lo strano nietzsche di vattimo e dell`espresso

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lo strano nietzsche di vattimo e dell`espresso
 LO „STRANO“ NIETZSCHE DI GIANNI VATTIMO E DELL’ESPRESSO Di ENRICO BERNARD Non tutti si sono accorti che al titolo italiano del romanzo breve di Thomas Mann „Morte a Venezia“ viene stranamente a mancare l’articolo determinativo, che invece compare nell’originale tedesco: „Der Tod in Venedig“. La traduzione corretta dovrebbe dunque suonare: „La morte a Venezia“. La svista è piú pesante di quanto si possa pensare. Nelle intenzioni di Mann, infatti, è un personaggio che rappresenta La Morte (di una classe) a recarsi a Venezia; mentre la versione italiana lascia, piú banalmente, intendere che qualcuno, un attempato intellettuale dalle stravaganti tendenze, va incontro al proprio destino. Ovviamente c’è una bella differenza (ideologica e storica) tra le due interpretazioni: il romanzo rappresenta la decadenza spirituale e morale della borghesia tedesca, che affonda ed occulta nelle nebbie e sabbie lagunari il proprio malessere esistenziale ‐ e qualche recondita depravazione, ‐ prima di esalare l’ultimo respiro. Al pari di Thomas Mann, anche Nietzsche ha subito qualche torto: per esempio, il titolo di una delle sue opere piú famose „Also sprach Zarathustra“ viene tradotto col piú colloquiale „Cosí parló Zarathustra“. Il titolo italiano ha dato pure la stura ad alcune parodie banalizzanti, ad esempio “Cosí parló Bellavista“ di Luciano De Crescenzo, tanto che l’espressione „cosí parló...“ è diventata un modo di dire piú o meno ironico. Ma la traduzione del titolo è proprio ineccepibile? Anche in questo caso direi di no. „Also“ ha, in tedesco, una funzione conseguenziale e non dimostrativa come il „cosí“ italiano. Dunque la traduzione esatta dovrebbe essere: „E allora parló Zarathustra“, e non „Questo è quello che disse Zarathustra“ come invece l’uso del „cosí“ dimostrativo fa intendere. Il problema è che il titolo originale allude ad un evento epocale, la morte di Dioniso, cui Zarathustra cerca di porre rimedio „allora“ scendendo dalla montagna per parlare agli uomini. Per Nietzsche, non è soltanto importante quello che dice Zarathustra, quanto piuttosto il momento in cui lo dice, ‐ la frattura tra dionisiaco ed apollineo, la nascita della tragedia ‐, come pure il motivo per cui decide di comunicare: la dispersione del „fattore umano“ nella ricerca inutile di un al di lá, un "oltre" monoteistico e dualistico. Il concetto di "oltre" chiama in causa Gianni Vattimo che se ne serve in sostituzione del celebre concetto nicciano dell’Übermensch, il Superuomo. Vattimo infatti, probabilmente per evitare le confusioni ideologiche imputabili all’appropriazione di pezzi del pensiero di Nietzsche da parte del nazismo, ha proposto un termine alternativo a quello di „Superuomo“, ipotizzando di rinominarlo „Oltreuomo“. Premesso che come traduzione letterale ci puó stare, va subito chiarito che il concetto di „oltre“ attribuito a Nietzsche rischia di creare qualche confusione. Il termine tedesco „über“ puó significare „oltre“, ma prevalentemente in senso di moto a luogo. Tuttavia, quando viene usato in combinazione con verbi che indicano un passaggio, ad esempio l’attraversamento della strada (überqueren), „über“ non comporta solo l’andare oltre, ma il passare o stare appunto sopra. Pure in italiano il verbo „oltrepassare“ è certamente legato all’idea di un „passar sopra per andare dall’altra parte“. E ancora: „überholen“ significa „sorpassare“ ma in questo caso anche in italiano prevale lo stare sopra (so‐rpassare), tant’è che il primo sinonimo italiano di sorpassare è su‐per‐are. Farebbe forse eccezione "Übersee", alias "Oltreoceano", dove il concetto di "oltre" rappresenta uno stato: ma in senso figurativo, perché lo stare Oltreoceano vuol dire letteralmente averlo superato navigandoci sopra per raggiungere l'altra sponda. La lingua