NON PIù A sUd dI LAmPEdUsA
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NON PIù A sUd dI LAmPEdUsA
Laura Faranda (a cura di) Non più a sud di Lampedusa Italiani in Tunisia tra passato e presente Armando editore Sommario Introduzione 7 di Laura Faranda Capitolo primo Gli italiani di Tunisia tra età moderna e contemporanea: 17 diacronia di un’emigrazione multiforme di Salvatore Speziale Il Mediterraneo tra gli oceani 17 Tra schiavi e franchi (XV-inizi XIX secolo) 21 Liberi di migrare, liberi di lavorare (1818-1880) 30 Migrare tra colonizzazione e decolonizzazione (1881-1964) 33 Tra antiche discendenze e nuove migrazioni 39 Capitolo secondo Oltre i mestieri. Memorie, identità politica e rappresentazioni sociali dei lavoratori italiani in Tunisia 43 di Silvia Finzi La collettività italiana di Tunisia prima dell’indipendenza 46 Le condizioni lavorative degli italiani di Tunisia all’indomani dell’indipendenza 55 Capitolo terzo Italiane di Tunisi, dette “le Tunisine”: destini incrociati, storie di vita e di militanza tra Tunisia, Francia e Italia 69 di Rim Lajmi Clelia Barresi, la “pasionaria” tunisina 71 Litza Cittanova, la “regina delle mimose” 74 Vera Disegni, la “signora“ di Montfleury 80 Capitolo quarto Sangue italiano, mente francese, cuore tunisino. Nazionalità tra percezioni e appartenenze 85 di Carmelo Russo Orgoglio italiano 88 Io non mi sento italiano 95 Identità “naturalmente” plurime 100 Capitolo quinto Le rotte dello sviluppo tra Italia e Tunisia: itinerari e cultura del Capitale 113 di Giovanni Cordova Lo sviluppo 113 I “predoni” 118 Produzione e riproduzione del Capitale 127 Capitolo sesto Lasciateci stare. Pensionati italiani in Tunisia tra crisi, esili e dimissioni dello Stato 139 di Laura Faranda Un mediatore “tra due rive” 144 Dalle rotte dell’immaginario alla menzogna collettiva 149 Il morbo dell’orientalismo e le ambivalenze dell’orgoglio italiano 159 Riferimenti bibliografici 167 Introduzione di Laura Faranda Il 4 marzo 2014, subito dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, Matteo Renzi compie la sua prima visita ufficiale in Tunisia. Il programma prevede un incontro con il Presidente ad interim Moncef Marzouki, con le esponenti femminili della società civile tunisina, con il primo ministro e con il Presidente dell’Assemblea Nazionale Costituente. La visita si conclude con l’incontro di una rappresentanza di imprenditori italiani che operano in Tunisia. Parlando dalla sponda tunisina in conferenza stampa ai giornalisti, Renzi precisa che il Mediterraneo va considerato non come confine, ma come centro dell’Europa e che i rapporti tra Italia e Tunisia vanno tutelati e rafforzati, soprattutto per garantire “una salda cooperazione politica sul tema dell’immigrazione”. A distanza di un anno, dopo la strage al Museo del Bardo, il primo ministro torna in Tunisia assieme alla Presidente della Camera Laura Boldrini, per partecipare alla marcia internazionale della pace e dare testimonianza diretta di un messaggio di speranza e vicinanza dell’Italia nel difficile processo democratico del Paese. Il leader della Lega Nord Matteo Salvini commenta nella sua pagina Facebook: «Renzi e la Boldrini sono in Tunisia contro il terrorismo. Speriamo che rimangano là, visto che con il loro buonismo stanno riempiendo tutta l’Italia di invasori, delinquenti e potenziali terroristi».1 In questi due eventi politici c’è un’Italia che guarda, accorre, soccorre (spesso con paternalismo ambiguo) un Sud del mondo e un’Italia che da quello stesso Sud teme nuove invasioni barbariche. Dietro le quinte, oltre gli “strilli” di un quotidiano o di un blog, c’è una Tunisia dissimulata e denegata, che accoglie non solo personaggi politici italiani di spicco, ma nuovi migranti, nuove solitudini anonime, nuove forme di sofferenza sociale. Oggi come ieri. Invertiamo allora la rotta e proviamo a vedere in che misura la Tunisia ci ha 1 Sergio Rame, Salvini a Renzi e Boldrini: Ci riempite di terroristi, restatevene in Tunisia, Il giornale.it, 29.03.2015: [http://www.ilgiornale.it/news/politica/salvini-renzi-e-boldrini-ci-riempite-terroristi-restatevene-1110883.html] 7 accolto o ci accoglie e in nome di quali ragioni storico-politiche. Rispetto agli altri continenti, l’Africa conta un numero ridotto di italiani residenti all’estero: i dati aggiornati al 31 dicembre 2013 ne riportavano 59.000, prevalentemente concentrati nell’area mediterranea, di cui 3.952 in Tunisia. Negli ultimi due anni il flusso è stato costante e la cifra è cresciuta in modo significativo2, anche se non tanto da legittimare una comparazione quantitativa con il numero di tunisini residenti in Italia sempre nel 2013: 122.3543. E tuttavia sarebbe pretestuoso, a partire da una rilevazione quantitativa del presente, sottovalutare il fenomeno. Significherebbe omettere l’evidenza di un bacino mediterraneo che ha rappresentato storicamente un importante crocevia di genti e culture e che ha visto le due sponde interessate a uno scenario migratorio spesso speculare. Se ad esempio volessimo avventurarci in una comparazione verosimile, potremmo registrare alcune singolari coincidenze tra le occupazioni lavorative dei tunisini in Italia e quelle della comunità storica di italiani in Tunisia, gli italiani che dalla prima metà dell’800 sono approdati sulle coste tunisine per cercare lavoro o asilo politico. L’analisi per professioni del Dossier Statistico Immigrazione del 2014 mostra infatti come la maggioranza di immigrati tunisini occupati in Italia sia inserita prevalentemente in questi settori produttivi: pesca, agricoltura, manodopera