Georges Bensoussan, Israele un nome eterno. Lo

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Georges Bensoussan, Israele un nome eterno. Lo
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Cohen, Raya: Rezension über: Georges Bensoussan, Israele un
nome eterno. Lo Stato d’Israele, il sionismo e lo sterminio degli
ebrei d’Europa (1933-2007), Torino: Utet, 2009, in: Il Mestiere di
Storico, 2010, 2, S. 146,
http://recensio.net/r/e013fbb4c22de86aa100f2980959c42a
First published: Il Mestiere di Storico, 2010, 2
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146
i libri del
2009 / 2
Georges Bensoussan, Israele un nome eterno. Lo Stato d’Israele, il sionismo e lo sterminio degli
ebrei d’Europa (1933-2007), Torino, Utet, XIII-203 pp., € 22,00 (ed. or. Paris, 2008)
In questo saggio Georges Bensoussan, basandosi su alcune opere di studiosi israeliani, in particolare sulle importanti ricerche di Tom Segev, Idith Zertal e Hannah Yablonka,
racconta le tortuose relazioni che lo Stato di Israele e la sua società hanno con la Shoah
e offre una interessante sintesi dell’intreccio tra storia e memoria della Shoah in Israele.
Partendo dall’ipotesi che non esiste né causalità diretta fra la Shoah e la creazione di uno
Stato ebraico, né una deliberata manipolazione della memoria della Shoah da parte di
Israele, l’a. mostra come il nesso di causalità tra la Shoah e la nascita dello Stato di Israele
si sia sviluppato a posteriori come un fattore che ha conferito alla storia un senso di redenzione (p. 189).
Nel primo capitolo l’a. evidenzia come una comunità ebraica nazionale, con una
sua lingua, un nucleo armato e strutture amministrative, esistesse già prima della seconda
guerra mondiale e che dunque la Shoah non «crea» lo Stato di Israele, come si dice spesso.
Anzi, negli anni ’40 e ’50, lo Stato di Israele, come Bensoussan espone nel secondo e terzo
capitolo, tenta di occultare la presenza significativa dei sopravvissuti (un terzo della popolazione ebraica) con un silenzio «quasi terapeutico» e pieno di vergogna; la Shoah viene
allora celebrata in pubblico come «una tragedia senza volto». Il quarto capitolo affronta il
dibattito pubblico e politico, che si cristallizza intorno alla «lezione» secondo cui lo Stato
ha il dovere di essere forte, perché lega la sua legittimità non più alla storia di redenzione
del soggetto ebraico, ma alla storia di un radicale abbandono da parte del mondo e alla
storia delle persecuzioni, di cui la Shoah non è che l’ultimo esempio. Questa visione,
tuttora dominante, è in contraddizione con la visione dei padri fondatori del sionismo,
convinti che la violenza antisemita appartenesse solo al passato della diaspora, e non più
al presente in uno Stato-nazione ebraico.
Il processo Eichmann, nel 1961, accelerò il processo della comparsa della memoria
individuale dei sopravvissuti attraverso le loro testimonianze e le voci letterarie e artistiche
della «seconda generazione» nata dai genitori sopravvissuti. Questo processo, sullo sfondo
della guerra del 1973 e della paura esistenziale che generò, raccontato nel quinto capitolo,
risultava da una nuova memoria della Shoah coniugata a quella personale di «ogni ebreo».
Nell’ultimo capitolo Bensoussan descrive come la nuova identità israeliana si crei intorno
al culto della memoria della Shoah in quanto destino innato, e come serva da cemento
non solo per l’eterogenea nazione israeliana, di cui più della metà dei cittadini sono di
origine araba e non europea, ma anche per saldare le relazioni con gli ebrei della Diaspora.
L’a. conclude che a questa comprensione della tragedia si è aggiunta, guerra dopo guerra,
la convinzione che il posto degli Ebrei nel mondo sarebbe stato ancora messo in discussione ed è per questo che «la memoria si è così rinchiusa come una trappola che impedisce
di vivere e condanna ad un costante ritorno all’angoscia» (p. 191).
Raya Cohen