Dott.ssa M. Acagnino
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Dott.ssa M. Acagnino
APOLIDIA, ASILO, RIFUGIATI E PROTEZIONE UMANITARIA: CRITICITA’ NEI PROCEDIMENTI INNANZI AL GIUDICE DI MERITO PREMESSA La materia che ci occupa è contrassegnata da una serie di condizioni che rendono particolarmente difficile il compito dell’interprete. Innanzi tutto il giudice deve, in questa materia, più che in altre, interpretare le norme del nostro ordinamento alla luce dei principi enunciati negli accordi internazionali, sottoscritti dall’Italia, poi deve tenere presente, in caso di antinomie o, comunque, di diverse possibili soluzioni, la gerarchia fra le diverse norme applicabili. Ulteriore e significativo elemento di difficoltà è costituito dalle frequenti modifiche legislative che si susseguono, spesso motivate da vere o supposte emergenze migratorie, con un’agenda sempre dettata dall’orientamento politico e, ultimo, ma non da ultimo, le pronunce della Cassazione che, nel tempo, hanno, a volte, dato impulso e, altre volte, frenato l’opera interpretativa dei giudici di merito. Si deve rilevare che, di recente, almeno in primo grado, il numero dei ricorsi è notevolmente diminuito, a seguito della politica dei respingimenti, che ha, di fatto, comportato un cambiamento delle rotte d’ingresso nel territorio dello Stato e ha reso più difficile l’identificazione ed il controllo dei flussi migratori, sebbene irregolari. Oggi la situazione appare oltre modo confusa: l’attuale flusso migratorio dal Nord Africa ha evidenziato le crepe esistenti nel nostro sistema di prima accoglienza, non in grado di fronteggiare ingressi di massa. L’emergenza migratoria ha indotto il Governo a predeterminare il giudizio circa la situazione di allarme sociale esistente, ad esempio, in Tunisia, sostenendo l’inesistenza di condizioni di disordine generalizzato, nonostante si sia constatata la poca affidabilità dei titolari del locale dicastero degli Interni. E’ ancora presto per valutare quale forma giuridica, efficacia e validità internazionale potrà essere riconosciuta ai “permessi temporanei”: è chiaro il limite posto al Legislatore, in questa materia, dai trattati internazionali e dal loro rango di norma pattizia, la cui forza vincolante è richiamata dall’art. 117 Cost. che potrebbe essere invocato anche in sede di ricorso alla Corte Costituzionale. Nel mio intervento mi limiterò a segnalare le questioni che mi sembrano più interessanti, offrendo al dibattito i necessari spunti di riflessione, non avendo, ovviamente, la soluzione “magica” ai numerosi problemi interpretativi che la normativa pone. La prima questione che si pone è quella della qualificazione dell’intervento giurisdizionale. Prima ancora dell’intervento del legislatore col D.L. vo n. 25/08, successivamente modificato col D.L. vo n. 159/08, i giudici, sia ordinari che amministrativi, avevano qualificato la pretesa del richiedente asilo o il riconoscimento dello status di rifugiato come volta a far valere un diritto soggettivo, ritenendo sussistente la giurisdizione del giudice ordinario (Cass. civ. S.U. 907/99). La Cassazione aveva coerentemente affermato che la pronuncia giurisdizionale avesse natura dichiarativa, trattandosi di riconoscimento di diritti soggettivi attinenti alla persona (Cass. civ. 8423/04). Il legislatore, con l’art. 35 del D.L. vo n. 25/08, ha disciplinato la materia affidandola al giudice ordinario, come già previsto dall’art. 30 D.L. vo n. 286/98, in tema di diritto al ricongiungimento familiare, altra materia in cui si tutelano diritti di rilevanza costituzionale. QUESTIONI PROCESSUALI Il primo tema da affrontare è quello relativo all’individuazione del giudice competente. Particolarmente interessante è la sentenza, emessa il 24/1/09, dalla collega De Lecce del Tribunale di Lecce che, con argomentazioni che condivido e, in parte riporto, ha interpretato in senso restrittivo l’art. 20 del D.L. vo n. 25/08 che individua il Tribunale competente e dimezza i termini per l’impugnazione, nell’ipotesi di trattenimento del richiedente la protezione in un centro di permanenza temporanea ed assistenza. La deroga alla competenza del Tribunale che ha sede nel capoluogo di distretto di corte di appello in cui ha sede la commissione territoriale, in favore del Tribunale che ha sede nel capoluogo di distretto in cui trovasi il centro, opera sia nei casi in cui lo straniero richiedente la protezione internazionale sia stato destinatario di un provvedimento di trattenimento, ai sensi dell'art. 21 del D.L.vo n. 25/08, sia nei casi in cui sia stata disposta l'accoglienza del soggetto in un centro di accoglienza richiedenti asilo, ai sensi dell'art. 20 dello stesso Decreto. Il giudice di Lecce aveva sottolineato la riduzione del termine ordinario di proposizione del ricorso giudiziario che accompagna la previsione derogatoria della competenza, individuando la ratio di tale eccezione, con la necessità di assicurare la tutela giurisdizionale al richiedente la protezione in maniera, per così dire, più semplice e rapida, nel senso di consentirgli di adire l'ufficio giudiziario più vicino al centro. Il Tribunale ha poi limitato la competenza eccezionale del giudice del capoluogo di distretto in cui trovasi il centro al tempo previsto dalla legge per tale tipo di ospitalità (non superiore a 20 o a 35 giorni), non potendo attribuirsi rilievo ai casi di protratta permanenza di fatto. La Cassazione con due successive sentenze di identico contenuto ha cassato la detta sentenza, con motivazione che si richiama al dato testuale della noma e censura l’opera dell’interprete che si era riportato alla ratio legis