e i suoi diritti, permettendogli di
spostarsi, partecipare a incontri, rivedere parenti e amici. In questo senso una visibilità che prima
era ridotta, se non inesistente, viene portata all’estremo, in una logica diametralmente opposta a
quella del programma di protezione, per cui a una minor visibilità e a una cittadinanza falsa o
poco “praticata” corrisponde una maggior protezione e un minor rischio.
Un’altra delle iniziative portate avanti dagli “Amici di Pino Masciari” è stata quella di presentarsi
in massa al Viminale per farsi aggiungere al proprio cognome anche quello dell’imprenditore.
Un’iniziativa estremamente significativa dal punto di vista della riconquista e dell’“allargamento”
dell’identità. Il testimone di giustizia, costretto a rinunciare al proprio cognome e alla propria
identità, viene reinserito nella cittadinanza dalla cittadinanza stessa che riesce a creargli una nuova
identità “allargata”, collettiva e comprensiva. Il testimone ridiventa un cittadino tra i cittadini,
viene reinserito in un contesto “potenziato” in cui può riconoscersi non solo in se stesso ma
nell’intera comunità che porta il suo nome. E proprio questo effetto ha avuto la consegna
all’imprenditore di una maglietta che portava la significativa scritta “Io sono Pino Masciari e ho
un sacco di amici”:
“Io sono Pino Masciari”: io da quel momento in poi mi sono riappropriato della mia vera
identità, fino ad allora non sapevo chi fossi.14
Io che ero solo...ora erano tutti Masciari, migliaia e migliaia di persone si riconoscevano tali. 15
14
15
Pino Masciari intervistato per il documentario ​Pino Masciari. Storia di un imprenditore calabrese​ cit.
​Ibidem.
48
Tra le caratteristiche fondamentali di questa mobilitazione vi è quindi stata la volontà della
creazione di un’identità collettiva e allargata rispetto al testimone singolo che in questa, dai
confini più ampi, ha potuto ritrovare la sua. L’ampliamento della visibilità e il fatto di poter
condividere la propria storia personale hanno permesso a questo testimone di ritrovarsi nella
propria identità e nella propria vita. È proprio Pino Masciari, infatti, a sostenere che “ogni
persona che veniva a conoscenza della nostra storia ci allungava la vita di un giorno”.16
In questo modo il denunciante ha “perso” in una maniera positiva la sua identità di singolo per
riconoscersi in una unica e collettiva che gli ha permesso di appartenere attivamente al resto della
società, piuttosto che vedersi evidenziati i suoi attributi distintivi. Il testimone di giustizia, in
questo caso particolare, è così ridiventato cittadino grazie a un gruppo eticamente orientato di
cittadini.
Nel 2010 Masciari concorda, in sintonia con il Ministero dell’Interno, la conclusione dal
programma di protezione. Oggi vive con il suo vero nome in un’altra località con la famiglia,
accompagnato sempre da una scorta.
16
MASCIARI Pino e MASCIARI Marisa, ​Organizzare il coraggio​ cit., p. 195.
49
3. UNO SGUARDO ALLA
CORRUZIONE: TESTIMONE
DI GIUSTIZIA E
WHISTLEBLOWER
3.1 Lacune linguistiche e legislative
Un atto eticamente orientato che si caratterizza nel denunciare condotte illecite di cui si viene a
conoscenza in ragione del rapporto di lavoro con l’obiettivo di prevenirle o contribuire ad
accertarne la responsabilità se già verificatesi.17
Questa è una delle definizioni generalmente condivisa di ​whistleblowing, ​dall’inglese “soffiare il
fischietto”, l’atto di segnalare corruzione e altri atti illeciti sul luogo di lavoro. Come il testimone
di giustizia, la figura del ​whistleblower soffre, in particolare nel caso italiano, di un problema innanzi
tutto definitorio. Una della principali criticità riguardo alla valorizzazione di questa figura
riguarda proprio la traduzione italiana della parola inglese; non è infatti ancora stata trovato un
corrispondente univoco, immediato e completamente aderente al termine anglosassone. L’azione
del segnalatore di illeciti è in effetti ancora sottoposta a un processo di denotazione al negativo,
attraverso, per esempio, traduzioni come “spifferare” o “soffiata”, che spesso assimilano questo
soggetto alla “spia” o all’“infame”, qualcuno che è a conoscenza dell’irregolarità, ma è
implicitamente chiamato a non denunciarla per non tradire regole informali universalmente
riconosciute e rispettate o per non rischiare ritorsioni da parte di chi quelle regole le ha stabilite o
ha deciso di rispettarle. Quello che idealmente dovrebbe essere un guardiano dell’interesse
pubblico è linguisticamente e quindi culturalmente e socialmente avvertito come un delatore e un
diffamatore. La percezione negativa del contesto rispetto a chi ne segnala delle irregolarità
mettendone in discussione la struttura e i processi abituali è uno dei tanti punti di contatto tra il
testimone di giustizia, spesso “segnalatore” di mafia, e il ​whistleblower​, spesso “segnalatore” di
corruzione. Entrambi i soggetti si trovano, infatti, in una condizione di debolezza e vulnerabilità
17
DI RIENZO Massimo, ​Il Whistleblowing e la democrazia vibrante, ​2015, p​. ​2. 50
nei confronti delle persone e dei contesti riguardo ai quali hanno reso le loro dichiarazioni. I
“soffiatori di fischietto” rischiano, a causa delle loro denunce, ripercussioni a livello innanzi tutto
professionale, come, per esempio, essere trasferiti in posizioni prive di prospettive, essere
“demansionati”, subire discriminazioni o trattamenti ingiusti, vedersi negate delle promozioni o
essere addirittura licenziati. Proprio in virtù di questi rischi si ritrovano, nel momento in cui
vengono a conoscenza dell’illecito, di fronte a un vero e proprio dilemma etico: segnalare,
permettendo all’organizzazione di isolare ed eliminare i comportamenti illeciti ma rischiando le
eventuali ripercussioni personali e professionali, o non segnalare, tutelandosi ma dando la
possibilità a tali comportamenti di perpetrarsi.
I potenziali testimoni di giustizia, d’altra parte, si trovano in una simile situazione di conflitto. La
decisione della denuncia porta infatti con sé il rischio di serie ritorsioni da parte dei soggetti
criminali e il conseguente stravolgimento della propria ​routine di vita; mentre la decisione di non
denunciare, invece, equivale al possibile proseguimento e proliferare delle logiche e delle attività
criminali, dell’impunità, e, nel caso di testimoni-vittima, del danno subìto. Scontando ancora le
conseguenze di una definizione giuridica mancata, i testimoni sono inoltre spesso costretti a
confrontarsi con un’ostilità di tipo “ambientale” originata dalla loro scelta. Quando, come
talvolta ancora accade, vengono confusi con i collaboratori di giustizia sono considerati e
conseguentemente trattati alla stregua di chi ha commesso reati o dei membri delle
organizzazioni criminali. Ma anche quando sono correttamente identificati come testimoni, sono
spesso posti di fronte alla diffidenza e alla paura generate dal loro gesto di rottura.
Proprio come il testimone di giustizia, inoltre, la figura del ​whistleblower non è ancora pienamente
valorizzata a livello normativo e non gode ancora di completa tutela. Prima della legge n. 190 del
2012 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella
pubblica amministrazione” che con l’articolo 51 introduce l’art. 54-​bis nel decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165 (“Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche”) prevedendo la “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”,
è mancata, infatti, una regolamentazione specifica della protezione del ​whistleblower​.
L’articolo 51 della legge n. 190 stabilisce invece che:
il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero
riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in
ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una
51
misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi
collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
Le disposizioni della legge n. 190 delineano però una protezione che l’Autorità nazionale
anticorruzione (A.N.AC.) ha definito “generale e astratta” e che ha cercato di chiarificare con la
Determinazione n. 6 del 28 aprile 2015 (“Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico
che segnala illeciti (c.d. ​whistleblower​)”) nella quale viene specificato che la tutela deve essere
fornita da parte di tutti i soggetti che ricevono le segnalazioni: in primo luogo da parte
dell’amministrazione di appartenenza del segnalante, in secondo luogo da parte delle altre
autorità che, attraverso la segnalazione, possono attivare i propri poteri di accertamento e
sanzione, ovvero la stessa Autorità nazionale anticorruzione, l’Autorità giudiziaria e la Corte dei
conti. La Disposizione presenta in seguito una serie di puntualizzazioni che sottolineano la
valenza del ​whistleblowing come strumento innanzi tutto preventivo nei confronti del fenomeno
corruttivo, facendo particolare riferimento a una misura specifica introdotta dalla legge n. 190, il
Piano triennale anticorruzione, che prevede espressamente la tutela del dipendente che segnala
condotte illecite tra le azioni finalizzate alla prevenzione della corruzione, in particolare fra quelle
obbligatorie disciplinate direttamente dalla legge che, quindi, le amministrazioni pubbliche sono
tenute a porre in essere ed attuare. È inoltre individuato nel Responsabile della prevenzione alla
corruzione la figura di riferimento per le segnalazioni.