specializzata nel settore edile, artigianato, servizi di ristorazione e infine professioni assimilate a industria e artigianato (saldatori, fonditori, montatori di carpenteria metallica, lattonieri, calderai). Sorprendentemente, il rapporto anagrafico dei lavoratori italiani in Tunisia redatto a cura del Consolato italiano nel censimento generale del 19594 elencava gli stessi mestieri prevalenti: elettrotecnici, fonditori, saldatori, metallurgici, minatori, carpentieri, capomastri e manovali edili, artigiani e, ovviamente, agricoltori e pescatori. Si tratta solo di un primo indizio delle relazioni reciproche che si sono stabilite in tempi recenti ma anche, retrospettivamente, in tempi remoti, tra Italia e Tunisia: un indizio che rivela però la straordinaria “funzione specchio” della migrazione; che ci incoraggia a rigenerare il binomio immigrazione-emigrazione nel segno della sua indissociabile unità semantica e che in qualche misura ci autorizza a ripensare le menzogne orchestrate e le false generosità di un’Italia presunto paese di accoglienza e ancor più di un’Europa dimentica delle implicazioni storiche e antropologiche che fanno del Mediterraneo «un mare nostrum, diviso tra noi e da noi stessi»5. 2 Vedi infra, p. 143 (dati riportati da M. Laouini) Fonte: Centro Studi e Ricerche IDOS (Dossier Statistico Immigrazione: rapporti annuali 2013, 2014). Archivi Ministero dell’Interno revisionati dall’ISTAT. 4 Cfr. S. Finzi, infra, pp. 47-48. 5 P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa. Lezioni al Collège de France, Milano, Garzanti, 1998, p. 20. 3 8 A questa suggestione già il mito greco aveva dato forma, restituendone le mappature retoriche e immaginando Europa come una giovane ninfa rapita da Zeus e deportata dalle coste africane verso la “nordica” Creta; oppure ricostruendo il senso fondativo della fatica di Eracle, che spacca e disgiunge i monti Calpe (in Europa) e Abila (in Africa), per dilatare i confini del conoscibile e consentire al Mediterraneo di spingersi oltre i confini del mondo. Si tratta di topografie mitiche che alludono al senso profondo di una relazione storica, nell’evidenza anche etimologica di un Medi-terreus che esige un osservatorio condivisibile proprio a partire dallo snodo “tra due rive”. «Viviamo intorno a un mare come formiche o rane intorno a uno stagno», rammenta Socrate in un passo memorabile del Fedone platonico. Eppure oggi il Mediterraneo si configura come insieme di fratture che dividono e di conflitti che dilaniano e, nonostante la sua storia esemplare, non è ancora “progetto”. Il versante settentrionale appare in ritardo rispetto al Nord d’Europa e quello meridionale rispetto all’Europa del sud […]. L’Unione Europea si compie senza tenerne conto […]. I parametri con i quali al Nord si osservano il presente e l’avvenire del Mediterraneo non concordano con quelli del Sud. Le griglie di lettura sono diverse. […] Ai giorni nostri le rive del Mediterraneo non hanno forse in comune che la loro insoddisfazione6. Il nucleo tematico di questo volume si origina proprio da qui. Il libro si offre infatti come una prima restituzione di una ricerca inscritta nel quadro più ampio del progetto Sapienza nel Mediterraneo7 e dei due accordi scientifici sottoscritti dall’Università “Sapienza” di Roma con le Università “Neuf Avril” e “Manouba” di Tunisi tra il 2010 e il 20138. 6 Ivi, p. 25. Il progetto è nato da una sollecitazione del Senato Accademico della “Sapienza”, che per gli anni 2012-2013 ha indicato l’area del Mediterraneo tra quelle prioritarie per il proprio processo di internazionalizzazione, affidando al prof. Raimondo Cagiano de Azevedo (delegato per le Relazioni Istituzionali Internazionali) il coordinamento di un gruppo di lavoro composto dai responsabili scientifici degli accordi di cooperazione accademica tra “Sapienza” e le Università Mediterranee. Ne è nato un volume a più voci di raccolta e raccordo dei progetti scientifici in corso. Per la Tunisia, cfr. L. Faranda, Minoranze etnico-religiose e processi di mediazione culturale in Tunisia, tra età moderna e contemporanea. Linee per una ricerca storico-antropologica; Id., Sguardi reciproci: la comunità italiana e la popolazione tunisina tra passato e presente, in B. Cassani (a cura di), Sapienza nel Mediterraneo. Accordi di collaborazione culturale e scientifica: programmi, progetti e attività, Roma, Sapienza Università Editrice, 2013, pp. 46-52. 8 Accordo Interuniversitario Internazionale (2010-2013) tra Université “Neuf Avril” di Tunisi e “Sapienza” Università di Roma. Referenti scientifici: A. Hénia per “Neuf Avril” e L. Faranda per “Sapienza”; Accordo Interuniversitario Internazionale (2013-2016) tra Université “Manouba” di Tunisi e “Sapienza” Università di Roma. Referenti scientifici: S. Finzi per “Manouba” e L. Faranda per “Sapienza”. 