Racconto d`autore L`Editoriale

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Racconto d`autore L`Editoriale
l’antifascista
fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini
Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXI - n° 1-2 Gennaio-Febbraio 2014
L’Editoriale
Chi siamo e dove andiamo
di Guido Albertelli
L’Anppia è un’associazione di promozione sociale fondata nel 1946 da
Umberto Terracini e Sandro Pertini,
ambedue antifascisti perseguitati, al
fine di tutelare la memoria dell’Antifascismo e dei suoi protagonisti, analogamente a quanto fatto dall’Anpi
per i partigiani.
Fra i suoi fini principali c’è l’assistenza agli antifascisti e agli ebrei
perseguitati durante il Ventennio,
aventi diritto, nell’istruttoria delle
pratiche relative alla richiesta del
vitalizio di benemerenza, che sono
trasmesse all’apposita commissione costituita presso il Ministero
delle Finanze, nella quale l’Anppia è rappresentata da tre membri.
L’Associazione ha curato negli ultimi anni le domande di assistenza dei
perseguitati razziali con circa 4.000
pratiche.
Per questa e altre attività l’Associazione è stata insignita dal Presidente
Napolitano della la Medaglia d’oro al
valor civile.
In questi oltre sessant’anni l’Anppia
ha provveduto alla pubblicazione di
centinaia di opere sull’antifascismo
e sui suoi protagonisti nonché alla
organizzazione di convegni, incontri e manifestazioni, tutte iniziative
volte alla trasmissione della memoria. Naturalmente, dato il lungo tempo trascorso, gli antifascisti in vita
sono solo poche decine, ma l’Anppia
si rivolge anche ai loro familiari che
sono ben rappresentati tra i soci che,
in totale, sono circa 3.000. Ma da
quando abbiamo registrato un sito
on line (www.anppia.it), in pochi
mesi ci sono giunte decine e decine
di adesioni di giovani, un’apertura di
credito che ci fa ben sperare per gli
anni a venire.
L’Anppia edita questo periodico,
l’antifascista, che ha lo scopo di tenere viva la memoria, attraverso articoli, saggi, recensioni, e contributi
La lunga corsa di Matteo Renzi
Da segretario del Pd a premier. In pochi mesi, di fretta, ha rivoluzionato la politica
italiana che si affidava a complicate mediazioni. Ora arrivano le prove decisive
di Giovanni Russo
I
l 17 gennaio ho assistito alla trasmissione Le invasioni barbariche e alla lunga
intervista a Matteo Renzi condotta da Daria Bignardi. In quell’occasione il
segretario del Pd ha reso noto che il giorno seguente avrebbe incontrato
Silvio Berlusconi per affrontare il tema della nuova legge elettorale. Renzi è
stato definito iperattivo, arrogante, cinico, spregiudicato. Per il decisionismo che
Racconto d’autore
Nel nome del padre
di Giuseppe Furno
La strada lascia il mare, s’aggrappa ai monti e cerca di scalare il cielo. Sale stretta, in una galleria fatta di pini, querce,
acacie, castagni e faggi. Poche auto, qualche moto. Due ciclisti,
imbevuti di fatica, pestano sui pedali. Di tanto in tanto, un’esplosione di luce e una finestra s’apre sull’universo intero. È
la prima volta che vengo quassù, a Campo Cècina, vasto pianoro di pietre, che pare un pezzo di luna trapiantato in terra.
Guardo le Apuane. La visione mozza il fiato, fa vibrare il cuore,
con lo sguardo che si libera sullo spazio sconfinato: dalle montagne toscane a quelle liguri, a Bocca di Magra, alle marine di
Carrara e Massa, verso la Versilia, oltre Viareggio, sino a Bocca
d’Arno e Marina di Pisa, all’accogliente golfo livornese, al profilo morbido dell’Elba. Mentre perse nel Tirreno, in macchie
d’azzurro più scuro, emergono le isole di Gorgona e di Capraia,
le vette della Corsica.
Rischio di perdermi in questo volo d’occhi e solo la strada
riesce a restituirmi l’equilibrio per continuare. Le insegne
danno identità ai luoghi di questo bosco fitto e sconosciuto:
continua a pagina 12
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
Attualitá
Bagnoli
a pagina 5
Villaggio
a pagina 8
Palladino
a pagina 10
Cultura
Galli
a pagina 14
Terracciano
a pagina 16
Buffa
a pagina 21
Storia
Fiorentini
a pagina 25
Brogi
a pagina 27
2
Attualità
di firme prestigiose del giornalismo
e della cultura. Ma il nostro giornale è anche un canale aperto con
i familiari di antifascisti, in Italia
e all’estero, e le altre associazioni,
nonché con centri di studi storici e
le università.
In questo quadro, essa ha concluso due importanti convenzioni: una
con l’Archivio di Stato per la catalogazione dei fascicoli del Ministero
della Difesa relativi ai riconoscimenti della qualifica di partigiano
e di patriota; l’altra con l’Università
Roma Tre relativa alla diffusione
nelle classi studentesche degli ideali dell’antifascismo. Nell’ambito di
tali convenzioni è programmato il
riconoscimento di borse di studio
agli studenti più meritevoli e la premiazione delle migliori tesi di laurea
sull’argomento.
L’Anppia è una delle tre associazioni vigilate dal Ministero dell’Interno
che attribuisce, con decreto, i contributi statali ed effettua il controllo dell’attività istituzionale e della
regolarità dei bilanci delle associazioni stesse. Essa inoltre intrattiene
rapporti con le altre associazioni
della Memoria facendo parte della
Confederazione Generale ed essendo membro del Consiglio del Museo
di Via Tasso.
È bene ricordare, a scanso di inutili e
pretestuose polemiche, che l’Anppia,
come recita il suo statuto, è un’associazione «a carattere democratico repubblicano ed è indipendente
dai partiti politici» e i membri degli
organi dirigenti prestano il loro impegno in modo totalmente gratuito.
Le pubblicazioni edite riguardano la
storia di antifascisti noti e meno noti
(quest’anno rieditiamo Aula IV che
raccoglie le schede dei condannati
dal Tribunale Speciale fascista).
Spesso si accusano le Associazioni
della Memoria di essere retoriche.
Ma i pugnali fascisti che trafissero
tanti patrioti (tra cui Carlo e Nello
Rosselli e Giacomo Matteotti), non
hanno ucciso i loro ideali di libertà, di democrazia e di purezza, che
sono rimasti elementi fondanti della Repubblica e che noi dell’Anppia
continueremo a ricordare e onorare
con l’aiuto appassionato dei molti
giovani che ci seguono nei dibattiti
e nei cortei.
lo contraddistingue e che lo ha reso inviso a molti, è stato paragonato a Craxi. Se
però Craxi è stato sempre socialista, Renzi è approdato solo nel 2007 al Partito
democratico, facendo tappa prima al Ppi, poi alla Margherita. Non è un novellino: ha contribuito alla nascita dei Comitati Prodi in Toscana, è stato segretario
provinciale del Partito popolare, coordinatore e segretario provinciale della
Margherita a Firenze, presidente della Provincia, e dal 2009 sindaco di Firenze.
Chissà se pensava di raggiungere quell’obiettivo quando scrisse la tesi di laurea
in giurisprudenza, incentrata sulla figura di quel grande sindaco della capitale
toscana che fu Giorgio La Pira.
Il 17 gennaio, Renzi non si limitò a parlare dell’urgenza di varare una
nuova legge elettorale, essendo il Porcellum stato dichiarato incostituzionale
dall’Alta Corte, ma delineò tutta una serie di obiettivi che intendeva perseguire:
si espresse in favore dello ius soli e delle unioni civili, della necessità sia di rivedere la legislazione sull’uso delle droghe leggere, sia, last but not least, di abolire
il Senato elettivo e riformare il titolo V sul federalismo. Daria Bignardi lo ascoltava attonita mentre lui continuava a ripetere quello che avrebbe ribadito nei
giorni seguenti: che non c’è tempo da perdere, che le riforme non si fanno da soli.
E venne 18 gennaio, il giorno del fatidico incontro: in un certo senso una
data storica nella storia del nostro Paese. Per la prima volta il segretario del principale partito della sinistra riusciva a stanare il giaguaro, non con l’intento di
“smacchiarlo” ma per accoglierlo a casa propria, nella sede del Pd a Largo del
Nazareno. Mentre l’auto blu del Cavaliere si avvicinava al luogo dell’appuntamento fra ali di folla indignata che lo bersagliava di uova, è probabile che Renzi
ripensasse a come il caso o la fortuna – e Renzi è un uomo fortunato, nel ‘94
vinse 48 milioni di lire partecipando al programma televisivo che si chiamava
La ruota della fortuna – rimescoli le carte. Tre anni prima, il 6 dicembre 2010,
per “discutere di alcuni temi legati all’amministrazione di Firenze” era stato lui
a recarsi in visita ad Arcore nella villa del padre-padrone di Forza Italia. La notizia aveva provocato reazioni contrastanti e polemiche a non finire anche tra i
suoi sostenitori, in ogni caso però non paragonabili al putiferio seguito all’incontro del 18 gennaio. A scatenare l’animosità hanno contribuito le dichiarazioni dei
due leader al termine del colloquio, che mettevano in risalto la “profonda sintonia” riscontrata nelle due ore e mezzo di dialogo.
Che cosa si rimprovera a Renzi? Di aver sollevato dalla polvere e riportato
sugli altari un pluri-indagato, pluri-processato e condannato per reati infamanti
come frode fiscale in via definitiva e in primo grado per prostituzione minorile, concussione aggravata e rivelazione di segreti d’ufficio: il Nemico Pubblico
Numero Uno della sinistra, che molti davano per finito. Renzi ha risposto ai
suoi compagni di partito, che hanno osato contrastarlo, in modo tale che si sono
verificate le dimissioni di due esponenti di peso come Gianni Cuperlo e Stefano
Fassina. Ma ha anche ribadito che le riforme sono diventate un’esigenza prioritaria e da soli non si possono realizzare. Scartati i piccoli partiti, non restava
che mettersi in contatto con Forza Italia e il Movimento 5stelle. Renzi, avendo
i grillini rifiutato l’approccio, ha cercato il leader della seconda forza politica
del Paese. Pur consapevoli del personaggio, gli italiani che si sono espressi per
Berlusconi all’ultimo suffragio sono stati il 22 %, ovvero 7.332.121 alla Camera e
6.829.131 al Senato.
Attualità
Su che cosa c’è stata la “profonda sintonia” con il
Nemico? In primo luogo sulla riforma della legge elettorale. Si è approdati al seguente accordo: soglia di accesso
al premio al 37%, premio del 15% con tetto massimo del
55%; sbarramento per l’ingresso in Parlamento al 4,5%; per
entrare in Parlamento i partiti devono inoltre ottenere il
9% in almeno tre regioni (definita questa la clausola salva
Lega); liste bloccate. Questo figlio dell’intesa Renzi-Berlusconi, battezzato Italicum, dispiace a parecchi. Rosy Bindi
e Cuperlo hanno dichiarato battaglia, Grillo che non ci sta
a farsi rubare la scena ha organizzato piazzate a Montecitorio, i piccoli partiti, dal canto loro, hanno ribattezzato la
legge Vampirellum perché non ci stanno alla prospettiva di
essere falcidiati. Renzi, ostenta una calma che non si riesce
a capire se apparente o reale e si mostra assai soddisfatto
per aver raggiunto questo primo risultato. Adesso sotto con
il Senato, le Province, il titolo V. E soprattutto con il Jobs
act.
Per concludere un programma di così ampio respiro
è però necessario tempo e Matteo Renzi non è un temporeggiatore. Con il passare dei giorni le stoccate che comincia a lanciare al Governo in generale e al capo del Governo
in particolare anziché pungoli per realizzare al più presto
le riforme sembrano in realtà affondi miranti a far naufragare la barca. E Letta, che ha retto il timone della coalizione governativa destreggiandosi fra scissioni e ministri
costretti a “chiarimenti” (vedi il caso Cancellieri e le dimissioni di Nunzia De Girolamo e Josefa Idem, oltre a due
viceministri e quattro sottosegretari), constata progressivamente il restringersi dell’area di manovra. Mentre l’appoggio del partito che lo aveva sostenuto in questi dieci
mesi sembra sfaldarsi come neve al sole, Renzi, i cui modi
spicci, la battuta sferzante, per non parlare dell’idea della
“rottamazione senza incentivi” dei dirigenti di lungo corso
del Pd avevano reso inviso all’establishment del partito,
pare acquisire nuovi consensi. Giorno dopo giorno, nonostante dichiarazioni contrarie, diviene evidente che l’obiettivo cui tende il sindaco-segretario è sostituire il capo del
Governo. Come mai questa frenesia improvvisa?
Perché Letta ha mal governato? Al contrario, sia pure
a piccoli passi, il presidente
del Consiglio stava avviando il Paese sulla strada
della ripresa: debito pubblico in discesa, aumento
delle entrate fiscali, spread
mai così basso. Il rischio
è che Letta realizzi i programmi in un ragionevole
lasso di tempo, il che allontanerebbe indefinitamente
la data di nuove elezioni o
la necessità di un cambio
al vertice. Gli attacchi di
Renzi al Governo, accusato
di non fare abbastanza e abbastanza rapidamente, subiscono un’accelerazione.
Cominciano a circolare
voci di dimissioni, respinte
da Letta che pare non preoccuparsene, al punto di mettere
mano ad un programma per il rilancio dell’economia. Il 12
febbraio durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi
smentisce per l’ennesima volta le voci che lo vogliono dimissionario e presenta “Impegno Italia”. Il piano prevede
un nuovo patto di coalizione tra i partiti che sostengono il
Governo, riduzione di tasse alle imprese sul costo del lavoro, riforma del codice del lavoro, incentivi alle famiglie.
Sembra come sempre calmo e fiducioso: è possibile che non
si sia reso conto di quanto la situazione gli stesse sfuggendo
di mano, di quanto grande fosse la voragine che Renzi stava
scavando ai suoi piedi? Il 13 febbraio il segretario del Pd
scopre finalmente le carte: convoca la Direzione nazionale
e chiede di votare un documento che segni “una fase nuova
con un esecutivo nuovo”, in parole povere, di defenestrare
Letta e sostituirlo alla guida del Governo. Renzi sa di avere
il partito in mano: l’8 dicembre 2013, sbandierando un programma che prevede riduzione del costo della politica,
eliminazione di una delle due Camere, abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e dei vitalizi, cancellazione dei
contributi statali ai giornali di partito, ha vinto le primarie
del Pd con oltre il 67,5 % di preferenze. La proposta è messa
ai voti e viene approvata da una maggioranza schiacciante:
136 favorevoli, 18 contrari, 2 astenuti. Non una voce si leva
a difesa di Enrico Letta. Il giorno seguente, a bordo della
sua utilitaria e senza scorta, il capo del Governo si reca al
Quirinale e rassegna le dimissioni.
Proprio in queste ore mi accade spesso di ripensare a
quella trasmissione televisiva del 17 gennaio, in cui Renzi
annunciava l’incontro con Berlusconi, alle dichiarazioni dei
due leader al termine del colloquio, a proposito della loro
“profonda sintonia”. Berlusconi non ha mai nascosto una
velata simpatia nei confronti del segretario del Pd, che può
essere accusato di molte cose ma non di essere mai stato
comunista. Entrambi, inoltre, hanno uno spregiudicato
senso della realpolitik. Viene quindi da chiedersi: quanto è
stata “profonda” la loro intesa? Quali sorprese ci riserverà
in futuro?
Un momento del discorso di Matteo Renzi per la fiducia al Senato
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Attualità
Priebke negava di aver sterminato anche ventisei adolescenti
La cronaca del viaggio ad Albano di Eugenio Perugia e di suo cugino Georges de Canino. L’artista che seguì il processo
Priebke dice al nostro giornale: «Ho urlato sulla bara del boia perché non dimentico quei ragazzi vittime innocenti»
di Georges de Canino
M
artedì 15 ottobre 2013. Poco
prima delle 16 Rai News
divulgava la notizia che il sindaco di Albano Laziale, Nicola Marini,
aveva firmato l’ordinanza che vietava
il passaggio della salma e il funerale di
Erich Priebke sul territorio del comune
dei Castelli. Seguiva la contro ordinanza
del prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro,
che annullava l’ordinanza del sindaco,
concordando, forse con il Viminale, la
decisione del funerale nella residenza privata della Fraternità di San Pio X. I padri
lefebvriani di Albano rappresentano quella parte della Chiesa anti-conciliare, antisemita e negazionista. Sono un punto di
forza e di appoggio per i neofascisti di
casa nostra e i numerosi gruppi neonazisti europei.
Nel delirio generale scatenato sulla
stampa, con la morte del capitano delle SS,
boia di via Tasso che, da poco, aveva festeggiato i 100 anni, si è riproposta la paccottiglia fascista, fatta di bugie divulgate
in 70 anni da storici mercenari di destra
e di sinistra, revisionisti e negazionisti.
Giornate di sofferenza e di ferite riaperte,
troppi ricordi di una generazione che è
stata lacerata e portata via dal dolore,
dall’orrore delle deportazioni, dei rastrellamenti, delle Fosse Ardeatine. Qualcuno
ha osato pronunciare la parola pietà per il
capitano nazista.
Mio cugino Eugenio Perugia ed io non
potevamo non andare ad Albano, non potevamo sottrarci al dovere morale di gridare e di urlare sulla bara di Priebke, uno
che non ha mai riconosciuto i suoi crimini,
le sue responsabilità.
Eugenio ha urlato ai poliziotti i nomi
dei suoi zii assassinati ad Auschwitz:
Eugenio è figlio di Lello, A15803, e nipote
di Angelo. Lello Perugia era Cesare nel
romanzo La tregua di Primo Levi. Mio
cugino Eugenio, un mite come suo padre,
è stato capace di urlare e di ribellarsi ad
Albano come aveva fatto suo padre Lello
nel giugno del 1992 a Roma, a Piazza Verdi,
quando con la moglie Arduina Polacco manifestarono contro il negazionista David
Irving insieme ai deportati, obbligati a
scendere per strada e a rompere un silenzio durato troppo tempo.
La folla dei cittadini di Albano, anziani e giovani, che si era riversata in
strada indignata e desiderosa di dare la
propria testimonianza civile, scandiva
ripetutamente, quasi in coro: «Siamo
Albano, ottobre 2013. Scontri tra polizia e manifestanti che tentano di impedire i funerali di Priebke
tutti qui, siamo antifascisti». Chi si è diretto, come noi, in via Trilussa, davanti ai
cancelli della Fraternità di San Pio X, era
consapevole che quella sceneggiata del
funerale al nazista era la dimostrazione
e la prova dell’inettitudine dello Stato. Lo
Stato ad Albano non era in grado di difendere e rispettare il diritto, la dignità della
memoria dei suoi cittadini. Lo Stato veniva
meno al dovere di tutelare la cultura della
nostra storia, la memoria repubblicana,
civile, democratica e antifascista.
Hanno scritto alcuni di Priebke, definendolo un militare nazista di serie B,
un relitto della seconda guerra mondiale.
Quegli anni che sembrano lontani, Priebke,
a Roma, fu un tremendo artefice dell’occupazione tedesca: durante quei drammatici
nove mesi non ebbe un ruolo secondario tra
i tanti organizzatori di violenza e di terrore.
Militari italiani, antifascisti, partigiani,
semplici cittadini che difendevano la loro
vita, ebrei rei di essere nati, intellettuali
militanti, religiosi, donne disperate per
la fame e le sopraffazioni: queste furono
le vittime del terrore. I fascisti italiani,
delatori, spie, criminali, collaboratori dei
nazisti dei quali non erano meno spietati,
agivano anche per interessi personali e di
bande. Quel terrore inesorabile
e implacabile fu possibile per
le responsabilità di un gruppo
ristretto di militari nazisti,
padroni di Roma, e tra essi
Priebke spicca per il carattere
inflessibile di burocrate dello
sterminio, per la malvagità del
militare.
Ad Albano Laziale ho pensato ai ventisei adolescenti e
minorenni trucidati alle Fosse
Ardeatine. Priebke, durante
una udienza del Tribunale
militare, nel primo processo
del 1996, negò che vi fossero
degli adolescenti tra le vittime delle Fosse Ardeatine.
Ero presente a quella udienza,
ero stato invitato dall’avvocato Oreste Bisazza Terracini:
Priebke ripetè che per l’esecuzione alle Fosse Ardeatine
erano stati scelti comunisti
e badogliani. Penso a quei 26
ragazzi. Non ho dimenticato.
Io ricordo. Non possiamo dimenticare.
Attualità
I democratici vogliono migliorare l’Europa, i fascisti spazzarla via
Alle prossime elezioni europee si gioca la partita decisiva della democrazia, non solo per il nostro continente
di Paolo Bagnoli
D
alla fine della seconda guerra mondiale il vecchio
continente si trova di fronte a una prova che non può
essere sbagliata, a meno di conseguenze nefaste di grande portata. L’Europa, infatti, piaccia o non piaccia, rimane ancora
oggi il teatro strategico della civiltà occidentale e, quindi, campo privilegiato nello scontro tra la ragione e l’oscurantismo fideistico. E l’Europa non sembra rendersi conto di ciò di cui è gravata: smarrimento di ideali, burocrazia ragionieristica, interessi
egoistici e mancanza di una classe dirigente all’altezza, una classe che, prima degli interessi, parli degli ideali su cui costruire una
politica che dia una identità comune. Avviene, invece, tutto il contrario: ci illudiamo che una sequela di trattati fuori della realtà
contribuiscano a rinsaldare l’Europa, nel paradosso di una moneta che dovrebbe aiutare a risolvere i problemi e non ad accrescerli. Ma dove è andata la speranza legata alla nascita dell’Euro se,
stando al presente, la moneta comune non funziona né coi paesi deboli né con i forti? Crediamo che ogni europeista abbia sentito un brivido quando le autorità comunitarie hanno invitato la
Germania, su cui pure pesano non poche responsabilità, a essere economicamente più debole poiché vi sono Paesi che sono fortemente deboli. Una seria politica e, quindi, una classe dirigente
degna di questo nome avrebbe ragionato sull’Euro e sulla sua funzione non come può farlo un banchiere o un istituto di emissione,
bensì vedendo nell’Euro un pilastro su cui poggiarsi per andare
avanti contro il burocratismo soffocante vigente e aiutare i più
deboli a crescere, non a sentirsi più forti perché è più debole la
Germania.
Stando così le cose, oggi l’Europa viene vista, da tanti suoi
cittadini, come un fattore socialmente negativo, un soggetto da
smontare, partendo proprio dal punto più alto cui è giunta, ossia
l’Euro. Su ciò si incardina non solo una ripresa di nazionalismo o
di riaffermazione delle funzioni tradizionali dei singoli stati, ma
un qualcosa di più e di più pericoloso, vale a dire la legittimità
stessa dell’idea di Europa, il tentativo di trovare un modo per stare
insieme che, certo, non è quello di questa assurda, farraginosa e
antidemocratica costruzione comunitaria. Ancora. La ripresa di
un prevalente sentimento a favore del ripristino di legittimità
piena degli stati nazionali nasconde qualcosa di più insidioso e
pericoloso, che mira alla distruzione stessa dell’idea politica di
Europa, nell’incoscienza delle conseguenze, in un frangente nel
quale lo scontro con i fondamentalismi religiosi e gli integralismi
territoriali sembra lievitare giorno dopo giorno.
Bisogna ragionare. Una cosa è il disaccordo con questo modo
di essere comunitario, ma da europeisti e, quindi, da democratici;
un’altra esserlo da antieuropeisti; c’è una bella differenza, anche
per quel che ne consegue. Infatti, mentre le forze dell’antidemocrazia, quelle della destra europea, si stanno organizzando, quelle
della democrazia sembrano in tutt’altro affaccendate, non consapevoli che questa volta non sono esse all’attacco, bensì in difesa.