tedesca è molto precisa, per questo si addice come il greco antico alla filosofia. Ma non è preciso il termine proposto da Vattimo: infatti „Oltre“, ritradotto nella lingua di Nietzsche – pensiamo all’oltretomba, per intenderci – potrebbe paradossalmente essere confuso con „Jenseits“ (al di lá). Il che è l’opposto di tutti gli sforzi del filosofo tedesco che ripudia e si batte contro qualsiasi forma di „oltre“ e di „al di lá“. Tutta la filosofia di Nietzsche è in funzione dell’al di qua, è una difesa a spada tratta dell’umanitá (necessario il pleonasmo) dell’uomo, che per essere tale deve liberarsi di ogni „oltre“, inteso come entitá sovrastante o destinazione metafisica. L’invenzione linguistica di Vattimo è senz’altro giustificata dalla buona intenzione di distinguere la concezione dell’Übermensch dalle appropriazioni naziste, ‐ anche a costo di correre il rischio di far confusione. Va pure specificato che gli stessi intellettuali di destra – come Marcello Veneziani o Luciano Arcella che insegna filosofia delle religioni all’Aquila e scrive sul quotidiano „Linea“ – riconoscono che Nietzsche non puó essere arruolato armi e bagagli quale precursore dell’ideologia hitleriana. Vattimo conosce bene Veneziani e Arcella e la questione gli è nota. Proprio in questi giorni è uscito per i tipi dell'editore Mimesis il saggio di Luciano Arcella "L'innocenza di Zarathustra" (pp. 162 ‐ 16,00 Euro) in cui la questione terminologica cui accennavo è posta in questi termini: "Il termine Übermensch è di per sé ingannevole, e non certo per l'ambiguità determinata nella vulgata, moralizzante e politicizzante, facilmente liquidabile per la grossolana ignoranza su cui si fonda, ma per la valenza dialettica che esso contiene. Pur scartando infatti l'aspetto <intensivo> di quel <super> da carburante, assente nella lingua tedesca, nella preposizione <über> rimane sempre la valenza spaziale. Chi è in alto, è tale in quanto ha superato (überholt) chi è in basso, e quindi si individua su base relazionale, comparativa, dialettica, inaccettabile da parte di Nietzsche, essendo il procedere reattivamente dialettico espressione di questa <sub­umanità>. Proprio in termini linguistici la difficoltà appare pertanto insuperabile, dal momento che il nostro esprimerci è comunque relazionale, dialettico. E non costituisce una soluzione l'utilizzazione del termine <oltre>, nel quale, pur essendo meno evidente. La relazione è pur sempre presente". La soluzione suggerita da Arcella: "dovrebbe allora consistere nella determinazione affermativa di una realtà in grado di rappresentare questo super od oltre­umano, questa diversa manifestazione dell'esistenza, in una valenza puramente positiva". Recentemente ho collaborato con Luciano Arcella per una testo teatrale („Zarathustra“) sulla vita di Nietzsche. Premesso che Arcella ed io abbiamo diverse opinioni, ci siamo trovati d'accordo su alcuni punti. Primo: non c'è antisemitismo in Nietzsche, che anzi stigmatizza violentemente le forzature antisemitiche del suo pensiero (cfr. "La gaia scienza", afor. 377, cfr. lettera del 24 marzo 1887 a Overbeck). Secondo: l’Übermensch, il Superuomo, sfugge ad una catalogazione razzistica progermanica, anzi per il filosofo "l'anima servile dei Tedeschi si idealizza nella virtù soldatesca dell'ubbidienza incondizionata"(K. Loewith). Se cosí stanno le cose, se gli intellettuali di destra rinunciano a vedere in Nietzsche un antesigniano di teorie „ariane“, anche perché su questi temi il pensatore pensatore si smentisce costantemente, che bisogno c’è di sostitire il „Superuomo“ con "Oltreuomo", un termine fuorviante, contraddittorio ed estraneo alla sua filosofia? Del resto, anche un altro concetto‐chiave dell'opera di Nietzsche potrebbe generare sospetti, l’Eterno Ritorno dell’Uguale. Giá, perché se tutto è destinato a tornare tale e quale, ‐ mi si consenta la banalizzazione ‐ allora qualcuno potrebbe alimentare la speranza del