7 9 In questi anni, il progetto di ricerca ha previsto un percorso costante di confronto scientifico e di mobilità didattica di docenti, studenti e dottorandi, che gli autori di questo volume in parte testimoniano con i loro contributi. Nel progetto Minoranze etnico-religiose e processi di mediazione culturale in Tunisia, tra età moderna e contemporanea, il taglio storico-antropologico ha privilegiato quei processi di mediazione politico-culturale che hanno visto la società tunisina impegnata in raffinate strategie di “attrazione” e di accoglienza verso i nuclei originari di italiani, francesi, maltesi, greci, spagnoli emigrati a sud del Mediterraneo. Un regime di coesistenza civile che il secondo progetto – Sguardi reciproci: la comunità italiana e la popolazione tunisina tra passato e presente – ha inteso ripensare nel quadro antropologico della contemporaneità. La ricerca mirava nel suo insieme a ricostruire una memoria intercomunitaria italo-tunisina, prolungandola nei recenti movimenti transnazionali: uno sguardo comparativo da ripercorrere nelle due traiettorie storico-geografiche, dal passato al presente, da nord verso sud. Per tentare di comprendere similitudini, specularità e differenze dei movimenti migratori dall’Italia verso la Tunisia, è stato necessario fin da subito operare uno sforzo di articolazione critica tra diacronia e sincronia, una dilatazione dello sguardo sui movimenti transnazionali del passato e del presente. È stato necessario, in altri termini, pensare le migrazioni di ieri e di oggi come “fatto politico totale”9 recuperando fonti documentarie e testimonianze dirette di un passato migratorio di cui nessuno più parla in Italia, ma che potrebbe fornire uno strumento di straordinaria efficacia per un monitoraggio antropologico del movimento migratorio (ben più recente) dei tunisini verso l’Italia e delle politiche di intesa internazionale tra i due Paesi. I saggi confluiti in questo volume rispondono, in questa prospettiva, a un’autodisciplina condivisa sul piano del metodo. E si presentano secondo un ordine progressivo che obbedisce al principio ovvio della successione cronologica, ma anche a quello meno scontato di una interdipendenza tra approccio storico e antropologico. Visti dall’altra sponda – non più a sud di Lampedusa, la cui latitudine è più a sud di Tunisi – gli italiani di Tunisia ci raccontano interferenze culturali che denunciano una irragionevole pigrizia della comunità scientifica e i cui effetti sono inversamente proporzionali alla convulsa globalizzazione e alle facili decifrazioni mediatiche dei saperi. A uno sguardo diacronico è così dedicato il primo capitolo del volume (Italiani di Tunisia tra età moderna e contemporanea: diacronia di un’emigrazione 9 L’espressione, che mutuo da Salvatore Palidda, va intesa come dilatazione teorica e metodologica della nozione di “fatto sociale totale” inaugurata da Marcel Mauss, che Pierre Bourdieu riprende e importa nella nozione di habitus e che Abdelmalek Sayad adatta alla migrazione, proprio per la portata epistemologica implicita della genesi sociale del fenomeno. Cfr. S. Palidda (a cura di), Il discorso ambiguo delle migrazioni, Messina, Mesogea, 2010. 10 multiforme), nel quale Salvatore Speziale ci consegna un non facile percorso di sintesi e del quale va sottolineata la compostezza propedeutica. Come il viatico di un viaggio di ritorno, il suo contributo ben si adatta alla metafora del viaggio verso un altrove che ha visto approdare fin dal XV secolo schiavi, franchi, rinnegati e convertiti; e poi tabarchini, ebrei-livornesi e nuovi franchi, ovvero uomini liberi di trasferire nelle città portuali del Maghreb le loro risorse produttive e i loro destini. Calchi identitari che perimetrano le identità territoriali e la storia sociale del Mediterraneo, città che si sdoppiano lungo le coste di una nuova terra d’adozione: una Little Genoa, una Piccola Sicilia o una Piccola Calabria, e per tutti la Tunisia come societé d’appel, aperta agli stranieri, pronta a una lingua franca, affrancata da pregiudizi esterofobi proprio in nome di quella sharia islamica maturata in contesti pragmatici e obbediente alle consuetudini e alle disposizioni sacre e profane di un “diritto positivo”. Il flusso migratorio in partenza dai vari Stati pre-unitari non si arresta neppure all’indomani dall’Unità d’Italia: si tratta di uomini in cerca di una vita migliore o di esuli politici che spesso espatriano illegalmente, nascosti nelle stive di navi pronte a salpare verso i porti maghrebini. E poi, tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, mentre continua il flusso sotterraneo degli esuli richiedenti asilo, si avvia la grande ondata di migrazioni verso l’Africa mediterranea, che precedono il flusso transoceanico verso le Americhe e che toccano nella sola Tunisia il picco massimo di oltre 94.000 italiani. Siamo di fronte a una migrazione proletaria e di massa, che sarà destinata a decrescere durante il Protettorato francese e nel ventennio fascista, per poi decimarsi durante il secondo conflitto mondiale e alla vigilia dell’indipendenza. Speziale ne sintetizza le traiettorie fino al 1964, l’anno in cui le leggi sulla nazionalizzazione nella Tunisia indipendente ratificano lo stillicidio già in atto della comunità italiana “storica”. E conclude ricordando come ogni fenomeno migratorio comporti «un indotto umano e materiale molto più ampio del solo numero di effettivamente “transitati”: famiglie che si spezzano e si ricongiungono; persone legate da vincoli religiosi, familiari, commerciali […]; autorità che vigilano, vietano, concedono o semplicemente chiudono un occhio; società di trasporto o semplici vettori legali e illegali»10. Anche il capitolo a firma di Silvia Finzi (Oltre i mestieri. Memorie, identità politica e rappresentazioni sociali dei lavoratori italiani in Tunisia) si radica in una dialettica serrata tra passato e presente, testimoniando l’impegno di una studiosa che nel contesto a suo modo unico dell’Università tunisina “Manouba” ha lottato senza esitazione per il diritto laico allo studio11 ed è impegnata da anni in una 10 Infra, p. 40. Proprio in quella Faculté des Lettres della “Manouba” che la mattina del 28 novembre 2011 fu oggetto di un assalto salafita, in seguito al quale il Preside Habib Kazdaghli fu accusato di aggressione contro presunte