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L’insiemistica della monade (Volume 1) RACCONTI E ALTRO by ROBERTO CYBBOLO LACCHE’ 1 Questa opera è soggetta alla licenza Creative Commons Puoi regalarlo a chi vuoi a patto di rispettare questa licenza: “Attribuzione – non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0” Copertina copyleft: “Il vuoto nell’ombra” Copylefteratura (2014) per contatti: [email protected] 2 ROBERTO CYBBOLO LACCHE’ L’INSIEMISTICA DELLA MONADE RACCONTI E ALTRO Volume I 3 4 RACCONTI CHE SI MUOVONO 5 6 ABA La stazione ferroviaria di una grande città nel suo microcosmo rispecchia in gran parte, se non in assoluto, il più grande ambiente urbano in cui è innervata, con tutte le sue contraddizioni ed i suoi accostamenti di figure e situazioni positive e negative. E’ in una grande stazione che, se si ha un discreto spirito d’osservazione, si può cogliere il primario senso della vita nella discriminazione semplicisticamente manichea tra il bene ed il male, il buono ed il cattivo, il bello ed il brutto. Si può decidere un punto di partenza attraverso l’esame delle strutture architettoniche che s’innestano spesso in un caotico disordine cronologico e di gusto. Fregi ottocenteschi d’umbertina memoria si mal sposano con ardite e funzionali strutture d’alluminio anodizzato e vetrate a specchio ed i gusti estetici di architetti di tempi andati cercano di coesistere con le nuove ideologie dell’architettura d’oggi, più sensibile alla funzionalità esasperata che alla ricerca della soluzione estetica in quanto tale. Si può continuare poi attraverso il rumore di fondo della folla, quel brusio continuo intervallato da risa, appelli, messaggi provenienti dagli altoparlanti della stazione, che introduce la componente della gente, dei frequentatori della stazione e cementa ed amalgama come una musica di fondo le diversità di ceti sociali e di storie umane. I frequentatori di una grande stazione, soprattutto loro, contribuiscono, come variopinte e microscopiche tessere, al mosaico delle contraddizioni della vita e della società con un loro intersecarsi anonimo, che talvolta si può contaminare, per brevi attimi o per sempre, in uno sguardo, due parole, un gesto, un discorso. Gli agenti di Polizia girano pigramente guardinghi tra la folla fra cui si mimetizza il borseggiatore. Tre suorine pie si affrettano al treno incrociando un ubriaco che bestemmia oscenità. Il regolare lavoratore pendolare scende da un treno locale e, mentre si avvia all’uscita della stazione, guarda con 7 vacuo desiderio le quattro puttane negre che stanno per partire con altro treno locale per battere la provincia. Il macho peloso vestito di pelle, che caccia qualche pollastrella, quasi butta a terra, con una spallata involontaria, la checca furtiva e leggiadra che vaga impazzita ed isterica tra i gabinetti della stazione e le banchine d’arrivo dei treni. La famigliola chiassosa che va a trovare i parenti fa storcere il naso al severo professore di fisica che parte per un congresso e gli zingari lamentosi e sudici si mescolano con segretarie e studentelli, e i tossici cercano di passare inosservati tra fattorini e personale della stazione. Tutte le contraddizioni della vita, nelle storie semplici o complicate della gente, si possono intuire tranquillamente seduti su un seggiolino dietro l’ampia vetrata della sala d’aspetto, solitamente antistante l’atrio della stazione, e si può trovare il modo di riflettere e porsi l’eterna domanda sul perché dell’esistenza. Se si possiede anche una certa fantasia si può congetturare sulle finanze di quell’uomo vestito in modo trasandato - un pensionato con la sociale, un tizio politicamente impegnato, un poveraccio, uno snob? - o su ciò che passa per la mente di quella signora elegante che irradia occhiate equivoche tutto intorno. E’ evidente che questo processo d’esame, superficiale e divertito, è assolutamente individuale e può essere soggetto a cambi d’interpretazioni e a sorprendenti brusche virate a seconda dell’umore e del capriccio di chi osserva, per quel che ciò vale e rappresenta: un gioco, un ozioso e piacevole perdere tempo dialogando con sé stessi sui ‘massimi sistemi’, sull’aria fritta.. A volte, però, il gioco può prendere la mano… Ero per l’appunto seduto nella sala d’aspetto della stazione della mia città in attesa del treno che mi avrebbe portato da un amico ed alternavo una distratta lettura del giornale a pigre e rilassate osservazioni su quel viaggiatore con valigetta in pelle o quella signorina che attendeva qualcuno. Un titolo particolare mi distolse dallo sfaccendato osservare; uno di quei titoli che si attagliano in modo 8 inquietante alla situazione momentanea che si vive, tipo: “Disastro aereo” per uno che sta per volare in America, o “Strage per la nebbia” per un altro che si accinge ad affrontare un viaggio in auto. Il titolo recitava: “Incidente ferroviario – Giovane trovato sulla massicciata, orrendamente sfigurato – Disgrazia o suicidio?” Seguiva una scarna descrizione di cronaca dell’accaduto con la commerciale dovizia di particolari raccapriccianti, le varie ipotesi degli inquirenti ed una fotografia piccola e sbiadita della vittima, tale Oscar …. “Che stupidaggini si leggono sui giornali, nevvero?” Fui interrotto nella lettura da una voce baritonale, garbata e suadente, con un’impronta noncurante e sarcastica, proveniente dalle mie spalle, accompagnata da un sentore di cannella e tabacco stagionato. Mi girai di scatto, sorpreso, ed inquadrai un individuo alquanto singolare, quasi fuori posto in quella sala d’aspetto. Era molto alto e corpulento; una chioma leonina argentata incorniciava un volto massiccio con caratteri marcati su una pelle cotta come il cuoio, segnata da una miriade di rughe ed evidenziata da uno smagliante sorriso felino. Lo sguardo beffardo e penetrante di pungenti occhi color cobalto mi squadrava con un non so che di placido, compassionevole e nello stesso tempo complice ed ammiccante per una qualche verità di cui eravamo depositari. Era vestito molto elegantemente con un completo antracite con gilet su camicia verdino-pallido con cravatta color vinaccia fermata da una spilla d’oro massiccio di squisita fattura sormontata da un brillante che mandava riflessi azzurrini; da un taschino del gilet fuoriusciva una catenella d’oro e d’oro erano i gemelli dei polsini della sua camicia, con incisi strani simboli che non distraevano, però, dall’osservare le mani nodose, massicce come il corpo, ma estremamente curate, ornate di anelli, forse pacchiani, in oro massiccio e pietre dure, ma affascinanti nella loro futilità vezzosa in contrasto con la mascolinità dura dell’individuo. 9 Emanava un’aria di sicurezza e potenza e la sua acqua di colonia, od il suo odore, era come il suo aspetto, gradevole e ricercato. “Credo proprio che lei stia leggendo una grossa stupidaggine, sa? Che ne sanno questi pennivendoli di quello che succede tutti i giorni? Si arrogano il diritto di interpretare, di dedurre, di concludere, di fare sillogismi e non sanno o non sono capaci di vedere oltre le apparenze e di dipanare una matassa appena un poco più ingarbugliata rispetto alle solite banalità della cronaca. Non è lei d’accordo con me?” Mi porse la domanda con buone maniere, civettuolo e saccente, con quella voce divertita e profonda, ed io risposi con un sorrisetto ebete di circostanza domandandomi dentro di me cosa volesse realmente quel monumento, un poco diffidente verso la persona appena conosciuta, ma bendisposto, tuttavia, in ossequio alla sua gentilezza e signorilità di uomo di mondo un po’ demodè. Proseguì: “Noto che lei non si pronuncia dichiaratamente sulle mie opinioni: è una persona molto gentile ed educata, o forse è un pusillanime che non vuole avere scontri o fastidi…” Le sue parole furono pronunciate con indifferenza, ma percepii una provocazione, quasi un’offesa, e mi risentii: “Non vedo perché dovrei essere d’accordo con lei, dal momento che anche lei, come il giornalista, non era presente all’accaduto, e può quindi fantasticare come le pare, ma senza riscontri oggettivi.” “Ah, i riscontri oggettivi… complimenti, lei parla in modo appropriato, mi piacciono le persone che parlano in maniera acconcia.” Mi rispose con fare canzonatorio e continuò piegandosi verso il mio seggiolino ed abbassando la voce: “Veda lei se posso: io c’ero e so come sono andate le cose.” Mormorò con aria cospiratoria quest’ultimo concetto, inatteso e sorprendente, e allo stesso tempo girò velocemente dalla mia parte con insospettata elasticità atletica e si sedette al seggiolino contiguo al mio senza 10 smettere di fissarmi in modo insistente, con un accenno di sogghigno nel constatare la mia sorpresa e la mia incredulità. “Ma che sta dicendo? E’ successo tutto ieri sera, neanche dodici ore fa, a millecinquecento chilometri da qui, e lei mi dice che era presente? E perché non ha informato la Polizia?” “Perché lo viene a dire a me?” Sembrò infastidito: “Perché, perché, perché. Lei sa solo fare domande; è così bravo anche ad ascoltare e a spogliarsi della sua logica limitata?” Cominciai a pensare che mi ero imbattuto in un ‘gabbietta’, un pazzerello docile e innocuo da non contraddire, e l’uomo continuò con fare esortativo ed imperioso: “Creda in ciò che dico, vada oltre le apparenze, mi ascolti…” Mi rassegnai. “Il giovane, Oscar, viaggiava nel mio scompartimento. Che nome, Oscar, un incrocio fra un premio cinematografico e un pesce, il pesce Oscar, l’Astronotus Ocellatus, lo conosce? E’ un pesce d’acqua dolce, del Rio delle Amazzoni e del Rio Negro, trionfo d’ogni acquario di ciclidi rispettabile, prepotente e corpulento, con due labbroni da cernia ed una livrea bellissima scura e mutevole a seconda dell’umore ricamata di ghirigori rossi e di un ‘ocellus’, una macchia color oliva orlata di rosso sui fianchi verso la pinna caudale. Oscar, del pesce omonimo, aveva un poco la fisiognomica, con un fisico massiccio e baldanzoso, un colorito bruno con due o tre cicatrici sulle braccia, rosse, una grossa ciste su una guancia, rosso-brunastra, ed un atteggiamento torvo ed aggressivo: il tipico maschietto bruttarello con erezione perenne e le antenne ritte a captare selvaggina con mascara. Nello scompartimento eravamo noi due ed una mia amica, Aba, che si può definire sicuramente un eccezionale mammifero di razza superiore. Io sedevo vicino al finestrino e leggevo una rivista mentre Oscar ed Aba erano seduti, l’uno di fronte all’altra, verso il corridoio. La mia amica era bellissima e misteriosa: sembrava un ritratto di Nagel. 11 Indossava un sobrio completo di giacca e gonna, neri di seta su calze velate nere e di seta anch’esse. Un fazzoletto rosso sangue le copriva il collo, ricacciato nella scollatura della giacca e fermato con una spilla d’oro massiccio raffigurante un ariete. Aveva le gambe lunghe affusolate ed accavallate in maniera elegante e signorile e le sue scarpine, di vernice nera, avevano un lungo tacco a spillo rinforzato da una guaina d’acciaio bianco lucente. Il viso, un ovale pallido e seducente, perfetto, era incorniciato da una matassa fluente di capelli corvini ed era semicoperto da un grosso paio d’occhiali da sole scurissimi, che evidenziavano ancor di più l’incarnato diafano, ma sano, della donna e conferivano un’aria indecifrabile al suo sguardo. Un filo di rossetto della stessa tonalità del fazzoletto e lo smalto sulle unghie, anch’esso ugualmente rosso, completavano l’aspetto di Aba, signorile, distaccato dalle miserie terrene, irraggiungibile come il fascino di tempi addietro andati. La mia amica guardava un punto indefinito di là del finestrino del corridoio, enigmatica nell’espressione del viso, ed Oscar la rimirava piuttosto sfacciatamente con un sorrisetto da uomo navigato tra quei labbroni da cernia ed un formicolio sotto la patta dei pantaloni. Ogni tanto alzavo lo sguardo dalla rivista e degnavo d’attenzione i miei compagni di viaggio e dentro di me sogghignavo per la becera attenzione che il giovane professava per la mia amica assolutamente indifferente. Il treno andava ed andava ed il rollio delle ruote sulla massicciata dava un piacevole senso d’abbandono. Non avevo voglia di parlare e nemmeno la mia amica; eravamo quindi immersi ciascuno nei propri pensieri, io con la mia rivista che sfogliavo distrattamente e lei con il volto serio e fisso oltre il vetro del finestrino sulla campagna che scorreva veloce. Apparivamo al giovane Oscar come due sconosciuti e, le dirò, la situazione che si era creata sembrava intrigante per gli eventuali sviluppi che avrebbe potuto far nascere. Quasi sentivo i pensieri di Aba circa le manifeste attenzioni del giovane: tra poco ci divertiremo, mi divertirò e avrò il mio piacere; continua a fare finta di nulla! Le lenti nere degli occhiali non facevano presagire né rifiuti né 12 accondiscendenza: solo io sapevo il perché, ma ci arriveremo…le racconterò…” E sbottò in una risatina divertita, chioccia, a contrasto con la profondità grave della sua voce narrante. “Oscar attaccò bottone con me cercando di dominare la situazione con un giro largo ed accerchiante. Poveretto: cominciò con le solite banalità sul tempo e sulla noia dei viaggi in treno. Avrei preferito il silenzio, od una conversazione sulle tentazioni di S.Girolamo – sono alquanto ferrato sull’argomento, sa? – ma mi adeguai al basso livello dell’interlocutore buttando lì qualche dozzinale concetto risaputo. Aba rimase silenziosa, non partecipe; si volse solo impercettibilmente verso il ragazzo fissandolo attraverso gli occhiali neri senza un’espressione definita. Lui si sentì autorizzato ad interpretare questo atteggiamento come un successo ed incalzò stavolta direttamente la donna con un’altra colata lavica di apprezzamenti sul paesaggio e sulle città che avremmo toccato durante il nostro percorso. Mi parve di percepire, sì, ne sono sicuro, un certo cambiamento di stile nell’approccio della cernia, di Oscar: più caldo e colloquiale e coinvolgente, tale da mettere a proprio agio un’altra qualsiasi compagna di viaggio. Ma Aba non si scompose e continuò a fissarlo attraverso le lenti nere, senza estraneità, ma anche senza complicità. M’immagino quel cervellino in ebollizione con altri luoghi comuni: la carne è debole; più la conquista è difficile, più la preda merita, e via dicendo. Patetico! Aba rivolse il suo sguardo per una frazione di secondo verso di me ed io capii che stava per creare la situazione, l’evento del nostro piacere, e feci fatica a trattenere un sorriso lupesco che mi saliva dal petto: che affiatamento tra noi due, una complicità di secoli, di millenni, e non scherzo, sa?” Io ascoltavo affascinato dalla loquela, dalla ricercatezza delle parole, dalla potenza evocativa del racconto dell’uomo, e vedevo distintamente la scena in quello scompartimento con il tramezzo a vetrata, i sedili imbottiti azzurrini, i copritesta un po’ sudici, giornali sparsi qua e là, e la 13 campagna che correva nel rumore cadenzato delle ruote sui binari. Posai gli occhi sul distinto signore che mi faceva partecipe del suo incredibile illogico segreto ed ebbi per un attimo la coscienza che si stesse trasfigurando in un’espressione da predatore, avida e rapace. Ma rimasi impietrito ad ascoltare il seguito. “Aba si alzò dal sedile col fare di chi si vuole sgranchire le gambe, si aggiustò con una certa movenza erotica la gonna e la giacca del vestito e dopo due o tre passi rimase immobile, in piedi, davanti al finestrino del corridoio. Era alta, statuaria, bellissima ed ora dava una vaga idea d’accessibilità e disponibilità, increspando le labbra ad una parvenza di sorriso, anche se non rivolto ad alcuno in particolare. Cercò nella borsetta, un delizioso cofanetto di coccodrillo nero, le sigarette; cercò poi l’accendino, io dico che fece finta di cercare l’accendino, e frugò nella borsa. Eccezionale! Aveva buttato l’esca con una delicatezza ed una naturalezza che chiunque, fumatore e non, si sarebbe affrettato con un accendino o con tante scuse per non essere fumatore. Ma eravamo solo in due: io che me la stavo spassando un mondo, ed Oscar, il pesce Oscar, che abboccò all’amo in modo disarmante rimestando nella tasca dei pantaloni, ora più piccola di prima, per trovare l’oggetto catalizzatore per un futuro carico di promesse. Porse l’accendino acceso davanti alla sigaretta protesa di Aba e cercò di approfittare della situazione per contemplare fugacemente gli occhi della donna, ma invano. Allora fu diretto, quasi brutale: - “E’ un peccato coprire due occhi sicuramente affascinanti come la sua persona!” Aba mormorò un grazie di cortesia e poi sussurrò con voce roca: - “Lei crede che io abbia dei begli occhi? E sia, glielo voglio lasciar credere, ma solo credere: una donna misteriosa in qualcosa di sé è molto più desiderabile, non crede?” Oscar impazzì e balbettò qualcosa d’indistinto, poi parlò a voce bassissima. Non intesi ciò che disse e mi feci spiegare tutto l’evolversi del dialogo da Aba stessa, dopo…” 14 E rise ancora, ma stavolta di un riso sinistro, da rabbrividire. Io continuavo ad ascoltare e mi sentivo soggiogato da quegli occhi magnetici color cobalto e ipnotizzato da quelle parole pronunciate con voce neutra, ma ferma e grave che fuoriuscivano da quella bocca da felino che ora rideva come una iena. Quell’odore di cannella e tabacco stagionato che sprigionava la sua persona mi stava stordendo. Lui continuò a parlare, ma stavolta come fosse Aba, la donna misteriosa, sua amica e compagna di viaggio. “Oscar cercò goffamente di controbattere qualcosa di brillante per abbagliarmi da gentiluomo, poi perse ogni inibizione e mi fece partecipe del suo rigonfio nei pantaloni in maniera decisa e volgare che stemperò in un invito, il più esplicito e meno offensivo possibile, a seguirlo verso la ritirata. Sorrisi malignamente: era troppo rozzo e meritava una lezione. Interpretò quel riso come un’adesione alle sue avanches e si fece più pressante, anche fisicamente, strofinandosi leggermente al mio fianco. Mi avviai verso la fine dello scompartimento a passi lenti e studiati, ancheggiando leggermente, civettando, e sentivo il suo sguardo dietro di me ed il suo respiro appena più irregolare di prima. Aprii la porta, entrai e lasciai la porta socchiusa. Entrò di furia dentro il bagnetto e richiuse subito febbrilmente la porta con il nottolino. Poi si girò verso di me e cominciò a biascicare cose senza senso sul suo pacco e sulle mie gambe ed il mio seno e cominciò a brancicarmi maldestramente, senza sensibilità, stropicciando la giacca e la gonna del vestito. Quella ciste sul viso era diventata purpurea per l’eccitazione e gli occhi erano febbricitanti e quei labbroni da pesce lesso tremavano e farfugliavano sul mio collo: che schifo! Il supporre di esser padrone della situazione lo calmò, ad ondate, e finalmente lui dominò la sua bestialità rintracciando quella parte di uomo civile che era in sé. Divenne più misurato, controllato e tentò anche un abbozzo di conversazione: - “Sei molto bella, di una bellezza diversa dalle altre, altera, fredda, distaccata: dipende dagli occhiali, ne sono sicuro. Togliteli, fammi vedere come sono i tuoi occhi.” Gli risposi: 15 - “Sei proprio sicuro di voler vedere i miei occhi, o cos’altro?” - “L’altro lo vedrò dopo e sono convinto che non mi deluderai.” - “Allora, se è così che vuoi…” Io ascoltavo ancora e rabbrividivo presentendo qualcosa di spaventoso e non mi ero neanche accorto che l’uomo davanti a me aveva parlato con la voce di Aba, roca, sensuale e profonda, proveniente direttamente dall’utero. L’uomo parve accorgersi del mutamento della mia espressione, ora atterrita, e, riprendendo il suo tono di voce baritonale mi chiese: “Le sto mettendo paura? Ha paura di me?” “Mi sembra tutto senza senso, le voci, la storia, la sua espressione beata di fronte ad una tragedia…” Risposi frastornato, ma lui continuò con fare salottiero, cambiando discorso: “Conosce Bulgakov, lo scrittore russo? Ha presente i racconti “Cuore di cane”, “Le uova fatali” ed i libri “La guardia bianca” e soprattutto “Il maestro e Margherita”?” “Che significa questo adesso?” Risposi ancora più confuso. Assunse un’aria da pedagogo: “Significa, significa: Michail Bulgakov è stato uno dei pochi eletti che si è avvicinato alla descrizione della vera natura di Aba ed ha immortalato questo personaggio nel suo capolavoro, “Il maestro e Margherita”, nel capitolo della festa del Diavolo, anche se ha tralasciato un aspetto fondamentale della sua essenza: la capacità di trasformarsi in uomo, donna o animale, come tutti i demoni. Aba, bella donna, è stato uno scherzo terreno dei demoni, di Abadonna che con il suo sguardo inceneriva eserciti, uno dei tanti di Legione: ecco il perché dei suoi occhiali da sole. Capisce ciò che le sto dicendo? Io la sto intrattenendo sulle nostre gesta di questo mondo in ossequio alla vanità. Ho presunto che lei sia sensibile ed intelligente: non mi deluda o potrei sentirmi frustrato e sarei preda dell’ira con gravi conseguenze per lei.” Stava diventando tagliente, ma fu un attimo, e ritornò piacevolmente colloquiale: 16 “Stia tranquillo: ora sono solamente vanitoso e non è ancora arrivata la sua ora. Posso proseguire la parte più succosa del racconto?” Balbettai qualcosa, non ricordo, sotto quello sguardo cobalto ridanciano, mentre i denti dell’individuo diventavano più abbaglianti e, forse una mia impressione, più lunghi, simili a zanne. Il brusio continuo della stazione era innaturalmente cessato ed anche la sala d’aspetto era scomparsa in un mare di vapori e nebbia attraverso cui potevo intravedere solamente il volto del mio interlocutore che ora sghignazzava avvolto in un tabarro nero consunto dal risvolto porpora. I gemelli ora sembravano vivi, due scarabei luccicanti nella penombra e la spilla della cravatta altro non appariva che un serpentello vigile con occhi di giada. Il viso del demone era ora di puro cuoio cotto dal sole, le rughe si presentavano molto più scavate ed i capelli emanavano bagliori azzurrini. L’aroma stordente di poco prima era stato cacciato da un odore umido di mobili polverosi e pergamene muffite. Ero sorpreso e terrorizzato. Continuò con voce possente ed autoritaria: “Posso proseguire, mortale? Beh, direi di sì. Dove eravamo? Sì, eravamo nel cessetto di un vagone del treno che portava me ed Abadonna verso una meta o un’anima. Aba, chiamerò e considererò il mio amico com’era, si tolse lentamente gli occhiali davanti all’ eccitato Oscar, e Oscar vide ed ebbe poco tempo per rimpiangere la sua galante richiesta. Abadonna non ha globi oculari, occhi, pupille: ha le orbite vuote, nere e profonde, che mandano sinistri bagliori verdastri che saturano l’ambiente di vibrazioni violente e crudeli, di sete di sangue, e liberano la bestia che è in lui in tutta la sua potente efficienza nello sterminare. L’angusto ambiente si permeò prestissimo di questa aura verdognola e le pareti si coprirono di alghe ed il finestrino si oscurò schermato da diafani licheni viscidi e regnò la penombra. Oscar rimase atterrito da quella rivelazione: un ritratto di Nagel senza occhi, con due vuote cavità scure che mandavano bagliori verdi e sbiancò senza neppure avere la presenza di spirito di reagire aprendo la porta e fuggendo. 17 La sua mancanza di reazione lo costrinse a vedere l’ennesima trasformazione. Le labbra carnose e vermiglie di Aba si assottigliarono fino quasi a scomparire in due linee vizze violacee mentre i denti, prima bianchissimi e disposti in regolare chiostra, si trasformavano in zanne giallastre sporgenti dalla bocca ormai deforme. I capelli corvini caddero a ciocche, come per alopecia, evidenziando un cuoio capelluto che, come la pelle, diveniva squamato, a placche, e le mani, affusolate e diafane, assumevano sempre più l’aspetto d’artigli dalle lunghe unghie ingiallite dal tempo. Il vestito si lacerò sotto la spinta interna di un corpo mostruoso di basilisco e le calze si stracciarono al contatto di rilievi puntuti verdastri duri e callosi. Aba la donna stava diventando Abadonna e l’aria verdastra di quel piccolo ambiente lo testimoniava secondo per secondo mentre il rumore delle ruote del treno s’affievoliva fino al silenzio tombale per lasciar posto al fruscio di serpenti che si arrampicavano su per le pareti e le gambe di Oscar. Il ragazzo provò ad urlare per chiedere aiuto e per il raccapriccio, ma Abadonna lo colpì senza apparente violenza col tacco inguainato d’acciaio di una delle sue scarpine. Il pomo d’adamo fu penetrato da quella punta micidiale con uno schiocco secco di pneumatico scoppiato ed Oscar rimase senza fiato mentre il sangue sprizzava sullo specchio e sul lavabo della toeletta istoriando le alghe vive, umide ed agitate. Un secondo colpo ed esplose come un sacchetto pieno d’acqua l’occhio sinistro in schizzi gelatinosi e sanguinolenti. Abadonna ringhiò: - “Volevi vedermi senza occhiali, nella mia vera essenza? Eccomi, eccomi, ma devi pagare perché sono una puttana, una puttana un poco speciale!” Gorgogliò una risata catarrosa. Il demone sollevò di peso il giovane stordito dalla sofferenza e lo appese, o meglio, lo inchiodò per la pelle e la carne viva della schiena all’attaccapanni del bagnetto. Oscar non poteva più urlare e respirava a fatica: sentiva l’aria uscire dalla trachea forata dal tacchetto e dai polmoni trafitti dal gancio dietro di lui. Era spossato dal dolore fisico e cominciò a pisciarsi addosso. 18 Abadonna rise ancora, sguaiatamente, poi si accostò al giovane appeso e lo sbranò all’improvviso sulla guancia con la ciste: l’ossatura del viso scricchiolò e la guancia scomparve tra le fauci del mostro mettendo a nudo i denti e la bocca rossi di sangue. Il demonio ora era incontrollato e squarciava cogli artigli e sbranava con le zanne mugolando di piacere a contrasto con i lamenti fievoli della sua vittima. Io ascoltavo dal mio sedile nello scompartimento ed invidiavo il mio amico. Le posso assicurare che Oscar ebbe una fine orrenda e dolorosissima, nonché abbastanza lunga, perché Abadonna non gli permise con clemenza di morire in fretta. Lo smangiò in parti non vitali staccando con voluttà brandelli di pelle e carne sanguinolenta e lo sventrò, prima delicatamente, se capisce l’umorismo della parola, poi sempre più violentemente con gli artigli mettendo a nudo le sue budella ed il pistolino ormai non più voglioso; glielo staccò con un’artigliata secca come una rasoiata e lo diede in pasto ai serpenti. Poi tutto ebbe fine. Abadonna ritornò Aba e ricomparve come un ritratto di Nagel nello scompartimento in mia presenza e Oscar finì sulla massicciata.” Ero tramortito nell’ascoltare quell’orribile racconto ed avevo chiuso gli occhi per non affrontare lo sguardo di chi raccontava. Percepii la pausa pesante della conclusione ed aprii gli occhi, mentre la sala d’aspetto aveva ripreso la sua luce ed il brusio della stazione si ripresentava sempre uguale. L’uomo era sempre seduto a fianco a me e sorrideva beffardo, elegantissimo nel completo antracite, con fermacravatta d’oro e brillante e gemelli d’oro ai polsini, circondato da quel familiare olezzo di quando si era presentato. Sembrava che nulla fosse successo e che ci si fosse scambiato un parere sull’ultima partita di calcio o sulle quotazioni di borsa.. “Adesso capisce perché dico che si leggono tante stupidaggini sui giornali, vero?” La voce era tornata baritonale, profonda ed indifferente e stentavo a credere a quello che avevo ascoltato. 19 “Ora sto meglio: ho perseguito nel peccato della vanità ed ho suscitato in lei un sano terrore che mal si addice col fare del bene al prossimo.” Minimizzò con fare magnanimo: “La mia piccola buona azione giornaliera da boy scout, un raccontino, un’esercitazione per mantenere in rilassatezza l’allenamento… Rimane il fatto che lei non mi crede o che penserà in futuro di essere stato vittima di un’allucinazione: conosco voi persone logiche e riflessive e non mi farebbe piacere in futuro scoprire che quanto è stato perpetrato da Abadonna sia sminuito come una fantasia da cattiva digestione. Lei deve, dovrà sempre credere: i demoni sono fra voi e Legione è ovunque.” Mi porse allora da una tasca della sua giacca un cartoncino porpora. Si levò dritto e massiccio come un armadio e uscì dalla sala d’aspetto a grandi falcate coprendo con una sonora risata cavernosa un annuncio dell’altoparlante, tra le occhiate sbigottite dei presenti che poi fissarono me perplessi. Imbarazzato ed ancora sorpreso, lo vidi scomparire e cercai di darmi una spiegazione razionale per ciò che avevo udito, rigirandomi tra le mani quel cartoncino. Non mi capacitavo di quanto mi era accaduto ed effettivamente ero propenso a giustificare il tutto come un malore od un’allucinazione. Diedi, allora, una sbirciata al bigliettino da visita che avevo tra le mani: era un cartoncino molto rigido ed antico e dal fondo porpora. Recava scritto ad antichi caratteri medievali d’oro a rilievo solo un nome: Asmodeo. Un turbinio di parole, ricerche ed antiche lezioni scolastiche vorticò nella mia mente: Asmodeo, il demone, uno dei tanti di Legione, un compagno inseparabile di Abadonna nella ricerca di anime perdute, uno degli sfidanti di quell’armata delle tenebre per il dominio della vita e della morte. Si associarono alle parole le immagini, le sensazioni: i ‘rari ed obliati tomi d’antica sapienza’, polverosi e pieni di mistero, citati da Poe ne “Il corvo”, il vecchio monastero custode di tremendi segreti dei frati di Eco nel libro “Il nome della rosa”, il vento ululante nelle 20 steppe, fedele compagno di branchi di lupi famelici ed altre evocazioni classiche della letteratura e della cinematografia. Asmodeo: quella risata diabolica, squassante e terribile, emerse prepotente dalla marea confusa delle memorie e mi trafisse a lungo la mente. 21 SAGGIO PC Avrebbe dovuto essere un gran giorno lo scorso 13 dicembre per X., un giorno diverso e quindi vario, fuori ufficio, su un lussuoso Eurostar per un viaggetto presso la sede madre a presenziare una riunione di lavoro. Bello lo sprofondare in una poltroncina della carrozza n. 1 in testa al treno, con la hostess premurosa che porta il caffè caldo e due biscottini e il giornale in un brusio avvolgente di varia umanità; socchiudere gli occhi per un poco cullati dal rollio del treno, dalla samba frenetica delle ruote sulle traversine che possono trasformarsi in un’orchestrina afro-cubana. Ma questo è il viaggiare dell’ozioso e X. ozioso non lo era di certo: aprì la valigetta di pelle molto vissuta e tirò fuori il più sottile e leggero dei PC portatili, pochi etti di alluminio brunito potente e docile sotto le sue dita esperte di abitudinario fruitore dell’informatica. Cominciò a scrivere delle lettere commerciali sul programma Word macinando una serie di rituali procedurali come ‘taglia’ ‘copia’ e ‘incolla’ e ‘formatta’ in maniera straordinariamente veloce. Ogni tanto socchiudeva gli occhi e radunava le idee ispirato mentre il treno si infilava in paesaggi mutevolmente veloci. Si rituffò, dopo una di queste pause, con attenzione sul monitor e rimase sorpreso nel vedere una scritta che lui certo non aveva digitato: “Vai nell’ultima carrozza”. Si guardò attorno, squadrò il suo vicino che però dormiva, rimuginò sul mistero: magari una interferenza, un pirata informatico... hacker, chissà….Schiacciò il tasto ‘enter’ e la scritta scomparve per poi subito riapparire, stavolta in maiuscolo: “VAI NELL’ULTIMA CARROZZA”, caratteri in grassetto. Fu pervaso dal panico dell’inspiegabile e rimase paralizzato senza una reazione…e questa fu la sua condanna. Si rese conto fuggevolmente che il paesaggio fuori del finestrino era nebbioso, percepì un rumore di schianto, di lamiere contorte, fu circondato da rumori, gemiti e vide 22 distintamente sangue, schizzi di sangue dappertutto mentre volavano poltroncine e passeggeri. Vide poi, o presagì, una longarina fuoriuscire a velocità relativa, rapidissima e nello stesso tempo come al rallentatore su un videoregistratore, dal locomotore avanti la sua carrozza e in poche manciate di attimi realizzò che puntava sul suo torace e rimase ipnotizzato mentre nella mente la riunione, il PC, il viaggio e quel senso di spensieratezza precedente vorticavano tumultuose. Poi il buio ed il silenzio. Il vigile del fuoco che aprì colla fiamma ossidrica le lamiere si addentrò con fare circospetto e prudente nella carrozza n. 1 inorridendo per l’osceno spettacolo di corpi mutilati in un mare di effetti personali di bagagli aperti. Chiazze di sangue dappertutto alla fioca luce della campagna nebbiosa, silenzio innaturale ed espressioni stravolte dall’ultimo attimo nel terrore e nella consapevolezza della morte. Fu colpito da una luce fievole sotto una poltroncina, una delle poche miracolosamente ancora fissate al pavimento della carrozza, con un giovane trafitto da una longarina con gli occhi sbarrati in una espressione di stupore. Guardò sotto e vide un PC portatile ancora aperto e acceso con un messaggio sorprendente: “TE L’AVEVO DETTO DI ANDARTENE IN FONDO, COGLIONE!” 23 METROPOLITANA Si esplora, si ritualizza necessariamente, avvolti da una luce fredda di neon sbiadito che ci rende tutti verdognoli come gli alieni cattivi di un qualche filmetto dei primi anni sessanta. Si viaggia abbracciati da uno sferragliare convulso e ritmico, una lite rissosa di ruote con rotaie, che ben potrebbe accompagnarsi con urla di ribellione metropolitana di Archie Shepp o di Cannonball Adderly. Il contrasto tra il dire e il fare, il sognare ed il reale, è la musica malinconica e svogliata di Goran Bregovic eseguita da due giovani slavi in improbabile formazione di kazoo e fisarmonica: sono improvvisati artisti di strada, o maldestri schiavi dell’arte per fame, con bicchiere di cartone della Coca di McDonald che viene proteso in continua autosodomizzazione metaforica come una protesi sfacciata di invalido senza pudore. Per il resto, oltre questi rumori, aleggia il silenzio di “Metropolis” con volti uguali e inespressivi. I vetri dei finestrini proiettano immagini assenti di zombies, produttivi e improduttivi, immersi in una soluzione d’invisibile formalina e pensieri di spicciola sopravvivenza o di considerazioni esistenziali più o meno vivaci. Odori che si moltiplicano a livello esponenziale: dal rancido di vecchi vomiti d’ubriachi alla dinamica fragranza aggressiva di una giovanile acqua di colonia che diffonde tabacco e sandalo, sudori di stanchezza per la vita e caramelloso sentore di lacche da poco prezzo. Ci si guarda con astio, colpevolezze nascoste, sfida, superba autosufficienza, mentre le note scordate balcaniche inseguono non più di due o tre fermate in un febbrile andirivieni d’api industriose, fuchi, parassiti che rendono vivo questo termitaio cosmopolita postmoderno immaginato da incubi di un designer affermato in contrasti vivaci di strie blu elettrico, giallo uovo, con isterici cartelloni pubblicitari delle stazioni che fuggono alla vista con vuoti 24 sorrisi nella luce pallida e fredda che scava nelle pupille indifferenti. Si sobbalza e ci si culla, nella culla di “Rosemary’s baby” (benvenuti all’inferno): non è proprio un tango, non è nulla di sincronizzato: i mancorrenti uccidono il ballo e mummificano in stretta necessità qualsiasi desiderio positivo di reazione. Un vagone potrebbe apparire come un allevamento di cozze: chiuse, ferme, tra odori, nella corrente, alla luce sporca e al rumore di porto, rimorchiatori, sirene, e tante bolle intorno. Si parla pochissimo: monosillabi, ammiccamenti. E’ il trionfo dell’alienazione e dell’isolamento nell’abbraccio freddo e verdognolo rumoroso della luce ferita da note d’accattoni e dalla salsa afrocubana delle ruote litigiose. La mente corre a scene già viste al cinema: “I guerrieri della notte” e altre pellicole sgranate per un nuovo neorealismo, fredde come la luce al neon, rumorose di quello sferragliare che isola in propri pensieri in attesa della prossima fermata per una diversa luce e altri rumori… Per ora, però, solamente la claustrofobia e la consapevolezza dell’insetto… 25 PROCESSI DI CRESCITA Si dibatte spesso degli eterni quesiti “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”, soprattutto del “dove”, attanagliati dall’angoscia di non avere punti di riferimento, quando forse sarebbe meglio esplorarsi nel “chi”… Rientra tutto in un processo di crescita verso un concetto aleatorio e soggettivo, che si vuole sempre rendere prepotentemente oggettivo sul modello della propria soggettività: scaturisce l’idea di maturità rispetto ad un essere bambini… Sdrammatizziamo? Io la vedo così… Un piccolo bambino rom, uno zingarello di quaranta chili, venti di vitalità e venti di croste di sudicio e morchia, va a lavoro con l’autobus verso piazza S.Carlo o il Centro Commerciale: fa l’elemosiniere avventizio, in nero, e se la cava benino. Felice e spensierato, si spaparanza sul sedile dell’autobus con un chupa chupa e un panino di marmellata faticando a trovare la giusta posizione ed artigliando quindi tutto quello che trova con le sue manine da “giorno dei trifidi”. Scende alla stessa fermata che ti vede salire sul medesimo autobus. Sei assonnato e compenetrato nel tuo quesito esistenziale giornaliero sul dove tu stia andando e su quanto tu sia soddisfatto della tua esistenza: sei quindi distratto e poco attento ai dettagli banalmente materiali. Se, invece, stai riflettendo sull’ultima rata del riscaldamento o sulla imbarazzante caduta dei tuoi capelli negli ultimi tempi, prova a fare finta di porti un problema esistenziale che ti dia aria assorta e svagata, solo per andare avanti con il test che ti sto sottoponendo. Ti siedi su un certo sedile (te lo aspettavi eh?) e percepisci un qualcosa di paludico appiccicaticcio che ti imprigiona il fondo dei pantaloni e ti accorgi che nell’aria è diffuso un odore di zucchero e marmellata di more. E’ qui che si evince il processo di crescita dell’individuo! 26 Reazione A Smadonni, cristoni in un crescendo rossiniano che trova proseliti tra vecchine filopadane che vanno a fare la spesa e ti incazzi in maniera esponenziale perché due studenti ti ridono dietro; le tue coronarie assumono la consistenza della coramella dell’idraulico, flessibilissime, e il tuo colorito pallido esistenziale si è trasformato in un cianotico sanguigno da biscazziere che ha sbagliato a fare il mazzo. Tutto ciò vuol dire che sei ancora un bambino immaturo, che guardi la contingenza e ti fermi là (in questo caso il pantalone bisunto). Non ti poni problematiche dietrologiche sull’esistenzialità romica o zingaresca e sul suo diritto all’esistenza: vai avanti con la prepotenza prepuberale di volere tutto e subito (pulito, se rimaniamo sui pantaloni). Reazione B Percepisci la spiacevole caramellosità della situazione, ma sgami in tralice che vicino a te coesiste uno gnoccone sovrumano, un mammifero che appare spesso, purtroppo a sua insaputa, nei tuoi sogni erotici. Assumi un atteggiamento di completa sportività di fronte alle avversità della vita che si manifestano sotto forma di pozzanghere di marmellata e guardi sorridendo la ragazza che ti fissa incuriosita nel dilemma se considerarti eccentrico o polverizzato nel cervello per un precoce marasma senile. Tu prosegui la sceneggiata di disinvolto di mondo tamponandoti i pantaloni con un fazzoletto facendo bene attenzione a promuovere quel bozzetto che hai in mezzo alle gambe con strofinate che lo evidenzino apparentemente in maniera casuale. Stai crescendo, amico… Hai superato la fase prepubere e sei nella fase arrapata adolescenziale con un certo autocontrollo, seppure goffo, che torna a tuo merito circa una nascita di maturità. 27 Ti stai ponendo alcuni quesiti e stai cominciando a dare una qualche risposta a certi perché: a cosa serve il mio pistolino? Perché in presenza di mammiferi popputi si erge come una piccola gru fatta col meccano? Perché sbavo ogni tanto da solo e soprattutto in compagnia? Reazione C Percepisci quel ‘quid’ di melassoso (melassico? Melassese?) sul fondo dei tuoi pantaloni. Chiudi i tuoi occhi e sospiri, in un tacito OOOOOOMMMMMM tantrico, a ritrovare una tua tranquillità interiore sconvolta dalla pallina del chupa chupa che ti è entrata fastidiosamente nel culo. Richiami a te tutte le tue risorse mentali per focalizzare il contesto dell’accaduto nell’ambito di un cosmico problema esistenziale che parte dalla considerazione del problema albanese fino al proposito di determinare per tue prossime riflessioni alcuni autodibattiti in un mentale elenco di ottomila voci riguardante tutti i mali del mondo, dal buco dell’ozono al viagra (il viagra mica tanto male del mondo), e distilli nel tuo essere una tua verità che è frutto della tua esperienza, della tua conoscenza e del tuo orientamento politico. Se sei di destra auspicherai dentro di te, a seconda del tuo misticismo, un castigo divino o una catastrofe naturale atta allo sterminio di tutti i bambini rom nell’orbe terracqueo, poi affinerai l’idea di un loro pratico sfruttamento per una società funzionante per il benessere degli spiriti superiori e accarezzerai l’idea di “Metropolis”, il film muto, per l’organizzazione del lavoro minorile dei piccoli rom applicata non soltanto al cucire palloni da football; vagheggerai, in alternativa ambientalista, un qualche risparmio sul concime usando materiale alternativo di quaranta chili indifferentemente vivi o morti, anche se appiccicosi di marmellata. Se sei di sinistra ti comincerai a preoccupare di risolvere il problema partendo da dettagli di sovrastruttura (salviette detergenti offerte dal comune sulle linee di autobus frequentate da piccoli rom con chupa chupa) per 28 poi affrontare gli innumerevoli problemi di struttura riguardanti il costo dei trasporti pagato dalla collettività (esclusi i piccoli rom), il disagio della comunità rom in un ambiente ostile (ostili, almeno, tutti i personaggi con un paio di pantaloni in meno), il desiderio di recuperare le tradizioni rom, la voglia irrefrenabile di adottare un piccolo rom, la frenesia incontrollata ed ecumenica di adottare e fare tuoi figli naturali tutti i piccoli rom del mondo. Sei cresciuto, amico: in ogni caso sei cresciuto, sei maturo e hai le idee chiare sulla tua esistenza e sulle tue origini ancestrali. Sei un uomo completo ora, con le tue scelte anche dolorose e con le tue risposte anche ruvide e sai finalmente dove devi andare: in lavanderia… 29 NEO MONTESSORI L’automobile procede ad andatura di crociera, per come lo permette l’intenso traffico sulla corsia centrale della tangenziale a tre corsie affollata d’automobili di pendolari, furgoni di consegne commerciali e autoarticolati giganti. Il cielo è grigio, vagamente nebbioso, deprimente, e i colori lividi sono feriti da fari giallastri nell’umido delle campagne circostanti. La giovane mamma guida disinvolta fumando frenetica una sigaretta e parlando animatamente con un’amica al cellulare: voce colloquiale polifonica che vira dall’isterico al curioso al confidenziale. Discussione apparentemente improrogabile, ora, proprio ora. Il piccolo irrequieto Giovannino, dietro, armeggia con dei grossi pennarelli su un foglio di cartone e guarda con curiosità e impazienza fanciullesca le altre automobili dal lunotto posteriore. “Giovannino, stai composto e non ti agitare tanto…” E’ un ritornello, la raccomandazione, scandita come una segreteria telefonica o un’informazione da centralinista di compagnia di taxi, tra pettegolezzi, sfoghi ed una ricetta per un timballo, tra uno strizzare d’occhi per irritazione da fumo e uno sguardo distratto allo specchietto retrovisore. “Giovannino stai calmo… cinque minuti all’arrivo a casa, cinque minuti all’arrivo a casa di Giovannino…la mamma per Giovannino…la mamma per Giovannino…” Darko è stanco e dovrebbe riposare. Vorrebbe riposare. Un altro sorso di birra per scacciare la monotonia anestetizzante della strada sempre uguale, un rettilineo che s’infila in vena come pentotal per non pensare più e piombare in un sonno profondo. Sono troppe sei ore di seguito da Villa Opicina: e pensare che tre giorni fa era a Timisoara. Il suo enorme Skania cromato romba e morde l’asfalto della tangenziale e Darko si sente, lassù nell’abitacolo tiepido di sudore e riscaldamento a manetta, un re, uno 30 stanco re che vorrebbe abdicare in una piazzola vicino ad un autogrill pieno di roba calda. Toh! Quel bel ragazzino: che ha da guardare?... Ciao piccolino: sembri il mio Miroslaw…un sorsetto di birra, va…cin cin biondino… Eheheh fai le linguacce…ragazzino sveglio e prepotente eh? Ciao, ciao, piccolino, eheheh… … Cazzo che piccolo bastardino. Cacciatelo nel tuo piccolo culo il ditino, piccolo stronzetto. … Ma dico io: che educazione da queste parti. Brave mamme qui intorno… Adesso che fa quella peste? Ah! Pare che si sia messo tranquillo: comunque bel piccolo maleducato… Peccato! Così vivace e carino… … Bastardo! Due volte! Tu e la tua mamma! Scrivermi vaffanculo, così, su un cartello… “Chiamate un interprete che non capisco una mazza.” “Subito, Commissario.” “Allora, ubriacone: ti chiami Darko…e poi? Dove hai, dove avere tu tuoi documenti, documenta?” “Educasioni, educasioni…Anche in mio paese, Rumania, educasioni, commisari… Muntesoru,…Muntesoru no buono metodo educasioni…” “Cazzo dice questo qui? Educazione? E’ salito con tutto il camion sopra una macchina e ne ha fatto una polpetta…Due morti saldati insieme alle lamiere…un bambino di sei sette anni e la sua mamma… Cazzo centra l’educazione?... Questo è ubriaco come una cocuzza… Ricominciamo allora: ti chiami Darko…rumeno tu, sì? Poi? Come tu chiamare?...” “Muntesoru no buono metodo educazioni, commisari…” 31 GLI SCONFITTI HANNO GLI OCCHI DI MONTONE Ansima la vecchia corriera, residuato degli anni sessanta, sulla strada sterrata che da Nairobi porta al villaggio turistico in riva al mare. E’ un mostro antidiluviano, più volte rabberciato, con pochi pezzi di motore originali, dipinto a colori vivaci ormai stinti e scrostati dalla salsedine e dal sole che cuoce implacabile una strada percorsa avanti e indietro per oltre quaranta anni. A bordo viaggia poca gente perché è un orario proibitivo. Due altere donne masai tintinnanti d’anelli e catenelle e denti di squalo, avvolte in tessuti multicolori. Parlano tra loro a bassa voce come ciangottanti uccellini sulla gobba di uno gnu. Una piccola comitiva di turisti, italiani, rumorosi e allegri, provinciali come quasi tutti gli italiani all’estero, come fossero padroni del mondo, padri di famiglia scialbi con mocciosi frignanti e donne che si sentono realizzate in vacanza nel continente nero. Un ragazzo pallido ed emaciato dall’intensità febbrile, in disparte, con lo sguardo perduto verso l’orizzonte che sembra non avere mai fine confuso tra riverberi accecanti e il polverone sollevato dal dimesso autobus. Al volante un imperturbabile ciccione sudato, nero come un tizzo, con un paio d’occhiali a specchio e un sorriso a mezza strada tra l’idiota e il troppo vissuto che, forse, qui ha lo stesso significato. Afrore multirazziale tiepido e secchezza delle gole. Desideri di una doccia, di lenzuola di lino, d’ombra fresca, di ventilatori, di bibite ghiacciate. La comitiva è fastidiosa, arrogante nell’imporre propri timbri vocali e assonanze, con un insieme di dialetti tra cui spicca qualche inflessione romanesca con qualche intercalare popolaresco tipico infarcito di goliardate e doppi sensi di buonumore; qualche biondo bambino imbronciato cantilena, monotono, capricci o piange per disagi infantili d’astinenza da aranciata fredda o da caramelline alla menta. 