ritorno di Hitler: ergo, perché non sbizzarrirsi ad escogitare un termine piú vago e meno compromettente per „Eterno ritorno“, magari „girotondo“ oppure, la „giostra del tempo“!? Personalmente ritengo che la filosofia abbia sufficientemente interpretato il mondo, come dice Marx. E pur volendo stare al gioco, mi chiedo: se la filosofia deve portare alla "realizzazione di una diversa forma dell'esistenza liberata dal risentimento e dalla morte" (Arcella, p. 86), non posso che scorgere, in questa "evidente esigenza" (Arcella) di un'esistenza liberata dalla morte, il sogno infantile del genere umano, insomma un'ovvietà. L'evidente esigenza comunque si scontra con la riflessione di un epigono di Nietzsche, Heidegger, secondo il quale la coscienza della mortalità (la Chiamata della Morte dalla dispersione e dalla Chiacchiera) ha una funzione centrale nel raggiungimento dell'autocoscienza dell'Essere, che si accorge di essere veramente se stesso nel momento in cui viene richiamato dalla sua finitezza. Non posso tediare il lettore con disquisizioni che diventano magari più suggestive quando si concentrano nell'ambito letterario. Arcella del resto fa un giusto paragone tra l'opera di Nietzsche e "La coscienza di Zeno" di Italo Svevo. E volendo insistere sul piano della letteratura (c'è poi tanta differenza tra la sensibilità dell'uomo alfieriano e quello nicciano?) forse sarebbe il caso di individuare nel "Superuomo" una matrice meno paradigmatica, meno criptica ‐ se vogliamo meno compiutamente "filosofico‐scientifica" ‐ per coglierne il lato artistico, letterario e teatrale. Quello che segue non è forse un pezzo di grande letteratura o teatro? "E il grande meriggio è: quando l'uomo sta al centro del suo cammino tra l'animale e il superuomo, e celebra il suo avviarsi alla sera come la speranza più elevata: giacché quella è la via verso un nuovo mattino." (Zarathustra, I:93). Non sto nemmeno a dire che su un simile brano possono scorrere fiumi d'inchiostro: ciascuno lo decripterà a suo modo, proprio come succede con la letteratura, con la poesia o col monologo di Amleto. Allora: perché Nietzsche ha conseguito la patente del filosofo e Shakespeare no? E qui chiamo in causa Schiller perché è un immediato predecessore di Nietzsche e perché entrambi condividono l'ammirazione per Goethe. Così come il teatro schilleriano può essere interpretato sia sotto il profilo letterario, che sotto quello storico e filosofico, azzardo l'ipotesi che anche la filosofia di Nietzsche dovrebbe essere letta come una forma di drammaturgia (La nascita della tragedia). Nel saggio sul gioco (ma attenzione: in tedesco come in francese "giocare" ‐ spielen ­ sta anche per fare teatro, recitare) Schiller anticipa il concetto hegeliano della coscienza che rientra in sé dall’alienazione e ritrova la completezza attraverso lo spirito del fanciullo che gioca o dell'attore che recita: „L’uomo gioca (recita) quando è completo ed è completo quando gioca (recita)“ Non devo sprecare un rigo per riaffermare che quando parlo di „fanciullo che gioca“ e di Uomo Completo, o „se stesso“ perché accetta il gioco della vita come una rappresentazione teatrale (di questo tratta un altro caposaldo della letteratura nicciana, „La gaia scienza“), sento di essere in perfetta sintonia con Nietzsche, che peraltro vedeva nella teatralità di Wagner una realizzazione della sua visione del mondo. E non devo neppure ricordare che punto di partenza di tutto il pensiero nicciano è "Il mondo come volontà e rappresentazione" di Schopenauer: e sottolineo "rappresentazione". Karl Löwith nel suo celebre saggio „Da Hegel a Nietzsche“ conferma questa interpretazione: "Il <Tu devi> della fede cristiana si trasforma nello spirito affrancato dell'<Io Voglio>; nel <deserto della sua libertà> per il nulla, avviene l'ultima e più difficile trasformazione dell'<Io Voglio>, nell'esistenza eternamente ritornante del gioco fanciullesco di distruggere e