studentesse in niquab che irruppero nel suo studio e l’intero Ateneo fu coinvolto in una inquietante campagna di aggressione politica. Il processo, che si è concluso con 11 11 militanza intellettuale volta a riconoscere la fibra storica di un’Italia dimenticata: l’Italia del dialogo interreligioso, l’Italia che lavora, l’Italia che sa rigenerare valori e tratti identitari in un contesto fluttuante e incerto come quello della migrazione. Il suo contributo ci restituisce così, “oltre i mestieri”, lo scenario di senso storico e antropologico della collettività italiana in un arco temporale compreso tra la seconda metà dell’800 e gli anni Sessanta del ‘900. Finzi utilizza nella sua ricognizione anche fonti primarie, mutuate dagli archivi diplomatici consolari, di ambasciata o del Ministero degli Affari Esteri, oltre che dalla stampa locale italiana, che da sola rappresenta un valore documentario non indifferente: in particolare attinge frequentemente agli archivi del quindicinale “Il Corriere di Tunisi”, che fu fondato nel 1869 e interrotto durante il protettorato francese; quindi rifondato nel 1956 dal nonno Giuseppe Finzi, discendente del carbonaro livornese Giulio Finzi; poi diretto da suo padre Elia Finzi dal 1963 al 2012, anno in cui, dopo la sua scomparsa, Silvia ne assume la direzione. Il saggio di Silvia Finzi, in sintesi, è un felice pretesto per intendere come il mondo del lavoro registri fedelmente le trasformazioni identitarie di una comunità in relazione al Paese di accoglienza. Così è significativo che la collettività storica italiana si sfaldi proprio quando viene meno la stabilità autorappresentativa di un “io-noi” plasmato e proliferato nella cultura del lavoro, alimentato da una memoria identitaria nella quale il “chi sono?” di un soggetto si costruisce sullo sfondo del saper-fare. Ed è eloquente che il saggio si apra e si chiuda problematizzando le variabili semantiche e gli usi contestuali e politici di espressioni come espatriare ed emigrare, gli slittamenti terminologici che fanno di un migrante un italiano residente o gli eufemismi strumentali a una nuova visione dell’italianità, che si internazionalizza nel segno del made in Italy. Il terzo capitolo, a firma di Rim Lajmi, giustifica una breve digressione: la sua collocazione ratifica infatti il transito dall’approccio storico a quello antropologico; ma prima ancora registra gli esiti concreti di un gruppo di ricerca che ha potuto contare su giovani studiosi e che si è costituito, come si è già ricordato, in seguito all’attivazione di un accordo internazionale tra i due atenei. Tale accordo ha consentito alla dott.ssa Lajmi di fruire di una borsa Erasmus-Mundus e di iscriversi al corso di dottorato in “Storia, Antropologia, Religioni” dell’Università “Sapienza”, per portare a compimento una ricerca dottorale avviata all’Università “Manouba”. Lo stesso accordo ha previsto la mobilità internazionale e la condivisione del terreno tunisino a Carmelo Russo e Giovanni Cordova, afferenti allo stesso corso di dottorato romano, accolti alla “Manouba” nei soggiorni di ricerca che hanno originato il quarto, il quinto e (per i richiami etnografici) il sesto capila sua piena assoluzione nel luglio del 2012, viene evocato dallo stesso Kazdaghli nella prefazione a un volume che racconta le cronache di “Manouba” nei lunghi mesi di mobilitazione in difesa della libertà di una formazione laica e autonoma: cfr. Habib Mellakh, Croniques du Maboubistan, Tunis, Cérès éditions, 2013, pp. 5-13. 12 tolo di questo volume. Cosicché l’articolazione interna del libro si snoda anche nel calendario di un laboratorio didattico che in questi anni ha visto tutti gli autori coinvolti in un’esperienza formativa non irrilevante. Per primo Salvatore Speziale – studioso di lungo corso in transito tra le due sponde – che ha facilitato con la sua esperienza pluriennale in Tunisia l’attivazione di uno scambio tra gli atenei coinvolti; e per ultima chi scrive, che ha creduto nelle potenzialità applicative di un progetto interdisciplinare, nei tempi lunghi e nella qualità dell’ascolto antropologico, nella condivisione di “saperi di confine”, ma soprattutto negli esiti preziosi di un laboratorio didattico monitorato sulle due sponde. Tra i saperi di confine e gli studi di genere si inquadra per l’appunto il contributo di Rim Lajmi (Italiane di Tunisi, dette le Tunisine: destini incrociati, storie di vita e di militanza tra Tunisia, Francia e Italia), che restituisce la biografia politica di alcune donne della comunità italiana di Tunisi accomunate da una militanza anch’essa “multiforme”. L’arco cronologico considerato si avvia negli anni Trenta del ’900, le fonti bibliografiche richiamate nel saggio fanno capo a una letteratura di taglio memoriale; le fonti d’archivio sono state solo parzialmente esplorate; il valore aggiunto della ricerca è la raccolta di “fonti orali” realizzate attraverso il metodo dell’intervista, che ha consentito a Lajmi di raccogliere le testimonianze di parenti, amici, conoscenti ancora in vita delle donne militanti di cui ricostruisce il profilo. Diverso il taglio e determinante la fibra etnografica che sostiene il quarto capitolo, scritto da Carmelo Russo (Sangue italiano, mente francese, cuore tunisino. Nazionalità tra percezioni e appartenenze). Nelle sue riflessioni sui meccanismi di selezione, rimozione e interpretazione di una memoria identitaria entra in gioco infatti la voce diretta di alcuni dei cinquantatré testimoni intervistati tra il 2012 e il 2013, in occasione di due soggiorni di ricerca in Tunisia. La nozione di