L`ABBORDAGGIO AL «PONANT

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L`ABBORDAGGIO AL «PONANT
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L’ABBORDAGGIO AL  PONANT 
La rivincita del corsaro Jean Bart
Venerdì 4 aprile 2008, la prua bianca del Ponant fende le
acque dell’oceano Indiano, non c’è vento, il monsone ha
smesso di soffiare, si naviga a motore, 12-14 nodi di media.
L’equipaggio è al lavoro: anche se non ci sono passeggeri il
gioiello va tenuto lucido, a specchio. Il veliero francese, 850
tonnellate di stazza, è lungo 88 metri con un ponte infinito
di teak, un deck solarium da 400 metri quadrati, due ristoranti con terrace lounge. Per esaudire i desideri della sua sofisticata clientela la Compagnie des Iles du Ponant, che fa parte del gruppo cma-cgm, tra i primi al mondo per le crociere,
non ha badato a spese.
Patrick Marchesseau è il giovane comandante, divisa di
cotone bianca, fisico prestante, capelli corti e neri, naso volitivo; sono le 12.00 e lui è a tavola, in alto sul sun deck è allestito un barbecue, di contorno ci sono patate.
Il primo ufficiale lo chiama in plancia, un bersaglio sul
radar segnala un’imbarcazione, è ferma 8 miglia più avanti.
Il comandante prende il binocolo, traguarda l’orizzonte, gli
sembra un peschereccio, un dhow1 di una quarantina di metri dipinto di bianco, come ne hanno incontrati altri, modifica la prua di qualche grado. 12.30, la carne è fredda, immangiabile, Marchesseau ordina un caffè, lo porta alle labbra
quando si accorge che a poppa a tutta velocità, forse a 30-40
miglia, si avvicinano due scafi: puntano il Ponant.
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« Merd! Ils arrivent! »2 riesce appena a dire che quelli sono
già sottobordo. La voce amplificata dal microfono raggiunge
l’equipaggio: ventuno francesi, tra cui sei donne, sei marinai
filippini, un camerunense e un ucraino. Ordini secchi, concisi: « Rassemblement immédiat... » Le donne devono nascondersi sotto coperta e gli uomini prepararsi a respingere l’abbordaggio con il getto d’acqua delle manichette antincendio.
Ma nelle pompe c’è poca pressione, i marinai le aspettano a
poppa, mentre le due barche corsare si sono piazzate a tribordo. Otto uomini armati, dei quali uno brandeggia un
bazooka, intimano di fermarsi, eccoli, sono i jinn, i banditi
del mare3. E sono qui.
« Barre toute à gauche! Barre toute à droite! » Marchesseau
dà una rapida accostata a sinistra, poi a dritta, ma in meno
di cinque minuti gli assalitori con speciali scale fornite di
uncini salgono a bordo. Corrono verso il ponte, gridano. Il
comandante chiama via radio l’alindien, il quartier generale delle forze francesi dell’oceano Indiano: « Ici le commandant du Ponant. Nous sommes attaqués par des pirates! Voici
ma position: latitude 13°20 ʹ Nord, longitude 50°23 ʹ Est. Je ne
peux pas parler plus longtemps ». Non c’è risposta. Una forte
detonazione, i pirati hanno forzato la porta centrale che unisce il sun deck alla plancia. Irrompono nella timoneria. Non
c’è più niente da fare, Marchesseau alza le mani, si arrende.
Sono le 13.15.
