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Omero
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Sylvia Iparraguirre
Sotto questo cielo
Traduzione di Gina Maneri
Titolo originale:
La orfandad
Alfaguara, Buenos Aires 2010
© Sylvia Iparraguirre, 2010
Published by arrangement with
Literarische Agentur Mertin Inh. Nicole Witt e. K.,
Frankfurt am Main, Germany
© 2014 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via Saturnia 14, 00183 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6443-248-9
ISBN ePub 978-88-6443-249-6
ISBN pdf 978-88-6443-250-2
Copertina di Massimo Fagioli
Per Abelardo
SOTTO QUESTO CIELO
PARTE PRIMA
Viaggiava accanto al finestrino aperto, ammanettato. Raffiche
viola di cardi scorrevano sul terrapieno; la curva dell’orizzonte, in lontananza, si spostava lentamente in avanti. L’aria calda
gli soffiava sul viso e lui socchiudeva gli occhi senza riuscire a
staccarli dagli alti ciuffi d’erba gialla, dalle chiazze scure degli
alberi. Sotto il sole di dicembre la campagna, che non aveva
mai visto, lo stupiva: incredibile che in quell’immensità suo
padre non fosse riuscito a ottenere un pezzo di terra, dopo
tanti anni di attesa. Certo, il vecchio era sempre stato orgoglioso e testardo. Suo padre, contadino, allettato dalle promesse degli opuscoli ufficiali distribuiti in Liguria, era finito
in una conceria e anni dopo, malato, in una casa di Barracas
satura di fumo per il fornello a carbone che sua madre teneva
sempre acceso. Rivide la porta aperta e sulla soglia l’ufficiale
giudiziario che mostrava la lettera di licenziamento. Senza sapere come, si era ritrovato, a quattordici anni, a caricare a testa
bassa; sua madre aveva cercato di trattenerlo, mentre l’altro
urlava per strada: «Vi faccio espellere, italiani anarchici», mentre raccattava il cappello dal fango. Qualcosa che portava den-
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tro, qualcosa che gli scorreva di nascosto nelle vene era esploso quel giorno, in quegli anni ancora verdi: una forza occulta
e forse, pensava ora, malsana. Aveva ragione don Miguel: l’ira
minava tutto ciò che faceva. Azioni che aveva creduto giuste,
come il suo matrimonio con Antonella, erano dettate dall’orgoglio, dalla ribellione, forse dal livore.
Il giorno della sua condanna si era ripromesso di cambiare.
Non sapeva bene come, ma Bautista Pissano credeva fermamente nei propositi. Il primo passo sarebbe stato osservare la
campagna senza rancore. Rilassò la mandibola. I suoi occhi
incontrarono lo sguardo di uno degli uomini della scorta, fisso
su di lui. Dal finestrino entrò di colpo uno sciame di fiori bianchi leggeri come piume che vorticarono impazziti sulle loro
teste. Uno si posò sul berretto che teneva tra le mani e la fuga
di immagini si interruppe, riportandolo al vagone di terza classe. Stava andando a scontare la pena in un carcere di cui non
aveva mai sentito parlare, a San Alfonso, una cittadina sconosciuta. «Ci fermiamo quindici minuti a caricare acqua e ripartiamo» stava dicendo il bigliettaio a uno degli uomini della
scorta, lo stesso che poco prima lo osservava e che ora gli offrì
una sigaretta: un tipo magro, dalla faccia lunga e ossuta, ombreggiata dalla barba. I due agenti erano in borghese. Pissano
accettò e si mise a fumare con i gomiti sulle ginocchia. L’altro
uomo, faccia rossa e fisico massiccio, tirò fuori un fazzoletto
dalla tasca posteriore dei pantaloni e si asciugò il sudore sul
collo. Dopo aver spento la sigaretta, Bautista tornò alla posizione precedente. Con il berretto tra le mani, non era facile
notare che viaggiava ammanettato. Ma se c’era una cosa che
il passeggero non aveva alcuna intenzione di nascondere era
la propria condizione di detenuto.
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La campagna piatta lasciò il posto a macchie d’alberi,
recinzioni e casette isolate. Il treno fece una lunga frenata, tra
strepito di ferraglia ed esplosioni che risuonarono vibranti
nell’aria piena di fumo. I binari mandavano uno splendore
accecante che feriva gli occhi. In cima al predellino, con il suo
fagotto di abiti sotto il braccio, Bautista lesse le lettere bianche su fondo nero: San Alfonso. La stazione era grande, in
stile inglese; sui muri erano incollati manifesti pubblicitari:
“Faccia i suoi acquisti nel miglior negozio di Buenos Aires:
A. Cabezas”. Lunghe panche di legno addossate al muro.
“Ferro-China Bisleri”. Porte con imposte dipinte di verde
davano nella hall centrale, che ospitava anche la sala d’aspetto. A Pissano piacquero la banchina e la stazione, così ampi,
pensati per agevolare il movimento di persone e bagagli.