Per quanto riguarda le segnalazione anonime, esse non rientrano, per espressa volontà del
legislatore, nel campo di applicazione dell’art. 54-​bis​. La garanzia di riservatezza presuppone,
infatti, che il segnalante renda nota la propria identità. Non rientra, dunque, nella fattispecie
“dipendente pubblico che segnala illeciti”, il soggetto che, nell’inoltrare una segnalazione, non si
renda conoscibile. In sostanza, l’A.N.AC. sottolinea che la ​ratio della norma è quella di assicurare
la tutela del dipendente, mantenendo riservata la sua identità, solo nel caso di segnalazioni
provenienti da dipendenti pubblici individuabili e riconoscibili. Questa interpretazione risulta ad
oggi tra le più dibattute in quanto riconoscerebbe nel segnalante esclusivamente quel
dipendente/“guardiano” dell’interesse pubblico già obbligato dall’art. 311 del Codice Penale a
denunciare nel caso abbia notizia di un reato e, dall’art. 8 del Codice di Comportamento delle
Pubbliche Amministrazioni, ad aiutare il Responsabile per la prevenzione della corruzione
segnalando a un suo superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito. Se da una parte ciò
rientrerebbe nell’ottica secondo la quale, nella sua veste di guardiano della cosa pubblica, il
52
dipendente non possa celarsi sotto l’anonimato ma debba coerentemente “metterci la faccia”,
dall’altra non si terrebbe conto che l’anonimato costituisce un potente strumento di autotutela e
quindi di incentivo alla segnalazione, specialmente in quel clima culturalmente ostile in cui si
spesso trova ad agire il segnalante, che prima di essere visto come protettore dell’interesse
pubblico è additato come spia e soggetto quindi a rischio di ritorsioni di vario tipo sul luogo di
lavoro.
L’Autorità segnala, inoltre, la necessità di un intervento chiarificatore del legislatore per quanto
riguarda le condizioni di riservatezza riguardo l’identità del segnalante. L’individuazione dei
presupposti che fanno venir meno la riservatezza è infatti cruciale in quanto, da una parte, la
garanzia di riservatezza incoraggia il dipendente pubblico ad esporsi; dall’altra, consente alle
amministrazioni di dare corretta applicazione all’istituto. A tal fine il procedimento di gestione
della segnalazione deve garantire la riservatezza dell’identità del segnalante dalla ricezione della
segnalazione e in ogni fase successiva. Per questo motivo l’Autorità ritiene che spetti al
Responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari valutare se ricorra o meno la condizione di
indispensabilità della conoscenza del nominativo del segnalante ai fini della difesa. La questione
della tutela dell’identità del segnalante costituisce uno dei punti più critici della declinazione
italiana dell’istituto del ​whistleblowing​; secondo la legge n. 190, infatti, in soli due casi sussiste
l’obbligo per il Responsabile anticorruzione di rivelare il nome del segnalante: nel caso il
segnalante stesso dia il suo consenso e nel caso la contestazione dell’addebito disciplinare sia in
tutto o in parte basata sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità risulti indispensabile alla
difesa del segnalato. In questo modo, però, il potenziale segnalante, non avendo certezze, al
momento della segnalazione, sul fatto che la sua identità venga rivelata o meno, sarà meno
incentivato a esporsi, soprattutto in caso di dubbi o incertezze riguardo ai fatti rilevati.
Un ulteriore punto critico riguarda la definizione delle cosiddette “condotte illecite”, indicazione
non ulteriormente specificata dalla norma entro la quale che l’A.N.AC. include non solo l’intera
gamma dei delitti contro la pubblica amministrazione, ma anche le situazioni in cui si riscontri
l’abuso di potere al fine di ottenere vantaggi privati, nonché fatti in cui si evidenzi un
malfunzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite,
compreso l’inquinamento dell’azione amministrativa dall’esterno (es. nepotismo, ripetuto
53
mancato rispetto dei tempi procedimentali, demansionamento, irregolarità contabili, false
dichiarazioni, etc.).
La norma risulta essere lacunosa anche in merito all’individuazione del momento in cui cessa la
garanzia della tutela; l’Autorità anticorruzione ritiene in questo caso che solo in presenza di una
sentenza di primo grado sfavorevole al segnalante cessino le condizioni di tutela dello stesso.
Come per i testimoni di giustizia, anche intorno alla figura ​whistleblower e alla sua valorizzazione e
tutela è in atto un dibattito politico per l’introduzione di norme più specifiche e di maggior
efficacia. Nel novembre 2015 è stato approvato in Commissione un nuovo disegno di legge (C.
3365) dal titolo ​“Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui
siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”, per cui (art.
1):
Il pubblico dipendente che in buona fede denuncia al responsabile della prevenzione della
corruzione di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero
all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella
contabile, condotte illecite o di abuso di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio
rapporto di lavoro non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura
discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati,
direttamente o indirettamente, alla segnalazione. L’adozione di misure discriminatorie nei
confronti del segnalante è comunicata in ogni caso all’ANAC dall’interessato o dalle
organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le
stesse sono state poste in essere. L’ANAC informa il Dipartimento della funzione pubblica o
gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di
competenza.
Per quanto riguarda il contenuto dell’espressione “condotte illecite o di abuso” la definizione
rimane ancora generica e poco chiara. Nell’art. 2 è specificata, però, la definizione di “buona
fede”:
È in buona fede il dipendente pubblico che effettua una segnalazione circostanziata ritenendo
altamente probabile che la condotta illecita o di abuso si sia verificata. La buona fede è
comunque esclusa qualora il segnalante abbia agito con colpa grave.
54
Per quanto riguarda la tutela della riservatezza dell’identità del segnalante, l’art. 3 della proposta
di legge stabilisce che:
L’identità del segnalante non può essere rivelata. Nell’ambito del procedimento penale,
l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del
Codice di procedura penale. Nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti,
l’identità del segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria.
Nell’ambito del procedimento disciplinare l’identità del segnalante non può essere rivelata,
senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su
accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata,
in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia
assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato.
In questo caso viene mantenuto il meccanismo precedente con le conseguenti criticità riguardo
alla restrizione degli incentivi a segnalare visto che il potenziale ​whistleblower non è in grado di
sapere, nel momento stesso della segnalazione, se la sua identità verrà rivelata o meno.
È inoltre stabilito l’ammontare delle sanzioni amministrative pecuniarie nel caso vengano
accertati comportamenti discriminatori nei confronti dei segnalanti e sono previste forme di
premialità per gli stessi, qualora la segnalazione si riveli fondata, da definirsi però in sede
contrattuale.
Sempre nell’art. 3 si stabilisce inoltre che:
Qualora al termine del procedimento penale, civile o contabile ovvero all’esito dell’attività di
accertamento dell’A.N.AC. risulti l’infondatezza della segnalazione e che la stessa non è stata
effettuata in buona fede, il segnalante è sottoposto a procedimento disciplinare dall’Ente di
appartenenza, al termine del quale, sulla base di quanto stabilito dai contratti collettivi, può
essere irrogata la misura sanzionatoria anche del licenziamento senza preavviso.
Il testo propone infine un allargamento dell’istituto del ​whistleblowing anche in ambito privato,
limitatamente però alle aziende che adottano volontariamente il modello organizzativo ex d.lgs.
n. 231/2001, che ha introdotto ​un nuovo regime di ​responsabilità denominata “da reato”,
derivante dalla commissione o tentata commissione di determinate fattispecie di ​reato
nell'interesse o a vantaggio degli enti stessi.
55
Il disegno di legge è stato approvato alla Camera nel gennaio del 2016 con alcune sostanziali
modifiche. Lo studioso Massimo Di Rienzo, esperto sui temi dell’integrità e della trasparenza per
la pubblica amministrazione, rileva, tra le più significative:18
-
l’aggiunta della parola “segnalazione” affiancata ma disgiunta dalla parola “denuncia”. In
questa ottica viene valorizzata la dimensione preventiva dell’istituto. La segnalazione,
sottolinea Di Rienzo, è un atto mirato a sollevare una questione e a gettare luce sul
pericolo di un potenziale atto illecito, mentre la parola “denuncia” evidenzia la valenza
repressiva del ​whistleblowing focalizzando l’attenzione sull’irregolarità già commessa e
riconosciuta;
-
l’introduzione dell’elemento oggettivo oltre la buona fede del segnalante con
l’inserimento della “ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto”. Questo
significa che, oltre la predisposizione d’animo (elemento soggettivo) con cui si effettua la
segnalazione, che non deve essere fatta per motivi di diffamazione o calunnia, si
evidenzia anche l’elemento oggettivo, cioè le ragioni che inducono il ​whistleblower ​a
segnalare. La segnalazione (anche nel caso si rivelasse poi infondata) si basa su elementi
di ragionevolezza nel momento in cui si presume che un altro soggetto, nelle medesime
condizioni, avrebbe rilevato la stessa sensazione di “illiceità” del comportamento;
-
la possibilità per il segnalante di avere l’ultima parola nei procedimenti disciplinari
riguardo l’uso della segnalazione. La modifica prevede infatti che anche nel caso la
contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza
dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione
sia utilizzabile solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua
identità.
Molti esperti prendono come possibile modello legislativo di riferimento il cosiddetto ​PIDA​, il
Public Interest Disclosure Act​, legislazione del 1998 del Regno Unito in materia di ​whistleblowing ​che
prevede un’articolata disciplina delle condizioni di legittimità delle segnalazioni che garantisce la
protezione a chiunque riporti informazioni su delitti, illeciti civili, violazioni amministrative,
pericoli per la salute e la sicurezza o per l’ambiente. Lo stesso Di Rienzo sottolinea, in effetti,
18
DI RIENZO, ​Note (meno critiche) sul DDL Whistleblowing​, spazioetico.com, 25 gennaio 2016.
56
come siano ancora tanti i possibili ambiti di miglioramento della legislazione italiana e della sua
applicazione. In particolare, le carenze riguarderebbero i seguenti aspetti:
-
la codificazione dei vari canali di segnalazione. Non tutte le amministrazioni pubbliche
italiane hanno infatti istituito canali e procedure codificate di segnalazione e quelle che lo
hanno fatto hanno adottato modalità differenziate, spesso non chiare e di scarsa
accessibilità per i cittadini;
-
la legislazione in materia di tutela del ​whistleblower nell’ambito privato. La proposta di
legge in discussione in parlamento propone l’applicazione dell’istituto soltanto per certe
tipologie di aziende;
-
lo sviluppo di processi di accompagnamento prima, durante e dopo la segnalazione.
