L`ombra del Pigmeo - Stefano Jay Bozzo

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L`ombra del Pigmeo - Stefano Jay Bozzo
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Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli;
c'è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell'uomo rispetto alle bestie, perché tutto è
vanità.
Ecclesiaste 3:19
CAPITOLO I
Prologo
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Questa è la storia di un uomo, Libero, che come molti di noi, è cresciuto, diventato adulto
e vecchio quasi senza accorgesene. Finché un giorno, un giorno qualunque, senza un motivo apparente, magari senza neanche un incidente scatenante, se ne rende conto. Gli appare chiaro che quella che sta vivendo è la sua vita e non una prova generale, è proprio lo
spettacolo e non ci saranno repliche. Diventa consapevole, infine, che il tempo sta
scivolando via e che i dadi sono stati ormai tutti gettati, i giochi chiusi e le scelte fatte.
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Libero, fin da piccolo, avrebbe voluto scrivere un romanzo.
Il suo personaggio è un navigatore che parte da Genova e facendo male i suoi calcoli,
dopo aver fatto un lungo giro, si convince di aver scoperto una terra nuova. Sbarca in Sicilia e finisce per scoprire l'Italia, credendo sia una nuova isola nei mari del sud.
Sbarcherebbe alla spiaggia di Mondello, armato fino ai denti ed esprimendosi a gesti, pianterebbe la bandiera italiana sopra quello strano e orientaleggiante palazzo che è Villa
Cinese. Che razza di errore idiota! Stupido, certo, ma anche delizioso, se ci pensate.
In pochi minuti passa dall'affascinante terrore di essere in un lontano, esotico Paese
sconosciuto, all'umana sicurezza di essere ritornato di nuovo a casa. Come potremmo in
altro modo sorprenderci del mondo e nello stesso tempo essere a casa?
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Come può il mondo darci contemporaneamente il fascino di un'estranea ed esotica città e
la comodità e la sicurezza di casa nostra?
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A cosa aspirava Libero? Ad una vita attiva e fantasiosa, pittoresca e piena di poetica curiosità, una vita tale come ogni bambino qui da noi, ha sempre desiderato.
Un uomo che preferisce varietà ed avventura ad una vuota e pigra esistenza, questo è
Libero.
Ma tutti, pur aspirando ad una vita romanzesca, nel limite del possibile vorrebbero una
combinazione di qualcosa di avventuroso e che sia nello stesso tempo sicuro.
Abbiamo bisogno di vedere il mondo come un insieme di meraviglia e accoglienza. Abbiamo bisogno di essere felici in questa terra delle meraviglie senza essere solo e semplicemente comodi.
Il punto qui è che i protagonisti della nostra storia sono inchiodati ad un paradosso, sono
seriamente ostacolati dal fatto che non possono dire alcuna bugia senza credere che sia la
verità, per cui spesso la loro verità non è altro che menzogna. Un po' come è sempre successo a me, ho sempre cercato di dire cose divertenti, anche se, nella mia ordinaria vanagloria, spesso ho pensato fossero divertenti solo perché le avevo dette io.
Dunque, questa è, per forza di cose, una storia immersa nel mondo, negli anni in cui abbiamo avuto la ventura di vivere, in cui l'essere umano confida così profondamente in se
stesso, che finisce per credere in poche ciniche, prefabbricate filosofie, buone a mantenerlo confortevole. Tanto che quando il suo prezioso mondo comincia a crollare, allora il
nostro uomo che non ha fiducia più in niente e in nessuno eccetto se stesso, rimane da
solo con i suoi incubi, le sue paure, i suoi errori. È un uomo questo che si è chiuso in una
scatola e all'interno ci ha disegnato il sole e le stelle che ritiene veri.
Questa infine è una storia che si affida alle verità e alle sue contraddizioni, che si avvolge
attorno al fato, ma nello stesso tempo al libero arbitrio, è una storia che ha fede nella
croce di spazio e tempo, a cui l'uomo è inchiodato e che questa croce ha nel suo stesso
cuore un conflitto e una contraddizione.
È un paradosso, un incrocio al suo centro, ed è una splendida confusione, un insieme
fulgido e informe, nello stesso tempo fiammeggiante ed oscuro. È vita.
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CAPITOLO II
J'ai perdu ma jeunesse
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Libero è un uomo grosso e imponente, ma con gambe corte e di rada peluria, lo stomaco
una grande e pallida collinetta e la sua faccia sciupata e rosa come polpa di granchio, con
un paio di baffetti rossicci come i suoi radi capelli. Porta un paio di occhiali con la montatura troppo grossa che rendono i suoi occhi due grandi stolidi punti neri, fissi nel mezzo
del suo viso, come quelli degli orsacchiotti di pezza. In fondo tutta la sua figura ricorda
quella di un orsacchiottone mezzo spelacchiato.
Quel giorno è il suo compleanno. Cinzia e le bambine non se ne sono ricordate e per lui,
in fondo è meglio così, preferisce dimenticarsene e far finta sia un giorno come un altro.
Anche al lavoro si è guardato bene dal dirlo. I suoi compleanni non gli sono mai piaciuti
e compiere quarantasette anni gli piace ancora meno. Meglio far finta di niente.
Ma mentre guidando, torna a casa e la giornata sta per finire, inizia a sentirsi solo, trascurato, non amato da nessuno, come il giorno che ha compiuto nove anni, quando solo due
invitati si presentarono alla festa. Erano i gemelli Giovannelli, due che volevano sempre
far ridere tutti, per questo uno muoveva le orecchie avanti e indietro e l'altro diceva che
erano siamesi attaccati ad un braccio e da poco separati. Lui stava lì di fronte a questi due
buffi bambini uguali che non lo facevano ridere e si sentiva leggero, immortale e senza
età, un ragazzo nel giorno del suo compleanno, l'estate che comincia ad arrivare e un
cuore grande come il sole. Incapace di sbarazzarsi di questa lunga, invincibile, incomprensibile ombra che sente avvolgerlo e proiettarsi su tutta la sua lunga e ancora
sconosciuta vita davanti a lui.
Quando Libero entra in casa sembra che l'intera famiglia sia in posa come in una di
quelle foto dell'inizio del secolo scorso, tutti immobili ad aspettarlo. La moglie Cinzia,
Claudia la figlia grande, Patrizia la piccola e la cagnetta Ombra. Un dagherrotipo seppiato, la sua famiglia.
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Sotto tutti i punti di vista Cinzia era una risorsa, un'affabile ape, una portatrice solare di
polline multi-socioculturale. Naturalmente avversa a parlare bene di se' e male degli altri.
C'era chi non sopportava questa sua tendenza, la vedeva piuttosto come una condiscendenza, come se Cinzia, esagerando i suoi difetti, cercasse di evitare di mostrare quanto si
sentisse in fondo appagata e finanche felice nel suo ruolo di casalinga, in apparente contrasto con molte delle sue amiche, sempre piene di lamentele.
Una delle cose curiose di Cinzia era che sembrava non avere radici, se di punto in bianco
gli chiedevi dei suoi genitori, lei avrebbe risposto che entrambi facevano del bene ad un
sacco di gente, che suo padre era avvocato e sua madre era nel consiglio di circoscrizione. Poi faceva un cenno con la testa e un po' enfatica aggiungeva, "questo è quello
che fanno", e l'argomento per lei era chiuso. Curioso era anche il fatto che potevi sfidarla
a dire che una cosa era cattiva, ad esempio, quando i loro vicini, i Bugatti, avevano dato
una festa di Carnevale per i loro gemellini ed avevano deliberatamente invitato tutti
tranne i Carozzo, Cinzia aveva detto semplicemente che era molto "strano". In quanto
agli altri vicini, che adesso per fortuna erano tornati in Sud Italia, quando Cinzia si accorse che il marito, un mezzo alcolizzato, un poco di buono in odore di mafia, tirava tutte
le cicche di sigarette che fumava nel prato di casa loro, lei aveva detto a Libero, "È una
cosa veramente strana questa, ma forse non è tutta colpa sua".
Invece Libero si rifiutava di essere soddisfatto da quella spiegazione, per lui non era una
cosa "strana", era piuttosto una "porcheria" e il suo vicino un "pezzo di merda".
Ma lei era fatta così, incapace di andare oltre l'aggettivo "strano".
I genitori di Cinzia facevano, è vero, un sacco di bene, soprattutto suo padre, era uno di
quegli avvocati che ogni tanto difendono i poveri diavoli senza fargli pagare la parcella.
In realtà erano quei tipi di persone, come ce ne sono tante, che negli anni settanta sognavano la rivoluzione, e mentre sognavano guadagnavano denaro, così ora si impegnano ad
essere sempre più raffinati, come se la loro fortuna potesse essergli perdonata, perché in
fondo, era quel tipo di gente a cui mancava il coraggio dei propri privilegi. Per loro, invece Cinzia, l'unica figlia, non era riuscita proprio bene, o almeno non quanto avrebbero
voluto, certamente non così progressista e men che meno femminista, stare a casa a
crescere le figlie, cucinare torte e biscotti e lasagne per quel grossolano marito. Non aveva quello stile che si addiceva ed inoltre sembrava totalmente allergica alla politica.
La buona tavola era una delle loro passioni, alimentata da anni di raffinate cene a base di
pesce, molluschi, bottarghe e vini bianchi e discussioni con tutta bella gente, ragazzi per
sempre, con la passione per la discussione politica in cui tutti si trovavano sempre dalla
stessa parte, a sinistra per carità, per buon gusto, per convenienza, ma ognuno con le sue
brave distinzioni, in quel variegato arcipelago di astratte teorie e bizzarre soluzioni del
post sessantotto, settantasette, ottantanove. Fino al trionfo della discussione sterile e culinaria, l'epoca berlusconiana.
Quando si trovavano in una di quelle cene, dunque, e si menzionava un'elezione o un
candidato, lei alzava le spalle, oppure iniziava ad agitarsi, ad annuire compulsivamente, o
a dire sempre si, si, si, di fronte ai suoi genitori imbarazzati, specie se invitato c'era anche
qualche loro illustre amico, un giornalista, un assessore, o un antico compagno di
battaglie salottiere che adesso restaura mobili ritirato in campagna. Così sempre più
spesso la figlia e la sua imbarazzante e qualunquista famiglia fu via via emarginata da
quella aristocrazia gastronomica, specialmente dopo quella volta che Cinzia ardì confessare che a lei Berlusconi stava simpatico.
Ora le cene con la figlia erano rade e strettamente famigliari, come se non ci fosse gusto
mangiare senza scagliarsi contro il sistema. Come ebbe a dire sua madre a vecchi amici,
sua figlia, purtroppo mancava di coscienza di classe, di solidarietà, di sostanza politica, di
struttura fungibile, di vero comunitarismo. Con grande suo scorno, la sua propria figlia
era regredita nel conformismo casalingo e andando a scavare la sua apparente, innocua
facciata di passiva aggressività, non ci si dovrebbe sorprendere troppo di trovare un fondo
duro, egoista, competitivo, in fin dei conti puramente berlusconiano, in Cinzia. Era fin
troppo ovvio che le cose che veramente le premevano, erano le sue figlie e la sua casa, no
di certo la comunità, ne' i poveri, ne' un'ideale, ne' i suoi genitori e neppure, dato che a
loro sembrava impossibile, quel coso curioso di suo marito.
Ed era vero che Cinzia era totalmente dedicata alle figlie. Claudia, la grande, era la più
simile ai nonni e loro l'adoravano, era come avrebbe dovuto essere Cinzia, che invece si
era dimostrata fallata. Aveva la passione per i libri, un penchant per l'avventura, talentuosa artisticamente, amante dello sport, indifferente a vestiti e trucchi, ma molto attenta al
sociale. L'altra, Patrizia, era una bambolina, degna figlia di sua madre, dicevano i nonni.
I quali ancora raccontano a tavola agli amici, con quell'orgoglio che non hanno mai potuto usare con la propria figlia, che Claudia da piccola, non voleva mai andare a dormire,
ma non piangeva, non faceva i capricci, piuttosto metteva in discussione l'autorità dei
genitori. Diceva che non potevano spegnere la luce finché anche loro non l'avessero
spenta, in quanto altrimenti non sarebbe stato giusto, loro erano uguali. Proprio così
diceva, uguali, una parola che faceva andare in brodo di giuggiole i nonni. Ed ogni 15
minuti, esattamente ogni 15 minuti, in una forma di protesta non violenta, urlava "sono
ancora sveglia, sono ancora sveglia!" In tono di sfida, di disprezzo, di sarcasmo. Ah! Per
loro si che la piccola Jessica aveva stoffa. E Libero a mezzanotte, ancora si trovava fuori
dalla porta a dover discutere con quel soldo di cacio la differenza tra adulti e bambini e
che la famiglia non é proprio una democrazia, ma piuttosto una benevola dittatura.
Poi c'era Patrizia, appunto, la bambolina, una piccolina grave e silenziosa, con la sconcertante abitudine di piantarti gli occhi addosso e non mollarti, senza neanche sbattere le
palpebre, come se non appartenesse a questa terra. Patrizia non aveva alcuna nozione di
interezza, aveva solo profondità, ma non totalità. Ad esempio, per colorare un album si
perdeva solitamente a saturare una o due figure e lasciava il resto in bianco. Non la
vedevi mai, poi però, all’improvviso, compariva dal nulla, come un amico immaginario
che improvvisamente si rende visibile. Era una bambina paziente, come se avesse il metabolismo di un pescatore d’inverno.
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Quando entra in casa le bambine hanno già le borse della piscina pronte e la cagnetta
scodinzola perché sa che è venuto il suo turno. Libero smette il grembiule della tipografia ed esce con Ombra, le voci delle bambine lo rincorrono mentre esce, "Sbrigati,
papà, è già tardi."
Pochi minuti dopo sono in auto tutti e tre, anche se la Torino Nuoto è a soli dieci minuti
da casa, Patrizia fa in tempo a raccontargli quello che le è successo a scuola.
"Oggi la maestra ci ha spiegato che il sole morirá- racconta- "si spegnerà e tutto il mondo
sarà buio e freddo, noi ci siamo spaventati tutti e anch'io mi sono spaventata e siamo diventati così tristi che anche la maestra se ne è accorta, allora per tirarci su il morale si è
messa a ridere e poi dice: 'ma non vi preoccupate, tanto quando succederà, quando il sole
sarà del tutto spento, saremo già tutti morti'. Però non ci siamo sentiti più allegri. Il sole
si spegnerà per davvero, un giorno, papà?"
Prima che potesse trovare una risposta abbastanza rassicurante, arrivano alla piscina. Le
bambine corrono dentro alla svelta, è veramente più tardi del solito. Quando lui entra
nell'edificio, il custode come al solito lo saluta con un "Buonasera vicepresidente."
Anche al bar quando ordina la pizzetta e la birra come aperitivo, la barista come tutti i
giorni lo apostrofa, "Ecco la sua pizzetta, signor vicepresidente".
Come sia venuta fuori questa storia del vicepresidente, non lo sa con precisione, però è
già qualche mese che, in piscina, tutti lo chiamano vicepresidente e ancora non ha capito
se deve offendersi o esserne orgoglioso. Per ora decide di fare finta di niente.
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La giornata sta per finire, Libero è sprofondato sul divano, i vestiti del mattino ancora indosso, i suoi occhi da rana chiusi, il mento completamente rintanato dentro al collo, un
telegiornale in televisione e Cinzia che porta in tavola la cena e chiama ad alta voce le
figlie. Libero con fatica si rimette insieme e si siede al suo posto. Mangiano veloci, con
poche parole, è soprattutto la televisione a riempire il silenzio, ogni tanto un battibecco
tra le bambine.
Cinzia mangia composta e ogni tanto dice qualcosa al marito, ma raramente Libero le
risponde, come se entrambi sapessero di recitare una parte e avessero bisogno l'un dell'altro per ricordarsi le battute e dirle con la giusta inflessione. Mentre parla, Cinzia mostra
una sorta di timidezza, non muove le mani, le trattiene parlando, come se fossero bambini
discoli che potrebbero rompere qualsiasi cosa se lasciati andare. Dopo la cena ognuno va
per la sua strada, Libero torna a rintanarsi nel sofà, Cinzia sparecchia prima di raggiungere anche lei il suo angolo di divano, mentre le bambine vanno in camera loro. Dopo
poco sono pronte per andare a dormire e ritornano per dare la buonanotte ai loro genitori,
inghiottiti dalla stanchezza della sera. Libero è mezzo appisolato, ma si sveglia per
salutare le figlie, da loro un paio di baci asciutti, soffici e i suoi abbracci sono timidi e
prudenti come se avesse paura di fare del male.
Nella stanza diventata ormai scura, illuminata solo dalle intermittenti luci della televisione, Cinzia e Libero sono legati dall'intimità del solito momento, benché si comportino
quasi da estranei, trovatisi per caso nello stesso scompartimento di un treno, evitando con
cura qualsiasi contatto.
Anche il sesso era cosa ormai estremamente rara. Le volte che ancora capitava, Cinzia
riusciva a sentire ancora momenti di amore, ma poi tutta l'amorevole situazione si tramutava in ghiaccio. Libero mormorava qualcosa quando aveva finito e anche se lei continuava a baciarlo in una febbre non ancora estinta, Libero si limitava tuttalpiù a commentare,
prima di girarsi su un fianco : "La tua bocca fa promesse che non può mantenere".
C'erano stati giorni in cui lei era stata come un uccello impaurito, il cui ventre bruciava
anche se freddo come un banco di neve. Lei faceva l'amore, forte e calda come un cane
da caccia, come un levriero, come una cagna che ringhia e fa finta di azzannare i genitali
del maschio. Ma alla fine si ritirava con la paura di osare troppo, pudica, troppo pudica,
anche quando metteva la sua bocca nelle parti più intime. Così finiva che lui sentiva tutto
l'orgoglio di mostrarle da che parte stava la devozione. E a lei questo piaceva.
Ma ormai lei era addormentata, rannicchiata come un cane slitta in una bufera di neve,
rapita dalla voce del conduttore di approfondimento politico su Rai Uno, perché troppo
pigra anche per cambiare canale.
Libero a questo punto non ha nessun intenzione di svegliare la sua intima estranea.
Si alza e se ne va.
Prende dalla cucina una ciotola di pistacchi, va nello studio e accende il computer.
Si connette su Pogo.com, fa il login con lo username Pistacchio64, mangia un paio di pistacchi per sottolineare a se stesso che non è a caso il nomignolo, quindi clicca su No Limit Texas Hold 'Hem, si frega le mani aspettando che la pagina si carichi.
Finalmente è arrivato il momento che aspettava da tutta la giornata.
Subito gli si apre un otto e un fante di cuori, ma non gli viene niente, chiude appena possibile. Anche la seconda e la terza mano sono disastrose, non riesce a vincere un buon
piatto. Finche' infine scommette tutto e perde su una doppia coppia di assi, ma HotBlonde alla sua sinistra mostra un colore e si prende tutto il piatto. La partita successiva
vince tutto HotBlonde di nuovo, Libero inizia a stizzirsi, le manda un messaggio in chat:
"Come si dice, fortunata al gioco..."
"Non ti preoccupare sono fortunata anche in amore. Gioca, non sono qui per fare tante
parole, altrimenti libera il tavolo".
"Bene così, tanto non mi sembri la persona migliore per fare conversazione".
"Appunto".
Per il resto della serata, dunque Libero continua a perdere, ancora più irritato dalla risposta brusca che HotBlonde gli ha riservato. Nel torneo arriva sempre ultimo, spesso è HotBlonde che vince, ma anche Jayme e persino Bonza vincono una partita. Tutti tranne lui.
Che serata, ma ormai è tardi, deve spegnere e andare a dormire.
Saluta i compagni di gioco, ma prima di chiudere HotBlonde gli messaggia:
"Brutta serata?"
"Giudica tu stessa".
"Ti rifarai domani, ci vediamo domani?"
"Ci vediamo domani."
Sono le due quando chiude il computer, non si è nemmeno accorto che nel frattempo
Cinzia si è alzata dal suo letargico divano ed è andata a dormire nel letto, forse augurandogli la buona notte o forse no, non lo sa, era da un'altra parte, Libero, in una fumosa bisca clandestina nel New Jersey in compagnia di una bionda mozzafiato, di un broker
cinese, Bonza e di un contrabbandiere brasiliano, Jayme, così come se li immagina, mentre lui, vediamo un po', si, lui era un soldato in libera uscita, un marine.
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CAPITOLO III
Ultimo andare in porta
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Libero arriva alla mattina verso le nove e parcheggia la sua Brava station wagon nell'ampio piazzale di fronte alla Tipografia FF, dove lavora. Tra la Opel Tigre di Katia, la
Porsche Cheyenne di Fernando, la SUV di Patrick, la Opel di Bruno, o la bicicletta di
Riccardo.
La tipografia FF si trova nella zona industriale di Venaria, tra capannoni, magazzini, due
teatri di posa e poco distante, un gigantesco stadio abbandonato. FF sta per Fernando
Fogli, il fondatore e padrone, proprietario del Cheyenne e vecchio amico di Libero. Oddio, non è che si frequentino Fernando e Libero. Più che altro si sono conosciuti da bambini, compagni di scuola durante le elementari e le medie, poi strade separate ed infine,
quando Libero viene assunto alla De Agostini, Fernando è lì, suo supervisore.
È il tipo di persona, Fernando, che mette la camicia dentro i pantaloni e ascolta con attenzione quello che la gente dice, come se gli spiegassero la strada da fare per non perdersi.
Un buon ascoltatore, uno che pensa che chiunque sia più interessante e brillante di lui, ma
con una determinazione di ferro e le idee molto chiare. Di pelle ridicolmente bianca,
come una bambolina di porcellana, con un mentino stretto stretto, i capelli ricci e biondi
come un cherubino e occhiali dalla stessa rotonda montatura, che porta da una vita. Aveva
avuto una rapida carriera alla DeAgostini, ma dopo pochi anni si era messo in proprio
cominciando in piccolo, con poche macchine ed ora possedeva quella cattedrale, probabilmente la più grande tipografia di Torino. Aveva subito chiamato Libero e lui l'aveva
seguito ed ora era l'impiegato più anziano, anche se era rimasto un operatore, preciso ed
affidabile, ma non era mai diventato supervisore e probabilmente non lo sarebbe mai diventato.
A supervisionare il lavoro di tutta l'officina, dopo i primi anni quando lo faceva direttamente Fernando, era arrivato Riccardo, scrupoloso, coscienzioso, un ottimo acquisto.
Preciso, non gli sfugge la minima sbavatura ed è anche grazie a lui se la tipografia FF ha
fama di fare lavori estremamente accurati. Apparentemente una persona normale, Riccardo, saluta e viene salutato come ogni comune essere umano, ma dopo il saluto Riccardo
non si muove più, rimane immobile davanti al suo interlocutore in un silenzio ostinato e
sfacciato, aspettando che questi gli volti le spalle e se ne vada. Non una parola dopo il
buongiorno e il buonasera. Anche nei meeting, quest'uomo poteva sviluppare lunghi
episodi di silenzio a riempire la stanza, nel mentre che pensa a quello che vuole dire, senza neanche un ehm o uno sbadiglio di nervosismo, a colmare un silenzio così oppressivo
da calare come un'ombra nera di cui non si può fare a meno. Forse è solo contegno o una
tecnica per rendere i propri sottoposti a disagio, per questo tutti, eccetto Fernando naturalmente, ma tutti quanti, compresi Libero e Patrick e Fabrizio e Piero e Katia, tutti pensano e spesso apertamente dicono che Riccardo è un coglione.
Alle volte compare alle macchine, dietro l'operatore, improvviso, facendo sentire il suo
fiato sul collo, poi sta li in un silenzio imperscrutabile a guardare il lavoro, rendendo il
povero diavolo di turno decisamente nervoso. Questo è Riccardo, l'imperscrutabilità è la
sua essenza e crea un diffuso disagio intorno. Ma da dove viene tutto quel mistero? Dal
nulla del suo silenzio, dal nulla alle pareti del suo ufficio, dal nulla che racconti qualcosa
di lui, neanche dalla sua macchina perché usa la bici. Cosa fa nel suo ufficio, dalle quattro
mura spoglie, tutto il giorno? Tutti quanti prima o poi, una o più volte devono passare dal
suo ufficio a mostrare la qualità delle stampe, mentre lui osserva e in silenzio dice si, in
silenzio dice no. Dalla sala macchine gli operatori guardano in alto e lo vedono nel suo
ufficio spoglio dalla porta a vetri. Sempre seduto alla sua scrivania.
Gli operatori guardano e ridono, mentre lui non fa null'altro che stirarsi, scrocchiarsi le
ginocchia, spingere la sedia avanti e indietro davanti al computer spento, un computer
che ha cent'anni. E tutti dicono, zitti zitti sentiamo Riccardo che non dice niente.
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Stampavano manifesti, locandine, brochure, totem, pannelli, poster e striscioni, ma soprattutto stampavano cataloghi, come quello di Marvin, Unieuro, la Portaerei del Mobile.
Ma era quello di Aiazzone nel quale ognuno di loro si perdeva, cercando vite migliori e
storie affascinanti tra le pieghe di quelle stampe. Tra quei salotti, cucine, camere da letto,
abitate da chissà chi, ognuno si immaginava diverso, migliore, con una moglie più bella,
figli più ubbidienti e amici più interessanti.
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Bruno più di tutti aveva il dono dell'immaginazione, sembrava sempre con la testa altrove. Nel tempo libero scriveva sceneggiature che poi raccontava ai suoi colleghi nella
pausa pranzo.
Una di queste era su un tipografo solitario e gentile che diventa famoso scrivendo un film
sulla propria vita, interpretato da Stefano Accorsi. Lui giurava non fosse autobiografico e
un giorno si e uno no andava a bussare alla porta della casa di produzioni cinematografiche dei teatri di posa lì a fianco e cercava di piazzare il suo prodotto. Poi con fare misterioso parlava ai suoi colleghi di possibili finanziatori per il suo film, ma a nessuno lasciava leggere una riga di quello che scriveva. Per profonda diffidenza, era convinto che
qualcuno potesse rubargli l'idea. Come se ognuno di loro, lavorasse surrettiziamente in
tipografia con il solo scopo di trovare l'occasione giusta per rubare le sue sceneggiature e
fare milioni al posto suo. In attesa di diventare famoso come sceneggiatore, e perché no,
magari anche regista un giorno, nel frattempo faceva la comparsa in ogni film o sceneggiato che la casa di produzioni a fianco produceva. Dopo si vantava con i colleghi e
parlava dei film in cui comparsava come se li facesse lui e con grossolana nonchalance
diceva: "Dario si é detto molto interessato al mio progetto...", oppure, "Parlavo con Raul
ieri e mi diceva che lui si sarebbe visto molto bene nella parte del tipografo...". Dove naturalmente Dario era Argento e Raul, Bova.
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Katia era minuta e allegra, una donnina molto ben vestita, molto profumata e un debole
per la conversazione infinita. Teneva una scodella di caramelle Baratti sulla scrivania e
non ingrassava mai. Era spesso al telefono, filtrava le chiamate, parlava con i clienti, da
cui spesso riceveva incredibili cestini per natale. Non si separava mai dalla sua Daily
Planner, era una buona segretaria, capace di prendersi cura personalmente di ognuno
degli impiegati, se occorreva e tutti le volevano bene. Durante la pausa pranzo rimaneva
al suo posto, pronta a rispondere alle chiamate, si faceva portare alcuni croissant di cui
mangiava solo la superficie e buttava il resto, un succo di frutta e un paio di gallette di
riso terminavano il suo pranzo. Rimaneva da sola nel grande padiglione della tipografia,
ma se qualcuno aveva bisogno di parlare, la raggiungeva e lei ascoltava, dando buoni
consigli e restando riservata. Sembrava una bambina, ma vista più da vicino si vedevano
le zampe di gallina che lavoravano contro la sua bellezza, ma si vedeva anche la bellezza. Katia era la favorita di ognuno, è difficile trovare qualcuno così universalmente apprezzato, ma lei ci riusciva, naturalmente, senza neanche provarci. Aveva un talento straordinario per la conversazione, una forza della natura. La sua voce era avvolgente e il suo
modo di parlare ti coinvolgeva completamente, era come Hitler senza l'antisemitismo,
come Martin Luther King senza una nobile causa. Quando ascoltava invece, veniva completamente assorbita da quello che le veniva detto, si prendeva carico dei guai dei suoi
colleghi come fossero i suoi, quando una coppia si separava, soffriva come succedesse a
lei, si strofinava gli occhi con le unghie sempre ben smaltate e sembrava stesse versando
lacrime di bigiotteria colorata.
Durante la pausa pranzo stava in quel grande capannone da sola, sembrava un bambino in
un cappotto troppo grande, alla scrivania un telefono, un computer aperto sul solitario e
cornici dozzinali con le foto dei suoi grassi genitori in vacanza. Lei lì a sbocconcellare
croissant e se sentiva squillare, pronta rispondeva: "Tipografia FF, sono Katia, in cosa
posso esserle utile?".
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"Le donne sono come oche, le puoi riconoscere da dietro".
"Le donne sono come oche, le puoi riconoscere da dentro..."
"Cosa diavolo vuol dire?"
"Vuol dire che sono come le nutri, come le educhi così sono..."
Patrick, aveva occhi difficili da individuare sotto l'arcuata calotta del suo cappellino della
Juventus, che raramente toglieva, si vedeva da lontano che era il tipo che fumava un sacco di canne e si portava dietro un'aroma di pollo arrosto. Era il collega più giovane, ma si
dava l'aria di uno che la sapesse più lunga di tutti quanti. E questo atteggiamento funzionava, i suoi colleghi pendevano dalle sue labbra, raramente lo contraddicevano, era un
po' come il saggio della montagna e lui non nascondeva un tono di disprezzo verso di
loro. Sembrava che a lui non importasse nulla di nulla di quanto preoccupava gli altri,
come se lui avesse in ballo ben altri più nobili, avventurosi e fondamentali progetti.
"Cazzate, io volevo solo dire che camminano come delle oche se le guardi da dietro, e tu
ti metti a fare filosofia spicciola".
"Hey Fabio come sono le donne?", Patrick decide di coinvolgere il barista nella loro appassionata discussione sulle donne della pausa pranzo.
Fabio arriva, rotondetto, la testa che inizia a stempiare, sembra un bambino che sia invecchiato di colpo in una notte, parla con la zeppola in bocca, si crede colto perché ha fatto il
liceo, poi ha rilevato quel bar in mezzo al niente e ha iniziato a fare buoni affari, perché
l'unico e alla pausa pranzo è sempre pieno. Parla forbito Fabio e vorrebbe far dimenticare
che è il barista, però e gentile ed è affabile con tutti. Arriva al tavolino dove Patrick,
Libero e Bruno hanno quasi finito il monopiatto, crede che l'abbiano chiamato per un'ordinazione.
"Un' altra Ceres, Patrick?"
"Si, grazie, ma stavamo parlando di donne e volevamo sapere la tua opinione.”
Fabio si sente lusingato per questa consulenza, anche se non è il più esperto in circolazione, cerca di non darlo a vedere. Allora si morde il labbro inferiore, come se stesse
dando un'informazione vitale, che solo lui finora è a conoscenza. Scuote un po' la testa,
come un attore che mostra rammarico e infine si sbottona.
"Se veramente vuoi che una donna ti ami, allora ti tocca ballare. E se non vuoi ballare,
allora devi lavorare veramente sodo, ma veramente sodo, perché una donna ti ami per
sempre, ma correrai sempre il rischio che da un momento all' altro lei ti lasci per un uomo
che balla il tango".
Forse é una frase che ha sentito al cafe' Procope, dove ogni venerdì sera Fabio prende
lezioni di tango, o forse l'ha pensata proprio lui, o gli è venuta spontanea, frutto di un'amara esperienza, ma è un'uscita che non riscuote molto consenso.
"Che cazzata Fabio, va portami un'altra Ceres che è meglio..." risponde Patrick. Fabio se
ne va ciondolando la testa, come pensando, eppure mi sembrava buona questa.
"Stasera non dimenticatevi il calcetto...", cambia discorso Bruno.
"E' giá stasera?" chiede Libero.
"Io non vengo di sicuro.” afferma categorico Patrick.
"Ma dai vieni, per una volta, sai che Fernando ci tiene. Non sei mai venuto e sei il più
giovane.” continua Bruno.
"Non ci penso nemmeno, sono troppo fuori forma e ho altro da fare.”
"Se per questo anch'io ho da fare, devo andare avanti con la sceneggiatura, poi c'è Stefano che gira in città e vorrei andarlo a trovare sul set. Dobbiamo parlare..."
"Stefano chi?"
"Accorsi".
"Ma vaffanculo Bruno!".
"Io stasera ci sono. Si gioca sempre al California?" Si intromette Libero.
"Si sempre al California, ma sei hai altro da fare puoi stare a casa.”
"Perché?" E il tono di Libero si fa una punta risentito.
"Niente, niente…così." E Bruno dicendolo ridacchia.
!
Nessuno si preoccupava veramente che Libero ci fosse alla partita di calcetto, l'unico vero
vantaggio era che veniva piazzato in porta, liberando gli altri dall'obbligo del turno da
portiere. Ma anche così era una frana. Una volta era meglio. Oddio, non era mai stato
Maradona, ma quando era più giovane e correva, si poteva ancora contare sulla sua pre-
senza. Ma il fatto è che Libero è un uomo che cede alla propria disintegrazione senza opporre alcuna resistenza, per cui ormai è un paracarro con la pancia in mezzo al campo e
persino Bruno che, a parte Libero, è di gran lunga il più scarso, uno che probabilmente
neanche da ragazzo aveva mai giocato a pallone, persino Bruno, dunque, lo scartava.
!
Appena tutti quanti arrivano sul campo sintetico, prima ancora di iniziare la frettolosa
fase di riscaldamento e gettarsi avidi sul pallone, come fosse un rito, una parola d'ordine,
una formula magica, Fernando sempre il primo, il più lesto, dice ad alta voce, in modo
che tutti sentano, "Ultimo andare in porta!”
Seguito da Riccardo, che deferente, aspetta sempre sia Fernando ad annunciare la sua intenzione, come fosse una questione di gerarchia e fosse inappropriato per lui essere il
primo a declamare la formula. Ma nello stesso tempo, altamente disdicevole, venire preceduto da qualcun altro al di sotto di lui nella scala gerarchica della tipografia.
Questo rituale invece non è previsto nella compagine che comprende Libero, in quanto
per tutti è chiaro, Libero incluso, che quel posto appartenga a lui. Libero fa squadra con
Fabrizio, un magazziniere, uno che in gioventù aveva giocato in promozione, quindi senza dubbio il più forte, però fa praticamente tutto da solo, lasciando che gli altri si accontentino di qualche scampolo di azione, irritando fortemente Antonio, altro magazziniere,
grande amico di Fabrizio e che si aspetta più collaborazione giocando a calcetto. Siccome
le squadre sono sempre le stesse, decise una volta, nella notte dei tempi, con chissà quale
criterio e rimaste cristallizzate negli anni, la squadra di Libero perde sempre. Come la
squadra di Charlie Brown, l'unico dato interessante è vedere di quanto avrebbe perso.
Libero, Diego e Nicola sono tre monumentali schiappe, comici e panciuti nel calciare il
pallone ed è una commedia vederli vestiti da quasi calciatori inseguire un pallone. Eppure giocano, tutte le settimane, forse per dovere, ma probabilmente anche per piacere e
si impegnano, picchiano come fabbri, perdono di santa ragione e quasi sempre si incaz-
zano come se giocassero la finale della champions league. Perché una cosa è certa, non
manca l'agonismo in queste settimanali sgambate.
!
Libero è in porta, perso nella sua solitudine da portiere, gli altri, i suoi compagni si azzannano lontano, nell'area avversaria, corrono lenti ma non per questo meno determinati,
un po' come il bradipo che vede arrivare la tigre e cerca disperatamente di scappare più
veloce che può, ma al rallentatore, con un' espressione di terrore stampata sul muso.
Libero sta fermo come un chiodo e si disinteressa al gioco, il suo sguardo spazia sul campo a fianco, dove si gioca una partita più seria e i giocatori hanno diciotto e vent'anni e
corrono ai cento all'ora e ogni volta che fanno un tackle sembra il crash di un incidente
stradale. Guarda a fianco, Libero, ma non la partita, bensì le ragazze che fanno il tifo.
Hanno tutte diciotto e vent'anni, capelli più o meno biondi, pance scoperte, risate, piercing, cellulari e tatuaggi. Libero si incanta, una di quelle ragazze per un attimo incrocia il
suo sguardo, o così gli sembra; magari semplicemente guardava attraverso, ma il cuore
di Libero ha un sussulto. La ragazza ha il seno sodo, ne' troppo piccolo ne' troppo grosso,
quel tipo di seno che lui si immagina abbiano solo donne che hanno a che fare con pusher
di cocaina o calciatori professionisti. Libero la guarda e vede quel corpo, con i suoi
lunghi arti, le ossa sottili, le fragili spalle e pensa al suo di corpo, come sarebbe se fosse
ancora ragazzo, con 25 anni di meno e pensa che quello è proprio il tipo di ragazza che
avrebbe voluto. Poi è come se per un momento il suo fantasma lasciasse la sua corazza
panciuta di portiere brocco di 46 anni, in una disfida aziendale e in un qualche angolo di
paradiso stesse baciando e abbracciando quella fanciulla.
Dopo qualche attimo di esitazione le lancia un imbarazzato sorriso, giusto un attimo prima di vedere le scarpette dorate di Fernando, con Fernando attaccato, lanciato, per quanto
possibile, a tutta velocità verso di lui. Libero, istintivamente per fare bella mostra di se'
davanti alla ragazza, si butta con tutta la sua energia per fermare quel lento proiettile e lo
travolge sgraziato e grossolano.
Da quel momento sono tutti contro tutti, come se avessero ancora quindici anni e quella
che stanno giocando è una di quelle sfide di quartiere, dove è in gioco l'onore, l'orgoglio,
la supremazia nel cortile, un'esperienza che solo chi è cresciuto in un condominio di periferia può comprendere fino in fondo. Iniziano a spintonarsi, ad insultarsi, a gridarsi contro, qualcuno cerca di fare un po' da paciere e si riprende a giocare. Fino al tackle successivo, che diventa non parte del gioco, ma strumento di vendetta, allora ricomincia da capo
il confronto virile, la lotta da montoni, testa contro testa, fino a che suona la sirena e l'ora
è finita, le squadre del turno successivo stanno entrando in campo e tutta l'animosità
finisce lì, improvvisa come cominciata, senza lasciare alcuno strascico, ma pronta a riaccendersi la settimana successiva. E così via, settimana dopo settimana, partita dopo partita, come un disco rotto, come il loop di un ritornello, sempre uguale in una coercizione a
ripetere che fa da cornice alle esistenze di questi impiegati tipografi, calciatori amatoriali.
"Quanto è finita?" chiede Libero a Fabrizio.
"Abbiamo perso 20 a 16".
"Non è andata così male.”
"A 15". Si intromette Fernando.
"Cosa?"
"A 15. E per favore Libero, stai più attento la prossima volta, frena la mula, potevi farmi
male, sei un pachiderma e io non sono più un ragazzino".
"Scusa Fernando, è che ero distratto".
"Va bin parei".
!
!
Sul tavolo gli avanzi della cena. Erano momenti questi, in cui sentiva l'impulso dell'abbandono. Lei dorme sul divano e Libero si sente solo davanti ad un piatto di fusilli freddi
e la televisione sempre accesa, qualunque cosa trasmetta. Si sente abbandonato e sente
l'impulso ad abbandonare. Lasciare le parole diventare fatti, questa è la natura della loro
presenza, ritmi sparsi di circostanze ed occorrenze, un vago rumore di umanità in sottofondo. Libero siede e sente, siede e trangugia, è definito solo dalla sua lunghezza,
larghezza e profondità ed il tempo cola via, e i battiti del cuore sono contati.
Siede e aspetta che arrivi qualcosa di vivo dalla televisione.
!
Siede tra una libreria Billy, con pochi libri e un’obsoleta enciclopedia, e scaffali pieni di
angioletti Thun e animaletti di vetro di Murano, Libero guarda nel vuoto aspettando che
Pogo carichi la sua room di giocatori di Texas hold ‘em. Solo un abat-jour illumina la
tastiera, immerso nell’oscurità, guardando il buio profondo, Libero si immagina un’altra
persona. Poi lo schermo comincia a lampeggiare, i giocatori sono tutti al loro posto, si
infila una manciata di pistacchi in bocca e scrive ‘ciao ragazzi, buona sorte’, Hotblonde
risponde ‘ciao Pistacchio’, Jayme2006 non dice niente e Lucky b comincia la mano.
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Capitolo IV
Come di d’un jour
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Quella mattina concentrarsi era molto difficile, Libero è spento, così spento che sembra
avere delle X al posto degli occhi, come un morto in un cartone animato.
Al suo posto di lavoro in tipografia, la rotativa quella mattina sembra fare il rumore di
mille dadi gettati simultaneamente. Libero è nella sua routine, un foglio dietro l’altro, con
una postura da tartarugone e la totale sciatteria di tutto il suo essere, la linea dei capelli
che si dirada e quel suo modo trascurato di vestire e di muoversi sotto la tuta blu. Sembra
più vecchio della sua età, talmente stanco e distratto che sembra dover combattere ogni
volta per finire un pensiero, una frase e lottare ancora più strenuamente per cominciarne
uno nuovo.
Patrick è al suo fianco e lo guarda nel suo modo perennemente canzonatorio, lui, un veterano delle nottataccie e delle mattine in cui il lavoro è una montagna da spostare, ha
capito che il suo collega è in un limbo tutto suo.
Patrick prende i fogli stampati che Libero gli passa, li controlla veloce con la lente e li va
a posare delicatamente sul tavolo falso mahogany della sala conferenze, dove più tardi li
avrebbe esaminati Riccardo.
Patrick ha l’abitudine di chiamare tutti per cognome, come se avesse a che fare con persone importanti o compagni di classe sfigati, da prendere in giro. Inizia sempre le sue
frasi con un ‘dunque’ o un ‘comunque’, come se stesse sempre riprendendo un discorso
interrotto.
Quando un foglio 50x70 con stampata l’affissione delle pompe funebri che promettono
un funerale onesto, esce dalla macchina e Libero, girato dall’altra parte, non si rende conto di dove sia e di cosa stia facendo, Patrick l’apostrofa così: “...comunque Martinetto se
sta mattina sei uno zombie puoi anche tornartene a casa, tanto mi fai lavorare per due
ugualmente...” Detto questo va a prendersi il foglio da solo.
Libero a quel punto si riscuote: “Dicevi Patrick?”
“Andiamo a prendere un caffè Martinetto che è meglio.”
“Si é meglio”.
Ma quello è un giorno così sbagliato che anche al bar, sulla lavagnetta degli speciali, tra i
dessert c’è scritto ‘Mouse di Cioccolato’.
“Comunque genio” adesso Patrick ce l’ha con Fabio il barista, “se per dessert ci fai mangiare i topi, anche se ricoperti di cioccolata, io in ‘sto bar non ci vengo più.”
E gli indica la lavagnetta. Ma Fabio sorride, come se quella fosse solo una bella battuta,
senza accorgersi dell’errore, tanto lui è talmente abituato agli sfottó di Patrick che
neanche ci fa caso.
“Bevi questo caffè così mi stai sveglio. Cosa ti succede, è giocare a calcetto che ti distrugge?”
Libero scuote la testa e mostra un sorriso che è senso di colpa e orgoglio:
“È il poker”, dice come se fosse arrivato al lavoro direttamente da Las Vegas, “il poker
online, ho fatto tardi giocando Texas hold ‘hem’, fino alle cinque.” Aggiunge con uno
schiocchio delle labbra, per sottolineare come sia stato trasgressivo.
“Comunque ti capisco, internet è una droga. A me capita spesso di fare la notte, con le
chat erotiche però. Mi piace far finta di essere qualcun altro, ogni volta uno diverso, alle
volte sono un negro della Martinica con gli occhi azzurri e il cazzo di 30 cm, altre volte
invece faccio finta di essere una donna che per curiosità si inserisce nelle chat per lesbiche.”
A Libero scoppia una risata: “Scommetto che sono tutti uomini”.
“No, non puoi immaginare come ci cascano, io faccio finta di essere un po’ ingenua che
sono lì per la prima volta e anzi voglio andare via perché non sono veramente lesbica.
Questo fa perdere loro la testa. Devi vedere le foto che mi mandano, sono vere al 100%,
una poi voleva incontrarmi a tutti i costi. Comunque se trovi un uomo lo capisci al volo,
sono così prevedibili.”
“E guardi anche i siti porno?”, si sbilancia Libero con un mezzo sogghigno come se
avesse osato veramente troppo perché la sua voglia di trasgredire non lo porta mai così
lontano.
“Hey!?” risponde Patrick come a dire ‘con chi credi di parlare, sono il re del porno, l’ho
inventato io’, invece prosegue con più fantasia, “per me il porno è come l’acqua per le
piante. È fotosintesi pura il porno, per me. La cosa che faccio più spesso è invitare le mie
prede in chat a guardare i siti insieme a me. Sapessi come le eccita!”
“Wow!”, si riscuote Libero impressionato di fronte a tale maestria e cercando di distogliere i suoi pensieri da quel giardino di trasgressive delizie che internet può offrire e
che non avrebbe mai neppure immaginato. Per lui internet è il poker online e qualche
email, quando qualcuno gli manda qualcosa di buffo come le foto dei gattini bonsai intrappolati dentro le bottiglie.
Dopo il caffè tornano al lavoro, ma non va molto meglio, Libero sempre letargico, di tanto in tanto si risveglia e si tocca la testa e il collo per controllare se hanno cambiato forma.
Pensa a Patrick che diventa un negro della Martinica o una lesbica nascosta, sorride e
pensa: “Siamo tutti qualcun altro”, prima di accorgersi che nella stampa non c’era il Pantone che voleva il cliente.
!
Sono le cinque e mezza, Libero è al parcheggio davanti alla sua Brava, anche Patrick è
davanti al suo SUV e Katia sta facendo retromarcia con la Tigra. Rimane la bicicletta di
Riccardo, che è ancora dentro e ne avrà per un po’.
“Comunque come si è incazzato Riccardo per quel Pantone, eh?”
“Non mi sono proprio reso conto...”
“Già ti ci sono volute solo mille stampe.”
“Cazzo un errore da novellino proprio...”
“Non te la prendere, tanto Riccardo è un coglione, starà in tipografia fino alle undici
stasera, vedrai, te lo dico io. Va a dormire presto stanotte, che poi mi combini altri casini
domani perché non ci stai dentro.”
“Si, solo un paio di partite stanotte, poi a nanna.”
“Bravo. Stanotte faccio nottata io, invece, mi hai fatto venire voglia di un po’ di action.”
In quel momento gli squilla il cellulare. Guarda lo schermo e visto chi chiama fa un gesto
di stizza, alza gli occhi al cielo e poi si mette l’indice di fronte al naso rivolto verso
Libero per intimargli silenzio. Quindi fa un paio di passi e china la testa rispondendo,
come se questi gesti potessero garantirgli abbastanza riservatezza.
“Amore...”
Libero sta lí nel parcheggio, immobile, le mani in mano, non sapendo se può andare via o
se deve aspettare che finisca la sua telefonata per salutarlo.
“...stavo giusto per chiamarti. Guarda amore un casino pazzesco, un mio collega, sto
coglione, ha sbagliato Pantone e devo rimanere in tipografia...non so fino a tardi, di sicuro...le undici forse. Lo so, lo so che eravamo invitati dai tuoi, hai ragione, ma che ci
posso fare. Sbaglia uno, paghiamo tutti...”
Patrick vede Libero, fermo, ingessato in mezzo al parcheggio e con la mano gli fa cenno
che può andare, poi mima uno sbuffo e alza di nuovo gli occhi al cielo.
“...che ti devo dire, amore. Facciamo un’altra volta, digli che facciamo un’altra volta.
Senti ora devo andare, ti chiamo più tardi. Ciao, ciao.”
