38° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC Montecatini, 18-21

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38° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC Montecatini, 18-21
38°
CONGRESSO NAZIONALE SCIVAC
M O N T E C AT I N I
PA L A Z Z O D E I C O N G R E S S I
18. 19. 20. 21. MARZO 1999
FEDERATION OF EUROPEAN COMPANION
ANIMAL VETERINARY ASSOCIATIONS
THE
Caro Collega,
inaugurando l’attività congressuale il primo incontro nazionale dell’anno ha sempre
avuto una grande importanza per SCIVAC.
Quest’anno si aggiungono altre particolarità all’evento.
Anzitutto la durata del Congresso che passa definitivamente a quattro giornate
piene, dal Giovedì alla Domenica, rendendo questo incontro un evento di portata
internazionale, da annoverare tra i principali congressi europei.
Inoltre per la prima volta un nostro congresso è strutturato secondo la formula multisala, con più
sessioni in contemporanea. Per i colleghi che hanno partecipato a congressi al di fuori dei confini nazionali o che erano presenti al congresso FECAVA di Bologna la novità è relativa, ma per molti la divisione in più sessioni risulterà nuova e ancora più interessante, pur creando un po’ di disorientamento iniziale. L’importante è cogliere al meglio i vantaggi insiti in questa formula. Ogni partecipante
potrà costruire un proprio percorso congressuale, secondo le sue personali necessità d’aggiornamento, senza dover dipendere da un rigido programma monotematico, scegliendo ciò che più lo interessa
in un menù di relazioni molto vario.
Per finire le attività delle Società Specialistiche e dei Gruppi di Studio, organizzate da questo congresso come Seminari di una giornata distribuiti su tutte le quattro giornate del programma, permettendo agli interessati di cogliere l’occasione per seguire, nello stesso contesto, la Società o il Gruppo
di Studio di interesse.
Complessivamente gli argomenti proposti saranno: chirurgia cardio-toracica, chirurgia oro-facciale,
chirurgia plastica e ricostruttiva, farmacoterapia clinica, medicina felina, medicina d’urgenza, neurologia, ortopedia, patologie respiratorie, practice management, comunicazioni libere. Le sale allestite
sono tre all’interno del Palazzo dei Congressi di Montecatini e una, con capacità fino a 1300 posti,
nell’adiacente Teatro Verdi.
Ma le finalità di questo meeting vanno oltre l’aspetto scientifico. Sarà un’opportunità per visitare una
vasta area espositiva a cui partecipano tutte le principali aziende del settore con le ultime novità; ma ,
soprattutto, sarà un’occasione unica per incontrare colleghi e scambiare con loro idee ed informazioni.
Infine ti voglio ricordare che in questo congresso si terrà, rispettando una tradizione ormai consolidata, la nostra assemblea annuale, alla quale ti invito caldamente a partecipare.
Sono certo che il programma dettagliato ti fornirà molti altri validi motivi, oltre quelli elencati, per
non mancare a questo importante appuntamento.
Augurandomi, quindi, di incontrarti a Montecatini Terme ti porgo i miei più cordiali saluti.
Dr. Pier Mario Piga
Presidente SCIVAC
scivac
Presidente
PIERMARIO PIGA
-
SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI
Presidente Senior
CARLO SCOTTI
Vice Presidente
ERMENEGILDO BARONI
Segretario
UGO LOTTI
PER
Tesoriere
MATTEO SPALLAROSSA
ANIMALI
DA
Consigliere
MASSIMO BARONI
COMPAGNIA
Consigliere
MICHELA ROMANELLI
Uffici: Palazzo Trecchi - 26100 Cremona - Tel. O (0372) 460440 - Telefax (0372) 457091 - E MAIL: [email protected] - Partita I.V.A. 00861330199
RELATORI
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GILDO BARONI
HARRY BOOTHE
MedVet
Libero Professionista
Rovigo
DVM, MS, Dipl ACVS
Texas A&M University
Dept of Physiology and
Pharmacology
College Station, Texas
USA
STEFANO BO
RANDY BOUDRIEAU
MedVet
Libero Professionista
Torino
DVM, Dipl ACVS
Tufts University
North Grafton
Massachusetts - USA
DEA BONELLO
FRANCO BRUSA
MedVet, Dipl EVDC
Libero Professionista
Torino
MedVet
Libero Professionista
Imola (BO)
UGO BONFANTI
CLAUDIO BUSSADORI
MedVet
Libero Professionista
Milano
MedVet, Dipl ECVIM
Libero Professionista
Milano
DAWN BOOTHE
MARCO CALDIN
DVM, MS, PhD,
Dipl ACVIM,
Dipl ACVCP
Texas A&M University
Dept of Physiology and
Pharmacology
College Station, Texas
USA
MedVet
Libero Professionista
Padova
5
RELATORI AL C
FRANCESCA COZZI
TOMMASO FURLANELLO
MedVet, Dipl ECVN
Libero Professionista
Como
MedVet
Libero Professionista
Padova
DAVID CROSSLEY
OSCAR GRAZIOLI
BVetMed, Dipl EVDC,
FAVD
DaCross Services
Middleton
REGNO UNITO
MedVet
Libero Professionista
Reggio Emilia
DAVIDE DE LORENZI
MARK HAFEN
MedVet
Libero Professionista
Forlì
Am Inst Arch, Nat Coun
Arch Reg Boards
Gates Hafen Cochrane Architects
Boulder, Colorado, USA
JOHN K. DUNN
STEVE HASKINS
DVM, MA, MVetSc,
BVM&S, Dipl ECVIM,
DSAM
University of Cambridge
Dept of Clinical Veterinary Medicine
Cambridge - REGNO UNITO
DVM, Dipl ACVA,
Dipl ACVECC
University of California
Davis, California
USA
DAVID FOWLER
DONATELLA LOTTI
DVM, MVSc, Dipl ACVS
University of Saskatchewan
Department of Veterinary
Anesthesiology, Radiology and Surgery
Western College of Veterinary
Medicine, Saskatoon - CANADA
MedVet
Libero Professionista
Torino
6
ONGRESSO
HANS LUTZ
PAOLO SQUARZONI
Prof DrVet
Departement fur Innere
Veterinarmedizin
Universitat Zurich
SVIZZERA
MedVet
Libero Professionista
Molinella (BO)
MASSIMO OLIVIERI
ALDO VEZZONI
MedVet
Libero Professionista
Malpensa (VA)
MedVet, Dipl ECVS
Libero Professionista
Cremona
ALESSANDRO PIRAS
FABIO VIGANÒ
MedVet, MRCVS
Libero Professionista
Newry
IRLANDA DEL NORD
MedVet
Libero Professionsta
Milano
ROBERTO SANTILLI
CHARLES J. WAYNER
MedVet
Libero Professionista
Milano
DVM
Director, Global Veterinary
Practice Health
Hill’s Pet Nutrition, Inc.,
Topeka, USA
NICK SHARP
DVM, Dipl ACVS,
Dipl ACVIM
(Neurology)
College of Veterinary Medicine
North Carolina State University
Raleigh, USA
7
PROGRAMMA S
Giovedì Mattina 18 Marzo 1999
SALA D’INGRESSO
REGISTRAZIONE
8.00
TEATRO VERDI 1300
MEDICINA FELINA
Gruppo di Studio
Chairperson:
Tommaso Furlanello
11.00
SALA VENERE 150
SALA MARTE 40
..
Gruppi di Studio
Chairperson: Gildo Baroni
9.30 Diagnostica ecografica
10.30
AUDITORIUM 700
ORTOPEDIA E
ODONTOSTOMATOLOGIA
e metodiche applicate in
oncologia felina
Trattamento delle
fratture mandibolari e
mascellari complesse
Claudio Bussadori (I)
e Ugo Bonfanti (I)
Randy Boudrieau (USA)
PA U S A C A F F È E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
MEDICINA FELINA
ORTOPEDIA
Gruppo di Studio
Chairperson: Cristina Picco
Gruppo di Studio
Chairperson: Gildo Baroni
Patologie respiratorie nel gatto (40’)
Manifestazioni cliniche, tecniche
diagnostiche e reperti citologici
RELAZIONE SULLO
STATO DELL’ARTE
Nuovi materiali e nuove
tecniche in ortopedia
ODONTOSTOMATOLOGIA
..
Gruppo di Studio
Chairperson: Paolo Squarzoni
Metodiche diagnostiche
per un corretto planning
pre-operatorio del
distretto oro-facciale
Stefano Bo (I)
e Davide De Lorenzi (I)
Dea Bonello (I)
e David Crossley (UK)
11.40 RELAZIONE SULLO
STATO DELL’ARTE
Animal Health
12.00
Hill’s*
Aggiornamenti sulla
peritonite infettive felina (40’)
Hans Lutz (CH)
Chirurgia oro-facciale
dei tessuti molli
Aspetti anatomici rilevanti,
principi e metodiche
chirurgiche
12.20 Quadro clinico,
diagnostica differenziale
e diagnosi delle
gangliosidosi del gatto
(40’)
Donatella Lotti (I)
13.00
Randy Boudrieau (USA)
David Crossley (UK)
PA U S A P R A N Z O E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
Livello Aggiornamento
Livello Avanzato
Relazione sullo Stato dell’Arte
8
Sessione Specialistica
Sessione Interattiva
SCIENTIFICO
Giovedì Pomeriggio 18 Marzo 1999
TEATRO VERDI 1300
AUDITORIUM 700
MEDICINA FELINA
ORTOPEDIA
Gruppo di Studio
Chairperson: Federica Maggio
Gruppo di Studio
Chairperson: Piermario Piga
14.00 Ipertiroidismo felino
Aspetti clinico-diagnostici
e terapeutici
Steve Haskins (USA)
Indagini sulle zoppie di spalla
non diagnosticate (30’)
Massimo Olivieri (I)
RELAZIONE SULLO
STATO DELL’ARTE
Chirurgia oro-facciale
dei tessuti duri e
chirurgia dentale (90’)
Processo decisionale per
la scelta del trattamento
più indicato e descrizione
delle tecniche
Correzione delle
deformità dell’arto
posteriore
David Crossley (UK)
Randy Boudrieau (USA)
Trattamento delle avulsioni
dentali nel cane (30’)
Metodiche per il reimpianto
dentale alla portata di tutti
Paolo Squarzoni (I)
Compatibilità e
biocompatibilità dei materiali
di fissazione utilizzati
in ortopedia (30’)
Gildo Baroni (I)
PA U S A C A F F È E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
MEDICINA FELINA
ORTOPEDIA
Gruppo di Studio
Chairperson:
Tommaso Furlanello
Gruppo di Studio
Chairperson: Piermario Piga
17.00 I dosaggi farmacologici
nel gatto e le differenze
tra il gatto e le altre
specie
Come la biodisponibilità
dei farmaci nel gatto
può influenzare i regimi
terapeutici
Dawn Boothe (USA)
18.00
Gruppo di Studio
Chairperson: Dea Bonello
Hill’s*
Approccio diagnostico
e terapeutico al paziente
felino in condizioni di
emergenza
Peculiarità nel gatto,
differenze con il cane
16.00
SALA MARTE 40
ODONTOSTOMATOLOGIA
..
Roberto Santilli (I)
15.00
SALA VENERE 150
Reazioni avverse
da farmaco nel gatto
Dawn Boothe (USA)
Quando i trattamenti della
rottura del legamento crociato
craniale non offrono risultati
soddisfacenti (30’)
Aldo Vezzoni (I)
Trattamento delle lesioni
legamentose delle estremità
distali degli arti (30’)
Alessandro Piras (I)
Gruppo di Studio
Chairperson: Paolo Squarzoni
Stomatite cronica del
gatto: un problema
medico o chirurgico?
Dea Bonello (I)
Hill’s*
Fallimenti tecnici
in ortopedia
I principi fondamentali in
ortopedia dagli errori più
comuni commessi nel
trattamento delle fratture
Endodonzia:
quando, come e perché
è necessaria la terapia
canalare
Randy Boudrieau (USA)
Dea Bonello (I)
INTERRUZIONE
19.00
Livello Aggiornamento
ODONTOSTOMATOLOGIA
..
Livello Avanzato
Relazione sullo Stato dell’Arte
9
Sessione Specialistica
Sessione Interattiva
PROGRAMMA S
Venerdì Mattina 19 Marzo 1999
SALA D’INGRESSO
REGISTRAZIONE
8.30
TEATRO VERDI 1300
AUDITORIUM 700
FARMACOTERAPIA
CLINICA
CHIRURGIA PLASTICA
E RICOSTRUTTIVA
Chairperson: Enrico Febbo
Gruppo di Studio
Chairperson: Giorgio Romanelli
9.30 Farmacologia dell’apparato
gastroenterico
Analisi del trattamento farmacologico
dei segni clinici associati a patologie
gastrointestinali
Linee guida nella valutazione
e nel trattamento delle ferite
da trauma
SALA VENERE 150
ORTODONZIA
Chairperson:
Carlo Scotti
Sessione specialistica
Chairperson: Dea Bonello
Prospettive della
professione veterinaria
Occlusione e
malocclusione (30’)
Paolo Squarzoni (I)
Stato attuale della professione
veterinaria nel mondo
confrontata alla situazione in
Italia: “Una visione unificata in
un mondo di differenze”
Hill’s*
Dawn Boothe (USA)
10.30
CHIRURGIA PLASTICA
E RICOSTRUTTIVA
Chairperson: Donatella Lotti
Gruppo di Studio
Chairperson: Matteo Tommasini
STATO DELL’ARTE
Strategie
farmacologiche
impiegabili nel controllo
dell’epilessia refrattaria
nel cane
Definizione di epilessia
refrattaria e principi per il
raggiungimento di un
protocollo terapeutico
corretto attraverso l’analisi
di casi clinici
Applicazioni
clinico-pratiche dei
trapianti cutanei nei
piccoli animali
Elementi di
biomeccanica (15’)
Paolo Squarzoni (I)
PRACTICE MANAGEMENT
ORTODONZIA
Chairperson:
Carlo Scotti
Sessione specialistica
Chairperson: Dea Bonello
Autostima professionale
Come creare, mantenere
e rinnovare energia ed
entusiasmo nei riguardi di
noi stessi e della nostra
professione
Correzione dei difetti
occlusivi più comuni nei
carnivori (90’)
Chuck Wayner (USA)
David Fowler (CAN)
Lembi regionali
per la redistribuzione
della tensione attorno
alle ferite
Hill’s*
Il legame
Famiglia-Animale da
compagnia-Veterinario
Come migliorare la propria
professionalità ed il proprio
giro d’affari promuovendo
la responsabilità
dei proprietari di animali
da compagnia
12.30
Dawn Boothe (USA)
13.00
Materiali e tecniche
di impronta (15’)
Aldo Vezzoni (I)
PA U S A C A F F È E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
FARMACOTERAPIA
CLINICA
11.00 RELAZIONE SULLO
12.00
Chuck Wayner (USA)
David Fowler (CAN)
SALA MARTE 40
PRACTICE MANAGEMENT
David Fowler (CAN)
Chuck Wayner (USA)
Paolo Squarzoni (I)
e Aldo Vezzoni (I)
Correzione del
prognatismo (30’)
Franco Brusa (I)
PA U S A P R A N Z O E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
Livello Aggiornamento
Livello Avanzato
Relazione sullo Stato dell’Arte
10
Sessione Specialistica
Sessione Interattiva
SCIENTIFICO
Venerdì Pomeriggio 19 Marzo 1999
TEATRO VERDI 1300
14.00
AUDITORIUM 700
FARMACOTERAPIA
CLINICA
CHIRURGIA PLASTICA
E RICOSTRUTTIVA
Chairperson: Aldo Vezzoni
Gruppo di Studio
Chairperson: Paolo Buracco
Fattori da considerare per la
biodisponibilità dei farmaci
Principi di farmacologia clinica
per la determinazione
dei dosaggi terapeutici e fattori
di variabilità individuale
predisponenti alle reazioni
avverse
Lembi cutanei assiali
Caratteristiche
e applicazioni pratiche
Dawn Boothe (USA)
SALA VENERE 150
NEUROCHIRURGIA
Chairperson:
Fabio Sangion
Sessione specialistica
Chairperson: Stefano Pizzirani
Verso un concetto di struttura
veterinaria più “accogliente”
Le strutture veterinarie devono
essere più “accoglienti”
con i clienti, con il personale e,
naturalmente, con i pazienti.
Come la progettazione degli
ambienti può migliorare il lavoro
e la disposizione degli animali
Approccio diagnostico
e trattamento chirurgico
delle patologie
lombosacrali
Dal processo diagnostico
alla scelta del trattamento
più indicato.
La descrizione, le
indicazioni, i vantaggi e gli
svantaggi delle differenti
tecniche chirurgiche
disponibili
Mark Hafen (USA)
David Fowler (CAN)
15.00
“Farmonutrizionali”
(nutraceuticals)
in medicina veterinaria
Aspetti positivi e aspetti
negativi di queste forme
farmaceutiche “emergenti”
David Fowler (CAN)
Dawn Boothe (USA)
16.00
RELAZIONE SULLO
STATO DELL’ARTE
Ricostruzione di ferite
complesse con un unico
intervento
SALA MARTE 40
PRACTICE MANAGEMENT
Hill’s*
Indagine sulle innovazioni
progettuali nel settore
degli ambienti veterinari
Dai principi di estetica dell’area
di attesa e della reception agli
accorgimenti che permettono alla
struttura di adattarsi rapidamente
alle innovazioni tecnologiche e
alle modifiche della pratica clinica
Mark Hafen (USA)
Nick Sharp (USA)
PA U S A C A F F È E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
FARMACOTERAPIA
CLINICA
CHIRURGIA PLASTICA
E RICOSTRUTTIVA
Chairperson: Aldo Vezzoni
Gruppo di Studio
Chairperson: Paolo Buracco
17.00 RELAZIONE SULLO
STATO DELL’ARTE
Che cosa c’è di nuovo
nella terapia
farmacologica per
animali da compagnia
Analisi e impiego
di nuovi farmaci
e nuove applicazioni
di “vecchi” farmaci
Lembi miocutanei
peduncolati
Principi e applicazioni
pratiche
PRACTICE MANAGEMENT
NEUROCHIRURGIA
Chairperson:
Fabio Sangion
Sessione specialistica
Chairperson: Stefano Pizzirani
Aumentare la produttività
attraverso una migliore
progettazione degli ambienti
Come una corretta progettazione
delle aree destinate all’esame
clinico e alle procedure
diagnostiche permette di ridurre il
personale, velocizzare gli interventi
e massimizzare la produttività
Round table on the
surgical management of
lumbosacral disease
From a retrospective study
a discussion on the
different surgical
techniques in a round table
Mark Hafen (USA)
David Fowler (CAN)
18.00
Impiego razionale
di drenaggi e antibiotici
nel trattamento delle
ferite
Dawn Boothe (USA)
David Fowler (CAN)
19.00
Livello Aggiornamento
Hill’s*
Uno sguardo al futuro
della progettazione delle
strutture veterinarie
Come la professione
veterinaria e la
progettazione delle sue
strutture devono rispondere
alle nuove tendenze
tecnologiche e di mercato
Mark Hafen (USA)
Nick Sharp (USA) e altri
INTERRUZIONE
Livello Avanzato
Relazione sullo Stato dell’Arte
11
Sessione Specialistica
Sessione Interattiva
PROGRAMMA S
Sabato Mattina 20 Marzo 1999
TEATRO VERDI 1300
AUDITORIUM 700
CHIRURGIA
CARDIOTORACICA
NEUROLOGIA
SINVet
Chairperson: Carlo Scotti
Chairperson: Francesca Cozzi
8.30 RELAZIONE SULLO
STATO DELL’ARTE
Trattamento chirurgico
delle cardiopatie
congenite
.
..
. ..
SALA VENERE 150
.
Localizzazione
delle patologie
neuromuscolari
Nervo periferico, giunzione
neuromuscolare, muscolo
David Fowler (CAN)
Nick Sharp (USA)
9.30
Hill’s*
Approccio diagnostico
e terapeutico al
chilotorace
David Fowler (CAN)
10.30
Localizzazione
neurologica
(motoneurone inferiore)
Aspetti clinici delle
patologie del motoneurone
inferiore: approccio
diagnostico, biopsia del
nervo periferico e biopsia
del muscolo
FARMACOLOGIA
Sessione specialistica
Chairperson: Oscar Grazioli
SALA MARTE 40
COMUNICAZIONI
LIBERE
Farmaci impiegabili
nel controllo del dolore
Analgesici ad azione
centrale (oppiodi,
alfa2-agonisti) e analgesici
ad azione periferica
(FANS, anestetici locali e
agenti modificanti la
patologia). Differenze e
modalità di impiego
attraverso l’analisi di casi
clinici con discussione dei
protocolli terapeutici
Animal Health
Dawn Boothe (USA)
Nick Sharp (USA)
PA U S A C A F F È E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
CHIRURGIA
CARDIOTORACICA
NEUROLOGIA
SINVet
Chairperson: Carlo Scotti
Chairperson: Marco Bernardini
11.00 Tecniche di chirurgia
polmonare
Indicazioni, precauzioni,
limiti e accorgimenti
.
..
. ..
.
Elettrodiagnostica
per il veterinario pratico
Elettrodiagnostica di base
delle patologie del
motoneurone inferiore:
EMG, studi sulla velocità
di conduzione nervosa
MEDICINA D’URGENZA
Sessione interattiva
Chairperson: Fabio Viganò
COMUNICAZIONI
LIBERE
Problemi più frequenti
dell’equilibrio fluido
ed elettrolitico in terapia
intensiva
David Fowler (CAN)
Nick Sharp (USA)
12.00
Mononeuropatie
Da un esame interattivo di
casi clinici le indicazioni e
le precauzioni nell’impiego
dei differenti tipi di fluidi, i
protocolli di terapia fluida
per problemi specifici ed i
principi per il trattamento
degli squilibri elettrolitici
Trattamento chirurgico
delle patologie
dell’esofago
Difficoltà riscontrabili nella
chirurgia delle patologie
dell’esofago intratoracico.
Sostituzione dell’esofago
David Fowler (CAN)
13.00
Nick Sharp (USA)
e Francesca Cozzi (I)
Steve Haskins (USA)
PA U S A P R A N Z O E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
Livello Aggiornamento
Livello Avanzato
Relazione sullo Stato dell’Arte
12
Sessione Specialistica
Sessione Interattiva
SCIENTIFICO
Sabato Pomeriggio 20 Marzo 1999
TEATRO VERDI 1300
PATOLOGIE RESPIRATORIE
Chairperson:
Michele Borgarelli
14.00
Dispnea nel cane e nel gatto
Aspetti fisiopatologici e metodi
di indagine della funzione
respiratoria, della circolazione
polmonare e degli scambi
gassosi per la valutazione
del paziente dispnoico
Hill’s*
NEUROLOGIA
SINVet
.
..
SALA VENERE 150
.
PATOLOGIA CLINICA
Chairperson: Massimo Baroni
Sessione interattiva
Chairperson: Davide De Lorenzi
Polineuropatie
e poliradiculoneuriti
Cause, diagnosi,
trattamento e prognosi
Discussione interattiva
di casi clinici con
particolare attenzione al
quadro citologico
. ..
SALA MARTE 40
COMUNICAZIONI
LIBERE
Hill’s*
Nick Sharp (USA)
e Francesca Cozzi (I)
Claudio Bussadori (I)
15.00
AUDITORIUM 700
John Dunn (UK)
PA U S A C A F F È E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
PATOLOGIE RESPIRATORIE
Chairperson:
Michele Borgarelli
NEUROLOGIA
SINVet
.
..
. ..
.
Chairperson: Massimo Baroni
16.00 Dispnea di origine
non cardiaca nel cane e
nel gatto: studio
attraverso casi clinici
CHIRURGIA
Sessione specialistica
Chairperson: Giorgio Romanelli
COMUNICAZIONI
LIBERE
Aggiornamento
sulla diagnosi ed il
trattamento degli shunt
portosistemici
Come riconoscere
un caso di shunt trattabile
e metodiche di intervento
Distrofie muscolari
e altre miopatie
Nick Sharp (USA)
e Francesca Cozzi (I)
17.00
Miastenia Grave e altre
giunzionopatie
Claudio Bussadori (I)
e Roberto Santilli (I)
Nick Sharp (USA)
e Francesca Cozzi (I)
Harry Boothe (USA)
18.00
INTERRUZIONE
18.15
A S S E M B L E A A N N UA L E S C I VAC - S A L A AU D I TO R I U M
Livello Aggiornamento
Livello Avanzato
Relazione sullo Stato dell’Arte
13
Sessione Specialistica
Sessione Interattiva
PROGRAMMA S
Domenica Mattina 21 Marzo 1999
TEATRO VERDI 1300
MEDICINA D’URGENZA
AUDITORIUM 700
MEDICINA INTERNA
ORTOPEDIA
Gruppo di Studio
Gruppo di Studio
Chairperson: Alessandro Bonioli Chairperson: Marco Caldin
8.30 Procedure salva-vita nel
paziente in emergenza
Tracheostomia, drenaggio
toracico, ossigenoterapia,
ventilazione assistita,
ripristino della
circolazione, terapia fluida
dello shock, impiego
di cardiotonici
e simpaticomimetici
SALA VENERE 150
Sessione interattiva
Chairperson: Giorgio Romanelli
RELAZIONE SULLO
STATO DELL’ARTE
Analisi biochimica e
citologica delle effusioni
cavitarie
SALA MARTE 40
COMUNICAZIONI
LIBERE
Fratture-lussazioni vertebrali:
quale è il trattamento
più indicato?
Da una discussione interattiva
le linee guida pratiche per una
completa valutazione del paziente,
sia per gli aspetti ortopedici
che neurologici, per un corretto
processo decisionale tra le diverse
tecniche di stabilizzazione
e per le indicazioni prognostiche
John Dunn (UK)
9.30
Interpretazione
dei profili ematologici
e biochimici:
errori più comuni
10.30
Randy Boudrieau (USA)
e Nick Sharp (USA)
John Dunn (UK)
Steve Haskins (USA)
PA U S A C A F F È E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
MEDICINA D’URGENZA
MEDICINA INTERNA
CHIRURGIA ORO-FACCIALE
Gruppo di Studio
Gruppo di Studio
Chairperson: Alessandro Bonioli Chairperson: George Lubas
11.00 RELAZIONE SULLO
STATO DELL’ARTE
Principi e nuove
acquisizioni nella
fisiopatologia e nel
trattamento dello shock
settico
Esame del midollo
osseo
Indicazioni, tecniche e
interpretazione citologica
di base
Animal Health
COMUNICAZIONI
LIBERE
Presentazione
interattiva di casi clinici
in chirurgia oro-facciale
Hill’s*
12.00
Medicina d’emergenza
e anestesia:
un binomio vitale
Oscar Grazioli (I)
e Fabio Viganò (I)
Sessione interattiva
Chairperson: Dea Bonello
John Dunn (UK)
Steve Haskins (USA)
13.00
Hill’s*
Diagnosi laboratoristica
per le più comuni
endocrinopatie
Un aggiornamento
al 1999 per la scelta
e l’interpretazione
di un panel mirato
Tommaso Furlanello (I)
David Crossley (UK)
PA U S A P R A N Z O E D E S P O S I Z I O N E C O M M E R C I A L E
Livello Aggiornamento
Livello Avanzato
Relazione sullo Stato dell’Arte
14
Sessione Specialistica
Sessione Interattiva
SCIENTIFICO
Domenica Pomeriggio 21 Marzo 1999
TEATRO VERDI 1300
AUDITORIUM 700
MEDICINA D’URGENZA
MEDICINA INTERNA
Gruppo di Studio
Chairperson: Fabio Viganò
Gruppo di Studio
Chairperson: Ugo Lotti
14.00 Monitoraggio e terapia
intensiva in situazione
neurologica in
progressivo
deterioramento
SALA VENERE 150
CHIRURGIA
DEI TESSUTI MOLLI
SALA MARTE 40
COMUNICAZIONI
LIBERE
Sessione interattiva
Chairperson: Giorgio Romanelli
Approccio diagnostico
e terapeutico
all’ipoglicemia
Steve Haskins (USA)
Collasso tracheale:
indicazioni e tecniche
delle differenti opzioni
terapeutiche
Da una presentazione
interattiva di casi clinici le
linee guida per la scelta
del trattamento più indicato
David Fowler (CAN)
John Dunn (UK)
15.00
Hill’s*
Identificazione
e trattamento delle
coagulopatie nel
paziente in condizioni
di emergenza
Steve Haskins (USA)
Approccio diagnostico
e terapeutico
all’ipercalcemia
Presentazione
interattiva di casi clinici
in chirurgia ricostruttiva
David Fowler (CAN)
Marco Caldin (I)
16.00
C E R I M O N I A D I C H I U S U R A E C O C K TA I L D I A R R I V E D E R C I
16.30
TERMINE DEL CONGRESSO
Livello Aggiornamento
Livello Avanzato
Relazione sullo Stato dell’Arte
Sessione Specialistica
Sessione Interattiva
PRANZO CON IL RELATORE STRANIERO
INCONTRA L’ARCHITETTO
Nelle giornate di Venerdì 19 e Sabato 20 Marzo nel ristorante
“Mon Reve” adiacente al Palazzo dei Congressi saranno organizzati due pranzi con i relatori stranieri durante i quali i partecipanti
che lo desiderano potranno porre domande al relatore prescelto.
Sarà così possibile approfondire un argomento o prolungare una
discussione con un esperto altrimenti difficile da consultare in un
contesto rilassato ed informale. La partecipazione, per cui è prevista l’iscrizione tramite il modulo allegato, è limitata ad un numero massimo di 7 per tavolo con un relatore ciascuno. Si effettueranno iscrizioni anche in sede congressuale fino ad esaurimento
dei posti disponibili. NON è previsto un servizio di traduzione.
Nella giornata di Sabato 20 Marzo sarà possibile incontrare l’architetto Mark Hafen, specialista nella progettazione di strutture
veterinarie. Mark Hafen è socio della Gates Hafen Cochrane Architects, un’azienda che lavora esclusivamente nella progettazione di strutture veterinarie e che ha realizzato cliniche da 700 a
5.000 metri quadrati (ma accetta la sfida anche per strutture di dimensioni minori) negli Stati Uniti, in Canada, Australia e Giappone. Il Dr. Hafen sarà disponibile a fornire a titolo gratuito consulenze a quanti sono in procinto di aprire una nuova clinica o più
semplicemente ampliare o ristrutturare una clinica già esistente.
Chi fosse interessato è pregato di indicarlo nella scheda di iscrizione e portare con sè piantine, progetti preliminari, fotografie e
quant’altro fosse utile per l’esame di una struttura già esistente o
ancora in fase di progettazione. L’iscrizione nella scheda congressuale è necessaria per poter organizzare un’agenda di appuntamenti su base individuale. Tale agenda sarà disponibile in Segreteria congressuale. La consulenza è gratuita, ma è limitata agli
iscritti al congresso. In caso di eccedenza di richieste verranno
soddisfatte le prime iscrizioni pervenute.
VENERDÌ 19 Marzo 1999, 13.00-14.00
Harry Boothe (USA)
CHIRURGIA
Randy Boudrieau (USA)
ORTOPEDIA
John Dunn (UK)
MEDICINA INTERNA
Nick Sharp (USA)
NEUROLOGIA
SABATO 20 Marzo 1999, 13.00-14.00
Dawn Boothe (USA)
FARMACOTERAPIA CLINICA
David Crossley (UK)
ODONTOSTOMATOLOGIA
David Fowler (CAN)
CHIRURGIA TESSUTI MOLLI
Steve Haskins (USA)
MEDICINA D’URGENZA
15
COMMISSIONI
DIRETTIVO SCIVAC
PIERMARIO PIGA
CARLO SCOTTI
GILDO BARONI
UGO LOTTI
MATTEO SPALLAROSSA
MASSIMO BARONI
MICHELA ROMANELLI
Consiglio Direttivo
SCIVAC 1998-2001
Presidente
Presidente Senior
Vice Presidente
Segretario
Tesoriere
Consigliere
Consigliere
COMITATO CONGRESSUALE
Presidente
GIORGIO ROMANELLI
CLAUDIO BUSSADORI
MARCO CALDIN
STEFANO PIZZIRANI
CARLO SCOTTI
ALDO VEZZONI
Med Vet, Dipl ECVS
Med Vet, Dipl ECVIM-CA
Med Vet
Med Vet, Dipl ECVS
Med Vet
Med Vet, Dipl ECVS
Coordinatore Congressuale
FULVIO STANGA
Med Vet
Segreteria Congressuale
LUDOVICA BELLINGERI SCIVAC
Via Trecchi 20, 26100 Cremona
Tel 0372 460440
Fax 0372 457091
e mail: [email protected]
Web site: www.scivac.it
ORGANIZZAZIONE CONGRESSUALE
New Team
Via Ghiretti 2, 43100 Parma
Tel 0521 293913 - Fax 0521 294036 - email: [email protected]
ORGANIZZAZIONE ALBERGHIERA
Pinocchio Viaggi e Turismo srl
Viale Amendola 2, 51016 - Montecatini Terme (PT)
Tel 0572 75209 - 75861 - Fax 0572 910400
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SPONSOR
La SCIVAC ringrazia le Aziende sponsor per il sostegno e il contributo prestati
alla realizzazione di questo Congresso.
La sponsorizzazione ha permesso di contenere le quote di iscrizione.
Animal Health
Hill’s*
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38° Congresso Nazionale SCIVAC
15
Compatibilità e biocompatibilità
dei materiali di fissazione utilizzati in ortopedia
Gildo Baroni
Med. Vet. - Libero Professionista - Rovigo
Una definizione di biomateriali codificata non esiste.
Dalla maggior parte dei professionisti che si dedicano allo studio dei biomateriali, vale a dire medici, chimici, biologi, ingegneri, essendo la scienza dei biomateriali interdisciplinare, viene accettato la definizione che i biomateriali sono materiali idonei alla costruzione di apparati o dispositivi
medici che hanno la capacità di funzionare in una applicazione specifica interagendo con i sistemi biologici.
I dispositivi medici sono destinati alla prevenzione, diagnosi, alla terapia ed al monitoraggio di malattie lesioni o
minorazioni fisiche.
I dispositivi medici, esercitano la loro funzione sul corpo
animale o all’interno di esso, ma non attraverso meccanismi
di tipo farmacologico, immunologico, metabolico, pur essendo assistiti da tali meccanismi per l’espletamento delle
loro funzioni.
Naturalmente i biomateriali devono essere biocompatibili, vale a dire che i materiali usati per la costruzione di dispositivi medici, non devono provocare innanzitutto effetti
tossici generali su organi e sistemi dell’organismo.
Quindi tutti i materiali che vengono posti a contatto o all’interno dell’organismo vivente devono essere costituiti da
sostanze (biomateriale) che abbiano caratteristiche chimicofisiche richieste per la loro funzione da svolgere, che non
siano tossici né localmente né per via sistemica, che non siano carcinogenici o genotossici, non devono indurre alterazioni del sistema emocoagulativo a seguito del contatto del
sangue con il biomateriale, non debbono indurre risposta immunitaria da parte dell’organismo né favorire le infezioni.
All’inizio dello studio di questa scienza si usarono materiali chimicamente inerti, credendo che questi non suscitassero risposta dell’ospite, ma si osservarono ben presto
dei fallimenti, in quanto il corpo animale è un sistema estremamente complesso e le interazioni possono essere le più
svariate.
Oggi per biocompatibilità si intende la capacità di un
biomateriale di funzionare in una specifica applicazione suscitando un’appropiata risposta dell’ospite.
Nel campo ortopedico, ad esempio, questo sisgnifica
osteointegrazione, osteoinduzione, ecc.
Quindi i biomateriali utilizzati per la costruzione di dispositivi medici, innanzi tutto, non devono provocare effetti
tossici su organi e su sistemi dell’organismo.
Concetto questo molto più semplice a dirsi che a farsi,
visto che alcune complicazioni si sono notate dopo anni dall’impianto di un dispositivo protesico, in quanto i prodotti
della degradazione possono svilupparsi dopo anni dall’impianto o molto lentamente ed essere prodotti che danno accumulo all’interno dell’organismo e successivamente diventare tossici.
Certi effetti collaterali si sospettano o si sono riscontrati solo con relazioni statistiche, ad esempio il vitalium, lega
usata in ortopedia fino a pochi anni fa, aveva delle caratteristiche di inossidabilità molto buone, anche se legate ad
una scarsa lavorabilità, ma purtroppo sembra avere una correlazione statistica positiva con il morbo di Altzaimer, recenti studi effettuati anche in campo veterinario hanno messo in relazione neoplasie ossee con il mancato espianto di
mezzi di osteosintesi lasciati in sito per un tempo più lungo
del necessario.
È dimostrato inoltre come l’osso reagisca al contatto dell’acciaio dei mezzi di osteosintesi, e come questa reazione
sia inferiore con il contatto con mezzi costruiti in titanio.
I tipi di biomateriali più conosciuti e più usati in chirurgia sono riportati nella seguente tabella:
1) Metalli
- metalli:
titanio puro al 99%.
- leghe metalliche: a base di ferro (acciai), a base di
cobalto, a base di titanio, a base
di metalli preziosi, a base di
nichel-titanio (leghe a memoria
di forma)
2) Ceramici - non riassorbibili: allumina, zirconia, carbone
isotropico e vetroso,
idrossiapatite
- riassorbibili
tricalciofosfato, idrossiapatite
microporosa
- a superf. attiva: calcio fosfato con aggiunta di
vetri e vetroceramici
3) Polimeri - non riassorbibili: polietilene (PE), ultra high
molecular weight poly-etylene
(UHMWPE),
politetrafluoroetilene (PTFE),
polimetimetacrilato (PMMA)
poliuretani (PU),
polivinilcloruro (PVC),
polipropilene (PP) polietilene
tereftalato (PET), poliammidi,
poliacetati, poliaramidi
cianoacrilati e siliconi
16
38° Congresso Nazionale SCIVAC
-riassorbibili:
ac.polilattico (PLA), ac.
poliglicolico (PGA), ecc,
copolimeri
biomateriale
valutazione di primo livello
4) Compositi - matrice:
costituita da carbone o da
polimeri
- mater.riempitivo: costituito da carbone o polimeri,
spesso sotto forma di fibre,
idrossiapatite
citotossicità
emotossicità
tossico
genotossicità
istotossicità
non tossico
scartato
5) Materiali di origine biologica
- matrici, tessuti e organi dopo trattamento:
fibrina, collageno, osso, cute,
vasi, pericardio
- materiali artificiali associati a polimeri biologici:
poliestere+collageno,
poliestere+gelatina
- materiali artificiali rivestiti di cellule:
cheratinociti su polimeri, cellule
endoteliali su polimeri.
Fino a poco tempo fa, in Italia non era obbligatorio testare scientificamente i materiali, proposti dalle industrie,
per la costruzione di bioprotesi, la legge Italiana li paragonava a presidi medico chirurgici, come le garze.
Nonostante tutto alcuni laboratori di ricerca come ad
esempio l’Istituto Ortopedico Rizzoli li sottoponeva a test,
adottando le specifiche internazionali al riguardo.
Numerosi, sono oggi, gli organismi di normalizzazione
divisi in vari comitati di attività.
Negli U.S.A. vanno ricordati l’American Society for Testing and Materials (ASTM), la Health Industry Manufactures Association, l’American Dental Association, la Food and
Drug Administration.
Nel Regno Unito il British Standard Institue.
In Francia va segnalata l’Association Francaise de Normalizzation.
In Germania il Deutsces Institut for Normung.
In Italia l’Ente Nazionale Italiano di Unificazione.
Tra gli organismi internazionali di normazione il più importante è l’International Organization for Standardization
conosciuto come I.S.O.
È costituito da enti normativi dei paesi più avanzati e
suddiviso in comitati tecnici di cui I.S.O./TC 194 è quello che si occupa dell’allestimento delle norme di biocompatibilità.
Il 15/04/92 l’I.S.O./TC 194 allo scopo di armonizzare le
molteplici norme tecniche già esistenti, ha pubblicato un documento guida intitolato “Biological Testing of Medical Devices. Par 1 guidance of selection of tests” identificandolo
con il num. I.S.O. 10993-1.
Successivamente nel giugno del 1994 la C.E.N. (Comitato Europeo di Normazione) ha adottato il documento ISO
10993-1, pubblicandolo come standard europeo, identificandolo con il numero E.N. 30993-1, il futuro è un “global armonization” fra Giappone, USA ed Europa.
Osserviamo quindi dalla tabella quali sono i test a cui oggi un biomateriale viene sottoposto prima di essere messo in
commercio.
valutazione di secondo livello
citocompatibilità
istocompatibilità
escluso
immunocompatibilità
analisi strutturale
incompatibile
compatibile
emocompatibilità
infettività
applicazione clinica
Il settore ortopedico rappresenta sicuramente uno dei pricipali campi di applicazione dei biomateriali, sia dal punto
di vista commerciale, anche se devo ammettere che in Italia
per quel che concerne i materiali assorbibili veniamo snobbati dalle ditte produttrici.
Biomateriali nel settore ortopedico vuol dire essenzialmente impianti ortopedici che possono essere suddivisi in tre
principali gruppi:
1) impianti protesici veri e propri, tipo protesi d’anca, di gomito, ecc., con cui vengono realizzati impianti di tipo
permanente, destinati a sostituire le strutture ossee in funzioni legate in primo luogo alla deambulazione;
2) mezzi di sintesi tipo placche e viti, chiodi endomidollari,
chiodi di Kirschner, apparati di fissatori esterni, ecc., utilizzati in primo luogo per assistere l’organismo nella fase
di riparazione di fratture ossee o correzione di difetti
scheletrici, destinati ad essere rimossi al termine della loro funzione;
3) tendini e legamenti artificiali destinati alla sostituzione di
quelli nelle articolazioni.
In questa sede prenderemo in considerazione soprattutto
il secondo punto, in quanto le placche, viti e chiodi sono i
mezzi di sintesi più usati in medicina veterinaria.
Da un punto di vista biochimico il problema principale
che si presenta quando si immerge un metallo, o meglio un
acciaio inossidabile in un organismo, è la corrosione.
La corrosione è definita come l’interazione spontanea di
un metallo con l’ambiente che lo circonda e può portare ad
un graduale declino del materiale, determinando anche la
formazione di numerosi ioni e composti che possono essere
dannosi per l’organismo.
L’ambiente in cui si verifica con maggiore facilità la corrosione è costituito dalle soluzioni acquose, con particolare
riferimento a quelle che contengono ossigeno e lo ione cloro.
L’ambiente fisiologico è perciò particolarmente ostile ai
metalli e non dovrebbe sorprendere che molti di essi subiscano danneggiamenti considerevoli durante la permanenza
nel corpo.
Lo sviluppo storico dei materiali per impianti ortopedici
è parallelo alla ricerca di metalli che siano sufficientemente
resistenti alla corrosione.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
Alla fine del diciottesimo secolo e inizi del diciannovesimo furono svolti i primi tentativi impiegando materiali metallici per il fissaggio delle fratture.
Si trattava in generale di fili o perni di metallo quali il
ferro, l’oro, il platino, l’argento.
Le inevitabili infezioni invalidavano ogni possibile decisione su quale fosse l’impianto o il metallo di maggior
successo.
Nello stesso periodo Bell descrisse la corrosione galvanica, che avveniva quando l’acciaio accoppiato con dei perni d’argento veniva a contatto con i fluidi del corpo.
Nel 1829 Levart osservò che il platino era più idoneo
dell’oro, dell’argento e del piombo ad essere usato per fissare fratture sperimentali nei cani.
Le tecniche di fissazione interna ebbero un notevole impulso dopo l’introduzione delle tecniche asettiche di Lister e
fra i primi a sperimentare tali tecniche ricordiamo Hamnsmann e Lane, Lambotte.
Numerosi si susseguirono gli esperimenti fino a che all’inizio del ’900 furono introdotti dal punto di vista ingegneristico dei nuovi materiali e cioè l’acciaio inossidabile
che portò una rivoluzione sia in campo edile che in quello
medico.
Con il termine acciaio inossidabile si intende una classe
di acciai che contengono almeno il 12% di cromo, determinando una passivazione della parte superficiale del metallo.
Gli acciai inossidabili possono essere di tre tipi:
- austenici
- ferritici
- martensitici
in funzione alla loro conformazione e della loro storia termica e meccanica.
In ortopedia vengono usati soprattutto gli austenici e in
particolare quelli composti da una percentuale di C < 0,006%,
Cr 17%, Ni 13,5%, Mo 2,8% sono noti con la sigla AISI 316,
che è il costituente base delle placche, viti e chiodi ortopedici.
La resistenza alla corrosione degli acciai nasce dalla capacità di formare un film di ossido superficiale, fenomeno
chiamato anche passivazione.
Il film di ossido superficiale è determinato dalla presenza del Cr in % superiore al 12% come nel caso appena citato dell’AISI 316 e dal Mo in percentuali che vanno dal 2,5%
al 3,5%.
Lo spessore del film di ossido è di circa 10 – 50 Anstrom.
La struttura e composizione del film è fortemente dipendente dai trattamenti superficiali e dall’ambiente.
Un parametro molto importante da conoscere per valutare queste leghe è il potenziale di rottura del film chiamato
“Breakdown potential” che è definito come il potenziale più
negativo in cui si ha la formazione di uno o più pit, specie in
soluzioni contenenti cloruri.
Altri fattori che influenzano il potenziale di rottura del
film, nell’acciaio inox sono la deformazione plastica le finiture superficiali, e la composizione della soluzione.
Naturalmente un materiale può passivarsi e ripassivarsi
basta che venga a contatto con un agente ossidante.
Infatti le placche e le viti vengono preventivamente passivate con il contatto con una soluzione di acido nitrico, di
acido solforico, possono perdere la passivazione durante le
manualità a cui vengono sottoposte durante un intervento
17
chirurgico, ma l’ossigeno contenuto nel sangue li ripassivizza.
Bisogna tenere anche presente che gli ioni Cl alterano
profondamente la natura dello strato di film ossido.
Un altro fattore che sembra influenzare negativamente lo
strato di film è la presenza di proteine, infatti alcuni autori
hanno osservato che aumentando la concentrazione proteica
di alcune soluzioni si determina un aumento della corrosione.
Quindi il fenomeno della passivazione ci aiuta ad evitare che il metallo si corroda e determini rottura dell’impianto
e immissione in circolo di ioni che possono rivelarsi tossici.
Nell’organismo esistono metalli costituzionali (oligoelementi) e derivati dall’ambiente, e quando un metallo è a contatto con l’organismo si deteriora, ha una perdita di ioni, che
vengono assorbiti dai tessuti circostanti e che da qui passano nel circolo ematico.
Arrivano al rene dove per un 90% vengono escreti e per
un 10% si accumulano negli organi bersaglio.
Ad esempio:
- Cromo determina danni epatici, renali, cancro polmonare,
allergie;
- Nichel determina cancro al polmone, cancro nasale, allergie.
Effetti locali determinati dalle microcorrenti o dalla ipersensibilità all’impianto.
Recenti studi hanno dimostrato che l’azione di questi ioni
viene esercitata a livello del nucleo e della membrana cellulare intervenendo nei processi enzimatici e modificando le strutture o la funzione dell’informazione genetica, per cui hanno
carattere decisamente tossico, mutageno e cancerogeno.
Il titanio ad esempio entra nel ciclo della catalasi che
controlla i processi ossidativi cellulari.
Concentriamoci, però sui problemi della corrosione.
L’organismo animale è un ambiente molto aggressivo
anche per i metalli più resistenti alla corrosione a causa dell’ambiente salino e delle sollecitazioni meccaniche presenti,
ad una temperatura di 37°.
Con l’installazione il materiale viene a contatto con i diversi tessuti del corpo, come ossa, muscoli e tendini.
I complessi fluidi del corpo sono diffusi e ricoprono questi tessuti.
Nella loro composizione figurano numerosi sali minerali, proteine, carboidrati e grassi.
L’impianto è poi in contatto con i fluidi elettrolitici, come il sangue, liquidi extracellulari e sinoviali.
La composizione ionica dei vari fluidi è rappresentata in
tabella.
I fluidi extracellulari, che sono i liquidi con cui più frequentemente un impianto viene a contatto, contengono
grandi quantità di ioni Na, Cl, HCO3 con tracce di altri ioni.
Anche la concentrazione di alcuni gas può influenzare la
composizione dell’ambiente.
La concentrazione di ossigeno nel sangue varia tra il 10
e 20% in volume e il contenuto in anidride carbonica varia
tra il 50 e 70% in volume.
I fluidi del corpo hanno normalmente un pH di circa 7,4.
Quando però si installa una protesi, la ferita normalmente instaura un pH acido, conseguente all’intervento chirurgico, ma il pH tornerà normale nell’arco di pochi giorni.
La presenza di ematomi che accompagnano eventuali
malanni del paziente, o per una chiusura non ortodossa dei
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38° Congresso Nazionale SCIVAC
Composizione ionica del plasma sanguigno, dei fluidi interstiziali e dei fluidi intracellulari.
piani chirurgici, nelle vicinanze dell’impianto, se non addirittura in contatto, possono ostacolare il ritorno alle condizioni normali e mantenere il pH acido per molte settimane.
Se gli ematomi non vengono riassorbiti, il tessuto che
circonda l’impianto diventa anche più acido e il pH può
scendere anche sotto a 4.
Inoltre eventuali infezioni possono alterare il pH normalmente acido della ferita, ad un pH basico fino a 9.
Quindi pensate come l’ambiente in cui è immersa una
protesi, possa variare e possono crearsi degli ambienti critici per l’innesco della corrosione.
naturalmente ciò avviene in ambiente acido.
Processo di riduzione dell’ossigeno ad acqua:
O2 + 4H+ + 4e– → 2 H2O
Corrosione che avviene in ambiente acido e ossigenato.
Processo dell’ossigeno e dei vari idrogenioni:
O2 + 2H2O + 4e– → 4 OH–
Avviene in soluzione neutra ed alcalina.
Processo catodico di sostanze che possono essere alternativamente ossidate o ridotte
Fe+++ + e– → Fe++
TIPOLOGIE DELLA CORROSIONE
Corrosione umida
Nel caso della corrosione umida il meccanismo è di natura elettrochimica ed è spontanea, trova cioè in sé l’energia
per la propria realizzazione.
Tale energia viene dissipata sotto forma di calore, per cui
dal punto di vista concettuale, la realizzazione di un processo di corrosione coincide con il funzionamento di un elemento galvanico in cortocircuito e potremmo quindi definire:
- aree catodiche, le aree che sono sede di reazione di ossidazione;
- aree anodiche quelle sede di reazione di riduzione.
Reazioni catodiche.
I processi catodici che più frequentemente avvengono
durante i fenomeni corrosivi sono processi di formazione di
idrogeno per riduzione degli ioni idrogeno:
2H+ + 2e– → H2
Reazioni anodiche.
All’anodo il metallo va in soluzione attraverso un processo di ossidazione perdendo elettroni come si vede nell’equazione:
M → M n + + n e–
Dobbiamo in pratica considerare la presenza dei film
protettivi di composti del metallo, che rallenta di molto o inibisce l’innesco dei processi di corrosione.
La condizione di passività presuppone l’esistenza di uno
strato di passività o di un film superficiale.
Dal punto di vista dell’instaurazione dello stato di passività
si può far distinzione tra processi spontanei e processi indotti.
Si parla di processi spontanei, quando l’ossigeno atmosferico o quello contenuto nel sangue, costituiscono un ambiente sufficientemente ossidante per promuovere la passivazione o la ripassivazione del metallo.
Si parla di passivazione indotta, quando viene indotta da
un ambiente artificiale fortemente ossidante (ad esempio
acido nitrico al 30%) e viene effettuata dall’industria che
38° Congresso Nazionale SCIVAC
produce le protesi.
Si parla di passività stabile quando lo stato passivante
non viene distrutto, mentre si parla di passività labile quando lo strato passivante è distruggibile o per azione chimica o
per azione di correnti catodiche o anodiche.
Quindi l’eliminazione dello strato passivante può avvenire o per reazione elettrolitica o per la mancanza della presenza dell’agente passivante come, ad esempio, l’ossigeno
del sangue.
Di conseguenza la presenza di deformazioni di una placca, sia plastica che elastica, cosa che facciamo noi quando
sagomiamo una placca su una superficie ossea, stimola la
velocità dei processi anodici di dissoluzione.
Ciò è dovuto alla maggior reattività del reticolo metallico deformato, che aumenta le probabilità di corrosione interstiziale per vaiolatura.
Corrosione interstiziale
(Crevice corrosion)
È un tipo di corrosione che avviene dentro o vicino ad un
interstizio formato dal contatto di due componenti metallometallo, metallo-metallo diverso, metallo-non metallo.
All’interno dell’interstizio si ha una riduzione progressiva e, di conseguenza, un progressivo indebolimento del film
passivo.
La corrosione interstiziale è tipica nelle placche da
osteosintesi tra la superficie della sede della vite e la testa
della stessa.
È nota come crevice corrosion.
Spendo qualche parola in più su questo tipo di corrosione, essendo quello che più ci coinvolge dal punto di vista ortopedico.
L’attacco localizzato può essere innescato quando zone
differenti di una superficie metallica vengono a contatto
con una soluzione avente una differente concentrazione di
ossigeno.
Infatti quando si serra una vite nel proprio alloggiamento
della placca e questa sfrega sulla placca si ha una interruzione del film passivo, l’ossigeno del sangue non riesce a ripassivare il metallo in quanto il serraggio della vite impedisce il
contatto ossigeno – metallo e si crea una zona non ossidata e
quindi catodica, innescando il processo di corrosione.
A seguito della reazione di corrosione si ha una variazione del pH.
Infatti nelle zone catodiche si ha una riduzione dell’ossigeno e dell’idrogenione come mostrato nella reazione
chimica:
O2 + 2 H2O + 4e– → 4 OH–
2 H3O+ + 2e– → H2 + 2 H2O
e ciò comporta un aumento del pH.
Di maggior interesse è quello che avviene contemporaneamente all’anodo, dove si ha la dissoluzione del metallo
secondo la reazione:
Me → Me n + + n e–
Lo ione metallico attraverso la reazione di idrolisi porta
ad una diminuzione del pH:
19
Me n + + nH2O → Me(OH)n + nH3O+
Questa diminuzione del pH in corrispondenza delle aree
anodiche rende più difficile la formazione del film passivo
favorendo l’attacco localizzato.
Il corto circuito galvanico è quindi rappresentato dalla
zona caratterizzata da una bassa concentrazione di ossigeno
(crevice) o zona anodica e dalla superficie metallica adiacente, con una maggior concentrazione di ossigeno che funge da zona catodica.
Queste reazioni coinvolgono il ferro che è il maggior
costituente degli acciai, determinando una idrolisi del metallo con abbassamento del pH che accelera il processo di
corrosione.
Corrosione galvanica
Si verifica quando c’è il contatto tra due metalli differenti in presenza di un mezzo conduttore(soluzione elettrolitica o fisiologica).
Esempio classico l’accostamento acciaio inossidabile –
titanio.
Corrosione per vaiolatura (Pitting)
Corrosione selettiva verso superfici che hanno uno spessore relativamente sottile dell’ossido protettivo o in aree dove si possono avere delle inclusioni metalliche, come avviene in acciai impuri o non lavorati superficialmente.
Si verifica nei metalli passivati in ambienti particolarmente aggressivi, quali le soluzioni saline, ricchi in ioni cloro.
Corrosione per sfregamento (Fretting)
Si verifica tra due superfici sotto un definito carico di contatto combinato con molteplici oscillazioni relativamente piccole, capaci però di distruggere per abrasione il film di ossido.
Corrosione sotto sforzo (Stress corrosion)
Si tratta di attacco corrosivo accelerato da carichi applicativi, anche se inferiori al carico sopportato dal metallo.
Corrosione a fatica
Fenomeno di danneggiamento progressivo del materiale
che si verifica quando una struttura è sottoposta ad un carico ciclico variabile nel tempo.
Corrosione biologica
Colonie di microrganismi, possono cambiare radicalmente il microambiente attorno ad un metallo, variando
38° Congresso Nazionale SCIVAC
21
Patologie respiratorie nel gatto.
Manifestazioni cliniche, tecniche diagnostiche e reperti citologici
Stefano Bo
Med. Vet. - Libero Professionista - Torino
Davide De Lorenzi
Med. Vet. - Libero Professionista - Forlì
Il primo passo per formulare una corretta diagnosi differenziale in un gatto con segni clinici respiratori è di definire
il problema clinico primario, come la tosse o la dispnea, che
sono i segni clinici più frequenti in animali con malattie delle basse vie respiratorie. Queste patologie possono essere
inquadrate solo dopo una attenta anamnesi ed un completo
esame clinico, comprendente quest’ultimo la valutazione fisica, ematologica, sierologica generale e specifica, radiologica ed elettrocardiografica del soggetto.
TOSSE E DISPNEA: APPROCCIO
DIAGNOSTICO IN GATTI CON PATOLOGIE
DELLE BASSE VIE RESPIRATORIE
con conati. Sono comuni fenomeni parossistici di tosse.
Dispnea: si indica come dispnea una difficoltà di respirazione; è causata da un incremento del normale sforzo respiratorio e costituisce il segno clinico più evidente dell’insufficienza respiratoria, cioè dell’incapacità del polmone di
assicurare in modo adeguato le sue funzioni di scambio.
È caratterizzata dall’aumento sia della frequenza (polipnea) che della profondità (iperpnea) del respiro che può apparire rapido, superficiale, ansimante oppure lento, profondo, laborioso. La dispnea può essere sia inspiratoria che
espiratoria, o presente in entrambi i momenti e l’animale deve essere esaminato con attenzione al fine di determinare la
fase della respirazione associata alla manifestazione perché
ciò può essere utile nel definire il settore interessato dalla
patologia primaria.
Definizioni
Tosse: la tosse è la fuoriuscita forzata, violenta, di aria
dal polmone attraverso la bocca, a glottide chiusa. È generalmente un riflesso attuato al fine di espellere materiale dalle vie aeree; processi infiammatori o compressivi possono
simulare la tosse.
Informazioni riguardanti l’anamnesi e l’esame fisico sono
utilizzate per classificare la tosse come produttiva o non produttiva, sebbene in alcuni casi la cosa possa risultare difficile.
Una tosse di tipo produttivo origina dalla presenza di muco,
essudato, edema, o sangue nelle vie aeree nella cavità orale.
In questi casi raramente un animale espettora fluidi, ma
può essere frequentemente osservata deglutizione dopo un
accesso di tosse. Questo tipo di tosse è più comunemente
causata da malattie infiammatorie od infettive delle vie aeree (bronchite infettiva o micotica, parassitaria, da aspirazione, allergica) o alveolari o da patologie cardiache.
Raramente un colpo di tosse può essere accompagnato
da fuoriuscita di sangue (emottisi); questa può però comparire più frequentemente in animali con malattie causate da
parassiti polmonari (filaria, Aelurostrongylus) o neoplasie.
Meno comunemente l’emottisi può essere causata da infezioni micotiche, corpi estranei, torsione del lobo polmonare,
disordini sistemici della coagulazione (CID o avvelenamenti).
La maggior parte delle malattie della trachea e dei bronchi risultano però in una tosse non produttiva, che in caso di
malattie bronchiali è descritta come a colpi brevi e secca o
APPROCCIO DIAGNOSTICO
L’approccio iniziale di un paziente con tosse e/o dispnea
con una sospetta patologia broncopolmonare deve comprendere una completa raccolta dell’anamnesi, un attento esame
fisico, un esame ematologico completo, esame delle feci,
profilo biochimico, radiografie del torace ed eventualmente
un esame elettrocardiografico.
Test aggiuntivi, complementari, devono essere selezionati sulla base delle informazioni ottenute con queste procedure e comprendono la valutazione di materiale raccolto dalle vie respiratorie inferiori e test per patologie specifiche (filariosi, FeLV, FIV).
Il clinico deve essere messo a conoscenza di tutte le attività che possono provocare la tosse o se essa si verifica con
maggior frequenza in certe ore del giorno o della notte. Ad
esempio una tosse più frequente di notte è spesso associata a
alterazioni cardiache. Una tosse che origina da malattie dei
grossi bronchi o trachea è spesso associata all’eccitamento.
È inoltre importante precisare il carattere dell’alterazione osservata; ad esempio se una dispnea è acuta, recente o se
è cronica, che risale ad alcune settimane.
I proprietari possono inoltre osservare ad esempio una
esacerbazione dei fenomeni di tosse in associazione all’uso
di spray nell’ambiente o alla presenza di fumo di sigarette.
(Malattia bronchiale).
22
38° Congresso Nazionale SCIVAC
Tabella 1
Patologie primariamente bronchiali
Bronchiti infettive
Bronchiti allergiche
Bronchiti croniche
Asma felina
Patologie primariamente polmonari
Infettive (batteri, virus, protozoi)
Infestive (miceti, elminti)
Allergiche
Neoplastiche
PIF, Toxoplasma
Aelurostrongilus, Capillaria, Filaria
Patologie primariamente pleuriche
Versamenti (trasudati, trasudati modificati, essudati)
Pneumotorace
PIF, Linfoma, ...
Patologie primariamente cardiache
Cardiomiopatie
Parassitarie
ipertrofica, dilatativa, trombosi, ...
Filaria
Altro
Ostruzioni vie aeree superiori
anemia, ipovolemia;
acidosi; ipertermia;
malattie neurologiche;
ernia diaframmatica, deformazioni torace, fratture costali
polipi rinofaringei, ...
Sorprendentemente, molti gatti affetti dalle patologie segnate in questa tabella non presentano tosse o dispnea, se
non in stadi molto avanzati della malattia; in gatti con tosse
evidente il sospetto di bronchite, parassitosi polmonare o filariosi è alto.
ESAME FISICO
Un esame fisico completo è estremamente importante ed
è spesso fondamentale per identificare anormalità che possono contemporaneamente o secondariamente coinvolgere il
polmone (malattie micotiche, metastasi).
L’esame delle mucose può ad esempio mettere in evidenza pallore o cianosi (possibile indice di ostruzione delle
vie respiratorie) oppure risultare normale.
Si inizia esaminando con attenzione la trachea, e si procede valutando tutte le strutture che possono essere coinvolte nel processo respiratorio.
Alcuni gatti con malattie broncopolmonari possono avere una storia recente di infezione delle vie respiratorie superiori; in aggiunta a ciò, al momento della visita possono essere notati starnuti o scolo oculonasale. Una tosse causata da
malattie della trachea è accentuata dalla pressione sul collo,
come quando è presente un collare. Molti gatti bronchitici
possono apparire normali a riposo e presentare una auscultazione polmonare nella norma, ma molti di questi pazienti comunemente presentano una aumentata sensibilità tracheale.
Malattie coinvolgenti primariamente le vie aeree, come in
caso di bronchite felina, più frequentemente risultano in alterazioni espiratorie e sibili auscultabili, mentre in animali con
dispnea sia inspiratoria che espiratoria possono essere considerate anche cause non primariamente respiratorie (anemia,
ipovolemia, acidosi, ipertermia, malattie neurologiche).
La presenza di tosse, cianosi, starnuti, e movimenti respiratori addominali aumentati durante l’espirazione possono portare ad identificare una broncocostrizione acuta.
Suoni polmonari duri o sibilanti sono evidenti durante
l’espirazione in una gran parte di gatti affetti da patologie
bronchiali; in questi casi risulta prolungata la fase espiratoria.
Alcuni gatti con malattie bronchiali possono presentarsi
con un grave stress respiratorio, cianosi e respirazione a bocca aperta. È da considerare che è particolarmente difficile distinguere tra un attacco asmatico e la manifestazione di una
malattia cardiaca. Le manifestazioni delle patologie polmonari sono molto variabili e dipendono dall’eziologia e dal
grado di coinvolgimento del polmone. È di solito presente
tosse cronica, benché tumori piccoli e bolle possano essere
asintomatici. Spesso l’esame fisico permette di evidenziare
tosse, febbre, cianosi, dispnea, emottisi, intolleranza all’esercizio ed anoressia. Se i polmoni sono colpiti notevolmente, i
pazienti possono presentare atti respiratori brevi, riferibili ad
una patologia polmonare restrittiva. L’esame fisico può fornire risultati molto variabili; l’auscultazione può rilevare rantoli o aree di attenuazione del rumore polmonare a seconda
della causa della patologia. Ulteriori procedimenti diagnostici includono radiografie ed, a volte, l’esame citologico e batteriologico. I campioni citologici possono essere ottenuti mediante lavaggio tracheo-bronchiale, bronco-alveolare o, meno frequentemente, per aspirazione transtoracica.
AUSCULTAZIONE DEL TORACE
È necessario auscultare attentamente ogni area toracica,
cercando di separare mentalmente l’evento polmonare da
quello cardiaco, non essendo facile infatti concentrarsi simultaneamente sui due eventi. Si devono auscultare attentamente le aree cranioventrali, centrali e dorsali del polmone,
sia destro che sinistro. In condizioni normali il polmone del
gatto si estende cranialmente dall’ingresso del torace e caudalmente fino a circa la 7a sternebra ventralmente e al 9°
spazio intercostale dorsalmente. Ogni asimmetria nei suoni
tra destra e sinistra è anormale (Tabella 2).
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Tabella 2
Reperti diagnostici all’esame fisico in caso di dispnea
Causa
Riscontro alla
percussione
Suoni polmonari
normali
Suoni polmonari
anomali
Segni clinici
di presentazione
versamento pleurico
da ottuso a afono
diminuiti o assenti
nessuno
dispnea
edema polmonare
ipofonesi
aumentati
crepitii +/- sibili
dispnea +/- tosse
pneumotorace
iperfonesi
diminuiti o assenti
nessuno
dispnea
asma
iperfonesi
normali o diminuiti
sibili +/- crepitii
dispnea + tosse anamnesi
• Tratto da: Small animal respiratory disorders, 1996.
Suoni polmonari diminuiti su uno o entrambi i siti del torace si verificano con versamenti pleurici, pneumotorace, ernia diaframmatica o presenza di masse. Sorprendentemente
però, lobi polmonari consolidati o masse possono esitare in
una intensificazione dei rumori polmonari, a causa dell’aumentata trasmissione dei suoni dai lobi adiacenti.
All’auscultazione, i suoni polmonari anomali sono descritti come sibili, rantoli o crepitii.
Questi ultimi sono definiti come rumori discontinui, non
musicali, simili a rumore di carta stropicciata o bolle scoppiettanti. Possono originare crepitii le malattie infiammatorie o neoplastiche interstiziali polmonari o malattie risultanti nella formazione di edema o essudato nelle vie aeree.
I sibili sono suoni musicali, continui che indicano la presenza di restringimenti delle vie aeree, che possono essere il
risultato di broncocostrizioni; ispessimenti della parete
bronchiale; presenza di masse, essudato o altro fluido nel lume bronchiale o di compressioni di origine extratoracica.
RADIOGRAFIE
Nella valutazione di gatti con malattie intratoraciche, l’esame radiografico frequentemente si dimostra uno dei mezzi diagnostici più affidabili. Può essere utile nel localizzare
il problema a carico di un organo (cuore, polmone, mediastino, pleura), nell’identificare l’area di coinvolgimento all’interno delle vie respiratorie inferiori e nel restringere la lista delle possibili diagnosi differenziali.
In animali che presentano tosse e/o dispnea la regione
tracheale deve essere esaminata con attenzione, in particolare quella cervicale in inspirazione, e quella toracica sia in inspirazione che in espirazione, sebbene il collasso della trachea sia una evenienza piuttosto rara nel gatto. Generalmente il problema più comune evidenziabile in questo settore è
un’ostruzione causata da un tumore o da un trauma.
A carico del polmone possono essere osservati una grande varietà di alterazioni radiografiche infiltrative: interstiziali, bronchiali, alveolari, vascolari, di intensità variabile da
media a grave. Il segno clinico radiografico più comune di
malattia bronchiale è la presenza di manicotti peribronchiali.
È necessario però non sovrastimare i segni radiologici
polmonari; in molti animali non è possibile giungere ad una
diagnosi solo sulla base dei reperti radiografici e spesso sono necessarie valutazioni specifiche di campioni cellulari
polmonari per definire il problema.
È da tenere presente inoltre che la gravità delle alterazioni radiografiche non sempre segue la gravità delle alterazioni cliniche respiratorie. Questo è ancora più vero in caso
di malattie bronchiali o in gatti con broncocostrizione acuta.
Gatti senza segni evidenti di infiltrazione possono mostrare altri segni radiografici compatibili con broncocostrizione, come bolle, appiattimento del diaframma ed iperinsufflazione polmonare.
Animali con gravi alterazioni del respiro (dispnea) ma
con quadri radiografici normali possono avere malattie
tromboemboliche o aver sofferto di recente di insulti polmonari (trauma, aspirazione di sostanze).
Sebbene in caso di neoplasia polmonare spesso siano
evidenti 1 o più noduli ben definiti, edema, emorragie od
una infiammazione secondaria possono oscurarne i limiti.
Non esistono pattern radiografici specifici delle neoplasie ed
un coinvolgimento neoplastico del parenchima polmonare
non può essere totalmente escluso sulla base degli aspetti radiografici, poiché spesso cellule maligne possono essere
presenti anche per lungo tempo nel parenchima polmonare
prima che la lesione raggiunga una dimensione evidenziabile radiologicamente. La sensibilità dell’esame radiografico
può aumentare se vengono eseguite radiografie sia del lato
destro che sinistro del torace.
Tabella 3
Diagnosi differenziale in gatti con pattern nodulare
interstiziale radiografico
Infezione micotica (rare in Italia)
Neoplasie
Linfoma
Carcinoma squamoso
Carcinoma broncoalveolare
Adenocarcinoma
Parassiti polmonari
Aelurostrongylus
Paragonimus
Ascessi
Polmonite batterica
Corpi estranei
Infiltrati polmonari con eosinofili
Malattie infiammatorie
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VALUTAZIONI DIAGNOSTICHE AGGIUNTIVE
Esami ematochimici
Alcuni gatti con malattie bronchiali o asma felina possono mostrare variazioni nell’esame emocromocitometrico.
Lo stress e/o infezioni concorrenti possono determinare
neutrofilia; gli eosinofili sono noti giocare un ruolo importante nei processi infiammatori delle vie aeree, e l’asma felina è riportata essere 1 dei 5 disordini associati più frequentemente ad eosinoflia nel gatto. Nonostante ciò l’eosinofilia
deve essere considerata come un fenomeno variabile in corso di patologie bronchiali nel gatto.
L’iperproteinemia è segnalata nel 33% dei gatti con malattie bronchiali, probabilmente in conseguenza di uno stimolo immunitario.
Ricerca dei parassiti
I parassiti che coinvolgono il sistema respiratorio possono essere identificati attraverso un esame microscopico diretto dell’espettorato, esami ematologici, analisi citologica
di materiale polmonare prelevato con un lavaggio BAL, o
esami a fresco del materiale fecale. Quest’ultimo è specifico
per la ricerca di parassiti come aelurostrongylus o uova di
capillaria.
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APPROCCIO DIAGNOSTICO
ALLE PATOLOGIE DEL TRATTO
RESPIRATORIO INFERIORE TRAMITE
LAVAGGIO TRACHEOBRONCHIALE
E BRONCOALVEOLARE
L’indagine microscopica delle linee cellulari coinvolte
da processi patologici a carico delle vie aeree inferiori può
fornire al clinico utili indicazioni riguardanti l’origine ed il
momento evolutivo del problema in atto.
È tuttavia doveroso sottolineare come questa valutazione
abbia senso e possa esprimere tutte le proprie potenzialità
solamente se inserita in un protocollo diagnostico rigoroso,
come precedentemente descritto: in altri termini questo esame deve necessariamente seguire un accurato esame fisico,
una serie di esami ematochimici e sierologici specifici, radiogrammi, elettrocardiogramma ed esame coprologico. Al
termine di questo iter, e solamente se permangono dubbi sulla reale natura del problema, è corretto eseguire lo studio di
cellule e figurazioni raccolte tramite lavaggio tracheo-bronchiale e/o broncoalveolare.
Bisogna inoltre essere a conoscenza del fatto che, a volte, patologie anche di differente origine possono esitare in
una risposta infiammatoria simile ed aspecifica, che poche
informazioni può dare al clinico; d’altra parte, se eseguito
propriamente e qualora vi siano le reali indicazioni per la sua
attuazione, l’esame citologico e colturale del liquido di lavaggio permettere di emettere diagnosi precise, di instaurare terapie mirate e di formulare prognosi corrette.
Broncoscopia
Questa metodica è indicata per valutare le vie respiratorie di diametro maggiore (trachea e grossi bronchi) e può
permettere di diagnosticare con sicurezza e talvolta trattare
direttamente alcune patologie (presenza di corpi estranei).
Si può effettuare utilizzando un broncoscopio di diametro da 3 a 4,8 mm.
Il vantaggio di quest’ultimo è quello di possedere in genere un canale di servizio da 2 mm, sufficiente al passaggio
di una pinza da biopsia.
Per effettuare l’esame è buona norma iperossigenare il
paziente per almeno 10 minuti prima dell’introduzione dello
strumento. Il limite di utilizzo per broncoscopi di 4,8 mm è
la necessità di dover operare con rapidità per evitare fenomeni di ipossia.
Si può in parte ovviare al problema fornendo ossigeno
attraverso il canale di servizio dell’endoscopio.
Test per malattie specifiche
I test sierologici per malattie specifiche possono essere
di aiuto nel processo diagnostico di malattie respiratorie,
ma è necessario considerare che molti di essi spesso evidenziano solo anticorpi, indicando solo indirettamente una
infezione. In generale, essi possono essere usati solo per
confermare un sospetto diagnostico, ma non sono test di
screening. I più comunemente utilizzabili sono quelli per la
ricerca di Toxoplasma, FCOV, Dirofilaria, Cryptococcus
(CALAS), FeLV, FIV.
Indicazioni e controindicazioni
I lavaggi tracheobronchiale e broncoalveolare sono indicati in presenza di tosse cronica (presente da almeno due settimane) o recidivante, comunque non rispondente in modo
soddisfacente alle terapie instaurate sulla base delle valutazioni sopra elencate.
In particolare, se si sospetta una patologia infettiva, infestiva, neoplastica o su base allergica, è possibile ottenere
fondamentali informazioni dalla valutazione citologica e
colturale dei campioni raccolti tramite lavaggio.
Richiedendo una anestesia generale per la propria esecuzione, questa metodica diagnostica deve essere tuttavia riservata solo agli animali in grado di affrontare i rischi collaterali di tale procedura. L’instillazione a livello di vie aeree inferiori di liquido sterile a temperatura corporea molto raramente crea problemi al paziente, anche se affetto da patologie
broncopolmonari e questo perché la soluzione non riaspirata,
viene subito riassorbita dall’albero tracheobronchiale.
È tuttavia opportuno preparare i gatti che devono essere
sottoposti a questo tipo di indagine in maniera adeguata; la
permanenza dell’animale in un ambiente arricchito con ossigeno al 50-60%, a temperatura ed umidità regolabili e costanti rappresenta la migliore preparazione per il paziente.
Ciò può essere ottenuto con l’impiego di una gabbia ad ossigeno o di una incubatrice pediatrica, ma anche una gabbietta in plexiglas per l’induzione dell’anestesia svolge egregiamente questo compito.
Si considera adeguata una permanenza nella gabbia ad
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ossigeno di circa un’ora prima ed un’ora dopo l’esecuzione
del lavaggio e l’aria nell’ambiente deve essere arricchita di
O2 dal 40 al 60%.
Raccolta ed allestimento dei campioni
Esistono fondamentalmente tre tecniche per la raccolta
del materiale di esfoliazione tracheo-bronco-alveolare:
1) iniezione del liquido di lavaggio per mezzo di un catetere
passato attraverso il tubo endotracheale;
2) iniezione del liquido di lavaggio sotto visione endoscopica diretta, attraverso il canale di lavoro dello strumento;
3) iniezione del liquido di lavaggio per via transtracheale,
con l’ausilio di un catetere passato attraverso un grosso
ago.
1. La prima delle metodiche elencate è quella di gran lunga
più impiegata nel gatto, sia per il facile reperimento che
per il ridotto costo del materiale necessario alla sua esecuzione. In pratica, il gatto, adeguatamente preparato ed
anestetizzato viene intubato con un tubo endotracheale
sterile attraverso il quale viene fatto passare un catetere
di gomma morbida, anch’esso sterile; una siringa contenente soluzione fisiologica sterile tiepida viene raccordata al catetere dopodiché il liquido viene spruzzato rapidamente ed altrettanto rapidamente aspirato. Tecnicamente esistono due tipi diversi di lavaggi: il lavaggio tracheobronchiale (LTB) ed il lavaggio broncoalveolare
(LBA). Di fatto, nel gatto, date le ridotte dimensioni dell’albero tracheobronchiale e la piccola distanza che vi è
fra i primi anelli tracheali e gli alveoli polmonari una netta distinzione fra le due procedure è più teorica che pratica e spesso eseguendo un LTB viene raccolto abbondante materiale derivante da alveoli e bronchioli terminali mentre eseguendo un LBA si repertano sul vetrino
numerose cellule ciliate e goblet cells che originano dal
segmento più prossimale di trachea a grossi bronchi. È
abitudine degli autori eseguire per primo un lavaggio più
profondo, con l’animale posto in decubito laterale ed il
tracheotubo cuffiato e posizionato in profondità, almeno
a livello di biforcazione bronchiale; viene quindi inserito
un catetere lungo, sottile e morbido, meglio se radiopaco,
così da potere eventualmente controllare radiologicamente la corretta localizzazione in profondità del catetere stesso. I sondini nasogastrici per la nutrizione forzata
dei neonati rispondono perfettamente a questo scopo.
Una quantità di liquido variabile (indicativamente
5ml/kg) viene iniettata e subito riaspirata: difficilmente
viene raccolto più del 50-60% del liquido originario ma
questo è generalmente più che sufficiente per allestire alcuni vetrini e per raccogliere campioni per eventuali esami colturali. Viene eseguito quindi un lavaggio più superficiale, sfilando il tracheotubo fino a che la sua punta
arrivi a livello dei primi anelli tracheali e facendo spuntare un nuovo catetere per circa un centimetro oltre la
punta del tracheotubo; il liquido viene quindi iniettato e
raccolto come descritto in precedenza ma difficilmente,
con questa tecnica è possibile recuperare più del 20-30%
della soluzione iniziale.
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2. L’uso di un broncoscopio per l’esecuzione dei lavaggi più
sopra descritti rappresenta apparentemente la tecnica
ideale, ma in realtà la necessità di strumenti “dedicati” a
questa piccola specie ed il loro difficile reperimento e relativo elevato costo ne impedisce un impiego diffuso.
Questi endoscopi devono essere sottili (3-5 mm di diametro) ma lunghi abbastanza per potere arrivare fino alle
strutture bronchiali più profonde ed in ogni caso la potenziale parziale ostruzione che essi causano obbliga l’operatore ad una rapida manovra ispettiva, spesso fornendo
ossigeno supplementare attraverso il canale di lavoro dell’endoscopio. L’indubbio vantaggio di questa tecnica consiste nella visualizzazione diretta delle aree colpite dal
processo patologico ed una conseguente raccolta “mirata”
dei campioni da esaminare.
3. L’impiego della via transtracheale per la raccolta di campioni con il LTB ed il LBA non rappresenta, nell’opinione degli autori, una metodica sufficientemente sicura a
causa della delicatezza della trachea del gatto che può seriamente lesionarsi a causa dell’azione traumatica della
punta dell’ago all’interno del lume tracheale, soprattutto
come conseguenza di eventuali colpi di tosse che l’iniezione del liquido può causare. I vantaggi ascrivibili a questa tecnica sono dati dal fatto che non necessita di una
anestesia generale ma solo di un deposito di anestetico locale nel punto di penetrazione dell’ago e dal fatto che si
riduce praticamente a zero la possibilità di una contaminazione del materiale da esaminare da parte di cellule e
batteri di derivazione orofaringea.
Indipendentemente dalla metodica scelta per la raccolta
del materiale da analizzare, la preparazione del liquido aspirato deve sempre essere la medesima: una parte viene inserito in appositi terreni di coltura per mezzo di tamponi sterili mentre la maggior parte del campione viene impiegata per
l’allestimento di vetrini per l’analisi citologica.
Caratteristica comune alla maggior parte delle scienze
biomediche che si avvalgono dello studio morfologico dei
campioni da analizzare, una tecnica preparatoria (in questo
caso citopreparatoria) eccellente è obbligatoria per una adeguata accuratezza diagnostica.
Come tutti i campioni citologici nei quali le cellule sono
sospese in un liquido, l’allestimento dei vetrini deve essere
eseguito il prima possibile: indicativamente entro 30-60 minuti per campioni non refrigerati ed entro 6-8 ore per campioni refrigerati (4°C, non congelati).
Infatti, la permanenza prolungata del materiale cellulare
nel liquido di lavaggio può determinare vari artefatti (ad es.
fagocitosi extracorporea, da parte di neutrofili e macrofagi,
di microrganismi contaminanti e globuli rossi oppure quadri
di retroplasia degenerativa in nuclei già displasici per effetto di flogosi cronica così da fare sospettare un evento tumorale) e complicare notevolmente la diagnosi, specialmente
per il rischio di risultati falsamente positivi.
Il suggerimento degli autori è quello di preparare i vetrini appena possibile e comunque entro 30 minuti e questo anche per un altro motivo: siccome l’allestimento dei vetrini,
la loro colorazione ed una prima rapida analisi non richiedono ad un citologo esperto più di 10-15 minuti, è possibile
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eseguire una prima, fondamentale analisi qualitativa mentre
il gatto è ancora in anestesia, permettendo un immediato secondo prelievo se il materiale da esaminare è insufficiente
oppure se si repertano cellule e microrganismi contaminanti
di derivazione oro-faringea che possono alterare in maniera
falsamente positiva i risultati degli esami colturali per batteri e miceti. Bisogna aggiungere che un eventuale secondo lavaggio deve essere eseguito immediatamente oppure dopo
almeno 48 ore e questo perché il liquido impiegato determina, dopo poche ore, una flogosi neutrofilica transitoria che
può falsare i risultati di conta differenziale ed analisi morfologica dei campioni.
Esistono fondamentalmente 4 tecniche per allestire i vetrini da lavaggio tracheo-bronco-alveolare:
1. spatolamento diretto del campione su portaoggetto;
2. spatolamento dopo centrifugazione;
3. allestimento tramite sedimentatore;
4. allestimento tramite citocentrifuga.
La prima tecnica viene riservata a quei campioni francamente torbidi o nei quali si rilevano ammassi di materiale
mucoso: lo spatolamento diretto di questo materiale in genere fornisce abbondante materiale per l’analisi citologica.
Liquidi poco torbidi richiedono una concentrazione del
materiale cellulare e non prima di potere eseguire una adeguata analisi.
La centrifugazione deve essere eseguita per 10 minuti a
1000 giri, dopo di ché il surnatante vene allontanato ed il
pellet residuo può essere risospeso e strisciato oppure raccolto direttamente con una pipetta e strisciato sopra il portaoggetto.
La concentrazione delle cellule per mezzo del sedimentatore rappresenta una metodo ottimo e di facile applicazione: questa tecnica è basata sul principio del lento assorbimento di un fluido da parte di uno spesso strato di carta
assorbente.
Se l’assorbimento è molto lento, le cellule (in una certa
aliquota) non vengono assorbite, sedimentano ed aderiscono
ad un vetrino portaoggetti. Il principale vantaggio di questo
procedimento è dato dal fatto che il materiale cellulare in sospensione non subisce alcun tipo di manipolazione (centrifugazione, risospensione e striscio) e che viene concentrato
in una piccola e circoscritta area del vetrino, facilitando l’analisi citologica del materiale sedimentato.
Citocentrifugazione: è interessante notare come questa
attrezzatura sia stata considerata una modificazione particolare della sedimentazione precedentemente descritta: ciò in
parte corrisponde al vero se si considera che, accelerato con
la centrifugazione il processo di sedimentazione, durante
questo avviene l’assorbimento della parte liquida del campione raccolto da parte della carta da filtro. Questa è compressa in modo tale da impedire un assorbimento troppo rapido, che comporterebbe la perdita di una certa aliquota cellulare.
La centrifugazione non deve superare i 500-600 g.p.m.
per 10 minuti. L’unico reale svantaggio di questa ultima tecnica consiste nel costo elevato della citocentrifuga.
Indipendentemente dalla tecnica di allestimento, le cellule raccolte sul vetrino devono essere colorate per potere essere osservate e studiate.
Gli autori usano abitualmente una colorazione tipo Ro-
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manowsky (Diff Quick) ed una colorazione che permetta
una migliore definizione dei dettagli nucleari (EmatossilinaEosina rapida); in particolare, per eseguire quest’ultima colorazione è necessario che il campione, ancora umido, venga immerso immediatamente in etanolo al 95% per 10 minuti circa oppure fissato con appositi citofissativi spray
(es.Cyto-fix).
Entrambe le colorazioni sono di rapide e di semplice esecuzione e danno informazioni che possiamo definire complementari, sempre utili se non addirittura fondamentali in
presenza di una patologia di sospetta natura neoplastica.
Per entrambi i tipi di colorazione si sottolinea l’importanza di impiegare coloranti freschi oppure appena filtrati.
Interpretazione citologica
Una spiegazione, seppure superficiale, delle linee cellulari e delle figurazioni normali e patologiche che si possono
rilevare nell’analisi di lavaggi tracheo-bronco-alveolari richiederebbe un seminario specifico ed occuperebbe 20 o 30
pagine di questa pubblicazione.
Nel rimandare, pertanto, tutti coloro che sono interessati
all’interpretazione citologica di LTB e LBA alle voci bibliografiche elencate alla fine di questa trattazione, preme sottolineare che solo lo studio citologico diretto di numerosi casi,
oltre alla conoscenza dei criteri valutativi ed interpretativi
applicati in citopatologia, permettono di acquisire una sufficiente confidenza con questa complessa ed affascinante tecnica diagnostica.
ASPIRATO TRANSTORACICO
CON AGO SOTTILE SENZA E CON
GUIDA ECOGRAFICA
Vi sono casi nei quali i vari esami eseguiti e fino a qui
descritti, non permettono di emettere una diagnosi eziologica certa; si tratta per lo più di patologie interstiziali diffuse,
localizzate prevalentemente nelle aree periferiche del parenchima polmonare oppure di lesioni nodulari singole o diffuse, non comunicanti con l’albero tracheobronchiale. In questi casi, volendo giungere ad una diagnosi certa, può essere
eseguito un prelievo di materiale per mezzo di un ago aspirato trans-toracico: questa metodica, infatti, si è dimostrata
in grado di sostituire, in maniera soddisfacente, la toracotomia esplorativa con conseguente biopsia polmonare.
La selezione dei pazienti che possono essere sottoposti a
questo tipo di indagine deve essere particolarmente rigorosa
e deve comprendere la valutazione del profilo coagulativo
(piastrine, PT, APTT, fibrinogeno), l’analisi attenta dei radiogrammi per escludere, ad es. la presenza di bolle polmonari, la cui lacerazione può causare un grave pneumotorace,
ed una accurata valutazione fisica, poiché animali fortemente dispnoici e/o con tosse frequente sono soggetti fortemente a rischio per questa manovra.
I principali rischi collegati a questa procedura diagnostica comprendono emotorace, pneumotorace, emorragia intrapolmonare con o senza emottisi e morte. Un esame radiografico e/o ecografico viene eseguito dopo mezz’ora ed
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un’ora dall’esecuzione dell’ago aspirato, per valutare la presenza di liquido od aria a livello toracico e decidere se inserire o meno un drenaggio toracico.
Il prelievo viene eseguito generalmente con un ago spinale, il cui mandrino viene mantenuto in situ fino al passaggio di cute, sottocute e strato muscolare per poi venire rimosso permettendo l’entrata, nell’ago, del materiale da raccogliere eventualmente aspirando 1 o 2 volte con una siringa da 5 o 10 ml, connessa all’ago tramite un tubino sterile.
Questa manovra può essere eseguita con l’animale coricato su un fianco oppure in decubito sternale, con o senza
premedicazione sedativa.
Il punto nel quale eseguire la biopsia, deve essere deciso
sulla base dei radiogrammi, sempre eseguiti almeno in due
prioezioni (latero-laterale e ventro-dorsale): in presenza di
lesioni nodulari l’agoaspirazione può essere eseguita “alla
cieca” dopo avere preso come punti di repere le costole e le
giunzioni costocondrali oppure aiutandosi nella manovra
con la sonda dell’ecografo. In presenza di lesioni generalizzate si preferisce eseguire l’aspirato nel polmone destro, fra
il VII ed il IX spazio intercostale, circa a metà fra la giunzione costocondrale ed il corpo vertebrale.
L’area nella quale viene infisso l’ago deve essere preparata chirurgicamente e tutti gli strumenti usati (aghi, siringhe
e tubino) devono essere sterili, poiché i campioni aspirati devono poter essere sottoposti anche ad esami colturali.
Il materiale così raccolto viene strisciato su portaoggetto
e colorato come già descritto in precedenza.
CASO CLINICO: LUNG-DIGIT SYNDROME
Nel gatto il carcinoma primario del polmone è considerato raro; colpisce animali con un’età media di 12 anni, leggermente più alta che nel cane.
Le manifestazioni cliniche sono spesso assenti od aspecifiche. La maggior parte dei gatti presenta inizialmente perdita di peso, anoressia, poi tosse e talvolta dispnea.
La sintomatologia diventa invece più tipica con la comparsa di metastasi, per lo più scheletriche; in particolare viene segnalata una netta predisposizione per le dita, e tale sindrome prende il nome di “Lung-digit syndrome”.
Caso clinico
Gatto femmina europeo comune di 12 anni, sterilizzata,
a pelo corto, che vive con altri 2 gatti.
L’animale viene portato alla visita perché da circa 10
giorni appare depresso, debole, con anoressia. All’anamnesi
si evidenzia che nell’ultima settimana si sono rilevati alcuni
colpi di tosse. Sulla base di esami ematologici, il gatto è
considerato nefropatico da due anni.
L’esame fisico evidenzia che il paziente è letargico, debole, lievemente disidratato. A livello del letto ungueale del
2° dito dell’arto ant. destro si osserva una piccola lesione nodulare, con fuoriuscita di materiale caseoso-purulento, ma
non si rileva dolore alla palpazione. Tuttavia si osserva una
lieve zoppia. L’auscultazione del torace fa rilevare alcuni sibili ed un incremento dei suoni bronchiali. La stimolazione
27
della trachea non provoca tosse.
A livello cutaneo si palpano tre piccoli noduli ovali (4-5
mm di diametro), duri, ben delimitati, non adesi.
Viene eseguito un esame citologico dei noduli cutanei e
dell’unghia; i preparati dalla cute appaiono molto cellulari, e
all’esame microscopico si evidenzia una popolazione di cellule coesive, con margini distinti, che si presentano in cluster
di tipo ghiandolare. Sono presenti anaplasia, anisocitosi, anisocariosi. Citoplasma fortemente basofilo, con nuclei centrali o polari irregolari.
Nella lesione ungueale si osservano molti neutrofili a cui
sono frammiste alcune cellule con le medesime caratteristiche.
Le caratteristiche citologiche sono compatibili con un processo neoplastico carcinomatoso altamente indifferenziato.
Viene eseguita una radiografia del torace in conseguenza
degli episodi di tosse segnalati: si rileva un addensamento
localizzato ai lobi caudali polmonari, con evidenza di un fenomeno edematoso bronchitico interstiziale. In proiezione
VD la lesione appare localizzata centro-caudalmente con
maggior coinvolgimento del lobo caudale dx al limite ilare.
Sulla base dei segni clinici, dell’esame radiografico e del
reperto citologico viene emesso il sospetto diagnostico di neoplasia primaria polmonare con evidenza di metastasi diffuse.
A causa della prognosi infausta della malattia e per le
condizioni cliniche del paziente si procede all’eutanasia.
L’esame istologico eseguito su materiale prelevato alla necroscopia conferma la diagnosi di carcinoma primario del
polmone (bronchiogenetico alveolare).
Le neoplasie del polmone del gatto sono considerate rare, ma numerosi lavori suggeriscono un rapido aumento nella loro incidenza.
Nel 1987 era stimata nello 0,05% dell’insieme dei tumori che colpivano questa specie. L’incremento osservato da
numerosi ricercatori è stato attribuito in parte all’aumento
della vita media del gatto. L’età media di presentazione è infatti di 12 anni, lievemente più alta che nel cane. È probabile però che ciò sia dovuto anche a fattori predisponenti ambientali che si sono alterati come si è verificato nello stesso
periodo di tempo, in modo simile a come accertato per l’uomo (fumo, smog).
In caso di carcinoma primitivo del polmone (è il tumore
polmonare primario più frequente) la metastatizzazione in
sede extratoracica è frequente. I carcinomi che più spesso
danno origine a metastasi per via ematogena possono essere
in ordine di frequenza gli adenocarcinomi, i carcinomi squamo-cellulari, ed i carcinomi indifferenziati.
Una predisposizione particolare delle metastasi da carcinoma primario polmonare (CPP) per le dita è stata descritta
per la prima volta da Capenter nel 1964.
Diverse pubblicazioni sono disponibili riguardanti la diffusione delle metastasi da un tumore primario del polmone
(NPP) ma non tutti sono concordi.
I segni clinici di un coinvolgimento primario del polmone sono estremamente variabili e possono essere rappresentati da tosse, dispnea, emottisi, anoressia, perdita di peso, letargia e vomito. È però da segnalare che molti gatti con NPP
si presentano senza segni clinici evidenti ed alla visita clinica risultano apparentemente normali. È da evidenziare che la
maggior parte delle neoplasie polmonari origina solitamente
a livello dei lobi caudali e pare più spesso a destra.
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Una zoppia può essere spesso presente (in circa 1/3 dei
casi) dovuta a metastasi a carico di ossa, muscoli scheletrici
o dita (“LUNG-DIGIT SYNDROME”).
La presenza di queste metastasi è spesso l’unico segno
clinico indicativo di una NPP. La maggior parte di NPP è infatti diagnosticata alla necroscopia in quanto una diagnosi
presuntiva è spesso difficile. Le metastasi a livello digitale o
scheletrico, accompagnate frequentemente da zoppia, paiono essere il segno clinico oggettivamente più indicativo di
una neoplasia primaria del polmone.
È probabile che la predilezione per certi siti metastatici
sia dovuta ad una combinazione di fattori anatomici, emodinamici, immunologici, biochimici e microambientali.
La localizzazione digitale può in particolare essere legata all’importanza della vascolarizzazione a livello dei cuscinetti plantari e del letto ungueale del gatto, che richiede di
facilitare gli scambi termici (e in particolare le perdite di calore) a questo livello. È anche da osservare che si tratta di
una zona sottoposta frequentemente a microtraumi, ed anche
ciò potrebbe risultare in una maggior predisposizione alla
colonizzazione metastatica.
Letture consigliate
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38° Congresso Nazionale SCIVAC
29
Stomatite cronica del gatto:
un problema medico o chirurgico?
Dea Bonello
Med. Vet., SRV, Dipl. EVDC - Libero Professionista - Torino
Con il termine generico di stomatite plasmacellulare si
intende definire una alterazione patologica del cavo orale di
natura infiammatoria, contraddistinta dal punto di vista istologico da una massiccia presenza di neutrofili, plasmacellule e linfociti. Sovente una ipergammaglobulinemia accompagna il dato istopatologico, ma in entrambi i casi si tratta di
prevedibili risposte del sistema immunitario ad una esposizione cronica a batteri e prodotti tossici del metabolismo
batterico.
A differenza della malattia parodontale, la stomatite del
gatto è caratterizzata dal persistere della componente infiammatoria acuta, che è verosimilmente responsabile del
dolore acuto quale sintomo principale.
Dal punto di vista clinico, le lesioni ai tessuti molli del
cavo orale provocate dalla stomatite sono identificate in base alla loro localizzazione, e si combinano variamente. Possiamo così avere una gengivite marginale, o una gengivite ed
una stomatite, oppure una stomatite ed una gengivite ed una
faucite, oppure ancora una oro-faringite quando tutti gli epiteli del cavo orale ed il connettivo sottostante siano interessati dal processo infiammatorio.
La causa primaria della stomatite del gatto non è ancora
stata individuata, nonostante i molti studi condotti sull’argomento. In linea di massima si tende a concordare sul fatto
che possa trattarsi di una malattia ad eziologia multifattoriale, e cioè che il processo patologico sia sostenuto da più
agenti causali, di natura virale e batterica, che possono o meno essere presenti e non concomitanti e che interagiscono
variamente. Probabilmente anche il sistema immunitario
gioca un ruolo importante, ma quale esso sia non è ancora
stato chiarito, visto che i gatti affetti da stomatite hanno in linea di massima una risposta immunitaria normale, sia umorale che cellulare. Eccezione fatta, ovviamente, per quei soggetti che risultano essere sierologicamente positivi agli
agenti eziologici di malattie quali la FIV o la FELV, o ancora la FIP in alcuni più sporadici casi.
Si pensa comunque che alla base del fenomeno infiammatorio ci possa essere un meccanismo di reazione di ipersensibilità immediata tipo III secondo la classificazione di
Gell e Coombs, in cui si formano, nei tessuti, aggregati antigene-anticorpo, con coinvolgimento di IgG, IgM, forse
IgA e complemento. Nel caso della stomatite del gatto, il fatto che la patologia sia essenzialmente localizzata può essere
spiegato dalla prevalenza numerica degli anticorpi sugli antigeni, per cui i complessi vengono subito precipitati e si localizzano nel punto in cui si trova l’antigene determinando
le lesioni. Si tratta comunque di una teoria in fase di valutazione, che non prescinde affatto dall’accettare come causali
della stomatite del gatto anche tutta una serie di altri agenti
ed eventi.
Riuscire a definire meglio la fisiopatologia della malattia
sarebbe senza dubbio molto importante, non solo per poter
acquisire una completa conoscenza dei meccanismi con i
quali la patologia si sviluppa, ma anche e soprattutto per poter individuare una cura valida ed efficace.
Ad oggi, sulla base delle conoscenze in nostro possesso,
la diagnosi della stomatite del gatto è basata soprattutto sulla valutazione dell’esito dell’esame istologico e sulla conduzione di una accurata visita clinica, e nell’ambito della visita clinica particolare interesse riveste l’indagine radiologica.
È stato infatti recentemente accertato che sulla radiografia
molto spesso si evidenzia la presenza di frammenti di radici
ritenute in sede endossea, laddove all’esame clinico si nota
la mancanza di uno o più denti.
Siccome l’estrazione di tutti i denti, o almeno di premolari e molari, rappresenta spesso l’unica opzione terapeutica
per poter curare la stomatite, ecco allora che l’indagine radiologica preoperatoria ci consente di verificare la presenza
o meno di radici ritenute, quando manchino all’appello uno
o più denti. Il buon esito della chirurgia è legato infatti alla
completa rimozione di tutti i denti nella loro interezza, dato
che anche il più piccolo frammento è in grado di alimentare
il processo infiammatorio acuto e di impedire la regressione
della sintomatologia.
La segnalazione così frequente di denti mancanti e di radici ritenute in soggetti affetti da stomatite, è spiegabile dal
fatto che in questi casi i denti possono essere interessati da
processi odontoclastici erosivi, che ne compromettono seriamente l’integrità, fino a provocare la frattura della corona
e/o delle radici. Le lesioni odontoclastiche erosive o lesioni
del colletto, FORL (Feline Odontoclastic Resorptive Lesions) nella terminologia anglosassone, sono lesioni erosive
dello smalto, della dentina e/o del cemento, spesso ricoperte
da tessuto infiammatorio di origine gengivale.
Queste lesioni possono originare all’interno del dente e
procedere verso l’esterno, quando siano presenti alterazioni
a carico della polpa, oppure iniziare come erosioni dello
smalto o del cemento, quando siano presenti disordini delle
strutture parodontali. Ne deriva per conseguenza logica che
una malattia infiammatoria cronica del cavo orale, quale la
stomatite, che può coinvolgere quasi tutte le strutture parodontali, può anche comportare l’insorgenza delle FORL.
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Infatti, allo stato attuale delle conoscenze, tra i fattori
causali delle lesioni odontoclastiche erosive del gatto, sono
annoverate tutte le sostanze responsabili dell’attivazione dei
meccanismi infiammatori, acuti e cronici, e tra i fattori
estrinseci la placca batterica e tutti i prodotti del metabolismo dei batteri che la compongono.
Per migliorare la comprensione di queste malattie del
gatto, e per motivare scientificamente certi interventi curativi radicali, può essere utile pensare che la stomatite plasmacellulare e le FORL sono patologie parzialmente assimilabili, per eziologia, decorso e manifestazioni cliniche, alle parodontopatie. Le FORL in particolare sono state classificate
come parodontopatie nel 1976 da Schneck.
La causa principale della malattia parodontale è l’alterazione dell’equilibrio fisiologico esistente tra la flora batterica della placca sottogengivale e la risposta immunitaria dell’organismo ospite. Questa battaglia avviene a livello del
solco gengivale, e porta alla distruzione progressiva dell’attacco epiteliale del dente, del legamento alveolo-dentale e
dell’osso alveolare, ed occasionalmente dei tessuti dentali
stessi, come avviene nelle FORL.
Molte sono le cause che possono iniziare o influenzare
questo processo patologico: squilibri endocrini, malattie metaboliche o immuno-mediate, stati di depressione immunitaria, terapie protratte con corticosteroidi, carenze nutrizionali
ed altre ancora.
Ecco allora che diventa fondamentale, nella cura di queste patologie, individuare la giusta associazione tra interventi di tipo chirurgico e terapie mediche, perché i primi ci consentono di ottenere una regressione spontanea della manifestazione infiammatoria acuta, e nel nuovo equilibrio che si
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viene a creare diventa possibile l’utilizzo di farmaci utili a
controllare il dolore, al riparo però dalla maggior parte degli
effetti collaterali sgraditi o addirittura controproducenti.
Letture consigliate
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31
Endodonzia: quando, come e perché è necessaria
la terapia canalare
Dea Bonello
Med. Vet., SRV, Dipl. EVDC - Libero Professionista - Torino
L’endodonzia è quella branca dell’odontostomatologia
che studia la fisiopatologia ed il trattamento delle affezioni
della polpa dentaria e dei tessuti periapicali. La terapia canalare è indicata nel trattamento dell’esposizione della polpa, della pulpite e della necrosi pulpare.
Reazione della polpa all’esposizione
della dentina
La dentina secondaria viene prodotta dagli odontoblasti
quando si è completata la formazione della radice del dente. La deposizione continua di dentina porta ad una riduzione progressiva dell’ampiezza della camera pulpare e dei
canali pulpari delle radici. La formazione di dentina secondaria è la risposta del dente agli stimoli dell’invecchiamento fisiologico. La dentina terziaria invece viene prodotta in risposta a traumi che coinvolgono i processi degli
odontoblasti contenuti all’interno dei tubuli dentinali. Sono proprio gli odontoblasti offesi dal trauma, di qualsiasi
natura esso sia, a produrre la dentina terziaria con lo scopo
di riparare il danno.
Ci sono situazioni in cui il processo di esposizione della
polpa, attraverso il consumo dello smalto prima, e della dentina poi, è così lento da concedere il tempo agli odontoblasti
di produrre dentina terziaria in quantità sufficiente da proteggere costantemente la polpa dal rischio dell’esposizione.
Situazioni tipiche sono il consumo eccessivo, provocato dall’uso improprio della dentatura, o i precontatti associati alle
malocclusioni.
La dentina può essere esposta, senza coinvolgimento della polpa, anche in caso di fratture non complicate della corona. In questo caso però il trauma provoca un forte dolore
iniziale, in quanto i tubuli dentinali vengono aperti, e le terminazioni nervose ed i fluidi contenuti all’interno trasmettono lo stimolo irritativo, fino a quando il danno non viene
riparato tramite la deposizione di dentina terziaria.
Altra circostanza in cui si può verificare l’esposizione
della dentina, e/o della polpa del dente, è la presenza di carie e di lesioni odontoclastiche erosive esterne. Entrambe
possono essere superficiali (confinate allo spessore dello
smalto), o estendersi in profondità nella dentina, tanto da arrivare ad esporre la polpa dentaria.
Anche qualora non fosse direttamente esposta, in presenza di lesioni profonde, la polpa può andare incontro ad una
reazione infiammatoria acuta o pulpite. I segni clinici asso-
ciati alla presenza di carie e EORL sono il dolore e la difficoltà nella masticazione.
Infine la polpa può risultare variamente traumatizzata da
una serie di procedure odontoiatriche, quali ad esempio la
preparazione di cavità, la monconizzazione, l’utilizzo di materiali altamente irritanti per i tessuti vitali (l’acido ortofosforico, etc.), e non ultime tutte quelle situazioni in cui l’utilizzo degli strumenti, provocando attrito contro i tessuti duri del dente, genera calore.
Esposizione della polpa
Quando si ha esposizione della polpa, la frattura del
dente viene definita complicata. Segni clinici sono l’emorragia pulpare ed il dolore acuto. In poco tempo però i batteri invadono il tessuto ed i vasi vengono obliterati dalla
pressione esercitata dall’infiammazione, provocando la necrosi della polpa. Un tappo di materiale organico essiccato
occlude la cavità pulpare e questa condizione, essendo nel
frattempo cessato il dolore, può rimanere inalterata per lungo tempo.
Prima o poi, però, l’infezione che alberga nella cavità
pulpare si diffonde nei tessuti periapicali attraverso il delta
apicale, causando una paradentite periapicale, che evolverà
con il tempo in un granuloma apicale o in un ascesso apicale. A questo punto la condizione diventa nuovamente dolente e si può manifestare anche gonfiore localizzato.
La patologia periapicale si presenta in radiografia come
una zona di lisi rotondeggiante localizzata intorno all’apice
della radice.
Nel cane e nel gatto il granuloma periapicale associato
alla frattura complicata del P4 superiore provoca la formazione di un tragitto fistoloso che drena in superficie in corrispondenza del canto mediale dell’occhio. Anche il seno
mascellare può essere coinvolto dal processo infiammatorio purulento. In generale ogni ascesso periapicale può dare origine ad una situazione analoga, alla formazione cioè
di un tragitto fistoloso che drena in superficie ulcerando la
cute del muso.
La polpa può infine venire esposta accidentalmente durante le procedure dentistiche. Questo genere di complicazione deve essere trattato in modo appropriato per evitare
l’insorgere di pulpiti o necrosi pulpari.
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Pulpiti ematogene e pulpiti traumatiche
In medicina umana è segnalata una condizione infiammatoria della polpa, o pulpite, di origine ematogena. Questa condizione è invece estremamente rara nel cane e nel gatto, e può
essere causata da stimoli di natura termica (surriscaldamento
degli strumenti dentali che vengono a contatto con la corona).
Anche traumi di varia natura possono determinare l’insorgenza di una pulpite. In caso di sublussazione e di lussazione del dente si verifica infatti uno stiramento del fascio
vascolo-nervoso che attraversa il delta apicale, e in determinate circostanze l’emorragia può essere di entità tale da provocare la necrosi della polpa per obliterazione dei vasi. La
pulpite e la necrosi pulpare determinano solitamente una alterazione del colore della corona del dente, che diventa rosato, grigio o giallastro, a causa dell’infiltrazione di pigmenti ematici all’interno dei tubuli dentinali.
Classe I
Classe II
Classe III
Figura 1 - Tratta da: Manfra-Marretta S, Schloss AJ, Klippert LS,
(1992) Classification and prognostic factors of endodontic-periodontic
lesions in the dog, Journal of Veterinary Dentistry 9(2):27-30.
Le lesioni combinate endo-parodontali si risolvono solitamente con l’estrazione del dente affetto, perché la terapia
conservativa presenta una prognosi riservata e tempi di attuazione molto lunghi.
Lesioni combinate endo-parodontali
Spesso lesioni endodontiche e lesioni parodontali coesistono nello stesso dente. In questo caso la polpa contenuta
all’interno di una o più radici è necrotica, mentre all’esterno
il legamento parodontale è distrutto, dal solco gengivale fino all’apice (o allo sbocco di un canale accessorio). Queste
lesioni vengono classificate in tre diverse classi, in base a
criteri di fisiopatologia: nelle lesioni di classe I, la necrosi
pulpare è la patologia primitiva ed i batteri migrano attraverso l’apice della radice al legamento alveolo-dentale. Nelle lesioni di classe II, sono i batteri presenti nelle profonde
tasche parodontali ad invadere la polpa. Quando le due condizioni sono cronologicamente coesistenti, allora si parla di
lesioni di classe III (Fig. 1).
La terapia canalare
Una grande varietà di termini viene usata sia in medicina umana, sia in medicina veterinaria, per indicare le varie
terapie endodontiche.
La terapia o cura canalare convenzionale consiste nella
rimozione completa della polpa del dente attraverso un accesso praticato nella corona. Un altro termine che definisce
in maniera appropriata questo intervento è quello di pulpectomia totale, mentre per pulpectomia parziale, o pulpotomia
(Fig. 2), si intende la rimozione di parte della polpa coronale ed il suo successivo rivestimento con un materiale biocompatibile. Di qui anche il termine di pulpotomia vitale,
Figura 2 - Pulpectomia parziale o pulpotomia. Tratta da: Emily P, Penmann S, (1990) Handbook of Small Animal Dentistry, Pergamon Press, Lon-
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Figura 3 - Pulpectomia totale. Trattada: Emily P, Penmann S, (1990) Handbook of Small Animal Dentistry, Pergamon Press, London.
mentre per incappucciamento diretto della polpa si intende
il semplice atto di medicare la polpa che risulti accidentalmente esposta durante una procedura dentistica. Per incappucciamento indiretto della polpa si intende invece la medicazione della polpa che risulta però ancora protetta da un
sottile strato di dentina.
Quando la pulpotomia vitale viene praticata su di un dente immaturo, il risultato che si vuole ottenere è lo sviluppo
normale della radice e la chiusura dell’apice.
Questo processo fisiologico prende il nome di apexogenesi. Quando invece lo stesso scopo lo si vuole raggiungere su di un dente immaturo non vitale, la particolare procedura che bisogna eseguire prende il nome di apecificazione (Fig. 3).
Infine, l’apicectomia è quella procedura chirurgica, detta
anche terapia canalare chirurgica, che prevede la creazione
di un accesso all’apice della radice attraverso l’osso alveolare, l’amputazione dell’apice, la rimozione del tessuto periapicale patologico e il riempimento canalare retrogrado (dall’apice verso la corona).
Letture consigliate
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35
I dosaggi farmacologici nel gatto e le differenze
tra il gatto e le altre specie
Dawn Boothe
DVM, MS, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ACVCP
Texas A&M University Dept of Physiology and Pharmacology College Station, Texas (USA)
DEFINIZIONE DI REAZIONE AVVERSA
Le reazioni avverse ai farmaci, classificate in tipo A e B,
comprendono qualsiasi effetto indesiderato o non prestabilito del trattamento farmacologico. Le reazioni di tipo A (“intensificate”) sono risposte farmacologiche (o tossiche) esagerate, ma altrimenti normali e previste, verso un farmaco.
La reazione avversa può essere una risposta secondaria (ad
es. il broncospasmo indotto dal beta antagonista non selettivo propranololo), piuttosto che l’effetto primario e voluto
del farmaco (ad es. effetto cronotropo negativo indotto dal
propranololo) oppure può essere una risposta tossica (ad es.
metemoglobinemia indotta dall’acetaminofene). Anche la
mancata comparsa della risposta terapeutica prevista può costituire una reazione di tipo A. Benché nel gatto le differenze di tipo, densità e specificità del recettore possano favorire le reazioni avverse, la maggior parte di quelle di tipo A
sottintende differenze di eliminazione del farmaco che ne inducono variazioni (spesso elevate) dei livelli plasmatici. Nel
gatto, la tossicità da acetaminofene è un esempio di reazione avversa di tipo A che dipende da differenze nell’eliminazione (metabolismo) e nella struttura emoglobinica. Le reazioni di tipo A dipendono dal dosaggio e, disponendo di
informazioni adeguate relative al paziente, spesso sono prevedibili e possono essere evitate. Solitamente, l’incidenza di
questo tipo di reazione può essere limitata controllando i livelli plasmatici del farmaco affinché rimangano entro l’intervallo terapeutico, evitando in tale modo la comparsa di
concentrazioni subterapeutiche o tossiche. È probabile che
un certo numero di reazioni avverse ai farmaci segnalate nel
gatto siano attribuibili a risposte di tipo A.
A differenza delle reazioni di tipo A, quelle di tipo B
(“anomale”) sono risposte inaspettate e aberranti, prive di
qualsiasi relazione con l’effetto farmacologico della sostanza, che non dipendono dal dosaggio e non sono prevedibili.
È probabile che queste reazioni sottintendano modificazioni
nel tessuto bersaglio, variazioni genetiche o allergie al farmaco. Le reazioni di tipo B sono imprevedibili e, a differenza di quelle di tipo A, è difficile evitarle.1 Nel gatto, le descrizioni di reazioni di tipo B sono limitate. Alcuni esempi
comprendono degranulazione delle mast cell (una reazione
non-allergica) da parte di sostanze cationiche quali materiali contrastografici; amfotericina B; doxorubicina e solubilizzanti o veicoli dei farmaci. Sottoporre preventivamente il
gatto alla somministrazione di una piccola dose di prova prima del trattamento può servire ad identificare e, quindi, evi-
tare le reazioni di tipo B. Altri esempi di reazioni di tipo B
nel gatto comprendono rialzi febbrili (ad es. tetracicline, caparsolate) e, poiché nel gatto il polmone è l’organo che risente dello stato di shock, edema polmonare (ad es. caparsolate, plasma) e altri. Le reazioni avverse da farmaco nel gatto vengono trattate in maggiore dettaglio nella relazione dal
titolo “Reazioni avverse da farmaco nel gatto”.
PRINCIPI DI ELIMINAZIONE
DEI FARMACI
Relazione dose-risposta. Solitamente, le risposte dell’organismo a un farmaco (reazioni di tipo A) sono direttamente proporzionali ai livelli plasmatici di quest’ultimo. Pertanto, i livelli tissutali della sostanza, che tendono a uguagliare
quelli plasmatici, determinano definitivamente l’entità della
risposta al farmaco, sia questa primaria, secondaria o tossica. Generalmente, le relazioni esistenti fra concentrazione e
risposta al farmaco sono le stesse nella maggior parte delle
specie. L’obiettivo della terapia farmacologica è di somministrare una dose che mantenga i livelli plasmatici massimo
e minimo del farmaco entro gli intervalli terapeutici, al di
sotto del livello tossico. I livelli plasmatici massimo e minimo di un farmaco somministrato secondo un regime di dosaggio specifico vengono determinati dall’eliminazione del
farmaco.
Fattori che determinano l’eliminazione dei farmaci. I
fattori da cui dipende l’eliminazione di un farmaco comprendono assorbimento dalla sede di somministrazione (solitamente il tratto gastrointestinale) con passaggio nel torrente circolatorio, distribuzione dal circolo ematico ai tessuti dell’organismo e metabolismo e/o escrezione.4,5 L’entità
dell’influenza di ognuno di questi fattori sull’eliminazione
di un particolare farmaco dipende dalla struttura chimica
dello stesso (vale a dire liposolubilità o solubilità in acqua,
dimensioni molecolari e pKa) oltre che da varie condizioni
ambientali locali. Ad esempio, l’assorbimento gastrointestinale dipende principalmente da pH locale, motilità del tratto
gastroenterico, permeabilità epiteliale, superficie di assorbimento e perfusione ematica. La distribuzione può avvenire
verso diversi comparti dell’organismo (fra cui plasma, liquidi extracellulari o fluidi totali dell’organismo) e dipende da
dimensioni del comparto, entità del legame fra il farmaco e
le proteine (principalmente albumina), perfusione dei tessuti e legame del farmaco agli stessi. Il volume del tessuto in
36
cui il farmaco si distribuisce è inversamente proporzionale ai
livelli plasmatici del farmaco; pertanto, se il volume di distribuzione è limitato (vale a dire che il farmaco si distribuisce unicamente nel liquido extracellulare), i livelli plasmatici tendono ad essere più elevati che se la sostanza si distribuisse nei fluidi totali dell’organismo. I farmaci con elevata percentuale di legame alle proteine presentano volumi
di distribuzione limitati. Nella forma legata, i farmaci non
sono attivi e non possono raggiungere gli organi emuntori.
Le variazioni nella percentuale di legame alle proteine di
un farmaco implicano notevoli differenze di disponibilità del
principio attivo (ad es. un farmaco con percentuale di legame pari a 99% presenta soltanto l’1% di forma attiva; rendendo disponibile un ulteriore 1% della quota legata [passando quindi dal 99% al 98%], si raddoppia l’entità della sostanza farmacologicamente attiva). Poiché i fattori da cui dipendono i livelli plasmatici del farmaco sono la dose somministrata e il volume dei tessuti in cui la sostanza si distribuisce, può essere necessario ritoccare il dosaggio per modificare la distribuzione. È possibile che occorra aumentare
la dose per compensare la maggiore distribuzione; è valido
l’opposto se il farmaco viene distribuito in quantità minori ai
tessuti oppure se la quantità legata alle proteine è inferiore.
Il metabolismo dei farmaci si svolge principalmente a livello epatico. I composti dotati di sufficiente idrosolubilità
non richiedono alcun metabolismo, vengono escreti in massima parte in forma invariata nelle urine e solitamente presentano forme di eliminazione e regimi posologici analoghi
nel cane e nel gatto (ad es. aminoglicosidi). Al contrario, i
farmaci liposolubili devono essere convertiti in forme idrosolubili prima di essere eliminati. La funzione del metabolismo dei farmaci è di trasformare per via chimica le sostanze
liposolubili in forme idrosolubili allo scopo di favorirne l’escrezione, principalmente per via renale. In caso di mancato
metabolismo, i farmaci liposolubili si accumulano fino a
raggiungere livelli tossici. La maggior parte del metabolismo dei farmaci si svolge nel fegato ed è suddiviso in due fasi, ognuna catalizzata da enzimi specifici. Gli enzimi della
prima fase svolgono funzioni di ossidazione, riduzione e
idrolisi del farmaco e le modificazioni chimiche che questo
subisce solitamente ne aumentano l’idrosolubilità rendendolo più sensibile agli enzimi della seconda fase. Gli enzimi
della fase I appartengono perlopiù al sistema del citocromo
P-450, sono localizzati nel reticolo endoplasmatico dell’epatocita e spesso vengono definiti enzimi microsomiali. L’effetto del metabolismo della prima fase sull’attività farmacologica del farmaco varia a seconda del prodotto e talvolta
della specie. La conseguenza più frequente della prima fase
del metabolismo è la conversione del farmaco in metaboliti
farmacologicamente inattivi. Tuttavia, questi ultimi possono
anche risultare più tossici del composto d’origine (ad es.
acetaminofene e fenitoina). È possibile che un farmaco venga convertito in un metabolita dotato di attività farmacologica pari o addirittura superiore a quella del composto d’origine (ad es. acido acetilsalicilico, primidone, diazepam, propranololo). Infine, alcuni farmaci (“profarmaci”) devono essere convertiti nella forma farmacologicamente attiva (ad es.
etacillina, cytoxan, imuran, primidone e prednisone). Gli enzimi della fase II catalizzano la coniugazione di molecole di
grandi dimensioni quali glucuronide, glutatione, gruppi sol-
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fato e acetilici e aminoacidi (ad es. taurina e glicina) con il
farmaco d’origine o i relativi metaboliti della fase I. L’unione o la coniugazione di una molecola di grandi dimensioni
comporta quasi sempre la genesi di un composto inattivo,
idrosolubile che può essere escreto facilmente nella bile o
nell’urina. Un ruolo importante degli enzimi della fase II è
la coniugazione e rimozione dei prodotti metabolici della fase I che possono essere dotati di effetti tossici. La reazione
più comune della fase II è la coniugazione glucuronica, che
viene catalizzata da enzimi appartenenti alla famiglia delle
glucuronil-tranferasi. I farmaci contenenti gruppi -OH, COOH, -NH2, -HN e -SH sono particolarmente sensibili alla glucuronidazione; ne sono alcuni esempi morfina, cloramfenicolo, acido salicilico e relativi composti e alcuni sulfamidici. La glutatione-transferasi (GSH) è un altro enzima importante della fase II poiché svolge funzioni di eliminazione di farmaci tossici e/o dei relativi metaboliti. La deplezione di glutatione indotta da alcuni farmaci può indurre
l’accumulo di composti potenzialmente tossici. La via metabolica di ogni particolare farmaco dipende dal farmaco stesso oltre che dalla specie animale. Molte diverse famiglie di
enzimi sono responsabili sia della fase I che della fase II del
metabolismo e nell’ambito di ogni famiglia, gli enzimi sono
caratterizzati da specificità per i substrati. Pertanto, la variabilità individuale, intraspecifica e interspecifica è notevole.
La differenza di metabolismo dei farmaci fra le varie specie
è sia di tipo qualitativo, dovuta al metabolismo sostenuto da
diversi enzimi, che quantitativo, dovuto a differente velocità
ed entità dello stesso.
L’escrezione biliare non è una via comune di eliminazione. Il tempo di permanenza di un farmaco nell’organismo
può essere prolungato se questo viene eliminato con la bile,
poiché il circolo enteroepatico comporta il riciclo della sostanza e ne prolunga l’effetto. L’escrezione renale rappresenta il meccanismo più importante per l’eliminazione dall’organismo di farmaci o metaboliti. La clearance renale dei
farmaci è determinata da flusso ematico renale, filtrazione
glomerulare (che dipende, in parte, dal legame con le proteine), secrezione tubulare attiva e riassorbimento tubulare passivo (che può essere alterato dal pH urinario). L’insieme di
metabolismo epatico, escrezione biliare ed escrezione renale comprendono i meccanismi principali con cui i farmaci lasciano (vengono eliminati) l’organismo. Altre vie meno comuni assumono importanza per determinati farmaci (ad es. i
polmoni, ecc).
Parametri di eliminazione e regimi posologici. La dose
di un farmaco è determinata dalla concentrazione che occorre raggiungere (20 µg/ml o mg/l di fenobarbital oppure 10
µg/ml di gentamicina) e dal volume di distribuzione del farmaco nell’organismo (0,6 l/kg, fenobarbital e 0,25 l/kg gentamicina: 20 X 0,6 = 12 mg/kg dose di carico del fenobarbital; 10 mg/l X 0,3 l/kg = 2,5 mg/kg gentamicina). Gli effetti
cumulativi dei fattori di eliminazione stabiliscono quanto
tempo debba trascorrere prima di somministrare la dose successiva (vale a dire prima che i livelli plasmatici del farmaco scendano al di sotto del limite accettabile). L’intervallo è
determinato dal tempo richiesto per l’eliminazione del farmaco dal plasma, parametro comunemente valutato come
emivita di eliminazione plasmatica, vale a dire il tempo
necessario affinché il 50% del farmaco venga eliminato dal
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plasma. L’emivita dipende dalla clearance dell’organismo,
ma anche dall’entità di distribuzione del farmaco nei tessuti.
Se un farmaco è ampiamente distribuito, non è disponibile
agli organi che provvedono a eliminarlo e quindi permane
per un tempo più lungo nell’organismo. Pertanto, l’emivita
dei farmaci è particolarmente importante per determinare gli
intervalli di somministrazione. L’emivita del farmaco determina anche il punto in cui verrà raggiunta la concentrazione di equilibrio (la massima concentrazione del farmaco). Il
livello di equilibrio è importante per i farmaci dotati di emivita più lunga dell’intervallo di dosaggio. Queste sostanze si
accumulano nell’organismo (poiché la maggior parte della
dose precedente è ancora presente quando si somministra
quella successiva). Indipendentemente dal farmaco, devono
trascorrere da 3 a 5 emivite prima che vengano raggiunti livelli in stato di equilibrio. I regimi posologici consigliati
possono essere applicati quando siano basati su studi controllati che descrivano la relazione fra tempo e livelli plasmatici del farmaco. In ambito veterinario sono state recentemente riesaminate la farmacocinetica clinica, ovvero la
scienza che studia i regimi posologici e le relazioni fra questa e l’eliminazione dei farmaci. Da questi stessi fattori dipendono i livelli plasmatici dei farmaci in ogni specie animale, ma le caratteristiche uniche del gatto comportano la
comparsa di livelli plasmatici diversi e quindi reazioni avverse quando una sostanza venga somministrata seguendo il
regime posologico adottato in altre specie. Nel gatto, i fattori che alterano l’eliminazione del farmaco possono essere
classificati in fisiologici (specie e età), farmacologici (interazioni farmacologiche) e patologici (indotti da malattie).
FATTORI CHE MODIFICANO
L’ELIMINAZIONE DEI FARMACI
NEL GATTO
Ruolo delle differenze di specie nell’eliminazione. Nelle
specie animali dotate di analogie fisiologiche, l’eliminazione
dei farmaci tende ad essere simile e spesso un determinato
prodotto può essere somministrato allo stesso dosaggio farmacologico.7 Pertanto, la posologia consigliata nel cane viene sovente estrapolata al gatto. Tuttavia, fra le due specie esistono alcune differenze di eliminazione dei farmaci che nel
gatto possono indurre lo sviluppo di reazioni avverse quando
si applichino gli schemi di dosaggio utilizzati nel cane.
Assorbimento. Nel cane e nel gatto, la velocità e l’entità
di assorbimento della maggior parte dei farmaci sembra
uguale, indipendentemente dalla via di somministrazione.
L’unica eccezione sembra riguardare le preparazioni a rilascio lento, in cui la velocità e l’entità dell’assorbimento varia in base alla specie. Il gatto presenta disordini relativamente unici del tratto gastrointestinale che possono alterare
l’assorbimento dei farmaci, fra cui disordini della motilità
gastrica (ridotto assorbimento), enteropatie infiammatorie
croniche (sia accresciuto che ridotto assorbimento, in base
all’estensione delle lesioni).
Distribuzione. Benché le differenze nella distribuzione
dei farmaci fra le specie tendano a essere minime, comportano comunque notevoli variazioni nelle risposte. Il volume
ematico nel gatto (70 ml/kg) è minore che nel cane (90
37
ml/kg); pertanto, i livelli plasmatici dei farmaci la cui distribuzione è limitata al comparto plasmatico, possono differire
notevolmente fra le specie. La stessa quantità di farmaco
(espressa in funzione del peso in kg) risulterà meno diluita
nel gatto poiché il volume plasmatico è minore. Pertanto, i
livelli dei farmaci somministrati in dosi di mg/kg, inizialmente possono essere più elevati nel gatto che nel cane. Gli
organi maggiormente vascolarizzati (fra cui cuore, encefalo)
sono più esposti alle intossicazioni. Il gatto ha dimensioni
pressappoco sovrapponibili a quelle dei cani di piccola taglia. Quindi, le dosi stabilite per cani di taglia media o grande non sono adatte nel gatto poiché negli animali più piccoli la superficie corporea è maggiore. In qualsiasi soggetto in
età pediatrica, il contenuto idrico dell’organismo rappresenta un’elevata percentuale del peso corporeo che tende a diluire i farmaci. Le diverse caratteristiche di legame con le
proteine plasmatiche (in particolare albumina) possono modificare la distribuzione dei farmaci che si uniscono in elevata percentuale alle molecole proteiche; inoltre, il grado di
legame dei diversi farmaci alle proteine varia notevolmente
fra le diverse specie. Per un farmaco altamente legato, una
differenza del 10% di questo parametro può essere estremamente dannosa in alcuni soggetti. Nel gatto, sono state stabilite le caratteristiche di eliminazione di numerosi farmaci,
mentre sono stati condotti pochi studi per determinarne l’entità del legame con le proteine. Gli effetti dello stato patologico possono alterare notevolmente la distribuzione dei farmaci. Il gatto malato non riesce a conservare lo stato di idratazione bene come il cane e gli squilibri idrici derivanti dalla disidratazione o dagli edemi alterano la distribuzione del
farmaco. Il gatto obeso può rappresentare un “pozzo senza
fondo” per i farmaci liposolubili, con conseguente abbassamento dei livelli plasmatici al di sotto del limite minimo. È
probabile che la distribuzione dei farmaci sia alterata nei
gatti con patologie cardiovascolari. L’apporto ematico all’encefalo e al cuore viene garantito a scapito della circolazione in altri organi. Quindi questi due distretti risultano
maggiormente esposti a eventuali effetti tossici. Inoltre, vi
sono minori probabilità che il farmaco raggiunga gli organi
bersaglio.
Metabolismo. Le differenze più significative di eliminazione dei farmaci fra cane e gatto probabilmente derivano da
differenze nel metabolismo. Si noti che il gatto è di dimensioni minori del cane ed è dotato di un rapporto maggiore fra
superficie e peso corporeo. Pertanto, analogamente ai cani di
piccola taglia, i gatti devono assumere dosaggi maggiori in
relazione alla piccola mole. Tuttavia, la presenza di altre differenze metaboliche tende a mitigare le differenze di superficie corporea. È difficile identificare gli enzimi della fase I
e i relativi substrati specifici e sono state descritte poche differenze di specie. Nel gatto sono stati riscontrati deficit di
metilazione e di idrossilazione che possono essere responsabili di variazioni nei sistemi di attivazione dei profarmaci
(ad es. primidone) o di reazioni avverse a particolari sostanze (come il cloramfenicolo). La reazione del gatto al diazepam recentemente descritta può indicare la produzione di
metaboliti diversi oppure una sensibilità del fegato dei felini
al danno indotto dai metaboliti stessi. Le diversità fra gli enzimi della fase II e i relativi substrati farmacologici sono state individuate con maggiore precisione e giustificano molte
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differenze di eliminazione dei farmaci esistenti fra cane e
gatto. La maggior parte di queste ultime dipende dal deficit
di coniugazione glucuronica tipico del gatto, dovuto alla
presenza di livelli estremamente bassi di alcune glucuroniltransferasi. Pertanto, molti farmaci che in altre specie vengono escreti sotto forma di coniugati glucuronici nel gatto
sono caratterizzati da clearance ed emivita più prolungati.
