Racconto d`autore L`Editoriale
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Racconto d`autore L`Editoriale
l’antifascista fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXI - n° 1-2 Gennaio-Febbraio 2014 L’Editoriale Chi siamo e dove andiamo di Guido Albertelli L’Anppia è un’associazione di promozione sociale fondata nel 1946 da Umberto Terracini e Sandro Pertini, ambedue antifascisti perseguitati, al fine di tutelare la memoria dell’Antifascismo e dei suoi protagonisti, analogamente a quanto fatto dall’Anpi per i partigiani. Fra i suoi fini principali c’è l’assistenza agli antifascisti e agli ebrei perseguitati durante il Ventennio, aventi diritto, nell’istruttoria delle pratiche relative alla richiesta del vitalizio di benemerenza, che sono trasmesse all’apposita commissione costituita presso il Ministero delle Finanze, nella quale l’Anppia è rappresentata da tre membri. L’Associazione ha curato negli ultimi anni le domande di assistenza dei perseguitati razziali con circa 4.000 pratiche. Per questa e altre attività l’Associazione è stata insignita dal Presidente Napolitano della la Medaglia d’oro al valor civile. In questi oltre sessant’anni l’Anppia ha provveduto alla pubblicazione di centinaia di opere sull’antifascismo e sui suoi protagonisti nonché alla organizzazione di convegni, incontri e manifestazioni, tutte iniziative volte alla trasmissione della memoria. Naturalmente, dato il lungo tempo trascorso, gli antifascisti in vita sono solo poche decine, ma l’Anppia si rivolge anche ai loro familiari che sono ben rappresentati tra i soci che, in totale, sono circa 3.000. Ma da quando abbiamo registrato un sito on line (www.anppia.it), in pochi mesi ci sono giunte decine e decine di adesioni di giovani, un’apertura di credito che ci fa ben sperare per gli anni a venire. L’Anppia edita questo periodico, l’antifascista, che ha lo scopo di tenere viva la memoria, attraverso articoli, saggi, recensioni, e contributi La lunga corsa di Matteo Renzi Da segretario del Pd a premier. In pochi mesi, di fretta, ha rivoluzionato la politica italiana che si affidava a complicate mediazioni. Ora arrivano le prove decisive di Giovanni Russo I l 17 gennaio ho assistito alla trasmissione Le invasioni barbariche e alla lunga intervista a Matteo Renzi condotta da Daria Bignardi. In quell’occasione il segretario del Pd ha reso noto che il giorno seguente avrebbe incontrato Silvio Berlusconi per affrontare il tema della nuova legge elettorale. Renzi è stato definito iperattivo, arrogante, cinico, spregiudicato. Per il decisionismo che Racconto d’autore Nel nome del padre di Giuseppe Furno La strada lascia il mare, s’aggrappa ai monti e cerca di scalare il cielo. Sale stretta, in una galleria fatta di pini, querce, acacie, castagni e faggi. Poche auto, qualche moto. Due ciclisti, imbevuti di fatica, pestano sui pedali. Di tanto in tanto, un’esplosione di luce e una finestra s’apre sull’universo intero. È la prima volta che vengo quassù, a Campo Cècina, vasto pianoro di pietre, che pare un pezzo di luna trapiantato in terra. Guardo le Apuane. La visione mozza il fiato, fa vibrare il cuore, con lo sguardo che si libera sullo spazio sconfinato: dalle montagne toscane a quelle liguri, a Bocca di Magra, alle marine di Carrara e Massa, verso la Versilia, oltre Viareggio, sino a Bocca d’Arno e Marina di Pisa, all’accogliente golfo livornese, al profilo morbido dell’Elba. Mentre perse nel Tirreno, in macchie d’azzurro più scuro, emergono le isole di Gorgona e di Capraia, le vette della Corsica. Rischio di perdermi in questo volo d’occhi e solo la strada riesce a restituirmi l’equilibrio per continuare. Le insegne danno identità ai luoghi di questo bosco fitto e sconosciuto: continua a pagina 12 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma Attualitá Bagnoli a pagina 5 Villaggio a pagina 8 Palladino a pagina 10 Cultura Galli a pagina 14 Terracciano a pagina 16 Buffa a pagina 21 Storia Fiorentini a pagina 25 Brogi a pagina 27 2 Attualità di firme prestigiose del giornalismo e della cultura. Ma il nostro giornale è anche un canale aperto con i familiari di antifascisti, in Italia e all’estero, e le altre associazioni, nonché con centri di studi storici e le università. In questo quadro, essa ha concluso due importanti convenzioni: una con l’Archivio di Stato per la catalogazione dei fascicoli del Ministero della Difesa relativi ai riconoscimenti della qualifica di partigiano e di patriota; l’altra con l’Università Roma Tre relativa alla diffusione nelle classi studentesche degli ideali dell’antifascismo. Nell’ambito di tali convenzioni è programmato il riconoscimento di borse di studio agli studenti più meritevoli e la premiazione delle migliori tesi di laurea sull’argomento. L’Anppia è una delle tre associazioni vigilate dal Ministero dell’Interno che attribuisce, con decreto, i contributi statali ed effettua il controllo dell’attività istituzionale e della regolarità dei bilanci delle associazioni stesse. Essa inoltre intrattiene rapporti con le altre associazioni della Memoria facendo parte della Confederazione Generale ed essendo membro del Consiglio del Museo di Via Tasso. È bene ricordare, a scanso di inutili e pretestuose polemiche, che l’Anppia, come recita il suo statuto, è un’associazione «a carattere democratico repubblicano ed è indipendente dai partiti politici» e i membri degli organi dirigenti prestano il loro impegno in modo totalmente gratuito. Le pubblicazioni edite riguardano la storia di antifascisti noti e meno noti (quest’anno rieditiamo Aula IV che raccoglie le schede dei condannati dal Tribunale Speciale fascista). Spesso si accusano le Associazioni della Memoria di essere retoriche. Ma i pugnali fascisti che trafissero tanti patrioti (tra cui Carlo e Nello Rosselli e Giacomo Matteotti), non hanno ucciso i loro ideali di libertà, di democrazia e di purezza, che sono rimasti elementi fondanti della Repubblica e che noi dell’Anppia continueremo a ricordare e onorare con l’aiuto appassionato dei molti giovani che ci seguono nei dibattiti e nei cortei. lo contraddistingue e che lo ha reso inviso a molti, è stato paragonato a Craxi. Se però Craxi è stato sempre socialista, Renzi è approdato solo nel 2007 al Partito democratico, facendo tappa prima al Ppi, poi alla Margherita. Non è un novellino: ha contribuito alla nascita dei Comitati Prodi in Toscana, è stato segretario provinciale del Partito popolare, coordinatore e segretario provinciale della Margherita a Firenze, presidente della Provincia, e dal 2009 sindaco di Firenze. Chissà se pensava di raggiungere quell’obiettivo quando scrisse la tesi di laurea in giurisprudenza, incentrata sulla figura di quel grande sindaco della capitale toscana che fu Giorgio La Pira. Il 17 gennaio, Renzi non si limitò a parlare dell’urgenza di varare una nuova legge elettorale, essendo il Porcellum stato dichiarato incostituzionale dall’Alta Corte, ma delineò tutta una serie di obiettivi che intendeva perseguire: si espresse in favore dello ius soli e delle unioni civili, della necessità sia di rivedere la legislazione sull’uso delle droghe leggere, sia, last but not least, di abolire il Senato elettivo e riformare il titolo V sul federalismo. Daria Bignardi lo ascoltava attonita mentre lui continuava a ripetere quello che avrebbe ribadito nei giorni seguenti: che non c’è tempo da perdere, che le riforme non si fanno da soli. E venne 18 gennaio, il giorno del fatidico incontro: in un certo senso una data storica nella storia del nostro Paese. Per la prima volta il segretario del principale partito della sinistra riusciva a stanare il giaguaro, non con l’intento di “smacchiarlo” ma per accoglierlo a casa propria, nella sede del Pd a Largo del Nazareno. Mentre l’auto blu del Cavaliere si avvicinava al luogo dell’appuntamento fra ali di folla indignata che lo bersagliava di uova, è probabile che Renzi ripensasse a come il caso o la fortuna – e Renzi è un uomo fortunato, nel ‘94 vinse 48 milioni di lire partecipando al programma televisivo che si chiamava La ruota della fortuna – rimescoli le carte. Tre anni prima, il 6 dicembre 2010, per “discutere di alcuni temi legati all’amministrazione di Firenze” era stato lui a recarsi in visita ad Arcore nella villa del padre-padrone di Forza Italia. La notizia aveva provocato reazioni contrastanti e polemiche a non finire anche tra i suoi sostenitori, in ogni caso però non paragonabili al putiferio seguito all’incontro del 18 gennaio. A scatenare l’animosità hanno contribuito le dichiarazioni dei due leader al termine del colloquio, che mettevano in risalto la “profonda sintonia” riscontrata nelle due ore e mezzo di dialogo. Che cosa si rimprovera a Renzi? Di aver sollevato dalla polvere e riportato sugli altari un pluri-indagato, pluri-processato e condannato per reati infamanti come frode fiscale in via definitiva e in primo grado per prostituzione minorile, concussione aggravata e rivelazione di segreti d’ufficio: il Nemico Pubblico Numero Uno della sinistra, che molti davano per finito. Renzi ha risposto ai suoi compagni di partito, che hanno osato contrastarlo, in modo tale che si sono verificate le dimissioni di due esponenti di peso come Gianni Cuperlo e Stefano Fassina. Ma ha anche ribadito che le riforme sono diventate un’esigenza prioritaria e da soli non si possono realizzare. Scartati i piccoli partiti, non restava che mettersi in contatto con Forza Italia e il Movimento 5stelle. Renzi, avendo i grillini rifiutato l’approccio, ha cercato il leader della seconda forza politica del Paese. Pur consapevoli del personaggio, gli italiani che si sono espressi per Berlusconi all’ultimo suffragio sono stati il 22 %, ovvero 7.332.121 alla Camera e 6.829.131 al Senato. Attualità Su che cosa cè stata la profonda sintonia con il Nemico? In primo luogo sulla riforma della legge elettorale. Si è approdati al seguente accordo: soglia di accesso al premio al 37%, premio del 15% con tetto massimo del 55%; sbarramento per l’ingresso in Parlamento al 4,5%; per entrare in Parlamento i partiti devono inoltre ottenere il 9% in almeno tre regioni (definita questa la clausola salva Lega); liste bloccate. Questo figlio dell’intesa Renzi-Berlusconi, battezzato Italicum, dispiace a parecchi. Rosy Bindi e Cuperlo hanno dichiarato battaglia, Grillo che non ci sta a farsi rubare la scena ha organizzato piazzate a Montecitorio, i piccoli partiti, dal canto loro, hanno ribattezzato la legge Vampirellum perché non ci stanno alla prospettiva di essere falcidiati. Renzi, ostenta una calma che non si riesce a capire se apparente o reale e si mostra assai soddisfatto per aver raggiunto questo primo risultato. Adesso sotto con il Senato, le Province, il titolo V. E soprattutto con il Jobs act. Per concludere un programma di così ampio respiro è però necessario tempo e Matteo Renzi non è un temporeggiatore. Con il passare dei giorni le stoccate che comincia a lanciare al Governo in generale e al capo del Governo in particolare anziché pungoli per realizzare al più presto le riforme sembrano in realtà affondi miranti a far naufragare la barca. E Letta, che ha retto il timone della coalizione governativa destreggiandosi fra scissioni e ministri costretti a “chiarimenti” (vedi il caso Cancellieri e le dimissioni di Nunzia De Girolamo e Josefa Idem, oltre a due viceministri e quattro sottosegretari), constata progressivamente il restringersi dell’area di manovra. Mentre l’appoggio del partito che lo aveva sostenuto in questi dieci mesi sembra sfaldarsi come neve al sole, Renzi, i cui modi spicci, la battuta sferzante, per non parlare dell’idea della “rottamazione senza incentivi” dei dirigenti di lungo corso del Pd avevano reso inviso all’establishment del partito, pare acquisire nuovi consensi. Giorno dopo giorno, nonostante dichiarazioni contrarie, diviene evidente che l’obiettivo cui tende il sindaco-segretario è sostituire il capo del Governo. Come mai questa frenesia improvvisa? Perché Letta ha mal governato? Al contrario, sia pure a piccoli passi, il presidente del Consiglio stava avviando il Paese sulla strada della ripresa: debito pubblico in discesa, aumento delle entrate fiscali, spread mai così basso. Il rischio è che Letta realizzi i programmi in un ragionevole lasso di tempo, il che allontanerebbe indefinitamente la data di nuove elezioni o la necessità di un cambio al vertice. Gli attacchi di Renzi al Governo, accusato di non fare abbastanza e abbastanza rapidamente, subiscono un’accelerazione. Cominciano a circolare voci di dimissioni, respinte da Letta che pare non preoccuparsene, al punto di mettere mano ad un programma per il rilancio dell’economia. Il 12 febbraio durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi smentisce per l’ennesima volta le voci che lo vogliono dimissionario e presenta “Impegno Italia”. Il piano prevede un nuovo patto di coalizione tra i partiti che sostengono il Governo, riduzione di tasse alle imprese sul costo del lavoro, riforma del codice del lavoro, incentivi alle famiglie. Sembra come sempre calmo e fiducioso: è possibile che non si sia reso conto di quanto la situazione gli stesse sfuggendo di mano, di quanto grande fosse la voragine che Renzi stava scavando ai suoi piedi? Il 13 febbraio il segretario del Pd scopre finalmente le carte: convoca la Direzione nazionale e chiede di votare un documento che segni “una fase nuova con un esecutivo nuovo”, in parole povere, di defenestrare Letta e sostituirlo alla guida del Governo. Renzi sa di avere il partito in mano: l’8 dicembre 2013, sbandierando un programma che prevede riduzione del costo della politica, eliminazione di una delle due Camere, abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e dei vitalizi, cancellazione dei contributi statali ai giornali di partito, ha vinto le primarie del Pd con oltre il 67,5 % di preferenze. La proposta è messa ai voti e viene approvata da una maggioranza schiacciante: 136 favorevoli, 18 contrari, 2 astenuti. Non una voce si leva a difesa di Enrico Letta. Il giorno seguente, a bordo della sua utilitaria e senza scorta, il capo del Governo si reca al Quirinale e rassegna le dimissioni. Proprio in queste ore mi accade spesso di ripensare a quella trasmissione televisiva del 17 gennaio, in cui Renzi annunciava l’incontro con Berlusconi, alle dichiarazioni dei due leader al termine del colloquio, a proposito della loro “profonda sintonia”. Berlusconi non ha mai nascosto una velata simpatia nei confronti del segretario del Pd, che può essere accusato di molte cose ma non di essere mai stato comunista. Entrambi, inoltre, hanno uno spregiudicato senso della realpolitik. Viene quindi da chiedersi: quanto è stata “profonda” la loro intesa? Quali sorprese ci riserverà in futuro? Un momento del discorso di Matteo Renzi per la fiducia al Senato 3 4 Attualità Priebke negava di aver sterminato anche ventisei adolescenti La cronaca del viaggio ad Albano di Eugenio Perugia e di suo cugino Georges de Canino. L’artista che seguì il processo Priebke dice al nostro giornale: «Ho urlato sulla bara del boia perché non dimentico quei ragazzi vittime innocenti» di Georges de Canino M artedì 15 ottobre 2013. Poco prima delle 16 Rai News divulgava la notizia che il sindaco di Albano Laziale, Nicola Marini, aveva firmato l’ordinanza che vietava il passaggio della salma e il funerale di Erich Priebke sul territorio del comune dei Castelli. Seguiva la contro ordinanza del prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, che annullava l’ordinanza del sindaco, concordando, forse con il Viminale, la decisione del funerale nella residenza privata della Fraternità di San Pio X. I padri lefebvriani di Albano rappresentano quella parte della Chiesa anti-conciliare, antisemita e negazionista. Sono un punto di forza e di appoggio per i neofascisti di casa nostra e i numerosi gruppi neonazisti europei. Nel delirio generale scatenato sulla stampa, con la morte del capitano delle SS, boia di via Tasso che, da poco, aveva festeggiato i 100 anni, si è riproposta la paccottiglia fascista, fatta di bugie divulgate in 70 anni da storici mercenari di destra e di sinistra, revisionisti e negazionisti. Giornate di sofferenza e di ferite riaperte, troppi ricordi di una generazione che è stata lacerata e portata via dal dolore, dall’orrore delle deportazioni, dei rastrellamenti, delle Fosse Ardeatine. Qualcuno ha osato pronunciare la parola pietà per il capitano nazista. Mio cugino Eugenio Perugia ed io non potevamo non andare ad Albano, non potevamo sottrarci al dovere morale di gridare e di urlare sulla bara di Priebke, uno che non ha mai riconosciuto i suoi crimini, le sue responsabilità. Eugenio ha urlato ai poliziotti i nomi dei suoi zii assassinati ad Auschwitz: Eugenio è figlio di Lello, A15803, e nipote di Angelo. Lello Perugia era Cesare nel romanzo La tregua di Primo Levi. Mio cugino Eugenio, un mite come suo padre, è stato capace di urlare e di ribellarsi ad Albano come aveva fatto suo padre Lello nel giugno del 1992 a Roma, a Piazza Verdi, quando con la moglie Arduina Polacco manifestarono contro il negazionista David Irving insieme ai deportati, obbligati a scendere per strada e a rompere un silenzio durato troppo tempo. La folla dei cittadini di Albano, anziani e giovani, che si era riversata in strada indignata e desiderosa di dare la propria testimonianza civile, scandiva ripetutamente, quasi in coro: «Siamo Albano, ottobre 2013. Scontri tra polizia e manifestanti che tentano di impedire i funerali di Priebke tutti qui, siamo antifascisti». Chi si è diretto, come noi, in via Trilussa, davanti ai cancelli della Fraternità di San Pio X, era consapevole che quella sceneggiata del funerale al nazista era la dimostrazione e la prova dell’inettitudine dello Stato. Lo Stato ad Albano non era in grado di difendere e rispettare il diritto, la dignità della memoria dei suoi cittadini. Lo Stato veniva meno al dovere di tutelare la cultura della nostra storia, la memoria repubblicana, civile, democratica e antifascista. Hanno scritto alcuni di Priebke, definendolo un militare nazista di serie B, un relitto della seconda guerra mondiale. Quegli anni che sembrano lontani, Priebke, a Roma, fu un tremendo artefice dell’occupazione tedesca: durante quei drammatici nove mesi non ebbe un ruolo secondario tra i tanti organizzatori di violenza e di terrore. Militari italiani, antifascisti, partigiani, semplici cittadini che difendevano la loro vita, ebrei rei di essere nati, intellettuali militanti, religiosi, donne disperate per la fame e le sopraffazioni: queste furono le vittime del terrore. I fascisti italiani, delatori, spie, criminali, collaboratori dei nazisti dei quali non erano meno spietati, agivano anche per interessi personali e di bande. Quel terrore inesorabile e implacabile fu possibile per le responsabilità di un gruppo ristretto di militari nazisti, padroni di Roma, e tra essi Priebke spicca per il carattere inflessibile di burocrate dello sterminio, per la malvagità del militare. Ad Albano Laziale ho pensato ai ventisei adolescenti e minorenni trucidati alle Fosse Ardeatine. Priebke, durante una udienza del Tribunale militare, nel primo processo del 1996, negò che vi fossero degli adolescenti tra le vittime delle Fosse Ardeatine. Ero presente a quella udienza, ero stato invitato dall’avvocato Oreste Bisazza Terracini: Priebke ripetè che per l’esecuzione alle Fosse Ardeatine erano stati scelti comunisti e badogliani. Penso a quei 26 ragazzi. Non ho dimenticato. Io ricordo. Non possiamo dimenticare. Attualità I democratici vogliono migliorare l’Europa, i fascisti spazzarla via Alle prossime elezioni europee si gioca la partita decisiva della democrazia, non solo per il nostro continente di Paolo Bagnoli D alla fine della seconda guerra mondiale il vecchio continente si trova di fronte a una prova che non può essere sbagliata, a meno di conseguenze nefaste di grande portata. L’Europa, infatti, piaccia o non piaccia, rimane ancora oggi il teatro strategico della civiltà occidentale e, quindi, campo privilegiato nello scontro tra la ragione e l’oscurantismo fideistico. E l’Europa non sembra rendersi conto di ciò di cui è gravata: smarrimento di ideali, burocrazia ragionieristica, interessi egoistici e mancanza di una classe dirigente all’altezza, una classe che, prima degli interessi, parli degli ideali su cui costruire una politica che dia una identità comune. Avviene, invece, tutto il contrario: ci illudiamo che una sequela di trattati fuori della realtà contribuiscano a rinsaldare l’Europa, nel paradosso di una moneta che dovrebbe aiutare a risolvere i problemi e non ad accrescerli. Ma dove è andata la speranza legata alla nascita dell’Euro se, stando al presente, la moneta comune non funziona né coi paesi deboli né con i forti? Crediamo che ogni europeista abbia sentito un brivido quando le autorità comunitarie hanno invitato la Germania, su cui pure pesano non poche responsabilità, a essere economicamente più debole poiché vi sono Paesi che sono fortemente deboli. Una seria politica e, quindi, una classe dirigente degna di questo nome avrebbe ragionato sull’Euro e sulla sua funzione non come può farlo un banchiere o un istituto di emissione, bensì vedendo nell’Euro un pilastro su cui poggiarsi per andare avanti contro il burocratismo soffocante vigente e aiutare i più deboli a crescere, non a sentirsi più forti perché è più debole la Germania. Stando così le cose, oggi l’Europa viene vista, da tanti suoi cittadini, come un fattore socialmente negativo, un soggetto da smontare, partendo proprio dal punto più alto cui è giunta, ossia l’Euro. Su ciò si incardina non solo una ripresa di nazionalismo o di riaffermazione delle funzioni tradizionali dei singoli stati, ma un qualcosa di più e di più pericoloso, vale a dire la legittimità stessa dell’idea di Europa, il tentativo di trovare un modo per stare insieme che, certo, non è quello di questa assurda, farraginosa e antidemocratica costruzione comunitaria. Ancora. La ripresa di un prevalente sentimento a favore del ripristino di legittimità piena degli stati nazionali nasconde qualcosa di più insidioso e pericoloso, che mira alla distruzione stessa dell’idea politica di Europa, nell’incoscienza delle conseguenze, in un frangente nel quale lo scontro con i fondamentalismi religiosi e gli integralismi territoriali sembra lievitare giorno dopo giorno. Bisogna ragionare. Una cosa è il disaccordo con questo modo di essere comunitario, ma da europeisti e, quindi, da democratici; un’altra esserlo da antieuropeisti; c’è una bella differenza, anche per quel che ne consegue. Infatti, mentre