32 Il ragazzo in disparte, serio, senza espressione, abbraccia dal fondo della corriera la scena dei turisti sempre più chiassosi. Li comprende, sotto certi aspetti, Aziz Mansouri, giovane egiziano dai capelli crespi corti e dallo sguardo indecifrabile: anni a Torino, a Roma, a Bari a pulire vetri ai semafori, a scaricare casse al mercato, a soddisfare sporadicamente qualche vecchio morboso amante della gioventù esotica. Li comprende perché li conosce: un lungo tormentato lavoro di scavo con sorrisi e una spugna all’incrocio trafficato di fronte a persone a volte comprensive, a volte infastidite, a volte finanche violente. Conosce quell’arroganza meschina, impastata di paternalismo tronfio di chi si crede superiore per scelta divina. Conosce la diffidenza mista a curiosità e ad opportunismo per strani intenti. Li scruta e li soppesa, intende quello che dicono, registra la loro gioia smodata e maleducata e riflette su quello che è stato e su quello che sarà, tormentando un cordino che spunta fuori del suo giubbino senza maniche da cacciatore, pieno di tasche e tasconi, imbottito e pesante per quell’ora assolata che cuoce il tetto della corriera e arroventa vetri, sedili, persone che sudano e imprecano e ridono felici in un’assoluta mancanza di logica. La corriera procede a balzelloni su buche e sassi disseminati lungo la strada sterrata polverosa e riarsa. Di tanto in tanto si ferma e sbarca qualcuno o accoglie qualcun altro. Ecco: sono appena scese le due donne masai, alte, slanciate, vagamente disgustate di tutto quel frastuono degli italiani. “Italian do it better”…il rumore sicuramente… E’ salito un giovane moretto allegro, crespo con un sorriso candido, una guida o un cameriere del villaggio turistico probabilmente, perché ride alle battute degli italiani e ammicca furbescamente, mentre succhia aria mossa e polvere da un finestrino interamente abbassato: occhi svegli, profondi, maliziosi ed innocenti insieme. Ha 33 portato con se un odore stordente di gelsomino e d’acqua immota di stagno. Potenza del turismo nel comprendersi! Tutti parlano l’italiano in questa landa arrostita dal sole keniota: sembra di essere a Gabicce Mare di cinquanta anni fa con qualche negretto in più. Anche molta polvere in più, e nessun tedesco che canta ‘Lilì Marlen’, e nemmeno birra o lambrusco frizzantino. Oggi si canta ‘…mille violini portati dal vento…’ della Carmen Consoli e si inumidisce qualche occhio, ma la colpa sarà forse della polvere rossastra che entra dappertutto. Aziz pensa alla sua giovane vita e alla sua scuola frequentata con profitto a Torino. Si affaccia alla memoria l’imam, segaligno e austero, e certi suoi discorsi di disperazione e di solidarietà per i fratelli mussulmani di tutto il mondo: era attento ad ascoltarlo insieme con altri ragazzi, la sera, nel retrobottega del piccolo supermercato di prodotti tipici per arabi. S’insegnava orgoglio islamico e si pesavano situazioni e vite sezionando storie come fette di kebab a riempire pani morbidi e soffici d’odio. Ricorda quel dialogo con quell’uomo venuto da lontano dagli occhi penetranti che gli ha promesso un futuro d’agiatezza per la mamma e la sua sorellina più piccola. Si accende nella mente, all’ombra torrida della corriera, la commemorazione di suo padre, di suo padre eroe, da parte di quell’uomo, un sant’uomo dalla voce mite che parla di redenzione e di paradiso e di fedeli e infedeli. Scava come una goccia cinese nel cervello la promessa che ha fatto a quel maestro e il saluto alla mamma e alla sorellina. Sua madre con gli occhi umidi e orgogliosi. Ora basta ricordare: è il momento di agire. Aziz si leva in piedi dal seggiolino. Incrocia lo sguardo di un membro della comitiva, un ometto sui quaranta già stempiato dallo sguardo di un furetto e da un sorriso aperto e disarmante. Mentre lo guarda, squadrato a sua volta, riflette intimamente: sono così trasparente nelle mie intenzioni? Quest’uomo ha compreso e ora sa: devo fare presto… 34 “Ahò, morè, sta bbono pe l’amore de Ddio. Che voi fa? Nun vedi che cce so li regazzini? Sta bbono, aspetta, parlamo. Aspetta che vengo da te e ne parlamo… Si tte posso aiutà, sto qui pe aiutatte…” Aziz è ipnotizzato dal sorriso dell’ometto e soprattutto dagli occhi supplichevoli, mobili e irrequieti, in stridente serietà ferma e guardinga: rimane in silenzio e contraccambia lo sguardo senza espressione con un solo dolore interiore che solamente lui riesce a percepire, violento, lancinante. “A morè, come te chiami?” “Aziz…” “Ammazza che ber nome: Azzizze… Conosco ‘n Azzizze a Roma… Ahò Azzizze, aspetta, nun fà cazzate, me capisci vero?” Il tono della voce è sommesso e quasi querulo, si dovrebbe perdere tra il frastuono ridanciano della comitiva dei turisti, ma qualcuno ha afferrato al volo quello che sta per succedere ed è ammutolito guardando i due e creando un effetto domino d’angoscia e attesa. I bambini sembra che abbiano un loro istinto animale: ora tacciono abbracciati da mamme dagli occhi inquieti con una piega amara alla bocca. Qualche gemito sommesso di casalinga apprensiva che chiama la Madonna del Divino Amore o il dolce cuore di Gesù; qualche respiro più affannoso e qualche singhiozzo trattenuto a stento. Su tutto, un odore di paura di morire misto a diverso sudore e alla stessa polvere di prima fastidiosamente imperturbabile. Il giovane moretto al finestrino non ride più. L’autista rallenta impercettibilmente la corsa della corriera, scruta l’enorme specchio retrovisore e impallidisce per come può impallidire un ciccione autista nero come un tizzo che ora suda ancora più abbondantemente: i suoi occhiali argentati impenetrabili nascondono uno sguardo da animale braccato. “Capo, capo: frena ‘n po’ che dovemo da parlà co sto signore. 35 Azzizze sta tranquillo: parlamo solamente…ahò, voi fumà? C’hai sete? Voi bbeve? Mi moje c’ha ‘l termo pieno de thè freddo… Voi ‘n bicchiere intanto che parlamo?” “C’è poco da parlare, italiano. Quando c’è stato da parlare non avete voluto ascoltare e avete parlato solo voi. Anche ora vuoi parlare solo tu e non c’è più tempo per ascoltare, e forse non vuoi o non sai ascoltare.” “Azzizze, ma cche stai a ddì? Ma cche c’entramo noi? A me l’arabi me so simpatici, c’hanno ‘na civiltà, Averroè, Avicembalo, Avicenza, …come cazzo se chiama, …c’hanno er petrolio: è robba loro. Io nun la penzo come l’americani. Qui nessuno la penza come l’americani. Perché te la devi da pijà co’ noi che nun c’entramo gnente?” “Italiano mi fai ridere. Che c’entra allora il mio popolo calpestato di fratelli islamici nel mondo che ha bambini uccisi da malattie e terra occupata per prendere ricchezze?” “Ahò, aspetta Azzizze, che cacchio c’entrano ‘ste creature? I fiji nostri stanno a venì su educati a rispettà l’arabi e i negri: noi semo tolleranti co’ ttutte le razze de la tera. Come poi penzà de dacce la morte, proprio a noi che ve volemo bbene?” L’ometto, parlando con il giovane egiziano, si avvicina alla portiera della corriera. L’autista ciccione, ormai spugnoso, nel frattempo va quasi a passo d’uomo e il ragazzo sveglio che sa di gelsomino valuta l’ipotesi di buttarsi dal finestrino. “Azzizze, noi semo amici. Qui ce stanno tutte persone che tte vogliono bbene e vogliono bbene all’arabi. Fai escì li regazzini che sso’ innocenti… Io adesso opro lo sportello e faccio escì le creature co’ le mamme… Essi omo, Azzizze …” 36 L’ometto implora con una sorprendente dignità e un quasi naturale cameratismo, suda e si muove lentamente verso lo sportello. Aziz è impietrito e confuso tra sue realtà meditate più volte e quegli sguardi di vittime molto simili a quelli dei montoni sgozzati per il cous cous. Lo sportello è aperto con un cigolio e un refolo di aria calda in corrente con i finestrini invade il corridoio della corriera. “Azzizze, li regazzini mò scendono piano co’ le mamme. Noi parlamo. Si tte posso aiutà, lo sai che nun me tiro indietro…” “Come puoi aiutare me? Mi dai lavoro? Una casa per me e mia madre e mia sorella? Come l’ imam? Aiuti i miei fratelli in Palestina? In Afghanistan? In Iraq? Combatti con me contro gli americani e i loro alleati?” Quasi ride, Aziz, isterico nel formulare domande taglienti come rasoi: una smorfia tra richieste gutturali strozzate che sembrano irate. Abbocchiamo sempre noi occidentali: due arabi parlano appassionatamente tra loro e noi pensiamo che si vogliano accoltellare direttamente entro pochi secondi, frastornati come siamo da accenti e toni gutturali duri e cipigli combattivi e grintosi. La corriera è ferma, ora, nella canicola di una distesa di terra senza altro che arbusti, qualche masso e tanta polvere fino all’orizzonte. I bambini sgattaiolano muti e discreti verso lo sportello d’uscita seguiti dalle mamme timorose e inquiete. Si spandono tutti di corsa a raggiera lungo la strada polverosa a nascondersi dietro massi perdendo sandali, cappellini e fazzoletti. Il ragazzo moretto, il cameriere, serissimo ora, con un balzo è nella strada e corre fino ad un bidone di benzina abbandonato vuoto ad una cinquantina di metri dalla corriera. 37 L’autista ciccione, semiliquefatto, si cala giù dal suo sportello e arranca asmatico dietro al moretto. Sull’autobus sempre più rovente, anche perché fermo, rimane il romano stempiato che frastorna Aziz in romanesco sorridendo, solo con la bocca, con due occhi vigili e inquieti, mentre anche gli altri componenti della comitiva scendono furtivamente e ordinatamente dalla corriera per poi fare un isterico avanzamento veloce quasi da vecchie comiche verso un qualsiasi riparo. L’ometto parla e parla, torrenziale: “Azzizze, vedi questo che scenne? E’ cardiopatico. ‘O sai che vvor dì? Vor dì che si sta ancora qua dentro more de paura e tu saresti ‘n infame . ‘O vedi quest’artro? E’ mì cuggino: è ppieno de debbiti, ‘na monnezza d’omo, ‘n fallito: però c’ha ttre creature, quelle che so scese prima co’ la mamma. Daje ‘na possibilità de redimese. Ma cchi tte lo fa ffà? Nun ce risorvi gnente a ffà sartà ‘sta corriera. Noi nun semo nessuno, semo bbrava ggente. Cazzo c’entramo noi co’ l’arabbi?” “Italiano, tutto ha un suo significato: è scritto dal tuo Dio ed è scritto dal mio Dio. Il prezzo della mia vita per il benessere della mia famiglia. Il prezzo della tua vita per la gloria di me di fronte al popolo arabo, per orgoglio e dignità del popolo arabo. Ora che siete tutti andati quale significato può avere il mio gesto?” “Ma cche tte ‘lludi de fà? Voi cambià er monno co’ ‘n botto? Credi d’arisolve quarcosa?” L’ometto ora non ride più: è amaro, con una piega triste della bocca scartavetrata dalla polvere rossastra della strada. Gronda di sudore, ma è quasi indifferente alla chiazza che s’allarga nella maglietta sugli scarni pettorali. Guarda Aziz con uno sguardo duro, indifferente, stanco. “A morè, io vojo vive pe’ li fiji mja , pe’ mj moje, pe’ godemme ancora ‘sta vitaccia co’ quarc’ artra ggita. 38 Io me considero innocente: fa ‘n po’ quello che tte pare… Io me ne vado, sorto fora da sta scatoletta aroventata: te chiedo de famme vive, ma nun vado a pregà nimmanco in chiesa, figuramose si me metto a pregà tte… Te saluto, morè. Me sembra ‘na partita tra ospedale contro lazzaretto: chi penzi che vince? Tutti sconfitti, semo, aricordatelo…” Guarda ancora per un attimo, grave, il giovane egiziano e gli volge le spalle con un brivido gelato dietro la schiena e scende lentamente dalla corriera. Aziz lo guarda allontanarsi a capo chino verso un masso e una palma scarniccia, verso ragazzini piangenti e mamme isteriche con occhi sbarrati. Vede di sfuggita l’autista con gli occhiali a specchio: respira a fatica preoccupato. Ed è preoccupato anche il moretto sveglio, attendista e sensibile come una gazzella allo stagno. Pensa all’imam come ad un chiodo fisso, Aziz, alla mamma, alla sorellina, al padre eroe, al suo Dio duro eppure misericordioso. Rimane ancora qualche attimo assorto con gli occhi come due feritoie nella fornace della pianura abbagliante, occhi ormai liquidi di un pianto salato d’impotenza. Gira lo sguardo dentro l’autobus: bagagli abbandonati, cappelli di paglia, teli da bagno variopinti, un residuo d’odore di gelsomino. Silenzio. Solo lui in mezzo alle correnti calde tra i finestrini spalancati con quel refolo continuo d’aria sabbiosa rossastra. Dio ci penserà: egli è buono e giusto, tutto è scritto per tutti. Sensazione di stanchezza e d’appagamento per un arrivo ad un traguardo sofferto. Una voce strozzata da fuori, lontana. “Semo tutti sconfittiiiiiiiii……” Un accavallarsi d’immagini: lame ricurve, rosari, bagliori di mezze lune su cupole dorate di moschee, 39 penombre straccione d’interni fetidi, tè tiepido in bicchiere di vetro, ragazze sorridenti e maliziose coperte da veli con occhi di cerbiatte, l’imam, la paura, la speranza, la fede, la tanta stanchezza di anni e anni di generazioni di cacciatori e prede, la voglia di riposo e serenità… Tira, Aziz, il cordino. 40 STORIA DI STRANO JUMBO TRAM Ebbe una sensazione inspiegabile e fastidiosa di freddo, eppure era luglio. Pensò all’aria condizionata del jumbo tram: esagerata. Alzò gli occhi dal “Corriere dello sport”, con l’atroce dubbio esistenziale sulle implicazioni di carattere sportivo legate al prossimo matrimonio di Del Piero, e rimase basito come un allocco per la sorpresa di uno scenario nuovo e inatteso. Il lungo mastodontico jumbo tram, denominato linea 4, con i suoi seggiolini pseudoallegri giallo uovo e i mancorrenti gialli e grigi, era desolatamente vuoto come un seggio elettorale referendario. Freddo come un frigorifero, procedeva a velocità cittadina di crociera ignorando tutte le fermate nonostante una voce preregistrata le scandisse con puntualità. Ebbe un brivido di inquietudine, Agenore, pensionato, nel percepire una sorta di ghigno malevolo nell’intonazione degli annunci di fermata non rispettati dall’autista laggiù in testa alla vettura. “Prossima fermata…corso Giulio Cesare angolo via Lauro Rossi…prossima fermata…corso Giulio Cesare angolo via Lauro Rossi…” L’allocco Agenore (e sbatteva gli occhi anche in maniera acconcia) fu assediato da assillanti domande interiori sul perché e sulla logica di tutta l’innaturale situazione: completamente solo a luglio su un jumbo tram della linea 4 con il manovratore che non effettuava fermate, con l’aria condizionata al massimo che rendeva l’ambiente similsiberiano, vagamente a disagio per qualcosa di irrazionale e inespresso. Si scrutò nel vetro di fronte leggermente fumè e distinse la sua sagoma mingherlina e segaligna perennemente accigliata che ora, però, era anche stupita e diffidente: di quella diffidenza propria del malfidato che subodora fregature ad ogni angolo. Avrebbe dovuto scendere tra poco e si appressò ai portelloni di uscita; suonò il campanello 41 mentre la solita vociaccia odiosa quasi irridente scandiva la sua prossima fermata. Il jumbo tram oltrepassò la palina senza modificare la velocità tra l’indifferenza generale di tutti quelli in attesa alla fermata. Agenore, oltre che già inquieto per l’inesplicabile, cominciò a diventare fumantino: scampanellò nervosamente e ripetutamente controllando l’accensione della lucina di “fermata prenotata”, ed intanto urlacchiò con la dignità propria del cittadino che protesta all’indirizzo del conducente. Voce stizzosa, alterata: “Capo, capo: ha saltato la mia fermata… accidenti… Capooooooo…” Si portò verso il loculo di guida, adirato nell’essere stato calpestato circa i suoi diritti, pronto a cantarne quattro allo screanzato perdigiorno poco professionale. Gli si mise di fianco separato da una mezza parete vetrata trasparente. Ebbe un rilancio di brividi vari e assortiti in un misto di raccapriccio e trasalimento montante: l’autista aveva un volto incartapecorito come quello di una mummia imbalsamata di antico sacerdote egizio e aveva un curioso sorriso giallastro cattivo all’indirizzo dell’unico passeggero, con sinistri lampi di occhiate da orbite incavate con pupille nere come la notte e lucide come scarafaggi nervosi. Agenore ebbe la sensazione antica già provata su un ottovolante: il sangue tramutarsi in acqua. Si tenne ad un mancorrente e intanto volse sguardi febbrili a destra e a manca alla disperata ricerca di una gazzella, una pantera, un vigile, un passante occasionalmente attento. Nulla. Fu accarezzato gelidamente da una risatella chioccia trasudante un enfisema e da una occhiata particolarmente penetrante e divertita. Ebbe il sopravvento, almeno inizialmente, la natura di Agenore che paga le tasse e ha la coscienza a posto con il mondo e dorme il sonno del giusto. “Cosa c’è da ridere di così spiritoso? Ha saltato la mia fermata! 42 Come mai su questo tram ci sono solo io e come mai non ferma? C’è uno sciopero di cui non sono a conoscenza?” La mummia, un essere repellente rinsecchito a mezza strada tra il vecchio famoso zio Tibia e lo zio di Tutankamon, gli rifece il verso con una risatina acida squassata da un sibilo rantolante. “Agenore, Agenore, si è avverato il tuo desiderio…sei contento?” “Che desiderio? Ma di che parla? Sta bene? Non mi sembra che abbia una buona cera: troppo forte quest’aria condizionata…e poi…chi le ha detto come mi chiamo e chi le ha permesso di darmi del tu?” “Agenore, non fare l’offeso come tuo solito. Stamattina qualcuno ha deciso che si dovesse realizzare il tuo desiderio principale. Sappiamo che hai tanti desideri: se vincessi al superenalotto, se avessi venti anni di meno, se fossi più alto, se l’avessi più lungo, se avessi la possibilità di trovarti in ascensore bloccato con la Bellucci o la Ferilli…Eheheh sporcaccione di un Agenore: ti conosciamo benino. Sappiamo anche che il tuo desiderio principale è: se comandassi io… Vero?” Il pensionato si irrigidì in autodifesa impermalita, come una qualsiasi specie animale particolarmente fragile, chessò, un paguro vedovo di attinia o un camaleonte a corto di fantasia cromatica, toccato nelle corde dei nervi più sensibili per questa intromissione intollerante nella ‘privacy’. “Ma come si permette? Ma che ne sa lei di me? Mi dia il numero di distintivo!” “Agenore calmati…Prova a ricordare i tuoi desideri di tutti i giorni su questo jumbo tram per quando vai in centro o per quando ritorni a casa… Non ricordi nulla? Vuoi che ti rinfreschi ancora di più la memoria con altra aria condizionata?” La risatina canzonatoria divenne un borbottio catarroso di esilarante comicità per il diabolico conducente. “Ecco: cominci a ricordare…vero?” 43 Agenore, ormai paonazzo, soggiogato dalla situazione irreale, incapace di reagire sensatamente, fu ipnotizzato nell’agganciare quadretti quotidiani e scenette d’ogni giorno: tutti piccoli episodi che lo rendevano bilioso e rancoroso verso l’umanità tutta. Ritornò con la mente a viaggi di giorni prima. Il 4 pieno di tanta gente, a volte con l’aria condizionata malfunzionante, in aria soffocante di varia umanità odiosa e ripugnante. Ricordò la matrona accanto a lui attaccata al mancorrente in alto, con quell’ascella matassosa da yeti che mandava effluvi di minestrone acido con deodorante di categoria dilettanti: l’avrebbe fatta scendere, se avesse comandato lui, e ricordò un suo sguardo in tralice pieno di compatimento e rabbia per l’afrore insopportabile. E quella coppietta, con lei piena di spilloni, seduta sulle ginocchia di lui: cazzo….si baciavano senza ritegno, pure con la lingua, maiali, e lui, pensionato, in piedi con un caldo asfissiante. Gioventù d’oggi, pensò, e ricordò di avere anche pensato che se avesse comandato lui ci sarebbero stati più campi di lavoro, sicuramente non promiscui. E quella comitiva di piccoli mocciosi rompicoglioni della colonia comunale, tutti con i cappellini arancioni, con i due assistenti menefreghisti… Signori, ma come vi guadagnate il pane? Urla da mercato da un capo all’altro del tram per tenere a bada quella turba sfrenata di piccole pesti: no, no, non si fa così…per queste gitarelle, che poi si paga tutti noi come comunità, ci vanno tram differenziati…ne vanno di mezzo le caviglie dei pensionati e poi, guardali, guardali, animaletti parassiti, tutti stravaccati dappertutto e gli anziani in piedi: avesse comandato lui… Gli venne in mente anche quel lungagnone secco secco che gli si mise di fianco, quello con i capelli rasta o come cazzo si dice, con quelle trecce di paglia gommosa che puzzavano di fieno e qualcosa di simile all’incenso. Se avesse comandato lui i barbieri non si sarebbero più lamentati del poco lavoro ahahah, e nemmeno i disinfestatori: cazzo, quel perticone era un ospizio 44 permanente per piattole turiste maratonete con lo zainetto… Ebbe poi un particolare moto di stizza per una nuova scintilla di ricordo: eccheccavolo, signora, con queste borse della spesa…mi ha frantumato una rotula… Ricordò la faccia offesa di quella virago, baffuta come un tricheco, della stessa corporatura di un tricheco, forse anche con i denti, se ricordava bene, del tricheco: se avesse comandato lui quella palla di grasso avrebbe fatto fondere qualche ‘tapis roulant’ di qualche palestra… Si scoprì, nel gelo del jumbo tram deserto sotto lo sguardo sardonico della mummia alla guida, tra l’adirato offeso e il malvagio divertito, e altri quadretti si affastellavano alla sua mente ormai incurante delle fermate che si susseguivano senza alcuna sosta. Ricordò il moto di stizza della giraffa, di quello scroccone che allungava il collo per leggere e carpire notizie che lui aveva pagato con l’acquisto del giornale. Avesse comandato lui sai quanti schiaffoni davanti a tutti alla prima fermata: compratelo il giornale!!! E mano morta? Eccolo là, gli pareva di rivederlo, dietro a una ragazzetta burrosa e bovina con gli occhi a palla assenti. Vergogna! Guarda la mano come scorre leggera e guarda quella vacca che neanche se ne accorge…o forse sì, se ne accorge e ci gode, la troia, e nessuno dice nulla. Comandassi io, si farebbero lapidazioni anche qui, che tanto di arabi ce n’è un fottio…guarda quanti, …bastardi, a toglierci il lavoro, a fare gli attentati, ma chi li fa entrare? Saprei bene come scoraggiarli… I siparietti di Agenore si susseguivano nella sua mente producendo contrazioni della mascella per la rabbia: contrastò con severa dignità, accarezzando il suo primario desiderio, il ricordo di processioni di marocchini, rumeni rumorosi, negracci strafottenti, albanesi sudati. Tutti su quel maledetto 4 quando c’era anche lui, con il rischio di qualche malattia o della rogna… Il pensionato mingherlino era quasi in trance apoplettico e la mummia conducente sogghignava 45 inclinando il capo verso di lui con una espressione malvagia e divertita. Si riscosse dopo visioni e visioni di marcio e di intollerabile, di immorale e di diseducativo, di anarchico e di menefreghista. Mise a fuoco l’immagine dell’autista e della strada che il tram bruciava con regolarità e riacquistò un minimo di lucida padronanza meschinella e prepotente. “E adesso dove si va? Dove mi porta? Cosa vuole farmi?” “Stai tranquillo, Agenore, andiamo solamente al capolinea…” E la mummia cominciò a ridere squassato da colpi di tosse grassa e cavernosa mentre il freddo crescente cominciava ad appannare i vetri. Agenore ebbe la sensazione di svenire e di venire sballottato contro qualcosa. Aprì gli occhi e fu asfissiato da una vampa di calore torrido. Tantissima gente intorno a lui, tutti stipati come sardine, tra odori strani di esotico e di comunemente umano. Lacche, profumi, brillantine e deodoranti insieme a mormorii, trilli di cellulari, risate sguaiate e interiezioni popolaresche volgari. E poi sudore, aliti, colpi di tosse. Era stato un sogno, solamente un incubo dove lui aveva sognato realtà di tutti i giorni che ora riviveva realmente. Si appressò all’uscita, Agenore, ansimante per un gomito in una costola e per il caldo causato dal condizionatore guasto. Respiri pesanti e sguardi circospetti. Pigiò il campanello per la sua fermata e scese poco dopo con un misto di sollievo, seppure nella canicola reale, e con la solita sprezzante alterigia nei confronti dell’umanità stipata intorno a lui. Sostò alla fermata osservando il jumbo tram ripartire, con stupore e sensazione di confusione per quel sogno così realistico, e si mise una mano in tasca per cercare un fazzoletto. Non trovò più il portafogli. Il 4 era lontano. Agenore ebbe l’impressione di riudire una risata affogata in un enfisema, ma forse era solamente la canicola di stagione. 46 JA’ SEI NAMORAR Giovanni è un simpatico laureando torinese. E’ un assassino, e non lo sa. Il 50 in ora di punta è una salamoia cosmopolita. Viene attraversata Porta Palazzo con il mercato rionale più grande d’Europa e l’autobus si inzeppa di massaie, sporte, pensionati e padri di famiglia con ceste di frutta, extracomunitari di ogni colore, idioma e religione. Gli odori della frutta di stagione vengono mescolati dall’aria condizionata con gli afrori di qualche ascella trascurata o con aromi esotici e lavande dozzinali. I nuovi autobus della linea 50 hanno il corridoio del passaggio molto stretto ed è accadimento naturale anche se non sempre imbarazzante o fastidioso, almeno per qualcuno, aderire a qualche corpo sballottati tra un semaforo ed un altro. Oggi Lisetta ritorna a casa immusonita con la testa sottosopra: l’esame non è andato bene. Il professore ha delegato all’interrogazione un assistente acido e supponente che ha fama di mastino. Poche domande e diverse esitazioni, uno sguardo di compatimento a sormontare un sorrisetto vacuo malevolo, una maggiore conseguente esitazione per eccessiva emotività. Il mastino acido ha scosso il capo in falsa solidarietà e ha manifestato pollice verso. Lisetta, stretta ora tra una cicciottosa logorroica massaia e uno statuario ragazzone d’ebano, si ripercorre la scena dandosi mentalmente della sciocca per avere soggiaciuto così passivamente alle sue paure. Cicaleggio che culla con interiezioni dialettali, tribali, francese, slavo e ronzio di amalgama del condizionatore con una spruzzata di stridio di freni. Contatti casuali di mani, polsi, qualche polpaccio teso. Contatti meno casuali di qualche inguine prominente, di qualche mano… 47 Lisetta ha una soglia di attenzione impostata sul normale, come un ‘firewall’ usato da una persona abbastanza fiduciosa nel genere umano internautico. La disamina dell’esame fallito assorbe quasi tutte le risorse di sistema. Da due fermate nel frattempo è salito, o meglio, si è introdotto Darko, giovane esangue dallo sguardo felino di lince. Anche lui ha qualche problema: è indietro nella tabella di marcia della sua produttività e al capolinea troverà Miroslav, il signor Miroslav, che potrebbe anche spengere la sigaretta sul suo braccio già pieno di lividi. Bisogna fare presto e sperare anche in un positivo raccolto. Darko ha una mutazione, diventa folla, sparisce tra gomiti e borse, quasi scompare: diviene un virus. ‘Darko50’ è sufficientemente spaventoso come sigla di virus, no? Lisetta è nel mezzo del corridoio. Davanti a lei la massaia che parla a tutti e nessuno di calcoli renali con una sporta piena di ciuffi verdi ai piedi. Poi una coppia giovanissima di ‘fidanzatini’ con zainetti che massaggiano vertebre contigue sparse, e un gigantesco monolite di mezza età, stempiato e arcigno, davanti alla porta, che oscura la luce con la sua imponente stazza. L’impalpabile Darko sorpassa il ragazzone negro e sfiora con carezzevole sguardo e carezzevole mano Lisetta con borsa a tracolla che appare come protetta da un antivirus di tre anni fa. Un semaforo rende tutti complici in una frenata che unisce e rende solidali nella ricerca d’equilibrio. Darko oltrepassa Lisetta e anche la massaia. Ha in mano, materializzati dal nulla, quasi dal nulla, un borsellino e un cellulare. Sono in pochi ad avere installata sul proprio telefonino la suoneria del tormentone dell’estate dei Tribalistas. Lisetta ce l’ha. Suona un telefonino in quel momento. 48 Pare “Jà sei namorar”, appunto dei Tribalistas, e molti volti si girano sorpresi per la novità, qualcuno invidioso per non avere una suoneria così aggiornata. La più stupita è Lisetta: sta suonando il suo telefonino, ma qualche metro più in là da lei. Un attimo e la folgorazione della consapevolezza di una intrusione. Uno sguardo veloce a cercare sguardi colpevoli e la provenienza del suono del telefonino e al contempo un frugare frenetico nella borsa. “Al ladro, al ladro!!! Mi hanno rubato il cellulare e il borsellino!!! E’ quel ragazzo lì, fermatelo!” Il ragazzone negro vuole fare bella figura con i bianchi, vuole integrarsi nel tessuto connettivo della società produttiva torinese. Sorpassa la ragazza con piglio zorresco e blocca un braccio di Darko non senza aver calpestato la sporta della massaia chiacchierona e qualche alluce assortito sporgente da sandalo. Risentimenti e cori di indignazione e di dolore, soprattutto dei proprietari d’alluce offeso. Monolite alla porta si volge con insospettabile foga e agilità e scruta nel mucchio con sguardo minaccioso. La giovane coppia innamorata si scinde in due aspetti di civismo: lei strilla come un’aquila indicando Darko mentre lui cerca di bloccare al giovane ladruncolo l’altro braccio. Darko prova a calzare l’espressione dell’offeso innocente, dell’indignato, del querulo impietosente morto di fame, ma “Jà sei namorar” lo condanna con insistenza impietosa e regolare. Monolite alza un braccio enorme che finisce con un pugno enorme e lo scarica sul capo di Darko colpendo alla cieca come un tedoforo ubriaco. In effetti quel braccio pare avere una fiaccola incorporata, ma sono solo anelli massicci con pietre forse adesso troppo dure. Si abbatte sul giovane sgraffignatore più volte all’impazzata tra urla generiche da arena gladiatoria del tipo di ‘dagli all’untore’, ‘non se ne può più’, ‘ammazzatelo di 49 botte’, ‘foralo’, e intanto la suoneria dei Tribalistas scandisce tempi e modi. Qualche pugno scivola, qualcun altro impatta duramente. Uno, in particolare, picchia su una tempia molto violentemente. Darko ha qualche vaso capillare più fragile di un vaso Limoges o di un Capodimonte. Si fa buio intorno al giovane ladro che si accascia in obliquo, pressatello sullo studente fidanzato. L’autista del 50 frena seccamente e la massaia corpulenta frana sull’eroinegrone che schiaccia lo sfortunato virus con una sottile cattiveria. Lisetta branca al volo borsellino e cellulare isterico e fugge emotivamente scossa alla portiera di uscita che si spalanca quasi magicamente davanti a lei. E’ fuori. E’sola. Respira a lungo, stravolta, e si scarica gradatamente della tensione accumulata in mezzo a quel carnaio. I Tribalistas innamorati sono quasi sulla soglia della menopausa, ma trillano ancora fiduciosi. “Pronto…” “Amore perché non rispondevi: che succede? Andato bene l’esame?” “Stai zitto Giovanni: ho un diavolo per capello! Esame toppato e tentativo di furto sul 50…Ne sono scesa adesso…I soliti bastardi a caccia di cellulari. Meno male che mi hai chiamato: gli hai rovinato tutto. Potesse morire certa gente!!!” Una o due fermate più in là un autobus 50 si sta svuotando velocemente di tarantolati che non vogliono perdere tempo in qualche Commissariato e avere problemi, anche solo di striscio, con la Giustizia. Nel corridoio stretto rimane esanime Darko50, ucciso da un ignaro Giovanni con la complicità, in associazione a delinquere, dei Tribalistas. 50 DI TRAVERSO RIGATONI E DOLCE STIL NOVO I locali del commissariato POLFER di una stazione, fosse anche di una bella città come Livorno, qui, ora, sono sempre squallidi, anche per un disincantato avvocato in bolletta come me che gironzola nelle vicinanze come un affamato avvocondor d’ufficio che deve sbarcare il lunario. Conosco il commissario, il dottor Cutrettola, e il suo fido braccio destro, l’appuntato dattilografo tuttofare Deopatre. E loro conoscono me e mi danno un cenno, quando se ne presenta l’occasione, per tutelare, come vuole la legge, qualche fermato nel perimetro ferroviario. Oggi è festa: Deopatre si è affacciato dalla porta a vetri smerigliati e si è sbracciato con baffo entusiasta verso di me che leggiucchiavo un giornale al tavolo del bar-buffet antistante le banchine dei treni. Hanno accompagnato là dentro qualcuno: se mi chiamano, vuol dire che è un fermo oppure un arresto. Si mette in moto il motore del mio corpo umano, come quei cartoni animati educativi della tv dei ragazzi, e i neuroni scalpitano di trattenuta efficienza e lo stomaco balla la ola con il fegato e l’intestino come in una torcida all’idea di una cena completa di caffè e sambuca. Pistonano impazienti le mie gambe e fruscia l’impermeabile stazzonato verso il Commissariato. Saluti, sguardi di intesa, invito al personaggio portato fin lì affinché si avvalga dei miei servigi, assenso di lui dopo un breve sguardo assente… La mia autostima non è molto corroborata da quello sguardo gelido, ma ho un maglioncino di pelo di stomaco che mi protegge e mi tiene caldo ugualmente. Gli altri agenti si sparpagliano di nuovo verso la stazione e rimaniamo in quattro. Mi guardo il trio come un valente sensale da fiera zootecnica. Cutrettola dottor Gaetano sembra il cugino maggiore di Saro Urzì, un bravo caratterista, un attore sanguigno degli anni sessanta, sempre prossimo ad un aneurisma aortico. 51 Emerge, al solito, da una nuvolaglia temporalesca di Esportazioni col filtro, con un cranio lucente autunnale ripulito con solerzia dei residui capelli secchi caduti come foglie. Ha due occhi vispi porcini e una voce stentorea che sembra Biscardi con un cicalino in gola per amplificare accentazioni partenopee o di quelle parti. Monologa in continuazione con ‘baffo’ Deopatre appuntato Vito, come fosse uno sceicco con poteri assoluti, con ordini, consigli, commenti, buffetti, sarcasmi, come se l’appuntato fosse la sua coscienza più animalesca o il suo eunuco preferito. Il sottoposto, con un muso sottile di faina, ma il baffo più spesso, lo guarda con occhio a metà tra quello del bracco italiano affezionato e quello del mezzadro di fronte ad un campo di pomodori bruciati dalla grandine, occhio liquido, mediterraneo, forse troppo cotto dal sole, ma volenteroso e sollecito. Parla poco, Deopatre, anche perché parla un deopatrese spersomontano che non è ancora stato riconosciuto dalla commissione europea. E poi il terzo. Il terzo sembra un magico diafantopo di una fiaba per bambini. Ha occhi celestini chiari spalancati con orrore misto a meraviglia sull’ambiente pieno di calendari e cassettiere, un colorito latticinico anemico e un cespuglio di capelli il cui loro giardiniere è a letto lungodegente. Stringe tra le mani un libro pergamenato, forse antico, e strizza lo sguardo attraverso un paio di occhialini che sembrano essere stati fregati direttamente a Camillo Benso. E’ alto, asciutto e poco nodoso: sembra l’incarnazione umana di un pioppo con gli occhialini, e come un pioppo non si muove: stormisce appena. Cutrettola, sorpassato l’autogrill dei convenevoli soliti delle letture dei diritti e delle presentazioni e delle generalità, ingrana subito una terza rabbiosa a prendere la corsia con grinta e autorità. “Deopatre: mettiti alla magghina da sgrivere e fai addenzione… 52 Allora, dottor Lieviti, gi vuole raggondare la sua versione dei fatti?” Si siede dietro la scrivania, che sembra un vecchio bancone di un ufficio postale, e incrocia le mani salsicciose sotto il mento assumendo un’aria paterna e curiosa con gli occhi porcini che sembrano quasi adescatori. Mi ignora, professionalmente rivolto all’interrogato, ma è a disagio per il mio sguardo che rastrella gli ultimi suoi ciuffi cranici. Il fumo che sbuffa in volute ingorde tutto intorno lo iconizza come un protomartire. Il dottor Lieviti, il diafantopo miope, esordisce in maniera originale declamando qualcosa di scolasticamente familiare anche se poco approfondito. Esala versi con voce sussurrata intensa: si sovrappone a lui lo spirito di Ghezzi, quello di Blob, ieratico e appassionato, e gli occhi si dilatano in un celestino profondissimo che smarrisce. Guarda alternativamente il commissario e me, indeciso sulla scelta del canale di sintonizzazione e la sua voce viene rivolta verso noi due che ascoltiamo come un telecomando in serata di partita di coppa e di film di successo. Sceglie Cutrettola: non so se rappresenta film o partita. Non mi offendo mai per così poco. “ - Senza mia donna non vi voria gire, quella c’ha blonda testa e claro viso, ché sanza lei non poteria gaudere, estando de la mia donna diviso…- (1) Abbia a perdonare il mio esordire, valente Commissario, ma io son filologo stilnovista e medievale e amo incoraggiarmi nelle asperità avverse con brani di autentica poesia che il cor mi ritempri e fiducia doni a guiderdone per riposar lo spirto.” Cutrettola assume l’espressione del ‘chemminghiastaddicennochistoaccà’ e mi guarda a punto interrogativo posando poi lo sguardo sul fido scudiero graduato. Mi stringo nelle spalle con un sorriso vacuo. 53 “E’ studioso di poeti, Cutrettola…, medievali. Scriva, Deopatre: a domanda, risponde di essere filologo stilnovista medievale…” Clone Ghezzi attende con minimo fastidio e disponibile pazienza la mia traduzione simultanea e prosegue. Stavolta guarda me, però, e Cutrettola si infastidisce e mi sbuffa un tiro di Esportazione che è un pezzo di polmone bruciacchiato al barbecue. “Ebbi ad intraprendere il mio viaggio, da Roma alla volta di Torino, per presentare una mia relazione ai lavori del periodico congresso di letteratura medievale cui partecipo come curatore abituale. Mi accomodai in scompartimento di seconda classe, allora vuoto d’ogni presenza viva, e mi immersi in paradisiaca lettura di gemme da me mai meditate a sufficienza: - Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state, le donne ti disiano, pulzell’e maritate:…- (2) Beavomi ordunque di Cielo, o Ciullo, d’Alcamo in paziente tolleranza del dipartir del treno, quando l’abitacolo s’empì di famigliola che il viaggio avrebbe, supposi, intrapreso meco…” Cutrettola si stranisce per una boccata di fumo di traverso e si produce nella sua più fenomenale imitazione di ‘maccomecazzoparlachistesfaccimme?’. Mi lancia, poi, uno sguardo come fosse una richiesta di interpretazione dell’oracolo. Deopatre è molto più semplicemente una pastiera napoletana massiccia e immobile: tipico esponente di rappresentante del linguaggio del corpo. Traduco a mio modo senza fare notare i pettorali che gonfiano di soddisfazione, sfrondando della dotta citazione, e la cinghia di distribuzione dell’appuntato dattilografo fa ripartire esitanti i tasti della vecchia macchina da scrivere. “Conoscevate la famiglia che viaggiava con voi nello scompartimento?” Il commissario fa una domanda pertinente anche se improbabile e la risposta è prevedibile. 54 La fotocopia di Ghezzi s’inalbera come può, forse, il Ghezzi autentico, alzando appena di tre o quattro decibels il tono della voce sussurrante. “Ma certo che no, vivaddio! Nulla ebbi mai a spartire con siffatta gente che mi si rappresentò in guisa tanto volgare ché raggricciai l’olfatto in abominevole disgusto. Incipiente obesità generale, sorrisi cariati iperzuccherini, forfora e sudore agostano acido, insieme di sguardi bovinidi, ciarlare tumultuoso sopra ragionevoli toni. Mio Dio! Occuparono ogni anfratto come la peste o il morbo gallico! Mi feci piccolo e mi rinchiusi con animo sordo a esterne beghe nel mio libello di melodiosi versi, ad evitar contagi. Epperò fu tentativo inane. Tre giovani virgulti mal potati da genitori lassisti imbrogliarono l’ordine della teoria del galateo del viaggio e con belluine urla e risa sguaiate e canti mutarono l’aere pregno di cotanta poesia… - Foco d’amore in gentil cor s’aprende come vertute in petra preziosa…- ” (3) FintoUrzì, più autunnale, adesso potrebbe fumare anche con le orecchie: mormora un sopraffatto ‘naggiacapitonamazza’ e guarda sconsolato Deopatre come un padrone che ha dimenticato di comprare la carne in scatola al suo bracco. Il bracco, graduato, fiuta direttamente me. Elargisco, benevolo, distillati di verità. “Deopà, scriva che una famiglia di cinque persone occupò lo scompartimento del Lieviti e che cominciò a recare molestie: è così, dottor Lieviti?” L’interruzione lo tedia alquanto perché mi guarda con fastidio, però ha un gesto di assenso: scuote il cespuglione come sotto un maestralino di queste parti. Prosegue. “Il tozzo paterfamilias, alla partenza del mezzo, alleggerì l’abbigliamento suo levando la casacca e rimanendo in 55 canotta di dubbio colore abbracciata da pelo folto ascellare di insopprimibile afrore e di rigoglioso diffondersi. La domina della famiglia, alquanto unta di un sudore denso e abbondante, pensò subitaneamente alla sopravvivenza delle sue creature, maternamente, e da un cospicuo bagaglio materializzò panini con confetture di frutta, appetitosi e infidi. Infidi per il voler fuoriuscire, da parte della confettura semiliquida, su mani giovani e irrequiete che striaron vetri e finta pelle di sedili tra ululati di incontenibile vitalità giovanile. La femminuccia, la più piccina e delicata dei tre pargoli, colitica, suppongo, emetteva venticelli rumorosi che non avean sentore di brezza marina, e la pia tolleranza umana familiare traducea il disagio in comprensione e le scuse ad incoraggiamento a librar membra leggère con ulteriori afflati. Mi immedesimai in san Girolamo e affondai vieppiù la mia attenzione in sacri versi di ineffabile delicatezza, mentre la brezzolina miasmatica dell’innocente a volte confondevasi financo in fortunale… - Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo che fate quando c’encontro, m’ancide:…-” (4) Mi scappa un risolino strangugliato all’idea del quadretto e Cutrettola si immobilizza a metà tra l’analfabeta di fronte alle istruzioni per l’uso di un cavatappi a pedali e il divertito, per traslazione, del mio divertimento. Comunque comprende e accompagna serioso e compenetrato il gregge dattilografo al pascolo. “Deopà, scrivi a parole tue, però per bene: la famiglia si gomingiò a gombortare da schifo e i bambini sporcavano e una scoreggiava comme ‘na zzampogna natalizzia…” Non so cosa ticchetti la macchina da scrivere e sono curioso come un orango, ma confido nel buon senso montagnino dell’appuntato che intaglia il verbale come uno zufolo da una canna. 56 Continua, topoGhezzi, tra l’offeso e il defraudato, rivolto ora a tutti, con l’atteggiamento del cittadino che protesta perché tanto paga le tasse. “Si giunse in prossimità di Civitavecchia, dopo appena un’ora di viaggio, e l’unta matrona, abile chioccia di insostituibile valenza, s’occupò poscia del suo bruto uomo in canotta che curiosi barbagli di ingorda bava lasciava trasparir dalle fauci. Estrasse dal capiente borsone un pantagruelico ciotolone d’alta sponda traboccante di rigatoni riposati, abbondantemente conditi con odoroso pecorino in denso sugo di pomodoro e basilico e peperoncino in congrua quantità: fragranti olezzi, ahimè, frammisti all’ arietta continuativa della bimba, vieppiù ostinata, e all’afror sudaticcio e animalesco degli altri pellegrini tenerelli e stagionati. Mangiò vorace, l’omo, digrignando i denti, rumoroso, e manifestò l’apprezzamento suo con costumanza araba tra risa sguaiate della prole e farfuglio devoto dell’unta signora. Gorgheggi, borborigmi e flatulenze si sposarono in aria densa e nuove istoriazioni di pomodoro si sovrapposero alle vestigia delle dita infantili di prima. Cercai di darmi sostegno tra me e me… - O Deo, che sembra quando li occhi gira! Dical’Amor, ch’i’nol savria contare: - (5) Cutrettola dottor Gaetano è ormai solamente un semplice Gaetano rassegnato: guarda il soffitto proprio come il vecchio Saro Urzì, con gli occhi porcini ora a palla e la iugulare pulsante che sembra un tubolare di una bicicletta. Il solerte dattilografo baffuto ormai mi considera il Verbo, o quanto meno il Guardiano del Faro, e mi interroga muto. Cutrettola quasi ci sforma: si sente defraudato dell’autorità. “Sgrivi, Deopatre…” Ma non sa proseguire. 57 Gran dono la mia capacità di sintesi e la preparazione classica… Pulsa di libidine il mio lobo frontale in una piccola rivincita. “Scriva, Deopà. La situazione divenne insostenibile con il pasto abbondante consumato nello scompartimento dall’intera famiglia…” Nuovo picchiettare insistente di merlo ignorante e tenace. SimilGhezzi scalpita di rendere pubblico l’affronto ai suoi vati preferiti in un montare di ira ad ondate sempre più violente. “E ancora e ancora mi fortificai con recinti di versi ad isolar la mia sapienza dal volgo strafottente e libertino. Dappoco s’era partiti da Grosseto, affè mia, dopo due scarse ore di percorso, e di già letamaio era l’alveolo che accoglieva me pellegrino per il lungo viaggio di tregenda. S’approntò ad infiammarsi, la mia sensibilitade, e tenzon violenta ebbi col mio spirto a blandirlo con leggiadri versi che stupore e calma interna per poco generorno. - Dolce mio Iddio, fa che qui mi traggia la morte a sé, ché qui giace ‘l mio core – ” (6) Cutrettola stavolta vuole riconquistarmi terreno e sbotta sicuro: “Deopà, sgrivi che doppo poco tembo il Leviti era già con le palle girate per il casino generale…ma non accussì…dai forma, dai forma,…abbellisci il testo…” e mi guarda colla soddisfazione di avere ripristinato un ponte levatoio su un fossato. Contraccambio l’occhiata con candore di conegrina mimetizzando il ghigno perfido con un sorriso di acquiescenza e mi rivolgo attento verso il filologo disturbato, disturbato ormai sotto tutti i sensi. E’ ora nervoso e qualche suo piccolissimo tic appena accennato sta aumentando di intensità e la sua gestualità sta divenendo frenetica ed esagitata, oltre che esagerata. 58 L’allampanato filologo, ormai scosso da tremori incontrollati, con voce concitata prosegue il resoconto del viaggio traversia. “Ira montava irrefrenabile a covare rancori sotto l’ineffabile comportamento altero. M’adontai senza ritegno nell’assistere al turpe sollazzo della indecorosa famigliola. L’untuosa vestale appose fuoco a un fornelletto a spirito per riscaldar panatine di vitello e contorni oleosi d’acre aroma. La gioventù irradiava invadenza di gesti e rumoroso cicaleccio tra irrispettosi ghigni e flatulenze che, seppur di bimbi, non olezzavan di viole e mammole e rosai. E tutto il tangibile fu percosso dal tatto curioso di manine dense di zuccherini umori, e arredo e ogni cosa vennero esplorati con doviziosa cura e intento. Financo il mio pastrano, beata Vergine, venne impresso a mò di irrispettosa Sindone di dita marmellatose tra l’indifferenza barbara degli avi che intenti erano a sbranare ciccia. E schizzi di gocciolante intingolo spargevansi nel loculo ormai latrina. Friggevo anch’io, signori, per l’incresciosa stura di pensieri che la mente affastellavano insistenti. E trovai pace interiore in altri versi che, però, nocumento poscia mi dettero… - Si fosse foco, arderei ‘l mondo; s’i fosse vento, lo tempesterei; s’i fosse acqua, i’l’annegherei; s’i fosse Dio, mandereil’en profondo; –” (7) Respira a fatica, scoordinato, il filologo, con le braccia che gesticolano e mulinano nell’aria come un mimo sotto effetti di amfetamina, e la voce è divenuta stridula e malevola, e l’occhio dietro l’occhialino è iniettato di sangue come un avido carnivoro di fronte ad un trofeo di arrosti. Si ammutolisce tutti. 