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ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line ANNO XII/XIII (2009-2010), N. 12 (1) SEMESTRALE DI SCIENZE UMANE ISSN 2038-3215 Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Beni Culturali, Storico-Archeologici, Socio-Antropologici e Geografici Sezione Antropologica Direttore responsabile GABRIELLA D’AGOSTINO Comitato di redazione SERGIO BONANZINGA, IGNAZIO E. BUTTITTA, GABRIELLA D’AGOSTINO, VINCENZO MATERA, MATTEO MESCHIARI (website) Segreteria di redazione ALESSANDRO MANCUSO, ROSARIO PERRICONE (website, paging), DAVIDE PORPORATO (paging) Comitato scientifico MARLÈNE ALBERT-LLORCA Département de sociologie-ethnologie, Université de Toulouse 2-Le Mirail, France ANTONIO ARIÑO VILLARROYA Department of Sociology and Social Anthropology, University of Valencia, Spain ANTONINO BUTTITTA Università degli Studi di Palermo, Italy IAIN CHAMBERS Dipartimento di Studi Americani, Culturali e Linguistici, Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», Italy ALBERTO M. CIRESE Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Italy JEFFREY E. COLE Department of Anthropology, Connecticut College, USA JOÃO DE PINA-CABRAL Institute of Social Sciences, University of Lisbon, Portugal ALESSANDRO DURANTI UCLA, Los Angeles, USA KEVIN DWYER Columbia University, New York, USA DAVID D. GILMORE Department of Anthropology, Stony Brook University, NY, USA JOSÉ ANTONIO GONZÁLEZ ALCANTUD University of Granada, Spain ULF HANNERZ Department of Social Anthropology, Stockholm University, Sweden MOHAMED KERROU Département des Sciences Politiques, Université de Tunis El Manar, Tunisia MONDHER KILANI Laboratoire d’Anthropologie Culturelle et Sociale, Université de Lausanne, Suisse PETER LOIZOS London School of Economics & Political Science, UK ABDERRAHMANE MOUSSAOUI Université de Provence, IDEMEC-CNRS, France HASSAN RACHIK University of Hassan II, Casablanca, Morocco JANE SCHNEIDER Ph. D. Program in Anthropology, Graduate Center, City University of New York, USA PETER SCHNEIDER Department of Sociology and Anthropology, Fordham University, USA PAUL STOLLER West Chester University, USA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO Dipartimento di Beni Culturali Storico-Archeologici, Socio-Antropologici e Geografici Sezione Antropologica Indice Ragionare 5 Antonino Buttitta, Cavalieri dell’aldilà o della solitudine dell’eroe 11 Piercarlo Grimaldi, “Insieme dissimili e simili”. Un percorso evolutivo popolare 23 Rosario Perricone, La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’ 37 Marco Assennato, Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica e pedagogia Ricercare 51 David Gilmore, Sexual Segregation in Andalusia. Then and Now 63 Ferdinando Fava, Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione dello ZEN 71 Giulia Viani, Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo 83 Matilde Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo 97 Sebastiano Mannia, In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia e prospettive future 109 Abstracts Ragionare Antonino Buttitta Cavalieri dell’aldilà o della solitudine dell’eroe* Chi è costui che sanza morte / va per lo regno de la morta gente? (Dante, Inferno, VII, 84-85). ... è duro convincerli gli umani, / che non ci sono due eternità contrarie, / il tutto è compreso in una sola e tu sei in ogni parte / anche dove pare che tu manchi. (Mario Luzi, La Passione). Sappiamo dei rituali necessari all’assunzione della qualità di cavaliere. In quanto titolo non solo formale, esso si conseguiva non semplicemente attraverso l’investitura da parte di chi rappresentava in massimo grado l’ordine, in genere un nobile o addirittura un re. Occorreva che il destinatario avesse, mediante particolari atti, manifestato il possesso delle virtù necessarie al conseguimento del titolo: forza d’animo, coraggio, spirito di sacrificio, generosità, rispetto della parola, fedeltà agli ideali dell’ordine e a coloro che ne erano al vertice. Tutte qualità inscritte in un orizzonte ideologico, articolato dalle opposizioni: alienazione vs integrazione, ignoto vs noto, aldilà vs aldiquà, caos vs cosmos, morte vs vita. Una assiologia in sostanza presente nei riti delle culture cosiddette primitive e in quelli, non sostanzialmente diversi, delle civiltà antiche, finalizzati a formalizzare il passaggio da uno status generazionale, civile, professionale, morale, a una superiore condizione. I misteri del mondo antico di tutto questo rappresentavano l’aspetto più significativo, simulando per la loro rigenerazione la stessa morte e rinascita dei partecipanti1. Se non lo era nei comportamenti concreti, il cavaliere, lo era comunque nell’immaginario sociale e nella letteratura epica dove le sue qualità eroiche erano evidenziate attraverso comportamenti che sconfinavano sempre nel mito. Né poteva essere altrimenti in considerazione anche del fatto che le operazioni rituali cui il cavaliere, non diversamente dal mi- sto, si sottoponeva erano sempre miticamente referenziate. I riti, infatti, come abbiamo appreso da Eliade, sono sempre forme operate di miti (Eliade 1976a, 1976b). Nel nostro caso il mito canonico che ispirava le imprese del cavaliere doveva necessariamente avere come protagonista un personaggio la cui vicenda sussumeva e risolveva le contraddizioni irresolubili della prassi (cfr. Lévi-Strauss 1966). Di fatto era la figura del dio salvatore, con le sue versioni storiche: eroe, capo carismatico, messia, santo, nelle quali convergevano e si sublimavano disagi e bisogni, contrarietà e ostacoli avvertiti come insuperabili. Era in essi che venivano a intersecarsi, riconoscersi e dipanarsi gli snodi anulari attraverso cui individui e società ritrovavano, e ancora ritrovano, la agognata speranza, del loro perdurare e crescere nella storia. «Gli uomini – ha scritto Nencioni seguendo Carlyle che agli eroi credeva come soggetti storici reali e non come figure ideologiche, ma non per questo meno reali – possono dividersi in tre grandi classi: quelli che sottomettono ciò che portano in sé a quel che trovano sulla terra, che sacrificano l’eterno al perituro, l’anima alla materia; e questi sono i geni del male; quelli (e sono i più) che schiavi delle sensuali apparenze pur serbano qualche orma fugace, qualche confuso ricordo dell’Idea Divina; pei quali la vita è come una lanterna magica di successive effimere scene, e passano i giorni fra le convenzioni, le incitazioni, le pretensioni e le ipocrisie sociali, uomini fantasma, piuttosto che divine realtà; e quelli finalmente che considerano la vita come cosa di seria, intensa, tragica importanza, come il terribile ponte del tempo sospeso fra due Eternità: che soffrono e godono nella profonda coscienza della invisibile presenza divina, e nella costante preoccupazione del Dovere e della Responsabilità: soldati della Verità e della Giustizia (Nencioni 1921: V-VI)2. 5 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Per intendere l’ordito intellettuale che sostiene affermazioni tanto impegnative, è necessario riferirsi al pensiero simbolico. Solo questa forma di pensiero, infatti, consente le arbitrarie connessioni e i salti logici, impediti al pensiero logico-razionale, che possono dare credibilità e veridicità, tanto a livello della prassi quanto a livello della rappresentazione, anche se letteraria, a personaggi reali o immaginari che operano nella storia tracimando la storia, facendosi – come con eloquente metafora è detto – «ponte del tempo sospeso fra due Eternità» (cfr. Carlyle 1921). È quanto alimenta la fede che è, secondo Paolo «fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Ebrei, 11, 1). Gli uomini e le comunità nascono, percorrono un lungo o breve cammino e poi si perdono oltre l’orizzonte della storia, permanentemente inquietati dalla inappagata ricerca di un Eden improbabile, di un luogo dove poter dare pienezza attuativa alla propria aspirazione al benessere fisico e psichico, dove dare realtà concreta al loro strutturale bisogno di completezza, di ordine, di verità, di giustizia. Chi viene scelto come affidatario di questa missione, sostanzialmente improbabile, in nessun caso può sottrarsi ai sentieri del mito, perché è dal fondo della valle estesa e misteriosa, dai suoi tortuosi percorsi che è stato, lui solo fra tutti, prescelto e chiamato. Solo il pensiero simbolico, di cui il mito è la perfetta ostensione, sa volgere l’impossibile nel possibile, l’invisibile sognato in visibile percepito: grazie al suo potere di sospendere le scansioni temporali e spaziali, di annullare le insanabili contraddizioni e insufficienze fisiche e sociali della prassi (cfr. Lévi-Strauss 1966), di convertire le ineludibili e frustranti disgiunzioni irreversibili del tempo storico lineare nelle sperate congiunzioni reversibili del tempo sacro circolare (cfr. Eliade 1999). Diversamente dal pensiero logico-razionale, che procede operando progressive discrezioni del continuum della realtà convertendolo in discreta sistematizzati e ordinati pur sempre permutabili, il pensiero simbolico si espande per connessioni analogiche associando quanto nella realtà concreta non è associabile: bene e male, passato e presente, vita e morte, riportando così il distinto del divenire all’indistinto dell’essere, l’eterogeneità definita in omogeneità indefinita (per usare espressioni di Comte) cioè il cosmos della sfera del profano nel caos proprio alla dimensione del sacro, individuando in questa dimensione utopica e illimitata l’essenza della vita e il suo perdurare. 6 Tanta complessità necessita di un chiarimento, reso possibile solo tenendo conto dei punti di vista dei soggetti interessati: da un lato coloro che si riconoscono nella figura dell’eroe, dall’altro, tutto ciò contro cui egli combatte. Rispetto a questi ultimi, in genere rappresentati dal potere costituito, l’eroe impersona il disordine; rispetto ai suoi ammiratori le cose stanno invece in modo del tutto opposto. Egli incarna l’ordine, gli altri invece il disordine. Né l’opposizione fondamentale all’interno della quale egli si muove, è un’astrazione, risultando sempre situazionalmente connotata. Anche questo la rende ambigua. Possiamo pertanto scrivere: cosmos/caos vs caos/cosmos. Dal punto di vista strettamente logico si ha una equazione apparentemente non singolare cioè A:B = B:A, il cui significato è che l’eroe e il suo eventuale nemico rappresentano lo stesso valore ma contrapposto. L’uno è l’immagine speculare dell’altro e viceversa, dunque è permutabile. Questa situazione si rende possibile in quanto riferita a due diverse dimensioni esistenziali: il quotidiano e lo straordinario, il profano e il sacro. Ecco perché l’eroe per essere tale deve possedere qualità che lo pongano fuori dalla norma pur non operando contro la norma. Non è il solo paradosso. L’eroe ha mille volti, eppure la sua vicenda è sempre la stessa (cfr. Campbell 1984). Intanto non è un soggetto statico, ma la sua qualità eroica si afferma per scansioni evenemenziali. Noi percepiamo la temporalità quando avvertiamo un prima e un poi, relazionati da un rapporto di diversità, dunque un contenuto positivo o negativo, seguito da altro contenuto contrario. È attraverso questo rapporto, permutandolo, che l’eroe si qualifica come tale. In simboli possiamo dunque scrivere: xxxxxxxxx, sicché, come espresso dal doppio orientamento del simbolo di contrarietà, è questa stessa, che avendo come funtivo logico l’eroe, ne richiede l’identità ambigua. Come per ogni altro personaggio la sua figura risulta dall’insieme di tutti i suoi tratti tanto fattuali quanto qualificativi. La letteratura ha particolarmente studiato i primi. Ha trascurato invece i secondi. Anche perché non li ha considerati funzioni ma attributi. Forse per l’ambigua connessione tra azioni e qualificazioni. Tra queste e quelle il rapporto in realtà non è lineare e in ogni caso le stesse azioni possono qualificare diversamente in dipendenza da chi le compie. Inoltre, la stessa qualificazione può risultare da azioni diverse. Da qui la difficoltà di perimetrare talvolta l’identità dei personaggi e in particolare di quelli eroici. In genere l’eroe è superdotato fisicamente e/o intellettualmente. Parrebbe questo un suo tratto caratterizzante. In realtà non risulta indispensabile. Ci sono qualità di cui invece egli non può mancare. Quando, nel passo citato all’inizio, Nencioni afferma che egli deve essere un cavaliere della verità e della giustizia, avvista di fatto due di queste qualificazioni realmente funzionali. Un eroe è tale se le possiede: senza per questo essere necessariamente virtuoso, rispetto alla griglia delle virtù proprie di ciascuna cultura. Deve essere veritiero, anche se a certe condizioni gli è concesso mentire (cfr. Nigro 1990; Buttitta 2010). Per esempio, per nascondere la propria identità, come nel caso di Ulisse. L’autenticità eroica tuttavia è un dato assoluto che non ammette occultamenti ingiustificati. Non a caso Aristotele considerava l’anagnórosis, il riconoscimento del protagonista, una funzione narrativa risolutiva della narrazione tragica. Di fatto l’eroe è la proiezione umana del modello etico ideale della società che ne riconosce l’identità eroica. Non vanno trascurati però due dati. È raro trovare figure eroiche che possiedono tutti i tratti di quel modello. Taluni di essi a volte mancano. La qualità di eroe si può acquisire pertanto attraverso il possesso anche di uno solo di questi, purché essenziale al significato ultimo della sua vicenda eroica. In ogni caso, anche se le sue azioni possono apparire talora contraddittorie, rispetto alla sua identità canonica, l’immaginario collettivo emargina i tratti sentiti come negativi enfatizzando quelli positivi. La “diversità” è comunque sicuramente un carattere che identifica l’eroe come tale. Se fosse come gli altri non sarebbe più un eroe, pur se degli altri può possedere tutte le debolezze. La sua vicenda, in sostanza, è da leggere come una successione di avvenimenti articolati dall’opposizione: indentità vs alterità. Ripercorriamola in sintesi. L’eroe nasce miracolosamente o in situazioni particolari, mostrando quindi fin dall’inizio di possedere qualità speciali. Viene perseguitato o disconosciuto. Consegue un primo successo affermando la sua qualità eroica. Viene sconfitto, preso prigioniero, resta gravemente ferito, addirittura, sia pure apparentemente, muore, discende agli inferi e ritorna. In questo modo consegue una vittoria assoluta sul male, sconfiggendo la morte stessa. Alcuni di questi eventi si dispongono sul piano dell’alterità (alienazione) rispetto alla norma del vissuto, altri su quello dell’identità (integrazione). Questa ne è la rappresentazione grafica: Le denominazioni dei due piani possono essere lette diversamente nel senso che a seconda del punto di vista le opposizioni: identità vs alterità, e equilibrio vs rottura dell’equilibrio possono essere capovolte (cfr. Greimas 1966). È questa oscillazione tra piani e relative funzioni a rendere la figura dell’eroe un unicum. La sua vicenda in realtà apparirebbe banale se dovesse semplicemente perimetrarsi all’interno della contrapposizione: cosmos vs caos, come in prima approssimazione risulta. Sta di fatto che per realizzare la sua missione, l’eroe deve comunque provocare il disordine per imporre l’ordine. Deve, come nel caso del trickster, rappresentare con atti concreti la sua diversità rispetto al discretum logico del quotidiano, fino ad apparire anche stupido, come Giufà (cfr. Miceli 1984). Per ottenere questo, e dunque sciogliere l’enigma della vita, egli non deve sottrarsi al labirinto del mondo ma deve mostrare di saperlo attraversare. Accade spesso che qualcuno, o qualcosa, venga in suo aiuto per superare ostacoli e avversari particolarmente difficili (cfr. Propp 1966). La sua strutturale diversità tuttavia ne fa immancabilmente un solitario. Al momento dello scontro finale egli è solo. Da solo deve vincere sopraffazioni, imposture, ingiustizie; in solitudine deve affermare l’essere della vita sul divenire esitante nella morte: una condizione tanto drammatica da riuscire talora anche a travolgerlo, sia pure psicologicamente, come si denuncia nell’invocazione al Padre di Cristo morente, ma anche nell’«ora chi mi salverà da questo labirinto» di Simone Bolivar sul letto di morte, secondo il racconto di García Márquez (García Márquez 1989). Estremamente duro è il compito di cui vengono fatti carico tutti i soggetti cui si attribuiscono connotati eroici. Essi, dovendo ristabilire l’ordine in una situazione in cui per cause diverse si è introdotto il disordine, debbono riportare il caos del vissuto al cosmos delle origini, come dire l’insostenibile instabilità del divenire alla sostenibile fissità dell’essere. Non a caso: il «vissero felici e contenti» delle fiabe nella sua icasticità è la più convincente dimostrazione dell’atemporalità assoluta quale condizione della felicità. La missione assegnata all’eroe è in sostanza rappresentabile in termini paradigmatici utilizzando il gruppo di Klein nel ripensamento di Greimas (1970). Avremo così: 7 Ragionare A. Buttitta, Cavalieri dell’aldilà o della solitudine dell’eroe ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Se intendiamo con X il cosmos e con X il caos come suo contrario, 1/X in quanto inverso di X e contraddittorio di X cioè non caos, dovrà necessariamente indicare la restituzione dell’ordine, mentre 1/X in quanto inverso di X e perciò contraddittorio di X cioè non cosmos, indicherà la rottura dell’ordine. Se ora riflettiamo sul fatto che l’opposizione: cosmos vs caos, è articolabile in prima vs poi, dobbiamo constatare che la situazione valore 1/X (restituzione del cosmos) viene a collocarsi nella deixis del prima mentre 1/X (imposizione del caos) in quella del poi. Il soggetto delle due situazioni essendo lo stesso eroe, annulla pertanto questa opposizione. Per quanto tutto ciò appaia assurdo in termini logici, risulta perfettamente normale in termini miticosimbolici, perché disposto in una diversa temporalità. È in conseguenza di una concezione circolare, non lineare, del tempo che l’eroe riesce a coniugare il futuro nel passato. Il suo è pertanto un futuro passato o, se si vuole, un passato futuro. È significativo che tutte le utopie politiche, dal pensiero miticosimbolico sempre strettamente dipendenti, finiscono immancabilmente col progettare società a venire che sono sempre la riproposizione di una improbabile società comunistica originaria, senza proprietà e senza classi (cfr. Buttitta 1996: 175 ss). Di questo mondo utopico, dove il futuro di antico non ha solo il cuore, in sostanza l’eroe è la proiezione antropomorfica. In forme umane, sia pure talvolta addizionate o esponenziate come nel Cuculain celtico, egli oggettiva la volontà di restituire la condizione felice e utopica delle origini. È significativo che un eroe di fantascienza come Flash Gordon indossi abiti e si muova in una dimensione nella quale il recupero antiquario è apertamente esitato. Il principe delle fiabe, costretto a affrontare prove all’uomo comune impedite, conquistando alla fine la donna del suo cuore, non a caso ristabilisce con il matrimonio il tradizionale assetto della società. Di essa infatti la famiglia viene confermata come condizione e fine ultimo in senso logico quanto cronologico. Ecco perché il cavaliere in definitiva risulta con essere l’eroe del giorno prima. La figura eroica, di fatto, in quanto simbolo del riconoscimento del futuro nel passato, 8 rappresenta qualcosa che nel presente non esiste, ma che dovrà esserci perché già c’è stata. L’eroe spesso non si manifesta come tale, non c’è, ma è questo non esserci che ne fa paradossalmente una presenza attiva nell’esserci, una qualità che come per le utopie, lo rende soggetto di storia e di storie (Ibidem: 168 ss; Garaudy 1999). Questa contraddizione solo apparente può essere facilmente spiegata se riferita alla natura del pensiero simbolico spesso ostativo allo sforzo del pensiero logico-razionale di imporre un ordine al disordine della nostra esperienza della realtà, allo scopo di poterla controllare e gestire, dandole un senso. È dunque sulle caratteristiche del pensiero simbolico che dobbiamo riflettere. Alcuni autori considerano i simboli al pari dei segni, mentre altri ne fanno una classe a parte. È bene ricordare che quando si ragiona sul significato delle parole, con buona pace di grammatici, puristi e anime belle, bisogna riferirsi sempre all’uso, occorre cioè stare dalla parte della gente, di coloro che sono gli unici veri titolari di quella catena produttiva e di montaggio che chiamiamo linguaggio. Se nell’uso i termini segno e simbolo solo raramente vengono adoperati come sinonimi, mentre più frequentemente il ricorso a essi è differenziato, evidentemente si tratta di cose diverse. A coloro tuttavia che ritengono questa diversità dovuta alla loro appartenenza a classi distinte, è facile obiettare che tutti i simboli sono segni, mentre non tutti i segni sono simboli. Questo vuol dire che i simboli non sono entità autonome ma segni speciali. Ritenerli una classe particolare di indicatori comunicativi è pertanto un modo per porre il problema della loro identità su una pista sbagliata. Occorre di contro trovare l’aspetto caratterizzante la loro specificità segnica. È dunque dai segni che bisogna muovere per arrivare ai simboli. Per comodità indichiamo con Se il segno, con Si il simbolo, con sg il significante, con sc il significato, con re il referente. Quantomeno da Agostino in poi sappiamo che il Se = (sg → sc) → re. La stessa formula potremmo adottare per il simbolo, potremmo cioè scrivere che Si = (sg → sc) → re. In realtà quando un segno funziona come un simbolo si opera una duplicazione del suo significato e del suo referente. Lo stesso segno viene ad avere due significati e due referenti. Il significato e il referente immediati: il lessema ‘leone’ rinvia all’idea del leone che, a sua volta, rinvia al leone; il significato e il referente simbolici: non più l’idea del leone né il leone ma la qualità, il coraggio, che viene addizionata ad altro referente, cioè a chi sceglie il leone come marca della propria identità. Potremmo dunque scrivere Si = sg → (sc0 + sc1) → (re0 + re1). La formula è tuttavia sbagliata per due ragioni: A) nella fruizione concreta, nei contesti d’uso il significato e il referente del simbolo sono solo quelli simbolici; B) nel caso dei simboli il significante non rinvia a un significato e a un referente, è esso stesso le due cose. La bandiera non rinvia a un popolo e a un luogo, è essa stessa quel popolo e quel luogo. Se fosse un segno come gli altri non ci si farebbe uccidere per non farla cadere nelle mani del nemico. Nella antica Mesopotamia un regno si riteneva definitivamente conquistato, dunque cancellato, quando i simulacri degli dei dalla capitale dei vinti venivano trasportati in quella dei vincitori. Appropriarsi dei simboli significava possedere ciò che essi rappresentavano. Le immagini degli dei non erano degli indicatori ma dei contenitori. Erano gli dei stessi e il territorio che essi rappresentavano, con cui essi di fatto si identificavano. La resa grafica di tutto ciò pertanto sarà Si = sg + sc1 + re1. Intendiamo così, grazie a questa formula e in termini più netti di quanto si possa a parole, come diversamente dal pensiero logico-razionale che procede per opposizioni e correlazioni nel produrre e ordinare i suoi sistemi di rappresentazione, il pensiero simbolico procede per associazioni e cumulazione. È grazie a questo fatto che riesce ad annullare ogni diversità spaziale, temporale, sociale, morale, a ignorare la distanza perfino tra cose, persone e le loro immagini, al fine di convertire il caos nel cosmos. È dunque l’essere dimensionato in una sfera simbolica a consentire al personaggio eroico di rappresentare situazioni e valori contrapposti e anche inversi, pure a quelli della morte e della vita. È assolutamente eloquente che nella sua espressione massima, quella del dio salvatore, morte e vita vengono connotati diversamente. La natura ambigua dei simboli è un problema che conta una estesa e notevole, anche se talora capziosa, letteratura3. Un segno si manifesta come simbolo, quando, contraddicendo la sua primaria funzione, che è quella di introdurre il distinto nell’indistinto, finisce con l’annullare ogni distinzione, assumendo paradossalmente maggiore forza semiotica. L’assunzione di connotati simbolici da parte dei segni non si produce mai per un corto circuito della mente. Denuncia, tuttavia l’inappagabile bisogno dell’uomo di passare dall’in- finito al finito, dell’eterogeneo indefinito della realtà, sentita come caos, a una omogeneità definita, sentita come cosmos. Proprio la figura dell’eroe ne è una rappresentazione significativa. La sua vicenda infatti ha un andamento circolare. È un susseguirsi di eventi di cui il finale è sempre un ritorno a quello iniziale. Egli è in perenne lotta contro il male, ma per vincerlo deve sperimentarlo; per ristabilire il cosmos deve attraversare il caos. Deve perciò alienarsi sia spazialmente (Astolfo sulla luna) sia mentalmente (Orlando furioso), per potersi integrare. Come gli iniziandi nei riti di passaggio, che di fatto ne sono una metafora, l’eroe realizza la propria identità attraversando l’alterità. Nei misteri il misto deve morire per poter rinascere. Il dio salvatore, con cui egli si identifica, come è esplicitamente detto: mortem moriendo destruxit, vitam resurgendo reparavit. Quella dell’eroe ovviamente è solo una morte apparente, non diversamente da quella del misto. Così era nella letteratura epica nella quale la morte fisica dell’eroe è sostituita dalla sua discesa agli inferi, vedi per esempio quella di Ulisse; nelle gesta dei cavalieri dal loro immancabile viaggio in Oriente, che in quanto territorio degli infedeli, era una metafora dell’inferno. In questo gioco incrociato di identità e alterità si consuma, in sostanza, tutta la vicenda umana dell’eroe. Il destino ultimo, cui non può sottrarsi, è di congiungere ciò che l’intrigo della vita disgiunge, di porsi come intersezione tra cosmos e caos, tra due Eternità. La sua missione in sostanza è quella di unificare la realtà visibile e quella invisibile, tanto a livello delle qualificazioni quanto a quello delle funzioni narrative. Può farlo determinando un capovolgimento speculare della dicotomia: identità vs alterità, oppure sospendendola, unificando l’aldiquà e l’aldilà, mostrando così che non ci sono due Eternità contrarie. In questo modo egli si afferma come cavaliere anche dell’aldilà, finendo eroicamente ma amaramente per ritrovarsi per compagna, come Roland nella Chanson, soltanto la solitudine. 9 Ragionare A. Buttitta, Cavalieri dell’aldilà o della solitudine dell’eroe ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Note * Per Gabriella D’Agostino Elias N. 1998 Teoria dei simboli, Il Mulino, Bologna Flori J. 1999 Cavalieri e cavalleria nel Medioevo, Einaudi, Torino. 2002 La cavalleria medievale, il Mulino, Bologna. 1 Cfr. Van Gennep 1973; Pettazzoni 1924; Kerényi 1979; Scarpi 2002. Sul rito dell’investitura, con relativa bibliografia, cfr. Rendina 2009: 374 ss. 2 Sull’argomento cfr. Carlyle 1921; vedi anche Brelich 1958 e Pàroli 1995. 3 Cfr. Benoist 1976; Sperber 1981; Augé 1982; Elias 1998; Todorov 1984; AA.VV. 1988. García Márquez G. 1989 Il generale nel suo labirinto, Mondatori, Milano. Garaudy R., 1966 Le mythe, in «Cahiers internationaux du simbolisme», XII: 19-25. Greimas A. 1966 Semantica strutturale. Ricerca di metodo, Rizzoli, Milano. 1970 Del senso, Bompiani, Milano. Kerényi K. 1979 Miti e misteri, Boringhieri, Torino. Riferimenti Lévi-Strauss C. 1966 Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano. AA.VV. 1988 La funzione simbolica, trad. it. Sellerio, Palermo. Miceli S. 1984 Il demiurgo trasgressivo. Studio sul trickster, Sellerio, Palermo. Augé M. 1982 Simbolo, funzione, storia: gli interrogativi dell’antropologia, Liguori, Napoli. Benoist L. 1976 Segni, simboli e miti, Garzanti, Milano. Buttitta A. 1996 Mito e utopia, in Dei segni e dei miti. Una introduzione all’antropologia simbolica, Sellerio, Palermo. 2010 Todo es verdad todo mentira. Menzogna della verità e verità della menzogna nel mito, in I. E. Buttitta (a cura di) Miti mediterranei, Fondazione Ignazio Buttitta, Palermo: 22-33. Brelich A. 1958 Gli eroi greci: un problema storico-religioso, Ateneo, Roma. Campbell J. 1984 L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano. Cardini F. 1997 Alle radici della cavalleria medievale, Feltrinelli, Milano. Carlyle Th. 1921 Gli eroi, prefazione di E. Nencioni, Barbèra, Firenze. Eliade M. 1976a Miti, segni e misteri, Rusconi, Milano. 1976b Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino. 1999 Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizioni, Borla, Roma. 10 Nigro S. 1990 (a cura di), Elogio della menzogna, Sellerio, Palermo. Pàroli T. 1995 La funzione dell’eroe germanico: storicità, metafora, paradigma, Il Calamo, Roma. Pasqualino A. 1992 Le vie del cavaliere, Bompiani, Milano. Pettazzoni R. 1924 I misteri, Zanichelli, Bologna. Propp V. S. 1966 Morfologia della fiaba, con un intervento di C. Lévi-Strass e una replica dell’autore, Einaudi, Torino. Rendina C. 2009 Gli ordini cavallereschi. Epopea e storia¸ New Compton, Roma. Scarpi P. 2002 (a cura di), Le religioni dei misteri, Fondazione Lorenzo Valla - Arnoldo Mondadori; Milano. Sperber D. 1981 Per una teoria del simbolismo, Einaudi, Torino. Todorov T. 1984 Teorie del simbolo, Garzanti, Milano. Van Gennep A. 1973 I riti di passaggio, Boringhieri, Torino. “Insieme dissimili e simili”. Un percorso evolutivo popolare* Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo porta via qualcosa alla stoffa vecchia e lo strappo diventa peggiore. Vangelo di Marco (2,21) 1. Animale-uomo Scopo di questo saggio è di lavorare attorno all’ipotesi che i complessi saperi orali e gestuali che definiscono la tradizione, conservino ancora oggi tracce, indizi, spie folkloriche che, seppur labili, decontestualizzate, risemantizzate, ci permettono, opportunamente ricostruite, di sostenere che i nostri anche non troppo lontani antenati riconoscevano e rappresentavano il profondo rapporto evolutivo che lega indissolubilmente l’uomo all’animale e più in generale alla natura che lo circonda. Se questa ipotesi di lavoro fosse verificata, appare evidente che quando Charles Darwin, nel corso della prima parte dell’Ottocento (1859) elabora la rivoluzionaria teoria sull’origine della specie, certifica con i protocolli scientifici propri della scrittura, quanto il mondo popolare, in qualche modo, conosceva in precedenza, perché era ben presente ed elaborato nel suo sistema culturale d’impianto orale fatto di miti, riti, fiabe, leggende, narrazioni, vissuti quotidiani fortemente connessi con i ritmi spazio-temporali della natura. Consapevoli delle pluralità delle culture compresenti nello stesso spazio e nello stesso tempo, intendiamo sottolineare, per indicare la relativa autonomia dei percorsi conoscitivi, come il sapere scientifico e quello popolare abbiano elaborato nei confronti degli animali, intesi quali nostri antenati, modalità e orizzonti conoscitivi e simbolici di notevole somiglianza. Non intendiamo avventurarci nelle dibattute questioni connesse alla ‘discesa’ nella cultura folklorica dei saperi della cultura d’élite, che hanno occupato tanta parte del dibattito scientifico dell’ultima parte dell’Ottocento e nella prima parte del Novecento, in quanto la demologia popolare ha conquistato problematicamente la concezione del pluralismo di orizzonti culturali contemporanei che nulla toglie alla tematica di eventuali convergenze e analogie. Il sapere scientifico, colto, razionale, deve trascorrere la soglia dell’Ottocento per dimostrare, in modo trasparente, la genesi dell’uomo e il suo complesso e lungo processo evolutivo che lo differenzia dall’animale che sta alla sua origine. «Benché non abbia inventato l’idea di evoluzione, Darwin fu certamente responsabile della sua larga accoglienza» (Lewontin 2002: 39): sarà proprio Darwin a spiegare in modo convincente l’evoluzione della specie riconoscendo i nostri progenitori negli animali, nelle scimmie antropomorfe, e osservando come nei dati naturali, biologici, climatici, ambientali e nella loro interazione e mutazione, risieda la spiegazione delle nostre origini. A partire da questa scoperta, un problema che ancora coinvolge e impegna antropologi, paleoantropologi e studiosi delle più diverse discipline con esiti sovente incerti, è quello di definire compiutamente le tappe dell’evoluzione che conducono all’uomo e alle sue forme di umanità. Se riconosciamo che i patrimoni di conoscenza propri dell’oralità possedevano in qualche modo una ‘visione evolutiva’ del mondo, possiamo pensare che la ricostruzione dei saperi popolari condotta in questa prospettiva porti a comprendere meglio come è avvenuto il processo evolutivo. Come si induce dai fossili e dai reperti ritrovati e, soprattutto, come gran parte dell’immaginario che si è riflesso in modo significativo anche nell’arte popolare e non solo, abbia lasciato a volte tracce compatte e, a volte, non opportunamente studiate e comprese. L’uomo raccoglitore, cacciatore, pastore, agricoltore conservava, possedeva e interpreta11 Ragionare Piercarlo Grimaldi ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) va nel suo bagaglio culturale costituito di gesti e di parole, il nesso profondo che collega l’uomo all’animale, conosceva in trasparenza l’intimo rapporto di parentela che l’uomo intratteneva con l’animale che l’aveva preceduto. Questa congettura, se opportunamente verificata, potrebbe offrirci inedite prospettive interpretative di ciò che è stata la cultura orale nel processo evolutivo e quanto questa possa ancora essere una risorsa cognitiva per l’uomo del presente e per quello che verrà, al fine di ricomprendere e reinterpretare il mai risolto superamento del complesso rapporto con la natura così come è stato vissuto sino a poco tempo fa. I saperi dell’oralità sono giunti sino a noi e ancora oggi, anche se compresi in sistemi di scrittura e di memorie tecnologiche, artificiali, sempre più sofisticate e pervasive, appaiono non domati e comunque in profonda trasformazione: il che non implica necessariamente la scomparsa, ma il costruirsi di un sapere orale e gestuale profondamente innovato e trasformato di cui non riusciamo a definire i variabili contorni culturali. La tradizione, come è risaputo, si è trasmessa nel tempo attraverso le generazioni. Da padre in figlio, da nonno a nipote, dalla comunità degli anziani a quella dei giovani, il sapere orale e gestuale è trascorso dalla bocca all’orecchio, dal gesto al suo ripetuto apprendimento. L’uomo, la comunità, la società si sono trasformati lentamente nel corso del tempo e dello spazio operando modifiche, innovazioni che nascevano dalla ripetizione del gesto e della parola, dalla pratica espressiva e dal fare. Questo sapere popolare si è andato fortemente e progressivamente depotenziando in tempi relativamente recenti, sino a perdere i tratti costitutivi, fondanti, da quando il processo che governava la transizione, il passaggio dall’oralità alla scrittura, ha subito una radicale accelerazione, da quando lo sviluppo industriale, il diffondersi della città, della metropoli e con esso l’abbandono definitivo delle campagne hanno segnato la fine del calendario, della scansione spazio-temporale che lo generava. L’abbandono dei ritmi fortemente connessi con la natura, il progressivo addomesticamento dello spazio e del tempo della tradizione hanno dato vita ad una società, quella contemporanea, che si trova organizzata, intrappolata in scansioni sempre più cronometriche, quantitative, parcellizzate, artificiali, del presente. Il tempo lineare si impone su quello circolare del passato contadino. L’indirizzo di senso che governa il presente è una freccia temporale rivolta al fu12 turo che irrimediabilmente si allontana dal passato dimenticandolo, mentre nella tradizione le ragioni dell’essere al mondo trovavano la spiegazione nella ciclicità del percorso umano. Il mito dell’eterno ritorno governava il tempo della tradizione, il ricominciamento prevedeva la morte e la rinascita della natura (Eliade 1965). Le stagioni scandivano i ritmi del riposo e del lavoro, del freddo e del caldo, del buio e della luce, del grasso e del magro, del letargo invernale e del risveglio primaverile. 2. Indizi folklorici Per tentare una prima verifica dell’ipotesi di lavoro cercheremo di dimostrare come, attraverso una sommaria lettura di alcuni tratti folklorici, di studi di casi, si possa utilmente procedere in questa direzione di ricerca. 2.1. Grotte e animali Cominciamo con il prendere in considerazione alcuni aspetti della vita tradizionale contadina: il passaggio dalla vita domestica condivisa con gli animali alla divisione degli spazi. Nel 1877 veniva promossa in Italia un’importante ricerca voluta dal Parlamento e diretta da Stefano Jacini riguardante la condizione contadina (Jacini 1881-1886). La vasta e rilevante indagine, tra i tanti risultati cui è pervenuta, sottolinea alcuni dati di particolare interesse ai nostri fini. Quattro quinti della popolazione nazionale sono occupati nel mondo rurale e una consistente parte di questi vive in povertà, in condizioni igieniche e fisiche drammatiche e spesse volte è analfabeta. A volte abita ancora in case ricavate nella roccia, nel tufo, condivise con gli animali, in uno stretto, quasi intimo rapporto che rimette ogni giorno in gioco i tratti di umanità che l’uomo cerca di ritagliarsi nel confronto dei parenti più lontani. A distanza di circa quattro decenni, quando il linguista ed etnografo Paul Scheuermeier percorre il mondo rurale italiano tra il 1921 e il 1932, al fine di fornire un quadro complessivo dei dialetti, la condizione contadina, seppur migliorata, non è ancora contrassegnata da profondi processi sociali, economici e culturali. La ricerca che ci consegna è infatti la fotografia di un mondo contadino profondamente segnato da tratti tradizionali, in cui gli usi e i costumi che hanno caratterizzato la vita nelle campagne dell’Ottocento sono ancora per molti versi vitali (Scheuermeier 1943-1956). L’approfondita indagine riservata al territorio piemontese for- P. Grimaldi, “Insieme dissimili e simili”.Un percorso evolutivo popolare Chiusa anteriormente da un muro con porta e finestre, era destinata, nella parte anteriore, ad abitazione e misurava 4 m. in altezza e in larghezza e 6 m. in profondità. L’ambiente retrostante con soffitto a volta, tanòt o crutìn, serviva come stalla per il bestiame e misurava 3 m. in altezza e in larghezza e 2 m. in profondità (Scheuermeier 1980, vol. II: 13). Le due fotografie sembrano essere state scattate a commento di una sincronica riflessione di Euclide Milano a proposito delle famiglie che abitano nell’area delle rocche di Pocapaglia, prossima a Corneliano: Là dintorno, pochi anni orsono, non v’eran che boschi; ora convertiti per buona parte in campi, aridi e secchi, fra i cui solchi non vedi che schegge di roccia e dove il grano intristisce (poca paglia). Vedi uomini, poveri e vecchi, o donne sfiancate, affranti zappare a stento fra quella gleba dura come pietre, laceri, coperti di stracci che non han colore; e spesso sul ciglio del campo gruppi di poveri bimbi mocciosi e piangenti, sul cui volto la vita grama e la denutrizione già scolpisce le sue orme profonde e le illuvie e la sporcizia sparge escrescenze maligne di scrofole sanguinolente. Povera gente! Vivono come bestie in tane da lupi contenti di poche patate, di qualche sacchetto di frumento o di granoturco e di fagioli che il terreno produce piccoli e scarni: di questo poco si saziano nel lungo inverno che dev’essere ben più crudo in mezzo a quelle rocche paurose. Talora la catapecchia di paglia, la misera capanna dal nome di casa o la caverna dove abitano, sporge sul dirupo e quei poveri bimbi che traggono l’infanzia colà presso, s’abituano fin d’allora al terrore e alla paura e portano poi sempre negli occhi sbarrati quel senso di sgomento e d’orrore col quale le madri li han trattenuti dall’orlo fatale. E così crescono ignoranti e superstiziosi e continuano senza quasi mutarle le tradizioni dei padri e degli avi, tutte quante intessute di fantasmi, del demonio, delle streghe e del fuoco misterioso e di altre simili fandonie. Certo quando su quelle rocche piene di ombre scende la notte o grava una giornata senza sole o incombe l’inverno, non v’è luogo più adatto a creazioni fantastiche dell’anima spaurita. Ed ecco perciò le molte leggende che corrono fra quei miserabili: il diavolo e i bastioni di Cherasco, le streghe, Auçabech, Millocchi, il sotterraneo di Santa Vittoria, le meraviglie di questa santa, il fuoco di san Teobaldo, Delpero (Milano 1958). Ragionare nisce un quadro che, se da un lato, quando si svolge nella pianura e nei pressi delle città, sembra già avvertire, soprattutto nell’abbigliamento, l’influenza dei moderni abiti urbani, dall’altro, quando risale le valli, rivela ancora caratteri ampiamente connessi al passato, alla conservazione (Scheuermeier 2007; 2008). Un quadro generale che non coincide con la documentazione rilevata a Corneliano, un paese del Cuneese poco lontano dalla città di Alba. Il ricercatore fotografa grotte adibite a stalla e a magazzino per gli attrezzi della cascina. In particolare sono interessanti le due fotografie (Scheuermeier 2008, vol. II, fotografie 879 e 880) in cui si vedono l’interno e l’esterno di una grotta, tana, chiaramente non solo adibita al ricovero degli animali ma anche utilizzata per ospitare gli uomini. In primo piano la tavola è infatti preparata per il pranzo e la culla è vicino al bue, a favore del caldo che l’animale emana: La riflessione dello studioso cuneese rinvia ad un mondo prossimo a noi che viveva intimamente con gli animali e che troviamo attestato anche nel contermine territorio astigiano: Alle porte della tecnologica metropoli torinese, nella quasi sconosciuta frazione Mombarone della città di Asti, si stanno riportando alla luce le ‘casegrotta’ in cui i contadini hanno vissuto ancora nei primi decenni del Novecento. Quasi una piccola Matera, i cui famosi sassi sono riconosciuti dall’Unesco come patrimonio culturale dell’umanità e che oggi sono la testimonianza più eclatante dell’arcaico mondo della tradizione giunto sino a noi senza soluzione di continuità. A Mombarone come a Matera, nelle colline del profondo Nord come nelle terre cerealicole del Sud, in questi luoghi naturali si viveva a contatto con gli animali, in un complesso rapporto di con-divisione dello spazio e del tempo (AA. VV. 2004). I contadini che campavano in questa condizione naturale, tutti i giorni erano impegnati a ritagliarsi un po’ di umanità che li separasse e li distinguesse dall’animalità, alla ricerca di un equilibrio precario che icasticamente potremmo definire di ‘animanità’ (Grimaldi 2007: 14-15). Le casegrotta che si stanno riscoprendo nelle colline tufacee del Piemonte collinare meridionale, disvelano un mondo appena trascorso che pareva cancellato alla memoria dei più anziani e non differiscono poi tanto dalle case della gente che viveva sulle alte terre delle Alpi e nel più vasto mondo contadino del Piemonte. Il popolo di minoranza etnolinguistica Walser, ad esempio, ha abitato sino a pochi decenni or sono l’alta montagna attorno al Monte Rosa, sopravvivendo grazie ad una stretta condivisione con gli animali della stalla. Il calore delle mucche era condizione indispensabile per vincere il freddo dell’inverno. La cucina e la stalla davano vita ad un’unica stanza dove l’umanità segnava la sua separatezza dall’animale con un semplice steccato, una fragile, quasi intangibile barriera di legno. 13 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Nella montagna cuneese Nuto Revelli raccoglie ancora nel corso degli anni Settanta del Novecento, dalla voce delle anziane contadine, le testimonianze drammatiche di una vita convissuta con gli animali (Revelli 1985). La donna partoriva nella stalla, sulla paglia come la mucca e veniva assistita da persone, levatrici che non avevano conoscenze scientifiche ma un sapere popolare specifico e che intervenivano per aiutarla così come faceva l’uomo con la mucca. Di questo complesso e condiviso rapporto uomo-animale segnaliamo una tavoletta votiva presente nel ‘Museo degli ex voto di Dogliani’, nella Langa cuneese. Nel dipinto viene rappresentata una stalla in cui una madre intercede la Vergine affinché salvi il suo bambino nella culla minacciato da un bue imbizzarrito. Nella pratica del venire al mondo nella stalla, la famiglia contadina dedicava più impegno e risorse alla nascita del vitello che a quella del figlio. Tante testimonianze raccolte nella montagna ci dicono che spesse volte l’uomo riservava più cure all’animale che alla moglie. Le storie di vita che le donne hanno affidato a Revelli certificano questa drammatica situazione. Nelle loro memorie si sente l’amarezza della donna trascurata dall’uomo e considerata alla stregua dell’animale. Nelle Alpi del Cuneese la gente affida le sorti della stalla a san Magno, martire della legione Tebea. In valle Grana, a milleseicento metri di altitudine, al santo è dedicato un imponente santuario. La gente ritorna, una volta all’anno, il diciannove di agosto, per rinnovare la fede nel santo che nell’iconografia ha come attributo principale una mucca, dando vita ad una giornata di preghiere, messe, processioni con il suo simulacro, in un quadro folklorico di notevole interesse. È la badia, l’associazione virile, che ha il compito di governare la giornata e di fungere da guardia armata durante le liturgie. La presenza e la persistenza di questo importante istituto folklorico che ha caratterizzato profondamente il tempo festivo del Piemonte della tradizione, sottolineano l’importanza di un rito che serve a proteggere gli animali della cascina e ad assicurarne le fortune e la continuità. Alle pareti del santuario restano ancora tanti ex-voto. Tavolette votive che la famiglia offriva al santo per aver salvato la mucca durante un parto travagliato o per altri incidenti che potevano accadere all’animale in alpeggio. Si tratta di una pratica di religiosità popolare ancora ampiamente testimoniata nel mondo contadino della tradizione e indica come la famiglia tradizionale richiedesse l’intervento della divinità più per gli animali 14 della stalla che per le donne che dovevano partorire (Capobianco, De Angelis 1996). Nella strategia economica del contadino della montagna l’animale era dunque considerato una risorsa preziosa e per molti versi più importante della famiglia e, in particolare della sposa, cui non venivano riconosciute altrettante intercessioni presso la divinità nel momento del parto. Nella stalla la gente trascorreva le notti del lungo inverno e la veglia era un momento di grande socializzazione e di formazione che cominciava canonicamente nei giorni d’inizio novembre, quando si ricordano i morti, e terminava il venticinque di marzo quando, come recita il proverbio, «L’Annunciazione fa crepare la veglia». I saperi immateriali venivano trasmessi dagli anziani ai giovani con le narrazioni fantastiche, le fiabe e le leggende. La ritmicità del lavoro, della filatura e della tessitura scandivano il lungo tempo della notte. La famiglia contadina trascorreva l’inverno protetta dal calore naturale degli animali, instaurando con loro un rapporto simbiotico che ancora una volta rendeva difficile all’uomo separare la sua diversità da quella dell’animale. La sintesi più alta di questo complesso rapporto la ritroviamo nella narrazione evangelica della nascita di Gesù. Nella stalla o nella grotta al caldo del bue e dell’asinello, Gesù viene al mondo così come siamo venuti al mondo ancora nelle campagne della tradizione di appena alcune generazioni trascorse. Il Bambino che viene a salvare il mondo con la sua umile nascita ci indica il percorso popolare per il farsi dell’umanità. Una scelta che accompagnerà la vita del Cristo in terra: il suo insegnamento divino è affidato, infatti, esclusivamente al gesto e alla parola. Le poche parole scritte le traccerà sulla sabbia, supporto fragile e instabile, se possibile, più della parola stessa. Saranno gli evangelisti, con la scrittura, a contribuire a fondare la religione storica del presente. L’inverno è anche la lunga stagione in cui gli spazi che il contadino ha provvisoriamente addomesticato con il lavoro estivo dei campi, si contraggono sino a limitare gli spostamenti dell’uomo all’interno del villaggio, dell’abitato. La casa, la fontana, il forno collettivo, la stalla dove la piccola comunità si ritrova, sono, spesse volte, gli unici spazi entro cui la gente condivide un luogo antropizzato. Gli animali selvatici, i lupi, gli orsi giungevano a minacciare gli stessi luoghi abitati, rinselvatichendo la montagna gelida e innevata. Come gli animali del letargo che ibernano nella grotta sino all’arrivo della nuova stagione primaverile, così gli uomini del- le terre alte attendono con gli animali domestici l’arrivo del Carnevale per uscire nuovamente all’aperto e riconquistare gli spazi rinselvatichiti dall’inverno ad un nuovo processo di addomesticamento. Le barriere visibili e invisibili, produttive e rituali che l’uomo deve incessantemente erigere e abbattere al trascorrere delle stagioni sono state analizzate e sviluppate con una approfondita ricerca sul campo da André Carénini: En montagne le cycle des saison est une évidence incontournable. L’occupation de l’espace par l’homme, occupation par définition temporaire, repose nécessairement sur une conciliation réussie avec l’esprit chthonien du lieu. Ce dernier doit pouvoir survivre à proximité, et préparer son retour en force dès la fin de l’été. Annuellement, en période de Carnaval, les jeunes hommes des sociétés traditionnelles alpines avaient l’obligation de rejouer le mythe de la reconquête: rite de l’envahissement, de la lutte, de la capture, et de la métamorphose. Le meilleur moyen de convaincre les esprits gardiens que le rituel de reconquête est accompli à leur avantage, c’est de duper les représentants du non-sauvage, c’est-à-dire les animaux domestiques, gardiens du foyer et gardiens de la culture (Carénini 2003c: 62-63). 2.2. Animali mitici La presenza e la funzione degli animali rituali nelle culture contadine conserva tracce del profondo rapporto tra uomo e animale. Nel mondo contemporaneo esistono ancora segni della presenza di un sapere tradizionale che tanto ha riflettuto e tramandato su queste figure mitiche. È possibile infatti trovare ancora consistenti tracce attive di Carnevali in cui sono presenti cortei di maschere animali, di figure antropomorfe. Un lungo periodo di ricerca sui terreni etnografici dell’Europa ha permesso di rilevare un complesso patrimonio di animali folklorici che scandiscono l’inizio dell’anno, che ancora narrano di una Europa contadina ‘selvaggia’, che annunciava il risveglio della natura e prediceva la nuova annata agraria attraverso il rapporto che la maschera antropomorfa aveva con l’astro lunare. Non a caso il personaggio che più ha scandito il Carnevale della tradizione è l’orso. La maschera animale esce dal letargo nella data canonica del due febbraio e si raccorda alla luna per indicare l’arrivo prossimo o rinviato della nuova stagione agraria e, nel contempo, predire al contadino il futuro dell’annata (Gaignebet-Florentin 1974; Gaignebet Lajoux 1985; Pastoureau 2008). L’osservazione dei cortei mascherati, la conoscenza della morfologia delle pratiche e la funzione che essi assolvono permette di comprendere che questi nostri parenti, questi nostri antenati lontani nello spazio e nel tempo, sono comuni a tutti noi. Le tante varianti che attengono alle forme e alle pratiche di queste maschere rinviano sempre ad una ineludibile grammatica rituale comune. Se solo osserviamo, infatti le maschere animali, le organizziamo, le compariamo e le analizziamo all’interno dei mondi in cui si sono prodotte ed evolute, scopriamo che la loro rappresentazione annuale ha anche, se non soprattutto, il compito fondante di narrare, rinarrare, ricordare alla comunità le origini comuni della vita. In altre parole i riti che scandiscono la fine e l’inizio dell’anno tradizionale sono anche e non secondariamente una consolidata intuizione popolare della storia della nostra evoluzione non scritta, ovviamente, in termini scientifici ma mitici. Essa è soprattutto riconoscibile nel ‘totemismo’ delle tante maschere carnevalesche e, comunque, in quel tempo tradizionale che tra inverno e primavera dà vita a pratiche rituali, a complesse procedure mnemotecniche di risveglio, di rinascita, di ri-apparentamento, che narrano incessantemente di questa evoluzione e dei nostri parenti prossimi e lontani. Di antenati che ogni anno ritornano per rinnovare il mito di fondazione, l’enciclopedia tribale delle singole comunità e nel contempo di un universo, quello della tradizione, che si fonda sul gesto e la parola (Ong 1986; Havelock 1987). Forme e pratiche di mascheramenti di oralità nelle quali Antonino Buttitta riconosce: […] il metro in cui l’umanità misura i confini troppo angusti della propria condizione, lo specchio in cui, capovolgendosi, togliendosi la maschera, il senso riflette, espone e protesta le proprie segrete ragioni, quanto di invisibile inquieta l’ordito quotidiano e storico della nostra vita e di cui il nostro io, o ciò che indichiamo con questo nome, costituisce la maschera, quotidianamente esibita e perennemente dissimulata (Buttitta 2003: 27). Maschere che costituiscono «anche una sorta di sbocco a ‘quella nostalgia della naturalità’ che sembra a volte percorrere le culture tecnologicamente avanzate» (Lombardi Satriani 2003: 33). La trasmissione del sapere tradizionale e il suo Carnevale rinnovano ciclicamente nel mascheramento la narrazione mitica dell’uomo, la sua storia, la sua evoluzione, la sua antropopoiesi, il modellarsi, il ritagliarsi forme di umanità (Remotti 2000). 15 Ragionare P. Grimaldi, “Insieme dissimili e simili”.Un percorso evolutivo popolare ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Queste maschere animali, poiché antenati, operano accanto ai nostri parenti più prossimi che presiedono dall’Aldilà alle nostre sorti, a quelle della famiglia, della comunità, e quindi alla continuità della specie, all’interno di quelle forme d’identità superindividuali che definiscono i tratti essenziali della cultura tradizionale. Jean Poirier sintetizza questi caratteri costitutivi della comunità nelle tre ‘structures d’accueil’ presenti lungo tutto il corso della storia: la ‘codescendance’, la ‘corésidence’ e la ‘cotrascendance’. In particolare la cotrascendenza riunisce i membri della comunità «attorno ad un corpo di credenze e pratiche simboliche che hanno la funzione di assicurare la relazione tra l’uomo e l’invisibile» (Poirier 1991: 1566). Di questo universo degli invisibili fanno senz’altro parte gli animali mitici che scandiscono con la loro presenza il trascorrere dell’anno produttivo agrario e, in particolare, del Carnevale, che sono anche, come abbiamo visto, la chiave interpretativa per la predizione della nuova annata agraria. Parenti tra i parenti, antenati tra gli antenati a cui l’uomo ha sempre ricorso nei momenti di crisi esistenziale, spiriti guida per affrontare ed interpretare le incognite che il futuro ci riserva. All’interno dell’ipotesi di un evolutivo percorso mitico, alcune maschere sono particolarmente paradigmatiche e didatticamente trasparenti. La figura dell’uomo selvatico può essere analizzata quale icona di un importante momento adattativo della catena evolutiva, un anello di congiunzione evidente di questa struttura orale. Una maschera in parte animale, in parte uomo, esito biologico del rapporto sessuale tra l’orso e la donna, un’autentica ierogamia. Una figura che conserva i caratteri dell’animale, del mondo naturale e, nel contempo, quelli della civilizzazione, che sussume l’umano e il pre-umano. L’uomo selvatico è il conoscitore dei ritmi della natura, del tempo ciclico stagionale e, nel frattempo, il costruttore e il portatore di conoscenze, di saperi che determinano umanità poiché disvela all’uomo i segreti della meteorologia e quelli relativi alla lavorazione del latte, ai cicli produttivi (Plagio 1979; Centini 1989; Grimaldi 1993). Una figura folklorica che sembra dunque suggerirci come la saggezza sia il frutto di una ricerca di equilibrio tra natura e cultura, la sintesi positiva tra l’animale e l’uomo, un anello importante per spiegare il darwinismo mitico. La compresenza, l’integrazione di questi due universi, diventano un modello pedagogico, una didattica di crescita, di co16 scienza e di trasformazione per la cultura popolare. Le maschere animali ci parlano dunque di un mondo folklorico che cercava di rappresentare l’equilibrio, il rispetto, il timore verso la natura. Non sembra davvero un caso che la stessa aristocrazia medievale, ancora orgogliosa delle proprie origini barbariche, selvatiche, non esitasse a porre a capo delle genealogie figure zooantropomorfe come il selvaggio, l’orso e, come nel caso dei Lusignano, la fata Melusina, donna serpente o in altre varianti, sirena (Artoni 1999). Che questa figura mitica fosse importante nel mondo della tradizione è anche testimoniato dalla rilevanza che animali e uomini selvatici assumono nell’iconografia, nei bestiari medievali (Tesnière 2005) e, in particolare, nelle rappresentazioni presenti nelle chiese romaniche e gotiche. Spesse volte nell’arte sacra popolare del Medioevo troviamo una chiave trasparente di questo processo evolutivo. Lontani dai nostri sguardi disattenti perché posti alla sommità di alte colonne oppure in alto, all’esterno delle chiese, figure e volti inquietanti e difficili da decodificare e interpretare ci scrutano da lunghi secoli. Se osserviamo con attenzione queste figure scopriamo che, spesse volte definiscono teorie che si susseguono e che sembrano volerci narrare qualcosa. Che un animale sia seguito da una figura selvatica e successivamente da un volto umano dando vita ad una morfologia narrativa che viene ripetuta uguale o con più varianti, sembra infatti indicare esplicitamente un percorso evolutivo che procede dalla natura alla cultura, da un passato, dall’animale all’uomo. Il bestiario, gli uomini selvatici che ritroviamo sui capitelli, sono dunque il ricordo, la fotografia di parenti lontani che coinvolgono lo stesso percorso storico della Chiesa. La stessa liturgia religiosa conserva tracce di questo confrontoscontro, con la cultura folklorica. Non a caso sant’Orso si celebra nel giorno canonico in cui il plantigrado carnevalesco esce per le strade delle comunità contadine, san Bernardo da Mentone, esattamente come il domatore di Carnevale, tiene in catene il male, in alcuni casi rappresentato da un orso (Carénini 2003b), Maria Maddalena sovente è dipinta vestita solo dei propri capelli, nel teatro sacro pasquale di Sordevolo, il diavolo che induce Giuda a tradire il Cristo, ancora nei primi decenni del Novecento aveva le sembianze dell’orso; forme e pratiche religiose che rinviano e sussumono i caratteri precristiani dell’alterità folklorica (Grimaldi 2000a). Il calendario della Chiesa è dunque anche l’esito di questo intenso dialogo, dei metodi sincre- tici, connessi ai profondi processi di evangelizzazione e di addomesticamento che hanno attraversato, ancora in tempi relativamente recenti, le campagne dell’Europa selvaggia. 