Dott.ssa M. Acagnino

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Dott.ssa M. Acagnino
APOLIDIA, ASILO, RIFUGIATI E PROTEZIONE UMANITARIA:
CRITICITA’ NEI PROCEDIMENTI INNANZI AL GIUDICE DI
MERITO
PREMESSA
La materia che ci occupa è contrassegnata da una serie di condizioni che rendono
particolarmente difficile il compito dell’interprete.
Innanzi tutto il giudice deve, in questa materia, più che in altre, interpretare le norme
del nostro ordinamento alla luce dei principi enunciati negli accordi internazionali,
sottoscritti dall’Italia, poi deve tenere presente, in caso di antinomie o, comunque, di
diverse possibili soluzioni, la gerarchia fra le diverse norme applicabili.
Ulteriore e significativo elemento di difficoltà è costituito dalle frequenti modifiche
legislative che si susseguono, spesso motivate da vere o supposte emergenze
migratorie, con un’agenda sempre dettata dall’orientamento politico e, ultimo, ma
non da ultimo, le pronunce della Cassazione che, nel tempo, hanno, a volte, dato
impulso e, altre volte, frenato l’opera interpretativa dei giudici di merito.
Si deve rilevare che, di recente, almeno in primo grado, il numero dei ricorsi è
notevolmente diminuito, a seguito della politica dei respingimenti, che ha, di fatto,
comportato un cambiamento delle rotte d’ingresso nel territorio dello Stato e ha reso
più difficile l’identificazione ed il controllo dei flussi migratori, sebbene irregolari.
Oggi la situazione appare oltre modo confusa: l’attuale flusso migratorio dal Nord
Africa ha evidenziato le crepe esistenti nel nostro sistema di prima accoglienza, non
in grado di fronteggiare ingressi di massa.
L’emergenza migratoria ha indotto il Governo a predeterminare il giudizio circa la
situazione di allarme sociale esistente, ad esempio, in Tunisia, sostenendo
l’inesistenza di condizioni di disordine generalizzato, nonostante si sia constatata la
poca affidabilità dei titolari del locale dicastero degli Interni.
E’ ancora presto per valutare quale forma giuridica, efficacia e validità internazionale
potrà essere riconosciuta ai “permessi temporanei”: è chiaro il limite posto al
Legislatore, in questa materia, dai trattati internazionali e dal loro rango di norma
pattizia, la cui forza vincolante è richiamata dall’art. 117 Cost. che potrebbe essere
invocato anche in sede di ricorso alla Corte Costituzionale.
Nel mio intervento mi limiterò a segnalare le questioni che mi sembrano più
interessanti, offrendo al dibattito i necessari spunti di riflessione, non avendo,
ovviamente, la soluzione “magica” ai numerosi problemi interpretativi che la
normativa pone.
La prima questione che si pone è quella della qualificazione dell’intervento
giurisdizionale.
Prima ancora dell’intervento del legislatore col D.L. vo n. 25/08, successivamente
modificato col D.L. vo n. 159/08, i giudici, sia ordinari che amministrativi, avevano
qualificato la pretesa del richiedente asilo o il riconoscimento dello status di rifugiato
come volta a far valere un diritto soggettivo, ritenendo sussistente la giurisdizione del
giudice ordinario (Cass. civ. S.U. 907/99).
La Cassazione aveva coerentemente affermato che la pronuncia giurisdizionale
avesse natura dichiarativa, trattandosi di riconoscimento di diritti soggettivi attinenti
alla persona (Cass. civ. 8423/04).
Il legislatore, con l’art. 35 del D.L. vo n. 25/08,
ha disciplinato la materia
affidandola al giudice ordinario, come già previsto dall’art. 30 D.L. vo n. 286/98, in
tema di diritto al ricongiungimento familiare, altra materia in cui si tutelano diritti di
rilevanza costituzionale.
QUESTIONI PROCESSUALI
Il primo tema da affrontare è quello relativo all’individuazione del giudice
competente.
Particolarmente interessante è la sentenza, emessa il 24/1/09, dalla collega De Lecce
del Tribunale di Lecce che, con argomentazioni che condivido e, in parte riporto, ha
interpretato in senso restrittivo l’art. 20 del D.L. vo n. 25/08 che individua il
Tribunale competente e dimezza i termini per l’impugnazione, nell’ipotesi di
trattenimento del richiedente la protezione in un centro di permanenza temporanea ed
assistenza.
La deroga alla competenza del Tribunale che ha sede nel capoluogo di distretto di
corte di appello in cui ha sede la commissione territoriale, in favore del Tribunale che
ha sede nel capoluogo di distretto in cui trovasi il centro, opera sia nei casi in cui lo
straniero richiedente la protezione internazionale sia stato destinatario di un
provvedimento di trattenimento, ai sensi dell'art. 21 del D.L.vo n. 25/08, sia nei casi
in cui sia stata disposta l'accoglienza del soggetto in un centro di accoglienza
richiedenti asilo, ai sensi dell'art. 20 dello stesso Decreto.
Il giudice di Lecce aveva sottolineato la riduzione del termine ordinario di
proposizione del ricorso giudiziario che accompagna la previsione derogatoria della
competenza, individuando la ratio di tale eccezione, con la necessità di assicurare la
tutela giurisdizionale al richiedente la protezione in maniera, per così dire, più
semplice e rapida, nel senso di consentirgli di adire l'ufficio giudiziario più vicino al
centro.
Il Tribunale ha poi limitato la competenza eccezionale del giudice del capoluogo di
distretto in cui trovasi il centro al tempo previsto dalla legge per tale tipo di ospitalità
(non superiore a 20 o a 35 giorni), non potendo attribuirsi rilievo ai casi di protratta
permanenza di fatto.
