io e l`africa - Armando Editore

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io e l`africa - Armando Editore
Jane Goodall
Intervistata da Massimo Di Forti
io e l’africa
Postfazione di
Daniela De Donno Mannini
Armando
editore
Sommario
Introduzione
La scienza incantata
di Massimo Di Forti
Il sogno
Alla scoperta dell’Africa
La scommessa di Leakey
Finalmente Gombe
David senza paura
Le conquiste della passione
Noi e loro
Dopo il sogno
Le sfide da vincere
Gli animali in pericolo
Il cambiamento
Pensare globalmente, agire localmente
A passi leggeri verso il futuro
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Postfazione
L’esempio alla guida del futuro
di Daniela De Donno Mannini
Avvertenza
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Introduzione
di Massimo Di Forti
La scienza incantata
C’era una volta un’avventurosa bambina appena uscita da un
racconto di fate, custodiva l’animo gentile e un cuore selvaggio,
l’ovale del volto fatto d’aria e di miele, le snelle gambe così agili da farla salire quasi danzando in brevi istanti sulla cima del
Faggio, l’albero che dominava il giardino di casa. Dall’alto di
quei dieci metri, lei sognava la giungla, i vasti spazi della savana,
i fiabeschi animali che li popolavano, le magiche giraffe e i sovrani leoni, le acrobatiche scimmie e i possenti bufali, le zebre e gli
elefanti, i fulminei leopardi e le soavi gazzelle. Aveva cominciato
a sognarli leggendo avidamente le storie di Tarzan della Giungla,
lo statuario uomo-scimmia che viveva libero “dentro” la natura,
come avveniva nel tempo in cui non v’erano ancora confini che la
dividessero dagli umani ma una comunione appagante, ravvivata
da sfide ed eccitanti sorprese.
Ben poco importava che Tarzan fosse stato creato dall’immaginazione di uno scrittore, Edgar Allan Bourroughs, perché quelle
fantasie erano state la nostra preistoria e, incancellabili, venivano
riscoperte di continuo dai civilizzati con amorevolezza struggente. Si era fatta sempre più soffocante la civiltà, con i suoi uffici
tutti uguali, simili a gabbie, le sue catene di montaggio, le città
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convulse che esibivano prati di cemento e lesinavano l’ossigeno.
Era così bello riavvicinarsi alla natura, desiderarne i profumi e
gli spazi, la sua generosa autenticità, riappropriarsi della libertà dell’uomo-scimmia. Tarzan, come se non bastasse, aveva un
prezioso ineffabile alleato nel dottor Dolittle, la cui immaginifica
sapienza si spingeva al punto di incoraggiare un altro sogno accarezzato da ogni piccolo d’uomo, in ogni tempo e in ogni regione
del Pianeta Azzurro, e certo dalla deliziosa bambina arrampicata sul faggio: quello di parlare con gli animali. Già, che emozione sarebbe stata poter pranzare con un leone, conversare con
un canguro o un rinoceronte, prendere il te con un coccodrillo,
chiacchierare con la tigre o gli scimpanzé, e magari prendere una
laurea in linguaggio animale... Quale essere umano in tenera età
non ha sperato di poterlo fare? Che magnifico esempio a bambini
e adulti dava il dottor Dolittle con i suoi progetti, altro che stravagante ed eccentrico intellettuale...
La piccola sognatrice si chiamava Jane Goodall, era nata nel
cuore di Londra ma aveva subito dimostrato di essere più felice
all’aperto, di sorprendersi tra il verde di alberi amici o giocando
con il suo adorato cane Rusty e, quando la sua famiglia si era
spostata allo scoppio della guerra nella dimora vittoriana della
nonna materna a pochi passi dalla Manica, dal nome aggraziato,
le Betulle, aveva trovato il posto ideale per cullare i suoi desideri.
Era il suo Eden.
Più leggeva quelle storie con sbalordito entusiasmo e più non
riusciva a controllare un senso di comprensibile gelosia per la
compagna di Tarzan che aveva, guarda le combinazioni, il suo
stesso nome: Jane! Era gelosa, certo, della sua omonima e non
riusciva ad accettare che quelle avventure elettrizzanti le fossero negate. Perché quella ragazza era stata toccata dalla magia di
un’esperienza da lei tanto sospirata che, invece, le veniva negata?