59 Comprendiamo che siamo arrivati al momento topico, alla confessione, e si tace attendendo la botta tra capo e collo. L’appuntato ticchetta sui tasti della macchina da scrivere con insospettata agilità: forse inventa, forse sintetizza a soggetto, forse ha compreso e tratto le conclusioni e funge da esploratore in avanscoperta. Sei paia di occhi sorreggono un paio di occhialini che proteggono uno sguardo spalancato celestino, lucido di ira sacra e furore incontrollato. “L’irriverente Cecco suggerimento diedemi alla decisione. Sorpresi il nucleo familiare con improvvise mosse che inibirono reazione. Percossi a raggiera con nodosa mano i virgulti ammonticchiandoli l’un l’altro attoniti tra pete e occhiate stupefatte. E il fornelletto acceso nel verso della coppia adulta gettai con violenza a fare danno. E danno feci. Bruciorno come torcia i capelli della madonna, resinosi, e sue gesta a divincolo sul suo omo attaccarono la fiamma alla canotta che, assai ricettiva, gommosa, bruciò di brusco, in congiunto strinar di pelo. E i bimbi accorsero all’ausilio dei genitori loro e contagiati vennero dal foco. E urla e gemiti e sconquasso si procreò nell’andito e tosto escii dall’alveo e occlusi a forza lo portale. Impedimento feci a li soccorritori recitando al volgo i versi del poeta e facendo scudo del mio corpo all’uscio. - s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei? A tutti mozzerei lo capo a tondo…- (8) Perfino il rumoroso Deopatre s’è azzittito sui tasti della macchina da scrivere e osserva il mite filologo trasfigurato. Pare di udire lontane le urla disperate di dolore e raccapriccio di una famigliola che arde nello scompartimento di un treno. 60 Scorro velocemente un rapporto dei vigili del fuoco, del personale del treno e del medico di scorta ad un’ambulanza intervenuta dopo Castiglioncello nel mezzo della campagna e della macchia mediterranea. C’è poco da difendere, poco da invocare. Prevedo per direttissima, tra domani e dopodomani, un’accorata solita supplica rivolta alla clemenza della corte con l’adombrare attenuanti di provocazioni da dimostrare: indosserò la faccia severa e contrita delle grandi occasioni e incrocerò le dita, anche quelle dei piedi, perché il caso è disperato. Intanto, qui, nella ridente città portuale, tra quattro sudice pareti di un piccolo commissariato POLFER di stazione, si sta consumando come un’altra ultima fiammella una confessione di un irresponsabile amante del bello, della poesia d’amore e del dolce stil novo che ha fatto il giustiziere estremo del volgare con il modello di un grande poeta che probabilmente, dico io maligno e disilluso, avrebbe voluto solamente fornicare più spesso. (1) - Giacomo da Lentini - Io m’aggio posto in core a Dio servire (2) - Cielo d’Alcamo - Contrasto (3) - Guido Guinizzelli - Al cor gentile rempaira sempre amore (4) - Guido Guinizzelli - Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo (5) - Guido Cavalcanti - Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira (6) - Cino da Pistoia - Io fu’’n su l’alto e ‘n sul beato monte. (7/8) - Cecco Angiolieri – S’i’fosse foco, arderei ‘l mondo 61 VA AL DEPOSITO L’ULTIMA CORSA I nuovi autobus hanno qualche coppia di sedili rivolti uno verso l’altro a suggerire una ipotetica socievolezza tra passeggeri. Sera tardi. Prendo al volo l’ultima corsa che dal centro mi porterà in periferia. Poca gente: qualche extracomunitario malinconico, due o tre turnisti insonnoliti, una vecchia sciatta e grassa con un cappottaccio unto e bisunto, che sembra una megera. Stanno per chiudersi le porte, ma entra con un balzo agile e lieve una ragazza: pare quasi che plani da un volo, dentro l’autobus, leggera e silenziosa, come un aliante senza peso. Si siede di fronte a me. E mi guarda. E’ una ragazza flessuosa di una bellezza crudele: alta, slanciata, dai capelli corvini e dagli occhi di un colore strano, quasi giallo, da gatta siamese. Ha un pallore quasi sovrannaturale, alabastrino. E’ vestita di nero, pelle lucida, gilet e pantaloni attillati, con una camiciola bianca d’altri tempi, con maniche a sbuffo, aperta in vistosa scollatura merlettata che lascia intravedere un seno prepotente. Ha una cicatrice molto piccola a forma di croce alla base del collo e ha un rossetto color prugna che è quasi nero. Una ‘dark’ sfrontata con ciuffo di pece, che mi scruta curiosa e sembra sorridere. Mi viene di contraccambiare lo sguardo. E mi perdo. Ho la sensazione di affogare nel miele, nell’oro colato di due occhi che sono stampi per preziosi monili, campi di girasoli, soli di sperdute galassie al crepuscolo con venature rossastre. La ragazza accentua il suo sorriso e sembra volermi provocare, maliziosa, passandosi lentamente la lingua sulle labbra come una lupa. 62 Mi protendo appena verso di lei. Astrazione. Non esiste più nessuno, forse, sull’autobus: nessuna fermata, nessun passeggero, quasi nessun autobus se non due seggiolini nello spazio, uno di fronte all’altro, illuminati da una luce fredda di neon che accentua il pallore della ragazza e lo rende seducente nel nero lucido dei capelli. Associazioni di idee: capelli neri, pelo nero…pubico…folto, riccioluto, tagliato corto a lasciare la visuale di uno scrigno di odori e sapori aspri, socchiuso. La ragazza pare leggermi nel pensiero. Si sporge verso di me e furtivamente mi accarezza l’interno di una coscia inguainata nei jeans, lenta ed estenuante. Socchiude gli occhi come un felino che fa le fusa e mi gratta con unghie che, noto ora, sono molto lunghe e smaltate di nero, quasi lame di ossidiana. Avrei voglia di contraccambiare la carezza, ma lei non mi permette di muovermi e si approssima ancora di più verso di me schiacciandomi con i suoi seni al sedile, carezzandomi una guancia con il filo delle unghie dell’altra mano. Mi sfrega delicatamente la nuca e dietro le orecchie con un curioso basso brontolio uterino che sembra una preghiera oscena o una provocazione inintelligibile animalesca e sensuale. E’ sicura di sé, sa quello che può ottenere. Sorride apertamente fissandomi provocatoria, trionfante, continuando a passare la lingua sulle labbra. Luccichio brinato di saliva su una chiostra di denti abbacinanti, acquolina di predatore: si è accorta di qualche reazione attraverso i miei pantaloni. Gioca impertinente quella mano artigliata che si sofferma in tatto avido. Si avvicina sempre di più facendomi annaspare nel suo sguardo giallo. Mi protendo per baciarla, ma mi schiva e comincia a baciarmi lei, sul collo, piano, raspando leggera con la lingua, sempre più intensamente, succhiando la pelle con le labbra umide, assaggiando quasi. 63 Fiato caldo umido che è un abbraccio sensuale ansimante. Sensazione di pazzia nell’inarcarmi, scosso, sul sedile elettrificato di emozioni. Il cervello deflagra in narcisismo e incredulità, desiderio di abbandono e voglia di possesso trattenuta e costretta: pulsazioni e miliardi di pensieri di vittima e carnefice nello stesso tempo. Un breve improvviso dolore di trafittura sul collo mi fa trasalire e mi lascia immobile come un coniglio, trepidante ed sfinito, con gli occhi sbarrati di sorpresa. Sensazione stordente di piacere e di tormento nel fascino dell’impotenza nella reazione. La mia coscia viene striata a sangue da artigli che lacerano il tessuto e la pelle, ora, e le labbra della ragazza mi stanno succhiando il collo procurandomi un piacere doloroso appena mitigato dalla sua lingua carezzevole cui è difficile resistere. Si stacca da me con un lampo di sfida in quegli occhi gialli febbricitanti che, mi accorgo adesso, non hanno pupilla rotonda, ma ovale. Mi sorride con scherno, divertita, con un rigagnolo di sangue, del mio sangue, che cola da un lato della sua bocca dalle labbra scure. Il sorriso è aperto, ora, quasi un ghigno, e i suoi canini pronunciati luccicano arrossati alla smorta luce bianca tremolante del neon dell’autobus. Complicità, forse, e calore animale di bestia protettiva: ancora una carezza accennata, quasi di attrazione o addirittura affetto, e un impercettibile mutare di sguardo che è di animale passionale sazio. Fischiano i freni. Fermata. Scende giù con un balzo armonico di atleta o ghepardo, quasi un volo leggero di ballerina, e svolazza la camicia appena maculata di sangue su una manica. L’autobus riparte lento con qualche sbuffo. Mi premo una mano sul collo e lo sento caldo e appiccicoso. 64 La vedo dal finestrino che mi invia un bacio con la punta delle dita e si dissolve nel buio con un ultimo bagliore di sguardo lucente con una sua selvaggia tenerezza. La perdo e mi sento diverso. Mi chiedo il perché dell’evento, dell’essere stato risparmiato, dell’indifferenza dei pochi passeggeri e dell’autista. Credo di sapere cosa mi sia successo: mi sento stanco, spossato, ma anche invaso da una energia nuova che sta pulsando dentro di me come una fame selvaggia di lupo in amplificazione dei sensi che sto riscoprendo. Percepisco la realtà in maniera diversa, molto più intensa. Gracchia improvvisa la voce sgarbata della vecchia grassa. “Autista, autista: si fermi. Qui c’è una fermata…Autista…” L’autista si gira di collo in maniera innaturale, come un manichino, nel mentre che guida, verso la vecchia e ammicca dalla mia parte con occhi gialli che mi appaiono familiari e volto diafano scavato nella pietra. Sogghigna con un sorriso che è ironico e malevolo e sforza un tono di voce untuoso e servile. “Andiamo al deposito, signora: non si preoccupi…” Rivolge l’attenzione alla strada e gorgoglia sguaiato accelerando verso il buio. Non distinguo il suo sguardo attraverso lo specchio retrovisore: non viene riflesso. Subentra in me una frenesia mai avvertita che scaccia timori e prudenze. Tutto contemplo intorno a me e soppeso con lo sguardo la vecchia come un grosso prosciutto che cammina. I due turnisti che dormono ignari sembrano due deboli impala di una savana metropolitana. Un ambulante nero, con una papalina sgargiante, forse ha intuito e trema, stringendosi al petto un borsone di carabattole, e lo rimiro come un’ esca viva con il suo odore di paura. 65 Le loro sagome si moltiplicano distorte dai vetri dell’autobus appannati e lattiginosi nella notte: un magico mondo di specchi come un luna park itinerante. La mia figura, invece, si è perduta nella notte. L’autista ride ancora e mi sembra un rantolo di bestia cameratesco, da compagno di branco, un riso che si trasforma in un brontolio che svela segreti ad un nuovo cucciolo che deve apprendere i misteri della caccia. E l’autobus va al deposito… 66 NON DORMITE…NON DORMITE… “Lasciatemi stare, sto bene, grazie, lasciatemi stare, vi prego… No, non voglio un bicchiere d’acqua e nemmeno un cognacchino: voglio essere lasciato in pace, tanto lo so, voi mi prendete per pazzo e non mi credete… Lasciatemi solo, basta, mi state innervosendo e sto diventando cattivo. Basta, non rompetemi i coglioni!” Finalmente a casa. Tutto questo cinematografo per un malore, tutti addosso per solidarizzare preoccupati e poi, come dici qualcosa sul perché stai male e sul perché sei quasi svenuto, tutti ti guardano come se fossi un marziano o un pazzo che si è fatto una canna. I tuttologi razionalisti logici: bella razza. Ti assecondano con sorrisi aperti di latta e rischi di prenderti il tetano. Non so spiegare, ma ho visto. Se mi si crede, bene, altrimenti peggio per voi. Ma io ho visto e non sono pazzo. Solo qualche secondo per riprendere fiato… Posso scegliere le ore migliori, spessissimo, per prendere un tram o un autobus ed evitare gli orari di punta che riempiono i mezzi pubblici come barili di acciughe. Mi giro allora la città da seduto, tranquillo, respirando aria urbana che non sia un concentrato di umanità pressata. Guardo fuori dal finestrino e dentro il tram le altre figure assorte e posso lasciarmi andare a fantasticherie su quel vecchio baffuto come un’otaria e su quella otaria che è in realtà una sorella delle suore del Beato Cottolengo: curiosi interscambi fisiognomici che mi procurano buonumore. Anche stamattina sono andato in giro: ogni tanto mi scelgo un tram non molto pieno, o un autobus, e decido di 67 andare al suo capolinea, all’altro capo della città, per trascorre un poco di tempo tra un curiosare interessato e senza pensieri e un leggere ipotetici racconti di vita da volti sconosciuti. Stamattina ho preso il due che fa un giro molto lungo. Giornata grigina, tipica del nord, con quel riverbero pallido di sole nascosto da nuvole che potrebbero sgonfiarsi da un momento all’altro. Qualche studente in ritardo o in disaccordo con gli orari del provveditorato, qualche altro fancazzista come me, tre o quattro matrone con cipiglio spianato a scoraggiare chissà quali approcci, altre figure sparse nel lungo autobus trattenuto in due tronconi da un soffietto che sembra un elastico budino o una fisarmonica che non comunica polke. L’ho notato dopo qualche fermata. Unico viaggiatore in piedi. Una sagoma scura quasi indistinguibile, avvolta in un tabarro, un poncho o qualcosa di simile, nero, con un cappello fuori moda a larghe tese, nero anch’esso, a coprire con un’ombra un volto affilato seminascosto da occhiali da sole colla montatura spessa, inutile dirlo, neri. Era appoggiato ad una barra e potevo intuire che si abbracciasse sotto il mantello a riscaldarsi e difendersi dall’arietta frizzantina che entrava a mordere ad ogni apertura delle porte in occasione di una fermata del bus. Ha attirato la mia attenzione, quella strana persona, e ho cominciato a puntarlo senza farmene accorgere, pronto a distogliere lo sguardo ad eventuali incroci di occhiate. E ho visto. Si è spostato dalla barra, quasi indolente, reggendosi ad un mancorrente con un braccio sottile, eccezionalmente sottile e fasciato da un maglione nero pesante, con un guanto di pelle alla mano. Si è avvicinato verso un uomo sonnecchiante cullato dai sobbalzi del bus. Lo ha rimirato a lungo spiando reazioni che non ci sono state: l’uomo non sonnecchiava, dormiva proprio, forse di ritorno da un turno di lavoro. Aveva il capo appoggiato al finestrino e la bocca socchiusa. 68 Un sottile sibilo a bucare prepotentemente l’aria, tanto che lo sentivo da dove ero. Lo smilzo nero ha girato con disinvoltura lo sguardo tutto intorno a sé. Ero pronto e ho distolto la mia attenzione fingendo di guardare fuori. Poi l’ombra si è chinata verso il volto dell’uomo dormiente come se volesse chiedere una informazione o confidare un segreto. E ho visto. E ho anche udito. Un curioso rumore di risucchio attutito. Una luce fluorescente verdina fuoriuscire dalle labbra del vecchio per entrare nella bocca del nero incanalata in una specie di filamento spesso. Una scena veloce, improvvisa, inaspettata. Il nero si è drizzato subito guardandosi attorno e si è riposizionato alla barra di prima. L’uomo dormiente ha aperto gli occhi sobbalzando, come preda di un incubo, e ha assunto una espressione vuota, catatonica, svuotata di vita e di pensieri. Un attrito improvviso di luce ruvida e tagliente nella testa: ho compreso. Il sangue mi si è fatto acqua in una scarica di adrenalina che mi ha sfibrato di debolezza nell’impotenza di poter aiutare quel poveraccio, e, allo stesso tempo, si è scatenato in me un rancore di sete di giustizia e la prepotenza del volere ripristinare situazioni e raddrizzare torti e restituire maltolti. Ho urlato a piena voce, rauco. E l’ho indicato. “Al ladro, al ladro. E’ un borseggiatore. Ha appena rubato un’anima. Prendetelo. Aiutatemi a prenderlo”. L’ho indicato con il braccio, con un dito accusatorio puntato sui suoi occhiali neri. Nessuna reazione da parte sua. Mi ha quasi ipnotizzato con un movimento del braccio ad indicare quell’uomo che prima dormiva e mi sono distratto. 69 L’ho riguardato, l’insonnolito: volto assente ed espressioni di vitalità latitanti. Indifferenza totale. Ho avuto un brivido di raccapriccio: una espressione conosciuta, vista altrove, spesso, in altri bus e per strade della città. Indifferenza. A tutto, alla vita, alle emozioni, ai sentimenti. Ho rivolto di nuovo lo sguardo al nero. Ho avuto l’impressione di un ghigno e di un lampo sotto le lenti affumicate spesse. Mi sono sentito cedere, le ginocchia molli di emozione, l’adrenalina che mi ha svuotato la spina dorsale in un abbandono che mi ha fatto sedere sul primo seggiolino libero. Esausto. Rumore di frenata e porte che si sono aperte con il loro classico soffio che mi è sembrato un rantolo. L’ombra nera è scomparsa nel riverbero grigino della mattinata. Sono crollato sopraffatto. Ho riaperto gli occhi seduto per terra sulla soglia di un bar, tra tanta gente intorno che chiedeva, che si informava, che si interessava. Pressante, invadente, fastidiosa nel sorridere con sufficienza per quanto raccontavo. Esistono e sono tra noi: borseggiatori di anime. Poi ho ripreso a poco a poco la padronanza di me. E ho compreso, in crescente raccapriccio, scrutando i tanti volti intorno a me: vuoti, simili a quello dell’uomo dormiente del bus. Indifferenti. Umanità priva di emozioni, incapace di sentimenti, senza anima. Mi attorniavano e mi guardavano con un fare samaritano che era asettico e privo di vera partecipazione. Panico e solitudine nella consapevolezza della diversità. Un flash nel cervello a ferire come un rompighiaccio: una nuova invasione degli ultracorpi a fare proseliti per una causa estranea e sconosciuta. 70 E ho urlato come un pazzo, a squarciagola, di un urlo continuo e lacerante di bestia ferita, con gli occhi spalancati di orrore ad abbracciare il vuoto. Sono fuggito a piedi in una corsa disperata, incespicando e con il respiro mozzo, verso casa mia, a trovare un riparo per la mia anima. Non dormite sugli autobus…non dormite… 71 BAGLIORE DI NEVE E DI DENTI Una piccola scintilla accese di intermittenze un’area del grande pannello della sala operativa. Solerte Addetto imprecò a bassa voce e poi sbottò: “Rottura della linea elettrica. Il 9421 starà fermo per un pezzo. E sta nevicando come in ottomila presepi…” Ci fu qualche risatina maligna e Solerte Addetto inoltrò le appropriate segnalazioni per un ripristino della normalità il più possibilmente celere. ‘Celere’, si venne poi a sapere, è una parola che racchiude un concetto molto relativo. Bianco. Non assoluto, ma pieno di sovrapposizioni. Una campagna coperta da uno strato uniforme di neve grassoccia senza contorni, abbacinante, punteggiata da rade macchioline scure di conigli selvatici sparuti, protetta da mani scheletriche di alberi adunchi come artigli a trattenere un cielo di altro bianco, pronto a cadere di peso, totale, a coprire la neve con il suo perlato freddo e insensibile. Rami come setacci a sfarinare quella uniformità incombente lasciando filtrare fiocchi lenti e regolari a larghe falde che si spengevano come luminescenti lucciole contro un immenso materasso morbido. Tra i due bianchi contrapposti, un altro bianco, lucido, vivo, dinamico in refoli pigri indistinguibili tra uno scendere dal cielo o il salire dalla terra: nebbia. Silenzio assoluto a nutrire sgomento. L’impianto di riscaldamento defunse come la madre linea elettrica in una breve agonia che portò l’interno ad una temperatura più simile a quella della campagna intorno e i vetri appannati diedero l’illusione dell’unione in accordo dei vari bianchi. Dal suo sedile verso il finestrino, Pacato Professore, dalla barba caprina e dall’occhio ironico, chiocciò divertito con un ghigno verso Allieva Sognante, sua dirimpettaia: 72 “Il bianco, per la cultura dei giapponesi, rappresenta il colore della morte. Nel vedere fuori mi viene da pensare, con questo freddo, che possano avere ragione anche per noi occidentali…” Allieva Sognante scrutò il panorama dal vetro appena velato e rabbrividì stringendosi addosso la sciarpa multicolore decorata a originali disegni di motivi andini. Non furono tra i primi, e neanche tra gli ultimi, a morire. Pacato Professore, all’ultimo della sua vita normale, si compiacque di certe sue intuizioni, ma smarrì la sua ironia. Allieva Sognante fece correre il pensiero fuggevolmente a proprietà iettatorie del suo autorevole compagno di viaggio. Grigio. Come il grigio di un cessetto di un treno. Corpulento Orsacchiotto, grande e grosso giovanottone dallo sguardo buono e dai capelli a spazzola, rimase perplesso a guardare la nebbiolina densa salire dall’imbuto della tazza della ritirata mentre espletava una funzione resa impellente dall’aumentare del freddo. Espirava con fatica sbuffi di aria condensata, mingendo, perplesso su quell’aura che si alzava. Rimase curioso ad osservare. La nebbia prese una sua consistenza e una sua forma. Si stagliò di fronte all’omone con ondeggiamenti che sembravano una danza ipnotica. Antropomorfa. Corpulento Orsacchiotto ebbe la sensazione di udire un sibilo che percepì come una voce: “Non avrei mai pensato di essere così fortunata…” I suoi occhi divennero quasi subito lucidi e vitrei, bambolotto appoggiato alla parete, mentre gli si creò una infiorescenza a schizzi sul collo, come su un petalo di orchidea, sulla pelle di cera giallognola che fu maculata di sangue. L’aria spessa, la nebbia vivida, tagliente come denti di vampiro diafano, penetrò nello squarcio sul collo e nella 73 bocca inerte socchiusa del ragazzone che sussultava piano come una gigantesca ranocchia gorgogliante sotto scariche galvaniche. Si accese di colpo una luce nuova in quegli occhi morti. Fu il primo: in quella luce pulsava una insana vanità. Verde e blu. L’uniforme di servizio. Capotreno Professionale si aggirava nel corridoio invitando alla calma, con spirito infermieristico e con piglio consapevole di consumato personale di bordo, professionale appunto. Il corridoio era deserto: i viaggiatori avevano chiuso le portiere di tutti gli scompartimenti per trattenere il loro tepore a difesa dal freddo mordente. Vide venire verso di sé un omone, un armadio grande e grosso con i capelli a spazzola. Strano, e strana andatura. Camminava come un automa con un sorriso vuoto e lo sguardo perduto verso tutto e nulla. Era sporco di sangue, schizzato sulla camicia chiara fin dal colletto, ma pareva non curarsene. Veniva verso di lui con aria paciosa e il suo sorriso si allargava come in una prova ‘morphing’ di un esagerato esperimento di grafica computerizzata. Un ghigno. Denti bianchissimi, innaturali, candidi come la neve al di fuori, con i canini pronunciati a forma di ghiaccioli appesi ad un bordo, e la bocca era sporca di sangue rappreso color terracotta, come un tetto o una grondaia rugginosa. La sorpresa tradì Capotreno Professionale e lo immobilizzò in assenza di reazione. Corpulento Orsacchiotto sembrava che volesse chiedere permesso per passare oltre lo stretto corridoio. Lo abbracciò sorridendo, con un sorriso bianco, liquido e tagliente. Lo avvolse in una spira. 74 Il controllore ebbe un ultimo fuggevole pensiero sull’assenza, rispetto a poco tempo prima, di conigli selvatici nella neve. Giallo. Colore di una pelle ambrata, della sua cantante preferita, Mè Shell Ndegeocello, per come la rimirava attraverso gli occhi chiusi ricordando la copertina del cd “Peace beyond passion”. Aveva gli auricolari alle orecchie e si stava sparando a volume da trance “God Shiva” tamburellando sommessamente sul bracciolo del sedile in un rapimento mistico che solo un musicofilo può comprendere. Avvertì un muoversi d’aria senza udire l’aprirsi dello sportello del suo compartimento. Sentì un leggero contatto, quasi un palpare, e nel socchiudere gli occhi vide un petalo d’orchidea maculato di porpora e un controllore ferroviario che non chiedeva il biglietto. Poi, scorgendo altre figure dietro, si chiese chi mai potesse avere il coraggio di girare con una barbetta da capra così ridicola. Si sentì sollevare senza peso in un luccichio di ghiaccioli, o forse denti troppo aguzzi. Azzurro. Azzurro carta da zucchero: il colore della tappezzeria dei sedili. Azzurrini i vetri interni a fare da pareti e divisori. Azzurro lo sguardo splendido, dolce e senza fondo, della sua compagna di viaggio sconcertata di fronte a lui con una chioma lucente di grano come una Piccola Gretel. Timidezza inibitrice di lei per domande e socievolezza. Solo un chiedere di sguardi a tranquillizzare inquietudini. E lui, Ultimo Eroe, sorridente verso Piccola Gretel, a infondere sicurezza protettiva tra nuvolette di condensa che 75 correvano a morire sul vetro per cercare di ricongiungersi con il bianco dell’esterno. Furono travolti da personaggi curiosi e familiari insieme, dinamici in maniera bizzarra, a scatti e rallentamenti, e i loro sguardi persero ancora una volta le loro sintonie: lei spaurita con le orbite spalancate nel dolore di morsi liquidi alla giugulare da parte di un enorme Orsacchiotto Corpulento e di un musicofilo rapito dal ritmo, e lui incredulo di un precipitare da Ultimo Eroe a vittima, come un leprotto o un fagiano investito da un’ auto guidata da un Pacato Professore con a fianco una diabolicamente eterea Allieva Sognante. Piccola Gretel udì all’ultimo una musica soffusa che poteva assomigliare ad un genere ‘funky’ e si chiese sorpresa, in un balenare d’attimi, che cosa ci facesse un auricolare penzolante sul suo collo. Ultimo Eroe ebbe una caleidoscopica visione di colori, tra il grano dei capelli della sua compagna di viaggio e uno strano motivo di disegni variopinti peruviani di una sciarpa e strani petali di fiori tropicali rosso sangue. Rosso. Di passione, di rabbia. Lurida Bagascia glielo aveva finalmente detto, esasperata o seducente, forse per un nuovo gioco o forse per davvero, e rideva oscenamente: sì, c’era un altro uomo. Cornuto Mazziato era dibattuto tra lo stringerle le mani al collo per strangolarla, possederla un’ultima ennesima volta, umiliarla o umiliarsi in devozione di due gambe sinuose e affusolate che non finivano più, ben oltre il bordo delle autoreggenti che sfumavano in contorni scuri. Forse lo scuro non era uno slip, un perizoma, una coulotte: palpitava in sincrono con una risata di gola che staffilava orgogli con piacere e sofferenza. Scorse, Cornuto Mazziato, un movimento inspiegabile attraverso i finestrini del corridoio, un dibattersi due o tre scompartimenti più in là, tra un capotreno e un omone grande e grosso che immobilizzavano un ragazzo, ma non 76 diede molta importanza alla cosa: era accecato da altri pensieri. Quel riso grasso sembrava provenire dalle gambe e invitava e provocava nella umiliazione. Due occhi neri, due enormi capocchie di spillo lucide, lo deridevano e chiedevano di osare. Forse era quello che la donna voleva: che lui osasse, estremo. Si levò di scatto dal sedile, in adrenalina, senza rendersi conto dello sportello che si apriva. Si afflosciò rapidamente in un insieme di percezioni che lo confusero. Lurida Bagascia mutò il suo riso in un urlo strozzato ansante mentre lui ebbe la sensazione di essere trafitto da ghiaccioli, a metà tra dolore e piacere, scoordinato tra fantasie, immagini, sensazioni reali. Sorrise svuotato e incredulo. Ebbe la consapevolezza di avere un sorriso diverso poco dopo, mentre affondò i suoi canini tra le cosce della mora terrorizzata che veniva anche baciata a sangue inopinatamente da un estraneo Ultimo Eroe. Nero. Come l’inchiostro della sua penna biro. Scrisse freneticamente qualcosa su un tovagliolino di carta e attese immobile come una preda nell’ultimo scompartimento. Aveva presentito e aveva spiato. Aveva capito anche che non avrebbe potuto fare nulla. Pensò senza logica, forse in associazione di idee inconscia, a Hemingway o a Capote: in qualche loro scritto, ricordò, c’era un personaggio che veniva chiamato Ragazzo Sveglio. Si autonominò amaramente Ragazzo Sveglio, sterilmente fiero di sé, e attese l’ineluttabile sperando di non soffrire molto, strizzando gli occhi tra tutto quel bianco che riverberava. 77 Verso la metà del pomeriggio arrivarono i soccorritori stupiti dall’ assenza di segnali. Nessuna telefonata di cellulare, nessun messaggio dalla cabina di guida del treno immobilizzato nella campagna sommersa dalla neve. Vennero trovati solamente cadaveri dissanguati e successivamente un tovagliolino di carta. “Si ritirerà non appena avrà consumato il suo pasto. Ha fame. Odia e prevarica. Scomparirà nella sua vera essenza per poi riapparire in qualche altro luogo e soddisfarsi di sangue che sempre è stato per lei tributo preteso. Abbiate cura di voi e delle vostre anime. Abbiate prudenza e sappiate difendervi dalla nebbia. Non lascia scampo ai deboli. Dopo questo banchetto si dirigerà sull’ autostrada e attenderà…” Il bianco esterno della campagna e del paesaggio sfumò nel porpora grigiastro di un tramonto silenzioso. 78 SA VIAGGIARE LA GENTE DI MONDO Assaporò la partenza del treno con un’ingenua sensazione di soddisfazione, Marcopolo Viaggiatore: era solo, nello scompartimento, senza scocciatori, senza il doversi preoccupare di russare nell’eventualità di un pisolino. Ma gli si accese quasi subito nel cervello il ‘plop’ iridato di una bolla di sapone esplosa. Si aprì, infatti, la porta ed entrò un essere a mezza strada tra Pippo, il compagno di Topolino, e Ciccio, il nipote scemo di Nonna Papera. Ciccio perché era pacioso, pallido e grassoccio come un fiasco, con una espressione beota sul volto e con due occhietti porcini e un cappellino verde. Pippo perché entrò dinoccolato nello scompartimento e si pose a sedere di fronte a lui intercalando versacci in falsetto come fumetti: yuk, yuk, yuk,… con rumorose deglutizioni. Il bizzarro personaggio era educato. Salutò con esagerata voce tenorile che virò in soprano, per qualche accento metallica a scatti come quella di Max Headroom, cerimoniosa, con una conclusione che sembrò un belare di capra affamata: “Buonciooornooo, sigh-nore, buenasdiasssss, bonnnsgiuuuur, gudmonin, kalime-e-e-e-raaaa…” Marcopolo si considerava un viaggiatore di mondo: rispose con un sorriso cortese non troppo pronunciato e fu attirato nell’attenzione dall’abbigliamento di CiccioPippo. Aveva, costui, un giubbottino a quadrucci rossi e bianchi, come una tovaglia rustica, e le bretelle uguali a quelle di Pippo, quelle con i bottoni immensi. Gli si affacciò alla mente l’associazione di idee con Korov’ev, il maestro di cappella del romanzo “Il maestro e Margherita”, di Bulgakov, quello dallo spirito ridanciano e dalla voce stentorea. Gli sembrò anche di udire quella voce per come l’aveva immaginata nella lettura del libro: “Gran bella giornata, vero, sigh-nore? 79 Le piace la mia voce impostata per una classica conversazione da treno? Yuk, Yuk…Glubbb Gradisce un giornale? Un panino? (Estrasse tutto da una tasca dei pantaloni). Oinkkkk!!! (Nasale). Disturba se fumo? (si accese tre sigarette insieme, di cui una al mentolo, con movimento frenetico: click, click, click dell’accendino). Oinkkkk!!! (Assolutamente nasale). Tra quanto arriveremo? Siamo in orario? (fumava, mangiava il panino, leggeva il giornale, tumultuoso e isterico, squittendo e grugnendo). Yuk, yuk, gaspppppppppp, munch, munch, Guuulp…” Marcopolo rimase per un attimo trasognato, travolto dal marasma torrenziale di parole, versi, tonalità basse, baritonali, in falsetto. Poi fece appello alla logica e, squadrando il personaggio stridente, concluse di essere stato promosso a protagonista ignaro, nelle intenzioni degli ideatori della scena, di una qualche “Candid Camera”, una di quelle trasmissioni dove si gioca con le reazioni, riprese ad insaputa dell’interessato, di una persona messa di fronte ad accadimenti strani e fuori di ogni normalità. Sorrise quindi, appena più aperto, a CiccioPippo che gesticolava come una girandola indicando paesaggi fuggenti nel mentre che emetteva esagerati “oooooohhhhh” di meraviglia che partivano dal diaframma per morire in acuto strozzato di ugola come una sirena d’ambulanza. Il fumetto animato materializzò dall’altra tasca dei pantaloni una bottiglia di succo di frutta, all’albicocca, con due bicchierini di plastica. Strana coincidenza, pensò Marcopolo: pare di essere al chiosco del giardino Patriarsie di Mosca nel capitolo iniziale del libro di Bulgakov… Rabbrividì al pensiero della fine di Berlioz, il protagonista di quel particolare capitolo, decapitato sotto un tram per essere scivolato sopra una macchia d’olio di girasole, ma si sforzò di sorridere ancora, anche se appena più tirato, e curiosò, senza darlo tanto a vedere, verso le 80 mensole grigliate portabagagli, verso gli specchi, verso le luci e il soffitto, i poggiatesta delle poltroncine, il finestrino, alla ricerca di un piccolissimo obiettivo di telecamera miniaturizzata che confermasse la sua teoria. CiccioPippo cominciò un astruso discorso sul tempo e sui cambiamenti del tempo rispetto ad una volta, tra singhiozzi, deglutizioni, versi e versacci, partendo con una voce che ricordò, a Marcopolo, Orazio, il cavallo di Nonna Papera, per poi scivolare con una voce più morbida e fluida che associò a Clarabella la mucca, per terminare con striduli versi, tipici di Chiquita, la gallina chiacchierona, anch' essa, come tutti, della fattoria di Nonna Papera. Parve, a Marcopolo, di inspirare odore di crostata di mirtilli e di fieno, di immergersi in un qualche fumetto di Topolino con tutta l’allegra strana brigata di personaggi animali umanizzati, a mezza strada tra un sogno disimpegnato e simpatico e un incubo con i fumetti che assumevano tinte fosche e voci caricate di riverberi minacciosi e robotici. CiccioPippo imperversava con strane interiezioni e con una vocina che pareva un pigolio: “Non esistono più, squeekkk, le mezze stagioni, sbarabakkkkk. Non esistono più, squak, le mezze, yuk, yuk, stagioooooooooniiiiiiiiiiiuuuuuuhhhhhhh” E imitò un cowboy al rodeo sulla poltroncina agitandosi e gridando con voce da basso: “Gidddappppp, giddddaaaaappppp.” Marcopolo razionalizzava, guardandolo, un poco teso, ma bendisposto e deciso a non fare la figura dello sciocco di fronte a qualche milione di telespettatori. Si sentì superiore, persona che sa vivere, appena infastidito dal contrattempo, ma sufficientemente sportivo da stare al gioco con spirito snobistico di dandy navigato. CiccioPippo canterellava con la voce del cavallo in disegno animato del film “Mary Poppins”, in crescendo, con tono impostato sempre più ispirato: “Oh come è delizioso andar con Maryyyyyyyy…” E si rispondeva con le vocine dei pinguini e accennava un tip tap sulla moquette dello scompartimento giocando 81 con la bottiglia di succo d’albicocca e i due bicchieri, con tre cicche in bocca quasi esaurite, tra cenere e le briciole del panino e le pagine sfogliate del giornale che crocchiavano sotto il culone a fiasco. Uno spettacolo da circo. “Supercalifragilistichespiralidosooooooooooooo Lei ha un aspetto e un viso che mi sembra assai schifoooosoooooo…. Squik, squak, spic span, brumble brumble, guuuuuuulllllllllppppppp.” Marcopolo pensò che i tecnici televisivi erano stati davvero bravi: non era riuscito ad individuare alcun obiettivo. Bravissimo anche l’attore…sicuramente… Assunse un’aria vagamente imbarazzata da stoccafisso, ma senza dare eccessiva soddisfazione. “Gradisce? Gradisca, beva un poco di succo di frutta con me: che si faccia un brrrrrrrrindiiiisiiiii. E chi non beve con me, peste lo cccooolggga. Chi non beve in compagnia non è figlio di Mariaaaa.” Passò dal tono entusiasta dell’imbonitore all’imitazione baritonale di Amedeo Nazzari per terminare con un miagolio da piccolo coro catechistico e Marcopolo si sentì soggiogato e si trovò ad afferrare il bicchierino di plastica pieno e a bere d’un sorso mentre il fumetto ciarliero sghignazzava. “Bene, bene, bene…Ma beeeeneeee: il signore ha bevuto senza baciarmi…” Lo guardava con aria perfida, con gli occhietti porcini, grattandosi la testa da sopra il cappelletto verde. E cominciò a cantare imitando una strascicata Wanda Osiris. “Velenooooooo, se mi baci ti dò il mio velenooooo….” Marcopolo cominciò ad inquietarsi un poco perché sentiva che il gioco stava sfuggendogli di mano. Cercò di alzarsi per guardare meglio alla ricerca di un teleobiettivo, magari dietro gli specchi, per cercare nel corridoio un capotreno di passaggio nel controllo dei biglietti. Non riuscì e si accasciò esausto sulla poltroncina. 82 Si sentì svuotato di energia con un senso di oppressione allo stomaco che si irradiava verso il petto. CiccioPippo parve assumere un’aria nuova, una nuova espressione, o forse era lui con i nervi tesi, non abituato a scherzetti e a invadenze di questo tipo. Ora Marcopolo aveva di fronte Pennywise, il clown del libro “It” di Stephen King, l’incarnazione antropomorfa del male, del ragno gigante delle fogne di Derry che mangiava i bambini. Il senso di oppressione sul petto aumentava e anche le palpebre divennero pesanti. Pensò che forse sarebbe potuto diventare in futuro un attore: questa sarebbe stata una “Candid Camera” davvero entusiasmante. Socchiuse gli occhi cullato da atroci ninne nanne cantate a voce spiegata in falsetto e in tedesco con tonalità zuccherose e lascive alla Max Raabe. Si sorprese anche a ridere, forse dentro di sé, mentre gli occhi diventavano di piombo e cadevano in un abisso senza fondo pieno di echi di vocine e squittii con tanti cartoni animati che lo salutavano dal ciglio sventolando fazzolettini. Pensò ad un lungo viaggio, alla fama, alla celebrità, alla televisione… Viaggio nel viaggio per un nuovo viaggio. Poi la sigla con la marcetta di “That’s all folk!” e poi ancora buio e silenzio. Si svegliò con la bocca impastata quattrocento e oltre chilometri più in là. Senza punti di riferimento e senza spiegazioni, intorpidito e freddoloso. Aveva un cappellino verde in testa, un paio di pantaloni da circo con due bretelle dai bottoni esagerati. Si ricordò di telecamere, di trasmissioni televisive, di autografi da elargire. Si guardò intorno e tamponò violentemente il reale. Mancava la valigia, il soprabito con il portafogli, la ventiquattrore con il costoso portatile… Mancava soprattutto il suo compagno di viaggio: CiccioPippOrazioKorov’evClarabellaPennywisecowboy. 83 Gli venne su un singhiozzo e una antipatica associazione di idee, di quei cartoni animati americani dove lo stupido si metamorfizza in somaro o in prosciuttone. Una serie di singhiozzi per rabbia e un senso di nervoso. Yuk, yuk, yuk. Guuuuulllllppppp. E si affacciò il controllore, mai passato fino a quel momento, per la verifica del biglietto… 84 QUELLO CHE NON SI RIESCE A VEDERE Ebbi la percezione di qualcosa di strano e innaturale non appena uscii, di prima mattina, dimesso dall’ospedale, sotto un sole acerbo. Provavo un senso di leggerezza e di liberazione, dopo diversi giorni trascorsi in coma e una cupa degenza, e la giornata era luminosa, dorata e materna, ricca di sfumature cromatiche primaverili. Il piazzale antistante l’ospedale, un insieme di aiole già fiorite e vialetti di mattonelle rossastre calde, circondato da platani e olmi, brulicava di umanità vitale tipica del primo mattino: studenti, massaie dirette al mercato, gente che si avviava speditamente al lavoro. Gli alberi stavano cominciando a germogliare brillanti e il cielo era intensamente azzurro di turchese e terso. I rumori della città si stavano rimpossessando di me, dopo il forzato confino in una stanza isolata dal mondo, con richiami amichevoli e invadenti già uditi in passato. Zoppicai nostalgico verso la strada. Avvenne improvvisamente. Il paesaggio, la piazza, gli alberi, tutto scolorì trasformando quello che mi circondava in un vecchio dagherrotipo animato, in un film d’altri tempi seppiato di un giallo smorto tendente ad un verde marcio con molte sfumature di grigio e nero. Mi si chiuse il cuore in un senso insopprimibile d’angoscia. Baluginò di nuovo con capricciosa intermittenza il colore nella sua normalità, ma quel depresso miscelarsi di giallo-verde-grigio-nero si ripropose insistente a tratti nei miei occhi. Mi sorpresi turbato, ma rassegnato con mie personali giustificazioni circa la permanenza dolorosa presso il reparto di rianimazione intensiva: un brutto incidente davvero, che doveva aver lasciato strascichi psicologici, per quanto ero assai stressato. Fui poi attratto, nella mia attenzione, da qualche dettaglio senza logica apparente. 85 Quando lo scenario intorno degradava nello stinto io scorgevo anche altro: sagome di uomini inesistenti nella normalità del colore, grigie e nere con schizzi di giada smorta, scolorite e quasi cancellate, come personaggi fuoriusciti dalla china di quel grande disegnatore di fumetti che fu Beccia. Erano inquietanti: nell’attesa di qualcosa, in diversi punti della piazza. Ebbi anche un’altra percezione che all’inquietudine mi aggiunse un’angoscia che crebbe dentro di me in vero e proprio terrore. Il silenzio. Nel circostante dalle sfumature monotone subentrava, almeno nel mio cervello, come sensazione, anche un’assenza di suoni. Cessava lo sferragliare del tram, la sporadica sirena di un’ambulanza, lo scalpiccio di passi frettolosi, qualche risata, il garrire delle prime rondini. Sonorità dissolte e aria di palude senza toni. L’intermittenza delle immagini che vedevo stava spostandosi sempre più a lungo verso la visione di un mondo lacunoso da incubo e ormai distinguevo agevolmente senza dubbi le quattro o cinque sagome strane in attesa presso gli incroci del piazzale, quelle figure che non riuscivo a scorgere nel mondo screziato. Strano il mio stato d’animo: era una paura fatalista e non dominata, venata di curiosità incosciente. Mi diressi, camminando lentamente, verso uno di questi personaggi sfumati immobili. Nel frattempo che mi avvicinavo, deflagravano tinte brillanti, esplodendo nelle pupille con lampi luminosi, per poi morire nel grigiore spento con mie distorsioni visive preoccupanti. Vidi, frastornato, nel caleidoscopio intermittente, la corriera gialla della scuola che si staccava dal traffico delle auto variopinte e si fermava ad un incrocio dove un bambino e la mamma aspettavano, entrambi con sgargianti giacche a vento rosse. Udii la frenata e il rumore di soffietto delle porte che si aprivano e le risa felici degli altri ragazzini all’interno dell’automezzo e il saluto della mamma. 86 Poi di nuovo quell’aria muta e spettrale di foglie morte. Provai un senso d’oppressione. Notai allo stesso incrocio un’ombra statica, anch’essa in attesa, prima non vista. E scorsi un nuovo scuolabus, silenzioso, plumbeo opaco, materializzatosi senza che me ne fossi accorto, che si fermò all’incrocio. L’essere salì senza un gesto particolare o un saluto. Vidi che la lugubre corriera si dirigeva verso l’altro incrocio, dove mi stavo indirizzando per curiosare da vicino su un’altra sagoma scura. Accelerai il passo per vedere meglio e cercare di comprendere meccanismi che sfuggivano alla mia logica. Arrivai a fianco dell’uomo, un essere senza espressione, proprio mentre il piccolo pullman scuro accostava senza rumore o frenate al marciapiede di fuliggine. Si aprirono gli sportelli: nessun soffio o stridio. L’uomo salì tranquillo e armonico, elastico, quasi senza peso, e sparì in un buio profondo che dalla strada appariva galleggiante, attraverso i finestrini, come inchiostro. Dall’interno percepii uno scintillare tenue di fuoco fatuo nel posto di guida e mi sporsi un poco per vedere. L’autista mi apparve come un’ombra indefinibile, mummificato, con le orbite degli occhi fosforescenti di un verde fluoro spento, con un sorriso pacato che accentuava un tratto scheletrico del suo volto pergamenato. Si rivolse a me, parlandomi, o forse io captai qualche suo messaggio mentale nel mio cervello. “E tu non sali?” Questo viaggio è anche per te: aspettano tutti…” Compresi, allora, e salii sullo scuolabus brunito dal tempo e dai peccati. Salii consapevole di essere morto in quell’ospedale, con una percezione della nuova realtà ormai stabilizzata senza traumi in totale assenza di rumori e colori, verso una meta dove forse, sperai, me li avrebbero restituiti con gioia ed entusiasmi nuovi. 87 GUIDARE NELLA NOTTE NERA Stai ascoltando “The musical box” dei Genesis, qui, su Radiosenzatempo… Ci vuole proprio, la cavalcata selvaggia della chitarra di Steve Hackett, per caricarsi, vero? Sì, è adrenalina pura che stimola le mie solite curiosità. E sono ipersensibile, ormai: riesco ad ascoltare il frantumarsi scheggiato d’ossa tra rullate prepotenti di batteria e leslie impazzito di organo Hammond. Ho l’impressione che il mistero dell’esistenza mi si possa dipanare ogni volta impercettibilmente in più con ritmi ossessivi e urti sordi di sagome scelte a caso nella notte. Figure disarticolate che volano come mucchi di stracci in esperimentazioni filosofiche estreme dopo un tonfo secco sul cofano della mia auto, volti distorti immobilizzati in un fermo immagine doloroso e stupito sul parabrezza in un fiorire di reticoli minimali che si tingono di porpora liquida. Assisto, vedo, medito. Rifletto sulla fragilità della vita, sulla casualità di un destino, sulla possibile soglia del dolore, sulla pietà o la perfidia del fato in una fine breve o estenuante, se preceduta da una lunga dolorosa agonia. Sobbalza, l’auto, su ultime pulsazioni scivolate tra le ruote, ormai incoscienti, e l’unico faro acceso buca una notte che appare calma a coprire come una coltre. Come è lontana e inafferrabile, comunque, la verità. Ed ecco a voi giovani un classico sempre attuale di Radionotterock per la vostra cultura musicale: violenza pura, ritmo, energia da urlo, come l’urlo di Robert Plant dei Led Zeppelin maledetti e della loro celebre “Whole lotta love”. Mantenete i nervi saldi, ragazzi, per essere padroni della notte: occhio al bere e a quello che mandate giù nelle gorguzzole… “Ricapitoliamo i punteggi.” 88 “Pedone semplice: dieci punti; anziano: venti punti; anziano con bastone: trenta punti; coppia anziana: cinquanta punti…” “I bambini valgono?” “Sei proprio senza fondo…” “Ciclisti? Scooters?” “Sei una belva assetata di sangue.” “Beh, o ci divertiamo per bene o è meglio fare altro, no?” “Va bene: facciamo che vale tutto. Diamo anche un ‘bonus’ di cento punti per un’ intera famiglia e uno ‘special’ di duecento punti per un eventuale paraplegico su sedia a rotelle: come un flipper. Dichiaro aperto il concorso: Uccidi anche tu il tuo pedone. Domani mattina, chi vince, tra noi e quegli altri segoni della decappottabile, si scopa per tutta la giornata quella squinzietta che ci sta aspettando in calore oltre il ponte…” “Dring, dring, dring…Chi perde paga il carrozziere per tutti.” “Ammirevole bastardo.” Tiriamo il fiato, adesso, e lasciamoci trasportare da onde di benessere e rilassatezza qui su Radionotteamica. Qualcuno mi ha chiesto di ascoltare quella vecchia volpe di Mike Oldfield: molto commerciale il gusto dell’amico, ma c’è sempre qualcosina di buono da prendere da tutti. Ecco per voi “The sunken forest”: buon ascolto. E’ tormento e catarsi per me guidare nella notte. Mi sanguina il cuore, eppure mi sento leggero. La vita è un impasto di sofferenza e piacere, sacrificio e godimento, tormento di rimorsi e nostalgia di rimpianti per non aver saputo vivere meglio. Anche oggi farò qualcosa di risolutivo: per il mio benessere e per quello di altri che lo cercano invano. Quel vecchio di ieri aveva uno sguardo triste ed infelice, camminava ingobbito, con passo strascicato: era stanco e si vedeva. 