La cultura di vergogna - Liceo Classico Dettori

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La cultura di vergogna - Liceo Classico Dettori
(da G. Guidorizzi, Letteratura e civiltà della Grecia antica)
“La cultura di vergogna”
Nella poesia epica assume una particolare rilevanza l'idea espressa dalla parola a„dèj ("vergogna") o
dal corrispondente verbo a„dšomai("provare vergogna"). L'importanza di questo concetto è tale che la
civiltà omerica nel suo complesso è stata definita da Eric Dodds una «cultura di vergogna» (sbameculture). Secondo un modello interpretativo derivato dagli studi antropologici, esistono infatti due
forme fondamentali di società: quelle che si appoggiano sul senso di vergogna e quelle che si
fondano soprattutto sul senso di colpa. La «cultura di colpa» è caratteristica della civiltà occidentale
moderna e cominciò ad apparire in Grecia in un periodo successivo all'epica omerica (essa in effetti
appare già pienamente sviluppata nella tragedia). In una «cultura di colpa», quando un uomo agisce
in modo contrario al codice di comportamento imposto dalla società in cui vive o dalla sua morale
religiosa, anche se riesce a evitare una sanzione penale, tende a riconoscere il proprio
comportamento come errato e prova rimorso.
Una «cultura di vergogna» si fonda invece su un processo mentale opposto. In essa il pensiero e
l'agire dell'uomo sono totalmente proiettati verso l'esterno: la sanzione per un comportamento errato
non risiede nel senso d'indegnità che un uomo prova dentro di sé, ma nel biasimo della comunità.
Pertanto, un comportamento non è considerato colpevole fino a quando su di esso non pesa la disapprovazione della comunità, e la sanzione può anche risiedere unicamente nel senso di vergogna
(a„dèj) che affligge chi non si è mostrato all'altezza della sua fama e viene segnalato al pubblico disprezzo. In questo tipo di società, dunque, il bene supremo non sta nel godere di una coscienza tranquilla, ma nella conquista della pubblica stima. Ciò che interessa non è essere forti o coraggiosi ma
«essere detti» dagli altri forti o coraggiosi: la gloria (klšoj, propriamente "voce") consiste
nell'ammirazione e nella lode tributata dalla comunità a una persona che abbia mostrato il suo
valore davanti agli occhi di tutti. Di qui l'importanza che assume la tim», vale a dire l'onore, che
deriva dal pubblico riconoscimento. La tim» a sua volta non è un sentimento astratto, ma si
manifesta materialmente con doni, parole di elogio, tributi di onori, che vengono riservati alle
persone più valorose. Così, nell’Iliade, la schiava Briseide, il dono di guerra (gšraj) offerto da
tutto l'esercito ad Achille, equivale alla sua tim», vale a dire al pubblico riconoscimento del fatto
che egli è stato un guerriero prode. Quando Agamennone sottrae la schiava ad Achille non fa altro
che negare al rivale quest'onore, offendendolo davanti a tutti (¢tim£zw, "privare della tim»",
"disonorare"). È appunto il pubblico onore a creare le gerarchie sociali e a motivare i
comportamenti pubblici: perché -si chiede Achille - qualcuno dovrebbe combattere se fossero «nella
stessa stima il codardo e il gagliardo?» (Iliade IX, 319). Di conseguenza, la principale forza morale
della società omerica è il rispetto della pubblica opinione e il timore che una certa azione venga
disapprovata dagli altri: di qui appunto la «vergogna» che un individuo prova quando non riesce a
essere all'altezza della pubblica stima.
Una cultura di vergogna, condiziona fortemente gli impulsi personali di un individuo e lo
indirizza verso comportamenti conformisti, nel senso che egli tende ad agire secondo schemi
precostituiti dall'esterno, dai quali non osa discostarsi per non essere biasimato dalla comunità: tutto
ciò che lo espone al disprezzo pubblico, ciò che lo rende ridicolo risulta per lui intollerabile, al
punto che persino la morte è preferibile. Per impulso di questo condizionamento, Ettore rinuncia a
fuggire e preferisce andare incontro al suo destino in un impari duello contro Achille: «Ora che ho
rovinato l'esercito col mio folle errore, ho vergogna dei Teucri e delle Troiane lunghi pepli, non
abbia a dire qualcuno più vile di me: "Ettore ha rovinato l'esercito fidando nelle sue forze". Ah, sì,
così diranno. E allora per me è molto meglio o non tornare prima di avere ucciso Achille o perire
davanti alla rocca, di sua mano, con gloria» (Iliade XXII, 104-110).