le forze dell’antidemocrazia, quelle della destra europea, si stanno organizzando, quelle della democrazia sembrano in tutt’altro affaccendate, non consapevoli che questa volta non sono esse all’attacco, bensì in difesa. Marine Le Pen ha lanciato la crociata: le destre di tutti i Paesi che fanno parte dell’Unione si uniscano nell’Europarlamento in una “Alleanza per la libertà”. Al progetto sono già arrivate le prime adesioni: quelle degli olandesi e degli austriaci (il nome delle rispettive formazioni è identico: Partito della Libertà), e si fa sapere che si attende all’appuntamento pure la Lega e crediamo che non mancherà l’adesione di Forza Italia, come si intuisce dal discorso rifondativo del movimento tenuto da Silvio Berlusconi alcune settimane orsono. Inoltre, contro l’Europa, fatta diventare quella della Bce e della Merkel, dicono no anche il movimento di Beppe Grillo e i post-fascisti della Meloni. Molte, poi, sono le contrarietà presenti nella sinistra, ma non sono certo queste che preoccupano, bensì quelle che provengono dalla destra estrema, che già appare in grande crescita nei vari Paesi del continente. In Ungheria essa governa tranquillamente, in dispregio alla libertà Parlamentari greci del partiro Alba Dorata. In alto, Marine Le Pen, leader indiscussa del partito francese ultranazionalista e xenofobo Front National che l’essere europei implica e, in Grecia, Alba Dorata, movimento chiaramente neonazista, è, secondo alcuni sondaggi, il primo partito, con il 26,6 per cento. Inoltre, se pensiamo che, oltre alle nazioni ricordate, partiti contrari all’integrazione esistono in Inghilterra, Paesi Bassi, Belgio, Bulgaria, Finlandia, Romania, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia vediamo subito come sia in atto, molto ramificato, un vero e proprio laboratorio di una nuova politica che, giorno dopo giorno, scala i sondaggi e nasconde, occorre dirlo fuori dai denti, un’inquietante ombra di nuovo razzismo. Il paradosso, poi, è che, nell’Europa geografica, ai dati 2010, il maggior numero di immigrati li registra la Svizzera, che, è noto, non fa parte della Comunità, con il 23 per cento e, a seguire: 5 6 Attualità Francia con il 12,31; Svezia con il 12; Spagna con l’11,45; Francia con il 10,18; Olanda con il 10; Gran Bretagna con l’8,98; Italia con il 7,8; Norvegia con il 7,4; Danimarca con il 7,1 e Belgio con il 6,9. Non c’è bisogno di essere demografi per capire che, per quanto rilevante sul piano politico, su quello numerico che è il fattore generatore del razzismo, siamo ben sotto la soglia di salvaguardia, se così si può dire. Ma è proprio questo il dato che preoccupa di più, poiché esso fa emergere come la saldatura, nel nome dell’ignoranza e della paura, può ramificare un vasto disegno politico di regressione dall’Europa di segno reazionario, quando non apertamente nazional-fascista. A dire il vero non ci sembra che su tale aspetto si sia riflettuto con la dovuta e ponderata attenzione, come se la questione europea fosse solo di natura monetaria! Possibile non ci si renda conto di cosa è in gioco? Possibile non ci si renda conto che un grande ideale va alimentato, governato e sviluppato e non bisogna affogarlo, prima, e dimenticarlo, poi, in un groviglio burocratico autodistruttivo e gravido di conseguenze che possono essere nell’agitato contesto mondiale le più nefaste? Sappiamo quante difficoltà incontri l’idea dell’Europa federale, ma riteniamo un gravissimo errore averla quasi del tutto abbandonata. E molto alla buona ci domandiamo se non ci sia uno stadio politico più avanzato tra l’attuale forma comunitaria e quella federale, tale da rinvigorire l’Europa con adeguate vere strutture politiche che oggi non esistono, rilanciando il disegno complessivo in uno schietto ambito di avanzamento della politica democratica europea. Ecco perché le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del 2014 hanno una rilevanza particolare e non possono essere affrontate alla maniera solita. Come risponde la democrazia europeista italiana a fronte di un quadro siffatto? Ancora nessuno sembra averci pensato, ma il tempo non è poi così tanto e non sarebbe male cominciare a farlo. Sempre che si creda, naturalmente, come avvenne nel dopoguerra, nei valori della democrazia e della socialità, ossia, in quei valori storicamente conquistati dall’Europa sui quali costruire un vasto consorzio di popoli e di stati. Il sogno, però, appare essersi infranto; mentre occorrono atti di coraggio perché l’Europa del presente così non va e deve obbligatoriamente cambiare, ma secondo gli ideali e la morale della democrazia e della libertà; pensare che l’Europa non possa essere meglio di come ora è, significa rassegnarsi al non crederci più. Ada Rossi, l’antifascista che sapeva amare Nel ventennale della morte, un convegno alla Casa della Memoria di Roma ricostruisce la poliedrica personalità della moglie di Ernesto Rossi. Femminista, combattente per i diritti civili, fino all’ultimo impegnata nel partito radicale di Giulietta Rovera P er ricordare Ada Rossi nel ventennale della morte si è tenuto di recente un convegno alla Casa della memoria a Roma cui hanno partecipato studiosi provenienti da varie parti d’Italia, fra i quali Mimmo Franzinelli, Gianfranco Spadaccia, Antonella Braga. Ne è emersa una personalità complessa, per certi aspet- Ernesto Rossi nel ’28, presso l’Istituto tecnico Vittorio Emanuele II di Bergamo, dove insegnano entrambi, non è quindi determinante per decidere la sua scelta di campo. Tutti e due sono laici, hanno il culto dell’indipendenza, del rispetto reciproco e delle libertà democratiche che intendono fermamente ristabilire nel Ada ed Ernesto Rossi ti sorprendente. Era nata in provincia di Parma nel 1899 in una famiglia della media borghesia. Rimasta orfana di padre ancora adolescente, viene mandata in collegio a Torino, da dove esce con il diploma di maestra e con il fermo proposito non di trovare marito, ma di proseguire gli studi nella materia che più l’appassiona: la matematica. Si iscrive a Matematica e Fisica a Pavia, dove senza difficoltà ottiene il diploma di laurea e si dà all’insegnamento. A metà degli anni Venti, in Italia, il tasso di analfabetismo è altissimo, soprattutto nella popolazione femminile: le giovani della media borghesia che intendono laurearsi per poi svolgere un’attività professionale e rendersi indipendenti rompendo il cerchio soffocante costituito dalle famigerate 3 kappa, Kinder, Küche, Kirche - bambini, cucina, chiesa - si contano sulle dita di una mano. Ada è quindi una realtà piuttosto anomala, come anomalo è il suo atteggiamento verso il regime fascista. Contrariamente alla maggioranza, indifferente o acquiescente nei confronti della dittatura, Ada, vissuta in una famiglia laica e antifascista, mal sopporta le limitazioni alla libertà, ma ciò che più le è intollerabile è il ricorso alla violenza per eliminare l’opposizione. L’incontro con Paese, pur consapevoli dei rischi che ciò può comportare. Queste affinità contribuiscono a far nascere un rapporto che si rivelerà indistruttibile, anche perché è un rapporto fra eguali. Ernesto, che già dal ’25 era entrato a far parte del gruppo antifascista che aveva dato vita al giornale clandestino Non mollare e poi al movimento Giustizia e Libertà - Riccardo Bauer, Salvemini, Nello Traquandi, Carlo Rosselli - non tarda a comprendere che se vuole conservare l’affetto della compagna deve coinvolgerla nella lotta cui lui partecipa da tempo. In Ada trova così non soltanto un’amica e un’amante, ma una complice. Nella notte fra il 29 e il 30 ottobre del 1930, la situazione precipita: in seguito a una retata dell’Ovra in Lombardia, 24 aderenti al gruppo giellista sono arrestati e processati. Ernesto Rossi è fra questi. La condanna è durissima: 20 anni di carcere. Ada evita l’arresto perché a suo carico non esistono prove, ma per via della frequentazione di elementi antifascisti in generale e di Ernesto in particolare perde la cattedra presso l’Istituto tecnico. La sua fama di docente però è tale che gli studenti che si rivolgono a lei per lezioni private sono numerosi. La lunga condanna inflitta a Ernesto 7 Attualità farà subire ai loro rapporti un cambiamento radicale: per comunicare con l’esterno, con i compagni, lui ha bisogno di un intermediario del quale fidarsi ciecamente, e questo non può essere che Ada, dal 24 ottobre del ’31 divenuta sua sposa, e quindi autorizzata a incontrarlo in carcere. Ernesto ha bisogno di Ada non solo per continuare la lotta antifascista, ma per sopravvivere. Circolano molte leggende sulla vita dei prigionieri politici nelle patrie galere e al confino durante la dittatura, quasi si trattasse soltanto di perdita della libertà in ambienti dove la vita era tutto sommato tollerabile. È falso. Le celle erano gelide d’inverno, soffocanti d’estate, il vitto insufficiente, l’aria mefitica, l’assistenza medica spesso inesistente, la corrispondenza sottoposta a censura. Se le guardie carcerarie erano carogne, potevano infliggere angherie di ogni genere, come la cella di isolamento e il vitto di solo pane e acqua. Se un uomo della fibra morale di Ernesto Rossi, che subì entrambe le punizioni per mesi, arrivò a pensare al suicidio, si comprende come molti si arresero e impetrarono la grazia al Duce, o la impetrarono i parenti in loro vece. Alcuni si uccisero, altri si ammalarono e morirono precocemente. Ernesto, come gli altri suoi compagni di galera, diventa così totalmente dipendente dagli aiuti che gli vengono dall’esterno, nel suo caso specifico da Ada. E per Ada Ernesto diventa il suo baricentro, il suo universo, la ragione della sua esistenza. Si massacra di lavoro, ma riesce ad accumulare somme sufficienti per organizzare tentativi di fuga e fargli arrivare pacchi contenenti cibo, biancheria pulita, libri. E lettere, 977 in 13 anni, struggenti, tenere, appassionate… e contenenti informazioni che grazie a un codice segreto sfuggono alla censura. Quando si incontrano, durante il breve abbraccio loro consentito, lui le passa bigliettini contenenti messaggi che lei penserà a recapitare. Ada, per gli antifascisti nome in codice “Pierina”, per i fascisti “elemento pericolosissimo”, “nihilista anarchica con tendenze terroristiche” anche per lo stile di vita indipendente, al di fuori degli schemi del tempo, per 10 anni si sottopone a viaggi lunghi, faticosi (Ernesto viene spostato dal carcere di Pallanza a Piacenza a Roma a Regina Coeli) per vedere il marito alle volte solo pochi minuti e alla presenza delle guardie carcerarie. A Bergamo, dove risiede, è tenuta sotto una costante e tutt’altro che discreta sorveglianza. Quello che sfugge all’Ovra è l’opera di proselitismo messa in atto da Ada. Durante il convegno tenutosi a Roma è stato divertente e commovente ascoltare le testimonianze di alcuni suoi ex-allievi: tutti concordavano sul fatto che le lezioni di matematica da lei impartite erano dedicate prevalentemente ad approfondire la situazione politica, alla lettura delle lettere di Ernesto, stimolando così sentimenti antifascisti nei giovani allievi, molti dei quali entreranno nelle formazioni partigiane di matrice azionista. Dopo nove anni di carcere, in seguito a un’amnistia, Ernesto è mandato al confino a Ventotene. Il 26 dicembre del ‘39, Ada può finalmente raggiungerlo e trascorrere con lui la prima notte d’amore. È un breve interludio, trascorso in una casupola gelida battuta dai venti e il secondino alla porta, attento a ogni movimento, ogni bisbiglio. Poi, scaduti i giorni di permesso, viene il momento di far ritorno a casa, a Bergamo. Fare la spola fra Bergamo e Ventotene è estenuante e pericoloso: il 1° prefetto di Bergamo decide di mandarla al confino. In quel gelido inverno di guerra, approda prima a Forino, un buco sperduto in provincia di Avellino, dove l’unico alloggio è in una stamberga piena di topi, poi a Melfi e infine a Maratea. Sei mesi dopo, con la caduta del fascismo, Ada ed Ernesto riconquistano la libertà e possono finalmente ricongiungersi. Si stabiliscono a Roma, dove lui, in precarie condizioni di salute e con i nervi a pezzi per la lunga prigionia, può dedicarsi alla lettura, allo studio, alla politica, al giornalismo: aderisce al Partito d’Azione, prende a collaborare con Il Mondo e Il Ponte, partecipa alla fondazione del partito radicale, pubblica libri di denuncia del sistema monopolistico, della connivenza del Vaticano con il regime… e Ada può dedicarsi ad Ernesto, assecondandolo nelle sue intemperanze, aiutandolo nella redazione di libri e articoli. Aderisce anche lei al partito radicale, cui resterà legata fino alla fine dei suoi giorni, e riprende con rinnovato vigore a dare lezioni di matematica, comunicando ai giovani non solo la magia dei numeri, ma an- È al confino di Ventotene che finalmente Ada potrà incontrare il suo Ernesto giugno del ’40 l’Italia è entrata in guerra, ottenere i permessi per raggiungere i confinati politici diventa sempre più difficile e costoso. Ada aumenta il numero di ore dedicato alle lezioni private, raggranella la somma necessaria, e quando riesce ad avere il permesso raggiunge Ernesto… il quale continua a servirsi di lei come portaordini. È così che i primi testi europeisti elaborati da Rossi, Spinelli e Colorni lasciano Ventotene e prendono a circolare fra gli oppositori al fascismo. Nonostante le precauzioni, qualcosa trapela sulle manovre di Ada, e nel dicembre del ’42 il che il culto delle libertà democratiche. Ebbi l’occasione di incontrarla a metà degli anni ’80. Ernesto era morto da vent’anni, ma lei non aveva perduto il vigore polemico e l’aria battagliera. Parlammo un poco, e a un tratto osservai quanto doveva essere stato profondo il legame d’affetto che l’aveva unita al marito. «Sì», disse Ada, «ma per dieci anni non abbiamo potuto fare l’amore». Quella di Ada Rossi non fu una lost generation ma una robbed generation, una generazione defraudata anche del diritto di amare. 8 Attualità Dopo tanto dolore vogliamo giustizia, ma nei nostri cuori non c’è odio A colloquio con Estela e Jorgelina, due donne vittime della brutale dittatura argentina del generale Jorge Videla Ecco come l’Associazione delle Nonne di Piazza di Maggio lavora per ritrovare i bambini dati in adozione, oggi adulti di Elisabetta Villaggio E stela e Jorgelina. Due donne con due storie diverse, ma unite da uno stesso destino. Un destino crudele, assurdo, tragico. Un destino segnato dalla dittatura del regime militare di Videla, Massera e Agosti in Argentina tra il 1976 e il 1983. Estela Carlotto, Presidente dell’Associazione Abuelas de Plaza de Mayo, è nata a Buenos Aires nel 1930. Ha sposato Guido Carlotto, un industriale chimico figlio di genitori italiani, con il quale ha avuto quattro figli. Nel giugno del ’77 suo marito militari. Jorgelina non la rivedrà mai più. «È entrato un civile a casa nostra e hanno sequestrato sia lei che il suo compagno. Io avevo 3 anni e mezzo e mi ha preso una signora, era un giudice e mi ha mandato in una casa famiglia, dopo essere stata in orfanotrofio», racconta con la voce flebile. Quando ha 4 anni viene adottata. La nuova famiglia le cambia nome e diventa Carolina Sala e non più Jorgelina. Da allora le due donne hanno dovuto fare i conti con la vita e superare il dolore tremendo di perdere una, la giovane figlia Estela Carlotto viene rapito dai militari e rilasciato dopo aver pagato un riscatto. A novembre dello stesso anno viene rapita la loro figlia maggiore, Laura Estela. La ragazza è incinta e partorirà, nell’ospedale militare, un bambino che avrebbe voluto chiamare come il nonno, un nonno che non conoscerà mai. Laura Estela sarà uccisa e il bambino, nato sano come hanno testimoniato varie persone, non conoscerà mai la sua vera famiglia. Jorgelina Molina Planas è figlia di due militanti dell’ERP, l’esercito rivoluzionario popolare. Nel ’74, quando lei ha solo un anno, il padre viene fucilato dai militari. Il 15 maggio del ’77, quando lei ha 3 anni e mezzo, la madre, che nel frattempo era entrata in clandestinità e con la bambina viveva a Rosario, viene presa con la forza dai e un nipote che sta ancora cercando, e l’altra la madre e tutto il resto della famiglia, oltre alla propria identità. Non hanno dimenticato il dolore, quello non si può dimenticare, ma hanno trovato un modo di fare i conti con il passato per andare avanti con dignità e coraggio. Oggi Estela è la presidente de l’Asociación Abuelas de Plaza de Mayo, l’associazione delle nonne che non hanno mai smesso di cercare i bambini dati in adozione, e Jorgelina, che ha scelto nell’arte il modo di superare il dolore del passato, è una delle prime bambine ritrovate dall’associazione. Le incontriamo a Roma, dove la prima ha ricevuto la cittadinanza onoraria e la seconda ha presentato la sua mostra personale. Estela è ancora oggi una bellissima donna, con i capelli bianchi che le incorniciano un viso sorridente e sereno nonostante tutto. Jorgelina sembra più timida, è minuta. Entrambe sono due donne determinate. Estela, lei ha vissuto un grandissimo dolore, come si supera? «Il dolore non si dimentica, perché rimane nell’anima e nel cuore, ma si sopporta perché si lavora, dal dolore si cerca una luce, uno spiraglio attraverso il lavoro sociale e le relazioni, in modo da trasformarlo in qualcosa di positivo. La cosa più importante per me è che non sento odio o rancore e questo credo sia una cosa molto positiva perché dentro di me ho amore. Tutte noi cerchiamo giustizia e verità, ma non odio. Cerchiamo giustizia perché un delitto deve avere il suo castigo, la legge dice questo e in democrazia si deve fare così. La giunta militare argentina ha assassinato 30 mila persone, compresi tanti bambini, e hanno creato centinaia di campi di concentramento. La legge deve castigare queste persone così come si giudicano i delinquenti. Il dolore si può sopportare perché si trasforma in una pura luce, una luce che non ha aspetti negativi». Jorgelina, questa storia brutta e dolorosa cosa ti ha insegnato? «Mi ci è voluto molto tempo prima che riuscissi a vederla in maniera positiva, ci sono stati momenti di crisi, momenti di grande rabbia, momenti in cui pensi di essere l’unica persona ad aver passato situazioni simili. Finita la scuola, ho deciso che sarei diventata una suora e sono entrata in convento e quando sono uscita ho iniziato a fare bene i conti con la mia storia». Il periodo in convento ti ha aiutato? «Il convento mi ha aiutato a cercare e trovare un cammino spirituale che mi aiutasse a capire il dolore e a gestirlo. In certi momenti sentivo che quello che avevo passato era così terribile che gli altri non avrebbero capito e attraverso la religione e la spiritualità ho capito che il dolore e anche la morte si possono trasformare in vita». Ma poi hai lasciato il convento. «Sì». Perché? Cosa è successo? «A un certo punto ho avuto la certezza che avrei voluto formare una famiglia, io non volevo essere solo una sorella. Iniziavo a sentire che quello non era il mio spazio, non era la mia vocazione, quindi ho lasciato la congregazione e ho conosciuto Attualità quello che è il mio attuale marito». Hai figli? «Sì ho 3 figli, Ignazio, il più grande ha 8 anni, poi Camilla che ne ha 6, e Juan Manuel che ne ha 2». Cosa sanno della tua storia? «Sanno tutto, il più piccolo capisce meno, ma gli altri due hanno vissuto tutto il passaggio di cambio del nome». Cosa ricordi di tua madre? «Non ho un ricordo completo di lei, non sapevo molto, ero piccola». Ma cosa ti hanno detto quando ti hanno portato via da tua madre? «Niente, lei era una dei desaparecidos». Ma tu non chiedevi di lei? «Non mi dicevano nulla». Quando hai scoperto la verità? «Ho sempre saputo di essere stata adottata, mi dicevano che i miei genitori erano dei terroristi che mettevano bombe e loro, la seconda famiglia, mi avevano riscattato da questa vita. Nell’84 mia nonna paterna, che era andata a vivere in Svezia, mi ha cercato tramite la nunziatura cattolica. Mi ha riconosciuto da una foto, io avevo 9 anni all’epoca, ma quando mia nonna ha incontrato la mia famiglia adottiva loro le hanno negato di vedermi. Da quel momento ha cominciato a cercare e fare di tutto». La nonna di Jorgelina si è rivolta alle Nonne di Piazza di Maggio e Jorgelina è proprio una delle prime bambine trovate dall’associazione. La nonna però non è riuscita a incontrare l’amata nipote perché è morta prima. Oggi nei quadri di Jorgelina possiamo vedere tutto il suo tormento iniziale e la felicità successiva, quando è riuscita a riprendersi la sua vita e la sua identità. Jorgelina, quando hai iniziato a dipingere? «Mi piace dipingere da quando ero bambina, però le mostre e i miei progetti sono cominciati nel 2009, quando è morta mia madre adottiva. In quel momento ho sentito la libertà interiore di poter raccontare la mia storia, di parlarne, di superare il senso di colpa». Tuo padre adottivo è vivo? «Sì lui è vivo e anche il mio fratello adottivo lo è. Ma da quando ho voluto ritrovare il mio vero nome non mi hanno voluto più vedere. Per loro ero Carolina e da allora non abbiamo più avuto rapporti». Estela, hanno rapito più di 500 bambini e ne avete trovati poco più di 100. Avete speranze di trovarne altri? «Sì, la speranza è l’ultima a morire e io ho speranza e fede di trovarne altri perché se fino ad ora ne abbiamo trovati 110 Jorgelina Paula Molina Planas ne troveremo altri. Bisogna sensibilizzare le persone su questo tema, sia in Argentina che nel resto del mondo, perché anche in Italia potrebbero esserci degli uomini e donne che facevano parte dei bambini rapiti allora. È un processo sociale dove vogliamo aprire nuove porte e non chiuderle. La nostra associazione è un movimento di costruzione permanente». Estela sta ancora cercando suo nipote, figlio di quella figlia barbaramente assassinata da uomini senza pietà e rispetto per la vita umana, uomini che hanno trasportato l’Argentina nell’orrore di una dittatura tremenda e che ora il Paese, grazie anche all’impegno del presidente Cristina Kirchner, sta cercando di metabolizzare e superare. Estela, cosa sta accadendo oggi in Argentina? «In questo momento in Argentina stiamo vivendo una primavera politica molto interessante e la chiamiamo la decade vincente perché abbiamo un governo, in questo caso Cristina Kirchner, che riconosce gli errori del passato e abbiamo aperto tutte le porte per la convivenza, la comprensione, la voglia di partecipare anche con cose effettive, con spazi per la memoria e aiuti economici per la nostra organizzazione». Buenos Aires, 1978. Le Madri di Plaza de Mayo scesero in piazza durante i Mondiali di calcio 9 10 Attualità Cercansi nuovi inquilini