2.3. Il cibo in natura Vi è un’ulteriore linea di lavoro che pare utile percorrere per i fini della nostra ricerca. L’allattamento al seno si configura come uno dei crocevia antropologici più interessanti e promettenti per capire il modellarsi, il farsi e il disfarsi di forme di umanità. L’alimentazione del figlio con il proprio latte è, senz’altro, un modello naturale che lega profondamente gli uomini agli animali. Nel mondo contadino la donna ha sempre allattato il figlio. Spesse volte ha contribuito al sostentamento di neonati a cui la madre non poteva provvedere per motivi di salute o mancanza del latte. Questo aiuto rientrava in uno dei tanti modi di ‘scambiarsi, imprestarsi il tempo’ tra le famiglie, che non prevedeva forme di monetizzazione del latte donato. Se questo accadeva nel mondo popolare, l’uso del sostituire il latte della madre con quello della balia era pratica che apparteneva, già in passato, alla nobiltà e alla borghesia che in questo ritmo naturale osservavano una certa, inquietante animalità e quindi, negando il latte al figlio, segnavano la propria diversità e dimostravano un egoistico interesse nel proteggere il proprio corpo anche da un eventuale, rischioso processo di rinselvatichimento. Anche in questo caso erano le donne contadine che provvedevano per necessità il latte ai neonati negandolo spesse volte ai propri figli. È nel corso del Novecento che si è assistito ad una sostituzione del latte materno con l’allattamento artificiale. Tutto ciò è, in qualche modo, l’esito della «pratica dell’allattamento artificiale, nata cent’anni fa negli Stati Uniti» che «ha avuto da allora grande diffusione in tutti i paesi occidentali, in concomitanza con l’affermarsi del parto ospedalizzato: negli ospedali le donne venivano più facilmente avviate ad allattare col biberon piuttosto che incoraggiate ad allattare al seno» (Maher 1992: 11-12). Più recentemente, soprattutto nel corso degli anni Settanta del Novecento il seno viene concepito soprattutto come strumento di bellezza e di sessualità, va protetto, preservato, fatto, ri-fatto e ri-ri-fatto, in funzione dell’agognata carriera e di uno status superiore e quindi non può essere logorato in quanto semplice e strumentale mezzo di nutrizione, seppur dei figli che tanto diciamo d’amare. D’altra parte, come si può ostentare un seno che ha subito l’affronto di essere considerato un semplice produttore di alimento, alla stregua degli altri mammiferi e quindi segnato da una fabrilità che affatica e logora e che i canoni estetici dell’Occidente rifiutano? Nel corso di questi ultimi decenni una rinata coscienza verso il latte materno sembra farsi strada al di là delle mode veicolate dai mezzi di comunicazione che ci trasmettono il profilo di una figura femminile che si riproduce con avarizia e non allatta, caratterizzato da un corpo e soprattutto da un seno scultoreo, oppure abbondante, da grande madre, che però non dispensa latte e quindi vita, umanità, speranza di futuro. Se le cose stanno così prevediamo che la donna stia abbandonando la pratica dell’allattamento artificiale per ritornare a quello naturale e, dunque, l’allontanamento del figlio dal seno materno sembra essere una moda passeggera connessa ad una società che si affranca dalla povertà e vuole essere a tutti i costi moderna. È stata, infatti, soprattutto la generazione nata sul finire della guerra ad interrompere l’alimentazione naturale con l’apparire della società dei consumi, negli anni Sessanta, quando i tempi delle vacche magre sono stati sostituiti da quelli delle vacche grasse. Un processo culturale voluto innanzitutto dalle multinazionali del latte che hanno promosso questo stile di vita all’insegna scientifica di una corretta, igienica ed equilibrata alimentazione artificiale, più buona, sterile, dosata, integrata, che non trasmette malattie, vincendo così i nostri sempre più deboli sensi di colpa. Questa scelta è stata vissuta, inoltre, come un radicale atto di liberazione della donna dall’allevamento della prole e come bisogno di proteggere una parte del corpo diventata ormai una risorsa indispensabile per la sua competizione produttiva nella società contemporanea. A ben vedere, però, il fiume di latte umano che torna a scorrere è ancora un rigagnolo avaro poiché pochi e avari sono i parti che assicurano alla donna contemporanea l’esperienza e la gioia della riproduzione; così essa invece preserva dal logoramento parti strategiche del corpo, spesse volte in carriera. In Italia registriamo, infatti, uno dei più bassi tassi di fecondità dell’occidente: lo 0,8%, un’implosione demografica che determina un drammatico invecchiamento progressivo della popolazione. Ancora nella seconda metà dell’Ottocento la donna dava al mondo mediamente cinque figli per giungere, nel corso degli anni Settanta, a circa due (Livi Bacci 2000: 11). 17 Ragionare P. Grimaldi, “Insieme dissimili e simili”.Un percorso evolutivo popolare ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) La famiglia nucleare italiana si assottiglia vieppiù passando così «da una media di 2,4 componenti per nucleo nel 1991 a 2,2 nel 2001» (Livi Bacci 2002b: 17). Se questo andamento decrescente persisterà nel tempo, gli italiani dovranno abituarsi ad essere minoranza nel proprio paese, poiché per far sì che una società non invecchi eccessivamente ogni donna dovrebbe avere almeno due figli. D’altra parte questa rivoluzione demografica non attiene solo all’Occidente ma è un fenomeno che più recentemente ha investito sorprendentemente anche le società islamiche in cui: Ancora verso il 1970, il controllo delle nascite era praticamente sconosciuto, […] il numero medio di figli per donna tra 6 e 7. Poche e limitate le eccezioni. Trent’anni più tardi il quadro è estremamente variegato coesistendo paesi dove nulla è cambiato con paesi non lontani da comportamenti tipici del mondo occidentale, quali la Turchia, l’Egitto, l’Iran e i paesi del Maghreb (Livi Bacci 2002a: 13). L’interruzione dell’allattamento al seno è, con ogni probabilità, l’atto che più di ogni altro ha segnato paradigmaticamente le più recenti trasformazioni della nostra società. Scelta che può essere sussunta quale momento topico che segna la definitiva frattura tra il mondo dell’oralità e quello della scrittura poiché spiega, meglio di ogni altro evento, l’oblio dei saperi tradizionali che si trasmettono di generazione in generazione attraverso il gesto e la parola. Tale processo culturale su cui tanto si è discusso e del quale sono stati individuati diversi momenti emblematici che ne scandiscono il mutamento, forse può trovare nell’interruzione dell’allattamento al seno il più profondo e trasparente atto che testimonia l’avvenuto cambiamento. Con l’allattamento naturale viene a mancare un profondo sistema orale prevalentemente gestuale ma nondimeno fortemente connesso alla parola. S’interrompe un complesso e integrato rapporto fisico e affettivo tra madre e figlio che è stato da sempre alla base della ritmicità che presiede alla crescita e all’evoluzione dell’uomo e che forse, più del crudo e del cotto, ne spiega le grandi trasformazioni. Un atto che, è risaputo, si è ripetuto senza soluzione di continuità, almeno tra le classi subalterne, sino ai nostri giorni e che i nostri antenati-animali praticano tuttora. L’allattamento è la messa in opera di una vera e propria cosmologia «in cui ordine del mondo, della società e del corpo si combinano e si richiamano a vicenda» (Remotti 2000: 125), che viene reiterata più volte al giorno e che de18 termina un legame inscindibile tra madre e figlio. Un rapporto di sopravvivenza e di affettività che nel mondo contadino si prolungava anche più anni poiché determinato da una strategia di sopravvivenza alimentare che nel latte materno trovava la soluzione e che permetteva altresì una sorta di controllo delle nascite. Se le cose stanno così è forse troppo ardito sostenere che un ritorno all’allattamento al seno potrebbe rappresentare anche un ritorno, un cosciente recupero di alcune forme e pratiche che attengono all’oralità tradizionale? La madre che rimane vicino al bambino, che ritorna a privilegiare il sistema riproduttivo rispetto a quello economico, che inevitabilmente rallenta i ritmi spazio-temporali connessi alla produttività, che non posa per i calendari ma ritorna a narrare e ri-narrare le fiabe e le filastrocche che alludono al piacere di succhiare il seno e invitano al riposo successivo e predispongono ad un futuro migliore, permette di superare il lutto della perdita della forse più importante cosmologia adattativa che sta alla base del primo e fondamentale momento di formazione biologica e culturale di ogni individuo, di ognuno di noi. Tutto questo spiega bene perché oggi osserviamo con evidente disagio una donna che in pubblico allatta al seno il proprio bambino, avvertiamo quasi un turbamento sessuale, un senso di colpa voyeuristico. Il nostro sguardo interpretativo del seno di una mamma che nutre, rinvia a valenze erotiche, persino pornografiche e pertanto inquietanti, poiché non sappiamo più leggere la natura e i suoi comportamenti. 2.4. Formule per ricordare In ultimo riteniamo utile fare un accenno alla formularità popolare connessa al rapporto uomo-animale che stiamo elaborando. É risaputo che i proverbi, i modi di dire, le frasi rituali sono, per la loro intrinseca ritmicità espressiva, ‘mattoni’, strutture mnemotecniche che costituiscono e rendono, per definizione, più solida la fragile memoria orale costituita dal gesto e dalla parola. A tale proposito abbiamo cercato di comprendere se nella memoria degli anziani rimanessero ancora tracce dei codici espressivi che, in qualche modo, alludono a quella che riteniamo essere una storia evolutiva dell’umanità da sempre conosciuta nel mondo della tradizione. Lasciando da parte i proverbi che, come abbiamo visto, riconoscono nell’animale comportamenti predittivi e di fertilità e aiutano autorevolmente a verificare la nostra ipotesi di lavoro, proponiamo la lettura di alcune espressioni po- polari che appartengono al mondo di minoranza etnolinguistica occitana della montagna cuneese che sembrano essere spia di questa coscienza popolare1. Di una persona che vive isolata, che si apparta al mondo, che privilegia la solitudine, ciò che offre la sola natura e rifugge il dialogo e la convivenza con gli uomini si dice: «Vive come un selvaggio (servage), come un eremità (armìt), come un orso (ours)». La formula sembra evidenziare nella sua estrema icasticità il processo evolutivo dell’uomo che rifiuta la società. Nel corso del tempo il selvatico, l’eremita e l’orso costituiscono, anche nell’arte popolare sacra e profana, i tre principali anelli evolutivi, la rappresentazione del farsi dell’umanità. Più semplicemente la stessa persona può essere tacciata di “vivere come una bestia”. Un comportamento negativo che assimila l’uomo all’animale e che può essere rafforzato con il modo di dire: “Mangia e vive come una bestia”. Il modo e ciò che mangia può avvicinare una persona ad uno specifico animale: “Mangia come un crin”, come un maiale, oppure “come un lupo”. Nel primo caso la somiglianza con il maiale allude ad un comportamento estremamente impuro, nel caso del lupo ad un comportamento aggressivo, selvaggio, non addomesticato, come richiede il percorso di umanità. Infine l’espressione “parla come cammina” sembra, anche se in modo più criptico, andare nella stessa direzione. Il camminare, la postura non consona all’uomo in società, propria della persona che ancora ha con la terra, con la natura un rapporto più diretto, poco addomesticato, definisce un linguaggio altrettanto dis-umano. In questo quadro il detto: “Balla come l’orso” sembra confermare quest’impostazione. Queste poche formule che giungono da ciò che resta dell’oralità sembrano indicare anch’esse una promettente direzione di ricerca nel verso dell’ipotesi che intendiamo verificare. 3. Alcune considerazioni finali I primi risultati che emergono da queste iniziali trivellazioni volte a ricercare in alcune specifiche aree della tradizione la verifica dell’ipotesi elaborata, sembrano indicare promettenti indizi che andranno, ovviamente, approfonditi e ampliati in modi più organici e sistematici. Da questa prima lettura emerge un elemento che ci pare interessante. I saperi della tradizione che sono ancora recuperabili dalla memoria orale degli anziani, dalle fonti a stampa e dai diversi segni che testimoniano questo passato fatto di gesti, parole, oggetti, sembrano indicare la presenza di un ancora ricostruibile sostrato culturale profondo, caratterizzato da una sorta di evoluzionistica visione popolare del mondo, che tende a spiegare, a legare intimamente l’uomo all’animale, a narrare il complesso e fisico rapporto quotidiano che ha da sempre intessuto con la natura. Un sostrato che ci parla di un lungo e mai definitivamente risolto processo di addomesticamento intrapreso da quando l’uomo ha generato il primo ritmo spazio-temporale (Leroi-Gouhran 1964) che gli ha permesso di iniziare il grande viaggio verso la costruzione di forme di umanità. L’uomo della tradizione ha costruito nel corso del tempo questo complesso sapere che gli ha permesso di conservare, comprendere e interpretare la memoria della sua origine animale, operando quotidianamente per analogia, per comparazione, per similitudine. Il pensiero magico, la visione del mondo costituita da miti e riti, simboli che traducono e rappresentano l’intraducibile, gli permettono di custodire questa conoscenza, di avere coscienza di quello che la scienza certifica solo nell’Ottocento. Questo sapere che sta scritto nella natura è, sia pure in un certo senso, da sempre inscritto nel libro rituale delle tradizioni e genera una storia i cui miti «come opera umana sono altrettanto veri quanto gli avvenimenti storici» come opportunamente riflette Antonino Buttitta quando tratta di «storia mitica e miti storici» (1996: 168). Se partiamo dai processi culturali esaminati nel saggio possiamo dire che, in estrema sintesi, l’uomo è il frutto di una continua e quotidiana lotta volta ad elaborare forme di umanità che lo differenziano dall’animale con cui convive in modo simbiotico, in estrema e ambivalente dipendenza. Un processo evolutivo avvenuto con fatica e rispettando i tempi lunghi che l’oralità richiede. Solo recentemente ciò che resta del mondo della tradizione ha, per molti versi, smesso di confrontarsi con questo passato animale, da quando sempre più labili e precari si sono fatti i rapporti con i ritmi naturali e il nostro venire al mondo, il vivere e il morire assumono sempre più forme e pratiche artificiali che cancellano la memoria del passato. Questo processo culturale evolutivo ha sedimentato, come abbiamo già visto, consistenti tracce anche nell’arte presente nelle chiese romaniche e gotiche. Ma questi segni preziosi, spesse volte indispensabili ai fini del nostro la19 Ragionare P. Grimaldi, “Insieme dissimili e simili”.Un percorso evolutivo popolare ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) voro perché veri e propri anelli della catena evolutiva, sono l’esito tangibile di un percorso che la Chiesa ha messo in atto per appropriarsi e combattere questi saperi, attraverso un processo di inclusione e/o di espulsione al fine di imporre la sua egemonia religiosa sulla visione del mondo precristiana. D’altra parte è evidente che l’uomo, in quanto creato da Dio non può conservare e rinnovare la memoria animale del passato. Le tracce che ritroviamo nell’architettura e nella liturgia cristiana non sono dunque che i segni di un sapere orale oppositivo alla scrittura su cui si fonda il cristianesimo. La Chiesa, consolidando nel corso dei secoli il processo di evangelizzazione delle campagne ‘selvagge’, ben presto cerca anche con la forza di allontanare dai luoghi sacri i tratti folklorici che alludono al paganesimo. Quello che rimane sono elementi segnici che si fanno nel tempo vieppiù inquietanti, frammenti di tradizioni, di un immaginario folklorico di una religione precristiana che la Chiesa non può cancellare improvvisamente e che quindi oblitera nel corso del tempo, ponendoli sempre più lontani dal cuore della liturgia, dall’altare, staccati dalla presenza fisica del Santissimo. Come per le fotografie dei parenti più lontani che per vari motivi non si vogliono più ricordare e si vogliono nascondere al mondo, le tracce di questo lontano passato vanno cercate sui capitelli avvolti nel buio delle alte navate. Ad ispirare questa narrativa popolare contribuisce anche il monumentale lavoro di Iacopo da Varazze che, nella Legenda aurea scritta nel corso del milleduecento costruisce l’anno liturgico attraverso la vita di molti santi. Soprattutto quelli che vivono come eremiti hanno un profondo rapporto con l’animale che, a volte, viene addomesticato dal santo oppure combattuto perché assume le sembianze del male, del peccato, del diavolo (Varazze 1995). I saperi tradizionali che si sono andati costruendo all’interno di un quotidiano drammatico rapporto di scontro, incontro, alleanze tra l’uomo e l’animale, si formano, dunque, attraverso forme e pratiche, procedure diverse da quelle che la scienza mette in campo nel formulare l’origine della specie. Darwin, nell’elaborare la teoria dell’evoluzione, osserva con stupore e meraviglia i mutamenti e le selezioni: Vi è qualcosa di semplicemente grandioso nella concezione della vita, con le sue capacità di sviluppo, assimilazione e riproduzione, inizialmente insufflata nella materia in una o alcune forme, e nel fatto che mentre questo nostro pia- 20 neta ha continuato a ruotare seguendo leggi fisse, e mentre la terraferma e le acque in un ciclo di cambiamento hanno continuato a sostituirsi reciprocamente, da un’origine così semplice, attraverso il processo della graduale selezione di cambiamenti infinitesimi, siano evolute innumerevoli forme, bellissime e meravigliose (Darwin 2009: 65-66). L’evoluzione culturale popolare non si costruisce tanto a partire dallo stupore per le “forme, bellissime e meravigliose” che contribuirà ad illuminare Darwin, quanto nel quotidiano duro e drammatico confronto che l’uomo instaura con l’animale, un teatro della vita in cui si percepisce come precario attore, possibile modello soccombente nella quotidiana lotta alla costruzione dell’umanità. Se le cose stanno così, il complesso e sofferto sapere evolutivo che l’uomo della tradizione ha elaborato è riconoscibile anche nella poetica mitologica quando si narra di come il popolo dei Cercòpi fu tramutato da Giove in animali identificabili come scimmie (Ferrari 2006: 369): […] un giorno il padre degli dèi presi in odio i Cercòpi, gente disonesta, spergiura e imbrogliona, li trasformò da uomini in animali, deformandoli in modo che apparissero insieme dissimili e simili all’uomo. Ridusse la loro taglia, appiattí e rincagnò davanti le narici, solcò le facce di rughe da persone vecchie, e rivestitili per tutto il corpo di pelame giallastro, li spedì in questo posto. Ma prima tolse loro anche l’uso della parola, l’uso di quella linguaccia nata per spergiurare orribilmente; lasciò loro soltanto la possibilità di lamentarsi con rochi squittii (Ovidio, 14, 91-100). Una paura antica, un dramma esistenziale di essere “insieme dissimili e simili”, come ci ha appena ricordato Ovidio, che deve aver accompagnato l’uomo dalla sua alba sino quasi ai giorni nostri, che ha permesso alla cultura dell’oralità di conservare la conoscenza delle sue origini e di elaborare questo inquietante passato attraverso un articolato sistema che ha perso l’indirizzo di senso probabilmente proprio nei pressi del tempo in cui la scienza formula, con razionali categorie, una convincente origine dell’uomo, della specie, di una ‘selezione naturale’, da sempre risaputa. Note * Ringrazio Antonino Buttitta e Luigi Lombardi Satriani per la lettura del saggio e per i preziosi consigli. Ovviamente la responsabilità del lavoro è di chi scrive. Alcune parti di questo saggio sono presenti in Grimaldi (2003, 2004, 2008). 1 Informatrice Anna Aimar, nata a Roccabruna (Cn), il 22-07-1922. Riferimenti AA.VV. 2004 Vivere nella terra. Case-grotta a Mombarone, Associazione ‘Quattro Passi a Nord Ovest’, Asti. Centini M. 1989 Il sapiente del bosco. Il mito dell’Uomo Selvatico, Xenia, Milano. Darwin C. 1859 On the Origin of the Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life; and the Descent of Man and Selection in Relation to Sex, John Murray, London; trad. it. L’origine della specie, Boringhieri, Torino 1967. Darwin C. 2009 L’origine della specie. Abbozzo del 1842. Lettere 1844-1858 Comunicazione del 1858, a cura di T. Pievani, Einaudi, Torino. Eliade M. 1966 Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino. 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Lo sciocco-intelligente connota molte letterature popolari e come tutte le figure dell’alterità custodisce le chiavi per decifrare «l’intreccio degli intrami e degli stami» della realtà. Come lo stesso Calvino ha spiegato, rispondendo ad alcune recensioni che davano de Il cavaliere inesistente un’interpretazione in chiave allegorico-politica, il romanzo è una storia sui vari gradi d’esistenza dell’uomo, sui rapporti tra esistenza e coscienza, tra soggetto e oggetto, sulla nostra possibilità di realizzare noi stessi e di entrare in contatto con le cose; è una trasfigurazione in chiave lirica di interpretazioni e concetti che ricorrono continuamente oggi nella ricerca filosofica, antropologica, sociologica, storica (Calvino 1993: VII; cfr. anche Id. 1980: 39-45). Gurdulù può essere dunque la nostra metafora antropologica. Consente di alludere al metodo della ricerca sul campo nella pratica etnografica. John Middleton, allievo di Evans-Pritchard, sosteneva che la situazione etnografica reale era tutt’altra cosa da ciò che si era potuto figurare; anzi quanto aveva appreso in fatto di modalità di osservazione e interpretazione dei fenomeni etnoantropologici ha rischiato di fargli forzare il senso della documentazione raccolta durante le sue ricerche sul campo. Solo quando i dati raccolti coincidevano con i modelli precostitui- ti venivano accettati e ciò gli ha impedito di vedere quale fosse il significato delle cose per i nativi (cfr. Middleton 1970). L’antropologo si reca sul campo per dimostrare la validità delle sue teorie, che molto spesso tengono conto solo di alcuni aspetti settoriali e non pongono il quesito fondamentale: come, attraverso l’indagine particolare, si possa conoscere la struttura profonda del “mondo”. Solo una conoscenza olistica permetterebbe di evitare l’appiattimento epistemologico del monismo o del dualismo filosofico. Bisognerebbe essere in grado di relazionarsi sotto varie prospettive con l’oggetto dei propri studi affinché il “fare altrui” diventi il “nostro farsi”, si riesca a cogliere profondamente il senso dei fenomeni che si presentano al nostro “sguardo” e si sia in grado di descriverli attraverso le tecniche comunicative della nostra “cultura”. Questa procedura scientifica è stata messa in discussione, come è noto, già a partire dagli anni Settanta del Novecento da Lotman e Uspenskij, i quali avevano rilevato che persino nelle scienze naturali l’esperimento, tradizionalmente considerato come un valore autosufficiente, è entrato in rapporto col punto di vista dello sperimentatore […]. Sia nelle scienze naturali che in quelle umane si è sviluppata l’idea della relatività delle norme consuete (Lotman - Uspenskij 1973: XVI). Nella storia della pratica antropologia, molto spesso le popolazioni “esotiche” sono state considerate utili solo come fornitrici di dati da interpretare. Tradizionalmente, il problema dei cosiddetti “informatori” concerneva semplicemente la scelta delle persone “giuste” (ossia quelle meglio informate e/o più rappresentative) e come questi potevano essere coinvolti nella ricerca. Esso è diventato un problema di 23 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) maggiore complessità, e per certi aspetti cruciale, quando agli occhi dell’osservatore si è dissolta l’immagine di omogeneità e compattezza delle società indagate, immagine che supportava la convinzione che esse potessero essere rappresentate da persone “bene informate”. Questo interesse per l’informatore a lungo si è limitato a descrivere il rapporto “intimo”, di «innamoramento» (cfr. Bianco 1994; Casagrande 1966; Gallini 1981) di alcuni antropologi con le loro “fonti privilegiate” e non si è trasformato invece in una condivisione dell’autorialità etnografica e delle dinamiche di creazione del testo derivate dall’interazione tra i due soggetti in campo (cfr. Miceli 1982). È invece da qualche decennio che ci si è chiesti chi e cosa ogni volta l’informatore rappresenti, e ci si è resi conto che egli è sempre, sia pure in misura diversa, condizionato sia dalla propria soggettività (idee, sentimenti e ri-sentimenti personali, appartenenze, amicizie e inimicizie, ecc.), sia dal proprio status e dalle funzioni e relazioni ad esso connesse: all’interno di una medesima cultura, il sistema dei valori, la percezione delle cose e l’idea di sé e degli altri possono presentare varianti significative a seconda della posizione e del ruolo sociale dell’informatore, oltre che a seconda della sua sensibilità personale e delle sue predilezioni (cfr. Aime 2008; Antiseri 2005; Clemente-Mugnani 2001; Matera 2006). Questi elementi di costruzione del testo etnografico diverranno l’oggetto privilegiato dell’antropologia interpretativa che, sulla scia di Derrida (2006) e del decostruzionismo, ha svelato il processo creativo che si nasconde dietro la presunta “autorità” della monografia etnografica. Clifford ha portato a concepire l’etnografia come l’esperienza e l’interpretazione di «una transazione costruttiva coinvolgente almeno due, e di solito di più, soggetti consapevoli e politicamente intenzionati» (Clifford 1997: 57-58). I paradigmi della ricerca sul campo basati sull’esperienza diretta e l’interpretazione cedono il passo al discorso dialogico tra antropologo e ‘fonte’ e alla polifonia degli sguardi e dell’interpretazione. «Il modello dialogico […] nella forma testualizzata che deve assumere per rendere conto del processo di “dare e avere” in cui consiste la ricerca sul campo, si configura comunque come rappresentazione del dialogo (D’Agostino 2008: 156). L’esito ultimo di questa impostazione metodologica porta a considerare le «etnografie come finzioni» nel senso di qualcosa che è stato fabbricato, costruito a tavolino e 24 quindi che non rappresenta la realtà ma quello che della realtà l’antropologo percepisce e attraverso il mezzo della “scrittura” esperisce. Un rapporto triplice quindi tra mente, mondo e “l’altro” che rivela la profonda interrelazione esistente tra i tre livelli di questa «isotopia complessa». Secondo Greimas il discorso plurivoco permette infatti il manifestarsi di una «isotopia complessa» quando, oltre ad occuparsi del «piano isotopo della manifestazione» del discorso, non dimentichiamo che la comunicazione umana non è, come molti credono, né univoca né unilineare […] il mito che in ogni momento la nostra comunicazione sociale quotidiana riversa su di noi […] possiede senza dubbio un contenuto diverso dal discorso primitivo, ma la sua incontestabile presenza conferma il carattere spesso plurilineare della manifestazione. Pertanto, ciò che obbiettivamente conta per l’analisi del contenuto è la necessità di riconoscere l’esistenza, in alcuni casi, di diversi piani isotopi, in uno stesso discorso; e, in un secondo tempo, l’obbligo di spiegare strutturalmente questa ambivalenza (Greimas 2000: 138-140). Solo quando un determinato fenomeno presenta queste caratteristiche si può dire che esso manifesta una isotopia complessa, come nella ricerca sul campo (cfr. Greimas-Courtés 2007: 171-173). Il problema di come una persona interagisce con un’altra (come nel caso dell’informatore con l’antropologo) è una questione epistemologica di primaria importanza. Per meglio definirla in questo saggio farò riferimento agli studi condotti da John Searle (1994, 2000, 2005) sull’intenzionalità e sul rapporto mente/mondo che estendono al mentale la nozione tardo-wittgensteiniana di Sfondo associandola alla nozione di Rete (ossia quella porzione dello Sfondo descritta facendo riferimento alla sua capacità di provocare intenzionalità cosciente), insieme all’«autoreferenzialità causale» tra intenzioni e percezioni che attua l’«inter-relazione» pensiero/mondo. Ciò implica il superamento del «dualismo di schema concettuale e di contenuto empirico» affrontato da John McDowell (1999). In contrapposizione alle teorie di Davidson e di Evans, egli afferma che le capacità concettuali sono già in atto nella stessa esperienza e che il linguaggio, in quanto ricettacolo della tradizione, è indispensabile per creare le relazioni e le connessioni che appartengono allo Sfondo/Rete di riferimento. Una interessante prospettiva è inoltre quella topologica: l’identità degli oggetti trova la sua concretizzazione nella localizzazione spaziale. Franco Lo Piparo, nel suo volume dedicato ad Aristotele (2003), dimostra come si possa applicarla anche al linguaggio. «Gli uomini non usano il linguaggio, vivono il linguaggio»: il linguaggio è dunque un sistema autosufficiente e monofacciale (si ribalta così la nozione di bifaccialità del segno linguistico postulata da Saussurre e da Hjelmslev). Per rappresentarlo spazialmente bisogna ricorrere al nastro di Möbius, una figura autosufficiente, monofacciale e illimitata che si può utilizzare per rendere la spazialità monadica del linguaggio e quindi anche della mente dell’uomo che lo genera. L’opposizione ipotizzata tra realtà e rappresentazione – ontologica e gnoseologica, percezione sensoriale e sua conversione semiotica – richiede quindi una più attenta riflessione nel quadro dei più recenti sviluppi delle neuroscienze. Questo nuovo paradigma interpretativo era stato anticipato dal filosofo francese Maurice Merleau-Ponty che porta a compimento con il tema del «corpo proprio» la fenomenologia novecentesca. La percezione è l’esperienza corporea fondamentale in cui il corpo non è oggetto ma soggetto e dove l’incorporazione è la condizione in virtù della quale possiamo costruire una struttura oggettuale della realtà grazie ai processi corporei di percezione, attraverso i quali le rappresentazioni si formano. Il punto di vista dell’incorporazione considera di fondamentale importanza il carattere sinestico della percezione. Il linguaggio sinestesico esemplifica una caratteristica generale dell’esperienza sensoriale, cioè il suo dipendere in modo trasversale dalle diverse modalità percettive. L’esperienza percettiva si basa quindi su una architettura neurale altamente interconnessa e funzionalmente unimodale e cross-modale allo stesso tempo. Tesi quest’ultima avvalorata da Vilayanur Ramachandran (2004) secondo cui il cervello esegue un’astrazione sinestetica a modalità incrociata; da questo deriva la teoria dell’innesco sinestetico del protolinguaggio ancestrale (prima ancora del conio delle parole era in atto un’astrazione sinestetica a modalità incrociata, cioè una traduzione preesistente dell’aspetto visivo in rappresentazione uditiva). Questa nuova branca del sapere, chiamata “fenomenologia neurofisiologica”, supera la tradizionale divisione del cervello in cellule motorie, sensoriali e funzioni cognitive attraverso una nuova dimensione olistica che vede nella percezione e nell’azione un unico processo indistinto che sfocia nell’imitazione. La tesi è avvalorata dagli studi condotti in Italia da Giacomo Rizzolati e Carlo Sinigaglia (2006) e da quelli condotti in America da Marco Iacobini (2008). La nostra capacità di rappresentare gli altri è dovuta a cellule cerebrali chiamate neuroni specchio che si attivano quando vediamo un’altra persona compiere un’azione e si attivano anche quando siamo noi a compiere la stessa azione. I neuroni specchio vengono considerati precursori evolutivi dei sistemi neurali che ci consentono di comunicare attraverso il linguaggio e di attivare l’empatia e la socializzazione. Una prospettiva interessante infine è quella proposta da Thomas Csordas (2002) per l’analisi della cultura e del sé. Partendo dalla riflessione della fenomenologia della percezione, Csordas trova nell’incorporazione una chiave di lettura possibile per l’analisi dei fenomeni legati ai temi della salute, cui si può accostare la nozione di habitus elaborata da Pierre Bourdieu (2003) quale principio di creazione delle pratiche e delle rappresentazioni. Questa interazione tra filosofia del linguaggio, fenomenologia, neuroscienze, body anthropology permetterà, spero, di delineare un percorso di ricerca che consenta di comprendere meglio i modi di interazione uomo/uomo e giungere a una conoscenza «plurilineare» nel campo delle scienze umanistiche. John Searle ritiene che la principale funzione della mente dell’uomo sia quella di mettersi in relazione con il mondo attraverso la percezione e l’azione. «Mediante la percezione assorbiamo informazioni relative al mondo, quindi coordiniamo tale informazione […] infine prendiamo decisioni oppure concepiamo intenzioni che producono azioni mediante le quali affrontiamo il mondo» (Searle 2005: 231). Questo richiamo all’adattamento mente-mondo deve fare i conti con la teorizzazione searleana della Rete e dello Sfondo che rinvia a un punto di contatto tra mente e mondo abbandonando, come osserva Francesca Di Lorenzo Ajello, ogni corrispondenza tra mente, realtà e “in sé”. L’olismo, che si basa sull’idea che le proprietà di un sistema non possano essere spiegate esclusivamente tramite le sue componenti, presuppone che i fatti siano tali solo all’interno di una teoria o di una forma di vita. Incardinati in uno Sfondo determinato è a questi fatti che si deve adattare «ogni teoria che voglia essere vera, con la conseguente rinuncia ad ogni pretesa di “pura” corrispondenza ad una presunta realtà in sé» (Di Lorenzo Ajello 1998: 99). D’altronde la nozione tardo-wittgensteiniana di Sfondo come elemento che contestualizza il linguaggio è estesa da Searle anche al mentale; insieme all’«autoreferenzialità causale» tra intenzioni e percezioni si attua l’«inter25 Ragionare R. Perricone, La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’ ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) relazione» pensiero/mondo. Dall’analisi di queste due nozioni si desume che le rappresentazioni, «lungi dal poter essere mere copie della realtà miranti al suo semplice rispecchiamento, ne sono piuttosto elaborazioni cognitive di tipo prospettico, imprescindibilmente selettive ed interpretative» (Ibidem: 13). L’ipotesi di Sfondo, in origine riferita al significato letterale delle parole, è stata estesa da Searle ad ogni forma di intenzionalità i fenomeni intenzionali – significato, comprensione, interpretazione, credenze, desideri, esperienze – hanno luogo unicamente in virtù di un insieme di facoltà di Sfondo che, di per se stesse, non sono intenzionali […] i fenomeni intenzionali non fanno che determinare le condizioni di soddisfazione relative a un insieme di facoltà di per sé non intenzionali. Il medesimo stato intenzionale potrà dunque determinare condizioni di soddisfazione differenti secondo le diverse facoltà di Sfondo coinvolte; d’altra parte, un certo stato intenzionale non determinerà alcuna condizione di soddisfazione se non verrà posto in relazione alle proprie facoltà di Sfondo, e se non verrà inserito all’interno di una Rete di altri stati intenzionali ad esso collegati (Searle 1994: 187-188, corsivo mio). Ogni «unità sintattica» non corrisponderà dunque a una parola ma a una sequenza di «occorrenze segniche» che si possono identificare con le dicotomie, tanto care agli strutturalisti, che dipendono dallo Sfondo. Quindi la distinzione tra Rete e Sfondo – continua Searle – «perde senso nel momento stesso in cui emerge che la Rete non è altro che quella porzione dello Sfondo descritta facendo riferimento alla sua capacità di provocare intenzionalità cosciente» (Ibidem: 204). Quanto detto implica il superamento del «dualismo di schema concettuale e di contenuto empirico» che John McDowell ha affrontato nel suo libro Mente e mondo. Secondo McDowell le capacità concettuali sono già insite nella stessa esperienza: Non è che le operazioni effettive delle capacità concettuali facciano la loro comparsa solo nell’attualizzazione delle disposizioni al giudizio, con cui le esperienze vengono identificate – così che l’esperienza sarebbe connessa con i concetti solo tramite una potenzialità. Che le cose ci appaiano in un certo modo è già, di per sé, un modo dell’azione effettiva delle nostre capacità concettuali […] Il pensiero può entrare in relazione con la realtà empirica solo perché, in definitiva, pensare significa abitare lo spazio delle ragioni e agire in esso (McDowell 1999: 66, corsivo mio). 26 Ciò vuol dire che bisogna essere propensi a mutare il proprio atteggiamento psicologico in base al contesto, alla situazione e quindi allo Sfondo-Rete in cui siamo in quel momento collocati e essere pronti a formulare costantemente le domande che determinano le scelte1. Gli esseri umani – prosegue McDowell – si evolvono «abitando lo spazio delle ragioni» o «vivendo le loro vite nel mondo». Osservando il funzionamento del linguaggio ci si trova di fronte a «una prima concretizzazione di un insieme di disposizioni mentali, della possibilità di un orientamento verso il mondo» (Ibidem: 136); la caratteristica davvero importante del linguaggio naturale è che esso «serve come ricettacolo della tradizione, un magazzino della saggezza accumulatosi nel corso della storia su cosa è una ragione per cosa. La tradizione è soggetta alla modifica ragionata di ogni generazione che la eredita» (Ibidem: 137). Ricevere in dote questo patrimonio di sapere equivale per i successori ad «acquisire una mente, la capacità di pensare e di agire intenzionalmente», ma per far questo l’uomo «deve essere iniziato a una tradizione quale essa è» (Ibidem). Bisogna quindi comprendere, come precisa René Thom, «che il fondamento dell’identità delle cose è nella loro localizzazione spaziale: due cose che occupano simultaneamente due campi disgiunti dello spazio non possono essere identiche» (Thom 2006: 77). Partendo da questo postulato, cioè che l’identità degli oggetti ha la sua concretizzazione nella localizzazione spaziale, applichiamolo al linguaggio come elemento centrale del rapporto mente/mondo. Franco Lo Piparo, in maniera efficace, ha affermato che gli uomini non usano il linguaggio, vivono il linguaggio. Il linguaggio non è strumento ma attività specie-specifica di organi naturali […]. L’uomo non sceglie il linguaggio. A partire dal momento in cui comincia a parlare non è più libero di fare a meno del linguaggio o di prenderne le distanze […]. Il parlante è soggetto parlante così come è soggetto respirante, soggetto vedente, soggetto udente, soggetto camminante […] il linguaggio è attività pervasiva […] questa è la tesi forte e originale di Aristotele. Il parlare è […] attività che, a partire dal momento in cui sorge, riorganizza e rende specifiche tutte le attività cognitive umane, comprese quelle che l’uomo mostra di avere in comune con gli animali non umani: percezioni, immaginazione, memoria, desiderio, socialità (Lo Piparo 2003: 3, 5). Lo Piparo sostiene quindi che il linguaggio è un sistema autosufficiente e quindi monofaccia- le. Ciò ribalta la nozione di bifaccialità del segno linguistico postulata sia da Saussurre (2009) che da Hjelmslev (1968). Analizzando il foglio di carta come superficie bifacciale di riferimento la linea che unisce i punti A e B deve uscire dal foglio, quindi il modello spaziale della teoria di Saussurre presuppone che i due punti sono in comunicazione solo attraverso un terzo elemento diverso dai due punti A e B. Per Hjelmslev abbiamo due piani: un “piano dell’espressione” e un “piano del contenuto”; possiamo fare coincidere i due piani con i punti A e B che vengono messi in relazione attraverso le linee che li congiungono (traduttori semiotici). Queste linee di congiunzione però sono tracciate da un osservatore che non si trova né in A, né in B e abbiamo quindi un elemento X esterno al sistema che lo determina2. Il giudizio semiotico, osserva Franco Lo Piparo, è dello stesso tipo dei due punti che mette in relazione. La linea di congiunzione non esce mai dalla superficie. Nel linguaggio verbale non c’è discontinuità tra significante e significato e non c’è discontinuità nemmeno tra significato e significante da una parte e l’implicazione semiotica che li mette in relazione dall’altra. In termini filosofici: i punti messi in relazione e la relazione medesima ricadono nella medesima regione ontologica […]. I sistemi bifacciali in quanto incapaci di autofondarsi sono necessariamente convenzionali […] il linguaggio verbale, invece, in quanto costituzionalmente monofacciale è, volendo usare la terminologia della fisica contemporanea, un sistema bootstrap: si tira su reggendosi, per così dire, sui tiranti dei propri stivali (Lo Piparo 2003-04: 6). Per rappresentare spazialmente la lingua quindi bisogna ricorrere a una figura con una sola faccia, in modo che ciascun punto di essa possa essere raggiunto senza uscire fuori, possa cioè autoesplorarsi in un processo di autopoiesi. Il nastro di Möbius, dal nome del matematico che lo ha inventato, condivide con la lingua le medesime caratteristiche topologiche3. Il nastro di Möbius è una superficie “unilatera”: ha un solo lato e un solo margine. Per ottenere un nastro di questo tipo è sufficiente unire le due estremità di una striscia di carta dopo averle fatto fare a una estremità una torsione di 180°. Il risultato è una superficie con una sola faccia su cui ci si può spostare da un punto all’altro senza mai attraversarne il margine. Il nastro di Möbius è quindi autosufficiente, monofacciale ed illimitato e si può utilizzare per rendere la spazialità monadica del linguaggio e quindi anche della mente dell’uomo che lo genera. «Forse la mente e la materia sono come le due facce di un nastro di Möbius: appaiono diverse ma sono, in realtà la stessa cosa» (Ramachandran 2004: 36). Questa mossa epistemologica radicale che elimina il dualismo mente/mondo riducendo l’esperienza alla lingua, alla rappresentazione, non deve portarci a considerare le rappresentazioni come costrutti dell’esperienza; al contrario, seguendo il detto di Heidegger secondo cui il linguaggio può “dischiudere” l’esperienza, bisogna considerarle come costrutti dell’esperienza adottando come termine teorico chiave l’“essere-nel-mondo” del “corpo”. Questo nuovo paradigma interpretativo era stato sviluppato dal filosofo francese Maurice Merleau-Ponty che porta a compimento con il tema del “corpo proprio” la fenomenologia novecentesca: Il tema del corpo proprio si è reso necessario ad una fenomenologia della percezione. Esso però non è meno indispensabile ad una fenomenologia dell’azione […]. Così il corpo proprio introduce un fattore di non simmetria tra la fenomenologia e l’analisi linguistica; si dà infatti come una “realtà” di carattere ambiguo: è un oggetto tra gli oggetti e, ad un tempo, è l’organo non oggettivabile della percezione e dell’azione. Più radicalmente il suo ambiguo statuto ontologico infrange il rapporto soggetto-oggetto. Non è un oggetto, cioè un’unità di senso in una diversità di prospettive variabili perché non è in alcun modo prospettivista, vale a dire tale che può essere visto prima da un lato e poi da un altro lato; ma non è neppure un soggetto nel senso della trasparenza riflessiva. […] Ma è Merleau-Ponty che ha spinto fino alla fine le implicazioni filosofiche del corpo proprio: il corpo che percepisce, egli sostiene, è la condizione organica del percepito nei suoi caratteri qualitativi e significativi; è per mecorpo che c’è qualcosa che è percepito (Ricœur 1986: 169-171). Merleau-Ponty ha definito la fenomenologia come la scienza degli inizi rilevando che il punto di partenza del nostro “essere-nel-mondo” è la percezione. 27 Ragionare R. Perricone, La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’ ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Parlando di primato della percezione, di certo in nessun caso abbiamo voluto dire (il che rappresenterebbe un ritorno alle tesi dell’empirismo) che la scienza, la riflessione, la filosofia siano delle sensazioni modificate […] Così parlando volevamo dire che l’esperienza della percezione ci ricolloca in presenza del momento in cui si costituiscono per noi le cose, le verità, i beni. Intendevamo dire che l’esperienza della percezione ci restituisce un logos allo stato nascente, che ci insegna, al di fuori di ogni dogmatismo, quali sono gli effettivi requisiti dell’oggettività elle-même, e ci ricorda ciò che è proprio della conoscenza e dell’azione. Non si tratta di ridurre il sapere umano al sentire, ma di assistere alla nascita di questo sapere, […] di riconquistare la coscienza della razionalità che si perde quando si crede che essa vada da sé e che, al contrario, si ritrova se la si lascia comparire su di uno sfondo non-umano (Merleau-Ponty 2004: 48). La percezione è l’esperienza corporea fondamentale in cui il corpo non è oggetto ma soggetto e dove l’incorporazione è la condizione in virtù della quale possiamo costruire una struttura oggettuale della realtà grazie ai processi corporei di percezione, attraverso i quali le rappresentazioni si formano. Questi processi creativi sono strettamente connessi con l’intenzionalità, che Merleau-Ponty descrive come un “tendere verso il mondo”-“dedicarsi al mondo”; composta da elementi intenzionali che si intrecciano tra noi e il mondo, queste espressioni sono destinate a valere non come rappresentazione ma come significato esistenziale. Da qui il concetto di incorporazione che caratterizza la riflessione antropologica contemporanea. Thomas J. Csordas sviluppa la nuova prospettiva metodologica per l’analisi della cultura e del sé, portata avanti dal punto di vista dell’incorporazione che combina la “teoria della percezione” di Merleau-Ponty con la “teoria della pratica” di Pierre Bourdieu, pensando il corpo non come un potenziale oggetto di studio ma come il soggetto stesso della cultura. Il paradigma dell’incorporazione annulla la contrapposizione ontologica fra soggetto e mondo, fra individuo e società; un paradigma che radica la “mente” nel “corpo” e il “corpo” nel mondo e nella storia. Csordas definisce questo suo approccio metodologico “fenomenologia culturale” una prospettiva volta a cogliere il ruolo attivo del corpo (fenomenologia) non nelle sue vesti trascendentali ma nella sua fatticità storica (culturale) […]. La sua proposta è quella di non fermarsi alle rappresentazioni culturali delle esperienze, ma di indagare l’esperienza stessa dei 28 soggetti culturali. Praticamente egli ci invita ad affiancare all’antropologia del corpo un’antropologia dal corpo. […] I due approcci vanno intesi come partner dialogici […] L’obbiettivo è quello di indagare dunque le dimensioni vissute dei processi culturali che sono al cuore della percettiva elaborazione dell’esperienza e della realtà. L’incorporazione, per Csordas, è dunque un paradigma che ci aiuta a comprendere la natura dell’esperienza umana in riferimento ai processi culturali e la fenomenologia culturale un approccio volto a sintetizzare l’immediatezza dell’esperienza incorporata con la molteplicità dei significati culturali in cui siamo sempre e inevitabilmente immersi. […] Tuttavia, secondo Csordas, l’obbiettivo dell’antropologia non è quello di catturare l’esperienza ma di dare accesso ad essa intesa nei termini di cosa c’è di significativo nel significato, della significatività del significato (cogliere le trasformazioni e i processi nella loro specificità esperienziale). Questa definizione dell’esperienza è sottesa da un presupposto fondamentale: la dialettica fra linguaggio e rappresentazione da un lato ed esperienza incorporata ed essere-nel-mondo dall’altro (Quaranta 2008: 56-58, 64). Per far questo Csordas si avvale delle nozioni, da lui stesso formulate, di «forme somatiche di attenzione» e di «formazione di immagini incorporate»: la prima è definita «come modi culturalmente elaborati di impegnarsi, con il proprio corpo, in contesti che includono la presenza incorporata degli altri» (esempio i riti terapeutici); la seconda è un costrutto correlato al primo che si può definire solo partendo dal presupposto che quando pensiamo alla formazioni di immagini ci riferiamo alle immagini mentali che sono immagini visive «che hanno la forma di figure o rappresentazioni» (Csordas 2003: 31). Questa prospettiva euristica trasforma la nozione di incorporazione nella base esistenziale del sé e della cultura, introducendo una materialità basata sull’esperienza corporea che si struttura attraverso l’integrazione del tatto e della vista che rimanda alla formulazione di Merleau-Ponty C’è un circolo del toccato e del toccante, il toccato afferra il toccante; c’è un circolo del visibile e del vedente, il vedente non è senza esistenza visibile; c’è anzi inscrizione del toccante nel visibile, del vedente nel tangibile – e reciprocamente c’è infine propagazione di questi scambi a tutti i corpi dello stesso tipo e dello stesso stile che io vedo e tocco, – e ciò per la fondamentale fissione o segregazione del senziente e del sensibile che, lateralmente, fa comunicare gli organi del mio corpo e fonda la transitività da un corpo all’altro (Merleau-Ponty 1969: 159). Già il neurologo e psichiatra Erwin Walter Straus, nella sua critica ai fondamenti dei saperi organicistici dell’uomo (saperi che mirano a ridurre l’ambito e i problemi delle scienze umane a quelli delle scienze della natura), aveva notato che la fisiologia del movimento considera il movimento stesso separato da esso e proponeva di unificare le diverse particolarità. Per Straus sentire e muoversi, percepire e agire, traiettorie e direzione, spazio e orientamento nello spazio, infine soggetto e mondo risultano dimensioni indiscernibili e sono, fenomenologicamente, un tutt’uno (cfr. Leoni 2006). Bisogna quindi considerare di fondamentale importanza il carattere sinestico della percezione. Il termine sinestesia (dal greco syn, “insieme” e aisthánestai, “percepire”) indica, come è noto, il procedimento retorico basato sull’associazione, all’interno di un’unica immagine, di termini relativi a diverse sfere sensoriali che, in un rapporto di reciproca interferenza, creano una percezione simultanea. Il termine “sinestesia” è stato coniato da Francis Galton, cugino di Darwin, in riferimento ad un curioso fenomeno nel quale alcune persone, perfettamente normali, quando sentivano una nota musicale “vedevano” un determinato colore (cfr. Ramachandran 2004: 63-83; Sacks 2008: 50-60). In termini linguistici, si parla di descrizione sinestesica quando per nominare una esperienza percettiva tipica di un determinato organo di senso utilizziamo termini il cui referente è legato ad un diverso sistema sensoriale (ad esempio, dire di un colore che è caldo, un rumore alto, una visione dolorosa e così via). Il linguaggio sinestesico esemplifica una caratteristica generale dell’esperienza sensoriale, cioè il suo dipendere in modo trasversale dalle diverse modalità percettive. L’esperienza percettiva si basa quindi su una architettura neurale altamente interconnessa e funzionalmente unimodale e cross-modale allo stesso tempo. Cristina Cacciari e Manfredo Massironi sottolineano che quando si parla di sinestesia si pensa che ciò comporti un coinvolgimento dei diversi sensi (tatto, vista, udito), i fenomeni sinestesici possono invece avvenire anche entro una stessa modalità sensoriale, «come nel caso di un sinesteta che riferisce di vedere dei colori mentre legge dei numeri. Occorre comunque distinguere fra un uso sinestetico del linguaggio, possibile a tutti, e il percepire sinesteticamente il mondo, una esperienza infrequente» (Cacciari-Massironi 2003: 163). Vilayanur Ramachandran sostiene, invece, che tutti quanti siamo di fatto sinestetici: «Il cervello esegue un’astrazione sinestetica a modalità incrociata, riconoscendo la comune caratteristica (asprezza dei contorni, asprezza del suono), estrapolandola e giungendo alla conclusione che sia la lettera sia il suono sono kiki, cioè appuntite/acute» (Ramachandran 2004: 63, 83 corsivo mio)4. Considerando l’asimmetria funzionale tra gli emisferi cerebrali5 Ramachandran formula la «teoria dell’innesco sinestetico del linguaggio», anzi – come sottolinea – questo principio vale per il «protolinguaggio ancestrale» (Ibidem: 127, nota 11). Il test di buba-kiki dimostra che esiste una preesistente traduzione non arbitraria dell’aspetto visivo di un oggetto (nel giro fusiforme) in rappresentazione acustica (nella corteccia uditiva). In altre parole, prima ancora del conio delle parole era in atto un’astrazione sinestetica a modalità incrociata, cioè una traduzione preesistente dell’aspetto visivo in rappresentazione uditiva […]. Come vi è un’attivazione incrociata preesistente e congenita tra suono e visione (l’effetto buba-kiki), così vi è un’attivazione incrociata non arbitraria tra l’area visiva nel giro fusiforme e l’area di Broca che, nella parte anteriore del cervello, genera i programmi preposti al controllo dei muscoli della vocalizzazione, della fonazione e dell’articolazione, ossia il nostro modo di muovere le labbra, lingua e bocca […] ritengo vi sia anche un’attivazione incrociata preesistente tra l’area corticale della mano e l’area corticale della bocca, che sono contigue nella mappa motoria di Penfield nel cervello (Ibidem: 78-80). Questo concetto si può spiegare grazie al fenomeno della sincinesia: osservata per primo da Charles Darwin il quale notò che quando qualcuno taglia con le forbici apre e chiude inconsapevolmente anche le mandibole; il fenomeno è stato definito “sincinesia” perché nel cervello le aree della mano e della bocca sono contigue nella mappa corticale e forse vi è uno sconfinamento di segnali tra gesti e vocalizzazione. Abbiamo così definito tre cose: attivazione incrociata mano-bocca; attivazione incrociata tra bocca (area di Broca), forma visiva (giro fusiforme) e contorni del suono (corteccia uditiva); attivazione incrociata acustico-visiva, con effetto buba-kiki. Agendo insieme, le tre attivazioni hanno un effetto sinergico di innesco: una valanga che culmina nell’emergere di un linguaggio primitivo (Ibidem: 80)6. Queste considerazioni fatte da Ramachandran per il linguaggio, non essendo più da dimostrare la stretta connessione tra linguaggio, cultura e società, si possono applicare a qualsiasi campo del sapere. Come afferma Antonino Buttitta, è nella mente che vanno ricercate le 29 Ragionare R. Perricone, La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’ ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) regole della comunicazione e di conseguenza della cultura e della società. «È nella mente che esistono le regole finite che consentono, proprio perché finite, di produrre un numero infinito di soluzioni […] È la mente che ne determina l’ordine degli elementi costitutivi, i processi, dunque la dinamica, delle inclusioni e delle esclusioni: in una sola parola il senso» (Buttitta 2000: 84). Il nostro cervello è composto da una rete di neuroni, le cui interconnessioni si sovrappongono alla rete di interazioni genetiche determinando la morfogenesi dell’encefalo umano. La rete neuronale che, come sappiamo, incrocia la rete d’espressione genetica e vi si incastra, si assesta progressivamente nel corso dello sviluppo embrionale e durante la maturazione postnatale. […] Nel corso di questo sviluppo postnatale il neonato compie un numero molto alto di esperienze in relazione al proprio ambiente circostante. La connettività del cervello del neonato e del bambino si trova esposta all’impronta di quell’ambiente. […] Si crea così un profondo intrico “epigenetico” tra la morfogenesi connessionale del cervello e l’attività, tanto stimolata dal contesto quanto spontanea, che l’investe. Si produce una stabilizzazione selettiva di sinapsi che fa cedere l’involucro genetico alla traccia dell’ambiente. Ormai può svilupparsi una cultura e trasmettersi a livello del gruppo sociale (Changeux 2007: 40). Ma cos’è che ci permette di capire quello che gli altri pensano, provano e fanno? Ludwig Wittgenstein sosteneva che «L’immagine mentale è l’immagine che si descrive quando si descrivono le proprie rappresentazioni» (1967: 153)7. La nostra capacità di rappresentazione si manifesta grazie all’azione di interazione con il mondo e con gli uomini e al feedback continuo che da questa relazione nasce. Infatti, Merleau-Ponty ha rilevato che: «La comunicazione o la comprensione dei gesti è resa possibile dalla reciprocità delle mie intenzioni e dei gesti altrui, dei miei gesti e delle intenzioni leggibili nella condotta altrui. Tutto avviene come se l’intenzione dell’altro abitasse il mio corpo o come se le mie intenzioni abitassero il suo» (2003: 256). La nostra capacità di rappresentare gli altri è dovuta a cellule cerebrali chiamate neuroni specchio che forniscono una spiegazione neurofisiologica alle nostre interazioni quotidiane. Ramachandran sostiene che i neuroni specchio sono per le neuroscienze ciò che il DNA è stato per la biologia, cioè una scoperta che rivoluzionerà l’intero campo di studi. Oltre ad aver avuto un ruolo evidente nell’empatia, «i neuroni specchio hanno forse contribuito in ma30 niera determinante all’emergere di un’altra importante capacità della mente: l’apprendimento attraverso l’imitazione e la conseguente trasmissione della cultura» (Ramachandran 2004: 107). I neuroni specchio si attivano quando vediamo un’altra persona compiere un’azione, ad esempio prendere una palla, e anche quando siamo noi a compiere la stessa azione. Comprendiamo le azioni degli altri perché nel nostro cervello abbiamo un modello di quell’azione, basato sui nostri stessi movimenti. È come se, guardando, stessimo anche noi compiendo l’azione osservata. Si suppone che i neuroni specchio non si limitino solo ad accoppiare azioni eseguite e azioni osservate ma forniscano anche una codifica delle intenzioni altrui. «La stessa azione può essere associata a intenzioni differenti» (Iacobini 2008: 33); i neuroni specchio sono, in sintesi, il correlato neuronale dei processi di simulazione necessari alla comprensione delle altre menti. Questo assunto è comprovato da molti test di laboratorio realizzati con le più innovative tecniche di neuroimaging (risonanza magnetica funzionale – fMRI; magnetoencefalografia – MEG) che consentono esperimenti non invasivi con soggetti umani (cfr. Rizzolati - Sinigaglia 2006). Alcuni autori sostengono che la teoria fenomenologica di Husserl possa fornire alle neuroscienze analisi ricche e dettagliate, che permettano la spiegazione di certi fenomeni, e offrire un metodo privilegiato per risolvere le difficoltà sollevate dal paradigma funzionalista (cfr. Cappuccio 2006). Infatti, lo studio della filosofia di Merleau-Ponty ha suggerito ai ricercatori dell’Università di Parma, che per primi hanno scoperto i neuroni specchio, «di concentrare l’attenzione sugli oggetti e sui fenomeni del mondo e sulla nostra esperienza interiore di quegli stessi oggetti e fenomeni» (Iacobini 2008: 22). Una “fenomenologia neurofisiologica” che supera la tradizionale divisione del cervello in cellule motorie, sensoriali e funzioni cognitive attraverso una nuova dimensione olistica che vede nella percezione e nell’azione un unico processo indistinto che sfocia nell’imitazione (cfr. Gallese-Goldman 1998; Gallese 2006; Petit 2006; Varala 1996). Richard Dawkins, nel celebre libro Il gene egoista (1976), mostra come l’imitazione sia la forza motrice per la trasmissione di atteggiamenti, pratiche, idee e