il libro completo 13mb - Lions Club Domodossola

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il libro completo 13mb - Lions Club Domodossola
i Lions ossolani
alla propria Terra
Hanno collaborato per i testi:
Tullio Bertamini, Gianfranco Bianchetti, Paolo Bologna, Paola Caretti, Marco Cattin, Umberto Chiaramonte, Cesarina Masini
Chieu, Caterina Bensi Chiovenda, Galeazzo Maria Conti, Paolo Crosa Lenz, Alberto De Giuli, Raffaele Fattalini, Germana
Fizzotti, Carmine Gaudiano, Sergio Lucchini, Enrico Margaroli, Cesare Melchiorri, Renzo Mortarotti, Rosario Mosello, Gilberto
Oneto, Anna Pagani, Angela Travostino Preioni, Mauro Proverbio, Ettore Radici, Pier Antonio Ragozza, Aldo Roggiani, Enrico
Rizzi, Franca Paglino Sgarella, Giacomo Zerbini.
Comitato di redazione:
Antonio Pagani - Coordinatore generale
Paola Caretti - Raffaele Frassetti - Alessandro Grossi - Sergio Lucchini - Giampaolo Prola
Consulenti: Tullio Bertamini
Fotografie: Carlo Pessina -Agenzia Pessina, Domodossola
Copertina: Giampaolo Prola
Il Lions Club Domodossola desidera esprimere la propria gratitudine a tutti coloro che, collaborando o
contribuendo, hanno reso possibile la realizzazione di quest’opera
© Lions Club Domodossola - 2005
Tutti i diritti riservati. Riproduzione anche parziale vietata.
Il volume è stato curato dalla Edizioni Grossi - Domodossola
Stampato dalla Tipolitografia Saccardo Carlo & Figli s.n.c. - Ornavasso (VB)
Sommario
pag.
15
La Storia
”
17
Dalla preistoria al traforo del Sempione
Tullio Bertamini
”
57
La “repubblica” dell’Ossola
Paolo Bologna
”
69
L’archeologia
Alberto De Giuli
”
75
Ambiente e natura
”
77
Un paesaggio verticale
Renzo Mortarotti
”
87
L’acqua e la pietra
Aldo G. Roggiani e Marco Cattin
”
103
Acque termali e acque minerali
Pier Antonio Ragozza
”
109
Il clima
Tullio Bertamini e Rosario Mosello
”
119
La flora
Cesarina Masini Chieu
”
135
La fauna
Franca Paglino Sgarella
”
149
I parchi e le riserve naturali
Paolo Crosa Lenz
”
155
La cultura
”
157
Ossolani illustri
Angela Travostino Preioni
”
195
Antonio Rosmini
Anna Pagani
”
203
I monumenti e i segni d’arte
Gian Franco Bianchetti
”
231
I letterati ossolani
Enrico Margaroli
7
8
pag.
239
“Walser”: gli uomini dell’alta montagna
Enrico Rizzi
”
241
L’Ossola e il Sempione nei diari di viaggio
Raffaele Fattalini
”
245
Tradizione, folclore e leggende
Germana Fizzotti
”
259
Storia dei costumi
Caterina Bensi Chiovenda
”
265
Attività umane e tempo libero
”
267
Economia e sviluppo industriale
Umberto Chiaramonte e Sergio Lucchini
”
297
L’agricoltura, l’allevamento e i prodotti tipici
Giacomo Zerbini
”
305
L’artigianato e il commercio
Paola Caretti
”
313
L’energia idroelettrica
Ettore Radici
”
319
L’attività estrattiva
Mauro Proverbio
”
333
L’architettura tradizionale
Galeazzo Maria Conti e Gilberto Oneto
”
341
Il turismo
Carmine Gaudiano e Paola Caretti
”
353
Lo sport
Cesare Melchiorri
T
erra d’Ossola. Una terra abbracciata dai monti, una terra di acqua e di vento, ora aspra e rustica, ora dolce e
sontuosa. Silenziosa sotto la coltre di neve, o esuberante quando il verde intenso colora i suoi boschi, la nostra
Terra d’Ossola ci riserva ogni giorno un angolo nuovo, inedito. E noi, che come alberi affondiamo le radici in questo spaccato di mondo e assorbiamo di giorno in giorno da questo terreno la nostra linfa vitale, abbiamo il dovere di
scoprire, di conoscere e tramandare i mille tesori che secoli di storia ossolana ci hanno regalato. Per queste ragioni il
Lions Club Domodossola, in occasione del Quarantennale della sua Fondazione, ha voluto raccogliere in un’unica
opera, completa ed aggiornata, il pensiero di studiosi che all’Ossola hanno dedicato approfondite ricerche. Sulla scia
del successo ottenuto nelle due precedenti edizioni, questo terzo volume di “Terra d’Ossola” intende divenire uno
strumento di facile consultazione, soprattutto per gli studenti, che avranno a loro disposizione anche la versione informatizzata raccolta in un CD e un DVD. Il volume, che si legge come un lungo racconto della storia antica e moderna delle nostre genti di montagna, è dedicato proprio ai giovani. Attraverso la parola scritta, intesa come valore
storico da non disperdere come foglie al vento, ci auguriamo che i giovani possano trovare il giusto sentiero che unisce passato e futuro, e infondere uno spirito nuovo alla loro terra. Determinante per la realizzazione del libro sono
stati i generosi contributi offerti dalla Provincia del Verbano Cusio Ossola e dalla Banca Popolare di Intra, ai quali vanno i nostri particolari ringraziamenti. Degno di nota è l’interesse manifestato dai numerosi sostenitori e sponsor, così come lodevole è l’entusiasmo con cui hanno lavorato i soci del Lions Club che, accogliendo il mio invito, si
sono prodigati per la buona riuscita dell’iniziativa. Naturalmente un grazie agli autori, che hanno confermato, con
la volontà e il valore dei loro saggi, l’efficacia dell’agire comune per esaltare le virtù della nostra “Terra d’Ossola”.
Gian Luigi Caretti
Presidente del Lions Club Domodossola
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A
uguro a questa edizione di “Terra d’Ossola”, la terza, la stessa fortuna e successo delle due che l’hanno preceduta, quella del 1984, da tempo esaurita, e la seconda, del 1994, diventata utile e agile strumento per studiosi e studenti di storia ossolana.
Il mio augurio, più che esprimere una speranza, esprime una certezza, che deriva dall’alta qualità dei testi redatti da
firme note del panorama letterario locale.
Ad incrementare le opportunità di successo sicuramente contribuirà la novità proposta, a corredo della carta stampata, di un CD multimediale utile come software per gli studenti e un supporto DVD. Mi pare la strada giusta per
rendere moderna e all’avanguardia un’opera che ricostruisce e riassume secoli di storia, di arte e di attività umane
che tanto hanno contribuito a valorizzare il territorio.
“Terra d’Ossola” rappresenta dunque un mezzo importante per conservare le tradizioni locali, anche in funzione didattica e, in generale, per tutti coloro che desiderano approfondire la conoscenza del territorio. Altro augurio che mi
sento di esprimere, di fronte ad opere di pregio come questa, è che rappresentino anche un momento di riflessione
per consolidare le basi su cui poggia il futuro della nostra terra. In altre parole, spero che la comprensibile e giusta
tensione verso la salvaguardia delle tradizioni locali non sia sterile sguardo rivolto al passato, ma anche preludio di
un nuovo modo di vivere “l’ossolanità”, aprendola al confronto con le altre zone della nostra Provincia.
Credo che “Terra d’Ossola” debba essere letto coniugando al futuro quanto si racconta nelle sue pagine. Oggi come
non mai l’Ossola deve guardare avanti, i suoi abitanti devono diventare sempre più artefici delle proprie sorti in un
positivo e coeso rapporto con quanto vi è oltre i confini ossolani, in primis Verbano e Cusio.
Spero che i giovani, a cui l’opera è rivolta in modo particolare, possano più di altri guardare lontano, raccogliendo
il testimone degli studiosi e scrittori locali e così trovare nel libro nuovi stimoli per approfondire gli argomenti trattati e continuare il prezioso lavoro di ricerca fin qui compiuto.
Paolo Ravaioli
Presidente Provincia del Verbano-Cusio-Ossola
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D
a quasi novant’anni, Banca Popolare di Intra è presente in Ossola. L’apertura della sede di Domodossola e
della filiale di Villadossola risale infatti al 1919. Pochi anni dopo, nel 1921, è stata invece la volta di Ornavasso, cui sono seguite negli anni successivi Malesco, Pieve Vergonte, Trontano, Domodossola Agenzia di Città, Baceno, Druogno e, nel 1998, Varzo.
In questo lungo arco di tempo, Banca Popolare di Intra si è posta un obiettivo prioritario: favorire la crescita e lo
sviluppo del territorio ossolano.
Nei suoi 132 anni di storia, Popolare di Intra ha mantenuto e valorizzato la sua identità di Banca che fa dell’attenzione al territorio, del rapporto personale con i clienti, della capacità di ascolto e della capacità di proporre con tempismo prodotti e servizi innovativi i punti forti della sua azione.
Detto altrimenti, ha saputo conservare immutata la propria identità, riuscendo, contemporaneamente, a tenersi al
passo con i tempi e a raccogliere le sollecitazioni del mercato mettendone a frutto mutamenti e trasformazioni.
Alla luce di tutto questo appare naturale il nostro sostegno alla realizzazione della nuova edizione di Terra d’Ossola
che il Lions Club Domodossola pubblica per celebrare il quarantennale della sua fondazione, nella convinzione che
la “salvaguardia delle tradizioni abbia senso e valore solo in quanto diventa apertura verso nuove conquiste di valori civili”.
Il libro, che vanta già due edizioni, viene ora aggiornato nei contenuti e nello stile e arricchito con un cd multimediale di carattere didattico e un supporto visivo in dvd con l’obiettivo prioritario di illustrare agli studenti locali la
storia, la cultura e le tradizioni ossolane.
E’ anche attraverso la partecipazione alla realizzazione di iniziative editoriali come queste che passa la capacità della
Banca Popolare di Intra di essere ciò che è: un vero punto di riferimento per tutto il territorio. Territorio rispetto al
quale la “Intra” costituisce un motore di crescita e di sviluppo, non solo economico.
Sandro Saini
Presidente Banca Popolare di Intra
11
Sponsor ufficiali dell’opera:
Provincia del Verbano Cusio Ossola
Banca Popolare di Intra
Hanno contribuito alla realizzazione:
Antigorio s.n.c. - Graniti, Serizzi, Beole
Assocave VCO
Assograniti VCO
Autoservizi Comazzi s.r.l.
Gigliola e Giorgio Brizio
Davide Campari - Milano S.p.A. - Stabilimento di Crodo
Gianluigi Caretti
Comunità Montana Antigorio Divedro Formazza
Comunità Montana Valle Antrona
Comunità Montana Monte Rosa
Comunità Montana Valle Ossola
Comunità Montana Valle Vigezzo
Distretto Turistico dei Laghi
Fornaroli dott. Giovanni
Fratelli Poscio S.p.A.
Frua Cav. Mario S.p.A.
Immobiliare Lepontina s.r.l.
Impredil s.r.l. - Costruzioni Edili
Ingeoart s.r.l.
International Chips s.r.l.
Libreria Grossi
Manifattura di Domodossola
Marini Quarries Group s.r.l.
Niccioli Ercole
Ing. Antonio Pagani
Studio Pavan s.r.l.
Riserva Naturale Speciale Sacro Monte Calvario di Domodossola
Sciovie Lusentino Moncucco s.r.l.
Siena Gianluigi - Agenzia RAS - Domodossola
Società Subalpina Imprese Ferroviarie S.p.A.
Parco Nazionale Val Grande
Parco Naturale Veglia Devero
VCO Azzurra TV
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“Pro memoria Ossolano”. Pittura su tela cm 100x100, 1979 di Giuliano Crivelli.
Propr. Comunità Montana Valle Ossola.
La Storia
Domodossola, Torretta delle antiche mura (sec. XIV).
Dalla Preistoria al traforo del Sempione
Tullio Bertamini
II breve schizzo storico qui proposto vuole offrire solo
qualche indicazione cronologica e qualche riferimento
più specificatamente ossolano, quasi un disegno in rilievo, sulla storia delle regioni più vicine e più vaste come
la Lombardia, il Piemonte e l’Italia settentrionale, storia
che dobbiamo in gran parte supporre a tutti nota o comunque facilmente accessibile. Saranno anche trascurati molti fatti di interesse troppo locale, puntando invece
su quelli che coinvolgono l’intiera regione ossolana.
Dalla preistoria alla fine dell’Impero Romano d’Occidente (sec. V)
L’archeologia ci dice che l’Ossola fu abitata dagli uomini fin da epoca immemorabile. I ritrovamenti di utensili, armi e suppellettili di pietra, di bronzo, di ferro e di
ceramica ci informano che insediamenti umani dovettero essere già presenti almeno nel Neolitico e successivamente nell’età del bronzo e sempre più intensivamente nell’età del ferro, cioè almeno dal terzo millennio prima di Cristo. Cacciatori e raccoglitori di frutti prima e,
poi, pastori, agricoltori e ricercatori di minerali, contribuirono a conoscere la regione, dissodarne i campi ed i
prati e bonificare le zone di pascolo oltre il limite della vegetazione arborea. Furono naturalmente scelti per
primi i luoghi più sicuri ed a solatio sui pendii delle valli, ricchi di terreno fertile, prossimi alle sorgenti e sicuri dalle fiere e dagli altri nemici.
Gli storiografi che accennano all’Ossola sono molto tardivi. Il primo che ce ne dà una indicazione è il geografo Tolomeo (II sec. d.C.) il quale ricorda confusamente
una Oscella Lepontiorum, cioè una regione abitata da
un popolo chiamato dei Leponzi e, probabilmente, la
sua capitale (Domodossola). I Leponzi abitavano tutta
l’Ossola e le regioni vicine del Canton Ticino ed erano
affratellati con un altro gruppo detto più propriamente
Uberi che abitavano nell’altro versante delle Alpi oltre il
Gottardo. Difficile stabilire quale fosse l’origine dei Leponzi. Alla loro formazione probabilmente contribuirono sia i discendenti dei popoli che nel Neolitico si
erano insediati in queste regioni e successivamente altri
provenienti dalla pianura padana (Liguri) e dalle regioni transalpine (Celti). Pare che un profondo amalgama
di popoli sia avvenuto in questa regione nel VI secolo
avanti Cristo quando i Galli calarono in Italia e si scontrarono con gli Etruschi e poi con i Romani. I Leponzi ebbero certamente una propria cultura ed un proprio
linguaggio, ma subirono l’influenza degli Etruschi loro
confinanti a sud, da cui ebbero l’alfabeto. I pochi documenti scritti in lingua lepontica (non ancora perfettamente decifrati) sono stati formulati con quell’alfabeto. Solo dopo la conquista romana adotteranno l’alfabeto latino. I ritrovamenti tombali ci informano che i Leponzi erano soprattutto agricoltori e pastori, ma capaci anche di fondere il bronzo e lavorare i metalli. Armi
ed arnesi di lavoro ci parlano di un popolo forte e tenace nella coltivazione dei campi e nella difesa della propria libertà. Furono infatti fieri, come tutti i popoli alpini, della loro indipendenza e perciò si opposero anche ai Romani che, dopo aver superato gli Etruschi, si
affacciavano alla pianura padana. Perciò dopo la prima
guerra punica ci fu uno scontro durissimo fra i Romani ed i popoli della Gallia Cisalpina, Leponzi compresi. I Romani, vittoriosi, con la disfatta degli Insubri e la
conquista di Milano loro capitale (222 a.C.), imposero
le colonie militari di Cremona e Piacenza. Quando poi
Annibale attraversò le Alpi (218 a.C.), i Leponzi si unirono a lui e parteciparono alla battaglia del Ticino che,
vinta da Annibale, costrinse i Romani a ripassare il Po.
Ma dopo la battaglia di Zama i Romani ritornarono ad
occupare la pianura padana, spingendosi probabilmen-
17
te fino al lago Maggiore ed al fiume Sesia (187 a.C.).
Negli anni seguenti le relazioni fra i Romani ed i Leponzi migliorarono. I popoli alpini si avvantaggiarono
soprattutto dai commerci che avvenivano attraverso le
Alpi dei cui passi essi erano i padroni. Ne è segno anche
in Ossola la frequente monetazione romana repubblicana. Molti prodotti italici cominciarono ad apparire anche nell’Ossola, come attestano i ritrovamenti tombali
di Ornavasso, Gravellona ecc.
Ma le Alpi, dopo la spericolata traversata di Annibale,
non erano più un baluardo insuperabile alle orde barbariche che cercavano in Italia migliori sedi. I Romani,
già padroni della Provenza e del Norico, vigilavano affinché questo non avvenisse. Ma i Cimbri ed i Teutoni, popoli provenienti dal Nord, dopo aver chiesto invano a Roma di entrare in Italia ed avere scorazzato per
mezza Europa, ed aver vinto anche alcuni eserciti romani, ritentarono l’impresa. Essi trovarono in Provenza un
potente esercito romano comandato da Mario. Allora
si divisero in due corpi: i Teutoni cercarono un passaggio nelle Alpi Marittime ma furono completamente distrutti da Caio Mario alle Aquae Sextiae, i Cimbri risalirono il Rodano affrontando probabilmente i passi alpini ossolani. Frattanto un esercito romano al comando di Lutazio Catulo si era attestato nel versante opposto costruendo un doppio campo fortificato congiunto da un ponte a cavallo del fiume Toce, che lo storico
Plutarco chiama Atosis, probabilmente proprio fuori di
Domodossola nel luogo che prese il nome di Castellazzo. Ma i Cimbri, costruita una grossa diga alle forre di
Pontemalio, produssero una piena artificiale che mise
in gran pericolo il ponte romano e tutto il sistema difensivo. Il console Lutazio Catulo credette allora opportuno mettersi in testa ai suoi soldati in fuga e riparare
nella pianura padana. Poco dopo però, ai Campi Raudii
presso Vercelli, le forze romane di Caio Mario distrussero completamente le orde dei Cimbri (101 a.C.).
Le relazioni fra i Romani ed i Leponzi si guastarono alla
fine del I secolo a.C. quando, pare, le comunicazioni fra
i due versanti alpini divennero insicure a causa dei continui ladroneggi. Roma intraprese una guerra in piena
regola e tutti i popoli alpini furono assoggettati al suo
imperio (14 a.C.). Questo successo fu esaltato con un
monumento a La Turbie (in Francia) su cui una lun18
ga iscrizione, riportataci anche da Plinio il Vecchio, ricorda tutti i popoli alpini sottomessi e pacificati; fra essi
anche i Leponzi.
La pace augustea che ne seguì ebbe felici conseguenze anche nell’Ossola, dove aumentò il benessere economico e prese avvio la cultura. Oscella fu probabilmente elevata al grado di municipio e, secondo il De Vit,
fu sede del procuratore romano preposto alla provincia
delle Alpi Atrezziane, provincia che durò fino all’epoca dell’imperatore Diocleziano (284-305) che l’ascrisse
definitivamente all’Italia. Tracce di questo benessere si
riscontrano abbondantemente nei reperti tombali. Furono anche potenziate le vie di comunicazione, in cui
i Romani erano maestri. Oscella era collegata non solo
con Novara e Milano, ma anche con Seduno (Sion) e
Octoduro lungo quella che poi fu l’asse sempioniana,
ma che in quell’epoca utilizzava probabilmente con più
frequenza i passi della valle Antigorio, della val Bognanco e della valle Antrona. Un lungo tratto di strada romana esiste ancora sulla sponda sinistra del Toce, da
Cosasca a Mergozzo, ricordata anche dalla famosa iscrizione su roccia di Vogogna che la fa risalire all’intervento di un procuratore delle Alpi Atrezziane al tempo di
Settimio Severo (196 d.C.).
La romanizzazione si riflette puntualmente anche nei
nomi di persona e nei cognomi, alcuni dei quali come
quello attestatoci dalla ricca tomba di Claro Fuenno a
Domodossola sono in parte romani e in parte ancora
leponzi. Analogamente avviene per la religione. Assieme al culto tradizionale delle divinità lepontiche, come
le Matrone, compare quello delle divinità importate,
come Silvano, Giove e Iside (ara trovata a Candoglia).
Un tempietto scoperto a Roldo di Montecrestese e risalente ai primi anni dell’era moderna è tutto ciò che ci
resta degli edifici sacri di quel tempo. Ma nel IV secolo la religione pagana subisce una crisi mortale con l’avvento del Cristianesimo che lentamente, ma inesorabilmente, sostituisce l’antica religione pagana nelle città e
poi anche nelle province più lontane dell’Impero. Con
Costantino ebbe il diritto all’esistenza e con Teodosio il
Cristianesimo divenne religione di Stato (385). In Ossola il Cristianesimo si affermò abbastanza presto, utilizzando anche gli edifici religiosi pagani esistenti e riconvertendoli al nuovo culto. Grande fu in questo tem-
po l’opera di evangelizzazione guidata dal Vescovo Ambrogio di Milano che spedì missionari e vescovi in tutta la Gallia.
Forse anche Oscella ebbe inizialmente il suo vescovo,
ma certamente ebbe un presbiterio o gruppo di sacerdoti che cominciarono a interessarsi a questa regione.
Il documento più antico che ci parla della presenza del
Cristianesimo in Ossola è una lapide mortuaria rinvenuta sul colle di Mattarella, dove probabilmente una
chiesa dedicata alla B.V. Maria ricalca un tempio dedicato alle Matrone, e che risale all’inizio del VI secolo.
Ma anche sul Montorfano di Mergozzo, all’interno della chiesa di S. Giovanni, è stato ritrovato un fonte battesimale che può risalire alla stessa epoca.
Le vicende dei secoli seguenti nell’Ossola si possono riassumere nella situazione generale creatasi nell’Italia settentrionale e specialmente a Novara e Milano fino alla
caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.).
Dall’età barbarica al Mille
L’indebolimento dell’Impero romano permise a molti
popoli barbari di superare i confini e penetrare in un
territorio coltivato e ricco di prede.
Cedono le difese della Germania e della Pannonia permettendo ai Goti di Alarico di raggiungere e saccheggiare Roma (410). Nel contempo (443) i Burgundi
prendono stabile dimora lungo la Soana ed il Rodano
a ridosso dell’arco alpino ossolano. È poi la volta degli
Ostrogoti di Teodorico il quale vince Odoacre che era
stato proclamato re (476) da truppe mercenarie germaniche al servizio dell’Impero, e fa di Ravenna la sua capitale. La guerra degli Ostrogoti sotto la guida di Teodorico, iniziata nel 493, coinvolge anche l’Italia occidentale e quindi l’Ossola che fu sottoposta alle scorrerie dei Burgundi, chiamati forse da Bisanzio in aiuto di
Odoacre. Le scorrerie dei Burgundi causarono la distruzione ed il saccheggio di molte città e paesi, dai quali
furono portati via e condotti in schiavitù molti abitanti. Una iscrizione su una roccia, letta dallo storico ossolano Giovanni Capis, in località Mizzoccola presso Cosasca, accennerebbe al passaggio per l’Ossola di un corpo di spedizione di Burgundi al comando del loro re
Gundobaldo.
Cominciò dunque in quell’epoca il decadimento di
Oscella che vide distrutti i suoi palazzi e deserte le sue
case dalle quali furono dedotti schiavi gli abitanti. I
municipi che subirono maggiori danni furono Milano,
Novara e Vercelli. Ennodio, scrittore di quell’epoca, ci
dice però che i vescovi cominciarono a esercitare una
grande influenza anche nel mondo civile, facendo valere il prestigio del loro potere religioso al servizio dei popoli. S. Lorenzo vescovo di Milano, Epifanio vescovo di
Pavia, si recarono infatti alla corte del re Gundobaldo
ottenendo da lui e dal fratello Godiscilo che risiedeva a
Ginevra, la liberazione dei prigionieri che pensiamo siano ritornati attraverso i passi alpini ossolani.
Il regno di Teodorico (493-526) fu di relativa stabilità e prosperità in Italia, sebbene le popolazioni rurali fossero state ridotte ad un forte impoverimento, dovuto ad una redistribuzione dei beni ed a tasse in favore dei barbari occupanti. La successiva guerra, iniziata
nel 535 e protrattasi per 18 anni, che permise ai generali bizantini Belisario e Narsete di cacciare i Goti e restaurare il dominio dell’Impero non fece che aumentare
le distruzioni ed i disagi dei popoli. Fu probabilmente
sotto il dominio di Teodorico o, al più tardi, sotto quello di Narsete che non solo fu fortificato ulteriormente
il Castellazzo di Oscella (dove un tempo furono le fortificazioni romane) contro i Burgundi, ma fu anche costruito ex novo il potente castello di Mattarella, dove
tuttavia si hanno tracce di costruzioni più antiche, di
epoca romana e tracce di insediamenti preistorici.
Ma il grande colpo che ridusse l’Italia settentrionale allo
stremo e la imbarbarì per parecchi secoli fu quello dovuto all’invasione dei Longobardi sotto la guida di Alboino, penetrati nel Friuli, e che successivamente conquistarono Milano e Pavia nel 572, dove posero la loro
capitale.
La prima parte del dominio longobardo fu durissima,
segnata da violenze, espropri, saccheggi, incendi, spogliazioni di ogni genere, specialmente del clero e delle chiese, contro le quali i Longobardi, ariani, si accanirono particolarmente. Ciò fu causa di un rapido e drastico regresso della civiltà. La popolazione, già decimata dalla fame e dalla peste, si ridusse notevolmente. Le
lettere e le arti decaddero quasi completamente. I Longobardi pretendevano di vivere di razzia prelevando i
beni prodotti dai popoli soggetti, ma, condotti a mi19
glior consiglio dagli insuccessi militari, dovettero anch’essi adattarsi al lavoro e divenire agricoltori come i
popoli soggetti.
Dopo un periodo di anarchia, sotto re Autari (584-590)
che sposò la cattolica Teodolinda, figlia del duca di Baviera, le cose mutarono. Con il successore Agilulfo, secondo sposo di Teodolinda, e con il concorso del papa
S. Gregorio Magno, inizia la conversione al cattolicesimo dei Longobardi, il che favorisce l’amalgama con
i popoli soggetti. Tuttavia mentre questi mantengono la legge romana, i Longobardi con l’Editto di Rotari (636-652) codificano la loro tradizione vivendo con
leggi proprie. Il regno longobardo è in continua espansione nel secolo VII con la creazione di nuovi ducati,
ma presenta anche forti sintomi di debolezza dovuti alla
disunione dei duchi. L’Ossola è inclusa nel ducato di S.
Giulio d’Orta, sulla cui omonima isola probabilmente
il duca si era costruito per maggior sicurezza un castello. Oscella perde le caratteristiche di capitale dell’Ossola perché la sede del potere civile e militare longobardo
è nel castello di Mattarella da cui dipendeva il territorio sotto forma, probabilmente, di giudicaria, retta da
uno sculdascio. Quando, sotto il re Agilulfo irrompono
i Franchi dai passi alpini ossolani e ticinesi il duca Mainulfo di S. Giulio d’Orta tradisce il suo re e lascia libero passo ai Franchi. Ma, cacciati questi, Agilulfo si vendica facendo tagliare la testa al duca fellone e riducendo
sotto il suo diretto dominio il ducato. L’Ossola quindi
dipenderà direttamente dalla Corte di Pavia. In questo
tempo grandi territori sono concessi ai milites ed alle
fare arimanniche longobarde nelle Alpi che essi dovevano difendere dalle invasioni nemiche. Gli uomini liberi sono ancora numerosi, ma molti sono anche i servi e
gli aldioni semiliberi e molto sviluppata è la servitù della gleba in una economia che è solo agricolo-pastorale.
Questa situazione non cambia neppure dopo che Carlo Magno, con la vittoria sull’ultimo re longobardo Desiderio (774), instaura il dominio franco in Italia. L’Ossola diventa una contea dipendente dal regno italico; il
suo centro amministrativo e militare è sempre il castello di Mattarella (Corte di Mattarella). Ma con la venuta dei Franchi continua quel processo di feudalizzazione che sottrae praticamente al diretto dominio del re alcuni territori che vengono dati in feudo a signori laici
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ed ecclesiastici per loro particolari benemerenze, i quali vi esercitano il dominio teoricamente alle dipendenze del re a cui giurano fedeltà, ma di fatto valendosene
con molta libertà. Vassalli maggiori e minori si legano
in una instricabile società che è spesso fortemente suddivisa dagli interessi famigliari ed individuali a spese del
popolo minuto, dei servi della gleba e coloni costretti ad un duro lavoro nei campi e nei boschi ed alla costruzione dei numerosi castelli che sorgono come funghi un po’ dappertutto.
A questo processo di feudalizzazione è soggetta anche l’Ossola, dove alcuni signori hanno vasti territori
e partecipa anche il vescovo di Novara che costruisce a
Oscella, presso la chiesa dei S.S. Gervasio e Protasio il
suo castello (castrum novum, ricordato nel 1001). Ma il
dominio del vescovo si estende soprattutto sulla città di
Novara, attorno al lago d’Orta ed in moltissime altre località, dove le chiese possiedono beni immobili. L’Ossola intanto è governata da un conte palatino, ma il territorio si è andato restringendo a causa della crescita dei
feudi donati dal re ai signori, tanto che viene definita
comitatulo quella parte che ancora dipende dalla corte
di Mattarella, dopo le riduzioni subite a causa della feudalizzazione. Ma in Ossola hanno i loro beni monasteri
come quello di S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, fondato
dal re longobardo Liutprando, e chiese anche di diocesi
diverse da quella di Novara.
I vescovi di Novara continuando con qualche fortuna
l’opera di accrescimento del dominio temporale della
Chiesa iniziatosi con la immunità concessa da Ludovico
il Pio (814-840) e progredito con le donazioni e conferme di Lotario I, di Carlomanno e di Berengario I (901),
si trovarono tuttavia a dover scegliere fra i vari pretendenti alla corona d’Italia ed a quella imperiale. Così Berengario II sottrasse alla Chiesa novarese la Riviera di S.
Giulio e perseguitò il vescovo che non appoggiava la sua
candidatura alla corona imperiale. Ma Ottone I di Germania, sconfitto Berengario, restituì al vescovo di Novara (962) la Riviera, l’isola di S. Giulio e la giurisdizione su Novara e dintorni. Da questo momento i vescovi
di Novara appoggeranno pressoché costantemente i re e
gli imperatori di Germania, i quali, per questa fedeltà,
saranno generosi di riconoscimenti e di nuove donazioni. L’occasione più propizia fu colta nella lotta che op-
pose Arduino marchese d’Ivrea, pretendente alla corona d’Italia, ed il re germanico Enrico II. Il vescovo Pietro di Novara, schieratosi al momento opportuno con
Enrico II, fu perseguitato da Arduino, per cui dovette
fuggire e subire notevoli danni nei suoi possedimenti.
Sconfitto Arduino, il vescovo Pietro, recatosi alla corte
dell’imperatore Enrico, ebbe in dono, per la sua fedeltà
e in risarcimento dei danni subiti, il comitatulo ossolano cioè la pars publica dell’antica contea dipendente dal
castello di Mattarella. Il solenne diploma concesso alla
Chiesa Novarese nel 1014 segna dunque l’inizio del dominio feudale della medesima nell’Ossola, dominio che
durerà circa tre secoli.
Cronache dei secoli XI e XII
La società ed il sistema politico feudale sono al massimo sviluppo nel secolo XI, ma contemporaneamente si
intravvedono i segni di una grave crisi. Il tentativo da
parte degli imperatori di riaffermare il proprio potere su
una società disgregata e pullulante di mille contraddizioni politiche cozza con quello dei signori laici ed ecclesiastici. L’imperatore poi ha uno scontro diretto con
la Chiesa a causa delle investiture ecclesiastiche collegate con i feudi da esse dipendenti.
Nella lotta che ebbe per protagonisti il papa Gregorio
VII ed il re Enrico IV i vescovi di Novara si mantennero dalla parte dell’imperatore e molti di essi ricevettero da lui l’investitura senza essere riconosciuti dal Papa
e quindi sono spesso ricordati come «invasori della cattedra di S. Gaudenzio». Grande era anche la decadenza dei costumi del popolo e del clero, dovuta al fatto che gli ecclesiastici erano più impegnati negli affari politici ed economici che non nel ministero pastorale. Il clero era poi spesso viziato dalla eresia dei Nicolaiti per cui, contravvenendo alla disciplina della Chiesa cattolica latina, molti preti prendevano moglie. Anche su questo punto dobbiamo notare che i vescovi di
Novara sono fra quelli che, come il vescovo di Vercelli e
l’arcivescovo di Milano, si oppongono alla riforma del
clero, ostacolando quel movimento popolare detto dei
Patàri, sorto a Milano, che riuniva tutti gli uomini desiderosi di eliminare tale piaga. In questo tempo subisce il martirio il diacono Arialdo di Milano, capo della
Patarìa, che viene ucciso nell’isola Madre del lago Mag-
giore da due preti nicolaitici su ordine di Oliva, nipote dell’arcivescovo Guido di Velate. Il mondo cristiano è frattanto sollecitato a muoversi per opporsi all’avanzata dell’Islamismo divenuto padrone della Palestina e pronto ad estendere il suo dominio in Africa ed in
Europa. Dopo vari tentativi andati a vuoto, finalmente una Crociata organizzata dai principi cristiani riesce
a riconquistare Gerusalemme e la Palestina, dando origine ad un regno cristiano (1099), il cui primo re fu il
glorioso Goffredo di Buglione.
Tutti questi eventi produssero effetti sociali importanti. Il popolo cominciò a partecipare attivamente alle vicende politiche e religiose, al movimento della Patarìa
ed alle Crociate, organizzandosi in varie corporazioni
nelle città e liberandosi dalla servitù della gleba nelle
campagne. A Milano nasce il Comune con i suoi consoli e magistrature nuove. La nobiltà è costretta a inurbarsi e riconoscere l’autorità del Comune. Il movimento comunale si estenderà lentamente alle campagne fino
a coinvolgere anche i centri più piccoli.
Frattanto in Ossola e nel Novarese i signori laici, già
aderenti a re Arduino, cercano di riprendersi quei beni
che gli imperatori Enrico II e Corrado II avevano assegnato alla Chiesa novarese. I signori di Pombia, poi denominati Conti di Biandrate, i Conti di Castello, i conti di Crusinallo estendono i loro possessi nel Novarese, nel Vercellese, attorno al lago Maggiore e nell’Ossola. I vescovi novaresi tengono a mala pena il castello
e le terre dipendenti dalla Corte di Mattarella in Ossola, ma anche questo feudo viene qua e là occupato da
quei signori.
Fortunatamente dopo una serie troppo lunga di vescovi intrusi, risolta almeno in parte la questione delle investiture, sulla sede di S. Gaudenzio di Novara salgono
vescovi legittimi, cominciando da Riccardo e seguito da
Litifredo (1124-1151) con i quali si ha un deciso miglioramento religioso e civile. Le lotte precedenti in cui
il clero fu parte attiva avevano infatti molto diminuito il fervore cristiano del popolo che i preti nicolaitici
non avevano provveduto a istruire e guidare. Ecco perché, dopo le mirabili chiese con cui si chiude il secolo
X, come S. Bartolomeo di Villa e S. Maria di Trontano,
non sorgono nuovi edifici religiosi se non nel secolo XII
come S. Martino di Masera, S. Maria Maggiore in val
21
Vigezzo, S. Maria di Montecrestese, S. Stefano di Crodo ecc. Il vescovo Litifredo ottenne dal papa Innocenzo
II, nel 1133, una Bolla dalla quale sappiamo che in Ossola vi sono solo tre pievi o parrocchie: la pieve di Domodossola, la pieve di Vergonte e la pieve di Mergozzo.
Da ognuna di queste pievi dipendevano le chiese sussidiarie costruite da tempo in tutte le valli. Con il vescovo
Litifredo si avvia, crediamo, il processo di separazione
delle varie parrocchie dalla pieve-madre che, secondo la
necessità e le circostanze, condurrà alla situazione presente. Sono prime a separarsi le parrocchie vallive di val
Vigezzo con S. Maria Maggiore, di val Antigorio con S.
Stefano di Crodo, di val Divedro con S. Maria di Crevola, di valle Antrona con S. Bartolomeo di Villa, seguite da altre. Domodossola riprende intanto il suo ruolo
di capitale dell’Ossola superiore, non solo per il mercato settimanale del sabato che vi si faceva da epoca immemorabile, ma soprattutto perché centro della vita religiosa della pieve.
La sua chiesa pievana o Duomo sostituirà l’antico nome
di Oscella e sarà Duomo di Oscella o Domodossola. All’inizio del secolo XII prende anche il nome di Borgo.
Infatti numerosi signori vi hanno le loro abitazioni ed il
vescovo pone alcuni funzionari e uffici nel suo palazzo
in servizio della comunità.
L’Ossola inferiore, parte della valle Vigezzo, della val
Formazza, della val Divedro ed alcuni luoghi attorno
a Domo, come Vagna, Montecrestese, Caddo e Masera
sono di proprietà almeno parziale dei Conti di Castello, di Biandrate e di altri signori.
Morto il vescovo Litifredo nel 1151 gli successe Guglielmo Tornielli. Nel 1154 scende in Italia l’imperatore
Federico, duca di Svevia, detto il Barbarossa, allo scopo
di sottomettere all’autorità imperiale quei comuni che,
come Milano, si stavano apertamente emancipando. Il
vescovo Tornielli, essendo l’imperatore a Casale, ottenne un diploma di conferma di tutti i beni e diritti feudali concessi dai re ed imperatori precedenti.
In questo diploma datato 3 gennaio 1155 è esplicitamente ricordato il castello di Mattarella con tutte le sue
pertinenze (castrum Mattarellae cum omnibus pertinentiis suis). Ma lo stesso imperatore aveva nel 1152 confermato i feudi dei conti di Biandrate fra cui il castello di Megolo con tutto il comitato dell’Ossola. Eviden22
temente non poteva essere intenzione dell’imperatore
di dare lo stesso territorio in feudo a due enti diversi.
Si deve quindi ammettere che, data la complessa situazione giurisdizionale del territorio, il comitato ossolano
confermato ai conti di Biandrate fosse altra cosa dal comitatulo ossolano dipendente dalla Corte di Mattarella e dal vescovo.
Il Comune di Novara, il suo vescovo ed i potenti signori di Biandrate e di Castello continuarono a mantenersi
fedeli all’imperatore anche in occasione della sua seconda discesa in Italia nel 1158, e dopo la scomunica che
contro i partigiani di Federico Barbarossa aveva lanciato il legato del papa Alessandro III nel 1160.
Anzi i Novaresi, e con essi gli Ossolani, parteciparono
alla presa di Milano ed alla sua distruzione nel 1162.
Tornato in Italia il Barbarossa nel 1166 trovò però i popoli molto malcontenti del governo imperiale. Molte
città si distaccano dall’imperatore e fanno lega con Milano. Anche il Comune di Novara ed il nuovo vescovo Guglielmo Falletto aderiscono il 15 marzo 1158 alla
Lega. I Conti di Biandrate, i Conti di Castello ed altri
signori si mantengono invece fedeli all’imperatore.
Quando il Barbarossa seppe che Novaresi e Vercellesi
avevano aderito alla Lega Lombarda fu fortemente irritato contro Vercelli e Novara, ma intanto le milizie
di questi due comuni distruggevano il castello di Biandrate giurando poi di impedirne sempre la ricostruzione. La Lega si perfezionò e ingrandì negli anni seguenti con l’adesione di altri comuni come Pavia. Lo scontro fra le milizie della Lega Lombarda e quelle imperiali
si ebbe nella memorabile giornata del 29 maggio 1176
a Legnano in cui il Barbarossa fu vinto ed a stento poté
salvare la vita.
Egli dovette poi concedere ai Comuni il privilegio di
Costanza il 23 giugno 1183, con cui questi ebbero una
certa autonomia. I Comuni avrebbero eletto liberamente i consoli ed altri magistrati e l’imperatore avrebbe dato ad essi l’investitura. Sulla falsariga dei comuni
maggiori si organizzarono in seguito tutte le comunità, fatto che riscontriamo puntualmente anche in tutta l’Ossola.
Cronache del secolo XIII
II Comune di Novara nel secolo XIII è proteso a sotto-
porre tutto il territorio della diocesi di Novara. È quindi naturale che in questo disegno dovessero essere eliminati tutti i signori feudali che possedevano beni in
quel territorio, compreso il vescovo. I Novaresi tentano
anzitutto di ridurre i Conti di Biandrate e di Castello
a riconoscere l’autorità del Comune. Il 19 agosto 1218
Guido fu Raineri Conte di Biandrate fu anzi costretto a
vendere al Comune di Novara tutti i suoi beni e castelli dell’Ossola e specialmente quello di Megolo e Medoletto, mantenendo la giurisdizione sui luoghi che però
era esercitata in nome del Comune di Novara. Anche i
Conti di Castello dovettero cedere le loro terre ed i castelli dell’Ossola e della valle Intrasca e sottoporsi al Comune di Novara. Ma i popoli soggetti non furono affatto contenti di questo cambio di autorità, né tanto meno
il vescovo che vedeva lesi molti dei suoi diritti su terre di
sua proprietà che venivano arbitrariamente sottoposte
ai consoli del Comune di Novara. Anche con il vescovo la lotta si fece aspra e fu difficile al vescovo impedire che i podestà del Comune di Novara esercitassero la
loro giurisdizione anche nelle valli ossolane dipendenti dalla Corte di Mattarella. La situazione era molto ingarbugliata giacché si ritrova che nella stessa comunità
esistevano uomini che dipendevano dal vescovo ed altri che, essendo stati soggetti ai Conti di Biandrate o di
Castello, dovevano sottoporsi alla giurisdizione del Comune di Novara. L’Ossola è come la pelle di un leopardo dove vescovo e comune hanno piccoli territori sparsi e disuniti fra loro.
Dopo l’ultima guerra in cui i Conti di Biandrate e di
Castello si appoggiarono ai Vercellesi per liberarsi dalle
pretese del Comune di Novara, alla quale parteciparono anche gli Ossolani ad essi sottoposti, e che si concluse con la presa e distruzione di Pallanza da parte dei Novaresi nel 1223, tutta l’Ossola inferiore cadde nel dominio del Comune di Novara, il quale pose i suoi podestà
nel borgo di Vergonte. In questo tempo i Novaresi costruirono anche il borgo di Intra ed elevarono Mergozzo al grado di borgo. Questi borghi tendono a chiudersi
con una cinta muraria. Nel 1233 il Comune di Novara
ed il vescovo Oldeberto eleggono dei rappresentanti per
fare un accurato censimento degli uomini e dei beni appartenenti alle due giurisdizioni, fissando anche la rigorosa proibizione che uomini e beni passassero in alcun
modo da una giurisdizione all’altra. Un secondo censimento fu necessario all’epoca del vescovo Sigebaldo fra
il 1260 ed il 1267.
Nell’Ossola Superiore intanto si verifica un fatto notevole. In occasione della discesa in Italia dell’imperatore
Ottone IV, il nobile Guido de Rodis, padrone di molti possessi in val Antigorio e in val Formazza, ne ottiene l’investitura con atto solenne del 25 aprile 1210, costituendosi valvassore dell’Impero e quindi indipendente dalla Corte di Mattarella. In Formazza, a Salecchio,
ad Agaro i discendenti di Guido de Rodis, con le varie
denominazioni (de Baceno, de Cristo ecc.) svilupparono lo sfruttamento degli alpeggi con notevoli vantaggi
economici. In questi luoghi essi avevano probabilmente
alcuni servi della gleba a cui si aggiunsero con un contratto enfiteutico numerosi nuclei famigliari di origine
walser provenienti dalla vicina Svizzera. Anche i possessi dei Conti di Castello e di Biandrate nelle parti più
alte delle valli Anzasca (Macugnaga) e Divedro (Gondo, Sempione) furono sfruttati con questo sistema degli insediamenti walser. Un gruppo di essi anzi venne
ad abitare anche ad Ornavasso ed a Migiandone invitati dai signori locali.
Nacquero nell’Ossola, sulla falsariga di quello che avveniva a Novara ed a Milano, i partiti Guelfi e Ghibellini qui detti degli Spelorci e dei Ferrari rispettivamente. Queste fazioni si combatterono aspramente fino alla
fine del secolo XVI.
Il vescovo per mantenere il proprio potere era costretto
ad appoggiarsi ai signori locali, i De Rodis, i Baceno, i
Silva, i Campieno ecc. verso i quali fu generoso di elargizioni e favori, concedendo investiture di decime ecclesiastiche spettanti alla mensa episcopale.
Ma tutte le vicende politiche che mutano governo a
Milano ed a Novara si riflettono puntualmente anche
nell’Ossola. Emergono a Milano le potenti famiglie dei
Della Torre o Torriani e loro consorteria ed allora vediamo che membri di questa famiglia assumono la podesteria non solo del Comune di Novara, ma anche della
Corte di Mattarella. La caduta dei Torriani ed il prevalere dei Visconti, per opera soprattutto del vescovo Ottone Visconti, costringe anche il vescovo di Novara a
valersi di questi signori per mantenere il suo potere.
Molto utile all’Ossola fu la permanenza sulla sede di S.
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Gaudenzio del vescovo Papiniano della Rovere, dotato
di eminenti qualità politiche ed ecclesiastiche. Egli diede coraggiosamente inizio ad una riforma civile e religiosa della diocesi e dei suoi domini temporali con un
Sinodo (1298) di cui rimangono i canoni promulgati.
Provvide anche a difendere il dominio episcopale impedendo trapassi di giurisdizione.
Meritano anche un cenno alcuni avvenimenti dell’Ossola Inferiore. Il borgo di Pieve Vergonte subì una distruzione quasi completa per opera del torrente Marmazza. Fu quindi necessario costruire un altro borgo in
vicinanza e prese il nome di Pietrasanta, dove risiedeva
il Podestà dell’Ossola dipendente dal Comune di Novara. Ma anche questo borgo durò poco giacché subì ripetute devastazioni da parte del fiume Anza e nel 1328 fu
necessario abbandonarlo. Prese allora il titolo e la funzione di borgo l’abitato di Vogogna.
Cronache del secolo XIV
Nella lotta fra i partiti guelfo e ghibellino anche l’Ossola ebbe la sua parte nel secolo XIV. Durante la vacanza
della sede episcopale novarese il vescovo di Sion Bonifacio di Challant, ghibellino, scese in Ossola per il passo
del Sempione nel 1301 e devastò il paese saccheggiando il borgo di Domodossola. Non era la prima volta che
Quadro votivo. Domesi in processione contro le piene del Bogna (1690).
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l’Ossola subiva dai vicini Vallesani questo trattamento
poco amichevole. Ai borghigiani domesi parve necessario difendersi meglio cingendo l’abitato di una solida
cerchia muraria. L’idea venne condivisa anche dal nuovo vescovo Bartolomeo Quirino (1302-1304) il quale,
venuto a Domo, diede inizio al lavoro con la posa della prima pietra. Anche il successore Uguccione dei Borromei parve sulle prime propenso alla realizzazione di
questa importante difesa, ma successivamente, indotto nel sospetto che con l’erezione delle mura i Domesi
si sarebbero ribellati al vescovo conte per erigersi in comune autonomo, cercò di far fallire il progetto in parte già realizzato. Per tranquillizzare i Domesi fece un
accordo con il vescovo di Sion (1306) che incontrò al
Sempione e il 24 marzo 1307 ordinò esplicitamente la
sospensione dei lavori. Dubitando poi della fedeltà degli Ossolani il 27 aprile seguente convocò nella chiesa
plebana di Domo una Credenza Generale e tutti i rappresentanti delle comunità ossolane dipendenti dalla
Corte di Mattarella gli giurarono fedeltà come signore
temporale. Il sospetto del vescovo Uguccione era fondato. Il partito che anelava e tramava l’indipendenza organizzò una fiera opposizione al vescovo valendosi anche
di uomini rissosi e violenti. Nell’estate del 1307, mentre il vescovo Uguccione dei Borromei era a Domodos-
sola, un gruppo di armati guidato dal signor Guglielmo
di Pallanzeno, detto il Petrazzano, sorprese in casa il vicario o giudice del castellano di Mattarella, assieme al
notaio, il giurisperito Bernando de’ Marsili di Parma,
Enrico di Olevelo ed il sergente Guglielmo di Cortona
e li uccise. Assalì poi la casa del vescovo, cioè il palazzo
episcopale, ed Uguccione fu costretto a fuggire nel vicino campanile della chiesa dei SS. Gervasio e Protasio,
dove restò assediato per tre giorni senza che alcuno gli
recasse aiuto. Nel contempo il Petrazzano riuscì anche
con uno stratagemma a penetrare nel castello di Mattarella e saccheggiarlo.
Liberato finalmente dalla sua incomoda abitazione, il
vescovo Uguccione, il 21 luglio 1307, lanciò l’interdetto sul borgo di Domo e scomunicò i suoi assalitori, allontanandosi dall’Ossola per cinque anni. Contro i Domesi ribelli fu mandato anche un piccolo esercito comandato da Ottobono Visconti, ma l’esito fu negativo. Nel 1310 con la venuta a Novara dell’imperatore
Enrico VII si ebbe una generale pacificazione dei partiti guelfi e ghibellini ed il vescovo Uguccione ottenne
nell’aprile del 1311 un diploma di conferma di tutti i
suoi diritti feudali. Nell’estate seguente un corpo militare di 400 uomini guidato da Pietro di Monteformoso,
castellano di Mattarella, assalì Domodossola, ma i Domesi con l’aiuto del Petrazzano e della sua banda di facinorosi respinsero l’attacco. In questa piccola guerra soffrirono anche i paesi vicini che avevano accettato di legarsi ai Domesi ribelli; Villa fu saccheggiata e subì l’incendio di 150 case. Ma anche il castellano Pietro da
Monteformoso fu respinto verso il Toce dove perdette
ben 200 uomini. Nel 1312 Uguccione ritornò in Ossola. Gli animi erano evidentemente cambiati, giacché
il 27 aprile, nel palazzo episcopale posto nel castello di
Mattarella davanti a lui compare il Petrazzano che chiede perdono dei suoi misfatti. Il vescovo gli confiscò tutti i beni posti nel territorio della sua giurisdizione temporale e lo mandò a domicilio coatto a Porto Val Travaglia. Le relazioni con i Domesi migliorarono negli anni
seguenti tanto che questi nell’autunno del 1314 si sottomisero al vescovo chiedendo di essere liberati dall’interdetto. Ma il Petrazzano che aveva frattanto ottenuto il permesso di mutare il domicilio coatto fissandolo
a Trontano, riuniti nel 1315 i compagni della sua ban-
da, si vendicò delle requisizioni fatte dal vescovo e saccheggiò molti dei beni episcopali specialmente a Villa.
Anche i capi ribelli domesi ripresero le armi e la costruzione delle mura del borgo rimasta sospesa; perciò il vescovo il 24 marzo 1317 rinnovò il precetto di sospendere la costruzione. Ma i Domesi si appellarono all’arcivescovo di Milano come metropolita ottenendo una sentenza favorevole. Il vescovo Uguccione fu allora costretto ad appellarsi al Papa che in quell’epoca risiedeva ad
Avignone. Il processo davanti agli uditori pontifici ebbe
inizio il 28 ottobre 1318 e si concluse con un compromesso negli arbitri Tebaldo Brusati prevosto di Novara
e Guglielmo Revelli decano di Burlazio della diocesi di
Castro, uditore apostolico, il 27 agosto 1321.
La sentenza, dell’11 dicembre successivo, riconobbe i
diritti del vescovo e impose ai Domesi l’abbattimento
delle mura, la multa di 1600 fiorini e la piena sottomissione al loro signore temporale. Ma Uguccione fu magnanimo con i Domesi, permettendo che le mura rimanessero e facendo piena pace con essi. Durante questo periodo di discordie molti furono tuttavia i dispetti,
le violenze e i disordini che avvelenarono l’animo degli
Ossolani. Nel 1331 divenne vescovo di Novara Giovanni Visconti, uomo potente ed astuto, il quale nell’anno
seguente, con uno stratagemma rimasto famoso, si fece
riconoscere signore generale di Novara. La strapotenza
dei Visconti costrinse gli Ossolani alla calma. Dal 1342
al 1354 Giovanni Visconti tenne poi la sede arcivescovile di Milano, ma mantenne la signoria del Novarese.
È questo il tempo in cui furono completate le difese di
Vogogna con la costruzione del castello, della rocca e
del Pretorio. Sulla sede di S. Gaudenzio fu posto invece Guglielmo Amidano il quale era uomo di molta religione e capacità di governo. Egli cercò di sopire le rivalità fra i partiti e le famiglie nobili ossolane. Ma le fazioni rispuntarono immediatamente con il successore Oldrado (1357-1388) di carattere completamente opposto. Spelorci e Ferrari si azzuffarono in continuità, favoriti dagli avvenimenti succedutisi nella seconda metà
del secolo XIV.
Con la morte dell’arcivescovo Giovanni Visconti di Milano (1354) i nipoti Barnabò e Galeazzo si divisero il
vasto dominio. A Galeazzo toccò il Novarese e quindi anche l’Ossola Inferiore. Ma essendo sorta una lega
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contro i Visconti, costituita dagli Estensi, dai Gonzaga e dal Marchese di Monferrato, il Novarese fu invaso e saccheggiato dalle milizie mercenarie al soldo della lega, mentre il marchese di Monferrato, per il quale
parteggiava il partito ossolano degli Spelorci, occupava
l’Ossola inferiore e Vogogna. Con la pace dell’8 giugno
1358 Galeazzo Visconti tornò in possesso del Novarese
ed anche dell’Ossola inferiore, dopo un periodo nefasto
di lotte e rapine fra i partiti opposti. Vista la assoluta impotenza del vescovo conte a tenere a freno i suoi sudditi, gli Ossolani della Corte di Mattarella pensarono di
sottomettersi ai Visconti con alcune condizioni: che pagando 1000 fiorini annui fossero liberi da ogni altra tassazione e che fossero rimesse tutte le condanne per i delitti commessi nella precedente guerra, restituendo tuttavia ai castellani i loro stipendi e tutte le cose rubate.
L’atto fu firmato il 26 agosto 1358. Pare che il vescovo
Oldrado non abbia fatto alcuna opposizione a questo
atto di dedizione degli Ossolani ai Visconti.
Nel 1361 riprende la guerra fra i Visconti ed il marchese di Monferrato con tutte le conseguenze luttuose che
accompagnano simili eventi. Ci furono distruzioni vastissime, una gravissima carestia e poi la peste, portata dalle famigerate milizie mercenarie inglesi. A Novara per la peste morirono due terzi della popolazione,
77000 persone a Milano ed un numero enorme nelle campagne e centri minori. Ad aggiungersi venne nel
1364 il flagello delle cavallette che in forma di grandi
nubi di insetti scendevano sui campi, sui prati e sui boschi per divorare ogni cosa verde. Fu in questo tempo
che, a seguito dei voti dei montanari furono costruite
molte cappelle ed oratori dedicati a S. Bernardo di Aosta, protettore dalle infestazioni demoniache e tale pareva quella delle cavallette divoratrici.
Intanto contro i Visconti si muove anche il papa Gregorio XI che contro di essi bandisce una crociata e li scomunica. Si costituisce contro i Visconti una nuova lega
a cui partecipa anche il conte Amedeo VI di Savoia.
Tutti i popoli sottomessi vengono dal Papa invitati a ribellarsi. Gli Ossolani che per due secoli erano stati governati dai vescovi di Novara avevano frattanto, nei pochi anni in cui erano sottoposti ai Visconti, provato la
durezza del nuovo regime e quindi rinacque in essi il
desiderio, appena sopito, dell’indipendenza. Per otte26
nerla essi avrebbero anche seguito l’invito del Papa alla
ribellione ed a questo scopo inviarono ambasciatori segreti alla Corte di Avignone. Ma pare che il Papa non
approvasse il progetto dell’indipendenza che avrebbe
sottratto alla Chiesa novarese il feudo da essa posseduto. Il Papa spedì molte lettere ai personaggi più in vista
dell’Ossola affinché la ribellione fosse realizzata al più
presto. Al medesimo scopo inviò frate Valentino Moriggia, già guardiano del convento dei Frati Minori di
Domo, per legare insieme i nobili e capi delle varie fazioni e spingerli alla rivolta armata. Capitano fu scelto
il nobile Garbellino di Semonzio di Crevola, la cui famiglia prenderà successivamente il nome dei Dal Ponte,
dopo che, distrutte le sue case nelle lotte di questi tempi, il figlio Lorenzo costruì il suo palazzo presso il ponte sulla Diveria a Crevola. Sollecitati dal Papa gli Ossolani di parte Spelorcia si ribellarono ai Visconti, occupando il borgo di Domo, il castello di Mattarella ed altri luoghi, ma la parte ferraria non si mosse e fece fiera opposizione. Anzi, una compagnia di milizie spelorcie che tentava di giungere a Vercelli per dare aiuto al
nunzio papale nell’assedio di quella città, fu distrutta
dalla parte ferraria presso Anzola nel 1374. Ma la parte spelorcia si rivalse saccheggiando ed occupando momentaneamente Vogogna. Vista la incapacità del vescovo Oldrado di attendere ai suoi obblighi e la sua completa sottomissione ai Visconti, il Papa lo sospese, mandando in Ossola come vicari due canonici di Sion ed un
nuovo capitano nella persona di Merino de Ulmo, bergamasco, per nuove e più vaste operazioni militari. La
lotta infatti era degenerata nel brigantaggio. Venuta finalmente la pace, firmata a Samoggia il 19 luglio 1375,
il Novarese ritornò in mano di Galeazzo Visconti.
Gli Ossolani, abbandonati a se stessi, continuarono la
guerra in proprio con ogni sorta di violenza pubblica
e privata. Alla fine ne furono stanchi e nauseati e non
trovarono di meglio che ritornare a sottomettersi ai Visconti. Lo fecero comunque con quella dignità e saggezza che permise loro di sentirsi più liberi. L’atto di
dedizione fu firmato nel refettorio dei Frati Minori di
Domo il 19 marzo 1381 da rappresentanti di Gian Galeazzo Visconti, conte di Virtù, i signori Andrea dei Pepoli e Pietro di Muralto, ed i procuratori delle Comunità dell’Ossola superiore. La convenzione del 1381 dava
agli Ossolani una certa autonomia amministrativa, li liberava mediante lo sborso annuo di 750 fiorini da ogni
tassazione, permetteva ad essi il libero commercio delle granaglie ed altri beni di consumo sui mercati della
Lombardia e del Novarese, otteneva la reintegrazione
nei beni di quelli che avevano subito confische durante il periodo bellico. Il vescovo di Novara Oldrado ancora una volta non si oppose, e solo qualche tentativo
fu fatto più tardi dai suoi successori per tornare in possesso della Corte di Mattarella e del suo territorio. Analogamente, con atto dell’11 aprile 1381, anche l’Ossola inferiore di parte ferraria si accordò con Gian Galeazzo Visconti.
I Visconti già nel 1379 erano venuti in possesso per
compera della terra di Ornavasso che apparteneva ai
Conti di Crusinallo ed era passata nel secolo XIII in
mano dei Conti di Castello. Su questa terra avanzava
pretese anche il vescovo di Sion per certi legami con la
famiglia detentrice del feudo che aveva residenza anche nel Vallese. Così tutta l’Ossola, eccettuato il piccolo feudo dei De Rodis-Baceno di Formazza, Agaro e Salecchio, entrò nel dominio visconteo.
Fu mantenuta in Ossola la divisione fra le due giurisdizioni con sedi rispettivamente a Vogogna ed a Domodossola, ognuna vivendo secondo le proprie leggi e statuti. In questo periodo però i Visconti giustamente promossero riforme statutarie al fine di uniformare le leggi su tutto il territorio e favorirne l’unità amministrativa e civile. Sotto Gian Galeazzo Visconti furono riformati gli antichi statuti della Corte di Mattarella e fatti molti altri.
Prima di chiudere la cronaca del secolo XIV, ricordiamo che il vescovo Pietro Filargo, poi divenuto papa col
nome di Alessandro V, rivendicò formalmente il possesso della Corte di Mattarella e del suo territorio con
un diploma che egli ottenne dall’imperatore Venceslao,
assieme al titolo di duca per Gian Galeazzo Visconti
(1395) di cui era grande amico e favoreggiatore. Si presume però che a questo atto formale non seguisse alcun
che. Probabilmente Gian Galeazzo Visconti provvide a
tacitare il vescovo di Novara assegnando alla sua mensa
alcune sicure entrate delle quali si riscontrano le tracce
nei secoli seguenti, come i diritti sulle miniere di ferro,
di laugera ed altri.
Cronache del secolo XV
Alla morte di Gian Galeazzo Visconti si creò nel ducato di Milano una situazione politica incerta e nell’Ossola le fazioni degli Spelorci e dei Ferrari ripresero a
combattersi assoldando spesso anche bande di facinorosi. Dalla parte spelorcia è ricordata una vittoria riportata sulla parte avversa nel 1406 (21 marzo) che diede
origine ad un voto a S. Benedetto.
In questa incerta situazione politica il vescovo di Novara Capogallo si intromise per pacificare gli Ossolani.
Nel 1404 ottenne dal duca di Milano a questo scopo la
reintegrazione nel dominio temporale dell’Ossola superiore. Riuscì nel 1404 a mettere pace in valle Antigorio la quale però esigette il riconoscimento di una certa indipendenza ed una parziale separazione dalla Corte di Mattarella con l’erezione di una nuova vicaria che
ebbe la sua sede a Crodo e che durerà fino al 1861.
Il 10 luglio 1406 anche la valle Vigezzo elegge i suoi
procuratori per una pacificazione seguita dal perdono
generale dato dal vescovo Capogallo il 13 dicembre del
medesimo anno. Si era nel contempo guastata anche la
pace con gli Svizzeri confinanti. Nel 1407 la parte spelorcia si riappacificò anche con essi, cioè con i Vallesani ed il vescovo di Sion. Si trattò però di una pace puramente interlocutoria. I Cantoni svizzeri infatti premevano per accedere al versante sud delle Alpi, verso
la Lombardia, che in quell’epoca era una delle regioni
più ricche d’Europa. Esportatori di milizie mercenarie,
gli Svizzeri, tenevano in gran conto ogni piccolo sgarbo per giustificare la loro presenza in Ossola. Prendendo dunque motivazione da alcuni sequestri di bestiame
fatti dai Formazzini a danno dei Leventinesi, in quel
tempo dominati dai Cantoni svizzeri di Uri e Unterwald, oltre 300 Svizzeri scesero in Ossola venendo dal
Gottardo e dal Sempione, occuparono Domodossola
esigendo dagli Ossolani il giuramento di fedeltà, del
cui valore si può dubitare. Lasciato un presidio in Ossola se ne andarono. Ma poco dopo questo fu cacciato.
Tornarono in maggior numero gli Svizzeri l’anno seguente, rioccupando Domo e spingendosi fino a Vogogna. Gli Ossolani chiesero segretamente aiuto al conte Amedeo VIII di Savoia che inviò attraverso il Sempione un robusto corpo di armati sotto la guida del capitano Pietro di Chivron, costringendo verso la fine di
27
maggio del 1411, gli Svizzeri a ritirarsi. Anche Amedeo
VIII di Savoia ottenne il giuramento di fedeltà dagli
Ossolani di parte spelorcia.
Nel 1415 gli Svizzeri discesero nuovamente in Ossola
sorprendendo le scarse milizie savoiarde poste alla difesa dell’Ossola. Occuparono Domodossola ed il castello di Mattarella e per tutelarsi ulteriormente inviarono numerose squadre di Ossolani a distruggerlo, lasciandovi un gran cumulo di rovine. Rinforzi mandati
dal Duca di Savoia ottennero il ritiro degli Svizzeri dall’Ossola fino al febbraio del 1417, quando un numeroso gruppo di essi scese dal Gottardo lungo il lago Maggiore e risalì l’Ossola da Sud. Le milizie savoiarde furono imbottigliate in val Divedro e in gran parte massacrate. Con questa spedizione gli Svizzeri occuparono
tutta la regione sulla sponda destra del Toce, da Villa in
su fino a Pontemaglio e tutta la valle Antigorio e Formazza, ponendo numerosi presidi armati per circa cinque anni. Il vescovo di Novara tentò ancora una volta
di recuperare il dominio temporale in Ossola promuovendo un processo contro gli Svizzeri occupanti davanti al Papa. Il processo fu fatto e concluso con la sentenza
del 16 dicembre 1420 in cui essi vennero scomunicati
e condannati, ma l’Ossola rimase nelle loro mani fino
al 1422, quando milizie scelte ducali, al comando del
famoso capitano Conte di Carmagnola, inflissero agli
Svizzeri la tremenda sconfitta di Arbedo presso Bellinzona (30 giugno 1422), costringendoli allo sgombero
di tutti i territori occupati. Tre anni dopo, nel 1425, gli
Svizzeri approfittando del fatto che il duca di Milano
Filippo Maria Visconti doveva tener testa ad una coalizione che comprendeva Venezia, Firenze ed il Duca di
Savoia, ritentarono la conquista dell’Ossola con un piccolo esercito di 500 armati al comando di Peterman Risigh di Switt che scelse la via del Gottardo e del Gries,
mentre forti gruppi di Vallesani penetravano attraverso
i passi del Sempione, della val Bognanco ed Antrona.
I capitani ducali viscontei dovettero ritirarsi nella bassa Ossola, dove si riorganizzarono e si raccolsero sotto il
comando del capitano Piccinino, il quale era giunto in
Ossola con un buon gruppo di milizie ducali. Gli Svizzeri, vista la situazione, si ritirarono non solo dall’Ossola, ma anche dalla valle Leventina e da Bellinzona.
Alcuni storici svizzeri affermano che tale ritirata non fu
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dovuta al timore delle armi viscontee, quanto piuttosto
al denaro sborsato dagli emissari ducali ai capitani svizzeri (1426).
Le continue invasioni svizzere favorirono nel secolo XV
in Ossola non solo le lotte fra i partiti dei Ferrari, generalmente fedeli al Duca di Milano, e degli Spelorci, più
propensi all’indipendenza, ma anche la nascita di un
consistente partito filosvizzero, rendendo la difesa dell’Ossola ancora più problematica. La pressione svizzera infatti continuò, favorita anche dalla litigiosità degli
Ossolani sugli alpeggi confinanti, da ruberie di bestiame, da angherie, incendi e omicidi in val Antrona, in
val Bognanco, in val Divedro ed in valle Antigorio. Tuttavia il 1° aprile 1448 fu firmato un compromesso fra il
Vallese e l’Ossola superiore allo scopo di evitare il peggioramento della situazione ed un’altra guerra.
Morto il duca Filippo Maria Visconti (1447), subentrò
per poco tempo la così detta Repubblica ambrosiana,
ma il Ducato di Milano cadde quasi subito nelle mani
del capitano Francesco Sforza dal quale gli Ossolani ottennero il 26 marzo 1450 la conferma dei loro privilegi. Con Francesco Sforza si apre un periodo di relativa tranquillità in Ossola dove vengono anche rinnovati tutti gli Statuti delle Comunità e si tenta di dare più
unità e conformità ai medesimi. La necessità tuttavia di
ottenere fondi sufficienti per le continue guerre in atto
costringe i Duchi di Milano a cedere in feudo poco alla
volta gran parte dell’Ossola, nonostante le rimostranze
degli Ossolani che vantavano il privilegio di essere completamente esenti da queste infeudazioni. Già il duca
Filippo Maria Visconti aveva dato Ornavasso in feudo ai fratelli Ermes e Lancillotto Visconti, feudo che fu
eretto in baronia nel 1413. Era un modo di gratificare
personaggi meritevoli per il Ducato.
In valle Vigezzo già alla fine del 1300 la giustizia era
amministrata da un vicario sia per la parte dipendente
dalla Corte di Mattarella che per quella dipendente da
Vogogna; ma nel 1430 il distacco è definitivo. Nel 1431
Mergozzo fu unito a Vogogna. Nel 1446 il duca Filippo Maria Visconti diede in feudo a Vitaliano Borromeo
tutta l’Ossola inferiore da Mergozzo a Masera, da Migiandone a Pallanzeno e tutta la valle Anzasca, imponendo il giuramento di fedeltà al feudatario. Si verificarono
forti resistenze all’infeudazione, specie in valle Anzasca,
resistenze che vennero superate con accordi stabiliti il 3
agosto 1449 e con l’approvazione degli Statuti presentati dalle comunità soggette. Vogogna fu la capitale del
feudo dei Borromei. Poco dopo, 5 maggio 1450, anche
l’intera valle Vigezzo venne da Francesco Sforza data in
feudo al conte Vitaliano Borromeo. Una costituzione
particolare fu scelta per le comunità di Trontano, Masera, Beura e Cardezza che in seno al dominio feudale dei
Borromeo ebbero una propria vicaria che fu detta delle
Quattro Terre. Il dominio feudale dei Borromei estendentesi anche nelle zone limitrofe della valle Cannobina e sul lago Maggiore cesserà alla fine del secolo XVIII
con l’abolizione generale dei feudi seguita alla occupazione francese dell’Italia.
Il 1487 è un anno memorabile per l’Ossola. Gli Svizzeri rinnovano infatti il tentativo di occupare l’Ossola.
I motivi o, meglio, i pretesti per mascherare il loro disegno antico di arrivare sulle sponde dei laghi subalpini erano naturalmente sempre gli stessi, del tutto insignificanti, sebbene raccolti con molta cura. Gli Sviz-
zeri avevano fama di soldati imbattibili e la loro tracotanza diceva che ne erano molto convinti. L’anima di
queste spedizioni era il vescovo di Sion, Jost von Sillinen (1482-1494). Già nel 1484, avvisato dal podestà di
Vogogna Bertolino Albasino dei preparativi che si stavano facendo al di là delle Alpi, Lodovico il Moro che
reggeva il ducato di Milano per il duca Giovanni Galeazzo Maria Visconti, rinforzò i corpi militari di guardia e difesa dell’Ossola, mandandovi come comandante il celebre capitano conte Gian Pietro Bergamino. Il
28 ottobre 1484 il vescovo di Sion dichiara la guerra al
duca di Milano ed invia immediatamente un esercito,
comandato dal fratello Albino, attraverso il Sempione.
Occupata momentaneamente la valle Divedro, appena
questi si accorge di aver di fronte un grosso contingente di armati ducali pronti al combattimento, riporta in
fretta i suoi oltre le Alpi, con grave disappunto del vescovo Jost. Nel 1487, col pretesto di vendicare delle offese fatte ai Vallesani in val Divedro, il vescovo Jost invia un altro esercito più numeroso ed agguerrito in Os-
Domodossola, Colle di Mattarella, torre d’angolo del castello (sec. XI - XIV).
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sola, sempre al comando del fratello. Prima del 18 aprile, giorno in cui fu dichiarata la guerra, già un buon numero di armati era stato concentrato dal conte Gilberto Borromeo a Vogogna, sebbene non riuscisse a convincere gli uomini dell’Ossola Superiore ad unirsi con
lui per difendere la val Divedro, forse per l’antico antagonismo di parte. Fortunatamente il 18 aprile un altro
contingente di truppe al comando del capitano Zenone
de Cropello, con 500 fanti e 50 schioppettieri, giunse a
rinforzare la difesa del borgo di Domo. Si aspettava anche l’arrivo in Ossola con le sue genti armate del condottiero ducale Renato Trivulzio, fratello del più famoso Gian Giacomo. La mattina del 20 aprile dalla gola
di Crevola si affacciarono i 6000 Vallesani a cui si erano aggiunte altre bande di Lucernesi. Questi, dopo aver
mandato ad occupare e presidiare la val Antigorio, puntarono sul borgo di Domo. Convinti dalle artiglierie del
capitano Zenone e da quelle di Gian Antenore Traversa, che in quel tempo comandava il presidio di Domo,
girarono al largo e si accamparono sul colle di Mattarella fra i ruderi del castello, non senza aver devastato i
luoghi circostanti.
Il giorno dopo, il 21 aprile, eccoli a incendiare ed a razziare da Calice fino a Villa. Il conte Gilberto Borromeo
in una lettera del 20 aprile al Duca, informa che prima
ancora di accamparsi a Mattarella questi thodeschi hanno corso li a cerchio fin appresso a Villa mettendo a focho
e fiama ogni cosa et amazando fin a li puti picoli, per non
poterli obviarli non havendo altra gente che paesani, quali sono voluti restare a casa loro per guardia de le sue cose.
Tornarono gli Svizzeri il giorno seguente (22 aprile) in
numero di circa 400 per assaltare Villa, ma vi trovarono una resistenza accanita da parte della gente del luogo
in cui aiuto erano accorsi i robusti montanari della val
Anzasca. I predatori svizzeri, tornarono a mani vuote,
dopo essersi vendicati bruciando qualche casolare.
In quel medesimo giorno giunse in Ossola il Trivulzio
col suo esercito e si fece un piano di guerra. Ma gli uomini della valle Anzasca e della valle Antrona che avevano fatto buona resistenza a Villa, o per timore o per
calcolo, dubitando forse che qualche gruppo di Vallesani giungesse alle loro spalle, come altre volte, attraverso i passi del Monscera, di Saas e del monte Moro, non
vollero partecipare alla battaglia, cercando di mettere
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in salvo le loro robe e dando così appiglio all’accusa di
essersi segretamente intesi coi Vallesani. I timori degli
Antronesi erano giustificati. Giovan Battista del Ponte scrive il 18 aprile al Duca di Milano: quilli (todeschi)
quali sono venuti per la valle di Antigorio sono secundo se
dice gente de la Liga del Bo, et ho inteso che bruxano et
hano bruxato case et quelle gente che trovino de detta valle, menano tutty per ly terri. De hora in hora aspectamo un
altro assalto per la valle de Bugnanco da quilli frieri (frilli) quali erano nel campo di Saluzo... Aviso V. Excellentia
como domatina Deo danti me porto da qui et vado in la
valle Antrona et con li homeni de dicta valle che sono a numero di circha 600 homini et valenthomini et con certi altri homini de questa vostra jurisdictione farò tuto il podere mio per andare a bruxare a disfare una valle del Vescovo de Valese nominato Valzosia (Saas) quale confinia con
dicta valle de Antrona et de tutto quello che se farà, ne avisarò V. Excellentia. Non pare che il disegno del capitano
Del Ponte sia stato condotto a termine, ma gli uomini
di Antrona fecero buona guardia alla loro Valle.
Non ci furono scontri importanti fino al giorno 27 aprile, tanto che la notte del 25 aprile 2000 Vallesani salirono in val Vigezzo a far bottino. Giungevano frattanto in
Ossola altri rinforzi ai ducali ed in special modo il conte
Gian Pietro Bergamino con 2000 fanti; così che i ducali
potevano schierare in campo circa 3500 uomini.
Il 27 aprile Renato Trivulzio volendo saggiare la consistenza del nemico avanzò da Vogogna verso Beura con
50 balestrieri. La piccola schiera fu avvistata dagli Svizzeri dal castello di Mattarella e 500 di essi calarono sul
piano di Calice. Un gruppetto di ducali guidati dal capitano Jacopo dal Corte non esitò ad attraversare il Toce
ed attaccare duramente i Vallesani che lasciarono sul
terreno 50 morti e dovettero fuggire.
Questo assaggio era stato parecchio amaro per gli Svizzeri ed il loro comandante Albino di Sillenen ne trasse cattivi auspici. Mandò in fretta a richiamare dalla val
Vigezzo quelli che erano saliti a bottinare perché si affrettassero verso il ponte di Crevola dove anch’egli si
diresse coi suoi, lentamente, per guadagnare l’imbocco
della val Divedro e non vedersi tagliata la via dai ducali.
Mossisi gli Svizzeri da Mattarella verso Preglia, i capitani Zenone e Traversa che erano in Domo ne mandarono avviso a Vogogna dove il Trivulzio ed il Bergami-
no stavano concertando un piano di guerra. Il capitano
Jacopo dal Corte raggiunge Domo e coi suoi balestrieri sorprende gli Svizzeri a Preglia. Giunti anche Zenone e Traversa vengono attaccate le retroguardie svizzere
e costrette a impegnarsi. Sopraggiunge anche il Trivulzio che manda immediatamente un corpo di fanti scelto per il ripido sentiero che da Preglia porta in val Divedro ad occupare il ponte dell’Orco sulla Diveria, nel
punto cioè in cui la strada del Sempione salendo da
Crevola passa sulla sponda destra del Diveria, poco prima della frazione S. Giovanni, tagliando così la ritirata agli Svizzeri. La battaglia si accende quindi nel piano
fra Preglia e Crevola e nei pressi del ponte. Gli Svizzeri si ritirano lentamente aspettando di congiungersi con
il gruppo dei bottinatori saliti in val Vigezzo. Appena
questi furono visti scendere dai colli di Trontano con il
frutto delle loro razzìe, Jacopo dal Corte con un gruppo
di balestrieri a cavallo lascia Preglia e, passato il Toce, si
fa loro incontro. Gli Svizzeri si fermano e si chiudono
in difesa, ma pur essendo forniti di molte armi e anche
di schioppi ebbero notevoli danni dai balestrieri ducali. Ma poiché, nonostante i danni subiti si mantenevano chiusi in difesa, Jacopo dal Corte simulando una fuga, riuscì a sparpagliarli sul terreno, caricandoli poi duramente così che ne restarono uccisi un migliaio, abbandonando il bottino ed ogni cosa. Pochi riuscirono
a ricongiungersi coi loro, mentre la maggior parte degli
scampati fu braccata e trucidata dai montanari di Trontano e Masera.
La notizia di questo scontro e del risultato, giunta a
Crevola, portò il morale dei ducali alle stelle. Sopraggiunti anche il Bergamino ed il Borromeo con gli uomini di armatura pesante, si schierò l’esercito e fu dato
l’attacco al ponte di Crevola. La battaglia fu durissima e
combattuta con valore da ambo le parti. La sorte per gli
Svizzeri volse in sfavore quando un gruppo di cavalleria
ducale riuscì a passare la Diveria e prenderli alle spalle,
cosa che fece anche Jacopo dal Corte giungendo in quel
frattempo da Masera per la piana di Montecrestese. Gli
Svizzeri cominciarono a cedere, lasciando il ponte sotto il quale a centinaia si ammucchiavano i cadaveri ad
arrossare le acque del fiume e cercarono la difesa nelle vicine case tentando contemporaneamente di guadagnare la strada della salvezza. Ma questa era sbarrata al
ponte dell’Orco. Lungo l’angusta strada che si inerpica
sul monte furono facile bersaglio delle balestre puntate
su di loro e dei grossi massi rotolati dall’alto. Quelli che
non precipitarono nel fiume furono circondati e uccisi
o braccati dai paesani che non mancarono di incrudelire su di loro per vendicarsi di tante violenze passate.
Si dice che almeno 2000 Svizzeri morissero in questa
che fu una delle più gravi sconfitte subite da essi. Gli
Ossolani in ringraziamento dell’ottenuta vittoria, proprio sul luogo della battaglia al ponte di Crevola, costruirono un oratorio dedicato a S. Vitale, padre dei
Santi soldati Gervasio e Protasio, facendo anche voto di
visitarlo nel giorno della festa.
Dopo questa battaglia Ludovico il Moro venne in Ossola, pagò i soldati, visitò la valle ordinando gli opportuni restauri al castello di Mattarella ed alle altre torri
di difesa ossolane e gli sbarramenti al Passo di Premia
ed al Passo di Croveo contro possibili invasioni svizzere. Venne anche riorganizzato il sistema di rapide informazioni per mezzo di una rete di segnali che dalle valli
estreme erano rimandati da torre in torre fino a Milano.
La pace fu firmata il 23 maggio 1487 a Domodossola e completata con altra firmata a Milano il 9 gennaio
1495. Con questa il vescovo di Sion rinunciava ad ogni
pretesa sull’Ossola; tuttavia il ducato di Milano e quindi anche l’Ossola perdette definitivamente tutta la zona
che da Gondo, dove passa l’attuale confine italo-svizzero, giunge a Lattinasca, ossia all’attuale Gabi, comprendente la val Vaira, detta attualmente Schwitzbergental.
La pesante lezione della battaglia di Crevola non era
però stata sufficiente agli Svizzeri. Il vescovo Jost, sollecitato da Carlo VIII di Francia, rinnova l’attacco al ducato di Milano cercando di rendersi padrone dell’Ossola. Il 23 marzo 1495, mentre un gruppo di Svizzeri al
comando del famoso capitano Giorgio Supersaxo, che
tuttavia si era opposto in sede di consiglio a questa spedizione, evitando Domodossola, scendeva ad occupare
Villa e Piedimulera, il vescovo Jost con un altro gruppo
puntò su Domodossola sotto le cui mura però fu battuto e dovette riguadagnare il Sempione.
La val Formazza, stanca del dominio feudale dei De Rodis-Baceno chiese a Lodovico il Moro di esserne finalmente liberata e di dipendere direttamente dal Ducato
di Milano. Dopo lunghe insistenze, paventando forse
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che i Formazzini di origine walser decidessero di darsi
ai vicini Svizzeri, il Duca tolse il feudo ai De Rodis-Baceno, né valse una causa da essi fatta contro tal provvedimento a recuperarlo. Restò comunque ad essi Salecchio ed Agaro che passò in feudo ai Marini di Crodo e
successivamente fu comperato dal conte Giulio Monti di Valsassina.
Gli Ossolani rinnovarono anche la richiesta di conferma degli antichi privilegi ed il duca Ludovico il Moro
la concesse il 28 febbraio 1495.
Un cenno deve essere fatto anche di due avvenimenti
che commossero la devozione degli Ossolani. Nel 1492
un dipinto della Madonna nella chiesa di Cravegna si
rigò di sudore e di lacrime. Nel 1494 è l’immagine della Beata Vergine dipinta sulla facciata della chiesa di Re
che, percossa dalla sacrilega sassata di Giovanni Zuccone di Londrago, emana ripetutamente ed alla presenza
di persone eminenti del clero, dei magistrati locali ed
anche di molto popolo, un fiotto di sangue dalla fronte colpita. Ambedue questi fatti furono sottoposti a immediata ed attentissima indagine con processi che ne testimoniano l’oggettività e storicità, in documenti originali ancora esistenti negli archivi e registrati.
Cronache del secolo XVI
Ludovico il Moro con la sua politica ambiziosa non
mancò di attirarsi le odiosità dei sudditi e le gelosie
dei principi che vantavano qualche diritto sul ducato
di Milano. Primo fra tutti il nuovo re di Francia Luigi
XII, succeduto a Carlo VIII, la cui venuta in Italia aveva
scombussolato l’intera penisola. Vantava il re francese la
discendenza da Valentina Visconti data in sposa da Gian
Galeazzo nel 1389 a Ludovico duca di Turenna, fratello
di Carlo VI e figlio di Carlo V re di Francia. Tutto questo era noto e non mancarono di sorgere numerosi partigiani per il dominio francese in Italia e sul ducato milanese in particolare, indirettamente favoriti dalla politica di Ludovico il Moro che si era creato attorno molte inimicizie. Gian Giacomo Trivulzio non esitò a porsi al servizio del re di Francia e a capitanare un esercito francese che, sceso in Italia nel 1499, costrinse Ludovico il Moro a rifugiarsi in Tirolo mentre il re francese
Luigi XII, il 23 settembre entrava trionfalmente in Milano, ritornando però subito in Francia portando seco
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il conte Francesco Sforza ancora fanciullo.
Incominciarono così tutte le traversie del Ducato Milanese conteso entro la fine del 1400 e la metà del 1500
fra gli Sforza, i Francesi e gli Spagnoli.
Tutti questi avvenimenti in rapida successione si riflettono puntualmente anche nell’Ossola dove prendono
nuovamente forza i partiti locali. Tramontati apparentemente il guelfismo e ghibellinismo, ossia i partiti degli Spelorci e dei Ferrari, si parteggia per il duca di Milano o per il re di Francia oppure addirittura per la Lega
Svizzera dei 12 Cantoni.
I capi delle fazioni sono sempre quei nobili che avevano scelto di conservare e crescere le loro fortune militando sotto le bandiere ducali o francesi, reclutando anche in Ossola quelle milizie di cui avevano bisogno, ed
alle quali assegnavano talvolta gli stipendi impegnando
i propri beni. Favorevoli al Duca di Milano sono i Ponteschi, facenti capo alla famiglia del Ponte discendente da quel capitano Garbellino di Semonzio di Crevola, il cui figlio aveva abbandonato le sue case in Semonzio perché distrutte nelle guerre del secolo XIV per costruirsi una abitazione presso il ponte di Crevola, donde il nome.
D’altra parte, favorevoli al re di Francia sono i Brenneschi, un ramo dei De Rodis-Baceno ai quali si erano
uniti i Della Silva e De Rido di Crevola.
Tutte le altre famiglie nobili o particolarmente fornite di censo erano costrette ad entrare nell’una o nell’altra delle due consorterie; ma anche i piccoli proprietari o fittavoli che tenevano da questi signori gran parte
dei loro beni in enfiteusi o avevano verso di essi obblighi particolari erano necessitati a seguirli. I partiti ed i
loro aderenti amavano distinguersi anche esternamente non solo dai colori delle proprie bandiere, ma anche nei vestiti, nelle decorazioni degli ambienti e perfino scegliendo posti separati nelle chiese e valendosi di
porte diverse.
Impadronitisi i Francesi del Ducato Milanese, furono
mandati commissari anche nell’Ossola ed il 17 ottobre 1499 troviamo a Domo in questa funzione il signor
Giovanni Domenico dei Rizzi luogotenente di Manfredo Tornielli governatore dell’Ossola per il re di Francia.
Il 18 novembre seguente il suo posto è preso dal capitano Bernardino de Baceno luogotenente del capitano
conte Giovanni di Neufchatell.
Frattanto una sollevazione di popolo, causata dalla sfrenata licenza e tracotanza dei soldati francesi, restituisce
momentaneamente Milano a Ludovico il Moro che nel
febbraio del 1500 rientra a Milano. In aiuto del Duca
erano scesi 6000 Svizzeri fra cui molti del Vallese il cui
vescovo Matteo Schinner parteggiava apertamente per
il Moro. Queste truppe scendendo dal Sempione costrinsero i Francesi ad abbandonare Domo. Infatti il
19 febbraio 1500 riprende il suo posto nella Curia di
Mattarella il commissario ducale Giovanni Luchino dei
Crivelli di Milano che già possedeva questo ufficio prima dell’arrivo dei Francesi.
Ludovico il Moro non riuscì però a riconquistare il Ducato. Il 3 aprile 1500, fatto prigioniero dai Francesi all’assedio di Novara, fu mandato a morire in Francia.
Pochi giorni dopo i Francesi sono nuovamente in Ossola, dove ritorna il governatore e capitano Giovanni di
Neufchatell.
Gli Ossolani devono ora prestare il giuramento di fedeltà al re di Francia. Il 13 aprile 1500 c’è una procura da parte del notaio Giovanni Muzzeti (i Muzzeti
sono un ramo dei De Rodis-Baceno) nei signori Bartelino degli Albasini di Vogogna, Simone degli Albertazzi di Vogogna, Filippo di Pontemaglio di Domo e Giovanni Giacomo della Porta di Domo e Antonio de Baceno di Domo, tutti notai per giurare fedeltà al cristianissimo re dei Francesi. Questa procura, fatta al Ponte
di Villa dovette essere il primo atto di sottomissione al
re francese.
In questo periodo deve essere avvenuto anche un fatto
che è riportato dal Bascapè. Antonio Chilino creato dal
duca Ludovico il Moro castellano di Mattarella, mentre
si recava in Ossola per entrare nell’ufficio assegnatogli,
fu spogliato dei suoi bagagli dai soldati del Conte Borromeo e consegnò poi al Neufchatell il borgo ed il castello di Domo colla condizione di riavere il suo bagaglio e di andar libero.
Il pontefice Giulio II non sopportava che nell’Italia predominassero i Francesi e fece ogni sforzo per togliere ad
essi il Ducato di Milano e darlo al duca Massimiliano
Sforza figlio di Ludovico il Moro. A questo scopo, col-
l’aiuto dell’imperatore Massimiliano e della Repubblica di Venezia, costituisce la Lega Santa (5 ottobre 1511)
che al grido di fuori i barbari dovrebbe cacciare i Francesi dall’Italia. Per realizzare i suoi disegni il Papa si valse
di Matteo Schinner vescovo di Sion, uomo della taglia
mentale e del coraggio di Giulio II, abile diplomatico e
capace di guidare, se fosse stato necessario, un esercito
in battaglia. Lo Schinner fu da Giulio II creato amministratore perpetuo della diocesi di Novara, dopo la deposizione del cardinale Sanseverino che si era compromesso intervenendo al Conciliabolo di Pisa. Ciò avvenne il
9 febbraio 1511, secondo il Bascapè. Il 10 marzo 1511
fu fatto cardinale e con bolla papale del 9 gennaio 1512
nunzio apostolico speciale nell’Italia Superiore, in Germania e presso i Confederati Svizzeri. Il nuovo vescovo
di Novara si affrettò con atto del 1° febbraio 1512 ad
accaparrarsi le simpatie degli Ossolani concedendo, su
preghiera del conte Lancillotto Borromeo, alle popolazioni delle valli Vigezzo, Anzasca e Strona il privilegio
dell’uso dei latticini durante la Quaresima, Settimana
Santa esclusa, privilegio che fu poi esteso a tutta l’Ossola. Riuscì allo Schinner di convincere i Confederati
Svizzeri a scendere in Italia per cacciare i Francesci, ed
assoldato un forte esercito di mercenari nel giugno del
1512 costrinse i Francesi a lasciare Milano rimettendo
nel Ducato Massimiliano Sforza il quale, il 29 dicembre
1512, fece il suo ingresso solenne in Milano.
I Francesi tennero però i castelli dell’Ossola Superiore
ed il borgo di Domo fino all’agosto del 1512. In quell’epoca un grosso contingente di armati svizzeri della
Lega di Urania o del Bue vennero per loro conto e col
benestare di molti Ossolani specialmente di quelli che
parteggiavano per i Francesi a prendere in consegna i
castelli ed il borgo di Domo. Anche questi si fecero giurare fedeltà degli Ossolani. Il 10 agosto 1512 giurarono
quelli di Villa e della valle Antrona. Il 15 agosto i Francesi fecero la consegna dei castelli e del borgo e attraverso il Sempione ripassarono le Alpi.
Sebbene alleati del Duca di Milano, gli Svizzeri tennero
l’Ossola in proprio e non vollero cederla al Duca di Milano, Antonio Zich di Urania era il commissario e capitano della Curia di Mattarella per la Lega dei XII Can-
Tipo del Sacro Monte Calvario di Domodossola eseguito dall’arch. Pier Maria Perini nel 1772.
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toni, ma talvolta vi troviamo suoi luogotenenti quelli
stessi che lo avevano aiutato ad entrare nel borgo e che
si opponevano alla consegna al Duca di Milano. Voglio dire il capitano Paolo della Silva rimasto nell’Ossola e che il 5 settembre 1512 è commissario e capitano della Corte di Mattarella. Comincia in questo periodo a prendere forza un partito favorevole agli Svizzeri
e che, dimentico delle antiche e recenti offese, vorrebbe l’Ossola confederata con i Cantoni Svizzeri. Il comportamento degli Ossolani dell’Ossola Superiore irritò
specialmente i conti Borromeo i quali, dopo essere stati
partigiani dei Francesi, erano tornati all’ubbidienza del
Duca di Milano. Lancillotto Borromeo tentò di prendere il borgo di Domo, ma fu battuto dagli Ossolani collegati cogli Svizzeri. Si vendicò il Borromeo impedendo
la libera circolazione delle merci, imponendo gravi dazi
sulle importazioni del grano dal Novarese e Milanese,
angariando i mercanti ed impedendo in tutti i modi le
comunicazioni fra le due Ossole. Alle rimostranze degli Ossolani rispondeva il Borromeo: «avete voluto stare
cogli Svizzeri piuttosto che con noi? Andate ora da essi
perché vi diano il grano e le vettovaglie! Per conto nostro vogliamo assolutamente farvi morire di fame». Fu
una dura carestia che fece soffrire soprattutto i più poveri e che provocò la peste, sempre pronta a comparire
in queste occasioni. Il flagello, scoppiato nel 1513, durò
da luglio a dicembre e mieté molte vittime.
Il seguente anno, 1514, gli uomini dell’Ossola Superiore sotto la guida del capitano Paolo della Silva, che aveva sempre mantenuto vicino a Domo un buon gruppo di fedeli armati, coll’aiuto anche di un piccolo corpo di Svizzeri, fecero un’azione di forza puntando direttamente su Vogogna. Il borgo cadde subito nelle mani
di questi armati esasperati i quali si diedero al saccheggio, distrussero i caselli del dazio e si fecero giurare con
atto pubblico che per l’avvenire ogni dazio sarebbe stato
abolito (17 luglio 1514). I poveri abitanti di Vogogna
si salvarono in parte rifugiandosi in val Anzasca. Poco
dopo (27 luglio) analoga spedizione fu fatta a Mergozzo, Omegna e Pallanza dove ugualmente si volle il giuramento di esenzione da ogni dazio. Gli invasori si ritirarono poi da Vogogna non senza prima aver diroccato
il castello, ma mantennero alcune fortezze che occuparono a titolo cautelativo. Ne nacque fra il conte Borro-
meo e l’Ossola Superiore una lite che fu portata davanti
ai capi della Lega dei XII Cantoni. La sentenza costrinse gli uomini dell’Ossola Superiore a restituire le fortezze e i territori occupati, ma fece obbligo ai Borromeo di
lasciare libero il passaggio ai grani e vettovaglie. Il laudo fu pubblicato a Domo il 3 gennaio 1515 da Ulderico Flauder di Lucerna allora commissario della Corte di Mattarella.
Morto Luigi XII senza eredi legittimi, sul trono di Francia salì Francesco I, anch’egli discendente da Valentina
Visconti, e quindi aspirante al dominio del ducato di
Milano. Massimiliano Sforza gli oppose un esercito di
mercenari svizzeri, ma non riuscì ad impedire al re francese di scendere in Lombardia. La battaglia decisiva del
14 settembre a Marignano, in cui perirono 15000 svizzeri e 6000 francesi permise a Francesco I di entrare da
signore in Milano e impadronirsi del Ducato, mentre
il duca Massimiliano, costretto ad abdicare, era spedito
prigioniero in Francia.
Dopo questi avvenimenti i capitani della Lega non si
sentirono più sicuri in Ossola. Oltre tutto sei squadre o
bandiere di Svizzeri, che tornavano dalla sfortunata battaglia di Marignano alla loro patria attraverso l’Ossola, rubarono e saccheggiarono quando poterono senza
risparmiare nulla e nessuno. Ne soffrì soprattutto Villa come ricorda il Capis ed i poveri paesani, già provati dalle precedenti calamità dovettero subire ancora una
volta i saccheggi, gli incendi e le umiliazioni di queste
orde scatenate che non risparmiarono neppure le chiese.
Gli Svizzeri si ritirarono dall’Ossola e per un certo tempo questa regione fu terra di nessuno, tanto che il 23
settembre gli Ossolani dell’Ossola Superiore, ritenendosi ancora legati alla Lega Svizzera, scrissero condolendosi della sconfitta di Marignano e chiedendo aiuto e
consigli. A sostituire il capitano e commissario svizzero
Ulderico Flauder di Lucerna, allontanatosi dall’Ossola
il 25 giugno 1515, fu mandato Giovanni Stolez di Basilea del quale trova luogotenente nella Curia di Mattarella il signor Pietro di Breno, dottore in diritto, fino
al 29 settembre 1515. Un esercito francese intanto entrava nell’Ossola, mentre i pochi svizzeri rimasti tornavano in patria e l’8 ottobre, se si deve credere al Capis,
un corpo di 500 uomini al comando del capitano Lautrec occupa Domo, dove i Francesi si abbandonarono
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ad ogni dissolutezza e violenza. Fortunatamente il capitano Lautrec e la sua compagnia, dietro le lamentele fatte giungere dagli Ossolani direttamente al re di Francia,
furono sostituiti e la piazza di Domo fu tenuta dal capitano Predemelges che si fece onore tenendo in disciplina la sua compagnia.
Un altro atto distensivo del re di Francia fu quello con
cui il 10 marzo 1516 tolse all’Ossola Superiore il contributo di 600 lire imperiali dovute alla camera ducale,
condonando anche i debiti contratti con la stessa dall’epoca di Luigi XII.
Col ritorno della pace si stabilisce un modus vivendi
anche fra i partiti ossolani. Probabilmente anzi ci fu un
atto di pacificazione giacché vediamo ritornare in Ossola i fratelli Francesco e Benedetto del Ponte che erano stati messi al bando da Luigi XII. Il 26 ottobre 1515
anzi troviamo Francesco del Ponte per un po’ di tempo luogotenente del commissario della Corte di Mattarella. Ma il personaggio più in vista con la vittoria delle armi francesi è il capitano Paolo della Silva che aveva
posto la sua spada e la sua compagnia al servizio del re
francese dal quale era tenuto in grande considerazione.
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Egli spese gran parte delle sue ricchezze nel dare lustro
e decoro all’Ossola dove chiamò architetti ed artisti ad
abbellire il palazzo che andava costruendo a Domo e le
chiese di Crevola e Domodossola.
Colla salita di Carlo V al trono di Spagna il dominio
del Ducato di Milano viene rimesso in discussione. Il
nuovo imperatore ed il Papa appoggiavano Francesco II
Sforza, fratello di Massimiliano, il quale poté assoldare
un esercito di mercenari svizzeri e tedeschi e con questi il 19 novembre 1521 riprese Milano costringendo i
Francesi a tornare in patria. Nell’Ossola, Benedetto del
Ponte, capitano di milizie ducali, costrinse i Francesi a
lasciare il borgo di Domo, cosa che avvenne verso la fine
di giugno 1522. L’8 luglio seguente i deputati ossolani
si recarono a Milano per giurar fedeltà al Duca. Il seguente anno gli Ossolani inviano al Duca una supplica
per ottenere la pacificazione generale ed il perdono per
tutti quelli che nelle guerre passate avevano parteggiato
per la Francia, in particolare per il capitano Paolo della
Silva e suoi luogotenenti banderali, nonché il riconoscimento degli antichi privilegi. Il 16 giugno 1523 si ebbe
notizia che la supplica era stata accolta.
Ma la partita non era ancora finita. Francesco I di Francia nel settembre del 1523 invia un forte esercito in Italia al comando dell’ammiraglio Bonnivet. Ripresero le
speranze i fautori della Francia in Ossola, sollecitati dal
capitano Paolo della Silva, il quale anzi cercò di ottenere subito l’adesione da parte delle comunità ossolane, mandando perfino un suo rappresentante nel borgo
di Domo per chiedere il giuramento di fedeltà. Il commissario ducale Tommaso Morone ed il capitano Benedetto del Ponte si meravigliarono di questa richiesta del
Della Silva; anzi uno dei presenti, un certo prete Pietro
Viscardi di Trontano, non trovò altra risposta che quella di dare un tremendo colpo di spada sulla testa del povero ambasciatore che morì all’istante. Saputo di questo trattamento, il capitano Paolo della Silva che aveva
con sé un buon contingente di armati raccolti sul posto,
pose l’assedio a Domo, impedendo l’entrata delle vettovaglie e deviando la roggia dei Borghesi. In una scaramuccia del 14 ottobre 1523 morì Francesco del Ponte,
fratello di Benedetto e suo luogotenente. L’assedio continuò fino al maggio 1524.
Tutti questi sconvolgimenti politici avevano ridotto i
paesani ossolani a non saper più a chi credere e a chi
affidarsi, giacché tutto si rivolgeva a loro danno. Perciò vediamo che a Villa non si ha mai difficoltà a giurare a questo o a quello a seconda delle circostanze, purché si potesse sopravvivere a tanto sconquasso. A titoli
di esempio valga il fatto che il 21 marzo 1524 al Ponte
di Villa si riunisce una vicinanza in cui i consoli od i vicini eleggono Antonio del Gaggio e Giovanni di Basaluxia come procuratori della comunità a giurare fedeltà al duca Francesco Sforza di Milano e far da esso approvare certi capitoli. Il giorno seguente (22 marzo) al
Sasso di S. Maurizio il console di Villa Antonio Cassoli a nome suo e dell’altro console Antonio Toxelli e con
essi i due deputati del precedente strumento, prestano
il giuramento nelle mani del capitano Paolo della Silva
che lo riceve a nome del re di Francia. Tanto erano confuse le situazioni in quei tempi!
Poco dopo le truppe francesi che erano state battute a
Robecco ritornarono lentamente in patria attraverso il
Sempione sotto la protezione del capitano Della Silva.
Nell’autunno del 1524 Francesco I di Francia con un
esercito di 36000 uomini attraversò le Alpi ed occu-
pò Milano. Il capitano Paolo della Silva che si era subito portato al campo del re francese mandò immediatamente in Ossola dei rappresentanti per far giurare fedeltà al nuovo padrone.
Paolo della Silva tornò poi in Ossola e vi raccolse una
banda di alcune migliaia di armati e si portò a Pavia
dove il re Francesco I stava assediando la città. Questa
banda di Ossolani che il Della Silva pagava coi suoi denari, combatté nella sfortunata battaglia di Pavia (24
febbraio 1525), in seguito alla quale Carlo V costrinse il re di Francia a rinunciare definitivamente al Ducato di Milano. Sfasciatosi l’esercito francese, Paolo della Silva tornò coi compatrioti superstiti a Domo dove
giunse poco dopo anche il capitano Benedetto del Ponte a chiedere agli Ossolani il giuramento di fedeltà al
duca Francesco Sforza. Gli uomini di Villa, il 18 marzo
1525, deputarono Filippo Filippi e Giacomo Baldana a
fare tale giuramento di fedeltà nelle mani di Giacomo
Morone commissario ducale della Curia di Mattarella.
Il giuramento ebbe luogo il 20 marzo seguente.
Poco dopo il castello di Domo fu tenuto da capitani e
soldati spagnoli, resisi subito famosi per la loro crudeltà ed ingordigia, così da far rimpiangere i francesi. Ci fu
anche una congiura per ammazzare il castellano Francesco Alarçon ed una sollevazione, che questo domò facendo sparare le artiglierie del castello contro il borgo.
Poco dopo però il famigerato castellano finì la vita colpito da una archibugiata sparata da uno sconosciuto.
Di questa situazione approfittò il capitano Giovan Pietro del Ponte che venne a Domo con 500 soldati ducali
e ottenne per il duca il giuramento di fedeltà degli Ossolani (1527).
Frattanto Don Antonio de Leyva generale di Carlo
V sollecitava ripetutamente gli Ossolani ad abbandonare il duca di Milano e a riconoscere l’autorità dell’imperatore Carlo V. Domodossola, difesa dal capitano Giovan Pietro del Ponte, resistette fino al gennaio
del 1529, all’assedio fatto dal capitano Pietro Gonzales, dal conte Ludovico Belgioioso e dal capitano Pietro Maria del Maino a nome di Gian Giacomo Medici marchese di Musso, alle dipendenze di Don Antonio
de Leyva. Le capitolazioni del 29 gennaio 1529 liberarono Domo dall’assedio mentre il Del Ponte passò al
servizio del marchese di Musso, con uno stipendio di
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100 scudi annui (3 gennaio 1530). Nel 1531 Francesco
Sforza recupera il Ducato, ma è completamente in balia di Carlo V.
L’8 luglio 1531 gli Ossolani ottengono la conferma dei
loro privilegi. Morto il duca Francesco Sforza senza prole (1535), Don Antonio de Leyva generale di Carlo V,
inviava nuovamente in Ossola il capitano Giovan Pietro del Ponte per esigere il giuramento di fedeltà. Il borgo di Domo lo presta il 26 dicembre 1535 e nei giorni
seguenti lo fanno gli altri comuni ossolani.
Le guerre che quasi ininterrottamente si erano succedute nell’Ossola, il passaggio di tanti eserciti e di gruppi di
sbandati dediti alle rapine ed al saccheggio avevano frattanto influito gravemente rovinando l’economia ed anche la vita pubblica di questi montanari costretti a subire le violenze e quindi portati essi stessi all’esasperazione della violenza. Le case diventarono dei fortilizi e tutti
andavano in giro armati contro ladri e briganti che dettavano legge. I partiti legati alle potenti famiglie in lotta fra loro avevano influito a rendere paurosamente abituale la violenza ed il sopruso, le cui lezioni erano impartite dai capipartito e dai signori che amavano mantenere un gruppo di armati al proprio servizio, e della peggiore risma, dai quali erano sempre accompagnati anche quando si recavano in chiesa o nelle pubbliche
adunanze. Il banditismo diventa dalla metà del 1500
fino alla metà del 1600 una piaga dell’Ossola, contro
la quale il governo spagnolo si limita spesso a lanciare
le sue gride e la cui estirpazione sarà occasione di enormi spese da parte delle comunità obbligate a restituire quanto i mercanti in transito o chiunque perdevano,
essendo esse obbligate a mantenere sicure a proprie spese le strade nei propri territori. Spesso a nulla valevano
gli allarmi dati con la campana a martello e l’accorrere
della gente; questi banditi armati di fucili a ruota tenevano facilmente testa alla gente inerme o armata solo di
lance e di falcetti. Antonio Pizzoletto di Crevola, Giovanni Trivelli di Varzo, Antonio Gelminetto detto Sirigon, Giovanni Ruffino, Matteo Allena, Giovanni del
Gatto ed altri si resero famosi in val d’Ossola colle loro
rapine, omicidi e violenze. Contro di essi tuonarono le
gride del governatore dello Stato di Milano. Ogni tanto qualcuno era preso e impiccato sul gabbio delle forche di Domo, all’entrata di porta Castello, per incutere
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un salutare timore a tutti i delinquenti. Molti altri finivano sotto il piombo dei birri incaricati del loro sterminio o, presi, erano condannati alle galere.
Gravissimi fatti erano accaduti in Ossola per odio di
parte. Famoso fra tutti l’uccisione dei due fratelli Gaspare e Baldassarre de Baceno, figli del capitano Bernardino e cognati del capitano Paolo della Silva, perpetrata, forse, da sicari del capitano Giovan Pietro del
Ponte.
Anche contro le fazioni intervennero i governatori spagnoli. Alcune gride proibivano perfino di parlare di fazioni sotto pena della vita e confiscazione dei beni. Perdura comunque una grave insicurezza ed un’atmosfera di
continuo pericolo. Un’ordinanza del 29 luglio 1595 disponeva che i muri fiancheggianti le strade fossero più
alti di 2 metri o rasi al suolo perché non fossero facile ricetto di banditi ed assassini; così anche i boschi in vicinanza delle strade dovevano essere tagliati e molte case
abbattute o chiuse in modo da non servire da ricettacolo o rifugio di banditi. Si ha notizia di alcuni paesi o frazioni sia della valle Antigorio che della val Vigezzo dove
tutti o quasi tutti gli abitanti non disdegnavano l’esercizio del brigantaggio come quello di una professione.
Il ricordo delle loro gesta è ancora vivo nelle tradizioni
popolari locali.
Si cercò un rimedio a questo stato di cose mediante un
tentativo di pacificazione generale che eliminasse le radici di tante e sì testarde discordie. Il governatore dello Stato di Milano Don Pietro Padillo incaricò di ciò il
conte Renato Borromeo dandogli ampi poteri per convocare i capi partito, i faziosi e perfino i briganti famosi dell’Ossola.
Riuscì al conte dopo molti tentativi di fissare i termini di una generale conciliazione che venne solennemente giurata il 15 agosto 1595 ad Arona davanti alle porte della chiesa parrocchiale, ma il fenomeno delle fazioni e del brigantaggio, se momentaneamente parve arrestarsi, riprese poi con rinnovata violenza.
Altra piaga sopravvenne nel settembre del 1598 fino
al gennaio 1599. Dieci compagnie di soldati spagnoli vennero a stanziarsi in Ossola e, naturalmente a spese degli Ossolani, gettando le popolazioni nella costernazione, nella paura e nella miseria per le loro brutalità, ruberie ed estorsioni. Antonio Giavinelli prevosto
Il borgo di Domodossola chiuso a pentagono dalle mura in una stampa del secolo XIX.
di Pieve Vergonte e poi parroco di Seppiana, testimone
oculare, così ricorda: Tutte le parti dell’Ossola Inferiore et
Superiore... sono rimase con grandissimo danno, et spavento, ma più la superiore per essersi affermati tanto, che appena si ritrovava vittovaglia per pascerli; et li padroni erano, chi battuti, chi spaventati, chi fuggiti, et chi diventati
miserabili. Le ova non si ritrovavano a comperare ne anco
a duoi soldi l’uno, perché s’avevano ammazzate et mangiate le galline; pure bisognava trovar robba per forza. In fine
si misero a far delli assassinamenti per le strade con pigliar
li danari et robba a li poveri viandanti.
Cronache del secolo XVII
Durante il periodo di dominazione spagnola che va dal
1536 al 1713, 1’Ossola avrebbe potuto godere di un felicissimo tempo di pace e di benessere, dopo un secolo
di disastrose invasioni, di lotte e cambiamenti di governo. Invece non fu così.
Dopo il Concilio di Trento, per opera di alcuni vescovi zelanti, anche la diocesi di Novara e l’Ossola ebbero
slanci e fervori nuovi di fede che produssero un notevole rinnovamento della vita religiosa e civile. Il vescovo Carlo Bascapè nella sua permanenza sulla cattedra di
S. Gaudenzio (1593-1615), diede un grande impulso
alla riforma dei costumi del clero e del popolo, visitando ripetutamente e minuziosamente la diocesi, informandosi di ogni cosa e disponendo secondo le necessità. Il suo libro Novaria, stampato nel 1612, oltre che il
primo tentativo di una storia della diocesi di Novara, è
anche una preziosa miniera di notizie, storielle, artistiche e geografiche dell’Ossola, di cui egli può con pieno
titolo essere considerato il primo studioso. Il giureconsulto Giovanni Capis se ne valse con somma ammirazione per l’autore nella compilazione della prima opera
storica di carattere prettamente ossolano Memorie della
Corte di Mattarella, ossia del Borgo di Domodossola e sua
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giurisdizione che egli scrisse nei primi decenni del 1600,
ma che vedrà la luce per le stampe solo nel 1673 a cura
del figlio Giovanni Matteo Capis. Dopo il Bascapè merita di essere ricordato il vescovo cardinal Taverna, a lui
immediatamente successo, al quale risalgono molte iniziative in campo religioso e morale, ma anche in quello della organizzazione e amministrazione delle parrocchie, delle chiese e dei benefici. Egli vagheggiò perfino
il disegno di istituire un seminario a Domo per meglio avviare ed istruire il clero locale; ma non poté realizzarlo.
Il rinnovamento religioso fu cospicuo in questo periodo, ma non si può dire altrettanto di quello politico, civile e amministrativo. Mancò al governo spagnolo una
vera politica sociale ed economica che si traducesse in
un progresso autentico. Lo squilibrio fra i ricchi ed i
poveri andò aumentando fino ad apparire non solo ingiusto, ma insultante. Pochi nobili, ricchi e insensibili
alle miserie del popolo, si preoccupavano di ostentare la
loro opulenza e spesso il disprezzo per i diritti sacrosanti dei coloni e dei meno abbienti. Anche in Ossola sono
essi che costruiscono i loro nuovi pretenziosi palazzotti dove ogni tanto, al passaggio di qualche personaggio
importante, danno ampia ospitalità e fastose imbadigioni, e vivono serviti da uno stuolo di servi e di armati. Essi amavano farsi beffe della legge, esimersi da ogni
gravezza, mentre i poveri erano alla mercé del Fisco.
La giurisdizione di Domodossola comprendeva tutta
l’Ossola Superiore con esclusione della val Vigezzo, delle Quattro Terre (Trontano, Masera, Beura e Cardezza) e della valle Antigorio. Questa giurisdizione aveva
i suoi Reggenti generali ed il suo Consiglio generale in
cui i rappresentanti dei comuni si riunivano alla presenza del pretore di Domo, per ogni decisione importante. In casi di necessità tutta l’Ossola Superiore si riuniva
a consiglio per eleggere alcuni deputati onde far valere i
propri diritti e interessi presso il Governo.
Le misere condizioni degli Ossolani in questo tempo sono per lo più attribuite alla notoria sterilità delle terre, a calamità naturali ricorrenti, al clima particolarmente avverso i cui eccessi distruggevano i già scarsi raccolti. Tuttavia il maggiore colpevole di tanta miseria fu il Governo spagnolo che con una fiscalità metodica ed esasperante, ricorrendo a tutti i mezzi afflisse
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le popolazioni ossolane con una martellante pressione.
Egli si valeva anche di investigatori e delatori autorizzati i quali con occhi di Argo ricercavano ogni possibilità
di cavar denaro per il Fisco. La squallida figura di questi solerti burocrati, dediti a tale odioso mestiere, ci appare dalle infinite querele che gli Ossolani dovettero sostenere con il Fisco. Nei primi decenni del 1600 si rese
tristemente famoso in Ossola un certo Francesco Bossi con il titolo ufficiale di Delatore, il quale purtroppo
non mancò di imitatori.
Un’ordinanza del 9 luglio 1601 da parte del Magistrato del reddito ordinario dello Stato imponeva alle comunità ossolane il pagamento entro tre mesi del mensuale o estimo delle merci per il periodo 1559-1601. La
somma non era grande, 398 lire e 12 soldi, ma erano
intanto violati quei privilegi, accordati agli Ossolani dai
Visconti e successivamente riconosciuti anche da Carlo
V, per i quali essi erano esenti da ogni imposizione. Fu
quindi necessario che i rappresentanti dell’Ossola sostenessero le loro ragioni a Milano, ragioni che furono riconosciute con sentenza del 23 aprile 1602.
Poco dopo, su delazione del sopra ricordato Francesco
Bossi, l’Ossola è accusata di non aver pagato e non pagare il dazio per la Notaria civile, il dazio del pane, vino,
carni ed imbottato, la tassa per la stadera comunale ecc.
I procuratori dell’Ossola, Olderico Silvetti e Giacomo
Trivelli, sono nuovamente a Milano a sostenere l’esenzione, sempre fondandosi sui famosi privilegi. Il Magistrato ordinario, con sentenza del 11 agosto 1605, assolve gli Ossolani. Intanto però queste cause procuravano ingenti spese alla Comunità che si andava aggravando paurosamente di debiti ed era costretta a prendere denaro a prestito con pesanti interessi.
La scarsa produttività delle terre ossolane, la pressione
esorbitante del Fisco spagnolo, alcune calamità naturali ed una certa imprevidenza amministrativa concorsero ad aumentare la povertà fino a giungere al livello della vera carestia. Mancavano nei primi decenni del 1600
non solo il denaro, ma anche i beni di consumo più
necessari. Il Giavinelli che era prevosto a Seppiana, da
buon testimonio oculare così ci presenta la situazione:
L’anno 1628 fu una grandissima carestia et si vendeva a
Domo et Vogogna la segla lire due il staro; et li poveri hanno patito molta fame et l’anno 1629 perseverò la carestia,
che non si trovava denari et ne morirono molti di fame.
L’anno 1629 poi fu talmente carestia che li poveri facevano macinar il colmo et la paglia et le giande de’ fayci per
far farina; et ne morse molti che avevano patito; ed doppo venne certi febri che morse molte persone da dette febri.
Il medemo anno venne la neve sopra l’arbori la notte doppo Santo Michele et alli dieci di Ottobre neve sino a qua a
Seppiana con de’ diluvi d’acqua. L’anno 1629 si è venduta la farina del colmo et paglia fino a lire 4.
Sarebbe stato abbastanza facile prevedere che su organismi così denutriti e provati in questi anni di carestia, oltre le solite malattie intestinali ricorrenti, potesse prendere il sopravvento la terribile peste bubbonica. E infatti fu così. La peste già mieteva vittime nel vicino Vallese, ma a causa della stretta sorveglianza ai passi alpini
non fu di qui che il morbo venne importato in Ossola.
Venne infatti dal Milanese a Mergozzo e a Domo per
opera di alcuni mercanti. Citiamo ancora il Giavinelli
che il giorno 14 agosto 1630 così annota nelle sue Memorie: L’anno 1630 circa il principio del mese di giugno si
scoperse la peste in Duomo d’Ossola et in Cresto della valle
Antrona, al Piaggio di Vila, a Rovescha d’Antrona et di S.
Pietro (Schieranco) passavano per la strada d’Ovago per
non poter passar per Riviera, Viganella et Cresto, quando
hanno d’andare a pigliar provisione alla Lanca di Pallanzeno, dove si provvede di guardia continua; et ivi mandiamo a pigliar provisione quando si può avere; et circha li
dieci di agosto si serrò Vogogna per esser morti alcuni ivi
in casa del signor Battista Lossetti, et hora stentiamo haver provisione. Circa al principio d’agosto si è scoperta la
peste alle Selve (Montescheno), et quelli del Croppo già
alla fine di luglio erano fuori in Quarantena, et a me non
manca fastidio in chiesa et fuora per la ministrazione dei
Sacramenti. Circa il 17 et 20 agosto si scoperse la peste al
Boschetto, a Daroncio, La Noga, al Gagio, talché a Vila
stanno tutte le terre sempre in terrore et retirate più che si
può; et la maggior parte si sono retirati nell’Ovago a far
quarantena. Et il mese di settembre si è scoperta a Zoncha,
a Valleggia, a Progno (Montescheno).
Il Capis ricorda che nella valle Antrona morirono di peste circa 400 persone et ne morsero 100 nel termine di un
mese solamente nella terra di Cresto. Ora si sa che nel
1613 Villa aveva circa 200 famiglie e fuochi, mentre
dall’inventario della chiesa parrocchiale fatto il 31 gen-
naio 1647 dal parroco Giovanni Bianchetti i fuochi
sono solo 80. Si può dunque pensare che anche a Villa la popolazione sia stata ridotta alla metà; così come a
Domo, a Vagna ed altrove dove la peste fece il maggior
numero di vittime.
Furono purgate le case con suffumigi di polvere da sparo, pece, salnitro, zolfo, incenso e bacche di ginepro; i
panni appestati erano inceneriti, gli altri lasciati lungo
tempo all’aria, in acqua o sotto terra. Il Capis osserva
che questi metodi di disinfestazione erano efficaci sebbene alcuni fossero di diversa opinione, segno che anche in Ossola non mancavano i don Ferrante di manzoniana memoria.
Il secolo XVII fu per l’Ossola uno dei più disastrosi anche per le catastrofi naturali verificatesi in quel periodo.
Prime fra tutte le alluvioni, già iniziate nel secolo XVI.
Il fiume Bogna che nel secolo XIV era stato portato a
scorrere a nord del borgo di Domo, rotti gli argini venne nel 1519 a scorrere fra il colle di Mattarella e l’abitato. Nel secolo XVII cominciò a spingersi direttamente
contro le mura del borgo, riempiendo i fossati ed accumulando molto materiale contro la cinta di difesa fino
a seppellirne quasi le torri e, talvolta, penetrando anche
nel borgo. I tentativi di impedire la sommersione costrinsero anche le comunità della giurisdizione a contribuire alle ingenti spese, dando origine a numerosi processi e liti. Il pericolo fu solo scongiurato dopo la grande alluvione del 1642 che decise finalmente il Governo
a dare fondi sufficienti per riportare il Bogna a nord del
borgo. Nella alluvione del 1640 avevano sofferto quasi tutte le comunità ossolane ed in particolare Villa e la
valle Antrona dove il fiume Ovesca distrusse la chiesa
parrocchiale di S. Pietro di Schieranco e portò via tutti
i ponti. Una grave sventura si abbatté su Antronapiana
all’alba del 27 luglio 1642 quando la grande frana del
monte Pozzoli sbarrò la valle del Troncone formando il
lago di Antrona, seppellendo parte del paese ancora nel
sonno e causando la morte di oltre 100 persone.
Ma gli Ossolani nonostante tutte queste ed altre vicende dolorose vollero esprimersi in atti solenni e generosi di pietà proponendosi la costruzione del grande complesso monumentale dedicato alla passione di Cristo
che è il Sacro Monte Calvario posto sul colle di Mattarella fino a quel momento occupato dalle rovine del ca41
stello. Iniziata nel 1658, con l’approvazione del vescovo, quest’opera voluta dalla comunità ossolana intiera,
crebbe rapidamente sotto la direzione di Giovanni Matteo Capis; attorno al 1680 era in gran parte realizzata
con la costruzione della chiesa-santuario, della strada
sacra e di alcune cappelle nelle quali il plastificatore milanese Dionisio Bussola pose in opera alcuni dei principali misteri della Via Crucis. L’opera sarà però finita
nei secoli seguenti. Contemporaneamente la comunità dell’Ossola che aveva provvisto già nel 1616 i Cappuccini di un piccolo convento alla Cappuccina, dovette costruire un altro convento per i medesimi Padri sulle pendici del colle di Mattarella al fine di sottrarli alla
furia del Bogna (1661-1681). Anche per questa ed altre opere di interesse generale fu dato incarico al giureconsulto Giovanni Matteo Capis che fu l’uomo politico più importante del secolo XVIII.
II governatore di Milano e capitano generale marchese
di Hinojosa, con ordinanza del 6 febbraio 1614, stabilì che si formassero in questo Stato (di Milano) una milizia de’ i soldati di esso per servitio di Sua Maestà et beneficio e sicurezza loro. Si diedero anche disposizioni affinché tale milizia avesse necessaria istruzione, disciplina ed armamento. Il tutto era naturalmente a carico degli uomini scelti per tale servizio in numero proporzionato alla consistenza della comunità. Ma per lo più l’armamento era a spese della comunità. In cambio gli ufficiali erano esenti dall’obbligo di alloggiare nelle proprie case i soldati a piedi od a cavallo mandati a stazionare sul luogo. Il motivo di questo provvedimento va
ricercato nella necessità che aveva il Governo spagnolo di non lasciare sguarnito il proprio territorio; mentre le sue truppe erano concentrate ed impegnate nella guerra del Monferrato contro i Francesi e Piemontesi. Questa specie di guardia civica o popolare, istituita
in tutta l’Ossola, mantenne a lungo la sua funzione anche dopo gli avvenimenti bellici che furono causa della sua istituzione e perdette decisamente la sua importanza solo dopo la restaurazione del dominio piemontese in Ossola seguita alla caduta di Napoleone, ma resiste con un apparato che possiamo ormai dire folkloristico in alcuni luoghi come a Bannio e Calasca in valle
Anzasca. Al suo sorgere fu però ostacolata dalle popolazioni, che si vedevano aggravate da nuove spese e pa42
ventavano di dover marciare fuori dei confini dell’Ossola, la sola patria che avesse per esse un significato autentico. Il loro avvento fu tuttavia utile all’Ossola, non
perché rinfocolò l’antico e tradizionale spirito guerresco, quanto piuttosto perché la presenza di milizie organizzate rese più sicure le valli contro i briganti e facinorosi e favorì una maggiore coscienza unitaria fra gruppi
spesso antagonisti e disuniti da faide paesane e da antipatie campanilistiche.
La istituzione delle milizie popolari non fu dunque inutile. Se ne ebbe immediato saggio allorché fu necessario
difendere i passi alpini da eventuali infiltrazioni nemiche. Il loro apporto alla guerra degli Spagnoli contro i
Francesi e Savoiardi deve essere stato molto limitato. Se
si eccettua la difesa di Arona nel 1636 e qualche puntata fino a Vercelli, non si ricordano fatti d’arme importanti. Era una milizia dotata di armamento molto leggero: archibugio a ruota, spade e lance. In valle Antrona esistevano due diversi distretti su cui erano scelti gli
uomini addetti a questa milizia. Il primo era quello di
Antronapiana che metteva in assetto un numero limitato di soldati, ma con l’incombenza specifica di difendere gli alti passi della valle, uomini dunque ben adatti al loro compito e perfetti conoscitori del luogo. Il secondo comprendeva tutto il resto della valle Antrona e
Villa. Analogamente avveniva in tutte le altre valli ossolane.
In ognuna delle comunità della valle era eletto dagli
stessi soldati un reggente o capitano, un luogotenente,
un alfiere, un sergente ed alcuni caporali. I singoli reggenti o capitani locali avevano poi funzioni subordinate
al comando del capitano della valle che era da essi eletto fra i reggenti locali. La nuova compagnia a sua volta
era alle dipendenze e sotto il comando di un maestro di
campo o capitano generale la cui giurisdizione si estendeva su tutti i distretti dell’Ossola e spesso comprendeva anche la zona del Lago Maggiore. Il primo capitano
generale in Ossola fu il signor Ottavio Verone di Crevola che aveva già avuto compiti organizzativi di difesa. Successivamente ebbe il comando generale di queste
milizie popolari il marchese Giovanni Battista Lossetti
di Vogogna e poi i conti Borromeo.
Il capitano di una milizia di tal fatta doveva essere persona accetta a tutti e stimata per la sua prudenza e ca-
Vogogna, litografia di James Pattison Cockburn, 1822.
pacità di amalgamare elementi che non erano tenuti insieme da una vera disciplina militare; non erano infatti
soldati di professione.
Cronache del secolo XVIII
Con la morte di re Carlo II di Spagna (anno 1700), si
ebbero immediati contrasti fra i pretendenti al trono.
Filippo d’Angiò, chiamato dal testamento del defunto
re a cingere la corona di Spagna, si portò subito a Madrid e fu riconosciuto nei domini spagnoli, prendendo
il nome di Filippo V. L’imperatore d’Austria Leopoldo
I contestava però questa nomina, pretendendo il trono di Spagna per il proprio secondogenito Carlo, come
discendente in linea diretta da Ferdinando I, fratello di
Carlo V imperatore.
Ne nacque una guerra che allineò da una parte l’Austria, l’Inghilterra e l’Olanda e dall’altra la Spagna, la
Francia e la Baviera. Vittorio Amedeo II di Savoia si
unì inizialmente alla Francia ed alla Spagna. La guer-
ra fu combattuta in Lombardia con alterne vicende che
indussero però Vittorio Amedeo II a staccarsi dai suoi
alleati per aderire all’Austria. Questo cambiamento di
rotta della politica sabauda irritò gli ex alleati. Gli eserciti franco spagnoli occuparono la Savoia e parecchie
importanti città del Piemonte, stringendo Torino con
un potente assedio. Il principe Eugenio di Savoia, comandante di milizie imperiali, non poteva portare alcun aiuto a Vittorio Amedeo, trovandosi sbarrato il passo dalle truppe del generale francese Vendôme, attestate
sulle rive dell’Adige. In aiuto delle truppe sabaude venne un distaccamento di soldati tedeschi al comando del
maresciallo Staremberg per il Sempione il quale, senza
entrare in Domo, dove il castello era ancora presidiato
da truppe spagnole, si portò verso il lago Maggiore, ma
non poté collegarsi con le truppe piemontesi, essendo
tutto il Novarese e Milanese in mano ai Francesi. Gli
Ossolani però dovettero fornire vettovaglie a queste milizie tedesche acquartierate ed inviare anche le milizie
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locali per difendere i castelli di Angera e Arona. Queste gravi spese furono ripartite sia sull’Ossola Superiore che Inferiore. Il 19 marzo 1704 il Consiglio Generale dell’Ossola è convocato per provvedere alla distribuzione delle spese, per attrezzare il castello di Domo alla
difesa, per eleggere un Reggente Generale e provvedere alla salvaguardia dei privilegi ossolani. Il 7 gennaio
1705 sono convocati nuovamente tutti i rappresentanti
delle comunità ed i Reggenti dell’Ossola Superiore per
far sì che tutte le comunità concorrano al pagamento
delle spese straordinarie imposte dalla circostanza. Gli
Ossolani, almeno quelli dell’Ossola Superiore, pare non
si dichiarino in favore di nessuno dei contendenti, tuttavia le imposizioni militari bisognava pagarle. Nel castello c’era sempre un presidio spagnolo al comando del
capitano don Giovanni de Soto e la cosa pubblica era
diretta dal pretore don Francesco de Miranette Velasco
pure spagnolo.
II duca di Vendôme, lasciato il comando delle truppe
francesi in Lombardia per assumere quello delle truppe
stanziate in Fiandra, non trovò alcuna difficoltà a transitare per l’Ossola per venire al Sempione, il 14-15 luglio 1706, con un seguito di 150 cavalli, segno che questa regione non intendeva reagire con proprie iniziative
alla situazione. Ma allorché il principe Eugenio di Savoia riuscì a portarsi con il suo esercito sotto le mura di
Torino assediata e raggiungere il duca Vittorio Amedeo,
riuscendo a sconfiggere i Francesi nella celebre giornata del 7 settembre 1706, a Domo si fu del parere di predisporre una resa. Era allora sindaco o procuratore del
borgo di Domo il nobile Marco Antonio Silva, ex reggente della Giurisdizione, il quale aveva fama di essere partigiano di Francia. Visto come la guerra si era risolta, egli prese l’iniziativa di far passare l’Ossola all’obbedienza dell’Austria, non sappiamo se per opportunismo politico o semplicemente per ambizione. Il capitano spagnolo ed i borghigiani domesi furono da lui convinti a sottomettersi e chiedere protezione agli Austriaci, invitandoli a venire a Domo. Le iniziative di Marco Antonio della Silva furono accette al generale Zumiunghen che era venuto ad occupare Arona e la zona
del lago Maggiore, ma irritarono gli altri Ossolani ed in
particolare i Reggenti generali della Giurisdizione Antonio Grazioli, Andrea Taddei e Carlo Francesco Pellia,
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i quali si vedevano esautorati. Sebbene anch’essi fossero del parere di sottomettersi agli Austriaci, non mancarono con lettera dell’11 ottobre 1706 di avvisare tutte le comunità della Giurisdizione dell’arbitrio del Silva
che pretendeva una rappresentanza che nessuno gli aveva mai data, dichiarando che si sarebbero subito recati
a incontrare il Zumiunghen per il bene della comunità
ossolana. Essi poterono di fatto presentarsi al generale,
mercé i buoni uffici del conte Borromeo, ed il 14 ottobre 1706 gli Austriaci entrarono in Domo al comando
del capitano barone Milben, mentre il piccolo presidio
spagnolo con tutti gli onori militari abbandonava il castello. Così l’Oossola entrava a far parte dei domini dell’Austria sotto l’imperatore Giuseppe I, il quale, grato a
Vittorio Amedeo II di Savoia dell’aiuto prestato, gli cedeva il Monferrato, la Lomellina, Alessandria, Valenza e
la Valsesia. Morto però l’imperatore di vaiolo nel 1711,
l’arciduca Carlo che come pretendente al trono di Spagna aveva assunto il nome di Carlo III (di Spagna) ebbe
il trono del fratello con il titolo di Carlo VI imperatore.
Ma con la pace di Utrecht, in cui i domini spagnoli furono spartiti, lo Stato di Milano e l’Ossola entrarono a
far parte dei domini imperiali dell’Austria (1713).
Scrivendo di questo periodo il giureconsulto don Paolo della Silva afferma che gli Ossolani sotto l’Impero Austriaco, deposte le armi si sono rivolti ai traffici ed ai litiggi; e quanto giovano i primi per arricchirli, altrettanto servono i secondi per impoverirli.
Anzitutto fu dibattuta una lunga, ed astiosa e soprattutto dispendiosa lite fra il sopra ricordato Marco Antonio della Silva ed i Reggenti generali della giurisdizione, che durò fino al 1713 ed ebbe come unico risultato,
dissensi, odi e spese.
Una grida del 26 agosto 1711, emessa dal Governo al
fine di danneggiare la Francia, stabiliva che tutte le merci dirette o provenienti da quello stato fossero soggette a
dazio al passaggio per Domodossola. I gabellieri, incaricati della riscossione, estesero però arbitrariamente l’ordinanza fino ad includere anche quelle merci che erano
prodotte o consumate in Ossola. Di qui un vibrato ricorso degli Ossolani richiamandosi agli antichi privilegi.
Frattanto si era fatto vivo l’impresario del tabacco che
pretendeva l’appartenenza dell’Ossola al suo appalto
e quindi la privativa della vendita. Altro ricorso per il
riconoscimento della esenzione. Ma in questo ricorso
gli Ossolani ebbero cura di presentare al re Carlo III,
ossia all’imperatore Carlo VI, una formale richiesta di
approvazione o riconoscimento degli antichi privilegi
contenuti nei famosi capitoli del 1381. Si riuscì di fatto ad ottenere un rescritto del 3 gennaio 1710, dato da
Barcellona, ma, come afferma don Paolo della Silva, essendosi nel 1711 presentato questo diploma al Senato per
la di lui interinazione, l’implacabile Fisco Milanese prese
motivo di muovere al Paese altra ben longa e dispendiosa
lite. Non solo furono riprese le antiche e recenti pretese
del fisco, ma si riparlò della carta da bollo, dei dazi, ecc.
Finalmente il 26 gennaio 1712 si ebbe la Dichiarazione
Magistrale con cui l’Ossola era riconosciuta nel possesso degli antichi privilegi, notificata poi ai pretori dell’Ossola con lettera del 25 febbraio 1712. Non si creda però che tutto questo sia avvenuto per pura magnanimità o senso di giustizia da parte del Governo. Le comunità ossolane dovettero sborsare al fisco per spontaneo sussidio da essi offerto all’Illustrissimo Magistrato Ordinario di questo Stato di Milano, per beneficio di Sua
Cattolica e Cesarea Maestà, lo sa Iddio con quale spontaneità, la bella somma di 21.000 lire imperiali, di cui
10.212 lire e 4 soldi furono a carico della giurisdizione
di Domo. Leggendo gli atti di queste liti ed i ricorsi degli Ossolani si sente tutta l’amarezza del popolo di queste montagne per essere sistematicamente beffato dai
propri governanti e, fra le righe, proprio dove si attesta
tanto sviscerato ossequio per il padrone, c’è una fredda
ed impressionante ironia: Riconoscendo la scarsezza in
cui si trova la Real Mensa in tempo di tanto bisogno per la
difesa dell’Adoratissimo Monarca, e che tutte queste novità
vengono suggerite dalle necessità de mezzi, non già perché
la chiara ragione di quel paese temi di comparir nuda, e
dubiti di non essere accolta da un tribunale, così retto, che
con viscere di padre riguarda la conservazione de’ sudditi
di Sua Maestà commessi alla di lui tutela, ma per anco in
quest’occasione palese alla Maestà Sua, et alle SS. VV. Illustrissime il sviscerato zelo che nodriscono per li vantaggi
del Padrone e per la causa pubblica, non ricusa con spontaneo sagrificio di quel di forze che ancora dura in quell’ormai esangue Corpo, tributar servitio alla Regia Camera per una volta tanto, (oltre le grandi somme in così pochi anni pagate) di altre lire sei mila, ecc. Poi... da seimi-
la si dovrà giungere a 21.000 regolarmente quietanzate
il 1° febbraio 1712.
L’imperatore d’Austria Carlo VI nel 1718 incaricò una
speciale Commissione o Giunta di fare un nuovo e generale censimento che potesse poi servire come base di
calcolo alle imposte. E poiché l’imposta veniva elevata sui fondi, sulle persone e sulle merci, il censimento,
assieme a dati statistici riguardanti la popolazione ed il
commercio, esigeva una misura precisa delle proprietà
fondiarie e relative rendite. Si cercò di assoggettare anche l’Ossola a questo generale censimento che sparse
dappertutto misuratori e loro aiutanti.
Ma gli agrimensori trovarono non poche difficoltà in
Ossola dove i fondi, a causa della estrema suddivisione,
sono piccoli, irregolari e numerosissimi. Si dovette allora ripiegare dividendo semplicemente i territori comunali in corpi di ugual superficie, segnando in essi i vari
proprietari, ma rinunciando alla definizione più precisa dei fondi appartenenti ai singoli proprietari. Naturalmente le notifiche si estendevano anche alle abitazioni, cascine, mulini, ecc. ed i notai vennero obbligati alla
denuncia dei contratti di compravendita degli immobili, specificando misure e nomi dei contraenti. Nel 1725
si tentò anche una stima del valore della proprietà. Ciò
significava che si era in procinto di estendere anche all’Ossola un nuovo sistema fiscale che avrebbe spazzato
via tutti i privilegi ed esenzioni a cui fino allora si era
guardato come alla salvaguardia della possibilità di sussistenza. Perciò i rappresentanti dell’Ossola fecero subito ricorso perché l’Ossola fosse esentata dal censimento.
Il voto del fisco del 7 ottobre 1727 fu favorevole all’Ossola Superiore, ma doveva essere approvato dall’imperatore. Per sostenerne la causa a Vienna gli Ossolani si
erano inizialmente affidati ai buoni uffici del vigezzino
Pietro Andreoli, il quale però nel 1729 se ne volle esimere. E poiché la cosa stava molto a cuore agli Ossolani, su proposta dei sindaco generale della Giurisdizione
dottor Carlo Ruga Silva, il 13 novembre 1729, venne
affidata al giureconsulto Paolo della Silva il quale condusse felicemente l’affare in porto ottenendo dall’imperatore con diploma del 22 agosto 1731, intimato alla
Giunta per il censimento, la bramata esenzione.
La guerra per la successione al trono di Polonia (17331738) ebbe notevoli conseguenze anche in Ossola. Es45
sendosi Carlo Emanuele III, re di Sardegna, alleato con
la Francia con il trattato del 26 settembre 1733, gli eserciti franco-sardi invasero la Lombardia, occupando Milano nell’ottobre del 1733. Frattanto in Ossola insorsero gravi perturbazioni. Il capitano del castello di Domo,
Giovanni Antonio Zunica, pretese rifornimenti di
vettovaglie a spese dell’OssoIa. Si opponevano gli Ossolani invocando i soliti privilegi, ma il capitano Zunica
continuava a fare richieste e minacce. Si riuscì anche ad
ottenere dalla Giunta di Governo lasciata dal conte di
Daun, governatore di Milano, in sua vece, un’ordinanza che proibiva espressamente al castellano di Domo di
esigere alcunché dagli Ossolani. Questi però non si acquietò, anzi si fece sempre più ostile, rivoltando contro
il Borgo le artiglierie del castello e facendo sparare alcuni colpi intimidatori contro le case di alcuni borghesi. I
Domesi sentendosi prigionieri nel borgo che il Zunica
aveva fatto chiudere, fecero suonar le campane a martello. Il segnale richiamò dalle valli le milizie locali che
giunte a Domo si limitarono però solamente a riaprire il borgo, costringendo i soldati del presidio a ritirarsi nel castello. Riferisce il giureconsulto Paolo della Silva che il castello era tenuto sotto sorveglianza dai borghigiani, che un soldato fu ucciso da un colpo di fucile sparato da una guardia appostata sul campanile della chiesa di S. Francesco e che lo stesso castellano corse il pericolo di finire allo stesso modo. Una nota dell’arciprete di Domo dice che la sera del 14 novembre
1733, alcuni soldati del castello fecero una sortita nel
borgo sparando alcuni colpi contro i borghigiani armati; questi risposero uccidendo un soldato di nome Raimondo Bellandel. Il giureconsulto Paolo della Silva, su
invito del re di Sardegna e del Senato di Milano, venne
a Domo a parlamentare con il castellano. Questi avendo saputo che ormai tutte le città dello Stato di Milano erano in mano dei Franco-Sardi si dichiarò pronto
alla capitolazione, e le ostilità furono sospese. Venuto in
Ossola a nome del Re di Sardegna il cavaliere gerosolimitano Antonio Grisella, fu sottoscritta la capitolazione; la resa fu fatta con tutti gli onori militari. Il Zunica con la sua guarnigione spagnola se ne andò, lasciando il castello al cavaliere Grisella che lo occupò con pochi soldati sardi.