La Cassazione con due successive sentenze di identico contenuto ha cassato la detta
sentenza, con motivazione che si richiama al dato testuale della noma e censura
l’opera dell’interprete che si era riportato alla ratio legis per limitare il ricorso al foro
in deroga.
Si riporta, per agevolarne la consultazione, il testo della massima :
“ In tema di protezione internazionale, l'art. 35, comma 1, d.lg. 28 gennaio 2008 n.
25, modificato dal d.lg. 3 ottobre 2008 n. 159, prevede due criteri di competenza
territoriale inderogabile, uno generale che si individua nel tribunale distrettuale ove
ha sede la Commissione territoriale il cui provvedimento viene impugnato ed uno
ulteriore e speciale che si individua nel tribunale distrettuale nel cui ambito è situato
il Centro di identificazione od accoglienza nel quale il richiedente una misura di
protezione internazionale è stato trattenuto od ospitato. È, invece, irrilevante,
essendo i due fori indicati dalla legge, fondati su dati oggettivi e disancorati dal
fattore tempo, che lo straniero al momento della proposizione della domanda
giudiziale, all'esito del diniego della Commissione non si trovi più nel Centro di
identificazione od accoglienza, atteso che il foro speciale si fonda sulla situazione
iniziale
e
non
sulle
modifiche
"medio
tempore"
intervenute.”
(Cassazione civile, sez. I, 19/08/2010, n. 18722 e 18723)
Uno dei problemi interpretativi è quello relativo ai limiti della cognizione e del
potere d’intervento del giudice ordinario, in una materia in cui l’oggetto del
giudizio è, comunque, il contenuto di un atto della P.A..
In particolare, una questione da affrontare è se il giudice adito, ad es. in sede di
reclamo avverso un provvedimento di rigetto della richiesta di asilo politico, possa
estendere il suo sindacato anche alla sussistenza delle condizioni per ottenere il
riconoscimento del diritto alla protezione internazionale, in mancanza di una
pronuncia, su tale punto, della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello
status di rifugiato.
La Cassazione si è espressa in materia di rigetto del permesso di soggiorno per
ricongiungimento
familiare,
riportandosi
al
principio
processuale
della
corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, per cui ha cassato la sentenza del
giudice di merito che, ritenendo insussistente la condizione che aveva indotto il
Questore a rigettare la relativa richiesta, aveva poi rigettato il reclamo, ravvisando
l’inesistenza di altro requisito di legge, non rilevato né dal Questore, né dal Ministero
degli Interni (Sez. I 2539/04).
Una questione ricorrente è quella relativa alla mancata traduzione del
provvedimento della Commissione territoriale.
L’art. 2 del D.L. vo n. 286/98, prevede che, ai fini della comunicazione allo
straniero dei provvedimenti concernenti l'ingresso, il soggiorno e l'espulsione, gli atti
debbano essere tradotti, anche sinteticamente, in una lingua comprensibile al
destinatario, ovvero, quando ciò non sia possibile, in lingua francese, inglese o
spagnola, con preferenza per quella indicata dall'interessato.
La Cassazione si è espressa più volte in materia, dichiarando la nullità dei
provvedimenti di espulsione, emessi in violazione di tale norma (Sez. I 17253/05;
5208/06, 14925/06; 6978/07).
Non ci si nasconde, ovviamente, la diversità fra le ipotesi esaminate dalla Suprema
Corte e quelle oggetto del nostro esame, né il rilievo circa la tassatività
dell’elencazione dei provvedimenti che necessitano tale traduzione, pur tuttavia, i
principi enunciati dalla Cassazione possono trovare applicazione anche in sede
d’impugnazione degli atti della Commissione territoriale.
In particolare, la Cassazione ha affermato che l’obbligo di traduzione è derogabile
solo ove l’autorità amministrativa attesti e specifichi le ragioni per cui tale operazione
non sia stata possibile, rimanendo fermo l’obbligo di tradurre l’atto in una delle
lingue cd. “veicolari”.
Una delle più frequenti ragioni, addotte a sostegno della irrilevanza della lingua
adottata, è la considerazione che il giudizio, promosso ex art. 35 D.L. vo n. 25/08,
non avrebbe natura impugnatoria, per cui i vizi dell’atto amministrativo non
potrebbero costituire oggetto del sindacato del giudice ordinario.
A ben vedere, però, anche il Tribunale di Milano, sezione I, con sentenza n. 3985/10,
sostenendo che l'opposizione al provvedimento di rigetto della domanda di protezione
internazionale emesso dalla competente commissione territoriale non si sostanzi in
una impugnazione in senso proprio, lo ha motivato nel senso di
riconoscere
all'autorità giudiziaria un sindacato più ampio, non vincolato ai motivi di
opposizione, ma esteso al completo riesame nel merito della domanda inoltrata in
sede amministrativa.
Sarebbe, dunque, riduttivo, escludere dai poteri del giudice la verifica del rispetto del
diritto di difesa, dato che l’intervento della giurisdizione ordinaria è motivato dalla
tutela di diritti soggettivi.
Interessante, a tale proposito, mi sembra la sentenza della Cassazione n. 275/06 con
cui si è ritenuto inapplicabile, nella fattispecie, la sanatoria di cui all’art. 156 c.p.c.,
trattandosi di un atto amministrativo.
In ogni caso, ritenendo sanata la nullità per l’avvenuta proposizione del reclamo, da
cui si dovrebbe evincere la mancanza di lesione del diritto di difesa, ferma restando la
necessità di traduzione dell’atto, non vi sarebbe un rimedio processuale per far valere
il vizio.
Quanto alle pronunce conseguenti alla dichiarazione di nullità, essendo il sindacato
del Giudice di pari ampiezza di quello della Commissione, non vedo ostacoli ad un
riesame da parte del Tribunale.
