CORRADO BEVILACQUA UNA CALDA ESTATE DI GUERRA
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CORRADO BEVILACQUA UNA CALDA ESTATE DI GUERRA
CORRADO BEVILACQUA UNA CALDA ESTATE DI GUERRA Racconto Guardai la tomba nella quale Sebastiano era sepolto e pensai: "Adesso che uccidendoti hai dimostrato di non avere paura della morte, mi vuoi dire perché l'hai fatto? Una donna? Una malattia incurabile? Che cosa?". Guardai nuovamente la tomba dove Sebastiano era sepolto e mi resi conto che la mia domanda era inutile. Sebastiano, infatti, non poteva né sentirmi né rispondermi. Sebastiano dormiva il "grande sonno" e, come tutti gli uomini e tutte le donne che, accanto a lui, dormivano il "grande sonno", aveva reciso ogni contatto con noi. Accennai un rapido segno di croce, ricordo della mia formazione cattolica. Mi voltai e mi diressi verso l'uscita del cimitero di San Michele. Attraversai l'androne che immetteva all'uscita. Varcai la soglia del cimitero e mi diressi verso l'imbarcadero del motoscafo che m'avrebbe riportato a Fondamenta Nuove. Comperai il biglietto. Mi voltai e guardai in direzione dell'isola di Murano. Il motoscafo era ancora prossimità dell'isola di Murano. Ritornai sui miei passi e cercai un momentaneo ristoro all'ombra della chiesa di San Michele. Il sole, infatti, aveva già cominciato a picchiare pesantemente sulla mia testa. Gli attacchi terroristici dell'11 settembre e le manifestazioni di gioia con le quali essi erano stati accolti nei paesi islamici avevano indotto molti intellettuali e politici occidentali a abbracciare la teoria di Samuel Huntington del "clash of civilizations". Sebastiano era stato uno di loro e, nel suo ultimo libro, aveva affermato che l'11 settembre aveva dato inizio ad una nuova fase della storia caratterizzata dallo scontro fra civiltà islamica e civiltà occidentale. Io non pensavo che noi fossimo di fronte a uno scontro di civiltà. Io pensavo, invece, che noi fossimo di fronte a uno "scontro di fondamentalismi" che opponeva il fondamentalismo dei neocons americani i quali pensavano che i "valori americani" erano "valori universali" i quali, in quanto "valori universali", conferivano all'America il diritto di imporli a tutti i popoli del mondo e il fondamentalismo degli islamisti i quali vedevano nel jihad che avevano lanciato contro di noi lo strumento d'una rivoluzione islamica mondiale. Ciò significava, se la mia analisi era corretta, che noi dovevamo stare attenti a non cadere nella trappola del "whether with us or against us" e dovevamo cercare, invece, il dialogo con coloro che nel mondo islamico erano disponibili a dialogare con noi, a cominciare dai musulmani che vivevano nei nostri paesi. Mi rendevo conto delle difficoltà che tale impresa comportava. Essa era, però, l'unica strada che era possibile percorrere, a meno che noi decidessimo di ritornare al tempo delle Crociate, come sembrava essere nelle intenzioni di Sebastiano. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che egli non aveva intenzione di perorare un ritorno al tempo delle Crociate, ma che intendeva sottolineare come fosse impossibile sceverare l'Islam religioso dall'Islam politico; che non aveva alcuna intenzione tappare la bocca agli intellettuali occidentali, ma che non faceva che registrare un fenomeno che dimostrava come l'Occidente attraversasse una crisi di identità altrettanto grave di quella che attraversava il mondo islamico; che la proposta di cercare un dialogo con i musulmani moderati era destinata al fallimento perché, se nei paesi islamici si fossero tenute delle libere elezioni, esse sarebbero state vinte ovunque dagli islamisti; infine, che l'Islam non era quella religione di pace e moderazione che ci veniva detto e che per renderci conto di questo fatto era sufficiente leggere il Corano. Era vero. Se nei paesi islamici si fossero tenute libere elezioni esse sarebbero state vinte ovunque dagli islamisti, ma come pensava Sebastiano di contrastare gli islamisti? Pensava di farlo "esportando la democrazia" nei loro paesi nel modo in cui essa era stata "esportata" in Iraq? Allo stesso modo, era vero che, per l'Islam, la religione abbracciava sia la nostra religione che la nostra politica, era regola di vita e legge, era anche vero, però, che era sbagliato identificare l'Islam politico con il radicalismo islamico. Come il presidente iraniano Mohammad Khatami aveva dimostrato con i suoi scritti e discorsi, il pensiero politico islamico era, infatti, molto più ricco di quello che lo stesso Sebastiano pensava. Ciò significava che erano possibili diverse interpretazioni del Corano. Infine, era vero che il mondo occidentale attraversava una grave crisi di identità, come le posizioni assunte da certi politici e intellettuali occidentali dimostravano, ma era altrettanto vero che era sbagliato pensare che tale crisi poteva essere superata tappando la bocca a qualche intellettuale occidentale o impedendo a qualche politico occidentale di esprimere il proprio dissenso. Se volevavno "uscire dall'Occidente", erano liberi di farlo. Prima, avrebbbero dovuto spiegare, però, dove volevano andare. Guardai verso la laguna. Il motoscafo s'avvicinava velocemente all'isola di San Michele. Ritornai sui miei passi. Entrai nell'imbarcadero. Il motoscafo attraccò rumorosamente al pontile. Salii a bordo. Il marinaio di bordo ritirò la corda che aveva precedentemente usato per l'ormeggio del motoscafo al pontile. Il motoscafo si staccò rumorosamente dall'imbarcadero di San Michele e puntò su Fondamenta Nuove. Il fine, ovvero la sconfitta del terrorismo islamista, giustificava i mezzi impiegati per ottenerla? Io pensavo di no. Io pensavo, infatti, che tra mezzi e fini esistesse, come aveva scritto Gandhi, la medesima, inviolabile relazione che esisteva tra il seme e l'albero e che se noi volevamo ottenere un albero da frutto non potevamo piantare un'erbaccia. Ciò non significava, ovviamente, che dovessimo accettare di subire ogni genere di violenza. Per renderci conto di questo fatto potevamo pensare al caso d'un pazzo che, un mattino, s'affacciava alla finestra di casa e si metteva a sparare sulla folla. Che cosa dovevamo fare? Dovevamo lasciare che continuasse a sparare sulla folla o dovevamo fermarlo, anche a costo di usargli violenza? Dovevamo fermarlo anche a costo di usargli violenza. Non era questo il problema. Il problema era che noi non avevamo che fare con un pazzo che sparava sulla folla dalla finestra di casa. Avevamo che fare con un'organizzazione terroristica che era diramata in tutto il mondo, che era dotata di ingenti mezzi finanziari che le erano forniti da una rete di finanziatori sparsi in tutto il mondo e che aveva la possibilità di attaccare chi voleva, dove voleva, quando voleva usando le armi che voleva. I mezzi giusti per colpire un'organizzazione terroristica di quel genere non erano quelli d'una guerra indiscriminata contro tutti gli stati nei quali pensavamo esistessero delle sue basi operative. I mezzi giusti per colpire un'organizzazione terroristica di quel genere, come aveva scritto il politologo americano John Mearschmeir, erano: "intelligence gathering, clever diplomacy, carefully military strikes". Per realizzare ciò, era necessaria, però, la collaborazione dei governi degli stati nei quali i terroristi avevano le loro basi operative e tale collaborazione, non poteva essere ottenuta usando solo la minaccia delle armi: essa poteva essere ottenuta con un uso sapiente della pressione politca e dell'aiuto economico e, soprattutto, occorreva aiutare le popolazioni di quei paesi a trovare la strada della democrazia. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che ciò era esattamente quello che intendeva fare l'amministrazione Bush. Era vero. Era quello che intendeva fare l'amministrazione Bush.Con una L'ammnistrazione Bush ragionava in termini di hard power. Io ragionavo in termini di quello che Joseph Nye aveva chiamato "soft power" e che nel linguaggio gramsciano avremmo potuto chiamare "egemonia". Il motoscafo attraccò rollando a Fondamenta Nuove. Scesi dal motoscafo e presi per calle del Fumo.Giunto alla fine di calle del Fumo, mi fermai di scatto e guardai la donna che camminava lentamente davanti a me. Quella è la donna che era al funerale di Sebastiano, pensai. Lasciai che la donna prendesse un vantaggio di qualche metro su di me e, incuriosito, cominciai a seguirla. Perché al funerale di Sebastiano sedeva solitaria in disparte? Perché, dopo il funerale, non era andata a abbracciare Maddalena, la sorella di Sebastiano? Arrivata in campo san Canzian, la donna prese per campiello Flaminio Corner. Arrivata al ponte di san Giovanni Crisostono, la donna si fermò improvvisamente, come se fosse stata presa da un pensiero improvviso, oppure, si fosse accorta d'essere seguita e si mise a guardare le vetrine del negozio di giocattoli che si trovava ai piedi del ponte. Io mangiai la foglia e continuai a camminare. Superai la donna. Mi fermai all'edicola che si trovava accanto alla chiesa di san Giovanni Crisostomo e comperai il giornale. La donna passò accanto a me senza guardarmi. Io aspettai che la donna prendesse un vantaggio di qualche metro su di me e ripresi a camminare. La donna si voltò e mi guardò come se il mio comportamento l'avesse insospettita. Io decisi di sospendere il pedinamento. Svoltai nella calle che portava al teatro Malibran. Attraversai il campiello del Milion. Superai ponte Marco Polo. Svoltai a destra e m'infilai nella vicina osteria. Ordinai un bicchiere di prosecco e pensai che era vero che ciascuno doveva fare il proprio mestiere. Se fossi stato un investigatore privato, mi sarei fatto scoprire al primo pedinamento e poi che cos'avrei raccontato al marito della donna? Afferrai il bicchiere che il banconiere aveva posato davanti a me e lo guardai come se fossi stato colto da un'illuminazione. Finora, avevo pensato alla donna, ma non avevo pensato al marito della donna. La donna, invece, era sposata e aveva pensato che io fossi un investigatore privato assoldato dal marito. Ciò poteva spiegare il motivo per il quale Sebastiano non m'aveva mai parlato della donna e, forse, poteva spiegare pure il suo suicidio, anche se stentavo a credere che Sebastiano si fosse ucciso per la donna che avevo appena smesso di pedinare. Non l'aveva fatto quando Claudia, la donna con la quale aveva trascorso tutta la sua vita, era morta dopo una lunga e dolorosa malattia. Perché avrebbe dovuto farlo per la donna che avevo appena smesso di pedinare? Perché era innamorato di lei. Lei l'aveva lasciato. Lui non era riuscito a assorbire il colpo e s'era ucciso. Come Edgar Allan Poe aveva scritto in "I racconti di via Morgue", non sempre la verità era nascosta in fondo al pozzo. Posai il bicchiere. Pagai. Uscii dall'osteria. Guardai l'orologio e pensai che se mi facevo vedere a quell'ora, mia madre m'avrebbe rimproverato per non averla avvertita che avevo pensato di pranzare da lei, perché, se l'avessi avvertita.... Se l'avessi avvertita non sarebbe accaduto nulla. mia madre era sempre stata una pessima cuoca e se mio padre l'aveva sposata non era stato certamente perché mia madre era una brava cuoca. Mia madre m'aveva detto che l'altra donna, quella che al funerale era seduta accanto a Maddalena, la sorella di Sebastiano, aveva un negozio d'antiquario dalle parti di ... Forse, pensai, il negozio era ancora aperto e avrei potuto parlare con lei. Tagliai per San Lio e mi diressi verso il negozio della donna che, al funerale, era seduta accanto a Maddalena. Il negozio era chiuso per pausa pranzo. Ritornai sui miei passi e mi diressi verso la casa di mia madre. Se mia madre m'avesse chiesto il motivo della mia visita, avrei potuto risponderle come aveva risposto George W. Bush a chi gli aveva chiesto perché, nel novembre del 2003, era andato a Baghdad per Thanksgiving: "I was looking for a warm meal, somewhere". Mia madre non mi chiese il motivo della mia visita. Mi fece entrare in casa. Chiuse la porta è andò in cucina. "Sei arrivato al momento giusto", disse mia madre. "Ero sul punto di buttare la pasta". Mia madre si avvicinò alla credenza e mi chiese quale tipo di pasta preferissi. Lunga o corta? Optai per la pasta corta. mia madre estrasse dalla credenza una confezione di pennette. Chiuse la credenza e ritornò verso i fornelli. "Perché non vai in sala da pranzo a preparare la tavola?", chiese mia madre. Io fui tentato di risponderle che per me andava bene pranzare anche in cucina, ma mi trattenni perché sapevo che mia madre teneva alla forma. "Tovaglia, posate e bicchieri sono al solito posto", aggiunse mia madre. Dimenticavo. C'è anche una bottiglia di vino". Andai in soggiorno. Aprii un cassetto. Estrassi tovaglia e posate e preparai la tavola. Aprii la bottiglia di vino. Riempii i due bicchieri. Poi, considerata l'ora, accesi il televisore per sentire le ultime notizie. L'occupazione militare dell'Iraq era formalmente finita. La Coalition Provisional Authority aveva trasferito i propri poteri al governo provvisorio iracheno. Il capo della Coalition Provisional Authority, il diplomatico americano, Paul Bremer, aveva lasciato Bagdad ed era ritornato in America. John Negroponte, il nuovo ambasciatore americano in Iraq, aveva preso possesso della sede diplomatica americana a Bagdad. Il governo provvisorio iracheno si accingeva a processare il suo ex-presidente Saddam Hussein dopo aver ricevuto dalla Coalition Provisional Authority la sua custodia giuridica. Tutto il resto era rimasto immutato. Era rimasto immutato il numero dei soldati americani presenti in Iraq. Era rimasto immutato lo stillicidio dei soldati americani uccisi quotidianamente dalla resistenza irachena. Era rimasta immutata l'ostilità nei confronti delle forse della coalizione. Era rimasto immutato il desolante quadro economico che faceva da sfondo alla ricostruzione dell'Iraq e tutto ciò induceva anche coloro i quali erano stati favorevoli alla guerra contro l'Iraq alla cautela riguardo al futuro dello stesso Iraq. In questo quadro sostanzialmente negativo, l'unica nota positiva era l'offerta avanzata dalla NATO a partecipare all'addestramento delle nuove forze militari irachene. Poco, molto poco, per una guerra che, secondo i suoi fautori, avrebbe dovuto portare a un cambiamento epocale del Medioriente. Il cambiamento, però, non c'era stato, e la stessa decisione della NATO poteva essere interpretata più come una sconfitta dei fautori della guerra che come una vittoria. I motivi della loro sconfitta erano molti. C'erano motivi che erano legati, come Michael Ignatieff del Carr Center on Human Rights di Harvard, aveva spiegato in un suo recente articolo, all'ignoranza, all'incompetenza e all'arroganza dei fautori della guerra i quali, vinta la guerra, s'erano trovati completamente impreparati a affrontare i problemi del dopoguerra. C'erano dei motivi che erano legati, come l'economista di Princeton, Paul Krugman, aveva spiegato in un suo recente articolo, al modo fallimentare nel quale le forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti avevano portato avanti il processo della ricostruzione economica dell'Iraq, la quale era stata gestita a unico vantaggio dei gruppi economici legati alle forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Infine, c'erano dei motivi di politica internazionale i quali, come il direttore di "Die Zeit", Joseph Joffe, aveva scritto in un articolo nel quale faceva il bilancio della situazione irachena dopo sei mesi di occupazione militare dell'Iraq, erano legati al fatto che "America can win wars on its own, but it needs friends to help it to win peace". Arrivò mia madre con una terrina colma di pennette fumanti al pomodoro. Io fui tentato di osservare che mi sembravano troppe, ma mi trattenni perché sapevo quello che mia madre m'avrebbe risposto: "Ti sembrano troppe perché le vedi nella terrina, ma non ti sembreranno più troppe quando le avrai nel piatto". Mia madre mise la terrina in mezzo alla tavola. Osservò attentamente la tavola per vedere se io l'avevo preparata a dovere. Quindi, m'invitò a prendere posto di fronte a lei. Spensi il televisore. A mia madre non piaceva pranzare con il televisore acceso. Sedetti di fronte a mia madre. Mia madre riempì di pennette i piatti e cominciammo a mangiare. Durante il pranzo, mia madre mi chiese se uscivo ancora con "quella mia amica". Le risposi che "quella mia amica" si chiamava Barbara. Ciò, però, non era, ormai, importante perché avevamo deciso di non vederci più. Mia madre fece un gesto con la mano come se avesse voluto dire che me l'aveva sempre detto che Barbara non era la donna giusta per me. Io fui tentato di chiederle se esisteva una donna che fosse giusta per me, ma non glielo chiesi perché sapevo che m'avrebbe risposto che quella donna esisteva e che era Maddalena, la sorella di Sebastiano. Mia madre aveva sempre avuto, infatti, un debole per Maddalena e non aveva mai fatto mistero che avrebbe visto con favore un nostro matrimonio. Io, però, uscivo, allora, con un'altra ragazza, Francesca. Un giorno, Francesca m'aveva lasciato a causa, disse lei, della politica, e mia madre era ritornata a sperare. Maddalena, però, aveva cominciato ad uscire con un ragazzo che aveva conosciuto all'università. Maddalena era sempre rimasta, però, nel cuore di mia madre e adesso che Maddalena, stanca delle corna che le faceva il marito, aveva finalmente divorziato, mia madre era forse ritornata a vagheggiare un mio matrimonio con Maddalena. "Penso dovresti telefonare a Maddalena", disse mia madre. Guardai mia madre, come se volessi invitarla a cambiare discorso. Maddalena non era certamente nelle condizioni di spirito per apprezzare il genere d'approccio che mia madre aveva in mente. Mia madre captò il messaggio e cambiò prontamente discorso, non senza avermi prima guardato come avesse voluto dire: "Sei libero di fare come vuoi, ma sai che io ho ragione". Dopo pranzo, rimasi a chiacchierare ancora un po' con mia madre. Poi, la salutai e ritornai in albergo. Arrivato in albergo, salii in camera. Gettai il giornale sul letto. Mi spogliai e andai in bagno. Ritornai in camera da letto. Mi distesi sul letto. Mi voltai verso una delle finestre della stanza d'albergo. Il sole era alto nel cielo. I vetri delle finestre del palazzo di fronte luccicavano come la superficie della laguna quando era colpita dai raggi del sole e confesso che provai un senso di imbarazzo pensando alle migliaia di turisti che, in quelo stesso momento, con una bottiglia d'acqua minerale in saccoccia, vagavano esausti per la città in cerca di qualche angolo caratteristico da riprendere con le loro camere digitali, mentre io, spaparanzato sul letto, mi godevo l'aria fresca creata dal condizionatore dell'abergo. Afferrai il giornale e cominciai a sfogliarlo. "Osama bin Laden is dead and even if he is still in the world, bin Ladenism has left for good"", aveva scritto Amir Taheri nell'estate del 2002. Secondo Amir Taheri il successo del "binladenismo" doveva essere attribuito, infatti, a due serie di fattori. La prima serie di fattori comprendeva: una cinica "misinterpretation of Islam" in cui si mescolavano "anti-Western ideologies" di derivazione fascista e tendenze revivaliste a sfondo religioso; una profonda crisi di identità del mondo islamico che aveva spinto molti giovani musulmani a abbracciare delle "anti-Western ideologies"; "easy money, largely from wealthy individual in the Gulf". La seconda serie di fattori comprendeva: "the encouraging, or at least complacent attitude of several governments" del mondo arabo-musulmano, "the mistaken practice of Western powers that sheltered the terroristis in the name of freedom of expression and dissent", "the perceived weakness if not cowardice" delle potenze occidentali, "the illusion in most Western nations that they could remain unaffected by the violence unleashed by fanatical terrorists". In questo contesto, aveva concluso Amir Taheri, "Osama bin Laden could survive and prosper", soltanto in un mondo in cui esistevano questi fattori. Questo mondo non esisteva più e se il fantasma di Osama bin Laden aleggiava nell'aria, ciò dipendeva dal fatto che "Washington and Islamabad will find it useful. Mr Bush's party has a crucial election to win and Musharraf is keen to keep Pakistan in the limelight. But the truth is that Osama bin Laden is dead". Che dire? La prima cosa era che l'analisi effettuata da Taheri delle cause che avevano favorito il successo del "bin-ladenismo" mi sembrava corretta. Come aveva scritto Feijsal Devji, il "binladenismo" lungi dall'essere un'ideologia omogenea e compatta, è un insieme confuso di "very general patterns of thought that are neither codified nor propagated in any systematic way". La seconda era, come aveva scritto il sociologo americano Robert Pape autore del libro "Dying to Win. The Strategic Logic of Suicide Terrorism", che le informazioni in nostro possesso