Marine Le Pen ha lanciato la crociata: le destre di tutti i Paesi che
fanno parte dell’Unione si uniscano nell’Europarlamento in una
“Alleanza per la libertà”. Al progetto sono già arrivate le prime
adesioni: quelle degli olandesi e degli austriaci (il nome delle rispettive formazioni è identico: Partito della Libertà), e si fa sapere che si attende all’appuntamento pure la Lega e crediamo che
non mancherà l’adesione di Forza Italia, come si intuisce dal discorso rifondativo del movimento tenuto da Silvio Berlusconi
alcune settimane orsono. Inoltre, contro l’Europa, fatta diventare
quella della Bce e della Merkel, dicono no anche il movimento
di Beppe Grillo e i post-fascisti della Meloni. Molte, poi, sono le
contrarietà presenti nella sinistra, ma non sono certo queste che
preoccupano, bensì quelle che provengono dalla destra estrema,
che già appare in grande crescita nei vari Paesi del continente. In
Ungheria essa governa tranquillamente, in dispregio alla libertà
Parlamentari greci del partiro Alba Dorata. In alto, Marine Le Pen, leader
indiscussa del partito francese ultranazionalista e xenofobo Front National
che l’essere europei implica e, in Grecia, Alba Dorata, movimento
chiaramente neonazista, è, secondo alcuni sondaggi, il primo
partito, con il 26,6 per cento.
Inoltre, se pensiamo che, oltre alle nazioni ricordate, partiti contrari all’integrazione esistono in Inghilterra, Paesi Bassi,
Belgio, Bulgaria, Finlandia, Romania, Svezia, Polonia, Repubblica
Ceca e Slovacchia vediamo subito come sia in atto, molto ramificato, un vero e proprio laboratorio di una nuova politica che,
giorno dopo giorno, scala i sondaggi e nasconde, occorre dirlo
fuori dai denti, un’inquietante ombra di nuovo razzismo.
Il paradosso, poi, è che, nell’Europa geografica, ai dati 2010, il
maggior numero di immigrati li registra la Svizzera, che, è noto,
non fa parte della Comunità, con il 23 per cento e, a seguire:
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6
Attualità
Francia con il 12,31; Svezia con il 12; Spagna
con l’11,45; Francia con il 10,18; Olanda
con il 10; Gran Bretagna con l’8,98; Italia
con il 7,8; Norvegia con il 7,4; Danimarca
con il 7,1 e Belgio con il 6,9. Non c’è bisogno di essere demografi per capire che,
per quanto rilevante sul piano politico, su
quello numerico che è il fattore generatore
del razzismo, siamo ben sotto la soglia
di salvaguardia, se così si può dire. Ma è
proprio questo il dato che preoccupa di più,
poiché esso fa emergere come la saldatura,
nel nome dell’ignoranza e della paura, può
ramificare un vasto disegno politico di regressione dall’Europa di segno reazionario,
quando non apertamente nazional-fascista.
A dire il vero non ci sembra che su
tale aspetto si sia riflettuto con la dovuta e
ponderata attenzione, come se la questione
europea fosse solo di natura monetaria!
Possibile non ci si renda conto di cosa è in
gioco? Possibile non ci si renda conto che
un grande ideale va alimentato, governato
e sviluppato e non bisogna affogarlo, prima,
e dimenticarlo, poi, in un groviglio burocratico autodistruttivo e gravido di conseguenze che possono essere nell’agitato
contesto mondiale le più nefaste?
Sappiamo quante difficoltà incontri
l’idea dell’Europa federale, ma riteniamo
un gravissimo errore averla quasi del
tutto abbandonata. E molto alla buona
ci domandiamo se non ci sia uno stadio
politico più avanzato tra l’attuale forma
comunitaria e quella federale, tale da
rinvigorire l’Europa con adeguate vere
strutture politiche che oggi non esistono,
rilanciando il disegno complessivo in uno
schietto ambito di avanzamento della politica democratica europea.
Ecco perché le elezioni per il rinnovo
del Parlamento europeo del 2014 hanno
una rilevanza particolare e non possono
essere affrontate alla maniera solita. Come
risponde la democrazia europeista italiana
a fronte di un quadro siffatto? Ancora nessuno sembra averci pensato, ma il tempo
non è poi così tanto e non sarebbe male
cominciare a farlo. Sempre che si creda,
naturalmente, come avvenne nel dopoguerra, nei valori della democrazia e della
socialità, ossia, in quei valori storicamente
conquistati dall’Europa sui quali costruire
un vasto consorzio di popoli e di stati.
Il sogno, però, appare essersi infranto;
mentre occorrono atti di coraggio perché
l’Europa del presente così non va e deve
obbligatoriamente cambiare, ma secondo
gli ideali e la morale della democrazia e
della libertà; pensare che l’Europa non
possa essere meglio di come ora è, significa
rassegnarsi al non crederci più.
Ada Rossi, l’antifascista che sapeva amare
Nel ventennale della morte, un convegno alla Casa della Memoria di Roma
ricostruisce la poliedrica personalità della moglie di Ernesto Rossi. Femminista,
combattente per i diritti civili, fino all’ultimo impegnata nel partito radicale
di Giulietta Rovera
P
er ricordare Ada Rossi nel ventennale della morte si è tenuto di
recente un convegno alla Casa della memoria a Roma cui hanno partecipato
studiosi provenienti da varie parti d’Italia,
fra i quali Mimmo Franzinelli, Gianfranco
Spadaccia, Antonella Braga. Ne è emersa
una personalità complessa, per certi aspet-
Ernesto Rossi nel ’28, presso l’Istituto tecnico Vittorio Emanuele II di Bergamo,
dove insegnano entrambi, non è quindi
determinante per decidere la sua scelta
di campo. Tutti e due sono laici, hanno il
culto dell’indipendenza, del rispetto reciproco e delle libertà democratiche che
intendono fermamente ristabilire nel
Ada ed Ernesto Rossi
ti sorprendente.
Era nata in provincia di Parma nel
1899 in una famiglia della media borghesia. Rimasta orfana di padre ancora adolescente, viene mandata in collegio a Torino,
da dove esce con il diploma di maestra e
con il fermo proposito non di trovare marito, ma di proseguire gli studi nella materia che più l’appassiona: la matematica. Si
iscrive a Matematica e Fisica a Pavia, dove
senza difficoltà ottiene il diploma di laurea e si dà all’insegnamento. A metà degli
anni Venti, in Italia, il tasso di analfabetismo è altissimo, soprattutto nella popolazione femminile: le giovani della media
borghesia che intendono laurearsi per poi
svolgere un’attività professionale e rendersi indipendenti rompendo il cerchio
soffocante costituito dalle famigerate 3
kappa, Kinder, Küche, Kirche - bambini,
cucina, chiesa - si contano sulle dita di una
mano. Ada è quindi una realtà piuttosto
anomala, come anomalo è il suo atteggiamento verso il regime fascista.
Contrariamente alla maggioranza,
indifferente o acquiescente nei confronti
della dittatura, Ada, vissuta in una famiglia laica e antifascista, mal sopporta le limitazioni alla libertà, ma ciò che più le è
intollerabile è il ricorso alla violenza per
eliminare l’opposizione. L’incontro con
Paese, pur consapevoli dei rischi che ciò
può comportare. Queste affinità contribuiscono a far nascere un rapporto che
si rivelerà indistruttibile, anche perché è
un rapporto fra eguali. Ernesto, che già
dal ’25 era entrato a far parte del gruppo
antifascista che aveva dato vita al giornale clandestino Non mollare e poi al movimento Giustizia e Libertà - Riccardo
Bauer, Salvemini, Nello Traquandi, Carlo
Rosselli - non tarda a comprendere che se
vuole conservare l’affetto della compagna
deve coinvolgerla nella lotta cui lui partecipa da tempo. In Ada trova così non soltanto un’amica e un’amante, ma una complice.
Nella notte fra il 29 e il 30 ottobre del
1930, la situazione precipita: in seguito a
una retata dell’Ovra in Lombardia, 24 aderenti al gruppo giellista sono arrestati e
processati. Ernesto Rossi è fra questi. La
condanna è durissima: 20 anni di carcere. Ada evita l’arresto perché a suo carico non esistono prove, ma per via della
frequentazione di elementi antifascisti
in generale e di Ernesto in particolare
perde la cattedra presso l’Istituto tecnico. La sua fama di docente però è tale
che gli studenti che si rivolgono a lei per
lezioni private sono numerosi.
La lunga condanna inflitta a Ernesto
7
Attualità
farà subire ai loro rapporti un cambiamento radicale: per comunicare con l’esterno, con i compagni, lui ha bisogno di
un intermediario del quale fidarsi ciecamente, e questo non può essere che Ada,
dal 24 ottobre del ’31 divenuta sua sposa,
e quindi autorizzata a incontrarlo in carcere. Ernesto ha bisogno di Ada non solo
per continuare la lotta antifascista, ma per
sopravvivere. Circolano molte leggende
sulla vita dei prigionieri politici nelle patrie galere e al confino durante la dittatura, quasi si trattasse soltanto di perdita
della libertà in ambienti dove la vita era
tutto sommato tollerabile. È falso. Le celle
erano gelide d’inverno, soffocanti d’estate,
il vitto insufficiente, l’aria mefitica, l’assistenza medica spesso inesistente, la corrispondenza sottoposta a censura. Se le
guardie carcerarie erano carogne, potevano infliggere angherie di ogni genere,
come la cella di isolamento e il vitto di solo
pane e acqua. Se un uomo della fibra morale di Ernesto Rossi, che subì entrambe le
punizioni per mesi, arrivò a pensare al suicidio, si comprende come molti si arresero
e impetrarono la grazia al Duce, o la impetrarono i parenti in loro vece. Alcuni si
uccisero, altri si ammalarono e morirono
precocemente.
Ernesto, come gli altri suoi compagni
di galera, diventa così totalmente dipendente dagli aiuti che gli vengono dall’esterno, nel suo caso specifico da Ada. E
per Ada Ernesto diventa il suo baricentro,
il suo universo, la ragione della sua esistenza. Si massacra di lavoro, ma riesce ad
accumulare somme sufficienti per organizzare tentativi di fuga e fargli arrivare
pacchi contenenti cibo, biancheria pulita,
libri. E lettere, 977 in 13 anni, struggenti,
tenere, appassionate… e contenenti informazioni che grazie a un codice segreto
sfuggono alla censura. Quando si incontrano, durante il breve abbraccio loro consentito, lui le passa bigliettini contenenti
messaggi che lei penserà a recapitare.
Ada, per gli antifascisti nome in codice
“Pierina”, per i fascisti “elemento pericolosissimo”, “nihilista anarchica con tendenze terroristiche” anche per lo stile di
vita indipendente, al di fuori degli schemi
del tempo, per 10 anni si sottopone a
viaggi lunghi, faticosi (Ernesto viene spostato dal carcere di Pallanza a Piacenza a
Roma a Regina Coeli) per vedere il marito
alle volte solo pochi minuti e alla presenza
delle guardie carcerarie.
A Bergamo, dove risiede, è tenuta sotto
una costante e tutt’altro che discreta sorveglianza. Quello che sfugge all’Ovra è l’opera di proselitismo messa in atto da Ada.
Durante il convegno tenutosi a Roma è
stato divertente e commovente ascoltare
le testimonianze di alcuni suoi ex-allievi:
tutti concordavano sul fatto che le lezioni
di matematica da lei impartite erano dedicate prevalentemente ad approfondire
la situazione politica, alla lettura delle
lettere di Ernesto, stimolando così sentimenti antifascisti nei giovani allievi, molti
dei quali entreranno nelle formazioni partigiane di matrice azionista.
Dopo nove anni di carcere, in seguito
a un’amnistia, Ernesto è mandato al confino a Ventotene. Il 26 dicembre del ‘39,
Ada può finalmente raggiungerlo e trascorrere con lui la prima notte d’amore. È
un breve interludio, trascorso in una casupola gelida battuta dai venti e il secondino alla porta, attento a ogni movimento,
ogni bisbiglio. Poi, scaduti i giorni di permesso, viene il momento di far ritorno a
casa, a Bergamo. Fare la spola fra Bergamo
e Ventotene è estenuante e pericoloso: il 1°
prefetto di Bergamo decide di mandarla al
confino. In quel gelido inverno di guerra,
approda prima a Forino, un buco sperduto
in provincia di Avellino, dove l’unico alloggio è in una stamberga piena di topi,
poi a Melfi e infine a Maratea. Sei mesi
dopo, con la caduta del fascismo, Ada ed
Ernesto riconquistano la libertà e possono
finalmente ricongiungersi. Si stabiliscono
a Roma, dove lui, in precarie condizioni di
salute e con i nervi a pezzi per la lunga prigionia, può dedicarsi alla lettura, allo studio, alla politica, al giornalismo: aderisce
al Partito d’Azione, prende a collaborare
con Il Mondo e Il Ponte, partecipa alla fondazione del partito radicale, pubblica libri di denuncia del sistema monopolistico,
della connivenza del Vaticano con il regime… e Ada può dedicarsi ad Ernesto, assecondandolo nelle sue intemperanze, aiutandolo nella redazione di libri e articoli.
Aderisce anche lei al partito radicale, cui
resterà legata fino alla fine dei suoi giorni,
e riprende con rinnovato vigore a dare lezioni di matematica, comunicando ai giovani non solo la magia dei numeri, ma an-
È al confino di Ventotene che finalmente Ada potrà incontrare il suo Ernesto
giugno del ’40 l’Italia è entrata in guerra,
ottenere i permessi per raggiungere i confinati politici diventa sempre più difficile
e costoso. Ada aumenta il numero di ore
dedicato alle lezioni private, raggranella
la somma necessaria, e quando riesce ad
avere il permesso raggiunge Ernesto… il
quale continua a servirsi di lei come portaordini. È così che i primi testi europeisti elaborati da Rossi, Spinelli e Colorni
lasciano Ventotene e prendono a circolare
fra gli oppositori al fascismo. Nonostante
le precauzioni, qualcosa trapela sulle manovre di Ada, e nel dicembre del ’42 il
che il culto delle libertà democratiche.
Ebbi l’occasione di incontrarla a metà
degli anni ’80. Ernesto era morto da
vent’anni, ma lei non aveva perduto
il vigore polemico e l’aria battagliera.
Parlammo un poco, e a un tratto osservai quanto doveva essere stato profondo
il legame d’affetto che l’aveva unita al
marito. «Sì», disse Ada, «ma per dieci
anni non abbiamo potuto fare l’amore».
Quella di Ada Rossi non fu una lost generation ma una robbed generation, una
generazione defraudata anche del diritto
di amare.
8
Attualità
Dopo tanto dolore vogliamo giustizia, ma nei nostri cuori non c’è odio
A colloquio con Estela e Jorgelina, due donne vittime della brutale dittatura argentina del generale Jorge Videla
Ecco come l’Associazione delle Nonne di Piazza di Maggio lavora per ritrovare i bambini dati in adozione, oggi adulti
di Elisabetta Villaggio
E
stela e Jorgelina. Due donne
con due storie diverse, ma unite
da uno stesso destino. Un destino crudele, assurdo, tragico. Un destino
segnato dalla dittatura del regime militare
di Videla, Massera e Agosti in Argentina
tra il 1976 e il 1983.
Estela Carlotto, Presidente dell’Associazione Abuelas de Plaza de Mayo, è nata
a Buenos Aires nel 1930. Ha sposato Guido
Carlotto, un industriale chimico figlio
di genitori italiani, con il quale ha avuto
quattro figli. Nel giugno del ’77 suo marito
militari. Jorgelina non la rivedrà mai più.
«È entrato un civile a casa nostra e hanno
sequestrato sia lei che il suo compagno. Io
avevo 3 anni e mezzo e mi ha preso una
signora, era un giudice e mi ha mandato
in una casa famiglia, dopo essere stata in
orfanotrofio», racconta con la voce flebile. Quando ha 4 anni viene adottata. La
nuova famiglia le cambia nome e diventa
Carolina Sala e non più Jorgelina.
Da allora le due donne hanno dovuto
fare i conti con la vita e superare il dolore
tremendo di perdere una, la giovane figlia
Estela Carlotto
viene rapito dai militari e rilasciato dopo
aver pagato un riscatto. A novembre dello
stesso anno viene rapita la loro figlia maggiore, Laura Estela. La ragazza è incinta e
partorirà, nell’ospedale militare, un bambino che avrebbe voluto chiamare come il
nonno, un nonno che non conoscerà mai.
Laura Estela sarà uccisa e il bambino, nato
sano come hanno testimoniato varie persone, non conoscerà mai la sua vera famiglia.
Jorgelina Molina Planas è figlia di due
militanti dell’ERP, l’esercito rivoluzionario popolare. Nel ’74, quando lei ha solo un
anno, il padre viene fucilato dai militari.
Il 15 maggio del ’77, quando lei ha 3 anni e
mezzo, la madre, che nel frattempo era entrata in clandestinità e con la bambina viveva a Rosario, viene presa con la forza dai
e un nipote che sta ancora cercando, e l’altra la madre e tutto il resto della famiglia,
oltre alla propria identità. Non hanno dimenticato il dolore, quello non si può dimenticare, ma hanno trovato un modo
di fare i conti con il passato per andare
avanti con dignità e coraggio.
Oggi Estela è la presidente de l’Asociación Abuelas de Plaza de Mayo, l’associazione delle nonne che non hanno mai
smesso di cercare i bambini dati in adozione, e Jorgelina, che ha scelto nell’arte
il modo di superare il dolore del passato, è
una delle prime bambine ritrovate dall’associazione. Le incontriamo a Roma, dove
la prima ha ricevuto la cittadinanza onoraria e la seconda ha presentato la sua mostra personale. Estela è ancora oggi una
bellissima donna, con i capelli bianchi che
le incorniciano un viso sorridente e sereno
nonostante tutto. Jorgelina sembra più timida, è minuta. Entrambe sono due donne
determinate.
Estela, lei ha vissuto un grandissimo
dolore, come si supera?
«Il dolore non si dimentica, perché rimane nell’anima e nel cuore, ma si sopporta perché si lavora, dal dolore si cerca
una luce, uno spiraglio attraverso il lavoro
sociale e le relazioni, in modo da trasformarlo in qualcosa di positivo. La cosa più
importante per me è che non sento odio o
rancore e questo credo sia una cosa molto
positiva perché dentro di me ho amore.
Tutte noi cerchiamo giustizia e verità,
ma non odio. Cerchiamo giustizia perché un delitto deve avere il suo castigo, la
legge dice questo e in democrazia si deve
fare così. La giunta militare argentina ha
assassinato 30 mila persone, compresi
tanti bambini, e hanno creato centinaia di
campi di concentramento. La legge deve
castigare queste persone così come si giudicano i delinquenti. Il dolore si può sopportare perché si trasforma in una pura
luce, una luce che non ha aspetti negativi».
Jorgelina, questa storia brutta e dolorosa cosa ti ha insegnato?
«Mi ci è voluto molto tempo prima che
riuscissi a vederla in maniera positiva, ci
sono stati momenti di crisi, momenti di
grande rabbia, momenti in cui pensi di essere l’unica persona ad aver passato situazioni simili. Finita la scuola, ho deciso che
sarei diventata una suora e sono entrata in
convento e quando sono uscita ho iniziato
a fare bene i conti con la mia storia».
Il periodo in convento ti ha aiutato?
«Il convento mi ha aiutato a cercare e
trovare un cammino spirituale che mi aiutasse a capire il dolore e a gestirlo. In certi
momenti sentivo che quello che avevo
passato era così terribile che gli altri non
avrebbero capito e attraverso la religione
e la spiritualità ho capito che il dolore e
anche la morte si possono trasformare in
vita».
Ma poi hai lasciato il convento.
«Sì».
Perché? Cosa è successo?
«A un certo punto ho avuto la certezza che avrei voluto formare una famiglia, io non volevo essere solo una sorella.
Iniziavo a sentire che quello non era il mio
spazio, non era la mia vocazione, quindi ho
lasciato la congregazione e ho conosciuto
Attualità
quello che è il mio attuale marito».
Hai figli?
«Sì ho 3 figli, Ignazio, il più grande ha
8 anni, poi Camilla che ne ha 6, e Juan
Manuel che ne ha 2».
Cosa sanno della tua storia?
«Sanno tutto, il più piccolo capisce meno,
ma gli altri due hanno vissuto tutto il passaggio di cambio del nome».
Cosa ricordi di tua madre?
«Non ho un ricordo completo di lei, non
sapevo molto, ero piccola».
Ma cosa ti hanno detto quando ti
hanno portato via da tua madre?
«Niente, lei era una dei desaparecidos».
Ma tu non chiedevi di lei?
«Non mi dicevano nulla».
Quando hai scoperto la verità?
«Ho sempre saputo di essere stata adottata, mi dicevano che i miei genitori erano
dei terroristi che mettevano bombe e loro,
la seconda famiglia, mi avevano riscattato
da questa vita. Nell’84 mia nonna paterna,
che era andata a vivere in Svezia, mi ha
cercato tramite la nunziatura cattolica.
Mi ha riconosciuto da una foto, io avevo 9
anni all’epoca, ma quando mia nonna ha
incontrato la mia famiglia adottiva loro
le hanno negato di vedermi. Da quel momento ha cominciato a cercare e fare di
tutto».
La nonna di Jorgelina si è rivolta alle
Nonne di Piazza di Maggio e Jorgelina è
proprio una delle prime bambine trovate
dall’associazione. La nonna però non è riuscita a incontrare l’amata nipote perché è
morta prima. Oggi nei quadri di Jorgelina
possiamo vedere tutto il suo tormento iniziale e la felicità successiva, quando è riuscita a riprendersi la sua vita e la sua identità.
Jorgelina, quando hai iniziato a dipingere?
«Mi piace dipingere da quando ero bambina, però le mostre e i miei progetti sono
cominciati nel 2009, quando è morta mia
madre adottiva. In quel momento ho sentito la libertà interiore di poter raccontare
la mia storia, di parlarne, di superare il
senso di colpa».
Tuo padre adottivo è vivo?
«Sì lui è vivo e anche il mio fratello adottivo lo è. Ma da quando ho voluto ritrovare
il mio vero nome non mi hanno voluto più
vedere. Per loro ero Carolina e da allora
non abbiamo più avuto rapporti».
Estela, hanno rapito più di 500 bambini e ne avete trovati poco più di 100.
Avete speranze di trovarne altri?
«Sì, la speranza è l’ultima a morire e io
ho speranza e fede di trovarne altri perché se fino ad ora ne abbiamo trovati 110
Jorgelina Paula Molina Planas
ne troveremo altri. Bisogna sensibilizzare le persone su questo tema, sia in Argentina
che nel resto del mondo, perché anche in Italia potrebbero esserci degli uomini e donne
che facevano parte dei bambini rapiti allora. È un processo sociale dove vogliamo aprire
nuove porte e non chiuderle. La nostra associazione è un movimento di costruzione permanente».
Estela sta ancora cercando suo nipote, figlio di quella figlia barbaramente assassinata
da uomini senza pietà e rispetto per la vita umana, uomini che hanno trasportato l’Argentina nell’orrore di una dittatura tremenda e che ora il Paese, grazie anche all’impegno
del presidente Cristina Kirchner, sta cercando di metabolizzare e superare.
Estela, cosa sta accadendo oggi in Argentina?
«In questo momento in Argentina stiamo vivendo una primavera politica molto interessante e la chiamiamo la decade vincente perché abbiamo un governo, in questo caso
Cristina Kirchner, che riconosce gli errori del passato e abbiamo aperto tutte le porte
per la convivenza, la comprensione, la voglia di partecipare anche con cose effettive, con
spazi per la memoria e aiuti economici per la nostra organizzazione».
Buenos Aires, 1978. Le Madri di Plaza de Mayo scesero in piazza durante i Mondiali di calcio
9
10
Attualità
Cercansi nuovi inquilini per Palazzo Madama, ma il trasloco è difficile
A colloquio con Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, sulle riforme del sistema politico e
istituzionale. Ci vogliono tempi lunghi e volontà concordi per modificare l’attuale Senato in Camera delle Regioni
di Francesco Palladino
S
embra un’ovvietà: il nostro
sistema politico e istituzionale
ha necessità di essere rimodernato e aggiornato con serie riforme.
Da oltre trent’anni il Parlamento cerca
di approvare modifiche alla Carta
fondamentale: la prima Commissione
incaricata di questo compito fu quella
presieduta dall’onorevole Aldo Bozzi
(1983-85), poi fu la volta della
Commissione De Mita-Iotti (1993-94).