per Palazzo Madama, ma il trasloco è difficile A colloquio con Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, sulle riforme del sistema politico e istituzionale. Ci vogliono tempi lunghi e volontà concordi per modificare l’attuale Senato in Camera delle Regioni di Francesco Palladino S embra un’ovvietà: il nostro sistema politico e istituzionale ha necessità di essere rimodernato e aggiornato con serie riforme. Da oltre trent’anni il Parlamento cerca di approvare modifiche alla Carta fondamentale: la prima Commissione incaricata di questo compito fu quella presieduta dall’onorevole Aldo Bozzi (1983-85), poi fu la volta della Commissione De Mita-Iotti (1993-94). Qualche anno dopo (1997-98) D’Alema rinnovò il tentativo riformista, ma Berlusconi lo fece fallire. Poi ci fu il referendum del 25-26 giugno 2006 che bocciò con larga maggioranza la legge di revisione di quasi tutta la seconda parte della Costituzione, approvata dal governo Berlusconi. Infine, nel corso del 2013, comitati di “saggi” hanno lavorato per proporre le modifiche possibili della Costituzione. E adesso sotto l’impulso del “rinnovatore” Matteo Renzi, premier a soli 39 anni, si discute del percorso parlamentare per le riforme. Nel documento approvato il 13 febbraio dalla direzione Pd «per un nuovo esecutivo che si ponga l’orizzonte naturale della legislatura» (fino al 2018, quindi!) c’è l’impegno chiaro, confermato nel discorso in Parlamento per la fiducia, di «portare a compimento il cammino delle riforme avviato con la nuova legge elettorale e le proposte di riforma costituzionale riguardanti il titolo V e la trasformazione del Senato della Repubblica». Ancora più precisamente nella precedente direzione Pd del 6 febbraio Renzi aveva indicato le linee guida del cambiamento: «Il Senato diventerà la Camera delle autonomie, non elettiva, senza indennità. Composta da 150 persone, di cui 108 sindaci di comuni capoluogo, 21 presidenti di regione e 21 esponenti della società civile, temporaneamente indicati dal Capo dello Stato per un mandato. Non voterà il bilancio, né la fiducia, ma concorrerà all’elezione del Presidente della Repubblica». Si tratta di un’impresa difficile, laboriosa e soprattutto con tempi di realizzazione lunghi, un anno e mezzo o più, dal momento dell’inizio del dibattito parlamentare sul ddl costituzionale (occorrono due deliberazioni di ciascuna Camera, articolo 138 della Carta). Se non ci sarà, nella seconda lettura alle Camere, la maggioranza dei due terzi, si celebrerà anche il referendum popolare confermativo, con allungamento dei tempi di approvazione definitiva. Tuttavia alcune riflessioni politiche e istituzionali sono utili, anche se potrebbero rimanere semplici analisi teoriche, accademiche, a futura memoria, perché, nonostante la dichiarata “ambizione” di Renzi sul governo costituente di legislatura, le elezioni politiche anticipate, dopo il semestre europeo a guida italiana, sono tutt’altro che tramontate, soprattutto se il leader non imparerà presto l’arte della mediazione. Affrontiamo la delicata materia delle riforme a venire con il professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che è stato anche componente della commissione dei “saggi”, nominata dall’allora premier Letta l’11 giugno 2013. D’accordo sul superamento del bicameralismo perfetto, ma il progetto su cui partiti e parlamentari stanno lavorando è coerente col nostro sistema politico e istituzionale? «La riforma del Senato ha senso», mi risponde Onida, «se lo si trasforma in una Camera delle Regioni e delle autonomie, formata da rappresentanti delle istituzioni regionali e locali: presidenti delle Regioni, presidenti dei Consigli regionali, componenti eletti dai Consigli regionali fra gli stessi consiglieri, eventualmente sindaci e presidenti di Provincia eletti in ogni Regione dal Consiglio delle autonomie locali. L’ideale, secondo me, sarebbe che ogni delegazione regionale (formata da rappresentanti della Regione e degli enti locali della stessa) votasse unitariamente magari previa decisione anche a maggioranza, così che il Senato esprima davvero la voce delle Regioni. Non vedo, invece, un Senato in cui siano presenti come tali i sindaci dei Comuni maggiori o dei Comuni capoluogo, anche perché si darebbe così una rappresentanza (indiretta) alle popolazioni delle città a preferenza delle popolazioni dei centri minori e delle aree rurali, creando uno squilibrio rappresentativo. Ancor meno vedo la presenza in Senato di “personalità” nominate 11 Attualità dal Presidente della Repubblica: vogliamo tornare al Senato regio? Il Senato, assemblea politica e legislativa, dovrebbe avere il compito di partecipare all’attività legislativa, con gli stessi poteri della Camera per quanto riguarda le leggi costituzionali e le grandi leggi che fissano i lineamenti del sistema autonomistico (leggi quadro, leggi sulla finanza regionale e locale, ecc.), e invece con semplici poteri di intervento e di emendamento per quanto riguarda le altre leggi, sulle quali la decisione finale spetterebbe comunque alla Camera. Il Senato non dovrebbe essere chiamato a votare la fiducia al Governo, mentre dovrebbe partecipare insieme alla Camera all’elezione del Capo dello Stato (in luogo degli attuali delegati delle Regioni), di una parte dei giudici della Corte costituzionale e dei componenti degli organi di governo delle magistrature (Consiglio superiore della magistratura ecc.). Infatti si tratta in questi casi di assicurare una rappresentatività più ampia, comprensiva del sistema delle autonomie territoriali». Oggi il Presidente del Senato sostituisce il Capo dello Stato, se impedito (art.86): con la riforma sarà un rappresentante regionale a ricoprire questo ruolo come seconda carica dello Stato? «Trasformando il Senato in Camera delle Regioni sarebbe opportuno affidare la supplenza del Presidente della Repubblica al Presidente della Camera dei deputati». Insomma, gli ostacoli ci sono e non sarà facile raggiungere l’obiettivo di superare la forma bicamerale che ci siamo dati. Percorrendo i corridoi di palazzo Madama, già oggi, si ascoltano commenti increduli e diffidenti: «Voglio vederli i senatori che votano compatti la loro condanna a morte in pochi giorni, senza fare opposizione». E qualcuno ricorda anche il dibattito all’Assemblea Costituente, quando i padri della Patria osservarono che «il Senato deve essere composto di elementi che, anche per la loro età, diano garanzie di serenità, di obiettività e soprattutto di maggiore ponderatezza nelle deliberazioni che saranno chiamati ad adottare». Il vicepresidente leghista del Senato, Roberto Calderoli, si mette già di traverso: «Alla luce del superamento del bicameralismo, credo si debba aprire una discussione su quale ramo abolire». Perfino Il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida all’ex ministro delle Riforme, Gaetano Quagliariello, la proposta non va bene e dice: «Bisogna continuare a eleggere parte dei senatori. Il progetto è troppo sbilanciato sui sindaci e poi no ai nominati!» L’altro grande obiettivo della riforma istituzionale è il radicale cambiamento del titolo V della Costituzione (dall’articolo 114 al 133), con la cancellazione delle competenze concorrenti Stato-Regioni e il ritorno sotto il dominio centrale delle materie strategiche per il Paese (energia e reti di trasporto in primis). «Sulla riforma del titolo V (relativo a Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane)», afferma Onida, «non vedo ancora una linea chiara. Non vorrei che si traducesse in un netto depotenziamento delle autonomie territoriali, che andrebbero sì riordinate, ma in un’ottica di sviluppo del principio autonomistico, di cui all’art. 5 della Costituzione. Non sono, inoltre, favorevole alla pura e semplice soppressione delle Province, che andrebbero sostituite dalle Città metropolitane nelle relative aree, e per il resto rimanere, riordinate quanto a territorio e funzioni, come enti di governo “di area vasta” nelle Regioni di maggiori dimensioni (nelle Regioni piccole le loro funzioni potrebbero invece essere assorbite dalla Regione)». Ma per accelerare il processo legislativo non sarebbe più semplice modificare “subito” (come direbbe il neo premier Renzi) i regolamenti delle Camere? «Per quanto riguarda il procedimento legislativo sarebbe giusto prevedere, con riforme regolamentari ed eventualmente anche costituzionali, procedimenti con termini certi per le leggi più importanti di attuazione dell’indirizzo politico di Governo, su cui la Camera vota la fiducia, eliminando l’abuso della decretazione d’urgenza e la prassi della approvazione, con il voto sulla questione di fiducia posta dal Governo, di maxi-emendamenti omnibus composti da centinaia di disposizioni diverse ed eterogenee». Alle fine del percorso parlamentare delle riforme si può avere il referendum confermativo ex articolo 138: dovremo votare su un solo e unico quesito che racchiude tutti i mutamenti (giusti e sbagliati), come avvenne nel 2006 per la riforma della seconda parte della Carta? «In ogni caso si dovrebbero approvare leggi costituzionali distinte sui singoli argomenti (riforma del Senato, titolo V, altro) consentendo così, nel caso di referendum, che gli elettori si pronuncino distintamente su ciascuno di essi». Racconto d’autore 12 segue da pagina 1 Nel nome del padre Il diario intimo del grande scrittore che con Vetro ha vinto il Premio Hemingway. In visita ai luoghi della guerra partigiana, cari alle memorie familiari, scopre che oggi noi figli dobbiamo batterci per l’Europa unita e democratica di Giuseppe Furno Dogana della Tecchia, Bivio Cardeto, Porcigliola, Uccelliera. Poi la montagna prende a scrollarsi dal groppone gli alberi, si trasforma in pietra grigia, erba ispida e cespugli di cardi resistenti al vento e al silenzio. L’asfalto si screpola, s’incrina, perde consistenza e viene digerito dalla terra e dalle pietre. Ci vorrebbe un fuoristrada per continuare. Non è necessario, perché qui, proprio nel punto dove finisce la strada, inizia la storia. La raffica di vento e il groppo alla gola arrivano improvvisi, assieme al ricordo della voce di mio padre: «Eravamo in trecento, attanagliati sulla vetta del Sagro, con due mitragliatrici Breda 37, quattro mitra Sten e moschetti del ’91 con cento colpi a testa. Tutt’intorno c’erano diecimila nazifascisti, con armi micidiali, fra cui i lanciafiamme. La battaglia durò quattro giorni e quattro notti. Ottanta dei nostri morirono. Noi ci salvammo buttandoci giù per un ravaneto...». Mi par quasi incredibile che in questo silenzio ventoso, di quella tragica battaglia non resti alcuna eco. Nulla, proprio nulla. Abbasso lo sguardo e m’avvicino all’orlo. Oltre c’è il baratro. Un deltaplanista si stacca con le sue ali colorate, prende quota, si fa piccolo. Una vertigine solo a guardarlo. Potrei essere sul loggione d’un teatro immenso, lontano dagli umani affanni: tutt’intorno, il bianco delle cave di marmo del più grande bacino marmifero delle Apuane e del mondo intero. Un bianco dirompente, che abbaglia e irretisce. Cerco con gli occhi quel ravaneto, cascata di marmo sbriciolato frutto del lavoro secolare dei cavatori. Di quei ghiaioni che calano verticalmente a valle ce ne sono molti. Ne immagino uno e vedo il partigiano Lamberto, mio padre, poco più che ragazzo, assieme ai suoi compagni, ruzzolare fra quei sassi, sotto bombe e piombo, nel tentativo di non farsi ammazzare. M’avvio verso il viottolo che sale e segna di terra scura l’erba rasa del prato. Mi interrogo sull’attualità della parola antifascista. Perché semanticamente inchiavardata all’opposto che la compone, in una convivenza che è unica sua ragion d’essere. Pare che gli dèi, a me che marcio verso il Sagro “Olimpo”, vogliano aiutarmi, oppure pungolarmi, forse Veduta dei sentieri che conducono alle cave delle Alpi Apuane distrarmi, magari ingannarmi. Il fatto è che su una roccia, al lato della carrareccia marmifera, qualcuno ha scritto la parola dux con vernice nera. M’avvicino. Per crederci meglio. Sì, hanno scritto proprio dux, in questo Sagro che dovrebbe davvero essere un monte sacro. A giudicare dal tragico appellativo, se chi l’ha scritto ne è convinto, parrebbe che ne esistano ancora di quei nostalgici. Nostalgia di cosa? Magari del vacuo e deleterio: «Allora sì che si viveva meglio!» Meglio di cosa? Meglio di quando? Meglio camminare. Sì, camminare e ricordare. Il primo grande eccidio di civili ci fu nei paesi di Mommio e di Sassalbo, il 4 maggio del ’44: ventidue civili, tutti uomini, li mettono al muro e li falciano. Il più giovane ha 20 anni e si chiama Ivo. Il più anziano 68 e si chiama Carlo. Supero una curva, cammino una manciata di minuti sulla sterrata. La vetta del Sagro è a un chilometro, forse meno. Il panorama s’apre all’Emilia, scorgo la sagoma massiccia e brulla d’una montagna: è la Nuda. I paesi di Mommio e Sassalbo sono ancora là, aggrappati da qualche parte. Li cerco col binocolo. Troppo lontani. Voglio ancora immaginare. Ci sono i partigiani che combattono là, sulla Nuda e nei dintorni. Combattono per evitare che il nemico consolidi le postazioni sulla Linea Gotica che taglia in due l’Italia. Ci sono truppe scelte lassù, diecimila soldati, reparti di SS, giovani e nazisti e reparti italiani della Decima MAS, giovani e fascisti. Credono in quel che fanno, ma queste truppe, unite, non riescono ad avere la meglio sulle formazioni partigiane. I nazifascisti li chiamano banditi, scrivono achtung banditi e per punirli e piegarli, rastrellano e fucilano i civili, i loro stessi famigliari. Lo chiamano “diritto di rappresaglia”, quest’orrore nell’infinito orrore di una guerra. E da queste parti, i nazifascisti lo applicano con metodo: Sant’Anna di Stazzema, Forno, Bagnone, Ponticello, Valla sul Bardine, Bardine San Terenzo, Castelpoggio, Tenerano, Guadine, Racconto d’autore Vinca, Frigido, Bergiola, Foscalina. Mille e cinquecento morti innocenti e forse più. Si vuol mettere in dubbio? Si vuol cercare davvero nel Trattato di Ginevra, nell’infame “diritto di rappresaglia”, una qualche giustificazione? Passo dopo passo, mi vengono in mente i racconti di mio padre sulle stragi, gli eccidi, i nomi dei paesi distrutti, incendiati. Voglio pensare che chi ha scritto dux sia un ragazzino e che tutto questo non lo conosca, che non gliel’abbiano mai raccontato, né insegnato e che nessuno della sua famiglia sia morto in guerra, oppure ucciso per rappresaglia. La memoria, coscienza della storia, non dovrebbe estinguersi. Mi guardo attorno. Mi par d’esser solo con il vento. Guardo meglio, verso la vetta del Sagro: no, lassù qualcuno si muove. Alzo il binocolo: sono due figure, poco sotto la cresta. Da questa parte della montagna, la salita può esser lunga per me che non sono allenato. Provo a risalire un ravaneto, per tagliare un pezzo di sentiero, vado avanti qualche metro, scivolo, le scaglie di marmo tagliano come lame. Devo usare la testa, non rischiare avventure. Torno indietro e riprendo il sentiero. Penso ai conti col passato. Al dopoguerra. Alla tendenza italiana, per cultura e storia millenaria, a tenere vivo ogni contrasto: fra guelfi e ghibellini, fra bianchi e neri, fra lato “a” e lato “b” d’ogni fatto e d’ogni cosa. In nome della verità e delle pari opportunità. Quali opportunità? Forse l’obbligo per gli antichi schieramenti d’inginocchiarsi allo stesso confessionale, redistribuendo carichi d’onori e d’orrori, al punto che qualche piazza e qualche via d’italiche cittadine tenderebbe a riprendersi il nome d’un qualche fascista, oscuro eroe o voluto tale, per farla pari e patta con certi vialoni e parchi di città, che a sinistra han già fatto il pieno. Torno a chiedermi se davvero può essere questo il senso moderno del termine antifascista e del suo opposto che per natura contiene. M’incammino, osservo dall’alto il pianoro brullo di Campo Cècina, alla ricerca d’una risposta che intuisco, ma non riesco a formulare con la chiarezza necessaria, perché pare sia venuta l’epoca dove ad ogni affermazione, che sia morale e pure storica, ne corrisponda un’altra di pari intensità ma sempre opposta. Dunque, come la mettiamo? Ed ecco che gli dei di questo Sagro “Olimpo” tornano a burlarsi di me. Perché quelle due figurette che stanno scendendo dalla vetta lungo il sentiero, mi vengono incontro e il vento me ne anticipa la parlata. Non è la mia. È meno liscia. Mi pare inglese. Ma no. È ancor più aspra. È tedesco. Sono due giovani donne, bionde e attrezzatissime, compresi i bastoncini per il trekking. Mi salutano. Sono contente e sorridenti. Mi chiedono di far loro una foto con alle spalle il Sagro. Ho un’esitazione. Poi scatto. Una. Due. Tre volte. Questa mi par buona. Sorrisi. Saluti e se ne vanno. Ora sono sottovento e le voci guizzano ancora per poco e poi s’annullano. Cado seduto su una pietra e le osservo. Mi viene spontaneo pensare se nelle loro famiglie, magari un nonno o forse un bisnonno, abbia combattuto su questi monti. Vado oltre e immagino che forse è stato proprio lui a consigliare di venire fin quassù, ad ammirare la bellezza pura delle Apuane e dell’infinito mondo che da quassù appare. L’idea m’arriva semplice ed appagante, ispirata dalla libertà disinvolta e dalla gioia squillante delle due turiste: «Europa», penso. «Sì, accipicchia: Europa e ancor più Europa per salvarci da nuove tragedie». E mi viene in mente Ventotene, terra di confino per tanti antifascisti, isola che da queste altezze, per quanto limpido sia il giorno, non si potrà mai vedere. Sulla piazza del Comune di quell’isola persa nel mar Tirreno, fra tutte le bandiere europee, una lapide ricorda Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e il loro Manifesto per la nascita di una Europa senza più confini. «Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via i vecchi fardelli divenuti ingombranti», scrivevano Spinelli e Rossi settant’anni fa, «tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge, così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie fra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell’attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l’eredità di tutti i movimenti di 13 Lamberto Furno (1924-2001), nato a La Spezia, giornalista, vaticanista e redattore politico della Stampa. Ha pubblicato (in collaborazione) Testimonianze per Papa Giovanni, Milano, 1967; Viaggio attraverso la teologia scomoda, Roma, 1975 e Il Drago e il Sagro, Roma, 1985, romanzo nel quale narra la sua esperienza partigiana nella Brigata Garibaldi Ugo Muccini. elevazione dell’umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo. La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!» Torno a guardare le due tedesche che si godono la vacanza italiana e penso che lo spirito del Manifesto stia anche lì, in quella loro libertà disinvolta, nella gioia squillante. Dunque, ecco, intravedo una nuova e possibile interpretazione della parola antifascista, inchiavardata com’è al suo opposto: l’antifascismo, oggi, è credere nell’essenza profonda del Manifesto di Ventotene, opponendosi con tenacia alla nuova alzata dei fasci da combattimento dell’armata antieuropeista, con la consapevolezza che la strada da percorrere non sarà certo facile, né sicura, ma convinti altresì che sia l’unica percorribile. La vetta del Sagro “Olimpo” è là che m’aspetta, a mille passi e al tramonto mancano sì e no un paio d’ore. Dovrò sbrigarmi. Mi rimetto in marcia: non voglio farmi cogliere dalle prime ombre della sera. 14 Cultura Patrioti Vedi alla voce partigiano. I tanti volti di chi combatté il nazifascismo Nella bellissima antologia Storie della Resistenza i racconti in presa diretta di quell’esperienza che ha cambiato le attese del nostro Paese. Scritture personali, senza un filo di retorica, che sembrano rivolgersi alle future generazioni di Maurizio Galli H erbert L. Matthews, giornalista del New York Times, nel novembre del 1944 scrisse, riferendosi al fascismo, «non l’avete ucciso». Pochi anni dopo, precisamente quattro, con la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni politiche, la maggior parte di quelli che avevano partecipato alla Resistenza poteva pensare che quella frase scritta dal giornalista americano era stata profetica. Troppi italiani, cresciuti, invecchiati, nati sotto il fascismo, vi avevano aderito, lo avevano ammirato, aiutato e sopportato, molti di questi, soprattutto ragazzi, dopo l’8 settembre del 1943 lo avevano poi combattuto, erano diventati partigiani, avevano dato vita alla Resistenza. L’Italia, ultimo paese tra quelli occupati ad avere un movimento di liberazione, diede un vero contributo militare, la Resistenza, che costò morti e sacrifici e divenne, senza possibilità di revisione storica, la spinta maggiore alla riscossa del nostro Paese, sia in termini di orgoglio nazionale che in termini politici. In questo contesto la vicenda resistenziale diventerà nei decenni a venire, e fino ai giorni nostri, campo di battaglia tra diverse ideologie politiche, cambiando di significato a discrimine di chi la raccontava e di quello che voleva rappresentasse. L’antologia Storie della Resistenza (Sellerio editore, 15 euro), nell’intenzione dei curatori Domenico Gallo e Italo Poma, vuole raccontare al lettore quello che la lotta partigiana sperimentava e organizzava, un modo di essere che, nelle parole dei due curatori, era «semplicemente il contrario dell’insieme di regole in cui erano cresciute almeno due generazioni senza conoscere modelli alternativi». I racconti scelti sono quasi sempre la prima stesura di questi testi, il più vicino possibile al momento dell’esperienza resistenziale, testimonianze la cui scrittura è ancora calda dell’esperienza diretta dei protagonisti. La raccolta è articolata in nove sezioni, una per ogni aspetto della lotta partigiana: Che cosa fu la Resistenza; I maestri; La scelta; Organizzazione politica e militare; Le azioni; Prigionieri, esecuzioni e spie; Donne protagoniste; Ebrei nella Resistenza; Poeti, scrittori, intellettuali. Questa divisione aiuta a inquadrare i vari contesti senza perdere il filo logico del discorso. Alla lettura è subito evidente come questo lavoro di “pulizia” abbia dato i suoi frutti: la retorica a cui purtroppo siamo stati abituati, alle volte in buona fede, è estranea a questi testi. Sono diari, appunti, cronache di vita o di azioni militari che comunicano con chiarezza e profondità le esperienze personali, cosicché risultano più moderni e attuali di qualsiasi testo storico: brani didatticamente e pedagogicamente utili al racconto della Resistenza alle nuove generazioni. Troviamo, quasi all’inizio del libro, uno dei testi forse più interessanti, Un uomo ordinato - Il dizionario del partigiano anonimo, di Angelo Del Boca. Al disgelo, nella primavera del 1945, fu trovato nella giacca del cadavere di un giovane partigiano, un diario particolare, diverso, una sorta di dizionario che comprende cinquanta voci relative alla vita partigiana che questo ragazzo aveva scritto su piccoli fogli d’agenda. Parole come Alba. «Quando spunta può essere troppo tardi»; Casa. «Meglio non pensarci. Col tempo, non è poi tanto difficile»; «Repubblica. Una parola che può significare la parte avversa. Esempio: “Arriva la Repubblica”. Oppure una straordinaria confusione: “Che Repubblica!”