mostravano che al-Qaeda era venuta trasformandosi nel corso del tempo ed era diventata una "organizzazione di copertura" per altre organizzazioni terroristiche che operavano autonomamente per costringere "the United States and its Western allies to withdraw combat forces from the Arabian Peninsula and other Muslim countries". La terza cosa era che mi sembrava prematuro parlare di morte del "binladenismo". Non dovevamo dimenticare, infatti, che erano trascorsi otto anni tra il primo attentato le Twin Towers del World Trade Center di New York e il secondo attentato contro le Twin Towers. Ciò significava che gli uomini di Osama bin Laden erano uomini molto pazienti che sapevano preparare con cura i loro attacchi terroristici e che, quando occorreva, sapevano mettersi al riparo dagli sguardi indiscreti e che sapevano condurre una vita apparentemente normale. Mi voltai. Guardai l'orologio e pensai che dovevo sbrigarmi se volevo trovare aperto il negozio della donna che al funerale era seduta accanto alla madre di Sebastiano. Mi alzai. Andai in bagno. Feci una doccia. Mi vestii. Uscii dalla camera. Scesi al pianoterra. Consegnai le chiavi al portiere. Uscii dall'albergo e m'incamminai lentamente, cercando di sudare il meno possibile, verso il negozio della donna che al funerale era seduta accanto alla madre di Sebastiano. Arrivato nei pressi del negozio, mi fermai davanti ad una delle vetrine come se fossi stato attratto da qualcuno degli oggetti erano esposti e sbirciai all'interno. Il negozio era vuoto. Mi allontanai dalla vetrina. Mi avvicinani alla porta. Trassi un profondo respiro come volessi farmi coraggio. Aprii la porta e entrai. La donna mi guardò e mi chiese gentilmente se poteva essermi utile. Le risposi che cercavo un piccolo regalo per una mia amica. La donna mi chiese se avevo già notato in vetrina qualcosa che mi piacesse. Io indicai una statuetta in bronzo. La donna si allontanò lentamente da me. Andò verso la vetrina. Afferrò la statuetta e me la mostrò. "Questa?", chiese la donna. Risposi di sì. La donna si avvicinò e mi porse la statuetta perché la osservassi da vicino. Io guardai la donna. "Perché mi guarda così?", chiese la donna. "Ci conosciamo già?". "Sono un amico di Sebastiano", risposi deciso a prendere il toro per le corna. "L'ho vista al suo funerale. Sedeva accanto a Maddalena, la sorella di Sebastiano. "Capisco", disse la donna dopo un attimo di silenzio. "Allora, la statuetta era un pretesto?", chiese la donna. Guardai la donna cercando di assumere un atteggiamento di circostanza, ma riuscii probabilmente ad aumentare soltanto l'imbarazzo della donna. "Avevo bisogno di parlare con lei", risposi. Poi, accortomi di non essermi ancora presentato, le dissi il mio nome. "Io mi chiamo Laura", disse la donna. Guardai Laura. "Pensa ancora di comperare la statuetta?", chiese Laura. "Certo", risposi come se mi fossi già dimenticato della statuetta e la domanda di Laura m'avesse colto alla sprovvista. Laura si voltò e andò verso il banco che era alle sue spalle. Posò la stuatetta sulbanco e cominciò a preparare il pacchetto. "Mi deve scusare", dissi. "Ma l'ho vista al funerale di Sebastiano. Era seduta accanto alla sorella di Sebastiano, Maddalena, e ho pensato che m'avrebbe potuto aiutare a capire perché Sebastiano s'era ucciso." "Era innamorato", disse Laura continuando a confezionare il pacchetto. "Era innanorato d'una donna alta, magra, castano chiara, profilo aristocratico?", chiesi. Laura sollevò la testa e io potei vedere che piangeva. "Perché lo vuole sapere?", chiese Laura. "Mi scusi", risposi. "Ma il suicidio di Sebastiano m'ha colto di sorpresa. Tutto avrei potuto immaginare di Sebastiano, tranne che fosse capace di compiere un simile gesto". "Pensa occorra del coraggio per uccidersi?", chiese Laura. "Io penso di sì", risposi. "Era da molto tempo che non vedeva Sebastiano?", chiese Laura. Risposi di sì. "Allora, capisco il suo stupore", disse Laura. "Sebastiano era notevolmente cambiato nell'ultimo periodo della sua vita. Era diventato irriconoscibile. Sebastiano era sempre stato un uomo amante della vita. Invece, nell'ultimo periodo della sua vita si comportava come se avesse perso ogni interesse per essa ed io non riuscivo a spiegarmi perché. Mi sembrava impossibile che un uomo della sua intelligenza non capisse che sbagliava a lasciarsi andare in quel modo...". "Conosceva Sebastiano da molto tempo?", chiesi. "Sì", rispose Laura. Guardai Laura. "Eravamo amici", disse Laura come se avesse letto mio pensiero. "Capisco", dissi. Laura mi guardò come se avesse voluto chiedermi se ero sicuro di aver capito. Sì. ero sicuro d'aver capito. Laura era innamorata di Sebastiano, ma Sebastiano era innamorata dell'altra... "Comunque, se vuol saperne di più, credo sia meglio si rivolga a Matilde", disse Laura. Guardai Laura. Il tono usato da Laura m'aveva incuriosito. Era evidente che Laura, anche se non accusava apertamente Matilde del suicidio di Sebastiano, la considerava comunque responsabile di esso. "Se vuole posso darle l'indirizzo", disse Laura. "Di più non possso fare". Laura abbassò la testa e terminò di confezionare il pacco per la mia statuetta. Io avrei avuto molte altre cose da chiedere a Laura, ma pensai d'avere abusato abbastanza della sua pazienza. Pagai. Mi scusai con Laura per il disturbo che le avevo arrecato o e mi voltai per uscire, ma Laura mi fermò. "Non vuole l'indirizzo di Matilde?", chiese Laura. Mi voltai. Laura prese un foglietto di carta. Scrisse l'indirizzo di Matilde e mi porse il foglietto di carta. Ringraziai Laura. Uscii dal negozio e trassi un profondo respiro come se fossi rimasto a corto di ossigeno. A vederla, Laura sembrava aver reagito bene al suicidio di Sebastiano. Dentro di lei, però, doveva essere un macello. Era evidente, infatti, dal modo in cui Laura aveva parlato di Matilde che Laura era innamorata di Sebastiano. Sebastiano, però, non l'aveva ricambiata perché era innamorato di Matilde. Perciò, pensai, non era a Laura che dovevo rivolgermi per far luce sul suicidio di Sebastiano, ma dovevo rivolgermi a Matilde. Cambiai di mano il pacchetto contenente la statuetta che avevo comperato da Laura e tagliai verso la casa di mia madre. "The great struggles of the 20th century", aveva affermato il presidente George W. Bush nel rapporto sulla nuova strategia americana sulla sicurezza nazionale con accenti che rifordavano la teoria della fine della storia di Francis Fukuyama, "between liberty and totalitarianism ended with a decisive victory for the forces of freedom" e il raggiungimento d'un "single sustainable model for national success" il quale era fondato su tre pilastri: "freedom, democracy and free enterprise". Il successo delle forze della democrazia, aveva spiegato il presidente George W. Bush nel suo rapporto, aveva cambiato lo scenario politico internazionale e aveva creato una situazione politica nella quale "only nations that share commitment to protecting basic human rights and guarantening political and economic freedom will be able to unleash the potential of their people and secure their future prosperity". Malgrado ciò, il presidente George W. Bush aveva sottolineato nel suo rapporto, la vittoria delle forze della democrazia era ancora lontana dall'essere completa. I nemici della democrazia, infatti, erano, infatti, molti e erano ancora più pericolosi dei vecchi nemici della democrazia a causa del possesso di armi micidiali come le cosiddette "armi di distruzione di massa" che li ponevano nella condizione di vibrare dei colpi mortali alle forze della democrazia. In questo quadro, notava il presidente George W. Bush nel suo rapporto, andava inserita la cosiddetta strategia della "pre-emptive action", la quale affermava che gli Stati Uniti non avrebbero permesso ai nemici della democrazia di portare a termine i loro attacchi contro gli Stati Uniti, ma che "the United States will act against such emerging threats before they are fully formed". Ora, tale affermazione di George W. Bush poneva un problema di carattere giuridico e un problema politico. Se era vero, infatti, che la Carta delle Nazioni Unite riconosceva a uno stato il "diritto all'autodifesa", era anche vero, che la Carta delle Nazioni Unite stabiliva che uno stato poteva avvalersi di tale diritto solo in presenza d'un attacco armato: "If an armed attack occurs". Il presidente George W. Bush non parlava, però, nel suo rapporto, di "attacco armato". Egli parlava di "imminent threat of attack", cioè, di "imminente minaccia d'attacco" che era cosa diversa da "an armed attack". Il presidente George W. Bush giustificava uesto ampiamento del concetto di "selfdefense" chiamando in causa le trasformazioni che la fine della Guerra Fredda aveva prodotto nel "sistema delle relazioni internazionali". Al tempo della Guerra Fredda, affermava il presidente George W. Bush nel suo rapporto, erano necessari, per recare danno all'America, una grande esercito e una grande capacità industriale che erano a disposizione soltanto d'una grande potenza com'era l'Unione Sovietica. Oggi, "shadowy networks of individuals" erano in grado di all'America gravi danni materiali e umani a un costo inferiore al costo d'acquisto quello d'un "single tank". Questa nuova situazione, spiegava il presidente George W. Bush nel suo rapporto, imponeva agli Stati Uniti un cambiamento della loro strategia per la sicurezza nazionale che non avrebbe più potuto essere basata sul concetto di "deterence" ma su quello di "pre-emption". L'argomentazione del presidente George W. Bush era abile dal punto di vista dialettico, ma non risolveva il problema della legittimità giuridica d'una "azione preventiva". Poi, c'era il problema politico. Se la dottrina della pre-emptive action fosse stata accettata dall'intera comunità internazionale, essa avrebbe posto, infatti, le basi per lo scatenamento d'una "guerra di tutti contro tutti" perché tutti avrebbero potuto sentirsi minacciati da tutti e tutti avrebbero potuto sentirsi autorizzati a porre fine alla minaccia attraverso una pre-emptive action contro la fonte della presunta minaccia. Che fare? Semplice. Dovevamo ritornare alla politica, anche se, allo stato presente delle cose, ciò si presentava come un'impresa tutt'altro che facile. I terroristi potevano, infatti, nascondersi ovunque, potevano colpire in ogni momento e usando i mezzi più disparati: dalle armi tradizionali alle armi di distruzione di massa. Non era, però, colpendo alla cieca come nel "gioco delle pentole" delle nostre feste paesane che noi avremmo potuto sconfiggere i terroristi. Noi avremmo potuto sconfiggerli soltanto se fossimo riusciti a ricucire il tessuto politico di cui era composto il sistema delle relazioni internazionali. In altre parole, avremmo potuto sconfiggerli se fossimo riusciti a creare, come aveva scritto Bill Clinton, un mondo in cui vi fossero stati "more partners" e "fewer terrorists" e ciò era possibile a condizione che noi fossimo riusciti a creare "a genuine global community" con responsabilità condivise, benefici condivisi e valori condivisi. Mi fermai davanti al portone del palazzo dove abitava mia madre. Suonai e attesi che mia madre rispondesse al citofono. Silenzio. Suonai ancora. Ancora silenzio. Guardai l'orologio e pensai che era strano che mia madre non fosse in casa a quell'ora. Forse, mia madre era occupata. Suonai ancora. Nessuna risposta. Guardai il pacchetto che avevo in mano e mi chiesi per quale motivo avessi comperato la statuetta che esso conteneva. Semplice. L'avevo comperata per avere un pretesto per parlare con Laura. Suonai ancora. Nessuna risposta. Attesi ancora qualche secondo, poi decisi di andarmene. Se mia madre non era in casa a quell'ora, voleva dire che era uscita. Forse, era andata al cinema. Mia madre amava il cinema. Qualche giorno prima, passando per campo San Polo, avevo visto che avevano attrezzato il campo per le proiezioni serali. Forse, pensai, mia madre fosse andata a qualcuna di quelle proiezioni. Cambiai di mano il pacchetto contenente la statuetta che avevo comperato da Laura e mi allontanai lentamente nella direzione dalla quale ero venuto. Passai davanti a un ristorante. Gettai uno sguardo al plateatico. Le tavole era imbandite con eleganza. Alcune di esse erano occupate da turisti. Io non avevo voglia, però, d'un pasto completo. Cambiai nuovamente di mano il pacchetto contenente la statuetta che avevo comperato da Laura e tirai diritto. Gli americani erano un popolo generoso e coraggioso e noi europei non potevamo dimenticare che, senza il loro intervento nella Seconda Guerra Mondiale, noi non saremmo mai riusciti a sconfiggere il nazifascismo. Allo stesso modo, noi europei non potevamo dimenticare che, senza il loro aiuto, finita la guerra, non saremmo mai riusciti a ricostruire economicamente il nostro continente. Allora, avrebbe potuto domandare Sebastiano, qual era il problema? Il problema era che, a dispetto del loro coraggio e della loro generosità, gli americani si comportavano, talvolta, come se essi, a causa d'un difetto congenito del loro apparato visivo, riuscissero a vedere gli alberi che si ergono di fronte a loro, ma fossero incapaci di vedere la foresta che era formata da quegli stessi alberi. Era accaduto in Vietnam, dove decine di migliaia di giovani americani erano stati mandati a morire in una guerra che nessuno di essi voleva e che tutti sapevano, a Washington, che gli Stati Uniti non avrebbero mai potuto vincere. Oggi, accadeva in Iraq, dove, nonostante la loro impressionante potenza militare, si trovavano alla mercé dei loro avversari. La potenza militare serviva, infatti, quando si doveva combattere una guerra di tradizionale che contrapponeva un esercito regolare ad un altro esercito regolare. La potenza militare serviva, invece, a poco o nulla, nelle condizioni della "guerra di guerriglia" che erano le condizioni nelle quali gli Stati Uniti si trovavano a combattere in Iraq. La guerra di guerriglia, infatti, non era solo una "guerra senza fronti". Era anche una "guerra senza limiti" nella quale i guerriglieri si avvalevano di tutte le armi a loro disposizione: da quelle tradizionali ai micidiali IEDs che esplodevano improvvisamente lungo le strade al passaggio dei convogli militari, ai "suicide bombers"... Ciò aveva imposto agli americani un cambiamento nel modo di combattere che li esponeva alle critiche dei loro oppositori a causa delle conseguenze negative che il nuovo modo di combattere aveva sulla popolazione civile irachena. Arrivato al centro d'un campiello, mi fermai e mi guardai attorno. Mia madre m'aveva detto, una volta, che da quelle parti c'era una pizzeria dove aveva mangiato la più buona pizza della sua vita. Io non ero mai stato appassionato della pizza. Alla piazza avevo sempre preferito un buon piatto di spaghetti. Tuttavia, se la pizza che facevano in quella pizzeria era buona come aveva detto mia madre valeva, forse, la pena di provare. Non mi fu difficile trovare la pizzeria. La cameriera mi accompagnò all'unico tavolo libero. Sedetti. Posai sul tavolo il pacchetto contenente la stauetta che avevo comperato da Laura e ordinai una pizza margherita e una birra media. La cameriera si allontanò con l'ordinazione e ritornò dopo un po' con la birra. Posò il bicchiere della birra sul tavolo. Si voltò graziosamente e ritornò da dov'era venuta. Io guardai la birra e decisi di aspettare che arrivasse la pizza prima di cominciare a berla. Se avessi cominciato a berla, l'avrei certamente finita prima dell'arrivo della pizza e avrei dovuto ordinarne un'altra. Io non volevo, però, bere troppo. "Why America Scares the World?" ovvero "Perché l'America fa paura al mondo?", recitava il titolo di copertina d'un numero di "Newsweek" uscito durante il dibattito sulla guerra contro l'Iraq. Accanto al titolo, era stampata la foto d'una bomba, forse una bomba intelligente, che si avvicina minacciosamente al suo obiettivo. La risposta alla domanda posta da "Newsweek" nel titolo di copertina era fornita dallo stesso direttore della rivista, Fareed Zakaria, in un lungo articolo pubblicato nelle pagine interne della rivista.L 'articolo era composto di quattro parti. Nella prima parte, intitolata "The Arrogant Empire", Fareed Zakaria individuava la causa della rottura che s'era operata fra America e resto del mondo, nell'arroganza con cui l'America trattava, da qualche tempo, il resto del mondo. Nella seconda parte, intitolata "The Age of Generosity", Fareed Zakaria ricordava che c'era stato un tempo, come quello del Piano Marshall, nel quale l'America era amata dal resto del mondo. Nella terza parte, intitolata "Where Bush Went Wrong", Fareed Zakaria analizzava gli errori compiuti dall'amministrazione Bush nell'affrontare il problema dell'Iraq. Nella quarta parte, intitolata "The Way to Buck History", Fareed Zakaria spiegava, infine, come, l'America avrebbe potuto superare l'attuale rottura e avrebbe potuto ritornare a essere amata dal resto del mondo. L'intento del direttore di "Newsweek", Fareed Zakaria, era certamente positivo e il suo articolo poteva certamente aiutare il lettore americano a capire perché il mondo aveva oggi paura dell'America. Esso era, però, vanificato dal Deputy Defence Secretary, Paul Wolfowitz, il quale, in un'intervista pubblicata sullo stesso fascicolo della rivista, ribadiva con la guerra contro l'Iraq sarebbe stata una "guerra per il popolo iracheno" e accusava coloro che come i francesi e i tedeschi si opponevano alla guerra contro l'Iraq d'essere degli "opportunisti". Come Paul Wolfowitz spiegava, infatti, nella sua intervista, "people are so used to the United States taking care of problems, so they can reap the benefits in whatever form serves their purposes". Soltanto Tony Blair, aveva affermato Paul Wolfowitz, era "a real stand-up guy" e "a lot of political courage to do that". La maggior parte degli altri leaders politici era formata, purtroppo, da "leaders who are actually demagoguing this issue and whipping up opinion". Arrivò la pizza margherita. Guardai la pizza. Il colore della pizza era bello e l'odore era buono. Lo dissi alla cameriera. La cameriera sorrise di circostanza e mi ringraziò. Mi chiese se desideravo altro. Al mio no, la cameriera mi augurò buon appetito. Si voltò graziosamente e ritornò da dove era venuta. Io afferrai coltello e forchetta e tagliai una prima fetta di pizza. "Is this the end of the West?", s'era chiesto il famoso editorialista di "The New York Times" Thomas Friedman, in un suo recente articolo dedicato al rapporto fra Stati Uniti e Europa. Io non pensavo ci trovassimo di fronte alla "fine dell'Occidente". Io pensavo ci trovassimo di fronte a una "crisi di crescita" che esprimeva la complessità del tessuto economico, politico e culturale dello stesso Occidente. Gli Stati Uniti rappresentavano una parte dell'Occidente. Un'altra partedi esso era rappresentata dagli stati aderenti all'Unione Europea. Gli stati aderenti all'Unione Europea costituivano, a loro volta, una realtà che era tutt'altro che omogenea come il diverso atteggiamento da essi assunto nei confronti degli Stati Uniti sulla guerra contro l'Iraq dimostrava. C'era il modo della Francia, la quale non intendeva rinunciare alla posizione da essa tradizionalmente occupata nel "sistema delle relazioni internazionali". C'era il modo della Germania, la quale non intendeva rinunciare al proprio neutralismo. C'era il modo della Gran Bretagna la quale non intendeva rinunciare alla "special relationship" con gli Stati Uniti. Allo stesso modo, io non pensavo che lo "strappo" che la decisione degli Stati Uniti di "andare da soli" in Iraq aveva prodotto nelle relazioni fra Stati Uniti e alcuni stati europei potesse essere ricucito, per via diplomatica, in nome della comunanza degli interessi che legavano, al di là delle loro divergenze politiche, il governo degli Stati Uniti ai suoi critici europei. Il problema che era all'origine dello "strappo" nelle relazioni fra Stati Uniti e alcuni stati europei non era, infatti, un problema politico che potesse essere risolto per via diplomatica, com'era avvenuto molte volte in passato, ma era un problema ideologico il quale contrapponeva due differenti visioni del mondo. La visione del mondo elaborata dai "neocons" americani i quali, rovesciando un celebre motto di Carl von Clausewitz consideravano "la politica come la continuazione della guerra con altri mezzi e la visione di molti europei i quali pensavano fosse giunto il momento di bandire la parola guerra dal vocabolario della politica. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che la guerra contro l'Iraq era l'unico modo che avevamo a disposizione per rendere Saddam Hussein responsabile dei suoi crimini. Non era vero, ma ammettendo che fosse vero, come pensava Sebastiano di comportarsi nei confronti di coloro che avevano aiutato Saddam Hussein a commettere i crimini dei quali era accusato? Posai coltello e forchetta. Guardai gli avanzi della pizza sparsi sul mio piatto e pensai che mia madre aveva ragione. La pizza che facevano in quel locale era veramente buona. La pasta era stata cotta a puntino e la mozzarella era la migliore che avessi mai mangiato. Il pomodoro era fresco e abbondante. Sorseggiai lentamente guardandomi attorno quello che era rimasto della birra e chiamai il conto. La cameriera mi chiese se avevo trovato la pizza di mio gradimento. Le avevo risposto che non avevo mai mangiato una pizza più buona di quella. La cameriera sorrise graziosamente. Afferrò il piatto contenente gli avanzi della mia pizza e si allontanò. Ritornò dopo qualche minuto con il conto. Pagai il conto. Mi alzai Uscii dalla pizzeria e mi sembrò di entrare in una specie di sauna tanto l'aria era umida e spessa. Cambiai di mano il pacchetto contenente la statuetta che avevo comperato per mia madre e mi diresssi lentamente verso l'albergo. Arrivato in albergo, salii in camera. Mi spogliai. Andai in bagno. Feci una doccia. Uscii dalla doccia. Mi asciugai. Presi la mia consueta pastiglia serale contro l'ipertensione. Accesi il televisore e mi distesi sul letto a sentire le ultime notizie. La critica che era stata più frequentemente mossa nei confronti degli Stati Uniti, nel corso del dibattito sulla guerra contro l'Iraq, era, come aveva spiegato il giurista francese, Alain Pellet, dell'Università di Nanterre, una "guerra illegale" perché non avrebbe avuto la copertura giuridica delle Nazioni Unite che erano l'unica autorità che, a livello internazionale, avrebbe potuto prendere una decisione in merito. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che il medesimo problema s'era posto nel 1999, al tempo della discussione sulla guerra contro la Jugoslavia. La NATO era, infattti, un'organizzazione militare difensiva che era stata creata alla fine della Seconda guerra mondiale in funzione anti-sovietica e non era, perciò, legittimata a intraprendere una "guerra di aggressione" nei confronti della Jugoslavia per risolvere un problema della Jugoslavia. La NATO aveva deciso, invece, di comportarsi altrimenti e di compiere un atto che non solo andava contro la sua carta costitutiva, ma costituiva un precedente estremamente pericoloso ai sensi dello diritto internazionale poichè avallava, come aveva spiegato il premier svedese Ingvar Carlsson, il diritto d'una qualunque organizzazione internazionale di intromettersi negli affari interni d'uno stato sovrano in nome della difesa d'una parte della sua popolazione. L'unica organizzazione che avrebbe potuto intervenire militarmente in Jugoslavia sarebbe stata l'Organizzazione delle Nazioni Unite. La Cina e la Russia, però, s'erano opposte all'intervento delle Nazioni Unite in nome della difesa del principio della "non-interferenza" e avevano offerto, in questo modo, alla NATO il pretesto che essa aspettava per intervenire in Jugoslavia in nome della necessità di fermare le violenze perpetrate dai serbi contro gli albanesi del Kosovo. La guerra contro la Jugoslavia era, perciò, una "guerra illegale" come lo era la guerra contro l'Iraq, ma sarebbe, forse, diventata una "guerra giusta" se essa avesse avuto la copertura giuridica delle Nazioni Unite? In altre parole, fino a quale punto la difesa dei "diritti umani" poteva giustificare una guerra? Fino a quale punto il rovesciamento d'una dittatura sanguinaria e l'instaurazione della democrazia poteva giustificare una guerra? Fino a quale punto era lecito uccidere in nome della giustizia? Mi alzai. Spensi il televisore. Ritornai a letto e scivolai lentamente nel sonno. Mi svegliai a mattina inoltrata. Mi alzai. Andai in bagno. Feci una doccia. Ritornai in camera. Ordinai la colazione e telefonai a Valeria. Valeria era mia sorella. I rapporti fra me e Valeria erano sempre stati difficili. I nostri caratteri erano, infatti, molto diversi. Io avevo preso da mio padre ed ero sempre stato molto chiuso e riservato. "Sei come una vongola", diceva nostra madre. Il carattere di Valeria, invece, somigliava a quello di nostra madre e Valeria era sempre stata molto più aperta e gioviale di me. Inoltre, fra me e Valeria c'era una notevole differenza d'età che aveva impedito a me e Valeria di scambiarci le nostre esperienze. Chiesi a Valeria se aveva la sera libera. Valeria mi chiese perché. Risposi che volevo onorare la mia promessa. Valeria rispose che, per lei, andava bene, purché fosse lei a scegliere il ristorante. Dissi a Valeria che aveva campo libero. Ci demmo appuntamento per le sette a san Salvador e ci salutammo. Arrivò la colazione. Presi la mia pastiglia mattutina contro l'ipertensione. Feci colazione. Mi vestii. Uscii dalla mia camera. Scesi in portineria. Consegnai le chiavi al portiere e uscii dall'albergo. Acquistai il giornale e m'incamminai alla volta di San Marco.era mia sorella Valeria. I rapporti fra me e Valeria erano sempre stati difficili. I nostri caratteri erano, infatti, molto diversi. Io avevo preso da mio padre ed ero sempre stato molto chiuso e riservato. "Sei come una vongola", diceva nostra madre. Il carattere di Valeria, invece, somigliava a quello di nostra madre e Valeria era sempre stata molto più aperta e gioviale di me. Inoltre, fra me e Valeria c'era una notevole differenza d'età che aveva impedito a me e Valeria di scambiarci le nostre esperienze. "Et si, le 2 novembre prochain, en même temps que des millions d'Américains, tous le peuples du monde se rendainent aux urne pour voter?", s'era chiesto lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun in un recente articolo apparso oggi su "Le Monde". Secondo Tahar Ben Jelloun, "il y aurait une légitimité à ce qu'ils partecipent à l'élection de la plus grande puissance du monde. Simplement parce que leur vie, leur avenir en dépendent d'un façon ou d'une autre. Ce serait un geste symbolique, une parole universelle pour constater un fait et dire en manière directe et sans ambiguïté que le sort du monde dépend en grand partie de la présidence américaine" . Ovviamente, Tahar Ben Jelloun sapeva che, anche se fosse stato possibile estendere le elezioni americane al resto del mondo in modo da far sentire in America anche la voce del resto del mondo, ciò non avrebbe alcun effetto sulle relazioni fra Stati Uniti e resto del mondo. L'imperialismo americano non era stato inventato, infatti, da George W. Bush. Esso esisteva anche prima di George W. Bush e avrebbe continuato a esistere anche dopo di lui. L'imperialismo americano esprimeva, infatti, lo stato attuale dei rapporti di forza estitenti fra Stati Uniti e il resto del mondo. Allo stesso modo, dovevamo toglierci dalla testa che un'eventuale vittoria di John F. Kerry nelle elezioni presidenziali americane del prossimo 2 novembre avrebbe portato al ritiro dei soldati americiani dall'Iraq, come Tahar Ben Jelloun auspicava nel suo articolo. Gli Stati Uniti, non erano andati in Iraq alla "cazzo di cane". Gli Stati Uniti erano andati in Iraq sulla base d'una serie di "ragionamenti geopolitici". Noi potevamo condividere o meno quella serie di "ragionamenti geopolitici", ma non potevamo negare che essi avessero una loro logica. Inoltre, come l'esperienza insegnava, non è sufficiente avere ragione per riuscire a impedire a qualcuno di commettere un errore. Occorreva aver anche i mezzi per poterlo fare. Francia e Germania avevano provato a impedire agli Stati Uniti di commettere quello che esse ritenevano un errore usando i mezzi che avevano a disposizione. Esse non erano riuscite, però, a convincere gli Stati Uniti a rinunciare al progetto che essi avevano elaborato per l'Iraq. Gli Stati Uniti erano "andati da soli" in Iraq e, adesso, si trovavano nel mezzo d'una crisi che essi avevano creato e che essi non sapevano come gestire. Io pensavo che l'articolo di Tahar Ben Jelloun cogliesse, comunque, nel segno e che sarebbe giusto che, non solo gli elettori americani, ma che anche il resto del mondo avesse potuto far sentire la propria voce nelle prossime elezioni presidenziali americane del 2 novembre e avesse potuto dire che cosa esso pensa dell'America e dei due canditati alla presidenza. Come Tahar Ben Jelloun aveva scritto nel suo articolo, "ce serait comme in volonté d'indépendence et de résistance face à un hégémonisme qui avance enrobé de quelques valeurs religieuses, de certains préjudices et de quelques prétextes". Arrivato a San Marco, attraversai la piazza che era ancora addormentata a quell'ora della mattina, e puntai verso il ponte della Paglia. Percorsi Riva degli Schiavoni. Sedetti al tavolino d'uno bar e, considerata l'ora, ordinai dell'acqua minerale non gassata. Arrivò l'acqua minerale. Il cameriere aprì la bottiglia e ne versò il contenuto nel bicchiere. Pagai. Afferrai il bicchiere. Portai il bicchiere lentamente alla bocca e ne trassi un lungo sorso. Posai il bicchiere sul tavolino. Allungai le gambe a fianco del tavolino e chiusi gli occhi come se volessi isolarmi dal mondo circostante. "Nessuna guerra è giusta" era stato affermato da eminenti personalità del mondo culturale, politico e religioso nel corso del dibattito sulla guerra contro l'Iraq. La loro affermazione era certamente condivisibile dal punto di vista morale e questo fatto spiegava il successo che la loro affermazione aveva riscosso presso l'opinione pubblica. Essa non risolveva, però, il problema della guerra. Come la dottrina della "guerra giusta" ci insegnava, anche una cosa orribile come la guerra, ricorrendo determinate circostanze, poteva essere, infatti, considerata giusta. Tali circostanze potevano essere così sintetizzate: la causa della guerra doveva essere giusta, l'autorità che dichiarava guerra doveva essere un'autorità legittima, il male causato dalla guerra doveva essere inferiore al male al quale la guerra intendeva porre rimedio, non doveva esistere alternativa alla guerra. Chiarito ciò, potevamo chiederci: "La guerra contro l'Iraq era una guerra giusta?". No. La guerra contro l'Iraq non era una guerra giusta. L'Iraq non possedeva armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti non erano l'autorità legittima. L'autorità legittima era rappresentata dalle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite avevano rimandato, però, ogni decisione in materia alla relazione conclusiva del capo degli ispettori inviati in Iraq per stabilire se l'Iraq possedesse o meno armi di distruzione di massa... Sebastiano avrebbe potuto agevolmente ribattere che il mio riferimento alla teoria della "guerra giusta" era fuori luogo. Il problema della guerra non era un problema di carattere morale ma politico e l'amministrazione Bush non andava giudicata dal punto di vista morale, ma politico. Era vero. La guerra non era un problema morale di carattere morale ma politico e l'amministrazione Bush non andava giudicata in termini morali ma andava giudicata politici. Ciò non cambiava, però, il giudizio negativo su di essa. Aprii gli occhi. Guardai l'orologio e pensai che avevo perso già troppo tempo. Grazie a Laura, sapevo dove Matilde abitava. Non sapevo, era vero, come avvicinarla. Però, potevo telefonarle. Mi alzai. Entrai nel bar e chiesi al barista se mi poteva prestare l'elenco del telefono. Trovato il numero, memorizzai il numero sul mio cellphone. Ringraziai il barista. Uscii dal bar. Estrassi il mio cellphone e chiamai il numero che avevo memorizzato. Rispose una voce femminile. La voce era troppo giovanile per essere la voce di Matilde, pensai. Infatti, era la voce della figlia. Chiesi alla figlia quando avrei potuto trovare la madre. La figlia rispose che non lo sapeva. Però, se volevo, potevo lasciare il mio numero, disse la figlia. L'idea mi sembrò buona. Lasciai il numero del mio cellphone alla figlia di Matilde. Ringraziai. Chiusi la comunicazione e misi il cellphone in tasca, ma lo estrassi subito e chiamai mia madre. Chiesi a mia madre come stava. Mia madre rispose che stava bene. Poi, mia madre mi chiese scherzosamente se le avevo telefonato per avvisarla che avevo pensato di andare a pranzo da lei. "Ho capito", risposi. "Non mi vuoi fra i piedi". Mia madre sorrise divertita. "Ti aspetto all'una, d'accordo?", chiese mia madre. "D'accordo", risposi. "Ci vediamo all'una". Ritornai in albergo. Presi il mio regalo e all'una ero puntuale a casa di mia madre. Mia madre apprezzò il mio regalo. Mia madre amava quel genere di soprammobili. A mia madre non raccontai, ovviamente, la storia del regalo. Né mia madre mi chiese dove l'avessi comperato, anche se, probabilmente, lo immaginava. C'eravamo messi a tavola e avevamo pranzato. Durante il pranzo avevamo parlato del più e del meno, come se avessimo sottoscritto il tacito accordo di non toccare degli argomenti che avrebbero potuto mettere in imbarazzo uno dei due. Dopo pranzo, ero rimasto a chiacchierare ancora un po' con mia madre. Poi, m'ero alzato. Avevo ringraziato mia madre ed ero ritornato in albergo. Ero salito in camera. M'ero spogliato e m'ero disteso sul letto a leggere il giornale. Guantanamo Bay era una base militare degli Stati Uniti nell'isola di Cuba sin da quando, all'inizio del Novecento, essi avevano abbandonato l'isola da essi occupata nel corso della guerra contro la Spagna. Lungamente contesa dal governo cubano il quale non aveva mai riconosciuto il contratto d'affitto stipulato, a suo tempo, dal governo cubano con gli Stati Uniti, Guantanamo era il luogo in cui erano internati, in condizioni che erano state oggetto di critica da parte delle organizzazioni a difesa dei diritti umani, centinaia di "enemy combatants". Le critiche delle organizzazioni a difesa dei diritti umani erano basate sul fatto che gli "enemy combatants" internati a di Guantanamo non sapevano quale sarebbe stato il loro destino, non sapevano di quali reati erano accusati, non avevano diritto di consultare un avvocato e non sapevano quando il loro caso sarebbe stato discusso davanti a una corte di giustizia. Ciò creava una situazione di incertezza che era letale per la loro salute psichica e che, in alcuni casi, aveva condotto al suicidio. Il governo americano aveva giustificato la sua decisione di negare agli "enemy combatants" di Guantanamo lo stato di POWs, ovvero, di prigionieri di guerra, affermando che la concessione dello stato di POWs prigionieri di guerra gli avrebbe impedito di procedere legalmente contro di essi qualora essi fossero stati trovati colpevoli di atti di terrorismo. In realtà, come Kenneth Roth, direttore di Human Rights Watch, aveva scritto in un articolo pubblicato quando era sorto il problema degli enemy combatants la Terza convenzione di Ginevra riguardava tutti i combattenti catturati nel corso d'un conflitto armato indipendentemente dal modo nel quale essi erano caratterizzati e la concessione dello stato di prigionieri di guerra agli "enemy combatants" detenuti di Guantanamo non avrebbe impedito al governo americano di procedere penalmente nei loro confronti. La Terza convenzione di Ginevra proibiva, infatti, l'incriminazione solo per atti compiuti nel corso di regolari operazioni militari, mentre era permessa per crimini di guerra e violenze contro civili. Inoltre, la Terza convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra stabiliva che se un prigioniero di guerra era condannato per crimini di guerra o violenze contro civili, il dovere di rimpatriarlo scattava soldopo che egli aveva scontato la pena che gli era stata comminata. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che non era la prima volta che l'America aveva affrontato un problema del genere nel 1917, quando migliaia di cittadini americani d'origine tedesca erano stati rastrellati e arrestati e picchiati. Poi, l'aveva affrontato nel 1942, quando migliaia di cittadini americani d'origine giapponese erano stati arrestati e rinchiusi nei campi di internamento. Infine, l'aveva affrontato al tempo della Guerra Fredda, quando, il senatore Joseph McCarthy aveva rovinato le vite di molti cittadini americani in nome dell'anticomunismo. Tutto ciò non aveva trasformato la democrazia americana in una dittatura. Era vero. La conferma era venuta da una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sul caso di un "enemy combatant" americano. La sentenza, redatta da justice Sandra Day O'Connor, affermava che il "giusto processo" imponeva che anche a un "enemy combatant" fosse data la possibilità di impugnare i capi d'accusa di fronte a un giudice neutrale. Secondo justice Sandra Day O'Connor, infatti, lo "stato di guerra" non era un "assegno in bianco" al presidente degli Stati Uniti. A Guantanamo, però, l'America era andata oltre. Gli internati a Guantanamo Bay non erano stati privati soltanto della possibilità di avvalersi delle norme che regolavano il "giusto processo". Essi erano sottoposti quotidianamente a svariate forme di abusi fisici e morali che, come aveva affermato la sezione americana della Croce Rossa in un suo rapporto, erano "tantamount to torture", "paragonabili alla tortura". Mi voltai di scatto come se mi fossi sentito chiamare e vidi Valeria. "Hai intenzione di comperare un paio di scarpe?", chiese Valeria sorridendo. "No", risposi. "Ero arrivato in anticipo e non sapevo che cosa fare. Così, m'ero messo a guardare le vetrine...". "Andiamo?, chiese Valeria. Valeria infilò il suo braccio sotto il mio. "Il ristorante che ho scelto è un po' lontano, ma sono sicura che ti piacerà", disse Valeria. "Se l'hai scelto tu, sono sicuro che mi piacerà", dissi. Valeria sorrise divertita. "A quel che vedo, questa sera sei in vena di complimenti", disse Valeria. "Vuoi dire che sono sempre parco di complimenti?", chiesi. "Voglio dire che stai migliorando. Quando ti sei voltato, m'hai guardato perfino le tette", rispose Valeria. Guardai Valeria e sorrisi divertito. "Considerata l'esiguità della stoffa con la quale il tuo vestito è stato confezionato, credo fosse impossbile per qualunque uomo non guardarti le tette", dissi. "Sei proprio figlio di nostro padre", disse Valeria. "Anche nostro padre avrebbe disapprovato il mio vestito e avrebbe espresso la sua disapprovazione usando le tue stesse parole". "Vogliamo cambiare il discorso?", chiesi come se non sapessi che cosa ribattere a Valeria. "Cambiamo pure il discorso", rispose Valeria. "Prima, però, dimmi se ti piacciono". "Che cosa?", chiesi come se volessi fingere di non aver capito. "Le mie tette", rispose Valeria. Io sorrisi imbarazzato. Valeria mi guardò e sorrise divertita. "Te l'avevo detto", disse Valeria. "Sei figlio di nostro padre. Comunque, se non ti va di scherzare, non scherziamo più. Raccontami di nostra madre. Come l'hai trovata?". Risposi che l'avevo trovata bene. "Ti ha parlato della sua nuova fiamma?", chiese Valeria. Mi fermai e guardai Valeria come stentassi a credere alle mie orecchie. "L'avevo immaginato", disse Valeria. "Nostra madre non t'ha detto nulla". "Nostra madre ha un uomo?", chiesi stupito. "Per quello che so io, per il momento, si tratta solo d'un amico", rispose Valeria. "Lo conosco?", chiesi mentre il mio stupore aumentava. Valeria rispose di sì. Chiesi chi fosse. "Basilio", rispose Valeria freddamente. "Basilio?", chiesi come volessi che Valeria mi confermasse che avevo sentito bene. "So che Basilio non ti è mai piaciuto, come non è mai piaciuto nemmeno a me...", rispose Valeria. "Pensi si tratti d'una cosa seria?", chiesi. "Non lo so", rispose Valeria. "Nostra madre ed io non abbiamo mai parlato di questo. Quello che so è che si vedono". "Ciò spiega perché ieri sera non era in casa", dissi come stessi parlando fra me e me. "Sei stato da lei?", chiese Valeria. "Volevo darle il regalo che avevo comperato per lei", risposi. "Non sapevo che cosa farne ed ero stanco di girare per Venezia con il pachetto in mano. Non l'ho trovata in casa e sono andato a mangiare una pizza". "Questa sera mangerai qualcosa di meglio d'una pizza", disse Valeria. "Manca ancora molto?", chiesi. "Siamo quasi arrivati", rispose Valeria. Attraversammo un ponte. Costeggiammo un canale. Svoltammo in un paio di calli e, finalmente, raggiungemmo il risorante. Entrammo. Valeria declinò il proprio nome e venimmo accompagnati al nostro tavolo. Valeria mi guardò e sorrise. "Allora, che ne pensi?", chiese Valeria sedendosi. "L'ambiente è carino", risposi. Valeria mi guardò come avesse voluto dirmi che non capivo nulla. Come potevo definire carino un locale come quello? Arrivò il cameriere. Valeria ordinò la cena. Il cameriere, il quale non era abituato ai modi di Valeria, si voltò e mi guardò con aria incuriosita. Io abbozzai un sorriso rassicurante. Il cameriere si voltò verso Valeria. Riassunse l'ordinazione. Valeria confermò parola per parola quello che aveva ordinato. Il cameriere si allontanò. Valeria mi guardò. "Perché sorridi?", chiese Valeria. "Perché non ho capito nulla di quello che hai ordinato", risposi. La cena corse via tranquilla tra una chiacchiera e l'altra, come se Valeria ed io avessimo