per limitare il ricorso al foro in deroga. Si riporta, per agevolarne la consultazione, il testo della massima : “ In tema di protezione internazionale, l'art. 35, comma 1, d.lg. 28 gennaio 2008 n. 25, modificato dal d.lg. 3 ottobre 2008 n. 159, prevede due criteri di competenza territoriale inderogabile, uno generale che si individua nel tribunale distrettuale ove ha sede la Commissione territoriale il cui provvedimento viene impugnato ed uno ulteriore e speciale che si individua nel tribunale distrettuale nel cui ambito è situato il Centro di identificazione od accoglienza nel quale il richiedente una misura di protezione internazionale è stato trattenuto od ospitato. È, invece, irrilevante, essendo i due fori indicati dalla legge, fondati su dati oggettivi e disancorati dal fattore tempo, che lo straniero al momento della proposizione della domanda giudiziale, all'esito del diniego della Commissione non si trovi più nel Centro di identificazione od accoglienza, atteso che il foro speciale si fonda sulla situazione iniziale e non sulle modifiche "medio tempore" intervenute.” (Cassazione civile, sez. I, 19/08/2010, n. 18722 e 18723) Uno dei problemi interpretativi è quello relativo ai limiti della cognizione e del potere d’intervento del giudice ordinario, in una materia in cui l’oggetto del giudizio è, comunque, il contenuto di un atto della P.A.. In particolare, una questione da affrontare è se il giudice adito, ad es. in sede di reclamo avverso un provvedimento di rigetto della richiesta di asilo politico, possa estendere il suo sindacato anche alla sussistenza delle condizioni per ottenere il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale, in mancanza di una pronuncia, su tale punto, della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. La Cassazione si è espressa in materia di rigetto del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, riportandosi al principio processuale della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, per cui ha cassato la sentenza del giudice di merito che, ritenendo insussistente la condizione che aveva indotto il Questore a rigettare la relativa richiesta, aveva poi rigettato il reclamo, ravvisando l’inesistenza di altro requisito di legge, non rilevato né dal Questore, né dal Ministero degli Interni (Sez. I 2539/04). Una questione ricorrente è quella relativa alla mancata traduzione del provvedimento della Commissione territoriale. L’art. 2 del D.L. vo n. 286/98, prevede che, ai fini della comunicazione allo straniero dei provvedimenti concernenti l'ingresso, il soggiorno e l'espulsione, gli atti debbano essere tradotti, anche sinteticamente, in una lingua comprensibile al destinatario, ovvero, quando ciò non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola, con preferenza per quella indicata dall'interessato. La Cassazione si è espressa più volte in materia, dichiarando la nullità dei provvedimenti di espulsione, emessi in violazione di tale norma (Sez. I 17253/05; 5208/06, 14925/06; 6978/07). Non ci si nasconde, ovviamente, la diversità fra le ipotesi esaminate dalla Suprema Corte e quelle oggetto del nostro esame, né il rilievo circa la tassatività dell’elencazione dei provvedimenti che necessitano tale traduzione, pur tuttavia, i principi enunciati dalla Cassazione possono trovare applicazione anche in sede d’impugnazione degli atti della Commissione territoriale. In particolare, la Cassazione ha affermato che l’obbligo di traduzione è derogabile solo ove l’autorità amministrativa attesti e specifichi le ragioni per cui tale operazione non sia stata possibile, rimanendo fermo l’obbligo di tradurre l’atto in una delle lingue cd. “veicolari”. Una delle più frequenti ragioni, addotte a sostegno della irrilevanza della lingua adottata, è la considerazione che il giudizio, promosso ex art. 35 D.L. vo n. 25/08, non avrebbe natura impugnatoria, per cui i vizi dell’atto amministrativo non potrebbero costituire oggetto del sindacato del giudice ordinario. A ben vedere, però, anche il Tribunale di Milano, sezione I, con sentenza n. 3985/10, sostenendo che l'opposizione al provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale emesso dalla competente commissione territoriale non si sostanzi in una impugnazione in senso proprio, lo ha motivato nel senso di riconoscere all'autorità giudiziaria un sindacato più ampio, non vincolato ai motivi di opposizione, ma esteso al completo riesame nel merito della domanda inoltrata in sede amministrativa. Sarebbe, dunque, riduttivo, escludere dai poteri del giudice la verifica del rispetto del diritto di difesa, dato che l’intervento della giurisdizione ordinaria è motivato dalla tutela di diritti soggettivi. Interessante, a tale proposito, mi sembra la sentenza della Cassazione n. 275/06 con cui si è ritenuto inapplicabile, nella fattispecie, la sanatoria di cui all’art. 156 c.p.c., trattandosi di un atto amministrativo. In ogni caso, ritenendo sanata la nullità per l’avvenuta proposizione del reclamo, da cui si dovrebbe evincere la mancanza di lesione del diritto di difesa, ferma restando la necessità di traduzione dell’atto, non vi sarebbe un rimedio processuale per far valere il vizio. Quanto alle pronunce conseguenti alla dichiarazione di nullità, essendo il sindacato del Giudice di pari ampiezza di quello della Commissione, non vedo ostacoli ad un riesame da parte del Tribunale. Altra questione, sempre in tema di lingua del provvedimento di rigetto, è se possa ritenersi sufficiente la traduzione, nella lingua conosciuta dallo straniero o in una delle lingue cd. “veicolari”, della notifica del provvedimento della Commissione. Sempre