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l’umano errare di...
L’inquieta ricerca dei colori luminosi
Un viaggio
concepito
dall’epistolario
di Vincent con il
fratello Théo alla
ricerca di colori
immaginati
a cura della Redazione
Sopra a sinistra, il café in Place du Forum ad Arles in una
foto realizzata nel 2013. Isiwal/Wikimedia Commons/CCBY-SA-3.0-at [CC BY-SA 3.0].
Sopra a destra, Vincent van Gogh dipinse questa scena
in una luce notturna. L’opera (olio su tela, 81×65,5
cm), intitolata “Café Terrace at Night”, è conservata al
Kröller-Müller Museum a Otterlo, Paesi Bassi.
A lato, autoritratto realizzato da van Gogh nel corso
della sua degenza all’ospedale psichiatrico di Saint
Remy nel 1889. Olio su tela, 65x54 cm, conservato nel
Museo d’Orsay di Parigi.
T
arda mattinata di domenica 19 febbraio 1888. Vincent
Van Gogh, prende il treno che da
Parigi lo porterà ad Arles. La neve
ha coperto la città di 60 centimetri di bianco, anche i primi pilastri della torre che Eiffel sta costruendo, e
continua a scendere. Una ragione in più per lasciarla. Come ha
scritto al fratello Theo vuole raggiungere il Sud della Francia per
riposarsi la mente e soprattutto per cercare quei colori luminosi che nel Nord
non riesce a trovare. A Parigi ha frequentato corsi di disegno e pittura; ha conosciuto gli
impressionisti (quelli poveri come lui e quelli già
affermati: Toulose Lutrec, Emile Bernard, Gauguin, Cezanne, Renoir, Monet, Pissarro, Degas) che gli hanno insegnato a
cercare il colore nelle ombre e il gioco dei loro accostamenti: “i
1
l’umano errare di...
V
incent van Gogh nasce il 30
marzo del 1853 all’estremo sud
olandese e si uccide nel 1890
nelle campagne di un piccolo
borgo a Nord di Parigi. Muore sconosciuto e poverissimo dopo una vita dissipata
e disperata. “Vivere – scriverà - è una
discesa infinita”. Dei suoi 37 anni solo gli
ultimi dieci saranno dedicati alla pittura.
Produrrà un migliaio di opere ma non
avrà estimatori tra i suoi contemporanei.
Ne venderà solo due. Dovranno passare
decenni perché venga riconosciuto
come genio della pittura, precursore
dell’espressionismo e della pittura
moderna.
Capelli rossi, occhi piccoli, infossati, a
volte azzurri, a volte verdi, instabili come
il suo carattere. Figura corta, tarchiata,
schiena curva per l’abitudine di guardare sempre per terra, fronte rugosa e
uno sguardo aggrottato per le troppe
riflessioni. Nei suoi autoritratti (ne farà
44 tra disegni e dipinti, in soli quattro
anni), ha quasi sempre una barba incolta e un cappello di paglia che faceva
ombra sullo strano profilo del suo viso
lentigginoso. Bocca sempre chiusa per
nascondere i denti finti, d’acciaio, quelli
che costavano meno. Gran camminatore
e fumatore di pipa (le sigarette le fumavano i ricchi), ha un carattere introverso,
scorbutico, tormentato. Estremamente
sensibile era sempre alla ricerca di un
amore che nessuno ha mai voluto dargli.
Parlava correntemente tedesco, francese
e inglese, ma aveva una voce stridula e
fu un oratore disastroso. Sapeva invece
scrivere molto bene, in modo semplice
e incisivo, come testimoniano le 650
lettere al fratello Theo. Leggeva moltissimo, autori classici e contemporanei. Non
apprezzava Rimbaud, Verlaine, Baudelaire e spesso portava nei quadri le sue
letture (disegna La notte stellata dopo
aver letto una poesia di Walt Whitman
che parla del cielo vorticoso e di stelle in
processione). Amava ascoltare musica,
soprattutto Wagner: “I suoi suoni sono
scale cromatiche. Gli oboi sono verde e
grigio, i tamburi sono ocra scuro, i violini
sono di giallo cadmio”.