sottoscritto il tacito accordo di non toccare temi imbarazzanti. Dopo cena, accompagnai Valeria a casa. Valeria mi chiese se volevo salire da lei per il bicchiere della staffa. La ringraziai, ma non ero più abituato a bere. "Comunque, prima che tu parta, vorrei vederti ancora una volta, se non ti dispiace", disse Valeria come se fosse rimasta delusa dal mio rifiuto. Valeria si voltò. Aprì il portone di casa e sparì inghiottita dall'ombra dell'androne. Si voltò. Accese la luce e ricomparve alla mia vista. "Allora, aspetto una tua telefonata", disse Valeria. Io abbozzai un sorriso. "Contaci", dissi. Valeria chiuse lentamente il portone. Io ritornai in albergo. Salii in camera. Mi spogliai. Andai in bagno. Presi la mia consueta pastiglia serale contro l'ipertensione e mi distesi sul letto. Io potevo capire che mia madre, dopo tanti anni di solitudine dovuta alla morte di mio padre, avesse deciso di rifarsi una vita. Quello che non capivo era come mia madre avesse fatto a scegliere Basilio. A Basilio interessava una cosa sola: il denaro. Possibile che mia madre non l'avesse capito? Poi, c'era Valeria. Perché una donna giovane, bella e intelligente come lei non era ancora riuscita a trovare un uomo? Dipendeva, forse dal fatto che era troppo intelligente? L'intelligenza, a volte, era controproducente. Era anche da dire, però, che Valeria aveva sempre avuto un carattere difficile e le era sempre piaciuto fare di testa sua anche a costo di spaccarsela. Mi alzai. Sedetti sul letto e chiamai la portineria dell'albergo. Chiesi al portiere se poteva farmi il favore di procurarmi un numero del telefono. Dissi il nome e l'indirizzo. Il portiere consultò l'elenco degli abbonati della città e lesse il numero. Composi il numero sul mio cellphone. Ringraziai il portiere e chiamai il numero che avevo memorizzato sul mio cellphone. Maddalena non era in casa. Rispose la segreteria telefonica. Se volevo, potevo lasciare un messaggio. Lasciai un messaggio e il mio numero di telefono. Chiusi la comunicazione e posai il cellphone sul comodino. Mi alzai. Accesi il televisore per sentire le ultime notizie e ritornai a letto. "Nell'intraprendere lo studio dell'economia politica, della sociologia, della storia", aveva scritto Karl Marx in un passo famoso della "Einleitung", noi dobbiamo tenere presente che il soggetto del nostro studio - la società borghese - è già dato e che le categorie esprimono soltanto dei modi d'essere e forme di esistenza dello stesso soggetto". Karl Marx aveva scritto la "Einleitung" nel 1857. L'economia mondiale era dominata dal cosiddetto "free trade imperialism". L'Inghilterra era il "centro dell'economia mondiale". Il carbone era la principale fonte di energia. Il livello di sviluppo d'un paese era misurato dalla sua produzione di ferro. La gente andava in carrozza. L'istruzione era un bene di pochi e l'analfabetismo era alle stelle. La povertà dilagava anche nei cosiddetti "paesi avanzati". La vita media era, in essi, al livello al quale essa era, oggi, nei cosiddetti "paesi in via di sviluppo". Molte cose sono cambiate da allora. Il "free trade imperialism" ha lasciato il passo "globalizzazione". Il "centro dell'economia mondiale" s'è spostato verso i "paesi di nuova industrializzazione". Il livello di sviluppo d'un paese era misurato dal numero di computers posseduti dalla popolazione. Nei "paesi avanzati", la vita media s'era allungata al tal punto da mettere in crisi la "piramide delle età". L'anafalbetismo è un ricordo del passato. La gente si muoveva in aereo da un continente all'altro con la medesima facilità con la quale, al tempo di Karl Marx, si muoveva in carrozza all'interno della propria città. Che cosa voleva dire? Voleva dire che dovevamo ampliare il nostro orizzonte culturale come avevamo ampliato il nostro orizzonte economico. Voleva dire, parafrasamdo un famoso "slogan" ambientalista, che dovevamo imparare a "pensare globalmente" e ad "agire localmente", anche se ciò non significa che dobbiamo arrenderci necessariamente alla "globalizzazione", tanto più che la stessa "globalizzazione" non era certamente esente da inefficienze e difetti di funzionamento. Se era vero, infatti, come l'economista americano Paul Krugman aveva scritto in un articolo di qualche anno prima, che "globalization makes the world a richer place", era anche vero che "the wealth it creates goes disproportionately to two sorts of people. On one side, are those who benefit from vastly improved access to technology and capital - which is to say, workers in developing countries. On the other side, are those in advanced countries who have capitals and technology to sell. Largely left out of the party, possibily even made worse off, those who fall in neither category". Ciò apriva nuove contraddizioni in seno a quella che Marx chiamava la società borghese fra chi era riuscito a integrarsi nel processo di trasformazione dell'economia indotto dalla globalizzazione e chi, invece, era stato tagliato fuori. Prospettava nuovi scenari di lotta. Creava spazio per lo sviluppo di nuovi movimenti politici. Spingeva alla creazione di nuove alleanze fra i diversi soggetti sociali e, come aveva scritto Alain Touraine, rendeva più che mai necessario un "retour à la politique", poiché, solo attraverso la politica, è possibile realizzare quel "dépassement des clôtures sociales qui empéchent de reconnaître l'universalisme des droits et de la raison". Il telegiornale era finito. Mi alzai. Spensi il televisore. Ritornai a letto e, dopo un po', mi addormentai. Improvvisamente, squillò la suoneria del mio cellphone. Aprii gli occhi. Mi voltai. Cercai a tentoni il cellphone che era posato sul comodino e risposi alla chiamata. Era Maddalena, la sorella di Sebastiano. Maddalena disse che aveva ricevuto il mio messaggio, ma che non l'aveva capito. In realtà, l'aveva capito benissimo, ma era incerta se accettare o meno il invito a cena. Io approfittai dell'occasione per battere il ferro finché era caldo. "Allora, ci vediamo sabato sera alle sette in campo San Bartolomeo?", chiesi. "D'accordo. Alle sette in campo San Bartolomeo", rispose Maddalena, come se stesse chiedendosi se non avesse fatto meglio a rifiutare il mio invito. Salutai Maddalena. Deposi il cellphone sul comodino. Guardai l'orologio e pensai che era arrivata l'ora di alzarmi. Mi alzai. Andai in bagno. Feci una doccia. Ritornai in camera. Presi la mia consueta pastiglia mattutina contro l'ipertensione. Mi vestii. Uscii dalla mia camera. Scesi in portineria. Consegnai le chiavi. Uscii dall'albergo e presi per santa Maria Formosa. Arrivato in campo santa Maria Formosa, comperai il giornale all'edicola che sorgeva in mezzo al campo e sedetti ad un tavolino del bar che si trovava nei pressi dell'edicola. Arrivò il cameriere. Ordinai un capuccino. Il cameriere rientrò nel bar e, dopo un po' ritornò con il capuccino. Depose la tazza del capuccino sul tavolino. Si voltò e ritornò da dov'era venuto. Io afferrai la tazza del capuccino. Portai lentamente la tazza alla bocca e trassi alcuni brevi sorsi. Deposi la tazza sul tavolino. Afferrai il giornale e cominciai a sfogliarlo. Le conclusioni alle quali era arrivato il Senate Select Committee on Intelligence alla fine della sua inchiesta sulle "intelligence failures" concernenti le armi di distruzione di massa irachene erano semplici e chiare. L'Iraq non possedeva armi di distruzione di massa. L'Iraq non possedeva fabbriche mobili di armi chimiche. L'Iraq non possedeva missili a lungo raggio. L'Iraq non aveva acquistato uranio dal Niger. L'Iraq non aveva legami organici con al-Qaeda. Le informazioni fornite dalla CIA al governo americano sulle armi di distruzione di massa irachene erano false ed erano il risultato di "a broken corporate culture and poor management". Tutto ciò non aveva messo a tacere fautori della guerra. Come William Shawcross aveva scritto, infatti, in un suo recente articolo, "it may be that, despite prewar intelligence, Saddam did not have stockpiles of chemical and biological weapons at the time of war in March 2003. But to assert that there was no WMD threat is to trivialise the issue". Secondo William Shawcross, infatti, "intelligence has to look at form. Saddam's history over the past 14 years was one of attempting to obtain and conceal WMD. During the Gulf War he fired 39 missiles into Israel. They had conventional war-heads, but they might not have done". A sostegno della sua tesi, Shawcross aveva portato alcuni passi tratti dal rapporto redatto dal nuovo capo dell'Iraq Survey Group, Charles Duelfer. Secondo Charles Duelfer, ciò che contava, infatti, non era che non fossero state trovate le armi di distruzione di massa" che la CIAi sosteneva essere possedute dall'Iraq. Ciò che contava era che "we must determine what Saddam ordered, what his ministers ordered and how the plans fit together. Were weapons hidden that were not readly available? Was there a plan for a break-out production capacity?". La risposta fornita da Charles Duelfer era che esisteva, in Iraq, "a very robust programme for delivery systems that were not reported to the United Nations" e che Saddam Hussein non solo aveva già sviluppato la produzione di missili che "easily exceeded the UN limits of 150 km", ma stava trattando anche con la Corea del Nord l'importazione di un "missile system" da 1.300 Km. Vero? Falso? Non lo so. Non possedevo la documentazione posseduta da Charles Duelfer, come capo dell'Iraq Survey Group, e non lo sapevo. Quello che sapevo era che, se era vero che il lavoro dei servizi di informazione non poteva limitarsi a fornire al governo del loro paese una pura e semplice elencazione di dati, ma doveva anche fornire al governo del loro paese un quadro della situazione, era anche vero che la CIA non s'era limitata a fonire al governo americano un quadro della situazione irachena, ma aveva trasformato delle "patacche" in oro colato. Chiamai il conto. Pagai il capuccino. Il cameriere intascò il denaro. Misi il resto in tasca. Mi alzai e mi diressi verso Rialto. Arrivato in campo San Bartolomeo presi per campo San Luca. Girai attorno alla Cassa di Risparmio e tagliai per campo Santo Stefano. Raggiunto campo Santo Stefano, tagliai per l'Accademia. Sul ponte, mi fermai a guardare un gruppo di stranieri che faceva ressa attorno ad uno scatolettista. Uno degli stranieri fece cenno allo scatolettista di cominciare il gioco. Lo scatolettista mise la pallina dentro una delle tre scatolette. Mosse velocemente le tre scatolette che aveva davanti a sé e chiese allo straniero di indicare dentro quale scatoletta era pallina. Lo straniero indicò la scatoletta che era al centro. Lo scatolettista sollevò la scattoletta e mostrò che era vuota. Lo straniero mise la mano in tasca. Estrasse un pacco di banconote e porse un biglietto da cinquanta euro al compare dello scatolettista. Passò un anziano signore. Mi guardò e mi chiese perché lasciavano che facessero una cosa del genere. Era evidente che l'anziano signore si riferiva al comportamento delle pubbliche autorità. Risposi che non lo sapevo. Salutai l'anziano signore e proseguii verso le Zattere. Arrivato alle Zattere, svoltai a sinistra e mi diressi lentamente verso la Punta della Dogana dove si ergeva la chiesa di santa Maria della Salute. "Utopia" era una parola composta d'origine greca da coniata Tommaso Moro nel 1516 e veniva comunemente usata per definire qualcosa di fantastico, di irreale, un non-luogo, come l'isola dove Tommaso Moro aveva ambientato la sua omonima opera. Altra cosa era il "progetto". La parola "progetto" derivava dalla parola francese "project" e si riferiva, invece, a qualcosa di reale, di concreto - una casa, una macchina, un ponte - e reale, concreto era pure il criterio di valutazione dello stesso progetto. Altra cosa ancora era il "sogno". Polifilo, il protagonista del romanzo quattrocentesco di Francesco Colonna, s'addormentava e sognava foreste incantate, palazzi fantastici, personaggi fiabeschi. Sognava Polia, la donna della quale era innamorato e per la quale era pronto a combattere e, se occorreva, anche a morire. Domanda: "Che cosa c'entrava il sogno di Polifilo e la chiesa di santa Maria della Salute costruita da Baldassare Longhena sulla Punta della Dogana due secoli dopo la pubblicazione del romanzo di Francesco Colonna del quale Polifilo era il protagonista?". C'entrava. Nel romanzo di Francesco Colonna, Polifilo s'imbatteva, infatti, in un tempio a pianta circolare nel quale qualche storico dell'arte aveva voluto vedere il modello al quale Baldassare Longhena s'era ispirato nel progettare la chiesa di santa Maria della Salute. Che cosa dire? Non ero uno storico dell'arte e non lo sapevo. Quello che sapevo era che e chiunque osservasse la chiesa di santa Maria della Salute non poteva fare a meno di sentire, dentro di lui, una voce che gli chiedeva: "Non sembra anche a te che la cupola della chiesa si sollevi verso il cielo?". Egli guardava la cupola e doveva ammettere che la voce aveva ragione. La cupola della chiesa di santa Maria della Salute, malgrado la sua gigantestaca mole, sembrava veramente sollevarsi verso il cielo, come se una forza misteriosa la spingesse lentamente verso l'alto. Miracolo dell'architettura barocca? Non ero uno storico dell'arte e non lo sapevo. Quello che sapevo era che il progetto di Baldassare Longhena funzionava e funzionava perché Baldassare Longhena non era solo un tecnico provetto che era riuscito a erigere una chiesa della mole della chiesa di santa Maria della Salute su una sottile lingua di terra come quella di Punta della Dogana. Egli era un uomo che, anche in tempi difficili, aveva conservato la capacità di sognare. Mi fermai. Guardai verso l'isola di San Giorgio e pensai che faceva troppo caldo per continuare la passeggiata. Mi diressi verso un bar che era situato poco più avanti. Sedetti all'ombra d'un grande ombrellone e guardai il muro della casa che si ergeva davanti a me. Sul muro c'era una lapide che informava il passante che John Ruskin, il celebre autore di "The Stones of Venice", aveva soggiornato in quella casa. Arrivò il cameriere. Ordinai dell'acqua minerale non gassata. Il cameriere ritornò da dove era venuto. Io guardai nuovamente la lapide e cercai di ricordare la frase iniziale del libro di Ruskin: "Since first the dominion of men was asserted over the ocean three thrones, of mark beyond all others, have been set upon its sands: the thrones of Tyre, Venice and England...". Il cameriere ritornò con l'acqua minerale. Posò il bicchiere e una bottiglia da mezzo litro di acqua minerale sul tavolino. Si voltò e si avvicinò ad una coppia di turisti che sedeva a un altro tavolino. Io afferrai la bottiglia. Versai l'acqua nel bicchiere. Posai la bottiglia sul tavolino. Portai il bicchiere alla bocca e trassi un lungo sorso d'acqua. Posai il bicchiere sul tavolino e pensai che era vero che, quando uno aveva sete, non c'era nulla di meglio d'un buon bicchiere d'acqua fresca. Afferrai il giornale e presi a sfogliarlo. "Now that the American empire is collapsing around our ears, it is in the turn of those who favored a multipolar world - and one in which the United Nations plays a key role - to show they can do better", aveva scritto in tono evidentemente provocatorio l'eminente politologo della George Washington University Amitai Etzioni in un articolo dedicato al problema delle riassetto delle relazioni internazionali dopo la crisi causata causata da quello che avremmo potuto chiamare lo "strappo iracheno". Secondo il professor Amitai Etzioni, "the notion that one can govern the world by military might has found its limit. It's now widely understood that the United States cannot take out the North Korean regime because some of its weapons of mass destruction are in caves beyond reach of bombs. Trying to use force against North Korea might cause the death of milions of South Koreans". "Morever", aveva aggiunto il professor Amitai Etzioni, "the U.S. armed forces are stretched thin in Iraq and Afghanistan and the American public willingmess to accept more casualties and costs is rapidly fading. Far from going it alone, the United States is courting its allies and friends, hat in hand, to share the burden of nation building in these two countries. Washington felt forced to go pleading with the United Nations to grant its blessing for what needs to be done". Ora, che cosa dire di tutto ciò? La prima cosa era che, prima di parlare di collasso dell'impero americano, avremmo dovuto metterci d'accordo su che cosa intendevamo per impero americano. Se era vero, infatti, che non esistevano dubbi sull'esistenza d'un impero americano, era altrettanto vero che esso era un impero molto diverso da qualunque altro impero che lo aveva preceduto sulla scena della storia. Esso era, infatti, un impero senza imperatore, senza colonie, senza governo diretto o indiretto... La seconda cosa era che mi sembrava velleitario pensare che le Nazioni Unite, nella situazione di crisi in cui si trovavano, a causa dell'incapacità da esse dimostrata di risolvere politcamente la "crisi irachena", fossero in grado di prendere nelle loro mani non solo il processo di "nation building" in Aghanistan e Iraq, ma di prendere nelle loro mani addirittura il destino d'un mondo che, per un motivo o per l'altro, sembra aver perso il ben dell'intelletto. La terza cosa era le difficoltà nelle quali si dibatteva l'America non erano solo conseguenza del fatto che non era possibile governare il mondo con il solo potere militare, oppure, del fatto che gli americani non fossero pronti a pagare il costo della gestione di un impero in termini di vite umane. Esse dipendevano anche dalla pretesa dei neoconservatori americani di esportare in tutto il mondo l'idea americana di democrazia. Chiamai il conto. Pagai l'acqua minerale. Mi alzai e ritornai all'Accademia. Sul ponte dell'Accademia, gli scatolettisti aveva lasciato il posto ai venditori abusivi di borse, cinture, occhiali da sole Arrivato a santo Stefano, tagliai per campo Sant'Angelo. Attraversai campo Sant'Angelo e presi per campo San Luca. Arrivato in campo San Luca, tagliai per campo San Bartolomeo. Arrivato in campo San Bartolomeo, m'infilai in un vicino pub. Sedetti a un tavolo e ordinai una birra. Poi, considerata l'ora, ordinai anche un piatto di prosciutto crudo. "Don't blame America for fowing the seeds of terror", aveva scritto l'editorialista del "New York Times" Thomas Friedman l'indomani dell'11 settembre. Secondo Thomas Friedman, la reazione degli intellettuali e politici europei agli attacchi terroristici dell'11 settembre era stata, infatti, del genere: "Yes. It was terrible, but America deserved it or it is responsibile for the anger behind it". Ora, che cosa dire di tale affermazione? La prima cosa era che, di fronte a attacchi terroristici come quelli dell'11 settembre, tutti noi, al di là della diversità delle nostre posizioni politiche, non potevamo che essere, come aveva scritto il direttore di "Le Monde", Jean-Marie Colombani, con l'America e contro il terrorismo islamista che era responsabile di quegli attacchi. La seconda cosa era che, se è vero, come George W. Bush aveva dichiarato a "Time", dopo la sua vittoria nelle elezioni presidenziali del 2000, che "things happen for a reason", allora anche il "yes, but" al quale Thomas Friedman si riferiva nel suo articolo poteva avere una ragione d'essere ed essa poteva essere ricondotta all'arroganza con la quale l'America trattava, ormai da molto tempo, i suoi stessi alleati. Ciò non significava naturalmente che l'America meritasse d'essere colpita. Ciò significava, invece, che se l'America voleva la collaborazione dei suoi alleati nella lotta contro il terrorismo, essa doveva cessare di comportarsi, per usare le parole di Ivo Daalder e James Lindsay di Brookings Institution, come la "SUV of nations", ma doveva imparare rispettare le norme del codice della strada. Sebastiano avrebbe potuto accusarmi d'essere caduto vittima del tradizionale anti-americanismo di sinistra. Non era vero. Non avevo mai nutrito dei sentimenti anti-americani. Né avrei potuto farlo. Io appartenevo a una generazione che era cresciuta nutrendosi di cultura americana. Non era colpa mia se l'America era finita nelle mani d'un pugno di avventurieri della politica che, con la loro decisione di "andare da soli" in Iraq, avevano cacciato l'America in una situazione dalla quale essa non sapeva come uscire. Improvvisamente, era squillata la suoneria del mio cellphone. Pensai che, forse, si trattava di Maddalena che mi diceva d'averci ripensato e che aveva deciso di non accettare il mio invito. Non era Maddalena. Era una amica di Matilde, la donna che, al funerale di Sebastiano, sedeva solitaria in disparte. La donna disse che se volevo parlare con Matilde avrei potuto trovarla alle cinque del pomeriggio a casa sua. "Se vuole le posso dare il mio indirizzo", aggiunse la