in tema di espulsione amministrativa dello straniero, la Cassazione ha affermato che la Questura è l'ufficio deputato, per legge, alla notifica del provvedimento e che ha l'obbligo della traduzione del decreto espulsivo, che viene emesso dal Prefetto, in conformità del principio generale valevole per tutti gli atti amministrativi, in lingua italiana, e poi tradotto, al momento della notificazione, nella lingua straniera prevista (Cassazione civile, sez. I, 14 luglio 2004, n. 13032). Laddove la notifica contenga gli elementi essenziali del provvedimento della Commissione territoriale, può ritenersi che sia stata garantita la conoscenza dell’atto da parte dello straniero. Certo, una motivazione di stile, da parte della Commissione, riassunta in una clausola generica (ad es. non ricorrono le condizioni previste dall’art. 11 della Convenzione di Ginevra), costituirebbe un’ulteriore violazione del diritto di difesa del richiedente. Una delle questioni preliminari è quella relativa alla identificazione del richiedente: è chiaro che non possono applicarsi i criteri di valutazione della documentazione anagrafica adottati in Italia, la stragrande maggioranza dei richiedenti proviene da Paesi in cui non esiste un sistema analogo a quello dei paesi occidentali per la registrazione delle nascite. E’ necessario, quindi, avvalersi di una nozione più ampia, spesso i richiedenti risultano nati il primo giorno dell’anno, in quanto le uniche notizie relative alla loro identità sono quelle fornite da loro all’ingresso nel territorio nazionale e, per i motivi indicati, spesso sono in grado di riferire a malapena l’anno di nascita. L’identificazione, peraltro, è un’attività di tipo amministrativo che viene svolta in una fase precedente quella giudiziaria, già in sede di presentazione della domanda alla Commissione, le Questure hanno identificato il richiedente, avendo il potere di trattenerlo a tale scopo presso i CARA. Appare pretestuoso quanto avvenuto, ad es. presso il Consiglio dell’Ordine di Catania che ha sospeso le procedure di liquidazione degli onorari relativi al patrocinio a spese dello Stato, formulando apposito quesito al Consiglio Nazionale Forense relativo alla necessità di disporre di un valido documento di identità del richiedente. Contemporaneamente deve essere prestata particolare attenzione agli elementi addotti da cui dedurre l’attendibilità delle dichiarazioni del richiedente in relazione al Paese di provenienza o all’esatta individuazione della regione, in quanto elemento fondamentale per l’eventuale riconoscimento della protezione internazionale. Uno dei problemi posti dalla normativa è quello relativo all’effetto sospensivo della proposizione del ricorso innanzi al Tribunale: ex art. 35 D.L. vo n. 25/08, la proposizione del ricorso avverso il provvedimento che rigetta la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria, ne sospende l'efficacia. Il comma 7 dello stesso articolo, nega l’efficacia sospensiva alle ipotesi in cui oggetto dell’impugnazione sia un provvedimento che dichiara inammissibile la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui e' accordata la protezione sussidiaria ovvero avverso la decisione adottata dalla Commissione territoriale ai sensi dell'articolo 22, comma 2 (allontanamento ingiustificato dal CARA), e dell'articolo 32, comma 1, lettera b-bis) (quando risulta la palese insussistenza dei presupposti previsti dal decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, ovvero quando risulta che la domanda e' stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire l'esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento). Il ricorrente può tuttavia chiedere al tribunale, contestualmente al deposito del ricorso, la sospensione del provvedimento quando ricorrano gravi e fondati motivi. In tale caso il tribunale, nei cinque giorni successivi al deposito, decide con ordinanza non impugnabile, anche apposta in calce al decreto di fissazione dell'udienza. Altro profilo processuale di un qualche rilievo è quello relativo alla sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado. Ex art. 35 D.L. vo n. 25/08, la proposizione del ricorso avverso il provvedimento che rigetta la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria, sospende l'efficacia del provvedimento impugnato, mentre il reclamo, avverso la sentenza del Tribunale, non sospende gli effetti della sentenza impugnata, la Corte d'Appello, su istanza del ricorrente, può disporre, con ordinanza non impugnabile, che l'esecuzione sia sospesa, quando ricorrano gravi e fondati motivi. E’ discutibile se sia applicabile, nella fattispecie, l’art. 351 c.p.c. che consente al Presidente di intervenire con decreto emesso inaudita altera parte, anche se non espressamente previsto: non vi sono ragioni per ritenere detta norma incompatibile con il rito camerale, previsto per tali procedure. In ogni caso, per sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata, è necessario verificare la sussistenza di giusti motivi di urgenza e non gravi e fondati motivi, come richiesto dall’art. 35 D.L. vo n. 25/08. Mi sembra interessante, a questo proposito, riportare un arresto della Suprema Corte, in tema di contemporanea pendenza di giudizio di impugnazione del diniego della Commissione territoriale, dinanzi al Tribunale e di giudizio di impugnazione del decreto di espulsione, dinanzi al GDP. La Corte di legittimità ha affermato che poiché il provvedimento amministrativo di espulsione dello straniero extracomunitario è obbligatorio e a carattere vincolato, il giudice ordinario è tenuto unicamente a controllare l'esistenza, al momento dell'espulsione, dei