Nella specie felina, i livelli tossici vengono raggiunti molto
più velocemente e si verificano con maggiore frequenza risposte farmacologiche esagerate o casi di intossicazione. Ad
esempio, l’acetaminofene risulta tossico nel gatto poiché il
legame con acido glucuronico non è abbastanza rapido. La
quantità di farmaco in eccesso viene convogliata agli enzimi
della fase I, con conseguente produzione di metaboliti tossici. Questi ultimi saturano il sistema disintossicante del glutatione contenuto negli eritrociti felini e ne deriva lo sviluppo di metemoglobinemia. La cimetidina può rivelarsi utile
nei soggetti che manifestano reazioni avverse all’acetaminofene (se somministrata entro 48 ore) poiché inibisce gli enzimi della fase I che provvedono al metabolismo del farmaco. Non tutti i composti che si coniugano con acido glucuronico risultano tossici nel gatto e questa affermazione è valida per diverse ragioni. Innanzitutto, il deficit esistente nella specie felina riguarda soltanto alcune famiglie di glucuronil-transferasi. Il gatto è in grado di coniugare ed espellere
substrati endogeni quali bilirubina, tiroxina e ormoni steroidei al pari delle altre specie. Invece, il metabolismo di
un’ampia varietà di farmaci esogeni, in particolare fenoli e
acidi e amine aromatiche, si verifica molto più lentamente
nel gatto che nelle altre specie. Il grado di deficit e di tossicità potenziale dipende dal substrato farmacologico. Ad
esempio, alcuni composti fenolici vengono coniugati sufficientemente a differenza di altri. In secondo luogo, i farmaci coniugati con acido glucuronico caratterizzati da un ampio margine di sicurezza sono associati a poche reazioni avverse anche in caso di accumulo. Infine, in assenza di acido
glucuronico, i farmaci possono essere metabolizzati adeguatamente seguendo una via alternativa. Nel gatto, possono essere particolarmente sviluppati alcuni solfati e molti farmaci, che il cane elimina come coniugati glucuronici, nella specie felina vengono escreti come composti solfati. Invece, altri sistemi di coniugazione con gruppi solfato sembrano andare incontro a saturazione rapida. Sfortunatamente, le vie
alternative di metabolismo dei farmaci possono anche contribuire ad accrescere la tossicità di alcune sostanze, poiché
coinvolgono gli enzimi della fase I che catalizzano la formazione di metaboliti tossici. Pertanto, i farmaci che nel gatto vengono convogliati verso altre vie possono risultare
estremamente tossici in questa specie, mentre inducono una
tossicità minima nelle altre (ad es. acetaminofene). In sintesi, le conseguenze del deficit di coniugazione glucuronica
nel gatto dipendono dalla natura del farmaco e dalla presenza di vie alternative di metabolismo. Il farmaco stesso e le
sostanze tossiche intermedie si accumulano quando mancano altre vie metaboliche significative. Utilizzando farmaci
caratterizzati da emivita prolungata e/o clearance ridotta, è
prevedibile ottenere una risposta farmacologica esagerata o
tossica. Gli effetti delle epatopatie sul metabolismo dei farmaci non sono stati studiati. È probabile che molte patologie, in particolare la lipidosi epatica, influiscano profonda-
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mente sulle capacità metaboliche del fegato. Nei gatti colpiti da epatopatie è consigliabile evitare l’uso di farmaci con
indice terapeutico ristretto e che necessitano di essere metabolizzati nel fegato.
Escrezione renale. Al contrario del metabolismo epatico, le differenze di escrezione renale esistenti fra cane e gatto non sembrano svolgere un ruolo tanto importante nell’eliminazione dei farmaci. Nel gatto, la velocità di filtrazione
glomerulare (da 2,5 a 3,5 ml/min/kg) è minore rispetto al
cane (3 - 5 ml/min/kg), suggerendo che in quest’ultima specie, la clearance renale dei farmaci è più veloce. Benché
questo sia valido per l’inulina, per la maggior parte dei farmaci non sono state rilevate differenze. Le nefropatie alterano profondamente la velocità di escrezione dei farmaci in
tutte le specie. In generale, i valori di creatininemia possono essere utilizzati per modificare il dosaggio (ridurlo proporzionalmente) o l’intervallo (prolungarlo in proporzione
all’anomalia). La variazione deve essere applicata soltanto
alla porzione di farmaco che viene eliminata per via renale.
Si noti che nel corso di nefropatie, anche gli squilibri idrici
possono alterare la distribuzione dei farmaci. È probabile
che le differenze nel ritmo circardiano (diurno rispetto a
notturno) svolgano un ruolo nel determinare alcune diversità rilevabili fra cane e gatto. Questo aspetto è stato confermato per la teofillina ed è probabile che sia valido per gli
ormoni steroidei. Il significato clinico di queste differenze
non è stato stabilito.
Ruolo delle differenze di specie a livello
di tessuti bersaglio
È impossibile prevedere le diverse reazioni ai farmaci
che possono essere attribuite a differenze di tessuti bersaglio
poiché le conoscenze circa la specie felina sono veramente
molto limitate. È noto, o si ritiene, che le diverse risposte a
particolari farmaci (ad es. oppiacei, insulina, idrocarburi clorurati, ecc.) derivino dalle differenze esistenti fra i tessuti.
L’ipersensibilità degli eritrociti felini all’ossidazione viene
trattata nel lavoro “Reazioni avverse ai farmaci nel gatto” in
questi stessi atti.
CONSIGLI PER L’ESTRAPOLAZIONE
DEL DOSAGGIO FARMACOLOGICO
L’estrapolazione si deve basare sulla conoscenza della
farmacologia clinica dell’agente che viene somministrato.
Quanto maggiore è l’innocuità del farmaco, tanto minore
sarà il rischio legato a tale operazione. Allo scopo di determinare la sicurezza e i parametri di eliminazione di un nuovo farmaco è possibile utilizzare un testo di farmacologia.
Quanto più gravi sono le condizioni del gatto, tanto più pericoloso risulterà il tentativo di estrapolare i dosaggi a partire da quelli validi in altre specie. Pertanto, occorre accertare
lo stato di salute del soggetto ed evitare tentativi di dosaggio
quando siano colpiti gli organi da cui dipende l’eliminazione del farmaco. Solitamente, la via orale è più sicura (benché aumentino i rischi di irritazione gastrica), mentre è bene
evitare la via endovenosa. In generale, occorre escludere l’u-
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so di farmaci dotati di emivita lunga (> 12 ore). Se le somministrazioni si susseguono a intervalli inferiori all’emivita
del farmaco, è prevedibile che si verifichino fenomeni di accumulo. Si noti che le reazioni avverse non si manifestano
completamente fino a quando l’accumulo della sostanza non
abbia raggiunto lo stato di equilibrio. In questi casi, si rende
nuovamente opportuna una riduzione del dosaggio. Bisogna
essere pronti a trattare gli eventuali effetti collaterali, rammentando che se il farmaco è dotato di emivita lunga, anche
il tempo necessario alla risoluzione delle reazioni avverse
sarà prolungato.
Farmaci idrosolubili. Come regola generale, l’estrapolazione dei dosaggi è più adatta per i farmaci idrosolubili, poiché questi si distribuiscono nei liquidi extracellulari (normalizzazione del volume di distribuzione), si legano alle proteine in percentuale trascurabile e vengono metabolizzati in minima parte nel fegato. In molti casi, il volume di distribuzione e l’eliminazione renale di un farmaco sono simili nelle diverse specie e, spesso, l’intervallo fra le somministrazioni tipico di quella sostanza viene adottato anche nel gatto. Tuttavia, i dosaggi somministrati andrebbero probabilmente ridotti per compensare le differenze di volume ematico.
Farmaci liposolubili. A differenza dei farmaci idrosolubili, per quelli liposolubili si rende necessario il metabolismo epatico. Se l’acetilazione è una delle vie principali di
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eliminazione della fase II, è probabile che il farmaco venga
metabolizzato più velocemente nel gatto che nel cane. Benché il legame con acido glucuronico non indichi necessariamente che l’eliminazione del farmaco sia più lenta nel gatto,
l’uso del prodotto andrà comunque evitato in questa specie
prima di averne chiarito la cinetica attraverso studi appropriati. È possibile fare eccezione se 1) il farmaco è misurabile, oppure 2) il farmaco è dotato di un ampio indice terapeutico. Nel gatto occorre evitare l’uso di preparazioni a lento rilascio poiché la velocità di assorbimento di queste sostanze è estremamente variabile a seconda della specie. Infine, è opportuno evitare la somministrazione di preparati
contenenti glicol propilenico e altri veicoli sconosciuti dato
il pericolo di reazioni avverse nella specie felina.
Preparazione dei farmaci. Nel gatto, i maggiori problemi di estrapolazione si incontrano quando si vogliono utilizzare le preparazioni formulate per uso umano; infatti, le dimensioni delle compresse spesso impediscono un dosaggio
accurato. Negli Stati Uniti, molte farmacie si occupano in
modo specifico del settore veterinario (Island Pharmacy Services, Inc; PO Box 1412, Woodruff, WI 54568; fax 715 358
7021; 800 328 7060 oppure 715 358 7712) e quindi sono attrezzate per affrontare questo tipo di inconveniente. Inoltre,
in commercio si trovano veicoli ed eccipienti che possono
essere utilizzati per diluire i farmaci in formulazioni più facili da utilizzare nei felini.
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Reazioni avverse da farmaco nel gatto
Dawn Boothe
DVM, MS, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ACVCP
Texas A&M University Dept of Physiology and Pharmacology College Station, Texas (USA)
I fattori che predispongono il gatto alle reazioni avverse
da farmaco e i vari tipi di queste ultime vengono descritti nella relazione intitolata “I Dosaggi Farmacologici nel Gatto e le
Differenze fra il Gatto e le altre Specie” in questi Atti.
METEMOGLOBINEMIA
Una differenza di specie fra gatto e cane che favorisce la
comparsa nel primo di reazioni avverse in seguito a somministrazione di farmaci specifici è la sensibilità degli eritrociti felini (emoglobina) all’ossidazione e quindi alla metemoglobinemia. I farmaci ritenuti causa di questa alterazione nel
gatto comprendono antisettici delle vie urinarie contenenti
blu di metilene,16 acetaminofene14,15,17 e composti correlati,14
benzocaina18 e propiltiouracile.19 L’esistenza o meno di una
predisposizione degli eritrociti felini allo sviluppo di metemoglobinemia è tuttora motivo di controversia.17 Infatti, in
uno studio recente riguardante gli effetti delle amine aromatiche (fra cui acetaminofene) sugli eritrociti è stata dimostrata pari sensibilità nel cane e nel gatto16 e lo stesso reperto è stato rilevato in seguito a somministrazione di nitrato di
sodio.20 Al contrario, uno studio rivolto a confrontare la sensibilità dell’emoglobina parzialmente purificata derivante da
diverse specie, fra cui il gatto, ha evidenziato che la molecola di origine felina risultava più sensibile all’ossidazione
rispetto a quella umana, equina o canina.21 In effetti, è stata
segnalata nel gatto di una sensibilità selettiva dell’emoglobina B rispetto all’emoglobina A, che ha indotto i ricercatori a
ipotizzare che la variabilità delle risposte individuali alla
metemoglobinemia dipenda dal diverso rapporto fra emoglobina A e B esistente in ogni soggetto.
APPARATO GASTROENTERICO
Nel gatto, l’induzione del vomito richiede dosi di apomorfina più elevate che nel cane, inoltre, la depressione del
sistema nervoso centrale associata al farmaco ne impedisce
l’uso quale emetico nella specie felina. La scopolamina è un
farmaco anticolinergico caratterizzato da emivita breve e
tendenza a indurre modificazioni comportamentali che lo
rendono sconsigliabile nel gatto. In questa specie, anche l’uso del difenossilato, un derivato meperidinico, è controverso.
La loperamide è un derivato del difenossilato che non supera la barriera ematoencefalica, è disponibile come prodotto
da banco e, benché sia meno efficace del precedente, può essere adoperato nel gatto con scarsi rischi di reazioni avverse.
Nella specie felina è controindicato l’uso di due tipi di clisma: quello saponato preparato con esaclorofene (vedi “farmaci vari”) e i clismi a base di fosfati disponibili già pronti
in commercio. Gli ingredienti attivi di questi ultimi, i sali dei
fosfati, possono venire assorbiti rapidamente dalla mucosa
rettale. Entro 20 minuti dalla somministrazione si possono
verificare episodi potenzialmente fatali di iperfosfatemia,
ipocalcemia e ipernatremia. Le preparazioni a base di salicilato basico di bismuto contengono acido salicilico che nel
gatto può essere assorbito fino a raggiungere livelli tossici in
seguito a somministrazioni ripetute. La salicilazosulfapiridina (sulfasalazina) può essere utilizzata per il trattamento della colite cronica nel gatto. Una porzione del farmaco viene
convertita in un derivato dell’acido salicilico da parte della
flora batterica del colon e, nell’uomo, fino al 30% della sostanza viene assorbito dalla mucosa di questo tratto intestinale. Poiché l’acido salicilico si accumula facilmente nel gatto, si consiglia di utilizzarlo con estrema cautela (vedi la trattazione relativa al farmaco). La precisione nel dosaggio della sulfasalazina può essere migliorata utilizzando la sospensione orale per uso pediatrico, benché gli effetti vantaggiosi
compaiano oltre le 48 dall’ingestione del farmaco.
SISTEMA NERVOSO CENTRALE
E PERIFERICO
Lo stato di eccitamento che comunemente viene segnalato nel gatto in seguito al trattamento con oppiacei può essere indice di differenze fra tipi o livelli degli appositi recettori nel sistema limbico oppure semplicemente di un sovradosaggio relativo di morfina. Nei felini, quest’ultima è anche in grado di stimolare l’attività del SNC in seguito al rilascio di sostanze dopaminergiche o noradrenergiche. Nonostante i suddetti effetti, tutti gli oppiacei che vengono adoperati nel cane possono essere utilizzati nel gatto, con la sola eccezione del naloxone che, in questa specie, comporta
una risposta meno prevedibile.
Gli anestetici locali vengono utilizzati comunemente per
desensibilizzare la mucosa laringea nel gatto prima di procedere ad intubazione tracheale. Tuttavia, nella specie felina
è consigliabile evitare l’uso di prodotti contenenti benzocaina, poiché la sua applicazione topica a livello di cute o laringe comporta lo sviluppo di metemoglobinemia. Inoltre, il
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contatto con la mucosa laringea spesso provoca la comparsa
di edema locale e difficoltà respiratorie.
Nel gatto, l’efficacia del primidone quale anticonvulsivante è dubbia, poiché la sua conversione in fenobarbital è
limitata. In questa specie sono stati segnalati casi di intossicazione da primidone, manifestati con stati temporanei di
atassia e depressione, in seguito alla somministrazione di
dosi singole del farmaco comprese fra 25 e 100 mg/kg. Nel
gatto, l’emivita della fenitoina è superiore a 40 ore e questo
ne comporta un rapido accumulo anche quando la sostanza
venga somministrata con cautela. L’intossicazione da fenitoina induce sedazione, atassia e anoressia. Inoltre in un gatto trattato con questo agente è stata segnalata la comparsa di
atrofia reversibile del derma.
TRATTO URINARIO
Nel gatto bisogna evitare l’uso di antisettici urinari contenenti blu di metilene e coloranti azotati. L’ossidazione irreversibile dell’emoglobina favorisce la formazione di corpi
di Heinz e l’emolisi intravascolare. I segni clinici di intossicazione comprendono pallore, ittero, dispnea e depressione.
Il gatto sembra essere particolarmente sensibile all’effetto
della furosemide e forse di altri diuretici (ad es. spironolattone) che dovranno essere dosati in base alla risposta individuale. In uno studio, i gatti che avevano assunto dosi di metionina pari a 0,5 mg/kg/die per 52 giorni svilupparono forme moderate di anemia emolitica con corpi di Heinz, mentre quelli a cui erano stati somministrati dosaggi elevati di
D-L-metionina (1 g/kg/die) presentarono forme gravi di anemia emolitica con notevole formazione di corpi di Heinz.
Anche se gli effetti dipendevano dalla dose assunta, i soggetti sembravano adattarsi a dosaggi elevati della sostanza e
l’anemia andava incontro a risoluzione nonostante il farmaco venisse somministrato alla stessa posologia. Nel gatto, il
betanecolo va impiegato unicamente per via orale poiché la
sua inoculazione parenterale comporta lo sviluppo di reazioni avverse che mettono in pericolo la vita del soggetto.
ANTIBIOTICI
Nel gatto, le tetracicline possono indurre un’ipertermia
da farmaco quando vengano impiegate alla posologia consigliata. Entro 1-2 giorni dalla somministrazione il rialzo termico raggiunge 41°C e può essere accompagnato da vomito, diarrea, depressione e inappetenza. I segni clinici si risolvono non appena la terapia viene sospesa. Nel gatto è stata segnalata anche la comparsa di reazioni anafilattiche e disordini gastrointestinali. In diverse specie, il cloramfenicolo
inibisce l’attività della ferrochelatasi a livello del midollo
osseo e può indurre una depressione midollare dipendente
dal dosaggio. Nella specie felina, la fase I del metabolismo
del cloramfenicolo è deficitaria; inoltre il farmaco viene
escreto coniugato all’acido glucuronico, di cui il gatto è particolarmente carente. I felini sono più sensibili agli effetti
collaterali emopoietici di questo antibiotico. L’anemia non
rigenerativa è associata a ipocellularità midollare, ma entrambi i disturbi si risolvono interrompendo la terapia. Que-
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sti segni si sviluppano con dosaggi di appena 60 mg/kg/die.
Altre reazioni avverse segnalate in seguito alla somministrazione di dosaggi elevati (120 mg/kg per via orale per 14
giorni) comprendono depressione del sistema nervoso centrale, disidratazione, vomito, inappetenza e perdita di peso.11
Il sapore amaro di alcune preparazioni può anche causare
ipersalivazione, vomito ed inappetenza. Il farmaco non deve
essere dosato in base ai mg/kg, bensì somministrato alla posologia di 50 mg/gatto e per periodi non superiori a 7 - 10
giorni. Il cloramfenicolo è un potente inibitore degli enzimi
deputati alla fase I del metabolismo dei farmaci; pertanto deve essere utilizzato con cautela in associazione con altre sostanze la cui eliminazione dipenda dal metabolismo epatico
oppure nei gatti affetti da epatopatie. I sulfamidici potenziati hanno indotto discrasie midollari (da idiosincrasia?). Sono
state segnalate forme di anemia da carenza di acido folico, la
cui incidenza tuttavia è dubbia. Benché gli aminoglicosidi
possano essere utilizzati con sicurezza nel gatto, questa specie sembra essere più sensibile alla nefrotossicità indotta da
questi farmaci. Nella maggior parte delle specie, le probabilità che si sviluppino effetti tossici renali sono maggiori con
la gentamicina, seguita da kanamicina e amikacina. Al contrario dell’uomo, il gatto appare più sensibile alla nefrotossicità indotta dalla tobramicina piuttosto che a quella di
amikacina e gentamicina, forse perché l’eliminazione del
farmaco è dose-dipendente. I gatti risultano anche più sensibili all’ototossicità indotta dagli aminoglicosidi, in particolare in presenza di alterazioni della funzione renale. La
streptomicina e la diidrostreptomicina sembrano dotate di
maggiore ototossicità e se somministrate per periodi prolungati sono associate sia a danni vestibolari che cocleari. Il gatto è molto sensibile alla tossicità cocleare indotta dall’amikacina che si manifesta con perdita dell’udito. I segni di
tossicità vestibolare comprendono alterazione dei riflessi di
raddrizzamento, vertigini e testa piegata. Il rischio di ototossicità probabilmente aumenta in seguito ad applicazione topica del farmaco a livello auricolare, soprattutto in presenza
di perforazione del timpano. La tossicità da aminoglicosidi
può essere ridotta utilizzando dosaggi appropriati (comprendendo la terapia unica giornaliera), mantenendo lo stato di
idratazione del soggetto, utilizzando terapie combinate se indicato ed evitando l’associazione di altri farmaci nefrotossici o nefroattivi.
La griseofulvina produce effetti teratogeni nelle gatte
gravide, in particolare nel primo terzo della gravidanza. La
somministrazione dell’antibiotico nel corso della terza o
quarta settimana di gestazione può comportare la nascita di
soggetti morti o di neonati deboli. Sembra che la griseofulvina possa essere assunta dalle gatte gravide nel corso della
seconda metà di gestazione senza indurre alcuna reazione
avversa. Inoltre, nella specie felina il farmaco sembra provocare reazioni di idiosincrasia (non dipendenti dal dosaggio). Il trattamento eseguito alla posologia consigliata ha indotto la comparsa di letargia, depressione, disidratazione,
vomito, diarrea, anoressia, piressia e, in due gattini, atassia.
In un gatto è stato riscontrato lo sviluppo di angioedema. Sono state rilevate costantemente leucopenia e/o pancitopenia
periferica e midollare. Le reazioni avverse si verificarono sia
utilizzando la forma micronizzata che quella ultramicronizzata del farmaco. I segni clinici andarono incontro a risolu-
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zione nell’arco di 1 - 14 giorni dall’interruzione della terapia. È probabile che il gatto sia più sensibile alla tossicità associata all’amfotericina B, comprendente anche l’anafilassi.
Bisogna somministrare una piccola dose di prova, preferendo l’inoculazione endovenosa lenta al bolo endovenoso.
ANALGESICI PERIFERICI
Nel gatto, l’acido acetilsalicilico svolge efficace azione
analgesica, antiinfiammatoria e antipiretica. Tuttavia, poiché
nella maggior parte delle specie sia questo che gli altri salicilati vengono eliminati in coniugazione ad acido glucuronico, nei felini l’emivita sierica e la clearance di questi farmaci sono prolungate. Ad esempio, l’emivita sierica dell’acido acetilsalicilico è pari a 38 ore nel gatto mentre è di appena 9 ore nel cane. Lo schema posologico del farmaco consigliato nel gatto, rispetto a quello utilizzato nel cane, prevede sia dosaggi più bassi che prolungamento dell’intervallo
fra le somministrazioni. Gli effetti antitrombotici dell’acido
acetilsalicilico possono essere ottenuti con dosaggi molto
più bassi di quelli necessari per il trattamento di processi infiammatori e stati febbrili. Nel gatto sono stati segnalati casi di intossicazione sia acuta che cronica. In questa specie,
dosi giornaliere di acido aceltilsalicilico pari o superiori a
130 mg possono essere letali e i segni clinici dell’intossicazione acuta comprendono iperpnea, ipersensibilità e ipertermia. La coniugazione con acido glucuronico rappresenta anche la via metabolica principale della maggior parte degli altri farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS). Il dipirone è un derivato fenolico caratterizzato da clearance prolungata il cui uso nel gatto può rivelarsi tossico. L’autore consiglia di utilizzare dosaggi inferiori a quelli indicati dalla casa
produttrice. La somministrazione di fenilbutazone nel gatto
è stata associata a elevata incidenza di tossicità, che tuttavia
non sembra dipendere da un prolungamento dell’emivita del
farmaco. Nel gatto, il carprofen non garantisce l’innocuità di
cui è dotato nel cane. Benché l’uso del farmaco sia autorizzato in Europa, lo si dovrebbe somministrare soltanto per 2
o 3 giorni.
L’acetaminofene viene metabolizzato principalmente
mediante coniugazione con acido glucuronico e, in minor
grado, con solfati. Inoltre, una piccola quantità viene biotrasformata dagli enzimi della fase I del metabolismo dei farmaci (citocromo P-450) in metaboliti tossici. Normalmente,
questi ultimi vengono eliminati unendoli al glutatione con
un legame covalente prima che possano arrecare danni ai
tessuti. Tuttavia, il gatto è scarsamente dotato di enzimi deputati a catalizzare la glucuronidazione dell’acetaminofene;
inoltre, anche la solfatazione del farmaco sembra saturarsi
rapidamente in questa specie. L’acetaminofene che non viene eliminato mediante coniugazione subisce l’azione degli
enzimi della fase I, con conseguente produzione di grandi
quantità di metaboliti tossici. Fintanto che i livelli intracellulari di glutatione rimangono adeguati, i metaboliti vengono rimossi e non si verificano fenomeni tossici. Tuttavia, le
riserve di glutatione si esauriscono rapidamente nel gatto e i
metaboliti tossici si accumulano velocemente.47,51 I segni clinici di tossicità si sviluppano in seguito a somministrazione
di dosaggi inferiori a 500 mg. Nel gatto, le manifestazioni
43
cliniche dell’intossicazione da acetaminofene derivano principalmente dalla metemoglobinemia e comprendono depressione, anoressia, dispnea, pallore e cianosi delle mucose,
edema facciale e degli arti, ittero e colorazione bruno-cioccolato delle urine. La necrosi epatica acuta, che colpisce
l’uomo e il cane, è un’evenienza meno frequente nel gatto,
ma si può verificare soprattutto se vengono somministrate
dosi elevate del farmaco. Il trattamento dell’intossicazione è
inteso a 1) prevenire la deplezione di glutatione; 2) somministrare donatori di gruppi sulfidrilici e 3) inibire gli enzimi
della fase I di metabolizzazione dei farmaci. Queste misure
comprendono la terapia di supporto e la somministrazione di
N-acetilcisteina, un precursore del glutatione in grado di penetrare nelle cellule oppure, quando quest’ultimo non sia disponibile, di solfato di sodio. L’acido ascorbico (vitamina C)
contribuisce al controllo dell’ossidazione dell’emoglobina.
La cimetidina è un inibitore enzimatico microsomiale che
può ridurre la produzione di prodotti tossici intermedi. I risultati ottenuti sono tanto migliori quanto più precoce è la
somministrazione del farmaco nel corso dell’intossicazione.
FARMACI CARDIOVASCOLARI
Nonostante la digossina venga eliminata principalmente
per via renale, il gatto è più sensibile alla tossicità indotta
dalla digitale rispetto al cane ed occorre ridurne sia il dosaggio che la frequenza delle somministrazioni. I felini non tollerano la preparazione liquida (elisir) altrettanto bene quanto la forma in compresse, le quali sfortunatamente contengono concentrazioni di farmaco tali da rendere complicato
un dosaggio accurato.48 La posologia deve essere modulata
per il singolo animale, basandosi sempre sul peso corporeo
magro. Gli intervalli fra le singole dosi possono essere prolungati, passando da due somministrazioni giornaliere a una
ogni tre giorni in base al peso del soggetto.48,49 Tuttavia, negli animali che insieme alla digossina assumono furosemide
e acido acetilsalicilico, si possono verificare reazioni avverse da interazione farmacologica.51 In uno studio è stato suggerito di ridurre ulteriormente il dosaggio della digossina
(0,007 mg/kg ogni 48 ore per via orale) nei gatti trattati contemporaneamente con questi farmaci.52 Allo scopo di evitare fenomeni di tossicità, è opportuno provvedere al controllo terapeutico dei livelli sierici di digossina. Questi ultimi
devono essere misurati a circa 10 giorni di distanza dall’inizio della terapia oppure 10 giorni dopo avere modificato il
protocollo di dosaggio originale.
Benché l’eliminazione del propranololo sia più lenta nel
gatto che nel cane, il farmaco è ben tollerato nella specie felina. Tuttavia si possono verificare fenomeni di tossicità manifestati con letargia, depressione, sincope, morte improvvisa, aritmie, anoressia, vomito e diarrea. Inoltre, data la funzione beta-bloccante non selettiva del farmaco, si possono
osservare episodi di broncospasmo e insufficienza respiratoria. La funzione cardiaca può essere ulteriormente compromessa dalla somministrazione di propranololo nei gatti con
miocardiopatia ipertrofica in forma restrittiva.54 Uno studio
in cui veniva descritta la farmacocinetica del propranololo
nei gatti normali e in quelli cardiopatici suggeriva che la biodisponibilità orale del farmaco è ridotta in alcuni soggetti
44
con miocardiopatia ipertrofica,54 con conseguente attenuazione della risposta clinica. L’efficacia del propranololo quale trattamento della miocardiopatia ipertrofica aumenterebbe
se il dosaggio venisse titolato in ogni singolo animale per indurre la risposta clinica voluta. Il rallentamento della frequenza cardiaca è un indice di efficacia del trattamento.
L’intossicazione da lidocaina non è un evento raro nel
gatto e si manifesta con depressione miocardica e in un minor numero di casi con segni di tossicità del sistema nervoso centrale.
Nei felini è stato studiato anche l’uso degli agenti fibrinolitici streptochinasi e t-PA per risolvere i fenomeni di
tromboembolismo. Questi farmaci stimolano la dissoluzione
dei trombi già formati mediante attivazione del plasminogeno, un enzima che catalizza l’idrolisi di fibrina e fibrinogeno in prodotti di degradazione del fibrinogeno. La streptochinasi con azione fibrinolitica ha recentemente acquisito
popolarità nel trattamento della trombosi in medicina umana
ed è stata oggetto di studio nel gatto. In una ricerca,59 il peso dei trombi negli animali sottoposti a trattamento era inferiore a quello riscontrato nei soggetti di controllo, benché la
differenza non fosse significativa. Inoltre, nel gruppo dei
soggetti trattati, la circolazione ematica nei tessuti colpiti
non sembrava migliorata. Benché in questo studio non siano
state registrate reazioni avverse, la streptochinasi e i relativi
derivati nella specie umana comportano lo sviluppo di disordini emorragici. Prima che il farmaco possa essere consigliato nel trattamento della trombosi aortica felina saranno
necessari ulteriori approfondimenti. Nel gatto è stato anche
studiato l’attivatore del plasminogeno tissutale (t-PA), una
proteina fibrinolitica intrinseca che può essere prodotta in
grandi quantità.60 Questa sostanza, al contrario della streptochinasi, non induce uno stato proteolitico sistemico a cui
consegue l’insorgenza di disordini emorragici. A differenza
degli attivatori del plasminogeno, la t-PA ha migliorato la riperfusione nei gatti con tromboembolismo indotto sperimentalmente; tuttavia il suo utilizzo è stato associato a una
mortalità pari al 50% dovuta a iperkalemia, insufficienza
cardiaca congestizia e aritmie. Poiché nei gatti non trattati
vengono segnalate percentuali di guarigione pari al 50% circa, l’uso della sostanza nei gatti con tromboembolismo aortico richiede ulteriori studi.60
SISTEMA ENDOCRINO
Il megestrolo acetato è associato a numerose reazioni avverse, la maggior parte delle quali si verificano in seguito a
trattamenti protratti con dosaggi elevati. Tuttavia è stata segnalata la comparsa di alcuni effetti anche utilizzando bassi
dosaggi e per periodi limitati. Gli effetti collaterali comprendono modificazioni del carattere (ad es. comportamento
particolarmente affettuoso, aggressivo o depresso), polifagia
associata ad aumento di peso, poliuria e polidipsia e ipertrofia mammaria benigna con possibile evoluzione in adenocarcinoma della mammella. Alcune reazioni avverse di maggiore gravità sono rappresentate da piometra (e patologia del
moncone) associata a endometrite cistica dopo sole 4 settimane di trattamento, diabete mellito e soppressione adrenocorticale. Lo sviluppo del diabete si è verificato dopo appe-
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na due settimane di terapia con megestrolo acetato, ma non
sembra che la comparsa del disturbo dipenda dal dosaggio o
dalla durata del trattamento. Alcuni casi di diabete si risolvono quando viene sospesa la somministrazione del farmaco, mentre in altri casi si rende necessaria la terapia insulinica per periodi di tempo variabili. Sono stati segnalati anche casi di diabete insulino-resistente indotti dall’assunzione di megestrolo. Una dose di megestrolo acetato pari a 1
mg/kg somministrato a giorni alterni è stata all’origine di
soppressione adrenocorticale. Quest’ultimo effetto si è verificato sperimentalmente ed è stato segnalato in ambito clinico70 in gatti che erano stati sottoposti ad appena due settimane di terapia. Data questa possibile complicazione, nei
soggetti che si trovano in stato di stress quando assumono il
megestrolo acetato si rende necessaria un’integrazione di
glucocorticoidi mediante terapie con mineralcorticoidi (ad
es. prednisolone). Viste le potenziali reazioni avverse indotte dal megestrolo acetato nel gatto, occorre sempre considerare prima una terapia alternativa.
Il metimazolo e il propiltiouracile sono i farmaci antitiroidei più comunemente adoperati nel trattamento dell’ipertiroidismo felino. Entrambi i farmaci riducono efficacemente i livelli di ormone circolante riportandoli entro i limiti
normali, ma l’incidenza di reazioni avverse è più elevata utilizzando il propiltiouracile. Gli effetti collaterali comprendono vomito, anoressia, letargia, trombocitopenia e anemia
emolitica immunomediata. Il metimazolo sembra dotato di
efficacia pari al propiltiouracile, ma possiede una durata
d’azione molto più lunga e, al contrario di quest’ultimo,
comporta effetti collaterali lievi (anoressia, vomito e letargia). Data la variabilità individuale nella disponibilità del
farmaco, è necessario monitorare i livelli sierici di T4 per stabilire l’efficacia terapeutica e orientare gli schemi posologici. Sia il propiltiouracile che il metimazolo inibiscono la sintesi degli ormoni tiroidei; pertanto si limitano ad attenuare i
segni clinici dell’ipertiroidismo che ricompaiono se e quando la terapia venisse sospesa. Fino a non molto tempo fa, l’asportazione chirurgica della ghiandola iperattiva è stato l’unico metodo di trattamento dell’ipertiroidismo e tale procedura comporta alcuni rischi significativi. La terapia con iodio radioattivo rappresenta un’alternativa all’intervento chirurgico; il farmaco radioattivo viene assunto selettivamente
dalla ghiandola iperattiva dove distrugge efficacemente il
tessuto tiroideo funzionante. Sfortunatamente, il trattamento
dell’ipertiroidismo con iodio radiomarcato è limitato alle
strutture dotate di adeguate strutture ed autorizzazioni.
FARMACI ANTINEOPLASTICI
Molte forme di tossicità che riguardano il cane interessano anche il gatto. Il ciclofosfamide può essere utilizzato efficacemente nei felini nei quali non sembra provocare l’insorgenza di cistiti emorragiche come nel cane. Il gatto appare più sensibile alla neurotossicità reversibile, dipendente
dal dosaggio, che induce l’assunzione di vincristina nel cane. In uno studio è stata segnalata un’incidenza elevata di
nefropatie nel gatto in seguito a somministrazione di doxorubicina in dosaggi elevati. Invece, in un’altra ricerca, i segni di tossicità erano limitati all’anoressia utilizzando un do-
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saggio più basso, ma altrettanto efficace del farmaco. Il cisplatino, un agente chemioterapico ampiamente utilizzato
nell’uomo, in uno studio condotto per valutarne l’efficacia in
gatti affetti da carcinoma squamocellulare inoperabile ha
provocato lo sviluppo di edema polmonare acuto e mortale.
Attualmente, il farmaco non deve essere utilizzato nella specie felina. L’applicazione topica di un analogo pirimidinico,
il 5-fluorouracile (5-Flu) (in crema al 5%) è stata associata a
neurotossicosi irreversibile in un gatto. In questa specie, come nel cane, la somministrazione di 5-Flu si accompagna a
discrasie midollari e lesioni gastroenteriche.
ANTIELMINTICI
Il gatto appare estremamente sensibile agli effetti tossici degli organofosforici e, benché la ragione dell’ipersensibilità non sia nota, sembra riguardi sia le forme di tossicità
acuta che cronica. Gli episodi acuti sono simili alla sindrome che colpisce il cane e sono caratterizzati da miosi, defecazione, minzione, vomito, fascicolazioni muscolari, convulsioni e morte dovuta a paralisi respiratoria. L’intossicazione viene trattata con anticolinergici (ad es. atropina o glicopirrolato) e una terapia di sostegno. La forma cronica o
ritardata di tossicità da organofosforici rispecchia la degenerazione assonica. Anche esposizioni limitate a questi prodotti possono provocare questa forma di tossicità le cui manifestazioni non appaiono evidenti prima che siano trascorsi diversi giorni o settimane dal trattamento. I segni clinici
comprendono paresi o paralisi, che ha inizio in sede periferica e progredisce verso il sistema nervoso centrale. Il malathion è un organofosforico approvato per l’uso nella specie felina. I collari antipulci impregnati con dichlorovos sono stati associati all’insorgenza di dermatiti da contatto e
devono essere utilizzati con cautela in particolare nei soggetti debilitati. Il gatto risulta anche molto sensibile agli effetti degli idrocarburi clorurati il cui uso è controindicato in
questa specie. I segni clinici comprendono comportamento
apprensivo e bellicoso, iperestesia, ipersalivazione, convulsioni e morte e si possono manifestare immediatamente dopo l’esposizione o a distanza di alcune settimane. Il decorso clinico può essere protratto poiché queste sostanze tendono a depositarsi nel tessuto adiposo. Il trattamento si limita a bagni per rimuovere i residui del farmaco, lavanda
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gastrica, sedazione con anticonvulsivanti appropriati e riposo in un ambiente tranquillo. È necessario sostenere la funzionalità renale poiché questi prodotti vengono escreti principalmente per via urinaria.
FARMACI DIVERSI
Nella maggior parte delle specie, i prodotti fenolici vengono escreti principalmente in coniugazione ad acido glucuronico, mentre nel gatto vengono metabolizzati in chinoloni
che si accumulano fino a raggiungere concentrazioni tossiche. L’esaclorofene è un derivato fenolico contenuto in diversi saponi germicidi utilizzati nei clismi o per la pulizia
chirurgica. L’uso di questa sostanza nel gatto, in particolare
nei gattini, può essere associato a vomito, depressione, atassia e iperreflessia che successivamente evolve in iporeflessia
e paralisi flaccida. Il trattamento prevede la rimozione del
farmaco (con bagni, lavanda gastrica e purganti) e una terapia di sostegno. In un gruppo di gatti da laboratorio che vivevano insieme è stata segnalata un’intossicazione provocata da un composto dell’ammonio quaternario contenente cloruro di benzalconio, che veniva utilizzato per la disinfezione
giornaliera. I segni clinici comprendevano scolo nasale e
oculare, ulcere linguali, insufficienza respiratoria e disidratazione. Gli autori hanno ipotizzato che le abitudini di toelettatura del gatto siano state all’origine dell’intossicazione
in seguito ad ingestione della sostanza. L’alcool benzilico è
un fenolo che viene spesso utilizzato quale conservante per
un gran numero di prodotti biologici, farmaci e liquidi. L’effetto tossico deriva dall’accumulo di un metabolita della fase I, l’acido benzoico. Nel gatto sono stati segnalati casi di
intossicazione dopo avere somministrato 50-100 ml/kg di
soluzione di Ringer lattato contenente alcool benzilico
all’1,5%; inoltre la tossicità si può manifestare anche con
dosaggi minori. I segni clinici e quelli rilevati sperimentalmente comprendono atassia, iperestesia, fascicolazioni, coma, convulsioni, insufficienza respiratoria e morte. L’acido
benzoico viene utilizzato quale conservante negli alimenti
per piccoli animali e, benché di solito sia presente in dosi
non nocive, sono stati osservati casi di intossicazione nei
gatti che ne avevano assunto 0,45 g per kg di peso oppure
che erano stati alimentati con diete contenenti la sostanza in
concentrazione pari o superiore allo 0,2%.
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Farmacologia dell’apparato gastroenterico
Dawn Boothe
DVM, MS, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ACVCP
Texas A&M University Dept of Physiology and Pharmacology College Station, Texas (USA)
STIMOLATORI DELL’APPETITO
Sia i glucocorticoidi che le vitamine del gruppo B sono
stati utilizzati quali stimolatori aspecifici dell’appetito. Nell’ambito delle benzodiazepine, il diazepam e l’oxazepam, un
metabolita del precedente, sono stati impiegati con successo
per indurre l’appetito nel gatto, probabilmente attraverso l’inibizione del centro encefalico della sazietà. Il diazepam può
essere somministrato per via endovenosa o per os, mentre
l’oxazepam viene assunto unicamente per questa via. Fra i
due farmaci, il primo sembra essere più efficace, benché
comporti un maggior grado di sedazione. Nel cane, la stimolazione dell’appetito indotta dalle benzodiazepine non è altrettanto efficace come nel gatto. È stato dimostrato clinicamente che la ciproeptadina, un antiserotoninico (1 mg/gatto
PO) comporta un aumento dell’appetito in alcuni gatti anoressici; tuttavia, l’uso di questo prodotto probabilmente sarà
riservato ai soggetti che non rispondono alle benzodiazepine.
VOMITO
La scelta razionale di un antiemetico dipende dall’eziologia del vomito e, in particolare, dal neurotrasmettitore mediatore del riflesso; infatti, la maggior parte degli antiemetici agisce attraverso l’inibizione di tali molecole. Il riflesso
del vomito deriva dalla stimolazione del centro del vomito
(CV); l’acetilcolina è il neurotrasmettitore principale, benché l’istamina possa a sua volta svolgere un ruolo importante. Il centro del vomito riceve impulsi da tutti gli altri siti in
grado di stimolare il riflesso. L’acetilcolina è anche il neurotrasmettitore responsabile del vomito mediato attraverso i
centri superiori, quali encefalo o sistema limbico, indotto da
dolore, stress, paura o altre cause psicogene. L’istamina è il
principale neurotrasmettitore mediatore del vomito originante dall’apparato vestibolare, le cui cause comprendono
chinetosi e patologie vestibolari. La zona chemiorecettoriale
scatenante (CRTZ) è esposta ai prodotti chimici contenuti
nel sangue o nel liquido cefalorachidiano. Un’ampia varietà
di farmaci (fra cui apomorfina, altri derivati della morfina,
agenti chemioterapici e altri) e di tossine metaboliche (ad es.
in caso di nefropatie ed epatopatie, diabete mellito, piometra
e altri) induce il vomito attraverso la stimolazione di questa
zona chemiorecettoriale. La dopamina e in minor grado l’istamina, sono i principali neurotrasmettitori agenti a livello
di CRTZ. L’ultima fonte clinicamente significativa di vomi-
to è quella dovuta a stimolazione periferica. L’acetilcolina è
il neurotrasmettitore principale che provvede alla mediazione sia degli impulsi efferenti che di quelli afferenti. Le cause periferiche del vomito sono rappresentate da distensione
o irritazione del tratto gastrointestinale oppure da infiammazione di uno degli organi addominali.
Emetici
Nel gatto, l’induzione del vomito con apomorfina richiede dosaggi più elevati che nel cane; inoltre la depressione
del sistema nervoso centrale associata a questo farmaco ne
preclude l’uso quale emetico nei felini. In questa specie, l’uso dello sciroppo di ipecacuana è controverso, benché risulti probabilmente innocuo se utilizzato con cautela. Questo
prodotto contiene emetina che viene assorbita per via sistemica inducendo possibili effetti tossici. Pertanto, le somministrazioni ripetute sono sconsigliate e, se il vomito non
compare, può rendersi necessaria la lavanda gastrica. La xilazina (0,1 - 1 mg/kg IM), come probabilmente altri prodotti alfa-2 agonisti, svolge azione emetica costante nel gatto a
3-5 minuti di distanza dalla somministrazione di basse dosi
e non induce alcun effetto depressivo sul SNC. Il meccanismo del vomito sembra coinvolgere la stimolazione degli
adrenorecettori α2. Il perossido di idrogeno può stimolare il
vomito se somministrato per via orale (1 cucchiaio), benché
la comparsa dell’effetto possa richiedere da 20 a 30 minuti.
Antiemetici
La scelta dell’antiemetico più efficace deve essere basata sulla causa del vomito nel singolo soggetto. Questi farmaci possono essere suddivisi in antiemetici centrali e antiemetici periferici, benché esista una certa sovrapposizione fra
le due categorie.
Gli antiemetici centrali comprendono antistaminici, fenotiazinici, metoclopramide e determinati anticolinergici.
Antistaminici. Gli antistaminici (antagonisti dei recettori H1) bloccano il vomito a livello di apparato vestibolare e,
in parte, di zona chemiorecettoriale scatenante. Questi farmaci possono anche inibire il vomito mediato da neurotrasmettitori colinergici a livello del centro del vomito. Risultano maggiormente efficaci nei casi dovuti a disturbi dell’apparato vestibolare. Alcuni esempi sono rappresentati da
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dimenidrinato [25-50 mg (cane) e 12,5 mg (gatto) PO, tre
volte al giorno] oppure difenidramina (2,4 mg/kg, PO, tre
volte al giorno e 5-50 mg due volte al giorno, IV o IM; cane
o gatto). Altri antistaminici sono rappresentati da meclizina
(4 mg/kg PO, dose unica giornaliera) e ciclizina (3,5 mg/kg
IM, quattro volte al giorno) e prometazina (un derivato fenotiazinico) (0,2-1,0 mg/kg da due a tre volte al giorno PO,
SC). Benché gli antistaminici siano relativamente innocui,
l’effetto sedativo non è raro e varia a seconda del farmaco. I
fenotiazinici garantiscono l’inibizione del vomito di maggiore efficacia e dato l’antagonismo verso dopamina, istamina e, in dosi elevate (e probabilmente non cliniche), acetilcolina, vengono definiti antiemetici ad “ampio spettro” e ad
azione centrale. L’efficacia e gli effetti collaterali di questi
farmaci sono variabili. La clorpromazina (0,5 mg/kg da tre a
quattro volte al giorno, IM, IV; cane e gatto) è particolarmente efficace; altri sono rappresentati da proclorperazina
(0,1-0,5 mg/kg da tre a quattro volte al giorno, IM, IV; cane
e gatto) e perfenazina (0,04 mg/kg, quattro volte al giorno,
IM; cane e gatto) e promazina. I fenotiazinici non inibiscono adeguatamente il vomito indotto dalla chinetosi. Uno degli effetti collaterali principali di questi farmaci è la sedazione che risulta di entità variabile a seconda del prodotto.
Inoltre, è possibile che svolgano effetti ipotensivi a causa del
blocco degli α-recettori. Prima di somministrare questi farmaci è necessario correggere gli squilibri idrici.
Antiserotoninergici. L’ondansetrone [da 0,1 a 0,15
mg/kg IV fino ad una volta ogni 6 ore] e il granisetrone sono
farmaci antiserotoninergici (antagonisti dei recettori 5HT3).
Questi recettori sono situati sia in sede centrale che in periferia (lungo le fibre vagali afferenti), pertanto, i farmaci possono svolgere effetti antiemetici sia centrali che periferici. Questi prodotti vengono adoperati in particolare per trattare il vomito associato alla chemioterapia antineoplastica e nei cani
colpiti da enterite da parvovirus che non rispondono alla
somministrazione di clorpromazina o metoclopramide.
La trimetobenzamide (3 mg/kg, tre volte al giorno, IM;
cane) in alcuni casi, inibisce il vomito mediato dalla dopamina a livello della zona chemiorecettoriale, mentre, in base
all’esperienza dell’autore, non risulta efficace in altri casi di
vomito di origine centrale o periferica. Nonostante la scarsa
efficacia, uno dei vantaggi di questo agente è la disponibilità
sotto forma di supposta (1/3 di supposta per uso pediatrico).
Il farmaco è controindicato nel gatto.
La metaclopramide ha recentemente acquisito una certa popolarità quale antiemetico, che alcuni considerano “ad
ampio spettro” in virtù dell’azione sia periferica che centrale. Gli effetti centrali derivano dall’attività antidopaminergica del farmaco a livello della zona chemiorecettoriale e lo
rendono indicato in numerose forme di vomito mediate da
sostanze chimiche di origine ematica. In periferia, la metoclopramide agisce quale procinetico e come tale antagonizza fisiologicamente il riflesso del vomito. Il farmaco favorisce l’attività dell’acetilcolina a livello della muscolatura liscia di regioni molto selezionate del tratto gastrointestinale.
Gli effetti specifici che ne derivano sono rappresentati da accresciuto tono dello sfintere esofageo inferiore, rilassamento del piloro e della parte superiore del duodeno e accentuazione della peristalsi anterograda a livello dell’antro pilorico. La metoclopramide è indicata anche nel vomito dovuto a
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numerose cause di origine periferica, fra cui disordini della
ritenzione gastrica (motilità), gastriti e forse anche enteriti
virali. Il farmaco (0,2-0,4 mg/kg, PO, IM, SC, da tre a quattro volte al giorno) subisce un importante metabolismo di
primo passaggio quando viene somministrato per via orale
ed è quindi caratterizzato da emivita breve. Il mantenimento
di livelli plasmatici terapeutici del farmaco richiede la somministrazione per infusione endovenosa lenta (1,0-2,0
mg/kg/24h). Gli effetti collaterali dipendono dal dosaggio e
comprendono nervosismo o ipereccitabilità e agitazione, depressione e costipazione che si manifestano in seguito a terapie a lungo termine. Poiché in periferia la metoclopramide
agisce favorendo il rilascio di acetilcolina alla muscolatura
gastrointestinale liscia, non bisogna somministrarla in associazione ad anticolinergici oppure oppiacei.
Gli anticolinergici, come regola generale, non sono di
alcuna utilità quali antiemetici centrali poiché sono pochi
quelli che superano la barriera ematoencefalica che protegge l’encefalo e, quindi, anche il centro del vomito. I prodotti in grado di raggiungere il centro del vomito [ad es. atropina (0,04 mg/kg, tre volte al giorno, SC, cane e gatto) e metoscopolamina (0,3-1,5 mg/kg, tre volte al giorno, PO, cane)] comportano lo sviluppo di effetti collaterali indesiderati. L’aminopentamide (0,1-0,4 mg, da due a tre volte al giorno, SC o IM) rappresenta un’eccezione, benché l’autore non
lo ritenga particolarmente efficace. Gli anticolinergici sono
particolarmente utili nella prevenzione del vomito mediato a
livello periferico, ma anche in questo caso, l’efficacia di tali farmaci sembra essere limitata. Possono risultare particolarmente adatti per alleviare gli spasmi della muscolatura liscia gastrointestinale. Tuttavia, inducono anche un’inibizione della motilità gastrointestinale e, dopo alcuni giorni di
somministrazione, possono persino contribuire alla comparsa del vomito. I farmaci anticolinergici/antispastici che si dimostrano utili nel controllo del vomito indotto da stimoli periferici comprendono atropina, aminopentamide e propantelina (0,25 mg/kg, tre volte al giorno, PO, nel cane e nel gatto).
L’uso di protettori e adsorbenti nel controllo del vomito
rimane controverso; infatti, questi agenti possono favorirne
la comparsa semplicemente provocando uno stato di distensione gastrica. Gli antiacidi si rivelano utili quando il vomito è associato a iperacidità gastrica (ulcere, uremia, epatopatie, altre). Gli antiacidi che innalzano più efficacemente il
pH nell’iperacidità gastrica sono quelli contenenti idrossido
di alluminio (10-30 ml/kg, quattro volte al giorno, PO; cane
e gatto) e, in minore grado, l’idrossido di magnesio. L’idrossido di alluminio può indurre costipazione ed inoltre, essendo un legante dei fosfati, in seguito ad uso protratto può favorire lo sviluppo di ipofosfatemia (che rappresenta l’intento terapeutico nei soggetti affetti da nefropatia). I sali contenenti magnesio provocano la comparsa di diarrea osmotica.
I bloccanti dei recettori istaminici (H2) sono indicati anche per il controllo del vomito associato a iperacidità. Una
nuova classe di farmaci potenzialmente utili contro il vomito indotto dagli agenti chemioterapici è quella degli antiserotoninici. La ciproeptadina, che oltre agli effetti antiserotoninici svolge azione anticolinergica e antiistaminergica, è
stata utilizzata nell’uomo per il controllo di vomito e diarrea
(quest’ultima associata a spasticità) e potrebbe rivelarsi uti-
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le nei piccoli animali.
ULCERE GASTROINTESTINALI
Farmaci antisecretivi e citoprotettivi
Le ulcere gastrointestinali derivano da danni della mucosa
provocati dall’acido cloridrico e dagli acidi biliari. La gravità
del danno è maggiore quando la mucosa perde la capacità di
autoproteggersi attraverso la secrezione di bicarbonato e muco e la riepitelizzazione. La diminuzione del flusso ematico locale può influenzare notevolmente la guarigione della mucosa
lesa. I farmaci utilizzati nel controllo e nel trattamento di erosioni e/o ulcere gastrointestinali comprendono quelli somministrati per inibire la secrezione acida oppure i citoprotettivi.
La secrezione di acido gastrico nello stomaco è mediata da
tre sostanze chimiche rappresentate da gastrina, acetilcolina,
che interagisce con i recettori muscarinici e istamina, che interagisce con i recettori H2. Indipendentemente dallo stimolo,
la secrezione di idrogenioni nel lume da parte delle cellule parietali è mediata da una pompa H+/K+ ATPasica. Il processo
della secrezione di acido gastrico è modulato dalla prostaglandina E (PGE) che garantisce anche effetti citoprotettivi. I
farmaci idonei a scopo di controllo/terapia della secrezione
gastrica comprendono antiacidi e bloccanti dei recettori istaminici. Altri farmaci anti-acidi sono rappresentati da inibitori
della pompa protonica e analoghi della prostaglandina E2.
I bloccanti dei recettori H2 hanno rappresentato il fulcro della terapia anti-ulcera sia in medicina umana che in
ambito veterinario. La cimetidina (10 mg/kg tre volte al
giorno, PO, IV, IM; cane e gatto) e la ranitidina (0,5-2 mg/kg
da due a quattro volte al giorno, PO, IV; cane) sono efficaci
inibitori della secrezione di acido gastrico. Tuttavia, la prima
è dotata di potenza pari a un decimo rispetto alla seconda, oltre che da emivita breve. Pertanto, la ranitidina può essere
somministrata con minore frequenza, garantendo costi più
contenuti nelle terapie protratte. Inoltre, rispetto a quest’ultima la cimetidina comporta un maggior numero di interazioni farmacologiche (inibizione del metabolismo epatico
dei farmaci, diminuzione del flusso ematico nel fegato). La
famotidina è un altro antagonista dei recettori H2, più potente rispetto ai due prodotti precedenti. Questo farmaco può
essere somministrato una volta al giorno; tuttavia, nei piccoli animali non ne è ancora stato stabilito il dosaggio. Un effetto collaterale degli antagonisti dei recettori H2 segnalato
nei pazienti umani è l’ipersecrezione “di ritorno” di acido
gastrico che si verifica sospendendo la terapia. Fra i farmaci
studiati, la cimetidina è quella che favorisce maggiormente
l’ipersecrezione, al contrario della famotidina. Il più recente
antagonista dei recettori H2 utilizzato in medicina veterinaria è rappresentato dalla natizidina, il cui uso tuttavia non è
ancora stato accuratamente descritto. Il vantaggio maggiore
offerto da questo prodotto è l’eliminazione per via renale,
mentre l’azione e la durata dell’effetto sono sovrapponibili a
quelli della famotidina. Questi farmaci non sono necessariamente indicati nelle ulcere associate all’uso di antiinfiammatori non steroidei. Recentemente, è stato dimostrato che
svolgono attività procinetica riducendo il metabolismo dell’acetilcolina; tuttavia, il vantaggio terapeutico di questa
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azione non è noto.
L’omeprazolo (0,3-0,7 mg/kg PO ogni 8 ore) appartiene
al gruppo del benzimidazolo e inibisce irreversibilmente la
pompa di scambio ionico H+/K+ ATPasi dipendente. Analogamente ai bloccanti dei recettori H2, l’omeprazolo è in grado di inibire la secrezione di acido gastrico, indipendentemente dalla causa, ma è circa 30 volte più potente della cimetidina. Poiché il farmaco inibisce irreversibilmente la
pompa H+/K+ ATPasi dipendente, la sua azione persiste fino
alla formazione di nuove molecole proteiche. L’omeprazolo
si accumula nelle cellule parietali, benché possa trascorrere
un certo intervallo prima che compaia il massimo effetto,
quindi l’efficacia persiste con bassi livelli plasmatici della
sostanza e per un certo periodo dopo l’interruzione del trattamento. Il farmaco può essere somministrato una volta al
giorno ed è indicato quando sia necessaria un’azione antisecretoria nei casi resistenti agli antagonisti dei recettori H2, ad
esempio nel trattamento di Helicobacter sp (associato ad antibiotici). La prostaglandina E1 è disponibile sotto forma di
analogo sintetico (misoprostolo 1-3 µg/kg PO, due volte al
giorno). Gli analoghi sintetici durano più a lungo delle prostaglandine endogene, ma svolgono azione esclusivamente
locale. Il farmaco assorbito per via sistemica viene rimosso
rapidamente dal fegato. Le prostaglandine possono svolgere
effetti collaterali (fra cui diarrea) a carico del tratto gastrointestinale, che tuttavia si risolvono nell’arco di diversi giorni.
La PGE2 è anche dotata di effetti citoprotettivi. Oltre a
controllare la secrezione di HCl, accresce la secrezione di
muco e bicarbonato e favorisce la riepitelizzazione della mucosa e la sua perfusione. Il farmaco è indicato nella terapia
preventiva e nel trattamento dell’irritazione gastrointestinale indotta dagli antiinfiammatori non steroidei; il misoprostolo costituisce il trattamento di elezione nell’ulcera indotta da questi farmaci.
Nel controllo dei processi di irritazione/erosione e ulcerazione della mucosa gastrica è possibile utilizzare altri citoprotettivi. Il sucralfato [circa 40 mg/kg, PO, tre volte al
giorno; cane e gatto (oppure 100-200 mg/gatto, PO, da tre a
quattro volte al giorno)] è un disaccaride (sucrosio) che somministrato per via orale si lega nei siti ulcerati proteggendoli dall’attività di acidi, bile e pepsina. Inoltre, la parte di farmaco composta da idrossido di alluminio (che non viene
somministrata in quantità sufficiente per neutralizzare l’acidità gastrica) potenzia la formazione dei mediatori locali che
proteggono la mucosa gastrica (ad es. prostaglandine e ioni
sulfidrile). Il composto stimola anche l’angiogenesi che
svolge un ruolo importante nella guarigione della mucosa
gastrica. Il sucralfato viene assorbito in quantità minima dopo somministrazione per via orale e induce effetti collaterali limitati o nulli. Richiede un ambiente acido (pH > 3-4) per
essere attivato e si lega alla cimetidina inibendone l’azione.
Pertanto, nei soggetti che assumono entrambi i farmaci, questi devono essere alternati (somministrare sucralfato 1 ora
prima o dopo la cimetidina).
MODIFICATORI DELLA MOTILITÀ
Procinetici
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I farmaci procinetici facilitano la motilità gastrointestinale. La metoclopramide, descritta in precedenza quale
antiemetico, potenzia il rilascio di acetilcolina in determinate aree della muscolatura liscia gastrointestinale. Vengono facilitate la contrazione dell’antro e il rilassamento piloroduodenale, mentre viene intensificata la contrattura
dello sfintere esofageo inferiore. Gli effetti della metoclopramide sono limitati allo stomaco ed all’intestino anteriore e vengono antagonizzati dai farmaci che contrastano gli
effetti dell’acetilcolina. Il cisapride (0,16-1,25 mg/kg PO,
tre volte al giorno (cane); 2,5/5/10 per cani di peso, rispettivamente pari a <5, 5-18 e >18 kg tre volte al giorno PO
[cane]; 5 mg/kg PO tre volte al giorno [cane]: T. Tams, ACVIM 1994) è un farmaco procinetico il cui uso nell’uomo
è stato approvato di recente negli Stati Uniti. Il prodotto è
stato studiato anche negli animali. Analogamente alla metoclopramide, svolge effetti procinetici; tuttavia, a differenza del precedente, agisce sull’intero tratto gastrointestinale. L’attività del farmaco deriva dagli effetti esercitati sui
recettori serotoninergici e dall’accresciuto rilascio di acetilcolina a livello della muscolatura liscia del tratto gastrointestinale. A differenza della metoclopramide, il cisapride non è dotato di effetti antidopaminergici ad azione
centrale e non è di alcuna utilità quale antiemetico; tuttavia, la sua somministrazione non comporta effetti collaterali a livello del SNC. L’attività del farmaco sulla muscolatura liscia gastrointestinale lo rende utile nei casi di megacolon e megaesofago. Si noti tuttavia che l’efficacia del
prodotto a livello esofageo nel cane (dove la muscolatura
scheletrica è preponderante) e probabilmente anche nel
gatto, è molto limitata. Le azioni periferiche sono antagonizzate dagli anticolinergici. Nell’uomo, il cisapride è caratterizzato da un metabolismo di primo passaggio e da un
grado significativo di legame alle proteine.
Diversi altri farmaci sono dotati di attività procinetica.
Gli effetti gastrointestinali dell’eritromicina probabilmente
ne riflettono la capacità di stimolare la contrazione della muscolatura liscia gastrointestinale. Anche gli antagonisti dei
recettori H2 svolgono attività procinetica.
DIARREA
La terapia farmacologica della diarrea si basa sull’uso
di farmaci che modifichino la motilità e/o la secrezione intestinale. La motilità normale comprende contrazioni della
muscolatura liscia longitudinale, che spingono il contenuto
del lume lungo l’intestino e contrazioni segmentarie della
muscolatura liscia circolare, che garantiscono resistenza al
flusso del contenuto stesso. Dei due tipi di motilità, l’assenza di segmentazione assume maggiore importanza clinica nella patogenesi della diarrea, dal momento che è il
movimento segmentario che induce la ritenzione dei materiali nell’intestino e quindi assicura un ampio riassorbimento di liquidi.
Il modulatore ottimale della motilità gastrointestinale
deve favorire i movimenti segmentari e inibire la peristalsi.
Tale attività è garantita dai derivati della morfina che agiscono a livello della muscolatura liscia intestinale (in virtù
degli effetti svolti sull’acetilcolina) favorendo la segmenta-
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zione e rallentando la peristalsi. Tuttavia, la maggiore efficacia di questi prodotti probabilmente deriva dalla capacità
di stimolare l’assorbimento di liquidi ed elettroliti a livello
intestinale. I farmaci che vengono utilizzati nel controllo
della diarrea sono rappresentati da tintura di oppio canforata o paregoric (0,05-0,06 mg/kg da due a tre volte al giorno,
PO, nel cane e nel gatto), tintura di oppio (0,01-0,02 mg/kg
due volte al giorno, PO, cane o gatto) e loperamide, disponibile come preparato da banco [2 mg/25kg quattro volte al
giorno, oppure 0,8 mg/kg tre volte al giorno, PO (cane) e
0,1-0,3 mg/kg PO, da una a due volte al giorno (gatto)]. La
loperamide differisce dal difenossilato (0,063 mg/kg ogni
4-6 ore [cane]) in quanto non supera la barriera ematoencefalica e quindi non può essere utilizzato come droga. Il difenossilato (che viene associato ad atropina - che gli conferisce un sapore amaro - per controllarne l’uso improprio
nell’uomo) (0,05-0,1 mg/kg da tre a quattro volte al giorno,
PO) può essere utilizzato anche nel cane, mentre la somministrazione nel gatto è molto controversa. Gli effetti collaterali di tutti i derivati narcotici comprendono costipazione
in seguito ad uso protratto e sedazione. I derivati della morfina sono controindicati nelle diarree associate a endotossine/enterotossine e non devono essere utilizzati unitamente
agli anticolinergici.
L’efficacia dei farmaci anticolinergici nel trattamento
della diarrea rimane controversa. Questi prodotti inibiscono
sia la muscolatura liscia longitudinale che quella circolare;
pertanto, anche movimenti peristaltici limitati sono sufficienti a indurre diarrea quando la segmentazione è inibita.
Infatti, in dosi elevate, questi farmaci provocano la comparsa del disturbo. Tuttavia, gli anticolinergici agiscono anche
inibendo la secrezione di elettroliti e liquidi e quindi si dimostrano efficaci nel controllo di determinate forme diarroiche. Questi farmaci sono anche indicati per alleviare il dolore associato alla motilità spastica. Gli anticolinergici che
possono essere somministrati per il controllo della diarrea
sono stati descritti in precedenza fra gli antiemetici ad azione periferica.
In alcuni animali, per il trattamento della diarrea indotta
da stress o da cause psicologiche viene utilizzata un’associazione anticolinergica/sedativa. L’uso della ciproeptadina
è stato descritto in precedenza.
L’utilizzo dei prodotti ad azione protettiva e adsorbente
nel controllo della diarrea è tuttora controverso. L’unica eccezione è rappresentata dal salicilato basico di bismuto che
in realtà è un antisecretivo [1-2 mg/kg tre-quattro volte al
giorno, PO (cani e gatti)] contenente un’antiprostaglandina
che può effettivamente modulare la secrezione intestinale
degli elettroliti.
Inoltre, questo farmaco svolge alcuni effetti antibatterici e antiendotossici. Per questi motivi, è il farmaco d’elezione dell’autore per la terapia sintomatica a breve termine
della diarrea. La refrigerazione può migliorarne l’appetibilità. Nel gatto, la porzione salicilica del farmaco viene ben
assorbita, per cui in questa specie animale bisogna attenersi ai dosaggi indicati e, se possibile, limitare l’uso del prodotto a 2-3 trattamenti. Allo scopo di adsorbire le tossine associate alla diarrea, è possibile ricorrere al carbone attivo
(0,7-1,4 g/kg PO).
Altri farmaci antisecretori sono rappresentati dai gluco-
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corticoidi che, oltre a prevenire gli effetti dell’infiammazione e delle PGE2, favoriscono anche l’assorbimento di
elettroliti a livello dell’ileo. I glucocorticoidi (2-3 mg/kg
divisi ogni 12 ore) vengono utilizzati nel trattamento di
un’ampia varietà di patologie infiammatorie croniche del
tratto gastrointestinale. L’associazione con azatioaprina (2
mg/kg PO ogni 24-48 ore) può rendersi necessaria per ottenere risultati efficaci o per ridurre gli effetti collaterali
associati agli steroidi. L’azulfidina (10-15 mg/kg PO ogni
6-8 ore [gatto] e 25 mg/kg ogni 6-8 ore [cane]) viene metabolizzata dai microrganismi del grosso intestino originando un sulfamidico e un salicilico. Mentre l’antimicrobico è in grado di attenuare il disordine infettivo, la componente salicilica assume maggiore importanza quale farmaco antiinfiammatorio. Il salicilato viene assorbito nel colon
del gatto; pertanto il prodotto deve essere utilizzato con
cautela in questa specie. L’azulfidina viene impiegata nel
trattamento delle enteriti croniche che colpiscono il grosso
intestino. La clorpromazina si rivela utile nella diarrea secretoria grazie alla capacità di inibire i messaggeri intracellulari secondari (calmodulina) responsabili di mediare
la secrezione ionica.
PURGANTI, LASSATIVI, CLISMI
Nei piccoli animali, le indicazioni per l’uso di lassativi e
purganti è limitato. Il dioctil sulfosuccinato- docusato sodico (2 mg/kg PO, cane e gatto) è un surfattante anionico che
viene comunemente scelto per lubrificare o ammorbidire le
feci, al pari della vaselina bianca (solitamente per la rimozione di tricobezoari).
I purganti osmotici, come i sali del magnesio (latte di
magnesia, 5-10 ml PO, cane; 2-6 ml PO, gatto) possono essere somministrati per via orale quando sia necessario provvedere all’evacuazione energica dell’intestino. Il lattulosio
è un disaccaride sintetico a cui è possibile ricorrere per indurre una diarrea osmotica. A livello del grosso intestino, il
lattulosio viene convertito in disaccaride osmoticamente attivo che oltre ad ammorbidire il contenuto intestinale ne induce l’acidificazione. Quest’ultimo effetto è importante per
utilizzare questo farmaco per il controllo dell’encefalopatia
epatica. Il bisacodile è un purgante irritante (20-50 mg da
una o due volte al giorno, PO, cane; 2,5-5 mg da una a due
volte al giorno nel gatto) che rappresenta una buona alternativa e che può essere somministrato anche come supposta
per via rettale.
La prevenzione dei fecalomi si realizza somministrando
per via orale crusca, psillio (metamucil) o zucca in scatola.
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FEGATO
L’acido ursodeossicolico (UDCA) è un acido biliare naturale che rappresenta una porzione molto limitata del gruppo
di acidi biliari. Si tratta di un prodotto di degradazione dell’acido chenodeossicolico. Fra gli acidi biliari, l’ursodeossicolico è quello caratterizzato da più basso equilibrio idrofoboidrofilo, minore capacità di produrre micelle e minore tendenza a indurre colestasi o tossicità di membrana. Poiché le epatopatie colestatiche possono essere accompagnate da accumulo di acidi biliari tossici, il trattamento con UDCA appare interessante; infatti, l’efficacia del prodotto è stata dimostrata in
un’ampia varietà di patologie del fegato. Il meccanismo d’azione del farmaco non è stato completamente chiarito ma è
probabile che sia collegato al metabolismo degli acidi biliari.
Esistono documentazioni circa l’uso dell’acido ursodeossicolico in cani affetti da determinate epatopatie colestatiche; inoltre, ne è stata studiata l’eliminazione nel gatto sano. Sono stati segnalati episodi sporadici di vomito e diarrea, ma per il resto il farmaco sembra sicuro; tuttavia, sarebbero indicati ulteriori studi scientifici per stabilirne l’innocuità e l’efficacia negli animali malati. L’S-Adenosil-L-Metionina (SAMe) è un
altro composto naturale distribuito nell’intero organismo, fra
cui il fegato. Trattandosi del principale donatore di gruppi metilici, questa sostanza attiva gli enzimi responsabili della sintesi e del metabolismo di ormoni e neurotrasmettitori e di
componenti cellulari, fra cui acidi nucleici, fosfolipidi e proteine. La sintesi di S-adenosil-L-metionina è notevolmente ridotta nei soggetti affetti da epatopatie. Si ritiene che il composto sia responsabile della solfonazione degli acidi biliari endogeni epatotossici e che pertanto favorisca la secrezione di
acidi biliari; una sua carenza relativa nel corso di epatopatie
contribuisce alla colestasi intraepatica e all’evoluzione della
patologia. Inoltre, la sostanza sembra proteggere direttamente
il fegato dal danno prolungato operando la metilazione dei fosfolipidi di membrana degli epatociti, a cui consegue una
maggiore fluidità delle membrane stesse. Studi condotti in
colture cellulari, animali da esperimento e pazienti umani affetti da epatopatie, hanno documentato l’efficacia della SAMe
somministrata per via orale allo scopo di controllare la patologia epatica associata a colestasi. Come per l’UCDA, si rendono necessari studi scientifici per stabilire l’innocuità e l’efficacia della S-adenosil-L-metionina negli animali malati. Recentemente, una recensione ha segnalato l’effetto protettitivo
sugli epatociti ottenuto somministrando i due composti associati anziché singolarmente.
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Strategie farmacologiche impiegabili nel controllo
dell’epilessia refrattaria nel cane
Dawn Boothe
DVM, MS, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ACVCP
Texas A&M University Dept of Physiology and Pharmacology College Station, Texas (USA)
INTRODUZIONE
Le crisi convulsive refrattarie costituiscono un’esperienza sgradevole non soltanto per l’animale, ma anche per il
proprietario e il veterinario. Le misure di controllo degli episodi acuti e quelle a lungo termine spesso sono confuse per
la mancanza di farmaci anticonvulsivanti innocui e comunque efficaci. Tuttavia, è possibile accrescere i successi terapeutici con i farmaci comunemente utilizzati in medicina veterinaria conoscendone le proprietà e gli effetti svolti nell’organismo. Il presente lavoro costituisce un approccio razionale alla terapia anticonvulsivante e rivolge l’attenzione
all’uso corretto del fenobarbital e all’associazione di benzodiazepine, bromuro di potassio e felbamato, un nuovo anticonvulsivante. Il successo nel controllo delle crisi con farmaci anticonvulsivanti implica la capacità di controllare le
crisi mantenendo al minimo gli effetti collaterali indesiderabili del farmaco. La variabilità dell’eliminazione degli anticonvulsivanti e le interazioni esistenti fra queste sostanze
spesso sconvolgono il successo della terapia. Il monitoraggio terapeutico del farmaco è un mezzo essenziale per guidare la terapia garantendone sicurezza ed efficacia. Le opinioni circa la terapia anticonvulsivante sono contrastanti. La
maggior parte dei commenti e dei consigli forniti nel presente lavoro derivano da osservazioni del servizio di monitoraggio terapeutico dei farmaci dell’autore e da prove cliniche in corso riguardanti l’uso degli anticonvulsivanti nel
trattamento dell’epilessia nei piccoli animali.
Vi sono maggiori probabilità che la terapia anticonvulsivante non sia efficace quando esista una patologia primaria
all’origine delle crisi. Questi casi devono essere individuati
e, se possibile, trattati adeguatamente prima di somministrare una terapia anticonvulsivante a lungo termine. Spesso, la
comparsa di effetti collaterali indesiderati rappresenta il fattore limitante all’uso di questi farmaci e non tutte le crisi
vengono necessariamente trattate. La terapia anticonvulsivante immediata e a breve termine è indicata in caso di stato epilettico o crisi convulsive “a grappoli”. Lo sviluppo di
danni cerebrali dovuti all’ipossia o conseguenti a ipertermia
è più probabile dopo 20-30 minuti di crisi ininterrotte. La terapia a lungo termine in genere è indicata nelle crisi che
compaiono più di una volta al mese oppure negli attacchi ripetuti (“a grappoli”), indipendentemente dall’intervallo.
Quanto più gravi sono gli attacchi, tanto più energiche devono essere le misure per sedarli. Le crisi epilettiche possono indurre ulteriori attacchi convulsivi (abbassamento della
soglia) o allo sviluppo di un secondo focus “riflesso” di attività convulsiva. Un accorciamento dell’intervallo fra le crisi è interpretabile come un segno di necessità della terapia
oppure di un adeguamento di quella in corso.
Epilessia refrattaria definita. Nei soggetti con epilessia
refrattaria, la prima misura per il controllo delle crisi è l’aumento di dosaggio del fenobarbital, che rappresenta l’anticonvulsivante più efficace. Un animale non deve essere considerato refrattario alla terapia con fenobarbital (o con qualsiasi associazione di farmaci) fino a quando la concentrazione del farmaco non ha raggiunto il limite massimo dell’intervallo terapeutico o il soggetto non è in grado di tollerare
qualsiasi farmaco al dosaggio corrente. Si noti che spesso
l’intervallo terapeutico viene utilizzato in modo improprio
nel monitoraggio dell’animale. L’intervallo si riferisce a una
popolazione ed è prevedibile che un’ampia percentuale di
questa (ad es. il 95%) produrrà una risposta al farmaco compresa in tale intervallo; tuttavia, il punto della risposta del
singolo individuo non è prevedibile. La risposta di alcuni
soggetti corrisponderà al limite inferiore dell’intervallo,
quella di altri al limite superiore e alcune risposte cadranno
anche fuori dall’intervallo (fino al 5%). Si noti che il fenobarbital quale agente di induzione può andare incontro ad
accresciuta eliminazione al punto che il controllo adeguato
ottenuto in un soggetto può diventare insufficiente. Le concentrazioni del farmaco possono ridursi fino al 50% nel corso dei primi 3 - 6 mesi di terapia semplicemente perché il fegato lo metabolizza con velocità maggiore. Ad esempio, gli
autori hanno misurato che in alcuni cani l’emivita del fenobarbital è di appena 12 ore. Per questa ragione il dosaggio
non deve essere utilizzato quale base per stabilire la risposta
(ovvero la mancata risposta dopo somministrazione di una
dose elevata di farmaco non deve essere interpretata come
un insuccesso terapeutico); infatti la variabilità nell’eliminazione del farmaco è troppo ampia fra gli animali e nei singoli soggetti perché un dosaggio costituisca un indice affidabile dei livelli plasmatici. La raccolta di valori basali allo
stato stazionario di equilibrio (per informazioni relative al
Monitoraggio Terapeutico vedi il sito internet degli autori all’indirizzo http://www.cvm.tamu.edu/vpcl) può servire da
punto di partenza per individuare concentrazioni di farmaco
che siano diminuite, permettendo così di distinguere fra induzione e patologia refrattaria.
Anche un animale che sviluppi un’epatopatia indotta da
fenobarbital può essere considerato refrattario. Tuttavia, si
noti che l’induzione epatica da parte del farmaco deve esse-
54
re distinta dall’epatopatia che comporta alterazioni della
funzionalità dell’organo. Nel primo caso, l’attività sierica di
fosfatasi alcalina e alanina-transaminasi (ALT) possono aumentare senza alcuna modificazione della funzionalità epatica. Invece, in corso di epatopatia indotta da fenobarbital,
oltre alle alterazioni precedenti si rileverà innalzamento dei
livelli di acidi biliari e abbassamento dei livelli di albumina,
azoto ureico e colesterolo.
FARMACI ANTICONVULSIVANTI
E LORO USO
L’aggiunta di un secondo anticonvulsivante nei soggetti
refrattari al fenobarbital (se realizzata con il Monitoraggio
Terapeutico del Farmaco) prevedibilmente consente di eliminare le crisi epilettiche nel 60% dei casi di mancata risposta e di ridurre del 50% la gravità o il numero degli attacchi
in un altro 20%. Fino al 10% dei soggetti non presenterà alcun miglioramento né peggioramento; nello studio condotto
dagli Autori (sostenuto dalla Morris Animal Foundation) che
confrontava l’efficacia del bromuro e del clorazepato di felbamato come integrazioni al fenobarbital, il 5% dei soggetti
continuò a peggiorare. Il bromuro è l’anticonvulsivante di
elezione da associare al fenobarbital, soprattutto perché facile da utilizzare, con probabilità minime di interazioni farmacologiche e basso rischio di epatotossicità e poiché consente di ridurre maggiormente il dosaggio del fenobarbital.
Il bromuro è particolarmente adatto nei soggetti colpiti o
predisposti alle epatopatie, indotte o meno dal fenobarbital.
Bromuro. Il bromuro è un vecchio farmaco ad azione
anticonvulsivante e sedativa il cui meccanismo d’azione non
è ancora stato completamente chiarito. È stato ipotizzato che
sostituisca il cloruro carico negativamente, con conseguente
iperpolarizzazione neuronale (ossia, il potenziale di membrana a riposo si negativizza maggiormente in relazione al
potenziale di soglia). Gli effetti anticonvulsivanti del bromuro sono proporzionali ai livelli plasmatici raggiunti. Il
farmaco è disponibile sotto forma di diversi sali (sodio, potassio e ammonio). Le differenze fra i vari prodotti riguardano la solubilità (e quindi la facilità di miscelare) in acqua e
la quantità di bromo per grano di composto (NaBr contiene
maggiori quantità di bromo rispetto a KBr poiché il peso di
Na è inferiore a quello di K). La farmacocinetica del bromuro non è stata completamente chiarita nel cane. In questa
specie, l’emivita del farmaco può essere di 24 giorni e non
viene raggiunto il livello di equilibrio dinamico (stato stazionario) prima di 3 - 6 mesi. La distribuzione del farmaco
avviene attraverso il liquido extracellulare. Il bromuro viene
eliminato lentamente (forse a causa di un notevole riassorbimento) a livello renale; tuttavia, la velocità di eliminazione
può essere modificata con la somministrazione di sale. Aumentando il contenuto di cloruro di sodio nella dieta, aumenta la velocità di eliminazione del bromuro (forse per
riassorbimento preferenziale del cloro?), mentre riducendo il
contenuto di cloruro di sodio si ottiene l’effetto opposto. Le
modificazioni dietetiche devono essere monitorate per periodi di almeno tre mesi dopo il cambiamento prima di affermare che i livelli del farmaco non sono stati variati a sufficienza. Le reazioni avverse (che l’autore non considera
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“intossicazioni”) al bromuro solitamente sono di ordine neurologico e corrispondono all’azione prevista del farmaco
(sedazione). I segni che si rilevano comprendono atassia e
ottundimento. Sono stati segnalati casi di reazioni cutanee
che, in base all’esperienza dell’autore, riguardano più spesso soggetti già colpiti da disturbi dermatologici (fra cui morso da pulce o altre allergie). Il vomito non è raro e probabilmente consegue all’iperosmolalità del farmaco. Gli episodi
di vomito possono essere limitati suddividendo la dose totale in dosi minori, somministrando il farmaco dopo il pasto e
provando la forma in capsule o la soluzione se una di queste
non è stata tollerata. In caso di intossicazione acuta da bromuro, il trattamento di elezione è rappresentato dalla somministrazione di NaCl (allo 0,9%). Questo farmaco non è all’origine di epatotossicità.
Nell’uomo, il bromuro è stato utilizzato per trattare le
crisi convulsive intrattabili nei pazienti in età pediatrica. Solitamente, il farmaco viene impiegato quale anticonvulsivante “aggiunto” nei pazienti epilettici che non rispondono
sufficientemente al fenobarbital oppure che non lo tollerano
(soprattutto per la comparsa di epatotossicità). Poiché lo stato di equilibrio dinamico viene raggiunto soltanto dopo 2-3
mesi, si consiglia di somministrare una dose di carico per ottenere i livelli terapeutici più velocemente (nei soggetti con
epatopatie, attacchi epilettici a grappoli). L’efficacia terapeutica non può essere valutata pienamente per alcuni mesi
dopo l’inizio delle somministrazioni tranne quando venga
fornita una dose di carico. Quest’ultima comporta immediatamente la comparsa di livelli in stato di equilibrio dinamico
ed è basata su un volume di distribuzione di 0,3 l/kg e una
concentrazione desiderata di 1,5 mg/ml: in totale 600 mg/kg.
I livelli plasmatici del farmaco devono essere misurati dopo
l’assunzione della dose di carico per valutarne l’efficacia.
Benché la dose di carico possa essere somministrata singolarmente, si consiglia di suddividerla in 5 porzioni equivalenti giornaliere (se viene scelta questa possibilità, si rammenti di aggiungere la dose giornaliera a quella di carico)
poiché il gusto amaro e l’ipertonicità della sostanza possono
provocare disturbi gastroenterici. Per la stessa ragione, spesso la dose giornaliera viene suddivisa in due parti uguali che
vengono somministrate ad intervalli di 12 ore. Tuttavia, data la durata dell’emivita del bromuro, la somministrazione di
due dosi giornaliere non offre alcun vantaggio rispetto al dosaggio singolo. I livelli di bromuro devono essere misurati
dopo il carico per stabilire le concentrazioni basali. I livelli
voluti sono più elevati se il bromuro viene somministrato come farmaco singolo (da 2,5 a 3 mg/ml) e la dose di carico
può essere aumentata proporzionalmente. Se la prima dose
di carico non ha consentito di raggiungere il livello voluto è
possibile somministrarne una seconda, più bassa. In genere,
l’autore preferisce innalzare i livelli plasmatici del farmaco
con incrementi di 0,5 mg/ml; questo solitamente significa
una dose di carico pari a circa 250 mg/kg e, se il soggetto era
in stato di equilibrio dinamico al momento della misurazione, un aumento della dose di mantenimento dal 25% al 40%
(a seconda del nuovo obiettivo). Si noti che la dose di mantenimento è intesa a conservare i livelli raggiunti con la dose di carico. Tuttavia, poiché l’eliminazione del farmaco varia a seconda degli individui, è possibile che allo stato di
equilibrio dinamico corrispondano concentrazioni differenti.
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Se la dose di mantenimento non consente di conservare il livello raggiunto con la dose di carico, l’entità delle modificazioni non apparirà evidente prima che siano trascorsi tre
mesi (si tratta di un nuovo stato di equilibrio). Tuttavia, la
maggior parte delle variazioni dei livelli di bromuro si verifica durante il primo tempo di dimezzamento (vale a dire 34 settimane dopo la dose di carico). Allo scopo di valutare
attivamente i livelli di bromuro (vale a dire prima di avere
raggiunto un nuovo equilibrio) si consiglia di misurare i livelli uno o due giorni dopo l’assunzione di ogni dose di carico e nuovamente dopo 1 mese. La dose di mantenimento
verrà modificata di conseguenza se il campione valutato a
distanza di un mese non coincide con quello prelevato dopo
il carico. Il monitoraggio è particolarmente importante quando si ritenga che i livelli di fenobarbital siano diminuiti. Generalmente si sconsiglia di ridurre le concentrazioni di questo farmaco fino a quando non siano stati raggiunti valori
stabili di bromuro pari a 1,5 mg/ml che, talvolta, non sono
sufficienti. Quanto più gravi sono gli attacchi epilettici, tanto più appare necessario raggiungere concentrazioni di 3
mg/ml. Se lo stato di ottundimento altera la qualità della vita del soggetto, i livelli di fenobarbital possono essere diminuiti gradualmente fino alla ricomparsa degli attacchi o alla
sospensione completa delle somministrazioni. Mentre in alcuni cani si è potuto eliminare completamente il farmaco, in
altri non è stato possibile scendere al di sotto di 20 µg/ml.
Tuttavia, si noti che questa concentrazione è decisamente
più accettabile rispetto a quelle che si avvicinano al limite
massimo dell’intervallo terapeutico.
Il bromuro è disponibile sotto forma di sale sodico o potassico. In alcune farmacie sono disponibili preparazioni
contenenti tre sali del bromo (Na, K e NH4). Il catione associato non sembra modificare l’efficacia del prodotto, benché
l’NaBr sia più difficilmente solubile in acqua rispetto al
KBr. Inoltre, dato il peso inferiore del potassio rispetto al sodio, un grammo di NaBr contiene una quantità maggiore di
bromo rispetto a un grammo di KBr. Pertanto, occorre utilizzare una minore quantità di NaBr (211 mg/ml) che di KBr
(250 mg/ml) per ottenere una soluzione contenente quantità
equivalenti di bromuro. Il bromuro viene commercializzato
da diverse industrie chimiche, benché alcune si rifiutino di
mettere in vendita il prodotto per scopi medici. Il sale bromuro può essere miscelato fino a ottenere concentrazioni
adeguate (250 mg KBr/ml di H2O) oppure inglobato in capsule di gelatina. Negli Stati Uniti, alcune farmacie provvedono alla riformulazione del farmaco, ma il prodotto finale
è molto costoso. In alternativa, i veterinari stessi possono
miscelare il bromuro disponendo di un’attrezzatura minima.
il farmaco viene sciolto in acqua fino a raggiungere una concentrazione adeguata (somministrare 44 mg/kg ogni 24 ore
per via orale) oppure somministrata sotto forma di capsula di
gelatina. Ad esempio, una farmacia locale può suddividere
una fornitura da 5 kg di bromuro in pacchi da 250 g, ognuno dei quali dovrà essere miscelato in un litro di acqua minerale. Prima di immettere il bromuro nella bottiglia occorre eliminare una certa quantità di acqua per creare uno spazio sufficiente al farmaco e a un agente aromatizzante (ad
esempio sciroppo di mais). Il bromuro si scioglie con maggiore difficoltà rispetto al cloruro di sodio, per cui occorre
lasciare quanta più acqua possibile. La soluzione finale sarà
55
pari a 250 g/litro oppure 250 mg/ml di bromuro di potassio
(si adoperano 210 g di bromuro di sodio per litro d’acqua).
La soluzione ottenuta deve essere refrigerata, anche se le
basse temperature favoriscono la cristallizzazione del bromuro. Il successivo riscaldamento rende nuovamente solubile il sale.
Il bromuro è indicato principalmente in associazione al
fenobarbital nei casi di epilessia refrattaria oppure nei soggetti in cui si è sviluppata un’epatopatia e nei quali occorre
diminuire i livelli di barbiturico. Il bromuro, poiché dotato di
emivita prolungata, può essere il farmaco di elezione nei cani con proprietari poco collaborativi, poiché i livelli plasmatici non si alterano facilmente. Nelle forme di epilessia refrattaria, la riduzione dei livelli di fenobarbital può rendersi
impossibile. Il bromuro è stato adoperato quale unico farmaco nei soggetti in cui l’anamnesi riportava soltanto lievi episodi convulsivi. Le reazioni avverse al farmaco tendono ad
essere proporzionali alla dose. In base all’esperienza dell’autore, si tratta principalmente di disturbi a carico del SNC, fra
cui atassia e ottundimento. La riduzione graduale del fenobarbital (da attuare mediante riduzioni progressive del 25%)
è la risposta preferibile per risolvere alcuni effetti collaterali
della terapia anticonvulsivante associata. Nei soggetti con
epatopatie in cui la somministrazione del barbiturico andrebbe interrotta o ridotta al minimo, è opportuno procedere con
riduzioni del 25% ogni mese oppure ad ogni intervallo fra gli
attacchi. Di preferenza, i livelli di fenobarbital devono essere misurati quando si raggiunge un nuovo stato di equilibrio
dopo ogni diminuzione di dosaggio. Se il soggetto presenta
un attacco dopo avere ridotto il dosaggio, la dose che veniva
somministrata in precedenza e i corrispondenti livelli plasmatici del farmaco devono essere considerati come valori
basali per quell’individuo. Quando si ritenga che il bromuro
sia all’origine delle reazioni avverse, anche le dosi di questo
farmaco andranno ridotte del 25%, anche se possono essere
necessarie da 1 a 2 settimane prima che venga rilevata una risposta. I casi di tossicità acuta da bromuro vengono trattati
con liquidi contenenti cloruro di sodio, procedendo poi a un
controllo dopo il trattamento per stabilire un nuovo valore di
base. Nei casi di grave intossicazione da bromuro, è possibile somministrare anche diuretici dell’ansa (fra cui furosemide). Si noti che non è possibile determinare un nuovo stato di
equilibrio del bromuro fino a quando non sia trascorso un periodo pari a 5 volte l’emivita del farmaco (da 2 a 3 mesi) dopo avere sospeso la terapia con soluzione fisiologica (o diuretici). Tuttavia, i livelli del farmaco devono essere misurati
immediatamente dopo la terapia per accertarsi che questa non
sia stata eccessiva abbassando la concentrazione del bromuro al di sotto del limite minimo efficace. L’autore ha impiegato il farmaco nel gatto senza inconvenienti adottando i dosaggi utilizzati nel cane; l’emivita appare più breve (14 giorni) con raggiungimento dello stato di equilibrio dopo 8 settimane. I livelli del farmaco sono leggermente più elevati nel
gatto (1,2 mg/ml dopo assunzione di 30 mg/kg una volta al
giorno per 8 settimane).
Molti test di laboratorio non distinguono fra ioni e bromuri e possono indicare innalzamenti artificiosi dei livelli
dei cloruri nel siero. Il bromuro non deve essere misurato
servendosi di un elettrodo a ioni selettivi, a meno che non
vengano pubblicati dei dati che convalidino questa prova. I
56
laboratori che eseguono le analisi dei bromuri devono essere dotati di standard precisi (controlli) per questo agente alle concentrazioni esistenti nell’intero intervallo di rilevamento. Gli intervalli ottimali consigliati sono controversi e
dipendono dall’associazione o meno di fenobarbital. L’autore utilizza l’intervallo terapeutico compreso fra 0,8 e 3
mg/ml se il bromuro viene associato al fenobarbital, oppure
fino a 3,5 mg/ml se viene utilizzato singolarmente. Tuttavia,
se non si rilevano segni di sovradosaggio da bromuro (sedazione, nausea, ecc.) allora è possibile aumentare i livelli del
farmaco quando questo serva a controllare gli attacchi.
Benzodiazepine. Il clonazepam e il clorazepato, analogamente al diazepam, sono derivati benzodiazepinici. Le
benzodiazepine intensificano gli effetti inibitori del GABA
sia a livello cerebrale che midollare. Pertanto, non solo limitano il diffondersi della crisi convulsiva, ma ne bloccano anche l’insorgenza e deprimono in sede centrale i riflessi spinali. Nel cane, la tolleranza all’attività anticonvulsivante di
diazepam e clonazepam si sviluppa rapidamente nell’arco di
una settimana; pertanto, questi farmaci non sono un efficace
trattamento anticonvulsivante a lungo termine in questa specie. Tuttavia, il diazepam inoculato per via endovenosa è il
rimedio di elezione nel trattamento dello stato epilettico sia
nel cane che nel gatto, poiché supera la barriera ematoencefalica e si diffonde rapidamente nel liquido cefalorachidiano. Nei soggetti colpiti da crisi epilettiche in casa (attacchi
improvvisi), il diazepam può anche essere somministrato per
via rettale (da 0,5 a 2 mg/kg). I metaboliti del farmaco (nordiazepam e oxazepam) sono attivi, anche se in misura minore (dal 25% al 33%) rispetto al composto d’origine. Tuttavia,
l’emivita dei metaboliti è leggermente più lunga (rispettivamente 3,6 e 5,2 ore) di quella del diazepam. Inoltre, quest’ultimo (1-2 mg ogni 8 ore) è anche l’anticonvulsivante di
seconda scelta per il controllo a lungo termine degli attacchi
epilettici nei gatti che non rispondono alla somministrazione
di fenobarbital; infatti, l’efficacia dei due farmaci si equivale. Nel cane, di solito, il clorazepato non comporta lo sviluppo di tolleranza come avviene con il diazepam.
Clonazepam. Il clonazepam è un derivato benzodiazepinico più potente del diazepam che viene utilizzato esclusivamente nel trattamento d’urgenza dello stato epilettico nel
cane. Il farmaco viene inoculato per via endovenosa alla dose di 0,05-0,2 mg/kg (negli USA la preparazione endovenosa non è disponibile). I fenomeni di accumulo si verificano
in seguito a somministrazioni protratte. Invece, in seguito a
induzione degli enzimi epatici, si sviluppa uno stato di tolleranza entro pochi giorni o settimane di somministrazione.
Pertanto il clonazepam, al pari del diazepam, non è adatto
per il controllo a lungo termine dell’epilessia.
Clorazepato. Il clorazepato è un derivato benzodiazepinico di cui si è studiata l’applicazione nel trattamento a lungo termine delle crisi convulsive in associazione al fenobarbital. Trattandosi di un precursore, il farmaco viene idrolizzato nello stomaco trasformandosi in nordiazepam che rappresenta l’anticonvulsivante attivo. Il nordiazepam è anche il
principale metabolita del diazepam. Rispetto a quest’ultimo,
il cane non sembra sviluppare una tolleranza altrettanto rapida agli effetti anticonvulsivanti del clorazepato. Gli studi
condotti dall’autore sostengono l’uso del prodotto in associazione a fenobarbital (da 1 a 2 mg/kg iniziando con intervalli
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di 12 ore, che possono anche essere di 8 ore se necessario, per
via orale). L’uso del clorazepato può risultare difficile per diverse ragioni. Il tempo di dimezzamento del farmaco è inferiore a 12 ore (è di appena 3 ore nello studio dell’autore) e la
mancata somministrazione di alcune dosi può favorire la
comparsa di crisi epilettiche. Nonostante alcune segnalazioni
contrastanti, l’autore ha rilevato che l’interazione fra clorazepato e fenobarbital confonde la terapia. Il clorazepato induce
innalzamenti consistenti dei livelli di fenobarbital nei soggetti sottoposti a terapie a lungo termine con questo farmaco.
Generalmente, gli innalzamenti appaiono evidenti entro il
primo mese di terapia, ma possono anche richiedere tempi
più lunghi e sono più probabili se la concentrazione di clorazepato supera valori di 100 - 150 ng/ml. Inoltre, i livelli di
clorazepato tendono a diminuire con il passare del tempo anche senza avere modificato il dosaggio. L’abbassamento dei
livelli di clorazepato può essere accompagnato da un calo dei
livelli di fenobarbital, soprattutto quando il dosaggio di quest’ultimo sia stato ridotto. Alcuni laboratori (come quello dell’autore) dispongono dei test di monitoraggio delle benzodiazepine (fra cui diazepam e relativi metaboliti). Data l’emivita breve del clorazepato, è necessario prelevare campioni corrispondenti alla concentrazione massima e a quella minima
allo scopo di documentare le fluttuazioni dei livelli plasmatici del farmaco. L’intervallo terapeutico indicato per il cane è
stato estrapolato dalla specie umana; inoltre l’autore ha osservato una maggiore tendenza all’ottundimento nei cani che
assumono fenobarbital, quando i livelli massimi di clorazepato superano valori di 300 - 500 ng/ml (a seconda del soggetto). In alcuni animali, è opportuno ricorrere a intervalli di
otto ore piuttosto che di dodici ore per evitare la comparsa sia
di livelli tossici che subterapeutici. Negli Stati Uniti, sono reperibili preparazioni generiche. L’autore ha utilizzato il clorazepato in cani che sembravano rispondere alla somministrazione orale di diazepam (è probabile che il metabolita del
diazepam, rappresentato dal clorazepato [nordiazepam] si dimostri efficace). Inoltre, il clorazepato è stato utilizzato in
modo discontinuo quale sostegno durante i periodi di comparsa delle crisi a casa oppure per garantire un ulteriore controllo nei soggetti epilettici tendenti a manifestare fasi di attacchi (quando gli intervalli fra le crisi sono così regolari, il
farmaco può essere somministrato anticipando il ciclo di attacchi, ad esempio durante l’attività, in presenza di confusione o di temporali, ecc).
Felbamato. Il felbamato è un anticonvulsivante recente,
approvato negli Stati Uniti, nel 1994, per il trattamento dell’epilessia umana, quale farmaco singolo o in associazione
ad altri anticonvulsivanti. Il farmaco, che è simile al meprobamato, si è dimostrato molto sicuro ed efficace nel trattamento dell’epilessia parziale e generalizzata nell’uomo,
compresi i pazienti refrattari ad altri anticonvulsivanti. Nel
cane, l’emivita di questo agente arriva a 14 ore. Nelle prove
di laboratorio condotte dall’autore, il farmaco si è dimostrato sicuro in dosi comprese fra 15 mg/kg suddivisi in due o
tre somministrazioni (dose terapeutica iniziale giornaliera) e
300 mg/kg in tre somministrazioni. Si noti che non sono stati rilevati segni di epatopatia in cani che non avessero assunto contemporaneamente fenobarbital in dosaggi prossimi
al limite massimo dell’intervallo terapeutico. Inoltre, nei cani sottoposti a trattamento con felbamato, non sono state os-
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velli al di sotto dei valori minimi prima che gli attacchi siano stati controllati per un periodo di almeno due intervalli.
Lo svantaggio maggiore del felbamato è il costo.
Altri anticonvulsivanti. Nell’uomo è stato approvato
l’uso di alcuni nuovi anticonvulsivanti, tra cui il Gabapectin che viene eliminato per via renale ed è dotato di emivita
breve. Nel cane, questo farmaco non si è rivelato efficace,
nemmeno in dosaggi elevati e dovrà essere ulteriormente
studiato prima di essere consigliato. Analogamente, data la
variabilità di risposta e disponibilità, qualsiasi nuovo farmaco approvato nella specie umana deve essere studiato nel cane prima di essere utilizzato quale anti-epilettico.
servate variazioni dei parametri emopoietici. Tuttavia, poiché il numero dei cani studiati è piuttosto ristretto, l’innocuità del prodotto non può essere garantita. Data l’emivita
relativamente breve del farmaco (che solitamente è più corta nei soggetti che assumono fenobarbital), possono rendersi necessarie somministrazioni a intervalli di 8 ore. Al momento attuale, non esiste alcun metodo semplice e poco costoso per la determinazione dei livelli di felbamato. Tuttavia,
il prodotto ha dimostrato una tale sicurezza di impiego da
non rendere necessario alcun monitoraggio. L’applicazione
clinica del farmaco nel cane è in corso di studio. Se le crisi
convulsive non vengono controllate con la dose d’attacco
(15 mg/kg divisi ogni 12 ore), questa viene aumentata progressivamente con incrementi di 15 mg/kg. Innalzando il dosaggio, occorre controllare i livelli di fenobarbital poiché
eventuali interazioni farmacologiche possono complicare la
terapia. La comparsa di effetti collaterali (sedazione, nausea
e vomito) è stata segnalata principalmente nei soggetti che
assumono anche altri anticonvulsivanti. Quando l’epilessia
viene controllata con il felbamato, è possibile ridurre i livelli di fenobarbital. Tuttavia, l’autore non abbassa mai tali li-
Monitoraggio alla Texas A&M University
I campioni da controllare possono essere inviati al nostro laboratorio per via aerea e verranno ricevuti entro 3 o 4
giorni lavorativi. Le provette (non utilizzare provette con
separatore di siero; non è necessario congelare o refrigerare) devono essere circondate da imbottitura perché non si
Tabella 1
Informazioni sul dosaggio di anticonvulsivanti selezionati, utilizzati per il trattamento dell’epilessia nel cane e nel gatto
Farmaco
Dose mg/kg1
Intervallo
Somministrazione fra le dosi
t2 in ore
Tempo per
raggiungere lo
stato di equilibrio2 Intervallo terapeutico2
0,5-1
PO
8 ore
4-6 (d)
3-5
< 24 ore
150-400 ng/ml3
Diazepam
1-2
0,5-24
da 5 a 205 in totale
PO
IV
IV inf
8 ore
5-10 min
60 min
3 (d)
< 24 ore
Come sopra
Felbamato
15
PO
diviso
5-8 (d)
< 24 ore
––––
2
3-66
3-166 totale
6-12 mg8
PO
IM
IV inf
EV lenta
12 ore
56-102 (d)
(9-12; d)
da 2 a 3 sett7
2-3 giorni
20-45 µg/ml
Primidone
109
PO
12 ore
Bromuro
30
PO
12-24; 24 d
Clorazepato
Fenobarbital
1
60 min
56-102 (d) da 2 a 3 settimane7
2-3 mesi
0,8-2 mg/ml10
Come sopra
1,2-3 mg/ml11
Dose di mantenimento; se non indicato diversamente, la dose è quella di attacco; i dosaggi dipendono dalla risposta del soggetto e dai livelli sierici del farmaco
2
Estrapolato dalla letteratura umana se non indicato diversamente
3
Basato su una prova clinica ancora in corso
4
Può essere ripetuto fino a 3 volte per controllare le crisi epilettiche pericolose per la vita del soggetto
5
Diluito in soluzione glucosata al 5% o soluzione fisiologica allo 0,9%; oppure aggiunto ogni ora per inclinare la buretta
6
Dopo il diazepam per il trattamento delle crisi che mettono in pericolo la vita
7
t2 probabilmente si accorcia con le terapie a lungo termine; il numero fra parentesi si riferisce all’emivita misurata in alcuni soggetti presso il nostro laboratorio
8
Dose di carico come unica terapia per il trattamento degli attacchi che mettono in pericolo la vita
9
Basata sul fenobarbital quale anticonvulsivo attivo
10
Presume l’associazione terapeutica con fenobarbital
11
Bromuro quale unico farmaco anticonvulsivo oppure associato al fenobarbital, utilizzando il metodo con cloruro d’oro per eseguire l’analisi.
58
rompano e chiuse in una piccola scatola. L’invio di campioni di peso inferiore a mezzo chilo ha un costo di $15,48 utilizzando il numero di Airborne Express Account:
135704650. Questo conto è valido soltanto se i campioni
vengono inviati al seguente indirizzo: TX A&M Clinical
Pharmacology Laboratory, Veterinary Teaching Hospital,
BLDG 1085 RM 2059, College Station, TX 77843 - Tel.
409 845 9184. Si prega di indicare “Bill receiver” (porto assegnato) per evitare di pagare un importo molto più alto. Il
laboratorio aggiungerà il costo del trasporto al vostro conto. I costi sono di 15,00$ per la valutazione del fenobarbital
(25,00$ per la determinazione dei livelli massimo e minimo
nello stesso soggetto), 19,00$ per i bromuri (viene utilizzato il metodo con cloruro d’oro, che rappresenta attualmente
l’unico sistema valido per l’esame quantitativo del bromuro) e 25,00$ per il clorazepato. I risultati possono essere inviati via fax il giorno stesso dell’esame. La maggior parte
dei test vengono eseguiti nelle giornate di lunedì, mercoledì
e venerdì. Per maggiori informazioni circa il monitoraggio,
38° Congresso Nazionale SCIVAC
fra cui sovvenzioni, altri farmaci (ad es. teofillina, aminoglicosidi, ciclosporina) ecc., è possibile rivolgersi al sito internet: http://www.cvm.tamu.edu/vcpl. Seguire i link per
trovare le informazioni specifiche circa il monitoraggio e le
altre attività del laboratorio.
La bibliografia può essere richiesta direttamente
all’autore.
Note
a
Dati non pubblicati della prova clinica dal titolo “Comparision of Combination Anticonvulsant Therapies for the
Treatment of Refractory Canine Epilepsy”, finanziata dalla
Morris Animal Foundation; manoscritto in preparazione.
b
Professional Compounding Centers of America, # 800
331 2498.
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59
Fattori da considerare per la biodisponibilità
dei farmaci
Dawn Boothe
DVM, MS, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ACVCP
Texas A&M University Dept of Physiology and Pharmacology College Station, Texas (USA)
INTRODUZIONE
Benché gli insuccessi terapeutici siano per lo più ascrivibili alla refrattarietà della malattia, anche l’uso di dosaggi
farmacologici inadatti può essere all’origine di questo problema. Analogamente, una reazione avversa inattesa spesso
indica l’utilizzo di una dose eccessivamente elevata per quel
soggetto. Entrambe le situazioni, ossia l’insuccesso terapeutico e la reazione avversa, possono verificarsi nonostante la
somministrazione di dosaggi consigliati e prestabiliti. L’obiettivo delle indicazioni posologiche è di indurre la risposta
farmacologica voluta per un periodo di tempo noto, evitando la comparsa di reazioni avverse. Tuttavia, molti dosaggi
utilizzati in medicina veterinaria non sono basati su studi
scientificamente controllati. Tranne rare eccezioni, i protocolli fondati su dati scientifici sono stati messi a punto studiando una popolazione campione ristretta e composta da
animali sani e, quindi, non adeguatamente rappresentativa
dei soggetti ai quali il farmaco è destinato. Quando la terapia viene formulata su misura per il soggetto da trattare, le
probabilità di successo terapeutico aumentano. Gli elementi
da prendere in considerazione quando si modificano i dosaggi consigliati in un dato individuo sono rappresentati da
fattori fisiologici quali specie ed età, fattori patologici (malattie), in particolare cardiaci, renali ed epatici, e fattori farmacologici, dovuti al fatto che il farmaco sia somministrato
singolarmente o in associazione con altri. I fattori clinicamente significativi che vengono sottolineati nel presente lavoro sono le interazioni farmacologiche, l’età, le differenze
di specie e le alterazioni indotte dai processi patologici.
FATTORI FARMACOLOGICI
Le interazioni farmacologiche si verificano quando l’azione di un farmaco viene modificata dalla presenza di un
secondo, che viene somministrato contemporaneamente.
L’incidenza del fenomeno aumenta in proporzione al numero di farmaci compresi nella preparazione e alla durata del
trattamento.8 L’interazione si può verificare prima oppure
dopo la somministrazione. Le interazioni farmacologiche si
verificano in seguito all’associazione di due o più farmaci
fra loro incompatibili. In medicina umana, tale evenienza è
più frequente quando i farmaci vengono uniti ai liquidi di
perfusione endovenosa. Invece, in medicina veterinaria si
verificano più spesso interazioni anche con altre forme di
somministrazione, probabilmente perché in molti casi è necessario realizzarle artigianalmente. Modificando la natura
fisica o chimica del farmaco, se ne alterano diffusibilità, velocità di dissoluzione e dimensioni delle particelle, impedendone l’adeguato assorbimento. Spesso, uno o più farmaci vengono semplicemente inattivati.
Le interazioni farmacologiche che si verificano nell’organismo possono essere pericolose per la vita del soggetto.
Le interazioni farmacocinetiche alterano l’eliminazione dei
farmaci. L’assorbimento di un farmaco può essere impedito perché ne vengono alterati i passaggi attraverso le fasi
biologiche e per le modificazioni a carico di pH locale, integrità delle membrane biologiche, perfusione regionale e, nel
caso di prodotti somministrati per via orale, motilità gastrointestinale. È possibile che tutte queste modificazioni
siano indotte da un farmaco somministrato contemporaneamente. Le interazioni farmacocinetiche che alterano la distribuzione del farmaco solitamente derivano dalla competizione per i siti proteici che si crea fra due o più sostanze
somministrate contemporaneamente e caratterizzate da elevata percentuale di legame con le proteine (>85%). Data la
reversibilità di tale legame, il farmaco dotato di maggiore affinità per le molecole proteiche (solitamente l’albumina),
provoca la dislocazione di quello con minore grado di affinità. La forma libera (non legata) del farmaco che è stato dislocato è farmacologicamente attiva, quindi le probabilità
che si verifichino reazioni avverse aumenta. La distribuzione di un dato agente può variare in seguito a modificazioni
farmacoindotte della perfusione regionale o a causa di un’affinità con le proteine tissutali. Le interazioni farmacocinetiche spesso alterano il metabolismo dei farmaci che vengono somministrati contemporaneamente. Molti composti favoriscono l’induzione degli enzimi microsomiali e da questo
deriva l’accelerazione del metabolismo e della clearance dei
farmaci associati che vengono metabolizzati a livello epatico. La conseguenza più comune dell’induzione enzimatica è
l’intensificazione della clearance e l’attenuazione della risposta farmacologica. Tuttavia, l’insorgenza occasionale di
tossicità è favorita dall’iperproduzione di un metabolita tossico oppure, nel caso di profarmaci, dalla presenza di quantità crescenti di prodotto farmacologicamente attivo. È probabile che l’induzione enzimatica svolga un ruolo importante nella patogenesi dell’epatotossicità provocata da diversi
farmaci (ad es. anticonvulsivanti). Affinché si verifichi l’induzione, la somministrazione si deve protrarre per giorni o
settimane. Il fenobarbital è il farmaco dotato di maggiore ef-
60
ficacia nell’induzione degli enzimi microsomiali.6-8 Si verificano anche casi di inibizione enzimatica indotta dai farmaci, che tuttavia sono probabilmente meno significativi dal
punto di vista clinico. Generalmente, si ha il prolungamento
della clearance di un farmaco somministrato contemporaneamente e metabolizzato nel fegato. Le probabilità che insorga uno stato di tossicità o una risposta farmacologica esagerata sono aumentate. Il cloramfenicolo e la cimetidina sono due esempi di potenti inibitori degli enzimi microsomiali.6-8 Il metabolismo di un farmaco può anche risultare alterato in seguito a modificazioni della perfusione epatica indotte da altri farmaci. Tuttavia, questa interazione è significativa soltanto per i farmaci caratterizzati da clearance epatica estesa e rapida (ad es. propanolo, lidocaina). Le interazioni farmacocinetiche possono alterare l’escrezione urinaria comportando variazioni nella filtrazione glomerulare e/o
fenomeni di competizione fra i farmaci per la secrezione tubulare attiva. Solitamente, la competizione per le proteine
trasportatrici responsabili della secrezione tubulare attiva
coinvolge i farmaci acidi. L’escrezione renale può anche essere compromessa per effetto di farmaci che alterano il pH
urinario e il riassorbimento tubulare. Le modificazioni del
pH urinario che portano alla formazione di elevate quantità
di farmaco in forma non ionizzata (ad es. un pH urinario acido e un farmaco acido) favoriscono il riassorbimento tubulare del composto, prolungandone la clearance.6-8
Le interazioni farmacodinamiche si verificano quando
un farmaco altera direttamente la risposta chimica o fisiologica di un altro. Questo tipo di interazione può intensificare
una risposta per effetti additivi o sinergici a livello dello
stesso sito recettoriale (ad es. adrenalina e teofillina) oppure
a livello di siti differenti ma dotati di uguale reazione fisiologica (ad es. ipokalemia indotta dai glucosidi cardioattivi e
dai diuretici). Le interazioni farmacodinamiche possono attenuare una risposta per effetto di un antagonismo competitivo a livello dello stesso sito recettoriale (ad es. atropina e
anticolinesterasi) oppure di risposte competitive mediate a
livello di siti distanti ma fisiologicamente correlati.
FATTORI FISIOLOGICI
Le specie animali fra cui esistono differenze fisiologiche
in genere presentano diversa eliminazione dei farmaci. Pertanto, mentre negli erbivori (bovini e caprini) è frequente
l’uso di posologie simili, nei carnivori (cane e gatto) si rendono necessari dosaggi differenti. Le variazioni di specie fra
cane e gatto possono anche indurre differenze clinicamente
significative nell’eliminazione dei farmaci, che sono state
descritte in modo più approfondito nel lavoro dal titolo “I
dosaggi farmacologici nel gatto e le differenze fra il gatto e
le altre specie”, in questi stessi atti. Le differenze di assorbimento, distribuzione ed escrezione dei farmaci tendono a essere di minima entità e raramente contribuiscono alla genesi
di reazioni avverse. Vi sono maggiori probabilità che le variazioni di specie relative al metabolismo dei farmaci inducano reazioni avverse clinicamente significative. Alcuni
esempi di farmaci che nel gatto provocano reazioni avverse
a causa della scarsa capacità di glucuronidazione in questa
specie comprendono acido acetilsalicilico, acetaminofene,
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esaclorofene, dipirone e altri fenoli, alcol benzilico e cloramfenicolo.
Le differenze di eliminazione dei farmaci legate all’età
sono più significative nei soggetti in età pediatrica e geriatrica. Nei primi, l’assorbimento enterico può essere alterato
per effetto di numerosi fattori.12 La permeabilità gastrointestinale è maggiore e l’assorbimento di alcuni farmaci viene
accentuato. Le variazioni del pH (dovute in parte a acloridria relativa) e della motilità gastrointestinali contribuiscono al rallentamento generalizzato dell’assorbimento gastroenterico che si verifica nell’animale in età pediatrica. La
distribuzione dei farmaci in questi individui subisce modificazioni legate ai liquidi corporei; infatti, l’età pediatrica,
rispetto all’età adulta, è caratterizzata da una percentuale
più elevata di fluidi totali dell’organismo. La quota extracellulare è superiore rispetto a quella intracellulare. Inoltre,
i farmaci si legano in percentuale minore alle proteine plasmatiche poiché i livelli sierici di queste ultime sono differenti, mentre sono più numerosi i substrati endogeni (quali
bilirubina) che competono con i farmaci per i siti di legame
alle molecole proteiche.
Nei soggetti in età pediatrica, la capacità di metabolizzare i farmaci è minore che nell’adulto. Lo sviluppo delle varie vie di metabolismo dei farmaci avviene con ritmi diversi
e comporta differenze di tipo sia qualitativo che quantitativo. Il sistema di glucuronazione è particolarmente poco sviluppato e non raggiunge i livelli presenti nell’adulto prima
che siano trascorsi 1 o 2 mesi dalla nascita, a seconda della
specie. Anche l’eliminazione renale è meno efficiente nei
neonati. In età geriatrica, anche la biodisponibilità dei farmaci risulta alterata e predispone l’animale anziano alle reazioni avverse. L’alterazione dell’assorbimento orale è dovuto a variazioni di pH gastrointestinale, circolazione ematica,
superficie e motilità. La distribuzione è modificata poiché la
massa corporea magra è sostituita da grasso e favorisce il pericolo di sovradosaggio. Il contenuto idrico corporeo è più
basso e per lo più localizzato in sede extracellulare. I livelli
sierici di albumina si abbassano per svariate ragioni.
In generale, il metabolismo dei farmaci in età geriatrica
si attenua poiché la disponibilità di enzimi si riduce. In questi soggetti, spesso l’eliminazione renale è alterata a causa di
modificazioni nella filtrazione glomerulare e nella secrezione tubulare. Infine, l’animale anziano è più esposto a un’ampia gamma di processi patologici che alterano ulteriormente
l’eliminazione dei farmaci e facilitano la comparsa di reazioni avverse. In questi soggetti, la coesistenza di numerose
affezioni rende più probabile l’assunzione di terapie complesse che favoriscono le reazioni avverse dovute a fenomeni di interazione fra i farmaci.
FATTORI PATOLOGICI
Nei soggetti colpiti da processi patologici, la comparsa di
reazioni avverse a un farmaco è più probabile. Benché questi fenomeni talvolta indichino variazioni quantitative o di
sensibilità dei recettori indotte dai farmaci, nella maggior
parte dei casi si tratta di variazioni di eliminazione degli
stessi. Generalmente, i protocolli posologici consigliati per
un determinato prodotto farmacologico sono basati su studi
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controllati, condotti in animali normali e in buono stato di
salute. Tuttavia, i farmaci sono in genere destinati agli animali malati e le modificazioni fisiopatologiche che si verificano nella maggior parte degli apparati alterano l’eliminazione di queste sostanze predisponendo i soggetti che le assumono allo sviluppo di reazioni avverse.
La maggior parte dei processi patologici comporta vari
gradi di alterazione sull’insieme dei fattori da cui dipende
l’eliminazione dei farmaci. A ciò solitamente consegue un
innalzamento dei livelli sierici della sostanza farmacologica
con aumento delle probabilità di reazioni avverse. Le patologie che favoriscono maggiormente lo sviluppo di tali reazioni sono quelle a carico di reni, fegato, e cuore, mentre i
disordini gastrointestinali, polmonari e metabolici inducono
effetti meno significativi.
Nefropatie. La tossicità di un farmaco in corso di insufficienza renale può conseguire a fenomeni di ipersensibilità
dovuti ad alterazioni dei recettori tissutali indotte dall’uremia oppure derivare da innalzamenti dei livelli plasmatici
del farmaco imputabili a modificazioni farmacocinetiche
causate dal processo patologico. La seconda possibilità è
stata descritta con maggiore precisione. Negli animali nefropatici, spesso si verifica una notevole riduzione della vascolarizzazione renale che tende a procedere parallelamente alle modificazioni dei processi di filtrazione glomerulare e secrezione tubulare. Gli effetti provocati dalle alterazioni della vascolarizzazione renale (che solitamente si riduce) sulla
escrezione dei farmaci sono più evidenti se la sostanza viene eliminata in percentuale elevata dal rene (ad es. penicillina, solfati e glucuronati) mentre sono meno significativi se
il farmaco viene eliminato lentamente (ad es. aminoglicosidi, diuretici, digossina).
La filtrazione glomerulare dei farmaci e di altri composti
viene influenzata negativamente anche nel corso di nefropatie che non dipendono da alterazioni della perfusione renale.
I fattori determinanti la filtrazione glomerulare sono rappresentati da legame alle proteine, integrità glomerulare e numero di nefroni funzionanti (che svolgono attività filtrante).
Anche le dimensioni molecolari del farmaco assumono importanza; infatti, quelli con peso molecolare superiore a
70.000 non vengono filtrati. I farmaci che formano legami
forti con le proteine (quali antiinfiammatori non steroidei)
non subiscono il processo di filtrazione fino a quando non
vengono dislocati dalla molecola proteica. In corso di nefropatie, i fattori che favoriscono il distacco di tali farmaci dai
siti di legame e ne accelerano l’escrezione sono rappresentati da ipoalbuminemia, competizione per i siti di legame dovuta ad accumulo di tossine uremiche oppure alterazioni di
conformazione e quindi di affinità di legame alle molecole
proteiche (ad es. albumina). Le modificazioni di questo processo misurate in corso di nefropatie comprendono diminuzione del legame con farmaci acidi (ad es. furosemide, antiinfiammatori non steroidei e determinate penicilline e anticonvulsivanti) e normalità o aumento del legame con farmaci basici dovuto ad innalzamento dei livelli di proteine infiammatorie (ad es. propranololo, diazepam, prazosin).
Mentre le variazioni nel riassorbimento tubulare attivo,
che possono accompagnare le nefropatie, probabilmente non
influenzano profondamente la velocità di escrezione dei farmaci, i cambiamenti nella secrezione tubulare possono esse-
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re significativi. La secrezione tubulare attiva ha luogo nella
pars recta (segmento diritto) del tubulo prossimale. Esiste
un sistema di trasporto destinato a un’ampia gamma di acidi
organici (ad es. penicilline, cefalosporine, antiinfiammatori
non steroidei, sulfamidici e diversi diuretici) e di basi (ad es.
cimetidina, procainamide e alcuni derivati della morfina). Il
trasporto attivo a livello del nefrone distale può assumere
importanza anche per alcuni farmaci (ad es. digossina). Vi
sono maggiori probabilità che l’escrezione di questi farmaci
sia ridotta in presenza di nefropatie a causa della diminuzione della massa dei nefroni, della vascolarizzazione renale e
della funzionalità tubulare. Oltre a queste modificazioni, la
patologia renale comporta anche alterazioni dell’eliminazione dei farmaci conseguenti al disturbo degli equilibri elettrolitico, acido-basico e idrico. Gli squilibri elettrolitico e
acido-basico svolgono un ruolo importante nell’alterazione
della sensibilità recettoriale a certi farmaci fra cui quelli
agenti sul sistema cardiovascolare (ad es. iperkalemia e l’effetto che comporta sulla risposta a digitale, chinidina e procainamide). Per i farmaci la cui eliminazione dipende dalla
funzionalità renale e la cui clearance notoriamente si riduce
per effetto delle nefropatie, è possibile modificare adeguatamente i regimi di dosaggio allo scopo di ridurre l’incidenza
di reazioni avverse. La velocità di filtrazione glomerulare
viene valutata sia misurando i livelli sierici di creatinina che
controllandone la clearance; tuttavia, data la facilità di misurazione della creatininemia, solitamente si fa ricorso a
questo esame. L’eliminazione renale di un farmaco escreto
per tale via diminuisce parallelamente agli innalzamenti della creatininemia e il regime posologico può essere modificato allungando l’intervallo fra le somministrazioni oppure riducendo il dosaggio in proporzione alla diminuzione della
clearance della creatinina o agli innalzamenti dei suoi livelli sierici: Nuovo dosaggio = dose normale x CrClpt/ CrCl
normale oppure dose normale x creatininemia normale / pt
creatinina (oppure Nuovo intervallo = intervallo normale x
CrCl normale / CrClpt oppure intervallo normale x creatinina pt / creatinemia normale. Ad esempio, in un soggetto con
livelli sierici di creatinina pari a 2,5 mg/dl (il valore normale è pari a 1,2), l’intervallo fra le somministrazioni della gentamicina dovrà essere prolungato da 12 ore a 24 ore oppure,
il dosaggio di 2 mg/kg dovrà essere ridotto a 1 mg/kg. Il parametro del dosaggio che verrà modificato dipende dal farmaco. L’allungamento dell’intervallo comporta ampie oscillazioni dei livelli plasmatici del farmaco fra due somministrazioni e quindi non è consigliabile nelle terapie con prodotti antimicrobici o cardioattivi che richiedono la persistenza di livelli minimi di farmaco entro un intervallo terapeutico specifico.
Epatopatie. L’efficienza dell’eliminazione epatica è in
funzione della clearance e del rapporto di estrazione epatica
del farmaco. Entrambi questi fattori a loro volta dipendono
da perfusione dell’organo, entità del legame farmaco-proteico e clearance epatica intrinseca comprendente assunzione
(la fase limitante la velocità di clearance epatica), trasporto
intracellulare, metabolismo e, se applicabile, eliminazione
biliare. I farmaci che vengono eliminati dal fegato possono
essere classificati in base alla velocità di estrazione. I farmaci limitati dalla perfusione (fra cui lidocaina, propranololo e verapamil) vengono estratti dal fegato tanto rapidamen-
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te che la loro velocità di eliminazione dipende unicamente
dalla velocità con cui raggiungono l’organo, vale a dire dalla perfusione epatica. Tali farmaci sono insensibili alle modificazioni del metabolismo epatico, mentre sono molto sensibili alle variazioni del flusso ematico dell’organo. I farmaci limitati dalla capacitù (ad es. diazepam, prednisolone, fenilbutazone, fentoina, teofillina, cimetidina, antipirina) vengono estratti lentamente dal fegato e la loro eliminazione dipende da assunzione e metabolismo epatico, ma non dalla
perfusione locale. L’eliminazione di tali farmaci viene influenzata dalle modificazioni del metabolismo epatico, mentre non risente delle variazioni del flusso ematico. Alcuni
prodotti farmacologici sono in una situazione intermedia, dipendendo in parte dalla perfusione e in parte dal metabolismo epatico. Il legame con le proteine può influenzare l’eliminazione di alcuni di questi farmaci poiché soltanto la frazione non legata viene estratta dal fegato. I farmaci limitati
dalla perfusione sono tendenzialmente insensibili al legame
in quanto l’estrazione epatica si verifica tanto rapidamente
che il legame alle proteine non è in grado di influenzarne la
velocità di eliminazione. Alcuni farmaci limitati dalla capacità non si legano in misura significativa alle proteine e
quindi risultano a loro volta insensibili al legame (ad es. antipirina). Al contrario, alcuni prodotti appartenenti allo stesso gruppo sono sensibili al legame (ad es. teofillina, fenitoina) poiché la bassa velocità di estrazione da cui sono caratterizzati può essere aumentata riducendo la percentuale di
legame alle proteine. Gli effetti delle epatopatie sull’eliminazione dei farmaci sono molto complessi, in particolare per
i prodotti che vengono influenzati da modificazioni di flusso ematico, metabolismo epatico e legame alle proteine. Nei
soggetti con patologie epatiche, ognuno di questi parametri
può essere alterato in vari modi. Solitamente, nel corso di
epatopatie croniche si verifica una riduzione del flusso ematico dell’organo che viene favorita anche dalla presenza di
shunt porto-sistemici. Inoltre, lo shunt intraepatico di sangue
circolante all’interno dell’organo limita il passaggio del farmaco attraverso gli epatociti funzionali. Pertanto, negli animali con patologie epatiche, la clearance dei farmaci ad elevata estrazione generalmente si riduce. I livelli plasmatici e
tissutali della sostanza si innalzeranno notevolmente se i dosaggi non verranno modificati in modo appropriato. Questo
aspetto è particolarmente importante per i farmaci estratti in
elevata percentuale che vengono somministrati per via orale. Il dosaggio di questi ultimi (ad es. propranololo, verapamil, prazosin), quando il flusso ematico nel fegato sia normale, è basato sulla diminuzione di biodisponibilità dovuta
all’estrazione di “primo passaggio”: un’elevata percentuale
del farmaco non raggiunge la circolazione sistemica poiché
viene rimossa dal circolo portale epatico durante il primo
passaggio nell’organo. La riduzione del flusso ematico nel
fegato e lo shunt intraepatico possono accrescere notevolmente la biodisponibilità sistemica di questi farmaci. Studi
recenti suggeriscono che nei soggetti affetti da epatopatie
anche il metabolismo intrinseco dei farmaci ad elevata estrazione si riduce. Nei pazienti umani con patologie epatiche,
molti di questi farmaci vengono somministrati in dosaggio
ridotto del 50% e lo stesso tipo di approccio sembra ragionevole anche in ambito veterinario.
L’effetto delle epatopatie sui farmaci a estrazione limita-
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ta è più difficile da prevedere, in particolare per i prodotti
con elevata percentuale di legame alle proteine. In generale,
nei soggetti con patologie epatiche, il metabolismo dell’organo è ridotto. Questo aspetto è stato dimostrato mediante
studi condotti in cani con epatopatie in cui sono state misurate la clearance dell’antipirina e della caffeina, due sostanze insensibili al legame e limitate dalla capacità. Poiché l’eliminazione di questi farmaci dipende interamente dal metabolismo epatico, la relativa clearance può essere utilizzata
quale test di funzionalità epatica. Tuttavia, l’eliminazione di
questi farmaci spesso non corrisponde a quella di altri che
dipendono anch’essi dalla clearance epatica, per cui non è
possibile utilizzarli per prevedere modificazioni di dosaggio.
Gli effetti indotti dalle alterazioni del legame alle proteine
sulla clearance epatica dei farmaci contribuiscono alla natura imprevedibile delle variazioni di eliminazione degli stessi che conseguono agli stati patologici. La diminuzione della percentuale di legame alle proteine che può accompagnare le epatopatie (a causa di ridotta sintesi dell’albumina,
competizione per i siti di legame da parte di composti endogeni oppure cambiamenti nella conformazione dei siti di legame) può accrescere la clearance epatica e quindi compensare la riduzione del metabolismo dell’organo. Tuttavia, si
osservano anche aumenti nella formazione di legami, in particolare con i farmaci basici (ad es. lidocaina) in seguito all’iperproduzione di proteine in fase acuta, che possono agire riducendo la clearance. Le alterazioni del legame alle proteine influenzano anche la distribuzione dei farmaci. Nei
soggetti con epatopatie, questa viene ulteriormente complicata in conseguenza alle probabili alterazioni degli equilibri
idrico, elettrolitico e acido-basico. In presenza di patologie
del fegato, è difficile consigliare il dosaggio dei farmaci che
non vengono estratti in elevata percentuale da quest’organo.
Tuttavia, il buon senso induce a somministrare con cautela
prodotti potenzialmente tossici, la cui eliminazione dipende
dalla clearance epatica.