L’agente magro andò a controllare gli orari del treno di ritorno; lui e l’altro agente rimasero in attesa. Due signorine si dissero qualcosa all’orecchio. I pochi viaggiatori presenti capirono la sua situazione. Due anni più tardi, Bautista avrebbe
letto sull’“Imparcial”, il giornale locale, la scena del suo arrivo
in città e la versione cui la sua storia era stata ridotta. Ma in
quel dicembre del 1926, sotto il sole delle cinque del pomeriggio che schiacciava le ombre sulla terra dura, alzò la testa
e si accinse ad affrontare quella nuova tappa della sua vita.
L’ingresso della stazione dava su una piazzetta triangolare.
Pissano vide un gaucho a cavallo, una vettura di piazza con la
capote chiusa e due sulky legati alla staccionata. Un po’ in disparte, una Ford nera, coperta di polvere, li stava aspettando.
Fu la prima volta che Bautista vide il carceriere Guzmán, detto
la Garza: quella faccia smunta da topo gli sarebbe diventata
familiare negli anni successivi, come gli orari dei pasti e la porta
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della cella. Aveva una carabina ed era in uniforme, come l’autista. In quel momento il treno si rimise in moto con un’esplosione, scatenando un’ondata di panico: il cavallo del gaucho
scartò verso il canaletto di scolo e i cavalli legati alla staccionata
rovesciarono gli occhi trascinando i sulky sulla ghiaia. Il cocchiere tirò le redini con mano sicura e lo scompiglio si placò.
Ristabilita la calma, gli uomini si rimisero in movimento. Un
paese di provincia, pensò Pissano mentre saliva sul sedile di
dietro dell’automobile seguito dai due agenti della capitale.
L’interno di cuoio bollente sapeva di benzina, sudore e polvere. Bautista si aggrappò con entrambe le mani alla cinghia che
pendeva accanto al finestrino. Gli agenti si tolsero il cappello.
Quello con la faccia rossa si asciugò di nuovo il sudore.
«Che caldo insopportabile. Pioverà?».
«No, figurarsi se piove» rispose la Garza con un sorriso
storto. «Qui l’estate picchia. Di sicuro a Buenos Aires non fa
questo caldo».
Si voltò. Gli occhi astuti guardarono il detenuto.
«Ti ci dovrai abituare, Pissano».
Nessuno disse più niente. Si lasciarono alle spalle la stazione con la sua modesta piazzetta e imboccarono una strada che
si addentrava in paese e che doveva essere la via principale.
Poche centinaia di metri più in là, Pissano prendeva atto della
piazza centrale, con il municipio e la chiesa, e dei platani delle
strade, quando una piccola folla sbarrò loro il passo. L’auto
rallentò e l’autista attese che la gente si spostasse, ma alla fine
dovette fermarsi. Il corteo funebre avanzava tra i mormorii,
raccogliendo gente dal marciapiede. Alcuni fecero caso all’automobile e ai suoi passeggeri; la maggioranza allungava il collo
per vedere la parte più solenne del corteo, un centro in cui,
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prima che scomparisse inghiottito dai corpi in movimento,
Pissano fece in tempo a vedere il feretro di legno lucido con
le maniglie argentate su un catafalco spinto da uomini in redingote. Dietro il feretro si scorgevano la testa calva di un prete, il cappello nero piumato di una donna grassa e le cuffie
bianche delle suore; seguiva un gruppo compatto di uomini
con il cappello in mano. Chiudevano il corteo file ordinate di
bambine e ragazze in grembiule grigio e nastro nero in testa,
circondate da un gruppo eterogeneo di ragazzi e gente del
paese. Una zaffata di preghiere e profumo stantio di fiori bruciati dal caldo inondò l’automobile e le narici dei cinque uomini nella Ford. L’autista e la Garza si erano rispettosamente
tolti il berretto. Pissano guardò passare i grembiuli grigi e le
teste con i nastri neri che tremolavano nel riverbero del sole.
Gli parve una manifestazione adeguata alle circostanze, qualcosa di ben fatto. Era confortante vedere, in quella luce accecante, la cerimonia del lutto, il nero degli abiti, delle tonache,
dei nastri e delle calze.
«La direttrice della Casa delle orfanelle» aveva comunicato
la Garza, orgoglioso dell’importante spettacolo che il paese
offriva, così, spontaneamente a quella gente della capitale che
di sicuro nutriva un malcelato disprezzo nei suoi confronti.
«È morta ieri». Fece una breve pausa, poi aggiunse: «Una personalità».
Voltò la testa e fissò l’uomo ammanettato. Pissano notò un
lampo astuto sotto la visiera. Come se gli fosse venuto in mente qualcosa degno di nota, disse:
«Non sembra un buon segno, eh, Pissano?».