donna. La ringraziai e presi mentalmente nota dell'indirizzo della donna. "Allora, l'aspetto", disse la donna. Io ero rimasto così sorpreso dalla telefonata dell'amica di Matilde che riuscii a farfugliare soltanto uno striminzito: "D'accordo. Questo pomeriggio alle cinque". La donna chiuse la comunicazione ed io rimasi a guardare imbambolato il mio cellphone. Nella mia vita, avevo intervistato molte persone e non avevo mai avuto alcun problema per quello che riguardava le cose da chiedere loro. Questa era la prima volta che mi trovavo nella condizione di non sapere che cosa chiedere. Era evidente, infatti, che tra Matilde e Sebastiano c'era stata una storia ed era pure evidente, considerato il modo nel quale essa era terminata, che non era stata una storia felice. Lei era sposata. Aveva una figlia... Ciò spiegava il motivo per il quale la donna mi aveva dato appuntamento a casa della sua amica invece che a casa propria e ciò spiegava probabilmente anche il motivo per il quale la sua storia con Sebastiano non era stata una storia a lieto fine. Messa di fronte alla necessità di scegliere fra Sebastiano e la famiglia, la donna aveva scelto la famiglia. Perciò, io avrei fatto, forse, meglio a non smuovere le acque, pensai. Il guaio, però, era stato combinato e non potevo più ritornare indietro. Alle cinque sarei stato, perciò, a casa dell'amica di Matilde. Mi sarei scusato per il disturbo che le avevo creato. Se Matilde era una donna intelligente, avrebbe capito. Nel caso contrario, le avrei fatto le condoglianze e me ne sarei andato. Chiamai il conto. Uscii dal pub e ritornai in albergo. Salii in camera. Mi spogliai e accesi il televisore per sentire le ultime notizie. "Parmi les grands pays, seule l'Espagne pourrait échapper au vote-sanction", affermava il titolo d'apertura di "Le Monde" alla vigilia delle ultime elezioni europee. C'erano state le elezioni europee e c'era stata anche la "sanction" prevista da "Le Monde". Avevano perso, infatti, i "forzisti" di Silvio Berlusconi in Italia, i socialdemocratici di Gerhard Schröder in Germania, i laburisti di Tony Blair in Gran Bretagna, gli "unionisti" di Jacques Chirac in Francia. I soli a vincere sono stati i socialisti di José Luis Rodriguez Zapatero in Spagna. Ora, che cosa dire di tutto ciò? La prima cosa era che la "sanction" aveva colpito tutti i partiti di governo indipendentemente dal loro colore politico e dalla posizione da essi assunta sulla guerra contro l'Iraq. La "sanction" aveva colpito, infatti, sia partiti di goveno che erano stati favorevoli alla guerra contro l'Iraq come il New Labour di Tony Blair e Forza Italia di Silvio Berlusconi, che partiti di governo che erano stati contrari alla guerra come l'UMP di Jacques Chirac, oppure, la SPD di Gerhard Schröder. La seconda cosa era che, se era vero che si trattava di elezioni europee, era altrettanto vero che gli elettori europei sembravano aver votato come se fossero state delle elezioni politiche nazionali e questo fatto, come Jürgen Habermas aveva spiegato in un'intervista al "Corriere della Sera", rendeva difficile esprimere un giudizio sul significato politico delle stesse elezioni europee. La terza cosa riguardava il problema del basso tasso di affluenza alle urne. Se era vero, infatti, come aveva scritto Pierre Rosanvallon, che l'esercizio della democrazia non poteva essere ridotto al puro e semplice esercizio del diritto di voto, era anche vero che la democrazia si fondava sulla partecipazione dei cittadini alle scelte comuni. Senza di essa, la democrazia perdeva il suo significato originario e ciò, rafforzando il potere dei burocrati di Bruxelles, creava una situazione che Colin Crouch avrebbe chiamato di "postdemocrazia". La quarta cosa era, come aveva scritto Andrew Moravcsik, professore di government a Princeton, che nonostante la diversità delle situazioni politiche nazionali e la diversità dei modi nei quali gli elettori europei avevano espresso il loro voto, una cosa era chiara: gli europei erano in disaccordo su tutto, meno che sulla loro avversione per l'Unione Europea e il modo verticistico nel quale il processo di unificazione europea continuava a essere portato avanti non era estraneo a tale avversione per l'Unione Europea. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che il vero problema dell'Europa era che gli europei non erano pronti per una vera Unione Europea. Giusto. Ma di chi era la colpa? Era colpa dei cittadini europei o non era colpa anche d'una classe politica che non aveva saputo avvicinare l'Unione Europea ai cittadini europei? E che dire di quegli intellettuali i quali, in un mondo sempre più cosmopolita, invocavano l'intervento dello stato a difesa delle culture nazionali? Mi alzai. Spensi il televisore. Ritornai a letto e scivolai lentamente nel sonno. Ad un tratto mi svegliai, come se qualcuno m'avesse chiamato. Mi voltai e guardai l'orologio. L'ora dell'appuntamento con Matilde si avvicinava. Mi alzai. Andai in bagno. Feci la doccia. Mi vestii in modo adatto all'occasione. Uscii dall'albergo e mi avviai lentamente, cercando di sudare il meno possibile, verso la casa dell'amica di Matilde. Alle cinque in punto ero davanti alla porta della casa dell'amica di Matilde. Lessi il nome. Suonai il campanello. Mi venne aperto. Entrai. L'amica di Matilde abitava in un vecchio palazzo restaurato. L'androne era avvolto nell'ombra e dava direttamente sul canale retrostante. L'amica di Matilde abitava al terzo piano. La porta dell'appartamento era socchiusa. In un angolo, avvolta dall'ombra, c'era una donna. La statura della donna era simile a quella di Matilde. La sua corporatura era, invece, molto più robusta di quella di Matilde. La donna aprì la porta e mi fece entrare. Chiuse dolcemente la porta come se non volesse disturbare qualcuno che dormiva e mi fece accomodare in casa. Matilde ci aspettava in un salottino. Le finestre del salottino davano sul canale sottostante. Matilde era seduta su un divano che si trovava di fronte alle finestre del salottino come se volesse rimanere in ombra. L'amica di Matilde mi invitò a prendere posto di fronte a Matilde. Sedetti lentamente come se avessi paura di rompere il silenzio. L'amica di Matilde mi chiese se volevo bere qualcosa. Ringraziai, ma rifiutai. "Allora, vi lascio da soli", disse l'amica di Matilde. L'amica di Matilde uscii dal salottino. Io rimasi da solo con Matilde. Matilde mi guardò come se non sapesse quale atteggiamento assumere. Io abbassai gli occhi come se volessi nascondere il mio imbarazzo. "Allora, lei è ...", disse Matilde con voce incerta. "Immagino che lei vorrà sapere perché Sebastiano si è ucciso", disse Matilde. Sollevai gli occchi e guardai Matilde. Matilde abbassò gli occhi e strinse le proprie mani come volesse farsi forza. "Sebastiano s'è ucciso perché aveva scoperto d'essere stato colpito da una malattia incurabile" disse Matilde. "Il nonno di Sebastiano era morto a causa di quella stessa malattia e Sebastiano non voleva fare la fine di suo nonno. Sebastiano m'aveva parlato una volta di suo nonno, ma non m'aveva mai parlato delle sue intenzioni di porre fine alla propria vita. Non sapevo nemmeno che Sebastiano possedesse una pistola... Mi dispiace di non poterle dire qualcosa di più". Matilde sollevò gli occhi e mi guardò come volesse chiedermi se volevo farle delle domande. Quali domande? La storia che Matilde m'aveva raccontato si commentava da sola. Matilde si voltò. Guardò verso la porta del salottino e invitò l'amica ad entrare. Il colloquio era finito. Io guardai Matilde come se volessi dirle qualcosa, ma rimasi silenzioso. Che cosa potevo dire, infatti, a una donna che aveva perso l'uomo che amava in circostanze così drammatiche? Qualunque cosa le avessi detto rischiava di sembrarle sciocca e banale. Mi alzai. Mi scusai con Matilde per il disturbo che le avevo creato e le feci le mie condoglianze. Mi voltai e seguii l'amica di Matilde. L'amica di Matilde mi accompagnò in entrata. Aprì dolcemente la porta e si voltò verso di me. Mi scusai con l'amica di Matilde per il disturbo che le avevo arrecato. Uscii dall'appartamento. Discesi velocemente le scale. Attraversai l'androne. Aprii il portone d'ingresso del palazzo e uscii in strada. Chiusi il portone. Guardai il cielo e trassi un profondo respiro. L'incontro con Matilde e la sua rivelazione del vero motivo del suicidio di Sebastiano m'avevano stremato. Mi diressi verso un vicino bar. Sedetti ad un tavolino all'aperto e ordinai alla cameriera dell'acqua minerale non gassata. Arrivò l'acqua minerale non gassata. La cameriera posò la bottiglia d'acqua minerale e il bicchiere sul tavolino. Mi chiese se desideravo qualcos'altro. Al mio no, si voltò e ritornò da dov'era venuta. Io aspettai che la cameriera si allontanasse. Afferrai la bottiglia. Versai il suo contenuto nel bicchiere. Portai lentamente il bicchiere alla bocca e trassi un lungo sorso ristoratore. Posai il bicchiere sul tavolino. Estrassi il cellphone dalla tasca della giacca che avevo indossato per andare all'appuntamento con Matilde. Chiamai Valeria e chiesi a Valeria se aveva degli impegni per quella sera. "Perché?", chiese Valeria incuriosita dalla mia domanda. "Perché avevi espresso il desiderio di riverderci prima che io partissi e volevo invitarti a mangiare una pizza con me", risposi. "Naturalmente, se non sei libera, possiamo fare per un'altra sera", aggiunsi. "Per me va bene anche questa sera", disse Valeria come se la mia risposta non l'avesse completamente convinta. "Allora, facciamo alle otto in campo San Salvador", dissi. "D'accordo", disse Valeria. "Alle sette in campo San Salvador". Salutai Valeria. Chiusi la comunicazione. Rimisi il cellphone nella tasca della giacca. Afferrai il bicchiere dell'acqua minerale. Portai il bicchiere alla bocca e trassi un lungo sorso. Posai il bicchiere sul tavolino e guardai l'orologio. Se volevo essere alle otto all'appuntamento con Valeria, dovevo sbrigarmi. Non potevo andare, infatti, all'appuntamento con Valeria senza aver prima fatto una doccia e d'essermi cambiato d'abito. L'abito che indossavo era inzuppato di sudore ed io stesso avevo bisogno d'una doccia ristoratrice. Afferrai nuovamente il bicchiere. Portai il bicchiere alla bocca e trassi un nuovo sorso. Posai il bicchiere sul tavolino. Chiamai il conto. Pagai. Mi alzai e mi diressi verso l'albergo. Arrivato in albergo, salii in camera. Mi spogliai. Feci una doccia. Mi rivestii e alle otto ero in campo San Salvador curioso di vedere come Valeria s'era vestita. La mia curiosità venne presto soddisfatta. Valeria aveva deciso di vestirsi sportiva: jeans, T-shirt, scarpe da ginnnastica e borsa a tracolla di tela. Valeria mi guardò e sorrise maliziosamente. "Va meglio così?", chiese Valeria. Valeria si riferiva alla reazione che avevo avuto la sera prima quando l'avevo criticata per aver voluto esibire il suo corpo in un modo che, come fratello maggiore, m'era sembrato eccessivo. "Tu continui a non capire", risposi. "Invece, capisco benissimo", disse Valeria. "Sei geloso come un gatto nero, e dire che siamo soltanto fratello e sorella. Posso immaginare come ti comporteresti se, invece d'essere fratello e sorella, fossimo marito e moglie". Guardai Valeria e sorrisi divertito. "Ti chiuderei in casa e non permetterei a nessuno di vederti", dissi. Valeria sorrise, come se volesse dirmi: "Vedi, che avevo ragione io? Sei geloso come un gatto nero". Poi, infilò lentamente il suo braccio sotto il mio. "Andiamo?", chiese Valeria. "Sento che mi sta venendo fame". Accompagnai Valeria nella pizzeria dov'ero stato qualche sera prima. Mangiammo la pizza. Parlammo a ruota libera di tutto quello che ci veniva in mente. Scherzammo bonariamente su nostra madre e Basilio. Uscimmo dalla pizzeria. Valeria sollevò lo sguardo e guardò il rettangolo di cielo che ci sovrastava. "Ricordi quand'ero piccola e ti chiedevo i nomi delle stelle?", chiese Valeria. Guardai Valeria che guardava il cielo. "Abbiamo parlato di nostra madre e Basilio, ma non abbiamo parlato di te". "Che cosa vuoi sapere?", chiese Valeria. "Vuoi sapere se ho un uomo? No. Non ce l'ho. Ne avevo uno, ma non è andata come speravo. Adesso, sono libera e, per il momento, intendo rimanerlo". "Non m'interessa sapere dei tuoi uomini", dissi. "M'interessa sapere se sei felice". "E tu?", chiese Valeria continuando a guardare il cielo. "Tu sei felice?". Abbassai lo sguardo come se la domanda di Valeria m'avesse colto di sorpresa. "Ho capito", disse Valeria. "Neanche tu hai voglia di parlare". Guardai Valeria come volessi dirle che aveva indovinato. Accompagnai Valeria a casa. Valeria mi fece promettere che le avrei telefonato prima di partire. Poi, Valeria salì in casa. Io ritornai in albergo. Salii in camera. Mi spogliai. Presi la mia consueta pastiglia serale contro l'ipertensione. Accesi il televisore e mi distesi sul letto a guardare il telegiornale. Grande scalpore era stato suscitato dalle dichiarazioni rilasciate, a suo tempo, alla stampa internazionale da Valéry Giscard d'Estaing, il quale s'era detto contrario all'entrata della Turchia nell'Unione Europea. Qualcuno aveva accusato Valéry Giscard d'Estaing d'essere caduto vittima della teoria del cosiddetto "clash of civilizations". Qualcun altro, aveva accusato Valéry Giscard d'Estaing di pensare all'Unione Europea come a una sorta di "club chrétien" il cui accesso era precluso agli infedeli. In realtà, Sebastiano avrebbe potuto ribattere che Giscard d'Estaing, mettendo in dubbio il carattere europeo della Turchia non voleva agitare lo spettro dello "choc des civilizations", ma voleva affermare che una cosa era una "unione politica", un'altra cosa era una "unione geografica" dell'Europa e del Vicino Oriente. Era vero. Una cosa era una "unione politica", un'altra cosa era una "unione geografica". Per costruire una "unione politica", l'Unione Europea doveva darsi una propria "identità politica". L'Unione Europea, però, era ancora lontana dall'essere riuscita a darsi una propria identità politica e questo fatto complicava il problema dell'annessione della Turchia all'Unione Europea. Nello stesso tempo, a mio modo di vedere, il problema dell'annessione della Turchia all'Unione Europea era, comunque, più un problema turco che europeo. Era, infatti, la Turchia che doveva adeguare le proprie istituzioni economiche politiche, giuridiche e sociali a quelle esistenti nell'Unione Europea. Non era l'Unione Europea a dover adeguare le sue istituzioni a quelle esistenti in Turchia. Se la Turchia fosse riuscita a adeguare le sue istituzioni economiche politiche, giuridiche e sociali a quelle esistenti nell'Unione Europea nei modi e nei tempi previsti dal trattato di annesssione, essa sarebbe diventata un paese europeo e nulla poteva impedire, a quel punto, la sua annessione all'Unione Europea. Se la Turchia non fosse riuscita a farlo, il problema si sarebbe risolto da solo. La Turchia sarebbe rimasta nella NATO, ma non sarebbe entrata nell'Unione Europea. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che il problema non riguardava solo l'adeguamento delle istituzioni economiche, politiche, giuridiche e sociali turche a quelle esistenti nell'Unione Europea. Esso riguardava anche il fatto che la Turchia era un paese islamico. Era pronta l'Unione Europea a accogliere settanta milioni di musulmani turchi? No. L'Unione Europea non era ancora pronta a accogliere settanta milioni di musulmani turchi. Ciò dipendeva, da un lato, da un pregiudizio nei confronti dell'Islam che aveva originato un atteggiamento di ostilità nei confronti dei musulmani se non, in alcuni casi, di vera e propria islamofobia. Dall'altro lato, dipendeva da un sentimento inconscio di paura nei confronti dei musulmani. Io pensavo fosse, però, un grave errore lasciar fuori la Turchia. La Turchia, infatti, non era solo un ponte fra due continenti. La Turchia era anche un ponte fra mondo cristiano e mondo musulmano. L'annessione della Turchia all'Unione Europea avrebbe potuto favorire lo sviluppo delle relazioni fra di essi, a condizione, naturalmente, che gli europei avessero cessato d'aver paura dei musulmani. Mi alzai. Spensi il televisore. Ritornai a letto e, dopo un po', mi addormentai. Mi svegliai a mattina inoltrata. Mi alzai. Presi la mia consueta pastiglia mattutina contro l'ipertensione. Andai in bagno. Feci la doccia. Ritornai in camera. Mi vestii. Uscii dalla camera. Scesi lentamente le scale. Consegnai le chiavi. Uscii dall'albergo. Arrivato in campo santa Maria Formosa, comperai il giornale all'edicola che si ergeva in mezzo al campo e tagliai per campo Santi Giovanni e Paolo. "La caratteristica distintiva dell'uomo, ciò che distingue l'uomo dagli altri animali non è qualche sua caratteristica fisica o metafisica, ma la sua opera. È l'opera dell'uomo che definisce la sfera dell'umanità. Linguaggio, mito, religione, arte, storia sono gli elementi costitutivi di questa sfera", aveva scritto Ernst Cassirer nel suo "Saggio sull'uomo", mentre la Seconda Guerra Mondiale era ancora in corso. Ciò non significava, naturalmente, che l'uomo dovesse essere considerato un essere solo spirituale. L'uomo, infatti, era, prima di tutto, un animale - il più sviluppato degli animali, ma pur sempre un animale - e la sua vita era intrecciata alla vita della natura come la vita di qualunque altro animale. L'uomo, però, dimenticava spesso questo fatto e si comportava nei confronti della natura come se considerasse la natura alla stregua d'un nemico. Questo comportamento aveva recato dei danni spesso irreversibili all'ambiente naturale i quali, protraendosi nel tempo, rischiavano di mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza dell'uomo. Analoga osservazione poteva essere fatta per quello che riguardava il modo in cui l'uomo si comportava nei confronti dei propri simili e questo comportamento aveva indotto qualche studioso a ipotizzare l'esistenza nell'uomo d'un istinto naturale a aggredire i propri simili. In realtà, se era vero che i geni erano responsabili della formazione e del modo di funzionamento dei circuiti neuronali del nostro cervello, era altrettanto vero che qualcos'altro era responsabile di quello che v'era dentro - qualcos'altro che era chiamato cultura. E ritornavamo così al punto di partenza. La cultura poteva elevare l'uomo al di sopra degli altri animali. La cultura poteva renderlo il più feroce degli animali. Non esisteva, infatti, solo la cultura di cui Ernst Cassirer parlava nel suo saggio. Esisteva anche un'altra cultura: una cultura che alimentava l'odio razziale, l'odio etnico, l'odio religioso, l'odio di classe e che era responsabile di crimini atroci come lo sterminio nazifascista degli ebrei, la "liquidazione dei kulaki come classe" a opera di Stalin, l'ethinc cleansing in Bosnia... Improvvisamente, era squillata la suoneria del mio cellphone. Estrassi il cellphone dalla tasca e risposi alla chiamata. Era mia madre. Mia madre non mi aveva più sentito e voleva sapere come stavo. Risposi a mia madre che stavo bene. "Allora", disse mia madre, "puoi accettare un mio invito a cena". "Accetto il tuo invito", dissi. "Purché tu non passi tutto il giorno ai fornelli. Sai che per me vanno bene anche due spaghetti al pomodoro e basilico". Mia madre sorrise divertita. "Quand'è così, ti farò due spaghetti al pomodoro e basilico", disse mia madre. Salutai mia madre. Chiusi la comunicazione. Misi il cellphone in tasca e continuai per la mia strada. Arrivato all'uscita della calle che da santa Maria Formosa portava in campo Santi Giovanni e Paolo. Mi fermai e guardare il campo che si apriva davanti ai miei occh. Uscii dalla calle. Attraversai il campo e sedetti al tavolino d'un bar ai piedi della statua di Bartolomeo Colleoni. Arrivò la cameriera. Ordinai un capuccino. La cameriera rientò nel bar e ritornò dopo un po' con il capuccino. Pagai il capauccino. Intascai il resto. La cameriera si allontanò. Io afferrai la tazza del capuccino. Portai la tazza lentamente alla bocca e trassi un breve sorso. Posai la tazza sul tavolino. Ripresi la mia precedente posizione. Aprii il giornale e cominciai a sfogliarlo. "The Pax Britannica was run on the cheap", aveva scritto lo storico di Yale, Paul Kennedy. "British's army was smaller than European armies and even the Royal Navy was equal only to the next two navies - right now all the other navies in the world could not dent American maritime supremacy. Charlemagne's empire was merely western European. The Roman Empire stretched farther afield, but there was another great empire in Persia and a larger one in China. There is therefore no comparision". Era vero. La potenza militare americana era senza rivali, ma ciò significava che il problema fosse risolto? Io pensavo di no. Io pensavo che, per uno stato che intendeva dominare il mondo, la potenza militare era importante. Non meno importante della potenza militare era, però, la capacità di creare delle relazioni politiche, cosa che, come la vicenda irachena aveva dimostrato, gli Stati Uniti non avevano ancora imparato a fare. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che l'impero romano non era stato costruito in un giorno. Era vero. L'impero romano non era stato costruito in un giorno. Era anche vero, però, che il tempo passava e, più il tempo passava, più ervamo indotti a chiederci se gli Stati Uniti sarebbero capaci di sviluppare quella "cultura imperiale" che avrebbe loro consentito di realizzare quello che i romani avevano realizzato prima di loro. In altre parole, il problema non era quello d'essere "o con noi o contro di noi", come il presidente George W. Bush, amava dire. Meno ancora, il problema era quello d'essere "from Mars" o "from Venus", come aveva scritto Robert Kagan, riferendosi al rifiuto opposto dagli europei al'uso della forza nella soluzione delle controversie internazionali. Il problema era che se era vero che il potere accumulato dagli Stati Uniti nei confronti sia dei loro alleati che dei loro avversari poneva, come Robert Dujarric e William Odom avevano scritto in un loro recente libro, gli Stati Uniti in una posizione strategica che non aveva precedenti", era altrettanto vero che "uniliteral use of US military power", anche se non poteva essere precluso, avrebbe potuto essere, però, "extremely risky for the health of the imperial order". Afferrai la tazza del capuccino. Portai la tazza alla bocca e la svuotai del suo contenuto. Posai la tazza sul tavolino e ripresi. Mi alzai. Attraversai campo Santi Giovanni e Paolo in direzione dell'Ospedale Civile. Percorsi la fondamenta che costeggiava l'Ospedale Civile fino allo sbocco in laguna del Canale dei Mendicanti. Svoltai a sinistra e presi per Fondamenta Nuove. Accese discussioni erano state suscitate in Europa dalla pubblicazione da parte di Eurobarometer del risultato d'un sondaggio d'opinione mirante ad evidenziare ciò che i cittadini europei pensavano della situazione politica internazionale. In particolare, in una delle domande del questionario, era stato chiesto ai cittadini europei di indicare, a loro modo di vedere, quale, fra gli stati menzionati nella stessa domanda rappresentava una minaccia per la pace nel mondo. Gli stati che erano menzionati nella domanda del sondaggio di Eurobarometer erano: Afghanistan, Arabia Saudita, Cina, India, Iraq, Iran, Israele, Libia, Nord Corea, Pakistan, Russia, Siria, Somalia, Stati Uniti, Unione Europea. La risposta dei cittadini europei era stata che Israele era una minaccia per la pace nel mondo più di Iran, Nord Corea, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Siria, Libia... Ora, un sondaggio d'opinione non era altro che un sondaggio d'opinione. Tuttavia, se noi consideravamo il modo nel quale i cittadini europei intervistati da Eurobarometer avevano risposto alla domanda sul problema della pace nel mondo che era contenuta nel sondaggio, potevamo capire come il risultato del sondaggio avesse potuto suscitare delle accese polemiche. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che il sondaggio rivelava l'esistenza in Europa d'un diffuso antisemitismo che era spesso mascherato da antisionismo. Era vero. In Europa esisteva un diffuso antisemitismo che era spesso mascherato da antisionismo e quello che era più grave tale genere di antisemistismo mascherato da antisionismo era presente anche nella sinistra. Era anche vero, però, che non tutti coloro che criticavano il governo dello stato di Israele per la politica che esso portava avanti nei confronti dei palestinesi erano antisemiti. Inoltre, c'erano anche molti cittadini israeliani che criticavano il governo del loro paese per la sua politica nei confronti dei palestinesi. Dovevano essere considerati anch'essi degli antisemiti? In ogni caso, ciò non significava che la responsabilità per la mancata soluzione della questione palestinese fosse soltanto israeliana. Essa era anche palestinese e, in particolare, era del terrorismo palestinese. Il terrorismo, infatti, era violenza contro civili innocenti, e non aveva alcuna giustificazione. Tantomeno, ne aveva il terrorismo suicida il quale combinava assieme la violenza contro gli altri e la violenza contro di sé. Arrivato all'altezza dei Gesuiti, tagliai per Strada Nuova. Arrivato in Strada Nuova, decisi che era arrivata l'ora di mettere qualcosa sotto i denti e m'infilai in una delle osterie che si trovavano lungo le calli laterali. Sedetti ad un tavolo e chiesi che cos'avessero di buono. La ragazza che serviva ai tavoli mi sciorinò una lunga lista di primi e secondi. Io non avevo, però, voglia di fare un pasto completo, così optai per una coda di rospo ai ferri sperando che la coda di rospo fosse fresca. Non lo dissi perché mi sembrava offensivo, ma la ragazza si preoccupò comunque di rassicurarmi sulla freschezza della coda di rospo, come se m'avesse letto nel pensiero. Ordinai un quarto di vino bianco della casa e mezza minerale. La ragazza andò in cucina con il mio ordine. Io mi accomodai sulla sedia e mi guardai attorno. Io avevo cominciato a frequentare quell'osteria quand'ero studente. Allora, l'osteria era gestita dalla madre dell'attuale proprietario. Erano trascorsi quarant'anni d'allora, ma era come se il tempo non fosse passato. L'arredamento dell'osteria era il medesimo e pure l'odore del cibo era il medesimo. Era cambiata, in compenso, la classificazione del locale. Quando lo frequentavo da studente, era una tradizionale osteria veneziana. Adesso, era nelle guide turistiche di tutto il mondo, simbolo d'una città che aveva cambiato pelle e che ora viveva principalmente di turismo. Arrivò il vino. Arrivò la coda di rospo ai ferri. Mangiai l'una. Sorseggiai l'altro. Mi rinfrescai la bocca con un bicchiere di acqua minerale e chiamai il conto. La ragazza mi chiese se avevo trovato la coda di rospo di mio gradimento. Risposi che non avevo mai mangiato una coda di rospo migliore. La ragazza sorrise di circostanza, come se avesse capito che il mio complimento non era del tutto sincero. Pagai. Uscii dall'osteria e ritornai lentamente in albergo. Salii in camera. Mi spogliai. Afferrai il giornale e mi distesi sul letto. Io pensavo che tutti noi fossimo rimasti colpiti e, per certi versi, anche ammirati dalla risolutezza con la quale il primo ministro britannico, Tony Blair, aveva difeso di fronte all'opinione pubblica britannica la decisione di non lasciare che gli Stati Uniti andassero da soli in Iraq e di inviare in Iraq un ampio contingente di soldati britannici comprendente sia i famosi "Royal Marines" che i non meno famosi "Desert Rats". La decisione di Tony Blair non era una decisione che fosse facile da prendere. L'opinione pubblica britannica era, infatti, profondamente contraria alla guerra. L'Iraq aveva aperto i propri arsenali agli ispettori delle Nazioni Unite. Infine, "last but not least", Francia, Russia e Cina avevano minacciato il ricorso al diritto di veto in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite qualora gli Stati Uniti avessero deciso di presentare una nuova risoluzione nella quale chiedevano esplicitamente un intervento militare delle Nazioni Unite. Malgrado ciò, Tony Blair aveva deciso di seguire gli Stati Uniti in Iraq. Perché? Perché, avrebbe potuto rispondere Sebastiano nel suo libro, Tony Blair era convinto che la guerra contro l'Iraq fosse una "guerra giusta" ed era una "guerra giusta" perché mirava alla diffusione dei valori della libertà, della democrazia e del rule of law e, come aveva affermato in un discorso tenuto a Chicago nel 1999, "if we can establish and spread the values of liberty, the rule of law and an open society, then that was in our interest, too. The spread of our values makes us safer" . Inoltre, avrebbe potuto rispondere Sebastiano, noi non dovevamo dimenticare la formazione religiosa di Tony Blair la quale aveva spinto Tony Blair a sviluppare un proprio "theological thinking" che, con il tempo, aveva finito per condizionare anche la sua visione della politica estera. Come Tony Blair, aveva scritto nella prefazione a una sua antologia di scritti pubblicata nel 1993, "Christianity is a very though religion. It is judgemental. There is right and wrong. There is good and bad"... Tutto ciò era emerso con chiarezza dal discorso che egli aveva tenuto all'ultimo convegno sindacale di Brighton dove aveva riconosciuto che "the evidence about Saddam having actual biological and chemical weapons, as opposed to the capability to develop them, has turned out to be wrong" e che egli si scusava per questo. Ma, aveva aggiunto, "I can't, sincerely at least, apologize for removing Saddam. The world is a better place with Saddam in prison, not in power". D'accordo. Il mondo era migliore con Saddam in prigione che con Saddam al potere. Ma aveva mai pensato Tony Blair alle decine di migliaia di iracheni che erano morti a causa della guerra? Era in grado, Tony Blair, di giustificare quei morti al cospetto dei loro parenti e amici? Io pensavo di no. Io pensavo che la giustiifcazione data di Tony Blair altro non fosse che una versione riveduta e corretta della vecchia ideologia del "fardello dell'uomo bianco". Mi voltai e guardai l'orologio che avevo posato sul comodino. Se volevo essere da mia madre per le sette dovevo sbrigarmi. Prima di andare da mia madre, volevo passare in libreria. Non potevo, infatti, andare da mia madre a "man sgorlando" e avevo pensato di regalarle un libro. Mi alzai. Andai in bagno. Presi una doccia. Ritornai in camera. Mi vestii. Uscii dall'albergo e mi diressi verso una libreria che conoscevo. Arrivato, però, all'imboccatura della calle che da campo San Bartolomeo portava al ponte di Rialto, mi fermai di scatto e strabuzzai gli occhi. La libreria "Il Fontego" non c'era più. Al suo posto, era stato aperto un negozio di specialità veneziane. Sul momento, ero stato tentato di chiedere alla donna che era nel negozio se aveva notizie del titolare della libreria, ma vi avevo rinunciato pensando che, probabilmente, non l'aveva neanche mai conosciuto allo stesso modo che, probabilmente, nemmeno sapeva che in quelle stesse vetrine dov'erano oggi esposte le sue specialità veneziane un tempo esposti dei ponderosi volumi di letteratura, storia, filosofia... Ritornai sui miei passi e mi diressi verso San Luca. Superato ponte del Lovo, tagliai per calle dei Fabbri ed entrai nella libreria che si trovava all'imbocco della calle. Diedi una rapida scorsa ai volumi che erano esposti. Poi, per non sapere né leggere né scrivere, scelsi un romanzo di cui il nostro critico letterario aveva recentemente cantato le lodi. Andai alla cassa. La cassiera mi chiese se volevo una confezione regalo. Risposi di sì. Pagai il libro. Uscii dalla libreria e guardai il cielo. Tirava un leggero vento che minacciava pioggia. Misi il libro sotto il braccio e mi diressi di buon passo verso la casa di mia madre perché non volevo essere sorpreso dalla pioggia lungo la strada. Arrivai a casa di mia madre che cominciavano a cadere le prime grosse gocce di pioggia. mia madre mi ringraziò per il libro. Poi, mi disse che in sala da pranzo avrei trovato vino e bicchieri. mia madre ritornò in cucina. Io andai in sala da pranzo. Aprii la bottiglia di vino che era sulla tavola da pranzo. Riempii due bicchieri di vino e raggiunsi mia madre in cucina. "Non pensare che abbia preparato chissà che cosa", disse mia madre. "T'ho preso in parola. Spaghetti pomodoro e basilico. Mozzarella di bufala e insalata mista". Porsi a mia madre il bicchiere che avevo riempito per lei. Brindammo alla nostra salute. Poi, chiesi a mia madre se la disturbava che accendessi il televisore per vedere il telegiornale. "Fai quello che vuoi", rispose mia madre. "Io ti raggiungerò fra cinque minuti". mia madre fu di parola. Non erano neanche trascorsi cinque minuti che entrò in sala da pranzo con una terrina di spaghetti al pomodoro e basilico. "Il basilico è della casa", disse mia madre. "Lo coltivo in terrazza". Mia madre posò la terrina al centro della tavola. Io spensi il televisore e sedetti. mia madre m'invitò a passarle il mio piatto e lo riempì. "Non dirmi che sono troppi perché so che tu li mangi", disse mia madre. Afferrai il piatto e lo posai davanti a me. Afferrai il tovagliolo e lo posai sulle mie ginocchia. Aspettai che mia madre si sedesse e cominciammo a mangiare cominciammo a mangiare in silenzio. mia madre aveva capito che non ero in vena di chiacchierare e rimase zitta anche se, per lei, si trattava d'un sacrificio. In compenso, trovò il modo di rifarsi dopo cena, quando dalla sala da pranzo ci trasferimmo nel suo salottino. A me sarebbe piaciuto chiedere a mia madre di Basilio, ma pensai che fosse meglio che lasciassi che fosse lei a parlarmene. mia madre mi parlò dei propri acciacchi e delle sua preoccupazioni per Valeria. Gli anni, notò mia madre, passavano anche per lei, ma lei sembrava non voler mettere le testa a partito. Continuava a fare di testa sua anche se, così facendo rischiava di restare al palo. Io fui tentato di ribattere a mia madre che i tempi erano cambiati ed erano pure cambiati i concetti di famiglia e di matrimonio. Io rimasi ad ascoltare mia madre in silenzio perché non avevo voglia di impelagarmi in una discussione che non avrebbe portato da nessuna parte. Mia madre aveva le sue idee e non spettava a me fargliele cambiare. Mia madre non mi parlò, invece, di Basilio. Ciò poteva significare due cose: o che mia madre non aveva nulla da dirmi di Basilio, oppure, che non sapeva come dirmelo perché sapeva che Basilio non m'era mai piaciuto. Ad un certo punto, guardai l'orologio. L'orologio segnava le dieci. Mi alzai e dissi a mia madre che pensavo fosse arrivato il momento di togliere il disturbo. Mia madre mi accompagnò alla porta e mi chiese se volevo un ombrello. Accettai la sua offerta. Presi l'ombrello. Salutai mia madre. La ringraziai per la cena e uscii dalla casa di mia madre. Discesi lentamente le scale. Attraversai il vasto androne del palazzo dove abitava mia madre. Aprii il portone e uscii dal palazzo. Chiusi il portone e ritornai lentamente in albergo sotto una leggera pioggia che rendeva l'aria ancora più afosa e irrespirabile. Arrivato in albergo, salii in camera. Mi spogliai. Andai in bagno. Presi la mia consueta pastiglia serale contro l'ipertensione. Tornai in camera. Accesi il televisore per sentire le ultime notizie. Era normale che il presidente degli Stati Uniti dichiarasse apertamente la propria fede religiosa. Non era normale, invece, che un presidente esibisse la propria fede religiosa come faceva George W. Bush, al punto da indurre qualche suo critico a affibbiargli il "nickname" di "the President of God and Evil". La religione, infatti, era stata spesso usata, nel corso dei secoli, come mezzo della politica e, ogni volta che era accaduta una cosa del genere, essa aveva avuto conseguenze negative sia sulla politica che sulla religione. Inoltre, per usare un'espressione di moda, George W. Bush non era un "born-again Christian" qualsiasi. George W. Bush era il presidente degli Stati Uniti. Ciò significava che egli era l'uomo più ricco e potente della Terra e il senso comune voleva che la ricchezza e il potere mal s'accordassero con la fede religiosa d'una persona. Sebastiano avvrebbe potuto ribattere che la fede religiosa d'una persona non aveva nulla da vedere con la sua ricchezza e il suo potere. La fede religiosa era, infatti, un dono di Dio ed esso era elargito a chiunque fosse pronto a riceverlo, si trattasse di una persona ricca o povera, umile o potente come il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. Inoltre non dovevamo dimenticare che la religione aveva sempre svolto un ruolo importante nella società americana. Era vero. La fede religiosa era un dono di Dio ed esso era elargito a chiunque fosse pronto a riceverlo. Era anche vero, però, che una cosa era la fede religiosa d'una persona si trattasse d'una persona comune oppure del presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. Un'altra cosa era, come aveva osservato ironicamente il teologo americano Martin Marty di Chicago, "the president's evident convinction that he's doing God's will". Allo stesso modo, era vero che la religione aveva svolto sempre un ruolo importante nella politica americana. Già Tocqueville aveva notato, infatti, la civiltà angloamericana era il prodotto di due elementi perfettemente distinti che altrove s'erano spesso combattuti, ma che in America s'erano incorporati uno nell'altro e "combinati meravigliosamente": lo "spirito di libertà" e lo "spirito di religione". Era anche vero, però, che, prima, l'avvento al potere dei neocons, poi, l'11 settembre, avevano portato a una politicizzazione crescente della religione che, da un lato, aveva trasformato la politica estera americana in una crociata del bene contro il male, dall'altro lato, aveva trasformato la democrazia americana in quella che Kevin Phillips aveva chiamato "American theocracy". Mi alzai. Spensi il televisore. Ritornai a letto e scivolai lentamente nel sonno. Mi svegliai di buon'ora. Rimasi ancora un po' a letto a pensare a quello che mia madre m'aveva detto di Valeria. Poi, mi alzai, andai in bagno. Feci una doccia. Ritornai in camera. Presi la mia consueta pastiglia mattutina contro l'ipertensione. Mi vestii e uscii dall'albergo. Il tempo volgeva al nuvoloso e pensai che, forse, avrei fatto meglio e prendere su l'ombrello che m'era stato prestato da mia madre la sera precedente. Io non avevo, però, alcuna voglia di rientrare in albergo per prendere l'ombrello. Così, decisi di sfidare la sorte. Mi avviai verso la vicina edicola. Comperai il giornale. Sedetti ad un tavolino del bar che era vicino all'edicola. Venne il cameriere. Ordinai un capuccino. Il cameriere rientrò nel bar e uscì qualche minuto dopo reggendo un vassoio con il mio capuccino. Posò il capuccino sul tavolino. Gli chiesi quanto gli dovevo. Pagai. Intascai il resto. Il cameriere rientrò nel bar. Afferrai la tazza che conteneva il capuccino e la portai lentamente alla bocca come temessi di scottarmi. Trassi un piccolo sorso d'assaggio e decisi di lasciarlo raffreddare un po'. Mi lasciai cadere all'indietro sulla sedia. Allungai le gambe sotto il tavolino. Afferrai il giornale e cominciai a sfogliarlo. "Uno degli scopi di questo libro è quello di dimostrare che la concezione democratica della società, della politica, dello stato è sbagliata e che la concezione marxista è, comunque, la più importante alternativa", aveva scritto il politologo britannico Ralph Miliband nella prefazione del saggio "Lo stato nella società capitalistica". Il saggio di Ralph Miliband risaliva al 1968. Il "mondo occidentale" era, allora, scosso dalla cosiddetta "rivolta degli studenti". In Cecoslovacchia, Alexander Dubcek e compagni avevano dato vita a quella che sarebbe passata alla storia come la "Primavera di Praga". In Vietnam, il più potente esercito del mondo era messo alle corde dai "musi gialli" di Giap. La Cina Popolare era travolta dalla Rivoluzione Culturale e perfino nella Chiesa Cattolica tirava aria di rinnovamento. Erano passati molti anni d'allora. Alexander Dubcek e compagni erano scomparsi nel nulla. Era caduto il Muro di Berlino. Era crollata l'Unione Sovietica. Era finita la Guerra fredda. La Cina aveva imboccato, seppure tra molte contraddizioni, la via del capitalismo. La parola "marxismo" era caduta in disuso. Non parlavamo più di "capitalismo" e di "classi sociali". Parlavamo, invece, di "economia di mercato" e di "ceti sociali". La "classe operaia", sulla quale era basata la concezione marxista dello stato alla quale Ralph Miliband si riferiva nel suo saggio del 1968, aveva visto diminuire in modo drammatico il numero dei propri componenti, mentre era aumentato, per contro, in modo sempre più marcato, il numero dei componenenti dei cosiddetti "ceti medi produttivi". Era cresciuta la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e, ormai, parlavamo, usando un termine mutuato dalla "teoria dei giochi", di "società a somma zero". Che cosa voleva dire? Vuol dire che la società nella quale vivevamo era paragonabile a una casa da gioco e, come in una casa da gioco c'era chi vinceva e chi perdeva, così, nella società in cui vivevamo, c'era chi vinceva e chi perdeva e chi perdeva doveva accettare la perdita perché essa faceva parte del gioco. Nessuno di coloro i quali avevano organizzato il gioco aveva mai chiesto, però, a qualcuno di noi se egli volesse partecipare al gioco, ma ciascuno di noi s'era trovato invischiato in esso per l'unica ragione d'essere venuto al mondo. Potevamo, perciò, dire che questa società non ci piaceva? Potevamo dire che rifiutavamo di partecipare a un gioco nel quale le carte sono truccate? Se, come John Rawls sosteneva nel suo ultimo libro, giustizia significa equità, quale "fairness", ovvero, quale equità, poteva mai esistere in una società