requisiti di legge che ne impongono l'emanazione, senza che sia possibile configurare un obbligo di sospensione necessaria del relativo procedimento, qualora ne sia pendente un altro nel quale si controverta dell'esistenza dei presupposti idonei a legittimare l'adozione del relativo decreto. (Nella specie, la S.C. ha confermato il provvedimento del GDP che, in pendenza di altro ricorso volto ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato politico, in favore di straniero al quale era stato revocato il permesso di soggiorno, aveva negato che da tale pendenza dovesse derivare l'obbligo di sospensione del procedimento di espulsione) (Cassazione civile , sez. I, 25 ottobre 2007, n. 22367). Più di recente, la Cassazione ha ribadito che, in tema di espulsione dell'immigrato clandestino, la pendenza di altro ricorso volto ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato politico in favore dello straniero non comporta la sospensione del procedimento di espulsione (Cassazione civile , sez. I, 14 maggio 2009, n. 11264). Interessante la sentenza del 4/2/10 della I Sezione civile della Cassazione, con cui è stato accolto il ricorso avverso il decreto del GDP di Caserta che aveva convalidato il decreto di espulsione senza valutare la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 19 D.L. vo n. 286/98 che dispone che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero posa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione “. (Nella fattispecie, il GDP aveva motivato il rigetto, riportandosi al provvedimento di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, adottato dalla Commissione territoriale). Uno degli aspetti critici è quello relativo all’audizione del richiedente che appare rilevante, date le difficoltà di prova, connaturate alla materia, e al rilievo costituzionale dei diritti da tutelare. E’ ovvio che il primo problema è quello della necessità di esaminare il richiedente con l’ausilio di un interprete che non è sempre facile reperire. Al Tribunale di Roma, hanno previsto in calendario una udienza ad hoc in cui convocare più interpreti. Anche l’alternativa di ammettere l’interprete presentato dal richiedente, mi sembra praticabile alla luce dell’informalità che caratterizza il rito camerale. Peraltro, è da ricordare la sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2007, n. 254 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 102 del TU sulle spese di giustizia nella parte in cui non prevedeva la possibilità, per lo straniero ammesso al patrocinio a spese dello Stato che non conosce la lingua italiana, di nominare un proprio interprete. Nei Tribunali gravati da un numero rilevante di reclami, come quello da cui provengo, solo raramente si procede all’audizione del richiedente, utilizzando le dichiarazioni già rese dinanzi alla Commissione, anche se, con prassi difforme da quanto previsto dall’art. 12 D.L. vo n. 25/08 che prevede espressamente che, solo su richiesta motivata dell'interessato, il colloquio possa svolgersi alla presenza di uno solo dei propri componenti, di solito, viene delegato ad uno solo dei componenti la Commissione. Possono applicarsi anche alla fase del giudizio i limiti imposti dall’art 12 citato, secondo cui la Commissione territoriale può omettere l'audizione del richiedente quando ritiene di avere sufficienti motivi per accogliere la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato in relazione agli elementi forniti dal richiedente ed in tutti i casi in cui risulti certificata dalla struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale l'incapacità o l'impossibilita' di sostenere un colloquio personale, così pure può essere esclusa la necessità dell’audizione nei casi previsti dagli artt. 29, 30, 32 del D.lgs. 25/08. La più rilevante fra le questioni processuali è quella relativa ai poteri istruttori del giudice. La Cassazione a S.U., con sentenza 27310/08, ha affermato che, nel giudizio per il riconoscimento dello status di rifugiato, le norme interne in materia di onere della prova debbano essere interpretate alla luce delle direttive comunitarie, oggi recepite nel nostro ordinamento con i D.L. vo n. 251/07 e 25/08, chiaramente ispirate al superamento del comune principio dell'onere della prova. Con tale pronuncia è stata cassata con rinvio la sentenza del giudice del merito che, in applicazione rigorosa dell'art. 2697 c.c., omettendo ogni indagine ufficiosa e dichiarando inammissibile, per difetto di articolazione in capitoli, la prova testimoniale, dedotta dall'interessato, aveva violato il dovere di cooperazione nell'accertamento dei fatti rilevanti, ai fini del riconoscimento dello status richiesto. Secondo la citata sentenza, l'autorità amministrativa esaminante ed il giudice devono svolgere un ruolo attivo nell'istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria. Seguendo il percorso ermeneutico, indicato nella direttiva, anche nell'interpretazione dell'art. 1, comma 5 l. n. 30 del 1990, applicabile al caso di specie, ai sensi del quale lo straniero deve rivolgere istanza motivata e "per quanto possibile" documentata, deve ravvisarsi un dovere di cooperazione del giudice nell'accertamento dei fatti rilevanti, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato e una maggiore ampiezza dei suoi poteri istruttori officiosi, peraltro derivanti anche dall'adozione del rito camerale. Più di recente, la Cassazione ha ribadito che, nella cognizione del ricorso avverso il diniego della protezione internazionale proposto da straniero che assumeva di essere sottoposto a persecuzioni politiche nel proprio paese, il giudice deve avvalersi