persino di interi sistemi di credenze. Dawkins prendeva a prestito concetti dalla biologia e dalla genetica per evidenziare un’analogia tra la trasmissione di geni nel corso delle generazioni e la trasmissione di comportamenti. La parola chiave da lui inventata fu “meme” che nel Vocabolario della lingua italiana Zingarelli è così definito: «Unità fondamentale dell’informazione culturale, per esempio un’idea o un determinato comportamento, trasmessa da un individuo a un altro verbalmente e con l’imitazione». Susan Blackmore (2002), sulla scia delle intuizioni di Dawkins, sostiene che a distinguere in modo fondamentale gli umani da tutti gli altri animali non sia, come diceva Aristotele, il linguaggio bensì la capacità di imitare. Le indagini sperimentali condotte da Marco Iacobini alla UCLA di New York, partivano dall’ipotesi che la stessa azione può essere associata a intenzioni diverse e che sia il contesto ad offrire all’osservatore le indicazioni relative all’intenzione possibile. Questa ipotesi di ricerca ha comportato l’abbandono del paradigma dominante nel campo della psicologia dell’età evolutiva, la “teoria della teoria” (che prevede complesse operazioni inferenziali per capire ciò che le persone fanno) a favore della “teoria della simulazione” (secondo la quale noi comprendiamo gli stati mentali delle altre persone facendo finta di essere nei loro panni). Gli esperimenti hanno avvalorato l’ipotesi che siano i neuroni specchio che codificano le intenzioni attraverso il modello della simulazione. In che modo i neuroni specchio ci fanno capire l’intenzione associata all’azione? L’ipotesi di Iacobini è la seguente: noi attiviamo una catena di neuroni specchio, così che queste cellule possano simulare un’intera sequenza di azioni semplici che costituisce la simulazione, nel cervello, dell’intenzione della persona che stiamo osservando. Per questa ipotesi, un sottotipo cruciale di neuroni specchio sono quelli definiti “logicamente correlati”, che non ‘scaricano’ soltanto per la stessa azione, ma anche per azioni logicamente correlate, quali erano, negli esperimenti con le scimmie, “afferrare con la mano” e “ portare alla bocca”. Si tratta probabilmente di elementi neuronali determinanti nella comprensione delle intenzioni associate con l’azione osservata. Vedo qualcun altro afferrare una tazza con una presa di precisione, e i miei neuroni specchio della presa di precisione scaricano. Fin qui sto solo simulando un’azione di presa. Però, dato che il contesto suggerisce il bere, fa seguito l’attivazione di altri neuroni specchio: sono questi i neuroni specchio “logicamente correlati”, che codificano l’azione di portare la tazza alla bocca. Attivando questa catena di neuroni specchio, il cervello è in grado di simulare le intenzioni degli altri […] I neuroni specchio ci aiutano a ricostruire nel nostro cervello le intenzioni delle altre persone, consentendoci una comprensione profonda dei loro stati mentali (Iacobini 2008: 72). I neuroni specchio vengono considerati precursori evolutivi dei sistemi neuronali che ci consentono di comunicare attraverso il linguaggio e di attivare l’empatia e la socializzazione (si pensa infatti che certi deficit sociali, come quelli relativi allo spettro autistico, possano essere dovuti a una disfunzione primaria dei neuroni specchio)8. Ritornando al personaggio di Calvino, Gurdulù, le sue stravaganze portano inevitabilmente ad interrogarsi sulla relatività del mondo e sul modo in cui noi interagiamo con esso: ascoltando i dodici rintocchi dell’orologio Gurdulù direbbe di avere sentito battere “l’una dodici volte”. Se il nostro cervello fosse una macchina semplice, al medesimo stimolo dovremmo dare la medesima risposta (dodici uguali rintocchi, dodici uguali risposte). Invece il nostro cervello «è fatto in modo tale che lo stimolo causato dal primo rintocco provoca una modifica sinaptica. Quest’ultima induce una variazione nella struttura connessionale che riceve il secondo stimolo e che, pertanto, discrimina effettivamente i singoli componenti della sequenza» (Bellone 1992: 111): inferiamo che “è mezzogiorno” perché, secondo Quine (2004), le relazioni tra mondo e comportamento sono, appunto, frutto di inferenze. In questo modo il dualismo mentemondo viene a decadere a favore di un cervello dinamico e interagente con il mondo esterno attraverso i suoi recettori sensoriali. Ci troviamo di fronte a un intersecarsi di corpo e mondo: «nessuno di noi ha consapevolezza della stragrande maggioranza dei processi corporali mediante i quali l’organismo percepisce e valuta […] dei rapporti tra sensori, corpi e comportamenti» (Bellone 2000: 131). L’interazione mente/mondo avviene quindi attraverso l’utilizzo dei sistemi neuronali costituiti dai neuroni specchio che attraverso l’imitazione permettono di comprendere quello che gli altri fanno nel loro ambiente/mondo. Assodato questo postulato scientifico di matrice sperimentale, possiamo chiederci come allora avvenga la comprensione tra due persone che non condividono la Rete/Sfondo searliana o non spartiscono la “tradizione” macdawilliana o come si possa utilizzare spazialmente il linguaggio che è connotato all’interno di un circuito bifacciale chiuso (nastro di Mobius) e lo si possa comprendere solo stando all’interno di esso. Nelle indagini etnografiche condotte con il metodo della ricerca sul campo, inaugurate da Malinowski, l’antropologo mette in atto l’“osservazione partecipante”. Questa locuzione ossimorica, dal momento che la partecipazione si 31 Ragionare R. Perricone, La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’ ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) oppone radicalmente all’osservazione, dà conto dei due aspetti che caratterizzano le discipline antropologiche: la “partecipazione” e l’“osservazione”. La prima implica che il ricercatore si faccia accettare dalla comunità che studia e comprenda il suo modo di esprimersi e di pensare. Questo servirà a conferire alle sue conoscenze ampiezza e profondità, perché, partecipando egli verrà in possesso di un numero maggiore di informazioni. A un livello di più profondo impegno e di maggiore condivisione, la partecipazione consentirà la conoscenza “dall’interno”, cioè il ricercatore sarà in grado di descrivere la cultura osservata. Partecipando, allora, l’osservatore creerà le condizioni per la comprensione della vita profonda della comunità. La partecipazione tuttavia comporta il rischio di perdita della capacità di comprendere veramente, dal momento che vivere non sempre e necessariamente è conoscere. La pratica della “osservazione” preserva da questo rischio. L’osservazione pretende il distacco dalla situazione studiata, la capacità di esserne fuori (mentre si è, partecipando, dentro): questa distanza consente al ricercatore di compiere analisi col soccorso dei suoi quadri concettuali e dei suoi strumenti scientifici, che sono esterni alla cultura osservata. Per far ciò bisogna in primo luogo individuare gli elementi primari che permettono di procedere all’osservazione. Questa macro categoria va distinta, secondo Francesco Faeta, in tre livelli: La critica riflessiva ha concentrato la propria attenzione sulla scrittura del testo tralasciando l’esperienza dell’osservazione, sulla quale la pratica della ricerca sul campo si costruisce, e ha raramente prestato attenzione all’esperienza incorporata dei ricercatori. Il fatto, cioè, che il ricercatore utilizza il proprio corpo come strumento di ricerca e attraverso il suo utilizzo si “accultura” durante il suo permanere sul campo. Attraverso lo scontro, e quindi la fusione, dei due termini sopra analizzati – “partecipazione” e “osservazione” – si crea il nuovo concetto di riflettività. Csordas ha parlato di riflettività come elemento del dialogo con il concetto di riflessività, cioè come nozione complementare, invitando a considerare prioritari i processi corporei attraverso i quali ci si accosta alle realtà che si studiano (cfr. Csordas 2003: 28)9. Non a caso l’attività di trasformazione del percepito in rappresentazione è più difficile in ambito antropologico che nella vita quotidiana. «Ciò che viene percepito, stenta in ambito etnografico, a divenire segno, a inserirsi in un orizzonte sincronico di relazione, a trovare una sua giustificazione diacronica» (Faeta 2003: 20). Quando non si riesce a far coincidere il «sistema di assi invariabilmente connesso con il nostro corpo, che portiamo ovunque con noi, come dice Poincaré, e che struttura lo spazio pratico» con la nostra ricostruzione virtuale della situazione osservata, ciò significa che l’antropologia A un primo livello, le informazioni vengono percepite dall’occhio, secondo un processo di tipo biologico (l’occhio guarda) […]. A un secondo livello […] le informazioni vengono riconosciute e immesse in reti di significato culturale (l’occhio vede) […]. A un terzo livello le informazioni visive così elaborate in forma di conoscenza sono inserite all’interno di una prassi continua e finalizzata (l’occhio osserva). L’osservazione, dunque, è una pratica visiva tesa a mettere in relazione gli oggetti e gli eventi […] all’interno di un campo di interazione sociale storicamente definito […] al fine di produrre rappresentazioni della realtà (rappresentazioni mentali, descrizioni scritte, immagini fotografiche, filmiche o videografiche, ecc.). Osservare significa, in sintesi, vedere in situazione e per un fine (culturale, sociale e politico) (Faeta 2003: 18-19). deve solo rompere con l’esperienza indigena e la rappresentazione indigena di tale esperienza; tramite una seconda rottura, essa deve mettere in discussione i presupposti inerenti alla posizione di osservatore esterno che, preoccupato di interpretare delle pratiche, tende a importare nell’oggetto i principi della sua relazione con l’oggetto […] la conoscenza che potremmo chiamare prassiologica ha come oggetto non solo il sistema delle relazioni oggettive che costruisce il mondo della conoscenza oggettivata, ma anche le relazioni dialettiche tra tali strutture oggettive e le disposizioni strutturate all’interno delle quali esse si attualizzano e che tendono a riprodurle, cioè il duplice processo di interiorizzazione dell’esteriorità e di esteriorizzazione dell’interiorità […] La conoscenza prassiologica si distingue dalla conoscenza fenomenologica, di cui integra le acquisizioni, per un punto essenziale: come l’oggettivismo, essa suppone che, in contrapposizione all’evidenza del senso comune, l’oggetto scientifico sia conquistato attraverso un’operazione di costruzione che è anche indissolubilmente una rottura rispetto a tutte le rappresentazioni “precostituite”, come classificazioni prestabilite e definizioni ufficiali (Bourdieu 2003: 180, 185-186). L’osservazione è dunque indispensabile alla ricerca quanto la partecipazione, a patto che si superino i rischi che derivano dall’estremizzazione dell’uno e dell’altro atteggiamento. È necessario, affinché si creino le condizioni più favorevoli alla ricerca, che tra le due componenti si formi un equilibrio omeostatico. 32 L’unico mezzo che permette di realizzare questa duplice rottura epistemologica è l’esperienza multisensoriale affidata al “corpo proprio” del ricercatore; questi attraverso l’“incorporazione del mondo ricercato” cerca di esperire l’habitus culturale che custodisce i diversi percorsi possibili della mappa della vita dell’uomo. Quanto fino adesso detto si può concretizzare solo se spostiamo il concetto di riflessività dal “testo” al “campo”. La conoscenza etnografica diviene possibile solo se si è capaci di passare attraverso le tre fasi tipiche di ogni rito di passaggio: l’abbandono iniziale del proprio ruolo di antropologo, la susseguente immersione totalizzante in un altro sistema di vita e il conclusivo ritorno (non sempre facile) attraverso la narrazione sinestetica della propria esperienza. Se invece di riferirsi a tutti i campi possibili ci si limita ad indagare contesti rituali difficilmente esperibili, si capisce come solo gli “informatori/etnografi” che padroneggiano il doppio codice e che non “fotografano” una parte della realtà attraverso il loro racconto etnografico, ma effettuano un “autoritratto”, un’autobiografia etnografica, possono riuscire a dare senso alle pratiche rituali più disparate. In questa nuova visione metodologica il ricercatore è coinvolto in maniera pre-riflessiva e viscerale nella pratica della ricerca sul campo e solo attraverso il suo coinvolgimento sensoriale e extra-sensoriale gli si dischiudono ambiti e relazioni altrimenti precluse. La ricerca etnografica non consiste soltanto in dialoghi ma anche in esperienze corporee che hanno un ruolo fondamentale nella produzione delle rappresentazioni etnografiche. Come suggerisce Csordas (2003) «mettendo sulla scena analitica anche il ricercatore come soggetto incorporato» la cultura diventa un processo intersoggettivo di produzione di significati «in cui il ricercatore non descrive un sistema di simboli ma è egli stesso implicato nella realtà che indaga e dunque è attore partecipe di essa nella sua veste di soggetto incorporato» (Quaranta 2008: 65). Il tanto vituperato ossimoro antropologico della “osservazione partecipante” riacquista allora senso e significato se si effettua «una deviazione dall’osservazione partecipante all’osservazione della partecipazione» (Tedlock 1991: 69). Questa posizione teorica è avvalorata, negli anni Settanta del Novecento, dall’antropologia dell’esperienza straordinaria. Goulet e Miller (2007) propendono per una partecipazione radicale alla vita della comunità che si studia, che ampli anche l’adozione delle prospettive sia etiche che epistemologiche dei nativi come stru- menti indispensabili per la conoscenza del contesto etnografico indagato. Goulet e Miller si ricollegano a Turner e lo contrappongono a Geertz, concludendo che l’antropologia esperienziale debba «invece riflettere sulle conoscenze che si producono partecipando attivamente alle performance in atto. Imparare significa necessariamente partecipare (non solo ascoltando e parlando ma anche agendo insieme) e trasformarsi» (Aria 2007: 80-81). Nel mondo del rito, infatti, parlare non serve mai a informare, perché la parola non è sapere ma è sempre potere (cfr. Buttitta-Miceli 1989, Giallombardo 2003, Severi 2004), ed è impossibile quindi informare un etnografo sul contenuto della parola “detta” perché altrimenti la parola perderebbe il suo potere risolutivo. Bisogna allora compenetrare nel discorso rituale, viverlo nel proprio corpo ed essere in grado di trovare in se stessi quei significati altrimenti inaccessibili. Come abbiamo visto, riferendo dei neuroni specchio, riusciamo a intendere i comportamenti degli altri simulandone le procedure mentali in riferimento alla rete/sfondo, ma «nel momento in cui spieghiamo il perché dei loro atti, sia pure provvisoriamente, noi ci identifichiamo con essi. Sospendiamo il nostro io e siamo gli altri. Non a caso diciamo, e le parole non sono mai innocenti: “mi metto nei tuoi panni”» (Buttitta 2003: 54). In tale prospettiva di può considerare anche la posizione di Johannes Fabian: «there is an ecstatic side to fieldwork which, again, should not be written off as a quirk but counted amog the conditions of knowledge production, and hence of objectivity» (Fabian 2001: 31). Per questi motivi il nuovo paradigma antropologico dell’“osservazione della partecipazione” che riformula il metodo della ricerca sul campo, in questi termini e con questi confini, potrebbe far uscire fuori dalle secche ermeneutiche in cui si è incagliata la nave dell’antropologia. Note 1 Per una panoramica sugli studi di neuropsicologia su Figura/Sfondo cfr. Savardi-Mazzocco 2003. 2 Per l’applicazioni della quadripartizione di Hjelmslev e del carré semiotico di Greimas all’antropologia cfr. Buttitta 1979. 3 Furono due matematici tedeschi, August Ferdinand Möbius e Johann Benedict Listing, indipendentemente 33 Ragionare R. Perricone, La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’ ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) l’uno dall’altro, che si occuparono peculiarmente della topologia di questi nastri. Cfr. Pickover 2006. Riferimenti 4 La teoria si basa sul “test di buba-kiki” nel quale bisognava associare le parole “buba” e “kiki” a due figure: «una forma ameboide tondeggiante dai contorni morbidi e ondulati e una forma angolosa con i contorni aguzzi e frastagliati del vetro rotto […] Il 98% delle persone ha battezzato buba la forma arrotondata e kiki la forma acuminata […] le parole hanno qualcosa in comune con il suono: l’aspetto visivo di kiki ha una qualità aspra che il suono kiki, rappresentato nella corteccia uditiva dei centri acustici del cervello, condivide» (Ramachandran 2004: 74-75, corsivo mio). 5 I due emisferi sono anatomicamente quasi identici ma funzionalmente differenti: «Le proprietà funzionali delle zone corticali “primarie” – dove le informazioni visive, uditive o somato-sensoriali sono “proiettate” sulla corteccia – sono simmetriche. Semplicemente, il campo visivo di destra proietta alla corteccia visiva di sinistra, e viceversa; le informazioni sensoriali provenienti dalla metà di destra del corpo proiettano alla corteccia somato-sensoriale di sinistra; e così via. Lo stesso avviene per l’unità terminale “dell’azione” del sistema nervoso, ovvero la corteccia motoria primaria, che è organizzata in modo altrettanto simmetrico» (Solms - Turnbull 2004: 270-271). 6 Per un esteso confronto in ambito antropologico del binomio funzionale mano/bocca cfr. Leroi-Gourhan che considera il binomio mano-utensile e faccia-linguaggio fondamentale per gli Antropiani: «facendo intervenire in primo luogo la mobilità della mano e della faccia nel modellare il pensiero in strumenti di azione materiale e in simbiosi sonori […] si può quindi affermare che se, nella tecnica e nel linguaggio di tutti gli Antropiani, la mobilità condiziona l’espressione, nel linguaggio figurato degli Antropiani più recenti la riflessione determina il grafismo» (Leroi-Gourhan 1977: 221-222). Cfr. anche Corballis 2008. 7 Sul rapporto gesto/parola in Wittgenstein cfr. Calmieri 1997: 114-120. 8 L’autismo è considerato dalla comunità scientifica internazionale un disturbo che interessa la funzione cerebrale; la persona affetta da tale patologia mostra una marcata diminuzione dell’integrazione sociale e della comunicazione. Più precisamente si dovrebbe parlare di Disturbi dello spettro dell’autismo (DSA o ASDs, Autistic Spectrum Disorders). Cfr. Frith 2005; Sacks 1998; Surian 2005. 9 Un primo momento di questo rapporto dialogico tra riflessività e riflettività è rappresentato dalle autobiografie realizzate dai nativi, le storie di vita che tanto interesse hanno suscitato nell’antropologia contemporanea. In questo senso sicuramente le storie di vita portano l’antropologo su un “campo” che è sì un “testo”, ma un testo che introduce «lo spettacolo meraviglioso – per le scienze sociali – di un mondo ‘altro’ visto dall’interno, approfondendo l’idea centrale per l’antropologo dello studio delle autobiografie, quella del rapporto tra regole e tratti comuni della società e variazioni individuali, e quindi tra determinismo socio-culturale e libertà […] è lo scarto dell’individuo che vive e interpreta originalmente le regole collettive, a far sentire nelle biografie una idea di “libertà individuale”. È questa libertà che produce in noi che leggiamo lo spettacolo meraviglioso e spesso imprevisto, di una vita raccontata da dentro una cultura, di una cultura raccontata da dentro una vita» (Clemente 2007: 35). 34 Aime M. 2008 Il primo libro di antropologia, Einaudi, Torino. Antiseri D. 2005 Introduzione alla metodologia della ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli. Aria M. 2007 Camminare sul Marae e le sue conseguenze. La ricerca sul campo e le esperienze straordinarie, in Gallini-Satta 2007: 68-94. Bellone E. 1992 Saggio naturalistico sulla conoscenza, Bollati Boringheri, Torino. 2000 I corpi e le cose, Bruno Mondadori, Milano. 2008 Molte nature. Saggio sull’evoluzione umana, Raffaello Cortina, Milano. Bianco C. 1994 Dall’evento al documento. Orientamenti etnografici, CISU, Roma. Blackmore S. 2002 La macchina dei memi, Istar Libri, Torino. Bourdieu P. 2003 Per una teoria della pratica, Raffaello Cortina Editore, Milano. 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Post-metropoli, politica e pedagogia La città, sotto i colpi del divenire incessante, ha perduto il suo nome proprio. Attraversando l’epoca moderna, resistendo come oggetto concreto alle piroette postmodern è giunta, l’antica polis, al suo correlato opposto, riconfigurandosi sino a render plausibile la domanda circa la sua effettiva esistenza. Mai il mondo è stato così urbanizzato, mai la città è stata più simile ad un terrain-vague: spazio vuoto, residuo, eppure spazio di relazione, d’incontri inaspettati. Ciò che colpisce però, nella vicenda, è la persistente potenza metaforica del problema urbano. Nella sua scomposta e tecnica morfologia la città permane come analogo politico. La sua fatica è la medesima della forma politica. Il suo dilemma è dilemma del progetto (Cfr. Cacciari 1981): del fare le cose come vorremmo che fossero, darvi forma in direzione futura. Metafora politica, metafora pedagogica, pure nella sua crisi. E del resto, senza perciò intendere la scoperta di una qualche univoca origine, il rapporto tra città, sistema politico-normativo ed educazione, è antico come il mondo. Da ultimo, profondamente connesso alla globalizzazione neoliberista il rapporto tra cultura, identità, territorio, educazione e politica è mutato ed in qualche misura pare essersi disperso. La città è il terrain vague su cui va in scena questa dispersione. Ora, una analisi della città in prospettiva politico-pedagogica è tutt’altro che scontata. Occorre certo volger lo sguardo al passato. L’esempio deve essere trattato come principio d’analisi delle strutture nelle quali le formazioni sociali si sviluppano ricorrentemente – in particolare nei tre livelli di forma urbana, dispositivo pedagogico e dispositivo politico-normativo. Perciò interessano, oggi, tanto la polis, quanto l’urbs-orbs dell’Impero romano, e ancora Parigi, capitale della modernità e la città generica di Rem Koolhaas. E ciò anche a costo di trattare queste forme sottraendole al continuum del tempo, trascurando passaggi, esaltan- do rotture, crisi, trasformazioni. Il discorso sulla città è preso in una morsa: tra enfasi tecnologica, proiezione infinita d’una mobilità tanto pervasiva quanto immateriale – il sogno a-topico della città di bits, della comunicazione, virtuale (Mitchell 1995; Castells 2004; Griffa 2008) – e l’idea nostalgica di un luogo originario, ecologicamente puro, capace d’ispirare la rinascita di significati e istituire identità – il ritorno al locale, all’organico, alla città genetica, omogenea (Krier 1995). Se la città tecnologica esaspera l’approccio tecnico-funzionalistico trascurando ogni riferimento al senso profondo dell’abitare in forma aggregata, e non vede l’intrinseca potenza politica dello spazio urbano (dalla quale sorge il pedagogico come problema sociale), l’altra, nostalgicamente connessa a passati immaginari, propone di arrestare il tempo, per giungere infine ad un ritrovato e irenico spazio unitario di significato che si vorrebbe guastato dalla modernità e dalla tecnica. In entrambi i casi è confermata «la povertà concettuale del nostro discorso sulla città» (Rykwert 2002), incapace di tenere insieme le diverse profondità del discorso urbano. La grammatica architettonica e quella antropologica tendono a comporre due lingue diverse e intraducibili, rispetto ad un discorso che invece è sempre, proprio nella sua dimensione progettuale, tecnica, funzionale, razionale, anche un problema di pensiero, connesso a miti, sogni, vita, immaginazione, significato e sfera della formazione. Insomma, a dispetto della sua immagine frantumata la città, come ha notato Gregotti, resta «il più importante monumento costruito dall’uomo, la rappresentazione fisica delle volontà, delle speranze e delle memorie di una intera collettività» (Gregotti 2009: 77). Parallelo allo sviluppo tecnico della forma urbana in forma metropolitana, e accanto al passaggio dalla metropoli industriale alla post37 Ragionare Marco Assennato ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) metropoli, s’è verificato un secondo e più compiuto sradicamento. Il mondo in cui viviamo è intrinsecamente nomade. Il cittadino futuro è apolide. La città che viene dovrà essere casa di chi non può sostare. O non essere più. Insieme a ciò, il mondo ha perso ancoraggi stabili: nel proliferare di confini e piccole patrie si struttura uno spazio compresso e ipertrofico, interamente occupato dalla post-metropoli, sul quale il dispositivo politico un tempo buono a fare civiltà, spazio comune, si struttura come Impero articolato in una miriade di poli metropolitani interconnessi. Attorno a questo fenomeno implode la relazione tra città, politica e formazione (la terza come formazione finalizzata alla buona vita in comune). Ma il problema si pone all’altezza delle forme generali della città, del politico e del pedagogico. Privi di forma generale non c’è progetto. Senza progetto non può esserci città, non può esserci politica, né pedagogia. Prendiamo il piano pedagogico: per quanto ci si sforzi di cercare una «pedagogia critica che […] può solo proporre l’appartenenza come risultato, sempre provvisorio, di una ricostruzione a forte curvatura etico-politica ed una comunità come stile di vita, sempre da ridiscutere» (Marino 2005: 52) questa disciplina risulta infine autocontraddittoria o semplicemente muta. Al più si tratta di buone intenzioni di illuminati formatori che non vogliono prevaricare sugli altri. Oppure, peggio, si riduce l’intervento pedagogico alla rilevazione delle forme di segmentazione sociale, frammentazione della personalità, individualizzazione competitiva delle soggettività che hanno reso liquida questa nostra modernità (Bauman 2004). Così non v’è più critica, ma descrizione dell’esistente. Del resto, pensare la città futura, come la politica e la pedagogia, significa in ogni caso partire dal dato descrittivo, prender atto della scomposizione e ricomposizione parziale delle relazioni sociali, per individuare un orizzonte di senso generale. Quest’ultima mossa però, è bloccata. Nel pensiero prima che nei fatti. Il nesso tra città, politica ed educazione si è istituito, nel mondo antico, a partire dal rapporto tra accesso alla cittadinanza e cultura del singolo individuo, o del gruppo. La città metafora della democrazia, chiedeva una specifica tecnica in grado di produrre integrazione e sosta all’interno della struttura politica democratica. Il cittadino era parte dello spazio comune in quanto era stato educato ad esser tale. Tra forma urbana, forma politica e relazione pedagogica correva un dialogo strettissimo e cogen38 te. Oggi, ormai compiutamente di fronte alla segmentazione sociale, allo sradicamento della cittadinanza, alla mobilità culturale, non si muove critica che non sia nostalgica. Tale impostazione si basa sull’immagine di un passato omogeneo e pacificato, un’età dell’oro soggetta ai colpi del divenire storico che ne producono la decadenza. Ad esempio si ipotizza che la forma urbana abbia una fonte archetipica compatta, la polis, che si è articolata nel corso della storia. Un nucleo originario nel quale tempo e spazio, cittadinanza, territorio e stato coincidevano, e che è stato disarticolato dalla forma pura della relazione capitalistica: lo scambio e la circolazione di merci. Il piano generale, dissolto nella pluralità degli scambi strumentali, per conseguenza, risulta oramai impensabile, al più se ne ammette un ricordo lontano, che svolge appunto la funzione di origine. Da qui in avanti, si può guardare alle strategie individuali di risignificazione dell’esperienza, sempre esposte alla sussunzione nella sfera dello scambio mercantile, o pianger miseria e sognare nuove comunità come enclaves omogenee di senso nello spazio globale. Questa nostalgia del locale, del micro-mondo, ispira i pensatori della comunità a proporre uno spazio limitato da contrapporre alle tendenze globali e incrocia le teorie postmoderne: la differenza è micro-identità da preservare rispetto all’arroganza dello spirito del tempo. Così, nel tessuto metropolitano, basta rilevare il caleidoscopico catalogo dei marginali, degli esclusi, dei devianti, per ricostruire poi l’arlecchinesco immaginario di un mondo altro che si contrappone a quello dominante. Ma la globalizzazione istituisce davvero uno spazio culturale omogeneo? Questa è la prima domanda. Come si costruisce l’identità nell’era globale? Esiste una forma culturale della globalizzazione? Chi sono i cittadini dell’Impero globale? E che effetto ha tutto ciò sulla forma della cittadinanza? Solo dopo aver risposto a queste domande potremmo pensare la città, e indagarne il rapporto con la formazione e la politica. Cultura, immaginario ed ecumene globale Già Marshall McLuhan negli anni Sessanta aveva definito l’estensione del pensiero tecnoscientifico occidentale a tutto il pianeta con la fortunata formula di villaggio globale (McLuhan 1967), alludendo così ad una ipotetica omogeneizzazione dello spazio di pensiero. Con più precisione, potremmo riferirci ad un concetto analogo, seppure depurato dalla fuorviante presa irenica dell’espressione “villaggio” (che allude in qualche misura ad un luogo nel quale i rapporti interpersonali sono diretti e “spontanei”), quello di «ecumene globale» definito da Alfred Kroeber (Kroeber 1952). L’estensione dell’ecumene globale richiama l’antichità classica, ma travalica il mondo conosciuto dai greci e dai romani per coprire tutto intero lo spazio planetario: un sistema nel quale tutto è dentro e non v’è più un fuori. In questo sistema decentrato e unico, il territorio perde la capacità di fornire identità stabili, piuttosto si lascia attraversare da identità multiple, erratiche, diasporiche. Questo tratto muta completamente i caratteri della riflessione sul concetto di cultura. Con Ulf Hannerz possiamo convenire nell’affermare che «quando la gente circola con i propri significati e quando i significati trovano il modo di circolare anche senza la gente, i territori non possono veramente essere i contenitori delle culture» (Hannerz 2001: 10). Dunque, il movimento è doppio: di unificazione ma in uno spazio globale differenziato. Tra globale e locale si istituisce qui un paradosso: il piano generale è fondato su differenze, diaspore, attraversamenti, pur essendo unitario; il piano locale invece, pur essendo disperso e frammentato si immagina come omogeneo, identico e comunitario. In questo quadro le peculiarità “nazionali”, afferma Giuseppe Burgio, «vanno annoverate nell’ambito dell’etnico inteso come particolarità esotica perfettamente inserita nel grande mercato mondiale […], ridotta soltanto a merce o ad attrazione turistica. È difficile – continua Burgio – rintracciare una cultura, un’identità […] che sia distinguibile da quella, globalizzata e ormai egemone in tutto il pianeta, dell’Occidente» (Burgio 2007: 7475). L’etnico è così funzione del globale, e in tal senso le ricostruzioni localistiche sono finzioni, artifici, hanno perduto, ammesso che mai l’abbiano avuta, ogni densità ontologica. Le trasformazioni indotte dal quadro descritto piegano la percezione del tempo. Infatti il libero mercato dei valori etnico-nazionali è edificabile solo a partire dall’acquisito annullamento del tempo storico, parallelo all’annullamento dello spazio geografico. Tempo e identità sono legati dalla potenza significante della storia. Ma è proprio questa potenza ad essere rovesciata, secondo Roberto Finelli, in «assenza di senso e profondità della storia». Tale assenza si dà in un nuovo quadro percettivo nel quale, scrive Finelli, «prevale la superficie e la seduzione della forma sullo spes- sore del contenuto, la realtà perde ogni sistematicità di nessi e si fa valere la giustapposizione di figure, ciascuna di volta in volta più appariscente delle altre. La storia diviene un magazzino, un deposito di eventi, personaggi, stili, da cui estrarre materiale depositato e accumulato, per ricostruire a proprio piacimento il volto sia del passato che della propria contemporaneità» (Finelli 1998: 20). Dal magazzino della storia vengono presi i tratti somatici di nuove identità transtemporali. Ma non è più discorso storico, piuttosto anamnesi, citazione, meta-discorso: un lavoro d’immaginazione sul discorso storico disperso utile a riconfigurare tratti d’identità deboli. Così, Occidente diviene il nome proprio dell’ecumene globale, non nel senso di una specifica entità geoculturale, complesso di pratiche culturali particolari identificabili con una base territoriale, ma un modello narrativo, una genealogia immaginaria, che risale alla Grecia di Socrate, Platone, Pericle e poi di Sofocle, Aristotele, Archimede e arriva ai giorni nostri passando per il cristianesimo medioevale, la scoperta dell’America e l’espansione neocoloniale. Questa genealogia immaginaria, come ha notato Giuseppe Mantovani: è essenzialmente una storia morale centrata sull’affermazione della libertà personale e dell’indipendenza politica, che culmina nella conquista dei diritti di libertà e […] del diritto alla felicità. Questa narrazione genera un’immagine isolazionista dell’occidente, che viene costruito non come il luogo di scambi che è sempre stato, con confini permeabili e infinite differenze al suo interno […]. Naturalmente questa genealogia immaginaria contiene omissioni e deformazioni. […] Non sarebbe facile completare l’elenco delle influenze che la genealogia ufficiale dell’occidente deve ignorare per costruire il mito della discendenza europea dalla Grecia di Pericle […]. La diversità, non l’omogeneità, è il carattere distintivo di ogni cultura vitale (Mantovani 2004: 34-35) La ricostruzione narrativa e ideologica dell’Occidente come nome proprio dell’ecumene globale, possiede la forza di un dispositivo politico costituente, nonostante appaia segnata da una fantasiosa continuità storica. I due avvenimenti simbolicamente centrali per questa operazione sono, ancora secondo Burgio «l’espulsione degli ebrei dalla Spagna (con la creazione di un paese omogeneamente cattolico) e la scoperta dell’America (che darà il via al dominio coloniale globalizzatore)» (Burgio 2007: 75). Attraverso questi eventi, spiega Arjun Appadu39 Ragionare M. Assennato, Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica e pedagogia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) rai, si è costituita l’idea «di comunità caratterizzate da comunanze biorazziali (al loro interno) e di differenze biorazziali (verso l’esterno)» vero e proprio «marcatore critico della svolta coloniale nella politica del moderno stato nazionale» (Appadurai 2001: 169). Ogni trasformazione politico-economica del capitale porta in grembo uno specifico standard di razionalità, ovvero agisce contemporaneamente sul piano dell’immaginazione e della morfologia del pensiero: così Occidente e Globalizzaione, in questo primo movimento, si fondono, l’uno diventa il nome dell’altro. A tal proposito Serge Latouche invita a non limitare l’analisi all’idea di un dominio militare coercitivo o ad un modello economico, ma a vedervi il trionfare di un modello culturale che si considera universale, in forza del quale non ha semplicemente unificato l’occidente, ma ha occidentalizzato il mondo1. Perciò «risulta – secondo Burgio – una omogeneità culturale spaventosa che rende partecipi dello stesso sistema di valori persone di Napoli, Bristol, Barcellona, New York, Casablanca, Hong Kong, Stoccolma… l’intero pianeta […] è ormai all’interno di uno scenario unico che possiamo approssimativamente chiamare occidente» (Burgio 2007: 76). Ma esistono altre globalizzazioni. Al movimento di occidentalizzazione s’interseca in modo complementare e antagonista un secondo movimento di disseminazione che rende effimero il primo. Un movimento di immaginazione anch’esso, ma stavolta pluralistico, «una costruzione transnazionale complessa di panorami immaginari» secondo la definizione di Appadurai: il mondo in cui viviamo oggi è caratterizzato da un ruolo nuovo assegnato nella vita sociale all’immaginazione. Per comprendere questo ruolo dobbiamo mettere assieme la vecchia idea di immagine […]; l’idea di comunità immaginata […]; e l’idea francese di imaginaire come panorama costruito di aspirazioni collettive, […] mediato dal prisma complesso dei media moderni. Immagine, immaginato, immaginario: si tratta in tutti i casi di termini che ci dirigono verso […] l’immaginazione come pratica sociale. […] L’immaginazione è diventata un campo organizzato di pratiche sociali una forma di opera e una forma di negoziazione tra siti d’azione (individui) e campi globalmente definiti di possibilità (Appadurai 2001: 50) La rottura di senso tra territorio, identità e cultura, lascia emergere una moltitudine diasporica che negozia la propria identità con il piano globale, utilizzando esattamente l’estensione massima dell’ecumene ma attraverso molteplici dispositivi di risignificazione dei 40 tratti culturali. La base materiale di questa dinamica risiede nei processi di migrazione che attraversano il pianeta, anch’essi presi dal doppio vincolo della globalizzazione del mondo, ovvero dall’avvento del tempo dell’era planetaria e da controspinte nazionalistiche o localismi. Il luogo geografico nel quale va in onda questa messinscena è la post-metropoli, la cittàterritorio che tendenzialmente copre il globo. I due livelli di identificazione vengono utilizzati dai soggetti diasporici che attraversano il pianeta, di volta in volta attivando il sistema globale o la traduzione locale, persino simultaneamente, determinando così un vero e proprio caleidoscopio culturale per il quale il mondo è ovunque, in ciascuno di noi, ma spesso si contrappone al mondo degli altri. Migrazioni La base materiale dell’ambigua tensione tra l’istanza cosmopolitica e le controspinte nazionalistiche interne all’ecumene globale è costituita dalle migrazioni contemporanee. Seppure incapace della densità e della stabilità collettiva necessarie alla produzione di potenza politica, il fenomeno delle migrazioni genera, con espressione foucaultiana, «il rumore sordo e prolungato della battaglia» (Foucault 1993: 340). L’unico diffuso contropiano opposto al domino emerge proprio dal più debole dei soggetti incarnati che attraversano il pianeta, «in questa umanità centralizzata, effetto e strumento di complesse relazioni di potere, corpi e forze assoggettate […], oggetti per discorsi che sono a loro volta elementi di questa strategia» (Ibidem). Il processo non va dunque letto con attenzione esclusiva alle incarcerazioni e ai sistemi di potere del nuovo sorvegliare e punire globale, ma scorgendo, come ha fatto MoulierBoutang «il racconto del suo contrappunto che emerge nelle evasioni, nelle fughe, nelle diserzioni, nelle migrazioni» (Moulier-Boutang 2002: 27). Infatti ancora secondo Moulier-Boutang «c’è qualcosa di più della resistenza tenace, instancabile e ogni volta vinta del Lumpenploretariat […]. Al di qua del proletariato, ma anche […] al di sopra, il sovra-proletariato costituisce la vera e propria trama della condizione salariale […]. Questo fa del capitalismomondo un sistema non semplicemente freddo, […] ma un movimento senza fine e riposo» (Ibidem). La globalizzazione andrebbe osservata ponendo attenzione al carattere multidimensiona- le del processo, alle trasformazioni che esso produce e alle contraddizioni che innesca. Nessuna nostalgia: occorre piuttosto un balzo in avanti. Assistiamo alla istituzione di un corredo di nuovi reati alcuni addirittura di sapore premoderno, che definiscono una nuova tecnologia dell’assoggettamento e del dominio, un insieme di procedure per incasellare, valorizzare, rendere utili gli individui nel passaggio storico. Il poderoso sviluppo tecnico, che consente livelli di mobilità alti in condizioni di efficienza inedite, pare limitato dalla decisione politica. Se le merci non hanno dogane, le persone si trovano di fronte una mappa mobile di confini chiusi e invalicabili. Ma la tecnologia di selezione e segmentazione della migrazione contemporanea non indugia sull’esclusivo dispositivo d’esclusione: cioè sulla distinzione rigida, di confine, tra chi è dentro e chi è fuori dalla fortezza occidentale, chi è dentro e chi è fuori dalla cittadinanza. Ma si basa su processi di inclusione differenziale che definiscono una stretta relazione tra mobilità del lavoro, istanze di accumulazione del capitale e forma politica. Ci si deve poter muovere, ma sotto controllo. Particolare interesse ha la questione se guardata dal punto di vista della composizione del soggetto produttivo nel mondo globale. Il regime globale di governo delle migrazioni costruisce un insieme di filtri e dighe che operano su un fenomeno letto nei termini, spesso forzati, dei flussi (o peggio delle invasioni). Non si tratta di una totale chiusura, almeno sulla carta. Del resto la mobilità globale non pare in alcun modo arrestabile. Questi filtri che materializzano la militarizzazione dei confini e la costruzione di campi d’internamento ed espulsione, vengono messi in opera dagli stati nazionali, dalle formazioni post-nazionali (come l’UE) e da nuovi attori globali (Ong). A dispetto della cultura xenofoba che sorregge queste opzioni, la governance globale non ha come obiettivo l’esclusione dei migranti ma è animata da una intenzione utilitaristica. Si tenta cioè un’operazione di integrazione governata, un processo di inclusione nel mercato del lavoro attraverso la clandestinizzazione dei soggetti. Come ha ampiamente dimostrato Yann Moulier Boutang lungo l’intero arco della storia del capitalismo i dispositivi di liberazione del lavoro dalle catene feudali, corporative e locali, attraverso l’iscrizione nel rapporto di fabbrica hanno sempre visto un processo parallelo di imbrigliamento e controllo degli spostamenti e delle migrazioni. Così, oggi l’abbattimento delle barriere per le merci comporta il riarmo dei confini per le per- sone. Se il mondo delle merci può godere di una regolazione spontanea (mercantile) quello delle persone va controllato politicamente. I processi migratori sotto questo rispetto hanno un rilievo strategico e una forza ermeneutica “universale”. Uno sguardo sui marginali, sulla misère du monde (Bourdieu 1993), mette in luce gli elementi contraddittori della globalizzazione: non più dato naturale, irenico, spontaneo ma prodotto di conflitti e contraddizioni. Nella guerra globale – cornice generale dell’ideologia della sicurezza e del controllo della mobilità, del lavoro e delle frontiere – si spostano persone, storie, desideri, speranze. Emergono soggetti capaci di resistenza, «nuda vita»2 contro il dominio neoliberista. Questi soggetti pongono domande radicali, essenziali per una riforma del sistema che ne scongiuri un esito catastrofico. In particolare i migranti pongono al centro dell’attenzione la questione del soggetto dotato di parola, dell’uomo politico. Chi conta? Chi decide? Chi abita il mondo globale? Ma, qui il punto: non possiamo fermarci a rilevare la presenza d’una resistenza marginale sempre in bilico tra circolazione di merce e futuri possibili cui alludere. Occorre piuttosto riconoscere in questa fase storica l’esistenza dell’antagonismo che le corrisponde, le contraddizioni che apre, la possibilità che si determina per costruire uno spazio di soggettivazione volto al futuro. Ancora progetto, politico, pedagogico, civile. La mobilità e la differenza culturale tra i soggetti sono cifre della globalizzazione. La capacità di guardarle dal punto di vista dei soggetti incarnati, scartando le semplificazioni quantitative e statistiche è oggi sempre più necessaria. Le migrazioni non possono essere spiegate con i modelli neo-classici (limitati a spiegazioni economiciste o demografiche), che riducono tutto all’azione combinata di fattori oggettivi di espulsione e integrazione. Né l’analisi va limitata al quadro delineato dalla “new economics of migration” (Massey, Arango, Hugo, Taylor 1993; Portes 1997) che si è imposta come spiegazione globale sottolineando il pur importante contributo delle reti comunitarie e familiari nel determinare il fenomeno migratorio. Bisogna invece accogliere gli studi fondati sulla teoria dell’autonomia delle migrazioni (Mezzadra 2001; Castels, Miller 2003), intendendo con ciò l’irriducibilità dei movimenti migratori alle leggi della domanda e dell’offerta di lavoro e ponendo attenzione alle eccedenze che l’atto politico del migrare porta in sé, al carico di aspettative, di desiderio, di paura e ricerca di salvezza; 41 Ragionare M. Assennato, Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica e pedagogia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) interrogando la trasformazione concreta che il fenomeno innesta negli spazi post-metropolitani e nell’accesso alla cittadinanza. È possibile procedere ad una analisi dell’apporto delle ondate migratorie sulle società d’ingresso in quanto capaci di riaprire il discorso sui diritti, sulla formazione, sulla cultura e sui legami sociali. Come ha sottolineato Walzer, i migranti portano nelle società opulente la possibilità di ridiscutere correttivi comunitari e di solidarietà sociale che lo sviluppo capitalistico impedisce di dispiegare o smantella (Walzer 2004). Dobbiamo analizzare le pratiche sociali e discorsive attraverso le quali si esprime il desiderio di cittadinanza migrante. La descrizione del regime di subordinazione della soggettività migrante lascia spazio alla narrazione concreta delle aspettative dei soggetti concreti e ai movimenti sociali animati da migranti, clandestini e sans-papier, restituisce la base per la ricerca di una apertura democratica, di una capacità costituente, nel doppio livello globale e locale, in grado di sprigionare nuove possibilità politiche. Il problema è posto, ma il livello generale è ancora nascosto alla vista. Dalla descrizione delle pratiche plurali dobbiamo dedurre la possibilità di una mutazione di sistema, che diventi programma. Cittadinanza e conflitto L’eccedenza prodotta dall’autonomia e dall’irriducibilità politica delle migrazioni ha fatto sì che alcune questioni, solitamente risolte all’interno dell’iter “normale” dei processi di costruzione legislativa nelle democrazie occidentali, siano invece slittate dal piano interno a quello internazionale. In altre parole «si è verificata una internazionalizzazione di situazioni interne allo Stato» (Pocar 2005: 233), finora inedita. In tale direzione, possiamo rilevare come i problemi generalmente riferiti al tema della cittadinanza, siano connessi esattamente al piano globale della possibilità/diritto di muoversi nello spazio planetario, e confliggano con la tradizionale idea d’una polis che prende corpo seguendo virtù riconosciute e codificate da una comunità culturalmente omogenea e territorialmente continua. Su questo crinale s’è esercitato in area anglosassone il dibattito tra liberals e communitarians (Marino 2005: 21-54; Rawls 1984 e 1994; Sandel 1994; Walzer 1987), intenso confronto paradigmatico che cela però il quadro generale nel quale si è prodotto: quadro che chiama a schierarsi 42 sostanzialmente tra diritti individuali e diritti civili, tra giustizia universale e comunità d’appartenenza o di destino, tra libertà negativa e libertà positive. Si tratta, in fondo, dell’ennesima versione del tema classico della sociologia moderna: la tensione strutturale tra individuo e collettività nella formazione delle leggi, del nomos, del politico. Perciò va messa in rilievo la tara di questo dibattito: esso s’esercita senza riuscire a scartare la tensione, ovvero riducendo l’uno all’altro i due poli. L’articolazione del confronto, certo ricca e profonda, nasconde insomma il limite d’uno sguardo dicotomico, incapace di vedere in modo complesso un fenomeno che in tal modo resta irrisolvibile. Come e insieme alle culture e alle identità, anche la cittadinanza resta presa nel legame spezzato tra popolo-territorio e stato, e dunque non si può, per riformularne i termini, che leggerla processualmente, dialogicamente e progettualmente: si tratta in fondo d’un campo nel quale esercitare negoziati tra differenti e contrastanti esigenze, e dal quale può emergere un bagaglio di diritti e doveri comuni. L’accesso alla cittadinanza deve rappresentare l’orizzonte nuovo del politico. Nulla di spontaneo, piuttosto un processo di apertura che chiama ad una nuova relazione tra pedagogia e politica. Il nuovo cittadino, proprio perché a-polide va educato, formato alla mobilità, al confronto, al dialogo, alla ricostruzione post-identitaria del sé. Privi di questo punto di vista non ci resta che confermare lo status quo, basato su una finzione e su una miopia: la finzione vuole ancora correlare strettamente stato-territorio-popolazione e dispositivi di senso culturale o civile – quand’invece è di tutta evidenza che questo rapporto s’è spezzato; la miopia che consiste nel non voler vedere il macroscopico dato delle migrazioni di genti diverse che piega l’abitare il mondo alla forma complessa e nuova dell’attraversarlo, con il rischio sempre più urgente d’un attraversamento senza diritti. Come ha giustamente scritto Burgio: è insomma cambiato, pluralizzandosi, il dispositivo della cittadinanza e i margini dello spazio-nazione si sono trasformati; la differenza non è più solo una minaccia rappresentata da un altro popolo ma diventa anche questione interna alla costituzione del noi. Lo stato nazione è così costituito da una serie di frontiere esterne ed interne in cui la non-cittadinanza e la non-integrazione si sostengono a vicenda ed escludono lo straniero così come le donne o i barboni con posizionamenti differenti e configurazioni in parte intersecate (Burgio 2007: 243). I due paradigmi, liberale e comunitario, non riescono ad uscire dalla dicotomia tra universale e particolare, perché l’uno assorbito dal livello globalista e universalista dell’astrazione disincarnata e l’altro schiacciato da un differenzialismo comunitario che replica e riproduce i vizi del colonialismo e dei nazionalismi in chiave localista. In questo senso va accolto il tentativo proposto da Marisa Marino, di costruire la cittadinanza a partire da «una opzione in direzione della costituzione dialogica e narrativa […] che rimanda ad un dialogo ininterrotto col proprio ambiente e ad un esercizio linguistico di attribuzione di significati» (Marino 2005: 26-27; Cfr. anche Benhabib 2005). Il punto è che questo processo complesso pare, per un verso, l’unico in grado di gestire e rendere produttivi i conflitti che, anche sul piano dell’esigibilità di diritti e cittadinanza, si producono e, per altro verso, l’unica strategia in grado di pensare in modo disseminato e flessibile il tema in discussione. Allora queste disseminazioni vanno riconosciute, ma la difficoltà si presenta al passo successivo. Come si possa definire la relazione con la forma generale del potere politico, resta tema aperto: ovvero, come può la potenza di un processo epocale farsi potere, farsi reale, farsi storia? L’esistenza di punti di vista e di necessità contrastanti può divenire produttiva solo attrezzando uno spazio teorico-politico nel quale «i conflitti non vengono repressi o evitati né sono vinti da nessuna delle parti in causa ma, come nei giochi a somma positiva, considerati come possibile elemento di crescita per ciascuna parte se trasformati in direzione cooperativa» (Cozzo 2005: 73). In fondo il dibattito sulla cittadinanza non è che un analogo politico di quello antropologico sulla cultura. Più in generale tra conflitto/migrazioni e cittadinanza si determina lo spazio teorico della riflessione sistemica sul mondo globale. Le migrazioni, che diano o meno vita a condizioni conflittuali, sono in sé stesse una figura del disordine, dell’innovazione, della perturbazione rispetto al livello politico, all’Impero come immagine contemporanea dell’ordine complesso. Se definiamo potere la «capacità di scelta che sgorga da situazioni di incertezza», la funzione regolatrice di un sistema politico in grado di mettere in opera la necessaria «riduzione dell’incertezza nelle relazioni sociali», e insieme definiamo potenza la fonte di questa stessa incertezza, l’origine dell’apertura del sistema, del disordine, della trasformazione funzionale del potere politico, allora «la storia può essere letta – come ha fatto Giorgio Ruffolo – come svi- luppo della potenza e come dialettica di sfide e risposte tra la potenza e il potere» (Ruffolo 1988: 13). Così è per il rapporto tra migrazioni e conflitti ad essa connessi, da una parte, e cittadinanza come figura di regolamentazione, dall’altra. Anche nel caso del problema della cittadinanza, possiamo notare che la nostra epoca è segnata da un divario tra potenza e potere. Ovvero: persiste una eccedenza dinamica che attraversa la società e ne chiede una profonda riorganizzazione, una potenza di qualità superiore al piano d’ordine, ma questa potenza non è stata interpretata, almeno sin qui, dal livello del potere, dal piano politico arroccato nella difesa di sé. Secondo la teoria dei sistemi il divario tra disorganizzazione e organizzazione, tra ordine e disordine si può tradurre positivamente solo se induce un aumento di complessità, dunque un nuovo ordine: una nuova organizzazione, una trasformazione. In questo senso, la domanda di cittadinanza attivata dalle migrazioni contemporanee porta sul livello politico del potere la necessità di una modifica radicale dell’organizzazione stessa del sistema. Questa necessità è, in qualche misura, necessariamente sovversiva. Il problema è aggravato dal fatto che l’Impero esiste in una condizione strutturale di deficit di capacità di controllo. Autocontraddittoriamente esso si è dato, nella versione proposta dall’establishment neoconservatore, come puro dominio senza consenso, incapace di senso, conservativo. Così, tale è il rischio, si precipita nella progressiva riduzione di complessità del sistema che tende a negare il crescente rumore di fondo prodotto dalla sua struttura. Possiamo dire, ancora con Ruffolo che «il potere politico non riesce a tenere il passo con la potenza sociale, con la forza sprigionata dalle capacità tecnologiche e dalle istanze individuali. L’offerta, la produzione di potenza, non riesce a tenere il passo con la domanda. Si crea così un divario di potere che è la fonte dei problemi di stabilità […] della società complessa» (Ruffolo 1988: 16-17). Il precipitato della crisi economica e politica si è determinato dunque come difetto di complessità del paradigma conservatore. Impotente di fronte alla compiuta planetarizzazione del sistema-mondo, la politica si riduce al fantasma di ciò che fu lo Stato-Nazione. Bisognerebbe invece pensare oltre. Ma pensare l’oltre-lo-stato è cosa difficile. Né si può ritenere immediatamente risolto il problema limitandosi a registrare le emergenze, le deviazioni dall’ordine, i punti individuali di sovversione o rifiuto del 43 Ragionare M. Assennato, Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica e pedagogia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) dominio. Lo scarto tra potere e potenza è reale, materiale, concreto. O produce nuovo ordine, o determina la distruzione del sistema. In tal senso andrebbe considerata la funzione di queste emergenze come stimolo alla produzione di ordine nuovo, di maggiore complessità, di trasformazione. Sul piano politico, vista l’incomprimibile presenza di una inviolabile base di riferimento – che peraltro è l’unica cosa in grado di garantire coerenza all’insieme sociale – la concreta esistenza di soggetti incarnati che si spostano sul pianeta andrebbe riconosciuta come capacità conflittuale della nuda vita: cioè come domanda di un nuovo processo che metta il potere all’altezza della potenza sociale, e non contro di essa. Infatti, spezzare il legame tra i due termini condanna il sistema all’illusione del controllo coercitivo e, per questa via, al collasso. Le strutture politiche si reggono sulla loro capacità di attrarre consenso e produrre senso: questo binario (così decisivo anche nei processi pedagogici) va riattivato. Allora l’anima del tempo nuovo dovrebbe vivere nella possibilità di trasformare il sistema e ripensare la politica globale. Da questi obiettivi non si sfugge. Seppure attraversato dalla crisi, il sistema politico-economico contemporaneo ha trovato, secondo Saskia Sassen, «un assetto strategico interamente nuovo, che in parte funziona attraverso i mercati elettronici, e in parte è integrato in una rete di circa quaranta città globali sparse per il mondo. È un sistema che sfugge alla legge territoriale degli stati-nazione e, ciò che forse è ancora più importante, che riesce a far entrare elementi del proprio programma nelle leggi nazionali» (Sassen 2005). In questo quadro l’iniziativa conflittuale tende a difendersi dal piano politico formale, a ricostruirsi come indipendente e conflittuale con esso. Questo spazio informale del lavoro politico – che sempre più si rende pedagogicamente impensato, spontaneo, individuale si sostanzia negli «spazi meno formali delle città e dei territori […] e, cosa interessante, delle nuove reti informatiche che collegano fra loro punti diversi del mondo, creando una zona pubblica globale sempre più ampia» (Ibidem). Ciò però, secondo la stessa Sassen, non può voler dire rinunciare al piano normativo, ma è interessante solo in quanto pone da capo il problema della costruzione del nomos in relazione ad una qualche forma di demos (o di un qualche nuovo equivalente), ovvero in quanto riformula il problema dell’accesso alla cittadinanza e, per questa via, del rapporto tra forma urbana, sistema politico e pedagogia. 