. Chissà quanti anni occorreranno, da noi, perché riacquisti il suo vero significato». E altre voci, ironiche o drammatiche, che rappresentano quello che è stata per questi ragazzi l’esperienza della Resistenza, tra conoscenza della vita e scoperta del mondo, della civiltà e della morte. Nuto Revelli, invece, nel suo capitolo L’addestramento del partigiano si sofferma sull’aspetto militare e organizzativo della guerra partigiana. La paura dei tedeschi, addestrati all’antiguerriglia, a differenza della disorganizzazione delle Brigate Nere. I vari ruoli militari, il comportamento verso i prigionieri, che non venivano mai torturati dai partigiani, ma fucilati. A un ragazzino di 14 anni, scrive Revelli, una vera canaglia, fu risparmiata la fucilazione perché ritenuto troppo stupido. Questi, allora, si offrì di avvelenare la minestra dei fascisti una volta sceso al paese. Revelli raccontò questa storia a Sandro Pertini quando era Presidente della Repubblica, e alla domanda di uno dei presenti sulla fine che avrebbe potuto fare il ragazzino nella sua vita, Pertini pare abbia risposto «sarà deputato al Parlamento». Cultura Ne I denti di Ada, Giorgio Caproni descrive l’arresto e l’esecuzione di una giovane spia, Ada. Un racconto toccante e senza retorica. Uccidere è sempre difficile, in questo caso anche leggere di un uccisione, e non basta sapere che si è dalla parte della ragione, è una scelta contro l’umanità e Caproni la descrive così, grazie alla sua sensibilità. Il libro snocciola altre decine di racconti che varrebbe la pena citare tutti, e questa raccolta è una lieta sorpresa, Giorgio Caproni, uno degli autori dei racconti nel libro principalmente dal punto di vista letterario. I testi, seppure diversissimi tra loro per temi e stile, si appendono al filo invisibile dell’esperienza che li lega e si fanno leggere più e meglio di un testo storico, e al lettore si permette di ripercorrere quei momenti, settant’anni dopo, con un’empatia che non è la stessa di chi si limita a portare fiori a una lapide o lo stendardo alla manifestazione del 25 aprile nel suo Comune. La retorica della guerra e dell’eroismo non è di casa in queste pagine, il revisionismo sembra non poterle attaccare. Pansa e i suoi figliocci sono distanti anni luce dalla verità di queste parole, e l’operazione dell’editore Sellerio, e sopratutto dei due curatori Poma e Gallo, ha centrato l’obiettivo di non essere l’ennesima, trita pubblicazione sulla Resistenza ma, contando anche sulla genesi di questa raccolta, potrebbe essere invece l’inizio di una nuova serie di pubblicazioni di pregio narrativo più attuali, più adatte al doveroso impegno didattico che ci aspetta negli anni futuri, quando le testimonianze dirette non esisteranno più e toccherà a chi la Resistenza non l’ha mai vissuta diffonderne la memoria. Per concludere ci tengo a riportare, sempre dal Dizionario del Partigiano, quello che lo sfortunato giovane ha scritto alla voce “partigiano”, quasi un compendio di quello che si narra in questo libro: «Partigiani. Ce ne sono di tutti i tipi: comunisti e cattolici, socialisti e liberali, anarchici e trozkisti, giellisti e monarchici, leali e opportunisti, coraggiosi e vigliacchi, decisi e attendisti, generosi e scaltri, onesti e ladri, giovani e vecchi, eroi e doppiogiochisti, consapevoli e no, con scarpe e senza scarpe, vestiti come soldati e come pagliacci. Combattono una delle diecimila guerre che l’uomo ha scatenato su questa terra e pensano di essere dalla parte della ragione». E noi sappiamo che lo erano. L’avventura di Danilo Mannucci Presentato a Salerno il libro di Ubaldo Baldi al quale ha collaborato il figlio dell’antifascista, Giuseppe Il 4 dicembre 2013 è stato presentato presso la Sala del Gonfalone del Comune di Salerno il volume di Ubaldo Baldi, scritto con la collaborazione di Giuseppe Mannucci, Varcando un sentiero che costeggia il mare. L’avventurosa vita di Danilo Mannucci (Editrice Gaia, Angri 2013). Il libro è stato pubblicato grazie al contributo economico dellAnppia Nazionale e contiene un saggio, dal titolo L’antifascismo dopo il fascismo, che traccia il quadro generale che portò alla promulgazione della legge n. 1379 del 1953 denominata “Provvidenze in favore dei perseguitati politici antifascisti e razziali e dei loro familiari superstiti”. Ha scritto l’amico Ubaldo Baldi nella presentazione del suo bel libro che la «vicenda umana… diventa emblematica e quindi capace di offrire una chiave di lettura originale della storia del nostro recente passato». Mannucci, attivo militante del Movimento operaio italiano e internazionale, è stato uno di quegli uomini incorrotti e incorruttibili – quanto diversi da certe figure che rappresentano oggi il popolo italiano – che hanno pagato duramente la loro opposizione al Fascismo, ed anche allo Stalinismo, dedicando la propria esistenza alla libertà e alle lotte operaie per combattere le ingiustizie sociali. Di professione vetraio, poi rappresentante di commercio, fece parte della gioventù socialista livornese dalla fine del 1915 per passare poi al Partito Comunista, due mesi dopo il Congresso di Livorno. Testimone e protagonista per oltre mezzo secolo di storia proletaria, è stato una figura di uomo e di antifascista perfettamente rispondente a quanti, alla fine della guerra, si sono ritrovati nell’Anppia, fondata nel 1946 da Sandro Pertini ed Umberto Terracini per riunire i perseguitati politici antifascisti. Un’associazione che in questo momento storico vede ancora attuali i propri fini: combattere contro il rinascente fascismo in tutte le sue forme, palesi, occulte o dissimulate, e contro ogni sua manifestazione ideologica o d’azione; riconoscere la Costituzione repubblicana come il patto civile nel quale si incontrano e si riconoscono tutti i democratici italiani; lottare affinché questa sia attuata in tutte le sue parti. La violazione di questa Costituzione significa voler vanificare o inficiare le conquiste e gli ideali dell’Antifascismo. 15 16 Cultura Patrioti Il Garibaldi sconosciuto che lottava per i diritti civili Il libro di Lauro Rossi analizza i precursori del pensiero democratico e ci fa scoprire l’attualità dell’Eroe dei due mondi di Nicola Terracciano La casa museo di Garibaldi a Caprera I l prezioso, solido libro Ideale nazionale e democrazia in Italia. Da Foscolo a Garibaldi (Cangemi editore, 32 euro, ebook 26 euro) si deve a Lauro Rossi, il sapiente dirigente della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma che ha sempre abbinato gli impegni professionali agli studi storici, soprattutto risorgimentali, rivelando una vera inclinazione per la ricerca sul campo: è abilissimo nel disvelare e approfondire fonti finora trascurate. Rossi ha, tra l’altro, curato un volume dell’Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini, dedicato all’età giacobina e napoleonica, e ha dato un contributo personale importante ai doverosi momenti collettivi di memoria, come quelli sul 150mo dell’Unità d’Italia, su Garibaldi, su Mazzini, sui Fratelli Rosselli. A riconfermare la sua appassionata tensione civile, che si cela dietro l’apparente distacco e l’accattivante bonomia, ha raccolto in questo fondamentale libro saggi pubblicati negli anni, rivisti con cura per l’occasione, insieme a contributi nuovi. Il tema di fondo è la rimeditazione personale di passaggi nodali del fondamentale evento risorgimentale nel suo impianto ideale, nel suo effettuale svolgimento, nei suoi risultati duraturi, ma anche nei suoi limiti, a partire dall’approdo unitario. Quest’ultimo non fu supportato, per esempio, da una trasformazione dello Statuto albertino: nato in altro contesto storico, quindi insidiato e indebolito nel suo decisivo impianto costituzionale, ha prodotto man mano fenomeni negativi, di corruzione e di autoritarismo, col trasformismo, poi col crispismo, con i limiti del giolittismo. Questi elementi negativi, combinandosi con gli effetti della prima guerra mondiale, hanno portato allo snaturamento del Risorgimento da parte del fascismo. L’opera di deformazione e di sostanziale sfregio del reale profilo storico del Risorgimento, che era stato nazionale e mai nazionalistico, liberale, laico, aperto alla modernità, si è prolungata nell’età repubblicana, fino ad oggi, anche per l’egemonia politica e pedagogica di forze estranee o addirittura avverse al Risorgimento. I limiti dell’approdo unitario erano stati lucidamente, profeticamente intuiti e analiticamente argomentati dalla tradizione democratica italiana, una delle fondamentali forze attive nel processo risorgimentale e la più aperta al futuro, non solo per l’Italia, ma per l’Europa. A questa tradizione, che ha avuto il proprio baricentro nel grande asse Mazzini-Garibaldi, sono dedicati i saggi centrali del libro di Lauro Rossi, con la riscoperta della figura importante e poco nota di Alberto Mario. Rossi dedica la prima parte del suo volume ai precursori del pensiero democratico in epoca napoleonica, Ugo Foscolo, Giovanni Fantoni, Enrico Michele L’Aurora, nel riconoscimento della preziosità e originalità delle loro 17 Cultura Patrioti esperienze biografiche, delle loro posizioni ideali, delle meditazioni e proposte politiche. In particolare Foscolo sa cogliere il valore del Bonaparte generale, forza storica rivoluzionante, ma sa anche svelare e criticare i limiti e le tragedie del Napoleone dominatore. Il libro dedica grande spazio alla singolare figura del patriota democratico romano Enrico Michele L’Aurora (l’autore ne ha curato la voce nel Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani). Rossi è affascinato da quel suo concittadino ramingo per il mondo. L’Aurora poneva al centro del suo pensiero e della sua azione rivoluzionaria la storica divisione della penisola e la sua arretratezza. Per ritrovare la sintonia con la modernità voleva una Italia unita, indipendente, repubblicana, democratica, laica, capace di porre fine, con Roma capitale, al potere temporale del papato, sommo esempio di dispotismo e di monarchia assoluta. L’Aurora già parla di una federazione europea, e poi mondiale, di liberi popoli, anticipando Mazzini. L’Aurora fu uomo di pensiero e di azione. Rossi ne approfondisce la partecipazione alla Repubblica Romana del 1798, ma soprattutto il ruolo nella Repubblica Napoletana, al seguito di Championnet, suo amico. L’Aurora divenne nel giugno 1799 comandante di Castello dell’Ovo e quindi protagonista delle ultime tragiche vicende, rimanendo ferito più volte. Evitò il capestro, ma non ventuno mesi di duro carcere nelle orribili prigioni borboniche. Accanto a nuove notizie sulla vita di L’Aurora Rossi riporta scritti inediti, trovati a Parigi, che impreziosiscono il volume non solo dal punto di vista critico, ma anche documentario e permettono di datare al 1793 la stesura del suo scritto più noto All’Italia nelle tenebre L’Aurora porta la luce. Il volume di Rossi presenta un interessante e doveroso saggio sulla preziosa figura del patriota piacentino Melchiorre Gioia, poco presente nella grande memoria risorgimentale di fine Settecento. Col suo spirito acuto e pragmatico Gioia colse i limiti dell’azione dei democratici e dei francesi che non seppero coinvolgere cittadini e soprattutto contadini aizzati da un clero reazionario e nemico dei principi di libertà e di democrazia: da lì il fenomeno delle insorgenze. Un’altra figura ritenuta minore che Rossi richiama giustamente è quella del valtellinese Cesare Paribelli, che denunciò le violenze della conquista francese e indicò profeticamente come prospettiva fondamentale per il movimento rivoluzionario italiano quella di una Repubblica italica indipendente, indivisibile, con Firenze capitale, essendo l’Italia una penisola troppo lunga e geograficamente tormentata. Lauro Rossi dà un giudizio positivo sui patrioti italiani di fine Settecento: «Veri iniziatori del movimento risorgimentale, decisi sostenitori dell’unità della penisola, conobbero lungo tutto l’arco del XIX secolo una pesante opera di rimozione. Si rimproverava loro di essere stati troppo succubi dei francesi, di non aver operato in piena autonomia. Eppure, quasi tutte le idee espresse dal nostro Risorgimento furono formulate ed elaborate nel corso degli anni 1796-1802». Nella seconda parte del libro, dal titolo I democratici e il processo di unificazione i vari saggi approfondiscono Mazzini e il primato dell’iniziativa italiana, Garibaldi tra guerra e pace, infine Alberto Mario e la difesa dell’integrità nazionale. Rossi, con tutte le sue simpatie di democratico, analizza il fenomeno Garibaldi dopo l’epopea del 1860. Se nell’immaginario collettivo l’Eroe che si ritira nell’umile casetta di Caprera è un personaggio minore che ha solo episodici scatti di protagonismo, Rossi sfata la leggenda e approfondisce la ricchezza di quei lunghi anni solitari, quando Garibaldi mise a fuoco il suo pensiero politico con una originalità e una modernità di tratti che lo rendono attualissimo, nostro contemporaneo oltre che leggenda dell’Ottocento. Garibaldi, pur avendo come residenza un’isoletta sperduta, si mantiene dal 1861 fino alla morte nel 1882, per ventidue anni, in profonda e costante consonanza e compartecipazione con la vita storica dell’Italia e dell’Europa, ne sa avvertire i problemi cruciali, sia quelli più immediati, urgenti, sia quelli più profondi e prospettici. Non c’è battaglia per i diritti civili, politici e sociali in Europa e nel mondo che non veda Garibaldi in primo piano o solidale: dall’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti (Lincoln gli propose di guidare le truppe dell’Unione), alla critica radicale del razzismo, alla lotta per i diritti civili e politici degli ebrei, all’emancipazione delle donne, all’abolizione della pena di morte, alla conquista del suffragio universale, alla rivendicazione dei diritti e dei doveri di operai e contadini affermati dalla Prima Internazionale. Il suo era un orizzonte di pace, di progresso, di democrazia; ammetteva la guerra solo come guerra dei popoli contro il dispotismo e l’impostura. Il suo impegno nel parlamento e nel paese, direttamente o attraverso i suoi fedelissimi, come Cavallotti, mirava a una democrazia sempre più diffusa e autentica, allo sviluppo della scuola pubblica e laica, del sapere e della scienza, al contenimento della rendita parassitaria con lavori pubblici e socialmente utili. Garibaldi si è battuto per una Confederazione Europea e per una Confederazione mondiale con l’avvento di un arbitrato internazionale a Ginevra per comporre i contrasti. Il tema della fratellanza dei popoli era dentro anche alla sua fervida adesione alla massoneria, di cui fu anche Gran Maestro. Sognava un’Italia libera veramente, democratica, laica, operosa, europeista, sorella di altri popoli liberi che insieme potevano garantire pacifica convivenza e progresso, perché laddove non vi sono popoli liberi e democratici non vi può essere mai veramente la pace. 18 Cultura Stavolta ci prende l’anima una ragazzina scampata ad Auschwitz Il film Anita B. di Roberto Faenza racconta il dopo lager, ma gli esercenti cinematografici lo boicottano. «Siamo un paese ignorante, senza memoria», dice il famoso regista che viene comunque premiato dall’attenzione di folte scolaresche di Antonella Amendola Q ualche voltafaccia sgarbato. Qualche prudente ritirata. Alcuni esercenti cinematografici, dopo essersi impegnati, si sono rifiutati di accogliere in sala il film Anita B. di Roberto Faenza, storia di una sedicenne ebrea scampata ad Auschwitz che vuole, con tutte le sue forze, tornare alla vita, progettare un futuro, abbandonarsi all’amore. «Un grosso equivoco», dice il regista. «Appena senti parlare di campi di concentramento c’è spavento. Accade come alla protagonista del mio film, tutti si sottraggono ai suoi racconti. Ma il mio non è un film sull’orrore dei campi, è un film sul dopo, un argomento pochissimo trattato al cinema». Il film, che è liberamente tratto dal romanzo di Edith Bruck Quanta stella c’è nel cielo, ed è stato scelto dallo Yad Vashem di Gerusalemme per la solenne Giornata della memoria (27 gennaio) ci conduce nel percorso emotivo della ragazzina (interpretata da Eline Powell), tra la famiglia non sempre ospitale, i ricordi brucianti, il sogno di Israele, la consolazione di un piccolissimo amico bambino, l’unico al quale confidare paure e speranze, anche se non è in grado di intenderle. Il racconto intriga, commuove e del resto è proprio Faenza a confessare che leggendo il libro della Bruck era scoppiato a piangere. C’è poi la solida cornice storica (siamo nella Cecoslovacchia che si accinge a diventare comunista) a suggerire più di una riflessione. Eppure il percorso pubblico del lavoro di Faenza è impervio: succede alle produzioni indipendenti in Italia dove i monopolisti degli schermi, i grandi marchi, ci subissano di stupide commedie, clonate le une sulle altre. Per attirare l’attenzione sul suo film il regista ha comprato una pagina di giornale per una locandina provocatoria che recita: «A quale X-Factor partecipò Adolf Eichmann?». «Mi è capitato», spiega Faenza, «di vedere un quiz, L’eredità, con un concorrente, un giovane, che credeva che Hitler fosse un personaggio degli anni Settanta. Non me la prendo con i ragazzi, ormai avvinti alla vita virtuale della connessione perenne, me la prendo con la scuola, che è stata ottima e oggi non vale più niente, con professori ridotti a guadagnare 1.200 euro. Me la prendo con i genitori. Me la prendo con l’elefantiasi della televisione che esalta l’attimo fuggente, mentre il cinema ha il dovere di ricordare. Nessuno vuole più fermarsi a guardarsi indietro. Siamo un paese ignorante, senza memoria. Ho letto un libro bellissimo della Tobagi sulla strage di Brescia, ma se tu parli di stragismo strabuzzano gli occhi. Chi si ricorda più di Piazza Fontana, di Bologna?» Già, la memoria, un tema immenso, perché è con la selezione dei ricordi, di ciò che conta e ciò che è trascurabile, che una comunità si dà un’identità, un’aspettativa di futuro. «Mi interessa il tema della memoria, individuale e collettiva», dice Faenza. «Avevo già fatto film sull’Olocausto, questa volta l’approccio è diverso: c’è una ragazza che non vuole fare tabula rasa di tutta l’esperienza dolorosa che ha vissuto, perché intuisce che azzerando i ricordi annullerebbe se stessa. Ma chi le sta intorno la invita anche bruscamente a voltare pagina, a dimenticare. Succede anche in Napoli milionaria: Eduardo Roberto Faenza torna dalla guerra e immagina che tutti lo festeggino. Invece neanche lo invitano a pranzo. La guerra è un argomento tabù, i reduci sono a malapena tollerati e si sentono quasi in colpa di avercela fatta. Jean Amery, che nel lager fu compagno di baracca di Primo Levi, sosteneva che Dio ha dato all’uomo la dimenticanza e che un angelo si avvicina ai bambini per fare in modo che ricordino, un altro angelo perché dimentichino. C’è anche il diritto all’oblio, quella che il linguaggio psicoanalitico chiama rimozione. Io non credo che siano spregevoli le persone che, essendo passate per esperienze indicibili come i lager, vogliano dimenticare. Credo, però, che la collettività ha il dovere della memoria e, in una parola, la memoria è giustizia». Faenza se la prende con i negazionisti, dice che non hanno un briciolo di intelligenza, li accusa di volersi solo fare pubblicità. «Però con la crisi che picchia duro si rischia davvero», osserva. «Ormai nel fronte antieuropeo si ritrovano partiti dichiaratamente fascisti o nazisti. Tutta l’Europa ha una perdita di memoria e Marine Le Pen potrebbe essere il primo partito in Francia. Ecco perché voglio che il mio film lo vedano gli alunni delle scuole. Già in 100 mila si sono prenotati». Cultura Hannah, che negli occhi di Eichmann scoprì la banalità del male Siamo alle solite: osannato dai critici stranieri, esce nelle sale italiane, ma solo per due giorni, il film di Margarethe von Trotta Hannah Arendt. Primo piano sulla filosofa ebrea, nemica dei totalitarismi, che scatena ancora polemiche e censure di Elisabetta Villaggio I l New York Times in una lista di recensioni di 900 film dello scorso anno l’ha inserito tra i primi dieci. La critica giapponese l’ha decretato il miglior film straniero del 2013. Stiamo parlando di Hannah Arendt il bellissimo lungometraggio di Margarethe von Trotta che narra un pezzo di vita della filosofa e studiosa ebrea tedesca, nelle sale italiane in occasione del Giorno della Memoria il 27 e 28 gennaio. Hannah, nata da una famiglia ebraica a Linden nel 1906, studiò all’università di Marburgo ed ebbe come professore Martin Heidegger, con il quale coltivò una relazione segreta. Per molti versi fu la sua migliore studentessa, appassionata nella ricerca del libero pensiero e dell’onestà intellettuale, che metterà sempre al primo posto nella vita. Quando i nazisti prendono il sopravvento in Germania lei si rifugia in Francia dove conosce il secondo marito e grande amore della sua vita, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, con il quale emigrerà negli Stati Uniti nel 1940. La pellicola racconta gli anni dal ’61 al ’64 quando Barbara Sukova è Hannah Arendt nel film della von Trotta Hannah, interpretata da una bravissima Barbara Sukowa, viene inviata dal New Yorker in Israele per seil comunismo di Stalin e contro il totalitarismo in generale. Questa guire il processo al criminale di guerra nazista Adolf Eichmann è stata una lezione alle persone di sinistra che all’epoca non criticatturato dal Mossad in Argentina. Per la famosa rivista scrive cavano certe cose. Solo dopo la caduta del muro di Berlino noi di una serie di articoli, poi diventati il libro La banalità del male, sinistra abbiamo iniziato a vedere le cose in modo più obiettivo. dove solleva la questione che il male possa non essere radicale. Lei era avanti con il pensiero». L’assenza di memoria e il rifiuto di pensare possono trasformare La relazione con Heidegger è stata molto importante, forse persone banali, come lo era Eichmann, in veri e propri