Qualche anno dopo (1997-98) D’Alema
rinnovò il tentativo riformista, ma
Berlusconi lo fece fallire. Poi ci fu il
referendum del 25-26 giugno 2006 che
bocciò con larga maggioranza la legge
di revisione di quasi tutta la seconda
parte della Costituzione, approvata
dal governo Berlusconi. Infine, nel
corso del 2013, comitati di “saggi”
hanno lavorato per proporre le modifiche possibili della Costituzione.
E adesso sotto l’impulso del “rinnovatore” Matteo Renzi, premier a soli
39 anni, si discute del percorso parlamentare per le riforme. Nel documento approvato il 13 febbraio dalla
direzione Pd «per un nuovo esecutivo
che si ponga l’orizzonte naturale della
legislatura» (fino al 2018, quindi!)
c’è l’impegno chiaro, confermato nel
discorso in Parlamento per la fiducia,
di «portare a compimento il cammino
delle riforme avviato con la nuova
legge elettorale e le proposte di riforma costituzionale riguardanti il titolo V e la trasformazione del Senato
della Repubblica».
Ancora più precisamente nella precedente direzione Pd del 6 febbraio
Renzi aveva indicato le linee guida del
cambiamento: «Il Senato diventerà la
Camera delle autonomie, non elettiva,
senza indennità. Composta da 150 persone, di cui 108 sindaci di comuni capoluogo, 21 presidenti di regione e 21
esponenti della società civile, temporaneamente indicati dal Capo dello
Stato per un mandato. Non voterà
il bilancio, né la fiducia, ma concorrerà all’elezione del Presidente della
Repubblica».
Si tratta di un’impresa difficile, laboriosa e soprattutto con tempi di realizzazione lunghi, un anno e mezzo
o più, dal momento dell’inizio del dibattito parlamentare sul ddl costituzionale (occorrono due deliberazioni
di ciascuna Camera, articolo 138
della Carta). Se non ci sarà, nella seconda lettura alle Camere, la maggioranza dei due terzi, si celebrerà anche
il referendum popolare confermativo,
con allungamento dei tempi di approvazione definitiva.
Tuttavia alcune riflessioni politiche e istituzionali sono utili, anche se
potrebbero rimanere semplici analisi
teoriche, accademiche, a futura memoria, perché, nonostante la dichiarata “ambizione” di Renzi sul governo
costituente di legislatura, le elezioni
politiche anticipate, dopo il semestre
europeo a guida italiana, sono tutt’altro che tramontate, soprattutto se il
leader non imparerà presto l’arte della
mediazione.
Affrontiamo la delicata materia
delle riforme a venire con il professor Valerio Onida, presidente emerito
della Corte costituzionale, che è stato
anche componente della commissione
dei “saggi”, nominata dall’allora premier Letta l’11 giugno 2013.
D’accordo sul superamento del
bicameralismo perfetto, ma il progetto su cui partiti e parlamentari
stanno lavorando è coerente col
nostro sistema politico e istituzionale?
«La riforma del Senato ha senso»,
mi risponde Onida, «se lo si trasforma in una Camera delle Regioni e
delle autonomie, formata da rappresentanti delle istituzioni regionali e
locali: presidenti delle Regioni, presidenti dei Consigli regionali, componenti eletti dai Consigli regionali fra
gli stessi consiglieri, eventualmente
sindaci e presidenti di Provincia eletti
in ogni Regione dal Consiglio delle autonomie locali. L’ideale, secondo me,
sarebbe che ogni delegazione regionale (formata da rappresentanti della
Regione e degli enti locali della stessa)
votasse unitariamente magari previa decisione anche a maggioranza,
così che il Senato esprima davvero
la voce delle Regioni. Non vedo, invece, un Senato in cui siano presenti
come tali i sindaci dei Comuni maggiori o dei Comuni capoluogo, anche
perché si darebbe così una rappresentanza (indiretta) alle popolazioni delle
città a preferenza delle popolazioni
dei centri minori e delle aree rurali,
creando uno squilibrio rappresentativo. Ancor meno vedo la presenza
in Senato di “personalità” nominate
11
Attualità
dal Presidente della Repubblica: vogliamo tornare al Senato regio? Il
Senato, assemblea politica e legislativa, dovrebbe avere il compito di partecipare all’attività legislativa, con gli
stessi poteri della Camera per quanto
riguarda le leggi costituzionali e le
grandi leggi che fissano i lineamenti
del sistema autonomistico (leggi quadro, leggi sulla finanza regionale e locale, ecc.), e invece con semplici poteri
di intervento e di emendamento per
quanto riguarda le altre leggi, sulle
quali la decisione finale spetterebbe
comunque alla Camera. Il Senato non
dovrebbe essere chiamato a votare la
fiducia al Governo, mentre dovrebbe
partecipare insieme alla Camera all’elezione del Capo dello Stato (in luogo
degli attuali delegati delle Regioni), di
una parte dei giudici della Corte costituzionale e dei componenti degli organi di governo delle magistrature
(Consiglio superiore della magistratura ecc.). Infatti si tratta in questi
casi di assicurare una rappresentatività più ampia, comprensiva del sistema delle autonomie territoriali».
Oggi il Presidente del Senato sostituisce il Capo dello Stato, se impedito (art.86): con la riforma sarà
un rappresentante regionale a ricoprire questo ruolo come seconda
carica dello Stato?
«Trasformando il Senato in Camera
delle Regioni sarebbe opportuno affidare la supplenza del Presidente della
Repubblica al Presidente della Camera
dei deputati».
Insomma, gli ostacoli ci sono e non
sarà facile raggiungere l’obiettivo di
superare la forma bicamerale che ci
siamo dati. Percorrendo i corridoi di
palazzo Madama, già oggi, si ascoltano commenti increduli e diffidenti:
«Voglio vederli i senatori che votano
compatti la loro condanna a morte in
pochi giorni, senza fare opposizione».
E qualcuno ricorda anche il dibattito
all’Assemblea Costituente, quando i
padri della Patria osservarono che «il
Senato deve essere composto di elementi che, anche per la loro età, diano
garanzie di serenità, di obiettività e
soprattutto di maggiore ponderatezza
nelle deliberazioni che saranno chiamati ad adottare». Il vicepresidente leghista del Senato, Roberto Calderoli,
si mette già di traverso: «Alla luce
del superamento del bicameralismo,
credo si debba aprire una discussione su quale ramo abolire». Perfino
Il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida
all’ex ministro delle Riforme, Gaetano
Quagliariello, la proposta non va bene
e dice: «Bisogna continuare a eleggere
parte dei senatori. Il progetto è troppo
sbilanciato sui sindaci e poi no ai nominati!»
L’altro grande obiettivo della riforma istituzionale è il radicale
cambiamento del titolo V della
Costituzione (dall’articolo 114 al
133), con la cancellazione delle competenze concorrenti Stato-Regioni
e il ritorno sotto il dominio centrale delle materie strategiche per
il Paese (energia e reti di trasporto
in primis).
«Sulla riforma del titolo V (relativo
a Regioni, Province, Comuni e Città
metropolitane)», afferma Onida, «non
vedo ancora una linea chiara. Non
vorrei che si traducesse in un netto
depotenziamento delle autonomie territoriali, che andrebbero sì riordinate,
ma in un’ottica di sviluppo del principio autonomistico, di cui all’art. 5 della
Costituzione. Non sono, inoltre, favorevole alla pura e semplice soppressione delle Province, che andrebbero
sostituite dalle Città metropolitane
nelle relative aree, e per il resto rimanere, riordinate quanto a territorio
e funzioni, come enti di governo “di
area vasta” nelle Regioni di maggiori
dimensioni (nelle Regioni piccole le
loro funzioni potrebbero invece essere
assorbite dalla Regione)».
Ma per accelerare il processo legislativo non sarebbe più semplice
modificare “subito” (come direbbe
il neo premier Renzi) i regolamenti
delle Camere?
«Per quanto riguarda il procedimento legislativo sarebbe giusto prevedere, con riforme regolamentari ed
eventualmente anche costituzionali,
procedimenti con termini certi per
le leggi più importanti di attuazione
dell’indirizzo politico di Governo, su
cui la Camera vota la fiducia, eliminando l’abuso della decretazione d’urgenza e la prassi della approvazione,
con il voto sulla questione di fiducia
posta dal Governo, di maxi-emendamenti omnibus composti da centinaia
di disposizioni diverse ed eterogenee».
Alle fine del percorso parlamentare delle riforme si può avere il
referendum confermativo ex articolo 138: dovremo votare su un
solo e unico quesito che racchiude
tutti i mutamenti (giusti e sbagliati), come avvenne nel 2006 per
la riforma della seconda parte della
Carta?
«In ogni caso si dovrebbero approvare leggi costituzionali distinte sui
singoli argomenti (riforma del Senato,
titolo V, altro) consentendo così, nel
caso di referendum, che gli elettori si
pronuncino distintamente su ciascuno
di essi».
Racconto d’autore
12
segue da pagina 1
Nel nome del padre
Il diario intimo del grande scrittore che con Vetro ha vinto il Premio Hemingway. In visita ai luoghi della guerra
partigiana, cari alle memorie familiari, scopre che oggi noi figli dobbiamo batterci per l’Europa unita e democratica
di Giuseppe Furno
Dogana della Tecchia, Bivio Cardeto,
Porcigliola, Uccelliera. Poi la montagna prende a scrollarsi dal groppone
gli alberi, si trasforma in pietra grigia,
erba ispida e cespugli di cardi resistenti al vento e al silenzio. L’asfalto si
screpola, s’incrina, perde consistenza
e viene digerito dalla terra e dalle
pietre. Ci vorrebbe un fuoristrada per
continuare. Non è necessario, perché
qui, proprio nel punto dove finisce la
strada, inizia la storia.
La raffica di vento e il groppo alla
gola arrivano improvvisi, assieme
al ricordo della voce di mio padre:
«Eravamo in trecento, attanagliati
sulla vetta del Sagro, con due mitragliatrici Breda 37, quattro mitra Sten e
moschetti del ’91 con cento colpi a testa.
Tutt’intorno c’erano diecimila nazifascisti, con armi micidiali, fra cui i lanciafiamme. La battaglia durò quattro
giorni e quattro notti. Ottanta dei nostri
morirono. Noi ci salvammo buttandoci
giù per un ravaneto...».
Mi par quasi incredibile che in
questo silenzio ventoso, di quella
tragica battaglia non resti alcuna
eco. Nulla, proprio nulla. Abbasso lo
sguardo e m’avvicino all’orlo. Oltre c’è
il baratro. Un deltaplanista si stacca
con le sue ali colorate, prende quota, si
fa piccolo. Una vertigine solo a guardarlo. Potrei essere sul loggione d’un
teatro immenso, lontano dagli umani
affanni: tutt’intorno, il bianco delle
cave di marmo del più grande bacino
marmifero delle Apuane e del mondo
intero. Un bianco dirompente, che abbaglia e irretisce. Cerco con gli occhi
quel ravaneto, cascata di marmo sbriciolato frutto del lavoro secolare dei
cavatori. Di quei ghiaioni che calano
verticalmente a valle ce ne sono molti.
Ne immagino uno e vedo il partigiano
Lamberto, mio padre, poco più che
ragazzo, assieme ai suoi compagni,
ruzzolare fra quei sassi, sotto bombe
e piombo, nel tentativo di non farsi
ammazzare.
M’avvio verso il viottolo che sale
e segna di terra scura l’erba rasa del
prato. Mi interrogo sull’attualità della
parola antifascista. Perché semanticamente inchiavardata all’opposto che
la compone, in una convivenza che è
unica sua ragion d’essere.
Pare che gli dèi, a me che marcio
verso il Sagro “Olimpo”, vogliano
aiutarmi, oppure pungolarmi, forse
Veduta dei sentieri che conducono alle cave delle Alpi Apuane
distrarmi, magari ingannarmi. Il
fatto è che su una roccia, al lato della
carrareccia marmifera, qualcuno
ha scritto la parola dux con vernice
nera. M’avvicino. Per crederci meglio.
Sì, hanno scritto proprio dux, in questo
Sagro che dovrebbe davvero essere un
monte sacro. A giudicare dal tragico
appellativo, se chi l’ha scritto ne è convinto, parrebbe che ne esistano ancora
di quei nostalgici. Nostalgia di cosa?
Magari del vacuo e deleterio: «Allora
sì che si viveva meglio!» Meglio di cosa?
Meglio di quando? Meglio camminare.
Sì, camminare e ricordare. Il primo
grande eccidio di civili ci fu nei paesi
di Mommio e di Sassalbo, il 4 maggio
del ’44: ventidue civili, tutti uomini,
li mettono al muro e li falciano. Il più
giovane ha 20 anni e si chiama Ivo. Il
più anziano 68 e si chiama Carlo.
Supero una curva, cammino una
manciata di minuti sulla sterrata. La
vetta del Sagro è a un chilometro, forse
meno. Il panorama s’apre all’Emilia,
scorgo la sagoma massiccia e brulla
d’una montagna: è la Nuda. I paesi di
Mommio e Sassalbo sono ancora là, aggrappati da qualche parte. Li cerco col
binocolo. Troppo lontani. Voglio ancora immaginare. Ci sono i partigiani
che combattono là, sulla Nuda e nei
dintorni. Combattono per evitare che
il nemico consolidi le postazioni sulla
Linea Gotica che taglia in due l’Italia.
Ci sono truppe scelte lassù, diecimila
soldati, reparti di SS, giovani e nazisti
e reparti italiani della Decima MAS,
giovani e fascisti. Credono in quel che
fanno, ma queste truppe, unite, non riescono ad avere la meglio sulle formazioni partigiane. I nazifascisti li chiamano banditi, scrivono achtung banditi
e per punirli e piegarli, rastrellano e
fucilano i civili, i loro stessi famigliari.
Lo chiamano “diritto di rappresaglia”,
quest’orrore nell’infinito orrore di una
guerra. E da queste parti, i nazifascisti
lo applicano con metodo: Sant’Anna di
Stazzema, Forno, Bagnone, Ponticello,
Valla sul Bardine, Bardine San Terenzo,
Castelpoggio, Tenerano, Guadine,
Racconto d’autore
Vinca, Frigido, Bergiola, Foscalina.
Mille e cinquecento morti innocenti
e forse più. Si vuol mettere in dubbio?
Si vuol cercare davvero nel Trattato di
Ginevra, nell’infame “diritto di rappresaglia”, una qualche giustificazione?
Passo dopo passo, mi vengono in mente
i racconti di mio padre sulle stragi, gli
eccidi, i nomi dei paesi distrutti, incendiati. Voglio pensare che chi ha scritto
dux sia un ragazzino e che tutto questo
non lo conosca, che non gliel’abbiano
mai raccontato, né insegnato e che
nessuno della sua famiglia sia morto
in guerra, oppure ucciso per rappresaglia. La memoria, coscienza della
storia, non dovrebbe estinguersi. Mi
guardo attorno. Mi par d’esser solo con
il vento. Guardo meglio, verso la vetta
del Sagro: no, lassù qualcuno si muove.
Alzo il binocolo: sono due figure, poco
sotto la cresta. Da questa parte della
montagna, la salita può esser lunga
per me che non sono allenato. Provo
a risalire un ravaneto, per tagliare un
pezzo di sentiero, vado avanti qualche
metro, scivolo, le scaglie di marmo
tagliano come lame. Devo usare la
testa, non rischiare avventure. Torno
indietro e riprendo il sentiero. Penso ai
conti col passato. Al dopoguerra. Alla
tendenza italiana, per cultura e storia
millenaria, a tenere vivo ogni contrasto: fra guelfi e ghibellini, fra bianchi e
neri, fra lato “a” e lato “b” d’ogni fatto
e d’ogni cosa. In nome della verità e
delle pari opportunità. Quali opportunità? Forse l’obbligo per gli antichi
schieramenti d’inginocchiarsi allo
stesso confessionale, redistribuendo
carichi d’onori e d’orrori, al punto che
qualche piazza e qualche via d’italiche
cittadine tenderebbe a riprendersi il
nome d’un qualche fascista, oscuro
eroe o voluto tale, per farla pari e patta
con certi vialoni e parchi di città, che
a sinistra han già fatto il pieno. Torno
a chiedermi se davvero può essere
questo il senso moderno del termine
antifascista e del suo opposto che
per natura contiene. M’incammino,
osservo dall’alto il pianoro brullo
di Campo Cècina, alla ricerca d’una
risposta che intuisco, ma non riesco a
formulare con la chiarezza necessaria,
perché pare sia venuta l’epoca dove ad
ogni affermazione, che sia morale e
pure storica, ne corrisponda un’altra
di pari intensità ma sempre opposta.
Dunque, come la mettiamo?
Ed ecco che gli dei di questo Sagro
“Olimpo” tornano a burlarsi di me.
Perché quelle due figurette che stanno
scendendo dalla vetta lungo il sentiero,
mi vengono incontro e il vento me ne
anticipa la parlata. Non è la mia. È
meno liscia. Mi pare inglese. Ma no.
È ancor più aspra. È tedesco. Sono
due giovani donne, bionde e attrezzatissime, compresi i bastoncini per il
trekking. Mi salutano. Sono contente e
sorridenti. Mi chiedono di far loro una
foto con alle spalle il Sagro. Ho un’esitazione. Poi scatto. Una. Due. Tre volte.
Questa mi par buona. Sorrisi. Saluti e
se ne vanno. Ora sono sottovento e le
voci guizzano ancora per poco e poi
s’annullano. Cado seduto su una pietra e le osservo. Mi viene spontaneo
pensare se nelle loro famiglie, magari
un nonno o forse un bisnonno, abbia
combattuto su questi monti. Vado oltre
e immagino che forse è stato proprio
lui a consigliare di venire fin quassù,
ad ammirare la bellezza pura delle
Apuane e dell’infinito mondo che da
quassù appare.
L’idea m’arriva semplice ed appagante, ispirata dalla libertà disinvolta
e dalla gioia squillante delle due turiste: «Europa», penso. «Sì, accipicchia:
Europa e ancor più Europa per salvarci
da nuove tragedie». E mi viene in
mente Ventotene, terra di confino per
tanti antifascisti, isola che da queste
altezze, per quanto limpido sia il
giorno, non si potrà mai vedere. Sulla
piazza del Comune di quell’isola persa
nel mar Tirreno, fra tutte le bandiere
europee, una lapide ricorda Altiero
Spinelli ed Ernesto Rossi e il loro
Manifesto per la nascita di una Europa
senza più confini.
«Oggi è il momento in cui bisogna
saper gettare via i vecchi fardelli divenuti ingombranti», scrivevano Spinelli
e Rossi settant’anni fa, «tenersi pronti
al nuovo che sopraggiunge, così diverso
da tutto quello che si era immaginato,
scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare
nuove energie fra i giovani. Oggi si
cercano e si incontrano, cominciando a
tessere la trama del futuro, coloro che
hanno scorto i motivi dell’attuale crisi
della civiltà europea, e che perciò raccolgono l’eredità di tutti i movimenti di
13
Lamberto Furno (1924-2001), nato a La Spezia,
giornalista, vaticanista e redattore politico
della Stampa. Ha pubblicato (in
collaborazione) Testimonianze per Papa
Giovanni, Milano, 1967; Viaggio attraverso la
teologia scomoda, Roma, 1975 e Il Drago e il
Sagro, Roma, 1985, romanzo nel quale narra la
sua esperienza partigiana nella Brigata
Garibaldi Ugo Muccini.
elevazione dell’umanità, naufragati per
incomprensione del fine da raggiungere
o dei mezzi come raggiungerlo. La via
da percorrere non è facile, né sicura. Ma
deve essere percorsa, e lo sarà!»
Torno a guardare le due tedesche
che si godono la vacanza italiana e
penso che lo spirito del Manifesto
stia anche lì, in quella loro libertà
disinvolta, nella gioia squillante.
Dunque, ecco, intravedo una nuova e
possibile interpretazione della parola
antifascista, inchiavardata com’è al suo
opposto: l’antifascismo, oggi, è credere
nell’essenza profonda del Manifesto di
Ventotene, opponendosi con tenacia
alla nuova alzata dei fasci da combattimento dell’armata antieuropeista,
con la consapevolezza che la strada da
percorrere non sarà certo facile, né sicura, ma convinti altresì che sia l’unica
percorribile.
La vetta del Sagro “Olimpo” è
là che m’aspetta, a mille passi e al
tramonto mancano sì e no un paio
d’ore. Dovrò sbrigarmi. Mi rimetto in
marcia: non voglio farmi cogliere dalle
prime ombre della sera.
14
Cultura
Patrioti
Vedi alla voce partigiano. I tanti volti di chi combatté il nazifascismo
Nella bellissima antologia Storie della Resistenza i racconti in presa diretta di quell’esperienza che ha cambiato le attese
del nostro Paese. Scritture personali, senza un filo di retorica, che sembrano rivolgersi alle future generazioni
di Maurizio Galli
H
erbert L. Matthews, giornalista del New York
Times, nel novembre del 1944 scrisse, riferendosi
al fascismo, «non l’avete ucciso». Pochi anni dopo,
precisamente quattro, con la sconfitta del Fronte popolare
alle elezioni politiche, la maggior parte di quelli che avevano
partecipato alla Resistenza poteva pensare che quella frase
scritta dal giornalista americano era stata profetica.
Troppi italiani, cresciuti, invecchiati, nati sotto il fascismo, vi avevano aderito, lo avevano ammirato, aiutato e
sopportato, molti di questi, soprattutto ragazzi, dopo l’8
settembre del 1943 lo avevano poi combattuto, erano diventati partigiani, avevano dato vita alla Resistenza. L’Italia,
ultimo paese tra quelli occupati ad avere un movimento di
liberazione, diede un vero contributo militare, la Resistenza,
che costò morti e sacrifici e divenne, senza possibilità di
revisione storica, la spinta maggiore alla riscossa del nostro
Paese, sia in termini di orgoglio nazionale che in termini
politici. In questo contesto la vicenda resistenziale diventerà nei decenni a venire, e fino ai giorni nostri, campo di
battaglia tra diverse ideologie politiche, cambiando di significato a discrimine di chi la raccontava e di quello che voleva
rappresentasse.
L’antologia Storie della Resistenza (Sellerio editore, 15
euro), nell’intenzione dei curatori Domenico Gallo e Italo
Poma, vuole raccontare al lettore quello che la lotta partigiana sperimentava e organizzava, un modo di essere che,
nelle parole dei due curatori, era «semplicemente il contrario dell’insieme di regole in cui erano cresciute almeno
due generazioni senza conoscere modelli alternativi». I
racconti scelti sono quasi sempre la prima stesura di questi
testi, il più vicino possibile al momento dell’esperienza resistenziale, testimonianze la cui scrittura è ancora calda
dell’esperienza diretta dei protagonisti.
La raccolta è articolata in nove sezioni, una per ogni
aspetto della lotta partigiana: Che cosa fu la Resistenza;
I maestri; La scelta; Organizzazione politica e militare; Le
azioni; Prigionieri, esecuzioni e spie; Donne protagoniste;
Ebrei nella Resistenza; Poeti, scrittori, intellettuali.
Questa divisione aiuta a inquadrare i vari contesti senza perdere il filo logico del discorso. Alla lettura è
subito evidente come questo lavoro di “pulizia” abbia dato
i suoi frutti: la retorica a cui purtroppo siamo stati abituati,
alle volte in buona fede, è estranea a questi testi. Sono diari,
appunti, cronache di vita o di azioni militari che comunicano con chiarezza e profondità le esperienze personali,
cosicché risultano più moderni e attuali di qualsiasi testo
storico: brani didatticamente e pedagogicamente utili al
racconto della Resistenza alle nuove generazioni.
Troviamo, quasi all’inizio del libro, uno dei testi forse più
interessanti, Un uomo ordinato - Il dizionario del partigiano
anonimo, di Angelo Del Boca.
Al disgelo, nella primavera del 1945, fu trovato nella
giacca del cadavere di un giovane partigiano, un diario
particolare, diverso, una sorta di dizionario che comprende
cinquanta voci relative alla vita partigiana che questo
ragazzo aveva scritto su piccoli fogli d’agenda. Parole
come Alba. «Quando spunta può essere troppo tardi»; Casa.