Con la susseguente pace di Vienna del 1738, il regno
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di Sardegna si estese a Tortona e Novara. Con il ritorno del Milanese all’imperatore Carlo VI, il castello di
Domo fu rioccupato da milizie austriache e per qualche
anno si ebbe un po’ di pace.
Morto nel 1740 l’imperatore Carlo VI si riaccese nuovamente la guerra per la successione al trono austriaco. In
virtù della così detta Prammatica Sanzione su quel trono era salita l’arciduchessa Maria Teresa che era osteggiata da Francia, Spagna, Prussia, Sassonia, Baviera ed
anche dal re di Sardegna. Questi però si staccò dagli alleati quando si accorse che non erano disposti a cedergli
la Lombardia a cui aspirava. Alleatosi con l’Austria con
il trattato di Worms (13 settembre 1743), Carlo Emanuele III, rinunciò al Milanese, ma in compenso dei
suoi aiuti all’Austria ottenne il Vigevanese, l’Alto Novarese, l’Oltre Po pavese e la città e territorio di Piacenza
fino al Nure. La notifica alle comunità cedute fu data
con il manifesto del 25 gennaio 1744 dal principe di
Koblovitz ed il giorno seguente il re di Sardegna ne prese formalmente possesso. Negli anni 1742-1743 il castello di Domo era per lo più presidiato dalle milizie locali a cui era affidata anche la difesa del Borgo.
Unitamente alle vicende di cui abbiamo parlato l’Ossola in questo secolo soffrì di nuove e gravi difficoltà.
La prima fu quella ricorrente di un’alta mortalità specialmente infantile dovuta ad epidemie che infierirono in alcuni anni: la difterite, l’influenza, ed il vaiolo.
Scorrendo i libri dei morti si rinvengono lunghi elenchi
di bambini rapidamente mietuti dal morbo. Per parecchie settimane, ogni giorno numerose culle di bambini attendevano nelle chiese la sepoltura. Le attestazioni
che ci sono rimaste sono toccanti. Di tutti il più terribile era il vaiolo che serpeggiava in continuità ricomparendo improvviso e letale nelle valli ossolane.
Il notaio Cosimo Grossetti di Montescheno annota:
Din di l’anno 1746 fu una gran mortalità di bestie nel
Piemonte, Novarese e Milanese, Pavese e Umelina. Basta
solo dire che nelle terre dove erano mille bestie bovine ne
restano solo circa quattro o cinque ed un par di bovi avanzati dal detto male si prezavano cento doppie, cento zecchini e cose simili. Nel qual anno 1746 fu ancora una tal
strepitosa per non dir rabbiosa guerra nello Stato di Milano che il Novarese, Vercellese e parte del Piemonte patì
un gran danno, chiamato quasi la sua somma rovina, non
Strada del Sempione, ponte di Crevola. Da una stampa di Lorry.
potendosi veder altro di peggio, salvo la peste. Per la qual
guerra patì qualche spavento e danno ancor l’Ossola facendosi delle scorrerie in detta Ossola almeno fino a Vogogna
nel mese di marzo or delli Todeschi or del nostro re parti
avversarie. Pretendevano sottomissione or l’una or l’altra,
mettendo in grande affano li habitanti perché se aderivano
o mostravano accoglienza ad una parte come erano sforzi a
dimostrare anche senza genio, gl’era minacciato il saccheggio dall’altra. Basta dire che uno di Vogogna per aver dato
alloggio ad un oficiale spagnolo fu bastonato severamente
ed andò a rischio d’esser impiccato; altri per aver detto
Viva a una parte furon bastonati e multati dall’altra; sì
che si può immaginare in qual intrico si trovava la povera
gente. Di più il detto anno 1746 per essersi i Spagnoli impadroniti di Pavia e di tutto il Milanese ed Umelina, impedirono il corso del sale che veniva nel Ossola ed in tutto
il Novarese e Vercellese, sì che tali paesi dovettero patir penuria di sale, per il che molti s’ammalavano, massime nella Valsesia e Valanzasca, ma nella val Antrona stettero ben
alcuni poveri qualche tempo senza, ma essendosi messi alcuni mercati di Vigezzo ed anche di Pallanzeno, ne facevano venire dalla parte della Svizzera.
La epizoozia del bestiame bovino era stata importata in
Italia da buoi ungheresi venuti in Lombardia per il rifornimento delle armate austriache nel 1711 e si sparse
in tutta l’Europa. Infestò la Francia, la Germania negli
anni 1742-43, poi l’Italia fino al 1747 giungendo anche
nell’Ossola, dove causò danni gravissimi al patrimonio
zootecnico, riapparendo nel 1795. Si calcola che in Europa dal 1711 al 1776 siano andati perduti per questa
pestilenza più di sei milioni di bovini. In Ossola molte famiglie che perdettero quasi tutto il bestiame e non
poterono rinnovarlo, perché troppo povere, dovettero
emigrare. Alla metà del 1700 un buon terzo dei contadini allevatori di bestiame cambiò mestiere.
E poi le intemperie. Ricordiamo il 1740: anno freddissimo, in cui non poterono maturare non solo le uve,
ma neppure le castagne; il 1743, particolarmente sicci47
toso, in cui si poté raccogliere solo poca segale e scarso vino; il 1744 in cui alla Madonna del Rosario (7 ottobre) venne una tal innondatione d’acqua che tra Vogogna
e la Pieve (di Vergonte) non si vedeva più terra ma bensì
v’era un lago. La Toce a Vogogna andò nelle cantine e lasciò
raso fino su le topie. Alla Pieve un riale essendo saltato fuori dal suo canale portò via alcune case con la gente senza
lasciar segno ove eran piante, con danno di molte migliaia
di lire alle campagne. Lo Strona portò via il così bel ponte
di Gravalona ove andò l’acqua nelle case, portò fuor molta
robba, perfino credenze con dentro pane, formaggio ed altri cibi, bestie ancor attaccate alla presepe. E poi la grande
e generale alluvione del 14 e 15 ottobre 1755 che devastò tutta l’Ossola.
Il re Carlo Emanuele III, nel tentativo di promuovere una migliore e moderna amministrazione dello Stato
promulgò nuove costituzioni e leggi, entrate in vigore il
16 maggio 1770. All’Ossola ne fu data comunicazione
il 30 aprile 1770, dichiarando l’utilità di leggi uniformi
per tutto lo Stato. Gli Ossolani però insistettero presso
il Governo per ottenere delle deroghe su alcuni punti.
Queste vennero concesse dal Senato di Torino con decreto del 27 luglio 1771, estendendole sia all’Ossola Inferiore che Superiore ed alla val Formazza.
Con le nuove costituzioni scomparve tutto il vecchio
ordinamento civile e criminale.
L’amministrazione della comunità era affidata al consiglio, il quale poteva riunirsi solo con la partecipazione
del pretore, di un suo delegato o di persona di fiducia,
detta «castellano».
Il pretore di Domo con le R. Patenti dell’11 luglio 1771
ebbe autorità di «intendente». L’intendente, capo della
giurisdizione o pretore, poteva annullare ogni delibera
del consiglio, contraria agli interessi del Comune o non
conforme alle leggi. Consiglieri potevano essere eletti
tutti i capifamiglia, sebbene fossero in numero limitato;
ma era ufficio che non si poteva rifiutare.
Il consiglio a sua volta eleggeva il sindaco nella persona
del consigliere più anziano, il quale durava in carica sei
mesi od un anno secondo che il numero dei consiglieri
era di almeno quattro o almeno due. Le spese comunali erano espressamente controllate e in taluni casi vietate dalla superiore autorità. Ogni consiglio doveva avere
anche un segretario approvato dall’intendente.
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Questa prima riforma dell’amministrazione comunale
fece cadere antiche consuetudini, però indusse nei comuni ossolani istituzioni più moderne ed omogenee.
Non si segnalano importanti avvenimenti nella seconda metà del secolo XVIII in Ossola fino a quando non
giunsero anche in questa regione le scintille del fuoco
innovatore e distruttore della rivoluzione francese che
nel 1793 rovesciò la monarchia per istituire la repubblica, scatenando una reazione a catena di rivoluzioni e
guerre in tutta l’Europa.
Il re Vittorio Amedeo III, unitosi ad altre potenze europee, partecipò alla prima coalizione contro la Repubblica francese. Lo Stato Sardo si armava in previsione di
un periodo di guerra che non si sarebbe potuto evitare.
L’editto dell’arruolamento del 1793 colpì naturalmente anche l’Ossola. Questo obbligava ciascuno dei tre dipartimenti dell’Ossola, Domodossola, Vogogna e val
Vigezzo, a fornire ed armare un contingente di soldati.
Il 20 gennaio 1793 sì riunì a Domo il Consiglio provinciale, il quale, prendendo atto della situazione, con un
certo slancio patriottico deliberò di difendere colla maggior forza questa provincia da ogni invasione che derivar
potesse da parte dei Francesi senza ricever verun stipendio
dalle Regie Finanze, ma a spese di questa Provincia, e ciò
in conferma della dichiarazione già fatta nell’antecedente Consiglio del 31 ora scorso dicembre (1792), accettando la graziosa offerta fatta da S.M. delle armi, munizioni
ed attrezzi militari.
Il Consiglio decise di fornire quattro compagnie, corrispondendo a ciascun soldato la paga di 30 once di pane.
Capo ed ispettore delle milizie ossolane fu eletto l’avvocato Giuseppe Maria Facini. Il ministro della guerra
Di Gravanzana con lettera del 30 gennaio 1793 approvò queste delibere.
Ci fu in quel momento un notevole senso civile e patriottico, dovuto in parte alle notizie allarmanti provenienti dalla Francia circa i disordini che accompagnavano la rivoluzione in atto.
Si ebbero iniziative particolari a Montecrestese ed in
valle Antigorio per formare corpi speciali per la difesa dei confini dell’Ossola. Purtroppo il Facini, divenuto
per la sua prepotenza e scarsa sensibilità, odioso al popolo, fu osteggiato da gran parte delle milizie ossolane,
i cui rappresentanti, riunitisi al ponte di Crevola il 15
giugno 1795, stilarono un vibrato ricorso al Re per esonerarlo dalla carica di comandante militare e reggente. A questa riunione mancarono i rappresentanti di alcune comunità, fra cui quelli di Domo, di Villa e della valle Antrona. Rispose il Re da Moncalieri il 4 agosto
1795, delegando il prefetto di Pallanza Bellini, secondo la richiesta, a presiedere i consigli provinciali. Di ciò
informato, il Facini, l’8 agosto annunciava la riunione
del consiglio provinciale per il giorno 16 seguente e la
sua rinuncia alla carica di reggente e di comandante delle milizie. Ma i rappresentanti protestatari la disertarono ed il 30 agosto, sotto la presidenza del prefetto Bellini, si riunirono autonomamente e, dopo aver riprovato
il comportamento del Facini e sottopostolo al giudizio
di una commissione amministrativa, elessero un nuovo
reggente e capitano.
Con tutto questo non si deve credere che in Ossola i
principi della rivoluzione francese e le idealità che l’avevano provocata fossero sconosciuti. La circolazione degli uomini e delle idee era sempre stata ampia e favorita dalle emigrazioni stagionali o semipermanenti di una
elevata percentuale degli uomini più attivi ed intraprendenti. Fra strati di patente conservatorismo filtravano
e si muovevano, prima nascostamente, ma poi sempre
più palesemente idee riformistiche, impulsi decisamente rivoluzionari e idee politiche repubblicane. I successi dei Francesi, legati alle fortune dell’astro napoleonico, erano paventati dai conservatori e aspettati ed esaltati dai repubblicani. La Repubblica Cisalpina, voluta
da Napoleone, favoriva la penetrazione delle idee rivoluzionarie e fomentava impulsi eversivi anche nell’Ossola. Un tentativo rivoluzionario fu organizzato a Pallanza da Giuseppe Antonio Azari. Scoperto il complotto, l’Azari fu condannato a morte per impiccagione il
29 novembre 1796; il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento. Altre congiure e associazioni rivoluzionarie pullulavano in quel periodo negli stati del re di
Sardegna, fomentate dalla Francia che tentava di provocare il rovesciamento del trono, tenuto allora da Carlo Emanuele IV succeduto nel 1796 a Vittorio Amedeo
III, e l’adesione alla Repubblica Cisalpina o addirittura alla Francia.
Alcuni fuoriusciti piemontesi e patrioti cisalpini ed altri elementi rivoluzionari internazionali, allo scopo di
accelerare i tempi, con la protezione e l’appoggio della
Repubblica Cisalpina che fornì armi e direttive, si riunirono in numero di 800 uomini a Varese e fra il 13 e il
14 aprile 1798, da Laveno attraverso il lago Maggiore,
giunsero a Intra-Pallanza. Fu prima loro preoccupazione di imporre la rivoluzione, piantando l’albero della libertà, stabilendo una nuova amministrazione e taglieggiando i ricchi e nobili locali. Comandava questi così
detti patrioti il francese Giovanni Battista Leotaud e i
suoi luogotenenti erano il francese Lions ed il savoiardo Seras. Da Pallanza vennero ad Ornavasso, dove posero il campo, cercando di suscitare e ottenere l’adesione delle popolazioni ossolane. Queste però non si mostrarono entusiaste, anche perché le contribuzioni militari immediatamente imposte risultavano estremamente sgradite. Un nucleo di partigiani per i Francesi esisteva in verità a Vogogna dove il popolo, sollecitato dall’avvocato Filippo Grolli, da Giuseppe Antonio Cadorna, Giulio Albertazzi e Angelo Zaretti, accettò la novità
e ballò la carmagnola attorno all’albero della libertà.
Poi un gruppo di armati, guidati dal capitano Angelo Zaretti, riuscì a penetrare nel borgo di Domo il 20
aprile seguente ed a farsi consegnare il castello. Anche
a Domo si cercò di sollecitare adesioni che furono tuttavia piuttosto scarse. Intanto l’Albertazzi si recava con
alcuni armati ad incontrare il comandante Fontana che
con una schiera di sessanta dragoni risaliva la valle Cannobina per raggiungere la valle Vigezzo. Riunitisi a Santa Maria Maggiore anche lì si imposero le solite cerimonie che istituivano la repubblica e la municipalità. Ma
il popolo, sebben chiamato dagli insoliti tocchi di campana, non si mostrò entusiasta. Del resto giunsero subito notizie allarmanti che consigliavano molta prudenza.
Quattromila soldati dei reggimenti di Savoia, della Marina, di Pever Im-Off, di Zimmerman e di Bachman
stavano concentrandosi a Gravellona, inviati dal Re, per
puntare verso Ornavasso dove il Leotaud cercò di organizzare la difesa.
Nell’imminenza della battaglia ben pochi degli Ossolani che avevano fatto l’atto di adesione accorsero ad Ornavasso. Il 21 aprile 1798 le prime milizie regie avevano già raggiunto Gravellona ed il giorno seguente erano
pronte alla battaglia.
Lo scontro avvenne a sud di Ornavasso ed ebbe inizio
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verso le dieci di mattina. Fu una battaglia in piena regola che ebbe alterne vicende, dove alla fine la netta superiorità numerica e tattica dei regi ebbe la meglio sui
repubblicani. Appena infatti un corpo di sei compagnie
di granatieri di Savoia e della Marina riuscirono a passare il Toce e prendere alle spalle l’esercizio del Leotaud,
la sorte della battaglia fu definita.
Nonostante il valore dei repubblicani, 150 morirono con le armi in pugno, 400 furono fatti prigionieri ed il resto, completamente sbandato, cercò la salvezza sui monti di Premosello e Vogogna, tentando di guadagnare luoghi più sicuri. Alcuni morirono di freddo e
di stenti nel tentativo di raggiungere la valle Vigezzo, e
quelli che vi riuscirono furono fatti prigionieri dalle milizie locali e tradotti nelle carceri di Domodossola. Anche i capi furono presi. A Domodossola un consiglio
di guerra pronunciò sentenza capitale contro i rivoltosi. I giorni 28, 29 e 30 aprile ne furono fucilati 64. Altri furono poi tradotti a Casale per subire la stessa sorte. Dei capi lo Zaretti era stato già proditoriamente colpito a morte in val Vigezzo il 24 aprile a S. Maria Maggiore quando presumeva di essere ormai salvo. Giulio
Albertazzi fu fucilato a Pallanza il 19 maggio. L’avvocato Grolli, riportato da Casale a Vogogna, fu giustiziato sulla piazza del Pretorio il 30 maggio. Unico si salvò dei comandanti ossolani il vogognese Giuseppe Antonio Cadorna che, per merito della coraggiosa moglie,
ottenne la grazia dal Re. Il Leotaud, fatto prigioniero
con il Lions fu fucilato a Casale. Le stragi degli infelici prigionieri sarebbero continuate se le proteste della
Francia non avessero costretto il Re a sospendere le esecuzioni ed a concedere una amnistia per tutti il 20 giugno di quell’anno 1798.
Il re Carlo Emmanuele IV che con le R. Patenti del 7
marzo e l’Editto del luglio 1797 aveva abolito il sistema feudale con tutte le sue implicazioni, dovette riconfermare tali leggi con la Patente del 2 marzo 1799 (2
ventoso, anno VII della Repubblica Francese secondo il
nuovo calendario).
L’8 dicembre seguente Carlo Emmanuele IV fu costretto a dimettersi e venne proclamato il Governo repubblicano. Fu istituito il Dipartimento del Novarese ed istituita la municipalità nelle città e grossi borghi. In Ossola fu inviato il commissario Giacomo Zuffinetti per
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la necessaria organizzazione. La municipalità di Domodossola comprese tutta l’antica giurisdizione e quindi
anche Villa e la valle Antrona. La municipalità era diretta da un presidente, un commissario nazionale e quattro amministratori i quali rispondevano direttamente
all’Amministrazione centrale di Vercelli.
All’inizio del 1799 fu organizzato un plebiscito allo scopo di ottenere la bramata unione con la Francia, in verità bramata solo da pochi fanatici, ma decisa dal Governo provvisorio. Con abile propaganda si ottenne l’effetto desiderato. Anche nell’Ossola molte furono le adesioni. Ricordiamo a questo proposito che anche a Villa
e in valle Antrona non mancarono i fautori della unione con la Francia. Questo ci sembra almeno dedurre dal
fatto che un certo Cassoletti di Villa è l’autore di un Discorso tipografico in occasione della generale adesione ossolana all’unione francese, stampato a Torino nel 1799.
Ma l’orizzonte politico era tutt’altro che chiaro. Continuava con alterne vicende la lotta contro la Francia da
parte delle potenze coalizzate. In una seconda coalizione si unì anche la Russia ed un esercito austro-russo comandato dal generale Suwarow venne in Italia. Milano fu presa dagli austro-russi il 28 aprile, Novara il 3
maggio e Torino il 27 maggio 1799. In Ossola si sfaldò
la municipalità stabilita dai repubblicani, si ritornò al
vecchio ordinamento, e si ripeterono le adesioni questa
volta al generale Suwarow, grati di essere stati «liberati».
E naturalmente si rinnovarono le imposizioni di forniture di bestiame e servizi, le requisizioni e le angherie.
In Ossola, per guardare i passi alpini fu mandato un
corpo di austriaci comandati dal principe Vittorio de
Rohan, con il compito di impedire infiltrazioni attraverso il Sempione. Le truppe dei generali Laudon
e Wuckassovich stazionavano invece presso Arona; di
queste un distaccamento russo al comando del colonnello Rosales e seimila austriaci del generale Nobile vennero a stare in Ossola. Si comprende che con tutta questa massa di soldati da sfamare gli Ossolani si sentissero
letteralmente in guerra per la sopravvivenza.
Intanto per aprirsi la via a scendere in Italia dalla Svizzera, il generale Massena al comando di una armata francese, inviava verso il Vallese ed il Sempione il generale Giacobini con 4.500 uomini. Questi non trovarono
molta difficoltà a sloggiare le truppe del Rohan, il qua-
le ai primi di settembre, pensando di non poter opporre sufficiente argine all’avanzata nemica, si ritirò a Vogogna e poi a Ornavasso, dove organizzò la resistenza. I
Francesi attorno al 20 settembre raggiunsero Piedimulera, ma avendo ricevuto l’ordine di retrocedere, si limitarono, pare, a scopo tattico e intimidatorio ad agganciare gli Austriaci impegnandoli in una scaramuccia a
Migiandone e Gravellona (29 settembre 1799) per ritirarsi poi al dì là del Sempione. Con il ritorno delle truppe austriache del Rohan che passarono in Ossola tutto
l’inverno si accrebbero i tormenti delle requisizioni di
bestiame, foraggio, viveri, legname e soprattutto di lavoro coatto per la costruzione di una linea di trincee difensive fra la punta di Migiandone e Bettola, e relativo
campo trincerato.
Negli ultimi due anni gli Ossolani avevano più volte
piantato, strappato e ripiantato il famoso albero della
libertà e giurata obbedienza ripetutamente a questo e
a quello, ai Sardi, agli Austriaci, ai Francesi, ai Cisalpini ecc., cercando di salvarsi dalle prepotenze di questo o quel «liberatore», ma la conclusione più ovvia fu
la miseria non solo della povera gente, ma di tutti. Ridotte a zero le finanze locali, il patrimonio zootecnico,
ricostruito con infiniti sforzi, non esisteva più; si fu costretti a vendere le suppellettili d’oro o d’argento delle
chiese per pagare i contributi imposti dagli occupanti di
turno. Questo stato di cose fu una chiara beffa per tutti,
sia conservatori che rivoluzionari; e furono ben pochi i
fanatici che non se ne accorsero.
Cronache del secolo XIX
Nella primavera del 1800 Napoleone prende l’iniziativa di tornare alla riconquista dell’Italia scendendo attraverso le Alpi in Piemonte ed in Lombardia. Il 9 maggio è a Ginevra e punta verso il passo del Gran San Bernardo ancora innevato. Gli eserciti austriaci, comandati dal generale Melas, tentano invano di impedire l’impresa. Napoleone riesce, superando difficoltà inimmaginabili, a raggiungere il passo fra il 15 ed il 21 maggio e poco dopo si presenta nella pianura piemontese. Intanto un distaccamento francese, forte di 1000
uomini comandati dal generale Béthencourt, tenta il
non meno difficile passo del Sempione ed il 26 maggio, sotto l’incombente pericolo di valanghe, le trup-
pe francesi vengono a contatto a Gondo con quelle austriache del generale Laudon. Queste però, dopo aver
tagliato o fatto saltare i ponti della difficile strada fra
Gondo ed Iselle, si ritirano dalla val Divedro lasciando
praticamente libera l’avanzata dei Francesi.
Il principe di Rohan, appena si rende conto di correre
il pericolo di essere intrappolato nell’Ossola Superiore,
ordina l’abbandono di Domo e concentra le sue truppe oltre i trinceramenti di Migiandone e Bettola; anzi,
poco dopo, non sentendosi sicuro neppure in quella
posizione, si ritira completamente dall’Ossola. Infatti giunge notizia che un grosso contingente di soldati, quasi tutti italiani, al comando del generale Lecchi, è
prontamente passato dalla val d’Aosta ad Alagna in Valsesia e sta per giungere sul lago d’Orta da Varallo. Così
il 31 maggio l’Ossola è interamente sgombra dagli Austriaci e militarmente occupata dai Francesi. Si ricostituisce la municipalità, si fanno epurazioni e controepurazioni, si bruciano i documenti compromettenti.
Il 14 giugno Napoleone vince la grande e decisiva battaglia di Marengo. Il 20 luglio si ricostituisce la Guarda nazionale. Il 15 ottobre viene ricostituita la Repubblica Cisalpina che nel 1802 prende il nome di Repubblica d’Italia.
Un decreto del 13 ottobre 1800, ma datato dal 7 settembre precedente, annette alla Repubblica Cisalpina
tutta la regione fra la Sesia ed il Ticino, comprendente
anche il Novarese e l’Ossola.
Il decreto sopra citato conteneva anche un grosso particolare che interessava l’Ossola direttamente. Si stabiliva
infatti l’immediata apertura di una nuova strada militare fra il lago Maggiore ed il Vallese attraverso l’Ossola ed
il Sempione. Era un progetto già espresso da Napoleone nel 1798 e nelle intenzioni del generale aveva soprattutto funzione militare. Doveva infatti essere una strada
capace di sopportare il traino pesante delle artiglierie e
dei carriaggi militari permettendo agli eserciti francesi e
dei loro alleati un rapido spostamento attraverso le tanto temute Alpi. Le spese, che sarebbero state sostenute dalla Repubblica Cisalpina e da quella Francese, erano preventivate in 50.000 franchi al mese fino a lavoro
finito. Il decreto stabiliva anche il dislocamento in Ossola di un battaglione di 500 uomini agli ordini del generale Turreau, incaricato della esecuzione del proget51
to. A Milano questo progetto tanto dispendioso non
fu certo visto di buon occhio, ma una volta tanto, sebbene concepito in funzione puramente militare, sarebbe stato proficuo sia per la Lombardia che per l’Ossola.
Il progetto fu messo immediatamente in esecuzione e
portato avanti con incredibile vigoria. Fu naturalmente
requisito molto lavoro sul luogo e gli Ossolani ebbero
da sopportare notevoli angherie non solo per il lavoro,
ma anche per le provvigioni di bestiame, foraggi e alloggi agli operai ed alle truppe. La parte italiana fu completata nel 1805 ed una iscrizione scolpita sulla viva roccia
della galleria di Gondo presso il confine, ricorda quest’opera voluta dal genio di Napoleone, ma fatta a spese
degli Italiani: AERE ITALO. 1805. NAP. IMP.
A titolo informativo giova qui dare alcune notizie su
quest’opera che ai suoi tempi fece enorme impressione. Vi furono impiegati per la costruzione fino a 3.000
operai al giorno; le rocce furono attaccate con le mine,
consumando oltre 160.000 quintali di polvere da sparo. La costruzione costò un enorme capitale e molte vite
umane.
La coscrizione militare obbligatoria, introdotta nel
1802, fu molto mal sopportata dalle popolazioni ossolane che si sentivano scarsamente invogliate ad accettare
che i giovani diventassero carne da cannone nell’armata
italiana al servizio dell’ambizione di Napoleone.
La Repubblica non ebbe lunga durata. Infatti nel 1805,
Napoleone, divenuto imperatore di Francia, cinse anche la corona del regno d’Italia (23 maggio) dove pose a
governare il viceré Eugenio Beauharnais.
L’Ossola durante questo periodo amministrativamente
dipende dal Dipartimento dell’Agogna, il quale fu diviso inizialmente (decreto del 2 novembre 1800) in 17
distretti, fra cui quelli di Domodossola e di Vogogna, e
successivamente (decreto del 13 maggio 1801) in cinque distretti fra cui quello di Domodossola che si estendeva a tutta l’Ossola, suddiviso poi (decreto dell’8 giugno 1805) in due cantoni (Domo e Vogogna). Domo
fu quindi sede di sottoprefettura. Nel 1806 fu pubblicato il Codice Napoleonico ed esteso anche al Regno
d’Italia con decreto del 22 marzo 1806.
Con decreto del 26 maggio 1807 furono abolite le società religiose i cui beni furono confiscati dallo Stato;
seguì il 25 aprile 1810 un altro decreto che abolì tutte
52
quelle poche che erano riuscite in qualche modo a sopravvivere al decreto precedente. Questa ondata di giacobinismo ebbe in Ossola i suoi fanatici e provocò notevoli fermenti nel popolo che era molto attaccato alla
religione ed alle sue istituzioni. Fu in questo periodo
che in Ossola, come del resto in molte parti d’Italia, il
fanatismo anti-religioso produsse enormi danni culturali al patrimonio artistico. A titolo di esempio ricordiamo per l’Ossola la distruzione della chiesa duecentesca dei Francescani di Domo, con relativo campanile, la trasformazione del convento dei Cappuccini del
Sacro Monte Calvario in caserma, la sconsacrazione di
chiese e cappelle a Vogogna e la dispersione di arredi sacri, libri, archivi ed opere d’arte che hanno impoverito l’Ossola.
Queste ed altre angherie crearono nel popolo ossolano
profonde basi di antipatia per le milizie francesi onnipresenti, in cui troppi erano costretti a marciare per andare a morire nella disastrosa campagna di Russia. Furono molti in questo tempo coloro che disertarono o si
diedero alla macchia, aspettando tempi migliori. Dopo
la ritirata di Russia ed il decisivo tramonto della stella napoleonica (1813) con la battaglia di Lipsia (16-18
ottobre) anche il territorio ossolano visse nella incertezza e si può dire nell’ascolto degli avvenimenti, le cui notizie erano riportate in patria dai rari sopravvissuti. Proprio nei primi giorni del 1814 numerose compagnie di
soldati italiani e francesi stanno rientrando attraverso
il Sempione in Italia, stanchi ed abbattuti, sospinti da
contingenti austriaci e russi che occupano il Vallese.
A Domodossola in quell’epoca comandava la piazza il
generale Bertoletti e questi fece qualche tentativo di difendere il passo del Sempione, ma le truppe non erano
sufficienti. Ci fu qualche scontro di assaggio a Iselle ed
a Gondo, ma non una vera battaglia. Il 1° marzo tuttavia una colonna al comando del colonnello Ponti riuscì ad occupare il valico del Sempione ed il giorno dopo
tentò di scendere fino a Briga. Il Ponti però, credendo forse di avere dalla sua parte le popolazioni vallesane, imprudentemente si lasciò circondare dagli Austriaci forti di 200 cacciatori tirolesi affiancati da almeno
100 Vallesani, e fu fatto prigioniero con la sua truppa.
Gli Austriaci si portarono immediatamente attraverso
la val Divedro a Crevola verso Domo. Il presidio di vo-
lontari abbandonò il castello di Domo ritirandosi nella Bassa Ossola. Il 9 marzo 1814 un piccolo esercito
di 600 uomini, per metà tedeschi e bavaresi e per l’altra metà disertori italiani e vallesani, come si ha da una
relazione al Ministro della guerra italiano, occupò senza colpo ferire Domodossola e l’Ossola Superiore fino a
Villa e Vogogna. Il 12 marzo a nome del colonnello barone Seimcheim il capo dei cacciatori vallesani lanciò
un proclama roboante alle popolazioni ossolane, che, se
sotto alcuni aspetti pare ridicolo, sotto altri ci illumina
sulla vera situazione, toccando soprattutto gli equivoci
di certe libertà proclamate e la realtà patente delle molte angherie a cui gli Ossolani erano stati sottoposti, prima fra tutte la coscrizione obbligatoria.
Il generale Mazzucchelli a cui era stato affidato l’incarico della difesa dell’Ossola, manteneva la linea di difesa
a Gravellona, ed un posto avanzato ad Ornavasso. Nell’Ossola Superiore era invece il generale Luxen che aveva il comando delle truppe austriache, ma pare che non
avesse precise intenzioni di oltrepassare la linea VillaVogogna.
Il 25 marzo 1814 il generale Mazzucchelli, avendo ottenuto il rinforzo di un distaccamento di 215 uomini
di fanteria francese ed un altro di dragoni di Napoleone, affrontò gli Austriaci al ponte della Masone dove ci
fu una piccola battaglia. Ritiratisi da quel luogo gli Austriaci si concentrarono al ponte di Villadossola dove
pure ci fu uno scontro di fucileria e di artiglieria. Temendo però di essere presi alle spalle da un contingente
inviato dal Mazzucchelli verso Beura e Domo dal ponte
della Masone, gli Austriaci si ritirarono ordinatamente
in vai Divedro. In quel medesimo giorno ritornò a Domodossola il Viceprefetto e fu ricostruita la vecchia amministrazione.
Prendeva intanto il comando delle truppe dell’Ossola
il generale Saint Paul il quale però, come appare dalle
sue relazioni inviate al Ministro della guerra, non poté
contrastare il fenomeno dei molti disertori che si rifugiavano nelle valli e che non riusciva a intercettare, soprattutto per la protezione e l’omertà delle popolazioni locali e perfino delle autorità ormai stanche di tutte
queste traversie.
In questo periodo i molti scontenti, sbandati, disertori e insofferenti dell’autorità costituita che si erano ri-
fugiati in Ossola e che provenivano in parte dalle vicine regioni del lago Maggiore ed Orta, scesero in aperta ribellione contro lo Stato. Riunitisi in bande, assaltarono parecchie case municipali dei comuni del lago
Maggiore e circonvicini distruggendo soprattutto le liste di coscrizione militare, ma spesso mettendo a fuoco interi archivi.
L’11 aprile 1814 Napoleone abdicò e poco dopo (23
aprile) anche il viceré Eugenio Beauharnais cedette il
regno. Gli Austriaci rioccuparono la Lombardia.
Eliminato con gli editti del 25 aprile ed 11 maggio
1814 il Dipartimento dell’Agogna, l’Ossola ed il Novarese cessarono di essere uniti a Milano e si ricongiunsero agli Stadi Sardi. Il 20 maggio 1814 il re Vittorio
Emanuele I è nuovamente, dalla Sardegna, di ritorno in
Piemonte per riprendere i suoi domini.
La caduta di Napoleone per molti Ossolani significava
anche il ritorno all’antico ordinamento. Ci si preoccupava ancora della salvaguardia di quei famosi privilegi
per i quali erano stato fatte tante lotte e la cui conservazione era considerata necessaria per la stessa sopravvivenza del popolo.
La rigida restaurazione voluta dalle potenze vincitrici
pareva propizia per questa richiesta ossolana che infatti
fu accettata. Il 17 marzo 1815 con decreto camerale gli
Ossolani ottennero la conferma dei loro privilegi.
Dal 3 giugno alla fine di luglio l’Ossola è continuamente attraversata da numerosi corpi di militari con cariaggi e cannoni. Sono ben 75.000 uomini, 10.000 cavalli,
2.000 carri, 1.300 buoi, 180 cannoni e 6.000 ausiliari
dell’esercito austriaco. Questo attraversamento non fu
senza le contribuzioni e le solite requisizioni di fieno,
bestiame, cibarie ed alloggi a spese degli Ossolani, nonostante i famosi privilegi tornati in funzione. Fu questa però l’ultima loro approvazione. II Regio Biglietto
del 23 giugno diede un colpo a tutta la struttura civile dei comuni ossolani togliendo l’antica distinzione tra
i vicini e non vicini o appoggiati. Anche questo decreto non incontrò il favore degli Ossolani i quali in qualche caso si mostrarono renitenti alla sua osservanza, ma
le richieste dei non vicini furono tali che dovette essere
applicato integralmente. E bisogna riconoscere che, nonostante tutto, era una non piccola riforma ed un passo notevole in avanti sulla via dell’ammodernamento
53
dell’Ossola.
Con il Regio Editto del 10 novembre 1818 l’Ossola Superiore fu costituita in provincia suddivisa nei mandamenti di Crodo, S. Maria Maggiore, Bannio e Domodossola. Al mandamento di Domo furono aggiunte le
Quattro Terre (Masera, Trontano, Beura e Cardezza) e
Pallanzeno. Il Regio Editto del 28 settembre 1822 istituiva a Domodossola il tribunale prefetturale.
Le Regie Patenti del 10 ottobre 1836 vennero a sopprimere la provincia dell’Ossola che fu aggregata a quella
di Pallanza. Fu però ristabilita con il decreto del re Carlo Alberto (15 nov. 1844). Nel 1861 nasce la provincia
di Novara e l’Ossola si riduce a sottoprefettura che dura
fino al 1927. I privilegi ossolani restarono almeno formalmente in vigore fino al 1848, allorché con la proclamazione dello Statuto furono abolite non solo le Costituzioni del 1770, richiamate in vigore al ritorno in Piemonte di Vittorio Emanuele I, ma anche tutte le leggi
particolari concesse nel periodo anteriore. Essi caddero
uno dopo l’altro negli anni seguenti senza alcun compenso per gli Ossolani. I progetti per collegare la Lombardia ed il Piemonte con il Vallese ed i paesi transalpini nacquero abbastanza presto, cioè già nel 1856; tuttavia passeranno ancora cinquant’anni prima che divengano realtà con il grande traforo del Sempione.
Premeva intanto alla regione ossolana un rapido collegamento con il resto delle regioni subalpine per toglierla dall’isolamento. Anche le diligenze con i cavalli, tanto gloriose con l’apertura della strada napoleonica del
Sempione, erano ormai sorpassate. La nuova civiltà industriale era all’insegna del vapore e della locomotiva.
Nel 1857 il Parlamento Subalpino con legge del 12 giugno concesse alla società Lavallette la costruzione, senza concorso di spese da parte dello Stato, di una ferrovia da Arona a Domodossola che prevedeva poi il raccordo con le linee svizzere nel Vallese.
La società Lavallette costruì effettivamente da Domodossola fino ad Ornavasso un tratto di massicciata con
relative opere murarie, ponti ecc. per sistemare il binario della progettata linea: in tutto 14 km. A Villadossola
erano stati a questo scopo rinforzati gli argini dell’Ovesca e poste anche le teste del ponte della ferrovia. Ma
nel 1865 la società Lavallette fallì e la costruzione fu sospesa. Della massicciata se ne impadronirono i rovi.
54
Il 10 febbraio 1877 il Municipio di Domodossola presentò un memoriale al Ministero dei Lavori Pubblici, a
seguito del quale il Governo tolse la concessione alla società fallita, avocando a sé l’impegno di portare avanti il progetto, inserendolo però nel nuovo disegno che
prevedeva il collegamento Domodossola-Gozzano per
Gravellona, Omegna ed il lago d’Orta. Tuttavia anche
la realizzazione di questo progetto andava molto a rilento e pareva che non dovesse mai tradursi in realtà. Il
29 luglio 1881 i comuni dell’Alta e Bassa Ossola inviano una «Petizione al Ministro dei Lavori Pubblici» per il
sollecito compimento della linea di accesso al Sempione, congiungente Gozzano con Domodossola. Ci si lamenta anzitutto che dal 1848 in poi siano stati ad uno
ad uno annullati quei privilegi ossolani che erano giustificati dalla sfortunata situazione geografica della regione. Mercé le enumerate esenzioni che aveva acquistate
a peso d’oro, l’Ossola fioriva per agiatezza dei suoi abitanti, i quali gradatamente vennero spogliati di tutti i benefici, assoggettati a tutte le tasse erariali senza il più lieve
compenso, ed oggi corrisponde allo Stato per imposte di diversa natura oltre un milione e mezzo di lire, che, pei sedici anni trascorsi, dal 1865 epoca in cui cessò l’ultima esenzione al corrente 1881, sono oltre 24 milioni di lire versate nelle casse erariali; ed è fuori di dubbio che conquistò
il diritto di reclamare la sua parte di concorso ai benefici
che lo Stato con larga mano sparge a migliorare le condizioni economiche delle popolazioni; ma non ostante questi suoi titoli più volte messi in evidenza a chi per lo passato resse il supremo potere della cosa pubblica, fu lasciata in
tale isolamento ed abbandono che ora le popolazioni devono in maggiori proporzioni emigrare e cercare all’esterno il
pane loro tolto dalle eccezionali gravezze e dalla decadenza del commercio un dì fiorentissimo e spostato dal ritrovato dei rapidi mezzi di comunicazione e di trasporto...
L’Eccellenza vostra rammenti quanto l’Ossola perdetta rassegnata per il benessere generale della nazione; rammenti
la necessità imperiosa che le industrie dell’Ossola provano
di poter usufruire dei mezzi economici di trasporto mercé
i quali potranno ampliarsi, e raddoppiare la loro produzione con beneficio generale, mentre tantissime altre troveranno potente convenienza d’impiantarsi usufruendo della forza motrice che scorre potente ed inoperosa nei fiumi
confluenti del Toce.
Piazza del Mercato a Domodossola (Samuel Prout, 1839).
Il tratto di ferrovia che collega Novara con Gozzano era
il più facile e fu completato nel 1864. Per raggiungere
Orta furono necessari altri 20 anni. Il 30 aprile 1887 fu
aperto il tratto Orta-Gravellona.
A Domodossola la ferrovia arrivò solo l’8 settembre
1888 passando per Ornavasso, Cuzzago, Premosello,
Vogogna, Piedimuiera, Pallanzeno e Villadossola. Questa ferrovia fu il primo asse vitale che diede impulso e
vigore all’economia ed alle molteplici attività industriali
e commerciali dell’Ossola. Villa ne ebbe grandi vantaggi; alla fine del secolo ferveva l’industria siderurgica e ci
si avviava allo sfruttamento della nuova fonte di energia
che in Ossola sarà tanto importante. È infatti del 1898
l’entrata in servizio della prima centrale elettrica dell’Ossola che la ditta Pietro Maria Ceretti costruì in valle Antrona, alla quale fecero seguito impianti sempre
più grandiosi, talmente che nel secolo seguente l’Ossola poté fornire una enorme quantità di energia elettrica
non solo alle proprie industrie, ma anche a quelle della
pianura lombarda.
Tempi moderni
All’inizio del secolo XX l’Ossola è tutta un cantiere operoso e risonante di rumori e di insolite favelle.
Si lavorava alla costruzione della linea ferroviaria Domodossola-Arona ed al tratto Domodossola-Iselle. Si
sta scavando la galleria del Sempione.
È questo un capitolo di storia ossolana ed internazionale che merita una trattazione a parte per la sua importanza e per le enormi conseguenze di cui è stata matrice. Ci limitiamo ad accennarne appena, rimandando a
pubblicazioni numerose ed esaurienti riguardanti sia il
lato tecnico che storico della grande impresa.
Se ne parlava già da mezzo secolo. Molti i progetti, gli
studi preliminari, gli approcci ed i trattati fra gli Stati interessati.
Giunse anche, finalmente, il tempo della realizzazione.
Il 1° agosto 1898 a Briga sul versante svizzero si affronta la dura roccia alpina e si dà inizio alla titanica impresa. È una grande ed ordinata battaglia guidata da ingegneri e tecnici e combattuta da schiere di operai che
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conquistavano il cuore della montagna a colpi di mina.
Il 16 agosto si sferra il primo attacco anche sul versante
italiano a Iselle. Il lavoro è assunto dall’Impresa BrandBrandau che impiega parecchie migliaia di operai, per
la maggior parte italiani, e dispone di nuove e potenti
perforatrici idrauliche. Ogni chilometro di avanzamento è una vittoria della scienza, della tecnica e della civiltà, ma è largamente pagata dalle fatiche degli uomini e
dalle loro stesse vite.
Il 24 febbraio 1905, dopo anni di lavoro ostinato e dispendioso, le due gallerie di avanzamento si abboccano
nel cuore della montagna ed il 2 aprile 1905 due convogli imbandierati inaugurano il percorso incontrandosi festosamente a metà della galleria, dove mons. Abbet
vescovo di Sion, benedice il traforo. La galleria misura
19.803,1 metri. Il 19 maggio 1906 il re Vittorio Emanuele III venne in visita nell’Ossola con i rappresentanti del governo e, unitamente al Presidente della Confederazione Elvetica, inaugurò il traforo del Sempione.
Anche le linee di accesso erano state completate. Il 15
gennaio 1905 era stata ufficialmente aperta la linea Domodossola-Iselle. Attraverso l’Ossola cominciava così a
scorrere una delle più importanti correnti del traffico
internazionale europeo.
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Per la realizzazione del traforo del Sempione vennero in
Ossola molti operai da altre regioni italiane; alcuni di
essi, a lavoro finito, fissarono in questa regione la loro
residenza, inserendosi come elementi attivi nel contesto
ossolano. In occasione dei lavori del traforo del Sempione sorsero nuove industrie, mentre altre svilupparono la
loro attività, portandosi ad una efficienza competitiva.
Con l’apertura della linea del Sempione, l’Ossola entrò
vivacemente nella storia economica, sociale e politica
d’Italia. Crebbero le industrie, vennero sfruttate le sorgenti di energia idraulica per la produzione di elettricità, si avviò un processo di industrializzazione che richiamò lavoratori da ogni parte d’Italia, ma specialmente
veneti, romagnoli e calabresi. Anche l’Ossola subì tuttavia i sacrifici della grande guerra mondiale (1915-1918)
con un forte contributo di vite umane e visse la crisi
post bellica che condusse all’avvento del fascismo e della successiva guerra disastrosa a fianco della Germania
(1940-1945). Anche nell’Ossola ci furono movimenti di liberazione in opposizione alle milizie fasciste e tedesche che condussero alla effimera «repubblica» dell’Ossola; quindi la liberazione dell’Italia per opera degli
Americani e dei loro alleati, ci portò alle soglie dei tempi più recenti.
La “repubblica” dell’Ossola
Paolo Bologna
La “repubblica” dell’Ossola è certamente la più nota e
prestigiosa delle 18 “zone libere” partigiane che ebbero vita tra estate e autunno 1944 in piena occupazione
tedesca1. L’esperienza ossolana prese l’avvio con la resa
dei presidi nazifascisti2 alle forze partigiane, conclusa
nel tardo pomeriggio del 9 settembre 1944 al Croppo di Trontano all’immediata periferia di Domodossola. La trattativa tra ufficiali partigiani (delle formazioni “Valdossola” e “Valtoce”), tedeschi e della Milizia fascista, fu abilmente mediata dai parroci di Masera, don
Severino Baldoni, e di Domodossola don Luigi Pellanda. Questi seppero ben rappresentare alla delegazione
tedesco-fascista la convenienza di venire a un rapido accordo con le due formazioni “autonome”, considerate
moderate, approfittando dell’assenza dei più temibili
“garibaldini”. Tali argomenti e una voluta esagerazione
del potenziale in uomini e armi dei partigiani risultarono convincenti evitando così la contrapposizione armata tra gli opposti schieramenti, prospettiva che non entusiasmava nessuno.
Così la delegazione partigiana consentì sbrigativamente che gli ufficiali tedeschi conservassero l’arma individuale, che la loro truppa si tenesse anche le armi di
accompagnamento di fabbricazione germanica purché
tutti abbandonassero la zona. In mano partigiana, garibaldini esclusi, cadde comunque un prezioso quantitativo di armi e munizioni.
Le condizioni della resa vennero poi criticate dagli irritati garibaldini e successivamente anche dal colonnello Giuseppe Curreno della Maddalena (Delle Torri) del
“Comando Unico zona Ossola” in una sua relazione al
C.V.L. 3.
La liberazione del settembre coronava un periodo di
particolare vivacità e combattività delle forze partigiane della zona, malgrado che nel giugno precedente un
pesante rastrellamento condotto da numerose truppe
tedesche e fasciste nel comprensorio montano della Val
Grande avesse inferto un duro colpo alle formazioni ivi
insediate, la “Valdossola” di Dionigi Superti e le meno
numerose “Giovane Italia” e “Cesare Battisti”. Su poco
meno di 500 partigiani impegnati dagli attaccanti, quasi 300 erano caduti in combattimento o nelle allucinanti fucilazioni (quasi sempre precedute, in questa e in altre occasioni, da sevizie inferte ai prigionieri) seguite al
rastrellamento. In dieci giorni, dal 17 al 27 giugno e in
nove località diverse i fucilati furono circa un centinaio
tra cui, il giorno 20, le quarantadue vittime di Fondotoce. Un 43° prigioniero compreso fra i morituri, il diciottenne Carlo Suzzi di Busto Arsizio riuscì a salvarsi benché ferito, uscendo nottetempo dall’ammasso dei
cadaveri dei compagni.
Contrariamente alle previsioni dei nazifascisti, dopo
quel sanguinoso rastrellamento le forze partigiane avevano ripreso vigore. La ricostituita “Valdossola”, con
circa 150 uomini, si era insediata sulle alture sovrastanti
Premosello e controllava la sinistra orografica del Toce
da Beura sino a Mergozzo. Nell’Intrese operavano i garibaldini della 85a Brigata “Valgrande martire” (nata da
una scissione con la formazione di Superti) comandata da Mario Muneghina. Tra Intra e Cannero e la retrostante Valle Cannobina agivano la “Cesare Battisti”
di Armando Calzavara (Arca) con circa 80 uomini e la
“Generale Perotti”4 di Filippo Frassati (Pippo) con circa 60. Dall’unione operativa di queste due formazioni
nacque nell’agosto la Brigata “Piave”. Sulla destra del
Toce era presente la “Valtoce” di Alfredo Di Dio che
aveva le sue basi operative sopra Ornavasso.
Verso il Cusio era tradizionalmente insediata la “Filippo Beltrami” al comando di Bruno Rutto, che aveva raccolto l’eredità dell’omegnese capitano Beltrami,
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caduto a Mégolo nel febbraio precedente. I garibaldini
dal canto loro tenevano da tempo i passi alpini di Baranca e del Turlo che dalla Valle Anzasca mettevano in
comunicazione con la Val Sesia dove era il comando di
tali formazioni, tenuto da Eraldo Gastone (Ciro) e da
Vincenzo Moscatelli (Cino). Dalla Val Sesia i loro reparti si erano spinti per l’Anzasca nelle Valli di Antrona,
di Bognanco, di Antigorio e assorbiranno poi il battaglione autonomo “Fabbri” organizzato dai fratelli Ugo e
Ottavio Scrittori di Villadossola dando vita alla 83a Brigata garibaldina “Comolli”.Con l’aumento degli organici poco prima della liberazione dell’Ossola, venne costituita la 2a Divisione Garibaldi “Redi”5.
Tra l’alta Valle Isorno e le valli Antigorio e Vigezzo era
infine presente un’altra formazione autonoma di Pietro Carlo Viglio; diventerà poi la “Brigata Matteotti”.
In totale le forze partigiane alla vigilia della liberazione
dell’Ossola assommavano a 1500 uomini o poco più,
non tutti armati.
Nell’agosto si intensificò la pressione dei partigiani sui
presidi nazifascisti, sempre più in difficoltà nel contrastare gli antagonisti delle varie formazioni, che compivano frequenti colpi di mano, controllavano con improvvisi blocchi le strade delle valli e la nazionale del
Sempione, interrompevano le comunicazioni ferroviarie e spesso l’erogazione di energia elettrica prodotta
nell’Ossola e diretta alle industrie. Occupanti e fascisti
si sentirono sempre più isolati, scollegati dai comandi,
costretti a rinchiudersi a difesa nei loro alloggiamenti.
I tedeschi incorporavano oltre a un contingente di efficiente polizia militare, parecchi uomini con notevole anzianità di servizio (la Germania era in guerra da 5
anni) di truppa confinaria-doganale, addirittura alcuni
reparti di ex prigionieri di guerra dei Paesi dell’Est. La
truppa fascista era composta da un coacervo di Milizia
Confinaria e ordinaria raggruppate nella G.N.R.6, dalla neonata “Brigata Nera” istituita in luglio, da coscritti
dell’esercito regolare con compiti ausiliari. In complesso, un campionario militare che proprio sul finire di
quella calda estate accusò rese e diserzioni, individuali e
di gruppo, ma ancora capace di pericolose reazioni, che
purtroppo si verificarono.
Il 26 agosto un picchetto tedesco passò per le armi nel
carcere di Domodossola tre giovani che vi erano stati
58
rinchiusi dalla Milizia; l’esecuzione venne messa in relazione col recente ferimento del comandante del presidio germanico. Ancora, in quegli ultimi convulsi giorni, un operaio padre di tre figli venne colpito a morte
da due giovanissimi militi in una via della città, un partigiano vigezzino tratto di prigione e ucciso. Il suo corpo massacrato (frequente il ricorso, da parte dei militi
fascisti, all’orrendo vilipendio dei cadaveri) venne abbandonato sulle rive del Toce. Infine a Premosello l’ultimo sanguinoso colpo di coda di fine agosto. Il 29, in
risposta alla cattura di un loro motociclista, numerosi tedeschi giunsero in paese e uccisero a fucilate e pugnalate un partigiano e quattro innocenti anziani (di
cui due donne), incendiarono alcune case e prelevarono
una cinquantina di ostaggi.
Ma nei giorni successivi dal 2 all’8 settembre in rapide
sequenze si strinse infine il cerchio attorno a Domodossola. Alcune fortunate azioni forzarono le chiavi di volta della difesa nazifascista ponendo così le premesse per
la resa, benchè in città si fosse concentrata una ancor rispettabile forza di almeno 600 uomini, costretti dunque ad alzare bandiera bianca. II 2 settembre la “Piave”
riuscì a liberare Cannobio sul Lago Maggiore mentre
i garibaldini della “Valgrande Martire” impegnavano a
scopo diversivo il munito presidio di Intra, poi il nemico dovette evacuare Oggebbio e quindi tutta la fascia
rivierasca dal confine di Piaggio Valmara sino alle porte
di Intra. Ancora la “Piave” dalla Cannobina per il Passo di Finero e per la Valle Vigezzo scese nell’Ossola liberando Malesco, raggiungendo da qui il valico di Ponte Ribellasca da un lato, Santa Maria Maggiore e Druogno dall’altro e assediando il giorno successivo Masera
dove impegnò combattimento.
L’8 i garibaldini, che avevano già sloggiato tedeschi e
milizia dalle altre valli entrarono a Varzo (i tedeschi del
presidio ebbero via libera per la vicina Svizzera) e a Crevoladossola, mentre “Valtoce” e “Valdossola” attaccarono e dispersero il presidio di Piedimulera forte di oltre
100 uomini fra tedeschi (che alle prime avvisaglie abbandonarono il campo) e fascisti, che sostennero il peso
dell’attacco lasciando sul terreno alcuni morti.
Il capoluogo ossolano fu così completamente isolato e
si giunse alla resa del Croppo mentre i partigiani persero Cannobio sul lago Maggiore, rioccupata agevolmen-
te da un forte contingente di fascisti (paracadutisti dell’Aeronautica e allievi ufficiali della G.N.R.) appoggiati
da tedeschi e da artiglieria. Dovette quindi venire arretrato al ponte di Falmenta a circa metà della stretta Valle Cannobina il confine della zona libera; e non riuscì
poi il tentativo di allargarla sino all’importante e strategico crocevia di Gravellona Toce, obiettivo di un azzardato attacco, dopo che il 12 settembre “Garibaldi” e
“Beltrami” erano riuscite a occupare temporaneamente
Omegna. Nei furiosi combattimenti protrattisi per due
giorni i partigiani subirono perdite dolorose e dovettero infine desistere. Come Cannobio, anche Gravellona
rimase così in mano fascista.
Il territorio della zona liberata comprendeva tutta la
vallata dell’Ossola, con l’appendice della Cannobina
gravitante sul Lago Maggiore. I centri principali della regione in mano partigiana oltre alla stessa Domodossola erano Villadossola, Ornavasso e Mergozzo. In
mano nemica restava il lato inferiore del grosso triangolo che configura l’Ossola cioè la fascia rivierasca del
Lago Maggiore dal confine italo-svizzero di Piaggio Valmara sino a Verbania-Fondotoce e al nodo stradale di
Gravellona Toce.
La liberazione dell’Ossola costituì in pratica il coronamento di un progetto abbozzato e discusso nei mesi
precedenti tra il capo della Missione inglese a Lugano
(Special Operation’s Service), Mc Caffery ed esponenti
del C.L.N.A.I.7 che ipotizzava lo sgombero del territorio ossolano per trasformarlo in una testa di ponte, capace di ricevere anche aviosbarchi alleati, per un attacco alla pianura padana. L’iniziativa era caldeggiata dallo stesso Ettore Tibaldi, noto antifascista e primario dell’ospedale di Domodossola che dopo l’insurrezione di
Villadossola dell’8 novembre 1943 si era rifugiato a Lugano. Dal canto suo il comandante garibaldino Ciro
(Gastone) aveva proposto l’istituzione di un comando
unico per tutte le formazioni partigiane della fascia alpina del Biellese, Valsesia, Ossola e Verbano, come passaggio operativo necessario per giungere alla liberazione
delle suddette vallate. Se il progetto alleato non venne
ulteriormente approfondito i garibaldini dalla Val Sesia
spinsero però la loro penetrazione nelle valli dell’Ossola.
A Domodossola la nascita ufficiale della “repubblica”8
fu annunciata il 10 settembre da un manifesto, che ordinava la costituzione di una Giunta provvisoria amministrativa per la città di Domodossola e territori circostan-
Domodossola, settembre 1944, durante i funerali dei fratelli Vigorelli e di altri caduti partigiani.
59
Cippo a ricordo del confine della “Repubblica dell’Ossola”.
ti. Capo indiscusso della Giunta fu il socialista Tibaldi che all’atto di lasciare Lugano per rientrare in Ossola si preoccupò di intrattenere gli Alleati sollecitandone
l’aiuto. Affiancavano il Tibaldi il sacerdote Luigi Zoppetti, il comunista Giacomo Roberti (nei giorni successivi vennero sostituiti rispettivamente da don Gaudenzio Cabalà e da “Oreste Filopanti”, il ferroviere Emilio
Colombo), l’indipendente ing. Giorgio Ballarini e il dr.
Alberto Nobili, liberale.
La Giunta rifletteva nella sua composizione le diverse
forze politiche impegnate nella lotta di liberazione. Nei
giorni successivi, anche su suggerimento del C.L.N.A.I.
che desiderava una maggiore articolazione e rappresentatività dei Partiti, vennero cooptati altri commissari:
il socialista prof. Mario Bonfantini, l’azionista ing. Severino Cristofoli, il democristiano avv. Natale Menotti e la comunista Gisella Floreanini. In aiuto al segretario avv. Oreste Barbieri, un funzionario a riposo del Comune di Domodossola, venne nominato un “aggiunto”
nella persona di Umberto Terracini.
Ogni membro si occupava di diversi settori della vita
amministrativa, dalle finanze ai trasporti, dal lavoro all’istruzione sino ai collegamenti col C.L.N. e con l’autorità militare di occupazione (sic), cioè le formazioni
60
partigiane. Fra le attribuzioni del Presidente c’era anche
quella dei rapporti con l’Estero e ciò provocò una pronta lagnanza della delegazione luganese del C.L.N.A.I.
che ritenne inammissibile un ministero degli Esteri così
come censurò l’ordine di costituzione emanato dal Superti dichiarandolo nullo e privo di effetto perché di
competenza del C.L.N. e non dei comandanti militari del C.V.L.
Gli scogli furono superati (abbiamo provveduto a mettere le cose a posto scriveva la delegazione luganese del
C.L.N.A.I. il 18 settembre) con buon senso ma nel rispetto della legalità. La nomina della Giunta venne ratificata non appena il verbale di costituzione e di insediamento dell’11 settembre giunse a Lugano, mentre per
i contatti con l’estero (in pratica con la Svizzera) il conflitto venne composto con la nomina di un rappresentante della Giunta nella persona dell’on. Cipriano Facchinetti residente a Lugano. Tramite la Legazione d’Italia a Berna la Giunta prese contatto col legittimo governo nazionale di Roma ricevendone un entusiastico telegramma a firma di Bonomi (un secondo messaggio
venne inviato al comando partigiano) con assicurazioni
e promesse che poi il precipitare degli avvenimenti vanificò completamente.
Intanto in città si ricostituiva il C.L.N., composto dal
liberale avv. Tito Chiovenda, dal socialista avv. Ugo
Porzio Giovanola, dall’azionista prof. Gianfranco Contini, dal comunista Giuseppe Marchioni e dal sacerdote prof. Luigi Zoppetti per la D.C. Si formava la Giunta comunale con cinque membri (sindaco il socialista
geom. Carlo Lightowler) e anche negli altri comuni della zona nascevano i C.L.N. e si nominavano sindaci in
sostituzione dei destituiti podestà.
A breve distanza dall’entrata dei partigiani nel capoluogo gli organismi civili si dettero così una struttura operativa. Nel clima di entusiasmo che aveva pervaso gli ossolani si organizzarono il Fronte della Gioventù a Domodossola, Villadossola e Varzo, l’Unione Donne Italiane col Gruppo difesa Donne, le Camere del Lavoro
a Domodossola e a Villadossola. Si elessero commissioni interne di fabbrica destituendo quelle nominate durante il fascismo. Risorsero i sindacati liberi che chiesero, come prima rivendicazione, un miglioramento salariale di 3 lire giornaliere e aumenti di stipendi per i di-
pendenti del pubblico impiego. Furono tenuti vari comizi e la stampa ebbe un eccezionale sviluppo. A cura
della Giunta uscirono quattro numeri del settimanale
Liberazione e parecchi numeri del Bollettino di informazione. I garibaldini pubblicarono Unità e libertà. L’Unità e L’Avanti! uscirono con un numero speciale, la formazione di Di Dio dette alle stampe Valtoce e la “Matteotti” di recente costituzione pubblicò un numero de
Il Patriota. L’installazione di una emittente radiofonica
(se ne erano occupati l’ing. Bruno Zamproni di Domodossola e il radiotecnico Benvenuto Trischetti) dovette
arrestarsi alle prove tecniche per la sopravvenuta rioccupazione nazifascista della zona.
Nelle dodici sedute tenute nel capoluogo ossolano e nella 13a ed ultima a Premia quando Domodossola era già
stata evacuata, la Giunta deliberò in materia di economia e di finanza, sociale e assistenziale, valutaria, in merito all’approvvigionamento dei viveri necessari alla popolazione civile e ai reparti armati; si occupò della toponomastica cittadina per il cambiamento di denomina-
zione di vie e piazze dedicate a personaggi o avvenimenti fascisti, approvò la stampigliatura dei francobolli correnti istruendo regolare pratica con l’U.P.U. (Unione
Postale Universale) di Ginevra. Vennero anche istituite
la commissione di epurazione per esaminare la posizione di iscritti al P.R.F.9, militi fascisti, collaborazionisti
ecc. rimasti in zona e rinchiusi nelle carceri cittadine,
poi, rivelatesi queste insufficienti, nel teatro “Galletti”
e infine trasferiti nel più ampio campo di concentramento istituito a Druogno nella “colonia estiva” della località. La sorveglianza dei detenuti, il cui numero
salì in pochi giorni a più di 250, era affidata alla “Guardia Nazionale”, un organismo di polizia costituito nella seduta del 14 settembre, che raggruppava gli elementi già appartenenti a Carabinieri, Finanza, Pubblica Sicurezza, Forestale oltre a volontari locali. Il nuovo Corpo era agli ordini del colonnello Attilio Moneta e doveva, tra l’altro, evitare interferenze e iniziative delle varie polizie militari delle singole formazioni, che in quei
giorni agirono senza coordinamento, causando lagnan-
Militari svizzeri e partigiani ossolani alla frontiera Iselle - Gondo.
61
ze che la Giunta fece proprie e cui cercò di porre rimedio. L’amministrazione della giustizia fu affidata all’avvocato milanese Ezio Vigorelli, socialista, con l’incarico di consulente legale e giudice straordinario. Vigorelli,
i cui due giovani figli Bruno e Adolfo nel giugno precedente erano morti nel rastrellamento della Val Grande, dette prova di serena prudenza giuridica e di onestà
personale. I reggitori della “repubblica” non consentirono vendette né ordinarono alcuna esecuzione, anche se
nell’arco temporale della liberazione ossolana i tribunali delle formazioni partigiane (sottratti alla giurisdizione
del giudice straordinario) eseguirono alcune fucilazioni.
Vigorelli non fu il solo consulente esterno cui la Giunta si rivolse nel suo esperimento di libero governo: in altri campi dettero la loro collaborazione oltre al già citato Facchinetti, Luigi (Gigino) Battisti, figlio dell’eroe
trentino, che curava i rapporti economici con la Svizzera e che tentò inutilmente di ottenere dal governo elvetico una partita di armi, i commercialisti Mario Malvestiti e Luigi Padoin per l’amministrazione della Giunta e la formazione del bilancio, il prof. Carlo Calcaterra e il direttore didattico locale Alcide Bara che collabo62
rarono con il commissario all’istruzione alla stesura di
un progetto di riforma della scuola. L’ordinamento proposto prevedeva una scuola unica di tre anni, detta ginnasio inferiore, valida per l’ammissione a tutte le scuole
medio - superiori (ginnasio superiore di 2 anni, liceo di
3, istituto magistrale di 4). Le scuole professionali dovevano essere strutturate su corsi biennali di avviamento, su una scuola triennale di avviamento professionale
industriale, sull’avviamento professionale commerciale
di tre anni e sulla scuola tecnica industriale di due anni.
La commissione proponeva anche l’abolizione dei libri
di testo improntati allo spirito del passato regime e poneva le basi per impedire che la scuola fosse esclusivamente classica o aristocratica.
A cura di Mario Bonfantini si iniziarono anche i corsi di una “università popolare” sulla storia dell’Europa
moderna. Dirigenti e operai delle industrie locali dettero entusiasticamente la loro opera progettando e approntando rudimentali bombe a mano, un carro blindato, alcuni lanciafiamme e il carburante occorrente all’autoparco civile e militare con ingredienti disponibili in loco.
Il grave problema dell’approvvigionamento alimentare della popolazione civile e delle formazioni partigiane venne affrontato mediante accordi commerciali con
la Svizzera, avviati da Gigino Battisti. Si ottenne subito
una cessione di 20 tonn. giornaliere di patate attraverso la Croce Rossa Svizzera e si concordò con il governo di Berna un sistema di compensazioni per ottenere dal Paese confinante forniture alimentari contro prodotti industriali degli stabilimenti ossolani che avevano
in giacenza partite interessanti l’economia elvetica quali pirite, acido solforico, abrasivi, cloro liquido, eccetera. Il crollo della “repubblica” anche in questo caso impedì il perfezionamento delle trattative.
Le cure della Giunta provvisoria dovettero anche rivolgersi alle questioni militari connesse alla difesa del territorio. Il 18 settembre si decise di dare vita a un comando militare unico con compiti di coordinamento fra
le varie formazioni. La responsabilità di tale comando
venne affidata al colonnello Federici (avv. Giov. Battista
Stucchi di Monza). Alla costituzione formale si giunse
solo dopo diverse trattative che videro spesso posizioni
di netto contrasto fra i capi partigiani, gelosi delle pro-
prie prerogative e condizionati dalle differenti collocazioni politiche. Anche se il comando unico non riuscì a
svolgere i compiti che si era prefisso, tanto che lo stesso
Federici lo definì una barca che fa acqua da tutte le parti,
costituì comunque un momento di unità politicamente interessante e la formula verrà ripresa e migliorata all’inizio del 1945, negli ultimi mesi di lotta.
Già nei primi giorni di ottobre si era saputo che i nazifascisti stavano organizzando la riconquista dell’Ossola convogliando a ridosso del “confine” truppe e armamenti. La notizia dell’attacco che si stava delineando servì quanto meno a smussare attriti e rivalità tra i
comandanti partigiani che ritrovarono univoca volontà
di reazione che si trasmise ai reparti dove i motivi di sfiducia non mancavano. Fonte di rammarico e di critica
fu soprattutto l’atteggiamento degli Alleati, che non sostennero i difensori dell’Ossola, dove erano stati predisposti due campi per i lanci di materiale bellico, uno a
S. Maria Maggiore in Valle Vigezzo e l’altro alla periferia di Domodossola.
Gli Alleati effettuarono due unici lanci di armi alla sola
“Valtoce”. La loro aviazione leggera era anche interve-
nuta verso fine settembre nel Verbano affondando, e
provocando vittime, tre battelli in navigazione: il “Torino”, il “Milano”, carico di truppa fascista e il “Genova”, con truppa e passeggeri civili. Questa azione servì,
nei giorni successivi, a intimorire i giovani militari dei
Corpi neofascisti impegnati nella riconquista dell’Ossola, che avanzarono con la costante preoccupazione di
venire attaccati dall’aviazione alleata, cosa che non avvenne.
I comandanti avevano intanto consolidato lo schieramento che le formazioni avevano assunto sin dai primi giorni della liberazione mantenendo in pratica il
controllo delle zone del vecchio insediamento precedente alla resa. Alla difesa erano interessate anche la
“Beltrami” sul Cusio e la la e 2a “Garibaldi”, quest’ultima prevalentemente in riserva a disposizione del Comando unico.
La riconquista fascista dell’Ossola fu affidata, dal generale tedesco Willy Tensfeld che da Monza dirigeva le operazioni contro i ribelli nel settore “Oberitalien-West”, al ten. col. Ludwig Buch comandante del
15° SS-Polizei-Regiment il cui piano aveva l’obiettivo
Frontiera Iselle - Gondo.
63
Domodossola, Comizio del comandante Garibaldino Cino Moscatelli in Piazza Mercato.
di stroncare la resistenza con pronto impiego di tutte le
armi e di impossessarsi delle centrali elettriche e della
linea internazionale del Sempione. Il corpo di spedizione, con una forza complessiva valutabile in circa 5.000
armati era articolato in 5 gruppi d’attacco, ognuno con
compiti e itinerari ben precisi e tutti guidati da ufficiali tedeschi. La truppa era composta di tedeschi (in prevalenza della polizia militare SS) e di italiani di diversi
Corpi: SS italiane, paracadutisti dell’Aeronautica e della
G.N.R., X Mas, Milizia “Venezia Giulia” e altri reparti.
Le armi di accompagnamento erano numerose: cannoni di vario calibro, mitragliere pesanti; le fanterie erano
inoltre appoggiate da carri armati medi, da autoblinde,
da un treno blindato in retrovia e da (scarsa, ma temibile) aviazione.
L’attacco iniziò il 9 ottobre e fu accompagnato sino alla
sua conclusione da una gelida pioggia autunnale che
mise in evidenza la sommarietà dell’equipaggiamento
dei partigiani, alcuni completamente sprovvisti di indumenti pesanti. La pressione nemica aumentò grada64
tamente di intensità su tre direttrici: verso la Valle Cannobina, difesa dalla “Piave”, la Valle Strona (“Beltrami”) e infine lungo l’asse principale della valle del Toce,
tenuto dalla “Valdossola” e dalla ”Valtoce” con qualche
reparto garibaldino.
L’attacco nazifascista riuscì ad avere ben presto ragione
della “Piave”. Il giorno 12 alla galleria di Finero caddero
sotto il fuoco delle avanguardie avversarie due prestigiosi capi partigiani: i comandanti della “Valtoce” Alfredo Di Dio, e della “Guardia nazionale” Attilio Moneta. L’affacciarsi della colonna nemica al Passo di Finero
mise in crisi tutto il dispositivo di difesa, scardinato nel
suo fianco sinistro. Lo schieramento della bassa Ossola a cavallo della linea Mergozzo-Ornavasso cedette verso il tramonto del giorno 13, anche per lo scarso munizionamento dei reparti partigiani che peraltro opposero fiera resistenza, rinunciando poi ad attestarsi su una
linea arretrata di difesa fra Anzola e Vogogna. Il sabato 14 gli ultimi difensori abbandonarono Domodossola che venne rioccupata nel pomeriggio di quel giorno
dalle avanguardie avversarie (SS tedesche e italiane, paracadutisti della G.N.R. e militi del “Venezia Giulia”)
tutti al comando dell’Hauptmann Fritz Noweck.
Per i partigiani, sfuggiti alla “tenaglia” prevista dal piano tedesco, non restava che cercare la salvezza nella vicina Svizzera. Con loro anche i membri del governo attraverso il Passo di San Giacomo abbondantemente innevato il 22 ottobre ripararono nel Ticino preceduti da
una cinquantina di prigionieri fascisti e da una ventina
di militi del “Folgore”, tra cui una donna, catturati dalle retroguardie partigiane negli ultimi disperati combattimenti di qualche giorno prima.
Un buon numero di garibaldini (tra essi Gisella Floreanini che aveva fatto parte della Giunta di governo),
meno provati dalla battaglia di sfondamento perché tenuti prevalentemente di riserva, e alcune squadre della “Valtoce”, rifiutarono di espatriare e con una lunga
marcia per erti passi alpini si portarono penosamente
verso il Cusio e la bassa Val Sesia, dove vennero riorganizzati. Oltre ai partigiani e alla Giunta una vera folla di
abitanti dell’Ossola cercò scampo oltre confine. Alcuni
avevano preso parte in diverso modo alle vicende della “repubblica”, altri avevano congiunti tra i partigiani,
altri infine fuggivano semplicemente davanti alla rioccupazione fascista e al timore di rappresaglie che il prefetto di Novara Enrico Vezzalini aveva preannunciato e
che si conobbero in Ossola.
Numerosi treni speciali delle due linee internazionali
— Sempione e Centovalli — portarono in salvo gli
esuli preceduti dai numerosi feriti che trovarono assistenza negli ospedali d’oltre confine e da circa 2500
bambini ospitati dalla Croce Rossa svizzera presso famiglie elvetiche. Quell’esodo impressionante (una fonte svizzera ufficiosa valuta, addirittura, in circa 30.000
gli ingressi di quei giorni, tra combattenti e civili) svuotò la zona presentando al prefetto, che volle entrare tra i
primi in Domodossola nel tardo pomeriggio del 14 ottobre, una città deserta.
I fascisti furono così costretti a tenere un atteggiamento prudente, rinunciando a rappresaglie, anche se non
mancarono di sfogare il loro livore nei confronti dell’antico Ginnasio-Liceo tenuto dai Padri Rosminiani. Il
23 ottobre, mentre era in corso la cerimonia di apertura dell’anno scolastico, lo stesso Vezzalini la interruppe
bruscamente annunciando la soppressione dell’Istituto
e la contemporanea apertura di corsi statali. Una settimana dopo il superiore generale dei Rosminiani, sacerdote Giuseppe Bozzetti, venne incarcerato a Novara e
ivi trattenuto pretestuosamente sino al Natale.
Mentre le colonne di rastrellamento rioccupavano le
vallate laterali, spesso impegnate in scontri a fuoco con
le retroguardie partigiane (a Bagni di Craveggia, a Goglio, a Cimamulera, Ceppomorelli e Macugnaga), che
causarono altre numerose vittime, si concludeva la breve esistenza della “repubblica” ossolana.
L’esigenza di costituire e difendere un vero e proprio
“fronte” convertendo mentalità e modi di impiego di
combattenti abituati alla guerriglia, per di più con armamento inadeguato, portò inevitabilmente all’impossibilità di conservare con operazioni militari il territorio
liberato. Come si è visto, mancò l’aiuto degli Alleati che
avrebbero potuto forse mutare le sorti della “repubblica” sia pure a prezzo di una costosa e rischiosa operazione basata su costanti e cospicui rifornimenti aerei. Ma
ciò non era più evidentemente nei propositi dei loro
Comandi, la cui attenzione era rivolta ad altre operazioni sullo scacchiere europeo, né vi era concordanza tra
Inglesi e Americani sul ruolo della Resistenza italiana.
L’esperienza ossolana fu una battaglia decisamente persa per il governo di Salò e la sua immagine, fu e resta altamente apprezzabile per la sua specificità che le
venne riconosciuta subito, grazie alla vicinanza con la
Svizzera che servì a proiettarne positivamente l’immagine nel mondo libero. I “quaranta giorni della repubblica di Domodossola” vennero seguiti dalla stampa d’oltre confine, specialmente del Ticino più vicino alle cose
italiane per lingua e tradizioni, che si mobilitò a favore dell’Ossola, per cui la vicenda assunse un valore altamente significativo per la democrazia ancora soffocata,
in quell’autunno 1944, da nazismo e fascismo.
Pure fra gli inevitabili dissensi e contrasti ideologici,
la Giunta operò in modo tale da costituire un positivo esempio di governo democratico. Ognuno si sforzò
di compiere il proprio lavoro al meglio e con notevole
apertura. Per la prima volta nella storia recente del nostro Paese una donna (la Floreanini) ebbe su piano paritario responsabilità di governo. I membri del governo,
oltre al normale e gravoso lavoro amministrativo sep65
pero dibattere e risolvere, anche se talvolta solo in parte, argomenti di grande incisività politica che servirono
a coinvolgere la popolazione particolarmente attenta e
quanto si andava svolgendo sotto i propri occhi.
Ovviamente non mancarono attriti, polemiche, prese di posizione. Come i garibaldini, e quindi i dirigenti comunisti, lamentarono di essere stati ignorati all’atto della resa tedesca, anche i democristiani si sentirono
penalizzati nella composizione iniziale della GPG, tanto che a rappresentare il loro partito solo in un secondo tempo entrò al governo un loro esponente (l’avvocato Menotti). Così vi furono contrasti tra i comandanti
militari, pronti a criticare e contestare di volta in volta i
colleghi stessi, il governo e la Guardia Nazionale e a ritardare in definitiva la costituzione del Comando uni-
co. Ciò nondimeno, anche per la personalità dei membri del Governo, segnatamente del presidente Tibaldi
e del segretario Terracini, i dissidi restarono contenuti. Ognuno fece il suo dovere e “il banco di prova” dell’esperienza ossolana resse all’avversa fortuna e al tempo. In proposito, giova riportare il lucido sintetico giudizio che, a distanza di anni (1989) ne dette il nostro
massimo filologo e critico letterario, il domese Gianfranco Contini: La Resistenza Ossolana è stata un movimento di popolo, sia nei momenti della clandestinità, sia
in quello palese della collaborazione al Governo provvisorio. La misura della partecipazione pubblica, in cui ognuno ebbe qualcosa da pagare o da perdere (e poi da non reclamare), fu un fatto civile di rara e non abbastanza sottolineata rilevanza.
Note
1
Le “zone libere” che ebbero vita nel 1944 oltre all’Ossola furono,
cronologicamente: Val Ceno (alto Parmense) dal 10-6 all’11-7; Valsesia da 11-6 a 10-7; Val d’Enza e Val Parma, giugno e luglio; Val
Taro (fra Parma e La Spezia) dal 15-6 al 24-7; Montefiorino (Modena) dal 17-6 all’1-8; Val Maira e Val Varaita (CN), fine giugno 21.8; Valli di Lanzo, dal 25-6 a fine settembre; Friuli Orientale, 306 - fine settembre; Bobbio (Piacenza) dal 7-7 al 27-8; Torriglia (Liguria) primi di luglio - fine agosto; Carnia metà luglio-metà ottobre; Cansiglio (Belluno) luglio - settembre; Imperia, fine agosto metà ottobre; Alba, dal 10 ottobre al 2 novembre; Alto Monferrato,
settembre - 2-12; Varzi fine settembre - 29-11; Alto Tortonese, settembre - dicembre.
2
Col termine “nazifascisti” si intendono comunemente e complessivamente le truppe tedesche e italiane, queste organizzate dalla Repubblica sociale (fascista) vissuta tra il settembre 1943 e il 25-41945. Tanto la Germania di Hitler quanto la Repubblica di Mussolini, rette con un sistema totalitario, ammettevano un partito politico unico: il nazionalsocialista in Germania, abbreviato in “nazismo” e quello fascista in Italia. Da qui, riduttivamente, la voce “nazifascista” per indicare organismi o truppe, operanti congiuntamente, dei due Stati.
3
Corpo (dei) Volontari (della) Libertà, cioè l’insieme delle Bande o
formazioni partigiane che agivano bellicosamente nel territorio occupato dai tedeschi e sottoposto all’autorità della Repubblica sociale italiana di Mussolini. Gli appartenenti (“patrioti” o più comunemente “partigiani”) non erano tutelati dalla Convenzione di Ginevra come i militari degli eserciti regolari belligeranti, essendo considerati “franchi tiratori”.
4
II generale di Brigata del Genio Giuseppe Perotti (Torino 1895, ivi
1944) componente del primo “comitato militare” della Resistenza
piemontese venne catturato a Torino il 30-3-1944 e dopo un sommario processo fucilato con altri membri del Comitato, il 5 aprile
successivo al poligono di tiro del Martinetto.
5
Redi era il nome di battaglia, o di copertura, dell’avv. Gianni Citterio (Monza, 1908, Pieve Vergonte 1944), caduto a Megolo di Pieve Vergonte col capitano Filippo Beltrami e altri partigiani il 13-21944, nel corso di un combattimento sostenuto contro forze tedesche e di milizia fascista.
6
G.N.R. La “Guardia nazionale repubblicana” istituita dalla Repubblica sociale italiana di Mussolini raggruppava le forze di polizia, i carabinieri e le varie “Milizie”: confinaria, forestale, ferroviaria ecc.
7
C.L.N. (A.I.) Comitato di Liberazione Nazionale (Alta Italia) costituito a Roma dai partiti antifascisti all’indomani dell’armistizio
dell’8-9-1943, fu in pratica l’ente di collegamento fra il governo legittimo rimasto nell’Italia meridionale, non toccato, per l’andamento delle operazioni belliche degli Alleati, dall’occupazione tedesca e
i territori dell’Italia settentrionale. Il C.L.N. assunse anche autorità e rappresentatività ufficiale nelle province italiane del Nord man
mano liberate dall’avanzata alleata.
8
Ma più propriamente “territorio liberato” dell’Ossola cioè considerato come facente parte dello Stato italiano il cui governo legittimo era a Roma, anche se forzatamente con soluzione di continuità
territoriale. In pratica una situazione simile all’enclave di Campione, comune italiano a tutti gli effetti anche se completamente inserito in territorio svizzero.
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Partito Repubblicano Fascista, che sostituiva il P.N.F. (Partito Nazionale Fascista) cessato il 25-7-1943. La nascita del nuovo P.R.F.,
la cui direzione venne assunta da Mussolini, fu da questi annunciata da Radio Monaco (Germania) il 18-9-1943.
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Cenni biografici
ANIASI ALDO,
Iso. Palmanova (UD) 1921. Comandante della 2a Garibaldi «Redi» subentrando a Muneghina. Poi sindaco di Milano, parlamentare, ministro, presidente F.I.A.P. (Federazione Italiana Associazioni Partigiane). Vive a Milano.
CALZAVARA ARMANDO, Arca, Istrana (TV) 1919 – Roma 2000. Ufficiale dei Bersaglieri, comandante della «Battisti». Laurea in lingue estere.
CEFIS EUGENIO, Alberto, Cividale del Friuli 1921 – Milano 2004. Ufficiale dei Granatieri in s.p.e., comandante della «Valtoce» alla morte di Di Dio. Laurea in legge, cav. del lavoro, imprenditore.
CURRENO DELLA SANTA MADDALENA GIUSEPPE, colonnello Delle Torri.
Carrù (Cn) 1894 - Torino 1964. Colonnello di Cavalleria in s.p.e.
(poi generale), laurea in legge. Capo di stato maggiore del «Comando unico di zona Ossola». Un suo giovanissimo figlio, Giacomino
di 16 anni, partigiano nelle Langhe venne catturato e fucilato dai fascisti nel marzo 1945.
DI DIO ALFREDO EMMA, Marco, Palermo 1920 - Malesco 1944. Ufficiale dei Carristi in s.p.e., comandante della «Valtoce», morto al
Sasso di Finero (Malesco) il 12-10-44. Il fratello ANTONIO (Palermo
1922 - Pieve Vergonte 1944) era caduto assieme al capitano Beltrami nel febbraio precedente a Megolo. La tomba di famiglia del Beltrami a Cireggio di Omegna conserva anche le spoglie dei due sfortunati fratelli.
FLOREANINI GISELLA, Milano 1906 - ivi 1993. Col nome di copertura di Amelia Valli partecipò nell’autunno 1944 al governo dell’Ossola quale commissario all’assistenza, in rappresentanza del Partito comunista cui aveva aderito nel 1941 dopo una prima giovanile
militanza nel Partito socialista clandestino. Alla caduta della «repubblica» ossolana seguì i garibaldini in Val Sesia. Nel dopoguerra venne nominata presidente del C.L.N. di Novara liberata, poi consigliere comunale a Domodossola e successivamente a Milano, infine
eletta al Parlamento nelle due prime legislature repubblicane. Rivestì poi ancora numerose cariche di prestigio sino alla morte. Per suo
espresso desiderio, è sepolta a Domodossola, la città che La fece ricordare come la prima “donna-ministro” nella storia d’Italia.
FRASSATI FILIPPO, Pippo. Pistoia 1920 - ivi 1992. Ufficiale di Fanteria
in s.p.e., comandante della brigata «Perotti». Nel dopoguerra eletto al consiglio comunale di Verbania, docente di storia militare all’Università di Pisa. Per suo espresso desiderio è sepolto a Cannobio, la città che lo vide protagonista di significativi fatti d’arme nel
periodo della Resistenza.
GASTONE ERALDO, Ciro. Torino 1913 - Novara 1986. Ufficiale di
Aviazione in s.p.e., comandante del Raggruppamento Divisioni «Garibaldi» del Biellese, Valsesia, Alto Novarese. Poi deputato
al Parlamento, senatore e presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Novara.
MONETA ATTILIO, Malesco 1893 - ivi 1944. Colonnello di Cavalleria
in s.p.e., comandante della «Guardia nazionale». Morto al Sasso di
Finero (Malesco) il 12 ottobre.
MOSCATELLI VINCENZO, Cino. Novara 1908 - Borgosesia 1981. Commissario politico delle formazioni «Garibaldi». Poi sindaco di Novara, deputato al Parlamento, senatore e infine presidente dell’Istituto
storico della Resistenza di Borgosesia.
MUNEGHINA MARIO, capitano Mario. Cuneo 1900 - Verbania 1987.
Impiegato tecnico. Comandante della «Valgrande martire», poi della 2a Divis. Garibaldi «Redi» che lasciò entrando con la sua Brigata
nella divisione «Flaim» che operava nell’Intrese.
RUTTO BRUNO, Omegna 1921 - ivi 1986. Impiegato tecnico. Ufficiale degli Alpini, comandante della divisione alpina «F. Beltrami».
SCRITTORI UGO, Mirko. Lusigny (Francia) 1912 – Villadossola 1996.
Operaio. Soldato del Corpo Automobilistico, comandante del Btg.
autonomo “Fabbri” trasformatosi poi nella 83a Brig. garibaldina
«Comolli».
SUPERTI DIONIGI. Napoli 1902 - Madrid 1968. Comandante della
«Valdossola». Le sue spoglie nel 1988 vennero traslate da Madrid al
cimitero di Premosello Chiovenda, località di origine della formazione da lui comandata.
STUCCHI GIOV. BATTISTA, colonnello Federici, Monza 1899 - ivi 1980. Ufficiale degli Alpini, avvocato. Resse il «Comando Unico zona Ossola».
VIGLIO PIETRO CARLO, Novara 1919 - Milano 1995. Laurea in scienze economiche. Comandante brig. «Matteotti».
TIBALDI ETTORE, Bornasco (PV) 1887 - Certosa (PV) 1968. Volontario nella 1a guerra mondiale, medico. Nel 1926 abbandona Pavia per attività antifascista evitando il «confino» grazie alla ferita
di guerra. Prende servizio all’Ospedale di Domodossola divenendone primario medico. Profugo in Svizzera verso la fine del 1943. Presidente della Giunta provvisoria di governo dell’Ossola libera. Poi
primo sindaco eletto di Domodossola (1946); eletto al Senato nel
1953 e riconfermato nelle legislature successive.
VEZZALINI ENRICO, Ceneselli (RO) 1904 - Novara 1945. Avvocato,
prefetto di Novara dal 22.7.1944 al 15.1.1945, condannato dalla
Corte straordinaria delle Assisi di Novara alla pena capitale mediante fucilazione alla schiena, eseguita il 23.9.1945.
Bibliografia
Anita Azzari “L’Ossola nella Resistenza italiana”, 2a ed., Ornavasso 2004.
Hubertus Bergwitz. “Una libera Repubblica nell’Ossola partigiana”,
Milano 1979.
Mario Giarda e Guido Maggia. “Il governo dell’Ossola”, 2a ed., S.
Pietro Mosezzo 1989.
Guido Maggia (a cura di). “I giornali dell’Ossola libera”, Novara
1974.
Ettore Tibaldi. “L’opera della Giunta Provvisoria di Governo nell’Ossola liberata dall’8 settembre al 22 ottobre 1944”, Domodossola 1945.
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Archeologia
Alberto De Giuli
Le tracce del passato
L’Ossola, situata nel gruppo delle Alpi Lepontine, con
le sue sette valli laterali è una delle maggiori vallate a
sud dell’arco alpino. Essa è stata interessata da tutte le
glaciazioni, che l’hanno sagomata nella tipica forma ad
U delle valli glaciali, spianando terrazzi, levigando pietre e ghiaie, cancellando però le eventuali tracce della
presenza umana nel paleolitico.
Dopo l’ultima glaciazione, con la modifica del clima, la
valle si è ricoperta di vegetazione, determinandosi così
l’ambiente che ha favorito la comparsa degli animali provenienti dalla pianura e, conseguentemente, sulle loro tracce, la presenza di gruppi di cacciatori durante le stagioni favorevoli alla caccia; a partire presumibilmente dal neolitico, come è documentato anche per altre vallate a sud e nord delle Alpi, l’uomo vi si insediò
stabilmente.
I primi abitanti della Val d’Ossola provenivano, con
ogni probabilità, dalla vicina pianura Padana che, come
dice Rittatore, fu un crogiolo di popoli antichi. Un sostrato mesolitico fu gradualmente modificato da influssi culturali neolitici, che portarono innovazioni decisamente determinanti, pur restando molto importante
l’economia venatoria.
Con l’avvento dell’età dei metalli, nell’arco alpino e
sensibilmente anche nell’Ossola, si avverte un notevole cambiamento, segnato in particolare, oltre che dalla
importante innovazione tecnologica della metallurgia,
anche dall’introduzione dell’aratro, del carro trainato
da animali e, per quanto riguarda l’industria litica, dalla
presenza di asce a martello e di pietre da lancio.
Tali novità furono portate probabilmente da popolazioni di stirpe ligure e quindi originarie del vicino oriente.
Le grandi migrazioni di popoli da oriente a occidente,
avvenute all’inizio dell’età del rame, trovano una suggestiva eco nei miti greci di Cadmo, Eracle, Giasone e gli
Argonauti e dei loro grandi itinerari alla ricerca del prezioso metallo.
Rare citazioni di autori di epoca greco-romana tramandano per la prima volta il nome dei Leponzi quali abitanti della Valle Ossola in età repubblicana, senza però
fornire altre notizie sulla loro entità etnico-politica.
Va ricordato che l’età del ferro fu il periodo delle invasioni galliche, quindi un momento di ulteriore mescolamento di popoli e culture; è forse in questa epoca che
avvennero le maggiori infiltrazioni nelle vallate a quote
più elevate da parte di coloro che cercavano riparo dalle scorrerie celtiche.
Un dato certo sulla presenza dei Leponzi nella nostra
terra è quello riportato dal trofeo delle Alpi di La Turbie,
fatto innalzare nel 7-6 a.C. dal senato e dal popolo romano per celebrare la vittoria di Augusto sui popoli alpini e il cui testo è stato riportato per intero da Plinio il
Vecchio: in esso i Leponzi sono ufficialmente nominati fra le ...gentes alpinae devictae, cioè tutte le popolazioni alpine sottomesse dagli eserciti dell’imperatore, elencate da est a ovest.
Altri autori accennano seppure scarsamente ai Leponzi:
Polibio poco chiaramente; Cesare, nel suo De bello gallico, colloca il loro territorio alle sorgenti del Reno; Silio Italico, nel suo poema epico Punica, cita un leponzio che combatte a fianco di Annibale disceso dalle Alpi
contro i Romani; Tolomeo poi, nel II secolo d.C. indicherà in Oscela Lepontiorum, l’odierna Domodossola, la capitale di questo popolo e della provincia romana delle Alpi Atrezziane, ricordata poi ancora dall’Ano-
Montecrestese, frazione Roldo: tempietto lepontico (sec. I d.C.) sopraelevato in torre.
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Ara dedicata a Giove, ritrovata a Candoglia.
nimo ravennate con altre città dell’Italia settentrionale,
come Oxilia, e con grafia lievemente diversa da Guidone: Ossilla.
Per sapere di più dobbiamo quindi affidarci ai ritrovamenti archeologici che da poco più di un secolo a questa parte sono stati effettuati grazie ad appassionati studiosi locali, i quali hanno contribuito e contribuiscono
alla scoperta, al recupero o alla segnalazione delle testimonianze venute alla luce, testimonianze riferibili nella
maggior parte a corredi tombali, forse perché i più facili a individuarsi, e databili per la quasi totalità all’epoca romana.
Più recenti sono state le scoperte di materiali attribuibili al mesolitico, al neolitico, all’eneolitico, all’età del
bronzo e alla prima età del ferro e l’individuazione di
incisioni rupestri, costituite per lo più, ad eccezione degli affilatoi sul colle di Mattarella, della pietra del Merleri e della roccia della fecondità in Valle Antrona, da
coppelle che, mancando di un preciso contesto archeologico, non permettono di esprimere per ora dei sicuri
giudizi né sull’epoca, né sui motivi della loro esecuzione. Del 1986 è la scoperta fatta all’ Alpe Veglia, in comune di Varzo, di manufatti litici rivelanti stanziamenti stagionali di cacciatori dell’epipaleolitico (IX-VI millennio a.C.), tuttavia tracce di insediamenti preistorici
più o meno antichi sono documentate un po’ dovunque nella Valle Ossola. Reperti molto interessanti sono
quelli provenienti da Mergozzo; si tratta di ceramica ad
impasto grossolano non lavorata al tornio e di manufatti litici in selce e, in minor quantità, in quarzo: geometrici, denticolati, grattatoi, raschiatoi, becchi, lame, pugnali, cuspidi di freccia e molte altre tipologie di attrezzi, nonché molti scarti di lavorazione, a testimoniare il
fatto che la lavorazione della pietra avveniva sul posto.
Si sono pure rinvenute un’ascia in pietra levigata ed una
con foro passante per l’immanicatura, del tipo di quella proveniente dall’alpe Pontigei, in comune di Baceno.
Tutto questo materiale si può far risalire ad un periodo
che va dal neolitico all’età del bronzo.
Altri manufatti in selce rinvenuti a Gravellona Toce, a
Pedemonte ed a Montecrestese risalgono perlomeno all’età del bronzo, mentre attribuibili al bronzo medio
sono il pugnale e l’ascia a paletta in bronzo rinvenuti rispettivamente sull’ Arbola ed a Folsogno in VaI Vigezzo.
Della prima età del ferro sono alcuni frammenti fittili rinvenuti in località Motto a Gravellona Toce, come
pure alcune tombe della necropoli di Pedemonte e una
sepoltura venuta alla luce a Montecrestese che contenevano ceramica della fase finale della cultura di Golasecca, detta Golasecca IIIA (V-IV sec. a.C.).
Lo sviluppo maggiore della zona ossolana avvenne in
età gallo-romana, tra la fine dell’epoca repubblicana ed
il primo secolo dell’impero.
Con la romanizzazione si verificò una uniformità culturale e linguistica che prima non esisteva e che andò aumentando sempre più in epoca imperiale; ciò è testimoniato da ritrovamenti, quasi esclusivamente provenienti
da necropoli o da contesti tombali, che vanno da quelli
copiosi di Ornavasso, Gravellona Toce, Mergozzo, Bannio Anzino, Masera, Malesco, ad altri meno abbondanti, ma comunque significativi come quelli di Baceno e
Rivera, al punto da poter affermare, osservando sulla
carta topografica la loro distribuzione, che gli abitati attuali erano già quasi tutti esistenti duemila anni fa.
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Importanti sono anche alcuni ritrovamenti relativi all’epoca tardo-romana e paleocristiana: in particolare, a Candoglia, nel sagrato dell’oratorio romanico di
San Graziano, oltre ad un’ara dedicata a Giove, vennero messe in luce diverse sepolture ed un edificio a pianta rettangolare, distrutto nel IV secolo d. C., mentre a
San Giovanni in Montorfano furono reperiti un battistero paleocristiano (V-VI d.C.) e le fondamenta di una
chiesa triabsidata di epoca carolingia.
Storia dei ritrovamenti e degli scavi in Ossola
L’interesse per le testimonianze del mondo antico in
Ossola si può far risalire almeno al 1600. Sono di quell’epoca infatti le prime segnalazioni di documenti epigrafici, considerabili come reperti archeologici: si tratta
dell’epigrafe del ponte dell’Orco di Crevoladossola, citata dal Morigia e dal Bescapè e di quella del ponte alla
Masone di Vogogna, citata dal Borri.
A partire dall’Ottocento, si ebbero le prime segnalazioni di ritrovamenti archeologici, per la maggior parte oggetti riferibili a corredi tombali, segnalazioni generalmente riportate in studi monografici su paesi, come ad
esempio, quelle relative a Malesco, riportate dal Pollini nel 1896, riferite a sepolture rinvenute tra il 1829 e
il 1881. Tra il 1800 e il 1900, in diverse località ossolane furono segnalati ritrovamenti, che andarono sempre
aumentando, fino a rappresentare, in una mappa territoriale, quasi tutti gli attuali centri abitativi; tutti i ritrovamenti fino al 1993 sono stati riuniti in un volume da
Pierangelo Caramella e Alberto De Giuli.
Nell’Ottocento, emergono per importanza le scoperte
archeologiche di Masera, dovute ai cavalieri Francesco
e Felice Mellerio, relative agli anni dal 1853 al 1893 e
già segnalate dal Bazetta e dal Pollini. Nel Novecento si
segnalano come importanti ritrovamenti casuali la scoperta della necropoli di Bannio Anzino, segnalata nel
1937 e fatta oggetto di ulteriori indagini tra il 1953 e il
1956, da Michele Bionda, contenente materiali databili tra la prima metà del I sec. a. C. e la prima metà del I
d. C. e la scoperta, avvenuta nel 1966 da parte di Dario Zani, del pugnale dell’Arbola, in alta Val Formazza,
attribuibile all’età del bronzo medio.
Solo con Enrico Bianchetti, alla fine del 1800, avvenne
il primo scavo sistematico, condotto con metodologie
che si possono considerare scientifiche per quei tempi:
si tratta delle note necropoli di Ornavasso, denominate di “San Bernardo” e “In Persona”, attribuibili al periodo dal II sec. a. C. alla prima età imperiale, di cui furono individuati dal Bianchetti 165 nuclei tombali ciascuna. La necropoli di S. Bernardo fu oggetto, nel 1941
e nel 1952, di ulteriori indagini di scavo da parte della Sovrintendenza; gli archeologi Carducci e Lo Porto
riportarono in luce rispettivamente 7 e 9 sepolture. Il
materiale è conservato presso il Museo del Paesaggio di
Verbania. Sempre alla fine dell’Ottocento, a Mergozzo,
Egisto Galloni scavava la necropoli de “La Cappella”,
portando alla luce 32 tombe. Seguirono i ritrovamenti
casuali nel 1934 e nel 1968 di altre tre tombe, mentre
nel 1970 il Gruppo Archeologico Mergozzo (G.A.M.),
diretto da Alberto De Giuli, completò lo scavo della
Vasellame in vetro dalle necropoli di Mergozzo (I-II secolo d. C.).
Olpi di terracotta da corredo funerario.
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zona orientale della necropoli, con il ritrovamento di
ulteriori 5 sepolture, per un totale di 40; si ipotizza uno
sviluppo della necropoli in un terreno sito ad occidente.
I ritrovamenti fino ad ora reperiti sono databili ai primi due secoli dell’era volgare. Ancora a Mergozzo, negli
anni 1939 - 1940, Giovanni Braganti riportò alla luce
49 nuclei tombali appartenenti ad una più vasta necropoli, denominata di “Praviaccio”, databile al periodo
compreso tra il I e il III sec. d. C. Nel 1969, il G.A.M.
scavò ulteriori 7 nuclei tombali. Parte del materiale delle necropoli di Mergozzo è conservato presso l’Antiquarium, il Civico Museo Archeologico di Mergozzo.
Negli anni dal 1954 al 1959, a Gravellona Toce, furono
rinvenuti una necropoli di complessivi 128 nuclei tombali databili dal V sec. a. C. al IV d. C. e le fondamenta
di vari edifici di epoca romana imperiale. Il ritrovamento è da attribuirsi a Felice Pattaroni, che ricevette dalla
Sovrintendenza l’incarico di seguire e coordinare le attività di scavo. Il materiale è conservato presso la Sovrintendenza ai Beni Archeologici di Torino; recentemente una parte ha trovato esposizione presso il Museo Archeologico di Torino. Nell’anno 1967, Alberto De Giuli scoprì in località Rubianco di Mergozzo i resti di una
fornace per laterizi di epoca romana imperiale; lo scavo sistematico, che durò fino al 1972, fu condotto dal
G.A.M. su autorizzazione della Sovrintendenza. Presso
la chiesa di San Graziano a Candoglia, furono rinvenuti in anni diversi tra il 1903 e il 1965, alcuni importanti reperti fra i quali primeggia un’ara dedicata a Giove,
di epoca romana imperiale, recante l’iscrizione IS DEI
IOVI AEDEM, scoperta da don Gamallero nel 1964.
Nel 1968, fu eseguito, nel sagrato della medesima chiesa, uno scavo che mise in luce un edificio a pianta rettangolare dalle dimensioni interne di metri 20 x 11, diviso in vari ambienti, distrutto da un incendio non più
tardi della prima metà del IV sec. d.C. L’edificio, di cui
furono eseguiti i rilievi, non è più visibile; i materiali ed
i disegni relativi allo scavo sono conservati presso l’Antiquarium di Mergozzo.
Nel 1970 il G.A.M. promosse il restauro della Chiesa di
San Giovanni in Montorfano; nel corso dei lavori furono effettuati dei sondaggi che permisero di individuare, nel 1972, all’esterno i resti di una precedente chiesa triabsidata di epoca preromanica, all’interno un bat-
Chiesa romanica di San Giovanni in Montorfano.
tistero paleocristiano. Gli scavi vennero continuati dal
G.A.M. a partire dal 1980 e ultimati nel 1983 dalla Sovrintendenza ai Beni Archeologici del Piemonte. Il resti delle murature del battistero e della chiesa preromanica sono tuttora visibili. In occasione di lavori di scavo
o di sterro che, per ragioni diverse e in varie località, furono effettuati nel territorio di Mergozzo, si verificarono frequenti ritrovamenti casuali e sporadici di elementi in selce, che indussero Alberto De Giuli ad ipotizzare un insediamento umano stabile in epoca preistorica.
Il sito ideale venne individuato in località Ronco, per la
sua privilegiata posizione in luogo soleggiato ed ameno
poco discosto dal lago.
Qui il De Giuli eseguì sopralluoghi frequenti e sistematici, fino a ritrovare, nell’inverno del 1972 alcuni manufatti litici e frammenti di ceramica ad impasto grossolano. Con l’autorizzazione della Sovrintendenza, il
G.A.M. nel 1973, eseguì un sondaggio che confermò
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la possibilità di un insediamento databile a partire dal
Neolitico. I numerosi manufatti litici reperiti sono conservati ed esposti presso l’Antiquarium di Mergozzo.
A Craveggia, dove già nell’Ottocento erano stati rinvenuti reperti di epoca romana imperiale, negli anni 1980
e seguenti, la Soprintendenza eseguì in diverse riprese
scavi sistematici in località Marlé, dove nel 1978 erano
venuti alla luce casualmente alcune sepolture delimitate da lastre di pietra, ma prive di corredo. I ritrovamenti di Craveggia consistono in una discreta necropoli di
epoca romana imperiale, protrattasi sino al VI e VII sec.
d.C. All’Alpe Veglia, in comune di Varzo, sono stati effettuati degli scavi condotti dal prof. Ghiretti dell’Università di Ferrara che hanno riportato in luce un’ampia
Vogogna: la Rocca Superiore (sec. XIV).
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gamma di manufatti litici, tali da rivelare la presenza di
uno stanziamento stagionale di cacciatori che frequentarono la zona nell’ultimo periodo glaciale, vale a dire
nel Mesolitico (IX- VI millennio a. C.).
Ulteriori sondaggi sono stati effettuati in altre zone dell’Alpe, precisamente al Balm della Vardaiola, che hanno
rivelato presenze umane anche dell’età del ferro.
Bibliografia
Caramella P.- De Giuli A., Archeologia dell’Alto Novarese, Mergozzo, 1993.
Copiatti F., De Giuli A., Priuli A., Incisioni rupestri e megalitismo nel
Verbano Cusio Ossola, Domodossola, 2003
Ambiente e Natura
Un paesaggio verticale
Renzo Mortarotti
L’Ossola è un’unità geografica
L’Ossola è una regione tipicamente montana; le sue catene di monti, emerse dal mare in epoche remote, ne
formano interamente lo scheletro, possente e solidissimo. Tra catena e catena si aprono le valli laterali strette e
tortuose, che confluiscono tutte nell’ampio e basso fondovalle ossolano, percorso dal Toce e dove si addensa la
maggior parte della popolazione. L’Ossola ha confini
ben tracciati, che seguono quasi ovunque i crinali e le
cime dei monti, e che perciò la delimitano in modo preciso e rigoroso. Essa occupa una posizione molto importante nella regione alpina; nell’Ossola infatti, e precisamente al Passo del Sempione, la muraglia gigantesca
e quasi invalicabile delle Alpi Pennine si incontra con
la catena delle Alpi Lepontine, più bassa e meno ardita e perciò ricca di facili valichi: Passi del Sempione (m
2096), dell’Arbola (m 2409), del Gries (m 2463), di S.
Giacomo (m 2313).
Aperta a sud verso la dolce regione dei laghi, l’Ossola è
percorsa da importanti vie di comunicazione che, attraverso le sue valli laterali, conducono nella vicina Svizzera e che perciò hanno sempre avuto una grande importanza nella storia secolare della nostra regione, sia in
campo economico quanto sul piano politico e militare. La sua forma vagamente triangolare ha suscitato nelle fantasie le immagini più diverse: di un cuneo piantato verso nord in territorio svizzero; di una foglia d’edera
con sette nervature, che formano le valli laterali; di un
albero col ceppo nel Monte Orfano, all’imbocco dell’Ossola, e col tronco che stende i suoi rami più verso occidente che verso oriente, e poi si assottiglia fino a
terminare con la punta nel Passo del Gries.
La linea di confine dell’Ossola è piatta e comoda soltanto a sud verso il Verbano e il Cusio; per il resto corre
quasi sempre alta e impervia sui crinali che la separano
dalle regioni confinanti: la Val Strona e poi la Val Sesia
dal Monte Massone fino al Monte Rosa; il Canton Vallese dal Monte Rosa al Passo del Gries; il Canton Ticino dal Passo del Gries alle rocce del Gridone (Vigezzo);
da ultimo la selvaggia Val Grande, separata dall’Ossola
da un’aspra catena che dal Monte Laurasca, in territorio di Malesco, corre fino al Monte Faié, in territorio di
Mergozzo. L’Ossola forma così una meravigliosa unità e
un tutto organico, pur nella sua estrema varietà di terreni, di rocce, di climi e di piante.
Un paesaggio verticale
Se si eccettua il tratto pianeggiante da Crevoladossola a
Mergozzo, il paesaggio dell’Ossola è tipicamente alpestre: esso si arrampica ripidamente, con qualche breve
sosta su ripiani e terrazzi, e ci porta in breve tratto dal
piatto fondovalle ossolano alle altezze vertiginose della grande catena alpina. Quanto erta sia questa arrampicata lo si può capire se si considera che Domodossola, a soli 272 metri sul mare, non dista più di 17 km dai
4023 metri della Weissmies e che Piedimulera a 247
metri di altezza è a circa 25 km dalla vetta del Monte
Rosa (m 4637).
In questo paesaggio, movendoci dall’alto verso il basso,
distinguiamo tre fasce. La prima, priva di vegetazione e
dai caratteri aspri dell’alta montagna, è il dominio delle nevi eterne, di ghiacci, delle pietraie, dei dirupi precipitosi, delle piccole e azzurre conche lacustri. La seconda fascia è quella rivestita di pascoli e boschi: gli alti pascoli alpini danno il loro prodotto di erbe aromatiche
e saporite senza che oggi l’uomo vi impieghi più il suo
lavoro di bonifica da sassi e sterpaglie. Anche i boschi,
che succedono ai pascoli, crescono per lo più da sé, quasi abbandonati alla forza della natura: fino ai 1500 metri prevalgono le latifoglie (roveri, aceri, betulle e faggi);
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poi succedono le aghifoglie (abeti e larici), che si spingono fino ai 2000 metri. La terza fascia, quella dei prati e dei campi, è la più ridotta in estensione, ma anche
la più redditizia e la più curata dalla mano dell’uomo,
soprattutto nei tempi passati, quando produceva tutto
quanto serviva alla povera alimentazione del montanaro ossolano.
E quale immenso e faticosissimo lavoro ha fatto l’uomo per rendere coltivabili i pendii delle nostre montagne! Osservate un po’ come esse sono intagliate a gradini, con muretti di pietra che sostengono tanti terrazzetti artificiali, messi uno sopra l’altro fino ad altezze incredibili. Ebbene, queste gradinate le hanno fatte i nostri antenati, che hanno riplasmato la montagna per ricavarne praticelli e campetti, dove coltivare la vigna e la
segale. Oggi queste terrazzature sono in gran parte brulle o coperte di boscaglie, che hanno preso il sopravvento sull’opera dell’uomo.
I monti più alti delle valli ossolane sono il Blinnenhorn
(m 3375) in Formazza, l’Arbola (m 3235) in Val Devero, il Monte Leone (m 3552) in Val Divedro, lo Straciugo (m 2712) in Val Bognanco, l’Andolla (m 3656) in
Val Antrona, il Monte Rosa (m 4637) in Val Anzasca, la
Scheggia (m 2466) in Val Vigezzo, il Pizzo del Lago Gelato (m 2614) nella spopolata valle dell’Isorno.
Gli insediamenti umani
Un tempo la gente dell’Ossola viveva raggruppata in
piccoli centri abitati, che soprattutto nelle vallate, dove
più intensa ferveva la vita agricola e pastorale, erano di
norma piccoli o piccolissimi; magari solo un pugno di
case. Rarissime le abitazioni isolate. Questi insediamenti sono sorti dove minore era il danno al terreno produttivo: le case stavano addossate le une alle altre e talora spuntavano dalla roccia, proprio per risparmiare il
più possibile la scarsa quantità di terreno agricolo.
La maggior parte di questi villaggi li vediamo ancor
oggi punteggiare di bianco i pendii delle nostre montagne. Altri sono costruiti nei fondovalle pianeggianti, come la lunga serie dei villaggi formazzini oppure la
successione dei grossi paesi distesi sull’altopiano vigezzino: Malesco, Santa Maria Maggiore, Druogno. Nella Val d’Ossola i paesi più importanti invece sorgono
allo sbocco delle valli laterali, là dove i torrenti scarica78
no nel piano i loro detriti formando ammassi di materiale, che per la loro forma prendono il nome di coni di
deiezione. Così Ornavasso, costruito sul cono di deiezione del torrente S. Carlo, così Pieve Vergonte su quello del Marmazza, così Domo su quello del Bogna, così
Premosello su quello del Riale, così Villa che dalle frazioni primitive addossate alla montagna è venuta via via
occupando tutto il cono di deiezione dell’Ovesca con
officine e case di abitazione. E l’elenco potrebbe continuare, comprendendo anche Crodo in Val Antigorio,
disteso sul cono dell’Alfenza.
Tutte le vecchie dimore ossolane, comprese le baite di
montagna, sono costruite in pietra. Nell’Ossola la materia prima, con cui l’uomo ha ricreato l’ambiente su
sua misura, è la pietra. Di pietra sono i muri delle case
e delle chiese, i tetti di grigie piode, le scale, i balconi, i
campanili, i selciati e i lastricati delle case, i muretti di
confine, gli abbeveratoi per il bestiame, le fontane, i lavatoi ecc. La vecchia Ossola è tutta di pietra, eccetto le
case dei Walser di Macugnaga e di Formazza, che dal
natio Vallese hanno portato con sé la tecnica del legno.
Coll’arrivo delle strade e delle ferrovie arriveranno anche i mattoni, le tegole in cotto e il cemento, che pian
piano trasformeranno il vecchio paesaggio ossolano.
Le acque sono la fortuna e il castigo dell’Ossola
II fiume che attraversa 1’Ossola nel suo bel mezzo prende il nome di Toce a Riale di Formazza, dove confluiscono i suoi rami sorgentiferi: i torrenti Hohsand, Gries
e Roni. È lungo circa 80 km e a Candoglia registra una
portata media di 68 m3 al secondo, una massima di m3
1400 e una minima invernale di m3 13. Il primo tratto,
che va dalla sorgente alla forra di Pontemaglio, è spesso
incassato in gole profonde e ha carattere torrentizio, con
una pendenza media del 5,6%. Il secondo tratto, che va
da Pontemaglio a Vogogna, con una pendenza media
dello 0,50%, non ha più l’irruenza del torrente montano, ma neppure la tranquillità del fiume di pianura.
In questo tratto, modestamente inclinato, scaricano le
loro acque nel Toce i suoi principali affluenti: sulla destra la Diveria, il Bogna, l’Ovesca e l’Anza; sulla sinistra l’Isorno e il Melezzo. Tutti questi corsi di acqua durante le piene si avventano con grande furia nel piano
dell’Ossola, trascinando una massa enorme di materia-
Monte Rosa, il ghiacciaio del Belvedere.
le solido (sassi e ciottoli), che ha inghiaiato e sopraelevato questo tratto di valle; guardando dall’alto si ha l’impressione che il piano dell’Ossola Superiore sia completo dominio dei torrenti. Il terzo e ultimo tratto del
Toce si sviluppa da Vogogna al Lago Maggiore, con una
pendenza media del solo 0,12%; qui il Toce è un vero
fiume che serpeggia nella pianura dell’Ossola Inferiore,
scorrendo in un letto abbastanza regolare di ghiaie minute e di sabbie.
Ma le acque non sono solo una maledizione per l’Ossola durante le terribili alluvioni: esse servono per irrigare
i campi; imbottigliate a Crodo e a Bognanco, per il loro
ottimo grado di mineralizzazione, compaiono su tutte
le mense italiane; incanalate nelle condotte forzate degli impianti idroelettrici muovono le turbine di poderose centrali, che forniscono grande quantità di energia.
Ricordiamo infine che nel passato il Toce era navigabile fino a Beura e che, in mancanza di strade efficienti e
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sicure, è stato per secoli la principale via di comunicazione per l’Ossola.
L’Ossola a volo d’uccello
Ed ora compiamo un veloce viaggio nelle valli ossolane, partendo dal Monteorfano, quell’isola granitica che
sembra sbarrare l’ingresso dell’Ossola, là dove la bassa
valle si spalanca sul Verbano e sul Cusio. Sulla sinistra
del Toce il primo paese ossolano a darci il saluto è Mergozzo, a specchio del suo bel lago ovale. Seguono Cuzzago e Premosello, poi Vogogna, già capitale dell’Ossola Inferiore (la rocca e il castello viscontei sono lì per ricordarcelo), infine Beura, il centro più importante della lavorazione della pietra chiamata beola dal nome del
paese. Sulla destra del Toce ci viene incontro per primo
l’industre Ornavasso, vecchio paese di origine tedesca;
poi Anzola d’Ossola e il vecchio centro chimico di Pieve Vergonte; seguono Piedimulera allo sbocco della val
Anzasca, poi Pallanzeno e Villadossola, dove sono accentrate le più grosse industrie della regione.
Il fondovalle ossolano, che abbiamo percorso in questa
prima parte del viaggio, mette capo in un’ampia conca
quasi circolare, dove confluisce un ventaglio di valli. All’intorno, disposte per lo più sulle ultime pendici di un
vasto cerchio di montagne, occhieggiano le numerose
frazioni di Trontano, Masera, Montecrestese, Cisore e
Vagna. Al centro del bacino siede Domodossola, capitale dell’Ossola, che, da piccolo borgo tranquillo con non
più di mille abitanti sulla fine del Settecento, è diventata ora un centro pulsante di vita, dove si accentra gran
parte della popolazione ossolana (circa 19.000 abitanti). Di notevole: il Monte Calvario, il Collegio Rosmini, il Palazzo Silva, l’ex chiesa di S. Francesco, la Collegiata, piazza Mercato e la torretta delle mura trecentesche.
Ad oriente di Domo si apre la Val Vigezzo, una valle trasversale che si snoda per 25 km fino al confine italosvizzero della Ribellasca. La parte centrale della valle somiglia ad un lungo altopiano, costellato di paesi così fitti e lindi che la fanno sembrare una città-giardino. Craveggia, Toceno, Buttogno stanno al limitare del bosco
su un ridente terrazzo pieno di sole, che domina dall’alto il verde fondovalle dove spiccano le macchie biancogrigie di Malesco, Santa Maria Maggiore e Druogno.
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Verso il confine svizzero si incontra Re col suo monumentale santuario dedicato alla Madonna del Sangue.
A Pontemaglio comincia un’altra lunga valle percorsa
dal Toce, che nella prima parte prende il nome di Antigorio e assume poi quello di Formazza a Foppiano sotto l’alto gradino delle Casse. Percorrendola, incontriamo per primo Crodo, celebre per le sue acque, poi Baceno, dominato da quel monumento d’arte che è la sua
ricchissima chiesa, quindi Premia, sparsa in tante piccole ridenti frazioni, infine la tedesca Formazza, ricca di
pascoli, di fiori multicolori, di laghetti alpini, di centrali e di impianti idroelettrici.
Da Crevola, attraverso una magnifica forra scavalcata
da un ponte arditissimo, ci infiliamo nella Val Divedro,
in compagnia della ferrovia internazionale del Sempione e della grande strada costruita per volere di Napoleone tra l’Italia e la Svizzera attraverso il colle del Sempione. Prima di arrivare alla sbarra di confine a Gondo troviamo sul percorso il grosso paese di Varzo allo sbocco
della valle che scende dalla splendida Alpe Veglia, e poi
Iselle, la stazione di confine dove il treno entra in galleria (m 19.803).
A Domodossola sbocca la più breve delle valli ossolane, la Val Bognanco, che una volta aveva un’intensissima
vita agricola e pastorale. Ora tutti la conoscono perché
Bognanco Fonti ospita un complesso termale con alberghi e pensioni. La più appartata e tranquilla tra le valli
ossolane, ma non per questo meno bella delle altre, è la
Val Antrona, che sbocca nel piano presso Villadossola.
Già famosa per le miniere di oro e di ferro, ora lo è per
le sue bellezze naturali e i suoi bacini idroelettrici, tra i
quali ricordiamo il Lago di Antrona, formato da un’antica frana che seppellì un intero villaggio e, sbarrando le
acque del torrente Troncone, diede origine al lago.
La più meridionale delle valli ossolane è anche la più rinomata, perché alla sua testata si dispiega in tutta la sua
grandiosità l’anfiteatro del Monte Rosa, un massiccio di
ghiacci e di rocce, secondo solo al Monte Bianco in Europa: la Val Anzasca. Dal suo sbocco a Piedimulera fino
a Macugnaga la valle si sviluppa stretta e tortuosa, ma
punteggiata di paesi puliti e ridenti: Castiglione, sparso in molte frazioni alpestri; Calasca con la sua splendida chiesa definita la «Cattedrale fra i boschi»; Bannio
l’antica capitale della valle e sede di una necropoli celti-
Alpe Veglia, lago delle Streghe.
ca; Vanzone con San Carlo, noto per le acque arsenicali; Ceppomorelli e infine Macugnaga, la regina del Rosa
e sede di una colonia tedesca che va spegnendosi.
Comunicazioni e trasporti nell’antichità
Una volta l’Ossola era priva di grandi vie di comunicazione. I villaggi alpini erano allacciati tra loro e coi
centri più importanti del fondovalle da una fitta rete
di mulattiere e di sentieri, quelli che oggi frequentiamo
ancora come «scorciatoie» durante le nostre gite. I trasporti erano fatti a spalla con la scivera (gerla) e con la
caula per la legna. Pochissimi gli asini e i muli, perché
i poveri montanari non potevano mantenere bestie da
soma, e tutto il foraggio era destinato agli animali più
utili: bovini, ovini, caprini.
Le principali vie di comunicazione attraverso le valli
portavano ai valichi alpini, aperti tra l’Ossola da una
parte e il Vallese e il Ticino dall’altra. Il passo più meridionale è quello del Monte Moro (m 2868) che si apre
ad est del Monte Rosa e mette in comunicazione Macugnaga con la valle tedesco-vallesana di Saas. Sull’itinerario del Moro si vedono ancora i resti di un’antica strada lastricata, segno evidente che in passato il colle era
frequentato e adattato al passaggio dei muli e del bestiame. Nel secolo XIII attraverso il Moro trasmigrarono le popolazioni walser che fondarono la maggior parte delle colonie tedesche attorno al massiccio del Monte Rosa, prima fra tutte Macugnaga.
Un po’ più a nord del Passo del Moro si apre il Passo di
Antrona (m 2839). Questi due valichi superano in altezza tutti gli altri passi dell’Ossola, onde risulta chiaro
che attraverso essi non potevano esistere traffico e transito regolari, poiché erano percorsi soltanto durante i
pochi mesi della stagione estiva. La vecchia mulattiera partendo da Antronapiana s’arrampica con cammino difficoltoso fino al colle per scendere poi ad Almagell nella Valle di Saas, dove si congiunge con quella del
Moro e prosegue per Visp. Rimangono ancora oggi i resti lastricati dell’antica mulattiera, che ricordano i tempi della sua floridezza.
Abbiamo visto come i valichi del Monte Moro e di Antrona si aprono nelle Alpi Pennine ad altissima quota
e perciò sono difficilmente praticabili ad un traffico di
ampie proporzioni. Ma, là dove terminano le Pennine e
cominciano le meno elevate Alpi Lepontine, la grande
catena alpina s’assottiglia e si abbassa in una larga e comoda sella, che fa da cerniera tra queste due sezioni delle Alpi: è il Passo del Sempione (m 2006), la principale
porta di comunicazione tra l’Ossola e il Vallese. In età
romana e specialmente nell’Alto Medioevo abbiamo testimonianze che non depongono a favore d’una strada
di grande transito sul nostro colle. Prospettive d’importanza europea per il Passo del Sempione si aprirono soltanto a partire dal secolo XII, dal tempo cioè delle Crociate. Il Sempione diventò allora una strada mercantile
di primo ordine e un passaggio obbligato tra le città italiane e le piazze commerciali dell’Europa occidentale.
Furono aperte al transito le gole di Gondo, fino a quel
tempo impraticabili, mentre le grandi società commerciali lombarde concludevano trattati col Vallese per il libero passaggio delle merci e, coi pedaggi, contribuivano in modo determinante al mantenimento della strada, dei ponti e delle soste, dove tenevano depositi e ma81
gazzini per le mercanzie. Lunghe file di muli, carichi di
fardelli, percorrevano la strada e davano lavoro ai conducenti ossolani e vallesani. Più tardi, in seguito alle lotte tra il Vallese e l’Ossola, il Sempione venne quasi del
tutto abbandonato dai mercanti, finché verso il 1630
riacquistò la sua importanza internazionale di strada
commerciale per merito del gran signore vallesano Kaspar Iodok von Stockalper. La morte dello Stockalper
(1691) segnò la decadenza del Sempione come via di
transito internazionale, sebbene gli interessi congiunti
di Ginevra e di Milano non permisero il totale abbandono di questa via.
Nel 1800 il Sempione doveva risorgere a nuova vita. In
quell’anno infatti Napoleone emanava l’ordine di dare
immediata esecuzione alla costruzione d’una grande
strada carrozzabile che doveva avere tutte le qualità per
rispondere alle esigenze militari del tempo, anzitutto di
rendere possibile il passaggio delle artiglierie. Due erano le condizioni vantaggiose che avevano fatto cadere la
scelta sul Sempione in confronto ad altri valichi alpini:
la maggior brevità del percorso tra Milano e Parigi e la
relativa bassezza del colle. Il 25 settembre 1805 la nuova strada era transitabile. Sul percorso di 62 km tra Briga e Domo erano stati eretti in totale 64 ponti tra grandi e piccoli e scavate sette gallerie per una lunghezza totale di 525 metri con 250 tonnellate d’esplosivo. Il costo complessivo di questa arditissima opera ammontò,
tra Ginevra ed Arona, a circa 18 milioni di franchi, in
gran parte pagati con denaro italiano.
Ad oriente del Sempione, tra le opposte valli di Binn
e del Devero si apre il Passo d’Arbola (m 2409), l’Albrunpass dei Vallesani. A Baceno la mulattiera si dirama dalla strada di Formazza, tocca il valico, discende a
Binn senza grossi ostacoli e sbocca nella valle dell’alto
Rodano a Grengiols.
Questa strada, che conserva ancor oggi qualche tratto
lastricato, pare non sia servita gran che al grosso traffico commerciale, ma fu sempre utilizzata da Ossolani e
Vallesani per lo scambio dei loro prodotti, nonchè per
operazioni di guerra, fino all’apertura della carrozzabile del Sempione. Che fosse già anticamente frequentata
ne è prova la colonizzazione dell’Alta Val Devero (Agaro, Ausone) da parte di pastori vallesani, venuti da Binn
nella seconda metà del secolo XIII.
82
L’ultimo valico, che dall’Ossola porta nell’Alto Vallese, è quello del Gries (m 2463), senza dubbio il più importante dopo il Sempione. Da Formazza la mulattiera, superando tre successivi gradini, raggiunge il passo
e scende poi nella valle del Rodano a Ulrichen; di qui
si dirama la strada che raggiunge il Passo del Grimsel
(m 2164), aperto sulla regione di Berna. La strada del
Gries non avrebbe di per sé che un’importanza locale,
ma il suo prolungamento attraverso il Grimsel ne fa un
itinerario di notevole valore commerciale. L’uso di questo valico si perde nella notte dei tempi. Il primo passaggio che storicamente conosciamo, però, è quello delle popolazioni vallesane che nei primissimi anni del secolo XIII fondarono la colonia tedesca di Formazza. La
costruzione della ferrovia del Gottardo nel 1882 assestò
a questo passo, già calato d’importanza dopo l’apertura
della strada del Sempione, il colpo mortale.
Un altro valico meritevole di menzione è il Passo di S.
Giacomo (m 2313), ad oriente del Gries. Esso, è vero,
non porta a nord delle Alpi, ma mette in comunicazione la Formazza con Airolo nell’Alto Ticino, là dove comincia la salita del passo importantissimo del S. Gottardo; ma appunto attraverso quest’ultimo valico dall’Ossola si potevano raggiungere, al di là del grande spartiacque alpino, le alte valli del Reuss e del Reno e così
entrare nella rete stradale della Svizzera centro-occidentale. L’ultima strada, collegante anch’essa l’Ossola con il
Canton Ticino, attraversa la Val Vigezzo e le successive
Centovalli, portando al Lago Maggiore e a Locarno.
Le vie di comunicazione nei tempi moderni
La prima grande strada carrozzabile, che tolse l’Ossola dal suo secolare isolamento, fu portata a termine,
come abbiamo detto, nel 1805 per volontà di Napoleone: essa doveva unire Milano a Parigi e prese il nome di
strada del Sempione dal valico che mette in comunicazione l’Ossola con la Svizzera.
In seguito all’apertura della strada del Sempione le valli ossolane, una dopo l’altra, provvidero con gravissime
spese ad allacciarsi per mezzo di strade, costruite di sana
pianta, all’arteria principale, che diventò così la spina
dorsale della rete stradale dell’Ossola. Con le nuove vie
i trasporti a spalla sulle lunghe distanze cedettero il posto ai trasporti su carro con gran sollievo dei montanari
e notevole riduzione dei prezzi: le merci circolarono più
facilmente; i prodotti locali, soprattutto i boschi, trovarono più facile smercio; il servizio postale diventò più
regolare e più veloce; i viaggiatori stranieri e i primi turisti cominciarono a visitare l’Ossola e sorsero alberghi e
locande. Era un gran passo avanti certamente.
Ma intanto erano già state costruite in Piemonte molte
ferrovie e l’Ossola ne era rimasta priva. Tutti gli Ossolani ne sentivano la mancanza. Finalmente nel 1888 venne portata a termine la ferrovia di Novara e l’Ossola fu
così allacciata alla rete ferroviaria italiana. Nel 1905 cadeva anche l’ultimo diaframma di roccia al traforo del
Sempione e l’anno dopo i treni internazionali correvano sulla nuova linea ferroviaria che collega Milano a Ginevra e Parigi.
Alla costruzione del traforo del Sempione furono particolarmente interessate la Svizzera, l’Ossola e le città di Milano e di Genova, mentre il Governo italiano
non mostrò grande sollecitudine per quest’opera. Quasi
unica sua preoccupazione fu che la galleria avesse il suo
sbocco meridionale in territorio italiano, a parecchi chilometri di distanza dal confine italo-svizzero. Gli ostacoli finanziari vennero al fine superati dalla Compagnia
concessionaria, la Jura-Simplon, proprietaria di circa un
terzo delle linee ferroviarie svizzere e grandemente interessata alla pronta esecuzione del traforo. Appoggiata
da potentissime banche germaniche, essa ebbe l’onore,
dopo tanti sforzi, di portare finalmente a compimento
la grande opera.
Nei quarant’anni di preparazione i progetti s’erano susseguiti numerosi e multiformi, per incarico di cinque
diverse Società concessionarie e tutti erano caduti per
una ragione o per l’altra. Questi vari progetti, 32 complessivamente, si possono dividere in tre gruppi, secondo l’altitudine del punto culminante del tunnel: gallerie di base, gallerie a medio livello e gallerie di sommità.
Prevalse alfine il progetto, preparato dall’ingegnere Dumur, di una galleria di base della lunghezza di 19.770
metri, molto costosa e tecnicamente difficile, ma rapidamente percorribile e perciò più adatta di altre ad un
intenso traffico internazionale. L’impresa appaltatrice,
la ditta germanica Brandt-Brandau, diede inizio ai lavori nel 1898 e li portò a compimento nel 1905, mentre la cerimonia inaugurale si svolse con grandi festeg-
giamenti il 19 maggio 1906. Se, come abbiamo detto
gli ingenti mezzi finanziari (78 milioni di franchi svizzeri) provennero da oltralpe, i lavoratori addetti a quest’opera colossale, che superò tutte le precedenti per arditezza e grandiosità di concezione, furono esclusivamente italiani.
Provenivano da tutte le regioni d’Italia e per sette anni
alloggiarono alla bell’e meglio nelle vicinanze dei due
imbocchi del traforo, presso Briga da un lato e presso Iselle dall’altro. Come tutte le grandi opere anche
il traforo del Sempione ebbe le sue vittime. Ed in proporzione alla grandiosità dell’opera e ai mezzi d’allora furono poche, sebbene la morte tendesse agguati di
ogni genere; mine esplose anzi tempo, massi franati dalla volta delle gallerie, schegge proiettate di fianco, carri usciti dai binari, membra schiacciate dai propulsori
o tagliate dalle ruote, scoppi di tubazioni, schizzi di acqua compressa, gas velenosi ed asfissianti. Sessanta vittime, una ogni 333 metri di galleria, tutte italiane, dal
figlio di Pizzo di Calabria, «robusto come un orso e bello come un bambino», al minatore piemontese, veterano dei trafori del Cenisio e del Gottardo.
L’Ossola, e in particolare il suo capoluogo, trasse vantaggi enormi dall’entrata in esercizio della ferrovia del
Sempione, che costituisce, per così dire, l’atto di nascita
della Domodossola moderna. Il vecchio borgo ottocentesco, pigro e sonnacchioso, divenne un enorme cantiere di lavoro.
La città s’ingrandì in pochi anni come mai s’era ingrandita nella sua storia secolare e divenne prosperosa di industrie e di commerci. Altro passo avanti fece l’Ossola nel 1923, allorché fu inaugurata la ferrovia vigezzina
tra Domodossola e Locarno, che metteva in diretta comunicazione i cantoni occidentali della Confederazione Elvetica col Canton Ticino e toglieva la Val Vigezzo
dal suo isolamento.
Nel corso degli anni Ottanta la stazione ferroviaria internazionale di Domodossola è stata dotata, a Beura
Cardezza, di un’ampia struttura (Domodue), che ancora non riesce a decollare per vari motivi, nonostante
i cospicui investimenti effettuati. Vi è poi la superstrada di scorrimento veloce, che abbrevia le comunicazioni tra l’Ossola e il Lago Maggiore, a rinforzo della ormai
vecchia strada del Sempione.
83
Baceno: la nevicata evidenzia i terrazzamenti ricavati sulle pendici del monte.
Gli uomini abbandonano la montagna
e s’addensano nei fondovalle
Nelle nostre escursioni in montagna avremo trovato tante vecchie case in rovina e tanti piccoli centri montani
quasi o del tutto abbandonati. Cosa vuol dire? Vuol dire
che nell’Ossola una volta la montagna era molto popolata, più popolata degli stessi fondovalle, dove adesso
vediamo concentrata quasi tutta la popolazione. I montanari allevavano molto bestiame e coltivavano innumerevoli piccoli campi, oggi ingoiati dal bosco, e perciò vivevano sparsi sulla montagna per meglio accudire al loro lavoro. Ma già nel secolo scorso, e più ancora
nel Novecento, una serie di cause obbligò molti montanari a lasciare i loro casolari e ad emigrare all’estero oppure a trasferirsi nei centri di fondovalle. Quali furono
queste cause? La perdita di antichi privilegi, l’aumento
generale delle tasse, le condizioni difficilissime di vita,
il basso reddito soprattutto, inferiore a quello di qualunque salariato. Mentre la montagna si spopolava, il
fondovalle dell’Ossola si industrializzava e registrava un
84
continuo aumento della popolazione. Un solo esempio:
Villa contava 1035 abitanti nel 1848, nel 1995 ne contava 7469. Anche la popolazione dell’Ossola andò crescendo di censimento in censimento, dopo essere rimasta quasi costante per tanti secoli. Dai 47.632 abitanti
nel 1848 era salita a 56.013 nel 1921; nel 1995 gli Ossolani erano in totale poco meno di 70.000.
La densità non è omogenea. Ci sono veri vuoti umani
nelle zone di alta montagna, regno di ghiacci, nevi e rocce, dove la vita è impossibile. La popolazione vive sulle
più basse pendici dei monti e nel fondo delle valli, ma
soprattutto nella valle del Toce da Crevola a Mergozzo.
L’ambiente naturale si trasforma e si degrada
II prezzo che l’Ossola ha dovuto pagare al progresso e
al miglioramento delle condizioni di vita è salatissimo.
Oggi godiamo di un benessere che i nostri antenati non
conoscevano, ma viviamo in un ambiente degradato e
inquinato. Anche nei secoli passati sono avvenute delle trasformazioni nel paesaggio: basti pensare al lonta-
no disboscamento delle foreste primitive, da cui l’uomo
ha ricavato prati e campi, oppure al terrazzamento delle
montagne, del quale abbiamo parlato poc’anzi.
Ma questi interventi umani rimanevano sempre in un
ordine «naturale»: in altre parole l’uomo modificava, sì,
la natura ma senza farle violenza; se mai l’assecondava
e, per così dire, la perfezionava con interventi sapienti e
rispettosi dell’ordine naturale preesistente. Infatti i materiali usati per gran parte di queste trasformazioni erano quelli stessi che la natura offriva: la pietra e il legno.
Con l’industrializzazione l’uomo ha trasformato il paesaggio naturale in un paesaggio che potremmo definire «tecnico», perché costruito dall’uomo spesso in disaccordo stridente con la natura. L’ambiente così è stato
degradato ed inquinato e noi uomini ne siamo le prime
vittime. Facciamo solo qualche esempio per intenderci. Una volta il cielo dell’Ossola era quello terso e purissimo di montagna; oggi spesso è ricoperto da un velo
di fumo e di esalazioni gassose provenienti dagli stabilimenti industriali. Un tempo le montagne ossolane erano ricche di acque limpidissime scorrenti in superficie;
ora la maggior parte dei nostri ruscelli e torrenti sono
ridotti a squallide sassaie, mentre si sono inaridite molte
sorgenti, perché l’acqua viene presa e condotta in canali di derivazione che alimentano le centrali. Ogni vena
di acqua è stata così catturata, sconvolgendo l’equilibrio
idrico naturale delle nostre vallate. La stessa Cascata del
Toce è oggi regolabile col contagocce. Dighe enormi
hanno sopraelevato di decine di metri il livello di vecchi
bellissimi laghi (es. Codelago) o hanno trasformato in
bacini artificiali magnifici pianori alpini (es. Morasco),
col risultato che le rive di questi serbatoi per molti mesi
all’anno altro non sono che depositi di fanghiglia.
Alcune valli, in seguito allo sfruttamento turistico, sono
state invase dal cemento a tal segno che non si riconoscono più. Le cave, che si aprono sempre più numerose,
danno lavoro, è vero, ma sbriciolano le montagne e vi
producono squarci e ferite che non si potranno più rimarginare. Molte specie di mammiferi e di uccelli sono
scomparse o in via d’estinzione per l’inquinamento dell’atmosfera, dell’acqua e del suolo. E l’elenco potrebbe
continuare.
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L’acqua e la pietra
Aldo G. Roggiani e Marco Cattin
“..Sai tu Giovannino, dove si trova la più grande cascata delle Alpi?...precisamente in Italia”. ”Possibile!” esclamo’
Giovannino. ”Di qual cascata intendi parlare? ”
”Oh bella! della italianissima cascata della Toce.
Essa mi richiama uno dei più deliziosi viaggetti alpini ch’io
m’abbia mai fatti; e se volete che ve ne intrattenga... ”
”Si, si”; dissero in coro gli astanti, ed anche Giovannino si
pose in silenzio ad ascoltare. (A. Stoppani,1914)
L’acqua e la pietra rappresentano un binomio indissolubile per il territorio ossolano, elementi costitutivi del
paesaggio, da cui il naturalista trae spunti di riflessione
e che rappresentano allo stesso tempo risorse sfruttabili per gli abitanti.
Difficile dire quale sia la più importante ed a quale di
esse si debba la progenitura dell’impronta ossolana dato
che in tempi geologici l’una ha prevalso sull’altra con
alterne vicende.
L’acqua che costituiva il magma originario poi cristallizzato in granito e successivamente divenuto gneiss1 oppure la roccia che i ghiacciai modellarono nel Quaternario?
Cerchiamo insieme, guardandoci attorno, i segni dell’acqua e della pietra descritti minuziosamente da attenti osservatori quali Stoppani.
La preoccupazione del nostro era di sublimare la scienza e farla apparire di pari bellezza della poesia; ciò d’altro canto traspare da queste righe: “...Un libro che abbia per oggetto la cognizione del mondo fisico non caverà una lagrima, non farà perdere un minuto di sonno. Tutti gli incanti della natura non valgono un affetto; tutta la scienza non vale un atto generoso. Una Lucia inginocchiata ai piedi dell’Innominato; una madre
che accomoda colle stesse sue mani sul carro degli appestati il corpo della figlioletta, faranno sempre maggiore impressione di tutte le più belle descrizioni dell’Universo.”
L’ambiente ossolano è laboratorio naturale dove le rocce
che affiorano sono prevalentemente gneiss2 meglio conosciute come beole3 e serizzi4: le prime sono disposte
in strati verticalizzati e le seconde in strati variamente
inclinati5; meno diffusi sul territorio sono i marmi6 ed
i graniti7, rocce pregiate utilizzate per edifici di interesse storico artistico.
Le rocce appartengono alle falde di ricoprimento8, pieghe a grande scala9, formatesi nel corso dell’orogenesi alpina10 che hanno influenzato la morfologia delle valli11.