Altra questione, sempre in tema di lingua del provvedimento di rigetto, è se possa
ritenersi sufficiente la traduzione, nella lingua conosciuta dallo straniero o in una
delle lingue cd. “veicolari”, della notifica del provvedimento della Commissione.
Sempre in tema di espulsione amministrativa dello straniero, la Cassazione ha
affermato che la Questura è l'ufficio deputato, per legge, alla notifica del
provvedimento e che ha l'obbligo della traduzione del decreto espulsivo, che viene
emesso dal Prefetto, in conformità del principio generale valevole per tutti gli atti
amministrativi, in lingua italiana, e poi tradotto, al momento della notificazione, nella
lingua straniera prevista (Cassazione civile, sez. I, 14 luglio 2004, n. 13032).
Laddove la notifica contenga gli elementi essenziali del provvedimento della
Commissione territoriale, può ritenersi che sia stata garantita la conoscenza dell’atto
da parte dello straniero.
Certo, una motivazione di stile, da parte della Commissione, riassunta in una clausola
generica (ad es. non ricorrono le condizioni previste dall’art. 11 della Convenzione
di Ginevra), costituirebbe un’ulteriore violazione del diritto di difesa del richiedente.
Una delle questioni preliminari è quella relativa alla identificazione del richiedente: è
chiaro che non possono applicarsi i criteri di valutazione della documentazione
anagrafica adottati in Italia, la stragrande maggioranza dei richiedenti proviene da
Paesi in cui non esiste un sistema analogo a quello dei paesi occidentali per la
registrazione delle nascite.
E’ necessario, quindi, avvalersi di una nozione più ampia, spesso i richiedenti
risultano nati il primo giorno dell’anno, in quanto le uniche notizie relative alla loro
identità sono quelle fornite da loro all’ingresso nel territorio nazionale e, per i motivi
indicati, spesso sono in grado di riferire a malapena l’anno di nascita.
L’identificazione, peraltro, è un’attività di tipo amministrativo che viene svolta in una
fase precedente quella giudiziaria, già in sede di presentazione della domanda alla
Commissione, le Questure hanno identificato il richiedente, avendo il potere di
trattenerlo a tale scopo presso i CARA.
Appare pretestuoso quanto avvenuto, ad es. presso il Consiglio dell’Ordine di Catania
che ha sospeso le procedure di liquidazione degli onorari relativi al patrocinio a
spese dello Stato, formulando apposito quesito al Consiglio Nazionale Forense
relativo alla necessità di disporre di un valido documento di identità del richiedente.
Contemporaneamente deve essere prestata particolare attenzione agli elementi addotti
da cui dedurre l’attendibilità delle dichiarazioni del richiedente in relazione al Paese
di provenienza o all’esatta individuazione della regione, in quanto elemento
fondamentale per l’eventuale riconoscimento della protezione internazionale.
Uno dei problemi posti dalla normativa è quello relativo all’effetto sospensivo della
proposizione del ricorso innanzi al Tribunale: ex art. 35 D.L. vo n. 25/08, la
proposizione del ricorso avverso il provvedimento che rigetta la domanda di
riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione
sussidiaria, ne sospende l'efficacia.
Il comma 7 dello stesso articolo, nega l’efficacia sospensiva alle ipotesi in cui
oggetto dell’impugnazione sia un provvedimento che dichiara inammissibile la
domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui e' accordata la
protezione sussidiaria ovvero avverso la decisione adottata dalla Commissione
territoriale ai sensi dell'articolo 22, comma 2 (allontanamento ingiustificato dal
CARA), e dell'articolo 32, comma 1, lettera b-bis) (quando risulta la palese
insussistenza dei presupposti previsti dal decreto legislativo 19 novembre 2007, n.
251, ovvero quando risulta che la domanda e' stata presentata al solo scopo di
ritardare o impedire l'esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento).
Il ricorrente può tuttavia chiedere al tribunale, contestualmente al deposito del
ricorso, la sospensione del provvedimento quando ricorrano gravi e fondati motivi. In
tale caso il tribunale, nei cinque giorni successivi al deposito, decide con ordinanza
non impugnabile, anche apposta in calce al decreto di fissazione dell'udienza.
Altro profilo processuale di un qualche rilievo è quello relativo alla sospensione
dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado.
Ex art. 35 D.L. vo n. 25/08, la proposizione del ricorso avverso il provvedimento che
rigetta la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui è
accordata la protezione sussidiaria, sospende l'efficacia del provvedimento
impugnato, mentre il reclamo, avverso la sentenza del Tribunale, non sospende gli
effetti della sentenza impugnata, la Corte d'Appello, su istanza del ricorrente, può
disporre, con ordinanza non impugnabile, che l'esecuzione sia sospesa, quando
ricorrano gravi e fondati motivi.
E’ discutibile se sia applicabile, nella fattispecie, l’art. 351 c.p.c. che consente al
Presidente di intervenire con decreto emesso inaudita altera parte, anche se non
espressamente previsto: non vi sono ragioni per ritenere detta norma incompatibile
con il rito camerale, previsto per tali procedure.
In ogni caso, per sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata, è
necessario verificare la sussistenza di giusti motivi di urgenza e non gravi e fondati
motivi, come richiesto dall’art. 35 D.L. vo n. 25/08.
Mi sembra interessante, a questo proposito, riportare un arresto della Suprema Corte,
in tema di contemporanea pendenza di giudizio di impugnazione del diniego della
Commissione territoriale, dinanzi al Tribunale e di giudizio di impugnazione del
decreto di espulsione, dinanzi al GDP.