creare, vale a dire dell'<Io Voglio> nell'<Io Sono>, cioé nella totalità dell'essere." (K, Löwith, "Da Hegel a Nietzsche", Zurigo 1941, Milano, Einaudi 1977, p. 294). Nella filosofia di Nietzsche non c’è spazio per l' „oltre“, tantomeno per qualcosa come l’„oltreuomo“, è piuttosto presente l’idea del ritorno a se stesso dall’alienazione: la presa di coscienza che Dio e la storia sono creazioni umane. Insomma, il Superuomo di Nietzsche non è qualcosa „al di lá da venire“, un „oltre“, ma una condizione dello spirito giá esistente, un „al di qua“ che risulta al momento velato dalla metafisica, e che deve essere „dis‐velato“ (nel senso di scoprire qualcosa che è giá qui, basta togliere il velo), riconquistato, per ritornare alla luce. Zarathustra scende „allora“ dalla montagna perché percepisce questa esigenza di dis­velamento della veritá offuscata dalla metafisica. Tant’è che, ne „L’Anticristo“, Nietzsche – ripescando anche alcuni spunti critici di Giordano Bruno ‐ mette sotto accusa la figura del Redentore: ri­velando la veritá sotto forma di mondo ultraterreno, Cristo relativizza la libertá dell’uomo ad uno scopo e ad un premio assoluto, „oltre“ la vita, al di lá, irraggiungibile nonché ingannevole. Nel caso di Vattimo si è trattato, insomma, di una boutade linguistica per ovviare ad un serio problema ideologico: la contaminazione nazista (cfr. anche Löwith p. 303‐304) che ha reso, ad esempio, illeggibile, irricevibile, nell’immediato dopoguerra, Nietzsche da parte di Lukács. Bisogna peró ricordare che quando nel 1954 Lukács scrive „La distruzione della ragione“, ripercorrendo il pensiero irrazionale da Hegel a Nietzsche fino ai primi teorici dello spiritualismo, ebbene i campi di sterminio nazisti sono ancora fumanti. Ció spiega, sotto il profilo umano, il fatto che Lukács, con quel fumo negli occhi e col vivo ricordo di tanta tragedia, non riuscisse ad accettare e "storicizzare" – per ovvii motivi – la filosofia di Nietzsche. Invece Löwith, non conoscendo l'immane tragedia dello sterminio perché siamo ancora nel 1940‐41, può più lucidamente difendere Nietzsche parlando di "abisso che separa il filosofo dai suoi ultimi proclamatori". In tempi più recenti, superata la fase del rigetto traumatico della filosofia nicciana, bisognava però operare una sorta di recupero del „Titanic“ Nietzsche. Cosí si cominciano a gettare ciambelle di salvataggio al filosofo tedesco. Poco importa se i salvagenti sono sgonfi, si gonfieranno un po’ alla volta portando in salvo un pezzo dopo l’altro i concetti filosofici che, una volta ribattezzati, possono pure tornare in circolazione – riciclati o "scudati" come il denaro sporco. Questo peró è un modo di fare filosofia filologicamente scorretto: si è ancora condizionati dall’ideologia, o dai fini personali, e si corre il rischio di finire come quel cocchiere che, per liberare il cavallo dal paraocchi, è andato a sbattare col carretto contro un muro. E passiamo al secondo „strano“ Nietzsche, dopo quello di Gianni Vattimo. In questi giorni è uscito in edicola con „L’Espresso“ il DvD del supplemento di filosofia dedicato a Nietzsche a cura di Maurizio Ferraris (che dirige anche la collana, peraltro ben fatta e assai utile). Il commento di Ferraris è all’inizio preciso, simpaticamente poco accademico, lui stesso è un conduttore affabile, credibile... fino ad un certo punto. Infatti, Ferarris ripetutamente, e talvolta anche un po’ fuori luogo, come un disco incantato, comincia a tirare in ballo la follia di Nietzsche. E’ cronaca che nel 1889 Nietzsche, che per la veritá non ebbe mai una testa del tutto a posto, cominció a dare i numeri in modo eclatante. Quelli che erano tratti maniacali del suo carattere, aggravati da fobie sessuali e turbe varie, nonché dall’abuso di oppiacei, sfociarono in una dirompente schizofrenia che costó al filosofo l’internamento in manicomio, dove perse definitivamente il lume della ragione. Ma Ferraris incalza