Figlio di un pastore calvinista viene da
giovane avviato a studi artistici che
Una discesa infinita
frequenterà con scarso profitto. Dopo
alcune esperienze di lavoro a L’Aia,
Bruxelles e Londra si iscrive a un corso
di teologia, ma non riesce a superare gli
esami di ammissione. Decide comunque
di provare un’esperienza di predicatore
nelle regioni più povere dei Paesi Bassi.
Nella regione belga del Borinage scopre
la miseria e la povertà, una vita che è
solo sopravvivenza. Lui quasi prete,
intellettuale borghese, si immedesima
troppo nella brutalità dell’esistenza. La
condivide e arriva a disprezzare quel
clero indifferente, lontano dei bisogni
e dalla disperazione delle realtà degli
emarginati, fino ad abbandonarlo.
Apprezza invece la capacità di alcuni
artisti che quel mondo riescono a rappresentarlo, come Anthon van Rappard,
Jules Breton e Jean-François Millet. Così
lascia la religione e si perde nella pittura. Dal 1883 al 1885 vive nel Brabante
(regione settentrionale dei Paesi Bassi).
Inizia a dipingere (l’opera più famosa di
questo periodo è I mangiatori di patate
del 1885) e vive tragiche esperienze
sentimentali. Nel 1886 è ad Anversa per
seguire alcuni corsi di disegno e a fine
anno si sposta a Parigi, dove entra in
contatto con gli impressionisti.
Due anni dopo si sposta ad Arles. Qui
produce alcune delle sue opere più
famose (La terrazza del Caffè, Girasoli in
vaso, La stanza, Il ponte di Langlois) e
per alcuni mesi l’affianca Paul Gauguin.
È una convivenza difficile, le serate sono
sempre più alcoliche e litigiose. Vincent
sta male, ha attacchi di panico e allucinazioni, manifestazioni estreme che
alterna a lunghi periodi di torpore.
Nei momenti peggiori mangia tubetti
di colore, beve trementina, è irascibile e
prende a botte tutti quelli che incontra.
È convinto e ha paura di restare solo, di
non poter dipingere, di non volere una
vita ordinata. Tutto per lui diventa noia
e dolore e tutto questo è troppo. È una
vita struggente, contorta come gli ulivi
e i cipressi che in quel periodo mette in
tutti i suoi quadri, anche i girasoli sembrano muoversi, come esposti al vento
dell’inquietudine (questa interpretazione emotiva della realtà sarà la caratteristica di uno stile di cui Van Gogh sarà
Vincent van Gogh, “Autoritratto
con cappello di paglia e
maglia blu”, particolare, 1887,
Amsterdam, Van Gogh Museum
precursore: l’espressionismo).
Nel 1889 viene ricoverato nella clinica
per malattie mentali di San Remy, dove
gli viene diagnosticata una forma di
psicosi epilettica, che sarà curata con dei
bagni settimanali. Nonostante l’inutilità
della terapia Vincent sembra migliorare.
Gli consentono di lavorare e qui dipinge La notte stellata e I cipressi ma non
perde la sua inquietudine: “l’ambiente
comincia a pesarmi più di quanto possa esprimere – scriverà al fratello- ho
pazientato più di un anno, ho bisogno
d’aria, mi sento oppresso dalla noia e dal
dolore”.
Dimesso dalla clinica con la certificazione di “guarito”, il 16 maggio 1890 Vincent
lasciò definitivamente Saint-Rémy per
raggiungere il fratello a Parigi. Passò tre
giorni nella sua casa e trovò il modo di
visitare una mostra d’arte giapponese,
una delle sue passioni. Poi partì per
stabilirsi a Auvers sur Oise, un villaggio
a trenta chilometri da Parigi dove risiedeva un medico amico di Théo, il dottor
Paul Gachet, che si sarebbe preso cura
di lui. Van Gogh è di umore alterno: “Mi
sono rimesso al lavoro – scriverà a Theo
- anche se il pennello mi casca quasi di
mano e, sapendo perfettamente ciò che
volevo, ho ancora dipinto tre grandi tele.
