The strom (la tempesta)
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The strom (la tempesta)
Fastnet 1979 The storm (la tempesta) Agosto 1979, una terribile tempesta si scatena su 303 barche che partecipano a una delle più ambite regate del nord Atlantico, il Fastnet. E’ una strage di Pietro Fiammenghi 1 V enerdì 10 agosto 1979, il programma citava testualmente: allenamento tra le boe. L’”Intrepid”, 12 metri Stazza Internazionale del New York Yacht Club, si preparava per le regate di selezione riservate ai “defender” dell’edizione 1980 della “Coppa America”. Si allenava, come da programma, nello specchio d’acqua antistante Rhode Island, nel Connecticut. Quel sabato però, era una giornata strana. Il vertice di una piccola ma veloce bassa pressione stava per attraversare proprio quell’area. I meteorologi classificarono quella strana depressione come “poco profonda”, individuando al suo vertice un innocuo minimo di 1010 millibar. Apparentemente, poca cosa. Eppure, quella mattina nella baia di Narraganset, il vento s’intensificò notevolmente e sull’”Intrepid”, sotto la violenza delle raffiche, esplose la scotta in acciaio “atlantico” del genoa, ferendo un membro d’equipaggio. L’allenamento fu sospeso, il marinaio ricoverato in ospedale e la depressione – superficialmente classificata “poco profonda” – lasciò rapidamente la costa nordorientale degli Stati Uniti per continuare la sua naturale migrazione verso est, ovvero, verso il mare aperto e l’Europa. La Rolex Fastnet Race La Fastnet Race, oltre a essere la più classica 2 Gli elicotteri rilevarono onde di 15 metri. Alcuni interventi furono ostacolati dal fatto che onde così alte erano pericolose anche per gli elicotteri regata inglese, è anche la più celebre prova d’altura del Vecchio Continente. Il suo percorso, partendo da Cowes – nella suggestiva isola di Wight – scorre l’intero lato sud ovest dell’Inghilterra per doppiare il granitico scoglio del Fastnet, posto all’estremità sud dell’Irlanda, tornando infine a Plymouth. In totale 608 miglia nautiche di cui oltre la metà in mare aperto che, a quelle latidudini, significa in pieno oceano. Una regata maschia e impegnativa che, sin dalla sua prima edizione nel lontano 1925, ha esercitato un fascino profondo su tutti i velisti del mondo. Quella del 1979 era un’edizione record. Vantava un numero di iscritti sorprendente: ben 303. Mai i partecipanti erano stati così tanti e mai il loro livello così eterogeneo. Vi presero parte, sia le 57 barche partecipanti all’Admiral’s Cup, dotate dei migliori equipaggi del mondo, sia una sessantina di quinta classe, dei piccoli dieci metri, con equipaggi decisamente familiari. Tra questi due estremi, altri 200 scafi, per un totale di quasi 3.000 regatanti. Dal punto di vista organizzativo: un successo innegabile. Dal punto di vista qualitativo: una regata ad alto rischio. L’afflusso così massiccio di dilettanti, era supportato dalle mediterranee condizioni Irlanda Inghilterra Il Fastnet è una regata biennale che parte da Cowes, sull’isola di Wight, arriva alla punta più meridionale dell’Irlanda dove gira intorno al Fastnet e termina a Plymouth, sempre in Inghilterra meteo incontrate nelle precedenti tre edizioni. Venti leggeri, mare relativamente calmo e una temperatura piuttosto mite. Queste le condizioni che avevano stranamente caratterizzato la regata sin dall’edizione del ‘73. Una fortuita coincidenza, che aveva permesso però a tanti dilettanti di prendere parte senza timore, a un evento che storicamente risultava essere alquanto impegnativo e tutt’altro che abbordabile. La partenza Alle 13 e 30 di sabato 11 agosto 1979, le trecento barche iscritte, incrociavano sfiorandosi innanzi alla storica