criminali. la più importante della sua vita. Lei la racconta solo in un Per lei il gerarca nazista altro non era che una persona priva di perflash back. sonalità che, come sosteneva lui, aveva obbedito a ordini superiori. «Non ho scelto di fare questo flash back per raccontare che La Arendt inoltre chiama in causa alcuni leader ebrei accusandoli erano amanti e se avessi deciso di fare un film su questo argomento di non aver capito in tempo la gravità del nazismo: queste sue tesi avrei trovato molto facilmente i soldi: l’ebrea e il pro nazi! Hannah scatenarono fortissime critiche e il suo libro non fu pubblicato in sostiene che pensare ci protegge dalle catastrofi e Heidegger inseIsraele fino al 2002. Abbiamo incontrato la regista a Roma dove è gnava a pensare. Poi è caduto nella trappola del nazismo, mentre venuta a presentare il suo film. Hannah era una idealista che guardava al passato cercando di Hannah Arendt è stata considerata una revisionista: diceva spiegare i tempi bui, ma era anche una filosofa che sosteneva che il che i capi ebrei avrebbero potuto comportarsi diversamente. pensiero possa salvare dal male». «Abbiamo scelto, con la mia coautrice (Pam Katz ndr), Che tipo di reazioni ha avuto il pubblico in giro per il di raccontare un periodo della vita della Arendt. Hannah è mondo? stata accusata di essere una sorta di revisionista perché ha «L’accoglienza è stata miracolosa! Abbiamo fatto l’anteprima a messo in dubbio i capi ebraici, li ha accusati di aver coopeGerusalemme ed è andata molto bene. Il film ha avuto successo in rato. Questo è venuto fuori durante il processo che lei seguiva. Germania e in America e sono molto contenta perché ho dovuto Anche quando ho fatto altri film sul nazismo mi sono molto docuaspettare 8 anni prima di realizzarlo! Sono stata invitata a New mentata e ho letto tante cose su alcuni capi ebrei che hanno fatto York alla New School, dove insegnava Hannah e molti intellettuali cose anche solo per vantaggi personali, ma in fondo anche loro sono scappati, per l’ottantesimo anniversario della fondazione». umani e non vuol dire che essere ebrei significhi essere migliori». Perché in Italia il film esce solo per due giorni? Qual è il messaggio più importante della Arendt? «Abbiamo avuto difficoltà di ricezione da parte delle sale ita«Le sue idee hanno cambiato il mondo. Se non guardi oltre riliane così abbiamo deciso di proporlo nel Giorno della Memoria. Il mani limitato nel tuo pensiero e poter pensare è un dono, quindi film comunque ha avuto grande attenzione da parte di associabisogna utilizzare la propria testa. Lei ha scritto un altro libro zioni e dalle scuole». molto importante, (Le origini del totalitarismo nel 1951 ndr), contro 19 20 Cultura Cristicchi canta la tragedia dei profughi dell’Istria e accorre la polizia Nello spettacolo Magazzino 18 trionfa la pietà per tutti coloro costretti all’esodo dalle guerre, dalle ideologie, dai calcoli dei politici. Ma il grande tema è l’italico vizietto della rimozione: è ancora tabù parlare dei profughi giuliano-dalmati di Paolo Morelli C omandamento numero undici: non dimenticare! Magazzino 18, l’ultimo lavoro di Simone Cristicchi, scritto insieme a Jan Bernas e con la regia di Antonio Calenda, musiche dal vivo inedite dello stesso Cristicchi, ci conduce dentro una delle tante vicende italiane sapientemente rimosse, dentro appunto il magazzino del Porto Vecchio di Trieste dove tuttora sono conservati gli effetti personali, le mobilie, i ricordi di una diaspora pressoché cancellata, anzi svuotata di senso in quella parte di storia d’Italia del secolo scorso che somiglia a una mesta rapsodia della dimenticanza. Siamo nel ’47, quando in seguito al trattato di pace l’Italia ha perso vasti territori dell’Istria e della fascia costiera, e quasi 350mila istriani, fiumani, dalmati scelsero, o meglio dovettero scegliere di abbandonare le loro case e le loro terre per sempre, rastrellati in nome della Storia e male accolti in patria, dove vagarono e a volte morirono tra campi profughi che possiamo immaginare molto simili agli odierni Cie. La differenza, e non di poco conto, è che si trattava di italiani, circondati da cattiva fama, diffidenza, ogni sorta di pregiudizi e fanatismi per aver abbandonato il territorio divenuto jugoslavo e in mano a Tito, specie, ma non solo, da parte del Pci che organizzò manifestazioni che costellavano di insulti il loro viaggio sulle tradotte. In quel magazzino abbandonato da settant’anni un personaggio scanzonato e romanesco capitato lì per caso, un archivista, si ritrova alle prese coi fantasmi che quegli oggetti suscitano, e con l’indignazione che una revisione odierna della vicenda non può non sollevare. Oggetti siglati con nomi e numeri, armadi, attrezzi da lavoro, fotografie in bianco e nero, quaderni scolastici, bauli e tante sedie che hanno pure incollata addosso la tragedia di un intero popolo sradicato e sbandato, tragedia che non si fa fatica ad accostare agli avvenimenti attuali. Cristicchi stesso, in un’intervista a Il Piccolo on-line ha dichiarato: «Quello che mi ha mosso è la pietà, la compassione per le persone che oggi vivono l’esodo. È un problema che esiste da sempre, ma lo stiamo vedendo bene in questi giorni con tutte le persone in fuga che sbarcano sulle nostre spiagge. Ho preferito raccontare la geografia dell’anima, piuttosto che quel poco che dicono i libri di storia…» È infatti una sorta di compassione, nel senso etimologico, che porta l’ignaro protagonista a diventare una specie di spirito delle masserizie e a raccontare, quindi, il dolore delle vicende personali, individuali, di gente in balìa di quelle che si spacciano per le grandi risoluzioni della Storia, ma che altro non sono in fondo che le decisioni dei potenti di turno, di qualsiasi ideologia si ammantino. Dalla donna che non volle partire al bambino di un campo profughi, all’esule da Pola, dai portuali monfalconesi che decisero al contrario di andare in Jugoslavia, al prigioniero del lager comunista di Goli Otok. Raccontano, quegli oggetti accatastati, la vecchia storia dei guai che si combinano quando ci si ostina a ragionare troppo in grande, e Cristicchi ci porta la sua testimonianza dolorosa, con voce di ragazzo che incanta per quel gradiente di emozione rinnovata, e dopo il bellissimo Li romani in Russia, grande poema vernacolare misconosciuto di Elia Marcelli, in una sequenza di scelte artistiche che sembra un inventario delle sconfitte di questa nazione. Se ce ne fosse bisogno, la necessità della rivisitazione della vicenda ha avuto riprova nelle accuse al cantante-attore da parte delle opposte fazioni, fino a portare alla prima nazionale al teatro Rossetti di Trieste con la polizia schierata all’entrata. Come ha dichiarato lo stesso Cristicchi in un’intervista al Fatto Quotidiano: «Una cosa davvero unica penso nella storia di questo teatro. All’inizio si respirava tanta tensione che poi si è sciolta anche con qualche risata. Personalmente non mi era mai capitato di andare in scena in un teatro all’esterno del quale c’erano le forze dell’ordine per timore di disordini. È stata la vittoria della gente che non ha voce, visto che con questo musical siamo riusciti a colmare il silenzio di tanti anni. Il lungo e ininterrotto applauso finale ha posto la parola fine su tutte le polemiche». E ancora, nella stessa intervista: «Ritengo che la generazione precedente alla mia non abbia fatto i conti con quella vicenda. Chi come me viene dopo ha una visione più imparziale e non intrisa di ideologia, che permette di capire che non è stata solo la tragedia, bensì una vera trasformazione di un popolo e credo che sia questo l’elemento di interesse per i giovani». “Da quella volta non l’ho rivista più, cosa sarà della mia città. / Non so perché stasera penso a te, strada fiorita della gioventù. / È troppo tardi per ritornare ormai, nessuno più mi riconoscerà”, cantava il profugo polese Sergio Endrigo. E per chi si chiede come sia possibile pensare di recuperare una visione comune, una coscienza civile in un paese che si è andato costruendo, strutturando quasi sulla dimenticanza e sull’impunità, su omertà istituzionali e protezioni, dalla vicenda giuliano-dalmata a Portella della Ginestra alle tante stragi e quotidiane ingiustizie in cui lo Stato ha avuto sempre un qualche ruolo, il lavoro di Cristicchi rappresenta un bel tentativo di risposta. Cultura Girando per l’Italia ho scoperto che il mio libro ha una missione L’autore di Io ho visto, testimonianze di vittime delle stragi nazifasciste, racconta il percorso di un testo che va oltre le parole. Tra studenti, protagonisti e testimoni dell’epoca, con Pamela Villoresi, la memoria diventa impegno per il futuro di Pier Vittorio Buffa L a giovane insegnante si è avvicinata a me quando ancora c’era buio in sala. Ha detto grazie tendendomi la mano. «Grazie perché i ragazzi si sono commossi, non succede mai». Pamela Villoresi era accanto, stava firmando i libri e non ha sentito. Le ho detto dopo quello che la professoressa mi aveva sussurrato e ci siano scambiati uno sguardo sorridente. Poco prima Pamela aveva risposto in modo semplice e diretto alla domanda di un ragazzo. fascisti nell’Italia occupata dal 1943 al 30 aprile 1945, quando la guerra era virtualmente finita. Trentatré persone che hanno visto le stragi così da vicino da essere dei sopravvissuti e da portare per sempre dentro di sé il dolore terribile di quei giorni. C’è la donna che racconta di quando restò per ore sotto il corpo della mamma uccisa dalla mitragliatrice. L’uomo che si è salvato perché si è nascosto in un sottoscala. L’allora ragazzina emiliana che è saltata dalla finestra per sfuggire Un momento dello spettacolo tratto dal libro Io ho visto di Pier Vittorio Buffa. Pamela Villoresi legge alcune testimonianze di vittime delle stragi nazifasciste «Perché parlare oggi di cose di settant’anni fa? Perché?». L’attrice aveva risposto d’istinto ma scandendo bene le parole. «Perché noi che siamo qua, e siamo tanti, dopo una mattinata come questa ci si dica che mai faremo e mai permetteremo che delitti così vengano più commessi. Se questo accadrà queste due ore avranno avuto un senso». Questi pochi istanti, questo pugno di parole, dell’insegnante e della Villoresi, mi hanno spiegato, meglio di quanto avessi potuto fare io parlando con me stesso, il significato del mio libro Io ho visto. Eravamo a Mestre, al teatro Toniolo, durante una mattinata organizzata dal Comune di Venezia per le scuole. Più di cinquecento ragazzi delle superiori ad ascoltare Pamela Villoresi che recitava brani di Io ho visto. Un libro che fa parlare trentatré persone e che racconta trenta storie. Trenta storie di stragi compiute dai nazisti e dai alle fiamme e ai colpi di pistola. Il progetto del libro è nato d’impulso una sera di maggio quando in un teatro di Roma, durante un convengo sulle stragi, il sindaco di un paese straziato dai nazisti disse che se ne era andata l’ultima testimone di quell’eccidio. Decisi che dovevo andare a cercare chi aveva visto e voleva raccontare. Per ascoltare i suoi racconti, scattargli una fotografia e far nascere un libro che aiutasse a non perdere la memoria, a mantenere vivo il ricordo di quello che il nazismo e il fascismo hanno fatto. Dopo meno di un anno il libro era stampato e il giorno della sua presentazione, nella libreria Fandango di Roma, è successo qualcosa che non mi aspettavo, che non avevo previsto. Quel giorno, da Fandango, insieme al libro e alle foto esposte in una sala vicina, c’erano Pamela Villoresi e tante, tante persone. Molte di più di quelle che ci aspettavamo. Pamela Villoresi non la conoscevo. Me l’aveva 21 22 Cultura presentata per l’occasione il mio amico Maurizio Giammusso perché le proponessi di leggere qualche pagina del libro. Tra il pubblico c’erano tre dei protagonisti del libro. Poi molti amici e diversi sconosciuti, forse venuti più per Paolo Mieli e Walter Veltroni che presentavano il libro che per sentir parlare di stragi. Pamela inizia a leggere, cioè a recitare, il capitolo in cui Cesira Pardini racconta la strage di Sant’Anna di Stazzema vista con i suoi occhi di ragazza che vede morire mamma e sorelle. Nella sala cala un silenzio assoluto, gli occhi sono tutti puntati sull’attrice, l’applauso arriva forte e spontaneo. E dura a lungo. E così anche dopo, ogni volta che Pamela recita i brani di Io ho visto. La passione dell’interpretazione e la straordinaria partecipazione e commozione del pubblico era quello che non avevo previsto. E tutto nasceva e nasce dalla forza della testimonianza, dalla indistruttibile energia di chi ha avuto e ha la forza e il coraggio di raccontare. Così quel giorno non è stato, per Io ho visto, il semplice giorno della presentazione, ma l’inizio di un viaggio che lo ha portato, in pochi mesi, in una ventina di città e paesi e che continua ancora adesso. Un viaggio durante il quale le parole dei protagonisti, alle quali ho dato la forma di racconti compiuti, hanno come preso il volo per arrivare al cuore di chi le ha ascoltate. A Cavriglia, in Valdarno, i nazisti arrivarono il 4 luglio del 1944 uccidendo duecento persone. Il 9 giugno 2013 siamo nella navata di quella che fu la chiesa di Castelnuovo dei Sabbioni. La sala è piena, ci sono cinque protagonisti di Io ho visto: Aldo Dini e Sergio Martini, Ida Balò e Vittoria Lammioni, Goffredo Cinelli. Due giovani attrici, Chiara Cappelli e Caterina Meniconi, recitano, senza leggere, le testimonianze della strage di Cavriglia, quelle di Aldo Dini e Sergio Martini. Lo fanno passeggiando nella navata. Sergio è solo. Quando sente le proprie parole risuonare in quella che è stata una chiesa abbassa appena lo sguardo, Un bel primo piano dell’attrice Pamela Villoresi gli occhi si stringono. Con Aldo Dini c’è la moglie. Appena sente pronunciare il nome di suo marito gli preme la mano e la tiene fino alla fine. Uno degli episodi della strage, quello da cui sfuggì Aldo Dini, avvenne lì, a nemmeno cento metri dalla chiesa. È come se tutti ne fossero consapevoli. E quando, alla fine, la gente si saluta passando davanti alle foto della mostra con tutti i ritratti di Io ho visto è come se il ricordo dei quindici-ventimila morti della guerra nazista contro i civili italiani fosse tutto concentrato a Castelnuovo. A Sant’Anna di Stazzema, la sera del 4 agosto, ci sono Pamela Villoresi e il procuratore militare Marco De Paolis, l’uomo senza il quale i processi contro i responsabili delle stragi non sarebbero stati celebrati. Siamo sulla piazzetta davanti alla chiesa, il luogo più simbolico della strage che fece quasi seicento morti. Lì i nazisti ammucchiarono i cadaveri e gli diedero fuoco. Lì risuona la voce forte e commossa dell’attrice che sembra quasi dare corpo al dolore di Cesira Pardini, Enrico Pieri, Enio Mancini. A Varese non ci sono state stragi, ma uno dei primi episodi della Resistenza, la battaglia di Monte San Martino. Io ho visto è lì per l’anniversario di quella battaglia, per un grande evento organizzato da Varesenews. Nel cinema più di mille studenti. Sul palco Pamela Villoresi. In sala Maddalena Gazzetta che a Borgo Ticino, poco lontano, il 13 agosto 1944, ha visto fucilare suo zio. Pamela recita le sue parole con un soffio di voce, nel silenzio assoluto. Poi chiede che la signora venga sul palco. Maddalena sale, la abbraccia e racconta la propria emozione, è come, dice, se la mia mamma di cui tu hai ripetuto le parole, fosse qui, accanto a noi, è come mi fossi rivista come allora, su quella piazza, a veder sparare. Il lungo e affettuoso applauso arriva quando Maddalena è quasi senza più parole. In Sicilia, quando è arrivata la guerra, l’Italia era ancora alleata della Germania. Ma a Castiglione, sulle falde dell’Etna, i tedeschi hanno ugualmente ucciso a freddo, senza una ragione, il 12 agosto 1943. In paese c’era Antonino Ferlito, assassinarono suo padre e lo fecero prigioniero. Lui è uno dei protagonisti di Io ho visto. Nel castello del paese, il 27 ottobre, lui non c’è, perché vive a Roma. Ma c’è sua nipote Felicia che legge il suo racconto e c’è il vice sindaco del paese che annuncia l’intenzione di far diventare il 12 agosto il giorno della memoria del paese. Ecco. Come ha detto Pamela Villoresi a Mestre, se anche soltanto la metà, un decimo, un centesimo delle persone che hanno ascoltato o letto i racconti dei protagonisti di Io ho visto dicessero a se stessi e gli altri: «Io non permetterò che tutto questo accada mai più», la missione del libro e del suo viaggio sarà compiuta. Le Date della storia 23 Roma occupata Per mio padre era una vergogna una figlia antifascista in carcere Marisa Cinciari Rodano, esponente di punta dei cattolici comunisti ci racconta come da studentessa maturò le sue convinzioni al liceo E. Quirino Visconti e di come si dedicò alla Resistenza tra pericoli e privazioni di ogni genere di Fabiana Tacente Roma, 20 aprile 2012. Il Presidente Giorgio Napolitano riceve Marisa Cinciari Rodano, cofondatrice di Noi Rete Donne S ono nata il 21 gennaio 1921, quello stesso giorno a Livorno si dava vita al Pci, che era destinato ad avere un’influenza determinante per il resto della mia vita», inizia così Del mutare dei tempi (edizioni Memori, pp.379) autobiografia di Marisa Cinciari, sposata a Franco Rodano, una delle donne simbolo della Resistenza a Roma e delle lotte in difesa delle donne nel corso degli anni. Figura storica nei Gruppi di Difesa della Donna e successivamente dirigente dell’Udi (Unione donne italiane), ha portato avanti varie battaglie molto importanti, tra cui il diritto al voto delle donne e la tutela delle lavoratrici madri e mogli. Incontriamo la prima donna che ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della Camera (’63-’68) nella sua storica casa di via di Porta Latina: è riservata, ma non reticente, e nel lungo colloquio che abbiamo avuto viene fuori tutta la sua onestà intellettuale. «Vengo da una famiglia ricca e borghese», inizia a parlare. «Mio padre era fascista, Sciarpa Littorio, ed era stato anche Podestà di Civitavecchia. Mia madre, invece, era di famiglia ebraica e veniva da Mantova; si erano conosciuti durante la guerra, dopo la rotta di Caporetto, ma erano molto diversi e non credo sia stato un amore sereno. Io ho fatto la brava ragazza di famiglia a lungo. Poi è arrivato il periodo del liceo». Che tipo di formazione culturale ha avuto? «Sono andata a scuola al liceo Visconti, dove ho conosciuto da subito professori antifascisti; poi lì c’era un clima particolare, ci avevano studiato anche Pietro Amendola e tanti combattenti antifascisti. Ho cominciato, insieme con altri compagni di scuola, a sentire cose nuove. Capivamo che il fascismo stava portando il Paese al disastro, così costituimmo un piccolo gruppo cospirativo, insieme con altri ragazzi di altre scuole». Quali furono i legami che influirono nelle sue scelte politiche? «Il gruppo dei Cattolici comunisti, quello che divenne il Partito della Sinistra Cristiana e tanti altri compagni di quell’epoca ebbero grande importanza. Con Franco Rodano, Silvia e Laura Garroni eravamo amici dai tempi del liceo; Romualdo Chiesa fu anche un mio testimone di nozze: purtroppo morì alle Fosse Ardeatine. Anche con Paolo Bufalini, nostro professore supplente, i rapporti furono molto stretti e durarono tutta la vita. Nel 1939 ci iscrivemmo all’Università di Lettere e ci avvicinammo alla Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana); ricordo che negli anni ’40 il presidente della Fuci era Aldo Moro e il direttore del giornale Azione Fucina era Giulio Andreotti. In quel periodo davo lezioni di latino a un ragazzino che aveva una sorella un po’ più grande, bella e svagata, che durante l’occupazione tedesca di Roma sarebbe divenuta una coraggiosa gappista, Medaglia d’oro della Resistenza: era Carla Capponi. Sempre nello stesso periodo devo aver conosciuto molti amici di Franco, cattolici e non, tra cui Adriano Ossicini e Paolo Pecoraro, Tonino Tatò, altro amico fraterno per tutta la vita. Attraverso Paolo Bufalini conoscemmo molti antifascisti di matrice laica o comunista, come Mario Alicata, Antonio Amendola e Pietro Ingrao». Come si mantenevano i contatti senza rischiare di essere scoperti? «Nel nostro gruppo riuscivamo a fare anche piccole riunioni, ma era molto complicato. Cercavamo di non farci scoprire, ma non era per niente facile. Ognuno aveva paura, perché se veniva arrestato poteva mettere in pericolo anche gli altri. Non scrivere nulla e distruggere sempre quel che per necessità si fosse scritto divenne regola ferrea. Quella fu l’epoca dei ragni, foglietti minuscoli, tali da poter essere 24 Le Date della storia Roma occupata masticati e inghiottiti in caso di bisogno, contenenti lo schema organizzativo, la rete di contatti senza nomi, vere ragnatele di segni intervallati da sigle e nomi falsi. Prima della Resistenza, quando mio marito fu arrestato, ricordo che sono uscita di casa la mattina presto per andare ad avvertire Adele Maria Jemolo perché avvertisse suo marito Lucio Lombardo Radice; avvisai altre persone che si dovevano temporaneamente interrompere i contatti perché lui era stato arrestato e diventava rischioso per tutti. Diciamo che era un lavoro di contatti a due, un passaparola silenzioso. Sempre nel maggio 1943 sono stata arrestata anche io per attività contro il regime». Come reagì suo padre a questa partecipazione politica attiva e all’arresto? «Lui non sapeva che fossi antifascista, io stavo molto attenta a tenere tutto nascosto. Dopo l’arresto, venne a trovarmi nel carcere delle Mantellate e avemmo un colloquio; venne a dirmi che per lui, Podestà e Sciarpa Littorio, una figlia in carcere era una vergogna insopportabile e che, anche se fossi uscita di lì, non mi avrebbe accolta in casa. Una volta uscita dal carcere, sono tornata a casa da mia madre, che ormai si era divisa da mio padre. Soltanto diversi anni dopo lui si è riavvicinato». Ci racconta il periodo della Resistenza a Roma? «La mia resistenza è sempre stata non armata, ma noi cattoliche sostenevamo attivamente i gruppi armati, in particolare le ragazze dei Gap, Carla Capponi e le altre. Scrivevamo, stampavamo e diffondevamo la stampa clandestina, imbrattavamo i muri, buttavamo i chiodi a tre punte lungo le strade per bloccare i mezzi tedeschi, cercavamo di tenere i collegamenti con le famiglie di deportati e arrestati. Certo avevamo paura, si aveva sempre paura quando si progettava un’azione, ma in qualche modo eravamo anche molto spericolati, quando si è giovani ci si sente onnipotenti. Insieme ad Adele Bei organizzammo le prime manifestazioni, sia quelle per il pane, che una grande