nazionalità, l’autorappresentazione identitaria, la percezione del sé, vengono via via riplasmate nel contesto di continuo mutamento storico già evidenziato da Salvatore Speziale e Silvia Finzi; e al tempo stesso variano per le interpretazioni soggettive dentro le singole storie di vita, ora arroccandosi sulla fierezza e l’orgoglio italiano, ora dilatandosi in un sentimento di anti-italianità che si genera in coincidenza con l’adozione delle leggi razziali durante il fascismo e favorisce il distacco dal Paese d’origine; ora infine moltiplicandosi in una identità plurima, non statica né esclusiva, in una “sovranazionalità” che sostituisce l’univocità dell’appartenenza. Del contributo di Carmelo Russo non vanno anticipati gli esiti riflessivi, che non si prestano a una facile sintesi e non appaiono disgiungibili dagli spazi narrabili che li generano. Va piuttosto segnalata la qualità del materiale etnografico e del suo trattamento, la fedeltà a un lessico che obbedisce ai ritmi della memoria narrata, la puntualità con cui la grammatica e la sintassi del racconto si declinano nella tessitura memoriale. Né è casuale che i suoi testimoni com13 paiano nel testo con i nomi reali, per una scelta condivisa con il ricercatore e in sintonia con le peripezie di storie di vita e fatiche identitarie che reclamano ancora oggi una visibilità non solo anagrafica. Rigorosamente anonimi, o meglio tutelati da nomi rigorosamente fittizi, restano invece i testimoni di Giovanni Cordova, autore del quinto capitolo (Le rotte dello sviluppo tra Italia e Tunisia: itinerari e cultura del capitale), che nel suo saggio affida a una rilevazione etnografica non meno efficace i percorsi di mobilità battuti in anni recenti da imprenditori italiani in Tunisia. L’obiettivo ambizioso è fornire un’interpretazione antropologica della configurazione transnazionale assunta dall’economia capitalistica, sulle rotte di uno sviluppo da intendere come esito stratificato di delocalizzazioni, interazioni, progetti, pratiche e opportunità produttive. Lo scenario di riferimento appare da subito significativo: l’Italia, secondo partner commerciale della Tunisia dopo la Francia, rappresenta il 25% delle imprese a partecipazione straniera: su 747 imprese italiane censite, 288 sono a capitale esclusivo degli investitori italiani; almeno l’82% delle imprese italiane attive in Tunisia gode di una defiscalizzazione sugli utili di durata decennale. I dati di partenza tracimano progressivamente, anche in questo caso, nelle storie di mobilità transnazionale che Giovanni Cordova raccoglie di prima mano dagli imprenditori coinvolti nel fenomeno. Testimonianze minuziose, dalle quali emerge un quadro in continua mobilità, che sembra irrimediabilmente mutato con la caduta del regime di Ben Ali e che esige un riposizionamento costante nelle strategie produttive e nella valutazione di costi e benefici. Le storie di vita si succedono e restituiscono anche in questo contributo la varietà di un panorama complesso: dagli eredi del modello di un dominus che agisce indisturbato, scegliendo con cura le proprie “nicchie” locali all’imprenditore attratto dall’immagine fittizia di un Paese che promette facili guadagni; dal giovane business man disincantato al sessantenne migrante, che tenta di abbattere i costi eccessivi della produzione e si vota all’etica del sacrificio per non pregiudicare la chiusura della sua azienda italiana. Di grande interesse, in questa prospettiva, appare l’ultimo paragrafo nel quale Cordova ricostruisce le «cosmologie – socialmente condivise e culturalmente determinate – in cui parentela e famiglia si combinano a business e capitalismo»12: sono pagine dense, inverate da una letteratura antropologica ricca e aggiornata e che preludono all’ultimo capitolo del volume, nutrito a sua volta dalla generosa ricerca etnografica condotta da Cordova nel 2014. Nel sesto ed ultimo capitolo (Lasciateci stare. Pensionati italiani in Tunisia tra crisi, esili e dimissioni dello Stato) mi sono impegnata personalmente nella restituzione di un fenomeno recentissimo, quello dei pensionati italiani che sempre più numerosi negli ultimi anni hanno deciso di abbandonare l’Italia 12 14 Infra, p. 128. per concludere la propria esistenza sulle sponde a sud del Mediterraneo. Se è vero che nell’Italia Paese di esodo non era stato ancora registrato un movimento che coinvolgesse anagraficamente la categoria degli anziani, non meno vero è che la cronaca degli ultimi tempi è stata sempre più generosa di dati, notizie, trasmissioni radio-televisive dedicate a pensionati italiani trasferiti all’estero. Nei sondaggi mediatici il livello di gradimento della Tunisia, almeno prima degli attentati del Bardo e di Sousse, era in crescita stabile. Si tratta solo di un fenomeno che rinvia alla crisi senza precedenti del sistema di welfare italiano? E se è vero che la migrazione è un “fatto sociale totale” in che misura è possibile ricondurre questo nuovo flusso a un movimento migratorio, all’insoddisfazione radicale di chi non si riconosce più con il mondo nel quale ha vissuto e che gli ha sottratto libertà di azione e dignità di appartenenza? Si può intercettare in questo tentativo di emancipazione dal disagio sociale un carattere in qualche modo “sovversivo”? E vale anche in questo caso l’accezione ormai canonica dell’emigrato come atopos, “senza luogo”, ibrido, che esiste solo per difetto nella comunità di origine e per eccesso in quella di accoglienza? Ho lasciato emergere la cifra antropologica di questi interrogativi consegnandoli in prima istanza a un testimone singolare, Mustapha