nella quale la possibilità di vincere al gioco non dipendeva, come avrebbe doovuto essere in una società autenticamente "liberale", dalle capacità dei singoli individui, ma dipendeva, principalmente, dalla classe sociale alla quale appartiene la loro famiglia, dal loro sesso, dalla loro appartenenza etnica? Occorreva cambiare le regole del gioco. Occorreva creare una società giusta. Occorreva creare, cioè, una società nella quale i singoli individui fossero posti nella condizione di poter trasformare effettivamente i loro "diritti" in "capacità" e nella quale le risorse fossero utilizzate per lo sviluppo della società nel suo complesso e non fossero utilizzate, invece, per arricchire una parte di essa e impoverire l'altra parte di essa formata da anziani, donne e giovani, come continuava a succedere anche nei cosiddetti "paesi avanzati". Improvvisamente, avvolto da un frullìo d'ali, un piccione venne a posarsi sul mio tavolino. Guardai il piccione. Guardai la tazza contenente il capuccino e pensai che, forse, era meglio che mi sbrigassi a bere il mio capuccino prima che il piccione intingesse il suo becco nella tazza. Mi sollevai leggermente sulla sedia. Afferrai la tazza. Portai lentamente la tazza alla bocca. Terminai di bere il capuccino. Deposi la tazza sul tavolino e ripresi a sfogliare il giornale. Io pensavo che ciascuno di noi davanti alle fotografie dei prigionieri iracheni torturati dai soldati americani nel carcere di Abu Ghraib, non avesse potuto fare a meno di chiedersi come fosse possibile che il Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, fosse ancora la suo posto. Come la pubblicazione da parte del "New York Times" dei "confidential memos" redatti dagli esperti legali dell'amministrazione Bush aveva dimostrato, le torture inflitte dai soldati americani ai prigionieri iracheni detenuti nel carcere di Abu Ghraib non erano state, infatti, opera di alcune "rotten apples", come il governo americano aveva sostenuto, e non erano nemmeno attribuibili soltanto a "lack of discipline, no training whatsoever and no supervision" da parte della direzione del carcere, come aveva affermato il generale Antonio Taguba nel rapporto steso per conto del Pentagono Le torture inflitte dai soldati americani ai prigionieri iracheni detenuti nel carcere di Abu Ghraib facevano parte d'un piano elaborato dall'amminitstrazione Bush con la collaborazione della direzione del carcere di Abu Ghraib, il quale aveva lo scopo di distruggere la dignità individuale e la coscienza morale dei prigionieri iracheni che erano detenuti nel carcere di Abu Ghraib. La causa di tutto non stava soltanto, come aveva affermato Seymour Hersh, il famoso reporter del "New Yorker" che aveva portato alla luce il massacro di My Lai, nella fiducia riposta da George Bush e Donald Rumsfeld in "secret operations, the use of coercition and eye-for-eye retribution in fighting terrorism". La causa di tutto ciò stava anche, come aveva scritto due noti giuristi americani, Robert Keohane e Anne-Marie Slaughter, in una errata idea che l'America aveva di se stessa. Secondo questa errata idea che l'America aveva di se stessa, gli americani erano "innately good people" i quali, "guided by religious faith", credevano nei valori della tolleranza, del rispetto per gli altri. La bontà della missione americana in Iraq era "self-evident" e chi combatteva contro l'America non meritava "the protection of international law". La conseguenza di questa idea sbagliata che l'America aveva di se stessa era stata, come aveva scritto Karen Greenberg, che chiunque leggesse i documenti relativi a Abu Ghraib, non poteva non avvertire la presenza in essi di "a clear sense of the systematic decision to alter the use of methods of coercition and torture". Malgrado ciò, nessun membro della "catena di comando" era stato stato incriminato dalle autorità militari e il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld era ancora al posto di comando! Guardai il tavolino sul quale avevo posato la tazza vuota. Il piccione che, fino a quel momento era rimasto tranquillo a guardarmi, aprì le le ali e spiccò il volo. Io pensai che era giunto anche per me il tempo di togliere le tende. Mi alzai e mi diressi verso San Marco. Arrivato nei pressi della piazza, mi fermai di botto, come fossi stato colto da un pensiero improvviso. Mi voltai. Entrai nel negozio di fiori davanti al quale m'ero fermato. La commessa era alle prese con una cliente. Io mi tenni a distanza adeguata e mi guardai attorno come se cercassi l'ispirazione. La cliente uscì. La commessa si volse verso di me e mi chiese in che cosa poteva essermi utile. Le risposi che cercavo dei fiori da mandare a una signora che aveva recentemente subito una grave perdita. La commessa si guardò attorno e m'indicò dei fiori che erano alle mie spalle. Mi voltai. Guardai i fiori che la commessa m'aveva indicato e decisi di fidarmi di lei. Mi voltai. Guardai la commessa e le dissi che avevo deciso di seguire il suo consiglio. La commessa sorrise e mi chiese quanti fiori volevo comperare. Poi, visto il mio imbarazzo, propose un numero. Dissi alla commessa che, per me, andava bene. La commessa mi porse una busta contenente un biglietto. Afferrai la busta. Estrassi il biglietto. Scrissi velocemente due righe d'occasione. Infilai il biglietto nella busta. Scrissi nome e indirizzo sulla busta e porsi la busta alla commessa. Pagai. Salutai. Uscii dal negozio di fiori e mi diressi verso la piazza. Attraversai la piazza già brulicante di turisti e mi diressi verso il ponte della Paglia. Superai il ponte e proseguii lungo la riva degli Schiavoni. Le agenzie di stampa non avevano ancora finito di battere la notizia dell'annuncio dell'arrivo in Italia del presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, per la celebrazione del sessantesimo anniversario della liberazione di Roma durante la Seconda Guerra Mondiale che era già scoppiato un coro di polemiche dentro e fuori il palazzo della politica sul modo in cui accogliere il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. C'erano i cosiddetti "no global" i quali avevano annunciato che avrebbero accolto il "criminale di guerra", George W. Bush, con una manifestazione di protesta. C'erano quelli del governo i quali avevano annunciato che il governo non avrebbe tollerato alcun atto di violenza. C'erano quelli della "sinistra alternativa" che avevano annunciato che essi avrebbero partecipato alla manifestazione dei "no global", ma che essi si dissociavano da eventuali violenze commesse dagli stessi "no global". Infine, c'erano quelli della "sinistra di governo", i quali, presi fra l'incudine della lotta contro la guerra in Iraq e il martello della necessità di non bruciare il proprio futuro politico come "forza di governo", avevano annunciato la loro decisione di partecipare alla manifestazione di protesta indetta dai "no global", ma avevano teso a chiarire che la loro decisione non doveva essere considerata in nessun modo una dimostrazione di anti-americanismo. Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, era arrivato. Aveva presenziato alla cerimonia organizzata per la celebrazione del sessantesimo anniversario della liberazione di Roma. S'era incontrato in Vaticano con papa Giovanni Paolo II, il quale lo aveva criticato per la guerra in Iraq. Aveva trascorso la notte nell'ambasciata americana a Roma, il mattino successivo, era partito per la Francia, dove, il giorno appresso, ha presenziato alla celebrazione del sessantesimo anniversario dello sbarco alleato in Normandia assieme a Tony Blair e Jacques Chirac. Durante la manifestazione di protesta contro la venuta in Italia di George W. Bush organizzata dai "no global" erano avvenuti alcuni episodi di violenza che, però, erano stati facilmente contenuti dalla polizia. Dalle file dei COBAS erano stati gridati alcuni slogans demenziali che inneggianti alla strage di Nassyria dov'erano sono morti 17 militari italiani e due civili iracheni e, alla fine, tutto era ritornato come prima. Ora, che cosa potevamo dire di tutto ciò? La prima cosa era che George W. Bush non era l'America. George W. Bush era il presidente degli Stati Uniti d'America e criticare George W. Bush per la guerra contro l'Iraq non significava esprimere necessariamente un giudizio negativo sul popolo americano. Non occorreva essere un genio della politica per capire una cosa del genere, tant'è vero che essa era stata capita dallo stesso George W. Bush, il quale aveva riconosciuto a chi era contrario alla guerra in Iraq il diritto di manifestare il proprio dissenso. La seconda cosa era che la vicenda aveva portato alla luce alcuni atteggiamenti sbagliati nei confronti dell'America che sono tipici della cultura politica italiana. A dire: l'atteggiamento di quelli che criticavano l'America perché era l'America; l'atteggiamento di quelli che sostenevano l'America perché era; infine, l'atteggiamento di quelli, come i rappresentanti della "sinistra di governo" i quale non sapevano mai che pesci pigliare. Il motivo per il quale questi atteggiamenti erano sbagliati era semplice. L'America non era un'entità omogenea e compatta, com'era l'Unione Sovietica, ma era una realtà molto complessa sia dal punto di vista etnico, religioso, sociale, come Sam Roberts aveva dimostrato nel suo ultimo libro, che dal punto di vista politico e culturale. C'era, infatti, l'America di Richard Perle, "the Prince of Darkness" del Pentagono, e di David Frum, "former speechwriter" del presidente George W. Bush e inventore della famosa espressione "axis of evil", secondo i quali, come essi scrivevano nel loro ultimo libro, "when it is in our power and our interest, we should toss ditactors aside with no more compunction than a police sharpshooter when he downs a hostage-taker". E c'era l'America di Noam Chomsky, il "grande vecchio" della "sinistra americana", il quale vedeva nell'egemonismo americano non solo una minaccia per la pace, ma anche una minaccia per la sopravvivenza di quegli stessi "valori americani" di libertà, uguaglianza e democrazia che i "Vulcani" dell'amministrazione Bush affermavano di voler difendere usando lo strumento della guerra. C'era l'America che Simon Schama aveva chiamato "Godly America" - l'America dei creazionisti, degli evangelici e dei "born-again Christians" - e c'era l'America che egli aveva chiamato "Wordly America" - l'America liberale, pragmatica, razionale di John F. Kerry. Arrivato all'altezza della Pietà, tagliai verso l'interno. Superai ponte dei Greci e ritornai lentamente verso San Marco. Tagliai per Bacino Orseolo. Superai il ponte della Piavola. Sedetti ad un tavolino all'aperto del vicino bar e ordinai una birra. Le nuvole s'erano diradate e un raggio di sole venne a colpire la punta delle mie scarpe. Guardai le mie scarpe e pensai a tutte le volte che Barbara m'aveva chiesto che cosa aspettassi a gettarle nella pattumiera. Io, però, non l'avevo mai ascoltata. Non m'era mai piaciuto, infatti, gettare via la roba quando potevo ancora usarla sia che si trattasse di capi di abbigliamento come le scarpe che indossavo che di oggetti di lavoro come il computer, oppure, il cellphone. Perché avrei dovuto gettare nella pattumiera il mio vecchio computer, oppure, il mio cellphone, quando essi erano ancora in grado di svolgere onorevolmente la loro funzione? Ovviamente, non ero tanto sciocco da non rendermi conto che, se tutti si fossero comportati come me, ciò avrebbe avuto delle conseguenze negative sulla nostra economia la quale, com'era noto, si fondava sulla crescita continua dei consumi la quale poteva essere realizzata solo mediante l'introduzione sul mercato di sempre nuovi prodotti che mettevano fuori mercato i prodotti già esistenti. Io, però, ero fatto così e non m'ero mai preoccupato di quello che facevano gli altri. Io avevo sempre pensato che gli oggetti dovevano essere per noi e non che noi dovevamo essere per gli oggetti. Arrivò la birra. Pagai la birra. La cameriera rientrò nel bar. Allungai le gambe sotto il tavolino e guardai il bicchiere di birra che era posato sul tavolino. Allungai la mano. Afferrai il bicchiere di birra. Portai lentamente alla bocca. Trassi un lungo sorso ristoratore. Posai il bicchiere di birra sul tavolino e riassunsi la posizione precedente. "Western societies provide enormous freedoms to people living in them. Terrorists use these freedoms to hide. Now we have to find them. This means, as Tony Blair said last week, measures such as national identity cards and biometric indentification systems", aveva scritto, il direttore di "Newsweek", Fareed Zakaria. "It also means much deeper cooperation between law-enforcement and intelligence agencies. People with known connections to terrorists should be picked up, at least for detailed questioning, if not detention. We need pre-emption, but against individuals more than states" Che dire? La prima cosa da dire era che non si trattava d'un problema nuovo. Le nostre "lawenforcement and intelligence agencies" avevano dovuto occuparsi del terrorismo sin dagli Anni di Piombo. Esso, però, non era stato ancora risolto, benché in Italia, diversamente da Stati Uniti e Gran Bretagna, esistessero già le carte di identità e esistesse una collaudata cooperazione fra forze di polizia, servizi di intelligence e magistratura. Nessuna misura di sicurezza poteva, infatti, impedire a un terrorista di sparare su un cittadino inerme o poteva impedirgli di mettere una bomba su un treno. La seconda cosa da dire era che non potevamo trasformare, in nome della lotta contro il terrorismo, le nostre città in prigioni all'aria aperta in cui erano rinchiusi, senza alcuna distinzione, pericolosi terroristi e semplici oppositori politici, "fellons" e "angry people". Se era vero, infatti, che il terrorismo era un fenomeno odioso e andava combattuto con ogni mezzo, era altrettanto vero, come aveva scritto "The Economist", che "some actions, however, are worse than inaction" e che "if every act of terrorism is met by tightening of security and a concomitant loss of freedom, governments will be giving terrorists an automatic victory with every new outrage". La terza cosa che potevamo dire era che noi non avevamo solo bisogno di "pre-emption" contro gli individui. Avevamo bisogno anche di "pre-emption" contro gli stati che sostenevano il terrorismo internazionale e tale genere di "pre-emption", come l'esperienza aveva dimostrato, era molto più difficile da realizzare di quello contro gli individui. Guardai l'orologio e pensai che era arrivata l'ora di mettere qualcosa sotto i denti. Prima, però, dovevo fare un'altra cosa. Marcello m'avrebbe certamente rimproverato di non essermi fatto vivo con lui se avesse saputo che ero venuto a Venezia. Estrassi di tasca il mio cellphone e telefonai a Marcello. Marcello m'invitò immediatamente a cena a casa sua. Ribattei a Marcello che accettavo volentieri il suo invito a cena, purché esso non si trasformasse in un peso per Giovanna. "Nessun peso", assicurò Marcello. "Anzi, Giovanna sarà felice di vederti dopo tanto tempo. Ti va bene alle sette? Cosi avremo il tempo di fare due chiacchiere prima di cena". Risposi a Marcello che le sette andavano bene. Salutai Marcello. Chiusi la comunicazione e misi il cellphone in tasca. Mi alzai e presi per Rialto. Arrivato a Rialto, entrai in una rosticceria che conoscevo e presi una porzione di baccalà, metà mantecato e metà alla capuccina. Il banconiere mi chiese se volevo anche della polenta. Perché no? Il banconiere corredò il piatto con due fette di polenta gialla. Pagai. Afferrai il piatto e le posate. Sedetti a un tavolino e mangiai il baccalà con la polenta. Mi sciacquai la bocca con un bicchiere di acqua minerale. Io non riuscivo a bere vino con il baccalà mantecato. Mi alzai. Restituì il piatto e le posate. Uscii dalla rosticceria e ritornai in albergo. Salii in camera. Mi spogliai. Accesi il televisore e mi distesi sul letto a sentire le ultime notizie. Io non ero un "americanologo" e poteva darsi, perciò, che mi stessi sbagliando. Io pensavo, però, che fosse poche volte, nella storia delle elezioni presidenziali americane, che un candidato alla presidenza fosse salito sul palco della convezione del proprio partito e si fosse presentato ai delegati che affollavano la sala facendo il saluto militare e pronunciando la frase militare di rito come aveva fatto a Boston il senatore John F. Kerry: "I'm John Kerry and I'm reporting for duty". Ovviamente, anche se non ero un "americanologo", non ero tanto sciocco da non comprendere le ragioni che potevano avere indotto il senatore John F. Kerry a presentarsi in quel modo ai delegati del proprio partito. L'America era in guerra. John F. Kerry era un eroe della guerra del Vietnam e non mi meravigliavo, perciò, che egli cercasse di sfruttare le medaglie conquistate in Vietnam per conquistare il consenso degli elettori in un momento nel quale l'America era nuovamente in guerra. Non potevo, tuttavia, negare che, come "sessantottino-non-pentito", m'aveva fatto una certa impressione vedere il senatore John F. Kerry sfoggiare le medaglie conquistate in Vietnam. La guerra del Vietnam rappresentava, infatti, una delle pagine più controverse della storia americana ed era costata la vita di migliaia di giovani americani i quali non eranoo morti per difendere il loro paese da un'aggressione nemica, ma erano morti, invece, per difendere gli interessi del "complesso militareindustriale" americano. Per il resto che dire? Il senatore John F. Kerry aveva affermato in un'intervista concessa recentemente all'emittente televisiva ABC che, se fosse stato eletto, egli avrebbe cercato di ricucire lo strappo che la decisione di George W. Bush di "andare da solo" in Iraq aveva creato nel "sistema delle relazioni internazionali" e avrebbe cercato di portare in Iraq anche quegli stati, i quali, un tempo alleati degli Stati Uniti, s'erano rifiutati di seguire George W. Bush in Iraq. La proposta di John F. Kerry era suggestiva. In realtà, essa mistificava, ancora una volta, l'origine della guerra contro l'Iraq che non era stata dettata dalla necessità di difendere gli Stati Uniti da un'imminente aggressione irachena, ma dal desiderio della Casa Bianca di soddisfare gli interessi del "complesso miltare-industriale" americano e non credo che Francia e Germania, le quali rifiutarono di seguire gli Stati Uniti in Iraq, accetteranno di prendere sulle proprie spalle l'onere di aiutare il "complesso militare-industriale" americano a soddisfare i propri interessi. Sebastiano avrebbe potuto ribattere che mi ripetevo. Poteva darsi che ripetessi. Ciò non cambiava, però, la realtà dei fatti. Per rendersi conto di questo fatto era sufficiente leggere l'ultimo il bilancio presentato dall'ammistrazione Bush e compare spese militari e spese civili. Mi voltai. Guardai l'orologio che avevo posato sul comodino e pensai che era arrivato il momento di alzarmi. Mi alzai e mi preparai per uscire. Giunto, però, sulla soglia della mia stanza d'albergo, mi fermai. Ritornai sui miei passi. Estrassi di tasca il mio portafoglio. Estrasssi dal portafoglio un biglietto con il numero di telefono d'un ristorante alla moda. Composi il numero di telefono del ristorante sul mio cellphone e prenotai un tavolo per due per sabato sera. Ringraziai. Chiusi la comunicazione e misi il cellphone in tasca. Ero sicuro che a Maddalena sarebbe piaciuto il ristorante al quale avevo telefonato per prenotare un tavolo per due. I miei gusti, invece, erano sempre stati molto semplici e avrei dato non so che cosa per riuscire a mangiare un piatto di "risi e bisi" come li faceva mia nonna, ma non m'era mai riuscito di farlo. Mia nonna avrebbe detto che era colpa dei piselli che non erano più come quelli d'una volta. Per me, si trattava d'una questione di mano. Rimisi il biglietto nel portafoglio. Infilai il portafoglio in tasca e uscii dalla mia stanza. Discesi lentamente le scale. Consegnai le chiavi al portiere. Uscii dall'albergo e mi diressi lentamente, cercando di sudare il meno possibile, verso San Polo dove abitava Marcello. Prima d'arrivare a casa di Marcello, mi fermai in una pasticceria che conoscevo e comperai un dolce. Marcello era sempre stato molto goloso ed ero sicuro che avrebbe gradito il dolce che avevo comperato. Arrivai a casa di Marcello in perfetto orario. Consegnai la torta a Giovanna che ritornò immediatamente in cucina. Marcello mi accompagnò in sala da pranzo e mi offrì un aperitivo, in attesa che Giovanna, terminato il lavoro ai fornelli, si aggregasse a noi. La cena corse via tranquilla tra un discorso e l'altro. Sia Marcello che Giovanna possedevano, infatti, il dono della superficialità e ciò faceva di Marcello e Giovanna degli interlocutori ideali per chi, come me, non era andato a casa loro per fare dei discorsi impegnati. Rimasi a casa di Marcello fin verso le undici di sera. Poi, mi alzai e dissi ai miei miei amici che