manifestazione a Piazza San Pietro, per Roma città aperta, che poi non si fece: ricordo che avevamo preparato anche un enorme striscione con la scritta Pane e Pace, ma il Papa quel giorno non si affacciò e saltò tutto, perché evidentemente la polizia sapeva di questa nostra iniziativa e preferì evitare problemi». Quella di Papa Pio XII è stata una figura controversa, come la giudica lei da cattolica? «Papa Pio XII si comportò male durante la Resistenza; è vero che i religiosi nascosero gli ebrei e parecchi antifascisti nei conventi, però, per esempio, fu debole la reazione sulla razzia del ghetto. Probabilmente, da un lato perché Pio XII era stato nunzio apostolico in Germania, per cui aveva rapporti con il regime di Hitler; e dall’altro, in Vaticano, tendevano, durante la Resistenza, a mantenere un rapporto neutrale col regime». I legami con il Pci furono difficili per voi del movimento cattolico? «In quella fase drammatica della storia, tutti noi cattolici del gruppo di mio marito Franco ci rendevamo conto che le indicazioni più serie e di lotta provenivano dai nostri contatti più vicini al Pci, come Bufalini. È ben evidente che comunisti non eravamo, ma non eravamo neanche anticomunisti come molti del nostro ambiente. In quelle tumultuose giornate si era assunta la decisione di dar vita al Movimento dei Cattolici Comunisti. La scelta era chiara: a fianco della lotta operaia e del Pci, da cattolici, testimoniando come la vera religione non impedisca di fare la vera politica. Dopo la guerra ci fu il V congresso del Pci: fu deciso che si poteva essere iscritti al partito senza aderire all’ideologia marxista leninista. Bastava aderire al programma politico. In quell’epoca non c’erano grandi problemi, era un momento in cui si stava costruendo un partito nuovo, aperto». Quali furono ansie e paure durante la Resistenza? «Dal punto di vista della vita quotidiana il problema era proprio sopravvivere; durante la Resistenza, ricordo che appena sposati, vivevamo in casa di un nostro amico e il problema era procurarsi da mangiare. Mangiavamo la crusca cotta in acqua e dadi, sopra una stufetta elettrica, perché non c’era gas. Il periodo della Resistenza lo ricordo come un momento di grande fame, perché pane non c’era, cibi non si trovavano, al mercato si compravano certi cespi di insalata cresciuta; poi questo continuo cambiar posto, cambiar buco, come dicevamo noi. Per un periodo siamo stati nascosti nel dormitorio pubblico di Santa Maria in Cappella a Trastevere, che era adiacente al convento delle Suore Cappellone, chiamato così per via dei loro cappelli a corno. C’era una suora che ci lasciava aperto il passavivande che dal dormitorio pubblico portava alla cucina del convento. Ogni tanto arrivavano i nazisti a fare razzie e noi passavamo dal passavivande e ci nascondevamo nel convento. Capitò che una notte la suora dimenticò di lasciarci aperto il passaggio ed arrivò una razzia e noi avevamo anche un pacco di stampa clandestina; io mi nascosi nel bagno con la stampa clandestina, con un soldato nazista che continuava a camminare avanti e indietro e io avevo il terrore che avesse bisogno del gabinetto. Ma per fortuna non entrò e alla fine, dopo tante ore nascosta ad aspettare in quel lurido bagno che andassero via, quando uscii mi prese un attacco di risata isterica che ancora ricordo!» Che ruolo ebbero le donne durante la Resistenza? «Io sono stata abbastanza marginale nella Resistenza, ma le donne hanno avuto un ruolo straordinario; di Carla Capponi si sa tutto, come di Marisa Musu e Lucia Ottobrini, membri preziosissimi dei Gap; Marcella Monaco riuscì a far evadere Pertini, Saragat e altri detenuti da Regina Coeli; Laura Lombardo Radice con il suo gruppo di insegnanti antifascisti fecero attività informativa nelle scuole, tanto che poi ci fu una grossa manifestazione degli studenti. Le donne ebbero grande importanza perché parteciparono da subito alla Resistenza; già dall’8 settembre, alla battaglia di Porta San Paolo, aiutavano la gente, facevano le staffette, nascondevano i soldati che scappavano, portavano da bere e da mangiare a quelli che combattevano, qualcuna ha combattuto direttamente; sono morte parecchie donne nella battaglia di Porta San Paolo». Politica, vita quotidiana, lotte per i diritti delle donne e sempre presente accanto a lei c’è stato Franco Rodano. «È stato un grande amore. Eravamo compagni di scuola, abbiamo cominciato a frequentarci al ginnasio e ci siamo dichiarati dopo anni; siamo finiti in galera insieme, abbiamo fatto la Resistenza insieme, ci siamo sposati durante la Resistenza, abbiamo avuto cinque figli e fino al 1983, quando è morto, siamo sempre stati insieme ed è stato un rapporto splendido». Le Date della storia 25 Roma occupata Quando arrivarono le leggi razziali volevo convertirmi all’ebraismo Mario Fiorentini era destinato alla celebrità come attore, diventò un eroico gappista romano. Qui racconta la sua resistenza nei nove mesi che precedettero la liberazione e chiarisce una volta per tutte l’operazione di via Rasella di Vincenzo Perrone F orte, lucido, determinato e con una gran voglia di raccontare. È questa l’immagine di Mario Fiorentini, classe 1918, gappista della resistenza romana e combattente partigiano nel Nord Italia dopo la liberazione della capitale. Nei suoi occhi blu si possono leggere ancora le immagini, i volti e le persone di quei 20 mesi in cui Fiorentini ha rischiato la vita centinaia di volte. Nella sua mente lucidissima sono impressi quei momenti terribili in cui l’Italia pativa la fame, la guerra e l’occupazione nazista. Con lui non si può far altro che lasciarsi travolgere dal fiume in piena dei racconti di un uomo straordinario. Accanto a lui, compagna politica e di vita, c’è sempre stata Lucia Ottobrini, classe 1924, riservata e silenziosa presenza durante questo incontro. Dove ha conosciuto sua moglie e quanto ha significato nella vostra vita di coppia l’aver fatto la resistenza? «Ci siamo incontrati per la prima volta tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 a un concerto bandistico. All’epoca le bande musicali erano legate ai militari e alle forze dell’ordine e queste occasioni erano frequenti. La prima volta abbiamo parlato in francese perché Lucia è di origine alsaziana e conosce molto bene il francese e il tedesco. I nostri incontri sono proseguiti alla villa Strohl Fern e, quasi subito, siamo diventati amanti. Dopo la liberazione di Roma io andai a continuare la guerra partigiana nel Nord Italia e quello fu un momento molto duro per Lucia perché si diffuse la notizia che ero stato ucciso; in realtà si trattava di un mio omonimo. Mi piace ricordare quello che lei dice sempre di me: “L’incontro con Mario è stato una fiammata ed è stato il mio ragazzo per tutta la vita. Dopo 67 anni dico ancora che vivo per lui”. Posso affermare con fierezza che siamo la coppia più felice e fortunata della resistenza romana». Suo padre era ebreo e sua madre cattolica. Loro decisero che lei avrebbe scelto da adulto l’eventuale religione da seguire. Nel 1938, quando furono emanate in Italia le leggi razziali contro gli ebrei, lei decise di convertirsi alla religione ebraica. Ci spiega il perché di questa scelta? «Io ero laico e libero pensatore, tuttavia quando venni a sapere delle rappresaglie e quando furono emanate le leggi razziali decisi di diventare ebreo. Il mio voleva essere un gesto di solidarietà verso il popolo ebraico. Per questo motivo mi recai dal rabbino capo Gustavo Sacerdoti, che mi chiese subito se ero circonciso. Io non lo ero perché, appunto, i miei genitori mi avevano lasciato libertà di scelta e, oltretutto, avevo già 19 anni e l’idea di affrontare una cosa del genere mi imbarazzava. Così il rabbino capo mi diede qualche giorno di tempo per pensarci e quando tornai gli comunicai che volevo farmi circoncidere. Nonostante questa mia scelta Sacerdoti mi sconsigliò di diventare ebreo, perché sarei stato considerato vile e antipatriottico, soprattutto con la guerra che ormai incombeva. Alla fine decisi di seguire il suo consiglio e non mi convertii più all’ebraismo. Penso che il rabbino capo abbia fatto quella scelta per difendere me, ma anche per difendere se stesso. Il convertire un laico come me all’ebraismo avrebbe messo Sacerdoti in una posizione difficile al cospetto dei fascisti. Lo avrebbero potuto accusare, infatti, di avermi instradato alla lotta contro il nazifascismo». Lei è stato considerato un protagonista della cultura Mario Fiorentini con la compagna di una vita, Lucia Ottobrini, nella loro casa romana (foto ‰ Ciro Meggiolaro) 26 Le Date della storia Roma occupata umanistica per via del suo impegno teatrale. Ci parla di quei momenti? «Io fondai una compagnia teatrale insieme a Plinio De Martiis e nel 1942 ero alla direzione del Teatro Italiano e dell’Accademia delle Arti Drammatiche. Ho lavorato con registi del calibro di Luigi Squarzina, Adolfo Celi e Mario Landi e con attori come Vittorio Caprioli, Alberto Bonucci, Lea Padovani e Vittorio Gassman. È con la compagnia che decidemmo di occupare militarmente il Sindacato Fascista Professionisti e Artisti, rivendicando la possibilità di poter svolgere il teatro d’avanguardia e di pensiero. Quel sindacato annoverava personaggi di spicco della letteratura dell’epoca come Filippo Tommaso Marinetti e Corrado Govoni. Un’occupazione del genere era molto rischiosa, potevamo essere arrestati o picchiati dalla polizia. La questione, invece, andò diversamente perché i fascisti ci consegnarono la sede del sindacato e questa fu una vittoria per noi». Dopo l’8 settembre 1943 e la firma dell’armistizio con gli alleati, i tedeschi hanno occupato militarmente Roma. A questo punto sono sorti i Gap (Gruppi d’Azione Patriottica) per combattere l’occupante nazista, di cui lei fu uno degli esponenti più autorevoli. Come erano organizzati i Gap e che rapporti c’erano fra di voi? «Il primo Gap centrale lo fondammo io e Lucia Ottobrini nel periodo tra settembre e ottobre del 1943. Nel mese di novembre Antonello Trombadori si accorse che l’idea di una coppia uomodonna funzionava efficacemente, così propose la stessa cosa a Maria Teresa Regard, fondando il secondo Gap. Nacquero anche dei rapporti d’amore e dei matrimoni da quell’esperienza, come per me e Lucia, ma anche per Maria Teresa Regard e Franco Calamandrei, che si sposarono. Il matrimonio tra Rosario Bentivegna e Carla Capponi fu meno felice, perché dopo 20 anni si separarono. C’erano anche delle staffette di supporto ai Gap, come Maria Antonietta Macciocchi che, per un certo periodo, collaborò con me portando nella sua borsetta delle bombe. Nei primi mesi compimmo azioni efficaci ed Herbert Kappler impazziva per cercarci; anche perché, inizialmente, non sospettava che ci fossero delle donne». Quali furono le azioni che fecero tremare i nazisti? «Una delle azioni più significative fu il mio attacco al carcere di Regina Coeli che, però, va visto in un’ottica diversa rispetto a come è stato sempre analizzato. Il mio attacco va visto in parallelo con la liberazione di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat per cui Marcella Monaco, socialista del gruppo dei matteottini, ottenne la medaglia d’argento. Stessa onorificenza che ottenemmo tutti e quattro i comandanti dei Gap centrali ovvero io, Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei ed Ernesto Borghesi. Un altro episodio fu l’attacco alla sfilata fascista di via Tomacelli, per quell’azione fu messa una taglia sulla mia testa di 500mila lire, come pubblicato il giorno dopo sul Messaggero. Nel periodo tra ottobre e dicembre colpimmo ripetutamente i nazisti, ma qualcosa cambiò con lo sbarco alleato di Anzio del 22 gennaio 1944». Come venne vissuto il momento dello sbarco alleato di Anzio e che rapporto si instaurò con gli angloamericani? «Noi ci aspettavamo che i nazisti lasciassero Roma e si riparassero dietro la linea gotica perché nelle file dei tedeschi c’era chi era intenzionato ad abbandonare la capitale. Erano, tuttavia, gli alti vertici nazisti come Adolf Hitler e Joseph Goebbels che pretendevano che Roma fosse difesa fino all’ultimo ed era dello stesso avviso Benito Mussolini. Hitler, addirittura, invitava le truppe naziste a buttare letteralmente nel mare quelle alleate. Per noi gappisti lo sbarco di Anzio fu un colpo duro. Fino ad allora stavamo attaccando ripetutamente i tedeschi, poi, con l’arrivo delle truppe alleate, molte formazioni gappiste vennero allo scoperto e molti furono arrestati o uccisi. Si sciolse anche una valorosa formazione nata nella zona dei Castelli romani. Gli unici a salvarsi fummo noi comunisti perché sia io che Giorgio Amendola fummo più prudenti degli altri». Vi aspettavate che gli angloamericani arrivassero subito a Roma? «Molti miei compagni hanno criticato l’atteggiamento del comandante John P. Lucas che guidava le truppe alleate. Lui, dopo lo sbarco, preferì rimanere sulla difensiva, organizzando una linea di difesa a testuggine, impenetrabile per le truppe di Albert Kesserling. Molti sostengono che Lucas sarebbe dovuto arrivare immediatamente a Roma dopo lo sbarco, io credo che invece lui abbia fatto bene, perché altrimenti la capitale sarebbe diventata un durissimo terreno di battaglia che poteva protrarsi per mesi. Secondo me l’errore del generale fu, invece, quello di non prendere di sorpresa le truppe tedesche stanziate a Cassino e Salerno. C’è anche un’altra teoria interessante, la quale sostiene che la durezza della battaglia seguita allo sbarco di Anzio sia stata voluta dal primo ministro inglese Winston Churchill, il quale voleva impegnare i tedeschi sul fronte dell’Italia centrale per poterli rendere deboli e vulnerabili in patria. Tra di noi e gli alleati, comunque, si instaurò un bellissimo rapporto e tuttora loro mi considerano un fratello. Io, insieme a Giaime Pintor, ho fatto parte del The Comunist Desk, ovvero il tavolo comunista della Cia. Pintor si recò presso il servizio segreto, Office of Strategic Services (OSS), diretto da William Donovan, per stabilire un contatto tra le forze comuniste e gli alleati». L’attacco più eclatante contro i nazisti fu quello di via Rasella del 23 marzo 1944. In quell’occasione morirono 33 soldati della SS polizei Regiment Bozen. Ne seguì l’eccidio delle Fosse Ardeatine del giorno dopo, progettato da Herbert Kappler: furono uccisi 335 tra soldati e civili italiani. Come era progettato quell’attacco e vi aspettavate una reazione così feroce? «Io ho tenuto le redini dell’organizzazione dell’attacco per 24 giorni e soltanto alla fine, ovvero negli ultimi due giorni, è stato deciso di effettuarlo a via Rasella, vicino a dove abitavo. Di conseguenza non avrei potuto prendervi parte come, ad esempio, fece Rosario Bentivegna mascherato da spazzino, perché, abitando nella zona appunto, chiunque avrebbe potuto riconoscermi. Molti ci accusano che quell’attacco non fu un atto di guerra, perché effettuato contro truppe di polizia stanziali. Io rispondo che sono proprio gli stanziali che erano venuti nelle case per prelevare forzatamente i miei genitori. Inoltre, non avremmo potuto prevedere che morissero 33 persone. Un’altra accusa che ci viene rivolta è che non ci siamo consegnati ai tedeschi al fine di evitare l’eccidio delle Fosse Ardeatine. L’eccidio fu compiuto il giorno dopo e quindi, pur volendo, non ci sarebbe stato il tempo, anche perché la notizia fu pubblicata a posteriori e nessuno sapeva cosa stesse accadendo alle Ardeatine. L’eccidio fu organizzato da Herbert Kappler con una rapidità spaventosa. Gli stessi Kappler e Kesserling, durante il processo a loro carico, affermarono di non aver pubblicato nessun manifesto prima dell’eccidio con la richiesta di consegna da parte dei responsabili di via Rasella. Ci fu, anche, una responsabilità italiana in questa vicenda. C’è, infatti, un dialogo tra il ministro dell’Interno fascista Guido Buffarini Guidi e il questore di Roma Pietro Caruso. Quest’ultimo chiese al ministro come comportarsi a proposito della richiesta di Kappler che voleva delle persone da trucidare alle Fosse Ardeatine. Ebbene, Buffarini Guidi rispose sprezzante di consegnare le persone a Kappler perché al gerarca nazista non si poteva dire di no. Fu questa la bestemmia di Buffarini Guidi che costò la vita a 335 innocenti. Questa, insieme a numerose altre atrocità, compiute dai nazifascisti nell’Italia occupata, mi hanno fatto capire che stavo dalla parte giusta». Le Date della storia 27 Roma occupata Il diario dell’angoscia di una famiglia di ebrei a Roma a cura di Paolo Brogi U no scritto dell’inverno del 1943. Una telefonata a casa di Paolo Padovani, allora poco più che ventiduenne, per avvertire che i tedeschi stanno rastrellando Roma. La famiglia è composta da Riccardo Padovani, che con le leggi razziali del ’38 si è visto in quanto ebreo allontanato dalla sua carica di generale dei bersaglieri e che ora vive con la moglie Gina Viterbo paralizzata, e i due giovani figli Paolo e Massimo in una abitazione di fortuna da cui bisogna fuggire. Ma come? Queste carte ritrovate da poco, tre fogli che vedete qui sotto, raccontano il terrore allora in quei nove mesi di occupazione nazista della città. Mio suocero Paolo, scomparso nel 2008, non parlava molto di quella fase dolorosa della sua vita, sua madre Gina sarebbe poi morta nel 1946 e il padre Riccardo nel 1948. Riccardo Padovani aveva fatto la scuola militare alla Nunziatella col re: quando le leggi razziali lo avevano di fatto degradato aveva chiesto udienza al suo vecchio compagno del collegio militare, il re l’aveva ricevuto e di fronte alle sue rimostranze per quanto stava avvenendo aveva cambiato brutalmente discorso. Riccardo Padovani era uscito da quel colloquio disgustato. Ma torniamo presumibilmente all’inverno del ’43, ecco la trascrizione dello scritto intitolato Fuga a Roma. Fuga a Roma La telefonata di una persona amica ci colpì in pieno viso e ci disorientò del tutto. Dovevamo fuggire perché i nazisti stavano ripulendo Roma e da un minuto all’altro potevano bussare alla porta. Ma noi non sapevamo dove andare, non avevamo soldi, mia madre era paralizzata, mio padre vecchio. Guardai in faccia mio fratello, lui guardò me. Sentii formarsi di colpo un vuoto doloroso nello stomaco, la bocca divenne amara e appiccicosa. Rimasi col ricevitore in mano, mentre la voce femminile nel telefono seguitava a dire in un ronzio appena percettibile: “Scappate, scappate immediatamente. Non c’è un minuto da perdere”. “Bisogna scappare”, potei dire finalmente a mio fratello. “Dove?”, mi disse lui e mi fissò con uno sguardo vuoto. Anche lui non aveva una minima idea di dove si potesse andare. Riavvicinai meccanicamente il ricevitore alla bocca e ringraziai la signora che mi aveva avvertito, promettendo che non appena al “sicuro” le avrei telefonato. Posai il ricevitore sul telefono, e mi passai una mano sul viso, con disperazione e nello stesso tempo con quel senso di irrealtà che non doveva abbandonarmi per tutta la mattina. Era impossibile che noi potessimo andare in qualche luogo, che potessimo fuggire. Non avevamo amici tali da ospitarci, molti erano nelle nostre condizioni e per di più mia madre non poteva camminare e mio padre aveva oltre 75 anni. Io ero tornato il giorno prima a casa dopo essermi nascosto per quindici giorni dalle uniche persone in grado di ospitarmi e che a loro volta erano fuggite da Roma per rifugiarsi in campagna. “Bisogna scappare” d’accordo: ma come, dove? Stringevo i denti, guardavo mio fratello, ma non riuscivo a scuotermi di dosso l’inerzia improvvisa che mi era calata sulle spalle, e mi teneva inchiodato vicino al tavolo del telefono. Le idee mi correvano per il cervello, mi vedevo trascinare i miei vecchi per le scale, uscire dal portone, cercare di allontanarci dal palazzo, un gruppo grottesco, senza sapere dove andare e con il pericolo di essere raggiunti da un camion tedesco. Mio fratello sembrò scuotersi e dietro le lenti spesse degli occhiali vidi le sue pupille come dilatarsi nel terrore rassegnato. Mi afferrò un braccio e mi disse: “Che facciamo? Bisogna decidere qualche cosa. Non possiamo rimanere così . I minuti passano e possono venire a prenderci da un momento all’altro”. “Forse sarebbe bene fare vestire papà e mamma” risposi, intanto possiamo pensare ad orizzontarci. Il fatto è – e mi ricordo che imprecai tra i denti – che abbiamo poche centinaia di lire e papà non ha riscosso ancora la pensione. Non vedo dove possiamo rifugiarci anche per prendere tempo. E poi siamo in quattro!”. Paolo Padovani Paolo e Massimo Padovani Ci scostammo dal tavolo e io nervosamente abbassai la serranda della finestra perché il sole a quell’ora illuminava in modo diretto la stanza, abbacinando gli occhi. Poi corsi nella stanza accanto da mio padre, che seduto sul letto, ancora in camicia, si stava infilando con fatica le scarpe. 