Le cardiopatie influiscono profondamente sull’eliminazione dei farmaci. I disturbi primari o di compenso che la
modificano comprendono ritenzione renale di sodio e acqua,
ipertensione venosa polmonare e sistemica e aumento del tono nervoso simpatico. La ritenzione di sodio e acqua può alterare profondamente la distribuzione dei farmaci poiché
vengono modificate le dimensioni dei comparti corporei.
Inoltre, l’accresciuta attività simpatica comporta la ridistribuzione del flusso ematico, con aumento della portata a livello di cuore ed encefalo che verranno esposti a concentrazioni più elevate del farmaco. Poiché altri tessuti, in particolare la muscolatura scheletrica, normalmente rappresentano
un ampio volume di distribuzione dei farmaci, la minore diffusione in questi distretti comporta un ulteriore innalzamento dei livelli sierici del prodotto nel sangue che raggiunge
cuore ed encefalo. Pertanto, questi due organi saranno maggiormente esposti alla tossicità del farmaco. L’intossicazione a carico del sistema nervoso centrale e del cuore indotta
dalla lidocaina e quella cardiaca da digossina, descritte in
soggetti cardiopatici, vengono attribuite a questo tipo di ridistribuzione del flusso ematico.
La diminuzione della perfusione renale ed epatica comporta profondi effetti sulla clearance dei farmaci che si svolge ad entrambi i livelli e la situazione rispecchia in parte la
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ridistribuzione indotta dall’azione simpatica. Tuttavia, con
l’evolvere della cardiopatia, la diminuzione del flusso sanguigno a questi organi procede parallelamente alla diminuzione della gittata cardiaca. Gli effetti della diminuzione del
flusso sanguigno epatico sull’eliminazione dei farmaci dipendono dal prodotto in causa; infatti, come in presenza di
epatopatie, la clearance dei farmaci limitati dalla perfusione
sarà notevolmente ridotta. A livello renale, la ridistribuzione
mediata dal sistema simpatico, con deviazione del flusso
ematico dalla corticale ai tubuli juxtaglomerulari, aumenta
le probabilità di riassorbimento tubulare.
L’ipossia tissutale e la diminuita cessione di principi nutritivi a reni e fegato contribuisce a limitare la clearance in
entrambi gli organi. La capacità metabolica del fegato si riduce con conseguente diminuzione della clearance dei farmaci limitati dalla capacità. Analogamente, risulta alterata
anche la funzionalità tubulare.
Nei soggetti affetti da cardiopatie, anche l’assorbimento
dei farmaci subirà alterazioni. La limitazione del flusso ematico a livello di muscolatura scheletrica e cute diminuisce la
velocità di assorbimento dei farmaci che vengono somministrati per via intramuscolare o sottocutanea. Disturbi anatomici quali iperattività del sistema simpatico e attenuazione
del tono autonomo, ipossia tissutale e edema mucosale riducono sia la velocità che l’entità dell’assorbimento gastrointestinale. È possibile che la diminuzione del flusso ematico
a livello dei villi intestinali limiti l’assorbimento dei farmaci che di norma vengono assunti velocemente dal tratto ga-
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stroenterico. Infine, bisogna considerare gli effetti delle cardiopatie sulla clearance epatica dei farmaci limitati dalla
perfusione e, quindi, sulla biodisponibilità sistemica dei prodotti assunti per via orale. La somministrazione dei farmaci
nei soggetti cardiopatici richiede alcune precauzioni. 1) I
farmaci di vitale importanza devono essere inoculati per via
endovenosa poiché l’assorbimento per le altre vie è limitato.
2) I farmaci tossici (in particolare per cuore ed encefalo) non
devono essere inoculati per via endovenosa rapida. 3) La
presenza di livelli elevati di farmaco conseguente al fenomeno di redistribuzione deve essere compensata riducendo
le dosi di carico. 4) Le dosi di mantenimento di determinati
farmaci eliminati a livello epatico e/o renale probabilmente
devono essere abbassate; tuttavia, è difficile prevedere quali
prodotti richiedano questo espediente. Quando sia possibile,
i dosaggi devono essere modificati sulla base del monitoraggio terapeutico.
Anche le patologie a carico di altri apparati influiscono
profondamente sull’eliminazione dei farmaci. Ad esempio,
le patologie gastrointestinali alterano l’assorbimento di
quelli somministrati per via orale, mentre le cardiopatie modificano la distribuzione del flusso ematico locale agli organi bersaglio. Le patologie a carico di qualsiasi apparato possono influenzare le relative risposte ai farmaci. Gli effetti
delle condizioni patologiche, indipendentemente dall’apparato coinvolto, su assorbimento, distribuzione, metabolismo
ed escrezione sono molto complesse, spesso subdole e molto difficili da prevedere.
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“Farmonutrizionali” (nutraceuticals)
in medicina veterinaria
Dawn Boothe
DVM, MS, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ACVCP
Texas A&M University Dept of Physiology and Pharmacology College Station, Texas (USA)
DEFINIZIONI E REGOLAMENTAZIONE
I farmonutrizionali, un termine medico molto ricorrente
in questo decennio, sono in rapido aumento, benché non
siano ancora stati definiti con esattezza. Si tratta di una categoria di prodotti che occupa un posto intermedio fra integratori e farmaci e che inizialmente comprendeva soltanto
calcio, fibre e olio di pesce. Tuttavia, dato il valore che consumatori e medici hanno attribuito a queste sostanze, l’elenco si è allungato rapidamente comprendendo molti alimenti o parti di questi. Alcuni esempi di prodotti con le relative indicazioni sono rappresentati da β-carotene per la
prevenzione di alcune forme di cancro al polmone, niacina
per gli attacchi cardiaci ricorrenti, piridoxina quale trattamento antidepressivo, vitamina A nel morbillo, magnesio o
olio di pesce nell’ipertensione, aglio quale preventivo dell’aterosclerosi, succo di mirtillo per trattare o prevenire le
infezioni delle vie urinarie e antiossidanti quali antiinfiammatori. Il termine farmonutrizionale è stato introdotto negli
anni ’80 da un medico allo scopo di riconoscere più formalmente questo tipo di “alternativa” alla terapia farmacologica. Questo nome è stato impiegato per definire qualsiasi prodotto somministrato per via orale ma non classificabile come farmaco. Oggi vengono compresi in questa categoria di prodotti potenzialmente naturali, a seconda del punto
di vista considerato, sostanze nutrizionali singole, integratori alimentari, alimenti funzionali, alimenti prodotti con
tecniche di ingegneria genetica, alimenti ipernutrienti, alimenti medicati, fitofarmaci (fra cui le erbe) e alimenti preparati (per uso umano).
Negli Stati uniti, sia alimenti che farmaci sono stati definiti legalmente nel Food and Drug Act che viene applicato dall’FDA. Un alimento è un prodotto destinato all’ingestione nell’uomo o negli altri animali e comprende qualsiasi sostanza che apporti gusto, aroma o valore nutritivo. L’FDA classifica gli alimenti come GRAS (Generally Recognized As Safe), cioè dotati di caratteristiche che li facciano ritenere generalmente sicuri. Un additivo alimentare è una
sostanza che entra direttamente o indirettamente a fare parte dell’alimento o che ne modifica le caratteristiche. Al contrario degli alimenti, gli additivi sono considerati non sicuri, tranne quando esista una regolamentazione specifica che
ne garantisca un uso sicuro e che ne preveda l’approvazione prima della commercializzazione. Viene definita farmaco qualsiasi sostanza, alimentare o non, utilizzata per trattare, curare, attenuare o prevenire un processo patologico e
qualsiasi sostanza non alimentare destinata a modificare
una struttura o una funzione dell’organismo. Qualsiasi prodotto inoculato per via parenterale viene definito farmaco.
Affinché un composto assuma tale denominazione, è necessario dimostrarne l’innocuità e l’efficacia per il fine a cui è
destinato, inoltre occorre sottoporlo al processo di approvazione che spesso si rivela lungo e costoso. I farmonutrizionali non sono farmaci per il semplice fatto di non avere subito l’iter di approvazione. La distinzione fra farmaco e sostanza nutritiva (o alimento) può essere alquanto facilitata
stabilendo la finalità della sostanza; infatti, lo stesso prodotto può essere classificato in modo differente a seconda
dell’uso a cui è destinato. Ad esempio, quando la vitamina
E fa parte di un prodotto alimentare quale sostanza nutritiva essenziale, la si considera alimento, mentre quando viene impiegata per il trattamento o la prevenzione dell’iperazoturia (nel cavallo) rappresenta un farmaco. I prodotti botanici, vale a dire i medicamenti di origine vegetale (fra cui
le erbe) offrono un esempio interessante di scarsa chiarezza
nell’ambito della regolamentazione dei farmonutrizionali.
Storicamente, i prodotti botanici sono stati utilizzati con finalità mediche piuttosto che alimentari. Comunque, se uno
di questi viene commerciato con un’etichetta che ne indichi
l’uso terapeutico, la FDA lo considera quale farmaco, mentre lo riconosce quale alimento, vale a dire come GRAS,
quando sia stato abitualmente utilizzato per uso alimentare
prima del 1958. In ogni caso, occorre dimostrare la consuetudine all’uso del prodotto quale ingrediente alimentare
senza alcuna finalità terapeutica. La quantità di prodotto vegetale, o erba, utilizzata assume importanza nell’interpretazione di “GRAS”. Mentre una quantità limitata può dimostrarsi vantaggiosa o innocua, il consumo di un’erba in dosi elevate può essere pericoloso, come lo è l’estrazione del
suo contenuto e la commercializzazione degli ingredienti in
forma concentrata. Un farmonutrizionale (come qualsiasi
prodotto) diventa farmaco se accompagnato da diciture che
ne indichino scopi preventivi o terapeutici. Tali diciture
vengono interpretate dalla FDA come indicazioni farmacologiche, pertanto il prodotto dovrà essere approvato come
farmaco oppure essere considerato un nuovo farmaco (per
uso veterinario) ed essere sottoposto alla procedura di approvazione che ne dimostri la sicurezza e l’efficacia prima
di essere commercializzato.
Le case produttrici di farmonutrizionali per uso umano
hanno chiesto alla FDA regole meno restrittive riguardo le
affermazioni riportabili nei foglietti illustrativi che accom-
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pagnano gli integratori alimentari. Ciò si è avuto con l’approvazione del Dietary Supplement Health and Education
Act (DSHEA) del 1994, per i componenti alimentari non
tossici di cui sono stati dimostrati scientificamente gli effetti favorevoli, fra cui trattamento o prevenzione di processi patologici. Le case produttrici hanno interpretato la
norma come una limitazione all’autorità della FDA in materia di integratori alimentari per uso umano. Tuttavia, il
Center of Veterinary Medicine (CVM) della FDA ritiene
che il DSHEA non sia rivolto agli animali e agli alimenti
che questi consumano e quindi, probabilmente, nemmeno ai
farmonutrizionali per diversi motivi.
Il CVM sostiene che la salute pubblica sia meglio tutelata se il trattamento speciale riservato agli integratori per
uso umano non riguardi anche quelli destinati agli animali
da reddito. Questo tipo di approccio permette al CVM di
garantire l’assenza negli alimenti di residui pericolosi derivanti da un composto o dai relativi metaboliti. Mentre
nell’uomo è possibile disporre di molte informazioni circa
i componenti dietetici (fra cui vitamine e minerali) e gli integratori, in ambito veterinario le informazioni sull’argomento sono molto scarse, in particolare negli animali da
reddito. Estrapolare le informazioni disponibili alle varie
specie trattate con integratori alimentari risulta ancor più
complicato perché i fabbisogni nutrizionali e l’attività
svolta dai singoli componenti dietetici sull’organismo variano a seconda della specie. Infine, il CVM obietta che, se
la legge fosse applicabile agli animali, i prodotti attualmente utilizzati per accrescere la produzione di alimento
potrebbero adeguarsi alle norme che vi sono riportate. Se
la procedura di approvazione fosse più permissiva, alcuni
farmaci che al momento subiscono rigidi controlli scientifici eviterebbero le limitazioni intese a salvaguardare la salute dei consumatori.
Nonostante le regolamentazioni e le indicazioni fornite
per definire chiaramente il concetto di farmaco ai produttori, molti articoli che si potrebbero considerare farmonutrizionali (o erbe ecc) vengono commerciati con etichette
che ne dichiarano o ne implicano un utilizzo medico. Questi prodotti non sono stati approvati in quanto farmaci, come si evince dall’assenza sull’etichetta della dicitura “nuovo farmaco approvato negli animali” e in tali casi, non si
tratta più di farmonutrizionali, bensì di farmaci non approvati. Tuttavia, la legge può non essere stata applicata semplicemente a causa del tempo e dei costi richiesti dalla registrazione di un numero tanto elevato di prodotti. Le risorse disponibili vengono riservate piuttosto alle sostanze
che comportano maggiori rischi per l’uomo o per gli animali. È più probabile che la regolamentazione venga applicata se gli animali da reddito assumono farmaci non approvati a causa del conseguente consumo di carni adulterate da parte dell’uomo e delle relative implicazioni per l’innocuità degli alimenti.
Anche la professione veterinaria ha riconosciuto l’importanza dei farmonutrizionali nella salute animale, soprattutto per via dell’interesse delle case produttrici. Un anno fa
è stato fondato il North American Veterinary Nutraceutical
Council da parte di operatori dei settori industriale, professionale ed accademico. Benché l’ente non svolga attività di
regolamentazione (non è affiliato ad alcuna organizzazione
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governativa di controllo), si propone principalmente di favorire e migliorare i requisiti di qualità, sicurezza ed efficacia a lungo termine dei farmonutrizionali utilizzati in ambito veterinario. Il Council ha definito il farmonutrizionale come “una sostanza [non farmacologica], prodotta in forma
purificata o come estratto e somministrata per via orale allo
scopo di fornire elementi necessari alle normali esigenze
strutturali e funzionali dell’organismo e di migliorare la salute e il benessere dell’animale”. Il Council, oltre a fornire la
definizione di questi prodotti, ha adottato alcune misure intese a salvaguardare veterinari, proprietari, e gli animali
stessi. La descrizione di queste misure consente di comprendere le attuali carenze, in termini di normative, per la produzione o la commercializzazione dei farmonutrizionali. L’obiettivo è quello di istituire buone pratiche di produzione, intese a garantire la qualità e la costanza di formulazione del
prodotto; buone pratiche epidemiologiche che facilitino la
consultazione, interpretazione e accettazione degli studi clinici convalidanti le proprietà mediche attribuite al farmonutrizionale; criteri per attestare gli effetti clinici (e quindi le
proprietà); standard di etichettatura che dovranno essere seguiti dalle industrie e un metodo di controllo dei prodotti
nuovi o già presenti in commercio che consenta di confermare le attestazioni del produttore.
Recentemente, la American Veterinary Medical Association ha riconosciuto la notevole diffusione del commercio di
farmaci “alternativi e complementari” in ambito veterinario
ed ha proposto alcune normative, relative a omeopatia veterinaria, fitoterapia veterinaria e terapia farmonutrizionale.
L’AVMA definisce quest’ultima come “uso di oligoelementi, macronutrienti e altri integratori dietetici come agenti terapeutici”. Come suggerito in precedenza, esiste una notevole sovrapposizione (o mancanza di chiarezza) fra queste
pratiche. Non era intenzione dell’AVMA definire questi termini, mentre l’intento era quello di individuare il ruolo di
questi prodotti alternativi in medicina veterinaria e incoraggiare l’informazione a tale proposito.
Mentre molti punti relativi a produzione, vendita e uso
dei farmonutrizionali sono ancora oscuri, appare invece
chiara la mancanza di sicurezza ed efficacia quando questi
vengano impiegati a scopo terapeutico. I consumatori possono ignorare che l’uso di queste sostanze non preveda
una convalida scientifica. I proprietari di animali possono
procurarsi questi prodotti (Tabella 1) ordinandoli per posta, acquistandoli in negozi di mangimi, ecc., e li possono
utilizzare senza il parere del veterinario; inoltre, tendono a
ritenerli innocui ed efficaci. Tuttavia, l’assenza di prove
scientifiche non costituisce un difetto grave del prodotto
fintanto che si riterrà valido l’adagio “primum, non nocere”. I farmonutrizionali possono nuocere alla salute attraverso due azioni (o mancate azioni). Innanzitutto, il soggetto viene trattato con un prodotto potenzialmente non
innocuo e quindi in grado di scatenare reazioni avverse. In
secondo luogo, il mancato utilizzo di un farmaco o di un
trattamento comunemente accettato nella speranza che il
farmonutrizionale si dimostri efficace può rivelarsi dannoso per l’animale e costoso per il proprietario. Pertanto, occorre aiutare il proprietario nella valutazione dei requisiti
di efficacia e innocuità del prodotto che viene preso in
considerazione.
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Tabella 1
Esempi di alcuni farmonutrizionali utilizzati in ambito veterinario
Prodotto
Contenuto
Uso a cui è destinato
Olio di pesce, acidi grassi
Diverse combinazioni di acidi grassi
Antiinfiammatorio, di solito rivolto alla cute ma anche ad altre
parti dell’organismo
Aminoacidi liberi
Taurina
Prevenzione di vari disordini nel gatto, in particolare la
miocardiopatia dilatativa.1
Dimetilglicina
Quale precursore di un neurotrasmettitore inibitorio;
utilizzato nel trattamento dell’epilessia.1
Carnitina
Prevenzione o trattamento della miocardiopatia dilatativa (cane)1
Proteine
Superossido dismutasi2
Si tratta di una sostanza endogena deputata alla rimozione
dei radicali dell’ossigeno. Azione antiinfiammatoria
nelle forme muscoloscheletriche fra cui l’osteoartrite.1
Coenzima Q
Ubichinone
Un cofattore enzimatico delle membrane mitocondriali
che svolge un ruolo importante nella conversione dell’energia
(trasporto di elettroni e produzione di ATP).
Disordini cardiovascolari.1
Mucopolisaccaridi
Mucopolisaccaridi complessi (molluschi)2
Costituente della matrice cartilaginea
(e di altre matrici dei tessuti connettivi). Azione protettiva.
Utilizzato principalmente nel trattamento
e prevenzione dell’osteoartrite.
Glucosamina solfato
Si tratta di una molecola utilizzata dai condrociti per produrre
glucosaminoglicani polisolforati che sostengono
la cartilagine e altre matrici dei tessuti connettivi; osteoartrite.
Condroitina, condroitin-solfati,
cheratina e cheratan-solfati, ialuronidasi
Molecole utilizzate dai condrociti per produrre
glucosaminoglicani polisolforati di sostegno alla cartilagine
e ad altre matrici del tessuto connettivo; osteoartrite.1
Aloe vera2
Betamannani dell’aloe
Immunomodulatore1; in numerose patologie per controllare
dall’appetito alle allergie, fino alle aberrazioni comportamentali
Vitamine
Varie
Acido ascorbico
Aglio (acidi grassi volatili)
Antiossidante1; con svariate funzioni Battericida, fungicida,
insetticida, inibitore dell’aggregazione piastrinica; miglioramento
del profilo lipidico; abbassamento della pressione ematica
Zenzero
Anti-emetico, attenua la flatulenza
Carotenoidi (beta carotene, luteina, zeaxantinina);
pigmenti naturali sintetizzati da condroplasti e alghe
Antiossidante; antitumorale
Ginseng (ginsenosidi)
Stimolazione del SNC; aumento della motilità gastrointestinale
S-adenosil-metionina: un donatore di metili
endogeno ubiquitario coinvolto nell’attivazione
di numerose reazioni, neurotrasmettitore ecc.
(Formazione di acidi nucleici, fosfolipidi,
solfonazione di acidi biliari epatotossici)
Osteoartrite
epatopatie croniche progressive
Colture di lieviti
Migliorano l’appetibilità del cibo; attivatori della crescita microbica,
favoriscono la flora batterica e le fermentazioni nel rumine;
accrescono la produzione di grasso e latte; migliorano
l’utilizzazione dei minerali; aumentano la digeribilità delle proteine
e l’utilizzo dell’azoto; aumento di ematocrito e vigore fisico;
diminuita produzione di acido lattico
Creatina
Prodotto ricco di gruppi fosfato ad elevato contenuto energetico;
utile per la muscolatura scheletrica,
migliora le prestazioni atletiche, riduce il rischio di danni
muscoloscheletrici, migliora la forza muscolare (in dosi elevate);
favorisce l’esercizio fisico di breve durata
e di elevata intensità (nei pazienti umani)
Dimetilglicina: metabolita intermedio;
interviene nel trasporto dell’ossigeno;
potenzia il sistema immunitario;
riduce l’accumulo di acido lattico.
Accorcia i tempi di recupero negli atleti
Attivatori delle
funzioni organiche
1
2
Sono disponibili alcuni dati scientifici convalidanti l’uso a cui è destinato questo prodotto
È probabile che questo prodotto non possa essere assorbito intatto per via orale. I prodotti iniettabili, per definizione sono farmaci.
68
VALUTAZIONE DELL’EFFICACIA
DI UN FARMONUTRIZIONALE
I criteri di efficacia applicati ai farmaci nelle procedure
di approvazione sono ugualmente adatti ai farmonutrizionali. Tuttavia, poiché questi ultimi sono dotati di numerose caratteristiche singolari, il compito appare più difficile. Generalmente, l’efficacia di un prodotto viene dimostrata attraverso studi che ne documentino le caratteristiche farmacologiche (come viene formulato il composto), farmacocinetiche (destino del farmaco nell’organismo) e farmacodinamiche (risposta dell’organismo al composto). I dati farmacologici dimostrano che il prodotto viene formulato e prodotto seguendo norme di produzione appropriate. I dati farmacocinetici stabiliscono i tempi di movimento del prodotto
nell’organismo e quindi forniscono le basi per scegliere un
dosaggio appropriato. I dati farmacodinamici stabiliscono i
livelli plasmatici (o tissutali) ottimali e quindi la relazione
esistente fra concentrazione del farmaco e risposta clinica
suscitata.
L’analisi farmacocinetica di un composto implica la misurazione dei livelli raggiunti nel tempo dopo la somministrazione di una singola dose. Poiché i farmaci sono per lo
più sostanze estranee all’organismo, è possibile individuarli
(vale a dire distinguerli da altri componenti endogeni) e questo facilita la raccolta dei dati di ordine farmacocinetico. Il
farmonutrizionale, data la sua natura, spesso è un composto
già presente nell’organismo; pertanto, la quota esogena sarà
difficile da distinguere chimicamente dal composto endogeno. Inoltre, molti farmonutrizionali vengono commercializzati sotto forma di composti misti. In teoria, occorrerebbe individuare e studiare ogni componente separatamente dagli altri; pertanto, la raccolta dei dati farmacocinetici per questi
prodotti risulta lunga e dispendiosa. Difficoltà anche maggiori si incontrano nella raccolta delle informazioni farmacodinamiche, ovvero dei dati che descrivono la risposta clinica
al composto, poiché spesso il risultato clinico finale non può
essere definito con precisione. Alcuni farmonutrizionali somministrati per integrare composti endogeni possono intervenire in un gran numero di funzioni fisiologiche ed è difficile
distinguere la risposta voluta dalle altre. Inoltre, è raro che i
composti endogeni integrati con questi prodotti stimolino la
risposta fisiologica singolarmente, mentre è più probabile che
raggiungano tale obiettivo agendo in concerto con altre sostanze. È impossibile distinguere la risposta data a un singolo farmonutrizionale da quelle indotte da altre sostanze endogene. Infine, la fisiopatologia delle malattie trattate con i farmonutrizionali può essere molto complessa e multifattoriale,
con risposte cliniche scarsamente definibili. Le limitazioni di
ordine etico che vengono applicate nell’approvazione dei farmaci dovrebbero riguardare anche gli studi condotti sui farmonutrizionali. Ad esempio, uno studio condotto per valutare l’efficacia di un prodotto dovrebbe essere eseguito in soggetti che non assumano altre sostanze (farmaci) dotate di attività clinica, poiché sarebbe difficile distinguere la risposta
al farmaco o al farmonutrizionale in causa da quella suscitata dagli altri trattamenti. Tuttavia, non sembra eticamente
corretto interrompere le terapie standard seguite da un individuo allo scopo di studiare la risposta indotta dal farmonutrizionale. Inoltre, trattandosi di prodotti endogeni, è proba-
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bile che i farmonutrizionali agiscano più correttamente se associati ad altre terapie mediche, anche farmacologiche.
Dato il rischio a cui è esposto il paziente, occorre prestare maggiore attenzione all’innocuità dei farmonutrizionali
piuttosto che alla loro efficacia (ammettendo che i metodi terapeutici tradizionali non vengono sostituiti da questi prodotti). La mancanza di segnalazioni relative a reazioni avverse non deve essere interpretata come indice di sicurezza.
Anche farmaci approvati, la cui innocuità era stata dimostrata prima della commercializzazione, possono rivelarsi
dannosi dopo essere stati immessi sul mercato. È soltanto
nella fase IV delle prove cliniche, quando l’uso del farmaco
si diffonde, che alcune reazioni avverse vengono evidenziate. La valutazione dei componenti del prodotto elencati sull’etichetta può essere utile per stabilirne l’innocuità. Tuttavia, non vi sono garanzie che i componenti elencati siano innocui. Analogamente, non è garantito che tutti i componenti
(ingredienti) denunciati siano effettivamente presenti nel
prodotto o che viceversa non ve ne siano altri (che potrebbero essere dannosi). I consumatori di farmonutrizionali
spesso vengono attirati da questi prodotti considerandoli
“naturali” e come tali più sicuri, meno aggressivi e ideali rispetto ai farmaci “meno naturali”. Tuttavia, i farmonutrizionali non sono necessariamente di origine naturale (molti di
essi sono prodotti di sintesi), e in ogni caso tale requisito non
ne garantisce l’innocuità. I prodotti di erboristeria sono un
ottimo esempio; infatti, in quanto “naturali” spesso vengono
ritenuti salutari e utili, mentre ciò non è sempre valido. Benché le erbe possano essere considerate farmonutrizionali,
molte contengono prodotti naturali che vengono estratti, sintetizzati e comunque commercializzati come farmaci. Infatti, le piante sono una delle fonti principali di farmaci. Questi prodotti, pur essendo “naturali”, non sono sostanze endogene, vale a dire normali componenti biochimici dell’organismo. Molte erbe contengono composti quali cianuri e alcaloidi che esercitano effetti pericolosi.
Utilizzare o non utilizzare?
Nel valutare la validità di qualsiasi informazione circa
l’efficacia e l’innocuità dei farmonutrizionali, occorre affidarsi in gran parte al buon senso. Innanzitutto, bisogna esaminare l’etichetta e il materiale promozionale ricercando affermazioni che attribuiscano al prodotto proprietà terapeutiche. Quando queste ultime siano presenti e l’etichetta non riporti la dicitura “nuovo farmaco approvato per gli animali”
(NADA), il prodotto è un farmaco non approvato e come tale comporta maggiori rischi di scarsa sicurezza. Le asserzioni esagerate e le “tattiche allarmistiche” devono indurre a ulteriore prudenza. L’etichetta di qualsiasi prodotto deve riportare un elenco degli ingredienti di cui questo è composto e
l’uso a cui è destinato. I componenti devono essere indicati
con la rispettiva denominazione elencandoli in ordine quantitativo decrescente in base al peso. A seconda delle normative vigenti in materia alimentare, occorre fornire garanzie particolari per determinati gruppi di alimenti, quali proteine, fibre, grassi e alcune vitamine e minerali. Inoltre, occorre riportare particolari indicazioni per l’uso. L’assenza di queste
informazioni deve indurre il consumatore a ricercare prodot-
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ti alternativi. I prodotti di erboristeria in particolare devono
essere impiegati con cautela a causa degli effetti tossici che
possono indurre. Si noti che un farmonutrizionale per definizione può essere somministrato esclusivamente per via orale;
pertanto, qualsiasi prodotto iniettabile deve essere considerato un farmaco. In secondo luogo, è necessario raccogliere notizie scientifiche che convalidino l’utilità del prodotto e valutarle sotto il profilo medico. Benché le informazioni riguardanti l’uso dei farmonutrizionali siano scarse, ne esistono alcune relative a determinati articoli. Alcuni produttori hanno
compreso l’importanza dell’informazione scientifica allegata
a ciò che mettono in commercio. In altri casi, sono state condotte ricerche in ambito universitario per stabilire il valore terapeutico di alcuni fra questi prodotti. Le informazioni sull’argomento devono essere ottenute attraverso pubblicazioni
sottoposte a verifica critica, come le riviste veterinarie referee. Si consiglia di valutare con cautela le notizie diffuse via
internet poiché la validità di queste ultime non può essere garantita. Le informazioni possono essere richieste ai produttori dei farmonutrizionali. Se questi ultimi attribuiscono al prodotto qualsiasi proprietà terapeutica o ne sottointendono l’esistenza, dovranno fornirne anche la convalida scientifica.
Nel valutare la validità scientifica delle informazioni
convalidanti l’innocuità e l’efficacia dei farmonutrizionali, è
necessario applicare gli stessi criteri utilizzati per la sperimentazione clinica condotta sui farmaci. Data la complessità
delle discussioni riguardanti gli studi sui farmonutrizionali,
è probabile che molti produttori non intendano sottoporre i
propri prodotti a ricerche costose intese a stabilirne innocuità ed efficacia. In assenza di informazioni disponibili circa l’uso del prodotto, il sanitario deve mantenere un atteggiamento cauto e scettico. Utilizzando farmonutrizionali
non corredati da basi scientifiche, il clinico deve farsi carico
di valutare personalmente l’attendibilità del prodotto prescritto. Nel giudicare la risposta indotta nel soggetto, è necessario limitare i pregiudizi interpretativi tentando di stabilire la reale esistenza della stessa. Poiché l’indicazione dei
dosaggi può mancare, l’assenza di risposta clinica può semplicemente indicare che la dose era insufficiente e che occorre considerarne una più elevata, sempre che il prodotto
sia innocuo. Poiché la risposta ai farmonutrizionali spesso
richiede un certo tempo, necessario all’organismo per adattarsi a questi composti ed utilizzarli, l’efficacia può evidenziarsi a distanza di settimane o mesi. Lo stesso periodo di
tempo trascorre ogni qualvolta si modifichi la dose. Infine, è
69
probabile che il prodotto risulti più efficace se associato ad
altre terapie, fra cui i farmaci tradizionali. Anche individuare la “combinazione” giusta per un determinato soggetto può
comportare delle difficoltà.
Nonostante gli svantaggi elencati, in ambito veterinario i
farmonutrizionali offrono un’alternativa ragionevole alle terapie farmacologiche tradizionali. Mentre si consiglia di
considerare con scetticismo qualsiasi prodotto sconosciuto
recante indicazioni terapeutiche, occorre anche una certa
apertura mentale nel valutarli. Bisogna accertarsi che l’uso
di tali prodotti sia effettuato entro i limiti della relazione veterinario – cliente – paziente, per assicurare il ruolo del veterinario nella cura della salute e del benessere dell’animale,
indipendentemente dalle scelte terapeutiche. Il cliente deve
essere informato riguardo l’assenza di dati scientifici comprovanti l’innocuità e l’efficacia del prodotto. L’innocuità
deve costituire la preoccupazione principale e il cliente deve
essere indotto a non sottovalutare le terapie tradizionali in
favore dei farmonutrizionali tranne quando ne venga dimostrata l’efficacia. I proprietari attenti riescono a constatare
che molti farmonutrizionali agiscono meglio quando vengano associati alle terapie di uso corrente. La professione veterinaria deve sostenere lo sviluppo di standard intesi a
orientare i produttori di farmonutrizionali verso criteri atti a
proteggere il consumatore. Analogamente, bisogna incoraggiare i produttori e le ditte che sovvenzionano la sperimentazione clinica, a destinare i fondi necessari alla convalida
scientifica di questi composti dotati di potenziale interesse.
CONCLUSIONI
La mancanza di regolamentazione e normative nell’ambito dei farmonutrizionali per uso veterinario deve indurre il
consumatore a scegliere con cautela. La professione veterinaria non deve accettare ciecamente l’insieme di questi prodotti, ma allo stesso tempo deve impegnarsi a riconoscere
quelli dotati di basi scientifiche integrandoli nei programmi
terapeutici. L’autore si impegna a favorire la produzione e
diffusione di informazioni scientifiche sull’argomento. In
una seconda parte del presente lavoro verrà presa in considerazione la valutazione dei parametri di sicurezza ed efficacia dei farmonutrizionali.
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Che cosa c’è di nuovo nella terapia farmacologica
per animali da compagnia
Dawn Boothe
DVM, MS, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ACVCP
Texas A&M University Dept of Physiology and Pharmacology College Station, Texas (USA)
I nuovi farmaci rivolti al controllo degli stati convulsivi,
delle patologie del tratto gastrointestinale e del dolore sono
stati esaminati in altre sezioni di questi atti.
SISTEMA NERVOSO CENTRALE
Contenimento farmacologico: Gli alfa2 agonisti più recenti, quali la medetomidina (0,75 mg/m2 IV oppure 1,0
mg/m2 IM, nel cane) comportano effetti cardiovascolari di
minore entità e garantiscono un’azione più prolungata rispetto alla xilazina. La medetomidina svolge azione sedativa e analgesica ed è registrata per l’uso nel cane nelle procedure che richiedano un contenimento di breve durata. Gli
effetti del farmaco vengono antagonizzati dall’atipamezolo
(utilizzato in dosi 4 volte superiori alla medetomidina o 1,0
mg/m2 o 0,2 mg/kg) che appartiene al gruppo degli alfa2 antagonisti. Analogamente alla xilazina, la medetomidina può
indurre vomito e depressione cardiovascolare. Il propofolo
(induzione: 7 mg/kg; mantenimento 0,51 mg/kg nel gatto; e
da 4 a 8 mg/kg [a seconda dell’uso o meno di premedicazione] per l’induzione e 0,51 mg/kg per il mantenimento nel cane; IV o per infusione goccia a goccia 0,4 mg/kg/min) è un
agente di induzione ad azione breve che può essere impiegato in alternativa ai tiobarbiturici ad azione ultrarapida. Il
farmaco è privo di proprietà analgesiche ed è utile quale
agente di induzione per procedure di breve durata (1 ora o
meno). Il suo vantaggio principale è il risveglio dolce con
postumi molto limitati; rispetto ai tiobarbiturici non offre
però alcun vantaggio. Se somministrato troppo rapidamente
può provocare una notevole depressione respiratoria. A temperatura ambiente, il prodotto si trova in stato oleoso e, poiché non contiene alcun conservante deve essere maneggiato
in modo asettico. Questo farmaco può essere impiegato per
controllare lo stato epilettico nei soggetti che non rispondono ad altri prodotti. La via di somministrazione ideale è
quella endovenosa lenta. L’etomidato (0,5 - 3 mg/kg; dopo
la somministrazione di oppiacei, da 0,5 a 1 mg/kg; IV) è un
altro anestetico non barbiturico ad azione ultrarapida iniettabile per via endovenosa, adatto per l’induzione rapida e dolce dell’anestesia. Il farmaco garantisce un risveglio rapido,
ampio margine di sicurezza, assenza di accumulo con dosi
ripetute e minima depressione del SNC. L’inoculazione può
risultare dolorosa, inoltre il prodotto è costoso (10-15 volte
superiore al tiopentale). Il farmaco modula l’azione del GABA (un neurotrasmettitore inibitorio) ed è stato consigliato
per il controllo degli attacchi convulsivi in soggetti refrattari ad altri farmaci. Inoltre, poiché riduce il flusso ematico cerebrale e il consumo di ossigeno, è adatto nei soggetti che
hanno subito traumi cerebrali oppure, come il propofolo, per
controllare lo stato epilettico negli individui che non rispondono ad altri prodotti.
Farmaci che modificano il comportamento. La maggior parte dei farmaci che modificano il comportamento è in
grado di indurre variazioni dei numerosi neurotrasmettitori
del SNC. In particolare risultano interessate le amine biogene, fra cui serotonina e dopamina (e in minore grado l’adrenalina ecc.). Possono essere coinvolte anche acetilcolina e
istamina oltre ai recettori alfa-adrenergici. Dal momento che
questi neurotrasmettitori vengono interessati a livello centrale, è possibile che vengano alterate numerose funzioni fisiologiche. Poiché la fisiologia e l’eliminazione dei farmaci
variano notevolmente fra gli animali, è prevedibile che compaiano reazioni avverse, fra cui sedazione, effetti anticolinergici e altri correlati all’accentuazione dell’attività delle
amine biogene. Questi farmaci devono essere utilizzati con
cautela; infatti, molti degli effetti collaterali che inducono
non vengono evidenziati facilmente negli animali. L’amitriptilina (1-2 mg/kg, due volte al giorno per OS (C); 0,5-2
mg/kg una o due volte al giorno per OS (G)) è un antidepressivo triciclico che viene utilizzato senza provocare danni per controllare l’ansia da separazione, i comportamenti
ossessivi/compulsivi e, nel gatto, la tendenza a spruzzare
urina. Sia nel cane che nel gatto sono state osservate reazioni avverse (segni a carico del SNC, disordini gastrointestinali). La comparsa della risposta può richiedere un paio di
settimane e le somministrazioni devono essere sospese gradualmente nell’arco di alcune settimane. La clomipramina
è un antidepressivo triciclico che inibisce l’assunzione di 5HT (serotonina) e quindi tende ad agire in modo più selettivo. Inoltre, potenzia la noradrenalina, benché questo non
sembri rappresentare il meccanismo di base dell’azione antidepressiva. Data questa relativa selettività, questo prodotto
tende a dimostrarsi più innocuo degli altri composti triciclici. (Dosaggio: aumentare le dosi ad intervalli di 14 giorni: 1
mg/kg, quindi 2 mg/kg e infine 3 mg/kg PO due volte al
giorno (C); 0,5 mg/kg PO una volta al giorno (G) per 14
giorni, quindi dose doppia per 14 giorni e infine dose tripla
per altri 14 giorni fino ad un massimo di 3 mg/kg al giorno.)
Al momento attuale è in corso la procedura di approvazione
del farmaco nel cane. Il doxepin (3-5 mg/kg PO due o tre
volte al giorno (C)) è caratterizzato da azioni antistaminer-
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giche più evidenti e si rivela più utile nel prurito cronico. Il
prozac (fluoxetina) (1 mg/kg PO una volta al giorno nel cane) è un antidepressivo (non triciclico) che inibisce specificamente la ricaptazione della serotonina. Rispetto agli altri
antidepressivi, questo prodotto agisce selettivamente sulla
serotonina e per questo risulta più sicuro. Tuttavia, fino al
12% dei pazienti umani deve sospendere l’assunzione di
questo farmaco in seguito all’insorgenza di effetti collaterali, fra cui ipertensione, insonnia, anoressia, comportamenti
maniacali ecc. In una segnalazione di carattere non scientifico riguardante il cane, vennero riscontrate reazioni avverse
quali modificazioni di peso, appetito e attività e segni a carico di SNC e apparato gastrointestinale nel 50% dei soggetti che assumevano il farmaco. Come per molti altri agenti
che modificano il comportamento, la terapia deve essere
proseguita per diverse settimane prima di rilevarne gli effetti (dovuti all’accumulo del prodotto oltre che all’azione farmacologica). La somministrazione di questi farmaci non deve essere sospesa improvvisamente. Nei soggetti epilettici o
in quelli affetti da ipertensione e/o cardiopatie questi prodotti non devono essere utilizzati in associazione. Gli antidepressivi triciclici e altri farmaci ad azione antidepressiva
vengono impiegati per trattare i comportamenti stereotipati,
compresi quelli che inducono la comparsa di lesioni cutanee.
Quelli più comuni sono correlati alla toelettatura e comprendono il granuloma da leccamento o il masticamento del pelo. Anche il prurito costituisce spesso un’indicazione per
queste terapie. La dermatite da leccamento dell’estremità
degli arti è stata trattata con questi farmaci oltre che con naltrexone, un narcotico antagonista. In animali da esperimento con manifestazioni di automutilazione è stato rilevato un
aumentato rilascio degli oppiacei endogeni. Gli antagonisti
degli oppiacei possono eliminare “l’autogratificazione” e
l’analgesia mediate dalle endorfine. Analogamente al naloxone, il naltrexone è un antagonista degli oppiacei puro,
caratterizzato tuttavia da maggiore efficacia dopo somministrazione orale e durata d’azione più prolungata. Uno studio
non controllato riguardante l’uso del farmaco in cani con
dermatite da leccamento delle estremità segnalava una percentuale di successo pari a 64%. La dose di 2,2 mg/kg al
giorno PO (1,0 mg/kg SC) veniva aumentata a 2,2 mg/kg
due volte al giorno PO se dopo 10 giorni non era comparsa
alcuna risposta. I cani vennero trattati per 1 mese e, dopo la
sospensione della terapia, le lesioni ricomparvero entro un
periodo compreso fra 1 settimana e 3 anni. Un animale che
non aveva risposto al naltrexone reagì al nalmefene, un altro
antagonista narcotico.
Il deprenyl (selegilina) è stato approvato recentemente
per il trattamento dell’iperadrenocorticismo nel cane, mentre
in passato aveva suscitato l’attenzione quale farmaco in grado di prolungare la speranza di vita nella specie canina. Quale inibitore della monoaminossidasi (selettivo per l’enzima
B), è probabile che il farmaco induca un aumento dei neurotrasmettitori dopaminici (e di altre amine biogene) a livello
cerebrale. In tale modo, impedirebbe la formazione di sostanze chimiche in grado di danneggiare l’encefalo, o potrebbe contribuire all’eliminazione dei radicali liberi dell’ossigeno e, quindi, prevenire lo sviluppo di un danno cerebrale a lenta insorgenza. I prospetti informativi che presentavano il farmaco tralasciavano di indicare il fatto che nel cane e
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nell’uomo la sostanza venisse metabolizzata anche in amfetamina e metamfetamina. Nel ratto, il farmaco produceva effettivamente un prolungamento della speranza di vita (pari a
9 mesi in uno studio e 3 mesi in un altro) se somministrato
già in giovane età. Tuttavia, i cani giovani trattati con la sostanza diventavano iperattivi (movimenti ripetitivi e senza
senso soprattutto nelle femmine, aumento dell’attività sessuale). Un vantaggio del farmaco è dato dagli effetti rivolti
selettivamente alle monoaminossidasi cerebrali e non al resto dell’organismo. Inoltre, il deprenyl sembra svolgere attività di rimozione dei radicali liberi dell’ossigeno e sembra
essere in grado di stimolare la rigenerazione neuronale. La
principale indicazione di questo farmaco negli animali (cane) riguarda il trattamento dell’iperadrenocorticismo (da 1 a
2 mg/kg una volta al giorno possibilmente per il resto della
vita; nei cani molto anziani (>15 anni?) è prevedibile un’efficacia fino al 70% e lo sviluppo di disturbi della cognizione (0,5 mg/kg una volta al giorno). L’impatto maggiore che
questo farmaco ha avuto nel settore della salute umana riguarda i pazienti affetti dal morbo di Parkinson; infatti, consente di ritardare il momento di inizio della terapia con LDopa e prolunga le prospettive di vita dell’individuo.
SISTEMA EMOPOIETICO
Un certo numero di fattori ricombinanti si sono resi disponibili in commercio o in ambito sperimentale. I prodotti
che sono stati studiati negli animali comprendono eritropoietina, fattore stimolante la crescita (CSF) dei granulociti,
fattore stimolante la crescita dei macrofagi, ormoni (insulina, ormone della crescita) e immuno-modulatori quali interferon, fattore di necrosi tumorale e interleuchine. È importante rammentare che la maggior parte di queste sostanze sono proteine oppure peptidi di dimensioni variabili fra 600 e
100.000 dalton. La somministrazione parenterale (perché
per os non è possibile mantenere la biodisponibilità di questi agenti) può essere associata a emivita breve ed immunogenicità fra le specie. Sono stati formulati prodotti ricombinanti di origine umana, canina e bovina. In generale, nel gatto sembrano dotati di minore antigenicità i prodotti di origine felina piuttosto che umana.
Eritropoietina. L’eritropoietina ricombinente umana
(100 U/kg SC 3 volte alla settimana fino ad ottenere la risposta voluta [4-12 settimane] quindi da 50 a 75 U/kg quanto basta per mantenere l’ematocrito entro valori di 30% (C)
e 25% (G)) è disponibile sotto forma di specialità medicinale. Il farmaco è indicato esclusivamente nei casi di carenza
di eritropoietina, quale può verificarsi nelle nefropatie croniche e in determinate forme neoplastiche. In più del 25%
dei soggetti si può verificare la comparsa di anticorpi che
provocano la distruzione dell’eritropoietina sia endogena
che esogena, inducendo un peggioramento dello stato anemico. In seguito allo sviluppo di anticorpi, la somministrazione del farmaco deve essere sospesa e non può più essere
ripresa. I leucociti e le piastrine non sembrano essere coinvolti. La maggior parte dei soggetti ha presentato un miglioramento clinico (ad es. aumento dell’appetito, migliore stato
di idratazione); inoltre è indicata anche l’integrazione di ferro. L’eventuale stato ipertensivo deve essere risolto prima di
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iniziare la terapia e i soggetti che tendono all’ipertensione
devono essere controllati accuratamente. La granulopoietina (5 µg/kg SC una o due volte al giorno per 2 o 3 giorni oppure secondo necessità per mantenere il numero dei granulociti) è stata studiata sia nel cane che nel gatto. L’rh-CSF induce un aumento dei granulociti neutrofili entro 12 ore e
l’effetto persiste per 2 - 3 settimane. Nel cane e nel gatto
l’rc-CSF provoca un aumento dei leucociti dal primo al diciannovesimo giorno nel corso di neutropenia ciclica o di
chemioterapie antitumorali. Tuttavia, entro il ventitreesimo
giorno spesso sono presenti anticorpi. Nel gatto, il prodotto
ricombinante di origine canina sembra comporti minori probabilità di sviluppo di anticorpi rispetto al prodotto di origine umana. Le indicazioni per indurre la stimolazione del midollo osseo variano dalla soppressione iatrogena dell’attività
midollare conseguente all’uso di chemioterapici a scopo antitumorale alla leucopenia (neutropenia) da parvovirosi nel
cucciolo. Generalmente, il farmaco di origine umana non è
disponibile; tuttavia, sembra lo si possa reperire a un prezzo
elevato.
L’ossiglobina (Biopure Corporation:www.oxyglobin.com)
è un liquido trasportatore di ossigeno a base di emoglobina derivato dall’emoglobina bovina polimerizzata. Il prodotto aumenta i livelli plasmatici e totali di emoglobina e quindi innalza il contenuto arterioso di ossigeno. Le condizioni studiate nel
corso di prove cliniche controllate condotte nel cane comprendevano emolisi immunomediata (n=30), perdita di sangue (gastrointestinale, traumatica, chirurgica, da rodenticidi) (n=25) ed
eritropoiesi inefficace (idiopatica, aplasia eritrocitaria, ehrlichiosi) (n=9). Rispetto ai livelli di partenza, dopo il trattamento
con ossiglobina i livelli plasmatici di emoglobina aumentarono
significativamente (p=0,001) e i segni clinici associati all’anemia (letargia/depressione, intolleranza all’esercizio e aumento
della frequenza cardiaca) migliorarono significativamente
(p=0,001). Il successo del trattamento venne definito come
mancato bisogno di un ulteriore sostegno nel trasporto di ossigeno (trasfusione di sangue) nelle 24 ore seguenti il completamento dell’infusione di ossiglobina. La percentuale di successo
nel gruppo di soggetti trattati era pari a 95%, rispetto al 32% di
quelli di controllo.
Trattandosi di una soluzione libera (piuttosto che di eritrociti), non si verifica la produzione di anticorpi che in genere accompagna la somministrazione di eritrociti interi.
Tuttavia, l’antigenicità verso l’emoglobina di origine bovina
può suscitare una risposta anticorpale. Non sembra esistano
studi riguardanti la somministrazione ripetuta del prodotto.
Poiché la proteina è estranea all’organismo, è possibile che
si verifichino reazioni anafilattiche. Nel cane, si ritiene che
l’emivita del farmaco (che viene eliminato come l’emoglobina dalle cellule reticoloendoteliali) sia compresa fra 30 e
40 ore. Pertanto, il 90% del farmaco sarà scomparso entro 5
- 7 giorni dall’infusione. Data la sua natura proteica, il prodotto modifica la pressione oncotica e se utilizzato in soggetti con preesistenti stati di sovraccarico (ad es. da insufficienza cardiaca) oppure nei casi di sovradosaggio accidentale (> 10 l/kg/ora) può comportare un sovraccarico circolatorio con conseguenze negative, fra cui edema polmonare, versamento pleurico, innalzamento della pressione venosa centrale, dispnea e tosse). L’ossiglobina induce una lieve diminuzione dell’ematocrito immediatamente dopo l’infusione e
73
un innalzamento dei livelli di emoglobina totale e plasmatica per un periodi di almeno 24 ore. Pertanto, in quest’arco di
tempo, i valori dell’ematocrito e la conta eritrocitaria non
costituiranno una valutazione accurata dello stato anemico.
È importante provvedere a reidratare adeguatamente il soggetto, avendo cura di evitare l’iperidratazione a causa delle
proprietà di espansione del volume plasmatico dell’ossiglobina. Non bisogna somministrare altre soluzioni colloidali.
L’ossiglobina è caratterizzata da un peso molecolare medio
pari a 180 kD, con il 50% dei polimeri emoglobinici di peso
compreso fra 65 kD e 130 kD. Come tale, il prodotto è dotato di proprietà colloidali simili al destrano 70 e all’amido
eterificato. Tuttavia, trattandosi di emoglobina polimerizzata, le molecole sono di dimensioni molto maggiori rispetto
all’emoglobina ed è improbabile che il composto venga filtrato dal rene (evitando in tale modo gli effetti collaterali legati all’emoglobinuria). L’effetto collaterale più frequente è
il sovraccarico volumetrico circolatorio. La pressione venosa centrale o i segni clinici riferibili al sovraccarico devono
essere tenuti sotto controllo durante la somministrazione di
ossiglobina e nel periodo immediatamente seguente. Le modificazioni transitorie o gli effetti collaterali segnalati dalla
Biopure Corporation in seguito alla somministrazione del
prodotto comprendevano la comparsa entro 48 ore di colorazione giallo-arancio di cute, sclera e gengive, colorazione
rosso scuro - verdastra delle feci, colorazione bruno-nerastra
dell’urina, vomito, diarrea e diminuzione dell’elasticità cutanea. La frequenza e/o intensità di questi segni clinici dipendevano dalla dose. Il prodotto è destinato a essere somministrato in dose singola, alla posologia consigliata di 30
ml/kg per via IV a una velocità di 10 ml/kg/ora. L’ossiglobina può essere riscaldata a 37°C prima di essere somministrata; non è possibile congelarla ma comunque si mantiene
stabile per 24 mesi. Il prodotto è approvato per l’uso nel cane e sembra sia stato studiato anche nel gatto. Il prezzo è di
circa 30 $/kg, benché negli animali non si adoperi la dose
piena di 30 ml/kg.
SISTEMA ENDOCRINO
L’ipodato è un agente contrastografico biliare che sembra garantire effetti vantaggiosi nel controllo a breve termine dell’ipertiroidismo se somministrato alla dose di 15
mg/kg PO due volte al giorno. L’attività svolta da questo
prodotto è simile a quella dello iodio (soluzione di Lugol,
ecc.) che modifica la sintesi o il rilascio di ormoni tiroidei.
L’assunzione di iodio sembra ridotta e anche la conversione
di T4 in T3 viene diminuita. Tuttavia, gli effetti dell’ipertiroidismo divengono refrattari nell’arco di diversi mesi.
Iperadrenocorticismo. Il deprenyl è stato approvato per
l’uso nel trattamento dell’iperadrenocorticismo ipofisi-dipendente del cane. Il meccanismo (ipotizzato) è la correzione del deficit dopaminico a livello ipofisario e la normalizzazione funzionale dell’asse ipotalamo- ipofisi- surrene.
Pertanto, non si verifica il tipico effetto di distruzione delle
ghiandole surrenali provocato dal mitotano. Sulla base dei
segni clinici e delle misurazioni della cortisolemia, è prevedibile ottenere una risposta nel 70 - 80% degli animali (con
1 - 2 mg/kg al giorno per OS). Tuttavia, non tutti i soggetti
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rispondono in misura sufficiente e può essere necessario
proseguire la terapia per l’intera durata della vita. Talvolta,
il processo patologico progredisce al punto tale da richiedere una terapia tradizionale con organofosforici. Il vantaggio
principale del deprenyl è quello di ritardare l’introduzione
nella terapia di farmaci più pericolosi. Secondo il produttore, non è necessario eseguire il test di risposta all’ACTH ed
al desametazone a basse dosi. È possibile che i segni clinici
non si risolvano prima che siano trascorsi 4 - 6 mesi.
Diabete mellito. Nei pazienti umani affetti da diabete
mellito non insulino-dipendente, vengono utilizzati gli ipoglicemizzanti orali, fra cui sulfoniluree e biguanidinici. Le
prime abbassano l’iperglicemia stimolando le cellule beta a
secernere insulina, intensificando gli effetti dell’insulina sul
fegato e sul trasporto dei carboidrati a livello di muscoli e
tessuto adiposo e riducendo la produzione epatica di glucosio. Il glipizide è una solfonilurea di cui è stato studiato
l’effetto nei gatti affetti da diabete mellito non insulino-dipendente. Il prodotto (5-10 mg PO due volte al giorno nel
cane; 5 mg due volte al giorno nel gatto; controllando la glicemia, soprattutto se si somministra anche insulina) può essere provato anche nei gatti con iperglicemia persistente di
entità da lieve a moderata. Il glipizide è controindicato nei
casi di chetosi o di insufficienza delle cellule pancreatiche
beta. Invece, è stato impiegato in associazione con l’insulina negli animali che non rispondevano alla stessa, allo scopo di accrescere la sensibilità dei recettori insulinici (cioè
nei soggetti con iperadrenocorticismo o trattati con glucocorticoidi). Gli effetti collaterali comprendono ipoglicemia
e vomito. Si noti che l’uso di questo farmaco (attualmente
oggetto di studio) può contribuire al protrarsi dell’insufficienza pancreatica dovuta a deposizione di sostanza amiloide. L’acarbosio (Precose) è un oligosaccaride complesso di
origine batterica. L’enzima inibisce la degradazione dell’alfa-amilasi e la glucosidasi di origine pancreatica e intestinale. Di conseguenza, viene inibita la degradazione enzimatica degli oligo-, di- e trisaccaridi complessi e viene limitato l’assorbimento di glucosio. L’iperglicemia postprandiale viene ridotta al minimo. Nell’uomo, il prodotto è indicato nel diabete mellito non insulino-dipendente. Poiché i
carboidrati, che altrimenti verrebbero assorbiti, vengono
metabolizzati nel piccolo intestino, ne deriva un certo numero di effetti collaterali gastroenterici, fra cui dolore, diarrea e flatulenza (77%). Questi segni clinici tendono a risolversi non appena venga normalizzata la flora batterica intestinale. Il prodotto non provoca lo sviluppo di ipoglicemia.
Negli animali, i dosaggi del farmaco non sono ancora stati
definiti, mentre nei pazienti umani si somministrano dosi di
25 mg ad ogni pasto. Il metaformin (glucophage) è un
nuovo agente ipoglicemizzante il cui uso è stato approvato
nell’uomo e che viene attualmente studiato nel gatto. Il farmaco accresce la sensibilità all’insulina e riduce la produzione epatica di glucosio, mentre non aumenta il rilascio di
insulina. Quindi, poiché la secrezione insulinica non aumenta, non ne deriverà l’esaurimento delle cellule beta o lo
sviluppo di uno stato di amiloidosi. L’insulina PZI è stata
reintrodotta e nuovamente ritirata dal commercio per motivi di controllo di qualità. Pertanto, è necessario utilizzare
altre preparazioni insuliniche (solitamente l’ultralenta) anche se nel gatto queste risultano meno efficaci. Rispetto al-
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la carne di maiale, l’insulina di origine suina è meno antigenica, benché l’antigenicità possa rivelarsi vantaggiosa limitando le oscillazioni della glicemia. Analogamente, l’insulina “purificata” comporta fluttuazioni più ampie rispetto
ai prodotti caratterizzati da un minore grado di purezza. I
diluenti utilizzati per l’insulina presentano pH tamponato;
vengono forniti gratuitamente dal produttore e sono da preferire all’acqua o alla soluzione fisiologica che possono alterare il tempo di conservazione del farmaco. L’insulina diluita deve essere sostituita ad intervalli di 2 o 3 mesi e, benché non richieda la refrigerazione, è consigliabile conservarla al fresco. Nei gatti particolarmente difficili da controllare, la prescrizione dell’insulina PZI può essere rivolta
a una farmacia specializzata nel settore veterinario che sia
in grado e accetti di preparare il farmaco. Si noti che il costo sarà probabilmente elevato.
Diabete insipido: La vasopressina, che un tempo era disponibile soltanto come spray nasale (somministrata per via
sottocongiuntivale), attualmente viene prodotta sotto forma
di compresse da 0,1 mg e 0,2 mg. Nell’uomo, la biodisponibilità della compressa raggiunge appena il 5 - 15% di quella
del preparato intranasale. Poiché ogni goccia nasale contiene circa 0,1 mg (e considerando un pari livello di biodisponibilità), la dose orale nel cane deve essere di 1 o 2 compresse al giorno. Attualmente, è probabile che le gocce nasali siano ancora quelle meno costose.
Incontinenza urinaria: Diverse farmacie specializzate in
campo veterinario preparano dietilstilbestrolo (DES) che,
pur essendo stato ritirato dal commercio sembra essere ancora reperibile come tale. Le farmacie che preparano prodotti
galenici si procurano il principio attivo e lo confezionano in
forma utilizzabile. Informazioni trasmesse via internet ecc.,
indicavano l’uso del Premarin (un coniugato di estrogeni di
origine umana, 0,625 mg per un animale di 27 kg) in sostituzione del DES. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, il Premarin svolge attività steroidea che ne suggerisce la scarsa sicurezza di impiego. L’autore consiglia di evitare l’uso di
estrogeni di cui non sia stata documentata l’innocuità. La fenilpropanolamina oppure gli antidepressivi triciclici possono
essere presi in considerazione quali alternative.
FARMACI PER USO DERMATOLOGICO
La ciclosporina è un immunomodulatore specifico per i
linfociti T il cui uso è stato approvato nell’uomo a scopo immunodepressivo nei casi di trapianto, per evitare il rigetto
dell’organo di un donatore, disordini autoimmuni, cheratiti
secche e aplasia eritrocitaria. Uno recente studio clinico,
condotto utilizzando un gruppo di controllo trattato con placebo, ha dimostrato chiaramente che il farmaco rappresenta
un’alternativa non chirurgica nel trattamento delle fistole perianali nel cane. Se somministrato in dosaggi (compresi fra
3 e 10 mg/kg per OS due volte al giorno) che mantengano i
livelli minimi entro valori di 400 e 600 ng/ml, si verifica un
miglioramento nella totalità degli animali, con alcuni casi di
guarigione. La recrudescenza della sindrome sembra riguardare un numero limitato di soggetti, nei quali un secondo
trattamento comporta la risoluzione delle lesioni. È probabile che livelli di appena 100 ng/ml possano rivelarsi efficaci.
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L’applicazione della ciclosporina è stata studiata anche per il
trattamento del prurito cronico. Anche il misoprostolo, un
analogo della prostaglandina E (vedi apparato gastrointestinale), è stato oggetto di studio per stabilirne l’utilità nel trattamento del prurito cronico (da 3 a 7 µg/kg ogni 8 ore per via
orale). In uno studio è stato rilevato che il 60% degli animali presentava percentuali di miglioramento pari o superiori al
50%. L’uso associato ad antistaminici sembra produrre effetti sinergici.
Gli antistaminici dimostrano maggiore efficacia nel trattamento delle patologie cutanee croniche se vengono utilizzati per un periodo sufficientemente lungo da permettere lo
sviluppo di una risposta farmacologica. La clemastina sembra essere più efficace, seguita dalla clorfeniramina, mentre
l’idrossizina svolge effetti meno evidenti. La doxepina è un
antidepressivo triciclico la cui attività comprende effetti antistaminergici. Nell’ambito dei prodotti triciclici, questo farmaco è fra quelli più efficaci nel trattamento del prurito cronico. Gli antistaminici devono essere utilizzati per 2 o 3 settimane prima considerare l’insuccesso terapeutico. La mancata risposta a un antistaminico deve indurre a cambiare il
prodotto. L’MSM? è un metabolita del dimetilsulfossido
elencato fra i farmonutrizionali (nutraceuticals) che viene
utilizzato in forma di spray (aggiungere acqua fino a ottenere una soluzione del 10% e spruzzare secondo necessità per
controllare il prurito).
APPARATO RESPIRATORIO
La teofillina è disponibile attualmente in forma di preparazioni a rilascio lento che consentono di ricorrere a due
somministrazioni giornaliere nel cane e una dose unica giornaliera nel gatto (Theodur: 25 mg/kg una volta al giorno PO
(G); 20 mg/kg due volte al giorno PO (C); Slo-bid: 25 mg/kg
da una a due volte al giorno (G); 20 mg/kg una volta al giorno (C)). Si noti che la biodisponibilità di questi farmaci è variabile. È necessario ricorrere al monitoraggio terapeutico
dei farmaci per confermare la presenza di livelli terapeutici
(da 10 a 20 µg/ml), soprattutto se il soggetto non sembra manifestare alcuna risposta. Il Theo-Dur è fra i prodotti dotati
di maggiore biodisponibilità nel cane. La terbutalina
(Brethine: 0,2 mg/kg PO ogni 8-12 ore (C); da 1,25 a 2,5
mg/gatto PO ogni 12 - 24 ore) è un beta2-agonista specifico
che può essere impiegato per ottenere broncodilatazione evitando di stimolare l’attività cardiaca.
Nell’uomo, l’N-acetilcisteina è il mucolitico maggiormente utilizzato. Benché sembri efficace se somministrata
per aerosol, in tempi più recenti l’assunzione orale è diventata la via di somministrazione preferita. In Europa, il farmaco è disponibile nelle forme solida o polverizzata. Sfortunatamente, negli Stati Uniti è stata approvata per l’uso soltanto la soluzione, caratterizzata da scarsa appetibilità e odore sgradevole. Indipendentemente dalla via di somministrazione, il meccanismo dell’acetilcisteina prevede la distruzione dei legami bisolfuro delle mucoproteine da parte dei
gruppi sulfidrilici liberi. Le molecole di dimensioni minori
sono dotate di più bassa viscosità e non sono in grado di legare efficacemente i residui del processo infiammatorio.
Inoltre, l’N-acetilcisteina agisce quale precursore del gluta-
75
tione, che rappresenta uno fra i principali eliminatori di radicali liberi dell’ossigeno associati all’infiammazione. Il farmaco sembra anche favorire le secrezioni del tratto respiratorio, probabilmente attraverso un riflesso gastro-polmonare. Con dosaggi orali più elevati, l’acetilcisteina induce anche la comparsa di vomito. Spesso, viene utilizzata in associazione ad antimicrobici somministrati per aerosol poiché
favorisce la penetrazione dei composti antibatterici nel muco infetto. In uno studio condotto su cani con broncocostrizione indotta sperimentalmente per mezzo di metacolina,
l’acetilcisteina migliorava l’ematosi. Nell’uomo, il farmaco
viene assorbito velocemente nel tratto gastrointestinale e
ampiamente distribuito a fegato, reni e polmoni dove si possono verificare fenomeni di accumulo. La sostanza viene
metabolizzata rapidamente dal fegato in cisteina e cistina.
Le indicazioni per la terapia orale nei pazienti umani comprendono l’inalazione di sostanze tossiche (fra cui il fumo di
tabacco), bronchiti, pneumopatie ostruttive croniche, fibrosi
cistica, asma, tubercolosi, polmonite, enfisema e la sindrome
da insufficienza respiratoria dell’adulto. Sono state effettuate anche instillazioni di soluzioni al 10-20% a scopo di pulizia e trattamento della sinusite cronica. La terapia con acetilcisteina comporta scarsi effetti collaterali. Nell’uomo, dosi elevate fino a 500 mg/kg vengono ben tollerate, benché
possano dare origine a vomito e anoressia. Negli animali, è
possibile provare ad impiegare per le affezioni respiratorie la
dose utilizzata per l’intossicazione da acetaminofene (140
mg/kg PO o IV al 5% [50 mg/ml] seguiti da 70 mg/kg ogni
4 [8-12?] ore; probabilmente è possibile somministrare una
soluzione al 20% [200 mg/ml] per via orale). Poiché il farmaco viene metabolizzato in prodotti contenenti zolfo, occorre utilizzarlo con cautela negli animali affetti da epatopatie caratterizzate dallo sviluppo di encefalopatia epatica. La
somministrazione di N-acetilcisteina per aerosol può indurre fenomeni di broncocostrizione riflessa dovuti alla stimolazione di recettori irritativi e deve quindi essere preceduta
dall’uso di broncodilatatori.
Zilorufast (Accolate) e Zileuton (ZyfloTM) rappresentano un nuovo tipo di approccio al trattamento dell’asma in
ambito umano. Questi farmaci agiscono bloccando in modo
specifico i recettori dei leucotrieni (Zileuton) oppure inibendo la lipossigenasi (in opposizione agli inibitori della ciclossigenasi) (zilorufast), pertanto inibiscono sia l’azione che la
formazione dei leucotrieni. Questi ultimi svolgono potente
azione infiammatoria a livello polmonare, dove provocano
gravi stati di edema, infiammazione e broncocostrizione. Poiché l’asma nel gatto è molto simile a quella umana, questi
farmaci possono rivelarsi utili nel trattamento di tale patologia anche nei felini. Nel cane, l’uso di questi farmaci è vantaggioso in caso di affezioni bronchiali (o polmonari?) associate a processi infiammatori. I farmaci non sono ancora stati studiati negli animali benché vengano già utilizzati (zilorufast 1 mg/kg per via orale due volte al giorno nel cane).
Rutin (50 mg/kg PO due volte al giorno) è un cumarinico non-anticoagulante utilizzato nei pazienti umani per trattare alcune forme di edema periferico degli arti conseguenti
a essudazione proteica (ad es. edema provocato da variazioni della permeabilità o da blocco linfatico). Il farmaco è reperibile nei negozi di dietetica e agisce stimolando la rimozione delle proteine da parte dei macrofagi e quindi elimina
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il flusso oncotico dei liquidi verso i tessuti. Le indicazioni
per l’uso di questa sostanza comprendono determinate cause di edema periferico degli arti e di versamento pleurico associato a secrezioni ricche di proteine (chilotorace). La comparsa di una risposta può richiedere settimane o mesi. Il farmaco non sembra provocare alcun effetto tossico.
APPARATO CARDIOVASCOLARE
L’enalapril è un inibitore dell’enzima angiotensina-convertente e viene utilizzato per ridurre il postcarico nei soggetti affetti da insufficienza cardiaca congestizia. Quando la
riserva cardiaca minacci la perfusione renale, è più probabile che si sviluppi una nefropatia all’inizio della terapia se
l’aumento della gittata cardiaca indotto dalla diminuzione
del postcarico non è sufficiente a compensare la dilatazione
delle arteriole renali afferenti. I farmaci che modificano (riducono) le prostaglandine renali (FANS, aminoglicosidi)
possono predisporre il soggetto allo sviluppo di nefropatie
dopo l’inizio del trattamento con ACE inibitori. Nel corso
delle prime settimane di terapia, occorre controllare la funzionalità renale eseguendo appositi test. Il lisinopril è un
ACE inibitore che viene eliminato per via renale di cui è stato approvato l’uso nell’uomo. Contrariamente all’enalapril,
non richiede di essere attivato a livello epatico. L’eliminazione del prodotto viene impedita soltanto in caso di notevoli diminuzioni del volume di filtrazione glomerulare. Negli animali, il farmaco è indicato anche nelle epatopatie. Un
ulteriore vantaggio è dato dalla possibilità di somministrarlo
in dose unica giornaliera (0,5 mg/kg PO). Si noti, tuttavia,
che la disponibilità di prodotti registrati per uso veterinario
rende scarsamente giustificabile l’impiego del lisinopril o altri ACE-inibitori diversi dall’enalapril. Un ulteriore esempio
è dato dal benazepril e dal relativo metabolita attivo, il benazeprilato dotato di attività molto superiore al farmaco d’origine. Al contrario di altri ACE-inibitori, questi agenti non
vengono escreti per via renale. Il dosaggio è compreso fra
0,25 e 0,5 mg/kg e viene assunto per via orale una volta al
giorno. Un’altra indicazione degli ACE-inibitori è rappresentata dalla proteinuria. Il meccanismo con cui questi farmaci ne riducono l’entità non è noto, ma è possibile che
comprendano modificazioni della pressione idrostatica o
azioni dirette sulla membrana glomerulare.
L’amlodipina è un calcio-bloccante che, analogamente
alla nifedipina, esercita azioni dirette in particolare sulla muscolatura liscia dei vasi piuttosto che sul muscolo cardiaco.
Fra le attività periferiche del farmaco è compresa la diminuzione delle resistenze periferiche totali che lo rende indicato
nel trattamento dell’ipertensione, in particolare quella non
associata alle risposte neuroumorali che accompagnano l’insufficienza cardiaca congestizia (gli ACE-inibitori sono consigliati in caso di insufficienza cardiaca congestizia). Con
dosaggi di 0,625 mg/kg due volte al giorno per via orale, i
soggetti devono essere controllati per guidare la terapia,
adottando valori pressori ottimali < 150 mm/Hg. Altre indicazioni comprendono l’insufficienza miocardica accompagnata da mancata risposta all’enalapril e l’intolleranza ai
diuretici. Quando il farmaco venga associato ad altre terapie,
lo si dovrà utilizzare in dose compresa fra 0,1 e 0,2 mg/kg
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da una a due volte al giorno. Sono attualmente in corso studi per confrontare l’efficacia di questo prodotto con quella
dell’enalapril in gatti colpiti da ipertensione primitiva o ipertensione associata a nefropatie.
Il trattamento della miocardiopatia ipertrofica ha sempre
privilegiato l’uso di farmaci beta-bloccanti allo scopo di ridurre la frequenza e la contrattilità cardiaca. Il propranololo
è un beta-bloccante non selettivo ed è il farmaco che viene
maggiormente utilizzato. Tuttavia, l’insufficienza respiratoria può essere peggiorata dal blocco dei beta2 recettori a livello del tratto respiratorio. Il diltiazem (da 0,5 a 1,5 mg/kg
PO (C); da 1,75 a 2,45 mg/kg da due a tre volte al giorno PO
(G); si noti che il farmaco viene metabolizzato per acetilazione, reazione scarsa nel cane ma non nel gatto) è un calcio-bloccante che riduce la contrattilità cardiaca, migliora la
compliance del cuore e riduce il fabbisogno di ossigeno del
miocardio. Si può verificare anche un rallentamento della
frequenza cardiaca. Il farmaco può essere impiegato anche
nell’insufficienza cardiaca congestizia associata a tachicardia se la digossina non ha rallentato a sufficienza la frequenza cardiaca. Sono disponibili due preparazioni che facilitano la somministrazione. Il diltiazem CD può essere assunto per via orale alla dose di 10 mg/kg una volta al giorno. Il diltiazem XR è preparato in forma di capsula contenente 4 pellets da 60 mg (240 mg in totale nella capsula).Per
dosare il farmaco nel gatto si preleva un pellet dalla capsula
e se ne somministra mezzo al giorno. È presente anche un
preparato per uso endovenoso destinato alle urgenze rappresentate da tachicardie sopraventricolari che mettono in pericolo la vita del soggetto (0,2-0,4 mg/kg IV seguiti da 0,4
mg/kg/min). Il diltiazem è consigliato in sostituzione del
propranololo soprattutto nei gatti che non rispondono a quest’ultimo farmaco oppure in quelli che soffrono di difficoltà
respiratoria. In caso di ipertrofia assimetrica (IVS>LVFW)
la via di deflusso del ventricolo destro può essere parzialmente ostruita. I beta-bloccanti sono indicati in presenza di
ostruzioni del deflusso. L’atenololo ([G] 12,5 mg una volta
al giorno PO, dose da aumentare del 50% oppure da somministrare due volte al giorno se la frequenza cardiaca non rallenta a sufficienza; trattare su base individuale) è un beta2
bloccante selettivo indicato nei gatti con ostruzione del deflusso e insufficienza respiratoria. Il farmaco è da preferire
al diltiazem se la frequenza cardiaca del soggetto è elevata.
Alcuni studi suggeriscono di provvedere a due somministrazioni giornaliere anziché a una singola.
FARMACI ANTIMICROBICI
Attualmente, l’enrofloxacin è registrato come terapia
giornaliera singola (da 2,5 a 20 mg/kg una volta al giorno o
divisi in due somministrazioni). Si noti che l’esame colturale e l’antibiogramma probabilmente non riflettono i nuovi
valori limite basati su dosaggi più elevati. Il dosaggio più
elevato è indicato nei casi di difficile penetrazione tissutale,
in particolare nelle infezioni sostenute da Pseudomonas aeruginosa e altre infezioni problematiche. L’efficacia dell’enrofloxacin aumenta quando il prodotto è stato metabolizzato
in ciprofloxacin. Anche l’orbafloxacin è registrato per terapia singola giornaliera. Il difloxacin è il fluorochinolone più
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recentemente approvato nel cane e, rispetto agli altri antimicrobici dello stesso gruppo, sembra essere dotato di un volume di distribuzione leggermente più ampio (3,8 l/kg). Tuttavia, confrontando i rapporti fra livelli tissutali e sierici, non
sembra che il farmaco si distribuisca meglio nei tessuti rispetto all’enrofloxacin. Il difloxacin viene eliminato attraverso la bile ed entra in un circolo enteroepatico che ne prolunga l’emivita. Tuttavia, l’azione dei fluorochinoloni dipende dalla concentrazione del farmaco e non dal tempo di
permanenza nell’organismo, per cui il prolungamento dell’emivita non sembra migliorarne l’efficacia antimicrobica.
Si noti che i dati relativi all’efficacia del difloxacin nei confronti di Pseudomonas si basano esclusivamente su 5 casi;
inoltre, le descrizioni tecniche confrontano i farmaci sulla
base dei livelli sierici. Tuttavia, tali confronti non devono essere condotti su dosaggi analoghi, bensì sulla relazione esistente fra dose, livelli sierici del farmaco e valori limite della concentrazione minima inibente (MIC). Ad esempio, benché una dose di 2,5 mg/kg possa dare origine a concentrazioni plasmatiche del farmaco (PDC) più elevate utilizzando
l’orbifloxacin piuttosto che l’enrofloxacin, il primo dei due
agenti richiede comunque livelli più elevati per svolgere
azione antimicrobica. Ad esempio, il valore limite dell’enrofloxacin è pari a 2,0 µg/ml, mentre per l’orbifloxacin è pari
a circa 4 µg/ml, vale a dire circa il doppio del precedente.
Ciò suggerisce che i livelli plasmatici dell’orbifloxacin devono essere doppi rispetto a quelli dell’enrofloxacin per ottenere un’efficacia equivalente. Pertanto, una dose di 2,5
mg/kg di entrambi i farmaci induce la comparsa di un picco
di concentrazione plasmatica (PDC) equivalente alla metà
circa del valore limite, suggerendo che dosaggi identici garantiscono la stessa efficacia indipendentemente dalle differenze di concentrazione plasmatica. Lo spettro d’azione dei
vari fluorochinoloni è sostanzialmente sovrapponibile e anche i quadri di resistenza sono simili. È improbabile che l’efficacia dell’orbifloxacin nei confronti di Pseudomonas aeruginosa e di altri batteri Gram-negativi difficili da combattere sia sovrapponibile a quella dell’enrofloxacin.
Ricerche attualmente in corso nell’uomo (e in minore
misura in ambito veterinario) indicano che di regola si dovrebbe ricorrere a una dose unica giornaliera di aminoglicosidi (gentamicina e amikacina) (o al massimo due dosi) piuttosto che alle tre somministrazioni di amikacina. Ciò deriva
dal fatto che l’efficacia degli aminoglicosidi è più strettamente correlata al rapporto delle concentrazioni plasmatiche
massime rispetto alla concentrazione minima inibente; inoltre l’efficacia dei farmaci è influenzata positivamente dall’abbassamento dei livelli plasmatici che si verifica negli intervalli fra le somministrazioni. Si consiglia di somministrare la stessa dose giornaliera ma ad intervalli inferiori alle 24
ore. Il ceftiofur è una cefalosporina di terza generazione.
Tuttavia, a differenza di molti altri prodotti appartenenti allo stesso gruppo, non è di alcuna efficacia contro numerosi
microrganismi Gram-negativi difficili da contrastare, fra cui
Pseudomonas. Inoltre, rispetto alla maggior parte delle cefalosporine, non garantisce un’azione efficace contro Staphylococcus sp. e, prima di utilizzarla in caso di infezioni gravi,
pericolose per la vita o ad andamento cronico, occorre eseguire gli esami colturali e l’antibiogramma. Infine, il dosaggio approvato di questo farmaco è adatto per le infezioni del
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tratto urinario. Poiché il ceftiofur si concentra nelle urine, i
livelli urinari del farmaco saranno molto superiori ai livelli
tissutali. Pertanto, la dose di 4,4 mg/kg risulterà insufficiente nella maggior parte delle infezioni. L’innocuità del prodotto in dosaggi più elevati non è stata stabilita e alcune segnalazioni di discrasie ematiche, non basate su studi controllati, suggeriscono di usare con cautela dosaggi non indicati dalla casa produttrice. Tuttavia, l’aspetto positivo del
ceftiour è la sua trasformazione in metabolita attivo con prolungamento della durata dei livelli efficaci di farmaco, che
rappresenta un aspetto importante delle beta-lattamine. L’imipenem /cilastin è un antibiotico appartenente al gruppo
delle beta-lattamine (oltre alle penicilline) efficace contro i
microrganismi Gram-positivi e Gram-negativi aerobi. Il farmaco garantisce un’eccellente distribuzione tissutale. La
MICè generalmente inferiore a 0,05 µg/ml. Il farmaco può
essere somministrato per via endovenosa o parenterale (IM)
(da 2,0 a 7,5 mg/kg fino a tre volte al giorno). L’uso del prodotto deve essere probabilmente riservato alle situazioni potenzialmente letali. Tutti questi farmaci vengono distrutti
dalla beta-lattamasi. L’azitromicina e la claritromicina sono antibiotici appartenenti al gruppo dei macrolidi dotati di
attività e spettro simili all’eritromicina. Lo spettro d’azione
di questi agenti comprende microrganismi Gram positivi
quali Streptococcus e Staphylococcus, alcuni gruppi di batteri Gram negativi, fra cui Bordetella e alcuni appartenenti al
genere Chlamydia. I vantaggi di questo farmaco rispetto all’eritromicina comprendono una maggiore durata dell’emivita e volumi di distribuzione più ampi, dovuti principalmente a maggiore accumulo nei tessuti. L’azitromicina è caratterizzata da una biodisponibilità che si avvicina al 100%
in seguito a somministrazione orale nel cane mentre, per la
stessa via, è pari ad appena 50% nel gatto. A distanza di 24
ore dall’assunzione di una dose pari a 5 mg/kg, i livelli plasmatici della molecola d’origine e del relativo metabolita si
avvicinano a 1 µg/ml, mentre i livelli tissutali variano da 1,2
µg/ml (encefalo) a 50 µg/ml circa (bile) I livelli risultano pari a 18 µg/ml nei polmoni ed a 12 µg/ml nell’osso. Il valore
limite della MIC dell’azitromicina è ≥ 2 µg/ml, ossia concentrazioni sostanzialmente più elevate della MIC raggiunta
nella maggior parte dei tessuti nel gatto dopo somministrazione di 5 mg/kg per via orale. Il tempo di azione del farmaco nei tessuti è complesso; tuttavia, nel gatto i livelli tissutali si riducono poco nelle 72 ore che seguono la somministrazione. L’azitromicina è stata utilizzata in gattili alla dose di 5 mg/kg ogni 7 giorni per via orale. La dose nel cane è
compresa fra 10 e 40 mg/kg al giorno per via orale. Le dosi
di claritromicina nella specie canina variano da 2,5 a 10
mg/kg due volte al giorno per os. La sulfadiazina è un sulfamidico efficace nei confronti di microrganismi Gram-positivi, Gram-negativi e lieviti e viene utilizzata nei pazienti
umani nella prevenzione o nel trattamento delle ferite settiche associate a ustioni. Poiché lo spettro d’azione del farmaco comprende Pseudomonas aeruginosa, è possibile impiegarlo quale ultimo tentativo nel trattamento di certe otiti
esterne. La pomata deve essere diluito in acqua per renderlo
di consistenza adatta e instillarlo nelle orecchie già pulite
due volte al giorno per tre settimane.
Il cefpodoxime è una cefalosporina di terza generazione dotata di biodisponibilità orale che rappresenta un pro-
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farmaco. Lo spettro d’azione del prodotto comprende microrganismi Gram-negativi (la maggior parte delle Enterobacteriaceae, ma non Pseudomonas), Gram-positivi, ma
non quelli anaerobi. Come accade con molte cefalosporine,
la sostanza è relativamente resistente alla distruzione delle
beta-lattamasi. Lo spettro d’azione è più ampio rispetto all’amossicillina con acido clavulanico, ma inferiore o uguale all’enrofloxacin. Come la maggior parte delle beta-lattamine, il farmaco viene eliminato per via renale. Gli effetti
collaterali che colpiscono fino al 15% dei pazienti (umani)
sono di tipo gastrointestinale. Il prodotto sembra essere innocuo nel cane (da 5 a 10 mg/kg due volte al giorno). Il cefixime è una cefalosporina di terza generazione dotata di
biodisponibilità orale correlata al ceftizoxime. Anche questa è resistente alle beta-lattamasi, lo spettro d’azione comprende i microrganismi Gram-negativi, eccetto Pseudomo-
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nas e, a differenza di molte cefalosporine, è scarsamente efficace contro Staphylococcus. L’assorbimento del prodotto
viene alterato dalla presenza di cibo; inoltre si lega in percentuale elevata alle proteine e per questo è dotato di emivita piuttosto lunga (questa è una delle caratteristiche preferite delle beta-lattamine). Il farmaco viene escreto per via
renale. Nell’uomo, questo antibiotico è indicato nelle infezioni del tratto urinario e in quelle del tratto respiratorio.
Nel cane sono state consigliate dosi pari a 5 mg/kg una o
due volte al giorno. Il dapsone è un antibatterico utilizzato
in medicina umana nel trattamento di infezioni atipiche sostenute da micobatteri. Generalmente la lebbra è associata a
processi infiammatori granulomatosi e il dapsone sembra
svolgere effetti modulatori sulla componente infiammatoria. Inoltre, nell’uomo, il farmaco viene impiegato in dosi
comprese fra 0,7 e 1,1 mg/kg due volte al giorno nel trattamento dei morsi di ragno (Brown recluse).
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Farmaci impiegabili nel controllo del dolore.
Analgesici ad azione locale e centrale
Dawn Boothe
DVM, MS, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ACVCP
Texas A&M University Dept of Physiology and Pharmacology College Station, Texas (USA)
INTRODUZIONE
Ritenendo importante l’uso di farmaci per controllare il
dolore negli animali, è possibile disporre di diverse categorie di analgesici, ognuna caratterizzata da propri meccanismi
d’azione e durata. Tali categorie comprendono gli analgesici derivati dell’oppio, sedativi/ tranquillanti e antiinfiammatori non steroidei. Pochi di questi farmaci sono approvati per
uso veterinario. Fra i prodotti più efficaci e potenti utilizzati
per controllare il dolore negli animali, ed in particolare il dolore acuto, sono compresi gli analgesici oppiacei ad azione
centrale e periferica. Gli oppiacei sono più utili nel controllo del dolore acuto, mentre gli antiinfiammatori non steroidei trovano maggiore impiego nel controllo di quello cronico.
ANALGESICI DERIVATI DELL’OPPIO
Meccanismo d’azione
Gli oppiacei agiscono a livello centrale innalzando la soglia del dolore e modificando la risposta fisiologica allo stimolo algico; inoltre, svolgono anche un’azione periferica.
L’effetto farmacologico di questi prodotti deriva dall’interazione con uno o più dei quattro (tre principali) recettori degli oppiacei (mi, sigma, kappa e delta). Gli effetti variano a
seconda del derivato oppiaceo impiegato, in base alla risposta fisiologica associata ad ogni recettore, alla sede di quest’ultimo nell’organismo e tipo di interazione fra oppiaceo e
recettore. I recettori mi inducono analgesia al di sopra del
midollo spinale (µ 1) o al suo interno (µ 2). L’interazione con
i recettori mi provoca anche la comparsa di euforia, depressione respiratoria e dipendenza fisica. I recettori kappa sono responsabili dell’analgesia di origine spinale oltre che di
miosi e sedazione. Le interazioni positive fra i recettori sigma e i farmaci non inducono alcun effetto analgesico. Al
contrario, sono mediate da questi recettori molte reazioni avverse agli oppiacei, fra cui disforia, allucinazioni, stimolazione del respiro e alcune risposte vasomotorie. I recettori
delta sono localizzati a livello di SNC oltre che di muscolatura liscia e linfociti. L’interazione con questi recettori sembra sovrintendere, fra gli altri effetti, al comportamento
emotivo ed all’immunomodulazione. La probabilità che
ognuno di questi effetti si verifichi in seguito all’interazione
fra farmaco e recettore dipende dal tipo dell’interazione stes-
sa. Gli oppiacei sono in grado di interagire con ognuno di
questi recettori come agonisti (legame e stimolazione), antagonisti (blocco e inibizione dell’effetto) o come entrambi.
Gli agonisti misti dimostrano una specificità di legame variabile con ogni tipo di recettore, svolgendo attività agonistica in alcune sedi e antagonistica in altre. Gli agonisti parziali si comportano in modo analogo ai precedenti, ma l’azione positiva con alcuni recettori non è del tutto completa.
Pertanto, molti fra i diversi effetti degli oppiacei (in particolare quelli sintetici) derivano dallo svolgersi di azioni agonistiche con un recettore e antagonistiche con altri. È probabile che le differenze di specie riguardo a numero di recettori,
sede e specificità o sensibilità ai vari farmaci siano all’origine delle diverse risposte determinate dagli oppiacei. Le case
farmaceutiche hanno tentato di “migliorare” gli effetti degli
oppioidi, ovvero di intensificarne l’azione farmacologica
voluta e ridurne al minimo gli effetti collaterali, modificando la composizione chimica della molecola naturale per ottenere prodotti sintetici.
Gli effetti farmacologici principali di tutti gli oppiacei
sono rappresentati da analgesia, euforia e sedazione (senza
perdita di coscienza) e l’entità di ognuno di questi varia a seconda della specie. Il controllo del dolore si ottiene senza attenuazione della restante sensibilità. L’inoculazione di morfina sia in sede spinale che sovraspinale comporta effetti
analgesici sinergici e permette di utilizzare un dosaggio
complessivo del farmaco dieci volte inferiore a quello richiesto in entrambe le localizzazioni.
Farmacocinetica
La maggior parte degli oppiacei viene assorbita adeguatamente in seguito a inoculazione sottocutanea o intramuscolare. Invece, il metabolismo di primo passaggio ne impedisce quasi sempre la somministrazione orale. In medicina
veterinaria, l’uso orale di derivati dell’oppio è limitato a codeina (biodisponibilità pari al 60%), hycodan e (in dosi elevate) butorfanolo; tuttavia, anche la morfina può essere utilizzata per via orale. Quest’ultima è disponibile anche in formulazioni a lento rilascio. I preparati transdermici sono disponibili per alcuni prodotti estremamente liposolubili (fentanyl). La somministrazione per via epidurale o intratecale
comporta la penetrazione del prodotto nel midollo spinale
con effetti sistemici limitati. I prodotti dotati di elevata liposolubilità (ad es. fentanyl) tendono a diffondere più rapida-
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mente attraverso la dura madre verso il tessuto midollare e
quindi garantiscono una risposta rapida, anche se locale. I
farmaci con minore grado di liposolubilità, quali la morfina,
non si distribuiscono rapidamente in sede midollare, tendono piuttosto a diffondersi lungo il midollo fornendo in tale
modo una più vasta area di analgesia.
La durata dell’effetto analgesico indotto dagli oppiacei
dipende dalla velocità del movimento di penetrazione e fuoriuscita del farmaco a livello encefalico e dalla clearance
epatica della sostanza. La distribuzione dei derivati dell’oppio nel SNC è variabile; la maggior parte dei prodotti è dotata di liposolubilità sufficiente a permettere che ciò avvenga, benché la velocità di penetrazione e fuoriuscita dal sistema nervoso centrale sia variabile. Gli oppiacei anfoteri, quali la morfina, si muovono più lentamente e quindi richiedono tempi d’azione più lunghi; tuttavia, garantiscono una
maggiore durata dell’effetto. La maggior parte di questi farmaci subisce una trasformazione biologica a livello epatico
e la coniugazione glucuronica rappresenta una via metabolica comune. Nel gatto, il deficit frequente di alcune fra queste vie contribuisce ad accrescere il rischio di sovradosaggio. La presenza di epatopatie, in particolare quelle associate a shunt portali o sistemici predispone alle reazioni avverse (tossicità). In generale, l’animale normale elimina molto
rapidamente gli oppiacei, che presentano emivita media
compresa fra 30 minuti e 2 ore; inoltre, in molti soggetti un
gran numero di questi farmaci ha una durata d’azione inferiore a 2 ore. Gli effetti farmacologici di determinati prodotti (morfina, ossimorfone, buprenorfina) persistono fino a 6
ore in base a entità del dolore, specie, durata del legame al
recettore e via di somministrazione. La formazione di metaboliti attivi (ad es. morfina) influenza a sua volta la durata
dell’effetto (lo prolunga).
La comparsa di risposte anomale agli oppiacei è prevedibile in base alla specie e in soggetti molto giovani o molto anziani, in quelli affetti da epatopatie, patologie cardiovascolari o respiratorie e in caso di ipotensione, trauma cranico e ipertiroidismo (gatto). Nei pazienti umani, la durata
dell’analgesia, ma non il grado, aumenta con l’età, probabilmente in seguito a variazioni nel metabolismo epatico e
nel flusso ematico locale. In alcuni casi, i dosaggi vengono
diminuiti fino al 75%, soprattutto negli individui anziani o
in quelli con epatopatie. La “morfinomania”, come tipicamente descritta nel gatto, può essere semplicemente indice
di sovradosaggio. Gli oppiacei tendono a indurre il rilascio
(piuttosto che l’inibizione) di alcuni neurotrasmettitori (ad
es. dopamina e acetilcolina) e questo effetto si può verificare nel gatto in seguito ad assunzione di dosaggi elevati del
farmaco. Nella specie felina, l’associazione degli oppiacei
con derivati fenotiazinici (che bloccano numerose azioni
dei neurotrasmettitori), sembra ridurre l’incidenza degli effetti collaterali.
Effetti collaterali
I principali svantaggi degli oppiacei riguardano lo stato
depressivo generale del SNC, fra cui la depressione respiratoria correlata al dosaggio e, in minor grado, la depressione
cardiaca. I derivati sintetici dell’oppio sono stati prodotti al-
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lo scopo di indurre analgesia non accompagnata da effetti
collaterali indesiderati (fra cui sedazione e depressione respiratoria). Nei pazienti umani, la morte conseguente ad assunzione di oppiacei in genere è dovuta a depressione del respiro. Il meccanismo risiede nella diminuita capacità di risposta dei centri respiratori del tronco cerebrale al biossido
di carbonio, che rappresenta lo stimolo principale alla respirazione. Anche i centri che regolano il ritmo respiratorio sono depressi. La depressione, che si manifesta come rallentamento degli atti respiratori, si osserva con dosaggi più bassi
di quelli richiesti per la sedazione e si accentua con l’aumentare delle dosi. Tuttavia, la depressione del respiro raramente costituisce un problema clinico, eccetto nei casi di sovradosaggio (overdose) o in presenza di disfunzioni polmonari anche con dosaggi normali. Gli oppiacei devono essere
utilizzati con cautela nei soggetti con funzione respiratoria
compromessa.
Alcuni prodotti inducono depressione cardiaca (in particolare bradicardia) la cui incidenza può essere limitata provvedendo alla somministrazione preventiva di atropina. Il rischio di ipotensione aumenta utilizzando farmaci che inducono anche il rilascio di istamina, quali la morfina (ma non
l’ossimorfone). Gli stati depressivi del SNC impediscono
l’uso degli oppiacei in presenza di sindromi quali shock,
trauma cranico grave e patologie associate a disturbi respiratori. L’effetto depressivo degli oppiacei può essere accentuato da altri farmaci depressori del SNC, molti dei quali
prolungano gli effetti dei derivati dell’oppio, ad esempio le
fenotiazine e gli antidepressivi triciclici. Mentre alcuni fenotiazinici consentono di diminuire la quantità di oppiaceo
richiesta a fini analgesici, altri ne rendono necessarie dosi
più elevate.
Gli oppiacei innalzano la pressione intracranica inducendo un aumento dei livelli di CO2 e vasodilatazione cerebrale.
Anche la pressione del liquido cerebrospinale si innalza.
Questi effetti risultano accentuati se il soggetto ha subito un
trauma cranico. In alcune specie, la somministrazione di oppiacei in dosaggi elevati induce la comparsa di convulsioni.
Il meccanismo probabilmente implica l’inibizione dell’acido
gamma-aminobutirrico ed è più probabile con i farmaci morfinosimili. Gli effetti convulsivi di alcuni oppiacei possono
essere risolti ricorrendo al naloxone; ciò suggerisce che nei
soggetti con crisi convulsive siano preferibili i farmaci dotati di azione antagonista a livello di alcuni recettori. L’effetto
derivante dall’uso di oppiacei negli individui epilettici non è
ancora stato chiarito. La comparsa di sedazione consegue comunemente all’uso di oppiacei, dipende dal farmaco usato e
dalla specie (nel cane è dovuta a stimolazione dei recettori
mi) e può costituire un vantaggio o uno svantaggio a seconda della situazione clinica. La morfina e i suoi derivati deprimono il centro della tosse e, poiché non esiste alcuna relazione fra questo effetto e la depressione del respiro, gli oppiacei antitussigeni non comportano necessariamente depressione respiratoria. In contrasto all’azione depressiva, gli oppiacei stimolano direttamente la zona chemiorecettoriale scatenante (CRTZ) stimolando nausea e vomito. Gli effetti emetici, che caratterizzano la somministrazione degli oppiacei
quali farmaci singoli, non scompaiono tipicamente nel periodo postoperatorio o in presenza di stati patologici e dolore.
Si verificano casi di tolleranza, dipendenza fisica e asti-
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nenza che tuttavia non devono essere considerati quali reazioni avverse agli oppiacei. La tolleranza si svilupperà soprattutto nei confronti di analgesia, euforia, sedazione, depressione respiratoria, nausea o vomito e soppressione della
tosse. La dipendenza fisica si verifica quando gli oppiacei
esogeni sostituiscono quelli endogeni. L’astinenza generalmente si manifesta con segni contrari agli effetti indotti dal
farmaco e rispecchia l’ipereccitazione del SNC nella fase di
riadattamento all’assenza della sostanza. La comparsa di tolleranza e dipendenza fisica ha indotto a classificare numerosi farmaci appartenenti alla classe degli oppiacei analgesici
quali potenziali stupefacenti. La classe effettiva destinata ad
alcune sostanze a rischio minore varia a seconda degli stati.
Gli agonisti puri di solito vengono classificati nelle classi II
o III, mentre gli agonisti misti o parziali tendono ad occupare le classi IV o V, a seconda del potenziale di abuso. Recentemente, il butorfanolo appartenente alla classe V è stato reinserito nella classe IV. Non è stato chiarito per quanto tempo
si debbano somministrare questi farmaci prima che gli stati di
tolleranza, la dipendenza fisica e l’astinenza assumano importanza clinica. Nel cane sono stati descritti casi di dipendenza alla morfina. Tuttavia, in questa specie, gli agonisti/
antagonisti misti o gli agonisti parziali vengono associati al
minore rischio di dipendenza e, fra gli oppiacei studiati nell’uomo, la buprenorfina sembra comportare le minore probabilità di dipendenza. Nei pazienti umani con dipendenza dagli oppiacei, la somministrazione del farmaco può essere sospesa senza produrre manifestazioni tipiche di astinenza riducendo i dosaggi dal 25% al 50% ogni due giorni.
Oltre agli effetti svolti a livello di zona chemiorecettoriale scatenante, gli oppiacei esercitano azioni dirette a livello
del tratto gastrointestinale. A livello del piccolo intestino, in
particolare nella porzione superiore, il tono a riposo (segmentale) viene aumentato, mentre l’attività propulsiva viene
notevolmente attenuata. La stimolazione iniziale della motilità gastrointestinale può favorire la defecazione, mentre la
successiva depressione della motilità gastrica provoca costipazione in seguito all’uso protratto del farmaco. Gli oppiacei
attenuano anche le secrezioni del piccolo intestino, ma aumentano il riassorbimento di acqua. Dato l’allungamento del
tempo di transito che consente un più completo assorbimento del contenuto luminale, i derivati dell’oppio possono essere controindicati nei soggetti con patologie gastrointestinali
di tipo ostruttivo o in quelle associate alla produzione di batteri o tossine. Gli oppiacei limitano anche la secrezione biliare e quella pancreatica. Invece, gli oppiacei morfinosimili (ad
es., non il butorfanolo) favoriscono la contrazione dello sfintere di Oddi e innalzano la pressione nel dotto biliare.
Le variazioni della temperatura corporea indicano alterazioni nella risposta di termoregolazione. Lo sviluppo di ipotermia è più frequente nel cane, mentre nel gatto è più comune l’ipertermia.
Agonisti puri ad azione potente
La morfina è considerata il prototipo dei narcotici. Il farmaco, che appartiene alla classe II, interagisce principalmente con i recettori mi e in minor grado con quelli delta e
kappa. Nel cane, induce sedazione profonda e analgesia per
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periodi di 2 - 6 ore e tali effetti vengono bloccati e invertiti
dai farmaci antagonisti dei narcotici. La morfina è in grado
di provocare stati di depressione cardiaca e l’ipotensione che
si sviluppa può conseguire al rilascio di istamina o a depressione del SNC (vasomotoria). Le applicazioni terapeutiche
di questo narcotico comprendono la premedicazione nell’anestesia chirurgica (allo scopo di ridurre il dosaggio di altri
depressivi del SNC dotati di azione potenzialmente non reversibile) e l’analgesia. Nell’uomo, la morfina può essere
somministrata per via orale, benché il metabolismo di primo
passaggio renda necessaria l’assunzione di dosi pari a 2-6
volte quelle parenterali (Tabella 1). Il farmaco è stato utilizzato efficacemente nel cane e nel gatto nella premedicazione o quale analgesico perioperatorio. Dopo la somministrazione occorre prevedere la comparsa di emesi. La morfina
può essere somministrata con sicurezza per via epidurale (le
preparazioni prodotte specificamente per tale uso sono preferibili) e sembra agire efficacemente quando venga inoculata nello spazio epidurale oppure localmente (in sede intraarticolare) per il controllo di alcune forme di dolore di natura ortopedica.
Il fentanyl è un oppiaceo sintetico (Classe II) dotato di
potenza 100 volte superiore alla morfina e 500 volte superiore alla meperidina. Il farmaco interagisce con i recettori
mi (più della morfina) e in minor grado con quelli delta e
kappa. Viene comunemente riconosciuto quale agente idoneo per indurre neuroleptanalgesia (quando sia associato a
droperidrolo). Tuttavia, in seguito a somministrazione parenterale, il farmaco provoca sedazione profonda e depressione respiratoria; inoltre si possono verificare fenomeni di
sensibilizzazione uditiva e alterazioni della termoregolazione (che inducono il soggetto ad ansimare). È consigliabile
provvedere a un pretrattamento con atropina. Poiché il farmaco subisce una ridistribuzione nell’organismo (analogamente ai tiobarbiturici), le somministrazioni ripetute possono favorirne l’accumulo nel tessuto adiposo e prolungarne la
durata dell’effetto. Nonostante il fenomeno della ridistribuzione, la brevità dell’emivita del fentanyl ne ha precedentemente limitato l’uso per infusione endovenosa. Attualmente
il farmaco è disponibile sotto forma di sistema a rilascio
transdermico, rivolto al controllo del dolore. Questo metodo
di somministrazione si è dimostrato sicuro ed efficace per
questo prodotto sia nel cane che nel gatto.
Il metodo transdermico garantisce il rilascio lento e continuo del farmaco, mantenendone pressoché costanti i livelli sierici (nei pazienti umani). Nell’uomo, l’uso del fentanyl
in forma di cerotto a rilascio transdermico è stato approvato
per il controllo del dolore di origine neoplastica. Il sistema è
costituito da un cerotto comprendente uno strato adesivo che
aderisce alla cute. Una membrana “di rilascio” controlla la
velocità con cui il farmaco viene ceduto dal “serbatoio”.
Poiché l’entità del rilascio è proporzionale alle dimensioni
(area) del cerotto, la dose rappresenta la quantità di farmaco
(in µg) rilasciata nell’unità di tempo (h). Sono disponibili
quattro formati (25, 50, 75 e 100 µg/h). Date le differenze
esistenti fra cane (o gatto) e uomo nel rapporto cute - cerotto e nelle caratteristiche cutanee, la velocità di rilascio del
farmaco (e l’assorbimento cutaneo) sarà diversa. L’uso del
cerotto con fentanyl è stato studiato sia nel cane che nel gatto. Applicando il formato 50 µg/h, il rilascio del farmaco era
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38° Congresso Nazionale SCIVAC
Tabella 1
Dosi dei farmaci utilizzati nel controllo del dolore
Analgesici oppiacei
Buprenorfina
Butorfanolo
Codeina con acetaminofene
Fentanyl
cerotto transdermico
Meperidina
Morfina
Nalbufina
Naloxone
Nalorfina
Ossimorfone
Pentazocina
0,005-0,03 mg/kg, IV, IM, SC (C)
0,005-0,01 mg/kg IM, IV (G)
0,2 - 1,0 mg/kg IM, SC, IV ogni 3-6 ore (C)
0,2 -1 mg/kg PO ogni 1-6 ore (C)
0,1 - 1,0 mg/kg ogni 12 ore (G)
0,4 mg/kg (quale agente antagonista)
1,0 - 4,0 mg/kg ogni 6 ore (C)
1-2 mg/kg ogni 6 ore (C)
0,04 - 0,08 mg/kg IM, SC, IV ogni 2 ore (C)
0,005- 0,04 mg/kg IV ogni 30 - 60 minuti (C)
0,005 -0,04 mg/kg per via epidurale
< 10 kg, 25 µg/ora
applicare 12-24 ore prima del
necessario per un’analgesia di 72-120 ore
da 10 a 20 kg, 50 µg/ora
da 20 a 30 kg, 75 µg/ora
> 30 kg, 100 µg/ora
2-10 mg/kg IM ogni 2 ore (C); 2-4 mg/kg IM ogni 2 ore (G)
0,1 - 0,5 mg/kg IM, SC ogni 4 ore (C)
0,3 - 3,0 mg/kg PO ogni 4-8 ore (C) rilascio prolungato
0,1 mg/kg IM, SC, IV ogni 4 ore (G)
0,1-1,0 mg/kg PO ogni 4 -8 ore (G)
0,1-0,5 mg/kg/ora per infusione endovenosa continua
0,1 -1,0 mg/kg IM, IV ogni 1 - 6 ore (C)
0,04 mg/kg IM, SC, IV ogni 2 ore o a seconda delle circostanze [C & G];
diluire la dose con soluzione fisiologica fino a 10 ml
11-22 mg/kg ogni 2-3 ore IM, SC, IV (C); diluire la dose con soluzione fisiologica
fino a 10 ml
0,02-0,2 mg/kg IM, SC, IV ogni 2-6 ore, <60 mg complessivi (C)
0,02 - 0,1 mg/kg IM, SC, IV ogni 2-6 ore (G)
2 - 3 mg/kg IM ogni 2 ore (C) e ogni 4-5- ore (G)
Analgesici coadiuvanti
Acepromazina
Amitriptilina***
Diazepam
Imipramina***
Ketamina
Metocarbamolo
Midazolam
Xilazina
0,02 - 0,10 mg/kg EV,SC
2,2 - 4,4 mg/kg PO ogni 24 ore (C), 5-10 mg/gatto PO
0,1 - 0,2 mg/kg IV
2,2 - 4,4 mg/kg PO ogni 12-24 ore (C)
1-2 ml/kg [IV per ustioni], 0,5 - 1,0 mg/kg IM (G)
0,55 - 2,2 ml/kg PO (C e G)
0,1 - 0,2 mg/kg IV, IM
0,05 - 0,2 mg/kg IV, IM
Analgesici epidurali o regionali
Bupivacaina
Buprenorfina
Morfina
Lidocaina
Morfina
Ossimorfone
0,2 ml/kg di soluzione allo 0,5% (epidurale)
0,5 ml per desensibilizzare i nervi intercostali ogni 6-8 ore
1,5 mg/kg per via intrapleurica ogni 3-12 ore [dose massima di 4-5 mg/kg (C)
e 2-3 mg/kg (G)]
0,005 mg/kg diluiti in soluzione fisiologica 1 ml/5 kg
0,1 - 0,3 (cane) per via epidurale ogni 4 - 8 ore
0,2 ml/kg
0,01 mg/kg
0,1 mg/kg
* Le dosi sono quelle normalmente consigliate negli animali adulti giovani. I dosaggi non sono stati modificati per compensare l’età.
** Sconsigliato.
*** Dosaggio per problemi comportamentali.
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Antiinfiammatori non steroidei e Agenti che modificano l’andamento del processo patologico
Acetaminofene
Adequan
Acido acetilsalicilico
10-15 mg/kg ogni 6-8 ore PO (C)
20-30 mg/kg a rilascio prolungato ogni 8-12 ore PO (C)
5 mg/kg a giorni alterni per 3 volte alla settimana per 5-6 settimane (C)
2 mg/kg IM alla settimana (G)
10 mg/kg ogni 8-12 ore PO (C)
10 mg/kg ogni 24 ore (endoarterite) (C)
10 mg/kg ogni 12 ore (antipiresi) (C)
25-35 mg/kg ogni 8 ore (C)
25 mg/kg ogni 12 ore PO (Malattie autoimmuni) (C)
25-35 mg/kg ogni 24 ore PO (prima di interventi
chirurgici oculistici) (C)
40 mg/kg ogni 18 ore (azione antiinfiammatoria) (C)
3 mg/kg ogni 6 giorni (azione antitrombotica) (C)
10 mg/kg ogni 48 ore PO (G)
10 mg/kg ogni 24 ore (azione antitrombotica) (G)
15 mg/kg ogni 24 ore (azione antiinfiammatoria) (G)
10 mg/kg ogni 12 ore (antipiresi e analgesia) (G)
25-42 mg/kg ogni 24 ore (azione antiinfiammatoria) (G)
25-35 mg/kg ogni 8 ore (azione antiinfiammatoria) (G)
75 mg/kg ogni 48 ore (azione antitrombotica) (G)
Carprofen
2,2 mg/kg (C) PO ogni 12 ore
Dipyrone
25 mg/kg IM, SC ogni 8-12 ore (C)
10-25 mg/kg IM, SC ogni 24 ore (G)
Etodolac
10-15 mg/kg PO ogni 24 ore
Flunixin meglumine
0,5-1 mg/kg ogni 24 ore IV, IM per 1-3 giorni (analgesia) (C)
0,25 mg/kg IV ogni 24 ore per 5 giorni (uveite) (C)
Ibuprofen
10 mg/kg PO ogni 24-48 ore (se ne sconsiglia l’uso) (C)
Ketoprofene
0,5-1 mg/kg PO due volte al giorno (C)
Acido meclofenamico
1,1-2,2 mg/kg PO ogni 24 ore (C)
Meloxicam
1-2 mg/kg PO ogni 12 ore (controllo) (C)
Naprossene
1-2 mg/kg PO ogni 24-72 ore (con cautela) (C)
Fenilbutazone
10 mg/kg ogni 8-12 ore PO (C)
10-15 mg/kg ogni 12 ore IV (non superare 4 somministrazioni) (C)
22 mg/kg (non superare 800 mg) ogni 8 ore PO (C)
Piroxicam
0,3 mg/kg ogni 48 ore (C)
Agenti modificatori
Cosequin
Somministrazione orale del prodotto composto contenete:
Condroitin solfato / glucosaminoglicani misti
Nei cani di taglia piccola (5 Kg)
e grande (> 30 Kg)
Glucosamina
Manganese /ascorbato
200-1200 mg/die (da 5 a >30 kg)
200-1500 mg/giorno (da 5 a >30Kg)
5-30 mg/30-150 mg (5>30Kg)
di circa 37 µg/h e nel cane il sistema garantiva efficacemente un rilascio lento e costante della sostanza. L’effetto analgesico si protrae per 24 - 72 ore, quindi il cerotto può rappresentare una valida alternativa nel trattamento del dolore
nel cane, anche se con alcuni inconvenienti. Il tempo neces-
sario per raggiungere un livello di equilibrio (stato stazionario), o livello terapeutico del farmaco, può essere di 24 ore.
Pertanto, il cerotto andrebbe applicato da 12 a 24 ore prima
della prevista richiesta di analgesia. Analogamente, dopo la
rimozione del cerotto, deve trascorrere un periodo altrettan-
84
to lungo perché il farmaco scompaia dall’organismo. La variabilità fra animali può essere notevole, rendendo l’uso del
dispositivo nei singoli soggetti meno prevedibile. L’inoculazione endovenosa di fentanyl (nel cane si consigliano dosi di
30 µg/kg) o di altri oppiacei ad azione rapida, fra cui morfina e ossimorfone IV, può essere praticata al momento dell’applicazione del cerotto come “dose di carico” nei soggetti che richiedano un’analgesia immediata. Quando il cerotto
inizia ad agire, è possibile somministrare altri oppiacei. L’uso dei cerotti con fentanyl è stato studiato anche nel gatto. In
questa specie, l’applicazione del dispositivo a rilascio di 25
µg/h si è dimostrata efficace quale analgesico. Il controllo
del dolore attraverso l’uso di cerotti a rilascio transdermico
è in corso di studio nei piccoli animali. Fino a questo momento, il sistema si è dimostrato utile nel dolore postoperatorio e in quello di origine neoplastica o di altra natura che
richieda trattamenti a lungo termine.
L’ossimorfone è un prodotto semisintetico (Classe II)
dotato di potenza 10 volte superiore alla morfina, con la quale condivide il tipo di interazione con i recettori. Tuttavia, a
differenza della morfina, l’ossimorfone inoculato per via endovenosa nel cane non sembra essere associato ad alcun rilascio di istamina. Il farmaco viene comunemente unito ai
componenti dell’analgesia neurolettica. L’attività dell’ossimorfone viene antagonizzata efficacemente dal naloxone,
benché la durata d’azione del primo, pari a 4-6 ore, possa superare quella del secondo. Analogamente al fentanyl, il farmaco induce notevole sensibilizzazione acustica, alterazioni
nella termoregolazione e bradicardia (pretrattare con atropina). L’ossimorfone viene utilizzato principalmente per indurre neuroleptanalgesia in associazione con acepromazina
oppure per ridurre le dosi di barbiturico necessarie in corso
di anestesia. Tuttavia, viene anche impiegato comunemente
nel controllo del dolore postoperatorio nei piccoli animali. Il
farmaco è stato studiato e approvato per l’uso nel cane e nel
gatto. Resta un ottimo analgesico sia nel giovane che nell’anziano e nei soggetti debilitati.
Agonisti puri ad azione lieve e moderata
Codeina: Nell’uomo, la biodisponibilità della codeina
somministrata per via orale è pari al 60%. Benché vengano
raggiunti livelli sierici efficaci in seguito ad assunzione orale, il potere analgesico del farmaco è inferiore a quello della
morfina. La codeina è dotata di affinità molto scarsa per i recettori degli oppiacei e gli effetti analgesici che esercita dipendono dalla sua trasformazione metabolica (demetilazione) in morfina. Tuttavia, la percentuale di morfina neoformata è molto bassa (10%) e gli effetti antitussigeni che si ottengono probabilmente derivano da un’interazione diretta
con i recettori codeinici. Nel cane, sembra che la conversione in morfina sia persino più scarsa e gli effetti antitussigeni richiedono livelli plasmatici di codeina inferiori a quelli
previsti per l’analgesia. Attualmente, l’impiego principale
del farmaco nei piccoli animali è quello di calmante della
tosse (2,2 mg/kg [cane]) oppure di antidiarroico. L’utilizzo
di questo farmaco quale analgesico in pazienti non ricoverati, soprattutto se associato ad analgesici non narcotici (antiinfiammatori non steroidei o acetaminofene) è in aumento.
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La codeina è classificata fra i farmaci di Classe II.
Agonisti/antagonisti misti
Il butorfanolo, recentemente inserito nella classe IV, è
kappa agonista e mi antagonista. Il potere di questo farmaco
quale agonista è 3-5 volte superiore alla morfina, mentre
quale antagonista è 50 volte inferiore al naloxone. Il butorfanolo è stato utilizzato come preanestetico e come analgesico perioperatorio sia nel cane che nel gatto. È uno degli oppiacei maggiormente impiegati per il controllo del dolore
postoperatorio nei piccoli animali insieme a buprenorfina e
ossimorfone; inoltre, trova applicazione anche come antitussigeno. Benché questa sostanza provochi depressione respiratoria, sembra venga raggiunto un tetto oltre il quale ulteriori aumenti di dosaggio non peggiorano l’effetto depressivo (un farmaco mi antagonista). Il butorfanolo induce uno
spasmo biliare di minore entità rispetto alla morfina e questo ne giustifica l’uso postoperatorio; inoltre, nei piccoli animali lo si adopera anche quale antitussigeno. Nel cane, il
massimo effetto analgesico si verifica a 30-60 minuti dalla
somministrazione e l’emivita del farmaco è pari a 1,65 ore.
Gli effetti analgesici possono durare fino a 4-6 ore in alcuni
animali. Tuttavia, nel cane, la durata dell’analgesia può essere di appena 30-60 minuti in seguito a somministrazione
per via endovenosa o sottocutanea. Nel gatto, il butorfanolo
non comporta inconvenienti se somministrato con cautela in
dosaggi simili a quelli adottati nel cane. In dosi elevate, garantisce una certa attenuazione del dolore somatico. Il farmaco svolge azione analgesica efficace nel dolore lieve o
moderato ed è indicato in certe situazioni per risolvere parzialmente la depressione respiratoria indotta da oppiacei
agonisti puri quando si intenda mantenere l’analgesia. Per
controllare il dolore postoperatorio, il butorfanolo deve essere somministrato 10 minuti prima di del termine dell’intervento. Ai pazienti dimessi dall’ospedale dell’autore, è stata prescritta la somministrazione per uno o due giorni di una
preparazione orale (compresse o sciroppo); si utilizza una
formulazione in cui il farmaco è miscelato ad uno sciroppo
pectinico (1 cc 1% o 10 mg/ml in 30 cc di sciroppo pectinico alla dose di 0,22 ml/kg); dato il minore grado di biodisponibilità in seguito ad assunzione orale (0,5-1,0 mg/kg
ogni 12 ore), le dosi di farmaco somministrate per questa via
devono essere più elevate di quelle inoculate per via parenterale. Nel controllo del dolore, il butorfanolo garantisce
azione sinergica quando lo si associ ad acetaminofene. L’inoculazione del prodotto in sede epidurale, benché innocua,
non garantisce una durata d’azione sufficiente a renderla clinicamente utile.
Il butorfanolo (0,4 mg/kg) è impiegabile anche per contrastare gli effetti sedativi dell’ossimorfone (e forse di altri
oppiacei agonisti puri); tuttavia, determina anche l’attenuazione di una parte degli effetti analgesici dell’oppiaceo.
La buprenorfina è un derivato della tebaina appartenente alla classe V, dotato di forte potere analgesico, di intensità
25 o più volte superiore a quella della morfina. Si tratta di un
agente kappa antagonista e di un mi antagonista/agonista
parziale. Questo farmaco è uno dei due o tre oppiacei maggiormente utilizzati per controllare il dolore nei piccoli animali ed è stato consigliato quale analgesico generale di mag-
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giore utilità per alleviare il dolore negli animali da laboratorio (fra cui il cane). Benché la comparsa dell’azione richieda tempi più lunghi della morfina, gli effetti svolti si protraggono maggiormente (nell’uomo). Nel cane, l’emivita
della buprenorfina sembra essere di 42 ore. Dato l’elevato
grado di lipofilia del farmaco, il volume di distribuzione della stessa è molto ampio (33 l/kg) e il prodotto sembra sequestrato nei tessuti. L’emivita più lunga può contribuire alla maggiore durata dell’azione rispetto al butorfanolo. Analogamente alla morfina, la buprenorfina induce uno stato di
depressione respiratoria dipendente dalla dose, la cui comparsa può essere ritardata; inoltre, come descritto per il butorfanolo, viene raggiunto un tetto limite. Benché la depressione respiratoria non abbia costituito un inconveniente clinico nei pazienti umani trattati con questo farmaco, occorre
rammentare che tali effetti non vengono completamente
contrastati utilizzando antagonisti quali il naloxone. Gli effetti cardiovascolari sono limitati. Un ulteriore vantaggio
della buprenorfina è la capacità di contrastare la sedazione
indotta dagli oppiacei mantenendone gli effetti analgesici. Il
farmaco è stato consigliato quale antagonista di elezione (in
sostituzione al naloxone) nei pazienti umani trattati con neuroleptoanalgesici.
possono durare più a lungo di quelli del naloxone. Il farmaco, se in forma di bolo endovenoso, deve essere inoculato
lentamente per evitare possibili stimolazioni cardiovascolari
che si manifestano come aumento dell’attività nervosa simpatica. L’iperattività simpatica probabilmente riflette l’improvvisa scomparsa dell’analgesia e quindi la percezione del
dolore. Nei pazienti umani, l’aumento dell’attività simpatica
viene manifestato con la comparsa di tachicardia, ipertensione, edema polmonare e aritmie cardiache (fra cui fibrillazione ventricolare).
Il naloxone antagonizza gli effetti dei depressivi non oppiacei e modifica l’azione di dopamina e GABA a livello del
SNC. Il farmaco è stato studiato anche in relazione alla capacità di modificare la risposta fisiologica dannosa in caso di
shock sia circolatorio che settico; tuttavia, questo impiego
terapeutico, che un tempo si riteneva vantaggioso, non sembra diminuire il tasso di mortalità, mentre comporta possibili conseguenze dannose.
Il naloxone non è stato approvato quale agente antagonista nel gatto, il quale non reagisce in modo prevedibile all’attività del farmaco. L’antagonismo degli oppiacei somministrati in alcuni gattini non ha migliorato la percentuale di
ripresa e sopravvivenza.
Antagonisti puri
ALTRI FARMACI AD AZIONE CENTRALE
Tranquillanti, sedativi e antipsicotici
e altre sostanze analgesiche
Gli antagonisti vengono utilizzati per accelerare il ritorno allo stato normale in caso di sovradosaggio o di grave depressione respiratoria oppure quando si voglia ripristinare la
dembulazione dopo l’uso di un oppiaceo. In base all’antagonista e ai recettori con cui questo interagisce, anche l’effetto
analgesico verrà contrastato unitamente agli effetti collaterali indesiderati e questo vale soprattutto per gli antagonisti
puri. Al pari degli agonisti, i prodotti antagonisti possono essere considerati puri o parziali relativamente all’effetto svolto, mentre in genere non vengono suddivisi in classi.
Il naloxone è un antagonista puro, dotato di potere 30
volte superiore alla nalorfina e 50 volte superiore al butorfanolo e il cui uso è stato approvato nel cane ma non nel gatto. Quale antagonista puro, il farmaco non è regolamentato
dalle leggi sulle sostanze stupefacenti. La capacità del naloxone di bloccare ogni tipo di recettore degli oppiacei è variabile; infatti la distinzione fra i tipi di recettore può essere
basata in parte sulla risposta a questa sostanza. I recettori mi
sono i più sensibili a questo antagonista, mentre i recettori
sigma sono i meno sensibili. Il naloxone somministrato in
dosi elevate contrasta sia i recettori delta che i recettori kappa. L’azione antagonista del naloxone dipende anche dal fatto che l’affinità fra lo stesso e il recettore bersaglio sia superiore a quella esistente fra quest’ultimo e il farmaco da antagonizzare. Nell’ambito degli oppiacei, la buprenorfina è caratterizzata da un’affinità molto elevata per i recettori, superiore a quella del naloxone, il quale pertanto non sarà in grado di antagonizzare tale sostanza.
Quando il naloxone abbia svolto l’azione antagonista, gli
effetti respiratori, sedativi e cardiovascolari degli oppiacei
vengono contrastati per periodi da una a quattro ore. La somministrazione può essere ripetuta a seconda del tipo di oppiaceo utilizzato; ad esempio, gli effetti dell’ossimorfone
Tranquillanti e sedativi
I tranquillanti non svolgono alcun effetto analgesico, ma
modificano la risposta dell’animale al dolore e, di solito,
vengono utilizzati unitamente ad analgesici oppiacei. Alcuni
possono anche favorire il rilassamento muscolare. I prodotti
maggiormente impiegati sono i derivati fenotiazinici (che
possono svolgere anche effetti antiemetici), fra cui clorpromazina, promazina e acetilpromazina e i derivati del benzodiazepam, quali diazepam e midazolam. I fenotiazinici devono essere usati con cautela nei soggetti ipotesi o in quelli
con patologie cardiovascolari. I derivati del benzodiazepam
sono particolarmente adatti in età geriatrica e negli animali
debilitati. Gli agenti di entrambi i gruppi possono essere abbinati con analgesici oppiacei.
Alfa2 agonisti
Gli alfa2 agonisti, quali la xilazina, richiedono un’attenzione particolare poiché garantiscono una potente azione
analgesica in dosaggi che non provocano sedazione. La xilazina esercita un’azione analgesica di breve durata (30 minuti) e induce effetti cardiovascolari notevoli. Tuttavia, l’azione depressiva del farmaco a livello di SNC può essere antagonizzata somministrando yohimbina oppure tolazolina.
Inoltre, la xilazina può essere usata unitamente agli oppiacei
agonisti-antagonisti, quali butorfanolo e inoculata per via
epidurale immediatamente prima dell’intervento chirurgico
o del risveglio dall’anestesia. Gli alfa2 agonisti più recenti,
quali la medetomidina (0,75 mg/m2 IV oppure 1,0 mg/m2 IM
86
nel cane) comportano effetti cardiovascolari limitati e garantiscono un’azione più prolungata rispetto alla xilazina. La
medetomidina induce sia effetti sedativi che analgesici ed è
registrata per l’uso nel cane nelle procedure cliniche che richiedono un contenimento farmacologico di breve durata associato ad analgesia. Gli effetti del farmaco vengono contrastati dall’atipamezolo, un alfa2 antagonista. Analogamente
alla xilazina, la medetomidina provoca il vomito e deprime
l’attività cardiovascolare. La sostanza garantisce effetti analgesici pari o superiori alla buprenorfina per il controllo del
dolore nel cane; tuttavia, la sicurezza d’impiego dei due farmaci non è stata confrontata.
Anticonvulsivanti e farmaci
che modificano il comportamento
Gli anticonvulsivanti, quali carbamazepina, fenitoina,
acido valproico e clonazepam sono stati utilizzati nell’uomo
per controllare determinate nevralgie. Nella specie umana
sono stati impiegati anche gli antidepressivi triciclici per il
trattamento del dolore cronico. L’amitriplina e l’imipramina
vengono considerati quali farmaci di prima scelta, in particolare contro il dolore continuo e intenso. Negli animali, l’uso di questi prodotti per il controllo del dolore non è stato
documentato, mentre li si utilizza con successo nei problemi
comportamentali. Gli effetti collaterali sedativi e anticolinergici che inducono spesso sono indesiderati. Non tutti gli
antidepressivi triciclici (e in particolare i nuovi prodotti) appaiono dotati di proprietà analgesiche e le forme di dolore
maggiormente controllabili sembrano essere quelle di origine neuropatica, miofasciale e artritica. Questi farmaci sono
controindicati nei soggetti che soffrono di ritenzione urinaria, blocchi cardiaci o glaucoma ad angolo stretto.
ANESTETICI LOCALI
Potenza, insorgenza e durata dell’azione anestetica locale dipendono rispettivamente da liposolubilità, pKa e legame
alle proteine. Le molecole altamente liposolubili penetrano
con facilità nelle membrane cellulari. La bupivacaina è dotata di liposolubilità maggiore rispetto alla lidocaina ed è 10
volte più potente di quest’ultima. Analogamente, la tetracaina che è più liposolubile della procaina (aggiunta di un anello aromatico) è 40 volte più potente di quest’ultima. Il pKa
del farmaco determina la quantità di prodotto non ionizzato
che sarà in grado di attraversare la membrana cellulare. Gli
anestetici locali sono basi deboli con pKa compreso fra 7,7
e 9,0. Nelle preparazioni farmacologiche, il pH della soluzione tende all’acidità; pertanto, la maggior parte dei prodotti è presente in forma ionizzata. Quanto più è elevato il
pKa, tanto maggiore è la percentuale di farmaco in forma ionizzata e tanto più ritardata sarà l’insorgenza dell’azione
anestetica. Gli anestetici locali che si legano maggiormente
alle proteine tendono ad essere attratti dai recettori e sostano
più a lungo nei canali del sodio. Pertanto, la bupivacaina che
si lega in elevata percentuale alle proteine garantisce un’azione più prolungata rispetto alla procaina. La durata dell’azione dipende anche dall’effetto esercitato da questi farmaci
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sulla vascolarizzazione locale. Tutti gli anestetici locali inducono vasodilatazione che, oltre a prolungare l’insorgenza
dell’azione, ne accorcia la durata. L’associazione di lidocaina ed adrenalina ha lo scopo di prolungare gli effetti dell’anestetico. Recentemente, è stato consigliato l’uso di lidocaina inoculata per via endovenosa a velocità costante quale
analgesico di supporto nei pazienti umani per potenziare a livello centrale l’analgesia perioperatoria.
Nel cane, la bupivacaina inoculata localmente (intorno
a 5 nervi intercostali) esercita effetti pari alla morfina inoculata nello spazio epidurale per il controllo del dolore associato all’intervento di toracotomia laterale. Nei cani sottoposti a toracostomia, la somministrazione intrapleurica
del farmaco (1,5 mg/kg) garantiva un controllo del dolore
di qualità superiore alla buprenorfina (0,01 mg/kg). Tuttavia, l’uso di bupivacaina piuttosto che di lidocaina comporta maggiori probabilità di reazioni avverse, fra cui depressione cardiaca e convulsioni. Le dosi del farmaco non
devono superare 4 mg/kg ed è sconsigliabile inocularlo per
via endovenosa.
ANTIINFIAMMATORI NON STEROIDEI
I farmaci antiinfiammatori non steroidei agiscono bloccando il primo stadio della sintesi prostaglandinica legandosi alla ciclossigenasi e inibendola. Questa azione dipende sia
dal dosaggio che dal farmaco. Il ruolo fisiologico normale
delle prostaglandine può essere meglio compreso considerandole di natura protettiva. La formazione di queste molecole è mediata da uno dei due isomeri della ciclossigenasi.
La ciclossigenasi 1 (COX1) media la formazione delle prostaglandine costituzionali prodotte da numerosi tessuti, fra
cui cellule gastrointestinali, piastrine, cellule endoteliali e
cellule renali. Le prostaglandine generate dalla COX1 sono
sempre presenti e svolgono diversi effetti fisiologici, fra cui
protezione della mucosa gastrointestinale, equilibrio dell’emostasi e protezione dei reni in corso di episodi ipotensivi.
La ciclossigenasi 2 (COX2) catalizza la formazione di prostaglandine inducibili, la cui richiesta è discontinua; ne sono
un esempio le prostaglandine mediatrici dell’infiammazione. Il diverso effetto svolto dai FANS sugli isomeri della ciclossigenasi permette di interpretare le differenti azioni farmacologiche e tossiche di questa classe di prodotti. Nell’insieme, i FANS sembrano inibire sia la COX1 che la COX2.
Tuttavia, parte del farmaco necessario all’inibizione di
ognuno dei due isomeri fornisce una base per stabilire la relativa sicurezza ed efficacia di ogni agente. Il rapporto fra
COX2 e COX1 rappresenta la quantità di farmaco necessaria a inibire il rispettivo isomero dell’enzima ciclossigenasi.
È auspicabile che il rapporto COX2/COX1 sia inferiore a 1
(indicante che la COX2 viene inibita da una dose di farmaco più bassa rispetto alla COX1). Fra gli antiinfiammatori
non steroidei, il carprofen e il meloxicam sembrano dotati
del rapporto COX2/COX1 più favorevole. I FANS svolgono
anche effetti inibitori sui leucociti neutrofili e sono in grado
di esercitare azione immunomodulatrice. Ad alcuni di questi
farmaci, ma non a tutti, è stato anche attribuito un effetto
analgesico centrale.