I pirati radunano l’equipaggio sul ponte, sequestrano i telefonini e le radio vhf, tutte le comunicazioni con l’esterno
sono interrotte. Il loro capo si chiama Ahmed, ha una trentina d’anni e un kalashnikov a tracolla, parla un inglese stentato, biascica qualche parola di francese, ma ciò che vuole è
chiaro: « Argent, capitaine, argent... » Marchesseau pensa di
cavarsela a buon mercato, porta il pirata nel duty free di bordo e apre la cassa, dove ci sono alcune centinaia di euro. Gli
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consegna il denaro. Lo sguardo di Ahmed è sprezzante, brusco, poi si illumina, in vetrina vede un giubbotto, « voglio
quello » dice, come se dovesse chiedere il permesso. La giacca
a vento è gialla e blu con un vistoso logo del Ponant. Il pirata getta la sua, la indossa felice come un bambino, risale sul
ponte e si pavoneggia di fronte ai suoi uomini che hanno le
guance gonfie di khat, una droga locale che fa passare il sonno e la fame. I jinn la masticano e la sputano, sono eccitati,
strisciano e pestano i piedi per terra, gli occhi strabuzzati
guardano intorno stupefatti come fossero saliti in cima a un
Everest d’oro: quante capre, quante mogli e quante armi si
potranno comprare con il riscatto?
Il mayday è stato raccolto dalla corvetta Commandant
Bouan. Questa raggiunge a tutta forza il Ponant, che ora ha
invertito la rotta e procede a sud; la nave militare lo segue a
un paio di miglia, non si avvicina, né interviene, si teme per
la vita dell’equipaggio.
È lo stesso primo ministro francese a dare la notizia del
sequestro dalla sala stampa di Bruxelles. François Fillon in
doppiopetto grigio riferisce composto a una sala gremita di
giornalisti: « Le informazioni di cui sono in possesso arrivano
di minuto in minuto, l’attacco è avvenuto mentre ero in viaggio per arrivare qui a Bruxelles, [...] ho dato ordine che sia
attuato immediatamente il piano antipirateria, i ministeri
degli Esteri e della Difesa sono al lavoro per ottenere il rilascio degli ostaggi, spero nelle prossime ore ». Ma Fillon sa
bene che la partita sarà difficile, non è la prima volta che viene colpito il naviglio francese. Le trattative possono durare
mesi. E appena il Ponant varcherà le 12 miglia delle acque
territoriali somale le navi da guerra non potranno più seguirlo secondo le regole del diritto internazionale del mare.
I pirati dirigono subito verso la costa orientale del Puntland, 800 chilometri di spiaggia deserta, una terra di nessu-
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no che va da Capo Hafun, la punta orientale del Corno
d’Africa, sino a Garacad. Sulla nave da crociera sono saliti
altri venti pirati, assieme ad armi e a decine di sacchi di viveri; per assicurare carne fresca ai carcerieri sono stati imbarcati anche due montoni vivi che trasformano l’immacolato
solarium in una stalla. I jinn non accettano il raffinato cibo
del cuoco di bordo, non si fidano dei francesi, ma razziano
tutto ciò che gli capita a tiro, computer portatili e iPod, persino i libri della biblioteca di bordo, scegliendo quelli con le
copertine più vistose. Quando non fanno i turni di guardia
alcuni, spaparanzati sui divani bianchi del salone centrale,
passano il tempo a guardare dvd di film d’azione, molto richiesti sono quelli di Sean Connery, ma il più gettonato è
Harrison Ford con l’intramontabile saga di Indiana Jones.
Durante la notte, in barba ai dettami di Maometto, i bar di
bordo e i frigobar delle cabine sono presi d’assalto, le tasche
dei pirati tintinnano di piccole bottiglie di liquore. Non è il
loro primo abbordaggio, sanno che qui vivono in una specie
di Mecca, di solito i sequestri sui mercantili sono un inferno,
mancano il cibo e l’acqua: su un peschereccio di Taiwan,
ostaggio per otto mesi, i marittimi furono lasciati senza frutta e verdura e, come sui velieri nelle esplorazioni del sedicesimo secolo, si presero lo scorbuto!