sede del Royal Yacht Squadron. Migliaia di curiosi assistevano divertiti allo spettacolo sdraiati sull’ampio prato verdeggiante posto alla destra del celebre circolo. La giornata era soleggiata e il complesso cerimoniale della partenza, scandito da flemmatiche attese squisitamente anglosassoni, venne rigorosamente rispettato. Una dopo l’altra, iniziando proprio dalle minori, le sei classi in cui venne scomposta la flotta presero solennemente il via. Le acque del Solent, accompagnarono i regatanti con una forte corrente favorevole sino ai famigerati bianchi bastioni dei Needles; quindi, una volta entrati nella Manica, gli yacht si trovarono a bordeggiare nei venti medio-leggeri provenienti da sud-ovest. Tutto esattamente come preannunciato dalle puntuali previsioni meteo fornite ogni sei ore dalla BBC. Unico neo, un vento forza sei Speciale Charter le mete e le barche di quest’estate. Gli indirizzi delle società di charter più importanti sfogliabile 3 SVN - 3 Fisco incredibile Bavaria 40, tre modelli a confronto La Grecia da Meganisi a Zante La vela si divide a Genova “SVN, la vela nel web” la prima rivista digitale interattiva nata in Italia SVN - 2 Dufour 335 GL Sun Odyssey 509 Carlo Borlenghi Coppa a Napoli Titanic Sagola pericolosa (circa 30 nodi) previsto in prossimità dello scoglio del Fastnet; nulla più. Dopo due giorni di tranquilla navigazione in bolina, lunedì 13, l’intera flotta si apprestava a lasciare il sud dell’Inghilterra (Lands End) alla volta dell’Irlanda. Rotta 300°, diretta sul faro del Fastnet, posto sull’omonimo scoglio e, non a caso, costruito con duemila pesanti blocchi di compatto granito di Cornovaglia. Perplessità Durante la tempesta, quando restare a galla era ormai l’unica priorità per gli skipper, ognuno scelse la sua tattica di difesa. Quarantasei barche hanno cercato di fuggire alla tempesta, tenendo a riva tela e correndo il più possibile. Ventisei, hanno preferito mettersi alla cappa con la tormentina a riva e cime a poppa. Ottantasei barche, hanno ammainato tutte le vele e gli equipaggi si sono rifugiati all’interno delle barche. Queste ultime sono quelle che hanno riportato i maggiori danni e subito il maggior numero di vittime. Nel totale settantasei barche si sono capovolte, alcune anche in senso longitudinale. Cinque barche sono affondate e ventiquattro equipaggi hanno scelto di abbandonare le loro barche ancora galleggianti per ripararsi nelle zattere. Gli errori più drammatici compiuti dagli skipper sono stati principalmente due: abbandonare la propria barca e mettersi alla cappa secca. Quello che è costato il più alto numero di vittime, è stato l’abbandono delle barche. Ventiquattro barche abbandonate sono state ritrovate ancora perfettamente galleggianti e vuote dei loro equipaggi che hanno dovuto resistere a situazioni drammatiche dentro le zattere di salvataggio o fuori da queste. Molte zattere si sono ribaltate a causa delle onde, ad alcune il vento ha strappato la copertura lasciando chi vi era dentro al gelo dell’acqua che irrompeva a ogni onda. L’equipaggio del Grimlkin fu uno di quelli che decise di scendere sulla zattera. Pensavano che due di loro fossero morti in mare e, presi dal panico, decisero di lanciare la zattera e abbandonare la barca. I due, in effetti non erano morti e riuscirono a tornare a bordo. Qui un elicottero riuscì a prelevarli, anche se uno dei due morì prima di raggiungere l’ospedale. Il resto dell’equipaggio che stava combattendo sulla zattera, si salvò per miracolo, ma uno di loro, morì assiderato. La stessa cosa fece l’equipaggio del Trophy, la zattera si capovolse più volte e morirono in tre. Anche chi decise di stare alla cappa secca ebbe grandi problemi. Le