Sarebbero estremamente utili per far sì che i “dilemmi etici” dei potenziali segnalanti si
risolvessero con la scelta di segnalare e con la garanzia e l’applicazione di misure di tutela
appropriate;
-
l’introduzione di forme di premialità (presenti nel disegno di legge approvato a
novembre, ma in seguito eliminate) per chi segnala;
-
la necessità di favorire lo sviluppo di una vera a propria “cultura della segnalazione”
tramite iniziative di formazione e sensibilizzazione. In Italia si rileva un particolare
bisogno di sostituire la cultura del silenzio (il “mi faccio i fatti miei”) con una
valorizzazione dell’atto di denuncia e di segnalazione come azione compiuta nell’interesse
della collettività;
-
l’inclusione, come nel ​PIDA​, anche delle condotte pericolose per la salute e la sicurezza
pubblica tra gli atti illeciti oggetto di possibile segnalazione.
Il disegno di legge è ad oggi in attesa di essere discusso e approvato in Senato.
3.2 Identità complesse
Il problema linguistico e normativo che riguarda la figura del ​whistleblower si accompagna anche a
una carenza di riflessioni scientifiche sul profilo di questa figura. Al contrario dell’Italia, il Regno
57
Unito ha tradizionalmente dimostrato una particolare sensibilità nei confronti del tema del
whistleblowing​, producendo diverse analisi volte alla definizione di un profilo indicativo del
segnalante​. ​In particolare, in uno studio del ​Public Concern at Work19, un'autorità indipendente
inglese che mira a garantire che le “preoccupazioni” (​concern​) circa il malcostume nei luoghi di
lavoro siano sollevate e affrontate, sono raccolte le esperienze di mille segnalanti, sui cui profili i
ricercatori hanno provato a tratteggiare un ritratto indicativo del ​whistleblower​, che, facendo una
sintesi dei vari casi analizzati, risulta essere:
un funzionario specializzato, spesso un professionista, che sta lavorando da meno di due anni
nel contesto in cui si verifica il comportamento illecito o pericoloso, che è preoccupato per un
determinato comportamento in corso, che colpisce la società in generale e che si verifica, in
media, per un periodo non inferiore ai sei mesi.20
Da questo ​identikit emerge un ipotetico profilo del ​whistleblower inglese: un dipendente
specializzato, che si attiene a princìpi che vanno oltre il rispetto dell’assetto organizzativo
dell’azienda, ma che hanno a che fare anche con i valori della deontologia professionale; che
lavora da un tempo relativamente breve nell’organizzazione, cosa che gli permette di essere
sufficientemente estraneo ai determinati meccanismi per poterne prendere le distanze; che ha
osservato il fenomeno illecito per un periodo non inferiore ai sei mesi, a riprova del fatto che
nella maggior parte dei casi esso non si esplicita in un singolo atto o episodio, ma in una serie di
comportamenti più sistematici che durano nel tempo.
Un’altra delle riflessioni più interessanti sulla questione della definizione di ​whistleblower ​è stata
portata avanti da Abraham Mansbach, studioso di filosofia politica e sociale, che in riferimento
alla definizione di questa figura ha chiamato in causa il concetto di ​pharresia​, vocabolo di origine
greca che si riferisce all’atto pratico di “dire il vero” senza temerne le potenziali ripercussioni e
conseguenze negative. Il parresiasta dell’antica Grecia era colui che con coraggio e senza paura
affrontava il potere attraverso un discorso di verità. Rientravano in questa categoria figure come
il messaggero che a rischio della propria vita portava la notizia di una battaglia persa, il politico
che evidenziava una verità scomoda a rischio di perdere il proprio consenso, i consiglieri dei re
ellenici che erano chiamati a ispirarsi a questo principio per moderarne il potere e guidarli nelle
Lo studio, dal titolo ​Whistleblowing: the inside story. A study of the experiences of 1000 whistleblowers​, è del 2013 ed è stato
promosso da ​Public Concern at Work ​insieme all’Università di Greenwich.
20
DI RIENZO, ​L’identikit del Whistleblower​, spazioetico.com, 12 settembre 2014.
19
58
decisioni. L’odierno “soffiatore di fischietto” ricoprirebbe quindi il ruolo di parresiasta
contemporaneo, riuscendo a mettere in discussione il sistema di potere verso cui quell’atto di
verità è rivolto, con l’obiettivo di svelarne le contraddizioni, le falsità, le irregolarità. Il filosofo
francese Micheal Foucault ha trattato approfonditamente il tema in una serie di conferenze da lui
tenute all’Università di Berkeley nel 1983, definendo la ​pharresia​ come:
attività verbale in cui chi parla ha una specifica relazione con la verità attraverso la franchezza,
una certa relazione con la sua vita attraverso il pericolo, una certa relazione con se stesso o le
altre persone attraverso la critica e una specifica relazione con la legge morale attraverso la
libertà e il dovere. È l’attività verbale nella quale chi parla esprime la sua personale relazione
con la verità e rischia la sua vita perché riconosce il dire il vero come un dovere per migliorare
o aiutare altre persone (anche se stesso).21
La pratica del ​whistleblowing, ​definita da Mansbach anche come “​fearless speech​” (“discorso senza
paura”), sarebbe così in grado di rafforzare e contemporaneamente mettere in discussione i
princìpi fondanti della democrazia quali la libertà e l’uguaglianza tra gli individui che la
compongono. L’atto di verità portato avanti con la segnalazione rappresenta un’azione di
estrema libertà e affermazione della propria individualità, ma al contempo un comportamento
che mira a mantenere in buono stato la cosa pubblica, garantendo l’interesse dell’intera
collettività. In questo modo la sfera privata e la sfera pubblica sono messe in contatto in quella
che Mansbach chiama “tensione produttiva”22 , che a sua volta favorisce la realizzazione della
cosiddetta “democrazia vibrante”23 ​(o “democrazia radicale”, come definita da Ernesto Laclau e
Chantal Mouffe24 ): quella democrazia che, nutrendosi della critica, riesce a mettere in discussione
in modo continuo i capisaldi su cui si fonda, non permettendo la loro cristallizzazione e la
possibilità di una loro strumentalizzazione ideologica:
Radical democracy presents a vision and political program that highlight the moral worth of
human beings and combine the liberal values of autonomy, freedom and pluralism with
fundamental social premises like equality and social justice. A central feature of the project is
that it does not invoke a final state or closure; it is an open-ended endeavor. (...) One of the
ways to keep democracy vibrant is to continually critique these principles and values -
LEWIS David e VANDEKERCKHOVE Wim, ​Whistleblowing and Democratic Values, International Whistleblowing
Research Network, 2011, p. 13. Traduzione mia.
22
​Ivi​, p. 12.
23
​Ivi​, p. 17.
24
LACLAU Ernesto e MOUFFE Chantal, ​Hegemony and Socialist Strategy​, 1985.
21
59
politically, publicly, through the organs of civil society, and through internal regulatory or
supervisory bodies. This undertaking ensures that the values are implemented in material life,
on the one hand, and that they do not become mere elements of ideological manipulation, on
the other. Radical democracy is committed to the principle that liberal democratic societies
must be held accountable for professed ideals. The practice of fearless speech takes up the
challenge.25
L’atto della segnalazione costituirebbe quindi, parallelamente al voto, un atto individuale di
rafforzamento della democrazia; porterebbe infatti in contatto l’“io” singolo del whistleblower​,
individuo che si espone e riafferma se stesso tramite l’atto di presa della parola, e il “noi”
collettivo, il bene pubblico che la segnalazione ha l’obiettivo di proteggere da eventuali danni o la
stessa organizzazione che “liberata” da pratiche illecite può assolvere meglio e con meno spreco
di risorse alla sua missione.
Questa riflessione potrebbe facilmente essere applicata anche al ruolo del testimone di giustizia
che allo stesso modo propone un atto estremo di verità a rischio della propria vita. Prendendo la
parola e denunciando, il testimone riafferma se stesso, i suoi diritti e doveri di cittadino onesto.
Allo stesso tempo, però, mettendo in luce l’illegalità ed esponendosi al rischio, rende un servizio
alla collettività permettendo che un determinato reato venga perseguito e che il principio di
legalità venga riaffermato. Il testimone, quindi, una sorta di ​whistleblower del proprio contesto
sociale, “libera” potenzialmente l’intera società dalla pratica criminale. L’atto di parola del
testimone di mafia, in particolare, assume anche un’ulteriore valenza di tipo culturale rompendo i
presupposti di omertà, silenzio e “non detto” su cui le organizzazioni criminali di questo tipo
fondano la loro sopravvivenza.
Le riflessioni di Mansbach presentano anche uno specifico ​focus sul tema dell’identità e sul suo
rapporto con la scelta di segnalazione del ​whistleblower​. Secondo lo studioso, infatti, ci sarebbe
proprio il discorso sull’identità alla base della pratica della segnalazione. Il processo di risoluzione
del dilemma etico iniziale infatti è caratterizzato dallo stato di indecisione dell’individuo, che non
sa se parlare oppure no, e arriva a una riappropriazione finale del discorso, con la conseguente
affermazione di identità che l’atto di parola e di denuncia permettono. Decidere di denunciare le
pratiche irregolari della propria organizzazione rappresenta un’azione di dissenso e
“disidentificazione” rispetto ad essa. Il posto di lavoro rappresenta una fonte di identificazione
25
LEWIS e VANDEKERCKHOVE, ​Whistleblowing and Democratic Values ​cit., p. 17.