dei suoi poteri di indagine al fine di acquisire anche officiosamente le necessarie informazioni (Cassazione civile, sez. VI, 27/07/2010, n. 17576). Ancora, in tema di accertamento del diritto ad ottenere una misura di protezione internazionale, l'esistenza a carico del richiedente di una misura cautelare giurisdizionale restrittiva della libertà personale emessa dal paese di provenienza per propaganda a favore di un'organizzazione terroristica, non è sufficiente ad escludere l'esistenza del fumus persecutionis, dovendo il giudice, avvalendosi dei poteri officiosi d'indagine ed informazione indicati nell'art. 8 d.lg. n. 25 del 2008, non limitarsi ad un accertamento prevalentemente fondato sulla credibilità soggettiva del ricorrente ma verificare la situazione del paese ove dovrebbe essere disposto il rientro al fine di riscontrare, alla luce del fatto addebitato e non del mero "nomen iuris" della contestazione, la sua riconducibilità alla legittima espressione del dissenso o ad incitamento vietato alla lotta armata (Cassazione civile, sez. VI, 27/07/2010, n. 17576). Nella prassi, la prova, che di solito viene offerta, consiste in scritture private, provenienti dalla parte, spesso in lingua straniera, non accompagnate da traduzione giurata, di dichiarazioni di terzi riportate per iscritto, di copie non autentiche di documentazione, il cui originale sarebbe esistente all’estero, di articoli di stampa, di report di notizie provenienti da ONG di carattere internazionale. La Cassazione, osservando estremo rigore nell’applicazione delle norme processuali, (26278/05) ha affermato che non possono essere considerati prove gli atti provenienti dalla stessa parte e, riconoscendo le oggettive difficoltà in cui si trovi chi debba fuggire dal proprio Paese perché perseguitato, ha richiesto, quanto meno, che fosse riscontrata l’attendibilità del richiedente. A tale fine deve attribuirsi rilievo, ad esempio, alla tempestività della proposizione della domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato politico rispetto all’ingresso nel territorio dello Stato italiano. Il Tribunale di Milano (sez. I, 28 ottobre 2009, n. 1261) ha riconosciuto lo stato di rifugiato ad un cittadino Nigeriano, in quanto, dalle allegazioni probatorie e dalle vicende raccontate, emergeva che, facendo ritorno in Nigeria, avrebbe corso pericolo per la sua incolumità in quanto musulmano convertito e pastore pentecostale, ma le condizioni prospettate non sono sempre così evidenti. Meno rigorosa la prova per ciò che riguarda la protezione sussidiaria: gli artt. 1, 2 e 14 D.L.vo 251/07 richiedono, infatti, sia dimostrata la sussistenza di un rischio effettivo per il richiedente di subire un grave danno, come definito dall’art. 14, laddove lo stesso dovesse rientrare nel proprio Paese e non possa o, a causa di tale rischio, non voglia, avvalersi della protezione di detto Paese. L’art. 14 D.L. vo n. 251/07 prevede che sia considerato in pericolo di danno grave e, quindi, in condizioni di ottenere il riconoscimento alla protezione sussidiaria, lo straniero che dimostri la sussistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, derivante dalla violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, è pertanto necessario verificare, di volta in volta, quali siano le condizioni attuali del Paese d’origine del richiedente. L'art. 8 co. 3 del D.L. vo n. 25/08 prevede che la Commissione nazionale per i richiedenti asilo elabori i dati forniti dall’ACNUR e dal Ministero degli Affari Esteri e li metta a disposizione delle Commissioni territoriali e dell’autorità giudiziaria. In realtà, le richieste non vengono evase tempestivamente e, comunque, il massimo ottenibile è l’invio di un dossier che, necessariamente, non è aggiornato, per cui rimane indispensabile la consultazione del sito dell’ACNUR, in lingua inglese, l’unico a contenere dati sui Paesi da cui provengono i richiedenti o dalle principali associazioni e ONG, i cui dati sono consultabili via internet. Sono stati considerati rilevanti, al fine di integrare una minaccia grave come richiesta dalla norma in parola, fattori quali la legislazione discriminatoria, l’inesistenza di un sistema giudiziario affidabile… In proposito, la Cassazione, con sentenza 16417/07, in un caso di discriminazione per ragioni sessuali, ha affermato che occorre accertare se lo Stato di origine dello straniero (Senegal) preveda come reato il fatto in sé dell'omosessualità, ovvero punisca solo l'ostentazione delle inclinazioni e delle pratiche omosessuali, ostentazioni e pratiche non conformi al sentimento pubblico senegalese: nel primo caso lo straniero espulso sarebbe oggetto di veri e propri fatti persecutori, contrari ai principi generali di libertà (anche sessuale) e di dignità di ogni persona, mentre nel secondo caso, l'illiceità dell'ostentazione delle inclinazioni e delle pratiche omosessuali sarebbe conforme al principio di sovranità di ogni Stato ed al principio di ragionevolezza. In Corte d’Appello a Catania, abbiamo ritenuto non rilevante la circostanza che, nel Paese d’origine, fosse diffusa la pratica della infibulazione, sia perché le richiedenti hanno superato la soglia d’età in cui tale intervento viene effettuato, sia perché riguarda solo alcune zone di uno stesso paese, per cui non sarebbe necessario espatriare per sottrarsi a tale crudeltà. Rimane estremamente critica la valutazione delle ipotesi nelle quali la Commissione territoriale ritenga che possano sussistere gravi e seri motivi di carattere umanitario legittimanti la domanda al questore per l'eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. E’ difficile distinguere