Libero e la sua Brava proprio in quel momento lasciano il parcheggio. Patrick, apre la
portiera del SUV, tira dentro il telefono ed entra. In dieci secondi parte sgommando. Nel
parcheggio è rimasta solo la bicicletta di Riccardo.
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Capitolo V
Simple twist of fate
L’appartamento di Patrick è una grotta boehemienne, la cucina è una cucina solo perché
ha un lavandino e un frigorifero. D’altronde è raro che Patrick cucini e sicuramente non
quella sera, sebbene abbia una stoviglia sul tavolo, non è di cibo che vuole nutrirsi.
Rovescia tutto il contenuto della bustina sul piatto, finché si accumula una discreta bianca
montagnola di cocaina. Con furia forma due righe e le tira, la soddisfazione gli illumina il
sorriso, che le prime sniffate della serata sono senz’altro le migliori, mentre il viso incomincia a imperlarsi di sudore. Si prepara una sigaretta e va a fumarla sul balcone.
È buio ma la luna e la notte insieme sembrano voler cantare una canzone feroce e meravigliosa, Patrick guarda la strada e fuma, mentre un delicato filo di fumo si dissolve e
sparisce come zucchero sulla lingua.
Guarda sotto e vede all’angolo la solita puttana, tenace e paziente, è al primo piano
Patrick e la vede bene, lei fa un cenno di saluto, lui ricambia, sotto lo strato di trucco distingue il pallore che le viene da lunghi, rigidi inverni e da pasti consumati da sola e in
fretta. I capelli, forzatamente biondi, scoloriscono verso un colore che ricorda i cicles
senza zucchero, che masticati da troppo tempo hanno perso ormai tutto il sapore. Scendono sulle sue spalle in due grossolane, ondulate, cascate.
Finita la sigaretta, Patrick si muove frenetico nel suo mini appartamento, come se
dovesse fare mille cose insieme, finché alla fine si ricorda, va a sedersi e accende il computer. Si connette a chatting.com e attende.
Ma prima é tempo di qualche riga in più.
Una striscia e apre una chat privata con chiunque abbia un nome vagamente femminile,
talvolta basta solo che finisca con A e non sia Luca.
Un’altra striscia, scrive ciao e va a fumarsi la sigaretta zeppa di cocaina sul balcone, torna
e il suo ciao è rimasto solo un saluto vuoto, nessuna risposta, solo l’avviso che l’utente ha
lasciato la chat.
Così per un po’, quando prova la room lesbo, si accorge presto che sono tutti uomini che
fingono. Annoiato è ancora una volta al balcone, quasi si ritrova a pensare che si sarebbe
divertito di più a cena dai genitori della sua fidanzata, con quel padre sussiegoso, a metà
tra un Alberto Sordi e un David Niven, pezzo grosso dell’Eni sempre pronto a dargli con-
sigli sulla sua professione, tanto per sottolineare il fatto che lui non ha nessuna carriera, e
quella madre, bellezza sfiorita di un jet set da mezza tacca degli anni settanta, che beve
Lagavulin a cena e ha la bocca impastata dall’alcool e dalle sigarette e la faccia gonfia
dagli antidepressivi.
Mentre è su quel balcone guarda la strada deserta e rovista la vellutata oscurità della sua
mente, finché vi trova, incredibile, una gemma.
Torna al computer con rinnovata eccitazione, striscia e si connette su Pogo.com, entra
nella stanza Texas hold ‘em e prende posto, virtualmente, si intende. Si sfrega le mani e
legge i nomi degli altri giocatori, Jayme2006, HotBlonde, Lucky b. e Pistacchio. Sniffa
un po’ di cocaina e pensa, “Scommetto che Pistacchio è lui, quel gaggio!”
!
La luce blu dallo schermo del computer illumina solo la faccia tonda dai radi capelli e gli
occhiali dalla montatura esagerata di Libero. Ogni tanto la sua mano, quando si avvicina
alla bocca per inghiottire l’ennesimo pistacchio. È un universo buio intorno a lui e nel
resto della casa, dove Cinzia e le bambine dormono e lui le ha a malapena salutate per
tuffarsi nel suo mondo che sa di fumo, bisca clandestina e bionde platinate. La stanza è
quasi completa, ci sono i soliti, Jayme2006, HotBlonde e Lucky b., Jayme questa volta
vince più di tutti, HotBlonde se la cava, mentre lui e Lucky b. si contendono la maglia
nera. Non gli sono rimaste molte chip sul tavolo, HotBlonde lo nota e gli scrive in chat
privata: “ Ci sono anche altri giochi su Pogo, c’è il Majong, il Bingo… magari ti diverti
di più, perdi di meno.”
“Frena la mula, bimba mia, che prima della fine della serata ti spolpo viva.” risponde
Libero.
“Non fare promesse che non puoi mantenere, cowboy. Sento che la serata si fa eccitante.”
Intanto gli entrano un paio di assi, vorrebbe scommettere tutto, ma alla fine non se la
sente, quindi gioca prudente, mentre HotBlonde va giù pesante. Gli entra ancora un asso
e sta al gioco, sono rimasti solo loro due, alla fine quando va a vedere, lei sfodera colore,
ma lui ha quattro assi e la stende. Non sta più nella pelle Libero e le scrive:”Ti ho avvertita, torni a casa in mutande stasera”, “Ti fai provocante adesso, ma abbassa la cresta, ti è
girata bene una mano, non prendere l’abitudine”.
Intanto è entrato un nuovo giocatore nella stanza, Mr. White, ma si vede subito da come
gioca che é un principiante.
HotBlonde a Libero: “Questo é un noob, ce lo spenniamo”.
Libero: “Cos’é un noob?”
HotBlonde: “Hey ma sei mio nonno? Noob vuol dire pivello. N00b!”
Libero: “Pensa a giocare che questa mano ti porto via tutto.”
Lei sul tavolo ha due assi, Libero due fanti, riceve anche due re, lei punta tutto e Libero
non se la sente e non va a vedere.
Libero: “Hey sei una che osa!”
HotBlonde: “Non sai quanto! LMAO”
Libero: “Quanto?”
HotBlonde: “Lasciamo perdere il poker e per una sera conosciamoci meglio”
Libero: “Ok”
Libero esce dalla stanza ed invita HotBlonde in chat privata. Dopo un po’ lei risponde:
“Allora?”
Libero: “Allora cosa?”
HotBlonde: “Allora chi sei?”
A questo punto Libero si blocca, sta nel suo buio a marinare la propria indecisione, la
propria confusione, un dito alla bocca, una faccia blu che illumina il nero intorno, una
moglie e due figlie nella stanza accanto, 46 anni portati male, i capelli andati, un lavoro
di mediocre routine, un ponte del dentista da finire, un paio di baffetti da camionista
tedesco, un paio di occhiali con le lenti troppo grosse e troppo spesse. Una nuova vita da
vivere.
HotBlonde: “Ci sei ancora? Sei caduto?”
Libero: “Mi chiamo Tommy.”
HotBlonde: “Piacere, Jessi.”
Libero: “ Ho diciott’anni e sono un carabiniere di stanza a Nassirya e non sono sicuro di
poterti dire tutto questo.”
HotBlonde: “Wow, Tommy, è pericoloso laggiù?”
Libero: “Non sai quanto. Ogni volta che usciamo fuori rischiamo la vita, ogni sera che mi
connetto a Pogo mi sembra un miracolo e quando vedo che anche tu sei connessa il miracolo mi sembra ancora più grande e chattare con te in privato mi restituisce un po’ di
fiducia nella vita, perché ne ho viste troppe”
HotBlonde: “Ti capisco, eri lì anche durante l’attentato?”
Libero: “Ho visto morire i miei compagni, io stesso sono rimasto ferito e porto anche due
cicatrici da pallottola, una sul braccio sinistro e una sulla gamba destra. Ma tu non puoi
capire, sei comoda nel tuo salotto, così lontana da questo orrore. Quanti anni hai?”
HotBlonde: “Anch’io diciotto. Ma ero contro la guerra, sono andata sempre a tutte le
manifestazioni. Come vorrei essere con te, abbracciarti e accarezzare le tue ferite e
guarire la tua malinconia. Dimmi, raccontami come sei fatto che voglio immaginarti.”
Libero: “ Sono alto, più alto della media dei miei compagni, sono 1e90 e al liceo giocavo
a basket, poi ho smesso per seguire la mia passione che è il karatè, fino a diventare cintura nera. Ora faccio l’istruttore qui per i miei commilitoni. Ho i capelli biondi e gli occhi
azzurri...”
HotBlonde: “Sei dotato? Sono completamente bagnata e le mie mani sono nelle mutande
e voglio sapere come mi faresti godere”
Libero: “Peso 90 chili e ho un attrezzo di 28 cm. E ti vorrei girare alla pecorina e farti
sentire di cosa sono capace. Tu come sei vestita, come sei fatta?”
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Capitolo VI
Altre Vite
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La cittadina faceva i suoi rumori di ogni giorno. Clacson ai semafori, camion della spazzatura, vespe, scooter, cigolii di vecchie biciclette, il ciondolio ferroso dei tram.
Il 42 accosta alla fermata, qualcuno sale, qualcuno scende, un sacchetto di plastica viene
fatto volare dal vento come l’aquilone di una bambina. Si sentono sbattere le porte dei
taxi e i gatti che sgattano nei bidoni della spazzatura; scarpe da ginnastica rimbalzano sul-
l’asfalto, la pelle delle ventiquattrore si struscia contro pantaloni eleganti, bip bip di sms
che arrivano, le punte degli ombrelli ticchettano i marciapiedi e le porte automatiche delle
boutique quando si aprono lasciano uscire brandelli di conversazioni.
!
Piccoli gruppi, capannelli di adolescenti si riuniscono attorno al liceo statale *** e la
chiesa e il negozio del barbiere, non sai se stanno uscendo da scuola o dall’oratorio, senz’altro non dal barbiere. Un affollato piccolo teatro di ragazzi e ragazze, appoggiati a pali,
automobili, motorini, come se per qualche motivo e debolezza congenita, non potessero
stare in piedi se non con un sostegno. Sono diciassettenni e diciottenni della bella società
di Pavia, figli di avvocati. Dottori. Titolari di ditte di antinfortunistica. Ristoratori.
Costruttori. Commercianti. Attempate proprietarie di boutique dai jeans troppo stretti e a
vita troppo bassa, come quelli delle loro figlie, gli stessi tatuaggi e piercing ma molte più
rughe e delusioni. Impiegati. Manager. Agenti di borsa. Imprenditori un po’ loschi e un
po’ squali, un po’ vittime di strozzini e un po’ cravattari. Sono le 13 e 47, un’altra giornata di scuola è passata, altri giorni, altri dolori li aspettano, ma loro non sembrano curarsene, sono nella parte leggera della vita, anche se non se ne rendono conto. Sono una
massa rigida, un mistero mobile, una catena di risatine, un rosario di Cazzo! e
Vaffanculo!, sono girati l’uno verso l’altro per abbracciarsi o per colpirsi, per baciarsi o
disprezzarsi e per specchiarsi l’uno nell’altro, una collisione di simili, una reverenza verso la propria irriverenza, ostaggi con i propri cliché, cuori che battono veloce e mani che
sudano e tutti si muovono, ma nessuno va da nessuna parte, anche se é ora, ma veramente
ora di tornare a casa, dove un piatto che si raffredda e le mogli dei dottori, titolari, ristoratori, costruttori, commercianti, fabbri e manager li aspettano. Invece continua il torrente
di chiacchiere, le chiamate e le risposte degli ubiqui cellulari, i zigzag dei motorini, le apparizioni e le mancanze, finte lacrime, elettricità, magnetismo e puzza di sudore e la
ricerca di un significato di cui ognuno ha bisogno e nessuno sa quale sia.
!
In mezzo una ragazza chinata, piegata a metà come se stesse esaminadosi le scarpe, come
il segno di un pennarello per la maggior parte cancellato, con la postura di una tuffatrice
che sta per saltare dal trampolino. Infine si tira su, ha capelli biondi veri, occhi cobalto e
una longilinea, gelida grazia. È il tipo di femmina che anche le femmine ammettono la
sua superiore bellezza. Tutti la chiamano e il suo nome ronza intorno come il ritornello
della canzone dell’estate: “Jessica...Jessica...Jessica...”. Una fanciulla che era come una
parola che tutti credevano di conoscere, benché nessuno l’avesse mai sentita prima.
Ad un certo punto, Jessica, la stellina di questo palcoscenico, fa ciao con la mano, a tutti,
a nessuno in particolare, come se fosse di fronte alla macchina da presa, più che di un
film o di uno spot pubblicitario, di un filmino delle vacanze, con un raggio di sole che le
passa attraverso un’onda dei capelli, un sorriso da ricordare quando saranno passati gli
anni. “Ci sentiamo in chat”, dice, saluta e se ne va inforcando una bicicletta.
!
“Bene, eccoti finalmente”, le dice sua madre una volta entrata in casa, il viso le si apre in
una smorfia che sembra farle male. Le va incontro e le bacia entrambe le gote, in un secondo Jessica è nella sua camera e ha acceso il computer.
“C’é un piatto di pasta in tavola, vieni prima che si raffreddi”.
“Grazie mamma, ma non ho fame.”
“Jessi non cominciare, devi mangiare, non mi diventare anoressica.”
Laura, la madre di Jessica, è una donna che sembra una zanzara. Ha arti lunghi e fini e un
viso piccolo con tutti i lineamenti molto concentrati che si spingono in avanti, culminando in un naso lungo e molto appuntito.
Segue la figlia in ogni stanza, vuole fare conversazione. Jessica si muove più del dovuto,
compie più azioni del necessario, sperando di scoraggiare la madre, di levarsela di torno,
mostrandosi occupata, come se proprio non avesse tempo per lei.
“A scuola come è andata?”
Jessica digita qualcosa alla tastiera, la schermata aperta di Gmail chat, morde la mela, si
alza e va in cucina. La madre dietro.
“Andiamo a fare shopping in centro?” La incalza ancora, noncurante delle domande senza risposta.
Jessica beve un bicchiere d’acqua. Poi sgusciante come un’anguilla si infila nel bagno,
dove si chiude.
“Mi dispiace mamma, esco con Alessia, Silvia e Nadia, andiamo al cinema.” Urla da dietro la sua fortezza.
“Non fa niente, andremo un’altra volta. Cosa vai a vedere?”
“Papà torna questa settimana?” chiede Jessica, come se riuscisse a parlare a sua madre
solo da dietro una porta.
“No. Ha telefonato, dice che ha una presentazione lunedì e deve lavorare tutta la domenica, quindi si ferma a Milano.” E nelle ultime parole la sua voce si incrina impercettibilmente come se le sfuggisse convinzione.
“Ha detto anche che torna la prossima settimana e ci porta in montagna”.
Poi come se improvvisamente stanca, torna in soggiorno e si siede a tavola, mangia un
paio di bocconi della pasta fredda, il pranzo di Jessi.
“Potremmo partire già il venerdì per Asiago, poi il sabato magari andiamo a mangiare la
polenta al rifugio. Puoi portare una tua amica se ti va. Alessia o Silvia?” Adesso è lei a
urlare per farsi sentire dal soggiorno al bagno. Ma prima che finisca, Jessica è lì e si siede
anche lei.
“C’è la festa di Federico, sabato, io non penso di venire in montagna la prossima settimana.” Mangia anche lei un paio di forchettate.
“Vabbé vediamo. Magari, tanto non torna neanche la prossima settimana.”
Laura porta la fede alla mano destra e mentre parla la gira e la rigira senza pensarci.
Possiede grazia e rudezza intrecciate insieme: capelli neri, ancora belli corvini, una
graziosa linea del collo, un minuscolo neo sotto l’occhio destro che sembra un diamanti-
no, un mini piercing. La parte superiore del suo fisico regge ancora bene gli anni, dal bacino in giù l’età è impietosa: i fianchi, il culo, le gambe, le vene, le caviglie, non le lasciano scampo. È come se si trovasse a metà di una metamorfosi, Laura, metà ragazza, vivace e attraente, metà signora di mezza età, affaticata, appagata. Fissa la figlia come se le
bastasse girarsi o distrarsi per non rivederla mai più. Ogni tanto guarda in alto come se
potesse trovare tutte le sue risposte sul soffitto.
“Povera mamma, tutta da sola”
“Qualcosa farò”. Risponde, non proprio convinta.
Quando infine Jessi è uscita, il mondo le sembra rimpicciolirsi intorno, restringendosi
della misura dei suoi occhi, colorandosi di viola e di nero come il mascara alle sue palpebre, che si scioglie al contatto di un paio di salate lacrime calde.
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Capitolo VII
Prima Donna
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Il mattino è così umido e nebbioso che solo con estrema difficoltà il giorno riesce a
venire fuori, ma ancora è quasi impossibile distinguere altro, se non i fari antinebbia delle
automobili più vicine. Una macchina blu di stato è ferma con il lampeggiante acceso
smorzato dalla nebbia, un autista sussiegoso tiene la portiera dei sedili posteriori aperta e
rabbrividisce nel mattino gelido, il portone si apre e l’uomo che esce è orgoglioso nel suo
impeccabile completo Caraceni.
L’uomo annusa il mattino e la nebbia, è un uomo consapevole di essere ortodosso, di essere solitario e selvaggio e sempre nel giusto, è qualcosa di più di un uomo, è una Chiesa.
È il centro dell’universo, è attorno a lui che ruotano le stelle, tutte le torture del mondo e
le paure degli inferni più terribili.
L’autista dice buongiorno e l’uomo risponde buongiorno con un tono ancora più basso,
nuvole di fiato bianco vengono fuori dalle loro bocche fredde, come fumetti, terribili
fumetti.
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Mentre si vestiva nel suo appartamento prima di scendere dal suo autista e dalla sua scorta, l’uomo si sorprende nello specchio dell’entrata e quella vista lo colpisce, lo stupisce.
Tutti quegli anni di dolore e superbia cosa avevano fatto alla sua faccia. Tutti quegli anni
di odio, rabbia e delusione. Ha un’espressione di pietra, allenata a non tradire non solo la
minima emozione, ma anche la minima reazione. Forse è stata parte del suo successo
questa impenetrabilità, così come la sua spietatezza, il suo istinto e sopratutto essere stato
il genero di uno dei magistrati fatti saltare per aria durante la stagione delle stragi di
mafia. Questo non può nasconderselo. Poi si era imposto di non volere più niente, dopo
che quello che aveva desiderato l’aveva perduto. Non desiderare niente era stata una
buona tattica dopo tutto, aveva ottenuto molto. Tranne... tranne una cosa che ormai smarrita non la potrà ritrovare mai più, nemmeno sulla luna.
Nell’appartamento prima di scendere era stato occupato con gli stessi soliti gesti, il rituale
della vestizione, la pulizia della pistola, la lucidatura delle scarpe, quello che fa esattamente ogni mattina da anni, è il rito per tenere lontani gli istinti dal suo cuore, quel dolore
sordo può stare così rintanato nell’angolo più remoto. Meglio stare vicino alla morte, perché la vita uccide. Ed è esattamente quello che fa ogni mattina da anni e funziona.
!
Paul Etienne Lizzi è nel suo ufficio, all’ultimo piano tutto vetrate del quartier generale
della III sezione della Squadra Mobile di Torino, reati contro la persona. Guarda fuori,
dall’alto, da distante la città sembra fatta di scatole di cartone. Ha 42 anni e la disperazione lo ha avvolto come un’infezione, senza che se ne sia nemmeno accorto, può però
ricordare l’esatto momento in cui la speranza ha lasciato il suo cuore. Quel giorno tutta
l’Italia era in lutto perché il suo magistrato antimafia preferito era saltato in aria. Con lui
la figlia: Eleonora, sua moglie.
Nosenzo, Franco Nosenzo è il suo pretoriano più fidato. Ufficialmente è il suo assistente,
o segretario, sta fuori dalla porta e filtra le visite. Ha circa quarant’anni e viene da Asti,
ha una faccia che sembra scolpita con lo scalpello nella pietra dura, non parla mai se non
viene interpellato, ma non dice mai più di tre parole di seguito. È alto un metro e sessanta
e fa paura, ha una forza sovrumana ed è un ex macellaio, ha cominciato a dieci anni a
macellare bestie con suo padre. È un assassino implacabile se le circostanze lo
richiedono, è fedele come un cocker e scrive bellissime poesie che vengono pubblicate
sulla rivista ‘Poesia’, Crocetti Editore, sotto falso nome.
Nessuno entra nell’ufficio di Lizzi se lui non lo accoglie. Per tutta la giornata introduce
persone al suo superiore, per lo più colleghi, rogne che vengono dal piano di sotto, burocrazie, carte che Lizzi deve firmare. La sua soddisfazione più grande è far aspettare il
prefetto o il questore, quando loro vanno lì se vogliono vedere Lizzi. Quel giorno solo
piccoli calibri, però.
Lizzi guarda i suoi interlocutori senza parlare, dalla sua poltrona di pelle nera, da dietro la
bella scrivania di mogano, spesso guarda fuori dalla finestra verso quelle scatole di cartone che sono la sua città.
Il suo interlocutore tenta un approccio amichevole per chiudere il meeting.
“Ha iniziato a fare buio presto.” In effetti sono le quattro e mezza ed è già buio.
“C’è aria di neve.” Dice Lizzi.
“Sta arrivando una bufera. L’hanno detto per tele.” Risponde il piccolo calibro, timido
nella minuscola sedia dalla parte sbagliata della scrivania di mogano.
Lizzi pensa, tutte queste minuzie, queste inutili chiacchiere, solo per fare un piccolo e
coraggioso tentativo di stabilire connessione umana.
Ogni conversazione con lui, per quanto piccola, rimane qualcosa da ricordare, da considerare, da parlarci sopra non appena hanno lasciato l’ufficio. ‘Ho parlato con Lizzi’, dicono ai colleghi ai piani di sotto, ‘mi sembrava di buon umore’, come per vantarsi, per
mostrare quanto valevano, se erano ammessi nello stretto circolo di coloro che si potevano permettere confidenze con il temuto capo della squadra mobile.
In realtà lo odiavano, ma ne avevano paura. Lui era il tiranno e poteva decidere del loro
destino. Nei piani bassi, a bassa voce si diceva che razza di bastardo fosse, un arrogante
figlio di puttana, un sadico e crudele essere umano. Ma c’era sempre qualcuno che aggiungeva, come il posto fosse pieno di microspie e lui potesse sentire ogni parola, “Beh
bisogna anche dire che ha avuto i suoi guai, lo sapete.” Certo che lo sapevano, tutti lo
sapevano. Tutti sapevano tutto di lui, tutto quello che era possibile sapere. Che era solo,
che era un essere oscuro, che aveva guadagnato quel posto per il suo fiuto, per i recenti
successi come quello della bambina di Susa, ma anche e sopratutto per la politica, anche
e sopratutto perché era il genero, il pupillo del magistrato, di quel magistrato, proprio
quello là, l’eroe, il martire. Ora tutti sanno che è un intoccabile, che tiene per i coglioni il
questore, il vicequestore, il prefetto, il sindaco, il presidente della regione, che tutti hanno
paura di lui, perché lui ha potere e lo usa come gli pare, senza pietà, come gli garba per
ottenere quello che vuole. Per questo tutti hanno paura di parlargli o anche solo di
guardarlo negli occhi.
Quella mattina, però, quando aveva visto la sua faccia allo specchio, si era sorpreso, ma
ora pensava, questa è la faccia che ho sempre voluto avere, che esprime assenza di
desideri, rapace solitudine e affinità con la morte. E quelli intorno a lui, che lo incontrano
giorno per giorno non sono ciechi, vedendolo devono essere, proprio come è stato lui
quella mattina preso di sorpresa, terrificati.
Nosenzo si affaccia ad annunciare un nuovo visitatore.
“Dottore, c’è il Padre, di S. Salvario”.
Il prete che si trova di fronte non ama vestirsi da sacerdote, è uno di quelli che ama cammuffarsi e sembrare un operaio, o un minatore rumeno. Forse porta una croce, ma è
nascosta sotto il maglione blu o la camicia di flanella, ha una barba folta e rossiccia e un
sorriso ambiguo sempre sulla faccia, che lascia intravedere un molare d’oro.
“Benvenuto Padre la stavo aspettando, già da qualche giorno veramente”.
“Ci sono stati problemi con le commesse”.
“Capisco. Ma problemi portano problemi, cerchiamo di semplificare non di complicare,
se io vi aspettavo due giorni fa dovevate venire due giorni fa.”
“Lei ha ragione, ma sa come sono i nigeriani, la puntualità non è il loro forte”.
“Sicuro, allora lei dica ai nigeriani che ogni tanto diano un’occhiata alla sveglia che portano al collo, altrimenti salta la protezione. Intesi?”
“Intesi.”
Detto questo tira fuori una busta e la posa sulla scrivania di mogano.
Lizzi guarda il prete e la sua faccia è illeggibile, nondimeno un mezzo sorriso si arrampica sul suo viso, malvolente e puro.
“Lei non sembra un uomo di Dio.”
“Dio è con me anche quando si nasconde o io mi nascondo da lui. Questo è quello che mi
piace di Dio, lo si impara a conoscere dalla Sua occasionale assenza. Quello a cui non mi
rassegno e non mi abituo è il dolore”.
“Dolore? Dolore è niente, dolore è quello che dai, non quello che ricevi”. Lo dice con una
risata, piccola, che rimbalza intorno come una riconciliazione, fa un piccolo giro di onore
e torna indietro giusto per accucciarsi ai suoi piedi.
“Può andare Padre”, conclude freddo.
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È sera, la giornata sta volgendo a termine, Nosenzo bussa alla porta dell’ufficio di Lizzi
ed entra seguito da altri tre uomini. Sono Bragante, Turchi e Ferraris, sono le guardie pretoriane e la scorta di Paul Etienne, di loro si fida, solo di loro e sono sempre intorno a lui,
ora che è temuto, ora che è odiato. Bragante, uno di quei tipi con la faccia stolta, come se
non fosse stato ben nutrito da bambino e sin da allora sia rimasto ritardato e annoiato,
silenzioso e felpato, molti lo credono addirittura muto. Ama le lame, sciabole, pugnali,
pattade, rasoi e baionette e si porta sempre dietro uno di quei coltellacci alla Rambo e appena può lo usa.
Turchi, alto e magro, con gli occhialini tondi come un intellettuale e i capelli lisci, pettinati a tendina, lo fanno sembrare un pivello, un ingenuo. Voleva fare carriera nell’esercito, ma è stato riformato per insufficienza toracica. Lizzi l’ha scelto perché organizzava
ronde antiimmigrati a Porta Palazzo ed aveva fama di non avere paura di nulla. Di indole
sarebbe un tipo loquace, ma siccome Lizzi non vuole sentire parole intorno a se’, si sfoga
fischiettando.
Ferraris è il figlio sadico di una delle famiglie più abbienti di Torino, ha l’erre moscia e
piercing e tatuaggi in tutto il corpo e un odio che sembra non dovere finire mai.
Questi sono i suoi fedelissimi e quando entrano nell’ufficio, Lizzi sta finendo di contare i
soldi della busta del prete di San Salvario.
Alza appena gli occhi e chiede: “Cani o immigrati?”
I quattro si guardano con indifferenza, alzano le spalle.
Risponde Ferraris, che fa sempre un po’ da portavoce, perché è l’unico a non avere eccessiva deferenza nei confronti del capo ed è sempre troppo annoiato per dilungarsi:
“É uguale”.
Tutti gli orologi ticchettano in coro, mentre il frigo ronza e fuori le sirene delle ambulanze suonano come flauti.
“Bene facciamo cani.” Conclude Paul Etienne Lizzi.
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Una mezz’ora dopo, un Pajero bianco dai vetri oscurati passa lungo i murazzi, le banchine che costeggiano il fiume, dove spesso la gente va a fare correre i cani.
È buio, fa freddo e il Po sembra duro come ferro.
Un ragazzo con i dreadlock sta giocando con il cane, gli lancia una pallina da tennis che
la bestia, un dogo argentino imbastardito, gli riporta tutta insalivata. Il tipo sta fumando
una canna.
Il Pajero rallenta, finché si ferma. Le luci dei lampioni diffondono una luce gialla, soffusa
da appena un po’ di nebbia. Lizzi scende dall’auto, indossa un lungo spolverino nero,
aperto sopra il vestito di Caraceni che un leggero vento fa svolazzare ai lati, sembra
un’araba con il velo aperto. In mano ha una Lueger che tiene bassa, appena è in buona
posizione spara al cane, dritto in mezzo agli occhi, che cade stecchito. Poi con il braccio
esulta, come avesse segnato un gol. Fa un cenno veloce con la pistola e i quattro pretoriani escono dal SUV.
Nosenzo è il primo a raggiungere il ragazzo che, esterrefatto, non ha ancora mosso un
muscolo. Con un braccio intorno al collo lo immobilizza, Turchi lo schiaffeggia e gli
strappa di bocca lo spinello.
“È questa? Eh?! Tossico!”
Lizzi intanto sta pisciando nel Po e guarda il monte dei Cappuccini che stende il suo
sguardo misericordioso sulla città di sotto.
Ferraris raggiunge il malcapitato e lo colpisce con il manganello della polizia sulle ginocchia, si ferma solo quando è sicuro di avergliele spezzate. Mentre Nosenzo continua a
tenergli bloccata la testa, Bragante tira fuori il coltello e gli taglia via di netto i dreadlock
alla radice, con un rumore come di lama che attraversa le ossa .
Lizzi è risalito in macchina e chiama impaziente:
“Muovetevi, voglio farne un altro prima di cena”.
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Capitolo VIII
Dio del fango
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È notte, Lizzi dorme solo, anzi più che dormire sta sdraiato nel buio e pensa che così sta
bene, che può sognare di vivere tutta una vita al buio.
Però poi senza neppure saperlo, dorme. Dorme e sogna.
Nel sogno tutto è diverso. È molto più giovane e sta guidando una Panda bianca lungo le
strade di Spagna, una strada scenografica che va da Toledo a Madrid, tutta gore e canyon
che sembra il paesaggio di Beep Beep e Wile Coyote. Canticchia seguendo la canzone del
nastro dell’autoradio, ‘Il cielo é sempre più blu’ e il ritornello lo canta a squarciagola e
una voce femminile si unisce. Quando guarda a destra c’è Eleonora, ovviamente.
È molto tempo prima che si sposassero, tutti e due sono nei loro vent’anni. Ma tutto è a
posto come dovrebbe essere, anzi come è stato, è un sogno di ricordi, di quando era perfettamente felice. Sono frustate al cuore che risvegliano l’amore che allora non aveva osato esprimere e forse neppure sentito così consapevolmente come adesso nel suo subconscio.
Il sogno si dipana come una vita: bevono gin and tonic nella movida spagnola degli anni
novanta, giocano a calcio balilla mangiando tapas, cucinano spaghetti nel fornelletto da
campeggio e dormono in tenda.
Dorme sognando di dormire, e poi che è sveglio, nell’intimità della tenda e lei lo bacia e
lui sogna anche il suo odore che mai ha dimenticato. Lui la bacia a sua volta, ancora e ancora, finché non spinge con tutta la sua forza, fino ad arrivare al momento che il suo fiato,
il suo respiro ha un soprassalto, uno sconvolgente spasimo. Per un istante ha la sensazione come di essere stato colpito da un tuono. Cosa succede al suo cuore, sta per scoppiare, sta per morire? “Stai bene?” si preoccupa Eleonora, non appena lui si stende accanto con un respiro affannoso che sembra terribile come l’ultimo rantolo di un bambino che
sta morendo.
“Si, cioè, no...” A quel punto lei è su di lui senza sapere se lo sta resuscitando o gli sta
dando il colpo di grazia, ma è lì con una punta di cattiveria, appuntita come un ago. Si
gira mettendo, sopra la sua bocca ansimante, la sua più innominabile parte del corpo.
Prendendo tra le labbra il suo giovane ariete, in quel momento soffice come una spirale di
escrementi. A quel punto si mette a succhiare, con un’avidità che le viene direttamente
dal diavolo in corpo, ed è un momento in cui ambedue hanno la testa dalla parte sbagliata
del corpo. Non sono mai stati così vicini come in quel momento. Lui sente come se
avesse sconfitto la morte e il tempo e l’avesse riportata in vita, direttamente al suo fianco,
nel letto, come in una sorta di miracolo, come un Orfeo, come un’Euridice.
“Cazzo!” dice quando si sveglia e tutta la sua vita sembra evaporare in un istante, lasciandolo solo appiccicoso e bagnato là sotto. E sa che oggi il suo umore sarà terribile,
sarà come un profugo dal suo corpo, come uno sfrattato dal suo cuore.
!
La porta dell’ascensore si apre all’ultimo piano, Nelson Lee, cinquant’anni circa, razza
cinese, capelli un po’ troppo lunghi sulla nuca, esce nel corridoio. Nosenzo lo aspetta. Attraversano il lungo corridoio bianco immacolato, senza un quadro, un’ immagine alle
pareti. Le finestre da un lato, rimandano riflessi di una città grigia, fossilizzata in un inverno che sembra voler durare per sempre.
Nosenzo apre la porta dell’ufficio di Lizzi e il cinese entra.
Nelson Lee non è uno sprovveduto. Potevi esserne certo alla prima occhiata. È abituato a
manipolare, a distorcere e si muove a suo agio nelle contraddizioni e tra le parole ambigue del sottobosco della malavita. La sua faccia giallastra, glabra, di mezza età, è profondamente in linea con le sue decisioni. Indossa canottiera e pantaloni della tuta neri con
bande rosse, che sembrano un po’ troppo nuovi rispetto al resto della sua persona. Entra
nell’ufficio di Lizzi con affettata giovialità, come un camallo di Shanghai, ha lunghi mocassini a punta ben lucidati che escono fuori dalla tuta nera come uno sberleffo. Sembra
sempre disapprovare tutto, ma in modo discreto, simpatetico ed è duro e resistente come
cuoio.
“Buon giorno signor Lizzi.” Dice, lo guarda e aggiunge: “Ahi ahi ahi, vedo guerra, vedo
guerra nei suoi occhi.”
La simpatia a quel punto non gli appartiene più, gli è stata sbucciata via dai suoi occhi
come la pelle delle patate dallo sguardo di Paul Etienne.
“Non è per quello che volevo vederti, non c’è bisogno di avere paura, hai ancora un po’ di
tempo per quello. Volevo solo chiederti una cosa.”
“Guai?” e, in maniera paterna, mostra i suoi denti ricoperti di tartaro.
“È proprio quello che voglio evitare.” Lo pungola Paul Etienne, senza togliere il suo
sguardo da quel sorriso guasto, da quella faccia gialla, sciupata e inaffidabile.
“Cosa mi dici del Pizza Kebab di Ismail?”
A quel punto, gli occhi a mandorla del cinese si stringono ancora di più come se accecati
da un sole immaginario, e ride come ridono i cani quando ringhiano.
“Ah signor Lizzi, lei lo sa che non siamo amici, e che l’arabo mi vuole morto e sinceramente il sentimento è reciproco. Ogni giorno c’è baruffa fra i miei e i suoi.”
“Lo so. È una guerra fredda e deve finire subito prima che si scaldi”.
Il cinese annuisce come se comunque non potesse farci niente.
“Bene. Diciamo che ho deciso che questa volta vinci tu. E noi facciamo saltare il kebabbaro, che mi dici?”
Il cinese sorride un sorriso timido da collegiale.
“E da parte mia?”
“Da parte tua anche la sua parte”.
Il cinese fa una smorfia come se sentisse la pelle della faccia contrarsi, come se qualcosa
di repellente lo avesse toccato.
“D’accordo.” Acconsente a denti stretti. Si alza e allunga il braccio verso Lizzi per suggellare l’affare.
“Noi siamo come una nave da guerra che sta per entrare in azione, una portaerei che sta
dalla parte giusta in una decisiva battaglia per porre fine a tutte le guerre, ogni uomo è al
proprio posto pronto a fare il suo dovere. Conviene essere dalla nostra parte, Nelson
Lee.” Conclude Lizzi con parole secche, come una fila di alghe sulla spiaggia, lungo i
bordi della propria indifferenza e determinazione.
Quando il cinese è finalmente uscito dalla stanza, Lizzi, circondato dal buio, si affaccia
alla finestra a guardare nel vuoto della sua città.
Quel giorno è uno di quei giorni in cui non riesce a cacciare una sensazione di distante
nostalgia, come per qualcosa che ha perduto o dimenticato o rifiutato ed ora se ne é penti-
to. Si sente così distante da quella città, che ora gli appartiene, come una sedia o una
stanza, così come è distante dal Paradiso o dall’Inferno.
Il Bene e il Male vivono nello stesso Paese, parlano la stessa lingua, vanno in giro insieme come due vecchi amici e lui non sa più distinguerli l’uno dall’altro. Da quando ha
scelto la solitudine, o meglio da quando è stato scelto da lei, è diventato indistruttibile, e
orribile.
Lizzi guarda da quella finestra e immagina tutta quella stupida e insignificante massa di
gente che in qualche modo è riuscita ad ottenere, in modi contorti e mediocri, tutte quelle
piccole cose che a lui sono sfuggite. Tutti possiedono stoviglie o indossano calzini, il
mondo è ripieno di gente e lui pensa con una punta di derisione quale potere ha su di loro.
La notte si è ormai coricata sulla metropoli, Lizzi, tutte le luci spente, si siede davanti al
computer della sua scrivania di mogano, Nosenzo, fuori alla porta, lo aspetta paziente.
Uno sguardo ancora al suo feudo, chi ha appena finito il suo turno di lavoro, chi va a
cena, chi si mette il pigiama, chi saluta i bambini, chi si riempie di aperitivi, chi va ai
concerti dell’Unione musicale, al cinema, al bowling, chi guarda la televisione, chi compra un grammo di cocaina dai senegalesi di san salvario o si ammazza con l’eroina di
Porta Palazzo.
Lizzi sorride un ghigno di soddisfazione e accende il computer. Apre Pogo.com e si connette al suo account con il nome Jayme. Quindi entra nella stanza Texas hold ‘em e inizia
a giocare.
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Capitolo IX
Più che gente sembrano foulard
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Il cielo rosa annuncia l’inizio di un altro vuoto interminabile weekend. Si può sentire
nelle ossa come se qualcosa di terribile stesse per accadere. Il sole che scende dal cielo, la
luce diminuisce e stelle appaiono nel manto freddo della sera pervinca, come dietro una
lastra di ghiaccio di dicembre. Folate di vento e alberi che ondeggiano, la temperatura si
abbassa e sembra che tutto porti direttamente, in discesa, verso la fine.
Libero sta piantato nel parcheggio della tipografia, le chiavi dell’auto in mano, il venerdì
alle cinque del pomeriggio, annusa il vento e si riempie i polmoni del freddo che viene
dalle montagne, fino a che il petto non gli fa male. Vorrebbe fuggire il weekend, saltarlo a
piè pari e trovarsi d’incanto a lunedì mattina in quello stesso parcheggio, le stesse chiavi
in mano, pronto ad entrare in tipografia.
Solo l’idea, solo l’idea del tempo da dedicare a cambiare le lampadine o mettere nuovi
scaffali alle pareti o aiutare la moglie a fare la biancheria, solo a pensarci, rende il venerdì
pomeriggio un incubo, abbastanza da rendere Libero immerso nel pensiero di stendersi da
qualche parte, magari in bagno, o nella stanza vuota di Riccardo e aspettare che tutti
quanti tornino a casa e chiudano la tipografia con lui nascosto dentro.
Invece si ritrova là fuori e la domenica aspetta dietro l’angolo, con la famiglia, la messa,
anche se ormai ci vanno solo più Cinzia e la piccola, i gol del campionato, il posticipo
serale, il vino da bere il sabato sera. Una volta, tempo prima, c’era stato anche il sesso,
persino l’amore. Cosa era successo nella vita di Libero?
Semplicemente e crudelmente aveva perso il desiderio di scopare la moglie, di conseguenza, di passare del tempo con lei, di fare delle cose insieme.
Invece il fine settimana reclama la sua quota di coinvolgimento e partecipazione.
Come era successo, Libero non lo sapeva. Ma doveva partecipare a quel tableau vivant
che era la sua famiglia, lui figurina, circondato da donne che non capiva.
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Il sabato mattina si sveglia tardi, si siede al tavolo per la colazione e non si sente bene,
anche se non è malato.
Si spacca la testa mentre beve il caffè, per cercare di capire come era diverso una volta e
cosa c’è di sbagliato in lui e nello stesso momento, sapendo di essere in perfetta salute,
non riesce a mettere a fuoco il problema, fino al momento in cui nota quanto poco attraente gli sembri Cinzia. Non è solo la maglietta troppo abbondante e cadente che la copre come un sacco, o i pantaloni della tuta, che a casa usa per sentirsi “comoda”, non è
neanche la bocca che riempie di cereali e latte, è proprio che a lui non piace più.
Furtivo le lancia delle occhiate, di tanto in tanto, finché Cinzia se ne accorge e chiede se
ha qualcosa in faccia.
Questa non è la mia vita, pensa, non sono io questo uomo grossolano che l’età e la noia
consumano, che non possiede ne’ domande ne’ risposte, il cui cuore è andato in cenere al
primo accenno di paura. Io sono qualcun altro.
Questo pensava Libero quel sabato mattina.
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“Hai voglia di giocare, Jessi?”
“No ho voglia di chattare, ho voglia di conoscerti meglio”.
“Andiamo in chat, allora”.
‘Si dammi cinque minuti e ti raggiungo”.
Quel pomeriggio Libero non è più Libero, è Tommy e ha deciso di passare il sabato con
Jessica. Cerca di immaginarsela, un lobo di un orecchio, un paio di lunghe ciglia, il contorno dei suoi capelli.
“Allora ci sei?”
“Eccomi”.
“Cosa stavi facendo?”
“Niente, gironzolavo per il compound, oggi è giornata di libera uscita, c´è chi esce, chi
gioca a carte o a pallone e chi passa il tempo su internet, con le proprie fidanzate o immaginando di essere in un posto normale”.
“Chissà come è laggiù, non riesco a immaginarmelo. È pericoloso? Non hai paura di
morire?”
“Non è che ho paura di morire, è che non voglio morire, è diverso”.
“Beh, è comprensibile”.
“Non voglio morire ne’ oggi ne’ domani, ma neanche voglio vivere per sempre, però”.
“LOL. Perché no?”
“Beh adesso che ti ho conosciuto, voglio vivere per sempre accanto a te”.
“♥ ☺”
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Nell’ingresso sente il rumore dell’aspirapolvere, Cinzia sta facendo le pulizie in tutta la
casa e quel rumore lo distrae, gli spezza l’incantesimo, lo strappa via dal suo sogno per
scaraventarlo nel suo insopportabile quotidiano.
“Voglio avvolgere il tuo cuore di parole”.
“Comincia allora, il mio cuore non aspetta altro, raccontami la tua vita”.
In quel momento nello studio entra Cinzia, l’aspirapolvere acceso, decisa a spazzare via
ogni forma di polvere da quella stanza. Libero si gira verso di lei, ha lo sguardo di una
animale arrabbiato, le dice” Fuori di qui!” e lo dice con una tale rabbia che deve prendere
il tempo per inghiottire saliva. Per un momento la sorpresa della violenta reazione di
Libero, la ammutolisce, ma Cinzia è una donna con il dono di far provare vergogna. Lo
guarda e i suoi occhi sono scalpelli sulla sua faccia. Lui cerca di difendersi, di fare marcia
indietro, di sfuggire quella morsa: “ E che non riesco a concentrarmi”.
“Concentrarti? Per giocare a poker?”
La sua mossa ha funzionato e la replica di Cinzia gli suona come un’allusione alla sua
inutilità e provoca rabbia ulteriore.
“Si per giocare a poker, allora? Fai il favore di uscire e non rientrare”, replica inacidito.
“Mi sembra così strano”. Aggiunge Cinzia mentre esce, indifferente all’acidità della
risposta.
Torna alla sua chat, ritorna Tommy e ogni invio è una bugia.
“Ho avuto un’infanzia normale e abbastanza felice, niente di che, ma avevo dodici anni
quando il mio mondo è crollato. Mia madre è morta di cancro, io non sapevo niente, non
sapevo che era malata e ci avrebbe lasciati, ricordo solo il giorno del funerale, tutti piangevano e facevano a gara a consolarmi, ma io guardavo tutto senza lacrime, come se
non stesse succedendo a me, come se fosse un film, non la mia vita. Poi in realtà ancora
non sapevo, non immaginavo il dolore di ogni giorno, di quanto mi sarebbe mancata ora
dopo ora”.
“Oh povero...Tommy...mi dispiace...”
“Si, è stata dura. Quelli che sono seguiti sono stati gli anni più infelici della mia vita. Anche se non volevo ammetterlo, cercavo di fare il duro e di fare finta che non mi importasse. Passavo il tempo con amici più grandi e crescevo senza limiti, indurito nel mio dolore e con mio padre, anche lui distrutto, che non aveva ne’ forza ne’ coraggio per darmi
educazione, regole o affetto. È stata una china veloce e ripida, finché a 16 anni mi sono
fatto la prima pera, anzi, a dirla tutta, me l’ha fatta Fabrizio, il mio amico, quella dopo me
la sono fatta da solo...”
“☹”
“Sono andato avanti così, a farmi disperatamente, per oltre un anno, finché un giorno, ero
per strada, mi sono fermato davanti ad una vetrina e mi sono messo a grattare via le
croste dalla faccia, grattavo e grattavo finché non sanguinavo. Ma ero così pieno di eroina
che non me ne accorgevo, finché ad un certo punto ho smesso di grattare e in un momento di lucidità, in quello specchio ho visto cos’ero diventato. Una faccia scavata ricoperta
di croste e sangue e tutte le commesse dall’altra parte della vetrina che mi guardavano
inorridite. E avevo solo 17 anni. Sono tornato a casa e mi sono rinchiuso in camera per
tre giorni, ho vomitato l’anima, sono stato malissimo, sudavo e tremavo e avevo convulsioni finché alla fine, non ho cacciato quel veleno dal mio corpo. Quando sono uscito da
quella stanza, debilitato, ero un’altra persona, sono andato da mio padre e gli ho detto,
“Papà, voglio entrare nei carabinieri”. Mio padre è un colonnello dei carabinieri e non ho
avuto problemi ad entrare nell’arma.
Tre mesi dopo ero in Iraq, tiratore scelto di stanza a Nassirya, non era neanche un mese
che ero arrivato, quando c’è stato l’attentato. Ero in sala mensa, l’esplosione mi ha scaraventato dieci metri indietro e il resto della struttura ha ceduto, il camerata a fianco a me
è rimasto ucciso, io illeso, solo qualche graffio. È stato un miracolo, un vero, inspiegabile
miracolo. Da quel momento, credo in Gesù Cristo Salvatore, che in qualche modo, per
qualche ragione, ha voluto salvarmi. Forse per farmi conoscere te.”
“Wow, è strabiliante, Tommy, sono senza parole. Quello che hai dovuto passare...che
vita...sono commossa...”
“Lo so, è incredibile, per questo non ne parlo mai, non la racconto mai a nessuno. Solo a
te, mi hai ispirato fiducia, come se ci conoscessimo da sempre”.
!
Pensava magari è colpa mia, lo lascio sempre stare in pace e lui pensa che io sia distante,
lontana e non mi importa di lui. So che torna a casa dal lavoro ed è stanco, ha questo unico svago che è giocare a poker al computer, in fondo che male fa? Non é nemmeno che
spreca dei soldi ed è sempre a casa, non posso dire che mi tradisca, si fa un po’ gli affari
suoi, è vero, ma è sempre stato piuttosto solitario. Se solo io fossi più intraprendente, lo
coinvolgessi di più, non mi troverebbe noiosa e potremmo ancora fare cose divertenti insieme. Così pensava Cinzia, dopo essere stata cacciata in malo modo dallo studio da
Libero. Seguendo questa catena di pensieri, macchinando un piano per essere di nuovo
felici: se solo fosse più attiva, fantasiosa, attraente. Le viene in mente l’idea che potrebbero andare al cinema, saranno dieci anni dacché sono andati l’ultima volta. Potrebbero
guardare un film, andare a mangiare una pizza, magari anche un gelato e poi chissà.