60
fondamentale per gli individui e chi lavora per un’organizzazione è portato a riconoscere nella
sua struttura e nei suoi meccanismi gerarchici delle fonti di beneficio per l’efficienza dell’azienda
stessa, quel processo che Mansbach chiama “subordinazione volontaria”26 . Quando però la
subordinazione non è più volontaria, ma subìta, quando quindi non ci si riconosce più nei
meccanismi e nelle pratiche dell’organizzazione, l’ambiente di lavoro diventa sito di antagonismo
e di resistenza.
D’altra parte, però, proprio da fonti esterne di identità il ​whistleblower può trarre il coraggio per la
decisione della denuncia. La possibilità di riconoscersi in altri gruppi o contesti rispetto a quelli
legati alla dimensione lavorativa (che possono riferirsi a varie sfere, quali sport, politica, religione,
attività sociali di altro genere, etc.) costituisce per il segnalante una sorta di “serbatoio” di identità
dove trovare il coraggio di rischiare mettendo in discussione quella lavorativa. Questo approccio
è particolarmente interessante se si prendono in esame i testimoni di giustizia, che sono spesso
chiamati a mettere in discussione tutte le loro “fonti” di identità: inizialmente, infatti,
specialmente quando si parla di contesti dove la presenza di sistemi illeciti o criminali è più
pervasiva, la prima fonte d’identità che si perde è quella del proprio ambiente quotidiano: tramite
la denuncia infatti si compie un atto di misconoscimento di determinate dinamiche che sono
spesso non occasionali, ma anzi ben radicate nel contesto di vita di questi individui. Quello che
però succede ai testimoni è che il loro nuovo ​status​, anche a causa di storiche mancanze
legislative e carenze del sistema tutorio, non riesce a garantire loro le altre fonti di identità
necessarie: il lavoro è spesso abbandonato, le imprese che hanno fondato e costruito falliscono,
la famiglia è divisa e i parenti abbandonati (oltre al fatto che spesso gli stessi parenti non
riconoscono né accettano la scelta di denuncia), le relazioni sociali sono interrotte. I testimoni si
trovano così in una situazione di sofferenza ancora più significativa, in quanto privi di contesti in
cui riconoscersi e fonti di identità su cui fare leva per portare avanti la scelta iniziale di
segnalazione. Inoltre, proprio come accade ai ​whistleblower​, la loro identità diventa il primo
obiettivo di chi intende vendicarsi. Anche il testimone, infatti, è spesso oggetto di discredito e di
tentativi di danneggiamento della reputazione da parte di chi è stato oggetto di denuncia, ma
ancora più significativamente da parte del contesto o sistema in cui essa è avvenuta e che si è
verosimilmente sentito messo in discussione.
26
​Ivi​, p. 19.
61
Un altro aspetto interessante della riflessione sul ​whistleblowing riguarda la necessità riferita da
molti esperti di ripensare a questo istituto in una dimensione più relazionale, che tenga in
considerazione, cioè, il rapporto e le reciproche azioni e reazioni del segnalante e di chi accoglie
la segnalazione. Questo approccio evidenzia, in particolare, due esigenze: da una parte il bisogno
di riconoscere, non più nel segnalante, ma nel destinatario della segnalazione, il soggetto chiave
del sistema. Dipende infatti da questo individuo la destinazione della segnalazione stessa. Se la
persona accoglierà la segnalazione, la verificherà e le darà un seguito, essa potrà diventare quello
strumento di crescita e miglioramento dell’organizzazione che ha la potenzialità di essere. Se, al
contrario, chi riceve la segnalazione riconoscerà in essa una critica non costruttiva al proprio
lavoro, un rischio di danno d’immagine per l’organizzazione o un ostacolo al perpetuarsi di
pratiche illecite a cui anch’egli prende parte o che non è pronto a mettere in discussione, la
denuncia non troverà riscontro e perderà il suo potenziale di beneficio per la collettività e il
segnalante andrà più facilmente incontro a ritorsioni. Dall’altra parte vi è la necessità di un
accompagnamento alla scelta della segnalazione/denuncia. La risoluzione del dilemma etico della
testimonianza, infatti, non è mai un processo breve o semplice e per questo chi vi si trova
davanti ha bisogno di un corredo informativo adeguato per sapere che cosa la sua scelta
comporti e le opzioni che ha di fronte a sé.
Anche questo particolare aspetto trova dei punti di connessione con la riflessione sui testimoni di
giustizia, che spesso lamentano una risposta debole, se non antagonista, da parte di chi raccoglie
le loro denunce e dà piena attivazione al loro ​status​. Molti testimoni, inoltre, dichiarano di non
essere stati in possesso delle informazioni riguardo alle conseguenze che le loro dichiarazioni
avrebbero comportato nel momento in cui le hanno rese. Anche nel loro caso quindi si mette in
luce la necessità di ripensare la testimonianza come processo relazionale e l’importanza, quindi,
della creazione di figure adeguatamente e culturalmente formate per accogliere e gestire le
denunce, nonché per accompagnare le persone prima, durante e dopo la scelta di “soffiare il
fischietto” o testimoniare. Oltre alla competenze necessarie per poter illustrare ai segnalanti le
loro opzioni e i possibili sviluppi della loro situazione professionale e personale, si rende
imprescindibile quindi anche un generale sviluppo della “cultura della segnalazione” che sappia
valorizzare l’atto della testimonianza in tutte le sue potenzialità di beneficio alla collettività,
perché chi denuncia possa, anche nelle risposte istituzionali o dell’organizzazione, ritrovare il
senso del proprio atto, in un ribaltamento dell’ottica per cui “chi sta zitto sta e fa meglio”.
62
Per questi motivi l’azione portata avanti dalle due figure oggetto di analisi può essere ridefinita
anche in un’ottica di “resistenza”. In entrambe le situazioni, infatti, chi fa dichiarazioni riguardo
illegalità o atti irregolari deve sostenerne le conseguenze nel tempo e resistere al contesto che li
ha prodotti. L’approccio al tema del ​whistleblowing ​elaborato da Latané e Darley negli anni ‘70,
chiamato “​by-stander inertia” (letteralmente “dell’inerzia del testimone”) è particolarmente
interessante in questo senso. I due studiosi, infatti, hanno dimostrato empiricamente che
maggiore è il numero di testimoni di un atto (in questo caso illecito o meno, ma comunque da
segnalare), meno probabile sarà la segnalazione. Più il gruppo è numeroso, infatti, più sarà grande
l’incertezza riguardo alle effettive responsabilità di segnalazione e la paura e la convinzione degli
individui di essere esposti al giudizio altrui. Questo discorso è particolarmente calzante se
vengono presi in considerazione i contesti mafiosi, dove il gruppo di potenziali testimoni
dell’illecito è spesso rappresentato da una collettività silenziosa e spaventata, sorretta nella sua
scelta di tacere da una sorta di “tradizione” di omertà che ha origini più o meno lontane nel
tempo. Proprio per questo, la scelta del testimone di giustizia di denunciare l’illegalità, di cui
spesso è prima vittima, è talvolta anche un atto di estrema resistenza, se non di portata
rivoluzionaria, in un contesto di “testimoni inerti”. Paradossalmente una parte del senso
dell’azione di testimonianza viene così a risiedere proprio nella sua singolarità rispetto alle scelte
comuni degli altri individui.
Tenendo in considerazione gli aspetti approfonditi, si può giungere così a una definizione
generale che possa comprendere tutti gli elementi di sovrapposizione tra le due figure analizzate.
Sia i testimoni di giustizia che i ​whistleblower​ possono essere infatti definiti come:
-
CITTADINI che SEGNALANO L’ILLECITO compiendo
-
un ATTO DI VERITÀ e coraggio
-
di tutela dell’INTERESSE COLLETTIVO attraverso
-
L’ATTO VERBALE DI UTILIZZO DELLA PROPRIA VOCE
(DENUNCIA/SEGNALAZIONE)
-
denuncia che li pone in una CONDIZIONE DI DEBOLEZZA RISPETTO ALLE
PERSONE E AL CONTESTO DENUNCIATI, che porta come conseguenza la
-
CONDIZIONE DI RISCHIO e PERICOLO che a sua volta determina la
-
NECESSITÀ DI TUTELA
63
-
l’atto di denuncia/segnalazione necessita di essere VALORIZZATO, anche dalle figure
deputate ad accogliere le denunce/segnalazioni, perché possa esprimere il suo VALORE
SOCIALE di rottura con determinate culture e sistemi di potere
-
compiono una SCELTA ETICA e di RESISTENZA che comporta un
-
RISCHIO PER LA TENUTA DELLA LORO IDENTITÀ (di persona, di cittadino, di
lavoratore) e un
-
RAPPORTO DI DEBITO CON LO STATO che è chiamato, oltre che a tutelarli, a
garantire loro
-
un’adeguata RISPOSTA, i DIRITTI che rischiano di perdere e una maggior
DEFINIZIONE NORMATIVA.
3.3 Le differenze
La figura del testimone di giustizia e quella del ​whistleblower​, però, presentano anche delle
sostanziali differenze. Una delle più rilevanti riguarda il ruolo del fattore pericolo. Il rischio per la
propria incolumità fisica è una delle caratteristiche intrinseche dell’essere testimoni di giustizia,
una delle sfide più consistenti e sofferte che essi si trovano ad affrontare in ragione delle proprie
denunce, ma prima di tutto uno dei prerequisiti per accedere allo ​status ​stesso di testimone, che
per legge viene concesso a causa proprio di un pericolo talmente concreto ed elevato da non
poter essere affrontato con delle misure ordinarie di tutela.
Il fattore rischio, che connota entrambe le figure, viene quindi a declinarsi in modi
sostanzialmente differenti. Se il ​whistleblower ​rischia ritorsioni che possono potenzialmente
arrivare anche a minacce per la sua incolumità fisica, e ripercussioni nell’ambito del proprio
contesto lavorativo, lo ​status di testimone ha invece la sua stessa origine nella condizione di
rischio della vita e proprio dal livello di pericolo dipende la sua sussistenza nel tempo.