La Corte di legittimità ha affermato che poiché il provvedimento amministrativo di
espulsione dello straniero extracomunitario è obbligatorio e a carattere vincolato, il
giudice ordinario è tenuto unicamente a controllare l'esistenza, al momento
dell'espulsione, dei requisiti di legge che ne impongono l'emanazione, senza che sia
possibile configurare un obbligo di sospensione necessaria del relativo procedimento,
qualora ne sia pendente un altro nel quale si controverta dell'esistenza dei presupposti
idonei a legittimare l'adozione del relativo decreto. (Nella specie, la S.C. ha
confermato il provvedimento del GDP che, in pendenza di altro ricorso volto ad
ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato politico, in favore di straniero al
quale era stato revocato il permesso di soggiorno, aveva negato che da tale pendenza
dovesse derivare l'obbligo di sospensione del procedimento di espulsione)
(Cassazione civile , sez. I, 25 ottobre 2007, n. 22367).
Più di recente, la Cassazione ha ribadito che, in tema di espulsione dell'immigrato
clandestino, la pendenza di altro ricorso volto ad ottenere il riconoscimento dello
status di rifugiato politico in favore dello straniero non comporta la sospensione del
procedimento di espulsione (Cassazione civile , sez. I, 14 maggio 2009, n. 11264).
Interessante la sentenza del 4/2/10 della I Sezione civile della Cassazione, con cui è
stato accolto il ricorso avverso il decreto del GDP di Caserta che aveva convalidato il
decreto di espulsione senza valutare la sussistenza delle condizioni previste dall’art.
19 D.L. vo n. 286/98 che dispone che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il
respingimento verso uno Stato in cui lo straniero posa essere oggetto di persecuzione
per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato
verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione “. (Nella fattispecie,
il GDP aveva motivato il rigetto, riportandosi al provvedimento di diniego del
riconoscimento dello status di rifugiato, adottato dalla Commissione territoriale).
Uno degli aspetti critici è quello relativo all’audizione del richiedente che appare
rilevante, date le difficoltà di prova, connaturate alla materia, e al rilievo
costituzionale dei diritti da tutelare.
E’ ovvio che il primo problema è quello della necessità di esaminare il richiedente
con l’ausilio di un interprete che non è sempre facile reperire.
Al Tribunale di Roma, hanno previsto in calendario una udienza ad hoc in cui
convocare più interpreti.
Anche l’alternativa di ammettere l’interprete presentato dal richiedente, mi sembra
praticabile alla luce dell’informalità che caratterizza il rito camerale.
Peraltro, è da ricordare la sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2007, n. 254
che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 102 del TU sulle spese di
giustizia nella parte in cui non prevedeva la possibilità, per lo straniero ammesso al
patrocinio a spese dello Stato che non conosce la lingua italiana, di nominare un
proprio interprete.
Nei Tribunali gravati da un numero rilevante di reclami, come quello da cui
provengo, solo raramente si procede all’audizione del richiedente, utilizzando le
dichiarazioni già rese dinanzi alla Commissione, anche se, con prassi difforme da
quanto previsto dall’art. 12 D.L. vo n. 25/08 che prevede espressamente che, solo su
richiesta motivata dell'interessato, il colloquio possa svolgersi alla presenza di uno
solo dei propri componenti, di solito, viene delegato ad uno solo dei componenti la
Commissione.
Possono applicarsi anche alla fase del giudizio i limiti imposti dall’art 12 citato,
secondo cui la Commissione territoriale può omettere l'audizione del richiedente
quando ritiene di avere sufficienti motivi per accogliere la domanda di
riconoscimento dello status di rifugiato in relazione agli elementi forniti dal
richiedente ed in tutti i casi in cui risulti certificata dalla struttura sanitaria pubblica o
da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale l'incapacità o
l'impossibilita' di sostenere un colloquio personale, così pure può essere esclusa la
necessità dell’audizione nei casi previsti dagli artt. 29, 30, 32 del D.lgs. 25/08.
La più rilevante fra le questioni processuali è quella relativa ai poteri istruttori del
giudice.
La Cassazione a S.U., con sentenza 27310/08, ha affermato che, nel giudizio per il
riconoscimento dello status di rifugiato, le norme interne in materia di onere della
prova debbano essere interpretate alla luce delle direttive comunitarie, oggi recepite
nel nostro ordinamento con i D.L. vo n. 251/07 e 25/08, chiaramente ispirate al
superamento del comune principio dell'onere della prova.
Con tale pronuncia è stata cassata con rinvio la sentenza del giudice del merito che, in
applicazione rigorosa dell'art. 2697 c.c., omettendo ogni indagine ufficiosa e
dichiarando inammissibile, per difetto di articolazione in capitoli, la prova
testimoniale, dedotta dall'interessato, aveva violato il dovere di cooperazione
nell'accertamento dei fatti rilevanti, ai fini del riconoscimento dello status richiesto.
Secondo la citata sentenza, l'autorità amministrativa esaminante ed il giudice devono
svolgere un ruolo attivo nell'istruzione della domanda, disancorato dal principio
dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti
processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire
tutta la documentazione necessaria. Seguendo il percorso ermeneutico, indicato nella
direttiva, anche nell'interpretazione dell'art. 1, comma 5 l. n. 30 del 1990, applicabile
al caso di specie, ai sensi del quale lo straniero deve rivolgere istanza motivata e "per
quanto possibile" documentata, deve ravvisarsi un dovere di cooperazione del giudice
nell'accertamento dei fatti rilevanti, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato
e una maggiore ampiezza dei suoi poteri istruttori officiosi, peraltro derivanti anche
dall'adozione del rito camerale.
Più di recente, la Cassazione ha ribadito che, nella cognizione del ricorso avverso il
diniego della protezione internazionale proposto da straniero che assumeva di essere
sottoposto a persecuzioni politiche nel proprio paese, il giudice deve avvalersi dei
suoi poteri di indagine al fine di acquisire anche officiosamente le necessarie
informazioni (Cassazione civile, sez. VI, 27/07/2010, n. 17576).
