[nazionale - 3] tuttoscienze/03 23/11/05
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[nazionale - 3] tuttoscienze/03 23/11/05
Scienze Della Vita LA STAMPA MERCOLEDÌ 23 NOVEMBRE 2005 ETOLOGIA UNA STORIA CHE RIVELA LA PLASTICITA’ DEI COMPORTAMENTI Temperatura Cambierà la definizione Il minuscolo uistitì che si crede un cebo Andrea Merlone (*) L’ LA MINI-SCIMMIA BRASILIANA CHE HA LE DIMENSIONI DI UNO SCOIATTOLO E’ STATA ADOTTATA DAI PRIMATI BEN PIU’ GRANDI DI LEI: CASO ECCEZIONALE Elisabetta Visalberghi (*) P IAUI, Brasile. Siamo in una riserva naturale gestita dalla Fondazione BioBrasil. Sul Morro das Lettras avvistiamo il gruppo di Chicao. Un rumore sordo di colpi attrae la nostra attenzione: i cebi (Cebus libidinosus) sono lì, intenti a rompere noci di cocco della grandezza di una pallina da golf su un'incudine di arenaria. La zona è piena di catulè e piaçava, palme nane che fruttificano a terra. In questa stagione ben poche hanno ancora frutti, la gran parte si sta preparando a fiorire. Ma i cocchi sono buonissimi e molto nutrienti. Chicao, il maschio dominante del gruppo, rompe parecchi catulè e, come sempre accade, qualche pezzettino di polpa rimane sull'incudine. Ad approfittarne non sono soltanto i giovani cebi … ma anche Fortunata. Questo è il nome che unanimemente gli abbiamo dato: è un piccolo di uistitì (Callithrix jacchus, una scimmia delle dimensioni di uno scoiattolo, un maschio adulto pesa appena 250-300 grammi) che da ormai parecchi mesi vive come se fosse un cebo. Ma raccontiamo la storia dall'inizio. Quando nel marzo del 2004 Fortunata fu visto per la prima volta si pensò che fosse un "cebo". Era arrivato attaccato al pelo di Chiquinha, una femmina adulta già mamma in precedenza, nella tipica posizione in cui i cebi trasportano i neonati, di traverso sulle spalle a mo’ di sciarpa. Solo dopo un po’ di giorni, vedendolo più da vicino, ci si è accorti che quel piccolo con strisce sulla schiena era strano! Somigliava ad altre scimmie che vivono in questa regione, gli uistitì. Tutto fa pensare a un caso di adozione fra specie diverse, fenomeno non osservato in natura. L’adozione è stata addirittura duplice: Chiquinha ha curato, trasportato e allattato il piccolo per un po’ di mesi, poi non si sa bene perché un certo giorno Dendè di Coco, la femmina più vecchia del gruppo lo ha preso sotto la sua protezione. Ora, infatti, Fortunata cammina un po’ da solo e un po’ in groppa a Dendè di Coco. Mentre lo osserviamo procedere su una roccia di arenaria a picco sulla valle con pochissima vegetazione su cui muoversi, ci rendiamo conto di quanto debba essere difficile per Fortunata essere cebo, seguire abitudini e comportamenti che non sono suoi. Mentre gli uistitì sono prettamente arboricoli e lì trovano insetti, frutti e essudati (gomma) di cui nutrirsi, i cebi sono più adattabili. Qui a Boa Vista (Piauì, Brasile) in un habitat arido e montagnoso sono spesso a terra in cerca di cibo o perché non c'è altro modo per arrivare da un posto all'altro. Talvolta Fortunata, quando non sa pro- prio come cavarsela, vocalizza ripetutamente e ciò fa sì che Dendè di Coco torni sui suoi passi per recuperarlo. Saldamente attaccato al suo pelo, può così seguire il gruppo. Ma, per la sua età, Fortunata è nella classica fase di ricerca di indipendenza che caratterizza l'adolescenza e la maturità, è ben più maturo di quanto lo siano le sue capacità di locomozione. Perciò appena può si sgancia da Dendè di Coco. Ma basta un altro passaggio difficile o che i compagni accelerino l'andatura, per rimetterlo in crisi. Anche quando gioca con i suoi coetanei si capisce quanto sia difficile trovare una giusta misura: che si tratti di gioco non c'è dubbio, ma una zampata che per un cebo è normale può diventare davvero troppo per il piccolo uistitì. Forse è per questo che i cebi sembrano preferire giocare fra loro che con