lo spettatore: guardatelo in questa foto, ha lo sguardo perso nel vuoto, è matto. E poi rincara piú volte la dose, senza peraltro attribuire una "funzione" a quella follia che pur sempre geniale si rivelò. Del resto, la pazzia di un filosofo o di un artista è sempre qualcosa di molto speciale. Ferraris è talmente preso dal ruolo „psichiatrico“, dalla lombrosiana analisi dei tratti del volto "del pensatore matto", che ad un certo punto ‐ oltretutto è in maniche di camicia bianca, il che fa una certa impressione parlando di pazzi ‐ se ne esce con una chicca stravagante. Ferraris mostra orgogliosamente un volume di cui è autore, la biografia di Nietzsche recentemente pubblicata dell’editore Laterza, che reca in copertina, per un increscioso scambio di persone, un’immagine che non è quella del pensatore, ma di Umberto di Savoia! Si badi che la differenza tra il filosofo tedesco e il capostipite di casa Savoia è notevole, almeno 20 chili ed una trentina di centimetri: a parte i baffoni, sono tipi somatici completamenti diversi. Ma che cosa è successo? Semplice: siccome nel ritratto Umberto di Savoia ha lo sguardo un po’ folle e perso nel vuoto, ergo quel pazzo coi baffoni non puó che essere Nietzsche, per Ferraris e il suo malcapitato editor. Ma il bello è che invece di imporre una nuova copertina all’editore per riparare al fattaccio, Ferraris fa pubblica ammenda della sua svista nel programma video ‐ guadagnando in simpatia, ma perdendo in credibilità. Oltretutto mostra il volume dalla copertina sbagliata con una certa civetteria, durante le riprese del dvd dell’Espresso, come se fosse un cimelio di famiglia o un trofeo di caccia! A chi attribuire la responsabilitá di tale pacchiana svista? All’editor, al grafico, al correttore di bozze... Forse al professore? Sí, certo, ma non al professor Ferraris autore del volume, bensí al professor Nietzsche, il „babypensionato“, come lo definisce Ferraris nel soliloquio del video. Babypensionato? Una nuova categoria filosofica? Un’altra presa per i fondelli di Nietzsche che cosí passa anche per parassita sociale? Ebbene, il concetto scientifico di „babypensionato“ appassiona tanto Ferraris che la follia di Nietzsche sembra esserne la diretta conseguenza: parrebbe infatti, dal racconto di Ferraris, che Nietzsche non fu esonerato dall'insegnamento per poter effettuare ricerche e approfondimenti, bensì perché già pesantemente disturbato e disturbante. Non mi risulta essere questa ‐ né allora né adesso ‐ la prassi amministrativa nei confronti di un docente‐demente da parte dell'Università di Berna. Tornando a Ferraris, l’essere „babypensionato“ è dunque la condizione primaria di Nietzsche, l’altra quella di fare stranezze. E pure gli amici, soggiunge Ferraris, non ne potevano piú delle sue stramberie. Gli amici piú stretti Loú Salome e Reé addirittura, continua il racconto di Ferraris, lo piantano in asso ridendo di lui e ripromettendosi di mai piú rivederlo. Mi risulta al contrario che la corrispondenza di Loú Salome e Reé con Nietzsche sia piuttosto intensa: i due amici seguono come possono sia gli sviluppi filosofici, sia il manifestarsi dei primi squilibri. Insomma, l’impressione che ne ricava lo spettatore poco addentro alla materia è questa: Nietzsche era matto e ha lasciato un’opera frammentaria che solo dopo la sua morte è stata rimessa insieme dalla sorella, la quale però ‐ si affretta a precisare Ferraris ‐ pure qualche rotella fuori posto ce l’aveva. Quindi è chiaro che da un matto la cui opera frammentaria viene riordinata da una sorella sciroccata, non puó che nascere sempre nuova confusione: la confusione che fa per l’appunto scambiare il filosofo tedesco nientepopodimeno che con Umberto di Savoia! Un bell’affronto per Nietzsche che si augurava la morte di Re e Papi! E un bel modo pure di fare filosofia divulgativa (e lasciamo perdere la qualità audio del dvd con voci di avventori e rumori di stoviglie che rendono