Sono immense distese di grano sotto
cieli tormentati, ed esprimono la mia tristezza, l’estrema solitudine”. Giudica con
diffidenza l’operato del dottore: “Mi sembra che sia più malato di me, o almeno
quanto me” ma vorrebbe comunque in
qualche modo ringraziarlo dipingendolo
in un quadro: “Lavoro al suo ritratto; la
testa, con un berretto bianco, molto
bionda, molto chiara; anche la carnagione delle mani molto bianca, un frac blu
e uno sfondo blu cobalto; appoggiato
a una tavola rossa, sopra la quale c’è un
libro giallo e una pianta di digitale dai
fiori purpurei”.
Una domenica di luglio esce di casa e va
verso la campagna, senza cavalletto, pennelli e colori, ha con se’ solo una pistola. Si
butta in una buca di letame e si spara.
Le frasi virgolettate sono una libera traduzione
delle lettere di Van Gogh, riprese dal sito
http://vangoghletters.org
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colori non vanno mescolati ma accostati, perché solo così le
superfici diventano vive”, e “il nero non è mai solo nero: è blu,
è marrone, a volte insieme”. Da loro ha imparato a schiarire i
suoi dipinti che fino ad allora erano di toni cupi, e con loro ha
bevuto tanto assenzio, un distillato ad alta gradazione alcolica
(raggiunge i 75 gradi) così diffuso nella Francia di quegli anni
da diventare moda e leggenda. Verde, amaro e dal vago sapore
di anice, si pensava contenesse erbe che davano allucinazioni,
che portavano all’assuefazione e alla pazzia. In realtà, se bevuto in quantità industriale come era abitudine fare tra gli artisti
bohemien, l’unico effetto era quello di una sbornia colossale, a
volte permanente. Fu comunque proibito nel 1915 e sostituito
nei gusti popolari dal pastis, liquore all’anice che non doveva
superare i 32 gradi. Limitazione che fu abolita nel 1951 (per
questo la Pernod Ricard chiamò Pastis51 la nuova produzione, ancora oggi sul mercato), mentre l’assenzio è tornato legale nel 1988 in tutta Europa, solo gli Stati Uniti ne vietano
ancora l’importazione.
A Van Gogh le notti passate tra discussioni e bevute nelle bettole di Montmartre avevano raffinato la sua tecnica pittorica
ma non la capacità di socializzare. Diventava più sicuro dei
suoi mezzi ma sempre più scontroso, inquieto e il gruppo degli artisti tendeva a isolarlo (solo Gauguin sembrava mostrargli una timida simpatia). Non ha amici e i rapporti con l’altro
sesso sono solo con prostitute. Parigi sta diventando insopportabile. E poi vivere a Parigi era costoso, per lui che non riusciva a vendere i suoi quadri. Il fratello Theo, che commerciava opere d’arte, era riuscito a venderne solo due, La vigna rossa
in Belgio e un autoritratto a Londra (quest’ultimo senza farglielo sapere, perché Vincent non voleva commercializzare lo
specchio della sua faccia, ritratta così tante volte che negli occhi
si poteva leggere l’evoluzione delle sue allucinazioni e delle sue
angosce). La sua unica fonte economica erano i soldi che Theo
gli inviava con le sue lettere, in media 150 franchi al mese. E al
fratello si era rivolto, ancora una volta, per chiedere un aiuto a
trovare nuovi ambienti e nuovi stimoli. Vuole andare al Sud, gli
spiega in una lettera, “perché lì i colori sono allegri e i paesaggi
sono simili a quelli rappresentati dai pittori giapponesi”. Tutti
gli impressionisti amavano Ia pittura giapponese. “I giapponesi
dipingono veloci, il tratto è essenziale, conciso, il loro pennello
è leggero, etereo, sembra volare, disegnando un mondo di luce”.
Van Gogh aveva visto i lavori di Hokusai, ne aveva studiato le
Sopra, Vincent van Gogh “I mangiatori di patate”, olio su tela, 82x114 cm,
realizzato nell’aprile 1885.
A lato, uno tra i tanti autoritratti realizzati da van Gogh. “Self-portrait with pipe”
è stato dipinto tra il settembre e il novembre 1886. Olio su tela, 46 x 38 cm.