Ecco perché, seguendo questo filo di pensieri, entra di nuovo nello studio per proporgli il
cinema. Libero è assorto nella chat, veste i panni di Tommy, nobile guerriero, figura forte
e tragica, ai propri occhi.
Quando la vede, ha un sussulto, non l’ha sentita entrare e si sente come colto in flagrante
in qualcosa di osceno, come essere stato sorpreso a masturbarsi da sua madre, si sente
immediatamente intrappolato in un inferno di vergogna. E siccome non è il petrolio che
muove il mondo, ma la vergogna, Libero, si toglie per un attimo gli occhialoni dalla brutta montatura, si strofina gli occhi, che sono blu e pieni di odio.
“Che cazzo vuoi ancora! Ti ho detto di lasciarmi stare! Vai a fare le tue stupide cose e
dimenticati di me, ci vuole tanto a capirlo, non mi sembra difficile. Vaffanculo! Vai vai
via non ti voglio vedere...”
Si alza dalla sedia e fisicamente la spinge fuori. Cinzia è talmente scioccata che non riesce neanche ad aprire bocca.
Fuori da quella stanza si accascia per terra, si prende la testa tra le mani e singhiozzando
ripete tra se’e se’: “Non è più lui...non è più lui...”.
!
“Com’è laggiù...in Iraq...voglio dire...a vedere la televisione sembra un posto
terribile...pieno di gente che vuole tagliarti la testa o farti saltare per aria...”
“Questa gente c’è, ma noi cerchiamo di starci lontani e di soddisfare il più possibile il
loro desiderio di martirio. Per il resto quando non siamo di pattuglia, stiamo qui al campo. C’è molta noia.”
“Io comincio ad essere preoccupata per te, però sono contenta se posso alleviarti la noia,
anche di poco”.
“Aiuta, eccome se aiuta. Vedo i miei commilitoni che hanno le fidanzate in Italia e li invidio, vivono per quando possono parlare al telefono, o su Skype, o per quando ricevono i
pacchi. Aiuta il morale, li invidio alle volte.”
“Diciamo che adesso anche tu hai la ragazza, allora. Ti mando un pacco, dammi l’indirizzo ti voglio mandare un pacco pieno di sorprese, così speciale che saranno i tuoi compagni ad invidiarti questa volta.”
“Tu sei dolce e io sono un ruvido soldato, miglia e miglia lontano, che niente ti può dare
per il momento, come se ti dessi le chiavi di una porta che non appartiene a nessuna casa.
Però sono felice di poterti chiamare la mia ragazza e sarei felicissimo di ricevere il tuo
pacco. Ti do l’indirizzo di mio padre, che, come ti ho detto, è colonnello dei carabinieri,
così tu non devi spendere tanto e a me il pacco arriva prima, attraverso la posta militare”.
“Perfetto. Dimmelo subito”.
“Ok, allora i pacchi puoi spedirli a questo indirizzo, via Alpignano 76, 10100 Pianezza
(TO). All’attenzione del col. Libero Martinetto. Intesi?”
Con queste parole, Libero sigilla la sua nuova identità, apprestandosi a vivere sia nella
menzogna che nella verità, a fianco a fianco, entrambe equivalenti in lui in egual forza.
Seduto in quel suo cono d’ombra, illuminato dal sorriso di una sua ritrovata, fragile felicità. Alza gli occhi al soffitto e crede di vedere il cielo, credendo di essere felice, felice
come un cane piccolo con un osso troppo grande.
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Capitolo X
Luna di marmellata
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Patrizia guarda la sorella, tamburellando una matita contro i denti, il suo sguardo dice,
non abbiamo niente in comune. Si fronteggiano una di fronte all’altra sedute al tavolo
della cucina, sembrano belve feroci pronte a saltarsi al collo, che aspettano solo il momento propizio, senza muovere un muscolo. Claudia ha occhi grandi che si aprono ancora
più spalancati quando viene stuzzicata. Improvvisamente niente succede, come se il cielo
che minaccia tempesta, abbia cambiato colore e colpi di vento abbiano spazzato via le
nubi. Cinzia va avanti indietro tra il tinello e la cucina preparando il tavolo e Claudia va
ad asciugarsi i capelli ancora bagnati dalla piscina. Ma la quiete è provvisoria, l’aria è
elettrica, aspetta solo la scintilla per esplodere.
È un circuito di tensione che parte dal tavolo nel tinello, ha Cinzia come conduttore, nel
suo nervoso affaccendarsi è fin troppo chiara la sua insoddisfazione. La linea di tensione
passa attraverso le figlie, pronte a sfogarsi avventandosi l’una contro l’altra, attraversa il
salotto, la pelle del divano e delle poltrone, la televisione sempre accesa, a basso volume
che trasmette un quiz banale e noioso, prosegue lungo le pareti, intorno ai poster inquadrati, “Le baiser de l’hotel de la ville” e il particolare dei due angioletti raffaelliti. Attraversa il muro che separa lo studio, si arrampica sul filo della linea telefonica che collega
il modem al computer, dove si ferma; senza toccare Libero, inchiodato davanti allo
schermo, al buio, illuminato solo dalla luce blu che proviene dal computer, una creatura
quasi comica, dalla faccia da gufo, con gli occhialoni e la sua espressione di beata sorpresa mentre legge: “Sono orgogliosa di te, Tommy, nonostante tutti i tuoi errori. Per la tua
forza interiore con la quale hai affrontato, sai affrontare le peggiori difficoltà. Promettimi
di stare vivo per me.”
“Sapessi quante volte ho pensato di farla finita. Anche qui e in Iraq non mancano certo le
occasioni. Ma adesso c’è una nuova luce nella mia vita, un segnale di speranza. Tu sei la
cosa migliore che mi sia mai capitata.” Fa appena in tempo a rispondere, prima che il traliccio di tensione negativa travolga anche lui, sotto forma di stridule voci femminili, in un
litigio che sembra selvaggio e senza esclusione di colpi.
“Chiedo solo qual’è la ragione?”
“Chi dice che deve esserci una ragione?”
“Era una domanda retorica.” Quest’ultima frase con un tono di sarcasmo e disprezzo.
Questi i frammenti gridati che raggiungono Libero nella sua altra dimensione e lo
trasportano alla realtà, come un infelice strappato dal coma dalle voci dei famigliari.
La faccia da gufo di Libero fa capolino dall’ombra dello studio, dalla sua altra dimensione, vede, come fosse uno spettatore da un’altra epoca, come se la scena non gli ap-
partenesse e lui fosse solo un’entomologo, a studiare quelle diverse forme viventi, Patrizia la sua figlia più giovane, alla fine di una camminata altezzosa, con malgarbo lancia
una maglietta contro Claudia, la sorella più grande.
“Tieni la tua preziosa maglietta, visto che ci tieni tanto, una volta solo l’ho messa.”
“Una volta di troppo, allora. Ti ho detto mille volte di non toccare la mia roba, se lo fai di
nuovo, prendo il tuo ipod e cancello tutte le canzoni!”
“Strega!”
“Stronza!”
Le parole sono urla e schiamazzi e Patrizia, con occhi di ghiaccio e una faccia senza
espressione, arriva al tavolo dove Claudia sta facendo i compiti, con un colpo fulmineo
tira tutto giù. A quel punto Claudia accecata dalla rabbia, salta addosso alla sorella tirandole i capelli, quell’altra strilla: “Mi fai male strega...la pagherai...la pagherai…”
“E’ quello che ti meriti, brutta stronza, adesso raccogli...” “Neanche morta!”
Cinzia è sulla soglia della cucina, un cucchiaio di legno in mano, gli occhi sono aperti e
guardano di fronte, senza ne’ direzione ne’ fuoco.
Libero dall’altra parte della stanza. Alla fine interviene, separandole e volge uno sguardo
di rimprovero alla moglie che permette che accadano certe cose.
“Dovevano ammazzarsi prima che tu facessi qualcosa?”
“Il pollo è pronto, ragazze.” Risponde Cinzia apatica.
“Io non lo mangio.” Claudia è perentoria.
“Ah giá adesso è vegetariana.” Patrizia provoca.
“Non sono vegetariana e solo che non mangio niente che abbia genitori”.
Patrizia ha una risatina sprezzante.
“Non rispondi? Quelle due quasi si ammazzano davanti ai tuoi occhi e tu non fai niente e
non dici niente? Che razza di madre sei?” Insiste Libero con una punta d’astio.
Cinzia lascia cadere il cucchiaio di legno per terra.
“È vero sto sempre in silenzio, vedo tutto quello che non mi va e sto zitta. Ma ho deciso
di tenere sempre la bocca chiusa. Sono determinata ad ignorare tutto quello che ho bisogno di ignorare, a costruirmi un nuovo mondo dove stare comoda, contenti?”
A quel punto si copre gli occhi con le mani e comincia a piangere, le lacrime filtrano attraverso le sue dita e formano piccole liquide reti e continua a piangere e piangere.
“Piangi, piangi è tutto quello che sai fare...che vita inutile...”
Piena di disprezzo, Claudia lascia cadere il suo commento ed esce dalla stanza. Cinzia
toglie le mani dal volto e la sua faccia a quel punto casca su se stessa come un castello di
sabbia dopo essere stato colpito dall’onda.
Patrizia si lascia cadere sul divano, alza il volume della tele e si concentra sul quiz.
Libero alza le spalle e torna alla sua ombra come se su quella scena fosse calato il sipario
e non ci fosse più nulla da vedere oramai.
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Libero di nuovo nel suo angolo, rinchiuso nella sua gabbia d’ombra.
“Il sergente è andato via, possiamo parlare ancora.”
“Sarebbe bello poter parlare veramente”.
“Possiamo, ce l’hai Skype?”
“Certo”.
“Chiama Libero, è il mio nome di Skype, ho solo dieci minuti, però”.
Pochi minuti dopo, l’inconfondibile suono di una chiamata dal computer.
“Tommy?”
“Sono io, sono qua”.
“Hai una bella voce”.
“Anche tu. Vorrei poter avere la webcam, ma per ragioni militari non é permesso”.
“Non importa, è bello anche così. Forse anche meglio, da più spazio all’immaginazione”.
Dopo i primi timidi momenti, le loro voci imparano a conoscersi e si amalgamano, via
via più innamorate.
Una decina di minuti e Libero decide che è ora di interrompere la telefonata, prima che la
moglie o le figlie, rientrate le scenate, di nuovo nei binari della normalità, venga loro in
mente di entrare in studio.
“Devo andare ora, piccola”
“Va bene Tommy, ma facciamolo ancora e promettimi di stare attento, rimani vivo per
me”.
“Ti tengo fra le mie braccia e non ti prometto niente, se non il suono della mia voce. Ma
tu mi rendi già più vivo. A domani, allora.”
Quindi chiude brusco, sentendo rumori arrivare dal tinello.
A quel punto si prende la testa fra le mani, avvolto dal suo buio, sente di trovarsi ormai al
di là del gioco, c´è qualcosa di vero in questa storia, qualcosa di puro. Sarebbe stato capace di innamorarsi di nuovo della propria innocenza? Perché era proprio là che voleva
tornare, a quel punto in cui la testa, il cuore, gli arti, si perdono dietro alle parole e le
mani, i piedi e l’intero universo non funziona più a dovere.
Decide di farle una cassetta, ma un momento, oramai più nessuno ascolta le cassette, tanto meno una ragazza di 18 anni. Un CD, si un CD è meglio, anche se ormai hanno tutti
l’Ipod, ma potrebbe funzionare comunque. Potrebbe cominciare con un classico, un Celentano o un Battisti, ma forse denuncerebbe la sua vera età, deve cercare qualcosa di
giovane, qualcosa che ascoltano le sue figlie, tipo i Subsonica, ecco qualcosa del genere.
L’ultima traccia, poi, è quella più importante, sarà il vascello che conterrà devozione e
dolore e farà promesse che non potranno più essere ritirate.
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Capitolo XI
Le mani avanti
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Mentre dorme le lenzuola si alzano ad ogni respiro, sembrano avere vita propria, sembrano respirare anch’esse. In realtà, per Patrick questo non è proprio sonno, piuttosto come
se, temporaneamente, avesse cessato di esistere. L’ultima riga e l’ultima sigaretta se l’è
fatte alle cinque del mattino, era proprio pieno quando aveva deciso di andare a letto.
Un’ora per leggere e un’ora per cercare riposo, con il cuore che pompa a mille e l’ansia e
la paura dell’infarto e di non svegliarsi più, il ricordo di Pantani sempre davanti agli occhi. Alla fine senza accorgersene, scivola in uno stato di nulla assoluto, senza sogni, ma
solo qualche scarica elettrica al suo sistema nervoso.
La sveglia suona alle 11, era stato avveduto e si era ricordato di puntarla, per alzarsi in
tempo e non tardare al pranzo domenicale con i genitori di Cristiana, che ci tengono tanto
e sono così formali. Suona anche alle 11 e 15 e alle 11 e 30 e suona e continua a suonare,
che tanto Patrick non la sente, o meglio non la recepisce come messaggio: “la sveglia sta
suonando, è ora di alzarsi”, piuttosto è un suono dell’ambiente, come tanti altri, che a
forza di sentire non ci fai più caso e perde il suo significato, come guardare a lungo una
parola finché non sembra altro che una striscia di lettere morte.
In quel momento Patrick è altrove, sta passeggiando nel mezzo di un bosco di betulle,
l’aria è umida, di prima mattina e ha appena piovuto, il suolo è un tappeto di foglie fradicie, Patrick le gira con un bastone ai piedi di ogni betulla, per vedere se ci sono funghi,
gli alberi sono alti e la luce filtra a strisce attraverso, ed ogni tanto, da distante, sente la
voce di suo padre che gli urla “trovato niente?”
Patrick non risponde e prosegue, finché all’improvviso si trova fuori dal bosco, in una
radura, un immenso prato, l’erba tagliata con cura. Da solo, in mezzo a questo immenso
oceano verde, tutto è così puro che sembra di stare dentro un dipinto; un jet solitario
taglia il cielo blu con la sua striscia di vapore e scompare come una linea di coca che
viene aspirata. Si sentiva estremamente vicino all’universo, ma anche estremamente solo
e non sente più la voce di suo padre. Per questo ha una fitta di tristezza. Il cellulare comincia a squillare, squilla e squilla. Non mi vede più e mi chiama, pensa Patrick, sarà ancora in mezzo alle betulle.
Risponde infine al telefono che trova sul comodino a fianco al letto.
“Papá?!”
“Patrick?! Dove sei? Stai ancora dormendo? Sei ubriaco o è uno scherzo di cattivo gusto?
Ti stiamo aspettando, stai arrivando?”
A quel punto Patrick realizza, suo padre è mancato da un paio di anni e ha il pranzo con i
genitori della sua fidanzata, fantastico, benvenuto nella realtà. Si sforza di sembrare sveglio, ma la voce è ancora roca e impastata.
“Certo che sono sveglio, sto arrivando, sono già per strada, dieci minuti e sono lì...”.
Mentre lo dice si chiede se davvero la vita meriti tutto il duro lavoro che richiede per
viverla.
“Secondo me sei ancora a letto, sbrigati, sai che mio padre non tollera ritardi”.
“Dieci minuti e sono lì”. E chiude.
Guarda l’ora, le 12 e 30 e non ha neanche la forza di alzarsi dal letto e un cupo mal di testa gli bussa regolare sul retro della nuca. Per un momento si sente come se non fosse mai
stato creato, è un altro modo di essere sveglio, è un altro modo per non sentire il peso della vita, è un altro modo per non pensare che ci vorrà almeno un’ora per arrivare dalla sua
fidanzata e dai suoi spocchiosi genitori.
!
“Se dai un calcio ad una gallina francese, cosa dice?”
“Non lo so, papá, diccelo tu...”
“Neanche tu lo sai Patrick, tu che hai un nome francese?”
“Mmmm...”, riesce a mugugnare Patrick, la bocca piena di vol au vent e fonduta, la testa
vuota, eccetto un martelletto che picchia regolare e non lo molla.
“Se dai un calcio ad una gallina francese, dice oeuf! È ovvio no?”
E scoppia a ridere, perché è uno di quei tipi che dice freddure e poi ride, come in televisione, come se fosse dentro una sit-com, Seinfeld, Friends, Happy Days, roba del genere.
Anche Cristiana e sua mamma sembrano divertite, Patrick accenna ad un sorriso, ma il
vol au vent in bocca è ancora troppo grosso, così Cristiana gli lancia uno sguardo duro,
che non sa se vuol dire, non fare il difficile e ridi, o non fare dei bocconi così grandi, cafone!
Sotto al tavolo, il cane, uno splendido fox terrier con pedigree, scodinzola senza pausa
intorno alle gambe di Patrick, annusandogli tutte le parti intime, muovendosi in circolo
come se avesse individuato una quaglia. Patrick cerca di allontanarlo con qualche gentile
pedata, che non ha nessun effetto, infine, stufo, gli pesta una zampa deliberatamente.
Il cane ha un guaito disperato e Patrick si affretta ad apparire dispiaciuto e sincero nel
chiedergli scusa ed è probabilmente il momento più brillante della sua giornata.
Ripiomba, quindi, nel torpore, ai deliziosi vol au vent e al rinfrescante Prosecco, che non
aiutano certo il mal di testa.
Il padre, arrotolando sempre più la erre, continua a parlare e parlare, mentre Patrick fa
l’equivalente mentale di infilarsi due dita nelle orecchie e canticchiare la la la la.
Si guarda intorno, la splendida sala da pranzo, i mobili antichi, le porcellane preziose, la
filippina che porta via i piatti e porta qualche altra delizia comprata in gastronomia.
Guarda fuori dalle grande vetrate dove si vede, da una parte la città che si stende sotto la
collina, dall’altra Superga, che vigila, sinistra. La coca ancora in circolo, lo fa essere
come un ipersensibile, acido Napoleone esiliato in una qualche Elba della sua mente, che
ogni tanto coglie qualche brandello di conversazione.
Ma È sempre la stessa voce che parla.
“Cara quando vai a Roma salutami il Papa e digli che mi piacciono le sue scarpe”,
seguono altre risate, in sottofondo, come fossero state aggiunte in montaggio.
Ogni tanto la voce di Cristiana, che fa da spalla. Poi di nuovo la erre odiosa del padre.
“Ah Cristiana, tua madre è una persona eccezionale, per quello l’ho sposata e ancora non
me ne sono pentito. Tua madre è un uomo migliore di me. Le madri sono sempre uomini
migliori degli uomini.” Ancora risate, mentre Patrick rimugina tra se, se devi per forza
fare battute, falle che siano almeno mezze divertenti.
“Dopo tanti anni è come se non fosse cambiato niente, vero cara?” Il padre prende la
mano di sua moglie e la guarda dolce negli occhi e Patrick si aspetta che entri Fonzie e
dica “Hey!”
Invece no. Invece è ancora la voce di quell’uomo, che non è Howard Cunningham, ma è
molto più noioso.
“Perché un matrimonio risiede non solo nella collaborazione, nelle affinità, nell’affetto,
nella noia, nelle ovvie abitudini, fastidi giornalieri, tafferugli verbali, e giornaliere
esasperazioni, ma anche nelle viscere e in tutte le sbavature, la conoscenza cameratesca
di tutti i gusti proibiti, odori e nicchie del corpo”.
“Edoardo?!” Adesso si sente anche la voce della madre per la prima volta, che si esprime
con un finto rimprovero.
“Dico bene, Patrick?”
Cerca anche di coinvolgermi, il bastardo, come se fossero compagni, vecchi amici.
“Certo. Benissimo!”
“Perché io sono convinto che i matrimoni vengano scritti in cielo. A proposito, voi, quando avete intenzione di sposarvi?”
In una sit-com a questo punto ci sarebbero altre risate e la pausa pubblicità, in questo
caso solo silenzio.
Dura poco, Cristiana mette su la sua faccia seria da combattimento e parte all’attacco.
“Papà, sai che non sopporto certe pressioni. È il pranzo della domenica, non è necessario
avere delle uscite mirate apposta a metterci in imbarazzo. Sia me che Patrick.”
L’espressione di Patrick è in realtà neutra, sta cercando in tutti i modi di agire come se gli
ultimi minuti di conversazione non ci siano mai stati, per riuscirci meglio si dedica alle
olive ascolane, che adesso che non sono più bollenti può mettersene in bocca persino due
alla volta.
“Può anche essere sia sconveniente turbare l’armonia di un pranzo domenicale e provocare un così grande imbarazzo - a questo punto indica Patrick che ha le guance come
Marlon Brando nel padrino a causa delle olive- ma mi sembra arrivato il momento anche
di prendersi delle responsabilità. Avete entrambi l’età per mettere su famiglia, entrambi
un lavoro, non riesco a capire che senso ha rimandare.”
“Forse non siamo ancora pronti...”, Cristiana si pone in difesa.
“Cosa vuol dire?”
“Scusate ho un terribile mal di testa, ho bisogno di alzarmi da tavola.” Patrick se la svigna, scende il piano rialzato dove c’è il salone da pranzo e va a sedersi comodo sul di-
vano, portandosi dietro il bicchiere di prosecco. Quindi accende la televisione perché non
vuole perdere la partenza del Gran Premio.
Intanto a tavola, la discussione continua. Cristiana, accennando all’uscita di Patrick, si
rivolge al padre a mo’ di rimprovero: “Vedi?”
“Vedi, cosa? Quello che vedo è che se ne è andato senza neanche preoccuparsi di dire una
parola su un argomento che, credo, riguardi anche lui.”
“L’hai imbarazzato!”
“Ci credi veramente?”
“Certo. Patrick è una persona estremamente sensibile, questa discussione lo imbarazza e
lo fa sentire in colpa. Non credere, è un’argomento che abbiamo giá affrontato”.
“Allora non è che non siete pronti. È lui che non è pronto”.
“Cosa cambia?”
La madre di Cristiana, al mobile bar, si versa un generoso bicchiere di Lagavulin con ghiaccio e si accende una sigaretta.
“Sono argomenti che è meglio non sollevare a tavola, mia madre avrebbe detto...”
“Lascia perdere tua madre, che a sessant’anni ha lasciato la famiglia per scappare con il
capo dei pompieri”.
“Poi però è tornata...”
“Il pompiere l’ha scaricata, e quel buon uomo di tuo padre ha fatto finta di niente...”
“Papà non divaghiamo. Non sarà questione di molto tempo, porta pazienza perché ci sto
lavorando. L’uscita come la tua non ha altro effetto che allontanarlo. Adesso per piacere,
vai da lui e chiedigli scusa”.
“Cosa?”
“Ci tengo. Non voglio perderlo. Fammi questo favore e vedrai che tra meno di un anno ti
toccherà tirare fuori un sacco di soldi”.
“Va bene, se ci tieni, ci vado. Mi sembra il colmo...”, e continuando a borbottare scende
anche lui verso il Gran Premio.
“Tuo padre ha ragione”, dice la madre rigirandosi il bicchiere tra le mani.
“Certo che ha ragione. Ma ho ragione anch’io”.
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Capitolo XII
Laissez-moi dire
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Si alza piano, cerca di essere una piuma leggera per non svegliare Cinzia, ma il letto
scricchiola, il parquet scricchiola sotto il suo peso, sotto i suoi affannati 80 chili, le sue
giunture cigolano e il suo respiro affannoso riempie il silenzio come un frastuono. È ancora notte fuori e la casa è buia e gelida perché è così presto che il riscaldamento non è
stato ancora acceso.
Libero indossa un accappatoio come fosse la vestaglia, sopra la maglietta corta che gli
tiene scoperta la pancia, i boxer lisi di qualche anno e i tubolari bianchi, come se dovesse
andare a giocare a tennis, ma solo perché non sopporta le dita dei piedi gelate.
Prende una coca cola dal frigo, va nello studio e accende il computer, guarda l’ora, sono
da poco passate le sei, il momento che aspettava è arrivato. Infila le cuffie, si collega a
Skype e chiama.
“Pronto...” la voce è roca, reduce da ore di silenzio, la casa così fredda che quando parla
si vede il fiato.
“Pronto. Perché parli a voce bassa così, ti sei appena svegliato?”
“Ma no, cosa dici!? Sono già le otto qui e fra poco vado di pattuglia. Parlo piano perché
non voglio che i miei commilitoni mi sentano, sennó non riesco ad avere intimità. Tu
come stai, tesoro, ti sei appena svegliata?”
“Si, ma non vedevo l’ora di alzarmi per sentire la tua voce, cosí calda e sexy.”
“Hai sognato, amore, mi hai sognato?”
“La prima cosa che faccio appena sveglia è sognare.”
“...”
“Sogno di svegliarmi accanto a te, alzarmi, preparare la colazione e portartela a letto.
Mangiamo i croissant, beviamo il caffè, i succhi di frutta e poi facciamo l’amore...”
“Si...facciamo l’amore la mattina prima di andare al lavoro...”
“...e poi la sera prima di addormentarci, per dormire sereni e soddisfatti.”
“Questo è un bel sogno.”
Intanto Libero sente dei rumori venire dalla stanza da letto, sente che Cinzia si è alzata ed
è andata in bagno, gli rimangono pochi minuti.
“Poi sogno che verso l’ora di pranzo...”
“Jessica...Jessica...devo andare...mi stanno chiamando...la pattuglia sta per partire...ci
sentiamo domani alla stessa ora...”
“Tommy...va bene...mi riempie di tristezza sapere che vai laggiù in mezzo ai lupi, ai
tagliatori di teste...promettimi che rimani vivo per me, prometti...”, la sua voce sembra
rigata da commozione.
“Te lo prometto...non è poi così pericoloso qui...”, sente il rumore dello sciacquone.
“Oh ma tu sei così coraggioso...dimenticavo...quando torni questa sera controlla la mail,
ti mando una sorpresa, perché tu mi possa sentire più vicina...”
“Ok, ok, cara, un bacio...” e chiude brusco, appena in tempo, sua moglie lo chiama.
“Libero? Sei già sveglio? Cosa fai nello studio, sta già giocando al computer?”
“No, cosa dici! Vengo a preparare il caffè”.
Libero corre in cucina, dopotutto la famiglia è liquida, come l’acqua che ricorda dove è
defluita e cerca sempre di tornare al suo ruscello originale.
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Questo non è il posto giusto, questo è il posto sbagliato, Libero si ripete come un mantra,
lo sai, dovresti essere da tutta altra parte, da tutta altra parte, un’altra parte. Essere in tipografia quel giorno per Libero è una tortura, si gira intorno, calmo e annoiato come un
piccione in gabbia.
Era arrivato presto, aveva ritirato il soprabito nel suo armadietto e aveva indossato la tuta
blu, come ogni altra mattina, aveva bevuto il primo caffè e aveva sentito il suono della
sua voce roca salutare i colleghi. Avrebbe potuto benissimo essere un giorno come gli altri, con le battute di Patrick, i sorrisi di Katia, le bizzarrie di Bruno, i rimbrotti di Riccardo, ma la telefonata con Jessi aveva portato inquietudine, attesa e disagio e quel riferimento alla mail, rendeva la giornata diversa dalle altre.
Annoiato e distratto, Libero guarda le stampe attraverso la lente, che non è più la lente ma
il mirino del suo fucile e quello che vede sono iracheni insorti all’orizzonte delle vibranti
dune nel deserto di Fallujah, la rotativa è un carro armato e la tuta blu la sua mimetica,
mentre sta di pattuglia in quell’inferno, invece di stampare il catalogo del Centro Giochi
Educativi.
Libero nella sua casa matta, aspetta il cecchino, rivoli di sudore gli rigano il viso, nel caldo infernale dei quaranta gradi mesopotamici, l’elmetto pesa un quintale e amplifica il
calore, è pronto, il dito sul grilletto, a sparare su qualunque cosa si muovi. Ogni minuto è
come un giorno, un’ora è più lunga di qualunque vita mai vissuta.
Accanto a lui passano Bruno e Patrick, in mano le stampe, le portano su da Riccardo,
Patrick sta dicendo: “Un mio amico ha preso 24 pillole con l’idraulico liquido, poi si è
tagliato le vene con un rasoio. Ora ha una moglie e due figli e lavora al Meridien al Lingotto.”
“Wow, potrebbe essere il soggetto per un film”. Replica Bruno.
La fantasia di Fallujah evapora e il tempo passa ancora più lentamente quel giorno.
!
Il tempo passa comunque, come una mano che saluta dal treno su cui si vorrebbe essere e
le cinque arrivano e con le cinque il momento per scappare. Non saluta nessuno Libero,
veloce fugge verso la sua altra vita.
Quando arriva a casa, le figlie sono pronte per la piscina, anche il cane scodinzola, Libero
lo aveva dimenticato, erano anni che le accompagna in piscina ogni martedì e venerdì
sera, tanto è stato presente che la gente lo chiama vicepresidente. Stasera non ha tempo
per le figlie, per il cane, per la vita di Libero, stasera ha tempo solo per Tommy. Cinzia ha
la classe di Yoga, quindi dà venti euro a Patrizia e le dice di prendere un taxi.
Uscite le bambine, rimane il cane a scodinzolargli attorno, cercando di riportarlo alla realtà dei suoi doveri, ma si prende un calcio e si rintana a guaire sotto il letto.
Finalmente solo. Accende il computer come Clark Kent si cambia d’abito nella cabina
telefonica. Ecco adesso è Tommy che apre la mail di Jessica. Una ciotola di pistacchi sulla scrivania, apre una birra e fuma un paio di sigarette. Incredibile come finisce in fretta
una birra quando sei da solo, nervoso o su di giri, butta la cenere e i mozziconi di sigaretta dentro la lattina vuota e i gusci dei pistacchi cascano sul pavimento.
Dice di essere innamorata di lui e manda tre attachments, sono tre foto.
Un primo piano con la mano tra folti capelli biondi. Una a bordo di una piscina, in bikini
giallo, la terza mostra lunghe gambe abbronzate in minigonna.
Libero è turbato dalle foto e dalla dichiarazione d’amore. Si sente lusingato, senza dubbio
e nello stesso momento non può fare a meno di sentirsi lui stesso innamorato.
D’altronde è vero che sente la temperatura del corpo salire, il sangue lo sente scorrere
davvero bollente come lava, probabilmente è rosso in faccia come un gamberone e se è
vero che questa cosa lo fa sentire vivo, è altrettanto vero che è più vicino all’infarto che
mai, con il cuore che pulsa fin dentro le tempie. Libero si sente innamorato, dunque, o
meglio, è Tommy, nel corpo sbagliato di Libero, che ama: è un giovane uomo che guarda
il futuro insieme alla ragazza più carina. Ma qualcosa stona, c’è una crepa che non gli
permette di avere piena soddisfazione in questa storia, anche se non riesce ancora bene a
focalizzare. Non è l’ovvia constatazione che non è lui Tommy, per quanto gli riguarda, lui
è proprio quel giovane carabiniere di stanza a Nassirya, non ha cedimenti.
È qualcos’altro: una fitta, che assomiglia alla gelosia, ma decide di non dargli peso.
Si ingozza di pistacchi e chiama Jessica in chat.
“Allora. Ti sono piaciute le foto?”
“Be’...cosa dire...sono perfettamente consapevole che è una cosa che sentirai ogni giorno,
ma sono sicuro che sotto la voce “Incredibilmente Bella”, nel dizionario c’è la tua foto.
“LOL...non me l’aveva mai detto nessuno”.
“Scommetto di si”.
“☺ non me l’ha mai detto nessuno”.
“Allora menti”.
“Non mento”.
“Allora frequenti la gente sbagliata”.
“Su questo hai ragione”.
“Perché sei incredibilmente bella”
“Grazie. Tu non mi puoi vedere, ma ti giuro che sto arrossendo”
Scrive ti amo e invia, prende la lattina dal tavolo e da un lungo sorso, si aspetta birra e si
ritrova la bocca piena di cenere e cicche, invece. Non il sapore dolce dell’amore.
“☺♥♥♥♥♡♡♡♡!!!!”
“Oggi stesso vado a farmi tatuare sul braccio il motto dei carabinieri ‘Nei secoli fedele’
insieme al tuo nome, circondato da un cuore”
“Sono così felice, non vedo l’ora di vederlo...aspetta ti mando una cosa”
Skype comincia a caricare un file musicale.
“Più tardi ti mando la foto”
“Arrivata la canzone?”
“Finito adesso di scaricare”.
La apre e “I don’t want to miss a thing” degli Aerosmith riempie il buio della stanza.
“Ti faccio un cd e te lo mando”
“Non vedo l’ora”
Lei gli manda “Dipende” di Arabe de Palo che canta con Jovanotti.
“È la mia canzone preferita”, confessa Jessi.
“Non la conoscevo...”
Così continuano a lungo per un periodo che sembra senza fine, in questo amoreggiare
dozzinale e stantio, come sospesi in una bolla, e Libero ha la sensazione come se qualcosa, l’anima probabilmente, stesse galleggiando verso la sua fronte, mentre tutto il resto
di se va a fondo, respirando in modo differente.
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Capitolo XIV
Black Tables
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Fa un freddo cane ed è buio pesto, l’aria è elettrica per tutto quello che deve ancora accadere.
Via Verdi alle nove di sera è deserta, ogni tanto qualche volante entra o esce dalla caserma, per il resto non si vede anima viva. È un anno in cui l’inverno è così casto ed esangue
che sembra dover durare per sempre, Lizzi e Nosenzo attraversano via Rossini, Nosenzo
porta una busta di plastica bianca, con la cena, tranci di pizza.
Tornano in ufficio, la giornata non è ancora finita.
Non si muove nulla da nessuna parte, non un corpo, non un uccello; per un secondo spaccato c’è solo silenzio e immobilità, come se le figure intorno fossero ghiacciate in un paesaggio congelato.
Scatta il verde e Lizzi e Nosenzo riprendono a camminare, incurvando le spalle dentro i
loro spolverini, come se cosí potessero ripararsi dal gelo.
Senza una parola, i due sbirri entrano in caserma, prendono l’ascensore e salgono all’ultimo piano, attraversando il lungo corridoio illuminato solo dalla luce dei lampioni che
filtra da fuori. Nosenzo si ferma al suo tavolo fuori dall’ufficio di Lizzi, fa un cenno con
il mento e dice “Olive?”, Paul Etienne muove il capo per dire si, quindi entra nella sua
stanza con il trancio ancora caldo avvolto nella stagnola.
Avvia il computer e mangia la pizza, accende una lampada da tavolo per attenuare
l’oscurità, fissa la notte venire fuori dalle vetrate, guarda le stelle in cielo e le unisce
come punti per formare parole, la prima che gli viene è A.G.O.N.I.A., poi riesce ad unire
F.I.N.E., quindi O.C.C.H.I.O ed infine L.E.E..
A quel punto Nosenzo bussa alla porta, fa capolino e annuncia, “Mister Lee é arrivato”.
“Fallo entrare, lo aspettavo, me lo dicevano le stelle.”
Nelson Lee entra nell'ufficio di Lizzi. Indossa una camicia azzurra con il colletto bianco
fuori dai pantaloni della tuta, come un bancario che non ha finito di cambiarsi dopo l’ ora
in palestra. Sorride tanto, mostrando tutta la gioielleria che ha in bocca. Lizzi vede sempre qualcosa di viscido in quell'uomo, nonostante l’ apparente giovialità, a parte questo
non gli viene niente da dire, così non dice niente. Fa cenno di sedere.
Nelson posa una ventiquattrore sdrucita sul tavolo e la apre, dalla valigetta tira fuori una
busta di carta, una di quelle per il pane e la mette sul tavolo. Lizzi estrae uno ziploc dalla
busta, pieno di polvere bianca.
"Quanto ce n'é?"
"Dieci sacchetti da duecento grammi, bastano?"
Lizzi ha aperto lo ziploc e disteso due righe molto abbondanti. Dal cassetto della scrivania recupera la cannuccia d'argento, tira su mezza riga, deglutisce e la voce si fa roca:
"E l'oppio?"
"Amico, io e te dobbiamo parlare?"
"Parlare? Amico?" Tira su l'altra mezza riga. "Cosa ti sei messo in testa?"
"Non prendermi male, siamo molto contenti di come hai gestito la situazione del kebabbaro, per questo motivo ti chiedo solo la metà per questa nuova fornitura, come gesto
d'amicizia. Anche l'oppio sono disposto a dartelo ad un prezzo di favore, però c´è un
però..."
Lizzi si accende una sigaretta zeppa di polvere.
"Quale?"
"Nella zona di Porta Palazzo..."
“E…"
"Tu avevi promesso zero interferenze".
"Allora?"
"Hai presente l'ex discoteca di corso Brescia?"
Lizzi annuisce, la cannuccia nel naso.
"Quello è posto nostro, sai cosa facciamo lì, lo sai, non è vero?"
"Lo so, lo so, vai al dunque"
"In corso Palermo, i tuoi ragazzi ne hanno aperta una uguale e ci prendono i clienti. Zero
interferenze avevi detto, zero interferenze deve essere."
"Tu mi fai ridere.” Gli dice senza ridere. "Qui non é Cina, Nelson. Questo è libero mercato, anche se non ti piace. Zero interferenze vuol dire che nessuna divisa viene a bussare
alla tua porta e ti chiede che stai facendo, se è legale o se hai pagato chi dovevi pagare. Il
resto non mi interessa. Zero interferenza, la mia parte continuo a farla.”
Nelson sembra perdere tutta la sua giovialità in un colpo, il suo ghigno si apre come un
pugno o come un fiore.
"Bene, se la metti così." I suoi occhi a mandorla si fanno fessure ancora più strette, sembra una creatura di puro odio, adesso. "Sai cosa dice un proverbio cinese?"
"Anche i proverbi cinesi?" sbuffa Paul Etienne strofinandosi l'indice contro le gengive.
"Quando uno squalo smette di nuotare, muore."
Lizzi scoppia a ridere.
"Che cazzo vuol dire?" E ride ancora.
"Allora tu non te ne occupi?"
Fa no con la testa, Lizzi e sorride, come se non ci fosse niente di serio in quella conversazione.
"Allora tu decidi di voltarmi le spalle?" In fondo agli occhi di Nelson c'è ancora qualcosa
d’altro, oltre all'essere viscido e spiacevole: un famigliare, espettorante, implacabile odio.
Lizzi improvvisamente lo coglie, posa la sua cannuccia e mostra il suo odio e i suoi occhi.
"Ora ascolta me, sarei tentato di avvisarti che stai giocando con il fuoco, che vuoi tenere
nella stessa stanza gatti, alici e fame, ma invece, visto che sei così arrogante da dirmi
cosa devo fare, ti espongo la mia filosofia di vita. Se mi chiedono di stare fermo, danzo.
Se mi chiedono di bruciare una bandiera, la sventolo, ma se mi chiedono di uccidere, io
canto, uccido e canto. Io vivo così. Sono stato chiaro?"
"Anch'io canto quando uccido".
"Sentiamo chi ha più voce allora".
"Buona serata anche a te, Lizzi".
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Il cinese se ne é andato.
"Merda!", sbuffa Lizzi che sa cosa l'aspetta. Rovescia il contenuto della busta del pane,
conta dieci ziploc, li rimette dentro il sacchetto di carta, tranne uno, quello già aperto.
Stende un'altra riga che tira su con furore, accende la sigaretta che ne segue. Rivoli di sudore gli scendono dalle tempie.
"Merda!" Sa che non ci voleva. Ha bisogno di pensare, di raccogliere le idee, di elaborare
una strategia, guarda la città fuori dalla vetrata, imbalsamata dal freddo, le luci brillano
come stelle cadenti. La notte è senza luna e le stelle sembrano teste di chiodi nel cielo, se
li stacchi il buio cade giù come un poster dalla parete.
Sa che ci sarà guerra.
Finita la sigaretta esce dall'ufficio, Nosenzo alla sua scrivania è immerso in un volume
con tutte le poesie di Montale, legge e prende appunti su un agenda della Cassa di
Risparmio di Torino del 1992. Lizzi posa il sacchetto di carta bruno sul suo tavolo.
"Distribuiscila ai ragazzi". Nosenzo mette via il libro in un cassetto e la droga in un altro.
"Tenente, il cinese è andato via furente e mi ha fatto segno che mi taglia la gola".
"Non sono più tenente, Nosenzo, da parecchio ormai. Il cinese ha tirato troppo la corda,
tempi duri ci aspettano. Lui crede di tenerci per i coglioni, ma dovrà cambiare idea. Domani mattina presto, tutti i ragazzi da me, dobbiamo prepararci, affilare le lame e tenere
la pistola sotto il cuscino. È cominciata e dobbiamo essere pronti, per questo dobbiamo
colpire per primi."
"Domani c'è il meeting con il questore..."
"Annullalo. Non mi serve.”
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Il computer aperto su pogo.com, nella room i giocatori sono Pistacchio, Hot Blonde,
Bonza, Jayme e signorG.
Lizzi fuma, gioca, rischia e vince la portata.
"Il piatto è tuo anche stavolta, Jayme, ma è l'ultima volta, se ne vinci ancora, giuro che
cambio stanza e mi butto sul majong", commenta Hotblonde.
"LOL", si inserisce Pistacchio.
"Se fossi più concentrata sul gioco, invece che inviare emoticon, baccagliare Pistacchio e
fare così la cocotte, forse vinceresti qualche giocata pure tu".
"Jayme sei un cafone, non si tratta così una signora, ho capito perché vinci tanto, in
amore sei uno sfigato." Pistacchio si fa paladino e difende HotBlonde.
"Quale signora, siamo fortunati se è un ragioniere grasso e calvo e pure un po' pederasta
che si finge femmina per farsi le seghe con qualche giovane maschio arrapato, come te
Pistacchio".
"Stai passando i limiti Jayme, vai in una altra room a giocare che qui non sei benvenuto,
o chiedi scusa e andiamo oltre.” Si inserisce signorG che è l'amministratore della room e
il suo compito è di tenere la chat ad un livello decente di civiltà.
"Forza andiamo avanti a giocare, non posso fare mattino che domani mi tocca di
lavorare.” Protesta Bonza.
Lizzi tira su una riga con la sua cannuccia d'argento, fa un sorriso cattivo e poi batte sulla
tastiera.
"Chiedo scusa a quel travestito di Hotblonde e mi dispiace se le mie parole hanno turbato
il suo sensibile scroto, ora possiamo continuare. Chi è di mazzo?"
"Vaffanculo Jayme!" risponde Hotblonde
"Lascialo perdere è uno dei tanti frustrati che trova sfogo in una chat perché non rischia
niente, usciamo di qui, vieni in pvt con me Hotblonde, non vale la pena giocare con certe
teste di cazzo."
"Jayme2006 viene bandito per 24 ore per comportamento inaccettabile, l' account sarà di
nuovo disponibile alle ore 23.40 di venerdì 18 dicembre. Per qualsiasi chiarimento si prega di contattare il superamministratore". Il messaggio in rosso lampeggia sullo schermo
del computer di Lizzi, che si lascia sfuggire una risatina tossica.
"Fanculo stronzi!" e si accende ancora una sigaretta.
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Capitolo XV
She belongs to me
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La luce dei riflettori risplende risolutamente, imbalsamando tutto quanto illumina.
Gelo e buio avvolgono ogni cosa e il mondo in quel momento non è altro che quel campo
di calcetto e quelle figurine goffe, infagottate tra tute e berretti, che corrono lente e si
sfregano le mani per combattere il freddo. Il sudore gela sulla pelle e si cristallizza come
il caucciù sulle cortecce. A chi tocca stare in porta la serata è ancora più grama, non c'è
riparo, ne' consolazione, solo vento gelido che ghiaccia le orecchie e la punta del naso.
Libero è rigido come un pupazzo di neve, avvolto da giacca a vento e felpa con cappuc-
cio mentre protegge le gambe con una tuta aderente, probabilmente del 1986. Sembra in
calzamaglia, mezzo Barishnikov mezzo Gabibbo. Come un bidone di pizza e birra
sostenuto da due manici di scopa, ma con un cuore nero che gli mormora e che rode dentro. In mezzo a quel campo di calcetto, in una serata d'inverno glaciale, immobile in mezzo a quella porta ad aspettare che i suoi colleghi scaglino palloni contro di lui, calciati
dalla rabbia e dalla frustrazione di una settimana intera da sfogare, Libero sembra un piccolo uomo solo, reso ancora più piccolo e più solo dalle sue tacite paure.
Davanti agli occhi non ha Fernando che gli corre incontro o Bruno che tira puntonate alla
palla con tutta la forza e la malagrazia che possiede. Piuttosto davanti ha le foto che Jessi
gli ha mandato, quel primo piano con i capelli sciolti, quel bikini giallo che fa immaginare un seno delizioso, quella minigonna e le gambe affusolate. Quelle foto gli fanno
nascere un'istintiva rabbia, da fargli digrignare i denti e non darsi pena e cura delle pallonate e dei gol che arrivano a raffica e dei suoi compagni che gridano: "Datti una mossa
culone, sei anche peggio del solito, stasera."
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Avevano chattato la sera prima. Si erano parlati con Skype, la telefonata era andata bene,
tutto era filato liscio, il solito desiderio represso, i soliti bacini al ricevitore, scambi di
galanterie e preoccupazioni. Tutto come da copione. Un paio di ore dopo si erano ritrovati
in chat, beh prima c'era anche stato lo screzio in sala poker con Jayme, quell'arrogante,
prepotente. Forse gli era rimasto ancora un po’ di spirito combattivo, o forse era salita in
superficie tutta la frustrazione, l’ insicurezza, la rabbia. Quelle foto le sentiva come un
affronto e non era riuscito a trattenersi. Anche adesso che ci pensa, gli monta la furia,
perché lo sa che ha ragione, è il suo istinto che glielo dice e raramente l'istinto sbaglia.
Quelle sono le foto che lei manda a chiunque per farsi ammirare.
È proprio quello che le ha scritto, "Come facevi ad averle già belle e pronte quelle foto?"
La sua risposta è stata vaga, neanche ricorda bene, "Sono le foto che tengo nel computer",
o giù di lì, un tipo di risposta che aveva l'effetto di montare la rabbia, che anche adesso
sente salirgli in faccia tutto quel calore che sembra dover esplodere, pure in mezzo a tutto
questo gelo. A quel punto si è lasciato andare, "Le hai già sul desktop pronte a mandarle a
qualunque ammiratore chatti con te, puttana!"
Anche se distanti, anche se lei era dall'altra parte del computer, è riuscito a sentire in quel
minuto, minuto e mezzo di attesa della sua risposta, ha percepito il crack, la crepa che ha
provocato in lei, l'ha sentito anche nella freddezza della frase, "Che stai dicendo.” Nonostante questo, non si é calmato, anzi, è probabile che la rabbia che continuava ad aumentare fosse anche rivolta verso se stesso e purtroppo ha proseguito, "Magari in pvt gli
fai anche una sega, magari lo fai nella Texas room, mentre ci sono anch'io che gioco. Magari con Bonza o con quella merda di Jayme".
A questo punto si è pentito, la tempesta si è sgonfiata, si é sentito male, un senso di colpa
denso come catrame nelle viscere, dentro ha percepito, come spesso gli capita, quel solito
buco dove ogni cosa felice cade giú e si perde. E deve sempre ringraziare se' stesso.
Sono rimasti in silenzio per qualche minuto, ognuno con i propri pensieri. Libero pensava
a come rimediare, quando lei ha scritto di nuovo.
"Va be' hai ragione, qualche volta le ho mandate a qualche altro ammiratore, ma mai nella
stanza di Pogo e comunque ben prima che io e te cominciassimo a fare sul serio. Vedi, te
lo dico perché voglio essere sincera, sei troppo importante per me, non voglio che niente
rovini il nostro amore".
A quel punto il sangue gli sale agli occhi di nuovo.
"Noi abbiamo subito fatto sul serio, puttana! Vedi che sei puttana. L'hai fatto e lo rifarai
ancora. Mi hai tradito e io non voglio avere più' niente a che fare con te. Stasera quando
sarò di pattuglia a mangiare polvere e merda, cercherò' di uccidere più' iracheni possibile,
scaricando la rabbia che ho verso di te e volesse il cielo uccidano anche me."