89 Ho immaginato la sua invocazione d’ogni sera nel suo letto, un chiodo rugginoso conficcato nella mia sensibilità: Signore, prendimi, non ne posso più. Mi piace pensare che mi sia stato grato per qualche attimo. Voglio credere che la sua pace estrema possa ripagarmi della sofferenza che mi crea questa missione che mi sono posto come fine della mia esistenza. Odio la vecchiaia: è sinonimo di sofferenza, incuria, abbandono, debolezza. Eccone un altro, laggiù, malfermo ed esitante. C’è bisogno del mio aiuto… 90 OGGI E’ LA FESTA DEI MORTI Leonida ascolta. “Mio cugino ha messo sul telefonino la suoneria dell’aragosta che bolle viva…” “Fichissimo! Io dovrei inserire quella dell’alligatore che divora…” Malessere. Il 51, oggi, due novembre, si dirige verso il capolinea suburbano, al cimitero di Settimo: trabocca come un’emicrania. Leonida è seduto e fissa un paesaggio plumbeo piovigginoso fuori del finestrino appannato, premuto alle spalle grandi da invadenti compagni di viaggio in piedi. Odore d’umanità da film realista: fiori freschi confondono loro olezzi con aliti di fiori marciti e cariati e afrori di sudaticcio. Il bus corre a strapponi, e qualche crisantemo perde petali nel pigia-pigia tra una frenata e un’accelerata. Raspa una voce scocciata: “Guarda che tempo di merda: ieri faceva ancora caldissimo. Non esistono più le mezze stagioni…” Ba-be-e-e-e-l-eeeee. Un fez e una papalina barbuti sembrano litigare in agitarsi frenetico di mani e in toni aspri di voce. Apprensione sottocutanea: potrebbero passare a vie di fatto. No: stanno solo parlando amabilmente. Un walkman pulsa come una radio a volume normale: i timpani del giovane assente sono voragini che si sgretolano verso una sordità incipiente. Tump tump tump tump… Il basso ‘house’ è ripreso da un piedino di porchetta lardellosa con unto ombelico in bellavista. In bellavista: come l’aragosta del telefonino divorata dall’alligatore. Manca l’aria. 91 E’ assorbita da discorsi confidenziali di una giovane giraffona china su un’armadilla dall’ombelico riparato. Voci lievi come soffi, ma dal contenuto di piombo. “…Tiene una minchia tanta…” “Oooohhh…te l’ha fatta vedere?” Qualcuno s’indigna, probabilmente per invidia del pene, confondendo: “Ah, gioventù d’oggi! Se comandassi io: …Siberia, Goulash! Ai miei tempi…quando c’era lui…Addavenì Baffone…” Qualcun altro ammicca e si guarda intorno a cercare complici origlianti, con risolino imbarazzato e curiosità per lo sproposito penedimensionale: spera in maggiori morbosi dettagli... Ride stanco dentro di sé, Leonida, al pensiero della giraffona che guarda, tra ingorda e stupita, un’anaconda, ed è stordito da una maschera trifacciale d’ascella umida che stringe otto crisantemi penduli in ferrea morsa. Giappone, Giappone: ci vorrebbe un buttadentro da metropolitokio che sapesse organizzare lo spazio… Non si sentirebbero acidità di questo tenore: “Vada più dietro: mi sta traforando come padre Pio con questi gambi di fiori. Dove cazzo portate, poi, ‘sti fiori: i mortacci dell’Angola… Stai dietro, cazzo. Accidenti a chi vi fa salire… Al solito: solo noi onesti paghiamo il biglietto…e le tasse…” “Maledugado. Fangulo razisda!” “Fanculo a te, troia!” S’attiva il corifeo greco-nigeriano da tragedia, con crisantemi e maglie da calabroni strafatti, a strisce orizzontali rosa e nere, con parrucche improbabili arancio zucchalloween. “Fangulo razisda! Idalia di merda, berò bombini vi biace, neh?” Silenzio prudente masticato ripetutamente come liquerizia: potrebbero uscire coltelli, rasoi, lamette, unghioli da iene… Un morso all’AIDS, uno sputacchione infetto. 92 …O fatture voodoo. Leonida soffoca. Pensa alle solite quotidianità: ‘li accendiamo?’ Umorismo macabro: un 51 che sfreccia come una stella cometa di rompicoglioni bruciacchiati che vanno al cimitero di Settimo. Dal produttore al consumatore, …o viceversa. Chi sono i morti chi? Il vecchio incazzato, ce n’è sempre uno, disappanna il finestrino con la mano nodosartritica e si china per guardare fuori. Zaffata di ponte che crolla. Poi sguardo di diritto e parole di diritto a rovescio: “Fammi sedere: sono vecchio e invalido!” Nessun salamelecco di circostanza, per favore, sorriso: solo l’indicazione della cimice sul bavero della giacca. Resistenza, guerra, ferite, mutilazioni. Delle buone maniere. Leonida si alza dal seggiolino e riceve una ginocchiata all’inguine: il posto va consumato caldo. Un crisantemo sembra un cristiano pallido con parrucchino spostato dal vento. Monta l’ira di Leonida per l’ovvio, per il cialtronesco e il miserabile che viaggiano con lui. “Permesso, permesso…” Attende la fermata a fianco dell’autista che sembra uscito da una pennichella, pacioso, serafico e indifferente al bailamme di dietro. Sembra che lui non abbia parenti morti: un trovatello bastardo o un autista felice. Il bus ferma e il conducente sbircia i retrovisori per l’apertura e la chiusura delle porte. Leonida ha un guizzo, schiaffeggiato dall’aria frizzantina esterna, e sibila: “Togliti, cazzo. Fuori dei coglioni.” L’autista rimane interdetto. Vede due occhi sporgenti da rospo, epilettici, decisi e cattivi di sguardo e intenzioni. Scorge poi una mano in tasca, pericolosa come un crotalo, e mette le mani avanti con un sorriso di 93 comprensione, da giorno prima d’Ognissanti per il Medardo di turno. “Buono, buono: aspetta che scendo…” “Sbrigati.” Il conducente anguilleggia di fuori con insospettabile agilità. Nessuno s’accorge di nulla, tutti seminascosti tra luoghi comuni, crisantemi e culi. Leonida si siede al posto di guida e chiude le portiere. Nomen omen: Leonida. Si sente un combattivo spartano, anche se solo, a nuove Termopili. Uno e trecentouno. Mancano due o tre fermate al capolinea, sullo spiazzo, di fronte al massiccio muro del cimitero. Romba il motore, e una nuova accelerazione più nervosa sposta e comprime finanche gli odori in fondo alla vettura. Corre veloce, il bus, e Leonida guida ingobbito, aerodinamico, a uovo, nel mezzo pieno come un uovo. Voci. “Ma si guida così? Siamo mica a Monza?” “Capo, c’è una fermata qui…” “Capo, sei impazzito?” “Fangulo, ferma, ferma…” Ecco laggiù il muro e il capolinea. Leonida ride dentro di sé e chiude gli occhi senza alzare il piede dall’acceleratore. Oggi è la festa dei morti e il bus è pieno di crisantemi. 94 POSTI IN PIEDI E POSTI A SEDERE Enver è un albanese tamarro convinto d’essere trendy e perfettamente mimetizzato nella società, disinvolto e quasi senza imbarazzo, aiutato da un certo esibizionismo. E’ uno dei soli quindici o venti al mondo che porta il berretto con visierone a tegola spiovente sulla nuca sopra una bandana in tinta. E’ una torcia, il ritratto della salute, a gambe divaricate, fasciate da jeans regolamentari stinti e macchiati di calce, in equilibrio tra due seggiolini d’autobus, compresso in una maglietta esplodente da fratello minore. Armeggia con un cellulare e mantiene per le briglie uno zaino che occupa un sedile come un normale culo pagante. L’autobus è pieno come un uovo. Enver è accigliato e assediato da cattivi pensieri. Il telefonino prende la comunicazione a corrente alternata e la sua donna sta ronzando a sprazzi pretese assurde ed egoiste. Enver è stanco ed ha anche altri tarli nel cervello. Sibila qualcosa alla donna e chiude di scatto il libretto dislessico. Il clic troppo violento moltiplica il cellulare in due semicellulari non funzionanti del tutto. Fanculo. Fanculo al telefonino, alla donna, e anche al geometra del cantiere. Belle pretese: dodici ore di lavoro ogni giorno, per tutta l’estate, tanto ci si vede fino a tardi e non si rischia di cadere dall’impalcatura. Fanculo al geometra e, per chiudere i conti con tutti, anche alla vecchia della pensione ammobiliata. Aumenta l’affitto ogni due mesi, la bastarda. Sale sul bus, nel frattempo, Cosimo, dopo qualche fermata. Incazzato nero. Essere stanco già di prima mattina per avere dormito male non è buon segno. Se poi si somma un mutuo calcolato troppo ottimisticamente, concomitante con la 95 novità di un paio di scarpe ortopediche per l’erede, lo stato d’animo va a male come uno yogurth fuori frigo. Erede di che, poi? Associazioni d’idee con fame in India, alluvioni su Bangladesh, Biafra… Stanchezza vorace che addenta palpebre e cervello. Poi: guarda quel tipo da spiaggia che sembra Mastro Lindo Rap… “Se togli lo zaino mi fai sedere, grazie…” Aria salina e reazione chimica con ossidazione di acidi torbidi pensieri. “Primo: si dice ‘per favore’. Secondo: allora mi ci siedo io.” Una risposta di questo tipo è già irritante di per sé, ma per Cosimo è una scudisciata in pieno volto, accolta in italiano stentato cantilenato in nenia sonortiranica. “Credi di venire qua a fare il padrone, pagliaccetto?” “Io ho risposto per come tu hai chiesto. Italiani sempre brava gente?” Che peccato! Il bell’Enver aggressivo, quando ride sarcastico, ha i denti guasti che lo imbruttiscono in aria da losco figuro. Cosimo vede rosso. Può essere sopportabile la pressione di un mutuo sbagliato, di una moglie petulante e insoddisfatta che recrimina sempre. Può accettarsi anche l’imprevisto di un paio di scarpe ortopediche e l’umiliazione di dovere chiedere un anticipo al capo che sorriderà con compatimento e condiscendenza irritante. Ma non si può tollerare un tamarro caprone che faccia il prepotente in casa d’altri. “Scommetti che adesso togli lo zaino per farmi sedere?” Cosimo è tenutario di porto d’armi, di quando era guardia giurata. Giustifica istericamente la certificazione facendo balenare una rivoltella brunita. Enver è temerario o incosciente o entrambi. Continua a ridere con quei denti guasti e finge platealmente uno spavento che probabilmente non prova. 96 Forse attizza ira a sproposito per verificare qualche punto di rottura o qualche punto di non ritorno con inconsce speranze liberatorie per sé stesso. Risata, quindi, d’ampio spettro e pesantissimo peso specifico. Cosimo è fragile e arriva al punto di rottura con la velocità della cottura di una pastina in brodo. Salta un tappo, fragoroso e poco festaiolo, e s’affloscia un albanedile rapper incredulo con gli occhi di una bambola appoggiata su un letto a fiori. Cosimo regge e continua il gioco del duro e scosta lo zaino per sedersi. E’ circondato da occhi atterriti: fibrillano come anemoni di mare che si abbassano al primo contatto visivo con un fresco assassino. Enver si raffredda. Cosimo guarda avanti, con la rivoltella in pugno, e calcola il consumo della luce dello scorso mese. Studia un discorso da fare a quel bastardo del capo per le spese ortopediche. 97 CATTIVI PENSIERI La ragazza sembra un personaggio mitologico vestito come la cantante Madonna degli anni ottanta. Ha un viso da ragazzina spaurita, Heidi immediatamente dopo avere appreso la notizia della morte del nonno o di una capretta, con un casco corvino di capelli molto provocante, Valentina di Crepax, su un corpaccione da nuotatrice dell’Est col fisico di un boscaiolo finlandese. Fa capolino nello scompartimento come un’orfanella con una vocina pigolante. “Posso sedermi qui vicino a te? Ho paura di viaggiare da sola…” Lui diventa di colpo un misto di capo indiano Arrapaho e di cavaliere della tavola rotonda che deve liberare rispettivamente una squaw o una principessa prigioniera di un drago. Sbatte gli occhi da narciso e sorride in silverplate. “Prego: qui non ti darà fastidio nessuno.” Categorico e sicuro come un secondino. In sobbollire di cattivi pensieri. Lei gli si accomoda a fianco e gli serra un braccio come un salvagente, seppure senza paperella. “Grazie. Adesso mi sento più tranquilla. Sai: se ne sentono tante…e ne ho passate tante… Vivo nella paura: degli altri e per gli altri, non so se mi capisci…” Il cavaliere senza macchia e senza paura annuisce da persona compenetrata e importante sbirciando i due zamponi inguainati in un collant che mortadellizza ciccia in rete fina e nera. I cattivi pensieri s’accavallano caotici e uno sguardo va oltre il vetro dello scompartimento, quasi indifferente, a verificare con opportunismo passaggi d’altri viaggiatori lungo il corridoio. La ragazza, intanto, abbassa la palpebra a mezz’asta e miagola con voce impastata esondando in confidenze e 98 mantenendo una presa da rugbista neozelandese al Trofeo delle sei nazioni. “Mi sembri un bravo ragazzo: hai uno sguardo buono e trasmetti fiducia. Lo sai? Sto scappando. Da sempre. Ho cominciato a fuggire da casa, da mio padre, e poi dai miei zii: il tepore della famiglia dei polipi, fanculo. Poi da scuola: un profio bastardo con tre gambe. Ora me la svigno da una parte all’altra senza una meta precisa perché mi vogliono prendere in tanti. Hai qualche soldo per un panino? Sono due giorni che vado avanti ad acqua, tranne un caffè ieri sera. Me l’ha offerto un tizio in sala d’aspetto. Sembrava un bravuomo e invece era un figlio di puttana. Me la sono squagliata anche da lui. Hai qualche soldo per un panino, adesso che passa il carrettino?” Arrapaho è in mezzo al guado del True River: forse si profila un viaggio piacevole, magari tirando le tendine, o forse c’è puzza di fregatura solenne con una che cerca solo soldi. I cattivi pensieri, quelli meno nobili a base di testosterone, positivizzano la situazione con visioni vietate a minori di diciotto anni e frantumano in punti interrogativi insignificanti le obiezioni e i dubbi. Sorriso da uomo di mondo e vago disagio per quella stretta che appare metaforicamente uno strangolamento. “E’ incredibile: lo sai? Una ragazza appena più fragile e debole del normale è considerata solamente una preda, carne, merce di scambio: mi capisci? Sono giorni che viaggio senza meta mendicando un panino o una sigaretta, e mi devo quasi prostituire. Anche senza il quasi. Spero che tu non sia di quella razza di bastardi. Ma no, tu sei buono: io certe cose le percepisco a pelle. 99 Me lo dicevano anche all’ospedale le infermiere...” Due parole di troppo: ospedale e infermiere. Il cavaliere senza macchia e senza paura sta valutando l’ipotesi di mettersi l’elmo col pennacchio per ripararsi meglio. E’ una sensazione di disagio l’annusare odore di pelo che si trasforma in odore di flebo, e la prosciuttona accanto appare meno appetitosa, con un cartellino che indica una data di scadenza, prossima a scadere effettivamente. Pensieri cattivi d’altro genere: cazzo vuole questa qui? Sorriso opaco, di peltro stavolta, e occhiata vigile fuori. “Io non ci credo a quello che mi hanno detto… Bastardi. Si approfittano di me perché sono sola e perché ho delle debolezze e ho paura della solitudine. Io odio soltanto stare da sola. Dormire da sola. Non riuscire ad avere un contatto con il prossimo. Se poi il prossimo è carino come te…” Nervosismo diffuso: il gioco sta passando di mano. Va a finire che la principessa vuole che si salvi anche il drago che nel frattempo è diventato suo amichetto. E porca puttana come stringe: è una tagliola. “M’imbarazzi a dire queste cose. Sono un ragazzo normale… Tu, piuttosto, che intendi con quello che hai detto?” Vocazione dell’aggiustatore: hai visto mai… “Senti, te la dico tutta in massima sincerità: di te mi fido… Ho un’indole molto passionale e sono molto socievole. Ho paura della solitudine e adesso ho paura di tutto e di tutti, perché tutti se n’approfittano e io non riesco a dire di no, anche se dovrei, anche se i medici mi hanno detto che dovrei essere più forte, e che il meta è al minimo e ne sono quasi uscita… E adesso mi cercano e sono braccata… Lo sai? Mi riempivano di sonniferi per farmi stare tranquilla. Ero rincoglionita. 100 Poi, però, ho capito il giochetto e da allora ho cominciato a fare finta di prendere i sonniferi. E sono scappata. Sto male da bestia, ho fame, ho paura, ma sono libera…” Qui c’è poco da aggiustare: è tutto rotto o malfunzionante, come il cervellino di questo culatello parlante… “Ma se scappi sempre, nessuno si prenderà cura di te e tu starai ancora peggio d’adesso… Cos’hai? Che cosa ti hanno diagnosticato? Il meta? Dì la verità: se un po’ ninfomane?” Confidenzialità becera. Il cavaliere, ancora minimamente indiano Arrapaho, prova un ultimo assalto all’arma bianca. “Sì, mi hanno detto questo e anche che ci devo stare molto attenta. Per me e per gli altri. Sai? Ho anche l’AIDS: mi facevo ogni tanto, prima… ma con il metadone ne sono quasi uscita fuori del tutto…” Bomba a frammentazione di pensieri d’ogni tipo. Lo pensava, era evidente, ma aveva paura di dirsi che aveva sotto braccio una fatta, e sperava di sbagliarsi per il classico appello che vede la figa rispondere presente. Ora invece sa: inequivocabilmente. Addio giochini di mano e di villano. Heidincubo stringe il braccio. E forse mentre parla spruzza anche un poco: è nervosa. Ha una forza da scaricatore di porto…vaffanculo… “Scusa un attimo…” Strattone da lancio del peso e immediata postura in piedi nel mentre che raccoglie soprabito e valigetta. Punta uno sguardo vigile ambiguo, a metà tra il licaone e il topo, in veloce sequenza di passi verso la porta, come un ballerino d’avanspettacolo di tip tap. La ragazza è sorpresa e si gratta un eczema dietro un orecchio, fortunatamente bradipica. 101 Ha gli occhi buoni e la pazzia della mucca infetta, almeno secondo le considerazioni del licaone che ha cambiato altri sei o sette ruoli in poco tempo. “Torno subito…” Spera che non s’incazzi e sputi. Vaffanculo ai sistemi: sanitario e immunitario, …e anche quelli massimi. Ma come si fa a lasciar scappare una come questa? L’icona mitologica è intorpidita, quasi senza reazioni. Il cavaliere senza macchia e senza paura, senza senza, butta in aria una manciata di banconote, come diversivo, e si dilegua lungo il corridoio, mimetizzandosi per come può, con i suoi piccoli stupidi cattivi pensieri al seguito. Ora riuscirebbe a trasformarsi anche in un cessetto da ritirata e non gli restituirebbe dignità nemmeno una nuova meravigliosa principessa sul pisello… Farà affari quello del carrettino dei panini. Per ora ignaro. Se non avrà cattivi pensieri… 102 IPERBOLICO CAPOLINEA Il tram non è molto affollato, con diversi posti a sedere liberi e molta luce dai finestrini. Il giovane forse è un sognatore. Ha tratti gentili, abbigliamento classico non appariscente e postura composta a sedere. Colpisce per lo sguardo magnetico, rapito, che sembra appuntarsi su qualcuno di fronte a lui, ma in realtà guarda mondi per tutti sconosciuti con pupille sperse, con un sorriso vago e qualche impercettibile scuotimento di testa ad apprezzare le sue personali visioni. Passa inosservato, seduto a metà del lunghissimo tram. Fermata. Sale un inquietante trio. Due ragazzi affilati in nero pelle scortano una corvina bonazza prorompente, esangui e torvi come diafani vampiri in astinenza dentro un deserto ristorante vegetariano. La reginetta, d’aspetto tamarro in ruminare disgustoso di gomma con annesso ciclico palloncino scoppiettante, è installata dentro due stivaloni appuntiti con temperamatite. Le lunghe leve confluiscono in una vita bassissima e nuda con ombelico metallico di piercing e tatuaggio papua che fa capolino dalla centrale degli ormoni. Strascica una borsetta borchiata da lattoniere degli anni cinquanta dondolando e sacramentando con i due cavalieri per qualche suo problema fastidioso. S’accoccola sulle ginocchia di uno di loro, casualmente di fronte al poeta, e parla a voce alta di contrattempi infarciti d’interiezioni falliche con lessico esemplificato anche per non udenti. E’ la sagra del gel in lampi abbaglianti alla luce del sole obliquo. Ad un tratto, l’incazzoso mammifero sbotta ostile verso il sognatore: “Cazzo hai da guardare?” Risolini di sfida dei due, forse forti di taglierina o di corso accelerato d’arti marziali. 103 La ragazza, particolare insignificante prima, determinante ora, è leggermente strabica, di quello denominato misericordiosamente ‘strabismo di Venere’, solo appena un poco più pronunciato. Il cinquantenne seduto due seggiolini più in là del sognatore è un veteroistituzionalista armato di buoni principi, sempre, e di una sette e sessantacinque, ché non si sa mai che cosa può succedere di questi tempi permissivi e senza regole. La brizzolatura corta è elettrificata da quel messaggio fatto proprio come indirizzo, e la reazione è rambica. S’alza in piedi a gambe larghe disegnando un arco con le braccia congiunte sulla pistola puntata davanti al terzetto, in plastica posizione aggressiva. “Hai qualche problema, troietta che non sei altro?” I tre dannati scendono di alcuni sedicesimi in autostima, con sguardi interrogativi e atterriti, e la lei, che ciancica sempre bovinamente, ma a morsi più radi e senza bolle, con voce pigolante supplica: “Non dicevo a lei, signore…” Il sognatore è invisibile nella sua aura discreta e il cittadino armato che protesta si guarda intorno per giustificare le scuse della ferramenta maiala. Sta per abbaiare qualche altro concetto volto a ristabilire una saldezza di valori, ma dalla postazione del conducente del tram, che ha seguito tutta la scena dallo specchietto retrovisore interno, si leva un rumore strano di scatti d’ingranaggi e molle e lucchetti che s’aprono per una qualche emergenza. Dallo schienale del sedile del conducente fa bella mostra di sé un’arma nichelata e strana che assomiglia ad un bazooka, o forse ad un lanciafiamme, o ad un cannoncino portatile al plasma per una guerra stellare, con mirino telescopico a raggi infrarossi e puntatore laser che si stampa come un tatuaggio brahmano sulla fronte del giustiziere brizzolato basito. Una voce da un altoparlante, invece delle coordinate della prossima fermata, avverte: “Metta giù la pistola, per favore, o sarò costretto ad incenerirla a norma di Legge. 104 E anche voi, ragazzi, deponete lentamente a terra la vostra mercanzia, ché la centralina di controllo a raggi x mi rivela che siete armati.” Stupore dell’intero carico umano sul tram. Gente che si guarda interrogativa, qualcuno che sorride rassicurato, un timido applauso benpensante di vecchina rincoglionita. I tre alabastrizzano di un bianco olimpiade invernale e lasciano cadere con sommessi tintinnii due taglierine, una catena con annesso lucchetto tagliente ai lati dopo opportune limature, e un tirapugni pesante come certi peccati. Il brizzolato esita un attimo, sconvolto da claudicanti certezze circa l’amministrazione della giustizia umana, dell’etica e dell’ideologia, ma capitola velocemente ad un ticchettio sospetto proveniente dall’arma marziana. Un febbricitante personaggio cencioso, in disparte, seduto con uno zaino capiente tra le gambe, guarda inespressivo la scena e riflette. Alcuni suoi dubbi, sulla bontà di certe scelte discutibili da un punto di vista occidentale, vengono spazzati via da altre riflessioni di carattere filosofico ed esistenziale. La religione non c’entra quasi più nulla. E’ un argomentare interiore che si tuffa nel concetto di un’umanità migliore, in generale, nel concetto di catarsi liberatoria per un’accresciuta dignità dell’uomo tra gli uomini, fuori d’ogni contrapposizione ideologica. E’ un esaminare la situazione con la freddezza dell’entomologo o del vivisezionatore che lavora sporco per il progresso dell’umanità. Il cencioso non è abituato a dare avvertimenti, perché non è mai stato abituato a ricevere avvertimenti. Lancia un ultimo sguardo ad abbracciare tutto il tram, valutando cause ed effetti e danni. Pensa che un posto può valere un altro e che le motivazioni, quali esse possano essere, scompaiono nell’azione. Poi tira un cordino dello zaino. L’ambigua catarsi ha bagliori di fiamma assordanti che tutto frantumano. 105 Il giovane sognatore precipita da un tutto di poesia, senza accorgersi di nulla, e si dissolve rimanendo nel nulla della poesia. L’ultima visione degli altri è una grandinata di bulloni in una vampata di relativo spazio-tempo. Il tram, quello che ne resta, scivola d’inerzia sulle rotaie alla fermata del vicinissimo capolinea, senza alcuna forma di vita, sventrato e fumigante. Il capolinea è situato in Piazza Tommaso Campanella. Sì, proprio lui. Quello della Città del sole. 106 JIMMY DEAN, PAULINE E L’ARCA DELL’ALLEANZA L’insegna brilla sgargiante nella notte: motel Eden. Falsa promessa. Il giallo e il rosso del neon, intermittenti, affettati dalla tapparella del bungalow, trasformano la stanza in un fumetto della Marvel. Letto sfatto, bagaglio inesistente, lei smaniante sdraiata di sghimbescio, magrissima, con solo perizoma lasco e chiodicapezzoli violacei su assenza di seno, lui in piedi davanti al letto, dinoccolato, esangue, nudo, scolpito nel riquadro bianco latte della luce dal bagnetto, con ciuffo ribelle in bassorilievo e occhi liquidi da coyote braccato, però, a istanti. In realtà, per lo più, hanno entrambi le palpebre a mezz’asta e la notte è ancora discretamente lunga. “No, Pauline: si è detto basta…” “Da domani, Al.” “Da oggi. E poi ho annegato tutto nel cesso.” “Bastardo stronzo. Senza avvertire. Sono impreparata.” “Lo sapevi, lo sapevi, lo sapevi… Abbiamo promesso, abbiamo promesso, promesso…” Cantilena, monotono e stanco come un sagrestano, Al, allungandosi lo scroto con un sorriso pallido e qualche voglia. Pauline si agita, ma se ne accorge. “E adesso che vorresti? Il premio? Scordatelo. Vaffanculo. Sto male per colpa tua. Tutto insieme, all’improvviso, senza scalare.” “Io sto reggendo: credo di potercela fare. Domattina prendiamo la camionabile e andiamo al mare a respirare aria buona in libertà. Vedrai: l’aria aperta ci farà sentire meglio. Non so se ci potrei riuscire, ma ti vorrei scopare… Per accorciare la notte, piccola, per aiutarci…” “Tra poco ti vomito addosso, figlio di puttana: scopare è l’ultimo dei miei pensieri. E poi dove credi d’andare? Sei alla frutta con quel lombrico e io non vado a pesca, stasera…” 107 Risata oscena soffocata da colpi di tosse. Lei è incattivita e lascia scorrere perfidia dentro di sé. Scosta il perizoma provocatoriamente lasciando intravedere un pube mal rasato punteggiato di pustole accese. “Vedi come sono comprensiva? Ti faccio guardare per un poco: sei contento, Jimmy Dean?” Al prova ad eccitarsi, ma è come giocare con il pongo: allunga, stira, tira, torce, cattivo e speranzoso, a farsi male, ma senza risultato. Pauline ride cogli occhi semichiusi e provoca ancora di più allargando le cosce scheletriche e giocando con le dita. Poi salta un interruttore e rimane incosciente nel mezzo del letto, col perizoma scostato e le mani tra le cosce. Russa rumorosamente, ansima e sospira. Al rinuncia. Si siede per terra, appoggiato al letto, sullo stuoino lercio, in torsione con la testa e un braccio, sulla sponda. Crolla anche lui. Alba. Tanfo di vomito: Pauline verso le tre non ha retto. Era di fianco, per fortuna sua. Dopo due o tre conati violenti, s’è rigirata dalla parte di Al, inebetita con rivolo, e ha continuato a dormire di piombo senza sognare, bestemmiando REM. Lui non s’è accorto di nulla. Ora sono svegli, in piedi entrambi, vestiti, silenziosi e torvi, per il mare. Abbandonano il set di Tarantino dopo aver sgrullato sommariamente le lenzuola fuori del bungalow. La vecchia Ford polverosa tossisce quattro o cinque volte prima di mettersi in moto. Si va via tranquilli, senza fuggire. Tutto pagato, almeno questa volta. Serbatoio pieno, almeno questa volta. Ha pianto il vecchio coreano del drugstore di quel cazzo di paese di ieri chissà quanto lontano. Al imbocca Pauline con una ciambella. La ragazza morde distratta. 108 Poi guarda il profilo del suo uomo col ciuffo alla Jimmy Dean, con devozione umida, stanchissima. La strada è un nastro a lutto perenne, polveroso, infinito. Poco traffico. Sterpaglia ai lati, come da classico di Spielberg. Al ha dormito di gusto e sta riflettendo, lucido di riposo. Non ci sono speranze. Senza soldi, con crisi dolorose, senza futuro. Morti a tratti, senza sapere di esserlo: già morti… Un senso di costrizione e di gabbia che stride con l’ampiezza libera del paesaggio luminoso. Una luce solare che non riesce a fare breccia nei tetri pensieri dell’uomo. La ragazza rumina assente come un bovino. Senza pensieri, almeno adesso, senza crisi, almeno adesso. Al ha una sua folgorazione sulla via di Damasco, anche se sta andando verso il mare. E ride sommesso con un sibilo, tremolando il ciuffo. Lei si gira di scatto, incuriosita, come un piccione. Al, mentre guida, s’inarca e s’allunga sul sedile e s’apre la cinghia dei jeans. Poi tira giù la zip e contorcendosi si mette a nudo. Pauline ride. “Ancora con la voglia?” Al non parla. Ride più aperto guardando davanti. Allunga il braccio e abbraccia deciso la nuca della giovane con la mano. La spinge sotto, tra le sue gambe. Adrenalina in vasi comunicanti. Pauline capisce, ma non oppone resistenza: è un qualcosa di diverso e trasgressivo, magari passando davanti ad una pattuglia, aiuta a far passare il tempo, diverte, è complicità per la vita, le piace, la fa sentire depositaria del potere, importante. Comincia a succhiare piano assaporando senza fretta. Lui chiude per un attimo gli occhi e accelera. 109 La Ford canta la marcia trionfale dell’Aida o ringhia qualcosa degli Iron Maiden, ossessivi come magli di fabbri sotto amfetamine, energetici. Di lontanissimo brilla qualcosa. Un Tir scintillante al sole. Al lo nota subito dallo sbuffare del tubo di scappamento sopra il tetto d’oro con angeli e pin-up e fari accesi inutili alla luce violenta del giorno, californian-barocco pacchiano. Gli appare l’arca dell’alleanza con le ceneri della saggezza, di re Salomone, forse, e le tavole di pietra della Legge e la verga del potere delle piaghe d’Egitto e la manna. Accelera invasato. Pauline continua a succhiare e leccare. E’ meravigliata dell’erezione possente che il suo uomo le sta regalando. Al le spinge la testa con una mano a soffocarla. La giovane va in apnea con una sensazione di dominio mai provata fino adesso, meglio di quando allarga le cosce di fronte al suo uomo che la fissa con gli occhi lucidi. Asseconda la spinta e si offre più ospitale possibile facendo attenzione a non mordere, d’esofago, accogliente e devota con una lingua servile e isterica di serpente sacro. L’autista del Tir avverte inquieto: sirene da transatlantico. Al pensa di potercela fare: è tesissimo, prossimo a scoppiare. Travolto da Salomone e dalla sua saggezza dall’arca dell’alleanza d’oro che offre l’immortalità per uscire fuori dalla gabbia e venire in bocca con un urlo da cow boy in praterie sconfinate e bisonti cavalli sole accecante brezza di erba senza fine a perdita d’occhio e ancora libertà libertà libertà libertà libertà… Sente una scarica elettrica montare dal condotto uretrale. Ruggito disumano in eiaculazione violenta abbracciato da una sirena di transatlantico che urla incredulità in un cozzare e fondersi tra la Legge delle tavole e il potere e spirito inquieto in confusione confusione con fusione di fotografie e vecchi films come un nuovo Jimmy Dean e la sua fine che Pauline lo chiama spesso così per il ciuffo che 110 però in ultimo pensiero era frocio sbocchinato nel frontale con quel Donald mentre Al sta con Pauline che ha compreso il karma e asseconda materna e regina come un’ape che succhia e succhia e succhia il nettare in assoluta libertà di spazio e tempo per sempre in omnia saecula saeculorum per amore e complicità dio fa che sia un attimo sennò chissenefrega catarsi e vita vita vita vita… Ride innocente, Al… Ride innocente, Pauline, dentro… Fluidi. 111 INCROCI Mattoni spigolosi di un alto muro crollano in pesante stillicidio sulla calotta cranica di Giovacchino Aramengo, depresso sopra scartoffie sparse sul tavolo del tinello, ad ore da vampiro, sotto sessanta watt semicimiteriali. Tok! Bollette da pagare. Tok Tok! Lettera di licenziamento. Tok Tok Tok! Biglietto d’addio di una moglie egoista che lascia lui e i suoi tre figli dopo avere prosciugato il già magro conto corrente bancario. Pensare di chiamare un telefono amico è utopia: hanno tagliato i fili. Questa mattina la vita bacia il Cavalier Lino Spazzo Della Mappina, il re degli spazzolini da cessi, lampadato come da regolamento per soci del circolo del golf, sorridentimmacolato senza una traccia di calcare o tartaro, per la consegna agognata della Mercedes nuova luccicante e fumè. Bagno caldo negli sguardi delle maestranze invidiose sul piazzale della fabbrica: le piccole soddisfazioni della vita che fanno amarla. Il Cavaliere in fondo è un buono e si contenta di piccole rivalse: un vecchio paternalista interclassista che considera la sua fabbrica come una grande famiglia. Di cui lui, però, è l’indiscusso capo buono e giusto. Alvaro Quiroga, peruviano scolpito nel legno, soprattutto riguardo al cervello, detto Quiroga Paperoga per il suo fare confusionario al limite del ‘loco’, non ha problemi esistenziali per girovagare senza permesso di soggiorno e senza lavoro. Lui ha il suo santo protettore in don Clemente: basta portargli qualsiasi cosa nell’immenso capannone in periferia, che sia un’auto, un’autoradio, un televisore al plasma o una carrozzina, e il rospo ciccione, sogghignando, gli mette in tasca qualche banconota per puttane e tequila bum bum. 112 Scarseggia l’ossigeno oggi, per Paperoga, e il peruviano sta occhieggiando una monumentale Volvo SW che col suo colore lilla metallizzato sembra uno scintillante carro funebre psichedelico. Alba scarnificata da pensieri e riflessioni in assenza di sonno. Giovacchino Aramengo veglia il placido russare dei suoi marmocchi e intanto medita sul da farsi. La freddezza e il raziocinio sono usciti di casa da qualche ora, forse diretti verso qualche agenzia di lavoro interinale, e il cercare di risolvere problemi è preso a morsi dall’istintività e dal cuore senza guinzaglio e senza cervello. La parola magica, nell’assenza della speranza o nel rinfocolare la stessa speranza, è: Assicurazione. Per i figli. Magari a risarcimento per un incidente. Basta trovare una macchina che prometta bene, una classe E di lusso, scintillante di cera e autolavaggi frequenti. E avere il coraggio di buttarsi sotto… Il Cavaliere Lino Spazza agita festosamente le braccia verso gli operai che applaudono e la scena ricalca un film commedia degli anni sessanta dove trionfano sempre e soltanto i buoni sentimenti. S’infila nell’automobile con un guizzo di salmone felice e percorre in sfioramento con le mani tutti i pulsanti del cruscotto, mini acquasantiere per segnarsi e ringraziare Dio. Il clic dell’accensione e il rombo del motore. Nulla d’esagerato: consapevolezza della potenza e del buon gusto. Si spalanca il cancello e l’auto scivola via con eleganza e bagliori delle cromature al sole. Tira il collo al motore, Paperoga Quiroga, inebriato dal rombo, sognando fumo e pelo in ebbrezza fantasiosa. Stasera sarà festa grande e una puttana sola non basterà. 113 Qualche altra sorsata dalla bottiglia piatta, a dare coraggio e maggiore entusiasmo. Presto, presto, che Don Clemente stavolta non se la caverà con poche banconote… Il progetto ha preso corpo nella testa diroccata di Giovacchino Aramengo. Si apposta alla fine di una ripida discesa e attende scandendo mentalmente le sue disgrazie e chiamando i suoi tre figli alternativamente alla Madonna, alla mamma, a Dio Padre Onnipotente, stropicciandosi con le mani in tasca per buon augurio profano. Forse sarà solo un femore… Forse sarà peggio, ma ormai la decisione è presa, anche perché è l’unica. Il Cavaliere Lino Spazzo sente il motore del suo Mercedes cantare una marcia trionfale ed è in pace col mondo intero, accarezzato da un dolce refolo d’aria condizionata, sfiorato da un sole gentile filtrato dai vetri azzurrati. Il successo del re degli spazzolini da cessi è sempre stato improntato sulla prontezza dei riflessi e delle decisioni, oltre che dall’ineluttabile necessità del suo prodotto. Ed ora una nuova prova lo attende. Una sagoma scura rotola sulla strada in prossimità di un incrocio alla fine di una ripida discesa. Stridono i freni permalosi per l’insulto e la macchina risponde docile inchiodando a pochi centimetri da un corpo. Battiti di cuori in sincrono, seppure per motivi diversi. “Tutto bene? Dio, che spavento! …Meno male che ho una discreta prontezza di riflessi…” Esce dall’auto, il cavaliere Lino Spazzo, e contempla con apprensione il corpo raggomitolato di Giovacchino Aramengo che strizza gli occhi come per scacciare un incubo e piange senza ritegno davanti alla calandra indifferente della Mercedes, senza alcuna voglia di rialzarsi. Comprende che un qualcosa discosta l’attuale vicenda da quella di un banale mancato investimento. 114 “Signore? Signore? Posso esserle utile? Coraggio: tutto è bene quel che finisce bene…” “Ihihih, dice bene, lei, ma io ho tre figli e sono disoccupato. Mia moglie mi ha lasciato. Sono disperato…” “Coraggio, uomo. Il destino l’ha messa sulla mia strada. Posso qualcosa, modestamente, e cercherò d’aiutarla, ché vedo che lei ha bisogno di tanto aiuto… La potrei assumere nella mia fabbrichetta, intanto… Forza, non faccia così… Reagisca…” “Lei è in grado d’aiutarmi? Davvero? Allora non è vero che il destino riserva solamente scarpate sui denti… Lei è il mio angelo salvatore…” S’allargano a dismisura due sorrisi, uno per ritrovata speranza e l’altro per la gratificazione di potere nel buonismo, e il cavaliere, magnanimo e teatrale, tende un braccio a Giovacchino per aiutarlo a rialzarsi. “Coraggio, figliolo. Qualcosa faremo per lei: non è ammissibile che tre bimbi piangano il loro papà sconfitto...” “Grazie, grazie. Lei è un sant’uomo…” S’inchina a baciare una mano abbronzata, Giovacchino, e il cavaliere si schermisce, ma neanche tanto, cresciuto di dieci centimetri almeno in positività di sentimenti e orgoglio. “Via, via: non faccia così. Aggiusteremo tutto. Vedrà che la sua vita avrà una svolta e cambierà in me…” Sfreccia a centoventi una Volvo SW lilla. Quiroga Paperoga sta guardando i comandi per impratichirsi, anziché la strada. Stump! Stump! Ancora. Molto ravvicinato: pressocchè in sincrono. Paperoga non s’accorge quasi di nulla. Intravede due sagome scure volare in aria, ma non si chiede alcun perché, strafatto di tequila e letargico nei riflessi, e pensa ammirato a come l’auto tiene magnificamente la strada… 115 116 RACCONTI CINICI 117 118 GIUSTIZIA Era il tempo che i commissari di polizia giravano scortati da un istangiudice e da un tecnico ionorisucchiatore armato di un complesso aggeggio. La cosa funzionava così: il terzetto, su segnalazione di privati o della Centrale, piombava sulla scena del delitto con una spazionave di servizio senza troppi clamori, sirene, luci od altro. Il commissario vagliava le angolazioni e le prospettive dell’ambiente dove si era consumato l’atto delittuoso e faceva intervenire il tecnico. Costui predisponeva in maniera accurata, secondo le indicazioni del commissario, una macchina strana, molto complessa e l’accendeva. Si diffondeva nell’ambiente un forte odore di ozono e la macchina, una ionorisucchiatrice di fotoni temporali, catturava quello che era successo fino a sei giornate prima imprimendolo poi su video magnetico che veniva riversato istantaneamente su ologrammatore tridimensionale di serie. A questo punto interveniva l’ istangiudice che aveva il potere di decidere per una condanna o una assoluzione, a prescindere dalla presenza o meno dell’interessato da giudicare. Quest’ultimo veniva poi catturato nel volgere di poche ore dalle sonde mentali provviste dei dati di ampère del cervello e del dna genico per un confronto matematico. L’istangiudice Bohr per una volta lasciò tutti stupiti per una rarissima assoluzione. Ecco i dati salienti per capire la sua decisione. La ionorisucchiatrice ispezionò l’aria del monocubitolocale provvisto di PC, letto e cucina Liophil (tre barattoli di comune materiale commestibile e un microfornetto a raggi omicron); libri e ologrammi giacevano sparsi dappertutto e un corpo carbonizzato era riverso su un seggiolino. Bohr e il commissario attesero pochi minuti e poi esaminarono il video elaborato dalla macchina. La vittima, un giovane terrestre, stava parlando ad una figura avvolta nella penombra: “Sei troppo generosa, cara, per questo mi piaci da impazzire, per questo sono disposto a correre i miei rischi. Io ti amo Varenja… sei stata l’unica 119 creatura che abbia saputo far scattare in me delle molle di entusiasmo per una vita che altrimenti non avrebbe scopo. Non mi sto concentrando sul tuo aspetto,bensì sulla tua mente e tu, credimi, sei di una sensibilità e intelligenza sconvolgente e io mi sento gratificato ogni giorno che ti vedo e ogni momento che posso pensarti. Non ritrarti, ti prego….baciami, non succederà nulla.” Bohr e il commissario videro distintamente il ragazzo che si avvicinava verso la figura in penombra e notarono che la stessa cercava di ritrarsi. Il ragazzo però incalzava verso la paratia del monocubitolocale e la figura era praticamente impossibilitata a muoversi… Udirono l’ansare delle due figure e poi la rivelazione di fronte ad un fascio di luce: la creatura era una Rondischnell, probabilmente una stagista presso qualche studio notarile terrestre che cercava di impratichirsi delle nostre norme giuridiche. Una figura prudente e ragionevole al contrario del giovane terrestre che insisteva sempre più pericolosamente. Infatti i Rondischnell sono esseri molto belli da vedere, sinuosi e piacevolmente verdino-diafani e gradevolissimi di compagnia in quanto molto intelligenti e sensibili, ma hanno la caratteristica di essere pericolosissimi al tatto per le loro scaglie radioattive attivizzate all’iridium e per la loro aura elettrofotonica statica che corrisponde come energia al bilancio mensile di consumo di elettricità di un mediocondominio. Bisogna stare attenti e non toccarli se non con appositi guanti in lattex retinato barico e il ragazzo era a mani nude. Bohr ebbe un senso di vaga repulsione nel vedere, ma se lo aspettava: il ragazzo cercò di baciare la Rondischnell che si ritraeva conscia della pericolosità della situazione… il video materializzò bagliori violacei intermittenti e l’odorogeno diffuse un puzzo insopportabile di carne strinata; si udì un sibilo, come quello di una zanzara catturata dalla lampada violetta e poi più nulla, con la Rondischnell che piangente, rivolta in luce verso il centro della stanza, gridava: “Io non volevo.” Bohr le diede ragione e giustizia fu fatta. Assoluzione per imbecillità della vittima. 120 PROCESSO Stralcio dal processo: Pianeta Zorkst Vs. Postgesuita Isaak-19. A.D.3023 Arringa dell’accusa. …Grande rappresentante della Giustizia Galattica e membri tutti della giuria di discernimento, io ora Vi enuncerò semplicemente delle nozioni che sono storia acciocché possiate comprendere con assoluta naturalezza che il qui presente postgesuita Isaak-19 del pianeta Terra debba essere senza alcun dubbio vaporizzato nella fornace di Amzur. Secoli e secoli sono trascorsi da quando questo pianeta era una landa di bruti avvolti ancora nelle pelli di bradut che pativano freddo e stenti. Un’astronave proveniente dal pianeta Terra ci visitò con creature che vollero farsi carico delle nostre difficoltà esistenziali e tecnologiche. Ne era a capo gente di guerra, con una truppa al seguito, per un fine che ora, solo ora, possiamo chiamare a posteriori colonizzazione. Era al seguito anche gente di spirito, addetta allo spirito dei terrestri, con un fine che solo ora possiamo riconoscere come colonizzazione delle menti. Il loro delegato capo, un gesuita, anzi un protopostgesuita spaziale mandato espressamente dalla loro somma autorità religiosa occidentale del 2500 circa sulla Terra, mi sembra si chiamasse Papa Igor II, cominciò un’opera di evangelizzazione secondo i dettami della Legge del Nuovissimo Testamento di Terza Ristampa e cercò di sottrarre i nostri zorkstiani a un avvenire che era allora poco più civile di quello delle bestie della foresta di Gnar. Recepimmo a dovere e con entusiasmo di neofiti i dettami della loro religione e li facemmo nostri fino ad osare di crederci tra i più fedeli seguaci di Dio della Galassia: quanta pace nei nostri pensieri e quanta concordia tra noi ormai liberi da pastoie di vendette e meschinità! 121 Ma ora che tutto è consolidato e cementato dopo secoli di metabolizzazione, l’accusato padre Isaak-19 ci viene a dire che il Papa Malcom VI della Terra considera eretici gli zorkstiani per la loro interpretazione di Dio, fatto a loro immagine e somiglianza, con branchie, tre occhi sporgenti tridirezionali, otto tentacoli e una coda retrattile per scopi difensivi e/o passionali. Il suddetto Isaak, per conto di un Papa da noi mai visto, ci dice che potremmo essere emarginati dalla comunità galattica con il beneplacito delle autorità colonizzatrici terrestri, nella figura dell’ammiraglio spaziale Jones, per cui dovremmo regredire e riprendere le nostre vestigia di protobestie oppure assoggettarci senza un minimo barlume di orgoglio alle interpretazioni teologiche terrestri. La risposta che io posso dare, da orgoglioso zorkstiano quale mi sento nell’intimo è solo una: vaporizziamo l’imputato e diamo un segnale forte alle forze colonizzatrici che stiamo prendendo coscienza della nostra forza e identità… A partire dall’anno 3030, per espressa volontà del Santo Padre Pio LXI, il giorno 13 del mese di gennaio di ogni anno si commemora il Santo Isaak postgesuita martire che è stato beatificato circa sei anni dopo una guerra santa culminata nella totale cancellazione dal sistema di Porfirium del pianeta Zorkst. Si calcola per difetto una perdita di circa 23 miliardi di zorkstiani per una idea che oggi sta diffondendosi su altri diversi pianeti di altre galassie: sul pianeta Angst di Centuria, per esempio, Dio viene raffigurato come una sorta di caffettiera con un occhio e due cingoli. Il consiglio governativo della Terra Gesuitiguidato sta seriamente pensando di mandare un emissario per ottenere una professione di abiura. 122 VIDEO GAMES Che noia nella notte gelida di Ghanzer! Sulla superficie del pianeta, al di là della galassia di Hokua, imperversano lunghe bufere di boroneve e nelle viscere del sottosuolo la vita scorre piatta per un triennio di buio esterno naturale, qui rischiarato da tecnologia, ordine, efficienza, ma anche noia per abitudine e ripetitività. Le giornate nel sottosuolo sono organizzate su teoriche 30 ore, di cui dieci dedicate al lavoro e alla produttività di manufatti in ghanzerite necessari per scopi bellici, dieci ore per il riposo e dieci per lo svago. Che svago ci può mai essere, a parte endorfine spray e puttane politettute di Ariel, in città sotterranee che producono solamente componentistica per armi galattiche? Videogames, olografici videogames molto realistici e molto avanzati per rendere più confortevole, relativamente confortevole, la permanenza dentro questo inospitale pianeta. Ebbe vita breve, però, la sala giochi di un mercuriano provenuto da chissà dove con macchinari complessi e un beffardo sorriso stampato sulla sua faccia grinzosa grigia. Si chiamava Xtocl; aveva sempre fatto il contrabbandiere lungo il crinale della zona dei Buchi neri ed aveva quindi un bel callo duro in termini di sensibilità e di avidità. Si riciclò come direttore di sala giochi dopo il quarto controllo della spaziopolizia di Benthram che gli comunicò che era arrivato al passo immediatamente precendente la carburazione permanente nello spazio: decise di smettere e mise radici a Ghanzer, dimenticato dal cosmo, con una novità che riscosse un certo successo presso gli annoiati giocatori in cerca di emozioni. Eric era uno di questi, deluso, annoiato e senza più speranza ed entusiasmo nei confronti di una vita trascorsa da almeno dodici anni su Ghanzer nella pigra apatia più mortifera. Capitò per caso presso la sala giochi di Xtocl e notò subito che i prezzi erano molto più elevati delle altre sale concorrenti. 