L’altro elemento caratterizzante il nostro territorio,
l’acqua, allo stato solido mediante i ghiacciai ha scavato la roccia sino a metterne in luce gli strati più antichi e precedenti all’orogenesi alpina.12 L’erosione ha inciso sul fondo vallivo salti morfologici con notevoli dislivelli che percepiamo se solo percorriamo la val Devero13 e la val Formazza14; ciò a testimonianza delle soste che si sono susseguite alle fasi di ritiro dei ghiacciai, e mirabilmente sottolineato dalle cascate, fra tutte
quella del Toce così ben descritta nel racconto seguente15: “La scena ha qualche cosa di solenne. Un immenso
anfiteatro di rupi nere si spiega davanti all’attonito sguardo. Le pareti ignude di granito nero ond’è formato, sparse di vaste chiazze di gialliccio e di bianco, sono sormontate a destra e a sinistra da due montagne ignude ugualmente e nere, ma rotte, irte, dentate. L’arena di quell’anfiteatro, coperta d’un gran tappeto verde, è sparsa di migliaia
di massi, di rupi prismatiche, a spigoli vivi, strappate dai
Formazza: Cascata della Toce.
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secoli alle montagne d’intorno, e buttate a giacere alla rinfusa. Il circo di fronte presenta, in coincidenza colla cascata, quasi una specie di grande scollatura, per cui l’occhio
s’inoltra liberamente verso lo sfondo della valle. Ove quello
sfondo si apre, una serie di rupi a dorso di montone s’avanza per gradi sulla destra della valle, a modo di scena, e si
arresta a breve distanza della sinistra. Qui un’altra rupe,
ugualmente arrotondata, le fa riscontro. Al suo piede sorge l’albergo, edificato sull’orlo dell’abisso. Un vano, un’intaccatura, quasi un canale aperto da umano scalpello, in
seno a quella barriera di rupi, apre l’unica via alla Toce,
che giunta d’un tratto sull’abisso, vi si precipita senza freno, orribilmente muggendo, con un salto di 142 metri,
formando una nappa della larghezza di 26 metri, e chi sa
quanto larga nelle piene maggiori. La rupe, da cui si precipita il torrente, non è propriamente a picco, ma forma una
parete un pò inclinata, e ripartita in molti scaglioni, quasi
ciclopica scalea, sui fianchi della quale cresce qualche scarso filare di abeti. Il torrente, già diviso in più cascate dove
il salto incomincia, si suddivide, scendendo, in mille svariatissime cascatelle. Quale batte la rupe in forma di bianco fiocco e rimbalza, divisa in un nembo di spruzzi; quale si lascia sdrucciolare giù giù, lieve lieve, sulla roccia levigata, come un filo di bambagia, o come nastro ondeggiante di seta bianca; quale si sparpaglia, disegnando una rete
a maglie d’argento, o cento tessuti diversi che di continuo
si scompongono e si rifanno. Grado grado scendendo, spinte ora a destra ora a sinistra, s’incontrano, si azzuffano, si
accapigliano. Ma la cascata è una; e a vederla svolgersi, e
rimutarsi sul fondo nero o bigio di quella fantastica scalea, la non si potrebbe paragonare che a una gran chioma
bianca, disciolta e agitata dal vento. Una nebbia leggiera,
a guisa di aureola perenne, si leva sull’abisso; e quando il
sole dardeggia, l’iride vi si posa tranquilla, immobile, vero
simbolo di pace in tanta guerra.”
avuta la formazione di zone di terrazzi panoramici con
gli insediamenti popolosi16 o ameni alpeggi frequentati
nel periodo estivo17.
Analoghi aspetti e fenomeni morfologici risultato di
azioni erosive, caratterizzano le valli degli affluenti minori, alcune di queste sono sospese rispetto alla principale, dove è avvenuta una più intensa attività erosiva:
infatti nelle zone di confluenza tra valle principale e secondaria si ergono ripidi gradini lungo i quali spumeggiano pittoresche cascate.18
L’erosione ha anche prodotto valli trasversali che si diramano dal fondo vallivo del Toce in direzione Est Ovest,
dove dalle spianate e dai più dolci pendii degli ampi
bacini superiori esse vanno restringendosi sempre più
verso il basso facendosi via via anguste. Il risultato sono
salti morfologici che conferiscono il tipico profilo, trasversale alla valle, a cannocchiale, che ha favorito la successiva deposizione di morene. In conseguenza a ciò si è
Simili a marmitte ma di origine mista glaciofluviale
sono i celeberrimi orridi di Uriezzo formatisi in un
settore vallivo dove copiosamente si raccoglievano le acque di scioglimento dei ghiacci che si distribuivano sull’imponente salto morfologico tra Premia e Verampio.
88
L’erosione del ghiaccio a scala minore ha prodotto inoltre le rocce montonate, gobbe rocciose sagomate secondo la direzione del movimento glaciale, arrotondate sopra e sul lato rivolto a monte, scabre sul lato a valle19 dove spesso l’operazione di levigatura pone in rilievo minerali di dimensione pluricentimetrica sulla massa rocciosa più erodibile.
Le valli ossolane scavate dai ghiacciai hanno notoriamente il profilo trasversale ad U, dovuto all’erosione
lungo tutta la sezione del ghiacciaio, avente forma semicircolare determinata dal minore attrito durante lo
scorrimento della massa di ghiaccio20.
La successiva erosione fluviale ha ulteriormente scavato
valli strette ed incise dette forre21, spesso favorite dalla
presenza di fratture, zone di alternanza di strettoie22 e di
larghe valli a U.
L’associazione di acqua e ciottoli, lungo i corsi d’acqua,
in vorticosi mulinelli ha invece modellato fori di varia grandezza, circolari o a sezione ellittica ricavati nella
roccia viva sino ad una profondità di 10 metri ed anche
più laddove sono presenti rocce erodibili o fratturate, si
tratta delle marmitte dei giganti.23
L’acqua, oltre a scavare la roccia, svolge anche un’azione solubile sulle rocce carbonatiche24, sia in superficie25
che in profondità26 determinando i fenomeni carsici.27
Tali formazioni sono pressoché sconosciute, sia perché
sul territorio ossolano sono presenti prevalentemente
rocce silicatiche, sia perché localizzate in zone difficilmente accessibili; sono comunque ampiamente studiate da alcuni gruppi speleologici28.
Consideriamo ancora che in Ossola abbondano i depositi morenici, risultato della deposizione finale di masse glaciali ancora attive29, che hanno subito arretramenti consistenti negli ultimi quarant’anni. Flussi e riflussi
come veniva osservato un tempo: “I ghiacciai del Monte Bianco e del Monte Rosa, i quali verso il 1811, si erano ritirati in angusti confini, progredirono rapidamente
fra il 1812 ed il 1818. Un sensibile regresso si manifestò nel 1824, seguito da una fase in cui rimasero stazionari, poi da un movimento in senso inverso nel 1836 e nel
1837. Un nuovo regresso fu segnalato dal 1839 al 1842;
poi avanzamento irregolare fino al 1854, che corrisponde
al massimo sviluppo raggiunto da tali ghiacciai. D’allora
in poi vi fu una generale retrocessione, la quale durò fin
verso il 1878, per accentuarsi negli anni successivi. Siffatte variazioni non si verificarono simultaneamente in ciascuno, ma a breve intervallo. Certo è che nel 1890 ben 55
ghiacciai della Svizzera e tutti quelli del Monte Bianco e
del Monte Rosa erano in aumento.”30
“Quattro le glaciazioni che si sono succedute nei tempi più
recenti (Era Quaternaria); l’ultima (Wurm, della durata
di 90.000 anni ed intervenuta 560.000 anni or sono) lascia il passo alle potenti fiumane che, deposta allo sbocco
delle valli la violenza propria del corso montano, si adagiano nel piano dando inizio alla pianura alluvionale costruita dalla Toce e dai suoi affluenti e che si estende piatta ed uniforme sino al bacino del lago Maggiore. Con la
scomparsa graduale dei ghiacciai si attiva in particolare la
costruzione della piana dell’Ossola. L’aspetto assunto dalla regione è del tutto nuovo: lisciate le irregolarità dei fianchi montuosi, conservano i loro aspri contorni solo le cime
che emergono dalla distesa ghiacciata mentre continuo è
il deposito di sedimenti alluvionali operato dalla Toce; i
ghiacciai hanno edificato ed abbandonato cumuli talora
Valle Antigorio, gli orridi di Uriezzo.
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anche ingenti di materiali (morene e massi erratici) e gli
agenti atmosferici degradano in continuazione la superificie mentre il fondovalle si va progressivamente innalzando sempre più (risulta da documenti certi, ad esempio, che
il suolo di Domodossola (conoide di deiezione del torrente Bogna) si è innalzato, ad opera di quel corso d’acqua, di
ben quattro metri dal 1627 in poi), l’Ossola va, in definitiva, lentamente assumendo l’aspetto attuale.”31 Ghiacciai di estensione minore ormai estinti, hanno depositi di materiale che vengono lentamente colonizzati dalla
vegetazione ed antropizzati32; difficile riconoscere l’antico passaggio della massa glaciale.
Solitari testimoni di antichi sfarzi glaciali sono i massi erratici33, tra di essi i più conosciuti erano quelli del
Passo che hanno rappresentato il singolare ed obbligato passaggio per accedere alla valle Formazza, dando il
nome alla frazione, finché sono stati rimossi per l’allargamento della strada. In altri casi gli erratici sono addossati ai versanti e correlabili a frane postglaciali34; di
tale fenomeno si ha ampia testimonianza in numerose
località35 dove le case sono spesso costruite tra un masso
ciclopico e l’altro in perfetto mimetismo.
“Tra i luoghi più celebri, come esempi della rovina meteorica, non esito a porre la valle del Toce, specialmente nel
tratto da Pontemanlio a Foppiano (Valle Antigorio).
I fianchi della valle, quasi a picco per centinaia di metri
e sorgenti da gigantesche scarpe di detrito, rinchiudono la
pianura alluvionale del Toce, dalla quale, sul fondo verdeggiante, si spiccano enormi monoliti di forme prismatiche, e in tanta quantità, che destano lo stupore del viandante. Alcuni fra questi sono di origine glaciale, ossia massi erratici, ma la maggior parte ruinarono dalle pareti laterali, come lo dimostra l’eguaglianza mineralogica della
roccia in posto. Molti di cotali massi hanno più di mille
metri cubi di volume. Uno torreggia fra gli altri, che porta al di sopra gli avanzi di una vecchia costruzione, forse
una torre per segnalazioni ottiche; un altro si erge acuminato di fianco alla via, e mi preme di qui notarlo, perché
lo credetti altra volta di origine erratica.”36
Accumuli di altra origine sono da porre in relazione con
l’azione incessante del gelo e disgelo che opera una di-
struzione lenta ma incessante, come si può osservare per
il monte Cistella, la cui vetta è formata da un affastellamento caotico di massi di gneiss.
Gli accumuli37, conseguenza di eventi franosi, hanno
anche sbarrato i corsi d’acqua con formazione di specchi lacustri antichi38 o recenti così come documentato:
“Frequenti sono in montagna gli esempi di laghi formatisi in seguito a sbarramento della valle. Nella Val d’Ossola
è celebre il Lago di Antronapiana, determinato il 27 luglio 1642 da una spaventosa frana, che, staccatasi dal vicino Monte Pozzoli, si gittò con orrendo fracasso attraverso la valle, rimontandola in parte dal lato opposto. In pochi minuti fu seppellito quasi tutto il paese di Antronapiana, con l’eccidio di 150 persone e di numerosi armenti. Impedito così il passo al torrente Troncone, le acque si
accumularono sino al sommo della nuova diga, formando un bacino quasi circolare di circa tre chilometri di circuito, nel quale ogni tanto ancor precipitano nuovi massi,
che si distaccano dalla cicatrice del Monte Pozzoli, ancora
così fresca e ben visibile che non si direbbe vecchia di 257
anni! La massa franata è tanta che richiede per attraversarla una buona mezz’ora di rapido cammino tra larici ed
abeti secolari, sporgenti fra i macigni accatastati. E’ da notare però che una parte di questo detrito appartiene a depositi morenici preesistenti. Analoga è l’origine del piccolo
e poetico Lago d’Andromia, sotto la vetta del Pizzo d’Albione, pure in Val d’Ossola.” 39.
Alcuni di essi sono ormai estinti40: ne sono testimonianza le torbiere o gli orizzonti carboniosi o metaniferi che caratterizzano gli alpeggi di Veglia o Devero. I
resti fossili quali pollini, semi, foglie certamente legati a deposizioni lacustri di breve durata nel tempo, hanno registrato le caratteristiche dell’ambiente circostante
ed erano reperibili sul greto del fiume Melezzo Orientale in valle Vigezzo41.
Anche l’acqua dei fiumi ha contribuito alla formazione
di numerosi accumuli fluviali in forma conoidale42, poi
con il tempo completamente urbanizzati. Gli insediamenti, posti allo sbocco dei torrenti con la pianura, storicamente risultarono vulnerati dalle piene; le arginature sono chiari esempi di tentativi da parte dell’uomo di
opporsi alle forze della natura. D’altronde i più popo-
lati insediamenti ossolani sono localizzati sulle conoidi,
evitando così il fondovalle frequentemente oggetto di
inondazione, e scartando la possibilità di insediarsi nelle aree montane i cui versanti sono spesso molto acclivi.
“Sulla potenza della coltre alluvionale, senza dubbio notevole anche nelle parti più ristrette della valle, sarà opportuno ricordare che gli schemi stratigrafici che si riferiscono ad una serie di pozzi trivellati in questi ultimi decenni
per la ricerca e la cattura delle acque da utilizzare a scopo industriale, ci hanno fornito dati del massimo interesse:
uno di essi, aperto in territorio di Villadossola in materiale depositato alla confluenza Ovesca-Toce, ha oltrepassato
i duecento metri di profondità senza raggiungere la roccia
di fondovalle.43”
Abbiamo sin qui osservato quale sia il contributo dell’acqua nella morfologia del nostro territorio. Frequentemente tale azione avviene al disotto della superficie
terrestre poiché l’acqua segue un percorso nascosto e
non risolvibile, verso le profondità della terra.
A causa di questa circolazione gli elementi utili si concentrano a costituire risorse minerarie economicamente sfruttabili. Infatti l’Ossola fu in passato luogo primario per le coltivazioni minerarie con l’estrazione di
minerali auriferi ed argentiferi. Di questa consuetudine sono testimonianza i nomi delle compagnie minerarie dai suoni inglesi44 pronti a ricordare epopee estrattive che ebbero luogo al di là dell’Oceano in giacimenti
ben più estesi, in quanto quelli ossolani rappresentarono un laboratorio di prova.
La nostra zona viene compresa nella “provincia Aurifera
delle Alpi Occidentali”45, areale molto esteso che denota un fenomeno imponente che ha interessato le Alpi e
che si è sviluppato indipendentemente dalle formazioni
rocciose che racchiudono i filoni.46
La storia più recente è comunque a sua volta caratterizzata da ritrovamenti che hanno contraddistinto e reso
assai significativo il territorio ossolano per precise e particolari scoperte mineralogiche. In particolare va segnalata la presenza di minerali delle terre rare47 da sempre
ritenuti assai poco frequenti, se non di eccezionale ritrovabilità: alcuni sono presenti in pegmatiti come la
91
Valle Anzasca: la miniera d’oro della Guia.
tanteuxenite, euxenite, tapiolite, aeschynite, vigezzite, fersmite od anche in fessure come monazite, xenotimo, sinchisite, gadolinite, allanite.
Da evidenziare anche specie rare come la roggianite48,
la taramellite e la wenkite, queste ultime contenenti bario, presenti nella Cava di Candoglia fornitrice del marmo utilizzato per la costruzione del Duomo di Milano. Interesse assai considerevole ha assunto la zona del
Monte Cervandone (Valle Antigorio – Formazza) dove
si scoprono con discreta continuità minerali di fessura
ad alto contenuto di arsenico49. Essi hanno nomi come
asbecasite, cafarsite, chernovite, agardite, strashimirite, gasparite, cervandonite, fetiasite, paraniite –
(Y)50. Di tutti i minerali sinora citati alcuni sono nuovi ritrovamenti assoluti, che rendono unica la nostra regione. Minerali di interesse sono stati estratti durante i
lavori di scavo del traforo del Sempione, completando
l’ampia panoramica offerta.
In questa lenta percolazione attraversando zone frattu92
rate, con rocce di varia genesi e composizione, le acque
si arricchiscono in sali minerali e tornano a giorno in
polle sorgive.51
Le acque minerali, rappresentano ab illo tempore una
ricchezza più duratura di quella dei giacimenti auriferi
cui spesso sono geneticamente strettamente correlate52.
La conoscenza delle acque minerali e delle loro proprietà curative risale alla seconda metà dell’Ottocento, periodo in cui maturò la convinzione presso gli industriali che le acque oltre al valore curativo potevano costituire fonte di reddito53. Solo dopo il 1906, anno dell’apertura del Sempione, avvenne un salto qualitativo anche
in questo campo.
Venivano ad esempio utilizzate acque arsenicali presso
le miniere aurifere dei Cani54, sorgenti con caratteristiche idrochimiche differenziate, alcune delle quali presentano una forte acidità ed elevata mineralizzazione,
con presenza d’arsenico, ferro e numerosi altri metalli. Queste acque confluiscono in un unico rio, il Crotto
Rosso, il cui greto è coperto da un deposito ocraceo for-
matosi a seguito della deposizione degli ossidi idrati di
alcuni metalli in soluzione, in particolare ferro.
Il dato più evidente che emerge dalle analisi effettuate
nel marzo 1993 dal Laboratorio Provinciale di Igiene e
Profilassi di Novara è il valore di pH (2,42 unità), che
mette in evidenza una fortissima acidità minerale.
Tale valore determina una forte capacità di mineralizzazione delle acque, a spese delle rocce con le quali vengono in contatto, e determinano la dissoluzione di metalli quali alluminio, ferro, manganese, zinco, che costituiscono la parte più importante dello spettro cationico. Sono da sottolineare le concentrazioni molto elevate raggiunte da questi metalli in soluzione, sino a 700
mg l-1 per il ferro e 140 mg l-1 per l’alluminio che, uniti alla forte acidità dell’acqua, rendono necessaria la sua
somministrazione secondo precise prescrizioni mediche. Sono presenti inoltre molti metalli in concentrazione minore, quali arsenico, piombo, nichel. La conducibilità risulta di 4150 µS cm-1, pressoché interamente dovuta ai solfati, mentre fra i cationi prevalgono ferro
e alluminio, seguiti da calcio e magnesio. Le cause della forte acidificazione e mineralizzazione delle acque è
stata identificata in uno studio55 finalizzato alla valutazione delle possibilità di utilizzo terapeutico dell’acqua,
nell’azione di dissoluzione delle acque sotterranee sulle arsenopiriti presenti nelle rocce, che fanno parte del
complesso dei minerali auriferi estratti dalla miniera. In
particolare la forte acidità è determinata dal processo
di ossidazione dei solfuri, uno dei costituenti principali delle piriti, a solfati.
lia, come acque da tavola e medicinali. Esse sgorgano da
un vivo masso di gneis micaceo, sorgente quasi isolato nel
letto del fiume. Alcuni anni fa non si conosceva che un’unica sorgente; ma per mezzo di scavi praticati sapientemente,
fra gli abbondanti stillicidi che irrorano la roccia e la tingono di chiazze gialle e rugginose, si riuscì ad aumentare
l’efflusso della prima e a trovarne parecchie altre dotate di
diverse proprietà. Le principali sono quattro, coi nomi di
Luigia, Ausonia, S. Lorenzo e Adelaide, le quali distanti
di solo pochi metri l’una dall’altra, contengono tutte quasi gli stessi sali, ma in dosatura assai diversa. Questo fatto, unito a quello di una temperatura fresca (da 5 gradi a
11 gradi C.) farebbe supporre che la mineralizzazione delle sorgenti non avvenga ad una grande distanza dal loro
sbocco, ovvero che durante il loro percorso sotterraneo, sprigionandosi in parte quel gran solvente che è l’acido carbonico (che nelle fonti di Bognanco è straordinariamente abbondante) alcuni sali si depongano qua e là parzialmente,
ed altri totalmente” 56.
Le sorgenti che costituiscono le Terme di Crodo sono
ubicate sul fianco destro dell’alta Valle del Toce, nella
zona di radice dei grandi ricoprimenti alpini. Risultano quattro sorgenti denominate Fonte di Valle d’Oro57,
Cistella58, Lisiel59 e Cesa60. Le prime due sgorgano entro
il Parco delle Terme; la terza all’estremità settentrionale del parco, al piede dell’ampia conoide alluvionale del
Rio Alfenza e la quarta sgorga nei depositi morenici a
grossi blocchi che fasciano il fianco sinistro del Rio Emo.
Iniziò così lo sfruttamento di queste acque che venivano captate ed, opportunamente diluite, imbottigliate
per cure orali e per anemie; inoltre si effettuarono bagni
per cure dermatologiche con ottimi risultati, mentre di
pari passo analisi chimiche effettuate presso centri universitari documentavano le proprietà terapeutiche della
sorgente. Con grande soddisfazione gli amministratori
locali possono finalmente captare l’acqua della sorgente arsenicale e convogliare mediante fanghidotto a valle
per sviluppare un centro di cure termali.
Così pure si racconta che: “Le acque minerali di Bognanco (Val d’Ossola), da parecchi anni fatte conoscere in Ita-
Cristallo di quarzo.
93
Non solo acque minerali in Ossola ma termalismo,
considerato nel suo corretto significato quindi acquae
calidae, che vennero ritrovate anche durante il perforo
della galleria del Sempione e furono di ostacolo alla realizzazione dell’opera. Ne dà notizia il Malladra: “Quest’acqua venne scoperta durante lo scavo del traforo del
Sempione. Attorno alla progressiva 4410 dello scavo, dal
versante italiano, in un tratto lungo solo 170 metri si contarono ben 40 sorgenti di diversa portata, di varia natura, di diseguale temperatura e regime che crearono notevoli problemi rallentando i lavori. Un’ ulteriore difficoltà fu
dovuta al fatto che queste acque erano ad altissima pressione. La prima venuta d’acqua nel tunnel si verificò il giorno 1 settembre 1902 quando lo scavo stava attraversando
un banco di calcare saccaroide. Altre sorgenti furono incontrate ai 9110 m. di avanzamento e avevano una temperatura superiore ai 40° C; ed altre ancora furono intercettate dal fronte d’attacco nord, quello sul versante svizzero e furono tali da dover interrompere l’avanzamento.
Gli scavi seppur con difficoltà si conclusero ma restava da
capire da dove provenisse tutta quest’acqua. Si eseguirono così prove con la fluorescenza, una sostanza che colora
l’acqua e permette di seguirne il percorso. La sostanza fu
messa nel lago d’Avino, nel torrente Diveria e nel Cairasca, dando però esito negativo, non era da questi che l’acqua si infiltrava fino a raggiungere il tunnel. Un’altra ipotesi era che l’acqua penetrasse nel terreno dalle aree che sovrastavano la galleria, una zona quella del lago d’Avino,
della valle Vallè, del Passo delle Possette simile alla regione del Carso con profonde incisioni, imbuti, avvallamenti e depressioni” 61.
Ed ancora ai Bagni di Craveggia62 di cui si dice: “La
sorgente termo-minerale detta dei bagni di Craveggia,
che sgorga da rupi di gneiss fondamentale in Valle Onsernone, e segna un punto di confine fra l’Ossola e il Canton
Ticino. L’efflusso è di 12 litri al minuto, e la sua temperatura si mantiene costantemente a 30° C., benchè a 1000
metri circa sul livello del mare. Era nota sino dal 1406,
sotto il nome di flumen acquae calidae; l’Amoretti la descrisse sul finire del secolo scorso.” 63
Ed ai giorni nostri a Cadarese di Premia è stata rinvenuta una sorgente di acqua calda durante un sondaggio
geotecnico eseguito dall’ENEL nel 1992. E’ la temperatura la caratteristica sorprendente di questa fonte, in94
fatti l’acqua sgorga ad una temperatura che va dai 42,3
Co ai 42,5 Co. L’acqua è stata sottoposta alle analisi previste dalle normative vigenti, in base alle quali è stata riconosciuta batteriologicamente pura con caratteristiche
ipertermali, ricca di sali minerali, solfato calcica. Il comune di Premia per valorizzare questa risorsa naturale sta realizzando un centro termale dove poter sfruttare gli effetti terapeutici di queste acque. Dalle analisi eseguite risulta infatti utilizzabile con metodiche di
balneoterapia e fangoterapia, per la cura di patologie di
pertinenza reumatologica, ortopedica, traumatologica e
dermatologica63.
Sempre l’acqua grande risorsa ossolana è stata oggetto dai primi decenni del Novecento di sfruttamento
per scopi idroelettrici mediante la realizzazione di infrastrutture quali dighe per lo più realizzate su bacini
lacustri preesistenti, in zone di alta montagna. Si tratta di zone di circo glaciale quindi di ampi bacini superiori delle valli che come si è già detto in precedenza vanno restringendosi sempre più verso il basso facendosi via via anguste e dove sono state posate condotte forzate e canali di derivazione. Tutto ciò ha determinato il cambiamento dell’aspetto di molte vallate.
La ricca documentazione fotografica raccolta nel libro
“Girola-un’impresa sulle Alpi”64 descrive più di qualsiasi altra cosa quello che fu il fermento di quegli anni
dell’idroelettrica italiana. Per la società dell’ingegnere
Ettore Conti65, l’impresa Girola e l’arch. Piero Portaluppi costruiscono le centrali di Verampio, Crego, Valdo, Sottofrua, Cadarese e Crevoladossola. Conti e Portaluppi intesero fin dall’inizio questa rete di splendide
centrali elettriche come gioielli che esprimevano luminosamente l’energia in loro accumulata.
Dalla valle Antigorio Formazza lo sfruttamento idroelettrico si è esteso ad altre valli che presentano conformazione morfologica analoga e si possono individuare
dei sistemi idroelettrici omogenei anche in valle Devero, val Bognanco, valle Antrona, val Divedro, Crevola-Domodossola-Pallanzeno-Piedimulera-Ornavasso, valle Anzasca.
Di realizzazione recente sono altri impianti quali quello di Pieve Vergonte con derivazione dall’Anza a Battiggio e centrale in caverna a Fomarco di Pieve Vergonte,
Alta Valle Formazza: i laghi Kastel e Toggia.
e quello di Varzo con presa sul Diveria a Paglino e centrale in caverna a Varzo.
Negli anni 90 venne anche presa in considerazione
l’ipotesi di costruire nel comune di Premia, in località Piedilago un impianto per la produzione di energia
idroelettrica del tipo ad accumulazione mediante pompaggio a ciclo giornaliero. Il progetto prevedeva la presenza di due serbatoi, quello superiore esistente (bacino
di Agaro), mentre quello di valle un bacino artificiale
ricavato mediante scavi ed arginature realizzate in sinistra orografica del fiume Toce, nella Piana di Pissaro. La
particolarità di questo impianto sarebbe stata la possibilità di accumulare energia (costituita da volumi d’acqua
trasferiti dal serbatoio inferiore a quello superiore) nelle
ore di minore richiesta, in genere quelle notturne e festive, per restituirla nei momenti di maggiore domanda
elettrica. Purtroppo sembra che non verrà realizzato per
mancanza di fondi.
Sempre relativamente allo sfruttamento dell’acqua
come forza motrice in Ossola esisteva una rete di opifici66 e strutture produttive “andanti ad acqua” come mulini, molinetti67, segherie68, ferriere.
L’uso dell’energia idraulica per mettere in moto “ruote
ad acqua” che potevano azionare macine, magli ed altri
meccanismi semplici destinati alla trasformazione e lavorazione dei prodotti, risale ad epoche molto antiche,
ma la effettiva diffusione di tali strutture si fa risalire al
periodo medievale.
95
ticale in grado di trasmettere il moto alle macine di pietra poste superiormente.
La presenza dell’acqua è stata determinante per lo sviluppo degli insediamenti umani infatti oltre a essere
fondamentale per l’approvvigionamento idrico, la vicinanza di corsi d’acqua poteva avere funzioni difensive
e favorire lo sviluppo delle comunicazioni e dei commerci. D’altro canto, alluvioni e scoscendimenti parteciparono a rimodellare nel corso dei secoli la mappatura degli insediamenti, trasformando il paesaggio e costringendo l’uomo a escogitare tecniche per proteggere
le abitazioni e le zone coltivate.
Valle Antigorio, località Maiesso: le erosioni del fiume Toce.
Il mulino ad acqua69, è stato per lunghissimo arco di
tempo, una struttura di vitale importanza per la popolazione; di piccole dimensioni, posto in vicinanza di
fiumi, rii e torrenti, di cui captava le acque mediante canalizzazione scavata direttamente in roccia o in legno, macinava70 segale, castagne71, e assicurando le risorse alimentari alle popolazioni che ne usufruivano.
Si possono distinguere due tipi fondamentali di mulini, a seconda della posizione della ruota idraulica che li
azionava; il mulino orizzontale, con ruota motrice orizzontale, adatta a sfruttare portate d’acqua limitate, proprie dei regimi idraulici torrentizi, e il mulino “verticale”, con ruota motrice verticale mossa dalla caduta dell’acqua, presente sui corsi d’acqua a portata costante e
copiosa. Nelle valli ossolane, visto il regime torrentizio
dei diversi corsi d’acqua, si è sempre preferito il mulino
con ruota orizzontale formata da 14-16 pale a cucchiaio
realizzate in legno di quercia e saldate ad un albero ver-
96
Anticamente le tecniche d’approvvigionamento idrico erano concentrate in pochi punti e l’accesso all’acqua potabile era assicurato da pozzi a carrucola e da cisterne d’acqua piovana soprattutto in zone di montagna lontane da corsi d’acqua72. Quando la gestione dell’acqua divenne un compito dei comuni essi si dotarono di condotte che rifornivano fontane e lavatoi pubblici e privati.
Sistemi di approvvigionamento idrico moderni furono
realizzati nei centri maggiori nella seconda metà del
XIX secolo e con qualche ritardo sorsero anche canalizzazioni per lo smaltimento delle acque di scarico spesso realizzate in pietra ollare chiamata anche localmente con il termine di laughera73 o laveggio ed attualmente utilizzata per realizzare piastre per riscaldare e cuocere le vivande. La nostra pietra era molto conosciuta: “In
Piemonte nella val d’Ossola a Vagna (e in val Bognanco) si ha una serpentina detta ollare di colore variabile dal
plumbeo al verde cupo, è facilmente lavorabile al tornio
e suscettibile di lastratura: se ne fanno tubi per fumo, per
cessi e per condutture d’acqua, come le condutture di Pallanza, Acqui e S. Remo. A tali usi serve pure la serpentina d’Oira (Nonio) sul lago d’Orta, detta impropriamente
marmo d’Oira. I tubi di serpentina di Vagna possono avere lunghezza di m. 1.20, con diametro interno da 0.035 a
0.28, e collo spessore delle pareti da 0.015 a 0.03. La varietà d’Oira è alquanto inferiore a quella di Vagna perchè
trovandosi intersecata da numerose vene di quarzo è ottenibile solo in pezzi di limitate dimensioni.” 74
Le canalizzazioni a cielo aperto non sono così diffuse
nel nostro territorio come nel vicino cantone Vallese
povero di precipitazioni dove si svilupparono fin almeno dal Medioevo complessi sistemi d’irrigazione chiamati “bisses” in francese, “suonen” in tedesco.
Le “bisses” vallesane sono documentate fin dall’XI secolo, altri sistemi d’irrigazione medievali sono stati scoperti nei Grigioni e in Ticino. Nelle regioni più ricche
di precipitazioni, i sistemi d’irrigazione servivano invece a fertilizzare prati e campi di grano.
Le precipitazioni in Ossola sono invece complessivamente abbondanti, se confrontate con i valori medi nazionali, perché i suoi monti, ed in particolare quelli che
segnano la linea spartiacque con il Canton Ticino ed il
Verbano, costituiscono, insieme ai rilievi della val Strona e del bacino del Lago d’Orta, i primi ostacoli che
le masse d’aria umide provenienti dal Mediterraneo incontrano, dopo aver attraversato la Pianura Padana, riscaldandosi e raccogliendo inquinanti atmosferici.
L’incontro con il rilievo alpino, non mitigato dalla presenza delle prealpi, determina un innalzamento e raffreddamento delle masse d’aria, con conseguenti precipitazioni, di intensità variabile a seconda della perturbazione a determinare spesso piogge intense e prolungate.
Questi fenomeni si verificano durante i massimi primaverile ed autunnale; le precipitazioni di massima intensità e breve durata possono essere sia episodi isolati di carattere temporalesco, sia momenti di particolare intensità durante eventi piovosi di durata prolungata. In questo caso possono essere particolarmente pericolosi perché possono provocare la saturazione di terreni aventi un già alto contenuto d’acqua con decremento
delle caratteristiche di resistenza e creazione di fenomeni di dissesto, numerosi in passato75 e purtroppo sempre più frequenti come nel mese di ottobre 2000 che
hanno colpito la rete idrografica sia principale che minore, manifestando importanti portate di piena dei tributati principali (T. Diveria, T. Bogna, T. Ovesca, T.
Anza,) e inducendo un incremento significativo del livello del Fiume Toce. Contemporaneamente si sono
verificati una serie di fenomeni di carattere torrentizio
lungo le linee di impluvio secondarie, i quali hanno determinato sia la riattivazione delle attività erosive che
fenomeni di trasporti in massa in alveo; lo sviluppo di
tali attività ha indotto dapprima la parziale occlusione
di diverse tombinature delle sedi viarie vallive e, successivamente, l’invasione di alcuni tratti di arteria viaria da
parte di materiali solidi e portate liquide.
Nel contempo, l’incremento di deflusso nei collettori
principali, favorito anche dallo scioglimento delle nevi
in quota, ha innescato i fenomeni di dissesto che hanno interessato le sponde sia naturali che artificiali, determinando erosioni di sponda diffuse con inondazione
ad alta e bassa energia. Tali fenomeni sono stati favoriti
sia dal trasporto in massa che, soprattutto, dalla presenza in alveo di abbondate materiale alluvionale e flottante di natura vegetale.
Sempre nell’ottobre 2000 si sono verificati gravi danni
alle infrastrutture viarie, con cedimenti delle carreggiate, asportazione delle porzioni più a rischio (tornanti),
scalzamenti al piede, sifonamenti del sottofondo con
cedimenti del manto bituminoso.
L’azione combinata tra le precipitazioni meteoriche,
i fenomeni di ruscellamento diffuso ed incanalato, la
saturazione dei corpi detritici ha infine innescato una
serie di fenomeni gravitativi delle coperture, i quali si
sono materializzati con scivolamenti e di colata.
Note tecniche
3 Le beole petrograficamente vengono chiamate ortogneiss della falda Monte Rosa che ha la sua zona di
radice nella piana ossolana. I litotipi sono localizzabili a Beura, Cardezza, Villadossola, Pallanzeno, alta valle
Antrona. Le cave sono situate nel nucleo della larga antiforme della zona Monte Rosa, che ha un piano assiale
subverticale con direzione E-W. Tale zona ha subito una
notevolissima deformazione che ha formato rocce con
tessitura scistosa planare e fortissima lineazione, dove i
componenti chiari formano matite lunghe una spanna
con diametro di uno o due centimetri. A Ceppo Morelli si coltivano invece ortogneiss grossolani ghiandoni (Serizzo Monte Rosa) che hanno conservato quasi perfettamente l’aspetto dell’originario granito a grana grossa. Le colorazioni sono variabili a seconda. del97
la grana della roccia e del contenuto in miche, si passa dalle beole grigie alla cosidetta pietra argentea con
molta muscovite. I materiali coltivati nelle vicinanze del
Monte Calvario ed in valle Vigezzo sono ortogneiss tabulari il cui granito originario era a grana fine, si tratta di orizzonti verticalizzati aventi caratteristiche simili
a quelli delle beole ma con minori caratteristiche estetiche. Analoghi alle beole sono gli gneiss del Monte Leone, macroscopicamente sono molto simili alle beole più
muscovitiche (beola Isorno e Favalle).
La quarzite di Vogogna: si tratta di una quarzite permocarbonifera quindi non è una vera quarzite di derivazione sedimentaria (derivante da arenaria molto
quarzosa metamorfosata) come quella cavata a Barge
Sanfront (“bargioline”). Ma si tratta di ortogneiss laminati molto fissili, tipo beola, con colorazione verdina
data dalla fengite, mentre le varietà più grigie contengono muscovite. Chiamata degli “scisti di Fobello e Rimella” ha infatti subito un elevata deformazione essendo al contatto con la linea Insubrica.
4 I serizzi petrograficamente sono noti come ortogneiss della falda d’Antigorio che affiora con grande
estensione in valle Antigorio Formazza ed in valle Divedro. Essa è rovesciata verso verso Nord Ovest con un
fronte arrotondato avente spessore massimo di 1 Km e
nella zona di radice (a meridione) si assottiglia. Le buone condizioni di affioramento sono legate al fatto che le
valli tagliano la falda. La roccia è di tipo gneissico con
scistosità non tanto efficace da impedirne l’uso come i
materiali granitoidi cioè con taglio e successiva lucidatura. “Serizzo” è un termine tecnico per indicare litotipi che provengono da zone settentrionali della val d’Ossola. A seconda di dove è posizionata la cava all’interno della falda si estraggono litotipi diversi: quelli meridionali presentano una foliazione più fitta. I litotipi
tipo beola sono nella zona di radice oppure vicino al
margine della falda a contatto con le falde sottostanti o
sovrastanti. I materiali estratti provengono: da Crodo
(Serizzo Antigorio), ortogneiss a grana media con tessitura occhiadina, talora porfirica, ricco di biotite viene anche detto serizzo scuro; da Varzo e dintorni, in
val Divedro (Serizzo Sempione o “Granito” di Varzo).
Si possono considerare due varietà una a fondo bian98
co con sottili e brevi livelletti di biotite, localmente anche solo aggregati puntiformi, detta grigio chiaro; l’altra con più abbondante e diffusa biotite che scurisce la
roccia, è detta grigio scuro sono coltivati come beole.
Dalla val Formazza (Serizzo Formazza), gneiss granitoide a grana fine con scistosità rada e poco marcata
biotite presente in debole quantità, roccia a fondo bianco con leggera macchiettatura nera. Viene chiamato anche serizzo bianco, si tratta di un bell’ortogneiss biotitico, a tessitura generalmente occhiadina uniforme, più
scuro delle beole tipiche.
6 Il marmo rosa di Candoglia viene tuttora utilizzato
per il restauro del Duomo di Milano. Nella zona di Candoglia è presente il banco di calcare cristallino disposto
verticalmente nelle rocce gneissiche che limitano a Sud
la formazione diorito-kinzigitica. La colorazione rosata
del marmo è imputabile alla presenza di ossido di ferro diffuso nella roccia. Purtroppo una notevole percentuale del marmo non può essere utilizzata per la presenza di solfuri di ferro, diffusi in piccoli noduli o in sciami
di minutissime inclusioni; queste inclusioni alla superficie delle lastre in opera negli esterni, a contatto con le
acque meteoriche, danno un colore rugginoso con grave deturpazione cromatica.
Il marmo di Ornavasso o marmo grigio Boden. E’ situato sul versante destro idrografico della val d’Ossola,
nei pressi di Ornavasso, di fronte a Candoglia e rappresenta la prosecuzione delle grandi lenti di calcare cristallino.
Il marmo di Crevola. Si tratta di marmi dolomitici facenti parte di un intercalazione metamorfica mesozoica
della falda Lebendun posta tra la falda Antigorio (inf.)
e la falda Monte Leone superiormente dolomie cristalline saccaroidi viene estratta a Crevola in val d’Ossola
e commerciata con il nome di “marmo di Crevola”. La
roccia è di colore fondamentalmente bianco grigiastro
contiene diffusi letti di mica flogopite di colore marrone violaceo, e viene cavata in due tipi fondamentali
a fondo grigio ed a fondo bianco; in ambedue i tipi la
presenza della mica flogopite variamente distribuita viene a creare un interessante effetto cromatico d’assieme.
La dolomia di Crevola d’Ossola, in confronto ai calcari saccaroidi, presenta una maggiore resistenza all’azio-
ne chimica degli agenti atmosferici oggi particolarmente aggressivi nelle grandi città industriali. In dolomia di
Crevola è stato realizzato il rivestimento dell’Arco della Pace a Milano.
7 Il granito di Baveno affiora con un complesso roccioso largo circa tre chilometri, sviluppato in direzione
NE-S0 per circa 10 km sulla riva piemontese del Lago
Maggiore. La massa granitica è compresa tra gli gneiss
e gli scisti della cosidetta “serie dei Laghi” a Nord, si
trova circoscritta dalle alluvioni quaternarie dei fiumi
Toce e Strona. Il granito di Baveno si presenta in due
colorazioni diverse: rosa e bianco. La roccia granitica di Baveno ha una granulazione media ed uniforme,
ed è caratterizzata da una elevata compattezza, in alcune zone l’omogeneità della roccia è interrotta dalla presenza di geodi che raggiungono anche parecchi decimetri di diametro, ricoperte di eleganti e ricche cristallizzazioni di varia natura. Nella massa granitica sono presenti anche concentrazioni di minerali di ferro e magne-
sio, vene allungate di granito a struttura grossolana con
grandi lamine di mica biotite, “catene” che terminano
assottigliandosi nella massa del granito. Il granito di
Montorfano di colore nettamente bianco punteggiato
di nero per la presenza della mica biotite. L’omogeneità
della roccia è rotta dalla presenza di zone ricche di quarzo o di feldspato; si trovano numerose inclusioni di piccoli frammenti di rocce metamorfiche scistoso-cristalline che conservano ancora i loro caratteri originari.
Il granito verde di Mergozzo appartiene alle rocce dioritiche, affiora sulle pendici nord-occidentali del Montorfano. E’utilizzato per scopi decorativi; le macchioline verdi diffuse sono dovute a clorite; i granuletti violacei, meno frequenti, sono costituiti da quarzo. Il “granito” nero di Anzola, è classificato come granulite metamorfica di colore nerastro; veniva cavato presso Anzola ed apprezzato per le notevoli qualità tecniche ed estetiche tuttavia la presenza di inclusioni diffuse di solfuri
portavano alla formazione di ossidi di ferro che in forma di macchie gialle deturpavano le superfici lucidate.
Lo scoglio granitico del Montorfano arrotondato dai ghiacciai.
99
Note
con il metamorfismo durante la formazione delle Alpi
“La tessitura gneissica (da un nome in uso presso i minatori di Freiberg,
(gneiss o gneuss denominavano colà i minatori la roccia incassante
di vene argentifere. Questo vocabolo si pronuncia gnaiss, non nieis),
è dovuta, come la scistosa, ad una sorta di stratificazione, di orientazione comune degli elementi.” vedi Gneiss di Beura nell’Ossola”. ISSEL A. Compendio di Geologia, 1896, parte prima p.336
3
vedi nota tecnica
4
vedi nota tecnica
5
appartenenti a pieghe a grande scala, influenti sulla morfologia di
intere vallate,
6
vedi nota tecnica
7
vedi nota tecnica
8
Nelle catene di tipo alpino, durante le formazioni plastiche connesse all’orogenesi, si formano delle grandi pieghe coricate. Le continue deformazioni tendono sempre più ad assottigliare la piega, che
viene man mano sradicata dal suo luogo di formazione e spinta in
avanti. Si ha così una falda di ricoprimento, unità tettonica che è alla
base della struttura delle Alpi.
9
ben visibile la piega ripiegata esposta nella parete orientale del
Monte Leone
10
proprio in Ossola gli studiosi verificarono la corretta interpretazione della teoria geologica sulla formazione delle Alpi trovando,
durante la realizzazione del traforo del Sempione, conferme e smentite alle ipotesi fatte. Il percorso denominato “geotraversa del Verbano-Ossola-Formazza” rappresenta un’escursione classica per le Università italiane ed estere. In particolare si effettuano degli stop a Fondotoce Montorfano, Albo di Mergozzo, Nibbio, Loro, Villadossola,
Pontemaglio-Oira, Verampio Centrale Bovera, Baceno, Premia
11
in molti casi ben accessibili dal versante a franapoggio e quasi
inaccessibili da quello a reggipoggio. Di ciò si hanno mirabili esempi nel piano del Teggiolo o alla Pioda di Crana, esempio di lembo di
sovrascorrimento isolato.
12
a Verampio è visibile la finestra tettonica dove affiorano strati del
basamento roccioso antico, precedente alle Alpi, messo alla luce dall’erosione glaciale del Toce e del Devero
13
tra Pian Buscagna-Devero, Crampiolo-Devero, Devero-Goglio,
Croveo-Baceno, Baceno-Verampio o meno evidenti in altri punti
quali Goglio-Croveo, Codelago-Crampiolo
14
tra Lago Sabbione-Piano Camosci, Bettelmat-Riale, val ToggiaRiale, Frua-Sotto Frua, Fondovalle-Foppiano, Uriezzo-Verampio,
Pontemaglio-Oira.
15
dal “BELPAESE” Serata VII di A. Stoppani 1914
16
Mozzio, Viceno, Cravegna, Bannio e Anzino, Trontano, Cardezza, Montecrestese, Cimamulera.
17
Agua, Coipo, Pescia, Colmine di Crevola
18
Agaro, Alba, val Bianca, val Quarazza, Mondelli, Dagliano
19
Antillone, San Rocco, Sasso di Premia
20
mirabile esempio è rappresentato dalla forra di Balmafredda, raggiungibile dalla frazione Centro di Premia, seguendo la strada che
scende in circa dieci minuti in un’ampia conca prativa, per poi addentrarsi tra due pareti rocciose di mirabile effetto. E’ legata ai piani di frattura orientati NE-SW.
1
2
100
Diveria, Silogno, Antolina, Arvera, Balmasurda, Pontepertus,
Morghen
22
dove le strettoie corripondono a soglie rocciose tra un bacino e
l’altro incise dai torrenti.
23
Oira, Croveo, Majesso (questo sito si presenta variegato a causa
dei fenomeni erosivi determinati dalla formazione di rapide, vortici ad asse sub-verticale che hanno trascinato ciottoli e sabbia. Inoltre la roccia crea effetti cromatici per la presenza di ferro che si è ossidato. L’area si sviluppa a più livelli determinando un palcoscenico di rara bellezza); rio Cianciavero; caratteristiche sono quelle nelle
rocce verdi all’alpe Campo o del torrente Quarazza.
24
Calcari e dolomie metamorfiche
25
Monte Teggiolo, lago Kastel
26
Pojala, Candoglia
27
Non si tratta sempre di fenomeni carsici in senso stretto cioè di
dissoluzioni in rocce carbonatiche ma anche di fratture in rocce silicee. Nel “Censimento dei Biotopi della Provincia del Verbano Cusio Ossola” (1999) effettuato da Cattin M. e altri, vengono segnalate numerose località.
28
la speleologia in val d’Ossola ha avuto sviluppo grazie a Pietro Silvestri studioso locale che ha valorizzato l’area del lago Kastel in alta
valle Formazza. Attualmente il Gruppo Grotte Novara (www.gruppogrottenovara.it) e il Gruppo Speleologico Biellese sono impegnati in campagne di rilevamento.
29
morene mediane, laterali: Belvedere, Gries, Hosand, Monte Leone
30
Issel A. ,1896, Compendio di geologia, parte prima p.186
31
Aldo G. Roggiani, “Sull’origine delle Alpi, quindi dell’Ossola” in
Terra d’Ossola Edizione Lions Club 1984
32
Cresta di Premia esempio evidentissimo di morena mediana.
33
massi isolati di dimensioni ciclopiche
34
esse sono conseguenza del ritiro delle masse glaciali che hanno liberato dal loro peso ammassi rocciosi già evidentemente fratturati
ed hanno le stesse caratteristiche petrografiche della roccia in posto.
35
Croveo, Ceppo Morelli, Cagiogno di Premia.
36
A. Malladra, 1894, Scene e paesaggi dell’Ossola antichissima,
pag.45, Milano
37
“Nel ramo ormai molto più breve di nord-est, l’interrimento prodotto dalle alluvioni riesce, per così dire, ancor più manifesto, colla
netta separazione del Lago di Mergozzo, tagliato fuori dal grosso del
Lago Maggiore per opera del Toce. Questo tranquillo laghetto, incorniciato fra le rudi pareti del Montorfano ed i morbidi pendii del
Faie`, apparteneva ancora al gran lago al tempo di Polibio, che visse nel II secolo a.C., e forse gli appartenne ancora per molti secoli
dopo. Infatti, il Macagno nella sua corografia, pubblicata nel 1490,
lo designa semplicemente col nome di Sinus Mergotianus. E’ anzi
opinione di alcuni che il Lago Maggiore, anche in tempi storici, si
inoltrasse sino ad Ornavasso; avanzo di questa passata grandezza del
lago sarebbe il Lancone, fra Ornavasso e Gravellona, anticamente assai più sviluppato. (Vedi De Vit, Il Lago Maggiore, ecc., Vol. I,
pag. 23 e segg.; Prato, tip. Alberghetti, 1875)” in Stoppani A.,19001903-1904, Corso di Geologia terza edizione con note aggiunte a
cura di A. Malladra (tre volumi) , Milano, vol.I p 217
38
In età postglaciale, come al di sopra del gradino glaciale di Fondo21
valle, chiamato delle “Casse”, come conseguenza di una frana caduta, da una cima sovrastante, in epoca postglaciale.
39
Stoppani A.,1900-1903-1904,(op. cit.) p.161.
40
Gli specchi lacustri sono stati i primi ad essere liberati dai ghiacci ed i fenomeni di interrimento hanno avuto tempo sufficiente per
trasformarsi in palude e poi prato.
41
Durante le ultime glaciazioni, masse moreniche presenti ad Est
di Re costituirono un importante sbarramento cosicchè si formò
un bacino lacustre in cui si deposero rilevanti quantità di sedimenti limosi in strati di colore chiaro (nel periodo estivo) e scuro (nel
periodo invernale) per la presenza di sostanza organica. Successivamente lo sbarramento morenico fu demolito dalle acque del torrente Melezzo con conseguente vistoso rimaneggiamento e terrazzamento dei retrostanti depositi lacustri, ovviamente questo fenomeno morfologico si è verificato in più cicli con fasi analoghe di deposizione e demolizione con tale regolarità da permetterne una datazione relativa.
42
Alfenza, Anza, Anzuno, Bogna, Ogliana, Diveria, Ovesca, Isorno, Melezzo.
43
A.G. Roggiani, 1984 op.cit.
44
The Pestarena Gold Mining Co. Limited, Antrona Gold Mining
Co. Limited, Anglo Italian Co. Limited
45
Giacimenti primari ma anche secondari (nelle alluvioni dei corsi
d’acqua) chiamati “placers”.
46
Le località ossolane segnalate sono le seguenti: Crodo (Alfenza,
Faella), Gondo (Svizzera), valle Antrona (Mottone, Mee), val Bianca (Cani-Agarè), Pestarena-Lavanchetto, val Quarazza (Quarazzola, Col Badile), Vogogna, Val Toppa, Vallaccia, val Segnara, Monte Capezzone
47
Gli elementi delle terre rare sono poco conosciuti dall’uomo comune e per molti decenni hanno costituito un grosso problema per
i chimici. Il loro nome deriva dal fatto che erano ritenuti un tempo particolarmente rari. Essi sono utilizzati per diversi scopi: il lantanio nella costruzione di speciali obiettivi fotografici, il samario
per la costruzione di magneti permanenti, l’europio ed il samario
come costituenti essenziali del materiale luminescente dei tubi catodici per televisori a colori, il neodimio è usato per vetri di bel colore violetto, il gadolinio in alcune imitazioni del diamante. Alcuni
di tali minerali sono esclusivi dell’Ossola (nelle Alpi): ossidi (cerianite, tanteuxenite, fersmite, vigezzite, cervandonite, pirocloro-Ce),
fosfati (monazite-Nd) arseniati (gasparite, chernovite), silicati (cascandite, jervisite).
48
La roggianite deve essere classificata come zeolite, essa è l’unica
che presenta berillio come costituente fondamentale, inoltre presenta altre caratteristiche che la rendono molto singolare. La prima determinazione è stata fatta da Passaglia (1969) che l’ha descritta come
allumosilicato di calcio idrato usando i metodi analitici disponibili a quel tempo: gravimetrico, spettrofotometrico ad emissione, volumetrico complessimetrico e colorimetrico. Nel 1985 venne fatto
un riesame cristallochimico completo usando tecniche più moderne: microsonda elettronica, spettrofotometro ad assorbimento atomico, TG, diffrattometro a raggi X. L’esatta determinazione si è resa
necessaria poiché Voloshini et alii (1985) proposero la ginzburgite
come nuovo minerale avente caratteristiche simili alla roggianite.
Viene sottolineata la primaria importanza della zona del Cervandone, nella quale sono stati rinvenuti numerosi minerali in prevalenza arseniati come cafarsite, asbecasite, chernovite, clorotilo-mixite, gasparite. La loro genesi è conseguente a processi di rimozione di un antico (Ercinico) deposito minerario di Cu-As che
durante il metamorfismo alpino è stato rimobilizzato da soluzioni
idrotermali. Tale ipotesi è stata sostenuta dal Prof. Stefan Graeser
in contrasto con le teorie precedenti che avevano utilizzato in precedenza per spiegare la presenza di solfosali (solfoarseniuiri di Pb, Cu,
Ag) nelle rocce dolomitiche più a Nord (Lengenbach, Binntal). Ciò
è confermato dalla presenza della sorgente arsenifera dell’Alpe Veglia che rappresenta un trasporto di arsenico attraverso gli gneiss che
continua ai giorni nostri.
50
minerale scoperto recentemente avente formula chimica Ca2
Y(AsO4)(WO4)2 la cui caratterizzazione è stata effettuata presso
l’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Chimica Strutturistica. Si tratta di un minerale di colore giallastro di 2 mm ritrovato sul versante Est del Monte Cervandone
51
favorite ancora da presenza di fratture nelle rocce o dalla differente permeabilità tra le rocce e la copertura detritica.
52
per Crodo vedi A. Del Boca, (1993) “L’oro della valle Antigorio.
Le acque minerali di Crodo fra realtà e leggenda” Edizioni Centro
Studi “Piero Ginocchi” Crodo.
53
vedi Chiaramonte U., 1985, “Industrializzazione e movimento
operaio in val d’Ossola”, Franco Angeli Editore
54
in Comune di Vanzone con San Carlo in valle Anzasca
55
Quaranta E. & R. Mosello. 1995. Le acque arsenicali-ferruginose
di Vanzone (val Anzasca, Novara). Studi recenti finalizzati all’utilizzo terapeutico. Oscellana, 25: 230-237.
56
Stoppani A.,1900-1903-1904, (op. cit.) pp. 407-409
57
La forte mineralizzazione, che risulta sensibilmente più elevata di
quella delle altre tre sorgenti vicine (Lisiel, Cesa, Cistella), è determinata prevalentemente dai solfati fra gli anioni e da calcio e magnesio fra i cationi.
58
Le sperimentazioni cliniche e farmacologiche indicano che le
acque della sorgente Cistella come già indicato per la Fonte Valle d’Oro sono indicate particolarmente nelle dispepsie e nelle enterocoliti.
59
Le acque della sorgente Lisiel sono particolarmente indicate nelle
manifestazioni cliniche consensuali a ipocinesi e a ipocrinia gastrica
ed in generale nelle dispepsie funzionali gastroduodenali. Quest’acqua è particolarmente indicata per le diete povere di sodio, può avere effetti diuretici, favorire l’eliminazione dell’acido urico e stimola
la funzionalità gastrica facilitando la digestione.
60
Le acque della sorgente Cesa sono indicate nel trattamento delle
malattie del rene e delle vie urinarie, delle dispepsie gastroduodenali e intestinali e delle colecistopatie.
61
Alessandro Malladra, 1902, “L’acqua del Traforo del Sempione”,
Milano Tipografia Cogliati; 1905 “Il Traforo del Sempione”, Milano Tipografia Cogliati
62
Negri B., Roveri M. e R. Mosello, 1989. “Le acque termali ossolane 2. I bagni di Craveggia”, Oscellana, 19: 225 - 243.
63
Stoppani A.,1900-1903-1904, (op. cit.) pp.402-403
64
M. Jakob, U. Stahel, “Girola-un’impresa sulle Alpi” con foto di A.
49
101
Paletti Fotomuseum Winterthur Scheidegger & Spiess 1998
65
fondatore nel 1901 della Società per Imprese Elettriche Conti e C.
66
La Roggia dei Borghesi di Domodossola, ha origini antichissime
ed è certamente anteriore alla costruzione delle mura del 1300 e del
relativo fossato il quale era peraltro privo d’acqua. Già negli statuti
del 1425 alcune prescrizioni riguardano la roggia che doveva essere
protetta con graticci e non doveva essere inquinata nelle ore diurne.
Analoghe prescrizioni sono contenuti nei Bandi politici della città
di Domodossola del 1830. Lungo il suo percorso erano attivi numerosi mulini. Cfr. Bologna P., F. Ferraris, 1985, “D…come Domodossola”. Ed. Eco Risveglio
67
“Nel gruppo del M. Rosa la maniera di giacimento dell’oro (in piriti) non permette il trattamento idraulico; si usano invece dei molini speciali costituiti da due macine sovrapposte e chiuse in una cassa
cilindrica. La macina inferiore è fissa e lascia passare a sfregamento
dolce un asse che porta da una parte la macina superiore e dall’altra
una ruota idraulica orizzontale. Fra le due macine si pone il minerale già rotto in pezzi insieme ad un po’ di Hg col quale poi si amalgama l’oro separato dalla polverizzazione. Quest’amalgama si separa dalle goccioline liquide che ancor rimangono premendo il tutto in una pelle di camoscio. Una distillazione separa poi il Hg dall’amalgama dall’oro. All’esposizione di Milano quest’industria figurava degnamente dimostrando di essere in fiore. Se le piriti contengono Sb od As allora l’estrazione dell’oro diventa complessa e sovente non economica, perchè possono formarsi composti di Au che
sono volatili” Jonghi & Landriani, Nozioni di Mineralogia descrittiva in Sunti di Geologia e Mineralogia p.6
68
Interessante è la segheria idraulica di Salecchio Superiore: si tratta
di un edificio in legname e pietrame utilizzato come segheria a forza
motrice idraulica trasmessa dalla rotazione della ruota esterna ad un
sistema di trasmissione interamente in legno alla sega. L’edificio è in
ottime condizioni di manutenzione ed il piano superiore è occupato
dalla segheria con la slitta di avanzamento dei tronchi mentre il piano inferiore è occupato dal sistema di trasmissione della forza dall’albero collegato alla ruota al movimento della sega.
Anche a Osso di Croveo è da vedere un edificio in legname e pietrame utilizzato come segheria e falegnameria fino al 1988. Un canale
conduceva l’acqua a mezzo di un tombino. L’acqua faceva girare le
pale collegate ad un albero presente al pian terreno della costruzione. Attraverso due cinghie il movimento dell’albero viene trasmesso
ad un altro albero motore e poi ad una biella che muove la sega verticale. La velocità del processo poteva essere regolata da grosse leve.
102
Il legname che giungeva veniva portato all’interno dell’edificio attraverso un sistema di pulegge.
69
Castiglione “Ul mulin dul Gabriel” in “Il Rosa” n.2, 1999 di
Sonzogni M.
70
La macinazione si effettuava due volte l’anno in concomitanza
con le precipitazioni primaverili ed autunnali, in cui era presente
sufficiente acqua per mettere in moto le pale. Interessante a Salecchio Inferiore un vecchio edificio che come altri 4-5 nelle vicinanze
servivano per la macinatura della farina.
71
La macinazione delle castagne produceva farina per polenta
72
Interessanti opere di captazione che andrebbero recuperate negli
alpeggi della Colmine di Crevoladossola
73
Termine dialettale ossolano per intendere una roccia al confine di
ammassi di serpentinoscisti e serpentiniti, con composizione talcosa
e cloritica facilmente lavorabile al tornio ed alla lama di acciaio presente in valle Antrona (Montescheno) in valle Vigezzo, val Bognanco, Isorno. Questo litotipo attualmente estratto da blocchi isolati in
valle Isorno viene lavorato per ricavarne pentolame, recipienti rustici, lavelli, vasi ornamentali, piastre per cottura di vivande. In passato veniva utilizzato per tubature e come elemento architettonico.
La serpentina di Cisore: si tratta di una potente massa serpentinosa,
caratteristica per struttura e composizione (olivina, enstatite, talco,
serpentino), detta di Cisore e posta all’imbocco della valle Bognanco, ebbe una certa notorietà nella seconda metà dello scorso secolo
ed al principio del presente.
Compatta, scagliosa, bruno-violaceo-nerastra, tenera, ma tenace e
con aspetto grasso ed untuoso, venne sottoposta a lavorazione e,
mediante seghe e torni azionati da forza idraulica, se ne ottennero tubi di ogni calibro e per i più disparati usi. Precedentemente la
serpentina di Cisore era stata largamente usata per ricavarne mensole, stufe e camini nelle case, statuette ed opere d’arte e colonne,
capitelli e rivestimenti di facciate come in quella dell’antica chiesa
dei Minori Conventuali di San Francesco in Domodossola sui cui
muri perimetrali venne innalzato il Palazzo di San Francesco. Facciata tuttora mirabile per l’elegante assieme della dolomia di Crevoladossola bianco-paglierina alternata a corsi della serpentina verde scura di Cisore.
74
Jonghi C., Landriani C. 1887-1888- Sunti di Geologia e Mineralogia R. Scuola d’applicazione per gli ingegneri Torino Litografia G. Baccelli
75
Si veda Bertamini T. 1975, Storia delle alluvioni nell’Ossola. Rivista “Oscellana”
Acque termali e acque minerali
Pier Antonio Ragozza
Se l’acqua è sempre stata per l’Ossola una fortuna ed un
castigo1, certamente una buona parte della sua fortuna
è quella legata all’esistenza sul suo territorio di fonti di
acque minerali e di acque minerali termali.
Sono chiamate acque minerali quelle acque sorgive che
contengono sciolte diverse sostanze e, fra di esse, una o
più in quantità tali da conferire al liquido uno spiccato
sapore e delle proprietà terapeutiche.
Con la dizione di acque termali, si intendono invece
quelle acque minerali che sgorgano alla superficie ad
una temperatura superiore a quella dell’ambiente.
Fra le acque minerali più note vi sono quelle di Crodo e di Bognanco, ma pure in passato le sorgenti della
miniera dei Cani di Vanzone e di Veglia, a cui se ne aggiungono altre minori sfruttate per la produzione e la
commercializzazione di acque da tavola imbottigliate.
Due invece le fonti termali più conosciute, la prima dei
Bagni di Craveggia e utilizzata da antica data, la seconda della Longia di Premia, scoperta nel 1992.
Per quanto riguarda le diverse acque minerali ossolane, alcune di esse sono assurte a notorietà sia per il loro
sfruttamento a fini terapeutici e conseguentemente
dando avvio ad una connessa industria turistica, sia per
il loro utilizzo come acque da tavola e dunque imbottigliate e commercializzate in ambito anche nazionale.
La prima citazione relativa alle acque minerali di Crodo
appare sul “Dizionario geografico” del Casalis, edito nel
1838, anche se una leggenda locale – priva però di qualsiasi riferimento storico certo – vuole che dopo il Mille
un esausto Crociato proveniente da Gerusalemme trovasse ristoro e forza, così come la sua altrettanto stanca cavalcatura, bevendo ad una sorgente che sgorgava in
località Salecchio di Crodo.
Si deve in realtà a Giuseppe Gaetano Giovanninetti,
commesso delle Regie poste e proprietario del terreno
dove sgorgava la “fonte Rossa”, il primo tentativo di avviare ricerche su tali acque, affidando le analisi al chimico e farmacista di Domodossola Giovanni Antonio
Bianchetti.
L’avvio dell’attività termale ed alberghiera, favorita anche dall’apertura della carrozzabile con Domodossola e
da ulteriori analisi delle acque di Crodo che ne confermarono le doti terapeutiche, si ebbe ad opera del Giovanninetti, che fu poi affiancato e sostituito da altri imprenditori come l’avvocato Carlo Francioni di Domodossola, a cui si deve la costruzione dell’Albergo dei Bagni e successivamente da Giacomo Della Macchia e,
dopo un periodo di sostanziale abbandono, da Bernardo Del Boca e poi dal figlio di questi, Giacomo, che gestirono le fonti per circa mezzo secolo favorendone il rilancio.
Le due fonti originarie dell’acqua minerale di Crodo
sono denominate “Valle d’Oro” e “Cistella”, a cui si è
poi aggiunta dal 1955 la fonte “Lisiel” e in tempi molto più recenti la “Crodo Nova” che sgorga dalla sorgente Cesa a 505 metri di quota.
L’etichetta dell’acqua minerale “Valle d’Oro” – che
come la “Cistella” è di tipo solfato-bicarbonato-calcica
– la dava come “Indicatissima nella terapia delle dispepsie
e nelle enterocoliti ecc.”, mentre su quella della “Lisiel”,
definita acqua mediominerale solfato-bicarbonato-alcalino-ferrosa, si legge che “Può avere effetti diuretici e favorire l’eliminazione dell’acido urico”.
Nel 1920 venne sperimentato l’imbottigliamento artigianale dell’acqua di Crodo, mentre si progettava la realizzazione di uno stabilimento per tale attività, oltre ad
un nuovo albergo e di una kurhaus.
Il progetto rimase tale anche per il cambio di proprietà
delle fonti, che dopo alcuni passaggi nel 1928 andarono
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alla neocostituita “Società Anonima Terme di Crodo” la
quale, fra alterne vicende, negli anni successivi sviluppò le diverse attività, commercializzando anche una bibita e specialità chimico-farmaceutiche come le magnesie ed i “Sali di Crodo”, sotto la guida di Piero Ginocchi, divenuto in seguito amministratore unico della società e protagonista del successo delle acque antigoriane
e poi pure del “Crodino”.
Degli anni Ottanta è invece il passaggio della “S.p.A.
Terme di Crodo” ad una multinazionale, il Gruppo
Bols, che l’ha in seguito ceduta alla Campari S.p.A.
mentre nell’agosto del 1987 un nubifragio ha distrutto
il parco delle Terme – ricostruito solo successivamente
– danneggiando la sorgente della “Lisiel”, poi immediatamente ripristinata.
Sempre in Valle Antigorio, fra le acque minerali commercializzate è da citare quella della sorgente Uresso in
comune di Baceno, la cui vendita era stata autorizzata
con Decreto del Ministero Sanità nel 1959, gestita dalla Fonti di Baceno s.r.l., poi divenuta S.p.A, e che fu in
commercio almeno sino ai primi anni Ottanta.
Sgorgante a 720 metri di quota, sulla base dei dati analitici l’acqua della sorgente Uresso era definita solfatocalcica-magnesiaca o solfato-alcalino-terrosa.
L’altra famosissima acqua minerale ossolana è quella di
Bognanco, la cui scoperta risale all’Ottocento ad opera
di una ragazza – la cui identità è incerta fra Anna Maria Possetti o Felicita Pellanda – che per il pizzicore dell’acqua che sgorgava dalla sorgente la scambiò addirittura per acquavite.
Se Giovanni Pellanda, proprietario del terreno con la
sorgente, ne sottovalutò le potenzialità, non così fece il
sacerdote e appassionato naturalista bognanchese Fedele Tichelli, il quale intuite le proprietà terapeutiche dell’acqua fece effettuare dal chimico elvetico H. Brauns
di Sion le opportune analisi, riportate in una precisa relazione datata 1° dicembre 1863 e confermate sei anni
dopo dal dottor Albasini. Don Tichelli acquistò intanto
la sorgente e insieme ad alcuni soci costituì la “Tichelli
& C.” per raccogliere, imbottigliare e commercializzare quella che veniva poi venduta come “Acqua gazosa di
Bognanco”, non senza qualche problema per il trasporto a Domodossola delle bottiglie – che sovente si rompevano – entro gerle portate a spalle.
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Dal 1888, con l’apertura della strada carrozzabile per
Bognanco, l’area delle fonti venne chiusa e introdotto il
biglietto a pagamento per accedervi, mentre il vero lancio di Bognanco come stazione termale lo si deve all’avvocato pavese Emilio Cavallini che, avendo trovato beneficio con le acque bognanchesi, rilevò la “Tichelli &
C.” e si attivò per creare una elegante kurhaus che richiamò nel centro ossolano per “passare le acque” la miglior borghesia italiana d’inizio Novecento.
Nel 1906 venne costituita la “Società Anonima Acque
e Terme di Bognanco”, dando avvio alla commercializzazione su scala nazionale delle acque da tavola e favorendo lo sviluppo turistico della Val Bognanco, con una
notorietà come stazione termale culminata negli anni
Trenta, ma apprezzata anche nei primi decenni successivi alla Seconda guerra mondiale.
Numerosi i passaggi di proprietà delle terme bognanchesi nel dopoguerra, sino all’arrivo nel 2003 dell’imprenditore greco Haralabos Melenos, amministratore
unico della “Società Bognanco Acque Minerali”, prospettando un rilancio del centro termale.
Attualmente a Bognanco sono prodotti e commercializzati tre tipi di acque minerali, ovvero la minerale San
Lorenzo, la mediominerale Ausonia e l’oligominerale
Gaudenziana.
L’acqua della fonte di San Lorenzo ha proprietà purgative e diuretiche ed è gradevole al gusto, caratterizzata
dall’abbondanza di anidride carbonica libera che la rende fresca e frizzante.
L’Ausonia è invece un’acqua mediominerale che ha la
caratteristica di stimolare la secrezione gastrica favorendo i processi digestivi, mentre l’acqua oligominerale Gaudenziana può essere impiegata allo scopo di promuovere la diuresi ed è perciò indicata nella cura delle
affezioni renali e delle vie urinarie.
Minor fortuna ha invece avuto l’acqua minerale dell’Alpe Veglia, la cui scoperta avvenne nel 1875 ad opera di
due alpini ossolani, Falcetta Ratti di Mozzio e Savia di
Piedimulera, che trovarono la sorgente di acqua ferruginosa nei pressi del rio Mottiscia.
Le prime analisi chimiche furono effettuate nel 1879
dal prof. Cossa di Torino e quattro anni dopo il comune di Varzo concedeva a titolo oneroso alla ditta torinese Costanzo e Paissa l’autorizzazione alla raccolta, tra-
Alpe Veglia, la sorgente di acqua ferruginosa.
sporto e commercio dell’acqua ferruginosa, mentre sorgevano i primi insediamenti alberghieri data l’affluenza
di persone che volevano usufruire delle proprietà terapeutiche della sorgente di Veglia.
L’esigenza, più volte manifestata da parte di potenziali gestori della risorsa idrica, di incanalare l’acqua della
sorgente ferruginosa non venne mai soddisfatta per diverse ragioni e nel 1981 si ebbe pure una temporanea
scomparsa della fonte a seguito di un movimento tellurico con epicentro al Veglia.
Collocata sul territorio del Parco naturale di Veglia-Devero, la sorgente di acqua bicarbonato-calcica-ferruginosa sgorga a 1813 metri di quota ad una temperatura
di 7° C. e dal De Maurizi era definita come “la seconda
sorgente minerale più alta d’Europa, dopo quella di Penticosa nei Pirenei spagnoli”2.
Il lungo periodo di innevamento del Veglia, la portata
limitata e le difficoltà di trasporto hanno di fatto impedito uno sfruttamento commerciale di questa sorgente
di acqua ferruginosa ossolana. La Valle Anzasca annove-
ra invece una sorgente arsenicale-ferruginosa nei pressi delle miniere aurifere dei Cani, a 1473 metri di quota sopra San Carlo di Vanzone.
L’acqua minerale “Vanzonis”, come era denominata,
pur nota da epoca antica, è stata fatta oggetto di analisi
solo a partire dall’Ottocento, a cominciare da quelle di
Giovanni Albasini nel 1820 il quale rilevò la presenza
di notevoli quantitativi di arsenico e dunque la possibilità di un suo impiego a scopo terapeutico.
Fu invece il locale medico condotto, dottor Attilio
Bianchi, che fece effettuare una serie di studi su tali acque, esaminate non solo dal punto di vista chimico, ma
anche idrogeologico ed igienico-biologico.
Costituita la “Società Anonima Miniere e Acque arsenicali”, il dottor Bianchi ne divenne direttore, dando alle
stampe nel 1907 un opuscolo dedicato a queste acque
in cui se ne indicavano le proprietà terapeutiche.
L’acqua della miniera dei Cani era commercializzata in
bottigliette per cure a domicilio, la cui etichetta ne raccomandava l’uso per la cura delle malattie cutanee e
105
nervose e per una serie di altre numerose patologie.
Nel 1916 l’acqua della sorgente arsenicale-ferruginosa
veniva trasportata a mezzo teleferica in appositi contenitori di vetro e legno sino a Vanzone, dove era poi impiegata per le cure che si effettuavano presso l’Albergo
“Regina”, ma il proseguire del primo conflitto mondiale portò allo scioglimento della società.
Una iniziativa volta a riprendere lo sfruttamento dell’acqua arsenicale-ferruginosa venne avviata nel 1961
da parte della “Terme del Monterosa s.p.a.”, nata dalla
volontà del Consiglio della Valle Anzasca, ma per una
serie di concause, tra cui la morte del dott. Piero Fabris che sosteneva fortemente il progetto, non poté avere seguito.
In tempi recenti l’Amministrazione comunale di Vanzone con San Carlo ha avviato iniziative concrete per
una valorizzazione e sfruttamento della fonte arsenicale-ferruginosa della miniera dei Cani, ottenendo i fondi necessari, e già nel 2003 la Regione Piemonte ha autorizzato la realizzazione di attraversamenti di alcuni rii,
con tubazioni per il trasporto dell’acqua arsenico-man106
gano-ferruginosa.
In Valle Vigezzo a Malesco sorge lo stabilimento di imbottigliamento della Acque e Terme Vigezzo S.p.A. che
già dagli anni Sessanta commercializza l’acqua minerale Alpia, definita in etichetta come “Indicata nelle diete
povere di sodio. Può avere effetti diuretici”.
La sorgente – ora collocata all’interno del territorio del
Parco Nazionale della Val Grande, istituito ufficialmente con il D.M. 2 marzo 1992 – è posta in località Pezzidi a 875 metri di quota sulle pendici settentrionali della Costa Orsera ed è già citata dal Pollini3 nel suo lavoro pubblicato nel 1896.
Utilizzata sin dal 1895 per alimentare l’acquedotto di
Malesco, la sorgente dai primi anni Sessanta destò l’interesse di un gruppo di imprenditori ossolani che diedero vita alla “Società Terme Vigezzo s.n.c.”, la quale
ha provveduto a garantire al Comune una valida sostituzione di tale risorsa idrica – attingendo ad una ricca
falda d’acqua a 65 metri di profondità – e dando così
il via all’attività di imbottigliamento e commercializzazione dell’acqua vigezzina, oggi distribuita nell’Italia
settentrionale, in Svizzera e Germania oltre che, occasionalmente, anche in altri Paesi europei.
Sempre in Valle Vigezzo sono da citare a Craveggia la
sorgente perenne acidulo-ferruginosa situata sulla destra del Rio della Vasca a circa 150 metri dalla strada ed a Re la sorgente ferruginosa posta sulla riva destra del Melezzo.
Nella bassa Ossola, ad Anzola, vi è la sorgente detta della Buvera, la cui acqua minerale è stata imbottigliata e
venduta, con autorizzazione rilasciata dal Ministero Sanità nel 1971, per diversi anni e sino a quando lo stabilimento ha cessato la sua attività nel 1996.
L’acqua della Buvera di Anzola d’Ossola, definita oligominerale, era in etichetta indicata per le diete povere di
sodio e con la possibilità di avere effetti diuretici.
L’utilizzo di acque termali a scopo terapeutico in Ossola
è da secoli collegato alla sorgente dei Bagni di Craveggia, situata sulla testata italiana della Valle Onsernone,
vallata che ricade per il resto sotto la sovranità svizzera e
posta oltre lo spartiacque della Vigezzo.
L’archivio comunale di Toceno conserva un atto di vendita del 1299 in cui è già citata la sorgente termale detta
Crodo, storica catena d’imbottigliamento.
“flumen de aqua calida”4, anche se il primo vero e proprio sfruttamento delle risorse termali dei Bagni di Craveggia si è avuto solo a partire dal 1770.
A seguito delle analisi effettuate nel 1816 e dei positivi
risultati delle stesse, due anni dopo il Comune di Craveggia deliberò la costruzione di uno stabilimento termale su quattro piani e con sedici bagni a piano terra.
Con l’edificazione nel 1823 dell’albergo e stabilimento termale di proprietà del comune, la località divenne nota per le sue acque salutari che venivano impiegate mediante cure fatte prevalentemente sotto forma
di bagni.
I frequentatori dei Bagni di Craveggia dovevano essere persone con problemi di salute notevoli, in particolare della pelle, se non si facevano scoraggiare dal lungo
e scomodo tragitto per raggiungere la località, dovendo
fare più di quattro ore a piedi o a dorso di mulo e varcando ad oltre 1800 metri di quota la Bocchetta di Sant’Antonio, oppure da Locarno con otto ore di diligenza
sino a Comologno e poi di qui a piedi sulla mulattiera
per quattro chilometri, con bagagli al seguito.
Scrive infatti lo storico Angelo Del Boca, il cui nonno
Bernardo gestì albergo e stabilimento sino al 1879, prima di trasferirsi a Crodo dove assunse la gestione delle
fonti locali, che ai Bagni di Craveggia la clientela non
era composta da “…ospiti qualunque, gitanti o amanti
della quiete e della natura. Erano degli ammalati, alcuni dei quali giudicati inguaribili dai medici. Al “flumen
aquae calidae”, giungevano con la speranza di essere miracolati, esattamente come a Lourdes”5.
L’albergo fu poi gravemente danneggiato nel 1881 da
un incendio e successivamente ricostruito, continuando ad operare come stabilimento termale nonostante le
citate difficoltà di accesso sino al 1925, quando venne
definitivamente chiuso.
L’edificio fu poi travolto da una valanga nel nevoso inverno del 1951 e di esso rimangono oggi solo dei ruderi, mentre la tragica alluvione dell’agosto 1978 ha ulte107
riormente danneggiato la zona, compromettendone le
residue possibilità di sfruttamento.
L’acqua termominerale dei Bagni di Craveggia sgorga in
regione Fondo Monfracchio a quota 998 metri s.l.m.,
sulla destra orografica del torrente Onsernone, ad una
temperatura media di circa 30°, risulta untuosa al tatto, emana odore di idrocarburi ed ha gusto sgradevole,
ma se lasciata raffreddare all’aria diventa inodore, limpida e bevibile.
In tempi più recenti, nel corso di sondaggio geotecnico
eseguito dall’E.N.E.L. nel 1992, è stata invece scoperta
una nuova sorgente termale, in località Longia nel Comune di Premia, in Valle Antigorio, caratterizzata fra
l’altro dalla temperatura che supera di poco i 42°.
L’esistenza di fonti di acqua calda in tale area è peraltro
storicamente accertata da diversi secoli ed a circa mezzo
chilometro a sud dalla sorgente della Longia sgorga un
rivo con temperatura costante di 15°, detto “dell’acqua
calda di Piedilago”, già citato nel 1556 in un documento papale, mentre un almanacco ossolano del 1846 descrive le acque di Baceno, segnalate un decennio prima
dal chimico e farmacista Giovanni Antonio Bianchetti
per le loro proprietà terapeutiche, ma a quell’epoca utilizzate solo dalle lavandaie locali perché “…trovano tiepida la sorgente e perché le sostanze alcaline che vi si rinchiudono fanno risparmiare sapone”.
A seguito di approfondite analisi fatte effettuare dal Comune di Premia, l’acqua della sorgente della Longia è
risultata avere caratteristiche ipertermali, ricca di sali
minerali, solfato-calcica, oltre che riconosciuta come
batteriologicamente pura.
Date le sue proprietà terapeutiche, due Decreti Ministeriali del 1998 ne hanno consentito l’utilizzo sia per la
terapia inalatoria che per la balneofangoterapia.
Nel 1999 la Regione Piemonte ha concesso per un ventennio lo sfruttamento delle acque termali della sorgente Longia ed il Comune di Premia ha dato avvio,
previa acquisizione di una vasta area di terreno, alla realizzazione di un moderno centro termale dotato di una
piscina terapeutica coperta con vasca di metri 25 x 14
riempita di acqua termale proveniente da apposito pozzo, oltre che di altri servizi e strutture complementari.
L’apertura di una prima parte del centro termale della sorgente Longia in Comune di Premia, è prevista nel
2005.
Bibliografia
AA.VV. – Raccolta di studi sull’acqua minerale Uresso – Domodossola s.d.
Anonimo – Valle Antigorio-Formazza, nuove occasioni di sviluppo
– L’acqua calda di Cadarese in comune di Premia – s.d.
Bologna Paolo – Bognanco, il paese delle cento cascate – Bresso
1976
Borgna Aldo – L’acqua medicinale dei Bagni di Craveggia in “La
voce onsernonese” – Locarno ottobre 1982
CCIAA Novara – Le acque minerali in provincia di Novara – Novara 1977
De Maurizi Giovanni - L’Ossola e le sue valli – Domodossola 1931
Del Boca Angelo (a cura di) - L’oro della Valle Antigorio – Le acque
minerali di Crodo fra realtà e leggenda – Bari 1993
Fabris Piero – Breve richiamo sulle acque ferroso mangano arsenicali di Vanzone Ossola – Varese 1960
Matzig – Richard – I Bagni radioattivi di Craveggia in “Almanacco
ticinese 1939” – Bellinzona 1939
Mortarotti Renzo - L’Ossola nell’età moderna – Domodossola
1985
Norsa Paolo (a cura di) - Invito alla Valle Vigezzo – Domodossola 1970
Pollini Giacomo – Notizie storiche, statuti antichi, documenti di
Malesco – Torino 1896
Una ricchissima bibliografia sino al 1967 di carattere generale e poi
specificatamente riguardante le singole acque minerali e termali dell’Ossola, è contenuta nel notevole lavoro di Federici P.C., Saccani F.,
Parietti P. – Le acque salutari della Val d’Ossola – Parma 1967.
Note
Mortarotti Renzo “L’Ossola nell’età moderna” pag. 39.
De Maurizi Giovanni “L’Ossola e le sue valli” pag. 235.
3
Pollini Giacomo “Malesco” pag. 141.
Norsa Paolo (a cura di) “Invito alla Valle Vigezzo” pag. 134.
Del Boca Angelo - La Gestione Del Boca: un rilancio a metà. in
“L’oro della Valle Antigorio” pag. 29.
1
4
2
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Il clima
Tullio Bertamini e Rosario Mosello
Considerazioni generali
Il clima dell’Ossola è anzitutto determinato dalla posizione geografica e dalla morfologia del territorio. Essa
infatti è compresa fra i 45°55’ e i 46°28’ di latitudine ed
è quindi inserita in quella fascia che normalmente corrisponde ad un clima fondamentalmente determinato da
una insolazione e quindi da una certa quantità di calore
solare che la pone nelle regioni temperate. È anche quasi completamente racchiusa da potenti ed elevati gruppi di monti, ed essa stessa è una regione eminentemente montuosa e quindi le altezze variano rapidamente da
luogo a luogo. È percorsa in tutta la sua lunghezza dal
fiume Toce che scende da Nord verso Sud fino a Vogogna, per poi piegarsi verso Sud-Est e, dopo un viaggio
di circa 80 km, si getta nel Lago Maggiore.
L’Ossola è chiusa a Sud da una catena di monti che
partendo dal Massone (m 2162) si innalza sempre più
fino al Monte Rosa (m 4637). Da quel punto una diramazione diretta del Monte Rosa la chiude ad Ovest
con una serie di cime elevate: Andolla (m 3656), Weissmiess (m 4023) Laquinhorn (m 4005), Fletschorn (m
3996) fino al Passo del Sempione, in territorio svizzero. Qui la catena, comprendente il Monte Leone (m
3552), il Cervandone (m 3211), la Punta d’Arbola (m
3235) e l’Hosandhorn o Punta del Sabbione (m 3183),
muta leggermente direzione fino a toccare il passo di S.
Giacomo (m 2313), che è il punto più settentrionale
della regione ossolana. Proseguendo il confine dell’Ossola abbandona il grande spartiacque alpino e correndo sulla linea di displuvio tra il Toce ed il Ticino, in direzione Nord-Sud, viene a formare col tratto precedente quasi un cuneo nel territorio svizzero. Questa catena
orientale perde quota fino a deprimersi nel gran solco
della valle Vigezzo. Qui l’idrografia appare incerta ed il
confine ossolano non si identifica con quello del baci-
no del Toce, ma scendendo fino al ponte della Ribellasca incorpora una fetta del bacino imbrifero ticinese. Il
confine risale poi il Monte Gridone e, correndo sul crinale che divide la valle percorsa dal Toce dalla val Grande, va a terminare sulle alture che delimitano il lago di
Mergozzo.
L’Ossola, chiusa fra alti monti, è costretta ad assorbirne
il clima. Ma anche altri fattori importanti intervengono a definirlo più precisamente. I potenti ghiacciai della catena Monte Rosa-Griess e quelli del vicino Vallese,
distanti solo qualche decina di chilometri, contribuiscono in vario modo a rendere il clima più rigido. Da
questi monti spira regolarmente un vento fresco e talvolta gelido sotto forma di brezza notturna. Queste catene elevate a loro volta, obbligando l’aria umida proveniente dall’Oceano Atlantico a sollevarsi ed a scaricare grande quantità di pioggia o neve sui versanti opposti all’Ossola, contribuiscono al fenomeno del vento favonico (Foehn). Questo vento caldo ci giunge dai
quadranti nord-occidentali e, anche in pieno inverno,
porta temperature insolitamente elevate nelle valli ossolane, sciogliendo grandi quantità di neve. Con analogo processo le stesse alte catene di monti costringono le grandi masse di aria umida proveniente dai quadranti meridionali a sollevarsi ed a scaricare sull’Ossola enormi quantità di precipitazioni per dare poi origine a vento favonico nelle vallate del versante settentrionale delle Alpi.
Importantissima risulta inoltre per il clima dell’Ossola
la sua vicinanza alla regione dei laghi prealpini ed alla
pianura padana. L’Ossola infatti termina sul lago Maggiore, con il quale comunica anche mediante la valle
Cannobina e Centovalli. Le masse di aria umida che si
formano sulla pianura padana e nella zona lacuale sono
facilmente indotte a risalire le pendici delle Alpi dando
109
luogo a intense precipitazioni e, in alcune situazioni, ad
eventi alluvionali, che contribuiscono a farne una delle
regioni più piovose d’Italia .
Le valli ossolane sono in generale, fortemente incise,
nella parte più bassa e percorse da fiumi e torrenti impetuosi, le cui acque continuano l’opera di scavo e demolizione iniziatasi molti millenni fa.
Data la natura del terreno ossolano, molto permeabile
alle acque, e la ripidità delle pendici dei monti, l’opera
di demolizione delle acque meteoriche e di quelle correnti è stata sempre imponente e nei periodi di lunghe e intense precipitazioni (büzze), anche fortemente distruttiva. Le alluvioni sono infatti una delle piaghe
più frequenti dell’Ossola colpendo ora questa ora quella parte del territorio. L’ultima che ha modificato profondamente le valli Antrona e Anzasca e soprattutto la
val Vigezzo risale al 1978, ma se ne conosce una lunga
e paurosa serie.
Contribuisce tuttavia ad ammorbidire il clima dell’Ossola ed a renderlo molto salubre la presenza di grandi
estensioni di boschi, che aiutano a mantenere una umidità quasi ideale nei mesi estivi e si oppongono all’azione delle acque diluviali che tentano di corrodere le pendici dei monti.
E’ comunque chiaro che ogni luogo dell’Ossola ha un
suo clima che dipende da fattori generali, ma spesso e
soprattutto da fattori locali, come l’altitudine, l’esposizione al sole ed ai venti, ecc.
Guardiamo infatti le valli ossolane e consideriamo dove
insorgono gli insediamenti abitati più antichi.
Li troviamo nelle zone a solatio e possibilmente non
esposte alle alluvioni dei torrenti, sui balzi delle valli,
dove, anche in inverno, c’è molto sole e non ristagna
l’aria fredda che invece rende più rigido l’inverno del
fondovalle.
Il clima di Domodossola
A Domodossola per circa un secolo è stato in funzione
un Osservatorio Meteorologico presso il Collegio Rosmini ed i dati ottenuti in tanti anni ci permettono di
definire con buona approssimazione il clima della capitale ossolana e dei dintorni. Lo confronteremo poi per
quanto ci è possibile con quello delle vallate ossolane.
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Eliofania e radiazione solare
Principale responsabile del clima è il sole che dà alla terra il calore sottoforma di radiazione.
La eliofania, cioè il tempo in cui i raggi solari colpiscono direttamente il suolo, è un elemento molto variabile, legato all’altitudine, alla posizione ed alla nebulosità. Limitandoci solamente ai dati medi stagionali si può
affermare che a Domodossola l’eliofania misurata in ore
di sole risulta dalla Tab. 1. L’energia data dal sole distribuita nelle stagioni misurata in calorie per cm2 è indicata nella Tab. 2.
Tab. 1 – Eliofania a Domodossola (ore)
Primavera
Estate
Autunno
Inverno
Anno
433
603
370
260
1666
Tab. 2 – Energia del sole secondo le stagioni a Domodossola (calorie/cm2).
Primavera
Estate
Autunno
Inverno
Anno
35530
50427
24468
12982
123407
Temperatura
La temperatura raggiunge in ogni luogo un valore massimo ed un valore minimo, in base ai quali si può stabilire il valore medio. I dati medi mensili relativi a Domodossola nei vari mesi dell’anno: temperatura massima (Tx), temperatura minima (Tn), temperatura media (Tm) misurata in gradi centigradi (°C) risultano
dalla Tab. 3.
Tab. 3 – Temperature massime, minime e medie a Domodossola per mese
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
Anno
Tx
6.0
8.6
12.7
16.6
20.7
24.7
27.3
26.5
22.4
16.2
10.4
6.4
16.5
Tn
-2.2
-1.1
2.7
6.3
9.7
13.6
15.9
15.4
12.2
7.1
2.0
-1.2
6.7
Tm
1.4
3.3
6.9
11.3
15.0
19.2
21.7
20.7
16.9
11.3
5.7
2.3
11.3
La temperatura minima assoluta a Domodossola non
ha mai raggiunto i -17 °C, né la massima assoluta ha superato i 40 °C. Il clima di Domodossola è quindi temperato anche se variabile come ogni clima alpino.
Intimamente legate allo sviluppo vegetativo sono le
temperature in °C del sottosuolo che sono rilevate a varie profondità, come pure il numero di giorni di brina
di gelo che offriamo nella Tab. 4. Conviene ricordare
che il gelo non scende mai al di sotto dei 20 cm e che a
2 m di profondità nell’estate il suolo raggiunge i 17 °C.
Lo sviluppo vegetativo inizia quando (generalmente nel
mese di marzo) si verifica una inversione delle temperature del sottosuolo, mentre la seconda inversione (nel
mese di ottobre) segna il suo cessare.
Umidità
L’umidità assoluta, misurata mediante la tensione di vapore acqueo in mm di Hg, e l’umidità relativa, misurata
in % rispetto ai valori di saturazione, sono abbastanza
variabili nell’Ossola. Ovviamente i massimi si registrano durante i periodi di pioggia; i minimi invece si registrano quando spira il vento favonico dal Nord. In queste occasioni sono frequentemente raggiunti valori minimi dell’umidità relativi prossimi al 2%. Ma guardando i valori medi mensili e annuali, presentati nella Tab.
5, si può osservare che il clima ossolano non è né troppo
secco né troppo umido, quindi ottimo per chi ci abita.
Stato del cielo
Può essere utile conoscere i valori della nebulosità media mensile misurata in decimi di cielo coperto e classificando i giorni in sereni, misti e coperti (Tab .6).
Ventilazione
I venti predominanti in Ossola corrono lungo le valli. È
predominante quello da Sud seguito da quello da Nord
e da Nord-Ovest. I mesi più ventosi sono novembre, dicembre, gennaio e febbraio. Il vento è abbastanza forte in circa 50 giorni, moderato in 100 giorni e in 200
giorni si segnala calma. Normalmente nella notte spira il vento fresco dalla montagna verso la valle, mentre
verso mezzogiorno e nel pomeriggio spira la brezza proveniente dal Lago Maggiore verso la montagna.
I venti più forti sono sempre quelli favonici da Nord e
Tab. 4 – Temperature del sottosuolo a Domodossola per mese
a 40 cm
a 60 cm
a 80 cm
Gelo
Brina
Gennaio
2.0
2.1
2.8
23
14
Febbraio
2.6
2.8
3.1
17
11
Marzo
5.8
5.2
5.0
7
6
Aprile
9.5
8.7
8.3
1
1
Maggio
12.7
12.0
11.6
-
-
Giugno
16.3
15.9
15.3
-
-
Luglio
18.7
18.2
17.8
-
-
Agosto
19.3
19.1
18.9
-
-
Settembre
17.0
17.2
17.6
-
-
Ottobre
13.0
13.3
14.1
1
2
Novembre
7.9
8.6
9.4
8
11
Dicembre
3.9
4.3
5.2
20
12
Anno
10.7
10.6
10.9
77
57
Tab. 5 – Umidità assoluta e relativa in Ossola per mese
Tensione di vapore
Acqueo in mm Hg
Umidità relativa
in %
Gennaio
4.0
70
Febbraio
4.0
63
Marzo
4.7
58
Aprile
6.2
58
Maggio
8.4
61
Giugno
11.2
62
Luglio
12.5
60
Agosto
12.5
60
Settembre
10.9
71
Ottobre
8.3
76
Novembre
5.4
72
Dicembre
4.2
71
Anno
7.7
66
Tab. 6 – Nebulosità (decimi di cielo coperti) e numero di giorni sereni,
misti o coperti in Ossola.
Nebulosità
Sereni
Misti
Coperti
Gennaio
4
16
10
5
Febbraio
4
15
9
4
Marzo
5
14
10
7
Aprile
5
10
12
8
Maggio
5
9
13
9
Giugno
4
10
14
6
Luglio
4
13
13
5
Agosto
5
15
12
5
Settembre
5
12
11
7
Ottobre
5
12
10
9
Novembre
5
13
10
7
Dicembre
4
16
9
6
Anno
5
155
133
78
111
Nord-Ovest con velocità che superano facilmente i 100
km/ora e talvolta raggiungono i 150 km/ora.
Precipitazioni
I valori medi mensili delle precipitazioni, l’altezza media della neve ed il numero di giorni di precipitazioni in forma di pioggia, neve, e temporali sono riportati nella Tab. 7. Le precipitazioni in forma di pioggia sono abbondanti in Ossola con netta preferenza nei
mesi primaverili ed autunnali. Il mese più piovoso è ottobre seguito da maggio. Nell’inverno le precipitazioni
sono scarse. Anche la neve non è abbondante a Domodossola e presenta una notevole variabilità interannuale. La nebbia è abbastanza rara durante l’intero arco dell’anno. Non sono infrequenti in Ossola periodi di piogge intense e continue, che si registrano ogni volta che
cospicue masse di aria umida provenienti dall’Oceano
Atlantico aggirano le Alpi raggiungendo il Mediterraneo, quindi si dirigono verso il Nord attraversando la
Pianura Padana fino a raggiungere le Alpi da Sud. Sono
queste situazioni meteorologiche a determinare i periodi di büzza, che spesso danno origine a disastrose alluvioni. In queste occasioni non è raro che cadano in un
giorno e talvolta in poche ore anche 100 e 200 e oltre 300 mm di pioggia. La siccità invece è rara; ma se
la pioggia non cade per un mese nel periodo primaverile o estivo ne comincia a soffrire la vegetazione, giacché il terreno siliceo ossolano subisce una rapida disidratazione ed ha bisogno di essere frequentemente rifornito di acqua.
Notizie sul clima delle vallate ossolane
Le notizie sul clima di Domodossola sono estensibili
solo in parte al resto della vallata principale ed alle altre valli laterali. Le numerose stazioni sparse nell’Ossola permetterebbero di stabilire con buona approssimazione i dati termometrici ed udometrici cioè le temperature e le precipitazioni mensili medie; ma su di esse
vogliamo essere piuttosto brevi. Partendo da Domodossola (m 272) e scendendo lungo la valle le temperature medie mensili ed annuali aumentano leggermente con differenza di qualche decimo di grado centigrado. Al contrario, le medie trentennali (1971-2000) delle stazioni gestite dall’ENEL (Fig. 1), dati regolarmente
pubblicati sulla rivista Oscellana, evidenziano che con
l’aumento della quota si verifica una diminuzione delle temperature medie annuali (Fig. 2), con un valore
di circa 0,54 °C per ogni cento metri di aumento della
quota sul livello del mare.
Tab. 7 – Valori medi mensili delle precipitazioni in Ossola
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
Anno
112
Precipit.
in mm
71
63
127
161
169
125
111
117
122
216
125
85
1492
Neve
in cm
20
29
13
6
6
7
15
90
Giorni
piovosi
3
4
7
11
13
12
12
10
9
11
6
6
102
Giorni
nevosi
3
3
2
1
2
10
Temporali
1
2
4
4
6
2
20
Fig. 1 – Val d’Ossola e collocazione delle principali stazioni meteorologiche citate nel testo.
Le precipitazioni invece crescono rapidamente passando dai 1492 mm annuali di Domodossola a quelle di
circa 1600 mm di Pallanzeno e Piedimulera ed a 2600
mm ad Ornavasso. La bassa Ossola infatti entra nell’area delle massime piovosità alpine. Ma è utile ripetere che i fattori locali sono sempre molto importanti.
Così il clima di Megolo, Anzola e Migiandone è molto
più rigido di quello di Vogogna, Premosello, Cuzzago
e Mergozzo, essendo questi ultimi paesi bene esposti al
sole mentre i primi ne sono assolutamente privi per un
lungo tratto dell’inverno.
T max
T medie
T min
Fig. 2 – Medie (1971-2002) delle temperature minime, medie e massime in alcune stazioni ossolane in relazione alla quota e relative rette di regressione. I dati si riferiscono, da sinistra a destra, alle stazioni di Pallanzeno, Domodossola Rosmini, Crevoladossola, Rovesca, Ponte di Formazza, Campliccioli, Alpe Cavalli, Agaro, Codelago, Vannino, Toggia, Camposecco, Sabbioni (dati raccolti da ENEL Produzione di Domodossola).
La valle Anzasca
Il clima della valle Anzasca va gradatamente irrigidendosi da Piedimulera (m 247) fino a Macugnaga (Pecetto m 1362). La temperatura media annuale a Piedimulera è di circa 11 °C mentre quella di Macugnaga scende a 5.5 °C con temperature minime invernali che raggiungono facilmente i –15 °C e talvolta i –20 °C. Il clima dunque si irrigidisce salendo da Piedimulera a Macugnaga. Le precipitazioni sono piuttosto rilevanti in
tutta la valle Anzasca: Piedimulera 1600 mm, Anzino
1700 mm, Macugnaga 1400 mm, Macugnaga Belvedere 1700 mm, Passo del Moro 1700 mm. Le precipitazioni nevose sono abbondanti nella parte superiore della valle. La neve cade da novembre a marzo nella parte mediana della valle (Calasca, Bannio, Vanzone, Ceppomorelli) e da ottobre ad aprile a Macugnaga dove il manto nevoso normale ha uno spessore medio di un metro.
La valle Antrona
Salendo da Villadossola verso Antronapiana il clima
si irrigidisce a causa dell’aumento di altitudine. Tuttavia tutti i paesi posti sulla sinistra del fiume Ovesca
(Montescheno, Seppiana, Viganella e Schieranco) hanno temperature medie superiori a quelle dei paesi posti
sulla destra del fiume i quali, specialmente nei mesi invernali, non vedono il sole per molti giorni. La temperatura media annuale è di circa 10 °C, con minime invernali che raggiungono i –15 °C. A Rovesca (m 867)
la temperatura media annuale scende a 9 °C ed è uguale
a quella di Antronapiana. Salendo ancora lungo la valle
verso le stazioni più elevate riscontriamo 7 °C a Campliccioli (m 1355), 6 °C a Cheggio (m 1497), l,2 °C al
Cingino (m 2255). Le precipitazioni decrescono generalmente salendo da Villadossola verso Antronapiana.
Il totale annuale è di circa 1500 mm a Villadossola ed
a Montescheno, scendendo a circa 1400 mm a Rovesca (m 867) ed a Campliccioli (m 1355) ed a circa 1300
mm a Camposecco (m 2331). La neve cade soprattutto
nella parte più alta della valle, da Antronapiana in su,
dove il manto nevoso nei mesi invernali arriva anche a 3
metri di altezza e dove precipitano numerose valanghe,
alcune delle quali, come quella di Schieranco, scendono fino a fondovalle. I venti dominanti spirano in direzione del solco vallivo da e verso Nord-Ovest.
La valle Bognanco
Anche per la valle Bognanco si possono fare considerazioni analoghe a quelle fatte per la valle Antrona, che
ha lo stesso orientamento. La temperatura media annuale va diminuendo con l’altezza, ma i paesi posti sulla sponda sinistra del fiume Bogna (Cisore, Monteossolano, le alte frazioni di Bognanco-Dentro) hanno un
clima meno rigido di quelli posti sulla sponda destra,
come S. Marco, o nel fondovalle come Bognanco Fonti.
Le minime assolute invernali possono raggiungere i –20
°C. Le precipitazioni sono di circa 1400 mm all’anno
con i massimi primaverili (maggio) ed autunnale (ottobre). Sugli alti monti cade abbondante la neve da novembre a maggio ed il manto nevoso raggiunge spesso i
3 metri di spessore. Cadono anche numerose valanghe
che talvolta scendono a lambire le frazioni più elevate.
113
La valle Divedro
La valle Divedro è fortemente incassata fra alte montagne e quindi ha un clima molto rigido. Di fatto il paese
di Iselle non ha sole nei mesi invernali e di conseguenza
la temperatura media è molto al di sotto di quella che
competerebbe alla sua altitudine. In migliore condizione sono Varzo e Trasquera situati, non a caso, in posizione solatia. Influisce sul clima della valle anche la vicinanza dei potenti ghiacciai delle Alpi Pennine che superano i 4000 metri.
La temperatura media annuale a Varzo (m 568) è di circa 8 °C, mentre scende a 5 °C a Gebbo (m 1060), ed
a -0,5 °C al lago d’Avino (m 2246). Le precipitazioni vanno generalmente diminuendo man mano che si
sale verso le zone più elevate. A Varzo cadono in media
1700 mm annui, 1400 a Iselle ed a Trasquera. Nella valle del torrente Cairasca la stazione di Gebbo segna una
precipitazione media annuale di circa 1400 mm e quella del lago d’Avino di 1600 mm. Nella parte alta della
valle, verso il Sempione, l’Alpe Veglia ed il lago d’Avino,
114
le precipitazioni nevose sono in generale molto abbondanti e durano facilmente da novembre fino alla fine
di maggio. Anche le valanghe sono frequenti nei luoghi più ripidi, causando talvolta anche gravi danni ai
boschi. Grandiosa quella del 1951 all’Alpe Veglia che
abbatté cascine e migliaia di larici. Nella valle Divedro
non sono infrequenti le alluvioni, accompagnate anche
da grandiosi franamenti come quelli del Monte Marghino che ha sbarrato il fiume e interrotto ripetutamente la ferrovia del Sempione nel 1951 e nel 1958.
La valle Antigorio-Formazza
La valle Antigorio-Formazza è percorsa dal Toce che
ha le sue sorgenti nei ghiacciai terminali della valle allo
spartiacque alpino. Entrando dal fondovalle, dopo Pontemaglio, nella valle Antigorio il clima si irrigidisce lentamente con il crescere dell’altitudine per diventare
molto rigido nella valle Formazza, al di sopra del gradino delle “Casse”. A Crodo la temperatura media annuale è di circa 10 °C, ma a Mozzio, Viceno e Cravegna,
nonostante l’aumentata altitudine, è pressochè uguale.
La temperatura decresce da Baceno in su sia nel bacino del Devero che in quello del Toce. È di circa 6 °C a
Goglio (m 1133), 5 °C ad Agaro (m 1600), 4 °C a Devero (1631 m). A Cadarese di Premia la temperatura è
di circa 7 °C, ma scende a 6 °C a Ponte di Formazza
(m 1280), a 1 °C al Vannino (m 2182), a 0 °C in Valtoggia (m 2200) ed a -2,5 °C al Sabbione (m 2466);
questa ultima stazione è prossima al ghiacciaio dell’Hosand. Queste valli sono dominate dai venti impetuosi che spirano lungo il loro asse e risentono fortemente anche delle perturbazioni che giungono dai quadranti settentrionali.
Gli stessi venti favonici, secchi e caldi, che nei mesi invernali giungono a Domodossola sono invece freddi
nella valle Formazza e portano neve e nevischio in tutta la valle Antigorio. Le precipitazioni risentono di questa situazione e quindi sono in generale piuttosto diverse che a Domodossola. Anche in questo caso tuttavia i totali annuali in generale decrescono con l’altitudine: 1350 mm a Crodo, 1330 mm a Cadarese, 1200
mm a Ponte di Formazza, 1100 mm a Vannino e Valtoggia, 900 a Sabbione. In Val Devero si passa da circa 1500 mm a Goglio, a 1400 mm ad Agaro ed a 1700
mm a Codelago. La neve cade abbondante in tutta la
valle e specialmente nelle zone elevate dello spartiacque alpino, restando al suolo per molti mesi, da ottobre
a maggio. Cadono anche numerose valanghe, in generale nei luoghi ben conosciuti dagli alpigiani. Sono rari
i temporali in estate, mentre sono frequenti in inverno
le tempeste di neve.
La valle Vigezzo
Il solco vallivo che congiunge la valle percorsa dal Toce
con quella del Ticino sale da Domodossola fino a Druogno (m 836) per poi discendere verso il territorio svizzero. Questa valle, orientata da Est verso Ovest, risente fortemente della diversità di insolazione sui due versanti. Per tal motivo la maggior parte dei paesi è posta
sul versante esposto al sole, dove le temperature sono
meno rigide d’inverno. La temperatura media annuale è di circa 9 °C a Malesco, 8 °C a S. Maria Maggiore
e di 10 °C a Craveggia. Il vento predominante è quello che spira lungo l’asse della valle da Ovest e poi quello
da Est, a seconda della situazione meteorologica generale. Anche in val Vigezzo è frequente il vento favonico
in inverno ed in primavera.
Le precipitazioni cadono molto abbondanti in valle Vigezzo. Le medie annue sono infatti di oltre 2000 mm.
Sono molto frequenti i temporali estivi accompagnati
solitamente da grossi rovesci di pioggia. La valle Vigezzo è molto soggetta alle alluvioni; disastrosa quella dell’agosto 1978 che recò enormi danni a tutta la valle. Relativamente abbondante la neve.
Il clima della valle Vigezzo è tuttavia da considerarsi
molto buono e salubre sia nei mesi estivi che nei mesi
invernali, non eccessivamente rigido, ma ammorbidito
da una certa variabilità che in generale si fa apprezzare
anche dai turisti.
E’ cambiato il clima ossolano?
Quasi ogni giorno i mezzi di informazione parlano delle variazioni climatiche e delle relative conseguenze che
queste hanno o potrebbero avere sull’ambiente e sulle
nostre attività quotidiane. Cosa si può dire, sulla base
di misure sperimentali, di quanto è avvenuto ed è in
evoluzione in Val d’Ossola? Risposte, sia pur parziali,
sono possibili grazie alla serie ultrasecolare di misure
effettuate dall’Osservatorio Meteorologico del Collegio
“Mellerio Rosmini”, collocato alla periferia di Domodossola, ad una quota di 295 m s.l.m. Le osservazioni
iniziarono nel 1872, grazie alla disponibilità dei Padri
Rosminiani e all’interessamento del Club Alpino Italiano, impegnato in quegli anni ad impostare una rete di
osservatori sulle Alpi e nell’area subalpina.
L’osservatorio è stato ufficialmente inserito nella rete
meteorologica italiana dal 1872 al 1973; i suoi dati
sono stati regolarmente pubblicati su riviste ufficiali quali gli “Annali Idrologici del Ministero dei Lavori
Pubblici”. Le misure eseguite riguardavano: temperatura dell’aria, precipitazioni, pressione barometrica, direzione ed intensità del vento, copertura di nubi del cielo; per periodi più brevi sono state eseguite anche misure geofisiche, quali il rilievo di scosse sismiche, la temperatura a diverse profondità del suolo, la radioattività delle deposizioni atmosferiche. Negli anni successivi
al 1973 le misure di temperatura e precipitazione sono
continuate, mentre si sono interrotti gli altri rilievi. In115
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Fig. 3 – Serie delle temperature di Domodossola con media mobile di
ordine 25 e con linea di tendenza (da Oscellana 32 (1), 2002)
fine, dal 2001, la stazione è gestita dall’Istituto per lo
Studio degli Ecosistemi del Consiglio Nazionale delle
Ricerche di Verbania.
Recentemente le serie ultrasecolari dei dati di temperatura dell’aria e precipitazioni sono state analizzate per
evidenziarne tendenze statisticamente significative. I risultati hanno confermato le tendenze a livello regionale e nazionale evidenziate in altri lavori. Le temperature mostrano un aumento medio annuo di 0,61±0.14 °C
in 100 anni (Fig. 3), con un aumento massimo in inverno (1,05±0.28 °C in 100 anni), una variazione non significativa in estate (0,19±0,23 °C in 100 anni) e valori intermedi in primavera ed autunno (rispettivamente
0,53±0,23 e 0,63±0,21 °C in 100 anni).
Questi valori risultano leggermente più elevati di quelli indicati nel 2002 da Maugeri e Mazzucchelli come
medie per il Nord Italia (T minime e massime annue
0,27±0,07 e 0,44±0,10 °C in 100 anni) e prossimi a
quelli indicati dall’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC), organismo fondato nel 1988 dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, che fornisce un incremento di temperatura a livello globale per
il XX secolo di 0,6±0.20 °C. L’aspetto più preoccupante deriva dal fatto che l’aumento sembra decisamente
accentuarsi negli ultimi 10-15 anni, quando più volte
sono stati superati i massimi storici secolari in termini
di temperature e eventi di precipitazione.
Una conseguenza ambientale legata all’innalzamento
delle temperature, rilevante per l’arco alpino in generale e quindi anche per l’Ossola, è il regresso dei ghiac116
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Fig. 4 – Serie pluviometrica di Domodossola con media mobile di ordi������������������������
ne 25 e linea di tendenza (da Oscellana 32 (2), 2002).
ciai, con la completa scomparsa di quelli di dimensioni minori, alle quote minori. Il fenomeno non è esente da rischi idrogeologici, quando la conformazione dei
versanti crea le condizioni per la formazione di sacche
di acque di scioglimento in situazioni di instabilità. Un
esempio si è avuto qualche anno fa in Val Anzasca con
il “Lago Effimero”, formatosi sui ghiacciai del Monte
Rosa, che ha mobilitato esperti e tecnici del soccorso civile, per il potenziale pericolo di un brusco e disastroso
deflusso delle acque a valle.
Come per le temperature, anche i risultati dell’analisi
sulla quantità e sul regime delle precipitazioni rilevate
all’osservatorio Rosmini di Domodossola appaiono in
linea con altre osservazioni eseguite nel Nord Italia. La
quantità globale di precipitazione (Fig. 4) non ha evidenziato un trend significativo nel periodo considerato,
presentando una media di 1398 mm, con una deviazione standard di 351 mm, ed estremi di 768 e 2918 mm
(rispettivamente negli anni 1893 e 1872).
A fronte di questo risultato, è stata evidenziata una tendenza alla diminuzione del numero di giorni di precipitazione per anno, passati da 100-110 negli ultimi anni
del 1800 a 85-90 negli ultimi venti anni (Fig. 5).
L’evoluzione di queste due componenti della distribuzione delle precipitazioni indica quindi chiaramente un aumento della intensità di precipitazione, definita come rapporto tra quantità e frequenza di precipitazione; l’analisi su base stagionale mette inoltre in luce
una variazione più accentuata in autunno e, secondariamente, in primavera ed estate. Aumentano così gli
eventi estremi di precipitazione, con un conseguente
aumento del rischio idrogeologico. E’ superfluo ricordare che il flagello delle alluvioni costituisce una componente storica della realtà ossolana e che gli eventi dell’ultimo decennio (anni 1993, 1994, 2000) sono stati
fra i più catastrofici. L’incremento della intensità delle
precipitazioni osservato a Domodossola trova ampio riscontro nelle osservazioni di altre stazioni del Nord Italia e, più in generale, questo aspetto sembra riflettere
una tendenza globale, associata ad una maggiore “vivacità” del ciclo dell’acqua connesso con l’aumento della temperatura.
Fig. 5 – Numero di giorni di precipitazione per anno a Domodossola con media mobile di ordine 25 e linea di tendenza (da Oscellana
32 (2), 2002).
Poesia della natura: la galaverna.
117
La flora
Cesarina Masini Chieu
Le condizioni altimetriche e morfologiche dell’Ossola, il suo clima di tipo continentale temperato, offrono
all’osservatore una successione di zone di vegetazione,
giustificata via via dall’altitudine, dall’esposizione dei
versanti, dall’insolazione, dal vento, dall’umidità, dalle precipitazioni nevose, dalle condizioni fisiche, chimiche e biotiche del suolo.
I paesaggi tanto diversi di cui si compone la fisionomia
dell’Ossola sono improntati da forme caratteristiche di
vegetazione: alberi, boschi, fiori, erbe e prati, ora educati sapientemente dalla mano dell’ uomo, ora lasciati
crescere in selvaggia libertà, ad arricchire di bellezza e di
colori le prospettive del piano, dei colli, delle cime.
Al piano basale fino a 400 m. di altitudine appartengono terreni ricchi di seminativi e di colture agricole,
come vari cereali, alberi da frutta e pingui prati. Fra i
cereali soprattutto la Segale, Secale Cereale, una Graminacea la cui coltivazione era diffusa in tutta l’ Ossola ,
da sempre cibo delle popolazioni più povere e isolate; la
pianta rustica per il suo grande adattamento alle avversità climatiche e alla povertà dei terreni, può essere coltivata fino a 1300 - 1500 m. di altitudine. Quando nel
paesaggio alpino si alternavano come in una scacchiera il verde dei prati e il giallo delle spighe alte e bionde,
erano tempi in cui nei piccoli “campi” gli Ossolani basavano la loro economia su una agricoltura che potesse
assicurare le necessità primarie come il Pane. Tuttora a
Coimo, in Valle Vigezzo, si fa un buon pane di “seila”,
oggi oggetto di tradizione.
Segale e patate furono la ricchezza del montanaro, anche in tempi di guerra e di carestie. La Patata Solanum
Tuberosum una Solanacea che giunse sulle mense ossolane solamente dopo il 1770, il tubero dal grande valore nutritivo, si adatta ad ogni tipo di clima e fruttifica
anche fino a 1500 m. di altitudine, è tenuta in grande
considerazione nella gastronomia locale, tanto da venire perfino festeggiata a Montecrestese con una sagra popolare che si tiene in autunno.
Erano altri tempi quelli in cui veniva coltivata la Canapa, Cannabis sativa, per ottenere una buona fibra da cui
si ricavava la preziosa “tela da ca’”, prodotto artigianale
a livello domestico adatto a soddisfare le esigenze familiari di indumenti e biancheria; ora Canapa, Tabacco e
Frumento non si coltivano più .
Particolare fu in tutti i tempi addirittura da millenni,
la cura dedicata alla Vite, Vitis vinifera, una Vitacea
coltivata dal piano alle pendici solatie dei monti, anche su terrazzamenti, realizzati con muretti di sostegno
fino verso i 1000 m.. La pianta che si adatta facilmente
alle difficoltà del clima, richiede un terreno abbastanza
profondo e una buona esposizione al sole per maturare un frutto ricco di zuccheri in modo da ottenere poi
un buon vino, e in seguito, dall’attività dell’ alambicco,
una profumata grappa.
Un’essenza preziosa che l’uomo ha da sempre coltivata
per goderne tutte le parti: corteccia, legno, foglie, mallo
e seme, è il Noce, Juglans Regia famiglia delle Juglandacee. Si trovano anche Noci cresciuti lontani dalle abitazioni, non piantati dall’ uomo, ma disseminati da corvi, gazze, ghiandaie, e da roditori come scoiattoli e topi,
infatti la riproduzione avviene per seme . Il Noce ha esigenze di terreno morbido e fresco, profondo per affondare il suo robusto apparato radicale, abbisogna di molto spazio disponibile per sviluppare una folta chioma di
ampie foglie lucide. E’ una pianta dioica che fiorisce in
primavera, a giugno mostra il frutto verde e a ottobre lo
regala maturo, ricco di sostanze grasse e zuccherine.
119
Fino agli 800 m. è la zona detta fascia submontana,
propria delle caducifoglie, o latifolie eliofile, piante cioè
a riposo invernale, con foglie a lamina larga, adatte a vivere in ambiente ad elevata luminosità, quali l’Acero, la
Betulla, il Frassino, il Salice, il Sambuco, la Robinia, il
Nespolo. Grandi, altissimi alberi distendono i loro rami
nel cielo e sprofondano le radici nel terreno, accanto ad
arbusti, piante, pianticelle, erbe, che si nascondono nell’umido, e all’ ombra delle grandi e dell’ ombra e con
l’ombra vivono.
L’ Acero più diffuso è il Campestre, una Aceracea presente dalla pianura alla collina, alla bassa montagna,
dove non supera i 1500 m. di altitudine; ma il grande
albero che arriva anche ad una altezza di 30 m., è l’Acero Montano, che si spinge fino quasi a 2000 m. nella
zona del Faggio e dell’ Abete, il più longevo, la cui vita
può arrivare fino a 150 –200 anni. Essenza preziosa in
silvicoltura per la formazione dell’ humus forestale dolce e poroso, in quanto le sue foglie sono ricche di azoto e povere di cellulosa, sbocciano in maggio numerosi fiori riuniti in grappoli, che attirano gli insetti a cui è
affidata l’impollinazione, singolare per i suoi frutti alati detti “samare”, che contengono due semi ciascuna e
che il vento d’autunno porterà lontano favorendo così
la disseminazione.
Fiorisce fra maggio e giugno dal piano fin a 1000 m.
di altitudine la Robinia Pseudoacacia albero delle Leguminose dai rami un po’ tortuosi, dalla bella chioma ricca di foglie che sono appetite dai conigli selvatici e dai cervi; i grappoli di fiori bianchi profumatissimi bottinati dalle api che hanno funzione di insetti
impollinatori, ai fiori succedono i frutti , legumi lunghi 5-8 cm., pendenti, bruno nerastri che contengono 4 - 11 semi neri, tossici per l’uomo, che cadranno
alla fine dell’inverno. Oltre ad essere una pianta pioniera, consolidante del suolo, presenta fra le sue radici dei tubercoli dovuti a un batterio che fissa nel terreno l’azoto atmosferico rendendolo più fertile. La Robinia è una delle sedi prescelte dal Vischio, ma soffre di questa forma di parassitismo, fino a morirne.
Quando si dice Salice si pensa a un albero dai rami ele120
gantemente spioventi amico dell’acqua e del fresco, che
già in marzo mette le foglie e le lascia cadere per ultimo,
nel tardo autunno. Ancor prima delle foglie compaiono
le infiorescenze, amenti diritti, setosi a cui viene dato il
nome di “gattini” : all’impollinazione provvedono gli
insetti come calabroni e certe farfalle come la Vanessa Antiopae, la Nymphalis Antiopa, la Catocala Electa
con abitudini notturne; alla dispersione dei minuscoli
semi, provvisti ciascuno di un ciuffo di peli, provvederà il vento. Nella corteccia, nelle foglie, negli amenti, è
presente un glucoside, la salicina, da cui per idrolisi si
ottiene acido salicilico, lo stesso che si trova nell’ “aspirina”, dalle proprietà analgesiche e febbrifughe, che furono note anche agli antichi. Per le condizioni ambientali favorevoli, sono presenti in Ossola 18 specie, lungo
i torrenti nelle valli Vigezzo, Anzasca, Divedro, nei luoghi umidi fino ai dintorni di Macugnaga, e al Sempione; la specie detta “Retusa” dal portamento strisciante arriva fino al limite dei ghiacciai. Appartengono tutte alla famiglia delle Salicacee.
Pianta altrettanto comune è il Sambuco, una Caprifogliacea a forma di cespuglio o piccolo albero, dai rami
ricadenti e dalle vistose profumate ombrelle di piccoli
fiori che in agosto- settembre si trasformano in bacche
di colore nero rossastro, piene di succo zuccherino, avidamente ricercate dagli uccelli soprattutto dai merli, responsabili poi della disseminazione.
Spontaneo sotto forma di arbusto o di alberello alto da
2 a 3 m., dove sono i boschi radi, non oltre i 1000 di
altitudine, cresce molto lentamente il Nespolo Mespilus Germanica che appartiene alla famiglia delle Rosacee. Il fusto legnoso ha un andamento tortuoso con numerosi rami e le foglie ovali lunghe fino a 12 cm. ; fiorisce da maggio a giugno con grandi fiori bianchi solitari,
preziosa fonte di polline per le api; il frutto è una bacca
verde- bruna che maturando acquista una consistenza
pastosa e un sapore asprigno, ma gradevolmente zuccherino. Il frutto una volta tolto dalla pianta nel tardo
autunno, deve essere riposto nella paglia dove subisce
un processo di fermentazione: modo di maturare detto “ ammezzire”. I frutti più grossi e succosi si raccolgono sui pendii assolati di Montecrestse e Oira in Valle
Raro rododendro bianco.
Antigorio. La Quercia, è la Cupolifera millenaria compagna dell’uomo, è uno degli alberi più robusti maestosi per il portamento: è alto da 30 a 40 m. molto ramificato, ha grande espansione della chioma, il tronco caratteristico per la corteccia bruno - nerastra screpolata, le foglie verdi scure e lucide sopra, ovali, con bordi
a festoni arrotondati. E’ una pianta dioica in primavera compaiono gli amenti maschili giallastri, penduli,e
quelli femminili a squame; il frutto sarà una ghianda
ovale con la cupola a scaglie. Offre all’uomo la sua ombra, il legno pesante e duro, adatto a molti usi, la scorza per il contenuto in tannino, le foglie e le ghiande per
il nutrimento degli animali; cresce lentamente, molto
tempo deve trascorrere prima che maturino i frutti, ma
è pianta longeva e raggiunge i 2000 anni. Sono presenti
in Ossola la Quercus Robur o Farnia, che supera raramente i 1000 m., la Rossa o Rubra che cresce in un vivaio della Guardia Forestale nei pressi del Lusentino, la
Sessiliflora o Rovere, la più diffusa, presente fino a 1500
m. su terreno soffice e leggero. Il nome dialettale generico è “Rugul”.
Cresce sulla Quercia affondando nel tronco i suoi austo-
ri succhiatori un semiparassita, il Vischio, una Lorantacea, che essendo priva di radici si rifornisce di acqua e di
sali minerali sfruttando la linfa delle piante ospiti, mentre ha la sua funzione clorofilliana per la presenza di numerose piccole foglie verdi con le quali può sintetizzare gli idrati di carbonio. Quando la pianta ospite perde
le foglie, il Vischio diventa evidente, un piccolo arbusto
a forma di ciuffo rotondo sempreverde orientato verso
nord perché è igrofilo, cioè ha bisogno di molta umidità
per la germinazione dei suoi semi. I fiori compaiono in
primavera, poco vistosi, alla fine dell’autunno compaiono i frutti, bacche sferiche, bianche traslucide che contengono un grosso seme immerso in una sostanza viscida, collosa e gelatinosa. Tordi, merli, cinciallegre si nutrono di questi frutti e inconsapevolmente, o pulendosi
il becco, o con gli escrementi, favoriscono la disseminazione della pianta, in quanto i semi rivestiti del liquido
appiccicoso, si attaccano ai tronchi degli alberi e il ciclo ricomincia. La pianta è molto tossica per l’uomo e la
sua tossicità varia a seconda della specie arborea parassitata, cresce generalmente sugli alberi da frutto, ma anche su Pioppi, Olmi, Betulle, Salici e Castagno, se cresce sulla Quercia, o sul Pero, è più ricca di principi at121
penduli e quelli femminili riuniti in spighe compaiono
in febbraio, sarà il vento a provocare l’ impollinazione.
In autunno prima della caduta delle foglie, maturano i
frutti, secchi e chiusi, di solito riuniti a gruppi da una a
quattro. Le nocciole sono protette da un guscio legnoso
liscio e duro e da grandi brattee verdi, contengono un
unico seme dalla polpa bianca e dolce, di elevato potere nutritivo. Roditori come scoiattoli, ghiri e topi campagnoli, uccelli come le ghiandaie sono ghiotti consumatori di questi frutti, quelli che non verranno raccolti, caduti a terra germineranno in primavera e daranno
origine ad altre piante.
L’Edelweiss o Stella alpina.
tivi, quindi più tossica; la corteccia della Quercia è tanto consistente che anche se parassitata dal Vischio, non
ne viene danneggiata.
Nel sottobosco del Querceto crescono numerose piante legnose e arbustive, con esigenze meno eliofile, come
il Ciliegio selvatico, la “cerisa”, una Rosacea che in primavera, quando le altre piante dormono ancora, mostra grappoli fitti di fiori candidi, ancor prima dello sviluppo delle foglie. In Val Vigezzo quelli risparmiati dalle alluvioni crescono in riva al torrente Melezzo e in Val
Anzasca si spingono fino a Macugnaga. Sugli alberi da
frutta e in modo particolare sul Ciliegio, vive il fungo Pholiota squarrosa che parassita la pianta fino a farla morire.
Un’altra pianta Cupolifera, pioniera, molto diffusa fino
a 1800 m. di altitudine, è il Nocciolo Corylus Avellana, altro antico tenace amico dell’uomo che trova nutrimento nel suo frutto, utilità nel suo legno, sollievo dalle sue proprietà medicinali. L’arbusto non di grande taglia è alto da 2 a 6 m., con la chioma che si allarga per i
molti polloni che partono da un’unica ceppaia, con numerosi rami flessibili, la pianta è monoica: gli amenti maschili presenti già nell’autunno, sono giallastri e
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L’ habitat del Biancospino, Crataegus Oxyacantha, libero e selvaggio è la macchia, la siepe, la scarpata dal piano fino a 1600 m., in un sottobosco luminoso dove fra
aprile e giugno compaiono i suoi bianchi e profumati corimbi e in seguito le drupe rosse, ovali, velenose.
Spesso in comune con la Rosa selvatica o Rosa di macchia, è presente in tutte le valli dal piano fino 1800 m.
in parecchie varietà. Il fungo che lo parassita è l’ Entoloma clipeato che vive sugli alberi da frutta della famiglia
delle Rosacee, lo visitano farfalle come la Aporia Crataegi e la Iphiclides Podalirius.
Trovano qui il loro ambiente nel sottobosco ricco di
humus e umido il Rovo, l’Agrifoglio con i frutti globosi color rosso vivo e le foglie di un verde lucente, il Ligustro dai fiori bianchi e profumati, il Maggiociondolo
con i fiori riuniti in grappoli dorati. Le bacche, i frutti di molti arbusti, provvidenziale e sostanzioso nutrimento invernale per molti uccelli, che essendo refrattari alle sostanze tossiche presenti, se ne nutrono favorendo in seguito la disseminazione, sono per l’uomo insidiosi veleni.
Perché i veleni? Quale la loro funzione nella pianta? I
veleni vegetali consistono generalmente in alcaloidi e in
glucosidi ad elevato potere tossico. Gli alcaloidi sono
composti organici azotati di natura basica, prodotti ed
elaborati da piante dicotiledoni, originati nelle radici
ed accumulati nelle altre parti, come foglie, frutti, semi.
Escrezioni o secrezioni? Secrezioni, cioè sostanze elaborate da particolari ghiandole, o escrezioni, cioè sostanze che una volta elaborate vengono espulse, oppure so-
stanze aventi funzione di difesa? Diversi chimicamente
sono i glucosidi, composti costituiti da uno zucchero,
solitamente il glucosio legato a sostanze di varia natura
che si scindono per idrolisi per azione di enzimi, solitamente già presenti nello stesso tessuto vegetale in cui si
trova il glucoside. Quale la funzione fisiologica del glucoside? Da alcuni autori è considerato materiale nutritivo di riserva giustificato dalla presenza dello zucchero, secondo altri si tratterebbe di un prodotto finale del
metabolismo della pianta.
Le chiome degli alberi formano una volta protettiva che
regola la penetrazione della luce e dell’acqua piovana e
poiché durante l’inverno le latifoglie sono nude, grande è la quantità di luce che giunge al suolo e permette la
vita di molte piante erbacee ora umili, ora appariscenti,
che caratterizzano questo tipo di bosco.
Ecco le Primule, precoci e gentili annunciatrici della
primavera, le varie specie di Viole a fiori più o meno
violacei e bianchi, il Geranio sanguigno dai grandi fiori rosso scuri, la precocissima Anemone epatica: le sue
corolle azzurre costellano le foglie morte del sottobosco non ancora rinverdito, nel periodo da febbraio ad
aprile; il velenoso Elleboro o Rosa di Natale, che ancora
nel freddo inverno apre i grandi fiori bianchi; Orchidee
selvatiche dalle spighe bianche, rosse e gialle, come le
Sambucine, leggermente profumate di Sambuco, fiorite da maggio a giugno. A queste si accompagnano molto di frequente le Campanelline di primavera, e il Dente di cane; qui sparge il suo grato profumo il rosso fiore
velenoso della Daphne mezereum e fioriscono le corolle
azzurrissime delle Genziane, rappresentanti di una flora tipicamente alpina.
Propria dei grandi spazi, nella solitudine selvaggia dei
pascoli, si erge austera con la sua fioritura solare colorata di giallo intenso la Genziana Lutea o Maggiore: una
rappresentante della famiglia delle Genzianacee. Arbusteti dal substrato calcareo, luoghi solitari e franosi, ricchi di torba, bene esposti al sole, sono il suo habitat, fra
gli 800 e 2500 m. di altitudine: frequente nei boschi di
Rosereccio in Valle Anzasca e sui pendii del Moncucco.
Il suo rizoma cilindrico, lungo e grosso dal colore bruno giallastro, è la parte apprezzata dall’uomo, per la pre-
senza di principi attivi amari, sotto forma di glucosidi .
Il prof. Rossi naturalista botanico ha elencato 17 varietà
di Genziane presenti nelle Valli Ossolane, il loro habitat e l’epoca di fioritura ; fra queste le più comuni sono
la G. Acaulis cosidetta per il fusto brevissimo, dall’intenso azzurro delle corolle tubulose, con riflessi metallici; la G. Verna o genziana di primavera fiorisce da marzo ad agosto nei prati umidi della Val Formazza e alle
falde del Monte Rosa da 800 fino a 3500 m. di altitudine dove i piccoli fiori dall’azzurro intenso e brillante
riuniti a chiazze spiccano sui pascoli ancora rinsecchiti dal gelo.
E’ ancora questo l’orizzonte di una profumata Liliacea
il Mughetto, messaggero della primavera. Con la bianca
e profumata fioritura abbellisce il sottobosco nelle Valli Vigezzo, Anzasca, Antigorio e Bognanco; i glucosidi
presenti, ad azione cardioattiva sono mortalmente velenosi per l’uomo.
Nel sottobosco fresco e ombreggiato a volte anche nel
prato soleggiato e scoperto, su terreno calcareo, ricco di
Gli alti boschi ai piedi del Monte Cistella.
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humus fino ad un’altitudine da 300 a 2200 m. in tutte le Valli Ossolane trova il suo habitat una Primulacea
il Ciclamino, Cjclamen purpurescens, dal solitario fiore rosso violaceo, profumato, presente da giungo a ottobre; nel tubero sta il suo veleno , il glucoside detto ciclamina e alcune saponine, il tutto è tossico e fortemente anemizzante.
Dal piano fino a 2000 m. cresce la Betulla, Betula Alba,
famiglia delle Betulacee dalla caratteristica corteccia
bianco argentea e dalla chioma rada e luminosa, formata da giovani rami flessibili, e da fogliame leggero e
brillante. In primavera compaiono i fiori maschili sotto forma di lunghi amenti gialli tremuli e ricadenti, che
differiscono dai femminili, più corti con gli stigmi rossi, il frutto sarà un piccolo achenio alato
Presente nell’Ossola nelle sue tre varietà: B. alba, B. pubescens, e B.verrucosa, è pianta adatta ad insediarsi anche in terreni inospitali e poveri, a resistere alle oscillazioni di temperatura e di umidità, al congelamento del
suolo: è una pianta pioniera, anche perché ha grandi
capacità di disseminazione e di riproduzione. Sulle vecchie Betulle ammalate vive un fungo Poliporo, il Piptoporus betulinus, che ne favorisce il disfacimento, fungo
parassita annuale che necessita della linfa della Betulla per sopravvivere, e scompare alle prime gelate. Altri
funghi compagni della Betulla sono il Boletus albidus e
il Paxillus involutus, il Cortinarius armillato.
Molteplici sono gli usi dei prodotti di questa essenza:
dalla corteccia come combustibile ed isolante, alla linfa per ricavarne zuccheri e bevande, dal legname nell’industria dei compensati, o per piccole attività artigianali, al tannino che si estrae dai suoi tessuti.
E’ questo l’habitat anche di una Cupolifera dal medio
portamento, il Carpino, che ama terreni silicei anche
aridi. Si presenta con un tronco dalla corteccia grigia e
liscia, la chioma folta, le radici superficiali, fiori maschili e femminili, il frutto è un achenio con un seme protetto da una membrana. E’ un’essenza di interesse forestale.
Abbastanza diffusa nei piani collinari, fino a 1000 m,
non avendo predilezioni di terreno, è una Tiliacea, il
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Tiglio, Tilia Cordata. Albero alto, dalla chioma notevolmente espansa, a crescita lenta, assai longevo, fino
a 1000 anni di età. Giugno è il suo mese: pendono dai
rami i fiori di colore giallastro, riuniti in radi corimbi,
intensamente profumati per la presenza una essenza, il
farnesolo che attira le api, che oltre a bottinare polline in abbondanza, svolgono anche funzione pronuba.
Del Tiglio è prezioso il legno tenero usato per utensili e la corteccia da cui si separa una fibra per funi rustiche e resistenti.
Ancora l’orizzonte sub montano è la sede del Castagneto: bosco luminoso, con le fronde chiare e, nel periodo della fioritura, a giugno, con le chiome dorate degli
amenti. Il Castagno è una Cupolifera, «l’arbul» quando è da frutto, «ul salvag» quando è ceduo, per la produzione del legname, è maestoso, raggiunge anche i 30
m di altezza e può vivere secoli; è moderatamente termofilo, legato ad un terreno acido. Prezioso alleato dell’uomo nella lotta per l’esistenza, produce buoni frutti,
legname ottimo e robusto, foglie per lettiera nella stalla, ombra tenue e riposante che ospita un ottimo pascolo ed una buona produzione di funghi: Boletus edulis
o porcino, il Cantharellus cibarius o gallinaccio, Russula Vesca che, intimamente legati agli alberi, sviluppano il loro micelio fino a contatto delle giovani radici vivendo in simbiosi detta micorrizica; di funghi si nutrono piccoli animali micofagi, come lumache, chiocciole, insetti. Quale la funzione del fungo nel sottobosco?
E nell’equilibrio della natura? Il suo ruolo in collaborazione con Batteri, è quello di decomporre gran parte della materia organica distruggendo residui vegetali
e restituendo alla terra cellulosa, lignina, cheratina per
trasformarla in Humus ed elementi e minerali semplici
che saranno riutilizzati dai vegetali superiori.
Il Fungo che vediamo spuntare fuoriterra è solamente
il corpo fruttifero che ha funzione di diffondere le spore per la riproduzione, il corpo vegetativo vive nel terreno o nel legno sotto forma di filamenti sottili, le Ife
che con il loro intreccio costituiscono il Micelio. Il Fungo è un vegetale eterotrofo che mancando di clorofilla è incapace di fare la fotosintesi ed è destinato a procurarsi il nutrimento sotto forma di composti organici
già sintetizzati da piante superiori, se le sostanze sono
assunte direttamente da altri organismi viventi, siamo
in presenza di Funghi parassiti, che forniti di ramificazioni dette “ austori “ penetrano nelle cellule dell’ospite per sottrarne le sostanze, causando alterazioni, malattie ed anche morte. Se il nutrimento è fornito da substrati morti, i Funghi si dicono saprofiti, sono invece
simbionti quelli in rapporti mutualistici con gli esseri da cui ricavano il nutrimento. La riproduzione può
avvenire per frammentazione del Micelio, e viene detta
vegetativa; la riproduzione sessuata avviene per mezzo
delle spore, formazioni leggerissime della misura di millesimi di millimetro, che portate dal vento, una di sesso
maschile e una femminile e germinando accanto, troveranno le condizioni necessarie per lo sviluppo di un micelio. Le spore sono situate sotto il cappello del Fungo
o fra le lamelle,o in piccolissimi tubuli.
Nell’ambiente fresco e umido del castagneto il sottobosco non è tipico, ma varia a seconda della luminosità,
delle caratteristiche del suolo, dell’altitudine, dell’esposizione. Si incontrano cespi di Felci, zolle di Paglietta
odorosa; tappeti di Muschi, come il Politrico; graminacee come la Festuca ovina, la Betonica officinale, arbusti di Ginestra e di Brugo e nelle zone più fresche il
Mirtillo nero.
Non si può pensare a un bosco di montagna senza pensare alle Felci. Delle Felci, Crittogame prive di fiori, di
frutti e di semi, sporgono dal suolo solamente le fronde verdi che hanno la duplice funzione, la clorofilliana
e la riproduttiva; vive nel terreno un rizoma orizzontale
da cui partono numerose radichette. Il segreto della riproduzione sta infatti sulla pagina inferiore delle fronde, su cui al momento opportuno, cioè verso la metà
dell’ estate, compaiono piccole sfere di color ruggine,
i sori nel cui interno stanno i minuscoli sporangi che
a loro volta contengono le spore che verranno lanciate
lontano anche portate dal vento e cadendo su un terreno sufficientemente umido produrranno una piccolissima lamina di colore verde detta protallo su cui si svilupperanno gli organi sessuali, gli anteridi e gli archegoni:
quando saranno maturi sarà indispensabile una goccia
d’acqua perché elementi maschili e femminili si uniscano per dare origine a una nuova pianta.
Della famiglia delle Leguminose è la Ginestra, Spartium Junceum, la pianta pioniera per la grande capacità
di colonizzazione su substrati poveri e aridi, sulle scarpate degradate dove cresce come arbusto dai grandi fiori gialli, alti sui rami, da cui prendono origine i frutti,
legumi di colore nero che contengono 12- 18 semi lucidi, marroni, velenosi, ma tutta la pianta , anche corteccia e radice è velenosa, per la presenza di un alcaloide
tossico, la citisina. Simile è la Ginestra detta dei carbonai, Citisus Scoparium dalla cui sommità fiorita si ricava la sparteina alcaloide ad azione cardioattiva.
Si nutrono dei suoi nettari farfalle come la Callistege
mi, la Callophryis rubi.
Il Brugo è il nome celtico dell’Erica, Calluna Vulgaris, che dà il nome alla sua famiglia: Ericacee. Tipica
dei terreni acidi, piccola pianta molto ramificata, dalle foglioline persistenti, spesso simili a scaglie e fiorellini bianchi o rosei molto ricercati dalle api e dalla farfalla Argo, Plebeius argo. Nelle Brughiere, su terreno siliceo crescono funghi come il Cortinarius armillato e la
Calvatia Utriformis o Vescia di lupo, saprofita che vive
a spese di resti organici.