Cosa aveva di speciale? La risposta inevitabile alla domanda era
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che si trattasse di un’inaccettabile ingiustizia. C’era un solo modo
per realizzare i suoi desideri: recarsi in Africa, ricongiungersi alla
natura, riscoprirne la sacralità e le immutabili leggi, conoscere
gli animali che abitavano in quella Terra Promessa e Paese delle
Meraviglie. Era fin troppo scontato e ragionevole deridere quei
progetti, soprattutto in tempi in cui l’Africa appariva un territorio sconosciuto, raggiungibile soltanto da privilegiati happy few
e meno che mai da un’adolescente priva del senso della realtà.
Invece, stava nascendo così, al di là delle seducenti invenzioni
letterarie, l’unica e vera Jane della Giungla.
Jane Goodall è riuscita a vincere questa sfida che tutti ritenevano impossibile e ha segnato con un’impronta indelebile il corso
della scienza grazie a una passione e un ardimento sbalorditivi,
rischiando in molte occasioni la vita e superando prove impensabili, come fosse guidata da una forza misteriosa e benefica al
punto di aver avuto spesso l’impressione di essere una predestinata. Ma, in questa storia senza uguali della Scienza Incantata,
bisogna ammettere che è stata spalleggiata da tre alleati davvero
impareggiabili: una donna, la madre, Vanne; un leggendario paleontologo e antropologo, Louis Leakey; e uno scimpanzé adulto,
David Greybeard, che si distingueva dagli altri per una singolare
barba sale e pepe.
Più volte, Jane ha detto che senza quella madre non avrebbe
mai potuto fare quel che ha fatto.
Sì, se fosse possibile immaginare una galleria delle madri ideali, Vanne (dal gallese Myfanwe) Goodall occuperebbe un posto
d’onore. Che guida illuminata è stata nei suoi oltre 90 anni di
vita generosa. Un esempio raro di comprensione, amore, sostegno incondizionati al punto che quando nel ’46, lei e il marito
Mortimer divorziarono pur mantenendo rapporti molto buoni, la
dodicenne Jane non risentì alcun effetto negativo. Con infallibile sensibilità, Vanne seguì la figlia fin dalla più tenera età spie9
gandole quanto crudele potesse essere coccolare un gruppo di
lombrichi sul proprio letto dal momento che, strappati alla terra,
sarebbero morti oppure, durante i giorni esaltanti dell’avventura
africana, partecipando con lucida intelligenza e utilissimi consigli
alle prime scoperte sugli scimpanzé. Laddove ragionevoli amici
e parenti le consigliavano di non dar corda ai progetti utopici di
Jane e di seguire la via della prudenza, Vanne scelse quella della
fiducia, interpretando magnificamente uno dei celebri “Proverbi
infernali” di William Blake: “La prudenza è una brutta vecchia
zitella corteggiata dall’impotenza”. Esortò la figlia con parole di
incoraggiamento che si scolpirono per sempre nella mente e nel
cuore di Jane (“Se hai un Sogno, non rinunciarci”), con preziosi
suggerimenti e anche con un confortante senso dell’umorismo.
Cosa ancor più rara, alle parole associò i fatti. Chi, se non questa
donna dalla fibra indomabile, avrebbe potuto accompagnare Jane
in Africa e seguire le tappe di quell’avventura che, a giudizio di
tutti, appariva votata all’insuccesso? Appena arrivata, fu colpita
da una malaria devastante ma riuscì a sopravvivere e, anzi, con le
sue capacità di concreta organizzatrice creò una specie di ospedale-farmacia che la fece subito amare dagli abitanti (pochi e isolati
a quei tempi) del luogo. E dette alla figlia il coraggio di continuare i mesi e mesi di estenuanti appostamenti per osservare dalle
alte colline di Gombe gli scimpanzé che, alla vista della “scimmia
bianca”, ospite inattesa, si davano a puntuali precipitose fughe.
La sua tenacia non accusò mai segni di cedimenti e fu per Jane un
punto di riferimento umano, intelletuale e morale insostituibile.