«Meglio non pensarci. Col tempo, non è poi tanto difficile»;
«Repubblica. Una parola che può significare la parte avversa.
Esempio: “Arriva la Repubblica”. Oppure una straordinaria
confusione: “Che Repubblica!”. Chissà quanti anni occorreranno, da noi, perché riacquisti il suo vero significato».
E altre voci, ironiche o drammatiche, che rappresentano
quello che è stata per questi ragazzi l’esperienza della Resistenza, tra conoscenza della vita e scoperta del mondo, della
civiltà e della morte.
Nuto Revelli, invece, nel suo capitolo L’addestramento del
partigiano si sofferma sull’aspetto militare e organizzativo
della guerra partigiana. La paura dei tedeschi, addestrati
all’antiguerriglia, a differenza della disorganizzazione delle
Brigate Nere. I vari ruoli militari, il comportamento verso i
prigionieri, che non venivano mai torturati dai partigiani,
ma fucilati. A un ragazzino di 14 anni, scrive Revelli, una
vera canaglia, fu risparmiata la fucilazione perché ritenuto
troppo stupido. Questi, allora, si offrì di avvelenare la minestra dei fascisti una volta sceso al paese. Revelli raccontò
questa storia a Sandro Pertini quando era Presidente della
Repubblica, e alla domanda di uno dei presenti sulla fine che
avrebbe potuto fare il ragazzino nella sua vita, Pertini pare
abbia risposto «sarà deputato al Parlamento».
Cultura
Ne I denti di Ada, Giorgio Caproni descrive l’arresto e
l’esecuzione di una giovane spia, Ada. Un racconto toccante
e senza retorica. Uccidere è sempre difficile, in questo caso
anche leggere di un uccisione, e non basta sapere che si
è dalla parte della ragione, è una scelta contro l’umanità e
Caproni la descrive così, grazie alla sua sensibilità.
Il libro snocciola altre decine di racconti che varrebbe
la pena citare tutti, e questa raccolta è una lieta sorpresa,
Giorgio Caproni, uno degli autori dei racconti nel libro
principalmente dal punto di vista letterario. I testi, seppure
diversissimi tra loro per temi e stile, si appendono al filo
invisibile dell’esperienza che li lega e si fanno leggere
più e meglio di un testo storico, e al lettore si permette di
ripercorrere quei momenti, settant’anni dopo, con un’empatia che non è la stessa di chi si limita a portare fiori a
una lapide o lo stendardo alla manifestazione del 25 aprile
nel suo Comune. La retorica della guerra e dell’eroismo
non è di casa in queste pagine, il revisionismo sembra non
poterle attaccare. Pansa e i suoi figliocci sono distanti anni
luce dalla verità di queste parole, e l’operazione dell’editore Sellerio, e sopratutto dei due curatori Poma e Gallo, ha
centrato l’obiettivo di non essere l’ennesima, trita pubblicazione sulla Resistenza ma, contando anche sulla genesi di
questa raccolta, potrebbe essere invece l’inizio di una nuova
serie di pubblicazioni di pregio narrativo più attuali, più
adatte al doveroso impegno didattico che ci aspetta negli
anni futuri, quando le testimonianze dirette non esisteranno più e toccherà a chi la Resistenza non l’ha mai vissuta
diffonderne la memoria.
Per concludere ci tengo a riportare, sempre dal Dizionario del Partigiano, quello che lo sfortunato giovane ha scritto
alla voce “partigiano”, quasi un compendio di quello che si
narra in questo libro: «Partigiani. Ce ne sono di tutti i tipi:
comunisti e cattolici, socialisti e liberali, anarchici e trozkisti, giellisti e monarchici, leali e opportunisti, coraggiosi
e vigliacchi, decisi e attendisti, generosi e scaltri, onesti
e ladri, giovani e vecchi, eroi e doppiogiochisti, consapevoli e no, con scarpe e senza scarpe, vestiti come soldati e
come pagliacci. Combattono una delle diecimila guerre che
l’uomo ha scatenato su questa terra e pensano di essere dalla
parte della ragione». E noi sappiamo che lo erano.
L’avventura di Danilo Mannucci
Presentato a Salerno il libro di Ubaldo Baldi al quale
ha collaborato il figlio dell’antifascista, Giuseppe
Il 4 dicembre 2013 è stato presentato presso la Sala
del Gonfalone del Comune di Salerno il volume di Ubaldo
Baldi, scritto con la collaborazione di Giuseppe Mannucci,
Varcando un sentiero che costeggia il mare. L’avventurosa
vita di Danilo Mannucci (Editrice Gaia, Angri 2013). Il libro
è stato pubblicato grazie al contributo economico dell’Anppia
Nazionale e contiene un saggio, dal titolo L’antifascismo
dopo il fascismo, che traccia il quadro generale che portò
alla promulgazione della legge n. 1379 del 1953 denominata
“Provvidenze in favore dei perseguitati politici antifascisti e
razziali e dei loro familiari superstiti”.
Ha scritto l’amico Ubaldo Baldi nella presentazione del suo
bel libro che la «vicenda umana… diventa emblematica e quindi
capace di offrire una chiave di lettura originale della storia del
nostro recente passato».
Mannucci, attivo militante del Movimento operaio italiano
e internazionale, è stato uno di quegli uomini incorrotti e
incorruttibili – quanto diversi da certe figure che rappresentano oggi il popolo italiano – che hanno pagato duramente la
loro opposizione al Fascismo, ed anche allo Stalinismo, dedicando la propria esistenza alla libertà e alle lotte operaie per
combattere le ingiustizie sociali. Di professione vetraio, poi
rappresentante di commercio, fece parte della gioventù socialista livornese dalla fine del 1915 per passare poi al Partito
Comunista, due mesi dopo il Congresso di Livorno. Testimone
e protagonista per oltre mezzo secolo di storia proletaria, è
stato una figura di uomo e di antifascista perfettamente rispondente a quanti, alla fine della guerra, si sono ritrovati nell’Anppia, fondata nel 1946 da Sandro Pertini ed Umberto Terracini
per riunire i perseguitati politici antifascisti. Un’associazione
che in questo momento storico vede ancora attuali i propri fini:
combattere contro il rinascente fascismo in tutte le sue forme,
palesi, occulte o dissimulate, e contro ogni sua manifestazione
ideologica o d’azione; riconoscere la Costituzione repubblicana
come il patto civile nel quale si incontrano e si riconoscono tutti
i democratici italiani; lottare affinché questa sia attuata in tutte
le sue parti. La violazione di questa Costituzione significa voler
vanificare o inficiare le conquiste e gli ideali dell’Antifascismo.
15
16
Cultura
Patrioti
Il Garibaldi sconosciuto che lottava per i diritti civili
Il libro di Lauro Rossi analizza i precursori del pensiero democratico e ci fa scoprire l’attualità dell’Eroe dei due mondi
di Nicola Terracciano
La casa museo di Garibaldi a Caprera
I
l prezioso, solido libro Ideale
nazionale e democrazia in Italia.
Da Foscolo a Garibaldi (Cangemi
editore, 32 euro, ebook 26 euro) si
deve a Lauro Rossi, il sapiente dirigente della Biblioteca di Storia
Moderna e Contemporanea di Roma
che ha sempre abbinato gli impegni
professionali agli studi storici, soprattutto risorgimentali, rivelando una
vera inclinazione per la ricerca sul
campo: è abilissimo nel disvelare e
approfondire fonti finora trascurate.
Rossi ha, tra l’altro, curato un volume
dell’Edizione Nazionale degli Scritti
di Giuseppe Mazzini, dedicato all’età
giacobina e napoleonica, e ha dato un
contributo personale importante ai
doverosi momenti collettivi di
memoria, come quelli sul 150mo
dell’Unità d’Italia, su Garibaldi, su
Mazzini, sui Fratelli Rosselli. A riconfermare la sua appassionata tensione
civile, che si cela dietro l’apparente
distacco e l’accattivante bonomia, ha
raccolto in questo fondamentale libro
saggi pubblicati negli anni, rivisti con
cura per l’occasione, insieme a contributi nuovi.
Il tema di fondo è la rimeditazione
personale di passaggi nodali del fondamentale evento risorgimentale nel
suo impianto ideale, nel suo effettuale
svolgimento, nei suoi risultati duraturi, ma anche nei suoi limiti, a partire
dall’approdo unitario.
Quest’ultimo non fu supportato,
per esempio, da una trasformazione
dello Statuto albertino: nato in altro
contesto storico, quindi insidiato e indebolito nel suo decisivo impianto costituzionale, ha prodotto man mano
fenomeni negativi, di corruzione e di
autoritarismo, col trasformismo, poi
col crispismo, con i limiti del giolittismo.
Questi elementi negativi, combinandosi con gli effetti della prima guerra
mondiale, hanno portato allo snaturamento del Risorgimento da parte del
fascismo. L’opera di deformazione e
di sostanziale sfregio del reale profilo
storico del Risorgimento, che era stato
nazionale e mai nazionalistico, liberale, laico, aperto alla modernità, si è
prolungata nell’età repubblicana, fino
ad oggi, anche per l’egemonia politica e
pedagogica di forze estranee o addirittura avverse al Risorgimento.
I limiti dell’approdo unitario erano
stati lucidamente, profeticamente intuiti e analiticamente argomentati dalla
tradizione democratica italiana, una
delle fondamentali forze attive nel processo risorgimentale e la più aperta
al futuro, non solo per l’Italia, ma per
l’Europa. A questa tradizione, che ha
avuto il proprio baricentro nel grande
asse Mazzini-Garibaldi, sono dedicati i
saggi centrali del libro di Lauro Rossi,
con la riscoperta della figura importante e poco nota di Alberto Mario.
Rossi dedica la prima parte del suo
volume ai precursori del pensiero democratico in epoca napoleonica, Ugo
Foscolo, Giovanni Fantoni, Enrico
Michele L’Aurora, nel riconoscimento
della preziosità e originalità delle loro
17
Cultura
Patrioti
esperienze biografiche, delle loro posizioni ideali, delle meditazioni e proposte politiche. In particolare Foscolo
sa cogliere il valore del Bonaparte generale, forza storica rivoluzionante,
ma sa anche svelare e criticare i limiti
e le tragedie del Napoleone dominatore.
Il libro dedica grande spazio alla
singolare figura del patriota democratico romano Enrico Michele L’Aurora
(l’autore ne ha curato la voce nel
Dizionario Biografico degli Italiani
della Treccani). Rossi è affascinato
da quel suo concittadino ramingo per
il mondo. L’Aurora poneva al centro
del suo pensiero e della sua azione rivoluzionaria la storica divisione della
penisola e la sua arretratezza. Per ritrovare la sintonia con la modernità
voleva una Italia unita, indipendente,
repubblicana, democratica, laica, capace di porre fine, con Roma capitale,
al potere temporale del papato, sommo
esempio di dispotismo e di monarchia
assoluta. L’Aurora già parla di una federazione europea, e poi mondiale, di
liberi popoli, anticipando Mazzini.
L’Aurora fu uomo di pensiero e di
azione. Rossi ne approfondisce la partecipazione alla Repubblica Romana
del 1798, ma soprattutto il ruolo nella
Repubblica Napoletana, al seguito di
Championnet, suo amico. L’Aurora divenne nel giugno 1799 comandante
di Castello dell’Ovo e quindi protagonista delle ultime tragiche vicende,
rimanendo ferito più volte. Evitò il capestro, ma non ventuno mesi di duro
carcere nelle orribili prigioni borboniche. Accanto a nuove notizie sulla vita
di L’Aurora Rossi riporta scritti inediti,
trovati a Parigi, che impreziosiscono il
volume non solo dal punto di vista critico, ma anche documentario e permettono di datare al 1793 la stesura del
suo scritto più noto All’Italia nelle tenebre L’Aurora porta la luce.
Il volume di Rossi presenta un interessante e doveroso saggio sulla preziosa figura del patriota piacentino
Melchiorre Gioia, poco presente nella
grande memoria risorgimentale di
fine Settecento. Col suo spirito acuto
e pragmatico Gioia colse i limiti dell’azione dei democratici e dei francesi
che non seppero coinvolgere cittadini
e soprattutto contadini aizzati da un
clero reazionario e nemico dei principi
di libertà e di democrazia: da lì il fenomeno delle insorgenze.
Un’altra figura ritenuta minore che
Rossi richiama giustamente è quella
del valtellinese Cesare Paribelli, che
denunciò le violenze della conquista
francese e indicò profeticamente come
prospettiva fondamentale per il movimento rivoluzionario italiano quella di
una Repubblica italica indipendente,
indivisibile, con Firenze capitale, essendo l’Italia una penisola troppo
lunga e geograficamente tormentata.
Lauro Rossi dà un giudizio positivo
sui patrioti italiani di fine Settecento:
«Veri iniziatori del movimento risorgimentale, decisi sostenitori dell’unità della penisola, conobbero lungo
tutto l’arco del XIX secolo una pesante
opera di rimozione. Si rimproverava
loro di essere stati troppo succubi dei
francesi, di non aver operato in piena
autonomia. Eppure, quasi tutte le idee
espresse dal nostro Risorgimento furono formulate ed elaborate nel corso
degli anni 1796-1802».
Nella seconda parte del libro, dal
titolo I democratici e il processo di unificazione i vari saggi approfondiscono
Mazzini e il primato dell’iniziativa italiana, Garibaldi tra guerra e pace,
infine Alberto Mario e la difesa dell’integrità nazionale.
Rossi, con tutte le sue simpatie di
democratico, analizza il fenomeno
Garibaldi dopo l’epopea del 1860. Se
nell’immaginario collettivo l’Eroe che
si ritira nell’umile casetta di Caprera
è un personaggio minore che ha solo
episodici scatti di protagonismo, Rossi
sfata la leggenda e approfondisce la
ricchezza di quei lunghi anni solitari,
quando Garibaldi mise a fuoco il suo
pensiero politico con una originalità e
una modernità di tratti che lo rendono
attualissimo, nostro contemporaneo
oltre che leggenda dell’Ottocento.
Garibaldi, pur avendo come residenza un’isoletta sperduta, si mantiene
dal 1861 fino alla morte nel 1882, per
ventidue anni, in profonda e costante
consonanza e compartecipazione con
la vita storica dell’Italia e dell’Europa,
ne sa avvertire i problemi cruciali, sia
quelli più immediati, urgenti, sia quelli
più profondi e prospettici.
Non c’è battaglia per i diritti civili,
politici e sociali in Europa e nel mondo
che non veda Garibaldi in primo piano
o solidale: dall’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti (Lincoln gli propose di guidare le truppe dell’Unione),
alla critica radicale del razzismo, alla
lotta per i diritti civili e politici degli
ebrei, all’emancipazione delle donne,
all’abolizione della pena di morte, alla
conquista del suffragio universale, alla
rivendicazione dei diritti e dei doveri
di operai e contadini affermati dalla
Prima Internazionale.
Il suo era un orizzonte di pace, di
progresso, di democrazia; ammetteva
la guerra solo come guerra dei popoli
contro il dispotismo e l’impostura. Il
suo impegno nel parlamento e nel paese, direttamente o attraverso i suoi
fedelissimi, come Cavallotti, mirava
a una democrazia sempre più diffusa
e autentica, allo sviluppo della scuola
pubblica e laica, del sapere e della
scienza, al contenimento della rendita
parassitaria con lavori pubblici e socialmente utili.
Garibaldi si è battuto per una
Confederazione Europea e per una
Confederazione mondiale con l’avvento di un arbitrato internazionale
a Ginevra per comporre i contrasti. Il tema della fratellanza dei popoli era dentro anche alla sua fervida
adesione alla massoneria, di cui fu
anche Gran Maestro.
Sognava un’Italia libera veramente,
democratica, laica, operosa, europeista, sorella di altri popoli liberi
che insieme potevano garantire pacifica convivenza e progresso, perché laddove non vi sono popoli liberi e
democratici non vi può essere mai veramente la pace.
18
Cultura
Stavolta ci prende l’anima una ragazzina scampata ad Auschwitz
Il film Anita B. di Roberto Faenza racconta il dopo lager, ma gli esercenti cinematografici lo boicottano. «Siamo un paese
ignorante, senza memoria», dice il famoso regista che viene comunque premiato dall’attenzione di folte scolaresche
di Antonella Amendola
Q
ualche voltafaccia sgarbato.
Qualche
prudente
ritirata.
Alcuni esercenti cinematografici, dopo essersi impegnati, si sono
rifiutati di accogliere in sala il film
Anita B. di Roberto Faenza, storia di
una sedicenne ebrea scampata ad
Auschwitz che vuole, con tutte le sue
forze, tornare alla vita, progettare un
futuro, abbandonarsi all’amore.
«Un grosso equivoco», dice il regista. «Appena senti parlare di campi di
concentramento c’è spavento. Accade
come alla protagonista del mio film,
tutti si sottraggono ai suoi racconti.
Ma il mio non è un film sull’orrore dei
campi, è un film sul dopo, un argomento pochissimo trattato al cinema».
Il film, che è liberamente tratto dal
romanzo di Edith Bruck Quanta stella
c’è nel cielo, ed è stato scelto dallo
Yad Vashem di Gerusalemme per
la solenne Giornata della memoria
(27 gennaio) ci conduce nel percorso
emotivo della ragazzina (interpretata
da Eline Powell), tra la famiglia non
sempre ospitale, i ricordi brucianti, il
sogno di Israele, la consolazione di un
piccolissimo amico bambino, l’unico
al quale confidare paure e speranze,
anche se non è in grado di intenderle.
Il racconto intriga, commuove e del
resto è proprio Faenza a confessare
che leggendo il libro della Bruck era
scoppiato a piangere. C’è poi la solida
cornice storica (siamo nella Cecoslovacchia che si accinge a diventare
comunista) a suggerire più di una
riflessione. Eppure il percorso pubblico
del lavoro di Faenza è impervio:
succede alle produzioni indipendenti in
Italia dove i monopolisti degli schermi,
i grandi marchi, ci subissano di stupide
commedie, clonate le une sulle altre.
Per attirare l’attenzione sul suo
film il regista ha comprato una pagina
di giornale per una locandina provocatoria che recita: «A quale X-Factor
partecipò Adolf Eichmann?». «Mi è
capitato», spiega Faenza, «di vedere un
quiz, L’eredità, con un concorrente, un
giovane, che credeva che Hitler fosse
un personaggio degli anni Settanta.
Non me la prendo con i ragazzi, ormai
avvinti alla vita virtuale della connessione perenne, me la prendo con la
scuola, che è stata ottima e oggi non
vale più niente, con professori ridotti a
guadagnare 1.200 euro. Me la prendo
con i genitori. Me la prendo con l’elefantiasi della televisione che esalta
l’attimo fuggente, mentre il cinema
ha il dovere di ricordare. Nessuno
vuole più fermarsi a guardarsi indietro. Siamo un paese ignorante, senza
memoria. Ho letto un libro bellissimo
della Tobagi sulla strage di
Brescia, ma se tu parli di
stragismo strabuzzano gli
occhi. Chi si ricorda più di
Piazza Fontana, di Bologna?»
Già, la memoria, un tema
immenso, perché è con la
selezione dei ricordi, di ciò
che conta e ciò che è trascurabile, che una comunità si
dà un’identità, un’aspettativa di futuro. «Mi interessa
il tema della memoria, individuale e collettiva», dice
Faenza. «Avevo già fatto
film sull’Olocausto, questa
volta l’approccio è diverso:
c’è una ragazza che non
vuole fare tabula rasa di
tutta l’esperienza dolorosa
che ha vissuto, perché intuisce che azzerando i ricordi
annullerebbe se stessa. Ma chi le sta
intorno la invita anche bruscamente a
voltare pagina, a dimenticare. Succede
anche in Napoli milionaria: Eduardo
Roberto Faenza
torna dalla guerra e immagina che
tutti lo festeggino. Invece neanche
lo invitano a pranzo. La guerra è un
argomento tabù, i reduci sono a malapena tollerati e si sentono quasi in
colpa di avercela fatta. Jean Amery,
che nel lager fu compagno di baracca
di Primo Levi, sosteneva che Dio ha
dato all’uomo la dimenticanza e che
un angelo si avvicina ai bambini per
fare in modo che ricordino, un altro
angelo perché dimentichino. C’è anche
il diritto all’oblio, quella che il linguaggio psicoanalitico chiama rimozione.
Io non credo che siano spregevoli le
persone che, essendo passate per esperienze indicibili come i lager, vogliano
dimenticare. Credo, però, che la collettività ha il dovere della memoria e, in
una parola, la memoria è giustizia».
Faenza se la prende con i negazionisti, dice che non hanno un briciolo
di intelligenza, li accusa di volersi
solo fare pubblicità. «Però con la crisi
che picchia duro si rischia davvero»,
osserva. «Ormai nel fronte antieuropeo si ritrovano partiti dichiaratamente
fascisti o nazisti. Tutta l’Europa ha
una perdita di memoria e Marine Le
Pen potrebbe essere il primo partito in
Francia. Ecco perché voglio che il mio
film lo vedano gli alunni delle scuole.
Già in 100 mila si sono prenotati».
Cultura
Hannah, che negli occhi di Eichmann scoprì la banalità del male
Siamo alle solite: osannato dai critici stranieri, esce nelle sale italiane, ma solo per due giorni, il film di Margarethe von
Trotta Hannah Arendt. Primo piano sulla filosofa ebrea, nemica dei totalitarismi, che scatena ancora polemiche e censure
di Elisabetta Villaggio
I
l New York Times in una lista di
recensioni di 900 film dello scorso
anno l’ha inserito tra i primi dieci. La
critica giapponese l’ha decretato il miglior
film straniero del 2013. Stiamo parlando di
Hannah Arendt il bellissimo lungometraggio di Margarethe von Trotta che narra un
pezzo di vita della filosofa e studiosa ebrea
tedesca, nelle sale italiane in occasione del
Giorno della Memoria il 27 e 28 gennaio.
Hannah, nata da una famiglia ebraica
a Linden nel 1906, studiò all’università
di Marburgo ed ebbe come professore
Martin Heidegger, con il quale coltivò una
relazione segreta. Per molti versi fu la sua
migliore studentessa, appassionata nella
ricerca del libero pensiero e dell’onestà
intellettuale, che metterà sempre al primo
posto nella vita. Quando i nazisti prendono
il sopravvento in Germania lei si rifugia in
Francia dove conosce il secondo marito e
grande amore della sua vita, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, con il quale
emigrerà negli Stati Uniti nel 1940. La pellicola racconta gli anni dal ’61 al ’64 quando
Barbara Sukova è Hannah Arendt nel film della von Trotta
Hannah, interpretata da una bravissima
Barbara Sukowa, viene inviata dal New Yorker in Israele per seil comunismo di Stalin e contro il totalitarismo in generale. Questa
guire il processo al criminale di guerra nazista Adolf Eichmann
è stata una lezione alle persone di sinistra che all’epoca non criticatturato dal Mossad in Argentina. Per la famosa rivista scrive
cavano certe cose. Solo dopo la caduta del muro di Berlino noi di
una serie di articoli, poi diventati il libro La banalità del male,
sinistra abbiamo iniziato a vedere le cose in modo più obiettivo.
dove solleva la questione che il male possa non essere radicale.
Lei era avanti con il pensiero».
L’assenza di memoria e il rifiuto di pensare possono trasformare
La relazione con Heidegger è stata molto importante, forse
persone banali, come lo era Eichmann, in veri e propri criminali.
la più importante della sua vita. Lei la racconta solo in un
Per lei il gerarca nazista altro non era che una persona priva di perflash back.
sonalità che, come sosteneva lui, aveva obbedito a ordini superiori.
«Non ho scelto di fare questo flash back per raccontare che
La Arendt inoltre chiama in causa alcuni leader ebrei accusandoli
erano amanti e se avessi deciso di fare un film su questo argomento
di non aver capito in tempo la gravità del nazismo: queste sue tesi
avrei trovato molto facilmente i soldi: l’ebrea e il pro nazi! Hannah
scatenarono fortissime critiche e il suo libro non fu pubblicato in
sostiene che pensare ci protegge dalle catastrofi e Heidegger inseIsraele fino al 2002. Abbiamo incontrato la regista a Roma dove è
gnava a pensare. Poi è caduto nella trappola del nazismo, mentre
venuta a presentare il suo film.