Ahmed sta attaccato a Marchesseau, non lo lascia un attimo, controlla la rotta con il suo gps portatile e parla in continuazione con il satellitare con i capi a terra che devono
fornire il supporto logistico all’operazione: il comandante
francese deve negoziare con lui ogni minimo movimento
dell’equipaggio. Quella che ha preso il Ponant non è una
combriccola di avventurieri, ma un’organizzazione militare e
gerarchica con regole precise, e chi sbaglia paga in dollari: se
ci si presenta in ritardo a un turno di guardia si pagano 100
dollari, 500 se lo si fa senza ragionevole motivo e 1000 se ci
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si allontana durante il turno. 1500 dollari sono dovuti da chi
va in permesso senza autorizzazione, e a 2000 ammonta la
multa se si fa del male agli ostaggi, non per ragioni umanitarie, ma perché i rapiti, i bianchi ricchi del decadente Occidente, sono moneta sonante, mucche da mungere in ogni
modo. Ahmed è costretto a intervenire, uno dei suoi ha messo una tassa di 500 dollari per usare la toilette... « È solo uno
scherzo », si schernisce di fronte al capitano infuriato.
Le pressioni internazionali per il rilascio del veliero sono
più insistenti del solito. Le autorità della regione autonoma
del Puntland nelle cui acque incrocia il Ponant sono in fermento, all’inizio piangono le solite lacrime di coccodrillo, il
ministro dell’Informazione Bile Mahmoud Qabowsade riferisce alle agenzie che non ha alcuna notizia dei pirati, né richieste di riscatto. Il Puntland si dichiara impotente, sostenendo che « il territorio dei pirati è inaccessibile ». Passano
due giorni, e la tensione sale. Uno degli armatori della cmacgm è un caro amico di Nicolas Sarkozy, che dirige personalmente le operazioni nel Corno d’Africa. Il presidente
francese non è nuovo a queste imprese, ha iniziato la sua
ascesa politica per aver gestito nel 1993 la crisi dei bambini
tenuti in ostaggio nella scuola di Neuilly.
La partita si gioca anche con il presidente del Puntland: lo
scaltro generale Ade Muse Boqor si dice infuriato, rammaricato per il sequestro del Ponant, poi da abile giocatore di
poker rilancia, chiede altri aiuti alla comunità internazionale
per rafforzare il suo esercito, combattere i pirati. E li otterrà.
Il 7 aprile la nave da crociera è ormeggiata davanti a Garacad, e sale a bordo un negoziatore. Jamah ha pantaloni in
nylon antracite e una camicia lisa, sostiene di essere un avvocato. « In un Paese senza legge non sarà facile trovare clienti », sibila Marchesseau.
Jamah parla un inglese medio, ma si fa comprendere. Il
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negoziato si svolge intorno a un tavolo del Karuchera, il ristorante di bordo, e l’atmosfera è elegante, tra moquette e
tovaglie di lino, modelli di navi e antichità marittime nelle
vetrine, bussole, scintillanti sestanti d’ottone. I pirati sono
quasi intimiditi, poi lanciano l’ennesima sfida, alcuni vogliono cinque milioni di dollari, altri si « accontentano » di tre, la
cifra è messa ai voti per alzata di mano. La richiesta finale è
di 3 milioni di dollari da pagare in contanti a bordo del Ponant. Inizia il ballo delle trattative con la compagnia cmacgm. Ma le comunicazioni sono monitorate anche dal Commandant Bouan che incrocia poco distante. In segreto, Marchesseau riesce a mettersi in contatto con la nave militare,
riferisce i movimenti dei pirati, parla in codice: « porque e
pic », indicherà che uno di loro si è allontanato, « barracuda »,
che tutti lasciano per qualche motivo la nave.
Durante la prima notte di trattative i jinn del Ponant vengono attaccati da una banda rivale (secondo fonti somale
sarebbero le milizie del Puntland): due di loro rimangono
sul terreno. Le famiglie riceveranno 15.000 dollari di risarcimento, tanto vale l’assicurazione sulla vita secondo le leggi
della nuova Tortuga. Ma la tensione aumenta. Il veliero deve
spostarsi, bisogna chiudere la partita. Si trova l’accordo per
due milioni e 150.000 dollari, ma in Francia la notizia dei
negoziati non deve trapelare, Fillon dichiara ufficialmente
che il suo Paese non si farà ricattare.