Louis Leakey non fu da meno. Negli anni ’50 era uno studioso
di fama mondiale per le ricerche effettuate con la moglie Mary
nella Gola di Olduvai e la scoperta di resti umani che facevano arretrare di centinaia di migliaia di anni le origini dell’Homo
Sapiens. Un’autorità indiscussa e rispettata nel mondo scientifico. Ma venne attaccato senza riguardi quando decise di affidare
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alla ventiseienne ragazza inglese, priva di esperienza e di titoli accademici, una ricerca ardua e pericolosa come quella sugli
scimpanzé, che si era conclusa in fiaschi clamorosi per precedenti
spedizioni ben più organizzate e, in apparenza, scientificamente
attendibili. è impazzito, dissero tutti. Sarà un disastro, sentenziarono in coro fior di professori. Beh, c’era del vero in quei rabbiosi
giudizi. I pericoli esistevano sul serio e non potevano essere sottovalutati. La scommessa di Leakey era, a un primo esame e con
ogni evidenza, una assurda follia.
Si rivelò, invece, un colpo di genio. Un misto di azzardo, intuizioni felici e profonda consapevolezza della natura della scienza. L’azzardo c’era, eccome. Se ne rendevano conto sia lui che
Jane. Ma la mossa che avrebbe permesso il miracolo, lo scatto che
avrebbe consentito un’autentica rivoluzione scientifica, fu l’idea
che la passione, il coraggio, l’entusiasmo di una giovane outsider
avrebbe potuto aprire spazi fino ad allora rimasti impenetrabili ed
essere il ponte ideale nel rapporto con quelle scimmie inavvicinabili e almeno quattro volte più forti di un essere umano. La posta
in gioco, per Leakey, non era poca cosa. Uno studio sugli scimpanzé, i nostri parenti più prossimi nella scala dell’evoluzione,
avrebbe potuto arricchire le conoscenze che avevamo sull’origine
stessa dell’uomo e sulla sua preistoria.
Last but not least, da grande scienziato, Leakey dimostrò soprattutto di sapere perfettamente che la scienza non è un arido terreno
che vive di calcoli e misure ma nasce – come la filosofia, la religione e ogni forma di conoscenza – dalla Meraviglia e dalla volontà di
capire. Lo aveva già insegnato Platone nel Teeteto: “è proprio del
filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia”. Lo aveva
ribadito Descartes: “La meraviglia è la prima di tutte le passioni”.
Lo ha ribadito senza incertezze un geniale protagonista della fisica
come Richard Feynman: “L’emozione è la vera molla dell’impresa
scientifica”, da lui definita “la grande avventura”.
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La favola e la rivoluzione scientifica di Jane Goodall sono i
frutti del suo incantamento di fronte allo spettacolo dei grandi
animali e della natura, della loro indefinibile magica bellezza.
Quel “pazzo di Leakey” se ne rese conto subito e, onore al merito,
stravinse la scommessa. Altro che gli accademici di Cambridge
pronti a bollare di antropomorfismo antiscientifico, due anni
dopo, le ricerche di Jane dal momento che “l’inesperta ragazza”
non considerava gli scimpanzé alla stregua di oggetti seriali, non
li indicava con semplici numeri e attribuiva a loro una precisa
identità personale. Ah, se avessero preso esempio da Walt Disney
che, certo, era un artista, ma con i suoi Mickey, Bambi, Dumbo
aveva dimostrato di essere ben più scientifico... Quei soloni, invece, erano inorriditi al pensiero che i primati studiati dalla giovane
Goodall avessero addirittura una personalità.
Grazie al cielo, quanto a personalità, David Greybeard ne aveva da vendere con il suo volto forte, solenne, mirabilmente disegnato, come raramente accade tra gli scimpanzé. Aveva un’aria
persino autorevole, certamente suggerita dalla barba grigia, notata subito da Jane e scelta per il nome. Poteva assomigliare a una
star di Hollywood o, con la sua espressione intelligente e pensosa,
a un insigne studioso.
Jane Goodall e David Greybeard si erano osservati a lungo.