Nessuno degli uomini disse niente. Lui, poi, non lo ascoltò
neppure. Bautista Cristóbal Pissano non credeva nei segni.
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***
«San Alfonso...» le avrebbe detto Bautista vent’anni dopo,
quando ormai la pena era scontata e dimenticata e lui aveva
deciso di fermarsi a vivere lì, quando ormai aveva scelto Sonia
per moglie e se ne stavano seduti sulla veranda impegnati in
una conversazione che sarebbe durata tutto quel lungo pomeriggio e tutta la sera del primo giorno insieme a casa, per raccontarsi ogni minimo particolare della loro storia, dandosi del
voi, come avevano sempre fatto. «Non l’avevo mai sentito nominare, questo posto». Il sole cadeva a picco sulle piante del
giardino e produceva giochi di luce e ombra nella veranda attraverso il graticcio di legno, il graticcio costruito da lui, da
Bautista. «Voglio dire» riprese dopo un lungo silenzio, «...che
fu quel pomeriggio che vi vidi per la prima volta, certo, senza
saperlo. Poi vi vidi una mattina, mentre camminavate sul marciapiede, da sola...» si interruppe, «ma la prima volta fu quella
del funerale, voi eravate una delle bambine».
Accanto a lui, a meno di un metro di distanza, Sonia si appoggiò allo schienale dell’altra poltrona di vimini.
«Quell’estate così calda. Avete detto che l’auto si era dovuta fermare per il corteo funebre... fu nel dicembre del 1926,
stavo per compiere dodici anni». Lo guardò con un sorriso.
«E voi, ventiquattro».
«Non ho mai creduto nei segni» disse Bautista in tono intimo, come se non stesse più parlando con lei ma con la pipa,
che aveva cominciato a caricare con gesti lenti. «Né in quelli
buoni né in quelli cattivi».
***
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Nei corridoi dalle mattonelle lustre, che portavano i segni di
quella lunga giornata, aleggiavano l’odore soffocante di fiori
appassiti, quasi marci, e un ronzio lontano, come di api. Delia
aveva detto:
«Va dritta all’inferno».
Era una delle più grandi, con un corpo da donna fatta e
una gran voglia di andarsene quanto prima dall’Istituto. La
frase fu accolta dalla risatina sciocca di Ramona, che faceva
tutto ciò che le grandi le dicevano di fare. Sonia era rimasta
turbata all’idea. All’Istituto imparavano che le suore andavano
in cielo, non all’inferno. Ora però un altro pensiero la preoccupava, una cosa che aveva detto suor Clara: il Natale è annullato. Proprio una settimana prima di Natale, doveva morire. A Sonia sembrava una punizione arbitraria che la defunta
impartiva dall’aldilà. Delia ripeté in tono di sfida, come per
farsi contraddire:
«La vecchia va dritta all’inferno».
Di nuovo la risatina di Ramona e l’odore di marcio dei fiori
e il caldo soffocante. Che vada all’inferno, pensò Sonia, visto
che per colpa sua il Natale è annullato. Stavano vegliando il
corpo nella cappella. Il funerale sarebbe stato alle sei, l’orario
estivo del cimitero.
«Non dire certe cose davanti alle piccole» disse un’altra
delle ragazze più grandi.
Delia fece spallucce. Le facce delle orfane, esauste e pallide
per la noia e l’attesa, spiccavano come macchie chiare nella
semioscurità del corridoio. Sonia fece un gesto che stava a significare che me ne importa, ma era spaventata. L’inferno la
terrorizzava. Diavoli che mandano fiamme e peccatori che si
contorcono nell’olio bollente. Come quando suor Clara faceva
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la torta di ciccioli. I pezzettini di grasso bianco mescolati nella
padella restavano fermi, quasi spaventati, poi si contorcevano
e sfrigolavano, diventavano neri e sprigionavano un odore che
le faceva venire i conati. Così doveva bruciare anche la gente
all’inferno.
«Sonia, scendi dalle nuvole...». Era Delia che parlava. «Va’
a vedere cosa succede. Fino a quando ci fanno stare qui impalate».
Aveva le guance rosse per il caldo, avrebbe detto Sonia nella veranda, quel pomeriggio di dicembre poco prima di Natale
mentre percorreva il corridoio diretta alla cappella perché era
morta suor María Escolástica. Aveva sessantasei anni: a Sonia
sembravano cento. La notizia della morte, la sera prima, subito dopo cena, aveva fatto il giro dei corridoi come un fantasma. Concitazione, sussurri, corse, porte che si aprivano e si
chiudevano, la brezza notturna che di colpo interveniva e faceva volare le camicie da notte. Suor Clara passava tra i letti
dicendo Dio mio, chiudete la porta, che una delle grandi sorvegli il dormitorio delle piccole. Sonia, nel suo letto, si era spaventata. Era morta. Al mattino era viva e adesso era morta.