I FANS hanno in comune un certo numero di proprietà
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farmacocinetiche. In quanto acidi deboli, in genere vengono
assorbiti adeguatamente in seguito a somministrazione orale. Le soluzioni dei preparati iniettabili tendono all’alcalinità
e possono provocare processi necrotici e dolore in caso di
spandimento perivascolare. Questi farmaci, benché liposolubili, sono caratterizzati da un volume di distribuzione limitato (pari a circa 10%) riconducibile alla percentuale di legame con le sieroalbumine che supera il 90%. Il distacco
dall’albumina, dovuto a competizione con altre sostanze per
i siti di legame oppure all’abbassamento dei livelli sierici
della proteina, inizialmente comporta un innalzamento della
quota farmacologicamente attiva del prodotto e quindi predispone il soggetto allo sviluppo di reazioni avverse. La
clearance dei FANS è variabile in velocità ed entità a seconda del farmaco e della specie e da questo dipende in gran
parte la differente durata di emivita di un prodotto nei diversi animali. La maggior parte dei farmaci viene eliminata
principalmente attraverso il metabolismo epatico. Le differenze di età e di specie nella clearance del farmaco impongono cautela nell’estrapolazione dei dosaggi da un animale
all’altro. Le differenze di specie nell’eliminazione dei FANS
sono state documentate con cura e sono all’origine di alcune
reazioni avverse comunemente associate all’uso di questi
prodotti.
Gli effetti farmacologici di questa classe di farmaci comprendono analgesia, antipiresi e controllo dell’infiammazione. Gli antiinfiammatori non steroidei esercitano effetti variabili a carico delle cartilagini. È stato dimostrato che inibiscono la sintesi in vitro di proteoglicano, osservazione che
per i salicilati è sostenuta da studi condotti in vivo. Ricerche
più recenti indicano che alcuni prodotti possono modificare
favorevolmente il metabolismo di proteoglicani, collagene e
matrice e sono in grado di limitare il rilascio di proteasi o di
metaboliti tossici. Diversi FANS inducono effetti collaterali
documentati sulla cartilagine normale, che vanno dalla ridotta sintesi di proteoglicani (acido acetilsalicilico) alla morte dei condrociti (fenilbutazone). Ad altri farmaci (ad es. naprossene, piroxicam, ketoprofen e forse carprofen) vengono
riconosciuti effetti condroprotettivi; infatti, non solo non
contribuiscono al processo degenerativo, ma sembrano anche proteggere l’articolazione da alcune fasi degenerative.
Sembra che gli effetti svolti da alcuni FANS sulla cartilagine non siano ancora stati determinati (ad es. acido meclofenamico, flunixin meglumine).
Reazioni avverse
I danni gastrointestinali sono gli effetti collaterali più comuni e di maggiore gravità dei FANS. Sono stati ipotizzati
diversi meccanismi d’azione, purtroppo non ancora completamente chiariti. Lo sviluppo di erosioni e ulcere gastroduodenali indica l’inibizione di secrezione di bicarbonato e muco mediata dalla prostaglandina E2, epitelizzazione della
mucosa e aumento del flusso ematico locale. Pertanto, il
controllo della secrezione gastrica acida si riduce al pari della secrezione di muco e bicarbonato e al grado di epitelizzazione e flusso ematico mucosale. La rottura dei vasi di piccolo calibro dovuta al deficit di muco può rappresentare la
lesione di partenza e l’irritazione diretta prodotta dai farma-
87
ci acidi può svolgere un ruolo importante. Inoltre, i salicilati provocano lesioni locali dovute a “diffusione retrograda”
di acido che danneggia le cellule della mucosa e i capillari
della sottomucosa. Non sembra esistere alcuna caratteristica
chimica che consenta di prevedere la probabilità di insorgenza di manifestazioni tossiche gastrointestinali legate all’uso di un determinato antiinfiammatorio. I farmaci che subiscono il circolo enteroepatico (ad es. naprossene) comportano una maggiore incidenza di disturbi gastrointestinali. Il
cane viene definito quale specie “estremamente predisposta”
(come viene riportato nel foglietto illustrativo dell’acido meclofenamico, Fort Dodge) allo sviluppo di ulcere gastrointestinali indotte dai farmaci antiinfiammatori non steroidei.
Tutti i FANS utilizzati nel cane sono stati messi in relazione
allo sviluppo di ulcere gastrointestinali, sia attraverso pubblicazioni che segnalazioni orali. Nei cani trattati con questi
farmaci, occorre prevedere l’insorgenza di ulcere nel tratto
digerente ed è necessario che i proprietari siano messi al corrente di tali effetti collaterali e dei possibili rimedi per contrastarli. Sfortunatamente, nel cane mancano indicatori sensibili di sanguinamento gastrointestinale e quando i segni
che ne derivano appaiono evidenti, il danno è già piuttosto
esteso.
Il trattamento dello stato tossico gastrointestinale è rivolto a rimpiazzare le prostaglandine mancanti, proteggere la
mucosa danneggiata e, se necessario, controllare la secrezione gastrica acida. Il misoprostolo è un analogo sintetico delle prostaglandine che previene lo sviluppo e favorisce la
guarigione delle ulcere gastrointestinali provocate dai
FANS. Gli effetti favorevoli del sucralfato risiedono nella
sua capacità di legarsi alla mucosa danneggiata e proteggerla e nell’indurre un aumento di sintesi prostaglandinica, angiogenesi e produzione di sulfidrili (che eliminano i radicali
dell’ossigeno). I farmaci antisecretori, fra cui cimetidina e
ranitidina, possono essere utilizzati e sono indicati nei casi
di ulcere gravi che non rispondono ad altre terapie, benché
possano essere di per sé insufficienti. Questi farmaci possono essere economicamente più convenienti del misoprostolo, ma, benché controllino la secrezione acida, non possono
sostituire i restanti effetti citoprotettivi delle prostaglandine.
D’altro canto, il misoprostolo può rivelarsi più efficace in
presenza di agenti che riducono la secrezione acida gastrica.
Tutti i FANS sono in grado di modificare l’attività piastrinica attraverso l’alterazione della sintesi di prostaglandine
(trombossano). In dosaggi farmacologici, l’acido acetilsalicilico sottopone ad acetilazione selettiva e irreversibile un
residuo di serina di una ciclossigenasi piastrinica.
Nell’uomo, la nefropatia da assunzione di analgesici è un
effetto collaterale piuttosto comune dei FANS. Tuttavia, non
è altrettanto frequente negli animali domestici, in parte per
l’uso meno protratto di questi farmaci. A livello renale, le
prostaglandine vasodilatatrici svolgono funzioni protettive,
assicurando la persistenza della vasodilatazione midollare e
della produzione di urina durante le fasi di vasocostrizione
arteriosa locale. La perdita di questo effetto protettivo assume importanza negli individui con funzione renale compromessa. Sono predisposti allo sviluppo di nefropatie da analgesici i pazienti in età geriatrica, quelli affetti da cardiopatie,
nefropatie, epatopatie o che si trovano in stato ipovolemico,
fra cui shock e disidratazione e quelli che assumono farma-
88
38° Congresso Nazionale SCIVAC
ci nefrotossici (aminoglicosidi, amfotericina B o altri antiprostaglandinici) o nefroattivi (ad es. diuretici).
Farmaci
Nella maggior parte delle specie, l’acido acetilsalicilico
è caratterizzato da un ampio margine di sicurezza. Nell’uomo, l’intervallo terapeutico consigliato è compreso fra 100 e
250 µg/ml. I fenomeni tossici si manifestano quando i livelli sierici del farmaco superano 300 µg/ml; tuttavia, gli effetti analgesici e la comparsa degli effetti analgesico e antipiretico richiedono livelli compresi fra 20 e 50 µg/ml. Il controllo dell’infiammazione può richiedere concentrazioni di
farmaco superiori a 50 µg/ml, mentre nell’artrite reumatoide
dell’uomo può essere necessario raggiungere valori prossimi
a 200 µg/ml. Negli animali non sono stati stabiliti i livelli di
acido acetilsalicilico necessari a ottenere effetti antitrombotici, tuttavia si consigliano dosaggi più bassi. Il sovradosaggio tossico (acuto) solitamente si manifesta con depressione,
vomito, ipertermia, squilibri elettrolitici, convulsioni, coma
e morte.
Nel cane, non sembrano esistere notevoli differenze di
biodisponibilità fra l’acido acetilsalicilico in forma semplice, tamponata o gastroresistente (25 mg/kg), benché i livelli
sierici del farmaco varino maggiormente utilizzando il terzo
tipo di preparazione. I prodotti tamponati permettono di ridurre le probabilità di danno alla mucosa gastrointestinale.
In uno studio, le dosi necessarie a mantenere sotto controllo
vari tipi di zoppia nel cane erano comprese fra 23 e 86
mg/kg due volte al giorno, con livelli plasmatici di farmaco
compresi fra 71 e 281 µg/ml. Fra gli animali esiste una notevole variabilità individuale nell’eliminazione dei farmaci,
da cui deriva l’importanza del monitoraggio terapeutico per
accertare che siano stati raggiunti livelli sierici terapeutici ed
evitati i livelli tossici (> 300 µg/ml). Nel cane, gli effetti collaterali gastrointestinali dell’acido acetilsalicilico sembrano
essere in relazione alla dose e al tipo di preparato. Dosaggi
pari a 25 mg/kg di acido acetilsalicilico hanno provocato
l’insorgenza di erosioni della mucosa gastrica nel 50% dei
soggetti trattati con prodotto semplice, mentre il danno è stato limitato negli animali che avevano assunto il preparato
nelle forme tamponata e gastroresistente. Questo farmaco,
data la sua natura fenolica, viene scarsamente sottoposto a
glucuronazione nel gatto. Nei felini, l’emivita plasmatica
dell’acido acetilsalicilico è pari a 37,6 ore. L’eliminazione
del farmaco sembra dipendere dal dosaggio; infatti, con posologie da 5 a 12 mg/kg, l’emivita è compresa fra 22 e 27 ore
mentre è di 45 ore utilizzando dosi di 25 mg/kg. In uno studio condotto su gatti trattati con 25 mg/kg ogni 48 ore, non
è stata rilevata la comparsa di segni clinici di tossicosi.
Il carprofen è un antiinfiammatorio non steroideo il cui
uso è stato recentemente approvato negli Stati Uniti per il
trattamento dell’osteoartrite nel cane. L’uso del farmaco nel
cane e nel gatto è stato approvato anche in altri paesi. Il meccanismo d’azione di questo FANS non è completamente
chiarito, ma sembra inibisca in modo specifico la COX 2. Ne
consegue un’interferenza con il processo infiammatorio, con
disturbo minimo delle funzioni fisiologica e protettiva svolte dalle prostaglandine. Il carprofen può presentare anche altri meccanismi, fra cui inibizione della fosfolipasi e altera-
zione del rilascio di acido arachidonico. Analogamente ad
altri FANS, il carprofen si lega in elevata percentuale alle
proteine. Il farmaco viene metabolizzato dal fegato e nel cane presenta un’emivita di 10 ore. Nel controllo dell’infiammazione e forse anche del dolore associato al processo infiammatorio dell’osteoartrite, l’efficacia del carprofen è pari o superiore a quella della maggior parte degli altri FANS
studiati. La sicurezza di questo prodotto suscita un interesse
anche maggiore; infatti, i cani trattati con dosaggi 10 volte
superiori a quelli necessari per raggiungere livelli terapeutici di farmaco non hanno sviluppato alcun effetto collaterale
a livello gastrointestinale. Una prova clinica condotta su 70
cani ha permesso di rilevare come 6 soggetti su 36 trattati
con carprofen abbiano sviluppato segni clinici indicativi di
interessamento gastroenterico; tuttavia, lo stesso problema è
stato riscontrato anche in 3 cani trattati con un placebo. Il
potere analgesico del carprofen è tale da potere impiegare il
farmaco nel controllo del dolore postoperatorio.
L’effetto svolto dal carprofen sulla fisiologia della cartilagine è discutibile e sembra essere bifasico. Studi condotti
sulla cartilagine canina hanno rivelato che il farmaco aumenta la velocità di sintesi dei PGAG quando i livelli sinoviali (10 µg/ml) sono pari a quelli raggiunti in pazienti umani che hanno assunto dosaggi terapeutici del farmaco. Tuttavia, con concentrazioni pari o superiori a 20 µg/ml, la sintesi dei PGAG viene inibita. I livelli raggiunti nel liquido sinoviale del cane in seguito a somministrazione di dosaggi terapeutici non sono stati segnalati, ma è probabile che non superino 10 µg. Pertanto, non sembra che il carprofen eserciti
effetti dannosi sulle cartilagini.
Benché fra i FANS utilizzati nel cane, il carprofen sia fra
i più sicuri, in un certo numero di soggetti è stata segnalata
la comparsa di disturbi gastrointestinali tipici di questo gruppo di farmaci. In ogni caso, occorre una certa cautela nel
proporre l’uso di questi prodotti nel cane. Inoltre, in alcuni
soggetti trattati con questo farmaco sono state descritte forme di epatopatia acuta (forse legate a idiosincrasia) e la casa produttrice ha in corso uno studio per chiarire questa possibile reazione avversa. Nei pazienti umani e nel gatto, il farmaco non sembra garantire lo stesso grado di sicurezza accertato nel cane. Nella specie felina, il farmaco deve essere
utilizzato esclusivamente per periodi brevi.
Il fenilbutazone è un FANS lipofilo, debolmente acido il
cui uso è stato approvato nel cane. Le segnalazioni di reazioni avverse al farmaco comprendono discrasie emorragiche, epatopatie e nefropatie (soprattutto nel cavallo). Il fenilbutazone esercita effetti condrodistruttivi. Benché l’uso
delle preparazioni orali sia stato approvato nel cane, le informazioni circa l’utilizzo del prodotto in questa specie sono
limitate. L’emivita del farmaco (nel levriero) è di 6-7 ore.
Nel cane, il grado di tolleranza al fenilbutazone sembra superiore a quello riscontrato nell’uomo. In un cane che aveva
assunto dosi di farmaco prossime a quelle consigliate sono
state segnalate manifestazioni di tossicità, quali emorragie,
stasi biliare e insufficienza renale. Per motivi non spiegati, il
foglietto illustrativo indica una dose massima complessiva e
segnala di sospendere la terapia gradualmente. Sono stati segnalati anche casi di discrasia midollare (fra cui leucopenia).
Benché il fenilbutazone sia stato impiegato anche nel gatto,
l’elevata incidenza di tossicità suggerisce di usare estrema
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cautela.
Il flunixin meglumine è un potente agente analgesico ed
è stato utilizzato per controllare il dolore che altrimenti risponderebbe unicamente ai derivati dell’oppio. Il farmaco è
particolarmente utile nei casi di dolore viscerale. Oltre agli
effetti analgesici, il flunixin meglumine è stato studiato e citato per gli effetti antiendotossici svolti in modelli sperimentali di shock settico in diverse specie animali. Benché il
meccanismo d’azione non sia accuratamente documentato,
nel cane è nota l’utilità del prodotto nel controllo del dolore
viscerale (ad es. nella parvovirosi) oppure del dolore postoperatorio. Nella specie canina, la somministrazione di flunixin meglumine alla dose di 1,1 mg/kg blocca la produzione di prostaglandina I2 e alla dose di 2,2 mg/kg migliora il
tempo di sopravvivenza in presenza di stati settici.** La tossicità del prodotto, che solitamente si manifesta con disturbi
gastrointestinali, ne limita l’uso nel cane ad appena 2 o 3
giorni. In uno studio, l’assunzione di dosi da 3 a 5 volte superiori a quelle consigliate provocò la comparsa di problemi
gastroenterici.
Nel cane, il naprossene viene assorbito rapidamente in
seguito a somministrazione orale, raggiungendo i livelli plasmatici massimi entro periodi variabili da 30 minuti a 3 ore.
Si noti che in questa specie, l’emivita del farmaco inoculato
per via endovenosa varia da 45 a 92 ore, rispetto alle 12-15
ore nell’uomo e alle 5 ore nel cavallo. Nel cane, la lunghezza dei tempi di eliminazione è stata attribuita all’imponente
circolo enteroepatico subito dalla sostanza. Data la lunga durata dell’emivita del farmaco, questo richiede un’unica somministrazione a giorni alterni. Benché si consigli di utilizzare una dose di carico, gli effetti tossici esercitati dal farmaco
a livello gastrointestinale nel cane suggeriscono di evitare
tale pratica in questa specie. Il cane viene considerato l’animale più sensibile al naprossene. La tossicità gastrointestinale si manifesta con dosaggi giornalieri di 5 mg/kg e le probabilità che insorga aumentano quando i livelli plasmatici
superano 50 µg/ml. Volendo utilizzare questo FANS nel cane, i dosaggi iniziali dovranno essere bassi e in seguito adattati al fabbisogno del singolo soggetto. È opportuno somministrare misoprostolo o sucralfato a scopo profilattico. Gli
animali trattati andranno controllati con attenzione per rilevare eventuali segni riferibili a disturbi gastrointestinali. Nei
cani che assumevano dosaggi elevati del farmaco è stata segnalata la comparsa di discrasie emorragiche. Il naprossene
è compreso fra i FANS dotati di effetti condroprotettivi.
L’ibuprofen è un derivato dell’acido propionico di cui è
stato fatto uso nel cane. Il farmaco è molto diffuso in medicina umana poiché esplica un’efficace azione antiinfiammatoria associata a scarsa incidenza di effetti collaterali gastrointestinali. Al contrario, nei cani trattati con dosi terapeutiche per periodi di 2-6 settimane si verifica costantemente l’insorgenza di erosioni gastrointestinali. I livelli terapeutici vengono raggiunti somministrando dosi comprese
fra 12 e 15 mg/kg, come segnalato nell’uomo. Lo sviluppo
di erosioni gastriche e infiammazione gastrointestinale è stato documentato in seguito ad assunzione di dosi giornaliere
di 8 mg/kg, nonostante l’assenza di segni clinici di tossicità.
Nel cane, il vomito solitamente compare dopo alcuni giorni
di terapia con ibuprofen (da 2 a 6 giorni) anche utilizzando
capsule gelatinose o gastroresistenti. Poiché le erosioni ga-
89
striche si sviluppano con dosaggi inferiori a quelli necessari
a raggiungere i livelli terapeutici, l’uso di questo farmaco è
sconsigliato nel cane.
Il meclofenamato è un FANS antranilico disponibile in
forma di preparato granulare da mescolare al cibo nei grossi
animali e di compresse approvate per l’uso nel cane negli
Stati Uniti. Fra gli antiinfiammatori non steroidei, è noto per
la lentezza con cui compare l’azione terapeutica. Gli effetti
dell’acido meclofenamico sulla cartilagine non sono stati
studiati. Il foglietto illustrativo associato alla confezione indica il cane quale animale estremamente sensibile all’azione
ulcerogena del farmaco che, rispetto ad altri prodotti, non
sembra indurre vantaggi evidenti nel trattamento dell’osteoartrite nel cane, mentre comporta con maggiore frequenza disturbi gastrointestinali.
Il ketoprofen è un FANS derivato dell’acido propionico,
che negli Stati Uniti è stato approvato per l’uso nell’uomo e
nel cavallo. Il farmaco è dotato di notevole potere inibitore
sulla ciclossigenasi, per cui viene considerato un potente antiinfiammatorio, analgesico e antipiretico. Nei pazienti umani affetti da artrite reumatoide, il ketoprofen ha dimostrato
efficacia pari a farmaci quali salicilati, naprossene, indometacina, ibuprofen, diclofenac e piroxicam. Risultati analoghi
sono stati ottenuti in pazienti colpiti da neoplasie e trattati
con associazioni di salicilati/codeina oppure con ketoprofen.
Nel controllo del dolore postoperatorio, il prodotto ha la
stessa efficacia di pentazocina e meperidina oltre che delle
associazioni acetaminofene/codeina, rispetto alle quali garantisce una maggiore durata d’azione. Benché non sia ancora stato dimostrato, l’efficacia del ketoprofen è stata attribuita alla capacità di questo farmaco di inibire alcune lipossigenasi e quindi la formazione dei leucotrieni. Tuttavia,
l’incidenza delle reazioni avverse al farmaco nell’uomo raggiunge il 30% degli individui studiati. I disturbi più frequenti riguardano la parte superiore del tratto gastrointestinale. Altri effetti collaterali riscontrati comunemente comprendono reazioni a carico del sistema nervoso centrale,
quali cefalee e capogiri e processi nefritici. In una segnalazione, gli effetti collaterali rilevati erano di gravità tale da
sospendere la terapia nel 13% circa dei soggetti. Negli Stati
Uniti, il ketoprofen non è approvato per l’uso nei piccoli animali, mentre in Europa lo è sia nel cane che nel gatto ed è disponibile come prodotto da banco. In un certo numero di cani trattati con ketoprofen, gli autori hanno osservato la comparsa di disturbi gastrointestinali che sono stati attribuiti all’uso del farmaco.
Il piroxicam è un FANS derivato dell’oxicam approvato
per l’uso nell’uomo e impiegato nel trattamento dell’osteoartrite nel cane. In tempi più recenti, l’attenzione rivolta
al farmaco si riferiva alla capacità di ridurre le dimensioni
delle neoplasie nel cane (tumori delle cellule di transizione e
altri), effetto che potrebbe dipendere dall’azione immunomodulatrice e dall’infiammazione indotte nella sede del tumore. Il piroxicam sarebbe in grado di interagire in modo
additivo o sinergico con i farmaci antineoplastici per provocare la morte degli elementi tumorali. Questo prodotto è dotato di notevole potere antiinfiammatorio nelle condizioni
che riguardano l’apparato muscoloscheletrico. Benché nel
cane la DL50 del farmaco sia superiore a 700 mg/kg, è stato osservato lo sviluppo di lesioni gastriche e necrosi papil-
90
lare in soggetti che avevano assunto dosi giornaliere comprese fra 0,3 e 1 mg/kg. Il rapporto esistente fra COX2 e
COX1 è indice di possibile tossicità gastrointestinale. Tuttavia, nei cani che avevano assunto dosi pari a 0,3 mg/kg a
giorni alterni vennero notati pochi segni di tossicità (manifestazioni gastrointestinali o emorragie). Occorre molta cautela nell’estrapolare al cane i dosaggi utilizzati nell’uomo
poiché fra le due specie possono esistere differenze di volume di distribuzione, concentrazioni terapeutiche e margine
di sicurezza.
Il meloxicam, analogamente al piroxicam, appartiene al
gruppo dei FANS derivati dell’oxicam. Tuttavia, a differenza del piroxicam, il rapporto COX2:COX1 favorisce l’inibizione selettiva del COX2, suggerendo che il farmaco è dotato di un margine di sicurezza più ampio rispetto alla maggior
parte degli altri FANS. In Europa, il prodotto è approvato
per l’uso nel cane per il trattamento dell’osteoartrite. Al momento attuale non è disponibile negli Stati Uniti. L’etodolac
(studiato nel cane in somministrazioni giornaliere di 10-15
mg/kg per via orale) è approvato per l’uso nell’uomo ed è
stato recentemente approvato anche nel cane. Questo prodotto sembra anche agire in modo relativamente selettivo
verso COX 2. L’etodolac sembra particolarmente efficace
nell’inibizione della prostaglandina-2 sintetizzata da condrociti e sinoviociti. L’efficacia relativa rispetto al carprofen
non è stata chiarita e al momento attuale non sono note differenze sostanziali fra i due farmaci in quanto sicurezza ed
efficacia. La casa produttrice consiglia un’unica somministrazione giornaliera, benché l’emivita del farmaco non sia
molto più lunga di quella del carprofen. Non è stato chiarito
se i cani che non tollerano quest’ultimo agente siano in grado di sopportare l’etodolac; quindi, anche in questo caso è
opportuno considerare sicuro il prodotto, ma non ignorare i
potenziali effetti tossici che caratterizzano i FANS.
Agenti condroprotettivi. Per controllare il dolore associato a fenomeni infiammatori muscoloscheletrici, è stato
fatto uso di un’ampia varietà di farmaci. Gli agenti condroprotettivi comprendono quel gruppo di farmaci o farmaconutrizionali (nutraceuticals) che contribuiscono a proteggere la cartilagine quando questa mette in atto i meccanismi
di autoriparazione. La maggior parte di questi farmaci comprende varie associazioni di condroitinsolfati e glucosamine.
Probabilmente, la cartilagine danneggiata sfrutta questi
composti per sintetizzare proteoglicani, conservando in tale
modo energia. Questi prodotti possono essere utilizzati singolarmente oppure associati ad altri farmaci e quanto più
precoce ne sarà l’impiego nel corso del processo, tanto più
si riveleranno efficaci. Bisogna prevedere un certo periodo
di tempo prima che si manifesti l’effetto voluto e spesso la
terapia deve essere proseguita per l’intera durata della vita.
L’uso di questi farmaci non deve essere limitato ai casi diartropatia degenerativa; piuttosto occorre considerarne l’impiego nella cura di articolazioni che abbiano subito lesioni di
natura traumatica, chirurgica o infettiva. Gli animali affetti
da artropatie degenerative hanno risposto favorevolmente
all’Adequan, un glucosaminoglicano polisolfato. Questi
prodotti vengono utilizzati per produrre aggregati di proteoglicani che costituiscono un’impalcatura per il collagene
nell’articolazione. I glucosaminoglicani non forniscono soltanto materiali di sostituzione, bensì proteggono i condroci-
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ti e inibiscono i processi infiammatori, soprattutto quelli mediati dalle prostaglandine. In alcuni studi è stata osservata la
risoluzione di talune lesioni e alcune segnalazioni (studi non
controllati) riportano casi di guarigione dell’artropatia degenerativa. Si noti che il farmaco può essere impiegato in altre
patologie muscoloscheletriche (ad es. osteocondrite dissecante, traumi, ecc.) La somministrazione del prodotto (4
mg/kg IM due volte alla settimana per 4 o più settimane) è
adatta nelle forme di artropatia degenerativa a carico di qualsiasi articolazione (anche in caso di displasia dell’anca) ed è
risultata efficace anche in forme di zoppia di cui non era stata individuata l’origine. Il farmaco è stato utilizzato nel gatto seguendo la stessa posologia. È importante individuare i
casi in cui esiste un fabbisogno di aminoglicano polisolfato
e iniziare la terapia precocemente. L’adequan presenta struttura simile all’eparina e, in dosi elevate, prolunga il tempo di
coagulazione per 7-8 ore dopo la somministrazione. È sconsigliato eseguire il trattamento prima di un intervento chirurgico, soprattutto quando lo si associ all’acido acetilsalicilico. A parte questo, il farmaco non sembra comportare alcun
tipo di reazione avversa. L’uso dell’adequan è stato approvato di recente nel cane.
Il pentosan polisolfato è un altro agente correttivo del
processo patologico il cui uso è stato recentemente approvato nell’uomo. Il farmaco è un derivato della cellulosa contenuta nel legno di faggio ed è composto da xilanopiranosio
solfato. Nell’uomo, l’uso del farmaco è stato approvato di
recente per il trattamento della cistite interstiziale, ma viene
utilizzato anche per trattare le artropatie associate ai danni
cartilaginei. Probabilmente il prodotto agisce in modo simile al glicosaminoglicano solfato incorporandosi nella matrice cartilaginea; inoltre, sembra in grado di modulare le citochine. Il farmaco è disponibile sia in formulazioni iniettabili (IM o IA) che per uso orale. È stato dimostrato che il derivato calcico del prodotto presenta una biodisponibilità da
10% a 20% superiore dopo somministrazione orale. Nel modello canino Pond Nuki di osteoartrite e osteocondrosi dissecante e in un modello di frammentazione del processo coronoideo (entrambe prove cliniche e sperimentali), il trattamento con pentosano (3 mg/kg IM una volta alla settimana)
ha indotto guarigioni più rapide che nei cani non trattati e un
minore grado di cicatrizzazione cartilaginea. Analogamente
all’adequan, anche questo farmaco induce un prolungamento del tempo di coagulazione agendo a livello di antitrombina III e piastrine.
Le tetracicline sembrano inibire le metalloproteinasi, enzimi che svolgono un ruolo importante nella degradazione
della cartilagine, forse chelando i cationi bivalenti da cui
queste proteinasi dipendono. La doxiciclina o la minociclina, due tetracicline liposolubili, penetrano più facilmente
nell’articolazione. Il dosaggio della doxiciclina somministrata a scopo profilattico è di 1,75 mg/kg due volte al giorno per via orale e, se utilizzato per 8 settimane in animali
sottoposti a resezione del legamento crociato, limita i danni
cartilaginei che si osservano nei soggetti non trattati.
I farmaconutrizionali rappresentano il tipo di terapia farmacologica più innovativa per il trattamento dell’artropatia
degenerativa nel cane e nel gatto. Il termine farmaconutrizionale è stato adottato di recente per indicare un gruppo di prodotti che vengono somministrati nel cibo, ma sono potenzial-
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mente dotati di effetti terapeutici (e tossici?). Tuttavia, i farmaconutrizionali non possono essere definiti tali senza l’approvazione della FDA. Un gran numero di prodotti (illegali?)
garantisce proprietà terapeutiche, che nella maggior parte dei
casi non hanno alcun fondamento. Tuttavia, alcuni precursori di additivi alimentari, quali glycoflex e flexagen, sono stati utilizzati da molti veterinari o proprietari di animali con alcuni risultati (soggettivi) favorevoli. La Nutramax ha in corso alcuni studi clinici per sostenere l’utilità del proprio prodotto, il Cosequin. Altri prodotti più discutibili comprendono mucopolisaccaridi di mollusco, glicosaminoglicani misti,
chelanti dei metalli, ecc presenti nel Glyco-flex (VetrScience
Laboratoires, 20 New England Drive, Essex Junction, VM,
800 882 9993). Questi prodotti vengono somministrati come
precursori della matrice cartilaginea. In quanto tali, si presume che vengano assunti e utilizzati dai condrociti, che altrimenti consumerebbero grandi quantità di energia per sintetizzarli, allo scopo di riparare la cartilagine danneggiata. Il
Flex-A-Gan (MSM o metilsulfonilmetano) è un metabolita
naturale del dimetilsulfossido a cui è stata prestata attenzione
quale additivo alimentare utilizzato nel controllo dell’infiammazione muscoloscheletrica. Quale metabolita del dimetilsulfossido, il vantaggio principale di questo farmaco è quello
di allontanare i radicali dell’ossigeno che possono contribuire allo sviluppo del processo infiammatorio.
Glucocorticoidi
Benché i glucocorticoidi svolgano un ruolo evidente nel
prevenire il catabolismo, il loro uso nel trattamento dell’osteoartrite è controverso. Le opinioni relative al loro impiego nelle riacutizzazioni o nei traumi sono costantemente affermative, mentre ne viene discusso l’uso a lungo termine. I
glucocorticoidi, a seconda della dose, esercitano effetti variabili e contrari sulla fisiologia articolare. La somministrazione di bassi dosaggi sembra garantire effetti condroprotettivi, mentre i dosaggi elevati favoriscono la distruzione della cartilagine. La maggior parte delle osservazioni scientifiche è basata su studi condotti in vitro o su modelli animali
(fra cui il cane), concentrando l’attenzione sull’osteoatrite
nell’uomo.
Il termine “artropatia da steroidi” è stato introdotto per
definire la condizione distruttiva che si verifica a carico delle articolazioni nei pazienti umani che hanno subito molteplici infiltrazioni intrarticolari di glucocorticoidi. Il legame
dei recettori del glucocorticoide ai condrociti può inibire la
crescita di questi ultimi o favorirne la morte (Hainque 86).
Nel cane, questi farmaci riducono la produzione di acido ialuronico da parte delle cellule sinoviali (Myers 85). Nel cavallo, un’unica inoculazione intra-articolare riduce il conte-
91
nuto in proteoglicani. Inoculazioni settimanali hanno provocato necrosi dei condrociti e diminuita sintesi di collagene e
proteoglicani. (Chunekamarai 89) Oltre ai danni distruttivi
indotti dai glucocorticoidi sulla cartilagine, si possono verificare danni indiretti dovuti all’utilizzo dell’articolazione
compromessa. Infine, i glucocorticoidi esercitano un’azione
negativa sull’osso subcondrale inibendo l’attività osteoblastica. Nonostante questi effetti negativi, pochi dubitano circa i possibili benefici di questi farmaci, riconducibili alle
azioni antiinfiammatoria e immunodepressiva. Le controversie derivano dall’assenza di conoscenze scientifiche nelle singole specie e dalla mancata definizione di dose fisiologica. In un modello canino di osteoartrite, la somministrazione orale di prednisolone alla dose di 0,2 - 0,25 mg/kg oppure l’inoculazione intrarticolare mensile di 5 mg di triamcinolone esacetonide, riduceva significativamente l’incidenza e la gravità delle lesioni cartilaginee e la formazione di
osteofiti. La scelta fra somministrazione orale e inoculazione intrarticolare può dipendere dall’efficacia del risultato
conseguito limitando gli effetti collaterali sistemici. Queste
considerazioni sono controbilanciate dal rischio di sepsi (che
può essere evitato adottando una tecnica appropriata) e dalla necessità di ricorrere al contenimento farmacologico.
L’insorgenza di effetti collaterali non viene completamente
evitata poiché i glucocorticoidi raggiungono il circolo sistemico anche in seguito a somministrazione intrarticolare. I
prodotti di nuova formulazione, essendo caratterizzati da
maggiore potere antiinfiammatorio e minori effetti sfavorevoli a carico della cartilagine consentiranno di risolvere le
controversie relative all’uso dei glucocorticoidi nel trattamento dell’osteoartrite. In attesa che questi prodotti siano disponibili o che venga stabilita una “dose fisiologica”, gli autori consigliano di riservare i glucocorticoidi al trattamento
delle forme osteoartritiche che non rispondono agli agenti
condroprotettivi oppure agli antiinfiammatori non steroidei
dotati di tale effetto. Infine, utilizzando i glucocorticoidi, occorre adottare dosaggi bassi (come notato in precedenza)
possibilmente associati ad agenti condroprotettivi. Si consiglia di somministrare una “dose pulsante” di 1 mg/kg al
giorno nel trattamento delle lesioni muscoloscheletriche
acute e negli animali affetti da artropatia degenerativa che
presentino episodi di riacutizzazione o gonfiore conseguente a esercizio fisico prolungato. La terapia a lungo termine
con glucocorticoidi deve essere riservata alle condizioni articolari associate a processi infiammatori (non infettivi) (ad
es. disordini immunomediati). In tali casi, si consiglia di seguire le procedure di routine applicate nelle terapie protratte
(somministrazione unica giornaliera; terapie a giorni alterni;
uso della dose minima efficace; dosaggi decrescenti piuttosto che interruzioni brusche). L’associazione dei salicilati ai
glucocorticoidi è sconsigliata.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
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Aggiornamento sulla diagnosi e il trattamento
degli shunt portosistemici
Harry Boothe
DVM, MS, Dipl. ACVS - Texas A&M University - Dept of Physiology and Pharmacology
College Station, Texas (USA)
Lo shunt portosistemico è un collegamento anomalo fra
la circolazione portale e il circolo venoso sistemico. Solitamente si tratta di una lesione congenita rilevabile in cani e
gatti giovani. La sua presenza è associata a piccole dimensioni e atrofia del fegato e alla diversione del sangue portale e delle sostanze epatotrope dall’organo. Ne consegue la
comparsa di anomalie neurologiche e comportamentali. Il
sospetto di shunt portosistemico deriva da dati anamnestici,
esame clinico e reperti di laboratorio, mentre la diagnosi definitiva della condizione è basata su esame ecografico, scintigrafia portale, portografia operatoria o reperti della laparotomia esplorativa. Nella maggior parte dei casi il trattamento è di tipo chirurgico e lo shunt viene occluso applicando un
dispositivo costrittore ameroidea oppure una sutura. Quest’ultima potrà essere parziale oppure completa. È necessario istituire una terapia medica sia prima dell’intervento che
dopo la riduzione dello shunt. La prognosi dipende, in parte,
da tipo di anastomosi, età dell’animale e grado di ipertensione portale determinata dal dispositivo costrittore ameroide o dalla legatura. Negli animali giovani è prevedibile che
il successo dell’intervento di occlusione totale sia seguito da
rigenerazione epatica e risoluzione dei segni clinici.
ANATOMIA ED EMODINAMICA NORMALE
DELLA VASCOLARIZZAZIONE EPATICA
PORTALE
La vena porta è un vaso di elevata capacitanza che veicola il 75% del flusso ematico epatico e rappresenta uno
sbocco per il sangue venoso di origine intestinale, pancreatica e splenica. La vena porta è caratterizzata da bassi valori
di pressione intraluminale (compresi fra circa 8 e 12
mm/Hg), parete vascolare relativamente sottile e una notevole sensibilità pressoria a variazioni relativamente piccole
della resistenza a valle. Il sistema portale è privo di strutture valvolari e prende origine e termina in un letto capillare;
è dotato di volume molto esteso (accoglie il 20% circa della
gittata cardiaca totale) che svolge un ruolo importante nella
nutrizione epatica e nell’omeostasi metabolica. La pressione
venosa portale dipende dalla resistenza intraepatica e dall’entità del flusso ematico splancnico. I meccanismi di regolazione intraepatici mantengono la pressione di perfusione
a
Ameroid constrictor device, Research Instruments and Manufacturing, Corvallis, OR 97339.
sinusoidale costantemente bassa. La presenza di questi bassi valori pressori (da 6 a 8 mm/Hg) contribuisce a proteggere i sinusoidi epatici dagli effetti lesivi. Le vene epatiche garantiscono il drenaggio del flusso sanguigno afferente (sia
dall’arteria epatica che dalla vena porta) verso la vena cava
caudale.
ANOMALIE ANATOMICHE
DELLA VASCOLARIZZAZIONE EPATICA
Fra le due forme di shunt portosistemico, quella macrovascolare riveste maggiore importanza clinica. Nel cane e
nel gatto si conoscono due tipi di shunt macrovascolare,
quello singolo e quello multiplo. Gli shunt portosistemici
singoli rappresentano l’80% dei casi e possono essere extraepatici (50% dei casi) oppure intraepatici (30% dei casi).
Gli shunt extraepatici singoli collegano la vena porta con la
vena cava caudale o con la vena azigos. Le comunicazioni
porta-cava sembrano essere più frequenti dei collegamenti
porta-azigos. L’anomalia si riscontra più comunemente nei
cani appartenenti a razze di piccola taglia. Dal punto di vista
tecnico, è meno impegnativo individuare e trattare chirurgicamente uno shunt extraepatico singolo piuttosto che uno
shunt intraepatico.
Gli shunt intraepatici singoli si osservano più spesso nei
cani di grossa mole e solitamente coinvolgono il lobo epatico sinistro mediale o quello laterale. L’anomalia con sede sul
lato destro generalmente rappresentata da collegamenti brevi e di ampio diametro fra la vena porta e le vene epatiche.
Il trattamento chirurgico di uno shunt singolo in sede intraepatica è tecnicamente più impegnativo che in sede extraepatica. Le anastomosi intraepatiche situate sul lato destro implicano maggiori difficoltà di esposizione e allacciamento rispetto a quelle situate sul lato sinistro.
Gli shunt portosistemici multipli rappresentano il 20%
circa dei casi. Queste anomalie hanno sede extraepatica
(spesso sono più evidenti in prossimità del rene sinistro), derivano da stati di ipertensione portale (una condizione acquisita) e sono situati in ambito splancnico. In presenza di
molteplici anastomosi si può osservare un’ascite. Il trattamento chirurgico degli shunt multipli non si è dimostrato efficace, pertanto si adotta una terapia medica.
L’ultimo tipo di shunt è quello arterovenoso portosistemico che si osserva raramente nel cane e nel gatto. In genere, negli animali colpiti si sviluppa uno stato di ipertensione
94
portale e molteplici anastomosi portosistemiche. Il trattamento chirurgico delle fistole arterovenose epatiche prevede
la rimozione del lobo (o lobi) epatico colpito e delle strutture vascolari anomale.
FISIOPATOLOGIA
In tutti i casi di shunt portosistemico, il difetto di base
è la presenza di un collegamento anomalo fra il circolo portale e la circolazione sistemica. Una porzione del flusso
ematico splancnico aggira il fegato determinando il mancato passaggio nell’organo di fattori epatotropi e di sostanze potenzialmente tossiche. Spesso si sviluppano stati di
insufficienza epatica, encefalopatia epatica, disfunzione
gastrointestinale e disfunzione urologica. L’insufficienza
epatica consegue a diminuzione del flusso ematico nel fegato e a ridotta circolazione locale di sostanze epatotrope
(ad es. insulina). L’eziologia precisa dell’encefalopatia
epatica non è nota, benché si attribuisca un ruolo importante all’alterata capacità detossificante del fegato. Inoltre,
sono coinvolte alterazioni del metabolismo energetico,
anomalie dello status dei neurotrasmettitori ed alterazioni
delle membrane sinaptiche neuronali. Nei soggetti con
shunt portosistemico spesso si osservano disfunzioni gastrointestinali caratterizzate da vomito, diarrea, ptialismo
(soprattutto nel gatto) e anoressia o pica. Nei felini si possono rilevare anche disfunzioni urologiche, fra cui cristalluria (biurato d’ammonio o acido urico), formazione di calcoli e ostruzione uretrale.
DIAGNOSI
Il sospetto diagnostico di shunt portosistemico viene formulato sulla base di dati anamnestici, segni clinici, analisi di
laboratorio e reperti radiografici. L’anamnesi spesso descrive i cani e i gatti colpiti dalla condizione come soggetti “che
crescono male”. Spesso si osservano segni clinici riferibili
all’encefalopatia epatica, fra cui anomalie comportamentali,
depressione, cecità e attacchi convulsivi. Queste manifestazioni possono aggravarsi dopo l’assunzione di un pasto altamente proteico. È possibile anche rilevare una crescita stentata. Il riscontro di anomalie degli esami ematologici (lieve
anemia, ipoproteinemia e leucocitosi), del profilo biochimico (ipoalbuminemia, abbassamento dell’azotemia, ipoglicemia, e lieve innalzamento degli enzimi epatici), dell’analisi
delle urine (cristalli di biurato d’ammonio o di acido urico)
e di certi esami di laboratorio speciali (aumento dei livelli di
acidi biliari e dell’ammoniemia) suggerisce la presenza di
uno shunt portosistemico. La diagnosi definitiva della condizione viene formulata mediante valutazione ecografica,
scintigrafia portale o in sede laparotomica.
L’ecografia addominale consente di mettere in evidenza
il vaso (o i vasi) anastomotico. L’esame è altamente specifico e ragionevolmente sensibile per la diagnosi dello shunt
portosistemico congenito nel cane; inoltre consente di differenziare le forme extraepatiche da quelle intraepatiche. Si
consiglia di seguire un approccio laterale destro. La scintigrafia portale viene realizzata somministrando una piccola
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dose di materiale radioattivo per via rettale e registrando il
flusso ematico attraverso il sistema portale. La comparsa del
radionuclide nel cuore prima che nel fegato è un elemento
indicativo di shunt portosistemico. La differenziazione dell’anomalia intraepatica da quella extraepatica per via scintigrafica comporta delle difficoltà.
La diagnosi chirurgica di shunt portosistemico si formula visualizzando uno o più vasi anomali che collegano il sistema portale con la vena cava caudale o con la vena azigos,
oppure eseguendo una portografia mesenterica. Bisogna
esaminare la vena cava caudale per rilevare l’eventuale ingresso nel vaso di vene anomale. Solitamente, gli shunt extraepatici porta-cava si riscontrano accedendo nella parte sinistra della vena cava, cranialmente alle vene renali e caudalmente all’ileo del fegato. Meno comunemente, si osservano shunt portosistemici extraepatici singoli localizzati
lungo la piccola curvatura e il cardias. I collegamenti portaazigos in genere hanno sede nel settore addominale dorsale
sinistro. Il vaso anastomotico spesso penetra in cavità toracica fra i pilastri del diaframma.
La portografia mesenterica intraoperatoria richiede un
minimo di attrezzatura specialistica. Un catetere ad ago interno viene inserito in una vena digiunale oppure splenica e
poi fissato. Le radiografie vengono eseguite immediatamente dopo l’inoculazione del mezzo di contrasto (1 ml/Kg Renografin-76®). In alternativa è possibile eseguire una portografia retrograda che non richiede la laparotomia.
TRATTAMENTO
Il trattamento dello shunt portosistemico è di tipo chirurgico, associato a terapia medica almeno nel periodo perioperatorio. Esistono due forme di intervento. Il primo metodo
(convenzionale) prevede l’uso di materiale da sutura (solitamente seta) per allacciare parzialmente o completamente il
vaso anastomotico senza indurre lo sviluppo di grave ipertesione portale. Il secondo sistema (più recente) prevede l’uso
di un dispositivo costrittore ameroide per occludere completamente lo shunt con maggiore gradualità nel corso del tempo. L’inserimento del dispositivo richiede l’aiuto di un collaboratore che “appiattisce” il vaso servendosi di pinze emostatiche o di pinze ad angolo retto inserite al di sotto del vaso stesso. Il dispositivo costrittore è costituito da caseina
igroscopica rivestita in acciaio inossidabile ed è dotato di
una piccola incisione che consente di collocarlo sul vaso
anastomotico. Nell’incisione si inserisce una “chiave” rotonda che permette di fissare il vaso entro il dispositivo.
Quest’ultimo è disponibile in tre dimensioni con diametro
interno pari a 3,5; 5 e 6 mm e solitamente si utilizza quello
intermedio. Il dispositivo costrittore deve essere sterilizzato
a gas o a plasma. L’occlusione completa dello shunt solitamente si verifica da 30 a 60 giorni dopo l’applicazione dello strumento.
La procedura operatoria di occlusione di un singolo
shunt extraepatico utilizzando il metodo convenzionale prevede: (1) laparotomia esplorativa e identificazione dello
shunt, (2) isolamento dello shunt in prossimità del suo ingresso nella vena sistemica e legatura dello stesso con un filo in seta, (3) inserimento di un catetere venoso mesenteri-
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co per la misurazione intraoperatoria della pressione mesenterica e, se necessario, esecuzione di una portografia, (4)
misurazione della pressione portale durante l’intervento di
occlusione/ riduzione dello shunt (la pressione portale non
deve superare il valore di 20 cm di H2O), (5) biopsia epatica e (6) lavaggio peritoneale con soluzione fisiologica tiepida e chiusura.
La procedura operatoria di occlusione di un singolo
shunt extraepatico con l’uso di un dispositivo costrittore
ameroide prevede: (1) laparotomia esplorativa e identificazione dello shunt, (2) isolamento minimo dello shunt in
prossimità del suo ingresso nella vena sistemica oppure in
una sede adatta all’inserimento del dispositivo costrittore,
(3) inserimento del dispositivo a cavallo del vaso anastomotico, (4) biopsia epatica e (5) lavaggio peritoneale con soluzione fisiologica tiepida e chiusura.
Il trattamento chirurgico di uno shunt intraepatico singolo è più complicato, in parte per le maggiori difficoltà di localizzazione e isolamento del vaso anastomotico. Quest’ultimo è coperto, almeno parzialmente, dal parenchima epatico che ne rende difficile la localizzazione e l’isolamento.
Talvolta è necessario ricorrere a un accesso associato addominale e toracico, oltre che all’occlusione del flusso venoso
epatico. Occorre inserire un filo da sutura intorno al vaso
anastomotico e procedere all’allacciamento controllando la
pressione portale. In alternativa, il lume della vena, o delle
vene epatiche di drenaggio del lobo interessato può essere ridotto o occluso mediante allacciamento. Nel trattamento
chirurgico dello shunt intraepatico non è stato descritto l’uso del dispositivo costrittore, in parte a causa delle limitate
possibilità di isolare il vaso coinvolto.
Il trattamento medico è rivolto ad attenuare la gravità dei
segni clinici correlati all’encefalopatia. Prima dell’intervento chirurgico e per un breve periodo postoperatorio è indicato un trattamento comprendente misure dietetiche (alimenti
a basso contenuto in proteine di elevata qualità), terapia antimicrobica (neomicina o metronidazolo per via orale) e
somministrazione di lattulosio (da 2 a 4 ml/5-10 kg, PO).
Negli animali in cui lo shunt è stato attenuato o in quelli con
anastomosi portosistemiche multiple, il trattamento deve essere proseguito per l’intera durata della vita. I pazienti sottoposti a riduzione parziale dello shunt possono essere candidati ad una futura laparatomia esplorativa con ulteriore attenuazione o legatura dello shunt, in base ai risultati del primo intervento.
PROGNOSI
La prognosi in seguito a trattamento chirurgico dello
shunt portosistemico sembra dipendere da diversi fattori,
fra cui età dell’animale, tipo di shunt, grado di occlusione
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raggiunto (parziale/completo) e gravità dei segni clinici. In
genere, è buona nei cani giovani (< 1 anno di età) con shunt
extraepatico singolo che tollerano l’occlusione completa
del vaso.
Nei soggetti in cui è consentito procedere alla sola legatura parziale o nei quali si sviluppano molteplici shunt in risposta all’applicazione del dispositivo costrittore, si osservano miglioramenti clinici dopo l’intervento anche in caso
di persistenza dello shunt portosistemico.
Nei gatti in cui lo shunt extraepatico singolo è stato soltanto attenuato o in cui si sono formati shunt portosistemici multipli in risposta all’applicazione del dispositivo costrittore, la prognosi sembra essere più riservata che nel cane. La comparsa di inconvenienti postoperatori immediati
e tardivi è più frequente nella specie felina e per migliorare l’esito della procedura può rendersi necessario un ulteriore intervento.
La percentuale di complicazioni intraoperatorie, fra cui
la morte, è più elevata nei soggetti con shunt intraepatico che
in quelli con l’anomalia in sede extraepatica.
Tuttavia, la prognosi a lungo termine nel cane è uguale
in entrambi i casi.
L’impatto del dispositivo costrittore sulla prognosi a
lungo termine nei soggetti con shunt extraepatico non è nota. Rispetto alla riduzione convenzionale mediante sutura o
allacciamento, questa tecnica limita alcune complicazioni
postoperatorie immediate (fra cui la morte dovuta a ipertensione portale acuta) mentre non ne modifica altre (ad es. le
convulsioni).
Nei soggetti trattati unicamente per via farmacologica,
la prognosi a lungo termine è spesso deludente.
In sintesi, nei soggetti con shunt portosistemico, il rischio intraoperatorio e postoperatorio immediato è significativo, soprattutto in caso di anastomosi intraepatiche.
Durante l’attenuazione o l’allacciamento dello shunt
occorre evitare lo sviluppo di ipertensione portale di entità
significativa.
Bibliografia
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Trattamento delle fratture mandibolari
e mascellari complesse
Randy Boudrieau
DVM, Dipl. ACVS - Tufts University - North Grafton - Massachusetts (USA)
Nelle fratture gravemente comminute, ed in particolare
in quelle con perdita dell’osso, è necessario sfruttare l’occlusione dentale per verificare l’accuratezza della riduzione
chirurgica; di conseguenza, l’intubazione orotracheale va
eseguita con un accesso faringotomico. Per garantire la pervietà del lume del tubo, questo deve essere rinforzato con filo di acciaio ortopedico. Inoltre, è necessario conoscere l’anatomia funzionale per assicurare il successo dei vari metodi di fissazione. Le forze di taglio sono massime a livello del
ramo della mandibola, mentre quelle di rotazione sono più
accentuate rostralmente ai canini e sono massime a livello
della sinfisi mandibolare. Infine, i momenti di curvatura aumentano procedendo il direzione craniocaudale. Le forze di
curvatura sono le forze primarie che agiscono sulla mandibola; di conseguenza, da un lato all’altro dell’osso durante
questo tipo di sollecitazioni si sviluppa un continuum di
stress di tensione e compressione. I massimi stress di tensione si riscontrano a livello della superficie orale (alveolare), mentre le massime sollecitazioni di compressione si
hanno sulla superficie aborale. Di conseguenza, i mezzi di
fissazione devono essere applicati lungo la superficie di tensione, o orale, dell’osso ogni volta che sia possibile rispettando i principi biomeccanici (fissazione mediante cerchiaggio di trazione).
La fissazione con fili metallici intraossei viene applicata sulla base del principio del cerchiaggio di trazione, in
modo da neutralizzare efficacemente le forze di curvatura.
Le piccole dimensioni dei fili metallici permettono di applicarli lungo la superficie orale dell’osso, biomeccanicamente vantaggiosa, evitando facilmente i principali canali
neurovascolari e le radici dei denti. Rinforzando il cerchiaggio di trazione applicato sul lato di trazione dell’osso
(margine alveolare) con un sistema di “stabilizzazione” sul
lato di pressione dell’osso (margine aborale) si ottiene una
ulteriore stabilità. Questo approccio “bilanciato” viene utilizzato per contrastare le forze di taglio e di rotazione. Le
tecniche di cerchiaggio intraosseo si basano sulle forze statiche generate dalla tensione del filo di acciaio ortopedico e
dalle forze di frizione che si instaurano fra i frammenti ossei corrispondenti. Il prerequisito fondamentale è l’accurata riduzione anatomica, per cui il filo di acciaio ortopedico
può consentire di ottenere una sufficiente neutralizzazione
attraverso due ampi frammenti ossei contrapposti, fornendo
una stabilizzazione adeguata per la guarigione. Una comminuzione significativa, invece, preclude ogni possibilità di
ottenere una simile contrapposizione anatomica precisa di
tutti i frammenti. I fili intraossei vengono fatti passare attraverso dei fori da trapano di diametro leggermente maggiore a quello dei fili stessi, ed il contatto fra fili e osso è ridotto ad una singola piccola area che limita la quantità di
compressione interframmentaria che viene generata. Inoltre, i fili intraossei garantiscono solo la stabilità bidimensionale, e intorno ad essi si possono verificare delle rotazioni. Il principale svantaggio della fissazione mediante fili
metallici intraossei è che si ottiene solo un semplice adattamento (neutralizzazione) e non è possibile arrivare ad una
compressione interframmentaria continua attraverso tutti i
singoli frammenti ossei nelle fratture altamente comminute.
In queste lesioni instabili, o in caso di più aree di interessamento, il risultato finale è che si hanno comunque dei movimenti nonostante l’applicazione di molteplici fili intraossei. Il ripristino della normale occlusione e la stabilizzazione delle fratture gravemente comminute o di quelle con perdita di osso deve essere effettuato utilizzando una tecnica di
stabilizzazione alternativa, come ad esempio l’applicazione
di un fissatore esterno o di una placca da osteosintesi, come
mezzo di neutralizzazione o sostegno.
L’uso dei fissatori esterni permette di applicare gli impianti in modo biomeccanicamente valido anche quando i
chiodi vengono inseriti lungo la superficie aborale dell’osso. L’inserimento dei chiodi a livello aborale viene effettuato per evitare di danneggiare le radici dei denti e i principali canali neurovascolari. Questa posizione svantaggiosa viene bilanciata e corretta dalle dimensioni complessive e dalla configurazione del fissatore. Nella maggior parte dei casi, i fissatori esterni vengono riservati ai pazienti in cui l’entità della comminuzione o della perdita ossea e del danno
dei tessuti molli è tale da precludere l’applicazione di un sistema di stabilizzazione interna. Nella maggior parte dei casi, queste lesioni sono dovute a fratture gravemente contaminate o infette (ad esempio, da arma da fuoco). In questi
animali, il trattamento delle fratture o dei tessuti molli è
identico a quello delle fratture simili esposte, di grado 3,
delle estremità.
Uno svantaggio dei fissatori esterni è il numero limitato
delle dimensioni dei chiodi che possono essere applicati alla mandibola. Il punto debole di questo sistema resta l’interfaccia fra osso e chiodo, analogamente a quanto avviene per
la fissazione delle fratture delle ossa lunghe. Quest’ultimo
punto viene accentuato dalla scarsa larghezza dell’osso in
cui i chiodi vengono fissati. Ciò vale particolarmente nel
tratto caudale della mandibola, dove questo risultato è anco-
98
ra più difficile da ottenere. A causa della sottigliezza dell’osso della mascella, i fissatori esterni trovano scarsa applicazione per il trattamento delle fratture mascellari.
Per la fissazione mediante neutralizzazione o sostegno
delle fratture comminute del corpo mandibolare e di quelle
che coinvolgono i denti o comportano una perdita di osso
alveolare sono più indicate le viti e le placche da osteosintesi. La fissazione mediante placche, tuttavia, deve essere
ugualmente effettuata a livello del margine aborale dell’osso per evitare le radici dei denti. Questa posizione, biomeccanicamente sfavorevole, viene compensata e superata dalle grandi dimensioni e dall’orientamento della placca rispetto alle forze di curvatura. Come metodo ideale di fissazione delle fratture mandibolari sono state raccomandate le
placche a compressione dinamica (DCP- Synthes®; Wayne,
PA) e quelle da ricostruzione (Synthes®). Queste ultime
hanno il vantaggio di consentire la curvatura tridimensionale dell’impianto, al contrario di quelle da compressione
(DCP), per cui possono essere sagomate in modo da adattarsi più strettamente alla forma della mandibola. Sono
quindi considerate il metodo di fissazione ideale per i segmenti lunghi delle fratture mandibolari comminute. Tuttavia, può essere difficile sagomare accuratamente questi
grandi impianti in alcune aree della mandibola, a causa delle irregolarità anatomiche della superficie dell’osso. La
mancanza di una stretta corrispondenza fra la forma della
placca e quella dell’osso porta alla formazione di “scalini”
a livello del focolaio di frattura una volta che la placca sia
stata fissata in posizione, con conseguente malocclusione
secondaria. Un altro svantaggio si ha quando questi impianti vengono applicati a zone di osso sottile (ad esempio,
ramo mandibolare, mascellare) dal momento che è difficile
ottenere un’adeguata fissazione delle viti.
Le miniplacche [Martin® Maxillofacial; Gerbrüder Martin, Tuttlingen, Germany (via Walter Lorenz; Jacksonville,
FL)] sono state studiate per essere impiegate sulla base del
principio del cerchiaggio di trazione, applicando i mezzi di
fissazione lungo le linee delle forze di tensione, in modo
identico ai principi che regolano la fissazione mediante filo
di acciaio ortopedico intraosseo. Si utilizza un approccio bilanciato, fra cerchiaggio di trazione e fissazione mediante
placca da stabilizzazione, analogamente all’applicazione del
cerchiaggio intraosseo. In confronto a quest’ultimo, la superficie di contatto fra impianto e osso è molto maggiore, a
causa del maggior contatto circonferenziale della vite; di
conseguenza, è possibile ottenere una compressione interframmentaria molto superiore, sia fra la vite e l’osso che fra
i frammenti ossei contrapposti. Un ulteriore vantaggio della
fissazione mediante cerchiaggio intraosseo è la possibilità di
utilizzare queste placche come mezzi di sostegno. Le piccole dimensioni di questi impianti consentono di applicarli in
sedi simili a quelle dei fili metallici. Le placche possono essere collocate vicino al bordo alveolare e le viti inclinate in
modo tale da evitare l’interessamento delle radici dei denti.
Inoltre, la punta filettata della vite (1 mm) è tale da poter garantire una buona tenuta in qualsiasi spessore superiore ad 1
mm (anche se per determinare una compressione interfram-
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mentaria è necessario uno spessore minimo di 2 mm). Questi impianti, originariamente studiati per l’impiego nei traumi maxillofacciali dell’uomo, risultano ugualmente adatti
alle fratture della mascella e del ramo mandibolare del cane
e del gatto.
La stabilizzazione delle fratture con perdita di osso richiede una qualche forma di fissazione di sostegno, e nella
maggior parte dei casi viene eseguita ricorrendo ai fissatori
esterni o alle placche. In alternativa, questi mezzi possono
essere applicati come strumento di compressione o neutralizzazione, se lo spazio di frattura viene colmato da un “puntello” facilmente realizzabile utilizzando un innesto di osso
corticale. Ristabilendo la continuità dell’osso attraverso il
focolaio di frattura, le forze di taglio e di curvatura esercitate sulla parte vengono distribuite fra l’osso e l’impianto, esitando in una fissazione più stabile di quella che si potrebbe
ottenere usando soltanto il mezzo di sostegno. Il vantaggio
di questo tipo di approccio è quello di fare meno affidamento sull’impianto come unico mezzo di sostegno.
Un innesto di osso corticale deve essere collocato in un
ambiente “ideale” per assicurare che le cellule vengano appropriatamente trasformate ed inserite nell’osso. La penetrazione vascolare e la successiva rivascolarizzazione dell’innesto possono avvenire solo se tutti i movimenti di taglio fra i tessuti molli e l’osso e a livello dell’interfaccia fra
innesto e osso ricevente vengono eliminati. La stabilizzazione è massima quando l’innesto corticale si adatta esattamente al difetto dell’osso ricevente e viene mantenuto in sede con un sistema di fissazione rigido (cioè una placca compressiva). Ogni volta che sia possibile, si deve utilizzare un
innesto autogeno, piuttosto che uno omologo. Il principale
vantaggio del primo rispetto al secondo è che viene incorporato nell’osso ricevente in modo proporzionalmente più
rapido e completo. L’uso di tessuto autogeno, inoltre, consente di evitare i problemi potenzialmente associati al trattamento ed alla conservazione del materiale omologo, come
la mancata sopravvivenza delle cellule del donatore, l’immunogenicità o l’alterazione della robustezza meccanica. I
principali svantaggi dell’uso del tessuto autogeno sono rappresentati dal rischio di aumentare la morbilità del paziente, eventualmente anche con complicazioni infettive e/o da
fratture secondarie, ed il dolore, nonché dalla limitata disponibilità di osso donatore. Nell’uomo, i difetti delle ossa
maxillofacciali di origine traumatica vengono spesso colmati utilizzando degli innesti corticali autogeni a mezzo
spessore prelevati da cranio, costole o cresta iliaca. Questi
innesti in genere non vanno usati nel cane e nel gatto, dal
momento che è improbabile che offrano una resistenza
meccanica sufficiente a consentire il successo della riparazione. Questo problema viene attribuito all’incapacità di
proteggere adeguatamente la zona operata, a causa della
prevedibilmente scarsa collaborazione del paziente. Le due
sedi dove è possibile prelevare facilmente degli innesti a
tutto spessore nel cane e nel gatto sono le costole e le ulne.
Tutti gli innesti corticali vengono integrati con osso spongioso nel tentativo di accelerare la guarigione e l’incorporamento dell’innesto nell’osso ricevente.
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Nuovi materiali e nuove tecniche in ortopedia
Randy Boudrieau
DVM, Dipl. ACVS - Tufts University - North Grafton - Massachusetts (USA)
INTRODUZIONE
Lo scopo di questa sessione è quello di illustrare le differenti attrezzature ortopediche utilizzabili per la fissazione
delle fratture e le varie tecniche per il loro uso. Alcuni di
questi strumenti non sono nuovi, ma possono esserlo le tecniche di applicazione, basate su recenti progressi e/o cambiamenti di pensiero e sull’acquisizione di nuove informazioni.
La base di questa sessione è l’interazione fra tutti i partecipanti, per cui tutti noi potremo aumentare le nostre conoscenze partendo dall’esperienza del gruppo. La discussione si svilupperà lungo il tracciato presentato, ma senza essere limitata ad esso. Il testo deve quindi essere considerato solo come una linea guida capace di coprire la maggior parte
dei nuovi strumenti e delle nuove tecniche attualmente utilizzati. I vari argomenti elencati in queste note verranno
trattati in base alle richieste dei partecipanti.
STRUMENTI “SPECIALI”
1) Placche da ricostruzione acetabolari (AO/ASIF®;
Synthes, Wayne, PA).
L’uso delle placche acetabolari non è certamente nuovo;
tuttavia, la fissazione delle fratture acetabolari effettuata utilizzando esclusivamente questo metodo è molto limitata. Sono disponibili due misure di placca (da 2,7 mm e 3,5 mm),
ma, nonostante questa apparente diversificazione delle possibilità di scelta, solo poche fratture risultano adatte ad esse:
principalmente quelle medio-acetabolari e quelle relativamente semplici. In un animale con una frattura appropriata e
di taglia adeguata, il loro uso semplifica la riparazione della
lesione ossea.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi le fratture dell’acetabolo sono molto più comminute (e quindi richiedono una
placca più lunga che si estenda attraverso l’osso integro) e
sono localizzate più caudalmente (per cui necessitano di una
placca che segua un profilo che si sviluppa su tre dimensioni e in direzioni opposte di curvatura su una breve distanza).
Inoltre, se si sono verificate anche delle fratture della diafisi
dell’ileo in posizione adiacente al margine acetabolare craniale, si riscontrano ulteriori difficoltà, dal momento che è
necessario estendersi su due segmenti ossei per agganciarsi
all’osso integro, in quanto non può essere coinvolto separatamente in presenza di fratture in questa sede. In quest’ultimo caso, l’uso di una placca da ricostruzione (di solito da
2,7 mm) permette di aggirare queste difficoltà.
La placca da ricostruzione può essere sagomata sul margine acetabolare caudale, estendendosi per l’intera rima acetabolare fino all’ischio, e dal tratto dorsale della rima stessa
all’ileo. Inoltre, può essere tagliata in varie misure per garantire l’inserimento delle viti nell’osso integro su ciascun
lato della frattura. Queste placche sono abbastanza lunghe
da estendersi per l’intero emibacino, se necessario, dall’ala
dell’ileo all’ischio e possono essere sagomate in modo da seguire la forma dell’osso sulla rima acetabolare dorsale.
La principale difficoltà che si incontra nell’impiegare nel
modo descritto una placca da ricostruzione è rappresentata
dalla sagomatura stessa, un processo che richiede molto
tempo. Quest’ultimo problema può essere aggirato, in una
certa misura, incurvando preventivamente la placca prima
dell’intervento, in modo che, in sede intraoperatoria, sia necessaria solo più una “regolazione fine”. Questa sagomatura
preventiva può essere effettuata su un preparato anatomico
ricavato da un animale più o meno della stessa taglia del paziente, conoscendo la localizzazione della frattura e la sua
configurazione. La placca deve essere sagomata accuratamente; in caso contrario, quando le viti vengono serrate si
formeranno degli scalini a livello della superficie di frattura.
Questo aspetto riveste un’importanza particolarmente critica
per la riparazione delle fratture intraarticolari.
[Si potrebbe sviluppare una discussione sui
vantaggi/svantaggi della fissazione delle placche mediante
cemento o delle tecniche alternative con metilmetacrilato.
Al momento attuale, ritengo che queste tecniche non siano
necessarie e possano essere inappropriate/inadeguate per
queste fratture.]
2) Placche veterinarie tagliabili (AO/ASIF®; Synthes, Wayne, PA).
L’uso delle placche veterinarie tagliabili (veterinary cuttable plate, VCP) è stato descritto per la prima volta nel
1989 e valutato ulteriormente nel 1991 e nel 1992. Queste
placche sono state studiate per coprire la carenza esistente
fra le differenze di dimensioni delle placche da 2,7 mm e di
quelle da 2,0 mm; il limite maggiore di quest’ultima è data
dalla mancanza di una misura di lunghezza complessiva tale da estendersi al di sopra della maggior parte delle fratture
delle ossa lunghe nei cani delle razze di piccola taglia e toy
e nei gatti (nella maggior parte dei casi, fratture del radio e
della tibia). Sono disponibili due dimensioni (1,0 mm ed 1,5
mm). A differenza della nomenclatura comunemente utilizzata, che indica le dimensioni delle placche sulla base di
quelle delle viti da utilizzare [ad esempio, una placca a compressione dinamica (DCP®) da 2,7 mm utilizza viti da 2,7
mm; i fori per le viti in questa placca sono realizzati specificamente per accogliere queste viti] – questi numeri fanno riferimento allo spessore della placca. La placca da 1,0 mm
accetta viti sia da 1,5 mm che da 2,0 mm. La placca da 1,5
mm accetta sia viti da 2,0 mm che da 2,7 mm. Entrambe le
placche sono larghe 7 mm e si possono acquistare della lunghezza di 30 cm, da tagliare successivamente nella misura
desiderata. Inoltre, sono studiate in modo da poter essere sovrapposte l’una sull’altra; entrambe le placche hanno la stes-
100
sa larghezza e la stessa spaziatura fra i centri dei fori per le
viti. La sovrapposizione delle placche consente di ottenere
una maggiore robustezza complessiva dell’impianto.
Tuttavia, queste placche devono essere utilizzate con
cautela nelle fratture altamente comminute, nelle quali devono funzionare come mezzo di sostegno. La loro resistenza alla curvatura, individualmente bassa, le predispone al cedimento precoce (di solito si ha un cedimento ciclico da fatica). Questo problema può essere superato sovrapponendo
due placche nel modo precedentemente indicato. L’operazione va preferibilmente eseguita utilizzando le due placche
differenti (1,0 mm e 1,5 mm) per la maggior parte delle fratture delle ossa lunghe; quella più grande (1,5 mm) viene collocata in posizione adiacente all’osso, mentre quella più piccola (1,0 mm) viene applicata successivamente; inoltre, quest’ultima viene tagliata più corta della prima, riducendo così la concentrazione delle sollecitazioni (stress) a livello delle estremità terminali delle placche.
Un altro potenziale svantaggio dell’impiego della VCP è
il gran numero di viti da inserire, che può determinare un significativo danno vascolare, con conseguente infiammazione corticale, che a sua volta può causare una diminuzione
della porosità corticale dovuta al processo di rimodellamento. Di contro, la vicinanza dei fori in queste placche consente di inserire il maggior numero di viti in frammenti ossei
più corti o più piccoli.
La rigidità delle placche sovrapposte è risultata compresa fra quella degli impianti DCP standard da 2,0 mm e da 2,7
mm. Tale rigidità non viene influenzata dalle dimensioni
delle viti utilizzate per fissare la placca in posizione. La rigidità aggiunta, rispetto alle placche da 2,0 mm, e la possibilità di sovrapporle l’una sull’altra per aumentarne ulteriormente la robustezza possono consentire di utilizzare con
successo questi impianti nelle fratture delle ossa lunghe del
tratto prossimale degli arti nei pazienti più piccoli.
3) Placche da osteotomia pelvica.
Sono disponibili due differenti tipi di placche – quella
AO/ASIF® diritta e ritorta, e quella angolata Slocum® (Slocum Enterprises, Inc.; Eugene, OR). La placca diritta è una
DCP a 6 fori da 2,7-3,5 mm fornita con un’angolazione di
45°, che però può essere modificata secondo necessità. La
placca angolata viene fornita con tre inclinazioni predeterminate (20°, 30° e 40°) e non può essere modificata.
Le placche angolate presentano numerosi vantaggi rispetto a quelle diritte. La loro applicazione sulla diafisi dell’ileo
è semplificata dal fatto che la superficie inferiore della placca, che viene a contatto dell’osso, è pianeggiante. Cosa ancora più importante, la placca angolata consente la rotazione e
l’adduzione del segmento acetabolare dell’osso, con una restrizione significativamente minore del canale pelvico rispetto a quella ottenuta con la placca diritta. Infine, il disegno dei
fori per le viti delle placche angolate consente di inserire due
viti in ciascun frammento osseo parallelamente alla linea di
osteotomia. Questa caratteristica neutralizza più facilmente le
forze di rotazione che agiscono sull’ileo, predisponendo al
cedimento dell’impianto. Il principale svantaggio della placca angolata è dato dalle sue piccole dimensioni rispetto alla
grandezza del bacino quando viene impiegata nelle razze canine di mole maggiore e di età superiore ad un anno circa.
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Questa apparente limitazione viene tuttavia superata attenendosi scrupolosamente alla tecnica originariamente descritta,
che prevede la realizzazione di un cerchiaggio supplementare con filo metallico a livello dell’ischio.
4) Fissatori esterni acrilici (APEF® System. Innovative Animal Products; Rochester, MN).
Anche il concetto di fissatori esterni acrilici (ESF) non è
nuovo ed è stato frequentemente utilizzato servendosi di una
gran varietà di composti (come le resine da ortodonzia o i
prodotti acrilici per lo zoccolo), solitamente applicati “a mano” in modo che si estendano sopra la frattura ed includano
le estremità esposte dei chiodi da fissazione. La tecnica grezza degli esordi è stata raffinata sulla base dei confronti della
rigidità e della robustezza con il sistema più comunemente
utilizzato, che prevede l’impiego di barre di connessione di
Kirschner-Ehmer (KE) da 0,3 cm e 0,5 cm (OTI Veterinary
Products; Hunt Valley, MD). È possibile ottenere un grado di
robustezza paragonabile a quello dell’acciaio inossidabile
servendosi di un tubo di dimensioni appropriate, applicato
sui fori di fissazione, da riempire con il materiale acrilico
(vale a dire che i tubi di connessione del sistema APEF® da
21 e 15 mm di diametro riempiti di materiale acrilico svolgono una funzione paragonabile a quella delle barre di connessione di acciaio inossidabile da 0,3 cm e 0,5 cm).
Il produttore ha messo in commercio un APEF® Base
Kit, che contiene tutta l’attrezzatura necessaria da utilizzare
con questo sistema (una scatola di plastica, una vaschetta
per la sterilizzazione dei chiodi, istruzioni scritte ed un video dimostrativo), un APEF® Frame Alignment Kit ed una
varietà di strumenti APEF® [una doppia confezione acrilico/tubo, una singola confezione acrilico/tubo, mezza confezione di acrilico/tubo, 4 chiodi medi per impianti bilaterali
con filettatura centrale a profilo positivo (0,3 cm di diametro per 17 cm di lunghezza), 4 chiodi medi per impianti monolaterali con un’estremità filettata a profilo positivo (0,3
cm di diametro per 13 cm di lunghezza), 8 piccoli chiodi
non filettati (0,2 cm di diametro per 12 cm di lunghezza) e
8 chiodi medi non filettati (0,3 cm di diametro per 17 cm di
lunghezza)]. Tutti questi componenti possono essere acquistati anche singolarmente.
Il principale vantaggio del fissatore acrilico è quello di
non aver bisogno che i chiodi vengano applicati con precisione in ciascun osso – non occorre che siano tutti orientati
esattamente sullo stesso piano. Uno svantaggio di questa
metodica è l’impossibilità di mantenere la riduzione della
frattura prima della applicazione e del successivo indurimento del materiale acrilico. Questo problema può essere
superato servendosi di una tecnica in due fasi, fissando temporaneamente 1-2 chiodi da fissazione su ciascun lato della
frattura con dei morsetti standard applicati in posizione periferica rispetto a quella prevista per il tubo da riempire di
materiale acrilico. Per facilitare questa fase intermedia si
può anche utilizzare l’APEF® Frame Alignment Kit. Questo
kit contiene 4 morsetti universali (che non necessitano di
una chiave speciale per essere serrati) e delle barre di connessione (2 da 0,3 cm di diametro e 2 da 0,5 cm di diametro)
da utilizzare, rispettivamente, con le configurazioni APEF®
di dimensioni standard (21 mm) e mini (15 mm). Questi
morsetti vengono applicati in modo tale da mantenere tem-
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poraneamente la riduzione della frattura e sono poi rimossi
dopo l’applicazione del materiale acrilico.
Uno degli svantaggi del metodo che utilizza i composti
acrilici è dato dal costo dei materiali (cemento metilmetacrilato) se utilizzati sterili (è necessaria l’irradiazione), oppure
dalla potenziale perdita dell’asepsi operatoria se utilizzati
non sterili. Questo problema viene parzialmente superato dal
sistema APEF®, in cui la polvere ed il liquido, non sterili,
vengono forniti in una confezione sterile sigillata. Questo
preconfezionamento, inoltre, semplifica il processo di miscelazione e la successiva introduzione del materiale nei tubi corrugati. Questi ultimi (da 21 mm o 15 mm di diametro)
sono integrati da “raccordi” e “tappi” che ne semplificano la
costruzione ed il successivo riempimento. La polvere ed il
liquido vengono forniti in una singola confezione chiusa con
un divisore esterno in due pezzi che tiene separata la miscela. La miscelazione di queste componenti si ottiene rimuovendo il divisore, permettendo alla polvere ed al liquido di
mescolarsi l’una all’altro all’interno dello stesso contenitore, unico, sigillato e sterile. Una volta che il materiale acrilico abbia raggiunto una fase liquida più viscosa, si taglia un
angolo della confezione per consentire alla miscela (non sterile) di defluire nel tubo. È importante conoscere il volume
di composto acrilico presente in ognuna di queste confezioni: quelle doppie riempiono due tubi standard, quelle singole un tubo standard o due minitubi e le mezze confezioni sono adatte ad un minitubo. La sterilità è mantenuta fino all’apertura della confezione; di conseguenza, per arrivare a questo stadio è necessaria una certa pianificazione preventiva. Il
composto acrilico viene miscelato solo dopo che la frattura
sia stata ridotta e i tubi di connessione siano stati fissati in
posizione sopra i chiodi. Inoltre, si devono chiudere tutte le
incisioni aperte, per non compromettere l’asepsi della tecnica chirurgica al momento dell’apertura della confezione.
Il calore sviluppato dalla polimerizzazione del materiale
acrilico è molto elevato (>55° C, tale da causare la necrosi
termica dell’osso e dei tessuti molli); di conseguenza, i tessuti molli devono essere protetti da qualsiasi contatto con il
composto in caso di una sua eventuale fuoriuscita dal tubo.
Il problema può essere ridotto al minimo coprendo i tessuti
molli prima di introdurre il materiale acrilico nei tubi e, in
secondo luogo, aspettando fino a che la miscela non abbia
raggiunto uno stato più viscoso prima di immetterla nei tubi.
Se quest’ultima operazione viene effettuata quando il composto si trova in fase liquida, la miscela può fuoriuscire attraverso tutti i fori del tubo (area di penetrazione dei chiodi).
Un altro metodo per arrestare le fuoriuscite è quello di applicare in queste sedi dei piccoli tamponi di cotone. Il trasferimento del calore lungo i chiodi è insufficiente a causare problemi ossei o tissutali, a condizione che fra il materiale acrilico e qualsiasi tessuto vitale venga mantenuta una distanza minima di 1 cm.
Il riposizionamento di queste configurazioni può essere
abbastanza complicato e laborioso. Qualsiasi modificazione
richiede la rimozione di un breve tratto della colonna acrilica, da effettuare utilizzando una sega. Il tubo in plastica che
circonda le estremità tagliate delle barre residue deve essere
asportato per 1-2 cm, dopodiché nel materiale acrilico si praticano diversi fori che forniranno la base per il successivo
“rattoppo” acrilico, da applicare sulle estremità della colon-
101
na. Si mescola quindi una piccola quantità di materiale acrilico e lo si applica sagomandolo in modo che vada a colmare lo spazio rimasto e si sovrapponga alle due sommità recise della colonna acrilica precedente.
La rimozione del fissatore esterno si effettua tagliando i
chiodi fra le colonne e l’osso, e successivamente asportandoli. In alternativa, è possibile tagliare le colonne acriliche fra
ciascun chiodo e poi rimuovere ogni impianto servendosi del
piccolo blocco di materiale acrilico come di un manico.
Questa tecnica sembra essere utile soprattutto in caso di
fratture mandibolari. In queste ultime è difficile applicare i
chiodi in modo che si inseriscano in modo ottimale nell’osso e contemporaneamente mantenere un allineamento
uniforme (su un unico piano per poter utilizzare una sola
barra di connessione). Inoltre, la configurazione può essere
sagomata a forma di “U”, in modo da circondare la mandibola rostralmente, rafforzando ulteriormente la configurazione. Un ulteriore vantaggio del materiale acrilico è quello
di essere radiotrasparente e, quindi, di non ostacolare la valutazione radiografica della guarigione della frattura.
“NUOVE” TECNICHE
1) Riduzione delle fratture a cielo chiuso
La riduzione delle fratture a cielo chiuso non è certamente una tecnica nuova, ma negli ultimi anni è stata oggetto di nuova attenzione. I rinnovati e fondamentali punti di
applicazione sono rappresentati dalla possibilità di ottenere
una fissazione scheletrica rigida con un’adeguata riduzione
della frattura. Questi scopi sono raggiungibili con l’applicazione di un fissatore esterno agli arti in posizione appropriata, cioè tale da garantire una sufficiente distrazione della
frattura ed un corretto allineamento. La riduzione della frattura a cielo chiuso e la successiva fissazione sono adatte soprattutto alle fratture delle estremità distali degli arti.
È stato dimostrato che, durante le fasi iniziali della guarigione delle fratture e della formazione del callo, l’ematoma contribuisce alla induzione della produzione di tessuto
osseo e, di conseguenza, possiede un potenziale osteogenico
riconosciuto. Pertanto, svolge un ruolo effettivamente importante nel processo di guarigione. La riduzione a cielo
chiuso consente all’ematoma stesso di restare in situ e, inoltre, riduce il rischio di contaminazione operatoria ed il possibile sviluppo di infezioni. Infine, la riduzione delle fratture a cielo chiuso permette di minimizzare la distruzione fisica del focolaio di frattura e dei tessuti circostanti e, quindi,
preserva al massimo l’apporto vascolare, che è il principale
responsabile della guarigione non complicata delle fratture.
Questi principi sono la base della “fissazione biologica”, un
termine recentemente utilizzato per descrivere i principi di
base della riparazione delle fratture (questo concetto verrà
ripetuto per altre tecniche e strumenti descritti più oltre).
Questa tecnica presume l’applicazione di una fissazione
di sostegno. Di conseguenza, di solito si applica un fissatore
esterno di tipo III, (sufficientemente robusto da neutralizzare tutte le forze di distrazione che agiscono a livello del focolaio di frattura senza supporto supplementare o ripartizione dei carichi con l’osso). Applicare il sistema di fissazione
in modo tale da garantire una ragionevole riduzione anato-
102
mica può essere molto difficile. Nella maggior parte dei casi, la riduzione a cielo chiuso viene eseguita a livello delle
fratture delle estremità degli arti (distalmente all’articolazione del gomito e del ginocchio), dove il focolaio di frattura
può essere adeguatamente identificato con la palpazione in
modo da assicurare l’adeguata riduzione della lesione (grazie alla minore quantità di tessuti molli interposti fra la cute
e l’osso, rispetto al tratto prossimale degli arti). La riduzione della frattura, permettendo una sovrapposizione del 50%
circa delle estremità dei frammenti ossei, è di solito sufficiente a consentire una guarigione senza complicazioni.
La riduzione della frattura risulta facilitata se l’animale
viene appeso per l’arto colpito, in modo che il suo peso determini la distrazione necessaria ad ottenere la riduzione, oltre all’appropriato posizionamento anatomico. La manipolazione del focolaio di frattura può essere effettuata facilmente regolando l’altezza del tavolo operatorio. Nonostante l’apparente semplicità di questa tecnica, in alcuni casi può essere ancora presente una tumefazione dei tessuti molli sufficiente ad impedire l’accurata palpazione del focolaio di frattura. In questi casi, per assicurare il corretto posizionamento
anatomico si esegue un “mini”-approccio chirurgico. Non
viene effettuato alcun tentativo per evacuare l’ematoma della frattura o fissare i piccoli frammenti ossei in posizione.
Questo mini-approccio chirurgico consiste semplicemente
nella realizzazione di una finestra aperta sul focolaio di frattura in modo da assicurare una soddisfacente riduzione. Il
metodo di appendere l’animale per l’arto colpito permette
anche di applicare senza difficoltà il fissatore esterno, sia
mediante i morsetti standard di KE che con il materiale acrilico.
Una volta iniziata la guarigione, il fissatore esterno viene
“destabilizzato” (“dinamicizzato”) passando a uno di tipo II,
permettendo alla frattura in via di guarigione di “sentire”
maggiormente i carichi fisiologici a questo livello. La rimozione graduale degli impianti aumenta il carico che grava
sull’osso in via di guarigione in modo da determinare differenti condizioni locali (modificazioni dell’ambiente meccanico) più vantaggiose per la guarigione. La diminuzione della rigidità della configurazione dopo l’inizio del processo riparativo aumenta il carico assiale del focolaio di frattura, che
di conseguenza stimola il consolidamento ed il rimodellamento della frattura stessa (il mantenimento del fissatore evita le sollecitazioni eccessive che potrebbero causare una nuova frattura). È stato dimostrato che il momento ottimale per
iniziare questo processo è a circa 6 settimane dall’intervento. La rimozione graduale del fissatore esterno si basa sulle
premesse associate al concetto di “fissazione biologica”.
2) Fissazione a trave a doppia T o “I-Beam” (“placca/barra”).
Un’ulteriore applicazione della “fissazione biologica” si
può effettuare a livello del tratto prossimale degli arti utilizzando una filosofia simile a quella della chiusura a cielo
chiuso delle fratture suggerita per l’applicazione del fissatore esterno a livello del tratto distale delle estremità. Questo
metodo utilizza un impiego combinato di chiodi endomidollari e placca, viene solitamente applicato alle fratture comminute, con un approccio chirurgico limitato (“mini”), cioè
tale da aprire semplicemente una finestra sul focolaio di frat-
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tura. Anche in questo caso, gli impianti svolgono una funzione di sostegno estendendosi al di sopra dell’area della
frattura. Lo scopo è quello di ridurre al minimo la distruzione dell’ematoma e dei tessuti molli circostanti, come nel caso della riduzione a cielo chiuso e dell’applicazione del fissatore esterno a livello delle estremità. La principale differenza è legata alla maggior quantità di tessuti molli presenti
nel tratto prossimale degli arti e alla maggiore necessità di
visualizzare le estremità dell’osso per applicare una placca
in queste aree. Con questa tecnica, l’osso viene esposto in
modo tale da poter applicare una placca sui frammenti prossimali e distali non fratturati, attraversando l’area di comminuzione. Prima dell’applicazione della placca, si inserisce un
chiodo endomidollare (di diametro relativamente piccolo) in
modo da ottenere un primo allineamento assiale. L’area del
focolaio di frattura non va disturbata (teoricamente, si dovrebbero utilizzare accessi separati a ciascuna estremità dell’osso; tuttavia nella pratica clinica risulta più facile realizzare un unico ampio approccio operatorio, sempre però senza disturbare l’ematoma di frattura). La placca viene fissata
ai due capi ossei, facendo attenzione unicamente alla lunghezza dell’arto ed alla sua rotazione; l’allineamento assiale
è già garantito dal chiodo endomidollare. Le viti vengono inserite in entrambe le corticali alle estremità metafisarie dell’osso, dove le dimensioni sono maggiori e tali da rendere
più facile applicare le viti in modo da evitare il chiodo endomidollare. Le viti continuano ad essere inserite nelle due
corticali finché è possibile, sebbene risulti accettabile anche
l’inserimento in una sola corticale. Il chiodo endomidollare
deve essere di dimensioni sufficientemente ridotte (pari al
25% circa del diametro del canale midollare) da non interferire con la successiva applicazione delle viti. In questo sistema la placca svolge funzioni simili a quelle del fissatore
esterno, mantenendo la lunghezza dell’osso ed impedendone
la rotazione.
L’orientamento della combinazione chiodo/placca non è
diverso dai principi meccanici che stanno alla base della progettazione e della costruzione di una trave a doppia T (o “I”beam), da cui il nome. Questo tipo di fissazione ha successo
grazie alle proprietà meccaniche di ognuna delle componenti. Due impianti di questo tipo applicati in parallelo mostrano una resistenza alla curvatura superiore a quella di ciascuno dei due da soli. Nonostante la capacità di una placca di
neutralizzare con successo la maggior parte delle forze di
curvatura, l’aggiunta del chiodo endomidollare (a dispetto
delle sue piccole dimensioni) aumenta significativamente la
robustezza del sistema di fissazione, che risulta molto superiore a quella della sola placca di sostegno. Osservazioni
sperimentali, eseguite in un modello con uno spazio di 60
mm sottoposto a compressione assiale, hanno dimostrato
una riduzione delle sollecitazioni di 2 volte nel sistema placca/chiodo rispetto alla sola placca. Analogamente, la resistenza allo sforzo del sistema placca/chiodo è aumentata di
dieci volte rispetto alla sola placca.
3) Riduzione delle fratture a cielo aperto e fissazione “combinata” in aree compromesse (fratture distali del radio nei
cani di piccola taglia).
Per molti anni, è stato ipotizzato che l’elevata frequenza
delle unioni ritardate e non avvenute osservate in questi ani-
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mali fosse dovuta ad una diminuzione della vascolarizzazione del tratto distale del radio nei cani appartenenti alle razze
di piccola taglia. In effetti, recentemente è stato dimostrato
che l’apporto ematico intraosseo è significativamente inferiore in questi animali rispetto a quelli di mole maggiore. La
capacità rigenerativa della circolazione arteriosa metafisaria
può essere diminuita e, di conseguenza, non riuscire a ripristinare la circolazione in quest’area in condizioni di stabilità
marginale. Quindi, lo scopo primario del trattamento di queste fratture deve essere quello di ottenere una stabilizzazione
scheletrica assolutamente rigida, per garantire un ambiente
ottimale ai fini della rivascolarizzazione. Di conseguenza, la
fissazione mediante placca a compressione è stata indicata
come il miglior metodo per la riparazione delle fratture (ed è
stata documentata come la tecnica d’elezione per il trattamento delle complicazioni delle fratture in quest’area).
Nonostante le raccomandazioni per l’applicazione di una
fissazione mediante placca compressiva a livello delle fratture distali del radio nei cani di piccola taglia, l’intervento risulta tecnicamente difficile per le ridotte dimensioni dell’osso, la localizzazione distale ed il reperimento degli impianti.
Nella maggior parte dei casi, si utilizza una placca a T
AO/ASIF® da 2 mm; tuttavia, spesso questa non permette di
fissare saldamente la placca al frammento osseo prossimale,
più lungo. La sicurezza della fissazione della placca dipende
dalla brevità di quest’ultima rispetto alla lunghezza complessiva dell’osso in questi casi. Ciò porta ad avere un braccio di leva più lungo applicato sull’estremità prossimale della placca (e dell’osso in questa sede), ed agisce come fonte
di stress, determinando potenzialmente l’estrazione delle viti o la frattura dell’osso.
L’applicazione di un fissatore esterno per l’intera lunghezza dell’osso al fine di eliminare le sollecitazioni a livello dell’estremità prossimale della placca permette di superare facilmente questo potenziale problema. Il fissatore esterno può essere rimosso dopo 6-8 settimane (secondo un principio analogo a quello della rimozione graduale effettuata
con il solo fissatore).
Anche se nel trattamento di queste fratture si può utilizzare il fissatore esterno da solo senza l’applicazione di una
placca, l’impossibilità di garantire la compressione a livello
del focolaio di frattura e l’incapacità di ottenere una fissazione sufficientemente rigida fanno sì che questa tecnica non
sia ideale. La robustezza del fissatore viene compromessa,
su base puramente meccanica, a causa delle ridotte dimensioni dei chiodi (fili di Kirschner) da utilizzare in queste ossa di piccole dimensioni.
Un fissatore esterno alternativo, invece, può rappresentare una soluzione più semplice e più sostenibile. Associando
i fili di Kirschner “a oliva” del fissatore a una configurazione circolare esterna distalmente, con un’applicazione simile
oppure standard prossimalmente, è possibile ottenere le caratteristiche della associazione fra placca e fissatore esterno
precedentemente descritte. I fili di Kirschner a oliva sotto
tensione consentono un’adeguata presa nel piccolo frammento distale e il disegno circolare del fissatore, utilizzato in
associazione con le barre di connessione filettate, permette
di ottenere una compressione nel focolaio di frattura.
4) Osteogenesi da distrazione
103
Si definisce osteogenesi da distrazione l’induzione meccanica della neoformazione di osso ottenuta con la graduale
separazione dei frammenti. Questa tecnica è stata descritta
per la prima volta da Ilizarov. Questo autore ha dimostrato
che l’osso sottoposto ad una distrazione molto lenta andava
incontro ad una guarigione all’interno dello spazio di frattura mediante formazione di osso intramembranoso. La formazione di osso intrecciato avviene in modo orientato, seguendo la traccia formata dal collagene, prodotto in risposta alle
forze di tensione presenti all’interno dello spazio di frattura.
In origine, veniva praticata una corticotomia (piuttosto
che una osteotomia) per preservare la circolazione midollare senza provocare ulteriori danni. Recenti risultati clinici e
sperimentali indicano che una osteotomia trasversale determina una rigenerazione ossea simile. Prima della distrazione, si raccomanda di lasciar trascorre un periodo di latenza
(o di ritardo) che consenta la formazione del legame fibrovascolare fra le superfici ossee e la successiva attivazione
della formazione dell’osso intrecciato. L’immediata distrazione dopo l’osteotomia determina la distruzione della crescita vascolare all’interno delle strutture neoformate e predispone ad una scadente formazione di osso rigenerato ed
eventualmente alla mancata unione. Un periodo di latenza
prolungato può invece esitare nel consolidamento prematuro dello spazio di osteotomia. È stato suggerito come periodo di latenza ideale quello compreso fra 2 e 7 giorni, a seconda dell’età del paziente, dell’osso colpito, della localizzazione dell’osteotomia e di eventuali patologie primarie.
Nell’animale giovane (cane o gatto) si effettua tipicamente una osteotomia piuttosto che la corticotomia, tecnicamente più difficile, e la distrazione inizia entro i primi 2-3
giorni. In alcuni casi, viene iniziata immediatamente (nei
soggetti giovanissimi). In generale, la circolazione midollare viene ripristinata entro i primi giorni dopo l’osteotomia;
di conseguenza, questa rapida ricostituzione del circolo endostale non impedisce la guarigione della frattura. La distrazione deve essere iniziata molto precocemente nel cane o nel
gatto in accrescimento, perché in caso contrario si verificherebbe una guarigione/consolidamento tale da rendere impossibile ogni ulteriore distrazione.
La distrazione viene effettuata alla velocità di 1 mm/die
(di solito suddivisa in due interventi giornalieri; è stato dimostrato che l’aumento del ritmo della distrazione non determina significative differenze di effetto), in modo tale da
mantenere uno spazio di frattura radiotrasparente di circa 34 mm. È importante esaminare radiograficamente l’area con
cadenza almeno settimanale per assicurarsi che l’ampiezza
dello spazio resti appropriata. Una distrazione troppo rapida
(e quindi uno spazio troppo largo) porta ad una pseudoartrosi; al contrario, una distrazione troppo lenta (e quindi uno
spazio troppo stretto) determina un’unione prematura. Questa tecnica è limitata più dai vincoli imposti dai tessuti molli che dalla lunghezza dell’osso.
Il metodo di Ilizarov in origine era stato studiato per correggere simultaneamente le deformazioni angolari e di torsione durante l’allungamento degli arti. A causa della natura
multidimensionale di queste correzioni, erano necessarie
speciali configurazioni circolari. Per l’impiego nell’uomo,
sono state prodotte molte configurazioni differenti, che tuttavia hanno trovato scarsa applicazione in medicina veteri-
104
naria, a causa del loro costo estremamente elevato. Questi
strumenti possono anche essere molto complessi e richiedere una significativa “curva di apprendimento” per poter essere applicati ed utilizzati senza complicazioni. Lo sviluppo
da parte della IMEX® di un fissatore circolare costituisce un
tentativo di risolvere questi problemi, principalmente riducendo il costo e la complessità del prodotto.
È possibile adottare un metodo “semplificato” per ottenere soltanto un allungamento assiale servendosi di un sistema di KE standard. Le correzioni angolari e torsionali vengono eseguite immediatamente prima dell’allungamento.
Allo scopo si ricorre alla tecnica dell’osteotomia a cuneo
chiusa. Una volta ottenuto in questo modo il riallineamento
degli arti, è possibile effettuare la distrazione assialmente alla lunghezza ripristinata dell’arto. Non è necessario alcuno
strumentario nuovo, a parte le barre di connessione opportunamente filettate: Hoffman® barre di connessione regolabili
da 5 mm per estensori da avambraccio (Howmedica®;
Rutherford, NJ). Queste vengono utilizzate al posto delle
barre di connessione standard da 3/16” (medium) del fissatore di KE. L’unica modifica necessaria riguarda i morsetti
di KE, che devono essere allargati con un trapano (dal loro
diametro originale di 3/16”) fino a 5 mm, per poter accogliere il diametro leggermente maggiore delle barre di questo estensore. Per il resto, l’applicazione del fissatore viene
effettuata secondo le procedure di routine, rispettando i principi standard della fissazione delle fratture per realizzare un
fissatore esterno di tipo III. I chiodi inseriti in ciascun frammento osseo, prossimalmente e distalmente all’osteotomia
correttiva, consentono all’estensore di determinare la distrazione desiderata (tutti e 3 gli estensori devono essere allungati alla stessa velocità). Gli estensori dell’avambraccio presentano due bulloni circolari applicati in posizione contrapposta ad una linguetta sporgente in modo da permettere il
movimento desiderato: ad 1/4 di giro corrisponde uno spostamento di 1/2 mm. Una volta raggiunta la lunghezza desiderata per l’osso, la distrazione viene arrestata (o invertita per ottenere una compressione interframmentaria); infine, il fissatore viene rimosso dopo aver verificato radiograficamente la
guarigione. Anche in questo caso, la rimozione del fissatore
può essere effettuata per gradi. Una volta arrestata la distrazione, gli estensori possono essere sostituiti con barre di
connessione standard fino alla guarigione.
Il consolidamento dell’osso rigenerato viene presto seguito dal rimodellamento haversiano (circa 3 mesi nei modelli animali) e i normali elementi midollari compaiono in
genere entro 4 mesi. Il rimodellamento finale della corticale
richiede circa 6-7 mesi dal termine della distrazione. Nell’arco di questo periodo di tempo, viene ripristinata l’integrità meccanica della corticale. Il caricamento attivo dell’arto e la dinamizzazione del fissatore facilitano il rimodellamento osseo e la corticalizzazione dell’osso rigenerato.
STRUMENTI “NUOVI”
1) Fissatori circolari (IMEXTM Veterinary, Inc; Longview, TX).
Attualmente, è in via di sviluppo da parte della IMEX®
un fissatore circolare (disponibile in commercio a partire
dal 1996?) che costituisce il diretto risultato della grande
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quantità di informazioni raccolte con l’impiego del metodo
di Ilizarov per l’osteogenesi da distrazione nell’uomo. In
precedenza, non era mai stato reso facilmente reperibile un
semplice strumento analogo da utilizzare in ambito veterinario {nonostante l’impiego del fissatore di Ilizarov [Medicalplast s.r.l.; Milano, Italia (via Smith & Nephew Richards,
Inc; Memphis, TN)], e il fissatore ad anello JorVet® (Jorgensen Laboratories, Inc; Loveland, CO)}. Alcuni operatori intraprendenti hanno anche realizzato degli strumenti
“fatti in casa”.
Questi fissatori utilizzano dei chiodi di piccolo calibro
(fili di Kirschner a oliva) e una configurazione esterna circolare, associata a barre di connessione filettate, che permettono l’allungamento (o la compressione) dell’osso. Le
configurazioni circolari consentono di applicare i chiodi su
più piani; le piccole dimensioni dei chiodi dei fissatori - applicati su piani divergenti - permettono anche di fare presa in
un frammento osseo entro una distanza minima. La robustezza dei piccoli fili di Kirschner deriva dal fatto che vengono posizionati sotto tensione (il che viene permesso soltanto dall’arresto a oliva sul filo, che si appoggia su un lato
dell’osso).
Le configurazioni circolari e le barre di connessione da
allungamento permettono di correggere le deformazioni angolari e torsionali, di allungare gli arti o di ottenere tutti e 3
questi effetti contemporaneamente. Possono anche essere
utilizzati per sottoporre a compressione il focolaio di frattura. Inoltre, possono essere usati per il trasporto osseo.
Può risultare estremamente utile un fissatore esterno
“combinato” (una configurazione circolare realizzata utilizzando fili di Kirschner a oliva sotto tensione abbinata a chiodi e morsetti standard di KE). La configurazione circolare si
può utilizzare nelle piccole fratture epifisarie, come quelle
distali del radio nei cani di piccola taglia precedentemente
ricordate. Anche per l’inserzione del fissatore esterno nel
frammento prossimale è possibile utilizzare la configurazione circolare o, in alternativa, quella standard. Quest’ultimo
metodo può risultare il più utile per le fratture della porzione prossimale degli arti, in cui è possibile avere un accesso
totale alla parte soltanto distalmente (per cui l’applicazione
della componente circolare della configurazione del fissatore è limitata a quest’area; prossimalmente, si deve impiegare un fissatore standard).
2) Securos® External Fixator System (Securos, Inc; Fiskdale, MA).
Se i chiodi da fissazione possono essere applicati prima
dei morsetti, è possibile utilizzare un metodo semplice ed alternativo per inserirli. L’unico requisito è che i chiodi siano
collocati alla distanza appropriata dalle barre di connessione
su entrambi i lati dell’osso e, anche in questo caso, lungo un
unico piano. Di conseguenza, è necessario utilizzare un morsetto che possa essere fissato sopra la barra di connessione
(ed il morsetto da fissazione) (c.d. morsetto “half-shell”) ed
è necessario uno strumento di puntamento.
Recentemente, alla fine del 1997, è stato posto in commercio un nuovo sistema di fissazione scheletrica esterna
(Securos®; Fiskdale, MA) che permette di praticare preventivamente i fori guida con un centrapunte, inserire accuratamente i chiodi per impianti bilaterali nei fissatori di tipo II
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ed impiegare chiodi filettati a profilo positivo in tutte le localizzazioni. Una recente indagine sulle caratteristiche meccaniche del morsetto del fissatore di questo sistema ha dimostrato che è più rigido di quello di Kirschner-Ehmer
(KE). Un’altra recente indagine ha preso in esame questo sistema di fissazione in una serie di fratture del radio e della
tibia in cani con lesioni non sperimentalmente indotte.
Il fissatore esterno Securos® comprende un sistema di
puntamento e dei morsetti da fissazione (di misura paragonabile a quella media e piccola di KE) che possono essere
applicati su un chiodo di fissazione ed una barra di connessione preesistenti (precedentemente applicati). Il sistema di
puntamento è costituito da dei centrapunte per trapano che
permettono di praticare fori guida da 3,2 o 2,4 mm. Il chiodo viene inserito nell’osso attraverso il foro guida preventivamente realizzato servendosi del sistema di puntamento
(dopo aver rimosso il centrapunte) in modo da rilocalizzare
accuratamente il foro guida. Una volta che il chiodo sia in
posizione, il sistema di puntamento viene rimosso e si applicano i morsetti del fissatore - facendoli scivolare sul chiodo
e poi chiudendoli sulla barra di connessione, serrandoli infine in posizione.
Nello studio clinico che è stato condotto, sono stati riscontrati tempi chirurgici più brevi, guarigioni radiografiche
più rapide e rimozioni del fissatore più precoci rispetto ai dati rilevati in una precedente indagine. In quest’ultimo lavoro
era stato valutato un fissatore esterno di tipo II realizzato con
il sistema di KE in una serie simile di fratture del radio e della tibia.
L’allentamento prematuro del chiodo è la più comune
complicazione della fissazione esterna delle fratture. La bassa incidenza del problema in questo studio è stata probabilmente dovuta alla capacità del sistema di facilitare l’applicazione di chiodi a filettatura centrale a profilo positivo in
tutte le localizzazioni, dal numero relativamente elevato di
impianti bilaterali e dalla preventiva realizzazione con il trapano dei fori guida per tutti i chiodi da inserire. Inoltre, al
minor allentamento dei chiodi può aver contribuito la maggiore rigidità della struttura formata dai chiodi stessi e dalla
barra di connessione uniti dal nuovo morsetto.
3) SK Esternal Fixator System (IMEXTM Veterinary, Inc;
Longview, TX).
Questo sistema è stato commercializzato solo alla fine
del 1998. Si basa su un morsetto a due ganasce (clam-shell),
che può essere applicato su una barra di connessione (dopo
aver realizzato la configurazione di un fissatore esterno).
Con questo sistema, il morsetto risulta dotato di due aree di
fissazione indipendenti: una per la barra di connessione e
l’altra per il chiodo. Con questa tecnica, il morsetto viene
applicato sulla barra di connessione e serrato; invece, la posizione per il chiodo rimane aperta. Quest’ultima caratteristica permette di orientare il morsetto in modo che resti immodificato durante la preventiva realizzazione del foro pilota (in cui il morsetto agisce come un sistema di puntamento)
e nel successivo inserimento del chiodo.
Questo sistema presenta vantaggi simili a quelli indicati
per quello Securos precedentemente citato: consente di realizzare preventivamente con un trapano i fori guida e successivamente di inserire in modo accurato i chiodi, nonché
105
di utilizzare chiodi filettati a profilo positivo in tutte le localizzazioni. Inoltre, è costituito da una barra di connessione
più grande (anche se leggera), che rappresenta la caratteristica distintiva di questo nuovo metodo. L’uso di questa tecnica viene indicato per la realizzazione di fissatori esterni
“più semplici” ma più robusti, cioè di tipo I piuttosto che di
tipo II. La realizzazione di configurazioni di tipo I permette
di evitare l’inserimento dei chiodi nelle aree caratterizzate
da una maggiore presenza di tessuti molli. Ad esempio, è
questo il caso della faccia laterale del radio/ulna o della tibia/fibula, che sarebbero attraversati dai chiodi per impianti
bilaterali di un fissatore esterno con configurazione di tipo
II. Le configurazioni di tipo I frequentemente realizzate con
questo sistema negli animali di mole maggiore vengono
classificate come Ib, in contrapposizione con quelle di tipo
Ia, più comunemente applicate.
4) Sistema a chiodo endomidollare bloccato (Interlocking
Nail System; Innovative Animal Products; Rochester,
MN).
La principale forza di distrazione che viene neutralizzata
da un chiodo endomidollare è la curvatura; le forze di rotazione e di compressione non possono invece essere adeguatamente contrastate con questo metodo, e richiedono l’uso di
una qualche forma di stabilizzazione collaterale. Nella maggior parte dei casi, questa è rappresentata da un fissatore di tipo esterno a due chiodi (o a 4 chiodi). Lo svantaggio di quest’ultimo tipo di approccio risulta evidente con le fratture del
tratto prossimale degli arti. Le lesioni ossee in queste sedi sono ricoperte da una gran quantità di tessuti molli e qualunque
forma di fissazione esterna può interferire con queste strutture e, in ultima analisi, con la funzione dell’arto.
Il chiodo endomidollare bloccato è un metodo per contrastare le forze di rotazione e di compressione, da utilizzare in sostituzione del fissatore esterno aggiuntivo. Con questo sistema, il chiodo endomidollare viene “ancorato” sia
prossimalmente che distalmente da viti trapassanti prossimali e distali che vengono inserite nei frammenti ossei attraversando un foro preventivamente praticato nel chiodo. In
questo modo, non si possono avere né compressioni, né rotazioni, dal momento che sia il frammento prossimale della
frattura che quello distale sono fissati al chiodo endomidollare. Tuttavia, occorre notare che le viti non fanno presa nel
chiodo, dal momento che il diametro del foro in esso praticato è leggermente superiore a quello esterno delle viti stesse. Di conseguenza, le forze di taglio a livello del focolaio di
frattura non sono completamente neutralizzate, a meno che
il chiodo non riempia totalmente la cavità midollare a livello della frattura.
L’applicazione del chiodo bloccato richiede uno strumentario appositamente realizzato ed è limitata dalle dimensioni del chiodo stesso: sono disponibili chiodi di 2 diametri
(6 mm, usato con viti da 3,5 mm, e 8 mm, usato con viti da
4,5 mm) e 5 lunghezze (140, 160, 185, 205 e 230 mm). Ogni
chiodo presenta due fori praticati prossimalmente e distalmente – tutti allineati lungo lo stesso piano. L’applicazione
del chiodo deve essere eseguita in modo tale che le viti vengano inserite in senso lateromediale. Lo strumentario fornito (Drill Jig) assicura l’appropriato orientamento.
Il chiodo viene inserito nella cavità midollare utilizzan-
106
do il Nail Extension (che costituisce il “manico” per l’inserimento). Le dimensioni del chiodo (lunghezza e diametro)
vengono determinate servendosi come guida dell’osso controlaterale non fratturato. Idealmente, il chiodo deve riempire la maggior parte della cavità midollare a livello della
frattura. Questo è il primo limite di questa tecnica, dal momento che sono disponibili chiodi di soli 2 diametri. Il
chiodo deve estendersi per tutta la lunghezza dell’osso e la
sua estremità deve spingersi ben al di sotto del focolaio di
frattura (in modo tale che i suoi fori si trovino sufficientemente distanti dalla frattura). Quest’ultima caratteristica
evidenzia il secondo limite della tecnica. Quindi, si raccorda il Drill Jig al Nail Extension (assicurandosi che il chiodo sia stato correttamente diretto, cioè che i fori siano
orientati in senso mediolaterale); la maschera di guida permette di identificare la posizione dei fori del chiodo non più
visibile all’interno dell’osso. Si praticano quindi con il trapano i fori nell’osso, prossimalmente e distalmente. Il Drill
Jig permette di orientare il foro attraverso il chiodo. Le viti (due prossimalmente e due distalmente) vengono inserite
utilizzando la tecnica standard ASIF. Sfortunatamente, si
incontra qualche difficoltà nell’inserire le viti nel frammento distale (a questo livello, nella maschera c’è abbastanza “gioco” da permettere che la vite venga inserita nell’osso senza che attraversi il chiodo). Questo è il terzo limite di questa tecnica. Il problema può essere superato con
il ricorso alle radiografie intraoperatorie o agli intensificatori di brillanza. Infine, il Drill Jig ed il Nail Extension vengono rimossi e la ferita operatoria viene chiusa secondo le
procedure di routine.
L’uso di questa tecnica è stato suggerito per le fratture
diafisarie altamente comminute, principalmente a livello
della parte prossimale degli arti, dove risulta impossibile
l’applicazione dei fissatori esterni. Questo concetto si basa
anche sui principi della “fissazione biologica” dal momento
che l’interruzione dell’ematoma di frattura viene ridotta al
minimo.
L’ultimo limite di questa tecnica è l’incapacità di neutralizzare le forze di taglio a livello del focolaio di frattura - a
meno che non si effettui un cerchiaggio aggiuntivo in filo di
acciaio ortopedico. Dal momento che le viti non fanno effettivamente presa nel chiodo, è presente un certo grado di forze di taglio e rotazione (anche se limitate). Ne derivano dei
micromovimenti che possono ostacolare la guarigione dell’osso. La prova dell’esistenza di questi movimenti è data
dal fatto che queste fratture in genere guariscono con un callo di grandi dimensioni, dovuto appunto al movimento.
Questi limiti possono rendere inapplicabile la metodica
in una vasta gamma di fratture da riparare. La tecnica può
però risultare ideale nelle semplici fratture mediodiafisarie
trasversali o oblique brevi di dimensioni appropriate, con
scontinuazione dell’osso in due parti, che permette di effettuare un cerchiaggio in filo di acciaio ortopedico per eliminare le forze di taglio. Questi ultimi metodi non permettono
una sufficiente neutralizzazione delle forze di rotazione ed è
questa la ragione per cui si applica un fissatore esterno di tipo I a due chiodi. Il chiodo bloccato elimina la necessità di
ricorrere al fissatore esterno in questa situazione.
Le principali complicazioni documentate con l’impiego
di questa tecnica sono rappresentate principalmente dal
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mancato inserimento delle viti all’interno del foro del chiodo in corrispondenza del frammento distale. L’utilizzo dei
chiodi quanto più possibile lunghi, l’impiego del più lungo
Nail Extension e l’uso della connessione più distante al Drill
Jig aumentano il “gioco” dell’estremità distale della maschera, permettendo alla vite di mancare il bersaglio. La
malposizione della vite nell’estremità distale del chiodo si
può avere in una percentuale di casi che può arrivare al 10%.
Queste viti devono essere sostituite e posizionate correttamente. L’altra grave complicazione osservata è stata la frattura del chiodo attraverso un foro nei chiodi da 6 mm. È stato sottolineato che l’aggiunta di una vite non riduce le sollecitazioni esercitate sul chiodo (al contrario di quanto avviene, ad esempio, quando il foro di una placca DCP viene occupato da una vite), dal momento che la vite non fa presa nel
chiodo. Di conseguenza, la presenza o l’assenza della vite
non fa differenza nella suscettibilità del chiodo al cedimento. Quest’ultimo è molto più probabile per le grandi dimensioni del foro rispetto al diametro del chiodo (6 mm) [questo
chiodo probabilmente verrà riprogettato per accogliere una
vite più piccola].
5) Miniplacche (mandibolari/mascellari).
L’uso delle miniplacche per la fissazione delle fratture
mandibolari e mascellari ha rivoluzionato il trattamento di
queste lesioni nell’uomo. Le miniplacche permettono una rigida stabilizzazione tridimensionale di ognuno e tutti i segmenti ossei per la ricostruzione della faccia. Anche se trovano impiego principalmente nella ricostruzione mascellare
dell’uomo, sono usate con successo anche per le fratture
mandibolari.
Le miniplacche vengono applicate basandosi sul principio del cerchiaggio di trazione, in modo da neutralizzare efficacemente le forze di curvatura. Le loro piccole dimensioni permettono di evitare facilmente i principali canali neurovascolari e le radici dei denti durante la loro applicazione e
durante l’inserimento delle viti sulla superficie orale dell’osso, biomeccanicamente vantaggiosa. Un’ulteriore stabilità è
data dall’integrazione della fissazione mediante cerchiaggio
di trazione che viene applicata sul lato di trazione dell’osso
(bordo alveolare) con la fissazione di “stabilizzazione” sul
lato di pressione dell’osso (margine aborale). Questo approccio “bilanciato” viene utilizzato per contrastare le forze
di taglio e di rotazione. L’applicazione delle miniplacche è
identica all’uso dei cerchiaggi interframmentari applicati
lungo la superficie del cerchiaggio di trazione (superficie alveolare) dell’osso. Il mancato riconoscimento di quest’ultimo punto esita nel cedimento della fissazione dovuto alle ridotte dimensioni ed alla scarsa robustezza di queste placche.
L’applicazione di questi piccoli impianti alle superfici
della mandibola e della mascella, caratterizzate da molteplici curvature, risulta facile. Questi impianti possono essere
sagomati tridimensionalmente, allo stesso modo delle placche da ricostruzione. Le loro ridotte dimensioni permettono
rapidi e frequenti cambiamenti di direzione. Questa procedura è facilitata dall’uso di apposite piegatrici, che garantiscono anche il mantenimento della configurazione placcaforo. Le piccole dimensioni di questi impianti (che utilizzano viti autofilettanti da 1,5 mm) permettono di ottenere
un’adeguata presa nell’osso (è necessario uno spessore mi-
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nimo di 1 mm) per la fissazione delle placche di neutralizzazione; invece, si può ricorrere alla fissazione mediante
placca a compressione nelle ossa più spesse (uno spessore
minimo di 2 mm garantisce la maggiore area di presa necessaria per ottenere la compressione interframmentaria).
Il Martin® miniplate system [Gerbrüder Martin, Tuttlingen, Germany (via Walter Lorenz; Jacksonville, FL)] è stato
il tipo di impianto utilizzato nel cane e nel gatto sino ad oggi. Anche la AO/ASIF® possiede un sistema simile; tuttavia,
questi impianti si devono richiedere alla loro separata divisione maxillofacciale. La maggior parte di questi impianti è
disponibile solo in titanio, invece che in acciaio inossidabile. Il principale svantaggio dell’uso di questi sistemi è dato
dal loro costo relativamente elevato rispetto agli impianti
standard.
Va sottolineato che questo sistema viene utilizzato come
metodo collaterale per la riparazione delle fratture mandibolari/mascellari nel cane e nel gatto. Sembra utile principalmente per le fratture della mascella e per quelle della parte
caudale della mandibola (giunzione del corpo mandibolare
con il ramo verticale).
6) Cannulated Screw Set (AO/ASIF®; Synthes, Wayne, PA).
Occasionalmente, per trattare determinate fratture in cui
l’osso a disposizione è minimo e quindi lo spazio per gli errori è estremamente limitato, può essere necessario inserire
le viti con la massima precisione. Queste fratture sono quelle condilari dell’estremità distale dell’omero e quelle del
collo del femore (soprattutto nelle razze canine di piccola taglia e nel gatto).
Il sistema di viti incannulate (3,5 mm e 4,5 mm) rappresenta un metodo preciso per applicare le viti direttamente sopra il filo di Kirschner; di conseguenza, una volta che quest’ultimo sia stato collocato in modo tale da soddisfare il chirurgo è possibile applicare la vite esattamente nella stessa
sede. Questo sistema permette di effettuare tutte le possibili
correzioni e ridirezioni utilizzando il filo di Kirschner di piccolo calibro. Proprio le ridotte dimensioni del filo permettono questi molteplici inserimenti, che ovviamente non sono
realizzabili quando per l’applicazione delle viti si praticano
fori di diametro maggiore.
La base di questo sistema è rappresentata dalla vite incannulata che può essere applicata direttamente sul filo di
Kirschner. Inoltre, tutti gli strumenti sono incannulati per la
stessa ragione. Tutte le punte da trapano, i maschi per filettare ed i cacciaviti sono incannulati e si utilizza un misuratore alternativo per determinare la lunghezza delle viti sulla
base di quella del filo di Kirschner rimasto esposto (filo di
Kirschner filettato da 1,25 mm; 150 mm di lunghezza); il
misuratore tiene conto di questa lunghezza premisurata e
sottrae 5 mm (corrispondenti alla porzione filettata del filo
di Kirschner) in modo che il chiodo resti fissato nell’osso attraverso le operazioni di foratura, filettatura ecc… L’unica
differenza nell’“ordine” di routine per l’inserimento delle viti (tecnica standard di foratura, misurazione, filettatura e avvitatura) è che la profondità del foro per la vite da applicare
viene misurata prima di praticarlo con il trapano. Occorre rilevare che la punta da trapano incannulata è maggiormente
suscettibile di rottura; di conseguenza, i fori devono essere
effettuati lentamente ed utilizzando una minore spinta assia-
107
le, prestando una particolare attenzione alla curvatura. Le
punte consumate o danneggiate devono essere immediatamente sostituite. La profondità del foro viene controllata con
una guida dotata di un arresto regolabile (fissato sulla base
della misurazione ottenuta con il misuratore di profondità).
Una volta che la vite sia stata appropriatamente collocata e
serrata in posizione, il filo di Kirschner viene rimosso.
Il principale svantaggio di questo sistema è dato dal costo elevato dello strumentario e degli impianti.
7) Limited Contact – Dynamic Compression Plate (LCDCP®), AO/ASIF®; Synthes, Wayne, PA).
Questa placca è stata studiata per migliorare quella a
compressione dinamica standard (DCP®). Nella sua progettazione si è tenuto conto degli eventi vascolari che accompagnano la fissazione della placca e le successive modificazioni dell’osso corticale. Il concetto fondamentale in questa
sede è quello di “impianto biologico”. La modificazione del
disegno della placca è stata effettuata nel tentativo di ridurre al minimo gli effetti vascolari negativi (porosità corticale)
osservati utilizzando la DCP® standard.
La porosità corticale osservata immediatamente al di sotto di una placca durante i primi stadi della guarigione di una
frattura non è dovuta alla protezione dagli stress meccanici,
ma ad un disturbo della vascolarizzazione corticale. Questa
correlazione è stata dimostrata sperimentalmente (diminuzione della vascolarizzazione che corrisponde alle alterazioni da
rimodellamento istologico limitate all’area di relativa avascolarizzazione). Il concetto di contatto limitato è stato basato sull’ipotesi che una riduzione della superficie di contatto
fra la placca e l’osso avrebbe determinato un calo dell’interferenza con l’apporto ematico e quindi minori alterazioni da
rimodellamento con conseguente porosità corticale. I dati
sperimentali confortano questa ipotesi, dimostrando una significativa riduzione dell’area di perdita ossea al di sotto di
una placca a contatto limitato rispetto ad una DCP® standard.
Il disegno della LC-DCP® è stato realizzato utilizzando
la Finite Element Analysis, per cui è stata prodotta una placca di rigidità uniforme alla curvatura ed alla torsione; in questo modo è stato eliminato il rischio che le aree di placca rimosse (per ottenere il contatto limitato) determinassero un
indebolimento dell’impianto. Il risultato finale è stata una
placca con un rendimento meccanico migliorato. L’uniforme
rigidità della LC-DCP® ha consentito di applicare in modo
continuo la curvatura (senza che si verificasse alcuna piega
brusca a livello dei fori per le viti); un ulteriore vantaggio di
queste caratteristiche di curvatura uniforme è quello di permettere il mantenimento di una buona aderenza fra la testa
delle viti ed i fori delle placche. La rigidità uniforme consente anche una distribuzione altrettanto uniforme delle sollecitazioni su una estesa lunghezza di placca, proteggendo i
fori dagli stress localizzati. Di conseguenza, la LC-DCP® è
meno esposta al logorio, anche in presenza di fori aperti al
di sopra di un difetto dell’osso (una grande area di concentrazione degli stress nella DCP®).
Nel corso del processo di rielaborazione, sono stati anche
modificati i fori per le placche (è presente una spaziatura
uniforme fra i fori, invece della sezione “spaziatrice” a metà
del corpo della placca, sulla base del modello matematico
descritto). Il foro della DCP®, basato sul principio dello sci-
108
volamento sferico, viene realizzato ad entrambe le estremità
del foro della LC-DCP®. Ora è possibile ottenere la compressione in entrambe le direzioni. Questa modificazione ha
anche il vantaggio di consentire una maggiore inclinazione
della vite all’interno del foro della placca: da un valore massimo di 40° per la DCP® ad uno di 80° per la LC-DCP®.
Un ulteriore vantaggio della LC-DCP® è dato dal fatto
che la reazione ossea che circonda la placca risulta diminuita. Questo effetto si nota principalmente a livello del rivestimento lamellare che si forma intorno ai margini della placca.
La LC-DCP® determina un profilo osseo più appiattito ed è
meno fragile grazie alla sua base più ampia (ed alla sezione
trasversale più trapezoidale). Le manifestazioni cliniche sono
rappresentate dalla maggiore facilità di rimozione della placca, con meno rischi di danneggiamento, e dalla diminuzione
della possibilità di rifrattura dovuta alla presenza di una minore zona di concentrazione degli stress in questa sede.
Un altro argomento interessante aggiunto nel corso della riprogettazione è stata la rivalutazione del concetto di
“vite a compressione”. La fissazione standard con viti a
compressione, effettuata con viti da corticale completamente filettate, inserite attraverso un foro di passaggio nella corticale più vicina alla placca ed ancorate in un foro filettato in quella più lontana, è stata messa in discussione. È
stato determinato sperimentalmente che una vite a compressione inserita attraverso l’osso con un’inclinazione di
20° esita in una certa traslazione longitudinale della vite
stessa nel foro di passaggio. Ciò avviene quando la vite si
viene a trovare a ridosso dell’estensione orizzontale del foro. Una vite a compressione completamente filettata, quindi, finisce per far presa nel foro di passaggio. Ciò comporta una significativa riduzione della forza di compressione
della vite (>40%) rispetto alle viti filettate solo parzialmente. Questi riscontri hanno portato allo sviluppo di viti
filettate solo nella parte anteriore. In queste viti a filettatura parziale, la parte liscia ha lo stesso diametro del diametro esterno del filetto della vite. La parte non filettata, che
corrisponde perfettamente al foro di passaggio, non può più
far presa nella corticale vicina alla placca; di conseguenza,
attraverso la corticale più lontana viene trasmesso il 90%
della forza di compressione.
L’intero sistema LC-DCP® è stato originariamente progettato in puro titanio. È stato dimostrato che gli impianti così realizzati hanno una maggiore resistenza alla corrosione
ed una maggiore biocompatibilità rispetto alle leghe di cobalto-cromo dell’acciaio inossidabile. L’ovvia limitazione
da questo punto di vista è data dal costo necessario per riattrezzare l’intera serie degli impianti (disponibili in 3,5 mm e
4,5 mm). Nella rivalutazione di questa filosofia “del solo titanio” hanno svolto un ruolo importante i fattori economici
ed è stata pianificata la produzione di questi impianti in acciaio inossidabile, in modo da ovviare alla necessità di riattrezzarsi completamente. La piena disponibilità degli impianti in acciaio inossidabile non è ancora stata determinata.
Una volta realizzati in acciaio inossidabile, oltre alle placche di nuovo disegno (ed alle viti parzialmente filettate per la
compressione interframmentaria), gli unici pezzi di strumentario necessari sono la LC-DCP® neutral/load guide e/o la
Universal Drill Guide. Quest’ultima sopperisce alla necessità
di avere una guida da trapano convenzionale neutra/com-
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pressiva (prodotta per adattarsi alla nuova configurazione dei
fori). Il manico della LC-DCP® neutral load guide presenta
un’incisione alla base allo stesso modo della LC-DCP® per
evitare possibili confusioni con le guide da trapano per le
DCP® standard. La Universal Drill Guide è costituita da due
componenti: una manica esterna che corrisponde alla punta
della superficie inferiore della testa della vite, ed una interna,
che corrisponde al diametro della punta da trapano da utilizzare (per esempio, 2,5 mm per una vite da 3,5 mm). La manica interna è caricata da una molla che gli permette di scivolare dentro e fuori da quella esterna. Quando la manica viene sottoposta a pressione, quella interna viene retratta dentro
a quella esterna e quando viene spinta contro i lati dei fori
delle placche si ottiene la posizione “neutrale”. Quando la
manica viene applicata senza pressione, quella interna rimane estesa oltre quella esterna e quando viene spinta contro i
lati dei fori si ottiene la posizione “sotto carico” (1mm).
Conclusioni
Sono state descritte numerose tecniche e strumenti nuovi. Alcune di queste componenti semplificano le tecniche di
fissazione delle fratture già in uso, come nel caso di varie
placche speciali. Altre metodiche presentate possono modificare i tradizionali processi mentali che siamo abituati ad
impiegare, come nel caso della fissazione “combinata”. Tutte queste variazioni si fondano su una approfondita conoscenza degli aspetti meccanici dei mezzi di fissazione e, cosa ancora più importante, del modo con cui essi interagiscono con la situazione biologica. Negli ultimi anni, l’attenzione è stata riportata alla radice del problema del trattamento
delle fratture - riconsiderare le basi biologiche su cui si fonda il successo o il fallimento dei vari metodi di fissazione;
una rinascita, se si vuole, delle tecniche di “fissazione biologica”. Infine, quando crediamo di aver scoperto qualcosa di
nuovo, incontriamo un’affermazione fatta molti anni fa
(Girdlestone – 1932!).
“Esiste un rischio intrinseco nell’efficienza meccanica
dei nostri metodi moderni, il rischio che l’operatore si dimentichi che l’unione non può essere imposta, ma deve essere incoraggiata… perché l’osso è una pianta, con le sue radici nei tessuti molli, e, quando le sue connessioni vascolari
vengono danneggiate, spesso richiede non tanto la tecnica di
un mobiliere quanto la cura paziente di un giardiniere.”
Letture consigliate
Gerber C, Mast JW, Ganz R. Biological internal fixation of fractures. Arch Orthop Trauma Surg 1990; 109:295-303.
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109
Correzione delle deformità dell’arto posteriore
Randy Boudrieau
DVM, Dipl. ACVS - Tufts University - North Grafton - Massachusetts (USA)
Le deformazioni angolari e torsionali sono la conseguenza di un’anomalia di crescita a livello delle fisi. Queste
alterazioni, pur potendo insorgere in una fase molto precoce della vita, in genere si rendono evidenti solo dopo che si
è verificata la maggior parte della crescita longitudinale
dell’arto (permettendo alle deformazioni di rendersi fisicamente evidenti). Di conseguenza, in questi casi il principale motivo di preoccupazione non è il ripristino della lunghezza totale dell’arto, ma solo la correzione della deformazione (la correzione angolare/torsionale con simultaneo
allungamento dell’arto rappresenta un intervento molto più
complicato, che non verrà preso in considerazione in questa
sede). Le deformazioni degli arti posteriori possono essere
dovute a varie ragioni, e si ritiene che nella maggior parte
dei casi si verifichino a causa di una lussazione rotulea mediale di grado IV; tuttavia, si riscontra frequentemente anche l’eziologia idiopatica. Queste deformazioni di solito sono localizzate a livello delle estremità metafisarie delle ossa, il che rende maggiormente difficile dal punto di vista
operatorio sia l’esecuzione dell’osteotomia correttiva che la
sua successiva stabilizzazione.
Dal momento che nella maggior parte dei casi sono la
conseguenza di una lussazione rotulea mediale di grado IV,
queste deformazioni sono in genere limitate all’area dell’articolazione del ginocchio, fra il tratto distale del femore e
quello prossimale della tibia. Si riscontrano anche regolarmente alcune patologie a carico dell’articolazione stessa, dal
momento che queste deformazioni si sviluppano così vicino
ad essa. La maggior parte di queste alterazioni intrarticolari
può essere trattata con successo, a condizione che i problemi primari siano correlati soltanto alla profondità del solco
femorale ed alla posizione della tuberosità tibiale. Se invece
sono presenti altre anomalie, come ad esempio un’ipoplasia
del condilo femorale, la prognosi è molto più riservata, data
l’impossibilità di correggere quest’ultima condizione. Qualsiasi correzione chirurgica delle patologie dell’articolazione
del ginocchio (ad esempio, sulcoplastica, trasposizione della tuberosità tibiale, ecc...) deve essere effettuata dopo aver
corretto tutte le deformazioni angolari e torsionali degli arti
(osteotomia correttiva) in modo da ottenere prima un corretto riallineamento complessivo dell’arto.