Lei si era arrampicata per mesi sulle colline che sovrastano il
lago Tanganica per scrutare gli scimpanzé di Gombe, stabilire un
contatto, conoscerne le abitudini, studiarne i comportamenti ma
alimentata, più che da un severo spirito scientifico, da quella travolgente attrazione per il mondo animale che l’aveva conquistata quando era bambina. Si era dovuta arrendere, però, per molto
tempo a una legge fondamentale della natura che non ammette
saggiamente eccezioni: nessun animale si lascia mai avvicinare da nessun altro essere vivente se non ha la certezza della sua
innocuità e di non rischiare la propria sopravvivenza. Nessuna
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presenza può essere accettata se non dopo aver raggiunto questa certezza, ignorando con logica ferrea anche offerte di cibo
che potrebbero risultare pericolose o letali. La semplice caduta
di una foglia, nell’eventualità che sia il segnale di un imminente
agguato, può essere oggetto di controlli che nessun metal detector riuscirebbe a uguagliare. Per oltre un anno di appostamenti,
osservazioni e snervanti attese, gli scimpanzé si erano dati a precipitose fughe lasciando Jane delusa ma non vinta. Non potevano
immaginare che quella soave giovane donna fosse anche fatta di
purissimo acciaio, temprato da coraggio e idealismo, da inflessibile determinatezza e dedizione generosa.
Così, un giorno, avvenne il miracolo. David le aveva già dato
segnali incoraggianti benché non le avesse mai permesso di seguirlo nella foresta. Si lasciava guardare negli occhi mantenendo
una serenità rara per uno scimpanzé, non appariva mai intimorito
o addirittura ostile. Quella volta non si allontanò. Si lasciò avvicinare come mai era accaduto prima. Jane gli porse un piccola noce
rossa, lui la lasciò cadere sul terreno e poi, con le sue dita nodose,
sfiorò la mano di Jane accarezzandola. Era un segno di rassicurazione, che aveva grande importanza tra gli scimpanzè. A lei parve
di toccare il cielo con un dito ma quel gesto avrebbe commosso
anche Charles Darwin.
Era molto più che un gesto. Era l’appagamento di un desiderio
antico e indistruttibile, il segnale di un nuovo inizio. Lo avevano
esaudito un’esile ragazza inglese illuminata da occhi celesti capaci di guardare lontano e uno scimpanzé delle foreste africane dalla
barba grigia, incline a una sorprendente curiosità che lo rendeva
esente dalla paura, anch’egli forse, a suo modo, un “ricercatore”
desideroso di conoscere altre creature.
Quel contatto avverava un Sogno che abita nel profondo del
cuore di ogni essere umano dall’alba della nostra specie e vi rimarrà per sempre, un sogno tragicamente ferito nel corso di mil13
lenni da tanti eventi drammatici, impietosi, crudeli, quando la
terra trema, le acque inghiottono i corpi e i venti cancellano le
speranze: il mito di una Natura dolce e materna, di un Paradiso
perduto in cui ogni forma di vita possa godere del suo splendore.
La Bibbia ce ne ha tramandato il ricordo: «Ora il Signore Dio
aveva piantato fin da principio un giardino di delizie, dove pose
l’uomo che aveva formato. E il Signore Dio fece spuntare dal
suolo ogni sorta di alberi belli a vedersi, dai frutti soavi al gusto
e l’albero della vita, in mezzo al paradiso, e l’albero della scienza
del bene e del male». Il Corano, a sua volta, ha celebrato come
metafora del Paradiso gli incantesimi del giardino islamico dove
il volere di Allah fa «discendere acqua dal cielo con la quale noi
facciam spuntare germogli d’ogni specie, e da essi verde fogliame, e dalle spate delle palme grappoli bassi di datteri, e giardini
di vigne, e olivi e melograni». Il richiamo irresistibile dell’età
della raccolta dei frutti della terra e del mare ha ispirato poeti e
pensatori di ogni epoca, come Horkheimer e Adorno che lo hanno
evocato nella Dialettica dell’Illuminismo con parole memorabili:
«Difficilmente è un caso che l’epopea associ l’idea del Paese di
cuccagna al fatto di mangiare dei fiori... Il mangiar fiori, che si
usa ancora come dessert nel vicino Oriente ed è familiare ai bambini europei dalla cottura all’acqua di rose e dalle violette candite,
promette uno stato in cui la riproduzione della vita è indipendente
dall’autoconservazione consapevole. è un ricordo della preistoria. Per quante pene e tormenti possano aver subito gli uomini in
essa, essi non sono in grado di concepire una felicità che non viva
della sua immagine».
Ecco perché, nell’attimo di biblica suggestione in cui le dita
di David avevano toccato quelle di Jane, la Scienza si era fatta
Poesia ed era entrata nel Regno delle Fiabe. L’uomo ritrovava una
natura benigna, a lungo vagheggiata, che si offriva con rassicurante amicizia cancellando ataviche paure. Non si trattava più di
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catturare, controllare, addomesticare e dominare il mondo selvaggio. Era venuto il tempo di parlare con gli animali. Di conoscerli.