Ancora, in tema di accertamento del diritto ad ottenere una misura di protezione
internazionale, l'esistenza a carico del richiedente di una misura cautelare
giurisdizionale restrittiva della libertà personale emessa dal paese di provenienza per
propaganda a favore di un'organizzazione terroristica, non è sufficiente ad escludere
l'esistenza del fumus persecutionis, dovendo il giudice, avvalendosi dei poteri
officiosi d'indagine ed informazione indicati nell'art. 8 d.lg. n. 25 del 2008, non
limitarsi ad un accertamento prevalentemente fondato sulla credibilità soggettiva del
ricorrente ma verificare la situazione del paese ove dovrebbe essere disposto il rientro
al fine di riscontrare, alla luce del fatto addebitato e non del mero "nomen iuris" della
contestazione, la sua riconducibilità alla legittima espressione del dissenso o ad
incitamento vietato alla lotta armata (Cassazione civile, sez. VI, 27/07/2010, n.
17576).
Nella prassi, la prova, che di solito viene offerta, consiste in scritture private,
provenienti dalla parte, spesso in lingua straniera, non accompagnate da traduzione
giurata, di dichiarazioni di terzi riportate per iscritto, di copie non autentiche di
documentazione, il cui originale sarebbe esistente all’estero, di articoli di stampa, di
report di notizie provenienti da ONG di carattere internazionale.
La Cassazione, osservando estremo rigore nell’applicazione delle norme processuali,
(26278/05) ha affermato che non possono essere considerati prove gli atti provenienti
dalla stessa parte e, riconoscendo le oggettive difficoltà in cui si trovi chi debba
fuggire dal proprio Paese perché perseguitato, ha richiesto, quanto meno, che fosse
riscontrata l’attendibilità del richiedente.
A tale fine deve attribuirsi rilievo, ad esempio, alla tempestività della proposizione
della domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato politico rispetto all’ingresso
nel territorio dello Stato italiano.
Il Tribunale di Milano (sez. I, 28 ottobre 2009, n. 1261) ha riconosciuto lo stato di
rifugiato ad un cittadino Nigeriano, in quanto, dalle allegazioni probatorie e dalle
vicende raccontate, emergeva che, facendo ritorno in Nigeria, avrebbe corso pericolo
per la sua incolumità in quanto musulmano convertito e pastore pentecostale, ma le
condizioni prospettate non sono sempre così evidenti.
Meno rigorosa la prova per ciò che riguarda la protezione sussidiaria: gli artt. 1, 2 e
14 D.L.vo 251/07 richiedono, infatti, sia dimostrata la sussistenza di un rischio
effettivo per il richiedente di subire un grave danno, come definito dall’art. 14,
laddove lo stesso dovesse rientrare nel proprio Paese e non possa o, a causa di tale
rischio, non voglia, avvalersi della protezione di detto Paese.
L’art. 14 D.L. vo n. 251/07 prevede che sia considerato in pericolo di danno grave e,
quindi, in condizioni di ottenere il riconoscimento alla protezione sussidiaria, lo
straniero che dimostri la sussistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o
alla persona, derivante dalla violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato
interno o internazionale, è pertanto necessario verificare, di volta in volta, quali siano
le condizioni attuali del Paese d’origine del richiedente.
L'art. 8 co. 3 del D.L. vo n. 25/08 prevede che la Commissione nazionale per i
richiedenti asilo elabori i dati forniti dall’ACNUR e dal Ministero degli Affari Esteri
e li metta a disposizione delle Commissioni territoriali e dell’autorità giudiziaria.
In realtà, le richieste non vengono evase tempestivamente e, comunque, il massimo
ottenibile è l’invio di un dossier che, necessariamente, non è aggiornato, per cui
rimane indispensabile la consultazione del sito dell’ACNUR, in lingua inglese,
l’unico a contenere dati sui Paesi da cui provengono i richiedenti o dalle principali
associazioni e ONG, i cui dati sono consultabili via internet.
Sono stati considerati rilevanti, al fine di integrare una minaccia grave come richiesta
dalla norma in parola, fattori quali la legislazione discriminatoria, l’inesistenza di un
sistema giudiziario affidabile…
In proposito, la Cassazione, con sentenza 16417/07, in un caso di discriminazione per
ragioni sessuali, ha affermato che occorre accertare se lo Stato di origine dello
straniero (Senegal) preveda come reato il fatto in sé dell'omosessualità, ovvero
punisca solo l'ostentazione delle inclinazioni e delle pratiche omosessuali,
ostentazioni e pratiche non conformi al sentimento pubblico senegalese: nel primo
caso lo straniero espulso sarebbe oggetto di veri e propri fatti persecutori, contrari ai
principi generali di libertà (anche sessuale) e di dignità di ogni persona, mentre nel
secondo caso, l'illiceità dell'ostentazione delle inclinazioni e delle pratiche
omosessuali sarebbe conforme al principio di sovranità di ogni Stato ed al principio
di ragionevolezza.
In Corte d’Appello a Catania, abbiamo ritenuto non rilevante la circostanza che, nel
Paese d’origine, fosse diffusa la pratica della infibulazione, sia perché le richiedenti
hanno superato la soglia d’età in cui tale intervento viene effettuato, sia perché
riguarda solo alcune zone di uno stesso paese, per cui non sarebbe necessario
espatriare per sottrarsi a tale crudeltà.