Ed è proprio attraverso il fattore temporale che possono delinearsi altre sfumature di questi due
profili. Il testimone può diventare tale in maniera “istantanea”, decidendo di denunciare un fatto
singolo non appena questo si verifica. Si tratta per esempio di alcuni testimoni “terzi” o di quegli
imprenditori che ricevono richieste estorsive o intimidazioni e si rivolgono immediatamente
all’autorità. D’altra parte esistono testimoni che denunciano solo dopo un determinato periodo di
64
tempo per ragioni di indecisione, di assoggettamento psicologico o di vessazione subìta
dall’organizzazione criminale, per desiderio di proteggere se stessi o altri da possibili rischi, per
essere sicuri di essere in possesso di tutte le informazioni necessarie a sostenere le proprie
dichiarazioni. Per i ​whistleblower si può invece presupporre che, da un lato, saranno più portati a
denunciare più sarà alto il loro grado di estraneità al contesto e quindi, presumibilmente, più
breve sarà il periodo di tempo in cui sono stati inseriti in tale ambiente e in cui hanno avuto
modo di accoglierne le abitudini illecite; dall’altro potrebbero trovare coraggio e sicurezza
proprio nell’aver appreso nel dettaglio, e quindi con il tempo, i meccanismi dell’organizzazione e
i possibili “varchi” di irregolarità.
È però meno probabile che possa venirsi a configurare la tipologia del ​whistleblower “borderline”​, un
individuo che abbia avuto qualche tipo di profitto dagli atti illeciti che poi decida di denunciare. Il
reato di corruzione è tipicamente un reato a vittima diffusa, dove la percezione di singoli
individui di aver subito un danno è molto inferiore rispetto, per esempio, all’estorsione o
all’usura. La corruzione consiste, inoltre, in un patto paritario tra due parti disposte a scambiarsi
occultamente le loro risorse in modo che entrambe ne traggano del guadagno ed è per questo
molto difficile che a segnalare sia proprio una della due parti o qualcuno che dalla corruzione ha
o ha avuto dei benefici e che per continuare ad averne sarà presumibilmente portato a perpetrare
nell’attività. Non per questo si devono escludere, però, rischi di utilizzo opportunistico dello
strumento della denuncia anche da parte dei ​whistleblower​; in particolar modo nel caso di conflitti
nell’ambiente lavorativo dove esiste la concreta possibilità che qualcuno denunci un collega per
pura rivalsa personale, senza che ci sia effettiva infrazione di regole disciplinari o illegalità in
genere. Da questo punto di vista però, alla base di un uso scorretto o diversamente interpretabile
dell’istituto non c’è la contiguità con il contesto e il sistema illecito, ma una vera falsificazione del
contenuto della segnalazione stessa, che non colloca l’individuo segnalante in un’altra potenziale
categoria giuridica o di altro genere, ma lo esclude totalmente da qualsiasi forma di
riconoscimento e tutela.
Un’ulteriore riflessione riguarda la dimensione e le caratteristiche del contesto in cui la denuncia
viene effettuata; nella maggior parte dei casi sia i testimoni di giustizia che i ​whistleblower sono
individui che si trovano a mettere in discussione non un singolo individuo, ma un sistema
deviato o corrotto. È verosimile, però, che il testimone di giustizia, in particolare quello di mafia,
si trovi a confronto con un fenomeno molto più pervasivo e diffuso a livello sociale e territoriale.
65
Le organizzazioni mafiose, infatti, perseguono i loro obiettivi di profitto e conquista del potere
tramite un serrato controllo del territorio, attuato spesso con le armi dell’intimidazione e
dell’assoggettamento ponendo i potenziali denuncianti nella condizione di confrontarsi con
fenomeni criminali che con più facilità si espandono verso i contesti sani (es. tutti gli
imprenditori o commercianti che iniziano una nuova attività in un contesto con forte presenza di
racket mafioso). I fenomeni corruttivi segnalabili dal ​whistleblower​, invece, oltre a interessare
specificamente l’ambito delle amministrazioni pubbliche o delle organizzazioni, riguardano
solitamente gruppi circoscritti, definiti e ristretti di persone che hanno creato varchi di illegalità in
ambienti potenzialmente completamente “sani” e dove l’espansione dell’attività illecita è più
legata all’abbattimento dei costi morali, quindi alle preferenze etiche relative alle opportunità di
corruzione dei nuovi soggetti da coinvolgere, che al loro assoggettamento tramite intimidazione.
Non bisogna però dimenticare la significativa area di sovrapposizione delle pratiche corruttive e
delle attività della criminalità organizzata. Sempre più spesso si è infatti in presenza di strutture
criminali complesse dove alle pratiche illecite favorite o portate avanti da soggetti della pubblica
amministrazione e della politica si combinano logiche criminali di stampo mafioso, nella
costruzione di veri e propri sistemi illleciti sorretti da regole più o meno esplicite che ne
consentono la sopravvivenza nel tempo e dove ​whistleblower e testimone di giustizia potrebbero
teoricamente arrivare a coincidere.
66
4. LE LORO VOCI
4.1 Intervista a Gennaro Ciliberto
Gennaro Ciliberto è stato responsabile della sicurezza nei cantieri della ​Carpenfer Roma S.r.l.​,
impresa realizzatrice della costruzione e della manutenzione di varie opere autostradali. Nel 2011
ha denunciato alla Dia di Milano episodi di corruzione nell’aggiudicazione di lavori, infiltrazioni
mafiose, in particolare il coinvolgimento della famiglia Vuolo di Castellamare di Stabia legata al
clan camorristico D’Alessandro, ed anomalie costruttive che hanno in seguito causato crolli in
ambito autostradale. Per anni ha subito, da parte della criminalità organizzata, gravissime minacce
di morte e atti intimidatori, tra cui un tentato omicidio. Non avendo ricevuto alcuna misura di
tutela è stato costretto ad abbandonare la famiglia e a nascondersi per tutto il territorio nazionale
senza protezione né sostentamento. Per denunciare questa situazione ha portato avanti uno
sciopero della fame davanti al Viminale dove ha sostato per venti giorni dormendo nella sua
macchina e le sue rivendicazioni sono state sostenute anche dalla società civile con una petizione
e la raccolta di quarantacinquemila firme. Il 4 dicembre 2013 ha avuto inizio il primo processo
presso il tribunale di Monza. Dopo vari controlli, la Direzione Distrettuale Antimafia della
Procura di Napoli gli ha riconosciuto lo ​status ​di testimone di giustizia, consentendone
l’inserimento nel programma di protezione.
- Come è cambiata la sua vita da quando ha denunciato?
Nel 2008 vengo assunto da una importante azienda nel campo della carpenteria metallica,
azienda che lavorava prevalentemente in appalti pubblici con committenze ​Anas​, ​Autostrade per
l’Italia e Impregilo​. Nel 2010, da dirigente, mi accorgo di anomali flussi di denaro, di anomalie
costruttive ed il verificarsi di cedimenti di strutture mi spinse a capirci di più. Sino a quando, nel
febbraio del 2011, presso la Dia di Milano, denuncio portando prove e registrazioni di giri di
mazzette, infiltrazione della camorra e anomalie costruttive.
- Qual è la sua definizione di testimone di giustizia?
La definizione di testimone di giustizia, anche se regolamentata dalla legge 45/2001, trova oggi
diverse figure; per me essere testimone di giustizia vuol dire aver dato un contributo alla giustizia,
alla legalità ed essere un esempio di correttezza nella difesa dei valori e del bene comune a
67
contrasto di quella fetta di popolazione che volta la faccia dall'altra parte e che con tale
atteggiamento è collusa con la mafia.
- Quali sono gli aspetti più critici della sua vita dopo le denunce e del sistema di
protezione?
Vivere in un sistema tutorio non è facile. Se poi sei a rischio imminente pericolo di vita tutto
diventa un inferno, anche le situazioni semplici prendono una piega diversa; poi c’è l’isolamento,
la lontananza dalla tua terra e dai tuoi affetti, dalla vita quotidiana, un continuo mentire, una vita
senza un’identità, ogni spostamento deve essere preventivamente autorizzato. Camminare
sempre scortato, poi, ti fa vivere lontano dalla quotidianità, l'auto blindata a volte diventa come
una gabbia dove sei prigioniero e gli unici con cui parli sono gli uomini della scorta.
Il sistema di protezione è una macchina complessa che troppo spesso non tiene conto che i
testimoni di giustizia e la famiglia sono esseri umani e non pratiche e la burocrazia poi completa
il tutto facendo diventare troppo spesso la protezione una tortura alla quale nessun uomo per
bene può resistere.
- Come hanno agito le istituzioni riguardo alla sua vicenda? Come giudica il loro lavoro e
la loro presenza?
In Italia troppo spesso la mano destra non sa cosa faccia la sinistra e nel mio caso, avendo
denunciato a più di 9 procure, nessuna ha interagito con l'altra, anzi posso affermare che c’è stata
anche competizione e che a volte il tutto abbia danneggiato le indagini. In più hanno messo a
rischio la mia vita, poiché dal 2011 sino al 2014 sono dovuto scappare come un latitante a mie
spese poiché nessuna procura aveva proposto il piano di protezione. La verità è che oggi il piano
di protezione è divenuto una questione economica e quasi sempre un testimone di giustizia deve
lottare per pretendere un suo diritto. La mia storia è la prova che, se non fosse intervenuta
l'opinione pubblica con quarantacinquemila firme ed una petizione, le istituzioni distratte
avrebbero continuato a tacere, con un rimbalzo di responsabilità. Ho dovuto iniziare uno
sciopero della fame durato quaranta giorni per poi essere ricevuto al Viminale del viceministro
dell’Interno.