Fortunata. Che cosa c'è di straordinario in questa storia? Ancora una volta la plasticità comportamentale di questa specie di scimmie del Sud America risulta sorprendente. Sappiamo infatti che in genere quando i cebi incontrano gli uistitì li trattano con indifferenza o come possibili prede (con cui fare un lauto MEDICINA pasto). Un collega che da anni studia una rarissima scimmia, il leontocebo dorato (Leonthopithecus rosalia), racconta con raccapriccio il momento in cui un giovane che lui osservava da mesi è finito nelle grinfie di un cebo che se lo è pappato con grande piacere. Ma che cosa ha fatto sì che Fortunata fosse adottato? Sebbene non sia possibile determinare cosa abbia inclinato l'ago della bilancia in questa direzione, è ipotizzabile che Fortunata possedesse nel momento in cui è stato trovato da Chiquinha le caratteristiche infantili che nei mammiferi promuovono il processo di adozione intraspecifico e che questa femmina fosse pronta per recepirle. Magari lei aveva da poco perduto un figlio, aveva ancora latte ed era fortemente interessata a "piccoli". Queste sono le condizioni in cui nei laboratori o negli zoo l'adozione ha notevoli probabilità di successo. Al momento tutto bene, ma cosa capiterà a Fortunata nei prossimi anni? E' possibile che anche se è adulto le sue piccole dimensioni (che corrispondono a quelle di un cebo di 2-3 mesi) continuino a far pensare a Dendè di Coco che lei se ne deve occupare e che deve prenderlo Un esemplare di uistitì, una scimmia brasiliana così piccola da stare nel palmo di una mano in groppa nei momenti difficili. Ma è anche possibile che quando lei partorirà un nuovo piccolo questo non sia più possibile. Ciò che fa sperare in un lieto fine è che ci sono talvolta altri volontari. Pochi giorni fa abbiamo visto Teninho, un giovane di circa tre anni di età, trasportare Fortunata; oggi Secondo Chefe, un maschio grande e grosso, attualmente secondo in gerarchia, se lo è tenuto in braccio per un po’. Quando poi il gruppo si è arrampicato sul ripido pendio della falesia, a poco a poco anche Fortunata usando le sue unghie aguzze e tutte le sue forze è riuscito a farcela. Credo che sia il primo uistitì scalatore della storia. Speriamo continui così. (*) Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, CNR, Roma INCONTRO TRA SPECIALISTI A TORINO Duecento sintomi per una sola malattia genetica MOLTO VARIA PER MANIFESTAZIONI E GRAVITA’, LA SINDROME NOTA COME «DEL 22Q11» COLPISCE UN NEONATO SU QUATTROMILA Lara Reale Q UALE futuro attende il nostro bambino? Perché è nato con una malformazione congenita? Potrebbe capitare una seconda volta? Sono le domande che angosciano i genitori quando si trovano tra le braccia un neonato con la sindrome "Del 22q11", una complessa patologia di origine genetica descritta per la prima volta quarant’anni fa dal pediatra statunitense Angelo Di George e tema della giornata di studio "Dalla sindrome di Di George alla Del 22q11", organizzata sabato scorso a Torino alla Fondazione per le Biotecnologie di Villa Gualino con il coordinamento di Margherita Silengo e Giovanni Battista Ferrero del dipartimento di Pediatria dell’Università di Torino. La Del 22q11 si manifesta per lo più con gravi malformazioni cardiache, irregolarità del viso (palpebre strette, naso prominente, bocca "a carpa", orecchie piccole e accartocciate), scarsa funzionalità di ghiandole endocrine come le paratiroidi (con conseguente alterazione del metabolismo calcio-fosforico) e il timo (con deficit del sistema immunitario), più varie anomalie del palato. In realtà il quadro clinico della sindrome è molto variabile: sono noti 200 differenti sintomi più o meno gravi. Nella quasi totalità dei casi si riscontrano difficoltà di apprendimento, ma il quoziente d'intelligenza è nella norma (il ritardo mentale grave è molto raro). Negli Anni 60 la patologia era indicata semplicemente come "sindrome di Di George". Con il tempo, tuttavia, si osservò che il gruppo delle anomalie cardiache tipiche della Di George era spesso riscontrabile in altre due malattie: la sindrome velo-cardio-facciale (descritta per la prima volta da Bob Shprintzen negli Anni 70 e la "conotruncal anomaly face syndrome" (identificata in Giappone più o meno nello stesso periodo). Negli Anni 90 la biologia molecolare ha portato a individuare alla base delle tre malattie lo stesso difetto genetico: la mancanza di un piccolo frammento del cromosoma 22. Di qui l'accorpamento sotto l'unica sigla "Del 22q11", dove q11 indica che il deficit genetico è localizzato sul "braccio lungo" del cromosoma 22. La Del 22q11 colpisce un nuo- ALL’ORIGINE C’E’ LA MANCANZA DI UN PEZZETTO DEL CROMOSOMA 22 CHE SPESSO CAUSA DANNI CARDIACI. ANCORA DIFFICILI LE CURE E LA PREVENZIONE vo nato ogni 4.000, dunque rientra per definizione tra le malattie rare, ma è la sindrome da microdelezione (micro-distruzione) più frequente nell’uomo. In nove casi su dieci l'alterazione genetica si manifesta “de novo” (solo il 10-20% dei pazienti la eredita da uno dei genitori). "Non abbiamo idea di cosa scateni questa "perdita" di materiale genetico", ammette Cristina Digilio dell'ospedale Bambino Gesù di Roma, tra i massimi esperti europei della malattia. "Sappiamo solo che il no- stro DNA ha alcune zone più fragili dove è più facile che, durante la meiosi, avvengano errori di replicazione. E il braccio lungo del cromosoma 22 è una di queste zone". Altrettanto oscuro il rapporto tra l'ampiezza della delezione (quantità di geni mancanti) e i sintomi della malattia: "Genitore e figlio possono avere un identico danno genetico, ma manifestarlo in modo del tutto diverso. Di recente addirittura si sono osservati pazienti con i sintomi tipici della Del 22q11 che non hanno una delezione del cromosoma 22 ma solo forme alterate del gene TBX1 situato in q11". Tra le novità della ricerca c'è la scoperta di un'alterazione ematologica specifica della sindrome: la "macrotrombocitopenia", un difetto della membrana cellulare che abbassa l'efficienza delle piastrine nel sangue. "La conseguenza", spiega l'ematologa torinese Paola Saracco, "è che alcuni pazienti affetti da Del 22q11 possono avere un maggiore rischio emorragico e quindi occorre fare molta attenzione quando si prescrivono farmaci antiaggreganti e in caso di interventi chirurgici. La prevenzione è difficile dal momento che, come s'è visto, le delezioni del cromosoma 22 sono per lo più eventi casuali non ereditari. L'indagine prenatale su campioni di liquido amniotico o villi coriali è chiaramente consigliabile in caso di gravidanze a rischio per genitore con Del 22q11. L'esame può essere indicato anche nei casi in cui l'ecografia sulla gestante evidenzi la presenza di malformazioni cardiache compatibili con la sindrome. Resta il fatto che alterazioni più lievi, caratteristiche delle forme attenuate di Del 22q11, possono sfuggire anche al controllo ecografico più accurato. Lo scorso autunno l'Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (Aieop), in collaborazione con Aidel 22 (la onlus che raggruppa i malati e i loro familiari), ha messo a punto un protocollo diagnostico-terapeutico che descrive in modo sistematico le caratteristiche della patologia e propone schemi di intervento differenti a seconda che il danno principale sia a carico del sistema immunitario o si concentri a livello cardiaco, neurologico, psichico, endocrino, gastrointestinale otorinolaringoiatrico. ARCHEOLOGIA E HI-TECH: SE NE E’ PARLATO IERI A ROMA Dal petrolio al restauro del Duomo di Milano TECNOLOGIE USATE DALL’INDUSTRIA DEL GREGGIO VENGONO MESSE ORA AL SERVIZIO DI ARTE E ARCHEOLOGIA Luciano Simonelli C HI avrebbe mai detto che l’industria petrolifera un giorno avrebbe potuto dare un contributo importante per il restauro del patrimonio artistico