la conferenza di Ferraris alquanto casareccia!). Capisco che sto ironizzando sulle buone intenzioni. Perché buone erano senz’altro le ragioni di Vattimo, cosí come buone sono le intenzioni di Ferraris, che vuol fare divulgazione, pur ottenendo il risultato opposto. Il fatto è che la pazzia di Nietzsche ha piú cause che vanno bene analizzate per comprenderne natura e significato. La sua follia – possiamo chiamarlo il suo perenne stato border line ­ scaturisce da vari fattori: psicologici (rapporto irrisolto con la figura paterna mitizzata e problemi con la madre), psichici (le fobie sessuali), fisiologici (gli oppiacei), affettivi (il rifiuto di Lou Salomé di sposarlo), professionali (fu senz’altro un genio incompreso), economici e... storico‐filosofici. Infatti, la pazzia di un pensatore non è un terribile destino, ma in qualche caso anche una scelta deliberata, seppure piú o meno inconscia. Parlo della follia come scelta di una condizione in cui il pazzo è potenzialmente tutto, Dio o formica: rappresenta l’Uomo Completo nel gioco. Il pazzo è come un bambino che gioca, e puó giocare ad essere e fare ció che vuole: tanto è lui il padrone del proprio palcoscenico mentale. Pirandello, che di pazzia fu purtroppo per lui buon intenditore, ‐ la visse quotidianamente in famiglia con la moglie, ‐ ha descritto questo stato in un capolavoro teatrale, l’“Enrico IV“, la cui gestazione non combacia del tutto, temporalmente parlando, con la malattia mentale del filosofo tedesco, ma certo si aggira nel periodo della grande crisi borghese tra fine Ottocento e primi del Novecento. Solo i pazzi possono avere il coraggio di dire la verità e aprire gli occhi agli altri: lo dice proprio il personaggio pirandelliano riprendendo il discorso di Zarathustra che al mercato viene preso per pazzo proprio perché ‐
repetita juvant – disvela la verità. Di che follia parliamo altrimenti, se non della follia del filosofo descritta da Hoffmanstahl ne „La torre“, la follia di Empedocle che si getta nel cratere dell’Etna, la follia di Diogene che si fa rinchiudere nella botte, la follia di Socrate che beve la cicuta, la follia di Giordano Bruno a cui l'Inquisizione è costretta ad inchiodare la lingua per farlo tacere... ? quanto devo continuare per stabilire un rapporto diretto e „necessario“ tra pensiero filosofico e follia? La follia di Nietzsche ha dunque qualcosa di teatrale come del resto teatrale è la sua filosofia direttamente ispirata dalla scenicitá musicale di Wagner da un lato, nonché ‐ come dicevo ‐ da suggestioni attinte da Schopenhauer. Il termine „rappresentazione“ che Schopenhauer naturalmente non intende in chiave teatrale, assume invece per Nietzsche una valenza drammatica fino a sfociare in una vera e propria drammaturgia filosofica, cioé ad una fusione di teatro e pensiero dialettico. A Nietzsche riesce con estrema facilitá questa forma di teatralizzazione dell’idea: era infatti un filologo e ben conosceva –
ovviamente – il mondo classico e soprattutto l’origine teatrale del pensiero analitico. Del resto, non è stato proprio Platone a servirsi del dialogo di Eschilo per lo sviluppo della dialettica? Il teatro – e la messa in scena, forse in un primo tempo, della sua stessa follia ‐ è dunque al centro della filosofia nicciana. Nello „Zarathustra“, opera teatrale da me scritta, come ho accenato in precedenza, in collaborazione con Arcella, il finale è dedicato proprio allo scoppio della follia di Nietzsche. Da „Zarathustra“ di Enrico Bernard in collaborazione con Luciano Arcella. ULTIMA SCENA Nietzsche si allontana fischiettando. Cammina allegramente, alternando la
normale andatura con qualche saltello, come se stesse danzando. Il cielo è grigio, ma
intorno c’è aria di festa: siamo nel periodo natalizio. A un certo punto incomincia a
cadere la neve. Nietzsche è euforico, sorride alla gente, saluta tutti. Si avvicina a un
signore anziano che è fermo a guardare la neve che cade.