Com’era possibile? Spensero la luce. Si tirò il lenzuolo fin sugli
occhi. Dietro i vetri smerigliati, le chiome degli alberi dei rosari illuminate dalla luna vibravano mosse dal vento. Era un
effetto molto bello, pensava Sonia. Ma la luna non si vedeva.
La luna era più in alto, come appesa sul tetto dell’orfanotrofio.
Una delle grandi passeggiava per la camerata facendosi aria
con una rivista. Era Ester. Quando passò accanto al suo letto,
si chinò e le disse: «Il diavolo gira per la casa, Sonia. Attenta
che non ti porti via insieme alla vecchia». Sonia si strinse le
ginocchia al petto sotto la camicia da notte e affondò la faccia
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nel cuscino. «Le mani nere dalle unghie altrettanto nere aggrappate al davanzale della finestra, e un ansimare che sembra
quello di un porco però più forte, la faccia di un morto che
sbuca dalla terra in un cimitero, tutta mangiata dai vermi... attenta» disse Ester, e lei si chiedeva: da dove uscivano i vermi
che si mangiavano i morti?, vivevano sottoterra o vi penetravano da sopra, finché trovavano il morto e si infilavano negli
occhi e nel naso? Tirò fuori la testa da sotto il lenzuolo perché
soffocava. La camerata respirava tranquilla, doveva essere passato un bel po’ di tempo, perché avevano chiuso la finestra.
Con un gesto impaziente, Delia la richiamò con un sibilo.
Sonia non sapeva come si fosse distratta; si affrettò lungo il
corridoio in cerca di notizie. Le scarpe scricchiolavano, una
più dell’altra. Svoltò l’angolo e si affacciò nella cappella, piena
di gente. Era tutto come prima: vedeva la cassa con la morta
davanti all’altare, i ceri già consumati e le suore e tutti gli altri
assiepati nella doppia fila di banchi; tanta gente anche in piedi.
Senza farsi notare, appoggiò il viso all’acquasantiera: era piacevole il freddo della pietra, prima su una guancia, poi sull’altra. Tornò indietro quasi di corsa e riferì le novità. Non era
cambiato niente. Ci voleva ancora un po’ per l’inumazione.
«Cosa aspettano, con il caldo che fa...».
«L’odore dei fiori mi fa venire la nausea».
«L’odore di morto».
«Non ci sarà il Natale».
Lutto stretto, aveva detto suor Clara. «Dovete essere più
basse dell’erba» diceva la defunta. «Più che umili, umilissime», con la bocca storta. Ora non l’avrebbe più detto. Calze
nere, scarpe nere, nastro nero in testa, grembiuli grigi a pieghe
chiusi sulla schiena con un fiocco. Non erano brutte le sue
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scarpe, pensava Sonia, un po’ intorpidita dal caldo e dal ronzio delle mosche che svolazzavano sulle corone di fiori, solo
che si vedeva la tintura nera data in fretta e furia. Per via del
lutto non potevano ridere né parlare a voce alta o cantare, suor
Clara era stata categorica. All’improvviso, in fondo al corridoio, ci fu movimento. Le fecero schierare lungo il muro, ben
dritte. Strette una all’altra, per fare spazio. Magari al ritorno
avrebbero servito la cioccolata, come la domenica, pensò
Sonia. Cos’era un po’ di caldo e di odore di marcio se di sicuro, con tutta quella gente importante, al ritorno avrebbero
bevuto la cioccolata. Tu sei matta, la cioccolata con questo caldo, disse Ramona. Rumore di scarpe che strisciavano sulle
mattonelle provenienti dalla cappella. Tutti i notabili del paese
sono qui, disse suor Clara, persino il sindaco con la moglie,
una cicciona con un cappello di piume che una volta le aveva
portate a passeggio in automobile. Passarono degli uomini che
Sonia non aveva mai visto, portando la bara. Erano vestiti di
scuro, e uno aveva una catena d’oro di traverso sulla pancia;
in testa c’era il cappellano, che leggeva a voce alta con la faccia
sudata. La cassa con la defunta faceva un rumore strano: era
il cigolio delle ruote sotto il drappo nero che arrivava quasi a
terra. La suora responsabile disse: «Fianco sinist» e tutte si
girarono, goffe, ma si girarono. Si aprirono i due battenti della
porta principale dell’Istituto, quella che non si apriva mai. Il
sole era così accecante che gli uomini e la cassa si ridussero a
linee sottili e si immersero nella luce, così li ricorda Sonia
dopo tanti anni, diventando invisibili. Finché anche loro raggiunsero la porta grande, si immersero nella luce e uscirono
in strada, abbagliate dal sole e dalla folla che aspettava fuori.