La maggior parte di queste deformazioni angolari e torsionali può essere corretta eseguendo un’osteotomia a cuneo (cuneiforme). Un’attenta cura dei dettagli permette di
correggere simultaneamente sia le componenti angolari che
quelle torsionali di ciascun osso effettuando un numero mi-
nimo di due tagli osteotomici. Il femore e la tibia devono
essere presi in considerazione separatamente. La tecnica
chirurgica si basa sull’identificazione dell’orientamento
della superficie articolare, e non sulla configurazione complessiva dell’arto, e sull’esecuzione delle osteotomie adiacenti a partire da questo punto di riferimento. È difficile ottenere una precisa valutazione preoperatoria del grado di
queste deformazioni. Nella maggior parte dei casi viene
suggerito di effettuare un esame radiografico preoperatorio
per definire la deformazione e calcolare l’entità della correzione necessaria. Tuttavia, non è detto che una pianificazione preoperatoria così “attenta” permetta una correzione sufficiente! La ripresa di radiografie appropriate dipende dalla
posizione in cui viene collocato l’arto colpito. La maggior
parte dei posizionamenti standard tende a disporre l’arto in
modo complessivamente appropriato - e le misurazioni vengono prese da queste proiezioni. Sfortunatamente, a causa
della presenza maldefinita di deformazioni angolari e torsionali, questo tipo di posizionamento NON fornisce una
rappresentazione accurata dell’autentica deformità. Le radiografie DEVONO essere effettuate cercando di ottenere
un orientamento anatomico quanto più possibile corretto a
partire dall’articolazione coxofemorale - e poi mantenere
questa posizione in tutte le proiezioni radiografiche successive delle porzioni distali dell’arto (sia che si tratti del tratto distale del femore che dell’intera tibia). Anche con questa modificazione della tecnica radiografica, è possibile che
il grado di deformità venga sottostimato o non completamente apprezzato.
Dal momento che la maggior parte delle deformazioni
degli arti posteriori è limitata alla zona del ginocchio, verrà
descritto un esempio di tecnica intraoperatoria basata sulla
superficie articolare femoro-tibiale (presumendo quindi che
l’orientamento del tratto prossimale del femore e dell’articolazione coxofemorale siano anatomicamente corretti). Tutte
le correzioni vengono effettuate in sede intraoperatoria, indipendentemente da qualsiasi angolo calcolato in fase preoperatoria sulla base delle radiografie. Con questa tecnica,
tutta la correzione viene eseguita basandosi sulla valutazione intraoperatoria della posizione dell’arto con l’aiuto di fili
di Kirschner “marcatori” che definiscono la posizione anormale dell’arto. Questi fili di Kirschner “marcatori” vengono
applicati in modo tale da definire la superficie articolare che,
a sua volta, evidenzia anche il grado di deformazione presente (angolare e/o torsionale). Il principio fondamentale è
quello di ottenere un appropriato allineamento della superfi-
110
cie articolare con l’asse maggiore dell’arto (cioè, l’asse
maggiore dell’arto deve essere allineato perpendicolarmente
alla superficie articolare). Il primo filo di Kirschner (0,062”)
viene inserito nell’epifisi, distalmente all’area della deformazione, e parallelamente alla superficie articolare del tratto distale del femore (definendo la deformazione angolare);
questo filo di Kirschner è anche orientato parallelamente all’asse di rotazione dell’articolazione (definendo la deformazione torsionale). Un secondo filo di Kirschner viene inserito perpendicolarmente all’asse maggiore dell’osso (tratto distale del femore nell’esempio in esame), in posizione immediatamente prossimale all’area della deformazione ed anche
parallelamente all’asse di rotazione della vicina articolazione dell’arto (in questo caso, quella coxofemorale - indipendentemente dal primo filo di Kirschner), definendo così la
posizione normale del tratto prossimale dell’arto. Questi due
fili di Kirschner, che si estendono sulla deformità, indicano
quindi il grado di angolazione e rotazione presente e, di conseguenza, l’entità della correzione necessaria. Vengono eseguite due osteotomie, ciascuna parallela ai fili di Kirschner
preinseriti; questi vengono utilizzati per guidare la direzione
dei tagli da praticare con la sega. Le superfici ossee recise
vengono quindi riaccostate, facendo in modo che i due fili di
Kirschner preinseriti si vengano a trovare paralleli l’uno all’altro ed all’interno dello stesso piano, permettendo la correzione sia angolare che torsionale.
La fissazione definitiva della frattura si ottiene utilizzando una placca a compressione - in modo da assicurare il
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massimo contatto e la massima stabilità fra le superfici ossee; nella maggior parte dei casi si utilizza una placca a T (a
causa delle piccole dimensioni del frammento osseo distale).
[Per la fissazione definitiva della frattura, si può anche utilizzare la tecnica del cross-pinning, associata o meno ad un
fissatore esterno di tipo I, (due chiodi) tuttavia, di solito si
osservano tempi di guarigione più prolungati e morbilità più
elevata rispetto alla stabilizzazione con placca]. Ognuno di
questi metodi di fissazione si estende attraverso l’area della
fisi e, se questa è ancora aperta, impedisce qualsiasi ulteriore crescita longitudinale dell’osso, oltre a rendere impossibile qualsiasi ulteriore deviazione angolare o torsionale. Se
l’osso deve ancora crescere, ci si deve attendere un certo
grado di accorciamento dell’arto nei pazienti trattati con
questa tecnica (a condizione che la crescita residua sia limitata, questa non è una conseguenza grave).
L’intera procedura viene ripetuta sull’osso lungo situato
all’altra estremità dell’articolazione colpita, per arrivare infine ad ottenere l’allineamento complessivo desiderato. Occasionalmente, la deformazione è localizzata per la maggior
parte su un solo lato dell’articolazione, per cui può essere
sufficiente una sola correzione.
Immediatamente dopo l’intervento si instaura una fisioterapia per evitare qualsiasi potenziale problema associato
alla perdita di escursione e funzionalità dell’articolazione. Si
deve incoraggiare la ripresa precoce della deambulazione;
tuttavia, l’esercizio fisico va limitato fino al riscontro radiografico di un’unione ossea.
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Fallimenti tecnici in ortopedia
Randy Boudrieau
DVM, Dipl. ACVS - Tufts University - North Grafton - Massachusetts (USA)
Ognuno dei principali metodi di fissazione si basa per la
propria applicazione su una serie di principi. Rispettarli
permette di utilizzare correttamente le relative tecniche, in
modo da evitare cedimenti e/o rotture premature e permettere al chirurgo di neutralizzare in modo appropriato tutte le
forze di distrazione che agiscono sulla fissazione. Sfortunatamente, molte di queste regole vengono ignorate - principalmente per la scarsa conoscenza del loro valore biomeccanico e della loro importanza, determinando la più comune causa di fallimento della fissazione: l’inadeguata stabilità biomeccanica.
FISSAZIONE MEDIANTE
CHIODI ENDOMIDOLLARI
E FILI D’ACCIAIO ORTOPEDICI
L’applicazione dei chiodi endomidollari è il metodo di
fissazione scheletrica più comunemente usato e abusato.
L’errore di gran lunga più comune è quello di non garantire
un’adeguata stabilità rotazionale. L’analisi dei vantaggi di
questa tecnica dimostra che la sua massima utilità è relativa
alla neutralizzazione delle forze di curvatura. Quelle di taglio possono essere neutralizzate soltanto se il chiodo riempie completamente la cavità midollare; tuttavia, questo metodo di inserimento dell’impianto comporta effetti negativi
sul processo biologico di guarigione della frattura - soprattutto sulla circolazione midollare dell’osso. Le forze di compressione possono essere neutralizzate in modo analogo
(riempiendo l’intero canale midollare), a condizione che non
siano presenti difetti ossei o comminuzioni, con le stesse implicazioni biologiche sfavorevoli. In nessun caso, tuttavia,
con l’impiego di un chiodo endomidollare è possibile ottenere la neutralizzazione delle forze di rotazione. L’insufficiente stabilità rotazionale della riparazione della frattura è il
più comune precursore dell’unione ritardata o, più probabilmente, della pseudoartrosi.
Un secondo errore, anch’esso molto comune, si ha quando l’impianto non riesce a far presa a sufficienza in uno dei
principali frammenti ossei. Oltre all’ovvia difficoltà che si
ha quando, semplicemente, non si riesce a centrare il punto
di penetrazione desiderato, e, quindi, l’impianto non si
estende attraverso la frattura, il problema più comune riguarda l’impiego dei chiodi endomidollari nelle fratture metafisarie. Queste ultime offrono solo un breve segmento di
osso in cui fissare il chiodo. Ciò fa sì che questo si possa sfilare dal frammento più piccolo, con conseguente perdita del-
la riduzione della frattura. Per migliorare la presa di questi
chiodi endomidollari nei brevi frammenti metafisari, gli impianti devono essere inseriti procedendo in senso normogrado - iniziando all’estremità dell’osso del frammento metafisario corto, ad esempio, inserendo due chiodi (di diametro
più piccolo di uno solo) a livello dell’estremità ossea (medialmente e lateralmente).
Un altro errore comune è quello di utilizzare un impianto di dimensioni insufficienti. Un chiodo endomidollare dal
diametro troppo piccolo permette un eccessivo movimento
dei frammenti ossei, esitando nella maggior parte dei casi
nella frattura del chiodo stesso, dovuta alle forze di carico ripetute e cicliche alle quali viene sottoposto. Il problema delle dimensioni insufficienti non è limitato ai chiodi endomidollari, dal momento che spesso si osserva con le tecniche di
cerchiaggio in filo d’acciaio ortopedico. Un filo non sufficientemente grande e tale da non fornire un’adeguata stabilizzazione è ugualmente sottoposto a carichi ciclici e ripetuti, che finiscono per provocarne la rottura.
Le tecniche di cerchiaggio in filo d’acciaio ortopedico
vengono anche troppo spesso utilizzate in associazione con
i chiodi endomidollari nell’errato tentativo di neutralizzare
le forze rotazionali distrattive nelle fratture trasversali o
oblique brevi.
In queste fratture, attraverso la soluzione di continuo
dell’osso, in aggiunta al chiodo endomidollare, è possibile
applicare un solo filo d’acciaio ortopedico, per cui tutte le
forze di rotazione vengono concentrate in un unico punto.
Un unico filo d’acciaio ortopedico non è mai sufficiente a
neutralizzare le forze rotazionali distrattive; troppe sollecitazioni vengono concentrate in un’unica sede, con il risultato imprevisto di determinare l’allentamento e la successiva rottura del filo (e la perdita di stabilità della fissazione).
Il filo allentato influisce ancor più negativamente sul processo di guarigione, dal momento che interferisce con una
delle prime fasi del processo di riparazione biologica, distruggendo continuamente le piccole gemme capillari che
tentano di rivascolarizzare la parte ed attraversare il focolaio di frattura.
Quest’ultimo scenario è quasi una garanzia di pseudoartrosi. [L’applicazione di molteplici fili di cerchiaggio
viene utilizzata con risultati soddisfacenti ed in modo appropriato nelle fratture oblique lunghe per neutralizzare le
forze di rotazione - la configurazione della frattura permette l’applicazione di molteplici punti di fissazione, distribuendo il carico che ciascun filo deve sostenere.]
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38° Congresso Nazionale SCIVAC
Fissatori esterni
I problemi più comunemente osservati con questa tecnica di fissazione sono dovuti alla mancata comprensione del
fatto che il punto debole di questa tecnica è dato dall’interfaccia fra osso e chiodo. Gli errori più comuni da questo
punto di vista dipendono da due fattori primari fra loro correlati: l’insufficiente numero di chiodi inseriti in ciascuno
dei frammenti ossei principali e l’inadeguata presa dei chiodi stessi nell’osso. La logica suggerisce che quanto più è elevato il numero dei chiodi inseriti in ciascun frammento osseo principale, tanto maggiore è la dispersione delle forze fra
i chiodi, per cui risulta diminuito l’affidamento su ciascuno
di essi preso singolarmente. Dati sperimentali hanno confortato questa ipotesi entro un limite molto pratico, nel senso
che dopo l’applicazione di 4 chiodi per frammento osseo
non si osserva alcun ulteriore significativo incremento della
robustezza (ad esempio con 5 o 6 chiodi invece di 4). Una linea guida pratica da utilizzare in ambito clinico prevede
l’applicazione di 3 o 4 chiodi per frammento osseo. Questo
apparente compromesso, rappresentato dall’inserimento di 3
chiodi, dipende semplicemente dalla lunghezza e dalle dimensioni della maggior parte delle ossa incontrate in ortopedia veterinaria nei piccoli animali; tuttavia, come regola
pratica, bisogna sempre inserite come minimo tre chiodi in
ognuno dei frammenti ossei principali.
La logica suggerisce anche che ciascun chiodo debba essere adeguatamente fissato all’osso. Per risolvere questo
problema in modo più che soddisfacente, è possibile utilizzare numerose tecniche. La prima, e la più ovvia, è quella di
garantire la penetrazione dei chiodi attraverso entrambe le
corticali. Una seconda considerazione, soprattutto quando si
utilizzano chiodi non filettati, è quella di inserirli nell’osso
con angolazioni divergenti. Non si devono utilizzare chiodi
paralleli, se non filettati; invece, l’inserimento dei chiodi in
modo divergente migliora la robustezza complessiva della
configurazione del fissatore, indipendentemente dal tipo di
chiodo. Infine, utilizzando chiodi filettati a profilo positivo
si incrementa ulteriormente la capacità di tenuta dell’impianto.
È particolarmente importante riconoscere la robustezza
relativa delle varie configurazioni dei fissatori, non solo per
quanto riguarda le differenze fra tipo I, II e III, ma anche per
le sfumature relative al numero ed alle dimensioni dei chiodi ed alle configurazioni delle barre di connessione, dal momento che tutti questi parametri sono correlati alle specifiche fratture ed alle configurazioni di frattura.
Infine, non va dimenticato il rigoroso rispetto dell’asepsi. Si può essere particolarmente tentati di utilizzare questo
metodo di fissazione con la riduzione delle fratture a cielo
chiuso. In molti casi, questo tipo di approccio risulta più difficile, portando alla rottura dell’asepsi. Questo potenziale
problema può essere aggirato con una preparazione dell’intervento tale da prevedere la possibilità di eseguire, come
minimo, un “mini”-approccio alla frattura.
Fissazione mediante viti e placche
Questo metodo di fissazione è caratterizzato da molti
problemi aggiuntivi, relativi ai numerosi aspetti tecnici associati al suo impiego, rispetto alle altre tecniche di stabilizzazione. Come per gli altri metodi, un problema comune è
rappresentato dalla scelta di impianti di dimensioni appropriate. Non esistono indicazioni in proposito. Sono state
pubblicate alcune linee guida, ma per la scelta finale continua ad essere utilizzata l’esperienza personale.
Le viti troppo piccole nella maggior parte dei casi sono
soggette a carichi ciclici e ripetuti che ne determinano la rottura prima della guarigione dell’osso. La resistenza alla curvatura di una vite è proporzionale al suo diametro interno. Di
conseguenza, anche confrontando l’uso di viti da spongiosa
oppure da corticale da 3,5 mm ASIF, cioè con un diametro
interno, rispettivamente, di 2,0 e 2,5 mm, le viti da corticale
sono caratterizzate da una resistenza alla curvatura significativamente maggiore (67%). Nonostante l’apparente limitazione della differenza nel disegno del filetto per le viti con
un diametro interno più grande (da corticale) e il rischio di
una minore resistenza all’estrazione rispetto a quelle da
spongiosa, le viti da corticale sono da preferire in certe condizioni, come ad esempio le fratture condilari laterali del
tratto distale dell’omero.
Anche l’inserimento delle viti dipende dal fatto che queste facciano adeguatamente presa nell’osso, in modo non
diverso da quello descritto per i chiodi dei fissatori esterni.
Gli errori più comuni riguardano la penetrazione completa
attraverso la corticale opposta (evitabile con una misurazione accurata), l’inserimento nella sede appropriata (lontano
dalle linee di frattura) e con una tecnica corretta (senza rovinare il filetto).
Analogamente, vengono comunemente commessi degli
errori nell’applicazione delle placche di dimensioni insufficienti (per larghezza, spessore e lunghezza). Nella maggior
parte dei casi, il problema è rappresentato dall’applicazione
di placche troppo corte. È stata indicata una lunghezza minima, tale da consentire l’inserimento in ciascun frammento
osseo principale su ciascun lato della linea di frattura di almeno tra viti, ma spesso questa misura è insufficiente a causa della notevole lunghezza complessiva dell’osso. Qualsiasi tratto di osso non rinforzato dalla placca agisce da lungo
braccio di leva, influendo negativamente sulle viti o sulla
placca all’estremità dell’osso, determinando una concentrazione delle sollecitazioni. Ciò può provocare l’allentamento
o la rottura delle viti in questa sede, oppure causare una nuova frattura dell’osso in posizione adiacente alla fine della
placca. Una linea guida più pratica, oltre al numero minimo
di 3 viti, prevede la scelta di placche che si estendano per la
maggior parte della lunghezza dell’osso.
Il problema opposto si ha quando le dimensioni delle
placche sono superiori a quelle dell’osso. In questi casi, l’osso situato al di sotto della placca viene protetto in misura così elevata delle sollecitazioni, da risultarne privo. Il successivo rimodellamento osseo che ne deriva, secondo la legge
di Wolff, esita in un’osteopenia sotto la placca; quando l’osso si indebolisce al punto da non riuscire più a mantenere la
presa sugli impianti (viti), va incontro a una nuova frattura.
Infine, un problema che si osserva soprattutto con le placche, ma è stato riscontrato anche con altre tecniche di fissazione, è relativo agli spazi di frattura o alla mancanza di un
“sostegno” (cioè, aree in cui la continuità dell’osso non esi-
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ste, per cui è necessario che sia l’impianto a sostenere i carichi applicati sulla parte). Questo problema si osserva nella
maggior parte dei casi con la fissazione mediante placca a
causa dell’errato convincimento che l’elevata robustezza della placca stessa permetta di aggirare questa difficoltà. La disposizione della placca attraverso questi spazi di frattura esita di solito nella presenza di fori per le viti vuoti in questa sede. Tali fori rappresentano un punto ideale per la concentrazione delle sollecitazioni, a causa delle minori proprietà della placca in questo punto, dove risulta presente solo il limitato istmo metallico che delimita il foro, senza il sostegno aggiuntivo di una vite. Il risultato finale è la frattura della placca (anche in questo caso dovuta a carichi ciclici e ripetuti che
determinano una rottura da logoramento) oppure una pseudoartrosi dovuta al continuo movimento in questa sede. È per
questa ragione che occorre cercare di riempire con le viti tut-
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ti i fori di una placca, colmando anche tutti gli spazi di frattura con innesti di osso spongioso. Quest’ultimo intervento
viene effettuato nel tentativo di stimolare la guarigione dell’osso prima che si verifichi il cedimento dell’impianto.
Riassumendo, nella maggior parte dei fallimenti degli interventi ortopedici sono presenti contemporaneamente numerose caratteristiche differenti, direttamente attribuibili all’insuccesso; tuttavia, il comune denominatore è quasi sempre rappresentato dall’instabilità. L’insuccesso della fissazione è dovuto ad errori commessi da qualsiasi chirurgo. Alcuni di questi errori possono essere inevitabili, per la natura
della specifica frattura; tuttavia, quelli evitabili devono essere riconosciuti e successivamente corretti. Il chirurgo ortopedico deve effettuare continuamente un’onesta valutazione
retrospettiva delle sue riparazioni, sia per quanto riguarda la
tecnica di fissazione utilizzata che l’esito funzionale ottenuto, apprendendo costantemente dai propri errori.
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Fratture-lussazioni vertebrali:
quale è il trattamento più indicato?
Randy Boudrieau
DVM, Dipl. ACVS - Tufts University - North Grafton - Massachusetts (USA)
Nick Sharp
DVM, Dipl. ACVS, Dipl. ACVIM (Neurology) - College of Veterinary Medicine
North Carolina State University - Raleigh (USA)
Le lesioni traumatiche della colonna vertebrale che esitano in una frattura spinale possono anche determinare una
compromissione del canale vertebrale ed un danno reversibile o irreversibile del parenchima midollare. Sono state fornite molte indicazioni per la terapia medica (cioè conservativa) o chirurgica. Il presupposto su cui si basa il presente lavoro è quello di considerare una terapia medica e chirurgica
e non una terapia medica o chirurgica.
Il punto di vista “tradizionale” sul trattamento delle fratture spinali si basa sulla valutazione clinica della funzionalità neurologica del paziente, sulla localizzazione anatomica
della lesione (compartimento interessato o specifica localizzazione midollare), e su “altri” fattori.
La valutazione clinica della funzione neurologica può
essere suddivisa nel modo seguente: gruppo I, solo paresi;
gruppo II, paresi con controllo della vescica e sensazione
dolorifica normale; gruppo III, paralisi con perdita del
controllo della vescica e diminuzione della sensibilità dolorifica; e, gruppo IV, paralisi con perdita del controllo
della vescica e scomparsa della sensibilità dolorifica. La
terapia medica da sola è indicata per i pazienti del gruppo
I e II (rigoroso riposo, con o senza sostegno/immobilizzazione esterna). Quelli del gruppo III vanno trattati chirurgicamente in presenza di segni di instabilità, deterioramento dello status neurologico o compressione statica continua. Infine, quelli del gruppo IV non vengono sottoposti
ad alcun trattamento (e sono soppressi eutanasicamente)
per la gravità della prognosi.
La localizzazione anatomica e la stabilità (o la sua mancanza) della frattura vengono valutate mediante radiografie
e palpazione. Il “comparto” in cui si è verificata la lesione
determina la stabilità della frattura: si riconoscono un comparto dorsale (arco vertebrale, faccette articolari, processo
spinoso dorsale, legamenti interspinosi e sopraspinosi e ligamentum flavum), un comparto ventrale (corpo vertebrale,
disco intervertebrale, legamenti longitudinali dorsali e ventrali) e lesioni compartimentali combinate. [Un’ulteriore
stabilizzazione viene anche garantita dalla muscolatura paraspinale.] Le lesioni da iperestensione sono dovute ad
un’arcatura dorsale diretta che provoca il collasso del comparto dorsale (specialmente delle faccette articolari), ed il
danneggiamento di quello ventrale attraverso la distruzione
dell’anello fibroso e del nucleo polposo (ventralmente); è
difficile prevedere la stabilità intrinseca. L’iperflessione
esita in fratture da compressione a cuneo del corpo vertebrale, che generalmente risparmiano il comparto dorsale;
queste fratture sono considerate stabili. Le forze di carico
assiali esitano in fratture da compressione del corpo vertebrale che possono anche comprendere piccoli frammenti
ossei e materiale discale intervertebrale che vengono estrusi nel canale spinale; la stabilità può essere variabile a seconda dell’interessamento del comparto dorsale (imprevedibile). Le forze rotazionali, che di solito si osservano con
un certo grado di flessione, possono essere molto gravi,
causando la distruzione dei comparti sia dorsale che ventrale (lesioni compartimentali “combinate”); queste fratture
sono instabili ed in genere vengono associate a frattura/lussazione con marcata dislocazione. La specifica localizzazione midollare viene stabilita sulla base delle caratteristiche biomeccaniche della colonna vertebrale ed è correlata
alla giunzione di segmenti vertebrali mobili ed immobili
(giunzioni “statiche/cinetiche”). Queste aree comprendono
le giunzioni craniocervicale, cervicotoracica, toracolombare e lombosacrale. La prognosi può essere influenzata dalla sede coinvolta.
Gli “altri” fattori che svolgono un ruolo nell’equazione
del trattamento medico o chirurgico sono rappresentati dalle
dimensioni e dall’età del paziente, dalle apparecchiature disponibili, dall’esperienza del chirurgo e dalla capacità fisica
ed emotiva del proprietario di trattare questi casi nel periodo
postoperatorio.
Molte di queste indicazioni sono desunte direttamente
dalla medicina umana e applicate ai pazienti veterinari. Tuttavia, queste estrapolazioni possono non essere valide. Ad
esempio, nell’uomo meno del 5% delle fratture spinali è associato a deficit neurologici, mentre la parte restante è principalmente costituita da fratture non dislocate con breve invalidità. Ciò nonostante, è stato segnalato che trattando chirurgicamente le fratture si riesce senza dubbio ad ottenere
una migliore riduzione della lesione, una migliore conservazione delle componenti neurologiche ed una più precoce ripresa della deambulazione rispetto ai soggetti sottoposti alla
terapia conservativa.
In medicina veterinaria, ci si deve aspettare una scarsa
collaborazione da parte del paziente. Di conseguenza, non è
possibile ottenere la “prevedibile” immobilità che si ha nei
pazienti umani con il riposo a letto; inoltre, gli animali non
possono essere trattati con ingessature o trazioni del tronco.
In medicina veterinaria, il riposo in gabbia e altre forme di
immobilizzazione esterna possono ridurre al minimo le forze estrinseche, ma non sono molto adatte ad eliminare quelle intrinseche. I metodi di fissazione chirurgica risultano
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chiaramente superiori per ottenere l’immobilizzazione sia
per quanto riguarda le forze estrinseche che quelle intrinseche. I vantaggi che comunemente vengono attribuiti ai metodi conservativi sono rappresentati dal minor costo, dalla
scarsa invasività, e dall’efficacia per il “tipo appropriato di
lesione” (“stabilità significativa con lieve dislocazione - minore di 1/3 del canale neurale, lieve deficit neurologico gruppo I o II e status neurologico stabile”).
Sulla base di queste argomentazioni relative al trattamento medico o chirurgico delle fratture spinali, la domanda più importante alla quale dare una risposta non è se sia
necessario intervenire chirurgicamente, ma perché si debba
ricorrere al trattamento chirurgico!
Alla luce della valutazione dello status neurologico del
paziente, si può formulare una prognosi più favorevole in
caso di intervento immediato nei pazienti del gruppo I e II,
nonché in quelli del gruppo III, piuttosto che aspettare un
qualsiasi deterioramento della situazione neurologica o una
successiva valutazione di una lesione compressiva statica,
dal momento che queste ultime situazioni precludono una
prognosi favorevole.
La localizzazione anatomica (lesione compartimentale)
presume una possibile conoscenza del meccanismo della
frattura, che solo raramente è noto, ma può essere desunto
dall’interpretazione del quadro radiografico. Inoltre, è molto difficile accertare se uno specifico comparto sia o meno
coinvolto o risparmiato basandosi unicamente sui dati radiografici. Il riscontro alla palpazione presuppone un’instabilità significativa. Inoltre, gli “altri” fattori non devono
far parte delle motivazioni “a favore” oppure “contro” l’intervento chirurgico, dal momento che non fanno riferimento ad ulteriori parametri stabiliti dalla scienza ed esulano
dal regno della medicina e della chirurgia “pure”. Forse, la
valutazione di questi fattori è più utile nei casi in cui occorre stabilire se trattare o meno l’animale (cioè se sopprimerlo oppure no).
Infine, i metodi di terapia conservativa mediante riposo
in gabbia o con qualsiasi forma di sostegno esterno chiaramente non risultano efficaci per fornire un’adeguata immobilizzazione degli animali, che non collaborano. Anche in
questo caso, i vantaggi indicati per il trattamento conservativo dipendono più da una buona comunicazione/educazione
con il cliente che con le buone pratiche mediche. Inoltre, le
linee guida per la raccomandazione di un approccio conservativo basato sul “tipo di lesione appropriata” sono, nella
migliore delle ipotesi, fondate su un sospetto.
I principali progressi compiuti nell’ultimo decennio hanno riguardato la ricerca nel settore dei parametri biochimici
e fisiologici associati al trauma midollare e l’uso di tecniche
chirurgiche più aggressive.
TERAPIA MEDICA
I presupposti teorici che giustificano la terapia medica si
basano sulla fisiopatologia del trauma spinale acuto. La
contusione o la lacerazione midollare dà origine ad una serie progressiva di eventi patologici, il cui risultato finale è
rappresentato da vari gradi di necrosi tissutali e disfunzioni
neurologiche.
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I deficit neurologici sono dovuti alla distruzione meccanica diretta delle vie neuronali ed al danno ritardato che
si sviluppa nell’arco di alcune ore o giorni dopo l’insulto
iniziale. Quest’ultimo è legato al danno ischemico del midollo spinale. L’entità dell’ischemia presenta una correlazione positiva con la gravità della lesione originale ed è
progressiva. Unitamente al calo del flusso ematico midollare si ha il rilascio o l’attivazione di fattori autodistruttivi
endogeni (radicali liberi, metaboliti dell’acido arachidonico, peptidi oppiacei endogeni e recettori oppiacei, ecc…).
Questi ultimi fattori hanno il ruolo di presunti mediatori
ischemici. Rientrano in questa lista: corticosteroidi, antiossidanti ed eliminatori dei radicali liberi, inibitori del metabolismo dell’acido arachidonico, calcio-bloccanti, antagonisti degli oppiacei, antagonisti degli NMDA ed altri attualmente in fase di studio.
I corticosteroidi sono quelli che hanno ricevuto maggiore attenzione. Si sono dimostrati in grado di inibire la perossidazione dei lipidi, migliorare la perfusione midollare posttraumatica, bloccare il rilascio di acidi grassi liberi ed eicosanoidi e la perdita di colesterolo, facilitare la rimozione dell’accumulo di calcio intracellulare e accentuare l’attività dell’ATPasi midollare. Inoltre, è stato dimostrato che i corticosteroidi aumentano l’eccitabilità neuronale e la generazione
e la conduzione degli impulsi e possono contrastare la tendenza dei neuroni danneggiati ad una depolarizzazione irreversibile. Inoltre, mantengono le concentrazioni di lattati,
ATP, adenilati totali e scambio energetico a livelli pre-trauma. I loro benefici effetti possono anche essere dovuti ad
un’azione sul sistema endorfinico. I risultati clinici e sperimentali più impressionanti sono stati ottenuti con alte dosi di
metilprednisolone sodio succinato (30 mg/kg IV più molteplici dosaggi, 15 mg/kg a 2 e 6 ore, seguiti da un’infusione
continua a 2,5 mg/kg per 48 ore).
Sperimentalmente, è stata valutata una gran varietà di altri farmaci, con risultati talvolta promettenti, e altre volte deludenti, sia sperimentalmente che clinicamente.
Il ruolo della terapia medica efficace è stato migliorato in
associazione con il trattamento chirurgico aggressivo. Gli
scopi sono quelli di decomprimere l’area della lesione e prevenire un ulteriore trauma spinale.
TRATTAMENTO CHIRURGICO
Il ruolo del trattamento chirurgico è quello di decomprimere rapidamente il midollo spinale, dal momento che una
delle cause principali della continua compressione può essere l’edema midollare. Il trattamento di questa ischemia, che
deriva dalla continua compressione midollare, si basa sugli
stessi presupposti della terapia medica. Alla luce degli eventi fisiopatologici che si verificano in caso di danno spinale,
cioè della natura progressiva dell’ischemia, è di capitale importanza intervenire precocemente. L’altro ruolo principale
del trattamento chirurgico è quello di prevenire un ulteriore
danno spinale. Quest’ultimo può essere provocato da qualsiasi instabilità residua, per cui ogni movimento successivo
provoca un danno ulteriore del midollo spinale.
La decompressione midollare può essere eseguita direttamente o indirettamente. Il fattore principale in questo caso
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è quello di non permettere alcuna destabilizzazione aggiuntiva dei corpi vertebrali dei segmenti spinali. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi viene suggerita la decompressione midollare indiretta. Quest’ultima si ottiene semplicemente ristabilendo il diametro che il canale neurale aveva prima dell’evento patologico, attraverso un’accurata riduzione della frattura. Il vantaggio di questa tecnica rispetto
alla decompressione diretta (mediante laminectomia) è quello di non effettuare alcuna ulteriore destabilizzazione (la
maggior parte delle tecniche di laminectomia prevede la rimozione di una faccetta articolare). Tuttavia, all’interno del
canale non deve essere presente alcun materiale (piccoli
frammenti ossei o dischi intervertebrali prolassati). Questa
situazione può essere identificata con un’accurata valutazione delle immagini radiografiche in bianco o di una mielografia (tuttavia, la tumefazione midollare può impedire un’adeguata visualizzazione di una lesione compressiva).
I metodi di stabilizzazione variano a seconda della localizzazione della lesione. Le sedi più comuni delle fratture
spinali sono rappresentate dalle aree toracolombare o lombosacrale. Le fratture cervicali spinali più comuni sono quelle craniocervicali (che nella maggior parte dei casi coinvolgono C2).
Le fratture cervicali spinali non sono necessariamente disperate; se il paziente è sopravvissuto alla lesione abbastanza a lungo da essere trasportato presso una struttura ospedaliera, la prognosi può essere ottimisticamente riservata. Le
gravi fratture cervicali di solito portano a morte il paziente
per arresto respiratorio. Le fratture toracolombari, specialmente quelle molto serie, esitano in una paralisi con scarse
probabilità di portare a morte il paziente (per effetto del danno spinale), e per la loro valutazione (e per la formulazione
della prognosi) è preferibile basarsi sull’esame neurologico.
L’assenza della sensibilità dolorifica è un segno prognostico
grave ed è bene fornire al proprietario un quadro realistico
della situazione (queste fratture di solito sono caratterizzate
da una marcata dislocazione radiografica). Anche le fratture
lombosacrali esitano in paralisi; tuttavia, è molto più comune il riscontro di intenso dolore e disfunzione sciatica, come
segni clinici principali (anche in caso di compromissione del
100% del canale neurale). Questo miglioramento della prognosi è dovuto alla maggiore resistenza alle lesioni delle radici dei nervi della cauda equina in questa sede. Tuttavia,
l’incontinenza urinaria o fecale (con assenza del tono anale)
costituisce un indice prognostico sfavorevole.
Fratture C2 (cervicali). Anche se per la riparazione di
queste fratture è stato suggerito l’impiego di numerose tecniche chirurgiche differenti, il metodo di stabilizzazione segnalato con maggiore frequenza e che consente di ottenere i
maggiori successi è rappresentato dall’inserimento di chiodi
di Steinmann e metilmetacrilato, ventralmente alle vertebre
cervicali. Si ottiene una sufficiente decompressione midollare con la riduzione chirurgica della frattura. Le tecniche consigliate per la riduzione della lesione sono rappresentate dal
“delicato” leveraggio/distrazione dei corpi vertebrali interessati, oppure dalla trazione lineare esercitata tirando rostralmente la testa o la mascella; tuttavia, questa operazione
non è di facile esecuzione ed il risultato può essere rappresentato da una riduzione della frattura meno soddisfacente di
quella ideale, con il perdurare della compromissione del ca-
117
nale spinale. Una tecnica simile effettuata utilizzando i divaricatori autostatici da laminectomia di Scoville-Haverfield
consente una distrazione sufficiente a garantire un’appropriata riduzione della frattura ed il ripristino del diametro del
canale spinale. La filosofia di questa tecnica operatoria è simile a quella utilizzata per la distrazione-stabilizzazione modificata descritta nei cani con spondilomielopatia cervicale
caudale. Inoltre, per la fissazione è possibile utilizzare una
tecnica alternativa (e simile) a quella dei chiodi e del metilmetacrilato sostituendo ai chiodi di Steinmann le viti ASIF
da 2,7 mm.
Fratture toracolombari. Per la stabilizzazione di queste
lesioni sono state descritte molte tecniche differenti, comprendenti l’applicazione di una placca ai processi spinosi
dorsali (placche spinali di Auburn, placche Lubra®), le tecniche di fissazione spinale dorsale mediante graffette metalliche, l’applicazione di chiodi di Steinmann e metilmetacrilato e la fissazione mediante placca dei corpi vertebrali.
La fissazione del processo spinoso dorsale è limitata dalla disponibilità degli impianti (placche) o dalla loro mancanza. La tecnica mediante graffette metalliche risulta efficace nei pazienti di peso inferiore a 10 kg, ma dipende in una
certa misura dalla possibilità di disporre di faccette articolari integre per l’ancoraggio dei fili metallici. L’applicazione
dei chiodi di Steinmann e del metilmetacrilato è una tecnica
popolare, probabilmente quella utilizzata con maggiore frequenza. Esistono tuttavia alcuni dubbi relativi alla sua robustezza complessiva, specialmente in questa localizzazione
statica/cinetica negli animali di mole maggiore. L’applicazione di placche vertebrali spinali è una tecnica efficace, anche se difficile, nei cani delle razze di grossa taglia. È limitata alle fratture rostrali ad L4; inoltre, la presa delle viti nei
corpi vertebrali può non essere così salda come in altre sedi.
Tuttavia, questa tecnica, quando viene combinata a quella di
fissazione dorsale mediante graffette, è il metodo più stabile
e sicuro attualmente disponibile. [Spesso, il principale fattore che determina la tecnica utilizzata è la preferenza personale del chirurgo].
Fratture lombosacrali. La presenza delle radici dei nervi spinali del plesso lombosacrale che fuoriescono dai fori
del canale vertebrale caudale e la prossimità delle ali dell’ileo non permettono l’applicazione della maggior parte dei
metodi di fissazione. Anche per la stabilizzazione delle fratture/lussazioni di L7-S1 sono state descritte numerose tecniche chirurgiche differenti. Il metodo più comunemente utilizzato è quello dell’inserimento di un chiodo transiliaco. Si
ottiene un’immobilizzazione dei frammenti ossei sufficiente
a consentirne la guarigione; tuttavia, la migrazione dell’impianto, con possibile perdita di riduzione e concomitante
compromissione del canale neurale, costituisce una complicazione comune di questa tecnica. È stata descritta una modificazione di questo metodo, basata sull’impiego di due
chiodi transiliaci incrociati, ancorati a ciascuna estremità da
un doppio morsetto “interno” di Kirschner-Ehmer (KE).
Queste modificazioni eliminano le comuni complicazioni
precedentemente citate; tuttavia, è prevedibile un certo collasso del corpo vertebrale di L7, senza alcun effetto indesiderato.
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COME DECIDERE SE È INDICATO
L’INTERVENTO CHIRURGICO
Il trattamento chirurgico offre svariati vantaggi rispetto
alle tecniche più conservative, mediche. In primo luogo, è
possibile ottenere una riduzione più precisa della frattura e
della dislocazione dei monconi. Si possono ripristinare la
forma e la posizione normale della colonna vertebrale, correggendo la traslazione sui piani laterali o craniocaudali. In
secondo luogo, con l’intervento chirurgico è possibile alleviare la compressione del parenchima del midollo spinale,
determinata ad esempio dalla presenza di frammenti ossei
all’interno del canale. Infine, oltre alla decompressione delle strutture neurologiche ottenuta con il ripristino della forma e dell’anatomia normali, è possibile arrivare ad avere una
stabilizzazione sufficiente a consentire la mobilizzazione del
paziente nel volgere di alcuni giorni invece che nell’arco di
mesi, necessari con i metodi più conservativi.
Il riconoscimento dell’instabilità spinale è controverso e
difficile. Una colonna vertebrale intatta non permette un movimento sufficiente a determinare un danno neurologico. Di
conseguenza, qualsiasi colonna vertebrale che abbia subito
una dislocazione di entità tale da determinare la comparsa di
manifestazioni neurologiche deve essere considerata instabile, ed è indicato il trattamento chirurgico. Al contrario, nei
pazienti che non mostrano quadri neurologici, ma presentano
un abnorme aumento del movimento che potrebbe portare ad
una compromissione del canale e ad un conseguente deficit
neurologico è indicata la stabilizzazione chirurgica. Infine,
anche l’ultimo potenziale problema della progressiva deformazione, o eccessiva formazione di un callo osseo, con deficit neurologici ed instabilità meccanica cronica nelle gravi
fratture da compressione, risulta più facile da evitare riconoscendo precocemente la situazione ed attuando una riduzione
preventiva con stabilizzazione chirurgica.
Il massimo potenziale della guarigione neurologica può
essere ottimizzato con la pronta e completa decompressione,
eseguita mediante riduzione della deformazione, ripristino
del canale spinale e fissazione rigida interna. Il principio
fondamentale è che la riduzione e la fissazione interna della colonna vertebrale lesionata consentono la mobilizzazione precoce di tutti i pazienti, indipendentemente dal deficit
neurologico, mentre proteggono le strutture nervose da ulteriori danni e ne accentuano la guarigione.
I vantaggi della pronta e rigida fissazione interna giustificano i rischi a breve e lungo termine di un intervento chirurgico.
FRATTURE SPINALI
E BIOMECCANICA DELLA FISSAZIONE
La robustezza biomeccanica della colonna vertebrale dipende principalmente dalla configurazione anatomica delle
singole unità (le vertebre) e delle connessioni fra ognuna
delle vertebre contigue della colonna vertebrale. Le fratture
avvengono principalmente in cinque sedi anatomiche: 1)
corpo, 2) peduncoli, 3) lamina, 4) processi spinosi e 5) area
“intervertebrale”. Le fratture vengono “raggruppate” a seconda di queste localizzazioni anatomiche: 1) comparto ven-
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trale – corpo vertebrale, anello fibroso del disco intervertebrale, legamenti longitudinali dorsali/ventrali, legamenti trasversali intervertebrali, 2) comparto dorsale – lamina, peduncoli, processi spinosi dorsali, processi articolari, legamenti sopraspinosi/interspinosi/interarcuati e 3) comparti
ventrali e dorsale combinati. Le lesioni del comparto ventrale sono generalmente considerate stabili, mentre quelle del
comparto dorsale e quelle combinate sono ritenute instabili.
Questa informazione è stata utilizzata per contribuire a determinare la “stabilità” della frattura sulla base dell’interpretazione delle caratteristiche radiografiche e del tipo di lesione presente. Ad esempio, le fratture da compressione a cuneo sono considerate lesioni del comparto ventrale, provocate dalla flessione della colonna, e quindi tali da risparmiare il parenchima del midollo spinale e, pertanto, sono considerate stabili. Le fratture dislocate (che evidenziano una traslazione dei frammenti ossei adiacenti o quadri di sublussazione/lussazione) che si verificano nelle fratture delle lamine o delle faccette articolari sono l’esito di rotazione e/o iperestensione e sono quindi instabili. Le indicazioni a favore o
contro il trattamento chirurgico si basano su queste valutazioni, effettuate con “il comune buon senso” che suggerisce
che le fratture instabili sono quelle che richiedono la fissazione scheletrica interna e quelle stabili possono essere trattate in modo soddisfacente con una terapia conservativa.
La maggior parte delle fratture avviene a livello della
giunzione dei segmenti vertebrali mobili ed immobili (giunzioni “statico/cinetiche”); queste aree corrispondono alle
giunzioni craniocervicale, cervicotoracico, toracolombare e
lombosacrale. Più del 50-60% delle fratture/lussazioni osservate in medicina veterinaria, tuttavia, è stato riscontrato
fra T11 ed L6.
I test biomeccanici condotti per valutare su base sperimentale le tecniche operatorie utilizzate per la stabilizzazione delle fratture della colonna vertebrale sono stati molto
scarsi. I presupposti teorici per l’uso di una qualsiasi tecnica
in particolare, di conseguenza, sono stati basati su segnalazioni cliniche relative all’impiego con successo dei singoli
metodi descritti: chiodi incrociati (cross-pin) nei corpi vertebrali, cemento polimetilmetacrilato (PMMA) e chiodi, applicazione di placche ai processi spinosi o ai corpi vertebrali e fissazione con graffette metalliche. In uno studio (Walter, Smith & Newton; 1986) è stata utilizzata una curvatura
a 4 punti (come singolo test per determinare il cedimento
della flessione ventrale) per valutare la robustezza biomeccanica comparativa di tutte queste tecniche tranne una (la
fissazione spinale mediante “graffette metalliche”). Questi
risultati, ottenuti nel corso di prove condotte su segmenti
spinali L2-5 isolati (da cani di 30-50 kg) con una frattura simulata a livello di L3-4, hanno dimostrato che l’applicazione
di placche al corpo vertebrale era la tecnica più robusta. Al
secondo posto veniva la fissazione mediante placche a livello dei processi spinosi dorsali, seguita, rispettivamente, da
PMMA-chiodi e chiodi incrociati nel corpo vertebrale. Questi autori hanno anche determinato che la tecnica combinata,
realizzata mediante fissazione con placche del corpo vertebrale e dei processi spinosi dorsali, era superiore a tutte le altre. I limiti di questo studio sono rappresentati dagli aspetti
non determinati della resistenza all’affaticamento e della
curvatura torsionale e laterale e il modo in cui questi fattori
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influiscono sulla tecnica di fissazione prescelta. Ciò nonostante, si può fondatamente affermare che le tecniche combinate sono ritenute più stabili di qualsiasi tecnica singola.
È stato valutato l’effetto dell’aggiunta di una laminectomia sulla stabilità biomeccanica, dimostrando un aumento
dell’instabilità (Smith, Walter; 1988). Il presupposto per una
laminectomia è l’evidente vantaggio di determinare la decompressione del parenchima midollare, principalmente
quando all’interno del canale spinale sono penetrati frammenti ossei o altri materiali (prolasso discale). Si devono
confrontare i benefici effetti di questa tecnica con l’effetto
destabilizzante negativo che la stessa determina sui segmenti vertebrali. Quindi, nei casi in cui non si rilevano segni di
compressione del parenchima midollare, la laminectomia
non è consigliata. Il valore di questa specifica tecnica, quindi, deve essere stabilito alla luce degli effetti negativi del
protrarsi della compressione midollare ad opera dei materiali estranei presenti all’interno del canale spinale. Sono state
fornite delle dimostrazioni del fatto che una laminectomia
promuove un’ulteriore destabilizzazione, mentre la
“auto”decompressione ottenuta con il semplice ripristino
delle dimensioni originarie del canale spinale e con un’accurata riduzione della frattura, consente una decompressione
adeguata. Inoltre, sono stati descritti solo pochi casi in cui
erano presenti dei frammenti ossei all’interno del canale
(tuttavia, il riscontro radiografico di questo quadro giustifica la laminectomia).
Vengono elencati alcuni dei presunti vantaggi e svantaggi delle tecniche operatorie comunemente impiegate:
Chiodi incrociati nel corpo vertebrale:
Vantaggi:
- metodo semplice e di facile esecuzione
- non richiede alcuno strumentario speciale
- si ritiene che determini un’adeguata stabilizzazione delle
sublussazioni/lussazioni
- si ritiene che determini un’adeguata stabilizzazione delle
fratture epifisarie
- adeguata fissazione di comparto ventrale, corpo vertebrale,
fratture
Svantaggi:
- una certa difficoltà di inserire accuratamente i chiodi nel
corpo vertebrale
- possibile danneggiamento dei tessuti molli: aorta, vena cava, seno vertebrale, midollo spinale
- difficoltà di tagliare le estremità dei chiodi una volta inseriti
- difficoltà di esporre chirurgicamente la regione toracica
- scarsa stabilità delle fratture comminute
PMMA-chiodi
Vantaggi:
- metodo semplice e di facile esecuzione
- richiede una limitata dissezione chirurgica
- adatto a tutte le vertebre del tratto toracolombare
Svantaggi:
- una certa difficoltà di inserire accuratamente i chiodi nel
corpo vertebrale
- maggior rischio di infezione dell’impianto
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- difficoltà di stabilizzare le fratture dei corpi vertebrali nelle razze di mole maggiore
- la chiusura dei tessuti molli può essere difficile
- costi relativi all’acquisto ed alla preparazione del PMMA
Applicazione di placche ai processi spinosi
Vantaggi:
- metodo semplice di facile esecuzione
- la limitata esposizione chirurgica contribuisce a mantenere
la stabilità spinale intrinseca
Svantaggi:
- è necessario disporre di almeno 3 processi spinosi dorsali
adiacenti (di dimensioni sufficienti)
- insufficiente rigidità nelle razze canine di grossa taglia
- viene immobilizzato un ampio segmento di colonna vertebrale
- la tecnica non può essere utilizzata efficacemente nell’area
toracica caudale
- disponibilità? (placche Lubra®)
- maggiore possibilità di infezione dell’impianto
Applicazione di placche al corpo vertebrale:
Vantaggi:
- utilizzabile in animali di qualsiasi taglia
- è la più rigida forma di fissazione interna
- eccellente tecnica di unione a ponte per le fratture comminute (sostegno)
Svantaggi:
- richiede il taglio delle radici dei nervi (rizotomia) a livello
degli spazi intervertebrali interessati (limitata applicazione
rostralmente ad L4)
- difficile approccio alla regione toracica
- difficile applicazione/posizionamento delle viti (potenziale
danneggiamento dei tessuti molli)
- sono necessari strumenti speciali (placche)
Fissazione spinale mediante “graffe” metalliche:
Vantaggi:
- metodo semplice di facile esecuzione
- è la tecnica più economica
- la limitata esposizione chirurgica contribuisce a mantenere
la stabilità spinale intrinseca
- può essere utilizzata in qualsiasi punto della colonna toracolombare
Svantaggi:
- insufficiente rigidità nelle razze canine di grossa taglia
- insufficiente stabilità delle fratture dei corpi vertebrali
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Correzione del prognatismo
Franco Brusa
Med. Vet. - Libero Professionista - Imola (BO)
DISGNAZIE E MALOCCLUSIONI
Con il termine disgnazia si intende un abnorme sviluppo
delle ossa mascellari e/o mandibolari e conseguente alterato
contatto tra le arcate dentarie (malocclusione). Le disgnazie
possono essere di natura ereditaria (es. sindrome di Larsen),
ma anche causate da traumi, fratture delle basi ossee, carenze alimentari gravi, malattie sistemiche, ecc. Possono essere
divise, dal punto di vista cronologico, in due categorie fondamentali: disgnazie della crescita e disgnazie a crescita ultimata. Le prime vengono trattate su base ortopedica; l’ortodonzia in fase di crescita ha valore solo qualora esistano tra
i denti interferenze o precontatti che ostacolino il riposizionamento spaziale corretto delle basi ossee di supporto, e acquisterà pieno valore e significato una volta terminata la fase ortopedica. Le disgnazie a crescita ultimata vengono invece generalmente trattate su base chirurgica, a meno che
non si tratti di sindromi malformative unilaterali che con la
crescita esplicherebbero sempre più i loro effetti negativi,
complicando o compromettendo il risultato finale dei vari
trattamenti.
Nella medicina umana già dal secolo scorso (J. Wolff e
W. Roux nel 1895) è stato preso in considerazione il concetto fisiopatologico del combaciamento dei denti, in riferimento alla stretta interdipendenza tra funzione e patologia
dell’apparato stomatognatico: è dimostrato infatti che le malocclusioni possono portare facilmente a manifestazioni patologiche che superano i confini stomatologici interessando
strutture anatomiche vicine e talvolta coinvolgendo l’economia dell’intero organismo1 come ad esempio:
- l’alterazione della postura craniocervicale con comparsa di
deviazioni della statica vertebrale (scoliosi, lordosi ed iperestensioni);
- la sindrome craniomandibolare2 che determina spasmo
muscolare ai muscoli masticatori e facciali, con conseguente compressione di rami nervosi e dolore;
- le cefalee a tipo miogeno;
- alterazioni dell’espressione e deformazioni del volto nei
bambini in crescita.
Non possiamo escludere a priori che tali patologie, per lo
meno quella prettamente algica, si verifichino anche nel cane, ma senza dubbio possiamo già considerare gravi ed importanti i problemi che dette malocclusioni determinano direttamente nel cavo orale: disturbi della masticazione, dolore, danni ai tessuti molli, fratture dentali, consumi abnormi
ed irregolari, parodontopatie, ecc.
In ortodonzia umana sono stati sperimentati ed adottati
vari tipi di apparecchi e di mentoniere (queste ultime costruite generalmente in alluminio, plastica morbida, camoscio), che esercitano forze che possono essere a trazione
orizzontale (cioè cervicale bassa), obliqua, verticale o postero anteriore, in quest’ultimo caso con agganci intra-orali (es.
mentoniera di Hickham, mentoniera di Delaire), oppure ad
azioni combinate tra di loro a seconda della correzione che
si deve ottenere3.
CENNI SULLA CRESCITA OSSEA
DEL CRANIO FACCIALE NEL CANE
Le variazioni morfologiche della testa nel cane incidono
soprattutto sul massiccio facciale: da qui il notevolissimo
polimorfismo tra le varie razze canine4.
La base ossea dell’arcata inferiore è costituita essenzialmente dalla mandibola, la cui crescita avviene secondo la
modalità di ossificazione endocondrale nella zona dei condili, e per apposizione attorno alla superficie periostale; la
mascella è invece formata da più ossa craniche facciali, precisamente le ossa incisive, palatine, mascellari. La crescita
di tali elementi ossei è invece più complessa, in quanto avviene in periodi diversi e con diverso sviluppo: il contributo dell’osso palatino alla lunghezza totale della mascella decresce con l’età, mentre il contributo dell’osso incisivo e del
mascellare si incrementa con l’età del soggetto. La regolazione della crescita ossea è un fenomeno molto complesso
che dipende da fattori genetici, ormonali, dallo sviluppo degli elementi dentali e dalle differenti attività dei tessuti molli (labbra, guance, lingua e muscoli masticatori); l’eruzione
dei denti e la crescita della mandibola sono tra loro coordinati, e disturbi od alterazioni di tale equilibrio conduce a
problemi odontoiatrici. Inoltre esiste indipendenza tra il
controllo genetico della mandibola e della mascella, e ciò
crea appunto la tendenza al brachignatismo (enognatismo)
ed al prognatismo5.
SCOPO DEL LAVORO, APPLICABILITÀ
A differenza di quanto avviene in medicina umana, in cui
le tecniche ortodontiche prevedono in genere l’uso di apparecchi mobili, almeno per quanto concerne la componente
extra-orale, in medicina veterinaria si ricorre maggiormente
122
all’utilizzo di impianti fissi utilizzando brackets, elastici, cementi, resine, molle in acciaio a compressione e molti altri
materiali; questo perché nell’animale non è verosimilmente
possibile realizzare un dispositivo che adempia alle proprie
funzioni (che si esplicano dell’applicazione e distribuzione
di forze) e che possa rimanere adeguatamente ancorato in situ senza che l’animale lo rimuova.
In questo caso si è tentato invece, per la correzione del
prognatismo, di adottare un sistema amovibile: lo scopo del
lavoro, che trae quindi spunto dall’ortodonzia umana, è quello di bloccare temporaneamente o quanto meno di rallentare
la crescita in senso rostrale della mandibola, evitando l’aggravarsi del prognatismo e la vestibolarizzazione della linea
incisiva superiore, fino a quando tutta la porzione mascellare
dello splancnocranio non avrà raggiunto sviluppo adeguato
così da permettere una corretta occlusione a forbice e ottimali rapporti tra gli elementi dentali delle due arcate.
Le condizioni necessarie per l’applicazione del dispositivo in questione sono le seguenti:
A) il paziente deve ovviamente appartenere ad una razza che
preveda l’occlusione a forbice o a tenaglia o comunque,
se meticcio, deve presentare una conformazione cranica
di tipo dolicomorfo o mesomorfo o per lo meno con linee
di convergenza cranio-facciali tali da far ipotizzare tale
struttura (non sempre, infatti, nei soggetti meticci è possibile prevedere con precisione la futura conformazione
scheletrica e/o cranica, in quanto spesso uno od entrambi i genitori sono sconosciuti);
B) il soggetto deve essere in fase di crescita; chiaramente tale periodo è notevolmente variabile a seconda della razza
ma soprattutto della taglia: sappiamo che la crescita è
estremamente rapida nelle razze piccole e toy, di conseguenza i tempi di intervento sono relativamente limitati
ma proporzionalmente la correzione del difetto può essere ottenuta velocemente; concetto naturalmente opposto
per le razze medie e grandi. Il trattamento deve quindi
avere inizio subito dopo lo svezzamento, qualora il prognatismo sia già evidente, oppure non appena tende a manifestarsi nei successivi mesi di crescita cranica;
C) deve esservi una piena collaborazione del proprietario,
dato che il dispositivo dovrà essere portato a volte anche
per parecchie ore al giorno e per molti giorni o settimane
ed inoltre saranno richiesti controlli frequenti, inizialmente un paio di volte a settimana e successivamente a
giudizio del veterinario, in base ai risultati che via via si
profilano.
MATERIALI E METODI
Per la realizzazione pratica dell’apparecchio è stato fatto
uso di diversi materiali, tutti comunque di basso costo e di
facile reperibilità; la realizzazione è prettamente artigianale.
La prima fase consiste nella costruzione della mentoniera: la
soluzione più precisa ed elegante è quella di prendere un’impronta in alginato del mento del cane, previa sedazione o
leggera anestesia, che deve interessare la parte più rostrale
della mandibola, comprendendo i canini ed il mento fino all’apice della radice dei canini stessi. Dopo aver realizzato il
calco in gesso sarà possibile modellare la mentoniera diret-
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tamente su di esso, utilizzando ad esempio una sottile reticella in alluminio che verrà successivamente rivestita con resina, ribasandola più volte, cioè aggiungendo uno strato di
resina sopra l’altro fino ad ottenere una struttura leggera ma
rigida e robusta; oppure si può più semplicemente predisporre una palla di resina e modellarla direttamente sulla
parte anatomica prima che inizi la polimerizzazione e relativo sviluppo di calore: non tutte le resine però posseggono requisiti tecnici sufficienti per questa metodica. Ottenuto il
primo stampo, relativamente rudimentale, si procederà alla
rifinitura con ribasamenti e fresature, utilizzando micromotori e frese da laboratorio. Od ancora è stata usata una speciale resina (nome commerciale: Turbocast) che si presenta
in fogli finemente traforati e che viene riscaldata con un
semplice asciugacapelli, modellata adeguatamente e lasciata
raffreddare (impiega poche decine di secondi), oppure se ne
può accelerare il raffreddamento tramite ghiaccio sintetico
spray. Questa resina è estremamente leggera e lievemente
flessibile; è adatta però solo per mentoniere di dimensioni
molto piccole.
Preparata la mentoniera vi si devono apporre le bande di
sostegno, che sono state realizzate tutte in cuoio, oppure in
robusta tela inestensibile. Tali bande partono lateralmente alla mentoniera e vanno a congiungersi dietro la nuca; una terza banderella di tensione, analoga alle precedenti, passa trasversalmente alle prime due, in corrispondenza delle regioni
temporali e frontali della testa. Le bande laterali saranno dotate di una parte elastica, intercalata nella regione nucale,
che, a seconda della tensione con cui verranno fissate, eserciteranno una trazione moderata ma continua nei confronti
della porzione rostrale della mandibola. Nei cani di taglia
maggiore sono stati usati tensori da ortodonzia umana, che
hanno la possibilità di essere tarati seguendo una scala a trazione predeterminata. La banda trasversale invece possiede
solamente funzione di sostegno e stabilizzazione dell’apparecchio, ma non esercita alcuna forza attiva sulla crescita
mandibolare.
Nei casi trattati la forza di trazione esercitata è stata regolata empiricamente; come detto deve essere moderata ma
con prolungati tempi di applicazione, inizialmente anche 20
ore al giorno, togliendola periodicamente per consentire al
paziente di bere ed alimentarsi; la linea di forza di trazione
è necessariamente a direzione orizzontale. Successivamente il tempo di permanenza giornaliero è stato ridotto anche
a poche ore, regolandosi in base alla risposta clinica ottenuta, fermo restando che non devono comunque verificarsi
danni od ulcerazioni ai tessuti molli (labbro, gengive, cute
della punta del mento), cosa che starebbe a significare
un’eccessiva compressione cagionante ischemia locale. La
mentoniera verrà poi rimaneggiata, ritoccata ed eventualmente ricostruita durante la crescita del cranio e parimenti
le bande di tensione verranno adeguate alle progressive dimensioni della testa.
Per l’assemblaggio delle varie parti del dispositivo sono
stati usati sistemi diversi a seconda delle dimensioni dello
stesso: collanti rapidi (Attak Loctite) per connettere le bande
alla mentoniera e semplici punti metallici per unire tra loro le
varie bande di tensione, negli apparecchi di piccole dimensioni; viti cementate nella resina e robuste cuciture rispettivamente, per apparecchi destinati a soggetti di maggiori di-
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mensioni. Se le forze da distribuire sono moderate, si può
usare anche del Velcro, che si toglie ed applica rapidamente.
Nei casi trattati i pazienti hanno ottimamente sopportato
l’apparecchio, che deve essere comunque associato all’applicazione di un collare elisabettiano, e come unico effetto
collaterale si è registrato in alcuni cani una lieve dermatite
da contatto, del tutto trascurabile, a livello della cute del
mento: probabilmente ciò è dovuto all’effetto del ristagno
locale di saliva.
123
gico, economico, immediatamente amovibile in caso di necessità senza dover ricorre ad anestesie o sedazioni (eccezion fatta per quella iniziale, allo scopo di realizzare la mentoniera), pensiamo sia una soluzione da valutare per migliorare o correggere un importante e comune difetto occlusivo,
che va ben oltre le ragioni prettamente estetiche.
Come riflessione dal punto di vista puramente deontologico riteniamo giusto correggere il prognatismo e/o altri difetti ortodontici per migliorare la qualità di vita del singolo
individuo, ma escludendolo dalla riproduzione in quanto il
problema è potenzialmente trasmissibile alla progenie.
RISULTATI
I casi trattati sono stati oltre una dozzina, generalmente
cani di piccola taglia e toy, ma anche un beagle ed un cane
di San Bernardo. I risultati ottenuti sono stati, nella maggior
parte dei casi, ottimi, con completa correzione del prognatismo, soprattutto in riferimento a quelli trattati precocemente, all’insorgenza del problema. In altri casi si è avuta invece una correzione non completa ma comunque sufficiente
per garantire un’occlusione accettabile dal punto di vista
funzionale. Non vi è stato alcun danno alla disposizione degli elementi dentali, né ai tessuti molli, cosa quest’ultima
che frequentemente si presenta come complicazione alle terapie ortodontiche6.
Essendo il metodo assolutamente incruento, non chirur-
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38° Congresso Nazionale SCIVAC
125
Diagnostica ecografica e metodiche applicate
in oncologia felina
Claudio Bussadori
Med. Vet., Dipl. ECVIM - Libero Professionista - Milano
Ugo Bonfanti
Med. Vet. - Libero Professionista - Milano
Nel precedente decennio, l’ecografia, metodica strumentale di ormai comune impiego tra i Medici Veterinari, ha acquisito importanza e diffusione sempre maggiore anche nel settore dell’oncologia felina quale utile ed importante mezzo diagnostico atto, tra l’altro, a definire con precisione l’estensione
clinica della neoplasia (stadiazione), ad effettuare prelievi citologici e bioptici ed a monitorare il follow-up post chemioterapia o terapia chirurgica ed eventualmente radiante.
In oncologia felina è sempre consigliabile eseguire un
esame ecografico completo della regione (addome, torace),
confrontare l’ecogenicità della lesione esaminata con parenchimi e strutture circostanti, valutare accuratamente: margini della lesione, linfonodi drenanti, la presenza o meno di
versamento e l’aspetto delle sierose.
I principali vantaggi offerti dall’esame ecografico, risiedono nel fatto di essere una tecnica rapida e non invasiva
nella quale e raramente necessaria l’esecuzione di una anestesia, ed in cui non esiste, evidentemente il rischio dell’irradiazione; occorre peraltro sottolineare il fatto che l’ecografia risulta essere una metodica strettamente operatore e
strumento dipendente, che raramente sono riportate lesioni
patognomoniche e che spesso deve essere accompagnata ad
una biopsia citologica od istologica.
La nostra casistica personale riporta che su 248 ecografie effettuate a gatti nel biennio 97 - 98, in 56 casi (22 femmine e 34 maschi) è stata emessa diagnosi finale di neoplasia. In 45 casi la neoplasia coinvolgeva uno o più organi addominali, in 8 casi coinvolgeva il torace ed in 3 casi altri apparati; il linfoma è risultato il tumore maggiormente rappresentato (42,8%).
FEGATO
Il colangiocarcinoma (carcinoma dei dotti biliari) è la
neoplasia epatica più frequente nel gatto1,2,3 seguito da carcinoma epatocellulare, adenoma e cistoadenoma, neoplasia,
quest’ultima, tipica della specie felina4,5,6; segnalati raramente anche mielolipomi epatici7,8,9 emangiosarcomi10 e
linfomi nodulari o diffusi1,2; tra le neoplasie metastatiche sono stati segnalati carcinomi, sarcomi e linfomi1,2,10; ecograficamente, il colangiocarcinoma può apparire sotto forma di
strutture tortuose, tubulari ed anecoiche, rappresentate dai
dotti biliari dilatati11, adenomi e cistoadenomi si presentano
solitamente solitari, a contenuto anecoico o ad ecogenicità
mista6,12,13; i linfomi sono caratterizzati da aspetto estremamente eterogeneo: si possono presentare ipo- o iperecogeni,
nodulari o diffusi14,15,16,17; tra le neoplasie metastatiche sono
stati segnalati carcinomi sarcomi e linfomi10; noduli ipoecoici o iperecoici, o ad aspetto di “target lesions” sono i quadri
ecografici più frequentemente riportati14,15,16; ecograficamente risulta talora non facile differenziare con sicurezza
neoplasie benigne da maligne, primarie da metastatiche; a
questo proposito si è rivelato particolarmente utile il ricorso
alla citologia, o all’istologia.
MILZA
I tumori più frequentemente responsabili di splenomegalia diffusa nel gatto sono mastocitoma1,2,10,18,19, linfoma e leucemia1,2; linfoma ed emangiosarcoma sono le neoplasie più
frequentemente responsabili di splenomegalia focale1,2,20,21.
Ecograficamente le neoplasie diffuse della milza nel gatto
oltre ad essere responsabili di organomegalia uniforme, si
caratterizzano per il fatto di ridurre o di mantenere inalterata l’ecogenicità14,15; raramente, ed in caso solamente di linfoma, la milza può presentarsi diffusamente iperecogena, oppure presentarsi sotto forma di lesioni focali o multifocali
ipoecoiche capaci talora di alterare la superficie dell’organo14,15,17; le neoplasie infiltrative diffuse (linfoma, mastocitoma e leucemia) possono far assumere al parenchima splenico il caratteristico aspetto a “nido d’ape”: piccole cavitazioni diffuse ipo- anecoiche12,15,16,17. In corso di mastocitoma
splenico, da parte degli Autori è stata rilevata la possibilità
di splenomegalia, ma ad ecogenicità normale. Lesioni focali, spesso multiple, rotondeggianti anecoiche e di differenti
dimensioni sono frequentemente riportate in corso di emangiosarcoma12,14,15.
RENE
La neoplasia renale più frequente nel gatto è senz’altro
rappresentata dal linfoma, spesso bilaterale, caratteristico per
il fatto che causa sempre notevole aumento di dimensioni dei
126
reni, e che si può presentare sotto forma di infiltrazione diffusa della corticale o sotto forma di lesioni nodulari multiple1,2,10,22,23; ecograficamente la rappresentazione più tipica è
caratterizzata da iperecogenicità diffusa della corticale14,24,25,26,
anche se diminuzione dell’ecogenicità e lesioni nodulari ipoecoiche, talora singole, sono state segnalate14,15,16,24,25,26. Le altre
neoplasie renali nel gatto sono rappresentate da carcinomi10,
carcinomi sarcomatoidi27; molto rare le neoplasie benigne28;
ecograficamente le masse renali solide non presentano pattern
caratteristico: possono apparire ipo- o iperecoiche, ma anche
isoecogne14,26.
VESCICA
Le neoplasie vescicali nel gatto sono costituite principalmente da carcinomi transizionali1,10,29, accanto a carcinomi
squamocellulari, adenocarcinomi e a neoplasie benigne e maligne non epiteliali: in particolare leiomiomi, leiomiosarcomi
e rabdomiosarcomi10,30,31.
Segnalati anche linfomi10,32. È necessario sottolineare che
ecograficamente può risultare difficile la diagnosi differenziale tra le neoplasie vescicali, i coaguli, i polipi, e cistite
emorragica: occorre innanzitutto valutare accuratamente l’infiltrazione mucosale e sottomucosale tipica delle forme neoplastiche, secondariamente può essere utile modificare la posizione del soggetto valutando nel contempo quella della lesione in esame, ed eventualmente provare a modificarne l’aspetto mediante l’utilizzo di un catetere urinario14,15,26,33; a
proposito dei carcinomi delle cellule di transizione, essi si
presentano sotto forma di massa aggettante in cavità, a contorni spesso irregolari, e a larga base di impianto14,15; a differenza del cane, in cui tipica è la localizzazione in corrispondenza del trigono, nel gatto si possono situare a livello di apice, parete dorsale e ventrale, ed essere anche diffusi1,10,30. Difficile risulta la differenziazione ecografica tra tumori epiteliali e mesenchimali: solitamente le neoplasie epiteliali, a differenza delle neoplasie mesenchimali presentano superficie
luminale molto irregolare14.
APP G. ENTERICO
STOMACO: Le neoplasie dello stomaco sono molto rare nel gatto; il linfoma rappresenta la forma neoplastica più
frequente1,10; occasionali carcinomi ed adenocarcinomi34;
ecograficamente il linfoma si presenta sotto forma di ispessimento regolare, uniforme ed ipoecogeno della parete; utile
la presenza di liquido nello stomaco1,14,15,35.
INTESTINO: Tra le neoplasie intestinali nel gatto, linfoma, adenocarcinoma e mastocitoma sono rappresentati in ordine di frequenza; in particolare il linfoma intestinale colpisce digiuno ed ileo con eventuale interessamento dei lifonodi drenanti1,2,32, l’adenocarcinoma coinvolge principalmente
il digiuno l’ileo ed il colon1,10,36,37, il mastocitoma colpisce il
piccolo intestino2,38,39; segnalate raramente neoplasie mesenchimali36 e polipi adenomatosi del piccolo intestino40. Ecograficamente il linfoma si presenta sotto forma di ispessimento ipoecoico diffuso circonferenziale della parete intestinale con perdita della normale stratificazione; raramente
38° Congresso Nazionale SCIVAC
si presenta sotto forma di lesione nodulare singola14,15,35,41;
anche carcinomi ed adenocarcinomi sono caratterizzati ecograficamente da ispessimento diffuso, più raramente asimmetrico e ad ecogenicità mista14,15,41.
TORACE
Per la corretta esecuzione di ecografie toraciche non cardiache è assolutamente necessaria una buona finestra acustica; ciò si verifica solo nel caso in cui non vi sia polmone
areato interposto tra sonda e struttura da esaminare15,42,43.
MEDIASTINO: L’ecografia del mediastino, in generale, è dotata di maggiore sensibilità rispetto alla radiologia;
nel gatto il linfoma ed il timoma sono le due forme neoplastiche più frequenti1,2,10. Il linfoma non presenta una
ecogenicità caratteristica, anche se solitamente risulta diffusamente ipoecoico, con una rima iperecoica periferica15,44; il timoma è spesso dotato di ecogenicità mista, con
cavitazioni44,45 talora anche di voluminose dimensioni con
liquido ecodenso46.
POLMONE: I più frequenti tumori polmonari primari
del gatto sono rappresentati da adenocarcinomi, carcinomi
squamocellulari e carcinomi broncoalveolari1,47,48,49; ecograficamente si presentano a variabile ecogenicità, bordi irregolari e sono caratterizzati dalla mancanza di strutture vascolari e bronchiali15,42,45,50.
APP. VISIVO
NEOPLASIE OCULARI: La neoplasia oculare primaria
più frequente nella specie felina è senz’altro il melanoma
dell’iride, seguito da fibrosarcomi ed osteosercomi1,2,10; tra
le forme metastatiche, il linfoma dell’uvea, è la neoplasia
metastatica più frequente10,14; l’ecografia permette di individuare la massa e di valutarne l’estensione14,15.
NEOPLASIE RETROBULBARI: Tra le neoplasie retrobulbari nel gatto, carcinoma squamocellulare, linfoma e fibrosarcoma sono quelle più frequentemente riportate1,10,51;
ecograficamente il linfoma può apparire sia ipo- che iperecogeno14,52, ed il fibrosarcoma come lesione ipo- anecoica53.
PERITONEO, PLEURA
Le sierose viscerali e parietali del gatto possono essere
coinvolte da neoplasie primarie o metastatiche. Il mesotelioma, neoplasia peraltro particolarmente rara nel gatto1,2,10,54,
ecograficamente è caratterizzato dalla mancanza di vere e
proprie masse neoplastiche, da ispessimento diffuso e nodulare delle sierose viscerali e parietali, in concomitanza spesso di versamento1,45.
Come già accennato in precedenza, e spesso riportato in
numerosi testi ed articoli di tecnica ecografica, raramente
sono riportate lesioni patognomoniche per una specifica forma neoplastica; per questo motivo numerosi Autori consigliano di mettere in pratica alcune semplici metodiche correlate all’ecografia per ottenere una diagnosi precisa di neoplasia. Biopsia citologica (ago aspirazione ed ago infissio-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
ne), biopsia istologica e centesi di versamenti pericardici,
pleurici e peritoneali sono considerate metodiche strumentali, non scevre comunque da rischi55,56,57, ma di valido aiuto
all’ecografista
ed
al
patologo
clinico14,15,16,33,35,41,45,46,50,58,59,60,61,62,63,64,65,66.
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129
Dispnea nel cane e nel gatto.
Aspetti fisiopatologici e metodi di indagine della funzione respiratoria,
della circolazione polmonare e degli scambi gassosi
per la valutazione del paziente dispnoico
Claudio Bussadori
Med. Vet., Dipl. ECVIM - Libero Professionista - Milano
La dispnea, intesa come sforzo respiratorio reso evidente dalla presenza di alterazioni dei caratteri del respiro (frequenza, ampiezza, celerità, ritmo, tipo, simmetria), è un segno clinico di frequente riscontro.
L’autore prende in esame le diverse cause di dispnea, ne
approfondisce gli aspetti fisiopatologici e illustra le diverse
metodiche diagnostiche che consentono di giungere ad una
valutazione dello stato clinico del paziente dispnoico.
Dispnee secondariamente respiratorie:
Sono patologie che primariamente determinano alterazioni a carico di altri organi o sistemi e che solo secondariamente determinano dispnea.
L’origine di queste dispnee può essere:
• Cardiaca
• Legata a disordini dell’emoglobina
• Metabolica
• Neurogena
CLASSIFICAZIONE DELLE DISPNEE
METODICHE DI INDAGINE
Le dispnee possono essenzialmente essere suddivise in:
Dispnee primariamente respiratorie:
Sono quelle in cui l’alterazione che determina dispnea
(sia essa di carattere anatomico o funzionale) è a carico dell’apparato respiratorio. Le patologie che determinano dispnee di questo tipo possono inoltre essere suddivise in:
• Patologie ostruttive:
Il passaggio di aria è ostacolato dalla presenza di un restringimento del lume delle vie aeree che può essere estrinseco (es. per la presenza di una massa comprimente) o intriseco (es. corpo estraneo), dinamico (es. collasso tracheale) o
fisso (es. corpo estraneo).
Quando la patologia ostruttiva è a carico delle prime vie
respiratorie normalmente si ha una dispnea inspiratoria;
quando invece il fenomeno ostruente coinvolge le vie aeree
inferiori più comunemente ci si trova di fronte ad una dispnea espiratoria. La localizzazione del sito patologico non
deve però essere eseguita basandosi solo su questi dati che
sono puramente indicativi: nel caso ad esempio di un’ostruzione fissa a livello di vie aeree superiori la dispnea rilevata
sarà sia inspiratoria sia espiratoria.
Le dispnee legate a patologie ostruttive sono solitamente
caratterizzate dalla presenza di stridori inspiratori e sibili all’ascoltazione dell’apparato respiratorio.
• Patologie restrittive:
Sono quelle che esitano in una diminuzione dell’ampiezza del respiro:
◊ Patologie della gabbia toracica (sia della componente ossea sia di quella muscolare).
◊ Patologie della cavità pleurica.
◊ Patologie del parenchima polmonare.
Diversi sono i metodi di indagine a nostra disposizione e
diversi sono i dati forniti da ognuno di questi:
Metodi che forniscono dati di natura qualitativa:
• Anamnesi, EOG, EOP
• Rx
• Broncoscopia
• Citologia
• Ecografia toracica
• Fluoroscopia
• Scintigrafia
Metodi che forniscono dati di natura quantitativa
• Test di funzionalità polmonare:
◊ Tydal breathing flow-volume loop (TBFVL).
È una metodica che consente di differenziare le ostruzioni fisse da quelle dinamiche e di ottenere nella maggior parte dei casi indicazioni riguardo al sito dell’ostruzione basandosi sull’osservazione delle curve flusso-volume ottenute
mediante un pneumotacografo.
◊ Compliance e resistenza
La compliance (misura della distensibilità polmonare) è
influenzata dal volume polmonare (ed è pertanto molto variabile all’interno della specie canina mentre è più costante
in quella felina) e diminuisce in seguito ad un irrigidimento
del parenchima per la presenza di processi infiammatori o
infiltrativi, atelettasia o per una diminuzione del surfattante.
Più raramente in medicina veterinaria è possibile riscontrare un aumento della compliance in seguito ad enfisema.
La resistenza al flusso d’aria è determinata dalla componente non elastica del polmone che si oppone alle variazioni
130
38° Congresso Nazionale SCIVAC
di volume ed è fisiologicamente determinata per il 50% dalle vie aeree superiori (naso, faringe, laringe); l’80% della resistenza al di sotto della laringe è dato dalla trachea e dai
grossi bronchi (questo perché i bronchioli, pur avendo un
diametro ridotto, sono in numero molto elevato e aumentano così la superficie diminuendo la resistenza al flusso).
I bronchi di medio calibro costituiscono il luogo in cui fisiologicamente si ha il controllo della resistenza delle vie aeree, che risulterà ovviamente aumentata in tutte le patologie
a carattere ostruttivo (es. brachycephalic airway syndrome,
asma felina, paralisi laringea).
• Misurazione diretta dello scambio gassoso (Emogasanalisi):
I valori di PaO2 e Pco2 costituiscono una misura dello
scambio gassoso a livello della membrana alveolo-capillare. Il campione può essere prelevato da qualsiasi arteria:
quelle più comunemente utilizzate sono l’arteria femorale e
la metatarsale dorsale. Dopo localizzazione dell’arteria mediante palpazione del polso, l’ago di una siringa da insulina
eparinizzata viene inserito con un’inclinazione di circa 60°
all’interno dell’arteria palpata secondo una direzione opposta a quella del flusso sanguigno e si effettua il prelievo. Al
termine di tale operazione è necessario applicare una compressione continua per almeno tre minuti sul sito di prelievo per evitare la formazione di ematomi. Le bolle d’aria devono essere immediatamente eliminate dalla siringa e quest’ultima deve venire tappata in modo da risultare a tenuta
stagna per l’aria.
L’analisi del campione deve avvenire il più repentinamente possibile: nel caso in cui ciò non risulti possibile, il
campione dovrà essere conservato in ghiaccio.
Valori normali per il cane:
pH
7.407± 0.028
pCO2 36.8± 3.0 mmHg
pO2 92.1±5.6 mmHg
Valori normali per il gatto:
pH
7.38 ± 0.038
pCO2 31.0 ± 2.9 mmHg
pO2 106.8 ± 5.7 mmHg
Il valore della pO2 diminuisce:
◊ Per diminuzione della concentrazione di ossigeno inspirato.
◊ In caso di ipoventilazione (nel qual caso questa diminuzione è accompagnata da un aumento della pCO2).
◊ In caso di venous admixture (normalmente in questo caso
si ha una concomitante diminuzione della pCO2) per:
♦ Shunt artero-venosi.
♦ Ventilation-perfusion mismatch.
◊ In caso di ispessimento della membrana alveolo-capillare.
Poiché l’esecuzione di un prelievo arterioso non sempre
risulta di facile attuazione, sono stati effettuati degli studi
comparativi tra sangue venoso ed arterioso, da cui è stato
possibile stabilire che non esistono differenze significative
tra i valori arteriosi e venosi di pH, Pco2 e HCO3, mentre non
risultano ovviamente paragonabili i valori di Po2.
• Misurazione indiretta dello scambio gassoso:
◊ PULSIOSSIMETRIA
È una tecnica non invasiva che consente di ottenere in
modo anche continuativo nel tempo una stima (SpO2) della
saturazione dell’ossiemoglobina arteriosa (SaO2).
Questa metodica si basa sul fatto che l’Hb ossigenata assorbe la luce in modo diverso da quella non ossigenata: la
sonda dell’apparecchio viene applicata sulla lingua, una plica cutanea o un dito; i diodi posizionati su un lato della sonda emettono un fascio luminoso nello spettro del rosso e degli infrarossi che attraversa la struttura in questione e viene
rilevato sull’altro lato della sonda stessa da un fotodetector
che produce una corrente proporzionale all’intensità della
luce trasmessa attraverso il tessuto.
La saturazione dell’Hb viene considerata adeguata se superiore al 96%; è tuttavia importante ricordare che la presenza di un’adeguata saturazione con ossigeno dell’Hb non
implica necessariamente un’adeguata perfusione periferica
né un adeguato apporto di ossigeno ai tessuti.
◊ CAPNOMETRIA
È una metodica non invasiva che permette di valutare la
ventilazione misurando la concentrazione di CO2 nel gas alveolare a fine espirazione.
All’inizio dell’espirazione viene esalata l’aria contenuta
nello spazio morto, quindi aria proveniente sia dallo spazio
morto sia dagli alveoli, infine l’aria proveniente dagli alveoli la cui concentrazione di CO2 (ETCO2) riflette quella alveolare.
La ETCO2 aumenta:
♦ Per aumento della produzione di anidride carbonica
(ad es. ipertermia).
♦ Diminuzione della ventilazione alveolare
La ETCO2 diminuisce per:
♦ Iperventilazione.
♦ Diminuzione della produzione di CO2 e trasferimento
ai polmoni (es. ipotermia).
38° Congresso Nazionale SCIVAC
131
Dispnea di origine non cardiaca nel cane e nel gatto:
studio attraverso casi clinici
Claudio Bussadori
Med. Vet., Dipl. ECVIM - Libero Professionista - Milano
Roberto Santilli
Med. Vet. - Libero Professionista - Milano
CASO N° 1
• PROFILO BOCHIMICO
Un cane boxer, femmina di 8 anni viene condotto a visita clinica in seguito alla comparsa di scolo nasale mucopurulento, disfagia e ptialismo. All’esame clinico si riscontrano un modico dimagramento, uno stato di disidratazione del
5%, una temperatura corporea di 39,5°C e la presenza di uno
scolo nasale mucopurulento. Vengono eseguiti come esami
collaterali: esame emocromocitometrico, profilo biochimico, esame delle urine, radiogrammi in proiezione latero-laterale e sagittale del torace e dell’addome e un radiogramma
in proiezione laterolaterale della regione cervicale. Gli esiti
degli esami di laboratorio vengono riportati di seguito:
AST
ALT
ALP
GGT
Bil.tot
P.T.
Albumine
Rapp. A/G
Colester
Amilasi
BUN
Urea
Creat
Glucosio
Calcio
Fosforo
Magnesio
Sodio
Potassio
Rap Na/K
Cloro
• ESAME EMOCROMOCITOMETRICO
Hct
Hgb
RBC
MCV
MCHC
MCH
WBC
P.T.
mHtc
PLT
RDW
35,3
13,4
5,26
67
38
25,5
18400
7,4
38
410
14,8
%
g/dl
106/µl
fl
g/dl
pg
103/µl
g/dl
%
103/µl
%
(v.n. 37-55)
(v.n. 12-18)
(v.n. 5,5-7,9)
(v.n. 60-76)
(v.n. 32-39)
(v.n. 20-25)
(v.n. 6000-17000)
(v.n. 6,0-8,0)
(v.n. 37-55)
(v.n. 120-350)
(v.n. 12-16)
%
%
%
%
%
(v.n. 60-77)
(v.n. 0-3)
(v.n. 12-30)
(v.n. 3-10)
(v.n. 2-10)
(v.n. 3000-11500)
(v.n. 0-300)
(v.n. 1000-4800)
(v.n. 150-1350)
(v.n. 100-1250)
(v.n. rari)
Policromasia: +
Formula leucocitaria
% neu s.
74%
% neu b.
12%
% linfo
4%
% mono
6%
% eos
4%
n° neu s.
13616
n° neu b.
2208
n° linfo
736
n° mono
1104
n° eos
736
n° baso
0
WBC corr
18400
Neutrofili tossici: ++
13,7
40,7
218
2,6
0,40
7,4
2,9
1,0
258
303
15,8
33,8
0,62
110
9,9
6,3
1,4
143
4,2
34
83
IU/L
IU/L
IU/L
IU/L
mg/dl
g/dl
g/dl
mg/dl
IU/L
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mEq/L
mEq/L
mEq/L
(v.n. 20-67)
(v.n. 15-90)
(v.n. 0-85)
(v.n. 0-10)
(v.n. 0-1.0)
(v.n. 5,5-7,7)
(v.n. 2,5-4,0)
(v.n. 0,5-1,7)
(v.n. 156-354)
(v.n. 351-1503)
(v.n. 5-30)
(v.n. 15-40)
(v.n. 0,4-1,2)
(v.n. 80-120)
(v.n. 8-12)
(v.n. 2,3-6,6)
(v.n. 1,9-2,2)
(v.n. 138-152)
(v.n. 3,4-5,1)
(v.n. >27)
(v.n. 96-113)
ESAME DELLE URINE
Prelievo eseguito mediante cistocentesi
Colore: giallo-carico
Aspetto: torbido
P.S.
pH
Glucosio
Chetoni
Bilirubina
Sangue occulto
Hb e Mb
Proteine
1052
8,5
neg
neg
neg
positivo
500
(v.n. 1020-1065)
(v.n. 5,5-7,0)
(v.n. neg)
(v.n. neg)
(v.n. neg- 4,0 mg/dl)
mg/dl
(v.n. neg)
(v.n. neg-30 mg/dl)
Analisi del sedimento
WBC/hpf
RBC/hpf
Cilindri
4
18
assenti
(v.n. 0-5)
(v.n. 0-5)
132
Cristalli
Batteri
Cell. Epitel
38° Congresso Nazionale SCIVAC
assenti
assenti
++
PCT
PDW
Emoparassiti
Proteine tot.
Fibrinogeno
0,15
83,39
neg
5,8
820
%
%
(v.n. 0,11-0,4)
(v.n. 25-65)
g/dl
mg/dl
(v.n. 5,7-7,7)
(v.n. 150-400)
CASO N° 2
• PROFILO BIOCHIMICO
Un cane Yorkshire terrier maschio di 8 anni viene riferito in seguito ad insorgenza acuta di vomito, diarrea, anoressia, dolore addominale non rispondenti alla terapia effettuata dal veterinario referente (Ringer lattato 90 ml/kg die, Metronidazolo 125 mg IV bid, Enrofloxacina 25 mg IM bid,
Ranitidina 5 mg IV tid e metoclopramide 10 mg IM tid) e
anzi complicati dalla comparsa di grave dispnea.
Al momento del ricovero il cane si presenta obeso, con
marcata disidratazione (8%) e marcatamente depresso.
È rilevabile inoltre una grave dispnea espiratoria con respirazione a bocca aperta. Le mucose sono itteriche, il TRC
prolungato, il polso femorale debole e frequente.
All’auscultazione si reperta una frequenza cardiaca di
180 bpm. I toni cardiaci sono normali, i campi polmonari
presentano sibili espiratori forzati. L’addome risulta disteso
e notevolmente dolente.
Vengono eseguiti quali esami collaterali: esame emocromocitometrico, profilo biochimico, analisi delle urine, profilo coagulativo, emogasanalisi, lastre del torace e un’ecografia addominale.
Gli esiti degli esami di laboratorio vengono riportati qui
di seguito:
• ESAME EMOCROMOCITOMETRICO
RBC
Hb
PCV
MCV
MCH
MCHC
RDW
NRBC/100
WBC
7,54
15,4
58,1
77,05
20,42
26,50
18,9
Anisocitosi
Poichilocitosi
+
++
WBC
c-WBC
Mielociti
Metamielociti
Neut.non Segm
Neut segm
Linfociti
Monociti
Eosinofili
Basofili
Neut tossici
PLT
PLT
MPV
22,3
22,3
0
0
1784
18063
669
1338
446
0
2007
Adeguate
115
19,5
106/µl
g/dl
%
fl
pg
%
%
0
(v.n. 5,1-8,5)
(v.n.11,5-18,0)
(v.n.35-55)
(v.n. 62-76)
(v.n. 20-25)
(v.n. 30-36)
(v.n. 11-16)
(v.n. 0)
Prot. tot
Albumine
Globuline
AST
ALT
ALP
GGT
Bilirub tot
Amilasi
Lipasi
Glucosio
Colesterolo
Trigliceridi
BUN
Creatinina
Calcio
Calcio corr
Fosforo
Sodio
Potassio
Cloro
Magnesio
HCO3Anion gap
5,8
1,8
4,0
452
598
8183
34
5,6
2170
458
156
654
298
52
2,3
6,9
8,6
12,5
140
2,9
98
1,2
13,9
31
g/dl
g/dl
g/dl
IU/L
IU/L
IU/L
IU/L
mg/dl
IU/L
IU/L
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mg/dl
mEq/L
mEq/L
mEq/L
mg/dl
mEq/L
mEq/L
(v.n. 5,5-7,5)
(v.n. 2,3-3,9)
(v.n. 1,5-3,9)
(v.n. 20-67)
(v.n. 13-92)
(v.n. 0-85)
(v.n. 0-10)
(v.n. 0-1 mg/dl)
(v.n. 165-1350)
(v.n. 90-527)
(v.n. 81-121)
(v.n. 156-354)
(v.n. 10-170)
(v.n. 6-24)
(v.n. 0,4-1,2)
(v.n. 8,8-11,3)
(v.n. 2,3-6,6)
(v.n. 138-152)
(v.n. 3,4-5,1)
(v.n. 109-125)
(v.n. 1,9-2,2)
(v.n. 16-26)
(v.n. 8-24)
• PROFILO COAGULATIVO
aPTT
PT
TT
FDP
D-dimeri
Antitrombina III
Fibrinogeno
9,5
6,7
5
<2,5
0
136
820
sec
sec
sec
µg/ml
%
mg/dl
(v.n. 10-13,1)
(v.n. 6,5-,3)
(v.n. 0-11)
(v.n. < 2,5)
(v.n. 0-0,25)
(v.n. 100-148)
(v.n. 150-400)
mmHg
mmHg
mEq/L
mEq/L
mmHg
(v.n. 7,36-7,44)
(v.n. 36-44)
(v.n. 90-100)
(v.n. 24-26)
(v.n. 0 +/- 4)
(v.n. 0-15)
mg/dl
(v.n. 1015-1040)
(v.n. 5,5-7)
(v.n. neg)
• EMOGASANALISI
103/µl
103/µl
µl
µl
µl
µl
µl
µl
µl
µl
µl
(v.n. 6-18)
(v.n. 0)
(v.n. 0)
(v.n. 0-300)
(v.n. 3600-14000)
(v.n. 720-5750)
(v.n. 0-1600)
(v.n. 0-1800)
(v.n. 0-400)
(v.n. 0)
103/µl
fl
(v.n. 200-500)
(v.n. 5,5-8,5)
pH
pCO2
pO2
HCO3B.E.
P(A-a) O2
FI O2
pO2/ FI O2
7,021
58
51
17,2
-8,9
26,5
0,5
102
• ESAME DELLE URINE
P.S.
pH
Glucosio
1025
5
100
38° Congresso Nazionale SCIVAC
Chetoni
Bilirubina
Proteine
Sangue occulto
neg
8
100
Positivo
133
CASO N° 4
mg/dl
mg/dl
(v.n. neg)
(v.n. neg)
(v.n. neg)
Esame del sedimento
WBC/hpf
RBC/hpf
Cilindri
Cristalli
Batteri
15
25
neg
neg
neg
(v.n. 0-3)
(v.n. 0-3)
CASO N° 3
Un barboncino, maschio di otto anni viene portato in clinica in seguito all’insorgenza acuta di dispnea, tachipnea e
depressione.
L’anamnesi rivela episodi di polifagia, poliuria e polidipsia.
All’esame clinico il soggetto si presenta obeso, con distensione dell’addome, atrofia testicolare e un’estesa alopecia simmetrica. La cute, soprattutto in corrispondenza dell’addome, appare assottigliata tanto che risultano visibili i
sottostanti vasi; sono presenti inoltre comedoni. La temperatura corporea è nella norma, le mucose sono cianotiche, il
polso è debole ed è presente una marcata polipnea. All’ascoltazione si rileva una frequenza cardiaca di 200 bpm e la
presenza di rantoli polmonari.
Vengono eseguiti quali esami collaterali: esame emocromocitometrico, profilo biochimico, analisi delle urine, ECG,
misurazione della pressione arteriosa, radiogrammi in proiezione latero-laterale e sagittale del torace e un’ecografia addominale.
Di seguito vengono riportati solo i parametri alterati:
• Moderata leucocitosi con neutrofilia
• Ipercolesterolemia
• Moderata iperglicemia
• Valori aumentati di ALP e ALT
L’ECG rivela la presenza di una tachicardia sinusale.
Un cane, incrocio di piccola taglia, maschio di 14 anni
viene portato a visita clinica in seguito all’insorgenza di dispnea acuta progressivamente ingravescente che al momento della visita clinica appare essere una grave dispnea a carattere sia inspiratorio sia espiratorio.
Il cane vive con altri dodici cani e il proprietario non
esclude che possa essere stato morso, non sono però reperibili ferite sul corpo del soggetto. Le mucose sono cianotiche
e, vista l’entità della dispnea, il cane viene sottoposto ad ossigenoterapia prima di procedere a qualsiasi indagine diagnostica. L’ossigenoterapia porta ad un miglioramento della
condizione di cianosi delle mucose, senza tuttavia alleviare
il grado di dispnea. Vengono effettuati radiogrammi in proiezione latero-laterale e sagittale sia del torace sia del tratto
cervicale e il soggetto viene nuovamente posto in ossigenoterapia.
CASO N° 5
Un cane Shi-tzu, maschio, di cinque anni viene portato in
clinica in seguito all’insorgenza di una dispnea progressiva.
Al momento dell’esame il soggetto presenta ortopnea, tachipnea e una ridotta ampiezza del respiro; le mucose sono cianotiche, la temperatura è nella norma, i toni cardiaci sono attutiti, il polso è paradosso.
Dopo ossigenoterapia, vengono eseguiti radiogrammi in
proiezione latero-laterale e sagittale.
CASO N° 6
Un cane Leonberger femmina di diciotto mesi viene condotto all’esame clinico in seguito all’insorgenza di una dispnea imponente, caratterizzata da una diminuzione dell’escursione della gabbia toracica e da un notevole aumento
della frequenza respiratoria.
Alla visita clinica viene riscontrata una temperatura di
39,8°C; i toni cardiaci sono attutiti e le mucose sono cianotiche.
Vengono eseguite radiografie in proiezione latero-laterale e sagittale e, quali esami di laboratorio, un emocromocitometrico (da cui risulta leucocitosi con neutrofilia) e un
profilo biochimico (da cui emerge un aumento di ALP, BUN
e proteine totali).
38° Congresso Nazionale SCIVAC
135
Approccio diagnostico e terapeutico all’ipercalcemia
Marco Caldin
Med. Vet. - Libero Professionista - Padova
Il calcio svolge un ruolo biologico di primaria importanza
nella fisiopatologia di alcuni processi organici: costituente
principale della sostanza osteoide (99% del calcio corporeo),
ione regolatore dei processi intracellulari ed elemento essenziale per la coagulazione del sangue (circa 0,1% del calcio
corporeo). Da qui l’esigenza primaria che il livello ematico
del calcio rimanga confinato ad un intervallo ristretto, per garantire il pieno svolgimento di tali funzioni. A tale fine l’organismo utilizza una serie di ormoni che, interagendo in maniera complessa, assicurano il raggiungimento di tali obiettivi.
La calcemia che comunemente misuriamo, rappresenta
la calcemia totale, la quale si compone di tre frazioni:
1. calcio ionico (50% della calcemia totale) che rappresenta
la frazione biologicamente attiva e quindi la più importante dal punto di vista clinico;
2. calcio legato alle proteine, in particolare alle cariche negative della albumina (40% della calcemia totale);
3. calcio complessato con anioni presenti nel siero (bicarbonati, citrati, fosfati e lattati).
Il calcio legato alle proteine rappresenta una frazione
percentuale importante rispetto alla calcemia totale e viene
influenzato dai livelli delle proteine stesse. Ecco perché esistono delle formule correttive che ci consentono di tradurre
i livelli di calcemia indipendentemente dai livelli proteici.
Tali formule correttive esistono solo per il cane ed hanno significato esclusivamente in presenza di ipoalbuminemia.
MECCANISMI CHE DETERMINANO
L’IPERCALCEMIA
Stimolazione dei recettori del PTH: induce un aumento della liberazione calcica a livello osseo ed un aumentato
riassorbimento di calcio a livello tubulare, che si accompagnano ad una aumentata escrezione di fosforo a livello urinario. Evento finale di tale fenomeno quindi è lo sviluppo di
ipercalcemia ed ipofosforemia. Tale stimolazione può avvenire o perché vi è un eccesso di produzione di PTH (iperparatiroidismo), o di proteine correlate al PTH (PTHrP). Tale
fenomeno si verifica soprattutto in condizioni neoplastiche.
Eccessivo assorbimento intestinale di calcio: si verifica per intossicazione di Vitamina D (iatrogenica) secondaria
ad eccessiva integrazione nei cuccioli, per assunzione accidentale in seguito ad ingestione di rodenticidi e/o pesticidi
contenenti metaboliti della vitamina D, e per produzione di
metaboliti della vitamina D ad opera di cellule macrofagiche
(processi granulomatosi disseminati) o neoplastiche (soprattutto in corso di neoplasie ematopoietiche). In queste situazioni ipercalcemiche, secondarie ad un aumentato riassorbimento di calcio a livello intestinale, ad opera di metaboliti
della vitamina D si verifica anche una iperfosforemia per
l’azione che tali metaboliti esercitano nell’assorbimento di
fosforo a livello intestinale.
Eccessivo riassorbimento osseo non mediato dal PTH è
una condizione clinica che solo infrequentemente determina
ipercalcemia. Infatti, se la funzione renale è integra, i reni
compensano un aumentato riassorbimento osseo con una aumentata escrezione renale, rendendo l’ipercalcemia un evento
infrequente. Ciononostante, se il riassorbimento osseo è imponente la funzione renale può non essere in grado di adeguarsi
a tale situazione verificandosi così una situazione di ipercalcemia. Tali condizioni di aumentato rimaneggiamento osseo
possono verificarsi in corso di patologie che richiedano una
immobilizzazione duratura del paziente, o in corso di metastasi ossee/processi infiammatori (osteomieliti), per rimaneggiamento locale ad opera delle cellule neoplastiche/infiammatorie stesse. Tale situazione può verificarsi anche per azione di
citochine (IL-1, IL-6, TNF etc.), prodotte da cellule neoplastiche che possono non aver metastatizzato a livello osseo.
Riduzione dell’escrezione renale: può essere alla base
del fenomeno ipercalcemia, anche se tale situazione sembra
verificarsi frequentemente solo nel cavallo. Quando una situazione di ipercalcemia si verifica in corso di insufficienza
renale cronica dei piccoli animali, sembra che tale situazione sia imputabile più ad una alterazione delle frazioni legate o complessate del calcio più che ad una ridotta escrezione
renale del calcio stesso. Infine, anche l’utilizzo di diuretici
tiazidici sembra essere in grado di determinare ipercalcemia
attraverso un aumentato riassorbimento tubulare di calcio
e/o una contrazione del volume ematico.
ANALITI UTILIZZABILI
PER LA VALUTAZIONE DEI PAZIENTI
IPERCALCEMICI
Calcio totale: analita dosato di routine, che permette di
definire ipercalcemico un soggetto che presenti la calcemia
> 12,0 mg/dl (cane) o 11,0 mg/dl (gatto).
136
Calcio ionico (iCa): il dosaggio del calcio ionico è una
valutazione di primaria importanza, dato che la comparsa
dei segni clinici correlati alla ipercalcemia si correla proprio
all’elevazione del iCa e non alla elevazione del calcio totale. Purtroppo tale analita, per essere dosato, richiede una
strumentazione specifica (elettrodo ione specifico) che ne
preclude, al momento, un utilizzo routinario. Tale dosaggio
è indispensabile nei casi in cui sia problematico stabilire la
causa della ipercalcemia. Tale condizione è particolarmente
frequente nella ipercalcemia da insufficienza renale cronica,
in cui il calcio è aumentato, mentre il calcio ionico è normale o ridotto, consentendo in via diretta l’interpretazione del
quadro ipercalcemico. Sono più rare le condizioni in cui elevazioni del calcio ionico non diano ripercussioni a livello del
calcio totale, anche se le nostre esperienze (per quanto ancora limitate numericamente) sembrano andare in direzioni
diverse da quelle descritte in letteratura, soprattutto per patologie quali linfomi/leucemie.
PTH: l’ormone paratiroideo è il regista principale della
regolazione calcica, essendo prodotto dalle cellule principali delle paratiroidi, in seguito a piccole variazioni del livello
ematico del calcio. L’ipocalcemia stimola la produzione del
paratormone, mentre l’ipercalcemia e gli elevati livelli di 125-OH vitamina D la deprimono. Notevoli difficoltà sono
esistite in passato per la determinazione di tale ormone, in
quanto circola nel sangue insieme a suoi metaboliti (derivanti dall’attività delle cellule epiteliali tubulari sull’ormone
stesso), che mantenevano parzialmente l’attività biologica
della molecola originaria. Il dosaggio che si utilizzava valutava il pool totale di questi metaboliti, che in questo modo riflettavano solo parzialmente l’attività paratiroidea. Con l’avvento della tecnica del doppio anticorpo (iPTH), opportunatamente validata per i nostri animali, la misurazione dell’attività della ghiandola paratiroidea è diventata una realtà,
consentendo di valutare se si presenta adeguata o meno in
corso di ipercalcemia.
Vitamina D: la vitamina D è assunta con gli alimenti e
depositata a livello cutaneo. In caso di necessità tale vitami-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
na è convertita a livello epatico in un metabolita intermedio
(25-OH vitamina D) che, pur svolgendo in parte l’azione
ipercalcemizzante tipica della vitamina, viene convertito in
un secondo metabolita (1-25-OH vitamina D). Quest’ultimo
è estremamente più attivo (100 volte maggiore della 25-OH
vitamina D) a livello renale, ad opera di un enzima (1-αidrossilasi), che risente di una induzione da parte del PTH.
L’azione della vitamina si esplica aumentando l’assorbimento di calcio e fosforo a livello intestinale e deprimendo la
produzione di PTH a livello paratiroideo. L’effetto finale che
ne consegue è una ipercalcemia ed una iperfosforemia concomitante.
PTHrP: la proteina correlata con il PTH è una proteina
che viene normalmente secreta dalle ghiandole paratiroidee
fetali e dalla placenta, rivestendo un ruolo importante nella
regolazione del metabolismo calcico. Nella vita adulta, la secrezione di tale proteina si trova normalmente associata a
varie neoplasie, tra le quali le più segnalate sono il linfoma,
l’adenocarcinoma delle ghiandole perianali, il mieloma multiplo, il tumore mammario e il timoma.
L’azione biologica del PTHrP è del tutto sovrapponibile
a quella del PTH, possedendo un’identica porzione aminoacidica, che ne determina la relativa funzione biologica. Le rimanenti porzioni della molecola differiscono però dal PTH,
rendendola immunologicamente distinguibile. È da notare
che, in corso di insufficienza renale, la PTHrP aumenta a
causa della ritenzione di alcuni metaboliti, che derivano dal
catabolismo della molecola primaria. A questo si aggiunge
che il PTHrP è costituito, prima ancora della sua degradazione, da un pool di differenti molecole.
Calcitonina: la calcitonina, pur inibendo completamente il riassorbimento calcico a livello osseo, sembra rivestire
un ruolo biologico minore, dato che tale inibizione si presenta di breve durata. Di conseguenza è probabile che svolga un ruolo di secondaria importanza nel metabolismo osseo. Le valutazioni della calcitonemia scopo diagnostico non
hanno evidenziato risultati degni di nota.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
137
Metodiche diagnostiche per un corretto
planning pre-operatorio del distretto oro-facciale
David Crossley
B Vet. Med., Dipl. EVDC, FAVD - DaCross Services - Middleton, Regno Unito
Dea Bonello
Med. Vet., SRV, Dipl. EVDC - Libero Professionista - Torino
La diagnosi delle affezioni orofacciali richiede l’approccio
standard utilizzato in altri campi: raccolta dei dati segnaletici
ed anamnestici e rilevamento dei segni clinici. Successivamente si effettua l’esame dell’animale, con o senza indagini
collaterali, per arrivare alla formulazione di un sospetto diagnostico e all’elaborazione di una lista di possibili diagnosi
differenziali. A questo punto, diviene appropriata la valutazione della prognosi e la pianificazione del trattamento. Bisogna
evitare di saltare alle conclusioni. È molto facile essere portati fuori strada da segni clinici evidenti, che fanno passare inosservate altre manifestazioni più sottili, ma talvolta molto importanti. Due degli errori più comuni sono rappresentati da:
1. non rilevare la presenza di un problema potenzialmente
letale delle vie aeree;
2. ritenere a priori che un caso caratterizzato da un imponente danno facciale sia disperato.
esemplari da esposizione o da lavoro, che a loro volta differiscono da quelle degli animali da reddito. È importante effettuare un’indagine anamnestica quanto più possibile dettagliata. Alcuni clinici svolgono questo compito meglio di altri e
tutti adottano approcci differenti. La sola cosa da evitare è
quella di porre delle domande che possano in qualche modo
indirizzare il proprietario, dal momento che è proprio della natura umana rispondere positivamente. Bisogna invece cercare
di spingere i clienti ad ammettere che non sanno qualcosa!
Chiedere se sono loro ad alimentare personalmente l’animale
o se questo compito è affidato a un altro membro della famiglia, piuttosto che limitarsi a domandare cosa mangia il soggetto, rappresenta un buon punto di partenza e permette di ottenere una risposta più onesta. Ciò consente di valutare la probabilità dell’esattezza delle risposte date a domande specifiche relative al regime alimentare dell’animale. Quando non
sono sicuri della risposta, molti proprietari tendono a fare delle congetture piuttosto che ammettere di non sapere qualcosa.
SEGNALAMENTO
Il segnalamento è costituito dai dati relativi a:
• specie
• razza
• età
• sesso
• peso
• uso dell’animale (da compagnia/da esposizione/da reddito,
ecc…)
ANAMNESI
Le informazioni relative al problema in atto comprendono:
• segni clinici;
• insorgenza e durata;
• altri problemi pregressi e concomitanti;
• trattamenti somministrati e dettagli relativi alle risposte
osservate.
Bisogna poi raccogliere le informazioni relative all’alimentazione passata e presente dell’animale ed all’attività fisica svolta. È anche importante il tipo di impiego del soggetto,
dal momento che gli animali da compagnia ed i loro proprietari hanno esigenze ed aspettative diverse da quelle degli
ESAME CLINICO
Una volta terminata la raccolta dei dati segnaletici ed
anamnestici, si deve effettuare un esame clinico completo
del paziente. Anche se è importante osservare le manifestazioni più evidenti e le zone indicate dal clienti, è ancor più
utile valutare l’intero animale. Ad esempio, gli incidenti
stradali determinano spesso la comparsa di manifestazioni
esterne drammatiche, con emorragie provenienti da ferite
aperte ed eccessiva motilità degli arti dovuta alla presenza di
fratture. Quello che è meno evidente in questi casi è che
spesso sono presenti pneumotorace, contusioni cardiache e
danni neurologici. Le lesioni esterne possono essere impressionanti, ma la priorità immediata va attribuita al mantenimento delle funzioni respiratorie e circolatorie.
Esame oro-facciale iniziale
• Esame di routine dell’intero paziente
• Esame extraorale
• Esame oftalmico
• Esame otoscopico
• Iniziale valutazione intraorale (di solito limitata)
138
Esame orofacciale definitivo
L’entità dell’esame iniziale dipende da quella delle lesioni, dal temperamento del paziente e dall’urgenza dell’attivazione dei trattamenti terapeutici salvavita. In molti casi, specialmente quando sono indicate valutazioni intraorali dettagliate o procedure collaterali come la ripresa di radiografie,
l’esame definitivo richiede il contenimento del paziente e, in
particolare, l’anestesia generale.
L’uomo si basa fortemente sulla vista, per cui spesso fa
troppo affidamento su questo senso. Nella formulazione di
una diagnosi bisogna invece sfruttare tutti e 5 i sensi.
• Vista
• Udito
• Tatto
• Olfatto
• Gusto
In medicina umana, ed in particolare in odontoiatria, riveste un ruolo importante la segnalazione, da parte del paziente, di sapori anomali. Storicamente, il sapore dell’urina
veniva utilizzato per riconoscere il diabete mellito. Anche se
il senso del gusto dell’uomo è debole, certi odori possono essere “apprezzati” nell’aria esalata attraverso la bocca e risultare utili nella diagnosi in ambito veterinario.
È anche importante il sesto senso del clinico. L’intuizione non va ignorata, dal momento che esiste probabilmente
un certo grado di riconoscimento a livello subconscio di fattori che potrebbero non essere evidenti in altro modo.
Nel corso dell’esame, osservare:
• normalità e simmetria delle strutture
• mobilità ed escursione
• colore
• struttura
• temperatura
• riflessi
• coscienza
• reazioni algiche
ULTERIORI INDAGINI
Nell’ambito della valutazione dei segni clinici, e per
escludere l’esistenza di fattori che potrebbero complicare il
trattamento, è indicato l’esame delle strutture e delle funzioni interne. I test elettrofisiologici sono normalmente limitati
all’elettrocardiografia, tuttavia, ai fini della valutazione delle lesioni e delle malattie orofacciali, possono risultare utili
anche l’elettroencefalografia, l’elettromiografia e gli studi
sulla conduzione nervosa. Anche gli esami ematologici ed il
profilo biochimico sono indicati in molti casi, come altri test quali la determinazione dei livelli ormonali, da effettuare
con minore frequenza. Dal momento che in molte razze di
cani si riscontra comunemente l’ipotiroidismo, che predispone i soggetti colpiti a problemi medici e a complicazioni
della guarigione degli interventi chirurgici, sarebbe forse indicato effettuare di routine la valutazione della funzionalità
tiroidea prima degli interventi chirurgici programmabili, in
modo da rilevare eventuali casi subclinici, non limitandosi
solo a quelli sospetti.
Altre indagini di laboratorio sono le colture microbiche
38° Congresso Nazionale SCIVAC
Esempio di scheda di registrazione degli esami
e dei trattamenti orali nel cane.
Destra
Sinistra
e gli antibiogrammi. Queste analisi hanno scarso valore
nella maggior parte delle lesioni intraorali, a causa del gran
numero di microrganismi normalmente presenti nella bocca, ma per le lesioni extraorali la conoscenza dei microrganismi specifici coinvolti e della loro sensibilità agli antibiotici permette di effettuare una scelta appropriata del
trattamento. È ben noto che la flora batterica orale è costituita da una miscela di molte specie comprendenti, fra gli
altri, cocchi aerobi Gram-positivi e bastoncelli anaerobi
Gram-negativi. Gli antibiotici da utilizzare per il trattamento delle ferite infette intraorali devono quindi disporre
di un ampio spettro antibatterico; tuttavia, si ritiene comunemente che nelle ferite fresche il controllo della colonizzazione da parte degli (Strepto)cocchi Gram-positivi permetta di prevenire in larga misura lo sviluppo di infezioni
miste più gravi, per cui ai fini della copertura antibiotica
profilattica di routine risultano indicate le penicilline semisintetiche come l’amossicillina.
L’esame microscopico dei campioni citologici e, ancor
più importante, di quelli bioptici è necessario per la diagnosi di molte condizioni. La cavità orale non è un buon ambiente per il prelievo di campioni superficiali, dal momento
che i numerosi batteri presenti portano ad una significativa
infiammazione che, molto probabilmente, maschera la presenza di alterazioni istopatologiche più significative. Ai fini
dell’analisi, il prelievo di un pezzo di tessuto ben fissato è
preferibile ai raschiati superficiali ed agli aspirati mediante
ago. La visualizzazione dell’architettura del tessuto e delle
relazioni fra cellule nei campioni bioptici rappresentativi offre una maggiore probabilità di ottenere una diagnosi accu-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
rata. Per prelevare un campione ottimale, è necessaria una
certa pratica. Nei casi in cui può essere presente una neoplasia è essenziale evitare di contaminare inutilmente il tessuto
sano durante il prelievo. Un altro fattore molto importante è
che, qualora fosse indicato il trattamento chirurgico, la ferita lasciata dal prelievo del campione bioptico deve poter essere completamente asportata, per cui deve essere localizzata opportunamente. Si raccomanda caldamente di contattare
il chirurgo che effettuerà l’intervento prima di prelevare i
campioni bioptici.
Dal momento che gran parte delle strutture orofacciali è
situata al di sotto della superficie, gli esami radiografici
svolgono un ruolo molto importante nella diagnosi e nella
pianificazione del trattamento. Permettono di rilevare inizialmente le lesioni nascoste, di valutare l’estensione delle
139
altre ed il coinvolgimento di altre strutture. Le radiografie
possono anche essere utilizzate per il monitoraggio del processo di guarigione o della progressione o recidiva di una
determinata condizione.
REGISTRAZIONI CLINICHE
Bisogna sempre registrare dettagliatamente i dati anamnestici e clinici e i risultati degli esami effettuati. In particolare, nel caso delle lesioni orali e dentali, può essere utile
l’impiego di una scheda di registrazione. Possono servire anche le fotografie, da allegare agli appunti del clinico, ai risultati delle indagini di laboratorio ed alle radiografie, per
una futura rivalutazione del caso.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
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Chirurgia oro-facciale dei tessuti molli
David Crossley
B Vet. Med., Dipl. EVDC, FAVD - DaCross Services - Middleton, Regno Unito
INTRODUZIONE
CONSIDERAZIONI ANATOMICHE
La chirurgia orofacciale comprende una vasta gamma
di interventi, dalla semplicissima cura delle ferite traumatiche di minore entità, o dall’estrazione di un dente già allentato, alla ricostruzione facciale successiva ad un grave
trauma accidentale o chirurgico, come la resezione radicale di interi comparti ossei colpiti da neoplasie maligne.
L’intervento di chirurgia orale effettuato più frequentemente, ma spesso meno ben eseguito e conosciuto, è l’estrazione dei denti.
In chirurgia orofacciale umana, i risultati estetici sono
estremamente importanti per il paziente. Il chirurgo veterinario non deve preoccuparsi di questo aspetto dal punto di
vista dell’animale.
Nei casi accidentali, si incontra una minore resistenza da
parte del cliente e una maggiore disponibilità ad accettare risultati esteticamente poco gradevoli. Inizialmente, i proprietari sono spesso più preoccupati degli effetti estetici degli interventi programmabili (“mi raccomando di non tagliare via
questi peli”) che del fatto che l’animale è colpito da una condizione potenzialmente letale. I clienti si aspettano che i veterinari facciano miracoli!
È essenziale impiegare un po’ di tempo per spiegare l’intervento chirurgico che si intende effettuare, chiarendone limiti ed esito previsto.
Se possibile, è bene disporre di una serie di fotografie
pre- e postoperatorie relative a casi trattati in precedenza.
Si possono anche utilizzare semplicemente le illustrazioni riportate sui trattati, ma, se si ha a disposizione una
buona macchina fotografica, è meglio realizzare una propria documentazione.
Come la chirurgia, anche la composizione della immagini per ottenere un effetto ottimale richiede molta pratica,
ma dopo un po’ diviene una seconda natura. Inoltre, fotografie pre- e postoperatorie costituiscono un utile integrazione della cartella clinica dei casi trattati, da abbinare agli
appunti ed alle radiografie. Nei casi in cui gli interventi chirurgici programmabili possono avere un effetto estetico
sgradevole, un altro modo per dimostrare quanto sia limitato il probabile effetto sul paziente è quello di chiedere l’assistenza di un cliente che possieda un animale trattato con il
metodo suggerito.
Per eseguire con sicurezza qualsiasi intervento chirurgico è necessaria una conoscenza di base dell’anatomia e della fisiologia su cui si fondano tutti i principi operatori.
In generale, lo scopo dell’intervento chirurgico è quello
di ripristinare il più possibile l’anatomia funzionale, entro i
limiti imposti dalla ragione primaria per cui viene effettuato
l’intervento. Bisogna evitare di arrecare dei danni non necessari, per ridurre al minimo le complicazioni postoperatorie. Tuttavia, è necessario raggiungere dei compromessi.
Spesso, avviene che un danno deliberatamente aumentato,
ma controllato, in una data area possa ridurre i traumi o i rischi in un altro settore. Ad esempio, spesso è preferibile recidere un vaso sanguigno non essenziale che attraversa il
campo operatorio per migliorare l’accesso alle strutture più
profonde. Quando un vaso di maggior calibro impedisce di
raggiungere le strutture desiderate, è possibile occluderlo in
modo atraumatico su entrambi i lati, tagliarlo per migliorare
l’accesso e poi rianastomizzarlo durante la chiusura della ferita. Ciò richiede la disponibilità di un sistema di ingrandimento adeguato (microscopio operatorio) e di materiali per
sutura vascolare, per cui questa tecnica non può essere utilizzata di routine nella chirurgia veterinaria generica.
La scelta di recidere deliberatamente un nervo deve essere effettuata solo dopo aver pienamente considerato le
conseguenze. Il nervo può essere motore, sensoriale o misto.
In seguito alla riparazione della lesione si può avere una rigenerazione nervosa, che tuttavia è imprevedibile, per cui ci
si deve aspettare una disfunzione permanente. Mentre la perdita della sensibilità delle gengive, del labbro superiore e
delle vibrisse in seguito alla resezione del nervo infraorbitale (una branca sensoriale della componente mascellare del
trigemino - V nervo cranico) provoca scarse disfunzioni evidenti nei cani e nei gatti da compagnia, qualsiasi danno del
nervo faciale (VII nervo cranico) che è di tipo motore, comporta effetti visibili. Queste manifestazioni variano in funzione della parte di nervo danneggiata. La sezione più sensibile a questo tipo di lesioni è quella adiacente alla bolla timpanica. Infiammazione ed infezioni in quest’area aumentano
ulteriormente il rischio di danno iatrogeno durante l’intervento. In effetti, si può avere una paralisi semplicemente in
seguito ad una grave infezione dell’orecchio medio. Gli interventi chirurgici in questa regione possono causare la comparsa di contusioni (neuroprassia) che generalmente portano
ad una paralisi temporanea che spesso si risolve entro 3-4
settimane. Il taglio di questo nervo causa invece probabilmente una paralisi permanente, con evidente caduta delle
labbra e delle palpebre del lato colpito, dal momento che la
142
rigenerazione è improbabile. Altri effetti meno evidenti, ma
potenzialmente più gravi, sono la perdita dell’innervazione
delle ghiandole secernenti dello stesso lato della testa. La riduzione delle secrezioni nasali, salivari e lacrimali comporta a sua volta effetti indesiderati.
L’autore raccomanda caldamente di tenere una serie di
buoni atlanti anatomici nella sala di preparazione del chirurgo, in modo che questi possa ripassare l’anatomia normale
dei settori su cui intende operare immediatamente prima dell’intervento.
CONSIDERAZIONI FISIOLOGICHE
L’anatomia non può essere considerata isolatamente. È
essenziale conoscere a fondo le funzioni di ogni singola
struttura. L’organismo è una sola unità funzionale complessa, costituita da molteplici subunità. Fortunatamente, è in
grado di continuare a funzionare quando molte delle sue
componenti sono danneggiate, malate o perdute. Quindi, è
possibile prendere in considerazione la resezione di grandi
tratti di tessuto o anche di arti interi e di certi organi.
Le principali funzioni della regione orofacciale sono
quelle di garantire l’accesso dell’aria alle vie aeree profonde, la prensione, masticazione e deglutizione degli alimenti,
mentre il cranio protegge l’encefalo e sostiene i principali
organi di senso. Gli animali domestici sono tenuti in un ambiente protetto e, in molti casi, i proprietari sono disposti a
svolgere determinate funzioni al posto loro. Ciò significa
che i mezzi di autodifesa orali (denti), il senso del gusto e
dell’olfatto, la mimica facciale (comunicazione) e la toelettatura rivestono minore significato per la sopravvivenza degli animali domestici, soprattutto se da compagnia. In questi
ultimi, persino la masticazione può essere considerata poco
importante, dal momento che in commercio si trovano dei
prodotti che non richiedono questa funzione. Di conseguenza, l’estrazione totale dei denti è accettabile e, nelle razze
nane, spesso essenziale.
Le strutture facciali sono sottoposte a varie forze di pressione ed aspirazione associate alla respirazione ed alla deglutizione. Si osserva anche un considerevole movimento durante le attività di alimentazione e toelettatura. Queste variazioni pressorie e questi movimenti comportano gravi implicazioni della chirurgia orofacciale. Le strutture in movimento guariscono lentamente. Anche il passaggio dell’aria attraverso le ferite ritarda la guarigione e può arrivare ad impedirla. Inoltre, occorre tenere in considerazione l’attività della
lingua. Nell’uomo ed in molti animali, qualsiasi anomalia
orale accessibile alla lingua viene esplorata quasi costantemente durante le ore di veglia. Il trattamento delle ferite orali richiede una scelta meticolosa ed appropriata del materiale
da sutura, il ricorso a manualità atraumatiche e la corretta applicazione delle suture nelle ferite, che non devono essere
sotto tensione per non andare incontro al rischio di deiscenza.
È importante conoscere la guarigione delle soluzioni di
continuo. Quella delle incisioni o lacerazioni della cute viene descritta secondo uno schema classico:
• la ferita viene riempita da un coagulo di fibrina
• il coagulo si contrae, iniziando ad accostare i margini del-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
la lesione
• la ferita viene infiltrata da elementi infiammatori, che rimuovono i detriti
• fibroblasti ed elementi endoteliali infiltrano il coagulo
• si ha la deposizione del collagene e la formazione di capillari che determinano il tessuto di granulazione
• la contrazione del collagene accosta i margini della lesione
• al di sopra del tessuto di granulazione prolifera l’epitelio
Lo stesso schema di guarigione si osserva nelle lesioni
delle mucose, ma i tempi sono spesso più brevi, dal momento che queste superfici sono umide. La secchezza delle ferite cutanee ne ritarda l’epitelizzazione. Una caratteristica importante della guarigione è che l’epitelizzazione è rapida rispetto alla riparazione determinata dal tessuto connettivo.
I tessuti situati all’interno ed intorno alle cavità orale e nasale sono in gran parte formati da sottili strati trilaminari, costituiti da due piani epiteliali fra i quali ne è interposto uno di
tessuto connettivo che può contenere muscoli, cartilagini o osso. Le ferite a tutto spessore di queste strutture portano spesso
alla comparsa di fistole. La comunicazione fra i due comparti
(cavità orale e nasale, cavità nasale ed esterno o cavità orale ed
esterno) spesso diviene permanente, dal momento che la guarigione viene impedita dalla progressione attraverso la ferita
della rapida epitelizzazione proveniente da entrambe le superfici epiteliali. Una volta che gli strati epiteliali della mucosa
orale e di quella nasale, della mucosa nasale e della cute o della mucosa orale e della cute si siano incontrati, il tessuto connettivo non può più chiudere il difetto tissutale residuo.
Questo è un problema comunemente associato alle avanzate periodontopatie che interessano il dente canino superiore. In molti casi, al momento in cui questo viene estratto o
cade da solo si è già formata ed epitelizzata una fistola oronasale. In questo caso, la semplice sutura dei due lati della
fistola non porta alla guarigione, perché non esiste alcun
contatto fra i tessuti connettivi. La correzione chirurgica richiede la rimozione del margine epiteliale alla periferia della fistola prima di tentarne la chiusura. Se la comunicazione
è di origine traumatica, da cause esterne o iatrogena, di solito è possibile suturare con successo i margini recenti della
ferita, evitando qualsiasi tensione e badando a non lasciare
aperto alcuno spazio, per prevenire la formazione di una fistola. Evitare la tensione delle ferite è uno dei principi fon-
Schema di una fistola oronasale in corrispondenza della caduta di un
dente canino superiore.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
damentali della chirurgia ricostruttiva.
PRINCIPI CHIRURGICI
Il prevedibile esito di un intervento chirurgico dipende
dal rispetto dei principi fondamentali. Il successo della chirurgia si ha quando il trauma operatorio inflitto è minimo, si
previene l’asepsi, si favorisce la guarigione e si assiste la riabilitazione del paziente. Quest’ultima fase in medicina veterinaria viene spesso dimenticata. In medicina umana è invece ben noto che i vari tipi di fisioterapia accelerano il recupero funzionale.
Nelle fasi iniziali è importante evitare gli stress delle ferite. Movimento e tensione aumentano la probabilità di deiscenza, ma la mancanza di esercizio fisico e di sollecitazioni previene il rimodellamento della ferita e causa l’atrofia di
altri tessuti, ritardando ulteriormente il recupero funzionale.
È necessario trovare un equilibrio; l’iniziale limitazione del
movimento deve essere gradualmente sostituita dall’introduzione, lenta ma progressivamente crescente, delle sollecitazioni naturali. Una volta che la robustezza della ferita sia ri-
143
tenuta adeguata, un periodo di movimento o di attività superiore al normale facilita il ritorno alla funzionalità ed allo
stato di forma fisiologici.
Principi chirurgici generali
• Utilizzare una tecnica asettica
• Ottimizzare il trauma tissutale deliberato
• Ridurre al minimo il trauma accidentale
• Mantenere la vitalità dei tessuti
• Prevenire l’essiccamento dei tessuti
• Minimizzare la contaminazione della ferita
• Assicurare un’adeguata emostasi
• Se possibile, eseguire la chiusura anatomica della ferita
• Minimizzare lo spazio morto della ferita
• Evitare la tensione della ferita, particolarmente a livello dei
lembi cutanei e mucosi
• Proteggere il campo operatorio
• Assicurare un’adeguata nutrizione
• Favorire il recupero funzionale
• Prevenire o controllare l’infezione delle ferite
38° Congresso Nazionale SCIVAC
145
Chirurgia oro-facciale dei tessuti duri
e chirurgia dentale
David Crossley
B Vet. Med., Dipl. EVDC, FAVD - DaCross Services - Middleton, Regno Unito
INTRODUZIONE
Di fronte ad un animale che abbia subito un imponente
trauma orofacciale o sia colpito da altre lesioni diffuse ed invasive, il clinico deve prendere numerose decisioni. In primo luogo, il paziente necessita di un immediato trattamento
di emergenza per garantire il mantenimento della pervietà
delle vie aeree e della circolazione. La priorità successiva è
il controllo del dolore. Una volta affrontati e risolti questi
problemi, è indicata una più approfondita valutazione del
paziente, che consenta di discutere la prognosi con il cliente
e di pianificare il trattamento.
In qualsiasi condizione, ed in particolare in quelle gravi,
è importante considerare se la propria esperienza è sufficiente ad affrontare il caso in modo appropriato. Se sussiste
un qualsiasi dubbio relativo alle proprie capacità di offrire al
paziente il miglior trattamento possibile, è dovere del clinico rivolgersi a qualcuno più esperto e prospettare al cliente
l’opportunità di rivolgersi ad un centro specializzato, nel caso che esista. Solo se il cliente declina questa offerta si può
iniziare il trattamento.
TRAUMI GRAVI
I mammiferi possono sopportare il danneggiamento di
grandi settori dell’organismo, a condizione che siano preservate le funzioni essenziali, per cui le lesioni gravi e le imponenti perdite di tessuto non sono necessariamente un’indicazione per l’eutanasia.
Il potenziale di guarigione è notevole ed in molti casi la
semplice terapia di sostegno permette di arrivare al recupero funzionale dell’animale anche senza alcun intervento medico. Lo scopo del veterinario deve essere quello di ottimizzare questo fenomeno naturale con una scelta oculata delle
cure assistenziali, mediche, chirurgiche, dietetiche e fisioterapiche più opportune.
Uno dei principali traumi da prendere in considerazione
è la resezione chirurgica radicale di determinate lesioni. Dal
momento che i tessuti vitali mostrano una naturale tendenza
alla guarigione, è bene tenere presente la possibilità di ricorrere a drastici interventi chirurgici nei casi in cui le lesioni
possono causare o stanno causando una certa morbilità o sono potenzialmente letali.
Il miglior esempio di questo tipo è dato dalla rimozione
dei comparti ossei interi colpiti da neoplasie maligne. Si può
eseguire un’escissione radicale nel tentativo di ottenere la
guarigione nei casi in cui non si rilevano segni di diffusione
metastatica, oppure come intervento di chirurgia citoriduttiva finalizzato a potenziare gli effetti di altre terapie o semplicemente a determinare un certo sollievo sintomatico
asportando lesioni dolorose, maleodoranti, sanguinanti od
occupanti spazio. Il trattamento dei difetti tissutali derivanti
da questi interventi è fondamentalmente lo stesso delle grandi ferite traumatiche.
Una volta accertata la stabilità della respirazione e della
circolazione del paziente si può passare alla valutazione della natura e dell’estensione delle lesioni, sia accidentali che
da trauma chirurgico.