123 Ne chiese il motivo al mercuriano che gli rise in faccia in maniera indispondente: “Questa è una sala giochi per gente con le palle e paghi di più perché avrai di più!” Eric girellò tra le macchine da gioco, tutte caricate a giochi di guerra, bellissime, realistiche, molto intriganti, con le parole del mercuriano che gli titillavano la mente. Pensò di provarne una, la sala era ancora deserta e avrebbe potuto anche permettersi di fare una figuraccia. Pagò in anticipo, si accoccolò nel sedile anatomico con un elmetto in testa a infrarossi e una pistola a ghenzercolpi e scrutò lo schermo tridimensionale a risoluzione visuale che proiettava alberi, massi, bunker nascosti tra fogliami della piantagione di Gzur. Udì in una meravigliosa esadecafonia degli scoppi lontani e vide dei bagliori sulle alte montagne a ridosso della jungla, poi… morì, inesperto e ingenuo, scoperto subito da un guerrigliero che lo centrò alla pupilla destra con un colpo di yactlocuraro istantaneo sparato da una technofionda. Tutto purtroppo reale però… Xtocl si maledì per la sua avidità che aveva permesso questo delitto di un pivellino e in tutta fretta, con una valigetta piena di banconote fruscianti, fuggì verso la superficie alla caccia di un imbarco per nuovi lidi. Nonostante tutto a Ghenzer qualcuno ancora rimpiange quella sala giochi che gli ha procurato scariche di adrenalina che fanno sopportare meglio la noia di giornate sempre uguali. Si sa, la vita ha un prezzo molto soggettivo: come si dice? Ogni uomo ha il suo prezzo…, ma molti promuovono anche i saldi di fine stagione! 124 RELATIVITA’ Una leggenda metropolitana stupisce l’ascoltatore con una teoria presentata quasi come legge di natura, non comprovabile, secondo la quale chi ha la percezione infallibile della sua morte sopraggiungente veda in pochi secondi la storia della sua vita con tutti i suoi episodi salienti di una certa importanza. Il fascino di questa leggenda sta nel concetto di tempo che si allunga od accorcia come un elastico per il predestinato che ripercorre la sua vita; nell’obiettività della realtà invece le lancette di un qualsiasi orologio scorrono sempre come prima e come per chiunque: cinque secondi sono sempre cinque secondi….due minuti sempre due minuti. La futura salma, si dice, ha modo invece di ripercorrere in un suo mondo temporale soggettivo le tappe che sono risultate più significative ad un sommario e velocissimo bilancio estremo e una zona di cervello, presumo associata a una sorta di condizione di abbandono R.E.M., va a rivangare situazioni e storie di anni trascorsi mentre alcuni neuroni o enzimi trasformano decenni di vita in raffinati ricordi con il loro seguito di sensazioni di soddisfazione o rimpianto o rimorso. Immagino quindi che, prendendo illogicamente per valida questa storia, alcuni avranno attimi di realtà soggettiva lunghi come ore ed ore di percorsi di itinerari di memoria quasi abbandonati e di colpo vividi come presente. Il volo del grigio X. con la sua automobile grigia a concludere la sua grigia vita oltre il guarde-rail dell’ altissimo viadotto Torino-Savona all’altezza di un paese chiamato Carrù durò veramente poco, sotto tutti i punti di vista… 125 CRONACHE CITTADINE SULL’ARGOMENTO ASCENSORE Può far sorridere, lo so: secondo alcuni manuali di sopravvivenza, l’unico metodo per avere un cinquanta per cento di probabilità di salvarsi imprigionati dentro un ascensore che sta crollando al suolo è quello di saltare in continuazione sperando di arrivare all’impatto con il corpo a mezz’aria. Conosco due storie al riguardo. X. stava scendendo con l’ascensore dal quarantatreesimo piano di un centro bancario di Chicago. L’ascensore scarrucolò con un cavo e con il suo peso recise gli altri cavi di trascinamento e precipitò velocemente con uno stridore di lamiere verso terra. X. conosceva la regola di sopravvivenza per la situazione-ascensore e, pregando speranzoso, cominciò a saltare nell’abitacolo: a quattro piani dall’impatto con terra sfondò il pavimento dell’ascensore. X. pesava centocinquantotto chili e in tre piani rimpianse molto velocemente la pigrizia nell’affrontare qualsiasi dieta. Con un certo umorismo macabro si può dire: meno male che da vivo aveva richiesto la cremazione per la sua morte perché di lui si ritrovò una macedonia di organi indistinti. Y., invece, stava salendo verso l’ultimo piano, il settantottesimo, di un grattacielo di Sacramento, per espletare alcune pratiche in un ufficio assicurativo. Era in ascensore con H., una graziosa ragazza con due occhi da furbetta. Sentirono un rumore sinistro di lamiere accartocciate verso il cinquantesimo piano e si guardarono negli occhi con terrore, mentre si sentivano leggeri, per legge fisica, nell’abitacolo che cominciava a sprofondare all’impazzata verso terra. Y. conosceva la famosa regola di sopravvivenza e saltò invitando anche la ragazza a fare lo stesso. 126 Sfortunatamente Y. era alto due metri e dodici centimetri e il suo salto fu solo un tentativo. Ebbe la presenza di spirito, però, di prendere in braccio la ragazza, che era alta solo un metro e cinquantuno, e la tenne tra le braccia fino a terra tremando come una foglia. La ragazza ricorda ancora oggi il suo sguardo triste e rassegnato e la sua disintegrazione addosso a lei, e prega ancora per lui. Il sindaco della città lo ha decorato alla memoria per valor civile. Anche l’ingegnere progettista dei due ascensori sta saltando... …da un aereo all’altro, nel mondo, per far perdere le proprie tracce. 127 PARTITE DI CACCIA E’ sera. Ritorno a casa a passo spedito. Penso che sono già cinquanta anni che vige il Nuovo Sistema di SSD: Sistematica Soluzione Demografica. Corro con la memoria a parecchi anni fa, quando l’umanità riuscì a superare barriere e ostacoli nazionalisti con un unico governo planetario improntato sulla nuova filosofia pragmatico-decisionista che ci permette ancora oggi, unica e sola, di continuare a vivere. Saggi internazionali esaminarono le primarie necessità del pianeta sovrappopolato e individuarono una soluzione atta alla rimozione del problema. E risolsero anche un altro annoso fastidio: quello della violenza. Nel duemilacentoventidue la terra contava ventisette miliardi di persone sparse in ogni angolo abitabile possibile. Oltre al principale problema di sovrappopolazione rifulgeva anche il preoccupante fenomeno di violenza, sempre più incontrollabile e pericolosa per la stabilità di governo di qualsiasi comunità. Il vecchio esperimento dell’aumentare il numero di topolini in gabbia per misurare l’aggressività si stava realizzando in campo umano molto più crudelmente. I Saggi presero i classici due piccioni con una fava e cominciarono coi vecchi al di sopra dei settanta anni. Emisero un decreto planetario per cui ogni lunedì della settimana chiunque poteva avere il diritto di sopprimere un vecchio di età superiore ai settanta anni inglobandone, come incentivo, le sue proprietà, con il solo obbligo di rispettare rigorosamente il tempo assegnato delle ventiquattro ore. Calò in poco tempo il divario grafico riguardante il rapporto natalità-mortalità. E calò anche, sorprendentemente, la violenza esplicata in microcriminalità megaurbana. Fu allora istituito il martedì del disabile, con successivi tangibili miglioramenti. 128 Si perseverò con l’introduzione del mercoledì in alternanza che riguardò contadini, operai, impiegati e dirigenti. Infine fu istituito il “turn over”, valido tuttora, per cui ogni ventiquattro ore, a rotazione programmata con ammirevole imparzialità, il tipo più impensabile di categoria è sotto mirino per una giornata, con diritto di difesa solo passiva, cioè il nascondersi o barricarsi in casa. Sonde mentali e intercops satellitari muniti di telecamere sorvegliano l’ordinato svolgimento della partita di caccia. A sera passano i furgoni di raccoglimento salme. L’umanità, oltre che trovare spazi vitali più grandi e accoglienti dove vivere in pacifica ordinata produttività, si sfoga ordinatamente, come da regole di sistema, nella sua insopprimibile voglia di violenza. Chi sgarra, non rispettando il calendario venatorio, è giustiziato senza processo sul posto, ma sono casi rarissimi: del resto ognuno di noi avrà un’occasione nell’ambito delle rotazioni delle partite di caccia. E adesso scusate se chiudo qui l’argomento, ma tra poco più di un’ora si apre la caccia al gobbo: io ho una malformazione congenita e devo affrettarmi a chiudere con cinquantadue serrature la mia porta blindata per le mie ventiquattro ore di purgatorio. Spero di sfangarla: la prossima campagna contro i gobbi dovrebbe ripresentarsi fra otto anni circa. Anche se ho una certa inquietudine al pensiero che tra quarantotto giorni ci sarà la caccia al ragioniere... 129 PAPPARDELLE ALLA GIORNALISTA (ricetta di gastronomia multimediale) Sbattete un mostro in prima pagina in una pirofila molto capiente, ben disossato e mondato di tutte le attenuanti generiche e alibi, insieme a dettagliate ricostruzioni dell’antefatto e a interviste a piacere che si perdano fino ai cugini della portiera o del carrozziere della vittima o del mostro. Insaporite l’intingolo con uno schizzo di parere dello psicologo (Crepet è di marca) e salate coll’opinione del criminologo e una chiosa di Ferrara e Lerner. Aggiungete a metà cottura una o due puntate di Primo Piano, Porta a Porta o MaurizioCostanzoshow: se volete la pietanza più leggera sarà vostra cura spruzzare solamente un intervento di Cucuzza. Se desiderate un gusto piccante, molto piccante, sarà vostra cura tritare finemente qualche esternazione dell’Avv. Taormina. Nel frattempo cuocete al dente (di squalo) le lunghe pappardelle di opinionista alla Guzzanti padre, Gervasio, Sgarbi o Santoro e scolatele in una zuppiera precedentemente unta di sondaggi doxa. Assaggiate la giusta salatura del sugo di mostro con l’indice auditel e amalgamate il sugo stesso, molto corposo e fluido, con le pappardelle, rimestando nel torbido con una mestolata di politica di sinistra e di destra ed elzeviri vari. Aggiungete delle erbette verdi padane e servite ben caldo per almeno una settimana come primo piatto informativo, fino a che sussista l’interesse del pubblico o non avvenga un terremoto in Asia minore a scalzare la priorità dell’attenzione, con apposito corredo di vaschetta vomitoria. Coefficiente di difficoltà: minimo. E’ facilissimo creare mostri. Tempo di realizzazione: dipende dallo share, se si cucina in televisione, o dalla tiratura del giornale, se si cucina a mezzo stampa. 130 Si consiglia di accompagnare la portata con un vino frizzante di polemica, leggermente acetato di retrogusto per velenosi commenti, facendo sparire il tappo che, se presente, direbbe che è tutta colpa dei comunisti. 131 MISTERO DELLA FEDE Nel duemilaventinove la Chiesa Apostolica Romana conobbe il suo periodo peggiore nell’ambito della crisi di vocazioni e soprattutto nell’ambito del consenso dei suoi fedeli, sempre più tiepidi o addirittura latitanti dai luoghi di culto e da ogni manifestazione liturgica. Sua Santità lesse sgomento i rapporti delle Diocesi e volle accertamenti più approfonditi e capillari fino alle più lontane parrocchie sperdute: rimase atterrito di fronte a dati ed analisi della ricerca che erano ancor più pessimistici di quelli edulcorati dai Vescovi. Istituì dunque una Commissione di Studio composta da alcuni cardinali tra i più saggi ed equilibrati e delegò il Segretario Apostolico a studiare insieme alla Commissione il problema per trovare una soluzione atta ad invertire il volano dell’allontanamento dalla fede cattolica. La Commissione dopo attente verifiche e riflessioni giudicò il problema come un discorso di immagine appannata nel turbinio planetario di novità incalzanti quasi quotidianamente e venne quindi deliberato di affrontare il problema con la collaborazione di professionisti validi del campo pubblicitario e di trattazione dei mass-media. Venne ascoltato dopo qualche settimana il parere di un insigne pubblicista che si espresse davanti alla Commissione radunata in seduta plenaria. “Eccellenze, come avrete avuto modo di approfondire nello studio effettuato dalla mia agenzia, il problema è solo ed esclusivamente di immagine che ormai è sclerotizzata e statica a fronte di un estremo evolversi dinamico degli accadimenti nel mondo. Avrei elaborato con i miei collaboratori una planetaria campagna pubblicitaria atta a risvegliare le coscienze sopite dei fedeli: perdonate se parlo da pubblicitario, ma la fede, oggi come oggi, è un bene da pubblicizzare per poi farlo acquisire, come tante altre cose, e comunque il fine giustificherà sicuramente il mezzo anche se vi potrà sembrare poco ortodosso. 132 Avremmo studiato una campagna pubblicitaria volta a invogliare la frequentazione dei luoghi di culto, delle chiese, e delle manifestazioni che vi si celebrano, le messe. Si dovrebbe tappezzare il pianeta di immensi tabelloni in una campagna graduale: per la prima settimana solo punti interrogativi immensi e il solo simbolo delle chiavi di Pietro, tutto molto neutro e misterioso per attirare l’attenzione di chi guarda e creare un’aspettativa; alla seconda settimana l’aggiunta di un messaggio semplice e diretto, “TI INTERESSA?”, volutamente vago e onnicomprensivo con accanto una croce sobria ed elegante come grafica per innescare un meccanismo di curiosità sempre più fungente da detonatore; poi chiarire il senso della campagna alla terza settimana, stavolta con un capillare volantinaggio, con un messaggio trasudante complicità, di questo tenore: “Fratello, sappiamo che manchi dal nostro ovile da molto tempo per noia, pigrizia, disaffezione, ma noi possiamo accendere la tua fantasia e ridonarti un interesse nuovo nella vita: la Chiesa Apopstolica Romana offre sé stessa!!! Ad ogni milionesimo fedele che varcherà la soglia di una chiesa passando dal rilevatore automatico a infrarossi, all’unico ogni milione di fedeli, il Santo Padre in persona comunicherà il terzo segreto della Madonna di Fatima... Pensaci fratello...Un’occasione irripetibile!” Il pubblicista fece una pausa ad effetto e sollevò lo sguardo ansioso verso la Commissione a sollecitare un cenno di benevola accettazione del suo lavoro. Il silenzio fu immenso e gelido. Uno dei più vecchi porporati scoppiò in un pianto a dirotto mentre qualcun altro si diresse verso l’uscita della sala senza voltarsi indietro, a capo chino e malfermo sulle gambe. 133 SANTA MESSA Proporrei un qualcosa di diverso, più dettagliato, per un’ottica insolita nel seguire una santa messa: mani. Nel vago odore di incenso e di gigli candidi, festosi e nel contempo funebri per mie associazioni liberty, nel rumore confuso di scalpiccii sul marmo freddo, di panche scostate o avvicinate, di salmodianti cori tremuli, di bisbigli sommessi, guardo due mani. Sono diafane, ossute e nodose, callose di tanti ripetuti lavori casalinghi, maculate da eccessi epatici e solcate da vene azzurrine che risaltano come cavetti elettrici nel pallore di una carne disidratata. Sono giunte, in preghiera, e stringono un piccolo serpentello di grani fosforescenti, un rosario, per combattere la tentazione quotidiana del serpente raffigurato nell’onesto artigianale gruppo scultoreo vicino all’altare di destra, quello della Madonna, colorato a tinte smorzate e rispettose, con una donna dal pio sguardo che schiaccia spire nere e malevole. Una voce male amplificata che si perde nell’eco delle alte volte della chiesa celebra la vecchia liturgia rimodernata con lingua viva e pregnanti significati attuali, celebra la messa, e le mani segnano il corpo, aggiustano il velo, coprono meglio un’accollatura cedente, si ricongiungono con gesti lenti e ieratici come quelli del celebrante, si incatenano di nuovo a quel serpentello di grani cui si appigliano in superstiziosa irragionevole certezza. La ritualità prevede momenti in ginocchio, in piedi, seduti, e le mani fragili supportano un corpo stanco puntellandosi all’inginocchiatoio, alla panca. Sfogliano avide un messalino dal dorso nero con le pagine tinte di rosso al bordo, seguono canti ed epistole e arcaiche forme di comunicazione solidale. La voce riecheggia nel brusio generale: “…E ora scambiamoci il gesto della pace…”… 134 Le mani si volgono a destra decise, incontrano due mani nere d’ebano con le unghie rosa scuro lunellate di bianco, esitano, ma non possono ritrarsi, non stringono. Si fanno ghermire passivamente dalle robuste mani nere e ricadono inerti. La funzione religiosa prosegue tra canti e invocazioni. Le due mani si stanno strofinando con veloce disinvoltura ingenua sul soprabito scuro per una pulizia da un sudiciume che nemmeno l’acqua santa potrebbe lavare, almeno per certa mentalità ignava che avrà la domenica rovinata da un incubo di uomo nero che ha profanato una prima classe con il biglietto di seconda senza nessun controllore pronto a fermarlo. La messa è finita, andate in pace… 135 PSYCHOSTORE Entrò con aria furtiva e svelta nel negozio verdino di neon. Lo sciatto commesso, un evidente smanettone di PlayStation a tempo perso, gli si fece incontro con un sorriso cortese da caimano. “Buon giorno. Vorrei farmi installare qualche software comunicativo di gruppo un poco particolare, …non so se mi capisce…” Il commesso elencò indifferente e professionale: “Chat, forum, seduzione diurna e notturna, cybersex?” Rispose come un topo atterrito scoperto vicino al frigo: “Sssssì, parli piano…” “Stia tranquillo: questo è uno psychostore serio. Ha in mente qualcosa di particolare, qualcosa del tipo eroe duro e puro, oppure uomo grandinato da dubbi di scelta sessuale, fanciullone autoironico che fa leva sull’istinto materno? E’ arrivato dell’ottimo materiale: parole purissime, anche desuete, senza francesismi o tecnicismi informatici; c’è anche un corredo di citazioni ogni cinque interventi, in quattro lingue… Abbiamo anche programmi classico-aulici: poesia ed evocazione, m’intende?…” Strizzò un occhio d’intesa da compagno di merende dando di gomito. Il cliente uggiolò ipocritamente, autocontrollato, semierettile. “Ascolti, mi hanno parlato di un programma nuovo: ‘Sexvortex’… E’ buono? Facile da usare?” “Signore mio, ma lei ha citato il massimo. E’ il massimo della versatilità: ha in memoria oltre seimila aforismi, mille battute a doppio senso, descrizioni di tramonti dal milletrecento fino ad oggi, guide turistiche delle più affascinanti città europee, asiatiche e sudamericane, un archivio di venti giga di fantasticherie 136 erotiche e romantiche per varie situazioni seduttive e una rubrica per scegliere un nick, un alias, uno pseudonimo. Insomma: è simpatico e calamitante… E’ il top dei top, anche se caro, ma ne vale la pena. E’ usatissimo e finora nessuno si è mai lamentato”. Rintuzzò con sussiego, quasi ringhiando. “Non ne faccio una questione di prezzo.” “Bene! Quanto è capiente il suo brain-disk rispetto al suo Q.I.? Potremmo fare l’istallazione guidata nel giro di dieci minuti, se vuole…” Rispose diffidente e nello stesso tempo speranzoso. “Ottanta giga…” “Ahiahi, allora non se ne può fare nulla: richiede centoventi giga. Si potrebbe ovviare all’inconveniente, forse, con lo Iomega zip per l’immaginazione…” “Non ho immaginazione: non so cosa sia…” Singhiozzò quasi strozzato, conscio di un immenso limite, desideroso di apprendere, di possedere, di potere, frustrato nella consapevolezza della sua pochezza. “Mi dispiace, signore: allora non posso accontentarla.” Il commesso rimpallò definitivamente come se stesse scolpendo una pietra tombale, con un certo disprezzo malcelato. Lui uscì rassegnato dal negozio con il cervello farcito di quella solita vecchia paccottiglia sex-macho-dos da pochi megabit, a capo chino, condannato per sempre a manipolare pacchetti preconfezionati masterizzati esterni, sperando di reggere il bluff che era… 137 SERVEAQUALCOSABEGHELLI E’ stato abbandonato, si spera non definitivamente, un nuovo progetto tecnico della celeberrima ditta Beghelli, quella del salvavita per le fughe di gas, per i corti circuiti, per gli attacchi di cuore, e del salvavista per esposizioni prolungate davanti a televisore e computer. Il nuovo utile marchingegno, utile come tutti i fantasiosi ritrovati tecnologici della ditta Beghelli, al servizio della sicurezza e del benessere, era stato denominato provvisoriamente: “ScorgiilcioccolatinonellemutandeBeghelli”. Consisteva in un sofisticato sensore microscopico applicato all’interno di un costume da bagno ed era rivolto a bagnanti della terza età che prendono il sole sulle assolate spiagge italiane. E’ noto che nella spensieratezza del lasciarsi andare, soprattutto per persone di una certa età, si venga a creare una forma di abbandono totale che va dalla piacevole sensazione della carezza della brezza marina sul viso cotto dal sole fino al rilassamento totale di tutti i muscoli del corpo, compresi, a volte, anche quelli sfinterici. Il progettista del comodo utile apparecchietto aveva previsto, nell’ambito di un cedimento muscolare e nervoso pubico-intestinale oltre la norma, avvertito con una diversa pressione su un sensibilissimo sensore da parte della massa adiposa, una segnalazione con una potente sirena ad avvertire l’anomalia di un imminente spiacevole riempimento di slip. Il commendator Beghelli ha bocciato il progetto facendo notare la ridicolaggine imbarazzante della situazione presso i bagni di un qualsiasi stabilimento di Rimini Centro o di Follonica con una folla stimata in circa tremila bagnanti per cento metri quadrati… Il progettista, un subdolo carrierista pieno di ambizioni, sta studiando a tempo perso, portandosi il lavoro a casa, allarmi alternativi e sta sperimentando una pinza urticante applicabile ad un gluteo, alquanto dolorosa, purtroppo, oppure un auricolare collegato a sensibilissimi sensori nel 138 costume, diversi da quello di prima, che, all’occorrenza, inneschino il messaggio preregistrato di una voce morbida e suadente carica di toni comprensivi per il tardo senile fruitore: “Attenzione, attenzione, gentile cliente: lei sta per evacuare…” Oppure, commercialmente, meglio ancora: “E’ veramente un peccato, gentile cliente: lei si è appena defecato abbondantemente addosso…Ma c’è una novità per Lei…La preghiamo gentilmente di utilizzare il nostro innovativo, estetico e pratico PulisciletergaspalmateBeghelli, da oggi in offerta speciale, grazie.” Sono pronto a scommettere che è soltanto una questione di tempo il lancio sul mercato dell’indispensabile corredo, nell’attesa di tempi più maturi per il perfezionamento e successivo battage pubblicitario dell’ ammennicolo di ultima generazione AspiratuttoadincastrosalvaodoreBeghelli. 139 BIANCO NATAL… Vivo male. O forse benissimo nella coerenza di altre ottiche: non so neanche io. Ho l’età giusta per un folto matassoso pelo sullo stomaco, nell’ambito di una incipiente vecchiaia cinica e disillusa; ho una discreta memoria e una buona capacità di sintesi: sono orrendi pregi in occasioni come quella ricorrente delle feste natalizie. Ascolto persone festanti, tutti in coro con gaio entusiasmo: “Facciamo il presepio. Facciamo l’albero.” Per fare un presepio, perfezionista come sono in certe cosette creative, mi ci vorrebbero otto mesi di preavviso e un mutuo abbastanza generoso: mi piacciono i presepi in stile napoletano con i pupazzi che si muovono, l’acqua che scorre, le lucine dentro le case e nelle botteghe artigiane, la perfezione iperrealista dei piccoli dettagli sviluppati in scala con meticolosità pignola. Mi accontenterò di ammirare qualche presepio da competizione in qualche angolo caratteristico della mia città. Rimane quindi, per esclusione, a mio parere, più facile allestire l’albero, almeno secondo miei criteri in cui subentrano la discreta memoria e la capacità di sintesi oltre al cinismo sparso a grappoli di cui parlavo prima. Per l’abete: ho appena scritto una letterina a Gorgo W. Bush, quello che sta rasando a zero Yellowstone con una sana e lungimirante politica ambientale. Ho chiesto un abete enorme da mettere in giardino, tanto non dovrebbe essere un problema, ma mi accontento anche di una sequoia: so come adornarla. Ho le idee molto chiare. Passiamo agli ornamenti. Dal momento che si pensa in grande, con abete gigante o sequoia millenario, sostituirei il filo argentato con qualcosa di molto più visibile e resistente. Penso a chilometri di filo spinato della linea di demarcazione tra territori occupati e Palestina, ma può 140 andare bene anche qualche cavallo di frisia in occasione di G-Otto vari sparsi nel mondo, oppure fili spinati sfusi srotolati a spirali sinusoidi a difesa di qualche manifestazione antigovernativa in Argentina, tra pentole e coperchi lucidi di sano appetito. Vedi? Stiamo cominciando a dare una parvenza natalizia a quest’alberone di Natale… Attacchiamoci un po’ di palle, ora: basta chiedere in Thailandia e in Asia in genere. Esportano tutto a prezzi stracciati. Tante palle di bambini buoni che lavorano in nero o che trastullano vecchi flaccidi turisti bavosi. Possiamo attaccarci anche i bambini, interi, appesi per il collo, come tanti angioletti, piccini piccini e grandicelli già pronti per una guerra civile con un kalashnikov più alto di loro, e anche quelli smezzati o più leggeri per qualche traffico d’organi o per un zampettamento su una mina antiuomo. Già che ci siamo, per una estetica asimmetria, appendiamo anche persone grandi vere e proprie, adulti insomma, sempre per il collo, magari come angeli più importanti: ce n’è un quantitativo industriale tra dissenzienti e ribelli e minoritari sparsi nel mondo. Sarebbe carina una maggiore varietà, però, anche cromatica e di fattura diversificata: qualche curdo bastonato da sempre, un magnifico colore olivastro illividito di violaceo, due o tre negretti di Alabama e qualche sudafricano, qualche sovversivo birmano, qualche balordo indio del Mato Grosso, molte donne, nigeriane da lapidare, in chador, con il seno vizzo a sfamare voraci futuri virgulti guerriglieri. Mi raccomando: per rendere più allegro e brillante il quadretto coreografico, butta qualche spruzzata di brillantini sul sangue schizzato tra i rami dell’albero. Una macchia porpora di colore brillantinato renderà elegante l’alberone, come fosse una rigogliosa pianta di stella di natale o un pungitopo con le bacche lucide. Aggiungi anche qualche scoiattolino vivisezionato con la nocciolina: fa tenerezza, insieme al cormorano petrolizzato e 141 al furetto duplicato dalla tagliola di frodo. Colla porporina stanno benissimo anche cuccioli di foca, bianchi e legnati a dovere per un ineguagliabile effetto neve: meglio dell’ovatta e dello zucchero a velo. Manca qualcosa? Ma sì! Le lucine intermittenti, come quelle variazioni di tensione di corrente ogni volta che viene accesa una sedia elettrica per cucinare arrosto qualche uomo, in genere nero e cattivo, o meticcio e cattivo, o portoricano e cattivo… Non mi chiedere di attivare una sedia elettrica in salotto: non saprei chi metterci a sedere sopra, pur odiando la portinaia e il vicino di casa del piano di sopra che ciabatta alle due di notte sopra il mio cervello, e poi ho un contratto da tre chilowatt, per appartamento…lascerei senza luce l’intero condominio. Possiamo attaccarci clandestinamente con un cavo volante all’impiantino elettrico del dirimpettaio, quello che ha una santabarbara di palle luminose intermittenti in balcone. Fai solo attenzione a dove ha puntato i fuochi d’artificio: l’inquilino precedente a me venne ricoverato schidionato nel cervello da una lancia di Toro Seduto, gran bel triccheballacche, che continuava a fischiare anche al Pronto Soccorso. Furono contenti i degenti contagiati da quell’aria di festa: sette amputazioni di falangi assortite col sorriso sulle labbra! Tanto, se ci scoprono, paghiamo solamente un condono ENEL tra quattro o cinque anni dilazionato nel tempo in comode rate mensili non superiori al quinto di quel famoso milione minimo… Ecco!Vedi? Lo sapevo… Manca il puntale… Non possiamo far sfigurare questo po’ po’ di abetonesequoia con un puntale della mutua. Ci vedrei bene un’ogiva, un’ogiva qualsiasi, a discrezione, carbonchiosa, appestata, nervinica, atomica… sporca o pulita… Un gigantesco snello suppostone con tanti numeretti scritti a tinte dorate che luccichino di gioia natalizia. 142 Prova ad immaginare la coreografia. L’alberone guarnito di palle di bimbi, bimbi veri e adulti verissimi, filo argentato di frisia, lucine intermittenti e un bel tavolone per gli ospiti con tanti bei Martini coll’ogiva, esplosivi per una serata indimenticabile: sì Martini e sì che parti, soprattutto se ci aggiungi qualche pasticchino che trovi sotto l’angolo di casa tua… non c’è ancora il discount pasticchinico da te? Qui c’è: abbiamo il poliziotto di quartiere… Gloria gloria alla cicoria… E poi, sotto l’albero, i regali, tanti regali impacchettati di tanti colori vivaci, a coprire tutti gli ultimi morti ammazzati e sepolti sotto l’albero dopo essere stati disciolti nell’acido. Mi raccomando: regali istruttivi e non futili. Cose che servono: articoli di pelletteria, per esempio, come cinture… Una bella cintura ripiena per il mio amico Mohamed di Nablus: suo cugino gli ha rubato la sua ed è scomparso a Tel Aviv, letteralmente scomparso, dentro un autobus scolastico. Qualche gioco istruttivo: quegli elettrodi con acido e vaschetta per fare di una patata un orologio. E’ una cosa curiosa, simpatica e originale, soprattutto riciclabile su aerei di linea o in qualche ambasciata… senza patata, però. Qualche gioco del tipo: “Il piccolo prestigiatore Silvan” con la polvere magica: la tocchi e muori istantaneamente tra gli applausi scroscianti della piccola platea familiare. Da regalare alla suocera. Ricordati di mettere sotto l’albero le buste con le offerte di beneficenza che ci fanno sentire più buoni. Metti in bella mostra la ricevuta di ritorno del pacco che hai mandato ai terremotati, con quelle paperelle salvagente marinaro-estivo di plastica gialla che dovevi buttare, quegli scarpini da calciatore numero 48, che vanno bene a te e a un palmipede, quei pacchi di pasta che avevi comprato al discount: hai notato subito che il fusillo non tiene la cottura e si incolla tutto nel piatto, vero?, E’ Natale, ragazzi: un minimo di entusiasmo, diamine. Siamo tutti più buoni. 143 La guerra verrà rimandata a metà gennaio, dopo la Befana, e il capitone non lo compriamo in Galizia, ma a Chioggia che è appena un poco meglio. Inviterò a casa mia qualche extracomunitario o qualche barbone per fargli sentire il tepore familiare della famiglia nella splendida cornice festaiola e nella commovente occasione… Spero che a fine serata contraccambi con gioia facendomi sentire il suo tepore nel caminetto del salotto: sono scarso a legna e non voglio importunare ancora una volta Gorgo il texano… Buon Natale. 144 FELICITA’ OBBLIGATORIA Sera. Via semideserta periferica del quartiere Nord. Incrocia la figura di quel vecchio mogio ingobbito dal passo pesante. Pensa: un padre di famiglia abbandonato dai figli con la minima sociale…guarda che faccia triste…qualche problema prostatico…arretrati di affitto…tasche al verde… Sfila con la mano guantata, repentinamente, una pistola con silenziatore dalla capace tasca dell’impermeabile nero ed esplode un colpo a bruciapelo in mezzo agli occhi del vecchio. Stunf. Ovattato e definitivo. Un foro e due occhi grigi immobilizzati nella ultima sorpresa separati da un sottile rivolo di sangue nero. Un moto di reazione incontrollata, come una scossa al chiodo di un mattatoio, e un veloce afflosciamento inerte sull’asfalto umido di recenti piogge. Si dilegua nel buio in un vago odore di umidità e polvere da sparo. Osservo: posso fare solo questo, immobilizzato come sono su questa sedia a rotelle vicino alla finestra che volge sulla via: mi sento come James Stewart nel film “La finestra sul cortile” di Hitchcock: sono curioso quanto lui, per noia e per non lasciare che si arrugginisca il cervello. Osservo e concateno con fervida fantasia possibilista. Sto notando, da qualche giorno a questa parte, un’atmosfera strana nella via, nel quartiere, dalla finestra e anche le poche volte che esco perché funziona l’ascensore. Tutti allegri: gente che sorride, ride, ridacchia, sghignazza più o meno rumorosamente. La mia dirimpettaia di pianerottolo, vedova da sei mesi, ha smesso il lutto. Si trucca come una ‘entraneuse’, pesantemente bistrata, e gira con vestiti che deve aver comprato in qualche boutique di lisergici: tutti capi fosforescenti a tinte brillanti. Canterella in continuazione, con una vocina appena tremante, una vecchia canzoncina 145 degli anni sessanta, “Perdono”, quella di Caterina Caselli, come se fosse una preghiera continua, in perfetta letizia perché ride sempre, anche se non con gli occhi, almeno sempre. Gli occhi, a volte, tradiscono la sua vedovanza inconsolabile. Giacomo il barista del caffè sotto casa, quello in odore di fallimento che si è messo nelle mani di un cravattaio a strozzo, spazza la soglia del bar e fischietta sempre la stessa aria, “My way” del vecchio Sinatra. Meno male che non conosce le parole della canzone: non si potrebbe sopportare uno stonato come lui. Ogni tanto transita qualcuno che lui conosce o un cliente e lui si sbraccia in plateali saluti allegri che sembrano esagerate pantomime di Arlecchino servo di due padroni. Il vecchio Attilio, fino alla settimana scorsa dolorante per i postumi di una lunga degenza in ospedale per un brutto incidente, trascina con noncuranza la sua gamba fessa e ride rumorosamente di ogni cosa con la sua signora che sembra un corallo. Sembra un corallo perché muta espressione improvvisamente ad ogni cambio di corrente, ritraendosi e aprendosi a fiore, perché ride anche lei, sguaiata ed evidente, ma a volte prende una faccia da topo timoroso e diffidente e i suoi baffi menopausici tremano, ma è solo un attimo e continua a sghignazzare. Tutti ridono, tutti contenti, tutti fotografati in una estemporanea emiparesi con occhi bui camuffati e la mascella bloccata a evidenziare carie e ponti malfermi e capsule d’oro rilucenti al sole. Strano? No. Basta leggere i giornali, qualche volta, e soprattutto la cronaca nera cittadina. Ecco il titolo: Ancora introvabile il dispensatore della felice morte Pattuglie di vigili e di Polizia sorvegliano giorno e notte il quartiere nord della città nella speranza di acciuffare il personaggio che impudentemente si definisce ‘benefattore dell’umanità’. Si è riusciti a dare una spiegazione agli ultimi 146 dodici delitti apparentemente inspiegabili avvenuti negli ultimi mesi in città presso il quartiere periferico nord. L’assassino ha inviato un suo biglietto di sfida alle autorità inquirenti. “Non mi prenderete mai perché sono delegato per una missione divina. Sono stato incaricato da Jesus di alleviare le miserie dei miei simili e di porre fine alle sofferenze degli uomini. Le anime che ho liberato erano anime di persone sofferenti, dilaniate da tormenti e da dispiaceri e io, per volere di Jesus, ho posto fine al loro dolore con una nuova vita eterna di serenità. Non potrete fermarmi: Ho una missione divina da compiere. Nessuno dovrà più soffrire.” Le autorità invitano i cittadini ad una accorta prudenza nel frequentare vie deserte e nell’uscire di sera quando il serial killer ama colpire più frequentemente. Gli psicologi consigliano un atteggiamento positivo che sprizzi buonumore… E’ illuminante quest’articoletto di giornale collocato in maniera da non ingenerare allarmi di massa e nello stesso tempo da attirare l’attenzione per un più sano comportamento atto a salvare la pelle. E sono qui, vicino alla finestra, che osservo. E tutti ridono e sembrano contenti. Mi domando come si dovranno comportare dal momento che il dispensatore di felicità abbia affinato le sue conoscenze psicologiche e sia divenuto un più sofisticato analizzatore di sintomi fisiognomici. Immagino pensionati artritici sullo skateboard e nonnine sui pattini a rotelle che andranno a fare la spesa molto velocemente al mercato rionale pieno di musica e palloncini come un Luna Park, con contadini burloni nonostante recenti grandinate distruttive, tra inchini e sorrisi e barzellette vecchie d’avanspettacolo, per poi ritirarsi a piangere senza ritegno sui loro problemi nel buio della loro stanzetta. Insonorizzata...non si sa mai… 147 CALCI AGLI STINCHI DEGLI STORPI Il gruppo di ragazzini si fermò tra le pezzature di neve indurita all’argine del fiumiciattolo gelato, nella radura del boschetto a ridosso dei casermoni di periferia. Poco distante un vecchio canuto, seduto su un masso tra gli alberelli scheletriti dall’inverno, singhiozzava con la testa tra le mani. Aveva un curioso abbigliamento costituito da una giubba rossa e pantaloni rossi anch’essi. Era grassoccio, con barba e capelli lunghi candidi. Scuoteva il capo e le spalle in irrefrenabile pianto. I ragazzini, incuriositi dalla scena non proprio serena, si avvicinarono in silenzio con un crocchiare sommesso di scarponcini sul terreno ghiacciato. “Olà, nonno, serve qualcosa? Bisogno di aiuto?” Il vecchio scoprì uno sguardo lacrimoso attraverso un paio di occhialini e diede un’occhiata al gruppo che presenziava al suo dolore. “Ragazzi, ragazzi. Nessuno può aiutarmi. Tutto sta cambiando e nessuno ha più rispetto per un vecchio che tanto ha fatto per la gioventù arricchendola con sogni e speranze. Vedete: io sono Babbo Natale…” Meraviglia incredula degli adolescenti: qualche risolino nervoso e diversi ammiccamenti, qualche smorfia di intesa ad indicare un vecchio pazzo, e una domanda con tono ambiguo, tra il rispettoso e l’irriverente. “Quello vero? E perché piangi? E le renne dove sono?” Tirò su con il naso, il vecchio grassoccio, e si asciugò le lacrime alla manica della giubba sospirando. “Le renne le ho perdute, una ad una, strada facendo. La prima in Uganda: pochi giorni fa, a sera, ci addormentammo dopo un giro tra villaggi di capanne e ospedali delle missioni. Venni svegliato all’alba dal rumore di una danza tribale, frenetica, e da un odore curioso di arrosto. 148 La seconda la perdetti in Tailandia. Voi siete già grandicelli da poter comprendere certe cose. Parcheggiai la slitta nei pressi di un quartiere a luci rosse di Bankok per portare qualche regalo alle bambine ancora innocenti, che lavorano per la soddisfazione di certi turisti, e quando uscii mi dissero che una renna mi era stata requisita per allargare il giro delle scelte di depravazione in offerta speciale. Mi presero la Deborah, la renna più calda che avessi. Poi persi altre tre renne in un colpo solo sul cielo notturno di Bagdad. Sembrava un fiore luminoso porpora di fuoco artificiale per festeggiare il mio arrivo, ma tre miei animali presero fuoco in volo: era la contraerea di qualche amico o nemico. Altre due fecero la stessa fine nei pressi di Gaza: razzi..., non natalizi. Due renne di manto nero vennero fucilate, durante la mia visita per portare regali ai bambini dell’Alabama, e qualche colono mi consigliò minacciosamente renne albine. L’ultima l’ho perduta strada facendo, qui dietro, per infarto: tirava la carretta solo più lei, di otto che erano, ed era già vecchia di suo e non aveva prospettive di pensione, un poco come tutti oggi, del resto. E’ morta di fatica e crepacuore. E io ora sono qui, solo, con la slitta che si è inabissata nel fiume con tutti i regali, e credo che per quest’anno sarò ormai impossibilitato a portare avanti il mio lavoro. E non me lo posso perdonare.” I ragazzini rumoreggiarono scontenti. “Vuoi dire che per Natale non farai il tuo solito giro per tutte le case di qui? Che non hai più doni per noi?” “Sì, ragazzi: vuol dire proprio questo. E ho il cuore a pezzi: i bambini di qui non avranno regali e non crederanno più a me e al Natale e attecchirà il germoglio del dubbio e del sospetto che alimenterà una futura cattiveria e insensibilità d’animo. Per questo sto piangendo: non riesco a trovare una soluzione…” 149 Un ragazzino storse la bocca e si rivolse al vecchio guardandolo torvo e fissando anche i suoi amici. “Cazzo, nonno, faccio quattordici anni tra una settimana e avevo chiesto il Gilera ai miei genitori e mio padre aveva acconsentito. Che bella fregatura che mi hai dato…” “Anche io avevo chiesto una mazza da baseball per sostituire questa vecchia: che bella notizia, vecchio…” “Ma ragazzi, ma voi siete quasi uomini: non dovreste più credere a Babbo Natale e dovreste sapere che i regali sono solo frutto di sacrifici dei vostri genitori…” “Infatti lo sappiamo, vecchio, e stiamo pensando anche che tu ci stia prendendo bene bene per il culo. E non ci va. Nessuno può permetterselo qui intorno: noi siamo la banda del quartiere. Ci è dovuto rispetto e timore. Io dico che tu sei solamente un barbone ubriaco che si veste come un pagliaccio, sei uno straniero che sfrutta quelli che lavorano come un negro o un polacco di merda, sei un estraneo che non è dei nostri, e ci hai raccontato una serie di cazzate credendo di farci fessi, ma ti sei proprio sbagliato e ora te ne accorgerai.” E il ragazzo con la vecchia mazza da baseball, forse il capo della piccola banda, colpì il vecchio alla spalla. Come ad un segnale si attivarono anche gli altri. Un altro sparò un calcio a mezza altezza del busto. Un terzo lanciò una pietra. Un quarto cercò febbrilmente intorno a sé un bastone per colpire. Il vecchio cadde raggomitolandosi su sé stesso nel fango ghiacciato e si coprì il capo da una gragnola di calci e bastonate, ma i ragazzi erano troppi. Fu fioca la resistenza, passiva, a ripararsi da colpi di violenza crescente che si fece più feroce e pressante, a fare veramente male. Il vecchio supplicò debolmente, sempre più debolmente. I ragazzi colpirono selvaggiamente con ferocia. Fu noia, forse, o la trasgressione di colpire impuniti perché non visti da alcuno, la consapevolezza della 150 ribellione ad una istituzione consolidata, la rabbia per sogni infranti, la semplice crudele crescita in un campo privo di valori e sgombro di rispetto e regole, l’accomunarsi in un feroce rito di iniziazione contro un nemico, proprio di una piccola comunità. Smisero quando il vecchio non si mosse più, confuso nel suo sangue in quella giubba rossa. Non ci fu bisogno di parlare oltre, di dire, giustificare, spiegare. Lo lanciarono nel fiumiciattolo e ritornarono al paese ansanti e accaldati per lo sforzo di avere ucciso una parte di Natale che forse in loro era già morto da tempo. E festeggiarono indifferenti il loro Natale sul solito muretto in piazza. I bambini più piccoli, quelli che aspettavano regali che non sarebbero più giunti, cominciarono a crescere. 151 CROLLO DI UN MITO Ti sei sposato giovanissimo, intorno ai venti anni. Eri bello come il sole, slanciato, con occhi rapinosi e un bel sorriso, e la tua donna era incantevole, leggiadra e luminosa. La sorprendevi sempre con proposte originali: “andiamo a prendere un caffè, dopo cena, al mare (duecento chilometri) e poi torniamo a casa in tempo per una doccia e per andare a lavoro”. Lei ti adorava, ti guardava sognante mentre guidavi e parlavi con voce calda ed avvolgente, e ti vegliava con rapita devozione quando dormivi come un bambino, respirando leggero. Un giorno, che si potrebbe definire di confine, hai rotto l’incantesimo. Una provocazione, ma forse più facilmente una distrazione, ti ha fatto abbassare la soglia d’attenzione circa il saperti comportare con rispetto verso di te e, soprattutto, verso di lei: hai emesso una flatulenza in sua presenza, una puzzetta crepitante in maniera sfacciata e stizzosa. Ti sei immediatamente scusato con disinvolta noncuranza e il tuo sorriso da adorabile faccia da schiaffi. Lei è rimasta sorpresa con gli occhi sgranati, interdetta, poi ha sorriso, ma il danno era stato fatto. Una notte ha voluto contraccambiare con un gesto scherzoso per mettersi alla pari, forse in un concetto di malintesa complicità, e ti ha spiaccicato una sua arietta contro la tua coscia dentro il letto: grandi risate e tante scuse, ma la crepa si è allargata come le crespelle dei vostri buchi di culo, scusami la brutalità antipatica, e l’intimità si è deteriorata in una confidenza sciatta. Uno dei due, pochi mesi dopo, defecava tra sforzi e lacrime, paonazzo, in presenza dell’altro che si lavava i denti ridacchiando, e si sfaldava la considerazione reciproca in una assenza sempre più totale di mistero e riservatezza fascinosa. Vi siete ritrovati dopo pochi anni, ma invece ne sono trascorsi più di venti, sfatti e senza più un briciolo 152 d’intrigante imperscrutabilità, conosciuti e conoscibili in tutta la vostra persona, e non vi siete fatti più una bella impressione: ognuno se ne è andato per la sua strada con un bagaglio di esperienza maggiore. Ma tu sei sempre stato socievole e fiducioso ed eri traboccante d’autostima. Ti sei voluto rifare la vita. Hai conosciuto una donna adeguata alla tua età più matura e hai riannodato i fili del tuo fascino per ricominciare, più ricco di vita vissuta, con la consapevolezza di non volere più ripetere errori passati, erigendo muri di attenzione per nuovi confini. Stavolta sei stato soltanto sfortunato: la flatulenza ti è scappata involontariamente, insieme con un ruttino, dopo una cena abbondante, e sei rimasto profondamente imbarazzato, anche perchè stavolta ne hai carpito l’odore. Lei ha sorriso indulgente, come l’altra, e tutto si è ripetuto come una volta con la differenza che, rispetto a prima, ora russavi, avevi meno capelli, più pancetta e un alito più pesante. La storia è durata davvero poco, come, in genere, tutte le cose già viste che non nascondono sorprese. Sei arrivato, quindi, alla terza età, solo, ma hai intelligentemente compreso che una casa di cura può dare comodità e compagnia. Hai cominciato a corteggiare, come un brillante gentiluomo di vecchio stampo, quell’interessante infermiera sui cinquantacinque, molto spiritosa, e ti sei ripromesso di vigilare con estrema concentrazione sul tuo comportamento. Ormai... Avresti voluto morire quando la tua amorevole assistente ti ha cambiato con asettico fare professionale il pannolone pieno di putridi cioccolatini: eri una fogna, in quanto a odore, e il tuo sorriso ingiallito e sdentato era quanto di più laido potesse esistere. Si sono sbriciolate per sempre le mura di Jerico di tuoi confini sempre più angusti. Ed è crollato, con loro, anche un mito. 153 COSA PUO’ ACCADERE IN STAZIONE MENTRE ASPETTI LA MOGLIE Te la devo proprio raccontare… Binario uno: aspetto l’arrivo di mia moglie, defilato rispetto alla calca del centro stazione perché odio troppa folla intorno a me, e sono abbastanza vicino ai gabinetti pubblici per ammazzare il tempo nell’attesa e divagarmi con mie osservazioni sul traffico del posto olezzante certi aspetti di varia umanità. La mia attenzione è improvvisamente sollecitata in stereofonia: ascolto urla lamentose indistinte provenienti dalle latrine e, nel contempo, vedo sopraggiungere, con un leggero ronzio perduto nel brusio del viavai, dall’altro capo della stazione, l’ecologico carrozzino elettrico Lamborghini (c’è poco da ridere, è proprio un Lamborghini) della Polizia Ferroviaria con due agenti. Il carrozzino blu con strisce bianche e la dicitura POLIZIA suscita reazioni sorprendenti: il gabinetto si svuota di tarantolati frettolosi che schizzano verso altri lidi velocemente assumendo fisionomie, per come possibile, di passanti attoniti da Candid Camera. Tossici, spacciatori, checchine tremule e maschioni fornitori di bassa macelleria sembrano palline di flipper che scompaiono in qualche buchetta per un ‘bonus’ di centomila punti. Rimango lì, anzi, mi avvicino, forte del mio tesserino di ex ferroviere: gioco in casa, sono curioso, conosco uno dei due agenti, ho tempo. Scende dalla similvolante ecologica un personaggio conosciuto e temuto nella stazione, un maresciallo corpulento come il Danny Aiello di “C’era una volta in America”, con, in più, due baffoni da tricheco e una pancia sicuramente molto più accennata, strozzata impietosamente dal cinturone con la fondina e le manette. La stessa aria tronfia di Aiello, o forse dello sceriffo sputatabacco di uno zerozerosette, lo stesso caracollare da bullaccio di sala biliardi… Una strizzata d’occhio a me, che contraccambio con un sorriso, ed un’occhiata a punto interrogativo verso il 154 custode della latrina, Alvaro, secco e grigio come una ‘mappina’, lo straccio per pulire i cessi, detto alla napoletana, impersonificazione fisiognomica da lunga esperienza professionale, corrispondente quasi ad un “nomen omen”: per essere perfetto si dovrebbe chiamare Medardo, per qualche giochetto di parole. Medardo, no scusa, Alvaro squittisce di fronte al maresciallo ipertrofico con l’aria di un giovanissimo Peter Lorre scavato e querulo. Biascica un qualche resoconto e Tricheco annuisce e sospira al cielo mentre il suo collega, il Pannunzio della situazione (Pannunzioooo, chemminchiamicombini?), ridacchia come può ridacchiare un sottoposto senza capacità decisionale. I lamenti, dentro, continuano come litanie, pianto singhiozzante, evocativo un’andatura di cammello ubriaco tra le dune, imprecazioni in misti idiomi con odori a vampate di tabacco, curry e naturale retrogusto escrementizio: vedrai, siamo in un cesso di stazione che è stato ripulito circa sei ore fa… Seguo come un’ombra, complice e discreto, Trick che si appoggia alla porta chiusa di una latrina, atta per buchi di pere, esperienze ludico-amatorie trasgressive e bisogni grossi. “C’è qualche problema lì dentro?” Cala un breve silenzio, poi nuova puntata della geremiade, più forte e appassionata di prima. Esplode l’urlo belluino dell’autorità. Il maresciallo sembra l’allenatore Carletto Mazzone sotto di tre goal a zero o, tanto forse non conosci neanche lui, Romolo al banco di frutta e verdura al mercato di Piazza Vittorio: “Ahò, stai muto: spiega che ascolto. Ah, già che ci sei, apri che ascolto e ti vedo. Magari ti chiedo l’autografo o ti dò un bacino… Che succede?” Tra i singhiozzi, una voce con un timbro particolare, familiare e sconosciuto insieme, si fa strada faticosamente, flebile e genuinamente straziante. 