Non c’era il carro funebre tirato da cavalli neri con i pennac-
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chi in testa che lei si aspettava. Al cimitero, otto isolati, sarebbero andati a piedi. Gli uomini spingevano la cassa adagiata
sul drappo nero che copriva il catafalco, così aveva spiegato
suor Clara in un lungo momento d’attesa, e sotto il drappo
nero c’erano le gambe di ferro con le ruote, che Sonia vide e
che le sembrarono uguali a quelle della lettiga dell’infermeria;
producevano un gemito arrugginito. Attraversarono il passaggio a livello e la cassa con il drappo e tutto il resto sobbalzò
sferragliando sui quattro binari con le traversine e il terreno
non in piano. La parte peggiore fu la discesa dal terrapieno.
Lì gli uomini se la videro brutta e persino il cappellano, senza
farsi notare, tenne ferma la cassa che stava scivolando giù dal
catafalco. Suor Clara si mise una mano sulla bocca. Ma non
successe niente e proseguirono. Tutto il paese era uscito di
casa e li guardava passare dal marciapiede; gli uomini si scoprivano il capo e le donne si facevano il segno della croce.
Quando attraversarono la via principale, Sonia si sentì importante. Era importante essere orfana e vivere all’Istituto, perché
la defunta era una persona importante. E le orfane dovevano
procedere a passo di marcia, non troppo marcato, ma neppure
potevano scegliere ognuna l’andatura che le pareva. Sonia chinò la testa in modo che la gente vedesse la sua afflizione, lei
che faceva parte dell’Istituto quasi dalla nascita. Un Istituto
esemplare nella Repubblica Argentina, diceva la defunta nelle
cerimonie pubbliche, con la bocca storta. Il sole picchiava forte, quasi lo facesse apposta; un cane giallo si unì alla fila, proprio accanto a Sonia. Pensò che non stesse bene, un cane al
corteo funebre, lo sorvegliò con la coda dell’occhio ma era
bravo, non andava avanti né restava indietro. Stavano ormai
arrivando alla rotonda del cimitero e al cancello d’ingresso.
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Ecco dove rimanevano i morti finché i vermi cominciavano a
mangiargli prima i vestiti e poi la carne. E le ossa? Sonia tirò
fuori il fazzoletto piegato in quattro e nascosto nella manica e
si soffiò il naso, anche se era asciutto e le bruciava. Il corteo si
fermò. Avanti, stavano dando disposizioni prima di entrare,
ma da dove si trovavano non si sentiva niente. Sonia si prese
uno spavento quando vide Biasi, il matto del cimitero, passare
lungo le file di orfane chiedendo ‘manane’. Le più grandi si
misero a ridere dandosi di gomito. ‘Manane’ ripeteva lo scemo, basso e tozzo, la faccia violacea, la giacca tutta macchiata,
le maniche troppo corte; la testa andava su e giù seguendo la
flessione delle ginocchia, caratteristica di Biasi. Il cuore di
Sonia batteva all’impazzata per la paura, ma Biasi le passò
accanto senza guardarla e proseguì verso le file di dietro, quelle delle più grandi. Avanti, accanto alla cancellata, Boccuccia
tendeva un braccio rigido con un mazzo di erbacce e fiori di
fosso, che nessuno prendeva. Sonia cercò di vedere la bocca
che le era rimasta delle dimensioni di una moneta da dieci
quando era caduta dal carro, ma il fazzoletto annodato in testa
formava una visiera che le arrivava quasi fino al naso e la faccia
era in ombra. Boccuccia continuava a offrire il suo mazzo
all’aria, raccontò Sonia a Bautista nella veranda, finché una
delle suore anziane lo prese, come per risolvere il problema,
e lei si tranquillizzò e aspettò che tutti passassero per mettersi
in coda al corteo, con quel passo spettrale e imprevedibile dei
matti, e accompagnare la defunta alla tomba.
Avevano oltrepassato il cancello quando Ramona la tirò per
la manica e le disse in un sussurro:
«Guarda, laggiù, vedi?».
«Che cosa?».
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«Là, contro il muro di cinta, la croce storta».
Sonia guardò un angolo del cimitero in totale abbandono.
L’edera del muro strisciava sul terreno e si arrampicava su una
croce storta vicino alla fila di cipressi.
«Cosa c’è?» disse, intuendo qualcosa di pauroso.
«In quella tomba vive la Vedova, esce dal cimitero a mezzanotte».
«Chi l’ha detto?». Sotto quel sole, sembrava impossibile.
«Me l’ha detto Ester. Lì è sepolto il marito. L’ha ucciso lei
con una coltellata. Quando l’orologio della chiesa batte la
mezzanotte, la Vedova esce a fare un giro in paese, e chi la incontra cade fulminato».