barche rollavano sulla cresta delle onde e venivano capovolte di continuo. Ci furono diverse persone che si ferirono anche seriamente. Lunedì 13 agosto però, qualcosa iniziò a non quadrare. La mattina presto, le brezze che avevano docilmente accompagnato i concorrenti, cessarono. Una strana cappa di nebbia scese sulla flotta e le barche rollarono scompostamente per buona parte della giornata, nella bonaccia più totale. Quindi, un inatteso quanto sospetto vento da nord-est iniziò a spirare. Nel corso della serata la nuova brezza intensificò e raggiunse i 25 nodi, quindi iniziò una lenta rotazione verso sud-ovest mentre delle assai poco rassicuranti nuvole nere avanzavano all’orizzonte. Alcune imbarcazioni insospettite, chiesero che l’esattezza dei bollettini trasmessi dalla BBC venisse confermata. In deroga alle regole di regata – che non prevedevano alcuna assistenza esterna – fu superficialmente loro data risposta affermativa. Con il nuovo vento in poppa e la conferma delle discrete previsioni meteo, la flotta lasciò la costa inglese e continuò fiduciosa a navigare facendo rotta sulla Fastnet Rock. Il vento previsto nei giorni successivi dai bollettini emessi dalla BBC, era forza sei/sette. Condizioni sicuramente dure, ma non proibitive, con raffiche sino a un massimo di 33 nodi. Nulla di veramente eccezionale per quei mari. Presunzione inglese Contemporaneamente però, l’attento meteo francese, disegnava un quadro generale contraddistinto da tinte assai più cupe e toni decisamente più inquietanti. Proprio sul tratto di mare tra l’Inghilterra e l’Irlanda, veniva annunciato un autentico scenario apocalittico con venti superiori a forza 10 in rotazione verso ovest, accompagnati da onde gigantesche, alte sino a 12 metri. Tolti i 57 scafi partecipanti all’Admiral’s, che provenivano da 19 nazioni diverse, il grosso della flotta era però quasi interamente anglosassone, non ritenne attendibile, forse più per campanilismo che per altro, la preoccupante profezia transalpina. Quindi, nessuno dei regatanti pensò a ritirarsi, o forse sarebbe più corretto asserire che nessuno dei dilettanti ritenne opportuno mettersi rapidamente in salvo. La dinamica La meteorologia non è una scienza esatta e nel 24 equipaggi preferirono salire sulle zattere, abbandonando le barche alla deriva, queste, furono ritrovate perfettamente galleggianti. In totale affondarono 5 barche. Nella fotografia, una delle barche abbandonate Il Fastnet del 1979, i numeri 303 235 85 194 24 5 15 6 4.000 5 barche partite barche nella tempesta barche riuscite a finire la regata, (prevalentemente le barche più grandi che avevano passato il Fastnet prima dell’arrivo del picco della tempesta) barche ritirate barche abbandonate barche affondate persone morte persone perse in mare per la rottura della cintura di sicurezza persone impegnate alle operazioni di salvataggio 8 unità navali da guerra e private che hanno partecipato alle ricerche con 13 scialuppe per il salvataggio in mare 62 le volte in cui gli elicotteri inglesi, francesi e irlandesi, sono usciti in mare lontano 1979 questa affermazione, era ancor più vera. Per capire però la profonda discordanza tra le previsioni inglesi e quelle francesi, occorre ripercorrere l’iter compiuto dalla “poco profonda” depressione che, dopo aver danneggiato il 12 metri Stazza Internazionale “Intrepid”, avevamo lasciato procedere velocemente a est della costa statunitense. La nostra piccola “bassa”, dopo aver attraversato rapidamente buona parte dell’Atlantico, era letteralmente rimbalzata sull’alta pressione presente in estate, sull’arcipelago delle Azzorre. Quell’urto l’aveva ulteriormente accelerata deviando la sua corsa verso nord-est, ovvero