28 Le Date della storia Roma occupata sguardo pieno di dolore e di disperata passione. Non senza difficoltà riuscimmo a metterla in piedi, a infilarle il vestito di lana, e il golf, a calzarle le scarpe, a pettinarla. Finalmente fra me e mio padre la portammo in camera da pranzo e la facemmo sedere su una seggiola accanto al tavolo. Solo gli occhi erano vivi, tutto il resto inerte. Anche mio padre si sedette e mosse la bocca come per dire qualche cosa, ma strinse le labbra e rimase a guardare mia madre che seguitava a piangere e a fissarci. Mio fratello, in piedi accanto al tavolo, disse ad un tratto: “È più di un quarto d’ora che la signora Ferri ha telefonato. Bisogna fare presto. Lasciamo tutto così e andiamo via. Poi, se mai, faremo tornare qualcuno a prendere una valigia. Ora bisogna solo scappare, a costo di andare a Villa Borghese o in un caffè. Subito. Non c’è un minuto da perdere”. Non sapevo che dire e provavo solo una immensa stanchezza: anche per me la situazione appariva insolvibile. Con i soldi in tasca sarebbe stato tutto facile. Ma quattro persone, di cui due anziane, come potevano trasferirsi di punto in bianco da un’altra parte? E poi quanto sarebbe durato il pericolo? Pensavo alla pensione di mio padre, unica fonte di entrata, alle tessere annonarie, all’inverno che veniva avanti. Il capofamiglia, Riccardo Padovani Mi guardò in faccia e non ci fu bisogno che gli spiegassi il significato della telefonata. Mia madre sdraiata un po’ di fianco si reggeva, nel suo gesto abituale, con la sinistra la destra paralizzata e mi guardava senza parlare. I suoi occhi neri, grandi, mi fissavano e mi sembrò di scorgere una serietà tragica, un presentimento cupo di dolore. Ma non disse una parola. Cominciai ad aiutare mio padre: gli allacciai le scarpe alte e lui mi fece una carezza sui capelli, mormorando piano “Povero figlio mio”. In pochi minuti gli infilai i calzoni, la camicia, il gilet di lana, la giacca. Poi con lui ci avvicinammo alla mamma per vestirla. Mentre la facevo sedere sul letto, mi accorsi che la rigidità del corpo era più sensibile del solito. Il braccio paralizzato le scivolò di colpo sul fianco e cadde sul letto. Mia madre si mise a piangere e fra le lacrime non faceva che ripetere “Scappate, figli miei, scappate. Salvatevi voi. Io non mi posso muovere in queste condizioni”. Papà cercando di dominare la commozione le disse di fare piano, che potevamo andare via, che non era detto che i tedeschi sarebbero venuti pure da noi. Ma mia madre guardava me e mio fratello, che scuro in viso si era fermato vicino alla porta e stringeva le mani nervosamente sulla spalliera di una seggiola, e piangeva quasi in modo silenzioso ma proprio per questo più straziante. Piangeva e guardava mio fratello e me, con uno sguardo cupo, terribile eppure bellissimo. Sguardo di madre di fronte ai figli in pericolo, Così la famiglia Padovani riuscì a salvarsi Dice Leone Paserman che documenti come quello raccolto da Anna Padovani, figlia di Paolo, sono rarissimi. «Colpisce per la descrizione in diretta dello stato d’animo dei familiari, per la prova di solidarietà reciproca e si legge tutto d’un fiato come il brano di un romanzo», spiega il direttore del Museo della Shoah, che aggiunge di tenere a mente solo un frammento analogo. «L’autore era l’ammiraglio Capon, genero di Enrico Fermi, militare di provata fede fascista. Abitava in via Flaminia. La razzia dei cittadini romani di fede ebraica cominciò nel quartiere ebraico all’alba del 16 ottobre e poi si allargò a macchia d’olio a tutta la città. Fu un fallimento perché Hitler era convinto di poter catturare 8.000 ebrei: furono sequestrate 1.200 persone, molte donne, molti bambini, tanti vecchi e 200 furono rilasciati. Erano per lo più domestici. È chiaro che già nella tarda matinata del 16 ottobre ci fu un passaparola, i telefoni squillavano. Capon, semiparalizzato, si credeva al sicuro per le tante lettere autografe del duce custodite in casa. Si mette alla macchina da scrivere e annota: ”Stanno succedendo strane cose, i fascisti vengono a prendere gli ebrei in casa”. Fu deportato ad Auschwitz dove morì». E i Padovani che fine fecero? «Si salvarono. Il patriarca Riccardo riparò in via Barrili dove aveva poco più di un materasso. La consorte invalida finì all’ospizio Angelo Mai, mentre i due giovani, Paolo e Massimo, si nascosero alla Garbatella». Pagina autografa della memoria di Paolo Padovani 29 Memorie Nuto, che scommetteva sull’Italia libera, non corrotta e di sinistra Un toccante ricordo di Revelli, lo scrittore che dopo la ritirata di Russia divenne capo partigiano. Nelle sue intense pagine il dolore dei soldati italiani mandati allo sbando e l’umile mondo contadino che oggi suo figlio Marco tutela con amore di Domenico Tarizzo N uto Revelli era un uomo di grandi passioni, anche di furori, e questo smentisce lo stereotipo del piemontese freddo e razionale, che piace molto alle altre regioni d’Italia e che in molti casi pare anche non infondato. Ricordo che una volta gli manifestai qualche dubbio a proposito di un suo libro sull’importazione di donne calabresi da dare in spose a contadini agiati e meno agiati della Langa Alta. Matrimoni, sembra, riuscitissimi. «Se continui così», esclamai, «finirai nel populismo!» Mi guardò storto e poi prese ad argomentare, si capiva che voleva bene a quella gente, del suo Nord e del Sud, e non voleva definizioni negative in proposito. Io non la pensavo allo stesso modo, vivendo a Milano vedevo un popolo già immerso in un incipiente berlusconismo, per il momento ancora senza Berlusconi, ma… Insomma, stentai un poco a fare pace. Nuto Revelli era un uomo bellissimo. Alto, forte: con una faccia affettuosa, coraggiosa, se lo si guardava da destra; con uno strano naso rovinato, visto dall’altra parte. A vent’anni, fascista entusiasta dopo avere fatto l’Accademia militare di Modena, era partito con gli alpini per la Russia, a combattere il comunismo. A Dnepropetrovsk era cominciata la ritirata degli italiani come Nuto e dei tedeschi, che sfrecciavano via, allegri, sui camion, mentre i nostri morivano di una morte dolcissima, di gelo, sul ciglio della strada. «Non ce la faccio più, signor tenente», sorridevano a Nuto. Nuto decise che li avrebbe vendicati, avrebbe fatto fuori i tedeschi e i fascisti che avevano mandato i suoi ragazzi a morire nel gelo senza armi e vestiario e automezzi adeguati. Nuto ce la fece. Tornò a Cuneo e si chiuse in camera sua a piangere. Piangeva per i morti, per le illusioni infrante. Lo convocò al fascio uno sbarbatello: «Un eroe come te deve fare propaganda tra i giovani...». «Non mi convocare più», rispose Nuto, «perché la prossima volta scaravento te e la tua scrivania giù dalla finestra». Un giorno gli arrivò un biglietto dalla posta: passare a ritirare un pacco. Era il suo mitra, fabbricazione tedesca, che aveva spedito dalla Russia a Cuneo. Miracoli delle regie poste. Dopo l’8 settembre 1943 Nuto controllò che fosse ben lubrificato, innestò il caricatore, andò sullo stradone con altri alpini. Passò una camionetta carica di fascisti di Salò. Una raffica e via con l’auto e con le armi, i ragazzi armati e così nacque la prima banda che si chiamava Compagnia rivendicazione caduti. In breve, il terrore dei fascisti. Un giorno Nuto slittò sulla strada ghiacciata con la moto. Quando si rialzò non aveva più il naso, una maschera di sangue. Resta in coma parecchi giorni. Ha difficoltà alla respirazione e alla vista. Nel frattempo gli americani erano sbarcati in Provenza, non lontano dalla banda Giustizia e libertà comandata da Nuto. Gli americani mandarono una jeep, caricarono Nuto, avvolto nelle bende, e lo portarono prima a Nizza poi a Parigi liberata. «Noi grande chirurgo plastico polacco, vedrai, tutto sistemato come prima». Il chirurgo fece il possibile, otto interventi di plastica ricostruttiva l’uno dopo l’altro, mancava il tessuto cutaneo per rifare tutto. Nuto era bendato nel letto e voleva tornare a combattere, sentiva salire dalla strada i canti e i balli di gioia dei francesi liberi. Seppe poi che il polacco era un infermiere che aveva assistito un grande chirurgo e aveva Nuto Revelli nella classica posa del ‘pensatore’ imparato, o così diceva. È bene ciò che finisce bene, o quasi. Intanto nelle valli partigiane della terra di Nuto i tedeschi sferrano feroci rastrellamenti. Incendiano il paese di Boves. Impiccano, torturano, violentano le donne prima di ucciderle. Ecco il quadro che ne fa Giorgio Bocca: «Tutte le valli vennero occupate, anche se in Val Gesso partigiani e popolazione combatterono disperatamente, anche se in Val Varaita un primo attacco fu fermato e respinto. Quindici giorni dopo i nazifascisti ritornavano in forze e quasi per vendicarsi, oltre che occupare la valle, iniziavano sui fianchi una serie di rastrellamenti che perdurò per un intero mese. La ferocia tedesca si rivelò in quei giorni sotto forme impressionanti. Numerose borgate di montagna furono date alle fiamme, incendiate persino piccole capanne sparse sui più alti contrafforti e usate dai contadini per raccoglier il fieno. Doveva sparire tutto ciò che poteva servire ai partigiani. I prigionieri venivano bastonati a morte e impiccati nelle piazze dei paesi; le case dei borghesi devastate, 30 Memorie distinta e attenta ai valori degli umili, dei contadini di montagna. Nuto gira per le sue valli col registratore, lo mette sul tavolo, non fa niente di nascosto, e fa parlare quelli che non hanno mai parlato, che hanno difficoltà a parlare: i reduci delle guerre fasciste, i poveri, i vinti, le donne calabresi venute al Nord. Nascono così i suoi libri, unici nel panorama letterario italiano: Mai tardi, diario di un alpino in Russia (Panfilo ed. Cuneo), e gli altri, tutti pubblicati da Einaudi: La guerra dei poveri, La strada del davai, L’ultimo fronte, lettere di caduti nella II guerra mondiale, Il mondo dei vinti, L’anello forte, La donna, Il disperso di Marburg, Il prete giusto, Le due guerre. Guerra faBorgata Paraloup, dove nacque la formazione partigiana cuneese di G.L. scista e guerra partiIl borgo è stato portato a nuova vita dal figlio di Nuto, Marco Revelli. Ora c’è un rifugio con 15 posti letto, un ristorantino, sale per mostre e un archivio sulle giana (quest’ultimo donne partigiane e montanare. del 2003). la biancheria e i preziosi rubati, le donne Nuto era nato a Cuneo nel 1919, ivi morì violentate. La lotta divenne disperata, crunel 2004, stroncato anche dal dolore per la dele» (Partigiani della montagna, Bertello morte della moglie Anna, che era stata al ed. 1945). suo fianco dai tempi della Resistenza. Con Duccio Galimberti, l’animatore dell’anla consueta generosità di famiglia, il figlio tifascismo a Cuneo e maestro politico di Marco, animatore con Viale e Luigi Bobbio Nuto, viene arrestato a Torino e massacrato delle lotte di palazzo Campana nel ‘68, ha a bastonate dalle camicie nere, nonostante donato all’Istituto della Resistenza tutte l’intervento di Mussolini, che vorrebbe le carte, le registrazioni e i libri, anche di aprire un canale di scambio. Nuto, a marce edizione francese e tedesca, del padre, e forzate, torna nella sua città, combatte per le stanze che li contengono. Tra loro due, la liberazione di Cuneo, viene nominato padre e figlio, ricordo, quando Marco era comandante militare della V Zona e riesce, un ragazzino ribelle, c’era una concordia schierando i suoi uomini armati, a sventare discorde. Nuto, nel rincasare, chiedeva ad il piano gollista d’impadronirsi di parte Anna, per prima cosa, se Marco era nei guai del Piemonte. In questa decisione, come in a Torino. Marco pensava fosse possibile quelle precedenti della guerra partigiana e andare oltre i limiti di una guerra di resiquelle successive, in tempo di pace, nella sistenza. Oggi insegna Storia delle dottrine nistra sempre più vicina al partito comunipolitiche nell’Università del Piemonte sta, dopo la dissoluzione di G.L. e del partito orientale. Lo vedo talvolta, coi capelli presocialista, si avverte sempre un vivo senso cocemente bianchi. del patriottismo piemontese, di una cultura Nuto terminò la sua vita di soldato col vicina a quella geografica, la francese, ma grado di generale. Ma non si dava delle arie militaresche. Si andava a mangiare a Verduno, ove le cameriere discendono, pare, dalla Bela Rosin di Vittorio Emanuele II. A Nuto piaceva il vino rosso locale, buonissimo quando è buono, ma non eccedeva mai. Era un intenditore, parlava con Bartolo Mascarello, il produttore del Barolo più buono, che al suo vino mise l’etichetta No barrique no Berlusconi... e i carabinieri lo arrestarono. Il cuoco del locale era stato anche il cuoco della formazione partigiana di Nuto. Con Giorgio Bocca aveva litigato: secondo Giorgio, che in vecchiaia se ne doleva, per colpa delle interferenze dell’avvocato Dante Livio Bianco, loro comandante G.L. Giorgio, anche lui di Cuneo e G.L., era diventato un famoso giornalista, abitava a Milano; era diverso da Nuto, rimasto nella sua terra, ma entrambi difesero fino all’ultimo la Resistenza antifascista dalle diffamazioni di un conterraneo. Neppure invecchiando Nuto perse la curiosità: il mistero del disperso di Marburg, argomento di un suo libro, ruota intorno un ufficiale tedesco che cavalcava, solo, in terra partigiana, forse nauseato della sua guerra, forse… Si arrivò a pensare che, dietro quella sua aria solitaria e romantica, il cavalleggero fosse una spia che studiava le mosse del nemico. Dopotutto quella era Bandengebiet, zona di bande ribelli. Nel dopoguerra Nuto andò in Germania, riuscì a ricostruire l’identità del misterioso ufficiale a cavallo che gli italiani uccisero perché la crudeltà della guerra ti costringe a uccidere. Nuto non si perdeva mai d’animo, riuscì perfino a ricostruirsi un volto. Nelle lettere che mi mandava dal suo paese m’invitava a disintossicarmi, lassù, dai veleni milanesi: «Ho già un amico che viene su ogni sabato a disintossicarsi...». Io partivo sovente, discutevamo, scrissi dei libri anche grazie ai suoi ricordi. E non dimentico quanto mi scrisse, col suo solito entusiasmo generoso, quando lesse la mia Storia dei movimenti libertari che gli avevo mandato. Qualche volta ci tiravamo su di morale a vicenda, ma era sempre lui l’anello forte, mai perdeva la fiducia, laica e generosa, in un’Italia libera, non corrotta, di sinistra. Non ignorava, comunque, quanto sarebbe stato duro il cammino, sul piano degli ideali e della vita quotidiana. Mi dava ragguagli in ogni lettera: «... Marco è soldato da oltre quattro mesi, subisce. Il Cile, ancora una pagina tremenda, e la vivi come se il Cile l’avessimo in casa, ora dopo ora. Ciao, caro Domenico. Ricordami a tua moglie e tuo figlio.Ti abbraccio, Nuto». Memorie Voglio essere ricordato per le mie imprese, non come un eroe A colloquio con Andrea Bartali, il figlio del grande campione Gino, riconosciuto da Israele Giusto tra le Nazioni. Con il sostegno di una rete ebraico-cristiana, in bicicletta, mise in salvo centinaia di ebrei. Ma gli toccò solo la pensione sociale di Francesco Caremani Y ad Vashem, il sacrario della Memoria di Gerusalemme, ha nominato Gino Bartali, grande campione di ciclismo, Giusto tra le Nazioni, riconoscendone l’impegno a favore degli ebrei perseguitati in Italia. La motivazione: «Un cattolico devoto, nel corso dell’occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’Arcivescovo della città, cardinale Elia Angelo Dalla Costa (già riconosciuto Giusto tra le Nazioni, n.d.r.)». «Questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell’occupazione tedesca e all’avvio della deportazione degli ebrei, ha salvato», prosegue la motivazione, «centinaia di ebrei locali ed ebrei rifugiati dai territori prima sotto controllo italiano, principalmente Francia e Yugoslavia». Una storia che solo in parte era conosciuta e che ha trovato in uno dei riconoscimenti civili più importanti al mondo la definitiva certificazione e la consacrazione di un campione, che è stato prima di tutto un uomo, un eroe giusto. Andrea Bartali, primo testimone dei racconti del padre, ha voluto condividere con noi questa memoria. Quando ha scoperto che suo padre usava la bicicletta per aiutare gli ebrei e fare la staffetta partigiana? «All’inizio degli anni Sessanta, quando entrambi eravamo a Milano per lavoro. Stavamo spesso insieme, allora un poco alla volta ha tirato fuori tutto quello che gli era rimasto dentro, con l’ordine di non dire niente a nessuno: per mio padre era normale non vantarsi. Era un uomo di grande fede e quando gli è morto il fratello in bicicletta ha avuto un enorme trauma perché erano molto legati, sognavano di fare una squadra insieme; da quel momento ha interpretato lo sport non come strumento per arrivare alla vittoria, ma come esempio. Diceva che l’esempio è una cosa che tutti riescono a capire. Ha iniziato a portare un po’ d’aiuto a chi era più debole. Se la natura e il Padreterno ti hanno dato qualcosa in più era giusto restituirlo: con questa filosofia ha affrontato anche la guerra e quando nel ’43 i tedeschi non erano più alleati degli italiani lui si mise a disposizione del cardinale Dalla Costa per cercare di salvare più ebrei possibile. Diceva: “Io voglio essere ricordato per le mie imprese, non come un eroe di guerra, gli eroi sono altri”». Alfredo Martini, ciclista e dirigente sportivo di primo piano, ha sempre sottolineato l’amore che Bartali aveva per la gente, la sua grande dedizione al ciclismo e ai tifosi. Riconosce suo padre in questa ricostruzione? «Sì. Non si capacitava come molti potessero arrivare da tanto lontano per vederlo solo tre secondi in curva. Per lui i tifosi erano sopra le parti e si sentiva molto vicino a queste persone che dormivano al freddo nelle tende, esprimendo tutta la propria passione per il ciclismo». Come ha vissuto la morte di Fausto Coppi? «Era incredulo, si chiedeva come un animaletto tanto piccolo avesse potuto uccidere un uomo così forte». Che rapporto c’era tra loro due? «Stima, mio padre lo considerava un bel corridore. Avevano due caratteri diversi, soprattutto nel concepire gli affetti». Chi era più mediatico? «Sicuramente Gino, Coppi era più riservato, anche se a mio padre non piacevano le ripetute pacche sulle spalle». Coppi-Bartali, comunisti contro democristiani. «Al babbo la politica non piaceva, mentre Coppi era democristiano con tanto di tessera». Lei è tornato da poco da Israele, che sentimenti ha percepito nei confronti di suo padre? «Il grande amore per un uomo giusto. C’era anche una persona che lui aveva salvato, nascondendola in cantina, un’altra di Viareggio, tante testimonianze. Questa storia non è venuta fuori prima perché il dolore dell’Olocausto è stato così grande che la gente aveva voglia di dimenticare, per questo non parlava e mio padre rispettava questo dolore. Sì, si sapeva cosa accadeva agli ebrei, ma quasi tutti facevano finta di nulla». Quali collegamenti utilizzava Gino Bartali per salvare gli ebrei? «In un primo momento cercavano di farli salpare da Genova, per mandarli il più lontano possibile, passando per la Certosa di Farneta, a Lucca. Lui portava i documenti da Firenze, ma non c’era solo la carta d’identità, avevano bisogno anche della carta annonaria, della certificazione per la scuola dei ragazzi, per il servizio militare; poi ne prendeva degli altri e a Genova gli consegnavano anche dei soldi che arrivavano dagli ebrei americani per aiutare quelli italiani in difficoltà, attraverso una banca di Ginevra. I soldi servivano per i viaggi, per pagare chi aiutava e anche per comprare il loro silenzio. I tedeschi vennero a saperlo e interruppero questo traffico, anche con il massacro di Farneta. Da quel momento Dalla Costa pensò a un’altra strategia insieme con i francescani di Assisi; questi chiedevano a mio padre anche di andare a vedere 31 32 Memorie se c’erano dei posti di blocco, nel tornare a casa faceva dei grandi giri per non farsi ritrovare sulla stessa strada, passando dall’alto Maceratese. In questo caso molti ebrei partivano dalla stazione di Terontola (dove ancora oggi c’è una lapide). In quelle occasioni faceva proprio il Gino Bartali: d’accordo con tre o quattro partigiani formavano un capannello, le guardie allora si allontanavano dai treni per scioglierlo e così chi doveva scappare saliva senza farsi vedere. Lui ha continuato, senza che alcuno sapesse, nemmeno la mamma. Ha salvato tante persone». Faceva anche la staffetta per i partigiani? «Sì e gliene sono successe di tutti i colori. Gli arerei lo mitragliavano, soprattutto dalle parti di Assisi; erano gli americani, prima sparavano, poi venivano a vedere a cosa avevano sparato. Così per non farsi intercettare sporcava la bicicletta, si buttava nei fossi. Una volta cadde nelle acque nere. Tornando, mia madre lo spogliò fuori dalla porta. “Ma cosa hai fatto?”, gli disse. “Son caduto, un cane mi ha attraversato la strada”, rispose». Quando ha scoperto che lo Yad Vashem stava indagando, cercando testimonianze su suo padre? «Avevano iniziato quando era vivo, ma lui non ne voleva sapere. Anch’io gli dicevo: “Mi racconti tutte queste cose e io non le posso dire a nessuno”. “T’accorgerai da solo quando sarà il momento”, mi disse. Ha avuto ragione lui e l’anno scorso ho scritto Gino Bartali, mio papà (Limina). Solo dopo la sua morte sono venute fuori tutte le testimonianze delle persone che aveva salvato». Chi era Gino Bartali per lei e cos’ha provato per questo riconoscimento? «“Il bene si fa, ma non si dice”. Ecco in questa frase c’è tutto mio padre. Lui considerava una vigliaccheria che qualcuno potesse approfittarsi del dolore degli altri o trarne vantaggi. Il riconoscimento è stato il coronamento di un lungo percorso di ricerca, ufficializzato lo scorso 7 luglio, ma reso pubblico solo il 23 settembre, nella giornata d’apertura dei Mondiali di ciclismo che si sono svolti a Firenze». Che padre era Gino Bartali? «Un ciclista rompiscatole. Non si possono fare 700.000 chilometri in bicicletta così, bisogna sapere cosa si fa, ed esigeva che anche gli altri fossero come lui, aveva un carattere forte, deciso, marcato, e pretendeva molto, soprattutto da me». Dopo tutto questo il brutto episodio con i partigiani nell’immediato dopoguerra. Che cosa accadde veramente? «Era in giro per cercare di guadagnare qualche soldo con le corse, insieme a Primo Volpi, originario dell’Amiata, e altri. Alcuni partigiani li fermarono e stavano portando al muro mio padre, perché lo conoscevano come amico dei preti. Fu Volpi a intromettersi: “Io sono un vero comandante partigiano e se gli fate del male verrò a cercarvi”. Gli salvò la vita. Mio padre c’era rimasto molto male, perché li conosceva. Prima della guerra, a Lione (Francia), grazie ad alcuni sacerdoti, aveva nascosto un capo comunista di Firenze. Quando tornò a casa andò proprio da lui a raccontargli ciò che era accaduto. Costui fece chiamare i responsabili e li buttò fuori dal Partito comunista». Il Tour de France del ’48, tra la rabbia dei francesi e l’attentato a Togliatti. «Il 14 di luglio era a Cannes e vedeva che i giornalisti italiani andavano via. Pensò che non avessero più fiducia nelle sue capacità. Capì solamente quando gli dissero che era successo un bel pasticcio e che si rischiava la guerra civile. Poi gli telefonò De Gasperi, si conoscevano dai tempi dell’Azione cattolica: “Gino hanno sparato a Togliatti, riteniamo che una tua vittoria al Tour de France risolverebbe un po’ di problemi”. Rispose: “Il Tour non glielo prometto, ma domani posso vincere”. Papà prese tutta la squadra, andò sul lungomare di Cannes, con una bacchettina sulla sabbia fece la tattica e vinse. Ma vinse tutta la squadra. Poi vinsero altre 3 o 4 tappe lui e 3 o 4 gli altri. La gente iniziò a parlare di sport e gli animi si placarono». Un episodio che porta sempre con sé? «Ce ne sono innumerevoli. La premura faceva parte del suo carattere. Al Giro d’Italia partiva un’ora prima dei corridori, andava nelle scuole, incontrava i bambini e diceva agli insegnanti: “Mi raccomando domani fategli fare un compito in classe sul ciclismo”. Questa era la sua filosofia, il suo messaggio. A ogni giro firmava dalle 13.000 alle 15.000 cartoline». Per quello che ha dato, come uomo e come ciclista, ha poi ricevuto? «No, anzi. È stato un grande personaggio, ha saputo anche sfruttare bene il nome che portava, diventando uomo immagine della Coca-Cola, ma la riconoscenza che si aspettava dal mondo politico non è mai arrivata. Pio XII voleva metterlo in politica. Era il ’48, ci pensò un po’ e rispose: “Dire di sì o no a Lei è come dire di sì o no al Padreterno, ma io devo dirgli di no. Alla gente che mi è venuta a vedere in salita non ho mai chiesto di che partito fossero, se accetto, metà li faccio scontenti”. Dopo, però, è andato in pensione con quella sociale, con tutte le tasse che aveva pagato. Pare che Andreotti avesse provato a farlo diventare senatore a vita, ma l’ho visto venire via da tanti colloqui amareggiato o sarcastico». Cos’è la Fondazione Gino Bartali? «È nata per proteggere il suo nome che ancora oggi stanno indebitamente sfruttando. Per lo stesso motivo siamo usciti dall’organizzazione dell’omonimo museo. Mia madre voleva solo sapere da dove venivano e dove andavano i soldi, ancora attende una risposta». Come ci si sente ad aver avuto un babbo come Gino Bartali? «Io non vado tanto d’accordo coi miei fratelli, perché loro si fanno vanto del nome. Devi essere orgoglioso, certo, ma devi capire anche uno che ha fatto 700.000 chilometri, che era ciclista 350 giorni l’anno, per cui il bicchiere di vino era un nutrimento. Bisogna averlo vissuto, è lì che capisci la grandezza di un uomo, enorme». Noi 33 Ricordo di Franca Sibilio E ra una caldissima giornata di luglio del 1995. Insieme a Guido D’Agostino, allora assessore all’educazione del Comune di Napoli, mi ero recato a Scampia, dove Guido mi aveva pregato di incontrarlo per fare un sopralluogo a una struttura scolastica sottoutilizzata. Fu lì, quella mattina in cui il caldo era davvero insopportabile, che conobbi Franca. Mi fu presentata come la Preside dell’Istituto Psicopedagogico Margherita di Savoia, ma mi bastarono solo pochi minuti per capire che quel titolo illustrava ben poco, e forse anche male, le caratteristiche della persona che avevo di fronte. In effetti ero stato chiamato da Guido - quel giorno, in quel posto, e per incontrare Franca - nella mia qualità di assessore alla scuola della Provincia di Napoli, ente che in quegli anni era deputato alla gestione delle scuole secondarie superiori sia della città di Napoli che degli altri 91 Comuni della sua provincia. Compresi molto bene, nel corso di quella mattinata, perché Guido volle vedermi. Iniziai a capirlo quando Franca, come un’erinni, dopo poche battute si scagliò contro di me urlando che a Scampia bisognava creare subito un liceo classico e uno scientifico. Subito, senza aspettare altro tempo… ed eventuali nuovi finanziamenti. Occorreva ristrutturare immediatamente due edifici che già esistevano e che erano stati vandalizzati. E iniziare subito, da settembre, a fare andare a scuola i ragazzi di Scampia che volevano intraprendere corsi di studi più impegnativi e formativi di quelli tecnici o professionali. «La cultura, la cultura, la cultura», gridava, «solo quella potrà salvare questi ragazzi!» Lessi nello sguardo di Guido un senso di liberazione quando, incautamente perché non sapevo dove avrei preso i soldi necessari, mi impegnai a far ristrutturare nel giro di poche settimane quei due plessi scolastici. Fu allora che Franca improvvisamente mi saltò al collo e mi abbracciò per la prima volta, e mi disse: «assessò si’ grande!»