Suor Clara si avvicinò con la faccia scura, disse a cosa stavate pensando, andate con le altre. Quando raggiunsero le altre disposte a semicerchio attorno alla tomba, come aveva indicato la suora, la formazione si ruppe. Qua e là si aprirono
dei varchi e tutti quelli che non volevano perdersi l’inumazione dalla prima fila vi si infilarono. Fu allora che, molto più da
vicino di quanto mai l’avrebbe vista, Sonia vide Boccuccia, la
sua faccia vizza, le mani inquiete e magre che continuavano a
lisciarsi lo spolverino, e sotto lo spolverino aveva qualcos’altro,
una specie di maglia. Non le aveva fatto paura, ricordava Sonia, né la faccia nascosta, né le gambe secche come bastoni né
i piedi scalzi dello stesso colore della terra. Conservava un’immagine allegra del cimitero: sotto il sole splendente, il corteo
funebre con il contrasto tra gli abiti neri e le cuffie bianche, i
vestiti colorati delle donne del paese e i loro grembiuli grigi,
e in alto, molto in alto, dietro i cipressi e il muro del cimitero,
un uccello che descriveva cerchi nel cielo. Era così alto che
Sonia aveva dovuto socchiudere gli occhi per vederlo.
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Non ci fu nessuna cioccolata. Non ci furono neppure le feste di Natale. Il lutto dovettero portarlo per un anno. Quando
finì, Sonia ne aveva ormai compiuti dodici.
***
Se in quei primi tempi un improbabile viaggiatore si fosse fermato in quel punto sperduto della pianura, avrebbe poi raccontato che tutte le cittadine di provincia si assomigliano: luoghi monotoni, in cui non succede mai nulla. A tale visione
avrebbe contribuito una conoscenza superficiale dei suoi abitanti, simili a una famiglia numerosa che navighi in armonia
lungo il placido fiume del tempo. Quell’immagine idealizzata
e superficiale non contemplava certi aspetti meno bucolici del
paese. La spietatezza di una morte violenta, la diffidenza nei
confronti dei forestieri, la condanna inappellabile per una ragazza madre, l’impunità di un capetto locale, lo sfruttamento
di alcuni uomini su tanti altri rivelavano alla luce del giorno
la crudeltà innocente ma feroce con cui gli abitanti punivano
il peccato. O l’indifferenza complice con la quale permettevano abusi e maldicenze. Una lotta tenace tra il bene e il male
occupava lo spazio celeste della cittadina, lotta che finiva per
dirimersi a livello terreno in leggende che venivano tramandate di generazione in generazione. Perché come per tutte le
storie mitologiche, nella storia di San Alfonso il comandamento della trasmissione si imponeva su quello della veridicità e
rispondeva alla richiesta principale: quella di perpetuarsi nel
tempo.
All’epoca San Alfonso, simile a tante altre cittadine di provincia con i suoi platani, la sua piazza con l’eroe lavato dalla
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pioggia e i suoi marciapiedi alti come scogliere, si distingueva
dalle gemelle della pianura perché ospitava un orfanotrofio
femminile e un carcere. Accomunati dallo stile e dallo stato
di degrado, i due edifici erano stati costruiti verso il 1880, anni
prima del municipio e della chiesa. L’idea della collocazione
dei due istituti, architettata nella capitale e camuffata dalla visione di un grande futuro per la località, rispondeva alla logica
porteña dell’epoca secondo la quale orfani e detenuti erano
persone che dovevano essere separate dalla società e tenute il
più lontano possibile. Dato che la distanza è un valore relativo,
per il paese nascente la lontananza di Buenos Aires fu, al contrario, prossimità, e l’effetto della costruzione l’opposto. Se
fino a quel momento il luogo non era stato altro che uno sfuggente grappolo di case e ranchos1 che svanivano nel riverbero
del pomeriggio, gli edifici alti e rossi fecero suonare nei vasti
campi deserti il primo rintocco della modernità. Estranei a
ogni ragionamento su orfani o detenuti, gli antichi abitanti e
i nuovi arrivati seguivano con orgogliosa aspettativa l’avanzamento dei lavori.