Avevo ragione, il mio istinto non sbaglia, è la parte razionale che forse non funziona, ma
l’istinto è acuto, sveglio, lucido. L'ho capito subito che quella è una puttana stronza, che
mi ha preso in giro solo per farsi due ditalini la sera. Che puttana, puttana, puttana!
Adesso è veramente rosso in viso, come avesse corso per 20 minuti, tutto accaldato in
faccia, anche se non si è mosso da quella porta da quasi dieci minuti. La sua squadra è
sempre in attacco e a lui non è rimasto niente altro da fare che pensare al suo screzio con
Jessi e a quanto ci è rimasto male. Perché ci aveva creduto e adesso non gli rimane niente
se non un oceano di rabbia che non sa che farsene. Non è neppure in Iraq, non ci sono insorti su cui scaricare il fucile, non può gettarsi in battaglia con sprezzo del pericolo ed
essere riconosciuto come eroe, dai suoi compagni e da tutti quanti al ritorno in Italia, incantati dalle sue medaglie e dalle sue meravigliose storie. Questa roba sta solo nella sua
testa. Ed ora, mentre sta pensando a tutto questo, un suo avversario si sta lanciando contro di lui in un classico contropiede da calcetto, dove il momento agonistico diventa un
duello, uno contro uno e vediamo chi è l'eroe adesso. È venuto il momento di dimostrare
che quando è il momento di salvare la patria, nell'emergenza lui c'è, su di lui si può contare.
Mentre i suoi compagni dall'area avversaria lo incitano e gli gridano "Esci culone! Hai
messo le ragnatele in quella porta?” Lui decide di uscire, Bruno è lanciato, Libero prova
ad essere lucido, perché quello è il suo momento, una piccola occasione di riscatto.
Lo sa che Bruno tenterà di scartarlo sulla destra, perché è destro e c'ha un solo piede, così
decide che, appena sotto, gli si butta da quella parte e gli sfila via la palla. Ma appena
Bruno è alla sua portata, non scarta, non vira da nessuna parte, ma, guarda che sorpresa,
gli fa un doppio passo, la finta alla Ronaldo. Libero si butta goffamente a vuoto, lasciando la porta sguarnita e la via libera verso la gloria, quella stessa che era riservata a lui. Ma
non ci sta e con un colpo di reni, mentre è per terra, riesce ad agguantargli una caviglia e
l'altro, il povero Bruno, già con la testa alla pallonata che avrebbe gonfiato la rete, con la
mente al gesto d'esultanza, si ritrova senza neanche accorgesene a sbattere il muso e i
denti sulla superficie ruvida e indurita dal gelo, del tartan del calcetto.
Da quel momento nasce il finimondo. I sodali di Bruno si gettano su Libero e lo vogliono
menare, i compagni di Bruno fanno muro a difenderlo.
Un gruppo di passerotti si alza in volo da una pila di batterie di auto, lasciate a marcire
dallo sfasciacarrozze a fianco al campetto.
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Capitolo XVI
La chiave del mio cuore
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Un bambino non è l'unico risultato di una gravidanza, anche una madre nasce.
Le vedi dovunque, donne anonime con un piccolo rigonfiamento appena sopra l'inguine e
un'ombra di doppio mento. Quarantenni per sempre. È la madre di qualcuno, pensi. Un
bambino da qualche parte ha trasformato questa ragazza in una madre e per amore del
piccolo, questa donna ha alterato le sue sembianze per stare meglio nella parte.
Cinzia, mentre guida, si lascia andare alle sue considerazioni, osserva, nota e trae conclusioni. Cinzia è madre due volte, le figlie sono grandi e lei è ancora giovane, meno di
quarant'anni, potrebbe avere un nuovo bambino, un maschio magari. Non che non le piacerebbe, ma questo sembra un discorso ormai chiuso, morto, sepolto. Non pensa soltanto
al neonato che potrebbe avere, i primi mesi senza sonno, mettere in sicurezza la casa, al-
lattare, comprare i pannolini, la formula, avere in giro tutti quei giochi di plastica che appena li tocchi sprizzano gioiose musichette. Tutto questo le manca, certo non può dire che
non vorrebbe. Per questo non ci pensa, come qualcosa che non le appartiene più, improbabile, come tornare sui banchi di scuola. Ma anche il sesso è un pensiero del passato, e
quante volte, spesso inaspettatamente le viene in mente. Ricordi che vengono fuori come
da un cerino acceso in una stanza buia, rivede, sente ancora quell'andirivieni, quegli alti e
bassi, che ora sono congelati come un mastodonte intrappolato nel ghiaccio. Da qualche
tempo Libero lo vede come un elefante preistorico, quando invece era il suo cavallerizzo,
con la sua lancia e i suoi impulsi animali, ma i suoi ululati sono oramai zittiti.
Il flusso di pensieri si interrompe una volta di fronte al garage della villetta.
Parcheggia la panda senza troppa cura, recupera le buste della spesa, raccoglie il mucchio
di posta, lettere, volantini e depliant dalla cassetta delle lettere ed entra in casa dalla cucina.
Spinge la porta, se qualcuno è già in casa, si apre. Invece no, deve recuperare le chiavi da
qualche borsa, perché nessuno è ancora rientrato.
La villetta è su due piani, l’appartamento vero e proprio al piano terra e la tavernetta nel
seminterrato. In cucina, dove ancora resiste l’odore del cibo cucinato per il pranzo, il
tavolo è pieno di riviste, giornali, bicchieri, il cordless. D’istinto posa le buste della spesa
e il malloppo della posta. Si siede e la prima cosa che fa è smistare, ci sono troppi volantini e depliant, vanno dritti nel cestino della carta, meglio dividere subito la busta importante dalla réclame, altrimenti rischia di andare perduta. Ci sono due lettere dalla banca,
quelle le apre per ultime, c'è il costante volantino con le offerte speciali di Carrefour, un
altro che promuove computer a prezzi stracciati, c'è la facciona in primo piano di un candidato per le elezioni locali, presidente di circoscrizione: una barba intellettuale e un cipiglio pensoso, il simbolo del PD e lo slogan 'Un Borgo come me'.
Nel riciclo.
Ci sono il catalogo Ikea e un plico, abbastanza grande indirizzato a Libero Martinetto. Lo
prende in mano, sembra anche pesante.
Il telefono squilla, lo recupera dal tavolo ingombro.
"Ciao mamma...no...sono appena entrata in casa...ti devo raccontare una cosa...una cosa
molto strana..."
Mentre parla e racconta, trova il tempo per levarsi di dosso il cappotto e la sciarpa, scompare nel salotto, continuando le sue chiacchiere con la madre, come una canzone in sottofondo.
"Si l’ho ricevuto...si? È vostro amico? Non credo che ce la faremo a venire...poi
sai...Libero non è per certe cose..."
In quello stesso momento, Libero entra in casa dal lavoro, sfila la giacca a vento, tiene la
tuta e veloce, in tutta fretta, sta per dirigersi direttamente verso il salotto, quando con la
coda dell'occhio percepisce il plico con il suo nome, scritto da mano chiaramente femminile. Il cuore ha un sobbalzo, anzi due, uno di eccitazione perché sa di chi è la mano
che ha scritto l’indirizzo, mentre l'altro è di preoccupazione: Cinzia l'avrà visto? L'avrà
aperto? Che cosa avrà pensato? Lo infila sotto la tuta e scompare nell'appartamento.
La cucina resta vuota, con tutti i sacchetti della spesa ancora sul tavolo, ancora da ritirare.
Chiude la porta del bagno e gli asciugamani dondolano e tremano dove sono appesi. Un
odore pungente di saponetta consumata e di plastica della tenda della doccia. La tazza del
water aperta sembra una faccia stupita, il pezzo di carta igienica che si sta lentamente dissolvendo nell’acqua, sembra invece una medusa. Il rubinetto ogni tanto lascia cadere una
goccia. Libero si toglie tutti i vestiti e l’impila uno sopra l’altro sulla cesta della lavanderia. Apre la doccia e lascia scorrere l’acqua, si siede sul gabinetto e apre la busta.
Dentro trova una lettera, un cd, un tanga e una catenella d'argento con una chiavetta.
"Tu sei il mio specchio e il mio futuro e sei la mia canzone. Ascolta il mio cd, è la mia
dichiarazione d'amore. Per questo ti faccio dono della catenella, ti offro la chiave del mio
cuore". La firma è T&J, dentro un cuore.
Libero preme il tanga sulla faccia e aspira profondamente, finalmente sente l'odore di lei,
è odore potente e femminile, arriva immediato al cervello, come un virus informatico
cancella tutto, c'è posto solo per quella sensazione. Come sei lei fosse lì con lui.
Chiude gli occhi, tiene le mutande sulla faccia e si masturba.
Da dietro la porta sente arrivare di tanto in tanto la voce di Cinzia.
"Ma no mamma, non è così, se uno crede di essere l'unico che conosce la verità, allora
tutti quanti gli altri stanno mentendo e se tutti mentono allora ogni verità che dicono è
una menzogna. Almeno così ho capito io. Vabbé ci vediamo, fammi andare ora, che devo
ancora preparare la cena. Ciao."
Cinzia è ormai in cucina e sta urlando qualcosa per farsi sentire dal marito. Libero è ad
occhi chiusi, concentrato, ancora pochi secondi e ha finito. Quando li riapre, eccolo di
nuovo nella realtà, davanti allo specchio. Si leva gli occhiali, si sciacqua la faccia, si
riveste, mette la busta in una tasca e il tanga nell'altra ed esce dal bagno.
"C'è una lettera per te..." sta dicendo Cinzia e finalmente Libero la sente.
"Si, l'ho vista.”
"Cos'era?"
"Pubblicità. Ora scusami un momento, devo controllare una cosa al computer".
Cinzia è di nuovo sola in cucina, ha un'espressione rassegnata, ma accomodante, mette a
bollire due uova bianche, sembrano due occhi senza iride al fondo di una piscina.
!
"La storia racconta le avventure del marinaio girovago Ishmael e del suo viaggio sulla
baleniera Pequod, comandata dal capitano Ahab. Presto Ishmael capisce che Ahab sta
cercando una balena particolare...”
"Per favore Patrizia passami quella latta di pelati...ma dove sei finita? PATRIZIA!!! Vieni
qui, finisci di leggere la relazione...deve essere pronta per domani...uguale a suo padre,
riesce sempre a trovare il modo di svicolare.”
Claudia è davanti alla televisione e sta guardando un documentario sui bambini soldato in
Sierra Leone, come sbucata dal nulla Patrizia si materializza alle sue spalle.
"A quanti mancano le mani...", commenta Patrizia.
"Non stavi leggendo la relazione a Mami."
"Voglio vedere anch'io questa gente senza mani"
"Quando compio diciott'anni voglio andare in Africa per aiutarli."
"Vai."
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Libero, nella sua stanza, sente arrivare questi brandelli di conversazioni, sono la sua
famiglia, sorride a pensarci, ne é orgoglioso. Ora ha capito e ha deciso, è ora di troncare
questo stupido gioco sterile con la ragazzina di internet e tornare al suo posto, alla sua
famiglia. Dovunque guardava, vedeva uomini felici, ottimi padri sempre presenti, e lui
non era più uno di quelli. Era ora di diventarlo. Per questo ora sta scrivendo a Jessi, in
chat, ma non è Tommy che scrive, bensì proprio lui, Libero.
"Ciao Jessi, ragazzina sveglia e dolce, oggi ti scrivo io, è tempo che tu senta la mia voce.
Sono Libero, il padre di Tommy e ti scrivo per dirti che è arrivato il momento per te e
Tommy di scrivere la parola fine a questa storiella adolescenziale".
"Non è una storiella adolescenziale, signor Libero. Lei non può capire perché ormai ha la
sua età, è arrivato, appagato, non può più capire la voglia di vita e di amore di noi, che a
diciott'anni ci affacciamo a queste esperienze. Posso garantirle, però, che tra me e suo
figlio è vero amore. E sono sicura che Tommy mi avrà già perdonata, potessi solo parlare
con lui..."
"Tu hai ragione Jessi, Tommy ti ha perdonata, perché Tommy é innamorato di te e anche
una vecchia scarpa come me queste cose le capisce. Io, però, in qualità di padre non ti
perdono e farò da filtro tra te e lui, questa relazione non è più sana..."
"Senta Libero, se anche lei ha capito, se anche lei ha un po' di cuore, se sa che Tommy mi
ha perdonata, perché non lascia perdere pure lei, eh?"
"Perché tu lo ferirai e lui è un idiota e crederà a tutte le tue bugie..."
Libero guarda in alto e immagina il mondo prima che ci fossero i soffitti, mentre dalla
cucina e dalle altre stanze della casa, le voci che arrivano si fanno sempre più indistinte.
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Capitolo XVII
Desolation Road
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Un aereo solca il cielo nero, la sua scia bianca lo divide come un sipario.
I lampioni emettono luce gialla, tenue, il freddo forma un alone intorno, le luci sembrano
vibrare come candele.
Poca gente per strada, è passata l'ora di cena, c'è chi si attarda e chi porta a spasso il cane,
senza vedere, o forse solo senza badare a quello che sta succedendo di fronte ad un portone mezzo aperto, in via Artisti.
I lampeggianti della polizia fanno più luce dei lampioni e colorano la notte, come una festa in discoteca in cui non c'è ancora nessuno o sono già tutti andati via.
Nel cortile di quella casa di ringhiera, Lizzi indossa uno spolverino bianco e ha un manganello in mano. È fermo, con i piedi ben piantati su quell'acciottolato e non fa assolutamente niente. O meglio, osserva la scena che si svolge intorno a lui.
Da un lato alcuni uomini inginocchiati, la maggior parte cinesi, le mani ammanettate dietro la schiena. Uno ha la testa rasata come un asceta, il cranio è pieno di cicatrici e la
faccia è tutta ammaccata, come uno che abbia passato la vita a prendere pugni, un pugile
professionista, un buon incassatore. Una catena montuosa di rughe sulla fronte. Gli occhi
strette fessure, che non sai se stia guardando o stia dormendo. Sorride con disprezzo.
L'uomo dietro di lui, ha un tubero al posto del naso e la faccia giallastra del fumatore incallito, sembra estremamente annoiato e essere inginocchiato su ciottoli ghiacciati con le
mani dietro la schiena, non sembra dargli fastidio. Ha un'intensa espressione di perenne
disapprovazione, come se le guance e la fronte fossero in combutta per fargli saltare gli
occhi fuori dalla faccia.
Dall'altra parte del cortile, ci sono una decina di puttane cinesi mezze nude, si muovono
in continuazione, come cubiste sgraziate in discoteca, senza musica, per difendersi dalla
temperatura rigida della sera.
Tutti i suoni sono compressi in un unico rumore che nessuno riesce a sentire chiaramente,
anche chi bestemmia lo fa sussurrando, con reverenza.
Infine gli uomini di Lizzi escono fuori sui ballatoi, sembra una scena da Donizetti ma
nessuno canta, buttano tutto giù da quei balconi, mobili, specchi, lampade, tutto quello
che trovano.
Sembra capodanno, ma senza i botti.
Lizzi non ha ancora mosso un passo. Si limita a tamburellare il manganello sul palmo
della mano, le braccia dietro la schiena. Il cortile sta cominciando a sembrare una discarica, macerie, fazzoletti di carta, tampax e polipi tristi di preservativi usati, nascondono i
ciottoli.
Nosenzo si affianca a Paul Etienne, ha il solito sguardo abbattuto, per darsi contegno imita la postura marziale di Lizzi, ma sembra un girasole appassito con il braccio curvo all'indietro.
Un attimo dopo, più silenzioso delle foglie, li affianca Bragante, indossa la sua pigrizia
come un autografo e osserva i colleghi che buttano tutto di sotto, con uno sguardo compiaciuto e ammirato verso chi si dà così tanto da fare. Sembra quel tipo di persona che è
contento di fare le parole crociate a letto, non lo diresti mai un feroce assassino, uno la
cui più grande soddisfazione sia raggiungere la vittima alle spalle e aprirgli la gola, senza
che neanche se ne accorga. Ha la faccia banale della morte silenziosa e ora si intrattiene
divertito da questo carnevale.
Il motivo fischiettato di “C'era una volta in America” introduce Turchi, si affianca anche
lui a Lizzi, le mani dietro la schiena, come se avesse qualcosa da dire, invece fischietta
Morricone. Lo segue Ferraris, che si allinea agli altri, ha gli occhi semichiusi, sembra
perennemente distratto, come il tipo di persona che si mette a pisciare fuori dalla finestra
senza prima ricordarsi di aprirla. In realtà non gli sfugge nulla e strascica ancora più la
erre quando dice a Lizzi: "Mister Lee se l'è data, sarà stato avvertito o se l'aspettava, ma è
sfuggito all'arresto".
Sono tutti in fila i suoi cavalieri dell'apocalisse, mezzo passo dietro di lui. Sono tipi di
voraci appetiti e bizzarre nozioni di autocontrollo.
"Arrestarlo è adesso la nostra priorità assoluta. Non si tratta solo di legge, si tratta di autodifesa". Ora il fischio di Turchi sembra assordante, sembra coprire tutti gli altri rumori
intorno, è una musica pietosa, sembra venire fuori dal libro dei salmi, tocca le corde della
paura e del senso di colpa: è come una voce che profetizza angoscia, anche nel momento
della vittoria.
!
Ombrelli neri appesantiscono le persone, ma il vento soffia di lato e la pioggia fa male
sulla faccia perché è ghiacciata, è quasi neve e inzuppa comunque. Gli alberi spogli si
muovono seguendo l’aria fredda e i rami senza foglie, dondolando, sembrano dita affusolate che dicono no, no, no.
Sono quasi le dieci, l'operazione è terminata, ma non conclusa, mister Lee è ancora in
giro e l'imperativo del giorno dopo è: trovarlo.
!
Bragante sta tornando a casa, in via Nuoro, quartiere Mirafiori Nord, poche luci e poca
gente in giro, è una zona tetra senza negozi, palazzine tutte uguali, costruite negli anni
settanta per una piccola media borghesia, che ora per lo più vive da un'altra parte, sono
rimasti i pensionati ed è popolata di africani e nordafricani.
Bragante sputa per terra e chiude la portiera della sua Punto. Una donna africana con un
bambino legato alla schiena, gli attraversa la visuale, ha un golf blu cielo, la vita stretta e
una gonna larga, labbra rosa e un seno enorme e una corona di capelli che sembra una
quercia, cammina come se avesse una campana al posto del culo. La donna passa e rivela
un altro essere umano, i suoi occhi cinesi lo fissano e la sua bocca a fessura sorride senza
nessuna benevolenza. Appena Bragante lo vede, capisce e un improvviso terrore gli si
muove dentro, risvegliando tutti i suoi ricordi insieme, come boati di tuono. Non sono
boati, però, ma colpi di pistola. Un istante dopo Bragante si ritrova disteso, praticamente
decapitato. L’esplosione, oltre ad avergli portato via un pezzo di se’, ha sparso una tempesta di carne e sangue sulla sua Punto nuova, non ancora finita di pagare. Quando il suo
assassino si china su di lui per dirgli qualcosa, non ha più abbastanza forza per capire,
sente che profuma di saponetta e il suo cranio, reso scuro dalla notte, è rasato con cura.
Sono le ultime percezioni della sua vita.
!
Anche se sta iniziando a piovere, che sembra neve, con un freddo così intenso che le gocce d'acqua scendono già gelate, Turchi non ha voglia di tornare a casa. Lo aspetta la
madre, 83 anni, ancora una grinta da fare invidia, non ha mai smesso di voler educare il
figlio, Florenzo, che adesso di anni ne conta già 38. Florenzo, Flo, come lo chiama, è ragionevole e la lascia fare. È sempre stato così, non si è mai messo di punta, per amor del
quieto vivere l'asseconda, ma proprio per questo non ha voglia di tornare, preferisce rientrare quando sua madre sta già dormendo, per non rispondere a tutte le sue, talvolta anche
troppo impertinenti, domande. "Come mai torni a quest'ora?", "Il lavoro, Ma'", "Flo, mi
stai dicendo la verità, eri con qualche donna? Puoi dirmelo, sai, non che mi importi, anzi
sarebbe anche ora." "No, è il lavoro, abbiamo fatto un retata che è finita tardi." "Fatti pagare gli straordinari, tu sei troppo buono, lo so ti fai mettere i piedi in testa, sei come tuo
padre, piuttosto che chiedere...ma...solo non farti ammazzare, che io rimango sola.” "No,
Ma’, sta tranquilla, facciamo soprattutto lavoro di ufficio, noi." Quante volte la stessa
conversazione, più o meno le stesse parole.
Si ferma sotto casa, c'è un Pizza Kebab, specialità somale. Ha fame Flo: "Hey capo quali
sono le specialità somale?"
Si siede a un tavolino di plastica, il locale è abbastanza piccolo che anche seduti si può
parlare all'uomo al bancone. L'uomo è un somalo piccolino, con incipiente calvizie, i denti davanti due spatole grandi da roditore e le guance rotonde da castoro, gli fanno uscire
le parole di bocca come fischi.
"Abbiamo lasagne e spaghetti bolognese."
"No, non hai capito, voglio specialità somale..."
"Queste sono."
Turchi sbuffa, "Portami le lasagne allora."
L'aria in quel cubicolo di ristorante è unta e calda e impregna i vestiti e la pelle, una
ragazza con il viso pieno di lentiggini gli sorride senza apparente ragione. Ha una lingua
biforcuta di capelli che le toccano il collo, sta da sola nel tavolino a fianco al suo e profuma di latte e cannella.
Turchi le sorride di ritorno e lei gli chiede di sedersi al tavolo con lei. "Io ho chiesto
spaghetti bolognese, possiamo farci assaggiare i nostri rispettivi piatti somali".
Turchi è lusingato e si siede. La ragazza sembra avere delle biglie di vetro troppo grosse
al posto degli occhi, come una bambola. "Non sbatte mai le palpebre, pensa Flo, a meno
che non lo faccia quando lo faccio io." Cambiando di posto ora Turchi vede la strada e
quello che vede non sembra piacergli troppo.
La ragazza intanto continua la conversazione, parla in modo brillante e ostentatamente
gentile, muore dalla voglia di essere apprezzata, ma sente di avere poche chance. Perché
Turchi ha smesso di ascoltarla appena si é seduto e ha visto fuori dal ristorante qualcuno
che lo aspetta.
È un cinese con una faccia da guerriero Azteco, con orecchie a sventola e naso aquilino e
un tatuaggio malfatto sulla faccia e sembra proprio il tipo di persona appagato con un
cuore ancora pulsante fra le mani.
Turchi si abbassa un attimo come per legarsi la scarpa, in una frazione di secondo impugna la sua Beretta M-98 che che tiene alla caviglia, educatamente si congeda dalla
ragazza, "Scusa un attimo."
Poi è fuori. Il cinese lo vede all'ultimo momento, fa giusto in tempo ad estrarre una pistola mitragliatrice, una Beretta PM12 che Turchi gli ha già sparato due volte, ma il sicario
benché colpito spara a sua volta e collassa con il dito sul grilletto, sputando pallottole in
ogni direzione, in aria, contro la vetrina del ristorante e infine sulla sua stessa faccia.
Improvviso è calato il silenzio. Un silenzio che basta a se’ stesso, vibrante e pieno di stupore. Il guerriero con l’apparenza Azteca è a terra sul marciapiede, mezza faccia se l'é
estirpata da solo che era già morto, quando gli aprono la camicia è come se avesse due
occhi rossi in mezzo al petto.
Dentro il ristorante, il somalo e la moglie stanno cercando di rianimare la ragazza, è stata
colpita al fianco e sotto il mento dai proiettili impazziti del sicario, ma è troppo tardi.
Sembra un fantoccio adesso che non si muove e le sue pupille, biglie di vetro, sono rimaste aperte per non vedere più nulla.
Con il palmo della mano, Turchi chiude gli occhi di questa bambola Lenci che ha avuto la
sventura di trovarsi nel posto sbagliato, nel momento sbagliato.
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Piazza Vittorio è frequentata ogni sera della settimana, il cinema, i bar e i numerosi locali
la riempiono di gente, che va e che viene. Il fine settimana si affolla. Ormai non ci fa più
caso Ferraris, ma quando ha iniziato ad abitare in quella splendida mansarda a fianco al
bar Elena, che gli ha regalato suo padre per la laurea, odiava quella folla transeunte, chiassosa e bifolca che si riempie di aperitivi e mojito, in quell'elegante piazza risorgimentale.
Quella sera, stanco della retata, rientra verso casa, scansando i forzati del venerdì sera.
Quando passa a fianco ai tavolini del dehors del bar Elena, spera di non incontrare nessuno che conosce, per non essere costretto a scambiare quelle educate parole di formalità,
che pur senza scopo, lo stancano. Vuole solo rientrare a casa, buttarsi sul divano, fumare
un po' di Kashmir e guardare uno o due film western, in attesa dell'oppio che dovrebbe
arrivare tra poche settimane.
Il portone è pesante e l'androne lungo e male illuminato, non appena arriva al cancello
che apre l'accesso alla scala, viene assalito da dietro da qualcuno che lo stava aspettando.
Sente una lama fredda sul collo e proprio nello stesso istante che il ferro sta per scivolare
sulla sua gola, per aprirla senza pietà, Ferraris ha uno scarto estremo e disperato che lo
salva. Il coltello lo incide solo in superficie e lui riesce a slanciare il proprio gomito sulla
faccia dell’ assalitore. Sente un vero e proprio crack nell'istante dell'impatto ed è il rumore dell'osso del naso che si rompe. L'aggressore, rincula, sorpreso dal dolore e dalla
reazione, Ferraris ne approfitta del vantaggio e lo colpisce, con gli scarponi, sulle parti
intime e quando infine l'avversario è a terra, gli fa sentire il sapore del cuoio dei suoi stivali, colpendolo ripetutamente sulla bocca. Infine estrae la sua Beretta d'ordinanza e gli
pianta un proiettile in mezzo alla fronte. "Motherfucker!" gli sputa addosso, tamponandosi il sangue che gli esce dal collo.
L'asiatico senza vita, nel cortile di una casa signorile di piazza Vittorio, non ha più nemmeno sembianze umane.
!
"Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l'animo nostro informe, e a lettere di
fuoco/lo dichiari e risplenda come un croco/perduto in mezzo a un polveroso prato.
Qui sta tutta la disperazione del poeta a questo punto,'non chiederci la parola', è un poeta
muto, un poeta che ha perso la parola, come un atleta che ha perso le gambe, è un croco
perduto in mezzo a un prato, non certo positivo, di erba, di fiori, di rugiada, ma è polvere,
ossificato, un deserto..."
Nosenzo sta facendo la sua relazione, questa settimana gli è toccato "Non chiederci la
parola", da 'Ossi di Seppia'. Ogni venerdì sera, l'associazione 'Amici di Montale' si ritrova
in una stanza ben più che essenziale, in un oscuro circolo Arci di via Buniva, per discutere, passare al vaglio, interpretare le poesie di Montale. Sono cinque entusiasti, che
tutto l'anno rileggono ogni riga del poeta e quando hanno finito ricominciano e presentano le loro liriche tutte rigorosamente in linea con lo stile della loro ispirazione. Tutti e
cinque hanno vinto il premio Montale.
È l'unica distrazione di Nosenzo, l'unica attività che lo tiene lontano dall'altro punto fisso
della sua vita, Lizzi. Non ha nient'altro, non una donna, non un uomo, la sua famiglia l'ha
tagliata fuori, lontana, nella rurale campagna astigiana.
Un uomo solo, un poeta delicato e uno sbirro violento.
Alle undici la riunione è finita, abbandonano la stanza i poeti, tornano alle loro famiglie
alla spicciolata. Nosenzo è l'ultimo, spegne la luce, ha le chiavi e chiude la porta e si
avvia lungo il ballatoio di questa casa di ringhiera di via Buniva.
La notte è scura e fredda e la pioggia, quasi neve, taglia come lama. "Ah l'uomo che se ne
va sicuro,/agli altri ed a se stesso amico.”
Dalla parte opposta alla sua, due energumeni gli vanno incontro, il ballatoio è stretto e le
due ombre sembrano avere ognuno una mazza da baseball in mano. "...e l'ombra sua non
cura che la canicola/stampa sopra uno scalcinato muro!"
Nosenzo capisce che sono per lui quelle mazze e quelle ombre e capisce anche che non
ha molte vie di uscita. Quando gli scherani lo raggiungono, cominciano a colpirlo dal lato
destro e da quello sinistro con i loro potenti randelli, Nosenzo prova a parare i colpi e addirittura a colpire, con le nude mani che sembrano magli di acciaio, che potrebbero ammazzare una mucca con un pugno ben assestato sulla fronte. Ma i suoi assalitori sono il
doppio della sua taglia e i colpi cominciano a farsi sentire, sui fianchi, sulle braccia, ma
anche sul collo e, peggio ancora, sulla nuca. È sopraffatto, non ha più speranza di uscirne.
Solo all'ultimo istante, in un guizzo, vede l'unico varco, salta la ringhiera e si getta nel
vuoto. È un salto di cinque piani, e al fondo del suo volo c'è la vetrata di un calidario che
lo accoglie. Frantuma le antiche lastre e atterra con la schiena su un letto di piombi e di
cristalli. E da li non si muove più.
"Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/si qualche storta sillaba e secca
come un ramo./Codesto solo oggi possiamo dirti,/ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo."
!
Lizzi riceve la chiamata di Ferraris e quella di Turchi che è già tornato a casa.
Non può dire che non si aspettasse una reazione da parte di Nelson Lee, ma non così in
fretta e non così violenta. È preoccupato Paul Etienne, per la prima volta in molti anni, il
suo avversario è imprevedibile e lui sembra aver perso la situazione di mano. L'unica sua
speranza è di passare la notte, sa già cosa farà domani mattina.
Ma deve ammettere con se stesso che questa volta non ha vinto, e anche se non ha ancora
perso, le cose non saranno più come prima. Si sente inesorabilmente indebolito.
Ancora vivo, per il momento. Un vago desiderio di annientamento si stende su di lui insieme alla vasta superiorità del vuoto. Quello che sa, è quello che anche il suo specchio o
le lenzuola nel suo letto conoscono, una segreta paura e una manifesta umiliazione.
Spranga porte e finestre e si stende sul letto vestito, impugnando la Beretta.
Sennonché la stanchezza scaccia la tensione e dopo dieci minuti si addormenta.
E sogna una donna, circondata da una parziale oscurità non può vederla in viso, ma lui è
sicuro di sapere chi è.
Ha un cappello adagiato sulle ginocchia e si passa le dita tra i capelli, oziosamente, che
suggerisce noia o stanchezza, tanto che ogni uomo non potrebbe fare a meno di lanciarle
occhiate furtive, per il modo in cui questo molle accarezzarsi i capelli suggerisce l'idea, il
bisogno, di un letto. Diceva: "Mi piace vedere la gente che si corre incontro, che si bacia,
che versa lacrime di felicità quando si riunisce e lacrime di dolore quando si separa, mi
piace notare l'impazienza, le storie che le bocche non riescono a dire abbastanza veloce-
mente, mi piacciono gli abbracci, quando tutto ritorna a casa, quando finisce la mancanza
di qualcuno".
"Anch'io sono contento di rivederti Eleonora. Ho sempre pensato che tu riuscissi a vedere
dritto attraverso il mio guscio, proprio al centro della mia anima. Da quando sei andata
via, il mio centro ti ha seguita e sono rimasto da solo con il mio guscio".
"Sei sempre stato così romantico Paul Etienne...", ora finalmente riusciva a vederla in
faccia e lei lo guardava con quel tipo di sguardo che sua madre era solita dargli, per
avvertirlo che la vita poteva nascondere pericoli insospettabili, molto profondi e ingannevoli.
"Ora scusami, però, devo prendermi cura delle mie galline.”
Così dicendo Eleonora si alza dalla sua sedia e da una borsa che tiene a tracolla, tira fuori
manciate di miglio e le sparge tutte intorno, dove decine e decine di galline si radunano a
beccare. Il chiocciare ora si fa via via più intenso. Diventa un frastuono assordante che lo
sveglia.
Paul Etienne apre gli occhi ed Eleonora, naturalmente, è svanita, ma la stanza è invasa da
pollastri e il clamore continua intenso. Lizzi si alza pistola in pugno, scalcia i pennuti per
farsi strada, anche il salotto, l'ingresso e la cucina sono invasi dagli animali. La porta
d'ingresso è aperta. Si getta a sedere sul divano, una nube di piume si alza, il coccodè
costante gli ricorda che è ancora vivo e che non è stata la sua defunta Eleonora a lasciarle
questo regalo, questo avvertimento.
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Quartier generale di via Verdi, ore 8.30, Lizzi convoca le sue truppe, fa l'inventario dei
danni e si lecca le ferite. Turchi e Ferraris sono presenti, Bragante è in camera ardente e
Nosenzo è all'ospedale, in coma.
I musi sono lunghi e Turchi non fischietta, Ferraris ha un cerotto sul collo e porta a Lizzi
un plico di documenti. Sono gli ordini di scarcerazione, Lizzi impugna la penna, si mette
a firmarli ad uno ad uno, sembra tenere in mano un candelotto di dinamite acceso.
"Notizie di Nosenzo?"
Come due gemelli insieme, Turchi e Ferraris scuotono la testa, poi Ferraris arrotando la
erre più ancora del solito aggiunge: "Fratture multiple ed emorragie interne, i medici sono
alquanto pessimisti".
Lizzi fa una smorfia con la bocca, è il parente triste di un sorriso, il suo cuore è un grilletto di polvere.
Qualcuno bussa, Turchi apre, Mister Lee è alla porta. Lizzi fa cenno al cinese che può entrare, con un altro gesto congeda i suoi fidati.
Ora sono soli, uno di fronte all'altro, si guardano, sì, come nemici, ma come truppe che a
Natale fraternizzano, si osservano e non sanno cosa dire, sembra che ci sia un'invisibile
porta fra di loro.
Infine Nestor Lee distende un sorriso sincero, i suoi occhi a mandorla prendono una piega
di dormiente pace, che Lizzi riconosce come preomicida. Lee fa un passo avanti, è solo a
un centimetro dal naso di Paul Etienne e parla in modo soave, ha un leggero profumo di
cardamomo: "Il vero potere è influenza, non azione. Io non ho potere perché sono in
questo ufficio, ma sono in questo ufficio perché ho dimostrato ferocemente di avere
potere, è una questione di attitudine".
Lizzi lo guarda con con la neutrale innocenza di un bambino obbediente, che aspetta che
cominci la sua lezione di piano: "Possiamo parlarne?"
"Possiamo parlarne", accondiscende il cinese.
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Capitolo XVIII
Una stella di Natale
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La macchina fa il solito costante, regolare, continuo, ritmato, rumore della stampa. Libero
mette i fogli, toglie i fogli, li mette di nuovo, talmente abituato a questo frusciare, gorgogliare, crepitare, tintinnare; ai suoi colpi di tosse, agli squilli del telefono, ai bisbigli
della carta quando viene strappata, perché i colori non sono quelli giusti, perché è fuori
fuoco, gli è così famigliare il ticchettio delle dita sulla tastiera o il ronzio della voce gentile di Katia che risponde al telefono. La macchina è come un treno, una locomotiva, lui è
un navigato ferroviere, senza orgoglio e parecchia noia. Dà un colpo di tosse e guarda
l'ora, per fortuna sono le tre meno cinque. È quasi mezz'ora che guarda l’orologio, ogni
manciata di minuti. Aspetta le tre e le tre sono quasi arrivate, chiede a Patrick, che è al
suo fianco, di coprirlo per dieci minuti. Lui già lo sa e gli fa cenno che può andare.
Ormai è da un po' che la storia si ripete. Tutti i giorni alla stessa ora, va a telefonare alla
sua fidanzata. Tutti i giorni.
"Perché tutti i giorni alle tre?" chiede Bruno, che curioso si è avvicinato a Patrick.
"Come non lo sai? Facci caso, perché questa è una storia per un tuo film".
"Dimmi, dimmi, che sono un po' a corto di argomenti. Proprio l'altro giorno stavamo a
girare e parlavo con Nanni che proprio quello che manca al cinema italiano, sono le storie
quotidiane, le storie della vita di tutti i giorni, delle persone comuni".
"Si vabbé, Bruno, la vuoi sentire o devi parlare solo tu?"
"Ok, ok, taccio".
"Bravo, taci. Dunque, Libero si è fatto una fidanzatina su internet, sarà una ragazzina, una
ingenua, roba così e per fare colpo, mica le ha detto che è uno sfigato tipografo di
cinquant'anni, col panzone da troppe birre. Macché, le ha raccontato di essere una ganzo
marine diciottenne, che rischia la vita a Fallujah, e quella l'ha bevuta, ci pensi? Adesso
tutti i giorni alle tre la chiama, perché le fa credere che è l'ora in cui gli è permesso chiamare al campo, laggiù in Iraq, che neanche so che cazzo di ora è. Ci pensi? È fuori di testa, il ciccione, vero?"
Sorride sostenuto Bruno: "Mi fa venire in mente un personaggio alla Jim Jarmush..."
"Ma vaffanculo, Bruno! Oh guarda che la macchina ti sta mangiando il foglio!"
"Cazzo, no!" E corre al suo posto, ma solo per accorgersi che era un trucco di Patrick per
liberarsi di lui.
!
Il posto più tranquillo di tutta la tipografia, è la saletta del caffè, c'è una macchina, un distributore di bevande calde degli anni ottanta, il caffè è amaro come veleno e se selezioni
l'opzione più zucchero viene salato, il tè sembra caldo sapone liquido al limone, ma la
cosa più singolare è, che è talmente vecchio questo dispensatore, che funziona solo con le
vecchie cento lire, non accetta Euro, quindi in quella sala non c'è mai nessuno ed è lì che
Libero si rifugia per telefonare a Jessica. Quella saletta in disuso è il suo Iraq.
Le mani gli sudano, sembrano enormi rispetto al piccolo telefono cellulare, che stritola in
preda all'eccitazione. Perché oggi sa che è il giorno speciale, perché ha deciso per il passo
avanti, il salto nel buio. Il fatto è, che nonostante l'età, la vita arida, le speranze evaporate,
quest'uomo sente semplicemente il bisogno di un profondo, sentimentale affetto, fiori di
arancio e baci e carezze, nascosto in un angolo buio o al fondo di un cinema di periferia.
La sua grossa zampa, desidera una manina delicata, la sua faccia gonfia nasconde il
desiderio di essere adolescente, ora e per sempre.
"Ciao piccola come stai?"
"Sto bene e tu? Sei tutto intero? Sto cosí in apprensione fino a che non sento lo squillo.
Se ti dimenticassi di chiamarmi o se tardassi non so se ce la farei a reggere l'ansia."
"Sto bene, piccola, è tutto tranquillo in questo distretto in questo momento, siamo il settore con meno bombe finora".
"Meno bombe non vuol dire zero bombe.”
"Non ci pensare adesso, che è di altro che voglio parlare".
"Sono qui.”
No, non è vero, non sei qui, sei laggiù, anzi non so nemmeno dove sei, pensa Libero. Lei
è nel mondo, ma è irraggiungibile, come un cuore.
"Il mondo è così piccolo e grande allo stesso momento, siamo così vicini e così lontani,
adesso".
"È così vero.”
"Ma stasera è una sera speciale e voglio chiederti una cosa speciale.”
"Cosa?" Nella sua voce si sente speranza e trepidazione.
Fa una pausa Libero, è una pausa in cui c'è tutta la sua vita, gli imbarazzi, le piccole coincidenze, i tic tac delle vecchie sveglie rumorose, ci sono tutte le sue piccole vittorie e c'è
tutto quello che ha distrutto e tutto quello che ha costruito finora. Tutta la gioia che ha già
provato e che non è ancora abbastanza.
Quando riprende a parlare sussurra, riesce appena a pronunciare quelle tre parole che gli
sembrano dover morire in gola:
"Mi vuoi sposare?"
!
Lungo la strada vede un fioraio, Libero accosta e scende. Una bella ragazza corre di fretta, lui le sorride e lei si mette a correre ancora più veloce, la gonna le si intrappola nell'aria, Libero la osserva ancora un po' e sente le sue ossa tirare sotto il peso di tutte quelle
vite che non sta vivendo. Infine un autobus si ferma, la ragazza ce l'ha fatta, sale, adesso
sorride. Libero entra nel negozio.
Cammina come se fosse leggero, quando Jessica ha risposto si, per lui è stato uno squarcio, come un cielo cupo e nuvoloso spazzato via dal vento e improvvisamente ritornato
sereno, come la vita dopo la malattia. In realtà non se lo aspettava, ci ha provato solo perché non si sono mai visti faccia a faccia, essendo un amore di corrispondenza e impersonando Tommy il marine, ha potuto sperimentare una dose di coraggio che Libero non ha
mai mostrato. Ora si mangia le mani e pensa, se avessi sempre vissuto così, è un peccato
che ci voglia una vita intera per imparare a vivere. Ma lei ha detto si, se prima stava giocando, anche se seriamente, ora non può più giocare, non vuole, anzi desidera questa
nuova vita che lo fa camminare leggero e sorridere alle ragazze per strada. Ha una nuova
confidenza, è un nuovo Libero, anzi è Tommy.
Al bancone del negozio di fiori, sta un piccolo vecchio uomo, magrissimo, la faccia è
profondamente incisa da geroglifici di dolore, pazienza, sospetto. Si tiene la testa tra le
mani e la dondola di tanto in tanto e flebile sembra mormorare, no, no, no.
Libero si avvicina circospetto, intimorito, come se stesse entrando a sproposito in una
conversazione privata tra due sconosciuti.
"Mi scusi, signore, vorrei una stella di Natale.”
Il vecchio, senza smettere di farfugliare, gli prende la pianta da uno scaffale e trascuratamente la incarta. Libero nota che ha gli occhi lucidi di pianto. Paga e fa per uscire, ma si
ferma.
"Cosa le è successo buon uomo, sembra distrutto dal dolore?"
Il vecchio rotea le pupille lucide verso di lui, le borse sotto gli occhi sono talmente pronunciate, che è come se avesse un piccolo binocolo da opera. Prima di rispondere ha un
attacco di tosse rantolosa, le corde vocali sono secche come paglia, quando risponde.
"Mia moglie è mancata stamattina, cinquantadue anni insieme, fino a ieri a lavorato qui
in negozio..."
"Mi dispiace...", riesce appena a sussurrare Libero e scompare, dentro un senso di colpa
che non si spiega bene come è arrivato.
!
Libero entra furtivo in casa sua, dalla porta di ingresso e non dalla cucina come fa di solito, non vuole che Cinzia veda la stella di Natale. Pianifica di svicolare direttamente dall'ingresso allo studio e mettere la pianta dietro al computer, non proprio nascosta, ma
fuori dalla probabilità di sguardi, d'altronde è piuttosto raro che Cinzia si aggiri per lo
studio la sera. L'indomani prevede di portarla con se’ e spedirla durante la pausa pranzo.
Ma appena entra, guarda caso, Cinzia è lì, come se lo aspettasse, stava ritirando vecchi
cappotti dimenticati dall’inverno, sull'attaccapanni dell'ingresso.
Appena lo vede, si illumina e sorride, appare sinceramente sorpresa e soddisfatta, gli va
incontro e lo bacia. Libero si irrigidisce, già turbato dal vecchio fioraio, dal senso di colpa, dall'entrata losca ed è indispettito dall'aver trovato la moglie nell'ingresso a rovinargli
i piani. Quel bacio poi lo coglie di sorpresa, in modo negativo, fa quasi un balzo all'indietro come se un cane volesse leccargli il gelato.
Cinzia nota la reazione scorbutica, ma le sue parole stanno già uscendo dalla sua bocca,
ringraziandolo.
"Che bella stella di Natale, finalmente un pensiero gentile…” e distende entrambe le
braccia per prendere possesso di quello che crede legittimamente suo.
"Non è per te", bofonchia cafone e in difetto, ma con un digrignare, come se stavolta il
cane fosse lui a cui vogliono sottrarre l'osso.
Cinzia non replica, si limita a roteare gli occhi, sembra quasi facciano fatica a stare dentro le orbite, tanta è l'indignazione.
Cercando di apparire gentile e accomodante, risultando invece untuoso e fasullo, Libero
si giustifica: "È per la moglie del capo, domani la devo portare in ufficio, perché poi parte
per le vacanze."
"Non è vero!", dice per istinto, senza sapere quali altre parole sarebbero uscite in seguito
dalla sua bocca. Come quando un bambino che ha appena sbattuto la testa, ha una piccola
pausa prima che pian piano la sua faccia si trasformi in una triste maschera di dolore, così
Cinzia sembra indugiare, prima di realizzare in pieno l'affronto.
"Non è vero, è una balla goffa e clamorosa che non so, e nemmeno voglio sapere, perché
me la propini. Ma anche se fosse vero sarebbe grave lo stesso, non mi fai mai regali, se
fossi stato costretto a comprarne una per la moglie del tuo capo, non potevi comprarne
una anche per me?"
"Quante storie che fai Cinzia! Se non ci credi, telefonagli e chiediglielo, se poi ti piacciono tanto ‘ste menate, vattene a comprare una e non mi seccare quando torno stanco e
incazzato dal lavoro!"
Detto questo, come se fosse indignato e senza ombra di dubbio, dalla parte della ragione,
si rintana con rabbia nello studio, sbattendo anche la porta.
Cinzia rimane immobile, la bocca aperta, nell'ingresso, una statua creata dal sale delle sue
lacrime evaporate.
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Nello studio, Libero posa la pianta sul davanzale della finestra. Fuori è una bella notte,
tersa e cristallina, la luna sembra un dollaro d'argento, Libero guarda fuori, cerca di
scrutare il fondo, dritto nel brillante cuore delle tenebre, come se potesse trovarci una divinazione, una traccia di cosa gli riserva il futuro.
Da sotto il tavolo prende la scatola di cartone, che aveva preparato per la spedizione, infila la stella e chiude.
Prende un foglio e comincia a scrivere.
"Cara Jessica,
da quando ti ho conosciuto, ho smesso di girare in tondo. La mia era una vita di cerchi e
quando si gira in questo modo, il mondo diventa troppo grande, ma una vocina ora mi
dice, ancora cerchi? Ormai ti ho trovata, posso tirare dritto, così che il mondo torna piccolo, a tua misura.
Buon Natale, amore e a presto."
Sorride, si sente bene. Ancora vivo, ancora romantico, capace di scrivere belle parole
d'amore alla sua bella.
Dopotutto è un uomo di questo tempo e di questa nazione, Libero, a cui era stato insegnato ad esprimere le proprie emozioni e a dolersi attraverso le canzoni di Battisti e Baglioni.
Chiude la scatola e scrive “Per Jessi Opalio, via XX settembre 47, Pavia, Italia.”
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Capitolo XIX
The Plans We Made
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È il giorno di Natale, il campanello d'ingresso inizia a suonare intorno alle 11 e 30. Poi
per circa una mezzora a piccoli intervalli, suona ancora. Questa volta sono i genitori di
Cinzia che entrano, baciano, augurano Buon Natale, mentre lei sta ancora urlando qualcosa a qualcuno. Prima di loro, in ordine si sono presentati alla porta, portando una bottiglia di spumante, un panettone, una busta di plastica con i regali: la sorella di Cinzia,
Elena, con la figlia Agnese, coetanea di Claudia e il marito Giulio. Poi è la volta del padre
di Libero, Franco 85 anni, completamente rincoglionito, accompagnato dalla badante rumena, a cui viene dato il via libera subito dopo.
"Come sta la mia piccola - dice la mamma di Cinzia - hai bisogno di una mano in
cucina?"
"Si grazie mamma, ti prego, sono nelle curve.”
Ma la madre la risposta non l'ha sente, si affretta dietro alla nipote Claudia, che la chiama. Il padre di Cinzia, invece, si accomoda sul divano con Repubblica, smanioso di immergersi e di rafforzare i suoi pregiudizi quotidiani e nutrire il suo sprezzante sdegno nei
confronti del governo, per mostrarsi severo e sentenzioso ad ogni pranzo o cena, soddisfazione doppia se una festa comandata.