155 “Ho paura. Sono in piena crisi di panico. Non ce la faccio più”. Ricomincia a tracimare in ululati che si confondono con la scarica automatica degli sciacquoni. Trick mi guarda e sospira. Io ammicco e predispongo lo sguardo a tifoso appassionato e solidale. Il maresciallo ha intuito che dietro la porta c’è qualcuno strano, che parla bene l’italiano, ma non perfettamente: o straniero, o appena dislessico. “Dai apri, c’è la Polizia che ti protegge: “La polizia al servizio del cittadino”, “Stiamo lavorando per te”, “La polizia sta per incazzarsi”… Paura di che? Di dove sei? Straniero, vero?” La vocina, che sembra quella del nano Pigolo di Biancaneve - esiste? -, si compone appena un poco. “Sono italiano con tutti i diritti…” Lo dice con un accento vagamente piccato e se ne accorge anche Sherlock Sheriff. “Ma vaaaaa, prova a dire un poco “li mortaccci tua”… Vocina piagnucolosa da dietro la porta, nella valle dell’eco del cesso vuoto: “Li mortaci tua…” ‘Lesson number one’ di fonetica italiotaromanesca: “Lo vedi? Non sei italiano: ci vanno tre ‘c’ nelli mortaccci tua e tu ne hai messa solo una e non hai strascicato le ‘t’ de li mortaccci e dei tua…” “Senti fratello: ho paura. Credo che mi impiccherò tra poco qui dentro. Lasciami stare.” Trick sa che il suicidio è pur sempre un reato (vietato ammazzarsi) e ha una metamorfosi a metà tra Bogart che deve convincere qualcuno fumando interminabili sigarette con le pupille e Clooney col camice verde di chirurgo: si allarma un poco e accarezza l’idea di prendere a spallate la porta di compensato graffita di numeri di cellulari e cetrioli stilizzati di ogni grandezza e stile di corrente pittorica. “Calmo eh? Dai, sfogati…” Pigolo esonda inarrestabile: parole come fango e liquami cloacali in zona franosa, (scusami, ma siamo sempre in tema). 156 Quasi urla il suo sfogo tra i singhiozzi. “Non vivo più. Per strada ho l’impressione di essere guardato come un prosciutto, come una mortadella appetitosa. Sono sguardi che ti pesano il portafoglio e che verificano l’efficacia delle tue chiavi di casa o che ti sondano la profondità del fondo dei pantaloni per intuire quanto puoi essere ospitale. Sguardi come coltelli. Ho paura di troppe persone, di troppe facce. Cammino rasente il muro e ascolto ‘slob, slib, slab’: slavi dappertutto, non puoi sbagliarti neanche se stanno zitti. Sono inconfondibili con quegli occhi di ghiaccio e quei denti guasti. Ancora ‘slib, slob, slab’, e ti guardano e parlano tra loro e ridono e qualcuno si tocca il pantalone piattoloso e non so se mi vuole aprire come una mela con l’uccello o con un coltello. E poi ancora, più in là: ‘akkrhamel, shal acchrr’, e altra angoscia con facce cariche di odio e diffidenza, barbe lunghe e sudice, odori di sabbia e di spezie strane. Cammino qui intorno e vedo soltanto insegne arabe e sento parlare solo arabo e ho paura di questi marocchini che tra loro si trovano e si baciano tre o quattro volte e quando passi tu neanche si spostano e sembra che aspettino soltanto di essere urtati per sgozzarti. Hanno un linguaggio ruvido, aspro, quasi minaccioso, e urlano sempre e non sai mai se possano avercela anche con te. E penso alle torri… Poi ci sono ancora i ‘japu’, quei musetti gialli gentili, i giapponesi, chissà poi perché giapponesi e non giapponardi… Gentili e compiti, educati e rispettosi…ridono sempre, ma io non ci casco e ho paura anche di loro. Sono troppi: se s’incazzano ti si mangiano crudo come un sushi. 157 Hanno troppa dimestichezza con le lame, le lamette, i rasoi, troppo fanatismo…banzai, kamikaze, oriente rosso, Toshiro Mifune, kooto… Vaffanculo pure ai japu: odio i japu e i marocchini e gli albanesi… Non ce la faccio più. Che aiuto puoi darmi, poliziotto?” Trick Aiello sta facendo la colletta mentale di tutto quello che può ricordarsi di avere appreso al corso dei sottufficiali circa la psicologia dei rapporti pubblici nei cessi pubblici e sta aggrottando la fronte in un’espressione che sarebbe fonte di disperazione per Darwin. Io guardo la situazione con disincanto e con tempo libero davanti a me, senza prendere posizioni, come fossi quello de “Il cittadino ringrazia la Polizia”, ma questo Enrico Maria Salerno, o Merli, non ricordo bene, è molto più grasso ed io mi accontento perché non ho pagato il biglietto dell’Universal. “Senti: ascoltami bene. Ora esci da lì e andiamo a fare un giretto insieme fino al bar. Ti offro un bel fernet, un caffè, quello che vuoi. Tu ti sfoghi ancora un bel po’ mentre aspettiamo l’arrivo degli infermieri dell’ambulatorio di stazione. Ti danno qualcosa da prendere e vedrai che passa tutto. D’accordo?” Ghigno tra me: caspita! Wanna Marchi con l’ipertricosi… un corso di psicologia pressoché fallimentare. Eppure… I singhiozzi cessano nel cesso, scusa il gioco di parole, e un silenzio di riflessione aleggia pesante come il solito quasi solido persistente odore di concimaia senza viole tra le mattonelle bianche e istoriate. Poi un fruscio dall’altra parte della porta, come se qualcuno si stia ricomponendo, immagino, ed un cigolio della porta che sfinisce per quanto è lento e timido. Tieniti forte: il bello arriva adesso… Ci sei? Non ci crederai: mi piacerebbe vedere la tua faccia adesso… 158 Esce un moretto, un cioccolatino, un uomo di colore, un negro insomma… Hai capito? Ben vestito, educato, gentile, pulito…e nero, come la pece… Trick rimane di sasso e pure io cambio il peso specifico in struttura pietrosa. Pannunzioclone è un subumano. La favola finisce bene, forse, o male: non lo so. Ha una morale? Ne è priva? Ti ho solo raccontato quello che mi è successo mentre aspettavo mia moglie in stazione: non sono mica un opinionista sui costumi della società… 159 WORK IN PROGRESS Si protese verso me con aria avida da Gatto Silvestro e voce untuosa. “Mi dica delle sue precedenti esperienze di lavoro… Parli liberamente, a suo agio, si rilassi…” Fronteggiai il suo sorriso di caimano, impassibile, e snocciolai le mie referenze assumendo un’espressione il più possibile professionale di uomo di mondo. “Ho cominciato come ‘capo claque’ funebre, assunto dall’impresa “Morircongioia” di mister Freddy Erigidi. Organizzavo battimani pubblici davanti alle chiese di paese per il capomafia luparato, ‘standing ovations’ per i giovani carbonizzati nel rientrare a casa da una discoteca, ole irresistibili e sincronizzate per politici o eroi civili caduti nell’adempimento del proprio dovere. Ho sempre avuto capacità organizzative e carisma: divenni in poco tempo ricercatissimo. Frotte di genitori al seguito di piccoli feretri bianchi si disputavano il mio servizio che godeva fama ineguagliabile soprattutto per funerali prepuberi: mi soprannominarono, per un certo periodo, Benetton zerododici. In effetti riuscivo a creare un originalissimo impasto di applauso fitto e allo stesso tempo sommesso e commosso per anime innocenti: i parenti vicini e lontani al seguito del corteo funebre rimanevano attoniti per la reazione composta, ma partecipe, delle ali di folla aperte sulla processione…” “Come mai smise con questa attività così gratificante?” Era davvero interessato ora, e aveva un luccichio agli occhi di speranza e attese. “Mi resi conto di essere, mi perdoni l’immodestia, troppo bravo, a tal punto da non riuscire più a governare le reazioni della folla da me istradata verso una classica manifestazione di solidale dolore. Innescavo la miccia con un battimani deciso, ma educato, e volgevo il capo, eretto e marziale, all’intorno in cerca di proseliti. 160 Lo sguardo mesto completava l’opera e circuiva i presenti in una reazione a catena che si trasmetteva a tutta la piazza o tutta la cattedrale o il corso del paese o il piazzale dell’obitorio. Irrefrenabile. E soprattutto contagioso. Decisi di smettere il giorno che anche due parenti di un giovane adolescente defunto furono coinvolti, troppo stupidi loro o troppo bravo io... Recavano a spalla, insieme ad altri quattro, la pesante bara zincata del virgulto prematuramente dipartito, e mollarono la presa per pochi istanti per unirsi all’applauso frenetico della folla commossa. Il feretro ondeggiò squilibrato e si rovesciò sull’asfalto aprendosi come un uovo pasquale con sorpresa. L’applauso degenerò in urla di raccapriccio e mi creò il tipico caso di coscienza che prevede decisioni drastiche da prendere e in poco tempo. Infatti mi defilai velocemente mimetizzandomi tra la gente per sfuggire alle ire di un padre affranto e di quattro energumeni zii che scrutavano nel caos di fedeli addolorati e sorpresi per avere spiegazioni circa le mie esagerate capacità persuasive ad applaudire…” Ebbe un ghigno ingordo. “Capisco, capisco. Cosa intraprese, poi, dopo questa attività?” Proseguii impavido, forte della sua espressione ancora più interessata. “Mi realizzai come eutanasista, con un duro lavoro porta a porta, senza appuntamenti, come un qualsiasi rappresentante di enciclopedie o del Folletto o dei prodotti Avon. Mi presi, comunque, meriti, gratifiche e soddisfazioni…” “Si spieghi meglio e mi dettagli maggiormente: lei si sta avvicinando molto alle attese della nostra politica aziendale…” Si era sbilanciato come un travestito in privato ad uno spettacolo di spogliarello dei Dream Men: l’avevo in pugno. Particolareggiai con foga e passione. 161 “Pianificavo meticolosamente il lavoro a tavolino e interpellavo parroci di parrocchie, portiere di stabili decadenti, infermiere rimorchiate in sala da ballo alla domenica pomeriggio. Predisponevo un itinerario ottimale e mi presentavo inaspettato all’uscio dei miei potenziali clienti. Ero sobrio, ma elegante, con la mia valigetta di prodotti e con un buon discorso di presentazione che era stato da me studiato per catturare l’attenzione dell’ascoltatore fin dalle prime battute. Mi presentavo a volte come angelo della morte, altre volte come liberatore, spesso come irrinunciabile complice della causa. Esaltavo la difficoltà del mio cliente nel tirare avanti con il macigno di un vegetale in casa, in coma o quasi. Oppure solidarizzavo enfaticamente per un vecchio disabile costoso da mutuo a strozzo, incosciente come una carcassa di sambernardo, o coscientissimo e monopolizzatore del televisore, colitico all’ultimo stadio di flatulenza, quella vestita, petulante e prepotente, lamentoso alle due di notte. Lo blandivo con passione e riuscivo ad entrare in sintonia con lui come un compagno di merende. Poi buttavo là con decisione lieve le mie soluzioni: succhi di frutta al cianuro, rapidissimi, pressoché istantanei, flebo alla candeggina, dolorose, ma infallibili, soprattutto per suocere o consorti al capolinea di un rapporto travagliato e rancoroso. Proponevo, inoltre, cannule o tubi respiratori intasati o anche interventi diretti con mano d’opera specializzata, la mia, in diretta con colpo di karate alla carotide o massaggio sconocchiacollo da dietro. Illustravo infine il metodo dell’applicazione di un sacchetto del supermercato sulla testa coadiuvato da cuscino pressato per ammorbidire la dipartita. Gli affari andarono benino fino a che non dovetti repentinamente cambiare attività con un esilio forzoso in Costa Rica. Una vecchissima suocera, baffuta come un tricheco e con la sua stessa alitosi, grifagna e odiosa, riuscì a 162 sopravvivere ad un mega clistere da cavallo all’olio di ricino e mastro lindo bagno. Inondò l’appartamento di liquami disgustosi con bollicine anticalcare starnazzando come un’oca che la si voleva uccidere. Uccidere! Mi capisce? Una caritatevole eutanasia spacciata per un bieco omicidio… Il genero s’impaurì e cercò di sottrarsi alle sue responsabilità: cominciò ad urlare anche lui che era stato soggiogato a tradimento dalla mia dialettica. In realtà il bastardo non aveva ancora pagato ed esercitò uno scorretto diritto alla recessione del contratto. Sparii per quattro anni sbarcando il lunario come sabotatore di pescherecci per turisti in Costa Rica, nel ramo di banali questioni assicurative, un lavoro di bassa manovalanza senza gratificazioni intellettuali. Ed ora eccomi qui, sperando che lei possa offrirmi qualcosa di interessante e che io possa fare al caso suo…” Fui sincero, onesto, senza fronzoli, immediato. Mi guardò con ammirazione, coccolandomi con un sorriso, come può mamma faina. “Bene, bene: lei mi sembra proprio la persona adatta per quello che ho da proporle. Un lavoro che potremmo definire ‘double-face’, buono per ogni razza di cliente, senza una collocazione rigida di quello che può essere il ruolo della vittima o del commissionario. Le interessa un’attività da killer sociale multietnico?” Me la sparò a bruciapelo: traboccai di intima gioia, ma rimasi impassibile e finsi un’aria da innocente ignorantello. “Cosa fa di preciso un killer sociale multietnico?” Fu benevolo e prodigo di particolari. “Le faccio un esempio. Si rivolge a noi un rumeno che in patria era muratore. E’ senza permesso di soggiorno. Ha fame. Ha volontà di lavorare. Ha interpellato diversi capomastri. 163 Uno di questi è stato possibilista, ma i posti sono al completo, occupati quasi tutti da nostri compatrioti che, però, perdono tempo con caffè, barzellette, e ogni tanto rompono le scatole con qualche infortunio, qualche bega sindacale, qualche causa civile per ottenere arretrati. Lei mi capisce: uno schifo ingestibile. Ecco, allora che entriamo in ballo noi: lei per l’esattezza. Con l’avallo del capomastro reso complice con un’oliata, dopo sostanzioso anticipo del rumeno nostro cliente, lei visita il cantiere come architetto o ispettore del lavoro e con la sua collaudata professionalità mi precipita un muratore, possibilmente quello con il bersaglio di carta apposto dietro la schiena come un pesce d’aprile, dall’ultimo piano del palazzo in costruzione. Sono stato chiaro?” Adesso luccicavano i miei occhi, ma la professionalità ebbe il sopravvento. “E l’altra faccia della medaglia? Il double-face di cui accennava circa il multietnico?” “Le sottopongo un nuovo esempio. In una valle sperduta, un montagnino nostrano, padre di famiglia, deve sistemare il figliolo, quindicesimo di una bella covata, nel mondo del lavoro. Il giovane parte con qualche svantaggio. E’ alcolizzato cronico, fradicio di grappa e genepin, nonostante i suoi diciannove anni. Non sa fare altro che mungere vacche come proiezione estrema del suo onanismo praticato a ritmi frenetici mani…acali… Ahahah… E’ in uno stato pietoso come fisico ed espressione: un relitto appena maggiorenne. La piazza principale del centro urbano più vicino è data dall’intersezione di quattro strade di grande traffico che portano verso altre città della produttiva regione. I semafori di quella piazza sono presidiati da torme di marocchini, tutti in regola, ci mancherebbe, classificati e registrati dalla mafia locale, che pagano il loro regolare pizzo giornaliero ad un emissario che tutte le sere viene a farsi lavare i vetri della sua auto e anche i fari e gli occhiali da sole. 164 Il montagnino padre di famiglia, per sua parte di competenza, si mette in regola con il pagamento di una tangente di prenotazione del posto per il suo erede invertebrato, presso l’esattoria del caporale locale. E a questo punto entra in ballo lei. Con un nostro fuoristrada che le diamo in dotazione. Con il paraurti chiodato. Lei libera un posto di lavoro usurpato da un marocchino che viene subito rioccupato per il bene della società produttiva da un nostro compatriota…” Sorrideva, pacioso come un usuraio che ama la buona tavola, il mio selezionatore del personale. Io non riuscivo ancora a rilassarmi. “Come vengo inquadrato? Quanto andrò a guadagnare in un mese? C’è tredicesima e quattordicesima? Le ferie sono pagate? Incentivi? Mutua? C’è anche un fisso o solo provvigioni?” “Si calmi, si calmi, che ci aggiusteremo… Sappiamo valorizzare le qualità dei nostri dipendenti e prevediamo anche una mobilità concordata, in affitto presso nostre filiali europee. Con la sua esperienza, prevedo per lei un grande futuro… Ci pensi ancora un poco mentre le preparo qualcosa da bere. E lasci che le dica: benvenuto in questa nostra grande famiglia!” Tirai un sospiro di sollievo e mi dissi: è fatta! Ancora oggi fremo di gioia: ho di nuovo un gratificante lavoro… 165 BADA ALLA BADANTE Alma Boavista non riesce a mantenere le promesse del suo cognome. E’ una traccagnotta proveniente dai sobborghi di Lima, sulla quarantina, vicinissima alla soglia del vero e proprio nanismo, ipertricotica, con due gambine cicciose che sembrano culatelli, fasciate in improbabili calze a rete. Ha uno sguardo inca mandorlato, timido e sfrontato insieme, con un’espressione indecifrabile del volto, atteggiata a sorriso maliziosetto o a pudicizia tendente a nascondere il pessimo lavoro del suo vecchio dentista d’oltreoceano. Forse non è pudica e le capsule d’oro, magari, sono rivestite di smalto quasi naturale: infatti attira l’attenzione sulla sua bocca piccola, oltre che per un’accentuata ombra baffuta, anche per un rossetto vistoso che sembra marmellata di lampone. E’ vestita con due straccetti di mercato rionale accostati con criterio cromodaltonico. Si trascina appresso, dal basso della sua statura, una monumentale vecchia altera, a passeggio nel parco del quartiere a mezza mattinata tiepida. Il cimelio ambulante aureolato da una chioma azzurrina è la vedova del Commendator P., senza alcun parente oltre un cugino alla lontana molto più giovane. Quest’ultimo attende come un piranha che la vecchia frolli del tutto e da diverso tempo si tiene alla lontana con pragmatica coscienza di avere assolto i suoi doveri di parente. Ha procurato una badante, al prezzo più concorrenziale possibile, l’ha istruita circa le fiale e pasticche da somministrare alla vecchia durante la giornata, telefona una volta ogni dieci giorni e si domanda meravigliato come mai il rincoglionimento senile sia foriero di una lunga vita inconsapevole e quindi inutile, fastidiosissima per un erede. La vecchia stampellona, donna Bice, cammina con la puzza sotto il naso perché ricorda, tra le pochissime cose, d’essere la vedova di un commendatore. 166 E’ sorda come un campanaro, procede malferma con le gambe ossute divaricate da un pannolone da competizione, smoccola contro il mondo intero e non vede un’ostia al di là di quindici metri. Martirizza il braccino della ‘peruana’, come la chiama lei, con un’aria di disprezzo che è dimenticata e ricordata a corrente alternata nel giro di pochi minuti. La strana coppia, ogni mattina che non piove, in un’ora di rada affluenza, procede nel parco come due lumache di bosco su un sidecar ingolfato. Una bionda di compensato, alta e rigida, bianca come un latticino con, anche essa, qualche etto di marmellata sulla bocca, ma di more, da qualche giorno le spia e le segue con circospezione. La donna si chiama Ludmilla ed è moldava, come si evince dallo sguardo ceruleo freddo tipico di quelle parti. Ha perduto un posto di badante per sopraggiunta dipartita della badata e studia l’ambiente per reinserirsi nella società produttiva, di là di volgari permessi di soggiorno. Oggi il parco è deserto, a parte la coppia, che sembra un articolo ‘il’, e la moldava dietro un colonnino. La vedova dà i numeri bofonchiando di un lui, che si stava meglio quando c’era, del passo troppo svelto, del sole troppo caldo, della ‘peruana’ troppo bassa. Poi canterella qualcosa e ricomincia in ordine inverso chiamando Alma col nome di ‘Filippa’, anzi ‘Filippina’. La piccola inca è coriacea come un lama andino e si estranea parzialmente dalla vigilanza riempiendosi il terzo occhio di colorate diapositive patriottarde della festa di santa Rosa. Ludmilla sembra, anche perché è vestita con un completo stampato di tela che richiama l’immagine, un ghepardo in attesa. Sfila la coppia davanti alla moldava dietro il colonnino. La gheparda piomba silenziosa alle spalle della piccola peruviana e l’accoltella con due fendenti decisi ai reni. Crolla senza un gemito, Alma, e Ludmilla prende il braccio della vecchia assente che non si è accorta di nulla. 167 La coppia adesso è omogenea, come altezza, e procede lungo il viottolo del parco come se nulla fosse, con la neobadante che scruta a destra e a manca e la vecchia che ha un moto di sorpresa subito dimenticato. Ritorneranno a casa senza difficoltà, grazie agli accurati pedinamenti dei giorni scorsi, e la moldava inventerà qualche scusa per l’indifferente cugino della vecchia. 168 DARWIN ALLA ENNE Aleggia un afrore penetrante di putrido e orinico, nel vicolo, talmente stordente da sembrare onirico… “Tana!” Il moro apre gli occhi, insonnolito, accecato dalla lama viola di luce d’alba che filtra dallo sportello socchiuso, e inquadra la bocca di un Uzi, aperta in una ‘O’ di meraviglia, davanti al suo naso. La voce, da fuori, ridacchia con finta condiscendenza. “Buongiorno, cara merce. Dio, che tanfo escrementizio! Ti pisci ancora a letto alla tua età? Purtroppo non faccio servizio in camera e quindi niente caffè e uova con pancetta, neanche un topolino, ma non ti consiglio di prendertela a male perché, in compenso, sono una generosissima farmacia ed elargisco supposte urticanti via culo o mentine forti via esofago, …di piombo: mi comprendi? Bene: dichiaro ufficialmente al mondo dei vivi che ti confisco, negretto. Sei mio. Esci tranquillo da questo cassonetto e lasciati ammanettare senza provare a scappare e forse verso mezzogiorno avrai un piatto di sbobba…” Il moro si stropiccia gli occhi ed esce terrorizzato e inebetito dalla sorpendente rapidità degli eventi cui non è dato opporsi. E’ spinto su un furgoncino scassato e ripiomba in un sonno senza sogni dopo una carezza con il calcio della confezione delle supposte o delle mentine. “Guarda che bella nidiata di cucciolotti! Cassonetti generosi, oggi.” Voce allegra. “Carini davvero, i piccolini… Buona, mammina, buona, che non faccio nulla di male: adesso li prendo e li metto al calduccio e poi, più tardi, preparo per loro la pappa, va bene? 169 Buona, buona, bastarda, cazzo ringhi… Buona, ho detto… Bastarda, attenta a te… Porca puttana…” Uzicolpo secco e guaito definitivo. “Forza, orfanelli, con me…” Sei cuccioli, grandi come bocce, sono gettati nel furgone malandato contro un enorme boccino a forma di negro sanguinante ammanettato che dorme, comunque caldo. I piccoli gli si rannicchiano tremanti addosso mentre si richiude lo sportello. “Toh… un feto ancora fresco… Questi cassonetti sono scrigni frugare… Grandi prospettive.” preziosi, a saper Domenica pallida di prima estate, presto: aria già di melassa, trentotto gradi, ma ancora sopportabile, anche se non piove da quattro anni e mezzo. L’uomo monta una bancarella per il mercatino delle pulci, la fiera mensile “Nulla si butta”, dove circa duecento espositori partecipano con articoli di vario genere per qualsiasi preferenza e borsa. La bancarella è solida, inchiavardata all’asfalto e piena d’anelli ai quali la mercanzia sarà assicurata con catene. I poliziotti sono una razza estinta da qualche anno e va di moda il ‘bricolage’ esistenziale, il fai da te d’autodifesa, che non tutti sono bravi a mettere in pratica. Le bande megalopolitane, ciechi impazziti crotali senza disciplina, hanno fatto razzie crudeli, in recente passato, a queste manifestazioni, e molti espositori sono morti senza sapere neanche cosa stava succedendo, divisi in due da un ‘machete’ o sansebastianizzati da cinque o sei balestre o crivellati da una mitraglietta. L’uomo che scarica la sua merce, invece, è un duro. E’ sudatissimo, fradicio, rivestito da una cotta di metallo e un corsetto antiproiettili, e incute soggezione con la sua mole imponente e un casco integrale grigio ferro che gli conferisce un’aria minacciosa. 170 Porta, a tracolla, un maneggevole Uzi, piccolo e letale, e ha una cintura con una fondina grassa ed enorme, piena di una forma nichelata somigliante ad una trentotto modificata ad acido. Inoltre, sul banco, a portata di mano, è parcheggiata una katana sbeccata, ma affilata come un rasoio, che non si limita a procurare il tetano. L’uomo accatasta la merce sul banco e l’assicura agli anelli con catenelle molto robuste. Poi si siede su una poltroncina di plastica da giardino e si accende una sigaretta ricostituente, slinguazzata a mano, di tabacco, marija ed energetici cristalli di crack potenziato da Chuck, il chimico del quartiere. Attacca, rilassato, ma vigile, come un prete giurassico o un venditore porta a porta d’armi, una litania monotona al primo passaggio di potenziali clienti curiosi. “Ho un negro in buona salute, gente, ho un negraccio, e ne potete fare quello che volete: è senza documenti e nessuno lo reclamerà. Gli ho già tagliato la lingua e i due alluci ai piedi: è innocuo e preparato. L’ho catechizzato personalmente e mi sono fatto un braccialetto con i suoi molari. Lo potrete usare per vostro diletto, come schiavo, come dispensa ricambi d’organi, come gioco… Ha un bel capitone in mezzo alle gambe… E’ resistente e può durare a lungo. Quelle laggiù sono fiale affascinanti, capo… Non so neanche io cosa contengono: mandano un odore strano e me le ha trovate un collaboratore che ne ha manipolata una senza guanti prima di morire dopo circa un’ora, squagliato come una medusa. Credo che sia roba letale, importante. Interessano? Te le offro in blocco a prezzaccio d’amico. Hey bastardo laggiù, non toccare nulla o diventi istantaneamente monco, hai capito? Interessano cuccioletti da vivisezionare? Sono in offerta: potete soddisfare tutti i vostri più bassi istinti violenti, ragazzi. 171 Approfittatene, perché sei cuccioli tutti insieme non li troverete mai più… Sì, quelle sono quattro sacche di A positivo. No, non so se sono infette o buone: fossi sicuro le pagheresti dieci volte di più di quanto chiedo. Se hai un extra di troppo chiuso in cantina, invece di sprecare soldi per dargli da mangiare, potresti sperimentare una sacca e vedere quello che succede… Fossero infette, avresti potere… Ragazzi, coraggio, non siate timidi. Occhieggiate là in fondo al banco, dentro il sacchetto del supermercato: guardate quel bel piccolo tenero feto fresco… Non è cosa di tutti i giorni, ragazzi: è una chicca per intenditori… Pensate: potreste farci sperimentazioni, alta gastronomia, curiosità collezionistica, giochi proibiti... Oggi ho proprio bella robetta e faccio onesti prezzi da usuraio semplice e indipendente…” Ride grasso della battuta, l’uomo che fuma, e scruta il cielo lampone radioattivo senza eccessiva preoccupazione: è provvisto di un impermeabile ‘antiforfora’ e ha dentro di sé un quantitativo invidiabile di menefreghismo nihilista da potere affrontare anche una banda di ‘fatti’ armata di fionde a chiodi con tre punte. Spera solamente a piccolo cabotaggio: per l’oggi. Lo stretto necessario: una tazza d’acqua, un cartone di tagliatelline di riso con quello che passa il convento, indifferentemente gamberi, topi o cristiani, e qualche cristallo per tirare avanti anche domani. Con il lavoro, a frugare nei cassonetti. Il resto è fuffa. Nel duemilasettantasei dopo Cristo. Ammesso che Cristo sia esistito… 172 IL CONTRAPPASSO DEI LUSSURIOSI Certi motels, in effetti alberghi ad ore, fanno davvero schifo, squallidi e sporchi. Certi altri, invece, sono confortevoli e ospitali assai, in armonia sintonica con gli uteri che abitualmente li bazzicano. Ne frequentavo uno ospitale da parecchio tempo, di albergo, con Shirley, una panterona dalle unghie spuntate di miele, sopraffatta da un animale istinto materno. Si arrivava d’abitudine verso la sera di mercoledì, compatibilmente alle possibilità, e ci si ridava appuntamento di giovedì mattina davanti ad una ricca colazione all’alba, per il mercoledì successivo: ragionieristico pragmatico amore… “Scendo a prendere due birre al bar, gioia…” “Te ne esci fuori così, col kimono corto nero, da porco tamarro, e le infradito? Esibizionista di quart’ordine…” “Tesoro, sono le due e mezza di notte e forse, a parte l’addetto all’ascensore, che dormirà in piedi, e il barista che funge anche da addetto alla ‘reception’, non ci sarà anima viva in giro… Faccio presto: a tra poco…” Mi staccai dall’essenza del morbido con un formicolio strano di rivalsa entro dieci minuti al massimo, in altra posizione esplorativa. Ebbi l’impressione che una tetta mi strizzasse un occhio arrossato facendomi ciao, ma ero anche un poco stanco e prosciugato. Trovai Archie stranamente sveglio e marziale, appoggiato all’ascensore aperto proprio sul mio piano. Sembrava un totem, ascetico e fisso come un santino. “Ciao Archie, segui quella macchina fino al bar: devo prendere due birre…” Non spiccicò parola, eppure la battuta mi sembrava divertente. Schiacciò un pulsante e si produsse in una delle sue migliori imitazioni di stalagmite. 173 Notai che l’ascensore scendeva lentissimo. “Hai messo il tassametro con la tariffa notturna?” Non lo feci ridere neanche stavolta, forse anche perché il ronzio dell’ascensore era deprimente come un trapano di dentista. Dopo qualche minuto cominciai a diventare inquieto: mi seccava soprattutto l’imperturbabilità di Archie, ma mi preoccupava anche l’inspiegabile dilatazione del tempo di discesa. “Che succede? L’ascensore è in riserva? Di questo passo, o trovo il bar chiuso oppure, invece che due birre, porto su due cappuccini con le ciambelle…” Silenzio cupo del totem. “Insomma, che sta succedendo? E’ un quarto d’ora che siamo su questo fottuto ascensore. Dovremmo essere quasi all’inferno.” Ding. Le ante scorrevoli dell’ascensore si aprirono proprio in quel momento e il buon Archie, indifferente, annunciò, professionale: “Inferno, quinto piano sotto terra: lussuriosi.” “Che scherzo è questo, Archie?” Si volse verso di me, malevolo, con gli occhi luccicanti di gioia malvagia, stavolta totem parlante con una pelle di pergamena avvizzita e grigia. “Non hai ancora capito, granduomo? Sei morto. La tua Shirley sta rimirando, sgomenta, il tuo affare paonazzo in rigor mortis, indecisa se urlare a squarciagola, provare un’esperienza necrofila o squagliarsi all’inglese. Alla tua età non ci si dovrebbe sottoporre a sforzi fisici così massacranti: le coronarie sono quasi di latta e la pressione diviene aggressiva come la peggiore ruggine. Sei morto, Casanova, e questa è la tua ultima discesa…” Uscii come un automa dall’ascensore, sbalordito e frastornato in soprassalto machista di rimbalzo 174 dall’immagine di Shirley che forse mi stava cavalcando freddo. Salutai con un cenno stranito Archie che ripartiva, impassibile, verso piani alti. Mi volsi su un immenso salone in penombra. Qualcosa mi diceva di stare sulla difensiva. Galleggiavo confuso in ultimi pensieri di una gran bella morte, e mi disegnai un sorriso beato ed ebete sul viso, nella consapevolezza di avere fatto una bella figura. Avanzai a tentoni verso il salone buio. Mi venne in mente, come una scarica elettrica, chissà perché, la parola ‘contrappasso’. Percepii presenze minacciose, risatine sfiatate e fruscii maligni… E mi sentii palpeggiare i glutei… 175 INCONTRI BALNEARI Lei ha i sandali alla schiava e calze a rete da pescatore color carne su venticinque chili di troppo. Se, invece di passeggiare sul lungomare con aria famelica, si sdraiasse immobile su un lastrone di marmo, potrebbe aspirare al primo premio per la migliore interpretazione alla sagra della porchetta, ovviamente da protagonista, seppure intonacata da etti di rimmel bituminoso che le conferiscono un’aria cantieristica stradale. Lui è alto, asciutto e fascinoso, con ciuffo ribelle che spiove su fronte spaziosa. Veste di gusto balneare: indossa pinocchietti a scoprire polpacci atletici, maglietta aderente a plasmare pettorali, occhiali da sole similmatrix impenetrabili. E’, inoltre, parecchio pieno di sé in stupidità anestetica, e viaggia sempre solo, immerso nel suo narcisismo di belloccio, schivato da graziose bagnanti ricche di buon senso. E’, dunque, pericolosamente attizzato anche se non lo ammetterà mai. La porchetta e il belloccio s’incrociano al passeggio. Lei si è truccata con una betoniera per risaltare meglio nel buio, con manciate di lustrini fosforescenti che la fanno somigliare ad una zanzariera a raggi ultravioletti. Lui incede altero con sguardo fintindifferente puntato davanti, ma è prossimo allo strabismo dietro le lenti nere, storcendo gli occhi allupati sulla porchetta lustrinata. Lei non può perdere anche la dignità: ha già perduto la faccia, intonacata come un villino di campagna. Un piercing sull’ombelico a tortellone, in piena pancia lardellata su pantaloni a vita bassa, brilla come un faro su un mare deserto. I due passano oltre fingendo indifferenza a dispetto di ormoni isterici che abbaiano e mordono gli inguini. Un’occasione perduta, forse, o una minaccia evitata… 176 Il passeggio sul lungomare assediato da bancarelle multicolori è davvero frenetico. La folla spinge, si agita, sosta a curiosare o procede zigzagando in disordine sparso. Goran fende la corrente come un piranha, agile e vigile, con mano prensile leggera e zannuta. Anche Gennarino s’insinua tra la folla come una murena, in senso contrario rispetto allo slavo, ugualmente ingordo. S’incrociano: eleganti come prestigiatori, anche se senza frac. Due portafogli cambiano proprietario in simultanea come per magia. Goran aveva una fotocopia di un permesso di soggiorno falso e venticinque euri. Gennarino aveva una fotocopia di patente falsa e ventiquattro euri. Sostanziale pareggio: un euro di mancia. Rocco è un armadione peloso con la fronte bassa e l’occhio cupo. Ha due terrificanti tatuaggi tribali lungo braccia clave, e due o tre anelli da un chilo l’uno su dita salsicciotti per una grigliata mista. Gira con una barba di tre giorni, ispida come un cavallo di Frisia, nera e luccicante di sudore. E’ l’attestazione della bontà delle teorie darwiniane: lui è sceso solamente prima dall’albero. Procede per il lungomare stretto in una camicia similhawaiana di taglia AMT, après moi una tenda, con pensieri sorprendenti di tenera femminilità. Nella sua sensibilità insospettabile cerca coccole. Incrocia Jeanpaul, al secolo Giampaolo. Giampaolo è un efebo smilzo fasciato di garza bianca, diafano come una madonnina di Lourdes fosforescente, leggiadro nel passeggio, scintillante di collanine variopinte, sobrio con un filo di trucco a risaltare il viso femmineo glabro. Potrebbe essere scambiato per il classico visagista o parrucchiere delle dive. 177 Il candido Giampaolo è divorato da pensieri violenti di possesso. Quasi nureyeveggia, sul lungomare, e nessuno mai penserebbe che è infiammato da insane voglie penetrative brutali al brucio sadico. Scocca una scintilla casuale dall’incrociarsi di sguardi tra l’armadio peloso e la statuetta di Capodimonte. Jeanpaul vede Rocco come un saziante tenerone precotto. Rocco identifica il diafano essere come l’angelo vendicatore che dispensa piacere, e mentalmente schiude le ante e si sente graziosa villanella con secchio alla fonte... Lei è un’alice, inguainata in un completo leopardato che la strizza tutta, con capellini lisci lisci elettrici. E’ alle prese con un cono gelato: lo lappa con voluttà in preda a pensieri iodioninfomani. L’aria salmastra del lungomare accentua desideri e fantasie. Si volge qui e là come una donna fatale, a scatti da pollo, leccando il cono in maniera promozionale. Scorge lui dentro la fuoriserie argentometallizzata. E’ bello, interessante davvero, con abbronzatura dorata, e ha il braccio penzolante sul vetro della portiera in un gesto disinvolto ed elegante. Lei lo punta fino a che l’uomo non se ne accorge. Scambio di sguardi. Lei intensifica lo smerigliare delle pallette di gelato sul cono con una lingua da iguana sotto amfetamine. Lui mormora qualcosa ad un cellulare. Compare dal nulla un autista in livrea: apre la portiera dell’auto argentata e accosta una carrozzina da paraplegico verso l’uomo elegante. All’iguana lappona cadono due pallette di gelato semisquagliato nella scollatura dell’abitino striminzito con un ‘plop’ che è anche di sogno infranto… S’incrociano due esseri alla moda: una lei cosparsa di crema al carotene ed aloe vera e non finta, protezione alla enne, unta e dorata, lucidissima, con una mini canottiera 178 in latex che copre il minimo indispensabile, e un lui, anch’esso in canottiera, atletico, bronzeo come una scultura ellenista, unto di oli emollienti, riluccicante al crepuscolo come un galletto alla diavola. La calca nel passeggio è indescrivibile. I due si urtano. Sgusciano via come saponette, veloci come Power Rangers attoniti, l’uno a sbattere contro un’auto in sosta e l’altra a crepare una vetrina di un negozio d’abbigliamento. Nei passeggi balneari affollati si mimetizza sempre una peripatetica, disinvolta, quasi naturale, seppure non inosservata per via dell’aspetto. Veleggia con tacchi che sono trampoli da circo Medrano. Ha un seno cui manca solamente un Volvo Penta in mezzo, per una traversata di medio cabotaggio, ed è stritolata in un abito che comprime budellosamente tutto il comprimibile. Accade, talvolta, che cade. Davanti a ragioniere frustrato e speranzoso, con mamma sotto ombrellone che ha rilasciato il guinzaglio per una mezz’ora. La donnina, nel botto, con perdita dei trampoli, si rivela essere una botticella esplosa dal vestito, con pancetta di troppo e seno da bagnino, troppo poco. La parrucca platinata, di sghimbescio, scivola via lasciando ammirare una testolina crespa come quella di un’ottentotta. Il ragioniere è sollecito cavaliere, pronto a prendere per le mani la mutante dolorante a terra. Sguardo di lei, colmo di gratitudine, anche se seccata. Sguardo di lui trafitto. Un mormorio esangue: “Mi piaci molto anche così…” Forse nascerà un’edificante storia d’amore all’orizzonte, se una mamma perde il guinzaglione… La passeggiata di un non vedente sul lungomare è molto particolare. 179 Non ci sono colori, sguardi, acconciature e abbronzature, ombelichi e pantaloni a vita bassa. C’è solo odore. E solo quello eccita. Lui si fa guidare dall’odore; il suo bastoncino bianco, fino fino, diventa quasi invisibile, leggero e delicatissimo a sondare spazi e rialzi. Ha percepito qualcosa. Ferormonico. Estasiante. Acqua di colonia asprigna e fresca su pelle di borotalco. Nel brusio della folla percepisce un ticchettio di tacchi nervoso e il frusciare di uno scialle di seta su spalle che emanano un odore di balsamo. Segue la scia, l’uomo dal bastoncino bianco, con il volto invasato puntato nell’aria fresca della sera, con un sorriso di predatore nonostante tutto. Scansiona odori e rumori in modo totalmente personale nell’insieme accalcato della folla. Il suo solo vantaggio. Ed è ora di un approccio: garbato, deciso, senza complessi. “Mi permette d’accompagnarla?” La vecchia ossuta si volge sorpresa, quasi offesa, stringendo la borsa al seno vizzo. Poi nota il bastoncino bianco e ride amaramente nell’intimo dandosi della stupida per avere ucciso prematuramente un’illusione. Sforza la voce a cadenze giovanili. “La prego, giovanotto, ma per breve tratto, che i miei genitori m’aspettano più giù…” 180 MATER DOLOROSA (tutti figli di buone donne) Da giorni, ormai, ho smarrito la cognizione del concetto di ciclo sonno-veglia. Mi aggiro frenetico tra i banchi di un improvvisato laboratorio e armeggio con vetrini, microscopi e reagenti, consultando libri d’ogni genere, con un orecchio rivolto alle ultime notizie della radio sempre più frammentarie. Una luce fredda di neon tremolante mi affossa in stato depressivo tendendomi come una corda di violino nel raggiungimento di una qualsiasi verità. Simulo prove di vaccini al computer e piango lacrime d’impotenza e sgomento per una realtà che ha travalicato ogni immaginazione, consapevole di essere uno degli ultimi scampati. Com’è cominciato tutto questo? Ho riunito ricerche internautiche, ritagli d’autorevoli riviste scientifiche e pettegoli articoletti di tabloids pruriginosi raccolti fin dall’inizio. Ogni ipotesi appare possibile. Nei primi tempi, qualcuno, come il giovane affermato dottor Kao di Shangai, ventilò la possibilità di una radiazione sconosciuta proveniente dal passaggio di una cometa. Ripercorro la sua teoria con un sorriso amaro e un brivido. Mi sovvengono vecchi films dell’orrore con morti viventi risvegliati da casuali asteroidi di passaggio. Ma ora sono sopraffatto dall’inquietudine nel sapere che il povero dottor Kao, pochi giorni fa, è stato rinvenuto chino su un microscopio atomico nel suo laboratorio con un coltello cinese da cucina, una piccola mannaia, conficcato tra le scapole. Qualche ultimo luminare virologo europeo attualmente ipotizza di cause genetiche, di spermatozoi promiscui, in utero, saldati tra loro in una reazione incontrollata che potrebbe avere liberato il micidiale virus nella donna 181 ospitante, ma rimane sempre un enigma la conoscenza del meccanismo di trasmissione contagiosa. Unica e sola certezza è che l’inizio di questa calamità è scaturito e si evolve tuttora nell’ambito di soggetti femminili. Alcune riviste scandalistiche, colte al volo ghiotte possibilità, si sono spinte, sul filo della querela, ad individuare qualche portatrice sana che abbia avuto la funzione di untore. Le più famose attrici e donne di spettacolo, recentemente madri, sono state perfidamente additate ad una gogna mediatica come fonti della pandemia mortale. Un’icona del cinema francese, bellissima e di recente mamma, è stata, in effetti, immortalata inequivocabilmente da un paparazzo battagliero di una di queste riviste di quart’ordine. Appare trasfigurata, con la pelle ingrigita e tirata e con uno sguardo folle da invasata. Il servizio fotografico è agghiacciante. La donna è stata ripresa con un teleobiettivo mentre getta il suo neonato, orrendamente sbranato, dentro un cassonetto, ed è chiaramente distinguibile una sua espressione catatonica che atterrisce, ben lontana dal fascino intrigante di poche settimane fa. E’ certo tuttavia, di là del sensazionalismo, che il virus si è diffuso in maniera capillare in tutto il pianeta con una velocità sorprendente. Continua a mietere vittime, seppure di conseguenza e non direttamente: ogni donna affetta dal virus, contagiata o portatrice sana, appare inspiegabilmente in ottima salute, seppure aggressiva fuori d’ogni controllo in trasfigurazione dei lineamenti. E’ curioso, allora, analizzare lo svilupparsi della piaga apocalittica e la tipologia delle vittime indirette. I più esposti sono stati fin da subito i neonati. E’ stata un’ecatombe. Poi, progressivamente, l’età delle vittime è andata crescendo, spopolando il pianeta: ed ora non sopravvivono che persone di una certa età, come me, vecchie o quasi, 182 nascoste come topi di fogna nell’illusione di scampare ad un destino segnato. Sì: è un destino segnato. Si sa solamente che quasi tutti, ad uno ad uno, alla fine, sono individuati e rimangono vittime del tremendo virus. Tutti figli. Vittime di madri. Le loro. Madri infette trasfigurate in lineamenti di streghe orride che, impazzite, vagano senza sosta alla ricerca della loro prole per sopprimerla, in preda ad un incontrollabile ‘raptus’ d’inaudita violenza. Si ha notizia anche dello sviluppo del virus presso suore missionarie, assai compenetrate nel ruolo di madri putative di piccoli orfani abbandonati appena nati. Intere missioni africane o brasiliane si sono trasformate in mattatoi. Il virus sconosciuto colpisce dunque le mamme, i vecchi angeli della casa, le care nostre donne sante dai capelli argentati, le eroine d’esistenze grame intessute di sacrifici e rinunce per amore di una famiglia e di tanto desiderati figli. Oggi, per colpa di questa pandemia, non più. Annusano l’aria, le madri d’ogni età infette d’oggi, come predatori insaziabili con i denti scoperti, a captare ferormoni filiali anche distanti e mimetizzati, e braccano i frutti del loro ventre senza remore e con feroce determinazione, a sopprimere l’essenza della loro femminilità matriarcale. Ho trovato un rifugio precario con la disperazione dell’istinto di conservazione: sono chiuso in una cantina di un mio collega ricercatore già ucciso qualche settimana fa dalla sua anziana mamma. Ho sprangato la porta dall’interno dopo avere fatto incetta di provviste e d’acqua. Ho attrezzato il locale in maniera da ricavarne un laboratorio di fortuna per cercare di scoprire qualcosa che mi salvi da un’anziana arzilla vecchietta artrosica che mi ha già sospirato le sue intenzioni minacciosamente per telefono. 