Se esistono dei dubbi a proposito delle condizioni dell’animale, è possibile ritardare il trattamento definitivo dei danni traumatici per risolvere prima lo shock e concedere al paziente il tempo necessario per correggere gli altri problemi
quali pneumotorace, emotorace e contusione cardiaca. Il
trattamento di emergenza delle ferite va limitato all’emostasi, alla pulizia superficiale nei casi appropriati ed alla protezione delle lesioni. Nel caso dei traumi orofacciali, quest’ultimo risultato si ottiene meglio con l’applicazione di un “collare di Elisabetta”; per molte lesioni del muso, può essere
utile una museruola di nastro.
Un vantaggio del rinvio dei trattamenti non essenziali è
la possibilità di sfruttare utilmente il tempo così guadagnato per consultare altri colleghi o i vari trattati. È importante
pianificare il trattamento. Sfortunatamente, questo stadio
della terapia nella maggior parte dei casi viene ignorato per
la fretta.
Pianificazione del trattamento:
• Individuare il problema principale
• Identificare eventuali fattori complicanti
• Stabilire se il tempo o il costo rappresentano un fattore
limitante
• Determinare lo scopo del trattamento
• Elencare le opzioni terapeutiche disponibili
• Individuare il trattamento con le maggiori probabilità di
fornire i risultati ottimali
• Stabilire se occorrono farmaci o impianti speciali
• Stabilire se occorrono apparecchiature o capacità professionali speciali
• Verificare di avere tutto il necessario per attuare il trattamento
• Valutare se sia opportuno inviare il caso ad un centro
specialistico
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PIANIFICAZIONE PREOPERATORIA
E GESTIONE POSTOPERATORIA
Esistono numerosi casi in cui è possibile programmare
con un buon anticipo un intervento chirurgico, permettendo
un’accurata preparazione sia del chirurgo che del paziente.
La gravità delle deformazioni congenite della faccia e della
bocca varia, dai piccoli difetti estetici alle gravi deformazioni o alle condizioni caratterizzate dall’assenza di tessuto.
Molti degli animali che rientrano in quest’ultima categoria
muoiono in utero o al momento del parto. Per quelli che sopravvivono, occorre stabilire se si tratta di soggetti che potrebbero condurre una vita sana e felice con o senza riparazione o correzione chirurgia. Queste considerazioni si applicano anche a molte anomalie acquisite.
Al momento di prendere qualsiasi decisione relativa alla
necessità di effettuare o meno un trattamento ed all’esito a
lungo termine che si può ottenere nel paziente, è una buona
idea considerare l’eziologia del problema. Si tratta di una
condizione ereditaria? Congenita? Acquisita? Sono presenti
anche anomalie interne occulte?
• Il trattamento è essenziale per la sopravvivenza dell’animale?
• L’intervento chirurgico è finalizzato a migliorarne la qualità della vita?
• Oppure viene eseguito unicamente per ragioni estetiche?
ALIMENTAZIONE ED EQUILIBRIO IDRICO
È raro che le schisi labiali di minore entità influiscano
sulla capacità di un cucciolo di succhiare e la loro riparazione viene richiesta solo per ragioni estetiche. Le forme più
gravi invece riducono probabilmente l’efficienza della suzione, ma molti cuccioli per il resto sani possono comunque
crescere bene. Le forme di schisi che si estendono al palato
primario o secondario determinano invece effetti più importanti, ma possono anche non essere rilevate fino al momento dello svezzamento. In una certa percentuale di cuccioli
con palatoschisi sufficientemente ampia si osservano scarse
manifestazioni esterne riferibili alla condizione, dal momento che non si osserva la fuoriuscita di latte dalle narici. Il latte è solo leggermente irritante per la mucosa nasale, per cui
la sua presenza nella cavità suscita appena una scarsa reazione, mentre gli alimenti solidi provocano flogosi e scolo
nasale.
La maggior parte degli interventi chirurgici programmabili viene eseguita per correggere i difetti congeniti. Ogni
volta che sia possibile, è bene ritardare l’intervento fino a
quando questi pazienti non siano cresciuti e non abbiano accumulato delle riserve nell’organismo. L’operazione risulta
più facile nei soggetti di mole maggiore ed il rischio chirurgico nei giovani è inferiore a quello dei neonati. Una volta
stabilito che valga la pena di trattare un determinato difetto,
il paziente può essere gestito in modo tale da ridurre al minimo i problemi per un dato periodo di tempo. L’alimentazione mediante sonda risulta facile nei cuccioli e nei gattini
immaturi e la maggior parte dei proprietari è in grado di padroneggiarne la tecnica. Il latte, e nei pazienti un po’ più anziani una sorta di purè di alimenti per neonati, viene introdotto lentamente nell’esofago servendosi di una siringa rac-
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cordata ad un catetere morbido e di calibro relativamente
grande inserito attraverso la bocca. È necessaria una certa attenzione, in primo luogo per assicurarsi che la sonda sia stata introdotta in esofago ed in secondo luogo per non provocare il reflusso del latte/alimento introdotto. L’impiego di un
catetere di grosso calibro riduce al minimo il rischio di introduzione in trachea, ma non lo elimina. La tosse al momento dell’inserimento della sonda è un segno di allarme,
ma non indica sempre la penetrazione del tubo in laringe.
Prima di somministrare qualsiasi alimento, si iniettano con
la siringa alcuni ml di acqua. Se la sonda si trova in trachea,
ciò provoca di solito una reazione o un rumore gorgogliante. Ciascun caso va valutato singolarmente ad intervalli regolari dal momento che le risposte, le capacità e le aspettative degli animali, dei proprietari e dei veterinari sono variabili.
La maggior parte degli autori raccomanda di sospendere la somministrazione del cibo nelle 12 ore che precedono
un intervento di chirurgia orale e di non alimentare gli animali per le 24-48 ore successive. Le ragioni di questa limitazione postoperatoria variano, ma spesso fanno riferimento a preoccupazioni relative agli effetti della masticazione
e della deglutizione sulle ferite intraorali. Con questi protocolli, si hanno pazienti gravemente compromessi dallo
stress chirurgico mentre si trovano in un grave stato catabolico. Ciò sicuramente comporta notevoli implicazioni
per la guarigione delle ferite. Le probabilità che un animale annoiato ed affamato si dedichi all’esplorazione della ferita con la lingua o ad altre attività dannose sono molto
maggiori che in un soggetto con lo stomaco pieno. È probabile che un paziente soddisfatto si corichi tranquillamente. L’autore preferisce alimentare normalmente gli animali,
senza limitare l’assunzione di cibo fino a 2-3 ore prima
dell’intervento, concedendo l’accesso all’acqua fino al momento della premedicazione. Non appena si sveglia dall’anestesia, all’animale viene offerta una piccola quantità di
cibo da mangiare senza alcun aiuto, a meno che questo non
sia impossibile. I metodi di alimentazione alternativi sono
rappresentati da:
• Sonde faringostomiche. Traumatiche, non confortevoli,
non ben tollerate.
• Sonde rinogastriche. Atraumatiche, ragionevolmente
confortevoli, ben tollerate.
• Sonde gastrostomiche. Giustificate solo nei casi in cui è richiesta un’alimentazione assistita prolungata.
• Nutrizione paraenterale. Difficile ottenere più della semplice integrazione.
L’assunzione volontaria del cibo è il metodo più soddisfacente anche quando l’animale va alimentato manualmente o assistito in altro modo. Quando si prevede in anticipo
l’insorgenza di problemi, è possibile effettuare l’inserimento della sonda rinoesofagea (non rinogastrica) o gastrostomica al momento dell’intervento. L’autore preferisce evitare
di infliggere agli animali la prolungata irritazione faringea
indotta da una sonda da faringostomia per l’alimentazione
postoperatoria, mentre ritiene che questa sede possa essere
utile per l’applicazione di breve durata del tubo orotracheale durante gli interventi di chirurgia orale, per aumentare le
possibilità di accesso alla bocca.
Sono anche importanti il tipo e la consistenza degli ali-
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menti somministrati dopo l’intervento. L’assunzione volontaria o l’iniezione mediante siringa di alimenti liquidi è controindicata finché le ferite intraorali non hanno avuto il tempo di chiudersi. Anche i cibi appiccicosi sono sconsigliati,
perché aderiscono ai denti ed alla mucosa stimolando eccessivamente i movimenti della lingua. Un altro svantaggio degli alimenti che lasciano residui all’interno del cavo orale è
la loro tendenza a favorire la crescita batterica sulle mucose
e sui denti. In genere, nel periodo immediatamente successivo ad un intervento di questo tipo non è possibile attuare efficacemente le abituali misure di igiene orale, come la pulizia dei denti. Come misura di transizione in questa fase si
possono utilizzare gli sciacqui del cavo orale con una soluzione di clorexidina.
La chirurgia orofacciale può portare a problemi di alimentazione nell’immediato periodo postoperatorio. Può essere una buona idea attuare un’alimentazione intensiva preventiva, con un’opportuna integrazione vitaminica, ed abituare l’animale alle manualità che saranno necessarie dopo
l’intervento. Talvolta, questi soggetti possono trovare difficoltà a bere. Abituandoli nel periodo preoperatorio a consumare sostanze gelatinose (gelatina colloidale aromatizzata,
che contiene più del 95% di acqua) è possibile far sì che assumano acqua in forma solida mantenendo l’equilibrio idrico e riducendo la necessità di infusione endovenosa di fluidi nel periodo postoperatorio. Per il cane vanno ugualmente
bene le gelatine all’aroma di frutta reperibili in commercio
per uso umano o le preparazioni fatte in casa ed aromatizzate al sugo di carne, mentre il gatto di solito richiede gli aromi della carne o del pesce.
Con la sola esclusione degli interventi di entità minima,
è essenziale inserire un catetere endovenoso prima dell’intervento. Ciò permette di somministrare facilmente farmaci
e fluidi per tutta la durata dell’operazione e nel periodo postoperatorio. È una buona abitudine continuare la somministrazione di fluidi alla velocità di mantenimento fino a che il
paziente non è in grado di assumere per os adeguate quantità
di alimenti e liquidi. Come l’offerta del cibo poco dopo il risveglio, questa misura contribuisce a mantenere l’omeostasi.
ANALGESIA
L’analgesia è indicata, oltre che per ragioni etiche, anche
perché il comfort del paziente accelera la guarigione. La moderna anestesia bilanciata prevede l’impiego di premedicazioni che dovrebbero avere proprietà analgesiche e sedative.
Nei paesi in cui sono disponibili, gli oppiacei risultano eccellenti da entrambi questi punti di vista, anche se la loro durata d’azione è limitata. Per il mantenimento dell’analgesia,
gli intervalli fra le somministrazioni dovrebbero essere portati a 2-6 ore. Con l’introduzione del carprofen, un analgesico non steroideo di potenza quasi pari a quella della meperidina e di durata d’azione molto più prolungata (ed abbastanza sicuro da poter essere usato nella premedicazione prima
dell’anestesia generale) è oggi possibile ottenere in modo affidabile il controllo del dolore. È sempre preferibile continuare a somministrare gli analgesici più a lungo del previsto,
147
dal momento che nella maggior parte degli animali è difficile effettuare un’accurata valutazione delle manifestazioni algiche. L’eventuale riscontro di segni di irrequietezza, disagio, grida, ecc. richiede un’opportuna indagine, dal momento che queste manifestazioni potrebbero dipendere da un inadeguato controllo del dolore.
ANTIBIOTICI
La regione orofacciale è naturalmente caratterizzata dalla
presenza di un’ampia popolazione microbica. Oltre agli organismi endemici, in quest’area sono presenti i contaminanti
ambientali, soprattutto a livello di bocca e naso, e quelli provenienti da altre zone dell’organismo attraverso comportamenti naturali. La conoscenza della flora naturale permette di
scegliere con cognizione di causa se sia appropriato o meno
l’uso profilattico degli antimicrobici e, nel caso, di stabilire
quali siano quelli da utilizzare. L’antibiotico d’elezione per
gli interventi di chirurgia a livello di cute facciale, orecchio,
naso e cavità orale differisce a seconda dei casi, anche se esiste una certa sovrapposizione dei prodotti ad ampio spettro.
Il punto più importante da ricordare è che i principali microrganismi che infettano le ferite della bocca sono rappresentati da streptococchi ed anaerobi, mentre gli stafilococchi
sono più importanti a livello delle lesioni cutanee.
La profilassi antibiotica non va effettuata in tutti i casi, dal
momento che non è sempre necessariamente indicata. La predisposizione accertata alle infezioni, la presenza di tessuti
danneggiati o devitalizzati, la previsione di un esteso trauma
chirurgico ed il fatto che i pazienti siano colpiti da endocardiosi o immunosoppressione sono tutte possibili indicazioni
all’impiego di questi farmaci. Una volta presa la decisione di
utilizzarli, l’approccio più appropriato è quello di somministrare una dose elevata di un agente a spettro ristretto ed a bassa tossicità per ottenere livelli sierici e tissutali adeguati al
momento dell’intervento. In genere, risulta soddisfacente l’iniezione endovenosa immediatamente dopo l’anestesia. Anche la somministrazione per os o per altre vie può portare ad
ottenere livelli di farmaco soddisfacenti, ma richiede un trattamento più precoce, ad esempio al momento della premedicazione.
In genere, si somministra una seconda dose normale di
antibiotici 2-6 ore più tardi, a seconda della farmacocinetica
dell’agente impiegato, per mantenere le concentrazioni necessarie nel periodo postoperatorio. Nei casi in cui è nota la
presenza di un’infezione, si prolunga la durata della terapia.
In questi animali, gli antibiotici vengono utilizzati a scopo
terapeutico e non profilattico.
Letture consigliate
Manual of Small Animal Dentistry, second edition. Editors: Crossley and
Penman. BSAVA, Cheltenham, UK.
Head and Neck Medicine and Surgery in Small Animal Practice. Veterinary
Learning Systems, New Jersey, USA.
A Colour Atlas of Veterinary Dentistry and Oral Surgery. Kertesz P. Wolfe
Publishing, London, UK.
Small Animal Dentistry. Harvey CE & Emily PP. Mosby - Year Book, St.
Louis, Missouri, USA.
Principles of Oral Surgery. Moore JR & Gillbe GV. Manchester University
38° Congresso Nazionale SCIVAC
149
Analisi biochimica e citologica delle effusioni cavitarie
John Dunn
DVM, MA, MVetSc, BVM&S, Dipl ECVIM, DSAM
University of Cambridge Dept of Clinical Veterinary Medicine, Cambridge - Regno Unito
I versamenti cavitari possono essere classificati come
trasudati, trasudati modificati o essudati (settici o non settici). Inoltre, esistono diversi tipi di versamento, come, ad
esempio, quello chiloso e quello pericardico, che non rientrano in nessuna di queste categorie. Nel presente lavoro
vengono esaminate le caratteristiche citologiche e biochimiche dei differenti tipi di versamenti cavitari illustrando le
cause più comuni di ognuno di essi.
ANALISI BIOCHIMICA E CITOLOGICA
DEI VERSAMENTI CAVITARI
Le cavità corporee sono rivestite da un singolo strato
continuo di elementi mesoteliali che ricoprono la parete interna dell’organismo e del mediastino (superficie parietale)
e dei visceri (superficie viscerale). Il liquido pleurico (o peritoneale) è sieroso e rappresenta un ultrafiltrato privo di
proteine derivato dal sangue. Qualsiasi processo che alteri
l’assorbimento, la pressione vascolare o la concentrazione
dell’albumina a livello ematico può esitare in un accumulo
di fluidi in una cavità corporea (cioè in un versamento).
Esistono 4 meccanismi fisiopatologici primari per la formazione di fluidi corporei anomali:
• trasudazione.
• Essudazione di fluidi proteinacei e cellule.
• Distruzione di vasi o visceri.
• Esfoliazione di cellule neoplastiche.
Il processo patologico che causa il versamento ne determina anche la composizione biochimica e citologica.
presenza di cellule neoplastiche (emangiosarcoma).
CONSIDERAZIONI CITOLOGICHE
Identificare il tipo cellulare predominante (neutrofili,
elementi mesoteliali/macrofagi, cellule neoplastiche). Verificare la presenza di batteri (liberi o all’interno di neutrofili/macrofagi). Se presenti, utilizzare il liquido prelevato per
l’esecuzione di esami batteriologici ed antibiogrammi (colture aerobiche ed anaerobiche).
Cellule mesoteliali
Gli elementi mesoteliali di solito si esfoliano a grappoli
che possono arrivare a 10-15 cellule (grappoli di maggiori
dimensioni sono probabilmente anormali). Gli elementi mesoteliali appena esfoliati presentano un abbondante citoplasma basofilo che circonda un nucleo ovale localizzato in
posizione centrale. Man mano che diventano più reattive, le
cellule vanno incontro ad una trasformazione blastica. Possono essere presenti elementi binucleati ed un maggior numero di figure mitotiche. Nei nuclei si formano nucleoli
prominenti e le cellule possono sviluppare una frangia o
alone “eosinofilico” di colore rosa. Man mano che degenerano, il citoplasma viene vacuolizzato e si colora meno intensamente e la cromatina nucleare assume un aspetto più
“merlettato”, per cui questi elementi diventano morfologicamente simili a macrofagi. È estremamente difficile differenziare le cellule mesoteliali reattive da quelle neoplastiche (mesotelioma).
Prelievo e manipolazione di un versamento
Aspirare il fluido e trasferirlo in una provetta con EDTA
per la determinazione di proteine totali e peso specifico e per
il conteggio totale e differenziato delle cellule nucleate; valutarne volume, colore e torbidità. Trasferirne un’aliquota in
una provetta sterile di Bijou per batteriologia (ed anche per
la determinazione di trigliceridi/colesterolo). Allestire gli
strisci subito dopo il prelievo utilizzando la tecnica impiegata per gli esami ematologici. È preferibile centrifugare il
campione, a meno che questo non appaia chiaramente purulento. Se si aspira un fluido emorragico (ad esempio, in caso di versamento pericardico) centrifugare il campione ed
esaminare i preparati allestiti con il buffy coat per rilevare la
CLASSIFICAZIONE DEI VERSAMENTI
(vedi Tabella 1)
Trasudati
Un autentico trasudato è limpido come l’acqua e presenta bassi valori di peso specifico, concentrazione proteica e
conteggio degli elementi nucleati. Le cause sono rappresentate da:
• Insufficienza cardiaca congestizia.
• Ipoproteinemia (calo dei livelli sierici di albumina).
• Insufficienza epatica.
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38° Congresso Nazionale SCIVAC
Tabella 1
Classificazione dei versamenti
NORMALE
TRASUDATO
TRASUDATO
MODIFICATO
Limpido,
colore paglierino
Limpido,
colore paglierino
Giallo o striato di sangue,
torbido
Torbido
< 2,5
< 2,5; spesso < 1,5
variabile; solitamente
superiore a 2,5
> 2,5; solitamente
superiore a 3
PESO SPECIFICO (scala sierica)
< 1.015
< 1.015
1.015 – 1.025
> 1.025
CONTEGGIO DELLE
CELLULE NUCLEATE
(elementi/µl)
< 3000
< 500 - 1000
1000 - 7000
> 7000
cellule
mesoteliali/macrofagi
cellule
mesoteliali/macrofagi
cellule
mesoteliali/macrofagi ±
aumento numerico di
neutrofili non degenerati
± piccoli linfociti
neutrofili/macrofagi;
neutrofili degenerati
in caso di
infezione batterica
––––
ipoproteinemia;
insufficienza cardiaca
congestizia (CHF)
esito di trasudati cronici
(da insufficienza cardiaca
congestizia,
neoplasie ecc.)
peritonite infettiva
felina, infezioni
batteriche,
ad esempio da
Actinomyces spp.,
Nocardia sp.
ASPETTO MACROSCOPICO
CONCENTRAZIONE
DI PROTEINE (g/dl)
TIPO CELLULARE
PREDOMINANTE
CAUSE TIPICHE
• Glomerulonefropatia.
• Enteropatia proteino-disperdente (linfangectasia).
Occasionalmente, il trasudamento è associato alla compressione meccanica dei sistemi di drenaggio venoso e linfatico, ad esempio in caso di ernia diaframmatica. La maggior parte dei trasudati, come quelli associati all’insufficienza cardiaca congestizia, diventa modificata (vedi oltre).
Trasudati modificati
Si tratta di trasudati che vengono modificati dalla fuoriuscita di fluidi provenienti dai vasi linfatici o sanguigni con
conseguente aumento del contenuto proteico. Inoltre, si riscontra un maggior numero di elementi non fagocitari (ad
esempio cellule mesoteliali) e di neutrofili. L’accumulo di
fluidi irrita il mesotelio ed esita nell’esfoliazione delle cellule mesoteliali e nella comparsa di alterazioni infiammatorie
secondarie; la maggior parte dei versamenti neoplastici è costituita da trasudati modificati.
Essudati
Il rilascio dei mediatori dell’infiammazione aumenta la
permeabilità endoteliale ed induce una risposta chemiotattica degli elementi fagocitari. Il risultato finale è l’aumento
del contenuto proteico e cellulare. L’essudazione avviene
ESSUDATO
più comunemente in risposta agli agenti infettivi o alle sostanze estranee, ma può anche essere secondaria a trasudamento cronico, rottura di vasi rottura di vasi o visceri e neoplasie (vedi trasudati modificati).
Essudati settici
L’agente infettante può provenire da un’estensione o una
rottura di una lesione infetta adiacente, come una polmonite,
una piometra ecc., oppure può giungere per via ematogena.
I batteri sono spesso rappresentati da anaerobi o anaerobi facoltativi (come Bacteroides sp., Fusobacterium sp., Clostridium sp., Actinomyces sp., Pasteurella sp., Nocardia sp.). I
neutrofili sono estremamente degenerati (cariolitici) e i macrofagi e/o i neutrofili contengono i batteri fagocitati.
Essudati non settici
I neutrofili predominano, ma non si osservano batteri. I
neutrofili mostrano alterazioni correlate all’età quali ipersegmentazione, picnosi, ecc. ed i macrofagi possono contenere neutrofili degenerati, come avviene ad esempio, in caso di FIP. Nella peritonite infettiva felina, il fluido presenta
un contenuto proteico estremamente elevato (che spesso dà
origine alla formazione di schiuma quando viene aspirato) e
può contenere frustuli di fibrina. Di solito si osserva un au-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
mento lieve o marcato del numero delle cellule presenti
(neutrofili, macrofagi/cellule mesoteliali reattive e linfociti).
I neutrofili e i macrofagi appaiono ben conservati. I versamenti da FIP presentano concentrazioni globuliniche più
elevate e rapporti albumina:globuline più bassi rispetto ai
versamenti causati da altre malattie (una concentrazione di
gamma globuline > 32% ed un rapporto albumina:globulina
< 0,81 sono fortemente indicativi di FIP).
Altre cause di essudati non settici sono la rottura della cistifellea o della vescica. Nel primo caso, i macrofagi possono contenere un pigmento giallo/verde. Il contenuto di creatinina del liquido addominale in caso di rottura vescicale è
inizialmente superiore alla creatininemia.
Alcuni versamenti non rientrano in nessuna delle categorie citate e verranno esaminati separatamente.
Emorragia
Dovuta ad un trauma, una coagulopatia o una rottura
spontanea di una neoplasia vascolare di grandi dimensioni
(ad esempio, un emangiosarcoma splenico). Di solito, la carenza di fattori della coagulazione è causa di sanguinamenti
nelle cavità corporee; ad esempio, l’avvelenamento da warfarin esita frequentemente in un emotorace. La presenza di
eritrofagocitosi e l’assenza di piastrine implica un’emorragia cronica o pregressa.
151
si. Si può riscontrare > 50% di piccoli linfociti con un aumento del numero di neutrofili e macrofagi al progredire
della condizione. Se il fluido viene lasciato in frigorifero per
una notte non si sviluppa alcuno strato di chilomicroni.
Versamenti neoplastici
Alcuni tumori, come quelli epiteliali (adenocarcinomi), i
linfosarcomi, i mesoteliomi ed i mastocitomi danno più facilmente origine alla esfoliazione delle cellule. La maggior
parte dei versamenti di origine tumorale (specialmente quelli che non esfoliano) viene classificata come trasudati modificati. Una risposta infiammatoria secondaria può determinare il passaggio del liquido presente nella categoria degli
essudati. L’assenza di cellule neoplastiche all’interno di un
versamento non permette di escludere una neoplasia. Gli
elementi mesoteliali reattivi sono difficili da differenziare da
quelli neoplastici o dai carcinomi o adenocarcinomi ben differenziati.
I tumori che interessano più comunemente le cavità pleurica e peritoneale sono:
• linfosarcoma mediastinico
• adenocarcinoma (mammario, bronchiolare, tiroideo, pancreatico, delle ghiandole sudoripare)
• carcinoma delle cellule di transizione
• carcinoma squamocellulare
• mastocitoma
• mesotelioma (raro)
Chilo
Un versamento chiloso si presenta sotto forma di un liquido opaco di colore bianco o rosato. Può essere di natura
idiopatica o conseguente ad un trauma, una neoplasia ecc. Il
vero chilo deve essere chiarificato con etere (inaffidabile),
ma non con la centrifugazione. Sulla superficie del fluido, in
seguito a refrigerazione o a semplice centrifugazione, deve
essere visibile uno strato di chilomicroni. Inizialmente il liquido contiene un numero elevato di piccoli linfociti maturi;
le goccioline lipidiche si possono colorare con il Sudan III.
Col tempo o in seguito a ripetuti interventi di campionamento/drenaggio, nel fluido si riscontra un aumento del numero di neutrofili e macrofagi.
Il miglior modo per differenziare i versamenti chilosi
da quelli non chilosi (o pseudochilosi) consiste nel misurare i livelli di trigliceridi e colesterolo e confrontarli con
quelli sierici. Il chilo possiede un elevato contenuto in trigliceridi dovuto alla presenza di chilomicroni. I livelli di
trigliceridi sono più elevati di quelli sierici, mentre il contenuto di colesterolo è inferiore (e viceversa per i versamenti non chilosi o pseudochilosi). Il rapporto colesterolo:trigliceridi del chilo è < 1,0.
I versamenti pseudochilosi si verificano più comunemente nei gatti con miocardiopatia congestizia. È stato ipotizzato che questi versamenti associati alle affezioni cardiache del gatto siano autenticamente chilosi e siano dovuti ad
una fuoriuscita di linfa dalle vie linfatiche piuttosto che ad
una loro rottura. I versamenti pseudochilosi non si chiarificano con etere, né con la centrifugazione. Le caratteristiche
citologiche sono molto simili a quelle dei versamenti chilo-
Versamenti pericardici
Versamento pericardico idiopatico (benigno)
• Cani giovani delle razze di grossa taglia; elevata incidenza
nel San Bernardo.
Neoplasie intrapericardiche
• Emangiosarcoma
• Tumori della base del cuore (chemodectoma)
• Linfosarcomi metastatici
Cisti intrapericardiche
Pericardite settica (rara)
Pericardiocentesi
La pericardiocentesi viene eseguita sia a scopo terapeutico che diagnostico. Può essere necessaria una lieve sedazione degli animali. Dopo aver posto il paziente in decubito
laterale destro, si tosa la zona situata al di sopra del terzosettimo spazio intercostale dallo sterno alle giunzioni costocondrali. Si utilizza un catetere IV in plastica con ago interno da 16 G lungo 15-20 cm. Nella zona si inietta un anestetico locale; con la punta di un bisturi, si pratica una piccola
incisione della cute. Il punto di penetrazione viene determinato radiograficamente o rilevando con la palpazione la zona di massima intensità dell’itto cardiaco; di solito, è situato
fra la quarta e la sesta costola. Quando il catetere è penetra-
152
to nel sacco pericardico, si sfila l’ago e si raccorda una siringa da 50 ml con una valvola a tre vie. Il liquido prelevato viene posto in provette con EDTA e provette senza anticoagulante. Il fluido ottenuto ha di solito il colore del vino
di porto (simile al sangue venoso), non dovrebbe coagulare
e dovrebbe avere un ematocrito diverso da quello del sangue.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
L’esame citologico permette di identificare i versamenti
infettivi, ma raramente consente di differenziare quelli idiopatici da quelli neoplastici. Il contenuto proteico ed il numero di eritrociti e cellule nucleate presenti sono estremamente
variabili. Come nel versamento pleurico, spesso è difficile
differenziare gli elementi mesoteliali reattivi da quelli neoplastici, per cui, per identificare le lesioni tumorali, è necessario affidarsi alla pneumopericardiografia o all’ecografia.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
153
Interpretazione dei profili ematologici e biochimici:
errori più comuni
John Dunn
DVM, MA, MVetSc, BVM&S, Dipl ECVIM, DSAM
University of Cambridge Dept of Clinical Veterinary Medicine, Cambridge - Regno Unito
I risultati degli esami ematologici e biochimici possono
essere erroneamente interpretati per varie ragioni. Il clinico
può non riuscire a riconoscere gli effetti di variabili non patologiche (ad esempio, l’influenza di fattori fisiologici come
lo stress) o parametri ematologici e biochimici normali. Se
il paziente non è stato preparato correttamente o il prelievo
è stato effettuato in modo improprio, o se il campione è stato manipolato e conservato in modo non adeguato o nel plasma o nel siero è presente una sostanza capace di interferire con l’analisi, si possono avere degli artefatti. Ad esempio,
un campione gravemente emolizzato, lipemico o itterico può
portare a risultati inattendibili.
Gli esiti errati possono anche dipendere dal laboratorio,
sia per l’insufficienza delle procedure di controllo qualità
che per una documentazione non accurata.
Nel presente lavoro viene illustrato come queste variabili non patologiche possano esitare nella comparsa di risultati fuorvianti.
I risultati ematologici e biochimici possono essere erroneamente interpretati per le seguenti ragioni:
• l’errata interpretazione di dati di laboratorio validi può essere dovuta al mancato riconoscimento da parte del clinico
delle influenze fisiologiche e degli effetti di altre variabili
non patologiche, come la somministrazione di farmaci, sui
normali parametri ematologici e biochimici. Inoltre, spesso si ha la tendenza ad attribuire troppa importanza ad un
risultato che sia solo lievemente anormale; in altre parole
non ci si riesce a rendere conto che i risultati sono davvero significativi quando sono inseriti nel contesto dei segni
clinici osservati (vedi oltre).
• Artefatti o risultati fuorvianti. È importante rendersi conto
delle potenziali fonti di errore che possono portare ad una
serie di dati fuorvianti. Gli artefatti sono spesso il risultato
di una scarsa preparazione del paziente o di una non corretta raccolta, manipolazione o conservazione del campione di sangue. L’autentica natura del processo patologico in
esame può portare alla produzione di una sostanza capace
di interferire con il siero o il plasma, per cui l’analisi ematologica e biochimica di un campione macroscopicamente
emolizzato, lipemico o itterico può portare a risultati inaffidabili (vedi sotto).
• I risultati errati possono anche essere dovuti al laboratorio,
a causa di una documentazione trascurata (ad esempio, nel
caso di errori di trascrizione), errori tecnici o scarsa qualità
delle procedure di controllo. Questi errori si spiegano da
soli e non verranno ulteriormente esaminati.
ERRATA INTERPRETAZIONE DI DATI
DI LABORATORIO VALIDI
Gli analisti che operano presso la maggior parte dei laboratori d’analisi veterinari cercano di fornire una interpretazione riassuntiva di tutti i risultati anormali, ma, la corretta interpretazione è possibile solo se sulla scheda di invio dei
campioni al laboratorio viene riportata una breve anamnesi
del caso. Questa deve contenere le seguenti informazioni
fondamentali.
• specie, razza, età e sesso dell’animale
• breve anamnesi e segni clinici rilevanti
• durata della malattia
• descrizione dettagliata di qualsiasi trattamento farmacologico effettuato
Influenze fisiologiche sui parametri
ematologici e biochimici
Effetti della razza e dell’esercizio fisico
I cani atleti (ad esempio levrieri, border collie da lavoro)
possono presentare elevati valori di ematocrito ed MCV. In
queste razze, l’esercizio fisico non induce la leucocitosi fisiologica che rappresenta una caratteristica della risposta da
“paura-fuga-combattimento” nella maggior parte degli altri
animali (vedi oltre).
L’esercizio fisico molto intenso può essere associato ad
un aumento del numero totale degli eritrociti, della concentrazione di emoglobina e dell’ematocrito, ad una leucocitosi
(solitamente una neutrofilia matura; vedi oltre) e ad un incremento delle concentrazioni plasmatiche (sieriche) di sodio, glucosio, creatinina ed enzimi epatici e muscolari (i livelli plasmatici dei fosfati possono diminuire).
In alcuni barboni con eritrociti macrocitici si può osservare un aumento dell’ematocrito. Una microcitosi eritrocitaria (senza anemia) è stata notata nell’akita. Il contenuto di
potassio degli eritrociti di questa razza è più elevato di quello della maggior parte delle altre e l’emolisi può determinare una pseudoiperkalemia. Molti Cavalier King Charles spaniel sani presentano un aumento numerico di grandi piastri-
154
ne. Se si effettua un conteggio piastrinico utilizzando un
contatore automatizzato, questi macrotrombociti vengono
spesso conteggiati come eritrociti, determinando un valore
piastrinico artificialmente basso (pseudotrombocitopenia),
che sembra di scarso o nullo significato clinico.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
Gravidanza
La gravidanza diminuisce l’ematocrito, la concentrazione emoglobinica ed il numero degli eritrociti. I valori ritornano alla normalità durante la lattazione. Alla fine della
gestazione, nella cagna di può riscontrare un leucogramma
da stress.
Età
L’età influenza sia i parametri ematologici che quelli biochimici. All’età di 2-3 mesi gli eritrociti fetali dei cuccioli
dei gattini vengono rimpiazzati da quelli degli adulti, provocando un marcato calo dei valori di MCV ed ematocrito. Si
può anche avere un aumento numerico degli eritrociti nucleati e dei corpi di Howell-Jolly presenti, nonché un aumento dei segni di policromasia. Gli indici eritrocitari raggiungono i valori propri degli adulti all’età di 9-12 mesi
(cuccioli) o 3-6 mesi (gattini). I gattini lattanti possono sviluppare un’anemia transitoria da carenza di ferro.
Il numero totale dei leucociti può essere leggermente aumentato per l’incremento numerico dei linfociti. Il numero
di questi ultimi diminuisce gradualmente fino ai valori degli
adulti all’età di 6-9 mesi.
Gli animali con meno di 6 mesi di vita presentano elevate concentrazioni di glucosio, calcio e fosfati ed un aumento
da 2 a 4 volte della fosfatasi alcalina (AP). Calcio e fosfati
raggiungono i normali valori degli adulti all’età di 9-12 mesi (l’AP si normalizza a 6-9 mesi).
Le proteine plasmatiche totali sono di solito diminuite (il
che, associato al basso valore di ematocrito, non deve essere interpretato come un indice di emorragia). Questi parametri raggiungono i normali valori degli adulti all’età di 6-9
mesi.
Eccitazione, paura, esercizio fisico intenso
L’eccitazione e/o l’eccessivo dibattersi, ad esempio al
momento del prelievo di sangue venoso, può determinare
una leucocitosi fisiologica caratterizzata da una neutrofilia
matura e da una linfocitosi assoluta (comune soprattutto nel
gatto). Nei felini particolarmente riottosi si possono riscontrare iperglicemia transitoria e glicosuria.
Stress
Lo stress può essere associato a dolore, trauma, interventi chirurgici, gravi sepsi, tossiemia, anemia o disordini
metabolici. Il leucogramma da stress è tipicamente caratterizzato da neutrofilia, linfopenia, eosinopenia e, occasionalmente, monocitosi. Questo quadro ematologico è simile a
quello che si riscontra nei cani con iperadrenocorticismo
spontaneo o in seguito alla somministrazione di glucocorticoidi. Dopo un’unica iniezione di desametazone, si può osservare un leucogramma da stress entro 4 ore, che persiste
anche per 24 ore. Lo spostamento dei neutrofili dal pool
marginale a quello circolante e il tempo di permanenza in
circolo dei neutrofili risultano aumentati.
Assunzione dei pasti
La recente assunzione di un pasto può aumentare le concentrazioni plasmatiche di glucosio, urea ed ammoniaca e
può esitare in una lipemia. Gli effetti della lipemia postprandiale sui vari parametri ematologici e biochimici possono essere minimizzati tenendo l’animale a digiuno per 12-24 ore.
Farmaci
È importante effettuare la determinazione di una serie di
dati minimi di base prima di somministrare fluidi per via endovenosa o altri farmaci che potrebbero alterare i parametri
ematologici e biochimici. La somministrazione endovenosa
di soluzione fisiologica ad un cane con ipoadrenocorticismo,
ad esempio, può essere sufficiente a correggere l’iperkalemia e l’iponatremia che costituiscono due delle principali
caratteristiche diagnostiche della malattia. La sedazione o
l’anestesia possono diminuire l’ematocrito. Nel cane, i glucocorticoidi e gli agenti anticonvulsivanti aumentano i livelli degli enzimi epatici (fosfatasi alcalina e, in minor misura,
alanina-aminotransferasi). La somministrazione di glucocorticoidi può anche alterare le concentrazioni plasmatiche degli enzimi utilizzati per la valutazione del danno pancreatico; ad esempio, studi sperimentali condotti nel cane hanno
dimostrato che il prednisolone aumenta i livelli di lipasi e diminuisce quelli di amilasi.
CAUSE DI RISULTATI FUORVIANTI
O ARTEFATTI
• Scarsa preparazione del paziente; ad esempio, i campioni
di sangue prelevati troppo presto dopo un pasto possono
essere lipemici.
• Errata tecnica di prelievo dei campioni; ad esempio, la formazione di coaguli nella provetta può determinare un’artificiosa riduzione del numero delle piastrine.
• Cattiva manipolazione o conservazione del campione. Se
un campione di sangue viene esposto a temperature estreme o inviato al laboratorio con un eccessivo ritardo, si può
verificare un’emolisi. Siero o plasma devono essere separati dagli elementi corpuscolati il più rapidamente possibile dopo il prelievo. In caso contrario, si possono verificare
alterazioni dei valori di glicemia, fosfatemia e calcemia.
• Se una provetta contenente EDTA non viene adeguatamente riempita di sangue, si può avere un eccesso di anticoagulante, che determina il raggrinzimento degli eritrociti
(con conseguente diminuzione dell’ematocrito, che a sua
volta altera gli indici eritrocitari). Questo calo dell’emato-
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crito può non essere apparente se si utilizza un contatore
automatico, dal momento che il diluente determina la diluizione dell’EDTA e consente agli eritrociti di tornare alla loro forma e dimensioni normali. Gli eritrociti in EDTA
solitamente si rigonfiano, per cui i campioni di sangue inviati per posta possono presentare valori più elevati di
ematocrito ed MCV ed una diminuzione dell’MCHC.
• Anticoagulante inappropriato all’interno della provetta; ad
esempio, per un’accurata determinazione della glicemia il
campione di sangue deve essere inviato al laboratorio in
una provetta contenente fluoruro ossalato. Se non si è certi delle esatte esigenze del laboratorio, prendere contatto
con l’analista.
• Presenza nel campione di sostanze capaci di interferire con
l’analisi, ad esempio in caso di emolisi, lipemia o ittero
(vedi oltre).
Emolisi
L’emolisi diviene visibile quando la concentrazione
emoglobinica supera il limite di 30-50 mg/dl. Le cause dell’emolisi in vitro sono rappresentate da:
• impiego di aghi di calibro troppo sottile
• eccessiva pressione sullo stantuffo della siringa
• eccessiva agitazione del sangue nella provetta
• prolungata conservazione del campione
• esposizione del campione a temperature estreme
• lipemia (aumenta la fragilità eritrocitaria)
L’emolisi riduce il numero totale degli eritrociti e i valori di ematocrito ed MCV, mentre aumenta l’MCHC.
L’emolisi influisce sui risultati delle analisi biochimiche
nei seguenti modi:
• la fuoriuscita di sostanze dagli eritrociti danneggiati determina l’aumento di LDH, ALT, AST, CK, sodio, potassio,
calcio e fosfato. Si dice che i livelli sierici del potassio nel
cane e nel gatto, fatta eccezione per l’akita, non siano influenzati dall’emolisi.
• La diluizione dei costituenti del siero tende a diminuire i livelli di sodio e cloro.
• Interferenza cromatica. L’entità con cui questo fenomeno
influisce sulla determinazione di un parametro biochimico
dipende dal tipo di test utilizzato. Quelli ad un punto terminale sono alterati in modo più grave. L’interferenza può
esitare in un falso aumento dei valori di proteine totali, albumine, acidi biliari e bilirubina (ed anche, eventualmente,
in un lieve aumento di calcio e creatinina). I test cinetici a
due punti sono interessati meno gravemente. Livelli molto
155
elevati di emoglobina possono determinare una falsa diminuzione delle concentrazioni di lipasi e fosfatasi alcalina.
• Le interazioni chimiche possono determinare un falso abbassamento delle concentrazioni di certi ormoni, come
l’insulina e la tiroxina.
Lipemia
La lipemia aumenta la concentrazione emoglobinica e
può influire sui risultati delle analisi biochimiche in tre modi.
• Diffusione della luce ed interferenza con le analisi spettrofotometriche. La diffusione della luce esita in un aumento dell’assorbanza e si può avere un falso incremento
in molti test terminali (ad esempio, la determinazione dei
livelli di glucosio, calcio, bilirubina, fosfati, acidi biliari e
proteine plasmatiche totali). La lipemia può anche interferire con i saggi cinetici se è abbastanza grave da determinare un aumento dell’assorbanza al di sopra del limite di linearità della curva di reazione (diminuzione di lipasi, amilasi, AP, AST ed ALT).
• La diluizione o dislocazione della fase acquosa del siero
esita in pseudoiponatremia e pseudoipokalemia. I livelli di
questi elettroliti non vengono influenzati se la misurazione
viene effettuata utilizzando elettrodi ione-specifici.
• Accentuazione dell’emolisi. La lipemia aumenta la lisi eritrocitaria, che potenzia gli effetti della lipemia sulla biochimica sierica.
Gli effetti della lipemia possono essere minimizzati mediante:
• digiuno per 12-24 ore
• iniezione endovenosa di eparina (100 UI/kg) e prelievo del
campione di sangue dopo 15 minuti.
Ittero
L’iperbilirubinemia può aumentare le concentrazioni di
colesterolo, fosfatasi alcalina e proteine plasmatiche totali e
diminuire i livelli di calcio e magnesio.
Bisogna confrontare sempre i risultati con i valori di riferimento forniti dal laboratorio che ha eseguito il test. Per
nessun parametro ematologico o biochimico esiste un intervallo di valori universalmente valido.
In ultima analisi, è responsabilità del veterinario mettere in discussione un risultato anomalo, cioè non compatibile con il quadro clinico del paziente, e richiedere la
ripetizione dell’esame.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
157
Esame del midollo osseo.
Indicazioni, tecniche e interpretazione citologica di base
John Dunn
DVM, MA, MVetSc, BVM&S, Dipl ECVIM, DSAM
University of Cambridge Dept of Clinical Veterinary Medicine, Cambridge - Regno Unito
La valutazione del midollo osseo è una parte importante
dell’approccio allo studio della maggior parte dei disordini
ematologici. Nel presente lavoro vengono illustrate le indicazioni per l’aspirazione midollare. Il relatore descrive le
tecniche di esecuzione del prelievo per l’esame citologico e
del prelievo di biopsie a core per quello istopatologico. La
relazione si conclude con l’illustrazione dei fondamentali
quadri citologici midollari.
LA VALUTAZIONE DEL MIDOLLO OSSEO
È UNA PARTE IMPORTANTE
DELL’APPROCCIO ALLO STUDIO
DELLA MAGGIOR PARTE DEI DISORDINI
EMATOLOGICI (Tabella 1)
• Anemia non rigenerativa
• Neutropenia o trombocitopenia persistenti
• Pancitopenia (o qualsiasi combinazione delle citopenie sopraindicate)
• Leucocitosi, policitemia o trombocitosi inspiegabili
• Presenza in circolo di un numero eccessivo di elementi eritroidi o mieloidi immaturi, o cellule con morfologia atipica, ad esempio in caso di malattie mieloproliferative, linfoproliferative, o mielodisplasiche
• Stadiazione del linfoma multicentrico
• Inspiegabili episodi febbrili intermittenti o prolungati, piressia di origine sconosciuta
• Iperproteinemia associata a gammopatia mono- o policlonale
• Ipercalcemia inspiegabile
• Riscontro radiografico di lesioni litiche dell’osso (mieloma
plasmacellulare o carcinoma metastatico).
Tabella 1
Percentuale relativa di elementi precursori eritroidi
nucleati nel midollo osseo
Percentuale approssimativa
di cellule nel midollo
Stadio di maturazione
Cane
Gatto
Rubriblasti
Prorubriciti
Rubriciti
Metarubriciti
0,5
2,0
65
32,5
0,5
3,5
75
21
PRELIEVO E PREPARAZIONE
DEI CAMPIONI
Il midollo osseo può essere valutato con due metodi: (1)
esame citologico di un campione prelevato per aspirazione e
(2) esame istologico di una biopsia a core. Entrambe le procedure possono essere eseguite in sedazione ed anestesia locale.
Aspirazione
Si possono ottenere degli aspirati midollari adatti all’esame citologico dalla cresta iliaca (nei cani di media e grossa taglia) o dalla fossa trocanterica (cani di piccola taglia e
gatto) utilizzando un ago da biopsia di Klima o Rosenthal
con mandrino bloccato (vedi disegno). Come anticoagulante, si può utilizzare 1 ml di una soluzione di EDTA al 3% in
una siringa da 10 o 20 ml.
Per effettuare il prelievo di un campione dalla cresta iliaca, l’animale viene posto in decubito sternale o laterale, l’area interessata viene rasata e, a livello di cute, sottocute e periostio e si effettua un’infiltrazione con un anestetico locale.
Dopo aver preparato chirurgicamente la zona ed aver delimitato il campo operatorio con teli sterili, si pratica con la
punta di un bisturi una piccola incisione cutanea, attraverso
la quale l’ago viene spinto nell’osso corticale con un movimento di rotazione alternato in senso orario/antiorario. L’ago viene fatto avanzare parallelamente all’asse maggiore
dell’ala dell’ileo. È necessario assicurarsi che il mandrino rimanga in situ, perché altrimenti il lume dello strumento potrebbe essere ostruito dall’osso corticale. Una volta che l’ago sia penetrato nella cavità midollare, il mandrino viene ritirato e si raccorda una siringa da 10 ml al cono dell’ago. Si
effettua l’aspirazione midollare retraendo più volte con forza lo stantuffo della siringa; se in questo modo non si riesce
ad ottenere il campione di midollo, l’ago va leggermente retratto per poi ripetere l’aspirazione. A seconda del livello di
sedazione, e presumendo che l’ago sia stato applicato correttamente, gli animali possono mostrare una risposta algica
transitoria all’aspirazione midollare. Se, nonostante ripetuti
tentativi, non si riesce ad ottenere un campione di midollo
dalla cresta iliaca, è necessario sfilare l’ago e riapplicare il
mandrino, per poi ridirigere lo strumento in una sede differente. Ciò può richiedere la penetrazione trasversale e leggermente obliqua dell’ala dell’ileo; la cresta tibiale ed il tratto prossimale dell’omero sono altre sedi suggerite per il pre-
158
38° Congresso Nazionale SCIVAC
lievo di midollo. L’impossibilità di ottenere un campione da
entrambe le creste iliache è fortemente indicativa di mielofibrosi. Dopo ripetuti tentativi “a vuoto”, o quando si sospetta una ipoplasia o aplasia midollare, è necessario effettuare un prelievo bioptico a core da destinare all’esame istopatologico (vedi oltre).
Quando si utilizza il femore, è necessaria la stessa procedura preparatoria. Con l’animale in decubito laterale, bisogna assicurarsi che l’infiltrazione di anestetico locale abbia raggiunto i tessuti sottocutanei più profondi e il periostio. Con la palpazione si identifica il grande trocantere e si
dirige l’ago medialmente ad esso nella fossa trocanterica.
Una volta penetrati in questa sede, l’ago viene fatto avanzare parallelamente all’asse maggiore del femore, fino nella cavità midollare.
Quando il midollo appare nella siringa, si deve immediatamente interrompere la pressione negativa, perché in
caso contrario si otterrebbe soltanto una emodiluizione del
campione. Negli animali più piccoli il volume di midollo
ottenuto può essere inferiore a 0,5 ml. L’ago va retratto con
la siringa ancora raccordata per poi espellere una goccia di
midollo su una serie di vetrini puliti tenuti inclinati. Ciò
permette al sangue di defluire per gravità verso il basso,
mentre le spicule midollari restano nella parte più alta del
preparato. La preparazione dello striscio costituisce la parte più critica dell’intera procedura.
Si può ottenere un preparato adatto schiacciando delicatamente le spicule con un altro vetrino da microscopio, che
poi viene fatto scivolare su quello sottostante lungo il piano
orizzontale (Fig. 2). Se non si utilizza l’EDTA come anticoagulante, lo striscio midollare deve essere preparato prima della coagulazione del campione (di solito, meno di 30
secondi). Lo striscio viene poi lasciato asciugare all’aria ed
immediatamente colorato.
Se si prevede un ritardo nella colorazione, o se i campioni devono essere inviati ad un laboratorio esterno, lo striscio va fissato mediante immersione in metanolo per 3 minuti. Per gli esami citologici di routine si utilizzano preferibilmente le colorazioni di tipo Romanowsky come la MayGrunwald Giemsa (tempo approssimativo di colorazione:
25 minuti). Con la colorazione con Blue di Prussia è possibile dimostrare la presenza di ferro a livello midollare (depositi di emosiderina).
Le particelle midollari negli strisci colorati con le tecniche Romanowsky si presentano sotto forma di depositi granulari blu porpora. Per assicurare un’adeguata interpretazione, il midollo osseo va sempre valutato alla luce dei risultati di un esame ematologico completo effettuato su un campione prelevato nello stesso giorno dell’aspirazione.
Biopsia a core
Il principale vantaggio di una biopsia a core è quello di
preservare la normale architettura della cavità midollare e di
fornire un quadro più rappresentativo della distribuzione degli elementi emopoietici in relazione a quelli non emopoietici dello stroma midollare. Il principale svantaggio è l’inevitabile ritardo imposto dalla necessaria decalcificazione del
campione e dalla preparazione delle sezioni.
I campioni midollari mediante prelievo a core per l’esame istopatologico vanno preferibilmente ottenuti dalla cresta iliaca dei cani di mole maggiore utilizzando un ago di
Jamshidi. Nei cani più piccoli e nei gatti è stata suggerita la
penetrazione trasversale attraverso le ali dell’ileo (analogamente a quanto descritto per l’aspirazione). L’ago da biopsia
(a)
Ala dell’ileo
(superficie glutea)
Cresta
iliaca
(b)
Testa del femore
Fossa trocanterica
Grande trocantere
del femore
Figura 1 - Veduta laterale sinistra del coxale e della parte prossimale
del femore, che mostra i punti di penetrazione per l’aspirazione midollare (riprodotto per cortese concessione di In Practice).
Figura 2.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
viene fatto avanzare con il mandrino in situ attraverso la corticale dell’osso e fino nella cavità midollare utilizzando movimenti rotatori alternati in senso orario ed antiorario.
Il mandrino viene quindi rimosso e l’estremità tagliente dell’ago viene spinta ulteriormente per 1-2 cm nella cavità midollare. Lo strumento viene poi energicamente ruotato in una direzione lungo il proprio asse maggiore prima
di sfilarlo dall’osso, in modo da garantire che il campione
venga sezionato alla base.
Il prelievo viene quindi fatto fuoriuscire inserendo nell’ago, attraverso la sua estremità distale e tagliente, una
lunga sonda a punta tronca; dal momento che il diametro
dell’ago di Jamshidi diminuisce procedendo verso la punta
tagliente, esercitando la spinta dall’estremità prossimale
dell’ago si rischierebbe di comprimere e danneggiare il
campione. Prima di effettuare il fissaggio in formalina neutra tamponata, è possibile utilizzare il materiale prelevato
per allestire strisci per impronta facendolo delicatamente
rotolare su un vetrino pulito.
159
la mancata aspirazione midollare (per errori tecnici oppure
perché il midollo può essere effettivamente ipoplastico o persino aplastico) oppure la cattiva preparazione dello striscio.
Ripetuti tentativi di prelevare il midollo dallo stesso sito esitano nell’attivazione della tromboplastina tissutale per cui,
anche se si riesce infine ad ottenere un campione, questo coagula prima o durante l’allestimento dei preparati.
L’aspirato contiene particelle midollari integre oppure è
pesantemente contaminato dal sangue? La presenza di una
quantità eccessiva di sangue in uno striscio esita in una scadente morfologia cellulare, che può precludere un’accurata
identificazione. Uno striscio di buona qualità contiene particelle midollari dalle quali gli elementi emopoietici vengono
allontanati per formare un monostrato.
La normale distribuzione delle cellule emopoietiche del
cane e del gatto viene fornita nelle tabelle allegate. L’interpretazione della citologia midollare va effettuata alla luce
dei risultati degli esami ematologici di routine eseguiti al
momento del prelievo del campione. L’esame va sempre
eseguito attenendosi sistematicamente alle seguenti fasi.
Prelievo di campioni midollari
in sede necroscopica
Valutazione della cellularità
Campioni midollari in sede necroscopica si possono prelevare dalla maggior parte delle ossa piatte o delle ossa lunghe delle estremità semplicemente fratturandole ed estraendo il midollo dalle trabecole. Si possono allestire strisci diretti per impronta facendo rotolare un pezzo di midollo su un
vetrino servendosi di un ago.
Dopo la morte, il midollo osseo degenera rapidamente,
per cui i campioni degli animali deceduti devono essere
idealmente prelevati entro 30 minuti. Soprattutto i granulociti vanno incontro ad una grave distorsione morfologica e
possono essere facilmente confusi con cellule blastiche, portando ad una diagnosi errata di neoplasia. Quando il prelievo del campione viene effettuato dopo 30 minuti, è ancora
possibile valutare lo striscio per determinarne la cellularità,
l’infiltrazione di mast cell o plasmacellule, l’eritrofagocitosi, le riserve di ferro e la presenza di microrganismi, ma non
per l’identificazione di neoplasie linfoidi o mieloidi.
Si devono esaminare diverse particelle midollari a basso
ingrandimento (× 10) per ottenere una valutazione complessiva della cellularità, dal momento che questa, come la distribuzione delle cellule, può variare molto da una particella
all’altra. Il midollo prelevato da animali più anziani probabilmente contiene una maggiore quantità di grasso. Gli aspirati in cui si riscontrano ripetutamente scarsi elementi emopoietici e/o che sono costituiti principalmente da cellule avventizie e grasso sono indicativi di ipoplasia o aplasia midollare oppure di mielofibrosi (presumendo che la tecnica di
prelievo sia corretta); e in questi casi è indicato l’esame istologico di una biopsia midollare a core. Paradossalmente, il
midollo ipercellulare, caratterizzato dall’ammasso di un
gran numero di elementi neoplastici, può portare ad ottenere poche o nulle particelle midollari da esaminare.
Riserve di emosiderina
ESAME DEL MIDOLLO OSSEO
Il tessuto emopoietico attivo è estremamente vascolarizzato e costituito da isolotti di tessuto emopoietico vero e proprio circondati da seni vascolari delimitati da elementi endoteliali. Il tessuto emopoietico è costituito principalmente da
cellule della serie eritroide, granulocitaria (mieloide) e megacariocitaria; precursori dei monociti, linfociti, plasmacellule,
macrofagi (istiociti) e mast cell sono presenti in numero minore. L’architettura di sostegno è formata da elementi stromali (avventizi) e da una quantità variabile di grasso.
L’emosiderina si colora in blu con la tecnica di Perls. La
quantità di emosiderina presente viene valutata soggettivamente su una scala da 1+ a 4+. I depositi possono essere descritti come fini o grossolani (la maggior parte di questi ultimi è associata ai macrofagi). L’assenza di emosiderina a livello midollare si può avere nell’autentica carenza di ferro,
derivante da una perdita ematica cronica, oppure in presenza di certi disordini mieloproliferativi cronici, come la policitemia vera primaria. La maggior parte delle affezioni infiammatorie o neoplastiche croniche esita in un aumento del
ferro midollare (anemia da malattia cronica).
Esame citologico
Numero dei megacariociti
Lo striscio di midollo osseo va esaminato a basso ingrandimento per valutare se il campione sia di sufficiente qualità
diagnostica. Le cause comuni di strisci non diagnostici sono
Il numero dei megacariociti presenti può solo essere valutato soggettivamente. La maggior parte di questi elementi
160
38° Congresso Nazionale SCIVAC
è localizzata all’interno o in posizione adiacente alle particelle midollari integre. Il numero dei megacariociti varia, ma
può essere considerato normale il riscontro di 2-6 di questi
elementi per particella midollare che occupa la maggior parte di un campo microscopico a basso ingrandimento (× 20).
In questa fase si deve anche valutare la morfologia dei megacariociti. Negli aspirati normali si possono osservare nuclei liberi e/o frammenti di citoplasma distaccato. Di solito,
più del 50% dei megacariociti deve essere maturo; l’incremento di numero di queste cellule, associato ad una preponderanza delle forme meno mature, si può osservare in risposta ad emorragie o a trombocitopenia immunomediata.
Valutazione della serie eritroide
La valutazione della differenziazione e della maturazione della serie eritroide comporta il conteggio relativo di ciascuno dei precursori presenti nello striscio (Tabella 1). I normoblasti hanno la tendenza a migrare ulteriormente dalle
particelle midollari durante la preparazione dello striscio e
questo fatto va tenuto presente al momento di effettuare un
conteggio differenziale. Le modificazioni megaloblastiche
sono in genere associate ad una displasia eritroide FeLV-indotta. L’iperplasia eritroide si ha in risposta ad emorragia o
all’aumento della distruzione eritrocitaria. La policitemia
primaria è un’affezione mieloproliferativa cronica che esita
nella proliferazione neoplastica dei precursori eritroidi.
Valutazione della serie granulocitaria
Nella Tabella 2 sono riportate le percentuali dei differenti stadi di maturazione della serie granulocitaria. L’iperplasia
di questa linea cellulare si può avere in risposta ad infiammazioni o infezioni. Una pronunciata iperplasia granulocitaria si può osservare negli animali con infezioni batteriche localizzate (ad esempio, piometra o piotorace) e può esitare in
una risposta leucemoide. Quest’ultima va differenziata dalla
leucemia mielogena (granulocitaria) cronica (il che può essere estremamente difficile anche con le tecniche citochimiche
midollari!). L’arresto della maturazione della serie granulocitaria costituisce nella maggior parte dei casi una modifica-
zione mielodisplasica FeLV-indotta. Un simile spostamento a
sinistra della serie mieloide si può avere in risposta ad una sepsi acuta da batteri GRAM negativi in seguito all’esaurimento del pool di riserva dei granulociti. Ciò determina la comparsa di un numero sproporzionatamente elevato di mieloblasti e promielociti rispetto a quello delle cellule granulocitarie più mature e il riscontro di un quadro citologico che può
simulare quello della leucemia mielogena acuta.
Rapporto mieloide: eritroide
Il rapporto mieloide:eritroide è il rapporto fra gli elementi mieloidi e quelli eritroidi nucleati (è necessario effettuare il conteggio di un numero minimo di 200 cellule). Il
50% degli elementi deve essere conteggiato nelle aree vicine alle particelle midollari, mentre l’altro 50% deve essere
rilevato nelle zone fra le particelle stesse. Il rapporto M:E
normale nel cane e nel gatto è di solito compreso fra 0,75:1
e 2:1, ma non è raro riscontrare deviazioni in entrambi i sensi da questi valori.
Linfociti e plasmacellule
Il midollo osseo dei cani e dei gatti normali contiene
<15% e <20% di piccoli o medi linfociti, rispettivamente. La
presenza di <20% di linfoblasti è indicativa di neoplasia
linfoide (i linfoblasti atipici possono essere difficili da differenziare dalle altre cellule blastiche, come i mieloblasti scarsamente differenziati, senza l’aiuto delle tecniche citochimiche). Il midollo del cane e del gatto contiene di solito <2%
di plasmacellule. Queste ultime spesso si presentano in piccoli grappoli all’interno delle particelle midollari. Un aumento del loro numero si può avere in certi disordini immunomediati e si può riscontrare in concomitanza con l’iperplasia granulocitaria. Un marcato incremento del numero
delle plasmacellule, soprattutto se gli elementi sono presenti in grandi grappoli o lamine, e più compatibile con un mieloma multiplo. Alcune plasmacellule sono colme di corpi di
Russel contenenti immunoglobulina.
Macrofagi
Tabella 2
Percentuale relativa di elementi precursori
neutrofili nel midollo osseo
Percentuale approssimativa
di cellule nel midollo
Stadio di maturazione
Mieloblasti
Progranulociti (promielociti)
Mielociti
Metamielociti
Neutrofili non segmentati
Neutrofili segmentati
Cane
Gatto
1
3
12
19
26
38
1
3
10
20
29
35
I macrofagi costituiscono di solito <2% delle cellule presenti nel midollo normale del cane e del gatto. Il citoplasma
può essere vacuolizzato e contiene detriti cellulari fagocitati, come i residui eritrocitari e/o i loro prodotti di degradazione. L’aumento dell’eritrofagocitosi si può avere in alcuni
casi di anemia emolitica immunomediata ed è una caratteristica dell’istiocitosi maligna del cane.
Mast cell
Le mast cell sono istantaneamente riconoscibili negli
strisci midollari. Nel midollo reattivo possono essere presenti in numero limitato. La leucemia mastocellulare è un raro disordine del cane e del gatto.
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Osteoclasti ed osteoblasti
Osteoclasti ed osteoblasti si osservano occasionalmente
negli aspirati midollari e sono più comuni nei giovani animali in accrescimento. Gli osteoclasti sono cellule giganti
multinucleate che possono essere confuse con i megacariociti. Gli osteoblasti si osservano raramente. Occasionalmente possono essere confusi con le plasmacellule.
Cellule varie
Negli aspirati normali si possono infine osservare cellule adipose, cellule avventizie o di supporto stromale, elementi dell’endotelio vascolare ed occasionali fibroblasti.
Inoltre, esiste sempre una certa percentuale di nuclei liberi e
di elementi schiacciati durante la preparazione dello striscio.
Questi devono essere conteggiati come cellule non classificabili.
ESAME ISTOLOGICO
DEL MIDOLLO OSSEO
I campioni prelevati mediante biopsia a core possono essere fissati in paraffina o resina (solitamente glicol metacrilato). Quest’ultima risulta superiore per la valutazione dei
dettagli morfologici, dal momento che le sezioni sono più
sottili (< 2 µ). Le sezioni vengono colorate con le tecniche
di routine mediante ematossilina ed eosina (H&E). Altre sezioni possono essere sottoposte a colorazioni speciali per rilevare la presenza di reticolina (James o Caldwell e Rannie)
e collagene (tricromatica di Masson). Come per gli aspirati
midollari, la colorazione di Perls è utile per una valutazione
161
semiquantitativa degli accumuli di emosiderina.
La cellularità midollare può essere valutata in base all’estensione dello spazio emopoietico occupato da elementi
emopoietici: da 1/3 a 2/3 (normocellularità); meno di 1/3
(ipocellularità); più di 1/3 (ipercellularità).
Gli spazi emopoietici possono essere arbitrariamente
suddivisi in aree peritrabecolari ed aree intertrabecolari più
centrali. In queste ultime sono di solito presenti grappoli
eritroidi costituiti da precursori eritroidi in differenti stadi
di maturazione. Nelle sezioni in paraffina colorate con
H&E i nuclei dei normoblasti finali sono circondati da un
“alone” di raggrinzimento che costituisce un artefatto. Mieloblasti e promielociti, cioè principalmente i precursori
mieloidi più giovani, sono localizzati soprattutto nelle aree
paratrabecolari, con la differenziazione mieloide e la maturazione che si estendono nelle aree centrali fra i grappoli
eritroidi. La cloroacetato-esterasi (CAE) è un utile marcatore per definire le aree di attività granulocitaria nelle sezioni incluse in paraffina ed in materie plastiche. La maggior parte dei megacariociti è localizzata verso le aree centrali. Linfoblasti, linfociti e precursori monocitari possono
essere difficili da identificare, a meno che non siano presenti in gran numero. I medi e piccoli linfociti, in particolare, possono essere difficili da differenziare dai precursori
eritroidi con le colorazioni di routine. Le plasmacellule si
colorano positivamente con il metil-verde-pironina (PMG o
pyronin methyl green).
Il midollo osseo normale contiene una quantità minima
di reticolina peritrabecolare e perivascolare. Di solito, il collagene risulta evidente solo nelle pareti dei vasi. Nella mielofibrosi, le fibre di reticolina e/o i depositi di collagene aumentano. Alcuni casi di mielofibrosi possono essere associati ad osteosclerosi ed al deposito di nuove trabecole ossee. In questi animali, nell’osso trabecolare si può apprezzare un’attività osteoblastica ed osteoclastica.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
163
Approccio diagnostico e terapeutico all’ipoglicemia
John Dunn
DVM, MA, MVetSc, BVM&S, Dipl ECVIM, DSAM
University of Cambridge Dept of Clinical Veterinary Medicine, Cambridge - Regno Unito
Nel presente lavoro vengono presi in esame la diagnosi
differenziale, lo studio ed il trattamento dell’ipoglicemia nel
cane. Vengono sottolineati in modo particolare i meriti e gli
svantaggi relativi dei vari test di laboratorio attualmente disponibili per la diagnosi dell’insulinoma, che rappresenta la
principale causa dell’ipoglicemia nel cane anziano.
Le possibili diagnosi differenziali dell’ipoglicemia sono
rappresentate da iperinsulinismo, disfunzione epatica, tumori extrapancreatici (nella maggior parte dei casi, carcinomi
epatocellulari), insufficienza surrenalica, ipopituitarismo,
sepsi, malattie da accumulo di glicogeno e digiuno prolungato. Nei cuccioli giovani e nei gattini si può avere un’ipoglicemia idiopatica. La causa più comune di ipoglicemia nel
cane anziano è rappresentata dai tumori delle cellule β insulino-secernenti del pancreas (insulinomi), che verranno trattati separatamente.
Studio dell’ipoglicemia
In primo luogo, è necessario escludere l’ipoglicemia iatrogena (ad esempio, da sovradosaggio di insulina) e gli artefatti. La mancata separazione del plasma dagli eritrociti
entro 30 minuti dal prelievo di un campione di sangue esita
in una rapida riduzione della glicemia se il campione viene
posto in una provetta contenente un anticoagulante diverso
dal fluoruro ossalato.
Per stabilire le cause del problema può essere utile conoscere l’età dell’animale e la gravità dell’ipoglicemia. Sepsi,
disfunzione epatica e neoplasie extrapancreatiche possono
solitamente essere escluse sulla base della normalità degli
esami ematologici, biochimici e radiografici/ecografici.
Segni clinici dell’ipoglicemia
La prima area dell’encefalo a risentire di un calo della
glicemia è la corteccia cerebrale. I segni della neuroglicopenia sono rappresentati da letargia, debolezza, atassia, anomalie comportamentali, apparente cecità, crisi convulsive
(che possono essere localizzate o generalizzate) e coma. Occasionalmente, l’ipoglicemia può causare un danno cerebrale grave ed irreversibile.
Inoltre, l’ipoglicemia esita nel rilascio degli ormoni dia-
betogeni (catecolamine, glucagone, ormone della crescita,
ormoni tiroidei e glucocorticoidi) che antagonizzano gli effetti dell’insulina. Il rilascio di catecolamine determina la
comparsa di segni clinici riferibili ad un aumento dell’attività simpatica (tremori muscolari, nervosismo, irrequietezza
e fame). Queste manifestazioni possono precedere i segni
dell’interessamento del SNC e possono segnalare ad un proprietario l’imminenza di un episodio ipoglicemico.
Insulinomi
I tumori delle cellule β insulino-secernenti del pancreas
si riscontrano tipicamente nei cani di media età ed anziani
(età media 8-10 anni). Sembrano essere più comunemente
colpite le razze di grossa taglia (pastore tedesco, setter irlandese, boxer e retriever). Nel gatto, i tumori pancreatici insulino-secernenti sono rari. Le cellule β neoplastiche continuano a rilasciare insulina anche in presenza di una notevole ipoglicemia. I segni clinici di quest’ultima sono di solito
episodici e possono essere indotti da esercizio fisico, eccitazione, digiuno o assunzione dei pasti.
In alcuni cani con insulinoma è stata descritta una neuropatia periferica. Questa si può manifestare sotto forma di
deficit propriocettivi, paresi, tetraplegia, paralisi del faciale,
ipotonia ed atrofia muscolare.
Diagnosi di insulinoma
I cani con insulinoma spesso non mostrano alcuna anomalia di laboratorio, a parte l’ipoglicemia. I tumori sono di
solito piccoli e non rilevabili radiograficamente. Da questo
punto di vista può essere più utile l’ecografia.
La diagnosi di insulinoma si basa sulla conferma di un’inappropriata secrezione di insulina durante un episodio ipoglicemico. Una glicemia a digiuno < 3 mmol/l con una concentrazione di insulina superiore a 20 µU/ml e un rapporto
insulina:glucosio superiore a 4,2 U/mol è altamente indicativa di insulinoma. Al contrario, la concentrazione basale di insulina in un paziente ipoglicemico con un tumore extrapancreatico è di solito bassa o entro i limiti della norma. Il rapporto corretto insulina:glucosio, pur essendo più sensibile, è
meno specifico e può portare a false diagnosi di insulinoma
nei cani in cui l’ipoglicemia è dovuta ad altre cause. I risultati di un test di tolleranza al glucosio somministrato ad alte
164
dosi per via endovenosa (0,5 g/kg utilizzando una soluzione
di glucosio al 50%) possono fornire un ulteriore supporto alla diagnosi dell’insulinoma. Un tasso di clearance frazionale
(valore k) < 3%/min ed un’emivita del glucosio < 20 minuti
sono indicativi di un insulinoma. La misurazione dei livelli
sierici della fruttosamina può essere utile per dimostrare un’ipoglicemia persistente nei cani con insulinoma.
Trattamento dell’ipoglicemia
Terapia medica di una crisi
ipoglicemica acuta
Far assumere degli alimenti zuccherati (solidi o sciroppi)
all’animale oppure somministrare per via endovenosa una
soluzione di destrosio al 50%. Cercare di mantenere la glicemia entro i valori normali e in prossimità dei limiti inferiori, per ridurre al minimo l’ulteriore rilascio di insulina. In
alcuni cani può essere necessaria una terapia anticonvulsivante a breve termine.
Terapia medica dell’ipoglicemia cronica
Il trattamento dell’ipoglicemia cronica (ad esempio nei
cani in cui l’escissione chirurgica di un insulinoma non è indicata perché il tumore ha già dato origine a metastasi ai
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linfonodi regionali o al fegato) è di tipo palliativo. L’animale deve essere nutrito con 3-6 piccoli pasti al giorno utilizzando una dieta ricca di proteine, grassi e carboidrati complessi. L’attività fisica deve essere limitata a brevi passeggiate al guinzaglio.
La somministrazione di glucocorticoidi [ad esempio,
prednisolone alla dose di 0,25 mg/kg due volte al giorno
(massimo di 4-6 mg/kg/die)] riduce la captazione del glucosio da parte dei tessuti ed aumenta la glicemia. Il diazossido
(5 mg/kg due volte al giorno per os fino a un massimo di 60
mg/kg/die) può essere utilizzato per inibire la secrezione di
insulina. Gli effetti collaterali come l’anoressia e il vomito
possono essere ridotti al minimo somministrando il farmaco
col cibo. Gli effetti del diazossido possono essere potenziati
dalla somministrazione di idroclorotiazide alla dose di 2-4
mg/kg/die.
Nel trattamento degli insulinomi, sono stati utilizzati,
con vari gradi di successo, gli analoghi della somatostatina
come l’octreotide (10-20 µg/kg due volte al giorno per via
sottocutanea). La variabilità della risposta può essere in parte dovuta al fatto che non tutti gli insulinomi possiedono recettori somatostatinici.
La prognosi a lungo termine per i cani con insulinoma
sottoposti a rimozione chirurgica prevede un periodo di sopravvivenza di 12-24 mesi (alcuni animali possono sopravvivere considerevolmente più a lungo). La prognosi per i
soggetti colpiti da metastasi è più sfavorevole, dal momento
che il 50% circa di questi animali muore entro 6 mesi.
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165
Linee guida nella valutazione e nel trattamento
delle ferite da trauma
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
VALUTAZIONE DELLA FERITA
Le ferite traumatiche aperte devono essere trattate con un
approccio standardizzato di valutazione e terapia. Non tutte
queste lesioni sono uguali. L’entità della contaminazione, il
grado del danno vascolare, la localizzazione della ferita e
l’esposizione di strutture di importanza critica quali nervi,
articolazioni ed ossa sono tutti fattori che rivestono un ruolo
importante per determinare le strategie terapeutiche ottimali. Non c’è bisogno di dire quanto sia essenziale tenere presente che gli animali portati alla visita in seguito ad un trauma spesso sono colpiti da lesioni più critiche e potenzialmente letali situate al di sotto delle soluzioni di continuo superficiali e chiaramente evidenti. In alcuni casi, è prioritario
stabilizzare le condizioni del paziente, mentre la valutazione
definitiva ed il trattamento delle ferite rivestono un interesse secondario.
Si può tentare di classificare le ferite in base al tipo di lesione. Le soluzioni di continuo prodotte da corpi taglienti sono caratterizzate da una distruzione minima dei tessuti circostanti e, di conseguenza, il danno vascolare al di fuori dei
margini della ferita è molto limitato. Le lesioni da avulsione,
schiacciamento e lacerazione sono invece associate a vari
gradi di danno vascolare nei tessuti che circondano la ferita.
Questa differenziazione è importante, dal momento che le
soluzioni di continuo nette comportano scarsi rischi di insorgenza di necrosi tissutale al di là dei loro margini macroscopicamente identificabili, mentre nelle lesioni di altro tipo
questo è un rischio considerevole.
Le ferite possono anche essere classificate in base al grado di contaminazione. Questo tipo di valutazione si basa sulla conoscenza del meccanismo dell’evento patologico, sul
tempo trascorso tra questo e l’intervento del clinico e sull’entità della contaminazione macroscopicamente identificabile. In base a quest’ultima, le ferite possono essere suddivise in pulite, pulite contaminate, contaminate e sporche. Per
definizione, il termine ferite pulite va limitato a quelle realizzate in un ambiente chirurgicamente controllato, senza alcuna esposizione di cavità corporee contaminate od organi.
Le ferite traumatiche, per definizione, sono contaminate o
sporche.
Quelle associate ad una contaminazione macroscopicamente, evidente, ad un esteso danno vascolare o all’instaurazione di un’infezione vengono definite sporche. Deve essere considerata tale anche qualsiasi lesione traumatica che
venga portata alla visita dopo più di due o tre ore dal dan-
no iniziale. Le ferite traumatiche in cui la contaminazione
macroscopica o le lesioni dei tessuti circostanti sono ridotte al minimo e che vengono presentate al clinico dopo due
o tre ore dalla loro comparsa vengono classificate come
contaminate.
Sia le ferite contaminate che quelle sporche possono essere trasformate in pulite contaminate mediante revisione
chirurgica, lavaggio e trattamento delle ferite aperte. Il successo della ricostruzione delle soluzioni di continuo dipende moltissimo da questo principio; le ferite che vengono
chiuse mentre si trovano ancora nello stato di contaminate
o sporche sono caratterizzate da un’elevatissima incidenza
di infezione e deiscenza. Le ferite contaminate con scarse
lesioni dei tessuti circostanti possono di solito essere trasformate in pulite contaminate e chiuse entro breve tempo
dalla presentazione al clinico. Quelle pesantemente contaminate o sporche, o quelle in cui è presente un esteso danno dei tessuti circostanti, richiedono più spesso un periodo
di trattamento come ferite aperte prima di essere sottoposte
alla ricostruzione.
CLASSIFICAZIONE DELLA CHIUSURA
DELLE FERITE
La ricostruzione delle ferite può essere classificata in base al momento in cui la chiusura viene effettuata rispetto a
quello in cui si è verificato il danno e in base allo stato di
guarigione della lesione. Col termine chiusura primaria si
indica la chiusura delle ferite immediatamente dopo la revisione chirurgica ed il lavaggio iniziali.
La chiusura primaria ritardata indica i casi in cui viene
attuato un breve periodo di trattamento della ferita aperta
(meno di 3-5 giorni) durante il quale la lesione viene trasformata in una di tipo pulito-contaminato. La ferita viene
chiusa prima della comparsa del tessuto di granulazione nel
letto della lesione.
La chiusura secondaria è quella in cui il trattamento della ferita aperta viene effettuato per un periodo più prolungato, seguito da una chiusura dopo la comparsa del tessuto di
granulazione nel letto della ferita. Col termine guarigione
per seconda intenzione si indica infine un periodo prolungato di trattamento della ferita aperta, durante il quale la lesione viene lasciata guarire attraverso il normale processo di
contrazione ed epitelizzazione. Non viene effettuata alcuna
ricostruzione chirurgica.
166
TRATTAMENTO ACUTO
DELLE FERITE TRAUMATICHE APERTE
Le varie fasi del trattamento acuto delle ferite aperte sono rappresentate da 1) valutazione della ferita e della “zona
del trauma”, 2) revisione chirurgica con asportazione dei tessuti necrotici, contaminati e non vitali, 3) lavaggio del letto
della ferita e 4) chiusura della ferita o applicazione di un appropriato bendaggio.
Revisione chirurgica
Col termine revisione chirurgica si indica la rimozione
di essudati, detriti necrotici e tessuti non vitali dal letto della ferita. L’operazione va preferibilmente eseguita rispettando le tecniche chirurgiche, identificando accuratamente
i materiali da asportare ed effettuandone l’escissione. Il termine revisione autolitica indica un processo “naturale” di
rimozione dei tessuti, che si fonda sull’esistenza di un ambiente umido della ferita accompagnato dall’azione di enzimi autolitici prodotti dalle cellule infiammatorie presenti
nella lesione.
La revisione può essere effettuata in blocco o per piani.
Nel primo caso, si effettua l’escissione chirurgica dell’intero letto di ferita come se si asportasse un tumore. La revisione per piani viene eseguita più comunemente e prevede la
rimozione del materiale non vitale presente all’interno del
letto della ferita man mano che viene identificato. Il tessuto
non vitale non è sempre facilmente riconoscibile, soprattutto in caso di lesioni da schiacciamento o da avulsioni, con
distruzione vascolare e danno ischemico dei tessuti circostanti. È di importanza critica la valutazione giornaliera di
queste lesioni, con ripetuti interventi di revisione per strati
via via che vengono identificati nuovi tessuti necrotici.
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Le soluzioni elettrolitiche sono sterili, isotoniche e ragionevolmente economiche. Possono essere utilizzate sotto
pressione servendosi di una semplice siringa e di un ago. È
stato dimostrato che la soluzione fisiologica possiede una
certa attività citotossica nei confronti dei fibroblasti della ferita in via di guarigione, probabilmente dovuta al pH relativamente basso ed alla mancanza di un sistema tampone. Per
le soluzioni elettrolitiche bilanciate, come quella di Ringer
lattato, non è stata dimostrata alcuna citotossicità e, quindi,
questi fluidi rappresentano una scelta più adatta per il lavaggio delle ferite.
Le soluzioni di lavaggio dotate di attività antimicrobica
sono rappresentate da clorexidina gluconato allo 0,05%, soluzioni iodate allo 0,1%, soluzione di Dakin, perossido di
idrogeno e molte altre. Fra questi agenti, la clorexidina e le
soluzioni iodate sono quelle con il minor potenziale citotossico e la massima attività antimicrobica efficace. Il perossido di idrogeno è molto dannoso per gli elementi cellulari
presenti nella ferita e non è adatto come soluzione di lavaggio. L’autore non raccomanda l’impiego di routine delle soluzioni antimicrobiche, tranne che nel caso delle ferite particolarmente problematiche. L’uso di questi fluidi non può essere considerato un sostituto dell’accurata ed approfondita
revisione della ferita.
Il lavaggio va continuato per un periodo di tempo abbastanza lungo da permettere di pulire a fondo la lesione. Nella maggior parte dei casi, risulta adeguato un lavaggio di 510 minuti. La pressione con cui la lesione viene irrigata con
le soluzioni deve essere abbastanza elevata da determinare la
dislocazione delle particelle adese, ma non tanto da causare
la distruzione dei piani tissutali. Ad esempio, risulta adeguata la pressione di un energico ugello a doccia o quella che si
ha con l’eiezione forzata attraverso una siringa da 20 cc e un
ago da 18 G.
BENDAGGIO DELLE FERITE
Lavaggio
Agenti topici
Il lavaggio consiste nell’applicazione di un fluido, solitamente sotto moderata pressione, per allontanare i materiali
estranei e i detriti dal letto della ferita. Allo scopo sono stati
utilizzati molti agenti, e non è stata identificata nessuna soluzione che possa essere considerata “la migliore”. In generale,
la soluzione di lavaggio ideale dovrebbe essere non citotossica, isotonica, sterile ed economica. È stata suggerita come caratteristica utile anche il possesso di un’attività antimicrobica. Tuttavia, i benefici effetti del lavaggio sono determinati
dalla rimozione meccanica dei detriti che esso determina.
Non è necessaria alcuna azione antimicrobica diretta.
Come liquido di lavaggio è stata utilizzata l’acqua di rubinetto, che certamente risulta prontamente reperibile, economica e facilmente somministrabile. Si tratta di un fluido ipotonico che, in alcune zone geografiche, contiene oligoelementi
che possono inibire le cellule presenti nella ferita in via di
guarigione. Quando viene impiegata, l’acqua di rubinetto è
utile soprattutto per il lavaggio iniziale delle ferite fortemente
contaminate al momento della prima visita. Per quelle dovute
a traumi verificatisi 2 o 3 giorni prima, è necessario scegliere
altre soluzioni, con un minore potenziale citotossico.
L’applicazione degli agenti topici sulle ferite è stata considerata sia con favore che con sfavore. Storicamente, sono
stati utilizzati molti agenti, ritenuti capaci di accentuare l’attività degli elementi di riparazione della ferita e ridurre il livello della contaminazione batterica. Come le soluzioni di
lavaggio antimicrobiche, anche le pomate per uso topico
presentano scarsi vantaggi nelle ferite non complicate. Le
infezioni e la contaminazione microbica vengono meglio
trattate con un’adeguata revisione chirurgica ed un appropriato lavaggio.
Come agenti topici, meritano una menzione a parte il
miele e lo zucchero, il cui uso è abbastanza comune in molte parti del globo. La miscela ipertonica che si forma in seguito all’applicazione di questi agenti diminuisce l’attività
microbica nella ferita. Inoltre, sembrano determinare un
vantaggio diretto per il processo di guarigione. Le ragioni di
questa osservazione non sono ancora state ben comprese, ma
è stato ipotizzato che possa esistere un effetto nutritivo diretto o che le cellule all’interno della ferita possano essere
stimolate a modificare la propria produzione di citochine.
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Idrogel, idrocolloidi ed alginati stanno diventando sempre più popolari come agenti per uso topico o come bendaggi da contatto. Questi materiali formano dei gel sulla superficie della ferita mantenendone umido l’ambiente, possiedono varie capacità di assorbimento degli essudati e favoriscono il processo di revisione autolitica della lesione. Gli idrogel si trovano in commercio sotto forma di gel amorfi che
possono essere distribuiti sulla ferita, oppure come fogli da
utilizzare per il bendaggio da contatto. Gli alginati sono derivati sodici o calcici delle alghe brune che reagiscono con il
fluido della ferita per formare un gel superficiale. Gli idrocolloidi formano un gel molto adesivo che si fissa sulle superfici cutanee che circondano la ferita. Questa azione tende
a bloccare la lesione, inibendone la contrazione ma favorendone l’epitelizzazione.
Gli aspetti teorici ed applicativi della guarigione delle ferite umide attraverso l’oculato impiego di idrogel ed idrocolloidi sono stati dimostrati in numerose ricerche condotte
nell’uomo per diminuire la frequenza delle complicazioni
delle ferite ed accelerarne la guarigione. Non sono disponibili specifici studi che dimostrino analoghi benefici in medicina veterinaria.
TECNICHE DI BENDAGGIO
Bendaggio precoce delle ferite
Negli stadi iniziali (giorni da 1 a 3) le ferite contaminate
sono spesso altamente essudative e presentano vari gradi di
necrosi tissutale in atto. I bendaggi utilizzati per il trattamento di queste ferite devono consentire l’assorbimento degli essudati e favorire la revisione.
Per facilitare la revisione chirurgica dei tessuti vengono utilizzate tecniche di bendaggio umido-secco, seccosecco ed umido-umido, realizzando bendaggi da contatto. I
più comuni sono quelli di tipo umido-secco. Uno strato di
bendaggio da contatto (di solito, una garza fine) viene immerso in una soluzione umidificante (di solito, una soluzione elettrolitica bilanciata o una di clorexidina gluconato
allo 0,05%) e poi liberata dall’umidità in eccesso strizzandola con forza. La garza viene zaffata nella ferita, facendo
attenzione a riempire tutte le cavità della lesione. Sul primo strato a contatto della superficie si applica un secondo
bendaggio assorbente (rotolo di cotone, imbottitura per ingessatura, gommapiuma idrofila), coprendo infine il tutto
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con un bendaggio terziario per proteggere la ferita dall’ambiente. Gli essudati della lesione passano attraverso il
bendaggio a contatto e vengono trattenuti in quello secondario. Col tempo, anche lo strato direttamente a contatto
della ferita inizia ad asciugare e ad aderire alla superficie
della lesione. Al momento della sostituzione del bendaggio, il primo strato “tira via” dalla ferita il materiale a cui
è adeso. Questo processo è utile durante i periodi di attiva
necrosi tissutale ed essudazione, ma risulta controproducente per la ferita una volta che siano iniziati gli stadi riparativi del processo di guarigione.
FERITE NELLO STADIO RIPARATIVO
DELLA GUARIGIONE
Una volta che la necrosi tissutale sia stata posta sotto
controllo ed il tessuto di granulazione inizi a comparire nella ferita (di solito dopo 3-5 giorni) si devono utilizzare tecniche di bendaggio non traumatiche. Nelle prime fasi riparative, quando a livello della ferita sono ancora presenti processi di essudazione o trasudazione, risultano appropriati dei
bendaggi a contatto non aderenti e non occlusivi. In questa
fase del trattamento della ferita si possono utilizzare idrogel,
alginati e bendaggi in gomma piuma. Può essere anche utile
una garza impregnata di petrolato, che talvolta risulta anche
più economica per il bendaggio delle ferite in questa fase di
riparazione.
Occorre rilevare che le ferite che passano nello stadio riparativo iniziale sono in genere state trasformate in lesioni
pulite contaminate. Di conseguenza, a questo punto la ricostruzione chirurgica della parte è spesso preferibile al trattamento come ferita aperta.
Se la ferita viene lasciata guarire per seconda intenzione,
il bendaggio a contatto con la superficie della lesione deve
essere di tipo semiocclusivo e non aderente, dal momento
che la produzione dei fluidi da parte della ferita diminuisce.
Si può prendere in considerazione il ricorso ad imbottiture
sintetiche, idrocolloidi e bendaggi semipermeabili in poliuretano. Tutti mantengono umido l’ambiente della ferita. Come precedentemente indicato, l’azione di immobilizzazione
degli idrocolloidi può inibire la contrazione della ferita, un
processo che si solito viene considerato favorevole per la
guarigione delle lesioni negli animali domestici. Di conseguenza, è preferibile riservare gli idrocolloidi alle ferite molto piccole a carico delle estremità.
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169
Applicazioni clinico-pratiche dei trapianti cutanei
nei piccoli animali
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
CONSIDERAZIONI GENERALI
CLASSIFICAZIONE DEGLI INNESTI CUTANEI
Gli innesti cutanei sono segmenti di epidermide e derma
che vengono completamente staccati dall’ospite e trasferiti
in un sito ricevente. La loro sopravvivenza dipende dalla rivascolarizzazione in questa sede. Di conseguenza, è estremamente importante che vengano accolti in un ambiente sano e stabile. L’unico scopo degli innesti cutanei è quello di
ripristinare una barriera cutanea integra in una ferita aperta
altrimenti ragionevolmente sana.
In base all’origine
INDICAZIONI
In base allo spessore
Gli innesti cutanei devono essere presi in considerazione
per la ricostruzione delle ferite aperte che corrispondono ai
seguenti requisiti:
• ferita di dimensioni sufficientemente estese o situata in
un’area anatomica tale da precluderne la chiusura diretta
mediante mobilizzazione della cute circostante;
• sito ricevente caratterizzato da letto di granulazione sano o
da tessuto fresco con contaminazione minima e in grado di
fornire una precoce vascolarizzazione dell’innesto;
• presenza di un’adeguata quantità e qualità di cute adatta al
prelievo.
In generale, risultano candidati a questi interventi i
deficit cutanei che coinvolgono le estremità distali degli
arti e le imponenti perdite di tessuto a carico di testa, collo e tronco.
Gli innesti cutanei possono essere classificati come a tutto spessore o a mezzo spessore. I primi comprendono interamente il derma e l’epidermide. Gli innesti cutanei a mezzo spessore possono essere ulteriormente suddivisi in sottili,
intermedi o spessi, a seconda dello spessore relativo del derma compreso nell’innesto. Classicamente, si riteneva che le
tecniche di innesto a mezzo spessore presentassero una maggior percentuale di successo, mentre quelle a tutto spessore
inibiscono maggiormente la contrazione secondaria. A questo proposito, nei piccoli animali sono stati rilevati dati contraddittori, con scarse dimostrazioni indiscutibili a favore
delle tecniche di innesto a tutto spessore piuttosto che a mezzo spessore per queste ragioni. Gli innesti cutanei a tutto
spessore risultano più facili da prelevare da parte dei chirurghi che non dispongono di una notevole esperienza nella tecnica di trapianto e di speciali attrezzature. Inoltre, gli innesti
a tutto spessore sono caratterizzati da una dotazione completa di strutture annesse, che garantiscono un risultato esteticamente valido e durevole. A parere dell’autore, gli innesti
cutanei a mezzo spessore devono essere riservati ai casi in
cui è necessario utilizzare grandi quantità di materiale da trapiantare, tali da precludere la chiusura mediante sutura primaria di un sito donatore a tutto spessore. Dal momento che
nella sede di prelievo a mezzo spessore viene lasciato il derma, non è necessario chiudere la ferita con una sutura.
RICHIAMI ANATOMICI
La cute del cane e del gatto è suddivisa in epidermide e
derma. La prima è priva di strutture vascolari e serve da rivestimento esterno protettivo.
Il derma è invece ben vascolarizzato e contiene vasi sanguigni e linfatici, follicoli piliferi, ghiandole e terminazioni
nervose. La funzione del derma è quella di nutrire e mantenere l’epidermide protettiva.
Lo spessore della cute varia enormemente da un individuo all’altro e fra differenti sedi anatomiche dello stesso
soggetto. La cute è tipicamente più spessa in corrispondenza del dorso e del collo e più sottile a livello di addome, sterno, ascelle e regioni inguinali.
Praticamente tutti gli innesti cutanei utilizzati nei piccoli animali sono autogeni. È stato descritto e utilizzato per
specifiche applicazioni nella ricostruzione delle ferite l’uso
di innesti omologhi e xenologhi, che però rivestono scarsa
importanza nel trattamento di routine delle ferite aperte dei
piccoli animali.
In base alla configurazione dell’innesto
Gli innesti cutanei possono essere classificati come a
lembo unico, a rete, a striscia o a piccoli lembi a seconda
della configurazione. Quelli a lembo unico si ottengono con
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il prelievo di un unico tratto di cute, sagomato in modo da
adattarsi al letto ricevente. Questi innesti presentano un particolare svantaggio, dal momento che non permettono la
fuoriuscita di siero, sangue ed essudati che si possono accumulare al di sotto dell’innesto ed inibire la rivascolarizzazione.
Gli innesti a rete sono costituiti da molteplici file di incisioni parallele attraverso il lembo. Queste incisioni possono
essere effettuate a mano, servendosi di una lama da bisturi,
oppure con uno strumento appositamente studiato a questo
scopo. Gli innesti a rete possono essere espansi o non espansi
al momento della loro applicazione sul letto ricevente. L’espansione consente di ricostruire una ferita con una quantità di
materiale da trapiantare marcatamente inferiore. Le aree aperte in un innesto a rete espanso guariscono mediante contrazione ed epitelizzazione a partire dall’innesto circostante. Inoltre,
questi trapianti cutanei hanno il vantaggio, rispetto a quelli a
lembo unico, di consentire la fuoriuscita dei fluidi che, altrimenti, resterebbero intrappolati fra essi ed il letto ricevente.
Gli innesti a striscia prevedono l’uso di strisce di materiale da trapiantare di larghezza variabile applicate per file
parallele in modo da coprire parzialmente il sito ricevente.
Le aree aperte interposte fra le strisce guariscono per contrazione ed epitelizzazione. Gli innesti a piccoli lembi sono
simili a quelli a strisce, ma si effettuano prelevando molteplici piccoli lembi di materiale, che vengono poi applicati
sul letto ricevente. Lo scopo di questa tecnica è quello di inserire nella lesione molteplici aree dalle quali possa prendere origine l’epitelizzazione. L’esito estetico dopo un innesto
a striscia o a piccoli lembi è sostanzialmente meno gradevole di quello ottenibile con gli innesti a rete. L’uso di questi
tipi di trapianti deve essere limitato ai casi in cui un’imponente perdita cutanea impedisce il prelievo di quantità adeguate di materiale da trapiantare per ricostruire completamente il sito ricevente.
Guarigione degli innesti cutanei
Gli innesti cutanei dipendono dal sito ricevente per il loro nutrimento. È quindi essenziale un adeguato contatto ed
una corretta stabilizzazione fra l’innesto ed il letto ricevente. Dopo il trapianto, il primo inizialmente aderisce al secondo attraverso la formazione di una rete di fibrina. Questa
viene facilmente distrutta dal movimento o dalla manipolazione traumatica dell’innesto nei primi giorni dopo l’intervento. Successivamente, la rete di fibrina viene invasa da
tessuto fibrovascolare per formare un ponte stabile fra innesto e letto ricevente. Immediatamente dopo il trasferimento,
il trapianto viene nutrito attraverso un processo denominato
imbibizione plasmatica. Fra l’innesto ed il letto ricevente, si
ha uno spostamento di fluidi simili a siero, che garantiscono
il nutrimento delle cellule del trapianto. Quest’ultimo appare leggermente edematoso e bluastro durante questa fase di
guarigione. Nei primi giorni successivi all’intervento, inizia
la rivascolarizzazione dell’innesto. Nuove gemme capillari
possono invadere il derma direttamente oppure formare anastomosi con i vasi preesistenti, attraverso un processo di inosculazione. La vascolarizzazione dell’innesto è in genere
molto avanzata entro 7-10 giorni. Quindi, gli innesti che
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hanno avuto successo devono perdere il loro aspetto cianotico e sviluppare una colorazione rosa o rossa entro 7 giorni.
Al decimo giorno, i lembi trapiantati devono apparire relativamente normali.
Preparazione del sito ricevente
Dal momento che gli innesti cutanei dipendono in ultima
analisi dal sito ricevente per la loro sopravvivenza, il letto
sul quale effettuare il trapianto deve essere costituito da un
tessuto capace di generare una risposta vascolare. Inoltre,
deve essere libero da residui necrotici, materiali estranei ed
infezioni. Una regola pratica generale è quella di non effettuare trapianti su una ferita che non sosterrebbe la chiusura
diretta (posto che la cute circostante fosse adeguata). I letti
riceventi possono essere costituiti da tessuto di granulazione
o tessuto fresco. Non esiste alcuna prova che l’innesto abbia
più successo quando viene effettuato su un tessuto di granulazione già consolidato piuttosto che su un tessuto fresco appropriato. Di conseguenza, nei casi in cui sono coinvolte ferite pulite verificatesi in un ambiente controllato (ad esempio, dopo l’escissione di un tumore) risulta indicato il trapianto immediato. Gli innesti devono essere utilizzati solo
su superfici fresche capaci di produrre tessuto di granulazione. I tessuti caratterizzati da una limitata capacità di risposta
vascolare, come l’osso esposto, la cartilagine o il tendine,
non sono in grado di sostenere i trapianti cutanei. Questi ultimi possono sopravvivere su un tessuto non vascolarizzato
fino ad un’ampiezza di 1 cm attraverso un fenomeno di formazione di ponti in cui la crescita vascolare a partire dai tessuti circostanti sostiene il lembo trapiantato nel tratto immediatamente sovrapposto al tessuto non vascolarizzato.
La maggior parte delle ferite aperte di origine traumatica
non è adatta all’immediato trapianto cutaneo per la presenza
di imponenti contaminazioni e necrosi tissutale. Quando si
devono effettuare degli innesti su ferite di questa natura, è
necessario trattare la lesione come una ferita aperta fino a
che non si sia stabilito un letto di granulazione sano. L’epitelizzazione a livello dei margini delle ferite in fase di granulazione deve essere considerato un segno del fatto che la
lesione è pronta per il trapianto. Il tessuto di granulazione in
eccesso deve essere asportato con strumenti taglienti, allontanandolo dal letto della ferita prima del trapianto. L’asportazione non deve essere effettuata “per raschiamento” di un
innesto, perché ciò potrebbe diminuire il successo dell’intervento. Le emorragie che seguono l’escissione del tessuto di
granulazione in eccesso devono essere controllate mediante
compressione diretta prima dell’applicazione degli innesti.
Scelta e preparazione del sito donatore
Gli elementi da prendere il considerazione per la scelta
di un sito donatore appropriato sono rappresentati dalla possibilità di effettuare la chiusura primaria della parte dopo il
prelievo dell’innesto, dalla morbilità associata al prelievo da
un particolare sito e dalla corrispondenza estetica fra la cute
prelevata e quella normalmente presente a livello del sito ricevente. Si deve fare tutto il possibile per assicurare la mas-
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sima corrispondenza di colore, lunghezza e direzione di crescita del pelo fra il sito donatore e quello ricevente. Prima di
effettuare il prelievo, si deve realizzare una sagoma del letto
ricevente, in modo da poter asportare un innesto di dimensioni e forma adeguate.
Cause comuni di fallimento degli innesti
Le cause dell’insuccesso degli innesti sono rappresentate da formazione di ematomi o sieromi al di sotto del lembo
trapiantato, infezione e non corretta immobilizzazione. La
formazione di ematomi e di sieromi può essere ridotta al minimo preparando il letto ricevente prima del prelievo del
lembo di cute e lasciando trascorrere un periodo di tempo
adeguato ad assicurare l’emostasi. L’uso di innesti a rete
piuttosto che a lembo unico permette la fuoriuscita dei fluidi che si possono formare al di sotto della cute trapiantata
nel primo periodo postoperatorio. Il corretto trattamento della ferita aperta prima dell’esecuzione del trapianto limita
l’incidenza delle infezioni. Per la sopravvivenza degli innesti sono particolarmente gravi le infezioni da streptococchi
β-emolitici, a causa della produzione di plasmina ed enzimi
proteolitici. Le infezioni da Pseudomonas limitano in misura minore la vitalità dell’innesto. Se necessario, si devono
utilizzare suture di fissazione, bendaggi e steccature per limitare i movimenti a livello della ferita e favorire la stabilizzazione dell’innesto e, quindi, la sua rivascolarizzazione.
171
Cure postoperatorie e monitoraggio
del paziente
La frequenza con cui si devono sostituire i bendaggi postoperatori è piuttosto controversa. I cambi troppo precoci e
frequenti dei bendaggi sono potenzialmente dannosi per la
sopravvivenza degli innesti, dal momento che l’operazione
potrebbe disturbare le fasi iniziali della rivascolarizzazione
dei lembi trapiantati.
L’autore generalmente esamina gli innesti a distanza di
1-2 giorni dall’intervento per valutarne l’adesione al letto ricevente. Eventuali sacche di raccolte liquide possono essere
delicatamente drenate per ristabilire il contatto fra letto e innesto. Successivamente, i bendaggi vengono sostituiti ad intervalli di 3-5 giorni.
Quando l’essudazione dal letto della ferita è più pronunciata, può essere necessario cambiare quotidianamente i
bendaggi per prevenire la macerazione della parte. Un aspetto molto pallido, scuro o “conciato” dell’innesto indica un
fallimento imminente. I trapianti che hanno successo si presentano di colore bluastro durante i primi giorni e poi assumono una colorazione rosata o rossa col progredire della rivascolarizzazione. È necessario evitare una revisione chirurgica troppo aggressiva dei presunti insuccessi, dal momento
che non è raro che si verifichi il distacco dell’epidermide e
della parte più superficiale del derma, con sopravvivenza degli strati più profondi.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
173
Lembi regionali per la ridistribuzione
della tensione attorno alle ferite
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
INTRODUZIONE
SCOLLAMENTO DEI TESSUTI
I chirurghi che operano sui piccoli animali godono di un
vantaggio rispetto ai loro colleghi che si occupano di animali da reddito o dell’uomo, dal momento che la cute del cane
e del gatto è molto elastica e lassamente adesa ai tessuti sottostanti. Di conseguenza, negli animali di queste due specie
le grandi ferite che necessiterebbero di procedure ricostruttive più avanzate possono essere chiuse direttamente servendosi di varie tecniche volte ad allentare la tensione della parte. Le ferite a livello del tronco sono quelle più trattabili mediante chiusura diretta con le tecniche di attenuazione della
tensione, ma l’uso di queste metodiche deve essere preso in
considerazione anche in presenza di ferite più piccole a carico di testa, collo ed estremità. Le tecniche di risoluzione o
ridistribuzione della tensione possono comportare lo spostamento dei tessuti locali mediante scollamento e successiva
sutura, incisioni liberatorie o “plastiche”, espansione tissutale e spostamento di lembi locali per la ridistribuzione della
tensione.
Forse, la tecnica più importante per la riduzione della
tensione durante la riparazione delle ferite è lo scollamento
dei tessuti circostanti. È stato dimostrato che questa operazione a livello cutaneo riduce significativamente la forza necessaria ad ottenere la chiusura. Nelle aree in cui è presente
uno dei muscoli pellicciai, lo scollamento deve essere eseguito in corrispondenza di un piano più profondo di quello
muscolare. Ciò garantisce la massima conservazione dell’apporto vascolare alla cute sovrastante. I tessuti possono
essere scollati sia per via smussa che con strumenti taglienti, estendendosi in direzione periferica a partire dai margini
della ferita. Durante tutta l’operazione, bisogna cercare di
preservare le arterie cutanee dirette. Lo scollamento determina la formazione di un considerevole spazio morto e, di
conseguenza, predispone alla formazione di ematomi e sieromi. Questo è un problema principalmente nelle aree sottoposte ad un notevole movimento. Per il trattamento dello
spazio morto nelle situazioni in cui è probabile la formazione di sieromi, è indicato l’uso dei drenaggi operatori.
LA TENSIONE DELLA CUTE
TECNICHE DI SUTURA
L’entità della tensione esercitata sulla cute varia da un individuo all’altro, da un’area anatomica all’altra nello stesso
individuo e nelle varie direzioni in una data sede. Le forze di
tensione predominanti a livello della cute del cane e del gatto tracciano un disegno simile alle strisce di una zebra e vengono indicate col nome di linee di tensione (o linee di fendibilità cutanea). Le ferite orientate parallelamente a queste linee tendono a divaricarsi in misura minima e, quindi, sono
sottoposte a minori sollecitazioni tensorie al momento della
chiusura della ferita.
Le soluzioni di continuo orientate perpendicolarmente a
tali linee tendono invece a discostarsi in modo più sostanziale e sono soggette a maggiori forze di tensione al momento della chiusura. La conoscenza delle linee di tensione
è importante per pianificare la chiusura di ferite aperte relativamente grandi. Il tessuto deve essere fatto avanzare parallelamente piuttosto che perpendicolarmente ad esse. È possibile effettuare una valutazione abbastanza facile della tensione cercando di tirare i tessuti circostanti sul difetto al momento della chiusura e, soggettivamente, valutando la facilità con cui tali tessuti possono essere fatti avanzare nelle varie direzioni.
In molti casi, il semplice scollamento ed avanzamento
della cute risulta adeguato per consentire la chiusura della
ferita. In queste circostanze, il tipo di sutura utilizzato per
chiudere la soluzione di continuo deve essere stato studiato
in modo da resistere alle forze di tensione o distribuirle in
modo uniforme. In questi casi, sono utili le suture da materassaio a punti staccati orizzontali o verticali, con o senza
stent. È anche indicata la sutura lontano-vicino-vicino-lontano, in cui la porzione “lontana” della sutura distribuisce la
tensione, mentre quella “vicina” tiene accostati i margini cutanei. Per distribuire ulteriormente le forze di tensione attraverso la ferita e ridurre le sollecitazioni sull’incisione primaria, possono essere utili le suture di accostamento. Queste
vengono applicate dopo lo scollamento dei tessuti circostanti. Un punto viene applicato nel lato sottocutaneo del derma
in corrispondenza del punto più profondo dello scollamento,
e poi fatto passare in un tessuto fisso situato in un punto più
vicino alla porzione centrale della ferita. Quando la sutura
viene annodata, il derma viene quindi fatto avanzare fino al
punto della fissazione al tessuto profondo. Molteplici file di
suture di accostamento fanno quindi avanzare gradualmente
174
il margine cutaneo verso il centro della ferita. Uno svantaggio di queste suture è che fissano la cute ai tessuti sottostanti, non elastici. Nelle aree soggette a movimento, la cute non
è in grado di scivolare sui tessuti profondi, per cui forma delle pieghe anormali o risulta orientata in modo insolito quando l’animale assume certe posizioni. A parere dell’autore
queste suture sono raramente necessarie o indicate per ottenere la chiusura della ferita.
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golo variabile da 30° a 90°; l’angolazione più comune è
quella di 60°. L’entità della liberazione ottenuta lungo il corpo centrale è direttamente proporzionale all’angolo formato
da questo e le “braccia della Z”. Il corpo centrale viene realizzato lungo la deformazione contratturale, mentre le braccia se ne allontanano. I due triangoli così realizzati vengono
sollevati e trasportati, invertendo la conformazione della Z.
Ciò esita in un aumento della lunghezza in direzione del corpo centrale originale della Z.
INCISIONI LIBERATORIE (PLASTICHE)
Le incisioni liberatorie e le tecniche di plastica sono rappresentate da espansione a rete, plastica a V-Y, plastica ad H
e plastica a Z.
Espansione a rete. L’espansione a rete può essere utilizzata quando lo scollamento e l’avanzamento diretto dei tessuti circostanti risultano inadeguati per ottenere la chiusura.
Questo può essere un particolare problema a livello delle
estremità, dove la tensione indesiderata in corrispondenza
della chiusura di una ferita può determinare un effetto da laccio emostatico. L’espansione a rete viene eseguita praticando
molteplici file parallele di incisioni sfalsate che attraversano
a tutto spessore il tessuto scollato che circonda la ferita. Questa operazione consente l’avanzamento della cute verso il
centro della lesione riducendo al minimo la tensione. Le piccole soluzioni di continuo determinate dall’espansione della
rete guariscono per contrazione ed epitelizzazione.
Plastica a V-Y. La plastica a V-Y è una forma di incisione liberatoria in cui si realizza un lembo bipeduncolato che
viene poi portato a coprire una soluzione di continuo. La plastica a V-Y nella maggior parte dei casi viene utilizzata per
evitare le deformazioni secondarie alla chiusura delle ferite
adiacenti a strutture come l’occhio, la bocca e l’ano. Nella
cute vicino alla soluzione di continuo si pratica un’incisione
a forma di “V” con l’apice diretto in senso opposto al difetto. La cute a livello dell’apice della V viene accostata in modo da formare la “gamba” della “Y”. Ciò permette al lembo
bipeducolato di avanzare verso la ferita. Una volta che il
lembo sia avanzato sino al punto di consentire la chiusura
senza porre sotto tensione le strutture adiacenti, le porzioni
restanti della V vengono chiuse in modo da formare le
“braccia” della “Y”. L’autore ha riscontrato che questa procedura è particolarmente utile per prevenire l’ectropion secondario conseguente ad escissione di masse adiacenti alle
palpebre.
Plastica ad H. La plastica ad H viene utilizzata per mantenere la normale conformazione durante la riparazione di
deformazioni quadrate o rettangolari. Consiste essenzialmente nel realizzare due lembi peduncolati contrapposti che
vengono fatti avanzare verso la ferita.
Plastica a Z. La plastica a Z viene utilizzata principalmente per correggere le deformazioni contratturali della cute lungo le superfici flessorie. È formata da un’incisione
suddivisa in due braccia ed un corpo centrale. Le braccia
possono unirsi al corpo centrale in modo da formare un an-
LEMBI REGIONALI PER LA
RIDISTRIBUZIONE DELLA TENSIONE
I lembi cutanei vengono comunemente utilizzati nei piccoli animali per la ricostruzione di grandi deficit tissutali conseguenti a traumi o ad ablazioni chirurgiche. Per definizione,
un lembo cutaneo si differenzia da un innesto perché mantiene almeno una connessione con il sito donatore. Attraverso di
essa, il lembo conserva un apporto vascolare e, quindi, non
dipende dalla rivascolarizzazione proveniente dal letto ricevente come avviene invece nel caso degli innesti cutanei. Rispetto a questi ultimi, i lembi presentano numerosi vantaggi
ai fini della ricostruzione. Dal momento che conservano l’apporto vascolare, possono essere utilizzati per riparare dei difetti localizzati al di sopra di tessuti non vascolarizzati quali
ossa esposte, cartilagini e tendini. Inoltre, tollerano meglio
l’applicazione su superfici non uniformi, le contaminazioni e
le infezioni, la mobilità e la raccolta di fluidi a livello del sito ricevente. Gli svantaggi dei lembi rispetto agli innesti sono rappresentati dalla maggiore difficoltà nel trovare una corrispondenza di colore, lunghezza e direzione di crescita dei
peli e nella dissezione necessaria per il prelievo, potenzialmente più estesa. In generale, l’uso dei lembi cutanei rispetto ai trapianti viene consigliato nelle situazioni in cui è possibile utilizzare un lembo locale regionale.
Classificazione dei lembi cutanei
I lembi cutanei possono essere suddivisi in base al loro
apporto vascolare, alla localizzazione in relazione al sito ricevente, ed alla direzione o metodo di spostamento.
Apporto vascolare. La cute del cane e del gatto riceve il
proprio apporto vascolare primario attraverso numerose arterie cutanee dirette. Questi vasi si ramificano in un plesso
sottodermico orientato in modo relativamente casuale. I
lembi che incorporano un’arteria cutanea diretta nella loro
connessione con il sito donatore e che vengono sollevati lungo il decorso di questo vaso vengono indicati con il nome di
lembi assiali. Quelli che non comprendono un vaso cutaneo
diretto dipendono invece dal plesso sottodermico per l’apporto vascolare e vengono detti lembi a vascolarizzazione
casuale o lembi con plesso sottodermico. I lembi assiali
hanno il vantaggio di possedere un apporto vascolare affidabile e ben definito. L’area del lembo che può essere prelevata e trasferita con successo quando nella sua connessione è
compreso un vaso cutaneo diretto è maggiore del 50% circa
rispetto a quella dei lembi prelevabili utilizzando il plesso
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sottodermico come apporto vascolare. La lunghezza di questi ultimi dipende principalmente dalla localizzazione anatomica piuttosto che dall’ampiezza del lembo. In generale, si
raccomanda che l’ampiezza alla base di un lembo del plesso
sottodermico sia uguale o leggermente superiore a quella
della sua estremità libera.
Localizzazione. I lembi possono essere classificati come
locali o distanti a seconda della loro vicinanza con il sito ricevente. I lembi locali vengono prelevati da aree di cute lassa adiacenti alla ferita. Il lembo viene spostato sulla lesione
mediante ricostruzione diretta, in unico stadio, ed il sito donatore viene chiuso con una tecnica primaria. Per poter utilizzare i lembi locali, il difetto deve essere situato vicino ad
un sito donatore adeguato. I lembi locali sono quindi impiegati per la ricostruzione di lesioni a carico di testa, collo e
tratto superiore delle estremità. I lembi distanti sono realizzati a partire da un sito donatore distante da quello ricevente e vengono portati sulla ferita utilizzando delle metodiche
di trasferimento diretto ed indiretto a più stadi. Le procedure di ricostruzione ad unico stadio, più semplici, sono quasi
sempre attuabili, per cui il ricorso ai lembi distanti è necessario solo raramente. Una variante del lembo distante è quella indicata con il nome di trasferimento di tessuto libero.
Si effettua il sollevamento di lembi liberi su un vaso cutaneo
diretto distante dal sito ricevente. Il peduncolo vascolare
viene reciso e l’arteria e la vena vengono rianastomizzate su
un’arteria ed una vena del sito ricevente, utilizzando le tecniche di chirurgia microvascolare.
Metodi di movimento. I lembi normali vengono anche
classificati in base al metodo di trasferimento sulla lesione.
I lembi di avanzamento vengono portati sul difetto facendoli scivolare in avanti. Questi lembi vengono utilizzati
nella maggior parte dei casi per distribuire la tensione allontanandola da una struttura facilmente deformabile e di importanza critica come le palpebre o le labbra. I lembi di
avanzamento possono essere a peduncolo unico (una connessione col sito donatore) oppure bipeduncolati (due connessioni col sito donatore). Questi lembi devono essere prelevati perpendicolarmente alle linee di fendibilità cutanea
per facilitare il loro scivolamento sul difetto, riducendo al
minimo la tensione.
I lembi di rotazione vengono sollevati praticando un’incisione a forma di arco che si estende dal margine di un difetto irregolare o triangolare. Come quelli di avanzamento,
anche questi lembi vengono utilizzati nella maggior parte
175
dei casi per allontanare la tensione dai margini della ferita.
Una volta sollevato, il lembo viene spostato sul difetto effettuando una rotazione lungo l’incisione ad arco. La lunghezza di quest’ultima deve essere approssimativamente pari a 4
volte quella del movimento necessario.
I lembi di trasposizione sono forse quelli più frequentemente utilizzati per la ricostruzione delle perdite significative di tessuto. Vengono sollevati come lembi rettangolari,
con un margine corrispondente al limite del difetto, e situato entro un arco di rotazione di 90° rispetto alla ferita. Una
volta sollevato, il lembo viene trasferito sul difetto ed il sito
donatore viene suturato con una chiusura primaria. La lunghezza del lembo viene determinata effettuando la misurazione della distanza dal perno di rotazione del lembo alla
porzione più distante del difetto; la lunghezza del lembo deve essere uguale o leggermente superiore a questa misurazione. All’interno del lembo, ogni volta che sia possibile, devono essere comprese un’arteria ed una vena cutanee, per
garantire la vascolarizzazione.
Considerazioni tecniche: lembi locali
Per garantire il mantenimento della vitalità del lembo è
necessario tenere presenti diversi aspetti tecnici. I lembi devono essere pianificati meticolosamente prima dell’inizio
dell’intervento. È necessario effettuare un’accurata mappatura del sito donatore, in modo da assicurare la disponibilità di
tessuto adeguato e la possibilità di effettuare la chiusura primaria del sito donatore. È possibile realizzare un modello con
la sagoma del sito ricevente, applicando su di esso un materiale assorbente (vanno bene i tamponi di garza) fino a che
non sia stato colorato dal sangue o dai fluidi presenti. La sagoma può quindi essere ritagliata in modo da stabilire esattamente le proporzioni del difetto. Successivamente, questo
modello viene applicato sulla zona che si intende utilizzare
come sito donatore e, fissandola in corrispondenza del punto
destinato a costituire il perno di rotazione, viene trasferita a
coprire il difetto. Le dimensioni e la configurazione della sagoma possono essere modificate in modo da consentire la trasposizione di lembi esenti da tensioni. Il profilo del lembo
così stabilito viene quindi tracciato sulla cute del sito donatore. Una semplice prova per verificare la capacità del tessuto di consentire la chiusura primaria è quella di pizzicare i
margini del lembo previsto, accostandoli. Se possono essere
portati a contatto con una scarsa tensione, la chiusura primaria del sito donatore non dovrebbe essere un problema.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
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Lembi cutanei assiali.
Caratteristiche ed aplicazioni pratiche
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
INTRODUZIONE
I lembi cutanei assiali meritano una considerazione particolare per la loro versatilità, durata e affidabilità per la ricostruzione dei tessuti molli. Per poter comprendere i potenziali ed i limiti di questi lembi, è importante conoscere il concetto di angiosoma. Si definisce come tale un territorio o regione
di tessuto vascolarizzato da un’unica arteria ed un’unica vena.
Quindi, l’angiosoma dell’arteria renale è il rene, quello dell’arteria brachiale è l’arto anteriore, ecc… Risulta evidente
che, a seconda di quale arteria e vena di origine si prendano in
considerazione, l’angiosoma può comprendere un solo tessuto, oppure più tessuti. I lembi assiali sono basati su territori di
cute ben documentati, che risultano costantemente vascolarizzati da una sola arteria cutanea diretta e da una sola vena.
La cute del cane e del gatto riceve il proprio apporto vascolare attraverso le arterie cutanee dirette. Diverse di queste sono state descritte per utilizzarle nella realizzazione di
lembi cutanei assiali. Fra queste arterie rientrano la epigastrica superficiale caudale, la toracodorsale, la branca prescapolare della cervicale superficiale, la brachiale superficiale, la genicolare e le branche dorsale e ventrale dell’arteria e della vena iliaca circonflessa profonda. Anche se non si
tratta di un autentico lembo cutaneo assiale, il condotto safeno inverso possiede proprietà ed utilità analoghe. I lembi
assiali possono conservare una connessione cutanea con il
sito donatore, ma in realtà è necessario mantenere solo il peduncolo vascolare (lembo arterioso isolato). Secondo l’esperienza dell’autore, la completa scontinuazione di tutte le
connessioni cutanee semplifica la trasposizione dei lembi assiali sulla ferita e riduce al minimo i problemi estetici, come
la formazione di pieghe o “orecchie” associati alla integrità
del peduncolo cutaneo.
SCELTA DI UN LEMBO CUTANEO
ASSIALE APPROPRIATO
I lembi cutanei assiali possono essere utilizzati per ricostruire qualsiasi deficit tissutale che si trovi all’interno
dell’“arco di rotazione” del peduncolo vascolare. Le specifiche linee guida anatomiche per i lembi assiali più comunemente utilizzati verranno illustrate più oltre, insieme alle indicazioni delle localizzazioni anatomiche adatte al loro impiego.
I lembi cutanei assiali di solito necessitano di un’estesa
dissezione tissutale. Di conseguenza, non devono essere generalmente utilizzati nelle situazioni in cui è possibile impiegare, con pari efficacia, metodi più semplici di ricostruzione (avanzamento locale dei tessuti, ecc…). Sono buone
candidate alla ricostruzione mediante lembi assiali le lesioni
associate all’esposizione di strutture vitali o alla distruzione
vascolare dei tessuti circostanti.
Dissezione dei lembi cutanei assiali
Come precedentemente ricordato, l’apporto vascolare di
qualsiasi lembo assiale dipende dall’integrità di un’unica arteria ed un’unica vena. Di conseguenza, è di importanza critica identificare e preservare queste strutture vascolari per
tutto il processo di dissezione, trasposizione e fissazione. Per
garantire il successo della realizzazione del lembo, è necessario rispettare i seguenti punti.
• Localizzare l’esatta posizione del peduncolo vascolare. Nella maggior parte dei casi, questa può essere prevista utilizzando i punti di repere anatomici descritti per ciascun lembo.
Tuttavia, esiste una variabilità anatomica fisiologica, specialmente fra le varie razze di cani, che rende difficile una localizzazione precisa. L’impiego delle sonde ecografiche Doppler risulta utile per individuare con esattezza la localizzazione del peduncolo arterioso prima di iniziare la dissezione.
• Tracciare il profilo del lembo. Si misura la distanza fra il
peduncolo vascolare ed il punto più lontano del sito ricevente. La regione di cute compresa all’interno del lembo
deve essere sufficiente a consentire il movimento del lembo stesso sul sito ricevente senza che ciò determini la comparsa di tensioni.
• Iniziare la dissezione del lembo dal punto più lontano del
peduncolo vascolare. Ciò evita di danneggiarlo inavvertitamente prima di averlo identificato visivamente.
• Estendere la dissezione ad un piano situato al di sotto della muscolatura cutanea superficiale. La maggior parte dei
lembi assiali prende origine da sedi in cui sono presenti
muscoli cutanei superficiali (pannicolari, sopramammari,
ecc…). L’apporto vascolare alla cute decorre, in gran parte, al di sotto di questo piano muscolare. Di conseguenza,
incorporando la muscolatura superficiale nel lembo si assicura la conservazione di una valida vascolarizzazione.
• Controllare le emorragie. Durante la dissezione del lembo
vengono recisi numerosi piccoli vasi. Per il controllo dei
sanguinamenti si utilizza l’elettrocauterizzazione bipolare
178
o la legatura.
• Identificare le principali branche vascolari. Quando il lembo viene sollevato e ci si avvicina alla localizzazione del
peduncolo, è possibile di solito identificare varie branche
vascolari che si estendono a partire da esso. Queste branche principali devono essere conservate. Seguendone il decorso, è possibile identificare il peduncolo vascolare ed effettuarne la dissezione.
• Recidere le connessioni cutanee alla base del lembo dopo
aver identificato il peduncolo vascolare. Una volta che
l’arteria e la vena siano state individuate e isolate, è possibile scontinuare senza rischi le connessioni cutanee residue
immediatamente adiacenti ai vasi.
• Praticare un’incisione di connessione dal sito donatore a
quello ricevente. Il lembo deve essere suturato all’interno
del difetto così realizzato.
• Per il posizionamento del lembo si applicano diversi punti
staccati nelle zone principali. I margini restanti possono essere rapidamente riaccostati utilizzando una sutura continua semplice o delle graffette metalliche. Bisogna evitare
di utilizzare le suture sottocutanee profonde per chiudere lo
spazio morto, poiché potrebbero interferire con l’apporto
vascolare del lembo.
• Chiudere il sito donatore con le tecniche di routine.
• Al di sotto del lembo assiale si deve applicare un drenaggio di Penrose o un sistema di aspirazione attiva, per facilitare la rimozione dei fluidi della ferita. Di solito, i drenaggi possono essere rimossi dopo 3-5 giorni.
• Evitare di applicare dei bendaggi, o farlo con estrema cautela, a meno che non sia possibile coprire l’intero lembo
con la stessa tensione. In caso di bendaggio degli arti, i
lembi prelevati dalla parete corporea (toracodorsale, epigastricocaudale superficiale) e trasferiti sugli arti sono esposti al rischio di compromissione del deflusso venoso.
Lembi cutanei assiali
comunemente utilizzati
Lembo cutaneo toracodorsale
La branca cutanea diretta dell’arteria e della vena toracodorsali fuoriesce a livello della depressione caudale della
spalla, apprezzabile con la palpazione sotto forma di una depressione situata in posizione immediatamente caudale al
capo lungo del muscolo tricipite a livello dell’acromion. I
vasi decorrono dorsocaudalmente al di sotto del muscolo cutaneo del tronco, seguendo un percorso grossolanamente parallelo alla spina della scapola. L’angiosoma del lembo si
estende cranialmente fino a quest’ultima. Il tratto compreso
fra i vasi cutanei diretti e la spina scapolare costituisce la
metà craniale del lembo. Una linea tracciata alla stessa distanza ma caudalmente ai vasi cutanei diretti e parallela alla
spina della scapola delinea il margine caudale del lembo.
L’angiosoma si estende dorsalmente fino alla linea mediana
e ventralmente fino al livello del peduncolo vascolare. La
dissezione può essere estesa oltre il livello della linea mediana dorsale per “allungare” il lembo.
Il lembo toracodorsale è utile per la ricostruzione fino a
livello della metà dell’avambraccio nel cane e del carpo nel
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gatto. I suoi principali svantaggi sono rappresentati dall’estesa dissezione di tessuti molli, dalla formazione di spazio
morto e da un risultato estetico non ottimale.
Lembo cutaneo epigastrico caudale
superficiale
L’arteria e la vena epigastrica caudale superficiale fuoriescono dall’anello inguinale esterno a livello della quinta
ghiandola mammaria e si estendono cranialmente parallelamente alla catena mammaria. Il margine mediale dell’angiosoma del lembo è costituito dalla linea mediana addominale.
La linea parallela alla catena mammaria e che si estenda lateralmente per una distanza uguale a quella esistente fra i capezzoli e la linea mediana forma il bordo laterale del lembo.
All’interno dell’angiosoma primario sono incluse le tre
ghiandole mammarie più caudali, ma la dissezione può essere continuata fino a comprendere anche la seconda senza
grandi rischi di necrosi. Questo lembo è utile per la ricostruzione dei difetti della faccia mediale degli arti posteriori fino a livello della metà della tibia nel cane e del tarso nel gatto. Il lembo può essere utilizzato per la riparazione di ferite
laterali, ma con minore estensione distale.
Lembo del condotto safeno inverso
Questo non è un autentico lembo assiale, ma viene dissezionato e si comporta in modo simile. L’apporto vascolare al lembo deriva dai vasi safeni mediali. Questi non formano un apporto vascolare cutaneo diretto come nel caso
del lembo assiale, ma piuttosto danno origine a numerose
branche cutanee lungo tutto il loro decorso; da qui, il termine di lembo di “condotto”. Normalmente, il flusso del
sangue arterioso attraverso i vasi safeni mediali decorre in
senso prossimo distale, e viceversa per il flusso venoso.
Nella realizzazione del lembo safeno inverso, tuttavia, l’arteria e la vena safena mediale vengono legate in corrispondenza della loro origine a livello dell’arteria e della vena femorale. Il flusso attraverso i vasi viene quindi a dipendere
da quello retrogrado proveniente dalle comunicazioni collaterali fra vasi safeni ed altre arterie e vene dell’estremità
distale; da qui, il termine di lembo “retrogrado”. Il lembo
viene realizzato incidendo la cute trasversalmente a livello
dell’origine dei vasi safeni mediali, che successivamente
vengono legati. Le incisioni craniali e caudali vengono
estese fino a livello del tarso, badando a comprendere all’interno del lembo sia le branche craniali che quelle caudali dei vasi safeni mediali. Il lembo viene sollevato al di
sotto dei vasi safeni. È necessario stare attenti a dissezionare il nervo tibiale separandolo dalla branca caudale dell’arteria safena dove si trova vicino al tratto distale della tibia. Insieme al lembo è possibile sollevare una porzione
della fascia del gastrocnemio, per assicurare l’integrità della vascolarizzazione. Una volta sollevato il lembo, si pratica un’incisione di connessione fra il sito donatore e quello
ricevente e si effettua la trasposizione. Il difetto donatore
viene chiuso primariamente. Per i primi giorni il flusso venoso è tipicamente lento, conferendo al lembo un aspetto
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edematoso e cianotico.
Lembo auricolare caudale
Il lembo assiale auricolare caudale si basa sulle branche
sternocleidomastoidee dell’arteria e della vena auricolare
caudale. Il peduncolo vascolare del lembo prende origine da
una depressione apprezzabile con la palpazione fra l’ala dell’atlante ed il condotto uditivo. L’ampiezza del lembo viene
determinata in base alle esigenze del sito ricevente ed alla
possibilità di effettuare la chiusura primaria di quello donatore. La lunghezza del lembo può essere prolungata fino a livello dei vasi cervicali superficiali, che originano dal setto
costituito dai muscoli omotrasversario, trapezio e sternocefalico. Il peduncolo vascolare è molto piccolo, specialmente
nel gatto, rendendo abbastanza difficile il prelievo di un
lembo a isola.
Lembo cervicale superficiale
Il lembo assiale cervicale superficiale (omocervicale) si
basa sulle branche cutanee dei vasi cervicali superficiali.
179
Questi fuoriescono da un setto costituito dai muscoli omotrasversario, trapezio e sternocefalico. Con l’animale in decubito laterale, e l’arto in posizione normale, si traccia una
linea dall’angolo craniodorsale della scapola fino alla punta della spalla. Si contrassegna il punto medio di questa linea e se ne misura la lunghezza. Una seconda linea, di lunghezza pari a 1/3 della prima, viene tracciata in direzione
perpendicolare, iniziando dal punto medio precedentemente contrassegnato. Questa corrisponde, approssimativamente, alla localizzazione dei vasi cutanei diretti. Per confermare l’identificazione di questo peduncolo, può essere utile una sonda Doppler.