Laouini, sindacalista e responsabile della sede del Patronato INCA di Tunisi, rientrato nel suo Paese dopo venti anni di lavoro in Italia. Un immigrato tunisino che dopo essersi battuto per la difesa del suo ruolo di tutela sindacale dei lavoratori rimpatriati, assiste oggi con la stessa dedizione professionale i pensionati italiani neo-residenti e bisognosi di orientamento. Ho provato quindi a ripercorrere alcune rotte di questo esodo irrituale, non facilmente riconducibile alla diaspora migratoria, confidando nel valore testimoniale delle narrazioni di prima mano, restituendo il senso antropologico della presenza dei pensionati in Tunisia alle topografie opache dei loro racconti sincopati, a un presente etnografico che invita alla pazienza di un ascolto decifrativo. Ogni volta che concludo la cura di un libro e tento di racchiuderne il senso in poche pagine introduttive si rinnova il sospetto di non avere abbastanza preservato i potenziali lettori dalle dichiarazioni inutilmente prescrittive, dai precetti, dai sentieri preferenziali o dall’ostensività cautelativa di un ordine annunciato. E ogni volta mi ritorna alla mente una pagina memorabile di Michel Foucault, che anche stavolta faccio mia: «Mi piacerebbe che un libro, almeno dalla parte di chi l’ha scritto, non fosse nient’altro che le frasi con cui è fatto; […] che non si assegnasse da sé quello statuto di testo cui la pedagogia o la critica sapranno ricondurlo; ma che avesse la scioltezza di presentarsi come discorso: battaglia e, insieme, arma, strategia e urto, […] incontro irregolare e scena ripetibile»13. Buona lettura. 13 M. Foucault (ed. or. 1961), Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli 1992, p. 8. 15 Capitolo primo Gli italiani di Tunisia tra età moderna e contemporanea: diacronia di un’emigrazione multiforme di Salvatore Speziale Il Mediterraneo tra gli oceani La pubblicazione, avvenuta qualche anno fa, della fondamentale opera collettanea Storia dell’emigrazione italiana. Partenze e arrivi1, curata da alcuni dei maggiori studiosi dell’emigrazione italiana, pone in evidenza i differenti pesi e misure del dibattito storiografico italiano sulla questione. Il dato quantitativo sembra segnare la strada dell’emigrazione determinando proprio l’abbondanza delle pagine dedicate alle aree di maggiore e duraturo flusso migratorio e di maggiore consistenza delle collettività italiane: le Americhe, l’Australia e l’Europa continentale. Sono relegate, così, a poco più di un settantesimo dell’opera le aree verso cui i flussi sembrerebbero minori, o meno continui, o meno duraturi e sembrerebbero dar luogo alla costituzione di “oasi di italianità”2 più effimere rispetto non tanto al passato quanto al presente: l’Africa e l’Asia e, in particolare, il Mediterraneo musulmano3. Il ragionamento 1 P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, I vol., Partenze, Roma, Donzelli, 2001; II vol. Arrivi, Roma, Donzelli, 2001. I due volumi constano rispettivamente di 701 e 847 pagine, per complessive 1.548. 2 Cfr. F. Cresti, Oasi di italianità. La Libia della colonizzazione agraria tra fascismo e guerra di indipendenza (1935-1956), Torino, SEI, 1996. 3 Si tratta del saggio di Francesco Surdich, Nel Levante, (pp. 181-191), comprendente una generica Asia Minore insieme all’Egitto, e quello di Nicola Labanca, Nelle colonie, (pp. 193-204), che dovrebbe abbracciare tutte le colonie italiane: da quelle mediterranee come la Libia, l’Albania e il Dodecaneso, a quelle del Corno d’Africa, come la Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia, fino al Tientsin in Cina. Ai flussi verso Africa e Asia sono dedicate quindi solo 23 pagine su un totale di 1.548, ovvero un sessantasettesimo dell’opera, mentre anche nel resto del lavoro i riferimenti ai due continenti sono molto rari. 17 sarebbe condivisibile se si riflettesse solo in termini quantitativi pertinenti a un passato talmente avulso dal presente da rifiutare gli interrogativi provenienti dalla realtà in cui gli storici stessi, insieme ai migranti odierni, vivono e pensano. Oppure sarebbe condivisibile se si volesse delineare solo un’epopea di milioni di persone nelle terre più lontane, distanziate dagli oceani, liquidando le migrazioni mediterranee, africane e asiatiche, distanziate da quello stretto mare, come marginali per consistenza numerica e significanza storica, da una parte, e come troppo legate al colonialismo, sporcate dalla memoria storica, prigioniere di un dibattito mai sopito perché mai soddisfatto4, dall’altra. Il lavoro collettaneo richiamato poc’anzi è citato non perché faccia eccezione, ma perché riflette la maggioranza degli studi sulle migrazioni del passato e del presente. Altre ragioni, altrettanto valide, anche se meno sentite dalla comunità scientifica, possono condurre, e in effetti già conducono, un numero crescente di studiosi, storici compresi5, a ripensare la crucialità delle migrazioni mediterranee6. Innanzitutto, chi voglia riconsiderare, all’interno di un’ottica di lunghissima durata, il Mediterraneo come terra di mezzo, “pianura liquida”, area privilegiata da migrazioni pluridirezionali e reciproche dell’età moderna e contemporanea, nonostante le cesure prodotte dalla politica7. Inoltre, chi voglia sottrarre all’oblio e alla “maledizione” coloniale tutte quelle problematiche che differenziano l’emigrazione nell’Africa mediterranea e nel mondo islamico dalle migrazioni nel resto del mondo. Infine, chi voglia ricollocarla in un’ottica di confronto culturale, linguistico e religioso che, oggi più che mai, sembra suscitare nuovi e drammatici interrogativi, o riproporre antiche domande in forme nuove, in prospettive capovolte8. 