… «non come Guido però…», aggiunse subito dopo per non far dispiacere nessuno. E fu così che a ottobre aprirono a Scampia due succursali sia di liceo scientifico che di liceo classico, fra i borbottii e le risatine di tanti che immaginavano un rapido fallimento di quella scelta. A distanza di pochi anni, registrammo un tale successo di iscrizioni che le due scuole raggiunsero poi agevolmente i numeri necessari per diventare due scuole completamente autonome. Da quel momento, Franca, non me la levai più di torno, e ne fui felice. Era un vulcano di proposte, idee, iniziative, che non riguardavano solo la scuola. Quando organizzai un incontro con i leader Saharawi, per far conoscere il dramma del loro popolo, Franca se ne interessò e si appassionò a tal punto da trasformare nei mesi estivi la sua scuola, situata nel centro storico di Napoli, in un ostello capace di ospitare per molti anni centinaia di bambini Saharawi in vacanza nella nostra città. Lei stessa, avendo deciso di andare a costatare di persona il dramma di questo popolo, si recò a sue spese nel deserto di Tinduf a sud dell’Algeria, dove i profughi Saharawi vivono da decenni, accampati in attesa di un referendum per l’autodeterminazione promesso dall’Onu, e che ancora non si è svolto. Un altro ricordo entusiasmante di Franca emerge in un momento successivo quando, divenuto assessore all’educazione al Comune di Napoli con Rosetta Iervolino, una mattina fui chiamato urgentemente nella stanza del Sindaco. Lì trovai Rosetta e il mio collega alle politiche sociali, Raffaele Tecce, che discutevano animatamente di un’emergenza che la nostra città si trovava ad affrontare quel giorno in maniera imprevista e improvvisa. Nel corso della notte alla stazione centrale erano arrivate diverse centinaia di cittadini rom, provenienti dalla Romania, che si erano accampati nelle aiuole antistanti la Stazione a piazza Garibaldi. Chi sono, da dove vengono, e perché sono venuti proprio a Napoli? Ma soprattutto che fare? Come e dove dare loro accoglienza? «Lello», mi disse Rosetta, «pensaci tu!» A me venne subito una mezza idea, un edificio scolastico abbandonato a Soccavo, nella periferia occidentale della città. «Possiamo trasformarlo in pochi giorni in un centro di accoglienza con la squadra di Lsu del Comune», risposi. E Rosa, come sempre, mi rispose: «Hai carta bianca». Ma aggiunse: «Chiama anche Franca… questi poveretti hanno certamente bisogno di un tetto… ma non solo di quello!» Franca, ci raggiunse nel giro di un’ora. Abbandonò i suoi studenti abituali e subito si mise al lavoro per aiutare questi nuovi e diversi “studenti” che avevano in quel momento di certo maggior bisogno di lei. Con la sua carica emotiva e comunicativa trasformò in poche settimane quel gruppo di profughi in una comunità, organizzò corsi, visite mediche, coinvolse docenti e studenti napoletani in un’esperienza che arricchì innanzitutto coloro che aderirono al progetto. Oggi la “Deledda”, questo è il nome di quella ex scuola… è ancora lì ad ospitare profughi e cittadini bisognosi di primo soccorso. Franca era una comunista, ed era fiera di esserlo. Soprattutto orgogliosa di esserlo rimasta anche dopo le ben note vicende storiche. Il suo era un marxismo dell’anima, qualcosa più simile al cristianesimo francescano che alla dittatura del proletariato. Quando voleva farmi arrabbiare, e si divertiva tanto a sfottermi, mi diceva: «ma che ne sai tu dei problemi della vita… tu sei solo un radical chic!» Avrebbe potuto dirmi di peggio, di molto peggio… ma con lei non ho mai bisticciato. E anche quando è accaduto, facevamo finta sapendo entrambi che stavamo scherzando. Franca è andata via a dicembre. Chissà dove. Se ne è andata dopo aver sopportato stoicamente per quattro mesi le sofferenze provocate da un terribile cancro che non le aveva dato alcuna speranza. Sofferenze alleviate solo parzialmente da una terapia del dolore e, soprattutto, dall’affetto dei suoi nipotini e dei suoi figli che l’hanno vista concentrarsi sul matrimonio degli ultimi due, Sara ed Alban: una sua ultima missione compiuta. Ha vissuto la sua morte con piena coscienza e lucidità, rifiutando ogni tipo di tentativo di cura che, con freddezza, aveva definito inutile accanimento terapeutico. Ha voluto vivere la sua morte, insomma, come un’ulteriore impegnativa esperienza di vita. Forte come una roccia. Ma anche debole come una piuma, come l’ho percepita una delle ultime volte che l’ho incontrata quando ha voluto sedersi sulle mie ginocchia, come una bambina indifesa, per essere cullata. Raffaele Porta 34 Noi Da LIVORNO Dal fascismo alla democrazia Il nuovo progetto per l’anno scolastico 2013/2014 «La memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro » parola di Pietro Terracina, uno dei sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz, Ma la memoria rischia col tempo di perdersi. Dal Fascismo alla Democrazia è il titolo del progetto proposto dall’Anppia di Livorno agli studenti del biennio e del triennio delle scuole secondarie di secondo grado della città, per un totale di circa 200 racconta la storia di un esperimento in vitro di come si può sviluppare un’idea totalitaria - e Reality, di Matteo Garrone. Al termine delle proiezioni interverranno alcuni registi come L. Moggi e S. Fasulo. È prevista inoltre la presenza di testimoni di conflitti di ieri e di oggi con operatori di Emergency ed il contributo critico di registi teatrali come Armando Punzo e attori come Aniello Arena della Compagnia della Fortezza di Volterra. Il progetto si svilupperà fino a maggio 2014 e gli studenti che aderiranno riceveranno un attestato di partecipazione che potrà essere utilizzato come credito scolastico. Al progetto è inoltre unito un concorso affermazione dei diritti: le leggi razziali e la Costituzione Italiana . Dopo il saluto delle autorità e l’introduzione di Garibaldo Benifei - presidente onorario dell’Anppia Nazionale e di Livorno - sono seguiti i racconti di alcuni testimoni di quel drammatico periodo storico. Particolarmente toccante la triste esperienza della professoressa Emma Belforte, che nel 1938 aveva 13 anni e frequentava il liceo. «Alla radio, avevamo una vecchia Fonola,» racconta la Belforte «abbiamo appreso della promulgazione delle leggi razziali, a seguito delle quali tutti gli ebrei venivano esclusi dalle scuole del Regno. Io piansi tanto. Frequentai così la scuoletta ebraica istituita dalla comunità. Alla fine Livorno. Gli alunni nella Sala dell’Auditorium del Museo di Storia Naturale del Mediterraneo ragazzi. Il progetto prevede la partecipazione del Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali, oltre al contributo ed il patrocinio della Provincia e del Comune. La presentazione del progetto è avvenuta in occasione del primo incontro - il 3 dicembre 2013 - presso la sala conferenze del Museo di Storia Naturale del Mediterraneo. È intervenuto, fra gli altri, il prof. Paolo Pezzino, ordinario di Storia contemporanea presso l’Ateneo pisano, che ha descritto ai tanti studenti che affollavano l’auditorium le drammatiche vicende della Seconda guerra mondiale. Il progetto prevede la lettura di libri - come Dalla bottega al carcere fascista. Storia di tre ragazzi livornesi di Renzo Bacci - che hanno come protagonisti ragazzi di ieri e di oggi, in modo che gli studenti possano immedesimarsi nei racconti e, attraverso la nostra storia passata, riescano a decifrare quella di oggi. Successivi incontri prevedono la visione di film come L’onda di Todd Strasser - che per la produzione di elaborati come canzoni, video, testi poetici, opere di pittura/ scultura, cortometraggi (durata massima 15 minuti). La Commissione che valuterà i lavori, costituita da dirigenti dell’ Anppia, terrà conto della rispondenza al tema proposto, dell’originalità ed autonomia espressiva ed operativa e dell’espressione di lavoro collegiale svolto dalla classe. Si procederà, quindi, alla premiazione con una Borsa di Studio (partecipazione della Fondazione Livorno ) erogata all’Istituto scolastico a cui appartengono gli alunni vincitori e con un viaggio premio in uno dei luoghi della memoria. L’Anppia e la Comunità Ebraica ricordano le leggi razziali A 75 anni dalla promulgazione delle leggi razziali fasciste l’Anppia e la Comunità Ebraica hanno organizzato il 27 novembre scorso un incontro nella Sala del Palazzo Granducale sul tema: Negazione/ di ogni anno dovevamo fare gli esami al liceo statale come privatisti e ci mettevano in un’aula separata perché non dovevamo venire in contatto con gli studenti “ariani”. Alcune mie amiche non mi salutarono più e dopo alcuni anni nel 1942 siamo dovuti scappare da Livorno e ci siamo rifugiati e nascosti presso una famiglia contadina della Garfagnana, dove siamo rimasti fino alla fine della guerra». SOTTOSCRIZIONI Eolo Passalacqua (Vi): 150,00 Anppia Verona: 200,00 M. Rosa Militano (Mi) in ricordo del marito Pasquale Melara: 60,00 Bruno Bevilacqua (Mi): 15,00 Mirella Bertolino (Avigliana) in ricordo del padre Guglielmo: 150,00 Silvio e Gabriella Formento (Cn) in ricordo del padre Giovanni: 70,00 Laila Pierotti (Malnate): 50,00 35 Noi Poi il presidente dell’Anppia Spartaco Geppetti ha introdotto il professor Zeffiro Ciuffoletti, Ordinario di Storia contemporanea all’Università di Firenze che, parlando su Le leggi razziali nell’Italia del fascismo, ha sottolineato l’importanza di questi incontri che fanno maturare il passaggio dalla memoria alla storia. Storia condivisa, accettata come coscienza diffusa, storia che non deve essere unilaterale ma, eliminando le partigianerie e le parzialità, deve ricomporre tutto perché sia condiviso e per educare le generazioni che verranno. «Le leggi razziali non sono solo gli otto provvedimenti che si susseguono nel tempo e proseguiranno nella Repubblica di Salò, ma sono anche le innumerevoli circolari, le numerose ordinanze che si ramificheranno e che toccheranno la vita sociale, le attività economiche fino ad arrivare ai sequestri dei patrimoni delle famiglie ebree, alla confisca delle fabbriche e delle attività commerciali. Mentre nel Risorgimento italiano assistiamo ad un fenomeno di integrazione delle Comunità ebraiche nella Società Italiana, dalla Prima guerra mondiale assistiamo ad una campagna mediatica di propaganda che prepara alle leggi razziali». Ciuffoletti ha continuato poi sottolineando il crudele passaggio dalla esclusione e discriminazione del popolo ebraico alla sua persecuzione con le note e tragiche conseguenze. Ha infine terminato dicendo che le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei hanno significato per l’Italia anche un impoverimento della cultura, data la funzione di élite nel campo dell’economia, della fisica e della matematica. Ha concluso il convegno Ugo De Siervo, professore di Diritto costituzionale ed ex presidente della Corte Costituzionale, spiegando come nascono i grandi principi della Costituzione Italiana. «Nello Statuto Albertino del 1848, la prima Costituzione Italiana,» dice il professore, «viene già scritto che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge anche se si tratta solo di un’affermazione formale. Si attueranno solo alcuni principi, come quello della libertà religiosa, mentre ad esempio il diritto di voto no. Infatti solo il 2% della popolazione eleggerà la Camera dei Deputati fino al 1882, poi fu portata a 8% della popolazione, ma bisognerà aspettare la Prima guerra mondiale per arrivare al 13%. Poi con il fascismo quei movimenti politici liberali che portavano avanti principi di uguaglianza verranno spazzati via e si ha una regressione terribile nel campo del diritto in Italia e la legislazione per le Colonie è profondamente razzista con norme assai pesanti. Poi con le leggi razziali del 1938 si applicò il razzismo agli ebrei. Nella società italiana e nel mondo cattolico sul tema del razzismo si verifica una profonda frattura che porta una parte dell’opinione pubblica e del mondo cattolico a essere complice con chi si opponeva all’ebraismo. Persone come Giorgio La Pira, profondamente cattolico, si trovarono in forte dissenso con personaggi ed intellettuali del mondo cattolico». De Siervo passa poi ad esaminare il clima politico durante il periodo della Costituente e dice: «I dirigenti dei partiti che fecero parte dell’Assemblea Costituente anche se provenienti da forze politiche contrapposte, antagoniste e che spesso prevedevano realizzazioni di società future completamente differenti ebbero la grande capacità e la saggezza di distinguere la dinamica politica a breve, dalla dinamica rifondativa dello Stato. I dirigenti di quei partiti ebbero la lungimiranza, pur in un momento in cui nel parlamento si discuteva animatamente anche con scontri duri e spesso ci si menava, di stabilire le “regole del gioco” uguali per tutti scrivendo chiaramente, anche se non senza difficoltà, quell’insieme di articoli che son oggi la nostra Costituzione Repubblicana. Fu così che la Costituzione passò con il 90% dei voti a favore». Poi il professore parla degli articoli 2 e 3 della Costituzione e cita Aldo Moro, allora giovane trentenne, che di fronte ai “diritti inviolabili” ed ai “doveri inderogabili” chiede esplicitamente e si batte affinché siano inseriti all’inizio della futura Carta Costituzionale e infatti saranno scritti nell’art. 2, e fu così anche per i “principi di uguaglianza” dei cittadini che costituiranno l’articolo 3. A questo proposito il professore dice: il 2° comma dell’art. 3 , dopo aver preso atto del diritto di uguaglianza, ci dice che la Repubblica si impegna a rimuovere le disuguaglianze di fatto fra i cittadini, cioè di fronte a situazioni economiche e sociali che portano a discriminare i cittadini la Repubblica non è neutrale e di fronte a situazioni di disagio si deve far carico dei più deboli per rimuovere situazioni marginali». «Noi ora stiamo vivendo» continua De Siervo «da 30, 40 anni il fenomeno della migrazione. Come sta rispondendo il paese? Non bene, perché il principio di uguaglianza viene disatteso. Faccio un esempio. Noi diamo la cittadinanza italiana, cioè concediamo il passaporto italiano a figli e nipoti di italiani immigrati all’estero indipendentemente da che sappiano l’italiano, che conoscano la Costituzione Italiana o che abbiano mai pagato una tassa in Italia, mentre per dare la cittadinanza ad un Dall’alto: Paolo Pezzino e Renzo Bacci; il prof. Ugo De Siervo; Spartaco Geppetti mentre presenta il progetto per le scuole immigrato chiediamo che sappia l’italiano, che conosca la nostra Costituzione, che paghi le tasse. Sul piano dell’uguaglianza c’è qualche problema mi sembra. Stiamo parlando di 5-6 milioni di persone che abitano in Italia, che pagano le tasse, che producono ricchezza. Penso che dobbiamo attuare i nostri principi per quelli che sono i nostri nuovi cittadini. Paradossale è il caso di oltre 600.000 bambini stranieri che non conoscono la lingua dei loro genitori, che frequentano le scuole italiane, che parlano l’italiano, che tifano per la squadra locale di calcio, che parlano il dialetto della città in cui vivono e non sono cittadini italiani, e in teoria potrebbero essere messi fuori. Questo è il caso che ci colpisce di più perché si parla di bambini. Allora io credo che ci voglia una rivisitazione, una espansione dei grandi principi di libertà della Costituzione. Una applicazione più sistematica di libertà e di uguaglianza che i nostri padri costituenti hanno così chiaramente scritto in quel patto del 1947 che per noi rappresenta la Costituzione della Repubblica Italiana». Attualità Da VERONA Proseguono le iniziative di IVrR, Anppia, Anpi e Aned 21 dicembre 2013. Presso la sala “Berto Perotti” proiettato il film Il sottoscritto. Storia di un uomo libero di Sandro Gastinelli e Marzia Pellegrino. Ha introdotto Stefano Biguzzi, Presidente IVrR. “Ho giocato la mia vita”. È così che don Aldo Benevelli descrive il momento in cui è corso verso la libertà sfuggendo ai suoi carcerieri fascisti: e la svolta verso la salvezza non ha segnato l’abbandono della causa ma un impegno maggiore che ne ha caratterizzato l’intera esistenza. Il film racconta di un uomo libero dalla sua infanzia nelle Langhe, alla vita di Resistenza, alla professione di fratellanza tra i popoli, fino all’impegno di oggi. 11 gennaio 2014. Presentato il libro della Casa editrice ombre corte, Auschwitz prima di “Auschwitz”. Massimo Adolfo Vitale e le prime ricerche sugli ebrei deportati dall’Italia di Costantino Di Sante. Ha presentato il volume Antonella Tiburzi dell’Aned di Milano, con l’introduzione di Roberto Bonente. Cosa si sapeva in Italia di Auschwitz nei primi anni dopo la Liberazione? Chi ne conosceva il funzionamento? Quale sorte era stata riservata agli ebrei deportati dai nazifascisti? Il libro, che vede anche la postfazione di Liliana Picciotto, risponde a queste domande attraverso uno dei primi documenti scritti in Italia sulla storia del campo di Auschwitz. A redigerlo fu Massimo Adolfo Vitale che, dopo aver assistito a Varsavia, tra il marzo e l’aprile 1947, al processo al comandante del campo Rudolf Höss come osservatore italiano per conto dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e del Ministero di Grazia e Giustizia, stilò un dettagliato resoconto del suo viaggio in Polonia. 18 gennaio 2014. Un incontro dal Verona. Antonella Tiburzi sta presentando il libro di Costantino Di Sante, al suo fianco titolo: Luoghi del dolore. Rab, Goli Otok, Basovizza, San Sabba. Sono intervenuti Silvio Pozzani, Presidente dell’Associazione Mazziniana di Verona e Carlo Saletti, storico e membro del Consiglio Direttivo dell’IVrR. Nel corso dell’incontro è stato proiettato il dvd di fotografie curato da Roberto Buttura a ricordo del recente viaggio in questi luoghi. 25 gennaio 2014. Una conferenza dal titolo: Dimenticati di Stato, di Roberto Zamboni, introdotto da Roberto Buttura. «Dal 1994 raccolgo i dati di quei Caduti (militari e civili) morti in prigionia o per motivi di guerra che furono sepolti nei cimiteri militari italiani in Germania, Austria e Polonia tramite il Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in guerra (OnorCaduti, Ministero della Difesa). Purtroppo l’Ente non riuscì a informare tutti i familiari dell’avvenuta inumazione negando a migliaia di famiglie italiane di avere almeno una tomba su cui piangere. Questa mia ricerca ha come scopo finale quello di far conoscere ai parenti di questi poveri sventurati le località di sepoltura dei loro cari». l’antifascista Mensile dell’ANPPIA Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti Direttore Responsabile: Antonella Amendola In Redazione: Luciana Martucci SEDE: Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma Tel 06 6869415 Fax 06 68806431 www.anppia.it [email protected] HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO: Guido Albertelli, Antonella Amendola, Paolo Bagnoli, Paolo Brogi, Pier Vittorio Buffa, Francesco Caremani, Georges de Canino, Maurizio Galli, Ciro Meggiolaro, Paolo Morelli, Francesco Palladino, Vincenzo Perrone, Giulietta Rovera, Giovanni Russo, Fabiana Tacente, Elisabetta Villaggio TIPOGRAFIA Cierre Grafica srl Roma - Via del Mandrione 103A PROGETTO GRAFICO Marco Egizi www.3industries.org Prezzo a copia: 2 euro Abbonamento annuo: 15,00 euro Sostenitore: da 20,00 euro Ccp n. 36323004 intestato a l’antifascista Chiuso in redazione il: 26-02-2014 finito di stampare il: 04-03-2014 Registrazione al Tribunale di Roma n. 3925 del 13.05.1954