183 Spero di salvare anche il mondo intero che ormai è popolato quasi esclusivamente da donne assassine che si uccidono anche tra loro, madri contro figlie, in un continuo elevare l’età di sopravvivenza. Non riesco a dare alcuna spiegazione razionale a tutto questo: tutto è, almeno finora, da scoprire. Sono travolto, invece, da molti ricordi e associazioni d’idee: Erode, Medea, Madre Coraggio, confusi tutti in accavallarsi di sensazioni e nausea. E poi canzoni e luoghi comuni… Son tutte belle le mamme del mondo… Mamma, solo per te la mia canzone vola… Ogni scarrafone è bell’a mamma soja… Di mamma ce n’è una sola… Bella, dolce cara mammina, la più bella del mondo… Mamma mia, dammi cento lire che in America voglio andar… Mamma, tu compri soltanto profumi per te… I figli so’ piezze ‘e core… Qualcuno, però, sta già raspando alla porta… L’avvenire sarà degli orfani… 184 LE MOSCHE NON POSSONO APPLAUDIRE Mastro Lindo chiederebbe asilo politico alla famiglia pulitina e ordinata del Mulino Bianco. Il tinello-salotto, difatti, è una sudicia arca di Noè. Gli unici animali, però, sono due o tre blatte sul pavimento, senza guinzaglio e museruola, e una miriade di mosche dappertutto, fastidiose come portinaie invadenti. Il tavolo, quasi al centro della stanza con una tovaglia quadrettata di rosso sporca di vino e caffè, è pieno di piatti accatastati l’uno sull’altro, unti di sughi rappresi e torsoli di mele rinsecchiti con relative bucce pergamene. Bicchieri mezzi pieni, o mezzi vuoti che si voglia, si confondono con stoviglie incrostate tra molliche di pane e tazzine di caffè con fondi residui di macinato troppo fine per la moka. Luce bassa di lampada a basso consumo. Pulviscolo di apatia ovunque e filamenti spessi di lanugine a solcare il granigliato opaco delle mattonelle grasse per dieta di briciole da scarpette in ragù. Nel cucinotto pentole accatastate da tempo sull’acquaio mantengono un equilibrio circense con cucchiaioni di legno e mestoli che fanno capolino per ipotetici alzabandiera di resa alla pigrizia. Odore di rancido come una fuga di gas. Il televisore sembra avere i capelli da quanto è pieno di polvere forforosa. Il divano in finta finta pelle ha dei cuscini ingialliti flosci come idee risapute. Lui è vicino alla porta, con le mani sotto il plaid, sul carrozzino, totem con sguardo liquido e la barba di quattro o cinque giorni. Sprigiona odore di vecchio, anche se è sulla cinquantina. E’ un odore di sapone di Marsiglia disperso in orina, naftalina di vecchi maglioni tarmati, riesumati da chissà quale armadio, scippati a qualche scheletro. 185 Il rottame è risvegliato da un suo torpore con uno scappellotto screanzato sulla nuca e una voce gracchiante che accompagna un ciabattare di passi. “Oggi ti ho preparato uno spettacolino… Così: tanto per sdebitarmi del fastidio che mi dai e dei dolori che mi hai dato.” Lui rotea gli occhi sul tavolo. Un rivolo di saliva cola dalla bocca storta. “No, carino. Non puoi più pretendere nulla: ordine e disciplina, pulizia e profumi te li puoi cacciare nel culo. Non hai più voce in capitolo. E soprattutto: ora dipendi da me. Da me che bestemmio, che parlo male, che non mi curo più di nulla che non mi vada di curare. Mi sorbirai sempre così: volgare per come mai hai amato le persone volgari. Hai capito, puttaniere da quattro soldi? Ex puttaniere, ora…” Risata marcia. “Dai, vieni qua, che non ti mangia: non ha più nemmeno i denti. Dai, fatti vedere dal capo famiglia…” Un uomo sulla trentina, greve e tuttavia imbarazzato, entra nel cono di luce dalla lampada e guarda il relitto sulla carrozzella. La donna ha un brillare complesso di sguardi: malvagio verso la mummia e malizioso verso l’altro di fronte. Abbraccia quest’ultimo strofinandosi con la vestaglietta leggera. Animalità senza fronzoli. Odore di foja: quel sudore di coscia eccitata che penetra dappertutto come una terza mano a frugare tra gli ormoni. L’uomo sulla carrozzella è impassibile. Non può essere altrimenti: quando la botta prende bene parte completamente una metà e l’altra arranca tra voglie di recupero e sfinimenti mortali per doppio lavoro. Ha lo sguardo iniettato di sangue, lacrima in distillato d’acqua e acido solforico su un unico occhio davvero vivo. 186 La donna s’accoccola sul divano, seduta in pizzo, scosciata, ed armeggia con una cinghia e una chiusura lampo volgendo lo sguardo ora alla preda seduta e ora alla preda in piedi. E’ un sovrapporsi d’intensità a collimare. La malvagità sadica si confonde con la bestialità ingorda. L’altro svirgola uno sguardo da rubagalline sull’invalido, con impaccio, e scruta la donna inginocchiata che si è aperta la vestaglia. Non è un vedere da cucina dietetica: capezzoli unti scuri su panna cotta venata d’azzurro, perché l’occhio vuole la sua parte. Il ronzio delle mosche accompagna una melodia di risucchi e schiocchi densi in ansimare ansioso. L’occhio lacrimoso vede un’usurpazione. La bocca storta è impastata in un masticare a vuoto. La vendetta si sta riscaldando in un forno a microonde regolato al massimo. Una matassa scarmigliata di capelli impazzisce assentendo istericamente tra due mani che serrano un paio di pantaloni a mezz’asta. Adorazione di un idolo. Gorgoglio. Sospiri, singhiozzi. La vendetta è cotta. Ding. Due bocche umide di diversi rivoli si fronteggiano e tre occhi si studiano. Forse è stato uno sparare a salve. La donna è sorpresa e assume una smorfia a metà tra il disappunto e il compiacimento nel disprezzo per una consapevolezza di mantenuto fascino animale di femmina bruta. E la brutalità può anche escludere la violenza di un solo selvaggio picchiare a fare male. L’uomo sulla carrozzella è immobile. Quasi. Il plaid sulle ginocchia sussulta debolmente con un ritmo regolare poi più frenetico, e l’occhio diviene più 187 trasparente del normale e si socchiude verso un soffitto grigio. L’altro uomo è un soprammobile inutile. Le mosche non possono applaudire. Ronzano tra loro il resoconto di una vendetta mancata. 188 STRENNE “Per di qua.” La donna grigia e ingobbita esce da una porta di rovere che si chiude alle sue spalle. E’ un contraccambiarsi di sguardi, poi, nella penombra del grande studio dalle pareti in boiserie stipate di volumi dal dorso di pelle e oro zecchino. Odore di cuoio delle poltrone e di legno antico. Una tenue luce gialla si disperde nella sala da una lampada su una scrivania massiccia piena di fogli fermati con una pesante statuetta di bronzo. Volute di fumo si mescolano ad effluvi freschi di costose acque di colonia. Un parlottare sommesso e rispettoso, civile. “Che dobbiamo fare?” “Non so… Fatemi pensare. Credo che si sia toccato il fondo… Non se ne può più. Ieri ho fatto un giro in centro per controllare: ne ho trovate sei in trecento metri, tutte con lo stesso cartello… Non sapevo se mettermi a ridere o a piangere.” “Traianos manda questo…” “Traianos deve cambiare genere di merce. La gente è stufa, anche sotto Natale, di vedere sempre i soliti cartelli che parlano di due o tre bambini malati, di vedove diabetiche, di fame e malanni: ce ne sono troppi e a Natale non si è più così buoni come qualche anno fa. Aggiungeteci, poi, altre sollecitazioni: le offerte di beneficenza via televisione, le associazioni Onlus, i volontari sparsi che girano come monete false, la ricerca per il cancro cogli sms... E l’illusione del baratto: arance, azalee, torroni, marroni… Basta, basta.” “Che proponi, allora?” “Novità. Ragazzi, sveglia: occorre merce più fresca. 189 Traianos mi faccia uscire con l’insetticida tutti quei ragazzini dentro le fogne e me li mandi anche anestetizzati, ché poi ci pensiamo noi. Il Dottore è disoccupato da diverse settimane e ci costa un pozzo.” “Hai offerte? Sai di qualcosa che noi non sappiamo?” “In certi ambienti esclusivi quest’anno va di moda il regalo utile, il ‘gadget’ necessario, il pensiero non più fine a sé stesso. Tirano i regali costosi, ma pratici. Schiavetti tuttofare estremo, se interi e carini… Oppure reni, cuore, fegato, cornee… Alle cliniche ci pensano loro. Noi ci dobbiamo preoccupare solo di legare la borsa frigo con un nastro rosso e luccicante da regalo. Meglio di così?” Risate divertite per la battuta. Bagliore ceramicato su aliti gradevoli di menta. “D’accordo. Riferirò a Traianos, anche se credo che stia diventando inaffidabile. Sta giocando su più tavoli…” “A me dei suoi affari con gli altri non m’interessa nulla. I profughi politici sono troppo pericolosi e poi non offrono tutto questo guadagno che dicono, e se s’infiltra qualche terrorista, l’amico rischia grosso. E’ un gioco più grande di lui e alla fine ne verrà fuori con le ossa rotte, ma se gli piace così, buon per lui. Io, invece, sono ancorato ai vecchi valori… Valori umani…Di sangue…” Altre risate, più aperte e rilassate, liberatorie. Qualcuno s’accende un’ennesima sigaretta. Uno traffica con una bottiglia davanti al mobile bar scintillante di cristalli. “E che facciamo della vecchia appena uscita?” “Ve l’ho appena detto… Che gruppo ha? Controllate e mandatela dal Dottore: ci penserà lui. Poi avvertite i due spazzini…” 190 “D’accordo. E ora?” “Ora torniamo di là e socializziamo, con l’entusiasmo della festa. Io devo dare i regali ai bambini e a mia moglie, altrimenti chi li sente poi... Ah… Buon Natale anche a voi, ragazzi…” 191 OH OH OH Fu un amplificarsi di sussurri nel bosco al crepuscolo. E si sparse la notizia. La raccontò Krug lo gnomo con dovizia di particolari. “L’enorme baita era illuminata a giorno da candele e lumi ad olio e luccicavano i globi di vetro pieni di neve scossa. Le renne ruminavano, curiose e pigre insieme, da una parte, vicino ad una greppia ben fornita, e noi e gli elfi eravamo indaffarati come non mai ad incartare, infiocchettare, smistare doni in pacchi lucidi rossi con nastri d’oro. In fondo al salone caldo e a soqquadro, il vecchio, dietro una scrivania piena di scartoffie e giochini tascabili, leggeva e catalogava lettere attinte da sacchi enormi ammonticchiati lì presso. Ogni tanto gargarizzava un ‘Oh, oh, oh’ per tenere in esercizio la gola, senza troppi entusiasmi, per professionalità. Leggeva a voce alta ed io, lì vicino ad impacchettare giochi da tavolo e giochi istruttivi, potevo udire…” “E allora, e allora?” Elfi e fatine al calore di un piccolo fuoco sotto un fungo gigante accesero sguardi di curiosità. “Lesse una prima lettera. - Caro Babbo Natale, ti prego di scusarmi se la letterina è sporca di cacca, ma qui, a Bucurestu, il posto più caldo, dove posso scrivere senza che mi s’intirizziscano le mani e senza che qualcuno mi sequestri per farmi a pezzi e vendermi in certi supermercati, è la rete fognaria della città. Ti scrivo per chiederti un giubbotto resistente ai morsi delle pantegane che qui sono grosse come mastini napoletani, perché il mio giubbotto ormai è diventato come una rete da pesca. Grazie. 192 Se poi vuoi aggiungerci anche una forma di pane, sarei ancora più contento perché sono stufo di fare un pasto al giorno facendo servizietti ai turisti occidentali. – Sentii il vecchio che si raschiava la gola con un altro ‘Oh, oh, oh’ che mi parve diverso.” “Caspita che lettera, Krug: forse irrispettosa…” Le creaturine del bosco fremettero e le lucciole divennero intermittenti come una centrale atomica con una fuga di plutonio radioattivo, non necessariamente oltre gli Urali. Krug continuò: “Poi lo sentii leggere una seconda lettera. Aveva la voce più esitante. - Caro Papà Natale, ti scrivo, anche se qui in India non esisti, perché ti vorrei chiedere qualcosa in ogni caso. Per questo Natale, se puoi venire fin qui, ché tanto le renne sono quasi sacre, pure loro, e nessuno se le mangia, vorrei che mi portassi una scorta di ditali perché non riesco più a cucire palloni. Ho i pollici tutti bucherellati e sembro diabetico, ho una fame da gaviale del Gange, e il mio caporale mi ha preannunciato che se continuo a battere la fiacca, oltre che a darmi altre bastonate e a lasciarmi a digiuno, mi manda nella miniera di Indiana Jones. Poi mi ha aggiunto che quando non reggerò più lì diventerò combustibile. Semmai ti avanzasse una renna vecchia che non serve più sarei disposto a passare sopra i ditali e a diventare eretico. Grazie mille e scusa per l’inchiostro rosso, ma ho scritto direttamente con il pollice bucherellato dagli aghi per cucire i palloni. – E il vecchio si schiarì ancora la gola con un altro ‘Oh, oh,oh’ che mi parve triste… Una renna meno distratta, invece, si fece piccola piccola e cominciò a miagolare per mimetizzarsi…” “Ma è terribile quanto dici, Krug. Esistono posti del genere?” 193 “Esistono, esistono, fatine, e ce ne sono anche di peggio… Ascoltai una terza lettera. Il vecchio aveva la voce mozza e strascicata e tossiva frequentemente. - Caro Babbo Natale, per questo Natale in cui tutti, o quasi, siamo più buoni, ti chiedo una confezione di crema idratante, anche non di marca francese da profumeria, perché, tanto, io non valgo come quella che ride sempre, beata lei. Va bene anche quella da supermercato. Vedi, Babbo Natale, qui a Falluja abbiamo fortune e sfortune. Sono fortunato, infatti, a scriverti di notte senza accendere alcun lume, risparmiando in grasso di cammello rancido che serve per alimentare le lampade. Vuoi mettere? Ho la cena pronta e fatta, da succhiare direttamente dallo stoppino senza andare troppo in giro per mercati dove si può essere tamponati da un camioncino carico di tritolo: che fortuna. Però questa luce, accecante in certi momenti, scotta assai, e mi stanno bruciando le mani, i piedi, il culo e tutto il resto. In due giorni ho perduto tutti i capelli, strinati a più riprese, come in un forno a microonde (a proposito: è così un forno a microonde?), e giro praticamente nudo perché la vestarella mi si è squagliata addosso. Scusami, anzi, se ti sto inviando questa letterina bruciacchiata ai pizzi. E questa mi sa che è proprio sfortuna, vero Babbo Natale? Grazie anticipate per la crema idratante e, già che ci sei, anche per qualche bottiglia d’acqua. Non importa se è leggera e povera di sodio, neanche se è frizzante naturalmente o addizionata con anidride carbonica: l’importante è che si possa bere. – Il vecchio mi sembrava che piangesse. 194 Lo sentii mormorare, stavolta solo mormorare, ‘Oh, oh, oh’ e lo vidi impallidire di fronte ad un sacco pieno di letterine che era più alto di voi tutti messi insieme…” “E allora? E allora?” Le creature del bosco non si capacitavano della gravità del racconto, curiose soltanto di sapere come andava a finire. “Allora lesse un’ultima lettera. - Caro Babbo Natale, per questa santa ricorrenza vorrei chiederti più cose, anche per dare retta a mamma Marina e nonno Silvio e fare bella figura fin da piccolo, da prendermi un vantaggino sui nipotini degli altri, cosicché un domani lo potrò scrivere sulla biografia che manderò a tutte le case. Vorrei la pace nel mondo e che tutti siano più buoni e che non esistano le malattie e la fame. E che adesso nonno e mamma non mi rompano più i coglioni. In verità vorrei un minimotoscafo Riva in radica da millanta cavalli per poterci fare le corse davanti alle sbarbine nella megapiscinalaghetto condominiale di Milano sette alla faccia dei bambini di Cinisello Balsamo. E dal momento che sto perdendo tempo prezioso, che sottraggo al mio mercanteggiare figurine a quotazioni da usura, ti chiedo anche gli ultimi videogiochi porno per il pc, perché tanto il pc l’ho già quasi agratis grazie al nonno che decide sempre per come gli conviene. Grazie di cuore, se mi accontenti, altrimenti lo dico alla mamma che lo dice al nonno e tu vai di corsa all’Isola dei famosi a fare la boa galleggiante nel lago con i coccodrilli… Il vecchio si tolse gli occhialini. Vidi che aveva gli occhi luccicanti di un pianto liberatorio che stentava ad uscire. Mormorò nell’aria, con lo sguardo sbarrato, un ‘vaffanculo’ sibilato tra i denti, insieme a qualche altra cosa che mi parve di comprendere come ‘anche a tuo 195 nonno’ e si coprì la faccia con le mani scuotendo il testone. Gli altri gnomi non s’accorsero di nulla e canticchiavano canzoncine natalizie mentre s’industriavano felici come operai di Mirafiori alla catena di montaggio della Grande Punto. Io, invece, mi fermai e sorvegliai le mosse del vecchio. Ma non potei fare nulla. Fu rapidissimo, nonostante l’età. Prese dalla scrivania una di quelle pistole giocattolo da cui, se spari, esce fuori la bandierina con sopra scritto ‘bang’. L’appoggiò ad un orecchio e tirò il grilletto. Vidi la scritta attraverso le orbite del vecchio, come in un cartone animato, mentre s’afflosciava sulla scrivania come un sacco vuoto…” “Oh, Krug, ma allora questo Natale sarà senza Babbo Natale?” Ci furono mormorii apprensivi nel bosco e qualche pianto sommesso di fatina sensibile. “Non lo so. Ma forse il Natale ci sarà lo stesso. Cambieranno solamente chi porterà i regali, credo. C’è già una lunga fila davanti alla porta della baita. E’ probabile che si faccia una selezione sul modello della ‘Talpa’ e le renne hanno già il cagotto pensando d’essere arrostite per uno spuntino…” I mormorii nel bosco si diradarono nella notte. S’udì soltanto lo stormire delle foglie sempreverdi e, in lontananza, un curioso uggiolare di cani e un ruggire di leoni, e anche dislessici fonemi gutturali strani somiglianti a ‘permesso, permesso: scendo alla prossima’. Erano le renne con il loro istinto animale… 196 BASSI CETRIOLI URBANI “Dai, dimmi che sono bravo…” Esala con un soffio roco queste ultime parole e si rilascia con un sorriso beffardo e un’espressione soddisfatta, raffreddandosi rapidamente nella corrente di due voragini sanguinanti di trentotto special attraverso il costato. Anche stamattina, porca puttana! Il grafitomane dei cetrioli bassi ha colpito ancora. Non riesco a capacitarmi di come faccia, ma lo fa. Dissemina edili facciate chiare di murales a pennarello indelebile, tutti con soggetto esplicitamente sessuale, con donne intente nelle più fantasiose posizioni a giocare con missili esplodenti, bottiglioni con tappo prepuzico o banane pelose. Di là del soggetto, fastidioso per un ben pensante, per un padre di famiglia classiconografico, per un marito frustrato e molto possessivo, per un bigotto o per un mistico che rifugge dai richiami della carne, il tizio che istoria ogni notte un pezzo di muro del quartiere è davvero bravo. Ha sapienza di tratto nel chiaroscuro, senso della prospettiva, ironia caricaturale, stile grottesco e iperbolico nell’ambito di una padronanza che redime i suoi bozzetti, rispetto ad altri volgarissimi tentativi dilettanteschi espressivi, nobilitandoli a vere e proprie opere d’arte. Discutibile, ma arte: neoiperrealismo cazzuto pornestetico. La lei dai morbidi capelli sulle spalle ha lo sguardo rivolto verso chi ammira il graffito e gioca con cetrioloni che sembrano pulsare sulla parete, sempre ad altezza mezza gamba, a rischio innaffiata di cane. L’artista probabilmente dipinge da semisdraiato o in ginocchio al riparo delle auto per non farsi beccare da qualche passante nottambulo. Oppure è un nano. Bravo in ogni caso: a volte geniale. 197 Ma rompicoglioni. Allo stremo della mia sopportazione. Perché le facciate dei palazzi affrescati appartengono a me e a me toccherà sborsare una congrua cifra per fare ripulire il tutto. Per l’ennesima volta, perché il bastardartista, il nano, ci riprova sempre dopo pochi giorni, invitato dall’intonso marmoreo, sempre con ottimi risultati estetici nel truculento di posizioni fantasiose che poco lasciano all’immaginazione. Altre donne, allora, pecorineggiano brucando tronchetti della felicità o si producono in prove microfono o siedono su letti da fachiro con chiodoni nodosi e arrotondati, enormi, che non portano il tetano. Sempre collocate ad altezza da viaggio gratis sul bus, da bagaglio a mano… Io continuerò a pagare e a farmi il sangue amaro, tra l’ammirato per la bravura grafica pornobisquiatiana sulle pareti, e l’incazzato marcio per non riuscire a beccare il nano bastardo. Ma stavolta, a costo di prendere il giorno per la notte, mi apposterò nel buio fino a che non riuscirò a stanarlo... Notte fredda e nessuno in giro. La luce fioca del lampione spiove a tranciare uno strato di nebbiolina che opacizza l’aria in impressionismo fin de siècle. Mi sento un mastino: digrigno caramelle da tre ore con l’incazzatura che monta a neve radioattiva da giorni e giorni d’appostamenti infruttuosi, e rischio l’iperglicemia oltre che l’ipertensione per adrenalina ad ettolitri, mescolate a pensieri stragisti, per non parlare di un latente cagotto epocale, ché le caramelle senza zucchero hanno effetti lassativi. Però, però… Qualcosa si muove laggiù tra quella familiare e quel fuoristrada. Già. Pare che qualcuno si stia dando da fare vicino al muro… 198 La pagherà per tutte le volte che mi ha fatto ejaculare il portafoglio, artista bravo o semplice imbrattamuri che sia, ché stavolta sconterà i suoi peccati per uno o per tutti quelli che si sono avvicendati in questi paraggi. Tiro fuori la trentotto special dal cruscotto dell’auto. La stringo tra le mani come se avessi quelle due pallette cinesi di ferro per combattere lo stress: mi comunica sicurezza e tranquillità. Accarezzo l’idea di una vendetta semplice e immediata. Penso ad attenuanti generiche e a futili motivi a controbilanciare, ma adesso ho il sangue agli occhi e non esistono deterrenti legali d’alcun tipo: ci penserà qualche principe del foro per i fori che andrò a somministrare senza disciplina in creatività naif. Riesco ad intuire disegni di siluri sovrapporsi ad altri candelotti di dinamite e quella sagoma tutta rattrappita che si agita freneticamente. Adesso lo prendo, lo prendo… Sono sempre stato un buon tiratore. Due colpi, seppure da cinquanta metri, e la sagoma è a terra disarticolata come un pupazzo e la sento rantolare. Eccolo davanti a me. Gesummaria: non ha braccia e ha un pennarello infilato tra le dita di un piede nudo. Ansima e suda come una bestia, translucido, mentre una macchia di sangue s’allarga sotto la sua schiena inarcata a risucchiare aria. Mi guarda liquido. Sembra che sorrida mentre mormora. “Ola, amico: hai davvero esagerato… Per qualche cefalo senza pinne e una che ci gioca… Per di più sono anche disegni davvero superiori alla media rispetto a quello che si vede in giro, no? Dai, dimmi che sono bravo: …me lo dicono tutti quelli che ricevono a Natale le mie cartoline. Mi mandano offerte, …un po’ perché sono quadretti dipinti con i piedi, …e quindi già questo è difficoltoso e meritorio, ma anche perché sono quadretti dipinti davvero bene. 199 …Me… lo dicono tutti…” Comincia a fischiare in debito d’ossigeno. Io sono di marmo: sorpreso e consapevole di fare la parte del cattivo per due o tre idolazzi disegnati sul muro ad altezza di pigmeo, che nemmeno si notano tanto, e che sono disegnati davvero molto bene, accidenti a me e a quanto sono stronzo… “Bigotto che sei, amico… …Pensare che disegno davvero bene, modestia a parte... Poi considera che sono senza braccia, superfocomelico, proprio nulla di nulla, …per dirla alla Mary Poppins: superfocomelico-e-talidomidoso… Una semplice …passioncella trasgressiva irriverente… il mio disegnare... Arriva invece lo sceriffo, …bang…bang, e spara ad un tronco inerme con un pennarello tra le dita dei piedi… E pensa tu… se il pennarello l’avessi avuto infilato nel culo e tu mi avessi beccato mentre disegnavo ballando il cha cha cha a ridosso del muro…” Sorride, no, ghigna: mi ha fatto fesso. “Dai, dimmi che sono bravo come me lo dicono quelli delle cartoline. Gli mando i presepi, …a Natale, …roba innocente… edificante. Mica posso mandare loro ammucchiate con gli zampognari che s’ingroppano le pastorelle… …Dai, dimmi che sono bravo…” Sfiata come una caffettiera bucata, ghignando, e muore con un ultimo lungo soffio enfisematoso. E io sono in mezzo alla strada come un pirla, con una pistola fumante in mano, davanti a uno senza braccia che disegnava cetrioli fontanelle raso terra con un pennarello tra le dita dei piedi. Riesco solo a mormorare: “Sì, sei bravo davvero…” 200 OMNISPOT Si parte da un campo lungo a chiudere su un primo piano di un corpo, con lentezza estenuante. L’inquadratura è frontale, di un uomo grasso e d’ebano, con i capelli crespi corti argentati, perlinato di sudore, lucido come un leone marino o la carcassa di un cetaceo arenato, sospeso tra flebo, cavetti, fili, tubicini. E’ livido, a torso nudo, con un semplice paio di pantaloni di pigiama neri, coperto di ferite, alcune sanguinolente ricucite e mal tamponate, altre medicate senza troppa attenzione con un cerotto o una benda. Ha gli occhi socchiusi e rantola in respirazione affannata. Nota per il ‘casting’: Sidney Poitiers sarebbe perfetto, ingrassato ed enfisematoso, o forse, ancora meglio, James Earl Jones, il signore Thulsa Doom del primo Conan. La fotografia vira sul celestino, fredda, ad evidenziare le chiazze di sangue e le ferite in un livido color porpora tendente a prugna. Mentre l’inquadratura stringe verso il ferito, il sonoro evidenzia un ‘beep’ regolare di macchinario medico con oscilloscopi, cui è attaccato il paziente, in sovrapposizione alle “Variazioni Goldberg” di Bach, a volume minimo. L’inquadratura si stabilizza fissa in primo piano sul corpo che riempie lo schermo. Voce ansimante del cetaceo liquido. “…Forse il Reverendo Lee non avrebbe mai potuto immaginare un epilogo simile…” Curiosa risatina stanca. Pausa. “Fui conquistato dai suoi sermoni appassionati e mi sentii il suo braccio secolare, la sua voce nel glorificare il Cristo. Mi addolorai con lui, per l’insensibilità del genere umano dimentico della Verità, e offrii me stesso per ribadire il primato di Dio sulla terra e sulla indifferenza degli uomini.” 201 La scena, in penombra, nel luccicare diafano dei tubi e della fleboclisi, ha riverberi giallini intermittenti, di led luminosi fuori campo che sembrano infastidire e stancare il protagonista della storia. “Vidi mia madre piangere alle parole addolorate del Reverendo Lee, e vidi altri fedeli, tutti noi uniti nel nome del Cristo Redentore, battersi il petto in indicibile sofferenza. Decisi che era tempo di uscire dalla penombra del Tempio, che era tempo di divulgare il verbo di Dio…” Colpo di tosse che immobilizza il negro in una smorfia di dolore. “Uscii a predicare, a raccontare della parola di Dio…” Silenzio carico di tensione. “Entrai da Syd Lorraine, nel pub ”Alligator”, a Dothan, stato di Alabama. Musica tosta dal juke box e dondolii di omoni biondobarbuti rapiti dal ritmo di un compresso ‘southern rock’: ZZ Top, mi parvero, con chitarra acida e basso percussivo su batteria ossessa e sciolta. Scrutai i giocatori di biliardo col cappello da cow boy e le camicie jeans aperte sul petto, gli avventori al banco di sguincio, tutti gli altri. Allegri, ciarlieri, sorpresi. Tutti bianchi. Al termine del brano, nel silenzio rotto da risate, battute, e tintinnii di boccali di birra, gridai loro con voce possente e con gli occhi fuori delle orbite, trasportato da un’impellente voce interiore: - Dio ci ha creati a Sua Immagine e somiglianza -. Un corpulento felino albino, tatuato come una mappa, che avrebbe potuto essere anche il cugino grosso di Johnny Winter, si levò dal biliardo dopo una carambola notevole di tre sponde e mi fissò con astio soppesando la sua stecca. - Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza, …bianchi, caro il mio bel cumulo di merda -. Riuscii a notare la punta della stecca, azzurrina per il continuo ingessarla da parte dell’albino, e poi piombai nelle tenebre, accompagnato da uno scricchiolio che avrebbe potuto essere di denti o d’ossa…” 202 ‘Beep’ insistito e frenetico del macchinario che governa il leone marino lucido, ripetuti colpi di tosse, rumore di disco graffiato dalla puntina, e Goldberg di Bach ammutolisce nell’apprensione, variando ancora una volta fuori programma. Il corpaccione si scuote un poco insofferente di tutti quei tubicini. Poi l’inatteso. Dal nero dei pantaloni, confuso con lo scuro della pelle, ad altezza patta, si leva uno zampillo di sangue scuro che scolorisce quasi subito in limpida orina fumigante, a geyser, senza alcuna direzione particolare, solo verso l’alto, in rumore di frizzare che deve essere recepito come suono sinistro evocante acido. L’orina nel ricadere deve sollevare volute di fumo e aumentare nel sonoro come sfrigolio. Occorre un effetto speciale. Il corpo del negro e tutto quanto bagnato dall’orina, limpida alternata a sanguigna, scoloriscono e subiscono una trasformazione di dissolvimento, proprio come d’acido, e la scena sullo schermo deve apparire carica di bolle e bugnoli, di fotografia incendiata. I buchi con i bordi anneriti e smangiati s’allargano lasciando un sottofondo di nulla, bianco accecante. Colpi di tosse ancora, assenza di grida di dolore, quasi sia un fenomeno normale, orina in zampillo interminabile, sfrigolio, rumore di carta incendiata, bianco del nulla che aumenta fino a coprire tutta l’inquadratura con il negro scomparso insieme a tutto il letto, il macchinario, i cavi, la fleboclisi, la stanza. Nulla assoluto. Bianco. A questo punto compare il messaggio. Secondo il ‘target’ cui è rivolto, a carattere tipografico variabile. Clericosarcastico iconoclasta: Credi nella pace che può dare l’Estreminzione? Pragmatico cinico: 203 La vita è appesa ad un filo, anche di pipì. Vivila finché puoi. Per tutti, classico ‘evergreen’: Dio è con noi. Oppure trasgressivo: Dio è con Noi? ‘Wasp’ governativo: Bianco che più bianco non si può. Pubblicità Progresso: Non abusate della birra e degli alcolici per non perdere lucidità. Pubblicità, solo commerciale: Le nuove pellicole fotografiche ASA Niggerbrown sono molto più resistenti delle altre. Provatele. Goldberg è assente, stufo di variare, mentre attacca in crescendo l’inconfondibile voce del compianto Otis Redding con “Amen” accompagnata da battiti di mani di truppa gospel, e s’accendono le luci in sala… 204 FART REVELATOR “Ho qualcosa per lei.” Il fotografo, schermato con gli occhiali da sole che lo rendono irriconoscibile e impenetrabile, si scuote dal bradipico consumare un aperitivo all’aperto nel mentre che segue le evoluzioni della folla in struscio. Il messaggio, quasi un sussurro, è inatteso, ma può nascondere argomenti interessanti. “Di che tipo?” Il fotografo non si volge alle spalle, da dove proviene la voce: si irrigidisce soltanto un poco allertando il suo senso professionale. “Diciamo divulgativo.” La voce ridacchia. “Si spieghi meglio: non ho tempo da perdere.” “Lei ha sempre le unghie o le ultime vicende giudiziarie l’hanno ammorbidita?” “Ho le unghie, anzi, ho affilati artigli adesso, e anche avvelenati. Di che si tratta?” “Quindi è sempre in agguato per fare piangere qualcuno e soddisfare la curiosità di tanta gente, eh?” “Oggi più che mai. Che cosa ha da propormi? Guardi che poi controllo: non mi racconti cazzate…” “Le propongo un’invenzione.” “Si spieghi.” “Il fart revelator.” “Cosa?” “Il fart revelator. Il rivelatore di puzzette.” “Mi sta prendendo per il culo?” “Assolutamente no. Ho un apparecchietto che entro un raggio di dieci metri capta, diciamo, effluvi intestinali, li elabora e li evidenzia con una bella scia di fumo colorato. Sto approntando anche un sistema di rilevazione sonoro da associare a quello visivo: una allarmata voce preregistrata che annuncia, ovviamente al massimo volume possibile – Attenzione, attenzione! Ho appena sganciato una loffa, statemi lontano che è davvero mefitica –.” “Se quello che racconta è vero, lei è geniale.” 205 “Ho pensato a lei per i suoi precedenti: potrebbe essere la sua rivincita.” “In effetti, di per sé lo scoreggiare, e per di più silenziosamente, non è reato, ma è sicuramente una cosa sconveniente e inimmaginabile, soprattutto in certi ambienti, e ci sono legioni di lettori delle vicende dei vip che non aspettano altro che sapere se Tizio o Caio sono colitici all’ultimo stadio. La sconvenienza accomuna e affratella: i curiosi ammiratori si sentiranno appena appena un poco vip come gli scorreggioni immortalati in qualche reportage. E non credo neanche che questa sia violazione della privacy, ché si parla di essenza che esce e che quindi non è più intima. Se ne potrebbe ricavare, invece, qualche introito…” “Qualche introito? Lei sta scherzando! Qui si diventa ricchi sul serio.” “Con le loffe dei vip? Ma sì, e perché no?” Il fotografo ride sommesso accarezzando l’idea di appostamenti nei pressi di Montecitorio o sulla piazzetta principale di Porto Rotondo in Costa Smeralda. Poi la professionalità ha il sopravvento con evoluzioni di idee. “Senta un poco: è possibile modificare il suo marchingegno? Variare le cortine fumogene di colore a seconda della persona, per esempio?” “Credo che si possa fare: sono problemini chimici. Sta già lavorando con la mente eh?” La voce ora è insinuante e divertita. “Beh, pensavo che Rosy Bindi potrebbe essere molto più interessante circondata da una cortina fumogena rosa rispetto a Saltpepper Pierferdinando avvolto da un blu marina. E poi Briatore: mi piace immaginarlo in fumo di Londra mentre la sua donna la vedo fluttuare in una nuvola di un bel colore rosso acceso, mi capisce?” “Certo che lei è un perfido esteta.” “Penso sempre oltre: magari ad arcobaleni psichedelici per vallette sculettanti che sorridono di bucato. Se riesce a creare più colori per una singola loffa, i colori di una maglia per esempio, siamo a posto con i calciatori: sarebbero deliziosamente imbarazzanti con una nuvola rossonera o 206 giallorossa a fianco di sorridenti veline ignare anche se sospettose per un qualche cattivo odore disperso nell’aria.” Il fotografo levita con tutta la seggiolina del bar, soddisfatto dell’intuizione diabolica. Poi ridiscende nel pratico. “E tra noi?” “Facciamo a metà da bravi soci. Che ne dice?” “Si può fare. Prima, però devo vedere se l’apparecchio funziona realmente… Oddio che tanfo di fogna… Ma lei adesso?...” Il fotografo si volge all’indietro e intravede in una nube verde palude un ometto paffuto con occhi porcini che sorride beato. Contraccambia il sorriso con ammirazione turandosi il naso e nota con gioia la curiosità dei passanti allibiti per la scena inusuale: la macchinetta sembra funzionare sul serio. E comincia a sognare di rivincite e di appostamenti con autorespiratore e bombole, ancora una volta in sella a cavalcare la tigre anche se affetta da meteorismo. Accarezza l’idea di andare a trovare il brillante fascinoso giudice che l’ha incriminato: un servizio fotografico da vendere a peso d’oro, un vero vendere aria… 207 RIDACCHIARE CON UN PERCHE’ Il ciccione ha lo sguardo del koala, seppure con gli occhi a mandorla: molto curioso e con bagliori sporadici di qualcosa che sembra ottusità al confine con scaltrezza. Non riesce a comprendere il mio atteggiamento. Io contraccambio lo sguardo, infatti, con un ghigno incancellabile che, secondo lui, non dovrei avere. Ricordo la puttana di qualche parte dell’Asia, Shu, mi pare che si chiamasse, con i capelli corti a frangetta, lucenti e neri, che mi tirava per un braccio ridendo. Era pressante e contagiosa. – Plesto, plesto, da questa palte: di là ci sono sbilli… Vieni con me, posto tlanquillo… Sono simpatiche, le asiatiche, quando parlano così con vocina soave, quasi un pigolo, e lo sguardo sottomesso e carico di promesse. Shu, poi, aveva due gambe chilometriche, forse un ibrido occidentale per un peccato della carne di sua madre, e le fasciava con un gonnellino che rasentava l’indecenza. Mi lasciavo pilotare come un paraplegico. Lo stato d’animo non era dei migliori, da qualche giorno, per pessime notizie. Si fa presto, soprattutto per un depresso sinusoidale come me, a tirare nel baratro ogni cosa sulla base d’una cattiva notizia, a perdere interesse per tutto, ad attendere passivamente gli eventi senza capacità o voglia di reazione. Ero in quello stato mentale. Shu, così sfacciata e anche così gazzella timida, era stata l’incontro tanto per: tanto per stordirsi e non pensare, tanto per dimenticare, tanto per rimandare la crisi mistica esistenziale da prevedersi di portata epocale. La ragazza aveva un sesto senso. Fissò i miei occhi stanchi e bui già affannandosi da crocerossina: una palpata delicatissima e veloce all’inguine, due paroline dolci di circostanza per chiedere se avevo problemi, tante promesse di zucchero filato e miracoli da giocoliera. M’alzò il mento con un dito e mi puntò ancora, torbida e peccaminosa insieme, in freschezza disarmante, saettando la lingua rapidamente. 208 Guidò lei artigliandomi un braccio. Poi la fuga rapida nel vicolo buio. Ricordo cattivi odori, umido, luci lontane in fondo, qualche rumore di passi concitati. Poi una botta e il nero. “Signor Lake, è sveglio?” Sbatto gli occhi come un allocco sotto una lampada accecante al centro d’una stanza buia, legato e sdraiato sopra un lettino. Percepisco presenze, più di una. Poi vedo il koala giallo, in fondo, un koala obeso con probabili serie difficoltà nel rimanere appeso ad un albero, penso, mentre un indolenzimento cosmico s’irradia dalla nuca in tutta la testa e zone limitrofe. “Che succede? Perché sono legato?” Chi siete? Che volete da me?” “Buona sera, signor Lake. Mi chiamo Ping e sono il segretario particolare del signore laggiù in fondo. Il signor Wang è un tipo fuori del comune, signor Lake: ha una sua filosofia di buon cuore, anche se non potrebbe sembrare, a primo acchito…” Ping è il gemello di Kermit, il ranocchio dei Muppets, verdastro, sottile, con una voce compita e assolutamente controllata, ed in più ha un paio d’occhialini da contabile. “Ci deve essere un errore, signor Ping. Che cosa potete volere mai da uno come me?” Placido Kermit: “Nessun errore, signor Lake. Lei è un uomo prestante di ottimo aspetto. Dalla sua carta d’identità risulta avere quaranta anni, il fiore dell’età per un uomo. Al signor Wang servono tipi come lei e, come le dicevo, ha un suo buon cuore. Mi ha incaricato di chiederle, quindi, se ha un qualche desiderio circa suoi affetti o interessi, un qualcosa da risolvere nei limiti ragionevoli delle sue possibilità, un qualcosa che possa costituire una sorta di sdebitamento…” “Sdebitamento per cosa, Ping?” 209 “Per la sua vita, signor Lake. Vede: il mio principale tratta organi umani. E’ un commercio rischioso, ma ben remunerato. Ci serviamo della signorina Shu e di altre belle signorine come lei per il, diciamo, reclutamento. Poi il signor Wang stesso esamina la persona catturata e dà il suo beneplacito affinché si possa procedere all’espianto di quanto serve al momento, di quanto è richiesto dal mercato. Il mio principale, tuttavia, per come le ho già accennato, ha un suo codice morale che prevede un’ assoluta considerazione umana per la vittima, a cominciare dal rispetto di ultime sue ragionevoli volontà, per finire alla modalità della sua morte, con iniezione rapida, indolore e letale…” Sono troppo stanco, indifferente, con le mie pessime notizie che ronzano in testa, per poter reagire con un qualsivoglia interesse. Chissenefrega, mi dico, anche perché l’essere scazzato aumenta le capacità analitiche delle situazioni, penso, e io, in questa situazione specifica, non vedo risoluzioni che possano volgere a mio favore. Potrei segnalare il mio vicino di casa, odioso, ma so già che non attaccherebbe: è talmente obeso che il koala sembra un ballerino del circo di Pechino. Mi limito quindi a mormorare: “Gran brava persona, dunque, il signor Wang…” Ping non coglie l’ironia e mi asseconda: “Sì, signor Lake: è una brava persona. Lei pensi che altri commercianti del settore usano direttamente la mannaja, senza troppe preoccupazioni circa concetti di rispetto e sofferenza…” “Che cosa preleverete?” Curiosità fredda che si mescola nel vortice dei cattivi miei pensieri. “Più o meno tutto il prelevabile, signor Lake. A cominciare dai reni. E’ probabile che un rene, se compatibile, possa tornare utile proprio al signor Wang. 210 Ha problemi di grandi appetiti e ama molto mangiare piccante: non gode di ottima salute sotto questo aspetto.” Guardo il koala. Contraccambia impenetrabile, anche se le due fessure al posto degli occhi lampeggiano il simbolo del dollaro e mi pare di sentire anche lo sferragliare del cassetto di cassa. “Ha qualcosa da dire, ora, signor Lake?” Kermit ha un aplomb invidiabile. I suoi occhialini da contabile mandano riflessi azzurrini, carezzevolmente minacciosi, mentre gli occhi sono due pozzi senza fondo. “Non mi viene in mente nulla, al momento. Posso solo aggiungere che sono contento di contribuire al benessere fisico del signor Wang e di altre dieci o dodici personcine brave e danarose… Sì… Posso dire che sono davvero contento…” Comincio a ridacchiare annuendo per attestare la mia contentezza. Ping trasale appena, ma forse è abituato a reazioni tra le più disparate, al limite dell’attacco di pazzia. Wang l’obeso inclina da un lato la testa per sintonizzarsi meglio sul mio sorriso beffardo e koalizza la sua espressione in modo perfetto. Si avvicina un infermiere, o qualcosa del genere, felpato con una siringa in mano. Riesco a distinguere nel buio della stanza la gazzella Shu, ora seria seria per il mio prossimo funerale a rate per ogni organo asportato. Mi dico, sempre ridacchiando, che possono anche andare tutti al diavolo e che poi ci si divertirà parecchio in seguito… Loro non lo sanno, ma i miei cattivi pensieri, che tanto mi hanno tormentato sprofondandomi in questa apatia che ora mi diverte, sono pensieri di carattere sanitario. Mi hanno diagnosticato l’Aids… L’ago entra nella vena, e io rido al pensiero del koala lardoso e della sua filosofia del rispetto per le sue vittime… Piangerà diversa gente, continuo a dirmi ridendo, mentre tutto diventa buio… 211 SINTONIE E DISTONIE Visto dalla strada, davanti al portone del palazzo, sembra un enorme grottesco cactus che fuoriesce dal tetto dell’auto in sosta. Dal settimo piano, invece, in mutevolezza di prospettiva, ricorda un surreale variopinto stracchino fuori frigo, prossimo allo squagliarsi, sempre sul tetto della stessa auto sinistrata. Nonostante le associazioni di immagini irriverenti, non è solamente il commissario che effettua il sopraluogo sulla scena che è teatro del cosiddetto insano gesto, ma è soprattutto l’amico. Si affaccia sulla strada, con la freddezza della professione attanagliata dal dolore per la perdita di una cara persona, e ricorda l’ultima conversazione con il giovane ora spiaccicato giù sull’auto, ieri affranto e incredulo, circa un colloquio di lavoro. La vittima descriveva un dialogo che scivolava progressivamente nel lunare. “Buongiorno, s’accomodi. Mi parli di lei: si promuova e si faccia conoscere.” “Buongiorno a lei. Che dire di me? Sono riservato, al limite della timidezza dichiarata. Le confesso che sono molto agitato, addirittura sudato dal nervoso, anche se posso apparirle disinvolto e autoironico con questo mio propormi sincero quasi sfrontato.” “Ma no, si figuri. Piuttosto si rilassi e continui così: è indispensabile la massima franchezza. Va tutta a suo vantaggio. Cominciamo dai dati anagrafici: quando è nato?” “Sono nato il primo settembre del 1982.” “Ah! Un vergine, un segno di terra: proprio terra terra, già, già, già.” L’amico, già perplesso, accennò al ridacchiare dell’esaminatore camuffato da colpetti di tosse che erano punture d’aghi. “E’ un segno zodiacale poco significativo? E’ la prima volta che lo sento dire.” 212 “Non cominci ad innervosirsi per così poco. E’ un segno zodiacale dei più impestati, se è per questo: arido, opportunista, concreto senza voli pindarici di fantasia e creatività. Continuiamo. Ha precedenti lavorativi?” Risolino appena più sardonico e piccato. “Ho lavorato cinque mesi in un call center e un anno come venditore di aspirapolvere porta a porta.” “Ah: il classico rompiballe fallito eh? Se la cavava bene?” Il giovane, ricorda bene il commissario, fece accenno ad uno storcere la bocca e ad una strizzatina d’occhio falsamente complice dell’esaminatore. “Non troppo: quando mi emoziono comincio a balbettare.” “E adesso è emozionato?” “Abbastanza, ma cerco di pensarci il meno possibile.” “Bene, bene: tranquillo, su. Che auto ha?” Curiosità asettica. “Una Agila bianca.” “Ah! Il furgoncino del latte eh? Ma almeno ha anche lo stereo? Ascolta musica?” Un fissare commiserevole con bagliori sadici. “Sì, di tanto in tanto. Giusto per distrarmi: sono di gusti semplici.” “Tipo?” “Mino Reitano.” “Da farsi male sul serio eh?” Smorfia di disgusto e simulazione di conato di vomito con sguardo allegro e cattivo insieme. L’amico era costernato nel rievocare quel momento. “Mi rendo conto di essere alquanto demodé, ma Mino Reitano mi distende.” “Ommioddio, distende sì, in effetti: anche per sempre, dopo un ascolto prolungato. ‘Italiaaa, Italiaaaaa…’ Ha altri interessi, oltre al girare in macchina su un’Agila con Mino Reitano in stereo a palla?” Sarcasmo puro e autocompiacimento per l’imitazione: lo sguardo del gatto con il topo. Il giovane, al raccontare, era 213 sorpreso in una sua ancora intatta innocenza senza malizia. “Beh, leggo.” “Poesia? Narrativa? Stranieri?” “No, leggo scrittori contemporanei italiani. Le ho già detto: sono una persona di gusti semplici.” “Quali sono gli ultimi libri che la letto?” “Ho letto ‘Va dove ti porta il cuore’ della Tamaro e ‘Tre metri sopra il cielo’ di Moccia.” “Ah, un tamarro-moccioso eh? E magari legge mentre attende la sua fidanzata dentro l’Agila della latteria con Mino Reitano che canta del tempo delle more eh? Eheheh. Dio che incubo brrr…” Il povero amico parlò di smorfie di finto raccapriccio e di un sorriso aperto, falso, in espressione di alligatore affamato. “Le-leggo anche a ca-casa, se è per que-questo.” “Che fa? Si sta innervosendo?” “Mi pa-pare che non si sia mo-molto in sin-sin-sintonia circa gusti letterari e musi-musicali.” “Beh, se è per questo mi fa morire anche l’Agila e il fatto che è un vergine, eheheh. Solo zodiacalmente, spero per lei, eh? Eheheh.” Sarcasmo e perfidia. Il sorridere, poi il ridacchiare sempre più senza ritegno in ghigno. Un aggrottare di sopracciglia in curiosità malsana immaginando depravazioni da pubblica lapidazione. Il suo amico era scosso da tremiti nervosi nel raccontare. “Que-questi sono affari personali, se per-permette.” “Fino ad un certo punto, sa? Lei è eterosessuale oppure pende dall’altra sponda? Devo saperlo.” Di colpo serio e professionale, minaccioso e punto sul vivo, la mascella tirata con salivazione acquolinica. “Sono una per-per-persona normalissima.” “Che fa? Sputacchia anche, adesso?” “Sono molto agita-agitato, ora.” “Si canticchi dentro una canzoncina di Mino Reitano, no?” Di nuovo sarcasmo a irridere apertamente. 214 “Mi sento un suo zimbello. I miei gusti discordanti dai suoi vanno ad incidere sulla sua opi-opinione circa il poposto di lavo-lavoro?” “Se ci aggiungiamo anche i pantaloni a esagerata zampa d’elefante e la cravatta scozzese con nodo ipertrofico su camicia a righine…” “La prego: si spieghi meglio, per co-cortesia…” “Sarò franco, carissimo. Non va, non va assolutamente. Lei mi spaventerebbe tutti i clienti e mi brucerebbe qualsiasi portafoglio. Manca solamente il profumo dell’acqua di colonia Pino Silvestre.” “L’ha percepito? Le piace almeno questo?” “Ossignur: non c’è recupero, caro. Neanche con ‘Gente di fiumara’ o con Mino che imita Freddy Mercury si può riacquistare il buonumore, anche perché scommetto che l’Agila ha i freni che fischiano e lei sta aspettando di finire ‘Va dove ti porta il cuore’ per cominciare ‘Anima mundi’ eh?”