Sempre nel sottobosco del Castagneto il Mirtillo Nero,
Vaccinium Myrtillus, piccolo arbusto che copre intere
aree fresche dei boschi anche di Conifere e Faggi, fiorisce a maggio giugno con piccoli fiori penduli rosa verdastri che forniscono un ottimo banchetto di nettare
per insetti dalla lunga proboscide, come le api, men125
tre larve di svariate farfalle si nutrono delle foglie. In
autunno le dolci bacche nere dalle delicate pruine blugrigie, ricche di vitamine e zuccheri offrono un ricco
raccolto all’uomo e agli uccelli. Nel passato dal suo succo si ricavava il colore viola da usare per tingere carta
e tessuti. Cresce sotto gli arbusti di Mirtilli un Fungo,
l’Amanita Virosa che ama terreni silicei.
Invece su terreno di preferenza calcareo cresce il Sorbo
Selvatico o Sorbus Aucuparia, famiglia delle Rosacee,
alberello dai fiori bianchi, riuniti in corimbi e da frutti
vistosi di colore rosso scarlatto appetiti dagli uccelli che
diffondono poi i semi nelle località più impensate a volte anche inaccessibili.
Superata la zona delle Querce e del Castagno, nella fascia detta montana, dove l’ambiente acquista carattere
un po’ più alpino e si incontrano i primi boschi di Faggio, Fagus Silvatica, famiglia delle Cupolifere.
La Faggeta esposta solitamente sul versante nord è la vegetazione caratteristica di un ambiente ben definito tra
i 900 e 1500 m con condizioni climatiche equilibrate;
con oscillazioni di temperatura poco accentuate, elevata umidità, poco ventilato, suolo a carattere sciolto permeabile e fresco, quando la Faggeta cresce indisturbata per lungo tempo, diventa per la sua maestosità una
tra le più belle foreste del mondo, anche ultrasecolari; può essere pura, cioè costituita esclusivamente da alberi di Faggio, o mista, per la presenza di Abete Bianco e Rosso.
Il Faggio è un albero imponente che raggiunge anche
30 – 40 m di altezza, il fusto è diritto, la corteccia è
grigia, spesso con macchie scure dovute a fitte colonie
di Licheni o di Muschi lungo il lato più umido, le foglie ovali, ondulate, rossastre. In primavera compaiono i fiori maschili, amenti biancastri e quelli femminili eretti protetti da un involucro; il frutto sarà la faggiola, racchiusa in una cupola coriacea spinosa. Molto utile all’uomo per il legname usato come combustibile ed
anche in falegnameria, per le foglie che servono per il
bestiame come lettiera, per il frutto, prezioso alimento
di animali selvatici, per il seme da cui si estrae un olio
utile per la fabbricazione dei saponi.
Il sottobosco non è molto ricco perché dove la faggeta è rigogliosa e fitta, l’ombra impedisce l’insediamen126
to di molte specie vegetali, è migliore invece dove il bosco è misto.
Fra gli arbusti si trovano il Maggiociondolo; i cespugli di Brugo, di Mirtillo, l’Erba Ginestrina. Fra le piante erbacee l’Acetosella dai fiori bianco rosati, l’Asperula dorata o Stellina odorosa, la Viola silvestre non profumata e pallida, l’Anemone epatica. Soffici tappeti di
Muschi tappezzano le radici che affiorano ed emergono
dallo strame di foglie morte, ed in autunno, al limitare
del bosco di Faggio, abbondano i Funghi come il gustoso Boleto, l’Agarico saponaceo e quello viscoso, il Pluteo Cervino in gruppi numerosi sulle ceppaie, il Cantharellus cinereus che vive in gruppi più o meno fitti
esclusivamente sotto i Faggi, le Colombine, le Rossole,
le velenose Amanite, l’Hygrophorus marzuolus, la tossica Inocybe.
Nel verde del bosco, da aprile a giugno spiccano i grappoli dorati dei fiori del Maggiociondolo, o Cjtisus Laburnum famiglia delle Leguminose che cresce fino ad
un’altitudine di 2000 m. meglio su terreno calcareo. E’
un arbusto alto da 5 a 7 m., la sua chioma consta solamente di pochi rami eretti e di numerosi getti laterali molto corti che terminano con un ciuffo di foglie da
cui fra aprile e giugno partirà l’infiorescenza spiovente, a forma di grappolo, composto da 10 a 30 fiori dalla
corolla papilionacea, nettariferi, visitati da insetti pronubi. Dai fiori prenderanno origine i frutti, maturi in
ottobre, legumi di colore bruno, lunghi 5-6 cm. contenenti 7 semi scuri, duri e molto tossici, che se ingeriti
causano vomito violento con presenza di sangue. Mentre conigli, pecore e capre si cibano impunemente delle
foglie, tutta la pianta è pericolosa per l’uomo per la presenza di citisina, alcaloide fortemente neurotossico che
dà effetti simili a quelli della stricnina, prima eccitanti,
poi paralizzanti.
Salendo fino al limite di 2000 m. ci si trova nelle Pinete,
boschi ora bui, ora luminosi, sempre profumati di resina: qui l’essenza principale è il Pino Silvestre, uno degli
alberi più comuni e familiari presente in tutta l’Ossola,
dove crescono le più belle fustaie del Piemonte. Mentre il Faggio cresce sul versante nord, alla stessa altitudine, sul versante sud, cresce il Pino, anche su terreni de-
nudati e rupestri, resistente ai venti dissecanti e ai geli
tardivi. La Conifera dalla caratteristica chioma conica,
dal tronco diritto, dalla corteccia squamosa bruno rossastra da giovane, poi color cenere, ha una poderosa radice a fittone e le laterali molto allungate, apparato radicale così espanso che lo rende resistente all’impeto dei
venti. Diventa alto fino a 40 m., e tanto longevo che
può superare 5 secoli di età. Le foglie aghiformi brevi,
persistenti per 2- 3 anni sono appaiate a due a due, le
infiorescenze maschili assomigliano a piccole pannocchie di stami gialli che per mezzo del vento diffondono abbondante polline, che si poserà sui fiori femminili. Nella primavera successiva il piccolo cono femminile
fecondato crescerà assumendo la forma di pigna, dapprima verde, poi dopo il secondo inverno le squame diventeranno scure e infine legnose; quando la pigna sarà
matura le squame si apriranno per liberare i semi che il
vento porterà lontano: disseminazione anemofila.
E’ il più prezioso dei Pini, ricco di olii essenziali, dalle screpolature della corteccia o da incisioni, cola una
oleo-resina da cui si ricava la trementina poi per distillazione si ottiene l’acquaragia. Nelle Pinete il sottobosco
può assumere aspetto quasi di steppa con piante frugalissime adatte all’aridità dell’ambiente, come Graminacee Cespitose: tappeti di Festuca ovina, buona foraggiera da pascolo, l’Erica carnea, cespugli di Ononide,
una leguminosa infestante dai fiori rosati e fusti spinosi,
Muschi, e tra i Funghi il Boletus luteus, l’Agarico detto color di terra, il Cantharellus cibarius o Gallinaccio
dal dolce profumo e dalla polpa soda e saporita, l’Hygrophorus pustulatus, Russole e Amanite, l ’Agarico rutilante esclusivo sui vecchi ceppi di Conifere che colonizza contribuendo alla loro decomposizione.
Il micelio di tutti i Boleti vive in simbiosi con le radici degli alberi, ragione per cui essi spuntano solamente nei boschi o al loro margine. Dove è più puro e più
caratteristico, questo bosco ospita la Rosa Canina con i
rossi Cinnorodi; il Crespino Berberis Vulgaris, arbusto
con fiori gialli a grappoli, frutti a forma di bacca bislunga, ricco di alcaloidi.
Il Ginepro, Juniperus Communis, è l’arbusto pioniere
proprio dei prati incolti, dei pascoli secchi, delle radure e delle brughiere fino anche al limite della vegetazio-
ne arborea, resistentissimo ai climi freddi e ventosi delle
località di alta quota, fino a 2500 m. di altitudine, dove
in condizioni quasi estreme di vita, il cespuglio assume
forma prostrata. E’ anch’esso una Conifera dalle fitte
foglie aghiformi dioica con fiori su piante maschili diverse da quelle femminili che impollinati assumeranno
l’aspetto sferico di un pisello e matureranno dopo due
anni delle pseudo-bacche dette coccole, sugose, di colore verde bluastro ghiotto cibo per gli uccelli come tordi e gallocedroni che provvederanno così alla dispersione dei semi. Uccelli, lepri, insetti, i mille deboli del bosco trovano fra i cespugli asilo e cibo.
Nell’intrigo del bosco vive anche il Juniperus Sabina:
la pianta è velenosa in tutte le sue parti, è un Ginepro
che differisce dagli altri per le foglie squamiformi, piccolissime, appiattite e per i frutti detti galbuli, di colore nero bluastro.
Ad un’altitudine di 1400 m. ambientato fin quasi a
2000. Sempre sul versante nord, cresce una Conifera
maestosa, l’ Abete Bianco, Abies Alba dal tronco diritto,
cupola conica con rami quasi orizzontali, aghi semplici,
di colore verde scuro, persistenti da 8 a 11 anni; fiorisce
in aprile-maggio con amenti maschili gialli e coni femminili verdastri, da cui origineranno pigne erette lunghe fino a 16 cm. che si distinguono per questo da quelle pendule dell’ Abete rosso. La pianta è longeva, ha le
esigenze climatiche simili a quelle del Faggio e può vivere fino a 800 anni, raggiungendo 50 m. di altezza. Gli
estesi fittissimi boschi della Valle Vigezzo sono formati
da Abete Bianco; nel suo sottobosco, detto Pecceta, crescono piante ombrivaghe come il Poliporo o Spugnola,
l’Amanita Phalloide , la specie più pericolosa di tutta la
flora fungina, l’Amanita Panterina, il Lactarius Rufus.
Una specie ancora più montana è l’Abete rosso Picea
Abies, conifera propria della fascia subalpina, sul versante nord fra 1400 e 2300 m. di altitudine. Pur essendo una pianta mesofila, resiste anche ad una siccità moderata, tollera basse temperature invernali, gelate primaverili. Il suo nome deriva dal colore rosso bruno della corteccia; una delle sue caratteristiche è la chioma
conica costituita da rami lunghi interamente coperti di
piccoli aghi verde scuro e da cui pendono pigne affuso127
late lunghe circa 10 cm. I semi alati sono affidati al vento, e per questo l’ albero si diffonde con facilità. Il tronco è diritto e solido come una colonna; i rami spesso ricadenti si caricano di Licheni dalle lunghe barbe, grigi,
neri, e gialli: barbe di Usnea o barba di bosco, ciocche
di Alectoria jubata, sui tronchi cespuglietti di Evernia
grigia e gialla, e di Pseudoevernia furfuracea.
L’Abete rosso è l’albero più longevo nell’altitudine compresa fra 800 e 1800 m ed anche il più produttivo per
il suo pregevole legname. Riunito in boschi, le Peccete,
forma uno degli ambienti più caratteristici e suggestivi
del paesaggio vegetale alpino.
I Licheni, famiglia delle Parmeliacee, Crittogame striscianti, senza rami, né fusto, né foglie, né fiori, con il
corpo vegetativo formato da un’Alga e da un Fungo in
perfetta simbiosi, cioè in una convivenza stretta di organismi diversi che traggono entrambi un vantaggio. In
questo caso le ife del Fungo si localizzano fra le cellule
dell’Alga, all’Alga verde il compito della fotosintesi clorofilliana e la formazione di carboidrati, al Fungo quello di fornire all’Alga l’ambiente umido e l’assunzione di
acqua e di sali minerali disciolti: è così che il Lichene
vive dove Alga e Fungo isolati non vivrebbero.
Diversi nell’aspetto per colore e per forma e per habitat, pionieri per eccellenza, si insediano anche sulle rocce più impervie e con la presenza di enzimi provocano
il disfacimento superficiale delle rocce iniziando così la
formazione dell’humus che permetterà in seguito l’insediamento di piante più esigenti. La riproduzione può
avvenire in tre modi: o per via vegetativa per distacco
di parti del tallo, o conidiale, per la presenza sul tallo di
picnidi nel cui interno si formano microconidi.
Importanti nell’economia del bosco perché rappresentano il cibo per molti animali, dai piccolissimi invertebrati, fino alle renne, caribù, alci nei paesaggi artici.
A causa della longevità e crescita assai lenta alcuni Licheni possono servire a datare i substrati su cui crescono, il più indicato a questa indagine è un Lichene rupicolo che cresce cioè su un substrato roccioso il Lichene
detto Geografico, il Rhizocarpum Geographicum, caratteristico per il colore giallo, con il tallo che cresce di
mezzo millimetro all’anno in forma circolare: misurando il diametro dei talli si può risalire alla loro età e al
128
momento del loro insediamento sul substrato roccioso.
Il sottobosco è talora quasi desertico solo ricoperto da uno
strato di aghi secchi, oppure dallo spesso e soffice tappeto di aghi spuntano, dove penetra il sole, il Mirtillo nero,
il Mirtillo rosso, il Rododendro, il Lampone, il Rovo.
Il Mirtillo rosso, Vaccinium Vitis Idaea, famiglia delle
Ericacee è un piccolo arbusto alto da 10 a 20 cm. che
vive su terreni poveri, meglio se acidi, nel sottobosco
delle conifere fino a 3000 di altitudine formando tappeti anche molto estesi di colore verde cupo. Dai fiori bianchi e rosei riuniti in piccoli mazzi all’apice del
ramo, prenderanno origine i frutti, bacche rosse dal sapore acidulo. Volano sulle piantine di Mirtillo due specie di farfalle, la Lasiocampa Quercus e la Zigaena Exulanas che hanno effetto pronubo.
Il Rododendro, Rhododendron ferrugineum, famiglia
delle Ericacee, è molto frequente su terreni acidi, nei
pascoli ricchi di humus e anche su rocce, su burroni
sassosi, purchè ben soleggiati, sono gli arbusti contorti tipici del piano subalpino e della fascia alpina in versanti con nevi abbastanza persistenti, che invadono velocemente anche i pascoli abbandonati. La pianta è legnosa a forma di cespuglio, con pochi rami e robuste
radici, piccole foglie coriacee resistenti, di colore verde
cupo nella pagina superiore, e color ruggine sotto. In
estate compaiono i fiori di colore roseo tendente al rosso, riuniti in un corimbo alla sommità dei rami; dai fiori prenderà origine il frutto, una capsula allungata contenente numerosi piccoli semi. La pianta è velenosa in
tutte le sue parti e in modo particolare lo sono le foglie, con azione narcotica. Gli acidi speciali che produce rendono impossibile lo sviluppo alle erbacee circostanti, è invece chiamata “balsamo alpino” per la ricchezza delle sostanze volatili contenute nelle sue foglie,
e anche “rosa delle Alpi” per la bellezza della sua fioritura. Sulle foglie possono essere presenti le Galle, secrezioni rotondeggianti che si formano in seguito ad una
azione irritante provocata da un fungo, l’Exobasibium
Rhododendri, o da parassiti; sono formazioni dannose per la pianta.
Chiamati dagli Ossolani “ratagin” i Rododendri sono
molto comuni fino a coprire vaste zone di praterie alpi-
Una varietà di sassifraga.
ne come al Passo del Sempione, sulle sponde del lago di
Codelago in Alpe Devero, o su quelle del lago formato
dalla diga di Cheggio in Valle Antrona, rodoreti in Val
Vigezzo all’alpe Campra, in Valle Anzasca all’Alpe Rausa, in Valle Antigorio i “Rater” della Colmine , in Val
Bognanco i “Ratagin” dell’Alpe San Bernardo. Il prof.
Rossi nel suo studio sulla Flora ossolana cita la presenza
di due specie: il R: Hirsutum presente i Val Divedro e
qualche esemplare alla Cascata del Toce e il R. Ferrugineum il più frequente, legato al substrato siliceo. Molto più rara è la varietà Albiflora presente sul Sempione
e in Devero. Si nutre sul Rododendro una farfalla diurna, la Zigaena Exulans che può vivere fino a 3000 m.
di altitudine.
Fra le scarse piante erbacee è ospite una graziosa fragile
pianticella fiorita di campanelline rosate che per la sua
diffusione assai notevole nelle selve della Svezia, fu dedicata al botanico Linneo: la Linnea Borealis. (Linneo
naturalista svedese 1707-1778).
Abbastanza comune sono il Rovo, Rubus Fruticosus,
e il Lampone, Rubus Idaeus, famiglia delle Rosacee.
Sono arbusti con stoloni serpeggianti e rami flessuosi e
ricadenti, spinosi, che formano dei grovigli: dopo la fioritura estiva compaiono abbondanti i frutti: rosso vivo,
un po’ pelose le drupeole del Lampone, dal delizioso
profumo e dal dolce sapore; rosso-brunastre e acidule le
more del Rovo pronte da cogliere da luglio a settembre.
I Muschi sono tallofite che per la presenza di piccole foglie verdi sono autotrofe, e compiendo la funzione clorofilliana, non sono mai dei parassiti, ma quando ricoprono il suolo con fitto intreccio diventano dannosi alle piante erbacee e quando vivono sui tronchi degli
alberi, recano danno perché ricoprono le lenticelle della corteccia ostacolando il ricambio di aria e di umidità. Il loro ambiente è il sottobosco, dove hanno la loro
La Pecceta con il terreno ombreggiato e ricco di humus
è il paradiso delle Crittogame: assumono grande importanza la copertura di Muschi e la presenza di numerose specie di Funghi a terra o sulla corteccia, che vivono in simbiosi con le piante forestali: qui il Cortinarius
Traganus, la Psalliota Silvatica o Agarico dei boschi, lo
Strobilus esculenta sulle pigne interrate dell’ Abete rosso, l’Amanita Muscaria.
129
importanza nell’economia della natura, talora piccolissimi, talora alti fino a 10 cm. più o meno muniti di rizoidi che hanno funzioni simili a quelli delle radici delle piante superiori, e di minuscole foglie, essi assorbono acqua in tutto corpo, trattenendone fino a 6-7 volte il loro peso secco e limitano così i dilavamenti dovuti
alle impetuose piogge. Costituiscono un microcosmo
cui si collegano fauna e flora microscopiche, sono diffusi con una infinità di forme, fino alle regioni glaciali,
comprendono circa 12000 specie, dagli Sfagni che vivono in estesissime formazioni e costituiscono le torbe,
ad altri come il Polytricum che formano nelle zone artiche le immense distese delle tundre. Ogni tipo di substrato e di roccia ha i propri Muschi che funzionano anche come indicatori dell’acidità del substrato. La riproduzione avviene o per via vegetativa per distacco di vari
rametti o di frammenti di fusto su cui si formano piccole gemme che produrranno nuove piante, oppure per
spore che raccolte nel sacco sporigeno vengono disseminate da movimenti igroscopici.
Rara nell’Ossola è la presenza del Pino Cembro Pinus
cembra sul versante sud della fascia subalpina, ma esemplari si trovano fino ai ghiacciai del Sempione, in Valle
Anzasca, in Val Formazza, nei luoghi più aspri dove non
crescono altre specie.
Infatti questa conifera non teme né le altitudini, né i rigori dell’inverno, cresce lentamente con radici profonde e vigorose, tronco diritto o contorto, alto fino a 20
m, porta strobili eretti, grossi alla sommità dei rami. La
gazza nocciolaia è il valido agente disseminatore: nasconde i pinoli per cibarsene ed alcuni, nel frattempo,
germinano.
Se la Cembreta è insediata su terreno calcareo, nel suo
sottobosco prevalgono i Ginepri, i Rododendri irsuti,
la Vitalba o Clematide alpina, l’Erica carnea, la Dafne
Striata, il dorato Eliantemo, cespuglio delle Cistacee dai
fiori gialli disposti a grappolo.
Ma l’albero alpino per eccellenza è il Larice, Abies Larix, una Conifera che raggiunge le più elevate altitudini, fino a 2500 m, sopportando inverni rigidi e prolungati. Amante della grande luce e degli spazi incontrastati, cresce proteso verso il cielo e solidamente abbarbica130
to al terreno, con le radici spesso insinuate nelle fessure
della roccia.
È l’unica Conifera che perde le foglie in autunno, difendendosi così dalla perdita di acqua per traspirazione
fogliare e resistendo ad inverni freddissimi e prolungati,
ma tollerando bene anche temperature estive abbastanza elevate. Quasi fiabesco è l’aspetto autunnale dei larici, che appaiono soffusi di un tenue colore giallo e tutto
il sottobosco si copre di uno strato soffice e fine di aghi
dorati; forse per queste note di colore il Larice è stato
chiamato il «sorriso della montagna».
Caratteristico per le sue esigenze di luce, raggiunge 40
m di altezza e due metri di diametro; ha chioma piramidale leggera e rada, tra il cui verde tenero spiccano in
primavera i giovani coni femminili, rossi. A settembre
sono mature piccole pigne diritte, marroni, con squame
circolari che custodiscono due semi tondi alati. Cresce
sulla corteccia la Letharia vulpina, un Lichene velenoso,
di colore fra il giallo intenso e il verde. Essenza molto
utile all’uomo come valido riparo per le valanghe, il suo
legname viene usato anche per la travatura delle baite.
La luce che penetra calda e riposante fra le chiome, permette e ravviva un ricco sottobosco erbaceo, utilizzato
per il pascolo; la Festuca, il Nardo, il Trifolium montanum con fiori bianco giallastri, il Trifolium alpinum
con fiori odorosi rosso porporini, ottimo foraggio ricercato dai camosci, mentre le marmotte si nutrono volentieri delle grosse radici dal sapore dolce di liquirizia. Fra
gli arbusti a cespuglio: la Rosa pendulina dalle rosse corolle prive di spine, il Lampone, la Clematide alpina dai
grandi fiori cerulei, la Dafne striata con rossi mazzetti,
Mirtilli, Rododendri, Erica carnea, molti Muschi e Licheni o corticicoli o pendenti dai rami.
Numerose le piante erbacee fiorite: risaltano con particolare evidenza le Genziane, gialle, punteggiate, rosse,
porporine, azzurre, il Giglio martagone, con l’eleganza
dei suoi fiori, l’Arnica dorata, che pur se velenosa trova
molte applicazioni nella medicina popolare.
Il suolo ricco di humus ospita funghi: varie specie di
Boleti, Lattari, l’Hygrophorus lucorum, sulle cortecce
l’Agarico bianco.
Con un graduale diradarsi di alberi, i boschi lasciano il
posto alla fascia alpina, tipica di vegetazione detta delle
piante legnose contorte, in cui la boscaglia si riduce ad
arbusti, ad una vegetazione ipsofila, amante cioè dell’altitudine, che può giungere fino a 3000 m.
E’ questa la zona del Pino montano di cui si trovano
esemplari al Sempione. È la conifera più differenziata nel comportamento, infatti dalle forme arboree alte
fino a 25 m si passa alla forma cespugliosa ed alla forma strisciante e tortuosa, a significare la lotta incessante
contro le impetuose avversità del clima. Nel sottobosco
dense compagini di Erica carnea, di Juniperus sabina
e Juniperus nana con foglie rigide e pungenti e bacche
aromatiche, crescono nelle zone più soleggiate, dove le
nevi sono meno persistenti appiattendosi al suolo per
raccogliere il calore irradiato dalla roccia del substrato.
Altro tipico bosco in miniatura è quello dovuto all’Ontano, Alnus Glutinosa, una Betulacee.
Alto circa 150 cm con folti rami e foglie che spuntano
presto, al primo sciogliersi delle nevi, ama molto l’umidità e si insidia preferibilmente sulle ripide pendici silicee, soprattutto sui versanti a nord, dove scendono le
acque dei ghiacciai e nevai disciolti.
Cresce lungo canaloni, su detriti scoperti, su greti di
torrenti, con funzione pioniera, proteggendo ed arrestando i detriti, non teme infatti la caduta di slavine,
perché i suoi rami elastici si piegano, poi risorgono indenni. E’ una essenza monoica con amenti maschili e
femminili sulla medesima pianta; le sue radici presentano delle nodosità prodotte da uno schizomicete, l’Actinomyces alni batterio che permette all’albero di fissare
direttamente l’azoto atmosferico. Il tronco è diritto con
corteccia grigiastra, screpolata, grande espansione della chioma verde fino all’autunno. Dopo l’impollinazione le infiorescenze femminili si ingrossano rapidamente originando coni tozzi, verdi, di 6 mm. di diametro,
che in autunno diverranno scuri e duri, con rigide scaglie che si apriranno per disperdere i semi. Il sottobosco
ha caratteri di provvisorietà con alte erbe: Lattuga alpina ispida fiorita intensamente di azzurro, Aconito Napello dal decorativo elevato racemo fiorifero color indaco cupo, e dalla sua pericolosa velenosità, la rara Aquilegia Alpina.
Una vegetazione frugale, altamente specializzata, incapace di vivere fuori di questo ambiente di isolamento,
esiste sulle rupi e sui detriti e sulle più aspre pietraie, e ai
margini dei nevai perenni come le Stelle Alpine e le Artemisie del Ginepì, Artemisia Spicata e Artemisia Laxa,
Semprevivi e Sassifraghe, Papaveri Alpini, Primule Alpine come la Hirsuta, Miosotide nana, e il Ranunculus
Glacialis detto Erba dei Camosci, che può giungere alla
massima altitudine di m. 4272 (per curiosità: nelle Alpi
Bernesi). Sulle rocce nude si trovano le Crittogame, microscopiche Alghe azzurre, Licheni crostosi, tappeti di
piccolissimi Muschi.
Sono vegetali che hanno trovato sistemi di difesa abilissimi: gli arbusti si fanno striscianti, con rami contorti
seguono le asperità del suolo, con robuste radici si salvano dalla furia del vento, si ricoprono frettolosamente
di neve per proteggersi dai geli invernali, protezione che
ottengono anche aumentando la quantità di zuccheri
presenti nelle cellule in modo che, con la densità, subiscano più difficilmente il congelamento: così ad esempio la Silene Acaule che vive anche a 15° sotto zero, la
Genziana Brachyphilla e alcune Androsacee che tollerano anche i meno 30°.
Un’altra difficoltà è rappresentata dalla scarsità di acqua
che d’inverno è solidificata sotto forma di ghiaccio, e in
estate evapora rapidamente sulle rocce roventi o si disseca per il vento, in questo caso la difesa consiste nel ridurre la traspirazione rimpicciolendo le foglie, rendendole impermeabili con cuticole o con lanuggini, immagazzinando liquidi in speciali organi di riserva.
Sotto la neve vengono preparate le gemme fiorali, perché l’estate sarà breve, e i fiori avranno colori molto vistosi per richiamare i pochi insetti pronubi presenti, saranno i colori azzurri a difendere dalla intensità dei raggi ultravioletti, e le superfici lucide a riflettere i raggi del
sole. Durerà poco un fiore, sarà sufficiente un acquazzone o una gelida pioggia a distruggerlo per cui non sempre il ciclo riproduttivo si compirà, anche perché i semi
potranno venire dispersi dal vento o dalle tempeste.
E più in alto nulla?
Finisce qui la vita vegetale appariscente, ma vivono sulle nevi numerose Alghe microscopiche come Diatomee
e Cloroficee che costituiscono il “Crioplancton” o Plancton dei ghiacciai.
131
Per la vegetazione così impoverita, la quota massima
raggiungibile dipende dalla resistenza propria della singola specie e dalla possibilità e fortuna di trovare una
nicchia accogliente, dalla capacità di sopravvivere e riprodursi al di sopra del limite delle nevi perenni, che il
sole estivo non riesce a disciogliere. Trovano la più eccelsa e gelida dimora a queste altitudini specie simili o
addirittura le stesse delle terre polari artiche: delle 47
Fanerogame segnalate alla Capanna Vincent sul Monte Rosa (m. 3158), 10 sono comuni allo Spitzberg, arcipelago del Mar Glaciale Artico, 14 alla Lapponia; alla
Punta Gnifetti (m.4559) persistono ancora 12 specie di
Licheni, e alla Dufour (4630), ancora 6 specie, fra cui
il Rhizocarpum Geograficum.
(Queste ultime notizie sono tratte dal volume: Conosci
l’Italia : La Flora. T.C.I.)
I prati
Sul fondo delle vallate, seguendo il corso dei fiumi e dei
torrenti si estendono paesaggi aperti e luminosi, gioiosamente ricchi di fiori: le praterie che, a seconda dell’altitudine, dell’umidità, della natura e della coerenza del
substrato, presentano profonde differenze, di aspetto,
di composizione, di valore economico. Infatti servono
all’uomo essenzialmente per la nutrizione del bestiame,
secondo le esigenze, le stagioni, le consuetudini locali,
le specie di animali presenti.
Si può quindi considerare il prato come una particolare associazione condizionata dall’intervento periodico o
costante dell’uomo che nel corso dei secoli ha sottratto ampie superfici alla vegetazione naturale, eliminando piante infestanti e favorendo la crescita di foraggiere in una grande varietà di specie: prato che vai, erbe e
fiori che trovi…
La composizione di un prato è quanto mai eterogenea. Piante diverse si associano: alle Graminacee, si accompagnano Leguminose, Ranuncolacee, Composite:
Avena elatior, Erba mazzolina, Paleino odoroso, Coda
di topo con lunghe spighe cilindriche, Coda di volpe,
Piantaggine, Gramigna dei prati, Loglierello, Erba del
cucco o Silene inflata dai fiori bianchi e foglie eduli, Trifoglio pratense che si espande arrossando tutto il prato, Ranuncolacee tutte velenose od irritanti, che danno una gialla nota festosa. Sono presenti la Vulneraria,
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il Mjosotis di cui si trovano fiorite varie specie, a seconda delle altitudini, nei campi incolti e nei pascoli o sulle
rive dei ruscelli, nei prati più freschi la Viola tricolore,
Carota selvatica, Cerfoglio, Tarassaco dalla bella fioritura gialla di cui si raccolgono le giovani foglie e le tenere radici e con i semi sono dispersi dal vento, Campanule dalle corolle violette od azzurrine, Pratoline, Margherite maggiori.
Nei prati e pascoli dove, dopo la fienagione, il bestiame pascola dopo il secondo taglio del fieno, tra i corti
monconi e la più modesta vegetazione autunnale, compare la malinconica fioritura rossoviolacea dei velenosi Colchici.
Dove il prato è più prossimo al bosco fresco ed ombroso, si vedono varietà più montane: ecco il Ranuncolo
di montagna con fiori gialli dorati, la Potentilla grandiflora, la Campanula barbata, la Centaurea montana
con capolini azzurri simili al Fiordaliso, i Gerani violacei, i Carici simili alle Graminacee perchè i riuniti in
spighette.
Nei luoghi più soleggiati, con suolo meno ricco di humus, cresce l’Erba viperina con foglie e fusti ispidi e fiori rossastro azzurrini, l’Assenzio profumatissimo ed aromatico, che cresce fino a 3500 m, la pungente Carlina,
i cuscinetti profumati di Timo, la Camomilla, il Mentastro.
Nei prati più umidi ed acquitrinosi: l’Arnica gialla con
le sue proprietà medicinali, la Coda cavallina, l’Agrostide, gli Eriofori dai fiocchetti serico argentei; cominciano ad abbondare i muschi.
A queste altitudini, fino ai 1200 m esistono ancora insediamenti umani con giardini, campi di segale, di patate. Sui muretti delle mulattiere si arrampicano il Caprifoglio, la Clematide, l’Edera con le sue radici avventizie, la Pervinca e nei luoghi più umidi cresce la Ruta
dei muri, il falso Capelvenere, la Felce dolce o liquirizia
montana, la Veronica persica o scarpetta della Madonna, la Linarja alpina.
L’arrivo della primavera è annunciato da fugaci fioriture: ai margini delle nevi fondenti sbuca impaziente la
Soldanella Alpina per affermare la ripresa della vita vegetale, le fa seguito il Croco, fiorito da febbraio a maggio dai 500 ai 2700 m. Nella fioritura estiva innume-
Cuscini floreali fra le rocce.
revoli specie dai colori più vivi fanno dei prati veri e
propri giardini dagli aspetti molto diversi a seconda del
predominare di una specie o di un’altra che si impone
con i suoi colori: ora è il profumato Narciso che salendo dal basso trova il suo luogo ottimale fra 600 e 2000
m per allietare con le sue corolle stellate i prati montani e freschi; ora è il Botton d’oro o Trollius europeus, di
notevole bellezza per i suoi grossi fiori gialli lievemente
odorosi, fioriti da maggio ad agosto, velenosi per il bestiame, ma più raramente, il Tulipa australis nei prati
umidi, in val Divedro ed Antigorio.
I fiori propri di questi prati sono le varie specie di Anemoni (1000-2700 m), decorativi annunciatori della
bella stagione con le delicate corolle, anche l’Aquilegia
dalla collina fino a 2000 m, i Garofanini, la Nigritella
nigra o vaniglia di montagna dal persistente profumo
di vaniglia, i piccoli gigli di monte, Paradisea liliastrum
candidi ed eleganti.
Nei prati più freschi attorno agli acquitrini si alternano
i bianchi piumini dell’Erioforo, le Primule farinose, la
Calta dorata; presso i ruscelli i vari tipi di Orchidee, le
spighe dense e rosee della Poligonum bistorta.
Intorno a quota 2000, ove sui prati si posano le baite
degli alpeggi, la flora alpina si fa particolarmente pregiata, ricca di fiori e di piante aromatiche e medicinali: l’Aconito, gli Anemoni, le Viole, le Campanule, l’Arnica, il Ranunculus Pjreneus, le Genziane, l’Achillea,
la Pinguicola, la Stella alpina da sempre simbolo della
montagna, l’Aster alpinus, la Viola calcarata profuma-
ta di miele. Le vaste praterie naturali, che si estendono
oltre il limite superiore del bosco, sono i pascoli alpini utilizzati dal bestiame transumante: a questi alpeggi
il bestiame sale dal piano e vi permane durante i mesi
estivi per sfruttare il fieno selvatico. Dove gli animali
sostano a lungo durante la notte, avviene che i liquidi
organici si accumulino sul terreno modificandolo profondamente e determinando condizioni adatte all’insediamento di piante nitrofile, o flora ammoniacale, che
sottrae aree al pascolo, in quanto rifiutata dal bestiame;
così: il Rumex alpinus, il Cardo lanoso, il Cirsio spinescente, l’Urtica dioica. Questi pascoli sono l’ambiente
di Funghi saprofiti e parassiti, sparsi tra le erbe ed i fiori,
o nascosti fra Rododendri e Salici nani: le Vescie, l’Igroforo, l’Agarico laccato.
Nei fondovalle pianeggianti le acque glaciali rallentano il loro corso, formano laghetti o pozze che ospitano una vegetazione acquatica: Sassifraghe, Linarie, Androsacee.
Se le acque ristagnano a lungo si determina la formazione di acquitrini paludosi che col tempo si trasformano
in torbiere dal suolo inzuppato e traballante. Qui fra i
Carici e i Giunchi, affiorano distese di leggeri piumini
dell’Erioforo, cresce l’Utricularia, singolare erba filiforme con foglie adatte a catturare e digerire piccoli insetti, e la Drosera con le sue minute papille protese ad attendere la minuscola preda.
Questa in sintesi molto succinta la descrizione della flora ossolana dalla pianura alle vette più alte. Una visio-
Sottobosco.
133
ne simbolica di questa ricchezza, che la natura regala
all’uomo, si ha visitando l’Alpe Veglia, l’Alpe Devero,
l’alta Val Formazza, il Sempione, la selvaggia Valgrande,
veri giardini alpini spontanei di notevole valore scientifico, dove si concentrano le più belle essenze.
E’ meraviglioso scoprire come là dove il clima rigido
rende impossibile l’esistenza dell’Uomo, la vita continui in forme splendide di una flora che, quando viene
raggiunta, incanta.
Secondo un censimento effettuato da ricercatori del
W.W.F., in Italia circa 480 piante superiori, 276 meno
evolute come i Licheni, 367 piante di Muschi, 129 specie di Epatiche, sono vicine all’estinzione.
Scrive Piero Bianucci: Non si tratta di un danno semplicemente estetico o culturale. La perdita di una specie non
134
è un dramma esclusivo del poeta o del botanico. Ogni specie è un anello della lunghissima catena di forme viventi
che nel suo insieme costituisce un ambiente. L’evoluzione
ha impiegato milioni di anni per creare ognuna di queste
specie. Ogni estinzione che non rientri nel processo evolutivo naturale è un atto di violenza.
…ogni filo d’erba ha la sua storia da raccontare.
Sembra che una delle piante che non vedremo più sia la
Stella Alpina, il Leontopodium Alpinum: avviciniamola in punta di piedi, con conoscenza e rispetto:
Nella neve la sua vita,
Nel vento la sua canzone,
Nella solitudine il suo mistero,
Breve desolato canto d’amore di cui solo le stelle conoscono il segreto.
La fauna
Franca Paglino Sgarella
Io sono molto affezionato all’Ossola. Ci torno ogni
anno, a primavera inoltrata, quando laggiù, oltre il
mare, nel paese delle sconfinate distese di sabbia, il mio
orologio interno comincia a trillare.
Allora so che devo tornare qui. Di muta intesa con altri
miei compagni, dopo esserci data una lustratina alle ali
e un’affilata ai becchi, decolliamo. La nostra parata aerea è molto eccitante. In pochi istanti, con un’impennata a velocità folle, foriamo le nubi e dritto, senza esitazioni, puntiamo qui.
Il balzo, dalle Piramidi alle Alpi, vien fatto d’un sol fiato, senza scali e con rifornimenti aerei che noi stessi ci
procuriamo aprendo semplicemente il becco e ingollando un’infinità di piccoli insetti. È come dire che voltate
le ali ad un accecante mare di sabbia, non planiamo se
non in vista di un’altrettanto abbagliante distesa, ma di
neve questa volta. Le Alpi.
Perché io sono un Rondone e precisamente di quelli
che un tale Linneo, fra gli uomini, ha soprannominato
Apus melba. Rondone sì, ma alpino.
Sento un orgoglio di razza che non posso tacere. Quelli della mia famiglia sono ritenuti all’unanimità (attenzione) gli animali più veloci del mondo. Sissignori. Nell’aria, nel mio elemento cioè, schizzo avanti di molte
lunghezze al falco pellegrino e alla superba aquila reale;
nell’acqua, il pesce vela e il tonno, che sono tra i più rapidi sottomarini, non sono in grado di intaccare il mio
primato; sulla terra ferma, sorpasso, anzi sorvolo con
largo distacco il veloce giaguaro e l’agile gazzella.
Ho uno scatto di 90 metri al secondo, una velocità di
crociera di 200 km all’ora, ma la prerogativa maggiore è
la mia resistenza a fendere l’aria. Posso volare per ore ed
ore e stando così sospeso riesco a mangiare, a bere, persino a dormire. Mi sento una creatura dell’aria e a ben
guardarmi si capisce perché. Sono più grande di una co-
mune rondine, ho breve collo, corte e brutte zampe ma
robusti artiglietti e sono tutto ali. Nere, ricurve a falce,
lunghe una volta e mezzo il mio corpo. Sono queste che
mi fanno pregustare la libertà dello spazio nel senso più
ampio della parola.
Dall’istante in cui mi tuffo nell’aria non ho bisogno
di rimbalzi per lanciarmi in una traiettoria perforante come quella di un missile, poi buttarmi in picchiata come se mi sfracellassi al suolo, raddrizzare all’ultimo
istante la rotta e andarmene via liscio, sfiorando la cima
di un campanile, la superficie di un lago alpino, un prato in fiore corteggiato da mille insetti.
Dico tutto questo per spiegare il perché abbia deciso di
redigere un giornale di bordo, un diario di questo viaggio annuale nella mia amata Ossola. Perciò questa volta non andrò direttamente a casa, in quel nido nella fessura della roccia, che ritrovo ogni anno puntualmente,
lassù, in montagna.
Ho fatto sapere ai miei compagni di viaggio che quando
sarà il momento, mentre loro proseguiranno, io me la
prenderò comoda, una volatina qua, una sosta là, occhi
e orecchi pronti a registrare frammenti della mia terra.
Farò l’osservatore ossolano.
Il momento è giunto, il lago Maggiore è in vista, faccio
segno di rallentare, mi stacco dal gruppo, mi abbasso di
quota e disegno nell’aria un arrivederci.
Ecco il Toce. Sono sopra alle sue acque grevi e verdastre,
là dove vanno a perdersi nel lago. Per noi uccelli migratori le vie d’acqua sono un importante punto di riferimento, il più importante direi, dopo il sole e le montagne di giorno, le stelle di notte e i profumi e gli odori che ci lambiscono dal basso. Il Toce poi è proprio la
grossa arteria dell’Ossola e noi non lo perdiamo mai di
vista, riflettente di giorno, argenteo di notte. I suoi biz-
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zarri torrentelli che trabalzano giù dalle valli, sono la
nostra indispensabile rete segnaletica. Vado in cerca di
un luogo prominente, un poco solitario e selvaggio che
faccia al caso mio. Mi va bene questa torre sopra Prata, un avamposto di guardia, una delle numerose torri
per segnalazioni, ora in disuso e un poco sbrecciata. Ho
sentito dire che aveva una specie di garitta che serviva
da piccionaia per il lancio di colombi viaggiatori.
Mi guardo in giro e con la mia ottima vista posso esaminare quasi nei particolari la pianura ossolana, poi alzo
lo sguardo sulla cornice dei monti e osservo l’imponenza dei primi piani e la dissolvenza degli ultimi nella lontananza. Ossola di pietra. Non soltanto. Anche verde e
viva. Ho sotto gli occhi ben rappresentati tutti e tre i regni della natura: minerale, vegetale, animale. Io faccio
parte di quest’ultimo che nella mia piccola mente ho
diviso in tre categorie. Gli uomini propriamente detti, i loro animali domestici e noi, i selvaggi, l’eterogeneo gruppo che vive alla macchia. Ci chiamano frettolosamente «fauna». È di questi che intendo raccontare,
degli individui come me, autonomi, indipendenti, che
devono in ogni modo arrangiarsi da soli, finora senza
protezione alcuna. Anzi. Ci chiamano anche pomposamente res nullius che in gergo umano vuoi dire «roba
di nessuno», e a questo proposito loro, gli uomini, stanno ancora blaterando se siamo alla mercé del rispetto di
ognuno oppure dello sfruttamento di tutti.
Per fortuna ho le mie ali che valgono tant’oro quanto pesano e la statura ridotta che mi fa meno vistoso
di altri volatori più famosi di me. Che fine hanno fatto quelli! Dove sono finiti l’aquila, la poiana, l’astore, il
gufo? Proprio intorno a questa torre dove sono abbarbicato adesso, tutti questi uccelli una volta vivevano qui,
felici e imboscati. Avevano cibo e quiete, poi un certo malcostume li scacciò e li eliminò. Qualcuno di loro
riuscì a raggiungere la montagna e faticosamente ricominciò da capo. È per questo che è solo nell’alta Ossola
che trovo selvatici importanti e di grande mole.
Come gli uccelli, così pure i mammiferi si sono rifugiati nel luogo che hanno ritenuto inaccessibile al predatore, cioè lassù dove il clima è, sì, severo, le pendici magari inospitali, ma dove finalmente possono eludere la
loro presenza nella solitudine di un ambiente grandioso
e di difficile accesso.
136
Ragionandoci un po’ sopra trovo che molti animali che
vedo in pianura sono «ubiquisti» intendendo che li osservo tanto qui che in montagna. Per esempio la volpe,
il fringuello, il tasso, lo scoiattolo, il ghiro, la donnola, la
faina. Di contro, altri invece hanno preferenze «montane», anche se vivono bene alle basse e medie altitudini.
Parlo della beccaccia, del ciuffolotto, delle tordele e infine
di un mammifero importante, la martora. Nella maggioranza costoro sembrano di gran lunga preferire la foresta montana al bosco di pianura.
Anche se il mio volo è saettante e io sono abituato agli
spazi aperti per le mie acrobazie, pure mi capita, passando e ripassando sopra il medesimo punto, di sorprendere i miei compaesani nelle loro «animazioni».
È primavera o no? A ben pensarci tutto comincia con il
profumo dei fiori e del bosco, con le uova e le crisalidi
degli insetti che si schiudono, le tane che si aprono e i
nidi che si riempiono. Ai profumi si abbinano i suoni e
subito è sinfonia, sinfonia pastorale.
In primavera nasce la maggior parte degli animali selvatici ed è facile capirlo. È proprio dai fiori e dalle erbe
che si forma il primo anello della catena alimentare di
cui è congegnata la Natura. Dapprima l’erbivoro e l’insettivoro, poi il carnivoro. Il ciclo è perfetto e non fa
una grinza. Interrompo le mie argomentazioni per descrivere il primo fotogramma che ho scattato in volo.
Là, ai bordi della radura, ho avuto la fortuna di sorprendere un insettivoro timido e benefico: il riccio. È intento a cercare insetti, larve, rettili e al primo segnale di allarme a rinchiudersi nella sua corazza di spine come in
una camera di sicurezza. Nella stessa posizione rimane
nascosto nella tana in inverno, sprofondato in un sonno pesante fino alla primavera, quando appunto ricompaiono insetti e larve. Più in là vedo l’imboccatura di un
rifugio più grande. Mi par di intravedere appena affacciati un paio di musi con teste striate in bianco e nero.
Una famiglia di tassi, grandi dormiglioni anche loro,
ma in modo diverso. Dormono come l’orso e lo scoiattolo, sono falsi ibernanti, ogni tanto si svegliano, escono a fare un giretto e poi si riaddormentano. Per osservarli bene dovrei appostarmi di notte, quando, caracollando sulle corte zampe, li sentirei avanzare grugnendo
e frugando nel sottobosco.
La marmotta.
L’aquila reale.
Una volta mi è capitato di assistere ad una scena curiosa, in uno dei miei rapidi spostamenti avevo sconfinato
in valle Vigezzo, in un’alpe ai piedi della Pioda, quando
scendendo a fendente sul prato per acchiappare i miei
insetti preferiti, ho visto una volpe rossa, di quelle che
battono la pianura e la montagna, curiosare sulla soglia
di una tana. Indi l’astuta ladrona depose tranquillamente i suoi escrementi proprio lì, all’entrata. Feci qualche
arabesco nel ciclo, poi ritornai più volte accostando la
traiettoria del mio volo al punto di osservazione. Il mio
sospetto risultò fondato. La volpe se n’era andata ed era
spuntato il legittimo proprietario, un tasso, il quale, da
quell’animale pulito e riservato qual’è, vedendo il lordume fece dietro front e si allontanò. Ancora una volta
e senza fatica alcuna, quella spregiudicata aveva ottenuto l’illegale esproprio di una tana tra le più confortevoli,
costata giorni e giorni di lavoro ad unghioni altrui. Lì,
lei avrebbe partorito, allevato, educato la sua irrequieta
prole di tre, anche otto volpacchiotti.
Udendo ad un tratto il canto del merlo, mi sovviene che
non so cantare. La siringe, quell’organo che nella gola
di noi uccelli produce note melodiose, a me fa uscire
una specie di fischio che lacera l’aria mentre mi sposto
come un fulmine. Vorrei saper cantare, non dico come
l’usignolo, il fringuello, il pettirosso, la tordela, che odo
gorgheggiare nei pressi di questa torre, ma anche solo
come un monotono lui o un cuculo. Vorrei essere come
il tordo, che emette suoni flautati e sa imitare con arrangiamenti personali il canto di altri uccelli. Invece non so
che prorompere in questo strido quando le mie ali lassù
vibrano all’impazzata, ma vi assicuro che se potessi im-
primere delle sillabe scandirei degli altissimi urrah! Simili a me nella povertà dei vocalizzi sono la rondine e il
balestruccio, miei lontani parenti, anche loro gran viaggiatori del cielo.
Mi sono incagliato in divagazioni su noi animali alati e
tanto vale che vada alla conclusione. Qui in pianura mi
è capitato di vedere un uccello strano e bello, colorato
di arancione e con una cresta in testa. È l’upupa, antico
abitante della steppa, che credevo di gusti raffinati, fino
al giorno in cui ho scoperto che si nutre degli insetti del
concime animale.
Tanti altri volatili potrei nominare, ma come spiegato
prima, molti di loro li troverò alle più alte quote, dove
risulteranno impreziositi nello sconfinato isolamento.
Sto dunque per decidere di spiccare il volo e non avendo zampe adatte a saltellare in terra come i passeri, mi
butto da questa torre antica che mi è servita da davanzale. Prima di lasciare la conca ossolana e dirigermi sulle sue valli, voglio sorvolare a volo d’angelo le anse del
Toce dove il fiume si impigrisce in larghi meandri. Pieve Vergonte, Piedimulera, poi Villadossola. Sfioro la superficie dell’acqua, ne prelevo una sorsata, mi specchio
di sfuggita. Ho una sagoma a forma d’arco, la gola e il
ventre bianchi, separati da una banda bruna, il corpo
affusolato come quello di un aereo a reazione. Mi inebrio di velocità. Passo come un bolide sulle dune della
riva, afferro a volo una boccata di insetti e, di colpo, mi
ricordo una vecchia storia.
Queste rive ora deserte, un secolo fa, si racconta fra noi,
sono state visitate da un grosso stormo di cicogne bian137
che. Una perturbazione meteorologica aveva dirottato
il volo di queste esperte viaggiatrici dirette al nord e
le aveva fatte scendere alla fermata sbagliata. E quanto lo fosse, lo capirono dopo, quando vennero freddamente accolte dai domesi, nel senso che furono davvero freddate a colpi di fucile e decimate. Non ricomparvero mai più.
Mi abbasso ad accarezzare l’erba dei prati, mi diverto a
seminare il fuggi fuggi fra variopinte farfalle, ancora un
fischio e via in montagna. Subito l’aria si rinfresca, le radiazioni solari si fanno più penetranti, cambia la topografia sottostante. Sorvolo foreste, radure, torrenti; alt,
mi fermo in quota. Prima di impennarmi sopra i mille
metri non mi dimentico di fare ogni anno una capatina
fino a quel prato di Bugliaga per ammirare anche quest’anno la grande fioritura tutta d’oro del mio piccolo,
speciale tulipano, quello che gli uomini chiamano Tulipa australis. Son qui, sono sul prato dorato, mi azzardo
in spericolate volute a sfiorare le corolle del piccolo tulipano di montagna. È la mia carezza alla bellezza e alla
primavera: ciao, tulipa!
Adesso devo scegliere un campione di una delle sette
valli ossolane.
Potrebbe essere l’alta val Vigezzo, il fondo valle di Formazza, che dico, i dintorni di Macugnaga, oppure il
trampolino di lancio della valle Antigorio, ultima tappa prima del mio capolinea, quella parete di roccia, in
quell’alpe, vicino a quel torrente, nella conca di Devero.
Sorvolo un bosco misto di conifere e latifoglie. La natura vegetale è assai generosa: lamponi e fragole, mirtilli e
rovi; qua e là, le piccole lance verde tenero delle felci. In
questo regno di muschi e cortecce marcescenti, dove si
alternano abeti, faggi, ontani, noccioli, ritrovo gli amici
della bassa. Odo il solfeggio del tordo dalla cima di un
abete, il trillo del solitario pettirosso, le note incerte della passera scopaiola.
Mi apposto su una prominenza e ingaggio tutti i miei
sensi per registrare. Sono fortunato a sorprendere in
pieno giorno un tasso intento a scavare un formicaio,
lui nottambolo e schivo. Per mantenere i suoi 20 kg di
peso deve mangiare una quantità di insetti, molluschi,
uova, radici, bacche e funghi.
La mia vista si sta abituando alla penombra del sottobosco e l’orecchio si presta al più lieve stormir di fronda.
138
Così, tra i rovi, vicino ad un ceppo marcescente, nell’intreccio di sterpi ed erbe, vedo un grande occhio aperto, un bell’occhio nero che mi pare immenso. Concentro lo sguardo e scopro anche un becco lungo, un petto
di piume, tutti fermi nella più assoluta immobilità. Una
beccaccia! la regina del mimetismo e della riservatezza
sta covando le sue tre-quattro uova giallastre picchiettate di rosso, ben fiduciosa che il suo piumaggio color foglie morte le assicura una protezione assoluta.
Un grido dissonante esplode non lontano e ferisce i
miei sensibili timpani. Guardo dalla parte del suono e
mi vedo venire incontro un uccello grande come un
piccione, ma con testa e becco più robusti, che mi oltrepassa in una volata per niente aggraziata. Ho fatto
appena in tempo ad intravedere i colori brillanti rosso,
bianco, nero e sulle ali pennellate di blu, ma ho riconosciuto egualmente la ghiandaia e so che questa strombazzata è il suo grido d’allarme, il suo volo disordinato,
una fuga davanti ad un perturbatore. Forse ha alle costole lo sparviero o l’astore, oppure ha sentito i passi della volpe, del cane randagio, del gatto selvatico. Ha drizzato il ciuffo sul capo lanciando le note stonate e ora tutto
il bosco è all’erta. Costei è un tipo imprevedibile e non
finisce mai di stupirmi. L’ho sentita imitare alla perfezione il miagolio della poiana, il verso del gufo comune e persino quello della voce umana. In famiglia hanno
tutti la mania di nascondere le prede, siano esse ghiande
o cavallette o altri insetti, nelle fessure della scorsa degli
alberi, sotto il fogliame o in qualsiasi altro posto, per ritrovarle puntualmente qualche tempo dopo.
Ma che cosa è questo strano rintocco che all’improvviso echeggia nella foresta? Ora è cessato, no, ora riprende. È un crepitio, un tambureggiamento. Sono disturbato dagli echi, impiego un po’ di tempo a localizzare. È lassù, alla cima di quell’abete colpito dal fulmine,
quell’uccello bianco e nero, grosso come un merlo, ma
con del rosso sotto la coda, che se ne sta lì aggrappato.
È lui che mitraglia, lo so, ma voglio accertarmi. Ricomincia la raffica, lui si puntella con la coda e martella
il tronco con il becco appuntito, tenendo rigidi collo e
capo. Non poteva chiamarsi se non picchio, e questo, in
particolare, è quello rosso maggiore. Non sta scavando il
nido, ma marcando il proprio territorio con segnali che
in questo caso sono piccole incisioni. Per il nido scende
più sotto la cima, dove il tronco è più largo, e ci ricava
un orifizio ovale anche di 60 cm di profondità.
Io so per certo che molti uccelli trovano comodo questi nidi abbandonati. Ho visto insediarvisi civette, cince, picchi muratori.
Per finirla con i picchi, quello rosso maggiore non è
l’unico, anche se il più comune, in montagna, e il più
costante nel martellamento.
Suoi congeneri sono il picchio nero, il più grosso dei picchi, che sale oltre gli ultimi faggi perché predilige le
grandi abetaie di abete bianco e rosso; il picchio verde e
quello cinerino, più piccolo e meno alpino.
Infine altri due picchi, che si possono confondere per
il nome ma non per i colori della livrea e il comportamento.
Sono il muratore e il muraiolo. Il primo è un eccellente ginnasta, un virtuoso dei saliscendi sui tronchi. Aggrappato a testa in giù, corre in tutti i sensi sulla corteccia degli alberi, con il solo aiuto delle dita robuste armate di potenti unghioni. Non scava nicchie, usa, se può,
quelle degli altri picchi, del rosso, del nero, del verde.
Ci apporta solo una variante, una rifinitura di lusso,
rimpicciolendo l’entrata con palline di terra impastate
di saliva. Non per niente è muratore. Non si nutre solo
di insetti che trova nelle fessure delle cortecce, ma specie in autunno ricerca golosamente i semi delle conifere e dei noccioli.
Ma di tutti i picchi quello veramente che mi lascia a
bocca aperta è il muraiolo. Io, rondone alpino, sono un
abitatore delle rupi, ma lui è lo scalatore delle pareti
rocciose a strapiombo sugli abissi.
Quante volte sfiorando nei miei voli di ricognizione
le creste di granito che incidono arditamente il cielo,
le rocce fessurate che stillano rivoli d’acqua, ho notato
come un topino grigio che fa il sesto grado sui lastroni
rocciosi, ora correndo ora spiccando piccoli salti. Poi la
sorpresa. Il topo grigio e nero si alza in volo e si trasforma in una grande farfalla dalle ali rosso carminio imperlate di candidi fiocchi.
Lo chiamano «ticodromo» che vuoi dire «colui che corre rapidamente sul muro», ma il muro, nei cui interstizi
ricerca gli insetti, è una parete anche a 4.000 metri!
Con il pensiero sono volato troppo in alto, mentre fisicamente sono sempre qui ad esplorare il bosco di faggi,
abeti, betulle, con una soleggiata radura ai bordi.
Questo è un bosco prezioso.
Un giorno che temerariamente e contro le mie abitudini zigzagavo tra i tronchi, ebbi modo di cogliere presenze singolari. Al mio primo passaggio, vidi dapprima
muoversi su un albero qualcosa che sembrava far parte dell’albero stesso. Passai e ripassai curioso. Allora scoprii rannicchiato contro il tronco, la testa infossata fra
le spalle, perfetto nella sua omocrimia, il più forestale e
misterioso dei tetraonidi, il francolino di monte, il pollo dei noccioli.
Le voci del bosco, sommesse, parvero ad un tratto sopraffatte da un suono rauco, come un singhiozzo che si
arrotava, accelerava e finiva con un sonoro kop! Mi spostai quasi al limite della radura e fu lì che vidi un uccello, grande come un gallo, scalpicciare, becco aperto, collo teso verso l’alto, fare, come un gallo, la ruota. Le sue penne mandavano superbi riflessi blu verdi
sul petto, mentre le ali erano marroni, il collo grigio acciaio, rosso il sopracciglio delle creste. Un gallo cedrone
in amore che chiamava a sé le femmine.
Davanti a quell’esibizione cromatica di grande effetto
mi sentii un piccolo spazzacamino e ricordai, per associazione d’idee, quell’altra volta di qualche anno prima, quando sorvolando Agaro nel punto dove il bosco
si apre in uno spiazzo di mirtilli, ginepri e rododendri,
vidi due volatili grossi come polli che sul terreno, ancora in parte coperto di neve, con movimenti nervosi e convulsi giravano in cerchio, le ali cascanti, la coda
spiegata a forma di lira. Li sentivo fischiare con rabbia e
soffiare, poi al colmo dell’eccitazione si erano avventati
con violenza l’un contro l’altro.
Alle solite, due fagiani di monte nelle loro folcloristiche
danze d’amore e di guerra. Sul candore della neve risaltava il colore lucente blu scuro dei loro corpi, il bianco
delle remiganti delle ali e della sorprendente coda.
Mi ricordo che allora feci una considerazione. Come
nel gallo cedrone, anche nel fagiano di monte solo il
maschio è detentore di una così esplosiva livrea. Le femmine di entrambi hanno colori così mimetici e dimessi
da sembrare appartenenti ad un’altra specie.
Mi accorgo che in tutti questi anni, pur fermandomi
solo la primavera e l’estate, ho accumulato tanti ricordi
139
Il cervo.
della mia Ossola che, a raccontarli per esteso, non basterebbe la mia breve vita. Il tempo incalzante mi spinge a sintetizzare e ad apportare tagli al mio lungometraggio.
Sto per spostarmi verso il torrente che, laggiù in fondo, scende a balzelloni dalla montagna, quando sotto la
cupola del bosco un galoppo serrato segue ad un grido
singolare. Faccio appena in tempo a scorgere una sagoma dalle perfette proporzioni lanciata in corsa su quattro zampe incredibilmente sottili. Per un attimo vedo lo
specchio, la macchia di pelo bianca sul posteriore, prima che il bosco si rinchiuda sulla fugace apparizione.
Indovino che è il capriolo che, insieme al cervo, da pochi
anni è comparso in Ossola. A quest’epoca il suo capo, se
è un maschio, inalbera le corna con il velluto, una specie
di astuccio di pelle grigia, ricca di vasi sanguigni, che fra
poco disseccherà e mostrerà le corna nuove di zecca.
Il medesimo fenomeno tocca anche al cervo. Entrambi
hanno corna piene e caduche che ad una certa epoca, in
autunno per il capriolo, in marzo per il cervo, si staccano dal capo lasciandolo curiosamente sguarnito. Ma to140
sto ecco ricrescere su un germoglio calloso le nuove corna, più belle e ramificate.
Quante volte ho visto lo scoiattolo e la volpe rosicchiare nel bosco queste reliquie di osso compatto, cadute a
questi animali, inconfondibili per la ramificazione e la
grandezza. Quelle del capriolo arrivano al massimo a
tre-quattro punte, quelle del cervo sono palchi pesanti
con otto-nove ramificazioni.
La foresta è il vero regno di questi cervidi, il luogo che
all’epoca degli amori risuona di eccitati bramiti e di rumorose lotte per la conquista delle femmine.
Allora si assiste a grandi raduni disordinati, dove questi
individui, ubriachi d’amore, diventano nervosi ed attaccabrighe. Infine i maschi adulti se ne vanno per i fatti loro e restano insieme i gruppi famigliari delle femmine e dei giovani.
Ma torniamo al capriolo che mi è passato sotto il naso,
lanciato in una pazza corsa agli ostacoli. Per un attimo
ho creduto di vedere le gazzelle delle calde regioni che
sorvolo nei miei inverni. Il cervo, invece è molto più
grande del capriolo e l’ho veduto rare volte qui in Os-
sola. Ha l’imponenza di un piccolo cavallo e il mio occhio di rondone non crede di sbagliare se gli dà il peso
di 200 kg, mentre il capriolo rimane sui 40 chili. Coinvolto dalle mie divagazioni mi accorgo solo ora dello
scompiglio che il fischio e la corsa sfrenata del capriolo hanno sollevato nel bosco. Si sono interrotti il canto del pettirosso e del lucarino, il rampichino alpestre ha
smesso per un attimo di fare il topino degli abeti, su e
giù per i tronchi a cercare insetti nelle fessure; si è alzato in volo il più piccolo degli uccelli, il regolo, dal capino a strisce.
Anche la bellissima martora da qualche parte ha sospeso
l’inseguimento accanito allo scoiattolo, che saltato acrobaticamente su un albero vicino sarà lì con il cuore in
gola. Per sua grande fortuna il feroce mustelide non sa
saltare, perciò se il piccolo tarzan del bosco non cade a
terra è in netto vantaggio sull’inseguitrice. Ma le emozioni dello scoiattolo non sono finite. Un passo falso e
l’aquila, che sta setacciando il bosco con sguardo penetrante, può ghermirlo di colpo, oppure la volpe, appostata pazientemente, lo avrà come premio di consolazione per la sua costanza.
Si riposerà in inverno, ben protetto nella tana del cavo
di un tronco, dove potrà finalmente rilassarsi e cadere
in un sonno intermittente come quello del tasso.
È meglio che mi tolga da questa posizione che non mi è
affatto confacente. So per esperienza che questi boschi
misti, che si trasformano in abetaie e lariceti man mano
che si arrampicano sulle pendici, sono visitati spesso e
volentieri dallo sparviero e dall’astore, che si spostano
dalla pianura alla montagna proprio al seguito di noi
uccelli migratori.
Se devo concludere in bellezza la mia carriera di inviato
speciale, non posso espormi in prima linea, perciò m’involo al torrente per dissetarmi e procurarmi boccate di
insetti svolazzanti.
Lancio solo un’occhiata fuggevole alla trota, che ancheggia nell’acqua limpida e mi piacerebbe aspettare qui la venuta della ballerina bianca e di quella gialla, che sembrano danzare, oscillando la coda avanti e
indietro, ma soprattutto assistere ancora una volta allo
spettacolo del merlo acquaiolo che, dopo essersi tuffato nell’acqua gelida, fa il sub per interminabili secon-
di, riaffiora su un sasso con una larva in becco, scuote
il suo bel petto bianco e si presenta asciutto come prima. Che campione!
La mia incondizionata ammirazione in fondo va ad un
altro uccello, il più piccolo insieme al regolo, che abiti la montagna. Confesso che il mio interesse è intessuto d’invidia per quello che sa fare questa pallina di piume rossastre con la coda sempre alzata. Il suo nome è
scricciolo.
Non solo è un poligamo, un dongiovanni impenitente
e furbo, ma anche un gran patriarca. Ai primi di maggio, scegliendo scarpate di torrenti e canaloni rivestiti di
rododendri, costruisce diversi nidi di muschio, intrecci
sferici con un’apertura centrale. Appena una scricciola è
in vista, lui le si fa incontro, garrulo e svolazzante, e la
induce a visitare il nido, convincendola a sistemarsi.
Il piccolo infedele ripete la scena parecchie volte con altre femmine, fino a collocazione completa di tutti i suoi
nidi. Ma, e qui gli concedo tutto il mio rispetto, egli
non abbandona affatto le componenti del suo evoluto harem, ma assumendosi, per giorni e giorni, il ruolo
massacrante del pendolare, le assiste tutte con sollecitudine durante la cova.
A questo punto uno di maggior corporatura della sua
sarebbe sfinito, ma lui è di tempra speciale e sostiene
per molto tempo la sua famiglia allargata. Appena i pic-
Il lupo.
141
coli sono in grado di volare, alla sera li raduna e se li
porta in giro a svolazzare allegramente nella luce del tramonto. Dopo di che li consegna puntualmente ai loro
dormitori.
Sotto quei nove grammi di piume batte davvero un
grande cuore.
Sono pronto per il balzo finale. Lascio i boschetti misti
e con forti colpi d’ala mi alzo a volo remato fino a raggiungere le radure e le rupi subalpine. Poi tenendo le ali
immobili mi lascio scivolare, e in questa maniera perlustro per un largo raggio le foreste superiori fino al limite degli alberi.
La fauna diventa sempre più interessante e specializzata
e, per le difficoltà climatiche, si fa più pressante la lotta per la sopravvivenza. Nelle radure vedo le arvicole, la
campestre e l’agreste, intente a scavare le loro gallerie, qui
dove ha inizio il dominio dei piccoli e grandi rapaci.
Alcuni stanziano ai bordi delle radure, altri nidificano
sulle rupi.
Anch’io abito qui, gomito a gomito, con questi predoni. Infatti, anche se so che è la poiana quella che vola a
larghi giri in ciclo, che è lei che miagola come un gatto,
che è specializzata alla caccia al marasso, che si ciba di
topi e talpe come l’astore, pure mi tengo lontano.
Come quando vedo profilarsi lunghe ali triangolari,
tese come una balestra, so bene che è un falco in ricognizione, pronto a buttarsi in picchiata per artigliare in
volo piccioni, ghiandaie, cornacchie, tordi.
Mi chiedo se sono abbastanza grosso per lui. Ad ogni
buon conto mi affido alla velocità delle mie ali che, è
provato, è di un soffio maggiore della sua, ma faccio attenzione a non cadere in qualche attacco di sorpresa. So
pertanto che l’Ossola non pullula di falchi, c’è il pellegrino, il lodolaio (il più pericoloso per me) e l’altro, il
pecchiaiolo, goloso soprattutto delle larve delle vespe.
Ma, bando alle paure, mi conforta questo tac tac allegro, scandito dalla cima di un larice. Ciao, stiaccino. Il
suo verso singolare lo sento anche laggiù, in Africa, perché l’uccello dal petto fulvo e il sopracciglio bianco è un
emigrante stagionale come me. Le sue uova di un bel
turchese sono tra le più belle che mi capita di vedere.
Intanto volando e pensando mi ritrovo nei miei paraggi
142
che è il sito delle rupi subalpine. Questo è il contrafforte delle ultime foreste fino al limite degli alberi, è il gran
piedistallo del piano alpino propriamente detto.
Qui, con i miei compagni, qualche anno fa abbiamo deciso di costruire i nidi. Le innumerevoli fenditure nella roccia ci hanno offerto abbondanza di buche, e noi
non abbiamo avuto difficoltà a scegliere cavità grandi
e asciutte.
Tutto ciò che ci serve per costruire il nido a forma di
ciotola noi, è il caso di dirlo, lo acchiappiamo al volo.
Steli, fuscelli, foglie secche, peli e penne portate in alto
dal vento, vengono da noi ammucchiati e cementati
con la nostra portentosa saliva che si rapprende all’aria
come un mastice. Con la stessa saliva, sempre in volo,
inglobiamo le nostre piccole prede alate e ne facciamo
palline per imboccare i nostri pulcini.
Ma tant’è, sto divagando un po’ troppo avanti, la mia
compagna è lì a riassettare la nostra vecchia dimora, mi
resta poco tempo per guardarmi intorno.
Più in là, sulla stessa parete rocciosa, l’anno scorso ho
visto un nido di un grande corvo imperiale. Udivo il suo
rauco rok rok ed erano talmente potenti i suoi battiti
d’ala che li sentivo fendere l’aria, vip vip vip! Come era
nero. Molto più grande della solita cornacchia e diverso anche il grido, una figura alata più imponente e vigorosa. Faccio fatica a pensarlo strettamente imparentato con uccelli piccolissimi come le bigiarelle, le cince,
i regoli.
Devo confessare che senza farmi accorgere l’ho osservato a lungo nelle sue acrobazie aeree, tentando di imitarlo soprattutto in una: quando in volo planato, all’improvviso si rigira su se stesso, e pancia all’aria scivola via
così, come su un’amaca volante.
Per questo becchino del bosco, in abito nero pece, noi
tutti proviamo del gran rispetto perché è l’alato più longevo, potendo vivere oltre i cento anni, ma la mia personale ammirazione va al coraggio di un altro uccello
ben più piccolo ma temerario alla follia.
Il gheppio. È un falchetto fulvo, grande come una tortora, ma se un’aquila, dico, un’aquila entra nel suo territorio, è capace, con l’appoggio di qualche compagno, di
affrontarla a viso aperto, di rintuzzarla e alla fine stancarla a tal punto che la signora dell’aria decide di rientrare nei suoi confini. Alla fine non riesco a capire come
La vipera aspis.
Camosci al pascolo.
faccia a fare così bene lo «spirito santo», stare cioè librato in aria senza spostarsi, mantenendo le ali aperte e la
coda allargata. Qualche volta mi son detto: ma quello
li è legato ad un filo! Invece ecco ad un tratto che il filo
si rompe e lui, il gheppio, precipita come un meteorite, le ali strette ai fianchi, fino al momento in cui, a pochi passi dal suolo, gli vedo fare la grande frenata con le
remiganti e protendere gli artigli. La sua calda preda è
un’arvicola che lui preleva e si porta via.
Prima di salire al piano alpino dove l’esistenza di animali e piante ha un eccezionale salto di qualità, voglio
tentare anch’io di librarmi sospeso, di ondeggiare tenendo distese le ali. Con la mia vista acuta posso ispezionare a piacimento le rocce circostanti e giù, gli ultimi larici e abeti e il torrente incassato che spumeggia in
quella forra.
Il cielo è immenso, il più vasto pascolo che esista, ma
quando vedo, come ora, profilarsi dal costone della montagna due enormi ali, con le remiganti allargate
come le dita di una mano umana, lo spazio aereo sembra circoscritto da quella sagoma scura. II suo volo è
maestoso, le spirali larghe, le virate lente, la sua ombra
propaga sconcerto agli animali dell’aria e apprensione a
quelli di terra.
Mi faccio da parte scendendo di quota, con un occhio
là, alla indiscussa sovrana del cielo, l’aquila. È il simbolo delle altitudini alpine, insieme al camoscio e allo
stambecco, perché al pari di loro non abbandona mai
la montagna, neppure in inverno, quando non solo le
cime ma anche le pendici sono prigioniere delle calotte nevose e noi animali migratori siamo mille miglia
lontani. Lei rimane lì, nel suo grande nido a piattaforma, quasi a cielo aperto, nei gelidi silenzi lacerati dallo schianto della valanga. È il più forte e grande uccello
dei nostri monti e le sue prede, per sfamare la famigliola
di uno o due pulcini, devono per forza essere consistenti. Dalla lepre, alla volpe, alla marmotta, allo scoiattolo, fino ai piccoli degli ungulati, camoscio, stambecco,
cervo, capriolo. L’aquila è un predatore ma per la sua supremazia e le sue abitudini svolge questo ruolo soltanto
di giorno. Ora io sono a conoscenza di operatori specializzati che questo mestiere lo fanno di notte.
Quando ero più giovane e non ancora coniugato, al calar della sera mi riunivo con i miei compagni in stormi
numerosi e ci divertivamo ad inseguirci a velocità pazza, lanciando schiamazzi a non finire. In questi giochi
a nascondino, approfittavo delle scorciatoie infilandomi arditamente nei canaloni e negli stretti passaggi tra
due pareti di roccia.
Ed è lì che li ho scoperti. Gli occhi, voglio dire. In quegli anfratti ombrosi in cui l’ultima luce del tramonto se
n’era dipartita da un pezzo, lì, ad ogni mio passaggio
vedevo pulsare piccole luci gialle, arancione, rosse. Sentivo poi dei versi rauchi, tipo lamenti buhu buhu, poi
brontolii, soffi e richiami nasali. Roba da pelle d’oca se
non fossi un rondone e non mi avessero acculturato circa le civette, gli assioli, i gufi comuni e i gufi reali.
Gran mangiatori di topi e di insetti, oltre a quegli occhi
speciali per la visione notturna, quelli hanno un udito
fuori del normale che li mette in grado di sentire stormire una foglia a parecchi metri di distanza.
Noto con sollievo che un’invisibile corrente aerea deve
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aver convinto la superba aquila a veleggiare lontano
oltre le nebbie. Adesso posso riprendere il mio volo
d’esplorazione, un passo e ripasso sopra gli ultimi avamposti del bosco.
Ritrovo vecchie conoscenze della bassa e della media
montagna. Saltellano le cince chiacchierone, intravedo
tra i rami di un abete il nido di un ciuffolotto con le uova
blu pallido, ai margini del bosco si drizza per un istante una lepre comune ma subito scompare con pochi balzi dentro un cespuglio. Sopra un formicaio di formiche
rosse un picchio verde, l’unico tra i picchi che non tambureggia i tronchi, estroflette la lingua ricoperta da una
sostanza viscosa e accalappia formiche.
Queste fustaie di abeti, larici, cirmoli, sono l’ultimo
campo base per alcuni animali, un rifugio invernale per
altri, una meta solamente estiva per altri ancora.
Ghiotte di pinoli, le nocciolaie, grandi come gazze e grigiastre, e i crocieri, simili a variopinti fringuelli, frugano instancabili tra le pigne delle conifere. La nocciolaia
soprattutto ne fa una copiosa incetta riuscendo ad ingozzare un centinaio di pinoli alla volta. Dopo di che,
previdente, li rigurgita e li nasconde nelle fessure delle rocce ben riparate dalla neve, o anche nel suolo sotto
grandi radici o ai piedi dei tronchi.
Una cosa è certa: lei ha bene in mente la mappa del suo
tesoro e saprà ritrovarlo anche a 50 cm sotto la neve,
se... C’è sempre l’imprevisto e in questo caso neppure
molto raro. Può capitare infatti che tra i rami di un abete uno scoiattolo goloso abbia spiato la scena o che un’arvicola, scorazzando nei suoi labirinti sotterranei, incappi per caso nella camera del tesoro. Ma la nocciolaia
non dà a vedere di disperarsi per queste appropriazioni
indebite (non ha forse provveduto a diversi nascondigli?) e poi in natura è permessa la legge del pioniere:
quello che trovo è mio e me lo tengo.
Mi diverto un mondo ad assistere a queste, diciamo, relazioni sociali fra i miei conterranei; io non scendo in
lizza con loro perché, come spiegherò, altri sono i miei
appetiti.
Sonori dak dak interrompono il filo dei miei pensieri.
Senza guardare so già chi è che fruga il terreno in cerca di lombrichi. Un merlo in frak, con lo sparato bianco bene in vista, un merlo dal collare. Diffidente e cauto non disdegna i dintorni delle baite solitarie, anche
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se ama starsene in un pascolo di ginepro tutto suo, o
in cima ad una conifera, da dove modula il famoso ritornello.
E lì, sullo stesso albero, forse ci sta il nido non di un altro volatile ma di un piccolo roditore arboricolo, il topo
quercino. È un topo speciale e merita una breve menzione. Ha il muso buffo, orecchie a sventola, occhi prominenti e cerchiati di scuro. La coda è lunga come il corpo
ma il tutto ha un peso oscillante tra il mezzo etto e l’etto a seconda della stagione. Perché come il suo stretto
parente ghiro (che non ho mai visto sopra i 1.000 metri)
quando è ben pasciuto, all’inizio dell’inverno, scivola in
un sonno profondo e talmente desiderato da provvedere da sè medesimo a saldarsi le palpebre con uno speciale muco. «Prego non disturbare».
Mi chiedo. Sarà comodo dormire quando non si ha da
mangiare e non si hanno i mezzi per migrare come facciamo noi, ma se non si è ben protetti dentro un nido
con sportello, come lo scoiattolo, o in tane murate come
la marmotta, si è anche alla mercé dei terroristi del bosco, come la faina, la donnola, la martora, e quell’altra
taccheggiatrice, la più imprevedibile e astuta che conosca, la volpe.
Potrei stare giorni e giorni a parlare di lei senza riuscire a dire tutto quello che so sul suo conto. Forse questo
episodio è significativo.
Un giorno che me ne andavo a spigolare i miei insetti con volo distensivo sulle rive torbose di uno stagno
alpino, vidi una volpe entrare in acqua con un ramo in
bocca. Incuriosito dall’insolito bagnante, mi impennai
in leggere evoluzioni per restare sul posto e vidi la volpe
nuotare a coccodrillo, con solo il naso fuori per respirare. Capii dopo, quando abbandonato il ramo che aveva in bocca, raggiunse la riva e si scrollò a lungo. Aveva
escogitato il metodo più rapido e indolore per disinfestarsi dai parassiti che si erano messi in salvo sul ramo!
Accarezzo con lo sguardo questo bosco di larici e abeti, sussurrante di vita, profumato di resina e ho la netta sensazione che sarà l’ultimo agglomerato arboreo che
troverò. A questa altitudine sfiorante i 2.000 metri, c’è
tra i componenti il paesaggio, una rarefazione e un ridimensionamento in vista.
Il larice si fa solitario; sui cespi di rododendro, sui piccoli abeti arricciati, sui ciuffi di pino mugo, prendono il
sopravvento il ginepro, il salice rampicante, i cuscinetti
di silene, le sassifraghe di ogni specie. Mentre l’organetto, passerotto con la cuffia rossa in testa, mi supera con
il suo tiu tiu tirr, mi accorgo di volare verso l’ultima stazione terrestre: il piano alpino fino alle nevi eterne.
Eccomi allo scoperto sopra una solitudine fatta di lande, di pascoli, di piccoli laghi, di ghiaioni e di pietraie.
La vita, o meglio la sopravvivenza, qui si svolge al cospetto delle forti radiazioni solari, dell’impeto del vento
e degli sbalzi di temperatura. Gli eletti, quelli che qui ci
vivono, devono fare i conti con questi esigenti gabellatori, perciò, lo dico già fin d’ora, essi sono organismi altamente perfezionati.
Alcuni sono scesi a necessari compromessi. L’ibernazione, il mimetismo e il rinforzo delle strutture naturali
sono le soluzioni ai problemi per chi in montagna resta
comunque e non migra durante il periodo invernale.
La mia piccola ombra che si proietta oscillante sul verde
pendio sta suscitando allarmi ingiustificati. Per un attimo il cuculo sospende il suo monotono verso e la ricerca dei bruchi pelosi disdegnati da tutti gli uccelli. È for-
se questa la maniera per farsi perdonare la sventatezza di
deporre le sue uova nei nidi degli ingenui codirossi spazzacamino, delle passere scopaiole e degli spioncelli?
Su quel sasso piatto e ben esposto al sole, la vipera aspis
(che insieme al marasso sale a queste altezze) è lì acciambellata a riscaldarsi al sole e per un attimo erige il capo
e protende il corpo ad arco. Forse soffia e sibila al mio
indirizzo, scambiandomi per un piccolo falco. Non vorrei essere una rana o un’arvicola nelle sue vicinanze, nel
qual caso avrei un’esperienza, a dir poco, fulminante del
suo gelido sguardo e dei due dentacci velenosi.
Mentre ammiro i bei disegni a zig zag del corpo flessuoso ne noto il turgore. Deve essere in procinto di partorire una dozzina di viperini già tutti pronti a strisciare
con il pieno di veleno, e lei, il rettile ovoviviparo, si sta
comportando come una incubatrice mobile.
Un fischio acuto e limpido proviene dalle pietraie frammiste ad erba su quel crinale baciato dal sole. Subito altri fischi si incrociano e l’eco li rimbalza lontano. La
marmotta di vedetta ha segnalato, le altre hanno captato. Volpe, aquila, essere umano o semplice esercitazione?
Femmina di stambecco con il suo piccolo.
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I bei gattoni marrone chiaro smettono di brucare e
scompaiono nelle tane. I loro incisivi pronunciati, così
come gli unghioni, sono armi pacifiche per le faccende
quotidiane. Unica loro difesa restano quei complicati
tunnel sotterranei con uscite di sicurezza, dove dall’inizio dell’inverno e fino a maggio, piombano in un sonno profondo come un coma.
Mentre sto librando ad ali aperte come un aliante, avverto in tutto il corpo una sensazione ben nota, un impulso elettrico che mi serpeggia da capo a coda. Punto lo sguardo all’orizzonte e vedo addensarsi nuvoloni
neri. Per questo la marmotta ha fischiato!
Noi animali selvatici sentiamo in anticipo le perturbazioni atmosferiche, il temporale è per noi un trauma fisiologico e ci diamo da fare per superarlo indenni. Scommetto che lo scoiattolo si è già tappato in casa,
vedo l’arvicola delle nevi che ritira in tutta fretta i funghi
e le foglie messi a seccare davanti alla tana, una coturnice
fa un volo basso e breve lungo il dorso della montagna
e poi sparisce velocemente fra le rocce. I gracchi, quello
alpino e quello corallino con becco e zampe rosse, smettono di volare in formazione e si raggruppano in grandi fessure della roccia.
Mi abbasso in cerca di un tetto roccioso e faccio a tempo a vedere scivolare tra i massi della grossolana morena l’ermellino: il più famoso dei mustelidi ha già la
livrea estiva marrone chiaro e la macchia bianca sulla
gola. Insieme alla lepre variabile e alla pernice delle nevi
ha adottato un metodo straordinario per annullarsi nell’ambiente circostante.
Comincia a cadere la prima neve? Sui loro corpi compaiono macchie bianche che si fanno sempre più larghe fino a che in pieno inverno, nel candore generale, le
loro candide figure passano inosservate. Si sciolgono le
nevi e arriva l’estate? Spariscono a poco a poco le macchie bianche e i peli e le piume assumono il colore mimetico delle rocce. In questo modo essi rifiutano il letargo invernale e hanno la preoccupazione di un difficile sostentamento.
Non sono i soli. Sono in compagnia dei più grossi mammiferi di alta montagna, i camosci e gli stambecchi.
Il temporale mette a segno i primi lampi e tuoni e mi
convince ad una ritirata strategica. Mi avvinghio alla
parete di una grotta e mi accorgo che una famiglia di
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camosci ha scelto lo stesso rifugio. Li osservo da vicino.
Sembrano capre ma di un rango superiore.
Maschi, femmine, piccoli, hanno tutti le corna, che
come quelle degli stambecchi non cadono mai, sono
cave, non composte da sostanza ossea ma di cheratina.
Nelle mie trasvolate ossolane ho sempre visto molti camosci, pochi stambecchi, cervi, caprioli.
Questo camoscio rupicapra dalle corna ad uncino è il
simbolo delle nostre montagne perché ne è il più antico
abitante. In estate sale alle alte quote fin dove l’erba cresce ai margini dei nevai e solo in inverno scende nei boschi per ripararsi e foraggiarsi. Trovo superbo il portamento della testa e nobile il muso con la singolare mascherina bianca e nera.
Osservo gli esemplari qui vicino a me e noto che i loro
spessi mantelli di pelo sono in piena muta e ne vedo dei
brandelli contro la parete rocciosa. Il pelo scuro sta lasciando il posto a quello estivo più leggero e chiaro.
Se il camoscio, per me rondone alpino, è la più elegante e agile capra della montagna, un’altra capra selvatica,
lo stambecco, detiene il primato della robustezza e della resistenza.
La massiccia figura del maschio, dalle grandi corna ad
arco e la barbetta sotto il mento, stagliato su uno strapiombo da capogiro, non è una visione insolita per me.
Lui è il signore degli speroni rocciosi e dei picchi, e non
ama la copertura del bosco. Durante l’epoca degli amori che cade all’inizio dell’inverno, tanto per i camosci
quanto per gli stambecchi, mi hanno detto che l’eco
propaga rumori di giostre furiose per giorni e giorni.
Immerso nei miei pensieri, non mi sono accorto che il
temporale ha esaurito, con gli ultimi brontolii, il contingente di acqua, tuoni e fulmini. Tutti gli esseri viventi si sentono ora rinfrancati, l’arcobaleno solca il cielo, la montagna, rocce e pascoli, brilla imperlata. Il torrente si è ingrossato, gli stagni si sono riempiti, nuove pozze si sono formate. A festeggiare la presenza dell’acqua si fanno avanti quei singolari individui che hanno la doppia vita, terrestre ed acquatica. Chi potrebbe
pensare che anche qui sopra i 2.500 m esistano esemplari di anfibi?
Eppure proprio dopo un temporale sto a guardare strisciare sul sentiero la salamandra nera, l’andatura goffa,
il corpo, con due file di tubercoli, nero lucente da sem-
brare laccato. La sua vita deve essere talmente irta di
difficoltà, che non depone le uova come la salamandra
pezzata, ma ogni due tre anni mette al mondo due figli
già completamente metamorfosati.
Chi invece non si allontana mai dallo stagno è il tritone
alpino che per il portamento confondo con la salamandra, se non fosse per il ventre colorato di rosso vivo e la
cresta dorsale nera e gialla.
Intorno allo stagno dove crescono gli equiseti e i giunchi, vedo per un momento sospesa in aria la libellula alpina, troppo grande per me, dal momento che le sue ali
misurano cinque centimetri.
Uno spioncello canta la sua gioia di vivere salendo continuamente verso il cielo e scendendo a paracadute, e per
qualche istante distoglie la mia attenzione dalla pozza
d’acqua.
Vengo richiamato da un gracidio gutturale gru gru e
pluf, vedo tuffarsi rane brunastre. Sono le rane temporarie, così chiamate dalla macchia temporale scura, che
osservo anche in pianura, ma che qui a queste altezze
formano dei clan esclusivi.
Quando in primavera ammassi di neve ricoprono ancora gli acquitrini, loro sono lì che nuotano nell’acqua gelida e depongono grappoli di uova. Sono i batraci che
si spingono alle più alte quote e li sorprendo a saltellare
anche lontano dai luoghi umidi.
Una leggera brezza ha spazzato le ultime nubi e il sole
torna a scaldare. Mi si presenta l’opportunità di vedere il rettile che sale più in alto di tutti, la lucertola vivipara, dal ventre arancione punteggiato di nero. Ha la
coda più corta della lucertola muraiola, se la cava ottimamente nel nuoto e in caso di pericolo non esita a
buttarsi in acqua. È a detta di tutti il rettile più resistente alle variazioni della temperatura tanto da spingersi non solo alle altezze di 3.000 m sulle montagne,
ma anche alla latitudini del circolo polare artico. Per
questo la sua specie è predisposta a far nascere ogni volta 5-7 piccoli completamente atti ad affrontare i disagi di tale particolare esistenza. Da lontano un fringuello alpino sciorinante la sua strofa interrogativa e, più vicino nella desolata pietraia, il canto sonoro del sordone,
mi riportano alla realtà che mi sono prefisso.
Il tempo a mia disposizione sta per scadere e io voglio
solo accennare al mondo degli insetti, quelli che alla
fine mi danno la maniera di sopravvivere.
Dirò subito che le mie prede alate sono di piccola taglia
e appartenenti in gran parte agli ordini dei ditteri, dei
coleotteri, degli imenotteri. Vale a dire rispettivamente
mosche e zanzare; scarabei e cetonie; api e vespe. Quando
il tempo è bello, fa caldo e il vento solleva questi insetti fino a centinaia di metri di altezza dal suolo, noi rondoni ci raduniamo in stormi a cacciare. Con il tempo
cattivo, scendiamo negli strati più bassi dell’atmosfera e
sorvoliamo terreni paludosi, praterie, boschi.
Ci cibiamo anche di ragni, di cavallette e piccole farfalle che abitano gli alti pascoli e che fanno da corollario agli insediamenti dei branchi di mammiferi selvatici e domestici.
Indipendentemente dal mio fabbisogno alimentare,
posso dichiarare che gli insetti più belli e spettacolari
restano, anche in montagna, le farfalle, i lepidotteri.
Ce ne sono di diverse specie, piccole e grandi, di media
o alta montagna. Alcune sono migratrici, altre ibernano
sotto i tetti delle baite o all’interno delle stalle, altre ancora superano l’inverno trasformandosi in crisalidi. Mi
è permesso citare solo i nomi più importanti.
Una delle prime farfalle che vedo svolazzare in primavera lungo i sentieri delle radure e dei pascoli è la vanessa
dell’ortica, seguita dopo poche settimane dalla splendida
pavonia minore notturna. Se salgo più in alto e vedo ali
bianche lucenti con magnifici ocelli rossi e punti neri,
so di certo che quella farfalla è un apollo. La sua specie
vola anche a 2.500 m. A questa altezza, durante la bella
stagione e in pieno sole, mi capita di vedere una specie
migratrice di grande effetto, lo splendido macaone.
Nei prati di alta quota, circondati da abeti e larici, fino
alle regioni nivali, volano le erebie, piccole farfalle marrone scuro, mentre il lepidottero più diffuso, dalla pianura alla montagna, è certamente la melitea aranciata.
Mano a mano che salgono di quota, questi insetti diminuiscono di grandezza, variano di colore e hanno la
tendenza a ridurre le ali. Questo per motivi climatici:
il freddo, il vento, le radiazioni solari. Così sui fiori di
cardo e di scabiosa aleggiano le piccole zigene, dalle ali
macchiettate di rosso e nero bluastro, mentre sulle pareti rocciose e sui ghiaioni al di sopra dei 2.000 m. sono
attirato dai colori tenui della piccola eneide dei ghiacciai.
Quello degli insetti è un mondo non solo misterioso
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ma popolato di esseri tenaci. Sulle cime, oltre i 4.000
m, dove solo il vento può recare granelli di polvere organica, ho visto coi miei occhi saltellare una pulce, la
pulce dei ghiacciai.
Ancora qualche colpo d’ala e il mio capolinea è in vista.
Ma prima che il mio attimo fuggente si consumi voglio ricordare con rispetto quei selvatici che fino a qualche secolo fa vivevano qui e che ora sono chiamati «gli
estinti». Grossi conflitti di interessi erano sorti fra loro
e gli uomini per via dell’occupazione territoriale, e le
disfide, ad armi impari, si conclusero con una radicale
soppressione dei presenti sul campo. Parlo dell’orso, del
lupo e della lince. Tuttavia in riferimento a quest’ultima
devo raccontare un episodio accadutomi l’anno scorso.
Mentre volavo a bassa quota, per diporto, facendo l’altalena sui passi dell’Alpe Veglia, mi era parso di vedere mollemente sdraiato al sole, su una piattaforma rocciosa, un grosso gattone dal pelo maculato. Ripassai più
volte sull’obiettivo. Più che mai immobile, notai lunghi ciuffi sulle orecchie, una coda corta, e incuriosito
gli sfrecciai sopra con un grido acuto per attirare la sua
attenzione. Il gattone allora alzò il capo e mi fece segno
di un lungo sguardo di valutazione: no, non gli interessavo come preda. Io, però, ebbi il tempo di osservare i
suoi grandi occhi, il suo sguardo penetrante e dorato e
dedussi che quel morbido gattone altri non poteva essere che una lince. Da allora sentii insistentemente vociferare che qualche esemplare era venuto fra noi dalla vicina Svizzera, dove è stato immesso da quelli che si chiamano scienziati ecologici, quelli che sono convinti che
questo grosso felino facendo piazza pulita degli animali deboli o ammalati, stronchi sul nascere le grandi epidemie. Chissà se anche quest’anno mi capiterà di ritrovarlo là tra cielo e roccia!
A proposito di certe nuove interpretazioni e variazioni
sul riassetto ecologico, ho sentito dire che stanno sperimentando un innesto artificiale di due specie i cui rappresentanti non si vedevano più da molto tempo da
queste parti: il cinghiale e il lupo.
Il primo è un suino ingrandito e rinforzato con zanne, grifo e setole e con una propulsione da carro arma-
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to. Le sue zanne sono erpici che rivoltano qualsiasi suolo, prato, pascolo, orto. Già lo incolpano di devastare i
campi, aiutato in questo dalla ruspante prole che si fa
più numerosa ad ogni stagione. Per il secondo, il lupo,
la faccenda è più delicata. D’accordo che non attacca
1’uomo, sopratutto se è armato di bastone, ma le vittime designate sono le povere pecore e capre, libere sui
pascoli alti. Prevedo il riaccendersi dell’antico conflitto dove armi tonanti e micidiali trappole opereranno lo
sterminio di queste due specie scomode che hanno perso il loro spazio vitale in questa nostra Valle ormai densamente antropizzata. Dall’alto dei miei voli di ricognizione vedo chiaramente tutto questo e me ne dolgo per
questi miei lontanissimi parenti e mi consola il fatto
che almeno il mio spazio, quello aereo, è ancora vivibile, senza alcuna limitazione.
Ora il mio tempo è davvero scaduto. A chiusura di questo reportage chiedo una breve licenza, pochi istanti per
sgranchirmi le ali in quest’aria frizzante. Salgo di getto, su su nel cielo azzurro e infinito. «M’illumino d’immenso» come dice un poeta. Stop, rientro in picchiata
e scendo di quota in vista del mio nido. La mia compagna lo ha già riassettato e mi sollecita impaziente. Ci
aspetta un’estate piena zeppa di impegni alimentari e
faticose trasferte ma anche di soddisfazioni. A settembre, quando i nebbioni scendendo più in basso faranno intirizzire le ali agli insetti e li scacceranno, sarà tempo di migrare.
Allora anch’io me ne andrò nel paese dove il sole è a
picco sulle nostre teste e l’aria è densa di insetti ronzanti. Ma una cosa sia chiara: ovunque andrò mi sentirò uno sfollato, perché il mio cuore resterà qui, dove
sono le mie radici, dove sono nato e nascono i figli e i
figli dei miei figli.
Sono pienamente consapevole che questo mio resoconto sia per molti versi incompleto. «Tempus fugit» anche
per noi, creature del cielo e poi è per via di quella frenesia che ho nelle ali. A mia discolpa dirò che, se mi sarà
data l’opportunità, ci riproverò meglio la prossima volta. Intanto prego di considerare due fatti. Primo che ho
cercato di mettercela tutta, secondo che, alla fine, sono
soltanto un rondone alpino.
I parchi e le riserve naturali
Paolo Crosa Lenz
Dai fondovalle densamente abitati alle vette delle montagne coperte di ghiacci. Tra questi estremi incontriamo
il verde di grandi foreste, le distese d’erba delle praterie
alpine, le grandi pareti di roccia che si innalzano al cielo. Effervescenza di colori in una natura ancora in larga parte incorrotta.
E’ un mondo in equilibrio tra l’ambiente dolce dei laghi
prealpini e le grandi montagne delle Alpi (innanzitutto
il Monte Rosa, la seconda montagna d’Europa, poi una
catena ininterrotta di vette dalle Pennine alle Lepontine). Dai limoni che crescono rigogliosi sulle sponde dei
laghi (e dagli uliveti del Monte Rosso fra Intra e Pallanza) ai ghiacciai dell’Ossola: lago, collina e montagna.
Sono due i valori ambientali dell’Ossola: la multiforme
varietà di habitat coesistenti in un’area ristretta e la presenza di molte aree in cui questi hanno conservato un
equilibrio antico tra uomo e natura. Grandi respiri di
armonia in una zona antropizzata da millenni.
In questi ultimi quarant’anni anni l’istituzione di aree
naturali protette ha contribuito a definire e consolidare un sistema di parchi che costituiscono una carta importante nel disegno futuro di un modello di sviluppo
del territorio.
Non è solo la quantità di territorio tutelato, ma soprattutto la qualità di esso che definisce l’importanza dell’Ossola nell’ambito del sistema nazionale delle aree
protette. E la qualità è data dal Parco Nazionale della Valgrande, l’area wilderness più estesa d’Italia e una
delle maggiori in Europa, e dal Parco Naturale dell’alpe
Veglia e dell’Alpe Devero, due gioielli delle Alpi in cui
si riconoscono un’armonia assoluta tra il secolare lavoro dell’uomo-montanaro e un ambiente naturale intatto. Se la Valgrande è il selvaggio, la foresta che riprende un dominio assoluto sulla montagna, Veglia e Devero sono l’equilibrio, un modello di uso ecocompatibile
delle risorse e di armonia con l’ambiente.
La Valgrande e Veglia-Devero (i due pilastri del sistema
di aree protette dell’Ossola) rappresentano due dimensioni differenti di una stessa realtà: la Valgrande (cupa,
incassata, opprimente, che si libera solo sulle creste in
ampi sguardi lontani) rappresenta la fatica di penetrare
una natura selvaggia, misteriosa, inafferrabile; Veglia e
Devero (estese praterie alpine d’alta quota, pascoli rigogliosi, immense giogaie battute dal vento) rappresentano l’integrazione di natura e cultura.
La storia delle sei aree naturali protette dell’Ossola comincia da lontano, oltre vent’anni prima che lo Stato si
dotasse, nel 1991, della legge quadro sui Parchi.
Nel 1969 l’allora Ministero dell’Agricoltura istituì l’Oasi Faunistica di Macugnaga, su un’area di 27,5 kmq nell’ampio anfiteatro montuoso del versante orientale del
Monte Rosa.
L’Oasi Faunistica, la prima area naturale protetta dell’Ossola, nacque anche grazie al sostegno delle associazioni venatorie locali, al fine di favorire la reintroduzione dello stambecco, ormai quasi scomparso sulle Alpi.
Gli esemplari liberati nell’arco di più anni provenivano
dalla Valsavaranche, nel Parco del Gran Paradiso, dove
viveva una delle ultime colonie delle Alpi. Trovando
idonee condizioni ambientali, gli stambecchi si sono in
seguito riprodotti colonizzando l’alta Valle Anzasca e la
Valle Antrona. Attualmente si stimano circa 120 esemplari solo a Macugnaga.
Nel 1978 la Regione Piemonte istituisce il Parco Naturale dell’alpe Veglia. E’ il primo parco regionale istituito in Piemonte.
L’alpe Veglia, alla testata della Val Cairasca, è una conca alpina di origine glaciale circondata da una catena
di monti che costituiscono il lembo occidentale delle
Alpi Lepontine (il Monte Leone 3553 m ne è la vetta
149
maggiore; nel suo grembo corre il tunnel ferroviario del
Sempione). L’alpe Veglia è anche luogo di insediamenti
antichissimi. Recenti scavi archeologici hanno scoperto i resti di un accampamento di cacciatori nomadi del
Mesolitico, risalente all’VIII Millennio a.C.
L’ambiente dell’alpe Veglia è quello tipico dell’alta montagna, sebbene il fondo pianeggiante della conca rientri ancora entro il limite della vegetazione arborea. I boschi, radi e con sottobosco di rododendri e mirtilli, che
si sviluppano attorno alla piana dell’alpe si spingono
con le frange superiori fino a 2200 metri di quota e
sono costituiti da larici, con rari esempi di pino uncinato e abete rosso.
È tuttavia il pascolo l’elemento dominante il paesaggio
di Veglia. La grande piana del Vaccareccio e i pascoli di
Pian Stalaregno (con le baite e le stalle di Cà d’Argnai) e
Pian di Scricc sono destinati ai bovini. In Veglia vengono monticati essenzialmente bovini di razza bruna particolarmente adatti ai pascoli d’alta quota in quanto di
notevole rusticità e con attitudine da carne e da latte.
Frutto di un’attività dell’uomo durata millenni e che ha
strappato ai lariceti e agli arbusteti la piana basale, i pascoli sono la ricchezza e la fortuna di Veglia. Il loro valore paesaggistico ed economico (nei secoli scorsi venivano caricati oltre mille bovini) è dovuto ad un uso razionale della pastorizia che ha saputo realizzare un complesso e sapiente equilibrio con l’ambiente naturale. Veglia, così com’è, è il risultato del lavoro dell’uomo, della fatica di generazioni infinite di montanari che hanno spietrato e irrigato i pascoli, canalizzato le acque, regolato la crescita del bosco, costruito sentieri ed edificato baite e stalle. In Veglia tuttavia l’azione antropica
è stata nel complesso ridotta: le forze della natura sono
state sempre prevalenti ed hanno fatto di questo territorio un paradiso della natura in cui hanno vissuto degli uomini.
Le difficili condizioni ambientali e l’accesso impervio
hanno sempre limitato l’insediamento umano al periodo estivo. Veglia è sempre rimasto un “alpe” nel senso
tradizionale del termine, cioè una sede temporanea e
terminale nel complesso itinerario di transumanza dai
centri di fondovalle ai pascoli alti. Ai bordi della va-
sta piana erbosa, detta Vaccareccio, si distribuiscono sei
nuclei di abitazioni: Cianciavero, Aione, Ponte, Isola,
Cornù e, leggermente discosto alle pendici del Pian Stalaregno, La Balma. I gruppi di casolari, armonicamente inseriti nell’ambiente, sono posti su un’unica curva
di livello con il fronte rivolto al pascolo. La grigia pietra locale è il materiale costruttivo dominante per cui le
baite e le stalle si confondono con i massi erratici, i dirupi e le grandi pareti delle montagne. Tutto attorno è
il verde dei pascoli.
Pascoli e praterie alpine in cui i naturalisti hanno riconosciuto 319 specie botaniche, di cui il 22 % considerate rare e quattro (Gentiana brachyphylla, Astragalus
leontinus, Kobrenia simpliciscula e Arabis) vengono considerate rarissime.
Nel 1990 la Regione Piemonte istituisce il Parco Naturale dell’Alpe Devero, contiguo a quello di Veglia.
L’alpe Devero si trova alla testata dell’omonima valle
che scende, quasi parallela ma con uno sviluppo minore della Val Cairasca, ad innestarsi nel tronco della Valle Antigorio all’altezza di Baceno.
La valle percorsa dal torrente Devero è molto interessante dal punto di vista morfologico per le profonde
forre di incisione fluvio-glaciale e per la presenza dei
valloni laterali pensili (Bondolero, Buscagna, Codelago
ed Agaro). Tutta la valle è uno stupendo libro aperto
scritto dalla natura per raccontarci la storia delle Alpi e
illustrato dai colori di un ambiente mai monotono.
L’alluvium, il terreno di riporto che forma la base di pascoli e praterie, è diffuso e costituisce il fondo della conca di Devero, di Buscagna, di Codelago (oggi ricoperta
dalle acque del bacino artificiale) e di Agaro. L’ambiente è quello dell’alta montagna: boschi di larici e abeti
con sottobosco di mirtilli e rododendri, pascoli e alpeggi, praterie alpine fino contro le rocce, immense sassaie,
picchi arditi e creste affilate.
Come Veglia, Devero è sempre stato un alpeggio (alp
nel dialetto locale). In piena estate vi avveniva uno sfalcio d’erba mentre le mandrie pascolavano sui pascoli
alti di Buscagna, di Sangiatto, dei Forni.
A differenza di Veglia, aperta nella conca vastissima e
racchiusa da un ampio circolo di montagne che non
Dal rifugio della Bocchetta di Campo in Val Grande al Monte Rosa.
151
Domodossola, la Riserva Naturale del Sacro Monte Calvario.
conservano segreti, Devero appare più contenuto e quasi schiacciato dai grandi monti che sovrastano l’alpe.
La sua morfologia, molto più articolata e complessa di
quella di Veglia, nasconde tuttavia ampi spazi e grandi
distese d’erba nelle valli laterali e sui piani alti. Se Veglia suscita lo stupore di chi scopre per la prima volta la
vastità del suo Vaccareccio, Devero rivela in alto la sua
grandezza: nell’asprezza delle sue montagne, dominio
incontrastato del camoscio; nelle distese verdi dei pascoli sparsi sulle innumerevoli balconate; nelle praterie
alpine che salgono al cielo e ospitano cospicue colonie
di marmotte; nelle grandi distanze su cui corrono i sentieri (è il regno del grande escursionismo); negli specchi
raccolti dei suoi laghetti in cui vivono il tritone alpestre
e la rana temporaria.
Le praterie alpine in estate offrono un’occasione unica per conoscere un quadro completo della flora alpina
occidentale. Il Monte Cervandone (m 3211) è il cuore
di un distretto mineralogico tra i più ricchi d’Italia. Sui
monti di Devero sono conosciute 127 specie diverse di
152
minerali, tra cui sette nuove specie rinvenute qui per la
prima volta in natura. Sul solido e compatto serpentino della Rossa e del Crampiolo si è sviluppata la moderna arrampicata in Ossola e ancora oggi queste montagne costituiscono uno straordinario terreno di gioco
per l’alpinismo classico.
Nel 1995 i due Parchi vengono riuniti sotto un unico ente di gestione: il Parco Naturale Veglia Devero. Il
Parco, nelle Alpi Lepontine occidentali al confine tra
Italia e Svizzera, tutela una superficie di 86 kmq (più
22,5 kmq di “zona di salvaguardia” in Devero). Il territorio è tipicamente alpino con un’altitudine tra i 1600
e i 3500 m. Il territorio tutelato è compreso nei comuni
di Baceno, Crodo, Varzo e Trasquera. Compiti principali del Parco Naturale sono la conservazione della biodiversità e la promozione di uno sviluppo sostenibile
delle comunità locali. Questa azione avviene in rete con
le altre 280 aree protette delle Alpi.
Nel 1991 la Regione Piemonte istituisce la Riserva Naturale Speciale del Sacro Monte Calvario di Domodos-
sola su una superficie di 25 ettari. Il complesso devozionale sorge sul colle di Mattarella, un’altura sovrastante
la città di Domodossola, dove in origine sorgeva un castello con origini anteriori all’anno Mille, distrutto nel
1415 dalle truppe vellesane scese a conquistare l’Ossola. Su proposta di due frati del convento cappuccino
di Domodossola nel 1657 iniziarono i lavori di edificazione del Santuario del Santissimo Crocifisso e della
Via Crucis, dedicata alla passione di Cristo e costituita
da quindici stazioni, di cui tre contenute nel Santuario.
Al Calvario di Domodossola, considerato dagli studiosi come “il complesso architettonico e plastico più importante di tutta l’Ossola”, hanno lavorato grandi artisti
tra cui gli statuari Dionisio Bussola e Giuseppe Rusnati
e i pittori Giovanni Sanpietro e Lorenzo Peracino. L’arrivo al Calvario domese di Antonio Rosmini (febbraio
1828) determinò un rifiorire della devozione popolare.
Nel 1863 vi si stabilì l’istituto religioso rosminiano che
fece diventare l’edificio eretto nel 1700 accanto al santuario un centro di formazione e di spiritualità.
Sulla montagna sovrastante il Calvario sono situati antichi borghi rurali oggi abbandonati che si inseriscono
armonicamente nei boschi misti di latifoglie a predominanza di castagno. Un sentiero natura (“La via dei torchi e dei mulini”) permette visite autoguidate per la conoscenza di questa dimensione della civiltà rurale montana dell’Ossola.
Il Parco Nazionale della Valgrande, inserito nella legge quadro sui parchi nazionali del 1991, è stato istituito con decreto del Ministero dell’Ambiente nel marzo 1992 su una superficie di 11733 ettari. È il secondo parco nazionale del Piemonte (dopo quello storico
del Gran Paradiso) ed è il riconoscimento, da parte del
Parlamento, che la Valgrande è un bene di grande valore per tutta l’Italia (e per l’Europa). Il territorio del parco nazionale comprende i bacini idrografici del Rio Valgrande e del Rio Pogallo, confluenti a valle di Cicogna
nel torrente San Bernardino che sfocia nel Lago Maggiore a Intra. E’ una valle chiusa, circondata da montagne non alte (la vetta più alta è il Togano, m 2301) che
trova il suo unico sbocco nella grande forra a sud di Cicogna. Racchiusa e definita tra Ossola, Vigezzo e Cannobina e il bacino del Lago Maggiore a sud, può essere
immaginata come un grande cuore con il ventricolo si-
nistro (la Valgrande vera e propria) più grande del destro (la Val Pogallo).
Il valore wilderness del parco, cioè la sua natura selvaggia, nasce dall’assenza, a partire dagli anni ‘50, di ogni
attività antropica sul suo territorio. Dopo secoli di intenso sfruttamento da parte di boscaioli, carbonai e alpigiani, questi ultimi cinquant’anni hanno visto il silenzio tornare nella valle. E la natura riprendere liberamente il suo corso, riappropriandosi del territorio. E la
foresta, le “immense foreste piantate da Adamo”, coprire tutto: sentieri e mulattiere, pascoli e casère, teleferiche e aie carbonili. Qua e là, sommersi da rovi e lamponi o ingoiati dal bosco, riemergono i segni di quella
civiltà montanara che per secoli è cresciuta in simbiosi
con un ambiente tanto aspro e impervio.
L’importanza del parco è anche in questo. La Valgrande
è un’idea: l’idea del selvaggio, di una natura incorrotta
e libera di seguire le sue leggi. E’ una presenza ancestrale, sopita in ognuno di noi, che riafferma prepotente la
sua esistenza. “Un’isola sopravvissuta all’incalzare della
civiltà” per dirla con Franco Zunino.
Proprio qui, nel 1967, su un’area di 973 ettari, fu istituita la “riserva naturale integrale del Pedum”, la prima delle Alpi.
Completano il panorama delle aree protette dell’Ossola
le Oasi Naturali del Bosco Tenso e di Pian dei Sali.
L’oasi naturale didattica del Bosco Tenso, istituita nel
1990 dal comune di Premosello Chiovenda con la collaborazione della sezione di Verbania del WWF, tutela l’ultimo residuo del bosco planiziale della valle del
Toce. E’ un tipico bosco igrofilo (querco carpineto), residuo dei grandi boschi che un tempo occupavano l’Ossola, abbattuti per far posto alle coltivazioni già a partire dal XII secolo. L’area acquista rilievo naturalistico per
la presenza di una ricca avifauna (40 specie nidificanti e
127 svernanti o di passo).
Il Bosco Tenso era “tensato”, cioè soggetto a vincoli già
nel 1572 (Statuti di Premosello). Essendo sulla riva del
Toce, salvava le coltivazioni dalle piene del fiume. Anche nei bandi comunali del 1833 il Bosco Tenso era
protetto, anche perchè il comune potesse approvvigionarsi di legna con cui riscaldare la scuola e il municipio.
Scopo dell’Oasi è di proteggere l’ambiente naturale con
una gestione che mantenga, migliori e rinnovi il patri153
Immagini del Parco Naturale Veglia - Devero.
monio boschivo, consentendone un utilizzo didattico
lungo sentieri attrezzati con pannelli esplicativi.
L’Oasi Naturale del Pian dei Sali, istituita nel 1998 dai
comuni di Malesco e Villette e dal WWF Verbania, tutela un tipico ambiente umido di montagna. L’anfibio
più diffuso è sicuramente la Rana temporaria, di colore
bruno-arancione macchiata di scuro. E’ tipica degli am-
154
bienti umidi e si spinge anche fino a 2500 metri e più di
altitudine. Ecco l’Ossola verde. Un territorio dove il respiro della natura è ancora presente e vitale e dove si coniugano armonicamente la civiltà antica e sapiente dell’uomo-montanaro con il rispetto dell’ambiente. Questo ambiente che, con la funzione propositiva e di sperimentazione gestionale del “sistema” dei parchi, può
dare molto agli uomini di oggi.
La Cultura
Ossolani illustri
Angela Preioni Travostino
ADORNA FRANCESCO SAVERIO, aeronauta
Villette 1744 - Bordeaux 1821
Figlio di Giacomo e di Margherita Piffero. Emigrò ragazzino all’estero in cerca di lavoro e più tardi, attratto dalle scienze fisiche e dalle novità del tempo, si dedicò allo studio della nascente aeronautica. Pare che nel
1780, prima dei fratelli Montgolfier, avesse costruito a
Strasburgo un grosso pallone aerostatico con cui poi si
levò su alcune città europee. Stabilitosi a Bordeaux non
dimenticò il paese nativo al quale donò la casa paterna
perché vi fossero ospitate le scuole elementari, ed alla
parrocchia un ostensorio con inciso il proprio nome.
ALBERTAZZI GIACOMO ANTONIO,
scrittore didascalico, giureconsulto
Vogogna 1736 - ivi 1793
Figlio del giureconsulto Giulio Maria e di Anna Romerio, studiò a Milano nelle scuole Palatine di Brera lettere, filosofia e diritto. Tornato a Vogogna fu Luogotenente del Podestà ed esercitò il pubblico patrocinio. Essendo l’Ossola passata al Regno di Sardegna si perfezionò nello studio delle leggi sabaude ottenendo la laurea
all’Università di Torino. Seguì interessi culturali di genere scientifico-didascalico che espresse ne Il Padre di
famiglia in sette libri dedicati alla coltura della terra, alla
farmacopea domestica, alla caccia e alla pesca e alla pace
in famiglia. L’opera fu pubblicata a Vercelli nel 1789 e
ristampata a Milano nel 1829.
ALLEGRANZA PIETRO, giornalista, canonico
Vagna 1800 - Montescheno 1874
Figlio del notaio Giuseppe Maria e di Rosalia Giuppa.
Compiuti gli studi classici e teologici in seminario, fu
ordinato sacerdote e insegnò lettere nei seminari della
diocesi di Novara. Studioso di cose ossolane, compilò
una storia che restò inedita. Canonico della Collegiata
di Domo difese i diritti del Capitolo ed i privilegi ossolani; giornalista battagliero e instancabile, diresse L’Ossolano fra il 1845 e il 1848, scrisse di politica con spirito
di parte, ma anche di religione e di storia. Nei suoi ultimi anni lasciò Domo e l’attività giornalìstica per fare
il parroco a Montescheno, in valle Antrona, costrettovi
da disposizione vescovile.
ALVAZZI DEL FRATE COSTANTINO, medico
Varzo 1850 - ivi 1920
Figlio del geom. Benedetto e di Monica Rigacci. Studi classici in Collegi Rosminiani e laurea in medicina
nel 1873. Esercitò la professione a Domo, a Torino e
dal 1893 diresse l’Ospedale Civico di Sanremo. Scrisse
una monografia sulla cura dei lebbrosi e L’acqua minerale dell’Alpe Veglia, studio ricco di dati scientifici per la
valorizzazione delle acque minerali ossolane.
ANTONIETTI MARIA GIOVANNA, religiosa
Baceno 1809 - Borgomanero 1872
Figlia di Martino e di Angela Scavini. Per vocazione religiosa si rivolse all’abate Rosmini che la inviò a studiare
e a fare il noviziato a Locamo, destinandola poi a dirigere l’asilo di Biella. Per le doti eccezionali di prudenza,
umiltà, fortezza cristiana e sagacia amministrativa dimostrate, il Rosmini la nominò Superiora Generale dell’Ordine delle Suore della Provvidenza da lui fondato.
ARCARDINI ALESSANDRO, avvocato
Piedimulera 1895 - Domodossola 1992
Figlio di Rocco e di M. Luigia Coursi, vallesana. Studi classici al Mellerio Rosmini e laurea in giurisprudenza a Torino. Ufficiale del genio e aviatore nella 1a guerra mondiale, ottenne la croce di guerra ed il distintivo
d’onore. Durante la brillante carriera forense a Torino,
nel 1944 difese gli avvocati Brosio e Fusi che, con abili157
tà dialettica, sottrasse alla pena capitale richiesta dal Tribunale fascista e toccata invece agli sfortunati eroi fucilati al Martinetto. Dal 1945 continuò la professione a
Domodossola e accettò con grande disponibilità la carica di presidente della Fondazione Galletti, dell’Azienda Autonoma di Bognanco, della Pro Domo e della 2a
Esposizione italo-svizzera del 1950. Fu anche sostenitore del rilancio del Sempione mediante il collegamento stradale con Genova (autostrada Voltri-Sempione).
Collaborò al buon andamento di enti morali e culturali con competenza e attiva partecipazione. Per i disinteressati incarichi umanitari fu nominato grand’ufficiale
della Repubblica.
AZZARI GIUSEPPE ANTONIO, patriota
Re 1767 - Bicocca di Novara 1796
Figlio dei vigezzini Giuseppe Antonio di Re e di M.
Anna Ravelli di Albogno. Studi classici e laurea in giurisprudenza a Pavia, ove abbracciò ideali repubblicani
che propagandò a Pallanza, luogo di residenza della famiglia, da anni dedita a fruttuosi commerci, e in Valle Vigezzo fra parenti e amici. Con il nome di Giunio
Bruto fu a capo di un movimento rivoluzionario che,
nell’autunno 1796 tentò l’insurrezione antimonarchica.
Catturato dalle forze regie per delazione, fu condannato
a morte e impiccato a Novara nei pressi della Bicocca.
BAGNOLINI ATTILIO,
Medaglia d’oro al valore militare
Villadossola 1913 - Mai Ceu (Etiopia) 1936
Alpino del btg. Intra del IV Reggimento, combattente in Africa Orientale durante la guerra italo-etiopica (1935-36), difese da ferito la postazione di Passo
Macan, nella battaglia cruciale di Mai Ceu o del lago
Ascianghi, poi con sacrificio della vita sventò il tentativo di accerchiamento dell’esiguo gruppo dei compagni
d’armi. In Villadossola è ricordato con l’intitolazione
della Scuola Media e con un monumento. Un sommergibile della Marina Militare porta il suo nome.
BALCONE GIOVAN BATTISTA, benefattore
S. Maria Maggiore 1703 - ivi 1750
Sacerdote presso la Parrocchia di Zornasco, ricco, brillante e di scarsa pratica religiosa. Mutò condotta e si ridusse a vivere poveramente e in penitenza. Eresse un
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ospedaletto nel quale raccolse derelitti e mendicanti.
BALLARINI GIORGIO, ingegnere, giornalista
Livorno 1903 - Domodossola 1987
Figlio dell’ing. Giovanni e di Clori Solari. Domese d’adozione essendovi giunto fin dal 1928, diresse la
Ferrovia Vigezzina per un quarantennio. Negli anni del
conflitto bellico si accostò al Partito Socialista e durante i «quaranta giorni di libertà» fu membro della Giunta
Provvisoria di Governo con il compito di far funzionare i trasporti interni all’Ossola e particolarmente quelli internazionali diretti nel Vallese e nel Canton Ticino.
Nel 1945 rientrato dalla Svizzera, dove si era rifugiato
dopo la rioccupazione tedesca, fu eletto dal C.L.N. sindaco di Domodossola, carica che tenne fino alle prime
elezioni. Continuò l’impegno politico fondando e dirigendo il giornale settimanale Il Risveglio Ossolano, e
scrivendo gli articoli di prima pagina in favore di battaglie sociali. Colto, amante dell’arte, visitò tutti i continenti per conoscerne anche gli aspetti politici, sociali e organizzativi.
BALZARDI ANGELO, scultore
Antrona 1892 - Torino 1974
Studi artistici a Torino conclusi nel 1922 con diploma
del Corso superiore di scultura. Partecipò con successo alla XIX Biennale di Venezia e alle Quadriennali di
Roma. Fu titolare della Cattedra di plastica ornamentale all’Accademia Albertina. Sue opere di rinomanza:
il monumento al fante a Torino; fontana per i giardini pubblici e sacrario dei caduti di Alessandria, edicole e monumenti funerari in vari campisanti, busto del
contadino piemontese e la Medusa per il campo sportivo di Domo.
BARATTA GIOVAN BATTISTA,
ufficiale medico, oculista
Orcesco di Druogno 1778 - Milano 1851
Emigrato in Francia con i genitori originari della valle
Vigezzo, a Parigi si laureò in medicina e rientrò in Italia con l’armata del gen. Bonaparte, ottenne il grado di
ufficiale medico del 1° Reggimento Ussari della Repubblica Cisalpina e passò in seguito alla Divisione Victor.
Nel 1805 a Pavia si specializzò in chirurgia e a Milano fu nominato dirigente del servizio sanitario presso il
Collegio Militare. Lasciò numerose pubblicazioni: Memoria e osservazione sopra una pupilla artificiale (1809),
comparsa su L’incoraggiamento di Genova, e l’opera in
due volumi Osservazioni pratiche sulle principali malattie degli occhi tradotta in tedesco a Lipsia (1848). Fu
membro delle Società mediche di Vienna e Lipsia.
BARBETTA VENANZIO GIUSEPPE, letterato
Baceno 1869 - Quinto (GE) 1910
Figlio di Venanzio e di Domenica Bracchi. Studi classici al Mellerio Rosmini e laurea in lettere all’Università di Torino. Insegnante per qualche anno, bibliotecario a Milano, poi giornalista, critico apprezzabile, scrittore purtroppo ignorato per la sua ritrosia e modestia.
Le sue opere, pervase di pessimismo esistenziale, videro la luce tra il 1888 e il 1903. Ammalato, cercò inutile sollievo in Liguria.
BARONIO ANTONIO, pittore
Vogogna 1869 - Vogogna 1918
Figlio di Francesco e di Domenica Moro. Dopo gli studi classici a Domo si iscrisse al Politecnico di Torino
che lasciò per l’Accademia Albertina. La sua produzione pittorica molto apprezzata dai contemporanei ebbe
spesso per soggetto il paesaggio ossolano.
BAZZETTA GIOVANNI (NINO), storico, giornalista
Novara 1880 - ivi 1951
Figlio del col. Giulio, che fu militare a Domo e benemerito della Fondazione Galletti, e di Fanny Lampugnani.
Studi classici al Mellerio Rosmini e laurea in giurisprudenza a Pavia. Nel 1901 esordì come giornalista nel foglio domese L’Indipendente. Nel 1905 fondò La libertà,
e fu poi redattore de Il Popolo dell’Ossola (1910) e corrispondente di altri giornali, segretario alla Sottoprefettura di Domo dal 1912 al 1922, combattente valoroso
nella grande guerra, segretario di Prefettura a Novara ed
in seguito al Ministero del Tesoro a Roma. Appassionato di ricerche storiche, dedicò ai domesi la Storia di Domodossola e dell’Ossola Superiore (1910) frutto di decennale fatica. Trattò altri argomenti storici ossolani e pubblicò le storie di Omegna e di Novara.
BELCASTRO ALFREDO, pittore
Omegna 1893 - S. M. Maggiore 1961
Da genitori omegnesi albergatori in Vigezzo, frequentò
la scuola di belle arti Rossetti Valentini. Dopo aver partecipato alla 1a guerra mondiale si perfezionò nella pittura a Torino e a Roma. Tornato in valle Vigezzo, iniziò l’attività pittorica acquistando consensi..Dapprima
«divisionista», il suo stile si fece più libero e personale
e tradusse in colori stati d’animo e la poesia della natura circostante.
BELLI GIOVANNI, deputato, benefattore
Stradella 1812 - Calasca 1904
Figlio di Antonio e di Marianna Tojetti di Calasca, residenti a Stradella poi a Pavia commercianti di uve e di
vini dell’Oltrepò pavese. Si laureò in fisica matematica in quell’Ateneo dove lo zio paterno era illustre cattedratico. Sindaco di Calasca, fu eletto Deputato subalpino dal 1852 al 1861 e Consigliere provinciale. Beneficò le società operaie dell’Ossola, l’asilo infantile di Piedimulera, l’Ospedale San Biagio di Domo e soprattutto il Comune di Calasca a cui lasciò proprietà e denaro per l’istruzione, l’igiene e la viabilità patrocinando la
strada fino a Macugnaga.
BELLI GIUSEPPE,
fisico, professore universitario
Calasca 1791 - Pavia 1860
Laureato a pieni voti in fisica matematica all’Università
di Pavia, nel 1843 ottenne la cattedra che fu già di Alessandro Volta presso l’Ateneo pavese. Fu il più illustre
rappresentante delle scienze fisiche in Italia fra il 1845 e
il 1860. Un ricordo marmoreo è collocato sotto i portici dell’Università di Pavia.
BELLI SAVERIO, botanico
Domodossola 1852 -Torino 1919
Figlio di Carlo che fu Deputato al Parlamento subalpino, Sindaco di Domo e capo divisione al Ministero delle Finanze, e di Giuditta Silvetti di Pallanzeno, nacque
e crebbe nel Palazzo Belli (ex chiesa di San Francesco).
Compiuti gli studi classici al Collegio Mellerio Rosmini, frequentò a Torino dapprima la facoltà di medicina poi quella di scienze naturali laureandosi a pieni voti
nel 1887. Libero docente nel 1894, direttore dell’orto botanico e poi Ordinario all’Università di Cagliari.
Compì e pubblicò studi botanici sulle crittogame e fanerogane. Fu membro di accademie scientifiche.
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BIANCHETTI CARLO, medico, agronomo
Ornavasso 1788 - ivi 1840
Studi classici, laurea in medicina a Pavia nel 1810. Medico condotto al paese nativo, scrisse sull’uso del solfato
di chinino e sulle cure del gozzo. Studiò e scrisse anche
sulla coltivazione dei gelsi, sulla viticoltura, sulle talpe
e sui bachi da seta. Perché i parroci potessero aiutare i
parrocchiani al corretto uso agricolo, dedicò loro il trattato Delle utilità di unire lo studio scientifico dell’agricoltura alle discipline ecclesiastiche.
BIANCHETTI ENRICO, storico, archeologo
Domodossola 1834 - Ornavasso 1894
Figlio di Giovanni medico e deputato al Parlamento Subalpino e di Maria Mantellini di Varzo. Studi classici,
studente a Torino alla facoltà di Giurisprudenza, ma non
si laureò per dedicarsi a studi letterari, artistici, storici approfonditi con ricerche d’archivio. Diede alle stampe la
pregevolissima Storia dell’Ossola inferiore in due volumi,
uscita a Torino nel 1878. Scoprì, studiò e scrisse sulla necropoli gallo romana di Ornavasso e ordinò nella propria
abitazione una preziosa raccolta archeologica (ora al Museo di Pallanza per decisione degli eredi). Si occupò anche di meteorologia, agricoltura e fotografia. Fu in corrispondenza con studiosi di storia suoi contemporanei ed
ebbe riconoscimenti ed onorificenze. Sposò una cugina
di Quintino Sella con il quale ebbe rapporti culturali.
BIANCHETTI GIOVANNI ANTONIO, chimico
Ornavasso 1785 - Domodossola 1854
Figlio di Giovanni e di Margherita Viola. Dopo gli studi classici conseguì a Pavia la laurea in chimica farmaceutica nel 1806. Arruolatosi volontario nella Guardia
d’onore del Regno Italico ebbe decorazione dal Principe
Eugenio di Beauharnais. Nel 1813 fu farmacista maggiore dell’Ospedale di Venezia. Con la caduta di Napoleone tornò in Ossola e riprese gli studi di chimica lasciando dotte dissertazioni pubblicate dalla Società dei
farmacisti del Regno di Sardegna.
BIANCHETTI GIOVANNI, medico, politico
Granerolo 1809 - Ornavasso 1890
Figlio del chimico Giovanni Antonio e di Margherita
Galli. Dopo gli studi classici conseguì a Torino la laurea
in medicina e una specializzazione in chimica medica e
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terapica a Parma. Esercitò a Domo e curò gratuitamente i carcerati. Fu sindaco del Borgo e dal 1849 Deputato
al Parlamento subalpino per tre legislature.
BIANCHI GENNARO, politico, teologo e letterato
Domodossola 1748 - ivi 1825
Appartenente a ricca famiglia borghese, figlio di Giovanni Battista e di Fiorenza Bossi. «Doctor utriusque
iuris», insegnante di retorica nel Seminario di Como.
Fu collega e strinse amicizia con Alessandro Volta che
ospitò due volte in Domodossola quando, già famoso
docente di fisica sperimentale a Pavia, era diretto a Ginevra nel 1787 e a Parigi nel 1801. Aderì alle idee innovatrici e fu a capo della Municipalità di Domo durante la 1° Repubblica Cisalpina, poi commissario del
Governo Italico nell’Ossola e Delegato revisore della
Cassa pagamenti della costruenda strada del Sempione. Dopo la caduta di Napoleone si ritirò a vita privata.
BINDA ATTILIO, colonnello, medaglia d’argento
Domodossola 09.02.1894 – Russia 20.01.1943
Osservatore militare dell’aeronautica nelle due grandi
guerre mondiali. Salvò un gruppo di alpini sul Don attirando su di sé il fuoco nemico. Gli vennero conferite
due medaglie d’argento.
BOITI ANTONIO, chirurgo
Roma 1776 - Firenze 1827
Figlio di Bartolomeo e di Domenica Novaria Todesco
entrambi di Calasca emigrati a Roma. Come altri anzaschini studiò grazie agli aiuti finanziari dell’archiatra
Giavina di Domo che lo volle con sé come aiuto chirurgo all’Arcispedale di S. Spirito in Roma. Nel 1803
fu chiamato a Salisburgo da Ferdinando III di Lorena a
prestare l’opera di chirurgo ostetrico. Dopo il Congresso di Vienna seguì a Firenze il Granduca con la carica
di capo chirurgo di Corte. Scrisse note di medicina sul
Giornale dei Letterati di Pisa.
BOITI PAOLO, benefattore
Sec. XVIII (2a metà) – Calasca 1836
Figlio di Bartolomeo e di Domenica Novaria Todesco,
sacerdote, contribuì con il proprio patrimonio alla costituzione del «Monte di pietà» di Calasca. Fondò una
scuola per insegnare alle figliole dagli anni cinque ai do-
dici a leggere, scrivere e imparare la Dottrina Cristiana,
a cucire e a fare calzette.
BONARDI BERNARDINO, scenografo, benefattore
Coimo 1834 - Domodossola 1923
Figlio di Giovanni e di Rosalia Pattaroni. Studiò disegno sotto la guida di pittori vigezzini poi si recò a Parigi da una zia cameriera dello scenografo Ferri da cui apprese l’arte della scenografia. Insieme lavorarono per il
teatro Regio di Torino. Nel 1857 il Bonardi si trasferì in
Spagna dove fu attivo presso i principali teatri finché fu
assunto al R. Teatro di Madrid. Nel 1890 si stabilì definitivamente a Domo. Regalò al teatro Galletti il sipario riproducente la piazza Mercato e i costumi caratteristici delle valli ossolane, conservato nel palazzo S. Francesco. Lasciò una somma all’Ospedale S. Biagio per la
cura agli ammalati di Coimo.
BONARDI GIUSEPPE, benefattore
Coimo 1822 - Parigi 1906
Figlio di Giovanni Andrea e di Domenica Cuccioni,
fece fortuna a Parigi dopo essere stato apprendista fumista. Fu tra i primi a introdurre il riscaldamento con
caloriferi ad aria, ottenendo grandi profitti economici. Legò a Coimo una rendita annua per pagare cure e
medicine ai poveri, uno stipendio ai maestri elementari, una dotazione di fontanelle pubbliche e buona parte
della strada fra il suo paese e la statale di val Vigezzo.
BONO PIETRO, benefattore
Varzo 1815 - Parigi 1887
Figlio di Domenico e di Maria Mazzurri. Dopo le elementari raggiunse il padre emigrato a Valence sur la Drône e
con impegno e volontà si affermò nel commercio, aprendo a Parigi una casa di materiale ottico e fotografico con
succursale a Buenos Aires. Fu generoso pittore lasciando
vistosa somma per la costruzione dell’ospedale di Varzo e
aiuti finanziari alla Pia Opera di S. Paolo di Valence.
BORGNIS DOMENICO AGOSTINO, benefattore
Craveggia 1799 – ivi 1843
Arricchitosi con il commercio, lasciò una considerevole
somma al suo paese per l’istituzione di una scuola postelementare che funzionò per oltre un decennio.
BORGNIS GIUSEPPE ANTONIO,
professore universitario
Craveggia 1781 - Monza 1863
Figlio di Giovanni banchiere a Parigi e di Maria Rossetti. Dedicatosi agli studi scientifici si laureò in ingegneria prestando poi servizio presso la Marina a Venezia
dove uscì una sua pubblicazione di meccanica. Insegnò
matematica applicata all’Università di Pavia divenendone nel 1843 Rettore Magnifico. Propugnò la costruzione della carrozzabile Vigezzo-Domo e di una diramazione verso la Svizzera e il lago Maggiore. Fu membro effettivo del Regio Istituto Lombardo di Scienze,
lettere e arti.
BORGNIS GIUSEPPE MATTIA, pittore
Craveggia 1701 - West Wycombe (Inghilterra) 1761
Figlio di Giovanni e di Antonia Borgnis. Ricevuti i primi rudimenti del disegno in Valle, imparò l’affresco e la
pittura a olio a Bologna e a Venezia. Nel 1719 in Vigezzo iniziò l’attività, notevole per livello artistico e per numero di committenze, durata un trentennio. Lasciò pitture sacre e profane in chiese e case della Valle, dell’Ossola, del Canton Ticino fra cui s’impongono gli affreschi
delle chiese parrocchiali di S. Maria Maggiore, Craveggia e dell’Oratorio della Madonna della Vita di Mozzio. Nel 1752 si trasferì in Inghilterra (West Wycombe)
dove propose nello stile «augusteo» molte opere classiche della pittura italiana componendone variamente il
contesto. Morì cadendo da un’impalcatura.
BOSSONE CARLO, pittore
Savona 1904 - S. Carlo di Vanzone 1991
Figlio di Raimondo e di Ines Rosa della valle Anzasca.
Allievo del pittore ottocentista Vittorio Cavalieri a Torino, seguì contemporaneamente corsi serali di figura
all’Accademia Albertina e fu assiduo frequentatore di
musei e gallerie. I soggiorni in valle Anzasca gli fecero
amare e conoscere la montagna e la vita che la circonda,
che espresse nella sua pittura con scelta di forme, luci
e colori non disgiunti dal sentimento. Mostre personali negli anni Trenta a Torino, Milano, Novara, Parigi e
centri del lago Maggiore lo incoraggiarono a proseguire. Lavorò come analista in miniera e poi partì per l’Ar-
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Balcone Giovan Battista, benefattore
S. Maria Maggiore 1703 - ivi 1750
Belli Giuseppe, fisico e professore universitario
Calasca 1791 - Pavia 1860
Borgnis Giuseppe Antonio, professore universitario
Craveggia 1781 - Monza 1863
Borgnis Giuseppe Mattia, pittore
Craveggia 1701 - West Wycombe 1761
gentina (1944). Dipinse con successo a Buenos Aires e
nelle principali città argentine, ispirandosi all’immensità degli scenari sudamericani. Tornò nel 1949 e si stabilì a S. Carlo di Vanzone, rinunciando a buone prospettive torinesi. Insegnò privatamente la pittura a molti allievi e tenne mostre fino al 1990.
BOTTI GIUSEPPE, egittologo
Vanzone 1889 - Firenze 1968
Figlio di Bartolomeo e di Maria Gorini. Laureato all’Università di Torino in lettere classiche, si specializzò
in egittologia studiando i papiri della collezione Drovetti sotto la guida dell’illustre prof. Schiaparelli. Fu
sovrintendente del museo archeologico di Firenze (sezione egizia) e docente di egittologia all’Università di
Roma. Le sue pubblicazioni superano la settantina. Ultima fatica due volumi su L’archivio demotico con i quali inizia il catalogo del Museo Egizio di Torino. L’opera consiste nella trascrizione, traduzione, commento di
papiri inediti scritti in lingua demotica di cui fu fra i
maggiori esperti. Aveva anche intrapreso la traduzione
di papiri conservati nel Museo Gregoriano del Vaticano. Altra opera importantissima e nota agli studiosi di
tutto il mondo la traduzione dei papiri in lingua ieratica
e demotica provenienti dagli scavi di Umm el Breighat.
BOZZO ANGELO, benefattore
Vanzone 1838 -ivi 1912
Figlio di Giovan Battista e di Maddalena Bozzo, emigrò in Francia con la famiglia. Diventato ricco gestendo
con altri parenti una gioielleria, lasciò notevoli somme
all’asilo infantile del paese nativo, alla Congregazione di
carità per pagare medicine ai poveri, all’ospedale di Novara per assicurare le cure agli indigenti di valle Anzasca
e alla parrocchia per opere di bene.
CABALA’ DON GAUDENZIO, sacerdote, partigiano
Gravellona 1890 – Domodossola 1961
Coadiutore della parrocchia di Domo fin dal 1921, poi
cappellano dell’ospedale S. Biagio, fu tra i primi a dedicarsi alla Resistenza procurando mezzi ai primi nuclei armati e aiutando i giovani a sottrarsi ai bandi e
alla cattura da parte di neofascisti e tedeschi. Scoperto
unitamente al fratello e alla sorella esercenti in Domo
il “Caffè Cabalà” che collaboravano con lui, stette alla
macchia e poi si rifugiò in Svizzera nel giugno 1944.
Rimpatriò il 10 settembre per assumere l’incarico di
Commissario all’Istruzione nella Giunta Provvisoria
di Governo, curò l’invio di circa 500 bambini ossolani
in Svizzera. Alla caduta della Repubblica partigiana accompagnò a Briga due convogli di fuggiaschi e di feriti.
Dopo il 25 aprile riprese l’incarico di cappellano al S.
Biagio fino alla fine dei suoi giorni, avvenuta in seguito
a incidente automobilistico.
CALCATERRA CARLO senjor, medico, scrittore
Bellinzago 1843 – Gignese 1894
Medico condotto in valle Antigorio dal 1874, abitò a
Premia per vent’anni, zelante e infaticabile nel prestare la propria opera nei vari disagiati paesetti. Praticò
le vaccinazioni antivaiolose vincendo i pregiudizi della
popolazione e di qualche collega. Amò l’Ossola e la sua
storia millenaria e fu autore di racconti storici, tra cui
La bella ossolana (1884).
CALCATERRA CARLO JUNIOR,
docente universitario, critico
Premia 1884 - S. Maria Maggiore 1952
Figlio di Carlo, medico condotto di valle Antigorio e di
Carolina Giovanelli di Cannero, allievo apprezzatissimo di Arturo Graf, conseguì brillantemente la laurea in
lettere nell’Università di Torino presso la quale fu libero
docente dopo aver combattuto nella 1a guerra mondiale. Nel 1927 vinse la cattedra di letteratura italiana all’Università Cattolica di Milano e due anni dopo fondò
la rivista Convivium e firmò gli articoli con lo pseudonimo Carlo da Premia in ricordo del paese nativo.
Dal 1935 all’anno della scomparsa fu titolare della prestigiosa cattedra di letteratura italiana nell’ateneo di Bologna. Sfollato con la famiglia a Druogno (1943), durante la «repubblica» dell’Ossola (1944), con Contini e
Bonfantini si impegnò a redigere un piano di riforma
scolastica. Fu presidente del Centro nazionale di studi
Alfieriani, curò numerose edizioni e scrisse opere di critica fra le quali primeggiano: II Parnaso in rivolta; Barocco e Antibarocco nella poesia italiana; II Barocco in Arcadia e altri studi sul Settecento; II nostro imminente Risorgimento; Con Guido Gozzano e altri poeti e Della lingua di Gozzano; Alma mater studiorum; Poesia e canto.