aggredito proprio da quell’inquinamento di cui le emissioni prodotte dal consumo degli idrocarburi sono una delle cause? Eppure è ciò che sta accadendo da quando Francesco Zofrea, presidente di EniTecnologie, si è reso conto che tanto del sapere, delle tecniche e delle tecnologie messe a punto sul piano industriale poteva essere utilizzato anche più eticamente. Tecnologie come il georadar, la fotogrammetria, la termografia IR, la spettrometria XRF, il laser scanning, oltre alle analisi di laboratorio con microscopi ottico, microscopi a infrarossi, microscopi elettronici a scansione (Sem) e molto altro potevano far di- ventare ancora più accurati ed efficaci gli interventi di restauro in storici complessi architettonici. Dopo un primo esperimento condotto con successo sulla facciata della Basilica di San Pietro, ora tocca alla facciata del Duomo di Milano. E se nel primo caso l’operazione fu sponsorizzata dall'Eni in occasione del Giubileo, il nuovo intervento è stato commissionato dalla Veneranda Fabbrica del Duomo che da secoli sovrintende alle periodiche operazioni di restauro della cattedrale. E’ una cattedrale molto particolare, quella di Milano, perché statue, fregi, facciata, tutto è ricoperto e scolpito in marmo di Candoglia. «Una pietra meravigliosa - dice Benigno Merlin Visconti Castiglione, responsabile del restauro - che però è anche un carbonato di calcio molto sensibile all'inquinamento e all'escursione termica, che sulla facciata del Duomo va dai +60 ˚Cestivi ai -10 invernali». La fragilità del marmo rende dunque necessario procedere, almeno ogni trenta anni, ad accurate operazioni di controllo e restauro. E queste in corso, che si concluderanno nel 2007, curate da EniTecnologie, costituiscono una svolta. Per la prima volta, il gruppo di ricercatori guidato da Giuseppe Giunta ha stilato una sorta di cartella clinica della facciata del Duomo di Milano che può essere aggiornata giorno dopo giorno, con l'indicazione dei "mali", gli "interventi chirurgici" da fare e le terapie per guarirli. Un database di informazioni che d'ora in poi agevoleranno ogni successivo intervento. E’ sorprendente vedere la riproduzione tridimensionale della facciata del Duomo ottenuta con la fotogrammetria digitale e il laser scanning: si osserva ogni particolare con la precisione del millimetro. E questo 3 METROLOGIA tSt tuttoScienzetecnologia check up estetico si coniuga con altre preziose analisi. Come quella con il Georadar che, basandosi sui fenomeni di propagazione e di riflessione di onde elettromagnetiche, permette di "vedere" lo stato di conservazione di strutture interne, svelando lesioni, fratture, distacchi, cavità nascoste e umidità. Vi è poi la termografia per "fotografare", secondo il principio che materiali diversi emettono radiazioni infrarosse in maniera diversa, lo stato di conservazione superficiale di un manufatto: lesioni, presenza di stuccature. La spettrometria XRF rivela la composizione del materiale e dei prodotti di degrado: i vari elementi chimici rispondono in modo diverso se colpiti dai raggi X, e così possono così essere facilmente individuati. Tutti i risultati confluiscono in un unico modello, una sorta di TAC della facciata del Duomo che dà una quadro estremamen- Una statua del Duomo di Milano sottoposta a spettrometria XRF te particolareggiato dello stato delle cose e fornisce tutte le indicazioni essenziali per procedere a interventi conservativi o, se è proprio necessario, sostitutivi. Queste tecniche sono molto promettenti anche in archeologia: lo ha documentato ieri il convegno "Tecnologie di deriva- zione energetica per i beni culturali e archeologici" organizzato a Roma da EniTecnologie con l'Università La Sapienza e l'Accademia dei Lincei. Anche in questo caso, un percorso inatteso: dalla ricerca del petrolio alla scoperta e conservazione dell’arte e dell’architettura degli