mi sembrava che fosse arrivato il momento di togliere il disturbo. Marcello m'invitò a rimanere. Era tanto tempo che non ci vedevamo e avevamo ancora molte cose delle quali parlare. Io ringraziai Marcello, ma rimasi della mia opinione. Marcello si arrese e mi lasciò andare, non senza avermi prima fatto promettere che avrei trovato il modo di trascorrere l'ultimo dell'anno con loro nella loro casa di montagna. Ringraziai Marcello per l'invito. Elogiai Giovanna per la cena. Giovanna disse che mi ringraziava del complimento, ma che era stata una cena improvvisata e che se l'avesse saputo prima... Io ribattei che, anche se improvvisata, era stata una cena perfetta. Uscii dalla casa di Marcello e ritornai lentamente in albergo. Salii nella mia stanza. Mi spogliai. Andai in bagno. Presi la mia consueta pastiglia serale contro l'ipertensione e accesi il televisore per sentire le ultime notizie. "La nazione è un'anima, un principio spirituale", aveva affermato Ernest Renan nelle lezioni che egli aveva tenuto alla Sorbona nel 1882. "Due cose che sono una cosa sola, costituiscono quest'anima e questo principio spirituale; una è nel passato, l'altra nel presente. Una è il comune possesso di una ricca eredità di ricordi, l'altra è il desiderio di vivere assieme. La nazione, dunque, è una grande solidarietà costituita dal sentimento dei sacrifci compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere assieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile, il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere assieme". Molti anni erano trascorsi d'allora. Essi non avevano tolto, però, alle parole di Ernest Renan la loro forza di suggestione e potevo capire come esse potessero eccitare ancora gli animi di molti nostri contemporanei. Malgrado ciò, non potevo fare a meno di chiedermi fino a quale punto fosse lecito spingerci per realizzzare il desiderio di vivere insieme di cui Ernest Renan parlava nelle sue lezioni alla Sorbona. Fino a quale punto 'una ricca eredità di ricordi' e il 'desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere assieme' potessero giustificare il ricorso alla violenza. La storia, infatti, aveva diffuso i diversi popoli sulla superficie della Terra in modo molto diverso dal modo in cui essa aveva disegnato i confini fra gli stati. Ciò significava che nessuno degli stati oggi esistenti poteva essere considerato come uno stato autenticamente "nazionale", ma ogni stato era, necessariamente, uno "stato plurinazionale" il quale conteneva al proprio interno diversi popoli i quali parlavano spesso delle lingue differenti, avevano delle tradizioni differenti e spesso professavano anche delle religioni differenti. La conseguenza di tutto ciò era che, se noi avessimo applicato coerentemente il "diritto all'autodeterminazione", avremmo finito inevitabilmente per distruggere tutti gli stati esistenti e avremmo finito per creare, al loro posto, una miriade di nuovi stati con le conseguenze che possiamo immaginare che ciò avrebbe sull'assetto delle relazioni internazionali e sulla loro capacità di sopravvivenza. Che fare? Dovevamo imparare a vivere insieme nel rispetto della reciproca diversità. In altre parole, dovevamo evitare due errori: l'errore di voler eliminare le differenze esistenti fra le diverse nazioni in nome dell'unità superiore dello stato e l'errore di eliminare l'unità dello stato in nome della salvaguardia delle differenze fra le diverse nazioni, ma avremmo dovuto cercare, invece, di conciliare entrambe le necessità: la necessità di preservare l'unità dello stato e la necessità di salvaguardare le differenze fra le diverse nazioni. Il compito non era facile. Come Amy Chua aveva dimostrato, infatti, nel suo libro "World on Fire", il processo di sviluppo era, per sua natura, un processo contradditorio che poteva favorire lo sviluppo economico e sociale d'una componente nazionale a scapito dello sviluppo economico e sociale di un'altra componente nazionale, allo stesso modo che poteva favorire lo sviluppo economico e sociale d'una regione a scapito dello sviluppo economico e sociale di un'altra regione, e questo fatto poteva causare un inasprimento dei conflitti già esistenti fra le diverse componenti nazionali e religiose presenti in una società e fra le diverse regioni che compongono uno stato. Malgrado ciò, essa era l'unica via percorribile. Come Joanna McGeary aveva ricodato in un articolo pubblicato al tempo del dibattito sul Kosovo, era stato proprio Robert Lansing, segretario di stato del presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, amava, infatti, dire: "Selfdetermination is bound to be the basis for impossibile demands and create trouble in many lands. What a calamity that phrase was ever uttered". Il telegiornale era finito.Mi alzai. Spensi il televisore. Ritornai a letto e, dopo un po', mi addormentai. Mi svegliai che albeggiava. Mi alzai. Andai in bagno. Ritornai a letto e cercai di addormentarmi nuovamente, ma non ci riuscii. Evidentemente, avevo dormito abbastanza. Mi voltai. Mi distesi supino e chiusi gli occhi come se volessi liberare la mia mente da qualcosa l'opprimeva. Nel 1968, quando corsi a Parigi a "vedere" la rivoluzione che i miei coetanei avevano messo in scena in riva alla Senna, avevo ventidue anni, pesavo settanta chili, avevo i capelli biondi e la barba rossa. Nel 1989, quand'era caduto il Muro di Berlino, avevo quarantatre anni. Pesavo ottanta chili. I miei capelli erano diventati di colore biondo sporco e la mia barba aveva cominciato a macularsi di bianco. Non ero andato a Berlino a veder cadere il Muro come aveva fatto il protagonista di "Black Dogs", ma ero rimasto a casa e avevo visto cadere il Muro di Berlino in televisione, come il protagonista di "Proofs" di George Steiner. Ero, infatti, reduce da una brutta influenza fuori stagione. Inoltre, anche senza essere un indovino, sapevo già come sarebbe andata a finire. Era evidente, infatti, che la caduta del Muro di Berlino avrebbe spinto i russi a chiedere "tutto e subito". I russi non erano pronti, però, a avere "tutto e subito", come, nel 1917, essi non erano pronti ad instaurare il socialismo, come lo stesso Lenin era stato costretto a riconoscere sul letto di morte, e avrebbero finito per perdere anche quello che essi avevano ottenuto grazie alla "perestroika" di Michail Gorbačëv. Avevo scritto quello che pensavo. Qualche compagno di partito m'aveva accusato d'essere rimasto legato al passato. Non era vero. Non ero mai stato uno stalinista e non provavo nostalgia per il passato. La storia, comunque, m'aeva dato ragione. Michail Gorbačëv era caduto a seguito d'un "golpe" militare abilmente sfruttato dai suoi avversari politici. Al potere, era salito Boris El'cin e, per la Russia, era stato l'inizio della fine. Mai alla Russia era accaduto di cadere così in basso dal punto di vista politico, come le era accaduto durante il periodo in cui il potere era stato tenuto da Boris El'cin. Mai la corruzione era stata così diffusa. Mai la differenza nella distribuzione del reddito fra la sua popolazione era stata così ampia. Mai la criminalità organizzata aveva avuto tanto potere. Mai la distanza fra masse e potere era stata così grande. Mai l'indifferenza del potere nei confronti della condizione di vita delle masse russe era stata così evidente. Boris El'cin era caduto, vittima sia dell'alcol che dei propri errori politici. Il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, aveva scritto per "Time" un "coccodrillo" nel quale, dopo aver ricordato la sua ultima conversazione telefonica con Boris Eltsin nella quale "Yeltsin conveyed a mixture of relief that a tough choice was behind him and confidence that it was the right choice for his country", egli affermava che "Yeltsin has been brave, visionary and forthright, and he has earned the right to be called the father of Russian democracy". Al potere, ora, c'era Vladimir Putin. Di Vladimir Putin sapevamo poco o nulla, a parte il fatto che egli proveniva dal KGB e che era stato lo stesso Boris Eltsin a designarlo come proprio successore. Per quello che riguardava il resto, quello che sappevamo era che Vladimir Putin sembrava essere riuscito a porre un freno al potere degli "oligarchi", a ridare dignità allo stato russo e, cosa non meno importante, a favorire la ripresa dell'economia russa. Nello stesso tempo, però, la sua ascesa al potere non aveva certamente favorito lo sviluppo della democrazia in Russia, come la sua recente decisione di introdurre un'ampia riforma nel "sistema di governo" al fine di rafforzare il potere del governo centrale a scapito del potere del parlamento e delle regioni dimostra e ciò non è certamente di buon auspicio per il futuro. La storia aveva dimostrato, infatti, che il capitalismo poteva coesistere sia con strutture politiche democratiche che con strutture politiche autoritarie o addirittura totalitarie. Per renderci conto di questo fatto, potevamo pensare a quello che era accaduto in Italia al tempo del fascismo. Aprii gli occhi. Mi voltai. Guardai l'orologio e pensai che era arrivato il momento di alzarmi. Mi alzai. Andai in bagno. Feci una doccia. Mi vestii. Uscii dalla stanza ma rientrai immediatamente. Avevo dimenticato di prendere la mia consueta pastiglia mattutina contro l'ipertensione. Presi la pastiglia. Discesi lentamente le scale. Consegnai le chiavi. Uscii dall'albergo e presi per santa Maria Formosa. Comperai il giornale. Sedetti ad un tavolino del bar che si trovava accanto all'edicola dove avevo preso il giornale. Un cameriere uscì dal bar e venne verso di me. MI salutò e mi chiese che cosa desiderasse. Gli risposi che desideravo un capuccino. Il cameriere rientrò nel bar e ritornò dopo un po' con il capuccino. Pagai. Intascai il resto. Aspettai che il cameriere si allontanasse. Mi sporsi lievemente in avanti. Afferrai la tazza del capuccino facendo attenzione a non versarmi addosso il contenuto. Portai la tazza alla bocca. Trassi un piccolo sorso come se temessi di scottarmi e constatai che, in effetti, il capuccino era troppo caldo. Posai la tazza sul tavolino. Allungai le gambe. Aprii il giornale e cominciai a sfogliarlo. "L'economia non è un affare privato, ma è un affare della collettività", aveva scritto Walther Rathenau in un saggio "L'economia nuova" del 1917. La Prima Guerra Mondiale era ancora in corso e, come lo storico italiano Gino Luzzatto spiegato nella prefazione alla prima edizione italiana dell'opera di Walther Rathenau, "nonostante lo sfacelo della Russia, le menti più acute e spassionate della Germania vedevano ormai impossibile una vittoria e speravano in una pace di compromesso". Le cose erano andate come sapevamo. Lenin aveva preso il potere in Russia sulla base d'un programma economico che prevedeva la fusione di tutte le banche in una sola banca, l'abolizione del segreto commerciale, il raggruppamento di tutti i cittadini russi in "società di consumo", la nazionalizzazione della grande industria, l'obbligo per gli imprenditori d'associarsi in organizzazioni di categoria. L'impero tedesco era caduto. Era nata la Repubblica di Weimar. Walther Rathenau era stato nominato ministro degli esteri. La teoria di Walther Rathenau era stata spesso definita come un "socialismo senza socializzazione". In realtà, Walther Rathenau era tutto meno che un socialista. Egli era un capitalista un grande capitalista perché era presidente di A.E.G. che era una delle più grandi imprese tedesche - e non credeva nel socialismo. Egli credeva, invece, nella necessità di dare al capitalismo una nuova organizzazione che evitasse i due mali estremi: quello della "dittatura del proletariato" e quello della "dittatura dei pretoriani". Aveva vinto la "dittatura dei pretoriani". Walther Rathenau fu ucciso da un gruppo di ufficiali nazionalisti. La Repubblica di Weimar era caduta dopo un breve e tormentata esistenza. Hitler prese il potere e il capitalismo tedesco impose, con l'aiuto del nazismo, il proprio dominio sulla economia tedesca in nome del "principio del comando". Era trascorso quasi un secolo da quando Walther Rathenau aveva pubblicato "L'economia nuova". Il problema sollevato da Walther Rathenau nel suo saggio continua, però, a rimanere irrisolto. L'economia continua a essere considerata, infatti, anche nel nostro paese un "affare privato" e, anche nel nostro paese, chi era al governo guardava con indifferenza, se non addirittura con derisione, a chi pensava, come Walther Rathenau, che "l'economia non è un affare privato, ma è un affare della collettività" e che andava affrontato come tale. Mi sporsi lievamente in avanti. Afferrai la tazza. Portai la tazza alla boca e trassi un altro breve sorso. Il capuccino era ancora troppo caldo. Posai la tazza sul tavolino. Ritornai a guardare la chiesa di santa Maria Formosa e cercai di ricordare quand'era stata l'ultima volta che ero entrato in quella chiesa, ma non riuscii a ricordarlo. Improvvisamente squillò la suoneria del mio cellphone. Era mia madre. Mia madre non m'aveva più sentito e voleva sapere come stavo. Le risposi che stavo bene e che le avrei telefonato comunque in giornata. A quel punto, mia madre mi chiese se avevo qualche impegno per sabato sera. Chiesi a mia madre perché. Mia madre rispose che voleva invitarmi a cena. Risposi a mia madre che la ringraziavo per il pensiero, ma avevo già un impegno. Mia madre mi chiese se sarebbe stato troppo indiscreto, da pate sua, chiedermi con chi. Risposi che era con Maddalena. Mia madre rimase, per un momento silenziosa, come se fosse rimasta sorpresa dalla mia risposta. Io approfittai del suo silenzio per spiegarle che si trattava soltanto d'una cena fra vecchi amici. Mia madre finse di mangiare la foglia e accettò la mia spiegazione. Salutai mia madre e chiusi la comunicazione. Misi il cellphone in tasca. Afferrai tazza del capuccino. Portai la tazza alla bocca e terminai di bere il capuccino. Posai la tazza sul tavolino. Mi alzai e mi diressi verso Salizzada San Lio. Arrivato in Salizzada San Lio, svoltai per campo San Bartolomeo. Superai il ponte di Rialto e tagliai verso il mercato. Arrivato al mercato di Rialto gironzolai come un turista fra i banchi di frutta e verdura. Svoltai nel settore dov'erano situati i banchi del pesce. Svoltai nuovamente sulla destra e mi diressi lentamente verso campo San Giacomo dell'Orio. Giunto in campo, sedetti ad un bar e ordinai una birra. Rimasi seduto per un po'. Poi, m'ero alzato ed ero ritornato verso Rialto. Avevo cichettato in una osteria che conoscevo: seppioline ai ferri, polipetti lessi, un bicchiere di vino bianco. Ero ritornato lentamente in albergo. Ero salito in camera. M'ero spogliato. Avevo acceso il televisore per sentire le ultime notizie. "Si è soliti dire che contro i fatti non vi sono argomenti", aveva osservato il poeta portoghese Fernando Pessoa in un articolo pubblicato nel 1915 su "O Jornal". In realtà, aveva spiegato Fernando Pessoa, "nulla può essere interpretato dai fatti così come sono avvenuti. Nulla è così come è avvenuto. Dobbiamo alterare i fatti così come sono avvenuti per poter capire quello che è avvenuto. Ai fatti possono contrapporsi solo argomenti. Gli argomenti sono quasi sempre, più veri dei fatti. La logica dev'essere il nostro criterio di verità". Era vero. Gli argomenti erano, quasi sempre, più veri dei fatti. La logica doveva essere il nostro criterio di verità. Era anche vero, però, che non tutti i fatti erano uguali, ma v'erano fatti e fatti. V'erano fatti che dovevano essere alterati per essere compresi, come aveva scritto Fernando Pessoa, e v'erano altri fatti che erano così evidenti nella loro brutalità, oppure, se preferivamo, erano così brutali nella loro evidenza, che potremmo dire, senza correre il rischio di sembrare retorici, che essi parlano da soli. Per renderci conto di questo problema, potevamo pensare alla guerra contro l'Iraq. Poco contava che l'Iraq possedesse "armi di distruzione di massa", come sostenevano i servizi americani di informazione, oppure, che non le possedesse, ma che costituisse ugualmente una minaccia per gli Stati Uniti a causa dei suoi legami con al-Qaeda e che, perciò, la guerra contro l'Iraq fosse una guerra giustificata, come continuano a sostenere il vice- presidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, e il segretario alla difesa, Donald Rumsfeld. Poco contava che l'entità della minaccia rappresentata dalle "armi di distruzione di massa" possedute dall'Iraq fosse stata "sexed up" dai governi degli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Poco contava che l'Iraq fosse o meno in grado di riprendere la produzione di "armi di distruzione di massa", dopo averla interrotta a seguito dell'intervento delle Nazioni Unite dopo la fine della Guerra del Golfo del 1991, utilizzando la sua industria civile. Quello che contava era che c'era stata una guerra. Quello che contava era che essa aveva creato una nuova situazione politica che gli sciiti iracheni cercvano ora di sfruttare per ottenere dagli Stati Uniti, con l'avallo delle Nazioni Unite, delle elezioni politiche democratiche le quali, se fossero mai mai state effettuate, avrebbero mandato all'aria il piano per la trasformazione democratica dell'Iraq che è stato elaborato dagli Stati Uniti e avrebbero aperto la strada alla trasformazione dell'Iraq in uno stato integralista islamico. Queste non era interpretazioni. Questi erano fatti. Negare questi fatti era negare la verità e la verità era che che la guerra contro l'Iraq era stata, come aveva scritto Erik Tarloff, the wrong war at the wrong time against the wrong enemy for the wrong reasons" e che ora gli Stati Uniti dovevano fare i conti con le conseguenze del loro errore. Il notiziario era finito. Mi alzai. Spensi il televisore. Ritornai a letto. Mi voltai e guardai verso una delle finestre della mia stanza d'albergo. Mia madre era rimasta sorpresa quand'era venuta a sapere che avevo invitato Maddalena a cena. In realtà, era stata una sorpresa anche per me. Maddalena era la sorella di Sebastiano. Io, però, non volevo parlare di Sebastiano. Ormai, in un modo o nell'altro, ero già venuto a sapere tutto quello che m'interessava sul suicidio di Sebastiano. Inoltre, mi sembrava decisamente inopportuno. Avevo incontrato Maddalena al funerale di Sebastiano. Avevo visto che era molto provata e avevo pensato di offrire a Maddalena la possibilità di dimenticare, almeno per una sera, quello che era accaduto. Il ragionamento filava. Esso, però, prestava il fianco ad una obiezione che mia madre m'avrebbe immancabilmente fatto. Ero veramente sicuro che il motivo fosse soltanto quello di offrire a Maddalena la possibilità di dimenticare, per una sera, quello che era accaduto? Ero veramente sicuro che non ci fosse anche dell'altro? Che cosa? Conoscevo Maddalena sin da quando eravamo studenti. Io ero amico di suo fratello e frequentavo la loro casa come loro frequentavano la mia. Poi, io ero partito per il servizio militare. Maddalena s'era sposata con un ragazzo che aveva conosciuto all'università. Fra me e Maddalena non c'era mai stato nulla di nulla. Soltanto amicizia. Io uscivo, allora, con Francesca e non avrei mai rischiato di perdere Francesca per fare lo scemo con la sorella d'un mio amico anche se si trattava d'una bella ragazza che dimostrava d'avere della simpatia per me. Era anche vero, però, che erano trascorsi molti anni d'allora. Sia io che Maddalena avevamo lasciato alle nostre spalle giovinezza e maturità e stavamo per entrare, se non eravamo già entrati in quella che un famoso poeta cinese aveva chiamato "l'età dei sensi ubbidienti". Ciò non significava, però, che essi avessero smesso di far sentire le loro esigenze e, probabilmente, era a questo fatto che Maddalena aveva pensato quando aveva ascoltato il mio messaggio registrato nella segreteria telefonica e, a voler essere onesto con me stesso, non potevo negare d'essere rimasto colpito dal modo nel quale Maddalena m'aveva abbracciato quando l'avevo incontrata al funerale di Sebastiano. Io, però, dovevo prestare molta attenzione a quello che facevo perché, se le cose stavano come io avevo immaginato, sarebbe bastato poco per fare cambiare a Maddalena il suo atteggiamento nei miei confronti e per spingerla a chiudersi nuovamente in se stessa. Io non volevo, però, che accadesse una cosa del genere e c'era un solo modo per evitarlo: lasciare che fosse lei a decidere se era destino che fra noi due succedesse qualcosa, come io, in cuor mio, cominciavo a sperare, oppure, se era destino che noi continuassimo a vivere la nostra vita come avevamo fatto fino a quel momento. Mi voltai e guardai l'orologio. L'ora dell'apppuntamento con Maddalena si avvicinava. Mi alzai e mi preparai e andai in bagno. Presi una doccia. Uscii dal bagno. Mi vestii e uscii dalla stanza. Scesi in portineria. Consegnai le chiavi. Uscii dall'albergo e mi diressi verso il luogo dell'appuntamento con Maddalena.