L’angiosoma del lembo cervicale superficiale si estende
dal peduncolo vascolare alla linea mediana dorsale, caudalmente alla spina della scapola e cranialmente per una distanza pari a quella misurata fra il peduncolo vascolare e la
spina della scapola. La dissezione può essere estesa senza rischi oltre la linea mediana sino al livello del peduncolo vascolare cervicale superficiale del lato controlaterale. Questa
dissezione estesa permette la rotazione del lembo per facilitare il raggiungimento della maggior parte delle aree della
testa, specialmente nel gatto. Per favorire la rotazione, si
consiglia la dissezione di un lembo ad isola.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
181
Ricostruzione di ferite complesse
con un unico intervento
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
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Le fratture associate a deficit dei tessuti molli (fratture
esposte di grado 3) sono da considerare maggiormente a rischio di sviluppo di infezioni, unione ritardata o pseudoartrosi. Per ridurre questi rischi, è necessario trattare tali lesioni in modo aggressivo. La maggior parte dei danni di questa
natura si verifica secondariamente a traumi significativi quali incidenti stradali, zuffe fra animali o ferite da arma da fuoco. È essenziale che gli animali colpiti siano sottoposti ad
una visita accurata ed alla stabilizzazione delle condizioni
sistemiche. L’esame ed il trattamento delle fratture esposte
di grado 3 richiedono una completa valutazione della frattura e delle lesioni dei tessuti molli, un trattamento precoce ed
aggressivo della ferita aperta, una fissazione ortopedica stabile ed una rapida ricostruzione dei tessuti molli con l’utilizzo di tessuti vascolarizzati.
VALUTAZIONE E TRATTAMENTO
DELLA FRATTURA
È necessario effettuare la valutazione clinica e radiografica della frattura. Le lesioni ossee prive di un involucro stabile formato da tessuti molli tendono tipicamente a guarire
più lentamente di quelle che possono invece contare su una
opportuna copertura. Le tecniche di fissazione adottate devono tenere conto di questo fatto ed essere realizzate in modo tale da garantire una stabilità adeguata per il tempo previsto per il processo di guarigione. Nella maggior parte dei
casi è indicata la fissazione interna.
La stabilizzazione mediante placche garantisce un’eccellente stabilità e contrasta tutte le principali forze di frattura.
Di solito, tuttavia, la loro applicazione richiede un’estesa
dissezione dei tessuti sani al di là dei margini della ferita e
ciò comporta un rischio di estensione della contaminazione
e di ulteriore distruzione vascolare. Le fratture possono essere temporaneamente immobilizzate utilizzando le tecniche
di coaptazione esterna fino a che la ferita non sia stata trasformata in una di tipo pulito-contaminato. A questo punto,
si effettua la riparazione definitiva delle strutture ortopediche e dei tessuti molli.
La fissazione scheletrica esterna è ideale per la stabilizzazione delle fratture esposte di grado 3 della diafisi della tibia o del radio. I fissatori esterni possono essere inseriti attraverso i tessuti molli sani prossimalmente e distalmente alla frattura subito dopo l’evento patologico. Ciò facilita la
prosecuzione del trattamento della ferita aperta, finalizzato a
consentire una precoce ricostruzione di secondo stadio di
tessuti molli.
Trattamento della ferita aperta
Le fasi del trattamento acuto delle ferite aperte di origine traumatica sono rappresentate da 1) valutazione della ferita e della “zona del trauma”, 2) revisione chirurgica ed
asportazione di tutti i tessuti necrotici contaminati e non vitali, 3) lavaggio del letto di ferita e 4) ricostruzione della ferita o applicazione di un adeguato bendaggio. Lo scopo, nei
casi in cui sono presenti lesioni ortopediche associate, è
quello di ottenere il più precocemente possibile la ricostruzione vascolare.
Revisione chirurgica. Con questo termine si indica la rimozione di essudati, detriti necrotici e tessuti non vitali dal
letto della ferita. L’operazione va preferibilmente effettuata
con una tecnica chirurgica, mediante accurata identificazione ed escissione dei settori interessati. Col termine revisione
autolitica si indica un processo “naturale” di rimozione dei
tessuti, che necessita di un ambiente di ferita umido associato all’azione di enzimi autolitici prodotti dalle cellule infiammatorie presenti nella lesione. Non è sempre facile
identificare il tessuto non vitale, specialmente nelle lesioni
da schiacciamento o da avulsione con distruzione vascolare
e danno ischemico dei tessuti circostanti, tipiche delle fratture esposte di grado 3. È di importanza critica effettuare
quotidianamente la valutazione di queste ferite, asportando i
tessuti necrotici man mano che vengono identificati.
Lavaggio. Il lavaggio è l’applicazione di un fluido, solitamente sotto pressione moderata, per allontanare i materiali
estranei ed i detriti tissutali dal letto di ferita. Allo scopo sono stati utilizzati molti agenti, e non esiste alcuna soluzione
che possa essere definita “la migliore”. In generale, la soluzione di lavaggio ideale dovrebbe essere non citotossica, isotonica, sterile ed economica. Fra le proprietà utili è stata indicata anche l’attività antimicrobica. Tuttavia, il principale
effetto utile del lavaggio è la rimozione meccanica dei detriti, che non dipende direttamente dall’azione antimicrobica.
Per il lavaggio è stata utilizzata l’acqua di rubinetto, che
è senza dubbio facilmente disponibile, economica e semplice
da utilizzare. È però ipotonica e, in alcune aree geografiche,
contiene tracce di minerali che possono inibire gli elementi
cellulari che intervengono nella guarigione della ferita. Nei
casi in cui viene utilizzata, risulta indicata soprattutto per il
182
lavaggio iniziale delle lesioni fortemente contaminate.
Le soluzioni elettrolitiche sono sterili, isotoniche e ragionevolmente economiche. Possono essere utilizzate sotto
pressione servendosi di una semplice siringa e di un ago. È
stato dimostrato che la soluzione fisiologica possiede una
certa attività citotossica nei confronti dei fibroblasti presenti nella ferita in via di guarigione, probabilmente a causa del
pH relativamente basso e dell’assenza di un sistema tampone. Le soluzioni elettrolitiche bilanciate, come quella di Ringer, non si sono dimostrate citotossiche e rappresentano
quindi una scelta migliore per il lavaggio della ferita.
Le soluzioni di lavaggio con attività antimicrobica sono
rappresentate da clorexidina gluconato allo 0,05%, soluzioni iodate allo 0,1%, soluzione di Dakin, perossido di idrogeno e molte altre. Fra questi agenti, la soluzione di clorexidina e quella iodata sono quelle con il minor potenziale citotossico e la massima efficacia antimicrobica. Il perossido di
idrogeno è molto dannoso nei confronti degli elementi cellulari presenti nella ferita e non è adatto come soluzione di
lavaggio. L’autore non raccomanda l’impiego di routine delle soluzioni antimicrobiche, tranne che per le ferite particolarmente problematiche. Queste soluzioni non devono essere considerate un sostituto della approfondita ed accurata pulizia chirurgica della ferita. La cartilagine articolare esposta
è particolarmente sensibile agli effetti dannosi di molte soluzioni antisettiche.
Tecniche di bendaggio. Negli stadi iniziali (da 1 a 3 giorni), le ferite contaminate risultano spesso altamente essudative e vanno incontro a vari gradi di necrosi tissutale. I bendaggi utilizzati in questi casi devono consentire l’assorbimento degli essudati negli strati protettivi e facilitare la revisione chirurgica della parte.
Per facilitare la pulizia dei tessuti, si possono utilizzare
bendaggi aderenti, come le garze applicate con la tecnica
umido-asciutto. Tuttavia, questi stessi bendaggi possono essere controproducenti in presenza di fratture associate perché determinano un certo grado di essiccamento del letto
della ferita. L’impiego di idrogel amorfi promuove la pulizia
autolitica della ferita e contribuisce a mantenere umido
l’ambiente.
Le ferite vanno valutate regolarmente, almeno una volta
al giorno, ripetendo le operazioni di pulizia e lavaggio in
funzione della presenza di tessuti non vitali ed essudati.
Gran parte delle ferite può essere liberata dai tessuti non vitali e trasformata in una lesione di tipo pulito-contaminato
entro 48-72 ore dall’insorgenza. A questo punto è indicata la
ricostruzione. Contemporaneamente, si effettua il prelievo di
frammenti ossei rappresentativi, da utilizzare per gli esami
colturali e gli antibiogrammi.
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per questo tipo di ricostruzione è preferibile servirsi del tessuto muscolare.
Il muscolo è un tessuto estremamente vascolarizzato.
Contribuisce attivamente alla neovascolarizzazione del letto
di ferita ischemico sul quale viene applicato. L’uso del muscolo piuttosto che della cute per la ricostruzione dei deficit
di tessuti molli al di sopra delle fratture è stato correlato ad
una più precoce insorgenza della guarigione dell’osso, ad
una guarigione ossea più rapida, a tassi di infezione minori
ad un miglioramento della risoluzione delle osteomieliti
eventualmente già instaurate. Dopo la ricostruzione della ferita, il muscolo può essere ricoperto con un lembo cutaneo o
un innesto di cute.
LEMBI MUSCOLARI PEDUNCOLATI
Per la ricostruzione a livello degli arti è stato descritto
l’impiego di diversi muscoli. È essenziale che il chirurgo conosca l’anatomia vascolare del lembo muscolare che intende utilizzare, dal momento che durante la dissezione e la trasposizione sul sito ricevente occorre rispettare l’apporto vascolare esistente. Meritano una menzione particolare il muscolo semitendinoso ed il capo omerale del flessore ulnare
del carpo.
Il muscolo semitendinoso presenta dei peduncoli vascolari codominanti formati a partire dalla branca muscolare
dell’arteria e della vena glutea caudale prossimalmente e
dalla branca muscolare dell’arteria e della vena femorale
caudale distale distalmente. L’intero muscolo sopravvive
con uno solo dei due peduncoli. Il muscolo semitendinoso
possiede un ampio arco di rotazione. Sulla base del peduncolo prossimale, risulta utile per la ricostruzione del perineo.
Utilizzando invece come base il peduncolo distale, il muscolo raggiunge la parte distale della gamba. Si tratta di una
struttura piuttosto voluminosa per la ricostruzione dell’estremità distale, ma è prevedibile che entro alcune settimane dal
trasferimento si abbia una moderata atrofia da denervazione.
È anche possibile effettuare degli interventi di chirurgia citoriduttiva ritardata per migliorare i risultati estetici una volta ottenuta la risoluzione della ferita.
Il capo omerale del muscolo flessore ulnare del carpo
possiede un peduncolo vascolare distale costante formato a
partire da una branca muscolare dell’arteria e della vena interossea caudale. Il peduncolo penetra nel muscolo sulla sua
faccia profonda, appena prima della sua inserzione sull’osso
accessorio del carpo. Il muscolo può essere facilmente dissezionato, mantenendo come base il peduncolo vascolare distale, e può essere ruotato o invertito per ricostruire i difetti
del carpo e del metacarpo.
METODI DI RICOSTRUZIONE DEI TESSUTI
Lo scopo della ricostruzione dei tessuti è quello di fornire un involucro di tessuti molli, stabile e ben vascolarizzato,
che favorisca la guarigione dell’osso e riduca l’incidenza
delle complicazioni delle fratture. Anche se per coprire adeguatamente le fratture esposte è possibile utilizzare la chiusura diretta della cute, i lembi del plesso sottodermico regionale o i lembi assiali, i dati sperimentali dimostrano che
TRASFERIMENTO MICROVASCOLARE
DI TESSUTI LIBERI
Si definisce chirurgia ricostruttiva microvascolare qualsiasi intervento che comporti la riparazione di piccoli vasi,
solitamente di dimensioni comprese fra 0,5 e 2 mm. Nell’uomo, queste tecniche sono state applicate per il reimpianto successivo ad amputazioni traumatiche e per la riva-
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scolarizzazione dei tessuti ischemici. L’indicazione più comune per l’impiego della ricostruzione microvascolare è
rappresentata dal prelievo di tessuti autogeni con un peduncolo vascolare costante da un sito donatore, seguito dal trasferimento del lembo prelevato in un sito ricevente e nella
riconnessione del flusso vascolare mediante anastomosi microvascolare dell’arteria e della vena del tratto donatore con
l’arteria e la vena di quello ricevente. I tessuti così trasferiti esulano dalle tradizionali definizioni di innesti e lembi e
sono stati indicati con il nome di trasferimenti di tessuto libero, lembi liberi o lembi liberi microvascolari. È stata descritta la realizzazione di numerosi lembi liberi costituiti da
cute, muscolo, osso, intestino e lembi compositi. La diversità dei tessuti disponibili per il trasferimento microvascolare ha portato al loro impiego in una gran varietà di problemi ricostruttivi.
Il successo di un lembo libero dipende dalla scelta appropriata dei tessuti donatori e dalla corretta tecnica operatoria microvascolare. I tessuti donatori adatti devono possedere un peduncolo vascolare dominante costante ed affidabile, con un diametro ed una lunghezza appropriati per la ricostruzione microchirurgica (in genere, almeno 0,5 mm di
diametro e 5 mm di lunghezza). Il prelievo del tessuto donatore deve essere effettuato in modo tale da ridurre al minimo
la morbilità nel sito donatore. Per scegliere i tessuti adatti al
prelievo, è di capitale importanza la conoscenza dell’anatomia vascolare. I tessuti regionali che vengono costantemente perfusi da una singola arteria e vena sono indicati col nome di angiosomi specifici di ciascun vaso. All’interno di un
singolo angiosoma possono essere presenti tessuti singoli o
compositi, a seconda della specifica arteria di origine. Tutti
i tessuti contenuti all’interno di un angiosoma possono essere inclusi in un lembo libero ed è prevedibile che, una volta
effettuata la riparazione microvascolare dell’arteria e della
vena di origine, sopravvivano.
I lembi liberi vengono definiti in base al tipo di tessuto
trasferito. Allo scopo si utilizzano comunemente cute (lembi liberi cutanei), muscolo ed osso. Per il trattamento dei deficit complessi spesso risulta utile l’impiego di lembi compositi come quelli miocutanei (muscolo e cute), mioossei
(muscolo ed osso), fasciocutanei (fascia e cute) o osteomuscolocutanei (cute, muscolo ed osso). I lembi liberi sono utili per la ricostruzione con un unico intervento dei deficit particolarmente complessi che si verificano in seguito agli
eventi traumatici o agli interventi di asportazione di aree
neoplastiche, per i difetti congeniti, in caso di osteomielite e
mancata unione di fratture e per le perdite di segmenti ossei.
Vantaggi e svantaggi dei lembi liberi
I vantaggi dei lembi liberi sono rappresentati da versatilità, affidabilità, vascolarizzazione e capacità di permettere la
realizzazione di interventi ricostruttivi precoci e con un unico intervento per i problemi difficili. I tessuti da traferire con
le tecniche microchirurgiche devono corrispondere a specifici requisiti ricostruttivi. Nel caso delle tecniche di ricostruzione locale, il chirurgo deve limitarsi ad utilizzare i tessuti
disponibili localmente per la riparazione delle lesioni. I lembi liberi si sono dimostrati affidabili sia in medicina umana
183
che veterinaria. Nel cane, è stato effettuato con elevato successo il trasferimento di lembi di osso, intestino, muscolo,
cute e cuscinetti plantari. Dal momento in cui vengono rivascolarizzati in corrispondenza del sito ricevente, i lembi liberi garantiscono un nuovo apporto ematico, utilizzabile per la
guarigione della ferita. Il confronto fra la trasposizione locale dei tessuti, il traferimento microvascolare di lembi cutanei
liberi e quello di lembi muscolari liberi per la ricostruzione
delle ferite aperte indica che i lembi muscolari liberi risultano superiori per quanto riguarda l’incremento della vascolarizzazione dei tessuti scarsamente irrorati della ferita aperta.
Questa realizzazione di un punto di partenza per la neovascolarizzazione del letto di ferita è stata utilizzata vantaggiosamente nel trattamento delle forme ischemiche come l’osteomielite e la necrosi postirradiazione.
I lembi liberi presentano 3 principali svantaggi; richiedono tempo, richiedono esperienza nelle tecniche microvascolari e richiedono strumenti specializzati. Nella maggior
parte dei casi, per eseguire il trasferimento di un tessuto libero vengono impegnate 2 équipe chirurgiche. La prima effettua la dissezione del lembo donatore e la seconda, simultaneamente, prepara il sito ricevente. La durata dell’intervento per il trasferimento di tessuti liberi, secondo l’esperienza dell’autore, è di circa 4-8 ore. Il numero dei veterinari che sta sviluppando un’esperienza personale nella chirurgia microvascolare è in aumento. Sono sorti numerosi centri
di perfezionamento che insegnano queste tecniche, in parallelo con i programmi di educazione per residenti in chirurgia
ortopedica e plastica in medicina umana. Man mano che le
tecniche e le indicazioni per gli interventi di microchirurgia
ricostruttiva veterinaria verranno progressivamente definite,
il numero dei chirurghi veterinari con una specifica competenza in quest’area senza dubbio aumenterà.
Lembi clinicamente utili nel cane
Nel cane sono stati descritti molti lembi cutanei assiali.
A titolo di esempio, si ricordano quelli cervicale superficiale, toracodorsale, iliaco circonflesso profondo ed epigastrico
superficiale caudale. I lembi toracodorsale ed epigastrico superficiale caudale vengono utilizzati ampiamente per la ricostruzione locale degli arti adiacenti, e possono essere usati come lembi liberi per le ricostruzioni in settori più distanti. L’autore ha impiegato il lembo cervicale superficiale come lembo cutaneo libero per la maggior parte delle applicazioni di trasferimento di lembi cutanei liberi.
Il muscolo è un tessuto ideale per la ricostruzione dei difetti di grandi dimensioni. Sono stati descritti molti lembi
muscolari adatti al trasferimento microvascolare, quali il latissimus dorsi, il retto dell’addome, il sartorio craniale, il retto femorale, il gracile ed il trapezio. Qualsiasi muscolo che
possieda un peduncolo vascolare dominante costante e possa essere prelevato con una morbilità minima a livello del sito donatore può essere utilizzato per il trasferimento microchirurgico. La scelta specifica del muscolo da utilizzare dipende dalle esigenze del sito ricevente. È possibile effettuare la ricostruzione funzionale del muscolo riparandone l’innervazione motoria a livello del sito ricevente. Nella maggior parte dei casi, per la ricostruzione dei difetti tissutali di
184
grandi dimensioni l’autore utilizza il muscolo trapezio, che
può essere prelevato sotto forma di lembo miocutaneo, per
poi effettuare però solo il trasferimento della componente
muscolare, dal momento che l’esecuzione immediata di un
innesto cutaneo a tutto spessore consente di ottenere un risultato esteticamente migliore.
Per speciali applicazioni ricostruttive è possibile utilizzare altri tessuti. Nel cane, è stato descritto un lembo ulnare
distale, con circolazione su base periostale. Il lembo osseo
ulnare distale è ben documentato sperimentalmente ed è stato usato su base limitata in ambito clinico per la ricostruzione di difetti segmentali. È stato anche riferito l’impiego di
trasferimenti di fibula e costole, che però probabilmente
hanno scarso uso clinico a causa delle loro inadeguate caratteristiche strutturali. Per la ricostruzione delle superfici poste sotto carico, è stato usato il trasferimento microvascolare libero di cuscinetti plantari.
Quando si deve prendere in considerazione
il trasferimento di tessuti liberi?
Le indicazioni e le controindicazioni del trasferimento di
tessuti liberi in chirurgia ricostruttiva veterinaria restano da
definire. È importante comprendere che il principale vantaggio della ricostruzione microvascolare è la riparazione precoce di difetti difficili e la riabilitazione rapida di letti riceventi non sani. È preferibile considerare la ricostruzione microvascolare come un metodo d’elezione in circostanze appropriate, piuttosto che come l’ultima risorsa da impiegare
dopo il fallimento delle tecniche ricostruttive alternative utilizzate più comunemente. Il trapianto di tessuti liberi deve
essere preso in considerazione nelle seguenti circostanze:
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1. nei casi in cui esiste un’estesa perdita di tessuti molli e
non è possibile disporre di tessuti locali o questi risultano
inadatti alla ricostruzione (ad esempio, a causa di una
compromissione vascolare o di un’infezione).
2. Nei casi di estesa perdita segmentale dell’osso e dei tessuti molli sovrastanti o di danno vascolare.
3. In caso di osteomielite cronica.
4. Per la ricostruzione delle superfici sotto carico.
5. Per la ricostruzione muscolare funzionale.
6. Per il trattamento di determinati casi di fratture non unite
avascolari.
7. Per la ricostruzione e la riabilitazione dei pazienti dopo
estesi interventi di ablazione chirurgica di neoplasie.
8. Per il salvataggio dei letti di ferita ischemici (ad esempio,
in caso di necrosi postirradiazione).
Le tecniche microvascolari offrono al chirurgo la possibilità di selezionare i tessuti ottimali per qualsiasi esigenza di
ricostruzione, prelevarli mantenendo un peduncolo vascolare
affidabile e costante e successivamente trasferirli in un sito
ricevente dove vengono rivascolarizzati. La versatilità e l’utilità di questi lembi ne rendono appropriato l’impiego per la
risoluzione dei problemi ricostruttivi difficili. I lembi liberi
non sono necessari né ottimali per il trattamento della maggior parte dei pazienti con perdite traumatiche di tessuto. Di
solito è meglio utilizzare la più semplice soluzione efficace
per qualsiasi problema di ricostruzione. Tuttavia, nei casi in
cui, impiegando le tecniche tradizionali, è necessario effettuare una ricostruzione per stadi o quando esista un effettivo
rischio di morbilità associata a ricostruzione ritardata, si deve prendere in considerazione il trasferimento di tessuti liberi. La chirurgia ricostruttiva microvascolare si è dimostrata
applicabile nei piccoli animali ed il suo impiego in questo
settore è indubbiamente destinato ad espandersi in futuro.
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Lembi miocutanei peduncolati.
Principi e applicazioni pratiche
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
CONSIDERAZIONI GENERALI
I lembi muscolari o miocutanei sono una fonte eccellente di tessuti per le applicazioni ricostruttive. Possiedono un
ricco apporto vascolare che contribuisce alla neovascolarizzazione di letti di ferita nutriti solo in modo marginale e consentono l’arrivo in zona di varie componenti dei meccanismi
di difesa dell’ospite come le immunoglobuline, il complemento, le cellule fagocitarie e l’ossigeno.
I lembi miocutanei accelerano la guarigione delle ferite,
riducono l’incidenza dei processi settici e forniscono un letto ideale per l’applicazione degli innesti cutanei. In presenza di fratture esposte con deficit di tessuti molli, l’insorgenza della neoproduzione ossea e la velocità con cui viene
rafforzato lo spazio di frattura risultano più rapide quando si
effettua una copertura muscolare piuttosto che la tradizionale terapia delle ferite aperte o la copertura con la sola cute.
Inoltre, il muscolo risulta utile nel trattamento dell’osteomielite cronica.
I lembi muscolari sono indicati per il trattamento delle
ulcere da decubito. La grande maggioranza delle lesioni da
compressione nei pazienti umani viene oggi trattata in questo modo. Il muscolo fornisce un ambiente vascolare stabile
che permette la guarigione senza complicazioni della cute ricostruita sovrastante. Si è tentato di suggerire che il muscolo possa agire da “cuscinetto”, riducendo la pressione esercitata sulla cute, ma è stato dimostrato che il suo ruolo in
questo senso è minimo.
I lembi di questo tipo possono anche essere utilizzati per
colmare i deficit tissutali derivanti da traumi o interventi chirurgici di tipo ablativo. Oltre a garantire i vantaggi citati,
l’uso del muscolo per aumentare la massa dei tessuti migliora l’aspetto estetico delle lesioni ricostruite.
I lembi muscolari vengono utilizzati in molte circostanze per fornire un supporto alla ricostruzione di una ferita. Un
esempio classico è l’impiego della trasposizione del muscolo otturatore interno nella erniorrafia perineale. Questi lembi sono stati utilizzati con successo per la riparazione dell’ernia diaframmatica, la ricostruzione della parete toracica,
il trattamento delle ernie inguinali ed altri interventi.
Dal momento che fornisce un apporto vascolare ed è in
grado di sigillare con relativa rapidità le aperture attraverso
la deposizione di fibrina, il muscolo è stato utilizzato come
“rattoppo” per la riparazione degli organi cavi. Trachea, esofago, bronchi, vie urinarie ed altre strutture cave possono essere riparate in questo modo.
Infine, per la ricostruzione muscolare funzionale è possibile utilizzare la trasposizione muscolare ed il trapianto microneurovascolare. Il movimento di un gruppo muscolare
funzionale per rimpiazzarne uno non funzionale in caso di
perdita traumatica o neurogena non è comune in chirurgia ricostruttiva veterinaria, ma è stato applicato con successo
nell’uomo per la ricostruzione facciale ed il ripristino di
grandi gruppi muscolari danneggiati.
CLASSIFICAZIONE E PRINCIPI
DEI LEMBI MUSCOLARI
Prima di utilizzare qualsiasi determinato lembo muscolare occorre valutarne le caratteristiche fisiche e vascolari. Le
dimensioni del muscolo devono corrispondere approssimativamente alle esigenze del letto ricevente. Se il muscolo è
troppo grande, si avrà la presenza di tessuto ridondante. Se
invece è troppo piccolo, il tessuto potrebbe essere insufficiente per la ricostruzione.
È di capitale importanza l’anatomia vascolare del lembo
muscolare. Quasi tutti i principali gruppi muscolari sono stati
classificati nel cane sulla base dell’anatomia vascolare. I muscoli possono essere suddivisi in vari tipi, da I a V, a seconda
del numero e delle dimensioni dei peduncoli vascolari che li
irrorano. Un peduncolo vascolare può essere classificato come dominante o minore a seconda del suo relativo contributo
all’apporto ematico al muscolo. I peduncoli vascolari dominanti hanno un diametro maggiore, penetrano nel muscolo in
un punto relativamente prevedibile e costante e sono i principali contribuenti alla vascolarizzazione della parte. La resezione di un peduncolo vascolare maggiore esita in un certo
grado di necrosi muscolare. I peduncoli vascolari minori sono
più piccoli, penetrano nel muscolo in sedi variabili e spesso
possono essere recisi senza che ciò provochi una necrosi muscolare se il peduncolo dominante è stato conservato.
Tipo I
I muscoli di tipo I sono irrorati da un singolo peduncolo
vascolare dominante. Possono essere completamente dissezionati dal sito ricevente, conservando soltanto il peduncolo
vascolare dominante, e mantenendo comunque un completo
apporto vascolare. Un esempio di muscolo di tipo I è il muscolo retto femorale.
186
Tipo II
I muscoli di tipo II presentano uno o più peduncoli vascolari dominanti ed uno o più peduncoli minori. I peduncoli vascolari dominanti penetrano nel muscolo in prossimità
della sua origine o inserzione, mentre quelli minori penetrano nel ventre muscolare. I muscoli di tipo II sopravvivono in
relazione alla conservazione del peduncolo o dei peduncoli
dominanti. Basandosi unicamente su un peduncolo minore,
è possibile isolare solo una porzione del muscolo. Sono
esempi di muscolo di tipo II il sartorio craniale e la parte cervicale del trapezio.
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sottoporre a tensione il peduncolo vascolare nel tentativo di
“tirare” il lembo fino al letto ricevente. È necessario far attenzione a non piegare, comprimere o altrimenti danneggiare il peduncolo vascolare del lembo.
Infine, il muscolo da utilizzare deve avere una funzione
non indispensabile. Fortunatamente, la maggior parte dei
muscoli è associata ad altri muscoli sinergici che mantengano adeguatamente la funzionalità dopo il prelievo del lembo.
Molti grandi muscoli come il latissimus dorsi, il semitendinoso ed il retto femorale possono essere sollevati e trasposti
con scarsi deficit funzionali a livello del sito donatore.
ESEMPI
Tipo III
I muscoli di tipo III presentano due peduncoli vascolari
dominanti che penetrano nel muscolo distanti uno dall’altro.
Ognuno di essi è responsabile della vascolarizzazione della
metà circa del muscolo. La sopravvivenza di questi muscoli
dipende completamente dalla conservazione di un singolo
peduncolo vascolare dominante. L’esempio è il muscolo semitendinoso.
Tipo IV
I muscoli di tipo IV presentano una vascolarizzazione
segmentale caratterizzata da molteplici peduncoli minori di
dimensioni simili che penetrano nel muscolo per tutta la sua
lunghezza. Ogni peduncolo minore irrora una piccola porzione muscolare. Basandosi su un solo peduncolo minore è
possibile prelevare solo una quantità limitata di muscolo.
L’esempio tipico è il muscolo sartorio caudale.
Tipo V
I muscoli di tipo V presentano un peduncolo vascolare
dominante e molteplici peduncoli segmentali secondari. La
vascolarizzazione dipende quindi da due sistemi vascolari.
La sopravvivenza dell’intero muscolo dipende dal mantenimento di entrambi i sistemi vascolari. La conservazione del
peduncolo dominante permette un esteso arco di rotazione.
Quest’ultimo risulta minimo se viene invece mantenuto il sistema segmentale, dal momento che l’intero muscolo può
sopravvivere preservando uno dei due sistemi vascolare.
L’esempio è il muscolo latissimus dorsi.
I lembi di tipo I sono ideali per le applicazioni ricostruttive. Quelli di tipo II, III e V sopravvivono se viene preservato il sistema dominante. La nutrizione del muscolo viene
conservata dalla circolazione “retrograda” attraverso i vasi
collaterali o “strozzati” che interconnettono i sistemi vascolari all’interno del muscolo. I muscoli di tipo IV sono poco
adatti alle applicazioni ricostruttive, dal momento che non
presentano un peduncolo vascolare dominante.
Il difetto da ricostruire deve essere localizzato all’interno dell’arco di rotazione del lembo muscolare che si intende
realizzare (nel caso di trasferimento peduncolato), ma non
deve essere interessato dal processo patologico. Non si deve
Sperimentalmente, sono stati descritti molti lembi muscolari e l’impiego clinico di queste tecniche sta aumentando via via che i chirurghi veterinari iniziano ad apprezzarne
i vantaggi. Si raccomanda caldamente di effettuare numerose dissezioni anatomiche e studi approfonditi prima di tentare di realizzare un lembo muscolare per la prima volta. In
questa sede verranno forniti degli esempi di diversi lembi
muscolari potenzialmente utili.
Sartorio craniale. Si tratta di un muscolo di tipo II con
un peduncolo vascolare dominante prossimale, basato sull’arteria iliaca circonflessa superficiale, che irrora tutto il
muscolo tranne l’estremità distale. La dissezione permette
un arco di rotazione che si estende dall’anca alla parte craniale dell’addome. Questo lembo è utile per la ricostruzione
delle lesioni da compressione trocanteriche e per le ernie addominali caudali.
Retto femorale. Si tratta di un muscolo di tipo II con un
singolo peduncolo dominante, basato sull’arteria femorale
circonflessa laterale che consente un ampio arco di rotazione. Per quanto è a conoscenza dell’autore, questo muscolo
non è stato utilizzato clinicamente ma sono state pubblicate
segnalazioni sperimentali. Le dimensioni e la forma del retto femorale non sono molto adatte alla maggior parte delle
applicazioni ricostruttive.
Semitendinoso. Si tratta di un muscolo di tipo III con un
peduncolo prossimale ed uno distale codominanti, basati
prossimalmente sull’arteria glutea caudale e distalmente sull’arteria femorale caudale distale. È possibile dissezionare
l’intero muscolo utilizzando l’uno o l’altro peduncolo, il che
consente sia la rotazione prossimale che quella distale. L’uso dei lembi semitendinosi a base prossimale è stato segnalato per la ricostruzione delle ernie perineali ventrali e per le
ernie perineali laterali nei casi in cui il muscolo otturatore
interno non è adatto o disponibile per la ricostruzione.
Latissimus dorsi. Muscolo di tipo V con un peduncolo
dominante, basato sull’arteria e la vena toracodorsali, che
penetrano in prossimità della sua inserzione e su un supporto vascolare segmentale basato sulle branche dei vasi intercostali che penetrano attraverso l’origine muscolare. L’intero muscolo può essere sollevato basandosi sul peduncolo vascolare dominante. La rotazione permette la ricostruzione
dei settori prossimali dell’arto anteriore e della parete toracica. Questo lembo può anche essere sollevato realizzando
un lembo miocutaneo, comprendendo la cute sovrastante.
Sartorio caudale. È stata descritta la rotazione distale di
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questo muscolo basata sul mantenimento del peduncolo safeno distale. Il sartorio caudale è un muscolo di tipo IV
(apporto vascolare segmentale) e la sua integrità vascolare
può, di conseguenza, risultare discutibile dopo questo tipo
di dissezione.
Ulnare laterale. Il muscolo ulnare laterale riceve un peduncolo vascolare distale basato su una branca muscolare
dei vasi interossei caudali. È stata segnalata la rotazione del
muscolo sulla base di questo peduncolo per la ricostruzione
del metacarpo. È necessario operare con cautela, data la natura delicata di questo peduncolo vascolare. Inoltre, il pe-
187
duncolo stesso è incostante e non presente in tutti i preparati anatomici. Quando si prevede il ricorso a questa tecnica, si
suggerisce l’angiografia preoperatoria.
Capo omerale del flessore ulnare del carpo. Si tratta
dell’unico muscolo dell’avambraccio dotato di un peduncolo vascolare distale costante, basato su una branca dell’arteria interossea caudale, che consente una prevedibile rotazione distale per la ricostruzione del carpo e del metacarpo. Il
peduncolo vascolare distale penetra nella faccia profonda
del muscolo, in posizione immediatamente prossimale alla
sua inserzione sull’osso accessorio del carpo.
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Impiego razionale di drenaggi e antibiotici
nel trattamento delle ferite
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
RICONOSCIMENTO E TRATTAMENTO
DELLE COMPLICAZIONI PERIOPERATORIE
Le complicazioni perioperatorie sono costituite da una
vasta gamma di condizioni, molte delle quali specifiche dell’intervento chirurgico eseguito. Tali complicazioni possono
insorgere secondariamente ad un’inadeguata pianificazione
preoperatoria, a difficoltà insorte durante l’anestesia generale, ad una scarsa collaborazione postoperatoria da parte del
proprietario o del paziente ed a fattori intrinseci che influiscono sulle capacità di guarigione dell’animale. Sono esempi di complicazioni di questo tipo, rispettivamente, le recidive tumorali dovute ad inadeguata determinazione dello stadio clinico ed errori di escissione, le reazioni avverse ai farmaci durante l’anestesia generale, le lesioni da autotraumatismo da leccamento o grattamento e l’immunosoppressione
da somministrazione di corticosteroidi. Trattare tutti i potenziali settori delle complicazioni perioperatorie esula dagli
scopi del presente lavoro, che prenderà invece in esame, in
modo specifico, le complicazioni correlate alle ferite sottolineandone riconoscimento, trattamento e prevenzione.
INFEZIONI POSTOPERATORIE
La frequenza delle infezioni varia in funzione delle condizioni della ferita operatoria. Alle lesioni chirurgiche si può
applicare lo stesso sistema di classificazione descritto per
quelle traumatiche. Le ferite pulite sono quelle realizzate in
condizioni asettiche che non invadono una cavità corporea o
un organo contaminati. Quelle pulite contaminate sono caratterizzate dall’esposizione di organi contaminati (ad esempio, genitali o respiratori) o in cui si è verificata l’apertura di
organi cavi con una fuoriuscita minima del contenuto. Le ferite contaminate sono quelle in cui si è avuta un’imponente
rottura dell’asepsi o in cui si è verificata una notevole fuoriuscita di contenuto da un organo cavo contaminato. Sono
ferite sporche quelle con infezioni preesistenti o attraverso le
quali si accede ad un focolaio infetto.
Le segnalazioni relative alle percentuali di infezione variano a seconda degli istituti e delle ricerche condotte, ma
esiste un’evidente tendenza all’aumento dei tassi di infezione con il peggiorare della classificazione delle ferite. Negli
interventi puliti, il tasso di infezione è prevedibilmente inferiore al 2%, presumendo che l’intervento chirurgico sia stato di durata relativamente breve. Per le ferite contaminate, è
stato segnalato un tasso di infezione del 40%.
Oltre alla classificazione delle ferite, diversi fattori possono determinare le probabilità di infezioni. La durata dell’intervento è probabilmente l’elemento più importante da
questo punto di vista, oltre all’entità della contaminazione.
Gli interventi che si prolungano per più di due ore sono associati ad un aumento del rischio di infezioni. I tassi di infezione postoperatoria negli interventi puliti che durano meno
di 90 minuti sono segnalati pari all’1,6%, mentre negli interventi puliti di durata superiore a 90 minuti questo valore
sale a circa l’8%. L’obesità, l’età, il trauma tissutale ed il
danno vascolare, l’estensione della dissezione chirurgica, le
condizioni generali del paziente e la somministrazione di antibiotici nel periodo perioperatorio sono altri fattori capaci di
influire sui tassi di infezione.
Riconoscimento dell’infezione
postoperatoria
I caratteri distintivi di una ferita infetta sono l’arrossamento, la tumefazione, il calore ed il dolore. Ovviamente,
queste manifestazioni sono anche evidenti segni dell’infiammazione tissutale che accompagna normalmente l’invasione
chirurgica. Per stabilire se l’infiammazione osservata è pari
o superiore a quella prevedibile è di importanza critica l’esperienza nella valutazione delle ferite chirurgiche. La normale flogosi postoperatoria deve iniziare a regredire entro
48 ore dall’intervento, mentre l’infiammazione secondaria
ad un’infezione spesso diviene più evidente e più grave durante questo stesso arco di tempo. Di conseguenza, è importante tenere conto del tempo trascorso dall’intervento.
È anche frequente il riscontro di uno scolo sieroematico
o purulento, che è fortemente indicativo di infezione. La febbre è un segno tipico, ma può essere fuorviante. Risposte postoperatorie febbrili sono normali dopo la maggior parte degli interventi chirurgici. Come l’infiammazione tissutale, anche la febbre secondaria ad un intervento chirurgico deve recedere dopo 24-48 ore. Il persistere o il peggiorare del rialzo termico dopo questo periodo deve far sorgere il sospetto
di un’infezione operatoria.
Occasionalmente, un’infezione locale può portare ad una
sepsi sistemica. Sono tipici i segni clinici generalizzati di
malessere, inappetenza o depressione. Gli esami di laboratorio indicano caratteristicamente una neutrofilia con spostamento a sinistra. In caso di sepsi grave, si può osservare una
190
neutropenia con spostamento degenerativo a sinistra. È anche possibile riscontrare un calo del numero delle piastrine
dovuto al loro sequestro o ad una coagulazione intravasale
disseminata. La sepsi è una complicazione grave e potenzialmente letale che richiede un trattamento immediato ed
aggressivo.
Il trattamento delle infezioni
postoperatorie
Le infezioni localizzate vengono trattate con una combinazione di drenaggio e somministrazione di antibiotici sistemici. Le ferite infette superficiali possono essere drenate
semplicemente con la rimozione di 1 o 2 punti di sutura applicati in posizione più declive, oppure introducendo nel letto di ferita un sistema di drenaggio attivo o passivo. Le infezioni più profonde in genere impongono la riesplorazione
chirurgica, la revisione dei tessuti e la chiusura con un drenaggio o un periodo di trattamento come ferita aperta.
Per stabilire il microrganismo responsabile e la sua sensibilità ai diversi antibiotici, è necessario prelevare dei campioni di essudato o di tessuto infetto da inviare all’analisi. La
colorazione di Gram degli essudati fornisce un’indicazione
preliminare a proposito del microrganismo più probabile.
Gli antibiotici da somministrare vengono inizialmente scelti
sulla base della conoscenza delle caratteristiche di questi
agenti microbici (Gram-negativi o Gram-positivi, aerobi o
anaerobi) e tenendo presente il dato anamnestico relativo alla sensibilità agli antibiotici nella particolare zona in cui si
opera. In generale, è preferibile somministrare un singolo
antibiotico piuttosto che una combinazione ed è meglio utilizzare agenti con uno spettro ristretto piuttosto che ampio.
Non esiste una durata “ideale” della terapia antibiotica. Nella maggior parte dei casi di infezione dei tessuti molli, risulta adeguato un ciclo di trattamento di 10-14 giorni, presumendo di aver eliminato i fattori predisponenti.
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ripetendo la somministrazione ad intervalli di 2-4 ore durante l’intervento. Al termine dell’operazione, la somministrazione degli antibiotici viene immediatamente cessata.
FORMAZIONE DI SIEROMI
Col termine sieroma si indica una raccolta di fluido non
settico nello spazio potenziale di una ferita chiusa. Qualsiasi intervento chirurgico determina la distruzione dei normali piani tissutali. Idealmente il chirurgo tende, attraverso la
delicata manipolazione dei tessuti, la conoscenza dell’anatomia e l’impiego di un approccio operatorio ben definito, a limitare la gravità e le conseguenze di questa distruzione. Tuttavia, molte procedure impongono una estesa dissezione ed
una distruzione dei tessuti molli.
La chiusura della cute al di sopra di questi difetti realizzati chirurgicamente nel normale tessuto connettivo esita
nella creazione dello spazio morto, che è semplicemente il
termine con cui si indica uno spazio potenziale. Fino a che i
tessuti restano in apposizione, questo spazio non è occupato
da nulla. Di conseguenza, il problema insorge solo in caso di
raccolta di liquidi, che determinano la separazione fisica dei
piani tissutali.
L’essudazione di fluidi dai vasi è una normale conseguenza di qualsiasi risposta infiammatoria e la flogosi secondaria agli interventi chirurgici non fa eccezione. Normalmente, gli essudati infiammatori determinano la comparsa di
un edema transitorio o di una tumefazione della regione che
gradualmente si risolve nell’arco di diversi giorni. Quando è
presente uno spazio morto, l’essudato infiammatorio si può
accumulare al suo interno ed andare incontro ad un sequestro funzionale. Il riassorbimento dei fluidi viene ritardato
perché, piuttosto che venire dispersi attraverso i piani tissutali, vengono raccolti all’interno di uno spazio chiuso.
La formazione di un sieroma costituisce un evento significativo, perché può esitare in una temporanea perdita di
funzione, predisporre alle infezioni, ritardare la guarigione
dei tessuti ed aumentare il rischio di deiscenza della ferita.
Prevenzione dell’infezione della ferita
Il rigoroso rispetto dell’asepsi durante l’intervento, la delicata manipolazione dei tessuti e l’accurata esecuzione dell’emostasi sono di importanza critica per la prevenzione delle infezioni operatorie. La somministrazione di routine di
antibiotici a scopo profilattico non viene raccomandata e
può portare allo sviluppo di popolazioni batteriche resistenti all’interno dell’ambiente ospedaliero. La profilassi antibiotica non è un sostituto di una buona tecnica operatoria.
Gli antibiotici a scopo profilattico diminuiscono l’incidenza dell’infezione delle ferite nei casi in cui esiste una valida indicazione per il loro impiego. Il ricorso a questi farmaci va preso in considerazione quando si effettuano interventi chirurgici puliti contaminati o contaminati oppure per
i quali si prevede una durata superiore a due ore. Gli antibiotici somministrati a scopo profilattico devono essere presenti in concentrazioni tissutali efficaci al momento dell’intervento e vanno somministrati solo per la durata dello stesso. L’autore di solito utilizza una cefalosporina iniettata per
via endovenosa al momento dell’induzione dell’anestesia,
Riconoscimento dei sieromi
I sieromi vengono facilmente riconosciuti come evidenti
tumefazioni localizzate nel punto di incisione. Di solito possono essere agevolmente differenziati dalle infezioni, dal
momento che nella maggior parte dei casi il dolore o l’arrossamento ad essi associati sono minimi. I sieromi, inoltre,
non sono accompagnati dalle manifestazioni sistemiche
spesso presenti in caso di infezione. Queste raccolte vanno
differenziate dalle ernie accompagnate da un accumulo di
fluidi conseguenti agli interventi di chirurgia addominale. Di
solito, per effettuare questa differenziazione è sufficiente
un’accurata palpazione, ma occasionalmente è necessario ricorrere alle indagini radiografiche o ecografiche.
L’aspirazione dei fluidi contenuti all’interno di un sieroma non viene raccomandata come test diagnostico di routine e va riservata ai casi in cui è necessario ricorrere all’esame citologico per differenziare una di queste raccolte da
un’infezione.
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Trattamento dei sieromi
Riconoscimento della deiscenza
Per trattare i sieromi, il chirurgo ha davanti a sé due
possibili scelte. La prima è limitarsi a non fare nulla. I sieromi piccoli, o quelli che non interferiscono con la funzione della parte, possono essere lasciati riassorbire gradualmente. Il riassorbimento di tutto il fluido presente all’interno della raccolta può richiedere diverse settimane,
ma, nella maggior parte dei casi, è prevedibile una risoluzione completa.
La seconda opzione terapeutica è rappresentata dal drenaggio del sieroma, seguito dall’attuazione di alcuni interventi destinati a prevenirne la ricomparsa. Nella maggior
parte dei casi, ciò comporta l’applicazione di drenaggi attivi
o passivi per obliterare lo spazio morto e garantire che la
successiva essudazione di liquidi verrà eliminata all’esterno.
Occasionalmente, questo risultato si ottiene mediante drenaggio chirurgico e obliterazione dello spazio morto mediante suture.
Gli antibiotici non sono necessari per il trattamento di un
sieroma. Non è raro, tuttavia, che queste raccolte si infettino
in seguito ad una aspirazione mediante ago ed a un drenaggio temporaneo. Quando ciò si verifica, il sieroma va trattato nel modo descritto per le infezioni postoperatorie.
La deiscenza, in assenza di infezione, non è solitamente
associata a notevoli reazioni tissutali o dolore. In genere, a
distanza di 3-5 giorni dall’intervento si osserva una lieve separazione dei margini dell’incisione, associata ad un certo
grado di scolo sieroematico. A partire da questo punto, il deterioramento della ferita progredisce rapidamente. Nella
maggior parte dei casi la deiscenza è un fenomeno del tipo
“tutto o niente”; è insolito che interessi solo una porzione
dell’incisione chirurgica. L’autotraumatismo si può verificare in qualsiasi momento dopo l’intervento, ma in genere si
osserva nei primi giorni.
Prevenzione dei sieromi
L’incidenza dei sieromi viene diminuita riconoscendo
e limitando i fattori che ne favoriscono la formazione. I
piani tissutali distrutti devono essere accuratamente riaccostati utilizzando suture appropriate durante la chiusura
della ferita. Quando non è possibile applicare delle suture,
si devono utilizzare dei drenaggi chirurgici per trattare gli
spazi morti molto estesi. Il movimento dei tessuti all’interno della ferita impedisce l’adesione della fibrina e la
successiva vascolarizzazione e guarigione degli strati più
profondi del letto di ferita. La stabilità dei tessuti può essere favorita dall’applicazione di bendaggi dopo l’intervento e dalla limitazione dell’attività del paziente nel periodo postoperatorio.
DEISCENZA DELLA FERITA
Col termine deiscenza si indica la riapertura di un’incisione chirurgica chiusa. Anche se è possibile che la deiscenza sia causata da difetti intrinseci del processo di guarigione, queste situazioni sono eccezionalmente rare. Nella
grande maggioranza dei casi, il problema è dovuto a fattori secondari, quali infezioni, formazione di sieromi, errori
tecnici nella scelta del materiale o del tipo di sutura, cattiva apposizione tissutale durante la chiusura, eccessiva tensione o movimento dei margini dell’incisione ed autotraumatismo. Di norma, la deiscenza della ferita riguarda il sottocute e la cute, ma può arrivare a coinvolgere i piani tissutali più profondi. Quando sono interessate le incisioni
addominali, si ha la formazione di un’ernia che deve essere prontamente corretta.
Trattamento della deiscenza
La deiscenza dei piani tissutali profondi che svolgono
una funzione di supporto, come la parete addominale, si ha
di solito in conseguenza dell’inadeguata applicazione o scelta del tipo di sutura. L’incisione andata incontro a deiscenza
deve essere sottoposta a riesplorazione chirurgica tentando
di determinare le cause del problema (nodi sciolti, punti rotti, ecc…). La breccia viene quindi nuovamente riparata, badando a modificare la tecnica operatoria in modo da risolvere il problema iniziale.
Le deiscenze delle incisioni che riguardano i piani sottocutanei e cutanei vanno preferibilmente trattate, almeno
temporaneamente, come ferite aperte. Bisogna rimuovere i
materiali estranei (punti di sutura), asportare i tessuti non vitali, lavare la ferita ed applicare un bendaggio appropriato.
La lesione potrà essere ricostruita una volta raggiunto lo stato pulito contaminato. L’impiego degli antibiotici va riservato ai casi di deiscenza associati ad infezione chirurgica.
Prevenzione della deiscenza
La chiave per la prevenzione della deiscenza è quella di
riconoscere le potenziali cause e limitarle nel periodo perioperatorio. La delicata e precisa manipolazione dei tessuti e la
corretta emostasi favoriscono una pronta guarigione tissutale e limitano la fase infiammatoria del processo riparativo. I
piani tissutali devono essere accuratamente identificati e
riaccostati durante la chiusura della breccia. I tessuti sottoposti a considerevoli stress (fasce, muscoli, ecc…) devono
essere suturati utilizzando materiali e tecniche capaci di resistere adeguatamente alla tensione. Le aree sottoposte a
considerevoli forze di tensione dovute a movimenti dopo
l’intervento chirurgico vanno protette con l’applicazione di
bendaggi e/o stecche. Bendaggi o mezzi di contenimento come il collare di Elisabetta vengono utilizzati per prevenire
l’autotraumatismo nei casi in cui questo è ritenuto probabile
per le caratteristiche del paziente o della ferita.
DRENAGGI CHIRURGICI
I drenaggi chirurgici vengono utilizzati per obliterare lo
spazio morto tissutale e fornire una via di fuga ai fluidi che
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possono così raggiungere l’esterno. Se utilizzati in modo appropriato, accelerano la guarigione e riducono il tasso di infezione. I drenaggi possono essere distinti in passivi o attivi.
Drenaggi passivi
I drenaggi passivi sono i più economici, più facilmente
realizzabili e più comunemente utilizzati. L’esempio più familiare è forse il drenaggio di Penrose al lattice. I drenaggi
passivi vengono utilizzati per il trattamento di aree abbastanza isolate e quando è possibile identificare facilmente il
punto più declive dell’area interessata. Il successo del loro
impiego dipende dal rispetto di diversi principi.
• Utilizzare solo il numero minimo di drenaggi necessari per
l’area della ferita. Nella maggior parte dei casi, ne è sufficiente uno solo. Nelle lesioni grandi o complesse può essere necessario utilizzarne di più.
• I drenaggi devono essere disposti in modo tale da attraversare l’intera superficie della ferita. Il deflusso dei fluidi nei
drenaggi passivi avviene per azione capillare. Di conseguenza, è essenziale che i fluidi possano raggiungere la superficie del drenaggio.
• I drenaggi non devono fuoriuscire dalla ferita attraverso
un’incisione primaria. Questa soluzione infatti espone l’incisione al contatto con i prodotti di degradazione di origine infiammatoria della ferita ed aumenta il rischio di deiscenza. Piuttosto, devono raggiungere l’esterno in un punto situato ad una certa distanza dall’incisione primaria.
• I drenaggi devono fuoriuscire nel punto più declive della
ferita.
• La fuoriuscita secondaria del drenaggio in una zona non
declive facilita la “fissazione” del drenaggio, ma non ne favorisce la funzione. Far fuoriuscire il drenaggio in questo
modo può aumentare il rischio di infezioni.
• Entrambi i lati del drenaggio vanno fissati alla cute nel
punto in cui fuoriescono.
• I drenaggi vanno coperti con un bendaggio chirurgico pulito. Ciò facilita la raccolta dei fluidi della ferita e previene
l’esposizione del drenaggio alle contaminazioni ospedaliere.
• I bendaggi vanno rimossi quando la produzione di fluidi
diventa stazionaria e si mantiene costantemente su livelli bassi. La produzione di fluidi non si arresta mai completamente, dal momento che il drenaggio stesso stimola
un certo grado di reazione da corpo estraneo. Nella maggior parte dei casi, la rimozione può essere effettuata dopo 3-5 giorni.
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Drenaggi attivi
Fra i drenaggi attivi, sono più comunemente utilizzati
quelli con aspirazione chiusa. I drenaggi attivi differiscono
da quelli passivi perché al drenaggio viene applicata una
pressione negativa, che determina la rimozione attiva dei
fluidi della ferita. In commercio si trovano molti sistemi di
questo tipo. Nella maggior parte dei casi, sono costituiti da
un drenaggio pieghevole, ma relativamente non collassabile,
con molteplici fenestrature. Il drenaggio viene distribuito
uniformemente attraverso la superficie della ferita, fatto passare a livello sottocutaneo, fino ad un punto situato distante
dalla lesione e fatto fuoriuscire attraverso una piccola incisione. Perché il drenaggio funzioni correttamente la ferita
operatoria deve essere chiusa in modo ermetico. L’estremità
libera del drenaggio viene raccordata ad un sistema di aspirazione. Ad esempio, vengono comunemente utilizzati aspiratori a bulbo, serbatoi a molla e siringhe.
Il drenaggio raccolto dai sistemi attivi è spesso minimo a
causa della apposizione attiva dei piani tissutali determinato
dal loro impiego. È importante rendersi conto, tuttavia, che
questi drenaggi non possono essere rimossi basandosi semplicemente sulla valutazione della produzione di fluidi. In
caso di loro rimozione prematura, le forze di taglio esercitate a livello dei piani tissutali esitano nuovamente nella formazione e nell’accumulo di fluidi all’interno della ferita. I
drenaggi attivi vanno mantenuti per 5-7 giorni.
IL RUOLO DEGLI ANTIBIOTICI SISTEMICI
NEL TRATTAMENTO DELLE FERITE
È meglio riservare l’uso degli antibiotici nei casi in cui è
stata accertata una significativa infezione invasiva della ferita. Questa situazione costituisce l’eccezione piuttosto che
la regola. Secondo l’esperienza dell’autore, l’infezione delle
ferite aperte è molto rara, tranne che nei casi in cui gli animali vengono portati alla visita a distanza di diversi giorni
dall’evento traumatico o quando il trattamento iniziale è stato inappropriato. Non si sottolineerà mai abbastanza che gli
antibiotici non sostituiscono l’appropriata esecuzione delle
tecniche di revisione chirurgica e lavaggio. Gran parte delle
ferite aperte, se trattate correttamente con queste metodiche,
guarisce senza complicazione. Se si sviluppa un’infezione,
la terapia antibiotica sistemica andrà basata sui risultati degli esami colturali e degli antibiogrammi allestiti a partire
dai tessuti infetti.
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Trattamento chirurgico delle cardiopatie congenite
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
CONSIDERAZIONI GENERALI
Nella maggior parte dei casi, le cardiopatie congenite
vengono diagnosticate in pazienti asintomatici, di solito al
momento della prima visita veterinaria, sulla base del riscontro di un soffio auscultabile. Negli animali che non hanno ancora raggiunto la maturità, non è raro rilevare soffi innocenti, che però possono generalmente essere differenziati
da quelli associati ad una cardiopatia congenita. I soffi innocenti sono di solito lievi (di grado I o II) e variano tipicamente di intensità nel tempo. Quelli associati alle cardiopatie congenite sono in genere forti (di grado III o superiore) e
non variano significativamente di intensità nel tempo.
L’esame clinico, il segnalamento e l’anamnesi possono
fornire numerose indicazioni relative alle diagnosi differenziali più probabili. Diverse razze sono predisposte a specifiche anomalie cardiache. Un elenco parziale comprende:
Stenosi aortica: razze di grossa taglia, in particolare Golden retriever, pastore tedesco, Terranova, boxer e rottweiler
Dotto arterioso persistente: si può riscontrare in qualsiasi
razza. Il pastore tedesco presenta una predisposizione relativa. Le femmine sono colpite più comunemente dei maschi.
Stenosi polmonare: più comune nelle razze di piccola taglia. È predisposto il bulldog.
Tetralogia di Fallot: Keeshound.
La maggior parte degli animali con cardiopatie congenite
è asintomatica. I segni clinici, quando esistono, possono fornire indicazioni relative alle specifiche malformazioni. Un’anamnesi di sincope indotta dall’esercizio fisico o dall’eccitazione è frequentemente associata alla stenosi aortica. La cianosi è un riscontro tipico delle malformazioni che esitano in
shunt ematici destra-sinistra, come i difetti del setto interventricolare, il dotto arterioso pervio e la tetralogia di Fallot.
È necessaria un’accurata valutazione del soffio cardiaco.
I punti fondamentali da prendere in considerazione sono:
• Intensità. I soffi vengono classificati su una scala variabile
da 1 a 6. Quelli di grado 1 sono appena rilevabili con
un’accurata auscultazione; quelli di grado 6 si percepiscono anche con lo stetoscopio non appoggiato alla parete toracica. I soffi di grado 4 e superiore sono associati ad un
fremito palpabile.
• Punto di massima intensità. Corrisponde al punto della parete toracica in cui il soffio risulta più forte. In generale, si
distinguono soffi di destra e sinistra, della base o dell’api-
ce del cuore. Sono anche descritti soffi parasternali.
• Carattere o forma. Si tratta della forza del soffio durante il
ciclo cardiaco. I soffi che presentano uguale intensità vengono indicati come rigurgitanti o “a banda”. Quelli la cui
intensità inizialmente aumenta e poi diminuisce vengono
detti soffi di eiezione. I soffi possono anche essere descritti
come in crescendo, crescendo-decrescendo o decrescendo.
• Momento. Si tratta del momento in cui si verifica il soffio
durante il ciclo cardiaco. Si riconoscono soffi sistolici, diastolici o continui.
• Quadri di trasmissione. Denotano le posizioni secondarie
in cui il soffio risulta udibile con maggior forza (ad esempio, il soffio da stenosi aortica viene frequentemente trasmesso attraverso le arterie carotidi e vertebrali).
DIAGNOSI SPECIFICA
DELLE CARDIOPATIE CONGENITE
La diagnosi definitiva delle cardiopatie congenite richiede solo pochi test diagnostici. Lo scopo della formulazione
della diagnosi è in primo luogo quello di determinare l’anatomia del difetto e in secondo luogo quello di stabilirne la
gravità. Solo dopo aver acquisito queste informazioni il veterinario può arrivare ad esprimere un giudizio fondato sulla necessità di intervenire chirurgicamente o sulla specifica
tecnica operatoria da impiegare.
L’esame radiografico del torace è utile per valutare complessivamente i quadri di ingrossamento cardiaco, la trama
vascolare del polmone e la presenza o assenza di un’insufficienza cardiaca. Le radiografie del torace non sono particolarmente utili per determinare i quadri di ingrossamento delle specifiche camere cardiache, né per differenziare l’ipertrofia dalla dilatazione. L’aumento di dimensioni dei grossi
vasi è indicativo di lesioni stenotiche; quello del tronco polmonare è prevedibile in caso di stenosi polmonare e tetralogia di Fallot, mentre quello dell’aorta è compatibile con la
diagnosi di stenosi aortica.
L’elettrocardiografia non è particolarmente utile per
l’indagine diagnostica delle cardiopatie congenite. L’ECG
viene utilizzato principalmente per la diagnosi differenziale
dei disturbi del ritmo cardiaco, una caratteristica che non risulta tipicamente associata alle cardiopatie congenite. La
stenosi aortica può essere accompagnata da disturbi del ritmo ventricolare, specialmente in seguito a stress indotto dall’esercizio fisico. Con l’elettrocardiogramma è possibile de-
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terminare l’ingrossamento delle camere cardiache, ma da
questo punto di vista risultano molto più costanti e significativi i risultati dell’ecocardiografia.
L’esame ecocardiografico è considerato una necessità
per la moderna valutazione delle cardiopatie congenite. Fornisce specifiche informazioni relative ai quadri di ingrossamento delle camere cardiache e può essere utilizzato per visualizzare direttamente le strutture intracardiache e le aberrazioni anatomiche. Con questa tecnica è possibile identificare in modo specifico la stenosi della valvola polmonare,
quella subvalvolare aortica, i difetti del setto interventricolare e quelli del setto interatriale.
L’ecocardiografia Doppler semplice e a codice di colore
viene utilizzata per determinare la gravità di una cardiopatia
congenita. I diversi quadri del flusso ematico possono essere utilizzati per isolare le regioni di flusso turbolento associate alla formazione del soffio cardiaco. L’ecografia Doppler viene usata per determinare la velocità del flusso ematico in una specifica regione. Tale velocità è direttamente proporzionale alla gravità dell’affezione ostruttiva, come una
stenosi aortica e polmonare.
La cateterizzazione cardiaca viene oggi utilizzata meno
comunemente, dopo l’avvento delle tecniche Doppler. L’esame si effettua mediante cateterizzazione selettiva delle varie
camere e dei grossi vasi del cuore. È possibile rilevare in questo modo i dati relativi alle misurazioni pressorie ed all’ossimetria (concentrazione di ossigeno) da specifiche regioni
anatomiche, ottenendo informazioni quantitative relative alla
gravità di ogni singolo difetto. Effettuando l’iniezione selettiva di un mezzo di contrasto ed osservandone lo spostamento con le tecniche fluoroscopiche è possibile realizzare studi
con mezzo di contrasto positivo. L’angiocardiografia fornisce
informazioni anatomiche relative al difetto presente.
MOMENTO DELLA VALUTAZIONE
CARDIACA
Per stabilire il momento più appropriato per la diagnosi
delle cardiopatie è necessario prendere in considerazione diversi fattori. In molti dei pazienti colpiti il sospetto diagnostico viene formulato al momento della prima vaccinazione
(6-8 settimane di vita). In assenza di segni clinici, l’autore
suggerisce di solito al proprietario di tenere sotto osservazione l’animale, riservandosi di effettuare una nuova valutazione clinica al momento del richiamo. L’indagine diagnostica definitiva viene generalmente suggerita all’età di circa
4 mesi. Valutazioni più precoci sono indicate in presenza di
segni clinici quali intolleranza all’esercizio fisico o cianosi.
Un ulteriore ritardo della valutazione è associato ad un rischio di scompenso delle condizioni del paziente.
DIFETTI CARDIACI COMUNI
Dotto arterioso persistente
Il dotto arterioso è una struttura embriologica normale che
devia il sangue della circolazione fetale dal sistema vascolare
polmonare, ad alta pressione, in quello sistemico, a pressione
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relativamente più bassa. Dopo la nascita, la resistenza vascolare polmonare diminuisce notevolmente ed il dotto arterioso
va normalmente incontro ad una rapida chiusura. Se questa
non si verifica, si ha la pervietà del dotto arterioso.
Dal momento che il dotto mette in connessione l’arteria
polmonare e l’aorta, è prevedibile lo sviluppo di shunt ematici. Nei soggetti normali, le pressioni all’interno della circolazione arteriosa sistemica (pressione sistolica normale
approssimativamente pari a 120 mm Hg) superano notevolmente quelle del sistema arterioso polmonare (pressione sistolica normale approssimativamente pari a 25 mm Hg). Di
conseguenza, lo shunt determina il passaggio del sangue dall’aorta, ad alta pressione, nell’arteria polmonare, a bassa
pressione. Le differenze pressorie esistono per tutta la durata del ciclo cardiaco, ma sono maggiori durante la sistole
piuttosto che nella diastole. Di conseguenza, la condizione è
associata ad un soffio continuo in crescendo-decrescendo. In
questi animali, si osserva anche una rapida caduta della pressione diastolica sistemica, che si apprezza clinicamente sotto forma di un polso arterioso saltellante e “martellante”.
Lo shunt ematico sinistra-destra esita in un aumento del
flusso vascolare polmonare. Radiograficamente, questo si apprezza come un aumento della radiopacità della vascolarizzazione del polmone. L’incremento del flusso vascolare polmonare esita in un aumento del ritorno all’atrio e al ventricolo di sinistra. Di conseguenza, l’ingrossamento dell’atrio sinistro e la dilatazione del ventricolo sinistro sono caratteristiche costanti del dotto arterioso pervio sinistra-destra.
La maggior parte dei cani con dotto arterioso persistente
sviluppa un’insufficienza cardiaca sinistra in un certo momento della vita. La rapidità con cui ciò si verifica dipende
dalle dimensioni del dotto. In rari casi, si instaura un’ipertensione polmonare conseguente all’ipercircolazione polmonare cronica. Ciò porta alla formazione di pressioni sistemiche all’interno del sistema vascolare polmonare e ad un flusso “inverso” o direzionale attraverso lo shunt.
Il trattamento del dotto arterioso pervio sinistra-destra è
sempre indicato e consiste nell’obliterazione del dotto. Tradizionalmente, questa è stata eseguita chirurgicamente. Si
accede al dotto mediante una toracotomia praticata a livello
del quarto spazio intercostale sinistro. Si retrae caudalmente il lobo polmonare craniale e si determina la localizzazione del dotto osservando il punto in cui il nervo vago di sinistra decorre fra l’aorta e l’arteria polmonare. Questo punto corrisponde costantemente alla posizione del dotto. Servendosi di strumenti taglienti, si penetra nel mediastino in
posizione immediatamente craniale e caudale al dotto utilizzando delle forbici da dissezione fine. Si retrae dorsalmente o ventralmente il nervo vago di sinistra e si esegue la
dissezione del dotto con delle pinze vascolari ad angolo retto. Durante la dissezione del “lato opposto” del dotto è necessario stare attenti ad evitare di penetrare nel dotto stesso
o nell’arteria polmonare destra sottostante. Una volta completata la dissezione del dotto, si fa passare attorno alla
struttura così isolata un filo da sutura in materiale non assorbibile e si esegue una doppia legatura. Non si attua invece la resezione del dotto.
Più recentemente, è stata descritta l’obliterazione del
dotto mediante molle a spirale trombogene inserite nel dotto stesso tramite cateteri appositamente studiati a questo
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scopo. Questa procedura ha il vantaggio di essere meno
traumatica, ma richiede un’apparecchiatura fluoroscopica
di ottima qualità.
La complicazione più significativa, e potenzialmente letale, della legatura del dotto, è l’emorragia intraoperatoria.
Il sanguinamento avviene di solito secondariamente ad un
trauma diretto del dotto o dell’arteria polmonare. Come regola generale, il dotto, e quindi il rischio di emorragia, sono tanto maggiori quanto più l’animale è anziano. Le emorragie di lieve entità provenienti dall’arteria polmonare destra, a pressione relativamente bassa, spesso si arrestano
senza altre misure che una moderata compressione dell’area. Se l’emorragia può essere interrotta in questo modo, si
raccomanda di sospendere l’intervento chirurgico ed effettuare un successivo tentativo di legatura a distanza di diverse settimane. Le emorragie potenzialmente letali impongono invece un intervento immediato ed aggressivo. L’aorta viene chiusa trasversalmente utilizzando una pinza vascolare atraumatica, applicata in posizione immediatamente
prossimale e distale al dotto. Ciò garantisce il continuo apporto vascolare alle strutture situate cranialmente al cuore,
ma interrompe temporaneamente l’irrorazione di quelle distali. Dopo l’applicazione delle pinze, il dotto viene tagliato e chiuso con una sutura a sopraggitto, dopo di che si tolgono le pinze. L’occlusione dell’aorta può essere mantenuta senza rischi per 5-10 minuti.
La prognosi in caso di dotto arterioso pervio è eccellente, con un 95% di successi.
Stenosi polmonare
La stenosi polmonare è causata dallo sviluppo anormale
del cono arterioso del ventricolo destro. Ne sono state segnalate diverse forme, di tipo sopravalvolare, valvolare, sottovalvolare e infundibolare. Il difetto anatomico di gran lunga
più comune è la displasia valvolare polmonare che si manifesta sotto forma di ispessimento e fusione dei lembi valvolari. Questo restringimento dell’ostio valvolare esita in un aumento della resistenza al deflusso del ventricolo destro. Quest’ultimo deve quindi generare una pressione intraventricolare maggiore durante la sistole. In conseguenza dell’aumentato lavoro, si ha un’ipertrofia del ventricolo destro. La gravità
di questa modificazione è direttamente proporzionale a quella della stenosi. Man mano che si sviluppa l’ipertrofia, si può
avere un restringimento muscolare secondario del cono arterioso del ventricolo destro. Il soffio della stenosi polmonare
è di tipo sistolico, con il punto di massima intensità localizzato a livello della base del cuore di sinistra. L’elettrocardiogramma rivela una deviazione a destra dell’asse caratteristica dell’ingrossamento del ventricolo destro. L’esame radiografico del torace mostra un aumento di dimensioni del cuore destro e la comparsa di una prominenza dell’arteria polmonare a ore due in proiezione dorso ventrale.
Non tutti gli animali con stenosi polmonare devono essere trattati chirurgicamente. Il ventricolo destro può tollerare con molta efficacia un’ipertensione lieve o moderata. Le
lesioni stenotiche vengono in genere descritte secondo i gradienti del picco della pressione sistolica. Questo denota la
differenza fra il picco della pressione sistolica sopra e sotto
195
il punto della stenosi. Tanto maggiore è questa differenza,
tanto più grave è la lesione. Utilizzando l’ecografia Doppler,
i gradienti sistolici di picco vengono calcolati sulla base della determinazione della velocità del flusso sanguigno. L’intervento chirurgico non è consigliato negli animali con gradienti di pressione sistolica inferiori a 70 mm Hg. Quelli con
pressioni più elevate sono esposti al rischio di sviluppo di insufficienza cardiaca destra ed in genere traggono vantaggio
dal trattamento chirurgico. Per alleviare la stenosi polmonare è possibile utilizzare diverse tecniche. I lembi valvolari
displasici fusi possono essere dilatati utilizzando uno specifico catetere da valvuloplastica. Questi cateteri vengono introdotti fino al livello della valvola polmonare attraverso un
accesso venoso periferico. Una volta in posizione, si gonfia
il palloncino alla loro estremità, forzando la dilatazione dell’ostio valvolare. Si suggerisce l’impiego di un palloncino
che superi del 20% circa il diametro dell’anello valvolare. Si
effettua la misurazione dei valori pressori prima e dopo la
dilatazione. Quest’ultima risulta molto efficace per ridurre i
gradienti pressori, ma può non portare a risultati quantitativamente accettabili nei casi gravi. Dopo una dilatazione valvolare apparentemente efficace, la stenosi può recidivare. Di
conseguenza, si raccomanda un accurato follow-up.
È possibile eseguire una valvulotomia aperta mediante arterotomia polmonare in occlusione venosa temporanea. Si
accede al cono arterioso destro effettuando una toracotomia a
livello del quarto o quinto spazio intercostale di destra. Sull’arteria polmonare, in posizione immediatamente distale alla valvola polmonare, si applica una pinza da occlusione parziale (Satinsky). Intorno alla vena cava craniale e a quella
caudale si applicano dei lacci emostatici in nastro di garza.
L’arteria polmonare viene incisa con la pinza in posizione e,
alle due estremità della breccia arterotomica, si applicano
delle suture di fissazione. L’afflusso venoso al cuore viene
quindi interrotto serrando i lacci emostatici, la pinza da occlusione viene rimossa dall’arteria polmonare e si identifica
la valvola omonima. Le cuspidi valvolari fuse vengono incise fino a livello dell’anello fibroso, che viene poi dilatato fisicamente utilizzando un paio di pinze. Il ventricolo destro
viene riempito di soluzione fisiologica, la pinza da occlusione parziale viene nuovamente applicata sull’arteria polmonare ed i lacci emostatici vengono allentati. La maggior parte
dei pazienti tollera fino a 4 minuti di occlusione venosa temporanea. Occasionalmente, si verifica una fibrillazione che
richiede il massaggio cardiaco e la defibrillazione.
La valvuloplastica mediante catetere a palloncino e la
valvulotomia/dilatazione a torace aperto si limitano ad alleviare la stenosi valvolare polmonare. I pazienti con significative stenosi sottovalvolari o infundibolari possono richiedere una correzione più aggressiva mediante innesto a rattoppo. Questo viene applicato sulla superficie del cono arterioso del ventricolo destro, che si estende dall’infundibolo
all’arteria polmonare prossimale. La stenosi viene alleviata
incidendo il miocardio sottostante, l’anello valvolare e l’arteria polmonare prossimale. L’innesto a rattoppo va suturato
con una certa ridondanza, in modo da consentire alla parete
del cono arterioso di retrarsi dopo l’incisione. L’applicazione dell’innesto può essere effettuata in occlusione venosa
temporanea, oppure essere posizionata in modo più preciso
mediante by-pass cardiopolmonare.
196
Stenosi aortica
Anche la stenosi aortica può essere sopravalvolare, valvolare, sottovalvolare o infundibolare. La forma più tipica è
quella causata da un anello fibroso. Sono predisposti golden
retriever, rottweiler, pastore tedesco, Terranova e altre razze
di grossa taglia. La condizione determina un aumento del lavoro del ventricolo sinistro dovuto alla generazione di pressioni sistoliche superiori a quelle sistemiche all’interno del
ventricolo sinistro. Ne deriva un’ipertrofia ventricolare sinistra ed un incremento della tensione della parete miocardica,
con compromissione della perfusione del miocardio. Le aritmie ventricolari sono sequele comuni della stenosi aortica.
La condizione è associata ad un soffio sistolico udibile
più forte in corrispondenza della base del cuore di sinistra. Il
soffio si irradia tipicamente attraverso le arterie carotidi e
vertebrali che ne rendono possibile l’auscultazione a livello
della sommità della volta cranica. L’ECG può essere normale, rivelare disturbi intermittenti del ritmo ventricolare oppure mostrare segni di ingrossamento sinistro (aumento dell’ampiezza dei complessi QRS, alterazioni del segmento ST). L’esame radiografico del torace mostra un aumento di dimensioni del cuore sinistro e la procidenza del tratto prossimale dell’aorta fra ore 12 e ore 1 nelle immagini in proiezione dorsoventrale. Le pressioni del polso sono tipicamente
smorzate a causa del lento aumento della pressione sistolica.
La stenosi aortica varia considerevolmente di gravità.
Gradienti di pressione sistolica inferiori a 70 mm Hg sono
considerati subclinici. Valori superiori a 100 mm Hg sono
associati a un rischio significativo di morte prematura. I cani colpiti da grave stenosi aortica possono sviluppare un’insufficienza cardiaca sinistra progressiva, ma, più tipicamente, vanno incontro a morte improvvisa dovuta al rapido sviluppo di aritmie potenzialmente letali.
La correzione chirurgica della stenosi aortica sottovalvolare è difficile e controversa. L’intervento definitivo richiede
il by-pass cardiopolmonare. Si espone il cono arterioso del
ventricolo sinistro eseguendo una aortotomia trasversale in
posizione immediatamente distale alla valvola. L’anello fibroso sottovalvolare viene dissezionato dal miocardio sottostante. È necessario stare attenti ad evitare di danneggiare il
lembo aortico della valvola mitrale.
È stato dimostrato che il cane può essere sottoposto a bypass cardiopolmonare e correzione della stenosi aortica con
sopravvivenza prevedibile. Una recente analisi della sopravvivenza a lungo termine, tuttavia, suggerisce che il miglioramento chirurgico della condizione non ne migliora l’esito.
I cani operati sembrano presentare la stessa incidenza di
morte improvvisa di quelli non operati. Per stabilire se e
quale popolazione di cani colpiti possa trarre giovamento dal
trattamento chirurgico saranno necessari ulteriori studi.
DIFETTI DEL SETTO INTERVENTRICOLARE
Nella maggior parte dei casi, i difetti del setto interventricolare interessano la regione membranosa del setto stesso, localizzata immediatamente al di sotto della valvola aortica sul lato sinistro e sotto il lembo settale della tricuspide
su quello destro. Durante la sistole, per effetto del differen-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
ziale di pressione sistolica esistente fra il ventricolo sinistro
e quello destro si verifica uno shunt sinistra-destra. Non si
ha invece uno shunt significativo durante la diastole, quando le pressioni ventricolari si equivalgono. Lo shunt sinistra-destra attraverso il difetto del setto interventricolare
esita in ipercircolazione polmonare e aumento del ritorno al
cuore sinistro, come descritto per il dotto arterioso persistente sinistra-destra. Il soffio del difetto del setto interventricolare è tipicamente un soffio sistolico a banda, auscultabile con maggiore forza a livello della regione parasternale
destra. L’ECG è generalmente normale. L’esame radiografico del torace rivela vari gradi di cardiomegalia ed ipercircolazione polmonare.
La maggior parte dei difetti del setto interventricolare del
cane è di natura restrittiva; le dimensioni del difetto vengono limitate durante la contrazione sistolica, per cui riducono
la quantità di sangue che passa attraverso la lesione. Gli
shunt di grandi dimensioni sono associati ad un sovraccarico progressivo del ventricolo sinistro e ad un’insufficienza
sinistra e necessitano di intervento chirurgico. La correzione
primaria viene eseguita applicando un rattoppo in materiale
sintetico sotto by-pass cardiopolmonare. Si raccomanda di
incidere l’atrio destro, esponendo il difetto del setto interventricolare attraverso l’anello della tricuspide. È possibile
ottenere un sollievo sintomatico utilizzando una banda dell’arteria polmonare. Intorno a quest’ultima, in posizione immediatamente distale alla valvola polmonare, si applica del
nastro di garza, che viene serrato per ridurre il diametro del
vaso del 25% circa. Ciò induce una stenosi polmonare sopravalvolare, aumenta la pressione sistolica ventricolare destra e, quindi, diminuisce la gravità dello shunt sinistra-destra. È necessario stare attenti a non determinare una stenosi polmonare troppo grave, che potrebbe causare un’insufficienza cardiaca destra acuta.
Per determinare l’entità della stenosi indotta chirurgicamente è indicata una valutazione postoperatoria mediante
ecografia Doppler.
TETRALOGIA DI FALLOT
La tetralogia di Fallot è un’anomalia complessa costituita da difetto del setto interventricolare, stenosi polmonare,
destroposizione dell’aorta ed ipertrofia del ventricolo destro.
Gli animali colpiti presentano di solito un’anamnesi di cianosi, causata dallo shunt destra-sinistra attraverso il difetto
del setto interventricolare. Tuttavia, si può anche avere uno
shunt sinistra-destra, a seconda dell’entità della stenosi polmonare associata. Gli animali con stenosi polmonare meno
grave e shunt sinistra-destra vengono definiti “con tetralogia
rosa” (cioè non cianotica).
Il soffio associato alla tetralogia di Fallot è quello della
stenosi polmonare. L’ECG evidenza costantemente una deviazione a destra dell’asse cardiaco. L’esame radiografico
del torace rivela un marcato ingrossamento del ventricolo
destro e la procidenza dell’arteria polmonare nelle immagini in proiezione dorsoventrale. I campi polmonari appaiono
normali o lievemente ipoperfusi.
La correzione della tetralogia di Fallot è controversa. Per
l’intervento primario è necessario chiudere il difetto del set-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
to interventricolare ed alleviare la stenosi polmonare con bypass cardiopolmonare. La correzione primaria della tetralogia di Fallot è stata descritta solo in pochi casi. È possibile
alleviare i segni clinici della cianosi realizzando chirurgicamente uno shunt sinistra-destra. La tecnica più comune a
questo scopo è quella di Blalock-Taussig. L’arteria succlavia
sinistra viene sezionata distalmente, ripiegata su se stessa ed
197
unita con un’anastomosi termino-laterale all’arteria polmonare. Ciò porta alla realizzazione di uno shunt sinistra-destra
“a valle” dello shunt destra-sinistra del difetto del setto interventricolare. L’ossigenazione viene quindi migliorata, anche se questo intervento non può in alcun modo alleviare il
significativo stress del ventricolo destro causato dalla stenosi polmonare.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
199
Approccio diagnostico e terapeutico al chilotorace
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
INTRODUZIONE
Si definisce chilotorace un abnorme accumulo di chilo
all’interno della cavità pleurica. Questa raccolta interferisce
progressivamente con l’espansione polmonare e, infine, determina la comparsa di segni clinici riferibili ad un’insufficienza di ventilazione. Il chilotorace è stato associato a molteplici eziologie, quali neoplasie toraciche, traumi, interventi chirurgici, insufficienza cardiaca (nel gatto) e malformazioni linfatiche congenite. La forma più comune, tuttavia, è
quella idiopatica.
Indipendentemente dall’eziologia, è raro che si formi un
versamento chiloso significativo per una fuoriuscita diretta
da una lesione del dotto toracico. Piuttosto, il meccanismo
primario di questa condizione è l’aumento patologico della
pressione all’interno del dotto toracico linfatico e la filtrazione transparietale del chilo.
SEGNI CLINICI
I segni clinici sono riferibili ad un’insufficienza respiratoria. Di norma gli animali presentano un’anamnesi di intolleranza all’esercizio fisico, tachipnea, tachicardia e cianosi
da stress. La tosse è un dato anamnestico significativo in
molti cani con chilotorace. Le razze predisposte sono il levriero afgano, il bullmastiff, il whippet ed il bassotto.
All’osservazione dell’animale si rileva un marcato sforzo intercostale. La percussione della parete toracica evidenzia un suono ottuso, compatibile con la presenza di un liquido pleurico. I suoni polmonari ed i toni cardiaci risultano diminuiti, specialmente all’auscultazione della parte ventrale
del torace. Spesso è presente una perdita di peso dovuta ad
una diminuzione dell’appetito e ad un calo dell’assorbimento dei principi nutritivi liposolubili.
DIAGNOSI
Le affezioni dello spazio pleurico sono caratterizzate
dallo sviluppo di una massa occupante spazio dovuta all’accumulo di aria o liquidi che comprimono i polmoni. I segni
clinici sono in genere riferibili ad un’insufficienza respiratoria. Gli animali con affezioni pleuriche significative presentano tachipnea, dispnea ed intolleranza all’esercizio. Esiste
un caratteristico prolungamento della fase inspiratoria asso-
ciato ad una fase espiratoria breve e senza sforzo. Durante
l’inspirazione si può rilevare un marcato sforzo intercostale
ed addominale. Suoni polmonari e toni cardiaci risultano in
genere attutiti all’auscultazione.
Le tecniche diagnostiche da utilizzare in caso di sospetta
affezione pleurica sono l’esame radiografico del torace, l’ecografia e la toracentesi. Per caratterizzare ulteriormente le
forme neoplastiche, possono poi risultare particolarmente
utili le tecniche di diagnostica per immagini più avanzate, come la tomografia computerizzata o la risonanza magnetica.
Gli animali che presentano una grave dispnea devono essere stabilizzati prima di venire sottoposti a qualsiasi test
diagnostico stressante. Attenzione: questa indicazione riveste un’importanza particolarmente critica nei gatti
con grave dispnea - è molto probabile che il tentativo di
effettuare un esame radiografico del torace in questi animali esiti in un arresto cardiaco. Il sospetto diagnostico di
affezione pleurica si basa sul riscontro di segni clinici tipici.
I pazienti in condizioni compromesse devono essere immediatamente sottoposti all’ossigenoterapia. Di solito, l’autore
tenta di somministrare ossigeno mediante una maschera facciale, ma senza forzare in alcun modo gli animali che si dibattono, dal momento che in questi casi è più il danno che il
vantaggio. Si deve effettuare immediatamente la toracentesi.
Allo scopo, si tosa e disinfetta una piccola area vicino al 6°7° spazio intercostale. Si inietta a livello sottocutaneo e nella muscolatura intercostale una piccola quantità di lidocaina.
La toracentesi viene effettuata utilizzando un catetere a farfalla (18-20 G), un catetere ad ago interno, o una cannula da
capezzolo a punta smussa raccordati ad una valvola a tre vie
e ad un deflussore endovenoso. La cavità pleurica viene
completamente svuotata dai liquidi e/o dall’aria. Campioni
del materiale prelevato vengono destinati agli esami citologici e colturali ed all’antibiogramma. Altri campioni vengono conservati per le analisi biochimiche, in funzione dei riscontri diagnostici iniziali. La risposta allo svuotamento
pleurico è di solito immediata ed impressionante. Una volta
stabilizzate le condizioni dell’animale, è possibile effettuare
senza rischio altre indagini diagnostiche, monitorando il
soggetto per rilevare la ricomparsa dei segni clinici.
Radiografia toracica
L’esame radiografico del torace è utile per 1) stabilire
l’esistenza di un’affezione pleurica, 2) differenziare la pre-
200
senza all’interno del cavo pleurico di fluidi, aria e organi interni, 3) valutare mediastino, pleura e polmoni per identificare eventuali masse o altre lesioni patologiche. Se al momento dell’esame radiografico iniziale è presente una gran
quantità di fluidi, si consiglia di ripetere l’indagine dopo la
loro rimozione.
Caratterizzazione dei versamenti pleurici
I versamenti pleurici possono essere classificati, sulla base di criteri citologici, come trasudati e trasudati modificati,
essudati settici e non settici, chilo, emorragie e versamenti
neoplastici.
Trasudati puri e modificati
I trasudati sono fluidi contenenti un basso numero di cellule (meno di 1000/µl) e di proteine (meno di 30 g/l). I trasudati modificati sono più comuni di quelli puri e risultano
caratterizzati da concentrazioni proteiche e cellulari leggermente superiori.
I trasudati possono essere dovuti a condizioni che esitano in un aumento della pressione idrostatica (insufficienza
cardiaca destra, pericardiopatie), diminuzione della pressione oncotica del plasma (ipoalbuminemia) o ostruzione linfatica (neoplasie, ernia diaframmatica).
38° Congresso Nazionale SCIVAC
li del chilotorace, predominano i piccoli linfociti. Man mano
che il versamento diventa più cronico, compare un numero
maggiore di neutrofili, che divengono il tipo cellulare predominante nel chilotorace di vecchia data.
Per facilitare la diagnosi del chilotorace è possibile utilizzare la colorazione lipotrofica con Sudan III. Si mescola
una goccia di colorante ad una goccia di fluido, si copre il
tutto con un vetrino coprioggetto e si esamina al microscopio. La presenza di numerosi chilomicroni, che si colorano
positivamente, suggerisce una diagnosi di versamento chiloso. Una conferma più accurata si può ottenere dalla determinazione dei livelli di colesterolo e trigliceridi nel liquido di
versamento e nel siero.
In caso di versamento chiloso, le concentrazioni dei trigliceridi risultano più elevate che nel siero. Il riscontro di un
rapporto colesterolo:trigliceridi inferiore a 1 è diagnostico di
versamento chiloso.
Versamenti emorragici
I versamenti emorragici, ovviamente, hanno l’aspetto
macroscopico del sangue. Possono essere secondari a traumi, neoplasie, coagulopatie o torsione di un lobo polmonare. Il contenuto proteico è superiore a 30 g/l e quello cellulare è simile a quello del sangue periferico. L’eritrofagocitosi è indicativa di una raccolta emorragica preesistente.
Versamenti neoplastici
Essudati settici ed asettici
Gli essudati sono versamenti con un elevato contenuto
cellulare (generalmente superiore a 5000/µl) e proteico
(superiore a 30 g/l). Le possibili diagnosi differenziali in
presenza di essudati non settici sono rappresentate da peritonite infettiva felina, neoplasia, piotorace in via di risoluzione, ernia diaframmatica cronica e neoplasie. I versamenti settici sono caratterizzati dalla presenza di neutrofili
degenerati come tipo cellulare predominante. L’esame citologico della maggior parte dei campioni permette di rilevare la presenza di microrganismi. Nel cane, i versamenti
settici sono causati nella maggior parte dei casi da microrganismi filamentosi (Nocardia, Actynomices), suggerendo
un’origine da corpo estraneo. Nel gatto il piotorace è in genere causato da ferite penetranti da morso conseguenti a
zuffe con altri animali della stessa specie. Il microrganismo
più comunemente riscontrato nei casi di piotorace felino è
Pasteurella.
Versamenti chilosi
Il classico aspetto di un versamento chiloso è bianco lattiginoso. Tuttavia, queste raccolte possono essere relativamente limpide oppure presentare una colorazione rosata o
rossastra. Il contenuto di proteine e cellule in questi casi può
variare. I livelli proteici sono solitamente superiori a 25 g/l;
il conteggio cellulare può essere di appena 400 cellule/µl,
ma può anche arrivare a 10.000 cellule/µl. Nelle fasi inizia-
Come risulta evidente dalla descrizione di altri tipi di
versamento, le neoplasie possono esitare nella comparsa di
qualsiasi tipo di liquido pleurico. In tutti i casi di versamento pleurico, per escludere la presenza di una forma tumorale, è indicato un approfondito esame radiografico, ecografico, citologico e bioptico.
TRATTAMENTO DI EMERGENZA
DEL CHILOTORACE
Gli animali colpiti spesso vengono portati alla visita in
condizioni di insufficienza respiratoria acuta. Il trattamento di emergenza è volto a 1) stabilire una ventilazione efficace, 2) correggere gli squilibri idrici ed elettrolitici e 3)
garantire un adeguato apporto nutrizionale. È necessario
effettuare il più rapidamente possibile l’evacuazione dello
spazio pleurico mediante toracentesi e la concomitante
somministrazione di ossigeno tramite maschera o sonda rinofaringea. Gli animali sono spesso disidratati e possono
presentare dei disturbi elettrolitici primari. La disidratazione viene corretta mediante infusione endovenosa di soluzioni elettrolitiche bilanciate. Sulla base di una determinazione degli elettroliti sierici, è possibile effettuare fluidoterapie più specifiche. Infine, agli animali viene offerta una
dieta di elevata qualità e relativamente povera di grassi.
Nei pazienti anoressici si deve prendere in considerazione
il ricorso all’alimentazione forzata mediante gastrostomia
o esofagostomia.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
TRATTAMENTO MEDICO
DEL CHILOTORACE
Se si riesce ad individuare la causa primaria (ad esempio,
una miocardiopatia ipertrofica nel gatto), si può affrontare il
problema con una specifica terapia medica. Nella maggior
parte dei casi, come già ricordato, il chilotorace è di natura
idiopatica e presumibilmente secondario ad anomalie delle
giunzioni linfaticovenose ed allo sviluppo di linfangectasia.
La terapia medica del chilotorace idiopatico prevede 1) il
drenaggio intermittente dello spazio pleurico, 2) l’attuazione
di un supporto nutrizionale e 3) la frequente rivalutazione
delle condizioni dell’animale.
Il versamento chiloso può essere drenato mediante toracentesi intermittente oppure ricorrendo ad un sistema di evacuazione continuo attraverso una sonda da toracostomia permanente. La prima soluzione è più comoda sia per il veterinario che per il proprietario, mentre la seconda garantisce un
drenaggio migliore e permette una valutazione più accurata
dell’effettiva produzione di fluidi. Il supporto nutrizionale
consiste nell’offrire all’animale una dieta di elevata qualità
con un contenuto di grassi relativamente basso. È indicata
un’integrazione con vitamine liposolubili. Almeno una volta
alla settimana è necessario effettuare la determinazione dei
livelli sierici di proteine ed elettroliti, dal momento che si riscontra comunemente una loro deplezione dovuta alle perdite associate alla rimozione del versamento chiloso.
TRATTAMENTO CHIRURGICO
DEL CHILOTORACE
L’intervento chirurgico è indicato in caso di malnutrizione proteico-calorica preesistente o in caso di insuccesso della terapia medica dopo 2 settimane. La maggior parte dei cani con versamento chiloso idiopatico necessita di intervento
chirurgico. Lo scopo di quest’ultimo è quello di obliterare
completamente tutte le branche del dotto toracico che si
estendono attraverso il diaframma. Il successo dell’operazione dipende dalla ridirezione del flusso linfatico verso i
canali collaterali ed in destinazioni venose alternative.
Prima di effettuare la legatura del dotto toracico è indicata la linfangiografia mesenterica. I vasi linfatici addominali vengono evidenziati offrendo all’animale olio di mais
(2 ml/kg) a intervalli di un’ora per diverse ore prima dell’induzione dell’anestesia. Si esegue una laparotomia paracostale destra e si incannula un vaso linfatico mesenterico
utilizzando un catetere da 20 o 22 G ad ago interno. Si effettua quindi un esame radiografico con mezzo di contrasto
positivo iniettando 5-10 ml di un composto iodato acquoso.
L’ideale è effettuare questa operazione in sala operatoria
201
mediante fluoroscopia, ma si può anche eseguire in sala radiologia dopo aver temporaneamente chiuso la breccia nella parete addominale.
Dopo aver determinato le specifiche caratteristiche anatomiche del dotto toracico (o dei dotti toracici), si accede a
queste strutture utilizzando una via di approccio transdiaframmatico passando attraverso l’incisione paracostale destra oppure servendosi di una toracotomia a livello del 9°10° spazio intercostale di destra. Le branche del dotto toracico vengono identificate, isolate e sottoposte ad una doppia
legatura con materiale da sutura non assorbibile. L’iniezione
di 2-3 ml di blu di metilene diluito attraverso la cannula linfatica facilita l’identificazione del dotto toracico. Una volta
terminata la legatura, per dimostrare l’occlusione di tutte le
branche, si ripete la linfangiografia a contrasto positivo. Se
una branca secondaria rimane pervia, si deve accedere nuovamente all’area, identificarla e legarla.
Nel periodo postoperatorio si effettua un drenaggio toracico fino a che il versamento pleurico diminuisce tanto da
diventare stazionario (idealmente, meno di 5 ml/kg/die). Ciò
richiede generalmente diversi giorni. Il supporto nutrizionale prosegue come già ricordato.
SHUNT PLEUROPERITONEALI
E PLEUROVENOSI
Il versamento chiloso ricorrente può essere trattato mediante applicazione di un catetere speciale per facilitare la rimozione dei fluidi dallo spazio pleurico e trasportarli nello
spazio peritoneale o direttamente in una vena centrale. Fra
questi due approcci nel cane è stato meglio descritto lo shunt
pleuroperitoneale. I risultati di questo tipo di drenaggio nella specie canina sono incostanti, mentre sono abitualmente
sfavorevoli nel gatto.
PROGNOSI
La prognosi associata al chilotorace dipende dal segnalamento del paziente e dall’eziologia primaria. Quella del chilotorace traumatico è favorevole, perché in genere la condizione si risolve con una terapia medica conservativa. Il chilotorace secondario a neoplasia o miocardiopatia risponde al
trattamento efficace della malattia primaria. Solo raramente
si riesce ad ottenere la risoluzione del chilotorace idiopatico
con la terapia conservativa. L’80% circa dei cani risponde
favorevolmente alla chirurgia, con l’eccezione dei levrieri
afgani, in cui la risposta è inferiore al 50%. Complessivamente, il successo della risoluzione è stato segnalato nel
50% circa dei gatti.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
203
Tecniche di chirurgia polmonare.
Indicazioni, precauzioni, limiti ed accorgimenti
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
APPROCCI CHIRURGICI AL TORACE
L’invasione chirurgica della cavità toracica differisce da
quella dell’addome, dal momento che le strutture toraciche
tendono ad essere fisse in posizione in maggior misura e la
parete toracica è meno flessibile di quella addominale. Di
conseguenza, le incisioni devono essere pianificate tenendo
ben presente la specifica procedura chirurgica che si intende
eseguire. Sono state descritte e sono tuttora in uso molte vie
di accesso al torace. Nel presente lavoro verranno illustrati i
più comuni fra questi approcci – quelli utilizzati per la lobectomia polmonare, gli interventi di cardiochirurgia di base, l’esposizione della trachea e dell’esofago toracici, l’esplorazione pleurica e la legatura del dotto toracico.
ANATOMIA TORACICA INTERNA
PERTINENTE
Mediastino craniale
Le strutture importanti da tenere presenti dal punto di vista chirurgico nel mediastino craniale sono rappresentate da
esofago toracico craniale, trachea toracica, vena cava craniale, arterie brachicefalica e succlavia di sinistra e timo. Il
mediastino craniale si estende, approssimativamente, dal livello dell’ingresso del torace fino al 4° spazio intercostale.
Le strutture collocate sul lato destro vengono in genere raggiunte attraverso una toracotomia intercostale destra; per
quelle di sinistra si effettua una toracotomia intercostale sinistra. Alle strutture sternali è possibile accedere sia attraverso una delle due toracotomie intercostali che mediante
una sternotomia craniale.
Le strutture localizzate a sinistra comprendono l’arteria
brachicefalica, l’arteria succlavia sinistra e il timo. Quelle
che vengono più facilmente raggiunte attraverso il lato destro sono la vena cava craniale e la trachea toracica. All’esofago toracico craniale si può accedere attraverso una toracotomia intercostale sinistra o destra.
no il dotto arterioso e l’arteria polmonare e il cono arterioso
del ventricolo destro. Anche le anomalie dell’anello vascolare vengono in genere più facilmente apprezzate e corrette
da sinistra. La toracotomia intercostale destra viene utilizzata per accedere all’orecchietta destra e all’atrio destro.
Polmoni
Il tipo di approccio ai polmoni dipende dalla regione interessata. L’ilo è localizzato approssimativamente fra il 5° ed
il 6° spazio intercostale. Di conseguenza, la lobectomia
completa viene in genere effettuata attraverso una toracotomia a livello del 5° o 6° spazio intercostale, di sinistra o destra, a seconda dello specifico lobo da rimuovere. L’incisione per una lobectomia parziale deve essere pianificata in
modo che si venga a trovare quanto più possibile sulla regione da asportare. La lobectomia craniale parziale può essere eseguita attraverso una toracotomia del 3° o 4° spazio
intercostale, mentre la lobectomia caudale parziale può richiedere una toracotomia del 7° o 8° spazio intercostale.
Il polmone sinistro del cane è suddiviso in lobi craniale,
medio e caudale. Ognuno di essi è ragionevolmente isolato
e può essere facilmente isolato indipendentemente dagli altri fino a livello dell’ilo. La lobectomia richiede l’identificazione e la legatura dell’arteria polmonare, seguita da
quella della vena polmonare e del bronco. L’arteria è situata in posizione abbastanza prossimale al relativo bronco
mentre la vena si trova in posizione relativamente caudale
rispetto allo stesso.
Il polmone destro è più complesso. Il lobo craniale destro
è suddiviso in una parte craniale ed una parte caudale e quest’ultima corrisponde al lobo polmonare medio di sinistra. Il
lobo polmonare caudale destro è ragionevolmente isolato.
Sulla destra prende origine il lobo polmonare accessorio, situato fra il cuore ed il diaframma. Questo lobo circonda la
vena cava caudale, situata a destra della linea mediana.
Mediastino caudale
Cuore
Lo specifico approccio al cuore varia in funzione della
tecnica chirurgica da eseguire. Le strutture cardiache raggiungibili attraverso una toracotomia intercostale sinistra so-
Le strutture importanti all’interno del mediastino caudale sono il tratto toracico caudale dell’esofago ed il dotto toracico. Entrambe queste strutture vengono esposte mediante
una toracotomia a livello del 9° spazio intercostale destro nel
cane. Le branche dorsale e ventrale del nervo vago sono si-
204
tuate molto vicino all’esofago e devono essere identificate e
conservate. Il dotto toracico ed il tratto distale dell’esofago
possono essere raggiunti anche per via transdiaframmatica.
Nel gatto, a differenza di quanto avviene nel cane, il dotto
toracico è situato a sinistra dell’aorta. Per la legatura di questa struttura nei felini, si preferisce utilizzare un approccio
transdiaframmatico oppure ricorrere ad una toracotomia a livello del 9° spazio intercostale sinistro.
Toracotomia a livello del 3° o 4°
spazio intercostale sinistro
Indicazioni. Questa via di accesso viene utilizzata per la
timectomia, l’esofagotomia toracica craniale e l’esposizione
della base del cuore di sinistra (dotto arterioso, cono arterioso polmonare).
Caratteristiche anatomiche dell’approccio. Si incide la
cute a livello del 3°- 4° spazio intercostale. La posizione
dello spazio intercostale può essere determinata mediante
palpazione prima di effettuare l’incisione. In alternativa, la
cute può essere scontinuata a livello dell’angolo caudale
della scapola, che è costantemente localizzato in prossimità
del 4° spazio intercostale. L’incisione viene estesa attraverso il sottocute ed il muscolo cutaneo del tronco, esponendo
il latissimus dorsi. Il margine ventrale di quest’ultimo viene reciso e poi, procedendo mediante dissezione per via
smussa, scollato e retratto dorsalmente. Non è necessario
incidere il latissimus dorsi. Le fibre del muscolo serrato
ventrale vengono suddivise longitudinalmente, mentre il
muscolo scaleno viene tagliato trasversalmente. Si penetra
nello spazio pleurico mediante dissezione per via smussa,
spingendo un paio di forbici attraverso i muscoli intercostali e la pleura durante l’espirazione. L’incisione intercostale viene estesa con le forbici lungo il margine craniale
della costola più caudale. L’incisione viene eseguita a questo livello per assicurare l’integrità dell’arteria, della vena
e del nervo intercostali, che sono situati in posizione adiacente al margine caudale della costola più craniale. Le costole vengono quindi separate utilizzando un divaricatore
toracico autostatico. È necessario stare attenti a proteggere
il nervo vago e frenico di sinistra durante i successivi interventi chirurgici.
Per esporre il tratto toracico craniale dell’esofago, la
pleura viene incisa dorsalmente all’arteria succlavia sinistra.
Quest’ultima viene scostata ventralmente, esponendo l’esofago. La timectomia si esegue incidendo prima la pleura
ventralmente al nervo frenico.
I tumori del timo coinvolgono tipicamente in varia misura la vascolarizzazione regionale. In genere, è richiesta la legatura e successiva resezione dell’arteria e della vena toraciche interne.
L’esposizione della base del cuore viene facilitata spostando prima in direzione caudale il lobo polmonare craniale. Il dotto arterioso è costantemente localizzato nel punto in
cui il nervo vago decorre fra l’aorta e l’arteria polmonare. La
pleura viene incisa a questo livello ed il vago viene scostato
dorsalmente o ventralmente. Per esporre il cono arterioso del
ventricolo destro e la valvola polmonare è necessario incidere il pericardio.
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Toracotomia a livello del 3°-4°
spazio intercostale destro
Indicazioni. Questo tipo di approccio viene utilizzato per
esporre il tratto toracico craniale dell’esofago o per l’applicazione di protesi extraluminali per il trattamento del collasso tracheale intratoracico.
Anatomia dell’approccio. I dettagli relativi alle fasi iniziali della realizzazione di una via di accesso attraverso la
parete toracica sono identici a quelli descritti per la toracotomia a livello del 3° spazio intercostale di sinistra. Una volta penetrati nella cavità toracica e dopo avere spostato caudalmente il lobo polmonare craniale, si identificano facilmente la vena cava craniale, la vena azigos, il tronco vasosimpatico ed i nervi frenici. L’incisione della pleura dorsalmente al nervo vago e la successiva retrazione ventrale di
quest’ultimo consentono di esporre l’esofago e la trachea.
La vena costocervicale può essere legata e recisa per facilitare la dissezione craniale; allo stesso modo è possibile tagliare la vena azigos, per facilitare la dissezione caudale fino a livello della biforcazione della trachea.
Toracotomia a livello del 5° o 6°
spazio intercostale di sinistra o destra
Indicazioni. Questo tipo di approccio viene utilizzato
principalmente per la lobectomia polmonare.
Anatomia dell’approccio. Si incidono a livello del 5° o
6° spazio intercostale la cute, il sottocute ed il muscolo cutaneo del tronco. Le inserzioni fasciali lungo il margine ventrale del muscolo latissimus dorsi vengono tagliate, dopo di
che il muscolo viene scollato e scostato dorsalmente. Le fibre del muscolo serrato ventrale vengono incise longitudinalmente nel punto in cui sono situate al di sopra dello spazio intercostale dorsalmente. Quelle del muscolo obliquo
esterno dell’addome vengono incise in modo simile lungo la
parte più ventrolaterale del torace. La penetrazione attraverso i muscoli intercostali viene eseguita nel modo precedentemente descritto.
Il lobo polmonare da asportare viene identificato e delicatamente estratto dal torace. Le inserzioni pleuriche lasse
vengono incise fino a livello dell’ilo. L’arteria e la vena vengono identificate singolarmente, legate e recise. Sull’arteria
si deve applicare una doppia legatura, con quella più distale
eseguita facendo passare il filo attraverso la parete arteriosa.
Il bronco viene legato e reciso nei cani di piccola taglia e nel
gatto, oppure reciso e chiuso con una sutura a sopraggitto nei
cani di media e grossa taglia. In alternativa, è possibile utilizzare un sistema automatico di chiusura mediante graffette
metalliche per occludere e recidere l’ilo.
Toracotomia a livello del 9°
spazio intercostale di destra o di sinistra
Indicazioni. La toracotomia a livello del 9° spazio intercostale destro viene utilizzata per accedere alla vena cava caudale, al tratto distale dell’esofago ed al dotto toracico del cane. Lo stesso tipo di approccio sul lato sinistro
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può essere utilizzato per l’esposizione del dotto toracico
del gatto.
Anatomia dell’approccio. Cute, sottocute e muscoli cutanei vengono incisi nel modo già descritto. Le fibre del
muscolo obliquo esterno dell’addome vengono incise longitudinalmente dove decorrono al di sopra dello spazio intercostale. La penetrazione attraverso i muscoli intercostali
viene effettuata con la tecnica di routine. Dopo aver scostato le costole, si sposta cranialmente il lobo polmonare caudale, avvolgendolo con tamponi da laparotomia inumiditi.
Per effettuare uno spostamento adeguato può essere necessario incidere le inserzioni pleuriche sul lobo polmonare
caudale. Il tratto distale dell’esofago viene facilmente identificato dopo la retrazione del lobo polmonare. Le branche
dorsale e ventrale del nervo vago vengono individuate e
protette. Dorsalmente e a destra dell’aorta toracica distale è
possibile osservare la vena azigos. Il dotto toracico è situato molto vicino e a destra dell’aorta del cane e risulta difficile da visualizzare, a meno che non venga evidenziato facendo assumere all’animale un pasto ricco di lipidi prima
dell’intervento oppure mediante iniezione di un colorante
nelle vie linfatiche.
Sternotomia
Indicazioni. La sternotomia viene utilizzata nei casi in
cui è necessaria l’esplorazione bilaterale dello spazio
pleurico (ad esempio, nell’eventualità di un piotorace),
per la pericardiectomia subtotale e per certi interventi di
cardiochirurgia.
Anatomia dell’approccio. La sternotomia si esegue con
l’animale in decubito dorsale. L’incisione della cute si
estende da un punto situato appena caudalmente all’ingresso del torace fino alla cartilagine xifoide. I muscoli pettorali vengono sollevati dalla linea mediale, esponendo le
sternebre sottostanti. Nel corso dell’incisione e del sollevamento delle strutture muscolari si possono verificare diversi sanguinamenti moderati, che possono essere trattati
facilmente soprattutto utilizzando un elettrocauterio monopolare. Le sternebre vengono incise longitudinalmente utilizzando una sega oscillante o un osteotomo, facendo attenzione a non penetrare troppo profondamente. Per la sternotomia craniale, si devono lasciare integre una o due sternebre caudali, per facilitare la stabilità postoperatoria; nel
caso della sternotomia caudale, si devono preservare una o
due sternebre craniali.
La sternotomia consente un buon accesso al pericardio
ed alla parte ventrale del mediastino. Durante l’esecuzione della pericardiectomia subtotale, bisogna identificare e
preservare i nervi frenici nel punto in cui attraversano il
pericardio. L’accesso per la lobectomia polmonare è limitato a causa della posizione relativamente dorsale dell’ilo
del polmone.
La breccia viene chiusa con un cerchiaggio in filo d’acciaio da ortopedia. L’autore utilizza un unico filo da cerchiaggio (da 18 G per i cani di media e grossa taglia e da 20
G per quelli di piccola taglia e i gatti) per ognuna delle sternebre scontinuate. I restanti tessuti molli vengono chiusi secondo le procedure di routine.
205
TECNICHE CHIRURGICHE
La lobectomia polmonare totale è indicata più frequentemente, e risulta più facile da eseguire, di quella parziale. Il
lobo polmonare interessato viene raggiunto nel modo precedentemente descritto.
Le delicate inserzioni legamentose che circondano l’ilo
del polmone vengono esposte e recise effettuando una delicata retrazione del lobo e praticando un’incisione con strumenti taglienti. Si identificano le strutture vascolari associare all’ilo. Si effettua prima la dissezione e la doppia legatura dell’arteria bronchiale e poi quella della vena omonima.
Quindi, le strutture vascolari vengono recise. Nei cani di piccola taglia e nel gatto il bronco può essere chiuso con una
semplice legatura circolare o trapassante. Nei cani di grossa
taglia, prima della resezione si deve applicare sul bronco una
pinza. Il moncone esposto viene quindi chiuso con una sutura a sopraggitto semplice o continua o da materassaio. È anche possibile utilizzare i sistemi automatici di chiusura mediante graffette metalliche per occludere le strutture vascolari e il bronco.
La lobectomia parziale è indicata per la biopsia polmonare e per la rimozione di lesioni relativamente piccole e localizzate a livello periferico.
Le porzioni colpite del lobo polmonare vengono isolate
con un paio di pinze. Si esegue quindi una sutura continua
semplice o da materassaio sul parenchima polmonare nel
tratto prossimale alle pinze, dopo di che si recide la parte di
organo da rimuovere.
La complicazione più frequente dopo una lobectomia
parziale o totale è la perdita di aria. Prima di chiudere la parete toracica, si deve riempire lo spazio pleurico con soluzione fisiologica riscaldata. Quindi, si effettua una leggera
ventilazione a pressione positiva, verificando la tenuta delle
linee di sutura. Ogni eventuale perdita viene chiusa con semplici suture da materassaio.
Prima di chiudere la parete toracica, è indicato l’inserimento di una sonda da toracostomia. Dopo la chiusura,
lo spazio pleurico viene evacuato e successivamente rivalutato ad intervalli di un’ora. La sonda da toracostomia
può essere rimossa in assenza di accumulo di aria a livello pleurico a distanza di diverse ore dall’intervento. Se si
nota la comparsa di aria, la frequenza dell’evacuazione
pleurica viene modificata in relazione alle esigenze del
paziente. La sonda da toracostomia viene rimossa quando
le perdite cessano.
SPECIFICHE MALATTIE POLMONARI
Le ragioni più comuni che impongono la lobectomia polmonare completa o parziale sono rappresentate da neoplasie,
corpi estranei ed ascessualizzazioni, vescicole e bolle polmonari e torsione di un lobo polmonare.
Negli animali, le neoplasie polmonari primitive vengono
spesso diagnosticate incidentalmente al momento della ripresa di radiografie toraciche per altre ragioni, oppure vengono riscontrate in soggetti portati alla visita perché presentano tosse.
I cani ed i gatti con corpi estranei o ascessi polmonari
206
hanno in genere un’anamnesi di febbre, inappetenza e tosse
produttiva. Vescicole e bolle polmonari possono esitare in
uno pneumotorace spontaneo.
Gli animali colpiti presentano un’insufficienza respiratoria dovuta ad una pleuropatia. La torsione di un lobo polmo-
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nare è causa di occlusione del deflusso venoso del lobo colpito (solitamente, quello medio di destra), ipertensione venosa, emorragia per diapedesi ed epatizzazione di un lobo
polmonare. Gli animali colpiti presentano i segni clinici di
un versamento pleurico.
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207
Trattamento chirurgico delle patologie dell’esofago
David Fowler
DVM, MVSc, Dipl. ACVS - University of Saskatchewan, Department of Veterinary Anestesiology,
Radiology and Surgery Western College of Veterinary Medicine, Saskatoon - CANADA
INTRODUZIONE
Le condizioni patologiche dell’esofago sono principalmente limitate ai problemi ostruttivi ed al reflusso gastroesofageo cronico dovuto alle ernie iatali. I disturbi della motilità dell’organo vengono meglio trattati con la terapia medica, anche se sono stati effettuati sporadici tentativi per cercare di alleviarne i segni clinici mediante miotomia dello
sfintere esofageo caudale. È stata anche tentata con varie
tecniche la sostituzione completa o parziale dell’esofago,
che però di norma comporta una prognosi grave.
L’esofago toracico è esposto a complicazioni postoperatorie per la mancanza di uno strato sieroso, per la vascolarizzazione segmentale, per la ripetuta esposizione alle
ingesta e per la costante motilità e tensione del tratto operato. Negli altri organi dell’apparato gastroenterico, il rivestimento sieroso garantisce una rapida chiusura che impedisce la fuoriuscita dei fluidi. Manipolando delicatamente i tessuti, riducendo al minimo la dissezione, riaccostando accuratamente i piani tissutali e rispettando rigorosamente l’asepsi è possibile contribuire a garantire una
guarigione senza complicazioni delle esofagotomie toraciche. Il tratto cervicale dell’organo comporta molto meno
complicazioni per la presenza di circostanti strutture muscolari ben vascolarizzate.
Le vie di accesso all’esofago dipendono dalla localizzazione della esposizione chirurgica che si vuole ottenere.
Al tratto cervicale si accede attraverso un’incisione lungo
la linea mediana ventrale del collo. L’approccio all’esofago toracico craniale può essere effettuato mediante sternotomia mediana craniale o, più comunemente, attraverso
una toracotomia a livello del terzo spazio intercostale destro. Il tratto distale dell’esofago viene raggiunto attraverso una toracotomia a livello dell’ottavo spazio intercostale
sinistro o destro. Di solito si raccomanda l’approccio dal
lato destro, dal momento che l’aorta è situata a sinistra dell’esofago. Sulle anomalie dell’anello vascolare si interviene attraverso una toracotomia a livello del quarto spazio intercostale sinistro.
Si raccomanda l’incisione longitudinale dell’esofago. Si
identificano facilmente uno strato ben definito di mucosa/sottomucosa ed uno muscolare. La scelta dei materiali e dei tipi
di sutura da utilizzare per la chiusura dell’organo è controversa. Tradizionalmente, veniva raccomandato l’uso di materiali non assorbibili e di una sutura semplice a punti staccati
con i nodi nel lume dell’esofago. Con questa tecnica era pre-
vedibile l’estrusione finale del materiale da sutura nel lume
esofageo. Con l’avvento dei moderni materiali assorbibili
monofilamento non reattivi, è oggi possibile raccomandare
altri metodi. Le suture in polidiossanone sono state utilizzate
con notevole successo per la chiusura dell’esofago. Si raccomanda una chiusura su due piani, il primo a livello della mucosa/sottomucosa ed il secondo in corrispondenza dello strato muscolare. L’autore preferisce utilizzare una sutura semplice continua per entrambi i piani, dal momento che è stato
dimostrato che nel piccolo intestino queste suture esitano in
una migliore tenuta contro gli spandimenti e provocano una
minore distruzione vascolare.
CORPI ESTRANEI ESOFAGEI
I corpi estranei esofagei sono relativamente comuni, soprattutto nelle piccole razze terrier. La diagnosi della condizione si basa sui segni clinici e sui riscontri radiografici.
Occasionalmente, per la conferma definitiva è necessario il
ricorso alle tecniche contrastografiche o endoscopiche. Gli
animali mostrano di solito l’insorgenza acuta di segni clinici rappresentati da apprensione ed ipersalivazione. Si
può osservare il rigurgito, che però non è una caratteristica
costante. Nelle radiografie in bianco del torace vengono visualizzati i corpi estranei radiopachi. Quelli non radiopachi
possono essere più difficili da rilevare, ma sono accompagnati da anomalie visibili quali la presenza di gas all’interno dell’esofago, una distensione lieve o moderata dell’organo ed un aumento mal definito della radiopacità dei tessuti molli. Nei casi dubbi si può ricorrere all’esame contrastografico dell’esofago. Il bario fornisce un contrasto eccellente, ma non va impiegato nei casi in cui esiste il rischio di perforazione. In questi animali, si somministra per
via orale un composto iodato. I corpi estranei esofagei si
arrestano tipicamente in tre diverse sedi: l’ingresso del torace, la base del cuore o il tratto immediatamente craniale
al diaframma.
È indicata la rimozione non chirurgica dei corpi estranei
che, secondo l’esperienza dell’autore, di solito ha successo.
Il corpo estraneo viene visualizzato endoscopicamente ed afferrato e retratto con le pinze. Allo scopo, risultano utili le
pinze da biopsia introdotte attraverso l’endoscopio o le pinze a cestello. È anche possibile utilizzare pinze a coccodrillo, pinze vascolari o altri strumenti dal manico lungo, introdotti lungo l’esofago in posizione adiacente all’endoscopio.
208
Una volta afferrato il corpo estraneo, si esercita una delicata
trazione. Spesso è presente uno spasmo muscolare, e la delicata dilatazione del lume dell’organo cranialmente al corpo
estraneo può facilitarne la rimozione. Non si deve effettuare
un’estrazione forzata, dal momento che ciò potrebbe causare dei danni da perforazione. Se la retrazione è impossibile,
si può tentare di far avanzare i corpi estranei in direzione distale fino nello stomaco. Dopo ogni rimozione di corpi estranei, l’esofago deve essere accuratamente ispezionato endoscopicamente per verificare la presenza di perforazioni.
Quelle piccole, o associate ad emorragie, possono essere difficili da visualizzare. L’insufflazione dell’esofago durante
l’endoscopia determina spesso la fuoriuscita dell’aria attraverso le eventuali perforazioni nello spazio pleurico. Il riscontro di aria a livello pleurico nelle immagini radiografiche riprese durante l’endoscopia è fortemente indicativo di
perforazione dell’esofago.
La rimozione chirurgica dei corpi estranei esofagei viene
eseguita direttamente o indirettamente. Questa seconda soluzione è stata raccomandata per i corpi estranei localizzati
distalmente. Si esegue una gastrotomia attraverso una laparotomia lungo la linea mediana e si dilata delicatamente il
cardias. Il corpo estraneo viene afferrato e fatto manualmente progredire fino nello stomaco, dal quale viene estratto. Il
tratto distale dell’esofago viene ispezionato e palpato per verificarne l’integrità. La gastrotomia e la breccia nella parete
addominale vengono chiuse con le tecniche di routine. La rimozione diretta viene effettuata intervenendo sulla porzione
di esofago interessata. L’esofagotomia va praticata in un
tratto sano dell’organo, immediatamente prossimale o distale al corpo estraneo. L’estrazione di quest’ultimo, l’ispezione dell’esofago e la chiusura della breccia operatoria vengono eseguite nel modo già descritto. È indicata la somministrazione perioperatoria di antibiotici.
DIVERTICOLI ESOFAGEI
I diverticoli dell’esofago vengono distinti in diverticoli
da pulsione (falsi) o da trazione (veri). Questi ultimi interessano tutti gli strati della parete esofagea, sono molto rari e
nella maggior parte dei casi sono associati a traumi esofagei.
Nei diverticoli da pulsione non sono invece coinvolti tutti i
piani della parete esofagea. Nella maggior parte dei casi, i
diverticoli di questo tipo sono associati ad un disturbo della
motilità dell’organo che esita nella formazione di pressioni
intraluminali patologiche. I segni clinici sono rappresentati
da disfagia, rigurgito, perdita di peso e, occasionalmente, segni respiratori.
In genere i diverticoli da pulsione si osservano in posizione immediatamente prossimale allo iato esofageo del diaframma e vengono detti diverticoli epifrenici. I diverticoli di
piccole dimensioni possono essere privi di conseguenze e
vengono trattati con la modificazione della dieta. Quelli più
grandi devono invece essere asportati chirurgicamente. La
prognosi della diverticulectomia è riservata e peggiora in
funzione della gravità della malattia e dell’estensione della
resezione necessaria. Il chirurgo deve essere a conoscenza
della probabile esistenza di disturbi primari non risolti della
motilità esofagea.
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FISTOLE ESOFAGEE
Nella maggior parte dei casi le fistole esofagee sono la
conseguenza di un trauma da corpo estraneo. Nel cane sono
state descritte anche fistole broncoesofagee congenite. In generale, le fistole si instaurano fra l’esofago e le vie aeree adiacenti, esitando nella fuoriuscita del contenuto esofageo nella
via aerea coinvolta. I segni clinici sono riferibili all’interessamento dell’apparato respiratorio e sono rappresentati da
tosse, depressione e febbre da ascessualizzazione polmonare.
Spesso, vengono esacerbati dall’assunzione di cibi e bevande. Il trattamento consiste nell’identificazione delle caratteristiche anatomiche della fistola mediante endoscopia e/o esami radiografici con mezzo di contrasto positivo. Dopo la localizzazione, si interviene chirurgicamente sull’esofago
asportando e ricostruendo la fistola. Spesso, per trattare le affezioni polmonari associate, è necessaria la lobectomia.
ANOMALIE DELL’ANELLO VASCOLARE
Le anomalie dell’anello vascolare sono rappresentate da
malformazioni dei grossi vasi. Nel feto, l’esofago e la trachea sono circondati da sei archi aortici pari. Man mano che
il feto si sviluppa, il primo ed il secondo arco aortico regrediscono ed il quinto diviene incompleto o scompare. Il terzo,
quarto e sesto arco aortico si sviluppano invece dando origine alle principali strutture vascolari che circondano il cuore.
Le anomalie di sviluppo di questi archi esitano in alterazioni della configurazione delle strutture vascolari associate. In
molti casi, queste modificazioni anatomiche comprimono
l’esofago e la trachea adiacenti, determinando la comparsa
dei segni tipici delle anomalie dell’anello vascolare.
La più comune fra queste alterazioni è dovuta alla persistenza del quarto arco aortico destro (95% dei casi). Quando
ciò si verifica, l’aorta si sviluppa a destra dell’esofago e della trachea, piuttosto che a sinistra come avviene normalmente. L’arteria polmonare resta posizionata a sinistra. Il ligamentum arteriosum (o, occasionalmente, il dotto arterioso
pervio) decorre dorsalmente all’esofago ed alla trachea ed
unisce l’arco aortico destro e l’arteria polmonare. L’esofago
e la trachea, quindi, risultano completamente circondati dall’arteria polmonare a sinistra, dalla base del cuore ventralmente, dall’arco aortico anomalo a destra e dal ligamentum
arteriosum dorsalmente. Altre anomalie dell’anello vascolare segnalate in letteratura sono l’arco aortico destro pervio
con persistenza dell’arteria succlavia sinistra, l’arco aortico
doppio, l’arco aortico sinistro normale con legamento arterioso destro persistente, l’arco aortico sinistro normale con
arteria succlavia destra persistente, l’arco aortico duplice o
una combinazione di queste situazioni. I segni clinici variano in relazione alla gravità della stenosi esofagea determinata dall’anomalia.
Possono essere colpiti animali di tutte le razze, ma sembrano essere interessati con maggiore frequenza il pastore
tedesco, il setter irlandese ed il Boston terrier. I gatti sono
colpiti meno comunemente, e le segnalazioni sono più frequenti nel siamese e nel persiano. Maschi e femmine sono
rappresentati in egual misura. Le origini genetiche delle anomalie dell’anello vascolare sono poco conosciute, ma si ri-
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tiene che la condizione sia causata da geni recessivi singoli
o multipli. È sconsigliabile far riprodurre gli animali colpiti.
DIAGNOSI
La caratteristica distintiva delle anomalie dell’anello vascolare è l’anamnesi di rigurgito. Questo si nota in genere poco dopo lo svezzamento e l’inizio dell’assunzione di alimenti più solidi, ma la sua insorgenza può essere ritardata anche
di diversi mesi. Gli alimenti solidi non sono in grado di superare l’anello vascolare e si accumulano nel tratto caudale
dell’esofago, provocandone la dilatazione. Questo materiale
alimentare viene quindi rigurgitato ad una distanza di tempo
dal pasto che può variare da pochi minuti a diverse ore. Secondariamente al rigurgito cronico si può avere una polmonite ab ingestis. Gli animali colpiti possono presentare vari
gradi di tosse, letargia, febbre e segni respiratori. Spesso appaiono di piccole dimensioni e in condizioni generali scadenti rispetto agli altri soggetti della stessa cucciolata. L’ispezione o la palpazione evidenziano frequentemente una dilatazione dell’esofago cervicale. L’esame radiografico del
torace rivela la dilatazione dell’esofago cervicale e toracico
nel tratto situato cranialmente alla base del cuore. È possibile effettuare indagini con mezzo di contrasto, che però sono
raramente necessarie, dal momento che gli alimenti ritenuti
nell’esofago dilatato agiscono da contrasto “naturale”. A livello della base del cuore è presente un restringimento o una
stenosi dell’esofago, che risulta più facilmente rilevabile con
i mezzi di contrasto. La funzionalità esofagea distalmente all’anello vascolare è variabile. Questo tratto dell’esofago può
essere normale o presentare una dilatazione lieve o moderata. Non è raro osservare quadri anomali di motilità esofagea
che interessano l’organo per tutta la sua lunghezza.
Per la diagnosi ed il trattamento delle anomalie dell’anello vascolare non sono essenziali altri test diagnostici, che
possono comunque fornire utili informazioni collaterali. I
parametri di laboratorio sono generalmente normali, a meno
che gli animali non presentino una polmonite ab ingestis, nel
qual caso si possono riscontrare vari gradi di neutrofilia con
spostamento a sinistra della formula leucocitaria. L’ecografia può risultare utile per determinare le caratteristiche anatomiche dell’anello vascolare, in particolare nei rari casi di
arco aortico doppio. L’angiografia con mezzo di contrasto
positivo permette di determinare nel modo più dettagliato e
preciso l’anatomia delle anomalie dell’anello vascolare ed è
considerata essenziale nella valutazione diagnostica dell’arco aortico duplice prima di una eventuale correzione chirurgica. Data l’elevata incidenza della persistenza dell’arco
aortico destro rispetto alle altre forme di anomalie dell’anello vascolare, tuttavia, è accettabile formulare il sospetto diagnostico di persistenza dell’arco aortico destro ed effettuare
l’appropriato intervento chirurgico.
Trattamento chirurgico
delle anomalie dell’anello cardiovascolare
Il principio della terapia delle anomalie dell’anello vascolare è “cercare e distruggere”. Nel caso dell’arco aortico
209
destro persistente si effettua una toracotomia a livello del
quarto spazio intercostale sinistro. L’esofago toracico craniale dilatato è situato cranialmente al cuore. Nel 40% circa
dei casi è presente una vena cava craniale sinistra. Esercitando una delicata trazione craniale sull’esofago dilatato a livello della base del cuore si evidenzia la porzione stenosata
dell’organo. Può risultare difficile identificare il legamento
arterioso, a causa della sovrapposizione delle porzioni dilatate dell’esofago circostante. Il legamento arterioso viene separato dall’esofago utilizzando delle pinze ad angolo retto. Il
suo sollevamento va proseguito il più possibile dorsalmente
e ventralmente all’esofago. A livello delle estremità più
prossimali e distali del legamento così isolato si applicano
delle legature in materiale non assorbibile e poi si recide la
struttura. Occasionalmente, questa può essere pervia (dotto
arterioso persistente) ed imporre un’ulteriore cura nelle operazioni di dissezione, legatura e resezione. Per via orale, si
introduce un catetere a palloncino che viene fatto progredire
fino a livello dell’anello vascolare reciso e poi gradualmente insufflato. Con molta cura, si incidono le lacinie fibrose
restrittive fino a che l’esofago non viene facilmente dilatato
dal palloncino. È necessario fare attenzione a non penetrare
nel lume dell’organo durante questa operazione. La breccia
toracica viene chiusa secondo le procedure di routine. In genere, non si lascia in sede una sonda da toracostomia.
Cure postoperatorie
Gli animali che si presentano in condizioni di nutrizione
ragionevolmente buone e non sono colpiti da polmonite ab
ingestis riprendono ad alimentarsi normalmente a distanza
di 24-48 ore dall’intervento. Per 4-6 volte al giorno, l’animale viene alimentato con una razione della consistenza di
un semolino molle, disponendo la ciotola in posizione tale
da costringerlo a mangiare con gli arti anteriori sollevati.
Dopo il pasto, il paziente va mantenuto in posizione eretta
per 10-15 minuti. Se questo regime alimentare viene tollerato con un’incidenza di rigurgito scarsa o nulla, è possibile aumentare gradualmente la quantità di cibo per ogni pasto e ridurre progressivamente la frequenza delle somministrazioni e la durata del periodo in cui gli arti anteriori vengono tenuti sollevati.
Negli animali in condizioni di nutrizione scadenti, al momento dell’intervento è necessario applicare una sonda da gastrostomia. Attraverso questa via, si procede all’alimentazione, ad intervalli di circa 4 ore. Una volta che la polmonite ab
ingestis sia stata risolta e le condizioni nutrizionali siano migliorate, si può tentare di alimentare l’animale per via orale.
Si passa quindi gradualmente dalla somministrazione mediante sonda da gastrostomia all’assunzione di cibo in posizione eretta, nei limiti che il paziente è in grado di tollerare.
Le dimensioni e la funzionalità dell’esofago possono tornare alla normalità, ma è prevedibile la persistenza di un certo grado di dilatazione e disfunzione residua. In molti animali, questa è ben tollerata, per cui è possibile utilizzare diete normali. In qualche caso, è necessario rendere persistenti
alcune modificazioni del regime alimentare (alimenti simili
a semolino, ciotola in posizione sollevata) per controllare il
rigurgito. Altri animali rispondono male al trattamento chi-
210
rurgico, continuano a manifestare gravi disfunzioni della
motilità esofagea e presentano un rigurgito cronico, con polmonite ab ingestis e carenze nutrizionali. Nel complesso, il
70-80% circa dei soggetti risponde favorevolmente al trattamento chirurgico con complicazioni minime o assenti. Nei
casi eccessivamente malnutriti o con gravi forme di polmonite ab ingestis la prognosi è infausta. Secondo alcuni autori, la prognosi è migliore negli animali sottoposti a correzione chirurgica nelle prime fasi della vita, sebbene, secondo
l’esperienza dell’autore, si ottengano buoni risultati anche in
quelli che vengono portati alla visita all’età di 4-6 mesi e sono stati in grado di “compensare” la gravità della disfunzione esofagea.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
SOSTITUZIONE DELL’ESOFAGO
La sostituzione totale o parziale dell’esofago è stata tentata per il trattamento delle neoplasie esofagee o dei gravi
disturbi della motilità. Sfortunatamente, in genere i risultati di questi tentativi sono stati sfavorevoli. La sostituzione
dell’esofago cervicale viene considerata più di successo di
quella dell’esofago toracico, grazie alla funzione di supporto dei tessuti molli circostanti durante il processo di guarigione. Per la ricostruzione dell’esofago sono stati utilizzati
innesti cutanei tubolari, trapianti di intestino peduncolati o
effettuati con la chirurgia microvascolare e lembi tubolari di
origine gastrica.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
211
Diagnosi laboratoristica per le più comuni
endocrinopatie: domande e risposte
Tommaso Furlanello
Med. Vet. - Libero Professionista - Padova
INTRODUZIONE
L’endocrinologia clinica del cane e del gatto ha conosciuto, negli ultimi anni, uno sviluppo impetuoso. Nuovi test, alcuni estremamente sofisticati, sono ora disponibili a qualunque medico veterinario voglia utilizzarli. A volte però vi sono
dei dubbi nella definizione degli algoritmi diagnostici, nella
selezione del test più adatto al singolo caso clinico, che raramente è sovrapponibile a quello descritto nei libri di testo.