Finita la cerimonia dello scambio dei regali, finalmente è ora di pranzo e tutti si mettono
seduti.
È il solito pranzo di tutti gli anni, come tutti i passati Natali, le stesse dinamiche si
ripresentano, consolidate dal tempo. Franco, il padre di Libero da qualche anno lotta con
l'arteriosclerosi, o l'Alzahimer, mica lo sanno di preciso. Nella sua tristezza è la nota
comica della festa. Dopo un paio di bicchieri, non si contiene e ruba la scena, per lo più
sempre un po' fiacca, accumulando i deliri di uno che ha perso la ragione e divertendo
fino alle lacrime le nipoti. Questa volta pensa che Claudia sia sua mamma e crede di
avere 15 anni e ogni volta che vede Cinzia, non la riconosce e le chiede sgarbato, chi sei
tu?
Giulio, il marito di Elena, è un brav'uomo, di professione orologiaio. Alto un metro e 58,
porta un pizzo sul mento, molto ancien regime, sembra Italo Balbo, ha occhietti piccoli e
vispi, abituati a guardare piccole cose, piccoli dettagli. È un piccolo uomo, che sembra
abitare un piccolo mondo, tutto suo, dove lui giganteggia. È il tipo di persona che aggiusta vecchie sedie o rimette in funzione obsoleti magnetofoni, con la mania di restaurare
l'ordine originale, disprezza la ricerca, la scoperta del nuovo. Nessuno gli dà mai veramente retta e tutti gli chiedono favori, la sua conversazione a tavola è nulla, solo ogni tanto, per dimostrare la sua esistenza, finge di entusiasmarsi per il dessert, cercando di accreditarsi come ghiottone. Con la testa annuisce a tutto quello che gli altri dicono.
Di solito, chi parla sempre è il padre di Cinzia. Pontifica con il suo vocione e il suo eloquio da avvocato e mai nessuno se la sente di interromperlo o contraddirlo, solo ogni tanto la moglie aggiunge qualcosa, come una postilla a piè di pagina. Cerca sempre un contraddittorio che non trova, ma guai se uno osa esprimere un'opinione che lui legge come
possibile polemica. È capace di caricare, di costruire la sua furia, fino a diventare tutto
rosso e sbottare genuino contro il malcapitato, caricandolo di improperi, senza lasciare lo
spazio fisico per una replica. In quei casi l'atmosfera diventa imbarazzata, ognuno cerca
una qualunque via d'uscita e l'avvocato si ritrova a digrignare i denti e a masticare amaro.
Cinzia, invece, la maggior parte del pranzo la passa in cucina, prepara, sparecchia, frigge,
soffrigge, bolle e sobbolle. Per il dessert ha una torta di pere e amaretto, da togliere dal
forno e guarnire con panna fresca, la sorella Elena sta con lei. È il momento in cui si sfoga.
"Sai cos’è? È completamente assente...", Cinzia sta raccontando alla sorella quello che sta
accadendo alla sua vita, che non comprende. "Non che ci sia niente di nuovo, o cosa, la
vita è la solita di sempre, ma lui è altrove. L'unica cosa che gli preme è giocare a poker
online e neanche per denaro, ho controllato gli estratti conto e non c'è nessuna anomalia,
abbiamo le stesse spese di sempre. Almeno questo. Non c'è nulla, ma sembra che ci sia
qualcosa di grosso. Lui è completamente ignaro di me, come il muro è ignaro dell'ombra
che gli si proietta sopra."
In sala da pranzo intanto la madre di Cinzia, che non ha occhi che per Claudia, sta raccontando a Giulio di Claudia quando era piccola. Stavolta il marito, che ricorda anche lui
con piacere, si associa a Giulio a fare si si con la testa: sembrano quei bambolotti con la
molla e la capoccia che ondeggia ad ogni vibrazione. "Ricordi papi, è sempre stata così
sensibile e intelligente. Quella volta che diceva che Eutanasia era una parola difficile che
significava uccidere i gatti. Ma a lei non piaceva che si uccidessero i gatti, allora l'aveva
trasformata in una bella parola. Era il nome di una bambina, era la Principessa Eutanasia,
figlia dello Zar Nicola, che cavalcava il suo pony nella bianca steppa siberiana. Avrà avuto sei anni, non è vero papi?"
Libero ha messo su la sua faccia da cerimonia, per tutto il pranzo è stato mezzi sorrisi e
una vaga presenza, ma la testa è altrove. Appena si rende conto che la pausa in attesa del
dolce si prolunga, che ognuno ha qualcuno a cui parlare e nessuno veramente gli sta dando retta, sgattaiola via.
Finalmente nello studio, quel suo mondo odioso del passato viene escluso, è al di là della
porta. Da questa parte c'è Tommy, giovane e sbruffone, forte e fiero e soprattutto innamorato della ragazza più giusta, più bionda, più desiderata della scuola, a sua volta innamorata di lui, un giovane coraggioso che rischia la vita in Iraq.
Da un cassetto della sua scrivania, finalmente, tira fuori il suo regalo di Natale.
È un pacchetto che Jessi le ha mandato, dentro ci sono cinque tanga, ognuno ha il suo
profumo e tracce di umore, di odore intenso.
Insieme al regalo, c'è anche una carta di Natale, nulla di che, una di quelle dozzinali che
si trovano in tabaccheria per due spiccioli, ma dentro sta scritto: TOM & JESSI FOREVER e anche: "Lo so che fai attenzione tesoro, ma so anche che ogni cosa può accadere in
qualsiasi momento. Non vedo l'ora che tu torni e che possiamo passare la prima notte insieme. Sono un po' nervosa pensando alla nostra "prima volta". Per adesso sfogati con le
mie mutandine.
Firmato Jessica Opalio Martinetto (fra non molto)."
Il sangue gli si mette a pompare dalla testa fino alla suburbia del suo corpo.
Mette il tanga con più tracce e più odore sul naso e comincia a masturbarsi.
Quando aveva diciott’anni, immaginava di andare a letto con ogni donna che incontrava e
la sera, a luce spenta, ogni femmina che aveva visto durante il giorno era protagonista di
un suo privato ed erotico teatrino e ad occhi chiusi, le immagini, le sensazioni erano così
vere, vivide, reali che la soddisfazione era doppia. Ora fa fatica a concentrarsi, sente le
voci della famiglia, sente se' stesso e nonostante l'odore piccante nel naso sia reale, la sua
immaginazione fatica, anzi fallisce a connetterlo alla donna dei suoi sogni. È come una
proiezione labile, un miraggio, o come nei film quando un personaggio prova ad abbracciare un fantasma. Ecco proprio così, qualcosa gli sta sfuggendo, non sa cosa e nemmeno
come, nonostante tutto si intestardisce e prova ad abbracciare il suo fantasma, la bocca
semichiusa e un paio di mutandine da donna sulla faccia.
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Così lo vede Giulio, ossequiosamente aprendo poco poco la porta dello studio e chiudendola subito dopo frettolosamente, come se potesse cancellare la visione. Si era offerto,
tutto pimpante, di andare a chiamare Libero per la torta, tanto per avere un ruolo, giacché
si sente dedito a tutto ciò che riguarda il dessert, se non altro per una questione di identità. Appena chiusa la porta torna sui suoi passi, spaventato come se avesse assistito ad un
delitto di mafia e ora temesse le ripercussioni. Imbarazzato e compunto, annuncia alla
tavolata che Libero non l'ha trovato e si può dunque procedere per l’ultima portata, come
se effettivamente lui fosse il cerimoniere di questo rito. Ma ormai tutta la gioia sembra
essere svanita e la sua festa rovinata proprio al momento del suo climax.
A proposito di climax, quando Libero torna alla tavolata, è tutto radiante e rosso in viso,
come se avesse bevuto troppo vino. "Lo avete già mangiato tutto il dolce?"
Il cognato non può fare a meno di arrossire e, come se la sua osservazione fosse ormai
solo orientata verso i dettagli, mette a fuoco la grossa mano di Libero, che, a Giulio
questo particolare non sfugge, viene direttamente dallo studio e non dal bagno dove
avrebbe potuto lavarsi. Dunque la grossa mano prende la fetta più grossa di torta di pere e
come se la visione di Giulio fosse ormai condannata allo zoom, in questo caso, quello che
vede in primo piano è la bocca un po' sputacchiante, grossolana, come se ammiccasse,
scandendo le parole : "Mettici sopra un bel po' di crema, mi raccomando."
A quel punto Giulio, il cognato, abbassa gli occhi sul suo piatto e arrossisce come se
avesse fatto qualcosa di sbagliato.
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Capitolo XX
I woke up today
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Il verde non scatta. Sembra un'eternità che il semaforo è rosso. Eppure la tipografia è
giusto attraversato l'incrocio. Non che faccia molta differenza, è tardi, molto tardi, doveva
essere al lavoro almeno tre quarti d'ora fa. Ma quando sei in ritardo non puoi fare a meno
di essere di fretta, anche se ormai non cambia un granché. Non ha sentito la sveglia, tutto
qui, dormiva, sognava, come se il sonno potesse impedire di fingere. Così immerso da
essere in un'altra realtà, impossibile da abbandonare, anche se non così piacevole, in fondo. Cinzia pensava addirittura fosse già uscito.
Ancora non scatta questo verde, come se fosse caduto in un buco nero della materia, dove
il tempo non passa più, come se questa fosse la sua vita onirica e l'altra, la rêverie, la sua
vita reale. Incantato da queste amenità mattutine, alla fine non si accorge del verde,
finché i clacson arrabbiati, di altri infelici pendolari, non lo riportano sulla terra.
Quando arriva in tipografia, è veramente tardi, oltre ogni standard. Il boss in persona, lo
accoglie, una mano sull'orologio, l'indice che tamburella sul quadrante: "Hey Libero, che
succede?"
"Niente, non ho sentito la sveglia, stavo sognando..."
"Ok, ok, raggiungi Patrick alla principale, ci vediamo a pranzo, ma vigile, eh, non voglio
che ci rimetti una mano".
Patrick sta tirando fuori i fogli dalla macchina principale e li distende su un tavolo.
Libero gli fa un cenno col mento, come di saluto.
Patrick lo guarda con un ghigno astuto: "Fatto tardi, eh?"
"Non ho sentito la sveglia, stavo facendo un sogno incredibile: era il giorno di Natale, eravamo tutti seduti a tavola per la cena, quando ci siamo accesi tutti in spontanea combustione, finché non eravamo più che una montagna di cenere sulle nostre sedie Ikea. Quindi
è arrivata la suocera, la madre di mia moglie incenerita e con una scopettina e la paletta ci
ha ramazzato via.”
Patrick, che nel frattempo aveva adagiato un foglio sul tavolo, si riavvicina:
"Cosa dicevi? Il frastuono di sta macchina non mi fa sentire un cazzo! Hai fatto tardi ieri
sera, vero Pistacchio?"
"Figurati saranno state le tre...hey...come mi hai chiamato?"
"Non sei tu, Pistacchio? Scommetto di si e fammi indovinare, lei è...è...Hotblonde, giusto?"
Libero sorride.
"Anche tu? Non mi dire...non sarai mica quello stronzo di Jayme, no?"
"No, no, io è da poco che ci faccio ogni tanto una giocata, da quando me ne hai parlato tu,
in realtà."
"Ok, fammi indovinare...allora...tu sei...devi essere, Bonza?"
Patrick scoppia in una genuina risata.
"E chi altro?"
Bruno vede Patrick e Libero confabulare e sorridere e non può fare a meno di avvicinarsi
e fare capannello, subodora pettegolezzo ed è una cosa a cui non sa resistere, le dicerie
che riguardano i colleghi. Cosí li abborda con un sorriso, arcuando le sopracciglia e ammiccando, come se si considerasse giá un connivente cospiratore in una trama oscura.
"Allora eh?" sibila tra i denti, per non abbandonare il sorriso.
"Allora cosa?", replica Patrick.
"Chi è, di chi parlate?" Con l'imperterrita espressione vuota di chi vuole essere messo al
corrente.
"Libero si è innamorato.”
"Di chi, di chi? Di Katia?", per essere soddisfacente il fatto deve per forza essere dentro il
microcosmo della tipografia.
"Macché, di una sbarbina che ha conosciuto su internet".
Libero conferma, "É vero, é vero.”
Beh, non sarà materia che riguarda il posto di lavoro, ma è già qualcosa. Quindi, dopo
qualche istante, giusto il tempo per inghiottire saliva e un pizzico di delusione, lo apostrofa tutto eccitato, è pur sempre un'occasione per fuggire alla noia quotidiana, dalle 9 alle 5,
della stamperia.
"Allora, allora?"
"Allora cosa?" gli risponde Patrick, "il mondo é fatto di denaro e troie."
"Hey bada come parli, sono innamorato io".
"Ok, ok, denaro, troie e sentimenti, allora.
"Vabbé ma alla fine la storia qual'é?", rilascia il suo istinto da sceneggiatore, Bruno.
"È una storia semplice, grande e ovvia, sto seriamente pensando di lasciare mia moglie e
trasferirmi in Brianza".
"Wow..."
"Lo so, Bruno, ma è la mia ultima possibilità, se ci pensi, ho quarantasei anni, posso ricominciare, rifarmi una vita".
"La vita è infinitesimale, progressiva e senza importanza", chiosa Patrick con una smorfia
cinica.
"Chi lo dice?"
"Lady Gaga".
!
Il rumore di un jet lo scuote, gli pungola l'immaginazione, gli suggerisce possibilità e occasioni perdute, lo rafforza nella sua convinzione, nella presa di coscienza, in fondo quello che ha confessato quello stesso giorno ai suoi colleghi, può anche non essere una
boutade, potrebbe realizzarsi, se vuole può farlo. Si può, alza la testa dalla ciotola dove
patate e zucchini galleggiano tristi nella sua zuppa, si guarda intorno e vede una stanza
poco e male illuminata, leggermente blu dal riverbero della televisione. Cinzia rientra
dalla cucina e si lascia cadere pesantemente sulla sedia. Appare stanca, le rughe che gli
appesantiscono la faccia, sembrano più marcate. I capelli, rabbiosamente tirati all'indietro, come nascosti, come qualcosa di cui vergognarsi, la crocchia evidenzia le radici
bianche e pare chiaro, dai riflessi unti, che non sono stati lavati quel giorno e forse neppure il giorno prima. Libero alza la testa dalla scodella e vede una moglie stanca, con i
capelli sporchi, dentro un'abbondante tuta da ginnastica che non è stata in palestra mai,
nemmeno una volta. A quella vista pensa che ne ha diritto, a una vita nuova, migliore, a
ricominciare, perché no, in Brianza. Può farlo, è la sua ultima occasione, com'è che si
dice, 'carpe diem', cogli l'attimo. La guarda ancora una volta, "fra poco sarò via di qui",
pensa. Lei alza gli occhi come se avesse sentito i suoi pensieri, i loro sguardi si incrociano, ma Cinzia ha un'espressione opaca, un'occhiata che sembra presa in mezzo tra una
promessa di morte e la delusione di tutti i giorni, niente da registrare alla vista del marito,
che si rituffa nella zuppa come colto sul fatto. Intanto Libero, mentre a malavoglia si porta in bocca un altro cucchiaio, si mette a fantasticare, immagina lui e lei pedalare un tandem in un'estiva campagna brianzola assolata, fermarsi e baciarsi in un campo di girasoli.
"Stasera non mi sento proprio bene, ho mal di stomaco, ho crampi forti alla pancia, ti
dispiace se mi siedo sul divano?"
La faccia che mugugna, la pancia che gorgoglia, la moglie che si alza pesantemente e si
trascina fino al divano, lo strappano con malgarbo dal suo vagheggiare. Grugnisce qual-
cosa, che neanche lui sa cosa. Ma si alza e va in cucina a riempirsi una ciotola di pistacchi. Si avvia verso lo studio.
"Ricorda che il cane deve essere ancora portato fuori".
"Dopo". Risponde Libero e sparisce inghiottito dal buio del resto della casa.
Cinzia rimane stesa, riverberare blu con i suoi crampi, le sue rughe e le sue radici in quel
salotto così male illuminato.
!
"Clicca su quella di Max Mara..."
"No io voglio quella della Sportsac..."
"Ma l'asta di quella di Max Mara finisce fra un'ora e l'offerta è solo 80 euro".
"Che ingenua che sei, di sicuro hanno messo un prezzo minimo, così se offri 81 ti dice
che non è abbastanza fino a che raggiungi il prezzo che vogliono, che ne sai, magari è
500 euro. Ma che ne sai tu, hai mai comprato qualcosa su eBay?"
"Una volta con mamma, lo zainetto e poi volevo solo aiutarti".
"Mi aiuti se stai zitta".
"..."
"Poi io voglio quella della Sportsac, anche se costa di più, è più allegra, quella di Max
Mara è da signora".
"Come fai a non sapere che anche su quella della Sportsac non hanno messo il prezzo fisso e tu continui ad offrire finché non raggiungi 500 euro, eh?"
"Hello?! Tonta. non leggi lì in rosso, 'compra subito', eh?! Che genio!"
"Mmm, e tu la compri subito?"
"Prima faccio un'offerta, poi vedo, se entro in gara con qualcuno, la compro subito."
"E se quel qualcuno invece che entrare in gara decide di comprare subito, ti frega".
"Questo è vero. Che faccio, la compro subito?"
"Chiedi a mamma."
"Brava, così invece che compro subito, compro mai..."
Libero entra nella stanza, pesante e rumoroso come un temporale d'agosto.
"Via dal computer, bambine!"
"Un momento, finiamo una cosa".
"Ho detto via, fuori raush! Ne ho bisogno io, adesso, e non ho intenzione di aspettare
nemmeno un secondo, fuori dai piedi!" Le sue parole sono fulmini e saette, sono un sputo
dalla bocca sdentata di un mangiafuoco incattivito. Arriva al computer e sbrigativo lo
spegne.
"Ma papà!', protesta la più grande, "Così perdo l'asta!"
"Non mi importa un'accidente, ho detto fuori di qui e voglio essere ubbidito subito.”
Di scatto, Claudia si allontana, offesa a morte. L'altra la segue, una creatura più giuliva e
accomodante, "Claudia, cosa credi, si potrà vendere l'erba voglio su eBay?"
Nel soggiorno, Cinzia si rianima nel sentire l'eco delle urla belluine arrivare dallo studio,
quando le ragazze la raggiungono chiede cosa succede.
"Cosa gli prende a papà? Ci ha cacciate dal computer in malo modo, sembrava un cane
arrabbiato".
"Non lo so tesoro, gli è venuta questa ossessione di Internet, gli passerà spero".
"Be' intanto avrò perso la borsa della Sportsac.” Così detto si butta sul divano, afferra il
telecomando e comincia uno zapping frenetico, fino a che non arriva su un canale dove ci
sono adolescenti che parlano.
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Indossa le cuffie con il microfono, come fosse il centralinista di un call center, lo studio è
senza luce, tranne il riflesso bluastro dello schermo. Libero è completamente rapito nella
sua conversazione amorosa via Skype con la sua ragazzina, è come se avesse 18 anni di
nuovo, pronto a ricominciare, pronto a buttare tutto alle ortiche pur di seguire le sirene
dell'orribile fascino dell'innocenza senza innocenza; avrebbe dovuto andare molto indietro nel tempo prima di recuperarla; innocenza è una bocca dolciastra, una gengiva senza
denti che ciuccia i capezzoli, forse neanche questo: innocenza è il fastidioso strillo della
nascita.
Si scambiavano sussurri, parole vuote, non proprio bugie, ma verità no di certo.
“Vedi, avevo così paura di perdere quello che amavo che mi rifiutavo di amare qualsiasi
cosa, poi sei arrivata tu e tutto è cambiato, ho imparato il coraggio, il coraggio di amare".
"Sei un soldato che non ha paura di andare in mezzo ai lupi, ma adesso capisci quanta
dose di coraggio ci vuole per amare"
"Proprio così amore mio, tutto grazie a te.” Distrattamente guarda l'ora, sono già le quattro, deve assolutamente andare a dormire.
"Però sono un soldato e mi tocca andare di pattuglia, baci my love."
"Mi manchi già.”
"Anche tu".
Quando con tutta la delicatezza che il suo fisico in sovrappeso gli permette, si infila nel
letto, Cinzia senza neppure aprire gli occhi gli chiede se è stato al computer fino a quell'ora, Libero non ha nessuna risposta da darle, solo un neutrale "Tu dormi, continua a
dormire".
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Capitolo XXI
Ballad of a thin man
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In corso Brescia, le luci di Natale sono vecchie anche appena installate, hanno colori acidi e per lo più non funzionano. Alle cinque è già buio pesto e i pochi lampioni che ancora
illuminano sono deboli come candele. Nessuno se ne cura, anzi per molti è meglio così.
Corso Brescia è proprio dietro Porta Palazzo, è il suo lato oscuro, che è tutto dire, come
Martin Bormann era il lato oscuro del nazismo, immagina che allegria. Le figure
scivolano come ombre lungo i muri, non passeggiano ma si ritraggono, sono fuori per affari loschi o in fuga da Porta Palazzo, lo stock exchange della mala. I negozi e i locali
pubblici sono quasi tutti chiusi, tranne un ristorante cinese e una minuscola panetteria,
dove una decrepita signora ancora non si rende conto come mai non vende più niente.
Donne velate attraversano la strada portandosi dietro pattuglie di mocciosi. Le luminarie
del Natale in questo contesto sembrano qualcosa di esotico. Un'alfa bianca parcheggia
davanti al ristorante cinese. Escono Lizzi e Ferraris. Lizzi tiene stretta una ventiquattrore,
Ferraris si infila la pistola in vita tra la cinta e la schiena.
"Il soldato di professione aumenta il proprio potere quando il coraggio generale della comunità declina. La guardia Pretoriana divenne sempre più importante a Roma quando
Roma diventò viziosa e debole. L'uomo militare aumenta il suo potere civile in proporzione a quanto il civile perde le sue virtù militari. Noi dobbiamo pensare noi stessi
come soldati di professione, siamo la guardia Pretoriana di questa Roma sempre più debole e corrotta e assediata dai barbari. Entriamo Ferraris, i barbari ci aspettano."
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Lizzi e la sua guardia pretoriana entrano nel ristorante. Gli va incontro un cinese poco più
alto di un tavolino, con dei peli agli angoli della bocca che vorrebbero essere dei baffi.
L'uomo parla e parla, pronuncia una raffica di parole, irriconoscibili ideogrammi per le
orecchie di Lizzi e dei suoi uomini. Capiscono dai gesti che occorre sedersi ad un tavolo
e aspettare. Sono gli unici clienti.
"Adesso ci porta un menu'" osa Ferraris interrompere l'atmosfera esotica di musica
cinese, frasi incomprensibili, lanterne rosse e puzza di fritto.
Invece compare Lee, in tuta, ambiguo e affettato come al solito, l'orribile luce al neon lo
fa sembrare più sinistro e butterato che mai.
"Signori, se volete seguirmi.”
Li guida attraverso la cucina, vuota di cuochi e personale, oltrepassano una porta e
seguono un lungo e buio corridoio, che si snoda come un serpente tortuoso in quelle che
sembrano essere le viscere della terra, come se al fondo dovessero sbucare dall'altra parte
della terra, oppure in Cina.
Quando riaprono una porticina, alla fine del lungo budello, si trovano a varcare una stanza, ancora buia, densa di fumo, un fumo fitto e aromatico che proviene da stanze più piccole, tutte intorno. Proseguono oltre, finché arrivano in un grande salone, sormontato da
balconate.
"Questo posto lo riconosco, dice Ferraris.
"È, meglio era, il Big..."
"Avevo visto il concerto di Yellow Man, anni fa..."
Il salone è un casinò, sembra Saint Vincent Shanghai, tanti tavoli di Black Jack e qualche
roulette e cinesi che giocano. Al fondo della sala, una lunga vetrina, come un acquario,
senza acqua, ma con tante ragazze cinesi in costume da bagno e una targhetta con il numero, come fosse Miss Italia a Salsomaggiore. Gli uomini vanno davanti alla vetrina e
indicano una ragazza, una signora con un microfono dice qualcosa in mandarino e la tipa
si alza dallo scranno e fa un giro su se stessa. L'uomo annuisce e lei esce dall'acquario e
va via abbracciata all'uomo.
"È per il Karaoke", dice Lee, avendo notato la curiosità dei suoi ospiti. In effetti, intorno
alla sala ci sono, poste a raggiera, una serie di cabine insonorizzate, con televisione, dove
dentro alcune coppie cantano.
"Tutta sta cosa, solo per cantare?"
"Si, ma se ti piace la ragazza, abbiamo anche stanze private. Siamo organizzati, come
vedete."
A questo punto Lee, sale una rampa di scale. Una volta al secondo piano entrano in una
stanza fatta di specchi. È l'ufficio di Nelson, da dentro si vede tutta l'attività dell'organizzato social club cinese.
Il locale, illuminato da una luce troppo fioca, puzza di sigarette, cavolo e caffè. Non
sembra il posto adatto ad una potente organizzazione criminale.
Una volta seduto, Nelson apre la cassaforte alla sua destra, tira fuori una ventiquattrore e
con nonchalance la fa scorrere sul tavolo, di fronte al naso di Lizzi. Nelson sorride sempre, ma senza cortesia, sembra che tutto lo diverta, che il suo gioco del gatto e del topo
con Paul Etienne gli dia grande soddisfazione.
"Con questa dovremmo intenderci, non è vero?"
Lizzi non sorride per niente, la sua è un'espressione di piombo, la pelle tirata, come se
ogni istante in compagnia del cinese gli desse dolore fisico. Apre la valigetta, è piena di
mazzette di banconote da 500 euro. Paul Etienne controlla, le fa frusciare tra le mani, si
assicura ci siano due strati, fa un rapido conto, infine annuisce con la testa, prima di chiudere la valigia.
Da un'anta della scrivania, Lee tira fuori una bottiglia senza etichetta con un liquido bianco e qualche bicchierino che riempie.
"Brindiamo alla rinnovata pace". In un sorso scola il suo bicchiere.
"Non bevo mai in servizio", si sforza di dire Lizzi. Ferraris imita il cinese e scola il suo in
un sorso Turchi, invece, lo assaggia appena, a labbra semichiuse.
"Visto che è l'ultimo dell’anno, perché non vi fermate, siete miei ospiti. Qualcosa da fare
lo troverete nel mio semplice ma organizzato club".
Lizzi scuote la testa e aggiunge:"Tu lo sai cosa voglio".
"Certo, certo..." Nelson parla mandarino nell'interfono.
"Io quasi quasi mi fermo, qualcosa da fare lo troverò..." Ferraris guarda il suo capo in
cerca di approvazione, ricevendo in risposta soltanto un aggrottar di ciglia.
"Magari anch'io", sibila più titubante Turchi.
Nel frattempo entra nell'ufficio una cinese bellissima, con un vestito lungo e nero che le
lascia scoperta tutta la schiena fino alla soglia delle natiche, un lato del dorso è decorato
da un lussureggiante tatuaggio di un drago sinuoso.
"Shin shin" l'apostrofa Nelson e lei lascia l'ufficio dopo aver appoggiato un vassoio sulla
scrivania. C'è una splendida teiera con tazzine di porcellana di epoca Ming e una larga
busta di cocaina.
"La mia special assistant, con me da quando aveva tredici anni.” Passa a Lizzi la busta.
"Un po di tè? Un gunpowder speciale, viene dalla Cina apposta per me, è una miscela
rarissima, per intenditori.”
"Grazie, non lo apprezzerei.” Prende la sua busta Lizzi e lascia la stanza, i suoi due uomini si guardano sorpresi e lo seguono.
Nelson rimane da solo, si versa il tè e ride forzatamente.
"Fa pure il duro Lizzi, tanto qua tornerai...e io ti aspetto.”
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La macchina ha odore di vomito e pino silvestre e non è la sua. È una vecchia Alfetta
bianca non marcata, che lui usa quando ne ha bisogno. Da quando ha distrutto la Uno,
Paul Etienne non si è curato di comprare un'altra auto. Così come non ha mai avuto un'altra donna, solo a nolo, donne e automobili. La Uno era stato l'ultimo santuario, un tempietto che per quanti arbre magic appendesse, continuava ostinato a contenere, come
un'ampolla magica, il profumo lontano di Eleonora. Lui, in fondo, amava essere colpito a
tradimento dalla fragranza, rimasta impregnata nei sedili, della moglie morta da anni. Ma
il dolore e la rabbia lo spingevano ad appendere un altro arbre magic, nel patetico tentativo di cancellare ogni traccia della felicità perduta. Alla fine la Uno l'ha distrutta ed è
meglio così, cancellare tutto. Ha dato fuoco alle le foto e non è rimasto niente, solo il dolore.
Ora, mentre l'Alfa sgasa in seconda sui tornanti, Lizzi senza volere pensa, se solo potessi,
se solo potessi permettermi di soccombere a questa angoscia, smetterei di camminare a
mento in su e semplicemente mi accascerei come una scatola di cartone sfasciata.
Finalmente arriva, le gomme scricchiolano sotto la ghiaia del cortile della vecchia baita,
esce dall'auto che è buio, c´è un po' di luna a rischiarare la valle, che incombe pacifica e
maestosa, odore di legna bruciata e freddo gli pizzicano il naso. È l'ultimo dell'anno e
lontano si sentono i boati di chi prova i botti di mezzanotte. Paul Etienne avanza verso il
bosco e torna indietro, vuole solo sentire il rumore dei suoi passi per avere la prova che
calpesta questo mondo.
Nel camino bruciano grossi tronchi di legno, rendono la sala calda e ben illuminata.
Sul pesante tavolo di ciliegio, la valigetta di Lizzi aperta, mostra il sacchetto e il suo generoso contenuto di cocaina. A fianco, lo specchio presenta quattro grasse strisce, pronte
solo ad essere inalate, Paul Etienne ha la faccia attaccata allo schermo del laptop, è connesso a Pogo, ha appena vinto una ricca mano a Texas Hold 'hem e scrive in chat, "Suca
faccia di merda e pure la tua troietta.” Abbandona il computer per un attimo, si gira verso
lo specchio con cento euro arrotolati nel naso e in un istante si aspira due strisce. Come
colpito da un immaginario pugno, si lascia andare sulla sedia: "Wow che botta.”
In quel momento nella valle, sembra scoppiare la guerra, vengono sparate sequenze di
botti lontani e vicini. Paul Etienne bagna la sigaretta con la lingua e l'appoggia su una
delle righe, quando la sigaretta si impregna bene di cocaina, Lizzi esce fuori.
Dalla posizione della casa si vede bene la valle sotto, Chiomonte, Gravere, Giaglione dalla parte opposta. Le stelle e la luna perdono brillantezza e la notte si illumina dei colori
dei fuochi d'artificio. È mezzanotte, i fuochi salutano il nuovo anno. Lizzi fuma aspirando
forte la sigaretta scoppiettante di cocaina, la sua faccia si fa dura, l'espressione si incupisce. "Buon anno mister Lee, non ho ancora deciso cosa fare di te, ma più ci penso più
ho l'impressione che quasi ogni opzione mi vede soccombere. E io ho intenzione di essere
di nuovo qui il prossimo capodanno. Questa valle è troppo bella.”
La sigaretta finisce e improvvisi come sono iniziati, anche i fuochi d'artificio. La notte
torna silenziosa a mostrare e a nascondere la asimmetrica cornice delle montagne intorno.
Lizzi respira profondamente, come per assorbirla con tutto il suo profumo.
"Anche pace e bellezza possono uccidere. Non tutti muoiono in sparatorie, non tutti
muoiono gridando." Si guarda ancora un po' intorno prima di ritornare in casa.
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Capitolo XXII
Capodanno
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Arrivano alla tipografia in ritardo. L'invito lo diceva chiaramente, il cenone, a buffet
ovviamente, inizia alle nove. I Martinetto non ce l'hanno fatta ad arrivare prima delle
nove e mezza. Perché era uno di quegli eventi a cui nessuno voleva andare veramente, ma
non c'era alcun modo di evitare. Fernando è uno di quegli imprenditori che si è fatto da
solo, la sua impostazione ancora da boom economico, vuole fare finta di essere l'amico,
lo zio di tutti i dipendenti, vuole portare fino in fondo quella finzione dell'azienda come
una grande bella famiglia, dove tutti si vogliono bene e lavorano per il bene comune, che,
peraltro, è il suo. È come un piccolo soviet. Nello stesso momento, pur senza ammetterlo,
è un modo per aver maggior controllo dei suoi dipendenti, se riesce a organizzare anche il
loro tempo libero, il calcetto ogni settimana e il capodanno aziendale. O forse è sincero e
crede veramente di essere un tale benefattore, che tutti gli vogliono bene come un piccolo
padre. In realtà, non partecipare alla festa di capodanno in tipografia, equivale a mettersi
nei guai. L'individualismo non è molto apprezzato ai vertici della FF e il risultato è quello
di essere bollato come non adatto al gioco di squadra e via via venire marginalizzato fino
ad essere espulso dal corpo monolitico della grande famiglia. Come era successo a quel
poveretto di Andrea, che in realtà aveva problemi personali, la fidanzata gli metteva un
sacco di corna, era completamente nel pallone e aveva avuto la malaugurata idea di non
partecipare alla festa. Dopo qualche mese, non gli era stato rinnovato il contratto.
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I tavoli dove di solito si esaminano le stampe, sono stati uniti, ci sono i piatti e i bicchieri
di carta, rossi; le bottiglie di Fanta, Coca Cola, il vino bianco e il vino rosso. Il catering è
servito dal bar della pausa pranzo, quindi anche l'ultimo dell’anno, i tipografi mangiano
quello che mangiano tutti i giorni, con le famiglie questa volta.
Libero non voleva andarci, tantomeno con la famiglia. Ha già rivelato ai colleghi che
vuole rifarsi una vita in quel di Pavia, lo sanno tutti, anche Katia, anche Riccardo e forse,
ma non è sicuro, anche Fernando. Ora quando guardano Cinzia, anche lei non avrebbe
voluto esserci, sono anni che trova questi veglioni insopportabili, quando la guardano
passare con il bicchiere in mano in mezzo alle litotipi, cercando qualcuno con cui scambiare due frasi di circostanza, tutti gli sguardi su di lei sembrano voler dire: "Povera donna, con due figlie che stanno diventando grandi e fra poco la lasceranno anche loro.”
Cinzia naviga ignara fra questi compatimenti e la conversazione langue come mai prima
e intanto pensa: "Più noioso del solito quest’anno."
Le figlie, pallide come chi cresce in città che per settimane non vedono il sole, si annoiano, non ci sono amici, ne’ coetanei e non c'è niente che veramente li possa interessare
in questa manifestazione di squallore, passano il tempo a farsi i dispetti e a turno vanno a
lamentarsi dalla madre, la quale, sgridando e dispensando ammonimenti, si sente un poco
utile.
Mancano pochi minuti alla mezzanotte, Fernando sale su una pedana dove é stato installato un televisore, in mano ha una bottiglia di Asti Spumante. Accende la televisione,
dove un ragazzotto brillante, da una piazza italiana, è pronto a lanciare il countdown per
l'arrivo del nuovo anno. "Avanti ragazzi, prendete le bottiglie, stappiamole tutti insieme,
facciamo vedere che siamo affiatati, anche a mezzanotte.” Patrick, Bruno, Riccardo e anche Libero si armano di bottiglia e aspettano attenti il 3, 2, 1, buon anno e l'orchestrina
che viene dalla TV, per stappare lo spumante e riempire tutti i bicchieri di carta rossa che
vengono presentati.Tutte le coppie e gli innamorati e gli amanti si baciano le labbra, rigorosamente il primo atto del nuovo anno, un po' scaramanzia, un po' ringraziamento. Così
fa Patrick con la sua fidanzata, Katia con il suo paracadutista venuto apposta da Pisa, così
fa Fernando con sua moglie e così tutti i colleghi. Libero, con il bicchiere in alto gridando
a squarciagola buon anno, mostra un'esagerata felicità e nonchalance, mentre cerca i
brindisi con gli altri suoi colleghi single. Cinzia, dopo un veloce attimo di attesa che
Libero si rivolga a lei, diventa improvvisamente consapevole di tutti quegli sguardi che,
di sottecchi, attraverso gli auguri, sono direzionati verso di lei. Immersa in un ben identificato disagio, cerca e trova lesta le figlie per avere un confortevole cin cin con chi è veramente vicino al suo cuore.
L'orchestrina, dall'altoparlante gracchiante della tele, inizia a suonare ‘I'm stuck on you’,
un fiacco ballabile sempreverde, le coppie più brille o più innamorate si allacciano per
ballare, guardandosi negli occhi. Finalmente gli sguardi di Libero e di Cinzia si incontrano, la smorfia di Libero vorrebbe essere un sorriso, ma sente come fosse una fitta nebbia,
il clima di imbarazzo che ha creato, lui che vorrebbe essere da un'altra parte e con un'altra
persona. Si avvicina a Cinzia, disinvolto come se avesse dimenticato qualcosa e appoggia
le labbra su quelle della moglie ed è la manifestazione di affetto più falsa e gelida che si
sia mai vista, che pure nel frastuono dell'apice della festa di capodanno, si può sentire il
freddo, il crack del ghiaccio che si scioglie nel gin and tonic di Fernando e Patrick e
Bruno che mezzi ubriachi sono passati a qualcosa di più forte.
Cinzia, pur umiliata, non rinuncia alla buona educazione o a quanto rimane del suo affetto, "Buon anno nuovo, Libero", dice e lui risponde con un suono gutturale ed è uno
scambio che darebbe i brividi ad ogni persona sensibile. Concluso il momento d'imbarazzo, Libero si tuffa nel cuore della festa, Cinzia si lascia cadere su una delle sedie, fissa
le proprie mani, lo sguardo lontano, cosciente di afferrare pepite di niente.
Ora che l'anno è nuovo, i Martinetto tornano a casa, la festa in tipografia è alle spalle. Le
bambine dormono sul sedile posteriore, Cinzia guarda fuori dal finestrino, sempre per
non incrociare lo sguardo con quello del marito che si comporta da estraneo. Non si dicono una parola, l'unico rumore è il ronfo pigro dell'automobile. Libero ha bevuto più del
solito, guida piano cercando di non dare retta al ritmo forsennato dei pensieri infiammati
dall'alcol, che in pratica sono tutte varianti di "io in realtà sono un'altro, e sono qui solo
per sbaglio, un incidente del destino."
Si ferma al semaforo, la silhouette di una persona seguita dalla quella di un cane attraversa la strada, nel buio di una notte fredda che stringe la sua morsa. Un treno argentato passa sulla linea dell'orizzonte, Cinzia osserva l'automobile ferma al suo lato, dove serafico,
un bambino dorme, abbracciato dal suo seggiolino. Di fronte, lentamente, attraversa
l'incrocio un camion monumentale, con la scritta Traslochi D’Amore, appare davanti agli
occhi di Libero, lettera dopo lettera.
Tutto il calore dell'alcool evapora improvviso e una foschia come di sette diavoli si impadronisce di lui. Lo legge come il segno che aspettava da tempo.
Una volta a casa, messe a letto le bambine, anche Cinzia si ritira, mentre Libero si rifugia
nello studio. Il nuovo anno è cominciato da più di due ore e i due non si sono ancora detti
una parola. Accende il computer e si connette su Pogo, i soliti compari non ci sono, eccetto Jayme e altri novizi, nemmeno lui è dell'umore di giocare. Invece scrive una breve
mail a Jessi, una breve bugia, che scrive senza fatica per quanto la sente vera, abbiamo
festeggiato il capodanno tra commilitoni, il tacchino era freddo e non c'era proprio una
atmosfera gioiosa, come se nessuno volesse essere veramente lì.
Quindi prende il suo taccuino, il gigantesco camion Traslochi D'Amore è come se gli passasse di nuovo davanti al naso e scrive: “Oggi 1 Gennaio 2013 alle 2.30 del mattino,
Libero Martinetto cessa di esistere, al suo posto nasce un diciottenne carabiniere pronto
ad ogni battaglia. Si trasferirà a Pavia per stare insieme all'amore della sua vita.”
Si chiede, è forse possibile amare e non amare nello stesso tempo? Essere un marito alle
volte si, altre no? Essere padre alle volte si, altre no? Adesso che ha deciso di andare via,
pensa a Cinzia e alle bambine e il suo cuore viene stritolato da una morsa di senso di colpa. Perché è successo tutto questo? Io non ne ho colpa, si dice, è stato il destino, non ho
altra scelta, lo devo a me stesso, non avrò un'altra occasione di tornare a vivere. Però gli
brucia declinare le responsabilità che ha come marito e come padre, si sente squarciare da
queste due forze: il suo desiderio, Tommy dentro di lui che non accetta più di vivere
nascosto e deve venir fuori, e la tristezza del fallimento e dell'abbandono.
In quel momento poteva inghiottire il cielo, non aveva mai saputo che poteva essere
davvero così solo. Per cercare di mettere a posto la coscienza decide che aprirà un fondo
in banca per coprire tutte le esigenze della sua famiglia, si consola dicendosi, se non
potrò più essere con loro fisicamente, almeno finanziariamente non sentiranno la mia
mancanza, non gli farò mancare niente, magari mi perdoneranno. La cosa che ha dimenticato di chiedersi è: con quali soldi? Nel suo deliquio del nuovo anno, non si cura di pensare che il suo mediocre stipendio di tipografo non gli permette di mantenere due
famiglie, due vite. Ma non importa, per ora gli basta per mettere una toppa alla sensazione di irresponsabilità.
Rassicurato si rifugia in bagno, fa pipì e beve ancora mezzo litro d'acqua per cercare di
scacciare l'alcool ancora tutto lì, dentro il corpo. Si incrocia senza volerlo allo specchio, il
suo viso è stanco, cadente, gli occhiali spessi, gli occhi cerchiati, i capelli radi, si vede
intrappolato in un corpo che non mente ed invecchia giorno dopo giorno, vede la propria
vita in stallo per un istante.
Torna in studio e velocemente butta giù sul suo taccuino: “Vorrei sapere l'esatto momento
in cui il mio nuovo io è pronto.” E si sente importante come un Primo Ministro che firma
trattati.
Cinzia rimane immobile nel letto, come se si muovesse potesse rompere un qualche incantesimo e non riuscisse più a sentire i movimenti incomprensibili di Libero. Si muove
dallo studio al bagno, dal bagno allo studio, lei aspetta invano che arrivi a letto, mostri
una faccia sorridente, le dia un bacio sincero e con leggerezza le dica 'Buon anno tesoro',
basterebbe così poco per diradare tutta questa tristezza, la sensazione di sconfitta di
questo capodanno. Sembra davvero poco, ed è invece tantissimo, tutto quello che vede è
catastrofe, sente di andare a fondo, annegando come un nuotatore senza speranza.
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Capitolo XXIII
Say Hello wave Goodbye
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In cucina, il calendario ha le pagine di carta velina, ogni pagina un giorno. Cinzia ogni
mattina, strappa il foglio e un altra giornata comincia. Il numero adesso 13, rosso, stampato grande, sotto c’è il nome del santo. Santi Aimo e Vermondo Corio, 13 febbraio, la
mano di Cinzia, strappa, appallottola il biglietto e rivela 14 Febbraio, S. Valentino, il santo di oggi. Cinzia non può fare a meno di sbuffare un sorriso malinconico, un po' cinica,
un po' rassegnata. Dalla triste serata di capodanno, nulla è cambiato, niente di meglio,
niente di peggio. Libero è sempre estraneo, assente, lei rassegnata, non sa come prenderlo, non riesce a capire; le bambine domandano ogni giorno più indipendenza e lei sente di
invecchiare, sola, senza speranze e senza desideri. Ma prima o poi qualcosa succederà,
per ora sbuffa ancora, si scrolla di dosso la malinconia, chiude il sacco dell'immondizia e
lo porta fuori nel bidone verde. Fa ancora freddo, ma la primavera è alle porte e sta bussando per entrare.
Vede la cassetta delle lettere colma di posta e anche se non ha la chiave con se’, riesce a
recuperare quasi tutti i plichi e il pacchetto che fuoriusciva. "Come Charlie Brown controllo la posta il giorno di S. Valentino e non c'é niente.”
Quando torna in cucina butta tutto sul tavolo. Réclame, un sacco di cartaccia, le offerte
speciali del supermercato, del negozio di computer, del negozio dei telefoni e un pacchetto per Libero. È pronta a lasciare tutto sul tavolo e tornare alle sue occupazioni, ma invece si siede e osserva quel plico, intestato a Libero Martinetto, una grafia graziosa, di
mano femminile. Cinzia è curiosa, anche un po' invidiosa, "A S.Valentino, lui riceve posta e io no. Magari è pubblicità anche questa, con una confezione che ti attira come se fosse qualcosa di personale. Ne inventano sempre una." Alla fine non resiste, è un impulso,
un istinto a cui non sa dire di no. E apre il pacchetto.
Dentro trova un biglietto, in una piccola busta ed un altro plico. Non ha esitazioni e apre
anche la bustina. Su carta elegante sta scritto: "Caro Libero, questo è il mio regalo di S.
Valentino per Tom. Ti prego fa che arrivi in tempo per il 14 a tuo figlio. Grazie Jessi."
Dapprima Cinzia deambula esterrefatta, non sa bene cosa fare, non sa bene dove andare.
Dopo un primo momento di incredulità, con uno sforzo passa tutto il regno del comprensibile e non arriva a nessun risultato, ma l'istinto bussa e bussa contro la parte più protetta
del suo cuore, dove giace l'intuizione, il cuore che sa.
Così senza capire, capisce.
Nel pacchetto c'è un tanga usato, rosso a forma di cuore, non lavato. Cinzia guarda quella
cosa come se qualcuno avesse fatto un incantesimo, come se fosse posseduta da demoni e
non potesse in alcun modo toccarla, quindi, dopo un attimo di indecisione, si precipita
nello studio.
Passa al setaccio l'intera stanza, apre tutti i cassetti, tutte le scatole e le buste, minuziosamente si intrufola dovunque, come se ricostruisse così tutti quei mesi freddi e senza
amore che ha sopportato senza dire una parola. E trova tutto: i tanga, le catenelle, le lettere; la storia ridicola di Jessi e Tom si srotola di fronte al suo sconcerto. Le viene da pi-
angere, a pensare a suo padre e sua madre, una vita amorosi e fedeli l'uno all'altro, poi
sente la voce di sua mamma che dice: "Oh ma l'intera faccenda è così berlusconiana,
reazionaria, tu pensavi di vivere nella tua piccola campana di vetro, figlia mia, nel tuo
piccolo mondo ed ora l'incantesimo si spezza, la tua piccola casa di bambole". Così le
avrebbe detto.
A questo punto accende il computer, perquisisce tutte le cartelle e i documenti, ma non
trova niente, cerca di entrare nel suo account di posta elettronica, ma non riesce a indovinare la password.
Ciononostante il quadro della situazione, è abbastanza per scuotere tutto l'edificio della
sua fiducia fino alle fondamenta. Leggendo le lettere, pressapoco intuisce che suo marito
ha una relazione con una teenager via internet e che Libero si fa credere un diciottenne.
Tanto basta.
È il giorno peggiore della sua vita. E sono solo le undici.
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Per un momento crede di aver sbagliato vicolo. Villette come la sua sono comuni in quella zona, si entra in un vialetto e ci sono schiere di tre o quattro casette con giardini, tutte
uguali. La sua è la prima e quella successiva non è abitata ed è sempre buia quando rientra la sera, ma la sua, invece, è sempre bene illuminata. Dalla finestra della cucina una
luce gialla testimonia movimenti di vita di fine giornata. Quella sera tutta quanta la viuzza è buia e sembra disabitata. Controlla il numero civico, corrisponde e parcheggia. Una
atmosfera irreale elettrizza la sera, la casa non solo è buia, ma anche sprangata. Fortuna
che quel giorno Libero si è ricordato di prendere le chiavi. Entra e si rende conto che
l'abitazione sembra vuota perché è, inesorabilmente, vuota. Prova, giusto per abitudine a
chiamare ad alta voce il nome di Cinzia e delle figlie, ma solo un'eco di vuoto gli rimbalza indietro. Sempre più perplesso entra in cucina, accende la luce e apre il frigo per
prendere un po' d'acqua, ma qualcosa entra di sfuggita nel campo visivo della sua coda
dell'occhio. Quando focalizza sul tavolo un pacco regalo, aperto con tanto di cuoricini, si
rende conto che qualcosa è davvero successo. Accanto al pacco, con un altro paio di mutandine usate, c'é una lettera, o meglio un biglietto e non è di Jessica, ma di sua moglie.