Nietzsche: "Le piace questo mondo che ho creato? Con la mia filosofia... lei
penserebbe. No, con il mio amore, tanto grande da sopportare la reponsabilità di
essere un dio, un dio umile però che non pensa affatto di essere in grado di espiare
ogni colpa col suo sacrificio. Ma senta, senta ... le posso dare un consiglio? O meglio
un'idea? Cerchi di essere una lamina d'oro e allora tutto quello che vi verrà scritto nel
corso della vita sarà oro. O senti, senti se ti piace questa: dieci volte al giorno almeno
devi ridere ed essere allegro, altrimenti lo stomaco, padre d'ogni dolore, ti disturberà
nella notte"
Nietzsche procedendo incrocia una donna alquanto appariscente, la osserva e quindi
parla fra sé e sé.
Nietzsche: "Per vedere la bellezza di questa donna, basta osservarla con occhi deboli;
se invece si vuole cogliere a fondo il suo spirito ci vuole una buona lente, perché lei lo
nasconde. O meglio cerca di nasconderlo nel suo volto, per quanto è possibile, visto
che lo spirito invecchia le donne"
Nietzsche incontra un cavallo che conduce una carrozza. E' fermo e rumina
tranquillamente. Nietzsche gli si avvicina e gli fa un leggero inchino.
Nietzsche: "A te posso raccontarlo, perché so che sei discreto e non lo diresti mai in
giro. Sai, io conosco il mio destino. Verrà un giorno in cui al mio nome si legherà il
ricordo di qualcosa di enorme. Una crisi che non si era mai avuta, la più profonda
spaccatura della coscienza, una presa di posizione contro tutto quel che si era
sostenuto, creduto, santificato. Io non sono un uomo, io sono dinamite. Non ci credi?
E invece da oggi vedo prove, strani segnali e nella mia gioia ho la tremenda paura che
quel giorno vogliano farmi santo. E io non voglio essere santo, ma piuttosto un satiro,
il dio che danza, e perché no? Un buffone!"
Il cavallo emette un nitrito.
Nietzsche: "Vuoi chiedermi qualcosa? Capisco, tu mi dici ... ma a me che importa di
tutto questo? Della tua gioia e della tua filosofia. Io sono un cavallo anche perché sei
tu, professore, a chiamarmi cavallo. E per sentirti più umano pensi che io ti sia simile,
che provi le tue emozioni. E per questo ora addirittura provi compassione per me,
visto che vedi te stesso legato a un carretto, a sopportare il duro peso sotto la neve.
Ma io non sono te, e non puoi impormi il tuo sentire, hai capito? Perché io non soffro,
e non ho bisogno delle tua pietà, della tua commozione. Tu stesso l'hai detto e l'hai
anche scritto, e più d'una volta. Provare pietà significa disprezzare la vita: Dio è morto
per la sua pietà verso gli uomini, non è così? Questo mi diresti se io potessi capirti,
ma forse anche questo sarebbe troppo umano, troppo serio, troppo pieno del nostro
pregiudizio di piccole formiche che pensano che il grande bosco sia stato messo su
per loro"
Compare come un flash back la bambina Adrienne, incontrata in precedenza a Sils
Maria in Engadina, che gli sorride e gli parla.