Questa relazione riporta le più comuni domande che ci
sono state presentate negli ultimi anni, riguardanti la scelta e
l’interpretazione degli esami utilizzati nella valutazione dei
pazienti endocrinologici. Verranno trattate, per ragioni di
spazio solo alcune endocrinopatie, quali l’iperadrenocorticismo canino e felino, l’ipoadrenocorticismo canino, l’ipotiroidismo canino e l’ipertiroidismo felino.
In appendice sono elencati i range di riferimento di alcuni analiti e le modalità d’esecuzione dei test dinamici utilizzati dall’Autore. Si ricorda che prima di eseguire un’analisi,
e successivamente interpretarla, è indispensabile conoscere
il protocollo consigliato dal laboratorio a cui si inviano i
campioni e ricevere un range di riferimento, che non deve
essere estrapolato dalla letteratura, ma elaborato dal laboratorio stesso, in base alle metodiche utilizzate.
IPERADRENOCORTICISMO
Che approccio iniziale si può seguire per diagnosticare un ipercorticosurrenalismo?
Valutare in modo approfondito il cane, attraverso l’anamnesi, l’esame fisico ed esami di laboratorio (es. emocromocitometrico, profilo biochimico ed urinario). Se non si
giunge ad altre diagnosi (o sospetti diagnostici) e l’iperadrenocorticismo può essere una spiegazione per i problemi riscontrati (ad es. poliuria-polidipsia, alterazioni dermatologiche, aumento dell’attività degli enzimi epatici a fronte di dati di funzionalità epatica nella norma etc.), si deve seguire
l’algoritmo diagnostico schematizzato in Fig. 1. La valutazione di base è fondamentale: in un cane affetto da altre patologie (ad es. epatopatie) lo studio endocrinologico risulta
di difficile o impossibile intepretazione: peggiori sono le
condizioni generali e più è probabile ottenere dei falsi positivi. Inoltre è molto importante richiedere al proprietario se
sono stati somministrati, negli ultimi mesi, corticosteroidi
sia sistemici che topici.
Per la diagnosi di ipercorticosurrenalismo sono a di-
sposizione tre prove: il test di stimolazione con ACTH (tetracosactide1), il test di soppressione a basse dosi di desametasone (LLDS) e il dosaggio del rapporto cortisolo/creatinina urinario. Dettagli sui primi due test sono presenti
nell’appendice (Fig. 1).
Sospetto di Cushing?
Presenti altre patologie
Eseguire:
emocromo + biochimico + urine
Sospetto confermato
Test di stim. con ACTH
POS.
HDDS
inibizione alla
3ª ora: PDH
approfondimento
diagnostico e/o
trattamento
LDDS
NEG.
POS.
NO inibizione
alla 4ª ora
NO inibizione
alla 3ª ora: ?
➧
inibizione alla
4ª ora: PDH
Probabile AT, da confermare
con dosaggio ACTH e/o
ecografia surrenalica
Figura 1.
Che test scegliere tra la stimolazione con ACTH e il
LDDS?
I test presentano entrambi alta sensibilità, ovvero sono
positivi nella maggior parte dei cani affetti da ipercorticosurrenalismo. Con il LDDS, in particolare, si possono riconoscere il 100% dei cani affetti da neoplasia surrenalica (AT) e
il 95-96% dei cani affetti da ipersecrezione ipofisarica di
ACTH (PDH). Per quanto riguarda le forme ipofisarie, il test di stimolazione con ACTH presenta simili valori di sensibilità, che però si riduce al 60% nelle forme surrenaliche. Per
quanto riguarda la specificità (capacità di escludere i cani non
affetti da ipercorticosurrenalismo), il test di stimolazione con
ACTH è nettamente superiore, soprattutto in soggetti affetti
da patologie concomitanti. In conclusione il test di stimolazione con ACTH è consigliabile come test di screening, perché presenta alta sensibilità, alta specificità ed è di facile interpretazione. Inoltre è l’unico utilizzabile per la valutazione
dell’ipercorticosurrenalismo iatrogeno. Il test di soppressione
con desametasone presenta il vantaggio di fornire anche diagnosi di sede, quando suggerisca una forma ipofisaria (anche
se tale indicazione diagnostica non è frequente).
1
Synacthen©
212
È indispensabile diagnosticare la sede d’origine dell’ipercorticosurrenalismo? Quale test si deve impiegare?
In ogni caso di ipercorticosurrenalismo è doveroso ricercare l’origine della disendocrinia, al fine di poter effettuare
la terapia più vantaggiosa per l’animale. Per le forme ipofisarie, responsabili del 80-85% circa dei casi di morbo di Cushing, la terapia medica rappresenta la scelta d’elezione. Per
le forme surrenaliche, se le condizioni cliniche dell’animale
lo permettono, l’approccio chirurgico è da preferire, in assenza di metastatizzazione.
Vi sono tre possibilità per la diagnosi di sede: il test ad alte dosi di desametasone (HDDS), il dosaggio dell’ACTH endogeno e l’indagine ecografica. Considerando le implicazioni
connesse alla diagnosi, è consigliabile eseguirle comunque, soprattutto in caso emergano sospetti di neoplasie surrenaliche.
In caso di terapia medica, come si effettua il monitoraggio?
Attualmente sono disponibili almeno 3 molecole per il
trattamento dell’ipercorticosurrenalismo (lysodren, chetoconazolo e selegilina), mentre sono attivi gli studi per altri farmaci. La terapia standard è comunque effettuata con lysodren2: dopo una prima fase d’induzione, della durata media
di 8-11 gg., si effettua un test di stimolazione con ACTH. In
base al risultato si deve decidere se proseguire l’induzione,
sospendere il trattamento oppure, preferibilmente, passare
ad una terapia di mantenimento. Per riconoscere quanto prima uno stato di ipoadrenocorticismo iatrogeno, o recidive
dell’ipercorticosurrenalismo, è imperativo monitorare regolarmente i pazienti in trattamento, ad es. dopo 3 e 6 mesi dall’inizio del trattamento e poi secondo necessità.
I cani trattati con chetoconazolo devono pure essere testati, sempre con il test di stimolazione con ACTH, dopo 3
settimane di terapia e poi ogni 2 mesi circa.
La selegilina (deprenyl3), recentemente registrata in
USA per il trattamento del morbo di Cushing di origine ipofisaria, a differenza delle precedenti terapie, non influenza la
secrezione di cortisolo, ma piuttosto dovrebbe inibire la produzione ipofisaria di ACTH. Il monitoraggio della terapia si
basa principalmente sulla valutazione dei sintomi clinici,
che dovrebbero regredire, e non su test dinamici con dosaggio della cortisolemia. Comunque, se la terapia è efficace, si
può avere una tendenza alla normalizzazione del test di soppressione a basse dosi di desametasone.
Quale protocollo si utilizza nella diagnosi del morbo
di Cushing nel gatto?
Nel gatto la risposta ai test è meno prevedibile rispetto al
cane. Di conseguenza si consiglia di effettuare sia il test di
stimolazione con ACTH (somministrare 125 µg/gatto IV di
tetracosactide, con prelievo basale e dopo 60’ o 90’), che il
test a basse dosi di desametasone, che nel gatto comporta la
somministrazione di 0,1 mg/kg IV di desametasone, con prelievo basale e dopo 4 e 8h. Per semplicità le due prove possono essere eseguite contemporaneamente, utilizzando la seguente procedura: eseguire un prelievo basale, seguito dalla
somministrazione IV di 0,1 mg/kg di desametasone. Esegui2
3
Mitotane©, non in commercio in Italia.
Jumex©, Egibren©
38° Congresso Nazionale SCIVAC
re un secondo prelievo dopo 2 ore dal primo, accompagnato
subito dopo dalla somministrazione della tetracosactide (125
µg IV). Il terzo e ultimo prelievo si esegue dopo un’ora dalla tetracosactide, ovvero dopo tre ore dal primo prelievo.
Per la diagnosi di sede si può eseguire il test di soppressione ad alte dosi (con 1 mg/kg di desametasone), ma migliori risultati offrono il dosaggio dell’ACTH endogeno e
naturalmente l’esame ecografico.
IPOADRENOCORTICISMO
Che test si devono eseguire per diagnosticare un ipoadrenorticismo?
Il test da utilizzare è la prova di stimolazione con ACTH
(tetracosactide). Per differenziare le forme primarie (morbo
di Addison), che originano da una patologia surrenalica, da
quelle secondarie, legate ad una carente secrezione di
ACTH, risulta molto utile il dosaggio dell’ACTH endogeno.
Il livello ematico dell’ormone ipofisario sarà fortemente aumentato nel primo caso e diminuto nel secondo.
IPOTIROIDISMO CANINO
Che approccio iniziale si può utilizzare nella diagnosi
dell’ipotiroidismo canino?
La diagnosi di ipotiroidismo canino è un momento complesso nell’attività clinica di un veterinario per piccoli animali, in quanto la patologia si può presentare clinicamente in
svariati modi. Inoltre altre patologie possono interferire nella produzione degli ormoni tiroidei, inducendo un apparente
stato di ipotiroidismo, che però nulla ha a che fare con una
patologia tiroidea. Se si esegue solamente il dosaggio del T4
totale (TT4) si potrebbero classificare come ipotiroidei, ad
esempio, anche i cani affetti da morbo di Cushing, o da qualsiasi altra patologia non tiroidea. In caso di malattia sistemica è fisiologico che si riduca la produzione degli ormoni;
trattare tali forme con la levotiroxina è inutile e può essere
pericoloso. In conclusione, è imperativo valutare con attenzione i soggetti e cercare di riconoscere e trattare le eventuali altre patologie prima di intraprendere un percorso diagnostico nei confronti dell’attività tiroidea. Infine non si deve dimenticare che numerosi farmaci (steroidi, barbiturici,
antibiotici, anestetici etc.) possono interferire con il dosaggio degli ormoni tiroidei; di conseguenza si devono sospendere tutte le terapie, se possibile, prima di effettuare i prelievi.
Che esami sono consigliati attualmente per lo studio
della funzionalità tiroidea nel cane?
È bene ricordare che il test di stimolazione con TSH, ampiamente citato nella letteratura e citato come la prova di riferimento, è ormai ineseguibile, in quanto il TSH bovino
non è più in produzione. Il test di stimolazione con TRH
(protirelina4) non lo può sostituire, in quanto fornisce poche
indicazioni sulla reale attività tiroidea.
4
Irtonin©, Xantium©
38° Congresso Nazionale SCIVAC
213
cTSH ↑
cTSH norm.
cTSH ↓
fT4 normale
Dati contrastanti. È teoricamente
possibile si tratti di uno stadio molto
precoce di ipotiroidismo. Da rivalutare.
Soggetto eutiroideo.
Il cane potrebbe essere affetto
da una patologia non tiroidea. Il TT4
è probabilmente diminuito.
fT4 ↓
Ipotiroidismo primario.
Dati contrastanti.
Il soggetto potrebbe essere affetto da
iperocorticosurrenalismo
o da un’altra patologia non tiroidea.
Possibile ipotiroidismo secondario
(carente secrezione di TSH).
Eseguire test di stimolazione
con TRH.
Figura 2.
Fortunatamente sono ora disponibili due test, non dinamici, che permettono di valutare con buona approssimazione le capacità secernenti della tiroide. Si consiglia infatti di
dosare, nei soggetti nei quali si sospetti l’ipotiroidismo, il
T4 libero (free T4, fT4), dosato con l’equilibrio dialitico (o
metodiche correlate), in associazione al TSH endogeno (cTSH). Il dosaggio del fT4, se eseguito con metodiche validate per il cane (da preferire l’equilibrio dialitico), presenta
notevoli vantaggi rispetto al dosaggio del TT4. Di seguito è
stato elaborato uno schema interpretativo per i dosaggi
combinati di fT4 e cTSH. Da ricordare che questi analiti, anche se rappresentano un enorme miglioramento per la diagnosi di ipotiroidismo, sono ancora lontani dal fornire risposte conclusive in ogni soggetto. Ad esempio, per quanto
riguarda la misurazione del TSH endogeno, il 24% dei cani
ipotiroidei presenta valori normali di TSH, mentre nel 718% dei cani eutiroidei si reperiscono inspiegabili valori
superiori al range (Fig. 2).
Il dosaggio del TT3 e del fT3 non presenta alcun interesse diagnostico e solitamente non viene eseguito routinariamente.
Come si può valutare un sospetto di ipotiroidismo di
origine ipofisaria (ipotiroidismo secondario)?
Seppure raro, l’ipotiroidismo secondario è stato segnalato nel cane. Si presenta con livelli ematici d fT4 e di TSH inferiori al range della normalità Possono esser presenti segni
neurologici e/o deficit di altre attività ipofisarie.
Per riconoscere tali forme si deve eseguire una stimolazione con TRH. Si consiglia di somministrare 2,5-10 µg/kg
di TRH (protirelina) per via endovenosa, dosando il TSH endogeno basale e dopo 10’. I soggetti normali presentano, nel
secondo prelievo, uno spiccato incremento dei livelli pla-
smatici di TSH.
Come si esegue il monitoraggio della terapia sostitutiva con levotiroxina?
Utlizzando la dose di 20 µg/kg q12h PO (dose massima
800 µg/cane q12h PO), si esegue il dosaggio del fT4 (o del
TT4, se il paziente non presenta anticorpi antiroidei, che rendono illeggibile tale analita) dopo 4-6 ore dalla compressa
del mattino. Il fT4 dovrebbe essere nel range della normalità
o modicamente aumentato. Si può anche eseguire un secondo prelievo al momento della compressa della sera, per valutare anche il livello minimo del farmaco. Dopo 6 settimane da ogni variazione della posologia della levotiroxina si
consiglia di richiedere il dosaggio del fT4 (o TT4)
Nel proseguimento della terapia è consigliabile analizzare il livello plasmatico del fT4 (o TT4) dopo 3 e 6 mesi
di terapia e poi ogni 6 mesi. Può essere anche interessante, com’è pratica comune in medicina umana, dosare il
TSH endogeno. Se la terapia è efficace, il TSH, che prima
del trattamento era prodotto in eccesso dall’ipofisi, dovrebbe dopo pochi giorni di terapia riportarsi a valori plasmatici compresi nell’intervallo di riferimento.
IPERTIROIDISMO FELINO
Quali sono i test più indicati per la diagnosi di ipertiroidismo felino?
Anche in medicina felina è stato introdotto il dosaggio del
fT4 in equilibrio dialitico (o con metodiche validate e correlate) per la valutazione dei gatti sospetti di ipertiroidismo. Il
livello plasmatico del fT4 è meno affetto del TT4 dalla presenza di patologie concomitanti, che spesso sono presenti nei
TT4 ↑
TT4 norm.
TT4 ↓
FT4 normale
Dati contrastanti, ma ipertiroidismo
molto probabile.
Eutiroideo.
Eutiroideo, con presenza di patologie
non tiroidee.
FT4 ↑
Ipertiroidismo.
Ipertiroidismo, associato a patologie
concomitanti non tiroidee.
Eutiroideo, con presenza di patologie
non tiroidee. In questo caso il fT4
è da considerare falsamente aumentato.
Ciò accade nel 10% dei casi,
per ragioni ignote
Figura 3.
214
38° Congresso Nazionale SCIVAC
gatti anziani. A differenza del cane, si consiglia di richiedere
contemporaneamente il dosaggio del TT4 e del fT4 (Fig. 3).
Anche nel gatto il dosaggio del TT3 e del fT3 non fornisce indicazioni cliniche supplementari.
In casi in cui il dosaggio contemporaneo di TT4 e fT4 non
permetta di raggiungere una diagnosi, si può eseguire una
prova di stimolazione con TRH, oppure di soppressione con
liotironina (T3).
Un elenco di testi ed articoli per approfondire i temi
trattati verrà fornito tramite posta elettronica dall’autore,
sotto forma di file di testo Winword 95, se richiesto a [email protected]
APPENDICE
Test
Campione
Range di riferimento e modalità d’esecuzione
Cortisolemia
Plasma da K3EDTA o siero.
VN cortisolemia basale e gatto: 1-5 µg/dl
Test di stimolazione
con ACTH
Idem sopra.
1. Eseguire un prelievo per la cortisolemia basale
2. Inoculare una fiala intera di ACTH sintetico (tetracosactide, Synacten,
250 µg), oppure 5-10 µg/kg, per via endovenosa. Il farmaco non utilizzato può
essere conservato in una siringa di plastica, a –20°C, fino a 6 mesi.
3. Eseguire il secondo prelievo dopo 90’.
VN cortisolemia post-stimolazione: 6-18 µg/dl
Test di soppressione
a basse dosi
(LDDS)
Idem sopra.
1. Eseguire un prelievo per la cortisolemia basale
2. Inoculare 0,01 mg/kg di desametasone base
3. Eseguire il secondo prelievo dopo 4 ore
4. Eseguire il terzo prelievo dopo 8 h
VN cortisolemia 2a: vedi sotto
VN cortisolemia 3: < 1,5 µg/dl
In caso di iperadrenocorticismo ipofisario il secondo e/o il terzo prelievo
sono inferiori al 50% rispetto a quello basale.
Test di soppressione
ad alte
(HDDS)
Idem sopra.
1. Eseguire un prelievo per la cortisolemia basale
2. Inoculare 0,1 mg/kg di desametasone base
3. Eseguire il secondo prelievo dopo 3 ore (secondo altri è preferibile eseguire
il secondo prelievo dopo 8h)
Il test è finalizzato unicamente alla diagnosi di sede dell’iperadrenocorticismo
spontaneo. In caso di PDH il secondo prelievo è inferiore del 50% e oltre rispetto
al basale.
Dosaggio
dell’ACTH
Plasma da K3EDTA.
Utilizzare esclusivamente
provette che contengono
aprotinina
(da richiedere al laboratorio)
VN: 20-100 pg/ml
Cani affetti da PDH: > 60 pg/ml
Cani affetti da AT: < 40 pg/ml
Nota: non utilizzare provette di vetro per conservare o spedire il siero nel quale saranno effettuati studi endocrinologici.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
215
Medicina d’emergenza e anestesia: un binomio vitale
Oscar Grazioli
Med. Vet. - Libero Professionista - Reggio Emilia
Fabio Viganò
Med. Vet. - Libero Professionista - Milano
MANAGEMENT DEL PAZIENTE CRITICO
Spesso durante la pratica della medicina d’emergenza si
devono trattare pazienti che richiedono un’anestesia generale per poter essere curati adeguatamente. Purtroppo tali pazienti possono non tollerare un’anestesia generale. Lo scopo
di questo lavoro è risolvere tale complesso problema attraverso un adeguato approccio al paziente critico e l’adozione
di protocolli anestesiologici particolari.
I farmaci anestetici, indipendentemente dalle condizioni
generali del paziente, possono alterare le attività: cardiaca,
circolatoria, respiratoria e cerebrale.
L’attività cardiaca può essere depressa sia direttamente,
agendo sul miocardio (es. barbiturici), sul ritmo (es. oppiacei), ma anche centralmente, l’effetto più pericoloso, a carico dell’apparato circolatorio è l’ipotensione. L’ipotensione
rappresenta una delle cause più comuni di morte del paziente in anestesia generale. Se all’effetto ipotensivo di alcuni
farmaci anestetici e/o analgesici sommiamo il fatto che spesso un paziente a rischio soffre di una riduzione della pressione arteriosa (es.: shock ipovolemico o settico), il risultato
sarà un ulteriore incremento del rischio anestesiologico. Gli
oppiacei e l’etomidato non hanno attività ipotensiva, il propofol è il più ipotensivo, maggiore anche degli inalatori più
comuni (l’isofluorano è più ipotensivo dell’alotano) e dei
barbiturici1.
Un’altra causa comune di morte correlata all’anestesia è
l’ipossia. L’ipossia può essere dovuta ad una riduzione della
disponibilità di ossigeno ai tessuti (DO2)2 oppure ad una riduzione della sua pressione parziale. La DO2 è la quantità di
ossigeno che può essere estratta dal letto arterioso per il metabolismo cellulare. La sua entità dipende dal contenuto totale di ossigeno (CaO2) nel sangue arterioso e dalla gittata
cardiaca (CO). Il contenuto totale di ossigeno è influenzato
dalla quantità di emoglobina e dalla pressione parziale di ossigeno, quest’ultima frazione è anche indice della capacità
dei polmoni di ossigenare il sangue. L’emoglobina, è la componente maggiore della CaO2, la misurazione della sua percentuale di saturazione è perciò un indice dell’ossigenazione del sangue.
La preossigenazione anestetica, ossia la somministrazione di ossigeno al 100% per almeno 5 minuti prima dell’induzione, è una misura terapeutica adottata per innalzare la
pressione parziale di ossigeno nel sangue ed incrementare la
DO2. Il suo compito è quello di cercare di limitare la riduzione dell’ossigeno disponibile provocata dall’induzione. È
meglio utilizzare una fonte di ossigeno diversa da quella dell’apparecchio di anestesia. I circuiti anestetici possono contenere residui dei gas utilizzati precedentemente e conferire
all’ossigeno un odore ed un’attività irritante le vie aeree rendendo la somministrazione di ossigeno difficoltosa. La
preossigenazione può essere effettuata con un semplice tubo
posto in vicinanza del tartufo dell’animale, in modo da evitare conflitti di contenimento, e somministrandolo ad alti
flussi: 3-5 L/min nel gatto e cane piccolo, 5-8 L/min nel cane medio e 15 L/min nel cane di taglia grande e gigante. La
preossigenazione è mandataria nei pazienti che hanno subito un trauma cranico, perché alti contenuti di ossigeno nel
sangue sono in grado di ridurre la pressione endocranica. È
invece da proscrivere se per sommnistrarlo è necessario un
contenimento coercitivo caratterizzato da un’alta conflittualità paziente-operatore, incrementandone il consumo ed il
fabbisogno.
L’ipercapnia (l’aumento della pressione parziale dell’anidride carbonica nel sangue) è un altro problema frequente
nei pazienti critici, è pericolosa perché può essere aggravata
dalla somministrazione di farmaci anestetici e preanestetici.
Tali sostanze inducono una riduzione della sensibilità, dose
dipendente, del sistema nervoso centrale all’anidride carbonica3. L’aumento dell’anidride carbonica nel sangue può
peggiorare l’acidosi, essere responsabile di aritmie cardiache, alterare le funzioni del sistema nervoso centrale e periferico. Essa aumenta solitamente, quando si ha un mismatching della ventilazione/perfusione polmonare, soprattutto
se la ventilazione del paziente è ostacolata o inefficace. Per
garantire una migliore efficacia dell’apparato respiratorio si
ricorre alla ventilazione polmonare controllata.
La ventilazione polmonare controllata deve essere preceduta dal miorilassamento muscolare ottenuta con farmaci
miorilassanti. Quando si è generata la paralisi dei muscoli
respiratori, si ventila il paziente. La ventilazione può essere
effettuata manualmente, agendo sulla borsa respiratoria o
meglio, con l’ausilio di ventilatori meccanici polmonari.
L’utilizzo di ventilatori polmonari assicura una somministrazione costante e meglio adattabile alle esigenze del paziente, specialmente per gli interventi di lunga durata. Que-
216
ste macchine sono in grado di offrire molteplici metodi di
ventilazione polmonare, cosa che manualmente non è possibile realizzare. Alcuni tipi di ventilazione sono poi peculiari
della ventilazione meccanica, ad esempio l’aumento della
pressione di fine espirazione mantenuta costante e per un
lungo periodo di tempo.
La valutazione dell’ipercapnia, può essere stimata, oltre
che dalla misurazione della pressione parziale dell’anidride
carbonica con l’emogasanalisi, anche dalla misurazione della pressione parziale di fine espirazione dell’anidride carbonica (EtCO2). Un aumento della EtCO2 è indice di un innalzamento della CO2 nel sangue.
Prima di procedere all’anestesia del paziente ad alto rischio si deve eseguire una visita anestesiologica pre-operatoria, identificare il problema principale e cercare di risolverlo, se questo non è possibile lo si deve stabilizzare al meglio4. Questo può significare procrastinare l’intervento di alcune ore o più.
Visitato il paziente, lo si può classificare in base ai criteri dell’American Society of Anesthesiology (ASA status),
successivamente si eseguono gli esami pre-operatori. Gli
esami di laboratorio devono essere i più estesi possibili. Bisognerebbe valutare l’emogramma completo, le proteine totali, la glicemia, l’azotemia, il profilo biochimico generale,
gli elettroliti, l’emogasanalisi, l’esame delle urine completo,
e le radiografie necessarie dell’apparato coinvolto.
Quando il paziente è stato stabilizzato, o quando si è osservato che non è possibile ottenere ulteriori miglioramenti,
od ancora in casi estremi, quando dobbiamo ricorrere immediatamente all’anestesia generale, si sceglie il protocollo
anestesiologico.
Esistono diverse categorie di sostanze che possono essere utilizzate, quelle più comunemente adottate sono: i tranquillanti, gli oppiacei, gli agenti dissociativi, l’etomidato, i
barbiturici, il propofol e gli anestetici inalatori.
La premedicazione non deve essere sempre eseguita, alcuni pazienti infatti si presentano con una depressione del sistema nervoso centrale (SNC) tale da non richiedere una ulteriore riduzione della sua attività. Essa deve essere somministrata quando il paziente è vigile e sveglio. In altri casi,
quando per esempio abbiamo una notevole depressione del
sistema nervoso centrale, alcune sostanze utilizzate comunemente come preanestetiche (es. gli oppiacei e le benzodiazepine), possono essere utilizzate per l’induzione. Tra i farmaci preanestetici, gli oppiacei costituiscono la prima scelta,
perché possiedono minimi effetti cardiovascolari, anche se
possono procurare bradicardia e depressione respiratoria.
Anche le benzodiazepine hanno minimi effetti cardiovascolari, sono dotate di attività anticonvulsivanti, ma possono
procurare effetti imprevedibili nei soggetti non depressi. Gli
alfa due agonisti, sono generalmente esclusi dai protocolli
anestesiologici per pazienti ad alto rischio per la loro attività
aritmogenica, ipertensiva transitoria seguita da ipotensione,
così come lo sono le fenotiazine perché alfa bloccanti ed
ipotensive. Gli anticolinergici (es. l’atropina), sono indicati
con gli oppiacei, per contrastare il loro effetto bradicardizzante, si utilizzano anche per trattare l’eccesso di secrezioni
bronco-polmonari dovute all’azione irritante dei gas inalati,
oppure per trattare la bradicardia e i blocchi atrio-ventricolari. Non devono essere utilizzati in corso di tachicardia, car-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
diomiopatia ipertrofica, stenosi aortica e tachiaritmia.
Nei pazienti critici si dovrebbe adottare il protocollo anestesiologico con cui si ha maggior familiarità, anche se può
non essere il più adatto. Imparare ad utilizzare uno o più farmaci utilizzati per l’anestesia, su pazienti che non tollerano
errori costituisce una pratica poco raccomandabile.
Se ad esempio un’anestesista è abituato ad utilizzare per
l’induzione un’associazione ketamina-diazepam, correrà il
rischio di incrementare la pressione endocranica in paziente
che ha subito un trauma cranico, tale induzione risulterà
controindicata anche in quei pazienti in cui non si desidera
aumentare la pressione endoculare, od in presenza di tachicardia oppure quando il miocardio è già sofferente per malattie precedenti. Come illustrato nei sopra citati esempi, il
protocollo con cui si ha maggiore familiarità non può essere
sfruttato per tutti i pazienti, per questo motivo è necessario
conoscerne altri ed impratichirsi con essi in soggetti in buone condizioni generali.
Se il monitoraggio è una pratica necessaria durante l’anestesia generale, a maggior ragione lo è nei pazienti instabili ed appartenenti alla quarta o quinta classe ASA. In questi soggetti si rende necessario conoscere in tempo reale le
variazioni che avvengono nell’organismo in seguito alla
somministrazione di sostanze che procurano un’alterazione
dell’apparato cardiocircolatorio, respiratorio e neurologico.
A tal fine è bene disporre di un apparecchio per la determinazione della percentuale di saturazione dell’emoglobina
(es. pulsiossimetro), il quale ci fornirà informazioni circa lo
stato dell’ossigenazione, di un monitor cardiaco per valutare l’attività elettrica del cuore, di un apparecchio per la misurazione della pressione arteriosa (diretta o indiretta), della
misurazione dell’anidride carbonica di fine espirazione, di
un dispositivo per la misurazione della pressione venosa
centrale, per valutare lo stato di riempimento del circolo e la
quantità necessaria dei fluidi da somministrare, infine ma
non per ordine di importanza è l’emogasanalisi, necessaria
nei disturbi acido base, elettrolitici e per determinare l’efficacia dell’apparato respiratorio5.
Il periodo postoperatorio costituisce uno dei momenti salienti per la sopravvivenza dell’animale, il monitoraggio durante il risveglio e le ore successive (nei casi più gravi anche
per giorni) può condizionare l’esito. Durante questa fase è
necessario sostenere le funzioni vitali, somministrare analgesici e tranquillanti o entrambe, secondo necessità.
L’ANESTESIA BILANCIATA
NEL PAZIENTE CRITICO
È molto difficile individuare un protocollo di anestesia
corretto per qualsiasi situazione d’emergenza. Il paziente, in
condizioni di emergenza, necessita sempre di adattamenti
personalizzati. Ad esempio un cane ricoverato d’urgenza per
la presenza di un corpo estraneo occludente il lume tracheale necessita sicuramente di una “crash induction” piuttosto
che di una premedicazione seguita da una induzione lenta e
certosinamente equilibrata. Tuttavia la cosiddetta “anestesia
bilanciata” si avvicina molto al protocollo ideale per il paziente critico. Ed è quindi su questa tecnica che, con l’aiuto
di un videofilmato, mi soffermerò.
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L’anestesia bilanciata sfrutta essenzialmente le potenzialità di un cocktail di farmaci che, se opportunamente associati, sono in grado di raggiungere il piano di anestesia
desiderato con effetti collaterali relativamente modesti e
soprattutto con il minimo impatto sul sistema cardiovascolare e sull’equilibrio acido - base del paziente. A questo
proposito ho scelto, come esemplificazione, il caso di un
cane bracco italiano, maschio di 13 anni di età, ricoverato
d’urgenza per un pio - emotorace di origine traumatica. Il
cane in questione era in cura presso un’altra struttura veterinaria. I colleghi avevano inserito un doppio drenaggio toracico e stavano effettuando ripetute rimozioni del fluido
quando il cane mostrava un aggravamento della dispnea e
dello stato generale, per cui veniva richiesta la nostra consulenza. Le prime indagini mostravano, in sintesi, una grave dispnea a riposo, un iniziale stato di shock ipovolemico
in un cane con grave anemia (PCV = 16), ipoproteinemia
(TS = 3,4 g/Lt) ed acidosi metabolica. Radiograficamente
il torace appariva impegnato da una effusione che la toracentesi permetteva di diagnosticare come pio - emotorace.
Si optava dunque per una immediata toracotomia esplorativa. Il videofilmato mostra, in dettaglio, il protocollo di
anestesia scelto che ha permesso di mantenere una eccellente stabilità del paziente durante l’impegnativo intervento chirurgico.
Si effettuava una premedicazione mediante la somministrazione endovenosa di diazepam e fentanyl in sequenza alternata. La premedicazione era necessaria in quanto il sensorio del cane era depresso, ma ancora vigile. Inoltre la successiva induzione con l’etomidato richiedeva una opportuna
premedicazione onde evitare eventuali effetti collaterali legati all’impiego di questo farmaco, quali eccitazione, tremori e vomito. Il Diazepam è una ben nota benzodiazepina in
grado di fornire una adeguata sedazione senza modificare
sensibilmente le funzioni cardiovascolari, mentre il fentanyl
è un potente oppioide agonista dotato di breve emivita, in
grado dunque di fornire una profonda analgesia al prezzo di
una modesta depressione respiratoria. Per tutta la durata dell’intervento si manteneva il blocco neuromuscolare con boli
di cis - atracurium e si utilizzava il fentanyl intraoperatorio
per ridurre al minimo la concentrazione di isoflurano erogata, in quanto anche questo anestetico volatile ha comunque
un impatto non trascurabile sul sistema emodinamico e cardiovascolare.
Diazepam e fentanyl sono molecole talmente note da non
meritare una ulteriore trattazione. Vorrei, al contrario, sottolineare, in questo esempio di anestesia bilanciata, le caratteristiche di due farmaci che ritengo insostituibili.
L’etomidat è un sedativo/ipnotico non barbiturico veicolato in una soluzione di glicole propilenico al 35% il cui utilizzo, in associazione con benzodiazepine e / od oppiacei,
consente una induzione rapida e sostanzialmente priva di effetti nocivi sul sistema cardiovascolare e respiratorio. L’etomidato viene eliminato rapidamente e si è rivelato un farmaco prezioso per l’induzione, in quanto consente di mantenere l’omeostasi nel cane in stato di shock ipovolemico. L’elevata concentrazione di glicole propilenico lo rende irritante
per i tessuti e provoca una temporanea crisi emolitica dovu-
217
ta all’aumento dell’osmolalità ematica.
Il cis-atracurium, potente agente di blocco neuromuscolare non depolarizzante, mantiene il fenomeno noto come
eliminazione di Hofman, alla stessa stregua dell’atracurium,
e può essere tranquillamente impiegato in pazienti con danno renale ed epatico. Inoltre la laudanosina, un suo metabolita in grado di provocare effetti epilettogeni e ipotensione
transitoria negli animali, si ritrova in un a concentrazione
plasmatica ridotta di 1/6, rispetto all’atracurium. In confronto a quest’ultima molecola poi il cis-atracurium ha dimostrato di non stimolare la liberazione di istamina, neanche a
dosi ben superiori alla ED95, evitando quindi qualsiasi effetto sul sistema cardiovascolare ed emodinamico.
L’utilizzo di un farmaco bloccante neuromuscolare è altamente indicato, soprattutto nella chirurgia ortopedica impegnativa ed è essenziale nella chirurgia toracica, in quanto
consente di raggiungere uno stato di ottimo miorilassamento impiegando concentrazioni inferiori di anestetici volatili.
Inoltre, cosa assai importante e spesso trascurata, permette
di evitare il conflitto che si viene a creare quando un paziente, in respirazione spontanea, si trova a lottare contro un
ventilatore non sincronizzato per lungo tempo, con tutte le
conseguenze del caso.
L’impiego dell’anestesia bilanciata dunque risulta estremamente utile nel paziente critico, purché si abbia una buona esperienza ed una ottima attrezzatura in grado di monitorare i parametri vitali di un paziente che non può respirare
spontaneamente e non può offrire i classici segni esterni di
superficialità o eccessivo approfondimento dell’anestesia a
noi tutti noti.
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38° Congresso Nazionale SCIVAC
219
Verso un concetto di struttura veterinaria
più “accogliente”
Mark Hafen
Am. Inst. Arch., Nat. Coun. Arch. Reg. Boards
Gates Hafen Cochrane Architects Boulder - Colorado (USA)
Le strutture accoglienti sono realizzate per la gente. Possiedono determinate caratteristiche basate su una scala di valori umani e su una serie di qualità specifiche che li rendono
piacevoli alla vista. In secondo luogo, un edificio accogliente deve essere funzionale. Si tratta di una struttura che, a livello psicologico, si rivolge al subconscio e, se lo fa nel modo corretto, rappresenta un efficace strumento di mercato,
invitando la gente ad entrare e fermarvisi, facendo in modo
che i clienti percepiscano la qualità dei servizi offerti.
PRESENTAZIONE
Una struttura accogliente si rivolge alla comunità ed invia un messaggio sul tipo di cure e servizi forniti. Provate a
confrontare un locale della McDonald degli anni ’60 con un
ristorante esclusivo. Nel primo caso ci si trova di fronte ad
un ambiente di plastica, neon ed acciaio inossidabile. Appena entrati, ci si sente pronti a consumare rapidamente degli
alimenti distribuiti in contenitori usa e getta da dei robot.
Al contrario, il Waldorf Astoria Hotel trasuda l’eleganza
del vecchio mondo. Marmi e graniti, candelieri, lini e porcellane cinesi fanno si che ci si aspetti una qualità dei cibi ed
un servizio di livello eccellente. (Inoltre, vi preparano al
conto.)
La maggior parte dei vostri clienti non ha alcun modo di
giudicare la qualità delle cure mediche che i loro animali ricevono. Una tipica reazione di un cliente al quale vengono
mostrate le aree di una clinica destinate ai trattamenti terapeutici è “sembra un ospedale!” Queste persone sono sorprese. L’interno e l’esterno della clinica devono proiettare la qualità delle cure che i clienti si possono aspettare di ricevere.
Gli esperti di marketing affermano che la caratteristica
più significativa del valore di un prodotto è il luogo in cui
questo viene acquistato. Prendete un flacone di Chanel n°5,
tiratelo fuori dalla scatola, mettetelo in un contenitore di plastica e guardate se riuscite a venderlo a $100 all’oncia. La
“scenografia” delle aree aperte al pubblico della vostra clinica influisce significativamente sul modo in cui i clienti
percepiscono il valore dei servizi che ricevono.
Colori, luci, arredamento, struttura dei materiali e relazioni spaziali sono alcuni dei mezzi utilizzabili per realizzare l’atmosfera desiderata. Ognuno di questi elementi invia
dei messaggi non verbali.
L’illuminazione può essere utilizzata per influenzare
quello che i vostri clienti vedono e per stabilire un certo tipo
di “umore” nelle singole aree della vostra clinica. Una illuminazione specifica per ogni settore contribuisce ad eliminare il senso di fastidio agli occhi ed al tempo stesso garantisce una varietà degli aspetti visivi.
I colori delle pareti e degli arredi della sala d’attesa possono essere utilizzati per scopi diversi da quelli decorativi.
Anni di studi hanno dimostrato che le varie tinte influiscono
sulla personalità e sul comportamento. Il rosso viene utilizzato per eccitare i clienti e mettere loro fretta. Il blu ed il verde hanno invece effetti calmanti. Il bianco, pur essendo stato tradizionalmente usato in tutte le strutture sanitarie perché
implica un ambiente sterile, risulta molto violento per gli occhi e va impiegato con una certa cautela.
Un metodo per ottenere un’atmosfera professionale più
personale è quello di realizzare ingressi e sale di attesa diversi per le specifiche esigenze dei clienti. Questo concetto
è stato portato al di là della semplice suddivisione fra aree di
attesa destinate ai gatti ed ai cani nelle grandi strutture, passando invece ad accessi per i casi di emergenza, gli acquisti
al dettaglio, i ricoveri in pensione e la toelettatura.
Il padiglione per i gatti è una struttura simile ad un gazebo che delimita un’area sicura sia per i clienti che per i pazienti e riduce al minimo le occasioni di contatto fra gatti e
cani. Tenendo presente la tipica proprietaria di gatti, il padiglione è stato rifinito con soffici toni pastello e stencil decor
e l’ambiente è stato inondato di luce calda e solare.
CIRCOLAZIONE
L’organizzazione di una circolazione logica ed efficiente
vi permette di fare più facilmente il vostro lavoro. Viene ridotto il tempo impiegato a “dirigere il traffico”, perché gli
spostamenti dei clienti diventano più intuitivi. L’addetto alla reception deve essere collocato in una posizione tale da
poter vedere tutte le aree aperte al pubblico, dal momento di
contatto iniziale, in modo da salutare il cliente al suo ingresso e seguirlo per tutto il tempo fino al congedo. Tutte le sale da visita e da consulto devono essere direttamente visibili dall’area della reception.
L’organizzazione dell’area della reception influisce notevolmente sul flusso del traffico. La separazione fra le operazioni di accettazione e quelle di dismissione contribuisce a
ridurre al minimo la congestione. L’addetto alla reception
deve avere un accesso il più possibile diretto agli uffici ed ai
settori operativi della struttura veterinaria.
220
Uno schema di circolazione efficace permette a tutti di
muoversi all’interno dell’edificio senza contrasti, riducendo
il numero di passi che ognuno deve fare.
TRASPARENZA
Anche la trasparenza è un aspetto importante di una
struttura accogliente. Le vetrate nelle aree aperte al pubblico
permettono ai clienti di vedere ciò che accade all’interno
della clinica ed iniziare a farsi un’idea di ciò che succede a
loro una volta entrati. Inoltre, questa soluzione permette al
personale dell’accettazione di monitorare l’attività dei clienti al di fuori degli edifici e prevederne le esigenze prima che
entrino dalla porta.
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CONCLUSIONI
La capacità di anticipare per i clienti un servizio professionale, personale e comodo, può avere effetti positivi. Senza dubbio, è preferibile che i clienti siano ben disposti ad attribuire un elevato valore alla qualità dei servizi che ricevono. Alcuni dei mezzi adatti a tutte le strutture sono la personalizzazione delle aree di servizio, la trasparenza, la circolazione efficiente, i colori e l’illuminazione. La presentazione
della vostra struttura, la sua immagine esteriore e la progettazione interiore contribuiscono ad ottenere gli effetti desiderati in qualsiasi clinica.
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Indagine sulle innovazioni progettuali
nel settore degli ambienti veterinari
Mark Hafen
Am. Inst. Arch., Nat. Coun. Arch. Reg. Boards
Gates Hafen Cochrane Architects Boulder - Colorado (USA)
“Non è il più forte della specie che sopravvive, né il più
intelligente, ma quello più in grado di adattarsi ai cambiamenti.” - Charles Darwin
Oggi, tutti stanno cercando di capire quello che il nuovo
millennio ha in serbo e cosa questo significherà per loro personalmente. Certamente, non siamo scarsi di articoli, lezioni o
predizioni su questo argomento. Per prepararci ai mutamenti
che il futuro potrà portarci, dobbiamo guardare in quali direzioni stanno procedendo ora le tendenze sociali. Dopo, potremo trasformare queste informazioni nelle tendenze che interessano specificamente l’industria veterinaria. Le modificazioni dell’industria veterinaria sono multidimensionali, a partire
dal modo in cui svolgete la professione a quello in cui classificate i vostri pazienti e clienti, al tipo di servizi che offrite ed
alle strutture che utilizzate. Al momento di progettare una nuova struttura ospedaliera o di ridisegnarne una già esistente, è
essenziale tenere in considerazione il modo in cui il mercato e
le tendenze sociali agiscono su di voi e sulla vostra struttura.
TENDENZE DEMOGRAFICHE,
SOCIALI E TECNOLOGICHE
L’invecchiamento dei “Baby Boomers” – Queste persone, che costituiscono di gran lunga il segmento più grande e
ricco della popolazione, hanno modificato i propri atteggiamenti, dal momento che pongono maggiore enfasi sulle
esperienze piuttosto che sulle esigenze.
Aumento della mobilità delle persone – La gente sta scegliendo dove vivere basandosi su opportunità di lavoro, ricreazione o stile di vita desiderato, piuttosto che sui legami
familiari.
Lo schiacciamento della percezione del tempo – Piuttosto che lavorare di più, la gente sta colmando il tempo libero con le attività ricreative, quelle educative, dedicandosi a
molteplici impegni e facendo qualunque cosa per dare l’impressione che il tempo sia scarso.
Differenziazione di consumatore e prodotto – Il pubblico
degli acquirenti sta diventando più diversificato, sia dal punto di vista etnico che demografico. I consumatori richiedono
marche che possano identificare, non solo con uno specifico
prodotto, ma anche con specifici valori.
Tecnologia emergente – La comunicazione e l’elaborazione delle informazioni sono probabilmente l’innovazione
più significativa oggi.
SOLUZIONI DI PROGETTAZIONE
STRATEGICA
Concetto dell’unità da visita (Exam pod).
Utilizzato in varie forme in medicina umana, questo concetto prevede il raggruppamento di 3 o 4 stanze da visita in
una configurazione che corrisponda il più possibile alla soluzione ideale che permette ad un medico e una équipe di
tecnici di effettuare una serie di esami simultaneamente, in
modo da poter gestire una fitta programmazione degli impegni. Questo concetto è particolarmente efficace nelle strutture che operano a livello ambulatoriale, non prevedendo il ricovero della maggior parte degli animali.
Sale da visita multifunzione (Multi-task Exam Rooms)
È possibile suddividere la zona di fondo di una stanza da
visita utilizzando una parete pieghevole. Il locale così ottenuto può servire da sala da visita nelle ore di punta del mattino e della sera e, con la parete ripiegata, rappresentare uno
spazio aggiuntivo per gli interventi terapeutici negli altri
momenti della giornata.
Ready Room
La ready room è essenzialmente una mini stanza da trattamenti adiacente a quella da visita. Questo spazio risulta
particolarmente utile nei casi in cui è stato adottato il pod
concept e la programmazione degli appuntamenti è molto
fitta. Un tecnico può effettuare gli interventi di minore entità
nella ready room, permettendo al medico di passare alla sala da visita successiva. Contemporaneamente, il cliente può
essere fatto tornare in sala da attesa ad aspettare il suo animale, liberando la stanza da visita per un altro.
Educazione interattiva
I centri di servizi per i clienti, gli sportelli per le informazioni e le aree di educazione interattiva stanno diventando degli autentici centri di aggregazione, noti oggi come
“Infotainment”. Questa idea può essere realizzata semplicemente con un computer interattivo, oppure ampliata sino al
punto da costruire un intero ospedale intorno ad un “tema”
centrale.
Stanza delle risorse.
Questo spazio, finalizzato a molti impieghi, può essere
accessibile come sala d’attesa, trattamento e uffici per i medici. Può avere un grande tavolo, simile a quello di una sala
222
da conferenze, e scaffali e scrivanie lungo i muri perimetrali. Può essere utilizzato come biblioteca, spazio di lavoro
aggiuntivo oppure combinato con i trattamenti per permettere una maggiore capacità in quell’area.
Entrata del reparto di emergenza
Le strutture che associano servizi di emergenza alle tipiche prestazioni veterinarie possono evitare qualsiasi confusione e conflitto nella sala d’attesa realizzando un accesso
separato. L’entrata di emergenza immette direttamente in un
vestibolo destinato alla valutazione della gravità del caso ed
alle prime cure, e poi in una sala per pazienti traumatizzati
in condizioni di emergenza. Da questa, si deve poter accedere immediatamente ai locali chirurgici, radiografici e, in
minor misura, da trattamento.
Express Check-in/Check-out
Analogamente a quanto avviene nel check-in di un aereoporto o di un hotel, i clienti in arrivo devono potersi dirigere
al bancone e trovare un aiuto rapido ed efficiente per i loro
animali. Il check-out deve essere effettuato in un ambiente
più privato, come una sala da visita, piuttosto che in un angolo del bancone della reception. Sia il check-in che il checkout devono essere integrati da un vicino reparto di attesa.
Centri per diagnostica per immagini
Il futuro della diagnostica si basa sulla risonanza magnetica su scala ridotta, detta E-MRI, sulla ecografia ad alta risoluzione e sulla TAC. Le cliniche di oggi, e soprattutto
quelle del futuro, dovranno essere progettate in modo flessibile per potersi adattare a questi cambiamenti.
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Veterinari donne
Molte donne che esercitano la professione veterinaria sono ancora responsabili della gestione della casa e del carico
rappresentato dalle cure dei bambini. Ciò fa sì che si dedichino al lavoro sotto forma di part-time, necessitando di un
orario flessibile e, occasionalmente, di un luogo dove lasciare un bambino durante il lavoro. Una stanza sicura e confortevole, alla quale si possa accedere direttamente dalla sala da
trattamento o da altri settori della struttura, potrebbe svolgere il duplice ruolo di ufficio e, occasionalmente, nursery.
CONCLUSIONI
La tendenza delle cliniche per animali è di diventare più
piccole e più semplici. Man mano che diventa sempre più
comune il ricorso alle procedure non invasive, si è portati a
realizzare strutture sempre più piccole, specialmente per
quanto riguarda le aree dedicate agli interventi chirurgici ed
al trattamento. Con la diffusione delle operazioni diagnostiche, gli spazi dedicati alle apparecchiature di laboratorio ed
alla diagnostica per immagini dovranno aumentare. I progressi tecnici e la miniaturizzazione renderanno le apparecchiature più piccole, meno costose e maggiormente disponibili. I computer e la tecnologia della comunicazione permetteranno di accedere sempre più facilmente alle informazioni,
nonché di stabilire una rete di contatti con professionisti,
università e specialisti di svariati livelli. Le cliniche veterinarie del futuro dovranno essere in grado di flettersi per
adattarsi alle innovazioni tecnologiche, alle modificazioni
della apparecchiature ed alle mutate esigenze.
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Uno sguardo al futuro della progettazione
delle strutture veterinarie
Mark Hafen
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Apparentemente, l’unica cosa costante oggi è il cambiamento, dal momento che la tecnologia continua a svilupparsi in modo esplosivo, l’economia locale diventa sempre più
quella globale e la popolazione mondiale aumenta; l’ambiente in cui vivete diventa sempre più mutevole. Se non
prevedete di cambiare, resterete indietro. Negli ultimi anni,
abbiamo visto la professione veterinaria passare:
- Dagli animali da reddito agli animali da compagnia.
- Dal tavolo della cucina ad una sala operatoria pulita.
- Dall’utilità, al lusso, alla necessità.
- I veterinari sono oggi impegnati in una zuffa furibonda per
arraffare il proprio futuro piuttosto che costruirlo.
Nella presente relazione, vorrei parlarvi del modo in cui
fare progetti per il futuro basandosi sulla conoscenza delle
influenze esterne ed interne che possono agire sulla vostra
professione. Vi chiederete, come potete farlo? La risposta è
relativamente semplice. La progettazione strategica è una
combinazione di osservazione e potenzialità. Una buona
progettazione è contestuale. Nella progettazione di qualsiasi
costruzione, è necessario prendere in considerazione l’ambiente che circonda la vostra struttura. Non stiamo parlando
solo dell’ambiente fisico. Questo è solo la punta dell’iceberg. È importante che consideriate anche il mercato e le
tendenze sociali che influiscono sulla vostra struttura. Il vostro progetto esiste come un momento nel tempo, ma è anche potenzialmente in grado di riflettere un continuum storico. Dando uno sguardo alla vostra comunità, al mercato, alle vostre competizioni ed ai vostri clienti, potete iniziare a
sviluppare un quadro della rete in cui dovrete inserire la vostra nuova struttura.
Una buona progettazione richiede anche l’esplorazione
delle possibilità o potenzialità. Al momento di considerare il
modo in cui esercitate la professione o la struttura in cui lo
fate ora chiedetevi: perché no? È solo abbattendo i preconcetti che potrete esplorare le potenzialità esterne.
IL QUADRO DELLA SITUAZIONE ORA
Specializzazione e visite di consulto
Invece di cercare di dare tutto a tutti, i veterinari stanno
imparando ad utilizzare l’enorme corpus di conoscenze ed
esperienze su cui possono oggi fare facilmente affidamento
in modo specialistico. Sfortunatamente, quando ciò si verifica, i clienti rilevano un drastico incremento del costo delle
cure. È la stessa cosa che è accaduta nel campo della Sanità
umana negli anni ’60, quando iniziò a diffondersi la specializzazione. Come è avvenuto per la medicina umana, anche
nel settore veterinario sarà quindi necessario affrontare le ripercussioni dell’aumento dei costi medici.
Modificazioni di sesso e generazione
Invece di utilizzare le disuguaglianze del passato come
metro di misurazione per le proiezioni future, l’industria veterinaria sta iniziando a valorizzare il ruolo delle donne nella medicina.
Secondo una recente segnalazione dell’US Department
of Labor, le piccole attività imprenditoriali in possesso delle
donne sono la parte dell’economia americana in più rapida
crescita!
Somministrazione per via orale di vaccini
e prodotti antipulci e per il controllo
delle nascite
In un futuro molto prossimo, possiamo ragionevolmente
prevedere che la somministrazione di farmaci a scopo profilattico diventerà estremamente comune in ambito veterinario. In
effetti, esiste anche la possibilità distinta che alcuni di questi
farmaci diventino disponibili come prodotti da banco e non richiedano alcuna prescrizione. Di conseguenza, potrebbe essere eliminata una porzione significativa delle cure prestate agli
animali ed eventualmente anche delle prescrizioni dei farmaci.
Espansione dei servizi
Non è passato molto tempo da quando un veterinario che
vendesse alimenti e prodotti per animali nella sua struttura
era ritenuto poco professionale. Ovviamente, i tempi sono
cambiati. I veterinari forniscono oggi una gamma di prestazioni professionali e di servizi molto più ampia. Questi servizi ampliati possono esser grossolanamente suddivisi in tre
categorie: comodità, consulti e cure mediche diversificate.
Servizi come le pensioni per animali, la toelettatura e la vendita al minuto di svariati prodotti sono ovviamente delle comodità. Le indicazioni relative alla scelta di un animale da
compagnia, agli aspetti comportamentali ed alla nutrizione
224
sono chiaramente delle forme di consulenza. La profilassi
dentale, l’agopuntura e la medicina omeopatica sono esempi di cure mediche diversificate. Nel caso dei servizi basati
sulla comodità, la spinta all’offerta di queste prestazioni è
principalmente data dal desiderio di aumentare le entrate.
Per i consulti ed i servizi diversificati, la spinta è invece
principalmente rappresentata dal desiderio di fornire ai
clienti un livello di cure più completo e più elevato.
Negli ultimi anni, sulle riviste, abbiamo avuto il modo di
vedere un enorme aumento del numero delle strutture realizzate in modo da prevedere spazi significativi destinati alla
pensione per animali ed alla toelettatura. La tendenza verso
questi servizi sembra estremamente dominante, e fino ad un
certo punto lo è. D’altra parte, sembra anche esistere una buona base di strutture che offrono servizi di consulti e prestazioni diversificate. Anche se possono non essere altrettanto
visibili, ritengo che queste strutture sostengano il futuro della
medicina veterinaria perché stanno aumentando il loro rendimento economico focalizzando le loro risorse sulla medicina.
Fusione
Negli ultimi anni Wall Street e in particolare le aziende
di capitali hanno progressivamente aumentato il loro interesse nei confronti delle industrie frammentate, come quella
veterinaria, per cercare di arrivare ad una fusione augurandosi, dal loro punto di vista, di ottenere un rafforzamento ed
un dominio. L’industria veterinaria, costituita approssimativamente da 16.000 cliniche a gestione privata, molte delle
quali a conduzione familiare, è ormai matura per la fusione.
In passato, ciò è avvenuto ai piccoli negozi vicino a casa che
si sono trasformati nell’industria dei grandi magazzini per
animali da compagnia. Lo stesso si è verificato in altri settori come l’ottica, le pompe funebri e l’interramento o la raccolta rifiuti. In un campo molto vicino e parallelo a quello
veterinario, quello della Sanità umana, si è verificata una impressionante fusione quando le Health Management Organizations (Organizzazioni per la gestione della Sanità) si sono
rivolte al mercato della salute umana.
L’unica area dove la fusione è stata enormemente efficace finora dal punto di vista veterinario è stata l’unione di singoli professionisti per formare delle megastrutture mediche,
che spesso associano i servizi di emergenza e di Pronto Soccorso, la Terapia intensiva, le prestazioni specialistiche e la
pratica generica. In effetti, mentre il processo di unione o
crescita di una simile struttura può essere estremamente tumultuoso, è stato dimostrato che il mercato per questo tipo
di attività professionale è ben definito. Inoltre, questa forma
di fusione ha permesso a singoli veterinari di condividere
costi, investimenti di capitale, spese di personale, carichi di
lavoro e programmazione.
PROFILI PROFESSIONALI
ED ASPETTI ECONOMICI
Come esempio di strutture che hanno messo in atto i concetti della progettazione strategica si possono prendere in considerazione le Strutture di Successo. Negli ultimi anni, due dif-
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ferenti organizzazioni, la Hill’s, in associazione con Arthur
Andersen e VCM Inc. e la Veterinary Economics in associazione con Cynthia Wutchiett hanno preso in esame le strutture “di successo” o “ben gestite” confrontandole con quelle di
livello medio. Entrambi questi studi hanno evidenziato che
esiste una divergenza progressivamente maggiore fra le strutture medie e quelle “di successo” utilizzando come metro di
misurazione il reddito lordo per veterinario. Lo studio della
Hill’s del 1993 ha rilevato che nelle strutture “di successo” tale reddito era pari ad 1,5 volte quello medio delle cliniche dell’AVMA; $313.000 contro $199.000. La più recente indagine
della Veterinary Economics ha evidenziato una analoga differenza.
Caratteristiche di una struttura
di successo
Influenza dello staff – Nello studio della Hill’s, nelle
strutture di successo erano presenti 3,2 elementi dello staff di
sostegno per veterinario, a differenza del valore medio di 2,4.
Nella più recente indagine della Veterinary Economics, questo rapporto nelle strutture di successo è aumentato a 3,5. Lo
studio della Veterinary Economics ha anche evidenziato che
nella maggior parte di queste strutture di successo operano
solo da 2 a 4 veterinari. L’aumento del numero dello staff di
sostegno vi permette di incrementare il rendimento dei vostri
veterinari. Considerando ad esempio il settore dell’odontoiatria umana, si può facilmente osservare fino a che punto un
dentista medio possa aumentare il proprio rendimento con
l’aiuto dei tecnici. In uno studio recentemente condotto sulla
attività professionale specialistica/di consulto abbiamo riscontrato che ogni specialista ha a disposizione un tecnico
che si dedica unicamente ad “accelerare” il suo lavoro.
Servizi medici completi – Più di 8 cliniche ben gestite su
10, pur non avendo necessariamente degli specialisti nello
staff, offrono una vasta gamma di servizi specializzati nei settori della dermatologia, oftalmologia, cardiologia, chemioterapia, consulenza riproduttiva, citologia ed ortopedia. Inoltre,
la maggior parte delle strutture ben gestite offre servizi di
analisi di laboratorio ambulatoriali, in particolare per quanto
riguarda il profilo biochimico e le colture micotiche. Quasi la
metà di queste strutture è ancora in grado di risolvere le proprie emergenze. La maggior parte di esse offre anche un orario di attività prolungato ed una consulenza nei settori del
comportamento animale e della nutrizione. In conclusione,
anche se in molti casi le strutture di successo offrono i servizi di pensione e toelettatura come attività collaterali per la comodità del cliente, sembra che il loro successo si basi sulla
loro capacità di garantire servizi medici completi e costanti.
Centri di profitto identificati – La tendenza nelle strutture di successo è quella di allontanarsi dalle rendite derivanti
dalle vaccinazioni e volgersi a servizi e prodotti medici
(mentre le entrate complessive hanno fatto riscontrare un
drastico incremento, nel 1997 quelle derivanti dalle vaccinazioni, espresse come percentuale del totale, sono cadute al
30% dei livelli del 1990). Inoltre, nella maggior parte delle
strutture di successo, i prezzi dei prodotti come i vaccini sono diminuiti, mentre gli onorari per le visite sono aumentati. Sembra che le strutture di successo stiano riuscendo a vol-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
gersi verso determinate componenti della pratica professionale relative a certi servizi per gli aumenti degli onorari, evitando quelli dei prezzi dei prodotti commercializzati.
SVILUPPO DI UNA PROGRAMMAZIONE
STRATEGICA
Un altro nome della programmazione strategica è quello
di pianificazione guidata. Nei modelli di programmazione
convenzionale, l’architetto ed il proprietario si confrontano
sul piano delle quantità o delle dimensioni, non della qualità.
Ad esempio, un programma clinico convenzionale può descrivere il numero di sedie della sala d’attesa, delle stanze da
visita, dei tavoli da visita, delle gabbie per i gatti o dei tavoli operatori. Oppure, può specificare le dimensioni dei locali destinati alla visita, agli esami radiografici o alla chirurgia.
Nella programmazione convenzionale, proprietario ed architetto non tentano di identificare mete, valori o attività professionale; si concentrano invece sui numeri. Nei programmi guidati, dovete partire dal presupposto che voi intervenite nel processo di progettazione, in modo da identificare
eventuali trascuratezze e conclusioni errate.
SOLUZIONI DI PROGETTAZIONE
CHE CRESCONO DA UN DISEGNO
STRATEGICO
Quella che segue è una lista di un certo numero di differenti tipi di costruzioni che si possono avere come conseguenza di un Progetto Strategico della struttura:
Struttura ambulatoriale
In passato, questo tipo di struttura è stato spesso indicato col termine denigratorio di “dottore nella scatola”; si tratta di una caratterizzazione sgradevole e poco accurata. Con
1-3 veterinari che vi operano, situate di solito in locali di circa 150 m2, queste strutture si trovano sia nei centri delle città
che nelle aree commerciali suburbane. Sono comode ed accessibili. Potenzialmente, sono la porta d’ingresso attraverso
la quale il pubblico può accedere all’intera gamma della prestazioni specialistiche che la categoria offre loro.
Inoltre, queste strutture spesso producono il più elevato
reddito totale netto e anche le massime entrate lorde per m2.
Cliniche di livello medio
Le cliniche di questo tipo possono essere caratterizzate
nel modo più facile dal momento che rappresentano lo status quo della professione veterinaria. Di dimensioni variabili da circa 250 a 550 m2, queste strutture offrono il normale
contingente di servizi medici veterinari unito ad un livello
superficiale di servizi ampliati come la pensione per animale, la toelettatura o la vendita al dettaglio.
Strutture specialistiche/di consulto e megastrutture
mediche
Probabilmente, si tratta del più eccitante fra i nuovi tipi
225
di strutture attualmente progettate. Anche se possono essere
piccole, tanto da essere limitate ai centri dove operano uno o
due specialisti in chirurgia ortopedica, la maggior parte di
queste strutture associa i talenti di un’ampia gamma di specialisti: oftalmologi, oncologi, dermatologi, radiologi, specialisti in medicina interna ed in chirurgia. Inoltre, la struttura specialistica può essere localizzata al piano superiore di
una generica, in modo da formare una megastruttura medica
che agisce come un polo di attrazione nei confronti dei clienti e dei casi inviati dai colleghi per consulenza. Queste megastrutture operano sinergicamente combinando l’attività di
numerose strutture separate e distinte e le abilità di diversi
operatori in modo da ottenere dei centri dinamici e potenti di
risorse mediche. Inoltre, permettono ad un certo numero di
entità più piccole di ripartire i costi della gestione di una
struttura e delle attrezzature.
Pet Spa and Resort
Un altro tipo di struttura nuovo ed eccitante è la Pet
Spa and Resort. Stiamo assistendo alla loro nascita nelle
principali aree metropolitane, di solito in posizione facilmente accessibile alle aree suburbane. Queste strutture
tendono a sottolineare gli aspetti lussuosi e ameni che
possono essere offerti ai clienti. Comprendono corsi di
aerobica e ginnastica, massaggio, idroterapia, alimenti e
bocconcini di alta qualità (gourmet) per animali da compagnia, ricoveri simili ad appartamenti, centri di toelettaura paragonabili a saloni di bellezza ed ampie aree
esterne a disposizione degli animali. Queste strutture sono spesso così attraenti da poter richiamare la clientela
anche da aree situate al di fuori della immediata zona
geografica di mercato. Queste strutture attirano principalmente gli anziani benestanti che vivono da soli e i clienti
con i colletti bianchi.
Veterinary Health Wellness Resource Center
Al momento attuale, non esiste alcun esempio di Veterinary Health Wellness Resource Center. In medicina umana, esiste una stretta somiglianza nel Women’s Health Pavilion di alcuni ospedali. Se avete avuto modo di confrontare un tipico reparto ospedaliero di ostetricia/ginecologia
o un consultorio con un Women’s Health Pavilion, avrete
riscontrato come quest’ultimo sia sensibile al mercato ed
orientato in funzione dei servizi piuttosto che alla gestione
di una crisi medica.
Un Veterinary Health Wellness Resource Center dovrebbe:
- sottolineare le cure volte al mantenimento del benessere
degli animali e non alla risoluzione delle situazioni di crisi; come tale deve disporre di locali per i consulti
- offrire una completa gamma di servizi medici, sia per
quanto riguarda le cure da prestare all’animale nel corso
della vita che per gli interventi specialistici
- offrire al cliente delle opportunità di imparare attraverso
seminari, biblioteche e centri di educazione interattiva
- fornire cure mediche in un ambiente adeguato e di sostegno; una calda atmosfera familiare, anche se professionale,
sia per i clienti che per i pazienti
- rendere facilmente ottenibili ed accessibili le cure mediche
- fornire servizi e non prodotti.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
227
Approccio diagnostico e terapeutico al paziente felino
in condizioni di emergenza
Steve Haskins
DVM, Dipl. ACVA, Dipl. ACVECC
University of California - Davis, California (USA)
I gatti in condizioni critiche possono aver bisogno di
molteplici interventi. Di conseguenza, esistono molti fattori
da prendere in considerazione in ognuno di questi casi, ogni
giorno e, in effetti, ogni volta che il paziente viene esaminato. Non prestare attenzione ad uno qualsiasi di questi elementi potrebbe vanificare tutte le cure prestate all’animale.
Lo status di tutti gli organi ed apparati dipende in primo
luogo dalle funzioni cardiovascolari e polmonari, che devono quindi essere valutati per primi. Il battito cardiaco è troppo frequente o troppo lento (tenendo presente che l’intervallo normale è di 100-160 battiti/minuto)? Sono presenti delle
aritmie o dei soffi? La qualità del polso (gittata sistolica) è
adeguata? In che condizioni è il tono vasomotore (perfusione
tissutale)? Il volume ematico del gatto (50/60 ml/kg) è piuttosto piccolo rispetto a quello del cane (80-90 ml/kg). Di
conseguenza, infondere in un gatto un volume di liquidi adatto ad un cane della stessa taglia può comportare un relativo
sovraccarico. I gatti normali probabilmente non sono più sensibili all’edema polmonare da eccessiva somministrazione di
liquidi, dal momento che i volumi impiegati nella fluidoterapia dello shock vengono ridotti per adeguarsi al minor volume ematico di questi soggetti. Inoltre, si sospetta che i gatti
possano essere colpiti da cardiopatie poco evidenti che non si
manifestano clinicamente, ma possono influire sulle loro capacità di gestire un imponente carico di fluidi. La fluidoterapia in bolo, nei felini, può richiedere un monitoraggio più rigoroso che nel cane. La risposta fondamentale del gatto ai
differenti tipi di fluidi (cristalloidi isotonici/ipertonici, colloidi, emoderivati) è fondamentalmente la stessa del cane, una
volta effettuate le variazioni quantitative imposte dal minor
volume ematico. A proposito delle trasfusioni di sangue, ed
in particolare di eritrociti, tuttavia, esistono alcune differenze. Nel gatto domestico, sono stati identificati comunemente
solo due antigeni eritrocitari, A e B. I gatti domestici a pelo
corto “meticci” sono praticamente tutti di tipo A. Il riscontro
di popolazioni di tipo B è più probabile nelle razze pure quali scottish fold, birmano, himalaiano, abissino, somalo, persiano, cornish e devon rex e british shorthair. I gatti di tipo A
possiedono bassi titoli di anticorpi anti-B spontanei.
Quelli di tipo B presentano elevati titoli di forti anticorpi
anti-A naturali. Le trasfusioni fra soggetti emocompatibili sono state associate ad un periodo di sopravvivenza medio di
eritrociti marcati compreso fra 29 e 39 giorni. Molteplici trasfusioni emocompatibili di gatti presumibilmente di tipo A
esitano in un accorciamento della sopravvivenza media degli
eritrociti. La trasfusione di sangue di tipo B in gatti di tipo A
è stata associata ad una sopravvivenza eritrocitaria media di 2
giorni ed a reazioni da trasfusione di minore entità, mentre le
trasfusioni di sangue di tipo A in gatti di tipo B sono state associate ad una sopravvivenza eritrocitaria media di 1 ora ed a
marcate reazioni da trasfusione. La tipizzazione del sangue
del soggetto donatore può essere utile, tuttavia è anche necessario conoscere il gruppo sanguigno di appartenenza, per assicurarsi che la trasfusione venga effettuata fra soggetti compatibili. Le prove di compatibilità crociata possono essere più
importanti nel gatto che nel cane, che non possiede forti anticorpi naturali preesistenti nei confronti degli altri antigeni eritrocitari. La quantità di sangue intero da somministrare è pari
alla metà circa di quella necessaria nel cane per ottenere l’aumento desiderato della concentrazione dell’emoglobina: 1
ml/kg per punto percentuale di incremento auspicato.
La ventilazione e l’ossigenazione dell’animale, al momento, sono adeguate? Qual è il suo stato mentale, sia per quanto
riguarda le specifiche malattie intracraniche che per la progressione generale del quadro clinico? In che condizioni sono
le funzioni degli organi viscerali, in particolare quelli dell’apparato urinario e gastroenterico, sia per quanto riguarda le
specifiche malattie che in riferimento alla perfusione viscerale complessiva? Qual è lo status dei parametri ematologici, in
particolare per quanto riguarda ematocrito, albuminemia, numero dei leucociti e formula eritrocitaria e coagulazione?
Qual è lo stato di idratazione del paziente (turgore della
cute, umidità delle mucose, equilibrio idrico, modificazioni
giornaliere del peso corporeo, volume urinario, peso specifico
dell’urina e concentrazione del sodio urinario)? Ovviamente,
lo scopo è quello di portare e mantenere un animale in adeguate condizioni di idratazione e di equilibrio elettrolitico. I
fabbisogni di fluidi dei mammiferi sono legati a quelli energetici, secondo un rapporto di circa 1 (ml) ad 1 (kcal). Dal momento che, rispetto a quella della maggior parte dei mammiferi, l’attività giornaliera di un gatto è minima, anche il dispendio energetico è limitato -–80 x kcal3/4 (rispetto a 132 del
cane e 140 dell’uomo). Il normale fabbisogno giornaliero di
acqua per il gatto viene calcolato con questa formula.
Peso
corporeo (kg)
Fabbisogno giornaliero
di acqua
ml/kg/die
ml/ora
1
2
3
4
5
80
135
180
225
268
80
72
61
57
53
3
5
7
9
11
228
38° Congresso Nazionale SCIVAC
I valori degli elettroliti e dell’equilibrio acido-basico nel
gatto sono solo leggermente diversi da quelli del cane.
Na+
Osmo
K+
Cl-
HCO3-
145-160
290-310
3,5-5,5
95-115
18-22
pHa
PaCO2
PaO2
Deficit di basi
7,34-7,43
28-35
100-115
da –1 a –8
Tutte le operazioni alle quali viene sottoposto il paziente si
svolgono in condizioni di asepsi, per evitare l’insorgenza di infezioni nosocomiali (ospedaliere)? I gatti con malattie contagiose (rabbia, affezioni respiratorie) devono essere rigorosamente isolati. Quelli in condizioni critiche devono essere separati dagli altri, per quanto possibile, per ridurre al minimo la
diffusione delle infezioni. Da questo punto di vista, la cosa più
importante che si possa fare è lavarsi le mani fra un paziente e
l’altro. È anche importante indossare guanti monouso quando
si opera in aree infette e rispettare le regole dell’asepsi durante
l’inserimento ed il successivo mantenimento dei cateteri permanenti. Il termine di “benessere” (comfort) del paziente comprende una vasta gamma di considerazioni. È stato garantito il
comfort fisico (cioè l’animale è stato appoggiato su un giaciglio ben imbottito, viene spostato regolarmente se è immobile
ed è stato ripulito da urina, feci e sangue)? È stato assicurato il
comfort psicologico (c’è qualcuno vicino all’animale che si occupa di lui e lo rassicura che tutto va bene ed è stato previsto
un momento per le visite del proprietario)? Se l’animale prova
dolore, sono stati somministrati degli analgesici? A questo proposito, occorre ricordare che esistono alcune differenze fra il
gatto e le altre specie animali. Nei felini, alle dosi analgesiche
gli oppiacei si possono utilizzare senza rischi. In dosi elevate
provocano invece eccitazione del SNC e sono da evitare. Gli
antiprostaglandinici presentano degli effetti negativi più gravi
nel gatto rispetto al cane (irritazione ed ulcerazione gastroenterica, tromboastenia), per cui occorre diminuirne dosaggi e protocolli di somministrazione. L’acetaminofene è sicuro nell’uomo e nel cane, mentre nel gatto una sola somministrazione può
causare metemoglobinemia, anemia emolitica a corpi di Heinz
ed epatotossicità, per cui non va utilizzato in questa specie. L’eventuale intossicazione accidentale va trattata inducendo l’emesi (entro le prime 2 ore) e somministrando carbone attivo,
acetilcisteina (140 mg/kg inizialmente, seguiti da 70 mg/kg
ogni 6 ore per 2 giorni) e cimetidina (5 mg/kg ogni 6 ore).
Quanto tempo è passato dall’ultima volta che l’animale è
stato alimentato in modo adeguato? Non esistono segni specifici o parametri misurabili che permettano di diagnosticare in modo affidabile una malnutrizione acuta; questi pazienti, semplicemente, “deperiscono”.
In generale, si deve correggere la nutrizione entro tre giorni
dall’ultimo pasto completo, se il paziente “non sembra andare
bene” dal punto di vista clinico, se le ferite guariscono male o
in presenza di processi settici. I gatti, in particolare, sono esposti al rischio di sviluppare una lipidosi epatica in caso di brusca
interruzione dell’assunzione di cibo, per cui si deve riprendere
precocemente ad alimentarli. I gatti possono mangiare spontaneamente se il cibo viene aromatizzato, oppure possono inghiottire un alimento della consistenza di un semolino se questo viene loro posto nello spazio fra la guancia ed i denti. Le
sonde rinogastriche sono facili da applicare e vengono comunemente utilizzate per l’alimentazione temporanea dei pazienti
in condizioni critiche che non sono in grado di mangiare da soli. Quando è necessario ricorrere all’alimentazione paraenterale
per periodi più prolungati, si impiega la sonda gastrostomica.
Fabbisogni energetici nel gatto
Peso
corporeo
(kg)
1
2
3
4
5
6
8
Dispendio energetico
minimo stimatoa
(kcal/die) (kcal/ora)
70
118
160
198
234
268
333
3
5
7
8
10
11
14
Dispendio energetico
massimo stimatob
(kcal/die) (kcal/ora)
105
177
239
297
351
403
499
4
7
10
12
15
17
21
a
70 x Peso kg0,75 (Dispendio energetico a riposo - DER); per gli animali in gabbia, con un livello di attività minimo ed un livello di stess da
malattia di minore entità.
b
1,5 x DER; per i gravi stress da malattia. Allattamento, fasi finali della gravidanza ed attività fisica intensa possono aumentare i fabbisogni
energetici fino a 4-6 x DER.
I fabbisogni nutrizionali del gatto sono differenti; cane e
uomo possono accettare una dieta vegetariana, ma il gatto no.
In questa specie animale, il fabbisogno di proteine, ed in particolare di arginina, è più elevato e rende inevitabile l’impiego
di una fonte proteica carnea. La stasi gastroenterica può imporre la somministrazione di agenti procinetici come la metoclopramide (0,05.0,1 mg/kg/ora IV per infusione endovenosa
costante [CRI]), la cisapride (0,1-0,5 mg/kg PO ogni 8 ore),
l’eritromicina (0,5-1,0 mg/kg PO, IV ogni 8 ore) o il betanecolo (0,1-0,3 mg/kg SC ogni 4 ore; 0,5-1,0 mg/kg PO ogni 8
ore).
Checklist di controllo delle cure del paziente
1. Funzione dei diversi apparati
Cardiovascolare
Polmonare
Mentale
Viscerale
Ematologico
Specifico delle diverse malattie
2. Idratazione ed equilibrio elettrolitico
Equilibrio fra assunzioni e perdite, variazioni del peso
corporeo
Potassio, sodio, bicarbonato, calcio, magnesio
3. Strategie di trattamento della malattia primaria
4. Controllo delle infezioni
Corretto inserimento e manutenzione dei cateteri
permanenti
Procedure asettiche
5. Comfort del paziente
Fisico – imbottiture? Pulito e asciutto?
Psichico – cure adeguate? Visite del proprietario? Dorme abbastanza?
Dolore – analgesici?
6. Nutrizione
7. Registrazioni mediche
38° Congresso Nazionale SCIVAC
229
Problemi più frequenti dell’equilibrio fluido
ed elettrolitico in terapia intensiva
Steve Haskins
DVM, Dipl. ACVA, Dipl. ACVECC
University of California - Davis, California (USA)
DIARREA
INSUFFICIENZA RENALE ACUTA
Nella diarrea, si riscontrano le seguenti concentrazioni
elettrolitiche: sodio, 60-120 mEq/l; potassio, 10-25 mEq/l;
bicarbonato, 30-50 mEq/l; cloro, 50-80 mEq/l. Gli animali
colpiti sono comunemente disidratati, ipernatremici, ipokalemici, ipercloremici e con acidosi metabolica. È quindi indicata l’infusione di una soluzione cristalloide polionica ed
isotonica con un anione bicarbonato-simile.
L’insufficienza renale oligurica/anurica è associata alla
ritenzione di prodotti terminali del metabolismo. Questi pazienti possono essere iponatremici, iperkalemici, ipocloremici e colpiti da acidosi metabolica. Possono essere disidratati perché non si sentono bene e non bevono. Si può riscontrare un edema secondario alla ritenzione di fluidi che dovrebbero invece essere escreti per via renale. La fluidoterapia va monitorata strettamente perché il rene non è in grado
di eliminare i liquidi in eccesso.
VOMITO
Il vomito è solitamente associato a rigurgito del fluido
duodenale, per cui le concentrazioni elettrolitiche nette risultano pari a 60-120 mEq/l di sodio, 6-25 mEq/l di potassio, 30-50 mEq/l di bicarbonati e 50-100 mEq/l di cloro. Il
vomito “duodenale” può essere riconosciuto in base alla
colorazione verdastra/giallastra del materiale emesso o al
suo pH alcalino; questo tipo di emesi è di gran lunga quello più comune.
Questi animali sono comunemente disidratati, ipernatremici, ipokalemici, ipercloremici e con acidosi metabolica.
Alcuni bevono molto e, di conseguenza, sono iponatremici.
Il vomito “gastrico” comporta unicamente la perdita dei fluidi contenuti nello stomaco (sodio 40-80 mEq/l; potassio 510 mEq/l; bicarbonati 0 mEq/l; cloro 120-160 mEq/l) ed è
causa di ipernatremia, ipokalemia, ipocloremia ed alcalosi
metabolica.
Il vomito duodenale va trattato con cristalloidi polionici
ed isotonici e con un anione simile al bicarbonato. Per il vomito gastrico è indicata la soluzione fisiologica.
DILATAZIONE/TORSIONE
DELLO STOMACO
Il fluido gastrico viene sequestrato all’interno dello
stomaco ed il paziente sviluppa una grave acidosi metabolica, conseguente ala distensione ed all’impedimento fisico del ritorno venoso e della perfusione anterograda. Oltre
a correggere il processo patologico primario, è indicata
una fluidoterapia isotonica con l’infusione di abbondanti
volumi di fluidi. È anche comunemente indicata la terapia
alcalinizzante.
SHOCK SETTICO
I pazienti con shock settico sono comunemente in ipotensione, ipoproteinemia ed anemia. Si possono riscontrare
anomalie elettrolitiche dipendenti dal processo patologico
primario.
IPOKALEMIA
L’ipokalemia è associata a debolezza della muscolatura
scheletrica, gastroenterica e miocardica e può essere accompagnata da alterazioni elettrocardiografiche opposte a quelle
dell’iperkalemia (anche se non si tratta di variazioni caratteristiche): appiattimento dell’onda T, onde U (deflessione positiva che segue l’onda T), sollevamento dell’onda P, aumento dell’ampiezza dell’onda R e depressione del segmento S-T. L’ipokalemia è anche associata a depressione del
SNC e ad un’alterazione della capacità dei nefroni di concentrare l’urina.
L’ipokalemia è principalmente attribuita ad eccessive
perdite anormali (vomito, diarrea, diuresi), disidratazione
(perdite renali mediate dall’aldosterone) e mancata assunzione. Può anche essere causata da ipocloremia, iperadrenocorticismo, alcalosi metabolica (inorganica)/respiratoria,
somministrazione di bicarbonati, trattamento con beta2-agonisti ed ipokalemia periodica familiare.
Un paziente gravemente ipokalemico va trattato con una
dose di carico di potassio.
Quest’ultimo non va somministrato troppo velocemente.
Le sue concentrazioni nei liquidi impiegati possono variare
da 10 a 50 mEq/l.
L’iperkalemia iatrogena, con velocità di infusione ec-
230
cessivamente elevate, può essere prevenuta 1) non effettuando un’infusione eccessiva, 2) non somministrando il
potassio più rapidamente di quanto possa essere ridistribuito nello spazio intracellulare (0,5 mEq/kg/ora) e 3) effettuando il monitoraggio continuo dell’ECG e del potassio plasmatico.
IPERKALEMIA
L’iperkalemia provoca la comparsa di alterazioni elettrocardiografiche: onda T alta, ripida e stretta, onde P piccole,
intervalli P-R prolungati, bradicardia ed ampliamento dei
complessi QRS. L’iperkalemia può anche causare debolezza
muscolare periferica, diminuzione della contrattilità miocardica, polso debole ed ipotensione ed asistolia o fibrillazione
ventricolari.
La misurazione dei livelli delle proteine plasmatiche permette di definire la potassiemia (normale, iperkalemia,
ipokalemia). Le alterazioni ECG evidenziano se l’animale
presenta o meno dei problemi elettrici derivanti dalla squilibrio potassico. Esistono considerevoli variazioni individuali
fra la kalemia e la risposta del paziente ad essa; il riscontro
di gravi variazioni dell’ECG indica un’emergenza potenzialmente letale che richiede un’immediata terapia.
L’iperkalemia è principalmente causata da nefropatia oligurica/anurica, ipoadrenocorticismo e cause iatrogene. Può
anche essere dovuta a rabdomiolisi, acidosi metabolica
(inorganica)/respiratoria ed iperkalemia familiare periodica.
Si possono anche riscontrare falsi incrementi se il campione
di sangue prelevato non viene analizzato entro un certo limite di tempo, in seguito all’emolisi (solo nei cani akita) o
alla degradazione delle piastrine o dei leucociti (solo in caso
di grave trombocitosi o leucocitosi).
L’iperkalemia potenzialmente letale va trattata con la
somministrazione di calcio (0,2 ml di cloruro di calcio al
10% o 0,6 ml di calcio gluconato al 10% per kg di peso corporeo, per via endovenosa).
Gli effetti del calcio sono di breve durata (20-30 minuti),
dal momento che cessano quando questo elemento viene ridistribuito. Insulina e glucosio (0,1-0,25 unità di insulina
amorfa/kg, sotto forma di bolo endovenoso, e, rispettivamente 0,5-1,5 g di glucosio/kg, per infusione endovenosa
nell’arco di due ore) hanno un’insorgenza di azione più lenta (10 minuti), ma una durata più lunga (3 ore). Anche il bicarbonato determina la ridistribuzione intracellulare del potassio se viene somministrato per l’acidosi. Lo stesso effetto
si ha con gli agenti simpaticomimetici con attività beta2-agonista, ma il loro margine terapeutico è più ristretto. I farmaci specifici ad azione beta2 (terbutalina) sono associati a tachicardia ed ipotensione, mentre quelli generici beta1&2
(adrenalina, dopamina) sono accompagnati da tachicardia,
aritmie ed ipertensione.
IPERNATREMIA
La concentrazione del sodio dipende principalmente dall’equilibrio idrico; l’ipernatremia corrisponde per definizione ad un deficit di acqua libera. La natremia è importante
38° Congresso Nazionale SCIVAC
perché questo ione è il principale regolatore dell’osmolalità
extracellulare. Quest’ultima influisce notevolmente sul flusso dei fluidi attraverso le membrane cellulari: l’ipernatremia/iperosmolalità provoca una disidratazione intracellulare. I livelli del sodio (cioè l’equilibrio fra sodio ed acqua)
non corrispondono al contenuto di questo elemento (il numero totale delle molecole di sodio [e di acqua] nel fluido
extracellulare). L’eccesso di sodio ed acqua (soluzione fisiologica) si manifesta con la comparsa di edema, mentre la carenza determina uno stato di disidratazione. Gli animali disidratati sono spesso ipernatremici, ma possono anche essere normonatremici o iponatremici a seconda della natura della perdita idrica.
Diarrea, vomito e urina (di solito) possiedono concentrazioni sodiche comprese fra 60 e 120 mEq/l. La perdita di
acqua è relativamente superiore a quella del sodio, per cui
questi pazienti risultano ipernatremici. Le perdite profuse
attraverso una qualsiasi di queste tre vie, e tutte le perdite
del “terzo spazio”, risultano isotoniche; in questi casi, i pazienti possono essere normonatremici. Gli animali che, in
risposta a queste perdite, bevono molta acqua, possono diventare iponatremici.
Cause di ipernatremia
I. Ipovolemia, Disidratazione
A. Perdita idrica con eccesso di sodio
1. Vomito, diarrea
2. Diuresi osmotica
3. Aumento delle perdite insensibili - polipnea
B. Insufficiente assunzione di acqua libera
1. Inaccessibilità dell’acqua
2. Ipodipsia primaria
II. Ipervolemia, Edema
A. Eccessiva assunzione o somministrazione di sodio
B. Somministrazione di soluzioni ipertoniche di cloruro
di sodio o bicarbonato di sodio
C. Iperadrenocorticismo
III. Normovolemia
A. Diabete insipido
Reset osmostat
B. Cause iatrogene – somministrazione di soluzioni per
coprire le esigenze di mantenimento
L’ipernatremia acuta provoca una disidratazione intracellulare. La presenza di livelli elevati di sodio può essere
rapidamente corretta riportando i valori alla normalità. Nell’arco di un giorno circa, l’encefalo produce una miriade di
molecole differenti che costituiscono delle osmoli intracellulari per favorire il ritorno alla normalità del volume intracellulare. I tentativi di correggere rapidamente l’ipernatremia dopo questo arco di tempo con la somministrazione di
acqua libera causano un deterioramento neurologico secondario ad edema cerebrale. Nella maggior parte delle situazioni cliniche la condizione perdura da più di un giorno, per
cui tutte le gravi forme di ipernatremia (> 165 mEq/l devono essere corrette lentamente (con un calo della concentrazione sodica non superiore ad 1 mEq/ora). È stato calcolato
che questo risultato si può ottenere con la somministrazione
di destrosio al 5% in acqua alla velocità di 3,5 ml/kg/ora. La
correzione dei gravi squilibri sodici può richiedere un gior-
38° Congresso Nazionale SCIVAC
no o due.
231
o se il deficit di basi è superiore a 10 mEq/l o se la concentrazione di bicarbonati è inferiore a 14 mEq/l.
IPONATREMIA
ALCALOSI METABOLICA
Cause di iponatremia
I. Ipervolemia/edema
A. Insufficienza cardiaca, cirrosi
B. Iatrogena
II. Normovolemia
A. Inappropriata secrezione di ADH
B. Affezioni ipotalamiche
C. Pneumopatie
D. In seguito ad interventi chirurgici imponenti
E. Terapia con vasopressina
F. Polidipsia primaria
G. Reset osmostat
III. Ipovolemia/disidratazione
A. Appropriata secrezione di ADH
1. Inefficace volume circolante
B. Nefropatia compensata in stadio terminale
C. Diuresi natriuretica
D. Ipoadrenocorticismo
E. Vomito associato ad assunzione di acqua
IV. Falsa iponatremia
A. Iperglicemia
B. Ipermannitolemia
La moderata iponatremia (> 130 mEq/l), come la moderata ipernatremia (< 165 mEq/l), viene solitamente trattata
mediante replezione isotonica del volume extracellulare. La
grave iponatremia (< 120 mEq/l), come la grave ipernatremia, va trattata lentamente (la concentrazione del sodio non
deve aumentare più rapidamente di 1 mEq/l/ora), per non
causare una mielinolisi pontina centrale.
ACIDOSI METABOLICA
L’acidosi metabolica può essere associata ad un gap
anionico normale in caso di: 1) perdita gastroenterica di bicarbonati (diarrea, vomito con riflusso duodenale), 2) perdita renale di bicarbonati (acidosi tubulare prossimale; inibitori dell’anidrasi carbonica), 3) ritenzione di idrogeno a livello renale (acidosi tubulare distale; ipomineralcorticismo), 4)
nutrizione endovenosa, 5) cloruro di ammonio, 6) compensazione dell’alcalosi respiratoria, 7) acidosi da diluizione
(somministrazione di elevati volumi di soluzione fisiologica). L’acidosi metabolica può anche essere associata ad un
gap anionico elevato in caso di: 1) acidosi lattica e piruvica,
2) chetoacidosi, 3) acidosi da fosfati e solfati (insufficienza
renale oligurica), 4) intossicazione da glicol etilenico, 5) intossicazione da etanolo o metanolo, 6) avvelenamento da salicilati, 7) estesa rabdomiolisi.
Il trattamento dell’acidosi metabolica è principalmente
volto a correggere il processo patologico primario. Se l’acidosi metabolica e l’alterazione del pH sono gravi, può risultare utile una terapia alcalinizzante finalizzata a sostenere il
pH del paziente fino alla stabilizzazione dell’affezione primaria. Questo tipo di trattamento va preso in considerazione
se il pH, per effetto dell’acidosi metabolica, è inferiore a 7,2
L’alcalosi metabolica può essere causata da perdite gastriche (vomito da ostruzione pilorica, aspirazione gastrica),
diuretici, ipermineralcorticismo, ipocloremia, ipokalemia,
compensazione dell’acidosi respiratoria, eccessiva terapia
alcalinizzante, alcalosi da contrazione, somministrazione di
carbenicillina ed altri derivati della penicillina, metabolismo
dei citrati e dei chetoni. La maggior parte dei casi di alcalosi metabolica viene trattata con una terapia volta a risolvere
il problema primario.
CRISTALLOIDI ISOTONICI
Le soluzioni isotoniche polioniche con concentrazioni
approssimativamente pari ai normali valori extracellulari
di sodio, potassio, cloro ed un anione “bicarbonato-simile” (bicarbonato, lattato, gluconato o acetato) possono essere somministrate senza rischi in volumi elevati agli animali sani.
Può essere necessario infondere i fluidi cristalloidi in
quantità pari o superiori (nel cane) a 40-90 ml/kg per ottenere un adeguato ripristino del volume ematico. Nel gatto,
quest’ultimo risulta proporzionalmente minore (50-55
ml/kg invece di 80-90 ml/kg come nel cane), per cui la dose da somministrare va ridotta di conseguenza.
L’infusione di fluidi in un dato paziente può essere considerata sufficiente e quindi interrotta una volta alleviata la
vasocostrizione periferica, ripristinata una qualità accettabile del polso, ristabilita la produzione di urina e riportata ai limiti superiori della norma (8-10 cm di H2O) la pressione venosa centrale (CVP). La somministrazione di fluidi deve essere effettuata in modo conservativo negli animali con edema polmonare preesistente, edema cerebrale o insufficienza
cardiaca congestizia.
Soltanto il 25-30% circa dei liquidi cristalloidi resta nel
comparto fluido vascolare a distanza di 30 minuti dalla
somministrazione.
La parte restante diffonde rapidamente attraverso le
membrane endoteliali e si ridistribuisce nel comparto fluido
interstiziale. Il ripristino volumetrico ottenuto con le soluzioni cristalloidi può essere di breve durata.
Una comune limitazione della somministrazione di cristalloidi è l’eccessiva emodiluizione. Si definisce come tale
la situazione in cui l’ematocrito è inferiore al 15-25% (a seconda dello status sistemico del paziente) o le proteine totali sono inferiori a 3,5 g/dl o le albumine sono al di sotto di
1,5 g/dl.
CRISTALLOIDI IPERTONICI
Per il ripristino del volume ematico circolante non si
devono usare le soluzioni ipotoniche come quella di destrosio al 5% in acqua o quelle di mantenimento iposodiche, dal momento che contengono una quantità eccessiva
232
38° Congresso Nazionale SCIVAC
di acqua libera (intossicazione da acqua) e la loro efficacia come agenti di espansione del volume plasmatico è
molto scarsa.
ragici diversi dalla coagulazione intravasale disseminata.
Anche l’amido eterificato, un polimero glucosato ramificato, può causare una tendenza alle emorragie, ma l’incidenza può essere leggermente inferiore a quella del destrano
70. Gli amidi vengono metabolizzati dall’alfa-amilasi plasmatica ed interstiziale. Il pentastarch è un colloide con particelle più piccole e di dimensioni più omogenee. L’amido
eterificato può essere associato ad un’emivita relativamente
più lunga rispetto al destrano 70, ma la differenza può non
essere clinicamente significativa.
COLLOIDI
Se i livelli di proteine totali sono inferiori a 3,5 g/dl o se
è probabile che scendano al di sotto di questo limite in seguito all’infusione di cristalloidi, si deve ricorrere alla somministrazione di colloidi artificiali. Questi ultimi sono più
efficaci dei cristalloidi come agenti di espansione del volume plasmatico e vanno presi in considerazione nei casi in
cui il paziente non sembra rispondere in modo appropriato
all’infusione di cristalloidi o quando si sviluppa un edema
prima del raggiungimento di un adeguato ripristino del volume ematico. I colloidi, in confronto ai cristalloidi, pur
avendo un costo per bottiglia superiore, consentono di ottenere una migliore espansione del volume ematico ed una
minore espansione interstiziale e mantengono una pressione colloidooncotica più elevata, per cui risultano economicamente convenienti. Le soluzioni colloidali reperibili in
commercio sono generalmente isoosmotiche ed iperoncotiche. I colloidi di peso molecolare inferiore a 50.000 vengono rapidamente escreti nell’urina e mostrano una durata
d’azione breve (2-4 ore).
Il destrano 40 viene raramente utilizzato per l’espansione del volume ematico per la brevità della sua durata d’azione, appena 1,5-3 ore. Viene rapidamente filtrato a livello
glomerulare e può determinare una diuresi osmotica. Questo
agente è stato associato all’insufficienza renale.
Il destrano produce un difetto dose-dipendente dell’emostasi primaria (una sindrome simile a quella di von Willebrand) superiore alla semplice diluizione. Il prolungamento
dell’APTT e del tempo di emorragia e la diminuzione dell’adesività piastrinica sono attribuite ad una riduzione dell’attività del fattore VIII:C. Anche se non ci si può aspettare
che, sia pure in dosi elevate, il destrano provochi la comparsa di emorragie nei pazienti normali, questo agente va impiegato con cautela nella maggior parte dei disordini emor-
PLASMA
L’albumina costituisce il 50% circa delle proteine plasmatiche totali e l’80% della pressione colloidooncotica plasmatica. Nel fluido extracellulare sono presenti approssimativamente 5 g di albumina per kg di peso corporeo, per il
40% nello spazio intravascolare e per il 60% in quello interstiziale. La concentrazione dell’albumina plasmatica è di
circa 2,5-3,5 g/dl, mentre a livello interstiziale il valore è di
circa 1-1,5 g/dl. L’albumina mantiene la pressione colloidooncotica intravascolare, è dotata di una forte carica negativa e rappresenta un’importante molecola trasportatrice di
certi farmaci, ormoni, metalli ed enzimi, nonché di certe sostanze chimiche e tossine quali cationi, anioni, radicali tossici dell’ossigeno e sostanze infiammatorie tossiche.
Inoltre, il plasma può contenere i fattori della coagulazione, presenti o meno a seconda delle modalità di conservazione. Il plasma fresco, naturalmente, possiede tutte le componenti e, quindi, è indicato per il trattamento di tutti i disordini della coagulazione. Deve essere utilizzato entro 6 ore dal
prelievo da un donatore. Il congelamento distrugge le piastrine e, quindi, il plasma fresco congelato non è adatto al trattamento della trombocitopenia o della coagulazione intravasale disseminata. La conservazione a temperatura di refrigerazione è associata alla perdita di piastrine e fattori labili della
coagulazione (VIII e di von Willebrand) e, quindi, non va utilizzato per il trattamento di queste malattie, mentre può esse-
Caratteristiche delle comuni soluzioni colloidali
Capacità di legare
l’acqua
Colloide
P.M.1
Range
P.M.1
media2
P.M.1
media p3
PCO
mm Hg
Osmolalità
mOsm/l
max4
prolungata4
Albumina 5%
66-69
69
69
24
290
30
25
Plasma
66-400
119
88
22
285
20
Destrano 40
10-80
40
26
82(?)
310
Destrano 70
15-160
70
41
62
310
Amido eterificato
10-1000
450
69
32
310
Pentastarch
150-350
264
35
5-100
35
6
Gelatine
Soluzione fisiologica
Espansione
volumetrica
dopo 10
min5
dopo 3-4
ore5
15
67
29
33
22
81
33
26
22
76
40
30
71
42
70
19
60
<10
20
0
310
1
In Dalton; 2 semplice valore numerico di tutti i pesi molecolari; 3 media numerica ponderata; 4 ml/g; 5 espressa come percentuale del volume somministrato. P.M. = peso molecolare; PCO = pressione colloidoosmotica.
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re ancora utile per il ripristino dei fattori stabili, in caso di
emorragie da rodenticidi antagonisti della vitamina K.
SANGUE INTERO
Se l’ematocrito è inferiore al 15-25% o se è probabile
che scenda al di sotto di questo limite in seguito all’infusione di cristalloidi, si deve ricorrere ala somministrazione di
emazie concentrate o sangue intero, integrandola nel programma fluidoterapico.
Nel cane esistono otto antigeni eritrocitari comunemente
identificati. Nel 15% circa degli animali di questa specie sottoposti per la prima volta ad una trasfusione senza eseguire
prove di compatibilità si dovrebbe teoricamente riscontrare
una lieve reazione da trasfusione dovuta alla presenza di alloanticorpi ad insorgenza naturale. Le reazioni trasfusionali
clinicamente significative sono da ritenere probabili in seguito alla seconda trasfusione di sangue dei gruppi DEA 1,1
e DEA 1,2 e DEA 7. I donatori devono essere negativi per
questi tipi di antigeni. Si raccomanda l’esecuzione delle prove di compatibilità in vitro per verificare se il soggetto ricevente sia già stato sottoposto ad una trasfusione o soffra di
un’anemia emolitica immunomediata.
Nel gatto domestico, sono stati identificati comunemente
solo due antigeni eritrocitari, A e B. I gatti domestici a pelo
corto “meticci” sono praticamente tutti di tipo A. Il riscontro
di popolazioni di tipo B è più probabile nelle razze pure quali scottish fold, birmano, himalaiano, abissino, somalo, persiano, cornish e devon rex e british shorthair. I gatti di tipo A
possiedono bassi titoli di anticorpi anti-B spontanei. Quelli di
tipo B presentano elevati titoli di forti anticorpi anti-A naturali. Le trasfusioni fra soggetti emocompatibili sono state associate ad un periodo di sopravvivenza medio di eritrociti
marcati compreso fra 29 e 39 giorni. La trasfusione di sangue
di tipo B in gatti di tipo A è stata associata ad una sopravvivenza eritrocitaria media di 2 giorni ed a reazioni da trasfusione di minore entità, mentre le trasfusioni di sangue di tipo
A in gatti di tipo B sono state associate ad una sopravvivenza eritrocitaria media di 1 ora ed a marcate reazioni da trasfusione. La tipizzazione del sangue del soggetto donatore
può essere utile, tuttavia è anche necessario conoscere il
gruppo sanguigno di appartenenza, per assicurarsi che la trasfusione venga effettuata fra soggetti compatibili.
La quantità di sangue intero da somministrare può esse-
233
re calcolata pari a 2 ml/kg per ogni punto percentuale di modificazione dell’ematocrito misurato. Ad esempio, un cane
di 10 kg con un ematocrito del 10% necessita di 200 ml di
sangue intero per riportare il valore misurato al 20%. Queste
quantità devono essere dimezzate se il prodotto utilizzato
per l’infusione è rappresentato da emazie concentrate. La
quantità di sangue da somministrare è sempre compresa fra
10 e 30 ml/kg, che corrispondono, rispettivamente, ad una
trasfusione piccola o grande. Il volume calcolato viene di solito arrotondato alla più vicina unità intera di sangue. La velocità di somministrazione del sangue intero e del plasma
non deve essere troppo elevata (5-10 ml/kg/ora) in modo da
minimizzare le manifestazioni cliniche della trasfusione o le
reazioni alle proteine estranee mediate dall’istamina.
Recentemente, è stato approvato per l’impiego clinico in
medicina veterinaria un nuovo prodotto, l’ossiglobina, della
Biopure [Cambridge, MA; (212) 614-4673]. Si tratta di una
soluzione di emoglobina bovina polimerizzata sterile, ultrapurificata e priva di elementi stromali. Non esiste alcun rischio di trasmissione di malattie infettive. Il prodotto non è
antigenico e non richiede tipizzazione dei gruppi sanguigni
o prove di compatibilità crociata prima della somministrazione. Viene distribuita in confezioni da due sacche da 125
ml. Ha un colore rosso porpora intenso. Si conserva a temperatura ambiente fino a 2 anni. Una volta somministrata, ha
un’emivita di circa 36 ore.
Si tratta di una soluzione trasportatrice di ossigeno in fase plasmatica. Poiché questa emoglobina viene veicolata nel
plasma, quest’ultimo, così come il siero, si presenta rosso in
seguito a centrifugazione. Per lo stesso motivo, non influisce
sulla misurazione dell’ematocrito, mentre agisce direttamente e proporzionalmente sulla concentrazione emoglobinica.
Inoltre, sempre per il fatto di essere veicolata dal plasma,
può migliorare l’ossigenazione dei tessuti in cui, a causa di
patologie vascolari, non è possibile il passaggio degli eritrociti interi.
Il prodotto è sicuro da somministrare; le reazioni avverse che possono essere state associate al suo impiego possono essere rappresentate da alterazioni di colore della sclera e
dell’urina e dal vomito. Il colore rosso dell’urina è semplicemente dovuto all’escrezione delle frazioni emoglobiniche
più piccole e non è indicativo di emolisi né è stato associato
a complicazioni renali di qualsiasi tipo.
38° Congresso Nazionale SCIVAC
235
Procedure salva-vita nel paziente in emergenza
Steve Haskins
DVM, Dipl. ACVA, Dipl. ACVECC
University of California - Davis, California (USA)
OSSIGENOTERAPIA
L’ossigenoterapia può essere utile quando la principale
causa dell’ipossiemia è il basso rapporto fra ventilazione e
perfusione o un’alterazione della diffusione. È improbabile
che la somministrazione di ossigeno determini invece un miglioramento sostanziale nei casi in cui la causa predominante dell’ipossiemia è il collasso delle vie aeree di piccolo calibro e degli alveoli (nessuna ventilazione-perfusione). La risposta del paziente all’ossigenoterapia deve essere valutata
ad intervalli periodici per verificare l’utilità del trattamento.
È possibile ottenere facilmente un’elevata concentrazione
di ossigeno inspirato mediante maschera facciale. Quest’ultima deve coprire il più possibile il naso ed il muso degli animali, in modo da ridurre lo spazio morto al suo interno. Non
è invece necessario che si chiuda ermeticamente intorno al
muso del paziente. I soggetti dispnoici spesso non tollerano
una maschera molto aderente e cercare di costringerli ad accettarla non farebbe che rappresentare un’inutile causa di
stress ed eccitazione. La cosa migliore da fare è quella di “soffiare un elevato volume di ossigeno” sul muso del paziente.
In commercio si trovano delle gabbie ad ossigeno per
uso veterinario che permettono di controllare le concentrazioni di ossigeno e biossido di carbonio, la temperatura e l’umidità, ma sono costose ($15-20.000). È possibile realizzare delle camere ad ossigeno utilizzando tende ad ossigeno
per uso umano, incubatrici per neonati, scatole di cartone,
acquari e svariati erogatori reperibili in commercio, ma con
questi sistemi non è possibile regolare temperatura ed umidità. Questo potrebbe essere un problema quando si colloca
in una camera relativamente piccola un animale di grandi dimensioni. Se la temperatura viene controllata e mantenuta a
livelli confortevoli, è possibile accettare elevati valori di
umidità. Tutte le camere ad ossigeno hanno lo svantaggio
che il paziente si trova “dentro” mentre gli operatori sono
“fuori”, quando i due, forse, dovrebbero stare insieme. Inoltre, le concentrazioni di ossigeno richiedono un certo intervallo di tempo per accumularsi ed aumentare, e, quando si
apre la porta della gabbia, crollano precipitosamente. Le camere ad ossigeno non sono adatte ad essere utilizzate nella
prima fase di stabilizzazione intensiva di un paziente in condizioni critiche, ma piuttosto al mantenimento, quando gli
interventi esterni possono essere ridotti al minimo ed al paziente può essere concesso il massimo riposo.
L’ossigeno può anche essere somministrato per insufflazione. Nella cavità nasale si può inserire un morbido catete-
re flessibile facendolo progredire sino a livello del canto mediale dell’occhio. Il catetere deve fuoriuscire dal naso attraverso l’incisura alare laterale e qui essere suturato. Successivamente, deve essere fissato con altri punti di sutura sui lati del muso o sulla sommità della testa, in modo da restare al
di fuori della vista del paziente. La somministrazione di ossigeno per via nasale è inefficace se l’animale respira attraverso la bocca. È anche possibile inserire un lungo catetere
endovenoso a livello transtracheale attraverso la membrana
cricotiroidea o fra gli anelli tracheali. Il catetere deve essere
abbastanza lungo da non scivolare accidentalmente fuori dal
lume tracheale e nei tessuti sottocutanei; in caso contrario, si
avrebbe la rapida insorgenza di grave enfisema sottocutaneo, pneumomediastino e pneumotorace. La cartilagine cricoide va localizzata mediante palpazione procedendo della
superficie ventrale della trachea in direzione rostrale, iniziando da un punto situato a livello mediocervicale. Il primo
anello cartilagineo molto grande apprezzabile con la palpazione è il margine caudale della cartilagine cricoide; scivolando su di essa, si arriva allo spazio cricotiroideo. Il catetere va suturato e coperto con un bendaggio applicato sul collo del paziente. Questa via di somministrazione dell’ossigeno è più efficace rispetto all’insufflazione nasale, perché
permette di colmare con ossigeno durante gli atti respiratori
una porzione più ampia dello spazio morto anatomico. Una
velocità di flusso dell’ossigeno di 50-100 ml/kg permette di
portare ai massimi livelli la concentrazione di ossigeno inspirato; successivamente, la velocità di flusso deve essere
regolata in funzione delle esigenze del paziente. L’ossigeno
utilizzato in medicina è anidro e deve essere fatto gorgogliare in acqua in modo che risulti almeno parzialmente umidificato al momento in cui raggiunge il paziente.
TORACENTESI
La toracentesi diagnostica va eseguita nei casi in cui esiste una difficoltà respiratoria potenzialmente letale (cioè tale
da impedire di eseguire senza rischi una radiografia toracica)
e l’esame clinico non permette di escludere l’esistenza di un
disordine da riempimento dello spazio pleurico. La toracentesi terapeutica è indicata quando quella diagnostica risulta
positiva o quando l’esame radiografico del torace rivela un
disordine da riempimento pleurico. La toracentesi diagnostica viene di solito eseguita con un ago da 22 G e 1” e una siringa da 3 ml. Quella terapeutica prevede di norma l’impiego
236
di un sistema costituito da un catetere ad ago interno con ago
da 20-16 G e 2-5”, raccordato attraverso un deflussore e una
valvola a tre vie ad una siringa da 60 ml. L’introduzione dell’ago o del catetere nello spazio pleurico, in entrambi i casi,
avviene nello stesso modo. La procedura va eseguita in condizioni di asepsi. Si sceglie un punto adatto nella parte intermedia della parete toracica. Con la palpazione si identifica il
margine anteriore di una costola, in corrispondenza del quale, procedendo in direzione caudale, si introduce l’ago o il catetere, tenuto il più possibile parallelo alla superficie pleurica. Una volta che l’estremità dell’ago abbia superato il bordo
anteriore della costola, si è penetrati nello spazio pleurico. Se
si sta eseguendo una toracentesi diagnostica, a questo punto
si aspira. Se l’operazione viene effettuata per scopi terapeutici, l’ago viene tenuto fermo con una mano ed il catetere viene fatto avanzare fino nello spazio pleurico; quindi, si rimuove l’ago, si raccorda il deflussore e si aspira.
DRENAGGIO TORACICO
La toracentesi è indicata se nello spazio pleurico si sono
accumulati liquido o aria in quantità sufficienti a determinare una difficoltà respiratoria clinicamente evidente. In tutti i
casi in cui è necessario effettuare ripetutamente la toracentesi per rimuovere i liquidi o l’aria, è indicata l’applicazione di
un drenaggio permanente. Le sonde utilizzate a questo scopo devono essere morbide e non irritanti per i tessuti e, al
tempo stesso, abbastanza robuste da non collassare. Per il
drenaggio a breve termine possono essere adatti i tubi con
lume interno piccolo (cateteri urinari di Foley, cateteri endovenosi, cateteri urinari e sonde da alimentazione), che però
sono associati ad un’incidenza troppo elevata di occlusione
nel caso di impiego prolungato. I tubi devono essere abbastanza grandi da consentire il passaggio di detriti cellulari e
fibrina e devono presentare diversi grandi fori a livello delle estremità, per ampliare al massimo l’opportunità di drenaggio dei fluidi. Tali fori non devono però essere così grandi da indebolire la parete del tubo ed i loro margini devono
essere lisci, per evitare che si impiglino nei tessuti al momento della rimozione del drenaggio.
Il quadrante dorsocaudale del torace viene tosato e preparato con soluzione antisettica. Si utilizzano guanti sterili; spesso è utile la sedazione. La cute viene incisa a livello del decimo-dodicesimo spazio intercostale circa; dopo aver iniettato a
livello sottocutaneo una piccola quantità di lidocaina all’12%, si pratica una piccola incisione pari ad 1,5-3 volte il diametro della sonda. L’incisione viene fatta scivolare il più possibile in avanti e verso il basso (almeno per due spazi intercostali) oppure la cute viene tirata in questa direzione da un assistente. Questa manovra è essenziale per garantire la realizzazione di un tunnel sottocutaneo fra il punto di penetrazione
della sonda attraverso la cute e quello del suo ingresso nel torace, che contribuisce ad evitare il passaggio di aria atmosferica nella cavità dopo l’introduzione del tubo. Si sceglie un
punto medio intercostale per l’inserimento del drenaggio e si
inietta una piccola quantità di lidocaina all’1-2%, arrivando a
interessare la pleura. Si pratica una piccola incisione attraversando parzialmente la muscolatura intercostale, ma non la
pleura. All’interno di questa apertura si inserisce l’estremità
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del drenaggio, saldamente afferrato con la mano destra mentre con la sinistra si tiene un trequarti o un paio di pinze un
paio di centimetri al di sopra della parete toracica. La mano sinistra fornisce parte della forza necessaria per spingere il tubo
nel torace ma, soprattutto, agisce da freno, assicurando che il
trequarti o la pinza non venga spinto troppo profondamente
nella cavità, dove rischierebbe di danneggiare il parenchima
polmonare sottostante. La sonda viene quindi inserita nello
spazio pleurico. La sua estremità si deve venire a trovare a livello del quarto spazio intercostale circa; appoggiando sull’esterno del torace il trequarti o uno strumento analogo, si stima
la localizzazione della punta del drenaggio situato all’interno.
Bisogna stare attenti a non spingere troppo anteriormente il
drenaggio, perché verrebbe occluso dal mediastino a livello
dell’apice della cavità toracica. Quindi, si lascia scivolare la
cute permettendole di tornare nella normale posizione di riposo. L’incisione cutanea viene chiusa intorno al drenaggio toracico e quest’ultimo viene suturato saldamente alla cute.
Questa operazione può essere effettuata con diverse tecniche:
1) avvolgere intorno alla cannula, vicino all’incisione cutanea,
un segmento di nastro adesivo, in modo che ne sporga un tratto su ciascun lato; suturare quindi il nastro al catetere e poi i
due lembi liberi alla cute. 2) Eseguire una sutura a livello del
punto di incisione e poi annodarla intorno al tubo, più volte su
ciascun lato, con una sutura antiscivolo a sandalo romano, in
modo da bloccare il drenaggio in posizione. 3) Suturare il tubo con un punto fatto passare attraverso il periostio di una costola sottostante. Il drenaggio toracico viene quindi fissato al
deflussore applicato con del nastro adesivo alla coda (o ad un
arto posteriore) in modo tale da consentire all’animale di eseguire tutta la gamma dei movimenti dell’arto senza sottoporre a trazione i punti di sutura cutanei. Per tenere in posizione
questi tubi è possibile servirsi di una stockinette. L’incisione
cutanea viene coperta con una pomata antibiotica-antimicotica ed un tampone di garza sterile. La ferita va pulita e coperta con un nuovo bendaggio ogni giorno.
Esistono molti modi per drenare un torace. La sonda può
essere inserita con un raccordo autosigillante e la cavità venire periodicamente svuotata con una grossa siringa. La forze di aspirazione deve essere lieve, dal momento che è possibile generare facilmente pressioni subatmosferiche estremamente basse che potrebbero essere molto dannose per i
tessuti toracici. Questo è un buon modo per quantificare il
volume di acqua o di fluidi che si accumulano nella cavità
pleurica, ma è piuttosto impegnativo. Le valvole di Heimlich a senso unico non funzionano bene per il drenaggio a lungo termine, perché le secrezioni si essiccano nel tubo determinandone l’occlusione. La sonda può essere raccordata ad
un apparato di drenaggio delle ferite, ma questi strumenti
tendono ad avere un volume piuttosto piccolo e può essere
necessario sostituirli frequentemente.
Diversi metodi consentono di ottenere un drenaggio continuo automatico. La sonda può essere raccordata ad un sistema realizzato con due bottiglie. Il controllo dell’aspirazione viene determinato dalla profondità del tratto di tubo
sotto il livello dell’acqua; il centimetro di acqua di pressione subatmosferica applicata allo spazio pleurico è equivalente alla profondità della punta del tubo sotto l’acqua (in
centimetri). È necessario fare attenzione a chiudere con delle pinze questo sistema ogni volta che si effettua la discon-
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nessione dal sistema di aspirazione, dal momento che non
c’è nulla che impedisca l’aspirazione dell’aria attraverso
l’apparato nello spazio pleurico. Si può aggiungere una terza bottiglia, che agisce da raccolta di acqua in modo che il
sistema possa essere disconnesso dall’aspirazione senza effettuare la chiusura con la pinza.
La sonda toracica può anche essere collegata ad un sistema di drenaggio passivo ad unica bottiglia. Quest’ultima viene collegata al paziente con un tubo che termina sotto il livello dell’acqua; questa bottiglia funge da contenitore sia per
il materiale drenato che per l’acqua. Quest’ultima è necessaria perché la bottiglia deve essere aperta ed in contatto con
l’atmosfera per consentire all’aria di fuoriuscire man mano
che i fluidi si accumulano al suo interno. Questi sistemi sono
passivi e dipendono dalla gravità per effettuare correttamente il drenaggio. Devono quindi essere collocati più in basso
del paziente per funzionare correttamente; in caso contrario,
il fluido può tornare per via retrograda nello spazio pleurico.
Per drenare i fluidi dal torace è possibile utilizzare una sacca
per la raccolta di liquidi o di urina espandibile, chiusa, sterile e vuota; proprio grazie alla sua espansibilità, questa sacca
non ha bisogno di essere in contatto con l’atmosfera. Non è
adatta in caso di pneumotorace perché un sistema di raccolta
non aperto all’atmosfera costituisce semplicemente un’estensione dello pneumotorace.
Il drenaggio dei fluidi e dell’aria cessa quando lo spazio
pleurico è vuoto o se la cannula viene ostruita. Per valutare
l’adeguatezza del drenaggio e differenziare la situazione dall’ostruzione del tubo è necessario ripetere periodicamente
l’esame radiografico. È possibile che la sonda sia stata inserita troppo profondamente nel torace, per cui l’estremità è
stata occlusa dall’apice della cavità (in questo caso, retrarre
leggermente il tubo). Il lume del drenaggio può essere occluso da tappi di fibrina o detriti cellulari. Il tubo di raccolta
va “ripulito” o aspirato con una siringa. Per la pulizia del tubo occorre: 1) afferrare il tubo fra il pollice e l’indice con entrambe le mani vicine, 2) tenendo il tubo con la mano più vicina al paziente, far scivolare l’altra allontanandosi dal soggetto, sempre stringendo le dita in modo che il tubo resti collassato fra le due mani, 3) allentare la presa prima con la mano più vicina al paziente (in modo che il tubo collassato,
espandendosi, eserciti una maggiore aspirazione sul drenaggio), 4) allentare la presa con l’altra mano un istante dopo;
5) la procedura può essere ripetuta diverse volte. Si può avere l’occlusione del tubo anche in seguito alla aspirazione di
“tappi” di mediastino o polmone attraverso i fori praticati all’estremità della sonda. In questo caso, cercare di effettuare
l’operazione di “pulizia” del tubo facendo scorrere le dita
verso l’animale piuttosto che in senso contrario. È possibile
che all’interno del cavo pleurico si siano formate diverse
sacche piene di liquido (essudati infiammatori cronici) e può
essere necessario inserire drenaggi bilaterali o anche più drenaggi sullo stesso lato del torace.
TRACHEOSTOMIA
Le sonde da tracheostomia sono indicate nei casi in cui è
necessario 1) superare un’ostruzione della laringe o delle vie
aeree superiori, 2) effettuare la ventilazione a pressione po-
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sitiva per un periodo di tempo prolungato o 3) accedere frequentemente alle vie aeree profonde per un trattamento più
efficace di un’infezione respiratoria. Cani e gatti tollerano
molto bene le sonde da tracheostomia.
L’inserimento di un tubo tracheostomico deve essere effettuato come un intervento chirurgico asettico e ben controllato, tranne che nei casi in cui viene eseguita come procedura salvavita di emergenza. Può essere necessario effettuare prima l’intubazione orotracheale degli animali e mantenere un’anestesia ben controllata. Il paziente deve essere
posizionato esattamente in decubito dorsale, in modo che la
testa, il collo ed il torace non ruotino lateralmente. Procedendo in direzione caudale a partire dalla cartilagine cricoide, si esegue un’incisione cutanea longitudinale per una lunghezza pari a due volte il diametro del tubo da inserire. I muscoli vengono divisi esattamente sulla linea mediana, e la fascia viene completamente separata dalla trachea per un tratto pari a 3 o 4 anelli tracheali. L’organo può essere stabilizzato afferrandolo con un paio di pinze; in alternativa, si può
far passare una sutura intorno ad un anello tracheale. Con la
trachea sollevata e stabilizzata, si pratica un’incisione nella
parte alta dell’organo. Tale incisione deve essere longitudinale ed iniziare dal secondo anello tracheale, procedendo
esattamente lungo la linea mediana. Per facilitare l’introduzione del tubo, è poi possibile praticare delle piccole incisione trasversali su uno o su entrambi i lati di quella longitudinale. In alternativa, si può anche realizzare, fra il secondo e terzo o fra il terzo e quarto anello tracheale, un’incisione trasversale abbastanza grande da consentire il passaggio
del tubo. La sonda da tracheostomia viene inserita mentre la
trachea viene tenuta ferma con le pinze o con il filo da sutura, in modo che il tubo passi agevolmente all’interno del lume dell’organo. La maggior parte delle incisioni cutanee deve essere accostata, ma evitando una chiusura a tenuta d’aria intorno al tubo. L’aria spesso fuoriesce dall’incisione tracheale e deve poter trovare una via per raggiungere l’esterno. Se viene intrappolata, si accumula a livello sottocutaneo
e migra lungo i piani di tessuto connettivo lasso del collo fino a raggiungere il torace, esitando in pneumomediastino e
pneumotorace. Il tubo deve essere saldamente fissato con un
doppio nodo intorno al collo dell’animale. L’incisione cutanea va coperta con un tampone di garza sterile, tagliato in
modo da poter essere agevolmente collocato intorno al tubo.
Una sonda da tracheostomia deve essere morbida, flessibile e non irritante per i tessuti. Deve disporre di una cannula interna asportabile per una facile pulizia. Deve disporre di
un manicotto insufflabile di elevato volume ed a bassa pressione per ridurre al minimo il trauma indotto sulla trachea
dal manicotto stesso. Quest’ultimo non deve essere gonfiato
a meno che non si intenda ricorrere alla ventilazione a pressione positiva. Quando si gonfia il palloncino, si introduce
un volume di aria appena sufficiente ad impedire il flusso retrogrado della maggior parte dell’aria introdotta durante l’insufflazione a pressione positiva dei polmoni. Il palloncino
esterno di riferimento non è un indice affidabile dell’entità
della pressione di quello interno, appoggiato sulla parete tracheale. È necessario registrare il volume di aria introdotta,
perché un progressivo aumento dei valori riscontrati con il
passare del tempo indica lo sviluppo di una tracheomalacia.
I traumi provocati dal tubo tracheale a causa di un’eccessiva
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insufflazione del manicotto, di un malposizionamento, di
una torsione o di una trazione del tubo devono essere evitati perché predispongono l’animale a necrosi tracheale, ulcerazione, emorragia, fistolizzazione e stenosi.
È necessario effettuare continuamente o ad intervalli regolari (di un’ora) l’umidificazione delle vie aeree (mediante
nebulizzazione o instillazione diretta di soluzione fisiologica). La cannula interna va ripulita e la trachea ed il tubo devono essere sottoposti ad una aspirazione asettica ogni 4 ore.
VENTILAZIONE A PRESSIONE POSITIVA
La ventilazione a pressione positiva (PPV) è indicata
quando 1) un animale non è in grado di effettuare da solo
un’adeguata ventilazione (condizione solitamente definita come quella in cui il valore di PaCO2 è > 60 mm Hg) a causa di
affezioni neuromuscolari o malattie del parenchima polmonare, 2) le malattie del parenchima polmonare sono sufficientemente gravi da far sì che l’ossigenoterapia, da sola, non determini un’adeguata ossigenazione del paziente (solitamente
definita come PaO2 < 60 mm Hg) o 3) l’animale deve svolgere un lavoro eccessivamente duro per respirare e può rapidamente divenire esausto. Dal momento che la ventilazione assistita è impegnativa e costosa, di solito si ha la tendenza ad
aspettare troppo prima di applicarla. La ventilazione a pressione positiva instaurata quando l’animale è morente a causa
di una malattia respiratoria è però di solito di scarso valore.
Gli scopi della ventilazione della pressione positiva sono
il ripristino dell’ossigenazione (ottimale una PaO2 normale
di 80-100 mm Hg, ma sono accettabili i valori compresi fra
60 e 250 mm Hg) e la ventilazione (è ottimale una PaCO2 di
35-45 mm Hg, ma sono accettabili valori di 30-60 mm Hg)
con concentrazioni di ossigeno inspirato inferiori al 60%
mentre si minimizzano gli effetti deleteri della tecnica.
Le linee guida generali per la ventilazione a pressione
positiva degli animali con polmoni relativamente normali
(indipendentemente dal metodo o dalla marca di ventilatore
utilizzato) sono:
1) pressione delle vie aeree prossimali di 10-15 cm di H20;
2) durata dell’inspirazione di circa 0,5-1 secondo (appena
sufficiente a permettere un volume tidalico completo);
3) volume tidalico di 8-15 ml/kg;
4) frequenza di ventilazione di 10-20 volte al minuto;
5) ventilazione/minuto di 150-250 ml/kg/minuto;
6) una pressione teleespiratoria pari a 0 (atmosferica).
I polmoni malati sono spesso più rigidi (cioè con una
compliance minore) di quelli normali e di conseguenza risultano più difficili da ventilare. Si riscontra comunemente
che le linee guida sopraindicate sono insufficienti ad ossigenare o ventilare adeguatamente un paziente con un’affezione diffusa del parenchima polmonare. Ogni volta che la regolazione del ventilatore non sembra soddisfare le esigenze
degli animali o permettere di raggiungere le mete sopracitate, occorre in primo luogo 1) assicurarsi che la regolazione
dei controlli dell’apparecchio sia effettivamente quella pianificata (compreso l’apporto di ossigeno), 2) verificare che
il paziente sia in sincronia con il ventilatore e 3) accertarsi
che non si siano sviluppati altri problemi inattesi (ipertermia, pneumotorace); dopo aver effettuato queste verifiche, è
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possibile modificare le regolazioni del ventilatore. Non esiste alcun algoritmo per questa operazione; si devono effettuare le modificazioni progressive che sembrano appropriate per la situazione. Per migliorare la ventilazione, è possibile aumentare la frequenza di ventilazione, la pressione delle vie aeree prossimali/il volume tidalico, la durata dell’inspirazione/il plateau dell’inspirazione. Per migliorare l’ossigenazione, è possibile aumentare la ventilazione, la concentrazione di ossigeno inspirato o la pressione teleespiratoria.
Una pressione positiva nelle vie aeree, applicata fra gli atti
respiratori, determina un incremento della pressione transpolmonare della capacità funzionale residua e mantiene
aperti gli alveoli e le vie aeree di piccolo calibro durante la
fase espiratoria e migliora l’ossigenazione. Anche le unità
polmonari sono più facili da ventilare quando vengono tenute aperte dopo l’ultimo atto respiratorio piuttosto che dover
partire da una posizione collassata. La maggior parte dei
ventilatori permette di regolare attraverso un’apposita manopola la pressione teleespiratoria positiva (PEEP o positive
end-expiratory pressure). La PEEP si può anche ottenere
raccordando un tubo corrugato alla porta di esalazione di un
qualsiasi ventilatore e immergendone l’altra estremità in acqua. La profondità alla quale viene collocata l’estremità del
tubo determina la PEEP. Quest’ultima può anche essere ottenuta mediante valvole respiratorie tarate reperibili in commercio.
Esistono diversi problemi indotti dal ventilatore che richiedono attenzione.
1) L’alterazione della perfusione intratoracica determinata
dall’incremento della pressione pleurica che impedisce il
ritorno venoso al cuore destro e sinistro. L’entità dell’alterazione della gittata sistolica, di quella cardiaca e della
pressione arteriosa è proporzionale alla misura dell’incremento della pressione delle vie aeree/pleurica, alla durata
del periodo di tempo in cui la pressione viene applicata
per ogni atto respiratorio (la durata inspiratoria) e il periodo di tempo in cui la pressione viene applicata in un
minuto (frequenza ventilatoria). L’alterazione circolatoria
viene valutata sulla base della qualità del polso o della diminuzione della pressione arteriosa associata ad ogni atto
respiratorio. I polmoni malati sono spesso caratterizzati
da una scarsa compliance e, anche se possono richiedere
pressioni delle vie aeree più elevate per essere ventilati,
trasmettono allo spazio pleurico pressioni inferiori e quindi tendono meno ad ostacolare la circolazione.
2) Barotrauma, rottura dei setti alveolari, con conseguente
pneumomediastino, pneumotorace, emorragia polmonare
ed embolia aerea possono essere associati ad elevate pressioni/volumi nelle vie aeree nei polmoni normali e a normali pressioni delle vie aeree nei polmoni alterati. Pressioni/volumi delle vie aeree devono essere elevati solo
quanto basta per ottenere valori accettabili di ventilazione ed ossigenazione.
3) Un meccanismo più sottile di danno polmonare indotto
dalla ventilazione (VILI o ventilator induced lung injury)
esita in un edema polmonare istologicamente molto simile alla malattia per la quale si è iniziata la ventilazione del
paziente. Questo fatto può essere dovuto a due meccanismi: A) Collasso ripetuto delle piccole vie aeree regionali e degli alveoli (fra gli atti respiratori) e loro riapertura
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(durante l’inspirazione), che causano lesioni da forze di
taglio. B) Collasso di alcuni alveoli regionali che espongono quelli vicini ad una iperdistensione, anche quando il
volume tidalico globale è quello consigliato. Ciò provoca
stress tangenziali delle pareti di queste vie aeree/alveoli
nonché una “espansione secondaria” dei vasi extraalveolari che provoca un “cedimento da stress” (fenomeno del
poro stirato) degli strati cellulari epiteliali ed endoteliali.
La PEEP contribuisce anche a prevenire il collasso delle
vie aeree/alveoli fra gli atti respiratori finché rimane al di
sopra del nadir (limite minimo) inferiore della curva di
pressione-volume. È necessario minimizzare il picco delle pressioni delle vie aeree, in modo tale che risultino al
di sotto del nadir superiore della curva pressione-volume.
L’idea è quella di rimanere sulla parte fortemente i