Il solito poster di un quadro di Magritte alla parete, mostra un uomo in bombetta che
sembra guardarlo e dirgli: “E adesso?”
Adesso le ginocchia tremano, consapevole dei suoi piedi profondamente piantati al pavimento, l'orologio alla parete si muove senza alcun ticchettio, si sente a metà strada tra essere Libero ed essere Tommy, senza essere, però, ne' l'uno ne' l'altro.
"Buon S. Valentino. Io e le bambine siamo dai miei e per un po' staremo lì, per non condividere il tuo stesso spazio. Tutto è così triste e irreale, ma quello che meno riesco a
capire, è che tu viva certe fantasie come padre e figlio...se vuoi possiamo separarci, ma
che tu continui a mentire a me e alle bambine, mentre 'quella lí' continua a mandarti regali per 'tuo figlio' per posta, è davvero inaccettabile.”
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Capitolo XXIV
In tavernetta
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Libero si alza, ha un'espressione come se ogni cosa sulla faccia della terra lo avesse disertato. Ha dormito male, come al solito, la brandina militare che ha installato in tavernetta,
gli spacca la schiena e non avere Cinzia nel letto non gli fa prendere sonno.
Da quando ha scoperto le lettere di Jessi, hanno deciso di comune accordo, come misura
temporanea, che lui si trasferisse nel seminterrato della villetta. Non era per quello scopo
che l'avevano pensato, anni fa, quando hanno comprato la casa. Immaginavano fosse il
posto dei giochi, delle chiacchiere, dei grappini con gli amici. Infatti c'è il tavolo da Ping
Pong, un divanetto, un mobile da liquori, una piccola televisione, un piccolo bagno.
Libero ci sta come un frate penitente nella sua celletta. Ha comprato un computer portatile, un netbook economico, buono solo per internet, le chat e poco altro, lo tiene sempre acceso, a fianco al letto. Sullo schermo adesso sta scritto "Buonanotte tesoro", "Buonanotte", le ultime parole della sera prima con Jessi.
Una volta alzato, si trascina fino al bagno, sembra una bestia di buona mole in una gabbia
troppo piccola, di uno zoo trascurato. Si lava veloce nel piccolo lavabo, la faccia e le ascelle e infine prende i vestiti sbattuti sul divano la sera prima. La schiena è indolenzita e
Libero si sente di un umore amaro e incomprensibile, come un uomo che abbia distrutto
la propria casa senza averne costruita un'altra.
Prende il notebook e lo appoggia sul tavolo da Ping Pong, si siede su una sedia e scrive
"Buona giornata amore mio" e aspetta la risposta. Le sedie sono troppo piccole e troppo
dure e la replica di Jessi tarda ad arrivare, guarda l'orologio, è tardi. Quando è sulla porta,
con il giaccone addosso, si gira ancora verso lo schermo e sente l'atteso bip del messaggio in arrivo. È un laconico : "Buona giornata anche a te, ci sentiamo più tardi".
È quasi primavera e l'aria si è fatta più dolce. Gli alberi stanno fiorendo i primi boccioli,
con il telecomando apre l'auto, da dentro casa sente la voce di Cinzia che grida: "Forza
Patrizia che fai tardi a scuola.”
Sorride, aspettando di sentire la voce di Patrizia, ma lei non risponde e Libero entra in
macchina e il suo sorriso senza attenuarsi, porta tutta la tristezza del mondo, dentro.
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Mano a mano che i giorni passano, un senso di incommensurabile tristezza e ingiustizia
prendono, piano piano, il posto della rabbia. Tornata a casa, Cinzia aveva imposto a
Libero lo spazio in tavernetta, per nessun motivo ora, poteva tollerare la sua presenza nel
suo spazio vitale. Forse un giorno le cose avrebbero potuto tornare vicine alla normalità,
ma ci voleva molto tempo e molto lavoro da parte sua.
Cinzia sembrava a pezzi, la faccia grigia, la pelle spenta, per giorni aveva fatto fatica a
dormire, a mangiare. C'era voluto un sacco di tempo, ma finalmente cominciava a dimostrare i suoi anni.
Sua madre certo non l'aveva aiuta, non che non le fosse stata vicina, questo no, non poteva dirlo, ma notava, ogni volta che passava, che guardava lei e le sue figlie, con una celata espressione di trionfo, un sorriso nascosto, che fin troppo chiaramente stava a significare, avevo ragione io, fin dall'inizio, a non approvare questo tipo di vita, quel tipo di
marito, l'appiattimento acritico alla vita piccolo borghese. Ed ora eccoti qua.
A disagio, aveva cercato il più possibile di evitare il suo sguardo, sentiva che un contatto
di occhi con sua madre, avrebbe potuto bastare per farla crollare e farle sentire il peso di
tutto quell'enorme, ridicolo fallimento.
Finché un giorno, radunate le forze e le figlie, caricate le valigie in macchina, aveva deciso di rientrare e di rinegoziare temporaneamente il suo contratto con la vita.
Dopo qualche settimana, dunque, Cinzia è di nuovo a casa, nella sua cucina, da sola. Ha
un foglio di carta bianca davanti a se' e una foto di un paio di anni prima, una foto di
famiglia, al mare, ad Alassio, quando ancora erano affiatati, se non addirittura felici,
qualcosa che sua madre non avrebbe mai potuto contemplare.
Libero è abbronzato e sorridente e anche lei sorride genuina.
"Lascia che ti presenti questa gente...", comincia a scrivere.
"Questo signore con i suoi anni, lo stomaco prominente e gli occhialoni è mio marito,
Libero, lo vedi qui nella sua forma migliore, al mare, abbronzato e sorridente, quando ancora sorrideva, almeno in mia presenza. Le due bambine sono le nostre figlie, in realtà
non sono più bambine, la piccola, Patrizia ha 12 anni, mentre la grande Claudia, ne ha già
14 e va verso i 15. Come vedi non ci sono figli maschi, Tom o Tommasi. L’unico maschio
è mio marito, che di anni ne ha ormai 47, non é stato in Iraq e a dirla tutta, è parecchio
tempo che non si muove da Alpignano. In compenso passa molto tempo attaccato al
computer. Da quello che leggo nelle tue lettere, tu sei molto più vicina all'età delle mie
bambine che alla mia, lasciamo stare quella di mio marito. Dunque potresti essere mia
figlia e come madre ti darei questo consiglio: non ti fidare delle parole sul computer.”
!
La lavagna è troppo nera, neanche un segno bianco, una rivelazione.
Lei di fronte a tutto questo nero, aspetta un segno, un miracolo, qualcosa che improvviso
venga e la salvi. Mentre il gessetto le si sta sciogliendo in mano, sente il professore che si
sta schiarendo la gola, è quasi pronto a parlare, ma le da ancora qualche istante, più che
altro una formalità, per riscattarsi, non sia mai che all'ultimo minuto guarisca dall'amnesia e tutto quello che deve ricordare, le torna d'incanto alla mente e recuperi l'interrogazione, riscattandola dall'ennesima brutta figura, dall'ennesimo brutto voto. Guarda ancora la superficie nera su cui deve scrivere, con la disperata speranza che sia un buco,
l'ingresso di una caverna dove infilarsi e passare attraverso e infine ritrovarsi da un’altra
parte, dove tutto è diverso, piacevole, luminoso e favorevole.
"Vedi Jessi, non basta, tutto questo non ti basta. Non ti basta avere diciott'anni, non basta
la vita che desideri e che pensi di poter avere per grazia ricevuta, per il tuo viso, angelico,
per i tuoi capelli biondi, per le tue gambe lunghe che fanno sospirare gli uomini. Questa è
solo una interrogazione di geometria e ti sembrerà inutile, una volta passato questo spiacevole momento. Forse non lo capisci, ma lo capirai, questo è quello che ti serve e quello che ti serve è proprio quello che ti si richiede, a cui tu sistematicamente vieni meno.
Sono i tuoi doveri quello che ti formano e che faranno di te una persona forte e non solo
un'altra ragazzina viziata che reclama i propri diritti, pronta ad entrare in una spirale di
autocommiserazione non appena le debolezze di un carattere che non hai voluto fortificare, ti lasceranno così vulnerabile da essere ogni volta ferita. Ma questa è solo una interrogazione di geometria e non importa se sono rettangoli, triangoli o quadrati, sono tutti
l'esatto opposto del cerchio, che è la tua vita ed è lì che devi imparare a muoverti, dove ci
sei solo tu e il tuo hula hop."
Quelle parole raschiavano la barriera del suo silenzio, come le unghie del gatto contro i
vetri delle finestre. Quando sente che da quell'uomo non provengono più suoni, deglutisce, per dimostrare quanto mortificata, abbia capito perfettamente la lezione: "Posso
andare adesso?"
"Certo Jessi. È un altro due. Sarà difficile che riuscirai a salvarti quest'anno. Andando
avanti così non verrai ammessa alla maturità, non so cosa tu abbia nella testa, ma è
meglio se riesci a togliertelo prima possibile e torni a concentrarti nello studio, se non
vuoi ripetere le stesse cose anche il prossimo anno.".
Lei annuisce con falsa modestia, come se l'uomo le avesse fatto un complimento.
!
Jessi rientra a casa che sono passate le due e mezza. È molto più tardi dell'ora a cui di
solito rientra, per questo spera che sua madre non sia in casa, non ha voglia di sentire altri
rimproveri. Si è attardata a scambiare le solite frivolezze, minuzie e civetterie con le sue
compagne. I suoi coetanei l'annoiano e lo sfogo del professore sulla sua ennesima impreparazione, anche se ha cercato di farselo scivolare addosso, le ha lasciato il segno, un
ennesimo colpo al morale, già sotto i talloni.
Tutti sembrano guardarla e riverirla come fosse una cometa luminosa, una benvenuta alleluia in questo shitbox che è il mondo, poi quando si tratta di fare le cose sul serio, sembrano tutti svanire, evaporare e lei si ritrova invariabilmente sola.
Come suo padre, sono settimane che non lo vede, il segno più evidente della sua presenza
è la sua cabina armadio, con il suo guardaroba pieno di vestiti eleganti e impeccabili
scarpe Church. Alle volte lei ci entra dentro, immagini uomini che non sono suo padre ma
lo sembrano, ama l'odore della stoffa e lascia che le maniche di quei vestiti le tocchino le
orecchie, le struscino le gote, le accarezzino la pelle, che diventa via via più sensibile.
Adesso che ci pensa, spera che la madre sia in casa, non ha voglia di essere ancora sola,
anche se magari la rimprovera.
Si confortano l'un l'altra, perché anche lei è sempre sola. Attraversa tutto l'appartamento e
non sente rumori, non un traccia di un'altra persona, ma quando entra in cucina, sua
mamma è seduta al tavolo, ancora apparecchiato, con un'espressione più scorbutica che
mai.
"Se vuoi mangiare qualcosa, è ancora tutto in tavola.”
"Scusa mamma se ho fatto tardi, sono rimasta a parlare con le mie amiche..."
"Non importa", replica senza nessuna intonazione.
"Non viene di nuovo?"
A quella domanda non risponde subito, sembra colta di sorpresa, poi il suo sguardo si fa
ancora più torvo prima di rispondere “No."
Non vola più una parola, Jessi mangia in silenzio quel che resta di un'insalata, mentre sua
madre guarda dentro al bicchiere che ha davanti.
È come se guardasse dentro una profonda oscurità, mentre tutt'intorno dilagasse innocenza, accattivante bellezza, grazia e cultura. Invece, nel calice in cui fissa lo sguardo, come
un indovino dentro la propria anima per leggere i destini degli estranei, ci fosse tutto il
suo stretto, inutile, fragile mondo.
!
Capitolo XXV
Princess Priceless
!
Sono le otto di sera, è buio ed è una serata mite del mese di Marzo. Patrick parcheggia
l'auto a spina di pesce, nel controviale di corso Vittorio. Si ferma al distributore automatico di sigarette all'angolo con via Madama Cristina e compra un pacchetto di Gaulois
rosse. Risale via Madama verso il mercato, è in via S. Tommaso quando il cellulare squilla. È Cristiana, ma Patrick non ha tempo, "Scusa sto entrando adesso in classe, non posso
parlarti, ti richiamo più tardi quando esco, va bene?" la liquida frettolosamente.
Alla fine, spinto da Cristiana e dai genitori di lei, Patrick si è convinto ad iscriversi al
liceo artistico serale. Gli sembrava una cattiva idea all'inizio, ma quando gli hanno proposto di pagarglielo, si è deciso. E si è rivelata la scusa perfetta per stare lontano dalla sua
fidanzata e farsi gli affari suoi. Sono mesi che non mette piede a scuola.
Finalmente arriva davanti ad un ristorante africano, non è proprio un ristorante, piuttosto
un negozio, con banco vetrina e qualche tavolino, servono piatti unici con riso aromatizzato al cocco e un curry unto, dove dentro potrebbe esserci di tutto.
Sull’insegna sta scritto Lizzy.
Si siede ad un tavolino, è talmente sudicio che non osa neppure poggiarci i gomiti, chicchi di riso e aloni di curry sparsi dovunque. Patrick si accende una sigaretta e aspetta,
nessuno viene a prendere le ordinazioni. Dopo la seconda Gaulois, arriva una bambina
dal retrobottega, avrà al massimo sei anni, nera come l'ebano scuro, i capelli pettinati a
treccine e parla italiano con uno smaccato accento piemontese.
"Mister Inaju, arriva fra poco." Dice e scappa via.
Patrick fuma ancora due Gaulois, spazientito guarda l'orologio, canticchia fra se' e se'
'Waiting for my man' di Lou Reed e infine gioca a solitario sul suo smartphone.
Infine la bambina compare di nuovo, come un'apparizione. Gli posa sul tavolino un pacchetto piuttosto voluminoso.
"Mister Inaju è occupato e non può venire. Ma dice che aspetta i soldi per lunedì e non
accetta ritardi." Se ne va di nuovo, saltellando questa volta.
!
Le cinque carte spiegate al suo angolo di tavolo verde virtuale lampeggiano, indicano il
suo turno: ha due otto, tre cuori di cui un fante, un re e un sette. Patrick tira su la testa
dallo specchio dove sono stese le sue numerose, lunghe, grasse strisce di cocaina; la banconota arrotolata ancora nel naso, tira su il grumo e la droga in una botta, circola attraverso il suo sistema nervoso. Per qualche istante rimane immobile a godersi il momento.
Niente si muove e la luce fredda del portatile riflessa su di lui, proietta un'aureola, sembra
una di quelle statue dozzinali in una brutta chiesa, manca solo una corona di cartone e un
cuore dipinto. Si potrebbe anche rivolgergli una preghiera, ma puoi star sicuro di non
ricevere nessuna risposta. Nella finestrella della chat, gli altri giocatori lo esortano, gioca
la tua carta, Bonza, giocala, ma il suo tempo scade e perde il turno. Intanto suona il campanello
Patrick va ad aprire. Un ragazzo alto allampanato, con i capelli lunghi sulla nuca e uno
stile da playboy del jet set anni settanta, lo saluta con una stretta di mano da iniziati, un
spalla contro spalla, fa parte del rito del saluto e tra i denti un "Tutt'apposto?" "Tutt'apposto", lo tranquillizza Patrick.
Arrivati davanti al tavolo, davanti allo specchio con le righe già stese, Patrick con un
cenno invita l'ospite a servirsi, il quale senza farselo ripetere, tira su in un lampo due
grasse strisce. Tira su con il naso e con la voce ancora strozzata dallo sforzo: "Mi dai due
pezzi? È una bella botta!"
"È una bella botta, infatti è più cara".
"Quanto?"
"Cento al pezzo"
"Cazzo!"
"Non la vuoi?"
"Scherzi? Se non la finisci tutta stanotte, te ne prendo due pezzi anche domani".
Patrick, sogghigna. "Hey ne ho presa una bella scorta."
"Meglio così, sennò mi tocca andare a prendere quella merda dai negri a San Salvario".
"Non fare cazzate, che poi non sai cosa ti tiri su. Questa arriva dalla Colombia, al massimo c'ha un po di mannite che ti fa cagare. I negri la tagliano con l'intonaco che grattano
via dai muri.”
Intanto che parla, pesa due grammi su un bilancino, la travasa in una bustina e riceve
duecento euro dallo spilungone.
"Posso tirarne su ancora una?"
"Prego, serviti."
Il pennellone, sfregandosi l'indice contro le gengive, da un'altra spallata di saluto a
Patrick e se la svigna.
"Ti chiamo domani.”
"A domani.”
Quando torna allo schermo del computer, vede che il suo posto da giocatore è inattivo,
ma ha una richiesta di pvt, di chat privata e viene da Hotblonde.
"È tuo amico?"
"È un piacere essere in pvt con te Hotblonde, a che devo l'onore?"
"Non ti esaltare troppo, ti ho chiamato in pvt solo perché ho bisogno di sapere se è tuo
amico o no?"
"Chi?"
"Lo sai chi. Pistacchio o chi c'è dietro di lui, Tommy o Libero."
"Guarda Hotblonde, voglio essere sincero con te, io lavoro con Libero, è un mio collega,
ma non posso dire che sia mio amico.”
Si allontana dallo schermo, si riempie il naso e il cervello di cocaina, si prende la pausa
per la sigaretta e quando torna, il computer è zeppo di parole.
"Io non so più a chi credere. Sono a pezzi. Sono stata innamorata per mesi di un ragazzo
fantastico, un eroe in Iraq. D'improvviso ricevo una lettera da una donna che mi dice,
Tommy non esiste, Tommy è mio marito Libero e mi manda la foto e non è certo il tipo
per cui ho perso la testa. Io sapevo che Libero era il padre di Tommy, un ex carabiniere
che mi aiutava a mantenere i contatti con Tommy e che gli faceva avere i pacchi che gli
inviavo. Visto che tu Libero lo conosci, puoi dirmi se Tommy esiste o no?"
A Patrick viene da ridere e sente nascere in se’ un perfido istinto.
"Rileggi le tue parole, non ti sembra di essere stata proprio un po' ingenua? Hai una storia
con un figo in Iraq, che guarda caso per mesi, non torna mai a casa, non si fa mai neppure
vedere con Skype, però tutti i suoi contatti li hai con il "padre", uno sfigato ciccione. Senti, sarò brutale, ma sincero. Io so tutto di te e lui, perché è il tipo che ama vantarsi con i
colleghi di lavoro. Sua moglie ha ragione, Tommy non esiste, è un'invenzione di Libero
per beccarsi una diciottenne su internet. Mi dispiace per te, ma quel pedofilo bastardo ti
ha ingannata."
"Non è possibile, sembrava tutto perfetto, un sogno, un’ incantevole storia d'amore, la
mia anima gemella. Come può in un attimo, quel tutto che mi é stato promesso essere
niente?"
"Perché il bastardo ti ha preso in giro, ingannata, derubata del tuo sogno."
"È vero, è un bastardo, lo odio, mi ha ferita a fondo, non merita neanche di vivere quel
verme schifoso. Bonza, mi prometti di aiutarmi a fargliela pagare?"
"Con piacere, merita di soffrire lo schifoso. Ora andiamo via di qui, andiamo da un'altra
parte, c'è aria malsana, un pedofilo pervertito di troppo. Vieni a giocare a Lottso, vieni
nella room Princess Priceless, mi trovi lì."
"Ti seguo.”
Un'altra riga e un'altra sigaretta, Patrick aspetta che Jessi lo raggiunga nella nuova stanza.
Sorride con malizia, siede rapito da una certa leggera malinconia, come un uomo che
guarda al proprio passato e si ricorda focoso amante di molteplici femmine. Si rende conto del gioco che sta conducendo, sa di essere un maestro nel mescolare nel torbido.
Si specchia in un bicchiere in cui c'è scritto Singha, vede la propria malizia riflessa, riconosce che in quel contesto, svelata dalla birra, la sua è una faccia strana.
Sullo schermo si illumina la scritta “Hotblonde è entrata nella room". Il ghigno di Patrick
è uno di quelli che non lasciano speranza.
"Goodnight Princess.” Scrive.
Da lì fino a tarda notte i due giocano e chattano, cambiano stanze e giochi, alla fine mentre sono ormai annoiati su un banale IMing di Yahoo, Patrick, che sa come si fa, la trascina in un carnevale intimo. Lei lo segue dapprima civetta, poi entusiasta, si ritrova senza
accorgersene, dal maledire Libero, a scambiare avance sempre più spinte, finché la
Blonde fa onore al suo nome e diventa sempre piú hot e così Patrick, guidato dalla coca,
senza freni sollecita un sesso senza limiti, virtuale, che entrambi mai si sognerebbero di
fare nella realtà.
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Capitolo XXVI
Bye Bye Love
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Quella mattina la tipografia fa un baccano infernale, non più delle altre volte probabilmente, le macchine si muovono come tutti i giorni, stampano, imprimono, pressano con
la stessa routine quotidiana. Ma quel rugliare, mugghiare, cigolare, stridere, crepitare e
alla fine frusciare dei fogli freschi di stampa, rimbomba amplificato nella testa di Patrick.
Come dopo una sbornia, la cocaina gli ha lasciato un'emicrania feroce, non ha nemmeno
preso in considerazione l'idea di andare a dormire, ha continuato a sniffare fino al minuto
prima di entrare al lavoro, nel parcheggio, in macchina. Ed anche in tipografia, per mantenersi in piedi, ogni mezz'ora Patrick si rifugia in bagno e tira su un po' di polvere. Ma il
cranio gli rimbomba che pare voglia scoppiare. Sta lavorando, guarda guarda, fianco a
fianco a Libero, che non sembra messo molto meglio, ha un'espressione meschina e parla
biascicando. È andato a dormire molto tardi, ha cercato fino all'ultimo di mettersi in contatto con Jessi, che lo ha evitato ostentatamente e gli ha risposto anche maleducatamente
con una mail. Ora l'angoscia si aggiunge alla stanchezza e l'intero complesso della sua
figura ricorda quella di un rudere. Prova una battuta di spirito cameratesca con Patrick,
ma l'altro non sente o non capisce e di fronte all'imbarazzo la sua vecchia faccia si ricompone velocemente nelle sue linee serie. Patrick dal canto suo osserva quel suo collega dal
corpo e dalla vita disfatta, può vedere gli anni che avanzano dentro i suoi occhi mesti,
come la linea delle onde quando si rompono sulla spiaggia. Guardando quel relitto,
Patrick si eccita, si elettrizza al pensiero di quanto divertimento può avere giocando duro
con i suoi sentimenti e velleità. Sente il gusto del sangue in bocca e gli piace. E non è
solo la cocaina.
"Andiamo a prenderci un caffè, mentre la macchina finisce questa stampa?" Gli urla nell'orecchio.
"Volentieri" grida di risposta Libero.
!
Seduti al tavolino del solito bar, questi due uomini acciaccati possono finalmente scambiare due parole senza urlare, fuori dal frastuono, finalmente, per una decina di minuti.
Sorseggiano un espresso che cercano di far durare il più a lungo possibile e Patrick indossa una maschera di umiltà parlando con Libero, ma è il gatto che gioca con il topo. È una
trappola.
"Come vanno il poker e le chat amorose?"
"Tu sei giovane, amico mio e certe cose ancora non le capisci, ma quando raggiungi la
mia età sai distinguere meglio il vero dal falso. Io ti posso dire una cosa per certa, quando
ami qualcosa con cieca profondità, il resto del mondo ti diventa nemico."
"Mmm, queste si che sono interessanti perle di saggezza. Ma dimmi, dimmi, donna
Letizia, pensi ancora di trasferirti a Pavia con la tua nuova fiamma?"
Intanto Patrick paga i due caffè e camminando verso la tipografia, Libero continua le confidenze.
"Più che mai, più che mai convinto. Sono successe cose negli ultimi giorni, apparentemente non tutte positive che ci hanno messo un po' in imbarazzo, ma nello stesso tempo
sono convinto ci hanno liberato da molta ipocrisia, per questo sento che la nostra relazione è più forte, più solida che mai."
"Davvero?"
"Certo, alle volte per ottenere un grande risultato devi passare per certe scomode
strettoie.”
Intanto sono rientrati in tipografia, hanno preso il proprio posto alle macchine e ripreso i
gesti abituali nel maneggiare stampe e stampatrici. Bruno, che sta a fianco, fa la spola con
le quadricromie tra il laboratorio e l'ufficio di Riccardo, li rimprovera: "Potevate invitare
anche me per il caffè.”
"Un'altra volta." Risponde gioviale Libero.
"Dovevamo raccontarci le nostre imprese amorose. Cose da uomini, non so se puoi
capire.” In quel momento Patrick ha la momentanea sensazione della propria immensa
genialità.
"Perché anche tu hai delle imprese da raccontarmi?"
"Vedi Libero tu sei un po' la mia ispirazione. Senza accorgemene sto iniziando a seguire i
tuoi passi. A frequentare le poker room, a cacciare prede in pvt..."
"Grande!" Lo interrompe con una robusta risata di soddisfazione Libero.
"Si, si...", aggiunge con una malizia che non lascia speranza, Patrick.
"Pensa che ieri notte ho fatto sesso selvaggio con una veramente avida di cazzo. Una
scatenata, una roba mai vista.”
"Dimmi, dimmi", è tutto eccitato Libero.
"Non so se la conosci, viene da Texas hold 'em, su Pogo. È Hotblonde, scioccante, una
supertroia, una devota delle gang bang, se non la conosci ti consiglio di provarci. Ma tu
sei un marpione, pieno di esperienza, te la sarai di sicuro già fatta.”
Quella rivelazione lo devasta, quelle parole lo colpiscono e lo fanno tremare come malaria, il sangue gli sale agli occhi, l'istinto gli suggerisce di saltare alla gola di quel pezzo di
merda, ma riesce a stento a trattenersi, il sudore gli imperla la fronte e il labbro superiore
gli trema mentre con la bava alla bocca gli dice: "Ti uccido, pezzo di merda, io ti uccido,
quanto è vero Iddio.”
"Che melodramma, Libero, sembra di essere in un film di Almodovar, prova con un po'
più di ironia, cerca di essere un po' più holliwoodiano...", si intromette Bruno che crede si
tratti di uno scherzo tra amici. "A proposito abbiamo analizzato le quadricromie su da
Riccardo e sono tutte fuori fuoco, tutte da rifare. Mettetevi sotto ragazzi, devono essere
pronte per domani.”
"Dalle a quel pezzo di merda. Io me ne vado a casa.” Sbatte il grembiule per terra e passando, da una spallata a Patrick, lo sguardo assetato di sangue: "Occhio che non duri a
lungo.”
!
Il computer mostra la schermata su Pogo, Patrick è steso sul divano, la testa reclinata e un
fazzoletto sul naso, tampona il sangue che non vuole smettere di scendere dalla narice
destra. La sinistra è chiusa e non tira su quasi niente, per cui è tutta la sera che usa la destra. Sente il cuore che batte a mille e la testa gli gira, qualcuno suona alla porta e Patrick
va a d aprire con il fazzoletto ancora sul naso e la testa all'indietro. È lo spilungone della
sera prima.
"Che ti capita, Pat?"
"Credo di aver esagerato."
"Lo sapevo. Quando ne hai così tanta è dura trattenersi. Io ne prendo ancora due pezzi, se
non te la sei giá tirata tutta. È buona, si sente che è buona, brucia solo un po' il naso."
"Perché è poco tagliata.Vieni che ti do i due pezzi."
Raggiunto il tavolo in cucina, pesa un mucchietto sul bilancino. Il tipo con l'allure del
playboy, vedendo le righe stese sullo specchio, arrotola la banconota e se le tira in un istante.
"Hey serviti pure, eh?"
"Grazie Pat, sei un amico."
"Fanculo."
Il tipo posa duecento euro sul tavolo e schizza via con la sua bustina.
"Non ti ammazzare stanotte che domani ripasso."
"A domani.”
Patrick si toglie il tampone dal naso e lo butta, ha smesso di sanguinare e va meglio.
Se ne stende ancora una e prova ad usare la narice sinistra, è sempre bloccata e cola acqua, per cui la polvere ricasca giù dappertutto.
"Merda!" E si inzuppa una sigaretta.
Intanto su Pogo legge che c'è molta attività sulla chat pubblica, le frasi scorrono via veloci, perché tutti intervengono, ma legge che sono tutti contro Pistacchio, lo chiamano
pedofilo, ciccione, travestito, nonno pervertito. Ad un certo punto scorre un intervento di
Jayme, “Allora non sono l'unico ad insultare le persone qui?”, Hotblonde risponde, “ahahah”. Si inserisce anche lui, giusto per capire: “Che succede qui stasera?” Segue una
cascata di insulti verso Pistacchio, che a quanto pare ha per primo insultato Hotblonde,
dandole della puttana.
Si apre un pop up, é Hotblonde, che richiede la chat privata.
Eccomi, risponde Bonza.
"Vogliamo essere perfidi?"
"La perfidia è la mia seconda pelle, non mi tiro indietro.”
"Yuppie23. È la mia password, ti connetti fingendo di essere me, lo chiami in privato e lo
umili e lo distruggi. Ti va l'idea?"
"Mi fa impazzire."
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Capitolo XXVII
Helter Skelter
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Le pareti sono bianche, non un quadro, un poster, una fotografia. Ci sono un divano, un
cubo di legno Ikea anche bianco per appoggiare i piedi e un tavolo con quattro sedie. È
tutto l'arredo del soggiorno disadorno dell'appartamento di Paul Etienne Lizzi. Uno stereo
vintage di qualità eccezionale, suona solo nastri magnetici ad altissima definizione e fa
rimbombare la stanza con Helter Skelter. È in modalità loop, non appena finisce, ricomincia. Sul tavolo, aperta, una ventiquattrore piena di mazzette di banconote. Lizzi sta
sprofondato sul sofà, i piedi sul cubo, fuma una sigaretta e guarda il tramonto precoce
delle sue montagne, attraverso le ampie vetrate del suo appartamento. Gli ultimi raggi di
sole danno all'ambiente un colore rossastro, sinistro.
Lizzi, ha gettato tutto via, quando ha bruciato le ultime foto di Eleonora, non si è accontentato e non si è fermato finché non ha distrutto o gettato qualunque cosa avesse avuto
una relazione con la sua vita passata. È rimasto in una casa vuota, adatta alla sua condizione, come si sente lui, un guscio vuoto. Ha comprato qualcosa di economico all'Ikea,
giusto l'indispensabile e ha mantenuto lo stereo, per sentire Helter Skelter.
Il campanello suona lungo e prolungato, quasi con rabbia, finalmente Lizzi lo sente e va
ad aprire.
Alla porta si presenta Nosenzo, finalmente dimesso dall'ospedale, ma con un braccio ancora al collo, seguito da Turchi e Ferraris. Un uomo li segue, di età indefinibile, ma di evidente vasta esperienza. Ha i capelli grigi, raccolti in una corta coda di cavallo, una barba
color del rame e gli occhi grigio pallido, mobili come mercurio, una pelle dura e bruciata
come quella di un pescatore, porta un grosso borsone da tennis e i due figli adolescenti
con lui, portano altre due sacche da tennis e sembra entrino a Wimbledon per il doppio.
I due ragazzini, gemelli che non sorridono mai, non muovono un singolo muscolo della
faccia nemmeno per sbaglio. Ad un cenno del padre, aprono i borsoni, invece che racchette, tirano fuori fucili.
L'uomo con la coda prende il primo tipo. Corto, non ha nemmeno la canna, sembra tutto
di plastica, come un giocattolo costoso.
"Questo è l’ effeenne F2000, un vero gioiello, un fucile d'assalto bullpup con calibro
6x45mm. Disegnato per ambidestri, operato a gas, con otturatore rotante. La cartuccia è
una STANAG con capacità di 30 colpi, attenzione che deve essere rimossa manualmente
perché non è configurata per la caduta automatica."
Fa un altro cenno con la testa e uno dei due ragazzini gli porge una componente del fucile.
"Fucile modulare, presenta tra i vari accessori, quello del lancia granate GL1 da 40mm,
che usa granate standard a bassa velocità. Ha un sistema di carico da culatta che permette
lo sparo di una singola granata per volta."
Velocemente monta il lanciagranate e lo rismonta.
“Concludendo, ha una velocità di fuoco di 850 colpi al minuto ed un raggio effettivo di
500m, per un peso di 3 chili e mezzo. Purtroppo ho solo quattro esemplari di questo tipo."
Detto questo passa il fucile a Lizzi, che lo osserva, lo soppesa, lo prova e lo passa a
Nosenzo.
Dopo un altro cenno con la testa, il secondo adolescente passa un altro fucile all'uomo
con la faccia cotta dal sole.
"Il secondo modello è il famoso TAR-21, anche questo è d'assalto bullpup, viene da Israele. Riesce ad avere dimensioni ridotte senza dover modificare la lunghezza della canna, ciò è possibile perché il meccanismo del fuoco è posizionato dietro al grilletto, all'interno del calcio. Usa lo stesso munizionamento del precedente, è in pratica un upgrade
del Parabellum. Un fucile molto usato, a parte le forze armate israeliane, anche Colombia, Thailandia e Brasile l'hanno adottato. Purtroppo è caro, costa tre volte tanto l'M-16.
Ha il difetto che può incepparsi di frequente, per via dell'esposizione dell'otturatore.
Nonostante questo è un'arma moderna e micidiale. Per adesso è tutto quello che ho di
armi di nuova generazione.”
"Va bene." Dice Lizzi, "le prendo."
"Tutte?"
“Tutte."
!
Quando il tipo con la coda, un hippie rinnegato, se ne va, sottobraccio la ventiquattrore e
i gemelli adolescenti che di nascosto si fanno i dispetti, Lizzi distribuisce le armi ai suoi
scagnozzi.
"Da oggi tutto cambia. Ho preso una decisione, non succederà mai più quello che è successo questo inverno quando ci siamo fatti prendere impreparati, con la guardia bassa,
uno di noi non ce l'ha fatta, ma abbiamo rischiato tutti quanti, non è vero Franco?"
Nosenzo annuisce.
"Non succederà più, d'ora in poi siamo la nuova polizia, nascosta e segreta, che - e mostra
la sua arma- ha la forza e la usa. D'ora in poi la città sarà totalmente in mano nostra, non
una foglia dovrà cadere da un albero senza il mio permesso. Sappiamo bene chi sono i
nostri nemici ed è venuto il momento di fargliela vedere. Sappiamo chi sono e come
sono, il loro progetto di felicità è semplice, avere una pistola, essere pagati per usarla,
vestiti firmati, poi una pistola migliore, una macchina più veloce, una televisione al plasma e frequentare i loro bordelli a scrocco. Per noi la felicità è fare le regole e farle
rispettare, non c'è ragione che tenga. Si dice che l'inferno sia un posto senza ragione, per
cui andate la fuori e scatenatemi l’inferno. Il mondo è brutale e speranza non è niente più
o niente meno che quello che puoi vedere a occhio nudo. E noi oggi abbiamo comprato
un bel po' di speranza.”
Dicendo questo mostra ancora il nuovo fucile agli altri.
L'aria è calda e densa in quel soggiorno disadorno e avvelenata dal respiro umano e intrisa dall'odore di sudore di tutti quei maschi adulti, eccitati dalle nuove armi e dalla
promessa di sangue che si profila all'orizzonte. Il nastro continua a percorrere Helter
Skelter e nessuno sente il desiderio di aggiungere alcunché alle parole di Lizzi, ognuno si
limita ad accarezzare la propria nuova arma come se fosse un nuovo, sospirato destino.
Lizzi, a questo punto, come se si accorgesse improvvisamente della musica, va a spegnere lo stereo. Si schiarisce la gola e inizia a parlare a voce bassa, come se qualche orecchia indiscreta potesse sentire, parla asciutto evitando gli sguardi dei suoi uomini, con
un'espressione che non si può leggere, ma che si sente oscura e disperata.
"Voglio che oggi si faccia piazza pulita al Big, un lavoro preciso e spietato, fate irruzione,
veloci e non lasciate superstiti.”
Nosenzo, Turchi e Ferrararis, non muovono un muscolo, stringono solo più forte la loro
nuova arma, c'è solo sorpresa nei loro sguardi, come se leggendo un libro fossero arrivati
all'ultima pagina troppo in fretta.
"Quando?" chiede secco Nosenzo.
"Voglio che il lavoro venga fatto stanotte. Qualcosa da aggiungere?"
Stavolta Nosenzo lascia andare uno dei suoi rari sorrisi, giusto una smorfia della bocca.
"Non vedo l'ora di cominciare." Adesso si lasciano andare tutti quanti in una sobria risata
liberatoria.
"Sarà il miglior party del Big a cui sono stato.” Aggiunge baldanzoso Ferraris.
Ancora una risata. L’ultima. Escono tutti, tranne Lizzi che riaccende lo stereo.
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Il nastro dall'apparecchio ad alta fedeltà suona una canzone dei Titus Andronicus il cui
refrain ripete intermittente la frase 'The enemy is everywhere’. Lizzi sembra non pagargli
attenzione, apre il computer sul tavolo, va a prendere la busta con la cocaina e la stende
sulla lastra di marmo. Quando la canzone finisce, si alza per suonarla ancora.
Si connette con Pogo ed entra nella stanza del suo gioco preferito. Arrotola una banconota e si avvicina alla prima striscia. 'The enemy is everywhere', 'The enemy is everywhere'.
Lizzi alza la testa dal tavolo, si guarda intorno e posa la banconota, la cocaina è ancora lì
sul tavolo.
The enemy is everywhere, everywhere.
Improvvisamente, inesplicabilmente Paul Etienne comincia a piangere, stringe gli occhi
per trattenere le lacrime e la musica continua, è come la visione della liberazione di un
uomo imprigionato, per la prima volta vede una libertà senza limiti: senza paura, senza
odio, senza invidia. Piange e più piange, meglio si sente, leggero e libero e spietato. Con
un colpo risoluto, con il dorso della mano spazza via la cocaina dal tavolo, continua a piangere e si sente felice, come non lo era da tempo.
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Capitolo XXVIII
Isn’t a lovely night?
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Cadaveri di cinesi, uomini di affari e donne di malaffare sparsi sulla pista da ballo come
petali di rosa, rosso sangue, cartucce e brandelli di umani: è la scena del massacro. Tra
questi, con i suoi vestiti fuori luogo, Mr. Lee si morde le labbra fra i denti, come un uomo
determinato a vivere oltre la propria morte, un’enorme presunzione fiorisce dalla sua
umiliazione.
La dance hall risuona ancora del crepitio delle mitraglie e dei rantoli dei colpiti e degli
schiocchi dei proiettili che penetrano i corpi e del tintinnio dei bossoli nella scura discoteca. Sangue e braccia e sangue e mani e sangue e ansiti e singhiozzi scagliati nel cuore
della notte. Tutto questo ancora risuona nelle orecchie e negli occhi di Lizzi e dei suoi
uomini che a poche ore dalla carneficina sono di nuovo lì.
Lizzi, ben vestito, rasato, immobile, le mani dietro la schiena, come se stesse osservando
“Guernica” al museo del Prado. A fianco, il questore, anche lui senza battere ciglio, scruta
la scena con sguardo da intenditore, muove appena le labbra sotto i folti baffi, come per
dire qualcosa, ma le parole non vengono.
Lizzi si aspetta che dica una parola che li tragga fuori da quella palude di silenzio e
scempio. Ma il questore è un uomo di questo mondo, con tutte le passioni, paure e sensazioni che appartengono a quelli imprigionati in questo pianeta. Di fronte a tanto sa che
qualcosa deve dire, ma le parole non vogliono uscire.
“Sembra una resa dei conti.” Alla fine riesce a farfugliare.
“Nel mondo c’é follia. Ci sono fuochi, omicidi, stupri e crudeltà impensabili. Generalmente commessi da gente che si conosce. Il posto appartiene alla malavita cinese.”
Risponde disteso Paul Etienne.
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Lizzi è seduto sulla sua poltrona di pelle nera, dietro alla massiccia scrivania di mogano.
Davanti a lui, Turchi e Ferraris lo guardano senza espressioni, senza emozioni. Nosenzo
guarda fuori dalle vetrate la Mole, sembra che pensi ai versi della sua prossima poesia,
ma è il più attento di tutti, le parole del capo lo raggiungono e si sedimentano, diventano
le sue.
“Li spediamo diritti al creatore, sempre ammesso che il Creatore sia dell'umore giusto di
perdonare questi quattro infedeli.”
Turchi non riesce a stare fermo, vorrebbe fischiettare, muove il piede incessantemente
invece, Ferraris guarda in cielo, come se si aspettasse che qualcuno venisse giù.
“Per come la vedo io, il lavoro al Big l’hanno fatto gli arabi. Non è così?”
Tutti acconsentono, sorpresi, senza darlo a vedere.
“Bene, andiamo dagli arabi e inchiodiamoli ai loro delitti.”
!
Via Goito all’angolo con via Galliari, è l’angolo più equivoco di S.Salvario. Un supermercato cinese sempre aperto e torvi individui di tutte le razze del mondo, bivaccano intorno. A fianco al supermercato, un edificio che ha visto momenti migliori, chiazzato di
macchie che diffondono lezzo di urina umana, il portone sempre aperto. Prostitute
marocchine vanno avanti indietro, portandosi dietro clienti che a stento riconosci come
esseri umani. Parafrasando Primo Levi viene da chiedersi ‘Se questo é un uomo’. Lizzi e
i suoi soldati entrano senza farsi notare, salgono leggeri, come in volo, le scale scrostate.
Quando escono nel ballatoio di ringhiera, nella precoce notte invernale, la luna fa capolino tra i comignoli. Le luci dell’appartamento sono accese, provengono voci la cui intonazione non ha nulla di familiare. L’atmosfera é elettrizzata da uno strano, animato silenzio.
Lizzi si sente bene, una percezione, in anteprima, del sangue che verrà, lo rianima.
Se non avessero fatto quello che stavano facendo cos’altro avrebbe fatto? No, non c’erano alternative.
Turchi, silenzioso come un gatto, apre la porta con un passe-partout e l’orda entra. In un
attimo sono dentro, formazione a ventaglio. Ognuno stringe in mano il proprio TAR-21.
Seduti su cuscini per terra, fumando un narghilè, quattro giovani maghrebini si interrompono, sorpresi di fronte all’inattesa intrusione. Uno di loro addirittura sorride, forse
come una forma di cortesia, un riflesso incondizionato di benvenuto. Lizzi gli sorride a
sua volta, anche lui cortese, prima di aprire il fuoco. I suoi uomini lo imitano all’istante e
nello spazio di un paio di secondi nessuno più fuma e il narghilè è destinato a spegnersi.
Quando le armi tacciono, i soldati di Lizzi avanzano a controllare il resto della casa,
Turchi e Ferraris procedono alla loro destra, cauti Lizzi e Nosenzo controllano la parte
sinistra, appena entrati nella stanza da letto, avvolta nel buio e in un odore stantio di piedi
e di chiuso, il clangore di una raffica li investe in pieno, risponde subito una seconda raffica, viene dalla stanza di destra.
“Tutto a posto di là?” chiede Paul Etienne.
“Ne abbiamo liquidati altri due.” Risponde allegro Ferraris, che si diverte.
Non ha tempo di rallegrarsi Lizzi, che un lampo preannuncia il boato di un colpo di pistola, sparato vicinissimo. Lizzi sente lo spostamento d’aria del proiettile all’altezza della
guancia. Nosenzo spara immediatamente a sua volta. E la stanza torna silenziosa. Lizzi,
finalmente accende la luce, chi gli ha sparato giace per terra, ad un passo da lui, tre buchi
sulla fronte lo hanno terminato, la sua testa sembra un dado da gioco che mostra il numero tre. Il ragazzo morto per terra, 16 anni al massimo, indossa una maglietta della Juve
e ha i capelli ossigenati. Lizzi si chiede quale sorte di miracolo lo abbia salvato questa
volta, visto che il ragazzo gli ha sparato da non più di 3 centimetri di distanza.
Si ritrovano di nuovo tutti e quattro nella stanza del narghilè, non è ancora spento e Ferraris tira un paio di lunghe boccate. Un denso fumo profumato avvolge la stanza.
“Buono. Menta...e limone.”
Nosenzo esce sul ballatoio, da un’occhiata in giro, nessuno intorno e prende il borsone
che aveva parcheggiato fuori dalla porta e rientra dentro.
“Franco, veloce, semina le armi in modo razionale. Domani quando torniamo, fotografiamo il tutto, mostriamo che sono le stesse armi usate per il Big e chiudiamo il caso.
Avanti, letali e veloci, come ninja.”
Come ninja.
!
Cammina lungo il Po, scende da Piazza Vittorio e costeggia i Murazzi. L'aria è fredda, il
respiro è vapore, tutto intorno è un mondo umido e l'odore è pungente e dolciastro, come
nafta e caramello, rassicurante e famigliare, come frutta comprata e non mangiata, che
marcisce in un cestino della cucina. Lizzi cammina, come in mezzo a un mare nero
d'inchiostro, tutto sembra incredibilmente lontano e irraggiungibile. Finché non si ferma
davanti a “Giancarlo." "Giancarlo" è l'ultimo locale delle arcate dei murazzi, uno dei
pochi che rimane aperto tutto l’anno. Lizzi si ferma prima di entrare, guarda il monte dei
Cappuccini di fronte a lui, illuminato di blu. Nel buio della notte, un essere incredibilmente magro strofina un fiammifero per accendersi una carta stagnola, la breve luce di
quel fragile fuoco, rivela un uomo e una ragazza aggrappati l'uno all'altra di fronte al riflesso più buio del Po.
Lizzi scaccia con un schiocco di lingua il sentimento pruriginoso, che la sua vita stia capitando a qualcun altro e decide di entrare. Si avvicina e la porta si apre, la mano smisurata
del buttafuori la tiene aperta, un uomo e una donna escono, ridendo conviviali con qualcuno che rimane invisibile all'interno.
Dentro, sembra una cantina, una confortevole catacomba, fa freddo perché non c'è quasi
nessuno, odore di birra, sudore e urina impregna gli antichi muri, è un aroma incoraggiante, che promette vita e Boemia.
Paul Etienne si appoggia al bancone e chiede una birra alla barista, che di schiena sta lavando i bicchieri. Senza voltarsi la ragazza, rapida come se la cosa fosse sua seconda
natura, riempie una pinta di birra chiara annacquata e l'appoggia al bar. Si volta e Lizzi la
vede per la prima volta, la osserva con tale insistenza che sembra guardare attraverso di
lei come se fosse fatta di vetro.
Ha capelli color caramello, non lunghi, il naso affilato, gli occhi grigio acciaio con
qualche venatura d'oro e sotto l'occhio destro un mini tatuaggio, una stellina.
La trova bellissima, con una faccia che sembra sorridere anche quando è imbronciata. Infatti non sorride, è immusonita, indispettita di dover passare le sue serate in quell'umido
ritrovo, a servire liquori a gente equivoca che la fissa, per quei pochi soldi necessari alla
sua indipendenza. Aspira a qualcos'altro, ma non sogna più e non rivela a nessuno quello
che sospira.
"Sono cinque euro."
Paul Etienne appoggia la banconota e quando lei cerca di prenderla, lui le blocca la mano
e gli spunta un sorriso aristocratico, come quando prende a pugni la gente. Lei si blocca,
sorpresa, non capita spesso, di solito la guardano ma non la toccano, a meno che non
siano ubriachi.
"Lasciami la mano."
"Se solo avessi due vite, una la vorrei spendere con te."
"Non sai di cosa parli, siamo opponibili, come due pollici."
"Cosa vuol dire?"
"Vuol dire lasciami la mano."