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- Pensa che il sistema di protezione e gli aspetti legati allo ​status di testimone abbiano
messo in discussione in qualche modo la sua identità (personale, di cittadino, rispetto
alla sua famiglia, al suo lavoro, etc.)? Se sì, come?
Nel mio caso essere divenuto testimone di giustizia mi ha devastato non solo fisicamente, ma
anche sul profilo umano e sociale; non ho più una vita normale, le mie ambizioni e il mio futuro
restano un sogno, la famiglia si è distrutta ed i figli resteranno segnati a vita dalla mia scelta
perché la camorra non dimentica.
- È in contatto con altri testimoni? Sente la loro solidarietà? Che cos’ha in comune con
loro e in che cosa si sente diverso?
Sono in contatto con qualche testimone che mi ha aiutato tanto, poiché chi è già passato dal
vivere in programma ha sperimentato sulla propria pelle il dolore e la sofferenza. Credo che
l'amplificazione mediatica a volte serve e a volte può danneggiare, ma non giudico, anzi
comprendo le motivazioni di chi si spinge a gesti estremi poiché le risposte da parte delle
istituzioni a volte non arrivano e quasi sempre, dopo aver lottato con la criminalità, inizia una
battaglia con una parte dello Stato che non solo non è vicina ai testimoni, ma non applica la
legge.
Io non sono superiore a nessun testimone di giustizia, ma il mio profilo è diverso da molti
poiché io non sono stato estorto o vittima di usura, ma da dirigente ho denunciato crimini di cui
la magistratura e le forze dell'ordine mai sarebbero venute a conoscenza. Ho salvato molte vite
umane evitando crolli di strutture, ho distrutto la “Camorra S.p.a.” del clan D’Alessandro che,
infiltrata su appalti pubblici, riciclava denaro sporco.
- Come affronta il pericolo e la paura?
Affronto la paura giorno dopo giorno. Mi hanno già sparato e so cosa vuol dire il sibilo di un
proiettile ed il sangue che scorre sulla tua pelle. Vivo sempre blindato con un giubbotto
antiproiettile, non esco la sera, non frequento luoghi di aggregazione, non vado allo stadio, non
prendo la metropolitana. Sono sicuro che la camorra prima o poi si vendicherà, ma vivo nella
speranza che un giorno tutto possa aver fine.
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Non cammino mai con il mio bambino e viaggiamo in auto separate e anche a piedi cammino a
debita distanza da lui e mi guardo sempre intorno.
- Tornasse indietro, rifarebbe le sue denunce? Che cosa pensa di chi sa e non denuncia?
Se tornassi indietro denuncerei tutto, solo che starei attento a chi denunciare chiedendo
protezione nero su bianco, perché noi testimoni di giustizia siamo come dei limoni che una volta
tolto il succo vengono buttati.
Le mie denunce sono state sempre spontanee e ritenute attendibili, ma la mia difesa e la mia
protezione.. quelle non erano state messe in programma.
- Chi deve combattere mafia e corruzione secondo lei?
La mafia la corruzione devono essere sconfitte da uno Stato forte e lontano dall'essere colluso.
Troppo spesso traditori e collusi infangano le istituzioni, il popolo onesto deve fare la propria
parte. La divulgazione scolastica della legalità, il rispetto delle buone regole, il vivere secondo le
buone maniere e il limitare fenomeni di corruzione sono la base e l'antidoto per un mondo
migliore, ma certo non bastano le parole, bisogna agire e la denuncia resta l'unica arma in nostro
possesso.
Oggi c’è anche una situazione di infiltrazione di personaggi poco limpidi nell'antimafia sociale e
questo è un danno amplificato poiché confonde i ragazzi e le nuove leve.
- Che cosa spera per il suo futuro?
Il mio futuro non è un futuro semplice e programmabile, lo si vive alla giornata. Ma anche io
sogno e sogno una vita lontano dall'Italia, nel nord Europa, lontano. La mia non è una fuga, ma
vorrei vivere ciò che mi resta nella pace e serenità senza sempre vivere nella paura. E abbracciare
liberamente i miei figli.
4.2 Intervista a Gianluca Maria Calì
Gianluca Maria Calì è un imprenditore siciliano titolare di due concessionarie di automobili; una
ha sede a Milano, dove vive, l’altra ad Altavilla Milicia, in provincia di Palermo. Nella notte tra il
3 e il 4 aprile del 2011, dopo aver ricevuto svariate minacce da parte della criminalità organizzata,
70
alcune vetture presenti nel suo salone siciliano vengono bruciate. Da quella data in avanti inizia a
subire una serie di richieste estorsive, che rifiuta e denuncia nel 2013 alle forze dell’ordine. Calì
decide di rivolgersi anche alla cittadinanza affiggendo un manifesto fuori dalla sua
concessionaria, un "Appello per non morire" attraverso il quale chiede di non essere lasciato solo
e di segnalare qualsiasi attività sospetta all’autorità. Con le pressioni della criminalità Calì è
costretto a licenziare alcuni dei suoi dipendenti e a cambiare sede della concessionaria siciliana.
Le indagini cominciate in seguito alle sue denunce portano all'arresto di 21 affiliati al clan di
Bagheria, ma con le denunce iniziano anche i primi episodi di minacce e intimidazioni che
raggiungono Calì e la sua famiglia anche a Milano.
Calì partecipa, inoltre, all'asta per acquistare una villa sequestrata appartenente al padrino di
Bagheria Michelangelo Aiello e al “Papa” di Cosa Nostra, Michele Greco. Dopo aver ricevuto le
visite di sedicenti eredi dei vecchi proprietari che gli intimano di lasciar perdere, Calì si aggiudica
l’immobile. Poco tempo dopo, però, due ispettori della Forestale sequestrano la villa sostenendo,
nel verbale di sequestro, che la casa è in stato grezzo e in corso d'opera, quando in realtà la villa è
presente in quel luogo dal 1965 e Calì si sta limitando a ristrutturarla. L’imprenditore decide
quindi di opporsi e riesce a tornare in possesso dell’abitazione. Dopo pochi giorni la Forestale
sequestra per la seconda volta l'immobile con le medesime motivazioni. Calì denuncia l'accaduto
alle autorità competenti e i due ispettori della Forestale di Bagheria, Luigi Matranga e Giovanni
Coffaro, insieme ad altri loro colleghi, vengono coinvolti in un'inchiesta della Procura di Palermo
con l'accusa di ricatto, minacce ed estorsione. Secondo gli inquirenti, inoltre, alcuni di loro sono a
servizio diretto del clan mafioso di Bagheria. Calì ricorre in Cassazione dopo il secondo
sequestro, ma la richiesta viene respinta.
Il 19 ottobre 2015, a Milano, i figli di Gianluca Calì vengono avvicinati all’uscita dalla scuola da
due uomini su un’auto con i vetri oscurati, che con accento siciliano chiedono alla baby sitter
conferma di chi siano. È il primo episodio che coinvolge in maniera diretta ed esplicita i due
bambini. Calì fa immediatamente denuncia e comunica alla scuola l’accaduto per predisporre
misure di protezione e sicurezza per i figli. Alcuni genitori della scuola, però, impauriti dalla
situazione, scrivono una lettera in cui chiedono apertamente che i due bambini vengano fatti
uscire da un’uscita secondaria e in orario diverso rispetto a tutti gli altri alunni della scuola. Il 13
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gennaio 2016 Calì organizza un incontro con i genitori della scuola per raccontare la sua
testimonianza e cercare di avere la loro solidarietà e collaborazione.
Dalle prime denunce l’imprenditore non ha mai smesso di ricevere minacce da parte della
criminalità organizzata e vive, insieme alla moglie e ai figli, sottoposto a blande misure di
vigilanza. È ufficialmente riconosciuto vittima di mafia (legge n. 44/1999), ma non ne ha ancora
goduto i benefici.
- Come è cambiata la sua vita da quando ha denunciato?
Sono stato investito come un treno il 3/04/2011, data in cui ho subito il primo attentato, che poi
è stato seguito da tante denunce e tante minacce. Da allora la mia vita è stata stravolta in peggio
in tutto e per tutto. Ho fatto solo il mio dovere morale e civile.
- Quali sono gli aspetti più critici della sua vita dopo le denunce e del sistema di
protezione?
È prevista la vigilanza discreta VGR (vigilanza generica radiocontrollata), che vede le forze
dell'ordine un paio di volte al giorno passare da casa e dall'ufficio dove lavoro.
- Come hanno agito le istituzioni riguardo alla sua vicenda? Come giudica il loro lavoro e
la loro presenza?
Alcune hanno fatto e fanno egregiamente il loro lavoro, altre purtroppo sono assenti, altre
ancora invece fanno il gioco della Mafia, non so se per cattiva fede o buona fede, ma di certo la
Mafia di questo è felice.
- Come ha reagito la cittadinanza riguardo alla sua vicenda?
Molti si sono indignati e hanno reagito mostrando solidarietà più o meno concreta, ma molti altri
hanno alimentato e alimentano la grande delegittimazione che quotidianamente sono costretto a
subire, facendo anche qui gioco a favore dei mafiosi.
- Pensa che il sistema di protezione e gli aspetti legati alla vita dopo le denunce abbiano
messo in discussione in qualche modo la sua identità (personale, di cittadino, rispetto
alla sua famiglia, al suo lavoro, etc.)? Se sì, come?
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Ho una vita-non vita che mio malgrado mi vede combattere ogni giorno con il dispendio di ogni
forma di energia sia mia che della mia famiglia.
- È in contatto con altre vittime o testimoni? Sente la loro solidarietà?
Non ho altri contatti ma vorrei sicuramente unirmi a loro, perché sono sicuro che tutti possiamo
fare un buon gioco di squadra.
- Come affronta il pericolo e la paura?