L’ardimentosa ricercatrice stabilì rapporti fino ad allora incredibili con le scimmie che vivevano nella foresta di Gombe.
Ci giocava, le appagava con il grooming, il rito per loro prezioso
della pulizia del pelo, ne seguiva da vicino i comportamenti, con
la dovuta prudenza era entrata nella loro vita. Nessuno c’era mai
riuscito e invece lei, la “scimmia bianca”, era stata accolta nella
famiglia! Le immagini che la immortalavano mentre avvicinava gli scimpanzé, li toccava, li abbracciava sorridente, come se
tutto questo fosse quasi scontato, e non impensabile allo stato di
natura, sbalordirono il mondo. Non erano sequenze dei popolarissimi film interpretati dal leggendario Johnny Weissmuller che
avevano eccitato le fantasie di milioni di spettatori sparsi per
il mondo, rese possibili da lunghi laboriosi addomesticamenti.
Erano finalmente realtà.
Le foto di Hugo van Lawick, l’aristocratico primo marito di
Jane, realizzate per il National Geographic negli anni ’60, non
erano attimi fuggenti. Erano doni di eternità, emozionanti prodigi della Nuova Alleanza che azzerava millenni di storia e di
preistoria. Con quale grazia Jane poteva dedicarsi alla pulizia del
pelo di David che la lasciava fare, chiaramente soddisfatto, mentre mangiava una succulenta banana. Che comprensibile curiosità
dimostrava Fifi, una delle figlie di Flo la generosa matriarca del
gruppo, per l’abbigliamento della dolce elegante “scimmia bianca” venuta dalla remota e misteriosa “civiltà”. Che struggente
delicatezza esprimevano il braccio di Jane e quello del piccolissimo Flint, anch’egli figlio di Flo, protesi in un saluto che vedeva
le loro dita sfiorarsi dolcemente in un reciproco riconoscimento
sancito dallo stupore di Flint e dalla evidente tenerezza di Jane.
E come non provare una incondizionata ammirazione di fronte
alle immagini della solitaria figura di Jane sulle verdi colline di
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Gombe, intenta a scrutare le foreste dei suoi sogni con un binocolo di seconda mano e un taccuino di appunti. Non inganni l’idilliaco splendore dei luoghi, che celava innumerevoli privazioni
e rischi di sopravvivenza. Solo un’illimitata volontà di capire e
di sapere, come s’addice a una rivoluzionaria della conoscenza,
avrebbe potuto superare quegli ostacoli.
Vennero così i giorni entusiasmanti in cui la Nuova Alleanza
cominciò a generare Grandi Scoperte. Sugli scimpanzé e di riflesso, come Leakey aveva sperato, sull’animale uomo. La prima e la
più celebrata fu quella della costruzione di rudimentali utensili da
parte dei nostri più prossimi progenitori. Da sola, sarebbe bastata
a sancire l’eccezionale importanza e il successo della sfida tentata
da Jane Goodall, ma fu seguita da molte che permisero a una specie animale sempre più convinta della propria onniscienza di fare
un esercizio di salutare umiltà e colmare così l’ignoranza ormai
inaccettabile che aveva sulla vita e sui comportamenti delle altre.
Fu possibile accertare che gli scimpanzé possedessero una chiara
identità individuale, che non fossero vegetariani ma consumassero seppur con relativa frequenza la carne, che potessero intraprendere azioni di caccia, che avessero una gerarchia sociale dominata
totalmente dai maschi e che le femmine si occupassero della crescita dei piccoli per almeno quattro o cinque anni, che praticassero occasionalmente il cannibalismo, che potessero essere violenti
e dar vita a scontri cruenti tra gruppi, che avessero intelligenza e
capacità di apprendimemnto notevoli al punto, se istruiti, di poter
padroneggiare sistemi di segni. Per la prima volta si capì che gli
scimpanzé, come gli esseri umani, formavano famiglie composte
da individui legati da un vincolo parentale e che questi nuclei familiari potevano essere studiati. Era una conquista clamorosa che
apriva nuovi orizzonti per la conoscenza di tutto il regno animale.