Hannah era una idealista che guardava al passato cercando di
Hannah Arendt è stata considerata una revisionista: diceva
spiegare i tempi bui, ma era anche una filosofa che sosteneva che il
che i capi ebrei avrebbero potuto comportarsi diversamente.
pensiero possa salvare dal male».
«Abbiamo scelto, con la mia coautrice (Pam Katz ndr),
Che tipo di reazioni ha avuto il pubblico in giro per il
di raccontare un periodo della vita della Arendt. Hannah è
mondo?
stata accusata di essere una sorta di revisionista perché ha
«L’accoglienza è stata miracolosa! Abbiamo fatto l’anteprima a
messo in dubbio i capi ebraici, li ha accusati di aver coopeGerusalemme ed è andata molto bene. Il film ha avuto successo in
rato. Questo è venuto fuori durante il processo che lei seguiva.
Germania e in America e sono molto contenta perché ho dovuto
Anche quando ho fatto altri film sul nazismo mi sono molto docuaspettare 8 anni prima di realizzarlo! Sono stata invitata a New
mentata e ho letto tante cose su alcuni capi ebrei che hanno fatto
York alla New School, dove insegnava Hannah e molti intellettuali
cose anche solo per vantaggi personali, ma in fondo anche loro sono
scappati, per l’ottantesimo anniversario della fondazione».
umani e non vuol dire che essere ebrei significhi essere migliori».
Perché in Italia il film esce solo per due giorni?
Qual è il messaggio più importante della Arendt?
«Abbiamo avuto difficoltà di ricezione da parte delle sale ita«Le sue idee hanno cambiato il mondo. Se non guardi oltre riliane così abbiamo deciso di proporlo nel Giorno della Memoria. Il
mani limitato nel tuo pensiero e poter pensare è un dono, quindi
film comunque ha avuto grande attenzione da parte di associabisogna utilizzare la propria testa. Lei ha scritto un altro libro
zioni e dalle scuole».
molto importante, (Le origini del totalitarismo nel 1951 ndr), contro
19
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Cultura
Cristicchi canta la tragedia dei profughi dell’Istria e accorre la polizia
Nello spettacolo Magazzino 18 trionfa la pietà per tutti coloro costretti all’esodo dalle guerre, dalle ideologie, dai calcoli
dei politici. Ma il grande tema è l’italico vizietto della rimozione: è ancora tabù parlare dei profughi giuliano-dalmati
di Paolo Morelli
C
omandamento numero undici: non dimenticare! Magazzino
18, l’ultimo lavoro di Simone
Cristicchi, scritto insieme a Jan Bernas e
con la regia di Antonio Calenda, musiche
dal vivo inedite dello stesso Cristicchi,
ci conduce dentro una delle tante vicende italiane sapientemente rimosse, dentro
appunto il magazzino del Porto Vecchio
di Trieste dove tuttora sono conservati gli
effetti personali, le mobilie, i ricordi di una
diaspora pressoché cancellata, anzi svuotata di senso in quella parte di storia d’Italia del secolo scorso che somiglia a una
mesta rapsodia della dimenticanza.
Siamo nel ’47, quando in seguito al trattato di pace l’Italia ha perso vasti territori
dell’Istria e della fascia costiera, e quasi
350mila istriani, fiumani, dalmati scelsero,
o meglio dovettero scegliere di abbandonare le loro case e le loro terre per sempre,
rastrellati in nome della Storia e male
accolti in patria, dove vagarono e a volte
morirono tra campi profughi che possiamo
immaginare molto simili agli odierni Cie.
La differenza, e non di poco conto, è che
si trattava di italiani, circondati da cattiva
fama, diffidenza, ogni sorta di pregiudizi
e fanatismi per aver abbandonato il territorio divenuto jugoslavo e in mano a Tito,
specie, ma non solo, da parte del Pci che
organizzò manifestazioni che costellavano
di insulti il loro viaggio sulle tradotte.
In quel magazzino abbandonato da
settant’anni un personaggio scanzonato
e romanesco capitato lì per caso, un archivista, si ritrova alle prese coi fantasmi
che quegli oggetti suscitano, e con l’indignazione che una revisione odierna della
vicenda non può non sollevare. Oggetti siglati con nomi e numeri, armadi, attrezzi
da lavoro, fotografie in bianco e nero, quaderni scolastici, bauli e tante sedie che
hanno pure incollata addosso la tragedia
di un intero popolo sradicato e sbandato,
tragedia che non si fa fatica ad accostare
agli avvenimenti attuali. Cristicchi stesso,
in un’intervista a Il Piccolo on-line ha dichiarato: «Quello che mi ha mosso è la
pietà, la compassione per le persone che
oggi vivono l’esodo. È un problema che esiste da sempre, ma lo stiamo vedendo bene
in questi giorni con tutte le persone in
fuga che sbarcano sulle nostre spiagge. Ho
preferito raccontare la geografia dell’anima, piuttosto che quel poco che dicono
i libri di storia…»
È infatti una sorta di compassione, nel
senso etimologico, che porta l’ignaro protagonista a diventare una specie di spirito
delle masserizie e a raccontare, quindi, il
dolore delle vicende personali, individuali,
di gente in balìa di
quelle che si spacciano per le grandi
risoluzioni
della
Storia, ma che altro
non sono in fondo
che le decisioni dei
potenti di turno,
di qualsiasi ideologia si ammantino. Dalla donna
che non volle partire al bambino di
un campo profughi, all’esule da
Pola, dai portuali
monfalconesi che
decisero al contrario di andare in
Jugoslavia, al prigioniero del lager
comunista di Goli
Otok. Raccontano,
quegli oggetti accatastati, la vecchia
storia dei guai che
si combinano quando ci si ostina a ragionare troppo in grande, e Cristicchi ci porta
la sua testimonianza dolorosa, con voce di
ragazzo che incanta per quel gradiente di
emozione rinnovata, e dopo il bellissimo
Li romani in Russia, grande poema vernacolare misconosciuto di Elia Marcelli, in
una sequenza di scelte artistiche che sembra un inventario delle sconfitte di questa
nazione.
Se ce ne fosse bisogno, la necessità
della rivisitazione della vicenda ha avuto
riprova nelle accuse al cantante-attore da
parte delle opposte fazioni, fino a portare
alla prima nazionale al teatro Rossetti di
Trieste con la polizia schierata all’entrata.
Come ha dichiarato lo stesso Cristicchi
in un’intervista al Fatto Quotidiano: «Una
cosa davvero unica penso nella storia di
questo teatro. All’inizio si respirava tanta
tensione che poi si è sciolta anche con
qualche risata. Personalmente non mi era
mai capitato di andare in scena in un teatro all’esterno del quale c’erano le forze
dell’ordine per timore di disordini. È stata
la vittoria della gente che non ha voce, visto che con questo musical siamo riusciti
a colmare il silenzio di tanti anni. Il lungo
e ininterrotto applauso finale ha posto la
parola fine su tutte le polemiche». E ancora, nella stessa intervista: «Ritengo che
la generazione precedente alla mia non
abbia fatto i conti con quella vicenda. Chi
come me viene dopo ha una visione più imparziale e non intrisa di ideologia, che permette di capire che non è stata solo la tragedia, bensì una vera trasformazione di un
popolo e credo che sia questo l’elemento di
interesse per i giovani».
“Da quella volta non l’ho rivista più,
cosa sarà della mia città. / Non so perché
stasera penso a te, strada fiorita della gioventù. / È troppo tardi per ritornare ormai, nessuno più mi riconoscerà”, cantava
il profugo polese Sergio Endrigo. E per
chi si chiede come sia possibile pensare di
recuperare una visione comune, una coscienza civile in un paese che si è andato
costruendo, strutturando quasi sulla dimenticanza e sull’impunità, su omertà istituzionali e protezioni, dalla vicenda giuliano-dalmata a Portella della Ginestra alle
tante stragi e quotidiane ingiustizie in cui
lo Stato ha avuto sempre un qualche ruolo,
il lavoro di Cristicchi rappresenta un bel
tentativo di risposta.
Cultura
Girando per l’Italia ho scoperto che il mio libro ha una missione
L’autore di Io ho visto, testimonianze di vittime delle stragi nazifasciste, racconta il percorso di un testo che va oltre le
parole. Tra studenti, protagonisti e testimoni dell’epoca, con Pamela Villoresi, la memoria diventa impegno per il futuro
di Pier Vittorio Buffa
L
a giovane insegnante si è avvicinata a me quando
ancora c’era buio in sala. Ha detto grazie tendendomi
la mano. «Grazie perché i ragazzi si sono commossi,
non succede mai».
Pamela Villoresi era accanto, stava firmando i libri e non
ha sentito. Le ho detto dopo quello che la professoressa mi
aveva sussurrato e ci siano scambiati uno sguardo sorridente. Poco prima Pamela aveva risposto in modo semplice
e diretto alla domanda di un ragazzo.
fascisti nell’Italia occupata dal 1943 al 30 aprile 1945,
quando la guerra era virtualmente finita.
Trentatré persone che hanno visto le stragi così da
vicino da essere dei sopravvissuti e da portare per sempre
dentro di sé il dolore terribile di quei giorni.
C’è la donna che racconta di quando restò per ore sotto il
corpo della mamma uccisa dalla mitragliatrice. L’uomo che
si è salvato perché si è nascosto in un sottoscala. L’allora
ragazzina emiliana che è saltata dalla finestra per sfuggire
Un momento dello spettacolo tratto dal libro Io ho visto di Pier Vittorio Buffa. Pamela Villoresi legge alcune testimonianze di vittime delle stragi nazifasciste
«Perché parlare oggi di cose di settant’anni fa? Perché?».
L’attrice aveva risposto d’istinto ma scandendo bene le
parole.
«Perché noi che siamo qua, e siamo tanti, dopo una
mattinata come questa ci si dica che mai faremo e mai
permetteremo che delitti così vengano più commessi. Se
questo accadrà queste due ore avranno avuto un senso».
Questi pochi istanti, questo pugno di parole, dell’insegnante e della Villoresi, mi hanno spiegato, meglio di quanto
avessi potuto fare io parlando con me stesso, il significato
del mio libro Io ho visto.
Eravamo a Mestre, al teatro Toniolo, durante una
mattinata organizzata dal Comune di Venezia per le scuole.
Più di cinquecento ragazzi delle superiori ad ascoltare
Pamela Villoresi che recitava brani di Io ho visto. Un libro
che fa parlare trentatré persone e che racconta trenta storie.
Trenta storie di stragi compiute dai nazisti e dai
alle fiamme e ai colpi di pistola.
Il progetto del libro è nato d’impulso una sera di
maggio quando in un teatro di Roma, durante un convengo
sulle stragi, il sindaco di un paese straziato dai nazisti disse
che se ne era andata l’ultima testimone di quell’eccidio.
Decisi che dovevo andare a cercare chi aveva visto e voleva
raccontare. Per ascoltare i suoi racconti, scattargli una fotografia e far nascere un libro che aiutasse a non perdere la
memoria, a mantenere vivo il ricordo di quello che il nazismo e il fascismo hanno fatto.
Dopo meno di un anno il libro era stampato e il giorno
della sua presentazione, nella libreria Fandango di Roma, è
successo qualcosa che non mi aspettavo, che non avevo previsto. Quel giorno, da Fandango, insieme al libro e alle foto
esposte in una sala vicina, c’erano Pamela Villoresi e tante,
tante persone. Molte di più di quelle che ci aspettavamo.
Pamela Villoresi non la conoscevo. Me l’aveva
21
22
Cultura
presentata per l’occasione il mio amico Maurizio Giammusso perché le proponessi di leggere qualche pagina del
libro.
Tra il pubblico c’erano tre dei protagonisti del libro. Poi
molti amici e diversi sconosciuti, forse venuti più per Paolo
Mieli e Walter Veltroni che presentavano il libro che per
sentir parlare di stragi.
Pamela inizia a leggere, cioè a recitare, il capitolo in cui
Cesira Pardini racconta la strage di Sant’Anna di Stazzema
vista con i suoi occhi di ragazza che vede morire mamma e
sorelle. Nella sala cala un silenzio assoluto, gli occhi sono
tutti puntati sull’attrice, l’applauso arriva forte e spontaneo.
E dura a lungo. E così anche dopo, ogni volta che Pamela
recita i brani di Io ho visto.
La passione dell’interpretazione e la straordinaria partecipazione e commozione del pubblico era quello che non
avevo previsto. E tutto nasceva e nasce dalla forza della
testimonianza, dalla indistruttibile energia di chi ha avuto e
ha la forza e il coraggio di raccontare.
Così quel giorno non è stato, per Io ho visto, il semplice
giorno della presentazione, ma l’inizio di un viaggio che lo
ha portato, in pochi mesi, in una ventina di città e paesi e
che continua ancora adesso.
Un viaggio durante il quale le parole dei protagonisti, alle
quali ho dato la forma di racconti compiuti, hanno come
preso il volo per arrivare al cuore di chi le ha ascoltate.
A Cavriglia, in Valdarno, i nazisti arrivarono il 4 luglio
del 1944 uccidendo duecento persone. Il 9 giugno 2013
siamo nella navata di quella che fu la chiesa di Castelnuovo
dei Sabbioni. La sala è piena, ci sono cinque protagonisti
di Io ho visto: Aldo Dini e Sergio Martini, Ida Balò e Vittoria Lammioni, Goffredo Cinelli. Due giovani attrici, Chiara
Cappelli e Caterina Meniconi, recitano, senza leggere, le
testimonianze della strage di Cavriglia, quelle di Aldo Dini
e Sergio Martini. Lo fanno passeggiando nella navata.
Sergio è solo. Quando sente le proprie parole risuonare in
quella che è stata una chiesa abbassa appena lo sguardo,
Un bel primo piano dell’attrice Pamela Villoresi
gli occhi si stringono. Con Aldo Dini c’è la moglie. Appena
sente pronunciare il nome di suo marito gli preme la mano
e la tiene fino alla fine. Uno degli episodi della strage,
quello da cui sfuggì Aldo Dini, avvenne lì, a nemmeno cento
metri dalla chiesa. È come se tutti ne fossero consapevoli.
E quando, alla fine, la gente si saluta passando davanti alle
foto della mostra con tutti i ritratti di Io ho visto è come se
il ricordo dei quindici-ventimila morti della guerra nazista
contro i civili italiani fosse tutto concentrato a Castelnuovo.
A Sant’Anna di Stazzema, la sera del 4 agosto, ci sono
Pamela Villoresi e il procuratore militare Marco De Paolis,
l’uomo senza il quale i processi contro i responsabili delle
stragi non sarebbero stati celebrati. Siamo sulla piazzetta davanti alla chiesa, il luogo più simbolico della strage
che fece quasi seicento morti. Lì i nazisti ammucchiarono
i cadaveri e gli diedero fuoco. Lì risuona la voce forte e
commossa dell’attrice che sembra quasi dare corpo al dolore
di Cesira Pardini, Enrico Pieri, Enio Mancini.
A Varese non ci sono state stragi, ma uno dei primi
episodi della Resistenza, la battaglia di Monte San Martino.
Io ho visto è lì per l’anniversario di quella battaglia, per un
grande evento organizzato da Varesenews. Nel cinema più
di mille studenti. Sul palco Pamela Villoresi. In sala Maddalena Gazzetta che a Borgo Ticino, poco lontano, il 13 agosto
1944, ha visto fucilare suo zio. Pamela recita le sue parole
con un soffio di voce, nel silenzio assoluto. Poi chiede che
la signora venga sul palco. Maddalena sale, la abbraccia e racconta la propria emozione, è come, dice, se la mia
mamma di cui tu hai ripetuto le parole, fosse qui, accanto a
noi, è come mi fossi rivista come allora, su quella piazza, a
veder sparare. Il lungo e affettuoso applauso arriva quando
Maddalena è quasi senza più parole.
In Sicilia, quando è arrivata la guerra, l’Italia era
ancora alleata della Germania. Ma a Castiglione, sulle falde
dell’Etna, i tedeschi hanno ugualmente ucciso a freddo,
senza una ragione, il 12 agosto 1943. In paese c’era Antonino Ferlito, assassinarono suo padre e lo fecero prigioniero.
Lui è uno dei protagonisti
di Io ho visto. Nel castello
del paese, il 27 ottobre, lui
non c’è, perché vive a Roma.
Ma c’è sua nipote Felicia
che legge il suo racconto e
c’è il vice sindaco del paese
che annuncia l’intenzione
di far diventare il 12 agosto
il giorno della memoria del
paese.
Ecco. Come ha detto
Pamela Villoresi a Mestre,
se anche soltanto la metà,
un decimo, un centesimo
delle persone che hanno
ascoltato o letto i racconti
dei protagonisti di Io ho
visto dicessero a se stessi
e gli altri: «Io non permetterò che tutto questo accada
mai più», la missione del
libro e del suo viaggio sarà
compiuta.
Le Date della storia
23
Roma occupata
Per mio padre era una vergogna una figlia antifascista in carcere
Marisa Cinciari Rodano, esponente di punta dei cattolici comunisti ci racconta come da studentessa maturò le sue
convinzioni al liceo E. Quirino Visconti e di come si dedicò alla Resistenza tra pericoli e privazioni di ogni genere
di Fabiana Tacente
Roma, 20 aprile 2012. Il Presidente Giorgio Napolitano riceve Marisa Cinciari Rodano, cofondatrice di Noi Rete Donne
S
ono nata il 21 gennaio 1921, quello stesso giorno a
Livorno si dava vita al Pci, che era destinato ad avere
un’influenza determinante per il resto della mia
vita», inizia così Del mutare dei tempi (edizioni Memori,
pp.379) autobiografia di Marisa Cinciari, sposata a Franco
Rodano, una delle donne simbolo della Resistenza a Roma e
delle lotte in difesa delle donne nel corso degli anni.
Figura storica nei Gruppi di Difesa della Donna e successivamente dirigente dell’Udi (Unione donne italiane), ha
portato avanti varie battaglie molto importanti, tra cui il
diritto al voto delle donne e la tutela delle lavoratrici madri
e mogli.
Incontriamo la prima donna che ha ricoperto il ruolo di
vicepresidente della Camera (’63-’68) nella sua storica casa
di via di Porta Latina: è riservata, ma non reticente, e nel
lungo colloquio che abbiamo avuto viene fuori tutta la sua
onestà intellettuale.
«Vengo da una famiglia ricca e borghese», inizia a parlare.
«Mio padre era fascista, Sciarpa Littorio, ed era stato anche
Podestà di Civitavecchia. Mia madre, invece, era di famiglia
ebraica e veniva da Mantova; si erano conosciuti durante la
guerra, dopo la rotta di Caporetto, ma erano molto diversi e
non credo sia stato un amore sereno. Io ho fatto la brava ragazza di famiglia a lungo. Poi è arrivato il periodo del liceo».
Che tipo di formazione culturale ha avuto?
«Sono andata a scuola al liceo Visconti, dove ho conosciuto da subito professori antifascisti; poi lì c’era un clima
particolare, ci avevano studiato anche Pietro Amendola e
tanti combattenti antifascisti. Ho cominciato, insieme con
altri compagni di scuola, a sentire cose nuove. Capivamo
che il fascismo stava portando il Paese al disastro, così costituimmo un piccolo gruppo cospirativo, insieme con altri
ragazzi di altre scuole».
Quali furono i legami che influirono nelle sue scelte
politiche?
«Il gruppo dei Cattolici comunisti, quello che divenne
il Partito della Sinistra Cristiana e tanti altri compagni di
quell’epoca ebbero grande importanza. Con Franco Rodano,
Silvia e Laura Garroni eravamo amici dai tempi del liceo;
Romualdo Chiesa fu anche un mio testimone di nozze:
purtroppo morì alle Fosse Ardeatine. Anche con Paolo Bufalini, nostro professore supplente, i rapporti furono molto
stretti e durarono tutta la vita. Nel 1939 ci iscrivemmo all’Università di Lettere e ci avvicinammo alla Fuci (Federazione
Universitaria Cattolica Italiana); ricordo che negli anni ’40
il presidente della Fuci era Aldo Moro e il direttore del giornale Azione Fucina era Giulio Andreotti. In quel periodo
davo lezioni di latino a un ragazzino che aveva una sorella
un po’ più grande, bella e svagata, che durante l’occupazione
tedesca di Roma sarebbe divenuta una coraggiosa gappista,
Medaglia d’oro della Resistenza: era Carla Capponi. Sempre
nello stesso periodo devo aver conosciuto molti amici di
Franco, cattolici e non, tra cui Adriano Ossicini e Paolo
Pecoraro, Tonino Tatò, altro amico fraterno per tutta la vita.
Attraverso Paolo Bufalini conoscemmo molti antifascisti
di matrice laica o comunista, come Mario Alicata, Antonio
Amendola e Pietro Ingrao».
Come si mantenevano i contatti senza rischiare di
essere scoperti?
«Nel nostro gruppo riuscivamo a fare anche piccole
riunioni, ma era molto complicato. Cercavamo di non farci
scoprire, ma non era per niente facile. Ognuno aveva paura,
perché se veniva arrestato poteva mettere in pericolo anche
gli altri. Non scrivere nulla e distruggere sempre quel che
per necessità si fosse scritto divenne regola ferrea. Quella
fu l’epoca dei ragni, foglietti minuscoli, tali da poter essere
24
Le Date della storia
Roma occupata
masticati e inghiottiti in caso di bisogno, contenenti lo
schema organizzativo, la rete di contatti senza nomi, vere
ragnatele di segni intervallati da sigle e nomi falsi. Prima
della Resistenza, quando mio marito fu arrestato, ricordo
che sono uscita di casa la mattina presto per andare ad
avvertire Adele Maria Jemolo perché avvertisse suo marito
Lucio Lombardo Radice; avvisai altre persone che si dovevano temporaneamente interrompere i contatti perché lui
era stato arrestato e diventava rischioso per tutti. Diciamo
che era un lavoro di contatti a due, un passaparola silenzioso. Sempre nel maggio 1943 sono stata arrestata anche io
per attività contro il regime».
Come reagì suo padre a questa partecipazione politica
attiva e all’arresto?
«Lui non sapeva che fossi antifascista, io stavo molto
attenta a tenere tutto nascosto. Dopo l’arresto, venne a
trovarmi nel carcere delle Mantellate e avemmo un colloquio; venne a dirmi che per lui, Podestà e Sciarpa Littorio,
una figlia in carcere era una vergogna insopportabile e che,
anche se fossi uscita di lì, non mi avrebbe accolta in casa.
Una volta uscita dal carcere, sono tornata a casa da mia
madre, che ormai si era divisa da mio padre. Soltanto diversi
anni dopo lui si è riavvicinato».
Ci racconta il periodo della Resistenza a Roma?
«La mia resistenza è sempre stata non armata, ma noi
cattoliche sostenevamo attivamente i gruppi armati, in
particolare le ragazze dei Gap, Carla Capponi e le altre.
Scrivevamo, stampavamo e diffondevamo la stampa clandestina, imbrattavamo i muri, buttavamo i chiodi a tre punte
lungo le strade per bloccare i mezzi tedeschi, cercavamo
di tenere i collegamenti con le famiglie di deportati e arrestati. Certo avevamo paura, si aveva sempre paura quando
si progettava un’azione, ma in qualche modo eravamo anche
molto spericolati, quando si è giovani ci si sente onnipotenti.
Insieme ad Adele Bei organizzammo le prime manifestazioni, sia quelle per il pane, che una grande manifestazione
a Piazza San Pietro, per Roma città aperta, che poi non si
fece: ricordo che avevamo preparato anche un enorme striscione con la scritta Pane e Pace, ma il Papa quel giorno
non si affacciò e saltò tutto, perché evidentemente la polizia sapeva di questa nostra iniziativa e preferì evitare
problemi».
Quella di Papa Pio XII è stata una figura controversa,
come la giudica lei da cattolica?