Le navi francesi braccano il Ponant da vicino, il governo
di Parigi prepara la controffensiva, fa convergere nella zona
ben cinque unità navali dotate di elicotteri, un aereo della
pattuglia marittima Atlantico 2, mentre da Gibuti sono
pronti a partire una cinquantina di « berretti verdi », i commandos marine, e una decina di teste di cuoio del Groupe
d’Intervention de la Gendarmerie Nationale (gign).
In un singolare gioco del destino una delle navi militari
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francesi, quella che consegnerà il riscatto ai jinn, è la Jean
Bart. Porta il nome del più famoso corsaro di Dunkerque,
come amava dire Colbert « le plus grand capitaine qui ait jamais été sur mer », che per le centinaia di prede consegnate a
Luigi XIV ricevette dalle sue mani una catena d’oro con il
giglio di Francia e un titolo nobiliare. Tutte le grandi potenze marittime europee, soprattutto Inghilterra e Olanda, hanno costruito le loro fortune sulla guerra da corsa, ma nel
ventunesimo secolo la sorte si è rovesciata.4 Con una complessa operazione, i somali riescono a ottenere il riscatto.
Dopo una settimana dall’abbordaggio, il 12 aprile, l’ultimo
ad abbandonare il Ponant, dopo essersi offerto come garanzia per liberare il resto dell’equipaggio, è Patrick Marchesseau: è un buon comandante, si è fatto onore, la sua avventura finisce con un tuffo liberatore nelle calde acque
dell’oceano. Non va così per i pirati. Jean Bart non molla la
presa, i militari hanno seguito i jinn con il satellite, li intercettano nei pressi di Garacad con quattro elicotteri. Il commando somalo di quattordici uomini sbarca dai motoscafi e
sale su tre camion armati di mitragliere, fugge sotto una
pioggia di fuoco. Il generale Jean-Louis Georgelin, capo di
Stato maggiore delle Forze armate francesi, nega che gli elicotteri abbiano sparato direttamente sui pirati, ammette solo
colpi intimidatori, ma fonti somale parlano di una vera e
propria battaglia nella quale i francesi avrebbero usato razzi,
uccidendo cinque persone. Sei pirati vengono arrestati, portati a bordo di una nave militare ed estradati in Francia.
Alla vigilia dell’arresto sul blog di Al Jazeera, il più grande
network del Medio Oriente, qualcuno dalla Somalia avverte:
« ... provate a venire ancora in acque somale, e quella sarà la
volta buona che affonderemo i vostri yacht e le navi militari.
Non abbiamo paura della Francia e del suo presidente idiota, voi non sapete con chi avete a che fare. Vi diamo un
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mese per rilasciare i cittadini somali che avete illegalmente
portato via dalla loro terra ». Sarà uno dei jinn?
Non resta che andare a verificare in Somalia, ma per preparare il viaggio e avere un feedback aggiornato bisogna prima fare tappa a Londra all’International Maritime Bureau
nella sede centrale dei « cacciatori di pirati. »
Il capitano Mukundan Pottengal
Wapping Street, due rampe di scale e vedo il Tamigi, eppure
mi sembra il mare. Un rimorchiatore porta al traino una
chiatta rossa e blu, ma è l’unica macchia di colore nel grigio
panorama londinese. La sede centrale dell’imb si affaccia sul
fiume. Nei riflessi della vetrata esterna si intravede l’ufficio,
un grande open space, trasparente, come l’istituzione che vi
ha sede e i suoi puntuali report sulla pirateria, che segnano la
rotta di questa indagine.5
Nella sala d’aspetto, vicino ai divani scuri, una vetrina
mostra merci varie, sigarette di contrabbando, medicine e
latte in polvere contraffatti, false cinte di Pierre Cardin cucite in Vietnam, perché il Bureau non si occupa solo di pirateria, ma in genere di tutte le frodi e i crimini marittimi.