verso l’Irlanda. Un’altra depressione, profonda ma molto lenta, in quei giorni però transitava nel cielo a nord dell’Irlanda. La sua ingombrante presenza aveva inevitabilmente prima rallentato e quindi quasi fermato, la nostra piccola e veloce depressione atlantica. Caratteristica peculiare delle depressioni molto veloci, è quella di diventare estremamente “profonde” – cioè molto intense – se fortemente rallentate. Circostanza questa puntualmente realizzata nello scenario in questione. La nostra poco profonda “bassa”, aveva praticamente tamponato la lenta e sorniona depressione che la precedeva, ruotando lentamente sul suo contorno meridionale. Sfortunatamente quest’ultimo dettaglio (per la legge di Coriolis) ne amplificò ulteriormente i già significativi effetti negativi, rendendoli oggettivamente devastanti. L’annuncio della tragedia Al centro meteorologico inglese, la repentina avanzata della “poco profonda” depressione atlantica, era quasi sfuggito. In fondo, era solo una piccola isobara di 1010 millibar che transitava velocemente nell’Oceano Atlantico. Chi poteva supporre che nella sera di lunedì 13, il suo centro depressionario sarebbe collassato sino ad un minimo di 990 millibar, dando vita improvvisamente a una serie di isobare ravvicinatissime. In sintesi, del tutto inaspettatamente, si erano formati i presupposti per l’insorgenza di un autentico uragano. Quando il centro meteo inglese – conscio della reale situazione, nel tardo pomeriggio di lunedì – si allineò con le più funeste profezie francesi, fu troppo tardi. Il grosso della flotta non aveva più alcuna via di scampo. Il bollettino della sera, venne drammaticamente peggiorato. Perse persino i freddi connotati tipici degli annunci meteorologici, per assumere tinte nuove, cariche di apprensione ed enfasi. i soccorsi Dallo speaker furono ipotizzati impetuosi venti da sud in rotazione e intensificazione sino a forza 10. Per molti regatanti questa raggelante informazione, non costituì affatto una sorpresa. Era loro sufficiente guardarsi attorno per constatare che l’intensità del vento e soprattutto lo stato del mare, avevano già assunto i connotati della peggiore delle tempeste. I colorati e maestosi spinnaker issati nel primo pomeriggio, erano già stati ammainati da parecchie ore. Stessa sorte era rapidamente toccata sia ai grandi genoa, che ai più piccoli fiocchi. Al loro posto, al calar delle tenebre, erano state issate le piccole e robuste tormentine. Alle dolci planate tra le onde del primo pomeriggio, si erano sostituiti i violenti colpi dei frangenti. Nel volgere di poche ore, il vento aveva raddoppiato la sua intensità e per i numerosi partecipanti alla Fastnet Race, si preannunciava una notte da incubo. Nightmare Quando si capii che la situazione a largo del Fastnet stava diventando insostenibile e scattò l’allarme, i primi ad intervenire furono gli uomini della base di soccorso Baltimore, in Irlanda, proprio davanti al Fastnet. Quando i portoni del capannone che ospitava il Robert, una delle scialuppe del Baltimore, si aprirono, gli uomini che erano in plancia, del porto videro poco e nulla tanto erano grandi le onde che salivano sull’antimurale. La scialuppa fu liberata e scivolò velocemente in acqua. Una volta in mare, capire cosa fare e dove andare era difficile, non si vedeva nulla, l’orizzonte era solo schiuma. Le onde si alzavano così alte che il Robert per sorpassarle rischiava di capovolgersi longitudinalmente. Il Robert, tra tutte, fu la prima scialuppa a uscire in mare e l’ultima a rientrare. Gli elicotteri poterono intervenire solo a partire dalla mattina di martedì, quando la burrasca si placò un poco e la velocità del vento scese intorno ai 40 