«Papa Pio XII si comportò male durante la Resistenza;
è vero che i religiosi nascosero gli ebrei e parecchi antifascisti nei conventi, però, per esempio, fu debole la reazione
sulla razzia del ghetto. Probabilmente, da un lato perché Pio
XII era stato nunzio apostolico in Germania, per cui aveva
rapporti con il regime di Hitler; e dall’altro, in Vaticano,
tendevano, durante la Resistenza, a mantenere un rapporto
neutrale col regime».
I legami con il Pci furono difficili per voi del movimento cattolico?
«In quella fase drammatica della storia, tutti noi cattolici del gruppo di mio marito Franco ci rendevamo conto
che le indicazioni più serie e di lotta provenivano dai nostri
contatti più vicini al Pci, come Bufalini. È ben evidente
che comunisti non eravamo, ma non eravamo neanche
anticomunisti come molti del nostro ambiente. In quelle
tumultuose giornate si era assunta la decisione di dar vita
al Movimento dei Cattolici Comunisti. La scelta era chiara:
a fianco della lotta operaia e del Pci, da cattolici, testimoniando come la vera religione non impedisca di fare la vera
politica. Dopo la guerra ci fu il V congresso del Pci: fu deciso
che si poteva essere iscritti al partito senza aderire all’ideologia marxista leninista. Bastava aderire al programma
politico. In quell’epoca non c’erano grandi problemi, era
un momento in cui si stava costruendo un partito nuovo,
aperto».
Quali furono ansie e paure durante la Resistenza?
«Dal punto di vista della vita quotidiana il problema era
proprio sopravvivere; durante la Resistenza, ricordo che
appena sposati, vivevamo in casa di un nostro amico e il
problema era procurarsi da mangiare. Mangiavamo la
crusca cotta in acqua e dadi, sopra una stufetta elettrica,
perché non c’era gas. Il periodo della Resistenza lo ricordo
come un momento di grande fame, perché pane non c’era,
cibi non si trovavano, al mercato si compravano certi cespi
di insalata cresciuta; poi questo continuo cambiar posto,
cambiar buco, come dicevamo noi.
Per un periodo siamo stati nascosti nel dormitorio
pubblico di Santa Maria in Cappella a Trastevere, che era
adiacente al convento delle Suore Cappellone, chiamato
così per via dei loro cappelli a corno. C’era una suora che ci
lasciava aperto il passavivande che dal dormitorio pubblico
portava alla cucina del convento. Ogni tanto arrivavano i
nazisti a fare razzie e noi passavamo dal passavivande e ci
nascondevamo nel convento. Capitò che una notte la suora
dimenticò di lasciarci aperto il passaggio ed arrivò una
razzia e noi avevamo anche un pacco di stampa clandestina; io mi nascosi nel bagno con la stampa clandestina,
con un soldato nazista che continuava a camminare avanti
e indietro e io avevo il terrore che avesse bisogno del gabinetto. Ma per fortuna non entrò e alla fine, dopo tante ore
nascosta ad aspettare in quel lurido bagno che andassero
via, quando uscii mi prese un attacco di risata isterica che
ancora ricordo!»
Che ruolo ebbero le donne durante la Resistenza?
«Io sono stata abbastanza marginale nella Resistenza,
ma le donne hanno avuto un ruolo straordinario; di Carla
Capponi si sa tutto, come di Marisa Musu e Lucia Ottobrini,
membri preziosissimi dei Gap; Marcella Monaco riuscì a far
evadere Pertini, Saragat e altri detenuti da Regina Coeli;
Laura Lombardo Radice con il suo gruppo di insegnanti
antifascisti fecero attività informativa nelle scuole, tanto
che poi ci fu una grossa manifestazione degli studenti. Le
donne ebbero grande importanza perché parteciparono da
subito alla Resistenza; già dall’8 settembre, alla battaglia
di Porta San Paolo, aiutavano la gente, facevano le staffette, nascondevano i soldati che scappavano, portavano da
bere e da mangiare a quelli che combattevano, qualcuna ha
combattuto direttamente; sono morte parecchie donne nella
battaglia di Porta San Paolo».
Politica, vita quotidiana, lotte per i diritti delle donne
e sempre presente accanto a lei c’è stato Franco Rodano.
«È stato un grande amore. Eravamo compagni di scuola,
abbiamo cominciato a frequentarci al ginnasio e ci siamo
dichiarati dopo anni; siamo finiti in galera insieme, abbiamo
fatto la Resistenza insieme, ci siamo sposati durante la Resistenza, abbiamo avuto cinque figli e fino al 1983, quando è
morto, siamo sempre stati insieme ed è stato un rapporto
splendido».
Le Date della storia
25
Roma occupata
Quando arrivarono le leggi razziali volevo convertirmi all’ebraismo
Mario Fiorentini era destinato alla celebrità come attore, diventò un eroico gappista romano. Qui racconta la sua
resistenza nei nove mesi che precedettero la liberazione e chiarisce una volta per tutte l’operazione di via Rasella
di Vincenzo Perrone
F
orte, lucido, determinato e con una gran voglia di raccontare. È questa l’immagine di Mario Fiorentini, classe 1918,
gappista della resistenza romana e combattente partigiano
nel Nord Italia dopo la liberazione della capitale. Nei suoi occhi blu
si possono leggere ancora le immagini, i volti e le persone di quei
20 mesi in cui Fiorentini ha rischiato la vita centinaia di volte. Nella
sua mente lucidissima sono impressi quei momenti terribili in cui
l’Italia pativa la fame, la guerra e l’occupazione nazista. Con lui non
si può far altro che lasciarsi travolgere dal fiume in piena dei racconti di un uomo straordinario. Accanto a lui, compagna politica
e di vita, c’è sempre stata Lucia Ottobrini, classe 1924, riservata e
silenziosa presenza durante questo incontro.
Dove ha conosciuto sua moglie e quanto ha significato nella
vostra vita di coppia l’aver fatto la resistenza?
«Ci siamo incontrati per la prima volta tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 a un concerto bandistico. All’epoca le bande musicali
erano legate ai militari e alle forze dell’ordine e queste occasioni
erano frequenti. La prima volta abbiamo parlato in francese perché
Lucia è di origine alsaziana e conosce molto bene il francese e il
tedesco. I nostri incontri sono proseguiti alla villa Strohl Fern e,
quasi subito, siamo diventati amanti. Dopo la liberazione di Roma
io andai a continuare la guerra partigiana nel Nord Italia e quello
fu un momento molto duro per Lucia perché si diffuse la notizia che
ero stato ucciso; in realtà si trattava di un mio omonimo. Mi piace
ricordare quello che lei dice sempre di me: “L’incontro con Mario è
stato una fiammata ed è stato il mio ragazzo per tutta la vita. Dopo
67 anni dico ancora che vivo per lui”. Posso affermare con fierezza
che siamo la coppia più felice e fortunata della resistenza romana».
Suo padre era ebreo e sua madre cattolica. Loro decisero che
lei avrebbe scelto da adulto l’eventuale religione da seguire.
Nel 1938, quando furono emanate in Italia le leggi razziali contro gli ebrei, lei decise di convertirsi alla religione ebraica. Ci
spiega il perché di questa scelta?
«Io ero laico e libero pensatore, tuttavia quando venni a sapere
delle rappresaglie e quando furono emanate le leggi razziali decisi
di diventare ebreo. Il mio voleva essere un gesto di solidarietà verso
il popolo ebraico. Per questo motivo mi recai dal rabbino capo
Gustavo Sacerdoti, che mi chiese subito se ero circonciso. Io non lo
ero perché, appunto, i miei genitori mi avevano lasciato libertà di
scelta e, oltretutto, avevo già 19 anni e l’idea di affrontare una cosa
del genere mi imbarazzava. Così il rabbino capo mi diede qualche
giorno di tempo per pensarci e quando tornai gli comunicai che
volevo farmi circoncidere. Nonostante questa mia scelta Sacerdoti
mi sconsigliò di diventare ebreo, perché sarei stato considerato vile
e antipatriottico, soprattutto con la guerra che ormai incombeva.
Alla fine decisi di seguire il suo consiglio e non mi convertii più
all’ebraismo. Penso che il rabbino capo abbia fatto quella scelta per
difendere me, ma anche per difendere se stesso. Il convertire un
laico come me all’ebraismo avrebbe messo Sacerdoti in una posizione difficile al cospetto dei fascisti. Lo avrebbero potuto accusare,
infatti, di avermi instradato alla lotta contro il nazifascismo».
Lei è stato considerato un protagonista della cultura
Mario Fiorentini con la compagna di una vita, Lucia Ottobrini, nella loro casa romana (foto ‰ Ciro Meggiolaro)
26
Le Date della storia
Roma occupata
umanistica per via del suo impegno teatrale. Ci parla di quei
momenti?
«Io fondai una compagnia teatrale insieme a Plinio De Martiis
e nel 1942 ero alla direzione del Teatro Italiano e dell’Accademia
delle Arti Drammatiche. Ho lavorato con registi del calibro di Luigi
Squarzina, Adolfo Celi e Mario Landi e con attori come Vittorio
Caprioli, Alberto Bonucci, Lea Padovani e Vittorio Gassman. È con
la compagnia che decidemmo di occupare militarmente il Sindacato
Fascista Professionisti e Artisti, rivendicando la possibilità di poter svolgere il teatro d’avanguardia e di pensiero. Quel sindacato
annoverava personaggi di spicco della letteratura dell’epoca come
Filippo Tommaso Marinetti e Corrado Govoni. Un’occupazione del
genere era molto rischiosa, potevamo essere arrestati o picchiati
dalla polizia. La questione, invece, andò diversamente perché i fascisti ci consegnarono la sede del sindacato e questa fu una vittoria
per noi».
Dopo l’8 settembre 1943 e la firma dell’armistizio con gli alleati, i tedeschi hanno occupato militarmente Roma. A questo
punto sono sorti i Gap (Gruppi d’Azione Patriottica) per combattere l’occupante nazista, di cui lei fu uno degli esponenti
più autorevoli. Come erano organizzati i Gap e che rapporti
c’erano fra di voi?
«Il primo Gap centrale lo fondammo io e Lucia Ottobrini nel
periodo tra settembre e ottobre del 1943. Nel mese di novembre
Antonello Trombadori si accorse che l’idea di una coppia uomodonna funzionava efficacemente, così propose la stessa cosa a
Maria Teresa Regard, fondando il secondo Gap. Nacquero anche dei
rapporti d’amore e dei matrimoni da quell’esperienza, come per me
e Lucia, ma anche per Maria Teresa Regard e Franco Calamandrei,
che si sposarono. Il matrimonio tra Rosario Bentivegna e Carla
Capponi fu meno felice, perché dopo 20 anni si separarono. C’erano
anche delle staffette di supporto ai Gap, come Maria Antonietta
Macciocchi che, per un certo periodo, collaborò con me portando
nella sua borsetta delle bombe. Nei primi mesi compimmo azioni
efficaci ed Herbert Kappler impazziva per cercarci; anche perché,
inizialmente, non sospettava che ci fossero delle donne».
Quali furono le azioni che fecero tremare i nazisti?
«Una delle azioni più significative fu il mio attacco al carcere di
Regina Coeli che, però, va visto in un’ottica diversa rispetto a come
è stato sempre analizzato. Il mio attacco va visto in parallelo con la
liberazione di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat per cui Marcella
Monaco, socialista del gruppo dei matteottini, ottenne la medaglia
d’argento. Stessa onorificenza che ottenemmo tutti e quattro i comandanti dei Gap centrali ovvero io, Rosario Bentivegna, Franco
Calamandrei ed Ernesto Borghesi. Un altro episodio fu l’attacco alla
sfilata fascista di via Tomacelli, per quell’azione fu messa una taglia
sulla mia testa di 500mila lire, come pubblicato il giorno dopo sul
Messaggero. Nel periodo tra ottobre e dicembre colpimmo ripetutamente i nazisti, ma qualcosa cambiò con lo sbarco alleato di Anzio
del 22 gennaio 1944».
Come venne vissuto il momento dello sbarco alleato di Anzio
e che rapporto si instaurò con gli angloamericani?
«Noi ci aspettavamo che i nazisti lasciassero Roma e si riparassero dietro la linea gotica perché nelle file dei tedeschi c’era chi era
intenzionato ad abbandonare la capitale. Erano, tuttavia, gli alti
vertici nazisti come Adolf Hitler e Joseph Goebbels che pretendevano che Roma fosse difesa fino all’ultimo ed era dello stesso avviso
Benito Mussolini. Hitler, addirittura, invitava le truppe naziste a
buttare letteralmente nel mare quelle alleate. Per noi gappisti lo
sbarco di Anzio fu un colpo duro. Fino ad allora stavamo attaccando
ripetutamente i tedeschi, poi, con l’arrivo delle truppe alleate, molte
formazioni gappiste vennero allo scoperto e molti furono arrestati o
uccisi. Si sciolse anche una valorosa formazione nata nella zona dei
Castelli romani. Gli unici a salvarsi fummo noi comunisti perché sia
io che Giorgio Amendola fummo più prudenti degli altri».
Vi aspettavate che gli angloamericani arrivassero subito a
Roma?
«Molti miei compagni hanno criticato l’atteggiamento del comandante John P. Lucas che guidava le truppe alleate. Lui, dopo lo sbarco,
preferì rimanere sulla difensiva, organizzando una linea di difesa a
testuggine, impenetrabile per le truppe di Albert Kesserling. Molti
sostengono che Lucas sarebbe dovuto arrivare immediatamente a
Roma dopo lo sbarco, io credo che invece lui abbia fatto bene, perché altrimenti la capitale sarebbe diventata un durissimo terreno
di battaglia che poteva protrarsi per mesi. Secondo me l’errore del
generale fu, invece, quello di non prendere di sorpresa le truppe tedesche stanziate a Cassino e Salerno. C’è anche un’altra teoria interessante, la quale sostiene che la durezza della battaglia seguita allo
sbarco di Anzio sia stata voluta dal primo ministro inglese Winston
Churchill, il quale voleva impegnare i tedeschi sul fronte dell’Italia
centrale per poterli rendere deboli e vulnerabili in patria. Tra di noi
e gli alleati, comunque, si instaurò un bellissimo rapporto e tuttora
loro mi considerano un fratello. Io, insieme a Giaime Pintor, ho fatto
parte del The Comunist Desk, ovvero il tavolo comunista della Cia.
Pintor si recò presso il servizio segreto, Office of Strategic Services
(OSS), diretto da William Donovan, per stabilire un contatto tra le
forze comuniste e gli alleati».
L’attacco più eclatante contro i nazisti fu quello di via Rasella
del 23 marzo 1944. In quell’occasione morirono 33 soldati della SS
polizei Regiment Bozen. Ne seguì l’eccidio delle Fosse Ardeatine
del giorno dopo, progettato da Herbert Kappler: furono uccisi 335
tra soldati e civili italiani. Come era progettato quell’attacco e vi
aspettavate una reazione così feroce?
«Io ho tenuto le redini dell’organizzazione dell’attacco per 24
giorni e soltanto alla fine, ovvero negli ultimi due giorni, è stato
deciso di effettuarlo a via Rasella, vicino a dove abitavo. Di conseguenza non avrei potuto prendervi parte come, ad esempio, fece
Rosario Bentivegna mascherato da spazzino, perché, abitando
nella zona appunto, chiunque avrebbe potuto riconoscermi. Molti
ci accusano che quell’attacco non fu un atto di guerra, perché effettuato contro truppe di polizia stanziali. Io rispondo che sono
proprio gli stanziali che erano venuti nelle case per prelevare forzatamente i miei genitori. Inoltre, non avremmo potuto prevedere
che morissero 33 persone. Un’altra accusa che ci viene rivolta è che
non ci siamo consegnati ai tedeschi al fine di evitare l’eccidio delle
Fosse Ardeatine. L’eccidio fu compiuto il giorno dopo e quindi, pur
volendo, non ci sarebbe stato il tempo, anche perché la notizia fu
pubblicata a posteriori e nessuno sapeva cosa stesse accadendo alle
Ardeatine. L’eccidio fu organizzato da Herbert Kappler con una
rapidità spaventosa. Gli stessi Kappler e Kesserling, durante il processo a loro carico, affermarono di non aver pubblicato nessun manifesto prima dell’eccidio con la richiesta di consegna da parte dei
responsabili di via Rasella. Ci fu, anche, una responsabilità italiana
in questa vicenda. C’è, infatti, un dialogo tra il ministro dell’Interno
fascista Guido Buffarini Guidi e il questore di Roma Pietro Caruso.
Quest’ultimo chiese al ministro come comportarsi a proposito della
richiesta di Kappler che voleva delle persone da trucidare alle Fosse
Ardeatine. Ebbene, Buffarini Guidi rispose sprezzante di consegnare le persone a Kappler perché al gerarca nazista non si poteva
dire di no. Fu questa la bestemmia di Buffarini Guidi che costò la
vita a 335 innocenti. Questa, insieme a numerose altre atrocità,
compiute dai nazifascisti nell’Italia occupata, mi hanno fatto capire
che stavo dalla parte giusta».
Le Date della storia
27
Roma occupata
Il diario dell’angoscia di una famiglia di ebrei a Roma
a cura di Paolo Brogi
U
no scritto dell’inverno del
1943. Una telefonata a casa di
Paolo Padovani, allora poco
più che ventiduenne, per avvertire che
i tedeschi stanno rastrellando Roma.
La famiglia è composta da Riccardo
Padovani, che con le leggi razziali del
’38 si è visto in quanto ebreo allontanato dalla sua carica di generale dei
bersaglieri e che ora vive con la moglie
Gina Viterbo paralizzata, e i due
giovani figli Paolo e Massimo in una
abitazione di fortuna da cui bisogna
fuggire. Ma come?
Queste carte ritrovate da poco, tre
fogli che vedete qui sotto, raccontano il
terrore allora in quei nove mesi di occupazione nazista della città. Mio suocero Paolo, scomparso nel 2008, non
parlava molto di quella fase dolorosa
della sua vita, sua madre Gina sarebbe
poi morta nel 1946 e il padre Riccardo
nel 1948. Riccardo Padovani aveva
fatto la scuola militare alla Nunziatella
col re: quando le leggi razziali lo avevano di fatto degradato aveva chiesto
udienza al suo vecchio compagno del
collegio militare, il re l’aveva ricevuto
e di fronte alle sue rimostranze per
quanto stava avvenendo aveva cambiato brutalmente discorso. Riccardo
Padovani era uscito da quel colloquio
disgustato. Ma torniamo presumibilmente all’inverno del ’43, ecco la trascrizione dello scritto intitolato Fuga a
Roma.
Fuga a Roma
La telefonata di una persona
amica ci colpì in pieno viso e ci disorientò del tutto. Dovevamo fuggire
perché i nazisti stavano ripulendo
Roma e da un minuto all’altro potevano bussare alla porta. Ma noi non
sapevamo dove andare, non avevamo
soldi, mia madre era paralizzata, mio
padre vecchio.
Guardai in faccia mio fratello, lui
guardò me. Sentii formarsi di colpo un
vuoto doloroso nello stomaco, la bocca
divenne amara e appiccicosa. Rimasi
col ricevitore in mano, mentre la voce
femminile nel telefono seguitava a
dire in un ronzio appena percettibile:
“Scappate, scappate immediatamente.
Non c’è un minuto da perdere”.
“Bisogna scappare”, potei dire
finalmente a mio fratello.
“Dove?”, mi disse lui e mi fissò con
uno sguardo vuoto. Anche lui non
aveva una minima idea di dove si
potesse andare.
Riavvicinai meccanicamente il ricevitore alla bocca e ringraziai la signora
che mi aveva avvertito, promettendo
che non appena al “sicuro” le avrei
telefonato.
Posai il ricevitore sul telefono, e mi
passai una mano sul viso, con disperazione e nello stesso tempo con quel
senso di irrealtà che non doveva abbandonarmi per tutta la mattina. Era
impossibile che noi potessimo andare in qualche luogo, che potessimo
fuggire. Non avevamo amici tali da
ospitarci, molti erano nelle nostre condizioni e per di più mia madre non poteva camminare e mio padre aveva
oltre 75 anni. Io ero tornato il giorno
prima a casa dopo essermi nascosto
per quindici giorni dalle uniche persone in grado di ospitarmi e che a loro
volta erano fuggite da Roma per rifugiarsi in campagna. “Bisogna scappare” d’accordo: ma come, dove?
Stringevo i denti, guardavo mio fratello, ma non riuscivo a scuotermi di
dosso l’inerzia improvvisa che mi era
calata sulle spalle, e mi teneva inchiodato vicino al tavolo del telefono. Le
idee mi correvano per il cervello, mi
vedevo trascinare i miei vecchi per le
scale, uscire dal portone, cercare di
allontanarci dal palazzo, un gruppo
grottesco, senza sapere dove andare e
con il pericolo di essere raggiunti da
un camion tedesco.
Mio fratello sembrò scuotersi e dietro le lenti spesse degli occhiali vidi
le sue pupille come dilatarsi nel terrore rassegnato. Mi afferrò un braccio e mi disse: “Che facciamo? Bisogna
decidere qualche cosa. Non possiamo
rimanere così . I minuti passano e possono venire a prenderci da un momento all’altro”.
“Forse sarebbe bene fare vestire
papà e mamma” risposi, intanto possiamo pensare ad orizzontarci. Il fatto
è – e mi ricordo che imprecai tra i
denti – che abbiamo poche centinaia
di lire e papà non ha riscosso ancora la
pensione. Non vedo dove possiamo rifugiarci anche per prendere tempo. E
poi siamo in quattro!”.
Paolo Padovani
Paolo e Massimo Padovani
Ci scostammo dal tavolo e io nervosamente abbassai la serranda della
finestra perché il sole a quell’ora illuminava in modo diretto la stanza, abbacinando gli occhi. Poi corsi nella
stanza accanto da mio padre, che seduto sul letto, ancora in camicia, si
stava infilando con fatica le scarpe.
28
Le Date della storia
Roma occupata
sguardo pieno di dolore e di disperata passione.
Non senza difficoltà riuscimmo a metterla in piedi, a infilarle il vestito di lana, e
il golf, a calzarle le scarpe, a pettinarla.
Finalmente fra me e mio padre la portammo in camera da pranzo e la facemmo
sedere su una seggiola accanto al tavolo. Solo gli occhi erano vivi, tutto il resto
inerte. Anche mio padre si sedette e mosse la bocca come per dire qualche cosa,
ma strinse le labbra e rimase a guardare mia madre che seguitava a piangere e a
fissarci.
Mio fratello, in piedi accanto al tavolo, disse ad un tratto: “È più di un quarto
d’ora che la signora Ferri ha telefonato. Bisogna fare presto. Lasciamo tutto così
e andiamo via. Poi, se mai, faremo tornare qualcuno a prendere una valigia. Ora
bisogna solo scappare, a costo di andare a Villa Borghese o in un caffè. Subito.
Non c’è un minuto da perdere”.
Non sapevo che dire e provavo solo una immensa stanchezza: anche per me la situazione appariva insolvibile. Con i soldi in tasca sarebbe stato tutto facile. Ma
quattro persone, di cui due anziane, come potevano trasferirsi di punto in bianco da
un’altra parte? E poi quanto sarebbe durato il pericolo? Pensavo alla pensione di mio
padre, unica fonte di entrata, alle tessere annonarie, all’inverno che veniva avanti.
Il capofamiglia, Riccardo Padovani
Mi guardò in faccia e non ci fu bisogno che gli spiegassi il significato della
telefonata. Mia madre sdraiata un po’
di fianco si reggeva, nel suo gesto abituale, con la sinistra la destra paralizzata e mi guardava senza parlare. I
suoi occhi neri, grandi, mi fissavano e
mi sembrò di scorgere una serietà tragica, un presentimento cupo di dolore.
Ma non disse una parola.
Cominciai ad aiutare mio padre: gli
allacciai le scarpe alte e lui mi fece una
carezza sui capelli, mormorando piano
“Povero figlio mio”. In pochi minuti
gli infilai i calzoni, la camicia, il gilet
di lana, la giacca. Poi con lui ci avvicinammo alla mamma per vestirla.