Adrienne: "Ciao, mio professore, so che tu stai andando via, e che andrai molto
lontano, ma ricordati , ricordami, me lo hai promesso. Me lo dicesti tu allora, che tutto
ritorna, perciò allora io non ho pianto. Perché io rimango qui ad aspettare, che ritorni
tu e anche lei, per giocare ancora insieme. Me lo hai promesso, non puoi rimangiarti
la parole, chiaro?"
Nietzsche: "Io Nietzsche, io Dioniso, io che prometto l'eternità. Solo un piccolo dono,
e lo diedi con la massima prodigalità alla mia cara Lou. Che non volle, che non seppe,
che si limitò al modesto piacere di spezzarmi il cuore, senza però riuscire a farmi
odiare la vita. Lo so, non l'ho ancora qui, pronta, realizzata, l'eternità che voglio darvi,
ma ci siamo ormai, basta solo che uccidiate il vostro dio e me con lui, per essere
finalmente liberi"
Ritorna l'immagine del cavallo, e Nietzsche che lo accarezza.
Nietzsche: "Dai cavallo, io non conosco i tuoi pensiero, ma voglio darti la libertà e
voglio che ne approfitti, capito? Cavallo d'ottobre che corre sino ai confini del regno,
della mia gioventù, quello senza confini, e tu che subirai l'inganno di chi ti crederà
colpevole della mia pazzia. Ma loro non lo sanno e non lo sapranno, che non è stata la
malattia antica, non l'oppio e neppure i bagni nell'acqua gelata a darmi alla testa e al
cuore, ma la paura del tempo, l'impero prussiano, il mondo mutato per una improvvisa
invadenza di Dio. Ma io reagisco, e così ti dico che ho preso ormai possesso del mio
regno, accompagnato dalla sapiente Arianna, e che getterò il papa e Bismarck in
prigione, così restituirò ai Tedeschi e al mondo la gioia di vivere perduta. Mi
raccomando, ribellati, ora o mai più!"
Nietzsche si allontana mentre cade la neve. Si vedono due uomini in camice bianco
che lo prendono sottobraccio e lo portano via.
Scena Finale
Nietzsche è trasformato, sta nella sua casa di Naumburg con la madre. Nella sua
pazzia rimane come assopito, mentre tocca sbadatamente la tastiera del pianoforte.
E' vestito in maniera elegamte con il medesimo abito che indossava a Torino e le
stesse scarpe. Suono monotomo, lugubre, ma Nietzsche sorride alle sue visioni. Sono
i suoi affetti, Resa, Carmen, l'amico Rée, ed infine Lou che gli rivolge uno sguardo
pieno d'amore e lo invita a seguirla.
Nietzsche: "Mi inviti davvero, non è un inganno. (Si alza dal pianoforte e mostra le
sue scarpe nuove). Ti piacciono? Vuoi danzare con me adesso? Ma sta attenta, perché
se lo fai adesso ti toccherà rifarlo in eterno. Convinta?"
Lou non dice niente, gli sorride e protende la mano invitandolo alla danza. Nietzsche
la segue, e i due danzano perdendosi nel paesaggio dell'Engadina fra lago e cielo.
Voce di Nietzsche: "E' vero, che noi amiamo la vita non perché siamo abituati a lei,
ma perché cerchiamo l'amore. Nell'amore vi è sempre un po' di pazzia, anche se poi
nella pazzia vi è sempre una certa ragione. Ed io, che amo la vita, sono convinto che
tutti coloro che hanno un po' della farfalla e un po' della bolla di sapone, sappiano più
d'altri che cos'è la felicità, perché sanno danzare. Mentre il demonio è serio, radicale,
solenna, lui non danza. Ma io ho imparato e da allora corro e danzo. Da allora ho
imparato a volare. Ora sono, leggero, volo, guardo tutto sotto di me... adesso è un dio
che danza se io danzo"