Rimane estremamente critica la valutazione delle ipotesi nelle quali la Commissione
territoriale ritenga che possano sussistere gravi e seri motivi di carattere umanitario
legittimanti la domanda al questore per l'eventuale rilascio del permesso di soggiorno
ai sensi dell'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
E’ difficile distinguere questi casi dalle situazioni che legittimano il riconoscimento
della protezione internazionale: quando la situazione prospettata riguarda atti di
persecuzione legati a vicende tribali, alle obiettive difficoltà di accertamento si
aggiunge la pratica impossibilità di valutare la gravità dei motivi addotti e la
possibilità che il richiedente possa, comunque, trovare una via di fuga rimanendo
all’interno del Paese di provenienza.
Particolare attenzione e tutela potrà riconoscersi alle situazioni in cui sia prospettata
la violazione di diritti costituzionalmente protetti e, quindi, tutte le condizioni di
violenza o discriminazione di genere o in danno di minori, di soggetti affetti da
patologie non curate nel Paese d’origine.
Mi sembra interessante affrontare alcune tematiche relative all’ammissione dei
richiedenti al patrocinio a spese dello Stato.
L’art. 119 D.P.R. 115/02 prevede che il trattamento previsto per il cittadino italiano
sia assicurato allo straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale al
momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo da instaurare e
all'apolide.
Il Tribunale di Roma, in passato, prima dell’espressa previsione in materia, rigettava
le istanze di liquidazione relative alle domande rigettate, revocando l’ammissione al
beneficio, sul presupposto che il richiedente non fosse “regolarmente soggiornante”
in Italia.
L’orientamento non i sembra condivisibile, in quanto lo straniero è regolarmente
soggiornante in Italia finchè non sia esaurita la procedura per l’accertamento del
diritto richiesto, tanto che gode dei permessi di soggiorno rilasciati al fine di
consentirgli l’esercizio di tale diritto.
Un’altra questione processuale è quella che si pone in caso di inattività processuale
delle parti: trattandosi di rito camerale, non è applicabile l’art. 309 c.p.c.,
incompatibile con la speditezza e la semplicità di forme, tipiche di tale rito, così pure
non è possibile dichiarare improcedibile il reclamo.
Di recente, la Cassazione ha affermato che le norme generali dei procedimenti
camerali comportano che il giudice adito sia tenuto a decidere, indipendentemente
dalla mancata comparizione di una delle parti. La disciplina generale del codice di
procedura civile in tema di mancata comparizione e di inattività delle parti, dettata
per il processo ordinario di cognizione, non è richiamata per i procedimenti camerali,
e, quindi, deve escludersi che il giudice del reclamo possa attribuire alla mancata
comparizione della parte reclamante la valenza di rinuncia tacita all'impugnativa e
riconnettervi la sanzione processuale dell'improcedibilità (in tema, cfr. Cass.
27080/2005; 9930/2005; 284/2009).
In ossequio a tale disciplina, pertanto, il giudice dovrebbe, comunque, decidere nel
merito del reclamo.
Nella materia che ci occupa, in particolare, l’art. 35 D. L. vo n. 25/08 prevede che,
entro cinque giorni dal deposito del ricorso, il tribunale, con decreto apposto in calce
allo stesso, fissa l’udienza in camera di consiglio. Il ricorso e il decreto di fissazione
dell’udienza sono notificati all’interessato e al Ministero dell’interno, presso la
Commissione nazionale ovvero presso la competente Commissione territoriale, e
sono comunicati al pubblico ministero.
Non solo, ma la stessa norma prevede che il tribunale, sentite le parti e assunti tutti i
mezzi di prova necessari, decida entro tre mesi dalla presentazione del ricorso
Tutti conosciamo quali siano le condizioni della cancellerie e, pertanto, accade
facilmente che non si riesca a comunicare tempestivamente la data della prima
udienza di comparizione.
La Cassazione, in tema di reclamo avverso il provvedimento del tribunale sul ricorso
dello straniero contro il diniego della p.a. al nulla osta al ricongiungimento familiare
– disciplinato dall'art. 30, comma 6, D. L. vo n. 286/98 dagli art. 737 ss. c.p.c. – ha
ritenuto che, se l'interessato non compare all'udienza di trattazione senza addurre
nessuna causa di forza maggiore, perché l'impossibilità di attivazione del
contraddittorio, determina l'applicazione estensiva dell'art. 348, comma 1, c.p.c. norma compatibile con il rito camerale - e non la cancellazione della causa dal ruolo e
neanche il rinvio ad un'udienza successiva, perché tale rito, regolato dal giudice con
discrezionalità al fine di realizzare i principi di rapidità, informalità e concentrazione
- maggiormente incisivi in un procedimento stabilito per il controllo giurisdizionale
della legittimità dei provvedimenti dell'autorità amministrativa in materia di
immigrazione - è incompatibile con meccanismi di stasi del medesimo (Cassazione
civile , sez. I, 02 aprile 2004, n. 6492). Deve affermarsi, però, che, in tale pronuncia,
la Suprema Corte ha motivato l’improcedibilità del reclamo sulla base della mancata
presentazione del ricorrente in un’ipotesi in cui l’audizione del reclamante è prevista
per legge ed è stata considerata dalla Cassazione come condizione per la valida
instaurazione del contraddittorio.
Di recente, la Cassazione si è espressamente pronunciata affermando che, in tema di
protezione internazionale dello straniero, in caso di difetto di comparizione della
parte interessata all'udienza di trattazione, il giudice del reclamo (nella specie, in
grado di appello avverso il decreto del tribunale che aveva rigettato il ricorso contro il
diniego di protezione internazionale adottato dalla competente commissione
territoriale), verificata la regolarità della notificazione del ricorso e del decreto, deve
decidere nel merito il reclamo, restando esclusa la possibilità di una decisione di
rinvio della trattazione o di improcedibilità per disinteresse alla definizione o (come
nella specie) di non luogo a provvedere (Cassazione civile, sez. I, 03/08/2010, n.
18043).