nodi, permettendo a questi di decollare. Senza l’intervento massivo dei mezzi di soccorso che operarono in condizioni disperate, il conto dei morti sarebbe stato molto più alto. Centotrentotto uomini furono prelevati dalle loro barche o direttamente dal mare da elicotteri. Molti altri furono salvati dai mezzi navali. Alle operazioni di salvataggio parteciparono 4.000 uomini tra marinai, elicotteristi e personale di supporto a terra. I marconisti lavorarono anche per 48 ore consecutive nel tentativo di tenere i collegamenti con le barche in mare. (La scialuppa Robert) 6 La flotta era stata sorpresa dal violento vertice depressionario creatosi. Il tutto, nell’ampio braccio di mare che separa l’Inghilterra dall’Irlanda, celebre per i bassi fondali dei Western Approaches. Agli equipaggi non restava che prepararsi a resistere alla furia degli elementi, sperando che anche i loro yacht facessero altrettanto. Nel cuore della notte, la situazione peggiorò tragicamente. Il centro della depressione, era sprofondato ulteriormente sino a toccare un minimo di soli 978 millibar. Le isobare delle carte meteo, erano spaventosamente concentriche e ravvicinate. Da terra sì capì chiaramente che la situazione era disperata. Furono precipitosamente allertate sia le squadre di soccorso costiero che la marina militare. Nel corso della nottata il vento si stabilizzò oltre i 60 nodi mentre il mare, reso più ripido dai bassi fondali, iniziò a frangere direttamente sulle barche. Gli scafi più piccoli, iniziarono 76 barche sono state capovolte, molte di queste hanno perso l’albero. A subire più danni sono state le barche in cappa secca. Nella fotografia, una barca che ha disalberato, ancora alla deriva dopo 36 ore dalla tempesta a scuffiare anche di prua, gettando gli equipaggi meno esperti in preda al panico più totale. Molti yacht disalberati a causa dei ripetuti rovesciamenti, furono abbandonati anche se ancora perfettamente galleggianti. La situazione stava rapidamente precipitando. I colpi di mare martellarono furiosamente la flotta sino a giorno inoltrato. Alberi, timoni e pulpiti, unitamente a numerosi regatanti, furono letteralmente scaraventati fuoribordo dalla furia dei frangenti. Proprio l’estenuante lotta contro i marosi, spinse molti equipaggi esausti a prendere l’errata decisione di preferire il caldo ventre della zattera di salvataggio al freddo pozzetto della propria barca. Durante i ripetuti rovesciamenti gli interni degli yacht, non attrezzati alla drammatica evenienza, erano devastati dalla quantità di oggetti che volavano pericolosamente da una parte all’altra. Ma fuori, in coperta, la situazione era tremenda. I frangenti rendevano estenuante anche il restare semplicemente attaccati alla barca stessa. Quasi tutti gli yacht appartenenti alle tre classi inferiori, si ritirarono dalla regata nelle prime ore della drammatica nottata. Anche a secco di vele, i disalberamenti continuarono numerosi e tutti puntualmente causati dal violento impatto dell’albero sull’acqua durante le numerose scuffie subite. Senza speranza Gli elicotteri effettuarono 62 uscite in mare e salvarono 138 persone tirandole su con i loro verricelli. Altre persone furono salvate su loro segnalazione dai mezzi navali. In alto, un momento del recupero di un naufrago da parte di un elicottero. Sopra un elicottero si avvicina al Camargue 7 Alle prime luci dell’alba, spossati e convinti che le loro barche non potessero più reggere i violenti colpi di mare, in molti ritennero più opportuno abbandonarle per rifugiarsi sulle zattere di salvataggio gonfiabili. Una decisone grave, poi dimostratasi errata, che altro non fece se non lievitare ulteriormente il numero dei dispersi in mare. Nei