L’architetto era stato in realtà un ingegnere. Per quanto si
cercasse, sulle facciate non c’era un solo punto in cui si perpetuasse il suo nome. In quei primi, nebulosi tempi, furono
dunque la curiosità popolare e la maldicenza a conservare il
nome di Ulriko Schmidt nell’intangibile limbo della memoria
collettiva. Il cognome italiano del costruttore, invece, fu diligentemente scolpito su frontoni e architravi e rimase vivo tramandandosi in diverse famiglie del posto. Il tempo, l’econo1
Casupole rurali molto semplici, con muri di fango o mattoni crudi e tetto di
paglia. [NdT]
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mia dei racconti e un atteggiamento sempre più diffuso di
confidenza e familiarità andarono spogliando il nome dell’ingegnere prima del titolo, poi del cognome e infine della kappa,
riducendolo a Ulrico e basta. Quando si menzionavano gli edifici, si parlava del ‘carcere di Ulrico’ o dell’‘orfanotrofio di Ulrico’. Su quell’uomo singolare si raccontavano cose eccentriche e un po’ vaghe: che era austriaco o tedesco, che si diceva
discendente, anche se con un cambio di lettera, di un certo
Ulriko Schmidl, viaggiatore di non si sapeva quando, che la
sua presenza a queste latitudini era dovuta al legame con il
compagno di baldorie e futuro presidente Juárez Celmán
(un’altra versione sosteneva che si fosse trattato di uno scherzo
del ministro Wilde, il quale prendeva così due piccioni con
una fava: sbarazzarsi dell’ingegnere e, già che c’era, restituire
all’ambasciata tedesca un favore fatto al colonnello Mansilla),
che aveva sei dita in una mano, non si sapeva quale, che era
affetto da sifilide e che un giorno, la chioma germanica fluttuante al vento, si era gettato nel vuoto da una delle alte impalcature della garitta di guardia del carcere, in quel momento
in costruzione. Ciò che era successo sull’impalcatura a una
persona così importante, soprattutto quando il paese era sorto
da poco e i suoi abitanti erano rispettosi di tutto ciò che veniva
dalla capitale, rimase sempre un mistero. Alcuni dicevano che,
venuto a conoscenza della diagnosi del suo male, si era gettato
nel vuoto. Altri, che era innamorato di una donna del posto
sposata che non lo ricambiava. La maggior parte sospettava
che avesse perso l’equilibrio e fosse caduto a causa dello stato
d’ebbrezza in cui si trovava e in cui era stato visto più di una
volta, ancorché contegnoso e distante. Fatto sta che quel certo
giorno la sua chioma bionda si sparse sulla terra molle del-
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l’estremità sud di una via di quella che stava diventando una
cittadina. Il telegrafo appena arrivato avvertì Buenos Aires
dell’evento luttuoso. Due giorni dopo, una commissione di
uomini in redingote provenienti dalla capitale si presentò a
San Alfonso. Traslocarono Ulrico in un’altra cassa e lo depositarono su un carro coperto con il quale, saldamente legato
mediante funi e tra gli scossoni delle strade di terra battuta,
fu riportato a Buenos Aires. A quel punto l’orfanotrofio era
terminato e i lavori per il carcere molto avanzati. Prima di partire, la commissione lasciò ordini espressi: la costruzione doveva concludersi secondo le disposizioni del defunto. Per
un’inspiegabile ma compassionevole inclinazione necrofila, la
cittadina nascente, che fino a quel momento si era chiamata
La Colorada, dal negozio di alimentari all’angolo che sembrava essere lì dall’inizio dei tempi, prese il nome di San Alfonso,
santo che, secondo il martirologio cattolico, corrispondeva al
giorno in cui Ulrico era precipitato dall’impalcatura.
Con quegli spessi muri di mattoni a vista di un rosso ruggine e quelle porte e finestre da cattedrale, gli edifici di Ulrico
avevano un’aria indefinibile, qualcosa di sassone, tedesco o
bavarese, in ogni caso decisamente straniero. La parte nord
del paese era dominata dall’orfanotrofio, la parte sud, dal carcere, ciascuno a un’estremità di una strada di terra battuta della lunghezza di venti isolati. In una mappa invisibile, gli edifici
diedero origine a qualcosa di più sorprendente, se vogliamo,
dato che la loro ubicazione rifletteva una sorta di principio
teologico nella topografia originaria della cittadina. Perché
verso il 1885, quando a San Alfonso arrivò la ferrovia, i binari
tagliarono trasversalmente la lunga strada formando una croce
ed ergendosi a innocenti e definitivi spartiacque. Da quel mo-
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mento si diffuse, dapprima ambigua ma poi precisa, una mappa morale della città che assunse la forma di una sorta di pietra
angolare: a nord dei binari, regnavano l’orfanotrofio femminile e il bene, luogo naturale della gente onesta; a sud dominavano il carcere, il male e la gente poco raccomandabile.
Quasi certamente questa visione prese corpo nel quartiere
nord, fondata sui continui riverberi del fuoco intravisti oltre
la ferrovia. Le scintille delle prime locomotive incendiavano
le sterpaglie e i fornelli a carbone occupavano i cortili dei miserabili ranchos: quei fulgori rossastri, e certe leggendarie risse
al coltello che si susseguivano in quei paraggi dimenticati da
tutti, conferirono alla zona sud lo status di anticamera dell’inferno. Le signore del nord mormoravano che da quelle parti
resistessero per giunta effluvi maligni degli eretici, sterminati
ormai da tempo. Tutto questo fu più che sufficiente perché la
mappa morale restasse in auge ancora a lungo quando ormai
quei tratti primitivi del quartiere di sotto erano scomparsi.