Altro problema è quello relativo alla decorrenza del termine dell’impugnazione
dinanzi alla Corte d’appello, l’art. 35 D.L. vo n. 25/08 prevede che la sentenza sia
notificata al ricorrente e al Ministero dell’interno, presso la Commissione nazionale
ovvero presso la competente Commissione territoriale, e sia comunicata al pubblico
ministero e che il ricorso d’impugnazione debba essere depositato presso la
cancelleria della corte d’appello, a pena di decadenza, entro dieci giorni dalla
notificazione o comunicazione della sentenza.
Quando, come nella maggior parte dei casi avviene, la comunicazione della sentenza
sia fatta per estratto o venga comunicato solo il dispositivo, può ritenersi compiuta
l’attività che dà luogo alla decorrenza del termine di decadenza?
Trattandosi di un termine particolarmente breve, data l’equiparazione che la norma fa
della notificazione (a cura di parte) con la comunicazione (a cura della cancelleria),
non sembra possa ritenersi equipollente anche la comunicazione non integrale della
sentenza.
Mi sembra interessante riportare anche la recente sentenza della Cassazione
(Cassazione civile, sez. VI, 27/07/2010, n. 17576), già oggetto di conferme, in tema
di procedura da applicare al ricorso per Cassazione.
La suprema Corte ha affermato che, nel giudizio di cassazione relativo ad una
domanda di protezione internazionale il richiamo operato dall'art. 35 d.lg. n. 25 del
2008 (modificato dall'art. 1 lettera M del d.lg. n. 159 del 2008 e dall'art. 1, comma 13,
lettera C della l. n. 94 del 2009) al rito camerale, prescelto per l'esigenza di celerità
del procedimento comporta le seguenti regole:
a) al ricorso si applicano gli art. 360, 360 bis, 365, 366 c.p.c.;
b) il procedimento si introduce con deposito del ricorso presso la cancelleria della
Cassazione; nel termine perentorio di trenta giorni dalla notifica, a cura della
cancelleria della Corte d'appello, della sentenza che ha deciso sul reclamo ai
sensi dell'art. 35, commi 11, 12 e 13;
c) l'instaurazione del contraddittorio avviene, in forma esclusivamente officiosa,
mediante fissazione dell'udienza camerale con decreto presidenziale, notificata,
a cura della cancelleria della Corte alle parti (il Ministero dell'Interno presso la
Commissione competente; il P.G. presso la Corte d'appello; il P.G. presso la
Cassazione);
d) il rito camerale richiamato dall'art. 35, comma 14 d.lg. n. 25 del 2008 è
incompatibile con la procedura prevista dall'art. 380 bis c.p.c.;
e) il procedimento è incompatibile con la proposizione di un'impugnazione
incidentale, attesa l'inesistenza di un impulso di parte a fini acceleratori;
f) è necessario proporre autonomo ricorso nel termine di trenta giorni dalla
notifica della sentenza, da riunirsi ex art. 335 c.p.c. a quello principale;
g) le parti possono svolgere le proprie difese mediante deposito di controricorso
nel termine di venti giorni dalla notificazione a cura della cancelleria della
Corte del decreto di fissazione d'udienza;
h) il controricorso non deve essere notificato alle altre parti né dal
controricorrente né a cura della cancelleria; i) le parti costituite possono
depositare memorie ex art. 378 c.p.c..
ASILO POLITICO
Uno dei problemi interpretativi principali, che la Cassazione ha affrontato, è quello
del rapporto esistente fra l’accoglimento della domanda di asilo politico e il
riconoscimento dello stato di rifugiato.
Con la sentenza del 17/12/99 n. 907, citata, di solito, dalla difesa dei richiedenti, la
Corte aveva ritenuto immediatamente efficace l’art. 10 Cost, distinguendo gli ambiti
di applicazione della normativa sull’asilo politico, da quella relativa ai rifugiati,
affermando che la seconda categoria comprenderebbe un numero di soggetti
inferiore, essendo richiesta la dimostrazione della sottoposizione a persecuzione, non
prevista dalla norma costituzionale.
Successivamente, pur mantenendo concettualmente distinti i due istituti, la
Cassazione ha ritenuto che, in assenza di una legge organica sull'asilo politico che, in
attuazione del dettato costituzionale, ne fissi le condizioni, i termini, i modi e gli
organi competenti in materia di richiesta e di concessione, il diritto di asilo deve
intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la
procedura per ottenere lo status di rifugiato politico, e non ha un contenuto più ampio
del diritto di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo, ex art. 1 comma 5 D. L.
n. 416/89, conv., con modificazioni, nella l. 28 febbraio 1990 n. 39, rendendo così
presupposto indispensabile per la richiesta d’asilo, l’espletamento dell'apposita
procedura amministrativa, giacché la cognizione del giudice interviene solo a
conclusione dell'espletamento dell'iter amministrativo che il richiedente deve
necessariamente percorrere, e dunque solo in sede di opposizione avverso l'eventuale
provvedimento di rigetto (Cassazione civile , sez. I, 01 settembre 2006, n. 18940; 25
agosto 2006, n. 18549; 25 agosto 2006, n. 18549; sez. I, 25 novembre 2005, n.
25028).
Le varie leggi, succedutesi nel tempo, hanno compiutamente regolato soltanto la
categoria del rifugiato politico (di cui alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951)
e configurato la domanda di asilo come esclusivamente finalizzata al riconoscimento
di detta qualifica. Il diritto d’asilo, dunque, nella attuale configurazione normativa, è
un diritto riconosciuto solo a coloro che rientrano nella nozione di rifugiato politico
e, di conseguenza, risolutivamente condizionato al mancato accoglimento della
domanda di riconoscimento dello "status" di rifugiato politico.