giorni successivi, ai soccorritori toccò l’amaro compito di recuperare, ancora galleggianti, scafi tristemente abbandonati. Martedì 14 agosto 1979, in breve si consumò una strage. Centinaia furono i naufraghi semiassiderati fortunosamente recuperati dagli elicotteri della Royal Navy e dalle flotte militari inglese e irlandese, prontamente accorse in aiuto ai regatanti. Il vento, calato fortunatamente attorno ai quaranta nodi, aveva permesso ai grossi elicotteri Sea King di essere operativi. In quella drammatica notte, ben 24 yacht vennero abbandonati: di questi però, malgrado l’assenza dell’equipaggio, solo cinque affondarono. I dispersi in mare furono 15 e tutti appartenenti alle barche più piccole. Dei 194 ritirati ben 180 appartenevano a quest’ultime, così come quelle affondate. Componente devastante della tempesta non era stato il vento, seppur fortissimo, ma l’altezza e soprattutto la direzione incrociata del moto ondoso dovuto alla repentina rotazione del vento stesso. Gli elicotteristi stimarono in 15 metri l’altezza delle onde, mentre il vento raggiunse punte massime attorno ai settanta nodi (circa 125 chilometri orari). Condizioni insostenibili, da uragano tropicale, ulteriormente amplificate dai bassi fondali dei Western Approaches. La sfortuna volle che proprio sopra questi ultimi navigasse, nella fase più acuta della tempesta, il grosso della flotta composta dagli scafi più lenti e piccoli. Le ragioni della tragedia In alto la scialuppa irlandese Robert, al rientro dalle operazioni di salvataggio. Al centro un gruuppo di sopravvissuti. Sopra, il trasporto di una bara a terra 8 L’inchiesta che fu aperta in seguito al drammatico esito della regata, attribuì la colpa della sciagura alle eccezionali condizioni meteomarine incontrate. Successivi rapporti più accurati, individuarono però nell’abilità del singolo timoniere, una delle discriminanti principali al positivo superamento della tempesta. Il terrore, il mal di mare e la cattiva forma atletica degli equipaggi – unitamente all’errata decisione di ammainare tutte le vele, non fornendo così alla barca la sufficiente propulsione per sfuggire ai marosi più violenti – le cause del disastro. Il tutto, aggravato dall’inspiegabile abbandono di barche danneggiate ma ancora galleggianti. Criticare a posteriori scelte effettuate da persone oggettivamente molto provate e disperate, malgrado sia giusto per prevenire ulteriori sciagure, è una semplificazione grossolana nonché una visione riduttiva dell’accaduto. Per capire realmente cosa stessero provando gli equipaggi in quei terribili frangenti, è illuminante la dichiarazione rilasciata da uno skipper inglese al suo rientro: “Ritenni opportuno abbandonare la mia barca alle prime luci dell’alba...finché avevamo ancora le forze di gettare a mare l’autogonfiabile e tentare di salirci sopra”. Dichiarazioni disperate, che pesano come macigni e che meglio di qualunque descrizione individuano lo stato di totale prostrazione fisica e psichica in cui giacevano i più. In molte dichiarazioni rilasciate dai 150 superstiti recuperati traspare, raggelante, l’accettazione della fine imminente come un autentico sollievo. Poi, l’intervento della Royal Navy e l’insperato salvataggio. La regata del Fastnet del 1979, tecnicamente, portò la coriacea squadra australiana alla vittoria finale. Moralmente, vincitore indiscusso ne uscì invece l’unico quinta classe a non essersi ritirato. L’unico 30 piedi a esser giunto al traguardo dopo aver doppiato miracolosamente il Fastnet. L’unico ad aver compiuto qualcosa di veramente eccezionale, portando a termine una prova oggettivamente sovrumana. Al suo arrivo, ad attenderlo c’erano migliaia di persone. Tutte commosse.