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CALPINI STEFANO, politico
Domodossola 1849 – ivi 1902
Figlio di Francesco e Maria Burla. Avvocato di successo nella sua città, si occupò con passione di agricoltura e diede utili consigli ai concittadini. Scrisse Memorie
sulle condizioni dell’agricoltura del Circondario dell’Ossola pubblicato nel 1901, premiato con medaglia d’argento. Fu deputato per quattro legislature nella lista liberaldemocratica, attivo consigliere della Società Operaia e
della Fondazione Galletti.
CAPIS GIOVAN MATTEO, giureconsulto
Domodossola 1617 – ivi 1681
Figlio dello storico e giureconsulto Giovanni e di Laura Ferrari, studiò leggi a Pavia dove si laureò. Tornato
a Domo accettò la carica di sindaco della Giurisdizione, che tenne per molti anni occupandosi di far costruire ripari al Bogna, e dell’amministrazione dell’ospedale S. Biagio. Curò la stampa dell’opera storica del padre, si adoperò per la costruzione del nuovo convento dei Cappuccini, della chiesa e delle cappelle della via
Crucis del Sacro Monte Calvario. A quest’ultima opera si dedicò con zelo e pietà destando fervore religioso tra gli Ossolani che lo secondarono in tale grandiosa
opera con sovvenzioni e aiuti di ogni genere. Morendo
lasciò il suo patrimonio all’istituzione del Sacro Monte Calvario.
CAPIS GIOVANNI, giureconsulto, storico
Domodossola 1582 - ivi 1632
Figlio del conte Matteo e di Elisabetta Borgnis compì gli studi classici a Milano, presso i Gesuiti di Brera,
poi a Pavia si laureò in diritto civile ed ecclesiastico nel
1605. In quell’epoca compilò un dizionarietto etimologico del dialetto lombardo con traduzione in volgare toscano noto come Varon milanes. Dopo aver fatto pratica legale a Milano, in seguito alla morte del padre nel
1608 rientrò a Domo per esercitarvi la professione. Fu
anche titolare delle massime cariche elettive della Comunità per cui si vide costretto a provvedere alle necessità gravi del suo tempo quali la peste, le disastrose piene del Bogna. Ma soprattutto lottò in difesa dei privilegi dell’Ossola contro l’esosità del fisco spagnolo. In
questa ultima occasione, dovendo ricercare e riordinare grande quantità di documenti del passato, nacque in
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lui l’idea di tramandare ai posteri una storia dell’Ossola,
quella appunto da lui compilata e finita nel 1631 e poi
fatta stampare dal figlio Giovan Matteo nel 1673 sotto il titolo di Memorie della corte di Mattarella. L’opera, di notevole interesse e importanza, ebbe una ristampa nel 1968.
CASETTI ANTONIO, benefattore
Caddo 1841 - ivi 1888
Figlio di Giovanni e di Maria Cesconi, fece fortuna a
Parigi, dove si era recato undicenne, con attività commerciali e industriali. Fu amministratore della Società
di Beneficenza Italiana a Parigi e Consigliere della Camera di Commercio. Rientrato in Ossola ideò la strada Cisore-Caddo-Preglia alla cui realizzazione destinò
vistosa somma. Provvide anche alla costruzione della
scuola elementare di Preglia. La scuola media di Preglia
è dedicata a lui ed al fratello Giovanni.
CASETTI GIOVANNI ANDREA, astronomo, astrologo
Vogogna 1568 - ivi 1628
Di antica famiglia patrizia, si dedicò allo studio delle
scienze naturali e dell’astronomia che poi insegnò a Milano. Pubblicò annuali effemeridi in cui sono trattati
argomenti cosmici, meteorologici e astrologici. L’effemeride del 1596 dedicata alla contessa Tornielli reca osservazioni sulla luna, sull’epatta e su elementi riguardanti il calendario ecclesiastico e solare. In quella del
1612 augura all’Ossola che la peste non infierisca. In un
manoscritto dedicato al cardinale Federico Borromeo,
conservato all’Ambrosiana di Milano, tratta di pronostici sul tempo in relazione all’aspetto degli astri, desunti anche dalla tradizione classica (Plinio, Aristotele)
e dalla propria esperienza di osservatore. Nel 1603 pubblicò in Milano presso l’editore Giacomo M. Meda Il
presagio infallibile sopra la mutazione de’ tempi, Indisposizione dei corpi calcolato al meridiano della città di Milano e altre città d’Italia.
CASETTI GIOVAN PIETRO, benefattore
Caddo 1846 – ivi 1918
Emigrato a Parigi, lavorò col fratello Antonio nel mobilificio dello zio e per la rara abilità e perspicacia ingrandì notevolmente l’azienda in cui assumeva preferibilmente operai italiani. Rifiutò la cittadinanza francese
sentendosi legato alla Patria e destinò agli Italiani e agli
Ossolani in Francia molto denaro in beneficenza. Lasciti cospicui andarono a Preglia.
CAVALLI CARLO MARIA, giurista, statista, marchese
1684 - Milano 1765
Figlio di Giovanni e di Maria Tomasina, emigrati in
Lombardia, laureato a Pavia il 3 agosto 1705 in utroque
iure, percorse a Milano tutti i gradi della magistratura:
Vicario Pretorio della Corte Senatoria di Pavia (1708),
avvocato del Foro Milanese (1710), Vicario generale
del Dominio Milanese (1726), Membro della Giunta
di Governo (1733). Carlo VI lo nominò Reggente del
Supremo Consiglio d’Italia (1737) presso il governo di
Vienna e il 1° giugno 1739 lo creò Marchese col feudo
di Ceranova nella campagna di Pavia. Nel 1750 si ritirò
a vita privata col privilegio di partecipare alle attività del
Senato a suo piacimento. Ebbe come sostituto al Senato il consultore Paolo della Silva. Il fratello Domenico,
Vicario Generale a Milano del cardinale Pozzo-Bonelli
e Regio Imperiale Economo di Maria Teresa, morì a 57
anni nel 1750 e fu sepolto in Duomo a Milano.
CAVALLI CARLO, medico, storico
Santa Maria Maggiore 1799 - ivi 1860
Studi classici e laurea in medicina e chirurgia presso
l’Università di Pavia e di Torino. Fu medico condotto in
val Vigezzo e corrispondente del Giornale delle scienze
mediche, sindaco di Santa Maria Maggiore, presidente
del Consiglio provinciale dell’Ossola, deputato al Parlamento Subalpino e fautore della carrozzabile val Vigezzo-Domo. Va ricordato soprattutto per i Cenni statistico-storici della Val Vigezzo in tre volumi editi a Torino
nel 1845, primo lavoro accurato e fondamentale sulla
storia generale della Valle, che gli ottenne onorificenze e
l’iscrizione a varie accademie italiane e straniere.
CAVALLI ENRICO, pittore
Santa Maria Maggiore 1849 - ivi 1919
Dal padre Carlo Giuseppe, ritrattista, apprese i primi
rudimenti. Trasferitasi la famiglia a Lione, là frequentò l’Accademia di belle arti, poi fece la spola tra Parigi
e Marsiglia avendo contatti con artisti del suo tempo e
dipingendo ritratti che mandò alle esposizioni di Parigi
e di Torino. In Francia e nella sua Valle continuò la sua
attività, insegnando saltuariamente alla Scuola RossettiValentini. Le sue opere sono disperse in città della Francia, in Piemonte e in Lombardia. Un certo numero di
suoi quadri si trovano alla Galleria Giannoni di Novara
e in valle Vigezzo. Merita un posto di rilievo fra i pittori
italiani della seconda metà dell’Ottocento.
CAVALLI GIOVANNI ANTONIO,
chirurgo, amministratore pubblico
Finero 1779 - Malesco 1866
Crebbe a Vienna presso uno zio e là compì gli studi
fino alla laurea in chirurgia conseguita nel luglio 1799.
Entrato nell’esercito austriaco come sanitario, combatté
e cadde prigioniero nella battaglia di Marengo (1800).
Liberato rientrò a Vienna e si perfezionò in ostetricia.
Nel 1816 rimpatriò ed esercitò la professione in valle
Vigezzo con patente del Governo Piemontese, fissando
a Malesco la residenza. Accettò varie cariche sociali nonostante l’impegno della professione; da sindaco propugnò la scuola femminile e la costruzione della strada
carrozzabile Vigezzo-Domodossola. Uno dei figli, Domenico, rosminiano nel Collegio di Newport (Inghilterra) fu stimato da cattolici e protestanti.
CAVALLINI GIOVANNI BATTISTA,
giureconsulto, scrittore
Coimo metà del sec. XVI – Milano primo decennio del
sec. XVII
Come tanti vigezzini si trasferì a Milano con i genitori. Conseguì la laurea in giurisprudenza e si dedicò alla
riforma della procedura, compilò un formulario guida per la stesura degli atti notarili, stampato a Milano
nel 1581 presso l’editore Piscaia. Scrisse L’Attuario della pratica civile e L’Attuario della pratica criminale, usciti nel 1587 e nel 1593. Fece stampare il Trattato sui sequestri, dedicato al cardinale Federico Borromeo. Da
lui attinsero i patrocinatori successivi.
CAZZINI GIOVANNI ANTONIO, benefattore
Toceno 1804 - ivi 1859
Figlio di Francesco e di M. Caterina Francini, da ragazzo fece lo spazzacamino poi si trasferì a Berna da suoi
congiunti in qualità di garzone. Frequentò una scuola
serale, ma da autodidatta si formò una cultura notevole.
Trasferitosi nel Würtemberg ebbe successo economico.
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Tornato definitivamente a Toceno, si occupò del Comune del quale fu sindaco e al quale lasciò una notevole
somma per l’erezione dell’asilo d’infanzia e della Scuola
femminile, che presero il suo nome. Di fede mazziniana fondò «La società degli amici del progresso» mantenendo rapporti amichevoli con il Brofferio.
CERETTI PIETRO MARIA,
mercante in ferro, industriale
Intra 1735 - Villadossola 1801
Formò nel 1796 la prima società per lo sfruttamento
del ferro a Viganella in valle Antrona. Per varie vicende
non ebbe successo economico. Continuatore fortunato
fu il figlio sacerdote padre Ignazio che, per soppressione dei conventi rientrato in famiglia fu tutore dei fratelli minori dopo la morte dei genitori. Ebbe l’avvedutezza
di trasferire la fonderia a Villa presso l’Ovesca e il porto
del Toce (1804). Da quel momento la Ditta Ceretti si
ingrandì; con i successori divenne la maggiore del Novarese e per prima costruì un impianto idroelettrico.
CHIOSSI GlOVAN BATTISTA, generale
Domodossola 1863 - ivi 1926
Figlio di Giuseppe e di Natalia Silvetti. Studi classici al
Mellerio Rosmini, accademia militare di Modena, corso di perfezionamento a Parma, insegnò storia dell’arte militare a Modena e fu studioso di R. Montecuccoli. Combattente decorato nelle guerre coloniali, nella 1a
guerra mondiale raggiunse il grado di generale comandante la 22a divisione sul Piave. Condusse a termine
due missioni diplomatiche con il Sultano di Alia in Somalia e con Enver Bey al campo dei Turchi per l’esecuzione del Trattato di Losanna (1912). Congedatosi nel
1920 fu sindaco di Domo fino alla morte.
CHIOVENDA CANESTRO BEATRICE, letterata
Roma 1901 – ivi 2002
Figlia dell’illustre giurista prof. Giuseppe Chiovenda e
di Lina Gotelli. Dopo gli studi classici e universitari alla
facoltà di lettere di Roma dove si laureò con Adolfo
Venturi, si specializzò in Storia dell’Arte che fu per tutta
la vita il centro dei suoi interessi e la sua grande passione. Frequentò l’ambiente culturale della Roma del secondo dopoguerra e in particolare i Bellonci, che la vollero membro della giuria del Premio Strega, Mario Praz
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e altri celebri intellettuali fra cui la latinista Lidia Storoni Mazzolari. Amò trascorrere lunghi soggiorni nella casa di Premosello, dove radunava i collaboratori della rivista Oscellana che tenne a battesimo e che arricchì
di suoi studi dal 1971 al 1998, su pittori che operarono nell’Ossola e nel Cusio. Dedicò particolare impegno
allo studio dell’ambone nell’isola di San Giulio, lavoro pubblicato nel 1955 che riscosse numerosi consensi. Collaborò alla mostra dei pittori Baciccio e Gaulli.
Amante della montagna fu la prima donna a scalare il
Monte Rosa nell’estate del 1922. Lasciò al Comune di
Premosello la casa avita.
CHIOVENDA EMILIO, botanico
Roma 1871 - Bologna 1941
Da famiglia di Premosello, figlio di Andrea. Studi classici al Mellerio Rosmini e laurea in scienze con specializzazione in botanica. Titolare di cattedra universitaria, per incarico governativo studiò la flora dell’Eritrea
e della Somalia. Accademico dei Lincei e d’Italia. Il suo
erbario monumentale, di grande rinomanza, è custodito all’Università di Bari.
CHIOVENDA GIUSEPPE, giurista
Premosello 1872 - ivi 1937
Figlio dell’avv. Pietro e di Leopolda Moglino. Dopo
brillanti studi classici al Mellerio Rosmini si laureò a
pieni voti in giurisprudenza a Roma e in quell’Ateneo
insegnò diritto processuale civile. I suoi studi giuridici sono fondamentali in Italia e nelle legislazioni straniere. Per la sua profonda dottrina fu consultato per la
riforma dei codici. Dotato anche di talento letterario,
scrisse una tragedia, Corradino di Svevia, a soli quindici anni e lasciò raccolte di versi intitolate Agave e Poesie.
Nel 1925 sottoscrisse il manifesto antifascista di Benedetto Croce. Fu uomo di molto prestigio per la dirittura morale e la grande conoscenza giuridica. Per onorarlo, nel 1959 Premosello assunse il suo cognome con decreto presidenziale.
CHIOVENDA TITO, diplomatico
Premosello 1877 - Domodossola 1949
Figlio dell’avv. Pietro e di Leopolda Moglino. Dopo gli
studi classici al Mellerio Rosmini e la laurea in giurisprudenza entrò nella carriera consolare ed ebbe l’inca-
rico di ministro plenipotenziario. Nel 1929 console generale a Francoforte, non essendo iscritto al P.N.F., dovette ritirarsi a vita privata. Ebbe l’incarico della «Lectura Dantis» alle Università di Basilea e di Francoforte. Fu
anche brillante saggista, autore di versi dal titolo Mirtilli; amante della montagna, si rivelò provetto alpinista.
CICOLETTI GIOVANNI, medico, benefattore
Pieve Vergonte 1811 - ivi 1883
Dopo gli studi classici e la laurea in medicina visse agiatamente beneficando i poveri, le istituzioni scolastiche
e la Chiesa. Ai poveri del Comune lasciò la sua vistosa
sostanza col nome di «Fondazione Cicoletti».
CIOIA GIACOMO, diplomatico
Malesco 1704 - Parigi 1758
Di Francesco e Caterina Jacca. Studiò e visse a Parigi
dove il padre e gli zii erano banchieri. Divenne agente di fiducia del Duca Francesco III di Modena che lo
nominò poi ministro plenipotenziario presso il Re di
Francia e suo rappresentante al congresso di Aquisgrana
(1748). Con abilità e fine diplomazia ottenne al Duca
la restituzione di rendite, beni e Stato da parte dell’imperatrice Maria Teresa.
Divenne allora Gentiluomo di Camera, Consigliere di
Stato e conte di Monzone e d’Acquaviva.
CIOLINA GIOVANNI BATTISTA, pittore
Toceno 1870 - ivi 1955
Allievo della scuola di belle arti e del Cavalli si dedicò
con successo a svariati generi di pittura e fu anche apprezzato acquafortista. Dopo essere stato a Lione per
conoscere le espressioni dell’arte moderna fu presente
alla Triennale di Milano. È noto specialmente per i suoi
paesaggi e i ritratti conservati in collezioni private.
CONTINI GIANFRANCO, filologo, critico letterario,
italianista
Domodossola 1912 - ivi 1990
Figlio di Riccardo e di Maria Cernuscoli. Dopo brillanti studi classici presso il Mellerio Rosmini di Domodossola, si laureò con lode all’Università di Pavia. Specializzatosi in filologia a Torino e a Parigi, già nel 1938 insegnò filologia romanza nell’Università di Friburgo in
Svizzera e diede alle stampe un commento alle Rime di
Dante e altri scritti, rivelatori del suo talento. Presente
in Ossola nel 1944, durante i «quaranta giorni di libertà» partecipò quale rappresentante del Partito d’Azione
alle sedute del C.L.N, per la costituzione della Giunta e insieme con Carlo Calcaterra studiò una riforma
scolastica. Nel dopoguerra ebbe cattedra di filologia romanza nelle Università di Firenze e di Pisa, docente indimenticabile e affascinante per i discepoli, consigliere per gli editori. Pubblicò, tra l’altro, Poeti del Duecento, l’Opera in versi di Montale e studi fondamentali su
Dante, Petrarca, Boccaccio nonché Il Breviario di Ecdotica, Altri Esercizi, Ultimi Esercizi ed Elzeviri, La letteratura dell’Italia Unita. Filologo di conclamata rinomanza internazionale, seppe congiungere la filologia con la
critica letteraria mediante la critica delle varianti e relativi principii e implicazioni. Ritornò ad abitare a Domodossola in seguito a grave malattia che non gli impedì di continuare l’attività intellettuale e gli studi sino
al termine della sua vita. Fece pubblicare nei Rendiconti
dell’Accademia Nazionale dei Lincei gli Statuti quattrocenteschi dei «disciplinati» del nostro borgo, scritti in un
volgare, che definì «illustre». Con l’occasione catalogò i
dialetti dell’Ossola definiti “un complesso lombardo-alpino su fondale di isoglosse piemontesi”.
CUROTTI SlLVESTRO,
medaglia d’oro al valor militare
Vagna (Domodossola) 1920 - Oira di Nonio 1944
Figlio di Amedeo e di Maria Bellardoni, imbianchino a
Domodossola, nel 1940 artigliere alpino combattente
sul fronte occidentale. Dopo l’8 settembre 1943 rientrò
in Ossola e fece parte dei primi raggruppamenti partigiani, poi passò nella formazione «Beltrami» operante
sul lago d’Orta. Sorpreso ad Oira e circondato da forze
tedesche, resistette solo dentro una casa del paesetto per
oltre quattro ore e non si arrese, ma quando vide esaurite le munizioni, serbò per sé l’ultima pallottola.
DAVIA GIOVANNI ANTONIO, cardinale
Bologna 1661 - Roma 1740
Da genitori vicenesi nacque a Bologna nella prima metà
del secolo XVII. Fu internunzio a Bruxelles, nunzio in Polonia ed a Colonia, arcivescovo di Tebe, vescovo di Rimini nel 1698 ed infine creato cardinale da Clemente XI.
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Davia Giovanni Antonio, Cardinale
Bologna 1661 - Roma 1740
Della Silva Paolo jr., consultore, statista, storico e letterato
Crevola 1691 - Milano 1789
Facchinetti Giov. Antonio, Papa Innocenzo IX
Bologna 1519 - Roma 1591
Fantonetti Giovan Battista, medico
Pavia 1791 - Piedimulera 1861
DE ALBERTIS ALBERTO VITALE ANDREA,
armatore, benefattore
Vanzone 1703 - Arbon (Costanza) 1782
Figlio di Bartolomeo e di Domenica Falcini. Trasferitosi con i genitori a Genova, da mozzo divenne proprietario di navi per il trasporto di merci dalle Indie, con profitti enormi. Fu consigliere commerciale del Vescovo di
Costanza e lasciò alla confraternita della SS. Annunziata di Vanzone case, terreni e una notevole somma per i
poveri e per l’istruzione religiosa.
DE ANTONIS GIUSEPPE,
avvocato, pubblico amministratore, benefattore
Domodossola 1868 - ivi 1945
Figlio del geom. Luigi De Antonis. Studi classici al Mellerio Rosmini e laurea in legge a Torino, avvocato penalista, sindaco di Domo, militante socialista al tempo di Turati, collaboratore del giornale L’indipendente.
Presidente della Fondazione Galletti, ne arricchì il patrimonio numismatico e artistico. Durante la la guerra mondiale presiedette l’opera di assistenza ai profughi
dalle terre invase. Lasciò in beneficenza alla Parrocchia la
sua casa e ai Padri Rosminiani la sua villa di Mattarella.
DE AUGUSTINIS ENRICO AGOSTINO,
politico, marchese
Pecetto di Macugnaga 1737 - Vallese 1823
Dopo gli studi entrò in diplomazia e fu membro del
corpo diplomatico di Carlo III di Spagna poi membro
della Dieta Generale e Presidente del Consiglio di Stato
del Canton Vallese e per due volte Gran Balivo. Inaugurò la strada del Sempione nel 1805, in rappresentanza dei Vallesani.
DE BACENO GASPARE e BALDASSARRE,
condottieri di milizie ossolane
Figli di Bernardino valvassore di valle Formazza vissuti fra i secoli XV-XVI. Durante la contesa tra Francesco
I e Carlo V parteggiarono per i Francesi come il cognato Paolo della Silva e furono valorosi combattenti a Pavia e alla Rocca di Arona. In Ossola furono fieri avversari di Benedetto e Francesco Del Ponte sostenitori degli Spagnoli.
DE BERNARDIS GIORGIO, scultore
Buttogno 1606 circa - sconosciuta la data di morte
Figlio di Giacomo Antonio e di Antonietta Mazzetta.
La sua attività artistica iniziò intorno al 1630 e fino al
1664 tenne bottega e scuola di intaglio a Domo in via
Briona; poi forse si trasferì nei Vallese dove la sua presenza è attestata da suoi lavori. Fra le sue opere di maggior pregio ci sono l’altare ligneo e lo splendido armadio di sacrestia della parrocchiale di Seppiana, il grande
crocifisso della collegiata di Domo, le porte della chiesa
di Croveo e di Seppiana.
DE GIORGI GIUSEPPE, pittore e fotografo
Ceppo Morelli 1870 – Vanzone 1946
Emigrato a Bordeaux presso la sorella, seguendo l’inclinazione partecipò a un corso di preparazione all’arte decorativa secondo modelli proposti nelle Accademie, ma
soprattutto fu autodidatta. Rientrato in Italia mantenne contatti con la Francia e particolarmente con l’Alta Savoia dove lavorò nel decennio 1920-30. Precedentemente aveva realizzato alcune tele per chiese e oratori
della sua valle Anzasca, dell’Ossola e del Novarese. Verso gli inizi del 1930 aprì bottega a Macugnaga attuando
il legame tra pittura e fotografia e stringendo rapporti
con pittori della valle e frequentatori di essa, alcuni dei
quali specialisti in arte sacra. Attinse appunti dai grandi maestri del passato riproponendoli nelle volte delle
chiese di Vanzone, Piedimulera e poi Vogogna. Durante il periodo della sua attività si avvalse della fotografia
per procurarsi modelli di abitanti della valle, da utilizzare nelle figure di personaggi biblici e figure allegoriche. In seguito dipinse paesaggi montani e scattò fotografie di luoghi pittoreschi che furono oggetto di cartoline e stampe, fotografie di persone, base di ritratti su
tela emulsionata.
DELL’ANGELO GIOVANNI BATTISTA,
naturalista, benefattore
Parigi 1834 – Craveggia 1911
Figlio di Gian Giacomo e di Maria Cottini residenti in
Francia per attività commerciali. Ricco per eredità paterna, si dedicò allo studio delle scienze naturali e divenne raccoglitore di fossili e minerali di pregio cui aggiunse una sezione di ornitologia. Donò alla Fondazione Galletti il tutto, da lui scientificamente catalogato
perché servisse agli studiosi ossolani. Compilò anche un
catalogo delle famiglie craveggesi con la loro genealo169
gia. Beneficò l’Asilo infantile e lasciò una borsa di studio per il migliore alunno delle elementari del paese.
Fece costruire una fontana pubblica e collaborò al progetto della realizzazione della ferrovia Vigezzina.
DELLA SILVA PAOLO, condottiero
Crevola 1476 - ivi 1536
Figlio di Giovanni Antonio e di Dorotea Morone, entrò giovanissimo nella milizia del condottiero G. Trivulzio al servizio del Re di Francia e prese parte alle guerre
contro la Spagna per il possesso del ducato di Milano.
Dopo la battaglia di Marignano, fu custode della piazzaforte di Cremona e il 14 maggio 1516 fu nominato
cittadino onorario di quella città. Nel 1518 lo fu di Milano e di Pavia. Morto il Trivulzio (1518) e nonostante
la sconfitta dei Francesi (1525) egli difese l’Ossola dagli Spagnoli e poi riparò a Parigi. Nel 1526 fece parte
della spedizione francese a Roma in difesa di Clemente VII il quale lo creò Conte Palatino e Barone Romano. Tornato a vivere nel castello di Crevola si dedicò a
opere di beneficenza e di fede facendo affrescare la chiesa parrocchiale di Crevola e la Madonna della Neve di
Domodossola. Diede avvio alla costruzione del palazzo Silva (su area di famiglia nel borgo di Domo) in stile rinascimentale.
DELLA SILVA PAOLO JUNIOR,
consultore, statista, storico e letterato
Crevola 1691 - Milano 1789
Figlio del nobile Marc’Antonio e di Elena Denti. Studi classici a Milano e laurea in giurisprudenza a Pavia.
Ricusata la carriera militare, tradizionale in famiglia, fu
avvocato pubblico della città di Milano e libero professionista, difensore dei privilegi dell’Ossola che venne
esentata da tasse catastali. Nel 1755 Capitano di Giustizia a Cremona, nel 1760 Presidente del Supremo Consiglio di Giustizia a Mantova e Capo della Giunta del
Vice Governo. Nel 1760 Consigliere intimo di Stato
di Maria Teresa, che lo incaricò di trattare con Venezia
un’annosa questione sull’uso delle acque di risorgiva ai
confini dei due Stati. Nel 1763 fu Consultore del Governo Generale di Lombardia. Scrisse in latino trattati
di giurisprudenza, la storia dei fatti e del costume della
Milano dei suoi tempi, la storia dell’Ossola a continua-
170
zione di quella del Capis e la storia della sua famiglia,
opere tutte inedite.
DEL LONGO BRAGGIO IDA,
cronista, benemerita CRI
Domodossola 1879 - ivi 1965
Insegnò in scuole elementari dell’Ossola poi economia
domestica alla professionale «Galletti». Animatrice e
promotrice di iniziative sociali, nel 1919 ebbe la medaglia d’oro dal Comune di Domo per aver diretto l’ufficio notizie e ricerche di militari prigionieri durante la
guerra 1915-18 e dal Ministro della Guerra quella d’argento con uguale motivazione. Nel 1935 fondò il gruppo domese Crocerossine volontarie. Fu anche cronista
per un cinquantennio di ogni episodio lieto e triste della vita cittadina e ossolana e inoltre custode delle tradizioni e parte attiva in ogni comitato benefico, madrina degli alpini dell’Ossola. Nel 1944 collaborò con la
Giunta Provvisoria di Governo in campo assistenziale.
Il volumetto Piccolo mondo Ossolano raccoglie il meglio
della sua attività giornalistica.
DELL’ORO ARTURO, medaglia d’oro al valor militare
Vallenar di Atocama (Cile) 1896 - Belluno 1917
Figlio di Alessandro. Studiò in Italia diplomandosi all’Istituto Feltrinelli di Milano. Volontario in aeronautica nel 1915 ottenne il brevetto di pilota e partecipò ad
azioni belliche nel Trentino, nel Tirolo, a Vipacco guadagnando la medaglia d’argento (1916). Nel 1917 conseguì il brevetto su apparecchi da caccia e dopo molte
audaci imprese si lanciò contro un velivolo nemico che
abbatté urtandolo con il proprio e precipitando a sua
volta, consapevole del sacrificio.
DE MAURIZI GIOVANNI BATTISTA,
storico dell’Ossola, sacerdote
Re 1875 - Premia 1939
Figlio di Antonio e di Maria Giovanna Cerioli. Pastorecontadino entrò in seminario diciottenne. Ordinato sacerdote nel 1908, coadiutore a S. Maria Maggiore iniziò
subito le sue ricerche storiche negli archivi della Valle e
l’anno dopo pubblicò una storia documentata sul miracolo di Re e le vicende del santuario fino ai suoi giorni. Nel 1910 pubblicò Appunti di storia vigezzina segui-
ti da La valle Vigezzo corredate da biografie vigezzine
di dieci illustri personaggi. La Guida della valle Vigezzo (1911) lo fece conoscere per le notizie storiche, artistiche, scientifiche e di interesse turistico. Negli anni
della Grande Guerra fu soprattutto vicino alle famiglie
con figli al fronte. Resse poi le parrocchie di Trontano
e quella di Montescheno in valle Antrona. Nel 1919
scrisse la storia di Montescheno comprendente gli statuiti e gli ordinamenti (1519) di quella comunità. Suggeritore e fautore di enti associativi e mutue per il bene
dei parrocchiani, si interessò anche delle miniere d’oro,
argento, ferro di valle Antrona che descrisse in un articolo per il bollettino del C. A. I. (1923). Nel 1924, parroco a Premia, avviò studi sui De Rodis Baceno e sugli
statuti di quella comunità. Nel 1927 pubblicò Le valli Antigorio e Formazza e fra il 1928 e il 1931 S. Maria
Maggiore e Crana, II nuovo Comune di Craveggia, Buttogno in valle Vigezzo. Preparò uno studio su Villadossola
(manoscritto) e collaborò al Bollettino storico per la Provincia di Novara, all’Archivio storico della Svizzera Italiana e accettò l’incarico della S.E.O. di scrivere l’apprezzatissima guida L’Ossola e le sue valli. Fu membro della Regia Accademia delle Scienze di Torino ma, privo di
contributi economici, non pubblicò le numerosissime
notizie che aveva continuato a raccogliere e che in parte fortunatamente finirono nell’archivio di «Oscellana».
zi della nobiltà (Pallavicino). Personaggi illustri e ambasciatori stranieri durante i loro soggiorni romani furono
suoi committenti di quadri e incisioni. Invitato in Inghilterra non accettò. Fu ammirato per l’armonia delle
grandi composizioni e la soavità delle figure femminili.
DEL PONTE BENEDETTO,
condottiero di milizie ossolane
Domodossola 1430 - ivi 1537
Figlio del conte palatino Giovanni Battista. Studiò lettere e giurisprudenza ma preferì fare il condottiero di
milizie per conto degli Sforza e degli Spagnoli. Dopo alterne vicende, in seguito alla vittoria di Carlo V, fu nominato luogotenente del conte Borromeo per l’Ossola
e responsabile della Banca Civile e Criminale, carica lucrosa e ambita.
DI SALVATORE NINO,
artista, maestro del design italiano
Verbania Pallanza 1924 – Milano 2001
Frequenta il liceo artistico a Milano ma è affettivamente legato a Domodossola dove vivono i suoi genitori e
dove torna sempre. Studia i capolavori dell’arte e nel
1948 approda all’astrattismo. Nel 1949 apre una scuola di belle arti a Domodossola alla quale fa seguito quella di Novara. Introduce materie nuove quali ‘psicologia
della forma’ e ‘filosofia dell’estetica’. Aderisce al MAC,
il movimento di arte concreta che ha come esponenti Munari, Soldati, Dorfles e altri maestri. Nel 1954 si
trasferisce a Milano dove apre con felice intuito la prima scuola di design industriale da lui diretta con maestrìa fino al 1998. Ad essa si iscrissero in numero grandissimo studenti italiani e stranieri ai quali egli insegnò
fisiologia e scienza della visione, affidando a rinomati
maestri le altre materie nuove. La sua scuola ottenne la
DE PIETRI (DE PETRIS) PIETRO, pittore
S. Rocco di Premia 1663 - Roma 1716
Figlio di Giovanni Antonio e di Caterina Pezetta. Adolescente emigrò a Roma dove si dedicò al disegno e là
divenne pittore di fama ottenendo la protezione di Clemente XI Albani che gli commissionò alcuni dipinti
(noto un affresco in S. Clemente). Decorò anche palaz-
DE REGIBUS LUCA, professore universitario
Vogogna 1895 – Genova 1969
Figlio di Pio e di Angiolina Innocenti. Studi classici e
laurea in lettere a Torino con specializzazione in filologia classica; dopo la parentesi militare, nel 1922 si laureò anche in legge. Preside del Ginnasio-Liceo a Novara. Tra il 1934-1936 fu Consigliere Nazionale, nel 1940
divenne titolare di storia romana a Genova e poi Preside
della facoltà di lettere e filosofia. Lasciò numerose pubblicazioni di storia romana in parte a cura dell’Ateneo
genovese. Il fratello maggiore don Adalgiso, sacerdote
laureato in lettere, preside del liceo classico a Novara e
dell’Istituto Magistrale di Bobbio di Val Trebbia, raccolse notizie di storia vogognese e pubblicò brevi cenni
sui fatti del 1798.
DE RODIS GUIDO, feudatario di Premia, benefattore
Nel 1250 fece costruire a proprie spese la chiesa di S.
Michele di Premia e all’interno il sepolcreto di famiglia.
Di lui resta il ritratto in un medaglione incastonato nella parete in cornu epistulae.
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Medaglia d’oro della X Triennale Internazionale di Milano, il Compasso d’oro dell’Adi. Si distinse per la ricerca di nuove sperimentazioni, coltivò la pittura astrattogeometrica con successo, espose sue opere alla Biennale
di Venezia, alla Triennale di Milano e al Moma di New
York, commentate con favore da critici italiani e stranieri, citato nei testi di storia dell’arte moderna. Sono
da ricordare le sue felici intuizioni nel rapporto tra geometria, pittura e musica. Sul finire degli anni Novanta
“La Fabbrica” di Villadossola ospitò una mostra antologica delle opere del Maestro che volle essere presente a
spiegare e illustrare il significato della sua ricerca pittorica ai molti visitatori accorsi.
FACINI BENEDETTO, medico, benefattore
Domodossola 1741 - ivi 1826
Figlio del giureconsulto Martino e di Teresa Cairati,
laureato in medicina presso l’Università di Pavia esercitò a Domo la professione medica. Sopraintendente alla
sanità e medico dell’Ospedale S. Biagio fino al 1809,
dove ebbe in cura i militari napoleonici e italici. Lasciò le proprie cospicue sostanze e quelle avute dal fratello Giuseppe (1739-1805 già Capitano delle milizie
paesane e giudice-pretore di S. Maria Maggiore) per la
costruzione del ricovero di vecchiaia e mendicità e al
Comune di Domo una notevole somma per pagare un
maestro elementare.
ERBA GIUSEPPE BARTOLOMEO,
matematico, benefattore
Domodossola 1819 - Torino 1895
Figlio del banchiere Giuseppe e di Maria Azzari figlia
dello sfortunato cospiratore Giuseppe Antoni. Dopo gli
studi classici nelle scuole melleriane si laureò nel 1841
al Politecnico di Torino con il plauso del celebre matematico Plana e nello stesso anno conseguì il diploma
di architetto. Nel 1848 fece parte della Guardia Nazionale a capo degli Ossolani residenti nella capitale piemontese. Nel 1850 ebbe nell’Ateneo Torinese la cattedra di calcolo infinitesimale. Nel 1857 passò alla cattedra di Meccanica razionale che tenne fino al 1891 e per
qualche tempo fu Rettore Magnifico. Progettò palazzi
(Palazzo Mogni in Domodossola e Villa Franzi in Pallanza) e chiese. Profuse ingenti somme in beneficenza
ma volle mantenere l’anonimato.
FALCIONI ALFREDO, Senatore, ministro
Cuzzego (Beura Cardezza) 1868 - Ghiffa 1936
Figlio di Giovanni e di Giuditta Moro. Studi classici
e laurea in legge a Torino, avvocato a Domo, deputato al Parlamento dal 1900, Sottosegretario agli Interni,
membro della delegazione internazionale del Sempione a Berna, Ministro dell’agricoltura, Ministro di Grazia e Giustizia, Presidente della Commissione Internazionale degli stupefacenti. Nel 1925 si ritirò a vita privata e fu nominato consigliere delegato della Edison e
della Gondrand. Nel 1929 fu eletto senatore per nomina regia. Diresse con il fratello avvocato Ernesto il giornale L’Ossola.
FACCHINETTI GIOV. ANTONIO,
Papa Innocenzo IX
Bologna 1519 – Roma 1591
Dopo studi ecclesiastici e giuridici brillanti, fu segretario del Papa Paolo III Farnese che lo promosse governatore di Parma. Partecipò al Concilio di Trento, di là
il Papa Pio V Ghislieri lo mandò ambasciatore a Venezia per porre le basi di quella alleanza fra Stati Cristiani
che vinse a Lepanto la flotta dei Turchi. Creato Cardinale, portò a termine delicati incarichi diplomatici. Nel
1591 fu eletto Papa e scelse il nome di Innocenzo IX.
Non riuscì ad effettuare le riforme che aveva progettato
perché morì dopo due soli mesi di pontificato.
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FALCIONI GIOVANNI, avvocato, politico
Domodossola 1916 – ivi 2003
Figlio dell’avvocato Ernesto e di Maria Rapetti.
Brillanti studi classici al Mellerio Rosmini e universitari a Milano conclusi lodevolmente con laurea in giurisprudenza. Praticante presso lo studio legale paterno, nel 1942 come Ufficiale del Commissariato militare prese parte alla campagna di Russia nell’ARMIR –
Divisione Ravenna. Durante la Repubblica dell’Ossola
fu assessore nella giunta cittadina, di nomina del CLN,
quale esponente del P.L.I. Coadiuvò il giudice straordinario avv. Vigorelli nella sorveglianza del campo di
concentramento di Druogno. Membro responsabile del
partito liberale provinciale, fu sindaco di Domodossola negli anni Sessanta. Svolse l’attività professionale con
pieno successo e fu per un decennio presidente stimato
e capace della Banca Popolare di Intra.
FALCIONI GIOVANNI BATTISTA, ingegnere
Cuzzego (Beura Cardezza) 1839 - Udine 1899
Figlio di Giuseppe e Linda Porazzi. Studi classici al Collegio Mellerio Rosmini di Domodossola, laurea in ingegneria al Politecnico di Torino nel 1865. Nel 1866 il
ministro Quintino Sella gli affidò la cattedra di meccanica all’Istituto tecnico di Udine, città da poco entrata a
far parte del Regno d’Italia. Esercitò anche la libera professione progettando asili, chiese, scuole, officine per il
Friuli e diresse la Esposizione Friuliana nel 1883. Pubblicò opere di divulgazione scientifica.
FANTONETTI GIOVAN BATTISTA, medico
Pavia 1791 – Piedimulera 1861
Da genitori di valle Anzasca, laureato in medicina e chirurgia all’Università di Pavia vi insegnò patologia e chimica. Trasferitosi a Milano esercitò la professione medica con successo. Nel 1836 pubblicò le Effemeridi delle scienze mediche che lo fecero stimare anche all’estero.
Diresse a Venezia un’importante pubblicazione medica e tradusse e commentò opere mediche straniere. Fu
membro di accademie europee. Tornato in Ossola ed
eletto presidente del Consiglio Provinciale, promosse lo
sfruttamento delle miniere aurifere. Lasciò la propria
biblioteca alla città di Domodossola.
FARINA GIOVANNI MARIA, industriale
Santa Maria Maggiore 1685 - Colonia 1766
Emigrato a Colonia presso congiunti produsse e diffuse l’«acqua admirabilis» usando la formula, avuta dal vigezzino Feminis con il nome Johan Maria Farina gegenüber dem Julichsplatz-Koeln. Nel 1742 comparve sulle confezioni la dicitura in francese Eau de Cologne e la
diffusione in tutto il mondo procurò fama e ricchezza a
lui, ai suoi successori, e dal 1877 alla casa Roger et Gallet di Parigi che ne acquistò i diritti.
FEMINIS GIOVANNI PAOLO,
inventore dell’acqua di Colonia, benefattore
Crana 1670 circa - Colonia 1736
Emigrato presso parenti a Magonza, imparò l’arte dell’erborista e a Colonia fabbricò un’acqua odorosa chiamata «aqua admirabilis» che mise in commercio dal
1727. Contribuì con ingenti somme alla costruzione
della Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Maggiore, del-
la casa comunale, di un oratorio a Crana, di una scuola per i ragazzi del paese. Trasmise la formula dell’acqua di colonia ai conterranei Giovanni Antonio e Giovan Maria Farina.
FERINO PIETRO MARIA, generale
Craveggia 1747 - Parigi 1816
Avviato al commercio dal padre uomo d’affari a Parigi,
preferì scegliere la carriera militare. Combatté valorosamente al servizio della Francia repubblicana e poi nell’esercito imperiale di Napoleone che lo promosse generale e Grand’Ufficiale della Legion d’onore. Anche Luigi XVIII lo onorò con pari grado.
FERRARI BALDASSARRE, cavaliere di Malta
Sec. XVI
Appartenente alla illustre famiglia domese dei Ferrari.
Il 14 aprile 1580 venne iscritto nel ruolo generale dei
Cavalieri italiani dell’Ordine di Malta presso il Gran
Priorato di Lombardia e assegnato alla casa generalizia.
Rimpatriò nel 1586 con speciale licenza del Gran Maestro Ugo Daubex De Verdala per gravi motivi di famiglia. Fu caro a Papa Innocenzo IX che gli rivolse lettere amichevoli (in particolare quella dell’11-2-1589). In
Domo il cav. Ferrari aveva una sua Corte con uomini
d’armi pronti a intervenire a difesa della giusta causa e
della chiesa, ma non per conflitti politici. Invitato dal
Podestà di Mattarella a intervenire nelle lotte politiche,
oppose netto rifiuto. Promosse con i fratelli e i consanguinei l’erezione di una confraternita (del S. Cordone) a scopi benefici presso la chiesa di S. Francesco di
Domo nella quale era il sepolcreto dei Ferrari indicato
con otto F. (Fratres Ferrarii Franciscanae Fraternitatis
Familiae Ferrariae Fecerunt Fieri).
FERRARIS ADOLFO SEBASTIANO, storico
Pontemaglio di Crevola 1901 - Domodossola 1954
Figlio di Giulio e di Maria Ferraris, studi classici al Mellerio Rosmini e laurea in lettere e filosofia all’Università
di Torino. Insegnò per qualche anno; scelta la carriera
amministrativa, fu titolare della segreteria dell’ospedale
S. Biagio di Domo. Coltivò gli studi storici e con profonda competenza portò a termine la Bibliografia Ossolana, opera indispensabile, frutto di ricerche impegnative. Collaborò al Bollettino storico per la Provincia di
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Feminis Giovanni Paolo, inventore dell’acqua di Colonia e benefattore
Crana 1670 (circa) - Colonia 1736
Ferino Pietro Maria, Generale
Craveggia 1747 - Parigi 1816
Ferrari Baldassarre, Cavaliere di Malta
secolo XIV
Guattani Carlo, chirurgo e archiatra pontificio
Pontegrande 1709 - Roma 1773
Novara e ai giornali locali con argomenti vari. Pubblicò
Novelle e leggende ossolane (1927), L’Ospedale di S. Biagio con appendice di pergamene inedite (1935), e La
Società di Mutuo soccorso e istruzione fra Operai di Domo
(1937). Usò Io pseudonimo Adolfo da Pontemaglio.
FIZZOTTI GERMANA, giornalista, scrittrice
Parigi 1911 – Domodossola 2003
Trasferitasi con i genitori a Domodossola, fu impiegata di buon livello in una casa di spedizioni. Iscritta all’albo dei giornalisti dal 1947, acquistò notorietà come
collaboratrice del Risveglio Ossolano e di alcune riviste
con saggi e novelle. Coltivò amicizie con persone di cultura fra le quali Virginia Galante Garrone (sorella dei
più noti Alessandro e Carlo) che scrisse la prefazione
del suo romanzo autobiografico La casa del buon Dio
stampato nel 1985. Nel 1978 era già uscito il suo testo
di accompagnamento ai disegni di Remy Paggi, raccolte nel volume Dal Sempione al Lago Maggiore, mentre
nel 1983 aveva dato alle stampe Valle Anzasca nel passato e nel presente. Con il suo ultimo lavoro Centonovantatré cassette del 1990 ricorda scene del passato e il fratello Piero.
FORNARA CARLO, pittore
Prestinone di Craveggia 1871 – ivi 1968
Figlio di Giuseppe Antonio e di Anna M. Nicolai, fu allievo del Cavalli che lo accostò alla grande pittura veneta e fiamminga e alla moderna maniera degli Impressionisti francesi. Ventenne mandò un suo quadro, La
bottega del calderaio, alla Triennale di Milano e ottenne successo. Incontrò Segantini e come lui usò la tecnica divisionista. Soggiornò e lavorò a Parigi e dal 1922
si stabilì a Prestinone per dipingere in solitudine, senza più partecipare a esposizioni nonostante i molti riconoscimenti. Lasciò una vasta e ammirata produzione.
La luce è protagonista dei suoi dipinti dedicati alla valle
nativa studiata in ogni aspetto, in ogni stagione, in ogni
ora del giorno e realizzata con rara magistrale efficacia.
FORNARI GIOVANNI ANTONIO,
giardiniere, benefattore
Bannio, inizio sec. XVII - Roma, fine sec. XVII
Emigrato a Roma come tanti compaesani, divenne capo
giardiniere del Vaticano e poi maestro di Casa del Papa
Innocenzo X che lo creò Conte Palatino. Desideroso
di rendersi utile verso i suoi conterranei di valle Anzasca assicurò vitto, alloggio e lavoro a quanti si recassero in cerca di occupazione nella città eterna affidandoli
alla Confraternita della S.S. Trinità. La discendenza del
Fornari “romani” si estinse nel 1875 dopo aver tenuto
per alcune generazioni la custodia e la cura dei giardini vaticani.
FRADELIZIO GIOVANNI BATTISTA, benefattore
Trontano 1793 - Parigi 1859
Figlio di Leonardo e di Domenica Bariletta, lavorò a
Parigi nella fumisteria dello zio di cui fu l’erede. Per la
sua intraprendenza divenne fumista esclusivo dei Castelli reali di Fontainebleu e di S. Claud e impresario generale di tutte le caserme di Parigi, con enorme vantaggio economico. Non dimenticò il suo paese dove tornava volentieri. Alla sua generosità si devono la scuola femminile, le fontane d’acqua potabile e buona parte della prima strada carrozzabile fra Trontano e la piana di Domodossola.
GALLETTI GIAN GIACOMO,
finanziere, benefattore
Bognanco 1789 - Parigi 1873
Figlio di Giacomo e di Domenica Giovangrande, manovale poco più che dodicenne nella costruenda strada napoleonica del Sempione; merciaio ambulante in
Svizzera, affermato commerciante a Milano, infine banchiere a Parigi e socio dei Rothschild. Lasciò le proprie enormi sostanze ai comuni di Domo e di Bognanco e ancora vivente diede un considerevole anticipo alla
Fondazione a lui intestata (1869). A sue spese furono
costruiti la strada Domo-Bognanco, il teatro Galletti,
edifici scolastici a Bognanco. Procurò inoltre l’assistenza medica gratuita per i suoi compaesani. Con i suoi lasciti furono comprati il palazzo S. Francesco e il palazzo Silva, terreni al Gibellino ed edificata e finanziata la
scuola per artigiani a lui intitolata. Gli Ossolani lo elessero deputato al Parlamento nel 1872.
GENNARI LUCIANO,
letterato, amministratore pubblico
Parigi 1892 - Lanzo Torinese 1979
Figlio di Giovanni Battista e di Annetta Zanni, vigez175
zini proprietari a Parigi della nota Casa Ponti-Gennari.
Studiò lettere alla Sorbona, insegnò letteratura francese
a Milano e a Parigi tenne un corso sul romanzo italiano
dell’Ottocento. Fondò e diresse in Italia la rivista Arte e
Vita. Fece parte del movimento cattolico francese, amico di Maritain e di Claudel. Drammaturgo, critico e
saggista sulla lingua italiana e francese, scrisse Il romanzo di una Valle dedicato anche alle celebrità vigezzine,
alla parentesi della guerra partigiana e a sue vicende personali. Si interessò alla vita della val Vigezzo come consigliere comunale di Santa Maria Maggiore e come presidente di opere altamente benefiche per la Valle, sull’esempio dei molti emigrati vigezzini.
GENTINETTA GIOVANNI, politico
Vagna 1817 - Domodossola 1900
Figlio di Giovanni e di Maria Lorenzetti, studiò nel Collegio Mellerio di Domo poi, dedicatosi al commercio,
guadagnò un’ingente fortuna. Promotore della Società Operaia procurò lavoro ai concittadini facendo dissodare vasti terreni incolti alla Siberia, alle Nosere e sul
versante sud del colle di Mattarella favorendo la frutticoltura e la piscicoltura. Sindaco di Domo dal 1867 al
1871, consigliere provinciale e poi deputato al Parlamento dal 1873 al 1890. Ispiratore ed esecutore del testamento di G.G. Galletti, amico dello statista francese Leon Gambetta, fin da giovane fu iscritto al partito
mazziniano.
GIAVINA PIETRO MARIA,
archiatra pontificio, benefattore
Domodossola 1722 - Roma 1779
Figlio del chirurgo Francesco e di Antonia Grazioli.
Esercitò la professione del chirurgo presso l’Ospedale
di S. Spirito in Roma pertanto fu promosso di archiatra di Clemente XIII e di Pio VI che gli fece erigere nella chiesa di S. Spirito un monumento funerario. Lasciò
i suoi beni in Ossola all’Ospedale S. Biagio e quelli romani all’Ospedale di S. Spirito.
GIOIA GIACOMO, industriale, benefattore
Ceppo Morelli 1842 - Firenze 1907
Figlio di Giuseppe e di Maria Piccoli, garzone a Firenze,
poi proprietario di una bottega di lattoniere. Per primo
introdusse in Italia macchinari appositi per la fabbrica176
zione di barattoli in latta battendo la concorrenza straniera. Fornì all’esercito scatole per carne, con notevole
guadagno. Lasciò un generoso legato alla Congregazione di carità di Ceppo Morelli.
GIROLA UMBERTO,
impresario, benefattore
Milano 1887 - ivi 1940
Ossolano d’adozione, sposò un’ossolana, a Domo fissò la residenza ed ebbe l’Ossola come campo delle sue
prime attività (centrali di Formazza, serbatoi del Kastel
e del Toggia, galleria dei condotti della centrale di Calice). L’impresa Girola da ossolana e nazionale divenne
internazionale dando lavoro principalmente a generazioni di Ossolani. Fu generoso benefattore dell’Ospedale S. Biagio.
GROLLI FILIPPO, avvocato, politico
Vogogna 1741 – ivi 1798
Figlio del dottore in legge Pietro e di Angela M. Innocenti. Laurea in giurisprudenza a Pavia. In Vogogna esercitò la professione legale con successo. Sposò
Giovanna Pizzardi ved. Zaretti, i cui figli aderirono alle
nuove idee venute dalla Francia sull’esempio del patrigno Filippo. Uomo di notevole ascendente politico,
nella primavera del 1798 fu proclamato capo dei democratici repubblicani del borgo. Durante l’occupazione da parte degli insorti piemontesi e dei militari della
Cisalpina della sponda occidentale del lago Maggiore,
e poi dell’Ossola, primo passo verso la proclamazione
della repubblica in Piemonte, fu presidente della Municipalità vogognese e Commissario interinale delle due
Ossole. Dopo la sconfitta dei “giacobini” nella battaglia di Ornavasso (22 aprile 1798), non adeguatamente sostenuti dalla Repubblica Cisalpina per intrighi politici, il Grolli fu catturato in seguito a delazione e, per
sentenza emessa a Casale Monferrato dal regio tribunale militare, ed eseguita in Vogogna il 30 aprile mediante fucilazione a esempio e ammonimento ai suoi concittadini. La repressione costò la vita ad altri 64 insorti, fucilati a Domodossola il 28-29-30 aprile 1798 e al
vogognese Giulio Albertazzi fucilato a Pallanza. Così si
concluse il moto insurrezionale che mirava all’annullamento dei privilegi feudali e a maggiori libertà per la
borghesia.
GUALIO GIULIO, scultore
Antronapiana 1632 - ivi 1712
Allievo del maestro De Bernardis con laboratorio in
via Briona, attivo nell’Ossola e in Valsesia, fu autore di
splendide opere lignee di carattere religioso.
GUATTANI CARLO, chirurgo, archiatra pontificio
Pontegrande di Bannio Anzino 1709 - Roma 1773
Studi classici e poi di medicina e chirurgia a Roma. Primario negli Ospedali di S. Spirito e S. Gallicano (1741),
nel 1751 fu nominato archiatra pontificio da Benedetto XIV. In Francia approfondì i suoi studi di chirurgia e
divenne abile nell’eseguire l’esofagotomia, che descrisse in latino. Si recò per studi in Inghilterra e in Germania e al rientro in Italia soggiornò a Bannio. Fu medico di fiducia di Clemente XIII e Clemente XIV e socio
delle Accademie di Parigi. Roma lo onorò con un monumento.
GUBETTA GIACOMO, medico, storico
Parigi 1823 - Craveggia 1893
Figlio di Carlo Bartolomeo e di Antonia Mozzanino.
Dopo gli studi classici a Domo e a Pavia ritornò a Parigi dove nel 1847 conseguì la laurea in medicina, convalidata dall’Università di Torino. Esercitò la professione
medica nella sua valle Vigezzo, fu consigliere provinciale e scrisse Le memorie antiche e moderne di Craveggia.
GUGLIELMI FRANCESCO E PASQUALE,
benefattori
Francesco: Crodo 1793 - ivi 1864
Figlio di Giuseppe e di Maria Amodei, divenne sacerdote e visse a Crodo beneficando i poveri, le patrie istituzioni e la chiesa parrocchiale.
Pasquale: Crodo 1801 - ivi 1866
Fratello del precedente. A sua volta beneficò il comune
di Crodo, di cui fu sindaco, facendo erigere una scuola
per l’istruzione delle fanciulle.
GUGLIELMINI DOMENICO,
professore di idraulica, fisico-matematico
Bologna 1655 - Padova 1710
Di genitori di Cravegna (Crodo) studiò fisica, matematica, idraulica e idrometria ed ebbe cattedra a Bologna dal 1694. Successivamente si trasferì a Padova per
insegnare matematica in quell’Ateneo. Pubblicò, in ele-
gante lingua latina, un trattato di idrostatica e Della natura dei fiumi, opera che ebbe varie ristampe per l’utilità e la profondità del contenuto.
IACCHINI BARTOLOMEO, pittore
Macugnaga 1695 - ivi 1747
Figlio del nobile notaio Bartolomeo e di Cristina Creda, fu abile e ammirato pittore di soggetto religioso. Di
lui rimangono quattro quadri nelle chiese di Macugnaga e la volta della parrocchiale. Sue opere incomplete
furono ultimate dal Borgnis vigezzino.
INNOCENTI PIETRO MASSIMO,
magistrato, senatore
Vogogna 1792 - ivi 1860
Figlio del dr. Gerolamo e di Giuseppina Albertazzi. Fu
militare nell’esercito napoleonico; si laureò in giurisprudenza ed entrato in magistratura divenne Consigliere di
Corte d’appello. Fu senatore del Regno di Sardegna.
INNOCENZO IX (Giovanni Antonio Nocetti),
Sommo Pontefice
Bologna 1519 - Roma 1591
Figlio di Antonio e di Francesca Cini entrambi di Cravegna in valle Antigorio. Il padre, gerente un’agenzia di
trasporti, era conosciuto come Facchinetto da cui il cognome Facchinetti dato alla famiglia. Dopo l’ordinazione sacerdotale conseguì la laurea in diritto civile e canonico. Fu vicario in Avignone, governatore di Parma, vescovo di Nicastro, patriarca di Gerusalemme, Cardinale e poi Papa il 29 ottobre 1591. Il suo pontificato durò
pochissimo tempo.
IONGHI LAVARINI CESARE, ingegnere, erudito
Ornavasso 1864 - ivi 1934
Studi classici a Domo, laurea in ingegneria a Torino.
Scrisse: Ornavasso nella sua storia sacra e civile, Novara, 1934 (con biografia completa di Enrico Bianchetti e della sua attività storiografica); Origine della colonia
tedesco-vallesana; Dizionarietto dei vocaboli ornavassesi e
della toponomastica locale.
LANTI PIETRO ANTONIO, intagliatore, scultore
Macugnaga 1679 – ivi 1729
Figlio di Giacomo Antonio, ebbe contatti sia con gli
artisti vallesani che con quelli ossolani e fu egli stesso
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maestro di altri intagliatori. La sua opera è volta soprattutto alla decorazione di altari che elaborò con ricchezza di invenzione e di effetto nello stile dell’arte barocca. Le opere più note sono gli altari lignei della chiesa
di Macugnaga, dell’oratorio della Madonna della Neve
di Borca, e numerose statue di soggetto religioso. Inoltre intagliò per molte chiese nell’Ossola splendidi reliquiari in forma di busti con decorazioni dorate e dipinte di grande effetto.
LEONI GIOVANNI (TOROTOTELA),
poeta dialettale
Domodossola 1846 – Mozzio 1920
Figlio di Giuseppe e di Lucia Burla, interruppe gli studi al Liceo Mellerio Rosmini ricongiungendosi alla famiglia residente a Ferrara per commercio e là ebbe primo impiego. Si trasferì a Genova poi emigrò a Montevideo (1870) dove aprì un negozio di tessuti. Con intuito e iniziativa amministrò alcune case di commercio di
altri e sue ed il successo economico gli consentì di rientrare in patria nel 1886. Alternò il suo soggiorno invernale fra Torino e Domo, mentre Mozzio fu l’amata sede
della villeggiatura. Uomo colto, poté dedicarsi alla letteratura ed ebbe in Carlo Porta il suo poeta ideale a cui
si ispirò quando si decise a scrivere in apprezzabili rime
dialettali le sue osservazioni pungenti e satiriche sul costume e sui personaggi del suo tempo. Le Rime Ossolane uscite postume nel 1929 a Udine, a cura dei cugini Boni con prefazione di Ida Braggio, raccolgono solo
una parte della poesia del «Torototela», pseudonimo del
Leoni. Durante l’ultima traversata per Montevideo, effettuata nel 1902, scrisse Sull’Atlantico-Diario di viaggio, pagine di critica sociale in accordo con il suo sentire di ispirazione liberal-socialista-anticlericale.
LINCIO GABRIELE,
professore universitario, mineralogo
Varzo 1874 - ivi 1938
Figlio di Domenico e di Giuditta Alvazzi. Studiò chimica e mineralogia all’Università di Torino, frequentò
l’Istituto mineralogico dell’Università di Monaco di Baviera ottenendo la libera docenza. Si perfezionò in cristallografia ad Heidelberg conseguendo il dottorato a
Marburg. Nel 1905 fu addetto all’Ufficio geologico di
Roma. Tornato in Germania assunse la direzione scien178
tifica della sezione ottico-mineralogica, e costruì un microscopio ancora oggi in uso per ricerche mineralogiche e petrografiche. A Torino nel 1909 conseguì la libera docenza. Insegnò mineralogia e geologia nelle Università di Cagliari, di Modena e di Genova dove diresse
anche l’Istituto di mineralogia e litologia. Scrisse Della
autunite della Lurisia che lo rivelò pioniere in Italia della ricerca dell’uranio.
LORETTI GIOVANNI GIUSEPPE, pittore
Bognanco 1816 – Mocogna 1879
Figlio di Giuseppe e Maria Traveletti, preparatosi con
maestri vigezzini al disegno, si rivelò presto valente ritrattista. Lavorò per parecchi anni a Ginevra ottenendo
rinomanza e poi in Domodossola, dove fu anche primo presidente della Società Operaia sorta il 21 ottobre
1855 per opera dell’avv. Trabucchi e del dr. Benedetto
Burla. Caldeggiò anche la creazione di una cassa pensione per gli operai anziani e invalidi che fu realizzata
dopo la sua morte.
LOSSETTI GIOVAN BATTISTA, marchese, militare
Vogogna 1600 circa - ivi 1663
Figlio del giureconsulto Giuseppe. Dedicatosi alla vita
militare, nel 1636 fu nominato Capitano Generale dell’Ossola dal Governo Spagnolo di Milano per difendere
i confini dai Francesi. Filippo IV di Spagna lo creò marchese di Busto Garolfo per i servigi resigli. Divenne anche feudatario di Dairago e Briga Novarese. In seguito
a rovesci di fortuna dovette alienare il suo patrimonio,
ma Filippo IV lo risarcì con il Marchesato di Inveruno.
LOSSETTI LUCA, magistrato, diplomatico
Vogogna inizio sec. XVI - Madrid 1574
Figlio di Michele podestà di Asso e Valassina e luogotenente a Vogogna di Lodovico il Moro. Dal 1547 in poi
trattò gli affari civili del Ducato Lombardo a Madrid
presso Carlo V e Filippo II. Nel 1557 fu fiscale generale in tutto lo Stato di Milano.
LOSSETTI LUCA, medico
Vogogna 1799 - ivi 1874
Figlio del giureconsulto Giacomo Giuseppe e di Francesca Zardetti di Piedimulera. Laureato a Pavia in medicina, nominato medico primario all’Ospedale Maggiore di Milano, scrisse negli Annali Universali di Me-
dicina sulla varicella e sul vaiolo, sulla sifilide e sulle acque minerali.
LOSSETTI MANDELLI GABRIELE,
storico, benefattore
Vogogna 1821 - ivi 1886
Figlio di don Pietro e di donna Giuseppina Marinoni. Dopo gli studi classici a Milano conseguì la laurea
in giurisprudenza a Pavia (25.4.1845). Fece pratica legale a Milano e nel 1848 fece parte della Guardia civica (2° btg. S. Babila). Sposò in quell’estate donna Elisa
Melzi d’Eril e in seguito al rientro a Milano degli Austriaci ritornò a Vogogna definitivamente. Fu sindaco
del borgo per circa vent’anni e contribuì con il proprio
denaro all’erezione delle scuole elementari, della nuova
chiesa con campanile, dell’asilo infantile, della stazione
ferroviaria e all’ingrandimento di piazze e vie e affrancò i Vogognesi dalle decime dovute alla Parrocchia. Lasciò considerevole somma per l’ospedale e per restauri
del teatro. Dedicatosi con passione alle ricerche storiche, scrisse la biografia dei vogognesi avv. Filippo Grolli e Angelo Zaretti, Notizie sui fatti del 1798, Cenno storico sui Settari di Cimamulera, Note sulla lapide romana
della via del Sempione e La Cronaca del borgo di Vogogna
dall’anno 1751 al 1885, pubblicata nel 1926 dalla figlia
Pia. Per suo merito molte notizie su fatti e famiglie del
passato sono giunte a noi.
LUPETTI CARLO GAUDENZIO, pittore
Prestinone di Craveggia 1827 - Nantes 1862
Figlio del geom. Bartolomeo e di M. Domenica Fuccio. Allievo a Torino dell’Accademia Albertina tornò diplomato con medaglie nella sua Valle e vi eseguì lavori
a fresco. Nel 1853 frequentò a Parigi lo studio del pittore Cogniet allora in auge e l’anno successivo mandò
alla «Promotrice» di Torino La zingara e i suoi animali,
riscuotendo grande consenso. Per parecchi anni fu uno
dei pochi pittori di animali e rientrato a Prestinone restò fedele a quei soggetti pur dedicandosi anche alla ritrattistica. Stabilitosi definitivamente a Nantes vi lavorò con successo.
LUSARDI ANTONIO, scultore
Varallo Sesia 1860 – Domodossola 1926
A Torino frequenta l’Accademia Albertina dedicandosi
in particolare all’intaglio e alla plastica. Al termine dei
corsi inizia la sua attività di scultore. Nel 1901 si trasferisce a Domodossola perché incaricato dell’insegnamento della plastica e dell’intaglio presso la scuola gestita dalla Fondazione Galletti e non lascerà più la città divenendo ossolano d’adozione. Stimato per le sue capacità artistiche, ricevette l’incarico di eseguire delle formelle per la chiesa della Madonna della Neve, il Cristo
con i fanciulli per il frontone dell’edificio dell’asilo tenuto dalla suore Rosminiane, il medaglione con l’effigie
di Giuseppe Belli per Calasca e quello di Giorgio Spezia, collocato nella casa natale di Piedimulera, e inoltre
le effigi del conte Giacomo Mellerio e dell’abate Rosmini, poste sulla facciata del palazzo melleriano. Degna di
nota anche la produzione funeraria.
MELLERIO FRANCESCO, gioielliere, benefattore
Craveggia 1772 - ivi 1848
Figlio di Giovanni Francesco e di M. Caterina Borgnis,
seguì il padre e lo zio, rivenditori di gioielli a Parigi.
Scoppiata la Rivoluzione, mentre il padre rimpatriava
con oltre duecento vigezzini, egli, seppure giovanissimo, continuò l’attività, ma nel 1793 con la fuga dalla
capitale evitò la ghigliottina e per salvarsi si arruolò nell’armata francese del Nord. Nel 1795 rientrò a Craveggia e nel 1796 lavorò a Milano per i Francesi della Cisalpina. Ritornato a Parigi ingrandì il negozio ed ebbe
come clienti la moglie di Napoleone e molti membri
della Corte imperiale. La gioielleria Mellerio di Rue de
la Paix è ancora oggi fra le più rinomate della capitale
francese. Generoso di offerte alla val Vigezzo, pagò la
costruzione del ponte fra Craveggia e Vocogno.
MELLERIO GIACOMO SENIOR, fermiere, conte
Malesco 1711 - Milano 1782
Figlio del medico Giovanni Battista e di Giovanna
Cioja, crebbe con gli zii Cioja, negozianti e banchieri a
Milano e per far pratica nel commercio. Messosi a lavorare in proprio accumulò grandi ricchezze con forniture agli eserciti di Maria Teresa e poi con la ferma generale (appalti generali) per il Milanese e per il Mantovano. Ritiratosi a vita privata ottenne cariche onorifiche e
il titolo di conte di Albiate e Agliate (1776). Beneficò i
poveri di Milano e Malesco.
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Guglielmini Domenico, professore di idraulica, fisico - matematico
Bologna 1655 - Padova 1710
Balcone Giovan Battista, benefattore
S. Maria Maggiore 1703 - ivi 1750
Lossetti Giovan Battista, marchese, militare
Vogogna 1600(ca.) - ivi 1663
Palletta Giovan Battista, chirurgo emerito, filantropo
Montecrestese 1748 - Milano 1832
MELLERIO GIACOMO, statista, benefattore
Domodossola 1777 – Milano 1847
Figlio del giureconsulto Carlo Giuseppe e di Rosa Sbaraglini di Oira (Crodo), orfano di padre fu chiamato a
Milano presso il ricchissimo zio paterno Giovanni Battista, già fermiere di Maria Teresa d’Austria e da lei creato
conte per censo. Studiò nel Collegio Tolomei di Siena,
poi viaggiò in Europa per istruzione. Sposò la contessa Elisabetta Castelbarco Visconti e condusse vita brillante nella Milano capitale del Regno Italico fino alla
morte prematura della moglie e di tre figlioletti. Caduto Napoleone, parteggiò per il ritorno in Lombardia
degli Austriaci (1814) dai quali fu nominato vice Reggente, e consigliere intimo di Sua Maestà. Nel 1817 divenne Cancelliere del Lombardo Veneto, carica che tenne fino al 1819. Non avendo ottenuto quell’autonomia
amministrativa auspicata dai Lombardi, lasciò Vienna e
si ridusse a vita privata. Mortagli la figlia superstite trovò conforto nella religione e nello studio. Uomo coltissimo fu mecenate e collezionista di opere d’arte ospitate nella grande villa in Brianza. Beneficò Domodossola con l’istituzione delle scuole superiori classiche che
ospitò nel palazzo da lui fatto costruire appositamente
(1818) e la cui direzione affidò successivamente all’amico Rosmini, fondatore dell’Istituto della Carità (1828)
al Calvario e l’insegnamento ai padri rosminiani. Provvide inoltre all’istruzione femminile acquistando i locale delle ex monache Orsoline e insediandovi le figlie
della Carità, ordine monastico fondato dall’abate Rosmini. Con testamento (1847) il Mellerio lasciò al Comune di Domo i fabbricati nel borgo, proprietà terriere nel Lodigiano, una somma per l’ospedale S. Biagio e
altri legati per la continuità degli studi liceali. Non dimenticò il Comune di Malesco, luogo di origine della famiglia. Con il suo lascito fu pagata la costruzione
a fine Ottocento della grande porta centrale in bronzo per il Duomo di Milano, opera insigne dello scultore Pogliaghi.
MELLERIO GIOVANNI BATTISTA,
fermiere, benefattore, conte
Domodossola 1725 - Milano 1809
Figlio del medico vigezzino Giovanni Giacomo e di
Anna Tichelli di Vagna, fece pratica di commercio a Mi-
lano presso il cugino Giacomo Mellerio e fu suo braccio destro e socio nell’attività di fermiere, occupandosi degli appalti generali per il Governo austriaco nel territorio di Mantova dove, nel 1771 fu eletto regio consigliere del Magistrato Camerale. Erede delle sostanze
del cugino Giacomo, che si aggiunsero al suo già consistente patrimonio, fu considerato uno dei più ricchi
milanesi. Con il cugino Giacomo affidò all’architetto
Cantoni l’ampliamento del palazzo acquistato a Milano e la sistemazione della villa «II Gernetto» nei pressi
di Monza, diventata di loro proprietà. Ebbe il titolo di
Conte con sovrano attestato del 1783. Lasciò una rendita annua ai poveri di Malesco e una notevole somma
all’Ospedale Maggiore di Milano.
MELLERIO GOTTARDO, professore di lettere classiche
Santa Maria Maggiore 1884 - Novara 1943
Figlio di Matrobio, maniscalco della Valle Vigezzo e di
Annamaria Nicolai. Dopo studi classici e laurea in lettere a Torino si dedicò all’insegnamento, intervallato
dalla partecipazione alla 1a Guerra Mondiale. Si stabilì a Novara, titolare di cattedra al Ginnasio e trascorse le estati nella sua Valle Vigezzo con la famiglia, traducendo classici, compilando una grammatica latina, collaborando anche a giornali francesi, scrivendo un romanzo inedito II palanchino della Madonna ambientato
a S. Maria Maggiore, giudicato «preziosa testimonianza storica e di costume» della Vallata. Socialista, iscritto
alla Massoneria ebbe contrasti politici ma non rinunciò
alle proprie convinzioni. Fu amico dei pittori vigezzini Cavalli, Fornara, Peretti e del mecenate Michele Barbieri di Crana e con essi propugnò le conquiste sociali della amata Valle e diede vita a un foglio satirico ora
introvabile.
MELLERIO Famiglia (ramo di Craveggia)
FRANCESCO (1772-1834), fondatore della celeberrima «gioielleria Mellerio dits Meller» di Rue de la Paix
a Parigi; GIANFRANCESCO (1815-1886), fornitore
della corte di Francia e di altre corti europee, fondatore della succursale di Madrid, autore di famosi gioielli
per regine, chiese e gemme per il Santuario di Montes;
MICHELE, benefico verso i poveri, gli ammalati, il comune e la chiesa dell’amata Craveggia; FELICE (1831-
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1905) benefattore di Craveggia e particolarmente di
Masera dove pagò gran parte della strada per Rivoria,
fece costruire l’asilo infantile e restaurare la parrocchiale; DOMENICO, munifico verso il comune di Masera a cui donò un grande stabile e terreno per le scuole
elementari con annesso alloggio per le maestre e terreni
per l’asilo; FRANCESCO fu Giangiacomo, deputato al
Parlamento per la XIV legislatura e benefattore.
MERZAGORA GIOVANNI ANDREA, scultore
Craveggia sec. XVI - ivi 1603
Autore dello splendido coro ligneo della Madonna di
Campagna a Pallanza, dell’ancona dell’altare di S. Bartolomeo a Villadossola. Altre opere sono sparse nel Vallese, nell’Ossola, nella Valsesia.
MOALLI MARIA, titolare e direttrice di azienda
Vergiate (VA) 1891 - Domodossola 1960
Diresse con fermezza e abilità la Società Corriere Moalli
e annessa officina; fu Crocerossina volontaria in Africa
Orientale durante il conflitto Italo-Etiopico del 193536. La torretta di via Montegrappa, di sua proprietà, fu
regalata al Comune per desiderio suo e dei fratelli e da
allora è diventata emblema cittadino.
MOLINARI GIACOMO, rosminiano
Domodossola 1807 - Sacra di S. Michele 1864
Ordinato sacerdote a Novara, nel 1830 entrò nell’Istituto della Carità da poco fondato dall’abate Rosmini.
Rettore del Calvario e del Collegio Melleriano, fu poi
arciprete a San Zeno di Verona da cui fu allontanato
perché non gradito alla polizia austriaca. Nel febbraio
1861 Cavour personalmente lo inviò a Roma, latore di
carte e lettere riservate al diplomatico Rappresentante dell’appena proclamato Regno d’Italia, destinate alle
prime trattative con la Santa Sede.
MONETA ATTILIO,
colonnello, medaglia d’oro al valor militare
Malesco 1893 - Finero 1944
Lasciati gli studi al Rosmini, scelse la carriera militare
e frequentò la scuola d’equitazione a Pinerolo. Dopo la
1a guerra mondiale fu ufficiale del Centro rifornimento
quadrupedi di Grosseto, di cui divenne Colonnello Direttore. Con l’8 settembre 1943 rientrò a Malesco portando armi e, preso contatto con le prime formazioni
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partigiane e il C.L.N. di Lugano, tenne il collegamento fra i reparti armati dell’Ossola e la missione alleata in
Svizzera. Nel settembre 1944 disciplinò la resa dei Tedeschi in val Cannobina e organizzò la difesa in Vigezzo. Essendo la Repubblica dell’Ossola in pericolo, il 12
ottobre con Alfredo di Dio e l’ufficiale alleato Patterson
uscì in avanscoperta sotto Finero per conoscere la posizione nemica, ma cadde in una imboscata colpito mortalmente con il Di Dio.
MONTI ENRICO, architetto, arredatore, benefattore
Anzola d’Ossola 1873-1949
Frequentò scuole serali all’Accademia di Brera a Milano poi a prezzo di sacrifici conseguì la laurea in architettura. Si specializzò nella produzione di mobili e arredamenti di lusso a Milano (sale Biblioteca Ambrosiana, studio di Toscanini) con filiali in altre città, impiegando oltre seicento operai. Arredò il palazzo di Montecitorio a Roma, i Parlamenti di Buenos Aires e Montevideo, il palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra,
un’aula del palazzo reale di Amsterdam. Tra il 1920-30
si dedicò agli arredamenti navali (Rex e Roma) e allestì
i padiglioni italiani delle Grandi Esposizioni all’estero.
Già nel 1914 ebbe la nomina a Cavaliere del Lavoro. Fu
socio onorario di molte Accademie. Beneficò il suo paese, di cui fu sindaco, costruendo a proprie spese la passerella sul Toce e impiegò le medaglie d’oro di benemerenza per far decorare la chiesa parrocchiale.
MONTI PAOLO, uomo di cultura, fotografo
Novara 1908 - Milano 1982
Figlio di Romeo da Anzola d’Ossola. Laurea in economia politica, dirigente industriale a Venezia. Appassionato di fotografia, fondò un gruppo d’avanguardia per
il rinnovamento dell’arte fotografica. Nel 1953 lasciò la
carriera di dirigente e a Milano divenne esponente significativo della cultura legata alla fotografia, collaborò
alle principali riviste di architettura e si dedicò alla fotografia d’arte e ambienti e al censimento dei centri storici di molte città italiane. Insegnante di tecnica ed estetica dell’immagine all’Università di Bologna, promosse e
diffuse il restauro conservativo delle città italiane. Eseguì il censimento fotografico dell’architettura e dell’ambiente del Lago d’Orta e della Bassa Ossola. La morte
gli impedì di estendere il lavoro all’Alta Ossola.
MORGANTINI GIOVANNI, benefattore
Crevoladossola 1841 - ivi 1889
Figlio di Giovanni e di Domenica Zanoni. Emigrò a
Parigi e da imbianchino-garzone divenne impresariodecoratore con appalto di lavori per il governo (1870).
Membro della Società di beneficenza e consigliere della camera di Commercio d’Italia a Parigi, aiutò i connazionali e i bisognosi. Fondò a Crevola un asilo infantile
e donò arredi e denaro alla chiesa.
MORIGIA VALENTINO
(Frate Francesco da Domodossola), vescovo, politico
Domodossola 1340? - 1409?
Entrò nel convento dei frati minori francescani di
Domo e ivi compì gli studi per il sacerdozio. Per le sue
doti e capacità diplomatiche, nobili ed ecclesiastici ossolani lo inviarono dal Papa ad Avignone, nell’inverno 1373-74, a dichiarare la loro disponibilità alla ribellione ai Visconti signori dell’Ossola. Rientrato in Ossola con lettere papali di credito e un «breve» rivolto
agli Ossolani, si impegnò nella propaganda antiviscontea suscitando la lotta dell’Ossola Superiore guidata dagli Spelorci contro i Ferrari della Bassa Ossola, fedeli ai
Visconti. Ci fu guerra e poi pace in Ossola con nuova dedizione ai Visconti, ma frate Francesco Valentino
Morigia lasciò il convento di Domo per quello più importante di Vercelli. Nel 1396 Bonifacio IX lo elesse Vescovo di Sarda (Schurda) in Albania, però, in effetti fu
ausiliare del Vescovo di Novara e verso il 1408 di quello di Costanza con l’incarico di fondare chiese anche in
Ossola (Craveggia, Formazza).
MORTAROTTI RENZO, studioso dell’Ossola
Torino 1920 - Domodossola 1988
Religioso rosminiano, laureato in lettere classiche nella Università Cattolica di Milano; titolare ordinario di
lettere nel Ginnasio del Collegio Mellerio Rosmini di
Domodossola. Profondo conoscitore dell’Ossola, a cui
dedicò numerose ricerche, pubblicate nelle riviste Illustrazione Ossolana e Oscellana, fu autore di pregevoli libri dal titolo:Il Traforo del Sempione nel Cinquantenario (1956); I Walser nella Val d’Ossola (1979); L’Ossola
nell’età moderna dall’annessione al Piemonte al Fascismo
(1743-1922) (1985); G.R.- Grazia Ricevuta (1987).
Domodossola, dove trascorse la maggior parte della sua
vita, fu la sua vera patria.
ORSI MOSÈ, imprenditore, pubblico amministratore
Beura 1849 - Domodossola 1918
Figlio di Antonio e di Caterina Mancini. Prima dell’avvento delle ferrovie, organizzò il trasporto dei passeggeri e dei primi turisti da e per il Sempione e nelle nostre
valli, essendo state aperte da poco tempo le carrozzabili
dell’Ossola. Erano al suo servizio molti vetturali, trenta cavalli per il traino di carrozze, diligenze e slitte, ed
il suo albergo accolse anche ospiti di riguardo. Consigliere comunale e sindaco stimato e amato di Beura e di
Domodossola, diede lavoro e aiuto a molti ossolani.
PALLETTA GIOVAN BATTISTA,
chirurgo emerito, filantropo
Montecrestese 1748 - Milano 1832
Figlio di Giacomo e di Maria Leonardi. Dopo gli studi classici a Briga nel Vallese presso i Gesuiti, si iscrisse
a Milano a una scuola di giurisprudenza che lasciò per
entrare nel collegio degli allievi chirurghi dell’Ospedale Maggiore. Avendolo frequentato con intelligenza e
passione gli fu consigliata l’iscrizione al corso di anatomia e patologia dell’Università di Padova dove nel 1773
conseguì la laurea «summa cum laude». Nel 1777 a Milano fu nominato assistente chirurgo e nel 1780 a Pavia conseguì la specializzazione in chirurgia tanto che
nel 1787 ebbe l’incarico di capo chirurgo, cioè primario della Ca’ Granda. In questi anni scrisse trattati di
grande valore scientifico i quali gli valsero onorificenze da parte di istituzioni accademiche italiane e straniere che lo vollero membro effettivo. Sostenne il metodo
sperimentale, espressione del positivismo del suo tempo. Per le sue grandi capacità diagnostiche e terapeutiche Napoleone lo consultò e lo insignì del cavalierato
della «Corona ferrea». Con la Restaurazione fu Rettore della facoltà di chirurgia e medicina ed ebbe riconoscimenti anche dall’imperatore d’Austria. Nel 1816 organizzò i primi ambulatori. Durante una lunga degenza
in seguito alla rottura del femore scrisse in latino il suo
ultimo lavoro in due volumi dal titolo Exercitationes patologicae (1820).
PANIGHETTI GIOVANNI ANTONIO, calzolaio
Varzo 1739 - Moncalieri 1785
Figlio di Giorgio e di Giacomina Borri. Orfano di pa183
dre, emigrò in Piemonte e dopo aver trascorso follemente la prima giovinezza si ravvide dandosi a opere
di carità e di umiltà. È noto come «il santo calzolaio
di Moncalieri» ed è sepolto nella parrocchiale di quella città.
PARNISARI ARRIGO, pittore
Stresa 1926 – Domodossola 1975
Figlio di Ottorino e Letizia Molinari. A Domodossola apprende i primi rudimenti della pittura e negli anni
1945-46 a Milano frequenta il liceo artistico di Brera,
abbandonato presto per insofferenza ai metodi e ai programmi di quella scuola. Nel 1947 si trasferisce a Firenze dove partecipa al movimento Arte d’oggi, di cui
condivide il linguaggio post-cubista. In seguito prende
contatti con il Movimento d’arte concreta che sta vivacizzando l’ambiente artistico milanese e fonda con altri artisti la rivista Base e numero. Nel 1951 rientra forzatamente a Domodossola per curare un forte esaurimento,
ma inefficaci terapie non riescono a liberarlo da fobie e
frustrazioni. Lasciata la pittura per tali motivi, si dedica
alla produzione di ceramica artistica. Nel 1960 soggiorna in Svizzera, poi riallaccia i rapporti con i compagni
fiorentini trasferitisi a Parigi. La malattia lo riprende e
non lo abbandona fino alla fine dei suoi giorni.
PELLANDA LUIGI, arciprete di Domodossola, storico
Crodo 1885 - Domodossola 1961
Ordinato sacerdote nel 1908, iniziò la sua attività pastorale come coadiutore e poi fu titolare di parrocchia a
Varzo e a Domo. Visse i tragici avvenimenti che sconvolsero l’Ossola fra il 1943 e il 1945 con coraggio e rischio personale per difendere la giustizia, i deboli e i
perseguitati e lasciò memoria obiettiva dei fatti, vissuti in prima persona, nella rievocazione storica L’Ossola
nella tempesta (volumetto uscito nel 1955) fonte insostituibile di notizie. Fu in gioventù pioniere del motociclismo, delle proiezioni luminose e del cinema, considerati come mezzo educativo, inoltre animatore del
canto gregoriano nelle funzioni parrocchiali. Fu studioso di Innocenzo IX e scrisse la storia della chiesa parrocchiale di Domo. È ricordato come custode attento e zelante delle tradizioni locali e degli oggetti sacri. Gli Ossolani lo giudicarono un santo prete e un gran galantuomo.
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PERETTI BERNARDINO, pittore
Buttogno 1828 - ivi 1889
Figlio del pittore Lorenzo, si perfezionò all’Accademia
di Belle Arti di Lione. Partecipò alle Esposizioni di Torino del 1867, 1868, 1870 e 1871 e tornò in Italia nel
1872. Lasciò molti quadri ad olio e buoni affreschi in
Francia e nelle chiese ossolane.
PERETTI GIACOMO, generale, benefattore
Santa Maria Maggiore 1838 - ivi 1912
Figlio dell’avv. Giovan Battista e di Giacomina Sbaraglini di Oira. Dopo gli studi classici a Domodossola frequentò la facoltà di matematica all’Università di Torino
poi l’Accademia militare. Combatté nel 1866 a Custoza. Fu insegnante alla Scuola militare di Pinerolo. Concluse la carriera col grado di generale e, ritiratosi a Santa Maria Maggiore, ricoprì cariche pubbliche portando
a termine alcune iniziative.
PERETTI LORENZO, pittore
Buttogno 1774 - ivi 1851
Figlio del pittore Carlo Giuseppe, allievo del padre e
del vigezzino G. Rossetti, andò a perfezionarsi a Torino dove ebbe fra i committenti il re Carlo Felice per lavori e restauri nel palazzo Reale. Notevole una crocifissione (Chiesa di S. Francesco di Paola a Torino). Lavorò in Ossola, nell’Astigiano e nel Canton Ticino. Fu anche valente ritrattista.
PINAUDA FRANCESCO, studioso di cose ossolane
Beura Cardezza 1864 - Roma 1934
Sacerdote rosminiano, laureato in matematica e fisica
all’Università di Torino fu insegnante e preside del Liceo-Ginnasio Mellerio Rosmini. Scrisse Meteorologia ossolana. Cenni sulle miniere, cave e acque minerali della regione ossolana (1928). Cenni storici della chiesa della Madonna della Neve (1918), e molti articoli di storia, meteorologia, religione, sui giornali locali dal 1910
al 1928. Il suo Almanacco ossolano (1914-1926) ricco di
notizie storiche-statistiche-geografiche fu una specie di
enciclopedia popolare per gli ossolani.
PIOLINI GIOVANNI ANTONIO, benefattore
Colloro di Premosello 1835 - ivi 1915
Figlio di Antonio e di Teresa Borri, emigrò tredicenne a Parigi per fare il fumista e da garzone divenne im-
presario di agiata condizione. Scoppiata la guerra Franco-Prussiana nella Parigi assediata (1870-71) fu membro della Commissione Italiana e Capo Divisione della Compagnia Umanitaria per il soccorso dei feriti sui
campi di battaglia. Il Governo francese gli dedicò due
medaglie. Tornato in patria fu eletto sindaco di Premosello. Lasciò una vistosa somma per l’erezione delle scuole.
PIRAZZI MAFFIOLA ALCIDE, deputato
Baceno 1897 - ivi 1965
Figlio di Plinio e di Cesarina Cominoli, frequentò dai
Salesiani a Torino scuole tecniche professionali e si impiegò come tipografo. Aderì al Partito Socialista e per la
sua posizione politica fu condannato a due anni di reclusione che scontò nel carcere torinese con Gramsci ed
altri antifascisti. Stabilitosi a Villadossola, lavorò presso
la centrale «Edison» di Pallanzeno, continuando l’attività politica. Durante la Repubblica dell’Ossola rappresentò il partito socialista in seno al C.L.N. e al ritorno
dei Tedeschi si rifugiò a Locarno con Tibaldi ed altri antifascisti. Nel 1948 fu eletto deputato per il Fronte delle Sinistre, rimanendo a Roma fino al 1953. Dal 1955
al 1960 fu sindaco stimato di Villadossola.
PIRAZZI MAFFIOLA PLINIO,
amministratore pubblico, sindacalista
Villadossola 1927 – ivi 1994
Figlio dell’onorevole deputato Alcine e di Albina Bussa.
Conseguito il diploma di perito chimico si iscrive alla
C.G.L. Per l’impegno dimostrato viene eletto membro
della Commissione nazionale giovanile dei chimici e responsabile del sindacato chimici della zona Ossola. A
partire dal 1960, per quattro volte, è sindaco di Villadossola. Stimato per la sua attività instancabile, dapprima attiva il collegamento delle frazioni con il centro, poi cura la costruzione di un edificio atto ad ospitare la scuola media e il liceo scientifico statale, che qui
ebbe la sua sede prima del trasferimento definitivo a
Domodossola. Promuove la costruzione delle case popolari e cooperative sorte su un progetto dell’ing. Marcello Bologna e consente la realizzazione di case unifamiliari. Nel 1962 requisisce la grande acciaieria Sisma,
centro delle lotte sindacali. Viene eletto presidente della
Comunità Montana Valle Ossola e dell’Assemblea de-
gli amministratori dell’USL n. 56. Queste sue esperienze di vita politica e amministrativa sono ricordate in un
libro, scritto in collaborazione con l’amico Franco Michetti, dal titolo Villa, cenni storici, amministrativi, di
lavoro, di vita e di curiosità.
PIROIA MODINI GIOVANNI, benefattore
Vagna 1816 - ivi 1899
Emigrante dodicenne, divenne rappresentante di commercio in Francia e nel 1839 di là passò a Cuba dove ingrandì una oreficeria dello zio rendendola la prima dell’isola. Comperò vaste piantagioni e per un ventennio
fu vice console dei Regno di Sardegna. Rientrato in Ossola nel 1860, beneficò il suo paese con sovvenzioni.
POLLINI GIACOMO, medico, storico, benefattore
Parigi 1827 - Torino 1902
Figlio di Maurizio e di Maria Giovanna Sotta. Primi
studi e laurea in medicina in Francia dove diresse un
sifilocomio. Trasferitosi in Italia, a Torino gli fu convalidato il titolo accademico (1854). Nel 1859 divenne medico dell’Ambasciata francese a Torino e dirigente
del reparto oftalmico dell’Ospedale. Nel 1866 medico
chirurgo dell’esercito italiano nella 3a guerra d’Indipendenza. Durante i soggiorni a Malesco si diede alla ricerche storiche, che raccolse nel volume Notizie storiche di
Malesco (1896). Lasciò tutto il suo patrimonio in beneficenza sotto il titolo di «Opera pia Pollini», regolata da
tavole di fondazione da lui dettate.
PONTI GIOVANNI, benefattore
Santa Maria Maggiore 1849 - Domodossola 1916
Figlio di Angelo Antonio dell’illustre famiglia dei Ponti
gioiellieri in Francia, generoso benefattore dei poveri, a
Santa Maria Maggiore istituì una «Scuola industriale» e
lasciò un legato per la Scuola Rossetti-Valentini.
PORTA ANTONIO, tipografo, pubblico amministratore
Domodossola 1819 - ivi 1893
Figlio di Giuseppe e di Teresa Pagani. Studi ginnasiali a Domo e pratica tipografica a Varallo Sesia. Direttore della tipografia Calpini, ne divenne proprietario ingrandendola con vantaggio economico che gli consentì liberalità verso i bisognosi. Stampò i principali giornali locali del tempo e le pubblicazioni storico-scientifiche a vantaggio della cultura locale, nonché i bigliet185
Panighetti Giovani Antonio, calzolaio
Varzo 1739 - Moncalieri 1785
Prinsecchi Carlo Giuseppe, padre Emanuele postulatore apostolico
Domodossola 1710 - Roma 1808
Sala Giuseppe, Cardinale
Bologna 1762 - Roma 1839
Tojetti Giovanni, frate alcantarino, venerabile
Calasca 1680 - Napoli 1764
ti da 50 centesimi che lo resero celebre. Accettò cariche
amministrative pubbliche per dovere e fu socio fondatore dell’Asilo infantile, della Società operaia e consigliere della Fondazione Galletti.
POSCIO FERDINANDO BARTOLOMEO,
impresario, benefattore
Villadossola 1900 - ivi 1971
Figlio di Bartolomeo e di Rosa Secondini. Iniziò dodicenne l’attività lavorativa nel piccolo cantiere paterno,
fornitore di pietrisco per le strade locali. Subentrato al
padre, nel 1930 diede nuovo impulso all’azienda divenuta costruttrice di strade, ponti, dighe, villaggi operai. Nel dopoguerra, con mille dipendenti, ricostruì la
SISMA di Villadossola, lavorò per la Edison, costruì il
Santuario di Re e il palazzo Borsa Merci di Novara. Dotato di grande umanità, fu sempre disponibile ad aiutare chi ricorreva a lui.
POZZI GIOVANNI ORESTE, scultore
Vogogna 1892 - ivi 1980
Si diplomò a pieni voti all’Accademia di Brera. Eseguì
numerosi monumenti ai caduti e sculture tombali per il
Monumentale di Milano. Nel 1925 il suo bozzetto su S.
Francesco fu premiato. Il suo «Gladiatore» in marmo di
Candoglia fu acquistato dal re Vittorio Emanuele III.
PRESBITERO FERDINANDO, avvocato, benefattore
Vogogna 1848 - S. Germano di Pinerolo 1909
Figlio dell’avv. Vittorio e di Maria Spezia. Studi classici
al collegio Mellerio Rosmini e laurea in giurisprudenza
a Torino dove poi visse esercitando la professione legale. Lasciò molti dei suoi beni all’asilo e ai poveri di Vogogna oltre che al Cottolengo di Torino. A Vogogna la
casa di riposo per anziani porta il nome «Presbitero» a
ricordo del benefattore.
PRINSECCHI CARLO GIUSEPPE
(Padre Emanuele) Postulatore apostolico
Domodossola 1710 – Roma 1808
Figlio di Antonio e di Maria Giovanna Ghisoli. Entrò
nell’ordine dei Cappuccini e divenne sacerdote nel convento di Rieti. Per la profonda preparazione teologica
fu trasferito a Roma verso il 1764 e là ricoprì l’alta carica di postulatore, cioè di promotore della beatificazione e santità di alcuni frati cappuccini. Inoltre con la fa-
condia dell’eloquio e la forza delle sue argomentazioni contestò gli errori dei filosofi illuministi mediante
le Dissertazioni in forma di dialoghi intorno ai vari dogmi cattolici per dimostrare la loro verità, contro li così detti spiriti forti e specialmente contro li seguaci degli errori di Voltaire, opera uscita nel 1780. Scrisse anche Della
Chiesa e della gerarchia Ecclesiastica che dedicò a Pio VI,
amareggiato per la diffusione dei principii giansenistici.
A Roma fu tenuto in grande stima, in particolare dagli
Ossolani cardinale Sala, Prefetto della Congregazione
dell’Indice e assistente al soglio Pontificio, e Benedetto
Fenaia da Formazza, arcivescovo di Filippi.
PROTASI GIAN DOMENICO, ingegnere, politico
Piedimulera 1810 - Arona 1873
Laurea a Torino in ingegneria. Ideò e promosse la costruzione della carreggiabile di valle Anzasca. Deputato al Parlamento Subalpino si batté per la ferrovia Milano-Domodossola-Sempione. Dopo l’Unità d’Italia fu
presidente dell’Amministrazione Provinciale di Novara
e sindaco di Arona.
RAGOZZA ERMINIO,
sacerdote, benefattore, studioso
Colloro di Premosello 1918 – Quarona (VC) 1984
Ordinato sacerdote nel 1941, fu parroco di Gignese e
insegnante di lettere italiane, latine e greche presso il seminario di Arona. Nel 1954 fu trasferito nella parrocchia di Quarona (VC) e là rimase sino alla morte. Diede alla stampa i suoi studi di storia valsesiana e sulla
parrocchia quaronese. Tuttavia non allentò mai i legami affettivi con il suo paese d’origine, contribuendo finanziariamente ai lavori della strada Premosello-Colloro e lasciando parte delle sue sostanze alla parrocchia,
alla Casa di riposo e parecchi suoi libri alla biblioteca
comunale. Collaborò al bollettino parrocchiale premosellese. Nel 1969 la Pro Loco gli pubblicò Aria di casa
nostra e postumo nel 1985 il volume U Libar d’la cà vegia d’Clor e d’Cravaga, contenente anche un vocabolario del vecchio dialetto locale.
RASTELLINI GIOVANNI BATTISTA,
pittore, pubblico amministratore
Buttogno 1860 - ivi 1926
Figlio di Gian Giacomo, ritrattista, studiò alla Scuola
Rossetti Valentini di Santa Maria Maggiore e si perfe187
zionò a Milano nella pittura e nel restauro che eseguiva con tecnica particolare. Fu per un ventennio sindaco del suo paese.
RASTELLINI GIAN MARIA,
pittore, pubblico amministratore
Buttogno 1869 - ivi 1927
Figlio di Gian Giacomo, frequentò la scuola Rossetti
Valentini di Santa Maria Maggiore e si perfezionò a Milano come il fratello Giovan Battista. Tenne studio a
Milano ed ebbe committenti fra gli aristocratici e i ricchi borghesi lombardi, ottenendo un premio alla triennale di Milano del 1888 e all’Esposizione di Monaco di
Baviera nel 1913. Fu sindaco di Buttogno e presidente
della Società Elettrica Vigezzina.
RAVASENGA CARLO, musicista
Torino 1891 - Roma 1964
Ossolano per parte materna amò l’Ossola e trascorse lunghi periodi a Vogogna. Lasciati gli studi giuridici, per vocazione frequentò il conservatorio a Torino e
nel 1915 eseguì musica da camera di sua composizione.
Nel 1916 riportò caloroso successo con l’opera Una tragedia fiorentina. A Milano diresse il settimanale L’araldo
musicale, svolse attività didattica e di compositore. La
sua musica da camera ebbe successo in tutta Italia. In
un concorso a New York con giuria diretta da Toscanini, ebbe il 2° premio per la Suite in quattro tempi. Compose quattro opere sinfoniche, oltre a musiche inedite.
Manoscritti, spartiti, edizioni rare furono donati dalla
figlia Evelina (1921 - 1993) per desiderio del padre alla
fondazione Galletti insieme al suo pregevole pianoforte. Svolse attività didattica e con il maestro Toni fondò
il sindacato musicisti.
ROABBIO GIOVANNI ANTONIO, benefattore
Nato a Baceno nel sec. XVII
Canonico della Collegiata di Domo, dispose un lascito
alla comunità del Borgo perché fosse istituita una scuola elementare per i ragazzi poveri, la quale fu di grande
utilità e funzionò fino all’apertura delle scuole fondate
e finanziate dal conte Giacomo Mellerio.
ROABBIO PIETRO PAOLO, benefattore
Vissuto a Baceno nel sec. XVII, dove fu parroco fino al
1671. Istituì una cappellania a Baceno con l’obbligo di
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una scuola gratuita per i fanciulli poveri del luogo.
RONDOLINI GIOVANNI, medico benemerito
Pallanzeno 1870 – Villadossola 1954
Figlio di Luigi e di Teresa De Regibus. Laurea in medicina e chirurgia a Torino. A Villadossola svolse la professione medica come missione da compiere a vantaggio della popolazione. Si prodigò anche per quella dei
paesi di valle Antrona che raggiungeva due volte per
settimana e più in caso di urgenza. Specializzato nella cura di malattie dell’apparato respiratorio, ai pazienti offrì assistenza con qualunque tempo, a qualunque
ora anche nei paesetti più lontani portando le medicine
agli indigenti, sempre prodigo di insegnamenti e consigli igienico sanitari alle famiglie. Convinto dell’utilità
dell’esercizio fisico all’aria aperta organizzò nell’immediato primo dopoguerra (1919) escursioni e camminate che propagandò dapprima nelle osterie, in attesa di
una sede in cui riunire gli aderenti all’Unione Operaia
Escursionisti Italiani (sorta nel 1911 a Monza) allo scopo di sottrarre all’alcolismo e al gioco d’azzardo i giovani. Non dimenticò i ragazzini organizzando per loro
apposite camminate dopo l’ascolto della Messa, e continuò questa attività anche con il C. A. I. fino al termine
del secondo conflitto mondiale.
ROGGIANI ALDO GIUSEPPE,
mineralogo, petrografo
Domodossola 1914 - ivi 1986
Figlio di Giuseppe e di Rosa Ponzio. Studi classici al
Mellerio Rosmini, laurea in scienze naturali a Milano,
docente di scienze, chimica e geografia astronomica nei
Licei rosminiani. Fu studioso insigne della mineralogia
generale e in particolare di quella dell’Ossola. Fin dal
1938 in valle Vigezzo individuò e per anni coltivò in
proprio un giacimento di feldspato situato a DruognoOrcesco-Gagnone. Là nel 1946, si accorse della presenza di un minerale sconosciuto, che risultò essere silicato
di alluminio e calcio, il quale fu catalogato in suo onore
con il nome di ROGGIANITE. L’ufficializzazione della scoperta avvenne durante il XXV Congresso di mineralogia e petrografia svoltosi a Napoli nel 1968. Patrocinò la costituzione di un gruppo mineralogico ossolano (1972). Collaborò a riviste e periodici fra cui Rendiconti della S.I.M.P.. Fra le numerose pubblicazioni:
Corindone, torbenite, morenosite. Specie minerali nuove
per l’Ossola (1967); Ossola minerale. Indice delle specie e
dei principali ritrovamenti, con un saggio di bibliografia
mineralogica ossolana (1975); La tarumellite di Candoglia e altri studi rilevanti. La sua preziosa collezione si
trova ora a Torino presso il Museo regionale di Storia e
Scienze naturali.
Benemerito nel campo delle ricerche scientifiche, fu insignito di medaglia d’oro, dal comune di Domodossola (1970) e dal Presidente della Repubblica Italiana Pertini (1979).
ROSSETTI VALENTINI GIOVANNI MARIA,
pittore, benefattore
Santa Maria Maggiore 1796 - ivi 1878
Figlio di Giacomo Antonio e Angela Menabene, a Milano frequentò i corsi di ornato e figura nell’Accademia
di Brera. A Mompellier insegnò in scuola governativa e
si dedicò alla pittura. Fu insignito della Legion d’Onore
da Napoleone III. Ritornato a S. Maria nel 1870 insegnò gratuitamente ai convalligiani nella scuola di disegno istituita a proprie spese ed alla quale lasciò in eredità il proprio patrimonio. Regalò un ostensorio alla parrocchia, un lascito per la messa festiva a Crana e l’autoritratto alla Fondazione Galletti.
ROSSI GIUSEPPE ANTONIO, benefattore
Premosello 1805 - ivi 1877
Fece fortuna a Parigi con il commercio dei tessuti di
seta. Dopo il 1870 si stabilì al paese d’origine al quale
regalò un terreno e una cospicua somma per l’erezione
di un asilo d’infanzia e l’istituzione delle due classi del
corso elementare superiore.
RUGA-SILVA GIOVANNI ANTONIO,
diplomatico, magistrato
Domodossola 1731 - ivi 1800
Figlio del giureconsulto Carlo Giuseppe e di Isabella
Ruga. Studi classici, poi commerciante in Parigi e insegnante di italiano. Tornato a Domo fu segretario del
Conte Borromeo. Ripresi gli studi giuridici si laureò a
Pavia nel 1765. Ambasciatore del Duca di Modena a
Madrid, nel 1769 Reggente la Signoria di Varese per
Francesco III di Modena e poi Presidente del Consiglio Supremo di giustizia. Per incauta accettazione di
un compenso meritato ma male inteso, perse l’alto incarico e rientrò a Domo a esercitare l’avvocatura. Con
l’occupazione francese del Regno di Sardegna fu nominato Presidente della municipalità di Domo ma cadde
in disgrazia con l’avvento degli Austro-Russi.
SALA GIUSEPPE, cardinale
Bologna 1762 - Roma 1839
Figlio di Giuseppe, emigrato da Baceno a Bologna. Studi classici a Roma e laurea in teologia. Dotato di intelligenza e capacità, resse la Delegazione Apostolica alla
partenza da Roma di Pio VI, travolto dalle vicende rivoluzionarie. Con Pio VII fu segretario della Legazione presso Bonaparte 1° Console a Parigi e ancora nel
1809 presso Napoleone Imperatore. Dopo il 1814 riprese l’attività diplomatica e curiale e nel 1831 ottenne
la dignità cardinalizia.
SALATI GIOVAN MARIA,
primo attraversatore a nuoto della Manica
Malesco 1796 - Saint Brice sous Forêt 1879
Figlio di Domenico e Anna Maria Salati. Nel 1812 è
soldato nell’armata italiana comandata dal gen. Pino e
poi marinaio sulla «Belle Poule». Come fuciliere di marina combatte a Waterloo dove, ferito, viene fatto prigioniero e recluso a Dover su una vecchia nave adibita
a campo di concentramento. Dopo alcuni mesi di vita
impossibile si butta nella Manica e l’attraversa a nuoto
raggiungendo Boulogne. A Parigi trova lavoro presso i
parenti Polino che hanno fatto fortuna come fumisti e
da semplice spazzacamino diventa fumista impresario.
Nel 1850 il Salati si trasferisce a Soissons, poi al seguito del figlio prete dimora in varie parrocchie e muore in
quella di Saint Brice sous Forêt a 12 km da Parigi.
SALINA GIUSEPPE (VITTORIO D’AVINO),
poeta, scrittore
Domodossola 1877 - Varzo 1949
Studiò in seminario e ordinato sacerdote (1899) intraprese la sua missione di parroco, ma si dedicò anche con
passione ed estro alla poesia in dialetto e in lingua italiana, a scritti sul paesaggio e sull’arte ossolana. Fu ottimo latinista e grecista, buon oratore e diede alle stampe
parecchie pubblicazioni.
189
SALINA LUIGI, politico, benefattore
Bologna 1762 - ivi 1845
Figlio di Giovanni Antonio di Mozzio in valle Antigorio. Laureato in giurisprudenza a Bologna, nel 1784 fu
eletto presidente dell’Annona e con l’avvento dei Francesi membro del Governo Provvisorio della Cisalpina.
Partecipò alla Consulta di Lione e divenne membro del
Corpo legislativo quale rappresentante del Collegio dei
Possidenti Bolognesi. Dirigente dell’amministrazione
del Dipartimento, dal Governo Pontificio, subentrato
ai Francesi, fu mantenuto nella carica. Leone XII nel
1825 lo creò conte. Fu Presidente del Tribunale d’appello delle Legazioni. Cultore della lingua latina, scrisse epigrammi apprezzati. Quando l’alluvione devastò
Crodo e distrusse il Pretorio, mise a disposizione della
comunità le case e i poderi di Mozzio.
SAMONINI ACHILLE, pubblico amministratore
Domodossola 1873 - ivi 1939
Figlio di Giacomo, farmacista, e di Angiolina Garbagni. Studi classici al Mellerio Rosmini, laurea in chimica farmaceutica all’Università di Modena, farmacista a Domo subentrato al padre, consigliere provinciale e sindaco di Domo al tempo dell’inaugurazione del
Sempione e del volo di Chavez. Commendatore per benemerenze e dedizione al pubblico interesse, di ideali liberali giolittiani lasciò l’amministrazione del Comune e
ogni carica con l’avvento del Fascismo.
SANDRETTI AGOSTINO,
commerciante, pubblicista
Calasca 1891 - Domo 1954
Figlio di Martino e di Annunziata Francini. Interrotti
gli studi liceali per ragioni di famiglia, si dedicò al commercio. Fu cultore di memorie locali, autore di Zibaldone 1 e Zibaldone 2 sulla storia di Calasca, podestà del
paese nativo, promotore di iniziative sociali in valle Anzasca, proprietario e direttore del giornale Il Commercio
ossolano e organizzatore della Ia Esposizione italo-svizzera nel 1925.
SARTORIO GIOVANNI, chirurgo, benefattore
Domodossola 1745 - ivi 1841
Figlio del chirurgo Felice e di Filiberta Javernier. Laureato in medicina e chirurgia a Pavia, si dedicò alla cura,
spesso gratuita, degli infermi. Fu chirurgo al S. Biagio
190
negli anni della costruenda strada napoleonica. Morendo lasciò il suo patrimonio ai «poveri vergognosi», persone un tempo agiate ridotte all’indigenza per il mutamento degli eventi.
SCACIGA DELLA SILVA FRANCESCO,
storico, giornalista
Mozzio 1810 - Domodossola 1874
Figlio di Diovole e di Teresa Albertazzi. Studi classici e
laurea in legge a Torino. A Domo si dedicò alla professione legale e alla ricerca storica sull’Ossola Superiore
pubblicando Storia di Val d’Ossola (1842) e Vite di Ossolani illustri con quadro storico delle eresie (1847). Collaborò a giornali locali e diresse: Il Moderato (1851),
L’Agogna (1845), L’Ossolano (1854). Scrisse novelle e articoli di vario argomento per almanacchi a partire dal
1846. Fu Provveditore agli studi nell’Ossola dal 1848
al 1854. Curò la pubblica istruzione aprendo scuole elementari in alcuni comuni. Si occupò di amministrazione pubblica e favorì la formazione di biblioteche
pubbliche nelle vallate e la costruzione della strada Crevola-Pontetto di Montecrestese.
SILVETTI MICHELE, naturalista
Pallanzeno 1746 - ivi 1815
Figlio di Francesco Antonio e di Maria Teresa Testoni
di Piedimulera, compì gli studi a Milano dai Gesuiti di
Brera dove il fratello sacerdote Giuseppe Luigi (17301807) insegnava retorica e filosofia.
Dedicatosi alla ricerca scientifica si appassionò alle
scienze naturali occupandosi anche di flora e fauna dell’Ossola. Tradusse dal francese la monumentale storia
del naturalista Buffon dedicata allo studio della terra,
dei minerali e di ogni specie di animali. Perché una materia di tanto interesse risultasse in stile chiaro ed esemplare, egli si valse dell’aiuto del fratello Luigi che aveva
lasciato forzatamente l’insegnamento per la venuta dei
Francesi a Milano.
SIMONIS GIOVAN BATTISTA, pittore
Morto a Buttogno nel 1868
Lavorò a lungo nel Delfinato e nella Franca Contea e
fu ritenuto buon pittore. Rientrato a Buttogno insegnò
disegno e colore seguendo la tradizione di altri membri
della famiglia Simonis che già dal 1650 tenevano una
scuola di disegno e pittura.
SOTTA FRANCESCO MARIA, pittore
Malesco 1764 - ivi 1841
Ritrattista di buona fama in Francia prima e dopo la
Rivoluzione, fu iniziatore di una dinastia di pittori. Ricordiamo i figli CARLO GIUSEPPE (1796-1872) attivo a Roma e in Francia (soggetti religiosi, autoritratto a
palazzo Silva) e il più famoso LUIGI (1777-1860) ottimo e ricercato ritrattista a Parigi, dove frequentò l’atelier di Ingres. Lavorò a Pietroburgo, a New Orleans, a
Roma e in Francia.
SPEZIA ANTONIO, architetto
Calasca 1814 – ivi 1892
Figlio di Pietro e di Teresa Patroni Zambonini. Dopo
studi classici a Domo divenne ingegnere architetto. Tra
le sue opere è famosa la Chiesa di Maria Ausiliatrice a
Torino la cui progettazione gli fu affidata da don Bosco
che nel 1865, dopo la posa della prima pietra, gli regalò un bacile d’argento con dedica. Si occupò delle miniere d’oro di valle Anzasca e progettò gratuitamente la
cupola della chiesa di Calasca.
SPEZIA GIORGIO, mineralogo, docente universitario
Piedimulera 1842 - Torino 1911
Figlio di Valentino e di Maria Angelotti. Studi classici,
universitario a Pavia, si arruolò volontario e combatté
al Volturno (1860) con la divisione Cosenz. Nel 1867
a Torino si laureò in ingegneria, con lode, sulla Ventilazione delle miniere. Perfezionati gli studi di mineralogia ad Heidelberg, insegnò al Politecnico di Torino
dove realizzò il Museo mineralogico, primo per importanza in Italia. Fama internazionale ebbero i suoi studi di mineralogia sperimentale. Presidente generale del
C.A.I., diede i disegni per la capanna Sella al Weisthorn
e cooperò ai preparativi scientifici per la spedizione al
Polo Nord.
STIGLIO CARLO GIORGIO, ingegnere, architetto
Pallanzeno 1836 - ivi 1898
Studi classici al Mellerio Rosmini poi, per merito, ospite nel Collegio delle Province a Torino. Nel 1859 volontario con Garibaldi. Si laureò in ingegneria a Torino e fu professionista in Ossola. Sue opere il teatro municipale di Domodossola, l’Albergo Sempione, la casa
Ponti, l’ampliamento dell’Ospedale S. Biagio, le ville
Seiler, Mosoni e Casetti a Caddo, gli asili di Piedimulera e Premosello, le carreggiabili di Bognanco, di Vogogna, Masera, di valle Antrona, Mocogna-Preglia e lavori vari a Craveggia.
TAMI ARMANDO, benefattore
Villadossola 1926 – ivi 1999
Frequentò a Novara l’Istituto per Ragionieri “Mossotti” e uscì diplomato con ottima votazione. Collaboratore amministrativo presso l’industria meccanica P. M.
Ceretti, fu poi professionista aggiornato e molto consultato da scelta clientela. Fu anche incaricato dal Tribunale di Verbania di consulenza contabile e di curatore fallimentare. Coltivò le amicizie, fu arguto conversatore, amò le varie espressioni della cultura; fece parte attiva di un “movimento culturale ossolano” con i concittadini dott. Italo Pistoia e Gianfranco Bianchetti. Scrisse poesie in dialetto di Villadossola che raccolse sotto il
titolo Alegar e grazia che ebbero l’ambita prefazione del
filologo Gianfranco Contini. Risparmiatore oculato e
abile moltiplicatore delle sostanze con sapienti operazioni, fu generosissimo elargitore del grande patrimonio accumulato al paese natale (Comune e parrocchia)
e all’ospedale S. Biagio di Domodossola, dove ricevette cure attente e umana comprensione, purtroppo senza possibilità di buon esito.
TESTORE ANDREA,
promotore della ferrovia Domodossola-Locarno
Toceno 1855 - ivi 1941
Figlio di Giuseppe Antonio e di Maria Cazzini. Maestro elementare nella sua Toceno, lavorò poi per qualche anno in Argentina. Dopo il rimpatrio si batté con
zelo instancabile per migliorare il tenore di vita dei valligiani fondando la Società Operaia di Mutuo Soccorso
e organizzando corsi serali per lavoratori. Promosse la
Società Elettrica Vigezzina, la «Società pro montibus et
fluminibus» di carattere ecologico e lo Sci Club Valle Vigezzo. Il suo nome è essenzialmente legato all’impresa non facile di procurare alla propria vallata la ferrovia Domodossola-Locarno che entrò in funzione nel
1923 dopo un ventennio di suo impegno assiduo contro ostacoli di ogni genere. A riconoscimento delle sue
benemerenze nel 1982 gli fu intitolata la scuola media
di Santa Maria Maggiore.
191
TIBALDI ETTORE, vice Presidente del Senato
Bornasco (PV) 1887 - Certosa di Pavia 1968
Studi classici, laurea in medicina, assistente di patologia a Pavia fu combattente decorato nella la guerra mondiale. Di ideali mazziniani dagli anni studenteschi, responsabile nel 1923-24 del movimento politico “Italia
libera”, antifascista, allontanato dalla carriera universitaria e costretto a lasciare Pavia, si trasferì, nel 1925, a
Domodossola, vincitore del concorso a Primario medico del S. Biagio e vi dimorò per quarant’anni. Ossolano
d’adozione, mantenne contatti con l’antifascismo clandestino, legò il suo nome alla Resistenza, fu presidente della Giunta di Governo della Repubblica partigiana dell’Ossola. Eletto sindaco di Domo nel dopoguerra, senatore socialista dal 1953, tenne la Vice Presidenza del Senato fino al 1965.
TITOLI ALFONSO, medico, benefattore
Anzino 1847 - ivi 1919
Figlio di Pietro e di Brigida Spadina, dopo gli studi classici nei collegi rosminiani si laureò in medicina a Torino nel 1872 e fu medico nella sua valle Anzasca. A proprie spese fece costruire un tratto di strada per Anzino
e lasciò poi al Comune una cospicua somma a beneficio dei concittadini.
TOJETTI GIOVANNI, frate alcantarino, venerabile
Calasca 1680 - Napoli 1764
Figlio di Giovanni e di Maria Del Barba. Emigrato a
Pavia e poi in Germania, nel 1716 entrò nel convento dei Frati alcantarini e destinato a Piedimonte di Alife
(Caserta) come fratello terziario, prendendo il nome di
frate Francesco di Sant’Antonio. Poi andò a Napoli, nel
convento di Santa Lucia dove, trascorsi quarantacinque
anni come umile questuante, morì in concetto di santità. La Chiesa lo ha dichiarato venerabile.
TONNA CARLO MARIA, benefattore
Calasca 1746 - ivi 1827
Figlio di Giovanni Battista e di Maria Spezia. Compì gli
studi classici e teologici nel seminario diocesano e ordinato sacerdote, fu prevosto a Romagnano Sesia e poi a
Calasca. Attaccatissimo al suo paese nativo, ideò la fondazione del «Monte di pietà di Calasca», con sostanze
proprie e con il concorso di altri benefattori calasche192
si. Ottenuto in data 4-6-1796 il permesso del Vescovo
di Novara Buronzo Delsignore, dettò al notaio Donzelli di Novara il 9-11-1796 le tavole di fondazione a favore dei parrocchiani di Calasca e poi di quelli delle altre parrocchie della valle Anzasca, con lo scopo di favorire gli emigranti che avessero urgenza di prestiti per il
viaggio e il sostentamento della famiglia, preservandoli dagli usurai, con condizioni di favore dettate da spirito di carità cristiana.
TRABATTONI BONO ISOLINA, pittrice
Buenos Aires 1896 - Parigi 1978
Di famiglia ossolana varzese. In Italia compì gli studi
secondari e fu allieva del pittore verbanese Bolongaro.
Si distinse per paesaggi, ritratti e disegni di soggetto religioso. Fu illustratrice di leggende ossolane e collaboratrice con disegni e scritti delle riviste Illustrazione Ossolana e Oscellana.
TRABUCATI MARTINO ETTORE,
banchiere, benefattore
Ceppo Morelli 1842 - Firenze 1907
Figlio di Giovan Battista e di Elisabetta Chilli. Emigrato a Montevideo creò una fiorente casa commerciale.
Fu poi presidente del Banco Italiano in Uruguay, Consigliere dell’Ospedale italiano e benefattore dei compatrioti. Durante i frequenti soggiorni nella sua valle beneficò i poveri e gli infermi. La sua opera ebbe un degno continuatore nel figlio Ettore.
TRABUCCHI FRATELLI, benefattori
Titolari a Parigi di una fiorente casa di fumisteria, combattenti nelle armate della Repubblica francese. Gioacchino (1758-1832) e Giuseppe (1769-1846), il quale
ottenne la “sciabola d’onore”, furono i più importanti.
Ebbero incarichi governativi di lavori a Milano, a Roma,
in Germania e misero insieme un grande capitale. Istituirono a Parigi nell’ospedale Beaujon dei posti letto
perpetui per i fumisti vigezzini e piemontesi ammalati.
Lasciarono in beneficenza a Malesco una cospicua somma con la quale furono sovvenzionati l’ospedale a loro
intestato (1834) e altre opere benefiche.
TRABUCCHI GIACOMO, avvocato pubblicista
Domodossola 1829 - ivi 1893
Di Giovanni Antonio e Maria Gugliminetti. Studi clas-
sici al Mellerio Rosmini e a Novara, laurea in giurisprudenza all’Università di Genova. Simpatizzante di Mazzini, iscritto nella “Giovane Italia” repubblicana per tutta la vita, fondò nel 1855 la Società Operaia domese,
il corpo dei pompieri nel 1859, il Comizio agrario e il
CAI ossolano. Cooperò alla sistemazione della biblioteca della Fondazione Galletti nel 1873, alla creazione
della Scuola di arti e mestieri «G.G. Galletti» e del Ricovero vecchi. Fu giornalista e rievocò memorie storiche ossolane con epigrafi marmoree.
VEGGIA ALFONSO, medico, benefattore
Domodossola 1858 – ivi 1921
Figlio del causidico Giacomo e di Giovannina Matli.
Studi classici a Domo e laurea con lode in medicina e
chirurgia a Torino. Diresse con abnegazione il lazzaretto per colerosi a Iselle, fu primario all’ospedale S. Biagio. Visitava a domicilio i malati delle vallate e gratuitamente i poveri. Nel 1894 fondò l’Associazione medica
ossolana, ancora oggi attiva e presiedette un importante
convegno sulle intossicazioni nelle miniere (1902). Durante la la guerra mondiale fu direttore dell’Ospedale
militare territoriale, istituì la scuola Samaritana e diresse la C.R.I. Sviluppò l’indagine epidemiologica della tisi
nell’Ossola, studiò i molti casi di dissenteria e tifo che
attribuì alle scarse condizioni igieniche degli acquedotti battendosi perché venissero migliorate. Aiutò i lavoratori del Sempione a superare i malanni dovuti all’ambiente in cui operavano. Per la solerte lotta contro la
malaria in Ossola fu insignito della Croce dell’Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro. Si preoccupò di trattare
con i sindaci per una più adeguata retribuzione ai medici condotti miseramente compensati nonostante i sacrifici notevoli richiesti dalla professione. Fu affiancato
nell’attività da altri medici fra cui vanno ricordati Morandini, Gubetta e Negri. Notevole il suo studio Storia
clinica dell’aviatore Geo Chavez, con alcune considerazioni sullo shock (1911). Lasciò al S. Biagio la sua ricca biblioteca medica e l’armamentario chirurgico servito per
le operazione da lui eseguite per primo a Domo.
VIETTI VIOLI PAOLO, architetto
Grandson (Svizzera) 1882 - Vogogna 1965
Figlio di Paolo e di Anna Zanoni, ossolani, si laureò in
Architettura a Parigi nel 1905. Rientrato in Italia, nel
1914 si laureò in ingegneria civile al Politecnico di Milano. Durante la guerra 1915-1918 fu tenente di artiglieria nelle officine militari a Genova. Si specializzò nella
progettazione e costruzione di ippodromi raggiungendo fama internazionale (S. Siro, Capannelle, Merano,
Grosseto, Alessandria d’Egitto, Istanbul, Belgrado, Addis Abeba). Costruì scuderie da corsa e da allevamento
e impianti sportivi diversi. Realizzò lo stadio di Genova, lo stadio olimpico di Ankara e quello di Domodossola. Sono sue opere il Villaggio SISMA e la chiesa nuova di Villadossola.
ZANNA BARTOLOMEO, inventore
Zornasco sec. XIX
Industriale geniale, inventò (1842) un tipo di calorifero e divenne fornitore della Casa Imperiale di
Vienna e della Casa Reale di Torino.
ZANOIA GIUSEPPE ANTONIO, medico, benefattore
Domodossola 1767 - ivi 1848
Figlio di Paolo e di Costanza Zanoia. Studiò medicina a
Pavia, si perfezionò nell’Ospedale di Milano e a Domo
fu medico dell’Ospedale S. Biagio. Si occupò dei carcerati ammalati e alleviò le condizioni dei detenuti poveri alle cui famiglie provvide con suo denaro. Fu rappresentante del Protomedicato della Sanità di Torino per la
prevenzione e la cura del colera e lottò contro i pregiudizi incontrati nella pratica della vaccinazione antivaiolosa a cui si opponevano alcuni colleghi. Lasciò i propri
beni al S. Biagio.
ZARDETTI CARLO, numismatico, archeologo
Milano 1778 - ivi 1849
Da genitori di Piedimulera. Si laureò in giurisprudenza a Pavia ma si curò di numismatica negli anni del Regno italico e cooperò alla nascita a Milano del Gabinetto numismatico. Scrisse articoli sulle antichità di Sicilia,
sul Duomo di Monreale, su S. Zeno di Verona, su monumenti etruschi ed egiziani. Tradusse dall’inglese e dal
francese opere sull’antichità. Compilò il catalogo della
libreria Reina. Lasciò la casa di Piedimulera alla parrocchia. Fu membro di accademie scientifico-letterarie italiane e straniere.
ZARDETTI OTTONE, arcivescovo, benefattore
Rorsch (CH) 1847 - Roma 1902
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Figlio di Giuseppe nativo di Bannio, negoziante in telerie in Svizzera. Studiò teologia all’università di Innsbruck, insegnò nel Seminario di S. Gallo e in quello
americano del Minnesota. Fu a Londra ospite del card.
Manning, poi Vicario Generale della diocesi del Dakota. Nel 1889 fu consacrato vescovo del Minnesota. Nel
1894 divenne arcivescovo metropolita a Bucarest. Tornato a Roma fu assistente al soglio pontificio. Beneficò
il paese d’origine della famiglia.
ZOPPETTI LUIGI,
sacerdote, professore di liceo e patriota
Monteossolano 1888 - Domodossola 1970
Ordinato sacerdote, si laureò in scienze naturali all’Università di Torino e insegnò scienze e chimica al Liceo
Classico Mellerio Rosmini. Dopo il 1943 entrò nella
Resistenza mettendo in salvo sbandati e perseguitati politici grazie alla sua conoscenza e a quella di amici montanari dei passi diretti in Svizzera. Fece parte del C.L.N.
di zona. Con il ritorno dei Tedeschi riparò nella Confederazione Elvetica e fu affettuosamente vicino agli Ossolani esuli nel Canton Vaud. Fu anche animatore e
parte attiva di ogni attività benefica ossolana.
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Antonio Rosmini
Anna Pagani
Il nome di Antonio Rosmini è indissolubilmente legato a
Domodossola: qui, sul Sacro Monte Calvario, il grande filosofo ottocentesco fondò il suo Istituto della Carità; qui
diede concretezza, sviluppo e grande futuro all’idea del
Conte Mellerio, realizzando la più importante istituzione scolastica dell’Ossola, quel Collegio nel quale sono state educate ed istruite tante generazioni. Nel 1994 ha avuto inizio presso la Santa Sede il processo di beatificazione
dell’abate roveretano che all’inizio del 2005 appare avviato all’esito positivo da tanti auspicato.
Antonio Rosmini nacque a Rovereto, vivace centro culturale del Trentino, il 24 marzo 1797; i Rosmini di Rovereto erano un casato di alto lignaggio le cui origini risalivano alla fine del XIV secolo ed erano una delle famiglie più benestanti della città. Antonio Rosmini era
nato in una famiglia in cui la cultura e lo studio avevano un ruolo predominante: la madre era una donna colta ed un’appassionata lettrice, mentre il padre si
dilettava a scrivere ed a comporre poesie; in particolar
modo lo zio Ambrogio nutriva numerosi interessi culturali e rappresentò indubbiamente un punto di riferimento ed una figura centrale nella vita del ragazzo.
Gli anni dell’infanzia e della giovinezza rimasero per lo
più circoscritti entro l’orizzonte degli affetti familiari: il
clima di serenità e di amore che si respirava in casa Rosmini può essere sicuramente considerato determinante per la formazione spirituale ed intellettuale del giovane Antonio. La felice adolescenza sarà la base sulla quale
Antonio Rosmini edificherà una vita straordinaria per
opere, intuizioni, ingegno, santità di comportamento.
Egli mostrò presto di possedere un’intelligenza acuta,
coltivando molteplici interessi culturali e dedicandosi
assiduamente a quelle letture che poteva reperire all’interno della biblioteca paterna; fervido amante dei clas-
sici, si sentì fortemente coinvolto dalla saggezza dei padri e dall’armonia del loro stile. Le letture, lo studio, le
prime riflessioni maturate negli anni dell’adolescenza lo
invogliarono a scrivere riflessioni nelle quali spesso sottolineava l’umano bisogno di trovare un tempo in cui
poter guardare dentro la propria anima e saper ritrovare, in totale solitudine, la voce divina.
In uno di questi momenti di silenzio interiore riconobbe chiaramente di essere chiamato da Dio al sacerdozio;
una sera del 1813, annotò queste parole nel suo diario
personale: “Quest’anno fu per me anno di grazia: Iddio
mi aperse gli occhi sopra molte cose e capii che non vi
era altra sapienza che in lui”. Lo studioso rosminiano
Remo Bessero Belti ha definito questo appunto come
“la cosa più grande della sua adolescenza, una nota che
squarcia tutto l’orizzonte, quasi un’esperienza intima di
Dio che gli si rivelava come tutto il Bene, come il solo
vero compimento di quell’anelito all’infinito che il giovane Rosmini sentiva in sé”. L’iniziale opposizione dei
genitori alla scelta del figlio venne superata quando si
resero conto che né un capriccio né un eccessivo entusiasmo lo stavano spingendo ad intraprendere questa
strada: la vocazione sacerdotale appariva infatti in lui
già ben definita. Dopo aver terminato gli studi ginnasiali Antonio Rosmini si iscrisse alla facoltà di teologia
all’università di Padova: durante questi anni il roveretano si dedicò ad uno studio di tipo enciclopedico e fra le
varie discipline emerse distintamente il suo amore per la
filosofia. Nel 1819 fondò la “Società degli Amici”, una
sorta di prologo di quello che sarebbe stato l’Istituto
della Carità, testimonianza certa che egli era un uomo
concreto, capace di guardare alla società in modo innovativo e propositivo: il pensiero doveva sempre essere
affiancato dai progetti e dall’azione.
L’amicizia con il grande scrittore Niccolò Tommaseo ri-
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sale proprio a questi anni: Rosmini aveva letto alcune
poesie ed intuito la genialità dell’uomo; fra i due era
poi nata una frequentazione assidua, contrastata talvolta dall’atteggiamento scostante dello scrittore milanese.
Rosmini fu ordinato sacerdote a Chioggia il 21 aprile 1821: fece poi ritorno a Rovereto, dividendo le sue
giornate fra lo studio e la preghiera.
Negli anni trascorsi a Rovereto si dimostrò particolarmente colpito dai problemi e dalle necessità che si manifestavano all’interno della società di quel tempo e, nel
raccoglimento del suo animo, abbozzò il progetto di un
istituto religioso che sapesse rispondere alle esigenze ed
ai bisogni degli uomini; nel 1825 cominciò ad esporre
lo schema di una nuova società religiosa, primo abbozzo dell’Istituto della Carità; ma, non volendo precorrere i tempi, continuò a maturare questo progetto nell’intimità del suo cuore.
La decisione definitiva venne presa durante gli anni trascorsi a Milano: vi si era recato al fine di approfondire i suoi studi sulla politica e per potersi dedicare agli
scritti di filosofia; questo centro di vita culturale e questo ambiente ricco di suggestioni gli offrì quegli stimoli intellettuali e quelle frequentazioni sociali che gli erano mancati durante gli anni a Rovereto. In particolar
modo strinse due amicizie importanti con Alessandro
Manzoni e con il conte Giacomo Mellerio, con i quali nacque un’intimità di legami destinata ad approfondirsi nel tempo.
L’assidua frequentazione fra Antonio Rosmini ed Alessandro Manzoni fece emergere quegli aspetti che essi
avevano in comune, mettendo in luce una grande condivisione di ideali quali l’amore per la verità, un elevato
concetto di moralità, l’appassionata lettura delle Sacre
Scritture; dal loro profondo legame di amicizia ebbero
origine quelle reciproche influenze e quelle comuni linee di pensiero che si possono trovare nelle loro opere e per cui il Manzoni riconoscerà in Rosmini “il filosofo della sua mente”, questi in Manzoni “il poeta del
suo cuore”.
Il legame fra Antonio Rosmini e Giacomo Mellerio fu
invece determinante per la storia dell’Istituto della Carità in quanto il Conte sostenne ed incoraggiò il progetto di Rosmini di fondare un istituto religioso, prima
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ancora che questo disegno assumesse una precisa definizione.
Il Mellerio era originario di Domodossola e, sebbene
avesse viaggiato molto e si fosse poi trasferito a vivere a
Milano, aveva conservato un amore profondo e sincero
nei confronti della sua città natale, prodigandosi in numerose opere di beneficenza e donazioni destinate all’istituzione di asili e di scuole ed all’assistenza sanitaria e sociale.
Si comincia così ad intravedere in che modo Domodossola entri a far parte della vita di Antonio Rosmini prima ancora di divenire sede del suo istituto; Domodossola è infatti al centro di molti discorsi del Conte e delle rievocazioni di un passato che è sempre presente nei
suoi ricordi perché ricco di affetti e di legami.
Proprio in casa Mellerio il 9 giugno 1827 Rosmini incontrò il sacerdote lorenese Giovanni Battista Loewenbruck, colui che diede il decisivo impulso alla nascita
della congregazione; questi aveva infatti intenzione di
fondare una società religiosa volta al miglioramento del
clero e domandò al roveretano di aiutarlo nella realizzazione di questo progetto; udita la medesima intenzione
nelle parole di Antonio Rosmini, il lorenese si mostrò
entusiasta e disposto ad incominciare immediatamente l’impresa. Questo incontro fu il segno provvidenziale che Rosmini attendeva.
L’idem sentire fra il sacerdote lorenese ed il filosofo roveretano e la singolare coincidenza dei loro progetti li indusse a disporre le modalità di attuazione di una simile opera caritatevole.
Dopo aver dibattuto i principi e le regole del nascente istituto ed averne abbozzato le linee guida, si cominciò a ricercare un luogo appartato dove, in un clima di
meditazione e di solitudine contemplativa, poter gettare le basi della nuova fondazione. L’indicazione provenne dall’abate Luigi Polidori, cappellano di casa Mellerio
a Milano; egli, dopo essersi raccomandato alla Vergine
Maria nella Chiesa di San Celso, dichiarò di aver avuto un’ispirazione sul posto adatto per fondare il nuovo
ordine: il Sacro Monte Calvario di Domodossola. Rosmini gioì di questa indicazione: l’Istituto sarebbe sorto nel luogo dove Cristo, per salvare il mondo, aveva
compiuto il più grande atto di carità, sarebbe germogliato, secondo quel presagio che la Canossa gli aveva
fatto “sul Calvario tra Gesù Crocifisso e Maria Santissima Addolorata”.
L’impaziente Loewenbruck si recò immediatamente a
visitare il Calvario e lo trovò appropriato per divenire la
sede di un ordine religioso; nonostante gli anni dell’abbandono e della trascuratezza avessero inciso sul luogo,
la sua natura e la sua essenza erano rimasti incontaminati e lasciavano trasparire, sotto una patina di fatiscenza, lo splendore del passato.
Il 20 febbraio 1828 Antonio Rosmini arrivò al Sacro
Monte Calvario, situato sul colle che sovrasta Domodossola; immerso nella solitudine e nel silenzio del luogo, su quel monte diede inizio ad un sodalizio religioso destinato ad affermarsi nella Chiesa romana. Vi rimase alcuni mesi, vi scrisse le Regole del nascente Istituto della Carità, vi affinò le sue teorie metafisiche: al
Calvario le doti di pensatore, di asceta, di organizzatore si fondarono in un unicum che fece di Antonio Rosmini una delle personalità più affascinanti e complete dell’Ottocento europeo. Colpisce la serenità con la
quale Rosmini si apprestò a fondare un istituto trovandosi solo, in un luogo isolato, lontano dalla vita milanese così ricca di incontri, di contatti, di stimoli culturali, criticato dagli amici che non comprendevano la
sua scelta di volontario allontanamento ed isolamento.
Colpisce ancora di più il forte contrasto fra la piccola
cella in cui aveva deciso di abitare e la grandiosità delle
opere da lui concepite in questi mesi. Antonio Rosmini espresse in una lettera le seguenti considerazioni dalla sua cella al Sacro Monte Calvario: “La solitudine mi è
cara perché immerge in profondi pensieri. Tuttavia non
sono già questi monti e queste valli, e questa pace e questo silenzio che posseggono il mio cuore. I luoghi materiali sono troppo angusti per noi, il nostro luogo è Dio;
ma quanto è stretta la via che conduce alla vita! L’ampiezza infinita, ove si dilata infinitamente il gaudio del
cuore, viene dopo la strettezza”.
Al Calvario Rosmini era solo ed il Loewenbruck tardava ad arrivare; si erano dati appuntamento per il giorno
delle Ceneri, per cominciare insieme la Quaresima in
preghiera ed in penitenza; partito misteriosamente per
la Francia, il compagno lorenese non inviava sue notizie: Rosmini era addolorato dall’inaspettata assenza del
A. Rosmini ritratto da Francesco Hayez.
suo unico compagno, ma intuiva che lo zelo, la fede e
l’entusiasmo del Loewenbruck erano minati da un’incostanza e da un’instabilità di carattere.
Come si legge nel Diario degli scritti, tra il 24 febbraio
ed il 23 aprile 1828 risulta annotata la stesura delle Costitutiones societatis a Charitate nuncupatae (Costituzioni della Società consacrata dalla Carità); nonostante
Antonio Rosmini in questo periodo avesse provveduto
a compilare le costituzioni dell’istituto, ancora piuttosto incerta restava la natura che avrebbe dovuto assumere: questi primi mesi di permanenza al Calvario appaiono più improntati alla solitudine contemplativa ed
alla ricerca interiore che alla fondazione stabile di una
società religiosa.
Nel nome “carità” dato al suo istituto erano riassunti i
grandi obiettivi del filosofo roveretano: la carità sarà infatti sviluppata ed esplicata in tutte le sue accezioni e si
manifesterà sotto le tre forme di carità corporale, spirituale ed intellettuale; proprio quest’ultima contraddistinguerà e differenzierà l’ordine rosminiano da tutti gli
altri. L’8 luglio 1828 Loewenbruck giunse finalmente
al Calvario: l’attesa era terminata ed il suo arrivo segnò
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l’inizio di un importante capitolo della storia dell’Istituto della Carità. In questo momento è possibile intravedere il futuro del Sacro Monte: dopo l’arrivo del Loewenbruck, Rosmini non considerava più questo luogo
soltanto come la sede provvisoria di un soggiorno limitato nel tempo e nell’importanza, ma piuttosto come
la sede ideale della sua congregazione. Aveva così inizio
la vita di luce del Calvario di Domodossola, vero cuore
della spiritualità rosminiana.
Dopo aver lasciato il Loewenbruck a capo della casa del
Calvario e a coordinare i lavori di restauro, Rosmini si
recò a Roma per ottenere dal Papa l’approvazione per il
suo nuovo Istituto e per pubblicare il Nuovo Saggio sulla
origine delle idee e le Massime di perfezione cristiana, due
grandi sintesi, la prima del suo pensiero filosofico, la seconda della sua spiritualità. Nel novembre 1828 ottenne udienza da papa Leone XII, dal quale venne trattato
con grande benevolenza: il Papa si dimostrò interessato
alle idee di Rosmini e lo esortò a consegnare a due religiosi le Costituzioni del nascente Istituto, perché potessero essere esaminate e, qualora fossero in linea con le
normative canoniche, approvate. L’improvvisa morte di
Leone XII nel febbraio del 1829 vanificò la speranza di
ottenere in tempi brevi l’approvazione da Roma. Rosmini attese pazientemente che il Conclave nominasse il
nuovo papa: venne eletto Pio VIII, il cui breve pontificato appare improntato da prudenza e saggezza.
Nell’udienza pontificia del 15 maggio 1829 il Papa dichiarò a Rosmini di avere intuito che la sua reale vocazione era quella di attendere alla filosofia, giudizio questo che avrebbe influito per sempre sulla sua vita; per
quello che riguardava l’Istituto, il Papa gli suggerì di
operare inizialmente “in piccolo”, lasciandosi guidare
in seguito dalla volontà divina.
Terminata la sua missione a Roma, nel maggio del 1830
Rosmini tornò al Calvario e vi rimase un anno intero
iniziando il noviziato con i primi compagni che si erano uniti a lui ed al Loewenbruck; fu questo un periodo
di fervida attività per la piccola comunità del Calvario:
vennero innanzitutto fissate le regole, venne stabilita la
distribuzione degli uffici al Calvario e suddivisa la giornata fra i momenti dedicati allo studio, alla preghiera,
alle opere di carità.
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Recatosi a Trento, Rosmini accettò la richiesta rivoltagli
nell’agosto del 1830 da don Pietro Riegler, rettore del
Seminario e da don Giulio Todeschi, professore di teologia: essi speravano che da un’unione con l’Istituto della Carità sarebbe potuto derivare un rinnovamento spirituale del clero trentino. Lo stesso vescovo Luschin si
era rivolto al Rosmini chiedendogli di recarsi a lavorare nel seminario di Trento: questi, che aveva per lo più
rifiutato le precedenti richieste di espandere l’Istituto
in altre zone, riconoscendo la priorità di un consolidamento della piccola comunità, scelse di accettare questo invito.