Ben presto Karen O’Neill, la segretaria del direttore
dell’imb, mi accompagna nella sua stanza. L’ufficio è sobrio,
asettico, ordinato, mobili di legno chiaro e un pc acceso, la
severa lady, a metà tra una guardia del corpo e un angelo
custode, mi scruta, prende tempo, riordina una pila di biglietti da visita chiusi in apposite scatolette, sull’etichetta
una data e una località: Monrovia-12 settembre, Chittagong-24 settembre, Lagos-27 settembre, Santos... « Sempre
in viaggio il capitano, difficile che dorma due notti nello
stesso letto », poi Karen sospira come a dire « se non ci fossi
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qui io... » Gli occhi le si illuminano, Mukundan Pottengal è
appena entrato.
Il cervello del Bureau, al secolo capitan Muku, è di origini
indiane, mi accoglie con il consueto sorriso solare, severi occhiali di osso marcano un viso rotondo, bonario, pacato, che
potrebbe appartenere a un qualunque agente di borsa della
City, ma lo sguardo no, ti cattura e non ti molla più, come si
addice a un cacciatore di pirati.
Determinazione e concretezza gli hanno fatto scalare tutti
i gradini dell’imb nel quale lavora dal 1981 e, dopo una breve parentesi di navigazione in India dove è diventato capitano, la lotta ai moderni bucanieri è la sua vita. Ha affidato
gran parte delle funzioni operative del Bureau al Piracy Reporting Centre di Kuala Lumpur, in Malaysia, per dedicarsi
interamente alle strategie antipirateria e alla prevenzione.
Così, appena i pirati infestano una nuova zona di mare, capitan Muku vi si reca, studia le mosse di un nemico che già
conosce sin nelle viscere, analizza le ragioni del fenomeno, le
armi e le modalità di abbordaggio avvalendosi – anche se
non lo dice – di vari servizi di intelligence. E così prepara le
azioni di contrasto, sa cosa fare, che si tratti di semplici criminali o potenti mafie internazionali, fornisce consulenza
alle istituzioni, aiuta a mettere in sicurezza i porti, promuove
convegni, solleva il problema se viene sottovalutato o messo
a tacere ad arte negli « stati canaglia » quando vi sono responsabilità o, peggio, complicità.
Pottengal spiega: « La forza di questa istituzione è l’indipendenza. L’imb viene finanziato da privati, perché non vogliamo subire pressioni, né avere vincoli burocratici dei governi. I pirati moderni sono veloci, noi dobbiamo tenere il
passo, anticipare le mosse. Siamo scomodi, hanno provato a
farci chiudere più volte, ma non ci sono riusciti... siamo
inattaccabili perché trasparenti, l’arma più potente è l’infor-
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mazione e con quella combattiamo i pirati. Sappiamo chi
sono e dove si trovano e diffondiamo le notizie, le mandiamo alle Marine e ai comandanti della flotta mercantile perché siano consapevoli del pericolo, possano cambiare rotta
per tempo o quando arrivano nei porti scelgano le banchine
più sicure indicate dalle nostre mappe. Chiunque può scaricarle da Internet, così come i report. E quando un Paese non
interviene contro i pirati, sollecitiamo le istituzioni, promuoviamo interpellanze parlamentari, e se non c’è ascolto
facciamo pressioni sulla stampa... »
Il lavoro è immane, ma il capitano non è solo. Il suo ufficio guarda l’open space, una quarantina di funzionari antipirateria è piegata sui computer, il silenzio è irreale, rotto solo
dal sibilo di stampanti e fax. Le indagini sono complesse, è
lo stesso mondo armatoriale a trovare ogni escamotage legale
per non assoggettarsi alle regole, essendo fluido come l’elemento nel quale naviga. Molte società per evitare le pesanti
responsabilità derivanti dai trasporti pericolosi sono strutturate come scatole cinesi, holding nelle quali ogni nave rappresenta una compagnia, una single ship company, e gli intrecci sono spesso inestricabili. Ciò che potrebbe apparire un
rompicapo nel campo marittimo è prassi; uno degli esperti
ha fatto un esempio: « Mettiamo che un mercantile costruito