questi casi dalle situazioni che legittimano il riconoscimento della protezione internazionale: quando la situazione prospettata riguarda atti di persecuzione legati a vicende tribali, alle obiettive difficoltà di accertamento si aggiunge la pratica impossibilità di valutare la gravità dei motivi addotti e la possibilità che il richiedente possa, comunque, trovare una via di fuga rimanendo all’interno del Paese di provenienza. Particolare attenzione e tutela potrà riconoscersi alle situazioni in cui sia prospettata la violazione di diritti costituzionalmente protetti e, quindi, tutte le condizioni di violenza o discriminazione di genere o in danno di minori, di soggetti affetti da patologie non curate nel Paese d’origine. Mi sembra interessante affrontare alcune tematiche relative all’ammissione dei richiedenti al patrocinio a spese dello Stato. L’art. 119 D.P.R. 115/02 prevede che il trattamento previsto per il cittadino italiano sia assicurato allo straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo da instaurare e all'apolide. Il Tribunale di Roma, in passato, prima dell’espressa previsione in materia, rigettava le istanze di liquidazione relative alle domande rigettate, revocando l’ammissione al beneficio, sul presupposto che il richiedente non fosse “regolarmente soggiornante” in Italia. L’orientamento non i sembra condivisibile, in quanto lo straniero è regolarmente soggiornante in Italia finchè non sia esaurita la procedura per l’accertamento del diritto richiesto, tanto che gode dei permessi di soggiorno rilasciati al fine di consentirgli l’esercizio di tale diritto. Un’altra questione processuale è quella che si pone in caso di inattività processuale delle parti: trattandosi di rito camerale, non è applicabile l’art. 309 c.p.c., incompatibile con la speditezza e la semplicità di forme, tipiche di tale rito, così pure non è possibile dichiarare improcedibile il reclamo. Di recente, la Cassazione ha affermato che le norme generali dei procedimenti camerali comportano che il giudice adito sia tenuto a decidere, indipendentemente dalla mancata comparizione di una delle parti. La disciplina generale del codice di procedura civile in tema di mancata comparizione e di inattività delle parti, dettata per il processo ordinario di cognizione, non è richiamata per i procedimenti camerali, e, quindi, deve escludersi che il giudice del reclamo possa attribuire alla mancata comparizione della parte reclamante la valenza di rinuncia tacita all'impugnativa e riconnettervi la sanzione processuale dell'improcedibilità (in tema, cfr. Cass. 27080/2005; 9930/2005; 284/2009). In ossequio a tale disciplina, pertanto, il giudice dovrebbe, comunque, decidere nel merito del reclamo. Nella materia che ci occupa, in particolare, l’art. 35 D. L. vo n. 25/08 prevede che, entro cinque giorni dal deposito del ricorso, il tribunale, con decreto apposto in calce allo stesso, fissa l’udienza in camera di consiglio. Il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza sono notificati all’interessato e al Ministero dell’interno, presso la Commissione nazionale ovvero presso la competente Commissione territoriale, e sono comunicati al pubblico ministero. Non solo, ma la stessa norma prevede che il tribunale, sentite le parti e assunti tutti i mezzi di prova necessari, decida entro tre mesi dalla presentazione del ricorso Tutti conosciamo quali siano le condizioni della cancellerie e, pertanto, accade facilmente che non si riesca a comunicare tempestivamente la data della prima udienza di comparizione. La Cassazione, in tema di reclamo avverso il provvedimento del tribunale sul ricorso dello straniero contro il diniego della p.a. al nulla osta al ricongiungimento familiare – disciplinato dall'art. 30, comma 6, D. L. vo n. 286/98 dagli art. 737 ss. c.p.c. – ha ritenuto che, se l'interessato non compare all'udienza di trattazione senza addurre nessuna causa di forza maggiore, perché l'impossibilità di attivazione del contraddittorio, determina l'applicazione estensiva dell'art. 348, comma 1, c.p.c. norma compatibile con il rito camerale - e non la cancellazione della causa dal ruolo e neanche il rinvio ad un'udienza successiva, perché tale rito, regolato dal giudice con discrezionalità al fine di realizzare i principi di rapidità, informalità e concentrazione - maggiormente incisivi in un procedimento stabilito per il controllo giurisdizionale della legittimità dei provvedimenti dell'autorità amministrativa in materia di immigrazione - è incompatibile con meccanismi di stasi del medesimo (Cassazione civile , sez. I, 02 aprile 2004, n. 6492). Deve affermarsi, però, che, in tale pronuncia, la Suprema Corte ha motivato l’improcedibilità del reclamo sulla base della mancata presentazione del ricorrente in un’ipotesi in cui l’audizione del reclamante è prevista per legge ed è stata considerata dalla Cassazione come condizione per la valida instaurazione del contraddittorio. Di recente, la Cassazione si è espressamente pronunciata affermando che, in tema di protezione internazionale dello straniero, in caso di difetto di comparizione della parte interessata all'udienza di trattazione, il giudice del reclamo (nella specie, in grado di appello avverso il decreto del tribunale che aveva rigettato il ricorso contro il diniego di protezione internazionale adottato dalla competente commissione territoriale), verificata la regolarità della notificazione del ricorso e del decreto, deve decidere nel merito il reclamo, restando esclusa la possibilità di una decisione di rinvio della trattazione o di improcedibilità per disinteresse alla definizione o (come nella specie) di