antichi. UNITA’ di misura per la temperatura, il kelvin, è sotto i riflettori della comunità scientifica: una nuova definizione è allo studio per collegare questa quantità alla costante di Boltzmann k. Ultima tra le grandezze della fisica classica a essere descritta mediante un campione e una scala, la temperatura ha dovuto attendere fino al 1954 prima di giungere all'attuale definizione. Il kelvin diviene così a tutti gli effetti l'unità di misura della temperatura termodinamica con la terza risoluzione della decima Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure (CGPM) che sancisce che "l'unità di misura per la temperatura termodinamica deve essere definita mediante un intervallo tra lo zero assoluto e un punto fisso". Il punto fisso scelto è il punto triplo dell'acqua, ottenuto mediante una cella di vetro riempita di acqua purissima, in cui si realizza la coesistenza di vapore d'acqua, acqua liquida e ghiaccio, in equilibrio termodinamico a 0,01 ˚C.Dagli esperimenti sulla termometria a gas della prima metà del XX secolo, si giunse a valutare la temperatura dello zero assoluto in -273,15 ˚C.L'attuale definizione dell'unità di temperatura è quindi: "il kelvin è pari alla frazione 1/273,16 della temperatura termodinamica del punto triplo dell' acqua". Sulle ricerche mirate a una nuova definizione del kelvin si discuterà presso l'Istituto di Metrologia "Gustavo Colonnetti", dell'area di ricerca del CNR di Torino in occasione di un convegno in memoria di Luigi Crovini, che si terrà il 28 novembre. La ricerca italiana nella metrologia della temperatura, fortemente segnata dalle attività di Crovini, ha reso rilevante il contributo dei laboratori “Colonnetti” per gli studi e le definizioni di questa grandezza. Recenti lavori hanno dimostrato che la diversa composizione isotopica dell'acqua, in termini di presenza relativa di deuterio o isotopi dell'ossigeno, influisce sulla temperatura del suo punto triplo, evidenziando i limiti dell’attuale definizione del kelvin. Una collaborazione tra la sezione Termometria del “Colonnetti” e il settore di Acusti- SE NE PARLA IL 28 NOVEMBRE A TORINO. MEETING IN RICORDO DI LUIGI CROVINI ca dell'Istituto "Galileo Ferraris" ha valutato - con misure di velocità del suono - la differenza tra l'attuale ITS 90 e il valore effettivo della temperatura termodinamica. Dai risultati raccolti dai diversi laboratori e Istituti Metrologici mondiali è nata la raccomandazione del Comitato Internazionale dei Pesi e delle Misure che, richiede che si giunga a una nuova proposta per la definizione dell'unità di temperatura in modo che la futura Conferenza generale, che si terrà nel 2011, possa pubblicare il nuovo Sistema Internazionale di Unità (SI) aggiornato anche per quanto riguarda questa grandezza. La via più promettente verso la nuova definizione del kelvin è la misura della costante di Boltzmann k, che pone in relazione la temperatura con l'energia meccanica di una particella. La CIPM raccomanda inoltre che gli stati membri della Convenzione del Metro assicurino il proseguimento e il rafforzamento delle ricerche in atto sulla misura di k. Al convegno del 28 novembre saranno presentati gli esperimenti dei gruppi italiani finalizzati alla misura di questa costante fondamentale, attualmente tra i più promettenti al mondo per le piccole incertezze di misura. Volendo azzardare una possibile futura definizione del kelvin si potrebbe dire:"il kelvin è l’unità di temperatura termodinamica tale per cui il valore della costante di Boltzmann vale esattamente 1,3806506 per 10 elevato alla -23 joule per kelvin". Come per la lunghezza, la massa, la mole e la corrente elettrica, la misura delle costanti fondamentali diviene il punto chiave di collegamento tra fisica e metrologia, rendendo davvero «universale» il Sistaema Internazionale delle misure. (*) Istituto di Metrologia “Colonnetti”, CNR, Torino