"Vieni fuori a fumare una sigaretta?"
"Non fumo."
"Vieni fuori?"
"Inizia ad uscire."
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Il mondo fuori, freddo, nero, come un caffè dimenticato a colazione, ha riflessi blu al
neon che vengono dal monte dei Cappuccini.
Lizzi tiene le mani in tasca e non sa se ha ancora qualcosa da perdere, guarda il fiume
lento, la corrente pigra porta a spasso il cadavere di un ratto.
"Ecco, ora sono qua." La ragazza è accanto a lui ad osservare quel pumbleo corso
d'acqua.
"Non so il tuo nome."
"Potevo dirtelo anche dentro."
"Sono convinto ci sia più di un modo di sopravvivere."
"India..."
"Viaggiare, eccone uno..."
"È il mio nome, India è il mio nome."
Le loro facce ora sono così incredibilmente vicine, che possono sentire il fiato delle loro
parole.
"Il mio è Paul Etienne e forse ti stavo cercando."
"E cosa vuoi da me?"
"Voglio un lieto fine."
"Se vuoi il lieto fine, tutto dipende da dove si interrompe il racconto. Ogni storia è una
tragedia se la riveli fino alla fine."
"La tua storia dove finisce?"
"La mia non è ancora cominciata, aspetto solo qualcuno che mi porti via di qui."
"Andiamo."
"Andiamo."
Si prendono per mano e salgono la salita che dai Murazzi va verso il parco del Valentino.
"Sono un poliziotto, se vuoi cambiare idea sei ancora in tempo."
"Meglio così, mi sento più sicura."
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Qualche momento più tardi, Lizzi percepisce tutta la sorprendente misericordia dell'alito
caldo di lei contro il suo collo. Sono nell'appartamento spoglio di Paul Etienne, India è
dolce, calma e intraprendente, Lizzi è incerto, sembra passata un'altra vita dall'ultima volta che il sesso coinvolgeva anche passione. India, dopo essersi soffermata sulla sua nuca,
si siede sul divano. La gonna è alzata appena sopra le ginocchia, lei lo aspetta con una
sensuale docilità. Lei è generosa e aggraziata, religiosa e praticante, lo accoglie dentro di
lei, come prende Dio nell'Eucarestia: nelle viscere. Dio non può sfuggire la bocca virtuosa che sceglie di masticare la propria salvezza.
Lizzi, fortificato dalla bestia sessuale dentro di se che sta cominciando a mostrare le sue
zanne, stende la propria mano e l'appoggia sulla testa di lei.
E i due amanti insieme iniziano a rendersi conto di quanto il desiderio sia un soave veleno, lei era come se volesse essere dappertutto nello stesso momento, lui, non poteva
smettere di toccarla, non riusciva a toccarla abbastanza, non aveva abbastanza mani.
Fino a che, intemperante, la gira sulla schiena, con tutta la trepidazione, la protervia,
l'incapacità di comprendere dell'animale selvaggio che non conosce gentilezza.
Alla fine, distesi, intorpiditi e abbracciati sulla superficie scomoda del divano, nel freddo
salotto del suo appartamento, Paul Etienne guarda quella femmina sonnolente e vede che
è sua, è il suo oceano, il suo impero di odori e superfici e piccoli sospiri.
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Capitolo XXIX
Il quadrato, il cerchio
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Ogni villetta di questa schiera di suburbia ha il suo seminterrato. Un sottosuolo che è un
concetto, il manifesto di questo stile di vita: la tavernetta.
Concepita per il tempo libero, spesso ospita il tavolo da ping-pong, un frigo bar, il divano
sostituito dal salotto buono, ma ancora valido, il vecchio televisore e la playstation.
Libero, ha aggiunto un vecchio sofà, che si trasforma in letto, un tavolino da campeggio e
una sedia a sdraio, così distende le gambe e sulle ginocchia appoggia il portatile, l'unica
cosa che gli interessa, perché è dentro quella vecchia scatola che gira la sua vita, quando
è connesso a internet.
Dorme ormai molto poco, quattro o cinque ore a notte, quando esausto dal poker o dalla
chat, acconsente a mettere in pausa il computer e ad appoggiare la testa sul cuscino. Poi
fantastica la sua nuova vita futura, imminente, finché, grazie a Dio, il sonno prevale.
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Sono le nove, Libero è appena rientrato. Da quando non vive più con la famiglia, esce
dalla tipografia e va direttamente in una vicina birreria, dove si nutre di patatine, hot dog
o hamburger e due o tre birre.
La connessione è attiva, la pagina di Pogo aperta, Libero inserisce il nome, Pistacchio e la
password, pochi istanti dopo, la schermata gli nega l’accesso: "Account disattivato dal
webmaster," la fredda risposta. Prova e riprova, nel panico, con un senso di vuoto e di
oppressione che lo prendono prigioniero, ma il risultato è sempre lo stesso.
Scrive una mail di spiegazioni al Webmaster, questo anonimo, invisibile burattinaio, che
tiene in mano i fili della sua esistenza. E aspetta la risposta, guardandosi intorno, osservando i dettagli della sua stanza. Non un suono, una parola, solo il tic tac opprimente di
una vecchia sveglia, ticchetta, come se fosse una bomba esistenzialista, come se fosse lì
solo per misurare il niente senza fine della sua vita.
"Attivo membro della comunità Pogo, siamo spiacenti di informarla che il suo account è
stato temporaneamente sospeso. Altri membri della nostra comunità hanno sollevato diverse e ripetute lamentele circa il suo costante inappropriato comportamento. Ricordiamo
che il nostro sito è dedicato esclusivamente al gioco e all'intrattenimento, non è adeguato
e contro i termini e le condizioni, da lei stesso accettate, l'uso del nostro account per attrarre, blandire, irretire, adescare o sedurre membri della stessa comunità che non abbiano
ancora raggiunto la maggiore età. È altresì vietato, pena immediata espulsione, linguaggi
e comportamenti violenti e minacciosi. Date queste lamentele nei suoi confronti, investigazioni sono in corso da parte nostra, nel frattempo per proteggere i nostri membri, il
suo account è stato temporaneamente disattivato."
L'unica luce della tavernetta, proviene dalla schermata del computer, è uno schiaffo in
faccia. Le guance arrossiscono per l'affronto, poi tornano bianche, cadaveriche, di fronte
alla propria impotenza. Furioso, cammina avanti e indietro nei pochi metri della sua stanza, come Hitler nel suo bunker, non sa cosa fare e vorrebbe che le cose fossero diverse. Si
siede al computer e compone una mail aggressiva e risentita, ma nello stesso tempo
apologetica e prudente, cercando di mostrarsi comprensivo e maturo, solido e al di sopra
dei sospetti.
Aspetta, mentre, sopra la sua testa, sente, passi e voci, così famigliari, ora così lontani da
lui.
!
Dopo due ore di attesa silenziosa e vacua, ancora nessuna risposta. Questo tempo da solo,
dentro le sue quattro mura, fisiche e ideali, hanno trascinato Libero in un vortice di pensieri contorti. Pensa e rimugina e pondera e ancora pondera e crea teorie per spiegare il
mondo, con gli arnesi poco affilati della sua ragione. Ora si sente improvvisamente Amleto, sente il mondo senza alcuno scopo, stanco, stantio, piatto e inutile. La notte è ormai
avanzata, sopra la testa, la sua famiglia dorme e la tavernetta è avvolta da un nuovo silenzio, vile, spesso e forte, terrificante e senza speranza.
Libero si siede e prende la testa fra le mani, vorrebbe piangere, ma non riesce, è troppo
vuoto e assente. Intuisce consapevole che la sua vita è distrutta, che lui stesso ha fatto di
tutto per seppellirla. Ora viene escluso dalla sua nuova, illusoria realtà online, sente di
non appartenere più da nessuna parte, come essere preso in mezzo a due porte chiuse, un
esistenza da sottosuolo, sbarrato, bandito da una moglie che non vuole vederlo e dalle
figlie che si allontanano e a malapena ricambiano il saluto. Allontana le mani dalla fronte
e alza la testa, guarda il soffitto come per cercare una via di uscita, non vede più il cielo
nella sua scatola, ma riconosce che è in trappola e il suo sguardo ricade su un gancio sul
plafond. Allunga le mani alla tastiera del computer e compone una mail a cui non mette
nessun indirizzo, ma scrivere gli basta: "Dolore non si aggiunge mai a dolore, lo moltiplica, piuttosto."
Quindi si alza e strascina i piedi per due passi, fino allo sgabuzzino che funziona anche
da gabinetto. Torna alla sua sedia con una robusta corda fra le mani.
Sale sulla sedia e si allunga ad inserire la corda al gancio. Le dita tozze non l'aiutano ad
intrecciare la corda come vorrebbe, ma alla fine riesce ad ottenere un rudimentale cappio.
Ci infila dentro la testa giusto per controllare sia abbastanza ampio.
Compone una nuova mail, questa volta inserisce l'indirizzo di Jessi: "Puoi dire per sempre addio a me e a Tommy."
Sale sulla sedia e raggiunge il picco della sua bassezza. La testa è infine nel cappio. Con
le labbra mormora le parole di un'Ave Maria che, però gli sfugge, le parole sfilano via
dalla preghiera come perline da un monile spezzato. In mezzo a questa Ave Maria sbriciolata, un attimo prima di fare il balzo, dal computer arriva il bip bip che segnala l'arrivo di
una mail. È una fibra di speranza, così più forte del capestro a cui è avvolto il collo.
"Se lui esistesse, lo terrei abbracciato con me tutta la notte."
Libero si lascia andare sulla sedia, pallido come l'inverno, senza forze e articolazioni
come un burattino a cui nessun burattinaio tiene in mano i fili, senza valore come un pupazzo, un giocattolo esotico.
Un sorriso nasce timido sulle sue labbra e invece di spegnersi cresce, lievita fino a diventare un blando ghigno e infine una sghignazzata, che dura, che non riesce a smettere,
liberatoria, isterica e senza allegria. Ha quasi messo fine alla sua vita, ma è bastato un suo
cenno ed è di nuovo pronto a ricominciare, a seguire il desiderio, a trangugiare il suo veleno. In fin dei conti è affascinato dalla sua infedeltà: lei non appartiene a nessuno, pensa,
come un tavolo o una sedia.
Quando si ricompone, cambia idea, la sua è perfidia, slealtà, adulterio, non c'è niente di
affascinante, bensì di repulsivo, nel suo comportamento.
Così le risponde, amaro, bilioso: “Non prendermi per il culo, stai già riempiendo il vuoto
con un altro!"
Lei rimanda: "Nessun vuoto viene riempito senza di te. È la verità."
Nonostante la sua amarezza, ora Libero si sente imbaldanzito, è di nuovo in gioco, per
Dio ed è ancora vivo, c'è ancora speranza.
Ribatte la palla: "La tua è una voce che vuole farsi chiamare Verità mentre continua a
mentire."
"Muoio dalla voglia di stare con Tommy. Guarda che Tommy continua a vivere nell'amore che tu hai per me."
"Sei un'insolente e la menzogna è il tuo pane quotidiano. Io ti ho amato, è vero, e forse
ancora ti amo, proprio per questo tu hai preso gusto a degradarmi e a distruggermi.”
"Io ho amato Tommy e senza saperlo ho amato te. Ora voglio continuare ad amarti,
sapendo che sei tu. Senza più menzogne, possiamo ricominciare. Basta solo che tu abbia
abbastanza coraggio per perdonare."
"Perdono è nascosto nelle mie mani e voglio che tu scelga la mano che tiene stretto il
nostro futuro: la sinistra o la destra?"
"Scelgo la destra."
"Sei fortunata, è la mano che stringe il perdono, ad una condizione, però...devi smettere
ogni legame con Patrick."
"Te lo prometto. Lo giuro. Tronco ogni relazione con lui, non significa niente, ed è anche
una persona spiacevole. Mi sono avvicinata a lui solo per ripicca. Mi sono sentita tradita
da te e la mia esistenza era diventata un inferno, volevo ferire tutti quanti e soprattutto te.
Ma ora sono pronta a ricominciare, più forte di prima e amarti, amarti, amarti, per sempre."
" Vediamo Jessi, voglio provare a crederti. L'amore non è cosa cosí eterna come l'odio e il
disgusto."
La notte prosegue nella sua corsa con parole battute sulla tastiera che possono essere vane
e sincere, la notte in cui Libero ha visto in faccia la propria fine ed ora si gusta la redenzione. Si sente acciaccato e ferito, ma più forte e pensa, tronfio di se' stesso, di essere
troppo vecchio per le acrobazie, ma ancora troppo giovane per morire.
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Capitolo XXX
Wingmen
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La luce bianca di uno schermo. Dentro parole, parole ancora parole.
"Comincio da tutto quello che ho odiato oggi."
"Eccetto me."
"Eccetto te. Ma te mica ti odio, sciocco, sei l'unica cosa che mi fa vivere questi giorni."
"Allora mi ami?"
"Fammi raccontare."
"Racconta."
"Prima di tutto mia madre. Mi gira sempre intorno. Cosa hai fatto oggi a scuola?
I compiti? Hai fatto i compiti? Sempre attaccata al computer. Se studiassi la metà delle
ore che passi su Facebook, avresti ben altri risultati. Alla fine mi ha cacciato via dal computer, la stronza, diceva che serviva a lei. In realtà lei è ancora più ossessionata di me, è
sempre in chat. Meno male che ho l'ipad, sennó come potremmo parlarci?"
"Vieni qui da me, vedi che bei discorsi faremo!"
"Stronzo! Sai che ci verrei subito da te...ma come faccio..."
"Tua madre?"
"Mia madre e tutto il resto."
"Ma fammi continuare con le cose che ho odiato oggi, poi passo a quelle che amo.
Basta parlare di mia madre. Ti ricordi ti avevo parlato di Maya?"
"La stronzetta del primo banco?"
"Esatto. Sai cosa mi ha detto oggi, anzi sai cosa ha detto in classe, davanti a tutti quanti?"
"Cosa?"
"Non te la tirare tanto, non sei mica l'unica che ce l'ha, sai? Ma ti rendi conto? Avrei voluto alzarmi e mollarle una sberla, giuro."
"Dovevi dirle, ma io ce l'ho profumata..."
"Si bravo, quello dovevo dirle..."
"Ora basta lamentarti, dimmi piuttosto quello che ami di oggi."
"Niente. Solo parlare con te. Anzi solo te."
"Allora vedi che `e vero?"
"È vero cosa?"
"Che mi ami."
"Certo che ti amo, quante volte devo dirtelo?"
"Un milione di volte, tutti i giorni."
"Solo un milione?"
"Solo un milione, sennó mi stufo."
"Stronzo! Sai cosa dobbiamo fare?"
"Cosa?"
"Rendiamola pubblica, cambiamo lo status."
"Sei sicura?"
"Certo che sono sicura. Tu non vuoi?"
"Certo che voglio, pensavo che tu volessi ancora tenerlo nascosto. Per me non c'é problema, figurati."
"Anche per me non c'è problema. Vai nel tuo status e metti che sei in una relationship con
me. Io l'ho già fatto. Così risultiamo in chat come coppia."
"Fatto."
"Meraviglioso. Vedi, ora siamo una coppia."
!
La squallida stanza ha i muri crepati dall'umidità, una lampadina nuda penzola dal soffitto, la sedia su cui è seduto è inclinata verso il basso, per cui gli sembra sempre di
scivolare all'ingiù. Mohammed ha i capelli gialli di acqua ossigenata, un labbro gonfio e
il naso rotto che continua a colare muco sanguinolento. Tiene la testa tra le mani e cerca
di vedere oltre la vetrata, inutilmente. Si sente come un cieco, osservato da persone che
non può vedere.
Dall'altra parte del vetro, ad osservare il marocchino ingabbiato, ci sono Lizzi, Nosenzo e
Ferraris. Lizzi si massaggia le nocche della mano destra con uno straccio bianco, che por-
ta macchie fresche fresche di sangue. A un tavolino a fianco, un computer acceso, la
schermata aperta mostra uno stilizzato tavolo da poker.
"Ora basta aspettare. È più di un'ora. È il momento di concludere. Ferraris prima entra tu,
fai l'accomodante. Poi entro io e gli do il colpo finale. Scommetto che cede." Nosenzo
annuisce, Ferraris entra e Lizzi si siede al computer per una mano di poker su Pogo.
!
"Perdi sempre." Dice Ferraris, da dietro le spalle di Lizzi.
"Perdo sempre." Molla il computer Paul Etienne, si alza e distrattamente osserva il
marocchino dietro al vetro.
"Allora come è andata."
"Crede ancora di avere una via di uscita, l'ingenuo. Conosce i suoi diritti."
"Ha detto così?"
"Proprio così."
"Adesso conoscerà anche i suoi rovesci, allora. Sta a guardare come me lo lavoro. Voglio
chiudere questa storia oggi e andare avanti."
Con sgarbo entra nella stanza e sbatte la porta.
"La mia ora per essere gentile con gli arabi è finita, Mohammed."
Mohammed sorride, con una punta di sarcasmo.
"Non ho paura capo. Non puoi farmi niente, l'Italia é un Paese con la legge."
Era vero, non mostrava paura dichiarando di non avere paura.
Lizzi gli allunga una sberla di manrovescio.
"Davvero?"
Il marocchino la incassa come una ricevuta.
"Non ho ancora capito cosa volete da me."
"Ti vogliamo fuori dai coglioni, ecco cosa vogliamo." E gli tira un pugno su un orecchio.
"Ma adesso ti spiego cosa voglio da te. Cerca di capire."
Mette un foglio su un tavolo.
"Metti una firma qui e abbiamo finito. È la tua confessione, ti sei pentito e vuoi farcelo
sapere che siete stati voi, a far fuori i cinesi al Big, per avere il controllo del mercato. Tu
eri solo l'autista e non hai avuto una grande responsabilità nel massacro, così te la cavi
solo con una deportazione. Pensa che colpo di fortuna, torni a casa, con tutti i tuoi arti e ti
lasciamo pure gli attributi. Altrimenti, dopo aver completato la mia inchiesta, concludo
che tu eri uno dei sicari, ti getto in una brutta galera piena di cinesi, con le ossa rotte e
senza più le palle. Scegli." Per sottolineare il discorso gli molla un tremendo diritto fra
naso e bocca ed esce.
Prende lo straccio dalla sedia e si pulisce la mano sporca di sangue.
"Finite voi. Adesso firma, vedrete che firma."
Nosenzo e Ferraris entrano in coppia nella stanza dell'interrogatorio. Lizzi si siede di
nuovo davanti al computer e apre la schermata di Pogo.
Sul lato destro della pagina scorre la chat, i nomi e le parole cascano giù come matrix,
finché si ferma sull'ultimo intervento. Paul Etienne scoppia a ridere.
"Abbiamo dei piccioncini! Finalmente Hotblonde e Bonza stanno insieme!"
!
Un altro giorno di tipografia. Un altro giorno, un altro dolore. Libero trascina le giornate
una ad una, come le pantofole di un vecchio in una casa di riposo, senza entusiasmo,
speranza o destinazione. I suoi colleghi, benché mai veramente amici, erano comunque
affezionati, lui era un bonaccione, un brav'uomo. Ma da qualche tempo, il bonario Libero
è diventato intrattabile, un grugno lungo così, per cui nessuno si dà più la briga di legare
con lui e i rapporti non vanno oltre al buongiorno e buonasera. Libero è il primo che esce
dalla tipografia, grugnisce un saluto, che sembra una forma di spregio o di indifferenza e
si infila sempre più nel suo isolamento.
Anche quella sera è fuori prima degli altri. Nonostante il freddo, umido e pungente,
Libero non entra nella sua Brava e sembra aspettare, battendo i piedi e alitandosi nelle
mani chiuse a pugno.
Passati dieci minuti, in cui, ad uno ad uno, la maggioranza degli impiegati dell'azienda gli
passa davanti e gli mugugna un saluto, passato anche il tempo in cui anche l'alito sulle
mani da ancora qualche forma di sollievo, ecco uscire Patrick e Libero gli va incontro e
lo confronta.
"Non posso credere che tu abbia scelto lei, piuttosto che la nostra amicizia."
"Di cosa diavolo stai parlando?" risponde Patrick, nervoso e infreddolito.
"Sto parlando di Hotblonde, ecco di cosa sto parlando!"
"Questo lo so, ma di quale amicizia vai vantandoti? Eravamo amici? Non l'ho mai
saputo."
"Non posso più entrare su Pogo, grazie alla tua faccia di merda, ma posso ancora vedere i
profili. La vuoi? Prenditela allora, mi fai un favore. Ma dille di non rompermi più il cazzo
come ha fatto l'altra sera."
Patrick accenna un sorriso, come se non fosse proprio consapevole di quello che Libero
sta dicendo, nondimeno gli da corda, come quando si dialoga con qualcuno che non è del
tutto lucido. E prosegue verso la sua auto.
"L'altra sera sembrava che non potesse vivere senza di me, la tua piccola troia." Prova a
rincorrerlo con le parole, Libero. Ma Patrick è assente, già dentro il suo SUV.
Appena seduto, squilla il telefono. Risponde e Libero sgomma via rumorosamente a fari
spenti.
Nonostante il freddo, gocce di sudore appaiono sulla fronte di Patrick: “Lo so...dovevo
portarli ieri i soldi, ma non ho potuto, mi dispiace...certo che li ho, te li porto stasera,
tranquillo, stasera...alle undici...va bene."
Chiude la comunicazione e si passa la manica sulla fronte per asciugare il sudore. Dalla
tasca della giacca, prende una busta e la ritira dentro il vano portadocumenti, immediatamente cambia idea e la riprende in mano.
Tira fuori una mazzetta di banconote, conta e riconta, il sudore ricompare sulla fronte.
"Non bastano."
Ci prova ancora come se potessero aumentare, quindi li rimette nuovamente nella busta.
Si passa le mani sulla faccia, gli occhi guardano nel vuoto freddo della periferia urbana,
dove le luci gialle dei lampioni sono i limiti oltre i quali non puoi nemmeno sognare di
smarrirti.
"Diobono, diobono, diobono, ne mancano 1800. Milleottocento, cazzo! Ne ho pippata
troppa, cazzo!"
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Capitolo XXXI
Rovine
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La villetta è al buio, nessuno è in casa. Le bambine hanno la lezione di nuoto, Cinzia le
avrà accompagnate e non sarà ancora tornata. Ha un sorriso di nostalgia e di pietà verso
se stesso. Libero scende con un cartone di pizza e un paio di birre in un sacchetto di plastica. Non ha nemmeno chiuso la porta, che la Modus di sua moglie parcheggia.
Libero aspetta che lei scenda dall'auto e poi prova a sorriderle, cerca la sua attenzione, un
gancio a cui appendere la speranza di una riconciliazione.
Cinzia, da parte sua, gli sorride lentamente, con uno sguardo di suprema condiscendenza,
per poi girare la testa e guardare da tutta altra parte. Quindi si volta completamente e gli
dà le spalle. Una schiena che esprime perfetta repulsione. Un istante dopo è dentro casa.
Libero è ancora lì fuori con il suo cartone di pizza in mano.
Quando arriva giù in tavernetta, gli viene in mente che la sua condizione è peggiore di
chi è da solo. Divide la casa, che ha comprato lui, con i soldi della sua fatica, con nemici
giurati, che guarda caso, sono anche la sua famiglia.
Le mura scure hanno un odore profondo, come di funghi. Lo scricchiolio delle sue scarpe
risuonano nella quiete. Appoggia i piedi sul tavolino e butta giù un sorso di Moretti, addenta una fetta di pizza fredda e trangugia un sorso interminabile di birra.
La luce blu del portatile gli illumina la faccia, mentre gioca svogliatamente a Majong.
Improvvisamente un bip annuncia l'arrivo di una mail. È lei, Jessica.
Cerca ancora una volta di blandirlo, coquette, ammiccante.
Ma stasera non è proprio dell'umore. Nelle viscere sente, anche senza capirlo coscientemente, come l'ha ridotto quel gioco vuoto di seduzione.
"Che cazzo vuoi, brutta troia? Non hai ancora finito di rompermi il cazzo e rovinarmi la
vita, brutta bagascia rotta in culo?!"
Questa la sua delicata risposta.
La replica di Jessica, però, è ancora più sorprendente.
La sua risposta è in un tono gentile e affettuoso, come di madre comprensiva, calma, non
si mostra offesa di fronte allo scoppio di tale turpiloquio, anzi, reagisce come se sentisse
di meritare il rancore volgare di quel maschio offeso. In fondo, è anche questa una dimostrazione di affetto, una prova grezza, ma tangibile, di quanto lei sia ancora radicata
nel cuore di quell'uomo. Cerca di portarlo ancora più verso di se' e confessa, con una punta di finta umiltà: "In realtà, amore mio, ho deciso di lasciare Patrick."
"Davvero?"
"Davvero."
"Davvero brutta puttana succhiacazzi prendiinculo, davvero l'ho già sentito questo ritornello."
"Vengo da te a testa bassa, nascondendomi dal resto del mondo, per te. Perché mi manchi,
mi mancano tutte le nostre conversazioni, mi manca tutta quella magia che avevi creato
per me. Lui non c'è mai, a pensarci bene non c'è mai stato, è stata solo una questione di
ripicca e per lui si tratta solo di sesso veloce. Non è mai connesso, non glie ne frega
niente, ha sempre altre cose da fare. Avrei dovuto capirlo subito, capire lo sbaglio grosso
che stavo facendo."
!
Quando era più giovane credeva che avrebbe avuto un impatto profondo nel mondo. Ma
ogni giovane pensa così, è una condizione della gioventù, possedere la propria importanza. Poi, piano piano, aveva ceduto e si era rassegnato a passare le giornate meglio che
poteva.
Vai a casa da Cristiana e le calmi i nervi. Ti siedi con lei e fai i complimenti alle sue
scarpe, ti congratuli con te stesso perché è di buona famiglia, con un sacco di soldi a disposizione. Ti fumi una canna con lei e speri che serva a rotolarsi nel letto. Poi neanche
questo basta più, presto ti rendi conto che la tua angoscia non è la stessa angoscia di tutti
gli altri, è la tua, solo tua. Ora lo sa, invece, di essere solo una parte di un sistema, una
piccola porzione di pelle sulla schiena di un imponente maiale: il mondo.
Non era così furbo come credeva di essere, che con un paio di colpi ben assestati, poteva
vivere bene senza problemi.
Ma non se la sentiva di arrendersi, qualche chance ancora l'aveva, con un po' di fortuna
poteva trovare l'espediente giusto.
Continuava a ripetersi, spingendo la macchina a piena velocità, che anche se vedeva la
luce si trovava ancora nel tunnel. Che era parte delle Parti.
Infine arriva e le gomme stridono sull'asfalto, finché inchiodano ad un centimetro da un
ippocastano. Patrick esce dall'auto, salta le transenne che alla Crocetta circondano l'isola
pedonale e corre verso una villetta ben curata, distante pochi metri. Sembra disperato,
come se avesse qualcuno alle calcagna e cercare rifugio sia questione di vita di o di
morte. Raggiunta la villetta, suona il campanello e come non bastasse, fischia forte con le
dita, finché una giovane donna si affaccia alla finestra.
"Che ci fai qui a quest’ora?"
"Fammi entrare, Cristiana, subito, ho bisogno di parlarti."
"D'accordo, che diamine. Che sarà mai.”
!
Cristiana indossa il pigiama, era già nel letto, pronta a dormire.
"Madonna Patrick! Che succede? Mi hai spaventata. Anzi più ti guardo, più mi spaventi."
In effetti Patrick non è in gran forma. Pallido, profonde occhiaie nere lo rendono ancora
più spettrale, suda così tanto che ha sulla fronte una cornice di sudore, le labbra sono
bianche, con della saliva raggrumata agli angoli della bocca, come fosse disidratato.
Si porta in continuazione le mani sulla faccia, sulla bocca, sugli occhi, sul naso, come se
dovesse sempre togliersi qualcosa che gli finisce sul viso. È in preda ad una agitazione
che non gli permette di stare fermo e parla con una voce rotta e rauca.
"Ho bisogno di soldi, subito."
"In che guai ti sei..."
“Adesso. Devo restituire 2000 euro per mezzanotte." La sua voce sale di tono, come una
velata minaccia di isteria.
"Dove li prendo..."
"Devo restituirli stanotte ad un gangster africano, se non lo faccio, non so cosa succede.
Volevo farti una sorpresa, vincere dei soldi e farti un regalo. Invece ho perso, è una
roulette clandestina, ho cercato di tergiversare finché ho potuto cercando di racimolare la
somma da un'altra parte. Mi hanno già minacciato...non ho più tempo."
Ora invece la sua intonazione stenta, promette un tracollo imminente.
"Bella sorpresa mi hai fatto." Detto questo lo abbandona in salotto.
"Scusami, sono un disastro, ma non mi abbandonare, non tu, ti prego, non so cosa può
succedere." A questo punto è costretto ad alzare la voce per raggiungere Cristiana, affaccendata in camera da letto.
Quando torna nell'ingresso, gli mette in mano una piccola mazzetta di banconote da cento
euro.
"Ho solo questi in casa. Sono mille euro, dovevo pagare la rata dell'università domani.
Fatteli bastare. Forse riesco a darti altri mille euro domani. È il massimo che posso fare.
E sappi che non sono certo contenta."
Patrick si guarda la mano come se lei gli abbia sputato sopra. Apre la porta e fa per uscire: "Ci vediamo domani."
"Cerca di non farti ammazzare. Perché a quello ci penso io, quando questa storia sarà
finita." Ma è già scomparso fuori e corre nella notte, all'isola pedonale, verso il suo SUV.
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Tutto intorno era calmo e vuoto.
Era la sua tavernetta, il suo regno, il suo ventre, la sua prigione. Se prima sentiva il peso
della solitudine, in quella spoglia, fredda e monastica stanza, ora, dopo essersene fatta
una ragione, l'aveva abbracciata, come il suo bunker e la sua culla, il posto dove si poteva
rinforzare e infine rinascere.
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Libero è di nuovo connesso, non più su Pogo, da cui è bandito, ma su MS messanger,
pronto a scambiare sciabole, fioretti e promesse con Jessi, dall'altra parte della linea.
Per il momento, il sangue bolle e la sua mente è concentrata sui momenti di umiliazione e
sul tradimento che sente sulla pelle come una bruciatura fresca.
Si lascia ancora andare, apre la diga sul fiume di parole e improperi, volgare e meschino,
attinge il suo lessico dalla più trita e dozzinale loquela sguaiata e zotica. È tutto un riferimento a oscenità e alla presunta sozzeria morale di lei. Per il momento.
Lei incassa, non si ritrae, ma assorbe. E rilancia con dolcezza. Con pazienza materna lo
blandisce e cerca di placarlo. Gli giura che ha fatto la sua scelta, che ha rifiutato l'offerta
di Patrick di raggiungerla a Pavia e passare un weekend insieme. Se questa non è una
prova del proprio impegno, allora lei lo sfida a trovare qualcosa di più significativo.
"Penso ancora a te. Per te l'ho fatto. Perché mi manchi, mi sei sempre mancato, anche
quando ero in chat con lui. Era il mio surrogato. La vera cosa che desidero più di qualsiasi altra, è ricreare la magia che avevamo provato con la storia di Tommy. Adesso lo so
che era una storia immaginaria, ma la magia era vera ed io non mi sono mai sentita così
viva come quando ho vissuto quella dolce fantasia. Non sprechiamo questa occasione,
amore mio, sarebbe un peccato."
Libero ricaccia in gola la sua litania di improperi, sono ormai fuori luogo anche per il lato
più bieco della sua anima. Si porta una mano sopra il suo folto sopracciglio, come se
provando a coprirsi gli occhi, potesse far scomparire la rabbia e ricominciare con spirito
innocente.
"Mi hai mentito e questo non riesco a dimenticarlo." Ora è calmo e raggiungibile. Ma in
fondo in fondo, se riuscisse a guardarsi dentro e ad ammetterlo, il suo, è uno sforzo per
restaurare un equilibrio, per reclamare il suo diritto ad alzare la testa e a tenerla ben alta
con orgoglio. In una relazione in cui si percepisce, ed in fondo lo è, perdente.
"Ti ho danzato attorno, non ti ho proprio mentito, neanche ti ho detto la verità, questo é
vero. Ecco tutto."
"Grazie a Dio per questa donnina così devota." Risponde con amarezza, ma è l'ultima
scarica, ormai è pronto e si decide a perdonarla ancora una volta, se promette di non mentirgli più e di non avvicinare più Patrick.
"Se scopro anche una sola volta, una tua pur minima menzogna, ti giuro, te lo giuro su
quanto ho di più caro, che perderai qualcosa che ti è molto vicino."
Lei lo assicura e lo bacia e più lo bacia e più lo assicura.
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Capitolo XXXII
Libero va alla guerra
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Quando esce di casa è ancora buio, ma lontano, si intravede il riflesso rosso del sole che
sbuca dall’orizzonte. Il mattino rende l'aria frizzante, è ancora abbastanza freddo in questa stagione e nuvole di fumo escono dalla bocca di Libero dai suoi respiri pesanti.
Un berretto da baseball in testa, indossa una tuta felpata, sbuffante, che risale agli anni
ottanta, infatti gli va proprio giusta, per tutto il peso che ha aggiunto nel corso del tempo.
Comincia a correre, non ha l'agilità di una gazzella, questo no, ma è ormai qualche settimana che diligentemente, ogni mattina, esce alle cinque esatte e corre mezz'ora. Ora si
muove meglio, riesce a sollevare le gambe, i suoi muscoli non sono più così atrofizzati,
legno duro, come quando ha cominciato.
Si ferma, trova un muretto, un albero o un palo della luce e compie qualche esercizio di
streching. È ancora goffo, spesso, legato, il massiccio corpo fuori esercizio. Ma migliora,
ogni mattina un po' meglio. Ogni giorno più determinato, più concentrato, più tonico. Ha
deciso di dare una svolta, ha deciso di conquistare quello che vuole.
Alla guerra. Libero va alla guerra.
Verso le sei, dopo la corsa, lo streching e una camminata sostenuta, ritorna alla sua tavernetta, il suo bunker, quartier generale.
Si fa una doccia e si cambia. Si veste per il lavoro. Qui c'è l'altra novità.
I nuovi vestiti. Tutti di stampo militare. Indossa cargo, mimetica e anfibi.
Anche il taglio dei capelli è differente. Cortissimi, alla marine.
Come se fosse diventato il Tommy perduto. Determinato a conquistare il suo posto con la
lealtà dei bambini e la pazienza dei poeti. L'uomo che vive nel suo bunker, guarda fuori
dal suo giardino e vede un mondo di opportunità. Lo immagina in modo trionfante, superando il tempo, consumando lo spazio, sognando tutto e vedendo niente, pensando di catturare l'intero sistema solare, senza accorgersi dei raggi del sole che cacciano via le stelle
nell'alba della sua realtà suburbana.
Così Libero va alla guerra, come un cacciatore che cerca di catturare un fagiano con la
rete, o un pescatore i pesci con la carabina.
È una montagna di intenzioni, una montagna di fallimenti, ma comunque una montagna,
E una montagna è sempre romantica.
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Al bar pranza da solo. Un'insalata mista, ma senza condimento, giusto un po' di sale e una
bottiglietta d'acqua.
I suoi colleghi dagli altri tavolini, ogni tanto, quando il ritmo delle loro conversazioni rallenta, gli buttano un'occhiata distratta e vedono un uomo solitario, in mimetica e con i capelli a zero. Non vedono il mitra accanto a lui, ma sanno che è da qualche parte che
aspetta il suo momento.
Vedono, quando lo guardano, un uomo quasi sconfitto, ma non rassegnato, ha perduto
peso e ora la sua pelle sembra cadergli dalla faccia, come fosse stanca di lui e cercasse
una via di fuga. Le borse sotto gli occhi sono più accentuate, anche sotto quei grandi occhiali fuori moda, e i baffetti rossastri, sono, per lo più, grigi.
Per Patrick e per la sua perfidia, nondimeno, questo nuovo Libero, è una preda troppo
ghiotta, da lasciarla scappare. Un orsacchiottone massiccio come un peluche, che si traveste da guerrigliero, per impressionare una morosa che vive solo nei suoi sogni.
Così ostenta un finto spavento quando gli gira intorno.
Al bar, se Libero alza la mano per richiamare l'attenzione del barista, Patrik finge un soprassalto.
"Calma, Libero, vuoi farmi venire un infarto. Un Rambo come te, con le mani in libertà,
c'è da avere paura."
Libero grugnisce qualcosa.
Un'altra volta invece, Libero è alla cassa e aspetta di pagare. Riccardo, Katia, e tutti quanti sono al bancone per il caffè. Patrick lo stuzzica.
"È come essere in Iraq, non è vero, Libero? Raccontalo, racconta a questa gente, della tua
esperienza di Fallujah, o era Nassirya? Non ricordo."
Libero, non risponde, guarda Patrick con uno sguardo pieno d'odio, poi con l'indice e il
pollice fa il segno della pistola che gli spara. Fa pure il rumore con la bocca.
Katia, invece, ha un'espressione alquanto scocciata e gli chiede: "No, davvero, Libero,
perché diavolo ti conci così, adesso?"
Libero, prende il resto dalla cassiera, finge di non aver sentito la domanda e se ne va verso la porta. Prima di uscire, però, si volta verso il gruppo.
"Libero va alla guerra. Va alla guerra per conquistare quello che ha perso, quello che gli
preme, quello che è suo. E non farà prigionieri questa volta."
Quando è fuori dal bar, i suoi colleghi lasciano sfogare una sonora risata.
Solo Katia non ride.
"A me non sembra così divertente. A essere onesta, mi fa venire i brividi. Un po' per la
pena, un po' per paura. Chissà cosa ha in testa sto scellerato. Lo sapete che la moglie lo
ha spedito a vivere in tavernetta, no?"
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La ragazza davanti a lui corre senza tregua sul tapis roulant. Ha i capelli legati a coda di
cavallo e il suo parrucchiere ha fatto un buon lavoro con la tonalità di biondo. Avrà trent'anni ed è in buona forma. Libero cerca di fare finta di niente, ma mentre apre e chiude
l'arco delle sue braccia, con la macchina a pesi che sviluppa i bicipiti, lancia costanti e
furtive occhiate al petto di lei che sussulta armonico, magnetico.
Sembra non voler darsi tregua, come se in una sola sessione, dovesse pomparsi per un
concorso regionale di culturismo. Il sudore gli cola dalla fronte sugli occhiali. Le vene
degli avambracci si inorgogliscono e quando i suoi occhi incrociano quelli della ragazza,
Libero tenta un goffo tentativo di sorriso, che siccome non ricambiato, veloce muta in
una smorfia dovuta alla fatica dello sforzo.
Quando sono le sette e mezza, lascia i suoi attrezzi, il suo sguardo si attarda ancora una
volta sul palpitante busto che ha davanti e se ne va. La ragazza non smette di correre e
non ricambia i suoi sguardi.
Nel suo bunker non si concede altri lussi, ne' altri piaceri se non un paio di barrette di
granola, sgranocchiate con disattenzione di fronte alla palpitante luce blu dello schermo
del suo computer, che gli ritorna i messaggi in chat, ancora una volta di Jessi.
"È bello parlarsi così, senza pressioni, senza tensioni, proprio come amici." Dice lei.
"Parlare con te, mi rinfranca lo spirito. Sei la persona più interessante e intelligente con
cui ho avuto a che fare oggi."
"Quasi quasi ci credo."
`"E anche ieri, adesso che ci penso. E il giorno prima di ieri e forse sempre."
"Adesso non esagerare."
"Non esagero."
"Si che lo fai. Ma non importa, mi fa comunque piacere."
"Vedi come ce la intendiamo io e te."
"Basta prenderla con calma. Semplice deve venire così com'è."
"Se ci accarezziamo dal verso giusto, non abbiamo bisogno d'altro, bastiamo a noi stessi."
"Continui a lavorare duro in palestra?"
"Non dovrebbe esserci spazio per cercare qualcosa d'altro, su internet, giusto?"
"Penso che l'esercizio fisico che fai ti stia facendo bene, anche alla mente."
"Per cui non capisco come mai allora continui le tue chat con quello là."
"Non è di questo che stavamo parlando."
"Se non lo senti più, se davvero, come dici, è fuori dalla tua vita, come mai nel tuo profilo siete ancora registrati come coppia?"
"Non ci avevo fatto caso. Ma se davvero è così importante per te, allora lo cambio."
"Chi credi di prendere in giro? Fai finta di non sapere? Di sicuro ancora vi state parlando.
Mi impapocchi di parole, mentre alle mie spalle ancora vi prendete gioco di me. Non capisco perché ancora ti do retta."
"Calmati. Non ti preoccupare, ti dico che lo cambio."
"Sei la solita zoccola! Proprio una puttana! Di quelle da due lire. Perché ancora ti sto dietro? Mi hai solo rovinato la vita, cagna! Ma sai una cosa? Adesso posto il tuo vero indirizzo, quello di casa, così i marocchini possono andare a divertirsi con una vera puttana!"
"Ma che ti prende? Stavamo andando così bene! Torna in te."
"Si torno in me e dico basta! Basta, non voglio più saperne, ti cancello dalla mia vita.
Una volta per tutte. Giuro."
"Non farlo. Ti prego, possiamo ancora..."
Libero chiude la comunicazione. Schiuma di rabbia, paonazzo in viso.
Si alza e cammina, le mani tra i capelli. Ringhia. È un leone in gabbia.
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Dal computer la livida luce mostra una sequela di réclame. Libero ha chiuso il programma di chat ed ora solo gli sponsor rimangono attivi sullo schermo.
Con un gesto di rabbia, chiude il coperchio del laptop. Ora la stanza è buia davvero. Per
qualche lungo istante si prende la testa fra le mani, vorrebbe piangere, ma ha gli occhi
secchi e l'anima impostata nella modalità guerriero, quindi è un inutile esercizio retorico.
Quello che fa, invece, è accendere l'abat-jour. Apre la lunga cassapanca e tira fuori un
Remington a pompa, una Beretta calibro 9 e una semiautomatica calibro 22. Mette le
armi sopra la panca e le guarda con soddisfazione e desiderio.
Prende la semiautomatica e si mette la canna in bocca. Il dito sul grilletto.
Dopo ancora un paio di lunghi attimi, posa la pistola e prende il fucile.
Esce fuori dalla tavernetta con il Remington a tracolla.
È una notte senza luna e il cielo mostra tutte le sue stelle. Libero punta la canna della sua
carabina verso un punto all'orizzonte.
"Pum!" Lascia andare a mezza voce.
E in quel momento si sente come un semidio, dotato di infinita chiarezza mentale, che
appare gli ultimi giorni dell'umanità e vede tutti gli altri uomini come idioti.
Perché, come si dice, nessuna catena è più forte del suo anello più debole.
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Capitolo XXXIII
Fly
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La macchina blu governativa si aggira lenta, con arroganza, attraverso le vie di San Salvario. Il quartiere appare irriconoscibile rispetto a qualche tempo prima. Un effetto gentrificazione espresso e l'artefice viaggia dentro l'auto blu e da dietro i suoi vetri oscurati,
osserva il frutto del suo lavoro.
Via Goito, angolo via Belfiore sembra un giardino, bambini e pensionati, mamme con i
passeggini, decrepiti e badanti e neanche un segno del degrado di qualche mese prima.
Ferocia e compromessi, queste le chiavi, l'abile utilizzo di queste due componenti hanno
consentito a Lizzi di conquistare il territorio, di imprimere il suo marchio, il suo segno
nel quartiere.
"Sembra irriconoscibile." Concede l'autista.
"Aumenteranno gli affitti." Risponde Lizzi.
"Se sei proprietario, è il momento di vendere." Aggiunge l'autista.
Lizzi grugnisce qualcosa, il mento appoggiato al pugno e guarda fuori. Si vede che pensa
ad altro, forse allo scempio del Big, la pietra angolare di quella pulizia.
Forse, invece i suoi pensieri sono immersi, al meeting appena concluso.
In questura, c'era il sindaco e c'era anche il ministro dell'interno e il questore, naturalmente, e un generale dei Carabinieri e il vescovo, tutti per lui. Tutti per Lizzi.
Gli hanno dato una medaglia, per lo straordinario risultato ottenuto nel pacificare i lati
oscuri di una città violenta.
Il Generale, il Ministro, il Vescovo, lo hanno preso sotto braccio dopo la cerimonia,
ognuno gli ha fatto i complimenti e gli ha offerto qualcosa, un patto, un'alleanza. Tutti lo
vogliono dalla loro parte. È il segno che sta diventando potente. Il questore lo ha riconosciuto.
"Stia all'erta, Lizzi. Le orecchie aperte, le spalle coperte e le antenne diritte. Ogni porta si
può aprire per lei adesso e dietro ad ogni porta c'è un sicario con un coltello da piantarle
nella schiena. Ma se evita la lama e si allea con le persone giuste, non c'è limite alla sua
carriera, Può salire in alto. Sempre più in alto."
"Come Mike Bongiorno."
"Eh?"
"Niente. Solo una battuta."
"Sono serio Lizzi. Qui parliamo di Antimafia, Ministeri."
"Ho capito. Non sono mai stati questi i miei obbiettivi."
"Cosa vuole allora, Lizzi?”
"Dimenticare. Solo dimenticare."
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"Dimenticare non è possibile. Dimenticare chi comanda. Dimenticare chi fa le regole.
Dimenticare chi le fa rispettare, può portare solo a una conclusione. Essere fuori dal gio-
co. Questo deve essere ben chiaro. Ferraris e Turchi, andate voi da Inaju. Spiegategli, con
le buone o con le cattive, che se vuole essere parte del gioco, se vuole i suoi dividendi,
non può fare di testa sua. Deve stare alle mie regole."
A questo punto Lizzi si riscalda, si fa rosso in viso e addirittura si alza e punta le braccia
sulla scrivania in mogano.
"Non siamo arrivati fino a questo punto per dover ricominciare da capo! C'è un nuovo
ordine in città e così deve rimanere e le regole le detto io. Fateglielo capire. Che sia chiaro che non ci sarà un secondo avvertimento."
Ferraris si mordicchia le pellicine della mano mentre ascolta. Turchi, la testa leggermente
verso il basso, come se si sentisse in colpa che un Nigeriano possa fare infuriare il suo
capo. Nosenzo, un passo discosto, sembra una sentinella impalata al suo dovere. Aspetta
istruzioni.
"Franco, fammi il favore, voglio stare un po' tranquillo. Non passarmi nessuna telefonata
e se viene qualcuno non ci sono."
Nosenzo approva col capo. Lizzi aggiunge.
"Aspetto India. Quando arriva, lei falla entrare. Andate ora."
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Quando sono tutti fuori, Lizzi accende il computer. Si stira le braccia e la schiena, si
scrocchia le dita e si connette a Pogo, con il suo nome di battaglia.
È immerso nel suo poker texano, perdendo una partita dopo l'altra, insultando gli altri, i
soliti membri della comunità di giocatori che lo prendono in giro perché non vince mai,
neanche una mano. È immerso in questa sua routine, quando Nosenzo lo chiama dall'interfono.
"La aspetta nell'atrio."
"Non vuole salire?"
"Dice di no."
"Va bene. Dille che scendo."
Scrive un'ultima frase in chat,"Vaffanculo a tutti.", spegne il computer ed esce.
Nell'atrio c'è India che l'aspetta.
"Andiamo?"
"Andiamo."
"Cosa vuoi vedere?"
"Per me fa lo stesso. Decidi tu?"
"Vediamo cosa danno al Massimo."
A braccetto escono dall'edificio.
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Escono a piedi, India si muove veloce, incuriosita da una vetrina. Paul Etienne la osserva
camminare, si muove con un'aria di insolenza e famigliarità e lui la adora.
Quindi muove il suo sguardo, verso l'altra parte del Po. La realtà gli sembra fragile. Vede
gli alberi, i castagni, i cipressi che contornano il monte dei Cappuccini. Guarda tra le punte, tra i rami, ha paura di vedere impigliati i suoi vecchi fantasmi, accovacciati, a guardarlo da dietro le foglie. Invece no.