Anni dopo, nel saggio La natura in pericolo, Richard Leakey,
figlio di Louis e anch’egli grande paleontologo, confessando con
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evidente imbarazzo di non aver creduto che gli elefanti formassero famiglie (cosa accertata da studiose con le quali collaborò
a lungo come Joyce Poole, direttamente influenzata da Jane, e
Cynthia Moss), ne riconosceva le implicazioni scrivendo: «Uno
dei meriti principali della Goodall è stato dimostrare che gli scimpanzé sono individui con una personalità ben definita. Jane aveva
abituato le scimmie a stare con le persone, tanto che gli studiosi
potevano stare in mezzo a loro e osservare la loro vita sociale».
Dopo Jane Goodall, “parlare con gli animali” (stabilire con
loro un rapporto diretto allo stato di natura e non studiarli con
distacco o teoricamente, come oggetti di indagine da laboratorio)
non è stata più una stravagante ambizione del dottor Dolittle ma
un metodo rivoluzionario di fare scienza.
L’intera comunità scientifica, passati i primissimi anni degli
inevitabili pregiudizi nutriti per una outsider estranea al mondo
accademico (una giovane donna, per giunta!), ne ha preso atto e
gliene ha reso merito per i traguardi raggiunti che rappresentano vere pietre miliari della ricerca etologica e post-darwiniana.
Soltanto all’inesauribile voglia di conoscenza che ha animato
Jane della Giungla non è sembrato abbastanza. Nel profondo del
suo cuore selvaggio avrebbe sperato addirittura di andare oltre e
raggiungere una purtroppo impossibile completa comunione con
l’universo animale, al quale noi stessi apparteniamo, come ha
scritto a chiare lettere rammaricandosi per gli insuperabili limiti
dei nostri strumenti cognitivi: «Quante volte ho desiderato di poter vedere il mondo, anche solo per un breve istante, con gli occhi
di uno scimpanzé, con la mente di uno scimpanzé!»...
Cambiamenti epocali la spinsero invece, dalla fine degli anni
’70, su quella che lei stessa ha definito la sua “via di Damasco”.
L’epopea delle conquiste scientifiche poteva continuare a Gombe
grazie alle fresche energie di una nuova generazione di ricercatori desiderosi di arricchire la lezione di Jane. A lei sarebbe
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spettato l’improrogabile urgente compito, dopo la stagione della
conoscenza, di inaugurare quella della difesa degli scimpanzé minacciati dal rischio di estinzione e di tutta la natura in pericolo.
Bisognava lasciare la savana (non sempre, per fortuna) e ritornare
nella “civiltà”, fare i conti con i mille problemi causati dalla arroganza e insensatezza di un modello di sviluppo troppo spesso
privo di controllo. è stato ed è un compito non meno arduo dello
studio dei primati nella boscaglia africana.
Jane Goodall vi si dedica da allora con un impegno assoluto che
l’ha definitivamente consacrata a leggenda vivente e protagonista
luminosa della complessa società cresciuta tra la fine del Secondo
Millennio e l’inizio del Terzo. Come scienziata, come intellettuale, come donna, come splendido essere umano. L’adolescente
sognatrice di Bournemouth è la perfetta incarnazione dell’invito
rivolto da Albert Schweitzer ai giovani di mantenere saldi i loro
ideali sì che la vita non possa sottrarglieli: “Se tutti noi potessimo
diventare ciò che eravamo a quattordici anni, come sarebbe differente il mondo!”. Lei c’è riuscita senza mai lasciarsi impoverire
dalle difficoltà incontrate o dalle ferite della vita, arricchendo anzi
il suo intatto idealismo con una dedizione prodigiosa (espressa in
decine di conferenze, libri, dibattiti, video, incontri in ogni angolo del mondo) e la verifica rigorosa dei fatti associata al metodo
scientifico. è la miracolosa unione del miele e dell’acciaio.
Negli ultimi anni Jane Goodall è diventata così il simbolo itinerante delle cause di tutti gli ambientalisti e animalisti del pianeta da salvare. A suo dire, l’aiuta il fatto di avere il dono della comunicazione che le viene costantemente riconosciuto. Ma questo
è vero solo a metà o è troppo poco. Perché Jane non comunica.