Nel non farmi condizionare in nulla.
- Tornasse indietro, rifarebbe le sue denunce? Che cosa pensa di chi sa e non denuncia?
Rifarei tutto senza dubbio.
Mi spiace che non capiscono che se tutti facessero il proprio dovere quando chiamati a farlo,
avremmo una terra meravigliosa, quella terra famosa al mondo per le Ferrari, per Leonardo Da
Vinci, Michelangelo, Raffaello, Galileo Galilei, per la moda etc. e invece siamo conosciuti per
pizza, mandolino e mafia.
- Chi deve combattere mafia e corruzione secondo lei?
Tutti coloro i quali si trovano quotidianamente a che fare con il malaffare, dobbiamo capire che
tutti dobbiamo fare il nostro.
- Che cosa spera per il suo futuro?
Che storie come la mia possano dimostrare a chi ancora oggi ha l'indecisione se denunciare o
meno che la denuncia è un dovere morale e civile, ma che sarà anche conveniente perché lo Stato
è presente ed efficace. Purtroppo anche se sono stato riconosciuto vittima di mafia, ad oggi non
ho ricevuto i benefici della legge 44/99 e per questo da qui a qualche giorno sarò costretto a
dichiarare fallimento e per questo sarò un Fallito e lo Stato avrà dato una mano ai mafiosi che mi
volevano rovinato.
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4.3 Intervista a Tiberio Bentivoglio
Tiberio Bentivoglio è un imprenditore di Reggio Calabria, proprietario dell’azienda ​Sant’Elia che
opera nel settore degli articoli sanitari. In seguito a numerose intimidazioni e richieste di pizzo ha
deciso di denunciare. Bentivoglio non gode dello ​status di testimone di giustizia, ma di quello di
vittima di mafia normato dalla legge n. 44 del 1999. Ha subito un attentato da parte di alcuni
membri della criminalità organizzata che hanno cercato di ucciderlo a colpi di arma da fuoco. La
sua azienda, inoltre, è stata ed è tutt’ora oggetto di svariati attentati incendiari. È fondatore
dell’associazione ​Reggio Libera Reggio​, che raccoglie un gruppo di imprenditori che combattono il
racket​. In collaborazione con l’associazione ​Libera e con la giornalista Daniela Pellicanò ha
pubblicato il libro libro ​Colpito. La vera storia di Tiberio Bentivoglio​.
- Quali sono gli aspetti più critici della sua vita dopo le denunce?
Certamente il testimone di giustizia conduce una vita d’inferno, basta pensare a quali sacrifici e di
cosa si è dovuto privare, semplicemente per aver fatto il proprio dovere. Basta pensare che io,
come vittima riconosciuta, vivo scortato con due carabinieri a fianco su una macchina blindata;
non ci si abitua mai, la famiglia è quella che soffre di più, moglie e figli. Non essere più libero di
organizzarti al momento, perché devi programmare ogni cosa un giorno prima e addirittura
quando devi uscire fuori regione devi comunicarlo 8 giorni prima, devi dire dove vai, con chi ti
devi incontrare, orari e indirizzi, perché prima che tu arrivi in quel posto devono fare la
cosiddetta bonifica e autorizzare un passaggio di forze dell’ordine. Insomma non è una vita
facile. Ma non ci sono alternative.
- Come affronta il pericolo e la paura?
Quando mi sono opposto alla criminalità, francamente non pensavo al tipo e alla quantità di
punizioni che dovevo ricevere dalla ‘ndrangheta, ma loro lo hanno fatto non solo perché chi si
ribella va castigato, ma anche per comunicare agli altri che non conviene opporsi. La paura? Sì
tanta. Non esistono gli eroi tra di noi. Siamo persone normalissime in carne e ossa, gli eroi
esistono solo nei fumetti e nelle ​telenovelas​. Ti confesso che quando mi hanno sparato, mi son
fatto addosso dalla paura. È normale.
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Ma il problema non è la paura in sé, perché ormai sei convinto che nonostante la paura devi
andare avanti. Io la penso così. È la mia scelta di vita, punto.
Per spiegare questo ai ragazzi racconto sempre questa storiella: facciamo finta che un ragazzo che
era andato a cercare funghi nel bosco assieme al padre, ad un certo punto si smarrisce, perde
l’orientamento. Bene, il ragazzo certamente si mette a urlare a piangere a tremare ad entrare in
panico, può correre a destra o a sinistra, ma il padre non lo trova e la notte sta per arrivare,
continua a gridare più forte a disperarsi, ma non può fare altro, si deve rassegnare e fare passare
la notte nella speranza che all’alba qualcuno lo soccorrerà. Ecco, io mi considero così. Anche la
mia notte deve passare e spero che l’alba arrivi per tutti. Abbiamo urgente bisogno del
cambiamento. Non è possibile più vivere assieme ai mafiosi e ai corrotti.
- Tornasse indietro, rifarebbe le sue denunce? Che cosa pensa di chi sa e non denuncia?
Certo, se tornassi indietro rifarei tutto ciò che ho fatto, anzi con l’esperienza di oggi sarei più
determinato. Chi paga il pizzo (e lo si può fare in svariati modi) compie il gesto peggiore della
propria vita, alimentare le mafie è un reato e a mio parere va punito. Chi si mette a disposizione
dei criminali non può guardare in faccia i propri figli ed io i miei figli li voglio guardare fino alla
fine dei miei giorni.
- Chi deve combattere mafia e corruzione secondo lei?
La mafia e la corruzione la dobbiamo combattere tutti NOI, non è un compito dei soli magistrati
e forze dell’ordine. I mafiosi hanno solo paura di noi quando stiamo vicini e compatti, unire le
forze significa vincere. Basta dire “questo è un fenomeno che non mi tocca”, basta girarsi dalla
parte opposta, basta omertà e silenzio. Se continuiamo a fare questo, diventeremo l’arma più
micidiale delle mafie, perché loro non temono neanche il carcere perché anche da lì comandano
e comandare per loro significa potere.
​-
Che cosa spera per il suo futuro?
Il futuro? Il futuro sarà bellissimo, perché le mafie saranno annientate da voi giovani. Io lo so,
voi siete stanchi di vivere accanto ai corrotti e ai criminali, lo sento, presto vi ribellerete e andrete
a Roma tutti quanti e democraticamente ma incazzati pretenderete uno Stato pulito. Io lo so,
vincerete.
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CONCLUSIONI
La questione dei testimoni di giustizia e il dibattito intorno alla loro gestione sono ancora in
divenire. Le mancanze legislative e di applicazione della norma hanno avuto in questi anni
sensibili conseguenze sulle vite di queste persone e si sente per questo sempre di più la necessità
di riconsegnare a questi cittadini, che per spirito civico e di verità si sono trovati in serio pericolo
di vita, i diritti che spettano loro e un sistema di gestione della loro tutela in grado di garantirli.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che esiste la necessità di risolvere anche un problema di
eredità, soprattutto umana, di un passato segnato dall’equivoco originario, rappresentato da una
serie di casi ormai chiusi e di individui fuoriusciti dal programma, ma che ancora scontano le
carenze del sistema.
La popolazione protetta è, inoltre, estremamente differenziata per situazione economica e
familiare, per il tipo di rapporti intrattenuti con la criminalità prima della denuncia, per le
motivazioni che hanno portato alla testimonianza, per le condizioni di vita di partenza. Si rende
per questo imprescindibile uno studio attento dei singoli casi e un approccio alla loro protezione
che tenga conto delle differenti esigenze. In un’ottica generale, però, varie criticità ricorrono nelle
diverse storie di testimonianza, in particolare quelle che riguardano le limitazioni subite
nell’esercizio della propria identità e della propria cittadinanza.
Approfondirne le sfumature potrebbe contribuire a tracciare un profilo di ciò che è e dovrebbe
essere il testimone di giustizia, in una “normalizzazione” e in un riconoscimento completo
dell’atto di denuncia, in modo che essa possa esprimere a pieno quel valore, anche sociale, che il
gesto porta con sé. In questo modo si renderebbe più semplice creare un sistema di
“accompagnamento” e di costruzione collettiva della testimonianza nelle sue varie fasi, in modo
che non diventi più un atto di coraggio e di sfida a un sistema, ma l’azione normale di ogni
cittadino responsabile. Inoltre, come per il ​whistleblower​, un contesto culturale e sociale dove l’atto
di “non farsi i fatti propri” fosse visto come contributo essenziale alla crescita e al buon
andamento della comunità renderebbe più facile riconsegnare i denuncianti alla propria normalità
di cittadini e di uomini.
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gennaio 2006. Relatore: Giuseppe Lumia.
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fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare il 19 febbraio 2008. Relatrice:
Angela Napoli.
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ottobre 2014. Relatore: Davide Mattiello.
78
Tesi di laurea:
LUCIANI Edoardo, ​Il sistema di protezione dei "pentiti". Evoluzione storica e aspetti critici della normativa​,
Tesi di laurea, Università di Pisa, Facoltà di Giurisprudenza, Corso di laurea in
Giurisprudenza, Anno Accademico 2013/2014.