Non c’è niente e si sente bene. Come erano anni.
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Capitolo XXXIV
The Hazard of Love
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È ormai Estate. Anche con l'aria condizionata, in tipografia fa caldo. Vicino alla sua litotipe, Libero suda. Infila i fogli da stampare e suda. Si passa un fazzoletto sulla faccia per
asciugarsi il sudore, ma dopo pochi minuti, è bagnato di nuovo. La maglietta mimetica
militare ha due enormi chiazze di sudore sotto le ascelle. Libero è più magro e si vede, i
muscoli delle braccia escono prepotenti dalle maniche della maglietta. Il suo sguardo sotto gli occhiali dall'orribile montatura, è sempre vacuo, liquido, perso verso un orizzonte
lontano.
Sembra distratto, forse cerca solo di combattere la noia di un lavoro ripetitivo, o forse
pensa agli ultimi mesi della sua vita, di quanto è cambiato, da quando è andato a vivere in
tavernetta, da solo. Oppure pensa alla moglie, in vacanza al mare con le figlie. Le bambine, appunto, quanto gli mancano, quanto gli manca il loro rapporto speciale e il tempo
che passavano insieme.
O forse pensa a Jessica, quanto lo ha cambiato, quanto lo ha distrutto o quanta strada
deve fare per poterla definitivamente conquistare.
O forse è del tutto inutile e non ci sarà una loro vita insieme futura.
È immerso in queste elucubrazioni, in questi labirinti mentali, in questo flipper cerebrale,
dove la pallina del suo pensiero rimbalza da ostacolo a ostacolo, prima di finire giù nello
scarico di un'amnesia. Senza punti, senza bonus, senza vincere.
Non vede e non sente niente, se non se' stesso, quando, strafottente, con il ghigno cattivo,
Patrick lo avvicina.
"Dove vai in vacanza quest'anno, soldato?", lo incalza Patrick, "a Nassirya?"
"Nel culo di tua madre, bastardo!"
"Divertiti, allora. Io andrò a Pavia, c'è una ragazzina diciottenne che mi aspetta. Faremo
un brindisi alla tua salute. Che ti si guasti."
"Vaffanculo, Patrick!"
"Buone vacanze anche a te."
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Quella notte, quando torna a casa, Libero non se la sente di scendere in tavernetta, è un
forno deprimente. Si rifugia in casa, tanto è vuota ed è fresca.
Fa il giro delle camere, annusa l'odore delle sue bambine, tocca i loro vestiti, i loro giochi. Fa un bagno caldo di nostalgia.
È quasi mezzanotte quando si chiude nello studio e accende il computer.
In canottiera, pallido, rivoli di sudore gli rigano il viso, è fuori di se’. Cerca Jessi in qualche chat, in qualche game online. Ma sembra non esserci traccia di lei. Su Pogo, cerca
Hotblonde, ma il suo status è su non disturbare. Libero suda sempre di più e non è solo il
caldo.
Le manda lo stesso un messaggio: “Stai aspettando il tuo fidanzato, puttanella?”
Gira ancora per la casa, va a bere acqua fresca dalla bottiglia in cucina. Va a pisciare e
non tira l’acqua. Va a rovistare nella biancheria intima di Cinzia.
Da Jessi nessuna risposta. L’ultimo messaggio lo manda verso le due e un quarto.
“Scommetto che al tuo fidanzato non importa, se parli con me.”
Non riceve nessun segno di vita e alla fine collassa nel letto dove ha passato tante notti
insieme alla moglie. In mutande, nel caldo notturno di fine luglio.
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Il sole passa attraverso le grandi vetrate del soffitto della sede centrale, produce un piccolo arcobaleno per ogni raggio di sole. La luce investe in pieno il viso arcigno di Nosenzo,
lo fa sembrare diafano, quasi trasparente, mentre scandisce monotono il rapporto, sembra
la voce di una di quelle guide turistiche che senti nei telefoni delle chiese importanti.
Sembra che da un momento all'altro possa recitare lo stesso rapporto anche in francese, in
inglese, in tedesco.
Di fronte a lui Lizzi ascolta e succhia una biro, concentrato come se da ciò dipendesse il
suo futuro, la luce passa attraverso di lui, conferendogli una sorta di aureola, almeno così
sembra al fido Nosenzo. Ma anche all'imperturbabile Ferraris, che si pulisce le unghie
con le chiavi dell'alfetta e fischietta un motivetto, piano piano.
Quello che ha da dire Nosenzo, di per se' non sarebbe così interessante. Si tratta di un
omicidio, un ragazzo. Non succede sovente, ma succede. Quello che interessa di più Lizzi
e il suo nuovo ordine, è che nell'auto della vittima, sia stata trovata una busta con dieci
grammi di cocaina. Stile esecuzione e coca.
C'è n'è abbastanza da preoccuparsi. Un nuovo giocatore nel grande gioco della droga?
Un'avvertimento. L'inizio di una guerra?
Qualsiasi cosa fosse, non era da prendere alla leggera. Doveva interessarsene personalmente e agire subito, per contenere, sedare, controllare. Se salta un meccanismo salta tutto. L'equilibrio finalmente ritrovato, la pace finalmente conquistata, sono di cristallo. Bisogna essere cauti, delicati e risoluti.
!
L'alfetta corre sui vialoni di periferia, a Lizzi sembra non dover arrivare mai, e durante
tutto il tragitto, rimesta le domande, rivolta le risposte, ma non raggiunge assicurazioni.
Finalmente l'auto arriva nella zona industriale di Venaria, nel parcheggio pubblico di una
impresa privata, la tipografia FF.
La scena del delitto è stata isolata, ma intorno al cordone di polizia, tutti gli impiegati della zona sono lì, a fare da cornice, a commentare, a sentirsi parte di qualcosa che di solito
vedono in televisione. Fa la loro giornata.
Lizzi osserva quello che è successo.
Il cadavere di Patrick è seduto al posto di guida, la portiera aperta, raggiunto da tre colpi,
due al collo e uno alla parte alta del braccio.
"Sembra un'esecuzione. Ma non è il lavoro di un professionista. Calibro?" Lizzi prosegue
la sua esplorazione, con Nosenzo al suo fianco.
"Carabina calibro .30, pare."
Tutti gli impiegati della tipografia sono intorno alla protezione, cercando di sbirciare
un’ultima volta il loro sfortunato collega e per avere qualche dettaglio da proporre durante la pausa pranzo. Anche Libero osserva, imperturbabile, mangia pistacchi, guarda senza
emozioni e butta le bucce per terra.
Lizzi ha già visto abbastanza e lascia il cadavere al suo destino. Gli volta le spalle, preferisce la vista delle montagne di fronte. Il suo sguardo si posa sui vari volti sorpresi dei
curiosi intorno.
“Nosenzo, fammi il favore, visto che siamo qua, non perdiamo tempo, parliamo con i colleghi del deceduto. Fammeli radunare da qualche parte. Sentiamo cosa hanno da dire.”
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Capitolo XXXV
Closing the Lid
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Ha le mani da macellaio Nosenzo, tozze più che grosse, con le nocche che sembrano mini
ginocchia e calli duri come ghiaia. Suo padre era stato proprio un macellaio, ma aveva
dita delicate, affusolate. Lui ha preso da sua madre, che faceva la sarta. Ora queste nocche battono poderose contro la superficie fredda del distributore di bevande fresche. Ora
usa i palmi, ora il pugno chiuso. La macchina è colpevole di aver inghiottito la moneta,
senza dargli niente in cambio. Digrigna i denti e batte e il rumore è fastidioso.
"Abbiamo finito?" Non riesce a concentrarsi, Lizzi, cerca di pensare, di trovare un filo,
una traccia, una connessione.
Si alza dalla sua sedia e gli passa una moneta da due euro.
"Lascia perdere."
"Non è per i soldi, è il principio." Insiste Nosenzo.
"Ho capito, però adesso basta, comprati questa aranciata e fammi entrare uno di ‘sti tipografi per una chiacchierata.
Finalmente con la sua Oransoda in mano, Nosenzo esce dalla stanza.
Quando rientra, Katia lo segue.
"Buongiorno signorina."
"Buongiorno Maresciallo."
"Troppo onore, non sono Maresciallo e può chiamarmi Paul Etienne, se le garba, altrimenti signor Lizzi, andrà benissimo."
"Ah lei è Lizzi, leggo il suo nome talvolta sul giornale e forse l'ho vista anche su Rai tre
qualche volta, al Tg regionale."
Lizzi sorride.
"Che cosa terribile. Sono ancora sconvolta. Patrick era il più simpatico, il più vivace, anche il più giovane e senz'altro il più carino della tipografia. È stato uno shock, una di
quelle cose che si vedono solo in televisione, invece succedono davvero."
"Succedono davvero. Tutti i giorni, più o meno. Mi dica, che lei sappia, qualcuno poteva
avere qualche motivo, che so io, rancori, desiderio di vendetta?"
"Non qui in tipografia. Non che sappia io, almeno. Come le ho già detto, tutti volevamo
bene a Patrick, qui. Era il più giovane, il più brillante. Era amico di tutti."
"Con qualcuno era più legato, in particolare?"
Katia arriccia le labbra, prende tempo per rispondere.
"Non saprei. Forse negli ultimi tempi lo vedevo più spesso con Libero, uno dei nostri più
anziani impiegati. Parlavano spesso. Si prendevano in giro. Anzi, lui, Patrick, lo prendeva
in giro, da quando Libero si era messo a vestirsi come un militare. Ma erano amici, spesso pranzavano insieme."
"Capisco. Grazie, può andare, ora."
Katia si alza, lenta e languida, come un gatto al sole. Muove solo un po' le dita come
forma di saluto.
Dopo Katia, è la volta di Riccardo, quindi di Fernando, ognuno di loro si dichiara dispiaciuto e sconvolto, ma non aggiunge niente di rivelante, alle orecchie e alle antenne di
Lizzi.
"Chi è il prossimo?"
"Faccio entrare Libero."
"Fallo entrare, va."
!
Libero entra nella stanza del caffè, dove negli ultimi vent'anni ha passato le sue pause, tra
una linotipia e un'altra, da solo, con i colleghi, tante volte anche con Patrick. Entra con la
sua bustina di pistacchi, sgranocchia e butta le bucce per terra.
Lizzi e Nosenzo vedono entrare questo strano individuo. Testa rasa come un marine, baffi
rossicci e occhiali con la montatura gigante e le lenti brune. Veste una mimetica, sembra
appena tornato da cacciare i cervi, perché non sembra un soldato, ma uno psicopatico o a
voler essere caritatevoli, un cacciatore di bestie grosse.
Lo sguardo è sereno e il sorriso affabile, alla conversazione sembra un tipo piacevole e
non un serial killer con disturbi mentali. Ma la sua apparenza fa registrare una nota di allerta in Paul Etienne. Che va subito al sodo.
"Perché è vestito così?"
"Per amore."
"Sua moglie ama i bracconieri?”
Nosenzo ride trattenuto, anche Libero lascia uscire un franco sorriso.
"È che mi ha lasciato, da allora ho promesso a me stesso di non avere pace finché non
l'ho riconquistata. L'abbigliamento è la prova della mia guerra privata. Qualche mese fa
pesavo dieci chili di più. Ho cominciato a fare esercizio, a lavorare duro e a vestire come
un soldato. È per me stesso, come una specie di fioretto."
"Ha qualche cosa a che fare con Patrick?"
"No."
"In che rapporti eravate?"
"Ogni tanto litigavamo, lui ama prendere in giro le persone e spesso mi prendeva in mezzo e io ci rimanevo male. Ma fondamentalmente eravamo amici, spesso pranzavamo insieme e avevamo interessi in comune."
"Quali?"
"Soprattutto le donne. Amavamo parlare di donne."
"Pensa che sia stato ucciso per una donna?"
"Non saprei. So, però che nelle ultime settimane, sembrava molto stressato, come se
avesse preoccupazioni. Non sembrava il solito. Infatti non mi sfotteva."
"Cosa poteva essere?"
"Non ne ho idea. Però so che non era totalmente estraneo alla droga."
"Droga, eh?"
"Penso di si."
"Vada pure, signor Martinetto. Grazie per la collaborazione."
!
Ora è la volta di Bruno. Entra disinvolto, veste giovanile, anche se è evidente che ha le
sue stagioni. Pantaloni cargo, All Stars Converse nere ai piedi, una felpa con la scritta
New York e un cappello da baseball con gli Angry Birds.
Sorride gioviale e complice ai poliziotti. Ma non riceve risposta.
"Sembra un film, eh?"
"Cosa?" Risponde Lizzi.
"Beh, tutto questo."
"A me sembra terribilmente reale."
Bruno non sa cosa rispondere. Tiene le mani in tasca e ha perso il suo entusiasmo.
"In che rapporti era con Patrick?"
"Tempo fa abbastanza buoni. Poi a poco a poco si sono raffreddati. Prima spesso pranzavamo insieme, lui mi prendeva in giro parecchio, perché scrivo sceneggiature, perché
sono nel mondo del cinema. Forse era geloso, doveva essere sempre lui il più cool della
tipografia. Così mi sono distaccato."
"Anche Martinetto dice così."
"Con lui era diverso."
"Come?"
"Con lui ci andava sempre giù pesante. Però spesso erano insieme, come se fossero amici
in qualche modo. Forse Libero pensava di essere suo amico. Poi hanno litigato, di brutto
anche."
"Il Martinetto non lo ha menzionato."
"Da quando Libero ha iniziato a vestirsi da militare e sembrare sempre più sulle sue. Un
giorno Patrick gli ha fatto una battuta su Fallujah e Libero, freddo come Clint Eastwood
gli ha fatto il segno che gli sparava."
"Tutto lì."
"Sinceramente negli ultimi tempi sembrava ci fosse astio tra di loro. Qualche giorno fa ho
sentito Libero che diceva:"Se dovessi uccidere qualcuno, non sarei così stupido da lasciare i bossoli per terra."
"Ha ragione."
Bruno, di nuovo, preferisce non dire niente.
"Nient'altro?"
Bruno si toglie il cappello e si gratta la testa dai radi capelli, per cercare di farsi venire in
mente qualcos'altro.
"Vediamo un po'. Qualcosa c'è, in effetti, non so se è molto rilevante, ma io lo dico."
"Sarebbe?"
"Più o meno una settimana fa, così, en passant, mi chiede, 'A che ora esce Patrick, di solito?' Al momento non ci ho fatto caso, ma alla luce di quel che è successo mi sembra allarmante. Sa, sono uno sceneggiatore io e sono abituato a..."
"Va bene così, può andare. Grazie per la collaborazione."
!
Sul mogano della sua scrivania, due fogli tabulati. Lizzi studia i numeri, controlla le referenze. Il computer è spento, solo questi due fogli di carta lo guardano e sembrano volergli
dire qualcosa. Gli occhi seguono le dita, che seguono le cifre e i nomi, gli occhi non si
alzano, non guardano fuori, non si distraggono. Qualcosa c'è in quelle carte.
Il cellulare bippa e lampeggia, Lizzi cerca di ignorarlo, non vuole perdere il filo di quelle
tracce, ma anche il telefono vuole dirgli qualcosa. Alla fine cede, la concentrazione è
spezzata e legge il messaggio.
"Alle 6 vengo a prenderti, voglio aperitivo e cena, in un posto carino. India."
Guarda l'ora, sono già le cinque e mezza.
"Vieni più tardi. 7 o 7.30.” Risponde.
Torna alle sue cifre, come un contabile qualunque. Ma dopo un minuto, ancora un bip.
Con stizza controlla.
"Mi sto annoiando."
Lizzi grugnisce e sorride. Poi sbuffa e guarda fuori. Il cielo è senza nuvole e la città, di
sotto, sembra brillare.
Un respiro profondo per cercare di ritrovare la concentrazione. China la testa sui suoi fogli e sente bussare alla porta.
Non fa in tempo a dire niente che Ferraris è già entrato nell'ufficio.
"Lizzi, ha visto i tabulati?" Sembra eccitato Ferraris, senza il solito aplomb che lo contraddistingue.
"Stavo giusto guardando. Viene fuori qualcosa?"
"Qualcosa di molto interessante, a mio parere."
"Si?"
Ferraris indica un numero da un foglio ed uno dall'altro.
"Vede qui. Lo stesso numero. Con il prefisso di Pavia."
Lizzi annuisce.
"Hanno chiamato la stessa persona a Pavia, piuttosto di frequente. Sia il Martinetto che la
vittima."
"Il numero è registrato ad una certa Opalio. Jessica Opalio, 18 anni."
"Ecco la traccia."
"Si ma non è tutto. C'è anche questo numero, però solo nel tabulato di Patrick. È il telefono di Inaju."
"Il nigeriano? Il nostro nigeriano?"
"Proprio lui."
"Bene. Ora abbiamo due piste da seguire. Fammi il favore, vai da Inaju con Nosenzo,
senti cosa ha da dirti. Io mi occupo di Jessica."
Ferraris con uno scatto esce dall'ufficio. Lizzi prende il cellulare e scrive un messaggio.
"Questa sera dovrai annoiarti, mi dispiace, non credo finirò presto."
Si alza e va davanti alla vetrata, il telefono in una mano e il tabulato nell'altra.
Inizia a comporre il numero, quando gli arriva un altro sms.
"Sbirro!"
Sorride e chiama Jessica. Dopo tre squilli, una voce femminile risponde.
"Paul Etienne Lizzi, squadra mobile di Torino. Parlo con Jessica Opalio?"
"È successo qualcosa?"
"Direi proprio di si. Patrick Vietti è stato assassinato. Lo conosceva?"
Nessuna risposta dall'altro capo.
"Abbiamo trovato numerose chiamate a questo numero dal suo cellulare."
"Oh mio Dio!"
"Numerose telefonate al suo numero provengono anche dal cellulare di un suo collega,
Martinetto."
"Oh mio Dio, Libero!"
Dal tono della voce della ragazza, Lizzi percepisce allarme e costernazione e reagisce
d'istinto.
"Mi ascolti bene. Ci sono possibilità che anche lei possa trovarsi in pericolo. La esorto a
non uscire di casa e a non aprire a nessuno, se non a stretti famigliare. Telefonerò subito
alla questura di Pavia e chiederò che le mandino una macchina. A sua protezione. Appena
mi è possibile, verrò personalmente. Mi raccomando. E soprattutto eviti il Martinetto,
finché non ci saranno ulteriori sviluppi."
Lizzi attacca e veloce torna alla sua scrivania. Prende un'agenda da un cassetto e alza il
ricevitore del telefono.
Il sole tramonta in quel momento.
Capitolo XXXVI
Anyone else but you
!
Katia fa finta di niente, tiene lo sguardo basso e senza che nessuno la guardi, controlla se
ha messaggi nel telefono. Tutti quanti, d’altronde, si guardano le scarpe. Solo Libero
guarda dritto Fernando che sta parlando.
Ha radunato tutti i suoi impiegati in sala macchine e parla loro direttamente, come un
amico, come un fratello maggiore, come ha sempre ritenuto di essere, come ha voluto
impostare la sua impresa, come una famiglia. Una bella famiglia unita. dove qualcuno è
stato ucciso, forse, da uno di loro.
"È stato un brutto colpo. Lo sappiamo tutti. Tutti lo abbiamo accusato. Patrick era parte
della nostra famiglia. Il fratellino giovane, talvolta un po' birichino, ma proprio per questo tutti gli volevamo un gran bene. Ed ora non è più con noi. Lo so, è inconcepibile, ne
siamo tutti quanti sconvolti. Le indagini sono in corso, proprio in questo momento, la polizia sta cercando di dare una risposta alle nostre angosciate domande. Per agevolare il
compito della polizia e per dimostrare il nostro dolore, la tipografia sarà chiusa per qualche giorno, in segno di lutto. Potete andare a casa. Tra tre giorni, passati i momenti peggiori, riapriamo, pronti a ricominciare, più forti, più uniti che mai."
Gli impiegati della FF, con la lentezza appropriata al dolore, comincia a disperdersi. Fernando si avvicina a Libero.
"Vieni nel mio ufficio, per favore. Voglio parlarti in privato."
Libero reagisce appena, ha lo sguardo apatico. Alcuni giorni sembrano più lunghi degli
altri. Alcuni giorni sembrano due. Ma quello gli sembrava senza dubbio il giorno più lungo della sua vita.
!
L'ufficio di Fernando è spoglio e frugale. Cassettiere di metallo e faldoni per archivi e
alla parete il poster di uno scimpanzé, vestito di dubbio gusto che fuma un sigaro.
"Siediti Libero."
Libero si siede.
"Da quanto tempo ci conosciamo io e te?"
Libero farfuglia qualcosa, prova a contare con le mani aperte.
"Da tantissimo tempo. E siamo sempre stati buoni amici. Ti conosco bene, come un fratello e so che sei un uomo buono."
Libero guarda da un’altra parte, sposta lo sguardo con un perfetto tono di delusione.
"Non so se ne sei al corrente, ma ci sono voci che sia stato tu ad uccidere Patrick. Ultimamente sembri cambiato e il look delle ultime settimane non aiuta a tranquillizzare o a
smentire queste voci. Ma io ti conosco e non credo che tu possa essere capace di ammazzare una persona. Ora guardami dritto negli occhi, per favore. Sei stato tu ad uccidere Patrick?"
Libero recupera il suo sguardo, pianta i suoi occhi dentro gli occhi di Fernando e parla
senza esitazioni.
"No. Io non l'ho ucciso e chi lo dice è un figlio di puttana."
"Ne ero certo, amico mio."
!
Due pilastri di sale. Uno nero e uno bianco, Come due pezzi degli scacchi, due pedoni o
due alfieri. Uno di fronte all'altro e si guardano negli occhi. Sembrano fare a gara a chi
ride per primo.
E il primo, ma non è riso, piuttosto sogghigno, è Inaju.
Adesso anche Lizzi può lasciarsi andare, il suo è un sorriso benevolo, quasi malinconico.
"Non avevo voglia di vederti qui."
"Non avevo voglia di venirci."
"Io ti ho dato fiducia e libertà di azione, volevo qualcosa in cambio. Non osavo pensare
che tu fossi un mio uomo, ma in un certo modo mio alleato si. Credevo avessi imparato."
"Tutti possono leggere e imparare. Il difficile è fare le cose, parlare francese, andare in
Africa, avvelenare un nemico, piantare un albero."
"Molto carino. Resta il fatto però che adesso devo seguire una pista di un omicidio, legato
allo spaccio di droga e qui tutti si divertiranno un mondo ad enfatizzare questo aspetto. E
dove porta questa traccia? Guarda un po' a Mister Inaju. Il mio caro alleato nel mantenere
pulizia."
"Quel ragazzo era uno scriteriato. Non è una sorpresa che doveva finire così."
Lizzi ha un moto d'ira e sbatte la mano sulla legno duro della scrivania.
"Ma tu non dovevi ucciderlo. Dovevi venire da me e dirmi, questo ragazzo mi sta dando
problemi. E ci pensavo io."
"Io quel ragazzo non l'ho toccato."
"Cosa mi stai dicendo?"
"Non siamo stati noi. Siamo stati pazienti, ci doveva un sacco di soldi, ce ne dava la metà
poi chiedeva altra piscia di gatto."
"Cosa chiedeva?"
"Bamba, bonza, latte, scaglia di pesce, come la vuoi chiamare."
"Cocaina?"
"Eh si cocaina."
"E chiamala col suo nome!"
"Ne voleva ancora, poi la pippava e non la vendeva, ci dava un qualche spicciolo e ne voleva altra. E noi pazienti, pazienti. Finché gli abbiamo fatto paura, quello si, l'abbiamo
fatto pisciare sotto…"
"Cagare sotto…"
"Eh?"
"Niente vai avanti, già parli forbito."
"Ma niente, non l'abbiamo toccato. Giuro…giuro…"
"Giuri?"
"Giuro."
"Vattene Inaju e non farti vedere per almeno sei mesi."
"E i soldi?"
"Qualcuno verrà."
!
È notte fonda e nella tavernetta di Libero è buio, solo la luce dello schermo del computer
illumina la sua faccia, livida e sudata.
La sua espressione significa terrore, uno sgomento che improvviso apre la strada a tutto
quanto, a tutti gli interstizi della comprensione. E allora Libero ci vede nel buio della sua
notte, finalmente ci vede, nell'oscurità del suo seminterrato, nelle tenebre dei suoi sentimenti, finalmente ci vede. Ed è una scena che lo atterrisce.
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Capitolo XXXVII
I’m not there
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Passano poche automobili e qualche motorino. È una zona residenziale, tranquilla, tanto
verde, pulita e ordinata. Le villette sono tutte simili, bianche, con il garage e un praticello,
alle volte l'altalena, alle volte qualche nanetto.
L'alfetta bianca arriva ad una velocità poco adatta al luogo. Si ferma davanti al concessionario di auto usate. A fianco inizia la schiera delle abitazioni, la prima della fila è la
loro meta.
Nosenzo esce dal lato passeggeri, con un cenno saluta la macchina davanti, la sorveglianza, i colleghi di Pavia. Quindi raggiunge il cancello e suona il citofono.
!
Laura è in lavanderia, nel retro della casa, sta scaricando il cestello della lavatrice, appena
finito il ciclo. Prende i capi e li sposta nell'asciugatrice di fianco. È in quel momento che
suona il campanello.
Apre ai due agenti. Anche se è la prima volta che li vede, li riconosce subito. Nosenzo
sembra un macellaio irlandese del secolo prima, e si presenta subito.
"Piacere Nosenzo Franco, della questura di Torino."
"Prego, accomodatevi."
L’altro, è uno di quei tipi che non ha bisogno dell’uniforme per sembrare un poliziotto.
La colpisce il particolare che è completamente senza collo e la camicia abbottonata fino
all’ultimo bottone, sembra dover scoppiare da un momento all’altro. La faccia è quella di
uno scolaro sovrappeso.
"Venite, vi faccio il caffè."
I due si muovono all'unisono come sincronizzati, raggiungono il salotto e sprofondano sul
divano, uno di quelli un po' troppo accoglienti, da cui riesce difficile tirarsi su.
Si guardano intorno, più per disagio che per investigare. È un salotto tipico, uno di quelli
che ne puoi trovare a dozzine, probabilmente simile a quello che Nosenzo avrebbe, se
solo avesse una moglie o anche solo una casa e non dormisse nella sua cuccetta in caserma.
Finalmente Laura torna, con il caffè nelle tazzine del servizio buono, il viso tirato, lo
sguardo preoccupato.
"Devo confessare di essere in ansia."
Nosenzo grugnisce, mentre il suo sodale non parla per contratto.
"Jessi, la notte scorsa, non è rientrata a casa. Non è la prima volta che succede. Ormai ha
preso l'abitudine talvolta di dormire fuori e nemmeno avvertire. Ormai non ci faccio
nemmeno più caso. Ma non adesso. Questa volta è diverso. Dopo quello che è successo.
Dopo quello che mi avete detto."
"Mmmm." È la risposta di Nosenzo.
Stringe gli occhi, arriccia le rughe del viso, mostra la mappa di come sarebbe diventato
da li a qualche anno. Non si aspettava questo sviluppo e non sa bene come reagire. Alla
fine per non sbagliare, la migliore cosa da fare è chiamare Lizzi.
"Signora, meglio che chiami in centrale, vediamo cosa hanno da dire."
"Grazie."
Nosenzo si apparta.
"Gradisce altro caffè?" Propone Laura allo sbirro muto, che agitando la mano fa cenno
che sta bene così.
!
Il solo a guardarla lo intimidisce. Il suo sguardo sembra includere tutto in una volta, in un
attimo scannerizza la piazza e le briciole nei tavolini del dehor. E soprattutto lei, le gambe
accavallate, la mano a pugno sotto il mento, gli occhi scuri, intensi, annoiati che lo aspettano. India. L'India del suo cuore. Paul Etienne porta al tavolino, in equilibrio instabile, il
piattino con le pizzette e i canapè, il bloody mary per lei e il Pastis per lui, Finalmente è
riuscito a ritagliarsi un momento per un'aperitivo con la sua India.
Quando arriva, gli sorride, così può finire la conversazione, iniziata prima.
"Così avevano smesso di vedersi ed erano diventati dicerie, l'uno per l'altro."
"Chi?"
"Come chi, è mezz'ora che te ne parlo. Marco e Giorgina."
"Avevo dimenticato."
"Ti parlo sempre di lei, è la mia amica più cara."
"Certo."
Il telefono squilla, India gli lancia un'occhiata che ha mille significati. Paul Etienne guarda il telefono, vede che è Nosenzo.
Alza le spalle, vuole dire che non può fare a meno di rispondere. Lei sbuffa e guarda dall'altra parte.
Lizzi si alza, dopo un paio di passi, risponde.
"Dimmi."
India mordicchia un canapè, un raggio di sole le colpisce i capelli, le trasformano il nero
nel colore del rame.
"Come sarebbe a dire che è scomparsa? Le ho parlato poche ore fa, non può essere lontana."
India sorseggia il bloody mary, un'ombra leggera sopra il suo labbro superiore, rosso sangue.
"Ci penso io, a questo punto. Mi faccio dare il mandato dal giudice e prelevo il Martinetto. C'è qualcosa di strano. Speriamo non sia troppo tardi."
Quando Paul Etienne ritorna al tavolino, India riprende il suo sorriso, ma le dura poco.
"Devo andare. La ragazza è scomparsa. Forse rapita, spero non uccisa. Ti chiamo dopo, ti
faccio sapere."
Beve appena un sorso del suo Pastis e corre via, fuori dalla sua vista.
Quello che rimane nel suo angolo visivo è solo la vetrina del kebabbaro, il kebab gira lentamente su se stesso attorno al suo spiedo, come un pianeta dalla forma sbagliata.
!
Come se la disperazione fosse la sua leale alleata, Libero trascina i piedi, muovendosi
dalla cucina, allo studio, dallo studio, al bagno, dal bagno alla salotto.
Sono due giorni che la tipografia ha chiuso, Libero in mutande e canottiera e una coppetta
di pistacchi, strascica la sua noia per quella casa vuota.
Le sirene non le sente o non ci fa caso. Apre una lattina di birra in cucina, tira giù una
sorsata, un rutto, un'altra sorsata che sbrodola sulla canottiera. Suonano la porta.
Va ad aprire e vede i lampeggianti, Paul Etienne Lizzi mostra il distintivo e un sacco di
agenti intorno. Tutto questo per lui?
"Libero Martinetto?"
Libero annuisce.
"Indossi qualcosa di decente, viene con noi in centrale. La avverto che è in stato di arresto."
Libero è una statua di sale. La sorpresa lo immobilizza.
"Perché?", riesce appena a pronunciare.
L’istante dopo, pura paura, da far gelare il sangue, si impadronisce di lui.
"Si vada a vestire, Martinetto. Ne parliamo dopo."
!
Quando ritorna, Libero tiene tra le mani un sacchetto di pistacchi.
Uno degli agenti si avvicina per mettergli le manette.
“Non è necessario.” Interviene Lizzi.
“Grazie dottore, gradisce un pistacchio?”
Una volta entrati tutti in macchina, l’alfetta parte, lampeggiante e sirena accese.
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Capitolo XXXVIII
One too many mornings
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C’è un pezzo di cicles secco sotto il tavolo. Senza sapere il perché, Libero non può fare a
meno di toccarlo. La sedia su cui sta seduto è inclinata, gli sembra sempre di scivolare
verso il basso, ogni pochi istanti deve tirarsi su e per farlo tocca la gomma da masticare
sotto il tavolino e ogni volta pensa, chissà chi l'ha appiccicata lì sotto.
Lizzi appare calmo, non sembra avere fretta e non manifesta la solita cattiveria da cui è
impossibile sottrarsi. Ciononostante, Libero sente quegli occhi azzurro gelido conficcarsi
tra le sue costole.
"Signor Martinetto, immagino lei sappia per quale motivo si trovi qui."
"Immagino sia in relazione alla morte di Patrick, ma le giuro sulla testa delle mie figlie
che non sono stato io."
"Siamo già a buon punto, se sa perché è qui. Non ho voglia di discutere con lei, almeno
non adesso. Sappiamo già che l'ha ucciso lei, quello che ci preme sapere è se ha ucciso
anche Jessica."
La sua faccia diventa bianca, come una mela appena sbucciata.
"Jessi è morta?"
La sua voce denuncia l'angoscia, ricorda quella di un gabbiano, un peculiare stridulo grido, la coda con cui termina le parole.
Quindi scoppia a piangere tenendosi la testa fra le mani.
"Il giorno che ricordo meglio, è il più comune di tutti. Come ogni venerdì torno con le
bambine da nuoto. Ma ho ancora un po' di tempo prima che la cena sia pronta. Sono su
internet e non so cosa fare, infine clicco su una pubblicità. È Pogo, il sito dei giochi online, sono incuriosito da Texas hold 'hem. Entro in una delle stanze, c'è questo tavolo, con
il mio posto e dall'altra parte Hotblonde, che comincia a prendermi in giro, quando perdo.
Lo ricordo bene, quel giorno ordinario. È quando la mia vita è finita."
Si prende la testa tra le mani e singhiozza come un bambino.
"È stata uccisa, Jessi? Ma io l'amavo, ho perso la testa e la mia famiglia per quella ragazza, ma non l'ho uccisa, lo giuro."
Lizzi non perde la calma, il sangue gli scorre fluido e freddo, sente che non ha fretta e che
piano piano la lucidità si impadronisce di lui. Capisce che i pezzi stanno andando in ordine, ha bisogno solo di pazienza.
"Tu sei Pistacchio."
Libero si sbarazza della gabbia delle mani e lo guarda attonito, come se gli avesse rivelato la sua data di morte.
"Jessi era Hotblonde e Patrick Bonza."
"Come lo sai?"
"Non è difficile ottenere le registrazioni dal sito per il reparto investigativo della squadra
mobile. Ma non è per questo. Io so tutto di voi, dei vostri flirt, litigi, baccagliamenti, avete ammorbato la stanze di Pogo e le chat con le vostre telenovele. Io sono Jayme."
Libero si illumina, come se avesse incontrato un vecchio amico, che non vedeva da anni.
"Tu, Jayme? Come stai?"
"Lascia perdere Martinetto."
"Jayme devi credermi. Visto che sai come sono andate le cose, non sono stato io ad uccidere Patrick e non avrei alzato un dito contro Jessica…"
" Jessica è scomparsa, magari ha paura e si è nascosta, ma se è morta, solo tu puoi essere
stato, non vedo altre possibilità."
"Non l'ho uccisa, lo giuro. Io non ho ucciso nessuno. Jayme, ti prego, lasciami andare a
casa, voglio ricominciare, tornare dalla mia famiglia, farmi perdonare."
In qualche strano modo, Libero cerca di ottenere da Paul Etienne, rispetto. Ma soprattutto
la sua brutta cugina. Approvazione.
Ferraris apre la porta timidamente e fa cenno a Lizzi di uscire.
Fuori dalla stanza, oltre a Ferraris c'è anche Turchi, che con faccia seria e corrucciata,
parla a Lizzi con il tono più professionale che gli viene.
"Ci sono nuovi indizi. Bucce di pistacchio intorno alla macchina di Patrick. Poco distante
dal delitto, in una forra abbiamo trovato una borsa nera con le munizioni del calibro dell'arma del delitto. La borsa riscontra notevoli peli di cani."
Ora Ferraris offre i suoi risultati.
"A casa di Libero, abbiamo trovato varia lingerie di Jessica e diverse armi nella tavernetta, una delle quali potrebbe avere sparato a Patrick."
"È tutto?"
I suoi uomini annuiscono. Lizzi rientra nella stanza dell'interrogatorio.
"Libero, o devo chiamarti Pistacchio? Prendi le tue cose e vai a casa. In questi giorni
avremo ancora bisogno di te, per cui rimani qui e non andare da nessuna parte, anche se è
estate e hai voglia di vacanze. Soprattutto non andare a Pavia."
Libero stringe la mano di Paul Etienne con entrambe le sue, per dimostrare quanta gratitudine. Quasi lo bacerebbe.
!
Il sole spumeggia giallo e arancione da dietro la villetta quando, la Lancia Thema guidata
da Ferraris, inchioda davanti alla villetta bianca, a fianco del concessionario di auto di
seconda mano.
Come se non avessero neanche un minuto da perdere, Lizzi e Ferraris si scaraventano in
casa.
Appena entrati, Nosenzo li accoglie, seguiti dallo sguardo ansioso di Laura.
"Non è ancora rientrata." dice.
"Io le ho parlato la notte scorsa, mi ha detto che si trovava a casa sua." Risponde Lizzi,
che poi si rivolge a Laura.
Quando rivolge lo sguardo su di lei, Lizzi vede una donna che sembra aver conosciuto
giorni peggiori ma anche giorni migliori.
È graziosa, ma mostra una certa qualità leonina, occhi veloci, il cui sguardo plana su tutto.
"Suo marito dov'è? È possibile che sia con suo marito?"
Laura abbassa gli occhi.
"Lui è a Milano, non torna quasi mai."
"Potrebbe essere con lui a Milano?" Interviene Ferraris.
"Magari è spaventata e ritiene più sicuro stare con il padre nella grande città. Non ha nulla da dirci?" Incalza Lizzi.
"Non so. Non so più cosa pensare." Sembra quasi infastidita Laura.
"Proviamo a chiamarla."
"Ho provato già tante volte. Il telefono è staccato." Laura protesta e ci tiene a far sapere
che anche lei ha fatto i suoi tentativi.
"Provo a chiamarla al numero con cui mi ha chiamata, così alla centrale rintracciano il
segnale anche se non risponde."
Lizzi trova il numero e chiama.
Dopo pochi istanti si sente un cellulare suonare.
"È il suo?"
"L'avrà dimenticato a casa."
Il suono viene dalla stanza da letto di Laura. Lei va a prenderlo e lo esibisce, come la
prova che l'ha dimenticato.
"Eccolo."
"Non aveva mai suonato prima. Come mai?" chiede Nosenzo.
"Proprio non so." Farfuglia Laura.
"Posso vedere il suo telefono, signora?"
Laura porge il suo cellulare, gli occhi bassi."
Nosenzo controlla il numero con quello di Lizzi. Sul cellulare di Laura non compare.
"Lei non ha mai chiamato sua figlia."
Sorride falsa e si permette un : "Devo essermi sbagliata."
"Ora la verità. Dov'è Jessica?"
La sua faccia ora è un giardino di mascara e la colpa e l’innocenza stanno tutte nel tono
della sua voce.
"Jessica non c'è. O meglio non vive più con me, da più di sei mesi. Sta a Milano, da suo
padre."
"Con chi ho parlato io, la notte scorsa."
"Con me. Sono io la Jessica che cercate. Sono io Jessica, Hotblonde. Ho fatto finta di essere mia figlia su Internet."
"Sei tu la bionda diciottenne che ha fatto perdere la testa a due uomini?", si lascia scappare Ferraris e a stento si trattiene dal ridere.
"Ero convinto di aver parlato con una adolescente e invece ho parlato con sua madre?"
"Ho paura di si." Ammette Laura, la tensione l'abbandona e la stanchezza la attanaglia, il
suo sorriso sfiorisce e come se l'incantesimo finisse, torna ad essere, a sentire, a sembrare
un'appesantita quarantacinquenne, dai capelli bruni e corti, che vive da sola e passa il suo
tempo su Internet, in quel di Pavia.
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Capitolo XXXIX
Turn, turn again
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Questa storia sta, dunque, volgendo al termine. Anche se c'è chi ama ricordare che le cose
non cominciano e finiscono veramente, ma sono solo flusso.
Abbiamo visto come le emozioni umane possano essere fiamme, pericolose da toccare o
anche solo da esaminare da vicino.
Come la felicità nei primi momenti di un amore. Anche se potrebbe durare solo una settimana, l 'amante coinvolto pensa che durerà per sempre. Sono momenti riempiti di eternità, attimi così gioiosi da non sembrare momentanei. L'uomo è fatto così, riesce ad
amare solo cose immortali, ma solo per un istante.
Libero è tipicamente moderno e deve fuggire il mondo in cui vive.
È proprio dell'uomo attuale il dover andare a fotografare tigri o cavalcare cammelli e
postare su Facebook. Ma sta solo fuggendo dal posto dove è nato. Dice che casa sua è
provinciale: mente.
Fugge dal suo cortile perché così la vita è più eccitante. E più esigente. Così si sente vivo.
Va in Tailandia e i tailandesi sono qualcosa da osservare. Nel suo quartiere, invece, la
gente sono persone, come lui.
Obbligati a fuggire da una società iperstimolante di persone libere, perverse, individualiste, riservate e soprattutto, uguali.
Libero, così umano che la sua umanità lo acceca, come una nebbia fitta, gli si infila nelle
narici con il suo puzzo soffocante.
Libero come quelli che amano l'Africa perché terzo mondo o amano i vegetariani perché
politicamente corretti.
Lui ama Jessi perché è la sua Africa, mentre dovrebbe amare Cinzia perché è lì, è lei la
sua strada, il suo quartiere, la sua zona.
Libero è un esempio di umanità di questi giorni. Proprio perché può essere chiunque non
è più nessuno. È un simbolo perché diventa un incidente.
!
Libero cammina strascinando i piedi, per apatia non per ribellione. Le mani rinchiuse
dalle fredde manette. Un secondino lo precede, ha un naso lungo che sembra essere stato
rotto già diverse volte.
Lo esorta a muoversi più rapido.
Mentre cammina guarda su e giù, a destra, a sinistra, vede scale, celle e sbarre, gente
rinchiusa, ne’ meglio ne’ peggio di lui. Destra e sinistra. Su e giù. Giusto e sbagliato. Pensa a se stesso come sull'orlo di un precipizio.
Stufo e nauseato, guardare giù, guardare su.
!
Cinzia gli ha fatto l'ultima visita un mese fa, per chiedere il divorzio.
Lui continuava a ripetere tra le lacrime di non avere ucciso Patrick, che aveva altri nemici. Lei non rispondeva, come se comunque fosse irrilevante e prima di andare via gli regala un sorriso di addio, un sorriso tale che avrebbe potuto rompere vetri.
Così si è dovuto adattare alla sua nuova realtà, nella prigione delle Vallette, così vicine
alla tipografia che poteva vederla attraverso la sua finestra.
Aveva imparato a guardare in basso, strascinare i piedi e piangere solo nel bagno e solo
con l'acqua aperta.
Un momento di leggerezza era tutto quello che voleva.
E qualche volta pensava ai suoi genitori, che non avevano potuto sopravvivere senza l'un
l'altro e se ne erano andati come amanti. Come se avessero passato le loro vite respirando
i respiri dell'altro.
Nonostante tutto c'era una parte di lui che si illudeva si potesse stare in un luogo anche
dopo essersene andati. Così nel buio della sua cella, prima di addormentarsi pensava di
essere ancora a casa con le figlie e la cagnetta Ombra.
Le figlie, senza essersi mai presentate in visita, gli hanno fatto pervenire una lettera che
dice che non vogliono più avere niente a che fare con lui.
E così, in qualche momento di lucidità, pensa quanto, a volte, si debba cadere in fondo
per vedere cosa il passato ha fatto al presente.
Strascina i piedi, il processo è a pochi giorni e l'avvocato gli ha chiesto udienza.
Ogni tanto ancora un angolo della sua mente rimane aperto al mondo di fuori.
È allora che rumina su se stesso. Pensa agli anni bui del quasi lusso e del confort.
Era stato un pessimo marito e aveva trattato Cinzia miseramente.
Pur amando le figlie era stato un cattivo padre.
E se ci pensava giungeva alla conclusione che era stato un figlio ingrato e rispetto al suo
Paese e alla sua comunità, un cittadino indifferente. Egoista con i suoi amici, pigro in
amore. Noioso e passivo.
Soddisfatto della severità verso se’ stesso, entra nella stanza dei colloqui.
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L’avvocato, cordiale gli va incontro e gli stringe la mano. È un uomo così pieno di
charme che può incantare gli usignoli sugli alberi e i coccodrilli nelle paludi, con un men-
to pronunciato, fiamme di capelli color rame che letteralmente zampillano sulla sua testa.
Mentre parla, si muove, si piega, si irrigidisce, come un gondoliere attaccato alla sua pertica. Mostra forte volontà e talento per le polemiche. Ma una nota di vulnerabilità che non
ti saresti aspettata, traspare dalla sua voce. È chiaro, però, dal modo in cui guarda Libero,
che vuole a tutti i costi risposte oneste.
“Il processo è a meno di una settimana e, devo essere franco con lei, non ha molte speranze. A mio avviso, l’opzione migliore è patteggiare.”
“In questo modo devo ammettere di averlo ucciso io.”
L’avvocato senza aggiungere sillaba, muove il suo grosso mento per annuire.
Libero si schiarisce la voce e le sue parole sembrano venire su da un pozzo, crescendo,
ascendono in superficie come dal fondo del mare, come fosse un tipo di cosa che non
possa essere detta.
“Non posso patteggiare, non sono stato io.”
“Signor Martinetto, il suo alibi non regge, nessuno ricorda di averlo visto in quel ristorante. Il suo cellulare lo colloca nella zona dell’omicidio nel momento in cui è accaduto. La borsa con le cartucce e le armi trovata dalla polizia è piena di peli di cane che,
guarda caso, sono identici a quelli della sua cagnetta Ombra. Bucce di pistacchio sono
state trovate intorno all’automobile del deceduto. E non è tutto. La polizia ha setacciato il
suo computer, sono centinaia di pagine di documenti e dozzine di foto per ogni momento
della sua relazione con Jessi. Come un sentiero digitale che portano ad un uomo che
perde il controllo della sua vita. Ora mi dica lei, come devo comportarmi io di fronte a
tutto questo?”
“È lei l’avvocato, io posso solo dirle che non sono stato io e non patteggerò. Vada come
vada.”
Come quando si lascia andare l’aria fuori da un palloncino, queste parole si mettono a
volare impazzite per tutta la stanza. E Libero rilascia un sorriso con la cerniera, un po’
troppo stretto agli angoli. Ma sembra stranamente tranquillo, una linea radiosa sembra
partire dalla sua fronte e attraverso il naso arriva dritta sulle sue labbra, quando le apre
per gridare: “Guardia!”
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Le stelle sono corpi spirituali: fuochi, gas minerali, atomi. Mai eloquenti come quella
notte.
Paul Etienne Lizzi è al tavolino di un ristorante di fronte alla baia di Manarola, nelle
Cinque Terre. La notte stellata sopra di lui, il mare nero e calmo al di sotto. Di fronte un
calice di Vermentino e India.
Lei beve, guarda la baia e dice: “Credo di avere sempre saputo quanto sia difficile essere
solamente una persona. Di lei cosa ne è stato?”
“Nonostante tutto, non può essere incriminata di niente. La figlia, la vera Jessica, vive a
Milano con il padre, dice che non vuole più avere niente a che fare con la madre. Così la
povera Laura continua la sua triste, ancora più triste vita. Probabilmente continua a
chattare e a fingersi qualcun altra.”
“Mica tanto povera. Guarda i disastri che ha provocato. Un omicidio, un suicidio,
famiglie distrutte.”
“Tentato suicidio.”
“Si salverà?”
“E ancora presto per dirlo.”
“Ma tu credi che sia innocente?”
“Ognuno si porta appresso la propria maledizione, Libero se la sente addosso. Quello che
credo io è che sia colpevole, ma preferisce morire piuttosto che ammetterlo.”
India annuisce e beve di nuovo.
“Il dolore è una specie di pigrizia.”
“Io non mi sento tanto diverso da Libero. Guardo la gente dalle vetrate del mio ufficio,
tornare a casa la sera. Gente che ha così tanto dalle loro vite. Serate, i fine settimana, vacanze, attività, corsi di tango, ceramica e danza afro. Io non ci sono mai riuscito ad essere
come gli altri. Ma quello che ho imparato dalla storia di Libero è che non voglio più fare
finta di essere qualcosa che non sono.”
Un cameriere si avvicina al tavolo.
“Signori, pronti per le ordinazioni?”
Solo a quel punto Paul Etienne e India prendono il menu dal tavolo.
“Ancora due minuti, per favore.”
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