4 Cfr. A. Del Boca, Italiani brava gente, Milano, Mondadori, 2005; G.C. Segrè, Fourth Shore: The Italian Demographic Colonization of Libya, Chicago, University of Chicago Press, 1974; L. Goglia, F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Roma-Bari, Laterza, 2008; R. Ciasca, N. Labanca, Storia coloniale dell’Italia contemporanea: da Assab all’impero, Milano, Hoepli, 1938; G. Rochat, Il colonialismo italiano: documenti, Torino, Loescher, 1973; J.L. Miège (ed. or. 1968), L’imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1976; J. Bessis, La Méditerranée fasciste. L’Italie Mussolinienne et la Tunisie, Paris, Khartala, 1981. 5 Ciò avviene nonostante la riluttanza di molti a rivedere il passato in rapporto al presente. Ma il presente è sorgente inesauribile di domande da porre al passato e lo storico non può sottrarsi a dare profondità e spessore alle questioni che attanagliano l’uomo di oggi poiché laddove l’indagine sociologica si ferma alla dimensione orizzontale/sincronica dei problemi, la storia aggiunge la prospettiva verticale-diacronica e la prospettiva obliqua-comparativa che “tridimensiona” l’oggetto indagato. 6 La nascita del GRITUM, Gruppo di Ricerca sugli Italiani in Tunisia e nel Mediterraneo, in seno alla Fondazione Valenzi di Napoli, nel giugno 2015, è un segno tangibile dell’interesse degli studiosi per queste tematiche. 7 C. Bordes-Benayoun definisce la civiltà mediterranea una «communauté des communautés». Cfr. C. Bordes-Benayoun, La communauté des communautés, in A. Largueche (ed.), Les communautés méditerranéennes de Tunisie. Hommage au Doyen Mohamed Hédi Cherif, Tunis, Finzi, 2006, pp. 37-45. 8 Possono essere utili gli spunti provenienti dai Subaltern Studies e dai Postcolonial Studies. Cfr. in proposito I. Chambers (ed. or. 1994), Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcolo- 18 Di fronte quindi al fermento del dibattito che investe l’oggi con le migrazioni mediterranee dal Nord dell’Africa al Sud dell’Europa9, gli storici possono o chiudersi in vecchie logiche compartimentali e ossequiare le lusinghe del numero oppure aprirsi a nuove strade interpretative e nuove rotte metodologiche per affrontare le antiche migrazioni dal Sud dell’Europa al Nord dell’Africa10. Il gioco di specchi che ne risulta può consentire di penetrare il passato restituendo idee, ipotesi, modelli rigenerabili nel presente. Può aiutare anche a ricollegare spazi geografici distanti ma che nel tempo funzionano da aree di cerniera o di demarcazione, come il limite fluttuante tra il Mediterraneo cristiano e musulmano, la cortina di ferro tra l’area sovietica e quella occidentale, i territori che seguono il fiume Colorado, il mare tra Cuba e gli Stati Uniti, il confine tra Bangladesh e India, quello tra Cina e Hong Kong, insieme alle mille Ellis Island di ieri e di oggi. Se si restringe il campo d’analisi e si segue la linea immaginaria e mobile che secondo le epoche segna il confine tra il Mediterraneo cristiano e quello musulmano s’incontrano alcune aree, come l’antica e la nuova frontiera balcanica, al centro oggi di nuove e pungenti discussioni, l’area caucasica e quella egeo-anatolica, l’intimo Adriatico, lo stretto di Gibilterra e il Canale di Sicilia, “les villes enclavées” di Ceuta e Melilla, accomunate da una quasi contiguità territoriale, da intensità di scambi commerciali e culturali, dal verificarsi di consistenti flussi migratori in ragione di particolari eventi storici11. Si tratta spesso di gruppi omogenei per provenienza geografica, per appartenenza a un gruppo etnico o una confessione religiosa, per comunanza di condizioni di vita (solitamente negative), per specializzazione lavorativa e, infine, per condivisione dello stesso credo politico. Per queste e altre ragioni, all’interno del mare magnum delle migrazioni mediterranee, studiare il fenomeno migratorio degli italiani verso le vicine coste della Tunisia12, significa addentrarsi in un niale, Roma, Meltemi, 2003; I. Chambers, Le molte voci del Mediterraneo, Milano, Cortina, 2007; S. Mezzadra (a cura di), I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee, Roma, Derive Approdi, 2004; S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona, Ombre Corte, 2006; J. Andall, D. Duncan, Italian Colonialism: Legacy and Memory, Bern, Peter Lang, 2005. 9 Senza trascurare il fatto che il Nord dell’Africa rappresenta una testa di ponte per le migrazioni transahariane e che vie alternative, come quelle balcaniche, sono di recente preferite dai mercanti d’uomini e dai migranti rispetto alle rotte finora praticate dalla Tunisia e dalla Libia. 10 Principalmente da Spagna, Francia, Italia, Grecia e Malta. Numericamente ridotto è il numero di inglesi, danesi, svedesi e austriaci, i cui consolati sono dovuti a ragioni politico-commerciali piuttosto che migratorie. Più circoscritte sono le migrazioni di russi e di svizzeri. 11 Si pensi alla migrazione di albanesi dalla metà del XV alla metà del XVIII secolo di fronte all’avanzata turca. 12 Intendendo con “italiani” gli abitanti della penisola italiana prima e dopo l’unità e con “Tunisia” il territorio della Reggenza di Tunisi che diventa Tunisia con l’avvento del protettorato francese del 1881. 