La nuova fondazione di Trento, agli inizi apparentemente favorita, incontrò presto l’opposizione del governo austriaco; il vescovo Luschin cercò di mediare proponendo a Rosmini di incontrarsi con l’Imperatore per
ottenere da lui l’approvazione dell’Istituto. L’Imperatore ricevette Rosmini per due volte, prima a Bressanone,
poi a Innsbruck, dimostrandosi favorevole al progetto,
anche se impose alcune condizioni. Quando però monsignor Luschin venne nominato vescovo di Leopoli, i
problemi e le opposizioni già esistenti si moltiplicarono e la situazione divenne insostenibile. Lo stesso Rosmini venne sottoposto a vigilanza perché considerato
“uomo dai principi pericolosi”; egli a questo punto non
poté che prendere una decisione, l’unica saggia e possibile, anche se dolorosa: chiudere l’istituto di Trento. Da
questa e da altre amare esperienze nacque il libro Delle cinque Piaghe della Santa Chiesa, scritto a Corezzola
nel novembre 1832, in cui erano descritte non tanto le
colpe, quanto piuttosto le ferite che la Chiesa aveva subito: la scelta di non pubblicarlo subito, ma di aspettare il 1848 si sarebbe poi rivelata errata, perché anche in
quell’anno i tempi non sarebbero stati maturi per un’effettiva comprensione delle sue parole. Il libro fu infatti travisato, messo al bando e divenne per lui fonte di
grande sofferenza.
Nello stesso periodo in cui Antonio Rosmini si apprestava a dar origine all’Istituto di Trento, Loewenbruck
decise di dar seguito ad una sua felice intuizione: in
Francia vi era una congregazione, le Suore della Provvidenza, che aveva lo scopo di garantire l’assistenza alle
persone malate e di provvedere all’educazione delle giovani; il sacerdote lorenese pensò di introdurre un ana-
logo istituto in Italia. Per questo motivo mandò alcune
giovani ossolane a Portieux in Francia dove aveva sede la
Casa Madre di questa congregazione ed in seguito inviò
un altro gruppo di suore a Locarno e a Torino, accondiscendendo così alle richieste che gli erano state rivolte.
Ancora una volta l’impulsività del Loewenbruck aveva preso il sopravvento sulla prudenza che sarebbe stata
invece opportuno utilizzare in questo frangente: aveva
impegnato le suore in missioni che si erano dimostrate superiori alle loro forze, senza provvedere a dar loro
un’adeguata formazione ed un sostentamento economico. Antonio Rosmini, inizialmente all’oscuro di tutto,
aveva in seguito cercato di rimediare ai danni provocati
dall’imprudente generosità del lorenese: erano state così
fissate le norme per l’ammissione delle suore nell’Istituto, era stata data loro una regola, affine a quella dell’Istituto della Carità; questo perché Rosmini, accettando la
richiesta del Loewenbruck di prendere la direzione delle
suore, voleva fondarle sui medesimi principi su cui era
nato il suo Istituto: “come due rami d’un solo albero,
traenti il succo da unica radice, viventi della stessa vita”.
In pochi anni le Suore della Provvidenza aprirono case
a Torino, Casale, Stresa, Domodossola e Biella, mentre
la Casa Madre del nuovo ordine ebbe sede nel Convento delle ex Orsoline a Domodossola.
Nel 1834 Rosmini divenne arciprete a Rovereto, si impegnò a fondo nell’educazione del clero e dei giovani,
ma la sua opera venne fortemente ostacolata dal governo austriaco attraverso la Curia di Trento, tanto da costringerlo ad interrompere la sua missione nell’ottobre
del 1835: ritornò così stabilmente in Piemonte dove
per vent’anni ebbe la sua dimora abituale tanto da definirlo in una lettera come la sua “seconda Patria”.
Opinione comune fra gli studiosi è il considerare come
elemento fondamentale per il Rosmini studioso e uomo
di cultura l’aver trascorso gli ultimi venti anni della sua
vita in Piemonte, anziché in Trentino. L’Austria esercitava infatti un duro controllo ed una pesante censura non solo nella stampa ma anche sul modo di pensare, proibendo quella costruttiva libertà di dialogo che
era necessaria per uno sviluppo ed una maturazione del
pensiero rosminiano. Sebbene avesse deciso di sottrarsi a numerose richieste che aveva ricevuto per mancanza di uomini o perché queste non gli erano sembrate in
accordo con lo spirito dell’Istituto, la sua attività negli
anni tra il 1835 e il 1839 appare straordinaria; il suo
Istituto attraversò una fase di espansione e di consolidamento: oltre alla fondazione delle Suore della Provvidenza, venne dato inizio ad alcune opere tra le più significative della storia della congregazione rosminiana,
importanti anche perché destinate a propagare l’Istituto in direzioni differenti.
Intrapresa nel 1835, grande fortuna ebbe innanzitutto la missione in Inghilterra, che rappresenta una pietra miliare nella storia dell’Istituto della Carità, poiché
diede inizio alla propagazione dell’ordine anche in terra
straniera, aprendo così l’orizzonte verso nuovi confini.
Il biennio 1835-1836 vide l’opera rosminiana indirizzarsi verso due abbazie: Tamié e San Michele. La prima
missione aveva infiammato gli animi dei sacerdoti dell’Istituto: lo stesso Rosmini, recatosi in Savoia nell’estate del 1835, aveva mostrato un acceso entusiasmo per la
possibilità di impiantare una missione a Tamié e di fondarvi un collegio per missionari. Ma l’entusiasmo iniziale suo e dei religiosi inviati in questa abbazia si era
lentamente affievolito, soffocato dalle preoccupazioni,
dalle tensioni interne e dai continui tentennamenti del
Loewenbruck; Rosmini decise quindi di ritirare i suoi
sacerdoti dalla casa di Tamié, che ritornava all’arcivescovo monsignor Martinet, segnando così la fine della missione. Ma Rosmini subì la più grande delusione a
causa dell’improvviso abbandono dell’Istituto della Carità da parte del compagno lorenese: l’incostanza ed i
facili entusiasmi avevano condotto il Loewenbruck verso altre avventurose strade.
All’orizzonte si delineava però una nuova impresa: Carlo Alberto, re del Piemonte, aveva concepito il progetto di fondare una casa di ospitalità e di ritiro all’abbazia
di San Michele della Chiusa per coloro che desiderassero trascorrere un periodo di solitudine e di preghiera;
il re aveva proposto ad Antonio Rosmini di affidare la
cura dell’abbazia e l’attuazione della missione al suo ordine religioso.
Rosmini si dimostrò favorevole all’impresa e, superate
alcune difficoltà iniziali, mandò alla Sacra di San Michele dodici religiosi, sotto la direzione di don Francesco Puecher.
199
Questo periodo così denso di avvenimenti e di fondazioni sembrò trovare ideale coronamento con l’approvazione dell’Istituto da parte della Santa Sede. Papa Gregorio XVI, succeduto a Pio VIII nel 1830, aveva affidato l’esame delle Costituzioni alla Congregazione pontificia dei Vescovi e dei Regolari.
L’approvazione dell’Istituto aveva inizialmente incontrato degli ostacoli ed erano pervenute alcune critiche
dall’ambiente gesuita; il 20 dicembre 1838 però, grazie ad un intervento di papa Gregorio XVI,1 venne firmato il decreto che approvava le regole del nuovo Istituto. Il 25 marzo 1839 diciannove religiosi al Calvario e sei sacerdoti in Inghilterra pronunciarono i voti
perpetui: una grande distanza li separava, ma lo spirito di carità che faceva da fondamento all’Istituto li univa idealmente. Questo fu infatti un giorno di festa “spiritualmente grande, ma esteriormente modesta, secondo lo spirito umile della società”, come afferma il Garioni Bertolotti.
Negli anni successivi all’approvazione dell’Istituto sono
almeno tre gli ambiti in cui si può dividere l’operato di
Antonio Rosmini: 1) la fondazione di collegi, di scuole,
di orfanotrofi, di asili e la preparazione accurata degli
insegnanti in accordo all’importanza attribuita da lui al
ruolo degli educatori; 2) la pubblicazione di numerose
opere filosofiche e le dispute che lo vedono coinvolto;
3) l’esperienza della politica e l’inevitabile intreccio con
gli avvenimenti del Risorgimento italiano.
A partire dalla fine degli anni Trenta, Stresa divenne la
residenza prescelta dal grande roveretano per trascorrere lunghi periodi immerso nella pace e nella serenità del
luogo. Qui, circondato dalla poetica cornice di questa
tranquilla cittadina affacciata sul Lago Maggiore, accoglieva gli amici, approfondiva gli studi, concepiva grandi opere; tra queste occorre ricordare Storia dei sistemi
morali (1837); La società e il suo fine (1839); Trattato della coscienza morale (1839); Risposta al finto Eusebio (1841); Filosofia del diritto (1841-1845); Teodicea
(1845); Psicologia (1845).
Nel 1837 Rosmini aveva accettato la proposta del conte Giacomo Mellerio di affidare al suo ordine il collegio
di Domodossola, ampliando la scuola ginnasiale che era
stata fondata nel 1818; agli inizi degli anni Quaranta
era stato aggiunto anche il Liceo ed erano stati acquista200
ti alcuni terreni ed edifici confinanti con il Collegio per
consentire un ampliamento della scuola. Rosmini aveva provveduto a stilare delle norme per gli allievi e per
i docenti del collegio; a questi ultimi spettava l’importante compito di formare gli alunni seguendo un unitario progetto educativo: grande attenzione venne infatti prestata dal Padre Fondatore al campo dell’istruzione, un’opera tra le più consone allo spirito dell’Istituto
e alla personalità del roveretano.
L’istruzione era da lui considerata come un elemento
fondamentale e pertanto era necessario disporre di educatori ben preparati all’interno dei collegi: gli insegnanti dovevano infatti saper nutrire lo spirito, mirando alla
crescita interiore degli allievi. Allo scopo di indicare il
metodo educativo da prediligere egli scrisse in questi
anni il trattato: Del principio supremo della metodica e
di alcune sue applicazioni in servizio dell’umana educazione.
Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta si trovò a dover fronteggiare duri attacchi alle sue
teorie filosofiche: un primo gli era stato sferrato da Vincenzo Gioberti, al cui testo “Degli errori filosofici di Antonio Rosmini” avevano dato fiera risposta i discepoli del
roveretano; ma se in questo campo si può ricondurre la
questione a divergenze fra esponenti di scuole di pensiero differenti, di natura diversa risultava essere la critica pesante, ancor più grave in quanto anonima, alle
sue dottrine sulla coscienza morale. Su un libretto firmato con lo pseudonimo di Eusebio Cristiano vennero
non solo confutate le dottrine rosminiane, ma ne venne
anche stravolto il contenuto, individuando delle analogie con le tesi luterane, calviniste o gianseniste. Ciò
che stupisce è la sistematicità con la quale venne portato avanti questo tentativo denigratorio nei confronti di
Antonio Rosmini: irreperibile nelle librerie, il testo venne fatto circolare contemporaneamente a Roma, Genova, Lucca e Torino attraverso una distribuzione all’interno dei seminari, dei collegi, delle scuole, giungendo nelle mani di molti conoscenti e amici di Antonio
Rosmini; dietro le osservazioni contenute nell’opuscolo
non sarà però difficile riconoscere un gruppo di gesuiti che da tempo cercava di osteggiare il nascente Istituto
della Carità. Questo opuscolo ottenne un’eco inaspettata rimbalzando da un ambiente all’altro e, sebbene
privo di una valida analisi critica, produsse vasti effetti grazie alla sottile abilità denigratoria con cui era stato
concepito. La Risposta al finto Eusebio Cristiano scritta
da Antonio Rosmini risulta essere un testo forte, volto
a mettere in luce la menzogna e gli errori contenuti nel
libello; intervenendo poi con un decreto in favore dell’abate roveretano, papa Gregorio XVI impose la fine
delle accese controversie.
Rosmini partecipò agli entusiasmi e alle speranze che
erano sorte in Italia nella primavera del 1848; egli si era
interessato di politica fin dalla prima giovinezza e, nell’arco di un ventennio, i suoi scritti avevano mostrato un approfondimento e un’evoluzione della sua posizione: avendo analizzato attentamente la situazione politica italiana, si era trovato allineato sulle posizioni di
molti patrioti che, riscoprendo il concetto di “nazionalità”, auspicavano l’indipendenza dallo straniero e la nascita di governi costituzionali. Egli si era dichiarato favorevole alla concessione della Costituzione negli Stati
italiani a patto che questa fosse una creazione spontanea
del popolo e che non mutuasse concetti e osservazioni
da precedenti forme di costituzioni estere.
Il 2 agosto 1848 Rosmini si recò a Torino su invito di
Gabrio Casati, presidente del Consiglio piemontese;
prendendo parte ad una riunione del Consiglio dei Ministri, gli venne affidata una delicata missione diplomatica a Roma presso il papa Pio IX nella speranza di poter
dar vita ad un concordato tra la Chiesa ed il Piemonte e ad una confederazione di stati affidandone la presidenza allo stesso Santo Padre. Pio IX nutriva un sentimento di profonda stima e di fiducia nei confronti del
sacerdote roveretano, tanto da volerlo nominare Cardinale e successivamente Segretario di Stato. Rosmini si
vide però costretto a rassegnare le dimissioni al governo
piemontese quando, il nuovo esecutivo cominciò a sostenere una linea politico-diplomatica differente, ossia
la nascita di una lega legittimata dal papa in funzione
antiaustriaca: constatando che le trattative avviate per il
Concordato e la Confederazione non avevano più l’appoggio del governo piemontese, il roveretano considerò
esaurito il suo compito.
Per desiderio del Pontefice Rosmini restò a Roma, ma
improvvisamente anche qui la situazione precipitò
quando il 15 novembre venne ucciso il primo ministro
Pellegrino Rossi. Nell’entourage papale dominavano la
confusione e la paura ed il palazzo del Quirinale venne
assalito dai rivoltosi che volevano veder accettate le loro
proposte.2 Il Papa il 24 novembre fuggì a Gaeta e Rosmini, rispondendo al suo invito, lo raggiunse due giorni dopo, ma sebbene tra di loro continuasse ad esserci
un legame di affetto e di stima, sorsero i primi dissensi:
Rosmini temette che la posizione papale potesse generare un insanabile dissidio fra la Chiesa e lo Stato perché ritenuta contraria alla causa dell’unità e delle libertà costituzionali. Nella primavera 1849, approfittando
dell’assenza di Rosmini da Gaeta, i suoi avversari ottennero che venissero messe all’indice due opere del roveretano, La Costituzione civile secondo la giustizia sociale e
Le Cinque Piaghe della Santa Chiesa, isolandolo sempre
più dal Papa e di fatto impedendogli di ottenere la porpora. Rosmini, deluso, sospettato dalla polizia borbonica, preoccupato più che per sé per la posizione assunta dal Santo Padre, lasciò definitivamente Gaeta il 15
giugno. Apprese del decreto dell’Indice solo due mesi
dopo: il colpo alle sue dottrine e al suo giovane Istituto si rivelò da subito tremendo, ma Rosmini commentò
i fatti con serenità d’animo e con un sentimento di obbedienza al volere della Provvidenza. Paradossalmente è
forse la sua ora più alta e più bella.
Senza recriminazioni fece ritorno a Stresa dove si dedicò alle cure del suo Istituto e alla stesura di nuove opere; qui scrisse lettere serene, incontrò ed ospitò innumerevoli amici e confratelli, la sua casa divenne un cenacolo come un tempo lo era stata casa Mellerio a Milano. Soprattutto in questi ultimi anni Manzoni divenne
per lui un fratello spirituale a cui affidare il suo testamento morale.
Mentre le sue teorie si diffondevano nelle università italiane, studiate e spiegate da insigni docenti, a Roma
prendeva nuovo vigore la controversia teologica: ai libretti ed alle calunnie Rosmini non rispose più, sdegnato ed amareggiato.
Fu proprio Pio IX, ormai lontano dal Rosmini in politica, ma fedele ammiratore del suo ingegno, a proporre
un esame serio, approfondito di tutte le opere pubblicate, nominando quindici consultori; dopo quattro anni
di analisi osteggiate dai nemici di Rosmini, il 3 luglio
201
1854 si riunì la Congregazione dell’Indice, presieduta
dal Santo Padre. L’assoluzione delle sue opere e delle
sue dottrine fu totale ed il Papa chiese che fosse definitiva: Rosmini la accolse con serenità e con pacatezza, senza alcun spirito di rivalsa. Solo molti anni dopo
la morte del roveretano, nel 1888, il Sant’Uffizio tornerà a condannare Rosmini estrapolando 40 proposizioni
dalle sue opere postume in modo da aggirare il decreto pontificio: occorrerà giungere al 1 luglio 2001 perché questa posizione venga cancellata e Rosmini compiutamente riabilitato.
Purtroppo il male che aveva tormentato Rosmini in alcuni momenti della sua gioventù, riapparve in forma
più acuta e dolorosa; dalla primavera del 1855 non si allontanò più dalla villa di Stresa. I giorni della sofferenza ultima furono contrassegnati dall’affettuosa partecipazione dei suoi fedeli e dei tanti amici che ricevettero
come un’ultima benedizione il suo testamento spirituale, composto di parole e comportamenti sublimi.
Si spense il 1 luglio 1855 in una silenziosa notte d’estate; il primo ministro conte di Cavour ne diede notizia all’Italia e all’Europa come di un avvenimento di
importanza nazionale. Queste poche parole di Ruggero Bonghi fanno comprendere la grande natura dell’uomo: “Si è dileguata quaggiù la più gran mente e la più
sant’anima che vivesse in Italia. Lascia eredità grande
di affetti e d’idee; i suoi confratelli e i suoi amici nutriranno gli uni; spetta ai giovani italiani di fecondare le
altre. Tutti ci sentiremo migliori e più grandi nella sua
memoria”.
Le sue ultime parole affidate al Manzoni, sono la sintesi di una vita dedita all’uomo e alla Chiesa, per unificare la loro strada che sale a Dio: “Adorare, Tacere, Godere”. Valgono anche oggi, immutabilmente.
Note
Il 12 settembre 1839 licenziando la Regola dell’Istituto della Carità papa Gregorio XVI scrisse di sua mano un commento elogiativo
per il fondatore: “Essendo cosa a Noi ben conosciuta e sperimentata che il nostro diletto figlio sacerdote Antonio Rosmini, fondatore di questo Istituto, è uomo fornito di ingegno eccellente e singolare, ornato l’animo di egregie doti, per scienza, delle cose divine e
umane soprammodo illustre, chiaro per esimia pietà, religione, virtù, probità, prudenza, integrità, splendente per meraviglioso amore e attaccamento alla cattolica religione e a questa Sede Apostolica,
e che nel fondare l’Istituto della Carità a questo principalmente intese, che la carità di Cristo maggiormente diffusa nei cuori di tutti, tutti stringesse, e la Chiesa cattolica raccogliesse frutti ogni dì più
ubertosi, e i popoli con più acuti stimoli fossero eccitati all’amore
di Dio e alla dilezione scambievole, Noi abbiamo giudicato di preporre il medesimo diletto figlio al governo di detta Società. Eleggiamo e costituiamo lo stesso Antonio Rosmini Preposito Generale a
vita del nominato Istituto con tutte le facoltà necessarie e opportune” (tratto dalle Lettere Apostoliche di approvazione dell’Istituto della
Carità emanate il 12 settembre 1839). Il Garioni Bertolotti sottolinea come un elogio papale di una persona vivente rappresenti un
unicum nella storia della Chiesa: Gregorio XVI mostrava di stimare a tal punto l’operato di Antonio Rosmini da decidere di inserire delle parole di lode che non sono solo rivolte all’Istituto fondato,
ma anche all’uomo, la cui grandezza lo fa assurgere a superiore del
suo ordine religioso.
2
Pio IX, nel tentativo di sedare i tumulti, aveva accettato il ministero voluto dai rivoluzionari: nella lista stilata il papa sembra aver inserito anche il nome di Antonio Rosmini, come Presidente del Consiglio e come Ministro della Pubblica Istruzione. Ma la posizione offertagli era troppo equivoca, fatta di compromessi con un Gabinetto
1
202
che Rosmini considerava non costituzionale: domandando al Santo Padre quale fosse la sua sincera volontà, non aveva trovato nelle
sue parole la fiducia necessaria per fargli accettare l’incarico. Il giorno seguente il suo rifiuto venne comunicato al neo eletto ministro
Galletti, che subito gli sostituì monsignor Muzzarelli. La nomina
di Rosmini a ministro è un episodio sfuggito all’attenzione di molti poiché il suo nome, comparso solo in un comunicato del giornale Il contemporaneo, era stato sostituito nell’elenco ufficiale dei ministri diffuso il giorno successivo dal Galletti.
Bibliografia
-R. Bessero Belti, Rosmini, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa
1989
-G. Bozzetti, Profilo di Antonio Rosmini, Libraria Editoriale Sodalitas, Stresa 1985
-M. De Paoli, Antonio Rosmini. Una lunga storia d’amore, Edizioni
San Paolo, Cinisello Balsamo 1997
-G. Garioni Bertolotti, Antonio Rosmini, Libraria Editoriale Sodalitas, Stresa 1981
-U. Muratore, Rosmini profeta obbediente, Paoline Editoriale Libri,
Milano 1995
-Pagine di una vita. Note biografiche su Antonio Rosmini, a cura di M.
Murdocca, Longo Editore, Rovereto 1986
-G. Rossi, Vita di Antonio Rosmini, in 2 voll., Arti Grafiche Manfrini, Rovereto 1959
I monumenti e i segni d’arte
Gian Franco Bianchetti
Le opere, i monumenti, i segni d’arte depositati dal
tempo nella valle della Toce sono molti, pertanto nelle poche pagine seguenti non potrò ricordarli tutti, mi
limiterò invece ad indicare quelli particolarmente rappresentativi di periodi storici, di scuole artistiche locali
o di personalità che hanno creato felici momenti d’arte
nel fluire della storia ossolana.
La baita, con i suoi muri a secco solidamente costruiti per reggere le travature impostate a sostegno della pesante copertura di piode è, probabilmente, l’opera prima creata dal genio degli abitatori dell’Ossola al tempo
della colonizzazione iniziale. Immutata nella tecnica costruttiva e nei materiali, è un monumento archeologico
che ha conservato nei millenni valori di funzionalità e
bellezza anche nella collocazione appropriata alle diverse situazioni presentate dal terreno e dalle risorse ambientali. Ma con la baita non si esaurì la capacità creativa di quella cultura primordiale, giacché ad essa vanno
ascritti anche i muri a secco megalitici innalzati per sostenere i ripiani coltivabili sulle pendici delle valli, collegati fra essi, altresì, da un sistema di scale, a volte incassate a volte aggettanti, che tuttora rappresentano la
più vasta e persistente testimonianza della fatica iniziale
dell’uomo volta ad adattare l’ambiente alpestre alle esigenze della propria sopravvivenza. A riprova dell’evoluzione tecnica raggiunta nel trattamento e nell’impiego
di materiali spontaneamente offerti dall’ambiente naturale, un altro fenomeno, meno diffuso, ma tecnicamente significativo, sopravvive concomitante alle opere megalitiche, ossia le camere sotterranee ricavate nei
muri a secco (dette sotto fascia) frequentemente ampliate nel sottosuolo retrostante, coperte talvolta da false cupole (a tholos), tal altra da spesse lastre oppure costruite sotto massi erratici di grandi dimensioni inglobati nel tessuto murario. La presenza delle camere sot-
terranee si concentra prevalentemente a Montecrestese,
sui declivi alle spalle della località Castelluccio, e soprattutto a Varchignoli, località al confine fra i territori di
Villadossola e Montescheno, dove si manifesta associata a
canalizzazioni di drenaggio, a tratti sotterranee, a tratti a cielo aperto, rilevate pure a Castelluccio, che, correlate allo sviluppo dei muri megalitici e alla dislocazione delle scale suggeriscono l’effetto di un sistema complessivo progettato per bonificare l’area comprendente
anche territori limitrofi di altre località a oriente di Varchignoli1. Camere sotterranee che, ponendo oggi interrogativi sulla loro utilizzazione, pare aprano un passaggio sul versante spirituale di quella cultura di un tempo
precedente la storia a cui appartengono anche altri segni, funzionali, questi, alla religiosità di quella gente lepontica che per prima abitò le valli ossolane. Sono infatti segni rivelatori del culto praticato nei secoli antecedenti alla diffusione del Cristianesimo: la stele cruciforme trovata alla Colma di Craveggia, e ivi conservata
nell’oratorio di San Rocco, simbolo solare invocato per
ottenere la fecondità della terra e degli armenti; i bassorilievi antropomorfi murati all’esterno della parete meridionale di San Quirico a Calice e il mascherone della
fontana affacciata sul sagrato dell’oratorio di San Pietro
a Dresio di Vogogna2. Il tempietto lepontico a Roldo di
Montecrestese, datato al primo secolo dopo Cristo, introduce l’Ossola nei tempi storici. Unico esempio, quasi intatto, che documenti il connubio fra la tecnica costruttiva romana e le esigenze religiose e estetiche della
cultura lepontica, è il solo edificio rimasto in tutta l’area
gallo-romana a testimoniare l’influsso della civiltà romana sulle popolazioni alpine. È costituito da una cella
e da un atrio, con volta a botte, sulla quale si posava direttamente una copertura di tegoloni in beola foggiati
su modulo romano, ora scomparsa, simile a quella an-
203
cora esistente nella zona absidale della chiesa di S. Giorgio a Varzo; dovuto a tecnica romana è anche il pavimento, in parte ancora conservato, composto da minuti frammenti di marmo legati da malta marmorea; è invece lepontico l’orientamento, su un asse nord-sud, che
rivela la dedicazione del tempietto a una divinità solare. Sebbene siano emersi altri resti a testimonianza della dominazione romana in Ossola, il tempietto di Roldo è certamente il monumento più significativo giunto
a noi da quegli anni3.
Quando la disgregazione dell’Impero Romano, causata, almeno in parte, dalle invasioni barbariche, privò
le popolazioni dell’Occidente europeo dell’organizzazione sociale nella quale si identificava la loro civiltà, il
Cristianesimo offrì un nuovo modello di vita attraverso
le organizzazioni ecclesiastiche. Di quegli anni difficili della Chiesa nascente l’Ossola conserva una testimonianza nel fonte battesimale scoperto di recente sotto il
presbiterio della chiesa di San Giovanni a Montorfano di
Mergozzo. Datato al V-VI secolo, mostra una vasca ottagonale, incassata nel pavimento, formata da mattoni sesquipedali di modulo tipicamente romano, che ricorda
come nella liturgia di allora il battesimo fosse impartito
con l’immersione del catecumeno4.
La notte di Natale dell’anno Ottocento, nella basilica
di S. Pietro a Roma, ponendo sul capo di Carlo Magno
la corona dell’Impero d’Occidente, Papa Leone III sanciva la nascita del Sacro Romano Impero e confermava il potere dei Franchi su gran parte dell’Occidente europeo. Sotto il regno carolingio l’Europa visse un tempo di rinnovamento culturale ispirato alla civiltà romana, al quale si univa il gusto tradizionale per la decorazione minuta delle popolazioni barbariche, ormai stabilite nella nuova organizzazione politica. Anche l’Ossola
conobbe la «Renovatio» carolingia e lo dimostra la cappella settentrionale inferiore della chiesa di Santa Maria
Assunta del Piaggio a Villadossola. Sebbene ora sia inclusa nel più ampio edificio romanico, la chiesuola primitiva è ancora riconoscibile: una piccola navata orientata sull’asse est-ovest con l’abside semi cilindrica a oriente. Semplice struttura che ripete il tipo basilicale romano, presenta sulla parete esterna dell’abside elementi tipici della decorazione architettonica di stile carolingio:
la superficie curva è divisa in tre specchiature da larghe
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lesene; coronata da una serie di archetti pensili, ha nelle
specchiature laterali due finestrelle a feritoia, definite da
profonde strombature e concluse in alto da uno stretto
arco, e nella specchiatura centrale è evidenziata, da un
leggero rilievo, una croce latina, che nell’estremità inferiore s’apre a V capovolta a simboleggiare il calvario,
simbolo quest’ultimo di derivazione longobarda5.
Con la caduta della dinastia carolingia l’impero passa
alla casa germanica di Sassonia (962) che, durante il regno dei tre imperatori di nome Ottone, ridesta in Europa l’esigenza di un’arte monumentale, emblema dell’Impero rinnovato. Si affermarono in quegli anni del
X secolo costruttori edili lombardi, che nella letteratura artistica vengono sovente denominati maestri comacini organizzati in maestranze capaci di edificare e ornare un edificio ovunque li chiamasse un pio mecenate o una comunità. Sono essi che, portando nell’Ossola lo stile ottoniano, caratteristico della seconda metà del
X secolo, costruirono la chiesa di San Bartolomeo a Villadossola. Ora l’edificio si presenta gravato dalle strutture aggiunte dal secolo XIV al XVII che hanno modificato la costruzione primitiva. La chiesa, nata con il titolo dei Santi Fabiano e Sebastiano, costituisce l’esempio più nitido dello stile architettonico scelto e accolto
per più di tre secoli dalla gente ossolana. Il San Bartolomeo era costruito su pianta basilicale occupando all’incirca lo spazio dell’attuale navata centrale, con la facciata a occidente e l’abside semi cilindrica a oriente. All’esterno i muri, parte in vista, parte celati nei sottotetti
dalle navate laterali, sono animati da strette lesene che
scandiscono le superfici in specchiature, delimitate in
alto da un corso di archetti pensili sotto la stretta gronda del tetto in piode. La decorazione, incisa sui capitelli
delle lesene, sui beccatelli degli archetti, sugli archivolti
degli stessi archetti e delle finestre, costituisce l’aspetto
più interessante del monumento, perché in essa si ravvisa l’espressione esemplare di quell’arte simbolica, colta — forse dovuta all’intervento diretto dell’abate Guglielmo di Volpiano — tipica del periodo ottoniano,
che attraverso segni di apparenza astratta, derivati dal
repertorio ornamentale della tradizione barbarica, rivela i concetti teologici della dottrina cristiana. Un esempio tipico di sintesi simbolica si ha nella lunetta appartenente all’antico portale — ora sopra la porta di fac-
ciata — dove, in poche incisioni astratte, è rappresentata la venuta di Cristo giudice alla fine dei tempi, ossia la Parusia6.
Il risveglio culturale e religioso sorto in Francia agli
inizi del secolo XI, guidato dagli abati benedettini di
Cluny, si riflette anche in Ossola con il rinnovamento delle chiese esistenti e la costruzione di nuove, erette non solo per appagare un rinnovato spirito religioso,
ma anche per assecondare esigenze sorte in conseguenza
dell’incremento demografico in atto durante tutto il secolo7. Sono sempre i maestri comacini che lungo il secolo XI, costantemente ispirati ai canoni fondamentali del
San Bartolomeo, apriranno cantieri in diversi centri ossolani per soccorrere al bisogno e all’ambizione di nuove chiese. L’intervento dei maestri lombardi differisce
però da cantiere a cantiere: eseguono la costruzione per
intero negli edifici di maggiore importanza, in quelli
minori l’affidano a maestranze locali cresciute alla loro
scuola. Gli stessi maestri, presenti in Ossola per costruire il San Bartolomeo di Villadossola, sono attivi a Trontano, cinquant’anni dopo, per edificare la chiesa della
Natività di Santa Maria; ma alcune differenze nella decorazione segnano il mutare del gusto, che, affiancando sculture ai segni incisi, rivela una nuova propensione per i valori plastici. Oltre alla Natività di Santa Maria a Trontano vengono edificate anche le chiese di San
Giorgio a Varzo, di Santo Stefano a Crodo, della Beata
Vergine Assunta di Montecrestese e del Sant’Ambrogio di
Seppiana. Ancora alla prima metà del XI secolo risalgono i resti romanici, recentemente scoperti nei sottotetti
delle navate laterali, della chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Crevoladossola, dove per la prima volta viene impiegato il marmo locale per eseguire l’ornamento dei
beccatelli di sostegno agli archetti pensili. Anche il tipo
di ornato, dominato da protome di cavalieri ricoperte
da una variante dell’elmo normanno, fornito di nasale,
si differenzia dal repertorio ornamentale romanico diffuso in Ossola e sembra celebrare, con austero fasto, i
committenti, forse quei miles oblati alla difesa dei diritti feudali della Chiesa novarese, governata da Pietro III
il prudente (994-1032), primo vescovo Conte insediato sulla cattedra di San Gaudenzio8. Anche i campanili del San Bartolomeo di Villadossola — ritenuto l’esempio più compiuto di torre campanaria romanica in tut-
ta l’area coperta dall’attività dei maestri lombardi — del
San Brizio di Vagna, dei Santi Pietro e Paolo a Crevola
e del San Giorgio di Varzo vennero edificati nello stesso secolo. Costruiti con minore rigore stilistico e tecnica più rudimentale, perciò attribuibili a maestranze locali, sono contemporanee a quelle citate in precedenza le chiese di San Quirico a Calice di Domodossola, di
Santa Maria al Piaggio di Villadossola — con il campanile — di San Graziano a Candoglia — con campanile a vela — di San Giacomo al Basso di Mergozzo e il
campanile di San Pietro a Pallanzeno. Durante il secolo XII sono sempre aperti in Ossola i cantieri dei maestri lombardi che nelle decorazioni di alcune chiese introducono un materiale usato in precedenza solo a Crevola, ossia il marmo locale, nell’alta Ossola, e quello di
Candoglia, nella bassa Ossola. Esempi che documentano l’innovazione si hanno con Santa Maria al cimitero
di Bracchio, il campanile della Beata Vergine Annunciata di Albo e i rimaneggiamenti delle chiese dell’Assunta di Montecrestese e del Sant’Ambrogio di Seppiana. Al
secolo XII sono datate anche le chiese della Beata Vergine Assunta di Santa Maria Maggiore, di Santa Marta a Mergozzo, il campanile di Montecrestese — all’interno di quello costruito nei secoli XVI- XVII — quelli del Sant’Ambrogio di Seppiana, del Sant’Abbondio di
Masera e del San Lorenzo di Megolo. Le primitive chiese di San Martino a Masera, di San Giulio a Cravegna e
di San Gaudenzio di Baceno, ora mutate dalle ricostruzioni posteriori, venivano edificate nello stesso secolo.
L’edificio sacro più importante — perché più complesso e più aderente alle soluzioni adottate nei grandi centri metropolitani — fra quelli costruiti nel XII secolo è
San Giovanni a Montorfano di Mergozzo. Sorto nello
stesso sito dove già esisteva una chiesa a tre navate absidate, è l’unico esempio nell’Ossola di edificio romanico costruito su pianta a croce latina ed è anche il solo
che abbia la navata e il transetto coperti da volte a crocera raccordate all’incrocio dalla cupola del tiburio. Gli
elementi decorativi che contornano la chiesa e coronano l’abside con un seguito di archetti a fornice, sono
in parte provenienti dalla chiesa preesistente e in parte
opera dei lapicidi che l’edificarono. Il tempo ci ha conservato due sole sculture romaniche e anch’esse giungono a noi, in stato frammentario, dal XII secolo. La pri205
ma, più nota e già ampiamente studiata, fungeva da architrave nell’antico portale della chiesa dei Santi Gervasio e Protasio a Domodossola, dove ora è conservata all’interno, scolpita in serpentino, rappresenta una scena
del poema trovadorico de «La canzone di Orlando», celebrativo delle gesta di Carlo Magno e dei suoi paladini.
La seconda è un Crocifisso scolpito in marmo di Crevola, incassato in un muro di sostegno a monte dell’antica
strada antronesca a Seppiana, che pare possa essere attribuita a un anonimo maestro locale, autore di altri frammenti scultorei inseriti nella ornamentazione del Sant’Ambrogio di Seppiana9.
Poco più ricco è il catalogo della pittura romanica10 che,
probabilmente, un tempo decorava l’interno di molte
chiese ossolane. Le più antiche risalgono agli inizi dell’XI secolo e sono sei frammenti di figure affrescate di
cui rimangono tre busti, una testa, un volto e un braccio, ora conservate nella sacrestia del San Giorgio di Varzo e provenienti dalla navata centrale della stessa chiesa
corrispondente alla precedente aula romanica. A Santa
Maria di Trontano, nella navata centrale, un frammento decorativo ricorda l’antica ornamentazione affrescata a metà dell’XI secolo su tutte le pareti, di cui rimangono tracce anche nelle strombature delle finestre e, infine, a Villadossola, nella chiesa di Santa Maria al Piaggio, nell’abside settentrionale è conservata gran parte
delle immagini affrescate alla fine del secolo XII: sopra
una serie di sei apostoli dipinti sul tamburo dell’abside, nel catino è rappresentata la SS. Trinità secondo un
tipo iconografico inconsueto. Ultimi nel tempo, rimasti a testimoniare l’estinguersi dell’età romanica ossolana, sono i resti della chiesa di San Francesco a Domodossola, della seconda metà del XIII secolo, ora inglobati nel palazzo Galletti, fra i quali spiccano i capitelli figurati, scolpiti in serpentino, che mostrano come lo stile romanico-lombardo abbia avuto lunga vita nel gusto ossolano.
Giustamente a Vogogna è affidata la testimonianza del
Trecento in Ossola, perché proprio durante la prima
metà del secolo il centro ossolano assunse il ruolo di capitale dell’Ossola inferiore e venne potenziato con il castello eretto dal Vescovo di Novara Giovanni Visconti e
dotato di palazzo pretorio, costruito nel 1348, che manifestava la nuova dignità del borgo11.
206
L’arte ossolana fra la fine del Trecento e gli inizi del
Quattrocento assume la fisionomia degli affreschi sgargianti di colori, fittamente decorati, del Pittore della Madonna di Re12. Attivo durante l’ultimo ventennio
del Trecento lungo la valle della Toce, è presente nell’area dell’Alto Novarese per tutto il primo ventennio
del Quattrocento. I suoi modi attardati, ancora legati
alla pittura romanica, ingentiliti da apporti gotici, sembrano identificarsi con la semplicità di sentimento della devozione popolare che, riconoscendosi nella nitida
ingenuità delle immagini affrescate e riconoscendo con
chiarezza le valenze simboliche, dottrinali e culturali,
delle iconografie, volentieri s’affida al pennello del pittore della Madonna di Re e lo chiama a frescare sulle
case — a Ronco di Trontano circa nel 1380, una Crocefissione, Sant’Antonio abate e la Madonna del latte —
e nelle chiese — nel San Quirico di Calice a Domodossola, prima l’Ultima Cena e quindi nel 1391 San Michele, San Giulio e la Madonna; il paliotto della Natività per la chiesa di Santa Maria al Piaggio a Villadossola,
eseguito fra il 1390 e il 1400; la Madonna di Re, da cui
prende il nome, ora nel santuario omonimo, attorno al
1400. Mentre s’avviava il quarto decennio del Quattrocento un frescante, attivo nel novarese, quasi ricalcando gli itinerari del pittore della Madonna di Re, si volgeva alle valli ossolane: Giovanni De Campo, anzi la ampia sezione di un suo affresco, raffigurante la Madonna
del Latte affiancata, sulla destra, dalla coppia dei Santi
Pietro e Antonio Abate, staccato da una casa di Oira, in
valle Antigorio, e ora conservato nel convento del Sacro
Monte Calvario di Domodossola, si pone, allo stato attuale delle ricerche, quale opera prima del pittore, giacché graffito, dalla invadenza di un devoto sprovveduto,
sulla superficie di sfondo tra la Madonna e San Pietro,
si legge il millesimo 1433, termine ante quem quindi
per la datazione della opera, che anticipa pressoché di
un decennio l’anno 1440 dal quale si faceva iniziare la
cronologia concernente l’attività di Johannes De Campis. Oltre ai caratteri stilistici, peculiari all’opera del De
Campo, garantisce l’autografia dell’affresco la sigla dipinta, poco sopra il margine inferiore, sullo sfondo fra
la Madonna del latte e San Pietro, YO, sovrastata da
un segno di imbreviatura, perciò trascrivibile per esteso
Johannes. Altre opere ossolane attribuibili con sicurez-
Giovanni de Campo, Serie di Santi, affresco ca. 1450. Vogogna, Oratorio di san Pietro a Dresio.
za alla mano del De Campo sono: l’affresco dell’oratorio di san Pietro a Vogogna raffigurante San Pietro, assiso sul soglio pontificio, a cui San Martino, in figura di
cavaliere cortese, presenta un devoto adolescente inginocchiato, seguito dai santi Antonio Abate e Bernardino da
Siena; gli affreschi sulle superfici absidali nel San Quirico di Calice a Domodossola, dall’Annunciazione, sul
fronte dell’arco trionfale, al Pantocratore, attorniato dai
simboli degli evangelisti, nel catino, alla serie degli Apostoli e della Crocefissione ai lati dei Santi titolari Quirico e Giulitta sul registro superiore del tamburo, che nella parte inferiore è decorato con le Opere di misericordia corporali. Altre immagini di Santi e della Beata Vergine sono dipinte sulle pareti laterali della navata. In altre sedi ossolane si sono ritrovate opere del De Campo, come la Madonna del Latte di Santa Maria Maggiore e i resti di una Annunciazione affrescata sul fronte dell’arco absidale del Sant’Abbondio di Masera che
mostrano il maestro novarese attivo in Ossola fino al
VI decennio del secolo XV13. Opere che, lasciano supporre come il soggiorno in Ossola dell’artista novarese
non fosse sporadico, ma duraturo, determinato dalle richieste di committenti di rango formati al gusto corte-
se diffuso dalla capitale lombarda. I richiami ai preziosismi decorativi degli sfondi miniati da Michelino da
Besozzo, l’eleganza degli abbigliamenti e dei panneggi,
accomodati in pieghe ricadenti e fluenti attorno alle figure, rivelano un ritardo stilistico dell’autore, ancorato alle ricercatezze del decorativismo gotico, persistente
nella cultura provinciale, attestata in Ossola ancora negli ultimi decenni del secolo, segnati dalla comparsa dei
pittori “Seregnesi” provenienti da Lugano, dove tennero bottega dal sesto all’ultimo decennio del secolo XV14.
Cristoforo e Nicolao da Seregno, zio e nipote, seppero
accendere vivo interesse nella committenza vigezzina,
come dimostra l’alto numero degli affreschi che furono
incaricati di eseguire in parecchi centri della valle, per
lo più da una committenza privata desiderosa di ornare case o cappelle rurali con immagini sacre di gusto arcaico, attardate in moduli figurali e ornamentali ancorati a stilemi gotici. La devozione del popolo chiedeva
immagini ieratiche, eloquenti nel rappresentare il soppranaturale, ma nel contempo semplici e facilmente riconoscibili. A tali attese i Seregnesi corrisposero dipingendo con grazia devota e persuasiva semplicità il panteon della devozione locale, in forme asciutte, ancorché
207
mosse da una elementare eleganza, esatte nell’associare
ad ogni figura sacra gli attributi iconografici atti a riconoscerla al primo sguardo. Danno chiara testimonianza
di questo momento tardo gotico la Madonna in Maestà
di Santa Maria Maggiore, proveniente da Toceno, l’Uomo dei Dolori, all’esterno dell’oratorio di Sant’Antonio
sempre a Toceno; le tre Madonne in Maestà a Craveggia;
gli affreschi di Sasseglio sviluppati in due riquadri con
la Madonna in Maestà affiancata dai Santi Giulio e Antonio Abate e i Santi Sebastiano e Rocco, e ancora a Druogno la Madonna del Latte affrescata a Gagnone; la delicata suggestione della Madonna della Misericordia nel
Sant’Ambrogio e la Madonna col Bambino nella cappella
di San Bernardino ambedue a Coimo. Lasciata la Valle
Vigezzo, dopo una puntata verso settentrione a Montecrestese nella villa di Cardone, dove i Seregnesi affrescavano una esemplare Madonna in Maestà, ora conservata
al Sacro Monte Calvario di Domodossola, i pittori volgevano i passi verso le Quattro Terre per affrescare l’interno e il fronte dell’oratorio di Santa Marta a Cosasca
di Trontano e raggiungere, in un secondo tempo, Vogogna, chiamati ad arricchire l’interno dell’oratorio di San
Pietro a Dresio con una fascia affrescata nello spazio sottostante all’affresco steso in precedenza da Giovanni De
Campo. Forse sulla via del ritorno, i frescanti vengono
incaricati di ornare in parte le absidi inferiori del Santuario villese del Piaggio, dedicato alla Beata Vergine Assunta, dove fra i lacerti rimasti del decoro pittorico è ancora leggibile la data 6 luglio 1477.
Quasi in sintonia stilistica con i frescanti novaresi e luganesi si affaccia alla ribalta ossolana, durante l’ultimo
quarto del XV secolo, uno scultore, Antonio fu Francesco da Domodossola, in antecedenza indicato come Maestro di Crevola15, interprete del faticoso passaggio dal
tradizionale repertorio tardogotico all’emergente lezione rinascimentale che dai grandi cantieri lombardi, per
via d’acqua, perveniva agli approdi della Toce. Antonio
da Domodossola lavorò nell’alta Ossola per committenti del patriziato locale legati alle famiglie dei Baceno e della Silva. Oltre ad alcune Madonne in trono con il
bambino, sono attribuite alla sua mano le sculture della
facciata appartenenti al primo rifacimento della chiesa
dei Santi Pietro e Paolo di Crevoladossola, datata 1475,
che in semplificata sintesi si ispira alla partitura decora208
tiva della facciata della Certosa di Pavia. La via d’acqua
era privilegiata per trasportare a Milano e a Pavia i marmi provenienti dalle cave ossolane di Candoglia, Ornavasso e Crevola e proprio a Pavia Antonio da Domodossola dava inizio a una dinastia di scultori per tre generazioni presenti nel cantiere del Duomo pavese, ma altresì
nella valle d’origine, in cui, portando il cognome Degli
Arrigoni, torneranno sporadicamente a lavorare. È una
vicenda esemplare quella Degli Arrigoni poiché documenta a quali fonti si è venuta formando la cultura artistica che in Ossola seppe esprimere in scultura e architettura la stagione rinascimentale, aperta dai contatti,
documentati daI 1491 al 1520, che Giovanni Antonio
Amadeo ebbe con l’ambiente delle cave ossolane, dove,
il suo ruolo dominante di architetto ducale, l’aveva portato per provvedersi dei materiali lapidei di cui necessitavano le imprese che, sotto la sua direzione erigevano a
Milano e a Pavia edifici fra i più significativi del Rinascimento lombardo.
Quel poco della cultura rinascimentale pavese e milanese, tenuemente filtrato dall’impianto della facciata dei
Santi Pietro e Paolo di Crevola o dai finti nicchioni da
cui s’affacciano le compatte figure dei Santi eseguiti da
Antonio da Domodossola, viene portato a maturazione da suo nipote, Lorenzo degli Arrigoni figlio di Giovannino architetto e scultore, autore dell’ampliamento
della navata della parrocchiale di Crevola (ante 15211526) e architetto della nuova chiesa dei Santi Giacomo
e Cristoforo di Vogogna (1527-1532), crollata nel 1975,
nonché scultore dello splendido tabernacolo marmoreo
conservato nella Parrocchiale di Santa Maria Maggiore
firmato e datato: MDXXXV XVIII KAL. AUG. LAURENTIO ARIGONIO ARTEFICE PAPIENSE16. Lorenzo Arrigoni, oltre a una nuova concezione dei parametri e degli spazi architettonici, introduce in valle un
proprio approccio al Rinascimento lombardo dagli accenti pavesi, rivelato, in particolare, dal tipo di ornato
dei capitelli, dal fusto delle colonne ancora cilindrico,
e dalla inelegante spessezza, e dal disegno dei rilievi ornamentali, scolpiti solitamente nelle cornici dei portali, ancorché eseguiti con mano greve imputabile in parte al materiale lapideo, in parte al trattamento dei lapicidi locali esecutori dei bassorilievi.
Veramente in questa valle alpina non s’ebbe mai l’au-
tentico Rinascimento di lezione albertiana, ma piuttosto uno pseudorinascimento milanese d’orientamento solariano, accolto per rinnovare forme ormai logorate da una tradizione secolare e non più confacenti ai
nuovi modi di vita imposti dal mutamento culturale in
atto. Qualche primo segno da taluni portali e acquasantiere della valle Antigorio — Baceno, Cravegna, Crodo — opere di uno scultore dipendente dalla Fabbriceria del Duomo di Pavia, Giovan Pietro di Castello del
Lambro, avverte che già il gusto è mutato, ma il mutamento è totale nel rinascimentale palazzo dei Della Silva a Domodossola, edificato nel 1516. Esempio stilistico, che si rifletterà nella rustica edilizia signorile ossolana con l’introduzione di nuove soluzioni formali, soprattutto nella incorniciatura di porte e finestre, e strutturali, come la scala a chiocciola, di gusto francesizzante
variata negli sviluppi dal genio creativo delle maestranze locali, modello designato a segnare profondamente
l’immagine architettonica della Valle, come si può osservare nelle numerose case cinquecentesche ancora esistenti. L’esito più compiuto, sebbene tardo, della lezione rinascimentale lombarda è ravvisabile nella facciata
marmorea della chiesa di San Nicolao a Ornavasso, costruita fra il 1542 e il 1587, con lo stesso marmo locale apprezzato in particolare dai costruttori lombardi del
Quattro e Cinquecento17. Ma non tutti e non sempre i
committenti ossolani, fautori delle opere di rinnovo attuate nei molti cantieri aperti durante il Cinquecento,
accettarono il dominio culturale della corte milanese di
intonazione bramantesca, anzi parrebbe che una parte
politica, identificabile con l’esteso parentado dei Baceno-De Rodis, a cui furono legati i Della Silva, i Campieno e altri ceppi familiari da essi derivati, professando la loro adesione alla religiosità francescana con opere
orientate dalla predicazione dei Minori Conventuali di
Domodossola, manifestassero, tramite le commissioni
artistiche da essi patrocinate, inequivocabile propensione per quell’arte cortese di tradizione medievale presente negli esiti del rinnovo architettonico milanese presieduto dall’autorità della dinastia dei Solari. I committenti della consorteria nobiliare antigoriese, prendendo
culturalmente parte, si rivolsero a maestranze ossolane
capaci di mediare con vigore il loro intento, come tutt’oggi testimonia la maggior parte delle opere esegui-
te in quell’ambito territoriale durante i primi decenni
del Cinquecento. In architettura, particolarmente accogliendo lo schema gotico, stigmatizzato dall’impiego
dell’arco a sesto acuto, vennero ampliate le chiese romaniche del San Giulio di Cravegna e del San Gaudenzio
di Baceno, dell’Assunta di Montecrestese e della Natività di Maria Vergine di Trontano.
Attribuzione d’opere architettoniche, in precedenza lasciate nell’anonimato, a maestranze locali solo oggi possibile perché accertata dalla recente pubblicazione di un
illuminante saggio sull’opera svolta, nel territorio della
città Umbra di Spello, da maestranze edili provenienti
dall’Ossola e particolarmente dall’alta valle Antigorio,
costituite dall’aggregazione, su base parentale, di “sotii”
provenienti dal territorio di Premia e segnatamente dalla frazione di Piedilago (anticamente Pidelata)18. “Magister” della prima generazione furono Bertolino di Andrea di Bertolino e Giovanni di Domenico di Bartolomeo da Domodossola che, guidando la compagnia degli Antigoresi, edificarono fra il primo e il quarto decennio del cinquecento, nell’agro di Spello, la chiesa di
Santa Maria della consolazione di Vico, detta Tonda, e
l’adiacente convento dei Servi di Maria, o Serviti, oltre
ad altri edifici religiosi e civili in città. E’ plausibile ritenere come proprio a queste maestranze venisse affidato
l’ampliamento e la ristrutturazione degli edifici di culto romanici siti nella valle della Toce, giacché riunite in
compagnia di “sotii” ossolani, sul modello statutario dei
“maestri comacini” o degli “Antelami” – già disciplinati
dagli editti alto medievali dei re longobardi Rotari, del
643, e Liutprando, del 713 – si proponessero come continuatori dell’arte edificatoria medievale, trasmessa di
generazione in generazione, e rinnovata con la frequentazione operativa dei cantieri aperti nell’area milanese
attivi nel XV secolo. Sintomatiche del rinnovo rinascimentale milanese, sotto l’egida della dinastia degli architetti Solari, Giovanni (1400 c.-1484 c.), Guiniforte
(1429-1481) e Pietro Antonio (1450 c. – 1493), sono
talune caratteristiche d’esso passate nelle ristrutturazioni ossolane: la composizione unitaria dello spazio liturgico, che privilegia la continuità orizzontale delle navate; alcuni elementi formali, quali l’uso, non esclusivo,
dell’arco a sesto acuto; l’applicazione di ornati scultorei
sui portali e sulle nervature delle finestre ogivali (Bace209
Hans Funck, Madonna in trono venerata da Santi e donatori, vetrate
istoriate e dipinte (Berna) 1526. Crevoladossola, Santi Pietro e Paolo.
no) e la formazione delle colonne, dal capitello, di tipo
corinzio dalla fogliatura corposa ed elementare, al fusto
cilindrico, sovente massiccio, alla base “unghiata”, ossia
posata su un plinto parallelepipedo ornato da elementi fogliari ricadenti agli angoli. E’ probabile che, in concomitanza alla chiusura dei cantieri ossolani, si manifestasse il fenomeno migratorio verso l’Umbria delle maestranze edili antigoresi, alla ricerca di committenze necessitanti di costruttori competenti per realizzare opere
murarie anche di complessa struttura.
Acme espressivo della reazione oppositiva posta in essere dai “laudatores temporis acti”, memori dei previlegi e delle origini feudali della loro nobiltà, sembra porsi il presbiterio dei Santi Pietro e Paolo di Crevoladossola riedificato, completando l’ingrandimento terminato
nel 1526, per volontà dei committenti Paolo e Andreina Della Silva, che conferirono l’incarico del progetto e
della direzione dei lavori a Ulrich Ruffiner, architetto di
origine valsesiana molto attivo al servizio delle più potenti personalità politiche del vicino Vallese, interprete fra i più austeri e dotati di quel tardo gotico internazionale diffuso nei paesi di lingua tedesca e bene accetto alla corte di Francia19. Nel 1526 l’integrazione della
parrocchiale crevolese era terminata, completata, secon210
do la progettazione caratteristica del Gotico internazionale, dai diaframmi vitrei istoriati incassati nei finestroni e nel rosone dell’abside, splendidamente eseguiti da
Hans Funck, uno dei massimi maestri vetrai bernesi del
tempo. Anche a Baceno, ultimati i lavori di ampliamento nel quinto decennio, si provvide a chiudere le luci
dei finestroni gotici e dei rosoni con vetrate dipinte,
ma queste, datate 1547, vennero eseguite nella bottega
di Anton Schiterberger maestro vetraio zelatore di quel
manierismo che a Lucerna, dove operava, e nei cantoni
cattolici, si opponeva, in decori e figure, di ricchissimo
sviluppo ed elegante fattura, alla castigatezza iconoclastica dei cantoni riformati20.
La pittura del Cinquecento ossolano dimostra quanto
forte fosse, anche culturalmente, la dipendenza di questa valle dal Ducato di Milano a cui apparteneva; tuttavia nei primi decenni del secolo è ancora una famiglia
di pittori novaresi, quella di Tommaso Cagnola e dei
suoi figli Giovanni, Francesco e Sperindio a detenere il
controllo delle più prestigiose commissioni sia pubbliche, sia private. Al padre Tommaso vanno attribuiti il
ritratto ad affresco di un signore villese appartenente
alla famiglia dei Baceno e una Madonna in Trono con il
Bambino, datati 1502, provenienti da una casa di Sogno — frazione di Villadossola — ora conservati al Sacro Monte Calvario di Domodossola21, ascrivibili all’opera del maestro novarese per il garbo rinascimentale
del limpido disegno e pei decori ad arabesco che campiscono gli sfondi; del figlio Francesco sono l’immagine
mariana, piuttosto ingenua, affrescata nel Santuario di
Antonio Schiterberger, rosone della Trinità, vetrata dipinta e istoriata,
(Lucerna) 1547. Baceno, San Gaudenzio.
Sperindio Cagnola, Tentazione di Adamo, affresco inizi sec. XVI. Baceno, San Gaudenzio.
Viganale 2 2 , firmata e datata 1516, e la Adorazione del
Bambino proveniente da una casa di Montecrestese conservata accanto ai lavori del padre al Sacro Monte Calvario di Domodossola, datata 1513, ai quali maggiormente si accosta per il lindore esecutivo e per l’armoniosa composizione; problematiche invece sono le attribuzioni a Sperindio, poiché dei suoi lavori citati nella
documentazione diplomatica nessuno è rimasto ad accertare quali fossero i suoi modi espressivi, tuttavia, essendo documentata la sua associazione ad alcune imprese pittoriche di Gaudenzio Ferrari, si possono attribuirgli alcune opere improntate dalla maniera novarese
dei Cagnola, animate però da un naturalismo più convincente e nordicizzante di lezione gaudenziana, come
mostrano gli affreschi stesi sulle volte del Presbiterio,
nella cappella della Madonna del Rosario e la Tentazione
di Adamo sulla parete di fondo, a destra dell’altare maggiore23, nel San Gaudenzio di Baceno e una Madonna in
Trono col Bambino nella casa parrocchiale di Crodo, che
sono al più alto livello raggiunto in Ossola dalla pittura
dei Cagnola, nei quali è ipotizzabile che Sperindio, il
fratello dalla mano più colta, si fosse valso per eseguirli
dell’aiuto di Francesco e forse anche di Giovanni. Il primo dei pittori lombardi giunto in Ossola è il varesino
Francesco de’ Tatti, chiamato dal capitano reale Paolo
Della Silva, si ha fondato motivo di supporre su suggerimento dello zio materno Giovan Francesco Origoni,
per dipingere intorno alla venerata immagine della Madonna della Neve, affrescata nel Santuario di Domodossola, gli elementi figurali di contorno, stesi su tavola, della nuova pala, siglata e datata 1516 che, con la Pietà
conservata nell’oratorio di Santa Marta a Craveggia,
reca in Ossola l’eco di quei fermenti immessi nel Rinascimento milanese dall’aulica classicità vagheggiata e
proposta dal Bramantino24. Chiamato dallo stesso committente Paolo Della Silva, giunge in Ossola, quasi contemporaneamente, Fermo Stella da Caravaggio per affrescare fra il 1518 e il 1526 il presbiterio, appena ricostruito, nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Crevoladossola e, dopo qualche anno, l’ex battistero per la stessa comunità parrocchiale, mentre dipinge su tavola il
trittico per l’altare della cappella Mellerio nel San Mar211
tino di Masera 2 5 . Con l’artista caravaggino la cultura artistica ossolana acquisisce l’esperienza di una versione
diversificata dell’influenza gaudenziana, in cui i portati
della cultura d’oltralpe accentuano il carattere realistico
delle figure e introducono nuove soluzioni compositive
per soggetti tradizionali, come nell’ Ultima Cena di
Crevoladossola. A metà, all’incirca, del terzo decennio
del secolo il San Gaudenzio di Baceno venne dotato di
un organo e con esso le quattro tele, tese a foderare le
facciate esterne e interne delle ante mobili applicate allo
strumento, dipinte nella bottega milanese di Bernardino Luini per raffigurarvi i Santi Gaudenzio, Luigi IX di
Francia, Ambrogio e Maurizio, ora custodite, come quadri distinti, nel San Mattia di Oira26. L’apporto del maestro milanese ebbe certamente risonanza in valle, anche
perché associato a un organo, suppellettile rara nelle
chiese ossolane del tempo, destinata a suscitare molta
curiosità, che diede modo agli Ossolani di accostarsi a
un esempio della più pura e rigorosa interpretazione del
Rinascimento data nelle botteghe milanesi del primo
quarto del Cinquecento. Più estesa è l’opera di Giovanni Battista da Legnano giunto dalla residenza di Varese
in Ossola mentre iniziava il secondo quarto del Cinquecento27. L’esordio del pittore in valle Vigezzo, chiamato
ad affrescare il presbiterio del Sant’Antonio Abate di Toceno, non precluse la sua disponibilità all’accettazione
di commissioni private, di cui rimangono gli affreschi
per la cappella di Garavà ad Albogno (1527) e quelli
della cappella della Pila a Craveggia (circa 1534), che intervallano gli incarichi affidatigli da committenti pubblici, quali gli affreschi per le Logge dei Bandi di Craveggia, datati 1531, e di Toceno, posteriori di qualche
anno, lavori che lo porteranno, nel 1534, alla conclusione della sua attività in Vigezzo con gli affreschi stesi
a campire le pareti laterali dell’oratorio di San Rocco a
Crana, dei quali restano, in esecuzione originale, solamente quelli della parete occidentale, a rappresentare in
scene edificanti i fatti narrati dalla Vita del santo titolare. Con la medesima disponibilità riservata ai committenti vigezzini, anche in valle Antigorio Battista da Legnano, svolgendo durante il quarto e il quinto decennio
del Cinquecento una impressionante mole di lavoro,
assume commissioni pubbliche e private. Entro il 1537
dipinge immagini devozionali di soggetto mariano su
212
dimore patrizie a Pontemaglio e a Cruppo di Crodo, mentre ha già avviato l’impresa pittorica più impegnativa
portata a compimento nel 1539 ossia le Scene della Passione nel presbiterio del San Giulio di Cravegna e nel
contempo, ancora a Cravegna esegue gli affreschi che il
committente Antonio Nocetti, padre di Innocenzo IX,
gli aveva dato incarico di dipingere nell’oratorio di Santa Croce. L’attività di Battista da Legnano in Ossola si
conclude, sempre in valle Antigorio, dove nel 1542 affresca una Madonna del Latte con Sant’Antonio Abate
per l’abitazione di Giovanni De Campieno a Smeglio di
Mozzio e la Madonna del Latte coi Santi Pietro e Paolo
nella cappella ai Piani Superiori di Crodo. Ancorchè artista radicato alla versione foppesca del Rinascimento
lombardo, osservata nella bottega comacina dello zio
Alvise De Donati, di cui è allievo e talvolta procuratore,
si mostra pronto ad aggiornare l’apprendimento scolastico volgendosi al magistero di quelle grandi personalità artistiche che avevano scosso la tradizione rinascimentale lombarda: Leonardo e il Bramantino, come
s’avverte con particolare evidenza, seguendo la successione cronologica di stesura delle scene affrescate nel
San Giulio di Cravegna. Il 1542 è altresì l’anno in cui
Antonio Bugnate di Borgomanero firma e data la vasta
opera affrescata per il San Gaudenzio di Baceno 2 8 , che
porta il realismo di Gaudenzio Ferrari a estremi vernacoli, accesi da impulsi riformatori, scesi dall’oltralpe luterano gravati da fantasiose cupezze, come quelle spiranti dall’immagine demoniaca che dalla volta sovrasta
la grande Crocefissione, stesa, con suggestiva animazione, sulla parete occidentale del presbiterio. Degli affreschi eseguiti nella cappella, ora dell’Assunta, in capo alla
navata orientale, rimangono, discretamente conservati,
i decori della volta a finti trafori gotici, il fronte della lunetta sopra l’arco settentrionale, raffiguranti la Conversione di Saulo, e i fatti della vita di San Gaudenzio sotto
il finestrone orientale, mentre è appena rintracciabile la
figurazione della grande Crocefissione di San Pietro stesa
sulla parete di fondo, dietro la pala dell’altare. Ancora
visibile rimane in facciata la gigantesca figura di San
Cristoforo, testimonianza conclusiva dell’attività del Bugnate in Ossola. Il 1542 è un anno nodale per la cultura artistica locale, poiché durante il suo corso giungono
all’epilogo le vicende artistiche ossolane di Battista da
Antonio Bugnate, Crocefissione, affresco 1542. Baceno, San Gaudenzio.
Legnano e di Antonio Bugnate e nel contempo si ha
l’esordio di un pittore, ad essi culturalmente collegabile, discendente da un nobile casato di Montecrestese,
che firma e data Jacobus de Cardone/Nomine Antonii Petri Mellini/Pinxit 1542 la sua prima opera: una Madonna in Trono col Bambino nella cappella a Castelluccio di
Montecrestese29. Le numerose opere site in Ossola attribuibili a Giacomo De Cardone, caratterizzate da una
maniera decisamente originale, facilmente riconoscibile, ancorché diseguale per il variare delle tipologie figurali e decorative assunte durante i quattro decenni in
cui l’artista lavorando sviluppò la sua personalità, hanno l’avvio stilisticamente riconoscibile nell’intervento
profano, eseguito ad affresco nel 1547 ad Alteno di
Montecrestese, nella abitazione del Presbiter Giovanni
De Rodis, ora diroccata, sacerdote che probabilmente
aprì l’accesso alle commissioni affidate al Cardone per
decorare l’interno della parrocchiale, dedicata alla Bea-
ta Vergine Assunta, con le due figure dei Santi Giovanni
Battista e Sebastiano nel 1547 e, intorno al 1550, con gli
affreschi eseguiti nella cappella della Confraternita di
Santa Marta – ora del Battistero – dei quali rimangono
i finti trafori gotici della volta e la grande Crocefissione,
sulla parete di fondo, dagli aspri accenti settentrionali,
probabilmente dipendenti sia dalla lezione del Bugnate,
sia dalla frequentazione dei circoli amadeiti milanesi.
Nel 1553 il pittore è a Premia incaricato di completare
il decoro del presbiterio nella chiesa di San Michele con
le figure dei Santi Barbara e Antonio Abate e la solenne
Beata Vergine in gloria venerata da San Rocco, su uno
sfondo paesistico ispirato a luoghi del natio Montecrestese, mentre con la stessa data è segnata la Beata Vergine in Maestà affiancata da Sant’Antonio Abate eseguita
ad affresco all’esterno di una casa nella frazione di Rozzaro sempre a Premia. Il Cardone è ormai pronto, con
chiarezza di pensiero e maturità di stile, per affrontare il
suo ruolo di autore dominante la fase conclusiva dei
cantieri antigoresi, nei quali, ultimate le opere architettoniche venivano apportate le finiture degli interni con
la decorazione delle volte e delle pareti ricostruite o aggiunte. Ruolo confermato intorno al 1554 quando assunse la commissione più importante eseguita da un artista nel corso del secolo XVI, l’intera decorazione ad
affresco sulle volte e sui sottarchi delle navate laterali nel
San Gaudenzio di Baceno, nonché l’Ultima Cena sulla
parete di controfacciata, a destra dell’entrata settentrionale, e sulle pareti della navata orientale, nella prima
campata, il Transitus Animae di Santa Maria Maddalena, l’Adorazione dei Magi, recentemente liberata dalla
scialbatura sovrapposta, e, presso il battistero, la Deposizione della Croce. Ma tanta operosità subì un traumatico intervallo quando, nel febbraio 1561 venne arrestato
a Milano dal tribunale della Sacra Inquisizione, pendente l’accusa di eresia, e il sette aprile seguente, dopo
formale abbiura, venne assolto con la riserva precauzionale di eseguire nei cinque anni seguenti le penitenze
comminate dall’Inquisitore. Durante la sospensione penitenziale, ritiratosi a vita privata, ebbe modo di costruire una nuova ala aggiunta alla casa paterna e di decorarla all’esterno e all’interno con splendidi fregi graffiti a grottesche e ad affresco come la Predicazione del
Battista sulle rive del Giordano, datata 1564, sulla cap213
pa del camino nel saloncino d’onore. E’ probabile che
l’atto di accusa sia stato motivato dalle scene dell’Infanzia di Gesù affrescate sulla volta della terza campata nella navata orientale, ispirate da soggetti tratti dalle illustrazioni silografiche della luterana Leien Bibel. Fra il
1564 e il 1565, o poco oltre, saranno affrescate anche le
restanti volte e i sott’archi della navata occidentale. L’interludio profano, anticipato dai decori di Alteno datati
1547, culminò nel fregio eseguito per decorare il saloncino di rappresentanza della casa Marini al Boarengo di
Crodo, composto da scene mitologiche alternate a
stemmi di casate della consorteria nobiliare antigorese e
da grottesche, affrescate nei primi anni del sesto decenio del secolo XVI, simile a quello perduto eseguito
nella sala verde del castello Della Silva di Crevoladossola. I fregi a graffito e ad affresco stesi nel 1564 per ornare la sua abitazione sembrano, per ora, concludere il ciclo di opere profane eseguite dal Cardone, se nel 1566,
affrescando il 18 giugno la Beata Vergine in Maestà col
Figlio venerata da San Rocco sulla facciata di una casa all’alpe Salera di Crodo e il 28 luglio inserendo fra i decori esistenti della cappella ai piani superiori di Crodo le
immagini dei Santi Antonio Abate e Sebastiano, mostra
d’essere tornato nell’alveo della pittura sacra. A riprova
va ricordato il lavoro del Cardone nella cappella cimiteriale di Cardezza dedicato agli Atti della vita di San Rocco, affrescati sulla volta poco dopo il 1570. L’ultimo intervento di Giacomo de Cardone è ancora conseguente
all’esigenza di ornare una delle grandi chiese rinnovate
in area antigorese, ossia quella dei Santi Pietro e Paolo di
Crevoladossola, infatti, committente la “Compagnia degli Huomini che lavoravano a Roma” gli venne assegnato
l’incarico di affrescare il dossale dell’altare Dell’Annunziata con i Santi Gervasio e Protasio, sulle paraste anteriori, e, sulla parete incurvata sopra l’altare, la Beata Vergine in Trono affiancata dai Santi Sebastiano e Rocco al
centro, tra le scene laterali del Battesimo di Gesù e della
Disputa coi dottori nel Tempio, dove sulle pagine del libro aperto davanti a Gesù è dipinta, in forma abbreviata, la scritta “1573 7embris Jacobus de Montecristesio
pingebat”, così datando e firmando il suo ultimo lavoro
in Ossola superiore.
E’ lecito supporre che il Cardone si valesse di aiuti per
realizzare la vasta produzione attribuitagli e a sostegno
214
dell’ipotesi avanzata si potrà citare l’esempio del “Dominus Magister Johannes depintor f.q. Domini Andree dicti
Mauri de Vogonia” nominato in un contratto del 1552,
che data e firma “1563 DIE SEPTIMO JUNY JOANNES MAURUS VOGONIENSIS PINX.” i quattro
Profeti, affrescati nell’infradosso dell’arco che distingue
la prima campata della navata occidentale dalla navata
centrale del San Giorgio di Varzo, unico resto noto della
pittura eseguita dal maestro vogognese, fortemente inclinante ai tipi e alla maniera del Cardone, tanto da poterne ipotizzare il discepolaggio. Forse fu il Mauro, residente a Vogogna, centro podestarile dell’Ossola inferiore e delle Quattro Terre, ad aprire i contatti del Cardone con la commmittenza di quell’area ossolana, che
lo volle autore delle manifestazioni pittoriche attestanti la devozione locale. Sono infatti attribuite al Cardone
le immagini devozionali affrescate: nella cappella dell’abitato di Battiggio a Vanzone, datata 1552; sulla parete esterna della casa appartenuta al notaio Giovanni
Mora di Anzino del 1552 ca.; la Madonna in Trono col
figlio, datata 1559, e l’analoga Maestà Mariana affiancata da Santa Lucia e devoto, datata 1576, entrambe perdute, ma documentate da riprese fotografiche risalenti
agli anni sessanta dello scorso secolo; nella cappella nell’agro di Molini, frazione di Calasca, datata 1576; nella cappella in località La Piana in val Baranca, nel territorio di Bannio, del 1576 ca.. Ancora contemporanea, pare, ai primi affreschi di Montecrestese del 1547,
la Maestà Mariana affrescata un tempo in una cappella rurale a Vaciago di Ameno, sopra il lago d’Orta, ora
venerata nel Santuario della Bocciola, eretto ed ampliato
nello stesso sito nel corso di tre secoli dal XVII al XIX.
Gli esiti di una attività creativa tanto estesa rivelano la
personalità complessa dell’autore: edotto dall’esperienza lombarda, che, principiando dai contatti col mondo accademico frequentato negli anni giovanili, maturò a confronto coi lavori di Battista da Legnano e del
Bugnate, aggiustò poi alla propria poetica volgendosi,
controcorrente, alla pittura dell’Oltralpe di lingua tedesca, forse prendendone visione diretta, certamente conoscendone la produzione a stampa. Né si potrà concludere la breve escursione attraverso il patrimonio pittorico voluto in Ossola durante il XVI secolo dai committenti locali senza osservare come esso sia, assieme
alle altre espressioni artistiche, la conferma cinquecentesca, di entità stupefacente, del promettente avvento
quattrocentesco di quella volontà d’arte che, persistente, alimenterà la produzione artistica dei secoli seguenti, nè, chiudendo, si dimenticherà il modesto, ma significativo trittico, annidato nella sacrestia dell’oratorio di
San Rocco a Crego, dipinto a tempera su tavola per figurarvi la Madonna di Loreto coi Santi Rocco e Sebastiano, firmato Antonio de la Todesca e datato 1563 e l’esempio più tardo di pittura profana, datato 1598, forse dovuto alla moda diffusa nelle residenze gentilizie ossolane dallo spunto iniziale di Giacomo de Cardone, dato
dal fregio eseguito da un ignoto pittore di cultura tedesca, nella sala all’ultimo piano della Torre di Piedimulera, dove però piccola parte è riservata a un mitico Trionfo, mentre piacevoli scene di caccia occupano la quasi totalità della superficie affrescata30.
Gli avvii e le tendenze dianzi notate in architettura e
in pittura si avvertono persistenti anche in scultura, soprattutto nella scultura lignea rifinita da apporti policromi dipinti e da dorature stese in foglia o in polvere. Gli avvii su accennati, però si radicano in una tradizione già operativa nel medioevo, quando venne scolpita la superba Madonna in Trono col Figlio, conservata
a Macugnaga, esemplare paradigmatico della versione
schematica inventata dalla sensibilità romanica per raffigurare la Maestà mariana, ieratica, eppure umana, nello splendore della doratura rifinita dalla policromia degli ornati. Ancora in Ossola inferiore, due gruppi scultorei della Beata Vergine col Figlio: una regale, custodita nel museo parrocchiale di Ornavasso, detta dell’uccellino, raffigura la Maestà Mariana nella versione tipica
del Quattrocento milanese, ancorché presenti l’inconsueta iconografia della madre allattante, rinascimentale nelle anatomie e nell’impianto del trono, ma gotica
nella sinuosa cadenza delle pieghe e nel preziosismo degli ornati; l’altra, della parrocchia di Piedimulera, benché mancante del Figlio e sia in pessimo stato di conservazione, si propone coi caratteri spiccati del Tardo
Gotico lombardo, caratteristico del Quattrocento, nel
rappresentare la madre in umanissimo abbandono. La
ricca tradizione consolidata in Ossola31, episodicamen-
te testimoniata dalle sculture citate, si arricchisce nell’ultimo quarto del secolo XV della produzione uscita
da una bottega vigezzina, aperta a Craveggia, dalla famiglia dei Merzagora, che di generazione in generazione la gestirono fino all’esordio del secolo XVII. Imponenti sono i capolavori eseguiti a cominciare dai gruppi statuari dedicati al Compianto sul Cristo Morto, sia
quello esposto al Museo Civico d’Arte Antica di Torino, sia quello conservato al Sacro Monte di Orselina, presso Locarno nonché le due statue del Cristo morto e di una Dolente, custodito a Cosasca, appartenenti
ad altro Compianto andato disperso, le sole conservate
in valle dei Compianti attribuiti a Domenico Merzagora. Alla generazione seguente quella di Domenico, assieme al Crocifisso di Masera, vanno invece attribuiti il
Compianto nel San Martino di Masera e il Crocefisso sull’altare maggiore nella Chiesa di Cristo Risorto a Villadossola, spiranti maggiore sentimentalità espressa dalla ricerca delle agitate posture e dalla acuita attenzione nella finitura delle anatomie per inverare con naturalezza l’espressione degli affetti. Autore dei due monumenti lignei Cinquecenteschi di maggior spicco in provincia fu Andrea Merzagora: nel 1582 del coro ligneo
nel presbiterio della chiesa detta Madonna di Campagna
a Pallanza32 e nel 1596, assieme al fratello Domenico,
dell’ancona posta come dossale dell’altare maggiore nel
San Bartolomeo di Villadossola33, che intorno al pannello della Crocefissione celebra in cinque altorilievi gli atti
salienti della Vita di San Bartolomeo, ora deturpata da
un furto sacrilego che infama il nostro tempo. Se l’impronta lombarda perdurerà nella tradizione famigliare dei maestri craveggesi fino alla fine del Cinquecento
quando Andrea, ultimo maestro della bottega vigezzina, porterà ad esiti geniali di vigoroso manierismo l’eredità raccolta dalle precedenti generazioni, sarà anche a
causa dei contatti che queste ebbero con una delle più
apprezzate botteghe milanesi attiva dall’ultimo quarto
del Quattrocento al terzo decennio del Cinquecento,
ossia la bottega dei De Donati. Il collegamento d’avvio con la bottega milanese dei fratelli De Donati, Giovan Pietro e Giovan Ambrogio, già attivi nel cantiere del
Duomo di Pavia gestito dall’Amadeo, si istituì intorno
Giacomo di Cardone, Predicazione del Battista, affresco 1564. Montecrestese, casa del pittore Cardone.
216
al 1510 quando assunsero l’incarico di fornire all’oratorio conventuale dei Cavalieri di Malta, alla Masone di
Vogogna, l’ancona della Annunciazione, a cui era dedicata la mansione giovannita, della quale, dopo la soppressione del 1797, rimane la statua della Beata Vergine
nella chiesa di San Giorgio di Varzo venerata come Madonna del Rosario, e mediante l’analoga commissione
accettata nel 1514 di eseguire l’ancona della Beata Vergine Immacolata in Adorazione del Bambino per la chiesa di Santa Maria degli Angeli annessa al convento vogognese dei Padri Serviti soppresso nel 1797, della quale
si è conservata la sola statua della Beata Vergine, ora invocata, nell’oratorio di Santa Marta con il titolo di Addolorata34. Sebbene dell’opera dei De Donati in Ossola non rimangano che parti frammentarie di complessi
andati dispersi, quali l’Eterno Padre benedicente assieme
a due Gruppi d’angeli nel Museo di Palazzo Silva a Domodossola e il Cristo Risorto nel San Vincenzo di Pieve
Vergonte, si deve probabilmente alla loro influenza l’accentuazione naturalistica e umanistica, propria del Rinascimento milanese, passata per confronto alla cultura della seconda generazione dei Merzagora. Con l’opera dei Merzagora la cultura artistica lombarda perdura con ruolo primario in Ossola; tuttavia non mancherà d’apparire, anche nelle vicende della scultura lignea
cinquecentesca, la dissidenza antigoriese francesizzante
con l’apporto di manufatti tedeschi, scolpiti in botteghe dell’alta Svevia secondo i canoni del Gotico fiorito,
introdotti in valle Antigorio, durante il secondo e il terzo decennio del secolo, dal flusso proveniente dai centri mercantili della Svizzera centrale. Di tali importazioni si citerà, oltre ad alcuni esempi frammentari nel Museo di Palazzo Silva a Domodossola, l’ancona conservata
nel coro del San Gaudenzio a Baceno, datata 1525, quale esemplare che, per qualità esecutiva e coerenza stilistica, altamente testimonia il gusto cortese sopravvissuto nei committenti antigoriesi di Parte Brennesca; vanno inoltre considerate le opere commesse ad artisti di
cultura germanica dalle enclave etniche walser, sculture
ancora presenti in val Formazza, nella parrocchiale dedicata a San Bernardo e in alcuni oratori, e a Macugnaga, dove nella Chiesa Vecchia di Santa Maria il soffitto
ligneo del presbiterio, opera lavorata ad intaglio e datata 1513 del maestro friburghese Peter Mory, documen-
ta, quale unico esemplare superstite del suo genere e del
suo tempo, come anche nell’aspra esistenza di quelle
comunità alpestri avesse posto la volontà d’arte mediatrice di valori spirituali e civili.
L’età barocca durante il Seicento e il Settecento porta
un profondo mutamento nella immagine artistica delle
valli ossolane, poichè, sullo stimolo iniziale della Controriforma, di cui fu grande interprete il vescovo novarese Carlo Bascapè, molti edifici sacri esistenti vengono
modificati, se non addirittura ricostruiti, per adeguarli
ai dettami del Concilio tridentino e i nuovi, che la pietà e l’aumento della popolazione esigono, s’uniscono ai
precedenti rinnovati per coprire tutto il territorio ossolano con una ricca varietà di tipi architettonici, comprendente chiese, oratori, cappelle, edicole, che, pure
nel variare delle forme, sono tutti improntati al nuovo
linguaggio stilistico. Il Barocco ossolano s’esprime però
in forme classicheggianti, anche negli edifici più ricchi,
dove la ricercatezza degli effetti decorativi non mira al
virtuosismo, ma a creare nuove, caute, gioiose armonie
fra stucchi dorati e affreschi dai chiari colori brillanti.
Il lungo elenco di edifici, sculture, pitture e decorazioni
non può essere contenuto in queste pagine, perciò solo
qualche opera verrà citata quale esempio di quel tempo. Fra le parrocchiali ricostruite il San Brizio di Vagna (1666) e il San Rocco a San Rocco di Premia durante il Seicento, nel Settecento i Santi Giacomo e Cristoforo di Craveggia (1733) e la Santa Maria Assunta di Santa Maria Maggiore (1733-1742).
Esempi di nuove costruzioni si hanno con la Beata Vergine del Rosario alla Noga di Villadossola (1633-1692),
la Beata Vergine Assunta e San Giuseppe di Macugnaga (1709-1717). Nei santuari settecenteschi della Madonna della Guardia a Ornavasso, della Madonna della
Vita di Mozzio e di Santa Marta a Craveggia i caratteri
armoniosi del più ricco Barocchetto ossolano sono apprezzabili nel gaudioso gioco che in dispiegate eleganze
fonde spazi e colori, strutture e decori.
Le modificazioni più profonde al paesaggio ossolano
s’ebbero con la costruzione dei Sacri Monti, che aprirono parchi o giardini della devozione, alcune volte in
luoghi remoti, attorno al sacro itinerario della Via Regia da percorrere processionalmente in preghiera e ascetica meditazione.
217
Il Sacro Monte Calvario, tracciato sul colle di Mattarella
a Domodossola, per la ricchezza delle architetture e degli arredi, dovuti a noti artisti, che dal secolo XVII fino
ai nostri giorni vi operarono, quali Dionisio Bussola, interprete sensibilissimo della lezione berniniana appresa
a Roma, e Giuseppe Rusnati, entrambi protostatuari del
Duomo di Milano, è certamente il più cospicuo realizzato in Ossola35, ma non vanno dimenticati quelli minori che la devozione popolare con grandi fatiche ha
eretto intorno ai suoi santuari, quali quello della Madonna della Neve a Bannio — (1622 il santuario, 17211722 le cappelle)36 —; della Madonna di San Luca alla
Salera di Cravegna (santuario 1729, cappelle 1738)37;
di Sant’Antonio da Padova a Anzino nel Settecento.
Se nell’architettura o nella pittura il Seicento è povero
di autori ossolani, nella scultura la presenza di artisti locali è dominante. Non c’è chiesa al piano o nelle valli
che non conservi almeno un segno di scultura lignea intagliata da mano ossolana. Il fasto che impronta la produzione artistica dell’età barocca nella valle della Toce
ebbe nella scultura lignea delle ancone, rilucente di dorature e dai vividi colori, l’espressione più alta e più significativa. Dalla bottega di Giorgio De Bernardis (1606
— post 1663) in via Briona a Domodossola — attiva alla
metà del Seicento — uscirono lavori ricchi, ma solenni, legati al Manierismo lombardo e aperti a esperienze centro europee colte dal maestro durante i suoi soggiorni in Vallese, dove aveva legato salda amicizia con
Gaspare Stockalper. Suoi lavori rimangono: a Seppiana
— altare della Madonna del Rosario del 1645 e l’armadio di sacrestia nel Sant’Ambrogio —; a Vagna — altare del Nome di Gesù del 1646 nel San Brizio —; a Domodossola — Crocifisso del 1652-54 sull’altare maggiore dei Santi Gervasio e Protasio —; a Croveo — la porta
della Natività di Maria —; a Naters, nel Vallese — l’ancona dell’altare maggiore nella parrocchiale — per elencarne solo alcuni fra i più indicativi38. Fra gli allievi cresciuti alla scuola di Giorgio de Bernardis il più dotato
fu Giulio Gualio di Antrona (1630-1712) tanto che il
maestro lo scelse quale continuatore della sua bottega.
Il Gualio fu maestro, a sua volta, valente, tanto da foggiare discepoli come Francesco Antonio Alberti di Boccioleto in Valsesia, attivissimo, capace di diffondere in
Ossola e nel Vallese un vasto numero di opere duran218
te la seconda metà del secolo, negli ultimi anni aiutato
dal figlio Paolo. Il lungo catalogo dei suoi lavori non è
ancora compiuto, ma la misura di questo scultore ossolano la si potrà cogliere visitando il San Lorenzo di Antronapiana, dove, fra il 1660 e il 1694, costruì, scolpì
e indorò cinque altari, quasi un campionario delle sue
capacità di scultore barocco, armonioso e sobrio, ancora fedele ai canoni classici appresi dal maestro, ma largo di pensiero nell’inventare le scenografiche architetture dove allogherà statue di squisita fattura39. Il Seicento si conclude e s’apre il Settecento con l’ultima grande
personalità della scuola ossolana di scultura: Pietro Antonio Lanti di Macugnaga (1679-1729). Già nel suo primo lavoro documentato, del 1724, nella Madonna della
Neve a Borca di Macugnaga, scolpendo l’ancona dell’altare, il Lanti libera il suo genio creativo per elevare nello
spazio un gioco fantasioso di nastri e fogliame, che accoglie putti e piccole immagini, per incorniciare la pala
dipinta. Il carattere del suo stile è già rivelato in questa scultura così come lo si ritrova nell’altare della chiesa nuova di Macugnaga, con una cadenza più solenne e,
più appassionato, nel monumentale Crocefisso sito nella stessa chiesa. Altre sono le opere del Lanti sparse nell’Ossola e altri sarebbero gli scultori da menzionare che
hanno dato immagini alla pietà e arredi alle case ossolane, opere e autori che il lettore curioso potrà trovare citati in studi monografici da tempo pubblicati40.
Si dovrà però almeno segnalare il ruolo avuto in tale
contesto, dopo l’annessione dell’Ossola al Regno di Sardegna, dallo scultore di Viganella Giovan Pietro Vanni
(Viganella, 1744 - ?, 1813/1822) che, compiuto l’apprendistato in Valsesia, seppe inserirsi, nella seconda
metà del Settecento, nei circuiti artistici locali e, al soppraggiungere del nuovo secolo, quando il vigore della tradizione scultorea ossolana stava ormai scemando,
ebbe l’impulso, primo fra gli scultori ossolani, di volgere l’attenzione a modelli trascelti dalla cultura artistica Piemontese durante il passaggio dal Classicismo ai
canoni estetici del Neoclassicismo, in particolare guardando alle opere scultoree e decorative degli artisti impegnati a fornire arredi di rappresentanza alle residenze
della corte sabauda41.
Chiuderò il discorso sulla scultura Seicentesca locale citando il famoso Crocefisso di bronzo collocato nel San
Bartolomeo di Bannio, giunto in valle Anzasca dalla
Spagna, attribuito da Giovanni Romano allo scultore di
Norimberga Georg Schweigger (1613-1680). Come lo
splendido bronzo tedesco, e le avvivate terracotte dipinte di Dionisio Bussola, pare che anche i grandi dipinti
giunti in Ossola nel corso del Seicento abbiano avuto
poca influenza sugli artisti locali. Opere quali l’Assunzione della Beata Vergine nel San Gaudenzio di Baceno,
dipinta nel 1604 da Avanzino Nucci (1552-1629), uno
dei pittori assunti insieme alla schiera d’artisti mobilitata da Sisto V per riformare il volto di Roma42, o la Vergine che presenta il Bambino a San Felice da Cantalice,
con l’autoritratto dell’autore accosciato ai piedi del
gruppo sacro, preludio barocco del 1609 dipinto nel
balenante spazio di 13 ore dal cappuccino fra Cosimo da
Castelfranco, al secolo Paolo Piazza, come era solito firmarsi, per l’oratorio del Piaggio di Craveggia, paese da
cui l’artista, famoso e conteso dai potentati del suo tempo, traeva le origini, unita alla sua Madonna delle Grazie col Bambino e i Santi Carlo e Rocco pala della cappella di San Carlo nella Santa Maria Assunta di Montecrestese43, oppure il San Carlo che comunica gli appestati e
la Visitazione di Tanzio da Varallo (1626), magistrale
quanto efficace erede del fervore immaginifico suscitato dalla pietà borromaica, presenti già all’inizio del secolo, l’uno nella collegiata di Domodossola, l’altra nel
San Brizio di Vagna44, con la possente tela, dall’aggressivo virtuosismo anatomico, attribuita al Cerano, un
tempo pala dell’altare dedicato al SS. Nome di Gesù e
la pala dell’altare di San Pietro nel Santo Stefano di Crodo, celebrante La Consegna delle Chiavi, superbo esempio di classicismo e naturalismo carracesco, forse giunto in valle dalla bottega romana di Domenico Zampieri (1581-1641), oppure quell’altra pala donata nel 1684
da emigrati bolognesi all’altare dell’Epifania nel San
Giulio di Cravegna “che rinvia all’ambito della bottega
bolognese di Lorenzo Pasinelli” e suggerisce l’intervento dei suoi allievi Giavanni Antonio Burrini e Giovan
Gioseffo Dal Sole, rispettivamente richiamati dai dettagli accuratamente rifiniti e da altri dalla fattura più
sciolta di timbro neoveneto45, avrebbero dovuto scuotere l’animo e l’intelligenza dei pittori ossolani, ma forse
fu loro più congeniale il quieto accademismo della tela
dipinta ad olio inviata dai Mozziesi emigrati a Bologna
Maestro anonimo sec. XII-XIII, Madonna in trono col figlio, legno
scolpito dorato e dipinto al naturale. Macugnaga, chiesa parrocchiale.
per la cappella di San Carlo nella parrocchiale di San
Giacomo a Mozzio, eseguita nel 1613, con accenti veristici, da Giovanni Battista Gennari di Cento per narrare
di San Carlo che risuscita un bambino mentre visita gli
appestati, o di Stefano Delfina ab insula di Orta, autore
della Santissima Trinità dipinta a olio su tela nel 1628
per il Sant’Agostino di Premosello46, della pala dell’Annunciazione per l’oratorio giovannita di Santa Maria
Annunziata ora custodita nella parrocchiale di San Giorgio a Piedimulera e il dossale dell’altare maggiore, in
olio su tavola dell’oratorio dell’Annunciazione a Bannio47, oppure quello, più studiato e incisivo, del fiorentino Luigi Reali48, attivo dal quarto al settimo decennio
del secolo, che, segnato dal lombardismo dei Quadroni
del Duomo di Milano, con l’aiuto occasionale del pittore Francesco Negri di Mozzio, distribuì esempi del decoro tridentino, consonanti con la pietà popolare ossolana, in chiese e oratori da San Giovanni a Montorfano
ad Antillone in valle Formazza. Uscito dalla bottega fio219
rentina di Francesco Curradi, il Reali, sostando dapprima a Milano, per adeguare il proprio apprendistato al
gusto lombardo, e poi sulle rive del Verbano, per lavorarvi, si volse al settentrione alpino in cerca di committenti, e non solo nelle valli ossolane, giacché, diramando l’itinerario operativo verso occidente, trovò commissioni in Valsesia e in valle Strona, e verso oriente, nella
provincia comasca, dove assunse lavori in Valtellina e in
Valsassina. Due tele votive, entrambe dedicate a San
Giuseppe e raffiguranti, su uno schema compositivo ripreso dal Morazzone, lo Sposalizio della Beata Vergine,
segnano i termini, iniziale e finale, del lasso di tempo
impiegato dal pittore fiorentino nelle opere ossolane: la
prima, datata 1639, nella Madonna della Neve di Domodossola; l’ultima, datata 1660 per la pala sull’altare
di San Giuseppe nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Vocogno di Craveggia. Ma la composizione
replicata con maggiore frequenza dal Reali per le pale
degli altari è quella di tipo piramidale costituita dalla
Beata Vergine delle Grazie, levitante al vertice su un
nembo di nubi, fra due santi, palesatori del culto locale, che alla base, sullo sfondo di un paesaggio, la venerano e la assistono. Così si presentano le pale negli oratori di Montecrestese: a Nava, coi Santi Antonio Abate e
Sebastiano datata 1640; ad Altoggio, coi Santi Giovanni
Battista e Giacomo Maggiore, datata 1645. Analoghe
sono la pala per il San Giovanni a Montorfano coi Santi Giovanni Battista e Rocco; quella a Pizzanco di Bognanco coi Santi Uguccione e Lorenzo, affiancata dalla
tela dedicata alla Immacolata coi Santi Giuseppe e Antonio da Padova; infine il dipinto del 1644 nei Santi Pietro e Paolo di Crevoladossola dedicato alla Madonna del
Rosario coi Santi Domenico e Caterina da Siena, capifila
delle due schiere di santi ai piedi della Vergine. Allo
stesso disegno compositivo si può avvicinare anche la
pala della Incoronazione della Beata Vergine coi Santi Andrea e Carlo che venerano la Croce sull’altare omonimo
nella Santa Caterina d’Alessandria di Vocogno e San
Carlo Borromeo che venera la Regina Coeli, del 1650, dipinto per la chiesa di Santa Maria Assunta di Mergozzo.
Altre due pale per altari laterali di San Rocco, dove il
santo è figurato in primo piano, sempre sullo sfondo di
un paesaggio, quasi eseguendo il tipo del ritratto a figura intera, sono collocate nel San Zenone di Tappia e nel
220
San Carlo di Bracchio, alle quali va aggiunta la tela votiva dedicata a San Zenone nell’oratorio di San Giovanni Evangelista a Valpiana di Villadossola. Alle opere ricordate si devono aggiungere i cicli narrativi per le cappelle minori dedicate a San Carlo Borromeo di cui rimangono: integro quello eseguito a tempera grassa, nel
1655, sulla volta della cappella nella Santa Maria Assunta di Montecrestese; ridotto invece alle due tele rimaste ai lati della pala, quello dipinto per il San Lorenzo di Bognanco. Dei lavori eseguiti ad affresco restano
l’Annunciazione, San Giovanni Battista e Sant’Antonio
da Padova sulla facciata dell’oratorio di Giosio a Montecrestese e il ciclo steso nel presbiterio dell’oratorio di
Antillone, in val Formazza, dedicato alla Visitazione.
Luigi Reali era ancora operoso in Ossola quando Carlo
Mellerio, nato nel 1620 da famiglia patrizia craveggese
trasferitosi da poco a Domodossola dove contava amicizie ed entrature presso la nobiltà cittadina, compiuto
l’apprendistato all’ombra dell’Accademia Ambrosiana e
avviatosi nella pratica dell’arte come maestro apprezzato e ben introdotto nell’ambiente artistico milanese, ritornava nel capoluogo ossolano, eleggendolo a centro
della propria attività49, ottenendo la prima commissione del 1649 per affrescare le volte del protiro e le figure
di San Vitale e Santa Valeria sulla facciata della collegiata domese. Influenzato dai manieristi lombardi dell’età
borromaica, in particolare dalla personalità del Cerano e
successivamente del Procaccini, il Mellerio recò aggiornamenti alla cultura artistica ossolana acclimandola agli
orientamenti accademici federiciani tendenti alla «verità delle cose» e dei «moti e affetti» mediante il rigore costruttivo e il controllo plastico della forma. Si adoprò
inoltre perché opere e artisti portassero in Ossola significativi termini di confronto, come le grandi tele del
San Giovanni Battista e del San Gerolamo dipinte nel
1641 dallo spagnolo Bartolamé Roman per la chiesa dei
santi Pietro e Paolo di Malesco50, o, più mordente nell’immaginazione popolare, l’opera di Dionisio Bussola
plasmata per l’arredo scultoreo delle cappelle al Sacro
Monte Calvario, che veniva realizzato in quegli anni a
cura del fiduciario episcopale Giovanni Matteo Capis,
zio d’acquisto di Carlo. Peraltro nello stesso tempo e
proprio al Calvario, il Mellerio, assieme allo scultore
Giulio Gualio, s’impegnò a dipingere le statue del Bus-
sola e del Volpini e intorno al 1660, ancora col Gualio
che ne intagliava la cornice, replicò in copia la Visitazione del Tanzio per la chiesa conventuale dei Cappuccini,
ora custodita a Palazzo Silva. Pienamente integrato nella vita valligiana concorse al rinnovamento seicentesco
degli edifici di culto ossolani, sia in città e nei dintorni,
sia nei paesi dislocati nelle valli. A Domodossola affrescava il medaglione con l’Eterno Padre per la volta della
Madonna di Loreto al Calvario e nel 1674 il Miracolo
della Neve in facciata al santuario della Madonna della
Neve, nonché il trittico con la Beata Vergine affiancata
dai Santi Domenico e Caterina da Siena per l’oratorio
gentilizio della Madonna di Loreto; ad Anzuno nel
1683 dipingeva su tela la pala per l’altare dell’oratorio
di Sant’Antonio da Padova; a Crevoladossola nel 168283 la pala dell’altare e gli affreschi nell’oratorio di San
Vitale. Ancora in collaborazione con il Gualio, autore
delle opere lignee d’ornamentazione, dipingeva nel
1683 la pala per l’altare del Santo Rosario nel San Lo-
Giulio Guaglio, Altare a ciborio, legno scolpito e dorato 1686.
Antronapiana, San Lorenzo.
renzo di Bognanco. In valle Antrona, nel Sant’Ambrogio di Seppiana, eseguiva, per la cappella del Santo Rosario, gli affreschi dedicati alla Vita della Beata Vergine
ossia la Nascita, l’Annunciazione, l’Adorazione dei Magi
e l’Assunzione, in un tempo di poco posteriore al 1660,
anno conclusivo delle opere edili. A Montecrestese fra il
1660 e il 1670 è impegnato nella parrocchiale della
Beata Vergine Assunta a decorarne il presbiterio: la volta, con gli Evangelisti e le Virtù Teologali, e le pareti, con
i Misteri dell’infanzia, ossia l’Annunciazione, l’Adorazione dei Pastori e la Presentazione al Tempio; le volte della
navata centrale con le figurazioni di alcune invocazioni
litaniche lauretane e l’Incoronazione della Beata Vergine,
per concludere con l’Assunta dipinta in facciata. Nello
stesso centro, oltre agli affreschi per l’Assunta, dipingeva nella volta del santuario di Viganale, nell’oratorio di
Sant’Antonio da Padova a Roledo e l’esterno e l’interno
della cappella rurale di Piccioledo. Nè mancò di assumere incarichi in valle Vigezzo, dove, intorno al 1670,
affrescava la volta del presbiterio nel santuario di Re raffigurandovi gli Evangelisti e l’Eterno Padre; nel 1672 è a
Druogno per dipingere al centro della volta l’immagine
del Santo Pontefice Silvestro; eseguiva inoltre un affresco
nell’oratorio di San Michele ad Albogno, la pala con la
Nascita di Maria per l’oratorio del Piaggio di Craveggia
e le volte nell’oratorio dei Santi Antonio Abate e Antonio
da Padova nel 1685, probabilmente la sua ultima opera.
Infine va ricordato il dipinto votivo offerto, nell’ottavo
decennio del secolo, al San Gaudenzio di Baceno, dal
capitano Ludovico Scaciga, dedicato alla Sacra Famiglia
e a Sant’Antonio da Padova. La laboriosa continuità accademica impegnata a «riformare» l’immagine seicentesca dell’arte sacra ossolana ebbe probabilmente un sussulto quando, a metà degli anni ottanta del secolo, venne esposta nel San Silvestro di Druogno la grande tela
raffigurante un Miracolo di Sant’Antonio da Padova, firmata Godefrigo Maes Anteverpia 168551, donata da emigrati druognesi saliti nella società fiamminga a posizioni altolocate, tali da potersi rivolgere, nell’alto rango di
committenti facoltosi, alla bottega di Anversa del maestro Godefrigo Maes (1649-1700), autore significativo,
ancorché poco noto, di un Seicento fiammingo dall’elegante eloquenza formale dispiegata nei soggetti raffigurati con invenzione indipendente dalle correnti artisti221
che allora in auge nelle Fiandre. Si deve arguire che il
confronto con l’opera del Maes ebbe valore esclusivamente episodico per gli artisti locali, poiché durante il
ventennio conclusivo del secolo l’ambiente artistico ossolano esprimerà solamente autori ligi alla tradizione
accademica, ancora disposti ad accettare suggerimenti
da modelli manieristici superati dalla temperie seguita
altrove in quei decenni.
E’ il caso del pittore vogognese Antonio Valentino Caviggioni (1653-post 1733) detto Valentino Rossetti52, autore oggi riconoscibile in due opere bisognose di pulitura
e restauro: l’Ultima Cena nell’oratorio di Santa Marta a
Vogogna, databile al 1680, e la pala d’altare dipinta nel
1696 per l’oratorio di San Rocco a Cimamulera. Oltre
ai dipinti ossolani citati sono rimasti in valle Strona e in
Valsesia sia affreschi, sia dipinti ad olio del Caviggioni,
che ebbe nel figlio Pietro e nel nipote Luca, residenti ad
Orta, i continuatori della bottega avviata dal pittore a
Vogogna. Dall’incontro col manierismo romano del vasariano riminese Livio Agresti, studiato, parrebbe, con
attenta solerzia, Valentino Rossetti trasse schizzi e bozzetti utilizzati in seguito per comporre figurazioni accademiche dipendenti dall’opera dell’Agresti, debito risultante in particolare con inequivocabile evidenza dall’
Ultima Cena di Vogogna, più che ispirata, replicata dal
medesimo soggetto trattato ad affresco dal pittore riminese nell’oratorio romano del Gonfalone. Contemporaneo del Caviggioni il vigezzino Giacomo Antonio Minoli53, nato a Gagnone di Druogno nel 1657, completò
la propria formazione ossolana a Roma, dove soggiornò
fra il 1670 e il 1679, senza trarne significativi benefici,
si direbbe, considerando le quattro grandi tele inviate
dal Minoli alla nativa Druogno da Rastiglione in Valsesia, dove nel frattempo, si era trasferito. Infatti i dipinti destinati alla Confraternita del SS. Sacramento, eretta nella cappella dei Santi Carlo e Giuseppe del San Silvestro, mostrano, tranne il Miracolo della mula inginocchiata innanzi all’ostia ostensa da Sant’Antonio da Padova, di dipendere strettamente da soggetti già presenti in
chiese ossolane: l’Ultima Cena, con il cartiglio in calce
recante la dedicatoria dell’autore, riprende la composizione gaudenziana dipinta da Fermo Stella per la par-
rocchiale di Crevoladossola; il San Carlo che comunica gli appestati è debole copia di quello del Tanzio nella Collegiata di Domodossola; lo Sposalizio della Vergine ricalca la versione del medesimo soggetto data da
Luigi Reali nella pala di Vocogno. Analogo comportamento si osserva nell’opera di Francesco Antonio Antonietti di Beula di Baceno (1668-1752), artista dalla biografia ancora in corso di ricerca (Tullio Bertamini), finora conosciuto solamente quale autore delle due grandi tele dipinte nel 1696 per la cappella di San Carlo nel
San Gaudenzio di Baceno, difficilmente leggibili perché offuscate dalla sporcizia e dal tempo, tuttavia rivelatrici di buon mestiere, esercitato nel disegno e sciolto
nel comporre, ancorché limitato da carenza d’invenzione, giacché I’Ultima Cena mostra i suggerimenti ripresi
da quella donata dal Minoli al San Silvestro di Druogno
e la Preghiera nell’Orto si rifà a quella stesa da Battista da
Legnano nel San Giulio di Cravegna sulla traccia della
scena düreriana intagliata per la Grande Passione54.
Contemporaneo dei secentisti ossolani citati l’antigoriese Pietro De Pietri (Cadarese 1663-Roma 1716) ben
altro livello toccò durante la sua vicenda, fin dagli inizi,
quando quindicenne venne accolto a Roma nella prestigiosa bottega del Maratti e quindi, entro pochi anni,
seppe raccogliere intorno alla sua opera il consenso dei
più qualificati committenti romani, tanto da attrarre
l’attenzione di Clemente XI, che gli commise importanti lavori e lo volle membro della Accademia di San
Luca55. In Ossola non rimangono che lievi tracce, in
mano privata, della vasta produzione stesa ad affresco,
dipinta ad olio, disegnata o incisa che diede fama al De
Pietri fra i maestri romani fautori del Classicismo, ma
forse un collegamento locale, sia pure appena proponibile, lo si può rintracciare nella modesta pala dell’oratorio di San Rocco a Pioda di Premia, «fatta dipingere» a Roma nel 1740 dalla Compagnia di Pioda che ricorse al pennello di Isidoro Reali: forse un discendente
antigoriese di Luigi Reali, posto sotto la protezione del
De Pietri dalla potente Compagnia romana degli emigrati antigoriesi, come suggerirebbe la delicata Madonna delle Grazie che dall’alto delle nubi guarda col Figlio
ai Santi Sebastiano, Rocco e Francesco da Paola in estati-
Tanzio da Varallo, Visitazione, olio su tela 1626. Vagna, San Brizio.
223
ca venerazione56.
Aperto l’accesso al XVIII secolo dalla personalità di Pietro De Pietri e di un suo pallido, eventuale riflesso, lasciandosi alle spalle «i moti e gli affetti» dell’accademismo seicentesco per inoltrarsi nel panorama settecentesco della pittura ossolana, non sarà più necessario soffermarsi in puntigliose soste su autori e opere, poiché
l’interesse ridestatosi in tempi recenti sui pittori del
XVIII e XIX secolo ha ampliato gli orizzonti storiografici promuovendo monografie e studi facilmente reperibili, che, delineando un corretto quadro d’assieme dell’attività artistica di quei secoli, hanno risaltato al giusto livello gli autori, le inclinazioni stilistiche, nonché la
volontà d’arte dei committenti, che li caratterizzarono.
Perciò su tali artisti, scelti dalla maggioranza dei committenti contemporanei come interpreti fedeli delle
loro esigenze estetiche, motivate dalla religione, dal decoro sociale o dal gusto, sia collettivo che individuale, si
tratterà l’attenzione considerandoli, per ingegno e operosità, personalità determinanti la cultura artistica del
loro tempo.
Se Pietro de Pietri fu il primo degli ossolani ad accedere alla poetica del Classicismo romano mediante il magistero di Carlo Maratta, il secondo ossolano ammesso fra gli allievi della medesima bottega romana fu l’anzaschino Girolamo Ferroni (Bannio 1687-? post 1740)
finora ricordato dalla letteratura artistica erroneamente
originario di Milano o di Parma57. Il Classicismo romano, di ascendenza raffaellesca, rafforzato dall’alito spirante, con linguaggio barocco, dall’area cortonesca, si
palesa fin dai primi esiti nella pittura del Ferroni, già
esplicito nell’opera prima, almeno per ora ritenuta tale,
firmata e datata “OPUS FERRONI 1704 a Roma”, inviata in patria per fungere da pala sull’altare dell’Immacolata nel San Bartolomeo di Bannio. Nella stessa chiesa, ma più tarde, perché dipinte dopo il suo rientro a
Milano in seguito alla morte di Carlo Maratta nel dicembre del 1713, oltre alla pala dell’altare dedicato a
San Francesco Saverio vi sono esposte la lunetta dipinta
a olio su tela con il Battesimo di Gesù sullo sfondo della piazza di Bannio con l’oratorio di Santa Marta, del
San Bartolomeo, e più arretrata la fuga delle cappelle dedicate alla via crucis, conclusa dal santuario della Madonna della Neve; San Giuseppe col Gesù Bambino;
224
La Trinità implorata dalla Vergine a suffragio delle anime purganti con, inparergo, la messa di San Filippo Neri.
Al Gruppo di opere citate va aggiunta la tela conservata
nel San Mattia di Oira, raffigurante La Trinità Implorata dalla Vergine e San Giuseppe sopra un angelo che trae
un’anima al cielo dal folto delle anime purganti, affiancato, tre per lato, da sei scene illustranti casi di “morte
improvvisa”. Il Ferroni dovrebbe avere dipinto le opere citate nel decennio seguente il suo rientro a Milano,
quando assunse fra le prime commissioni quella di eseguire, intorno al 1714, per la chiesa di San Eustorgio la
pala dell’altare di San Giuseppe, raffigurandovi il Transito del Santo, rapporto evidenziato dalle consonanze stilistiche e tipologiche ravvisabili nella stesura delle pitture elencate. A Milano il Ferroni ebbe però particolare successo quale autore di disegni, volti in incisioni, richiesti dall’editoria milanese, per illustrare pubblicazioni anche di grande prestigio, oppure, se di soggetto sacro, destinate alla devozione privata58. Gli affreschi firmati e datati “H. Ferronius baniensis pinxit 1736 ” sulla
cupola centrale nell’oratorio dell’Annunciazione di Bannio concludevano il decoro pittorico dell’edificio sacro
iniziato nel 1715, nel lasso di tempo intercorrente fra
queste date l’autore aveva accettato anche l’incarico di
eseguire affreschi per la Via Crucis, l’ultimo nel 1736,
affiancata al percorso sacro che porta al santuario della
Beata Vergine della Neve, dall’interno decorato dal Ferroni tra il 1723 e il 172559.
All’operosità degli scultori ossolani, capaci di soddisfare
appieno e a notevole livello la domanda locale di suppellettili artistiche, destinate all’arredo ecclesiastico o
domestico, va affiancata la capacità e l’ingegno dominante di un pittore vigezzino: Giuseppe Mattia Borgnis
(Craveggia 1701-West Wycombe 1761), che con la sua
produzione in ogni genere pittorico, dalle vaste superfici affrescate alle tavolette degli ex voto, dalle più complesse figurazioni ai ritratti, o dai sistemi decorativi di
interi edifici allo schema della più semplice ornamentazione, saprà appagare ogni richiesta dei committenti locali, sia pubblici, sia privati, dal terzo al sesto decennio
del Settecento60.
Si è voluto richiamare l’incisiva presenza della tradizione scultorea locale per sottolineare come la stessa aura
classicheggiante, a cui inclina la scultura lignea ossola-
na, spira nelle opere del Borgnis, così vivamente da farne la sua fortuna in Inghilterra, dove, apprezzato interprete di scene allegoriche e temi mitologici tratti da
modelli del Classicismo romano, morirà famoso61. Attento alla lezione dei grandi maestri del classicismo cinquecentesco, ai quali poté accostarsi, fra adolescenza e
giovinezza, risiedendo e studiando a Bologna, a Venezia e, probabilmente a Roma, seppe da essi emanciparsi
per affermare una propria cifra stilistica, esposta da una
tavolozza dai colori luminosi, vibranti a cui attinse per
le grandi composizioni affrescate a gloria di Dio, della
Vergine e dei santi, nelle cupole, nelle volte o sulle pareti, oppure dipinte sulle grandi tele, che ancora oggi numerose lo ricordano autore felice di un animato Classicismo (si potrà dire?) ossolano. Menzionato nella storia dell’arte quale primo maestro di Giuliano da Parma,
fu architetto, pittore e decoratore di brillante ingegno,
che nelle immagini sacre, condotte con rigoroso rispetto dell’ortodossia tridentina, e nelle figurazioni mitiche
o allegoriche si rivela colto iconografo. Nella impossibilità anche solo di compendiare il catalogo della vasta
produzione del Borgnis si proporrà, quale esempio fra i
più significativi delle sue capacità creative, la chiesa dei
Santi Giacomo e Cristoforo di Craveggia, ricostruita durante il quarto decennio del Settecento su progetto del
maestro craveggese, autore altresì delle opere pittoriche
e dei programmi decorativi eseguiti nella marginale ornamentazione degli arredi.
Saltati dieci anni nel repertorio della pittura settecentesca ossolana, fitti di nomi vigezzini62, è inevitabile ricadere in valle Vigezzo per incontrare il nome del pittore
più influente sulla cultura artistica ossolana dagli ultimi
decenni del Settecento alla prima metà dell’Ottocento,
ossia Lorenzo Peretti (Buttogno 1774 — ivi 1851), che
seppe evolvere l’eredità classicistica del Borgnis nella rigorosa cognizione dell’Antico quale fonte formale della teorica Neoclassica. Trascorsa l’adolescenza e la prima gioventù a Torino, il pittore ebbe modo di frequentare i corsi di Lorenzo Pecheux presso l’Accademia di
Belle Arti e acquisirvi quel carattere neoclassico, derivato dal classicismo romano del Batoni e del Mengs, trasmessogli dal maestro, in seguito, ammesso fra gli artisti al servizio della corte Sabauda, ottenne commesse a volte modeste, a volte impegnative per eseguire la-
vori sia nelle residenze reali, sia in alcuni edifici di culto torinesi. Allontanato dalle turbolenze politiche suscitate nella capitale piemontese dalla invasione francese, riparò, con la famiglia, nel paese natio, eletto a residenza permanente, alla quale ritornare negli intervalli tra gli impegni di lavoro che numerosi committenti gli affidarono in molti centri ossolani, dal capoluogo agli abitati montani dislocati nelle alte valli, nonché
nel confinante Ticino e in Piemonte. La versione personale della poetica neoclassica, a cui il pittore vigezzino sempre si attenne, si manifesta, in compendio esemplare, come opera della sua maturità, nella collegiata dai
Santi Gervasio e Protasio di Domodossola: dagli affreschi stesi nelle volte a quelli del presbiterio raffiguranti Il martirio e il ritrovamento dei Corpi Santi dei giovani martiri milanesi63.
Giunti alla metà del XIX secolo, non si uscirà dalla valle Vigezzo trattenuti dal fascino di tre nomi che, con altri validi artisti, l’hanno posta nella mitologia artistica ad vocem «La Valle dei Pittori». Se Lorenzo Peretti
fu il primo fra i pittori vigezzini di spiccato talento ad
accettare la condizione di suddito degli Stati Sardi e di
conseguenza ad aprire la strada verso l’Accademia della capitale sabauda, Carlo Gaudenzio Lupetti (Prestinone 1827 — Nantes 1862) fu il primo vigezzino, di livello europeo, a muovere l’ulteriore passo dalla periferia
piemontese verso il centro della cultura francese, incardinato nella sua capitale, Parigi, per conoscere dal vivo
gli uomini che stavano foggiando idee libertarie e visioni realistiche capaci di sovvertire, e di sostituire, il polveroso apparato didattico delle Accademie. A Torino il
Lupetti giunse dopo l’apprendistato elementare, presso le botteghe vigezzine dei Sotta64 a Malesco e dei Simonis a Buttogno, per concludere nel 1849 il corso degli studi regolari all’Accademia, da poco (1833) divenuta Regia Albertina, ma fu l’approdo alle scuole dei maestri parigini di metà Ottocento a condurlo verso «il perfetto raggiungimento di quell’equilibrio tra la visione e
il sentimento che costituiva la massima aspirazione degli artisti del suo tempo» (B. Canestro Chiovenda). Durante il soggiorno parigino il Lupetti fu allievo di Leon
Cogniet, studiò il classicista Thomas Couture, l’animalier Jacques Raymont Bracassat e il realismo di Gustave
Courbet, che segnano momenti diversi della sua vicen225
da di artista, tuttavia confluenti in un itinerario identico a quello percorso dagli impressionisti, come dimostrano gli esiti dei suoi ultimi dipinti, dove la luce trascolorante di un istante è fermata dal colore a riprodurre
liricamente la realtà. Quella realtà fissata ne La Zingara
e i suoi animali d’ambulanza (Museo Galletti di Domodossola) descritta dalla luce trascorrente, che, «bagnando», increspata da sfumati e ombre, i pelami e i panni,
evoca intorno all’accento esotico posto dalla figura gitana, l’intimistica atmosfera del ricovero e forse anche
l’infantile sensazione, nel ricordo dell’autore, di crogiolarsi nel tepore e nell’afrore di una stalla, protetto dal rigore di una lontana notte invernale a Prestinone65. Enrico Cavalli (Santa Maria Maggiore 1849 — ivi 1919)
portò nella valle natia i frutti raccolti dalla esperienza
francese degli anni giovanili: dapprima allievo di Joseph Guichard alla Ecole des Beaux Arts di Lione, negli
anni seguenti a Marsiglia a diretto contatto con l’opera
e gli insegnamenti di Adolphe Monticelli ebbe la chiave di lettura per interpretare la lezione di Guichard, le
suggestioni della pittura di Diaz de la Peña e le vigorose ricerche cromatiche del contemporaneo Françòis Auguste Ravier, ma in particolare il Monticelli trasmise all’apprendista vigezzino la densa vitalità tonale e coloristica della propria tavolozza. Esperienza condotta senza
sottrarsi alle indagini sul colorismo degli antichi veneti e fiamminghi e in cui crebbe pittore dalle idee nuove
che seppe comunicare ai suoi allievi della Scuola Rossetti Valentini di Santa Maria Maggiore, aggiornando,
così, la tradizione artistica locale sulle nuove teorie pittoriche praticate in Francia negli ultimi decenni del secolo. L’ardita ricerca coloristica nelle nature morte e nei
paesaggi, l’approfondimento psicologico nei ritratti —
i migliori sono in raccolte private — fanno uscire l’opera del Cavalli dall’ambito ossolano e lo confermano autore degno di comparire fra i pochi veramente significativi dell’Ottocento pittorico italiano66.
Carlo Fornara (Prestinone 1871 — ivi 1968) allievo del
Cavalli conobbe e vide il mondo dell’arte attraverso gli
occhi del maestro, sempre puntati sul colore, dai pittori veneziani del Rinascimento agli impressionisti francesi, da Monticelli a Monet a Cézanne, ma fu con la rivelazione della pittura di Fontanesi che capì come il colore poteva diventare materia luminosa e, infatti, nel226
la sua pittura divenne luce, quella luce scintillante che
dalla tavolozza trascorse alle tele per fissare il poema pittorico dedicato dal Fornara, durante la lunga vita, alla
sua valle: la valle dei Pittori67. Segna il passaggio dall’ultimo quarto dell’Ottocento al Novecento il costume di
introdurre nell’arredo urbano dei centri abitati ossolani opere scultoree d’intento o dimensioni monumentali, collocate o erette in luoghi pubblici, per commemorare eventi o personaggi di spicco accaduti o vissuti per
la maggior parte nel corso dei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Tali attestazioni celebrative volute dalle Comunità ossolane, ebbero significativo incremento negli anni successivi all’unità del Regno d’Italia e alla conclusione della prima guerra mondiale, affidate per lo più a scultori locali, o originari dell’Ossola.
Le ricerche pubblicate, o quelle in atto68, prossime alla
stampa, sapranno offrire al lettore ben più dell’elenco
seguente, necessariamente scarno, qui incluso con l’intento di ricordare gli scultori, mediatori, in pietra, marmo o bronzo, della comune gratitudine o ammirazione. Primo nel tempo Luigi Guglielmi (Roma, 1836- ivi
1907) oriundo di Crodo, frequentò i corsi tenuti da Filippo Gnaccarini alla Accademia di San Luca a Roma,
autore del busto che ritrae Gian Giacomo Galletti esposto nell’Istituto Professionale Galletti; Antonio Lusardi (Varallo Sesia, 1860- Domodossola, 1927) si formò
alla Accademia Albertina di Torino sotto il magistero di
Odoardo Tabacchi e poi, collaborando con Pietro della Vedova e Giacomo Ginocchi, giunse a quella maturazione artistica che gli valse la docenza presso la scuola domese di Intaglio e Plastica, capace altresì di attrarre una ragguardevole committenza sia pubblica che privata, indotta dall’apprezzamento del suo lavoro ad assegnargli numerose commissioni, quali: il monumento
commemorativo di Martino Trabucati, il Famedio del
Camposanto di Domodossola con il monumento funebre di Gian Giacomo Galletti, il bassorilievo commemorativo del Conte Giacomo Mellerio sul fronte del
Palazzo Mellerio a Domodossola e i pannelli bronzei
della porta maggiore della Madonna della Neve a Domodossola; Francesco Ricci (Crana, 1877- Santa Maria Maggiore, 1950) allievo di Odoardo Tabacchi presso l’Accademia Albertina di Torino, autore del busto di
Giuseppe Garibaldi, del monumento a Gian Giacomo
Galletti e di quello dedicato ai Caduti del Traforo del
Sempione in facciata della Stazione Internazionale, tutti a Domodossola; Giovanni Battista Tedeschi (Mergozzo, 1883- ?, ?) alunno nelle classi dell’Accademia di Brera affidate all’insegnamento di Eugenio Pellini e di Giuseppe Cavenaghi, eseguì i Monumenti ai Caduti della prima guerra Mondiale per le Comunità di Mergozzo. Ornavasso e Quarna; Angelo Balzardi (Schieranco
di Antrona, 1892- Torino 1974) dapprima a Domodossola fu allievo di Antonio Lusardi poi, per completare gli studi si trasferì a Torino dove, valendosi del magistero di Leonardo Bistolfi conseguì il diploma presso
l’Accademia Albertina, che in seguito lo ebbe come docente, le Comunità ossolane di Domodossola, Pallanzeno e San Pietro di Antrona gli commisero l’erezione dei
monumenti ai Caduti della prima Guerra Mondiale69;
Giovanni Oreste Pozzi (Vogogna, 1892- ivi 1980) compì gli studi alla Accademia di Brera a Milano, seguendo
i corsi tenuti da Enrico Butti, e quindi entrò come aiuto
nello studio di Adolfo Wildt, testimoniano la sua attività in Ossola i Monumenti ai Caduti della prima Guerra Mondiale di Vogogna, Varzo e Premosello Chiovenda, dove è tuttora esposto presso il palazzo municipale il
busto di Giuseppe Chiovenda70; Eraldo Baldioli (Omegna, 1897- Domodossola 1954) fu allievo nello studio
domese di Antonio Lusardi, a testimonianza della sua
opera rimangono a Domodossola, in facciata della collegiata dei Santi Gervasio e Protasio, le statue dei titolari, patroni della città, nonché al Sacro Monte Calvario la Grotta di Lourdes, con le statue della Beata Vergine e di Santa Bernadette, e nel convento il Monumento commemorativo di Antonio Rosmini. Se la lettura di
questi cenni storici può essere utile per avviare la conoscenza dell’arte in Ossola, per capirla è indispensabile il
contatto visivo, ma, ancora più, gli incontri con le opere citate si moltiplicheranno, poiché il territorio ossolano è ben più ricco di fenomeni artistici di quanti possano contenerne queste poche pagine.
Gerolamo Ferroni, pala dell’Immacolata, olio su tela, firmata e datata: OPUS FERRONI 1704 a Roma. Bannio, San Bartolomeo.
228
Note
Si veda il fascicolo monografico di “Oscellana” n.4, 2003, dedicato alla riproduzione integrale del catalogo pubblicato in occasione
della mostra “Varchignoli, alle origini dell’Ossola di pietra”, allestita
alla “Fabbrica” di Villadossola nell’agosto del 1999 dalle Associazioni ASTO e Villarte corredato da ampia bibliografia.
2
T. Bertamini, San Quirico di Calice in, “Oscellana”, n.2, 1974, pp.
57-62; P. Piana Agostinetti, l’Ossola Pre Romana, in “Oscellana”,
n.4, 1991, pp. 193-263.
3
T. Bertamini, Tempietto Lepontico a Montecrestese, in “Oscellana”,
n.1, 1976, pp. 1-11.
4
B. Beccaria, Montorfano di Mergozzo, Dalla Chiesa Battesimale alla
Pieve (secoli V – XII), in “Storia di Mergozzo Dalle Origini ad Oggi”
a cura del Gruppo Archeologico di Mergozzo, Mergozzo 2003, pp.
115-116.
5
T. Bertamini Storia di Villadossola, Domodossola 1976, pp. 197,
203.
6
Ibidem, pp. 117-189.
7
Si veda il catalogo della Mostra, Novara e la sua Terra nei Secoli XI
e XII Storia Documenti Architettura, Milano 1980 tenutasi a Novara
nel Palazzo del Broletto dal 15 maggio al 15 giugno 1980, con ampio corredo bibliografico.
8
T. Bertamini, Crevoladossola e la Sua Chiesa, in “Oscellana” n.2
1998, pp. 67-78.
9
G.F. Bianchetti, Il Maestro del Crocefisso di Seppiana, in “Oscellana” n.1, 1985, pp. 15-24.
10
G.F. Bianchetti, Affreschi Romanici in Ossola in “Oscellana” n.3,
1982, pp. 131-144.
11
A. Airoldi, Storia di Vogogna, Domodossola 1992, vol.1°.
12
T. Bertamini, Il Pittore della Modonna di Re, in “Re e il Santuario
della Madonna del Sangue” Domodossola 1996 pp. 330- 356.
13
G.F. Bianchetti, Una “Madonna del Latte” di Giovanni De Campo,
in “Oscellana” n.4, 1994 pp. 193, 194; Quattrocento Lombardo nel
San Pietro di Dresio, in “Oscellana” n.2, 1996; Il Quattrocento Lombardo in San Quirico di Calice, in “Oscellana” n.1, 1997, pp. 49-62;
n.2, 1997, pp. 80-92.
14
T. Bertamini, I Pittori Seregnesi (Cristoforo e Nicolao) del’400 in Ossola in “Oscellana” n.2, 1996, pp. 78-90: G.F. Bianchetti, Il Quattrocento Lombardo nel San Pietro di Dresio, cit. pp. 95,96.
15
G.F. Bianchetti, Madonne Ossolane Quattrocentesche dalla Pietra
di Crevola, in “Oscellana” n.3, 1973 pp. 177-182; Il Capolavoro del
Maestro di Crevola, in “Oscellana” n.3, 1976; pp. 145-158; Le Opere
Civili del Maestro di Crevola in “Oscellana” n.2, 1977 pp. 113-122.
16
T. Bertamini, Le Cave del marmo di Crevola, in “Oscellana” n.1-2,
1987 pp. 106-107; San Giacomo nella Storia di Vogogna in “Oscellana” n.1, 1998, pp. 9-18; Crevoladossola e la Sua Chiesa, in “Oscellana” n.2, 1998 pp. 86-89.
17
A. Longo Dorni, E Ronchi, Le Vicende della Comunità parrocchiale e della sua Chiesa, in “Ornavasso Luoghi e Memorie (15871987)” Ornavasso 1987, pp. 17-31.
18
P. Negri, Magistri ossolani a Spello, in terra d’Umbria, nel secolo
XVI, le vicende della Madonna di Vico detta Tonda, in “Oscellana”
n.4, 2001, pp. 128-189.
1
C. Debiaggi, La chiesa parrocchiale di Crevoladossola e l’Architetto
Ulrich Ruffiner, in “Oscellana” n.1, 1991, pp. 2-10.
20
G.F. Bianchetti, Vetrate dipinte nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Crevoladossola, in “Oscellana” n.1-2, 1987, pp. 135-153; Vetrate del Cinquecento Svizzero in Ossola, in “Oscellana” n.1, 1990,
pp. 33-58.
21
G.F. Bianchetti, Frammenti di Arte Ossolana Domodossola 1999,
pp. 16-19.
22
B. Canestro Chiovenda, Franciscus de Cagnolis de Novaria Pinxit,
in “Oscellana” n.1, 1974 pp. 41-43.
23
T. Bertamini, La Cappella degli Esorcismi nella Chiesa di
S.Gaudenzio di Baceno, in “Oscellana” n.1, 2004, pp. 3-14.
24
G.F. Bianchetti, Battista da Legnano in Ossola, in “Oscellana” n.2,
1988, pp. 66 e n.6, pp. 82.
25
B. Canestro Chiovenda, Fermo Stella da Caravaggio in val d’Ossola in Arte Lombarda 1969, 2°, pp. 94-110.
26
G.F. Bianchetti, Tracce di Bernardino Luini in Ossola, Le Ante di
un Organo scomparso, in “Oscellana” n.1, 1992, pp. 47-58.
27
G.F. Bianchetti, Battista da Legnano in Ossola, in “Oscellana” n.2,
1988, pp. 65-82; e n.3, 1988, pp. 130-154; idem, Giovanni Battista
da Legnano recentissime, in “Oscellana” n.2, 1994, pp. 75-88.
28
L. Chironi Temporelli, Antonio de Bugnate Pittore del Cinquecento, in “Novarien” 1988, n.18, pp. 95-124.
29
G.F. Bianchetti, Il Pittore Giacomo di Cardone, in “Oscellana” n.12, 2000, pp. 3-68; idem, Giacomo de Cardone recentissime Anzaschine, in “Oscellana” n.2, 2004, pp. 26-40.
30
L. Arioli, Ciclo pittorico Cinquecentesco nella Torre di Piedimulera,
in “Illustrazione Ossolana” n.2, 1964, pp. 1-4.
31
A. Guglielmetti, Scultura lignea nella Diocesi di Novara tra ‘400 e
500, Novara, 2000, con ampia bibliografia precedente.
32
G.F. Bianchetti, Il coro ligneo Cinquecentesco dello Scultore Ossolano Andrea Merzagora nella chiesa della Madonna di Campagna di
Pallanza, in “Oscellana” n.4, 1980, pp. 181-208.
33
T. Bertamini, I Merzagora di Craveggia, in “Illustrazione Ossolana” n. 1, 1964, pp. 7-12.
34
G.F. Bianchetti, Santa Maria Annunziata del Sovrano Ordine militare e ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme o di Malta della Masone di Vogogna, in C’era una volta..” Domodossola, 2000,
pp. 51-79.
35
T. Bertamini, Il Sacro Monte Calvario, Domodossola, 2000.
36
T. Bertamini, Il Santuario della Madonna della Neve a Bannio, in
“Oscellana” n.3, 1999, pp. 145-174.
37
T. Bertamini, Storia di Cravegna, Cravegna, 2002, pp. 94-109.
38
T. Bertamini, Maestro Giorgio de Bernardis di Buttogno, in “Illustrazione Ossolana” n. 1, 1966, pp. 7-18.
39
T. Bertamini, Maestro Giulio Gualio di Antronapiana, in “Illustrazione Ossolana” n.2, 1964, pp. 5-12; idem, Antronapiana, in
“Oscellana” n.1, 1975, pp. 39-53.
40
T. Bertamini, Pietro Antonio Lanti di Macugnaga intagliatore e
scultore, in “Illustrazione Ossolana” n.3, 1968, pp. 1-7.
41
G.F. Bianchetti, Giovan Pietro Vanni in “Arte lignea e devozione
nel cuore di una Comunità“ schede n. 34-38, pp. 99-111; P. Volorio, catalogo disegni, in “Arte lignea e devozione nel cuore di una
Comunità“ cit. pp. 115-120.
19
229
G.F. Bianchetti, Una pala di Avanzino Nucci a Baceno, in “Oscellana” n.3, pp. 129-136; idem, Avanzino Nucci a Villadossola?, in
“Oscellana” n. 4, 1997, pp. 215-229.
43
R.Contini, Paolo Piazza ovvero collusione di periferia Veneta e modulo ridolfino, in “Paolo Piazza Pittore Cappuccino nell’età della
Controriforma tra conventi e corti d’Europa” a cura di S. Martinelli
e A. Mazza, Verona, 2002, fig. 53,54 pp. 106-110.
44
G. Testori, Tanzio da Varallo, Torino, 1959, Tav. 3, 52, pp. 34-36;
catalogo della mostra “Tanzio da Varallo, realismo fervore e contemplazione in un pittore del 600”, tenutasi nel palazzo Reale di Milano
dal 13 aprile al 16 luglio 2000, Milano 2000, sch. 6, pp. 80-84, sch.
25, pp. 121-124 di R. Contini.
45
G.F. Bianchetti, La pietà che porta l’ali, in “I compagni di Sant’Antonio in Roma e Bologna” a cura di E. Ferrari, Crodo 2000,
pp. 140-141.
Devo alla cortesia del Dr. Angelo Mazza dirigente della Soprintendenza per il Patrimonnio Storico Artistico e Demo Etno Antropologico di Modena e Reggio Emilia le indicazioni circa l’attribuzione
dell’Adorazione dei Magi.
46
B. Canestro Chiovenda, Stephanus Delphinus ab Insula, in “Oscellana” n. 3, 1986, pp. 178-181; idem, I pittori Rocco e Stefano Delfina
ab Insula e il Morazzone, in “Oscellana” n. 1, 1992, pp. 25-29.
47
G.F. Bianchetti Santa Maria Annunziata del Sovrano Ordine Militare e Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme o di Malta alla
Masone di Vogogna, cit. pp. 67-72.
48
G.F. Bianchetti, Luigi Reali Pittore Fiorentino in Ossola, in “Oscellana”, n. 4, 1986, pp. 182-221.
49
T. Bertamini Carlo Mellerio pittore del 600 in “Oscellana” n. 3,
1990, pp. 129-152.
50
B. Canestro Chiovenda, Un pittore Spagnolo in val Vigezzo: Bartolomè Romàn (Cordova 1596- madrid 1647), in “Oscellana” n. 4,
1976, pp. 207-217.
51
B. Canestro Chiovenda, Un quadro del Fiammingo Godefridus
Maes (1649- 1700) in val Vigezzo, in “Oscellana” n.3, 1981, pp.
146-154.
52
B. Canestro Chiovenda, “Rossettus Pinxit” Antonio Valentino Cavigioni detto Valentino Rossetti (Vogogna 1653- post 1733), in “Oscellana” n.2, 1985, pp. 76-91.
53
B. Canestro Chiovenda, Giacomo Antonio Minoli (Pittore) – Gagnone 1657-?, in “Oscellana” n. 1, 980 pp. 27-31.
54
G.F. Bianchetti, A margine di Borgnis in England di Dario Gnemmi, in “Oscellana” n.3, 2003, tav. 5 a p. 130 e p. 136.
42
230
B. Canestro Chiovenda, Petrus de Petris Pictor natus Antigorio, in
“Oscellana” n.2, 1971, pp. 63-69.
56
G.F. Bianchetti, La Pietà che porta l’Ali, cit. pp. 155, 156.
57
G.F. Bianchetti, A margine di Borgnis in England di Dario Gnemmi, cit. pp. 316-142.
58
E. Villani, Contributi per l’opera artistica di Gerolamo Ferroni, in
“Rassegna di Studi e di Notizie” vol. X, 1982, pp. 389-409.
59
T. Bertamini, Confraternita ed Oratorio dell’Annunciazione di Bannio, in “Oscellana” n.1, 1999, il. P. 62, p. 61; idem, Il Santuario della Madonna Della Neve di Bannio, in “Oscellana” n. 3, 1999, pp.
153-157.
60
T. Bertamini, Giuseppe Mattia Borgnis pittore, in “Oscellana” n.3
– 4, 1983.
61
D. Gnemmi, Borgnis in England, Ornavasso 2001.
62
B. Canestro Chiovenda, La valle dei pittori, in “Invito alla valle
Vigezzo” a cura di P. Norsa, Domodossola 1970, pp. 295-330; D.
Gnemmi, L’arte ossolana dal sec. XVIII al XX (la Pittura), in “Oscellana” n.3, 1991 pp. 187-191.
63
T. Bertamini, Lorenzo Peretti Pittore (1774-1851), in “Oscellana” n.4, 1974.
64
D. Gnemmi, La pittura dei Sotta, Malesco 2002.
65
B. Canestro Chiovenda, Uno strano autoritratto giovanile di Carlo Gaudenzio Lupetti, in “Oscellana” n.3, 1986, pp. 123-127; idem,
Jaques Raymond Bracassat, Rosa Bonheur e Carlo Gaudenzio Lupetti,
in “Oscellana” n.4, 1996, pp. 205-216.
66
G. Cesura, Enrico Cavalli Pittore (Santa Maria Maggiore 18491919), Domodossola, 1993.
67
N. Valsecchi, F. Vercellotti, Carlo Fornara pittore, Milano 1971.
68
Devo alla generosa cortesia dell’amico arch . Paolo Volorio le notizie biografiche riguardanti gli scultori ossolani qui di seguito nominati, oggetto delle sue attuali ricerche che verranno quanto prima
pubblicate accrescendo e approfondendo i temi in argomento già
trattati in: A. Volorio, Antonio Lusardi Sculpsit, in “Rivista del Verbano Cusio Ossola” n.7, 1998, pp. 55-57; idem, Tributo d’artista [Antonio Lusardi per Federico Ashton], in, copertine di M.me Webb, Domodossola 2000; idem, Il senso fisico della bellezza (Oreste Pozzi Scultore) in “Rivista del Verbano Cusio Ossola” n.2, 2000, pp. 60-61.
69
A. Dragone, Angelo Balzardi scultore, in “Oscellana” n.1, 1974,
pp. 3-5; A. Arcardini, Angelo Balzardi nel ricordo di un vecchio amico, in “Oscellana” n.1, 1974, pp. 6-9.
70
C. Morganti, Giovanni Oreste Pozzi un grande artista ossolano dimenticato, in “Oscellana” n.3, 1995, pp. 130-139.
55
I letterati ossolani
Enrico Margaroli
II più antico documento ossolano redatto in «volgare»
che ci sia pervenuto è rappresentato dagli statuti della
confraternita di Santa Marta, la quale si costituì e si diede le proprie regole nel 1459.
Naturalmente tale documento, studiato e pubblicato da
Gianfranco Contini nel 1963, riveste qualche importanza per la storia locale, mentre il suo interesse è pressoché nullo non solo sotto l’aspetto letterario, ma anche
linguistico, essendo composto in un volgare comune a
tutta l’area lombarda occidentale. Afferma Contini: ... i
dialetti dell’Ossola appaiono un complesso lombardo-alpino su un fondale di isoglosse piemontesi; e la situazione degli statuti riesce simbolica di quella della regione.
Per trovare un’opera scritta esplicitamente per la posterità e con la volontà dichiarata di porvi dell’ingegnoso,
occorre giungere al secolo XVII, nel quale visse il capostipite degli scrittori ossolani, Giovanni Capis (15821632). Questo scrittore nacque da nobile e ricca famiglia originaria di Mozzio e compì gli studi a Novara,
Milano e Pavia, dove si laureò in giurisprudenza nel
1605.
Alla morte del padre, nel 1608, tornò a Domodossola
e assunse l’incarico di Procuratore della Comunità.
Divenne così un benemerito cittadino che seppe dimostrare il proprio amore per la piccola patria in due
modi. Innanzi tutto impegnandosi con onestà e competenza nella difesa dei privilegi e delle libertà dell’Ossola Superiore (Domodossola, Val Divedro, Bognanco
e Antrona) contro le pretese degli Spagnoli che governavano nel Ducato di Milano, offrendosi anche, come
dice un documento del 1609, di soccorrerla dei suoi propri denari.
Memorabile è al riguardo la magistrale e coraggiosa difesa che scrisse nel 1620 per dimostrare l’illegittimità
dell’infeudamento dell’Ossola che gli Spagnoli voleva-
no cedere per la modesta somma di diecimila scudi.
Ma l’affetto per la piccola patria trabocca soprattutto
dalla sua opera storica, intitolata Memorie della Corte
di Mattarella o sia del Borgo di Domo d’Ossola e sua
giurisdizione, conclusa nel 1631 e pubblicata dal figlio
nel 1673.