44 Dal passato: la polis e l’urbs La potente metafora della città torna dal passato come chiasmo che incrocia il politico – forma concordata ed egemone dell’essere in comune – e pedagogico – come tecnica di accesso a quella forma. Corre la memoria ad immagini che consentono una relazione piana ed armonica. Riemerge il bisogno di pensare la polis. Ma il ricordo della antica polis è meno pacificato di quanto si possa pensare. La forma di vita urbana, politica, dell’antica Grecia come «tempospazio in cui città, stato, territorio e cittadinanza coincidevano» (Burgio 2005: 89) forse s’è data solo nell’immaginaria ricostruzione dei posteri. Ad ogni modo esistono altri racconti di quella forma urbana. E ciò non solo per la consueta osservazione del carattere sessuato e proprietario della città greca, ma per una più intima natura aporetica e conflittuale tra interno ed esterno, timos e polemos, polis e oikos, amicizia e libertà (Cacciari 1994 e 1996: 42 e ssgg). Certo, non v’è dubbio che la città greca era innanzitutto «la dimora, la sede, il luogo in cui un determinato genos, una determinata stirpe, una gente […] ha la propria radice» (Cacciari 2008: 7). Dunque in primo luogo essa esprimeva una forte immagine di stabilità, di radicamento: «la polis è quel luogo dove una gente determinata, specifica per tradizioni, per costumi, ha sede, ha il proprio éthos» (Ibidem). Nel termine ethos resta forte l’indicazione di un luogo specifico, una sede della sostanza etica, etnica e culturale insieme, non semplicemente il corredo di costumi, consuetudini, e tradizioni. La polis è «proprio il luogo dell’ethos, il luogo che da sede ad una gente», la casa di una stirpe (Ibidem). Da luogo e da nome: i polites, i cittadini, sono tali in quanto abitanti della polis. Ovvero: la cittadinanza è definita dalla città, la forma urbana (che è anche etica ed etnica) viene prima. La polis è etica prima che politica, deriva la politica dalla sua etica. Il senso di chi vive in città è derivato dall’appartenenza alla forma urbana. Eppure in questo rapporto si definisce uno spazio conflittuale, differenziale, aporetico. Non v’è dubbio: alla città può appartenere solo chi appartiene alla stirpe cui il luogo da forma politica, ma questa appartenenza comune va, al contempo, preservata, costruita lungo la durata. E attraversa conflitti. Ciò che lega i cittadini gli uni agli altri, il loro spazio comune, è sempre anche un «doversi determinare, formare, caratterizzare – doversi ek-ducere, trarrefuori dall’indistinto rammemorando la propria individua essenza» (Cacciari 1996: 30). Un la- voro improbo che consiste nella scoperta insieme, sia della necessità di farsi individui autonomi, sia del fatto che questo destino li pone in relazione eteronoma: secondo Cacciari si tratta dell’improbus labor «consistente nell’accordare l’assoluta distinzione delle figure con l’assoluta necessità della loro relazione» (Cacciari 1996: 31). In questo lavoro sui soggetti consiste il processo pedagogico nella città greca, un piano conflittuale ma fondativo di una forma politica nella quale si è membri legittimi di una comunità in quanto in parte se ne è fuori, e per converso si è liberi in quanto si sta in comunità. Ancora Cacciari ha descritto questo conflitto rilevando come «nel termine attraverso cui il Greco caratterizza il proprio demone, eleutheria, occorrerà, sì, udire il timbro del lyein, della lysis, della forza che distaccandosi dall’informe ‘gregge’, rende possibile l’autonomia, ma, insieme, in perfetta simultaneità, anche quello della philia, dell’amicizia» (Cacciari 1994: 21). Ora, è in questo spazio conflittuale che si definisce il rapporto tra forma politica, educazione del cittadino e parresia: il parlar franco e in pubblico che certa letteratura pedagogica considera antenato delle storie di vita (cfr. Burgio 2005 e 2007; Cambi 2002; D’Agostino 2008; Demetrio 1995). Solo che, a differenza del discorso contemporaneo, che intende il dire di sé come primo passo della soggettivazione, la parresia greca, come Foucault ha amplissimamente dimostrato (Foucault 2005), era un fenomeno pesantemente normato, politicamente e pedagogicamente determinato e orientato ad un fine. Nulla di più differente da una indistinta e libera autonarrazione. Tecnica per l’educazione del singolo, certo insufficiente per sé a definire il piano politico, la parresia si definisce comunque insieme al politico. La relazione tra parresiastes e città, tra individuo e potere sovrano, si definisce sempre come risposta della forma generale della sovranità al parlar franco. Ed essa in ogni modo non riguarda mai chi dalla città è escluso, lo straniero, il barbaro – che in quanto tale e non a caso, non può parlare (Foucault 2005: 31). Nulla di spontaneo, avverte Foucault, al contrario (e da qui il suo interesse per l’argomento) la parresia istituisce un campo normativo e pedagogico specifico, relativo insieme alla forma urbana e alla forma politica: «perché la parresia possa avere effetti politici positivi, essa deve essere connessa a una buona educazione, a una formazione intellettuale e morale, alla paideia e alla mathesis. Solo allora la parresia sarà qualcosa di più che un thorubos, un semplice rumore di voce» (Foucault 2005: 43). E quando questa mediazione pedagogica non si dà, «la città precipita in situazioni gravi» (Ibidem). Il rischio per la città deriva dall’intima aporeticità dei due termini in questione: il poter parlare in pubblico presuppone una formazione in parte contraddittoria rispetto alla democrazia. Come già rilevato da Cacciari, anche Foucault sottolinea il paradosso per cui qui è in azione una pedagogia che costruisce l’individuo come singolo, libero, autonomo dal politico che però proprio in forza di ciò costruisce la democrazia, partecipa della città, appartiene ad uno spazio comune. Insomma l’autonomia è limitata dall’appartenenza ad un logos comune, e viceversa questo logos è limitato dall’autonomia dei singoli individui. Se questo equilibrio si spezza la città muore: «se ciascuno nella città si comporta come gli pare, se tutti seguono le proprie opinioni, volontà o desideri, allora si creano nella città tante costituzioni, tante piccole città autonome, quanti sono i cittadini che fanno quello che più loro aggrada» (Foucault 2005: 56). Ed è precisamente la rottura di questo equilibrio che sposta la pedagogia greca verso percorsi di formazione individuali, ormai indifferente al piano politico, alla costruzione della città, dopo il tramonto delle poleis. Del tutto differente, è più pregnante per il nostro presente, a me pare invece la relazione tra forma urbana, cittadinanza politica e pedagogia nella Roma antica. La civitas romana non ha la determinatezza ontologica della polis greca. La parola che definisce la città deriva direttamente da cives, cioè da un insieme di persone che si sono raccolte per dar vita a Roma. Come ha mostrato Benveniste (Benveniste 1986) in questa etimologia c’è più della relazione tra forma urbana e cittadini che la attraversano. La città è l’insieme dei suoi cittadini, uomini che, raccolti in uno stesso luogo, si sono accordati nel voler seguire le stesse leggi. Ma più a fondo essa è «l’insieme delle aggregazioni successive dei cives nel tempo» (Del Giudice 2009: 31) ovvero si mette in evidenza su tutto, un nodo di relazioni di reciprocità e interdipendenza tra individui e gruppi differenti per cultura e costumi, progressivamente in grado di stringere relazioni politiche. Troviamo qui il rovescio dell’immagine greca: civitas deriva da cives, mentre polites deriva da polis. Dunque la civitas è essenzialmente politica, indipendentemente dai valori etici e morali dei suoi cittadini (Cacciari 2008: 8-9). Il mito fondativo di Roma, la concordia romana, è esattamente questo «convenire di per45 Ragionare M. Assennato, Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica e pedagogia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) sone diversissime per religione, per etnie ecc.» (Ibidem). La primazia politica sull’etico-etnico, ovvero la persistente attenzione alla forma generale della sovranità collettivamente prodotta, determina la necessità di un progressivo allargamento dell’urbs. La città esiste se si diffonde, muore se si difende. Roma nasce come incontro di genti diverse, esuli, criminali, raminghi, profughi che confluendo in un luogo dedicano al dio Asylum (dell’accoglienza, del riparo) la fondazione della loro città. Dunque, nella città dell’Impero «l’idea di cittadinanza non ha alcuna radice di carattere etnico-religioso» (Cacciari 2008: 10). Da questo momento in poi, attraverso l’influenza dell’Impero, questo modello si diffonde in tutto il Mediterraneo, quand’esso diventa romano: il processo è compiuto nel III secolo d.C. con la costituzione antoniniana di Caracalla, con la quale «tutti i liberi che abitano all’interno dei confini dell’impero diventano cives romani, siano essi africani, dell’Asia minore, spagnoli, galli, ecc., a prescindere completamente da ogni determinazione etnico-religiosa» (Cacciari 2008: 10-11). Dunque in epoca romana nasce l’idea che la città è mobile, essa va, non è ferma. Ogni città si fonda su una qualche origine, su di un mito, ma il mito romano è esattamente la confluenza di genti diverse, che non vengono sottomesse ma concordano nel perseguire un unico fine. In questo senso Cacciari ha scritto che più che su un’idea, Roma si fonda su di una strategia (Cacciari 2008: 14). E il fine che anima questa strategia è l’imperium sine fine. La costruzione dell’Impero romano come spazio senza confini (neanche temporali, perciò eterno). Roma è Urbs che da leggi a tutto il mondo, all’intero Orbs. Il fine della città romana è la globalizzazione, ovvero un processo di integrazione attraverso il quale la città (urbs) si fa mondo (Orbs). In tal senso la città è mobile, perché a Roma si produce uno scarto rispetto all’idea Greca. Roma innesca un dispositivo volto a far si che «il cerchio magico che nelle poleis rinserrava e imprigionava dentro i confini della città coincida con il cerchio del mondo» (Cacciari 2008: 1516). La civitas è civitas augentes ovvero essa “cresce”, si allarga a tutte e tutti. Essa de-lira ovvero supera il solco, il seminato, il limite che la definisce. Spezza i confini sacri (cfr. Rykwert 2002: 107 e ssgg.), travalica il perimetro urbano mentre lo istituisce, e non a caso essa si determina come sfera politica già da subito meticcia, impura. Questa idea è inconcepibile rispetto alla polis greca la quale invece (sino a Platone ed 46 Aristotele) è dominata dal timore di “non crescere troppo” per non perdere il suo radicamento, per non minare il suo ethos e il suo genos. Questa forte idea del radicamento nei greci si esprime nel loro logos che tra i cittadini diventa parresia, parlar franco e pubblicamente, possibile solo tra appartenenti al genos: l’unico dialogos possibile è tra omogenei, più che tra uguali (Cacciari 2008: 16-18). Al contrario la forza di Roma si esprime attraverso l’allargamento progressivo del suo dominio. Ed in questo allargamento c’è la consapevole relazione con altri, l’accesso costituente d’ordine politico di genti diverse nella strategia dell’Imperium. Le scuole, sotto questo rispetto, furono cardinali per la costruzione di Roma. Qui la funzione della pedagogia muta, come ha scritto Franco Cambi: la pedagogia con la nozione di humanitas viene a giocare un ruolo di centro ottico della cultura, in quanto sua sintesi viva e personale, ma anche nella formazione dell’uomo, che ora – nella stessa Roma – si sente prima di tutto soggetto umano, portatore di una umanità universale, invece che cittadino, legato al mos maiorum e al ruolo di civis romanus. Così, già a partire da Cicerone, si ha la nascita di una pedagogia in senso proprio, come sapere riflesso sull’educazione, svincolato dal mos/ethos e reso più rigoroso, più universale, meno contingente e locale, elaborato attraverso il discorso razionale (Cambi 2003: 49). Mi pare che, ben al di là della retorica diffusa, noi abbiamo oggi assai più da imparare dalla civitas augentes che dalla polis. Se un ricordo dev’esser riportato alla mente, se un passato va strappato dal continuum della storia, per ripensare il rapporto tra città, politica e pedagogia è proprio la forma urbana romana. Come ha notato Cacciari, infatti, oggi ci troviamo di fronte a questa grande distinzione tra polis e civitas nel pensare la città. E la questione si pone radicalmente: «vogliamo ritornare ad uno spazio ben definito, a un territorio ben delimitato che permetta scambi sociali, relazioni sociali ricche e determinate? […] è questa l’idea di città che vogliamo coltivare, o è la grande idea romana, gente diversa che viene da tutte le parti, che parla tutte le lingue, che ha tutte le religioni, un’unica legge però […]? Quale riferimento scegliamo: l’origine o il fine, il legame di stirpe o la legge?» (Cacciari 2008: 24). In relazione alla risposta che diamo a questa domanda, pur nella consapevolezza di ciò che la città è oggi – o non è più ormai, possiamo sviluppare il discorso pedagogico. Nel primo caso valgano le diffuse rielaborazioni dell’idea di spazio pubblico, come le tesi dei neocomunitari; nel secondo caso ci troviamo invece all’altezza del tempo: ovvero in condizione di dover ripensare non soltanto il processo pedagogico, ma prima ed insieme ad esso, la città come luogo mobile, diasporico, sradicato, e il politico come orizzonte del comune, ben oltre la scissione tra pubblico e privato. Post-metropoli e comune I poli di urbanizzazione disseminati sul pianeta sono ancora oggi spazi di verifica dello stato di avanzamento tecnico, economico e politico, ed accanto a ciò dei conflitti che esso genera, per la nostra società (Gregotti 2009: 78). In mezzo alle strade, alle piazze, ai crocevia postmetropolitani si mette in scena un palinsesto continuamente riscritto, «stratificazione di segni cancellati e sovrimpressi che ne ricostituiscono il senso» (Burgio 2005: 119). Il tessuto urbano, per un verso veicola significati individuali – esso è sempre composto da singoli che lo attraversano – e per altro verso restituisce informazione, descrive, forma ad un modo di stare nel mondo. Ma qui occorre la fatica del concetto. La cittadinanza, ovvero il dispositivo politico derivato dalla forma urbana o prodotto insieme ad essa, non è, né sarà mai, l’aderente copia di stili di vita plurali e atomistici (Ibidem). Non basta, come mai è bastato se non al prezzo di distruggere ogni livello del politico, dire di sé per innescare il dispositivo della sovranità. Al contrario, la fatica che abbiamo di fronte è esattamente quella di ricomporre forme comuni all’interno del tessuto urbano. Ancora una volta un logos e un nomos, ma internamente poliglotti e dinamici, per il tramite dei quali il dire di sé possa essere ascoltato, e il fare possa determinare prassi politica. Dal punto di vista pedagogico non ci si può fermare alla descrizione dei tanti microgruppi che reagiscono all’assenza del piano generale di senso, ma, come ha notato la Piussi riprendendo Bateson, «il compito semmai è quello di disporsi intenzionalmente all’educare, e non desistere dalla continua ricerca e proposta di una struttura che connette» (Piussi 2001: 8). La città ha perduto la profondità politica, la sua capacità di mediazione nei confronti della società, per l’effetto tutto moderno del degradare dell’utopia civica in forecast aziendale o in disincarnata utopia tecnologica (Gregotti 2009: 80). Ciò è senz’altro vero. La metropoli indu- striale moderna, quella descritta da Benjamin nei suoi Passagenwerke, era ancora adatta ad ospitare una qualche vita dello spirito (Simmel 2007). E ciò in forza della persistente presenza, nel suo tessuto concreto, di alcune stabilità: zone funzionalmente definite che contribuivano a dar forma alla società del grande capitale industriale, alla sua divisione in classi, ai conflitti e alla dialettica democratica che doveva andare in scena. Nella storia della pedagogia, su queste stabilità si è articolato il dibattito positivista tra borghesi e socialisti, attorno al problema di dover formare il cittadino, diffondere o difenderlo dai valori borghesi e organizzare il consenso sociale (Cambi 2003: 236-254). Non a caso quella città, lungi dall’essere esclusivo dominio degli ingegneri delle anime o della grande industria, è stata sognata come utopica, da piegare al riscatto dell’umanità, ad esempio nei grandi piani urbanistici del Movimento Moderno: si pensi, tra tutti, ai progetti di Le Corbusier per la ville radiouse, alla città per tre milioni di abitanti, o al piano di Algeri. Nulla di ciò è sopravvissuto al divenire tecnico: Oggi – scrive Cacciari – siamo in una fase successiva. Mentre nelle metropoli queste presenze ancora articolavano lo spazio, fondavano delle metriche ben riconoscibili nella dialettica centro-periferia […] oggi questa possibilità è completamente saltata. La città-territorio impedisce ogni forma di programmazione di questo genere. Si è ormai in presenza di uno spazio indefinito, omogeneo, indifferente nei suoi luoghi, in cui accadono degli eventi sulla base di logiche che non corrispondono più ad alcun segno unitario di insieme. […] La fabbrica non era la cattedrale, non aveva la stabilità dei vecchi centri della forma urbis, ma una certa stabilità l’aveva (Cacciari 2008: 37). La post-metropoli, città di slums, spralwtown, è stata scandagliata in letteratura e ne conosciamo i caratteri fondamentali. Saskia Sassen ha definito la collocazione delle polarità post-metropolitane nella struttura economica globale (Sassen 1997): le città sono nodi nei quali si concentrano le macrofunzioni di comando mondiale. Le imprese multinazionali si articolano attraverso i network transnazionali di città che godono della natura di poli di smistamento. Nelle città globali si assiste alla crescita dell’economia informale, ed a fianco della economia direzionale delle grandi imprese e dei flussi finanziari, il tessuto vitale della città è animato – nei centri storici come nelle periferie – dalle attività svolte da immigrati privi di diritti, apolidi, esclusi dalla cittadinanza. 47 Ragionare M. Assennato, Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica e pedagogia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) La forma urbana, di conseguenza muta. E dobbiamo a Mike Davis la più appropriata raffigurazione dei fenomeni caratteristici della metropoli postmoderna dal punto di vista della disseminazione di micropoteri e dispositivi di disciplinamento sociale (Davis 1999). La città di quarzo, si è costruita, secondo Negri, attraverso «l’erezione di muri a limitare zone intransitabili dai poveri, la definizione di spazi da suburra o ghetto dove i disperati della terra potessero accumularsi, il disciplinamento delle linee di scorrimento e di controllo che tenessero ordine, una preventiva analisi e pratica di contenimento e di inseguimento delle eventuali interruzioni del ciclo: oggi, nella letteratura imperiale, quando si parla della continuità fra guerra e polizia globali, quello che si dimentica di dire è che le tecniche continue ed omogenee di guerra e polizia sono state inventate nella metropoli» (Negri 2008). Gli spazi pubblici, ormai inospitali o soggetti a forme di privatizzazione, sono stati progressivamente sostituiti da grandi interni privatizzati – il centro commerciale, l’aereoporto, la stazione di servizio – offerti come spazi di socializzazione (Gregotti 2009: 79). O peggio, da new towns interne al territorio metropolitano, città per ricchi che si difendono dai poveri, blindate, private, armate e difese, sorvegliate per punire l’altro. «Se un tempo – ha scritto Gregotti – qualcuno ha pensato che la liberazione collettiva valesse il sacrificio personale, oggi la libertà personale è agita, proprio nella supercittà, contro ogni liberazione collettiva» (Gregotti 2009: 79). È sempre più difficile per queste vie avere una immagine dell’altro, e sempre più diffusa invece l’ansia di ricevere indietro un’immagine di se stessi. Ed infine è stato Rem Koolhaas a restituirci un ritratto iperrealista della città generica, nella quale l’unica attività collettiva è lo shopping e i caratteri della metropoli moderna sono implosi in Junkspace: spazio spazzatura (Koolhaas 2006). Ma la questione resta aperta: non c’è dubbio che tra le pieghe della post-metropoli persistano zone di significazione, percorsi individuali, stili di vita differenti e per certi versi antagonistici. E non v’è dubbio che, come già per i fenomeni di controcultura nella Los Angeles degli anni Settanta e Ottanta, una qualche forma di credito deve essere accordata alle forme antagonistiche che spontaneamente vanno in scena nella metropoli (Davis 1999: 82-83). Ma né il politico – ovvero la cittadinanza postnazionale e metropolitana – né il pedagogico come “cassetta degli attrezzi” per la vita associata, possono vivere senza agire sulla forma ge48 nerale: ovvero senza darsi come ipotesi di progetto, in direzione emencipativa e sempre aperta, ma collettiva. E allora? E allora urge la fatica del concetto. Abitare, avere una casa, avere una città, non possono più esser pensati come nel secolo scorso. Perché? A mio avviso perché la straordinaria mutazione della struttura politica della società contemporanea per un verso, e la potente qualità (più che quantità) delle migrazioni contemporanee per altro verso, hanno mutato in radice la relazione tra nomadismo e stanzialità, e per questa via il significato dell’abitare, dell’avere una casa e dell’avere una città. Siamo presi in un doppio vincolo. In prima istanza è vero che l’implosione dello stato-nazione, delle sue istituzioni e della cittadinanza nazionale apre nuove possibilità politiche, più larghe e innovatrici: esse si esprimono nelle molteplici e inventive narrazioni degli stili di vita nei tessuti metropolitani. Su questo livello, costruire pedagogicamente la possibilità di dire di sé è già una bella conquista, e si tratta di cose che, secondo Gregotti «potrebbero essere materiale prezioso anche per il disegno urbano» (Gregotti 2009: 84). Ma in seconda battuta non si può non vedere come lo stesso processo produca una costante e violentissima marginalizzazione dei più deboli, e dissolva al contempo lo spazio sociale civile sul quale si è costruita la relazione tra pedagogia, cittadinanza e forma urbana: la postmetropoli non è un semplice palinsesto del quale possiamo godere, atteggiandoci a spettatori di programmi in technicolor. È spazio segmentato, dominato, segnato da nuove enclosures, privatizzato, vilipeso, offeso, come i soggetti nomadi che lo attraversano. L’estetica della constatazione, come nota Gregotti è, in questo contesto semplicemente la rinuncia al pensiero critico: «dopo il realismo socialista, il realismo degli interessi di mercato senza altri aggettivi» (Gregotti 2009: 85). La fatica del concetto che urge parte allora dalla tessitura tra forma politica e ciò che contro di essa si agita, ciò che ne definisce la crisi: dobbiamo pensare, dare forma, ovvero educare perché ciò accada, portare fuori, portare alla luce, la differenza che sempre esiste tra forma politica – unica, generale – e forme di vita, multiverse, plurali, riottose, critiche. Consapevoli che la scissione tra potere e potenza mai si concilia, e mai, d’altro canto, si verifica del tutto: «nessuna classe politica potrà venire a capo di tale differenza. Ogni decisione (e la politca è chiamata a prendere decisioni) presuppone tali scissioni. Ogni sintesi politica sarà sempre rispetto ad esse arti- ficio. […] le forme politiche più durature sono quelle che sanno adattarsi alle ragioni del conflitto, che si piegano ai suoi movimenti» (Cacciari 2009: 24). Solo da qui può sgorgare una fonte sovrana in grado di definire la cittadinanza per i cives futuri. La pedagogia che occorre è quella che mette in condizione di pensare questa fatica. Come ritorna questo programma sulla forma urbana? Ritorna restituendoci la possibilità di una città, di una casa, di un abitare compiutamente nomadi: perché liberamente attraversabili e perché mobili, crescenti. Sarà allora, la città «indistricabile unità di opposti senza fondamento. Comunità che ogni giorno deve sapersi inventare, comunità sempre futura. […] Profondamente politica se, pur nel terremoto dell’epoca, lavorerà per cercare quel “comune” a tutti, possesso di nessuno, che ci permette di comparare idee e valori anche inconciliabili, di comunicare e fraintenderci» (Cacciari 2009: 25). Note 1 Latouche 1992. Sullo stesso argomento, riprendendo la tesi dell’urto tra Occidente e mondo di Alfred Toynbee, Giacomo Marramao nota come «l’urto tra il mondo e l’Occidente provocato dall’espansionismo planetario dell’Europa moderna altro non sarebbe che un’occidentalizzazione tecnologica che s’imporrebbe con il contrappasso di una deoccidentalizzazione spirituale: “lo scontro attuale [nota Toynbee] fra mondo e Occidente si sta spostando dal piano tecnologico a quello spirituale”» (Marramao 2008: 21). 2 «Se i rifugiati […] rappresentano […] un elemento così inquietante è innanzitutto perchè, spezzando la continuità tra fra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità, essi mettono in crisi la finzione originaria della nazionalità moderna. Esibendo alla luce lo scarto fra nascita e nazione, il rifugiato fa apparire per un attimo sulla scena politica quella nuda vita che ne costituisce il segreto presupposto» (Agamben 1995: 145). Benhabib S. 2005 La rivendicazione dell’identità culturale, Il Mulino, Bologna. Benveniste É. 1985 Due modelli linguistici della città, in Problemi di linguistica generale II, Milano, Il Saggiatore: 307-316. Bourdieu P. 1993 La misère du monde, Paris, Seuil. Burgio G. 2005 La città è un palinsesto, in Marino M. (a cura di), Il mito della cittadinanza, Anicia, Roma. 2007 La diaspora interculturale. Analisi etnopedagogica del contatto tra culture: i Tamil in Italia, Ets, Pisa. Cacciari M. 1981 Il Progetto, in «Laboratorio Politico, Anno I, numero 2, marzo-aprile: 88-119. 1994 Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano. 1996 L’Arcipelago, Adelphi, Milano. 2008 La Città, Pazzini, Villa Verucchio. 2009 Politica e anti-politica, in I. Dionigi (a cura di), Elogio della politica, Bur, Milano. 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They are examining how cultural norms and taboos configure the landscape of a society, determining where men and women should be at any time, and measuring how such rules impact the distribution of power – formal and informal. An ecological approach to gender has long been a staple of feminist sociology and of women’s studies. In her groundbreaking Gendered Spaces, Daphne Spain perhaps best summarizes the prevailing position Spatial segregation is one of the mechanisms by which a group with greater power can maintain its advantage over a group with less power. By controlling access to knowledge and resources through the control of space, the dominant group’s ability to retain and reinforce its position is enhanced. Thus, spatial boundaries contribute to the unequal status of women (Spain 1992: 15-16). More recently, cultural anthropologists have taken up the challenge of defining the spatial dimension of gender. For example, Sheba George (2005) writes about the separation of the sexes in an Indian immigrant community in a North American city. She notes that the divide between men and women and the exclusion of women from symbols of authority is clearly manifested in the physical placement of men and women and reaches an apogee, not surprisingly, in the parish church. The «gender hierarchy – she writes – is starkly delineated and enforced, as best exemplified by the physical separation of the congregation by sex» (George 2005: 125). Noting that certain key areas in the community are «off limits to all women and girls», she argues convincingly that such proscriptions in the heart of the community’s spiritual consciousness reinforce the subaltern status of women (Ibidem). Recent studies of Northern Ireland (Reid 2008) and of Istanbul, Turkey (Mills 2007) have likewise shown how powerfully spatial segregation influences the social and political status of women. Similar studies by other social scientists in other parts of the world show that “place discourse” (Reid 2008: 489) articulates with identity issues, systems of sexual inequality and with patterns of social change (see for example Staeheli and Kofman 2004)1. Some parts of the world manifest sexual segregation more strongly than others, of course. Stark rules of separation and exclusion are especially well known to students of the Middle East and the Mediterranean where there still exists a residual opprobrium attached to women being unaccompanied in public spaces. Perhaps “sexual apartheid” is too strong a word to be used today for these societies, but in much of the rural Mediterranean many public locales, especially public houses and government offices, are still “off limits” to women. Consequently, women’s access to the critical nodes of socializing, commerce and decision-making, is thus effectively limited (see Sciama 1981; Herzfeld 1985a, 1985b, 1991; Taggart 1991; Brandes 1992; Mills 2007). Obviously such symbolic systems of segregation and of distancing have crucial consequences for gender relations since they determine the literal parameters of “place.” One anthropologist working in Latin America, Setha Low (1996) calls this dimension of community life “spatialization” – an ungainly but useful neologism. Cultural anthropologists have argued for years that spatial arrangements are a powerful means by which society’s order is communicated to individuals and “felt” by them. The power of space is that it semiotically functions as 51 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, I (2010), n. 1 a «morphic language» (Hillier and Hansen 1984: 198), a primary means by which society is both interpreted and experienced. The interplay among the factors of gender, status, and space arises from the constant re-negotiation and reenforcement of historical patterns of differentiation, exclusion and hierarchy and the degree of “public access” (Weismantle 2008: 123). As Bourdieu (1977) noted long ago, the power of a dominant group lies in the ability to maintain social constructions, images, and norms that make the present order of things “natural”. My goal here is to describe sexual segregation in rural southern Spain and to report on how this age-old scheme is currently being infiltrated by women in an effort to re-negotiate “place”. 1. Public/Private : Male/Female? The “public-private” distinction originated as a heuristic device in feminist studies in the 1970s as a way of conceptualizing the spatial confinement and political disfranchisement of women (Lamphere 1974). In this binary scheme, “public” means the open spaces wherein lay the reins of power, governance, commerce, information exchange, backdoor politics, and public discourse2. Conversely, “private” connotes the secluded domestic realm, indoors, the domain of the family: enclosed places, thus “marginalized” space (Reid 2009: 490-491). Although long a staple in Middle Eastern and Mediterranean area studies, the public/private scheme, like most hoary conceptual dichotomies, has come in for much second-guessing lately3. Perhaps Abu-Lughod’s criticism (1998) is the most salient. She argues that like all conceptual dualisms, such a binary scheme ignores empirical ambiguities and is a reproduction of facile “orientalism” (see Mills 2007; Reid 2009). Still, most feminists would probably agree that this venerable dichotomy is useful if only as a starting point in measuring gender asymmetries (Staeheli 1996; Benhabib 1998); and what most feminists object to is not the conceptual division itself, but «the gender hierarchy that gives men more power than women to draw the line between public and private» (Fraser 1998: 331). Even in Middle Eastern studies the spatial dichotomy has been useful to delineate the fluidity of boundaries, their recent shifts and infiltrations due to nascent women’s movements (Cope 2004; Nagar 2004; Mills 2007). Instead of regarding the division of space as a static “thing”, a processual approach seeks to enlighten how borders are ne52 gotiated, re-negotiated and diluted as an ongoing process (see Cole 1991). Here the object is to highlight «the ways in which power and experiences from one sphere infiltrate the other sphere» (Staeheli and Kofman 2004: 10). A watershed example of this new approach is a recent study of female factory workers in Fez, Morocco, by Cairoli (2009). She shows how working-class women who were previously confined to the home have upended the private/public dichotomy by reformulating their conception what is public and what private. In the view of these women, the factories where they work are an extension of the domestic sphere, and their relationships there with fellow workers and employers have taken on the idiom of kinship: women workers are “sisters”; male employees are “brothers” and the owners and bosses of the factory are “fathers.” Thus, Cairoli says: «workers transform the public space of the factory into the private space of the home in an attempt to assuage the contradiction inherent in their presence inside the factory, outside the home» (Cairoli 2009: 542). Like Cairoli and others working in areas that have been historically sex segregated, I rely here upon the public/private split as a starting point in a discussion of gender spatialization and its current vicissitudes in Spain as a means of grasping contours of gender in a broader sense, a metaphor for “place.” This is not only because the public/private division is ethnographically and cognitively valid today, but also because this very split between a male and a female domain, as it exists in the minds of women, has encouraged a unique form of feminist resistance. But unlike the case in Morocco reported by Cairoli, the women of rural Andalusia have inverted the classic public/private split not by transforming public into private but by doing the opposite: appropriating the public and turning it into private, thus reformulating the boundaries of sex within the moral order. 2. Andalusia: Sexual Boundaries First let me give some ethnographic context4. Andalusia is the largest region of Spain and makes up the southern part of the peninsula. In many ways it is similar to America’s “Deep South”, under-industrialized, classically agrarian, culturally conservative and traditional. Andalusia is also well known for cultural peculiarities, from which others often disassociate themselves as being backward and “Moorish” – not sufficiently “European” that is. Aside from the olive-oil drenched cuisine and fine sherry wines, the most obvious examples of Andalusian exceptionality are a regional obsession with the bullfight, the nucleated whitewashed hill pueblos, and the sequestering of women. Andalusia is the region closely identified with the stereotypical Spain of the travel posters: flamenco music, raven-haired señoritas peeping out of iron grates, Arabic architecture, perfumed gardens and the sexual double standards of machismo and donjuanism. My fieldwork took place originally in the 1970s and 80s in a farming town in Seville Provinces, but subsequently expanded to a number of pueblos throughout Andalusia. I begin with the Andalusian custom of female seclusion. Certain areas of the built environment in the Andalusian pueblos are defined implicitly as either female or male territory, the male space being outdoors, the female space being indoors. These sexual “frontier-lines”, as LéviStrauss (1961: 397) calls them, are strictly drawn; trespass is moral transgression of a particularly egregious kind. These strict ground rules of course affect both sexes, touching men too, because there are places in which men must not set foot (e.g. the marketplace). But the rules of place impact on women more onerously by denying them access to the “important” domains of civic and social control. By this I mean that women’s appearances in places like parks and plazas, government offices, bars and taverns and public spaces, are still strictly limited by a barbed wire of convention, exiling the female from public life, enacting a kind of cultural house arrest. Severe sanctions come into play against women who are “out of place.”5. In Andalusia women who venture out have historically maintained a stance of what Herzfeld (1991: 80), writing about Greece calls «submission and silence». Their bodies and voices take on a veiled or “muted” covering. I am not speaking here even by allusion of the Islamic practice of veiling but rather the distinct, but obviously analogous, practice of deference, muteness, concealment – the masking of females “invisible”. The journalist Anne Corneliesen (1976) captured the custom perfectly in the title of one of her books on southern Italy: Women of the Shadows. Let me describe one incident early in my fieldwork that vividly illustrates this pattern. One evening in 1973 I came upon an old women dressed in black outside a tavern with her face turned toward the wall. With her black shawl held up to her eyes, like a veil, she looked very uncomfortable and seemed almost on the verge of tears. As I passed her and went into the bar she stopped me with a whispered “buenas noches”, and having gained my attention timorously asked me a favor. What she wanted was for me to convey a message to her son who was drinking and playing cards inside the bar. I hastened to accept her request and did so and she left immediately. The young man got up abruptly and went home. Later this man told me that like most older women his mother would not even step across the threshold of a bar, not even in the direst emergency, and because of this they must find some man as a surrogate to transmit messages within (this is the era before telephones were widespread in this part of Spain). So her discomfort was due to the conflict between her need to contact her son and her anxiety about entering the forbidden male world. When women and girls do appear outside the home in Andalusian pueblos, for example in the agricultural work gangs during the olive harvest, which they do often because of a shortage of male laborers at this the time, they are garbed from head to toe in layers of covering not normally seen in the village. Their hair, normally exposed during evening walks and on other festive occasions, is ritually covered in the presence of strange men during the harvests. This is a “liminal” or interstitial time when the more general rules governing sexual segregation are relaxed temporarily (see Brandes 1980; Taggart 1991). Men and women mingle together in olive-harvesting squads. The covering of the females however is complete and from a visual and sartorial perspective bizarre, even to the women themselves. The women wear two layers of exterior clothing: skirts worn over full-length trousers, sweaters over shirts and the hair covered by both a cloth and a hat, all this resulting in a visual negation of the body, a burqa-like transformation of person into shapeless bundle. Many complained privately that they felt “curious” or “strange” (curiosa) wearing such thick swaddling, nevertheless given the social pressure, they all succumbed. It is as though some danger inherent in the female body normally under control, were unleashed in this promiscuous mixing of the sexes, so the women’s bodies and hair have to be concealed, deleted as it were6. The confinement to the house is an everyday burden for women, a life sentence. Let me give one poignant example from my own fieldwork experience: there was the case of my neighbor Filomena, a peasant woman in her early fifties. Her husband, a hard-working farmer, was typically absent all the time either at work or in the neighborhood tavern. Filomena had only her 53 Ricercare D. Gilmore, Sexual Segregation in Andalusia. Then and Now ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) four grown sons, also wanderers, and no daughters to keep her company. Because of this abandonment and the paucity of female neighbors on the small narrow street she lived on, was basically restricted to the home and, on Sundays, to the church. People pitied her because of this isolation and called her a “pobrecita”, or a pathetic case. But she found an ingenious way to compensate for her misfortune of being confined to the home. Once I found her leaning rather theatrically outside her front door with her hand on her head, looking pale and tense. Breathing deeply and clutching her heart, she breathlessly told me and my wife, who was, as Filomena, a medical doctor, that she had developed “an allergy” to her own house. Not a part of the house, she said, but the “whole damned thing”. She could not abide remaining inside for another minute and had to “take the air” or die. Filomena suspected her illness had something to do with the nasty chemicals her husband used his farming and then brought into the house, traces of insecticide maybe, she wasn’t sure. But the local doctors could find nothing wrong with her and her husband scoffed. So she asked for some corroborating support form my wife, so that her husband might bow to foreign medical authority and let her take the air on occasion just to counteract the allergy to the house. We promised to speak to her husband, which we did shortly afterwards. A gentle, tolerant man, he smiled indulgently, nodded knowingly, but said nothing. Afterwards, Filomena began to take restorative walks around the block which I believe did her much good. But what stuck in my mind was that our neighbor needed medical justification to get of her own house house for a few minutes a day. Other women with more rigid husbands, or stronger superegos, were less fortunate. 3. Sexual Quarantine This form of female “house arrest” is corroborated by legions of ethnographic reports from southern Europe (for a review, see Cole 1991); it is a sexual quarantine that stands out as an empirical fact of particular salience. In Fuentes, whenever the subject of women’s “place” arose, people would repeat a phrase like a mantra: “la mujer de la casa, el hombre de la calle” (women indoors, men outdoors). As such it must be accepted as a fragment of reality as personally experienced by every person every day. My own experience in Andalusia suggests the depth of 54 commitment to sexual segregation leading to a occasional incongruities between reality and the senses. Things that were visibly there were elided or openly denied. For example, men would tell me emphatically, with a great deal of satisfaction, that women would never venture outside their houses except to go to the village market. But not more than fifty feet away from where we were talking, one could plainly see of women picking cotton or weeding sunflowers, more women in fact than men, since most of the male laborers were then in Germany or Switzerland. When alerted to this fact, the men would simply dismiss it as a sort of statistical deviation by assuring me that what I was witnessing was anomalous, unusual, rare, out of the ordinary, perhaps a mirage, or due to special circumstances never clearly explained. But it was clear to me that this discrepancy between what I saw and men’s idealization about the “place of women” represented an example of wishful thinking. “Women are at home” (la mujer de la casa) was a talismanic obsession that if repeated often enough might became true or at least allay a certain male anxiety about women being out of place. The men were in their own minds the masters of village space. The sanctions imposed upon women out of place were usually gossip and community-wide censure, resulting in ostracism and ruined reputation as a puta (slut). «What is she doing walking the streets?» A man can be a callero (street corner fellow; bon vivant, spoken with some sneaking admiration), but for a woman to be called a callejera is the same as calling her “a woman of streets”, a streetwalker. Of course this has the same connotations as in English or any other European language. This contumely could then rebound upon a woman’s family, blackening her daughters and sisters, so compliance with the rules was almost always assured by the pressure of public opinion. Above and beyond the abstract force of gossip, however, there were additional punishments meted out to wayward girls, some of them bordering on the violent. Let me provide one example from my fieldwork. This happened in the 1980s, a time when things were just beginning to feel the winds of change. Having met some male friends in the 20s and 30s for the evening, I was out walking at dusk. We came upon a group of about twelve boys, 13 or 14 years old, milling about in one of the central squares of the pueblo. Observable everywhere in the streets, these youth packs are called pandillas (cliques or gangs) and are a fixture of outdoor life in the pueblos. While nothing unusual in that male pandillas are often seen lurking at any time of day or night, my ethnographic alarm bell went off and told me this group was poised for some mischief which might be of interest. The boys looked purposeful and expectant. So I made inquiry to my companions who told me the following. What I was witnessing was the first stage of a traditional adolescent activity called the “abuchear”, meaning loosely shouting, jeering, or hooting. My informants understood what was going on because they had participated in such rituals themselves in their teens. The boys were in fact lying in wait for some unsuspecting and, more importantly, unaccompanied, young girl to pass by. When one did, they would rush after her, hollering obscenities, jeering and grasping at her clothing, driving her crying to her home, at which point they would relent and reorganize to repeat the process with another victim. The boys did not physically molest the girls (actual physical abuse is against the rules in these communities and rape unheard of), but their victims were usually shaken up and frightened. In one famous case of abuchear, I was told, a girl ran home in tears, her clothes in tatters, and told her father that she recognized the persecutors. Angry and insulted, her father then went to the boy’s house to extract an apology from the boy’s father; some words were exchanged. But the response of the hooting boy’s father remains a classic piece of folklore in the pueblo. Rather than being chagrined or apologetic, the father coolly replied «Why thank you for telling about this: that means my boy must be a real macho. And what is your daughter doing out in the streets?»7. 4. The Public House: Power and Privilege Turning now to adult entertainments, we note that in the rural Mediterranean World social life centers on the village café or public establishment. As the main theater for masculine interaction in small villages, this “central place” may be a coffee-shop or teahouse as in the Muslim Middle East, or a bar or casino as in south Europe. Providing not only comestibles, but also entertainment, meeting rooms, and electronic services, these places serve as men’s clubs where regulars meet, eat and drink, play cards, gossip, and more germane to our interests here conduct business. In southern Europe these institutions are functionally equivalent to traditional “men’s houses” in other cultures as Vale de Almeida (1966: 7) notes in his book on Portugal. No one has expressed this pattern of publichouse sex segregation better than the French ethnologist Germaine Tillion who writes: On the Christian shores of the Mediterranean, one may follow the zigzag path of an invisible frontier. On the inner side of this frontier, men walk the street alone; they go alone to the bars; and a woman’s presence in a café – even in the company of a near relative – to this day appears as unusual as it would in Baghdad (Tillion 1983: 167). This “invisible frontier” pervaded rural Spain – at least until the 1980s. The male-only café was a symbolic moat dividing men and women in villages not only in the south of the peninsula, always culturally conservative, but throughout the country including up-to-date Catalonia as Ed Hansen (1976) noted in his article Drinking to prosperity. This sex barrier was pervasive irrespective of class, social position or marital status of the people involved, as we have seen in the example above. Every ethnography of rural Spain acknowledges the central role of the bar or tavern in the lives of village men and the exclusion thereof of women as Henk Driessen (1983) points out. Indeed, because of its social functions (as well as inviting climate) the Spanish bar has been the enduring fieldwork site for much of the male-oriented ethnography done in the past forty years. Because of its central role in formalizing sex apartheid, in the classic period of post-war Spain, the public house has received some belated attention from anthropologists in and of itself, as well as serving as a passive site for participant-observation fieldwork. Studies by Hansen (1976), Stanley Brandes (1979), Driessen (1983), the Corbins (1984), and myself (1975, 1985, 1991) describe functions of Spanish bars and casinos (the casino is a private club, often with class pretensions and occasionally with musical, sporting, or other themes). These functions are critical to understanding gender relations and social processes in the towns and villages of rural Spain. First, simply as recreational locales, Spanish drinking establishments provide a context for making friends and for the advancement of expedient goals. Hansen (1976) shows how important this strategic function was in Catalonia under Franco, because other loci for association were outlawed by the dictator, an observation that holds true for other regions. In Andalusia, Driessen (1983) shows that bars also serve as an arena for the maintenance of male dominance and the building up of “macho” identity. Since Andalusian men must stay out of their homes to preserve their manly self-image, they use the bar as a kind 55 Ricercare D. Gilmore, Sexual Segregation in Andalusia. Then and Now ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) of exclusive men’s club. Having this home-awayfrom-home enhances their ability to evade their wives, to exclude women from business and back-room politicking, and to manage symbols of masculine superiority. Thus bars function more then as passive contexts: they reify and defend gender boundaries. In a similar way, Bourdieu (1971, 1977) sees the Kabyle house in Algeria as the key setting in which body space and architectonics are integrated in the spatial symbolism of the home, social structures becoming concretized and embodied in everyday practice. Long ago Bourdieu proposed the concept of habitus, a generative principle of collective representations used to reproduce symbolic codes and existing structures as homologous systems. But for Driessen, Andalusian bars not only represented a defended repository for a threatened masculinity, but also help to «keep women in a subordinate position» (Driessen 1983: 131). Kept out of the bars, women are denied access to power nodes and networks ensure naturally in public places where ritualized exchange takes place. What Driessen says for Andalusia, however, seems equally relevant for other parts of Spain including Castile (Brandes 1979) and Aragon (Lison Tolosana 1966). For in the north, too, the sexes are socially segregated, to a greater or lesser degree, and men congregate in single-sex bars to enact rituals of masculinity and to run things. All of the work on the bar in the Mediterranean area in the past three decades shares a conception of the central public place as a micropolitical nexus or arena; that is, a critical locus where strategic goals are met by men manipulating an informal political field constituting the economically active population of the pueblo. As Vale de Almeida says in his book on hegemonic masculinity is southern Portugal: «In Mediterranean societies, the bar or café is a focal institution in public life. It is the main stage of masculine sociability; it is the male gender that is associated with public life» (Vale de Almeida 1996: 88). Thus the public house is by definition the local expression of the male occupation of the public “space” that contextualized political life. But an invisible frontier that lasted from who knows when to just a few years ago has been challenged, assaulted and indeed overthrown through the ingenuity of village women informed by the growing power of feminist unity, and abetted by a particular form of modernization that has been underplayed in the literature on social change of the region: American TV shows. 56 5. The Present: a Reversal of Public/Private In many pueblos of rural Andalusia, dramatic change has transformed the gendering of public space. As everyone knows, women in Spain now comfortably inhabit public spaces, hold elective office, walk boldly about the streets and plazas, linger in the parks, and have all the privileges that men enjoy in going wherever they want. Men have generally acceded. But one place remains still to a certain extent “off limits” to women, and that is the neighborhood drinking establishment. Recently Andalusian women have taken major steps to infiltrate and indeed take command of this remaining bastion of male domination. How they did so presents an interesting tale of spontaneous social change in Andalusia, and also perhaps a lesson to woman in all such genderized social environments. As in most pueblos, the public houses in Fuentes are of four kinds, based on government registration, taxation, licensing, history and culture. First and the oldest are the traditional neighborhood tabernas, dimly lit dives which hark back to the Franco era and beyond; serving wine and beer, they are usually patronized by older working-class men. Second are the slightly more upscale “bars” which arose in the boom years of the 1960s and cater to a younger, hipper modern crowd, having modern accommodations and serving fancy liquors. Third is the new-style “pub” (pronounced “poof”), dating to the early 1980s and modeled after an idealized version of the English public house. Patronized by more sophisticated village youth, they are elegantly furnished and stylish turned out with cushioned sofas, colored lighting and a fancy range of imported beers and expensive whiskeys. Last are the still more fashionable discotecas, dating to the late 1980s, which feature live rock music, karaoke, dancing, and resemble an American or French night club (I am not counting the stuffy casinos, or private clubs here, which are mainly patronized by the elite and the elderly). The latter two establishments, the stylish pubs and youthful discotecas, are known specifically to welcome and to accommodate women and girls on weekends, and many unmarried young women attend on Saturday nights, always, however, in groups – it is still rare to see a single woman in a public house of any sort. The more forward-looking bars also welcome females, but usually get them only on weekend nights either in sizable groups or accompanied by male companions. But the smoky masculine tabernas – especially the old-fashioned and rough working-class dives – remain strictly sex segregated. Women are still reluctant to enter such a manly world of smoke, card-playing, televised sports, heavy drink and male camaraderie. Indeed women in Fuentes still do not feel comfortable in many of the bars and tabernas. They still complain about a sense of alienation when it comes to the traditional public houses. «Why should women be made to feel like prostitutes for going where men go all the time?» is an often-heard complaint. For many women, disbarment from any of the public establishments in the village, even the hole-in-the-wall tabernas, represented a last frontier of sex discrimination, a galling challenge that sooner or later would have to be broached, don Quixote and the windmills. So some banded together and enacted a very dramatic remedy to turn the situation around. Before describing these recent developments, I must digress to explain the operative cultural principle of ambiente. Literally this expression might be rendered in English as “ambience” or “atmosphere”, but it means much more in colloquial Spanish. Perhaps “gaity” or “gregariousness” would be better glosses. When queried about its meaning, people in Fuentes will say that ambiente is the key to the enjoyment of life and the source of emotional fulfillment for people of both sexes, for young and for old, a key to happiness. Ambiente emanates primarily from crowding, from the presence of many people in small spaces – from togetherness, interaction, social intercourse, conversation and camaraderie. Propinquity creates social contact, providing the pleasures of sociability that are so keenly felt in isolated small towns. Without experiencing ambiente, a person is said to be “sad” (triste) and lonely (solo) and is pitied as a pobrecito(a) (sad sack). For example, a man without a neighborhood bar to go to every night or a man without dozens cronies is considered a “sad one” and a “lost soul.” People who live in isolated farmsteads outside the town are always said to be unhappy, lonely and desperate. Men who inhabit the bars nightly for rounds of drink, cards and other sorts of manly fun are “happy” and “lucky.” Many people say simply that ambiente is “life”, and life without ambiente is not only depressing but also not truly human. In Andalusia, the worst fate to befall a person is not poverty or poor health, but loneliness. There is also a verb form, ambientar, to make merry, to socialize. When you go to a public place to meet friends or when you arrive at a festival or enter a crowded bar, people will say it’s time to “ambientar”, time to make happy. Probably the closet terms in colloquial English would be “get loose” or “start partying.” It should be obvious from the above, that ambiente is less accessible for women than for men, because any man can simply visit his local tavern and achieve some modicum of ambiente (there are always crowds, albeit all-male). But for many women, who are still confined to the home, ambiente is difficult to achieve. If a woman has many daughters, sisters and other living kinswomen within reach, she can socialize indoors and be fulfilled. But many women are bereft of such company, and for them a state of loneliness is common. Having put up with this sexist exclusion from a treasured part of life, and motivated by the women’s movement in the 1980s, the pueblo women finally got fed up with this state of affairs and decided to do something about it. The result is the banding together and the creation of the revolutionary concept of the “private festival”, on the face of it a contradiction in terms. 