in Giappone, registrato a Panamá, appartenente a una società registrata a Malta (ma controllata da un cittadino italiano), gestito da una compagnia di navigazione con sede a Cipro, noleggiato da una società francese, comandato da un
norvegese, che trasporta un carico di greggio di proprietà di
una multinazionale venga attaccato mentre si trova in transito nelle acque territoriali indonesiane, inseguito e infine
bloccato nelle acque territoriali filippine ».6 Perché in questo
caso la Marina filippina dovrebbe darsi la pena di catturare il
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cargo panamense? Chi deve intervenire o avrebbe la giurisdizione per farlo se i pirati fuggono in acque internazionali?
Nelle emergenze uno dei grattacapi dell’imb è proprio sollecitare l’intervento delle varie autorità degli Stati costieri o
delle Marine: muovere uomini e mezzi è costoso e lo sforzo
deve essere giustificato da un interesse nazionale. Oppure bisogna chiedere l’aiuto alla flotta di chi, magari per altre attività operative, si trova in loco, come è accaduto durante
l’emergenza del Ponant in Somalia con la Task Force 150 già
operativa nel Golfo di Aden per « Enduring Freedom », missione contro il terrorismo.
Le regole internazionali sono idonee per assicurare un
contrasto efficace? Pottengal scuote la testa. « Non sempre.
La Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare prevede la possibilità di un intervento solo in alto mare, cioè nelle
zone non soggette alla sovranità degli Stati, ma oggi gli attacchi si concentrano specialmente nelle acque territoriali,
come in Somalia. Lì ci sono volute specifiche risoluzioni del
Consiglio di Sicurezza dell’onu per consentire alle Marine
di operare in acque somale, anche se il contrasto da solo non
basta e nulla si potrà risolvere senza l’avvio di un processo di
pacificazione del Paese. Siamo preoccupati – il capitano preme veloce i tasti del suo computer, forse la banca dati antipirateria più aggiornata al mondo –, dall’inizio del 2008 l’escalation di abbordaggi è impressionante... nel solo mese di
febbraio ci sono stati nove attacchi, a partire dal rimorchiatore Svitzer Korsakov sequestrato con a bordo sette persone
tra cui il capitano inglese e un ingegnere irlandese. L’incubo
è finito solo il 18 febbraio quando il ministro della Pesca del
Puntland, Ahmed Said Aw-Nur, ha consegnato ai jinn
700.000 dollari. Pensi che nei primi sei mesi del 2008 i proventi della pirateria sono stati di dodici milioni di dollari e
già 160 membri di equipaggio sono stati rapiti! »
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La situazione nel Corno d’Africa diventa insostenibile nel
corso del 2008, tanto che viene classificato « zona di guerra »
come l’Iraq, e i costi assicurativi per un passaggio a Aden si
decuplicano: da una media di 900 dollari a 9000 dollari al
giorno. Molte petroliere preferiscono allungare la rotta e circumnavigare l’Africa come prima dell’apertura del Canale di
Suez, oppure affidarsi a società private che garantiscano la
sicurezza. Le più quotate sono società inglesi, che si avvalgono di ex agenti dei servizi (molto esperti sono quelli israeliani del Mossad), oppure ex militari o mercenari. Molte agenzie di security già operano sulle navi da crociera, ma il business diventa enorme, anche perché alcuni gruppi assicurativi
prevedono sconti sulle polizze per le navi sotto scorta. Il rischio è degenerare in una specie di Far West, anche se alcune
società assicurano la difesa delle navi senza armi con ingegnose strategie: ungere o elettrificare i passamano, mettere
filo spinato attorno alla parte più bassa del ponte o installare
manichette ad alta pressione nelle zone più vulnerabili
dell’imbarcazione. Nei « manuali antiabbordaggio » vengono
spiegate le principali manovre dissuasive: ha fatto scuola
quella di un rimorchiatore inglese che è riuscito a confondere gli aggressori con un avvitamento ad alta velocità proprio
nel momento dell’attacco.