La Cassazione ha fondato tali decisioni riportandosi al dato testuale della normativa,
in materia di rifugiati, che ha ritenuto equipollenti le due figure, tanto da prevedere,
ad esempio, che, delle Commissioni territoriali per il riconoscimento dello stato di
rifugiato, faccia parte un componente della Commissione Nazionale per il
riconoscimento del diritto d’asilo.
PERMESSO DI SOGGIORNO PER RAGIONI UMANITARIE
Fattispecie ancora diversa è quella relativa al rilascio di permesso di soggiorno per
ragioni umanitarie, previsto dal sesto co. dell’art. 5 D. L. vo n. 286/98.
Si tratta di un provvedimento del Questore, emesso all'esito della decisione negativa
della Commissione Centrale sul riconoscimento dello status di rifugiato.
L’ordinanza della Cassazione a Sezioni Unite n. 11535 del 19 maggio 2009 ha
cambiato il precedente orientamento, espresso sempre a sezioni unite.
Invero, con sentenza n. 7933/08, la Corte di legittimità aveva ritenuto che, in
applicazione del richiamato D. L. vo n. 286 del 1998, art. 6, comma 10, spettasse al
giudice amministrativo la giurisdizione sul diniego da parte del Questore di rilascio
del permesso di soggiorno, disciplinato dall'art. 5 (a differenza di quello per motivi
familiari contemplato dall'art. 30, che deve essere rilasciato in presenza delle
specifiche situazioni ivi tassativamente previste), mentre il giudice ordinario è
chiamato a verificare la legittimità dell'atto espulsivo, secondo il disposto dell'art. 13
dello stesso D.L. vo ( v. tra le altre, più di recente, Cass. 2007 n. 22367; 2007 n.
19447; Cass. S.U. 2006 n. 22217; Cass. 2006 n. 15752).
La Cassazione aveva ritenuto che la decisione del Questore comportasse la preventiva
valutazione politico- amministrativa della sussistenza delle ragioni di protezione, in
stretta relazione con il tasso di discrezionalità politico- amministrativa che segna
l'accertamento delle condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi
umanitari e sulla base della valutazione della situazione politica esistente nel paese di
origine.
Con ordinanza n. 11535/09, la Corte ha ritenuto che, con l’entrata in vigore del DPR
303/04, alle Commissioni territoriali è stato assegnato il compito di valutare “per i
provvedimenti di cui all’art. 5 comma 6 del citato Testo Unico (…) le conseguenze di
un rimpatrio alla luce degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali di cui
l’Italia è firmataria.”
La Cassazione ha ritenuto che l’art. 32 D.L. vo n.25/08 abbia diversamente
regolamentato i rapporti fra Commissione territoriale e Questore, attribuendo alla
prima tutte le competenze valutative della posizione del richiedente asilo, da quella
diretta all’ottenimento della protezione maggiore a quella generante una protezione
sussidiaria, sino a quella residuale e temporanea, di cui all’art. 5 D.L. vo n. 286/98,
con un’organica previsione che fa venir meno ogni margine di apprezzamento
politico delle condizioni del paese di provenienza e lascia residuare al Questore solo
un compito attuativo dei deliberati assunti dalla Commissione.
La valutazione del Questore rimane limitata alla verifica della sussistenza degli
ulteriori requisiti di legge (così interpretando la dizione “eventuale” di cui al più volte
richiamato art. 5) previsti dalla lett. d) del comma 1 dell’art. 28 DPR 394/99 che
consente al Questore di non rilasciare il permesso per ragioni umanitarie, laddove si
possa disporre l'allontanamento dello straniero verso uno Stato che provvede ad
accordare una protezione analoga contro le persecuzioni di cui all'art. 19, comma 1,
del testo unico.
Alla diversa ricostruzione delle competenze del Questore consegue l’attribuzione al
giudice ordinario del sindacato sulla spettanza di detta protezione.
Con la stessa ordinanza, la Cassazione ha affermato che
i motivi di carattere
umanitario che limitano il potere di rifiutare o revocare il permesso di soggiorno allo
straniero privo dei requisiti previsti da convenzioni internazionali per il
riconoscimento dello status di rifugiato, debbono essere identificati facendo
riferimento alle fattispecie previste dalle convenzioni internazionali, universali o
regionali, che autorizzano o impongono allo Stato italiano di adottare misure di
protezione a garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e
garanzia anche nella Costituzione (Cassazione civile , sez. un., 09 settembre 2009, n.
19393).
CONCLUSIONE
Come è facile notare, si tratta di una materia in cui lo spazio per l’interprete è vasto,
ciò, da un parte è di stimolo all’attività del giudice, ma dall’altro dà adito a possibili
soluzioni diverse, dettate anche dall’orientamento dello stesso interprete.
E’ per questo che, a conclusione del mio intervento, vorrei richiamare le parole del
Presidente della Repubblica che, in occasione della giornata del rifugiato del 2009, ha
richiamato le istituzioni ad una politica improntata a giustizia e solidarietà e, infine,
vorrei leggervi le parole della Costituzione, un tempo in vigore in Francia, oggi nota
per ben altre pratiche nei confronti degli stranieri.
” Ogni straniero d’età superiore a 21 anni che, domiciliato in Francia da un anno, viva
del suo lavoro, o acquisti una proprietà o sposi una cittadina francese o adotti un
bambino o mantenga un vecchio, è ammesso all’esercizio dei diritti di cittadino”
E’ l’art. 4 della Costituzione francese del 1793, nata da quella rivoluzione che è stata
la madre del pensiero liberale, chiediamoci se ancora oggi la civiltà occidentale sia
basata su questi principi o se le ragioni fondanti siano oggi dettate dalla salvaguardia
di ben altri interessi.
Marisa Acagnino
Presidente sezione tribunale Catania