6. Bar Wars: To Go Boldly Where No Woman Has Gone Before In Castilian fiesta means festival, feast, holiday – whether religious or secular. A fiesta in Andalusia is by definition a public event, and access is unrestricted. Spanish secular fiestas, such as Carnival and the summer fair, and even religious holidays such as Holy Week, are times when everyone is outdoors celebrating and cavorting. Fiestas are periods of broad disinhibition, barpacking and carousing, moral rules temporarily relaxed. Women are permitted free reign in fiestas: they can visit the bars, drink and indulge themselves like men without much criticism (there is always tongue-clicking among the more conservative). Pre-determined by the ritual or liturgical calendar, fiestas are leaderless and no one is ever in charge. Nobody has the power to limit access to such a public event. However, a sea-change has occurred in Andalusia regarding the concept of fiesta. On recent fieldtrips (2002, 2006), I was told that women in the pueblos had devised a way to challenge the male monopoly over public spaces. Their strategy is to imitate a custom they have witnessed on American TV shows: throwing a private party in a public space. They call this a fiesta particular. Previous to about 1990, such a thing was unheard of in Andalusia. I should point out that “particular” in Spanish differs slightly the synonym “privado.” The latter, as in English, is a legalistic term meaning private property or individual ownership. Analogous but not isomorphic, particular carries the sense of something controlled by a person or per57 Ricercare D. Gilmore, Sexual Segregation in Andalusia. Then and Now ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) sons for the specific purpose of limiting access: thus it connotes “exclusivity in jus” rather than “private, in rem”. So a fiesta particular (we might call it an exclusive affair), has the curious selfcontradictory sense of a public but restricted festivity or celebration – historically an alien idea in Spain. By the 1990s, women in the pueblos had begun to pool resources and rent out bars for evenings. By means of this radical invention, they have seized control of male-only spaces and invaded the last bastion of male exclusivity. Having established a beachhead in “enemy terrain”, the girls invite like-minded female friends and liberated men to join them, posting a sentry at the door. When anyone approaches who is unacceptable to the new spirit of gender-bending, the sentry sternly announces “fiesta particular!” turning the intruder away. Thus an unprecedented custom has entered the world of the village, potentially an upheaval in gender rules. Few social scientists have examined the implications of such a spontaneous challenge to prevailing orthodoxies. Are women using the fiesta particular to network, to “do deals”, advance careers? We must remember that such trivia are, in aggregate, the stuff of “social change”: tiny first steps in the long journey of cultural transformation. It happened in the following way. In the waning years of the last century, a number of young women came up with a novel idea for entertaining themselves on weekends. Constituting an informal tertulia, or friendship society, four women aged between 22 and 25, unmarried, without serious novios, or boyfriends, they found themselves bored and unable to abide by he rigid rules of female housebound imprisonment that their mothers and grandmothers rigidly followed. Of course they had all been to the bars with men, and had been accustomed to going in large groups of single girls to the discotecas on Saturday nights for drinking and dancing. But they felt something was missing in their liberated lives, something to do with control over the environment. Having watched American TV shows in which public halls were rented by women for parties, they conceived the idea of doing the same thing in the local bars. So when one mentioned her bright idea of going en masse to a local bar and paying the owner in advance for drinks, asking his wife to prepare tapas, or snacks, and to decorate the bar with bunting. They had seen similar preparations in American movies and on the TV Teledramas made in Spain that imitate what they like to call the “California life style”, that is, modern hedonistic self-expression. Essentially, the intention of the young wo58 men here was threefold: first to give vent to the need for female for control over entertainment, and second, to demonstrate their newfound assertiveness and defiance of male dominance, and third, just to have fun. On the face of it, the contradiction in terms among public, private, particular, exclusive and the implicit the overthrow of male dominion, was not an issue to the first rank of organizers, the “revolutionaries”, as they joking began to refer to themselves The girls were more intent upon making a social success and establishing a precedent, thereby getting men and older women accustomed to seeing crowds of unaccompanied females gallivanting in the streets and drinking and socializing in public houses. Upon hearing of this, my first reaction was to query people in the older generations to see what kind of response the girls might have encountered. The older men’s reactions were perhaps most interesting. I spoke to a few “regulars” of a bar that had been usurped by women for an evening in 1999, men in their 50s and 60s. In discussing the events, I found a surprising degree of acceptance and even grudging approval. One man said simply that women ruled inside the house and did most things formerly reserved for men, and so why should they not also rule in the public houses? Another older gent, less sanguine, argued that the bar was the “last refuge” for older males, a sanctuary and escape from the female-dominated world of the indoors, a male fortress. Still, this man smiled and chuckled, adding sheepishly that despite all his misgivings and the wrench of seeing a tradition toppled, he was delighted to have the female company (they let him in that night out of pity if I got it right) . He added that just to be able to look at all the pretty young things was a “fashion show” and a “feast of the eyes”, as he put it. I detected more a note of moral resignation but also a certain understated elation at the turn of events. Other interviews with men revealed more of the same. One man in his 50s reported that seeing so many unattached women in bars is something he had awaited for 40 years and was pleased about it. He hoped they would come in more often while the regulars were assembled and not just on their own nights with the younger men; the girls were a “boost for us tired old dogs”, he added, smirking and tapping his temple alongside the eyebrow as men in Andalusia do to indicate something visually striking. Out of about twenty preliminary chats with the older men, I got the impression more of relief than of anything else, as though an ageless battle, bravely but uselessly fought for decades, had been honorably concluded with little real damage to either side. In the spirit of sexual ecumenicalism (a favorite expression among young women), the men granted the women their long-overdue rights and indeed expressed a measure of approval and solidarity with sisters and daughters: a happy surrender. The “old ways”, many men said, are not only a thing of the antiquated past, the “old Spain”, but also something they associated with the Franco dictatorship (which ended in 1975); so any change has the whiff of political freedom – for both sexes. Older women, however, had mixed reactions. One heard the usual criticism of old people who have suffered some injustice or deprivation and want their successors also to suffer. But some mothers and grandmothers, women over 50, felt proud and supportive, although of course they vigorously denied that they themselves would ever think of entering a bar without their husbands. And so, with only minor disapproval and little active opposition, the young girls of Andalusia have found the key to ambiente and at the same time a means of undermining the vestiges of patriarchy in public places. The solid wall of sexual bias has crumbled under their gentle assault, guised in the form of innocent entertainment. More than anything, the recognized symbolism of the female-dominated “private party” represents a revolution in both the moral structure of space in the village and in the contours of sex as cognitive constructs. And with ambiente come deeper boons: the increased social velocity of gregarious exchange, promiscuous mixing, and the possibility of social networking, career advancement, commerce, and of course on a psychological plane, unity and sisterhood, although my data on this aspect of the private party remain exiguous. Further research is planned for next year. 7. Final remarks So with all this in mind, we return to the question of why women have always been excluded from the male-owned spaces of life, the bar being the fons et origo of patriarchal property. Based on observations about how bars are used by men to create a society of equals, we can make a few interpretations, none of which is singly valid. First, the bar is the place where informal exchange of commodities takes place. Such exchanges are a kind of shadow economy. To say that women are excluded from this of world power-brokering by being excluded from taverns is only to state the obvious, but the question remains as to why this should be so. Exclusion here readily translates to subordinate and oppression. What about the use of alcohol as a prime factor in sexual divisions? Drinking is of course associated with loss of control and with sexuality in many pre-industrial cultures (Marshall 1979: 85). Alcohol works as an inhibitor to the moral sense, so that drinking often precedes sex; therefore it must be denied women except on special occasions, another instance of women’s disfranchisement. Yet the fact that alcohol is served in the café does not seem an adequate explanation for women’s exclusion by itself. As in other part of Spain and also in Mexico (Brandes 1979, 2002), men will sit for hours over a coffee or soft drink in bars and some regulars do not even drink at all, simply smoke and play cards – although this is unusual. For instance, I knew a man in Spain who spent most of his waking hours in the local tavern without ever drinking anything stronger than chamomile tea. Freely given without even prompting, his excuse was “doctor’s orders” (he had a blood-sugar level problem). And alcohol of course is not served in Muslim Middle East (the Turkish meyhane is a major exception, very much like a Spanish tapas bar or Greek taverna in the voluminous flow of liquor). But in southern Europe, alcohol, like most narcotics in most cultures, perhaps even more so, is a masculine privilege. But all this take us back to the sexual double standard which saves all the fun for the men. But which comes first: chicken or egg, sex or drink? Women’s entry into the world of the public house in Andalusia, of course also means an equality of tippling and the privilege to indulge in the most public of all activities, no small matter here. So the symbols of women’s empowerment begin to pile up within the context of the private party: equality of place, freedom of movement, equality in commerce, equality in public access, moral equality, and last but not least equality of being inebriated. What all this shows, beyond the power of innovative (and certainly not passive) manipulation of rules, is the validity of the processual approach to public/private, as proposed by feminists. If we return for a moment to the initial literature cited, we see that the dichotomy remains useful methodologically as well as a persistent “social fact” that must be taken into account in any understanding of change. As Reid astutely puts it in relation to Northern Ireland (2008: 500) the negotiation of public space and the integration of personhood and self-identity are inextricably mixed with the use of “territory”. Her subject of course is sectarian politics and religious divisions in the 59 Ricercare D. Gilmore, Sexual Segregation in Andalusia. Then and Now ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) context of The Troubles. Here in southern Spain, territoriality means something superficially different, not “named” factional cleavages so much, but rather venerable gender barriers that define spatialization in small communities and thus determine what Weismantel (2009) calls public access – the morphic language of patriarchy. As Mills writes, «visions of what it means to be a woman continue to be articulated in relation to the spaces of collective memory and of everyday life» (Mills 2007: 351). The dynamic approach to gender and territoriality that Mills and other social geographers have taken promotes «the imagining of space as already ramified in its meanings and uses» in everyday life, as Fincher (2004) calls it: seeing “multiplicities” rather than “dualisms” in the gendered frontiers of territory. The ideology and the idiom of space should not be seen a passive backdrops, but as primary discriminators of social relations, no matter who the actors (Reid 2008: 500). Finally, let me conclude with the usual – though in this case sincere – plea for further cross-disciplinary research. Ethnographers have done very good work in the past two decades in southern Europe, especially rural Greece (see Herzfeld 1991; Papataxiarchis 1991) on the subject of sex, public houses, power and social change8. However, parochial as usual, anthropologists working in the area have lagged in communicating with the sister disciplines. More than twenty years ago, the human geographer Edward Soja deplored the lack of research «on the spatial dimension of societal organization on a level equivalent to the extensive examination of kinship and contract relations» (1979: 8) speaking directly to the lack of inter-disciplinary fertilization. Some anthropologists have heeded the call; for example the first-rate work of Herzfeld (1991), Low (1996), Lawrence (1996), Gilmore (1996) George (2005) and others. More recently the call has been heard by other social scientists. But it is truly astounding that in her book on gender and space in which she provides a whistle-stop overview of sexual segregation from the Paleolithic to the post-industrial age, Daphne Spain (1992) never even mentions the Mediterranean or alludes to its vast area literature on sexual apartheid, except for a brief mention of the Turkish harem/selamlik household division. I sincerely hope that a dialogue can be heard among other social scientists and cultural anthropologists working in the Mediterranean area. Now in its death throes, sexual apartheid needs just as much attention as do racial and class segregation – and for the same mix of intellectual and humanitarian reasons. 60 Notes 1 For more on the subject of space, ground rules, and society – that is, the third dimension of social structure – see the following works: Bourdieu (1971); Buttimer and Seamon (1980); Lawrence (1996); and Low (1996). There is a fine summary of the literature in Lawrence and Low (1990). For works specifically on gender and space, see: Ardener (1981); Callaway (1981); Hirschon (1981a, 1981b); Hirschon and Gold (1984); Spain (1992); Thompson (2003); Nagar (2004). 2 Reneé Hirschon (1991: 72) refers to this dichotomy as “interiority/exteriority”. Many other rhetorical devices are employed to capture Mediterranean sexual apartheid, almost one per ethnographer (see Sciama 1981). For recent examples of such an approach outside the Mediterranean area, see Johnson (2002); Staeheli and Kofman (2004). 3 Many anthropologists have examined sexual symbolism in the Mediterranean area from a variety of dualisms: left/right (Campbell 1964); sheep/goat (Blok 1981); seed/soil (Delaney 1991); honor/shame (Pitt-Rivers 1977); activity/passivity (Herzfeld 1985; Brandes 1980), etc. 4 Between 1972 and 2006, I have visited and re-visited the inland areas near Seville, Cordoba, and Malaga cities. I am mainly familiar with the following agrotowns: Fuentes de Andalucía, Montilla, Carmona, Ecija, La Campana, Osuna, and Utrera, as well as smaller coastal pueblos like Santa María, Sanlúcar de la Barremeda in Cádiz Province, and one mountain town: Zahara, in Málaga Province. My field trips to Spain were supported at various times by generous grants from the following agencies: The National Institutes of Health, the National Science Foundation, the Wenner-Gren Foundation, the HF Guggenheim Foundation, the National Endowment for the Humanities, the Joint Committee of US Universities and Spain’s Ministry of Culture, the Council for the International Exchange of Scholars (CIES), the John Simon Guggenheim Foundation, the American Philosophical Society, and the Research Foundation of the State University of New York at Stony Brook. 5 The title of a book by Braquette Williams (1996). 6 The sexual/anatomical symbolism is obvious. For excellent account of the sexual symbolism of the Andalusian olive harvest, see Brandes (1980). Brandes (1992) also provides superb description of spatial hierarchization in Spanish culture, especially of children’s games and adult puns, riddles, and folklore; see also Taggert (1991). 7 Compare the symbolic sanctions for sex trespass here with the violent physical punishments meted out in aboriginal New Guinea and South America, where women could be raped or clubbed to death for spatial violations (Lévi-Strauss 1961: 213-214). 8 For more ethnography on the traditions of bars, cafés, and the like in Greece before the turn of the present century, see Loizos and Papataxiarchis (1991); Papataxiarchis (1991); Zinovieff (1991); and Dubisch (1993). References Abu-Lughod, J. 1998 Remaking Women, Princeton Univ. Press, Princeton. Ardener S. 1981 Women and Space, Croom Helm, London. Benhabib S. 1998 Models of public space, in J. B. Landes (ed.), Feminism, the Public and the Private, Oxford Univ. Press, Oxford: 65-99. Blok A. 1981 Rams and billy-goats, in «Man», XVI: 427-440. 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Queste aree rallenterebbero, quando non lo impedirebbero, prima facies, lo scambio di beni, di servizi, di persone, come sorta di veri e propri “buchi neri” urbani, a causa di una loro “viscosità” endogena. Viste più da vicino, sono invece conformazioni socio-spaziali di attori che pur “esterni” ai mainstream della città in cui risiedono, non ne sono mai completamente separati. È la caratteristica della condizione di stare ai margini. Questi cittadini, “esteriori” al lavoro regolare, alle forme dominanti di morale e di rapporti sociali (coppia, famiglia, vicinato, ecc.), circolano infatti quotidianamente nel suo tessuto, integrandosi spesso solo attraverso rapporti di subordinazione. Queste pagine propongono una riflessione epistemologica e metodologica sulla modalità di “apprendere” queste aree di marginalità urbana, alla luce delle acquisizioni maturate dopo la pubblicazione della mia ricerca sul quartiere ZEN di Palermo (Sicilia) (Fava 2008). Lo ZEN, e qui riprendo solamente alcuni elementi di quella analisi, è un quartiere d’edilizia popolare, costruito in due fasi distinte tra gli anni ’60 e gli anni ’80, dando luogo ai cosiddetti ZEN 1 e ZEN 2, impiantato nella periferia nord della città, dove era atteso situarsi il suo polo industriale. Nell’intenzione degli estensori del Piano del 1956 doveva mettere ordine anche al caos funzionale del centro storico distrutto dalla guerra e svuotato ormai della sua borghesia. Era stato pensato come “quartiere satellite autosufficiente” per accogliere la piccola borghesia rimasta (la casa popolare entrava così nel suo immaginario ascendente) e più tardi, con il progetto Gregotti dello ZEN 2, i contadini proletarizzati e urbanizzati da tutta l’isola. Niente di tutto ciò sarebbe accaduto. Dal terremoto del ’68 in poi, i suoi alloggi sono stati occupati abusivamente, spesso senza essere terminati e sprovvisti delle opere d’urbanizzazione primaria, dagli sfollati del centro storico, il sotto-proletariato urbano della città. Da quel momento, la casa popolare esce dall’immaginario piccolo borghese e partecipa solo di quello degradato dei lumpen della città. Sarà necessaria una legge nazionale per potere realizzare le opere di urbanizzazione primaria (Decreto Sicilia 1988). Negli anni seguenti, l’occupazione avverrà attraverso il turnover di un mercato “immobiliare” informale, da coloro che, in gradi e per ragioni diverse, si sono confrontati con la necessità di un alloggio a basso costo. Le sanatorie regionali (1970, 1990, 2001) scandiranno i tentativi, inutili, di dare ordine a questo turnover. Abitato in gran parte da pensionati, disoccupati di lunga durata, “lavoratori socialmente utili”, giovani in età scolare, lo ZEN è un enclave sociale, ricettacolo dei lumpen della città, invisibili alle statistiche ufficiali1 occultati negli interstizi dell’economia urbana regolare (settore edilizio, servizi e del commercio al dettaglio), il motore nascosto della città. Lo ZEN non è mai stato un ghetto (Wacquant 1997) né una banlieue operaia: esso esprime una segregazione spaziale governata da una logica di classe e non “etnico-razziale” senza mai essere però divenuto un quartiere operaio. La marginalità urbana dello ZEN domanda quindi un quadro interpretativo proprio, che non è riconducibile a una zona di povertà ciclica tipica dell’economia fordista (ghetto o banlieue) o di marginalità avanzata prodotta dalla ristrutturazione globale del capitalismo e dalla trasformazione del settore industriale (l’iperghetto o la banlieue in declino). Con queste aree di segregazione urbana tipiche della economia post-fordista esso è accomunato dalla sola stigmatizzazione territoriale 63 Ricercare Ferdinando Fava ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) (Wacquant 2007a). La de-proletarizzazione del lavoro salariato infatti (e la crisi finanziaria recente, i futures per intenderci), caratteristiche di questa marginalità avanzata, non hanno esercitato alcun effetto diretto sulla maggior parte dei suoi residenti. L’economia urbana di Palermo, dal Dopoguerra sino a oggi, si è caratterizzata, infatti, per lo sviluppo ipertrofico di un terziario senza industrializzazione che continua a esprimere la lotta dei poveri per la sopravvivenza quotidiana piuttosto che indicare livelli crescenti di ricchezza post-industriale. Nelle linee che seguono, dunque, vorrei esplicitare i dispositivi concettuali disponibili per potere comprendere criticamente questo quartiere, il suo spazio sociale e il suo rapporto con lo spazio costruito. Lo farò a partire dalla prospettiva antropologica. Il gesto antropologico, proprio per l’originalità del suo approccio, fondato sull’incontro dialogico, sulle relazioni face to face in spazi di interconoscenza accessibili individualmente, aiuta ad organizzare e a definire meglio il quadro di riferimento in cui situare le diverse operazioni conoscitive necessarie per comprendere questi spazi, smontandone le intelligenze acritiche. Ancorata all’esperienza del “qui ed ora”, la ricerca etnografica porta in sé la necessità di correlarsi, proprio in questi spazi, con “l’altrove e l’allora”. L’incrocio dello sguardo etnografico “da dentro e dal basso” e di quello “da fuori e dall’alto” sui processi di localizzazione che costituiscono queste aree, correlazione tra il micro-sociale delle traiettorie individuali e delle pratiche sociali con le logiche strutturali che intervengono a modellare e a governare la sua riproduzione2 socio-spaziale, mette in luce domande più generali inscritte in filigrana in un oggetto che resta pur sempre singolare. Lo ZEN, così “appreso” per eccesso e per contrasto, rinvia, come un universale concreto, alla singolarità di una storia urbana, ma anche autorizza ad approfondire a partire proprio dal “locale” queste domande fondatrici: in che modo i rapporti tra lo spazio costruito e lo spazio sociale concorrono a produrre un “luogo”, in questo caso d’esclusione urbana? Come riconoscere e comprendere l’articolazione di questi rapporti? Quali ordini di scala sono implicati? Quali le operazioni conoscitive corrispondenti? Si tratterà di riprendere in parte il materiale già elaborato (Fava 2008) alla luce di una esplorazione avvertita del ‘gesto’ antropologico. Nel procedere della riflessione è possibile riconoscere i tratti di un dispositivo concettuale che permetta di situare la questione della marginalità nella città contemporanea in un dibattito più ampio. Non si tratterà, infatti, di aggiornare 64 su una realtà sempre dinamica (le occupazioni, è cronaca di questi mesi, continuano nella loro forma inaugurale, lo scasso, come in quella ordinaria, il turnover del mercato informale degli alloggi; i media locali e nazionali continuano a mantenere dello ZEN una rappresentazione stereotipa, la dismissione della presenza delle istituzioni pubbliche, ecc.), né di aggiungere una ulteriore descrizione di quello che accade in questo spazio, ma di “conoscerlo” e comprenderlo meglio, proprio in quanto “spazio” fatto di cemento e rapporti sociali. Proprio attorno al solo spazio modernista progettato da Vittorio Gregotti3 e al successivo spazio costruito si sono concentrate, in questi anni nella sfera pubblica, le analisi urbanistiche4 e i progetti pubblici d’intervento, ma è sullo spazio sociale, sul modo d’abitare dei residenti (le loro pratiche sociali) che si è costituita ed accanita la stigmatizzazione dei media e dei dispositivi socio-istituzionali. In effetti, allo ZEN, abbiamo assistito sino ad oggi a una stigmatizzazione continua dei residenti e del loro territorio (Fava 2009a: 125-132). Lo ZEN, nell’ordine della rappresentazione, è stato posto sempre come uno spazio separato dal resto delle città, la cui linea di confine è stata segnata nel tempo da tratti fisici visibili (l’isolamento nella Piana dei Colli, i cumuli di immondizie, la perimetrale e la cancellata). “Inferno”, “ghetto”, “lager” da terzo mondo, sono tra le categorie utilizzate più ricorrenti con cui, nei media, è restituita l’identità collettiva del quartiere5. Non sarebbe che una crime zone, un universo sociale radicalmente diverso da quello della città, contrassegnato da una sociabilità perversa per cultura (deviante, un sistema di valori capovolto) o per natura (si è giunti a dire che “negli occhi dei bambini dello ZEN si vede la violenza”). Malgrado i lenti e parziali interventi di miglioramento strutturale e dei servizi, questa immagine continua ad essere riprodotta. La sua impermeabilità al reale rinvia a un suo uso politico da parte di diversi gruppi di interesse, che illustra, d’altro canto, come essa stessa sia presa nella dialettica del Darstellung e del Vertretung, della rappresentazione e della vicarianza. Nel parlare d’altri vi è sempre congiunto, in una certa misura, un parlare “per” loro, cioè al posto loro. Il ritratto è sempre un po’ il proxy di quanto ritrae. Questa rappresentazione del quartiere arriva così a prendere il “suo posto”, sostituendovisi, nelle pratiche degli operatori, dei professionisti del mondo urbano, e anche in una certa parte dei residenti. Guardare, dice Comolli, documentarista francese, (ma mi sembra si possa dire anche per gli effetti di sen- so della lettura di un testo), è incorporare un punto di vista, determinato dall’effetto stesso che vuole riprodurre (Althabe - Comolli: 1994: 14). Così, se il quartiere è un concentrazione di ogni patologia sociale e devianza, i residenti risulteranno essere sempre privati di ogni iniziativa che non siano i comportamenti violenti o illegali, persone socialmente diverse, da isolare dai cittadini “normali”, una minaccia per la parte restante della città. Le sue rappresentazioni mediatiche, allora, aprono e chiudono i corsi d’azione possibili ed entrano nella macchina di costruzione dello spazio sociale. All’interno di questo quadro, desidero sottolineare un fenomeno inedito e unico che concerne lo ZEN, e che pone al centro della nostra riflessione il rapporto con lo spazio costruito. Si tratta della stigmatizzazione del rapporto dei residenti con questo spazio, che sia quello domestico o di coabitazione: l’occupazione illegale, lo scasso degli alloggi, la loro organizzazione interna, l’assenza di privacy e la promiscuità, la “privatizzazione” degli spazi comuni, ecc. (Fava 2009b: 56). Allo ZEN viene stigmatizzato proprio l’abitare, le pratiche spaziali dei residenti, vivere allo ZEN non è abitarvi. È un fenomeno di non piccola rilevanza. L’effetto di questa rappresentazione è stato che alla dualità centro/periferia si è sovrapposta progressivamente quella dentro/fuori e così alla idea di marginalità si è integrata progressivamente quella dell’esclusione. Per completare questa nota introduttiva, vorrei aggiungere anche un’altra dualità, rintracciabile nell’ordine della rappresentazione e determinante nella costituzione del quartiere, e cioè quella del basso/alto, che indica la sua posizione nella gerarchia/geografia sociale di Palermo. Essa si dispiega tutta al suolo. Lo ZEN è una enclave circondata dalle ville dello sprawl di Mondello, le case a schiera della media borghesia di via PV 46 e i borghi storici di Borgo Patti e Tommaso Natale. Nella distanza di un chilometro è possibile attraversare tutta la struttura socio-spaziale della città (e buona parte, vedremo, della sua storia recente): al suolo si traspongono le ineguaglianze delle risorse economiche, delle gerarchie di status e di potere, delle forme di rapporto rispetto allo spazio e all’abitare (pratiche del quartiere, rapporto con il lavoro, tempo libero, distribuzione territoriale delle reti familiari e amicali, accesso ai servizi urbani, frequentazione degli spazi pubblici). Questa differenziazione spaziale, allo ZEN prende senso perché colta attraverso i processi che la generano e gli effetti che essa a sua volta esercita sulle traiettorie individuali e sulle identità collettive. Trattare lo spazio costruito dello ZEN dunque come puro contenitore di quello sociale, come solo decoro dove si distende la sua vita quotidiana, significa mettere tra parentesi ciò che permette alla città di Palermo di costituirsi e riconoscersi continuamente proprio generando questo spazio. La posta in gioco della sua comprensione è dunque alta. Come avvicinare allora lo ZEN senza restare fissati nella prospettiva della rappresentazione mediatica del suo spazio pubblico e della sua vita domestica, prospettiva rafforzata dai discorsi specializzati sul disagio sociale, o da quelli più eruditi degli urbanisti della pubblica amministrazione? Attraverso quali pratiche e operazioni intellettuali “deprendersi”6 dai processi omologhi (il giornalismo sensazionalista e la “ricerca sociale” al servizio degli interventi pubblici) e conoscere diversamente i campi microsociali del quartiere, lo spazio domestico, gli spazi di coabitazione e quelli di attività finalizzata (servizi, uffici, scuole, ecc.)? Come apprendere il rapporto con questo “spazio costruito”, senza ridurlo agli usi, alle necessità funzionali, a un processo di sola semiosi testuale, senza “estrarlo” dal quotidiano proiettandolo in un ordine oggettivo portato dell’esterno? Riassumendo, come “apprendere” lo ZEN in quanto “configurazione socio-spaziale”? Quale ermeneutica dello spazio è necessario “edificare”? Sono queste le domande cui cercherò di abbozzare una risposta nei paragrafi seguenti di questa prima parte, che risulteranno talvolta euristiche e assumeranno la forma di un cahier de charges piuttosto che proporre soluzioni in sé compiute. Organizzerò questo primo intervento attraversando gli spazi costruiti del quartiere: inizierò dagli spazi domestici, gli interni degli alloggi rimasti sempre occultati nelle rappresentazioni mediatiche, per entrare poi negli spazi di coabitazione e nelle sue strade. Da qui mi interrogherò poi sul modo di cogliere il quartiere nella sua relazione con la parte restante della città. 2. Lo sguardo etnografico: il “qui e ora” 2.1 Sense-experience Che siano i colloqui in casa di Vita e di Vichi, di Totò U’ Pacchiuni, o quelli con Dorotea, assistente sociale o l’architetto B., consulente del comune, nei loro rispettivi uffici, l’esperienza etnografica àncora al qui ed ora di ciò che è visibile, udibile, toccabile, odorabile7. Insomma l’incontro è un incontro sense-experience con singolarità concrete, la cui descrizione e il cui sforzo inter65 Ricercare F. Fava, Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione dello ZEN ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) pretativo mirano insieme a restituire un cosmo per apprendere non tanto o non solo informazioni, ma il modo di stabilire rapporti sociali, il modo di stare al mondo, un universo sociale dal suo interno. Quando entro nella cucina di Vita o nel salotto di Vichi, avverto talvolta l’odore della pasta al forno o della cera profumata, sento sullo sfondo della finestra aperta il vocio dei bambini che giocano nel cortile dell’insula, in altri momenti solo l’abbaniari del venditore di sale, o nel pieno pomeriggio le casse a tutto volume di un’auto che sfreccia e poi si allontana. In quanto sense-experience, l’incontro si presenta con la dimensione tanto reale quanto seducente di una immediatezza che sembra trasparente ma entro cui, invece, occorre ritrovare un’istanza riflessiva. In che modo? Riconoscendo innanzitutto il suo carattere interno di parzialità: c’è sempre uno spazio o un tempo che si sottrae alla presa diretta dei sensi, che sia nello spazio domestico o in quello pubblico (parzialità che diventerà centrale per comprendere l’esperienza urbana), qualcosa che è “fuori campo” dei sensi, oggetto dunque solo di proiezione e di narrazione. C’è sempre una alterità che sfugge e che viene correlata con il “qui” ed “ora”, e che talvolta è costitutiva di esso. Vita mi accoglie nel suo alloggio ma quando mi racconta più volte del disordine della stanza di Marta, sua figlia, non mi conduce a mostrarmela. Vichi mi narra più volte della sua performance di donna siciliana classica nel cortile dell’insula, ma io non sono accanto a lei quando avviene. Dorotea mi confida le sue impressioni al momento delle sue visite domiciliari o l’architetto B. dei suoi incontri nell’ufficio del Sindaco. Queste relazioni dirette, immediate, portano in sé, allora, una opacità costitutiva: sono condizionate da tutte le altre, inclusive, da quella posta in essere con me antropologo, nel presente della ricerca. Questa relazione catalizzerà tutte le altre che sono significative. La ricostruzione differita, non immediata, processuale cioè nel divenire stesso della relazione, della modalità con cui Vita, Vichi, Dorotea interpretano il mio ruolo di ricercatore (modalità attraverso cui mi permettono di partecipare alla loro rete di relazioni) e per cui stabiliscono con me la comunicazione, diventa una ulteriore istanza critica nell’incontro, costituendo non solo le condizioni della sua possibilità ma anche il quadro di riferimento in cui risituare dialoghi, gesti e luoghi dell’enunciazione in vista della loro interpretazione. L’immediatezza del dialogo non rima con la sua trasparenza. Ed è grazie a questa operazione che è possibile ricostruire le logiche reali e attuali con cui vengono stabiliti in questi spazi i rapporti sociali. 66 La sense-experience è, allora, ad un tempo la forza e il limite dell’incontro etnografico e pertanto richiede una ascesi: il controllo nella scelta delle parole. Descrivere questo incontro e tutto ciò che osservo in esso domanda di esercitarsi a distinguere, sempre più e sempre meglio, ciò che vedo e ascolto da ciò che so di esso. Le parole, lo sappiamo, non sono trasparenti, esprimono una presa sul mondo. E anche quelle scelte da me la manifestano. È questa ascesi però che permette di distinguere tra una descrizione etnografica volta a riconoscere dall’interno le logiche che governano una situazione e una descrizione etnografica, giornalistica, romantica o esotica che sia, legittime certo, ma orientate ad altre imprese. È questa ascesi che prepara la susseguente interpretazione. Essa permette infatti di non ridurre ciò che viene ascoltato o visto alla decodifica di un testo. Le pratiche dello spazio costruito e degli oggetti quotidiani, in maniera particolare, non sono riconducibili a un codice testuale e la loro interpretazione ad una “lettura”8. È per questa ragione che parlo sovente di “apprendere” per dire il capire. Ciò che è oggetto di percezione nello spazio costruito è anche oggetto di azione: la semiotica soggiacente non è prioritariamente quella dell’equivalenza ma piuttosto quella dell’implicazione. La porta d’ingresso dell’alloggio di Vichi e Piero apre o chiude su modi distinti di mettere in scena, e di agire la propria identità di genere, “femmina intu’ cirivieddu con un difetto tra le gambe” quando è casa, o “frocio” o classica fimmina siciliana quando è nel cortile. Le bomboniere delle comunioni e dei matrimoni esposti nella vetrinetta nell’andito di Franca, ricordi da contemplare, rinviano ognuno non a significati ma a reti di relazioni e ad eventi di relazioni, che lei vuole mettere al sicuro. Anche l’arredamento della sua casa, la sua “sala”, da lei raccontata dischiude non significati, ma annuncia relazioni, che non sono in sé direttamente oggetto di percezione, né a lei che parla né a me che ascolto, ma altrettanto reali oggetti d’azione (gesti d’amore e d’amicizia, di affetto familiare) di cui questi mobili restano il segno. Così gli odori e i colori, mutevoli o costanti del quotidiano, il fritto dei cardi impanati per l’Immacolata o la nuova tenda beige della sala di Vita riconducono a quegli atti routinari e anche talvolta rinnovati con cui le identità personali sono poste in essere, agite. Cucinare, lavare, prendere il caffé con le vicine del pianerottolo, manifestano e producono una identità: i mille modi di farlo rivelano la continua negoziazione di questi gesti con i vincoli esterni delle rappresentazioni dominanti di genere e di classe. 2.2 Da “dentro e dal basso” La pretesa, per certi versi arrogante, dell’approccio antropologico è quella di ricostruire un universo sociale “da dentro e dal basso”: cioè di produrre una conoscenza intima di questo spazio, a partire dal punto di vista e dalla posizione dei residenti, proprio nel momento in cui i rapporti sociali si costituiscono. Esso restituisce lo spazio domestico con tratti diversi da quelli con cui esso è messo in forma di discorso dagli operatori o dai giornalisti cui basta “vedere” senza entrare in dialogo, per ricondurre ciò che vedono e ascoltano a ciò che credono di sapere. Le fitte reti di relazioni, l’iniziativa individuale che deve fare i conti con i vincoli economici della precarietà, la costruzione di nuovi legami familiari come luoghi di investimento e di controllo di questa iniziativa, l’invenzione delle attività informali, sono tutte logiche occultate agli sguardi esteriori degli operatori che vedono solo “l’incapacità di stabilire rapporti soprafamigliari”, “l’assenza di progettualità”, “la fuitina”, “l’indolenza”, la “passività”9. L’etnografia urbana dello spazio domestico riconsegna allora delle conoscenze che smantellano i saperi stereotipi sul disagio sociale, rafforzati dalle conoscenze erudite e alimentati dalla rappresentazione mediatica. Essa permette di avvicinare i residenti e di riconoscere il loro sforzo per fare fronte, con le scelte più razionali possibili, a un contesto di costrizioni simboliche (lo stigma) e fisiche (lo spazio costruito e l’abbandono delle istituzioni pubbliche) nonché di rapporti di subordinazione interni allo spazio residenziale. Nello spazio di coabitazione, nel cortile dell’insula, nella strada, la parzialità dell’esperienza etnografica cui sopra facevo cenno viene a costituire l’essenza della sense-experience urbana. Quando passeggio nel cortile dell’insula non vedo ciò che dimora dietro le tapparelle o le verande, così come ciò che è al di là della strada non è oggetto di esperienza diretta. Lo sarà. C’è sempre qualcosa fuori dalla mia vista che diventa invece oggetto di proiezione e di rappresentazione (e di lì d’azione). Via Libertà e Viale Strasburgo, che i residenti non vedono (e che per molti restano solo nomi), diventano il polo di riferimento immaginario con cui, costretti dallo stigma, si ascrivono e reclamano la loro “normalità” (che non è che la generalizzazione della forma di vita di una élite cittadina). È importante rilevare questo aspetto per due ragioni. Questa sense-experience è al cuore dell’etnografia dello spazio urbano e della definizione stessa di città: «la città tira la sua realtà dall’ubiquità della sua assenza: è presente in ciascuna delle sue vie in quanto è sempre altrove» (Sartre 1960: 57, corsivo nel testo). In strada essa costringe a descrivere situazioni presenti così come a toccare apertamente la sua parzialità. “L’ubiquità dell’assenza” mostra il limite interno della esperienza etnografica urbana e la necessità di identificare altre mediazioni per ricostruire una totalità che resta sempre fantasmatica e che potrà apparire solo, alla fine di questi processi di mediazione, come una totalità complessa, articolata, multistrato, non saturabile. Non c’è una esperienza diretta della totalità della città (neppure lo è la seducente visione della sua pianta). Tiro le fila. Le relazioni con l’ambiente costruito sono dunque un elemento chiave nella costituzione del quartiere. Una volta in strada, però, la scala si allarga anche se il raggio dell’osservazione rimane sempre limitato. Nel suo garage Tanino ha recuperato la sua officina meccanica, all’angolo della strada la drogheria accatasta i cartoni vuoti e i bancali di diverse acque minerali, i bambini giocano nei cortili delle insulae; proseguendo, incontro altri spazi di vendita di generi alimentari ricavati nelle aree comuni con pareti di latta. La piazza Zappa, poi, il giovedì si riempie per il mercato. Come dare senso allora alle pratiche dei residenti nello spazio domestico e a queste attività in quello pubblico? 3. Oltre l’etnografia: “l’altrove e l’allora” Una risposta a questa domanda mi sembra possibile se ci sforziamo di ricollocare quanto visto e udito in un orizzonte più ampio, non solo personale, intrecciando il “qui e ora” dell’interazione microsociale con “l’altrove e l’allora”, di cui, invece, non abbiamo una sense-experience diretta. Il che comporta costruire delle lenti bifocali, la prospettiva analitica “da dentro e dal basso” da incrociare con quella “da fuori e dall’alto”. Non è un passaggio semplice. Il rischio è quello di costruire dei saperi di survol, parafrasando Merleau-Ponty e non delle conoscenze al sol. Dove l’opposizione survol/sol non corrisponde alle distinzioni alto/basso, macro/micro, quantitativo/qualitativo, visione d’insieme degli urbanisti/analisi particolare degli scienziati sociali, ma un rischio ben trasversale ad ogni dispositivo conoscitivo (anche etnografico) e cioè quello di presumere un sapere dell’oggetto in generale, a surplomb, che non si scontra con le incongruità del reale e che cela a se stesso i processi che lo costituiscono. All’osservazione zenitale, che esprime il desiderio di cogliere la tota67 Ricercare F. Fava, Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione dello ZEN ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) lità ed è figura mitica della oggettività, nessuno avrà mai l’accesso (le foto aeree restano pur sempre parzialità sul e del reale). Il passaggio all’altrove e all’allora domanda dunque di riconoscere ed assumere l’impossibilità di uscire da circuiti di mediazione e di frustrare il fantasma della totalità immediata (che la mappa, la visione aerea come la sense-experience, loro malgrado alimentano). Il passato storico (ma “l’allora” può indicare anche il futuro della pianificazione) e lo spazio costruito della città in tutta la sua estensione non possono che essere ricostruiti attraverso delle operazioni mediatrici, necessarie se vogliamo mettere in prospettiva le pratiche sociali del quartiere con i cambiamenti storicostrutturali, “invisibili” che conferiscono senso oggi all’abitare dei residenti e generano “questo spazio”. Il nodo sarà proprio mettere al vaglio critico queste operazioni (allo stesso modo della decostruzione critica dell’approccio antropologico) nel loro costituire il “fuori” e “l’alto”: la costruzione dei “dati”, la realizzazione del loro oggetto nei rapporti con la vita concreta (cosa lasciano fuori campo e cosa ritengono, come riducono i fenomeni, ecc.), la misura delle conoscenze che esse generano, e i modi per correlarle con la precedente analisi del microsociale. Quanto posto in essere nella sfera pubblica da queste operazioni, e cioè i discorsi, le mappe, i diagrammi statistici, da questo momento in poi, e a questa scala, terranno il posto dello ZEN. 3.1 “Da fuori e dall’alto” Le operazioni mediatrici sono molteplici, complesse e articolate: occorre infatti ricostruire le serie di trasformazioni storiche del mercato del lavoro, dell’economia urbana, del mercato fondiario, delle politiche urbane, del welfare, del governo e degli interventi pubblici di Palermo per identificare le dinamiche strutturali che hanno concorso e concorrono oggi a produrre lo ZEN e, alla scala della città, i vincoli che su esso sono posti. Il confronto euristico con altre “zone urbane marginali” aiuta ad individuare il carattere unico di una storia urbana palermitana così come anche i tratti ricorrenti che la integrano nei meccanismi globali contemporanei. Qui desidero solo con brevi cenni richiamare l’attenzione sulla complessità che questa impresa comporta, lasciando al mio intervento prossimo l’esplorazione critica e approfondita di questi registri. Le politiche urbane delle amministrazioni avvicendatesi al governo della città, la grande speculazione del mercato immobiliare (dal “sacco” di Palermo ai giorni nostri), la macchina 68 clientelare delle affiliazioni politiche, le contaminazioni del crimine organizzato anche con una parte della cosiddetta “società civile” e nel controllo del territorio (Maccaglia 2009), e paradossalmente, gli stessi interventi del privato sociale hanno contribuito a mantenere la sua marginalità urbana. L’etimologia della parola francese banlieue suggerisce che a questa scala i dispositivi che reggono e mantengono lo ZEN, pur segnandolo profondamente, hanno luogo e sono governati altrove (Bourdieu 1993: 337) come era il caso per i luoghi fuori le mura del borgo in cui i ban, i bandi del signore medioevale venivano promulgati e vincolavano governando i rapporti di coloro che erano residenti sotto pena. È l’indicazione che occorre andare a cercare fuori dallo ZEN le dinamiche strutturali che lo causano. Queste forze strutturali sono violente (Bourgois 2003: 301-307; Wacquant 2007b) e violenti sono i loro effetti sulla vita quotidiana dei residenti. Lo ZEN, come appare da questi brevi note, non è dunque un “prodotto” semplice. La sua configurazione socio-spaziale va ricondotta all’interazione delle dinamiche macrostrutturali con le decisioni dell’amministrazione pubblica, con i soggetti collettivi e individuali, interni ed esterni al quartiere. Lo ZEN è una produzione sociale nel senso che è stato costituito da pratiche sociali, in condizioni storiche che lo hanno reso possibile: modellato dagli interessi degli esperti dell’urbano, di gruppi organizzati, di singoli individui, degli amministratori pubblici, la sua forma spaziale e il suo contenuto, la sua struttura urbana e le sue funzioni, non sono che le conseguenze delle loro pratiche spaziali nella sfera economica, politica e simbolica di Palermo. Pratiche che a loro volta risulteranno essere influenzate da quanto esse stesse hanno contribuito a porre in essere. (continua) Note 1 I “numeri” esatti dei residenti dello ZEN sono di difficile acquisizione: i dati statistici disponibili delle unità di censimento vengono sempre aggregati e resi pubblici insieme a quelli delle unità amministrative superiori (la circoscrizione) rendendoli così inutilizzabili per la misura reale dei fenomeni. Essi sottostimano la povertà impedendone una apprensione corretta. In questo lo ZEN condivide la sorte dell’informazione statistica (una sorta di cospirazione del silenzio) di tutte le aree di marginalità urbana che tendono ad essere diluite nelle mappe delle città cui appartengono. 2 Il termine “produzione” è sovradeterminato. Seta Low utilizza production solamente per denotare i processi economici e politici di costituzione dello spazio pubblico, mentre utilizza construction per identificare, e distinguere dai precedenti, l’esperienza dei residenti che, in quanto attori, costruiscono quotidianamente la loro realtà e il suo significato (Low 1996). Produzione, però, declinata per lo spazio suggerisce che quest’ultimo debba esser considerato alla stregua degli altri “beni” economici. Nella mia analisi dello ZEN ho utilizzato e utilizzo ‘produzione’ per interpretare il microsociale dei campi di comunicazione a causa della ambivalenza feconda che contiene la sua etimologia: produzione come fabbricazione e posta in essere, poiesi, e produzione come messa in scena, performance. In queste pagine, attraverso di esso mi riferisco, in questo momento della riflessione e, a seconda delle scale in cui viene declinato, a tutti i processi sopraricordati. Questi diventano manifesti quando il caso palermitano viene comparato con altre aree di marginalità “avanzata”, l’iperghetto nord-americano e la banlieue francese in declino. 3 Per il racconto dettagliato e critico delle complesse vicende legate alla realizzazione del progetto e alla sua alterazione rinvio a Sciascia 2003. 4 «La rigida griglia ortogonale, priva d’ogni decoro, non offre spazi alla socialità, né mete alla percorrenza, che non siano gli interni delle insulae. Sicché l’insieme, se contiene una ricca articolazione di spazi d’abitazione, di fatto è del tutto privo di spazio urbano che per essere tale deve pure essere significativo» (Quartarone 2008: 257-267) 5 A titolo d’esempio riporto alcuni titoli: «ZEN nel fango del fango. Sottrarre l’inferno all’oblio» (Perriera 1988); «L’inferno ZEN è femmina» (Pino 1989: 36-54.); «Lo ZEN 2 s’incammina verso la città. Nel quartiere ghetto, la rivoluzione dei “residenti consapevoli”» (Calapso 2000 ); «Baby prostituta nell’inferno ZEN. Ha quattordici anni: “Mia madre voleva pagare Sky”» (La Repubblica, 2007). retto, sono ciechi e quindi anche incapaci di anticipare gli effetti delle loro azioni poiché queste sono ridefinite da logiche che restano loro inaccessibili. Gli operatori promuovono, da una parte, la decomposizione di un mondo percepito come ostacolo da smantellare perché possa emergerne uno nuovo e, dall’altra, la ricomposizione risolutiva di nuove sociabilità: la famiglia, i minori e le donne. Sono così comprensibili i giudizi di condanna e la stigmatizzazione di alcune pratiche dei residenti che accompagnano molti interventi. Riferimenti Althabe G. - Comolli J.-L. 1994 Regards sur la ville, Centre Georges Pompidou, Paris. Bazin J. 1996 Interpréter ou décrire. Notes critiques sur la connaissance anthropologique, in J. Revel et N. Wachtel (a cura di), Une école pour les sciences sociales, Cerf/ Éditions de l’EHESS, Paris: 401-415. Bourgois P. 2003 US Inner-city Apartheid : The Contours of Structural and Interpersonal Violence, in N. Sheper-Hugues, P. Bourgois (a cura di), Violence in War and Peace : An Anthology, Wiley-Blackwell, London: 301-307. Bourdieu P. 1993 La démission de l’État, in P. Bourdieu (éd.), La misère du monde, Éditions du Seuil, Paris: 337-350. Calapso R. 2000 Lo ZEN 2 s’incammina verso la città. Nel quartiere ghetto, la rivoluzione dei “residenti consapevoli”, in «La Repubblica», 12.05.2000. 6 Ricorro a questo francesismo perché mi sembra meglio esprimere il modo in cui occorre edificare la differenza del gesto antropologico nel suo rapportarsi al reale quando confrontato con quello di questi gesti omologhi: secondo una istanza di “attiva negazione”, equivalente al “mollare la presa”, al distanziarsi, e una, per contro, di “passiva affermazione”, proprio implicita nella precedente, corrispondente al ritrovare, diversamente, lasciando essere. Le pratiche poste in essere nel modo di procedere della ricerca rispondono a queste due istanze. 7 «Je n’observe jamais que des situations» (Bazin 1996: 240) 8 Questo perché il nostro corpo non è un testo: «Embodiment is not primarily textual. The human body is not principally a text» (Stoller 1995: 7) 9 Il rapporto tra servizi sociali e quartiere è costruito posizionando quest’ultimo come un mondo separato, distante, sconosciuto. Questo spiega la conseguente ricerca di intermediari per raggiungere in qualche modo questo mondo rispetto al quale si sentono stranieri e collocati alle sue porte. Pur essendo con esso in contatto di- Fava F. 2008 Lo ZEN di Palermo. Antropologia dell’esclusione, FrancoAngeli, Milano. 2009a Est-il possible de représenter encore la banlieue? La ZEN de Palerme, les média et l’exclusion urbaine, in A. de Biase - M. Coralli (éds.), Espaces en commun, L’Harmattan, Paris: 119-127. 2009b Vite a confronto. Lo ZEN di Palermo, in I. Boniburini (a cura di), Alla ricerca della città vivibile, Alinea, Firenze: 53-60. Low S. 1996 Spatializing Culture: The Social Production and Social Construction of Public Space in Costa Rica, in «American Ethnologist», IV: 861-879. Maccaglia F. 2009 Palerme, illégalismes et gouvernement urbain d’exception, Paris, ENS Édition. Perriera M. 1988 ZEN nel fango del fango. Sottrarre l’inferno all’oblio, in «Grandevu», I: 1-4 . 69 Ricercare F. Fava, Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione dello ZEN ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Pino M. 1988 Le signore della droga, La Luna, Palermo. Quartarone C. 2008 Lo ZEN di Palermo. La de-costruzione di un nucleo urbano autosufficiente, in A. Badami, M. Picone, F. Schilleci (a cura di), Città nell’emergenza. Progettare e ricostruire tra Gibellina e lo ZEN, Palumbo, Palermo: 257-267. Redazione 2007 Baby prostituta nell’inferno ZEN. Ha quattordici anni: “Mia madre voleva pagare Sky”, in «La Repubblica», 22.04.2007. Sartre J.-P. 1960 Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris. 70 Sciascia A. 2003 Tra le modernità dell’architettura. La questione del quartiere ZEN 2 di Palermo, L’Epos, Palermo. Stoller P. 1995 Embodying Colonial Memories. Spirit Possession, Power and the Hauka in West Africa, Routledge, New York. Wacquant L. 1997 Three Pernicious Premises in the Study of the American Ghetto, in «International Journal of Urban and Regional Research», X: 341-353. 2007a Territorial Stigmatization in the Age of Advanced Marginality, in «Thesis Eleven», XCI: 66-77. 2007b Parias urbains: Ghetto, Banlieues, État, La Découverte, Paris. Ricercare Giulia Viani Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo 1. Premessa Le crisi rappresentano spesso i momenti più propizi per cogliere le strutture profonde che regolano le relazioni umane. La conflittualità tra i membri della comunità mauriziana di Palermo, sfociata recentemente nello smembramento dell’Associazione che la rappresentava, si è configurata come un elemento di difficile comprensione; la ricerca delle cause ha indotto ad affiancare alle sporadiche osservazioni preesistenti (Giallombardo 2007, Pellegrini 2007) un lavoro di analisi delle sue linee di divisione interna. Ne è emersa una comunità complessa che si percepisce differenziata in quattro gruppi “etnici”, riconducibili alla variegata composizione del Paese d’origine, conseguente a sua volta alla politica coloniale inglese e alle migrazioni indiane dell’800. Si ripercorreranno, pertanto, la storia e il simbolismo del viaggio dall’India e il loro nesso con la definizione delle nuove appartenenze e costruzioni identitarie nell’Isola di Mauritius. Si traccerà, infine, un quadro inedito della comunità mauriziana di Palermo, singolare e plurale al contempo, facendo ricorso a una narrazione creata dalle “voci” degli stessi protagonisti del fenomeno migratorio, poiché attraverso le modalità del racconto si manifestano i tratti distintivi delle loro identità culturali1. La raccolta di “storie di vita”, sulle quali ho basato il processo di conoscenza etnografica, rappresenta infatti lo strumento privilegiato di questa analisi della realtà mauriziana, iniziata nel gennaio 2004 e sviluppatasi attraverso la frequentazione assidua dei luoghi di culto e delle abitazioni di diverse famiglie stanziate da anni a Palermo; ho avuto inoltre la possibilità di trascorrere un periodo di tempo a Mauritius, ospite di Rajshree, un’amica temporaneamente rientrata nel suo Paese, compiendo un’esperienza che ha rappresentato un’opportunità di conoscenza diretta del contesto di provenienza dei migranti2. Le attuali dinamiche sociali aggregative/disgregative della comunità mauriziana si pongono infatti, come si cercherà di evidenziare, all’interno di una storia migratoria di lunga durata, non eludibile ai fini della comprensione della ridefinizione dell’identità e della gestione dell’etnicità3 anche nel nuovo contesto insediativo. 2. India.Kala pani, migrazione e ridefinizione identitaria Li chiamavano così perché in cambio di denaro il loro nome veniva inserito nei girmit, contratti scritti su un pezzo di carta. Il denaro andava alle loro famiglie e loro venivano portati via, per non tornare più. Era come se svanissero in un mondo sotterraneo […] come se parlassero di morti viventi […] una barca li porterà […] in un posto che si chiama Mareech (Ghosh 2008: 8183). Ciò che più desiderava […] era vedere il mare. Il mare. L’acqua nera. Il kala pani. Dicevano che chi andava al di là del kala pani perdeva la propria casta. Che era maledetto (Appanah 2006: 10). Kala pani, l’acqua nera che sono stati costretti ad attraversare e che ha cancellato dietro di loro ogni traccia, ha spezzato ogni legame, ha inghiottito la loro memoria […] Chi può capire una tale esistenza in bilico, il senso di non appartenere? (Devi 2004: 128). Da un po’ di tempo a questa parte, scrittori e studiosi indiani e mauriziani hanno cominciato a interessarsi di un capitolo fino a oggi poco noto della storia e delle dinamiche antropologiche dell’India: le migrazioni indiane nelle colonie, al tempo della dominazione inglese. Parte della politica coloniale britannica ottocentesca si è basata sull’incentivazione del flusso migratorio da ogni zona del continente indiano verso l’isola di Mauritius (o Mareech, nel suo nome indiano). Migliaia di persone, in particolare detenuti, vedove e poveri appartenenti alle caste inferiori, sono 71 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) state “costrette” – o incentivate spesso con inganni e false e lusinghiere speranze – a lasciare il suolo natìo superando il tabù del Kala pani (“l’acqua nera, il nero Oceano”). L’attraversamento del mare rappresentava, infatti, un kalivariya, ossia un “uso da evitarsi” per un indiano ortodosso, in quanto la condizione di impurità a cui andava incontro fuori dal suolo indiano comportava la perdita della casta e l’abbandono dell’appartenenza alla comunità degli uomini socialmente “classificati” (Della Casa 1997). Il potere pericoloso del mare e del suo attraversamento è connesso alla perdita dell’identità, alla crisi della presenza e dell’appartenenza. La polisemia dell’aggettivo kala, che qualifica il mare, esprime la complessità di tali implicazioni: il termine sanscrito significa “nero”, ma possiede anche una seconda accezione traducibile in “morte”. Kala, inoltre, è un attributo di Shiva e della dea Durga nella sua forma ctonia, entrambe divinità della distruzione ma anche della rigenerazione (Pontillo 1993). Ne consegue che il kala pani elargisce morte simbolica, ma al contempo conferisce la possibilità di rinascita e di nuova vita in un “altrove”. Il tabù del kala pani è metafora ampia e rivelatrice dello statuto del viaggio migratorio: l’atto del partire e del viaggiare produce sempre un elemento forte di caoticità, rimettendo in gioco la flessibilità dell’identità nella nuova patria. Qualcosa si distrugge e qualcosa si conserva e, tra criteri vecchi e nuovi, un ordine sociale è destinato, inevitabilmente, a ricostituirsi. 