Entrambe le opere sono conservate nel Museo Van Gogh di Amsterdam
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Sopra, “Campo
di grano con
volo di corvi”,
olio su tela,
1890, 50,3×100,5
cm, Van Gogh
Museum,
Amsterdam
A sinistra, “La
casa gialla”,
olio su tela,
1888, 76×94
cm, Van Gogh
Museum,
Amsterdam
“Ritratto del dottor Gachet”, olio su tela,
1890, 68×57 cm, Collezione privata.
A sinistra, “Il ponte di Langlois”, olio
su tela, 1888, 59×74 cm, Museo KröllerMüller, Otterlo
tecniche, la meticolosa precisione. “Lui davvero conosceva i colori della realtà e li faceva rivivere nelle sue incisioni”.
Quando in Olanda aveva incominciato a dipingere, i colori che
Vincent usava erano solo quelli che vedeva. “Marroni, verdi, blu,
persino i rossi e i gialli, erano tutti impregnati di grigio. Non erano trasparenti, come quelli di Hokusai, erano opprimenti”, come
la vita dei soggetti rappresentati. Nel suo primo capolavoro, I
mangiatori di patate, (così racconterà in un’altra lettera al fratello) “il soggetto l’ho solo raffigurato, non interpretato; è senza
anima: patate e persone hanno
lo stesso colore della terra, bruna e grigia”.
Lasciata Parigi, il paesaggio
visto dai finestrini è prima di
pianura, campagna coperta
di neve, poi intravede le cime
bianche sullo sfondo di un cielo
brillante “proprio come i paesaggi invernali dipinti dai giapponesi” e proprio come gli aveva anticipato Gauguin, che quel
viaggio l’aveva già fatto l’anno
prima e che aveva promesso di
raggiungerlo.
Perché nei progetti di Van Gogh
c’era anche l’idea romantica di
“Notte stellata”, olio su tela,
1889, 72×92 cm, Museum of
Modern Art, New York
“Autoritratto
con l’orecchio
bendato”, olio su
tela, 1889, 60×49
cm, Courtauld Gallery,
Londra
creare nel Sud della Francia una comune di artisti, “che si autofinanziava in cooperativa, così gli artisti non avrebbero avuto preoccupazioni economiche e potevano pensare solo a dipingere”.
A ottobre Gauguin lo raggiungerà ad Arles, per l’insistenza di
Vincent e di Theo, che gli paga il viaggio, ma le cose non andranno come Van Gogh aveva sperato. Dipingeranno tutto il
giorno, Gauguin racconterà i suoi viaggi ai Tropici e si dedicherà alla cucina; Vincent curerà la casa. Si parlerà solo di pittura, ma presto le discussioni diventeranno litigi. Gauguin si
stuferà e deciderà di andarsene. Allora Vincent, che si sentirà
abbandonato, si riempirà di assenzio e si taglierà una parte del
suo orecchio destro, che poi porterà a una ragazza di un bordello da loro frequentato.
Ma questo non è il futuro immaginato da Van Gogh quando
percorre l’ultimo tratto del viaggio tra Tarascon e Arles su un
treno locale. “Ho visto – scriverà a Theo - magnifici scenari,
enormi rocce gialle e piccole valli con filari di alberi piccoli rotondi, color verde oliva ma potrebbe benissimo essere alberi
di limone. E poi magnifici appezzamenti di terra rossa,
ricoperti di vigneti e sullo sfondo montagne di un lillà
tra i più delicati”.
L’Arles che accoglie Van Gogh a febbraio non ha
ancora i colori della primavera, “qui la terra
sembra piatta, e Arles mi ricorda alcuni paesi del Brabante di cui non ho rimpianti”,
ma dal balcone del suo albergo al 30 di
rue Pichot intravede una casa gialla.
Gli hanno detto che può prenderla
in affitto e Vincent già l’immagina
come sede del circolo degli artisti
e poi quel colore, il giallo, era
per lui un’aspirazione.
Non sapeva ancora che da lì
avrebbe avuto inizio la sua
follia. ■