In quest’opera che gli meritò il nome di padre della patria e per la quale gli Ossolani debbono serbargli grande riconoscenza, il Capis ci trasmette tutte quelle notizie che ai suoi tempi gli fu possibile raccogliere.
Particolarmente interessanti sono le pagine dedicate alla
peste del 1630 (quella stessa descritta dal Manzoni nei
Promessi Sposi), durante la quale il Capis fu Commissario
di Sanità. Altre pagine interessanti sono quelle dedicate alla battaglia di Crevola del 1487 contro gli svizzeri;
ma forse non è giusto fare una scelta, poiché ogni pagina del Capis è piena di interesse per gli Ossolani, e la
sua piccola storia, scritta in uno stile spontaneo e semplice, ma non trasandato, parlandoci delle fatiche e delle sofferenze degli abitanti delle nostre valli, ci aiuta meglio a comprendere la storia «grande».
Curiosa è un’altra opera del Capis, scritta negli anni
della prima giovinezza, il Varon Milanes — De la lingua de Milan, in cui studia l’etimologia di circa centocinquanta parole del dialetto milanese, delle quali vuole dimostrare la derivazione dal latino e dal greco. Al
Capis spetta così anche il merito, non trascurabile, di
essere stato uno dei primi studiosi del dialetto, anche se
la materia è da lui affrontata in modo del tutto estemporaneo e con un certo spirito goliardico.
Per trovare un secondo scrittore ossolano di rilievo occorre fare un balzo di duecento anni e trasferirsi nel secolo XIX, il secolo che vide dovunque una straordinaria
fioritura di scrittori di storia locale.
Il primo in ordine cronologico di questi scrittori fu
231
Francesco Scaciga della Silva (1810-1874), il quale esercitò la professione di avvocato in Domodossola. Nel
corso della sua esistenza ricoperse le cariche di ViceGiudice del Mandamento e di Regio Provveditore agli
studi per la Provincia dell’Ossola. Intensa fu la sua attività di giornalista. Fondò Il Moderato nel 1851; L’Agogna
nel 1854 e La voce del Lago Maggiore nel 1866.
Il lavoro per cui gli Ossolani lo ricordano è la Storia di
Val d’Ossola, pubblicata nel 1842. La validità dell’opera è purtroppo limitata, sotto l’aspetto scientifico, dalla mancata citazione delle fonti; ma rammarica ancor di
più il fatto che il libro non sia stato corredato dalla riproduzione dei documenti originali che lo Scaciga consultò in gran numero e che sono con il passare del tempo andati perduti.
Di questo scrittore merita di essere ricordato un altro
lavoro dal titolo Vite di Ossolani Illustri. Con un quadro storico delle eresie (Domodossola, 1847), nel quale vi sono, tra le altre, le biografie dei due Paolo Della
Silva di Crevoladossola; di Innocenzo IX, oriundo di
Cravegna; del pittore Giuseppe Borgnis di Craveggia;
di Feminis Giovanni Paolo di Santa Maria Maggiore,
inventore dell’acqua di Colonia; del Conte Giacomo
Mellerio di Domodossola; del medico Giovanni Palletta
di Montecrestese.
Lo Scaciga ebbe anche qualche pretesa letteraria e fu autore di tre Almanacchi (Il Pescatore d’Andromia, 18461847-1848) nei quali incluse novelle e racconti storici.
Piuttosto vasta fu la sua cultura e amò indulgere al piacere dell’erudizione e del riferimemo dotto. Il suo stile
è concettoso ed elegante.
Seconda gloria ossolana del secolo XIX è il vigezzino Carlo Cavalli (1799-1860), il quale secondo quanto scrisse egli stesso nel frontespizio della sua opera, fu
dottore in Filosofia, Medicina e Chirurgia, Membro corrispondente della Società Medico-Chirurgica di Torino e
della Giunta Provinciale di Statistica - Sindaco da ventanni di Santa Maria Maggiore.
Nel 1845, a coronamento di un intenso lavoro di ricerca, il Cavalli pubblicò i Cenni Statistico-Storici della
Valle Vigezzo, con i quali, spinto da una forza irresistibile,
volle testimoniare il proprio amore alla terra che lo aveva visto nascere, raccogliendo ed ordinando, con sufficiente spirito critico, tutto quanto era possibile cono232
scere sulla Valle Vigezzo; servendosi in particolar modo
per tale lavoro dei sette grossi volumi che contenevano
le deliberazioni del Consiglio Generale della Valle e gli
avvenimenti più importanti dal 1550 al 1818.
Un difetto molto evidente (se lo vogliamo chiamare
così) del suo stile, ma che tuttavia non intacca l’obiettività storica, è costituito dallo spirito campanilistico e
dal patetismo, che furono una caratteristica comune a
quasi tutti gli scrittori di storia locale del secolo XIX.
Un grandissimo suo merito consiste nell’aver dedicato l’ultimo dei tre volumi ad una ricca silloge di documenti originali, i quali possono così essere facilmente
consultati dagli studiosi.
Una terza ragguardevole personalità di scrittore e di
studioso ossolano del secolo XIX fu Enrico Bianchetti
(1834-1894), appartenente ad una facoltosa famiglia
che si era trasferita dal Cusio nell’Ossola durante il secolo XVIII. Frequentò la facoltà di legge all’Università
di Torino, senza conseguire la laurea. Ricoperse alcune
cariche pubbliche, fra le quali quella di Consigliere provinciale per il mandamento di Ornavasso.
Nutrì vasti interessi, ma soprattutto studiò e approfondì gli aspetti della storia ossolana. A lui si deve pure lo
scavo nel territorio di Ornavasso di numerose tombe
gallo-romane, che catalogò e descrisse in un’opera che
uscì postuma I sepolcreti di Ornavasso.
Il Bianchetti pubblicò nel 1878 la sua opera più importante, L’Ossola Inferiore - Notizie Storiche e Documenti,
in due volumi, il secondo dedicato alla raccolta dei documenti originali. In questo lavoro egli ci narra con uno
stile limpido ed elegante le vicende che nel corso dei secoli interessarono l’Ossola Inferiore, ossia i territori a
sud di Piedimulera, con la Valle Anzasca e quelle che
erano chiamate la «quattro terre», cioè Cardezza, Beura,
Trontano e Masera.
Il Bianchetti rispetto agli scrittori precedenti rivela una
più acuta mentalità di storico e possiede un maggior
senso critico: è il primo ad avanzare sospetti sull’autenticità di antichi documenti, è il primo che introduce il
confronto fra le fonti e che applica con rigore il metodo deduttivo. Probabilmente alla formazione di questa
più matura coscienza storiografica giovò l’amicizia con
il dottissimo padre rosminiano Vincenzo De-Vit, da lui
definito «carissimo e venerato».
Enrico Bianchetti (1834 - 1894).
Vincenzo De-Vit, dopo aver insegnato nel seminario di
Rovigo, entrò nel 1849 nell’Istituto della Carità fondato da Antonio Rosmini, e del grande filosofo roveretano fu assistente agli studi a Stresa, dove soggiornò dal
1850 al 1860. Passò trent’anni della sua vita a Roma,
conservando l’abitudine di trascorrere le vacanze estive
a Stresa e a Domodossola.
Si dedicò per ben trentacinque anni al rifacimento del
Totius Latinitatis Lexicon del Forcellini e alla compilazione dei quattro volumi di Onomastica, acquistando
con questi lavori fama internazionale e diventando uno
dei più grandi lessicografi del XIX secolo.
Sterminata fu pertanto la sua erudizione lessicografica,
epigrafica e storica.
Gli Ossolani lo ricordano per un’opera molto impegnata, La provincia romana dell’Ossola, ossia delle Alpi
Atrezziane, pubblicata nel 1892 a Firenze, con la qua-
le il De-Vit propose l’esistenza di una provincia romana della quale nessun storico antico ha mai fatto menzione. Questo silenzio lo costrinse ad applicare in larga
misura il metodo deduttivo, a spaziare ampiamente nel
campo della epigrafia e della storiografìa, fino a polemizzare con il sommo Teodoro Mommsen. Il De-Vit afferma di essere riuscito a trarre luce dove si credeva che non
potesse venire che tenebra, ed è questa una stupenda definizione del vero storico. Infatti con il De-Vit la storia
locale ossolana per la prima volta non è più esposizione,
qualche volta acritica, dei fatti, ma tesi, ricerca e dimostrazione, perseguita con proprietà di linguaggio e rigore di argomentazione.
Altri scrittori del secolo XIX furono legati in vario modo
all’Ossola. Pietro Prada (1838-1890) uno dei rettori del
Collegio Rosmini è autore, fra l’altro, di una monografia su Domodossola e il Monte Calvario che fu premiata
all’Esposizione di Torino.
Francesco Pinauda (1864-1934), rosminiano, scrisse
molti articoli, fra cui Le piaghe dell’Ossola e Notizie sulle traslazioni dei corpi dei SS. Martiri venerati nell’Ossola, nonché i Cenni sulle miniere, cave e acque minerali della regione ossolana, ma è ricordato soprattutto per
i suoi almanacchi storico-illustrati che ha redatto dal
1914 al 1926.
Guido Bustico, nato a Pavia nel 1876, studioso assai
versatile, pubblicò numerosissimi saggi di storia, di letteratura e di pedagogia. Insegnò nelle scuole professionali di Domodossola. Nel 1909 fu nominato direttore
della Biblioteca e del Museo Galletti. Fondò la rivista
Illustrazione Ossolana sulla quale pubblicò molti lavori
che interessano la nostra Valle.
Venanzio Barbetta (1869-1910) si laureò in lettere presso l’Università di Torino. Fu autore di varie opere teatrali e di alcuni romanzi (Giovani, Mulini al vento), permeati da un profondo ed irrequieto pessimismo. Una
lapide lo ricorda sulla casa natale di Baceno. Giuseppe
Chiovenda (1872-1937) giurista di fama mondiale,
ebbe una giovanile inclinazione per la poesia, tanto da
meritarsi l’inclusione in una raccolta di poeti minori dell’Ottocento. Pubblicò nel 1891 un volumetto di
Poesie filtrate attraverso lo stile e la sensibilità carducciana, e nel 1894 un secondo dal titolo Agave. In molte
delle sue poesie rievoca momenti di amore con un lin233
guaggio limpido e semplice.
Gabriele Lossetti Mandelli d’Inveruno (1821-1886)
scrisse una Cronaca del Borgo di Vogogna dall’anno 1751
al 1885 molto ricca di notizie, che fu pubblicata solo
nel 1926.
Passando dal secolo XIX al XX non si interruppe la feconda tradizione degli scrittori ossolani. Il primo che ci
viene incontro è l’avvocato Nino Bazzetta (1880-1951),
il quale pubblicò nel 1911 la Storia di Domodossola e
dell’Ossola Superiore dai primi tempi all’apertura del traforo del Sempione.
Questo lavoro non si può propriamente chiamare opera storica, se intendiamo per storia l’interpretazione dinamica e collegata dei fatti, o anche solo la descrizione
cronologica degli eventi; il lavoro è infatti spezzettato
in numerosi capitoletti che trattano diversi argomenti:
i primi abitanti dell’Ossola, il cristianesimo nell’Ossola,
l’antico Comune di Domodossola, il torrente Bogna, la
peste a Domodossola, il Monte Calvario, e così via; il libro si presenta dunque come una sorta di repertorio di
notizie storiche e di curiosità.
La narrazione è lucida, pacata e di carattere chiaramente divulgativo, tale da costituire una lettura dilettosa e
da essere consigliata a chi si vuole avvicinare senza soverchia fatica alla storia dell’Ossola.
Un secondo scrittore di storia locale di rilievo nel nostro secolo è Giovanni De Maurizi (1875-1939). Nato
da famiglia povera, il De Maurizi divise la prima giovinezza tra l’aspro lavoro dell’alpe e la ricerca instancabile, di paese in paese, di notizie riguardanti la storia e il
folklore della Valle Vigezzo. Nel 1908 fu ordinato sacerdote ed inviato coadiutore a Santa Maria Maggiore.
Unì all’attività sacerdotale la sua innata passione di storico e di ricercatore. Pubblicò nel 1911 la prima monografia illustrata, La Valle Vigezzo, della quale uscì nel
1934 la terza edizione presso Rizzoli, Milano. A questa seguirono studi sulle valli Antigorio e Formazza,
sui De Rodis-Baceno, su numerosi comuni vigezzini
(Buttogno, Crana e Santa Maggiore, Craveggia), studi
che l’autore definiva modestamente briciole o noterelle.
La sua opera più conosciuta si intitola L’Ossola e le sue
valli ed è una guida turistica, storica ed artistica scritta
per incarico della Società Escursionisti Ossolani e pubblicata nel 1931. Questo testo, giunto alla terza edizio234
ne con gli opportuni aggiornamenti nel 1977, è ancora
fondamentale per chi voglia farsi una conoscenza d’assieme dell’Ossola.
Altri scrittori del XX secolo meritano di essere ricordati.
Don Giuseppe Salina (Vittorio D’Avino, 1877-1949),
per molti anni parroco a Cimamulera, diede alla stampe numerose pubblicazioni che nel 1994 sono state raccolte in un unico volume. Nelle sue poesie il D’Avino
esprime il proprio amore per l’ Ossola bella, di cui sa cogliere in modo efficace gli aspetti più pittoreschi, sia che
si tratti dei tumultuanti gorghi dei torrenti o delle nevi
pure delle vette. Vittorio D’Avino si dedicò con passione anche alla poesia in dialetto, soprattutto nel dvarûn
di Varzo.
Accanto a don Salina merita di essere ricordato il canonico Luigi Rossi (1885-1956), prevosto di Castiglione
d’Ossola dal 1910 al 1930. Insieme con Vittorio
D’Avino firmò una nuova edizione di Ossola bella
(1913), non più di sole poesie; nel 1928 pubblicò la
guida Valle Anzasca e Monte Rosa. Questa guida forse
per la prima volta reca notizie interessanti sugli archivi parrocchiali e comunali e per la prima volta si occupa dei documenti manoscritti, conservati nei piccoli centri.
Adolfo Sebastiano Ferraris (Adolfo da Pontemaglio,
1901-1954) si dedicò con grande tenacia alla compilazione di una ponderosa Bibliografia Ossolana che raccoglieva ben 3760 titoli e che fu pubblicata dal 1938
al 1952 sul Bollettino Storico per la provincia di Novara.
Ma questo suo importante lavoro è stato ingiustamente
dimenticato; infatti il Ferraris è più noto per aver pubblicato nel 1927 un volumetto di Novelle e leggende ossolane, che aveva appreso, come dice egli stesso, da ragazzo nelle incantevoli serate di settembre, mentre si stigliava
la canapa giù in cortile, o durante le lunghe veglie invernali fra il rumorio dei filatoi.
La voluta semplicità dello stile ci conserva in qualche
modo il sapore e la spontaneità dei poveri e incolti novellatori ossolani.
Luigi Pellanda (1885-1961), Arciprete di Domodossola,
fu uno dei primi cronisti delle tragiche vicende che insanguinarono l’Ossola durante la seconda guerra mondiale, vicende alle quali assistette non passivamente,
militando, in conformità alla missione sacerdotale, dal-
Giovanni Leoni, Torototela (1846 - 1920).
la parte dell’Uomo, della fraternità e della vita. Nel settembre del 1944 fu mediatore e garante dell’accordo fra
partigiani e nazifascisti per lo sgombero di Domodossola. Di questi avvenimenti ci ha lasciato la propria testimonianza ne L’Ossola nella tempesta.
Ida Braggio Del Longo (1879-1965), benemerita cittadina, si occupò durante la sua vita di attività benefiche
e di pubblicistica, con numerosi articoli sulla stampa locale. È autrice di un volumetto, Piccolo mondo ossolano,
che ci permette di conoscere personaggi, costumi e vicende della Domodossola della prima metà del secolo.
Luciano Gennari (1892-1979), figlio di emigrati vigezzini, conobbe ugualmente bene la letteratura italiana e francese, cosa che gli permise di stringere amicizia con letterati di spicco di entrambe le nazioni. In
Valle Vigezzo fu consigliere comunale e presidente di
varie società. La sua produzione bilingue annovera sag-
gi, drammi e romanzi, fra i quali ultimi quello che ci interessa come Ossolani è Il romanzo di una valle, nel quale mette in evidenza la magnificenza e la pace della terra degli avi.
Ma la personalità più geniale che l’Ossola abbia espresso è sicuramente quella di Giovanni Leoni (Torototela,
1846-1920). Questo poeta nacque dal pittore mozziese Giuseppe e da Lucia Giacomina Burla. Frequentò il
Collegio Rosmini dal 1857 al 1863, già allora rivelando
una natura ricca ed estroversa, ma a causa della povertà
fu costretto, come molti altri Ossolani, ad emigrare nell’America Latina, dove esercitò varie attività commerciali. Nel 1886 prese una decisione ammirevole e rara:
rinunciò, appena quarantenne, ai lauti guadagni e ritornò nella natia Ossola per godersi la libertà, le amicizie e
le montagne, né scìor né gnanca povar, fino alla morte.
Fu presidente della Sezione Ossolana del CAI; e promotore della «Pro Devero»; progettò e curò la costruzione dell’attuale rifugio sul Monte Cistella.
La fama del Leoni è legata al volume di Rime Ossolane
(Belluno, 1929), una raccolta di satire dialettali, nelle quali, armato di buon senso e seguendo da lontano
le orme del poeta milanese Carlo Porta, sottopone alla
sua critica divertente e mordace tutti coloro che vengono meno al loro dovere, siano essi sacerdoti o uomini politici.
Tipico esempio di borghese del tempo, amante dell’ordine, del lavoro e del risparmio, non seppe comprendere abbastanza le esigenze e i diritti dei ceti meno fortunati e la loro lotta per una esistenza migliore; bisogna
però riconoscere che più che le forze di sinistra in quanto tali, egli avversò gli atteggiamenti demagogici, non
negando al proletariato il diritto di essere rappresentato in Parlamento:
S’agh fassum dent na bona sedazaa
ad quij cinq cent e vott... ugh an sares apena
tra ross e negar giust una trentena.
I suoi versi sono importantissimi sia da un punto di vista storico-sociale, perché ci offrono un vivissimo spaccato della vita ossolana del tempo; sia da un punto di
vista linguistico, poiché tramandano nel tempo il dialetto ossolano della fine del secolo; e infine da un punto di vista artistico, poiché nei componimenti risplende
la capacità del Leoni nel riprodurre realisticamente la
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psicologia e gli ambienti della gente ossolana, e nell’infondere nei personaggi il soffio della vita e della poesia.
Restando fra i poeti merita una menzione Pietro
Pianavilla (1897-1979), autore di Businà d’Antrona, in
cui la originale poesia ha il sapore di una scoperta personale ed autentica, lontana dalle influenze letterarie.
Il suo sguardo non si spinge oltre il microcosmo antronese del quale coglie gli aspetti con acutezza ed umorismo, in un dialetto che conserva integralmente la sua
difficile purezza.
Francesco Savio (1917-1986), è autore di Il vento delle sette valli, che ha il sapore di un addio pacato e sereno alla vita dopo le innumerevoli sofferenze. Nel libro si alternano a delicati versi di amore e ad altri dedicati ad un’Ossola ancora favolosa, prose con descrizioni di villaggi e di persone legate all’esperienza dell’autore e che ci fanno sentire Il gusto amaro e buono del nostro vivere.
Francesco Zoppis (1919-1992), è autore di Ossola nostra e de I racconti della Rocca. In questi lavori le notizie storiche risultano diluite nell’invenzione romanzesca, poiché lo scrittore indulge al gusto del raccontare e di conseguenza l’amore per la bella pagina e la «libertà di creare» rendono interessanti per il lettore ossolano in quanto tale i suoi racconti di discreta fattura letteraria. Allo Zoppis va anche il merito di aver curato nel 1977 l’aggiornamento de L’Ossola e le sue valli del De Maurizi.
Erminio Ragozza (1918-1984), pubblicò nel 1969
Aria di casa nostra, un lavoro riguardante Premosello
Chiovenda. L’autore vi dispiega un autentico gusto del
raccontare, presentando, accanto agli avvenimenti «importanti», piccoli fatti, notizie curiose, che di solito lo
studioso accigliato disdegna, frammischiate a commenti spiritosi, filastrocche e divertite riproduzioni del parlato locale, in capitoletti dal titolo spesso stimolante,
con un equilibrio fra il serio e il faceto capace sia di interessare che di divertire.
Don Angelo Airoldi (1923-1993), è autore di una
Storia di Vogogna in due volumi, il primo concernente le vicende politiche e sociali, il secondo quelle religiose dell’antico borgo, un tempo capitale dell’Ossola
Inferiore. Anche se la materia non ha ricevuto una perfetta elaborazione critica e stilistica, non è a questo che
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Gianfranco Contini (1912 - 1990).
dobbiamo guardare, bensì alla completezza delle informazioni e soprattutto all’intenso spirito di servizio nei
confronti della Comunità che ha spinto l’autore a compulsare tutte le opere, dalle più ponderose ai più umili
opuscoli, per trarne con cura meticolosa tutte le notizie
e tutte le opinioni sui punti controversi.
Renzo Mortarotti (1920-1988), per il quale chi scrive
conserva un reverente ricordo di alunno, è uno degli
studiosi di maggior rilievo di questi ultimi anni, autore di due notevoli opere: L’Ossola nell’età moderna, nella quale con stile elegante e piacevole fornisce un quadro esauriente non solo delle vicende storiche, ma anche dell’ambiente, dell’economia, della cultura e dei costumi della popolazione, per cui questa opera si raccomanda come una lettura veramente indispensabile per
coloro che non vogliono che la parola Ossola rimanga una espressione puramente geografica. La seconda
opera è I Walser nella Val d’OssoIa, in cui la storia di
questa popolazione alpina è presentata con dovizia di
documentazione in uno stile esemplare con pagine di
grande efficacia descrittiva. Ma non si deve dimenticare GR-Grazia Ricevuta, con la quale Mortarotti, peregrinando di Santuario in Santuario e di oratorio in oratorio, propone gli ex voto più significativi, presenti nel
territorio ossolano con un commento puntuale sul piano interpretativo e artistico.
Sono queste opere la chiara testimonianza di un amore e di un interesse vasto e non occasionale per l’Ossola, in linea con la tradizione ormai più che secolare dei
docenti rosminiani. Non possiamo inoltre non ricordare per il lustro che ne deriva all’Ossola Gianfranco
Contini (1912-1990), il quale, sebbene sia stato portato dal suo genio di letterato lontano dagli interessi per l’Ossola (alla quale fu legato dalla vicende della
Resistenza in qualità di membro della commissione didattica consultiva per la Zona liberata dell’Ossola), non
dimenticò tuttavia la sua terra natia dando alle stampe,
nei Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei,
Gli statuti volgari Quattrocenteschi dei Disciplinati di
Domodossola, già ricordati, e per compiervi l’ultimo approdo e restituirsi al suo grembo materno.
Ma tra gli scrittori della seconda metà del XX secolo occupa un posto di primo piano il rosminiano Don Tullio
Bertamini (nato nel 1924). A questo studioso, dotato di
una vasta cultura e di molteplici competenze, dobbiamo la storia di Villadossola (1976), di Tappia (1985),
Montecrestese (1991), Castiglione (1995), Re (1996),
Cimamulera (2001), Masera e i suoi statuti trecenteschi (2001), Cravegna (2002), Viganella (2003) e del
Castello di Mattarella (2004). Da ricordare anche gli
innumerevoli studi comparsi sull’Illustrazione Ossolana
ed in seguito su Oscellana, la rivista da lui fondata nel
1971. Degno di attenzione è anche l’Almanacco Storico
che, dal 1984 esce annualmente e nel quale numerosi
studiosi si occupano dei più diversi argomenti.
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“Walser”: gli uomini dell’alta montagna
Enrico Rizzi
Discendenti degli antichi “alemanni” di Tacito, i “Walser” sono scesi nel medioevo a ridosso delle Alpi Centrali, si sono acclimatati alle grandi altitudini nell’Alto
Vallese (da cui derivarono il nome di “Walser”), e, tra il
XIII e il XV secolo, hanno dato vita alla più singolare
delle imprese di colonizzazione.
Dall’Alto Vallese piccoli gruppi di coloni si spinsero alla
testata delle valli meridionali alpine, tra valle d’Aosta,
Piemonte e Lombardia, e di qui via via nelle Alpi Retiche, nel Vorarlberg (Austria), fino al Tirolo. Cercavano
contratti “nuovi”, più vantaggiosi di quanto non consentisse la tradizione feudale dell’asservimento dei contadini alla terra, per sfruttare le loro particolarissime ed
ormai perfezionate capacità e tecniche di vita in alta
quota. Grandi e piccoli monasteri alpini, mense vescovili, capitoli canonicali – non meno che la nobiltà feudale arroccata alle montagne – fecero a gara nell’affidare ai Walser luoghi ancora largamente spopolati, affinché li dissodassero e riducessero a coltura.
Con una diaspora durata tre secoli, che si allargò a macchia d’olio dall’Alta Savoia al Tirolo, i Walser fondarono i loro piccoli insediamenti sparsi alle falde delle
grandi montagne, dove nascono i fiumi, strappando pascoli ai ghiacciai, costruendo casolari invernali e baite estive, ad una quota altimetrica considerata impossibile dall’uomo di quel tempo, lungo le vie transalpine, sulle aeree terrazze delle “alte Alpi”, dentro valloni
irraggiungibili dalla pianura attraverso le gole tenebrose dei torrenti, in “valli divise dal resto del mondo per
rupi tagliate a picco – come le descrive, ammirato, uno
storico grigionese dell’ottocento – che accolgono coloni
ai quali la primavera non offre alcun albero fiorito, né
l’autunno delle spighe, ma le cui capanne sono piene di
fieno prodotto da un’estate di pochi giorni”.
La mappa delle colonie fondate dai Walser segue un an-
damento dinamico tra il XII e il XV secolo, quando la
loro diaspora può considerarsi storicamente conclusa.
Una prima fase spinge dall’originario Vallese i Walser
nell’Ossola, alla testata della valle della Toce (Formazza) e delle valli meridionali del Monte Rosa. Le fasi via
via successive li spingono verso la fondazione di nuovi
insediamenti, perpetuando un modello di migrazione
ininterrotto per tre secoli, lungo itinerari che li hanno
condotti a fondare oltre 150 colonie nell’odierno territorio di 5 stati alpini: Francia, Svizzera, Italia, Liechten-
Architettura Walser.
239
stein e Austria. La colonia di Formazza, la cui fondazione risale alla fine del XII o all’inizio del XIII secolo, è
stata a sua volta “colonia madre” di gran parte della colonizzazione orientale (nel territorio, oggi, dei Cantoni
svizzeri del Ticino e dei Grigioni). Nell’alta val d’Ossola, accanto a Formazza, vanno annoverate le colonie di
Salecchio (Premia) e di Agàro (Baceno). Tutt’attorno al
massiccio del Monte Rosa, il popolamento in alta quota è stato opera dei Walser: da Ayas, Gressoney e Issime
in val d’Aosta ad Alagna in val Sesia (con Riva Valdobbia, Rima, Carcoforo, Rimella, Campello Monti); e soprattutto con l’antica colonia di Macugnaga, sul versante ossolano, la cui fondazione risale alla metà del XIII
secolo. La mappa walser nell’Ossola ricomprende anche la colonia di Ornavasso, nella Bassa Ossola, fondata a cavallo del XVIII-XIV secolo, e di Migiandone (un tempo comune autonomo, oggi frazione di Ornavasso). Quella dei Walser delle alte montagne, che
vivono da otto secoli al cospetto delle grandi altitudini, rappresenta la più elevata (altimetricamente) componente del popolo alpino. Sepolti nell’isolamento del-
Valle Anzasca: il museo Walser di Borca.
240
le alte valli, i Walser conservano ancora oggi la loro antica parlata germanica e tradizioni di vita che affondano
in età remote. Mirabili lo stile di costruzione delle case
in legno a tronchi sovrapposti, la loro fedeltà alle attività della terra, al diritto consuetudinario, alla lingua degli avi. La lingua walser appartiene al mondo linguistico
tedesco ed è anzi una delle sue espressioni più arcaiche.
Fa parte della famiglia linguistica “alto alemanna”, corrispondente all’area germanofona posta grosso modo a
sud del Reno tra Svizzera e Foresta Nera. Apparentato
all’ alemanno alpino e svizzero-tedesco delle montagne, il
walser ha mantenuto, chiuso tra le montagne, caratteri del tedesco delle origini e si caratterizza per una forte
sonorità. Ma i Walser sono molto più di quella che può
essere definita una minoranza di lingua tedesca in aree
linguistiche diverse. Minoranza nelle minoranze, quella dei Walser non è una “enclave”, bensì un complesso
di “enclaves” linguistiche ed etniche sparse in gran parte dell’arco alpino, che fa della loro antica piccola civiltà un caso unico: quasi il prototipo degli uomini dell’alta montagna.
L’Ossola e il Sempione nei diari di viaggio
Raffaele Fattalini
Dalla sommità del passo del Sempione, la catena alpina
con il suo enorme ammasso di cime innevate e rocce a
picco sulle quali svettano la Jungfrau e il Finsteraarhorn
delle Alpi Bernesi, offre a chi la contempla una visione della natura primordiale, tanto che al favolista Hans
Christian Andersen parve addirittura di trovarsi di fronte la “spina dorsale del mondo”, “cimiteri di mastodonti
e di animali antidiluviani” rincarò Théophile Gautier.
Questo valico, che si apre a duemila metri di altitudine
tra le Alpi Pennine e quelle abitate dagli antichi Leponzi, era noto anche nell’antichità, benché la strada che vi
saliva sia rimasta per lungo tempo nulla più di un semplice sentiero, dove potevano passare solo pedoni, muli
e cavalli, e non senza rischio. I Romani, che assoggettarono l’Ossola pochi anni prima di Cristo, solo due secoli dopo - come ricorda la lapide di Vogogna - sistemarono il sentiero del Sempione lastricandolo con grandi
pietre, di cui rimane ancora oggi qualche tratto.
I primi “viaggiatori stranieri”, se così si possono chiamare, che attraversarono il Sempione - a parte i cacciatori che in epoca preistorica si istallarono all’Alpe Veglia - furono in epoca storica i Cimbri, almeno stando
all’interpretazione che del famoso passo di Plutarco dà
il rosminiano De Vit, al cui fianco si schiera - contro
l’opinione del Mommsen - Carlo Carena, grande studioso dei classici. Leggiamo con Carena Plutarco (Vita
di Caio Mario, 23), dove narra la traversata del Sempione di quei giganteschi e biondi germanici: “I barbari,
per far mostra del loro vigore, sostenevano nudi le nevicate e si arrampicavano sulle cime attraverso i ghiacci e la neve alta; di lassù, ponendo sotto i corpi le ampie
targhe (scudi) si lasciavano andare e scivolavano lungo
i pendii delle rocce lisce, di cui non si vedeva il fondo”.
Per poi scontrarsi vicino a Domodossola con i Romani
del console Catulo, sconfiggendoli.
Da escludere invece l’ipotesi suggestiva del passaggio di
Giulio Cesare diretto in Gallia (De Bello Gallico, I, 10),
ipotesi suggerita dall’assonanza dei nomi tra “Òcelum
Lepontiorum” e Ossola dei Leponzi. Come pure quella
dalla visita di San Francesco, nonostante il convento di
Domodossola e l’affresco nella chiesa di Varzo.
Nel Medioevo, dopo il transito di Papa Gregorio X il
quale, di ritorno dal Concilio di Lione nell’autunno del
1275, si inerpicò “discriminosis montis Brigiae pontibus se exponens” (rischiando la vita sui pericolosi ponti
del monte di Briga”, come ha rivelato su Oscellana don
Bertamini), è la volta di Francesco Petrarca. Che il poeta di Laura sia passato per il Sempione non è cosa certa,
ma anche Gianfranco Contini non lo escludeva, citando il Borgese. Lo fa supporre il sonetto (CCVIII) che il
poeta dedicò al Rodano, che scorre nell’omonima valle al di là del passo.
Fu nel Seicento che la strada del passo venne allargata.
A pagare le spese fu il Barone Gaspar Stockalper di Briga, affinché potessero passare con maggiore sicurezza
e facilità i suoi muli, stracarichi dei prodotti che quell’abile e ricchissimo uomo d’affari acquistava e rivendeva in vari paesi d’Europa. In quegli anni di meta Seicento, transitò per il Sempione e per l’Ossola il sacerdote inglese Richard Lassels, inventore dell’espressione
Grand Tour, il quale comprese questo valico tra le cinque migliori via d’accesso all’Italia.
Ma il valico del Sempione assurge a fama internazionale
ai primi dell’Ottocento, precisamente nell’anno 1806,
quando fu inaugurata la strada carrozzabile voluta da
Napoleone per motivi strategici. A pagare le spese, stavolta, furono gli Italiani, immortalati nell’epigrafe incisa nella roccia della galleria vecchia di Gondo. Il valico divenne da allora uno dei più frequentati delle Alpi,
prediletto dai viaggiatori del “Grand Tour”, che trova-
241
Sempione. Galleria e Ponte di Ganther da un’incisione del Lorry.
vano ospitalità e rifugio nell’Ospizio dei buoni e soccorrevoli Frati di San Bernardo, “un’oasi di pace circondata da cattedrali naturali”, secondo la felice espressione
di Louis Tissonnier, giornalista dei nostri anni.
Nel 1828 Stendhal, che vi era passato più volte, raccomandava senza esitazione questa strada, voluta dal suo
idolo Napoleone, come la migliore tra Parigi e Milano:
“La strada del Sempione non è costeggiata da precipizi
come quella del Moncenisio. Un’eccellente diligenza vi
conduce da Losanna a Domodossola, al di là del Sempione. Il conducente è persona compitissima; il solo
aspetto della faccia tranquilla di questo buon svizzero
allontana ogni idea di pericolo”. E più avanti: “Nulla di
più pittoresco che gli aspetti della vallata di Iselle, che si
segue per giungere fino al ponte di Crevola, dove incomincia la bella Italia”. Lo stesso Stendhal, però, precisa in altra pagina: “Non bisogna nascondersi, lasciando
Baveno per Domodossola, che il viaggio in Italia è terminato: si va verso il brutto”. Infelice apprezzamento.
Lunga è la teoria dei viaggiatori illustri che valicarono
il Sempione per o dall’Italia. Ne hanno raccolto le testimonianze Marino Ferraris, Edgardo Ferrari, Enrico
242
Rizzi; anche le riviste locali “Oscellana”, “Almanacco
storico ossolano”, “Lo Strona” e “Le Rive”, hanno pubblicato alcune di queste pagine “odeporiche”; ultima,
ma non per importanza, è l’opera dello studioso ticinese Piero Bianconi, “Elogio del Lago Maggiore”, sontuoso volume mecenatizzato dalla Banca d’Intra nel suo
primo centenario (1975).
Ascoltiamo Lord Byron (1816): “Il Sempione è magnifico come natura e arte, Iddio e gli uomini vi hanno
compiuto miracoli (chiaro riferimento alla strada napoleonica, ndr), per non dire del Diavolo, il quale deve
certamente averci messo mano, o meglio uno zoccolo,
in certe rupi e burroni tra le quali e sopra i quali passa la
strada”. Tutto questo lasciò indifferente il giovane Chateaubriand, ma non John Ruskin, critico d’arte, che al
cospetto delle Alpi Pennine, Bernesi e Lepontine svettanti intorno al valico si sentì allargare il cuore.
Era triste Alfred de Musset quando, di ritorno da Venezia dove aveva subito il cocente tradimento della Sand
con un giovane medico, saliva verso il Sempione. Giunto al ponte della Masone, a Vogogna, si fermò a contemplare il Monte Rosa, maestosa visione che si può
godere solo da quel punto della piana ossolana. Ancora
oggi, naturalmente, chi passa in treno o in auto, lo può
ammirare, rosea visione fugace di pochi istanti.
Il più bel notturno che sia mai stato scritto sul Sempione lo dobbiamo a Charles Dickens, che vi salì in una
notte di fine novembre del 1844, con la neve alta. Accompagniamo in diligenza l’autore del David Copperfield (dove compare pur senza nome un riconoscibilissimo Sempione) lungo le Gole di Gondo: “La stupenda strada, dopo aver traversato il torrente su di un ponte, penetrò tra due muri massicci di rocce perpendicolari, i quali ci tolsero interamente la luce della luna e ci lasciarono solo la vista di alcune stelle, che brillavano nella stretta striscia di cielo al di sopra di noi”. Una splendida alba rosa e azzurra accoglie al passo lo scrittore, che
scende verso Briga: “Davanti a noi apparvero, scintillando come oro e argento, le cupole e le guglie coperte
di metallo e gialle, verdi e rosse di una città svizzera”.
Gustave Flaubert valicò il Sempione alla vigila del Corpus Domini del 1845 (il 22 maggio), notando che nei
boschi che coprono i monti lungo la strada “non ci sono
né orsi né lupi”. “Nelle vetture postali - scrisse seduto
a fianco di “Madame Bovary” - sotto azzurre cortine
di seta, si va su, al passo, per strade scoscese, ascoltando il canto del postiglione che si frange contro la montagna, con lo scampanio delle capre e il sordo rumore
della cascata”.
Benché fosse amico sincero di Rosmini, che su questo
Sacro Monte aveva fondato il suo Ordine religioso nell’inverno del 1828, il Manzoni non venne mai a Domodossola, dove il suo grande sacerdote filosofo aveva fondato il suo Istituto, e dove pure era nato un altro
suo amico, il conte Giacomo Mellerio, Gran Cancelliere del Lombardo Veneto nei primi anni della Restaurazione (che Stendhal, per la verità, definì “un ricco bigotto milanese” e ritrasse nella “Certosa di Parma” nella
figura del vecchio marchese del Dongo). Si può aggiungere che il Manzoni soggiornò a lungo a Lesa, sul Lago
Maggiore, nella villa della sua seconda moglie, impegnandosi a difenderla dal passaggio della progettata linea ferroviaria Arona Domodossola, che avrebbe tagliato il parco retrostante.
Un accenno almeno ai celebri disegnatori Lory, autori del
“Voyage pittoresque de Genève a Milan par le Simplon”,
e Brockedon, che con le loro raffinate stampe celebrarono
la bellezza di questa valle in molti paesi del nord Europa.
Un’eco internazionale il Sempione l’ebbe grazie all’impresa di Geo Chavez, pioniere dell’aviazione, che nel
settembre 1910 trasvolò le Alpi per la prima volta, nel
tragico volo Briga-Domodossola sopra “forre e gole e
vortici e spavento / di precipizi dei ghiacciai e giganteggiar d’erte / roccie e improvvisi sibili di vento!”, scrisse il Pascoli nell’inno all’“uomo alato”, che passò tra le
aquile stupite e sulla testa di curiosi e giornalisti, tra cui
Luigi Barzini del Corriere della Sera.
Grande passo dunque il Sempione, attraverso il quale dal nord si scende verso il “paese del sole” e da sud
si sale nel cuore dell’Europa. Domodossola deve parte della sua vitalità a questo passo, alla sua strada aperta
nel 1805 e alla galleria ferroviaria inaugurata un secolo dopo, nel 1906. Nel poco noto Museo Sempioniano,
custodito grazie alle cure dei Padri Rosminiani nel Collegio Rosmini di Domodossola, sono conservati cimeli delle titanica impresa: la perforatrice Brant-Brandau,
Il ponte di Gondo.
243
il teodolite, strumento utile per l’esatta direzione dello
scavo, campioni di rocce e persino i menu del pranzo di
festeggiamento, in cui figura la “pasta alla dinamite”.
Oggi la cadenza secolare delle nuove vie di comunicazione sta per essere rispettata: è un augurio per il potenziamento dei due tunnel ferroviari attraverso i quali
passerà presto il “Pendolino Transalpino”, figlio affrettato del mitico “Orient Express” e nipote della diligenza. L’Ossola e i laghi Maggiore e d’Orta attendono i turisti, oggi come nell’Ottocento: rinnovati gli alberghi e
La posta sulla strada napoleonica d’estate (acquerello di R. Salvadori).
244
le strade, immutata l’antica, elegante bellezza.
“L’Italia incomincia a Domodossola”, scrissero, venendo dal Nord, i fratelli Goncourt, raffinati studiosi e resocontisti bizzarri. Coi tempi che corrono, viene da domandarsi dove finisca, l’Italia. Cesare Angelini, sacerdote e letterato, declinando l’invito a venire quassù, dove
peraltro abitava il “letterato e amico Gianfranco Contini” e dove aveva “salutato l’ultima volta il poeta Clemente Rebora”, scrisse di non potere, per l’età, salire a
“Domodossola, cioè dove finisce l’Italia”.
Tradizione, folclore e leggende
Germana Fizzotti
Ho cominciato illudendomi di non dover far altro che
pescare nelle numerose pagine di appunti tratti da scrittori non soltanto ossolani in precedenti laboriose ricerche.
Poi, più volte ho abbandonato scoraggiata le mani sulla
tastiera della macchina per scrivere che, essendo elettrica, durante il lungo lavoro «scottava» davvero, non soltanto eufemisticamente.
Innumerevoli sono, in questa nostra piccola terra, le
cose curiose, vere e fantastiche, dalle origini a giorni
non molto lontani. Anche limitandosi al tema del titolo, tacendo le meraviglie naturali e della storia complicatissima, i dialetti molto interessanti, diversi da una
valle all’altra, da una paese all’altro, oltre a quello inventato dagli emigrati di Varzo, che all’estero volevano essere capiti solo dai compaesani, molto resta ancora da
dire. E spero che sarà detto in avvenire.
Domodossola «piccola città» per tradizione
Le più belle leggende e tradizioni si trovano in alto, sulle montagne e nelle valli; diminuiscono di numero, di
stranezza, di «altezza» man mano che si scende al piano.
Ma cominciamo naturalmente dal capoluogo che anche se circondato da cime innevate, è soltanto a 272 m.
di altitudine. La nostra Domodossola in tutti i tempi è
stata variamente guardata e descritta. Nei secoli scorsi
un certo N.N. trovava che era una povera, piccola città, non trattata bene né dalla natura né dagli uomini;
sparirà un giorno dal suol dove nessuna città importante
potrà mettere radice. Appartenuta a tutti, spogliata delle foreste che la proteggevano, soggetta alle inondazioni, esposta nuda e debole al primo scontro con le acque, si nota perché vicino c’è una montagna sacra, oggetto di pii pellegrinaggi: si dice che alcuni fanno la metà del
cammino sulle ginocchia, forse per guadagnare il perdono
di grandi colpe: quelli che hanno solo dei peccatucci fan-
no il pellegrinaggio sui loro piedi. Oggi i peccati si sono
motorizzati.
Un altro, Fréderic Mercey dice: Domo non offre niente di bello, la Valle d’Oscella è triste: (per lui gli Ossolani
hanno facce patibolari, ma l’ex carcerato del quale racconta è di Varese); Louis Vignet assicura che si direbbe
emigrata tutta di un pezzo dal profondo della Calabria
ai piedi delle Alpi; ma si riferiva, allora, ai colori vivaci
degli abiti e alle nostre processioni. Un altro scrittore,
Paul Mieille, la trova una bella città, soprattutto colpito
dalla stranezza dei marciapiedi: due vie parallele formate
da lastre bianche perfettamente unite, come si vede nella
Piazza Mercato del sipario del Teatro Galletti esposto al
Museo, dipinto dal pittore del Teatro Reale di Madrid,
l’ossolano Bernardino Bonardi di Coimo. Il libro Le
Simplon et l’Italie septentrionale scrive che la cittadina di
Domo d’Ossola ha un aspetto curioso con le sue case ornate
di colonnati, le sue strade con tende di tutti i colori, i muli
bizzarramente bardati, le donne coperte da una mantella
alla moda spagnola, e Théobald Wash la definisce semplicemente una bellissima piccola città.
Per noi, è la nostra città. Scarsamente industrializzata,
con un commercio che si avvantaggia ingannevolmente della posizione di frontiera, con una stazione e una
dogana internazionali potenzialmente ma criticamente
interessanti, è nel frattempo impoverita di alberghi che
una volta, quando Domodossola aveva 4000 abitanti,
erano grandiosi, imponenti e ricchi, mentre dal 1954,
con 14.440 abitanti, a oggi con 18.865, gli alberghi si
sono ridotti. Ma non è mai stata e non è assolutamente provinciale.
Un artigianato “signore”
Malgrado i secoli e i cambiamenti, ha conservato un’atmosfera aristocratica di tempi in cui l’artigianato era
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arte e i ricchi erano signori. I suoi operai-lavoratori specializzati, fabbri, orefici, falegnami, bottai, peltrai, orologiai, fotografi, che facevano degna corona a scienziati, medici, letterati, pittori, scultori e storici, da tutti le valli dell’Ossola si sparpagliavano in Germania,
in Svizzera, in Francia, in America, in Spagna, e all’«estero» italiano. Avevamo perfino degli inventori:
un Don Giovanni Bedone, morto a Bannio, costruttore del velivolo detto aerodinamo, un Cav. Bartolomeo
Zanna di Zornasco, benemerito dei caloriferi, un Paolo
Feminis di Crana creatore della famosa Acqua di Colonia di Giovanni Maria Farina, per accennare soltanto a qualcuno. Riportavano in Patria censo, onori, elargizioni e l’ambizione di fabbricare nei propri paesi palazzine con termosifoni, alte finestre incorniciate di
stucchi, sale e camere ampie foderate di legno, arredate in liberty o con autentici mobili ossolani antichi, o
addirittura, come il Giovanni Jachetti del villaggio di
Mondelli, una piccola riproduzione della famosa Sala
degli Specchi del palazzo reale in Versailles. Avevano
casa a Domodossola e villini o fattorie in campagna, a
Bacenetto, S. Defendente, Calice, Caddo, al Roccolo,
al Croppo, sul colle della Mattarella. Da Vagna scendeva a cavallo Giovanni Piroia Modini che dopo aver percorso a piedi tutta l’isola di Cuba con una cassetta di
chincaglieria al collo, era divenuto vice-console del governo sardo-piemontese, prima di ritirarsi qui fra i «furmig rus».
Molti i grandi benefattori, come il Gian Giacomo
Galletti di Colorio in Bognanco S. Lorenzo, un genio della finanza, creatore della Fondazione Galletti dai
molteplici scopi sociali, artigianali, culturali, che così
dispose di aiutare oculatamente i compaesani, perché
l’obolo del ricco non estingue la povertà. Anche il fumista
Giuseppe Trabucchi di Malesco (già combattente con
Napoleone il Grande) che con un lascito all’ospedale
Beaujon di Parigi favorì gli operai vigezzini e piemontesi là emigrati. E altri. I nostri riportavano dall’estero
oltre a onori e ricchezze anche privilegi. I Vigezzini di
Parigi, abitanti in «Rue des Lombards», nel 1613 ottenevano dalla regina Maria de Medici il libero traffico per i poveri merciai ambulanti. Uno spazzacamino
al lavoro nel 1600 in un camino di Versailles, raccontò
al sovrano Luigi XIII di aver udito i dignitari congiura246
re ai suoi danni, e ne ottenne protezione per i compagni di lavoro; i suoi discendenti poi divennero gioiellieri di corte.
Import-export di altri tempi
Tutti riportano al paese d’origine valori che abbelliscono e arricchiscono le chiese. Gli scalpellini di Colloro,
secondo la tradizione, portarono dalla Germania, nel
1877, la nuova statua di S. Gottardo; da Roma una
Madonna Nera di Loreto che frodò la dogana a Genova,
perché la sua cassa venne dichiarata contenente fiori, e
all’apertura fiori si videro, non si sa se per miracolo o
se messi dai nostri a coprire l’opera d’arte. La Chiesa
Maggiore di Craveggia fra i preziosi conta il manto funebre del Re Sole, alcuni pezzi della «Vita di Gesù» dipinti su tavole di rame dal fiammingo Franck, un ostensorio che ha l’uguale solo in Notre Dame di Parigi, un
Crocefisso del 1300, ecc. Gli scalpellini di Mergozzo
scavarono e lavorarono le 82 colonne di S. Paolo fuori le mura di Roma, ordinate da Papa Leone XII che
diede la preferenza al granito bianco di Montorfano.
Trasportate a mezzo di rulli alle grandi zattere della
Toce, che fino alla prima metà dell’800 era navigabile, e
su queste al Lago Maggiore, proseguirono per il Ticino,
il Naviglio, il Canale Martesana, il Po, fino a Venezia.
Qui furono caricate su navi pontificie che costeggiando la Penisola, attraversato lo Stretto di Messina, giunsero al Lido di Ostia: dopo quattro anni. Di Candoglia,
invece, è il marmo al quale si deve quella meraviglia
del mondo che è il Duomo di Milano, al quale la cava
è stata esclusivamente destinata da Giovanni Galeazzo
Visconti, nel 1386. La Società di San Giulio ad Anzola
era l’antica confraternita degli scalpellini che nelle celebrazioni espongono un grande quadro del Santo, dono
dei compaesani emigrati, i quali portarono anche, nel
1858, una statua di Maria Assunta in rame e argento,
in sostituzione del simulacro in legno antichissimo della Beata Vergine della Cintura. La storia dell’artigianato
nell’Ossola è già una leggenda.
Le vere leggende nascono in alto
Cominciamo dunque dal Ghiacciaio del Gries, dove
inizia la Toce «Toccia», «Tauxa», «Athison», «Tosa», che
si forma poi a Riale di Formazza dalla confluenza dei
La milizia di Calasca.
La milizia di Bannio.
torrenti Hohsand, Gries e Roni. Si racconta di una città scomparsa, ricca e popolosa. Con salde mura, torri
massicce, cupole ardite, palazzi, piazze animate, era una
città opulenta che richiamava in folla mercanti di pelli, stoffe, tappeti, vasellame d’oro e d’argento, prodotti del
Mediterraneo e d’Oriente. Tutti vi vivevano felici e contenti, ma nell’ovatta degli agi gli abitanti finirono per scordare la legge armoniosa che regge il mondo. Erano stati avvertiti che danzavano sull’orlo dell’abisso da colui che
sempre deve camminare senza soste, forse l’Ebreo Errante
dell’altra leggenda, il quale, ripassando millenni dopo,
trovò solo le ultime vestigia della metropoli che, consunta da inguaribile vecchiezza, era morta lentamente.
L’ambiente però è rimasto impregnato di incantesimo.
Non molti secoli fa un pastore fu attirato da una fata
nel palazzo di cristallo sotto il ghiacciaio, e poi salvato dall’amore terreno della moglie, che lo aveva seguito
grazie a un gomitolo srotolato del quale gli aveva annodato un capo alla cintura.
Più sotto, è un incanto anche la Cascata della Toce, della Frua, sincope di Fruda, voce celtica che suona «cascata di fiume», 143 metri in tre salti, la più bella cascata dell’Italia settentrionale, ammirata anche da Wagner
come uno straordinario spettacolo. Un’altra leggenda di
ghiacciai, quella di Aurona, parla di un uomo scomparso misteriosamente trasportando dell’oro, forse in
Svizzera.
Anche l’oro è di casa nelle nostre montagne
Come le fate, i folletti, le streghe, i nani. Pare che tutti i nostri monti ne celino, oltre quelli di Pestarena, le
cui miniere erano sfruttate fin dal tempo dei romani, e
quelle dei Cani, a Battiggio, proprietà di Facino Cane.
Nelle miniere di Pestarena, si racconta, i fuochi fatui
traggono luce dai luoghi dove esistono filoni: ma forse quelle «fasèle» erano le lanterne di cercatori notturni clandestini, i quali dichiaravano di andare a pescare,
tanto che una delle gallerie si chiama «Peschiera».
Tra valle Antigorio e valle Divedro, il Cistella (tanto
cantato al poeta G. Venanzio Barbetta dalla satira triste,
che la leggenda dice morto sul Cistella e qui rimasto),
oltre le streghe del lago di Crampiolo e le fate che stendono di notte il bucato, dicono che celi, sotto la neve
mai disciolta completamente, molto oro e «cristalli carichi di luce dentro caverne e anfratti, granati, cornioli,
zaffiri, turchesi».
247
In Alpe Veglia, invece, il lago copre una povera fanciulla che camminando da Quartina a Nembro e a Punta
Maror alla ricerca dell’innamorato perduto, qui cadde
vittima del Maligno.
In val Bognanco, addirittura era una grotta tutta
d’oro, con un letto di sassi ma d’oro perfetto, scrive Don
Biancossi, la dimora di un eremita misterioso che scendeva in paese solo per la festa.
Nani, folletti, fate e streghe
Si dice che i nani sono malvagi o buoni, le fate e le streghe sono spiriti della natura o dell’inferno, a seconda
di come li guardiamo e vediamo: in un lampo di veggente immaginazione, o in uno specchio di cattiva coscienza. Gli alpigiani di Formazza, per esempio, quando passavano l’estate all’alpe con il bestiame, erano aiutati dagli «zwärgji», i nani, che davano una mano nei lavori di stalla. Ed era d’oro il carbone regalato alla donna di Macugnaga che aveva aiutato una nana a mettere al mondo un figlio; peccato che quella non vi credette e lo buttò.
In Antrona, dove si dice che dalla Punta di Traggia all’Andolla, ai laghi di Camposecco e di Gingino, fin sulle creste di Lancino e di Lonzano gli spiriti del maltempo sghignazzano felici e maligni, e lottano fra loro
scagliando fulmini e ghiaccioli, la tragedia della frana
enorme del 1642 staccatasi dalla cima del Pozzuolo che
seppellì la Chiesa, 42 case e 95 persone, è stata poetizzata dalla leggenda che la campana sommersa suoni dal
fondo del lago per avvertire dei pericoli.
In genere le leggende tristi e i loro misteriosi personaggi cupi e cattivi sono quelle d’influenza walser, ma anche in Val Vigezzo le streghe del «Pian di Stri», alle falde
del Monte Gridone, sono descritte come malvagie megere grinzose. Ad Anzola, abitata da colonizzatori walser fuggiti da Migiandone e Ornavasso dopo la peste del
1630, le streghe erano collegate al brutto tempo, abitavano sugli alberi della Tocetta e per preparare i temporali scivolavano a valle sedute su un’altissima pioda liscia a picco, «la pioda di strii». Ma vi erano anche gli allegri «cusch» burloni nascosti nella valle del Riale, forse non lontano dalla «Cà di donn», dove tenne bottega il primo calzolaio, un Cara, che un folletto invidioso costrinse a cambiare mestiere, rendendolo incapace,
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dopo aver fatto la scarpa destra, di riuscire a fare l’altra:
una leggenda che stranamente riecheggia molto la fiaba
irlandese del Leprecano «il calzolaio singolo» che faceva
una sola scarpa, la sinistra.
Sono allegre anche le streghe che saltellano sulla neve
ghiacciata, cantando melodie magiche, nel bosco della Sotta, a Trasquera, la cui chiesa è dedicata ai SS.
Gervasio e Protasio come quella di Domodossola. Alla
Pioda di Crana prendono forma di bellissime giovani e
si riuniscono in varie notti della settimana, dopo l’Ave
Maria, per chiassose riunioni. Scrive Riana a proposito de «ul pian di Lutt», tra S. Maria e Druogno, che si
dice infestato: La paura è una potente creatrice di streghe
e di fantasmi, così la superstizione; ma tutto ha una spiegazione e dove non si vede si deve aver fede. Il fallo che si
attribuiscano alle streghe le grandinate e in genere tutte le
disgrazie e le cose cattive, discende dagli antichissimi timori per i disastri causati dagli elementi, inspiegabili, perciò
attribuiti a entità malefiche. All’avvicinarsi della grandine si bruciavano i rami dell’ulivo benedetto la domenica delle palme e si suonavano le campane.
Mostri, rettili e fantasmi
II fantasma di Cimavilla non è che il ritorno d’un uomo
esoso e disonesto condannato a sorvegliare in eterno la
«roba» alla quale era stato troppo attaccato: l’oro di Val
Toppa, che da vivo aveva ceduto a una società mineraria inglese.
In quanto ai mostri, Riana scrive che in valle Vigezzo la
credenza di serpenti e rettili favolosi forse derivava dai
tempi preistorici in cui animali giganteschi vivevano in
questi boschi. Due giovani di Albione assicurarono, alcuni secoli fa, di aver ucciso il drago di Genuina, mentre tornava dall’Ovigo dov’era volato a dissetarsi: aveva colori vivacissimi e ali di pipistrello. E ne mostrarono lo scheletro.
Di fronte a Re e Folsogno v’era «l serpent d’la cresta» con
quattro alette e la cresta rossa; sui monti di Malesco, la
«Spersuria», temutissima dagli alpigiani; sotto Dissimo,
in «la Costa», «l serpent da jugiàj» con testa quadrangolare e due occhiaie smisurate. In località Cailina di
Villette serpenti che con il loro sibilo incantavano gli
uccelli. Sopravvivenza di ancestrali ricordi, di brontosauri che hanno lasciato tracce, come il drago di S. Giulio,
Macugnaga, battesimo Walser.
del quale una gigantesca vertebra si trova nella basilica dell’Isola.
Ancora di un mostro si parla ad Agaro, il bel paesino di
valle Antigorio, dove si racconta anche di un tesoro nascosto, e vive una leggenda quasi uguale a quella, pure
walser, di Quarazza di Macugnaga: «Hirli Herli», in cui
un «gotwäegini» (nano) è innamorato di una bella ragazza che deve scoprire il suo nome per essere lasciata libera. È una fiaba che, con il «nanin Pirimpinella»
si trova anche nelle classiche Vecchie e nuove storie dei
più grandi favoleggiatori europei. Ad Agaro il mostro
è il «Rapruaf», un animale fantastico che viene vinto
da un toro, e un corteo di spettri che portano lo zaino sulle spalle forse rappresenta le anime di coloro che,
partiti con un fardello di peccati, si recano in pellegrinaggio a deporli sulla vetta della misericordia divina.
In questo paese la notte del 6 gennaio si festeggiava la
«Bubriniaba» o sera delle maschere, durante la quale
accadevano fatti strani e curiosi, per esempio parlavano le bestie.
La leggenda dell’Uomo Selvatico
Affini ai mostri e di origine pagana sono anche le leg-
gende sugli Uomini Selvatici. Nella valle d’Isorno, la
valle dell’Impossibile, erano uomini che camminavano
per ore senza parlare, fino al Larone, al Porcareggio, al
Medaro: barbuti e pelosi erano in piena dimestichezza
con tutti gli animali dei boschi. Non possedevano niente, eppure sapevano molto, l’arte di cuocere i formaggi,
di far lievitare il pane, di guarire le bestie, di conciare le
pelli, di fondere i metalli, e certe volte regalavano agli
alpigiani pezzi di oro purissimo, del quale essi non sapevano che farsi, i saggi e intelligenti Uomini Selvaggi.
Forse sono ancora essi che difendono la valle dell’Impossibile dalle invasioni. Infatti la valle dell’Isorno, malgrado le centrali elettriche o forse per i loro divieti di
accesso, è poco nota. Ha case antiche, un paesaggio orrido e maestoso all’inizio, poi dolce e riposante, e lo
splendido pianoro Agarina, l’ultimo paradiso terrestre
dai fiori strani e sconosciuti, in miniatura, e dai laghetti
ignorati. Gli Uomini Selvatici, che si divertivano ai balli delle marmotte, stavano in dimestichezza con i camosci, ed erano più timidi delle lepri, assalivano i cacciatori quando li vedevano con i loro fucili. Ai monti Ri di
Fuori, in val Calanca, un uomo selvatico regalava certe
erbe che, messe in poca dose nel pentolone, davano al
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formaggio un sapore ed un profumo deliziosi.
In valle Bognanco gli Uomini Selvatici abitavano ne «la
cà di cusciui», e sono descritti come strani esseri dalle
sembianze umane ma ricoperti di pelo. Non erano cattivi, ma era meglio non stuzzicarli. Come per gli uomini
comuni, del resto. In questa valle si diceva anche che vagassero le anime del Purgatorio, «anim d’la frova d’Trignun», la cascata dell’alpe Trignini, in cerca di una preghiera, un deprofundis, che anche altrove si recita per i
morti apparsi in sogno.
Ad Agro di Varzo l’Uomo Selvatico che non parlava
con nessuno e solo ogni tanto si recava in Veglia, ma a
casa aveva una moglie che teneva rinchiusa, è forse, reso
leggendario, un personaggio vero, che assomiglia addirittura a Bertoldo; durante il bel tempo si mostrava triste
per l’attesa delle intemperie, e quando queste arrivavano si
rallegrava nell’attesa del bel tempo.
A Ceppo Morelli, l’om salvac, grande e grosso, si faceva ospite della tana dei «Cucitt» un profondo pozzo tra
Castiglione e Calasca, dalla quale usciva quando non
c’era vento, per riscaldarsi al sole.
A Salecchio gli Uomini Selvatici si chiamavano
«Pubrina».
Baceno della sua antica storia ha ritrovato due suole
chiodate nella tomba di un uomo altissimo.
Una magia particolare
In quanto alla «lacomagìa», il sortilegio di Anzola che
provocava grandi piogge, era opera di mercanti di legname egoisti, i quali, incuranti dei danni altrui, si servivano dell’acqua alta per trascinare a valle i loro tronchi d’alberi. Contro la «lacomagìa» si fece una causa a
Milano in Senato.
In val Segnara di Anzasca la difficoltà del trasporto
del legname era superata con «la serra», che incanalava i corsi d’acqua elevati con dighe senza causare danni. Esiste una leggenda che racconta d’un capo borratto ignorante e superstizioso il quale, prima di aprire la
diga, si recò a fare la comunione e invece di inghiottire
l’Ostia sacrilegamente mise la particola in tasca e la incastrò nella borra-guida persuaso di ottenere una buona riuscita del convoglio; invece il carico, giunto alla
Cappella del Signore, puntando tutto in giro sgretolò il
terreno, dividendo in due il torrente che provocò molti
250
danni, lasciando però illesa e isolata la Cappella.
Invece nell’alta valle Anzasca, tra Macugnaga e Ceppo
Morelli, il trasporto veniva effettuato grazie alla «cioenda», ammirata e poi rimpianta da Antonio Stoppani.
Era una via pensile a piano inclinato, che aveva la forma
di un palco senza fine e senza parapetto aggrappato alla
roccia, composto di tronchi coperti da uno strato di terra e
sostenuto da una puntellatura di altri tronchi. D’inverno,
quando gelava, il pavimento terroso della loggia, che correva per chilometri e chilometri, coperto di neve, o anche
semplicemente inzuppato d’acqua, si conveniva in un piano sdrucciolevole, lungo il quale scorrevano le borre. In
fondo alla Valle il trasporto proseguiva sui barconi della Toce, che risalivano e scendevano la corrente trainati da cavalli sgroppanti sulle alzaie, guidati dai «navarui» scamiciati.
Un mostro d’altro genere
Ma a proposito di mostri, uno ben peggiore faceva a intervalli la sua apparizione in tutta l’Ossola, la peste.
Nel 1513 la peste aveva distrutto in val Vigezzo le frazioni di Sagrogno e quella di Vallero di Villette. Qui
un palazzetto apparteneva a una famiglia ora estinta le cui origini risalivano al sacro romano impero, e
si era rifugiato Calvino. Questi, in regione Rivoira di
Masera, nella casa di certi Croppi, ora chiamata «la torre di Calvino», avrebbe trovato rifugio per tre giorni,
dopo aver predicato la Riforma, minacciato dal popolo mentre era diretto, al principio del 1536, a Ferrara,
alla corte di Ercole II d’Este. Olgia, dirimpetto al cupo
Gridone, che oltre la peste subì frequenti incursioni vallesane, ed era sede di un corpo di guardia stipendiato da
tutta la valle, ebbe addirittura un lazzaretto. Così Prestinone, la patria del grande pittore Carlo Fornara, dove
il lazzaretto era «la cà an tè cu s’sént». È invece una leggenda che più in basso, nei pressi di Trontano, in frazione Creggio, la torre di segnalazione del XIII secolo
abbia ospitato Fra’ Dolcino, da alcuni considerato «uno
sfratato bastardo», da altri un riformatore che predicava
la penitenza e il digiuno, bruciato vivo con la sua compagna dopo la tortura.
La peste del 1630 seminò la morte a Crevola, il paese dove ai piedi del torrazzo di sei piani v’era il ponte
di legno teatro di aspre battaglie tra ducali e vallesani,
sul quale 2000 di questi caddero nel 1487. Qui si racconta di due donne che si salvarono mettendosi in una
buca coperta da un enorme pane bianco a peste finita.
La leggenda del Diavolo e del Vento dice che avevano
fatto il viaggio insieme, e sul ponte nuovo si fermarono perché il diavolo disse al suo compagno di aspettarlo
mentre andava a prendere un’anima dannata. Ebbene,
ne trovò talmente tante, che il Vento è ancora lì a soffiare sempre, spazzando iroso il ponte una delle rare opere dell’uomo che non risulti insignificante in mezzo a quelle della natura.
Ad Anzola, nel 1364 per scongiurare la peste venne costruito l’Oratorio di S. Rocco (con la fontana che sopravvive). Fra le spese previste per la manutenzione della navigabilità della Toce, per la difesa contro i torrenti e i Vallesani, per i tributi ai feudatari, erano preventivate anche quelle per i «bollettari», i monatti. Un oratorio al Santo della peste esisteva anche a Domodossola,
in via degli Osci, dove sulla parete dell’ex-castello rimane ancora la scritta «Piazza S. Rocco».
A Mergozzo, all’Età della Pietra, 4000 anni fa, un piccolo villaggio su palafitte, dove si sono scoperte tre piccole necropoli, la piazzetta Marconi fu «la chiesa della
peste». Nel 1630 il prete vi officiava la Messa per tutti
gli ammalati che assistevano dietro i vetri delle finestre
chiuse nelle case intorno. Alla fine i capifamiglia firmarono la pergamena del voto, con un atto civile che invocando la misericordia presentava la Comunità al Cielo
e impegnava anche i figli e i figli dei figli a santificare la festa di S. Rocco, ogni 16 agosto, con una processione fino all’Oratorio presso la chiesa di S. Maria a
Prato Scopello, e a celebrare ogni anno perpetuamente la festa di S. Carlo il 4 novembre. A Mergozzo allora si reinstaurò l’uso di presentare all’altare i «ginostri», rami abbelliti con nastri variopinti e fiori, sui quali venivano infissi due limoni, simbolo della disinfezione dopo la peste e due scudi d’argento. La tradizione
che dura tuttora antichissima, si dice risalga al culto romano della dea Cibele, fecondatrice delle forze della natura. I Romani, infatti, sembra fossero ben presenti sul
Montorfano, dove, poco più in alto del villaggio di S.
Giovanni dalla bellissima chiesa romanica in pietra del
XII secolo sorta sul luogo di una antecedente del VII si
dice che sorgesse Stazzona, il municipio romano dive-
nuto poi ducato longobardo verso il 584.
Si salvò dal «cancro volante» la valle Anzasca, in quanto lo spettro della peste, affacciandosi sul Monte Moro,
fu addolcito dal buon odore che saliva da Macugnaga,
di pane (qui lo si cuoceva solo una volta all’anno) con
siero di latte, profuso in elemosina, e tornò indietro. In
definitiva, il merito si può attribuire ai nani, perché furono essi che insegnando ai Macugnaghesi l’arte di fare
il burro, il formaggio, la ricotta, gli nascosero quella di
utilizzare il siero, proprio perché lo dessero ai poveri.
Un’altra leggenda assicura che al villaggio del Sempione,
quello che vide il passaggio di tanti personaggi illustri,
come Maria Mancini nipote del Cardinale Mazzarino
e Erasmo da Rotterdam che attraversando il passo diede inizio al suo Elogio della pazzia, la peste del 1630 infierì talmente che fu ordinato a ogni abitante ammalato di trasferirsi direttamente al cimitero per morirvi. A
Cardezza i superstiti quasi pazzi buttavano i morti in
un burrone. Anche la chiesa della Madonna della Neve
di Domodossola ebbe fra i numerosi ex-voto un tempo esposti i quadretti della peste, perché la Vergine aveva compiuto molti miracoli. Il più noto è quello dei
tempi in cui il Bogna scorreva tra il borgo e il colle di
Mattarella, causando ripetute rovine. Quando la chiesetta rimase quasi sepolta dalla ghiaia alluvionale, il dipinto della Madonna dovette essere staccato dal muro
e trasportato sopra, nella chiesa ricostruita; ebbene, per
miracolo vi giunse assolutamente intatto fra lo stupore
di tutti. I Domesi avevano fatto voto di celebrare ogni
anno, il 19 marzo, alla Madonna della Neve, una Messa
cantata in onore di S. Giuseppe, con processione del
clero, delle autorità e del popolo.
Il Diavolo e i Santi
Dopo i mostri vennero i diavoli, che si trovano un po’
dappertutto, perfino in un muro misteriosissimo in valle Antigorio, fra i pascoli di Arvenolo: un antico muraglione costruito con enormi blocchi e lastroni in pietra greggia d’una imponenza impressionante. La leggenda dice che fu il diavolo a costruirlo per collegare il
luogo con l’opposta sponda di Cravegna onde portarvi
un’intera montagna sulle spalle per schiacciare i ribelli di Viceno e Mozzio. Stranamente, i diavoli in genere si sono collegati ai ponti: si appoggiano d’abitudine
251
Valle Antigorio, Salecchio: la processione della Candelora.
a quello del Riale dell’Inferno ad Anzola, e hanno dato
il nome al magnifico ponte di Bugliaga di Trasquera, a
1230 m alto sulla voragine, dove si racconta che nelle
rocce e in quelle del Gnim vi sarebbero ancora gli anelli ai quali si attraccavano le barche quando la valle era
un lago.
A tutti i diavoli si contrappongono i Santi, ai quali l’Ossola è molto devota per una sua profonda religiosità che
accoglie anche quelli nazionali e stranieri: S. Giulio e S.
Giuliano erano greci; i patroni di Domodossola, Santi
Gervasio e Protasio, furono i primi martiri della Chiesa
Milanese; San Feliciano, del quale la Collegiata di
Domo conserva il corpo, venne dal S. Castolo di Roma;
e Sant’Antonio da Padova placa il maltempo e ferma le
acque durante le piene ad Anzola, dove per S. Martino,
l’11 novembre, giorno dei traslochi, in cui «us paga ul
ficc di prai», già dal 1066 Grimaldo da Anzola portava venti libbre di formaggio al palazzo o castello del vescovo, a Domodossola. Dei S. Bernardo onorati nell’Ossola, quello di Mentone è nato ad Aosta, l’altro in
252
Francia, a Chiaravalle. A Capraga, dove per secoli, fino
al 1967, durò la tradizione di distribuire in quel giorno il pane benedetto ai fedeli, S. Bernardo, nell’oratorio
anteriore al 1500, si festeggia il 13 giugno. Qui nacque
il Venerabile Padre Generoso Fontana, che in una notte, sognando il Giudizio Universale, ebbe i capelli bianchi. Il Fondatore dell’Ospizio del Gran San Bernardo è
patrono di Zornasco, che ottenne un osso del corpo del
Santo. Nessuno l’ha mai visto, ma la tradizione assicura
che l’osso misterioso al calar del sole del 15 giugno, festa del Santo, passi di casa in casa, restandovi un anno
per famiglia. S. Abbondio di Masera, dell’abbandonata
chiesa del 1000 con il campanile romanico, è di Como.
L’altro campanile romanico famoso è quello della chiesa di Villadossola dedicata a S. Bartolomeo, l’israelita
apostolo di Gesù.
Ma l’Ossola ebbe anche i suoi Santi locali, nonché i suoi
Papi: il venerabile Giovanni Toietti nato nel 1680 nella casa ancora esistente a Pianezza di Calasca; il Beato
francescano Giovannino Minoia di Croveo; il Beato
Giovanni Testone di Bannio, le cui ossa vennero riportate al paese da Alessandria nella tasca del nipote, senza
testa (aggiunta in seguito per la generosità di un marchese Ghilini che la custodiva), il Beato G.B. Balconi,
parroco a Zornasco dal 1732 al 1750, che dormiva in
una bara; Don Lorenzo Dresco di Varzo, la cui nascita venne annunciata a una donna che raccoglieva foglie secche dal canto soave di un’anima del Purgatorio.
Egli con le proprie mani, sasso su sasso costruì la curiosa e interessante chiesa di Crego, poi morì a Mozzio di
Cravegna, dove la Madonna della Vita, nel Santuario
in frazione Smeglio ha un quadro portato processionalmente dai Mozziesi emigrati nello stato pontificio, da
Bologna, lungo la pianura padana, su un carro trainato
da buoi. È venerato anche il Santo ciabattino di Varzo,
Antonio Panighetti, sepolto nella parrocchiale di S.
Eligio. I Papi sarebbero due: Innocenzo IX dei Nocetti,
nato nel 1519 da genitori di Cravegna, che non volle
mai lasciare il nome di Facchinetto, compiacendosi dell’umile mestiere del padre, e quando fu in parrocchia a
Domodossola, secondo la tradizione, ma non i documenti, avrebbe procurato alla nostra città il privilegio di
portare il SS. Sacramento nella processione del Venerdì
Santo, durante la quale sembra che un confratello regolatore sollecitasse i partecipanti gridando: a vèghi mia
che ul Signur l’è già su a cà dul diavul? Poi Papa Sisto V,
già cardinale Felice Peretti, che si dice traesse origine
dalla famiglia Peretti di Bracchio di Mergozzo.
Feste religiose e processioni
In tutta l’Ossola, per tradizione per assolvere ad antichi
voti, per invocare l’aiuto divino contro i flagelli che dall’antichità hanno cambiato nome ma non frequenza, le
processioni sono numerose. Quella da Domodossola a
Bognanco, per devozione alle sante reliquie lasciate da
un Vescovo di passaggio (abolita nel 1778, quando furono proibite le processioni fuori porta), è illustrata nel
quadro che si trova nella parrocchiale di S. Lorenzo,
sullo sfondo della città circondata da mura quale era
nel 1690.
Dovevano essere, le processioni, una risposta cristiana
alle superstizioni e alle paure di tutti i tempi.
Gli Anzolesi, nel giorno di S. Marco, per antichissimo voto legato alla liberazione dai lupi che si trovava-
no ancora sulle montagne, dedicavano a S. Giulio, uno
splendido pellegrinaggio notturno, con tanti lumi tremolanti, che in barca faceva il giro dell’isola prima di
sbarcarvi. Da Ornavasso, invece, il pellegrinaggio della Comunità annuale dell’8 maggio si recava alla Chiesa
di S. Vittore, sull’Isola Bella del Lago Maggiore. Da
Mergozzo, fino al 1600 inoltrato, il pellegrinaggio della comunità alla tomba di S. Giulio fu periodico per riconoscenza alla sua evangelizzazione. Secondo la leggenda, poi S. Giulio il 22 settembre del 344 celebrò la
Messa a Pecetto, e un suo condiscepolo, nel 355, venne da certi giovinastri di Anzinell affisso a una pianta di
castagne con un sasso al collo, così co là col capo in giù
morì. Però ad Antrogna la prima chiesa di Calasca, la
Chiesa Vecchia di Sant’Antonio Abate, sorse soltanto
1000 anni dopo la morte dei Santi gemelli. In questo
paese la superstizione, per chiedere acqua o dopo lunghe piogge, faceva deviare il Riale e scorrere il torrente
per le strade fino a circondare chiesa e cimitero.
Così per fede, alle processioni si aggiungevano le
Rogazioni, un singolare cerimoniale che evocava il ricordo delle antichissime origini pagane delle piccole comunità contadine, con visite a oratori e cappelle nei confini della Parrocchia. A volte duravano giorni, e lungo
i percorsi di questi riti propiziatori per la fertilità della
campagna, si distribuivano pane, risotto, formaggio. Ad
Anzola, per le rogazioni di giugno, le donne portavano
appesi al collo dei bozzoli di bachi da gelso come invocazione di una buona annata per la seta.
Spettacolare era la solenne cerimonia che a Pontegrande,
per la venuta del Vescovo, riuniva le processioni di tutta la valle, che giungevano con le donne in costume, le
ragazze vestite di bianco e coronate di fiori, gli uomini delle confraternite che alzavano stendardi, croci, lanterne dorate e decorate, cantando. Se pioveva, le lunghe
file acquistavano un particolare colore per lo sbocciare di centinaia di ombrelli rossi, verdi, arancione, gialli,
a righe. Il sacerdote D. Giuseppe Salina, in arte il poeta Vittorio D’Avino, definiva queste processioni anche
pericolose, perché costeggiavano burroni e precipizi e
sovente i confratelli dovevano sospendere le litanie per
correre in fondo a qualche vallone o internarsi in una
forra a raccattare una vecchia o un bambino che vi erano precipitati rompendosi qualche osso. Non meno pe253
Vagna, la tradizionale festa del Bambin Gesù con le cavagnette.
ricolosa doveva essere la processione che da S. Lorenzo
per il Passo del Fornalino si recava ad Antrona, e viceversa, per festeggiare il comune Patrono. L’ultima da
San Lorenzo ad Antrona è del 1945; da Antrona a San
Lorenzo si fece anche nel 1952, sotto la pioggia.
Per non parlare di quella celebre che via Macugnaga da
SaasFee - Zermatt si recava a Varallo, al Sacro Monte,
per il Passo del Monte Moro. Il naturalista svizzero
Désor avrebbe voluto seguire quel percorso, ma la guida Brauschen si rifiutò di accompagnarlo perché la strada era riservata ai pellegrini: per gli altri il ghiaccio sarebbe stato pericoloso. Ancora oggi, tanto suggestiva e
folcloristica, si snoda ogni 3 febbraio la processione della Candelora, che sale a Salecchio di Formazza, il paesino d’origine antichissima, così caratteristico e strano,
con le sue case vuote, il cimiterino abbandonato, come
impietrito nel silenzio. In quel giorno il villaggio disabitato si anima di tutti i salecchiesi emigrati nel mondo
che ritornano per continuare la tradizione, partecipare alla Messa, alla benedizione delle candele e al pranzo
caldo a base di polenta, salamini e formaggio.
Note in tutta Italia sono le processioni di Re, in devoto omaggio all’affresco miracoloso della Madonna dal
254
quale sgorgò il sangue quando Giovanni Zuccone di
Londrago, il 29 aprile 1494, giocando alle piastrelle sulla piazzetta, lo aveva colpito con rabbia. Numerosi furono anche i pellegrinaggi dalla valle Anzasca alla Svizzera
tedesca, a piedi, per devozione alla Madonna d’Einsiedeln o di Valdo, che qui stranamente ha diverse cappelle, con le effigi di San Meinrado assassinato dai briganti e San Corrado, che furono i fondatori del convento e
del santuario di Einsiedeln.
Ceppo Morelli, poi, si può dire il paese delle processioni: quella piccola la terza domenica di ogni mese, quella
grande, per la Festa della B.V. Immacolata, che trasporta la bella statua, l’ultima domenica di giugno, attraverso il paese infiorato e addobbato, fino alla Madonna
di Lourdes, poi per i prati, dietro antiche case; l’altra
grande, delle Reliquie, la prima domenica di settembre, con il prezioso reliquiario. Poi, per la tradizionale commemorazione dei morti, che sono invocati quasi
come Santi (o meurt jutèm) la processione al cimitero è
seguita nel buio crepuscolo dal rosario recitato in corso,
suggestivamente, dai parenti raccolti intorno alle tombe dei loro cari, infiorate dalle innumerevoli luci degli
«ufizil», i lumini di cera attorcigliati. Del resto, in tema
religioso, Ceppo non è famoso solo per le processioni,
ma anche per il sacrista che quando si svegliava, a qualunque ora della notte, andava a suonare l’Ave Maria
e le donnine devote correvano fino alla chiesa, a lume
di luna, e per l’organista che durante la Messa suonava
Tutte le feste al tempio, e Libiam nei lieti calici, credendoli inni sacri.
Le fonti e le erbe miracolose
Oltre le processioni, i pellegrinaggi, le rogazioni, gli
Ossolani hanno come rimedio ai loro mali fisici le acque minerali. Quelle di Bognanco, fatte conoscere dal
Dr. Giacomo Albasini con un opuscolo pubblicato nel
1849, per curare tutte le malattie di fegato; quelle ricostituenti del sangue e del sistema nervoso di S. Carlo
in valle Anzasca, attualmente non ancora sfruttate benché Stoppani nel 1914 credesse nella loro efficacia e nel
loro avvenire; la fonte termale nelle vicinanze dell’Alpe
Monfracchio di Craveggia, già citata nel 1352, contro
affezione rachitiche e malattie linfatico-glandolari; la
sorgente dell’Alpe Veglia di Varzo, scoperta casualmente da due soldati nel 1879, la più elevata sorgente minerale d’Europa (m. 1813) dopo quella di Penticosa nei
Pirenei, dalle acque acidule-ferrose-arsenicali; le buone
acque di Baceno e Uresso; quelle ferruginose e famose di Crodo.
E poi, da sempre gli Ossolani hanno fatto ricorso alla
medicina popolare. Naturalmente, ai tempi in cui l’esercizio della chirurgia era affidato al barbiere che era anche sarto, trovava posto la superstizione, come nel caso
delle ragnatele sulle ferite, dei pidocchi contro il mal
di fegato, le lumache vive contro il mal di denti, ecc.
Ma in genere si faceva uso di erbe medicinali di provata esperienza e reale beneficio. Non so del brodo di pollo per non fare la pipì a letto, ma è un fatto vero che
l’alcool di arnica e il grasso di marmotta sono efficaci contro i dolori reumatici, l’olio di ipérico contro le
scottature, le punture delle api contro la sciatica, il latte di donna contro il mal d’orecchi, l’aglio e l’erba ruta
contro i vermi, il tiglio e la camomilla di montagna per
guarire i raffreddori e il nervosismo, la menta per la digestione, i semi di lino macerati nell’acqua per rinfrescare l’intestino, l’olio di ricino caldo in impacco sulla pancia, e altri ancora. Del resto, l’uso di Bognanco
di attaccare al collo, con uno spago, un pezzetto di carne di capra secca e salata, che il bambino succhiava, trovandolo saporito e gli rinforzava le gengive, è ben durato nei secoli con lo stesso principio e la sola sostituzione della carne secca con l’osso di seppia.
Gli alberi sacri al popolo
Anche gli alberi hanno sempre avuto molta importanza
nell’Ossola, oltre il loro valore ecologico e materiale: una
specie di culto faceva dei più imponenti il Municipio
all’aperto in molti paesi. A Vigino era un enorme albero di noce. A Macugnaga presso la bellissima Chiesa
Vecchia costruita dai Walser e il cimiterino delle guide alpine con le tombe illuminate di edelweiss e fiorite di picozze, un grande tiglio piantato nel 1200 raccoglieva sulla panchina attorno al suo tronco gli anziani a Consiglio. L’Università degli Uomini della terra di
Anzola, al suono della campanella sedeva sul sagrato del
S. Rocco costruito per scongiurare la peste del 1364,
all’ombra sacrale del tiglio in mezzo alla piazzetta del
«parlamento rustico». A Mergozzo, che risulta come
Communitas Mergotii negli Statuti del 1378, l’olmo ai
piedi del quale sedettero un tempo i Consoli, i dignitari, i magistrati del Borgo e i Credenzieri, è stato immortalato dal Pittore Carlo Cani di Novara nel quadro del
1623 con la Madonna del Rosario ora in parrocchiale.
Anche a Toceno le adunanze si tenevano all’aperto e alle
sedute plenarie del Consiglio di Vicinanza erano ammesse anche le donne. Purché fossero vedove. Qui esiste ancora l’edificio costruito nel Medioevo per dar più
solennità alla promulgazione degli Statuti. La Loggia
de’ Bandi.
Gli statuti
I Comuni, infatti, a un certo momento della complicata storia ossolana, erano retti da Statuti interessantissimi. Quelli di Crodo comprendono anche norme di diritto pubblico, disposizioni di polizia rurale e forestale;
quelli di Craveggia stabiliscono beneficenze, sovvenzioni ai poveri, letti all’ospedale di Domo; a Salecchio prevedono la pena del taglione per i feritori, la decapitazione per gli omicidi, la berlina e le catene per i bestemmiatori, l’amputazione delle mani e la forca per i ladri, la pubblica fustigazione in piazza per le adultere. A
255
Bognanco, non per Statuto ma per usanza, fino al 1960
i capifamiglia si assoggettavano alla «Giornata di prestazione», dando un uomo per «fuoco» o pagando un sostituto, tre giornate all’anno, per la manutenzione delle alpi, delle corti e delle strade frazionali. Formazza,
con gli Statuti del 1486, aveva giurisdizione autonoma con un proprio giudice chiamato Aman, coadiuvato da un consiglio di dodici credenzieri, detto Consiglio dei Dodici: un insieme di orientale, di biblico, di
veneziano. A Premosello gli Statuti esistevano dal 1400;
quelli nuovi del 1571 furono approvati dall’Università
o Consiglio Maggiore all’ombra del tiglio secolare, in
piazza, e vi si parla fra l’altro dell’esportazione di concime, del commercio di lumache, del divieto di gettare
immondizie nel Riale.
Usanze per battesimi, nozze, funerali e temporali
In quanto alle usanze, che sono vecchie di secoli e alcune durano tuttora, molte sono comuni a quasi tutti i
paesi. Per i matrimoni e i battesimi vigono i banchetti,
la distribuzione di confetti, i doni. Dai funerali è quasi
sparito il pranzo di chiusura, una volta giustificato dalla lontananza dei cimiteri, dal fatto che le bare erano
portate a spalla e lungo il percorso per sentieri impervi
era necessario sostentare i portatori con pane, formaggio e grappa; ma resta l’uso della distribuzione del sale.
A Bognanco le massaie rimestando la polenta insaporita con quel sale recitano un requiem a suffragio del defunto. Qui si benedivano le salme, prima di rinchiudere la cassa, con tre spighe di grano intinte nell’acqua benedetta. Altrove si distribuiva anche riso e pane di segale (a Malesco perfino pasta arrostita) o «ris e lacc di
meurt» ai poveri. A Calasca, la sera della vigilia i ragazzi si recano di casa in casa recitando Calandrin, calandròt, oppure arsgignin, arsgignòt, par l’amur dul bambinot, ricevendo pere, mele, noci, castagne, torroni. La
tradizione della «Carcavègia», manifestazione folcloristica di Colloro e Premosello, è un corteo di fine anno.
Il nome si spiega a Calasca dove per antichissima tradizione si svolge alla vigilia dell’Epifania e trae origine da
una storia di Re Magi che giunti a Betlemme, seguendo la cometa, cercavano la capanna di Gesù chiedendo
informazioni a una vecchia che li indirizzò in direzione opposta. Accortisi i magi ritornarono indietro e bru256
ciarono la casa della vecchia: se ti sevàt nuta, ti ghévat da
sta citu. Nella stessa occasione in valle Vigezzo i ragazzi mettevano una scodella sul davanzale o una calza appesa alla cappa del camino per trovarvi, l’indomani, dei
doni. Il rosario della sera dei Morti si recitava nelle stalle, mangiando castagne e, in valle Vigezzo, lasciandone
per i defunti. In valle Anzasca quando muore un bambino le campane suonano a festa perché un nuovo Angelo
è salito al cielo; una volta le salme dei piccoli venivano
seppellite in un reparto riservato ad essi e ai sacerdoti.
A Mergozzo, ai funerali di una ragazza nubile venivano
distribuiti dei confetti da sposa, una espressione così patetica e così alta a indicare con realismo la mancata festa
di nozze per la vergine estinta o forse le nozze eterne alle
quali la vergine è evangelicamente arrivata. A S. Lorenzo
esisteva «la funtana di meurt», dove si lavavano esclusivamente gli ultimi indumenti e le lenzuola dei defunti. Anche a Domodossola, una volta, il due novembre i
ragazzi della Motta uscivano a scèrcà par i povar mort e
non si sa bene cosa ne ricavavano i morti, ma i ragazzi
raccoglievano qualche spicciolo vendendo, per i cavalli, i pezzi di pane raccolti. Nella Settimana Santa, invece, da venerdì a domenica, quando le campane sono legate, per l’annuncio delle funzioni sacre i ragazzi portavano nelle strade, scuotendola, una specie di raganella, «la tarapèla», che si chiamava «tiratap» ad Anzola. In
questo paese, nella chiesa di San Tomaso v’erano due
soli banchi, per i notabili; le donne più assidue si portavano l’inginocchiatoio da casa, e la sera di S. Giovanni,
24 giugno, recavano in chiesa, nel grembiule del costume, un mazzetto raccolto secondo tradizionali criteri di
scelta, per farlo benedire. I più rari erano i fiur di bèi
oman. Un pizzico di quei fiori si bruciava sul «barnasc»
(la paletta del camino) davanti all’uscio di casa per tenere lontana la losna (il fulmine). In Antrona funzionava la Elemosina di Santo Spirito (soppressa nel 1887) a
favore della Congregazione di Carità e della cappellania, con l’obbligo al cappellano di far scuola ai più poveri, nella parrocchia di Montescheno.
Per Ognissanti, di carnevale, e anche per S. Biagio,
2 febbraio (dopo aver benedetto la gola all’altare) a
Malesco ci si riuniva a mangiare i «runditt» chiamati
anche «stinchèd», un impasto di farina di grano o frumento, sale e acqua, disteso in frittelle su pietra olla-
re leggermente scaldata, poi spalmate di burro e servite con bucalina ad vin da Pèl. In diversi paesi, come a
Domodossola, si distribuisce per carnevale pulenta e sciriui, mentre a Cimamulera invece dei salamini v’è lo
zampone. E via dicendo.
E per chiudere...
Nella Settimana Santa, i Frati del S. Monte Calvario di
Domo, che abitavano a metà costa nel convento poi diventato caserma e ora rovina, offrivano un pranzo tutto di magro; per la Quaresima, invece, tra i privilegi
ossolani esisteva quello concesso dal cardinale Matteo
Schinner, verso il 1515, di potersi cibare di latticini.
A proposito del Calvario, così trascuratamente caro,
Bazzetta assicura che esisteva una strana nota spese per
un restauro nel XVIII secolo delle pitture e delle rimarchevoli statue nella Via Crucis che culmina, in alto, con
il Paradiso e il convento dei Padri Rosminiani:
“Corretti e verniciati i Dieci Comandamenti di Dio”; “abbellito Ponzio Pilato”... “Rimessa la coda al gallo di S.
Pietro e raccomodata la cresta”; “riattaccato il buon la-
drone alla sua croce e rimesso un dito nuovo”; “Dorata
l’orecchia sinistra dell’Angelo Gabriele”; “pulita la serva
del gran prete Caifa e messo del rossetto sulle guance”; “rinnovato il cielo, aggiunto due stelle, dorato il sole e pulita
la luna”; “ravvivate le fiamme del Purgatorio e restaurate alcune anime”; “Rimesso a Lucifero una coda nuova”...
“pulite le orecchie e riferrato l’asino di Balaam”; “rimesso alcuni denti a Erode”; “messa una pietra sulla fionda di
Davide”; “ingrandita la testa di Golia e retrocesse le gambe
dello stesso”; “rimessi i denti nella mandibola di Sanson”;
“rattoppata la camicia del Figliuol Prodigo”; “lavati i porci e rimessa l’acqua sul loro truogolo”...
“Totale £. 850”
Ecco, questa è una piccolissima insignificante parte delle leggende, delle tradizioni, degli usi e del folclore di
questa nostra piccola Ossola.
Condensarli è stato un lavoro improbo; eliminare è stato penoso. Quindi, dell’incompletezza del sunto non ci
scusiamo, ma ci serviamo per incitare altri a perfezionarlo e integrarlo in un’opera degna.
257
Storia dei costumi
Rina Chiovenda Bensi
Una delle prime documentazioni sui Costumi femminili dell’Ossola, la dobbiamo ad Antonio Maria Stagnon, un artista del quale in Val d’Ossola è quasi sconosciuto anche il nome, pur essendo nato a Mondelli,
piccola località della Valle Anzasca, ora appartenente al
Comune di Ceppomorelli.
Antonio Maria Stagnon nacque il 2 luglio 17511, unico
figlio maschio di Pietro Antonio.
Il padre, dopo avergli insegnato l’arte dell’ “Incisione di
sigilli” lo mandò a Parigi a perfezionarsi. Alla fine del
1772 Antonio Maria tornò a Torino dove il padre gli
cedette la sua Bottega per rientrare in Valle Anzasca.
Con il trattato di Worms del 1743, l’Ossola fu incorporata agli Stati del Re di Sardegna e dopo questi avvenimenti politici, gli Stagnon specializzati in “sfragistica”2,
che già lavoravano a Milano, e quelli provenienti dalla Valle Anzasca, si trasferirono a Torino per svolgere la
loro particolare attività.
“Antonio Maria Stagnon con patente del 4 aprile 1774,
ebbe il titolo di Regio Incisore di Sigilli…Come incisore in rame trattò molti generi; la geografia, il ritratto,
l’araldica, il costume, i fregi, la vignetta”.3
Nel 1789 incise in 88 tavole a colori, le uniformi delle truppe del Re di Sardegna; ma il lavoro più importante per noi è:
“Récueil Général des modes d’ habillements des femmes
des Etats de Sa Majesté le Roi de Sardaigne”, un volume
di 43 tavole, pubblicato in due edizioni e dedicato ad
Adelaide Clotilde di Francia, Principessa di Piemonte dal 1775, per il matrimonio con il futuro Re Carlo
Emanuele IV . Una copia, rarissima di questa opera è
custodita presso l’Archivio Storico della città di Torino,
e da una dedica conservata nella Miscellanea Vernazza
presso la Biblioteca Reale, sempre a Torino, si desume la
data della presentazione del primo volume, 1780.
In questa pubblicazione Antonio Maria Stagnon dedicò all’Ossola ben 5 tavole, con i Costumi incisi in bianco e nero e a colori, ricche di particolari, che danno la
possibilità di studiarle e di imitare anche oggi i Costumi. I colori dei tessuti sono importanti perché permettono di evidenziare le singole peculiarità e come scrive
Antonio Maria Stagnon alla Principessa, in una lettera
di presentazione di questo suo lavoro, “i diversi colori
ed i modelli contribuiscono a far conoscere i diversi caratteri della popolazione”.
Alla Valle Anzasca, la sua Valle, l’artista dedicò due incisioni “Siora Marianna, habit de cerémonie de Ceppomorelli dans la Vallée Anzasca”, e “Manghin, boulangere de la Vallée Anzasca”.
Poi incise “Barbna de Varzo dans la Vallée Dovedro
dans l’haut Novarois au Semplon”, e “Brighita de Formazza pres le Canton d’Urj”, ed infine “la Siora Peppa
de Craveggia dans la Vallée de Vigezzo”.
I tratti del viso variano secondo l’atteggiamento della
persona ritratta. La Siora Marianna, elegante e distinta è serena, indossa sul vestito una lunga giacca di colore rosso, guarnita come il grembiule ed il cappello con
passamaneria dorata; la camicia è bianca e allo scollo si
intravede una piccola croce, anche le scarpe con fibbia
sono un elemento di distinzione come l’orologio ed il
cappello.
Manghin, la portatrice di pane, invece è stanca ed affaticata, indossa un costume più modesto: il grembiule inizia all’altezza delle ascelle ed è fermato in vita da
una fettuccia di lana a più colori, tessuta in casa, detta “Curungia”; sotto il grembiule si intravede la gonna,
con uno spacco profondo sul davanti, presumibilmente necessario per affrontare una eventuale gravidanza; ai
piedi Manghin porta delle calzature di stoffa, “Scufui”,
e calze senza soletta, dette “Trausciuin”, che venivano
259
usate in tutte le Valli dalle donne per non scivolare andando in montagna e per la raccolta del fieno.
Barbna di Varzo, in Val Divedro, indossa un elegante
Costume con un lungo grembiule che inizia all’altezza
delle ascelle; la camicia e la cuffia sono di colore bianco,
la giacca di mezzalana è rossa come il bordo del vestito.
Anche il Costume di Brighita di Formazza è importante sia per il colore, sia per il modello: Brighita porta in
testa una cuffia bianca e sopra uno spiritoso cappellino, secondo le usanze locali, come si può vedere anche nell’affresco della prima metà del 1600, nell’Oratorio di S. Maria ad Antillone, raffigurante un pellegrinaggio al S. Gottardo, affresco che rimane il documento più importante sul modo di vestire di questa comunità a quel tempo. Questa acconciatura causò nel 1718
grosse liti religiose e diplomatiche tra il curato di Formazza Giacomo Costantino Jachino e le donne ed il
Procuratore della Valle, per “l’intollerabile uso di certi
cappelletti… cò quali appena cuoprono la sommità del
capo con troppa abominevole indecenza al Sagro luogo
e fonzioni ecclesiastiche…” Molte donne accettarono
260
subito il rimprovero del curato andando in Chiesa velate, con fazzoletti bianchi, mentre i Procuratori del Consiglio di Valle, risposero che “le donne di Valle Formazza vestono un abito che tutte le copre… e sogliono per
costumanza loro, antichissima, a causa della rigidezza
dell’aria, coprirsi il capo con una scuffia di tela bianca
che… vi soprapongono una berettina di lana che copre
la somità del capo… e con questo apparato sono state
admesse alli sacramenti… e mai fu proibito l’uso di detta scuffia e berettina…”
Questa controversia provocò spese e proteste. Venne
nominato alla fine come arbitro, il marchese Paravicini, che il 2 maggio 1719 sapientemente eseguì le istruzioni del curato di Formazza, proponendo alle donne di
aderire volontariamente alla Confraternita del S.S. Sacramento e di portare nelle funzioni “ il sodetto panno
nel modo prescritto”. Con questo arbitrato del 1719,
entrò nel costume di Formazza, da parte delle donne
l’uso di portare in testa un telo bianco durante le cerimonie religiose.
Il Costume più ricercato e ricco è quello della Siora
Peppa di Craveggia in Valle Vigezzo: ha il bustino stretto in vita da una preziosa cintura con la fibbia dorata;
la giacchetta è decorata sia davanti, sia alle maniche con
galloni ancora dorati; in testa sopra il foulard, annodato dietro la nuca, la Siora Peppa porta un cappello di
feltro nero con la cupola “a testa piena “, bordato sempre con nastro dorato. Questi cappelli di forme diverse : a staio, a cilindro, acquistati in Francia e Germania,
dove gli uomini emigravano per lavoro, in estate venivano sostituiti con altri di paglia finissima.
I Costumi della Valle Vigezzo, la Valle dei Pittori, consistono in abiti eleganti, con gli stessi particolari incisi dallo Stagnon, ma confezionati con tessuti preziosi
e come tali riprodotti dai Pittori locali, nei ritratti delle mogli, e di donne appartenenti a famiglie ricche, dipinti realizzati da:
G. M. Borgnis (1701 - 1761), C. G. Borgnis detto Sparsicin (1734 - 1804), G. Rossetti (1759 - 1840-41), F.
Giorgis (1828 - 1904) e da altri non meno importanti.
Durante la ricerca presso gli antiquari, è stato possibile conoscere quattro acqueforti, che ripetono gli stessi soggetti dello Stagnon, incise nel 1790 circa da Teodoro Viero, veneziano. Queste incisioni, pur ripetendo gli stessi soggetti, sono molto diverse: le donne hanno atteggiamenti eleganti, i colori ed i tratti sono pastosi e morbidi, mentre quelle incise dall’artista ossolano sono più rigide, meno espressive, ma più aderenti al modello.
Sono sempre degli ultimi decenni del 1700 alcuni piccoli dipinti, custoditi presso il Museo del Paesaggio di
Verbania, che riproducono i Costumi popolari di varie
località4 e tre riguardano l’Ossola: Donna di Macugnaga, la Paesana d’Introna Piana ( Antrona Piana), la Paesana di Bani (Bannio).
Con il titolo “Donne di Val Anzasca” troviamo ancora una incisione del 1820 di Sergent Marceau (1751
- 1847) che raffigura Manghin e la Siora Marianna in
Costume, uguale a quelli incisi dallo Stagnon.
Nel 1824 durante uno dei suoi annuali “viaggi di disegno” attraverso le Alpi, lo svizzero Samuel Birmann
(Basilea 1793 - 1847), giunse in Val Formazza, dove disegnò e dipinse ad acquarello il Costume della donna di
Formazza. Nell’ anno successivo raggiunse Macugnaga,
e attratto dalla maestosità del Monte Rosa, disegnò la
donna del luogo, con il vestito da lavoro5. Per la Serie
Costumi Piemontesi, nel 1835, Francesco Gonin (Torino 1808 - Giaveno 1889) incise la Donna di Bannio
(d’Ossola) in costume, con un elegante grembiule, di
colore azzurro-blu, decorato all’altezza del seno da una
striscia orizzontale. Questa striscia detta “lista”, in alcuni grembiuli è ricamata, come si può vedere nel costume inviato nel 1881 a Milano per l’ Esposizione Industriale Italiana, e attualmente conservato presso i Musei
Civici G. G. Galletti di Domodossola, ed in quelli ancora gelosamente custoditi dalle donne della media Valle Anzasca e usati nelle più importanti festività6.
Con grande sorpresa ad una mostra tenutasi presso il
Museo Cantonale d’Arte di Lugano nel 1994, comparvero alcuni disegni di Camille Corot sul modo di vestire delle contadine di Domodossola: “Paisanne de Domodossola vu de dos” conservato a Parigi, presso la Biblioteca Nazionale di Francia ed esposto a Lugano.
“Contadina di Domodossola” vista davanti, riprodotta
nel catalogo; ed un terzo disegno, solo descritto, depositati entrambi presso il Louvre; un quarto disegno è segnalato alla Yale University, ma non è descritto7.
Sono disegni di estrema importanza sia per l’autore sia
per il soggetto. J.B. C. Corot venne in Italia tre volte,
nel 1825, nel 1834 e nel 1843; in un taccuino da viaggio accanto ai disegni, l’artista, come era sua abitudine,
annotò l’itinerario, gli alberghi dove aveva alloggiato e
le date. Giunto a Domodossola nel 1834, prima di passare il Sempione, diretto a Ginevra, prese alloggio presso l’Hotel di Spagna nell’antica piazza Castello il 6- 7
ottobre. Pensiamo che si sia recato nella vicina piazza
del Mercato e vedendo le contadine, ne abbia disegnato il vestiario, annotando i colori di ogni componente,
annotazioni che permettono di avere un’idea precisa di
come fosse l’abbigliamento nella forma e nel colore. E’
interessante vedere il modello del cappotto a redingote,
di colore verde scuro, aderente, con tre pieghe che iniziano sopra la vita e arrivano fino all’orlo; sotto la redingote si intravede una gonna lunga, blu chiaro, a larghe pieghe, che termina con una balza in fondo di colore rosso; ai piedi la donna porta calzature di stoffa, ed
in testa un fazzoletto annodato dietro la nuca.
Questo modello di cappotto lo si trova riprodotto nella litografia “Piazza Mercato a Domodossola” di I. Dol261
by del 1839, e nella stampa “Femmes de Domod’Ossola” del 1830 circa, che ha come soggetto tre donne
di cui una anziana, che indossa una redingote di colore
verde scuro, uguale come modello al disegno di J.B.C.
Corot.
Infine è importante osservare la litografia “Domodossola” di A. Colin del 1830, che raffigura una giovane
donna con un Costume, uguale come modello a quello indossato dalle due giovani riprodotte nella stampa
“Femmes de Domod’Ossola”.
Per celebrare un avvenimento tanto importante come
l’inaugurazione della Galleria del Sempione, nel 1906,
l’Illustrazione Italiana, Treves editore, pubblicò un numero speciale, “Il Sempione”, ricco di documenti e con
la riproduzione di pastelli, dipinti e disegni. Il dipinto:
“A Balmalonesca. La sposa del minatore” di Antonio
Piatti, ed i pastelli “Ragazza dell’ Ossola” e “Contadina di Valle Anzasca” di Arnaldo Ferraguti8 sono un’importante curiosità e servono a farci conoscere i Costumi
ancora presenti in quel periodo ed indossati dalle donne della Valle Divedro e Valle Anzasca.
Nel 1911 ricorrendo il cinquantenario dell’Unità d’Italia, venne organizzata a Roma, la mostra di etnografia
italiana, per cui vennero raccolti ed esposti i Costumi
di varie regioni italiane, alcuni autentici ed altri rifatti,
tutti attualmente conservati presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari di Roma. Per l’Ossola
vennero raccolti i Costumi di Montecrestese, della Valle Antigorio, di Macugnaga, di Antrona Schieranco e di
Antronapiana, di Masera e della Valle Vigezzo.
Le donne in genere avevano un vestito che serviva per il
matrimonio e per le varie occasioni e come tale veniva
conservato e tramandato, mentre per i lavori domestici
usavano parti di qualche vecchio vestito.
Alla fine del 1800 e all’inizio del 1900, i costumi dell’Ossola vennero fotografati, riprodotti in cartoline di
vario tipo, quindi divulgati: troviamo quelle a colori del
dr. Trenkler di Lipsia, che ci documentano ancora una
volta sul modo di vestire delle donne della Valle Antigorio, della media Valle Anzasca, di Antronapiana, di
Schieranco in Valle Antrona, di Masera, di Montecrestese e di Varzo.
Generalmente queste cartoline erano in bianco e nero e
quasi tutte portavano il nome dello stampatore o di chi
le aveva ordinate: Pirola di Intra, Fumagalli di Milano,
Menapace e la Cartografica Antonioli di Domodossola,
sono i nomi di alcuni stampatori. In particolare il Costume di Macugnaga riprodotto in bianco e nero da C.
Colombo, in una cartolina dell’ inizio del 1900, è uguale non solo come modello, ma anche nelle singole parti, a quello che le donne indossano attualmente per le
processioni, le riunioni e per ogni avvenimento importante: si tratta di uno scamiciato nero di tessuto raffinato con un “corpetto” di velluto ricamato con fili d’oro,
riproducenti spighe, stelle alpine, non ti scordar di me,
i fiori che crescono in quella località. I corpetti antichi
invece hanno ricami baroccheggianti oppure recano le
cifre della proprietaria e fiori riuniti alla base in una coroncina. Questo scamiciato viene indossato su camicie
bianche, con il colletto ed i polsini di merletto fatto a
mano; un soprabito aperto davanti, un fiocco con un
nastro vivacemente colorato, uno scialle appoggiato sul
fianco sinistro, completano l’abbigliamento.
Ma il costume più interessante per noi è quello di Antronapiana, usato fino al 1930 circa, prima che venisse
sostituito da quello che le donne di una certa età portano ancora oggi: “la vesta”.
“Arcum” o “Awsti” era il nome dialettale del vecchio
scamiciato di colore marrone, con l’orlo rifinito da una
fettuccia di lana color senape, tagliato e cucito da un
sarto residente in paese. Il tessuto usato era la mezzalana (ordito di canapa e trama di lana) che veniva follato in Valle e tinto secondo l’usanza popolare, per mezzo
di un bagno prolungato in acqua in cui era stato bollito
il mallo di noce. Questo scamiciato liscio davanti e ricco di pieghe nella parte dorsale, veniva indossato su rustiche camicie bianche, di canapa, coltivata, filata e tessuta in Valle, decorate sulle spalle e all’attaccatura delle
maniche con strisce di congiunzione di “Puncèt - Riséla”; davanti veniva messo un grembiule che iniziava sotto le ascelle, boleri (giacot), giacche (trakuté), cappotti (giaca), e scarpe (cauzeramin) completavano questo
singolare vestiario di cui si conservano in paese molti esemplari.
Fa parte del costume di Antronapiana “il Puncetto” la
preziosa trina ad ago che le Antronesi usavano ed usano
per decorare le camicie e parte della biancheria di casa,
trina ricca di fascino propria della Val Sesia, dove viene
263
chiamata “Puncèt” perché è un insieme di tanti piccoli punti: in un centimetro quadrato di finissima trina,
si contano innumerevoli nodi, è detto Riséla ad Antronapiana, unica località della Val d’Ossola, dove è conosciuta, lavorata ed usata.
stituiscono. Dietro il quadro del vestire, si può leggere il linguaggio della comunità tradotto in forme, colori, tessuti…”
Note
Con il progresso, l’industrializzazione, i mezzi di trasporto ed il lavoro femminile, le donne delle valli alpine hanno abbandonato questo modo di vestire che rappresentava un impegno, adeguandosi all’abbigliamento
del fondovalle o della città.
Dopo un periodo di stasi, sono tornati il desiderio e la
moda del Costume, che viene indossato con entusiasmo anche dalle donne giovani. Sono Costumi Folk,
diversi da ogni località o gruppo; prevale nel vestiario
la camicia bianca ed elemento comune rimane il grembiule, ricamato con fiori, che a volte si identifica con il
gruppo stesso.
Questa moda stimola la ricerca e compaiono “pezzi di
vestiario” che appartenevano alle madri e alle nonne,
che si sostituiscono a quelli recenti.
Scrive G. P. Gri: “ci si veste operando delle scelte e obbedendo a dei modelli. L’ abbigliamento di una comunità alpina è uno specchio che rimanda ai confini, ai
valori e agli orientamenti dei diversi gruppi che la co-
264
Nato nel 1751 - morto 1805. Gli ultimi Stagnon risiedevano a
Moncalieri (To)
2
Sfragistica: disciplina che studia i sigilli dal punto di vista tecnico,
artistico e storico, sigillografia. Garzanti D. 1993 p. 1786
3
Schede Wesme, L’Arte in Piemonte dal 16° al 18° secolo vol. 3°
p. 1007
4
Kannès Gianluca, Costumi popolari e Ricerche etnografiche in
Piemonte, precedenti alla mostra del 1911 in Abbigliamento tradizionale e Costumi popolari delle Alpi. Torino 1994 p. 159
5
Rizzi Enrico, I Walser, Fondazione Monti, Tip. Saccardo 2003,
p. 133
6
Esposizione Industriale Italiana 1881 Milano.
7
Pomarède Vincent, Corot (Parigi 1796 - 1875) Leonardo Arte,
Milano 1996. p. 101
M. Kahn-Rossi, Itinerari sublimi, Viaggi d’ Artisti tra il 1750 1850. Skira edit. Milano 1998 pp. 247- 267
8
Antonio Piatti Viggiù (Varese 1873 - vivente nell’ anno 1934)
Arnaldo Ferraguti (Ferrara 1862 - Forlì 1925)
Riccardo Salvadori (Piacenza 1866 - Milano 1927)
9
Tutte le note bibliografiche inerenti le ricerche sono pubblicate
nella Rivista Oscellana.
10
Gri G.P. “Il Costume specchio della Comunità” in “L’ Alpe” n. 4
Priuli e Verlucca Editori 2001 To
1
Attività umane e tempo libero
Economia e sviluppo industriale
Umberto Chiaramonte e Sergio Lucchini
Premessa
Nel ricostruire la storia della Val d’Ossola alcuni autori
hanno messo in rilievo l’esistenza di attività lavorative
di un certo spessore sin dai tempi più remoti. Basandosi su documenti scritti o su ritrovamenti archeologici,
l’Ossola è stata descritta come una regione di antichissima tradizione mineraria di ferro, di oro, di cave di pietra e marmo e di acque minerali. In altra parte di questo
volume si potranno trovare i riferimenti di quanto qui
si va dicendo, tenendo conto che c’è disparità di vedute
sulla datazione di questo sfruttamento minerario.1
L’esistenza sin dai tempi antichi di un gran numero di
ruote idrauliche ad asse orizzontale, dimostra che nel
territorio furono attivi magli, seghe per la lavorazione
del legname, mantici per forni fusori e mulini per la
macinazione di cereali, grazie ai numerosi corsi d’acqua
della regione. Certamente nel XVII secolo queste attività erano molto elevate per numero.2 Accanto ad esse,
il sistema agricolo ossolano risentiva di una perenne staticità dovuta a oggettivi limiti posti dalla morfologia del
territorio montano e dalla chiusura ad ogni innovazione. Se l’allevamento del bestiame, accanto al patrimonio boschivo, costituì per secoli una fonte di reddito,
non sempre esso ebbe un impulso adeguato.
Resta da sciogliere il nodo della mancata affermazione
della sericoltura con la coltivazione del gelso per i bachi
da seta, che in Piemonte e nella confinante Lombardia
era stata causa dell’impulso economico. È certo che le
ragioni del mancato sviluppo agrario ossolano siano da
ricercare anche nella scarsa disponibilità di capitali dei
quali, in una zona montana, impervia e irrigua, occorreva una discreta quantità per le anticipazioni fondiarie.
Gli investimenti degli agricoltori si erano limitati sempre alla costruzione delle abitazioni, delle stalle e ad alcuni indispensabili arnesi da lavoro, mentre mancarono
i lavori di arginatura dei fiumi e la scelta qualitativa per
la riproduzione dei capi di bestiame. 3
A ragion veduta si può parlare di un lungo periodo caratterizzato da una arretratezza economica che trovava
qualche attenuazione soltanto nella emigrazione verso
i paesi europei più vicini (Francia e Svizzera). Eppure la Val d’Ossola possedeva alcune risorse naturali che
avrebbero potuto consentire uno sviluppo ancora impensabile se a quanto si è detto si aggiungono altri fattori: l’essere al confine con la Svizzera e trovarsi sulla direttrice di traffici commerciali legali alla Lombardia e al
Piemonte; poter contare su una mano d’opera che da
secoli aveva avuto una tradizione nella lavorazione del
ferro e dell’oro.
Ragioni di spazio non consentono di presentare un
quadro sintetico della dinamica dello sviluppo ossolano dall’antichità in poi, per cui tralascerò il lungo periodo caratterizzato dalla stagnazione e dalla arretratezza e mi soffermerò sugli ultimi cento anni di storia nazionale, quelli che coincidono con il «decollo industriale» del Paese.
I «prerequisiti» dello sviluppo
Preliminarmente è bene dire che è difficile collocare con
precisione il periodo in cui ci fu il passaggio dalla forma artigianale a quella che Franklin Mendels ha definito protoindustria. Con la dovuta cautela e con l’accortezza che ogni territorio ha storia e situazioni singolari,
si potrebbe utilizzare il modello studiato da Maths Isacson e Lars Magnusson per la parrocchia di Mora (Svezia). Come in quel territorio così in Val d’Ossola si poteva ritrovare la presenza centenaria di attività artigianali, la lavorazione del ferro, un progressivo, anche se lento, incremento demografico, un’agricoltura assai povera
con piccoli appezzamenti e molti eredi.4
267
A ben guardare, le attività minerarie nel nostro caso erano ancora più accentuate se alle già citate si aggiungono
le risorse idrauliche che con lo sfruttamento per l’energia elettrica diverranno un altro punto di forza per lo
sviluppo industriale. Diciamo che il salto di qualità cominciò ad aversi con l’affermarsi di alcune idee innovative da parte della borghesia di recente formazione che
aveva accumulato capitali ed esperienze nell’emigrazione o nella proprietà boschiva. Entrarono allora nell’Ossola capitali freschi che si trasformarono in lavori edili,
in scuole e chiese, ma anche in nuove risorse finanziarie
per le ricerche minerarie.
Alla fine del ‘700, grazie all’intraprendenza di Pietro
Maria Ceretti, si verificò una decisiva svolta nell’economia locale quando fu costituita la prima società e fu
fondato il primo stabilimento per la lavorazione della
ghisa in un forno di Viganella, alimentato dal carbone a
legna. A quell’esperienza, continuata e migliorata negli
anni successivi, noi possiamo attribuire quel ruolo decisivo che lo storico Luciano Cafagna ha definito partenza da lontano dell’industrializzazione italiana. Il Ceretti è senz’altro da annoverare tra quegli imprenditori che
nella storia d’Italia sono stati visti come gli artefici della modernizzazione del nostro paese5.
Non è compito mio definire qui il profilo imprenditoriale del Ceretti (cosa che non coincide soltanto con
la ricostruzione delle vicende della sua fabbrica, come
è stato finora tentato), ma si deve sottolineare che uno
dei suoi meriti fu quello di poter contare su capitali personali e su una dose cospicua di rischio. La sua azione
non va decontestualizzata dalla schiera di imprenditori
lombardi e piemontesi che si misero alla testa di attività
acquisendo con tenacia una cultura industriale mediante contatti ricercati e voluti, specie del Milanese. A lui si
deve quella prima mano di vernice industriale che certamente non fu di rilevanti proporzioni perché non si collegò ai circuiti nazionali ed europei, ma costituì il tessuto che proveniva inevitabilmente da lontano.6
Il merito della P.M. Ceretti fu quello di essere la prima
esperienza di fabbrica e di stimolare l’estrazione del minerale ferroso ossolano, lo studio e l’adozione di nuovi metodi di lavorazione della ghisa, oltre a far scoprire
l’immensa ricchezza di energia a portata di mano: i boschi e le acque. Ma si trattò sempre di produzioni ridot268
te che fino all’Unità nazionale avevano avuto un mercato locale nel contesto della siderurgia dell’area alpina.
Anche le miniere d’oro erano state esercitate da famiglie ricche delle valli con una discreta quantità di mano
d’opera, ma senza ambizioni industrialiste. 7
L’attività estrattiva delle cave di marmo, che lavorarono molto, se non esclusivamente, per la Fabbrica del
Duomo di Milano (cave di Candoglia), o della Certosa
di Pavia (cave di Crevoladossola) e del Duomo di Pavia
(cave di Ornavasso), era una vera e propria protoindustria che diede lavoro a centinaia di cavatori e scalpellini. Il sistema di conduzione sarebbe da sottoporre a verifica storica per accertare la presenza di forme precapitalistiche nell’organizzazione del lavoro.
In sostanza, questa caratteristica continuò a manifestarsi anche a cavallo dell’unità d’Italia e fino alla fine dell’Ottocento quando si realizzarono le condizioni che
consentirono la rivalutazione delle risorse naturali locali. Nel 1861, con l’Esposizione universale di Parigi, la
Val d’Ossola mise in mostra i prodotti delle sue miniere aurifere. Nel 1863, da sola, essa produsse kg 125,401
d’oro, per un valore complessivo di £. 236.331, dando
lavoro a 80 operai che poterono contare su 23.500 lire
di salari; ma per il resto la produzione ossolana rimaneva di tipo artigianale. Nel 1875 l’Ossola partecipò all’Esposizione regionale di Novara con prodotti che fotografavano uno stato complessivo di arretratezza: pece
prodotta a Trasquera, fruste a Villadossola, rastrelli a
Crodo, cannelle e ferri agricoli a Domodossola. Eppure, i 31 espositori ossolani presentarono oltre 60 specie
di manufatti dimostrando che era possibile avviare nuove prove e studii 8.
Ma già con il 1881 all’Esposizione nazionale di Milano
la qualità del lavoro ossolano venne messa in rilievo: vi
comparvero i prodotti delle cave e delle miniere, laverie e mulini per minerali, campioni di rame e di piombo argentifero, amianto, cristalli e oro. Accanto ad altre produzioni di tipo artigianale, fu presentata la lavorazione del ferro dello stabilimento della P.M. Ceretti che, nello stesso anno, aveva prodotto 460 t di ghisa. All’Esposizione nazionale di Torino nel 1884 l’Ossola e la sua produzione confermarono l’attivismo di un
ceto produttivo che aspirava a migliorare e a estendere
la tipologia della produzione, anche se non fu presen-
tato nulla di straordinario e di nuovo, ma certamente si
trattò di una presenza che faceva sperare per la volontà di misurare le proprie energie con i 14.237 espositori con più vasta esperienza. Il risultato immediato lo si
ebbe con il progetto di organizzare una Mostra ossolana nel 1895 che subì rinvii e non andò in porto per varie ragioni, ma i comitati cittadini che venivano eletti
per queste esposizioni e l’interesse tra i produttori erano
segnali precisi di una mentalità e di una realtà in movimento, necessarie per creare i presupposti dello sviluppo economico. Non a caso l’Ossola partecipò a tutte le
Esposizioni regionali e nazionali che si organizzarono
dopo l’Unità nazionale.
Se, dunque, non si possono trascurare da parte dello
storico queste tappe di lento avvicinamento al vero e
proprio sviluppo economico, se non si deve trascurare
la presenza di un ceto attivo e stimolatore del progresso,
occorre anche affermare che il fattore decisivo che avviò
nel territorio il take off (decollo) industriale, va ricercato
nelle infrastrutture ferroviarie, a partire da quella progettata dal parlamento subalpino sin dal 1857, con l’obiettivo di collegare Domodossola con Arona, sul lago
Maggiore, dove terminava il troncone che collegava il
lago a Torino.
Di fatto l’Ossola fu al centro di un lungo e approfondito dibattito tecnico e politico sulla necessità di collegare l’Italia all’Europa attraverso i trafori delle Alpi. Una
ricca bibliografia documenta la vastità e la versatilità di
questo dibattito nel quale si inserirono politici, intellettuali e tecnici di grande livello. L’Ossola si trovò al
centro di questa attenzione per le evidenti implicazioni di carattere economico che ne avrebbe avuto. Vegezzi Ruscalla, nel farsi paladino di un collegamento ferroviario attraverso la Val d’Ossola, scriveva: Fate una strada ferrata e l’Ossola vedrà sorgere fabbriche ed usine, perché i bassi prezzi dei salari e le costruzioni poco dispendiose vi chiameranno i capitali degli imprenditori d’industrie 9 .Il Ruscalla, anche se le sue argomentazioni e
il suo progetto per un tronco ferroviario Arona-Domodossola in quel periodo non trovarono ascolto, e anche
se alla base del suo ragionamento si poteva cogliere il vizio di una visione «colonialista» della Valle, fu un facile profeta. La vaporiera arrivò a Domodossola il 19 settembre 1888, molto in ritardo rispetto ai progetti po-
litici e al dibattito; e vi arrivò da Novara-Borgomanero
anziché, come avrebbero preferito i milanesi, da Milano-Arona. Non mancarono le perplessità di chi denunciava che si erano preferiti gli interessi genovesi e torinesi a quelli lombardi-milanesi, se non altro per collegare
quell’area siderurgica padana che s’apprestava a svolgere un ruolo cardine nell’ossatura dell’industrializzazione a nord di Milano.
La rivincita i milanesi se la presero dieci anni dopo
quando, il 1 agosto 1898 dal versante svizzero e il 16
agosto da quello italiano, iniziarono i lavori di scavo
per il traforo del Sempione che richiese anch’esso lunghi studi e defatiganti dibattiti. Esso costituì non solo
una tappa nella politica dei trafori alpini, ma fu anche
il trionfo della tecnologia del Politecnico di Zurigo dal
quale provenivano i dirigenti dei lavori e degli accorgimenti tecnico-sanitari che evitarono o ridussero gli incidenti, pur aumentando i ritmi di avanzamento. Con
il traforo, aperto nel maggio 1906, fu realizzata la ferrovia Arona-Domodossola e fu collegata questa città con
il confine svizzero realizzando il sogno milanese di accorciare le distanze con Ginevra e Parigi.
Era appena stato iniziato il traforo del Sempione quando in Val d’Ossola, il 19 ottobre 1898, i sindaci dei
16 Comuni della Valle Vigezzo costituirono un comitato per promuovere un collegamento ferroviario internazionale tra Domodossola, Vigezzo e Locarno. Il progetto, al quale parteciparono italiani e svizzeri, fu visto
nel quadro di un più ampio rosone di collegamenti ferroviari, in particolare esso avrebbe collegato il Sempione al Gottardo raggiungibile da Locarno. Ma dai primi
progetti all’inizio dei lavori, nel 1912, e all’attraversamento della Valle della prima locomotiva, nel novembre 1923, trascorsero molti anni di discussioni, relazioni, ricerca di capitali e di adesioni ministeriali.
La ferrovia divenne, nell’immaginario collettivo, ma
prima ancora della classe dirigente locale, la materializzazione del progresso tecnico e il simbolo della possibile industrializzazione. Nel 1908 la stampa diede notizia di un collegamento ferroviario a trazione elettrica
tra Domodossola e la cascata del fiume Toce; nel 1910
si ideò la ferrovia della Valle Anzasca, terra mineraria di
antica tradizione, con lo scopo di raccordare Gornergrat e Zermatt e la Valle di Saas attraverso il passo del
269
monte Moro, con Gletsh e la Furka, mentre nel versante italiano si sarebbe collegata Domodossola al Gottardo e alla Valle Formazza. Per queste linee si ipotizzavano un flusso turistico di almeno 100.000 persone e
entrate per complessive 1.036.000 lire comprese alcune iniziative alberghiere. Dello stesso tenore era il progetto di una linea che avrebbe collegato Domodossola
e la Svizzera attraverso le valli Antigorio e Formazza nel
quadro di un accesissimo dibattito sullo Spluga e sulla
Greina, con il vantaggio, secondo i progettisti, di costare otto volte meno di questi.
Se una caratteristica va evidenziata, di sicuro occorre
dire che la classe politica locale, sostenuta dai tecnici
e dalla borghesia, prese parte attiva alla progettazione
e al reperimento dei capitali per sostenere progetti che
poi non si poterono realizzare. Parlarne costituisce un
modo per evidenziare una mentalità che si era aperta
al nuovo e al rischio con la partecipazione di piccoli risparmiatori e società che si andarono costituendo nel
territorio. Ed è anche opportuno riflettere come si andò
modificando la mentalità con il farsi strada, in ampi
strati anche popolari, dell’idea di una diversa concezione dell’«industria del forestiero», come veniva chiamata allora l’industria turistica. In altre parole, si andò radicando una nuova opportunità della modernizzazione data dal turismo, senza alcun dubbio sulla scia dell’esperienza della vicina Svizzera.
Il «decollo» industriale
Non vi possono essere dubbi sul fatto che il «caso Ossola» si inserisce in modo paradigmatico tra i modelli dello sviluppo economico che storici ed economisti hanno studiato. Secondo i tre indici della produzione, elaborati da Gerschenkron, da Fenoaltea e dall’Istat, che
collocano al 1896-1908 il momento più alto della crescita industriale, lo sviluppo sarebbe caratterizzato da
fasi cicliche di un unico processo iniziato alla fine degli
anni 1870 per i primi due, mentre si potrebbe parlare
di un decollo industriale avvenuto a cavallo del secolo per
l’Istat.10 Gli storici economici oggi propendono più per
un modello «ciclico» con fasi alterne; per l’Ossola si può
parlare di un vero e proprio «decollo» verificatosi attorno al 1888-1906 quando si ebbero le infrastrutture ferroviarie e quindi si ampliarono gli impianti, arrivarono
270
i capitali, s’incrementarono produzione, livelli occupazionali e popolazione in percentuali di gran lunga superiori ai periodi precedenti.
In che misura, allora, le infrastrutture ferroviarie costituirono, come era stato detto all’inizio, un «prerequisito» per l’industrializzazione ossolana?
Si è visto come di per sé la realizzazione della rete ferroviaria ossolana costituì la prima forma di modernizzazione o, meglio, di industrializzazione se a questo termine riconosciamo un sinonimo di crescita economica sostenuta.11 Se concordiamo con Wrigley, l’industrializzazione si verifica quando il reddito reale per
abitante comincia ad aumentare regolarmente e senza limite apparente e ciò in relazione con cambiamenti importanti e continui nella tecnologia, fra i quali l’utilizzazione
di nuove fonti energetiche.
Che l’industrializzazione ossolana cominci nei periodo
della realizzazione delle ferrovie lo si può dimostrare attraverso una breve analisi dei più importanti fatti economici. Per cominciare, si pensi che dalla Pietro Maria Ceretti nel 1892, subito dopo la prima realizzazione
ferroviaria, si costituì la Fratelli Vittore ed Enrico Ceretti per bulloneria, con un capitale iniziale minimo di
appena 40.000 lire. Come spiegare una scissione «familiare» nel momento in cui si realizzavano le concentrazioni di complessi più agguerriti? Certamente influirono alcune incomprensioni e divergenze sulla politica
aziendale nella siderurgia ossolana e non è da escludere che non fosse condiviso l’isolamento scelto dalla P.M.
Ceretti di fronte alla creazione del «Sindacato del ferro»
che in seguito diede vita alla «Agenzia commissionaria
metallurgica», con sede a Firenze, con l’obiettivo di razionalizzare vendite e specializzazioni siderurgiche.
Ma la costruzione del Sempione aveva già fatto modificare la mentalità aziendalista delle due imprese siderurgiche: nel 1899 la Ceretti costruì un impianto idroelettrico di 400 hp sfruttando il fiume Ovesca, e lo stesso
indirizzo di privilegiare l’energia elettrica lo ebbero Vittore ed Enrico Ceretti. Le innovazioni introdotte determinarono un incremento di produzione di ghisa, di
ferro omogeneo, di verghe e vergella, di bulloni e viti
consentendo alle due imprese di partecipare alle commesse per la costruzione della linea Arona-Domodossola-Iselle (confine) e per il traforo del Sempione. E fu
questo che convinse l’industria siderurgica ossolana a
rivedere la politica industriale per arginare la concorrenza.
In Italia il «cartello» siderurgico si andava rafforzando
vistosamente con la creazione di un trust e con la nascita della società Ilva ed in questo contesto di concentrazioni industriali andava inserito il progetto di un Consorzio siderurgico che fu ideato tra la P.M. Ceretti e la
Fratelli Ceretti nel 1906.12
L’intento della famiglia Ceretti era quello di riunire le
loro aziende e formare un unico grandioso stabilimento
colla costituzione di una società anonima col capitale di £
2.500.000. Scopo precipuo [... era] dare incremento alla
produzione rispettiva attese le circostanze tutte sia riguardanti i rispettivi Enti industriali, sia dipendenti del mercato siderurgico, eccezionalmente favorevole...”
Insieme le due aziende aspiravano ad un ruolo più dinamico all’interno della siderurgia nazionale dell’area padana-milanese (in particolare delle Acciaierie e Ferriere
Lombarde, delle molteplici attività sviluppate dai Falk,
dai Vanzetti, dai Fratelli Redaelli) che doveva reggere la
forte concorrenza della siderurgia tirrenica (Piombino)
e ligure che aveva il vantaggio di godere di forti legami
con le commesse statali ed una forte tendenza a sottrarsi
alle leggi della concorrenza. 14 La società dei Fratelli Ceretti, con l’apporto di nuovi capitali affluiti dalle Officine Reggiane, si trasformò — alla fine del 1906 — in
Società anonima La Metallurgica Ossolana approntando una nuova acciaieria su un terreno di 30.000 mq;
l’antica P.M. Ceretti si trasformò anch’essa in Società
anon. Industriale P.M. Ceretti per l’esercizio dell’attività metallurgica, minerallurgica e idroelettrica rafforzando il proprio capitale fino a 1.500.000 lire di cui i Ceretti acquisirono un terzo.
Le due società non si fusero, ma il loro consorzio le
avrebbe fatte collaborare per dieci anni. I dati in possesso dimostrano la crescita progressiva e costante delle
due società, sia come ammodernamento tecnologico dei
macchinari, sia come investimenti e sia come produttività. Del resto fu tutto il settore metallurgico italiano a
registrare un incremento produttivo di ghisa dal 1911
al 1926, ad eccezione degli anni 1919-1923; lo stesso
incremento si ebbe nella produzione del ferro e dell’acciaio che nel 1922 aveva recuperato le perdite postbelli-
Stabilimento Pietro Maria Ceretti, nei primi ’900.
271
che. L’Alto Novarese, che contava due stabilimenti siderurgici nell’Ossola e uno ad Omegna (Soc. Metallurgica Cobianchi), non fu da meno acquisendo incrementi di tutto rispetto: nel 1912, ad esempio, la produzione
di ferro era stata di 3.400 t e quella di acciaio di 21.120
t; nel 1913 la produzione era stata rispettivamente di
2.500 t e di 29.020 t.15 La siderurgia ossolana agì nel
territorio come fattore primario di urbanizzazione tanto che Villadossola registrò un incremento demografico
del 55,1% medio annuo nel 1901-11, e del 26,2% nel
1911-21.16 Che questa grande immigrazione fosse dovuta specialmente agli insediamenti siderurgici era rilevabile dal dato sull’occupazione: nel censimento industriale del 1911 nel comune di Villadossola gli addetti
all’industria risultavano 1.002 unità, di cui 524 nel solo
settore metallurgico (52,3%),
Se la siderurgia rappresentò il motore trainante dell’industrializzazione ossolana non bisogna trascurare altre
iniziative imprenditoriali. Il tradizionale settore minerario dell’oro, che si era distinto per i repentini e soverchi passaggi di proprietà tra famiglie benestanti senza
alcuna cultura imprenditoriale, era stato preso di mira
dai capitali stranieri (belgi, svizzeri, inglesi e francesi),
ma continuò a soffrire di carenza di modernizzazione.
Nell’età del «decollo industriale» l’oro ossolano risentì della crisi generale: costi alti, eccessivo carico fiscale, scarsa redditività del minerale. Se fino al 1896 l’occupazione nel settore era stata in media di 470 unità, prima della grande guerra gli addetti scesero sotto
il centinaio.17 In questo contesto l’ingresso della famiglia Ceretti nella proprietà mineraria costituì una novità in quel 1906 che si può assumere come anno di addio del grande rilancio industriale della Valle. In realtà,
l’ingresso dei Ceretti nel settore minerario ebbe come
primo scopo l’acquisto dei macchinari, mentre i venditori (la The Pestarena United Gold Mining Co.) avevano messo una clausola «capestro» che mirava a disattivare la miniera, cosa che l’Ufficio delle miniere proibì
imponendo ai Ceretti la coltivazione della miniera pena la decadenza.
Lentamente ripresero gli investimenti e l’ammodernamento dei macchinari finché, nel 1917, la proprietà fu
acquisita direttamente dalla Soc. An. P.M. Ceretti. Il
passaggio costituiva la grande novità nel settore minera272
rio ossolano in quanto era la prima volta che una società
per azioni italiana se ne interessava. Nel 1920 ripresero
i lavori di ristrutturazione che durarono tre anni. La società, col tempo, intuì la possibilità di uno sfruttamento alternativo di acque arsenicali con virtù terapeutiche evidenziando come soltanto investimenti adeguati e continui avrebbero potuto consentire uno sfruttamento remunerativo. Il settore andò contraendosi proprio nel momento in cui la grande industria e nuove
esperienze produttive entrarono in Val d’Ossola, ma rimaneva attivo il settore delle cave di pietra e di marmo
che da sempre erano state un importante fattore di sviluppo, malgrado le vicende non sempre positive.
Dal 1904 al 1909 le cave di granito rosso erano 4, mentre quelle di gneiss erano salite da 305 a 347 nello stesso periodo, e la produzione era passata da t 76.400 a
t 106.500; il valore complessivo del prodotto era salito dalle 275.000 lire al 1.548.000; l’occupazione era rimasta sempre molto alta a causa della scarsa meccanizzazione: dai 1.383 addetti (di cui 133 fanciulli) si era
giunti ai 1.875 (con 98 ragazzi). I dati dimostrano l’importanza del settore nell’economia del territorio soprattutto dal momento in cui si realizzarono interventi di
modernizzazione. Anche qui, come nella siderurgia, si
avvertì la necessità di costituire un Consorzio per ridurre gli effetti della concorrenza, tanto che nel 1912 le 10
società consorziate produssero da sole t 23.000 contro
le 7.000 t delle aziende rimaste fuori. Anche dopo l’ammodernamento il numero degli addetti rimase sempre
attorno al migliaio.
Sebbene le acque minerali fossero conosciute da antica data, è certo che solo con la fine del XIX secolo e soprattutto con l’età giolittiana ci fu una particolare attenzione dei capitalisti verso questo settore. Le acque di
Bognanco erano state scoperte nel 1863, ma erano rimaste senza un vero sfruttamento commerciale; a Craveggia si censiva uno stabilimento per le cure termali verso la fine dell’Ottocento, ma le sue proporzioni
erano poca cosa potendo accogliere 24 persone. A questo richiamo non furono estranei gli studi e gli esami di
laboratorio presentati da alcuni studiosi in memorie e
opuscoli. Non a caso nel 1906 si costituì nella Valle Anzasca un comitato per la costituzione di una potente società anonima per l’esercizio delle miniere, per l’indivi-
duazione degli alberghi e per lo sfruttamento delle sorgenti arsenicali mangano ferruginose ed infine utilizzare una
forza d’acqua di 280 cavalli per l’illuminazione elettrica [del comune di Vanzone] ed altri Comuni o per l’impianto di eventuali industrie. 18
Appare evidente come si stesse sviluppando una nuova mentalità aperta all’impresa non con progetti astratti, ma con la costituzione di vere e proprie società anonime con azionariato di piccoli e medi risparmiatori decisi a farsi avanti e di rischiare. In questo caso si raccolsero 600.000 lire per il capitale iniziale che fu appoggiato dal Banco dell’Ossola, dalla Banca Popolare di Intra e dal Credito Italiano di Milano. Ma ad entrare nella società fu anche la Ceretti che acquisì la maggioranza del pacchetto azionario della nuova Società An. Sorgenti Minerali e Miniere di Vanzone. Insomma, il patrimonio ossolano fu recuperato dal capitale locale prima che da quello forestiero, con risultati non esaltanti,
ma di tutto rispetto. D’altra parte un grande progetto
di portare l’acqua sino a Stresa mediante una tubazione
di gres, dove si sarebbe dovuto costruire un moderno albergo, uno stabilimento termale e le infrastrutture per il
soggiorno termale, non andò in porto perché mancarono le risorse necessarie, ma la società ebbe sempre utili
e dividendi, tanto che nel 1910 il capitale sociale era salito a £. 1.100.000.
Sempre nel 1906 le acque di Bognanco ebbero la loro
prima rivalutazione con la costruzione di uno stabilimento termale; mentre nel 1908 fu costruito un albergo dando l’avvio all’attività termale e alla commercializzazione delle acque. Come per un «effetto alone» anche
a Crodo nel 1909 si cominciarono a commercializzare
le acque di quella stazione termale, note sin dal 1841.
Nella Val d’Ossola sorsero piccole aziende che producevano attrezzi da lavoro (G. Bentivoglio a Piedimulera), di carpenteria meccanica e impianti industriali (E.
Moise a Domodossola), per la fabbricazione di bulloni,
dadi, rivetti per caldaie, porta isolatori, chiavarde per
armamentario ferroviario e tramviario (Morino-Sacchi
a Vogogna), e sorsero tante piccole imprese artigianali che, in fondo, si riconnettevano alle antiche tradizioni ossolane, ma con nuovo spirito di impresa. Lo stesso
si deve aggiungere per il settore tessile dove i 213 telai
domestici per la tessitura del lino e della canapa, censi-
ti dalla statistica industriale del 1899 nella provincia di
Novara, diffusi in tanti piccoli comuni delle valli ossolane, davano lavoro alternativo a molte donne. Era una
dotazione non vistosa, ma che in provincia si collocava
dopo Novara (1.087 telai), Biella (531 più 1.139 per la
lana) e Varallo Sesia (380).
Con il 1900 alcuni industriali milanesi accettarono di
trasferire nell’Ossola lo stabilimento Pietro Frattini per
la lavorazione della juta che aveva intenzione di chiudere. Si trattava di un settore produttivo giovane per l’Italia essendo comparso soltanto nel 1870 e che risentiva di una completa dipendenza dall’estero per la materia prima.19 Raggiunto un accordo con Vittore Ceretti,
sindaco di Villadossola e industriale, fu costituita la nuova Soc. An. Jutificio Ossolano con un capitale sociale di
£ 700.000 al quale aveva aderito una cordata di industriali milanesi ed ossolani (tra i quali ultimi Maffioli e
figlio della omonima banca, e Mogni proprietario del
Banco dell’Ossola, nonché la famiglia Ceretti), più altri
azionisti di Intra. Anche questa iniziativa era una spia di
quella nuova volontà industrialista che si stava diffondendo nella Valle. Certo, come si vedrà, a far propendere per una ubicazione nel territorio, oltre ai nuovi capitali, avevano contribuito altre ragioni, tra cui la possibilità di reperire energia elettrica in loco a costi inferiori.