Mentre la facevo sedere sul letto,
mi accorsi che la rigidità del corpo era
più sensibile del solito. Il braccio paralizzato le scivolò di colpo sul fianco
e cadde sul letto. Mia madre si mise
a piangere e fra le lacrime non faceva
che ripetere “Scappate, figli miei, scappate. Salvatevi voi. Io non mi posso
muovere in queste condizioni”. Papà
cercando di dominare la commozione
le disse di fare piano, che potevamo
andare via, che non era detto che i
tedeschi sarebbero venuti pure da
noi. Ma mia madre guardava me e
mio fratello, che scuro in viso si era
fermato vicino alla porta e stringeva le
mani nervosamente sulla spalliera di
una seggiola, e piangeva quasi in modo
silenzioso ma proprio per questo più
straziante. Piangeva e guardava mio
fratello e me, con uno sguardo cupo,
terribile eppure bellissimo. Sguardo
di madre di fronte ai figli in pericolo,
Così la famiglia Padovani riuscì a salvarsi
Dice Leone Paserman che documenti come quello raccolto da Anna Padovani, figlia
di Paolo, sono rarissimi. «Colpisce per la descrizione in diretta dello stato d’animo
dei familiari, per la prova di solidarietà reciproca e si legge tutto d’un fiato come
il brano di un romanzo», spiega il direttore del Museo della Shoah, che aggiunge
di tenere a mente solo un frammento analogo. «L’autore era l’ammiraglio Capon,
genero di Enrico Fermi, militare di provata fede fascista. Abitava in via Flaminia. La
razzia dei cittadini romani di fede ebraica cominciò nel quartiere ebraico all’alba del
16 ottobre e poi si allargò a macchia d’olio a tutta la città. Fu un fallimento perché
Hitler era convinto di poter catturare 8.000 ebrei: furono sequestrate 1.200 persone,
molte donne, molti bambini, tanti vecchi e 200 furono rilasciati. Erano per lo più
domestici. È chiaro che già nella tarda matinata del 16 ottobre ci fu un passaparola, i
telefoni squillavano. Capon,
semiparalizzato, si credeva
al sicuro per le tante lettere
autografe del duce custodite
in casa. Si mette alla macchina da scrivere e annota:
”Stanno succedendo strane
cose, i fascisti vengono a
prendere gli ebrei in casa”.
Fu deportato ad Auschwitz
dove morì».
E i Padovani che fine
fecero? «Si salvarono. Il
patriarca Riccardo riparò in
via Barrili dove aveva poco
più di un materasso. La consorte invalida finì all’ospizio
Angelo Mai, mentre i due
giovani, Paolo e Massimo, si
nascosero alla Garbatella».
Pagina autografa della memoria di Paolo Padovani
29
Memorie
Nuto, che scommetteva sull’Italia libera, non corrotta e di sinistra
Un toccante ricordo di Revelli, lo scrittore che dopo la ritirata di Russia divenne capo partigiano. Nelle sue intense pagine
il dolore dei soldati italiani mandati allo sbando e l’umile mondo contadino che oggi suo figlio Marco tutela con amore
di Domenico Tarizzo
N
uto Revelli era un uomo di
grandi passioni, anche di furori, e questo smentisce lo stereotipo del piemontese freddo e razionale,
che piace molto alle altre regioni d’Italia
e che in molti casi pare anche non infondato. Ricordo che una volta gli manifestai qualche dubbio a proposito di un suo
libro sull’importazione di donne calabresi da dare in spose a contadini agiati e
meno agiati della Langa Alta. Matrimoni,
sembra, riuscitissimi. «Se continui così»,
esclamai, «finirai nel populismo!» Mi
guardò storto e poi prese ad argomentare,
si capiva che voleva bene a quella gente, del
suo Nord e del Sud, e non voleva definizioni negative in proposito. Io non la pensavo
allo stesso modo, vivendo a Milano vedevo un popolo già immerso in un incipiente berlusconismo, per il momento ancora
senza Berlusconi, ma… Insomma, stentai
un poco a fare pace.
Nuto Revelli era un uomo bellissimo.
Alto, forte: con una faccia affettuosa, coraggiosa, se lo si guardava da destra; con
uno strano naso rovinato, visto dall’altra
parte. A vent’anni, fascista entusiasta
dopo avere fatto l’Accademia militare
di Modena, era partito con gli alpini per
la Russia, a combattere il comunismo. A
Dnepropetrovsk era cominciata la ritirata
degli italiani come Nuto e dei tedeschi,
che sfrecciavano via, allegri, sui camion,
mentre i nostri morivano di una morte
dolcissima, di gelo, sul ciglio della strada.
«Non ce la faccio più, signor tenente»,
sorridevano a Nuto. Nuto decise che li
avrebbe vendicati, avrebbe fatto fuori i
tedeschi e i fascisti che avevano mandato
i suoi ragazzi a morire nel gelo senza armi
e vestiario e automezzi adeguati.
Nuto ce la fece. Tornò a Cuneo e si chiuse
in camera sua a piangere. Piangeva per i
morti, per le illusioni infrante. Lo convocò
al fascio uno sbarbatello: «Un eroe come te
deve fare propaganda tra i giovani...». «Non
mi convocare più», rispose Nuto, «perché la
prossima volta scaravento te e la tua scrivania giù dalla finestra».
Un giorno gli arrivò un biglietto dalla
posta: passare a ritirare un pacco. Era il
suo mitra, fabbricazione tedesca, che aveva
spedito dalla Russia a Cuneo. Miracoli delle
regie poste. Dopo l’8 settembre 1943 Nuto
controllò che fosse ben lubrificato, innestò
il caricatore, andò sullo stradone con altri
alpini. Passò una camionetta carica di
fascisti di Salò. Una raffica e via con l’auto
e con le armi, i ragazzi armati e così nacque
la prima banda che si chiamava Compagnia
rivendicazione caduti. In breve, il terrore
dei fascisti.
Un giorno Nuto slittò sulla strada ghiacciata con la moto. Quando si rialzò non
aveva più il naso, una maschera di sangue.
Resta in coma parecchi giorni. Ha difficoltà
alla respirazione e alla vista.
Nel frattempo gli americani erano sbarcati in Provenza, non lontano dalla banda
Giustizia e libertà comandata da Nuto. Gli
americani mandarono una jeep, caricarono
Nuto, avvolto nelle bende, e lo portarono
prima a Nizza poi a Parigi liberata. «Noi
grande chirurgo plastico polacco, vedrai,
tutto sistemato come prima». Il chirurgo
fece il possibile, otto interventi di plastica
ricostruttiva l’uno dopo l’altro, mancava il
tessuto cutaneo per rifare tutto. Nuto era
bendato nel letto e voleva tornare a combattere, sentiva salire dalla strada i canti
e i balli di gioia dei francesi liberi. Seppe
poi che il polacco era un infermiere che
aveva assistito un grande chirurgo e aveva
Nuto Revelli nella classica posa del ‘pensatore’
imparato, o così diceva. È bene ciò che finisce bene, o quasi.
Intanto nelle valli partigiane della
terra di Nuto i tedeschi sferrano feroci rastrellamenti. Incendiano il paese di Boves.
Impiccano, torturano, violentano le donne
prima di ucciderle. Ecco il quadro che ne
fa Giorgio Bocca: «Tutte le valli vennero
occupate, anche se in Val Gesso partigiani
e popolazione combatterono disperatamente, anche se in Val Varaita un primo
attacco fu fermato e respinto. Quindici
giorni dopo i nazifascisti ritornavano in
forze e quasi per vendicarsi, oltre che occupare la valle, iniziavano sui fianchi una
serie di rastrellamenti che perdurò per un
intero mese. La ferocia tedesca si rivelò in
quei giorni sotto forme impressionanti.
Numerose borgate di montagna furono
date alle fiamme, incendiate persino piccole capanne sparse sui più alti contrafforti e usate dai contadini per raccoglier il
fieno. Doveva sparire tutto ciò che poteva
servire ai partigiani. I prigionieri venivano
bastonati a morte e impiccati nelle piazze
dei paesi; le case dei borghesi devastate,
30
Memorie
distinta e attenta ai
valori degli umili,
dei contadini di
montagna.
Nuto
gira per le sue valli
col registratore, lo
mette sul tavolo,
non fa niente di
nascosto, e fa parlare quelli che non
hanno mai parlato,
che hanno difficoltà a parlare: i
reduci delle guerre
fasciste, i poveri,
i vinti, le donne
calabresi venute al
Nord. Nascono così
i suoi libri, unici nel
panorama letterario
italiano: Mai tardi,
diario di un alpino in
Russia (Panfilo ed.
Cuneo), e gli altri,
tutti pubblicati da
Einaudi: La guerra
dei poveri, La strada
del davai, L’ultimo
fronte, lettere di caduti nella II guerra
mondiale, Il mondo
dei vinti, L’anello
forte, La donna, Il disperso di Marburg, Il
prete giusto, Le due
guerre. Guerra faBorgata Paraloup, dove nacque la formazione partigiana cuneese di G.L.
scista e guerra partiIl borgo è stato portato a nuova vita dal figlio di Nuto, Marco Revelli. Ora c’è un
rifugio con 15 posti letto, un ristorantino, sale per mostre e un archivio sulle
giana (quest’ultimo
donne partigiane e montanare.
del 2003).
la biancheria e i preziosi rubati, le donne
Nuto era nato a Cuneo nel 1919, ivi morì
violentate. La lotta divenne disperata, crunel 2004, stroncato anche dal dolore per la
dele» (Partigiani della montagna, Bertello
morte della moglie Anna, che era stata al
ed. 1945).
suo fianco dai tempi della Resistenza. Con
Duccio Galimberti, l’animatore dell’anla consueta generosità di famiglia, il figlio
tifascismo a Cuneo e maestro politico di
Marco, animatore con Viale e Luigi Bobbio
Nuto, viene arrestato a Torino e massacrato
delle lotte di palazzo Campana nel ‘68, ha
a bastonate dalle camicie nere, nonostante
donato all’Istituto della Resistenza tutte
l’intervento di Mussolini, che vorrebbe
le carte, le registrazioni e i libri, anche di
aprire un canale di scambio. Nuto, a marce
edizione francese e tedesca, del padre, e
forzate, torna nella sua città, combatte per
le stanze che li contengono. Tra loro due,
la liberazione di Cuneo, viene nominato
padre e figlio, ricordo, quando Marco era
comandante militare della V Zona e riesce,
un ragazzino ribelle, c’era una concordia
schierando i suoi uomini armati, a sventare
discorde. Nuto, nel rincasare, chiedeva ad
il piano gollista d’impadronirsi di parte
Anna, per prima cosa, se Marco era nei guai
del Piemonte. In questa decisione, come in
a Torino. Marco pensava fosse possibile
quelle precedenti della guerra partigiana e
andare oltre i limiti di una guerra di resiquelle successive, in tempo di pace, nella sistenza. Oggi insegna Storia delle dottrine
nistra sempre più vicina al partito comunipolitiche nell’Università del Piemonte
sta, dopo la dissoluzione di G.L. e del partito
orientale. Lo vedo talvolta, coi capelli presocialista, si avverte sempre un vivo senso
cocemente bianchi.
del patriottismo piemontese, di una cultura
Nuto terminò la sua vita di soldato col
vicina a quella geografica, la francese, ma
grado di generale. Ma non si dava delle
arie militaresche. Si andava a mangiare
a Verduno, ove le cameriere discendono,
pare, dalla Bela Rosin di Vittorio Emanuele
II. A Nuto piaceva il vino rosso locale, buonissimo quando è buono, ma non eccedeva
mai. Era un intenditore, parlava con Bartolo
Mascarello, il produttore del Barolo più
buono, che al suo vino mise l’etichetta No
barrique no Berlusconi... e i carabinieri lo
arrestarono. Il cuoco del locale era stato
anche il cuoco della formazione partigiana
di Nuto. Con Giorgio Bocca aveva litigato:
secondo Giorgio, che in vecchiaia se ne doleva, per colpa delle interferenze dell’avvocato Dante Livio Bianco, loro comandante
G.L. Giorgio, anche lui di Cuneo e G.L., era
diventato un famoso giornalista, abitava
a Milano; era diverso da Nuto, rimasto
nella sua terra, ma entrambi difesero fino
all’ultimo la Resistenza antifascista dalle
diffamazioni di un conterraneo.
Neppure invecchiando Nuto perse
la curiosità: il mistero del disperso di
Marburg, argomento di un suo libro, ruota
intorno un ufficiale tedesco che cavalcava,
solo, in terra partigiana, forse nauseato
della sua guerra, forse… Si arrivò a pensare
che, dietro quella sua aria solitaria e romantica, il cavalleggero fosse una spia che
studiava le mosse del nemico. Dopotutto
quella era Bandengebiet, zona di bande
ribelli. Nel dopoguerra Nuto andò in
Germania, riuscì a ricostruire l’identità del
misterioso ufficiale a cavallo che gli italiani
uccisero perché la crudeltà della guerra ti
costringe a uccidere.
Nuto non si perdeva mai d’animo, riuscì
perfino a ricostruirsi un volto. Nelle lettere
che mi mandava dal suo paese m’invitava a
disintossicarmi, lassù, dai veleni milanesi:
«Ho già un amico che viene su ogni sabato
a disintossicarsi...». Io partivo sovente,
discutevamo, scrissi dei libri anche grazie
ai suoi ricordi. E non dimentico quanto mi
scrisse, col suo solito entusiasmo generoso,
quando lesse la mia Storia dei movimenti
libertari che gli avevo mandato. Qualche
volta ci tiravamo su di morale a vicenda,
ma era sempre lui l’anello forte, mai perdeva la fiducia, laica e generosa, in un’Italia libera, non corrotta, di sinistra. Non
ignorava, comunque, quanto sarebbe stato
duro il cammino, sul piano degli ideali e
della vita quotidiana. Mi dava ragguagli in
ogni lettera: «... Marco è soldato da oltre
quattro mesi, subisce. Il Cile, ancora una
pagina tremenda, e la vivi come se il Cile
l’avessimo in casa, ora dopo ora. Ciao, caro
Domenico. Ricordami a tua moglie e tuo
figlio.Ti abbraccio, Nuto».
Memorie
Voglio essere ricordato per le mie imprese, non come un eroe
A colloquio con Andrea Bartali, il figlio del grande campione Gino, riconosciuto da Israele Giusto tra le Nazioni. Con il
sostegno di una rete ebraico-cristiana, in bicicletta, mise in salvo centinaia di ebrei. Ma gli toccò solo la pensione sociale
di Francesco Caremani
Y
ad Vashem, il sacrario della Memoria di Gerusalemme,
ha nominato Gino Bartali, grande campione di ciclismo,
Giusto tra le Nazioni, riconoscendone l’impegno a favore degli ebrei perseguitati in Italia. La motivazione: «Un cattolico devoto, nel corso dell’occupazione tedesca in Italia ha fatto
parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di
Firenze Nathan Cassuto e l’Arcivescovo della città, cardinale Elia
Angelo Dalla Costa (già riconosciuto Giusto tra le Nazioni, n.d.r.)».
«Questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell’occupazione tedesca e all’avvio della deportazione degli ebrei, ha salvato», prosegue la motivazione, «centinaia di ebrei locali ed ebrei
rifugiati dai territori prima sotto controllo italiano, principalmente Francia e Yugoslavia».
Una storia che solo in parte era conosciuta e che ha trovato in uno
dei riconoscimenti civili più importanti al mondo la definitiva certificazione e la consacrazione di un campione, che è stato prima di
tutto un uomo, un eroe giusto. Andrea Bartali, primo testimone dei
racconti del padre, ha voluto condividere con noi questa memoria.
Quando ha scoperto che suo padre usava la bicicletta per
aiutare gli ebrei e fare la staffetta partigiana?
«All’inizio degli anni Sessanta, quando entrambi eravamo a
Milano per lavoro. Stavamo spesso insieme, allora un poco alla
volta ha tirato fuori tutto quello che gli era rimasto dentro, con
l’ordine di non dire niente a nessuno: per mio padre era normale
non vantarsi. Era un uomo di grande fede e quando gli è morto
il fratello in bicicletta ha avuto un enorme trauma perché erano
molto legati, sognavano di fare una squadra insieme; da quel momento ha interpretato lo sport non come strumento per arrivare
alla vittoria, ma come esempio. Diceva che l’esempio è una cosa che
tutti riescono a capire. Ha iniziato a portare un po’ d’aiuto a chi era
più debole. Se la natura e il Padreterno ti hanno dato qualcosa in
più era giusto restituirlo: con questa filosofia ha affrontato anche
la guerra e quando nel ’43 i tedeschi non erano più alleati degli italiani lui si mise a disposizione del cardinale Dalla Costa per cercare
di salvare più ebrei possibile. Diceva: “Io voglio essere ricordato
per le mie imprese, non come un eroe di guerra, gli eroi sono altri”».
Alfredo Martini, ciclista e dirigente sportivo di primo
piano, ha sempre sottolineato l’amore che Bartali aveva per la
gente, la sua grande dedizione al ciclismo e ai tifosi. Riconosce
suo padre in questa ricostruzione?
«Sì. Non si capacitava come molti potessero arrivare da tanto
lontano per vederlo solo tre secondi in curva. Per lui i tifosi erano
sopra le parti e si sentiva molto vicino a queste persone che dormivano al freddo nelle tende, esprimendo tutta la propria passione
per il ciclismo».
Come ha vissuto la morte di Fausto Coppi?
«Era incredulo, si chiedeva come un animaletto tanto piccolo
avesse potuto uccidere un uomo così forte».
Che rapporto c’era tra loro due?
«Stima, mio padre lo considerava un bel corridore. Avevano due
caratteri diversi, soprattutto nel concepire gli affetti».
Chi era più mediatico?
«Sicuramente Gino, Coppi era più riservato, anche se a mio padre
non piacevano le ripetute pacche sulle spalle».
Coppi-Bartali, comunisti contro democristiani.
«Al babbo la politica non piaceva, mentre Coppi era democristiano con tanto di tessera».
Lei è tornato da poco da Israele, che sentimenti ha percepito
nei confronti di suo padre?
«Il grande amore per un uomo giusto. C’era anche una persona che lui aveva salvato, nascondendola in cantina, un’altra di
Viareggio, tante testimonianze. Questa storia non è venuta fuori
prima perché il dolore dell’Olocausto è stato così grande che la
gente aveva voglia di dimenticare, per questo non parlava e mio padre rispettava questo dolore. Sì, si sapeva cosa accadeva agli ebrei,
ma quasi tutti facevano finta di nulla».
Quali collegamenti utilizzava Gino Bartali per salvare gli ebrei?
«In un primo momento cercavano di farli salpare da Genova,
per mandarli il più lontano possibile, passando per la Certosa di
Farneta, a Lucca. Lui portava i documenti da Firenze, ma non c’era
solo la carta d’identità, avevano bisogno anche della carta annonaria, della certificazione per la scuola dei ragazzi, per il servizio
militare; poi ne prendeva degli altri e a Genova gli consegnavano
anche dei soldi che arrivavano
dagli ebrei americani per aiutare quelli italiani in difficoltà,
attraverso una banca di Ginevra.
I soldi servivano per i viaggi,
per pagare chi aiutava e anche
per comprare il loro silenzio. I
tedeschi vennero a saperlo e interruppero questo traffico, anche con il massacro di Farneta.
Da quel momento Dalla Costa
pensò a un’altra strategia
insieme con i francescani di
Assisi; questi chiedevano a mio
padre anche di andare a vedere
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Memorie
se c’erano dei posti di blocco, nel tornare a casa faceva dei grandi
giri per non farsi ritrovare sulla stessa strada, passando dall’alto
Maceratese. In questo caso molti ebrei partivano dalla stazione di
Terontola (dove ancora oggi c’è una lapide). In quelle occasioni faceva proprio il Gino Bartali: d’accordo con tre o quattro partigiani
formavano un capannello, le guardie allora si allontanavano dai
treni per scioglierlo e così chi doveva scappare saliva senza farsi
vedere. Lui ha continuato, senza che alcuno sapesse, nemmeno la
mamma. Ha salvato tante persone».
Faceva anche la staffetta per i partigiani?
«Sì e gliene sono successe di tutti i colori. Gli arerei lo mitragliavano, soprattutto dalle parti di Assisi; erano gli americani, prima
sparavano, poi venivano a vedere a cosa avevano sparato. Così per
non farsi intercettare sporcava la bicicletta, si buttava nei fossi.
Una volta cadde nelle acque nere. Tornando, mia madre lo spogliò
fuori dalla porta. “Ma cosa hai fatto?”, gli disse. “Son caduto, un
cane mi ha attraversato la strada”, rispose».
Quando ha scoperto che lo Yad Vashem stava indagando,
cercando testimonianze su suo padre?
«Avevano iniziato quando era vivo, ma lui non ne voleva sapere.
Anch’io gli dicevo: “Mi racconti tutte queste cose e io non le posso
dire a nessuno”. “T’accorgerai da solo quando sarà il momento”, mi
disse. Ha avuto ragione lui e l’anno scorso ho scritto Gino Bartali,
mio papà (Limina). Solo dopo la sua morte sono venute fuori tutte
le testimonianze delle persone che aveva salvato».
Chi era Gino Bartali per lei e cos’ha provato per questo riconoscimento?
«“Il bene si fa, ma non si dice”. Ecco in questa frase c’è tutto mio
padre. Lui considerava una vigliaccheria che qualcuno potesse
approfittarsi del dolore degli altri o trarne vantaggi. Il riconoscimento è stato il coronamento di un lungo percorso di ricerca, ufficializzato lo scorso 7 luglio, ma reso pubblico solo il 23 settembre,
nella giornata d’apertura dei Mondiali di ciclismo che si sono svolti
a Firenze».
Che padre era Gino Bartali?
«Un ciclista rompiscatole. Non si possono fare 700.000 chilometri in bicicletta così, bisogna sapere cosa si fa, ed esigeva che anche
gli altri fossero come lui, aveva un carattere forte, deciso, marcato,
e pretendeva molto, soprattutto da me».
Dopo tutto questo il brutto episodio con i partigiani nell’immediato dopoguerra. Che cosa accadde veramente?
«Era in giro per cercare di guadagnare qualche soldo con le
corse, insieme a Primo Volpi, originario dell’Amiata, e altri. Alcuni
partigiani li fermarono e stavano portando al muro mio padre, perché lo conoscevano come amico dei preti. Fu Volpi a intromettersi:
“Io sono un vero comandante partigiano e se gli fate del male verrò
a cercarvi”. Gli salvò la vita. Mio padre c’era rimasto molto male,
perché li conosceva. Prima della guerra, a Lione (Francia), grazie
ad alcuni sacerdoti, aveva nascosto un capo comunista di Firenze.
Quando tornò a casa andò proprio da lui a raccontargli ciò che era
accaduto. Costui fece chiamare i responsabili e li buttò fuori dal
Partito comunista».
Il Tour de France del ’48, tra la rabbia dei francesi e l’attentato a Togliatti.
«Il 14 di luglio era a Cannes e vedeva che i giornalisti italiani andavano via. Pensò che non avessero più fiducia nelle sue capacità.
Capì solamente quando gli dissero che era successo un bel pasticcio
e che si rischiava la guerra civile. Poi gli telefonò De Gasperi, si
conoscevano dai tempi dell’Azione cattolica: “Gino hanno sparato
a Togliatti, riteniamo che una tua vittoria al Tour de France risolverebbe un po’ di problemi”. Rispose: “Il Tour non glielo prometto,
ma domani posso vincere”. Papà prese tutta la squadra, andò sul
lungomare di Cannes, con una bacchettina sulla sabbia fece la tattica e vinse. Ma vinse tutta la squadra. Poi vinsero altre 3 o 4 tappe
lui e 3 o 4 gli altri. La gente iniziò a parlare di sport e gli animi si
placarono».
Un episodio che porta sempre con sé?
«Ce ne sono innumerevoli. La premura faceva parte del suo carattere. Al Giro d’Italia partiva un’ora prima dei corridori, andava
nelle scuole, incontrava i bambini e diceva agli insegnanti: “Mi
raccomando domani fategli fare un compito in classe sul ciclismo”.
Questa era la sua filosofia, il suo messaggio. A ogni giro firmava
dalle 13.000 alle 15.000 cartoline».