non luogo a provvedere (Cassazione civile, sez. I, 03/08/2010, n. 18043). Altro problema è quello relativo alla decorrenza del termine dell’impugnazione dinanzi alla Corte d’appello, l’art. 35 D.L. vo n. 25/08 prevede che la sentenza sia notificata al ricorrente e al Ministero dell’interno, presso la Commissione nazionale ovvero presso la competente Commissione territoriale, e sia comunicata al pubblico ministero e che il ricorso d’impugnazione debba essere depositato presso la cancelleria della corte d’appello, a pena di decadenza, entro dieci giorni dalla notificazione o comunicazione della sentenza. Quando, come nella maggior parte dei casi avviene, la comunicazione della sentenza sia fatta per estratto o venga comunicato solo il dispositivo, può ritenersi compiuta l’attività che dà luogo alla decorrenza del termine di decadenza? Trattandosi di un termine particolarmente breve, data l’equiparazione che la norma fa della notificazione (a cura di parte) con la comunicazione (a cura della cancelleria), non sembra possa ritenersi equipollente anche la comunicazione non integrale della sentenza. Mi sembra interessante riportare anche la recente sentenza della Cassazione (Cassazione civile, sez. VI, 27/07/2010, n. 17576), già oggetto di conferme, in tema di procedura da applicare al ricorso per Cassazione. La suprema Corte ha affermato che, nel giudizio di cassazione relativo ad una domanda di protezione internazionale il richiamo operato dall'art. 35 d.lg. n. 25 del 2008 (modificato dall'art. 1 lettera M del d.lg. n. 159 del 2008 e dall'art. 1, comma 13, lettera C della l. n. 94 del 2009) al rito camerale, prescelto per l'esigenza di celerità del procedimento comporta le seguenti regole: a) al ricorso si applicano gli art. 360, 360 bis, 365, 366 c.p.c.; b) il procedimento si introduce con deposito del ricorso presso la cancelleria della Cassazione; nel termine perentorio di trenta giorni dalla notifica, a cura della cancelleria della Corte d'appello, della sentenza che ha deciso sul reclamo ai sensi dell'art. 35, commi 11, 12 e 13; c) l'instaurazione del contraddittorio avviene, in forma esclusivamente officiosa, mediante fissazione dell'udienza camerale con decreto presidenziale, notificata, a cura della cancelleria della Corte alle parti (il Ministero dell'Interno presso la Commissione competente; il P.G. presso la Corte d'appello; il P.G. presso la Cassazione); d) il rito camerale richiamato dall'art. 35, comma 14 d.lg. n. 25 del 2008 è incompatibile con la procedura prevista dall'art. 380 bis c.p.c.; e) il procedimento è incompatibile con la proposizione di un'impugnazione incidentale, attesa l'inesistenza di un impulso di parte a fini acceleratori; f) è necessario proporre autonomo ricorso nel termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza, da riunirsi ex art. 335 c.p.c. a quello principale; g) le parti possono svolgere le proprie difese mediante deposito di controricorso nel termine di venti giorni dalla notificazione a cura della cancelleria della Corte del decreto di fissazione d'udienza; h) il controricorso non deve essere notificato alle altre parti né dal controricorrente né a cura della cancelleria; i) le parti costituite possono depositare memorie ex art. 378 c.p.c.. ASILO POLITICO Uno dei problemi interpretativi principali, che la Cassazione ha affrontato, è quello del rapporto esistente fra l’accoglimento della domanda di asilo politico e il riconoscimento dello stato di rifugiato. Con la sentenza del 17/12/99 n. 907, citata, di solito, dalla difesa dei richiedenti, la Corte aveva ritenuto immediatamente efficace l’art. 10 Cost, distinguendo gli ambiti di applicazione della normativa sull’asilo politico, da quella relativa ai rifugiati, affermando che la seconda categoria comprenderebbe un numero di soggetti inferiore, essendo richiesta la dimostrazione della sottoposizione a persecuzione, non prevista dalla norma costituzionale. Successivamente, pur mantenendo concettualmente distinti i due istituti, la Cassazione ha ritenuto che, in assenza di una legge organica sull'asilo politico che, in attuazione del dettato costituzionale, ne fissi le condizioni, i termini, i modi e gli organi competenti in materia di richiesta e di concessione, il diritto di asilo deve intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per ottenere lo status di rifugiato politico, e non ha un contenuto più ampio del diritto di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo, ex art. 1 comma 5 D. L. n. 416/89, conv., con modificazioni, nella l. 28 febbraio 1990 n. 39, rendendo così presupposto indispensabile per la richiesta d’asilo, l’espletamento dell'apposita procedura amministrativa, giacché la cognizione del giudice interviene solo a conclusione dell'espletamento dell'iter amministrativo che il richiedente deve necessariamente percorrere, e dunque solo in sede di opposizione avverso l'eventuale provvedimento di rigetto (Cassazione civile , sez. I, 01 settembre 2006, n. 18940; 25 agosto 2006, n. 18549; 25 agosto 2006, n. 18549; sez. I, 25 novembre 2005, n. 25028). Le varie leggi, succedutesi nel tempo, hanno compiutamente regolato soltanto la categoria del rifugiato politico (di cui alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951) e configurato la domanda di asilo come esclusivamente finalizzata al riconoscimento di detta qualifica. Il diritto d’asilo, dunque, nella attuale configurazione normativa, è un diritto riconosciuto solo a coloro che rientrano nella nozione di rifugiato politico e, di conseguenza, risolutivamente condizionato al mancato accoglimento della domanda di riconoscimento dello "status" di rifugiato