Proseguendo verso sud, dopo avere attraversato i binari, le
case diventavano più modeste, poi povere, fino a quella che,
fin dall’inizio dei tempi, fu chiamata la ‘fila dei ranchos’. Luogo
selvatico dove la spina dorsale della cittadina tornava alla semplice terra e i fiochi lampioni municipali, quando arrivarono,
riuscivano a stento a diradare l’oscurità degli incroci, popolati
da alberi dei rosari e latrati di cani. In una di quelle vie crivellate di spazi non edificati e invasi dalle erbacce, annunciata
dalla musica di chitarre e fisarmoniche che nelle sere d’estate
filtrava all’esterno, spiccava una casa di mattoni non intonacati
con un ampio ingresso che proiettava un rettangolo di luce sul
ripido marciapiede: “Da Elvira”, postribolo ufficiale, accogliente e senza pretese, visitato clandestinamente da tanti gio-
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vani del nord, avrebbe mantenuto quel nome ancora per decenni dopo la scomparsa della sua proprietaria e animatrice.
Soltanto una volta Elvira conobbe lo splendore di un momento di gloria e raggiunse una fama simultanea in entrambe le
parti della città. Fu nel 1915, quando passò da San Alfonso un
colonnello in pensione che per un momento catalizzò le speranze degli abitanti con la promessa di aprire una fabbrica di
salumi. Fabbrica che avrebbe proiettato la città e la popolazione tutta verso un futuro di prosperità. Si giunse persino a
parlare di esportazione di insaccati in Cile e Paraguay, paesi,
disse il colonnello, in cui già una comunissima mucca di razza
frisona avrebbe destato stupore, figurarsi i magnifici maiali del
posto. Nessuno sapeva di che maiali stesse parlando, ma non
importava. Di questo e altro parlava l’ospite l’unica sera che
aveva trascorso in città, in casa del sindaco, dove avevano organizzato un ricevimento in suo onore. Più tardi, ritrovatisi tra
soli uomini, aveva dimostrato un vivo interesse per una visita
da Elvira. Con una solerzia degna dello scopo perseguito, le
autorità del luogo fecero una rapida requisizione di mobili e
tappeti dalle case perbene con cui abbellire il postribolo, solo
per quella sera. Fu l’unica volta in cui i quartieri di sopra e di
sotto si trovarono d’accordo: il fine meritava. Il colonnello in
pensione ripartì soddisfatto e favorevolmente impressionato,
ribadendo le promesse. Nessuno, tuttavia, manifestò mai la
minima intenzione di costruire in quel punto sperduto della
provincia una fabbrica di salumi. Il momento però l’avevano
vissuto, i progetti erano stati fatti, Elvira non aveva deluso le
aspettative e ci fu un sollievo generale quando il personaggio
salì sul treno e si lasciò alle spalle gli ospiti che lo salutavano
agitando i fazzoletti sulla banchina della stazione.
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Oltre il postribolo di Elvira, la fila di ranchos si faceva più
rada, la città diventava campagna e sopraggiungeva il buio totale. Prima che la cosmica nerezza della pampa avesse la meglio, alla luce dell’ultimo lampione proiettava la sua ombra il
negozio di alimentari di cui abbiamo già parlato, che non confinava con niente e faceva angolo a sé. Di mattoni corrosi dal
sole e dalla pioggia, con alti muri e una terrazza orlata di anfore di cemento che cadevano a pezzi, La Colorada era frequentata da gauchos, Indios e soldati prima ancora che in quel
deserto giallo e verde fosse costruita qualsiasi altra cosa. Vicino a quelle costruzioni cadenti si ergeva cupo il carcere, sul
quale svettava la garitta di guardia da cui Ulrico si era gettato
nel vuoto trovando la morte.
***
Il corteo funebre passò, lasciandosi dietro una scia di mormorii e fiori calpestati, e la Ford risalì lentamente la via principale. La Garza e l’autista si rimisero il berretto. Tre incroci più
in là, il lastricato del centro si interruppe e la strada divenne
di terra battuta. L’umiltà della periferia e delle sue casette con
pergolati e ligustri, sul limitare della pampa, piacque a Pissano, e per un attimo dissipò la riflessione in cui si trovava immerso da quando era salito sul treno e che ora lo assaliva di
nuovo, come se la novità della campagna, del sole e della cittadina di provincia la tirassero fuori, in piena luce, esposta.
La contraddizione tra un carattere violento e la scelta pacifista
non reggeva neppure all’esame più superficiale, aveva ragione
don Miguel. Strinse con forza la cinghia di cuoio. Stavano percorrendo un ultimo isolato quando Bautista vide pararsi da-
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