Per quello che ha dato, come uomo e come ciclista, ha poi
ricevuto?
«No, anzi. È stato un grande personaggio, ha saputo anche sfruttare bene il nome che portava, diventando uomo immagine della
Coca-Cola, ma la riconoscenza che si aspettava dal mondo politico
non è mai arrivata. Pio XII voleva metterlo in politica. Era il ’48, ci
pensò un po’ e rispose: “Dire di sì o no a Lei è come dire di sì o no
al Padreterno, ma io devo dirgli di no. Alla gente che mi è venuta
a vedere in salita non ho mai chiesto di che partito fossero, se accetto, metà li faccio scontenti”. Dopo, però, è andato in pensione
con quella sociale, con tutte le tasse che aveva pagato. Pare che
Andreotti avesse provato a farlo diventare senatore a vita, ma l’ho
visto venire via da tanti colloqui amareggiato o sarcastico».
Cos’è la Fondazione Gino Bartali?
«È nata per proteggere il suo nome che ancora oggi stanno indebitamente sfruttando. Per lo stesso motivo siamo usciti dall’organizzazione dell’omonimo museo. Mia madre voleva solo sapere
da dove venivano e dove andavano i soldi, ancora attende una
risposta».
Come ci si sente ad aver avuto un babbo come Gino Bartali?
«Io non vado tanto d’accordo coi miei fratelli, perché loro si
fanno vanto del nome. Devi essere orgoglioso, certo, ma devi capire anche uno che ha fatto 700.000 chilometri, che era ciclista
350 giorni l’anno, per cui il bicchiere di vino era un nutrimento.
Bisogna averlo vissuto, è lì che capisci la grandezza di un uomo,
enorme».
Noi
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Ricordo di Franca Sibilio
E
ra una caldissima giornata di luglio del 1995. Insieme
a Guido D’Agostino, allora assessore all’educazione del
Comune di Napoli, mi ero recato a Scampia, dove Guido
mi aveva pregato di incontrarlo per fare un sopralluogo a una
struttura scolastica sottoutilizzata. Fu lì, quella mattina in cui il
caldo era davvero insopportabile, che conobbi Franca. Mi fu presentata come la Preside dell’Istituto Psicopedagogico Margherita
di Savoia, ma mi bastarono solo pochi minuti per capire che quel
titolo illustrava ben poco, e forse anche male, le caratteristiche
della persona che avevo di fronte. In effetti ero stato chiamato da
Guido - quel giorno, in quel posto, e per incontrare Franca - nella
mia qualità di assessore alla scuola della Provincia di Napoli, ente
che in quegli anni era deputato alla gestione delle scuole secondarie superiori sia della città di Napoli che degli altri 91 Comuni
della sua provincia. Compresi molto bene, nel corso di quella mattinata,
perché Guido volle vedermi. Iniziai a
capirlo quando Franca, come un’erinni, dopo poche battute si scagliò contro di me urlando che a Scampia bisognava creare subito un liceo classico
e uno scientifico. Subito, senza aspettare altro tempo… ed eventuali nuovi
finanziamenti. Occorreva ristrutturare immediatamente due edifici che
già esistevano e che erano stati vandalizzati. E iniziare subito, da settembre, a fare andare a scuola i ragazzi di
Scampia che volevano intraprendere corsi di studi più impegnativi e formativi di quelli tecnici o professionali.
«La cultura, la cultura, la cultura», gridava, «solo quella potrà salvare questi
ragazzi!» Lessi nello sguardo di Guido
un senso di liberazione quando, incautamente perché non sapevo dove avrei preso i soldi necessari, mi
impegnai a far ristrutturare nel giro di poche settimane quei due
plessi scolastici. Fu allora che Franca improvvisamente mi saltò al collo e mi abbracciò per la prima volta, e mi disse: «assessò
si’ grande!»… «non come Guido però…», aggiunse subito dopo per
non far dispiacere nessuno.
E fu così che a ottobre aprirono a Scampia due succursali sia
di liceo scientifico che di liceo classico, fra i borbottii e le risatine
di tanti che immaginavano un rapido fallimento di quella scelta. A
distanza di pochi anni, registrammo un tale successo di iscrizioni
che le due scuole raggiunsero poi agevolmente i numeri necessari
per diventare due scuole completamente autonome.
Da quel momento, Franca, non me la levai più di torno, e ne fui
felice. Era un vulcano di proposte, idee, iniziative, che non riguardavano solo la scuola. Quando organizzai un incontro con i leader
Saharawi, per far conoscere il dramma del loro popolo, Franca se
ne interessò e si appassionò a tal punto da trasformare nei mesi
estivi la sua scuola, situata nel centro storico di Napoli, in un ostello
capace di ospitare per molti anni centinaia di bambini Saharawi
in vacanza nella nostra città. Lei stessa, avendo deciso di andare a
costatare di persona il dramma di questo popolo, si recò a sue spese
nel deserto di Tinduf a sud dell’Algeria, dove i profughi Saharawi
vivono da decenni, accampati in attesa di un referendum per l’autodeterminazione promesso dall’Onu, e che ancora non si è svolto.
Un altro ricordo entusiasmante di Franca emerge in un
momento successivo quando, divenuto assessore all’educazione
al Comune di Napoli con Rosetta Iervolino, una mattina fui chiamato urgentemente nella stanza del Sindaco. Lì trovai Rosetta e il
mio collega alle politiche sociali, Raffaele Tecce, che discutevano
animatamente di un’emergenza che la nostra città si trovava ad affrontare quel giorno in maniera imprevista e improvvisa. Nel corso
della notte alla stazione centrale erano arrivate diverse centinaia
di cittadini rom, provenienti dalla Romania, che si erano accampati
nelle aiuole antistanti la Stazione a piazza Garibaldi. Chi sono, da
dove vengono, e perché sono venuti proprio a Napoli? Ma soprattutto che fare? Come e dove dare loro accoglienza? «Lello», mi
disse Rosetta, «pensaci tu!» A me venne subito una mezza idea, un
edificio scolastico abbandonato a Soccavo, nella periferia occidentale della città. «Possiamo trasformarlo in pochi giorni in un centro
di accoglienza con la squadra di Lsu del
Comune», risposi. E Rosa, come sempre, mi rispose: «Hai carta bianca». Ma
aggiunse: «Chiama anche Franca… questi poveretti hanno certamente bisogno
di un tetto… ma non solo di quello!»
Franca, ci raggiunse nel giro di un’ora.
Abbandonò i suoi studenti abituali e subito si mise al lavoro per aiutare questi
nuovi e diversi “studenti” che avevano
in quel momento di certo maggior bisogno di lei. Con la sua carica emotiva
e comunicativa trasformò in poche
settimane quel gruppo di profughi in
una comunità, organizzò corsi, visite
mediche, coinvolse docenti e studenti
napoletani in un’esperienza che arricchì innanzitutto coloro che aderirono
al progetto. Oggi la “Deledda”, questo
è il nome di quella ex scuola… è ancora
lì ad ospitare profughi e cittadini bisognosi di primo soccorso.
Franca era una comunista, ed era fiera di esserlo. Soprattutto
orgogliosa di esserlo rimasta anche dopo le ben note vicende
storiche. Il suo era un marxismo dell’anima, qualcosa più simile
al cristianesimo francescano che alla dittatura del proletariato.
Quando voleva farmi arrabbiare, e si divertiva tanto a sfottermi,
mi diceva: «ma che ne sai tu dei problemi della vita… tu sei solo un
radical chic!» Avrebbe potuto dirmi di peggio, di molto peggio…
ma con lei non ho mai bisticciato. E anche quando è accaduto,
facevamo finta sapendo entrambi che stavamo scherzando.
Franca è andata via a dicembre. Chissà dove. Se ne è andata
dopo aver sopportato stoicamente per quattro mesi le sofferenze
provocate da un terribile cancro che non le aveva dato alcuna
speranza. Sofferenze alleviate solo parzialmente da una terapia
del dolore e, soprattutto, dall’affetto dei suoi nipotini e dei suoi
figli che l’hanno vista concentrarsi sul matrimonio degli ultimi
due, Sara ed Alban: una sua ultima missione compiuta. Ha vissuto
la sua morte con piena coscienza e lucidità, rifiutando ogni tipo
di tentativo di cura che, con freddezza, aveva definito inutile accanimento terapeutico. Ha voluto vivere la sua morte, insomma,
come un’ulteriore impegnativa esperienza di vita. Forte come una
roccia. Ma anche debole come una piuma, come l’ho percepita una
delle ultime volte che l’ho incontrata quando ha voluto sedersi sulle
mie ginocchia, come una bambina indifesa, per essere cullata.
Raffaele Porta
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Noi
Da LIVORNO
Dal fascismo alla democrazia
Il nuovo progetto per l’anno
scolastico 2013/2014
«La memoria è quel filo che lega il
passato al presente e condiziona il futuro » parola di Pietro Terracina, uno dei
sopravvissuti al campo di sterminio di
Auschwitz, Ma la memoria rischia col
tempo di perdersi.
Dal Fascismo alla Democrazia è il
titolo del progetto proposto dall’Anppia
di Livorno agli studenti del biennio e del
triennio delle scuole secondarie di secondo
grado della città, per un totale di circa 200
racconta la storia di un esperimento in
vitro di come si può sviluppare un’idea
totalitaria - e Reality, di Matteo Garrone.
Al termine delle proiezioni interverranno
alcuni registi come L. Moggi e S. Fasulo.
È prevista inoltre la presenza di testimoni
di conflitti di ieri e di oggi con operatori di
Emergency ed il contributo critico di registi teatrali come Armando Punzo e attori come Aniello Arena della Compagnia
della Fortezza di Volterra.
Il progetto si svilupperà fino a maggio
2014 e gli studenti che aderiranno riceveranno un attestato di partecipazione
che potrà essere utilizzato come credito
scolastico.
Al progetto è inoltre unito un concorso
affermazione dei diritti: le leggi razziali
e la Costituzione Italiana .
Dopo il saluto delle autorità e l’introduzione di Garibaldo Benifei - presidente
onorario dell’Anppia Nazionale e di Livorno
- sono seguiti i racconti di alcuni testimoni di quel drammatico periodo storico.
Particolarmente toccante la triste esperienza della professoressa Emma Belforte,
che nel 1938 aveva 13 anni e frequentava il
liceo. «Alla radio, avevamo una vecchia
Fonola,» racconta la Belforte «abbiamo
appreso della promulgazione delle leggi
razziali, a seguito delle quali tutti gli ebrei
venivano esclusi dalle scuole del Regno. Io
piansi tanto. Frequentai così la scuoletta
ebraica istituita dalla comunità. Alla fine
Livorno. Gli alunni nella Sala dell’Auditorium del Museo di Storia Naturale del Mediterraneo
ragazzi. Il progetto prevede la partecipazione del Comitato livornese per la promozione dei valori risorgimentali, oltre al
contributo ed il patrocinio della Provincia
e del Comune. La presentazione del progetto è avvenuta in occasione del primo incontro - il 3 dicembre 2013 - presso la sala
conferenze del Museo di Storia Naturale
del Mediterraneo. È intervenuto, fra gli
altri, il prof. Paolo Pezzino, ordinario di
Storia contemporanea presso l’Ateneo pisano, che ha descritto ai tanti studenti che
affollavano l’auditorium le drammatiche
vicende della Seconda guerra mondiale. Il
progetto prevede la lettura di libri - come
Dalla bottega al carcere fascista. Storia di
tre ragazzi livornesi di Renzo Bacci - che
hanno come protagonisti ragazzi di ieri e
di oggi, in modo che gli studenti possano
immedesimarsi nei racconti e, attraverso
la nostra storia passata, riescano a decifrare quella di oggi.
Successivi incontri prevedono la visione
di film come L’onda di Todd Strasser - che
per la produzione di elaborati come canzoni, video, testi poetici, opere di pittura/
scultura, cortometraggi (durata massima
15 minuti). La Commissione che valuterà i
lavori, costituita da dirigenti dell’ Anppia,
terrà conto della rispondenza al tema
proposto, dell’originalità ed autonomia
espressiva ed operativa e dell’espressione
di lavoro collegiale svolto dalla classe.
Si procederà, quindi, alla premiazione
con una Borsa di Studio (partecipazione
della Fondazione Livorno ) erogata all’Istituto scolastico a cui appartengono gli
alunni vincitori e con un viaggio premio in
uno dei luoghi della memoria.
L’Anppia e la Comunità Ebraica
ricordano le leggi razziali
A 75 anni dalla promulgazione delle leggi
razziali fasciste l’Anppia e la Comunità
Ebraica hanno organizzato il 27 novembre scorso un incontro nella Sala del
Palazzo Granducale sul tema: Negazione/
di ogni anno dovevamo fare gli esami al
liceo statale come privatisti e ci mettevano
in un’aula separata perché non dovevamo
venire in contatto con gli studenti “ariani”.
Alcune mie amiche non mi salutarono più
e dopo alcuni anni nel 1942 siamo dovuti
scappare da Livorno e ci siamo rifugiati
e nascosti presso una famiglia contadina
della Garfagnana, dove siamo rimasti fino
alla fine della guerra».
SOTTOSCRIZIONI
Eolo Passalacqua (Vi): 150,00
Anppia Verona: 200,00
M. Rosa Militano (Mi) in ricordo
del marito Pasquale Melara: 60,00
Bruno Bevilacqua (Mi): 15,00
Mirella Bertolino (Avigliana) in ricordo del padre Guglielmo: 150,00
Silvio e Gabriella Formento (Cn)
in ricordo del padre Giovanni: 70,00
Laila Pierotti (Malnate): 50,00
35
Noi
Poi il presidente dell’Anppia Spartaco
Geppetti ha introdotto il professor
Zeffiro Ciuffoletti, Ordinario di Storia
contemporanea all’Università di Firenze
che, parlando su Le leggi razziali nell’Italia
del fascismo, ha sottolineato l’importanza
di questi incontri che fanno maturare
il passaggio dalla memoria alla storia.
Storia condivisa, accettata come coscienza
diffusa, storia che non deve essere unilaterale ma, eliminando le partigianerie e le
parzialità, deve ricomporre tutto perché
sia condiviso e per educare le generazioni
che verranno. «Le leggi razziali non sono
solo gli otto provvedimenti che si susseguono nel tempo e proseguiranno nella
Repubblica di Salò, ma sono anche le innumerevoli circolari, le numerose ordinanze
che si ramificheranno e che toccheranno
la vita sociale, le attività economiche fino
ad arrivare ai sequestri dei patrimoni delle
famiglie ebree, alla confisca delle fabbriche
e delle attività commerciali. Mentre nel
Risorgimento italiano assistiamo ad un
fenomeno di integrazione delle Comunità
ebraiche nella Società Italiana, dalla Prima
guerra mondiale assistiamo ad una campagna mediatica di propaganda che prepara
alle leggi razziali».
Ciuffoletti ha continuato poi sottolineando il crudele passaggio dalla esclusione
e discriminazione del popolo ebraico alla
sua persecuzione con le note e tragiche
conseguenze. Ha infine terminato dicendo
che le leggi razziali e la persecuzione degli
ebrei hanno significato per l’Italia anche
un impoverimento della cultura, data la
funzione di élite nel campo dell’economia,
della fisica e della matematica.
Ha concluso il convegno Ugo De Siervo,
professore di Diritto costituzionale ed
ex presidente della Corte Costituzionale,
spiegando come nascono i grandi principi
della Costituzione Italiana. «Nello Statuto
Albertino del 1848, la prima Costituzione
Italiana,» dice il professore, «viene già
scritto che tutti i cittadini sono uguali di
fronte alla legge anche se si tratta solo di
un’affermazione formale. Si attueranno
solo alcuni principi, come quello della libertà religiosa, mentre ad esempio il diritto
di voto no. Infatti solo il 2% della popolazione eleggerà la Camera dei Deputati fino
al 1882, poi fu portata a 8% della popolazione, ma bisognerà aspettare la Prima
guerra mondiale per arrivare al 13%. Poi
con il fascismo quei movimenti politici
liberali che portavano avanti principi di
uguaglianza verranno spazzati via e si ha
una regressione terribile nel campo del diritto in Italia e la legislazione per le Colonie
è profondamente razzista con norme assai
pesanti. Poi con le leggi razziali del 1938 si
applicò il razzismo agli ebrei. Nella società
italiana e nel mondo cattolico sul tema del
razzismo si verifica una profonda frattura
che porta una parte dell’opinione pubblica
e del mondo cattolico a essere complice con
chi si opponeva all’ebraismo. Persone come
Giorgio La Pira, profondamente cattolico,
si trovarono in forte dissenso con personaggi ed intellettuali del mondo cattolico».
De Siervo passa poi ad esaminare il clima
politico durante il periodo della Costituente
e dice: «I dirigenti dei partiti che fecero
parte dell’Assemblea Costituente anche se
provenienti da forze politiche contrapposte, antagoniste e che spesso prevedevano
realizzazioni di società future completamente differenti ebbero la grande capacità
e la saggezza di distinguere la dinamica
politica a breve, dalla dinamica rifondativa
dello Stato. I dirigenti di quei partiti ebbero
la lungimiranza, pur in un momento in
cui nel parlamento si discuteva animatamente anche con scontri duri e spesso ci
si menava, di stabilire le “regole del gioco”
uguali per tutti scrivendo chiaramente, anche se non senza difficoltà, quell’insieme di
articoli che son oggi la nostra Costituzione
Repubblicana. Fu così che la Costituzione
passò con il 90% dei voti a favore».
Poi il professore parla degli articoli 2 e 3
della Costituzione e cita Aldo Moro, allora
giovane trentenne, che di fronte ai “diritti
inviolabili” ed ai “doveri inderogabili”
chiede esplicitamente e si batte affinché
siano inseriti all’inizio della futura Carta
Costituzionale e infatti saranno scritti
nell’art. 2, e fu così anche per i “principi
di uguaglianza” dei cittadini che costituiranno l’articolo 3. A questo proposito il professore dice: il 2° comma dell’art. 3 , dopo
aver preso atto del diritto di uguaglianza,
ci dice che la Repubblica si impegna a
rimuovere le disuguaglianze di fatto fra i
cittadini, cioè di fronte a situazioni economiche e sociali che portano a discriminare
i cittadini la Repubblica non è neutrale e di
fronte a situazioni di disagio si deve far carico dei più deboli per rimuovere situazioni
marginali».
«Noi ora stiamo vivendo» continua De
Siervo «da 30, 40 anni il fenomeno della
migrazione. Come sta rispondendo il paese? Non bene, perché il principio di uguaglianza viene disatteso. Faccio un esempio.
Noi diamo la cittadinanza italiana, cioè
concediamo il passaporto italiano a figli e
nipoti di italiani immigrati all’estero indipendentemente da che sappiano l’italiano,
che conoscano la Costituzione Italiana o
che abbiano mai pagato una tassa in Italia,
mentre per dare la cittadinanza ad un
Dall’alto: Paolo Pezzino e Renzo Bacci; il prof. Ugo
De Siervo; Spartaco Geppetti mentre presenta il
progetto per le scuole
immigrato chiediamo che sappia l’italiano,
che conosca la nostra Costituzione, che
paghi le tasse. Sul piano dell’uguaglianza
c’è qualche problema mi sembra. Stiamo
parlando di 5-6 milioni di persone che
abitano in Italia, che pagano le tasse, che
producono ricchezza. Penso che dobbiamo
attuare i nostri principi per quelli che sono
i nostri nuovi cittadini. Paradossale è il
caso di oltre 600.000 bambini stranieri che
non conoscono la lingua dei loro genitori,
che frequentano le scuole italiane, che
parlano l’italiano, che tifano per la squadra locale di calcio, che parlano il dialetto
della città in cui vivono e non sono cittadini italiani, e in teoria potrebbero essere
messi fuori. Questo è il caso che ci colpisce
di più perché si parla di bambini. Allora io
credo che ci voglia una rivisitazione, una
espansione dei grandi principi di libertà
della Costituzione. Una applicazione più
sistematica di libertà e di uguaglianza che
i nostri padri costituenti hanno così chiaramente scritto in quel patto del 1947 che
per noi rappresenta la Costituzione della
Repubblica Italiana».
Attualità
Da VERONA
Proseguono le iniziative di IVrR,
Anppia, Anpi e Aned
21 dicembre 2013. Presso la sala “Berto
Perotti” proiettato il film Il sottoscritto.
Storia di un uomo libero di Sandro
Gastinelli e Marzia Pellegrino. Ha introdotto Stefano Biguzzi, Presidente IVrR.
“Ho giocato la mia vita”. È così che don Aldo
Benevelli descrive il momento in cui è corso
verso la libertà sfuggendo ai suoi carcerieri
fascisti: e la svolta verso la salvezza non ha
segnato l’abbandono della causa ma un impegno maggiore che ne ha caratterizzato l’intera
esistenza. Il film racconta di un uomo libero
dalla sua infanzia nelle Langhe, alla vita di
Resistenza, alla professione di fratellanza tra
i popoli, fino all’impegno di oggi.
11 gennaio 2014. Presentato il libro della
Casa editrice ombre corte, Auschwitz
prima di “Auschwitz”. Massimo Adolfo
Vitale e le prime ricerche sugli ebrei deportati dall’Italia di Costantino Di Sante.
Ha presentato il volume Antonella Tiburzi
dell’Aned di Milano, con l’introduzione di
Roberto Bonente.
Cosa si sapeva in Italia di Auschwitz nei
primi anni dopo la Liberazione? Chi ne conosceva il funzionamento? Quale sorte era stata
riservata agli ebrei deportati dai nazifascisti? Il libro, che vede anche la postfazione di
Liliana Picciotto, risponde a queste domande
attraverso uno dei primi documenti scritti in
Italia sulla storia del campo di Auschwitz. A
redigerlo fu Massimo Adolfo Vitale che, dopo
aver assistito a Varsavia, tra il marzo e l’aprile
1947, al processo al comandante del campo
Rudolf Höss come osservatore italiano per
conto dell’Unione delle Comunità Israelitiche
Italiane e del Ministero di Grazia e Giustizia,
stilò un dettagliato resoconto del suo viaggio
in Polonia.
18 gennaio 2014. Un incontro dal
Verona. Antonella Tiburzi sta presentando il libro di Costantino Di Sante, al suo fianco
titolo: Luoghi del dolore. Rab, Goli Otok,
Basovizza, San Sabba. Sono intervenuti
Silvio Pozzani, Presidente dell’Associazione Mazziniana di Verona e Carlo
Saletti, storico e membro del Consiglio
Direttivo dell’IVrR. Nel corso dell’incontro
è stato proiettato il dvd di fotografie curato
da Roberto Buttura a ricordo del recente
viaggio in questi luoghi.
25 gennaio 2014. Una conferenza dal
titolo: Dimenticati di Stato, di Roberto
Zamboni, introdotto da Roberto Buttura.
«Dal 1994 raccolgo i dati di quei Caduti (militari e civili) morti in prigionia o per motivi
di guerra che furono sepolti nei cimiteri militari italiani in Germania, Austria e Polonia
tramite il Commissariato Generale per le
Onoranze ai Caduti in guerra (OnorCaduti,
Ministero della Difesa). Purtroppo l’Ente non
riuscì a informare tutti i familiari dell’avvenuta inumazione negando a migliaia di
famiglie italiane di avere almeno una tomba
su cui piangere. Questa mia ricerca ha come
scopo finale quello di far conoscere ai parenti
di questi poveri sventurati le località di sepoltura dei loro cari».
l’antifascista
Mensile dell’ANPPIA
Associazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
Direttore Responsabile:
Antonella Amendola
In Redazione:
Luciana Martucci
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QUESTO NUMERO:
Guido Albertelli, Antonella Amendola, Paolo
Bagnoli, Paolo Brogi, Pier Vittorio Buffa,
Francesco Caremani, Georges de Canino,
Maurizio Galli, Ciro Meggiolaro, Paolo
Morelli, Francesco Palladino, Vincenzo
Perrone, Giulietta Rovera, Giovanni Russo,
Fabiana Tacente, Elisabetta Villaggio
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Chiuso in redazione il: 26-02-2014
finito di stampare il: 04-03-2014
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954