politico. La Cassazione ha fondato tali decisioni riportandosi al dato testuale della normativa, in materia di rifugiati, che ha ritenuto equipollenti le due figure, tanto da prevedere, ad esempio, che, delle Commissioni territoriali per il riconoscimento dello stato di rifugiato, faccia parte un componente della Commissione Nazionale per il riconoscimento del diritto d’asilo. PERMESSO DI SOGGIORNO PER RAGIONI UMANITARIE Fattispecie ancora diversa è quella relativa al rilascio di permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, previsto dal sesto co. dell’art. 5 D. L. vo n. 286/98. Si tratta di un provvedimento del Questore, emesso all'esito della decisione negativa della Commissione Centrale sul riconoscimento dello status di rifugiato. L’ordinanza della Cassazione a Sezioni Unite n. 11535 del 19 maggio 2009 ha cambiato il precedente orientamento, espresso sempre a sezioni unite. Invero, con sentenza n. 7933/08, la Corte di legittimità aveva ritenuto che, in applicazione del richiamato D. L. vo n. 286 del 1998, art. 6, comma 10, spettasse al giudice amministrativo la giurisdizione sul diniego da parte del Questore di rilascio del permesso di soggiorno, disciplinato dall'art. 5 (a differenza di quello per motivi familiari contemplato dall'art. 30, che deve essere rilasciato in presenza delle specifiche situazioni ivi tassativamente previste), mentre il giudice ordinario è chiamato a verificare la legittimità dell'atto espulsivo, secondo il disposto dell'art. 13 dello stesso D.L. vo ( v. tra le altre, più di recente, Cass. 2007 n. 22367; 2007 n. 19447; Cass. S.U. 2006 n. 22217; Cass. 2006 n. 15752). La Cassazione aveva ritenuto che la decisione del Questore comportasse la preventiva valutazione politico- amministrativa della sussistenza delle ragioni di protezione, in stretta relazione con il tasso di discrezionalità politico- amministrativa che segna l'accertamento delle condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari e sulla base della valutazione della situazione politica esistente nel paese di origine. Con ordinanza n. 11535/09, la Corte ha ritenuto che, con l’entrata in vigore del DPR 303/04, alle Commissioni territoriali è stato assegnato il compito di valutare “per i provvedimenti di cui all’art. 5 comma 6 del citato Testo Unico (…) le conseguenze di un rimpatrio alla luce degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali di cui l’Italia è firmataria.” La Cassazione ha ritenuto che l’art. 32 D.L. vo n.25/08 abbia diversamente regolamentato i rapporti fra Commissione territoriale e Questore, attribuendo alla prima tutte le competenze valutative della posizione del richiedente asilo, da quella diretta all’ottenimento della protezione maggiore a quella generante una protezione sussidiaria, sino a quella residuale e temporanea, di cui all’art. 5 D.L. vo n. 286/98, con un’organica previsione che fa venir meno ogni margine di apprezzamento politico delle condizioni del paese di provenienza e lascia residuare al Questore solo un compito attuativo dei deliberati assunti dalla Commissione. La valutazione del Questore rimane limitata alla verifica della sussistenza degli ulteriori requisiti di legge (così interpretando la dizione “eventuale” di cui al più volte richiamato art. 5) previsti dalla lett. d) del comma 1 dell’art. 28 DPR 394/99 che consente al Questore di non rilasciare il permesso per ragioni umanitarie, laddove si possa disporre l'allontanamento dello straniero verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga contro le persecuzioni di cui all'art. 19, comma 1, del testo unico. Alla diversa ricostruzione delle competenze del Questore consegue l’attribuzione al giudice ordinario del sindacato sulla spettanza di detta protezione. Con la stessa ordinanza, la Cassazione ha affermato che i motivi di carattere umanitario che limitano il potere di rifiutare o revocare il permesso di soggiorno allo straniero privo dei requisiti previsti da convenzioni internazionali per il riconoscimento dello status di rifugiato, debbono essere identificati facendo riferimento alle fattispecie previste dalle convenzioni internazionali, universali o regionali, che autorizzano o impongono allo Stato italiano di adottare misure di protezione a garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione (Cassazione civile , sez. un., 09 settembre 2009, n. 19393). CONCLUSIONE Come è facile notare, si tratta di una materia in cui lo spazio per l’interprete è vasto, ciò, da un parte è di stimolo all’attività del giudice, ma dall’altro dà adito a possibili soluzioni diverse, dettate anche dall’orientamento dello stesso interprete. E’ per questo che, a conclusione del mio intervento, vorrei richiamare le parole del Presidente della Repubblica che, in occasione della giornata del rifugiato del 2009, ha richiamato le istituzioni ad una politica improntata a giustizia e solidarietà e, infine, vorrei leggervi le parole della Costituzione, un tempo in vigore in Francia, oggi nota per ben altre pratiche nei confronti degli stranieri. ” Ogni straniero d’età superiore a 21 anni che, domiciliato in Francia da un anno, viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà o sposi una cittadina francese o adotti un bambino o mantenga un vecchio, è ammesso all’esercizio dei diritti di cittadino” E’ l’art. 4 della Costituzione francese del 1793, nata da quella rivoluzione che è stata la madre del pensiero liberale, chiediamoci se ancora oggi la civiltà occidentale sia basata su questi principi o se le ragioni fondanti siano oggi dettate dalla salvaguardia di ben altri interessi. Marisa Acagnino Presidente sezione tribunale Catania