3. Mauritius. Politiche culturali e “classificazione” sociale al di là dell’“acqua nera” «La Repubblica di Mauritius è stata creata dagli immigrati». È questo il leitmotiv della mostra permanente Le Peupleument de Maurice, organizzata dal Mauritius Museums Council a Port Louis per illustrare il profilo socio-culturale composito e variegato degli abitanti dell’Isola4. Punto strategico nell’Oceano Indiano per lungo tempo ambito e conteso dagli Europei (Portoghesi, Olandesi, Francesi e, infine, Inglesi), Mauritius è oggi popolata dai discendenti degli schiavi e dei lavoratori che i colonizzatori deportarono o reclutarono da altri Paesi (soprattutto da varie zone dell’India) per coltivare le piantagioni di canna da zucchero. La politica britannica, in particolare, ha la responsabilità di aver creato una “little India”, riunendo forzatamente comunità eterogenee dal punto di vista geografico, linguistico, storico, religioso e cultu72 rale, “classificandole” poi a scopi “scientifici” e burocratico-amministrativi. Negli ultimi anni, pertanto, molti studiosi specializzati nelle dinamiche antropologiche di Mauritius tendono a decostruire l’immagine idilliaca del “mescolamento di popoli” e a rigettarla come fuorviante. Oddvar Hollup ha messo in discussione l’unità e l’omogeneità della “comunità” degli Indo-mauriziani, mostrandone la frammentazione e le complesse dinamiche interne e mettendo l’accento sull’esistenza di una «diversity in unity». Al contrario di quanto generalmente si creda, infatti, gli Indiani «form a far from homogeneous category because they are subdivided into several socio-cultural groups which claim a separate identity» (Hollup 1996). I lavoratori indiani, infatti, vivevano una condizione che non conduceva al mantenimento della casta che, oltre a essere simbolicamente perduta con la migrazione dall’India e l’attraversamento del kala pani, è comunque legata al mestiere svolto, mentre essi erano accomunati dalle medesime attività nelle piantagioni. Di fronte a un affievolimento, se non alla scomparsa, delle distinzioni sociali basate sul sistema castale, si assiste perciò a un’accentuazione del criterio “etnico” come categoria sociale “discriminante” per stabilire nuove identità su cui basare l’ordine sociale. Lo Studioso sostiene, appunto, la tesi della «transformation from caste identity to ethnic identity and the fragmentation of the Indians into discrete identities» (Ibidem). Lo straniamento della condizione migratoria, d’altronde, ha indotto i migranti a cercare un’appartenenza, trovando sostegno e protezione (materiale e simbolica) nel proprio gruppo di provenienza, come se il “modello etnico” fungesse da “mappa cognitiva” per orientarsi nell’ambiente estraneo e potenzialmente rischioso. Nella realtà mauriziana contemporanea si distinguono, pertanto, componenti di quattro gruppi, di cui uno maggioritario e tre minoritari: They are identified by the Hindi dialect Bhojpuri, share the same food habits, religious practices and rituals, and are the descendants of indentured labourers from north India. […] The Hindu minorities such as the Tamils, Telugus, and Marathis claim a distinct cultural identity of their own (Ibidem). Gli fa eco Thomas Hylland Eriksen, che ha dedicato diversi studi alle comunità mauriziane e alla compresenza dei fenomeni opposti di “multiculturalismo” e “creolizzazione”: About half of the population are Hindus, but they are subdivided into North Indians ("Hindi speaking"), Tamils, Telugus and Marathis, and do not consider themselves as belonging to the same ethnic group. […] They came from clusters of villages in particular parts of India: Bihar, Andhra Pradesh, Tamil Nadu and Maharashtra. […] In Mauritius, controversies concern the relationship between multiculturalism (seeking to “purify” their own culture) and creolisation (ecleticism, weak group identity) (Eriksen 1999: 4, 6, 15). Crispin Bates, studioso delle diaspore dell’area sud-asiatica, definisce Mauritius «an island apparently without conflict», prendendo in considerazione il matrimonio come parametro dei rapporti tra le comunità: The terms Hindu and “Indien” refer exclusively to north Indian Hindus. Migrants from Tamilnad identify their religious group as Tamil, not Hindu, and minority groups such as “Telugu” and “Marathis” are preoccupied with maintaining regional endogamy (Bates 2000: 7). Oltre alle unioni endogamiche, si contraggono anche matrimoni “misti”, ma si oscilla tra il loro sanzionamento (spesso a opera della generazione più adulta) e l’accettazione in nome della “modernità” dei costumi e della “creolizzazione”. Entrambi i casi, comunque, sottolineano l’esistenza di un “confine”. L’indipendenza mauriziana dall’Inghilterra (1968) ha comportato il trasferimento del potere politico nelle mani degli Indiani, in particolare della maggioranza hindu; in risposta, le minoranze hanno dato vita ad associazioni socio-religiose indipendenti, che agiscono politicamente al fine di garantire gli interessi “etnici”. L’obiettivo della maggioranza al governo è stata, finora, di incoraggiare e mantenere una società “multiculturale” e “multireligiosa”, attraverso differenti “compromessi” (per esempio promuovere il valore simbolico delle cosiddette lingue “ancestrali”, dichiarare le maggiori feste religiose festività pubbliche, ecc.), in modo da soddisfare le istanze dei vari gruppi e rispettare il loro “diritto alla differenza”: Supported by political opposition or alliance and cultural revivalism they try to distinguish themselves from the numerous and politically dominant Hindus. Although entirely Kreol speaking, the ancestral languages (Tamil, Telu-gu, Marathi) of the Hindu minorities still have important symbolic meanings linked to cultural identity and a shared past. Therefore, religious affiliation, rituals, kinship bonds, and ancestral origin have become more important for the construction of ethnic identity than language among the minorities (Hollup 1996). La politica di revival culturale, con la sua retorica dell’etnia, ha creato una divisione non solo tra Indiani e altre comunità, «but also a north/south Indian opposition in which Marathis were associated with and considered culturally closer to the Hindus, compared to the Tamils and Telugus». Questa linea di separazione, particolarmente sentita dai Mauriziani, coincide con il criterio dell’“origine” dravidica o indoeuropea: Tamil e Telugu sono affini perché discendenti dai gruppi dravidici autoctoni dell’India che, alcuni millenni fa, vennero sospinti al sud in seguito alle invasioni di gruppi indoeuropei, da cui discendono invece Marathi e Hindu. Secondo un meccanismo ben noto alla storia, disuguaglianze di potere hanno assunto una connotazione “etnica”. La molteplicità delle feste e dei calendari induisti riproduce la complessità, la varietà e il dinamismo del mondo mauriziano e induista in particolare. Non è ignoto agli indologi che l’induismo, in quanto categoria generica coniata dagli Occidentali, inglobi in realtà al suo interno correnti o “sette” con credenze e pratiche rituali differenti (Knott 1999; Massenzio 2005; Filoramo 2007). Ciò che in questa sede preme sottolineare è il fatto che questi “induismi”, trapiantati dall’India al contesto migratorio mauriziano e poi, come si cercherà di mostrare, a quello palermitano, abbiano strutturato delle “appartenenze” che, secondo la configurazione di elementi elencata da TullioAltan (1995), possono definirsi appunto “etniche” (dell’ethnos), in quanto basate sull’enfatizzazione di una memoria storico-mitica e delle differenti origini indoeuropee e dravidiche (epos), della diversa provenienza geografica da Maharashtra, Bihar, Andhra Pradesh, Tamil Nadu (topos), delle lingue marathi, hindi bhojpuri, telugu e tamil (logos), della continuità della discendenza e dei caratteri fisici quali la pigmentazione della pelle (genos) e, infine, proprio delle norme e del comportamento religioso (ethos). È questa complessità a rendere interessante agli occhi degli studiosi le comunità di Mauritius, dove i processi di integrazione e separazione culturale lavorano simultaneamente, dipendendo dai differenti contesti, livelli e situazioni, a seconda delle tendenze politiche miranti alla creazione di una identità nazionale o all’invenzione della tradizione: «in Mauritian public discourse, notions of change, flux, personal choice and hybridity are routinely contrasted with tradition, stability, commitment to fixed values and purity» (Eriksen 1999: 14). 73 Ricercare G. Viani, Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) 4. Palermo. Narrazioni polifoniche, identità plurali e appartenenze multiple Quando, qualche anno fa, ho chiesto a Satish, un mio amico mauriziano, di aiutarmi a tradurre le parole e i canti della festa di Ganesha Caturthi, con mia sorpresa mi sono resa conto che le sue difficoltà non erano molto diverse dalle mie: «Questo è Marathi» mi ha detto, spiegando le ragioni della sua non facile comprensione, «vedi i ragazzi che si buttano in acqua? Loro sono tutti parenti, familiari. Sono in pochi, in minoranza, quindi non parlano la loro lingua con gli altri». I Marathi si distinguono, mi ha fatto notare, perché legano al collo un fazzoletto arancione («mentre i ragazzi indiani non hanno questa cosa al collo, loro lo mettono per dimostrare che fanno parte di questo»). L’arancione è il colore dei devoti di Ganesh, divinità principale dei Marathi, ma non degli Hindu come Satish: «Ganesh è un altro ramo. Loro fanno questa cosa tra di loro. Loro tengono al loro “santo”. Noi siamo per Durga». Differenze di lingue, colori, devozioni religiose e pratiche rituali hanno cominciato così a profilarsi e delinearsi, attraverso le forme di categorizzazione noi/loro operanti nelle pratiche discorsive dei migranti. È emerso così che ogni comunità religiosa è associata a una divinità: i Marathi a Ganesh, gli Hindu a Durga, i Telugu a Visnu e i Tamil a Mourouga. Come ogni divinità è associata, secondo la mitologia indiana, a un colore, così anche i loro fedeli e devoti sono identificati da una diversa tonalità cromatica. Continuando ad approfondire la questione relativa ai colori («ognuno ha un colore»), si è rilevato che ai Marathi pertiene l’arancione, agli Hindu il rosso, ai Musulmani il verde e così via. L’esempio scelto da Satish ha messo in luce come la “distanza” religiosa tra Hindu e Marathi fosse da lui percepita sullo stesso piano di quella con i Musulmani. Ho avuto modo, in seguito, di ascoltare esempi e dichiarazioni simili, a conferma di come, per i Mauriziani, l’islamismo, il cristianesimo e i vari induismi si pongano a distanze simili, secondo una “classificazione” alquanto lontana da quella operata dal pensiero di matrice “occidentale”. La comunità mauriziana induista, stanziatasi a Palermo nella metà degli anni Ottanta del Novecento in seguito a una migrazione di tipo economico5, presenta e riproduce, infatti, quel medesimo pattern “etnico”, linguistico e religioso descritto nel paragrafo precedente. La principale linea divisoria è tra gruppi di “origi74 ne” indoeuropea da una parte e dravidica dall’altra; all’interno di questi due grandi gruppi vi è un’ulteriore bipartizione degli indoeuropei in Marathi e Hindu e dei dravidi in Telugu e Tamil. In questa partizione, gli Hindu costituiscono la maggioranza e gli altri tre le minoranze. Frequentando assiduamente i Mauriziani, ho avuto modo di seguire, nel corso di questi anni, vicende grandi e piccole che hanno influito sulla composizione dei gruppi e delle affiliazioni. I Mauriziani di Palermo avevano dato vita a una Associazione – Mauritius Ganesh Mandir – che sino al 2007, tra alterne vicende, aveva regolato iniziative ed eventi della comunità. Al termine di un lungo periodo di tensioni, durante il quale sono andate formandosi nuove alleanze e schieramenti di potere, l’Associazione si è scissa in due fazioni. Secondo il presidente di una di queste, il numero degli iscritti all’Associazione sarebbe oggi così ripartito: settanta famiglie hindu, trenta tamil, trenta telugu e venti marathi. Se Mauritius è una “piccola India” in cui si ritrovano per la prima volta insieme comunità con differenze culturali, linguistiche e religiose, che precedentemente erano distanti e indipendenti anche per la lontananza geografica, Palermo è una “piccola Mauritius” in cui gruppi socio-religiosi, che hanno interiorizzato un modello di separazione e di convivenza senza mescolamento, si trovano “costretti”, visto il numero esiguo di elementi, a formare un’unica comunità. La politica della “creolizzazione” e di un’unica identità mauriziana concorre ad agevolare questa unione, ma la specificità del gruppo di appartenenza, anche se non esplicitamente esibito e rivendicato, è presente nei Mauriziani ed emerge qualora vengano poste domande mirate e specifiche al riguardo, soprattutto per quanto concerne i Marathi, i Telugu (o Telegu) e i Tamil, che anche a Palermo sono la minoranza rispetto agli Hindu, quindi la “minoranza di una minoranza”. Anche se la differenza linguistica tra questi gruppi si è affievolita con le nuove generazioni, sembra permanere una distinzione di tipo socio-religioso con ricadute associative e di politiche identitarie non sottovalutabili. Nella consapevolezza che l’individuo è un osservatorio privilegiato poiché rappresenta sempre ruoli in conflitto tra loro e molteplicità di sistemi diversi, riporto di seguito alcuni esempi più significativi di storie di vita di Mauriziani6 appartenenti ai quattro gruppi “etnici”, affidando alla “narrazione polifonica”7 il compito di disegnare la complessità di una comunità singolare e plurale al contempo. Il racconto di Kalyani. Kalyani è una mauriziana di 49 anni, a Palermo da 17. Alla mia domanda sulle varie lingue parlate alle Mauritius, lei è intervenuta, contenta, affermando «io sono marathi». Ricostruisce il suo genos, ripercorrendo a ritroso le generazioni fino alle origini in Maharashtra («loro prima di Maharashtra, città di Bombay. Mio bisnonno…tutti di là»). Nella sua famiglia, infatti, sono tutti marathi, senza intrusioni e interferenze nei “rapporti di sangue”. La conoscenza della lingua è patrimonio soprattutto della generazione più antica, mentre la nuova ha spesso una competenza linguistica passiva, conseguenza del numero esiguo di parlanti marathi («è un po’ difficile, perché c’è pochi persone marathi all’Isola. Ci sono indiani hindu di più»). Ganesha Caturthi è, come abbiamo visto, la festa marathi per eccellenza: «vedi quella festa che va a mare, per Ganesh, questa è marathi. Proprio da nostro Paese»; dove per “nostro paese” Kalyani intende chiaramente il Maharashtra e non Mauritius. A proposito della comunità mauriziana palermitana, Kalyani sente la necessità di spiegare così l’eterogeneità delle feste religiose: «perché qui a Palermo siamo un gruppo di tutte le religioni e noi dobbiamo mettere d’accordo tutti perché noi siamo pochi a Palermo». La “religione” marathi, che durante il corso dell’anno si confonde con gli altri induismi, trova il suo riconoscimento semel in anno, esplicandosi attraverso la processione per Ganesh e l’utilizzo di uno spazio “altro” rispetto al tempio: la strada e il mare. Se da una parte ricorrono al “tempio”8 come spazio dell’incontro e delle celebrazioni collettive, dall’altra i Marathi ricercano luoghi di autonoma aggregazione e socializzazione fondati sull’appartenenza religiosa e linguistica. In alcune giornate libere, infatti, si riuniscono tra loro, in una casa messa a disposizione da qualcuno, per celebrare preghiere per il “proprio” dio Ganesh, nella “propria” lingua («pandit 9 domenica fa preghiera in marathi a casa sua. Quando facciamo questa cosa è in marathi questa preghiera. Sempre per Ganesh»). Alcuni individui della comunità, per i quali Kalyani ha grande ammirazione, possiedono una competenza maggiore della lingua, anche grazie ai continui contatti con la comunità marathi inglese («parla marathi, proprio marathi. Loro parla sempre marathi»). Il cugino del pandit, anch’egli officiante, è venuto spesso da Londra a Palermo, in occasione delle feste, per concelebrare. Le comunità mauriziane mantengono, così, contatti con le altre sparse nel mondo, creando una comunità “multisituata” con un’identità “translocale”. Kalyani ha sposato un altro marathi, a seguito di un matrimonio combinato («sua madre mi ha trovato per matrimonio, ha fatto fidanzato, non è che conosco prima. Da noi si usa così»; «lei dice “questa ragazza è brava: è marathi come noi”»). Per quanto riguarda i matrimoni “misti”, le idee di Kalyani riproducono la divisione marathi-hindu da una parte e tamil-telugu dall’altra. La donna vorrebbe che i suoi due figli sposassero, anche in vista di un ritorno in Patria, ragazze mauriziane e «magari uno sposa marathi, uno hindu»; un hindu, infatti, «è un po’ vicino». Alla domanda se un marathi può sposare un tamil, Kalyani ha risposto negativamente, aggiungendo, però, che questo diniego e la preferenza assoluta per un coniuge dello stesso gruppo socio-religioso erano rispettati soprattutto dalla generazione precedente, mentre la nuova tende a discostarsi da queste direttive («Tamil no. Però ora si sposa, però prima no assolutamente, perché i nostri genitori dice che quando sposa devi sposare sempre nostra religione). A proposito dei matrimoni “misti”, anche Rajshree – giovane donna di famiglia hindu – descrive un’inculturazione tesa al mantenimento dell’endogamia, motivandola col racconto dei problemi seguiti all’unione tra il cugino e una ragazza tamil: Mio padre dice no e scherzando scherzando te lo metteva in testa sin da piccola. Allora quando tu vedi un ragazzo che non è della stessa religione eviti: “no, questo non è possibile perché poi ci saranno problemi”. Poi quando ho visto mio cugino che ha conosciuto una ragazza tamil, ha avuto problemi. Il padre della ragazza dice “no, mia figlia entrare nella religione hindu non se ne parla”. Non considerava più la figlia, dice “se esci fuori da casa mia non esisti più”. Il racconto di Anandi. Trasferitasi a Palermo 23 anni fa, al seguito dei cugini, Anandi è una telugu mauriziana di 47 anni. Le catene migratorie riproducono, di consueto, le “appartenenze” di gruppo, incidendo sull’affitto degli appartamenti e sui connazionali frequentati. La donna, di famiglia telugu, ha sposato 14 anni fa un altro telugu conosciuto nella comunità di Palermo, con cui ha avuto tre bambine. Anandi considera la possibilità che, una volta cresciute, le figlie si sposino “al di fuori dell’induismo”, magari con italiani, non dimostrando d’altro canto alcun interesse a rientrare a Mauritius, dove (caso che si riscontra piuttosto raramente) ha rinunciato persino a costruire la casa. La tipologia del progetto migratorio rivela così la sua capacità di influenzare le 75 Ricercare G. Viani, Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) idee relative all’appartenenza e al mantenimento dell’endogamia. Anandi mi fornisce informazioni sulla “comunità” telugu – composta da più di un centinaio di persone – e sulle sue riunioni. I Telugu di Palermo, infatti, come i Marathi, si sono uniti alla più numerosa comunità hindu per poter celebrare le proprie festività al “tempio” e avere occasione di vedersi («visto che noi non abbiamo il posto – e dobbiamo pregare – va da hindu, perché è simile. Allora andiamo e ognuno prega a maniera sua»). A questi momenti condivisi, si affiancano però le occasioni in cui i Telugu si incontrano tra loro, per esempio per festeggiare specifiche ricorrenze come il loro capodanno Ougadi («Ougadi, sì, è diverso, perché noi festeggiamo un altro [capodanno]. Prepariamo tante cose, tipi di mangiare, facciamo la festa, balliamo»). Anche Rajshree ricorda l’organizzazione di queste feste riservate ai Telugu, a cui lei e il marito non erano invitati perché di “religione” hindu («c’è un signore che conosce tante persone […] ha la possibilità di organizzare delle feste, li riunisce per il loro capodanno, ogni anno ci riesce. […] Lui non fa venire gli altri, lui non mi inviterà anche se mi conosce. Inviterà soltanto di quella religione»). Ad Anandi e ad altre mauriziane devo la spiegazione degli ornamenti, veri e propri “contrassegni” visivi, che permettono di riconoscere e “inquadrare” la donna all’interno del gruppo di appartenenza, di primo acchito e al primo sguardo. Sono soprattutto le donne, infatti, che cercano di mantenere viva nel paese ospite la propria “identità”, a cominciare dal mantenimento del costume tradizionale e della sua funzione di “carta d’identità” e “messaggio sociale”. Ornamenti fondamentali per l’identificazione sono la collana («si nota dalla collana: noi hindu hindu c’abbiamo così, lei che è marathi di Bombay ce l’ha differente») e l’anello al piede, indossato sempre nel contesto rituale e spesso anche nella quotidianità casalinga e lavorativa («quando io esco me lo porto sempre»), in particolare nella stagione estiva che ne facilita l’uso grazie alle scarpe aperte. Variano nella forma, nel materiale e nel colore a seconda del gruppo (per es. la collana è di corda gialla o di smalto nero e oro, la medaglietta è singola o doppia, è rotonda o di altra forma, l’anello è circolare o a spirale). È interessante che le hindu, invece, non portano generalmente l’anello al piede, attributo identificativo che sembra connotare esclusivamente marathi, telugu e tamil, ossia le minoranze. I gruppi marginali mauriziani, perciò, presentano maggiore con76 servatività e ostentazione della “tradizione”, rispetto alla maggioranza hindu. Il racconto di Radhika. Radhika è mauriziana tamil. Ha 55 anni e vive a Palermo da 18, in una zona del Borgo Vecchio dove vivono parecchi tamil, anche dello Sri Lanka. Radhika racconta di avere molti amici tra questi e di aver fatto parte anche di un coro di tamil srilankesi. È fiera di questo e di conoscere bene la lingua tamil. Per questo gruppo, infatti, il logos, la conoscenza della lingua, è un tratto determinante della definizione identitaria e l’“iniziazione” all’insegnamento dell’alfabeto assume caratteri rituali. Mentre gli Srilankesi «loro parla tamil tamil proprio», i Tamil delle Mauritius lo usano in modo quasi esclusivo nelle occasioni rituali, ricorrendo invece al creolo come lingua usuale negli scambi conversazionali quotidiani (al pari di tutti gli altri Mauriziani). Radhika, quindi, non ha l’abitudine di parlare tamil, ma è in grado di utilizzare questo codice nella comunicazione scritta o nelle preghiere e canti religiosi («lo leggo, lo scrivo, canto con loro in chiesa») e, grazie a queste capacità, è arrivato il riconoscimento della sua “identità tamil” («io cantavo, loro non pensavano che io conosco loro lingua, poi piano piano io detto “anch’io sono tamil!”»). La donna, infatti, è stata spronata dalla famiglia, sin dalla tenera età, ad andare a scuola per imparare la “lingua dei padri” («quando noi eravamo piccola dice sempre “vai alla scuola tamil, devi studiare nostra lingua”. Allora, a questo punto, noi ci siamo andata»). Nel contesto migratorio, Radhika ha assunto il ruolo di promotrice delle festività peculiari dei tamil mauriziani, come Govinden, e prima di ogni celebrazione riattiva i suoi contatti transnazionali, chiamando lo zio pandit alle Mauritius che, tramite la figlia che abita a Londra, invia a Palermo le informazioni necessarie («Govinden l’ho fatto io. […] Se io non conosco una cosa e devo fare una messa qua in nostra lingua tamil di Paese, se io non sono sicura io telefona “sai io devo fare questo, manda frasi che devo dire”. Lui manda a sua figlia in Inghilterra che mi manda un fax»). Il rito celebrato dai Tamil mauriziani, a cui ho avuto modo di assistere grazie a Radhika, si avvale di una disposizione dell’altare diversa rispetto alle celebrazioni hindu, manifestando la ricerca di distinzione sin dall’uso e dalla costruzione dello spazio sacro. L’altare laterale, infatti, diventa in questa occasione il punto di riferimento primario per la preghiera, orientando i fedeli secondo un altro asse e rendendo subal- G. Viani, Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo Ognuno vuole diventare presidente, dice cosa che non va, poi c’è stato litigio e finalmente loro hanno diviso. Sette anni ho passato ogni domenica in chiesa, andata la mattina apri alle dieci chiudi alle due, nessuno aiuto. Io sono stanca, solo membro visitatrice, non mi interessa aiutare, quando serve aiuto per festa tamil vengo ad aiutare, per gli altri vengo come ospite. Poi tu vai loro festa aiuta loro, quando tu devi fare Govinden loro non viene, nessuno aiuto. A me m’arrabbia. Le donne che aiuta per altre feste, quando noi facciamo feste, loro non viene, viene come ospite, non viene che ci lava piatti o cucinare o un aiuto. Io ora pure faccio così, basta. Ricercare terno l’altare in cui la statua di Durga occupa il posto principale (in quanto dea della maggioranza hindu), mettendone così in discussione la centralità e l’egemonia con la creazione di un altro “ordine” del mondo. La simpatia di Radhika verso gli Srilankesi, che a Palermo rappresentano un gruppo numericamente consistente e ben organizzato, è anche conseguenza della loro maggiore capacità di celebrare le proprie feste, rispetto ai Mauriziani («c’è abbastanza tamil mauriziani, però loro non ce n’è il potere di fare le funzioni che sono di nostro Paese. Allora quando c’è festa grande io dico ai tamil, chiedo loro la chiesa e facciamo»). Quando la comunità mauriziana non fornisce, pertanto, un adeguato sostegno materiale e simbolico, i Tamil mauriziani trovano più funzionale sottolineare il tratto tamil e la comune identità con gli Srilankesi; altrimenti mettono in evidenza il tratto mauriziano della comune identità nazionale, o semplicemente quella “dravidica” con i Telugu. Tamil e Telugu, inoltre, sono presenti in maggiore concentrazione nella “fazione” dell’associazione più impegnata in attività di “promozione” della comunità (attraverso l’organizzazione di mostre, balli ecc.), finalizzate alla richiesta di fondi al Comune, alla concessione di locali migliori e più adatti da adibire a “tempio” e al riconoscimento dei Mauriziani in ambito cittadino. È ipotizzabile che questi gruppi “dravidici”, proprio in quanto minoranze che cercano di “riscattarsi”, abbiano scelto di far parte della “comunità” in cerca di maggiore visibilità pubblica. La testimonianza di Radhika è significativa per comprendere i legami profondi tra la presenza di diversi gruppi socio-religiosi e la crisi della comunità mauriziana induista di Palermo. Tutti i Mauriziani affermano, infatti, di partecipare alle varie feste, a prescindere dalle “appartenenze”. Al di là di queste dichiarazioni – analizzando meglio le interviste – emerge, tuttavia, una dicotomia comportamentale tra partecipazione attiva e passiva, tra organizzatori e “ospiti”. Anche se le altre “comunità” partecipano come “visitatori” ai riti altrui, soltanto i membri del gruppo interessato e devoto a quella divinità svolgono un ruolo attivo nell’organizzazione della festa, lamentando l’assenza di aiuto e collaborazione da parte degli “altri” (per esempio per le incombenze pratiche, quali cucinare, lavare, preparare il tempio). Esplicito a riguardo il seguente brano dell’intervista, sulle motivazioni dello “scisma” mauriziano: Anche il presidente dell’Associazione, pur insistendo sulla partecipazione collettiva alle celebrazioni, delinea una differenza tra chi organizza effettivamente la festa e chi si accoda semplicemente: «Lì [a Mauritius] sei sul luogo e ogni festa la puoi fare come vuoi. Invece noi qui siamo pochi, siamo fuori. Però partecipiamo tutti insieme. Se è una cosa di hindu allora la prendi tu l’iniziativa e noi siamo dietro di te, se è cosa di tamil allora la prendo io e tu vai dietro di me». La difficoltà di trovare un proprio rappresentante è da imputare probabilmente a questa partizione interna e a una coesistenza “forzata” che genera “con-fusioni” in merito ai riti religiosi e agli orizzonti di senso ad essi collegati e da essi veicolati. Rajshree, per esempio, esprime i suoi dubbi riguardo alla pratica dei pandit marathi di rompere e mangiare le noci di cocco benedette, impensabile per un hindu per cui questo frutto rappresenta il cosmo e la dea madre Durga. L’alternarsi di pandit delle diverse correnti religiose dell’induismo produce spesso, infatti, incomprensioni sul loro operato e “delegittimazioni” del ruolo. Inoltre, poiché ogni religione coincide con una visione del mondo e i suoi riti sono atti finalizzati a “rassicurare” gli individui di fronte alle incertezze e alle tensioni dell’esistenza, la diversità rituale con cui i Mauriziani sono in continuo contatto genera in loro quello stato di confusione che non è strettamente religioso ma riguarda, appunto, l’ordine del mondo e la costruzione di senso e identità: ogni prete hanno un rito, noi indù ci sono diversi tipi di indù, ci sono i marathi che pregano Ganesh, tamoul che pregano Mourouga, telegu che pregano Visnu. Noi per ora siamo tutti insieme, quelli che vedi in chiesa. Ora il prete che è venuto fa i riti come quelli dei marathi, però riesce a fare Durga Puja, riesce a fare quello che può fare. Però secondo me non è un prete vero e proprio. Durga è rappresentata da una noce di cocco. Però non si mangia questa cosa, però il fatto che lui ha distribuito queste noci di cocco non lo capisco. È una cosa benedetta, sacra. Non si può mangiare e neanche rompere, per77 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) ché diventa come se devi rompere la testa di qualcuno, la stessa cosa. Siccome loro sono di un’altra religione, la pensano in un altro modo. […] Ora c’è un altro prete che viene da Londra ed è bravissimo. E fa le cose diversamente. Ognuno viene… e non capisci, ti confondi alla fine. Il racconto di Soopriya. Una delle testimonianze più interessanti per comprendere le distinzioni tra le varie comunità, le specificità e i rapporti (anche “gerarchici”) che intrattengono tra loro è quella di Soopriya, giovane mauriziana trentenne di padre hindu e madre tamil. In seguito ad alcuni dissapori, la ragazza si è allontanata dalla comunità mauriziana di Palermo, per trasferirsi nell’Italia del nord («qua con tutti questi Mauriziani […] c’ho passato tanti problemi con loro, ti sparlano, mi dicevano sei nera, sei di qua, sei di là. Poi i Mauriziani sinceramente con gli altri si comportano bene, ma con noi stessi non si comportano bene»). Soopriya descrive una vera e propria “classificazione” legata all’appartenenza socio-religiosa degli induisti («come nostri antenati derivano dall’India abbiamo la classificazione delle religioni, come una piramide prima c’era faraone e all’ultimo c’erano gli schiavi»), in cui all’apice stanno i Marathi («prima vengono marathi che sarebbe quelli che celebrano la cerimonia. Loro vengono al primo posto»). Questo primato sarebbe da imputare anche al colore più chiaro della pelle che, secondo il mythos dell’origine indoeuropea, li distingue dagli altri indiani rendendoli più simili e affini agli europei («marathi hanno la pelle chiara come te. Tutti hanno carnagione chiara e già lo capisci che tipo di religione è»). Anche tra indiani, infatti, la percezione di una pigmentazione più chiara o più scura della pelle viene valutata come caratteristica della posizione nella scala sociale (probabile eredità del colonialismo e dei privilegi dei “bianchi”)10; Soopriya è scura e occupa, quindi, il “gradino” socio-religioso meno elevato: «io e mia sorella siamo scuri. […] Mi dicevano nera, perché non tutti sono neri laggiù. Io sono più scura di tutti; […] da parte di mia mamma siamo quasi ultimo posto come classificazione, quando tu vai a classificare la religione siamo all’ultimo posto». È interessante notare come le accuse di “essere scura”, che Soopriya riferisce di aver ricevuto dai Mauriziani, siano in realtà di altro ordine. In altri momenti dell’intervista, infatti, la ragazza rivela di essersi guadagnata (a suo avviso immeritatamente) la nomea di «rubare i mariti degli altri»; il timore delle mogli, nei confron78 ti di questa giovane donna non sposata, trova perciò espressione nell’utilizzo dell’efficace “discorso” etnico e, attraverso questo, si trasforma in una condanna “giustificata”. Similarmente Deeti racconta, riguardo alla sua storia di vita, che la madre del marito aveva espresso un parere contrario al loro matrimonio adducendo il fatto che lei fosse «troppo scura» – e quindi considerata anche «brutta» – adombrando il reale motivo della maggiore età della donna rispetto all’uomo. Un interessante differenziale sociale dei Marathi, oltre all’abbigliamento, è costituito dall’odore. Nei contesti di stratificazione socioculturale, infatti, l’olfatto costituisce un indicatore decisivo per il riconoscimento corporativo: l’odore che si emette discrimina gli individui e ne rivela l’identità11. I Marathi utilizzano un profumo particolare che li indentifica, li distingue e ne denota lo status economicosociale («hanno un diverso profumo che usano per distinguere tra di loro. È un profumo costoso e particolare, che quando tu senti questo odore già sai che sono loro, perché solo loro lo usano»); questo «segreto» non viene pertanto condiviso con gli altri gruppi («vai a trovare questi profumi! Non sai nome, non sai niente, è come un segreto tra di loro»). La descrizione accurata di questo gruppo, da parte di Soopriya, è da attribuire a una conoscenza ravvicinata e a motivi familiari, poiché la zia lavorava presso alcune famiglie marathi («te lo dico questo perché mia zia lavorava per un marathi. E poi stanno sempre in grandi ville. Vedevi queste villone, questi grandi abiti. E la gente va a lavorare per loro. E hanno panificio, negozi»). Emerge, quindi, un discorso che mette in campo relazioni di egemonia e subalternità. Per “legittimare” questo status, i Marathi si presentano come i più “tradizionalisti” tra gli indiani, attraverso il ricorso a un codice visivo (vestiario) e olfattivo (profumo) che rimanda esplicitamente all’India; ricollegandosi alla “madrepatria” – la “tradizione” come restaurazione della “purezza” – il gruppo avvalora la propria importanza sociale («si scambiano per una che viene dall’India, portano molto quelle tradizioni e non si vestono mai con pantalone oppure la maglietta»). Continuando la “classificazione”, seguono gli Hindu e, poi, Telugu e Tamil, somiglianti per le comuni “origini”, ma con lievi divergenze linguistiche, fisiche e religiose («si avvicina, sono sempre le stesse famiglie. La lingua è diversa. Anzi i Telegu sono più chiari di carnagione. I Tamil… c’è più radice con la religione loro. I Telegu sono un pochino più leggera»). Infine, in merito alla situazione palermitana in cui le comunità migranti si ritrovano insieme in un unico tempio, commenta: «Non sono uguali. Tamil, Telegu, Indiano, anche i Marathi. Tu li vedi tutti insieme, ma ognuno è diverso tra di loro». 5. Osservazioni conclusive Attraverso il racconto di queste storie di vita, emerge la complessità di definizione dell’identità dei Mauriziani, sia in riferimento all’inserimento nel concreto sistema relazionale sia in merito alla rappresentazione collettiva e all’orizzonte simbolico in cui sussistono i gruppi. È interessante riflettere sullo scarto tra dimensione in intellectu e in obiecto (Buttitta 1996) che si delinea nel contesto migratorio. Nel paese ospite, infatti, i migranti sono accomunati da analoghe condizioni socioeconomiche, quali la situazione abitativa in rioni popolari o comunque in case modeste di vecchia costruzione e in affitto, l’attività lavorativa di collaborazione domestica e una retribuzione simile. Nonostante questa isotopia, a livello di rappresentazione di se stessi e della propria comunità, i Mauriziani tendono a riprodurre le divisioni interne del Paese di provenienza. Pur nella medesima condizione subalterna – che funziona da riduttore della complessità, appiattendo le differenze culturali, sociali e economiche preesistenti – il processo di identificazione dei migranti rimanda alle relazioni esistenti nei luoghi di partenza che “posizionano” i gruppi in base all’“appartenenza”, disegnando “confini invisibili” a un osservatore esterno. La doppia identificazione col “gruppo etnico” e con lo “stato-nazione” esprime la duplice esigenza dei migranti di affermare le differenze e, contemporaneamente, di condividere una vita comune, manifestando il proprio bisogno di riconoscimento nella forma di volta in volta più congeniale. L’appartenenza è continuamente costruita e i “confini” ridefiniti; il sostegno di cui si è alla ricerca viene trovato in un gruppo ora più ristretto ora più ampio, in una comunità immaginata che possa soddisfare tale bisogno. È ipotizzabile che la composizione plurale della comunità mauriziana di Palermo, pur non essendo necessariamente l’unica causa, abbia svolto un ruolo destabilizzante per la sua unità, influendo sulla crisi dell’associazione, sui continui cambiamenti nella presidenza e sulla difficoltà a sentirsi rappresentati, attribuendo a mancanze personali un proble- ma più profondo. La comunità si configura, pertanto, come un “campo di forze” in uno stato di tensione dinamica, nella quale le tendenze di fissione e coesione agiscono continuamente le une contro le altre, esitando in crisi o in nuovi e precari equilibri. Siamo di fronte a una situazione di coesistenze e differenze, intrecci e separazioni, tradizione e innovazione, aperture e chiusure, senso di identità e alterità che contraddistingue il composito mondo induista dei Mauriziani, attraverso dinamiche complesse e variabili che influiscono sui rapporti religiosi, sociali (nell’amicizia e ancor di più nella scelta del partner) nel proprio Paese e anche, come “discorso” spesso inconsapevole, nella situazione migratoria. Note 1 Le interviste e le storie “dal basso”, come suggerisce già da anni la riflessione sociologica (Ferrarotti 1981), costituiscono la fonte primaria di espressione del punto di vista di attori sociali marginali o esclusi, come i migranti (Dal Lago 2004). Al racconto dei fatti si accompagna la rappresentazione della vita e il processo di “creazione del sé” (Bourdieu 1995, Atkinson 2002, Bruner 2002) in una continua ricostruzione della memoria, soggetta alle sollecitazioni del presente e alla negoziazione tra le prospettive dell’antropologo e del suo interlocutore (CliffordMarcus 1997). Per ulteriori riferimenti bibliografici in merito all’uso delle fonti orali e delle storie di vita nella ricerca antropologica cfr. D’Agostino 2008. 2 Ho affrontato queste analisi nell’elaborato finale della laurea triennale in Beni demoetnoantropologici (Ricerche indiscrete. Nelle case e nei templi dei Mauriziani a Palermo e nei luoghi d’origine, aa. 2005/2006, relatore Prof. G. D’Agostino) e nella tesi della magistrale in Antropologia culturale ed Etnologia (Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo, a.a. 2007/2008, relatore Prof. G. D’Agostino). 3 Il concetto di “etnia”, in linea con la revisione critica di cui è stato oggetto da parte dell’antropologia contemporanea, è qui utilizzato non come categoria ontologica, ma come artefatto storico, spesso politicamente indotto. Si riconosce però che, una volta “inventate”, le etnie assumono una consistenza concreta per coloro che vi si riconoscono e sono investite da forte carica emotiva ed efficacia sociale, che si esplica nella regolamentazione dei matrimoni, nella pratica del proprio particolarismo religioso e nella gestione dei segni dell’appartenenza (Epstein 1983; Fabietti 1998; Fabietti-Matera 1999; Gallissot-Kilani-Rivera 2001; Amselle-M’Bokolo 2008). 4 Oltre agli Indiani, che rappresentano percentualmente la maggioranza della popolazione, l’isola di Mauritius è abitata da altre comunità di diversa provenienza, come i “Creoli” africani, i Franco-mauriziani e 79 Ricercare G. Viani, Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) i Cinesi. Dal punto di vista religioso, oltre all’induismo, si professano in particolare il cristianesimo e l’islamismo. La maggior parte dei musulmani è di provenienza indiana ma, in virtù del proprio credo, si considera più affine al mondo arabo. 5 La migrazione mauriziana verso l’Italia risale alla metà degli anni ’80 del Novecento, conseguenza dell’attrazione economica e simbolica dell’Occidente, frutto di una percezione distorta risultante dall’eredità del colonialismo (Lingayah 1991). I Mauriziani sono presenti, in particolare, nelle città di Palermo, Catania (Scidà 1993), Bari (Viola 1995) e, più recentemente, Milano. A Palermo, secondo i dati statistici del 2007, ne risiederebbero oltre 1500. Nonostante le ricerche si siano incentrate finora sulla comunità induista, numericamente più consistente, si ricorda la presenza di gruppi praticanti altre professioni di fede. 6 I nomi di alcuni intervistati sono stati sostituiti, al fine di garantirne la riservatezza. 7 Per quanto riguarda l’utilizzo della polifonia nel contesto etnografico cfr. Clifford 1999. Bruner J. 2002 La creazione narrativa del Sé, in Id., La fabbrica delle storie, Laterza: 71-99. Burgio G. 2007 La diaspora interculturale. Analisi etnopedagogica del contatto tra culture: i Tamil in Italia, ETS, Pisa. Buttitta A. 1996 Dei segni e dei miti. Una introduzione all’antropologia simbolica, Sellerio, Palermo. Buttitta I.E. 2008 Veicoli dell’assoluto nella tradizione induista, in Id., Verità e menzogna dei simboli, Meltemi, Roma: 169-229. Cerulli E. 1999 Vestirsi spogliarsi travestirsi, Sellerio, Palermo. Clifford J. 1999 I frutti puri impazziscono. 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La produzione di sperma nell’uomo e la comparsa del menarca nella donna, prima ancora che altri segnali di crescita adolescenziale, segnerebbero il passaggio individuale dalla fanciullezza alla maturità, mentre i rituali di iniziazione puberale, osservati presso numerose società, convaliderebbero agli occhi della comunità l’ingresso entro il raggruppamento sessualmente differenziato degli adulti1. In realtà le cose vanno diversamente, poiché non soltanto alle pratiche rituali è riconosciuto un compito sociale senza dubbio più determinante che la valorizzazione dei fatti naturali2 – scrive Francesco Remotti «la ritualizzazione non consiste in un riconoscimento dei fondamenti naturali, […] è la creazione di eventi sociali» (Remotti 1981: XXI) – ma è altresì ben difficile che sviluppo puberale fisiologico e riti di iniziazione all’età adulta collimino. Ritualizzare significa produrre una sovrastruttura culturale ‘relativamente autonoma’ che inevitabilmente finisce con il divergere rispetto alla natura (cfr. Ibidem). In tal senso, nelle società che praticano rituali di accesso all’età adulta, non solamente possono distinguersi una “pubertà fisiologica” e una “pubertà sociale”, intendendo con la prima la maturazione anatomica dei caratteri sessuali secondari3 e con la seconda l’acquisizione dello status di adulto a motivo del rituale iniziatico, ma soprattutto tali riti di iniziazione trasformano la condizione sociale delle persone ‘a prescindere’ dal mutamento operato dalla natura, in modo che il conseguimento della ma- turità sia primariamente deciso dalla società e non “subordinato alle bizzarrie del caso” (cfr. Lincoln 1983). La pubertà fisiologica non necessariamente rappresenta il punto di partenza della pubertà sociale4; laddove lo sia, sarà comunque ancora il rituale, non la natura, ad assegnare all’individuo la nuova posizione e il nuovo ruolo che ricoprirà all’interno della società, stabilendo il momento a partire dal quale la comunità dovrà considerarlo dotato delle sue più mature funzioni sessuali (Ibidem). Riconoscendo agli iniziati la posizione sociale di uomo o di donna indipendentemente dai mutamenti che la natura opera sul loro organismo, i riti di accesso all’età adulta forniscono alle società gli strumenti per dominare gli eventi della pubertà fisiologica ed evitare che il loro incontrollato verificarsi sia causa di sconvolgimento e pericolo per l’intera comunità. I rituali di iniziazione – potrebbe più esattamente affermarsi con Victor Turner – spogliano del loro aspetto antisociale l’accidentale e l’incomprensibile per ricondurlo entro le coordinate dell’ordine sociale normativo (cfr. Turner 2001). In particolare, nelle cerimonie di pubertà femminile, le pratiche rituali – e per il loro tramite le società – accordano alle iniziate non solamente gli status e i ruoli peculiari delle donne adulte, ma altresì le funzioni sessuali e procreative, decretandone l’appropriazione da parte delle fanciulle a prescindere che tale conferimento sia anticipato da un’acquisizione effettiva o simbolica. Così accade per un processo fisiologico distintivo della maturazione sessuale femminile, che è il ciclo mestruale, e per la sostanza organica che quel processo produce, ovvero il sangue mestruale, un sangue da sempre oggetto di attrazione e avversione insieme. In accordo con l’analisi di Mary Douglas, che largo spazio riserva alla distruttività e alla potenzialità insieme insite negli stati di disordine che scaturiscono allorquando soglie “proibi83 Ricercare Matilde Bucca ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) te” vengano oltrepassate (cfr. Douglas 1993)5, la misteriosa ambiguità che contraddistingue le categorizzazioni culturali del sangue mestruale deriverebbe dal disordine simbolico che parrebbe essergli peculiare, ovvero dalla sua condizione di fluido organico che originatosi all’interno del corpo umano fuoriesce dai suoi confini inviolabili disgiungendosi dalla sua intima strutturazione. Il sangue mestruale è “forma” e “non forma”, è “essere” e “non essere”, perché scorrendo attraverso l’orifizio vaginale occuperebbe una posizione “intermedia” affatto definita a metà strada tra un dentro e un fuori corporeo diversamente strutturati. Una sostanza “liminale”, potrebbe dirsi con Victor Turner, impura poiché non classificabile, sede di poteri oscuri che inducono le società all’adozione di attente misure di controllo (cfr. Turner 2001)6, persino – si verifica sovente – dove la simbolizzazione del sangue mestruale appare lontana da immagini funeste7. Per rimando, l’ambiguità ascritta al sangue uterino non solamente è veicolo efficace della pericolosità che stigmatizza l’organismo femminile nel tempo mestruale, ma ancor più drasticamente fa del corpo della donna un corpo congenitamente impuro, contaminante, proibito (cfr. Douglas 1993), concorrendo a relegarlo entro gli angusti confini assegnatigli di frequente dalla società. È un corpo “aperto” quello della donna, aperto perché sanguinante, aperto e dunque incompleto (cfr. Ibidem)8. È su questo sfondo teorico che veniamo all’oggetto specifico del presente articolo, ovvero il rituale di pubertà femminile celebrato per le fanciulle della Comunità Tamil di Palermo9 alla comparsa del primo sangue mestruale. Una comunità, quella tamil palermitana, che come le altre comunità tamil del mondo10 si costituisce a partire dagli anni ‘80 dello scorso secolo con l’arrivo via via più frequente di interi nuclei familiari in fuga da uno Sri Lanka devastato dalla guerra civile tra il governo e la popolazione singalese da una parte e la popolazione tamil dall’altra11. A Palermo le attività politiche, culturali ed economiche dei Tamil sono guidate dal Comitato Coordinatore Tamil Italy che sovente si fa portavoce del controllo esercitato dalla comunità sui suoi stessi componenti: una sorveglianza che il contesto migratorio certamente intensifica, perché il confronto, soprattutto da parte dei giovani, con le società dei paesi “ospitanti” rappresenta un’inquietante minaccia. Eppure, per quanto si possa fare dell’appartenenza etnica un legame da preservare da “corruzioni” al84 tre, è indubbio che l’odierno inevitabile incontro tra mondi culturali eterogenei – universi di per sé niente affatto statici – produca metamorfosi spontanee che non possono essere evitate, senza con questo provocare catastrofiche eclissi. Così è per tutto quanto rappresenti a Palermo l’appartenenza all’etnia tamil, come il rapporto uomo-donna12, la relazione tra Tamil di religione differente13 e, non per ultimo, il repertorio rituale che i Tamil portano a Palermo dal contesto abitato in precedenza. Ciò a dimostrazione del fatto che non esistono pratiche culturali immutabili, ma situazioni sociali concrete, agite da uomini e donne concreti, che reinterpretano e riconfigurano variamente le proprie rappresentazioni, così che l’incontro tra ciò che di una cultura «risiede» e ciò che della medesima cultura «viaggia» (Clifford 2008: 59) dia luogo ad espressioni sociali totalmente nuove. 2. Manjal neer-attu vizha tra induismo e cattolicesimo tamil Manjal neer-attu vizha, o “cerimonia del bagno di curcuma”14, è il rito di pubertà femminile celebrato per ogni fanciulla tamil al momento del menarca: un rituale di origini presumibilmente indiane15, somigliante alle cerimonie di iniziazione femminile attualmente osservate nell’Asia del Sud (cfr. Winslow 1980)16, che dallo Sri Lanka alle comunità tamil del mondo sancisce l’ingresso delle adolescenti nell’universo delle donne adulte. Come qualsivoglia rito di passaggio è dato in linea di principio da una sequenza cerimoniale tripartita17, così la Manjal neer-attu vizha prevede che l’inizianda tamil osservi in successione un rito di separazione dal gruppo di appartenenza o Nalangu (“pittura”), un rito di segregazione nell’abitazione familiare o Kudisai (“capanna”), un rito di reintegrazione alla società o Manjal neeru (“acqua di curcuma”; anche detto Satangu), in un complesso percorso iniziatico che la trasforma da fanciulla a donna (cfr. Narayan et al. 2001). Pur essendosi in passato offerto quale rito sostanzialmente omogeneo a prescindere dal gruppo tamil dello Sri Lanka presso il quale la celebrazione veniva praticata (cfr. Ibidem)18, la cerimonia del Manjal neer-attu presenta oggi delle varianti che non solamente si collegano ai differenti credo religiosi professati dai Tamil – Induismo, Cristianesimo e Islamismo – e alle differenti concezioni sociali della donna che quelle tradizioni religiose producono e veicolano (cfr. Winslow 1980), ma che rispondono altresì ai molteplici contesti internazionali della diaspora tamil nei quali il rituale viene osservato19. Dissomiglianze che in generale non concernono la struttura della cerimonia, rivelandosi questa immutata nel tempo e nello spazio (cfr. Narayan et al. 2001), ma che allo stesso modo fanno della Manjal neer-attu vizha un rito inevitabilmente diverso a seconda della fede ideologica e religiosa proclamata dai Tamil e a seconda del quadro sociale e culturale da loro abitato. Vero è che i rapporti tra i Tamil di religione diversa sono costantemente orientati allo scambio e per nulla animati da un ostinato interesse alla diversificazione20, com’è vero che le comunità tamil del mondo adottano un comportamento estremamente tutelare delle proprie tradizioni “etniche” di fronte alle culture non tamil con le quali entrano in contatto (cfr. Burgio 2007). Tuttavia, se è indubbio che i sistemi religiosi forti influenzano le forme di conoscenza e le rappresentazioni collettive dei gruppi umani distinguendole in misura mutevole da quelle formulate altrove e su basi concettuali differenti, altrettanto certo è che la residenza in territori che non sono quelli d’origine e l’incontro tra culture eterogenee producono metamorfosi di varia natura che non possono essere evitate. In tal senso, da una parte Deborah Winslow sottolinea quanto le immagini tamil della fanciulla mestruata siano sorprendentemente diverse a seconda dei credo religiosi professati e straordinariamente affini alle figure femminili più importanti di quelle religioni (cfr. Winslow 1980)21, dall’altra il rito del Manjal neer-attu assume particolarità disuguali a seconda che sia celebrato in Sri Lanka o in qualunque altro contesto della presenza tamil22. A Palermo i Tamil induisti e i Tamil cattolici celebrano la Manjal neer-attu vizha in maniera sì somigliante, ma non identica; soprattutto non è identico il modo in cui il rituale è percepito, tanto che la cerimonia hindu è avvertita specialmente quale ‘rito di purificazione’, mentre la cerimonia cattolica è avvertita specialmente quale ‘rito di protezione’. Ciò che differenzia le due maniere di recepire il rituale è anzitutto la dissonante interpretazione dei Tamil induisti e dei Tamil cattolici del sangue mestruale in generale e del menarca in particolare: una sostanza potenzialmente pericolosa per entrambi i raggruppamenti di fedeli, è vero, soprattutto quando si tratta della sua prima comparsa; ma da una parte i Tamil hindu ritengono il sangue femminile più propriamen- te ‘impuro’ (killa), dall’altra i Tamil cattolici ritengono il sangue femminile più propriamente ‘sporco’ (kata), diversità che pare proprio influire sulla connotazione prima che il pericolo assumerebbe. Nel primo caso, infatti, l’“impurità” è considerata sorgente di contaminazione sociale, specie per la parte maschile della comunità, mentre nel secondo caso la “sporcizia” è considerata richiamo individuale di minaccia demoniaca, specie quando la fanciulla perde il suo primo sangue uterino. In tal senso, l’inizianda tamil induista, “impura” e “infetta”, è principalmente un rischio per la comunità di appartenenza, invece l’inizianda tamil cattolica, “sporca” e “vulnerabile”, è principalmente un rischio per se stessa. Non a caso sono soprattutto i Tamil hindu a fare attenzione a che l’inizianda si mantenga lontana dagli uomini della propria famiglia per quasi tutta la durata del rituale, come – cosa più generale – sono soprattutto i Tamil hindu ad essere meno permissivi nei riguardi delle donne e a richiedere da loro un comportamento privato e pubblico più riservato, sebbene la maggiore tolleranza del Cattolicesimo moderno per l’emancipazione femminile si combini, nel caso dei Tamil cattolici, con una cultura che favorisce il dominio maschile. Per il resto, Tamil induisti e Tamil cattolici di Palermo dispongono la nascita della “nuova donna” per il tramite di un rituale relativamente simile, quantunque la cerimonia conclusiva di riaggregazione sociale conservi la sua funzione originaria di individuazione del futuro sposo dell’iniziata più nel rito hindu che in quello cattolico, elemento che ben si spiega con il ruolo sociale che l’Induismo assegna alle donne23. 3. Rito del Nalangu Veniamo pertanto alla ricostruzione della sequenza rituale tripartita della Manjal neer-attu vizha così come è osservata dai Tamil di Palermo24. Il rito di iniziazione femminile del Manjal neer-attu ha dunque inizio nel momento in cui la fanciulla perde il suo primo sangue mestruale: un evento che i familiari adulti dell’adolescente senza dubbio attendono, soprattutto all’approssimarsi della sua età puberale, ma che a detta delle donne incontrate è poco o nulla rivelato a colei che in prima persona affronta il mutamento fisiologico e più tardi il mutamento sociale. La ragazza tamil, in sostanza, non è in alcun modo preparata alla comparsa del menarca se non per le scarse informazioni apprese al di 85 Ricercare M. Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) fuori delle mura domestiche. In tal senso Maria racconta divertita: Io stavo ballando con mio fratello no? Quand’ero piccola mi piaceva, ballavo sempre. A un certo punto mi sono fermata e gli dico: «Guarda, mi esce il sangue, mi sono fatta male». Lui all’inizio è rimasto così – a quest’ora pensava: «Ma io non l’ho vista che è caduta!» – poi però l’ha capito subito, infatti è andato da mia madre e gliel’ha detto. [Maria, Palermo 26 agosto 2009] Mentre Anna ricorda quale shock abbia rappresentato per lei la vista di un sangue “anomalo” e imprevisto: È successo che mentre ero in bagno ho visto delle macchie rosse. Avevo 12... 13 anni… così… Mi sono spaventata, non capivo da dove veniva, pensavo che stavo male. Mia mamma è entrata e mi ha detto che ero diventata signorina25. Poi quando vengono le tue zie e le altre signore al Nalangu un po’ si dice cosa significa, se no mentre stai a casa tutto quel tempo26 la madre te lo spiega, oppure tua nonna. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010] Luisa conferma quanto poco l’argomento sia discusso in casa e come invece possa più facilmente esser trattato anzitutto in ambiente scolastico: A scuola… me ne sono accorta in bagno. Già alcune mie compagne l’avevano avuto quindi qualcosa la sapevo, anche per la maestra. Io però ho aspettato e sono andata a casa all’uscita. E mia madre! Sempre a dirmi: «Ma perché non mi hai chiamato? Ma perché non mi hai chiamato?». «E tu perché non me l’hai detto?». Perché forse dovevo andare a casa subito27. [Luisa, Palermo 11 novembre 2009] La mamma della fanciulla si preoccupa a questo punto di allontanare la figlia dalle occupazioni ordinarie peculiari delle ragazze di giovane età e di invitarla a sedere in un angolo appartato dell’abitazione familiare fino a quando non avrà luogo la celebrazione del Nalangu, che significa “pittura”, in riferimento alla colorazione del corpo dell’inizianda effettuata dalle donne invitate dalla madre a intervenire alla cerimonia. Così spiega Anna: Ti siedi in un angolino così non tocchi nessuno28 e aspetti che vengono le altre signore. Di solito al Nalangu vengono tutte le zie, le nonne, tutte le parenti femmine, e vengono anche le amiche più strette della madre o quelle che abitano vicino e che lo sanno. Può capitare che vengono anche le ragazze, però solo quelle che già sono signorine, anche se la maggior parte sono delle signore sposate. Perché nel frattempo tua mamma o tua nonna lo dicono che sei diventata signorina! [Anna, Palermo 27 febbraio 2010] 86 Analogo il resoconto fornito dalle donne che contrariamente ad Anna, la cui religione è induista, professano il credo cattolico, malgrado esse riferiscano di essere state invitate a sedere in disparte più per la propria incolumità che non per la salvaguardia dei propri familiari: Io per esempio mi sono seduta dietro il divano così ero più riparata e nel frattempo mia mamma chiamava delle mie zie e si mettevano d’accordo per fare il Nalangu. Mia nonna è a Jafna, però se era a Palermo anche lei veniva. E anche altri miei parenti non sono a Palermo, però l’hanno saputo tutti29. [Maria, Palermo 26 agosto 2009] La cura maggiore della madre della fanciulla, cosa che tuttavia si verifica specialmente nel caso che la famiglia professi la religione induista, consiste nel rivolgere l’invito di partecipazione al Nalangu anzitutto alla moglie del fratello o alla sorella del marito (rispettivamente zia materna acquisita e zia paterna della ragazza), figure destinate con tutta probabilità a divenire future suocere dell’inizianda. A questo proposito Anna specifica: La cosa importante, comunque, è che vengono o la moglie del fratello di tua madre o la sorella di tuo padre. Figurati che delle volte è successo che se abitano in un’altra città partono e vengono qui, anche se questa cosa di solito si fa più per la festa30, così partono tutti31, perché il Nalangu deve essere organizzato presto, quando arrivano le mestruazioni, e poi devono venire solo le femmine. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010] Le donne la cui religione è quella cattolica, e il cui sposo non può essere scelto tra i parenti, sottolineano certo l’importanza della presenza delle familiari al Nalangu e alla Manjal neer-attu vizha in genere (sono soprattutto queste ultime ad assistere la madre nell’istruzione dell’inizianda al comportamento previsto per ciascuna donna), ma nulla riferiscono in merito al ruolo di rilievo rivestito dalla zia materna o dalla zia paterna. Le vedove, tradizionalmente ritenute figure “di cattivo augurio”, sono escluse dalla partecipazione al Nalangu e dall’intera cerimonia puberale soprattutto qualora la famiglia dell’inizianda osservi la religione induista. Ciò nonostante, tutte le intervistate esprimono una profonda disapprovazione nei riguardi della suddetta prescrizione, evidenziando come il rifiuto sociale cui tali donne sono generalmente costrette si converta a Palermo nella conduzione di una vedovanza moderatamente riservata. Altra informazione che parrebbe riguardare principalmente le donne di religione induista (nessuna delle intervistate cattoliche ha precisato quanto segue) concerne la scelta della camera della propria abitazione provvisoriamente destinata alla celebrazione del Nalangu. In tal senso Teresa chiarisce: Da noi si usa che a casa abbiamo un mobile delle preghiere32 – preghiera si dice puja – dove c’è più spazio. In Sri Lanka si mette nel salotto33, ma qui dove c’è spazio. E il Nalangu si fa lì. Dicono che così chi viene è protetto dal sangue e che il rituale si fa bene, che non ti dimentichi niente. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009] La presenza dell’altare con le immagini delle divinità maggiormente venerate, in breve, non solamente proteggerebbe la casa e le ospiti dall’impurità contaminante del sangue mestruale, ma altresì garantirebbe la corretta esecuzione del rito anche in assenza di figure sacerdotali. Le donne coinvolte giungono quindi all’ora stabilita ognuna portando cibi e bevande che consentono sì l’allestimento di un banchetto comunitario, ma che soprattutto rispondono all’urgenza di offrire alla fanciulla mestruata pietanze che rinvigoriscano il suo fisico “debilitato”. Premura delle commensali, inoltre, sarà quella di donare alla giovane inizianda vivande di buon auspicio per il suo futuro di moglie e di madre. A illustrazione di ciò Francesca afferma: Tutte queste signore portano le cose per mangiare insieme, specialmente il pukai34, che è di buon augurio. Ora, in Sri Lanka queste cose si mangiano nelle foglie grandi non lo so di quale pianta, del banano35 mi pare; qui no, si prendono i piatti oppure si mangia direttamente dai vassoi. [Francesca, Palermo 18 settembre 2009] La stessa difformità è evidenziata dalle altre intervistate, informate dell’originaria modalità di esecuzione del pranzo specialmente dalle donne più mature delle loro famiglie: Io so che si dovrebbero usare le foglie di banano, ma qui usiamo i piatti quelli di plastica e poi li buttiamo36. Prepariamo delle cose veloci tipo il pukai, così il Nalangu si fa presto, e le portiamo nella casa dove abita quella ragazza. Mangiamo tutti sì, però la ragazza deve mangiare di più perché ha bisogno. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010] Il banchetto rituale è comunque anticipato dalla vera e propria cerimonia del Nalangu, un rito di separazione del tutto femminile che nonostante i toni gioiosi e goliardici delle partecipanti riveste in realtà lo scopo di preparare la fanciulla all’imminente e più o meno prolunga- to periodo di isolamento. Ecco di seguito una descrizione minuziosa: Prima del pranzo ti mettono davanti due ciotoline, una con una polvere rossa e una con… il manjal si chiama, tipo una spezia gialla che adesso non mi ricordo come si dice in italiano, e una o due ciotoline di acqua. Siamo sedute tutte a terra37, solo che la ragazza è seduta su un tappetino38. A quel punto la madre ti toglie i vestiti che hai e ti mette dei vestiti per stare a casa, semplici39. Le donne che sono venute si bagnano un dito nell’acqua, lo passano nella polvere – prima in quella rossa e poi nel manjal – e ti fanno delle strisce sui piedi, sulle mani, sulle braccia. Di più sui piedi e sulle mani. Da noi si dice [che questo si fa] per tenere il diavolo lontano, per farti diventare forte. Poi ti fanno vedere tutti i piatti che hanno portato e ognuno fa tre cerchi con ogni piatto davanti alla faccia della ragazza40. [Luisa, Palermo 11 novembre 2009] L’esposizione appena riportata in generale coincide con le narrazioni fornite dalle altre intervistate, sebbene le donne di religione induista attribuiscano alla colorazione delle mani e dei piedi un significato sicuramente diverso: Si fa perché è come un segnale che dice che sei pericolosa. Il sangue si pensa che può fare venire delle malattie, soprattutto a tuo padre o ai tuoi fratelli. A tua madre no, infatti quando devi stare a casa il mangiare te lo porta lei per esempio, oppure con lei ci puoi stare, anche se la cosa giusta sarebbe starsene in una stanza per i fatti tuoi. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009] Spesso alle polveri di ocra e di curcuma viene aggiunta della pasta di calcare così da conferire maggiore tenuta alle strisce dipinte sul corpo della ragazza. In questo modo le pitture si conservano per tutta la durata della segregazione, fungendo senza sosta quali segnali di protezione o di allontanamento. A questo proposito Francesca spiega: Alcune volte usiamo anche una cosa bianca che fa diventare i colori più duri così ti rimangono per tutto il tempo. Però quando si usa più che altro si mette nelle mani e nei piedi, perché nelle braccia può dare fastidio. [Francesca, Palermo 18 settembre 2009] La cerimonia del Nalangu, in sostanza, è un rito di commiato esclusivamente femminile in occasione del quale le donne della comunità non soltanto sono chiamate a rivelare all’inizianda la trasformazione che di lì a poco la sua natura affronterà (compito assolto più avanti anzitutto dalla madre e dalle parenti più vicine alla ragazza), ma che congedano dalla società la sua fanciullezza e la sua infecondità. 87 Ricercare M. Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) 4. Rito del Kudisai Al rito di separazione del Nalangu segue il rito di margine del Kudisai, ovvero “capanna”, in riferimento alla piccola capanna costruita all’interno della camera più ampia delle abitazioni tamil dello Sri Lanka (alle volte, laddove ci sia disponibilità di spazi privati esterni, è collocata all’aperto) dai familiari adulti della ragazza mestruata. Lì l’inizianda trascorre un periodo di isolamento più o meno prolungato (il numero dei giorni, informano le donne intervistate, deve rigorosamente essere dispari)41 osservando una grande quantità di divieti cautelativi42 che rispondono allo scopo di difendere se stessa e la comunità di appartenenza dall’“ambiguità contaminante” che la contraddistingue. A Palermo le dimensioni delle case tamil non consentono la costruzione di capanne mestruali che siano interne all’abitazione (d’altro canto gli spazi esterni sono sempre pubblici), così che il rito del Kudisai assume una configurazione inevitabilmente diversa rispetto a quella conservatasi in Sri Lanka. Ciò che parrebbe essere analoga, tuttavia, è la durata variabile del periodo di segregazione domestica cui la ragazza deve sottostare – un arco di tempo che in generale dipende dal giorno che i familiari stabiliscono per la celebrazione della cerimonia conclusiva – sebbene la frequentazione obbligatoria delle scuole elementari o medie italiane produca non poche trasformazioni nel tradizionale svolgersi del rito. Così Luisa chiarisce: Di solito si dovrebbe restare a casa tipo per undici giorni, tredici giorni, però poi dipende da quando si può fare la festa. Io sono rimasta a casa tre mesi. Tre mesi! Non ce la facevo più guarda! Senza uscire! Senza andare a scuola! Infatti quell’anno sono stata bocciata. Perché cos’era successo? Mio fratello era in Germania perché lavorava lì e prima di un certo periodo non poteva scendere se no lo licenziavano. E allora lo abbiamo aspettato43. [Luisa, Palermo 11 novembre 2009] Mentre Teresa illustra: In genere dura tredici giorni, anche se qualcuno lo fa durare di più, qualcuno lo fa durare di meno… In Sri Lanka si usa che il padre va da un sacerdote e lui tramite la tua data di nascita e il giorno del ciclo ti dice quando ti devi fare il bagno44. E quindi stai a casa fino a quel giorno. Qui invece quando i tuoi sono pronti per la festa finisce. Tra l’altro quando ti viene il ciclo ancora vai a scuola, quindi bisogna considerare anche questo. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009] 88 In assenza della capanna mestruale, allora, le giovani iniziande sono autorizzate dalla comunità a circolare per casa, malgrado la libertà dei loro movimenti sia ostacolata specialmente nell’eventualità che la famiglia professi la religione induista: In Sri Lanka preparano come una casetta piccola tutta coperta di foglie45 e la ragazza deve stare là dentro fino a quando non si fa il bagno. Quelli che vengono la possono vedere sì, però non si devono avvicinare tanto e neanche lei deve uscire. E in questa casetta la madre ti mette le coperte per dormire, l’acqua, la spazzola, tutto quello che ti serve. Qui no, non è così, perché al massimo stai in una stanzetta46 e la madre ti porta le cose da mangiare, anche se di solito puoi stare in tutta la casa. Certo magari quando c’è tuo padre e pure altri maschi ti stai seduta da parte oppure devi stare attenta a toccare poche cose, però non è come in Sri Lanka. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010] Le ragazze tamil cattoliche, viceversa, non soltanto godono di maggiore autonomia – frenata unicamente qualora l’inizianda esprima il desiderio di spostarsi al di là delle pareti domestiche – ma altresì possono ricevere ospiti di entrambi i sessi (accade soprattutto quando i genitori gradiscono che la figlia non trascuri i propri studi) e conversare con loro a piacimento. A questo proposito Francesca riporta: Io stavo in tutta la casa. L’unica cosa non uscivo, però mi venivano a trovare anche i miei amici quindi… In Sri Lanka costruiscono una stanzetta dentro al salotto – kudisai si dice – con tutte le foglie di cocco, di mango… Ti posso dire che una mia amica hindu è stata quasi sempre seduta in un angolino su un tappeto, però quelle cristiane su per giù come me47. Poi da noi non c’è questa cosa di non stare con tuo padre, con i tuoi fratelli… [Francesca, Palermo 26 agosto 2009] I tabù alimentari e comportamentali che costellano l’intero periodo di isolamento sono molteplici, sia per le iniziande induiste, sia per le iniziande cattoliche, quantunque le prime espongano divieti maggiormente orientati alla salvaguardia della famiglia, della casa e della comunità e al rispetto delle divinità (si consideri la proibizione di avvicinarsi all’altare domestico in quanto ciò costituirebbe un atto “contaminante”), mentre le seconde elenchino prescrizioni maggiormente volte alla protezione e al rafforzamento della ragazza (si pensi alla rilevanza conferita alla sostanziosa dieta alimentare che l’inizianda è chiamata ad osservare e alla cura delle parenti nella preparazione di pietanze tonificanti). In tal senso Teresa, di religione induista, dichiara: Da noi si dice che quando mangi non devi lasciare briciole, che non devi guardare dal balcone, che non devi uscire, che non ti devi avvicinare all’altare. Infatti delle volte si mette come una specie di tendina, così nemmeno lo puoi vedere. Poi dovresti mangiare sempre da sola, almeno con tuo padre e con i tuoi fratelli non devi mangiare. E poi non devi toccare tipo la marmellata, il formaggio, lo zucchero, il sale, se no buttano tutto. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009] Maria, invece, di religione cattolica, spiega: tere tipo una sottana. Tua mamma invece prende una bacinella grande e dei contenitori pieni di acqua, che è giallina perché c’è quella spezia53. Quando arrivano questi zii che succede? Tutta la famiglia si riunisce nel salotto, tu ti metti dentro la bacinella e i tuoi zii ti versano addosso l’acqua. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010] Francesca, la cui religione prescrive il divieto del matrimonio tra consanguinei e affini, spiega quale mutamento abbia subito l’originario puniya thanam in ambito cattolico: Quando devi andare in bagno o ti accompagna qualcuno oppure se vai da sola ti porti un coltello48. Per il resto mangi, mangi e mangi49. Mangi di continuo credimi! La mattina uova, a pranzo uova, di sera uova. Figurati che mio fratello a un certo punto ha detto a mia mamma: «Mamma basta! Sta diventando grossa!». E mica ti danno solo uova! La carne, il pesce, le verdure, il riso, la frutta… E infatti poi quando sono uscita camminavo sempre, così dimagrivo. [Maria, 26 agosto 2009] La tradizione sarebbe che questo bagno lo dovrebbero fare54 o il fratello della madre con sua moglie o la sorella del padre con suo marito, però non succede sempre così, può capitare che lo fa la madre, specie se sei cristiana. E allora la ragazza entra dentro una specie di secchio, una bacinella. Davanti a questa bacinella ci sono come delle brocche con acqua e manjal. Chi deve fare il bagno le prende e bagna la ragazza dalla testa ai piedi. È una cosa che si fa per purificarla, per rinfrescarla. [Francesca, Palermo 18 settembre 2009] Anche Luisa professa la religione cattolica, nondimeno l’elenco di tabù da lei fornito rivela palesemente quanto le tradizioni culturali tamil, le abitudini comportamentali della società palermitana e le visioni dettate da entrambi i credo religiosi riconosciuti dalla Comunità Tamil di Palermo possano non solo incontrarsi, ma anche fondersi, così da dare origine a nuove consuetudini: Un’informazione che parrebbe riguardare esclusivamente le intervistate di religione induista concerne la restaurazione dei rapporti che la ragazza intratteneva in fanciullezza con le figure maschili della famiglia, malgrado la natura di tali relazioni sia destinata ad alterarsi: Io so che le cose più importanti sono che non devi toccare i maschi e non devi toccare i santi50. Poi ci sono altre cose certo, ma dipende: se ci credi le fai se no niente. Devi lasciare tutto pulitissimo quando mangi, quando vai in bagno ti devi portare una chiave o comunque una cosa di ferro, oppure ti porti un’immaginetta di Maria, se hai cani non li devi accarezzare, non devi toccare le piante, ti devi cambiare spesso51, devi lavare le tue cose a parte52, devi cambiarti le lenzuola spesso… [Luisa, Palermo 11 novembre 2009] 5. Rito del Manjal neeru o Satangu La conclusione del periodo di segregazione si contraddistingue per l’esecuzione di un “bagno purificatorio”, o puniya thanam, che l’inizianda tamil è chiamata ad effettuare in presenza dei familiari. Ad aiutarla saranno soprattutto gli zii materni o gli zii paterni; il loro ruolo di rilievo si conserva anche adesso, specialmente nell’evenienza che un loro figlio sia prescelto quale futuro sposo della ragazza. Così Anna illustra: La mattina del giorno della festa vengono a casa tua il fratello di tua madre e sua moglie no? Tu nel frattempo ti prepari, perché ti devi met- Se per tutto quel periodo la ragazza non ha visto nessun maschio – solo suo padre e i suoi fratelli – da qui li ricomincia a vedere, perché già vengono o lo zio materno o lo zio paterno, e poi alla festa vengono tutti, cioè gli zii, i mariti delle amiche, i figli maschi grandi… [Anna, Palermo 27 febbraio 2010] La purificazione del corpo dell’inizianda si accompagna sovente alla depurazione dell’abitazione, benché gli affitti temporanei delle case palermitane dissuadano i tamil dall’impiego dei tradizionali mezzi detergenti. In tal senso Teresa chiarisce: Per la casa la cosa giusta sarebbe fare come si fa per la ragazza, usare una pezza con acqua e curcuma – questa cosa magari si fa per l’altarino. Solo che siccome i muri potrebbero rimanere giallastri, e le case per lo più sono affittate, allora si preferisce pulirla solo con l’acqua. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009] Invece Anna racconta: Quando sono diventata signorina io, mia mamma l’ha lavata tutta con acqua e latte55. I muri, per terra, i mobili… Un odore che non ti dico! E se non mi ricordo male anche i miei genitori si sono fatti un bagno con l’acqua e il latte o con l’acqua e manjal 56. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010] 89 Ricercare M. Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Luisa rammenta al contrario – e con lei le altre donne cattoliche – come a seguito del rito del Kudisai i genitori abbiano preferito contattare un sacerdote che consacrasse l’intero appartamento: No, quella pulizia con l’acqua e il manjal non l’abbiamo fatta – lo so che si fa, forse di più gli hindu ti devo dire – però prima della festa è venuto un prete e ha benedetto la casa e la stanza dove dormo57. [Luisa, Palermo 11 novembre 2009] La cerimonia di riaggregazione alla società è anticipata da un’accurata vestizione dell’inizianda: qui la madre e le zie assistono la ragazza nell’ornamento del proprio corpo facendo anzitutto attenzione a che i simboli tamil corrispondenti alla condizione sociale di donna siano da questa indossati. In particolare l’inizianda esibirà per la prima volta un pottu58 non solamente a indicazione della sua conquistata maturità, ma pure a segnalazione dello stato civile che la qualifica59. Nel corso della cerimonia inoltre, altresì per la prima volta, la ragazza vestirà l’abito tradizionale femminile tamil, ovvero il saree60, solitamente regalatole dai nonni più maturi. Ecco dunque la testimonianza di Maria: Dopo il bagno c’è la festa, anche se non subito, perché di solito il bagno si fa di mattina presto, mentre la festa si fa di sera. Sempre a casa della ragazza. Comunque: prima che arrivano gli invitati la ragazza si veste, si trucca… L’aiutano la madre e le zie. La cosa più importante, importantissima, è che per la prima volta si mette il pottu. Si mette anche un’altra cosa per la prima volta, cioè il saree, però quello a metà della festa, perché di solito lo regalano i nonni, e infatti all’inizio della festa la ragazza è con un mezzo saree61, quello che già si metteva prima di diventare signorina. [Maria, Palermo 26 agosto 2009] Analogo il resoconto fornito da Teresa, sebbene la sua testimonianza comprovi come la modalità di celebrazione del rituale adottata a Palermo faccia della anzidetta cerimonia un rito più dimesso e riservato rispetto a quello che si osserva in Sri Lanka: Di pomeriggio ti cominci a vestire, a truccare, ti fanno i capelli tutti eleganti con delle decorazioni di fiori, ti metti tantissimi bracciali62, il pottu, ti metti il saree più bello che hai – anche se ancora non è il saree vero e proprio, quello alla festa – e poi aspetti che vengono gli invitati. In Sri Lanka il padre addirittura fa fare dei cartelloni grandi63 e la festa si fa in un locale e si invitano tantissime persone, invece qui io so che lo fanno tutti a casa e più che altro si invitano i parenti e gli amici quelli stretti. Perché certo dove 90 si devono mettere tutte quelle persone? Tra l’altro, siccome i genitori della festeggiata offrono il pranzo64 a tutti, non è che si possono spendere tutti i soldi che si hanno! Alcuni però fanno dei debiti. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009] Dalle dichiarazioni rilasciate dalle donne tamil induiste emerge come la celebrazione conclusiva del rito iniziatico (in generale l’intera Manjal neer-attu vizha) rappresenti un prerequisito femminile essenziale all’auspicata unione matrimoniale: Se hai una figlia femmina quando diventa signorina lo devi fare per forza! Se no non si sposa! È come se rimane sempre bambina. E anche se non hai tanti soldi devi farla la festa! Tant’è vero che spesso si chiedono dei prestiti, oppure vendi dei gioielli. Oppure, ora che ci penso, mentre c’è il pranzo, può capitare che gli uomini danno qualcosina al padre così può pagare la festa. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010] Non sono dello stesso avviso le intervistate di religione cattolica, quantunque il rituale di accesso al mondo delle donne rivesta per loro un’importanza ugualmente notevole. La camera adibita alla celebrazione del rito culminante è in ogni caso la stanza più ampia dell’abitazione: i familiari della ragazza avranno cura di vuotarla, così da sfruttare al meglio l’intero suo spazio. A questo proposito Luisa chiarisce: Allora, la stanza è tutta vuota. Ci sono solo da una parte un tappeto dove poi si deve sedere la ragazza, invece dalla parte opposta ci sono delle sedie per i maschi. Alcuni mettono una sedia anche dietro al tappeto e poi lì si siede la ragazza quando ritorna con il saree65, altri no. [Luisa, Palermo 11 novembre 2009] L’arrivo animato degli ospiti dà inizio al rito di reintegrazione alla società del Manjal neeru o Satangu, che significa “acqua di curcuma” o “acqua alla curcuma”, in riferimento al liquido ottenuto dalla miscela di acqua, curcuma e ocra (sovente si verifica l’aggiunta di calce polverizzata) che la comunità tamil denomina haratti e che in contesto cerimoniale si adopera soprattutto quale sostanza augurale e tutelare (la necessità di protezione, informano le intervistate, si motiva con il timore che l’invidia delle amiche possa nuocere all’inizianda). Le offerte alimentari portate dalle donne partecipanti sono tutte accomunate dalla capacità di evocare immagini vitali, mentre i regali donati alla ragazza dai parenti più vicini assumono un ruolo analogo a quello rivestito dagli omaggi elargiti in occasione dei giorni del compleanno. Così attesta Maria: Quando arrivano gli ospiti i maschi si vanno a sedere, invece le femmine aspettano che la ragazza esce dalla sua stanza e stanno tutte in piedi con i vassoi. Chi ha la frutta, chi ha il riso, chi dei regali. Le cose che si regalano di più sono gioielli e vestiti. E poi c’è anche chi tiene un contenitore con dentro l’haratti, che è un liquido rosso che le donne ti mettono sulle guance e sulle braccia, e chi tiene un piattino con un colore nero, che è quello per fare il pottu. [Maria, Palermo 26 agosto 2009] Invece Francesca spiega: Le offerte sono fiori, frutta, olio, riso – la frutta soprattutto il cocco – dolci, carne. L’haratti lo prepara la madre e la madre fa preparare anche il mala, che è una specie di collana di fiori66. I regali tipo bracciali, collane, soldi li portano i parenti, non tutti. Ora, solo le donne hanno i vestiti nostri tradizionali, invece gli uomini no, quelli si mettono i pantaloni e una giacca67. [Francesca, Palermo 18 settembre 2009] I gesti e gli oggetti che pervadono il rito del Manjal neeru sono molteplici e difficili a esporsi a prescindere dalla religione professata dagli attori principali (l’unica differenza tra il rito induista e il rito cattolico parrebbe consistere nella presenza di una candela, a fianco dell’inizianda, che i tamil hindu accendono prima che la ragazza occupi la sua postazione sulla stuoia)68. In tal senso, tra le testimonianze ricevute dalle donne intervistate, quella di Luisa è senz’altro la più particolareggiata: Quando la ragazza esce dalla camera e si siede sul tappeto tutte le donne mettono le offerte accanto a lei e una le mette la collana di fiori lunga. C’è da dire che in Sri Lanka si fa tutta una processione con la musica69 dalla casa della ragazza fino al locale, ma qui no. Magari alcuni il giorno dopo la fanno uscire con il saree per fare le foto tipo in un giardino70. A questo punto, dopo che si è seduta, una donna si avvicina, si bagna le dita nell’haratti e gliele passa sulle braccia e sulle guance e dopo l’haratti gli mette il pottu71. Poi prende ogni vassoio con le offerte e lo gira tre volte davanti al lei72. Quando questa donna ha finito si avvicina un’altra donna che fa le stesse cose e poi di nuovo un’altra e poi di nuovo un’altra. Lo devono fare tutte insomma, anche la madre. A un certo punto i genitori cominciano a offrire il pranzo – tantissime cose buone73 – e la ragazza si va a mettere il saree. Perché nel frattempo si sono avvicinati i nonni e le hanno regalato un saree di seta. Quando la ragazza ritorna con il saree si fa le foto con tutti e i parenti le danno i regali. [Luisa, Palermo 11 novembre 2009] La cerimonia conclusiva del Manjal neer-attu è dunque un rituale di riaggregazione e di accoglienza che sancisce l’ingresso della nuova donna nella società per il tramite del riconoscimento pubblico conferitole dai membri della comunità. Sin dai giorni immediatamente successivi fondamentale è che affiori chiaramente la trasformazione fisica e comportamentale della ragazza (si consideri anche solo la presenza quasi costante del pottu tra le sopracciglia), malgrado le intervistate di religione induista rivelino come il cambiamento da loro subito sia ancor più radicale. A questo proposito Maria, la cui religione è cattolica, afferma: Già dal giorno dopo si può uscire tranquillamente, infatti si va di nuovo a scuola, il pomeriggio si esce con le amiche, oppure puoi andare a fare i compiti a casa di una tua compagna. La sera no, o esci con la tua famiglia o se no niente. [Maria, Palermo 26 agosto 2009] Laddove Teresa, la cui religione è induista, dichiara: Puoi uscire sì, però di solito accompagnato da qualche tuo parente grande. Anche quando vai a scuola, in genere ti deve accompagnare sempre qualcuno. Se ti fai fidanzata no, più che altro viene lui a casa, oppure può capitare di uscire con qualche amica, ma così, tipo per andare al mercato, al panificio… [Teresa, Palermo 9 settembre 2009] 6. Rituali della prima mestruazione e rituali matrimoniali e della gravidanza a confronto L’originaria funzione della Manjal neer-attu vizha (in particolare del rito del Manjal neeru) quale esibizione pubblica della donna pronta al matrimonio e alla maternità trova a Palermo conferma non soltanto nell’intrinseca responsabilità che i Tamil hindu riconoscono al menarca come l’inizio di un impegno coniugale e riproduttivo74, ma in generale nelle analogie ancora oggi individuabili tra i rituali puberali femminili e i rituali matrimoniali75 e della gravidanza76 tamil, somiglianze che senza dubbio consentono di interpretare l’iniziazione della fanciulla quale processo di acquisizione simbolica dei ruoli sociali di moglie e di madre. La prima affinità risiede nell’identico svolgersi della cerimonia del Nalangu (nel suo significato letterale di colorazione e con la presenza del banchetto comunitario ricolmo di pietanze augurali) in tutte e tre le tipologie rituali, sebbene il Nalangu dei riti puberali e della gravidanza 91 Ricercare M. Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) prescriva l’intervento delle sole donne, mentre il Nalangu dei riti matrimoniali preveda la partecipazione congiunta di uomini e donne77. All’urgenza di segnalare lo status “indefinito” che contraddistingue i protagonisti delle cerimonie, inoltre, il Nalangu dei riti matrimoniali associa la necessità che la coppia di fidanzati trascorra in reciproca compagnia il tempo antecedente all’unione coniugale78. Una seconda somiglianza tra questi rituali consiste nella medesima dieta alimentare che le donne sono chiamate a rispettare: una nutrizione energetica a base di cibi tonificanti che da una parte ha la funzione di sopperire alla debilitazione dell’inizianda, dall’altra risponde alla cura di sostenere la sposa e la gestante a fronte degli impegni gravosi che il loro fisico dovrà affrontare. Si consideri per ultima l’omogeneità rintracciabile nel vestiario e nella decorazione corporea peculiari delle donne festeggiate. Come la conclusione delle cerimonie puberali, infatti, prescrive che la giovane donna indossi contemporaneamente un saree di seta riccamente ornato, un pottu di colore nero, un mala variopinto e i gioielli donatile dai familiari, così si verifica per la sposa sia imminente che novella79 e per la gestante e la puerpera, quantunque il colore e la dimensione dei loro pottu muti a seconda della fase del rito80. Le corrispondenze di forma appena delineate sembrano indicative di come i rituali della prima mestruazione e i rituali matrimoniali e della gravidanza rappresentino i momenti di maggiore rilievo nella vita di una donna tamil, quei momenti che insieme completano il processo di costruzione di genere. Note 1 Asserendo che l’iniziazione ha luogo al momento della pubertà Bruno Bettelheim rileva: «solamente con la pubertà si ha lo stabilirsi di una distinzione netta tra carattere maschile e carattere femminile. Dunque i riti sembrano dare un valore particolare alla fine di un periodo della vita in cui una simile differenziazione non è ancora completamente stabilita, e inaugurare una nuova epoca, che dovrebbe essere del tutto libera da ambivalenze nei riguardi del ruolo sessuale adulto» (Bettelheim 2006: 22). 2 Alla tesi delle pratiche rituali come valorizzatrici dei fatti naturali si avvicina la posizione sostenuta da Mircea Eliade. Scrive lo storico delle religioni: «L’iniziazione costituisce per i ragazzi l’introduzione in un mondo che 92 non è immediato: il mondo dello spirito e della cultura. Per le ragazze invece l’iniziazione comporta una serie di rivelazioni che riguardano il senso segreto di un fenomeno naturale: il segno visibile della loro maturità sessuale» (Eliade 1980: 75). Un’affermazione, quella appena citata, che non solamente nega alle donne il potere poco prima accordato all’iniziazione – «con l’iniziazione si supera il modo naturale di esistere, quello del fanciullo, e si accede al modo culturale» (Ibidem: 19) – ma che soprattutto perpetua gli effetti di ciò che Pierre Bourdieu chiama la ‘violenza simbolica’, ossia la reiterazione della preminenza maschile sulle donne che è inscritta nella totalità delle cose e dei corpi e che è generata dalla naturalizzazione dell’opposizione tra il maschile “superiore” e il femminile “inferiore” (cfr. Bourdieu 2009). 3 L’anatomia distingue i caratteri sessuali umani in “caratteri sessuali primari” e “caratteri sessuali secondari”: i primi sono quelli già presenti alla nascita, mentre i secondi sono quelli che si sviluppano alla pubertà sotto l’influsso degli ormoni sessuali. 4 Arnold Van Gennep esclude che la pubertà fisiologica possa essere la causa principale di cerimonie tanto prolungate quanto le iniziazioni alla pubertà (cfr. Van Gennep 1981). 5 Scrive l’antropologa: «nel disordine non vi è alcun modello, ma un infinito potere di crearne» (Douglas 1993: 157). 6 Di documentazioni di tabù mestruali la letteratura antropologica è ricca: interdizioni diversamente configurate e più o meno rigorose che nondimeno rivelano una medesima tensione, ovvero la preoccupazione di proteggere la società dal misterioso nonché contaminante potere del sangue femminile o, come meglio puntualizza Françoise Héritier, da «quella catastrofe ciclica costituita dalle mestruazioni» (Héritier 2006: 56). 7 Così i componenti della casta bengalese Vaishnava Bauls percepiscono sì il sangue uterino quale flusso vitale carico di poteri benefici, tuttavia ne prescrivono l’ingestione solo a seguito di un trattamento rituale volto all’attenuazione del suo “calore nocivo” (cfr. Hanssen 2002). 8 A fronte di ciò è difficile essere d’accordo con quanti hanno sostenuto che la peccaminosità attribuita al sangue mestruale si motivasse con l’esigenza di proteggere la donna dall’esuberanza sessuale dell’uomo nei momenti più delicati dell’esistenza femminile (cfr. Zevi 1999). 9 La scelta di riportare le iniziali dei termini ‘comunità tamil’ in maiuscolo quando seguite dalla specificazione ‘di Palermo’ risponde allo stile di trascrizione con il quale i Tamil “palermitani” indicano la suddetta comunità sulle loro insegne. 10 La diaspora tamil incrementatasi parallelamente allo scoppio della guerra civile tra Singalesi e Tamil nel 1983 si è strutturata in una vasta comunità transnazionale distribuita tra lo Sri Lanka e la Francia, tra gli Stati Uniti e la Germania, tra l’Italia, il Canada e l’Australia. In Italia i gruppi tamil più numerosi risiedono nelle città di Bologna, Torino, Napoli, Reggio Emilia e soprattutto Palermo, dove dimora la comunità tamil più grande d’Italia, terza al mondo per dimensioni. 11 Per un breve esame del conflitto srilankese vedi Adduci 2002, Natali 2004 e Rajah 1996. 12 A differenza delle società del mondo occidentale, le quali ‘in generale’ e ‘almeno teoricamente’ promuovono un rapporto tra uomini e donne che sia paritario, la comunità tamil della diaspora si caratterizza per un riconoscimento più o meno condiviso di una rigida distinzione dei sessi e per una approvazione più o meno concorde di una netta divisione dei ruoli e degli ambiti di azione e responsabilità maschili e femminili. Tale separazione si traduce in una profonda gerarchizzazione sociale di genere a discapito della indipendenza della donna. A Palermo tuttavia possono essere ravvisati segnali timidi di cambiamento, perché quantunque l’organizzazione sociale “di sempre” sia poco messa in discussione, le giovani generazioni tamil tendono a biasimare tale ordinamento e molte donne ottengono di svolgere attività lavorative o di studio che le conducono al di là della sfera familiare. Nondimeno, il matrimonio seguita ad occupare anche per la Comunità Tamil palermitana una centralità istituzionale talmente forte da essere considerato non solamente un orizzonte ineluttabile per tutti gli uomini e le donne, ma soprattutto una «conditio sine qua non per potere parlare di famiglia» (Burgio 2007: 130; corsivo dell’autore). Di solito si tratta di matrimoni combinati dai genitori degli sposi, contratti per la più parte tra cugini incrociati (in verità sono solo i Tamil induisti a celebrarli, non i cattolici), sebbene la tradizionale discrezionalità genitoriale nel riconoscimento dei partners venga attualmente messa in discussione a favore di un’unione di coppia basata sugli affetti e sulla libera scelta. 13 Sebbene i Singalesi e i Tamil dello Sri Lanka professino credo religiosi molteplici (Buddismo e Cristianesimo i Singalesi; Induismo, Cristianesimo e Islamismo i Tamil), il conflitto tra le due etnie si è unicamente connotato come scontro tra buddisti e induisti. A Palermo invece i Tamil sono manifestamente sia cattolici (del Cristianesimo è praticato anche l’Evangelismo, ma in percentuale più bassa) che induisti, malgrado il capoluogo siciliano non accordi gli stessi diritti ad ambo i raggruppamenti di fedeli (mentre i Tamil cattolici godono di una chiesa di riferimento, i Tamil hindu non hanno un loro tempio e sono costretti ad utilizzare un garage che condividono con i correligionari del Bangladesh e delle isole Mauritius). 14 Anche detta ‘zafferano delle Indie’, la curcuma è una spezia dal colore ambrato (si ottiene dall’essiccazione e dalla macinazione della radice della pianta Curcuma Longa) largamente utilizzata in Asia sud-orientale per la preparazione di alimenti e medicinali e in occasione di celebrazioni rituali. La curcuma è principalmente un buon antibatterico e un buon antinfiammatorio e in contesto cerimoniale è ampiamente adoperata anzitutto per le sue proprietà rinfrescanti e purificanti. 15 Il rito tamil del Manjal neer-attu potrebbe essere derivato dall’incontro dei rituali iniziatici femminili celebrati dalle genti dell’india del Nord e del Sud susseguitesi sull’isola a partire dal I millennio a.C., oppure potrebbe essersi originato unicamente dal rifacimento del rito di pubertà femminile osservato dai Dravida dell’India del Sud giunti in Sri Lanka nel I e nel II millennio d.C. 16 In India i rituali di pubertà femminile dovevano verosimilmente essere celebrati in ogni stato, mentre adesso sono osservati soprattutto in Tamil Nadu e presso pochi altri gruppi dell’India del Sud (cfr. Narayan et al. 2001). 17 Vedi Van Gennep 1981. 18 Rito originariamente induista, le difformità celebrative più rilevanti del Manjal neer-attu si motivavano tutte con il diverso grado di agiatezza della famiglia dell’inizianda (cfr. Narayan et al. 2001). L’omogeneità del rituale si spiegava non certo con l’esistenza di autorità centrali o testi sacri che definissero in ogni sua tappa la pratica cerimoniale, ma con la trasmissione attenta alle nuove generazioni delle conoscenze possedute dalle donne più anziane. Pur nel mutamento e nella pluralità delle coordinate socio-culturali la stessa cosa accade oggi, tanto che Deborah Winslow scrive come ogni rito di pubertà femminile tamil cominci sempre con la sua rievocazione (cfr. Winslow 1980). 19 Un’informazione che, come la maggior parte dei dati che seguiranno, si evince dalle interviste rilasciate da alcune delle donne della Comunità Tamil di Palermo i cui parenti o amici risiedono in altre città del mondo. 20 La differente adesione tamil alle religioni cattolica e induista si traduce a Palermo in un rapporto interpersonale profondamente rispettoso, costantemente votato al confronto e allo scambio. Indicativa a tale proposito è la frequente compresenza sugli altarini delle case private delle immagini induiste di Ganesh e della trimurti (Brahma, Visnu, Shiva) e delle immagini cattoliche di Gesù e della patrona palermitana Santa Rosalia (cfr. Burgio 2007). 21 In particolare la giovane donna mestruata è relazionata nell’Induismo alle divinità Lakshmi e Kali (rispettivamente consorte di Visnu e personificazione dell’energia generatrice e consorte di Shiva e personificazione dell’energia distruttrice), nel Cattolicesimo a Maria (madre di Gesù pura e innocente poiché non coinvolta nelle conseguenze della sessualità), nell’Islamismo a Fatima (figlia di Maometto e modello ideale di donna matura nei suoi ruoli di moglie e di mamma) (cfr. Winslow 1980). 22 Basti pensare che fuori dallo Sri Lanka la Manjal neer-attu vizha è quasi ovunque interamente celebrata nelle case private dei Tamil (senza che dunque si verifichi alcuna uscita dell’inizianda dall’abitazione familiare e il suo gioioso ritornarvi quale donna adulta) o a causa dello scarso sostegno accordato ai Tamil dalle società “ospitanti”, o per via degli alti tassi di affitto dei locali pubblici, anche se i Tamil più facoltosi o i Tamil in grado di usufruire di prestiti monetari affrontano volentieri la spesa. Ovviamente tali difficoltà possono incidere altresì nel numero degli invitati alla cerimonia finale. 23 Il ruolo tradizionale rivestito dalla donna hindu consiste nell’unirsi in matrimonio ad un uomo scelto dalla propria famiglia e dare alla luce dei figli. L’adempimento di tale compito eleverà la sua posizione sociale e compenserà la sua sottomissione nei riguardi del marito. 24 Certo non negando la probabilità che possano registrarsi anche descrizioni sensibilmente dissimili da quelle da me raccolte. L’analisi qui condotta è basata sulle testimonianze rilasciate da alcuni dei membri della Comunità Tamil di Palermo, in particolare dai risultati delle interviste realizzate da giugno 2009 a febbraio 2010 grazie al contributo di cinque giovani donne tamil – due di reli93 Ricercare M. Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) gione induista, tre di religione cattolica – il cui passaggio dal mondo infantile al mondo degli adulti è stato celebrato appunto nel capoluogo siciliano. Per la tutela della riservatezza delle donne intervistate non soltanto ho utilizzato nomi fittizi, ma ho altresì omesso indicazioni anagrafiche o di altro genere che non sono espressamente necessarie alla comprensione del rituale esaminato. 25 Si intenda: ‘donna giovane non coniugata’. 26 L’intervistata si riferisce al periodo di segregazione domestica che l’inizianda è chiamata a trascorrere a seguito del rito del Nalangu. 37 Interessante è la riflessione offerta da Pierre Bourdieu a proposito dei limiti psicosomatici imposti alle donne sin dalla loro formazione: «la sottomissione femminile può trovare una traduzione nel fatto di piegarsi, di abbassarsi, di curvarsi, di sottomettersi, perché le pose curve, morbide, e la docilità correlativa sono le uniche ritenute confacenti alla donna» (Bourdieu 2009: 37). 38 Probabilmente l’uso della stuoia risponde allo scopo simbolico di separare l’inizianda dalla superficie della terra. 39 Ossia: ‘abiti poco appariscenti o impersonali’. 40 27 La fuoriuscita del primo sangue mestruale richiederebbe che la fanciulla tamil venga separata quanto prima dagli altri membri della società. 28 L’intervistata si riferisce al pericolo che la ragazza mestruata contamini con la sua impurità i membri della propria famiglia. 29 Emerge qui non soltanto l’importanza che il rito di pubertà femminile riveste per i parenti tutti dell’inizianda, ma anche l’impegno dei gruppi tamil del mondo al mantenimento di canali di comunicazione che facciano da collegamento dell’intera comunità diasporica. L’intervistata si riferisce alla modalità di presentazione all’inizianda delle offerte alimentari approntate dalle donne partecipanti. Il numero tre non è certo casuale, in quanto la sua simbolica perfezione contribuirebbe a tutelare la fanciulla dal sopraggiungere di spiriti ostili. 41 Presso la cultura tamil i numeri dispari sono simbolicamente associati all’energia e alla vitalità. Questa la ragione per la quale si prediligono giorni dispari per lo svolgimento di eventi lieti come la presentazione pubblica di un nuovo membro adulto della comunità. 42 Vedi Narayan et al. 2001. 43 30 L’intervistata si riferisce al rituale di reintegrazione alla società celebrato per l’inizianda tamil a conclusione del periodo di isolamento. Mentre i tempi di celebrazione di tale rito consentono l’eventuale attesa di parenti che giungano da città lontane, è preferibile che il Nalangu sia osservato anche solo poche ore dopo rispetto alla comparsa del menarca. 31 Nonostante la Manjal neer-attu vizha sia prevalentemente presieduta da donne, la cerimonia di riaggregazione finale prevede anche la presenza degli uomini. 32 Si intenda: ‘piccolo altare con esposte le effigi caratteristiche delle religioni induista e cattolica’. 33 Nelle case tamil dello Sri Lanka il salotto rappresenta sovente la grande sala d’ingresso, ovvero la sala che prima e più delle altre accoglie tutti coloro che accedono all’abitazione. A Palermo invece le case dei Tamil sono spesso anguste e progettate in maniera tale che la camera d’ingresso non sia la più spaziosa. In circostanze simili l’altare è posizionato altrove, eccezion fatta per la cucina e per il bagno. 34 Il pukai è un alimento a base di riso dolce assunto dalla cultura tamil quale simbolo di abbondanza e fertilità. 35 Il valore simbolico riconosciuto dai Tamil alle foglie del banano è analogo al significato frequentemente assegnato a tutte quelle piante secernenti una sostanza biancastra che in quanto similare al latte o allo sperma diviene metafora di fecondità A questo si aggiungono tuttavia motivazioni più di ordine pratico, poiché in Sri Lanka le foglie del banano sono utilizzate perché di agevole reperibilità, perché supporti resistenti e capienti e perché materiali facilmente eliminabili. 36 Emerge già l’attenzione a disfarsi di tutto quanto venga utilizzato nel rituale e che per questo rischia di divenire veicolo di contagio. 94 Emerge qui l’importanza che il rito conclusivo della Manjal neer-attu vizha riveste soprattutto per i genitori e i fratelli e/o sorelle dell’inizianda. 44 L’intervistata si riferisce al bagno purificatorio eseguito per l’inizianda a conclusione del periodo di isolamento e prima del rito di aggregazione. Il ricorso all’astrologia per la determinazione della data del bagno rituale riguarda unicamente le famiglie di religione induista. 45 Le foglie utilizzate per ricoprire il tetto della capanna sono anzitutto foglie di cocco e foglie di mango. 46 La segregazione dell’inizianda in una camera della casa avviene esclusivamente quando l’abitazione disponga di molti ambienti. 47 L’intervistata si riferisce a giovani donne che hanno celebrato il loro rito di pubertà a Palermo. 48 Presso la cultura tamil gli oggetti di metallo allontanerebbero le presenze demoniache. 49 Anche qualora ricorrenze religiose induiste o cattoliche prevedano il digiuno alimentare da parte dei fedeli. 50 L’intervistata si riferisce alle effigi peculiari della religione cattolica. 51 La frequenza con la quale l’inizianda lava il suo corpo e sostituisce la propria biancheria sembrerebbe dipendere unicamente dal suo volere. Ciò nonostante le intervistate induiste riferiscono come il rito di pubertà tamil prescriverebbe in realtà l’esecuzione di un unico bagno, ovvero quello purificatorio. È allora possibile supporre come l’allentamento di tale norma si motivi con la convivenza con una cultura differente. 52 In Sri Lanka le famiglie tamil induiste affidano la pulizia degli abiti dell’inizianda a una barbiera, mentre a Palermo gli indumenti delle iniziande induiste e cattoliche sono sempre lavati in casa. 53 L’intervistata si riferisce alla curcuma. 54 Si intenda: ‘dovrebbero aiutare a farlo’. 55 I Tamil attribuiscono al latte le stesse proprietà antibatteriche riconosciute alla curcuma. 56 Emerge il timore dei familiari dell’inizianda di fronte all’impurità contaminante che caratterizzerebbe la ragazza sino a questo momento. 57 La benedizione sacerdotale mira ad allontanare le eventuali presenze demoniache precedentemente attratte dal sangue mestruale. 58 Pottu è il termine tamil per indicare il bindi (dal sanscrito bindu, significa “goccia”, “particella”, “punto”), ovvero la decorazione che molte donne dell’Asia del sud e dell’est applicano fra le sopracciglia giornalmente o in occasione di cerimonie religiose. Forma e colore variano a seconda dello stato civile, del credo religioso o del dio venerato e della casta di appartenenza, anche se a partire dal 1871 la categoria di casta viene ‘formalmente’ abolita nei censimenti dello Sri Lanka poiché gli inglesi ritengono che l’assenza dei brahmani comporti una non legittimità del sistema castale. 59 Sono il colore nero e la dimensione ridotta a specificare lo stato civile di donna nubile. 60 Il saree è una striscia di stoffa riccamente decorata della lunghezza di nove metri che la donna tamil avvolge intorno alla vita drappeggiandola su una spalla. È generalmente indossato al di sopra di una sottoveste oppure al di sopra di una maglietta a maniche corte che tiene scoperta la pancia. 61 Il mezzo saree è una striscia di stoffa meno lunga (quattro o cinque metri) e meno decorata rispetto al saree che la fanciulla tamil non ancora iniziata è autorizzata a indossare in occasione di festività pubbliche di rilievo. 62 Presso la cultura tamil i gioielli sono emblemi rappresentativi di maturità sociale. 63 L’intervistata si riferisce ai cartelloni pubblicitari reclamizzanti l’ora e il luogo della festa che il padre dell’inizianda espone nell’intero quartiere in cui sorge la sua casa. 64 Si intenda: ‘banchetto comunitario e celebrativo’. 65 La vestizione del saree da parte dell’inizianda decreta la conclusione del suo percorso d’accesso alla maturità. In tal senso può accadere che la piena trasformazione sociale della ragazza sia indicata dal cambiamento di collocazione da occupare sino alla fine della festa, non più per terra ma su una sedia. 66 del capitale simbolico peculiare della società di appartenenza: «oggi le donne danno un contributo decisivo alla produzione e alla riproduzione del capitale simbolico della famiglia, innanzi tutto manifestando, con tutto ciò che concorre alla loro appartenenza, cosmesi, abbigliamento, tenuta ecc., il capitale simbolico del gruppo» (Bourdieu 2009: 116). 68 Presso la religione induista il fuoco inaugura e dispone ogni contesto cerimoniale. 69 Si intenda: ‘preceduta da musicisti’. Di solito il numero dei musicisti è cinque: tre suonano degli strumenti a percussione, due degli strumenti a fiato. 70 Le foto e i video che documentano il rito del Manjal neeru e l’eventuale passeggiata del giorno successivo circoleranno entro l’intero circuito diasporico tamil quali prove visive dell’avvenuta trasformazione sociale della ragazza. 71 In realtà l’inizianda indossa già il pottu, pertanto le donne partecipanti rimarcano quel simbolo così da confermare la loro accettazione della nuova donna. 72 È la stessa modalità di presentazione delle offerte prescritta per le donne che intervengono al rito del Nalangu, con la differenza che lì il numero tre ha più lo scopo di proteggere la fanciulla dal sopraggiungere di spiriti ostili, mentre qui ha più lo scopo di augurare alla ragazza una vita ricca e gioiosa. 73 Il banchetto del Manjal neeru in generale prevede riso con mandorle e uvetta, un grande assortimento di dolci, frutta fresca e caramellata, pane al cocco, verdure fritte in pastella. 74 Nonostante l’età matrimoniale sia stata innalzata dagli hindu a 25 anni. 75 I rituali matrimoniali tamil sono generalmente celebrati a cominciare dalla settimana precedente rispetto alla cerimonia di unione coniugale. 76 I rituali della gravidanza tamil sono generalmente celebrati a cominciare dal nono mese della gestazione. 77 Si tratta degli sposi futuri e dei relativi familiari e amici. 78 Le donne intervistate informano come l’insufficiente frequentazione dei fidanzati tamil richieda un loro avvicinamento prima della celebrazione nuziale. 79 In realtà le donne tamil cattoliche indossano sempre più di frequente l’abito nuziale tipicamente occidentale. 80 Il pottu della sposa è nero e piccolo prima del matrimonio e nero e grande dopo il matrimonio, mentre il pottu della gestante e della puerpera è nero e grande prima del parto e rosso e piccolo dopo il parto. Grande ghirlanda di fiori multicolore che l’inizianda tamil è chiamata ad indossare al collo come simbolo di buon auspicio. 67 Interessante a tal merito è la riflessione operata da Pierre Bourdieu a proposito del compito conferito alle donne (e sovente unicamente a loro) nella salvaguardia 95 Ricercare M. Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Riferimenti Héritier F. 2006 Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma - Bari. Adduci M. 2002 Lo Sri Lanka dall’indipendenza octroyée alla guerra civile infinita. Ovvero: quando la costruzione dell’identità nazionale attraverso l’individuazione dell’indispensabile “nemico interno” riesce troppo bene, in E. Basile - M. Torri (a cura di), Il subcontinente indiano verso il terzo millennio, Franco Angeli, Milano: 220-255. Lincoln B. 1983 Diventare dea. I riti di iniziazione femminile, Edizioni di Comunità, Milano. 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Sino agli anni Settanta del secolo scorso, il pastoralismo sardo si è strutturato su due costanti fondamentali: la carenza di terre per il pascolo degli animali – dovuta alla frantumazione e alla dispersione della proprietà derivate da fattori ambientali, storici e socioculturali – e le variabili climatiche che ancora influenzano la quantità e la qualità delle risorse disponibili. Per far fronte a questi ineludibili condizionamenti, i pastori hanno elaborato specifiche strategie sociali ed economiche. Tra queste la transumanza si costituisce sicuramente come l’esito più significativo: infatti, come osserva Benedetto Caltagirone, «nelle rappresentazioni che i pastori hanno dello spazio e del tempo della transumanza si può cogliere tutto il peso dell’intervento culturale posto in atto per controbilanciare il negativo incontrollabile che proviene dalla natura» (Caltagirone 1986: 30-31). È inoltre opportuno precisare che, sebbene la variabile climatica e la carenza di pascoli siano stati gli elementi che storicamente hanno maggiormente influito sulla determinazione delle forme del pastoralismo sardo, la transumanza è divenuta una pratica necessaria anche in ragione dell’incremento progressivo e sovradimensionato del patrimonio zootecnico. Questo processo ha preso avvio sul finire dell’Ottocento con l’arrivo degli industriali caseari continentali e, conseguentemente, con l’apertura ai mercati internazionali del formaggio pecorino. La ricerca di terre pascolabili si è fatta pressante soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, quando il numero degli ovini è cresciuto ulteriormente a seguito di un nuovo sviluppo dei mercati e degli interventi politici che a partire dal secondo Dopoguerra, seppur con esiti alterni, sono stati diretti a favore del settore. Il derivato rapporto tra capitale animale e capacità di carico del territorio utile al pascolamento è risultato in questo modo fortemente scompensato, spingendo da una parte all’emigrazione numerosi pastori – molti dei quali, per esempio, hanno occupato le terre abbandonate dai mezzadri toscani (cfr. Meloni 2004; Solinas 1989-1990) –, dall’altra a trovare adeguata soluzione al problema dello svernamento del bestiame – in quanto i pascoli comunali e/o privati non erano più sufficienti a sostentare il numero di animali1. Questi i motivi per cui sino agli anni Settanta del secolo scorso, nei mesi autunno-invernali, era possibile vedere migliaia di pecore che attraversavano le strade rurali dell’isola, dalle montagne verso le pianure e verso i litorali marini. La transumanza è stata dunque per secoli una pratica caratterizzante dell’economia agropastorale della Sardegna, con elementi similari tra le numerose comunità, in particolare per quanto concerne le funzioni e le regole che sottendevano la struttura sociale (Meloni 1984; 1988). 2. Nel basso Medioevo, quando nell’isola si diffonde il feudalesimo, la transumanza era un fenomeno noto. Ciò ha spinto ad ipotizzare, nonostante la documentazione in possesso degli studiosi sia lacunosa, una diffusa mobilità pastorale già dai secoli precedenti. Gian Giacomo Ortu, oltre a segnalarci che in quell’epoca i pastori dei paesi montani erano «ospiti noti e temuti in tutte le piane e i litorali della Sardegna meridionale» (Ortu 1988: 824-825), delinea le caratteristiche fondamentali del loro operare e i suoi esiti a livello dell’immaginario mitico: i movimenti delle greggi sembrano […] liberi in età giudicale, e tali restano in regime feudale, almeno di diritto, né il sovrano opera alcunché per disciplinarli in istituti pubblici. E neppure senza pretese a subentrare fiscalmente ai feudatari, pretese che del resto sarebbero state intese come gravemente lesive delle prerogative o immunità feudali. La transumanza “attraversa” quindi i feudi, tiene aperti canali di scam97 Ricercare Sebastiano Mannia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) bio e di comunicazione, e non soltanto economica, che valgono ad attenuare gli effetti di quell’isolamento interno delle diverse regioni e comunità che è tra i portati più certi e negativi della feudalizzazione dell’isola. Si aggiunga a questo che il pastore transumante deve stringere col feudatario un rapporto che è sempre contrattuale: gli chiede l’erba ed offre prodotti e denari. Ne deriva, tra l’altro, che le comunità del centro pastorale, per quanto pur’esse assoggettate al regime feudale, possono mantenere nei suoi confronti un atteggiamento o disposizione di maggiore autonomia culturale e mentale. Questo ci fa intendere meglio gli avvenimenti successivi all’abolizione dei feudi, nel 1836, quando il pastore si troverà a dover ridefinire la sua posizione contrattuale nei confronti del nuovo signore subentrato sul demanio feudale, lo stato, e soffrirà forte il disagio di dover trattare con una controparte senza volto. Il contrasto che ne scaturirà, per tutto l’Ottocento, finirà con l’attribuire al pastore, e per esso al centro montuoso dell’isola, i connotati quasi mitici del diverso, dell’opposizione irriducibile alle ragioni e prevaricazioni della statualità. Le comunità pastorali dell’interno diverranno, insomma, il luogo talora anche reale, ma più spesso simbolico, della resistenza dell’etnia sarda, depositaria di tratti economici, sociali e culturali che nessuna dominazione esterna ha potuto distruggere (Ortu 1988: 826). A partire dalla seconda metà del XVIII secolo, nel quadro degli interventi politici piemontesi – finalizzati a favorire l’agricoltura a discapito della pastorizia brada e transumante, nonché la privatizzazione delle terre e un regime capitalistico delle attività produttive –, la transumanza e più in generale tutta l’economia isolana iniziano a cambiare rapidamente. Nel 1820, l’“Editto delle chiudende” segna, infatti, l’avvio di un periodo di crisi per le comunità pastorali che si protrae per tutto l’Ottocento fino all’arrivo degli industriali caseari e all’internazionalizzazione del mercato del pecorino, condizioni che contribuiranno a risollevare le sorti del comparto zootecnico. Da allora sino alla seconda metà del secolo successivo – quando la transumanza scompare –, la mobilità pastorale, come è stato già accennato, segue in simbiosi la crescita progressiva del patrimonio ovino isolano. 3. Come hanno osservato alcuni studiosi, la transumanza sarda era una transumanza inversa e prevedeva lo spostamento degli animali dalle montagne e dalle zone di alta collina verso le pianure e i litorali marini dove le condizioni climatiche erano più favorevoli2. In passato pochi pastori possedevano terre nei luoghi di svernamento e la maggior parte di essi prendeva in affitto i fondi pagando un ca98 none che poteva essere in natura o in denaro. Talvolta i proprietari terrieri, che affittavano i pascoli ai pastori transumanti, erano gli stessi possidenti delle industrie o delle cooperative per il conferimento del latte; essi stipulavano accordi, spesso svantaggiosi per i pastori, in relazione al periodo di permanenza nelle pasture. Il prezzo poteva variare sia in base alle dimensioni del terreno affittato sia in base al numero di animali. La transumanza in Sardegna ha interessato principalmente i paesi che circondano le aree montane del centro dell’isola; infatti, i pastori si muovevano dalle comunità del Gennargentu, del Supramonte e del Montalbo. Ogni centro aveva date di partenza e di rientro differenti, così come erano diversi i luoghi di arrivo per svernare. Gli spostamenti dei pastori e delle loro greggi seguivano annualmente linee fisse di riferimento, elaborate dalla tradizione e consuetudinarie dei sistemi pastorali locali, per cui i punti di partenza, di transito e di arrivo erano di solito invariabili. Si è pervenuti in questo modo alla formazione di una rete viaria oltremodo articolata. È necessario chiarire che esistevano diversi tipi di transumanza sulla base delle distanze da colmare: quelle a lungo raggio verso i Campidani e i litorali marini e quelle più corte praticate all’interno di uno stesso territorio comunale o massimamente nell’agro contiguo. Già Maurice Le Lannou aveva identificato questa variegata composizione e Robert Bergeron se n’è occupato in modo sistematico, distinguendo fra transumanze “parziali”, ossia le transumanze a corto raggio, e le transumanze “tipiche”, cioè quelle lunghe3. Il contributo di quest’ultimo è particolarmente interessante in quanto prende in considerazione numerosi paesi e i diversi tipi di spostamenti a cui si ricorreva, variabili a seconda delle aree geografiche più o meno esposte ai rigori dell’inverno (Bergeron 1967: 312-323). Le transumanze a corto raggio erano praticate in diverse località e il caso di Lula è significativo: chi possedeva terre pascolive in su Marghine e nella piana del Sologo – zone con temperature miti nel periodo invernale – portava il gregge a svernare in queste aree. Anche la comunità di Austis, come ha rilevato Benedetto Meloni, praticava tali forme di spostamento (Meloni 1984). Esisteva, in pratica, un panorama variegato e composito che presentava differenze, spesso, anche su piccole distanze: per esempio, mentre a Desulo e Fonni le transumanze lunghe generalmente coinvolgevano tutti gli animali dell’a- gro, ad Austis erano previsti, oltre alla mobilità di lungo percorso verso le aree pianeggianti e le zone costiere, anche brevi spostamenti interni all’agro paesano (Meloni 1988). La permanenza nel territorio comunale naturalmente presupponeva un numero di trasferimenti superiore alla transumanza di lungo percorso. Ad Austis, i pastori che stazionano nei terreni comunali praticano ogni anno almeno 4 spostamenti, secondo un codificato sistema pendolare, entro pasture di altitudini differenti nelle quali varia sia il clima sia il sistema vegetativo. La transumanza esterna e il pendolarismo interno alle terre aperte si coniugano poi con gli spostamenti dell’intero gregge o di parte di esso nei terreni chiusi in proprietà o in affitto. Se si tiene conto della frantumazione e dispersione delle terre in proprietà, il numero degli spostamenti di piccolo raggio può essere anche di molto elevato (Meloni 1988: 847-8). Il frazionamento della proprietà e la dispersione delle terre erano, quindi, alla base di questi movimenti intra-comunitari. Per quanto riguarda le transumanze lunghe, i percorsi erano variabili: in direzione dell’Iglesiente il tragitto era di circa 100-150 km; per l’Oristanese il tratto era approssimativamente di 80-100 km; per il Sarrabus il cammino era di 100-120 km (Caltagirone 1986: 44). Più diffusamente, i Campidani, la Nurra, gli altipiani di Bonorva e Macomer, la piana di Chilivani vicino a Ozieri, la valle del Coghinas, le aree litorali che si estendono da Olbia sino al golfo di Orosei, le Baronie erano i luoghi di arrivo principali dei pastori transumanti delle aree montane della Sardegna centrale4. Essi sceglievano i pascoli invernali sulla base di valutazioni economiche e culturali, esito dell’esperienza che consentiva loro di riconoscere le diverse terre e di scegliere quelle migliori. La frequente mobilità, infatti, ha contribuito all’elaborazione di un sostrato di saperi utile nella gestione dell’attività pastorale. In turvera, a turvare, in tramuda, tramutanne sono i termini e i modi con cui si designava la transumanza a seconda dei luoghi. A nos ponnere in caminu, ossia “ad incamminarsi”, era il riferimento comune per chi annualmente si spostava con il gregge. «Significativamente, nella parlata fonnese transumanza era s’isverrare (svernare), ma anche s’istrangiare (andare fra genti straniere), mentre il ritorno ai pascoli montani e alla comunità era sa muda, il rinnovamento» (Murru Corriga 1990: 29). Più di recente, Antoon Cornelis Mientjes ha rilevato che Ricercare S. Mannia, In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia e prospettive future il termine transumanza non esiste nel dialetto di Fonni, sebbene attualmente i pastori ne conoscano il significato. L’espressione in viaggiu era quella usata per indicare il trasferimento stagionale di pastori e greggi in luoghi lontani. In riferimento alle pianure come zone in primo luogo di pascolo invernale veniva usato il nome ‘Campidanu’ che in pratica si riferiva non solo alla grande pianura nel meridione dell’isola, ma anche ad altre zone pianeggianti a nord e ad est di Fonni come la zona di Ozieri in Gallura. Il termine deve dunque essere considerato una sineddoche che indica però l’importanza del Campidano nel ciclo annuale della produzione (Mientjes 2008: 200). In linea generale, la percezione comune era che la transumanza it unu viaggiu, cioè era un viaggio, ed in questa affermazione si deve cogliere il senso di vastità che rivestivano gli spazi nella visione dei pastori. Le partenze – e sembra essere questo il dato maggiormente significativo – erano pianificate sulla base di tempi economico-produttivi definiti, in particolare sulle nascite degli agnelli. Gli arieti venivano immessi nel gregge per la monta il giorno di San Giovanni, il 24 giugno, con variazioni di data secondo le tradizioni locali. Tra la fine di giugno e gli inizi di luglio, comunque, le pecore venivano fatte accoppiare e i parti erano previsti per quando gli animali avrebbero raggiunto i pascoli invernali. Si tentava sempre di partire prima che le pecore figliassero per non avere problemi durante il percorso, anche se era frequente che la fatica del viaggio anticipasse le nascite. I periodi di partenza per la transumanza variavano annualmente sulla base delle condizioni climatiche e ambientali. In certi casi si transumava già in ottobre, anche se i mesi deputati al trasferimento degli animali erano novembre e dicembre. Da Fonni, solitamente, i pastori partivano a novembre o al massimo nei primi giorni del mese successivo; da Desulo, invece, si mettevano in movimento da metà ottobre e rientravano il 20 maggio, giorno di apertura delle terre comunali (Caltagirone 1986: 30). Esisteva un’importante differenza, inoltre, tra il partire all’inizio o alla fine del periodo di transumanza per la disponibilità di pascoli che si poteva trovare o meno lungo il tragitto. L’obiettivo era infatti di transitare su percorsi non ancora attraversati da altre greggi (cfr. Mientjes 2008: 202). C’erano poi giorni stabiliti dalla tradizione – generalmente il martedì, il venerdì e la domenica – in cui gli animali non dovevano essere spostati (cfr. Caltagirone 1986). Erano le donne che si occupavano di preparare il vestiario e le provviste che il pastore por99 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) tava con sé, in particolare il pane carasatu – noto per la sua durata nel tempo – in quantità necessarie per i mesi da trascorrere lontani dal paese: per il resto non c’erano lunghi preparativi precedenti alla partenza. I pastori mettevano assieme gli strumenti indispensabili, nello specifico quelli per la realizzazione del formaggio, e si servivano di cavalli e di asini per trasportarli dentro sas bertulas, le bisacce, e così per gli agnellini che nascevano durante il cammino. La durata della transumanza dipendeva dalle distanze che si dovevano colmare e dagli imprevisti che potevano capitare nel tragitto. Si transumava da soli, ma molto spesso i pastori – talora di paesi differenti – si associavano per compiere assieme il viaggio e potersi aiutare reciprocamente. Da Austis occorrevano due o tre giornate per percorrere i circa cento chilometri che separano il paese montano dalle pianure del Campidano (Meloni 1984). I pastori di Fonni che transumavano verso Solarussa impiegavano due, tre giorni di camminata, attraversando le campagne di diverse comunità oltre ai centri abitati di Neoneli, Busachi e Fordongianus (Mientjes 2008: 202). Durante gli spostamenti si fermavano poche ore per notte, stando attenti agli eventuali furti e agli sconfinamenti. Le soste erano stabilite in spazi conosciuti e già utilizzati in passato, soprattutto perché nel viaggio di ritorno si doveva provvedere alla mungitura e alla raccolta o alla trasformazione del latte. Spesso si conosceva qualcuno, sos cumpanzos de posata, che ospitava i pastori e garantiva la cura del gregge nelle ore notturne. L’attraversamento dei campi coltivati provocava rivalità e comportamenti ostili da parte dei contadini, in quanto le greggi potevano danneggiare le terre seminate (cfr. Lai 1998). Talvolta, per contro, i rapporti erano ottimali, come nel caso dei pastori di Desulo con gli agricoltori delle pianure (Caltagirone 1986: 40). Transumare significava comunque passare su confini (cfr. Ortu 1988) ed era frequente che si entrasse in conflitto – e non solo con i contadini – per gli sconfinamenti, soprattutto se non si era in possesso delle autorizzazioni necessarie o non si erano preventivamente stipulati accordi tra coloro che transumavano e i pastori proprietari delle zone attraversate. Un esempio in questo senso è stato documentato per quanto riguarda i fonnesi che hanno acquistato terre nel territorio di Solarussa (cfr. Mientjes 2008: 160-2). In sostanza, la transumanza prevedeva scambi, opposizioni e, quindi, rapporti interpersonali che andavano pianificati prima della partenza. La mobilità pastorale aveva regole stabilite, consuetudinarie da seguire. 