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Sito ufficiale di Ignazio Cutrò: ​www.ignaziocutro.com
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i​nchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/05/06/news/le_vite_devastate_dei_testim
oni_di_giustizia-136070070/?ref=HREC1-5
Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie​. Osservatorio testimoni di giustizia del
coordinamento di La Spezia:
www.liberalaspezia.it/index.php/osservatorio/testimoni-di-giustizia
Blog ​Amici di Pino Masciari​: ​www.pinomasciar​i.it
Radio Radicale - Audio integrale dell’incontro “La Carta dei diritti e dei doveri per la protezione a
favore dei testimoni e collaboratori di giustizia. Dalla presentazione del Rapporto del
Gruppo di lavoro alle proposte di riforma del sistema”, Accademia dei Lincei, Roma, 28
ottobre 2015:
www.radioradicale.it/scheda/457057/la-carta-dei-diritti-e-dei-doveri-per-la-protezione-a-fav
ore-dei-testimoni-e
79
Associazione ​Rita Atria​: ​www.ritaatria.i​t
Blog ​Spazio etico​ di Massimo Di Rienzo: ​spazioetico.com
Blog ​di ​Una casa della memoria per le vittime della ​mafia​:
www.vittimemafia.it/index.php?option=com_content&id=936%3Ai-testimoni-di-giustizia-s
toria-di-chi-ha-testimoniato-contro-le-mafie&limitstart=36
Sito di Giorgio Fraschini, collaboratore di ​Transparency International Italia: ​www.whistleblowing.it
Fonti video:
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Testimoni di giustizia​, puntata di​ PresaDiretta​, 20/01/2014, Rai3.
Terra di nessuno​, puntata de ​I dieci comandamenti​, 30/10/2015, Rai3.
The armored life (La storia di Pino Masciari)​, documentario di Massimo Sciacca, 2012.
Interviste e racconti dei testimoni:
Piera Aiello
AIELLO Piera e LUCENTINI Umberto, ​Maledetta mafia. Io, donna, testimone di giustizia con
Paolo Borsellino​, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2012.
Intervista a ​Cristina Parodi Live​ del 10 novembre 2012, La7,
www.youtube.com/watch?v=ztKACtt8Qak
Testimonianza al Campo estivo di Libera a Castelvetrano del 21 giugno 2013,
www.youtube.com/watch?v=eeuP6RjYnQw
Salvatore Barbagallo
Intervista a ​PresaDiretta​ del 20 gennaio 2014, Rai3,
www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2
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Intervista a ​I dieci comandamenti​ del 30 ottobre 2015, Rai3,
www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-3f06dfad-6155-4a39-b6e3-d
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Intervento al convegno ​Noi contro le mafie. Terza festa della legalità promossa dalla Provincia di
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Rossella Castiglione
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Intervista a testimone di giustizia Gennaro Ciliberto​, servizio di ​Lidia Mancini ​del 6 settembre
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Gennaro Ciliberto, testimone di Giustizia, sempre in fuga​, servizio di Antonio Ciano​ del 24
novembre 2013, www.youtube.com/watch?v=zHfLhisZHQY
Luigi Coppola
DE CHIARA Paolo, ​Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie​, Giulio
Perrone Editore, Roma, 2014.
Intervista a ​Radio IES Overture​ del 29 febbraio 2012,
www.youtube.com/watch?v=5nYP9B7YrEU
Intervista a Fanpage.it del 3 settembre 2014,
www.youtube.com/watch?v=TkSTjC7wWso
Ignazio Cutrò
CALASANZIO BORSELLINO Benny, ​Abbiamo vinto noi. La vera storia di Ignazio Cutrò
l’imprenditore che ha detto no alla mafia​, Melampo Editore, Milano, 2014.
Sito personale, ​www.ignaziocutro.it
Pietro Di Costa
Intervista a ​PresaDiretta​ del ​20 gennaio 2014, Rai3,
www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2
e0b870878b4.html
Servizio ​Tgr Calabria​ del 6 febbraio 2012, ​www.youtube.com/watch?v=haLZqmKe32c
Servizio del fattoquotidiano.it del 1 dicembre 2013,
www.youtube.com/watch?v=62nHEsjfw3g
82
Intervista a ​Radio IES Overture​, del 7 marzo 2012,
www.youtube.com/watch?v=ykLqkyB7vF0
Francesco Di Palo
Incontro organizzato dall’​Italia dei Valori​ e dal ​Cantiere dei Valori​ a Monopoli il 6 settembre
2012, www.youtube.com/watch?v=K24jUkHu95k
Gianfranco Franciosi
FRANCIOSI Gianfranco con RUFFO Federico,​ Gli orologi del diavolo. Infiltrato tra i narcos,
tradito dallo Stato​, Rizzoli, Milano, 2015.
Intervista a ​PresaDiretta​ del ​20 gennaio 2014, Rai3,
www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2
e0b870878b4.html
Valeria Grasso
Intervista a ​Servizio pubblico​ del 15 marzo 2012,
www.serviziopubblico.it/tutte_le_puntate/2012/03/15/news/la_verita.html
Intervista a ​Bel tempo si spera​ del 26 febbraio 2015, tv2000,
www.youtube.com/watch?v=4npz7orOn5I
Luigi Leonardi
Intervento al Convegno dell’Associazione ​Caponnetto​ del 17 dicembre 2015,
www.youtube.com/watch?v=3UFkKw7xr6w
Intervista a ​Radio Siani​ del 12 febbraio 2016,
www.youtube.com/watch?v=pSlK69LOHSc
Incontro ​Testimone di vita​, Associazione ​Dema​, del 17 aprile 2016,
www.youtube.com/watch?v=mFWrQ9YiWdE
83
Servizio de ​Le Iene​ del 2 febbraio 2016, Italia 1,
www.iene.mediaset.it/puntate/2016/02/02/pecoraro-stritolato-dalla-camorra-abban
donato-dallo-stato_9917.shtml
Innocenzo Lo Sicco
Inchiesta sui testimoni di giustizia​, Repubblica.it del 6 maggio 2016,
inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/05/06/news/le_vite_devastate_de
i_testimoni_di_giustizia-136070070/?ref=HREC1-5
Cosimo Maggiore
DE CHIARA Paolo, ​Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie​, Giulio
Perrone Editore, Roma, 2014.
Intervista a ​h24notizie​ del 15 marzo 2015,
www.h24notizie.com/video/cosimo-maggiore-testimone-di-giustizia-dimenticato/
Rocco Mangiardi
DE CHIARA Paolo, ​Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie​, Giulio
Perrone Editore, Roma, 2014.
Intervento al ​Lamezia TRAME Festival​ del 29 giugno 2011,
www.youtube.com/watch?v=5OoZWAZg2-w
Intervista a ​Wrong​ del 18 marzo 2012, www.youtube.com/watch?v=Dow7G1adYkQ
Giuseppe Masciari
MASCIARI Pino e MASCIARI ​Marisa, Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la
'ndrangheta​, Add Editore,Torino, 2010.
Pino Masciari. Storia di un imprenditore calabrese​, documentario di Alessandro Marinelli, 2014.
The armored life (La storia di Pino Masciari)​, documentario di Massimo Sciacca, 2012.
Blog ​Amici di Pino Masciari​, ​www.pinomasciar​i.it
84
Intervista a ​PresaDiretta​ del ​20 gennaio 2014, Rai3,
www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2
e0b870878b4.html
Pietro Ivano Nava
Intervista a ​Repubblica​ del 4 agosto 1992,
ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/04/08/cosi-paga-chi-aiut
a-lo-stato.html
Mario Nero
FERRARESI Gabriele e NERO Mario, ​Il testimone​, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2007.
Luigi Orsino
Inchiesta sui testimoni di giustizia​, Repubblica.it, 6 maggio 2016,
inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/05/06/news/le_vite_devastate_de
i_testimoni_di_giustizia-136070070/?ref=HREC1-5
Francesco Paolo
Intervista a restoalsud.it del 13 novembre 2015,
www.restoalsud.it/2015/11/ho-denunciato-il-clan-e-ora-sono-costretto-a-combatter
e-anche-contro-lo-stato/
Carmelina Prisco
DE CHIARA Paolo, ​Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie​, Giulio
Perrone Editore, Roma, 2014.
Intervista a ​PresaDiret​ta​ del ​20 gennaio 2014, Rai3,
www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2
e0b870878b4.html
Inchiesta sui testimoni di giustizia​, Repubblica.it, 6 maggio 2016,
inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/05/06/news/le_vite_devastate_de
i_testimoni_di_giustizia-136070070/?ref=HREC1-5
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Maria Mirella Rimedio
Intervista a primocanale.it del 28 ottobre 2015,
www.primocanale.it/video/mirella-testimone-di-giustizia-ho-fatto-arrestare-200-mafi
osi-e-oggi-mi-sento-abbandonata-dalle-istituzioni--76132.html
Nello Ruello
Intervista a ​PresaDiretta​ del ​20 gennaio 2014, Rai3,
www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8162a766-648d-4b83-baca-2
e0b870878b4.html
Servizio di ​ST Television​ del 9 aprile 2014, www.youtube.com/watch?v=2ciYYQqnzsk
Gaetano Saffioti
Incontro con i giovani dell'associazione ​Santuario Madonna​ di Briano e del comitato ​Don
Peppino Diana​ del 18 marzo 2011, www.youtube.com/watch?v=OcsctuwQr2A.
Maria Stefanelli
STEFANELLI Maria, ​Loro mi cercano ancora​, Mondadori, Milano, 2014.
Intervista a ilfattoquotidiano.it del 2 luglio 2013,
www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/02/scarcerato-boss-ndrangheta-testimone-giustizi
a-terrorizzata/642254/
Ulisse
AA.VV, ​La giusta parte. Testimoni e storie dell’antimafia​, Caracò, Napoli- Bologna, 2011.
ORSATTI Pietro, ​Nome in codice Ulisse. Testimone di giustizia​, 1 luglio 2008,
https://orsattipietro.wordpress.com/2008/07/01/nome-in-codice-ulisse-2/
Benedetto Zoccola
Intervista a ​Campania Notizie​ del 2 febbraio 2015,
www.youtube.com/watch?v=5aq7qi4uyMo
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Intervista a corriere.it del 4 febbraio 2015,
video.corriere.it/caserta-benedetto-zoccola-ha-fatto-arrestare-suoi-estorsori-ora-miavita-non-sara-piu-stessa/b0913bb2-ac3d-11e4-88df-4d6b5785fffa
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