19 processo di lunghissima durata che attraversa, modificandosi e articolandosi, l’età moderna e l’età contemporanea per giungere fino all’oggi. Nel corso di questi lunghi secoli, migrazioni volontarie e forzate, stanziali e stagionali, per lavoro e per ragioni politiche si sono continuamente intersecate, favorite dalla prossimità geografica e climatica. Essa ha concorso sicuramente a rendere, agli occhi dei migranti di ogni epoca, sempre meno deterrente il “salto” ambientale che comporta il vivere in un Paese musulmano, in un universo religiosamente, culturalmente e linguisticamente diverso: un salto non meno complesso e rischioso rispetto al salto chilometrico verso un’altra terra della cristianità e che implica inevitabili problemi di relazione. Il fenomeno ha prodotto dunque un quadro avvincente di mobilità e presenze, di incontri e scontri, di convivenze e separazioni, di contaminazioni e rifiuti che ha come contesto l’intero Mediterraneo, attraversato dai flussi di migranti italiani ed europei lungo assi sia verticali che orizzontali13. Solo per limitarci al quadro italiano-tunisino si va dalla colonia genovese di Tabarca alle migrazioni ebraico-livornesi sulla costa orientale della Reggenza; dai primi tonnaroti siciliani che incrociano le rotte tra Trapani e il Cap Bon ai pescatori di spugne pugliesi che si riversano sul Sahel; dai braccianti, minatori e artigiani siciliani, sardi, campani e veneti in cerca di un’“America” più vicina agli esuli politici risorgimentali, postunitari e antifascisti in cerca di luoghi dove pensare liberamente e da dove tornare al momento opportuno; dagli uomini di chiesa inviati a curare anime e corpi agli uomini d’affari spinti dalle opportunità che le coste africane offrono in pace come in guerra; dai renitenti alla leva ai fuorilegge più incalliti in rocambolesche fughe dalla giustizia. La ricca articolazione di questo fenomeno migratorio pone alcuni interrogativi basilari: innanzitutto, chi sono gli italiani che partono? A quali gruppi, categorie, classi appartengono e da quali regioni/Stati partono? Quali sono i motivi che li spingono a lasciare le terre d’origine, le case, i legami, gli affetti per trasferirsi in terre vicine geograficamente ma lontane culturalmente? Migrano in maniera stagionale, transitoria o permanente? Coltivano la speranza del ritorno o immaginano una rottura definitiva con il passato? Migrano legalmente o clandestinamente? Scelgono aree urbane o rurali, zone costiere o interne, siti di consolidata presenza italiana e straniera o siti immersi nel tessuto abitativo della popolazione tunisina? È palese come tutte queste domande siano strettamente interconnesse e come sia difficile trattarle in maniera separata. Si è pensato che potrebbero trovare una prima risposta articolandole lungo l’asse del tempo: il quando diventa così il “battello” sul quale traghettare le altre domande nelle pagine successive. Provare a tracciarne un percorso diacronico, delinearne le trasformazioni nei secoli 13 Si considerino a titolo esemplificativo le migrazioni degli ebrei spagnoli verso a Livorno nel XVI secolo e quelle degli italiani che si trasferiscono dall’Algeria alla Tunisia o da questa alla Libia nel XX secolo. 20 e confrontarne le principali interpretazioni storiografiche, costituiscono allora un passo propedeutico a un successivo ripensamento del modo in cui l’uomo ha vissuto, e ha osservato, la vitale mobilità transnazionale e transculturale che caratterizza il Mediterraneo di sempre. D’altra parte non è mai semplice operare scansioni temporali, poiché ciò implica scelte dal risvolto epistemologico non indifferente. Innanzitutto bisogna scegliere se adottare suddivisioni proprie alla storia italiana, che senza dubbio determinano il fenomeno dell’emigrazione nel breve come nel lungo periodo, o se adottare suddivisioni proprie alla storia tunisina, che per altri versi segnano il fenomeno dell’immigrazione. Inoltre, non si può comprendere appieno la storia della migrazione tra Italia e Tunisia se non la si colloca nel più ampio quadro delle migrazioni tra le due sponde del Mediterraneo e del fenomeno migratorio globale. Bisogna quindi tenere nel debito conto anche le periodizzazioni generali del fenomeno, le loro dinamiche, le loro “regole”, le loro maglie. Consapevoli dei limiti e dei pericoli insiti in questa operazione, proveremo qui di seguito a inscrivere alcune sequenze tematiche in fasi temporali “comprensive”, evidenziandone le giustificazioni storiche e le conseguenze implicite (esclusioni e inclusioni, sovraesposizioni e sottoesposizioni). Va da sé che ciascuna sequenza costituisce altrettanti punti di discussione in sede storiografica e va accolta come scansione “di servizio”, funzionale alla visione d’insieme e allo scenario di senso storico-antropologico di questo volume a più voci14: • I fase. Tra schiavi e franchi (XV-inizi XIX secolo); • II fase. Liberi di migrare, liberi di lavorare (1820-1880); • III fase. Migrare tra colonizzazione e decolonizzazione (1881-1964); • IV fase. Tra antiche discendenze e nuove migrazioni (1965 ad oggi). Tra schiavi e franchi (XV-inizi XIX secolo) La prima fase si può aprire all’inizio della nostra età moderna, che coincide nell’altra sponda con l’avanzata degli ottomani nel Mediterraneo orientale e occidentale e la conseguente riattivazione delle basi corsare di Tripoli, Tunisi e Algeri. La si può chiudere nel primo ventennio dell’Ottocento, alla fine delle guerre napoleoniche che sconvolgono gli equilibri mediterranei, favoriscono la ripresa della guerra di corsa e della pirateria e influenzano il fenomeno migratorio verso la Reggenza di Tunisi e il Mediterraneo islamico. 14 Sempre con intento propedeutico, in questo saggio si darà maggiore spazio all’età moderna, mentre l’età contemporanea sarà oggetto più approfondito degli altri lavori compresi in questa pubblicazione. 21