Incanta. La sua sola presenza ha questo potere ipnotico che trasmette in un istante. Incantano i capelli, biondi negli anni giovanili, che oggi sembrano di zucchero filato e incorniciano l’intatto
ovale di un tempo segnato da ricchezza esistenziale, mentre gli
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occhi diffondono una ridente dolcezza. Incantano i suoi movimenti pieni di grazia. E incanta l’eleganza di quell’entità misteriosa e invisibile che nel suo caso sembra assumere sembianze
reali e chiamiamo “spirito”. è irresistibile, Jane della Giungla,
nel rifare con squillante sonorità in un teatro o in un’aula universitaria o in uno stadio il pant-hook, il richiamo degli scimpanzé
(una “firma vocale” differenziata che consente l’identificazione
perfetta di ogni soggetto...) che non è un esercizio di seduzione spettacolare ma riesce davvero a trasmettere il brivido del
forte legame che la unisce, magnifica Signora del pensiero, alla
vita della Natura. Questa statura culturale, scientifica e umana è
senz’altro testimoniata dagli innumerevoli prestigiosi riconoscimenti istituzionali ottenuti, da Messaggera di Pace per le Nazioni
Unite a Comandante dell’Impero Britannico, dalla Legion d’Honneur al Kyoto Prize (equivalente giapponese del Nobel) e cento
altri ancora. Tuttavia l’elenco sarebbe riduttivo per dare un’idea
del ruolo che la scienziata inglese ha occupato sulla scena del
XX secolo e occuperà nel futuro, e la vede associata agli esempi
di figure carismatiche come Gandhi, Mohammed Yunus, Albert
Schweitzer e altre ancora.
L’importanza della non violenza gandhiana e della necessità di
una sintesi di teoria e prassi per cambiare la realtà sono per Jane
Goodall un’ispirazione irrinunciabile. è certamente gandhiano il
principio, tutt’altro che teorico ma legato a un concreto impegno
politico-esistenziale, da lei continuamente ribadito, che per costruire un mondo diverso “ognuno di noi conta, ognuno di noi fa
la differenza”. è gandhiana la sua esperienza di paladina dei diritti degli animali e della difesa dell’ambiente perché basata sempre
sulla forza della verità e un’identità di mezzi e fini, con denunce
e azioni coronate da successi che hanno cancellato obbrobri come
la detenzione (aggiungiamo pure: incomprensibilmente sadica) di
piccoli scimpanzé in orribili soffocanti gabbiette in nome della
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ricerca medica (!), creato una nuova coscienza per la difesa di
specie animali (i rinoceronti, gli scimpanzé, gli elefanti, persino
leoni e giraffe) massacrate dall’avidità di mercanti privi di ogni
scrupolo, contribuito all’affermazione di un’indifferibile ecosostenibilità dell’economia globale. Ed è più che mai gandhiana la
salda convinzione che la verità non può essere semplicemente
enunciata, e tanto meno sostenuta con mezzi coercitivi, ma si afferma soltanto attraverso l’esempio, la convincente prova dei fatti
e una corale prassi non violenta, mai traditi nelle azioni dimostrative e neppure nell’uso del linguaggio.
Non può davvero suscitare meraviglia la sintonia con Yunus.
Nella fitta e impervia rete di corruzione che soffoca l’Africa, le
geniali intuizioni dell’economista e filantropo indiano rappresentano per Jane la medicina migliore per spezzare il circolo vizioso
alimentato da poteri e governi che fanno della corruzione, dell’illegalità e della violenza il loro carburante. Gli interventi di microcredito hanno, ai suoi occhi, un duplice benefico effetto: aggirano
la spirale dei percorsi corruttivi e, elemento significativo, danno
alle popolazioni locali il controllo e la responsabilità diretti dei
progetti. La terapia proposta da Yunus si è rivelata, anche nel caso
dell’Africa, di un’efficacia preziosa e indubitabile.
A Schweitzer, Jane Goodall si è spesso riferita con ammirazione nei suoi scritti. Li accomunano le straordinarie esperienze africane e la religione cristiana (teologo protestante il Grand
Docteur, cattolica Jane, con un’educazione familiare aperta e per
niente formale, un’evoluzione anche travagliata però mai abbandonata e la convinzione che scienza e fede, qualunque fede, non
siano incompatibili). Tutta l’esistenza e l’itinerario scientifico di
Jane, d’altronde, sono una fulgida adesione al Rispetto della vita
propugnato da Schweitzer. In entrambi i casi non si tratta della
semplice enunciazione, per quanto ammirevole, di alti ideali ma
della loro costante attuazione nei decenni trascorsi in Africa.
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