100 Non c’era un’unità di controllo centralizzata come la Mesta spagnola o la Dogana pugliese, ma vi erano riferimenti normativi da rispettare. Nella dialettica tra pastorizia e agricoltura «la transumanza resta il luogo e la condizione del massimo attrito possibile ed è tuttavia anche il luogo e la condizione della comunicazione, dell’osmosi e del ricambio tra le due realtà» (Ortu 1988: 836). Tale pratica ha avuto un ruolo fondamentale nell’organizzazione dello spazio rurale: infatti, «il pastoralismo animava l’uso del territorio creando una rete di itinerari di uomini e bestiame» (Lai 1998: 76). Fernand Braudel ha evidenziato che la transumanza metteva in gioco condizioni fisiche, umane e storiche (Braudel 2002: 75); Ortu ha aggiunto, correttamente, anche condizioni istituzionali: «i “camminos” percorsi dalle greggi transumanti non si trovano mai del tutto liberi ed aperti, occupati come sono, sempre, da “società politiche”, minime o massime che siano, comunità, feudi, stati. Le prospettive ravvicinate possono essere allora tanto istruttive quanto le prospettive più dilatate e profonde» (Ortu 1988: 835). Come già è stato accennato, il pastore doveva avere rapporti fuori dal suo luogo di residenza per potere stipulare i contratti annuali che erano, nella maggior parte dei casi, informali. La transumanza presupponeva capacità organizzativa, decisionale, di trattare, di tessere relazioni con gli affittuari delle terre e con gli imprenditori del formaggio. I pastori isolani conoscevano le persone e i luoghi: la dimestichezza con questi ultimi era l’esito di un lungo processo di apprendimento per impregnazione che iniziava sin da bambini, quando si interiorizzava il fare e il saper fare guardando, facendo ed imitando i più grandi nei percorsi della transumanza5. Prima della partenza si dovevano sbrigare le pratiche per ottenere i bollettini di transito degli animali; inoltre le compagnie barracellari dovevano essere informate sulle diverse aree che venivano attraversate (cfr. Caltagirone 1986: 32). I barracelli erano delle figure non molto stimate dalla maggioranza dei pastori: facevano «sos canes de istegliu ca ini mortos de gana»6, anche se, talvolta, erano i pastori stessi a non essere completamente in regola con le pratiche burocratiche necessarie. I barracelli vigilavano ché le greggi non sconfinassero nei campi coltivati ed in caso contrario sanzionavano e riscuotevano immediatamente il denaro per eventuali danni provocati, oppure richiedevano qualche capo di bestiame come ammenda. Essi potevano anche tenturare, ossia “pignorare”, alcuni capi o addirittura l’intero gregge, i cavalli e/o gli asini sulla base di regole stabilite, qualora il pastore non avesse cor- risposto quanto prescritto dalla multa. I barracelli erano volontari e per questo non percepivano uno stipendio, anche se un Regio Decreto prevedeva in loro favore la corresponsione di un compenso da parte dei proprietari che in questo modo assicuravano le terre. Secondo i pastori, i barracelli usavano il loro potere per avere un introito (Mientjes 2008: 199; Caltagirone 1986: 4041). Si è potuto riscontrare che in alcuni paesi, per esempio a Lula, non veniva preparato nessun bollettino di transito né tantomeno venivano avvisati i barracelli. Durante i sei - sette mesi trascorsi nelle pianure e nei litorali marini, il ciclo pastorale seguiva i ritmi di sempre: si svezzavano gli agnelli, il gregge veniva diviso in gruppi (gli agnelli, le saccaie, le pecore), si mungeva e si produceva il formaggio. In questo ultimo caso c’era chi conferiva il latte ai caseifici e chi invece trasformava direttamente il prodotto che poi veniva venduto o trasportato in paese al ritorno (cfr. Olla 1969). Tali mansioni richiedevano un impegno gravoso e talvolta le unità familiari lavorative non garantivano la manodopera sufficiente per espletare le diverse fasi di lavoro. I pastori perciò si associavano, accorpando in questo modo anche i pascoli. Questa associazione era definita a cumpanzos e il contratto si basava su una divisione del lavoro ordinato e regolamentato secondo regole stabilite dalla tradizione. Tale unione si scioglieva al termine della transumanza, quando i pastori rientravano in paese. In sostanza, si tratta di un’associazione tra maschi adulti che conferiscono in termini proporzionali bestiame e manodopera, e talvolta terra, nel periodo della transumanza, ma anche nei pascoli comunali, nella fase maggiormente produttiva del gregge. I cumpanzos utilizzano gli stessi pascoli, abitano lo stesso ovile, mettono in comune il cibo, costituiscono unità di produzione che badano unitariamente alle operazioni di pascolo e di lavorazione del latte, e il cui prodotto è suddiviso in modo proporzionale al numero dei capi. L’associazione è limitata nel tempo e si scioglie d’estate, quando si ritorna in paese e il singolo nucleo si riunisce per attendere agli animali e contemporaneamente ai lavori agricoli. In questo modo è possibile che la famiglia come unità di produzione si ricomponga solo per periodi limitati dell’anno (Meloni 1988: 853; cfr. Caltagirone 1986: 36). La transumanza era una pratica che interessava soltanto gli uomini e in questo periodo il paese era composto unicamente dalle donne, dai bambini, dagli anziani, dagli artigiani e da sos massaios, i contadini. Durante la loro assen- za la gestione economica e l’organizzazione della casa e della famiglia erano prerogativa delle donne. Per tali motivi, in passato, qualche studioso ha parlato impropriamente di matriarcato in Sardegna7. Le donne allevavano ed educavano i bambini, gestivano i rapporti tra la famiglia e la comunità, nonché quelli di parentela e di vicinato, coltivavano gli orti per l’autoconsumo, regolavano gli affari domestici e avevano una parte attiva nelle questioni inerenti l’affitto, l’acquisto e la vendita di terra e di bestiame. Erano sempre le donne che seguivano le pratiche burocratiche, quelle previdenziali e le autorizzazioni dell’ufficio abigeato; era ugualmente la donna che si occupava degli avvenimenti privati e pubblici del ciclo della vita legati alla comunità, come per esempio le feste, le ricorrenze, le pratiche di cordoglio e di lutto. Il ritorno dalla transumanza era previsto a maggio – solitamente tra il 15 e il 20 del mese – e la data mutava in relazione alla posizione geografica dei pascoli montani, alla scadenza dell’affitto delle terre in cui si svernava e soprattutto alle condizioni di accesso nei pascoli comunali. Sos meres, ossia i pastori proprietari, potevano rientrare anche nei mesi precedenti, contrariamente ai servi pastori, sos theraccos, che dovevano tornare necessariamente a maggio. Anche il tempo del ritorno era pianificato su variabili di tipo economico (cfr. Caltagirone 1986) e dipendeva dai fattori climatici e ambientali, dalle esigenze del gregge e dal ciclo cerealicolo. In numerose comunità, infatti, l’annata pastorale era intersecata con quella agricola e il rientro dalla transumanza coincideva con i lavori di mietitura, trebbiatura e raccolta del grano. Dopo il raccolto, i terreni venivano aperti per pascolare s’istula, ossia le stoppie. Prima di spostare il bestiame verso i pascoli montani e collinari i pastori si preoccupavano di tosare le pecore. Il ritorno dalla transumanza it un atteru viazzu, cioè era un altro viaggio. Contrariamente al percorso di andata, in quello del rientro si doveva provvedere alla mungitura. «Sulla strada del ritorno da Solarussa a Fonni i pastori mungevano il gregge tre volte: vicino a Solarussa, al confine dei territori di Neoneli e di Austis e vicino a Fonni. Il latte di quest’ultima mungitura veniva donato a familiari e amici come segno di gratitudine per celebrare il riunirsi dei pastori con la propria comunità» (Mientjes 2008: 202). Nonostante il viaggio di rientro prevedesse le incombenze e le incertezze del viaggio di andata – alle quali si aggiungeva, tra l’altro, la mungitura delle pecore e il conferimento o la trasformazione del lat101 Ricercare S. Mannia, In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia e prospettive future ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) te – il ritorno in paese era caratterizzato da un clima disteso e festoso. A Fonni il giorno del rientro era sa die primargia, mentre a Desulo sa die prima, cioè il primo giorno, a connotare una specifica scansione temporale propria dell’inizio di un nuovo ciclo. Caltagirone, riferendosi a questa giornata, ha sostenuto che «come ogni capodanno che si rispetti si inaugurava con un vero e proprio rito chiamato anch’esso, per estensione, die prima: tutto il latte munto in quel giorno veniva offerto in dono, in tempi più lontani ai poveri del paese, più di recente a parenti ed amici in segno di ringraziamento e di festa per il ritorno avvenuto» (Caltagirone 1986: 33). In diverse comunità era diffusa l’usanza, al rientro dai pascoli, di donare il latte della prima mungitura a tutte le famiglie. In questo particolare giorno il paese si ricomponeva e buona parte della popolazione maschile si reintegrava nel tessuto socioculturale ed economico comunitario. Dal quadro fin qui tracciato della transumanza si intuisce come la visione che ha pervaso buona parte delle analisi del fenomeno condotte sino agli anni Settanta del Novecento, secondo le quali la vita dei pastori era segnata dalla più assoluta solitudine, fosse basata su stereotipi spesso costruiti dagli stessi studiosi. La transumanza, infatti, ha sempre attivato scambi per finalità economiche che divenivano scambi sociali e culturali. Per buona parte dell’anno i pastori intessevano relazioni interpersonali e stipulavano contratti associativi, soprattutto con i proprietari delle terre; ciò evidenzia la stretta correlazione tra pratiche produttive e realtà socioculturale. In questo senso, come oramai stabilito da diversi studi, i pastori non erano individui isolati, sempre “solos che fera”, ossia solitari come fiere – concezione e immagine «più poetica che scientifica» come ha giustamente rilevato Caltagirone (1986: 34) –, ma erano inseriti all’interno di una rete di rapporti familiari ed extrafamiliari. D’altronde, i pastori transumanti che risiedevano per sei sette mesi all’anno fuori dai propri paesi di residenza – a contatto tra di loro, ma in particolare con i sedentari – non potevano costituire delle comunità completamente chiuse ed isolate dal mondo (cfr. Fabietti 1996). 4. Nella seconda metà del secolo scorso giunge a compimento una delle trasformazioni più importanti del comparto zootecnico sardo: la sedentarizzazione. Nelle terre acquistate dai pastori prende avvio la razionalizzazione sistemati102 ca del settore che ha avuto esiti economici e socioculturali molto interessanti, nello specifico per quanto concerne l’attività e la vita pastorale che subiscono a partire da questo momento un cambiamento epocale. La meccanizzazione e, quindi, la coltivazione di erbai (anche in virtù della scomparsa dei contadini e il conseguente aumento delle terre disponibili), la costruzione di infrastrutture, l’innovazione tecnologica sono alcuni fattori che hanno favorito la modernizzazione della pastorizia isolana e la successiva scomparsa della transumanza. Essa viene abbandonata gradualmente a partire dagli anni Quaranta - cinquanta anche se il processo si compie negli anni Settanta in concomitanza con l’utilizzo frequente di camion per il trasporto degli animali. Ci sono episodi sporadici di pastori transumanti anche nei decenni successivi (cfr. Mientjes 2008: 205), mentre oggi sono pochissimi coloro che ricorrono alla mobilità pastorale e nella maggior parte dei casi vengono utilizzati i furgoni che riducono notevolmente le ore di viaggio. La formazione di una proprietà fondiaria da parte di alcuni pastori di Fonni è un fenomeno in atto già a metà Ottocento: Intrapresa inizialmente da due pastori nel Campidano di Cagliari, poi estesasi ad una élite di famiglie nel primo ’900, la formazione del patrimonio fondiario fonnese nelle pianure si è andato sempre più estendendo […]. L’espansione dei pastori fonnesi si è estesa, negli anni fra le due guerre, anche ad altre aree: Sulcis, Sarcidano, Oristanese, più di recente alla Nurra e alla marina di Valledoria, fino a diventare ormai un fatto economico e sociale di vaste proporzioni, che ha profondamente modificato, favorito anche dai più vasti mutamenti in atto in tutta l’isola, la fisionomia produttiva del pastoralismo locale, e la ricchezza pastorale (Murru Corriga 1990: 32-33). Molti pastori di Fonni, infatti, possiedono attualmente migliaia di ettari di terra fuori dal proprio territorio comunale. Tale fenomeno ha permesso loro, soprattutto in passato, di risolvere i problemi legati al pascolamento invernale delle greggi (cfr. Mientjes 2008). Anche diversi pastori di Desulo, di Gavoi, in misura minore di Austis, si sono sedentarizzati nelle pianure e hanno acquistato le terre prima riservate allo svernamento degli animali. Si è pervenuti, in sostanza, a forme abitative definite, esito dell’importante rapporto che i pastori hanno stabilito nel tempo, nel corso di generazioni, con lo spazio e le persone che vi risiedono (cfr. Murru Corriga 1990; Caltagirone 1986: 39). In questo senso si è concretizzato quanto aveva auspicato Le Lannou nei primi anni Quaranta del Novecento: il geografo francese riteneva che il pastoralismo po- tesse mutare e la transumanza potesse scomparire completamente soltanto con il passaggio da un modello pastorale di tipo nomade ad uno di tipo sedentario (Le Lannou 1992: 172). In queste nuove proprietà i pastori lavorano per la gran parte dell’anno. Compatibilmente con l’organizzazione del lavoro […] fanno rientro al paese d’origine, dove hanno casa e mantengono la residenza, e dove mantengono quindi anche il diritto di “cittadinanza”. Questa organizzazione pastorale è di grande interesse, sia per la sua consistenza economica e numerica, sia per le trasformazioni che ha indotto nella pastorizia tradizionale, per la creazione di aziende di media e grande dimensione, l’introduzione della stabulazione, talvolta dell’irrigazione, delle colture foraggere stagionali o permanenti, e soprattutto perché i pastori abitano nelle case poste nel podere, ponendo fine in questo modo ai movimenti stagionali delle greggi. I pastori dei singoli paesi succitati sono penetrati, per gruppi omogenei di provenienza, in zone specifiche e delimitate, seguendo modalità di catene di richiamo, basate su logiche di parentela e amicizia. I casi osservati ad Austis sono invece isolati e non rispondono a questa logica migratoria ed espansiva (Meloni 1988: 845-846). La sedentarizzazione ha portato alla creazione di forme diverse di “località” dell’unità produttiva pastorale: a) stabilità nei pascoli montani e residenza nel paese di tutto il gruppo domestico; b) stabilità nei pascoli di pianura con doppia località: sul fondo e nel paese, con separazione «a intermittenza» del gruppo domestico; c) stabilità nei pascoli di pianura e insediamento sul fondo di tutto il gruppo domestico, con tendenza progressiva al definitivo distacco dal paese. Se il modello b perpetua, con qualche modifica, forme tradizionali di residenza, i modelli a e c apportano invece mutamenti profondi alla struttura delle famiglie pastorali, riconducendo ad una unità spaziale stabile le diverse componenti del gruppo domestico. Esito eclatante di questo lungo processo è comunque oggi la tendenza, certo irreversibile, all’insediamento stabile nella proprietà di pianura e all’abbandono progressivo della transumanza (Murru Corriga 1990: 34). Le terre diventate di proprietà – e non solo quelle pianeggianti acquistate nel Campidano, nella Nurra, ecc. – hanno consentito di esprimere le capacità e le potenzialità produttive dei pastori e delle aziende. In sostanza, l’economia pastorale è mutata da un modello transumante ad uno sedentario. Si tratta di un cambiamento importante che non è solamente economico ma in larga parte culturale. I pastori erano consapevoli dei sacrifici che presupponeva la pastorizia e la transumanza era fra le pratiche più obbliganti8. Dalle parole di chi ha transumato per numerosi anni emerge un senso di rivalsa – che poi è parte costitutiva dell’identità pastorale – nei confronti di un’emigrazione che annualmente spingeva i pastori ad abbandonare la comunità, la famiglia e, più in generale, il proprio microcosmo di riferimento. Anche la reputazione e la pubblica ostentazione – come rileva Caltagirone – fanno parte di questa identità, e «nel raggiungimento di questo traguardo la transumanza ha avuto un grande ruolo: in fondo, la conquista incruenta del Campidano da parte dei pastori della montagna incomincia tutta da qui: liberarsi una volta per tutte del gravoso vincolo di un’emigrazione perpetua» (Caltagirone 1986: 42). Nonostante oggi in Sardegna ci siano più di tre milioni di ovini, lo spostamento di centinaia di pecore dalle montagne ai pascoli pianeggianti è una pratica del passato che attualmente vive soltanto nella memoria collettiva delle differenti comunità pastorali. 5. Negli ultimi anni le tradizionali vie della transumanza hanno attirato l’interesse dei GAL (Gruppi di Azione Locale) Barbagie e Mandrolisai, Mare Monti e Ogliastra, i quali, con la collaborazione di istituzioni politiche, enti e studiosi locali, hanno dato avvio al progetto Tramudas – corrispondente sardo di transumanza –, con l’obiettivo di promuovere l’identità rurale di alcune aree dell’isola e di creare un’occasione di sviluppo turistico-culturale attraverso il recupero degli antichi percorsi pastorali. I programmatori hanno predisposto anche una guida per far conoscere ai visitatori le vie e le tappe da percorrere. Nelle sue pagine è possibile leggere: «gli itinerari che proponiamo vi faranno scoprire la Sardegna autentica delle zone più interne, dove si respirano i profumi della fitta vegetazione che nasconde e al tempo stesso rivela le radici del pastoralismo e le suggestioni di un mondo ancora intatto»; e ancora: «il duro viaggio annuale del pastore, viste le sue unicità e la ricchezza di rituali, metodi e leggende, può costituire un filo conduttore per l’esplorazione del turista nella storia, la cultura e l’ambiente della Sardegna». Il progetto Tramudas è stato presentato nell’autunno del 2007 all’interno di un più ampio quadro di manifestazioni inserite nel programma Autunno in Barbagia – appuntamento stagionale che vede coinvolte diverse comunità dell’isola nella proposta di pratiche, saperi, sapori “di una volta”. L’evento, dal titolo significativo “Pastores e tenores”, si è tenuto ad Ollo103 Ricercare S. Mannia, In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia e prospettive future ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) lai e ha previsto una rassegna di film etnografici sul pastoralismo, l’apertura della “casa della transumanza” ed altre rappresentazioni incentrate sul tema della pastorizia. Tramudas non è l’unico avvenimento – o tradizione inventata, se si considera che molte di queste manifestazioni hanno una continuità e una riproposizione nel tempo – che ripercorre i fili della memoria storico-culturale degli spostamenti pastorali. In numerosi paesi si promuovono passeggiate a cavallo lungo i sentieri della transumanza. Il turismo equestre, infatti, costituisce uno dei principali motori trainanti dell’industria turistica e si pone come alternativa ai percorsi inflazionati e omologati, con l’obiettivo di sviluppare l’economia delle aree interessate e di valorizzare il patrimonio ambientale e identitario rurale isolano. In questo senso è stata concepita un’altra iniziativa, “Camineras de tramuda”, ossia percorsi della transumanza, che prevede la collaborazione di differenti partner nella realizzazione di una progettazione integrata sugli itinerari a cavallo nelle vie dei pastori. Sul finire del 2009, un gregge di circa mille pecore è stato fatto transumare dalle campagne dell’isola a quelle della Regione Abruzzo, in seguito al terremoto dell’aprile dello stesso anno. La “transumanza della solidarietà” – così è stata denominata – ha visto coinvolte istituzioni politiche, associazioni di categoria, enti e un gruppo musicale locale ed ha puntato particolarmente sulla tradizione pastorale sarda, nello specifico su “sa paradura”, ossia la pratica – oggi pressoché scomparsa – che presupponeva una questua per ricostituire il gregge perduto. Le iniziative rivolte a tutelare le identità culturali della Sardegna e il suo patrimonio di beni materiali e immateriali si alternano con la ormai costante proposta e riproposta di sagre, festival folkloristici, rassegne e fiere. La transumanza è l’elemento esemplare di una fenomenologia più ampia e diffusa assunta come modello identitario utile a destagionalizzare i flussi vacanzieri. Sagre della tosatura, pranzi con i pastori, pernottamenti in sos pinnettos – le antiche abitazioni pastorali – sono solamente alcuni esempi di un imponente processo culturale-consumistico che sta caratterizzando in questi ultimi decenni il panorama isolano. La persistenza della pastorizia quale settore produttivo primario si incontra – ma si scontra anche – con le esigenze istituzionali di Enti per il turismo, Pro Loco, gruppi folkloristici e associazioni culturali che propongono il revival e/o l’invenzione di tratti culturali ritenuti arcaici – o, secondo alcuni, idilliaci e misteriosi sul104 la base di un processo di stereotipizzazione che va avanti ormai da tempo –, con l’obiettivo di attrarre «quei flussi turistici che oggi paiono i soli in grado di risollevare le economie depresse di tanti piccoli e grandi centri di antica tradizione […], ma anche di ritrovare nuove ragioni all’esserci nel mondo, recuperando in una prospettiva inedita la propria memoria culturale» (Buttitta 2010). In questa direzione, la Sardegna forma un bacino al cui interno sono conservate risorse tangibili e intangibili caratteristiche di un’economia pastorale che si ramifica in tutto il territorio isolano ed in particolare nelle zone centrali – quelle aree montane del Nuorese e delle Barbagie capaci di stimolare nell’immaginario dei turisti visioni bucoliche e di far rivivere ai vacanzieri attimi di tempi perduti. Ed è propriamente sulle zone interne che si punta da qualche decennio con l’intento di sostituire questa economia – data sempre per morente – con una di tipo turistico, la quale nelle intenzioni dei promotori dovrebbe rappresentare un incentivo di reddito economico per le popolazioni locali. Esperienze recenti in questo senso – il caso di Cortes apertas si costituisce sicuramente come uno degli esiti più rappresentativi – hanno tuttavia dimostrato il contrario e l’investimento economico nella promozione di tali manifestazioni si rivela, nella maggior parte dei casi, controproducente. All’interno della crisi che negli ultimi anni attanaglia in generale tutti i comparti zootecnici del Mediterraneo, le tradizioni pastorali sono spesso rispolverate ed opportunamente proposte come palliativi che sortiscono un effetto provvisorio e precario. Talvolta sono gli stessi pastori a promuovere le specificità locali e un esempio è dato dal “pranzo con i pastori” a Orgosolo – fenomeno che ha preso avvio già negli anni Sessanta del secolo scorso – e si rivolge ai numerosi turisti che affollano il paese nei diversi periodi dell’anno (Satta 2001). Più in particolare si tratta di una tappa che ha lo scopo di offrire ai visitatori – tramite la mediazione di agenzie di viaggio e di promozione turistica – alcune ore da trascorrere con i pastori orgolesi, per antonomasia considerati gli abitatori di un mondo esotico in cui la figura del pastore-bandito è, spesso, idealizzata come una costante di tale realtà. I pastori mangiano tra loro dopo aver servito i turisti, scacciano via i maiali al pascolo secondo “arcaiche” consuetudini pastorali, cantano a tenore, ballano il ballo sardo e vendono i prodotti tipici. Tutto ciò è compreso nel pacchetto da destinare agli ospiti. Molti turisti provano addirittura disappunto quando dopo il pranzo, mentre visita- no il paese, riconoscono nei bar i pastori da cui sono stati serviti in precedenza, avvertendo una perdita dell’autenticità originaria nel riscontrare che i pastori stessi non vivono perennemente isolati negli ovili. In linea generale, l’idea che la “vera Sardegna” – la più culturalmente autentica, quella che ha meglio conservato la sua originale (e originaria) identità – non si trovi nell’atmosfera anonima delle città, in fondo simili a tante altre della provincia italiana, né nella magica sospensione dei luoghi di villeggiatura marina, ma piuttosto nei paesi delle montagne interne, è un vero e proprio luogo comune, ampiamente diffuso nella produzione mediatica, nelle guide di viaggio, nella propaganda turistica, nel parlare quotidiano, nel discorso politico […] Nella costruzione di una “vera Sardegna” (che naturalmente ha come effetto di evocare per opposizione una Sardegna meno “vera”, se non proprio falsa) è data una particolare organizzazione al repertorio dei temi che si sono andati storicamente sedimentando sull’isola, i suoi abitanti, i loro costumi: isolamento, arcaismo, resistenza, pastorizia, banditismo, vendetta, abigeato, e così via. Il turismo orgolese si fonda su questa costruzione, non senza contribuire a manipolarla e modificarla, e ne fa l’oggetto di una specifica esperienza. Cultura e identità sarda sono implicitamente convocate in una rappresentazione concreta che deve risultare efficace e sintetica, anche se non necessariamente coerente (Satta 2001: 16). La nuove frontiere del pastoralismo – o almeno di un pastoralismo per turisti – sembrano dunque essere orientate verso la continua proposta di manifestazioni e pratiche riprese e inventate, soprattutto in questo periodo di “modernità liquida” o “modernità in polvere”, dove tutto rischia di essere fagocitato dall’arena della globalizzazione se non dell’omologazione; d’altronde è tutt’altro che raro che la cosa si verifichi più frequentemente quando una rapida trasformazione della società indebolisce o distrugge i modelli sociali ai quali si erano informate le “vecchie” tradizioni, producendone di nuovi ai quali queste non sono più applicabili; oppure quando le vecchie tradizioni, le loro carriere istituzionali e i loro promotori non si dimostrano più abbastanza adattabili e flessibili, o vengono comunque eliminati: in poche parole, quando i cambiamenti sul piano della domanda o dell’offerta sono abbastanza vasti e rapidi (Hobsbawm 2002: 7). La transumanza in particolare si è trasformata da pratica obbligante del ciclo annuale di allevamento – con una ripetitività stagionale contraddistinta da momenti rituali specifici volti a rifondare il tempo – a momento di relax e divertimento per quanti, a piedi o a cavallo, vogliano ripercorrere gli antichi sentieri attraversati dalle greggi – opportunamente accompagnati da guide locali –, perdendo, dunque, quell’effettiva funzione economica e socioculturale che la caratterizzava. La transumanza si costituisce attualmente come una icona che raccoglie e rifunzionalizza un’eredità culturale, attraverso un efficace processo teso a selezionare, recuperare e dotare di senso nuovo i tratti costitutivi del passato per adattarli alle nuove esigenze. Dotata di simboli che hanno la capacità di attrarre e di veicolare messaggi appositamente ricercati, la transumanza diventa così una risorsa economica da sfruttare – sulla base di una politica turistico-consumistica diffusa – e non una pratica del patrimonio culturale tradizionale da valorizzare. In tal senso, infatti, questo fare per gli altri per sentirci noi, questa riconversione della propria cultura tradizionale a favore delle logiche del mercato, questo depotenziamento dei referenti extra-umani solutori delle angosce più intime, che oggi ci appare soluzione facile e immediata alle crisi economiche e sociali, è piuttosto il segnale del disfacimento, del tramonto, della fine di una cultura. Risultato ineluttabile di tale processo si delinea essere, infatti, l’appiattimento di un ricco e variegato universo su standards di fruizione che privilegiano della festa gli aspetti ludici e spettacolari, folkloristici, esitando nell’introduzione, anche forzata, di elementi nuovi e estranei al fine di esaudire e incoraggiare le domande del mercato turistico. La speranza che sorregge tali interventi è quella, in teoria legittima e apprezzabile, di rilanciare l’economia locale stimolando i flussi turistici. Questa politica, raramente sostenuta da una sia pur minima sensibilità antropologica, come è facilmente comprensibile, non favorisce affatto lo sviluppo. Episodici e assai limitati nel tempo, gli afflussi di visitatori non comportano l’incremento economico sperato (Buttitta in prep.). In sostanza, nel nostro caso specifico, è possibile parlare di rifunzionalizzazione o reinvenzione della transumanza. Le vecchie vie attraversate dai pastori sono ora percorse dai turisti, mediante sentieri attrezzati, spazi di pernottamento e punti di appoggio. Attualmente, nella maggior parte dei casi, la funzione della transumanza è quella di servire da veicolo di tradizionalità per proporre un momento di spensieratezza istituzionalizzata e da occasione per enti e istituzioni di far mostra del loro interesse verso i propri cittadini. Uno dei tanti simboli della tradizione che diviene prodotto (ma anche nuovo simbolo) della contemporaneità e si fa portavoce della tradizione stessa per istituire effimeri profitti. 105 Ricercare S. Mannia, In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia e prospettive future ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on-line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Note 1 È inoltre opportuno specificare che i territori comunali idonei allo svernamento del bestiame – ossia laddove queste terre avessero una conformazione adatta a favorire un clima mite durante l’inverno – erano pochi e scarsamente coltivati, per cui non garantivano gli apporti di pascolo ottimali. 2 Alla transumanza inversa o invernale si oppone la transumanza normale o estiva, che prevede il trasferimento del bestiame dai pascoli di pianura alle pasture montane. 3 Si riportano qui di seguito alcuni percorsi tradizionali. Per Austis, «luogo privilegiato della transumanza sono soprattutto le zone non coltivate del Campidano settentrionale di Oristano. Alcuni pastori si fermano anche prima nei pascoli riparati della sponda sinistra del Tirso (Chirru de Zosso), altri si spingono oltre, lungo la direttrice della statale Carlo felice, che va da Oristano a Cagliari, verso S. Anna e Villacidro. Alcuni pastori di capre raggiungono talvolta le zone calde delle montagne di Pula e Teulada, all’estremo sud della Sardegna, dove abbonda la macchia mediterranea» (Meloni 1988: 843). La meta dei pastori desulesi erano le terre dell’iglesiente, dell’oristanese, del Sarrabus e del sassarese; eccetto la Gallura essi si spingevano in tutte le sub regioni pianeggianti dell’isola (Caltagirone 1986: 30). Più in generale, «i pastori dei paesi dei versanti settentrionale, occidentale e meridionale del Gennargentu si spingono prevalentemente, con percorsi variabili tra 50 e 120 km, verso i Campidani e verso il Sulcis-Iglesiente; i pastori dei paesi del versante orientale, che possiedono meno pecore ma più capre, scendono, con tragitti di 30-60 km, sulle coste sud-orientali dell’Ogliastra e nelle regioni del Gerrei e del Sarrabus. In entrambi i casi la direzione della transumanza è verso sud; soltanto alcune comunità del versante settentrionale del Gennargentu muovono in direzione opposta, verso le pianure costiere della Baronia e in misura minore verso la Nurra di Alghero. Si tratta di direttrici storicamente costanti, che emergono abbastanza evidenti già nel Basso Medioevo. Esse derivano da fattori anzitutto fisici o geografici, ma non si può escludere che sul loro consolidamento abbiano influito anche ragioni storiche» (Ortu 1988: 821-822). Descrizioni dettagliate sulle direttrici della transumanza sono quelle di Le Lannou e Bergeron che si sono soffermati diffusamente sugli spostamenti pastorali (Le Lannou 1992: 171-176; Bergeron 1967: 312-323). 4 Alcuni studiosi hanno proposto la distinzione fra transumanza intra-regionale e inter-regionale: la prima consisterebbe nello spostamento degli animali all’interno del territorio di una singola comunità; la seconda invece presupporrebbe il trasferimento delle greggi al di fuori dei confini comunitari (Cleary - Delano Smith 1990: 21-38). 5 Per i bambini la transumanza costituiva un viaggio avventuroso e desiderato. Compierlo, inoltre, era uno dei momenti più importanti nella formazione e nell’iniziazione personale dei giovani pastori. 6 Letteralmente si traduce con: facevano «i “cani da ciotola” perché erano dei morti di fame». In Sardegna, con cane istegliu si intende una persona di poco valore, che non serve a niente. 106 7 Si veda in particolare: Acciaro Pitzalis M. 1978, In nome della madre. Ipotesi sul matriarcato barbaricino, Feltrinelli, Milano. 8 I pastori, comunque, erano abituati a spostarsi continuamente, per cui la transumanza era vista come una condizione normale della loro esistenza. Riferimenti Angioni G. 1989 I pascoli erranti. Antropologia del pastore in Sardegna, Liguori, Napoli. Bergeron R. 1967 Problèmes de la vie pastorale en Sardaigne. Premier article, in «Revue de géographie de Lyon», XLII, n. 4: 311-328. Braudel F. 2002 Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino. Buttitta I. E. in prep. Feste marinare e mercato culturale Caltagirone B. 1986 Lo studio della transumanza come dispositivo di analisi del mondo pastorale, in «Études Corses», XIV, n. 27: 27-44. Cleary M. 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Esse convertono l’impossibile nel possibile, invertono l’ordine temporale e spaziale, annullano le contraddizioni irresolubili nella prassi. Questa specifica forma di pensiero, che a livello performativo e narrativo è presente in tutte le culture, si manifesta in modo esemplare nella figura dell’eroe – incarnata nel Medioevo nel cavaliere – personaggio ambiguo che si situa al di fuori della norma senza opporglisi. Egli è chiamato a ricondurre il caos del vissuto nel cosmos originario, l’insostenibile instabilità del divenire alla sostenibile fissità dell’essere. Scopo dell’articolo è dimostrare che le culture orali hanno una profonda e puntuale conoscenza dell’origine dell’uomo. Evidenze tratte dall’ambito folklorico consentono di ricostruire il complesso e articolato sistema materiale e simbolico che, ancora alcuni decenni fa, riconosceva chiaramente e illustrava la relazione evolutiva tra gli esseri umani e gli animali e, più in generale, la Natura. Così, quando nella seconda metà dell’Ottocento Charles Darwin elaborò la sua rivoluzionaria teoria dell’origine delle specie, per mezzo dei protocolli scientifici propri della scrittura, certificava una conoscenza che le comunità di tradizione orale già in qualche modo possedevano nel loro sistema culturale fondato su gesti e parole. Parole chiave: pensiero simbolico; mito; eroe; cavaliere; prove Parole chiave: relazione uomo/animale; cultura popolare; oralità; teoria dell’evoluzione; Piemonte. Knights of the Otherworld, or about the loneliness of the hero “Similar and different at the same time”. A folk evolutionary path The procedures of the symbolic thought supporting the mythic-ritual constructions allow to establish abstract connections and to make logical jumps which the logical thought is unable to make. They can turn the impossible into possible, change the time and the space order or solve all contradictions into praxis. We can find this particular procedure of thought in all cultures on a performative or narrative level, but it clearly appears in the hero, who is embodied by the knight of the Middle Ages. He is an ambiguous figure who sets himself beyond the norms without opposing them. The knight is called to change either the caos into the cosmos of origin or the unsustainable instability of becoming into the sustainable fixity of being. The aim of this paper is to demonstrate that oral cultures have a profound and precise understanding of the origins of Mankind. Folkloric evidences permit the reconstruction of the complex and consistent material and symbolic system that, still not many decades ago, clearly recognized and portrayed the evolutionary relationship that strongly links humanity to animals and, more broadly, Nature. Thus, when in the first half of XIXth century, Charles Darwin elaborated the revolutionary theory on the origin of species, through the scientific protocols of literacy, he just certified the knowledge that the folk communities of orality had always known, in some extent, since it was present and elaborated in their cultural, existential system that was made by gestures and speech. Key words: simbolic thought; myth; hero; knight; trials KEY WORDS: men/animals relationship; popular culture; orality; theory of evolution, Piemonte 109 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) ROSARIO PERRICONE Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino Piazzetta Antonio Pasqualino, 5 - 90138, Palermo [email protected] MARCO ASSENNATO Ecole Nationale Superieure d’Architecture de Grenoble Laboratoire de recherche «Les metiers de l’Histoire de l’Architecture. Edifices - Ville – Territoires» 60, Avenue de Constantine, Grenoble, France. [email protected] La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’ Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica, pedagogia L’antropologia riflessiva ha concentrato la propria attenzione sulla scrittura del testo tralasciando l’esperienza dell’osservazione, sulla quale la pratica della ricerca sul campo si costruisce, e ha raramente prestato attenzione all’esperienza incorporata dei ricercatori. Il rapporto triplice che si istaura tra l’antropologo, il mondo e “l’altro” rivela la profonda interrelazione esistente tra i tre livelli di questa «isotopia complessa». In questo saggio si affronta il problema di come una persona possa interagire con un’altra all’interno della pratica etnografica. La ricerca etnografica non consiste soltanto in dialoghi ma anche in esperienze corporee che hanno un ruolo fondamentale nella produzione delle rappresentazioni etnografiche. Gli antropologi esperienziali ritengono che bisogna riflettere sulle conoscenze che si producono partecipando attivamente alle performance in atto. Bisogna allora compenetrarsi nella ricerca sul campo, viverla nel proprio corpo ed essere in grado di trovare in se stessi quei significati altrimenti inaccessibili. Scopo dell’articolo è analizzare la relazione, da una parte, tra città, sistema politico-normativo e sistema educativo e, dall’altra, tra cultura, territorio e politica. La nuova forma urbana che, alla fine del secolo scorso, ha visto implodere l’idea classica di città viene presa in considerazione in rapporto al suo analogo politico, in particolare a partire dalla crisi dello Stato-Nazione. Questa crisi ha aperto la ricerca verso una serie di pratiche narrative che sarebbero in grado di definire la pluralità delle forme di vita che oggi si trovano in quel ‘terreno vago’ rappresentato dalla grande città postindustriale. L’articolo espone criticamente questa tesi alla luce della necessità al contempo politica, pedagogica e urbanistica di un pensiero generale capace di assicurare stabilità a un progetto civile che trovi diretta espressione nella forma urbana. L’approccio critico si fonda su una rilettura del rapporto tra città, politica e educazione in epoca classica, greca e romana, che mostra un dispositivo complesso di stratificazioni normative destinate ad assicurare una forma a dinamiche antropologiche sfuggenti e molteplici. Parole chiave: fieldwork etnografico; informatori; teoria della conoscenza; incorporazione; neuroni specchio. Parole chiave: città; cittadinanza; politica; polis; sistemi educativi Fieldwork as ‘extraordinary experience’ Reflexive criticism focused its attention on writing texts, neglecting the experience of observation, on which the practice of field research is built, and it rarely paid attention to the experience of researchers. The triple relationship established between the anthropologist, the world and the “other” reveals the deep interrelation between the three levels of this “complex isotopy”. This essay addresses the problem of how a person can interact with another within the ethnographic practice. Ethnographic research doesn’t consist only in dialogues but also in bodily experiences that have a key role in the production of ethnographic representations. Experiential anthropologists believe that we must reflect on the knowledge that is produced, by participating actively in the performances that is being executing, permeating in the field research, physically experiencing it and being able to find in ourselves those meanings otherwise inaccessible. Key words: ethnographic fieldwork; informants; theory of knowledge; incorporation; mirror neurons. Nomads after the town. Post-metropolis, politics and education The article aims at analyzing, on one hand, the relation between the city, as a political-normative and educational system and, on the other hand, the relation between culture, identity, territory and politics. The new urban form which, at the end of the last century, saw the implosion of the classical idea of the city is considered in comparison to his political pendant, particularly since the crisis of the Nation-States. This crisis opened a research field to the so called narrative procedures which are able to define the plurality of the ways of life of the post industrial metropolis. The aim of this paper is to review this thesis in the light of the political, pedagogical and urbanistic need of a general thought, which is able to give stability to a civil project, as an expression of the urban form. This critical approach originates from a reading of the relationship between city, politics and education in the ancient world, where was at work a complex device of norms, which was able to give form to the elusive and various anthropological dynamics. Key words: town; citizenship; politics; polis; education 110 Abstracts DAVID GILMORE Dept. of Anthropology Stony Brook University Stony Brook NY [email protected] FERDINANDO FAVA Dipartimento di Storia Università degli Studi di Padova Via del Vescovado, 30 - 35141 Padova [email protected] Sexual Segregation in Andalusia. Then and Now Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione dello ZEN This paper examines changing patterns of sexual segregation in Andalusia. Working from the premise of “public/private” as both ethnographically and methodologically valid, the author describes how young women in Andalusia have invented an institution specifically designed to broach the barriers of male space and attain public access. This new custom is the “private festival”, a concept previously unheard of in Andalusia and a reversal of prevailing orthodoxies. The author describes local reactions to this cultural revolution among both men and women. Key words: gender relations; Andalusia; public/private; gendered spaces; social change L’articolo propone una riflessione epistemologica sullo ZEN (Zona Espansione Nord), un quartiere marginale (e marginalizzato) della periferia nord di Palermo (Italia). L’autore, sostenuto da un approccio antropologico, si muove tra spazi diversi, appartamenti, cortili, strade. L’esperienza etnografica, intesa come sense-experience ancorata al “qui e ora” di ciascuno di questi spazi, rappresenta in se stessa una istanza critica che gli permette di comprenderli in modo diverso. Essa tuttavia richiede anche altre mediazioni che consentano di connettere il “qui e ora” con la più generale struttura spaziale della città e il suo passato prossimo, “l’altrove e l’allora”. La separazione tra i sessi in Andalusia. Ieri e oggi Parole chiave: etnografia; spazio costruttivo; spazio sociale; produzione; Palermo Questo articolo esamina le trasformazioni dei modelli di separazione tra i sessi in Andalusia. Partendo dall’opposizione “pubblico/privato”, premessa valida sia dal punto di vista etnografico sia da quello metodologico, l’autore descrive in che modo in Andalusia le giovani donne hanno inventato una specifica istituzione espressamente finalizzata a superare le barriere degli spazi maschili per accedere a una dimensione pubblica. Questo nuovo costume, chiamato “fiesta particular”, del tutto inedito in Andalusia, rappresenta una inversione della norma dominante. L’autore descrive le reazioni locali di questa vera e propria rivoluzione culturale, da parte sia degli uomini che delle donne. Parole chiave: relazioni di genere; Andalusia; pubblico/privato; genere e spazio; cambiamento sociale Social space and stuctural space: the production of ZEN (Palermo) This paper is an epistemological reflection on the ZEN (Zone Espansione Nord), a marginalized public housing neighborhood at the north periphery of Palermo (Italy). The author walks between the different spaces of the neighborhood (flats, courtyards, streets) with the anthropological approach. The ethnographic experience, as a sense-experience anchored to the “here and now” of each space, brings in itself a critical instance. It allows to understand these spaces differently but demands also other mediations to connect the “here and now” with the larger spatial structure of the city and its recent historical past, the "there and then". Key words: ethnography; built environment; social space; production; Palermo 111 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) Giulia Viani Università di Palermo Dipartimento di Beni Culturali Viale delle Scienze - 90100 Palermo [email protected] Matilde Bucca Università di Palermo Dipartimento di Beni Culturali Viale delle Scienze - 90100 Palermo [email protected] - [email protected] Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo L’articolo analizza la composizione della comunità indomauriziana di Palermo, per lungo tempo considerata come pressoché omogenea. L’articolazione sembra corrispondere alla situazione politica di Mauritius, esito della sua storia coloniale. La comunità di Palermo risulta pertanto articolata in quattro gruppi “etnici” – caratterizzati da propri sistemi di credenze, rituali, origini e lingua ciascuno dei quali invoca per sé una diversa identità. Attraverso il metodo delle “storie di vita”, questo studio porta un nuovo sguardo sulla Comunità, considerandola al contempo nella sua dimensione singolare e plurale. Di fatto, nel contesto migratorio, integrazione culturale e separazione agiscono simultaneamente, spesso in modo inconsapevole, portando a una situazione di crisi o di instabilità e costringendo i Mauriziani a ridefinire i loro confini identitari. Parole chiave: migrazione; identità mauriziana; diaspora; etnicità, storie di vita; Palermo. La nascita della comunità transnazionale tamil, formata da migranti stanziatisi in diverse città del mondo occidentale, è una delle conseguenze della guerra civile nello Sri Lanka. In questa situazione diasporica, continuare a praticare i rituali tradizionalmente agiti nello Sri Lanka, adattandoli ai nuovi contesti, è uno dei modi in cui i Tamil mantengono i legami con la madrepatria e con i parenti che vivono altrove. L’articolo descrive il rito di pubertà femminile così come praticato nella Comunità tamil di Palermo, una delle più numerose d’Europa. Particolare attenzione è rivolta al modo in cui la differenza tra i Tamil di religione induista e cattolica viene espressa nelle variazioni di significati, simboli e forme del rituale, e ai suoi cambiamenti e adattamenti determinati dall’inserimento dei Tamil nel contesto sociale palermitano. Parole chiave: migrazione; cultura Tamil; rituale; iniziazione femminile; Palermo. Becoming woman among the Tamil Community in Palermo Mauritian-Hindu communities in Palermo: Marathi, Hindu, Telugu and Tamil. This article analyses the internal composition of the Mauritian-Hindu community in Palermo, considered for a long time mainly homogeneous. This division corresponds to the political situation in Mauritius, deriving from its colonial history. As a result, Mauritian-Hindu community is fragmented into four ethnic groups - characterised by different religious beliefs, rituals, origins and ancestral languages - each one of these claiming a different identity. Using the “life history” methodology, this study aims to give a new insight into the Mauritian-Hindu community in Palermo, considering its plurality and singularity at the same time. In fact, in the context of migration, cultural integration and separation act simultaneously, often unconsciously, leading to a situation of crisis or instability, and forcing Mauritians to redefine their identity boundaries. Key words: migration; Mauritian identity; diaspora; ethnicity; life histories; Palermo. 112 The Civil War in Sri Lanka caused the birth of a Tamil transnational community formed by the migrants living in several cities of the Western world. In this diasporic situation, to continue performing the rituals traditionally practiced in Sri Lanka, adapting them to the new context, is one of the way by which Tamil migrants maintain the links with their homeland and connect each other with their kinsmen living in other places. The article describes the ritual of female puberty, as performed in the Tamil Community of Palermo, one of the largest in Europe. Specific attention is devoted to how the difference between Hindu and Catholic Tamils is expressed in some differences in the meanings, symbols and forms of its celebration, and to the changes and adaptations the ritual undergoes following the Tamils’ insertion in the Palermo’s social milieu. Key words: migration; Tamil culture; ritual; female initiation; Palermo. Abstracts Sebastiano Mannia Università di Sassari Piazza Università 21 - 07100 Sassari [email protected] In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia e prospettive future In turvera. The transhumance in Sardinia between past and future. L’articolo esamina il fenomeno della transumanza in Sardegna con una particolare attenzione alle dinamiche storiche, economiche e sociali che l’hanno caratterizzata in passato. Nell’Isola, la transumanza ha visto una battuta d’arresto negli anni Settanta del Novecento, a causa del processo di modernizzazione della locale industria zootecnica, avviatosi all’indomani del secondo conflitto mondiale. Nell’ultimo decennio, le istituzioni politiche, l’industria turistica, importanti apparati dell’Amministrazione, Pro Loco e Associazioni culturali hanno rivolto la loro attenzione agli itinerari tradizionali della transumanza al fine di promuovere l’identità isolana e creare nuove opportunità per lo sviluppo del turismo locale. This paper explores the phenomenon of transhumance in Sardinia with special attention to the historic, economic and socio-cultural dynamics that have characterised it in the past. The phenomenon of transhumance on the Island comes to an end in the 1970s due to the process of modernization of the local zoo-technological sector, which had begun in the immediate aftermath of WWII. Over the past decade, the political institutions, the Tourist Industry and relevant Administrative Bodies, the ‘Pro Loco’, the Cultural and Folkloristic Associations have contributed to draw attention to the traditional paths of the local transhumance in an aim to promote the insular identity as well as creating opportunities for the development of local tourism. Parole chiave: pastoralismo; transumanza; sistemi fondiari; cambiamento sociale; Sardegna. Key words: pastoralism; transhumance; land rights; social change; Sardinia. 113 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1) ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO ISTRUZIONI PER GLI AUTORI L’Archivio Antropologico Mediterraneo accetta contributi in italiano, francese, inglese, spagnolo. La redazione si occupa della valutazione preliminare dei contributi proposti (articoli, recensioni di libri, recensioni di iniziative di interesse antropologico, ecc.). I membri del comitato scientifico, in stretta collaborazione con la redazione, possono proporre iniziative editoriali (numeri monografici, atti di convegni, ecc.). Gli articoli ricevuti dalla redazione sono sottoposti, in forma anonima, al giudizio di uno o più membri del comitato scientifico o della redazione e a quello di un esperto esterno, secondo la procedura “a doppio cieco”. La lista dei lettori sarà resa periodicamente disponibile sulla pagina on line della rivista. Il manoscritto definitivo, una volta accettato e redatto, secondo le norme fornite agli autori (scaricabili dal sito), deve essere inviato alla redazione in formato elettronico. Gli articoli non supereranno le 20 cartelle (2000 battute per pag., complessivamente 40000 battute spazi e note inclusi). Contributi più lunghi possono essere accettati su parere favorevole dei lettori. Le eventuali illustrazioni dovranno essere inviate in formato JPG base 15 cm. I rinvii alle immagini all’interno del testo dovranno essere chiaramente indicati in questa forma: (Fig. 0). Ogni immagine dovrà essere corredata di didascalia dell’indicazione della provenienza ed eventualmente del copyright. 114 Ogni contributo dovrà essere accompagnato da: a) un abstract nella lingua dell’articolo e in inglese (max. 1000 battute spazi inclusi) b) cinque parole-chiave c) la traduzione del titolo in inglese Ogni autore dovrà indicare la sede di lavoro, l’indirizzo completo (privato o professionale) e l’indirizzo elettronico. Le recensioni non supereranno le 20000 battute. La presentazione dei volumi recensiti dovrà presentare: il nome e il cognome dell’autore in maiuscoletto e grassetto, il titolo dell’opera in corsivo, luogo e data di pubblicazione, numero di pagine, ISBN e prezzo e l’immagine della copertina. Per proporre un contributo scrivere a: Gabriella D’Agostino: [email protected] Vincenzo Matera: [email protected] Ignazio E. Buttitta: [email protected] Redazione Università degli Studi di Palermo Dip. di Beni Culturali Storico-Archeologici, Socio-Antropologici e Geografici, Sezione Antropologica Piazza I. Florio, 24 90100, Palermo