La possibilità occupazionale si rivelò subito alta: 328 al
1° settembre 1902, quasi tutte donne, di cui molte immigrate da fuori provincia e con una età compresa tra i
14 e i 52 anni.20 Se però l’andamento occupazionale fu
ragguardevole fu anche soggetto a mobilità, e lo Jutificio conobbe momenti difficili sin dall’inizio, dovuti sia
alla mancanza di ammodernamenti, sia alla scarsità di
materie prime e di commesse.
L’impresa volle assicurarsi una mano d’opera stabile contribuendo alla costituzione di una «pensione» o
«ospizio» che fu affidato alle suore del Buon Gesù. L’andamento della produzione fu discontinuo, ma decisamente positivo a cavallo della prima guerra mondiale
quando le commesse statali lo incrementarono. Quello che mancò fu una politica aziendale propulsiva con
il risultato che nel 1927 lo stabilimento dovette chiudere. In Italia, a fronte di una produzione di 50 milioni di manufatto, il mercato riusciva ad assorbirne appena la metà; non si riuscì a rafforzare l’esportazione che
273
fino al 1913 era stata di q 90.617, né si riuscì a trovare un accordo fra gli industriali per ridurre la sovraproduzione.21
La nuova fonte energetica: l’elettricità
Ma i fattori del take off andavano oltre a quelli descritti sin qui. Come ha sostenuto Cafagna, l’energia elettrica è stata la terza grande direttrice strategica dello sviluppo economico italiano [...], di tutte forse la più importante22, dopo la conquista del mercato interno da parte dell’industria tessile e la nascita della siderurgia a ciclo integrale. Ebbene, l’Ossola fu coinvolta nell’industrializzazione anche grazie alle sue risorse idriche che
attirarono l’attenzione di banche e capitalisti italiani e
stranieri per uno sfruttamento idroelettrico dei bacini
imbriferi in modo globale, accelerando ulteriormente i
fattori dello sviluppo.
Il «mito» dell’elettricità era giunto nella Valle nel 1896,
vale a dire tre anni dopo la istituzione della stazione elettrica di Santa Radegonda a Milano. Sin d’allora a Domodossola si avviò il dibattito sulla necessità di illuminare la città e furono studiati i primi progetti che si conclusero nel 1890 quando la luce elettrica arrivò grazie
soprattutto all’impulso dato dalla municipalità che era
costituita da un ceto borghese molto aperto all’innovazione e al progresso. Nel 1894 la prima appaltatrice dell’illuminazione, la Soc. Marazza, Castiglioni e Mantica,
avvalendosi di nuovi capitali bresciani, si trasformò in
Società in accomandita semplice Fraschini, Porta & C.,
con un capitale iniziale di £ 600.00, rilevando oneri e
patrimonio dalla precedente. Ma la prova fu così positiva che qualche anno dopo gli Ossolani crearono una
loro società elettrica che rileverà l’appalto dell’illuminazione cittadina grazie agli appoggi degli amministratori
locali non del tutto estranei al patrimonio societario.
Tra le prime aziende ad arrivare nell’Ossola, nel 1899,
ci fu la Soc. per le Forze Motrici dell’Anza, con sede a
Milano e amministrazione a Novara, iniziando lo sfruttamento del fiume Anza, in località Fomarco, con lo
scopo di produrre l’energia elettrica da trasportare a
Novara e giungere fino ad Arona sul lago Maggiore e in
Valsesia passando dalle stazioni di Gravellona e di Borgomanero. Ma per la Val d’Ossola il salto qualitativo si
verifìcò — come si è detto — quando nel 1901 si co274
stituì la Soc. An, Idroelettrica Ossolana con il modesto
capitale iniziale di £ 360.000 che faceva capo al Banco
dell’Ossola. Era la riprova che non si voleva restare ad
aspettare gli investimenti del capitale forestiero, indice
di un mutamento di mentalità nuova e della nascita di
una imprenditorialità ancora acerba, ma che stupiva per
il fervore con cui riusciva a trovare capitali per le iniziative industriali.
Con finalità industriali, invece, la P.M. Ceretti aveva
iniziato a sfruttare le acque dell’Ovesca nel 1898 per ridurre, almeno in parte, la dipendenza dal carbone. Costruì un impianto di 400 hp che servì al funzionamento
di un laminatoio, tra i primi d’Italia. Nello stesso anno
a Novara si costituì la Soc. Elettrica Ossolana con un
capitale di £ 1.600.000 proveniente specialmente dal
Verbano, per lo sfruttamento di una centrale elettrica in
Valle Antrona, che avrebbe servito la zona di Intra.
Un’altra iniziativa si ebbe con la nascita della Soc. Idroelettrica Vigezzina, il 17 novembre 1901, con capitali
esclusivamente dei «capi famiglia del mandamento»23,
iniziando con un capitale sociale di £ 112.000. Tutte
queste centrali a carattere locale, se pure di non elevate
dimensioni, davano una produzione di 3.000 kw, vale
a dire un quarto dei 12.000 kw che si producevano nel
Piemonte in quel periodo.
Tuttavia, il grande balzo nello sfruttamento idroelettrico ossolano si deve far iniziare con l’ingresso delle grandi imprese elettriche: la Soc. Ettore Conti, la Edison e
la Dinamo. Ettore Conti fondò con Gadda la Società Gadda & C. per la costruzione di materiale elettrico e fu per questa sua professionalità che la locale Soc.
Idroelettrica Vigezzina lo scelse come consulente aziendale. Nel 1901 egli fondò la Soc. An. Imprese Elettriche
Conti con un capitale di 3 milioni di lire. La sua politica di assorbimento di piccole aziende locali non urtò
mai con i piccoli azionisti del luogo che spesso venivano
lasciati nei consigli di amministrazione. Lo sfruttamento delle acque ossolane da parte della Conti interessava una superficie non inferiore ai 300 kmq e partiva da
Crevoladossola terminando al confine con la Svizzera.
Può dare un’idea degli interessi elettrici della Conti un
breve elenco: essa costruì l’impianto di Valdo che, con
lo sbarramento del lago Vannino, dava una potenzialità di 9 milioni di mc di invaso; un altro impianto,
formato dal lago Busin inferiore, interessava un invaso di 4.800.000 mc e un altro ancora, con il lago Obersee, aveva un invaso di 1.500.000 mc; quello di Rivasco sfruttava un bacino idrografico di 119 kmq ai quali si aggiungevano altri 19 kmq con le acque del torrente Vova. Questi impianti furono realizzati nell’età
giolittiana, mentre sotto il fascismo fu portato a termine l’impianto di Cadarese che aveva un bacino di 151
kmq, mentre più a valle si trovava l’impianto di Crego
con un bacino di 182 kmq. Nel sistema idrico del Devero gli impianti divennero molti e tutti di livello superiore: a Goglio la Conti ne costruì uno nel 1911; a Verampio nel 1915 e altri sull’affluente Rivo d’Arbola, a
Crampiolo, a Rivo Buscagna.
Attorno al primo conflitto mondiale la potenza degli
impianti della Conti non era inferiore ai 42.000 kw e
lo stesso Ettore Conti nelle sue memorie valutò l’Ossola come il primo esempio in Italia, e forse anche altrove,
di sfruttamento integrale di un grande bacino imbrifero,
in modo che nessuna parte della ricchezza idraulica contenutavi vada perduta.24
La Società Dinamo sfruttò il fiume Diveria e il torrente
Cairasca nei comuni di Varzo e Trasquera con due impianti e sei gruppi complessivi di potenza pari a 14.430
hp e 11.000 kw di elettricità che serviva per la elettrificazione della ferrovia Iselle (confine) — Domodossola
e per la città di Novara, oltre che per sostentare i macchinari di alcune industrie.
La Società Edison, sorta nel 1884, partecipò allo sfruttamento del fiume Toce (con la Conti); costruì diverse dighe, come quella di Crevoladossola; di Campliccioli in valle Antrona dove, nel 1916, iniziò lo sfruttamento del fiume Ovesca. Il ruolo della Edison divenne predominante quando iniziò la politica degli assorbimenti di piccole aziende elettriche e della E. Conti.
Per avere un’idea del volume utile degli invasi di pro-
Immagine storica della fonderia di Villadossola.
275
prietà della società basterebbe ricordare che si trattava
di 33.450.000 mc di invaso. 25
I tre colossi elettrici ricavarono molti utili dai loro interessi nell’Ossola. La Conti incrementò il capitale sociale del 1911, che era di 16 milioni, arrivando ai 22 milioni e mezzo del 1916 e ai 27 milioni del 1917; la Dinamo nel 1911 aveva un capitale di 5 milioni di lire, rimasto invariato fino al 1916, ma fu raddoppiato nel
1917; e la Edison, che nel 1916 aveva un capitale di 18
milioni di lire, nel 1917 lo elevò a 24 milioni. Altrettanto cospicui furono i dividendi distribuiti agli azionisti, mentre l’intera produzione di energia era aumentata: nel 1898 in Italia la potenza idroelettrica installata era di 40.441 kw, nel 1911 era di 500.000 kw e nel
1918 di 901.617 kw. Ciò fu possibile grazie al crescente consumo di elettricità sia per i bisogni dell’industria
che per quelli domestici.
I benefici che derivarono agli Ossolani furono rilevanti almeno per due ordini di motivi: primo, la regione
divenne un’area altamente remunerativa per l’ubicazione di impianti industriali a causa del facile reperimento
dell’energia elettrica a basso costo; secondo, a costruire gli impianti erano state incaricate l’ossolana Impresa Umberto Girola che diverrà una specialista in grandi opere pubbliche a livello nazionale e internazionale e altre ditte (fra cui l’Impresa Poscio di Villadossola che sorse nel 1902) che per i loro lavori impiegarono
mano d’opera locale dando inizio a installazioni di cantieri con caratteristiche di veri e propri opifici industriali
tali da consentire una produzione muraria di ottima qualità ed in quantità giornaliere impensate per /’addietro. 26
Ma altri vantaggi derivarono dalla costruzione di strade e gallerie che servirono per il trasporto dei macchinari per le centrali elettriche, che poi restarono in uso alle
comunità locali. Un autore calcolò un reddito lordo annuo di circa 2.000 lire prebelliche per ogni ha sotto forma di energia elettrica, vale a dire circa 7 volte il reddito
agrario-forestale-pastorizio di quelle terre. 27
A riprova di quanto si è affermato basterebbe presentare la proliferazione di attività piccole e grandi che si insediarono nella Val d’Ossola nel periodo del «decollo»
industriale, oltre a quelle già esposte. Sorsero soprattutto industrie chimiche che avevano bisogno di molta energia elettrica. Nel 1908 a Domodossola sorse la
276
Ditta Pazzaglia per la galvanoplastica, argentatura, doratura e cromatura dei metalli; nello stesso anno a Varzo sorsero la Smalteria Sempione fra le primissime in Italia per ampiezza dei forni, trasferita da Milano sia per
la facile reperibilità dell’energia, sia per la vicinanza del
traforo del Sempione, e la Ditta D. Giovanna e C. per
la fabbricazione di una specialità di lima detta fresatrice, nel 1913 sempre a Varzo si installò la Società Fratelli Galtarossa di Verona, specializzata nella fabbricazione
del carburo di calcio, che utilizzava dal fiume Diveria
una forza idraulica di oltre 200 cavalli e che per molti
decenni divenne un punto fermo della realtà produttiva ossolana. Ad Ornavasso nel 1914 sorse la fabbrica di
pietrine per orologi degli svizzeri Fratelli Thurillant.
Nel 1918 la Galtarossa impiantò anche a Domodossola uno stabilimento per la produzione della ghisa e delle ferroleghe.
Nel 1915 a Rumianca di Pieve Vergonte sorse lo stabilimento chimico della Soc. Italiana Prodotti Esplodenti (Sipe), con sede a Milano, che contava su un capitale di £ 2.500.000, per la fabbricazione del monocloruro e del diclorobenzolo utilizzati durante il conflitto mondiale. Nel primo dopoguerra a Domodossola fu costituito un altro stabilimento della Società Agraria di Roma per la fabbricazione di calciocianamide e
di carburo di calcio. Nel 1918 a Villadossola ne fu costruito un altro dalla Società Italiana Prodotti Sintetici (Sips) per la produzione dell’acido acetico ottenuto
sinteticamente. L’ingresso della chimica in Valle si sarebbe rafforzato negli anni: nel 1911 nei circondari di
Novara, Pallanza e Domodossola si censirono 118 stabilimenti con 419 addetti, di cui 8 stabilimenti con 58
unità si trovavano nell’Ossola.
In questo panorama di iniziative aziendali non aveva
minore significato la visita di alcuni tecnici della Società Mannesman di Milano che fabbricava tubi, con
lo scopo di verificare la possibilità di installare nel territorio un grande stabilimento siderurgico su un terreno di 500.000 mq tra Piedimulera e Villadossola o alla
periferia di Domodossola. Questo tentativo da una parte avrebbe consolidato il sistema industriale ossolano,
ma dall’altra avrebbe forse stravolto il territorio montano. In quell’occasione fu la classe politica locale con la
borghesia a porsi alla testa di un comitato che aiutasse
l’azienda a trovare, a prezzo di favore, il suolo per lo stabilimento, chiamando i piccoli proprietari in Comune
per convincerli alla cessione, discutendo la questione in
consiglio comunale e nominando una commissione di
studio per appoggiare l’iniziativa della Mannesman che,
però, alla fine decise di installarsi a Dalmine.
Il periodo fra le due guerre mondiali
Durante la prima guerra mondiale, con la mobilitazione industriale, lo Stato divenne il più grande cliente della produzione nazionale: nel Piemonte gli stabilimenti dichiarati ausiliari furono 371, tra cui 19 minerari, 30 metallurgici, 141 meccanici, 61 chimici. In questo contesto anche l’Ossola fece la sua parte. Come si è
detto, la chimica trovò nel territorio le condizioni più
favorevoli allo sviluppo: elettricità e vie di comunicazioni ferroviarie. Durante la guerra, su 18 stabilimenti chimici della provincia, 7 erano in Valle: oltre a quelli già menzionati, vi erano la Sidl (Soc. Italiana Distillazione Legno) di Finero (acetato di calcio e alcool metilico greggio), la Ing. A. Vitale di Rumianca (fosfogenecloro liquido-idrogeno), la Soc. An. Cooperativa per il
Gas di Domodossola. Anche il sistema idroelettrico si
rafforzò potendo contare su una relativa calma in quanto il fronte bellico era spostato ad est e gli impianti ossolani poterono produrre a pieno ritmo grazie anche ai
consumi elettrici che durante la guerra quadruplicarono. Certo, se il settore industriale fu favorito dallo sforzo bellico, non si vuol dire che la guerra non causò crisi
e disoccupazione in alcuni settori produttivi.
Più difficile fu il periodo postbellico, ma le industrie ossolane seppero riconvertirsi in tempo o continuarono a
servire i loro mercati tradizionali. Per il periodo tra le
due guerre mondiali i più recenti studi di storia economica sembrano concordare sul fatto che il fascismo non
segnò una battuta d’arresto nel processo di industrializzazione del paese,28 ma anzi, sia pure con i limiti e il divario economico con le nazioni più avanzate, in quel periodo lo sviluppo andò consolidandosi e le ambizioni
imperialistiche di Mussolini portarono alla nascita di una
serie di novità nel campo delle industrie tecnologicamente
più avanzate. 29 Premettendo che ciò non significa dare
un giudizio positivo sulla politica del regime dittatoriale, per quanto ci riguarda cerchiamo di verificare il livello di sviluppo raggiunto dall’Ossola.
Manufatto di fonderia.
Il settore agricolo continuò a soffrire dei vecchi mali:
piccole aree coltivabili, molti proprietari con insufficienti porzioni di terra, mancanza di investimenti. Su
6.200 ha di terra a fondo valle, solo 3.000 ha erano coltivabili, 8.000 ha erano i prati posti tra i 400-800 m sul
livello del mare; e i più ricchi proprietari, dopo i Comuni, erano Carlo Lightoweler che aveva 15 ha di pascolo e 5 di coltura, e Dall’Oro. Insomma, la proprietà
privata, su 154.000 ha ne possedeva un quinto. È chiaro che a queste condizioni non era possibile una conduzione capitalistica dei fondi, né era pensabile l’inserimento nelle iniziative del regime fascista come la «battaglia del grano» e la «bonifica integrale» anche se non
mancarono i tentativi.30 La zootecnia, settore che avrebbe potuto essere trainante nei pascoli alpini, andò depauperandosi dopo che nel periodo bellico l’intero Novarese aveva pagato un contributo di 98.841 bovini.
I dati in possesso sul settore industriale confermano che
durante il fascismo si andarono rafforzando le aziende già costituite e si realizzò il predominio della Edison e della Montecatini, ma anche le industrie siderurgiche e meccaniche tradizionali continuarono il loro incremento. In aumento fu la produzione mineraria del277
l’oro nella quale la P.M. Ceretti investì forti somme per
l’ammodernamento delle attrezzature con macchinari
importati da Bochum (Germania). Fu così che dai 3-4
kg di oro degli anni ’20 si arrivò a produrne 15-16 kg
con una resa dell’80% e anche del 90% nelle 100 t giornaliere di minerale; inoltre, furono scoperti altri filoni
nella concessione Pozzone Speranza dove i macchinari erano azionati da un impianto compressore della potenza di 1.000 hp. Prima della seconda guerra mondiale a Pestarena si estraevano 300.000 t di minerale con
una produzione di 10 gr d’oro per t. È stato calcolato
che nel solo ampliamento della miniera Ribasso Morghen furono spesi circa 9 milioni di lire per l’ammodernamento delle infrastrutture e degli impianti.
Ci fu anche un aumento occupazionale (da 151 addetti nel 1930 si passò a 200 nel 1935) e di produzione aurifera (da 60 kg nel 1937 a 407,8 kg nel 1942 e 365,4
nel 1943). Ciò convinse il Ministero della guerra a sollecitare una estromissione del capitale estero e un coinvolgimento diretto dello Stato mediante il passaggio di
proprietà dalla P.M. Ceretti all’Azienda Minerali Metallici Italiani (AMMI) nel 1939. Nelle cave di pietra,
graniti e marmo ci fu una costante espansione rilevabile dagli aumenti di capitale sociale e dalla produzione
(con alcune differenze tra marmi, gneiss e quarzi), e si
può dire che nel periodo si rafforzarono le condizioni
capitalistiche di molte aziende.
Le stesse valutazioni potremmo fare per il settore siderurgico che fu in continuo incremento a partire dal
1929. Nell’Ossola, oltre alla P.M. Ceretti che continuava a soddisfare un suo mercato, la Metallurgica Ossolana, dopo un periodo di crisi senza la possibilità di un
intervento diretto dello Stato, nel 1939 ebbe un rilancio con l’ingresso del capitale della Soc. Edison, ma dovette mutare la ragione sociale in Sisma (Soc. Industrie
Siderurgiche Meccaniche ed Affini) e spostare la sede
centrale da Villadossola a Milano. Da piccola azienda
familiare di interesse locale si trasformò in uno stabilimento di livello nazionale con un capitale sociale di
£ 30 milioni nel 1939, aumentato a £ 100 milioni nel
1940 e poi a 110 milioni. Nel 1938 l’Annuario metallurgico segnalava in Italia una ripresa produttiva per i
104 forni elettrici per ghisa e per i 134 forni elettrici
per acciaio. Durante la guerra la produzione della ghi278
sa ebbe il suo massimo trend produttivo: 259.000 t pari
al 25% del totale e nella sola Domodossola si censirono
15 forni elettrici per ghisa, cioè il più alto numero tra i
restanti stabilimenti siderurgici dell’area alpina.
Le minori aziende crebbero anch’esse: la Galtarossa di
Varzo e quella di Domodossola, sebbene conoscessero
momenti di crisi, ebbero un rilancio fino a raggiungere,
nel 1941, un capitale di £ 15 milioni, quando la società
ebbe un utile di 1.500.000 di lire. Semmai, la Galtarossa dal fascismo subì una compressione che ancora oggi
risulta di difficile lettura. Orientata la propria specializzazione verso il carburo e il calciocianamide, fu proprio il Consorzio italiano di carburo e ferroleghe ad assegnarle una quota limitata pari al 16% della sua potenzialità. A nulla valsero i progetti di ampliamento e di
ammodernamento presentati dalla società al Consorzio
senza chiedere alcun finanziamento potendo far fronte
alle spese di £ 750.000 con mezzi propri. Eppure, i consumi dei concimi erano in aumento e lo sarebbero stati
di più nel contesto della campagna ruralista del regime.
Le scelte economiche del fascismo, come è stato ampiamente dimostrato, vanno inserite nel «piano regolatore» dell’economia italiana, annunciato da Mussolini nel
marzo 1936, che prevedeva un maggiore coinvolgimento dello Stato nel settore industriale mediante le Corporazioni che decidevano sulle politiche aziendali.
Da una parte il progetto si attuò con l’allineamento della nostra moneta alle divise estere; dall’altra, si progettò
un rafforzamento della siderurgia a ciclo integrale con
l’obiettivo autarchico di far fronte al fabbisogno nazionale entro il 1940.31 È da questo disegno economico-finanziario che sorse l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano)
con lo scopo di aiutare le imprese private, e nacque, nel
1933, l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale)
che divenne una vera e propria holding rilevando capitali azionari di banche e industrie. Il peso dell’intervento pubblico con il fascismo divenne massiccio tanto che
la nascita e il consolidamento di nuovi settori produttivi
si accompagnano storicamente a forme crescenti di intervento statale: queste si articolano tanto in forti protezioni
doganali [...] quanto in interventi finanziari diretti.32 A
ben guardare, il fascismo tutelò la grande industria più
che la media e piccola o l’artigianato.
Il settore chimico moderno si può dire che nacque nel-
la provincia di Novara dall’incontro di Guido Donegani con il novarese Giacomo Fauser; nel maggio 1921,
i due diedero vita alla Società Elettrochimica Novarese (£3 milioni di capitale) con la partecipazione della
Montecatini. A Villadossola questa aveva uno stabilimento che produceva acetato di piombo, soda, acetone,
acido acetico, anidride acetica e cloroformio, e ben presto ne aprì un altro a Domodossola per la fabbricazione
del carburo di calcio e di calciocianamide. La Rumianca era cresciuta per capitali e produzione durante tutto
il fascismo: da £ 2.500.000 di capitale nel 1915 aveva
raggiunto i 14 milioni nel 1927, i 34 milioni nel 1935
e i 48 milioni nel 1938 sfondando la quota di 142,5 milioni nel 1941.
Il settore idroelettrico ossolano nel 1927 era composto
da 116 esercizi che davano lavoro a 1.309 persone realizzando utili e dividendi. La Edison divenne una presenza rilevante acquisendo compartecipazioni e incroci
azionari; anche la Dinamo e la Soc. Idroelettrica Ossolana continuarono a rafforzarsi. Quest’ultima nel 1921
elevò il capitale a 2 milioni, nel 1928 a 5, nel 1931 a 8 e
nel 1935 finì con il trasferire la sede sociale a Torino.
Meno bene andarono le cose per lo Jutificio Ossolano, divenuto Jutificio Nazionale, che nel 1927 chiuse lo
stabilimento di Villadossola per mancanza di commesse lasciando a casa 307 operai, per lo più donne.33 Il podestà Ceretti si interessò del problema, come dimostra
la corrispondenza intercorsa con Genova, sede centrale della società, perché venisse ripresa l’attività. A questo scopo si prodigò perché la Dinamo offrisse a prezzi molto competitivi l’energia elettrica necessaria, e così
lo Jutificio nazionale riaprì lo stabilimento per poi richiuderlo nel 1933.34 Complessivamente l’Ossola continuò durante il fascismo ad essere al centro di una rimarchevole industrializzazione, ma il ruolo del Sempione e della stazione internazionale di Domodossola non
avevano avuto l’importanza che ci si aspettava. Durante il regime le importazioni furono sette volte superiori
alle esportazioni e il volume dei traffici cominciò a diminuire. Comparato agli altri passi alpini, il Sempione
acquisì un ruolo di importanza sempre maggiore rispetto a Ventimiglia, Modane, Luino, Brennero, San Candido, Fiume, Piedicolle e Fusine Laghi piazzandosi subito dopo Chiasso e Tarvisio, ma le esportazioni furo-
no inferiori a quelle transitate dai passi suddetti. Le ragioni erano da ricercare nel ritardo verificatosi per renderlo competitivo rispetto ai costi: mancò il raddoppio
e l’elettrificazione della linea ferroviaria Gallarate-Domodossola, mentre nella parte svizzera ciò era avvenuto
già per 300 km. Inoltre, non bisogna dimenticare che
durante il fascismo i commerci furono intensificati soprattutto verso l’Europa centrale (Germania e Austria)
e meno verso la Francia e la Gran Bretagna. Carattere
eminentemente locale o di raccordo tra la Svizzera tedesca (Vallese) e quella italiana (Ticino) ebbe la linea Domodossola-Locarno: durante il fascismo aumentarono
le merci in transito e diminuirono i viaggiatori a causa
di una minore mobilità degli italiani.
Un altro segnale del progresso era dato dalla presenza del sistema bancario che nella provincia si rafforzò
soprattutto con la politica espansionistica della Banca
Popolare di Novara e con quella più raccolta, ma sempre in espansione, della Banca Popolare di Intra. Le due
banche locali, il Banco dell’Ossola e la Banca Maffioli,
erano state cancellate. Infine, se i dati della riscossione
di imposta sono un sintomo di sviluppo, c’è da sottolineare che a Domodossola la raccolta per i consumi si
raddoppiò tra il 1929 e il 1930, passando dalle 22.876
lire alle 42.960 lire. Così pure erano cresciute le imposte indirette che sono la manifestazione mediata della ricchezza, e ciò causò alcune risentite proteste e la richiesta di revisione del sistema catastale che puniva le
magre risorse agricole del territorio. Non può essere trascurata, in questo quadro, un’altra iniziativa della classe borghese illuminata in favore della classe operaia in
quanto conferma una cultura innovativa negli imprenditori. Partendo dalla constatazione che più della metà
della mano d’opera della Ceretti era senza casa e domicilio nel centro siderurgico o viveva in case fatiscenti e
antigieniche, la società nel 1937 si fece carico della costruzione di case igieniche ed a prezzi che [fossero] alla
portata di tutti i lavoratori. 35 Nel gennaio 1937 il prefetto Letta aveva riunito a Villadossola i rappresentanti delle industrie cittadine più grandi e delle autorità civili e sanitarie. Emerse che occorrevano almeno 2.000
vani per una spesa di non inferiore a 14 milioni di lire.
Il piano che fu elaborato prevedeva 500 alloggi entro il
1938, 500 entro il 1939 e 1.000 entro il 1940. Le spese
279
avrebbero dovuto essere sopportate in rapporto al numero degli operai: per i 14/30 dalla Metallurgica Ossolana (poi Sisma), per i 7/30 dalla Ceretti e per i restanti
9/30 dalla Sips e dalla Set. Gli industriali della Ceretti
e della M.O. aderirono subito a condizione che venisse
offerto loro il terreno con l’esproprio per pubblica utilità, mentre i delegati delle altre due società presero tempo per riferire ai rispettivi consigli di amministrazione.
La Ceretti scelse la zona Pedemonte, in periferia, ma vicina allo stabilimento e individuò per le case operaie
mq 42.136 di terreno di proprietà di 42 persone, tra cui
la stessa Ceretti. La spesa per i terreni fu di £ 126.408,
mentre le spese complessive furono £ 430.000 compresa la costruzione dei fabbricati.36 Alcuni proprietari dei
terreni intralciarono l’opera facendo ricorso, ma il prefetto aderì alla richiesta dell’impresa, le difficoltà furono superate e le 185 case vennero costruite assieme ad
un asilo nido e ad un ricovero per anziani.
Anche La Metallurgica Ossolana costruì un proprio villaggio operaio lungo la strada del Sempione, a ridosso
della ferrovia, per complessivi 213 alloggi in casette a
due piani con chiesa, scuola e servizi.
Ricostruzione e «miracolo economico»
Con la seconda guerra mondiale il processo di sviluppo subì un gravissimo contraccolpo di cui risentì anche l’Ossola per la difficoltà di reperire le materie prime. Durante il conflitto la Sips di Villadossola fu incorporata dalla Distillerie Italiane che aveva la sede a Milano e quindi dal 1944 poté contare su un rafforzamento degli investimenti. Durante il periodo della «repubblica partigiana», nel settembre-ottobre 1944 l’Ossola
costituì un punto di riferimento politico e industriale
proprio per l’alta concentrazione produttiva che fu salvaguardata a costo di non pochi sacrifici. Difficile fu il
periodo della ricostruzione per la mancanza di materie
prime e di mercati di espansione. La produzione idroelettrica raddoppiò nel dopoguerra e crebbe l’offerta di
energia che, se di per sé non è indice della ripresa industriale o di incremento dell’occupazione, precede la domanda e costituisce un’ottimistica previsione delle generali condizioni economiche. 37
Gli storici economici hanno distinto tre fasi dal dopoguerra ad oggi: la prima è quella della ripresa, denomi280
nata «miracolo economico», che va dal 1953 al 1962;
la seconda è quella della «congiuntura» che va dal 1963
agli anni ’70; la terza è quella dei nostri giorni.
Agli inizi degli anni ’50 rispuntò l’interesse per le miniere d’oro di Pestarena di proprietà dell’Ammi. Con
una certa forzatura il monte Rosa fu valutato come un
serbatoio d’oro inesauribile, ma forse non si tenne conto
degli oneri finanziari che una ripresa dell’attività avrebbe comportato, il prezzo dell’oro era aumentato anche per effetto della guerra della Corea, ma la produzione delle miniere ossolane era solo di 400 kg annui
e vi lavoravano 500 addetti in due turni quotidiani per
i quali la società aveva creato un villaggio, un cinema
e un dopolavoro. 38 Ma queste provvidenze non avevano eliminato la temibile silicosi che falcidiava la classe operaia attorno ai 40-50 anni di età. Comunque il
problema era di verificare la redditività delle miniere:
a Pestarena si estraevano 7-8 gr d’oro da una t di micasciste e ogni mese si estraevano 180 t circa di minerale che veniva lavorato da ditte specializzate di Milano,
mentre il fabbisogno nazionale si calcolava in 27,5 t d’oro per gli scambi ufficiali con l’estero. Gli eccessivi costi fecero desistere dall’impresa di scavare, ma a fasi alterne non mancano i fautori di un impegno minerario
nell’Ossola. 39
Il settore tradizionalmente trainante, il siderurgico, nella prima fase qui presa in esame risentì della favorevole congiuntura nazionale e internazionale. Tuttavia, delineare un breve panorama della siderurgia italiana non
è possibile senza accennare al Piano Sinigaglia del 1947
che si basava su alcuni punti fondanti: ritenendo sottodimensionati i consumi di acciaio e prevedendo una
loro espansione, esso ipotizzava una graduale diminuzione dell’utilizzo dei rottami per avviare, invece, un
processo di produzione integrale. Ciò avrebbe comportato un ammodernamento di alcuni impianti con grossi investimenti, ma ne avrebbe chiusi altri. In sostanza,
il Piano rafforzava la siderurgia tirrenica e ligure, cioè
quella che faceva capo alla società Finsider (Iri) mentre
comprimeva quella dell’area alpina e padana. C’è da aggiungere che in tutta Europa dal 1960 in poi si privilegiò una localizzazione costiera abbandonando i centri
di antica tradizione siderurgica. Si trattò di una politica industriale attenta a facilitare e ridurre i costi del tra-
sporto delle materie prime, ma non fu esente la scelta di
industrializzare il Mezzogiorno.40
In questo contesto, la siderurgia minore venne penalizzata; decrebbe l’importazione dei rottami di cui 1’Ossola faceva largo consumo, anche se il Piano Sinigaglia
portò la nostra produzione a livelli di tutto rispetto e
mai ipotizzabili. Nel 1958 in Piemonte si era registrata una produzione del 20% sul totale nazionale con 17
stabilimenti, mantenendo la quota che aveva nel 1938.
Nel 1965 se ne censirono 21 che si ponevano, nel panorama nazionale, come stabilimenti di media grandezza: 15 davano una produzione tra 20.000 e 50.000 t, 2
di 100.000 t, 3 di 200.000 t e soltanto uno superava la
produzione di 700.000 t di laminati. Nella produzione della ghisa il Piemonte ebbe una flessione passando
dal 25% sul totale nazionale del 1938 al 16% del 1953,
al 13% del 1958, al 10% del 1961 e al 13% del 196671. Nella statistica del 1966 lo stabilimento di Domodossola non compariva più tra quelli che producevano
ghisa con il processo elettrico, mentre in Italia ne restavano ancora 13. Nel 1961, nella produzione dell’acciaio la Sisma di Villadossola veniva tra le prime cinque che producevano 200-300.000 t annue con il forno Martin-Siemens e quindi il suo ruolo nella siderurgia alpina rimaneva importante malgrado si andasse intensificando il duro confronto tra la siderurgia privata e
quella parastatale.41
Il settore idroelettrico in questa prima fase andò consolidandosi grazie al colosso Edison che aveva nell’Ossola una potenza installata di 600.000 kw, pari al 92% sul
totale della potenza in Valle, e una produzione media
annua di 1.630.000.000 kwh. Ma proprio questo settore costituì una delle ragioni del disimpegno industriale. Come è noto, in quel periodo si sviluppò un intenso
dibattito sul ruolo delle imprese elettriche nel quadro
dello sviluppo e sulla necessità della nazionalizzazione. I
«baroni elettrici» vennero accusati di intascare lauti profitti, ma non erano stati in grado di stimolare lo sviluppo industriale, anzi lo avevano frenato.42 Quando nel
1963 si ebbe la nazionalizzazione dell’energia elettrica,
la società di Stato, l’Enel, ereditò i 27 impianti ossolani che davano una potenza installata di 706.000 kw ed
La nuova viabilità stradale ha collegato l’Ossola con l’Europa.
282
una produzione annua di 1.780.000.000 kwh, mentre
una decina di altre piccole centrali furono lasciate alle
industrie locali per la produzione esclusiva di energia
per gli stabilimenti. Ma se la nazionalizzazione portò
indiscussi vantaggi ai consumi, l’unificazione delle tariffe fece mancare uno dei vantaggi-cardine su cui poggiava il favore delle localizzazioni industriali nel territorio ossolano.
Secondo qualche autore il declino del secondario cominciò a delinearsi a partire dal 1951 in quanto, se
crebbero le unità lavorative, diminuì la media degli addetti.43 Ma non sembra che il vero problema sia stato
soltanto quello della diminuzione della grandezza delle
imprese perché le piccole e medie aziende hanno sempre costituito il nerbo dell’industrializzazione nazionale. Analizzando il periodo 1951-1961 la realtà ossolana
si presentava in modo più complesso: chiusero diverse
attività piccole e piccolissime del tessile (-130 u.l., pari
al 41,2%); nel settore pelli e cuoio ci fu uno sviluppo di
piccolissime aziende ( + 68); nel meccanico si svilupparono aziende di dimensioni più consistenti ( + 49); aumentarono le unità lavorative nella lavorazione dei minerali non metallici ( + 27, pari al 52,9%), e invece nel
chimico le 11 unità del 1951 scesero a 8 nel 1961; infine, nel settore delle costruzioni si registrò un continuo incremento: 762 addetti in più nel 1961, pari a un
+136,5% rispetto al 1951. 44 La Tabella n. 1 conferma
questo andamento altalenante.
Dunque, il processo di sottosviluppo è stato costante
soprattutto per il cedimento delle tradizionali industrie
siderurgiche e chimiche, solo in parte compensato dallo sviluppo di altri settori.
Il periodo della crisi
La Tabella n. 2 fotografa l’andamento dell’occupazione
nella grande industria ossolana lungo un arco di tempo che va dal 1963 al 1982. Stando a questi dati, il declino della grande industria ossolana si verificò dopo il
1971 con una perdita di circa un quarto dell’occupazione compensata, in parte, nelle grandi strutture del terziario dove ci fu un generale incremento occupazionale: nelle Ferrovie dello Stato i 750 impiegati del 1971
erano divenuti 970; nella Ferrovia Vigezzina, i 97 impiegati del 1961 erano divenuti 105 nel 1971 e 116 nel
1982; solo nell’Enel i 771 addetti del 1961 erano scesi a 666 nel 1971 e a 636 nel 1982. Un certo squilibrio
tra le varie zone delle valli si andava accentuando in
quanto l’ubicazione dell’apparato industriale si andava
concentrando sulla riva destra del fiume Toce: nel 1951
con 447 unità lavorative e 6.767 addetti; nel 1961 con
478 unità e 7.724 addetti; nel 1969 con 582 unità e
7.716 addetti. Ormai nella piana della Toce si collocava il 90% delle aziende manifatturiere e degli addetti e,
per quanto possa sembrare strano, Domodossola era il
centro con più unità lavorative (215 nel 1951, 234 nel
1961 e 243 nel 1969), mentre Villadossola e Pieve Vergonte restavano i centri con la più alta concentrazione
operaia rispetto al numero degli stabilimenti. Il fenomeno è importante per comprendere il lento spopolamento alpino e in che modo si sono assestati i flussi migratori all’interno della Val d’Ossola.45 Particolare menzione meritano le discontinue vicende di alcune grandi aziende per la loro rilevanza storica nel settore industriale ossolano. La Ceretti nel 1972 aveva iniziato la costruzione di un nuovo stabilimento in vista di un progettato sviluppo, ma nel 1974 fu frenata dalla crisi che
sembrò risolta con l’ingresso di nuovi azionisti, con la
vendita della parte sud del vecchio opificio alla Fomas
di Osnago e con l’introduzione di nuove tecnologie.
Ma nel 1979 fu chiesta l’amministrazione controllata
e la cassa integrazione; e negli anni ‘80 ci fu la cessione
alla Società FERDO di Torino per 19 miliardi di lire.46
La Ferriera dell’Ossola sorse nel 1977 con l’acquisto
di parte del vecchio stabilimento Ceretti. I 189 addetti divennero 264 nel 1978 con prospettive confortanti,
ma nel 1979 l’azienda venne posta in liquidazione. Anche la Sisma entrò in crisi nel 1972 con l’ingresso delle partecipazioni statali (EGAM) che, al di là delle attese, si rivelò improduttivo perché l’ente statale fu sciolto. Molti furono gli oneri finanziari mentre i debiti aumentarono sensibilmente e l’occupazione diminuì del
23%. Più confortanti sono stati i risultati della Tonolli
di Pieve Vergonte che aveva assorbito l’ALP e che riuscì
ad aumentare l’occupazione malgrado abbia avvertito
qualche difficoltà. La Clifford sorse nel 1968 per iniziativa di imprenditori inglesi e il contributo municipale,
ma il capitale inglese nel 1973 si ritirò dall’attività che
venne rilevata da un gruppo finanziario. Nacque così la
Clifford Bongiasca Spa, ma la crisi cominciò a farsi sentire a fasi cicliche, finché l’impresa non fu rilevata dalla
Stabilimenti chimici in Val d’Ossola.
283
Manifatture di Villadossola. Un mutamento continuo
di nomi e di ragione sociale ebbe la Rhodiatoce di Villadossola (Montefibre, SICMA chimica, Resem, Monte/
Dipe, Vinavil, Anic), in quanto la sua storia dipese molto dall’andamento del settore chimico italiano. In particolare sin dal 1970 la crisi dell’azienda fu legata all’inserimento della Montedison nella proprietà.
Il periodo della «congiuntura» coincise con uno sforzo
di elaborazione teorica e tecnica di dati e di progetti per
individuare le ragioni del malessere nel settore produttivo. In questo quadro si inseriva uno dei primi studi dell’Unione Regionale delle Province Piemontesi, a cura
dell’IRES, sulla struttura industriale torinese.47 L’azione degli imprenditori privati, soprattutto nella piccola e media impresa, veniva ritenuta insufficiente sin dai
tempi antichi per l’inadeguatezza della forza finanziaria; come pure insufficiente era ritenuto l’apporto delle
grandi banche della regione perché non potevano contribuire alla formazione del capitale di rischio e facilitare l’innovazione; nuovi compiti erano individuati per le
pubbliche amministrazioni.
Con l’istituzione delle regioni il dibattito divenne ancor più intenso e si cominciò a riconsiderare l’accentramento industriale nell’area torinese individuando come
strumenti strategici la creazione di poli industriali affidati al ruolo trainante dell’industria motrice. 48 L’interesse
per i piani di sviluppo sembrava contagiare classe politica e tecnici. Per il territorio ossolano acquista particolare rilievo il convegno promosso dal CIPE (Centro
Informazione politiche ed economiche) sulle Comunità montane istituite con la legge del 1971. Il convegno
faceva il punto sulla legislazione più recente mirante a
rivalutare l’economia montana per eliminare gli squilibri di natura sociale ed economica tra le zone montane
e il territorio nazionale.49 Alle Comunità montane veniva data la competenza del coordinamento degli interventi e quindi il loro ruolo veniva collocato nella logica della programmazione che non poteva prescindere
dal più ampio quadro della programmazione regionale.
Naturalmente si chiedeva ad esse un compito non semplice e non sempre chiaro perché a capo delle comunità non c’erano professionisti della politica economica e
perché si rischiava di far produrre semplici elencazioni
di opere pubbliche ed interventi settoriali, nel quadro di
284
un rituale pianto della montagna abbandonata.50 Insomma, permaneva il rischio di sempre, e cioè di dire ciò
che una zona montana era e non saper definire ciò che
avrebbe dovuto e potuto essere in futuro.
La legge regionale individuò nell’Ossola 5 Comunità
montane e non una sola grande comunità, esaltando,
così, la suddivisione geografica anziché la conformazione di tipo culturale, politico ed economico. Vennero costituite le Comunità Valle Ossola con 18 comuni, Valle
Vigezzo con 7, Valle Antigorio e Formazza con 4, Valle Anzasca con 5 e Valle Antrona con 4. Probabilmente
fu persa una buona occasione per dare forza e coesione
ad un progetto di rilancio economico della montagna e
i minuscoli «parlamentini» valligiani spesso furono costretti a dibattersi nell’ordinaria gestione.
La legge regionale 21/1975 propose il decentramento
industriale con la concessione di contributi ai Comuni
e ai consorzi di Comuni che avrebbero presentato piani
di sviluppo industriale e artigianale, ma non si registrarono contributi per il Novarese. Uno studio sulle aree
depresse in Piemonte accertò che nella provincia novarese vi erano 65 Comuni dichiarati depressi e 76 montani con notevoli problemi. L’inchiesta accertò anche
che il 57% dei Comuni piemontesi depressi incoraggiava gli insediamenti industriali con alcune provvidenze,
mentre nel Novarese la percentuale di questi Comuni
fu più alta, ma è difficile sostenere che gli aiuti promessi dai Comuni avrebbero incentivato automaticamente
gli insediamenti produttivi.51
Un’attenzione particolare ebbe l’analisi sul ruolo del
Sempione per un rilancio dello sviluppo territoriale
partendo dalla premessa che l’Ossola era un’area ponte,
elemento di congiunzione fra le aree forti dell’Europa centro-occidentale e quella milanese. 52 All’attenzione degli
operatori economici si sottoponeva la necessità di rilanciare la linea ferroviaria del Sempione sia con la costruzione di una stazione supplementare per le merci (Domodue), sia con alcuni interventi normativi.
Nel contesto ambientalista fu pubblicato un altro piano sul parco naturale dell’Alpe Veglia, situato tra le valli
Devero e Formazza, allo scopo di affrontare un piano di
sviluppo che doveva quindi essere valutato nella prospettiva indicata dall’ecologia, al fine di evitare che l’utilizzazione a breve termine delle risorse incidesse negativamente
sulla produttività a lungo termine. 53 Guardando alle potenzialità del turismo come industria integrativa dei settori produttivi in declino, si rifiutavano alcune soluzioni che avrebbero stravolto l’ambiente ecologico. Il turismo entrava nell’indagine economica come fattore risolutivo dello sviluppo anche in considerazione dell’incremento del passaggio degli stranieri dai transiti della
provincia. Se la società civile si preoccupava di una rivalutazione «controllata» della montagna, l’Amministrazione provinciale, sia pure senza contraddizione con la
prima, presentò uno Studio sul potenziamento delle risorse idriche dell’Alto Novarese che faceva intravvedere nuove prospettive per rivalutare la montagna attraverso lo
sfruttamento capillare dei piccoli salti idrici forniti dai
ruscelli montani a vantaggio di piccole imprese agricole.54 Dall’indagine risultava che nella montagna novarese vi erano le condizioni per favorire la permanenza o la
costituzione di nuove aziende montane una volta elettrificate e rese autosufficienti. Nessuno però ha mai creduto che l’agricoltura ossolana avrebbe potuto aspirare
ad un ruolo che andasse al di là di una attività integrativa rispetto ad altri settori produttivi. Un altro studio,
affidato all’Università Bocconi di Milano, analizzava i
fatti economici fornendo diagnosi e proposte operative
per uscire dalla stagnazione. 55 La causa della crisi fu addebitata all’incapacità di far fronte alla divisione nazionale e internazionale del lavoro, allo spostamento dell’area economica del Paese verso oriente, all’incremento del mercato tedesco, alla mancanza di ammodernamento delle vie di comunicazione. La conclusione a cui
perveniva la ricerca, analizzando l’approvazione sociale
dell’imprenditore nell’Ossola, era che questi non veniva accolto da un sistema favorevole in quanto gli atteggiamenti socio-culturali dominanti erano tali da inibire il manifestarsi diffuso di orientamenti imprenditoriali costruendo un quadro di valori al cui interno l’emergere
dell’imprenditore diventava altamente improbabile.
La causa del problema sarebbe l’aver convissuto con attività economiche che avevano all’interno schemi limitati sotto il profilo di tre dimensioni: quella del rischio, quella dell’innovazione e quella dell’organizzazione. 56 Pertanto, l’imprenditore — abituato a sfruttare ciò che è già dato
— svilupperebbe minori propensioni a comportarsi come
agente di trasformazione, di creazione tendendo a ripie-
gare su schemi ripetitivi e a discostarsi sensibilmente dal
prototipo schumpeteriano che accetta il rischio.
In altri termini, ai nostri giorni mancherebbe nell’Ossola l’imprenditore capitalista che accetta il rischio accanto alla razionalizzazione dei fattori della produzione,
per colpa di un individualismo e di un localismo che farebbero rinchiudere nel proprio mondo culturale senza
aperture verso l’esterno innovativo.
Se è vera questa analisi per i nostri giorni, c’è da osservare che nel passato le cose andarono diversamente tanto
che in più occasioni si è avuto modo di sottolineare la
presenza di una imprenditorialità privata e di una apertura all’innovazione da parte della classe politica locale. Per avvalorare quanto si va dicendo vale la pena riferire la vicenda esemplare avvenuta dopo che la Mannesman declinò l’invito ad insediarsi nell’Ossola. La classe
politica locale e i ceti abbienti costituirono un comitato
Pro Industria nel quale furono inseriti i nomi più prestigiosi di Ossolani con lo scopo di bandire un concorso per fare installare a Domodossola uno stabilimento
industriale che desse occupazione e reddito. Il Comune avrebbe incentivato qualsiasi iniziativa con un premio di £ 10.000.
Non mancarono le proposte: uno stabilimento di flaconeria e di chimica da Somma Lombardo; un cotonificio da Garesio; un’attività meccanica offerta dall’ingegnere De Benedetti di Torino; altre proposte giunsero
da Vado Ligure (officina meccanica), da Milano (calzettificio), da altri stabilimenti tessili. Il dibattito non fu di
semplice portata, così come oggi non è semplice valutare l’insediamento industriale che alla fine si realizzò alla
periferia della città con una fabbrica di funi e generi affini dei Fratelli Zanelli di Palazzolo sull’Oglio. La scelta
era stata affidata ad un consulente aziendale, tale Cesare Boccardo di Intra, che scartò le offerte del cotonificio
e della meccanica finendo col valutare la produzione di
cordami ottimamente inseribile nel contesto produttivo pel suo genere di manufatti e per la vastità dei suoi articoli e del loro impiego industriale consentendo l’occupazione a 100 addetti come aveva previsto il capitolato del
Comune.57 Certo non fu esente la valutazione di certi
ambienti restii ad ammassare un gran numero di mano
d’opera e forse si volle scegliere un settore produttivo
nuovo. Il capitale azionario della società bresciana fu
285
fortemente integrato da quello locale per complessive
£ 310.000. Dunque, in più occasioni la borghesia locale aveva messo le mani al portafogli per acquistare azioni di società note o per dare vita a nuove imprese. Così
fu per le società elettriche locali, per la Fratelli Zanelli e per la costituzione di una Soc. An. per la Condotta
di Acque Potabili che raccolse 157 azionisti di Domodossola e dei centri valligiani. Qualche anno dopo, nel
1907, si verificò lo stesso quando fu costituita una società cooperativa per la distribuzione del gas. Gli Ossolani preferirono costituire una loro società piuttosto che
accettare l’offerta di un servizio di altre ditte più esperte e consolidate come quella di Carl Francke di Zurigo. Anche a Vogogna fu rilevata un’impresa industriale
per la fabbricazione di filati di canapa, spaghi e corda,
la Corderia Ossolana, che occupava 53 operai. Alcuni ricchi notabili del posto raccolsero 5.000 azioni da £
100, sicuri di entrare nei mercati con un utile netto di £
56.382 che avrebbe consentito dividendi dell’11,25%.
Se l’atteggiamento degli Ossolani un tempo fu più dinamico e spregiudicato, quali furono le ragioni di questo protagonismo?
A mio parere, tra le tante, due furono le principali. In
primo luogo, l’emigrazione che aveva arricchito non pochi personaggi che erano tornati per investire e per fare
lasciti benefici. Tra questi va certamente segnalato Gian
Giacomo Galletti che nel 1869, dopo essere stato eletto deputato, lasciò al comune di Domodossola la rendita annua di £ 40.000 in Cartelle del debito pubblico
per la creazione di una Fondazione con il suo nome. In
un altro saggio ho già analizzato gli aspetti finanziari dei
lascito e gli errori commessi dagli amministratori della rendita in quanto solo in parte riuscirono a realizzare i progetti del Galletti.58 L’ingente somma che sarebbe
maturata negli anni avrebbe dovuto servire, secondo il
Galletti, che era stato al servizio dei Rothschild di Parigi, alla creazione di un istituto tecnico, di una scuola di
arti e mestieri, di un istituto di belle arti, di un imprecisato Politecnico, di una biblioteca, di musei, giardini
botanici, alla istituzione di una Esposizione annua dei
prodotti dell’agricoltura e della manifattura locale, alla
partecipazion e e alla stimolazione di attività industriale. Nel contesto ossolano, la Fondazione Galletti operò
286
come una cassa di risparmio o come una «società finanziaria di soccorso» che avrebbe dovuto facilitare e incrementare la ripresa economica. Sebbene gli amministratori negli anni successivi non riuscissero a dar corpo ad un progetto per una vera e propria banca di prestito e di credito (nel 1884), gli interventi dell’Opera
pia agirono da motore dello sviluppo sia creando alcune infrastrutture educative che si sarebbero rivelale dei
«prerequisiti» all’industrializzazione, sia mettendo a disposizione alcuni terreni per gli insediamenti industriali, sia con la partecipazione all’azionariato nelle imprese
locali, malgrado alcuni limiti ed errori commessi dagli
amministratori. Una seconda ragione del mutamento
della mentalità mi sembra debba farsi risalire all’istruzione. Numerosi studiosi hanno messo in correlazione
il tasso di istruzione con lo sviluppo economico; e se alcuni sostengono che l’istruzione è una conseguenza della modernizzazione, certamente per l’Ossola avvenne il
contrario.59 Alla vigilia dell’Unità il 50% degli Ossolani
era alfabetizzato, percentuale alta rispetto a molte altre
situazioni negli stati preunitari; su 60 Comuni soltanto uno non aveva una scuola maschile e 5 non avevano
quella femminile. Nel 1911 in Val d’Ossola l’alfabetizzazione era quasi totale (come a Viceno) e solo in Valle
Antrona si registrava un tasso molto basso rispetto alle
altre valli (80%), ma sempre più alto che in altre regioni italiane. Nelle valli erano state istituite scuole grazie
ai numerosissimi lasciti benefici, a Domodossola erano
state istituite scuole dalla Società operaia e scuole professionali dal Comune nelle quali furono preparati al lavoro industriale centinaia di ragazzi, anche se con piani di studio e metodi didattici non sempre coerenti con
l’innovazione a cui si tendeva.60
Se si accettano queste analisi, si potrebbe concludere
dicendo che, se l’innovazione e il rischio furono i fattori dello sviluppo ossolano nel periodo del decollo industriale, oggi la mancanza di una aggiornata cultura
imprenditoriale e di una apertura alla modernizzazione costituisce il vero freno alla ripresa economica. Forse a questa carenza potrebbe far fronte una classe politica locale illuminata, accorta e aperta al nuovo come
fu quella liberaldemocratica che l’Ossola ebbe prima e
dopo l’Unità nazionale.
Note
1
Alcuni collocano queste attività in epoca pre-romana ed altri in
epoca medievale. Cfr. T. BERTAMINI, Il centro siderurgico di Villadossola nelle antiche e recenti attività ossolane, Domodossola, Cartografica Antonioli, 1967; IDEM, Storia di Villadossola, Verbania, 1976,
cap. 10; A. G. ROGGIANI, L’oro italiano è oro ossolano, in «Illustrazione ossolana», 1960, n. 1, pp. 17-28.
2
Cfr. Li Molini & Edificj d’Acque d’Ossola e terre vicine, Mergozzo, Antiquarium, 1982. Si vedano i bei saggi ivi compresi di T. BERTAMINI, Le ruote che hanno macinato la storia nell’Ossola Superiore,
pp. 45-53; E. RIZZI, La visita delle acque, pp. 55-60; C. MAFFIOLI,
La lite fra gli ossolani e il Fisco Spagnolo per la tassa sul macinato,
pp. 61-68; P.G. PISONI, «Masnadori» di grano e di oro, pp. 69-86.
3
C. CAVALLI, Cenni statistico-storici della Valle Vigezzo, Torino, Mussano, 1845, tomo I; N. BAZZETTA, Storia di Domodossola e dell’Ossola Superiore, Domodossola, La Cartografica, 1911.
4
S. CIRIACONO, La protoindustna rivisitata: the fìrst workshop of
Warwick University, in «Quaderni storici», a. XX, 59, n. 2; pp.
513-19. Cfr. Soprattutto SIDNEY POLLARD, La conquista pacifica.
L’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, Bologna, II Mulino, 1984, pp. 111-134 secondo cui «i territori meno adatti allo
sfruttamento agricolo si trovano a giocare un ruolo chiave nell’industrializzazione europea» in quanto non avevano altre prospettive
al di fuori della fame e dell’emigrazione (p. 123).
5
Rinvio ai saggi, oggi raccolti in volume, di L. CAFAGNA, Dualismo e
sviluppo nella storia d’Italia, Venezia, Marsilio, 1989.
6
Cfr. M. POZZOBON, L’industria padana dell’acciaio nel primo trentennio del Novecento, in F. BONELLI (a cura di). Acciaio per l’industrializzazione, Torino, Einaudi, 1982, p. 169. La prima frase virgolettata è di L. CAFAGNA, Op. cit., p. 288.
7
Per un approfondimento di quanto qui si va dicendo rinvio al mio
vol. Industrializzazione e movimento operaio in Val d’Ossola. Dall’Unità alla prima guerra mondiale, Milano, F. Angeli, 1985, ricco di
dati e di bibliografia. Da questo vol. si intendono tratti i riferimenti statistici quando non sono diversamente indicati.
8
U. CHIARAMONTE, L’Ossola e le Esposizioni industriali fino alla prima guerra mondiale, in «Novara -notiziario economico», Camera di
Commercio, 1983, n. 5, pp. 47-55. Sull’importanza delle Esposizioni come indice dello sviluppo cfr. G. ARE, II problema dello sviluppo industriale nell’età della Destra, Pisa, Nistri-Lischi, 1964, pp. 4573; L. CAFAGNA (a c. di), Il Nord nella gloria d’Italia, Bari, Laterza,
1962; R. ROMANO, Le Esposizioni industriali italiane: linee di metodologia interpretativa, in «Società e storia», a. III. 1980, pp. 215-228.
9
G. VEGEZZI RUSCAGLIA, Esame della già progettata linea di strada ferrata fra Genova e la Germania e proposizione di altra più conveniente,
Domodossola, Vercellesi. 1850.
10
V. ZAMACINI, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia: 186I-1981, Bologna, II Mulino, 1990, p. 107; cfr. anche L. CAFAGNA, Profilo della storia industriale italiana, in Dualismo
e sviluppo, cit., pp. 297 ss.
11
Si dà qui la definizione E. A. WRIGLEY, Processo di modernizzazione
e Rivoluzione industriale in Inghilterra, in «The Journal of Interdisciplinary History», vol. III, n. 2, 1972, pp. 225-59.
l2
Su questo tema rinvio al mio saggio La reazione della sinistra alla
formazione del trust siderurgico (1911), Relazione al Convegno su
«La storia del movimento operaio nell’area siderurgico-mineraria
della Toscana dalla fine dell’800 al secondo dopoguerra», Piombino, 11-12 febbraio 1983; e U. CHIARAMONTE, Gli scioperi nella siderurgia a Piombino (1910-1911), Domodossola, Ambiente, 1983.
13
Riportano in U. CHIARAMONTE, Industrializzazione e movimento
operaio, cit,, p. 132.
14
Cfr. V. ZAMAGNI, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia.
Bilancio dell’età giolittiana, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 48-49.
15
Per un panorama sulla siderurgia nazionale, accanto al classico G.
SCAGNETTI, La siderurgia in Italia, Roma, Ind. Tip. Romana, 1923.
si vedano: La siderurgia italiana dall’Unità ad oggi, in «Ricerche storiche», (n. speciale sulla metallurgia) a. VIII, 1978, n. 1; Associazione fra le Soc. Italiane per Azioni, L’economia italiana dal 1911 al
1926, Roma, X Congresso Geografico Italiano, 1927.
16
E. FLORIDIA, Le attività siderurgiche quali fattori di urbanizzazione di Villadossola e di equilibrio socioeconomico nella regione ossolana,
in «Notiziario di Geografia economica», scritti di F. Milone, a. II,
1971, p. 147. Nell’archivio di Villadossola (abbreviato d’ora in poi
in ACV), Faldone 117, è possibile ricavare alcuni dati sull’immigrazione operaia dall’Emilia Romagna, da Piombino, da Genova, da
Udine, da Omegna e da altre zone notoriamente con esperienze siderurgiche. Un elenco di operai ci indica nomi, età e provenienza.
17
Mentre nel 1909 nelle due miniere d’oro ancora attive si estrassero t 2.890 di minerale ricavando kg 15.136, nel 1914 il minerale
ammontò a t 206, l’oro a kg 1,10 e l’argento a kg 2,06. Nel periodo
1872-1912 si pagarono £ 86.130 di tasse, costituendo la gran parte
del gettito fiscale minerario del Piemonte.
18
L’industria ossolana, in «L’Ossola», settimanale, 4 agosto 1906 riportato in Industrializzazione, pp. 116-21.
19
P. LANINO, La nuova Italia industriale, Roma, L’Italiana, 1916.
20
Oltre al mio vol. Industrializzazione, pp. 142-145, ho utilizzato
nuove fonti dell’ACV, Faldone 117: Jutificio Ossolano (1903-1939).
21
ACV, Faldone 117, cit., lettera dello Jutificio Nazionale al sindaco
di Villadossola, Ceretti, Genova 12 aprile 1928.
22
L. CAFAGNA, L’industrializzazione italiana. La formazione di una
«base industriale» fra il 1896 e il 1914, in «Studi storici», a. II, 1961,
n. 3-4, p. 711.
23
U. CHI ARA MONTE, Industrializzazione, cit. p. 331 e tutto il cap. 10.
24
E. CONTI, Dal taccuino di un borghese, Milano, Garzanti, 1946, p. 51.
25
Cfr. i voll. Nel cinquantenario della Società Edison, Milano,
1934.
26
A. FORTI, Le costruzioni idrauliche applicate alla produzione di forza motrice, in Nel cinquantenario, cit., p. 55. Cfr. anche Le dighe di
ritenuta degli impianti idroelettrici italiani, Milano, F. Angeli, 1951,
in 7 voll.
27
F. MILONE, L’economia italiana nelle sue regioni, Torino, 1955, p.
216.
28
V. ZAMAGNI, Dalla periferia al centro, cit., p. 344. Questa è la tesi
di altri tra cui G. GUALERNI. Industria e fascismo, Milano, Vita e Pensiero, 1976.
29
V. ZAMAGNI, Op. cit., p. 345.
30
Sugli aspetti economici mi permetto rinviare al mio vol. Economia e società in provincia di Novara durante il Fascismo (1919-1943),
Milano. F. Angeli, 1987 al quale mi rifarò per tutti i dati non altrimenti specificati.
287
Cfr. V. CASTRONOVO, L’industria siderurgica e il piano di coordinamento dell’IRI (I936-I939), in «Ricerche storiche», cit., pp. 163-188.
32
R. PRODI, Sistema industriale e sviluppo economico in Italia, nel vol.
dallo stesso titolo che raccoglie gli atti del convegno di Bologna, 14
aprile 1973, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 11.
33
ACV, Faldone 117, Jutificio, cit., lettera del podestà Mario Ceretti al prefetto, 17 agosto 1927.
34
Ivi, lettera dello Jutificio nazionale al podestà del 3 settembre
1928; il podestà interessò il prefetto con lettera del 21 dicembre
1928; una lettera dell’ing. Ferrari della società al podestà Ceretti annunciò la definitiva chiusura (3 giugno 1933).
35
ACV, Faldone 210 bis. Case popolari P. M. Ceretti e Villaggio Sisma, Relazione, 5 giugno 1938. La Relazione sulla insufficienza delle
abitazioni e sulle condizioni igienico-sanitarie delle abitazioni esistenti (I8 dicembre 1937) dava questi dati: famiglie n. 1.382; abitazioni 5.034; case igieniche abitab. 217, fam. 540; case adattabili 156,
fam. 356; case inabitabili 227, fam. 486; fam. con 4 pers. in case di
2 vani 207; fam. con 5 pers. in 2 vani 135; di 5 pers. in 3 vani 161.
36
ACV, Faldone 210 bis, cit., lettera della società Ceretti al prefetto, 29 marzo 1938.
37
COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA, La disoccupazione in
Italia. Monografie regionali. Atti della Commissione, vol. III, tomo I,
Roma, 1953, p. 120. Per un panorama complessivo della ricostruzione rinvio al mio recente saggio. Secondo dopoguerra in Val d’Ossola: ricostruzione e nuova classe politica, in «Boll. storico per la provincia di Novara». a. LXXVII, 1994, n. 2.
38
D. PARISET, L’oro di Pestarena, in «Risveglio ossolano». 13 settembre 1950. Così aveva scritto l’A. riferendo una conversazione tenuta a «Rete azzurra» della Rai. Il prezzo dell’oro nel 1948-49 era stato £ 1.100-1.130 al gr. mentre dopo una flessione, nel 1950 si era
portato a £ 880 al gr.
39
Al tema dell’oro è stato dedicato un interessante convegno. Cfr.
Le miniere d’oro e le acque arsenico-ferruginose della Valle Anzasca, in
«Suolo-sottosuolo», Notiziario dell’Associazione Mineraria Subalpina, a. VII (1981), n. 1, Atti del simposio del 29 novembre 1980.
40
In quest’ottica si giustificavano il IV centro siderurgico di Taranto
e il V di Gioia Tauro, mai realizzato. Cfr. L. DE Rosa, La siderurgia
italiana dalla ricostruzione al V centro siderurgico, in «Ricerche storiche», a. VIII, cit., pp. 251-275.
41
L’Ossola partecipava alla produzione nazionale con un 9% assieme agli stabilimenti di minore entità. Cfr. A. FRUMENTO, / baricentri siderurgici italiani fra il 1949 e il 1971, in «Rivista internazionale
di scienze economiche e commerciali», a. XV (1968), n. 3; E. MASSI, Tipi geografico-economici nell’evoluzione della siderurgia italiana,
in «Ricerche storiche», cit. pp. 307-330.
42
Cfr. E. Rossi, Elettricità senza baroni. Bari, Laterna, 1962; E. SCALFARI, Storia segreta dell’industria elettrica, Bari, Laterna, 1963.
43
P. G. LANDINI, Attività industriali antiche e recenti nell’Ossola,
estratto dagli «Atti del XXI congresso geografico italiano», Verbania, 1971, p. 8.
44
Per le statistiche del periodo risulta importante consultare COMI31
288
Cusio OSSOLA, Piano socio-economico
di Comprensorio, Torino, Regione Piemonte, 1980.
45
Problematiche dei flussi migratori in provincia di Novara, Atti del
convegno di Borgomanero del 26 Ottobre 1983, Amministrazione
Provinciale, Borgomanero, 1984. Cfr., in particolare, P. CROSA LENZ,
Elementi di demografia storica delle Valli dell’Ossola: spopolamento alpino e mutamenti culturali, pp. 187-212.
46
Per un panorama industriale contemporaneo rinvio a C. SQUIZZI,
Congresso eucaristico ossolano, cit., pp. 21 ss; cfr. anche FEDERAZIONE
LAVORATORI METALMECCANICI - NOVARA, Ricerca sulla struttura della
industria metalmeccanica nella provincia di Novara, Novara, s.d. (ma
1978) condotta in 222 aziende metalmeccaniche. «Un segnale allarmante della crisi industriale si ebbe con la requisizione, da parte del
sindaco di Villadossola, della SISMA nel 1962, e con altre lotte sindacali». Cfr. P. PIRAZZI MAFFIOLA, Villa operaia. Appunti per una storia
della Camera del lavoro di Villadossola. Villadossola, 1993: REGIONE
PIEMONTE - COMUNE DI VERBANIA, Il mercato del lavoro nel VCO, Verbania, 1993 (ciclostilato).
47
URPP, Piano di sviluppo del Piemonte. Studi e documenti. Gli strumenti per la programmazione regionale. I. L’istituto finanziario per lo
sviluppo industriale, a cura dell’Ires, Torino, 1965.
48
A. CASSONE - A. PIANO, La localizzazione industriale e programmazione regionale. Il caso Piemonte, Milano, F. Angeli, 1983, p. 12.
49
CIPE, Comunità montane e piani di sviluppo. Atti del convegno, Torino, 2 marzo 1974, supplemento a «Note informative di politica
economica regionale», N.S., a. I, n. 3-4, 1974.
50
Cfr. l’intervento di C. SIMONELLI nel convegno cit., pp. 21-29.
51
Cfr. ECRIS, Lo sviluppo industriale delle aree depresse del Piemonte, Torino, LIED ed., 1966.
52
E. FERRARI, Lo scalo di Domodue e il ruolo dell’Ossola nel sistema
dei trasporti internazionali, in Vent’anni della rivista Novara; 19661985, Novara, CCIAA, 1985, p. 74.
53
G. M. CAPUANI, Presentazione, in Alpe Veglia parco naturale, estratto da «Novara - mensile economico della CCIAA», dicembre 1970.
54
Provincia di Novara, Studio sul potenziamento delle risorse idriche
nell’Alto Novarese, Novara, 1983 (ciclostilato).
55
Scuola di Direzione Aziendale. Università Bocconi - Milano, Per
un recupero della imprenditorialità nel Verbano-Cusio-Ossola. Cause
della crisi e ipotesi di soluzione, Novara, Amministrazione Provinciale, 1984.
56
Idem, p. 172. Ivi anche la citazione successiva.
57
ACD, Cat 11, cartella 4: Pro Industria, cit. da U. CHIARAMONTE,
Industrializzazione, cit., pp. 278-290.
58
U. CHIARAMONTE, Capitali e investimenti di un’Opera pia dell’Ottocento: la Fondazione Galletti di Domodossola, in «Boll. storico per la
provincia di Novara», a. LXXV, 1984, n. 2, pp. 325-372.
59
M. BARBAGLI, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in
Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 106.
60
U. CHIARAMONTE, Istruzione tecnico-professionale e sviluppo industriale in Val d’Ossola: 1856-1916, estratto da «Boll. storico per la
provincia di Novara», a. LXXXI, 1990, n. 2, pp. 402-453.
TATO COMPRENSORIALE VERBANO
Gli ultimi dieci anni
con un organico di 200 addetti.
Il testo del prof. Umberto Chiaramonte “Economia e
sviluppo industriale” illustra in modo esauriente la storia delle principali attività ossolane dalla loro nascita
fino alla metà degli anni Novanta. Di seguito, con queste brevi note, s’intende evidenziare i cambiamenti che
le principali industrie storiche hanno subito negli ultimi dieci anni.
- Il Laminatoio del Sempione, nato nel 1961 a Crevoladossola, produce laminati mercantili di piccole dimensioni in acciaio; la produzione attuale è di circa 15.000
tonnellate all’anno con 12 addetti.
Settore siderurgico
- La società Sisma s.p.a., nata nel 1892 a Villadossola come piccola bulloneria, nel tempo diventò una delle prime società siderurgiche italiane comprendendo
un’acciaieria, un laminatoio, una trafila, le fucine e arrivando, nel suo periodo migliore, ad occupare una media di 1600 dipendenti nel solo stabilimento ossolano.
Negli anni Settanta entrò nell’ambito delle partecipazioni statali. Nel 1989, a seguito delle dismissioni da
parte dell’IRI nel settore siderurgico, fu acquistata dalla
società Leali S.p.a. di Odolo: nel medesimo anno contava circa 550 dipendenti. Nel 1999 il Gruppo Leali, al
centro di una consistente ristrutturazione e concentrazione dei poli produttivi, ha cercato e trovato nel gruppo Beltrame una realtà che desse affidamento per il futuro. Attualmente la società Ferriera Siderscal S.p.A. del
gruppo Beltrame produce a Villadossola, con il treno di
laminazione T. 650/450, circa 55.000 ton/anno di profili speciali per cantieristica e per macchine per movimento terra, occupando 75 addetti.
- La Ceretti, nel nuovo stabilimento costruito a Pallanzeno nel 1972, ed entrato in crisi nel 1974, produceva parte dell’acciaio occorrente al laminatoio che lavorava in trasformazione per la società Eumit del Gruppo Regis. Nell’81 si decise, per motivi strategici aziendali, di fermare l’acciaieria e di importare le billette dall’est e, contemporaneamente, subentrò il Gruppo Regis
al 100% alla Eumit. Negli anni successivi fu ceduta dal
Gruppo Regis alla Duferco finché recentemente è subentrato il gruppo francese Arcelor, uno dei più grandi
produttori di acciaio nel mondo. Nell’attuale situazione il laminatoio Travi e profilati di Pallanzeno - gruppo
Arcelor, produce 500.000 tonnellate all’anno di profili
Le Fonderie
- Nel corso degli anni Novanta la Fonderia Coppi di Villadossola cessò la produzione.
- Attualmente lavora soltanto la Fonderia Ossolana di
Zambelli. Questa azienda, nata nel 1937 con un piccolo capannone/tettoia, venne registrata ufficialmente
presso l’Ufficio commerciale delle corporazioni di Novara il 1° luglio 1943 come Fonderia Ossolana di Zambelli e Novemi, per produrre semilavorati in metalli
non ferrosi: alluminio, bronzo e ottone. Nel 1943 nella
nuova sede in Regione Nosere nacque un moderno capannone con un cubilotto e poche unità lavorative. Attualmente, con un moderno cubilotto, un forno rotativo ad ossigeno e metano e con 20 addetti nei reparti
modelleria e fonderia, produce dalle 80 alle 100 tonnellate al mese di semilavorati in piccola serie per industria
della carta, plastica, cuoio e macchine utensili, in ghisa
comune legata e sferoidale.
La Fonderia Erregi di Ricca e Lomonte s.n.c. si è trasferita nell’anno 2000 da Gravellona a Ornavasso. Produce con due forni, fondendo pani di alluminio e impiegando sei addetti per forno, circa 60 tonnellate all’anno
di caldaiette per caffettiere, che vengono rifinite presso
altre ditte della zona.
Metallurgia di rame e leghe di rame
- La Sitindustrie International nacque nel 1909 come
Falegnameria Tabachi; nel 1933 divenne Fratelli Bialetti (pentolame in alluminio) e nel 1949 venne assorbita
da Tonolli come fonderia in alluminio, stagno, caldareria ecc. Nella seconda metà degli anni Sessanta vennero
affiancate altre produzioni, tra cui quella di semilavorati di rame e leghe di rame. Attualmente la Sitindustrie
International s.r.l. del gruppo Bocciolone di Valduggia
produce semilavorati in rame e leghe di rame con ciclo integrale da rottami a prodotto finito prevalentemente per il settore elettromeccanico. Produce 15.000
289
tonnellate all’anno, di cui il 40% per il mercato europeo, con 155 addetti. È entrata ultimamente nel mercato dei tubi in cupronickel utilizzati su navi e piattaforme marine.
Settore abrasivi
- La Treibacher Schleifmittel S.p.A. nacque nel 1917 con
la denominazione di società Galtarossa (dal nome del
proprietario) e iniziò la produzione di ferroleghe. Come
per altre attività industriali, la scelta del sito produttivo nel bacino ossolano dipese dal basso costo dell’energia elettrica, materia prima per la produzione di ferroleghe. Negli anni Trenta si aggiunsero le produzioni di
carburo di silicio e di corindone, abrasivi indispensabili
per la lavorazione dei metalli. Negli anni Sessanta, conseguentemente all’aumentato costo dell’energia elettrica, si fermò la produzione di ferroleghe e di carburo di
silicio potenziando la produzione di corindone, caratterizzata da minor fabbisogno energetico. Anche questa società fu per un certo periodo nelle partecipazioni
statali. Dal 1992 è stata assorbita al 100% dal gruppo
Treibacher. Lo stabilimento di Domodossola, che conta
100 addetti, produce attualmente 45.000 tonnellate all’anno (di cui il 75% per l’esportazione) sulle 250.000
tonnellate all’anno che produce il gruppo con 10 stabilimenti nel mondo.
- L’International Chips opera a Domodossola nel campo
del trattamento delle superfici a partire dal 1975. Attualmente l’azienda è in grado di produrre ben 32 dimensioni e forme diverse di preformati abrasivi con legante di resina poliestere da utilizzarsi nel campo della vibrofinitura, di cui il 60% viene esportato all’estero. Attualmente opera con l’impiego complessivo di 45
addetti.
Settore chimico
- Il primo nucleo chimico nacque a Villadossola fra il
1918-19 come società Elettrochimica del Toce, che nel
1924 entrò a far parte del Gruppo Montecatini. Dall’iniziale produzione di carburo di calcio, si passò alla
produzione di Rayon Acetato; nel 1928 la Montecatini passò alla produzione di Anidride Acetica per ottenere l’Acetato. Successivamente prese accordi con il grup290
po francese della Rhone Poulenc e si costituì la società
Rhodiaceta, che iniziò la costruzione dello stabilimento di Pallanza. Nel corso degli anni lo stabilimento di
Villadossola, che aveva sempre vissuto in simbiosi con
quello di Pallanza, entrò in crisi e subì diversi cambiamenti di ragione sociale e di proprietà, per arrivare nel
1991 alla richiesta di chiusura da parte di Enichem, ultimo proprietario. Forti pressioni politiche e sindacali imposero la ricerca di un acquirente. Nel luglio 1994
la Mapei acquisì da Enichem Synthesis l’attività Resine Acetoviniliche con le unità di Villadossola e Ravenna. La nuova società ribattezzata Vinavil S.p.A. iniziò
l’opera di risanamento strutturale, impiantistico e ambientale. Nel 1995 l’impianto EVA, per la produzione
di emulsioni copolimere acetato di vinile-etilene, venne
rimesso in marcia e ad oggi produce circa 90.000 tonnellate all’anno con 190 unità. Attualmente si sono aggiunte le linee produttive Vinavil in polvere con l’impianto Spray driers e le linee emulsioni acriliche e Stirolo-Acriliche. Notevoli interventi sono stati fatti per
l’adeguamento alle normative di sicurezza e igiene ambientale.
- Lo stabilimento Rumianca S.p.A. nacque a Pieve Vergonte intorno al 1915 e si sviluppò con produzioni collegate alle linee principali di clorosoda e acido solforico
con forni di arrostimento di pirite. Negli anni Settanta
fu assorbito dal Gruppo SIR per essere successivamente
trasferito alla società Anic e poi all’Enichem. Nel 1995
l’assetto produttivo comprendeva i seguenti impianti:
clorosoda, acido solforico, cloroaromatici, DDT. L’impianto DDT fu fermato nel 1996. Nel luglio 1997 gli
impianti furono ceduti dalla società Enichem a Tessenderlo Italia e dal gennaio 1997 l’assetto produttivo
comprende gli impianti clorosoda, acido solforico, cloroaromatici. Attualmente gli addetti sono 250. Nell’anno 2002 la Tessenderlo ha installato un impianto per la
produzione di fotocloruranti.
Settore metalmeccanico
- La Marini Quarries Group di Villadossola, nata nel
1975, progetta e costruisce una vasta gamma di macchine quali carotatrici per sondaggi, perforatrici pneumatiche e oleodinamiche, tagliatrici a filo diamantato,
unità di perforazione semovente radiocomandata e tutti gli accessori in grado di affrontare problematiche nelle cave di marmo e granito. Esegue studi geologici e
piani di coltivazione di cave, elabora progetti finanziari, forma il personale in loco. L’impegno nella costruzione di strumenti di lavoro efficaci e sicuri ha consentito alla Marini di guadagnarsi un posto di primo piano
nel panorama mondiale della tecnologia di coltivazione
di cave. Attualmente occupa circa 150 addetti di cui 50
nella propria officina.
- La società A.M.E.A., attrezzature meccaniche e affini
s.r.l. è presente da quasi 50 anni sui mercati nazionale
ed internazionale delle attrezzature per bulloneria, per
stampaggio a caldo o a freddo, per punzonatura-tranciatura e perforatura. Occupa 40 operai.
- La Nugo Romano S.p.A. opera dal 1968 ed ha assunto l’attuale veste giuridica nel 1980. Opera nello stabilimento di Piedimulera, località Sassonia, su un’area di
95.000 mq. di cui oltre 50.000 coperti con un punto
di secondaria importanza a Pieve Vergonte su un’area
di 12.000 mq. di cui 3.500 coperti. Occupa 150 di-
pendenti e crea indotto in zona per oltre 150/170 posti di lavoro. L’officina meccanica è attrezzata per produrre e collaborare nella realizzazione di macchinari per
i più diversi settori industriali, sia su progettazioni dirette, sia su specifiche richieste della clientela, che annovera i nomi più significativi delle industrie europee
operanti nella industria cartaria, delle condotte forzate, dell’energia elettrica e degli impianti automatizzati in genere.
- La società Officine Lorenzina s.r.l. porta il nome del
socio fondatore che nel 1968 avviò un’attività artigiana
di carpenterie metalliche ampliandola successivamente
al settore meccanico. Nel 1985 ha assunto l’attuale veste giuridica. Nello stabilimento di Masera, su un’area
di 30.000 mq., di cui 7.000 coperti, occupa circa 70 dipendenti, supportati da un indotto di circa 50/70 posti di lavoro in zona. Produce parti di carpenteria meccanica per impianti industriali diversi destinati alla movimentazione di merci, alle condotte forzate, alla realizzazione di forni per acciaieria e forni a gas ed alla industria elettrica.
Lo scalo internazionale “Domo Due” con la sede delle Dogane del Verbano Cusio Ossola.
291
- La Carpenteria Vanoli Valter opera dal 1971 ed è specializzata nella fabbricazione di carpenteria metallica di
macchine per la lavorazione della lamiera e fabbricazione di strutture di carpenteria metallica media-pesante,
in particolare presse piegatrici, cesoie e presse per stampaggio. Conta 13 addetti, oltre ad un indotto equivalente. La struttura industriale, sita a Vogogna, è costituita da 3 capannoni per una superficie totale di 7.700
mq. serviti da 8 carri ponte di portate varie. Dispone di
un’area esterna per deposito di 22.000 mq.
Settore manifatturiero
- La Manifattura di Domodossola, fondata nel 1913 da
Giuseppe Polli, negli anni Venti e Trenta dava lavoro a
circa 300 persone, per la maggior parte manodopera
femminile che si occupava di intrecciare funi e cordami per navi. Oggi l’azienda si occupa di tessuti intrecciati per calzature, pelletteria e abbigliamento per l’alta
moda, impiegando circa 55 persone ed esportando gran
parte della propria produzione.
Settore bancario
- Tra gli istituti bancari presenti in Ossola ricordiamo la
Banca Popolare di Intra costituita nel 1873 e autorizzata
all’esercizio dell’attività il 1° marzo 1874. L’11 maggio
1874 l’istituto, presieduto dal cav. Lorenzo Cobianchi,
iniziò la sua attività a Intra. L’assemblea del 3 ottobre
1915 autorizzò il consiglio ad istituire filiali e agenzie e
nel 1916 fu aperta a Omegna la prima dipendenza.
La prima filiale ossolana della BPI fu la dipendenza di
Villadossola, aperta il 15 settembre 1919 e il 15 dicembre dello stesso anno fu attivata anche la sede di Domodossola. In seguito la banca, oltre ad affrancare la presenza sul territorio di tradizionale appartenenza (province di Novara e Vco) si è sviluppata nelle province limitrofe di Milano, Varese e Como. Negli ultimi dieci
anni la BPI ha attivato 30 filiali, di cui 3 in Ossola: Baceno nel 1996, Druogno nel 1997, Varzo nel 1998. Attualmente la rete operativa della banca è strutturata su
72 dipendenze, di cui 26 nella provincia di Novara, 25
in quella del Vco (9 in Ossola), 12 in quella di Varese, 7
in quella di Milano e 2 in quella di Como. Dagli iniziali
286 soci che parteciparono alla costituzione della banca, si è passati a oltre 37.000. Il capitale sociale ha supe292
rato i 142,5 milioni di euro. Complessivamente la BPI
conta attualmente oltre 113.000 clienti, di cui 13.000
nell’Ossola e il personale occupato è pari a 980 persone, di cui 124 residenti in Ossola.
Settore doganale
Dal 1993 con l’istituzione della Comunità, il lavoro è
diminuito di circa il 60%, ma alla dogana sono stati assegnati altri compiti: oltre alla riscossione dei diritti di
confine, la lotta alla contraffazione, alle attività usurpative, ai traffici illeciti vecchi e nuovi; il contrasto alle
frontiere alla criminalità organizzata e la sicurezza, specie dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001. L’ufficio doganale, di importanza strategica per l’intera provincia, ha competenza sulla circoscrizione doganale di
Domodossola e sull’ufficio tecnico di finanza di Novara, relativamente alla provincia del Vco ed ha alle sue
dipendenze la sezione operativa territoriale di Piaggio
Valmara e quella di Iselle. La circoscrizione doganale di Domodossola, con sede nello scalo ferroviario di
Domo2 a Beura Cardezza, è composto attualmente di
42 unità che operano in tutta la provincia del Vco.
Settore edile
- Nel 1902 i fratelli Bartolomeo e Antonio Poscio fondarono l’omonima società ed effettuarono le prime forniture di pietrisco per strade. Dal 1912 l’azienda si occupò anche di legnami e trasporti. Dal 1925 iniziarono i primi lavori murari, pur continuando la fornitura di materiale e la costruzione di strade. In questi anni
la forza era di circa 100 persone. Dalla fine degli anni
Trenta la manodopera raggiunse le 400/500 unità e la
società iniziò ad effettuare i primi grandi lavori come
stabilimenti, impianti funiviari, strade e ponti e società
idroelettriche ossolane e di altre località.
- Numerose ditte operano in Ossola, tra le più note per
anzianità, capacità produttiva e storia sul territorio citiamo le ditte Frua, Cattaneo, Giacomini e Rolandi. Attualmente il settore occupa in Ossola circa 1000 persone.
Settore trasporti
- Ferrovie dello Stato: il futuro traffico e la capacità
della linea del Sempione, con la prevista apertura nel
2006/2007 del Loetschberg, che avrà una capacità di
390 treni al giorno, con convogli lunghi anche 1.500
m., capacità destinata ad interessare il tunnel del Sempione e le linee ferroviarie italiane (il tunnel ha capacità attuale di 280 treni al giorno), imporrà una serie di
interventi in grado di supportare tale volume di traffico, anche prevedendo che i lavori sulla linea del Gottardo possano slittare dall’anno 2014 al 2017. Il potenziamento risulterebbe importante anche alla luce delle
previsioni di aumento continuo del traffico merci, che
potrebbe sacrificare il traffico passeggeri. I lavori che
da recenti convegni risultano necessari sono la variante Iselle-Domodossola ed il potenziamento con adeguamenti della linea Domodossola-Novara e Domodossola-Milano; tali adeguamenti dovranno considerare i disagi attuali (rumori, passaggi a livello) cui sono sottoposte tutte le aree di passaggio, quali le zone turistiche dei
laghi Maggiore e Orta.
- La ferrovia Vigezzina nacque da un’idea del maestro vigezzino Andrea Testore, che si concretizzò con l’inizio
lavori del 1912. Il 25 novembre del 1923 venne inaugurata la ferrovia che aveva lo scopo principale di unire
le due direttrici del Sempione e del Gottardo. Nel corso
degli anni la linea ferroviaria dimostrò la sua indispensabilità come collegamento col capoluogo ossolano, soprattutto in occasione dell’alluvione del 1978, durante
la quale la Vigezzina rappresentò l’unica via d’accesso
e di trasporto di generi di prima necessità. Attualmente sono in esercizio 11 elettrotreni e i dipendenti delle
SSIF sono un centinaio. Il traffico internazionale viene
gestito anche con personale della società FART che, per
il comparto ferroviario, occupa circa 75 persone. I viaggiatori trasportati sono circa 500.000 all’anno, di cui il
40% italiani e il 60% stranieri.
- L’Autoservizi Comazzi della famiglia Galli nacque nel
1925 come “Accomo e Comazzi” nell’area del borgomanerese, successivamente sviluppatasi sia verso Novara che verso Verbania, Omegna e Domodossola. Attualmente è il maggiore operatore privato del settore nelle province di Novara e Vco e di recente ha assunto
la gestione diretta della Navigazione sul lago d’Orta e
di importanti partecipazioni societarie nella Alma Tour
di Verbania e nella società Trasporti Novaresi (STN di
Novara). Dispone di un parco automezzi che conta 100
autobus di tutte le dimensioni ed in grado di soddisfare
qualsiasi esigenza del trasporto pubblico e dei servizi turistici privati. Particolare sviluppo hanno assunto le attività localizzate in Ossola, dove nel 1977 è stata inaugurata la nuova sede di Domodossola comprendente un
vasto deposito che ospita al coperto 40 autobus, oltre a
officina, uffici e locali di servizio. Ogni anno gli autobus con i colori dell’Autoservizi Comazzi percorrono
oltre 3,5 milioni di chilometri.
- L’Eliossola s.r.l. è nata nel 1993 con lo scopo di ottenere le licenze per effettuare il lavoro aereo ed il trasporto pubblico passeggeri. La società è stata fondata in Ossola, luogo dove spesso è necessario ricorrere all’uso del-
STATISTICA SAIA ( SOCIETA’ AREE INDUSTRIALI ED ARTIGIANALI spa) (tabella 1)
AREE
INDUSTRIALI
Località
Tot.
Area fondiar.
Tot.
Area ceduta
%
Villadossola
210.800
25.222
Ossola
371.800
Totali
582.600
Località
Area da
cedere
Aziende
al 2003
Addetti
iniz/a reg
11,%96 185.578
1
25/30
219.443
59%
152.357
43
347/613
244.665
41,99% 337.935
44
Tot.
Area fondiar.
Tot.
Area ceduta
%
Aziende
al 2003
Addetti
iniz/a reg
Domodossola
41.422
39.730
95,94% 1688
14
124/160
Piedimulera
50.754
50.754
100%
15
102/174
Trontano
123.718
102.588
83,14% 20.730
29
185/251
Totali
215.894
193.072
89,43% 22418
58
Vogogna/Pied
AREE
ARTIGIANALI
Area da
cedere
293
l’elicottero per lavori quali la costruzione e la manutenzione degli impianti idroelettrici, di funivie ed impianti di risalita, la costruzione e la manutenzione di rifugi, stalle e baite e la costruzione di opere in luoghi inaccessibili con altri mezzi. L’attività dell’Eliossola si è poi
estesa su tutto il territorio nazionale, comprendendo lavori di antincendi boschivi e lavori di ispezione aerea
su linee elettriche di alta e media tensione. Attualmente la flotta è composta da 3 elicotteri SA 315 B “Lama”
e 2 elicotteri ECUREUIL AS 350 B3. Ha un totale di
15 dipendenti.
Case di spedizione e trasporti internazionali
La realtà odierna di questo settore nell’alta Ossola è il risultato dell’evoluzione del sistema trasporti e servizi annessi e della trasformazione politica ed economica europea. Dal primo decennio postbellico, in cui i trasporti internazionali via Sempione erano totalmente ferroviari e vincolati allo sdoganamento presso la stazione di
Domodossola, si è passati negli anni successivi al trasferimento del traffico merci su strada. Questo ha prodotto una trasformazione delle case di spedizione operanti in loco, da organizzatrici di raccolta e trasporto merci, servizi groupage, magazzinaggio ecc., a pure e semplici agenzie di sdoganamento. L’atto finale si ebbe poi
a partire dal 1° gennaio 1993, con la nascita del Mercato unico europeo e la liberalizzazione delle merci in
ambito comunitario. Oggi sono presenti nello scalo di
Domo2 due case di spedizione, la DHL Express s.r.l. con
5 addetti e la Italsempione S.p.A. con due addetti. Altri
due operatori locali sono la Transnova s.n.c. con 7 addetti e la ditta Zoni s.a.s. con 4 addetti.
Fatto nuovo è stato il recente insediamento nello scalo di Domo2 di due operatori nel traffico combinato
strada-ferrovia. La prima ad insediarsi nel 2001 è stata la ditta Hangartner Spedizioni Internazionali s.r.l. che
oggi ha 29 dipendenti e movimenta 46 treni la settimana con capacità di trasporto di import/export di 1220
camion. Nel gennaio del 2004 ha iniziato ad operare
la Cargo Drome s.r.l. che attualmente movimenta circa
200 treni all’anno e ha 11 dipendenti.
294
Altri settori
- La Locatelli U. & S. S.p.A. fu fondata nei primi ‘900
a Baveno e si trasferì negli anni ’70 a Premosello Chiovenda, specializzandosi nella fabbricazione di accessori per capelli. Attualmente il gruppo è costituito da tre
stabilimenti che occupano 45 dipendenti più 60 terzisti. I prodotti vengono esportati per il 65% in tutti i
paesi del mondo.
- La Penta s.r.l., con sede a Piedimulera, fu fondata
nel 1994 come azienda produttrice di lavorati in marmo, granito e agglomerati sintetici. E’ specializzata nella produzione di complementi di arredo e le lavorazioni vengono effettuate mediante utilizzo di macchine a
controllo numerico che effettuano il taglio con utensili
diamantati o con la tecnica dell’idrogetto. Attualmente
occupa 11 persone ed ha un mercato che si estende dal
nord Italia alla Svizzera.
Situazione occupazionale
In base ai dati elaborati dall’Osservatorio regionale
del mercato del lavoro, risulta alla data del censimento 2001 per l’area ossolana un totale di 1.352 industrie
operanti che occupano 7.801 addetti. Il totale di occupati, in tutte le attività economiche dell’Ossola, comprensive di attività commerciali, servizi e istituzione,
frontalieri e pendolari, è di 27.284 unità su un totale di
67.700 abitanti. (vedi tabella 2)
Negli ultimi anni, nelle aree reperite dalla società Saia
per l’insediamento di attività produttive di piccola, media industria e artigianato, sono sorte numerose attività localizzate nei comuni di Vogogna, Piedimulera,
Trontano, Villadossola e Domodossola. Su un totale di
582.600 mq. di aree industriali disponibili, sono stati ad oggi ceduti 244.665 mq. (42%) con insediamento di 44 aziende che occupano ad oggi 375 persone.
Per quanto riguarda le aree artigianali, su un totale di
215.694 mq. sono stati ceduti 193.042 mq. (89%) per
59 aziende insediate. (vedi tabella 1)
CENSIMENTO UNITA’ LOCALI E ADDETTI PER SETTORE DI ATTIVITA’ ECONOMICA - OSSOLA (tabella 2)
CENSIMENTO 2001
IMPRESE
NUMERO
ADDETTI
NUMERO
ADDETTI
NUMERO
ADDETTI
NUMERO
ADDETTI
Altri Servizi
ADDETTI
Commercio
TOTALE
NUMERO
Industria
ISTITUZIONI
C.M.ANT.FORM.DIVED.
181
1.013
254
661
357
1.020
127
638
919
3.332
C.M.VALLE ANTRONA
50
769
157
387
250
531
50
436
507
2.123
C.M.VALLE OSSOLA
853
4.400
817
2.112
1.008
3.977
261
2.939
2939
13.428
C.M. MONTE ROSA
223
1.462
143
278
235
790
97
200
698
2.730
C.M.VALLE VIGEZZO
45
157
186
343
273
777
90
250
594
1.527
TOTALE GENERALE
1.352
7.801
1557
3781
2123
7.095
625
4463
5657
23.140
FRONTALIERI
C.M.ANT.FORM.DIVED.
397
C.M.VALLE ANTRONA
120
C.M.VALLE OSSOLA
658
C.M. MONTE ROSA
44
C.M.VALLE VIGEZZO
925
TOTALE GENERALE
2144
SITUAZIONE PENDOLARI VERSO MILANO,NOVARA,VERBANIA,OMEGNA
ED ALTRE ZONE. DATI STIMATI
circa
2.000
TOTALE
OCCUPATI
27.284
TOTALE
ABITANTI
67.700
A TUTTO SETTEMBRE 2004 RISULTANO IMPIEGATI N° 192 EXTRACOMUNITARI
DI CUI 156 UOMINI
+36 DONNE
Fonte: Regione Piemonte - Provincia V.C.O. - Centro per l’impiego.
295
L’agricoltura, l’allevamento e i prodotti tipici
Giacomo Zerbini
L’ambiente ossolano, essenzialmente montano, fornisce
limitate quantità di alimenti provenienti da caccia, pesca e produzione spontanea, così che l’uomo vi si è insediato solo quando ha potuto esercitarvi l’agricoltura
che qui ha assunto le caratteristiche di attività agro-silvo-pastorale.
L’espansione più consistente dell’attività agricola, considerata negli aspetti del numero delle persone addette e dei beni prodotti interscambiati ed esportati, si ritiene debba essere individuata nel primo decennio del
‘900. Allora l’Ossola produceva in eccedenza per il fabbisogno degli abitanti burro, formaggi, carne bovina
- ovina, caprina, lana, cuoio ed ovviamente legname.
Per contro la produzione locale di cereali in genere (frumento, segale, orzo, mais, riso) era insufficiente, anche
se parte della loro funzione alimentare era coperta dal
consumo abbondante di patate e fagioli prodotti sul posto; la produzione di frutta, verdura, vino, animali di
bassa corte veniva tutta autoconsumata; zucchero e sale
si importavano totalmente.
Stefano Calpini nelle Memorie sulle condizioni dell’agricoltura e della classe agricola nel circondario dell’Ossola afferma che nel 1879 il rapporto numerico tra popolazione urbana e rurale era di 1 a 9.
Oggi tale rapporto non solo si è capovolto ma dalle rilevazioni censuarie del 1990 risultava che le persone addette all’agricoltura a tempo pieno nell’Ossola a stento arrivavano al 3% della popolazione attiva, inoltre si
calcolava che i beni prodotti dall’agricoltura in Ossola
concorrevano a formare appena il 2% del reddito globale goduto dagli abitanti.
Nel passato l’uomo si assicurava la sopravvivenza mediante l’autoconsumo di prodotti agricoli, ne conseguiva evidente lo stimolo a diversificare al massimo la produzione fino al limite imposto dal clima. L’Ossola è si-
tuata nel bacino del Mediterraneo, ma gran parte delle
tipiche colture mediterranee qui non maturano o maturano troppo tardi allorquando il mercato è saturo e
la merce non trova apprezzamento; anche nel raffronto
con altri territori montani l’Ossola compare come ambiente climaticamente più svantaggiato. L’orografia della Valdossola evidenzia la disposizione nord-sud della
vallata principale, mentre le vallate principali del Vallese, della Val d’Aosta, della Valtellina e parte anche dell’Alto Adige sono disposte nel senso est-ovest in modo
che un versante è illuminato dal sole nell’intero arco
della giornata; anche la presenza di vastissimi ghiacciai a corona dell’Ossola ne influenza negativamente la
temperatura media annua che risulta inferiore rispetto
a quelle delle vallate citate. L’Ossola, sorta di triangolo
geografico, è composta prevalentemente da un fondovalle, Anzola-Domodossola-Crevoladossola, in cui risiede oltre il 60% degli abitanti, nel quale corrono una
superstrada, una strada statale, due strade intercomunali, due ferrovie (Milano e Novara), un fiume (Toce), insediamenti umani e relative aree per attività civili, religiose, scolastiche, sportive, del tempo libero e commerciale. Perciò ora l’agricoltura del nostro ambiente riveste una modestissima presenza nel moderno concetto di
industria alimentare, ma si evidenzia per altre caratteristiche e funzioni quali la tutela e la conservazione di
un ambiente così come è pervenuto ai nostri tempi, difesa del patrimonio boschivo da incendi e salvaguardia
del terreno da dissesti idrogeologici, presenza dell’uomo
indigeno che ha capacità, esperienza ed interesse a promuovere nuove iniziative integrate con la tradizione.
Vediamo più in dettaglio l’evoluzione dell’attività agricola negli ultimi cento anni.
Popolazione. I 34.719 abitanti dell’Ossola censiti nel
1879 sono oggi raddoppiati. È estremamente conforte-
297
I vigneti a Pello di Trontano.
vole notare che nel 1857 gli analfabeti risultavano appena il 7,3%, vero primato di un servizio sociale che è
conservato ai nostri giorni. Nel settore prepara i futuri agronomi l’Istituto Professionale Statale “E.G. Cavallini” di Crodo, orientato all’insegnamento della Silvicoltura, Alpicoltura ed Economia Montana; gli allievi
vi accedono dopo la terza media per conseguirvi in un
biennio la licenza di operatori specializzati presso aziende zootecniche montane, e in un quinquennio il diploma di “Agrotecnico” con l’idoneità a dirigere aziende
singole o cooperativistiche montane, all’insegnamento, allo svolgimento di assistenza tecnica a disposizione
delle Comunità Montane, della Regione, dello Stato.
Se l’attività agricola non forma più la parte principale
del reddito familiare, concorre tuttavia ancora a consolidare il benessere; il fenomeno del “part-time farming”
è diffusissimo ed appare in espansione.
Produzioni vegetali - Il seminativo, chiamato anche campo, caratterizza l’agricoltura locale per l’ampia
gamma di colture che può ospitare. Dei 2105 ettari di
cent’anni fa sono rimasti appena 200 ettari di patate e
mais. Sono scomparsi il tabacco, il frumento e la canapa, stanno per scomparire la segale, l’orzo, il grano saraceno ridotto agli ultimi campi a Coimo di Druogno.
298
Furono, e sono tuttora ben apprezzate dal consumatore
le patate ottenute in Valle Vigezzo per la gradevole farinosità e la delicatezza del profumo e sapore; la rinomanza si diffuse fuori Ossola grazie anche alle piccole
scorte che recavano con sé gli spazzacamini vigezzini.
Nel 1954 gli agricoltori si organizzarono per la produzione di patate da seme ottenendo il marchio ufficiale
del Ministero dell’Agricoltura. Negli anni 70 il centro
sementiero cessò di funzionare a causa dell’esodo dall’agricoltura, del passaggio dei campi ad aree fabbricabili, della comparsa di una rara malattia, l’anguillula, che
si combatte bene solo con la rotazione agraria, pratica
agronomica ormai scomparsa dalle nostre zone.
La viticoltura - I 759 ettari di campi vignati stimati in
passato, si sono ridotti a 50. I campi con vite sono piccoli terrazzi sostenuti da muri formati da sassi accatastati a secco e rappresentano un intelligente lavoro di formazione e conservazione del terreno ottenuto nei secoli
con incredibile impiego di forze e fatica umana.
In passato i vini ottenuti in talune zone ben esposte
ed in annate favorevoli raggiungevano 11-11,5 gradi alcoolici, ma la gran massa del vino prodotto in Ossola
possedeva un tenore alcoolico che andava da 9 a 10 gradi e quindi poco serbevole; da taluni vigneti posti ai li-
miti climatici della coltura si sono riscontrati i 6-7 gradi alcolici nel vino non più degno di essere denominato
tale ed ecco che a Coimo veniva scherzosamente chiamato “strafulun”.
Raggiunse rinomanza anche fuori Ossola il “Prunent”
di Pello di Trontano, vino ottenuto dal vitigno Nebiolo e quindi di lunga maturazione, imparentato coll’Inferno ed il Sassella valtellinesi, col Gattinara e col Barolo. Eliminata la malattia fillossera agli inizi del secolo mediante l’innesto dei nostri vitigni su piede americano, i contadini impararono a combattere tempestivamente sia la peronospora che l’oidio. Il canonico Nicolao Sottile nel suo Quadro dell’Ossola pubblicato a Novara nel 1810 annotava: “l’Ossola ha viti e fa vini anche
buoni. Si vendono nelle valli che ne sono prive ma la maggior parte si smercia nella Svizzera e nel Vallese”. Ma poi
il prodotto a mano a mano è scaduto di qualità a causa dell’introduzione non programmata di diversi ottimi
vitigni le cui produzioni venivano mescolate senza conoscenze sulle loro affinità.
Dal 1990 la Comunità Montana Valle Ossola ha avviato, in collaborazione con l’Università Cattolica di Piacenza, il recupero della viticoltura con un’azione tendente a modificare la forma tradizionale di allevamento a pergolato, la “toppia”, od anche a sostituirla col sistema a controspalliera per meglio fruire della luce solare. È stata avviata pure la selezione del vitigno locale, il “Prunent”, in collaborazione con l’Istituto Sperimentale della Viticoltura di Asti e poi col Centro CNR
I vini ossolani.
Fiera bovina in Valle Antigorio.
di Torino. Ora assistenza tecnica continua viene fornita
a tutti i soci dell’Associazione Produttori Agricoli Ossolani, un sodalizio nato nel 1994. E’ stata intrapresa
quindi un’opera di miglioramento delle produzioni: dal
1990 ad oggi sono state acquistate tramite la Comunità
Montana Valle Ossola circa 50.000 barbatelle di cloni
pregiati, certificate, virus esenti, utilizzate per costituire circa 40 piccoli vigneti specializzati in grado di fornire produzioni di alta qualità, da 40 a 60 quintali per
ettaro. Negli ultimi dieci anni la viticoltura ossolana ha
assunto un’importanza sempre crescente, tanto da calamitare l’attenzione anche dei giovani, che si sono avvicinati numerosi a questo tipo di attività. Dal 1997
una ventina di soci produttori delle zone di Pello, Masera e Crevoladossola, conferiscono una parte delle loro
uve Nebbiolo, Croatina e Prunent ad una cantina privata per vinificarle in comune. E dei 50 ettari di territorio vignato, stimati in Ossola, almeno 30 sono coltivati proprio dai soci. Attualmente i vini commercializzati
con l’etichetta dell’associazione sono il Prunent, il Balòss (pinot nero vinificato in purezza), il Tarlap (Merlot monovitigno), il Cà d’Matè (uvaggio di Nebbiolo,
Croatina e Prunent), il Noev Bruschett, un vino giovane da un uvaggio di Croatina, Nebbiolo e Barbera e il
Cà d’Susana (uvaggio di Nebbiolo e Cabernet Sauvignon). Questi i dati dell’annata 2003: sono stati pro299
Mungitura all’alpeggio.
dotti circa 15.000 litri di Noev Bruschett, 2.500 litri di
Prunent, 5.000 litri di Cà d’Matè, 3.500 litri di Tarlàp
e 240 litri di Pinot nero Balòss. Insomma, la viticoltura ossolana è destinata ad affermarsi come produzione
di nicchia e ad ampliarsi per raggiungere mercati non
soltanto locali.
La frutticoltura - Quasi tutti i fruttiferi più comuni
sono diffusi in Ossola quali pero, melo, pesco, ciliegio,
albicocco, susino, fico, nespolo ed anche l’actinidia sinensis, ovvero il kiwi, di recente introduzione; il limite climatico condiziona in talune annate la pezzatura
del frutto, ma l’ambiente montano ne esalta sempre il
colore e la sapidità. Nel passato l’uomo utilizzava il fogliame del gelso per l’alimentazione del baco da seta, il
frutto del noce per propria alimentazione e per estrazione di olio, il frutto del castagno per alimentazione
propria e del bestiame, nonché la scorza per estrazione del tannino o il frutto della quercia per l’alimenta300
zione dei suini. Oggi, parallelamente al rinnovamento della viticoltura, è stato avviato un programma d’incremento della melicoltura mediante la distribuzione di
circa 50.000 piante di mele innestate su portainnesti
nanizzanti da impiantare per la costituzione di meleti specializzati con forme di allevamento a spindel su
modello trentino. Pertanto sono state introdotte varietà come la Golden, la Elstar, la Royal Gala, la Red Delicious, la Summered, la Jonagold, la Granny Smith e la
Renetta del Canada. La mela ossolana potrebbe quindi costituire un altro prodotto tipico, ma manca ancora
un coordinamento per la sua commercializzazione.
Il clima alpino e la qualità del terreno sembrano giocare
a favore della coltivazione dei piccoli frutti le cui piante,
per godere di buona salute, necessitano lunghi periodi
di riposo in ambienti freddi. Il mirtillo gigante, il “vaccinum corymbosus” originario del Nord America è ora
in fase di espansione nella nostra zona. Si tratta di una
pianta praticamente immune da funghi, quindi coltivabile evitando qualsiasi tipo di intervento antiparassitario e funghicida e la sua coltivazione, ideale in un terreno molto acido, esige anche un buon periodo di freddo durante l’inverno per poter fruttificare abbondantemente. Infine, con fragole e mirtilli, non mancano lamponi, more, ribes gialli o rossi, uva spina e l’uva giapponese.
L’allevamento - Il patrimonio zootecnico, bovino-ovino-caprino, costituisce il grande capitale, il grande investimento dal quale l’agricoltore-allevatore trae quasi
tutta la remunerazione del suo lavoro; in cento anni ha
subito le variazioni seguenti:
anno 1879
bovini n. 12.373 - ovini n. 7.369 - caprini n. 14.626
anno 1930
bovini n. 16.267 - ovini n. 6.158 - caprini n. 10.824
anno 1982
bovini n. 6.494 - ovini n. 13.750 - caprini n. 9.569
anno 1990
bovini n. 4.771 - ovini n. 8.707 - caprini n. 8.888
Nella primavera del 2004 in Ossola sono stati controllati dal Servizio Veterinario n. 743 allevamenti comprendenti 8.044 caprini e 5.488 ovini e, nello stesso periodo, sono stati controllati n. 347 allevamenti di bovini, con almeno 3.000 vacche da latte. La presenza di
una così modesta quantità di allevamenti significa che
la popolazione ossolana è dedita per la maggior parte
ad altri settori, secondiario e terziario, diversamente da
quanto rilevato dal Calpini nel 1880, allorchè affermava che la popolazione ossolana dedita all’agricoltura e
all’allevamento si aggirava attorno all’80% (su 34.000
abitanti). Secondo i dati Istat per l’anno 2000 i bovini
totali nella provincia del Vco sarebbero 5.771, i caprini 13.510, gli ovini 10.015, i suini 439, gli equini 941
e gli struzzi 61.
Ci sarebbe quindi una notevole riduzione dei bovini,
cioè degli animali che richiedono maggiori cure e mungitura, e un incremento di ovini e caprini, che richiedono scarso impegno della manodopera e sfruttamento sovente incustodito di grandi estensioni pascolive di
proprietà comunale.
Alla fine dell’800 i bovini dell’Ossola si presentavano
con piccola taglia e con mantello pezzato in vari colori;
ora sono uniformati in una sola razza: la Bruna o Bruna
Alpina. All’inizio del ’900 Serafino Rolandi di Mozzio,
a conoscenza dei risultati raggiunti dalla selezione della
razza di Svitto (l’attuale Bruna Alpina) per la mole dei
tori e la quantità di latte prodotta dalle vacche, avviò
l’introduzione di torelli via Passo S. Giacomo.
L’incrocio di tali torelli sui nostri bovini suscitò vero interesse ed infatti si diffuse rapidamente; la “nuova” razza venne dapprima chiamata la “razza di Mozzio”, poi
fu accettata come vera e propria Bruna Alpina. E’ stata
poi incrociata con la razza Bruna selezionata nel nordAmerica detta Brown Swiss per ottenere bovini ancora
più pesanti e più produttivi di latte.
È rimasta famosa nell’ambiente degli allevatori la vacca
Fiera di Ferdinando D’Andrea di Villadossola per essere stata classificata nel 1967 “Vice Campionessa Nazionale” della Mostra di Verona.
Mostre, mercati e rassegne sono iniziative per valorizzare e vendere il bestiame mediante classifiche e gare tra
gli animali presenti e attraverso il gran richiamo di allevatori, commercianti e tecnici. E’ ormai nota tra gli addetti ai lavori “Domobruna”, la Mostra Interregiona-
Salumi tipici ossolani.
301
le dei bovini di razza Bruno alpina che si tiene in primavera a Domodossola. Nel 2004 la mostra ha inserito, come novità di prestigio, il 1° Concorso Internazionale di bovini di razza bruna iscritti al libro genealogico, divenendo così di respiro internazionale. Avviata nel
2002, la fiera si è confermata punto d’incontro annuale
tra professionisti del comparto zootecnico ed è la prima
mostra internazionale che si svolge in Piemonte.
Per quanto riguarda l’allevamento delle capre, gli allevatori ottengono buone remunerazioni con la vendita
del capretto, del latte e latticini, delle pelli. Ha fruito di
buona rinomanza la razza di capre denominata “Vallesana” o “Sempionina” dal mantello pezzato di bianco e
nero; di buon peso ed ottima lattifera la Vallesana allevata nell’Ossola è stata venduta nelle province vicine e
nel Sud Italia. Ma il gruppo più consistente del patrimonio caprino è formato da popolazione meticcia, cioè
di razza non ben definita, con soggetti più piccoli o leggeri idonei a pascolare nei territori più magri ed impervi. La gran massa delle pecore è di derivazione dalle razze biellese e bergamasca, aumenta di consistenza
grazie ai buoni pascoli disponibili perché abbandonati
dai bovini in regresso. L’allevatore vende a buon prezzo
l’agnello, ma non trova mercato per la lana che nel passato veniva utilizzata direttamente dalle famiglie locali
per indumenti. L’Ossola è annoverata tra le prime zone
di Italia ove sono state debellate le malattie della tubercolosi e brucellosi pericolose sia per il bestiame che per
l’uomo. Anche se, purtroppo, nel 2001 il morbo della bse, la cosiddetta “mucca pazza”, ha infettato un bovino di razza bruna allevato in Valle Vigezzo: il primo
caso piemontese è toccato proprio ad un allevamento
di Malesco.
Altri allevamenti – Patrimonio zootecnico a parte, veniamo ora alle novità nel settore. Nel comune di Crevoladossola nel 2003 è stato allestito un impianto di allevamento di Helix Pomatia, più conosciuta come lumaca alpina, mentre a Ornavasso esiste un allevamento di gamberi di fiume o, come li chiamano gli esperti, di Austropotamobius italicus. Considerati una specie
protetta e catalogati dal Wwf nella top ten degli invertebrati italiani a rischio di estinzione, i gamberi di fiume sono un indicatore biologico del buono stato di salute dei nostri torrenti.
302
I prodotti tipici
Il formaggio – E’ soprattutto il “Bettelmatt” il formaggio sul quale gli ossolani hanno riposto speranze di crescita e notorietà. Questo formaggio, che ora ha un marchio regolarmente registrato e dal 2003 ha marchiatura a fuoco, si produce in sette alpeggi: Morasco, Kastel,
Val Toggia, Vannino, Poiala, Forno, Sangiatto ad un’altitudine che va da 1800 a 2400 metri.
Il Bettelmatt originale ha sullo scalzo la data di produzione e contiene l’indicazione dell’alpeggio di provenienza. Si tratta di un formaggio ottenuto dal latte crudo intero di una mungitura, prevalentemente di vacche
di razza Bruna con stagionatura minima di 60 giorni.
Le forme sono cilindriche, di 4/6 kg. di peso, di colore giallo oro o paglierino e viene prodotto tra la fine di
giugno ed i primi di settembre. Vengono prodotte circa
3.800-4.000 forme all’anno.
Più consistente risulta la produzione dell’altro formaggio, chiamato comunemente “Ossolano”. Attualmente tutto il latte prodotto in provincia viene destinato,
tranne una piccola quota per autoconsumo, alla trasformazione in formaggio e, per quanto riguarda l’Ossola,
in formaggio “Ossolano”. Nella tradizione alpina il formaggio ha rappresentato una preziosa merce di scambio
per acquistare prodotti introvabili sul territorio. In passato con i prodotti caseari si pagavano le tasse, si faceva
carità, si pagava l’affitto e il burro era considerato re dei
condimenti, al posto dell’olio d’oliva, prodotto d’importazione. Questo mondo ormai scomparso, nel quale
il formaggio era parte integrante dell’economia alpina,
ha lasciato il posto ad una nuova filosofia del prodotto,
che necessita di ricerche, analisi, valorizzazioni, classificazioni e certificazioni. Insomma, nel nuovo millennio
il formaggio “Ossolano” per essere gustoso deve sottoporsi ad un’analisi tecnico scientifica che ne dimostri la
buona qualità e sia strumento di supporto per ottimizzare il ciclo produttivo. Il cosiddetto “progetto di caratterizzazione del formaggio Ossolano” è un’opera complessa, sintesi di tre anni di lavoro di tecnici, divulgata attraverso una pubblicazione a disposizione dei produttori. Si tratta di una ricerca che ha fornito un preciso orientamento per ottenere il tanto atteso riconoscimento della denominazione di origine protetta (Dop).
L’Ossolano, che vanta un’origine antica, dal 1990 può
vantare anche un proprio consorzio di tutela, costituito da una ventina di soci produttori, che ha istituito un
marchio di origine e qualità per la sua identificazione.
Nel 1993 il consorzio ha presentato la richiesta di denominazione d’origine al Ministero dell’Agricoltura; la
proposta fu accettata nel 1996 dal Comitato nazionale per la tutela delle Denominazioni di Origine Tipiche
dei Formaggi. Tutt’oggi, in attesa del riconoscimento
europeo della Dop, il disciplinare di produzione steso
dal Consorzio rappresenta il regolamento ufficiale del
formaggio Ossolano.
Le latterie turnarie, chiamate anche sociali al loro sorgere nel secolo scorso, sono scomparse per fondersi in stabilimenti specializzati. Le latterie turnarie, cioè centri
per la lavorazione del latte ad opera di un allevatore-casaro addetto a turno, vanno ricordate quale altro primato dell’Ossola nel settore; sono sorte tra le prime in Italia ed hanno raggiunto la maggiore diffusione capillare
in tutti i centri abitati rispetto ad altre zone dell’arco alpino ed hanno contribuito alla formazione di abitudini alla cooperazione. Nell’aprile del 2002 è stata inaugurata a Oira di Crevoladossola la struttura che ospita il nuovo caseificio ossolano. La nuova Latteria Sociale Antigoriana è frutto dell’impegno assunto congiuntamente da quattro comunità montane interessate: Valle Ossola, Valle Antigorio-Divedro-Formazza, Antrona
e Monterosa, che hanno scelto di concentrare gli sforzi in un progetto unico, evitando la frammentazione
in caseifici minori. Nel 2002 il caseificio lavorava circa
30.000 quintali di latte ritirati annualmente ai circa 70
soci, pari a oltre il 70 per cento dell’intera produzione
provinciale. (Questi e altri dati sulle nuove attività agricole e sull’entità della loro produzione sono stati tratti
da articoli apparsi in questi ultimi anni su testate giornalistiche locali, a firma di Paola Caretti).
Il miele - Anche l’apicoltura ha seguito le vicende di
altri settori, cioè larga diffusione nell’800 e inizi ‘900,
calo di interesse nell’ultimo dopoguerra, attuale rilancio degli allevamenti. Si ottiene un ottimo miele per il
consumo diretto proveniente prevalentemente dal nettare dei fiori di castagno, o altro miele più pregiato proveniente dai fiori alpini ove predominano le piante aromatiche. Le valli Antigorio e Formazza, e l’Ossola in genere, rappresentano il punto di forza del settore apisti-
co nella provincia: il maggior numero di aziende, sebbene per la gran parte operino a livello amatoriale, sono
collocate infatti in queste vallate. L’apicoltura in tutta la provincia del Vco conta 163 aziende, che possiedono complessivamente 3.787 alveari, ma il potenziale
produttivo, secondo gli esperti del settore, sarebbe superiore di quello attualmente conseguito. Le tipologie
di miele prodotte sono molteplici: acacia, millefiori, tiglio, castagno, melata e millefiori di montagna, questi ultimi ottenuti esclusivamente oltre i 1000 metri di
quota. Dal 1984 è attiva l’associazione produttori apistici delle Vallate Ossolane che impegna oltre 200 soci
ad una produzione di alta qualità.
Il pane - In Ossola il pane nero di segale è legato ad una
tradizione antica e negli ultimi anni è stato avviato un
progetto per ottenere, anche in questo caso, il riconoscimento d.o.p., la denominazione di origine protetta.
Fino a pochi decenni fa il pane bianco di frumento appariva di rado sulla mensa degli ossolani, mentre il pane
nero a base di farina di segale - abbondante grazie alle
coltivazioni in loco - non mancava mai. Il pane veniva
cotto all’inizio dell’inverno nel forno comune del paese ed era una festa alla quale partecipavano intere famiglie che si assicuravano così il pane per almeno sei mesi.
Nell’Ottocento Orazio de Saussure, nel libro “Voyages
dans les Alpes” scrisse che gli abitanti “... si nutrono solo
di latticini e di pane di segale che cuociono sei mesi o addirittura un anno prima e che si può tagliare solo per mezzo di una scure”. Oggi le pagnotte escono dai forni di alcuni panettieri con frequenza quasi quotidiana, ma restano soffici e fragranti per diversi giorni, a differenza
del pane bianco che s’indurisce in breve tempo. Accanto al pane nero, apprezzato è anche il famoso credenzitt (o cradenzin), che anticamente veniva cotto in occasione delle feste o importanti ricorrenze. Il credenzitt
è una sorta di pane rituale dolce e si può gustare in tutte
le sue varianti, che racchiudono nel suo impasto noci,
uvetta e fichi secchi.
Erbe Aromatiche e Officinali – Nel 1997 la Comunità Montana Valle Cannobina ha avviato un progetto
di sperimentazione per la coltura di erbe officinali con
tecniche produttive biologiche. Nel 2002 è nata l’associazione “Erba Bona del Vco” che raggruppa i tutti
i coltivatori, con lo scopo di contribuire alla diffusione
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Il pane nero di Coimo.
Forme di bettelmatt in stagionatura.
di questo tipo di coltivazione nel territorio montano, e
che ha prodotto e commercializzato una particolare tisana composta da melissa, menta, salvia e lippa.
Carni e Salumi – Un’ampia varietà di carne è prodotta
in Ossola. Dopo i tradizionali salumi, da non dimenticare la pancetta, il prosciutto crudo affumicato, la bresaola, il lardo, la mocetta, i violini di agnello, di camoscio e di capra. Insieme ai prelibati e numerosi insaccati prodotti in Ossola, merita un cenno la mortadella, che è da poco entrata a far parte dei presidi di Slow
Food. Si tratta di un prodotto realizzato con le carni
crude di suino alle quali si aggiunge una piccola percentuale di fegato e in alcuni casi vino tiepido insaporito da spezie, una sorta di vin brulé. Il tutto viene insaccato nel budello del maiale. Segue una stagionatura
di circa due mesi.
Tendenze attuali e prospettive. I terreni seminativi ed
i prati di fondovalle sono destinati ad ospitare gli insediamenti abitativi, le vie di comunicazione, le attività produttive non agricole e ricreative. Sui pascoli più
impervi si ridiffonderà il bosco. Le foraggere dei pasco-
li ed i boschi monopolizzeranno sempre più il concetto
di “risorsa” nel territorio montano, risorse che potranno interessare anche allevatori e imprenditori non residenti. Si sta infatti scardinando l’ordinata integrazione tra le ristrette aree di seminativo dei fondovalle con
prati, prati-pascoli e pascoli degli altipiani, fra le piccole
proprietà private dei terreni coltivati e la proprietà comunale dei pascoli e dei boschi, fra le attività primarie
e quelle derivate.
Si ripropongono i soliti problemi però in forma nuova:
turismo, artigianato, penetrazione di massa, tutela del
paesaggio, territorio inteso come città-regione, ecc. Perciò l’intervento pubblico, che finora ha privilegiato la
montagna quale sede ideale di foreste e di equilibri fra
vegetazione, acque e terreno, si è orientato, secondo le
richieste reali dei montanari, a promuovere la perequazione dei redditi e dei servizi sociali fra zone montane e
territorio nazionale.
In tale prospettiva l’uomo non abbandonerà la montagna, ma vi permarrà per esercitare le più diversificate
attività unitamente all’agricoltura.
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L’artigianato e il commercio
Paola Caretti
L’artigianato tipico ossolano nel corso dei secoli ha saputo modificarsi. Dalla iniziale produzione di oggetti
destinati a proprio consumo, forgiati utilizzando i limitati materiali disponibili, ben presto diventò un’attività
prevalente che consentì alle genti di montagna di garantirsi una fonte di entrata, seppur modesta, attraverso la
commercializzazione dei manufatti sui principali mercati. In alcuni casi, l’artigianato fece un salto di qualità
e divenne una vera e propria forma d’arte.
La pratica della lavorazione del legno in Ossola si perde
nella notte dei tempi. Di facile reperibilità nei boschi,
il legno rappresentò la materia prima per intagliare oggetti di uso quotidiano o per mettere in opera creatività,
fantasia, arte. In epoche remote grande commercio dovevano avere i bravi artigiani del legno se, come sappiamo “vi era un singolare diritto di decima che aveva l’arciprete di Domodossola sui lavori in legno che venivano portati a vendere sul mercato (di Domo) dai vigezzini (…)
Una volta all’anno l’incaricato dell’arciprete si faceva consegnare la così detta “Collaria dei legnami”, la decima cioè
di tutti i lavori in legno, elencati in alcuni inventari ed
evidentemente venduti al mercato del sabato: scodelle, cucchiai e mestoli di legno, rastrelli, gerli, caule, e perfino mobili come letti e armadietti di uso comune. Verso la fine del
‘600 questa decima venne concordata in danaro”.1 Dall’artigianato all’arte, il passo non è breve, presuppone
doti eccelse, sapienza, abili mani e senso estetico. Così
nei secoli si affermarono artisti a tutto campo, molti dei
quali originari proprio della “valle dei pittori” che secoli fa avrebbe potuto essere definita “valle dei ‘maestri legnamari’ a causa del proliferare delle scuole d’intaglio che,
a partire dal 1400 (ma fiorente attività artigianale della
lavorazione del legno esisteva in loco da prima del XII secolo), si imposero in tutta l’Ossola contribuendo notevolmente all’arricchimento ed all’abbellimento di chiese, ora-
tori e dimore signorili, con una produzione che in alcuni casi sarebbe riduttivo definire meramente artigianale.
(…) Dell’intaglio e della scultura lignea delle nostre vallate si è scritto poco. Studi approfonditi sono stati avviati
solo negli anni 60 dal prof. Bertamini il quale si è occupato dei Merzagora di Craveggia, del Gualio di Antronapiana, del de Bernardis di Buttogno e del Lanti di Macugnaga…” 2. La sapienza degli artigiani del legno si tramanda tutt’ora di padre in figlio, sebbene ormai siano sulla
via di estinzione le antiche tecniche di confezionamento di gerle, zoccoli, rastrelli o attrezzi vari. Uno degli ultimi sciviràt (gerlai) svelando i segreti della pratica artigianale, afferma che i legni di castagno, nocciolo e betulla, che servono per la sua attività “vengono raccolti, seguendo la tradizione locale, durante la luna calante, per
evitare i tarli e, quando non fosse possibile lavorarli subito, devono essere conservati in luogo umido e fresco, legati
in fasci ed appiattiti”. 3
Le scarpe vigezzine portano in giro per il mondo un
pezzo di storia delle genti ossolane; le calzature sono
state anche compagne di viaggio degli intraprendenti
spazzacamini che partirono numerosi dalla Valle Vigezzo alla volta di Francia, Germania, Austria o Svizzera,
alla ricerca di canne fumarie da raspare, armati di tutti
gli attrezzi del mestiere. Naturalmente tra i rari oggetti personali non mancavano le calzature confezionate in
casa con brandelli di stoffa d’avanzo. In montagna tutto è prezioso e la vita quotidiana spesso si trova a dover
fare i conti con la povera economia rurale, in cui vige la
legge del nulla si distrugge. Così, tra realtà e leggenda,
sono nate le celebri scarpe “Vigezzine”, create inizialmente come prodotto puramente artigianale e funzionale alle ristrettezze monetarie di casa, ed ora divenuto accessorio ricercato e alla moda. A continuare l’antica tradizione è un abile artigiano di Domodossola che
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Le calzature “Vigezzine”.
da oltre vent’anni le produce e commercializza. I paviui
o scufùn o peduli, come venivano una volta chiamate
le scarpe, sono ora realizzate con una tomaia in velluto trapuntato e imbottito, mentre l’interno è in tessuto stile provenzale. I colori sono gli stessi che si possono
trovare sulle pendici dei monti: il verde del sottobosco,
il bordeaux delle foglie autunnali, il marrone delle cortecce e comprendono una vasta gamma cromatica, tinte
che hanno ispirato nei secoli i famosi pittori della scuola d’arte della valle di provenienza.
Un altro prodotto artigianale, che tutt’ora si confeziona con moderni telai, è la tradizionale pezzotta multicolore, utilizzata come singolare tappeto. La pezzotta
sembrerebbe prendere spunto dalle kwèrte, le coperte
di lana infeltrita e ordito in canapa che le paesane tessevano sui propri telai in periodo invernale. “Nella prima metà dell’Ottocento la lana filata, lavata, pesata, portata dalle donne a piedi, nel gerlo fino a Villadossola o alla
frazione della Noga, veniva sottoposta a tessitura e follatura. Dopo questo trattamento le pezze, riportate ad Antro306
napiana, venivano tagliate e cucite insieme con grossi punti, in modo da formare le coperte da letto “kwèrte”. Da un
‘Censimento delle comunità di Vila’ del 1848 risulta che a
Villadossola vivevano e lavoravano due tintori e tredici tessitori. (…) Le operose donne antronesi nei ritagli di tempo che concedeva la dura vita agreste, oltre a confezionare
gli indumenti necessari alla famiglia riuscivano a lume di
candela a ricamare a puncetto, a punto croce ed a tessere le
loro preziose coperte”.4 Le donne si dedicavano alla filatura in periodo invernale. La canapa era coltivata in abbondanza e il filato che le donne ne ricavavano, avvolto
in matasse e lavato con bollitura in acqua e cenere, veniva sciacquato al lavatoio e poi avvolto in gomitoli.
“L’ “urdi” montato su telaio poteva essere di cotone o canapa; veniva unto con la bozzima, impasto di farina di castagne e fagioli cotti nel grasso, operazione necessaria affinchè il filo non si sfacesse. Una specie di appretto era fatto
anche con cruschello di grano bollito in acqua. Terminata
la tela veniva messa al sole per imbiancare. Se l’ordito era
di cotone la tela era chiamata da “fign” (fine); se era di ca-
napa la tela da “gross”, più rustica, veniva usata per pagliericci”.5 Secondo alcuni dati, forse non del tutto completi considerata l’esistenza di numerosi telai di casa,
nel 1889 erano in funzione in Ossola circa 180 telai
(solo Baceno e Premia ne contavano 80) più 31 nell’Ossola Inferiore. Tutto sommato la lavorazione della lana,
del cotone, del lino e della canapa era di tipo casalingo
e serviva più all’autoconsumo che alla vendita. Occorre
attendere il 1900 per assistere alla nascita di uno stabilimento industriale nel settore tessile. La Società Anonima Jutificio Ossolano nacque a Villadossola nel luglio
del 1900 e arrivò presto ad occupare 350 addetti, per la
maggior parte manodopera femminile.
E a proposito del ricamo, in tutte le vallate del Rosa le
montanare usavano dedicarsi alla creazione di un particolare e laborioso merletto, il puncetto, realizzato con
punti a nodi. Accanto ai più conosciuti merletti valsesiani, scopriamo che anche la valle Antrona si dedicava alla fine trina ad ago, in particolare le donne di Antronapiana che lo applicavano su tovaglie, lenzuola e
sulle camicie sia maschili che femminili. Ad Antrona
l’arte del puncetto, chiamato anche punto alpino, ebbe
grande fioritura all’inizio del ‘900 quando la moglie di
Carlo Nigra, architetto e storico dell’arte di Miasino, vi
fondò una scuola di ricamo.
Un’altra scuola, quella di fabbricazione dei merletti istituita nel 1870 a Bognancodentro da Gian Giacomo
Galletti, ebbe minore fortuna: non ebbe seguito e morì
sul nascere tra l’indifferenza delle ragazze della valle alle
quali era dedicata.
Dopo la metà del Settecento molto diffuso nella Bassa
Ossola era anche l’allevamento dei bachi da seta, che
ebbe il suo apice verso il 1820. Nel 1768 esisteva a Piedimulera una fabbrica per la filatura dei bozzoli di proprietà di un certo Francesco Antonio Falcini, ma già nel
1811 le fabbriche erano diventate quattro, una a Vogogna e tre a Mergozzo. Intanto anche l’Alta Ossola sviluppò la coltivazione dei gelsi e si dedicarono a tale attività le genti di Varzo e Crodo: la bachicoltura diventò quindi un settore redditizio e promettente, considerata anche l’alta qualità del prodotto fornito. La filanda
costruita a Vogogna da Francesco De Regibus contava,
nel 1854, dodici fornelli e una cinquantina di persone
impiegate; a Domodossola, invece, tra il 1865 e il 1871
esercitò la filanda di Francesco Maffioli e figlio che, nel
1883, impiegava 16 operai e produceva 4 quintali di filato. Per avere un’idea di questa pratica, che da artigianale divenne quasi industriale, basti pensare che nel periodo migliore un normale raccolto di bozzoli nell’alta
Ossola si aggirava intorno ai 4000 kg., mentre nell’Ossola Inferiore superava i 15.000 kg. Era stata anche selezionata una razza speciale di bachi, detta appunto ‘ossolana’, pregevole per la finezza della seta che se ne ricavava. Verso la fine dell’Ottocento scomparvero del tutto le filande e gli allevamenti dei bachi continuarono,
in misura notevolmente ridotta, fino al 1920, per poi
scomparire del tutto.
La lavorazione del peltro portò numerosi ossolani a cercare fortuna all’estero, girando per l’Europa con ogni
genere di mercanzia. Le prime testimonianze di questa emigrazione massiccia risalgono al 16° secolo e, destinazione degli artigiani venditori ossolani, era soprattutto l’area tedesca e francese, in cui la cultura del peltro si era guadagnata notevole spazio tra i costosi oggetti in argento e quelli in legno, di maggiore deperibilità. Nel XVIII e XIX sec. alcuni emigrati ossolani erano
diventati veri produttori, che davano garanzia di qualità imprimendo sugli oggetti un proprio marchio personalizzato. Tra le famiglie più antiche si ricordano i Trivelli, i Sartoris, i Molo e Plino di Varzo, e poi ancora le
famiglie Alasia, Beltrami, Bozzo-Bey, Dell’Ava, Dresco,
Giovanna, Nante, Prini, Pellanda, Della Bianca e Ferra-
Ceramista al lavoro.
307
L’arte dello sbalzo.
ris; tutti apponevano un proprio sigillo sugli oggetti per
certificare l’alta qualità della lega. I prodotti andavano
dagli oggetti sacri (calici, candelabri, reliquiari), a quelli di uso quotidiano (lampade, scatole, calamai, posate
e boccali). “Dai primi anni dell’800 prodotti in terraglia
o porcellana soppiantarono gli oggetti in peltro che, verso
la fine dell’800, scomparvero quasi del tutto dall’uso quotidiano dopo secoli di splendore”.6
Altro mestiere affascinante che coniuga arte e abilità
manuale si sostituì quindi all’abile tecnica dei peltrai.
L’antica arte delle ceramiche in Ossola risale agli inizi dell’Ottocento, ma ancora oggi, a distanza di due secoli, troviamo artigiani che ricalcano gli antichi modelli di buona fattura, creando articoli unici e ben diversi dalle produzioni su vasta scala che ingombrano le nostre case. Sono manufatti con fondo bianco e decorazioni azzurre e marroni, con un tratto apparentemente
semplice e originale, che rende le ceramiche ossolane riconoscibili anche dai meno esperti: una testimonianza
della tradizione artigianale esportabile anche fuori dai
confini, grazie anche al lavoro di recupero di alcuni arti308
giani. Così le ceramiche dal sapore antico hanno ripreso vita, ripulite dalla polvere del ricordo, sotto la quale
sono rimaste sepolte a lungo. E grazie all’agile lavoro di
mani esperte che lavorano l’argilla, è possibile guardarsi indietro, verso un angolo di mondo dell’Ossola ottocentesca: il paese di Premia. Da questo piccolo comune
della Valle Antigorio, nel lontano 1808, il parroco don
Giovanni Bartolomeo Toietti fondò la prima fabbrica, che continuò la sua produzione con grande fortuna
fino al 1862. Nel 1819 l’attività fu rilevata dall’esperto vasaro comasco Domenico Baronio, che diede vita
ad un’intensa produzione di acquasantiere, calamai, alzate, brocche e vasi ornamentali fino al 1862, data della chiusura dell’attività. In cinquant’anni, la maiolica
lasciò comunque un segno tangibile nella storia di Premia. Alla qualità del prodotto si affiancava una gran varietà di articoli che andavano a sostituire i peltri e i manufatti in legno utilizzati nelle case ossolane. Piatti, ciotole, marmitte, insalatiere, zuppiere, ma soprattutto le
classiche boccaline di ogni misura erano oggetti nuovi che segnavano l’inesorabile declino delle vecchie stoviglie. Il materiale base per la loro produzione, l’argilla, veniva estratto lungo il torrente Alfenza, nei pressi di
Viceno e poi trasportato a dorso di mulo fino alla fornace. Dosando il materiale con una percentuale di caolino, don Toietti riuscì ad ottenere una base ottimale.
Ma ciò che maggiormente attrae in queste ceramiche
sono le decorazioni, fatte di abbondanti fioriture con
ornati del colore del cielo e della terra: principalmente
di colore blu e marrone, ma anche ocra o rosso vinaccia. Sono tinte calde, parole per un linguaggio artistico senz’altro non estremamente raffinato o accademico,
ma semplice e di buon gusto.
Il lucido rame, accanto alle pezze di tela di casa, era
considerato non soltanto oggetto utile per la cucina domestica, ma anche utensile da mettere in mostra. Il Bazzetta ricorda le botteghe artigiane della Domodossola di
fine Ottocento in cui si potevano ammirare “le lucenti
padelle, i parjoeu rutilanti, i bronz orgoglio delle famiglie
antiche; in un angolo era la tipica fucina del ramaio, col
largo camino a cappa, dove salivano le scintille” 7.
Nel 1882 Domodossola contava ben 26 fabbri ferrai e
5 maniscalchi. Nelle botteghe dei fabbri non mancava
l’olio di scorpione, utilizzato contro le scottature, e nel-
la boccetta di unguento naturalmente faceva mostra di
sé il temibile insetto. Il ferro battuto per la creazione
di oggetti decorativi compare nel XIX secolo, affiancandosi, e poi sostituendo, la vecchia produzione di ferri di
cavallo, chiavistelli e serrature. E’ di epoca più recente
l’arte del metallo sbalzato, avviata nel secondo decennio del ‘900 da un fabbro vigezzino, Remigio Covetta.
Partendo da una lastra di metallo - di rame, ottone o alpacca – l’artigiano creava oggetti diversi, in particolare
piatti e vassoi. La decorazione, che consisteva nella sola
martellatura, era impreziosita da disegni che si rifacevano ad antichi oggetti rustici della valle8.
La lavorazione del vetro raggiunse notevole sviluppo:
agli inizi dell’Ottocento fu infatti aperta a Crevoladossola la fabbrica dei soci Minetti e Morgantini che, ben
presto, divenne una delle più rilevanti del Regno Sabaudo, esportando prodotti anche nella zona di Modena, Parma e nella Svizzera italiana. Nel 1856 la vetreria
occupava 160 operai, per la maggior parte manodopera tedesca.
Sulle piccole attività di lavorazione di candele sappiamo che nel 1840 ne esistevano quattro a Domodossola e due a Pallanzeno. Nel corso dell’esposizione internazionale di Milano del 1881, la ditta Luigi Maffioli
di Domo, produttrice di candele di cera e di sego, cera
vergine e sego in pani, fu premiata con medaglia d’argento.
Notevole rilevanza nei secoli ebbe la concia delle pelli,
testimoniata dalla via tuttora esistente nel centro storico di Domodossola, la via delle Concerie dove, nei primi Novecento, esisteva una fiorente attività di Francesco Maffioli e figlio. Necessitando di molta acqua, le
concerie erano collocate in prossimità della Roggia dei
Borghesi: nel 1813 se ne contavano 12 nel solo territorio domese e nel 1889 le quattro esistenti occupavano una cinquantina di operai e producevano prevalentemente suole e tomaie. A fine Ottocento esisteva a Piedimulera la conceria di Ferdinando Pirazzi Maffiola che
impiegava 18 operai.
Antiche stampe e ritratti documentano l’esistenza di
monili forgiati di metallo nobile già in epoche antiche;
gioielli, orecchini e anelli finemente cesellati, sottolineavano l’eleganza semplice delle donne ossolane. “Notizie storiche non scritte ma tramandate a voce testimonia-
no di una fabbrica di oreficeria sita in Masera, fondata e
diretta dai fratelli Nicolaj, che impiegò una cinquantina
di operai; uno di questi, certo Renzo Azzali, ancora intorno agli anni ’30 esercitava la professione in una casa a Vagna: nel suo laboratorio la saldatura in oro era ancora eseguita soffiando con la bocca in un tubetto di ottone fatto a
tromba, utilizzando una lampada a petrolio il cui stoppino emanava una fiamma giallognola e fumo nero”.9 Oggi,
seguendo antichi modelli, sono nati nuovi gioielli