Anche Pottengal non condivide l’uso delle armi. « Molte
bandiere non ne consentono la detenzione a bordo, i mercantili cambierebbero natura con il rischio di incidenti e
conseguenze pericolose. Nelle zone calde è efficace la creazione di convogli scortati da unità della Marina militare. Poi
c’è la prevenzione, la polizia dei mari. In Somalia, sarebbe
utile fermare le navi sospette prima che entrino in azione.
Ma non è semplice, le esigenze di sicurezza si scontrano con
la conclamata libertà dei mari e di navigazione. Una nave
militare non ha problemi nel fermare e controllare un mer-
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cantile nazionale, ma tutto diviene più complesso nel caso
abbia la bandiera di un altro Stato. E gran parte del naviglio
mondiale batte bandiere ombra! »
Il capitano tocca un nervo scoperto. In base al numero
delle navi registrate, la più grande potenza marittima mondiale sarebbe Panamá, seguita dalla Liberia, ma in buona posizione ci sono anche paradisi caraibici come le Bahamas o
Saint Vincent e Grenadine, oppure la Bolivia, che non ha
neppure lo sbocco al mare. Lo stratagemma delle bandiere di
comodo fu inventato dagli Stati Uniti durante il secondo
conflitto mondiale, quando fecero battere alle proprie navi
la bandiera di Panamá per poter rifornire, mantenendo la
neutralità, l’Inghilterra già in guerra.
Per primi gli armatori americani compresero che la strategia consente di sfuggire alle rigide norme nazionali e iscrissero le navi nei registri di Paesi compiacenti assoggettandosi di
volta in volta alle leggi panamensi o liberiane. Ovvero al nulla. I vantaggi furono enormi, soprattutto fiscali, ma anche
nell’assunzione del personale, e per gli investimenti nella sicurezza. E per i governi ombra fu un ottimo affare: in Liberia questa divenne la principale fonte di reddito del Paese,
circa 70 milioni di dollari all’anno sino al 1997 quando il
dittatore Charles Taylor affidò il registro a una società americana.
Molti registri non hanno neppure sede nel Paese della
bandiera, sono in mano a compagnie private e con l’avvento
di Internet la registrazione diviene ancora più semplice, si fa
online! Basta andare sul sito, fornire dati e documentazione,
versare qualche migliaio di dollari in base al tonnellaggio e il
gioco è fatto.
« In questo modo anche una ghost ship, una nave sequestrata e poi rivenduta o riutilizzata dai pirati, come spesso
avviene nel mar Cinese, potrebbe acquisire una nuova iden-
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tità, magari facendola rinascere in un cantiere sperduto
dell’Asia, e ricostruendo la documentazione. Non è semplice, ma possibile. E comunque i controlli sono difficili. Di
questo potrà dirle meglio Noel Choong, il nostro manager
anti-piracy in Malaysia, gli preannuncerò il suo arrivo. » Pottengal segna il numero di Choong su un biglietto da visita,
poi mi fulmina: « È sicuro di voler andare in Puntland? »
Quando lascio l’imb è sera e a Londra piove, il vento sferza teso, il taxi cab nero suona impaziente, gli uffici sono vuoti, mi volto, un ultimo sguardo, solo la flebile luce di un pc
ancora acceso. Arrivederci capitan Muku.
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