. Ricorda che l’amico aveva quasi voglia di piangere mentre raccontava di quella espressione di superiorità nell’incarnazione del potere, di un fare saccente, paternalistico, a demoralizzare per il gusto di fare del male e avere conferme della propria autorità. “Perché pre-pre-prevarica così?” “Senta, tagliamo corto. Lei non va per la nostra azienda e il mio parere è insindacabile. Non so più che dirle. Provi presso qualche cooperativa. Mi spiace”. Sbrigativo, sospeso tra risata di scherno e freddezza burocratica. “Non sono adatto perché mi piacciono Moccia o Reitano? Per l’Agila? Perché sono della vergine? Ma ma ma è pa-pa-pazzesco.” “Giààà: pazzesco proprio. Ora la devo congedare ché c’è altra gente che aspetta per il colloquio. Mi stia bene. Per consolarsi si canticchi ‘Una chitarra e cento illusioni’ oppure ‘Avevo un cuore che ti amava tanto’ argh, argh, argh.” Risata da lupo cattivo in cartone animato, di gola, con sguardo già rivolto con attenzione alla pratica successiva: l’amico aveva accennato di sentirsi come il nulla trascorso. 215 “Ma lei lo cono-conosce bene quanto me, il Mino.” “Sono un campioncino di Trivial Pursuit, caro lei: musica leggera e musica pesante ahahah. Vada, vada, tamarro vergine moccioso, e in bocca al lupo. Segua solo qualche piccolo consiglio: cravatta e camicia a tinta unita, colori pastello, tenui, e magari citare un John Fante e una Annie Lennox, cribbio. E regali l’Agila ad un extracomunitario. Scommetto che prima aveva una Duna…” Strafottente deciso. “Lei ha fatto accer-accertamenti su di me ve-vero?” “Ecco, appunto, come volevasi dimostrare ahahah.” Il commissario ritorna al presente reale nell’eco immaginata di una risata sulfurea e nota che l’auto in sosta sfondata dal corpo del suicida è una bianca Agila. Rimane sconvolto a fissare quel corpo disarticolato. Si sorprende a canticchiare “Cuore pellegrino” e serra la mascella immaginando una scena a venire in cui centrerà un occhio dell’esaminatore con la sua pistola d’ordinanza. S’aggiusta il nodo enorme della vistosa cravatta a pois su camicia a quadretti e scende a precipizio per le scale in preda a ira montante. Per come è umanamente possibile, sgomma con la sua Atos bianca alla volta della ditta dove si svolgono i colloqui d’assunzione, con fredda determinazione omicida e vendicativa. Ogni riferimento a persone che amano Mino Reitano, Susanna Tamaro, Federico Moccia, la Opel Agila o la Atos o la Duna, l’acqua di colonia Pino Silvestre e le cravatte a nodo ipertrofico scozzese o a pois su camicia a righine o quadretti, è puramente casuale. Del resto nessuno è perfetto: io, per esempio, sono nato il primo settembre… 216 CASTING Al centro del salone l’enorme tavolo di palissandro scintilla sotto le lampade alogene e riverbera i bagliori dei portacenere di cristallo e delle bottiglie di acqua minerale disseminate qua e là. Sta per cominciare una riunione per definire il cast di una popolare trasmissione di prima serata. Il capo emerge da volute di fumo azzurrino, grintoso con la mascella quadrata e il ghigno dello squalo. I collaboratori, quasi tutti sulla trentina, hanno uno sguardo di sottomissione fanatica rivolto alternativamente al loro guru a capotavola e alle scartoffie davanti a loro. Sfogliano plichi, consultano appunti, blocchi notes zeppi di scarabocchi e geroglifici, e si soffermano su fotografie che sono sicuramente costate ore di estenuanti prove in ricerche di espressioni e luci e sfondi. Il brusio viene rotto da un autorevole colpo di tosse e da un messaggio programmatico. “Bene, ragazzi: per l’edizione di quest’anno voglio cose mai viste, e spero che abbiate da proporre protagonisti assolutamente originali. Basta con le solite comparse trite e ritrite senza personalità: la quarantaquattresima edizione del Grande Fratello dovrà essere unica e dovrà essere rimpianta per i prossimi dieci anni. Allora: chi comincia a esporre la sua mercanzia?” Si alzano diverse mani, ma una voce buca l’uniformità di atteggiamento e attira maggiormente l’attenzione. “Ecco, capo, partirei io, se vuoi, ché ho un asso nella manica che farà scalpore e indici di gradimento mai visti…” “E chi sarà mai? Il Papa?” Mugolio similorgasmico del collaboratore che si stira in un sorriso fosforescente. “Quasi, capo. E’ stato trombato all’ultimo conclave per una manciata di voti. Potremmo chiamarlo il vicepapa eheheh…” “Non mi dirai che…” Sorriso abbagliante da lenti affumicate e falsa modestia. 217 “Sì. Proprio lui. Il Cardinale Benedetto Qualchevolta, detto Monsignor One o anche, meglio, Mons. One, per il suo carisma che lo porta sempre a primeggiare e soprattutto per il suo irrefrenabile meteorismo.” Silenzio di invidioso rispetto di tutti, risatine maliziose. Poi lo squalo: “Cacchiarola, bimbo, ma questo è un colpaccio, anche se, dopo attenta riflessione, non so, dati certi precedenti pedofili, non sono così sicuro…” Querulo e appassionato, il collaboratore è convinto della bontà della sua scelta: “Ma capo, ma questa è la pedofilia dal volto umano. Mons.One, tra una trombetta e l’altra, ha cattivi pensieri, ma poi si pente e si castiga. Ha un gatto a nove code con cui si flagella le terga e i marroni e il manico del gatto lo usa per autosodomizzarsi.. Provate tutti a pensare al successo di una sua convocazione nel confessionale, tra una scoreggia, un pensieraccio su qualche bimbo ed una immediata reprimenda anale di pentimento e castigo.” Un aggrottare di ciglia a schernire del boss: “Sarò cinico, ma penso che col gatto a nove code di dietro magari ci gode. Non è credibile.” Collaboratore trionfale: “Sbagli capo. Il manico del gatto a nove code, e si dirà a voce piena e con sottotitoli lampeggianti a scorrimento, è rivestito di carta vetrata ed è cosparso di polvere di peperoncino: un castigo epocale che neanche Giobbe.” “E come la mettiamo con la fascia protetta?” “Mandiamo in onda dei bip di messa solenne cantata e sfochiamo l’immagine con la vaselina.” Interloquisce un collega ammirato, molto preparato in burocrazia. “Ha ragione, capo. E poi con le nuove leggi rielaborate quattro anni fa per la tutela dei minori, un moccolo in diretta o una bestemmia si potrebbero configurare nel programma di approfondimento filologico della lingua italiana.” Lo squalo capitola con malcelata soddisfazione. 218 “Va bene ragazzi, mi avete convinto, anche se alla produzione costerà un mutuo di vaselina: vada per Mons.One. Pretendo, però, nero su bianco davanti al notaio, la rivelazione nel confessionale di qualche succoso retroscena sulla riunione del conclave, per esempio un trenino tra cardinali o una tresca con monache o guardie svizzere, qualche ricordo languido e morigeratamente erotico d’esperienza con gli orfanelli del Gabon e un numero minimo di sei sette scoregge polifoniche durante i collegamenti e almeno un crepitacolo lungo nel confessionale, con ovvio atto di contrizione e scuse con battitura del petto. Chiaro? Andiamo avanti. Raccontaci tu, Laura, chi hai per le mani.” Laura ha la capacità di trovare inusualità sparse per il globo, ragazza molto intraprendente e senza scrupoli. “Una coppia strana e indivisibile, capo, un insieme di pietoso e torbido che affascinerà i telespettatori.” “Spara, dai.” “Ecco, capo, ho contattato una ninfomane…” “E’ pieno di ninfomani, soprattutto oggi che girano certi cardinali.” “Aspetta, capo: è focomelica, quasi senza braccia e mani, ed è accompagnata sempre, dico sempre, da una badante tedesca assai rigida e lesbica, tale Ilde Kameron, che la scarrozza dappertutto con una divisa da gestapo nazista dei filmetti degli anni settanta. Il fascino del proibito attuale nell’uniforme del paleozoico a reminiscenza pruriginosa della terza e quarta età che non hanno dimenticato i filmetti di una volta: un nostro target.” Può ruggire di ingordigia uno squalo? Questo sì. “La ninfomane pensa di esibirsi? Come si chiama?” “Si chiama Eva, God Eva, e altroché, se pensa di esibirsi, capo. L’unico inconveniente è che non riesce ovviamente a spogliarsi da sola.” “E presumo che l’aiuterà Ilde Kameron, vero?” “Garantito al limone, capo, sbottonandola coi denti… La tedesca se ne approfitta ad ogni occasione anche se ha una maschera dura e inespressiva che all’inizio non 219 eccita granché. Però ogni tanto uggiola… come un pastore tedesco, appunto, e la repressione delle sue pulsazioni diventa un top che titilla indifferentemente uomini e donne.” “Argh, argh, argh…questa cosa mi illibidinisce assai. Brava Laura.” “Grazie boss.” Lo sguardo del capo si posa paterno su un ragazzotto dall’aria apparentemente innocua. In realtà è un’anima nera che passa ore su internet alla ricerca di messaggi rivelatori per suoi disegni di reclutamento. “Passiamo al perfido Puccio. Tu chi proponi?” “Ho per le mani un anglo-brasiliano bellissimo, mulatto con gli occhi azzurri. Parla molto bene l’italiano e ha due caratteristiche interessantissime. Grattatevi o toccate ferro… E’ un menagramo della madonna, e ci prende sempre o quasi, ed è un esibizionista da competizione.” “Beh, Puccio, da te mi sarei aspettato di meglio. Mi pare tutto molto banale.” “Aspetta, capo. Il tizio si chiama Mortimer, Mort Accy do Interomundo, un nome e una garanzia: ha già causato due infarti per anoressia ad un raduno di bulimici, un’epidemia di colera in un Club Mediterranèe in Finlandia, e ha mandato in corto diversi impianti elettrici con vari difficoltosi interventi dei vigili del fuoco a domare i relativi incendi. Inutile dire che le case erano tutte di legno stagionato nel mezzo di intricate foreste. Ettari in fumo. E poi quando fa l’esibizionista è da sballo.” “Che ha di così speciale?” Pausa ad effetto e voce profonda ad evocare fenomenologie straordinarie. “In mezzo alle gambe ha una murena. Lo tiene con due mani e quello sporge ancora, di parecchio, e ondeggia a destra e a sinistra minacciosamente. Si è fatto fare, infatti, quattro piercing e pare proprio che ti guardi con due occhi di giada e che ti voglia mordere con due denti affusolati come chiodi: Uno spettacolo.” “E la fascia protetta, Puccio?” 220 Interviene l’esperto di burocrazia. “Approfondimenti di storia naturale, capo, ché poi si può solamente immaginare che possa avere tra le mani il suo affare. In realtà, da come dice Puccio e da come si vede in fotografia, è fuori di ogni misura e sembra proprio una murena viva…” Il boss sfrigola idee su idee meditando ad alta voce sotto lo sguardo rapito dei convocati. “Mmmmhhh, sto pensando a gare competitive nel giardino della casa del Grande Fratello, tipo a chi piscia più lontano, per il titolo di padrone di casa, magari con riprese di traverso a inquadrare solamente gli zampilli, per salvaguardare la fascia protetta: rumori di scrosci, e vaiii... Sììì: magari anche una crisi mistica di un mini dotato che vorrà tentare il suicidio in diretta inspirando forte nelle vicinanze del cardinale Mons.One, oppure un gesto inconsulto di una concorrente che rimane appesa ai chiodi della murena in dilettantesca avance. Si dovrà stabilire solamente da che parte rimane appesa…argh, argh, argh… Bello, sì, cacchiarola, ma voglio assolutamente in studio i nipoti di Alessandro Meluzzi e del sessuologo Willy Pasini, quel tanto da illuminare i telespettatori su gestualità, misure standard, zone erogene e comportamenti compulsivi e ossessivi: tutti i telespettatori maschi dovranno misurarsi il pisello preoccupati sotto lo sguardo ironico delle mogli. Giààààà…E poi bisognerebbe trovare una ragazza molto timida, la vittima classica, che si strappa i capelli ogni volta che vede la murena, cogli occhi sbarrati e insane voglie frenate da una pudicizia da orsolina. Potrete trovarla una simile?” Coro determinato unanime. “Difficilissimo, capo, ma ci proveremo.” Il capo è mansueto come un alligatore dopo abbondante pasto e offre paternalistici suggerimenti. “Deve essere brutta, brufolosa, con i capelli esageratamente oleosi, ché quando se li tira si devono vedere le mani scivolare, mi raccomando, e deve urlare e gemere nel sonno in preda a incubi erotici di cose volute e 221 temute: i tecnici dovranno dare il massimo di loro stessi nelle riprese notturne agli infrarossi.” Laura ha gli occhi lucidi, ma è realista. “Capo, dovremo pescare in qualche baita da yeti: ragazze così non esistono più. Anche Heidi s’è rivelata una troia con i capretti che non facevano solo ciao. Piuttosto ci pensi ai numeri con God Eva e Ilde Kameron?” “Sì, Laura: quando si dice sinergia eheheh. Forza, proponetemi altri eroi o eroine…” Interviene un tipetto mite con due occhialoni da miope. “Ecco, capo, io ho uno che sembra dire poco, ma potrebbe promettere sviluppi considerevoli…” Diffidenza, ma solo di circostanza: la talpa è molto intelligente e sorprende sempre alla distanza, come un diesel. “Cha fa il tizio?” “E’ un ex tecnico di laboratorio analisi: si chiama Elio Filizzato. E’ fuori di melone dopo avere provato tutti i tipi conosciuti di droghe leggere e pesanti. Completamente fatto e sempre più ossessionato dalla ricerca di una dose di qualsiasi cosa.” “Visto e stravisto anche alla Tv dei ragazzi. E allora?” “E allora, capo, questo pazzo ha scoperto qualche cosa che fa sballare, innocua apparentemente, ma che lo manda nel pallone, tanto da non controllarsi più. Se trova del cartongesso, lo sbriciola e lo mescola con bicarbonato e qualche altra polverina. Poi lo sgranocchia fino a che non vede la fine…” Gorgoglio di conferma del capo, sempre ammirato verso la talpa che colpisce a scoppio ritardato. “Ahhhh, sei proprio un essere acuto: la casa è quasi tutta in cartongesso. Previsione di finali apocalittici con tutti i concorrenti all’aperto sotto finte bufere o sole canicolare. Prendete nota d’allertare il tecnico degli effetti speciali per grandinate bibliche e anche tempeste di sabbia.” “Già, capo, e poi suggerirei d’affiancargli un concorrente profondo conoscitore della psicologia, una specie del vecchio Hannibal di buona memoria, che istilli in Elio 222 Filizzato strane idee sulle proprietà sballanti del corpo umano: un caso si cannibalismo in diretta farebbe impennare gli indici di gradimento a millanta.” “Oh già, già, ragazzo, bravo. Se fosse vivo nonno Paolo Crepet, lo farei partecipare d’imperio: invece abbiamo il nipotino in studio per fare lezioncine teoriche, puah… E magari, ditemi che è un’ottima idea, il carismatico psicologo potrebbe dirottare le attenzioni del drogato sulla racchia vittima oleosa, magari dopo l’eliminazione della murena che porta sfiga. Un’eliminazione dietro l’altra, già tutte elaborate a tavolino senza che i concorrenti subodorino qualcosa: il trionfo dell’inconsapevolezza. Mi pare un inizio promettente. E poi? E poi?” Alza la mano un ragazzo che sembra uscito da un ritiro spirituale. “Capo, sto lavorando su un terminale.” Fastidio. “Che c’è di strano, moccioso: tutti abbiamo il computer…” Gioiosa ripicca. “Su un malato terminale, capo, per la partecipazione a questa edizione. Si Chiama Agostino Nia, ma gli amici lo chiamano Ago. E’ dentro un polmone d’acciaio e si sta sgretolando poco a poco alternando momenti di lucidità, in cui è tagliente e odioso contro tutto e tutti, da vero stronzo obiettivo, a momenti di narcolessia totale in cui i concorrenti potrebbero sfogarsi con calci al polmone per gli insulti ricevuti precedentemente nei momenti di lucidità.” Il fastidio ha lasciato il posto ad una irrefrenabile curiosità. “Un’ideuzza fresca e sbarazzina, bene. Potremmo abbinare al sondaggio sulla eliminazione dei concorrenti anche un sondaggio parallelo, quasi un totoscommesse sulla giornaliera capacità di sopravvivenza del terminale. Prendi nota: contattare i familiari per eventuale eliminazione ufficiale in diretta, ovviamente a tariffa sindacale, tre o quattro onorevoli di media popolarità 223 contrari alla partecipazione del malato e altri tre o quattro contrari all’eliminazione, che minaccino tutti eventuali referendum. Non può assolutamente mancare un membro della C.E.I. che lanci tuoni fulmini e scomuniche. Mettere sull’avviso l’ufficio stampa circa la promozione di forum e di dibattiti sull’argomento. Contatta anche Mort Accy do Interomundo come carta estrema per risolvere il problema, ma senza murena in questo caso. L’ideale sarebbe una morte per asfissia durante una confessione con Mons. One… Sondate, sondate…” “Sì capo: ti adoro.” Sguardo affettuoso ad abbracciare tutta la sala. “Abbiamo altro, marmocchi? Forza, ché siamo sulla buona strada, ma mancano ancora diverse figure di contorno e di protagonisti. Vi suggerisco anche un paradosso: trovate un concorrente normale, senza vizi e senza virtù, ma che abbia la schiera di parenti più impestata del pianeta. Dai, ragazzi, datevi da fare: un laureando in teologia ancora vergine, ma con sorella mignotta, padre coatto e mamma spacciatrice di extasy. Magari anche con una zia in premenopausa che dal vivo e dall’esterno sbavi e faccia la corte alla murena di Mort Accy, in calze a rete e trucco esagerato. O anche un fratello transgender che dichiari di volere intraprendere una relazione con Mons.One e che spera nella vittoria del laureando per avere in dono una maschera antigas per affrontare il prelato. Dai, ragazzi: affinatevi e sappiate che la gente vuole vedere cose nuove e sempre più mirabolanti. Portatemi qualche mostro, cacchiarola, o qualche deviato. Approfondite le conoscenze dei concorrenti scelti: pensate alla goduria se tutti fossero del Milan e un solo concorrente fosse un ultrà orgoglioso dell’Inter, o che tutti fossero della destra più picchiatrice e un concorrente fosse bertinottiano in pieno outing proselitista. Bene. Ho fiducia in voi. 224 Ci aggiorniamo a domani per parlare del resto. Mi aspetto grandi cose. Non vorrei buttare nella mischia il peggiore di voi per fare numero argh, argh, argh…” Si ride nervosamente, qualcuno smadonnando, qualcun altro divertito dell’idea mentre pensa al collega di fianco. Tutti si alzano e raccolgono cartelle e plichi dal tavolo mentre il capo si dissolve con un immaginario movimento di pinna caudale nel fumo che ormai è nebbia. Nell’aria si respira, oltre la nicotina, consapevolezza e determinazione: si sta formando un cast. 225 LA DIGNITA’ “Aziz Tuluk.” “Presente, inch’ Allah.” “Basta dire presente e basta, Tuluk.” “Presente e basta, inch’ Allah.” “Tuluk: ne riparleremo alla ricreazione, magari dopo la tua preghierina sul tappeto rivolto alla Mecca, va bene?” “D’accordo signor maestro, inch’ Allah.” “Ayala Augustin.” “Esto. Presente.” “Benhim Ibrhaim.” “Presente.” “Brambilla Giovanni.” “Sun chi, prof.. Presente.” “Sono un semplice maestro, non prof., e tu puoi rispondere solamente presente.” “Pota.” “Corcovado Osvaldinho.” “E’ malato: ha il dengue.” “Darak Vladislaw.” “Pressente.” “Dobbiamo ritornarci su, Silvio.” “Posso anche comprenderti, Umberto ma, cribbio, non è così semplice come dici tu…” “Tutte le difficoltà che vuoi, Silvio, ma non sarà problema eludibile per i veri verdi duri e puri.” “Ephrem Tarek.” “Assente: è andato a trovare il papà che è a San Vittore.” “Per cosa?” “Lavaggio vetri abusivo al semaforo e spaccio menta.” “Hu Shu Ping.” “Plesente.” “Laganà Carmelo Crocefisso.” “Presente. Dissi ‘bbene a voscienza?” “Chiamami signor maestro, Carmelo.” 226 “Occhei, a voscienza signor maestro.” “La Scortecciata Cosimino.” “Sugnu ‘cca.” “Si dice ‘presente’, Cosimino.” “Sugnu ‘cca presente, signor maestro.” “Umberto, te lo dico con il cuore, in confidenza e da amico: non puoi continuare a rompermi i coglioni con richieste sempre più pressanti. Prima il federalismo geografico, poi il federalismo fiscale, poi le ronde padane. E nessuno sa, per tua fortuna, che hai chiesto anche deportazioni forzate dei terroni del Nord Italia e schedature obbligatorie degli italiani dall’Umbria in giù. Ma insomma, cribbio, non esistono mica solamente i padani, sai…” “Ascolta, Silvio. Risolviamo quest’ultimo problema e poi penso che ci si possa considerare tutti soddisfatti.” “Ma cosa vado a raccontare a Giovanardi, seppure per quello che può contare uno come Giovanardi? O a quella faccia da prete di Bondi? E poi come mi vado a porre con quel boyscout di Franceschini? E chi lo sente Casini? Lo sai che sta aspettando come una faina con gli unghioli affilati che io faccia qualche cappella? E il Clemente Mastella? Quello risalta da un’altra parte ancora: non ho ancora capito se è un canguro con la faccia come il culo o un mix di puntarelle e catalogna in padella con aglio e acciughe. Salta sempre, e risalta ancora… Te lo ripeto, consentimi: non è così semplice, Umberto…” “Lao Xin.” “Plesente, signol maestlo.” “Ling Yu Tao.” “E’ assente con la febble alta: ha l’avialia…folse.” “Malawi Malek Maluk.” “Brezende.” “Moldan Dragoslaw.” “Io essere qui.” “Si dice semplicemente ‘presente’, Dragoslaw.” 227 “Vaaaa beeeneee. Preeesssenteee.” “Bravo, Dragoslaw, ma non farti uscire gli occhi di fuori.” “E poi, Umbertone, benedetta anima di me e grande figlio di buona donna che sei, cribbio, con che fondo tinta rimetto tutto in discussione dopo che vado in giro a difendere da solo quel nazi che sparacchia cazzate ecumeniche in Africa? Qui perdiamo la faccia tutti, lo capisci? E con quello che costa il cerone e l’estetista…” “Quelli della sinistra sarebbero sicuramente d’accordo, al di là dei nostri motivi, per i loro motivi. E abbiamo l’appoggio della destra, Silvio, di tutta la destra, se parliamo alle sensibilità e ai cuori di onore, di samurai, di spiritualismo e purezza d’animo e di intenti. Coi miei me la vedo io: abbiamo il valore sacrosanto di preservarci da contaminazioni e di difenderci in qualche modo da questa invasione. Vorrei vedere se tua figlia Marina avesse per amico un Amba Aradam qualsiasi… Mi ci viene quasi da ridere, sai?” “Ci sarebbe poco da ridere, soprattutto per il carbonella: gli farei spezzare le braccine dalle mie guardie del corpo…” “Netzprotehwski Zbwignerslavdt.” “Presente, signor maestro.” “Ah, questi polacchi: padroni di tutte le lingue! Chissà come mai…” “Radomir Radovan.” “Assente: è andato a portare vestiti, bende e scatole di cerotti al cugino nel Centro di Accoglienza.” “Di Rado presente, di rado presente, non se ne parla, eh? Cugino senza permesso di soggiorno?” “Senza tutto, signor maestro, a parte i lividi: di quelli ne ha in abbondanza, ché una Guardia del Centro la chiamano Hulk, anzi, Hulkedolore.” “Rustu Yader.” “E’ assente: lo hanno incastrato per uno stupro il giorno in cui era con noi in gita scolastica.” 228 “Stupro? Ma avete tutti sette anni…e poi era appunto con noi in gita scolastica…” “Mah, non so, signor maestro: dicono che c’è di mezzo il dna o il favoreggiamento, non ho ben capito, sembra che sia stato preso per un nano di circo da una signora di ottanta anni ipovedente…” “Mah: misteri della fedina… Shamalayandrawana Botziwanismelin.” “Sì, sono assolutamente presente in fisico e spirito, onorabilissimo signor maestro di questa rispettabilissima scuola elementare inserita in questo accogliente e civile paese che ci offre occasioni di prosperità ed integrazione sociale.” “Ehm, da oggi ti chiamo semplicemente Botzi e ti prego di essere sintetico come il tuo nuovo soprannome. Il primo che sento chiamarlo ‘malgascio di merda’ se la vedrà con me e con il mio tortòre di tek.” “Cosa essele toltòle, signol maestlo?” “Randello in romanesco, non romanescu, Hu, landello. Tu capile antifona?” “Pelfettamente, signol maestlo. Anzi, dichialo esplessamente che pel me Botzi essele flatello quasi di sangue: io spelale, pelò, che non sia infetto…” “Dai, Silvio, ragiona: c’è arrivata anche quella cima, di broccolo, della Gelmini, che ha provato ad arginare al trenta per cento. Ma lo sappiamo tutti, sia te che io che Gianfranco. E se Gasparri continua a fare lo gnorri toccandosi le palle nell’illusione di essere spiritoso, tutti gli altri sanno che il problema sarà irrisolvibile e l’invasione sarà impossibile da arginare. E dunque, parliamone, prima che si può anziché dopo, ché si creeranno casi giudiziari spinosi, altro che Englaro. E ai filoclericali mandiamo in famiglia qualche negretto lebbroso o impestato oppure qualche rumeno dalle mani lunghe o un polacchino ubriaco che pulisca anche i vetri degli occhiali e lo specchio del cesso. Lo sai anche tu: l’esigenza è improcrastinabile. Cazzarola, Silvio: il problema mi sta così a cuore che dico anche delle parole tostissime senza sputacchiare e 229 senza balbuzie. Non ho fatto neanche la bava e la schiumetta… Guarda, la ripeto, hop: improcrastinabile. Uelà, bella robina, neh? Ci faccio la mia porca figura, pota…” “Ci penserò, Umbertone. Sei un bauscia rompiballe, ma hai le tue ragioni. Ne riparleremo…” “No, Silvio. Voglio una tua parola ora. Mica dico, hop, ‘improcrastinabile’ (cazzarola, se mi stupisco, ché mi riesce benissimo anche più volte) così per dire, neh… Parliamo di eutanasia, una volta per tutte. E approviamola.” “Suognamiglio Salvatore.” “Minchia, presente.” “Salvatore, la minchia portacela a tua sorella. Qui rispondi solamente presente, d’accordo?” “Mi scusi, signor maestro, e s’‘abbenedica…” “Talik Berek.” “Brezende, zignor maesdro.” “Yussu Medir Answad.” “Etneserp.” “Yussu, qui siamo in Italia e si scrive da sinistra a destra.” “Ah, sì, presente.” “Xin Xiao.” “Plesente.” “Bene, ragazzi. Oggi parlerete, in un breve componimento, del vostro maestro. Nessun luogo comune, però. Parlerete di quello che vi sembra buono in lui e di quello che non vi piace. Evitate i soliti luoghi comuni sul colore della pelle, sul fatto che sono negro e che provengo dal Camerun anche se sono venticinque anni che sono in Italia e parlo l’italiano meglio di Di Pietro o di De Mita. Evitate anche giochi di parole sul mio nome datomi da un missionario, ché se lo ritrovo lo impalo, e non con il tortòre: Enoc Signovinces. 230 Parlate di me solamente da un punto di vista di impressioni che avete circa la scuola, l’imparare, la cultura, l’ambiente, il paese che vi ospita. Va bene?” “Allora, Silvio, hai capito? Vogliamo avere il diritto di morire con dignità e onore da legaioli duri e puri, verdi e padani, senza imbastardimenti che porterebbero solamente sofferenze indicibili e condizioni di vita inumane, se non subumane. Vogliamo avere il diritto di morire senza dovere espatriare in qualche clinica svizzera inseguiti da nugoli di zingarelli queruli con la mano tesa per l’elemosina che ti strattonano e ti attaccano le piattole e qualche malattia infettiva. Lì, dai nostri fratelli formaggiari, peraltro, ti danno il succo di frutta al cianuro, che fa veramente cagare. Qui potremmo morire padanamente assistiti in un alpeggio da qualche vero mandriano di malga che non si lava da quindici giorni, mediante inspirazione, convogliata direttamente nei bronchi, di vapori di caciotta andata a male da tre anni di invecchiamento in grotte sbagliate. Una morte rapida, indolore, con effluvi che prendono il cervello rendendolo insensibile e che portano al coma e poi alla morte in un amen, anzi, in un ‘pota’: il diritto di poter morire con un sorriso bergamasco sulle labbra. E almeno rimarremo, seppure come ricordo nel tempo, quelli che siamo sempre stati, con dignità. E il povero Giuanin Brambilla saprà che non è solo tra tanti stranieri e vivrà, per come saprà e potrà, contento e sicuro di una estrema possibilità redentrice, fiero della sua identità.” “Umbertone, mi stai mettendo con le spalle al muro, ché sto cominciando a commuovermi anche io, se penso al nipotino del mio maggiordomo di Arcore, di Castelpusterlengo, a scuola con mezzo Mozambico, cribbio. Vedrò di fare il possibile e comincerò a lavorarmi ai fianchi il Gasparri, magari guardandolo negli occhi, anche se so che abbasserà subito i suoi a palletta da rubagalline. 231 Mi sentirà, oh se mi sentirà: gli starò col fiato sul collo, anzi no, gli metterò dietro, col fiato sul collo, due o tre senegalesi superdotati e in astinenza da quattro mesi. Così si renderà conto anche lui. E farò dirottare la barchetta di Pierferdy in acque libiche a ridosso di otto gommoni che lo assedino per qualche settimana come caimani. E’ una promessa, Umberto. Per tutti i Brambilla superstiti sperduti nelle classi multietniche delle nostre scuole. Si potrà morire tutti, infine, amorevolmente e federalmente assistiti, con un soprassalto d’orgoglio e di dignità. E in culo a tutti gli altri.” 232 RACCONTI DI AMORE, DI PIETA’ E DI ORMONE 233 234 BRUNILDE INNAMORATA Brunilde era un bel tipo con grandi occhi scuri e un carattere mite e riflessivo. Veniva dall’Inghilterra e si era stabilita vicino Piacenza. Trascorreva le sue giornate di lavoro accanto a Igor, un bel maschio moro taciturno con occhi determinati, focoso, ma controllato, in un ambiente di lavoro accogliente con una musica di sottofondo piacevole e un lavoro variato con puntate anche all’aperto che rompevano la monotonia di tutti i giorni. Un giorno particolare, chissà perché, Brunilde vide Igor con occhi diversi e, in piena tempesta ormonale, se ne invaghì prima e se ne innamorò poi fino a divenirne pazza di passione. Igor non ebbe reazioni particolarmente effusive anche se le fece capire che qualcosa nel suo cuore corrispondeva a certi richiami. Brunilde invece, anglosassone più aperta di mentalità rispetto ai mediterranei pieni di tabù, senza avere timore di apparire ridicola o sfacciata, perse i suoi freni inibitori e amplificò la sua gioia di vivere nel segno del totale abbandono. Una mattina, mentre osservava rapita il suo Igor, ascoltando in sottofondo musicale la calda voce di Gene Kelly che cantava “Singing in the rain”, la celebre canzoncina molto allegra e fresca del film “Un americano a Parigi”, si lasciò trascinare dal ritmo coinvolgente e sbarazzino e senza accorgersene cominciò ad andare a tempo col brano musicale, a tempo di tip tap, leggera e felice, completamente rapita dal suo amore. E cominciò a canticchiare anche lei sulla voce di Gene Kelly ballando sempre più convinta e spensieratamente abbandonata... Brutta cosa l’invidia degli umani, la loro cattiveria e crudeltà nel voler sopprimere spesso la vitalità bella e leggera dell’amore tra due creature... Brunilde finì di vivere la sua storia di amore e la sua vita qualche giorno dopo con un chiodo in fronte sparato da una pistola al mattatoio e venne buciata nell’inceneritore 235 comunale come una vacca di nessun valore, anzi, come una mucca pazza. Fino all’ultimo istante, per amore, non volle credere che quel chiodo avrebbe posto fine alla sua canzone d’amore preferita e guardò con fiducia l’inserviente armato accennando ancora a qualche passo di tip tap... 236 FINE DI UNA SIMBIOSI E’ probabile che esista anche l’amore eterno, ma l’ingordigia del desiderio di altre sensazioni, di nuove conoscenze e nuovi percorsi amatori vigila sempre, anche quando il più consolidato amore sonnecchia: e allora colpisce, e colpisce duro. La lunga relazione tra Bernardo il paguro e Attinia un brutto giorno si interruppe. Bernardo adocchiò vicino ad uno scoglio una bella ostrica con una perla lucente invitante che faceva capolino tra le valve socchiuse e cominciò ad averne abbastanza di Attinia, sempre sulle sue spalle, quasi passiva, e cominciò a trovarle difetti: sempre più grassa e cellulitica, gelatinosa ormai, con quella chioma di tentacoli sempre più arruffata…avesse avuto i piedi avrebbe avuto da dire perfino sul loro ipotetico odore. Per fare breve il discorso, cominciò a divenire scostante, freddo e disattento nei confronti di Attinia e per ingordigia di una nuova passione cominciò quasi ad odiarla. Anche lei, comunque, cominciava ad avere una sua stanchezza sentimentale verso Bernardo, sempre uguale, di scorza dura, sempre rosso paonazzo e sempre più goffo nel suo incedere a passeggio lungo i fondali del mare: avrebbe voluto evadere, conoscere gente nuova, allegra, misteriosa… Si lasciarono con freddezza, civiltà e rancore represso, e cercarono di ricostruirsi una nuova vita. Mai scelta fu più imprudente e sbagliata, dettata dall’avidità di ciò che non è dato di potere avere! Bernardo, senza più la tutela di Attinia, che spaventava e teneva lontani eventuali nemici e predatori con i suoi capelli tentacolari urticanti, finì preda di un giovane polipo: costui braccava l’ostrica socchiusa, ma non si fece sfuggire il più facile pranzo e con il suo becco fece quasi subito breccia nel paonazzo guscio del paguro ormai indifeso. Anche Attinia fece una brutta fine: si innamorò perdutamente di un essere misterioso grigioverde che giaceva sul fondo immobile. Si adagiò su quel corpo freddo da brividi con la maggiore lussuria possibile per un’attinia e 237 si posizionò sopra un pulsante credendo fosse un organo di piacere: era la spoletta di una mina antiuomo, residuato dell’ultima guerra, ancora funzionante. I tentacoli urticanti, non più urticanti ormai, si sparsero tutt’intorno e un branco di acquadelle, contente della loro esistenza, fece festa con un lauto banchetto di minuscoli bocconcini di Attinia. 238 GIAMAICA PER DUE Si sdraiò sul telo da bagno in bermuda e maglietta e volse il viso al sole ancora tiepido di prima mattinata. La spiaggia era ancora semideserta e lui era sempre mattiniero per arrivare a potersi piazzare tra la prima fila degli ombrelloni e il bagnasciuga. Si appisolò incurante dello scaldare dei raggi e del popolarsi sempre più rumoroso della spiaggia, protetto dalla maglietta leggera, rispetto al sole ora più aggressivo, e isolato dalla cuffia del walkman che lo avvolgeva in musica tropicale. Teneva impercettibilmente il tempo con una mano a contatto con la rena tiepida e schioccava piano le dita in levare, a tempo di reggae, immaginando brezze giamaicane e odori penetranti di fumo particolare mescolato con odore di pesce cotto alla brace e aroma di liquore di cocco nel salmastro di una sera esotica in riva al mare. Sfiorò inavvertitamente una mano vicina alla sua e mormorò delle distratte scuse, ma non percepì una risposta nell’ovatta dell’abbandono rasta; notò, però, che la mano non si era ritratta, e cominciò a fantasticare di una Giamaica per due e a giocare e sfiorò nuovamente quelle dita… L’altra mano non si ritrasse e anzi sembrò rispondere con una contrazione minima d’ipocrita indifferenza eppure tensione emozionale. Se ne accorse e insistette in un gioco ora più scoperto di sfioramento di polpastrelli mentre nell’aria ora avvertiva odore di abbronzante, salsedine, umanità che cominciava a passeggiare poco distante da lui e da quest’altra mano, lì sul bagnasciuga, sollevando granelli di rena e recando odori di acque di colonia e altri abbronzanti. Il gioco era piacevole nello stordimento della musica e nel calore del sole sempre più torrido. Si sentì sfiorare le labbra da altre due labbra delicatamente e fu pervaso da quel piacere che abbandona il corpo e lo rende acquoso. 239 Rispose, anche lui delicatamente mentre la mano di prima lo sfiorava sul collo e giocava accarezzandolo sulla guancia contropelo della sua barba di quattro giorni. Avvertì un corpo avvicinarsi verso di lui in un contatto caldo e sensuale, delicato, ma ora più deciso… I due giovani bagnanti slanciati, allegri e ciarlieri s’incamminarono elastici dalla riva verso le cabine in fondo e passarono davanti ad una coppia sbirciando con una certa incredulità. La ragazza, appena oltrepassati i due che erano avvinti in un bacio molto passionale indifferenti verso il mondo intero, ruppe il silenzio e mormorò: “Accidenti che stomaco, quel bonazzo là… Una scorfana balena e cozza come quella dove è andato a pescarla?” Risero ancora sguaiatamente voltandosi a rimirare furtivamente i due e quasi inciamparono in uno splendido lupo alsaziano seduto vicino ad una cabina. Era immobile come una statua, vigile verso un punto del bagnasciuga, fiero, compenetrato in una sua responsabilità verso il suo padrone che prendeva il sole. Aveva una pettorina bianca con la croce rossa e il bastone bianco del suo padrone a fianco a lui… 240 SCHIAVO D’AMORE Ognuno di noi ha una sua debolezza erotica, un qualche suo feticismo, una smagliatura nella rete di autodifesa da un immotivato apparire ridicolo, benché si sappia razionalmente che non dovrebbe esistere ridicolo nella passione. Io ho avuto da sempre una mia debolezza per un particolare imperfetto di una donna, di una qualsiasi donna: io mi accendo nello scorgere in un sorriso o in un piacevole interloquire in un discorso una dentatura appena irregolare o, al massimo della mia percezione personale di perfezione estetica, un dente accavallato. E’ un mio curioso feticismo assimilabile ad altri riguardanti piedini o pelurie o capigliature più o meno fulve o altro ancora: io amo i sorrisi, le bocche atteggiate a discorsi fitti fitti o a smorfie di disgusto o pieghe irrisorie o ironiche. Io amo la donna col canino sopra l’incisivo o il premolare, prepotente e candido, che la rende ai miei occhi ingorda, carnivora, rapace, e quindi passionale e scrigno di promesse di piacere. Ho conosciuto diverse donne per come mi piace questa piccola imperfezione e ho cercato di amarle tutte, debole e soggiogato, da vero feticista, e mi sono perduto dietro sorrisi candidi e irregolari accompagnati da una voce roca uterina, dietro a pasti immaginifici in un ristorante, eccitato nel vedere sbocconcellare una coscia di pollo o un boccone di roast-beef al sangue: fantasia mia malata, forse, o concetto preciso di quello che è il mio erotismo in associazione alla carnalità. E cosa rappresenta di meglio la carnalità se non una chiostra candida di denti vagamente felini a incorniciare un sorriso carico di promesse? E’ per questo che sono ormai schiavizzato alla mia signora e padrona, Zora, la vampira, e sono stasera, in questa notte da lupi piovosa e ventosa, a caccia di giovani vergini delle quali non me ne può importare di meno, tutte 241 carine e regolari, con i loro sorrisi dolci, anonimamente insipide, indifferenti per la mia segreta voglia di passione… Zora… donna perfetta per me… 242 DA QUALCHE PARTE SBOCCIA L’AMORE Luminosità soffusa su pareti nocciola ad abbracciarci in un cono di luce. Sottofondo musicale rilassante: “Pavane pour une enfante defunte” di Ravel, che smarrisce sensibilità e cattura energie per disperderle in ricordi e sensazioni indefinite di struggimento e romanticismo. Fuori lo scrosciare di una pioggerella uniforme e uggiosa che rende più apprezzabile e accogliente l’ambiente interno. Un brevissimo bagliore di sguardi tra noi. Una voce avvolgente nella sicurezza delle intenzioni, decisa, quasi un comando: “Calmo…” Una mano che carezza, fruga, palpa, provoca, prepotente ed invasiva. Mormorio sopra un violino quasi mistico: “Bene, bene, …come l’ultima volta, …come prima ancora…” Atmosfera snervante, languorosa: un senso d’abbandono che cede alla pudicizia sotto l’attacco di carezze di dita voraci guidate da una voce esortativa, complice, sussurrata tra le note della musica impressa sulle pareti materne color nocciola. Altro bagliore di sguardi, più insistito, in confusione di ruoli ed emozioni, in richiesta di risposte a domande mute. Forse mi sto innamorando del mio urologo… 243 UNISCE L’ABBRACCIO DEL BUIO Sole ingordo a Nablus: una palla di rame che scioglie in sudore i viventi. “Copritemi le spalle: quel ragazzo alla fermata degli autobus mi puzza di marcio…” Si rivolge ai due commilitoni, il taurino sergente Saul dall’incipiente pinguedine, e con andatura circospetta, apparentemente indolente da bulletto di angiporto, si dirige verso la fermata scrutando a destra e a sinistra attraverso gli occhiali a specchio che gli conferiscono un’aria da cattivo cui non bisogna mancare di rispetto. Miriam suda come una forma di formaggio fuori frigo. Non vede l’ora di essere a casa per fare una doccia, per parcheggiare la piccola Ester davanti a due dolcetti e un bicchiere di latte e godersi qualche minuto di riposo. La piccola frigna che è stanca e che ha caldo e che l’autobus non è ancora arrivato. Ester è una bambina di sei o sette anni assolutamente normale e vuole attenzione come tutti i bambini del mondo. Miriam urta alla fermata, con la sporta della spesa, il vecchio piccolo Isaac con quel donnone di sua moglie Lia che quasi gli fa ombra. Si sventagliano i due anziani coniugi: Isaac con un fazzoletto spiegazzato ad asciugare i solchi delle rughe e Lia con un ventaglio ‘made in China’. Hanno l’illusione di un refolo di fresco, ma in realtà scacciano la polvere fastidiosa che tutto ricopre impalpabile sulla strada riarsa. Elias è irritato: tutto va male oggi! Il lavoro non è stato pagato con scuse puerili, è nato un battibecco con il cliente che, però, ha il bagno rimesso a nuovo. L’auto ha scioperato per rivendicazioni di olio e lui odia prendere gli autobus. La borsa degli attrezzi inoltre è pesante e il caldo asfissiante non può essere annullato con l’aria condizionata, lì, all’aperto, tra piccoli vortici di polvere ad ogni passaggio di automezzo. Attende, Elias, torvo, fissando la punta delle scarpe, soppesando mentalmente il suo portafoglio che piange diverse banconote. 244 Ahmed ha un prurito insopportabile in testa: non sopporta la tintura dei capelli che, con il caldo e il sudore, sta azzannando il cuoio capelluto. Si sta guardando intorno attraverso un paio di occhialini verdi. Gente che passa, sosta, ride, parla. Seri e compenetrati studenti con quei buffi riccioli che pendono dalle orecchie e quel cappello che cuoce il cervello e allegri impiegati in camicia candida e zuccotto in testa. Donne scattanti, alcune belle e altre troppo mascoline, e ragazzi ciarlieri allegri. E’ probabile che stia nelle vicinanze anche qualche ‘gentile’, qualche infedele: nessuno è innocente a questo mondo… Sta pregando interiormente, l’improbabile biondino con gli occhialini verdi, e sta pensando alla sorella minore a casa con la sua mamma, dietro quelle colline laggiù in fondo. E’ trepidante, ma fiducioso. Il grande Ibrhaim, il forte Ibrhaim gli ha promesso, gli ha giurato sul sacro nome del Profeta che provvederà al futuro dei suoi congiunti in ogni occasione e circostanza per il futuro, anche se i sionisti dovessero abbattere la casa da cui è partito ieri sera col buio. Prega e viene assalito da una muta di pensieri affamati che lo stanno dilaniando: è giusto agire cosi? Serve effettivamente alla causa? La disperazione può arrivare fino a tanto? Avrebbe voglia di vivere, Ahmed, e di guardare per la strada il passeggio di giovani flessuose ragazze dagli occhi neri maliziosi e allegri. Avrebbe voglia di parlare, giocare, ridere, scherzare, sorseggiare un tè tiepido dal piattino sulla soglia del ritrovo di Yasser sorridendo a qualche timido sguardo curioso di gazzella. Incrocia lo sguardo con la piccola Ester. La bambina lo guarda seria e smette di piangere, attratta dal verde delle piccole lenti. Cerca di individuare gli occhi del giovane attraverso i vetri affumicati e fa curiose smorfie a farlo ridere. 245 Sorride di rimando, il falso biondo, triste, ma con la coda dell’occhio vede di fronte a sé un militare in mimetica che avanza verso di lui lentamente con pigra baldanza. Ahmed volge lo sguardo intorno per vedere quanta gente circola nelle sue prossimità. Valuta con freddezza gli obiettivi in attesa alla fermata e realizza che non potrà attendere oltre l’arrivo dell’autobus con il suo proficuo sali e scendi di viaggiatori: il soldato ha dei sospetti e lui è troppo impacciato tra la cintura e lo zainetto dietro le spalle che gli bloccano parzialmente i movimenti. La vita, con i suoi ricordi, rimpianti, speranze troncate, desideri irrealizzabili, scorre in un attimo e si confonde con immagini vivide e sfocate in una sommessa litania di fiducia, di carica e di paura. Si cristallizza tutto nel fermo immagine della piccola Ester che lo guarda e sorride mentre il militare sta per chiedergli qualcosa. Ahmed non può più esitare. Urla sgraziato spalancando gli occhi: “Allah è grande!” e perde il suono della voce in un boato eterno. In una frazione di tempo infinitesimale, in quell’attimo di residua coscienza mentre si disintegra nello scoppio della sua cintura, ha la visione meccanica, ultima fotoimpressione, di una borsa in aria che perde chiavi inglesi, un elmetto che rotola, uno sguardo attonito di bambina che si riempie di sangue nero, polvere, tanta polvere ad oscurare voli di braccia e gambe disarticolate, a celare pietosamente tutto, coprendo a stento pozze di sangue e attutendo lamenti e rumori come una nevicata fuori stagione su un disgraziato maledetto presepio. Poi tutto nero. Buio. Buio. Nero, fitto e impalpabile, senza punti di riferimento circa spessore, dimensione, densità. Come da un variatore di interruttore di luce girato troppo in fretta, dal nero assoluto si genera una luce verdina azzurrognola che pare avvolgere con il suo alone 246 freddo un luogo chiuso, una struttura che sembra geometrica, una parvenza di stanza. La luce, incerta e baluginante, si espande su sagome che sembrano fremere di energia, magmatiche in un susseguirsi di forme che appaiono umane, ma sono in divenire di altro. Nell’azzurrino smorto risaltano bagliori improvvisi scintillanti, di sorpresa, da punti che potrebbero essere occhi che si volgono intorno sorpresi e curiosi. Nella sospensione innaturale di questa luce nel nero sconfinato si creano impulsi confusi: mormorii indistinti, forse telepatici, voci inudibili. Messaggi. Toni impersonali, assenti quasi, e timbriche che sono in realtà energia che corre nello spazio indistinta tra suono e colore. “Dove siamo?” Brilla maggiormente la sagoma di un uomo senza più l’elmetto, violaceo, un’immagine seppiata che sta piano piano dissolvendosi nel verdastro che sta a sua volta sparendo nel buio nero. “Siamo oltre, soldato. Avresti dovuto intervenire prima, probabilmente.” La sagoma di chi ha perduto la borsa degli attrezzi è raccolta, liquida e assorta. “Lo vedi, Isaac? Se fossimo rimasti a pranzo da mia sorella non saremmo qui…” Potrebbe essere un rimprovero, quello di una sagoma grande vicina ad un’altra più piccola e minuta, un sarcasmo, ma il tono è piatto, indifferente, e le due figure stanno mutando forma. Si stanno creando ed evolvendo consapevolezze: del distacco, di nuovi valori rispetto a quello che era denominato vita, e si scrostano a poco a poco residui di rimpianto. La figura della mamma, individuabile accanto ad una forma molto piccola che luccica piena di energia, si rivolge verso un altro punto luminoso, un vecchio dagherrotipo annerito dal tempo e abraso da imprudenti stropicciature, appena incurvato dalla massa di un qualcosa dietro le spalle che sembra uno zainetto squarciato. 247 E’ difficile identificare dettagli con sicurezza. La luce sta scemando, verdastra, e i contorni delle figure sbiadiscono e stanno cambiando e si stanno trasformando in qualcosa che assume la sembianza di globo luminoso con una luce intensa. “Sei sicuro che ce lo meritassimo? Sei sicuro di avere agito per il meglio? La mia bambina avrebbe potuto aiutare la tua gente in futuro…” Vibra di …emozioni?...la figura con lo zainetto smembrato. Risponde con un messaggio e impulsi per tutte figure che ormai sono globi di luce. “Il futuro si prepara con il presente, madre, e così è stato scritto da chi ha deciso: sono un semplice esecutore. Vorrei vedere se…” Si spalanca improvviso, in risposta alla richiesta, un vortice silenzioso e grigio nel buio dagli aloni verdastri. Il cono rovesciato di una tromba d’aria. Si intravede al centro dell’occhio un mutare frenetico di scene del mondo fisico. Polvere, fumo, fiammate violente improvvise. La stazione degli autobus è irriconoscibile in un frenetico andirivieni di persone che gridano, di ambulanze che striano lo spazio con le sirene, di militari che sparano verso punti indefiniti, di pianti sommessi e urlati, di maledizioni, di abbandono. Altra polvere, altro fumo, e si vedono carri armati per altre strade e si sente l’odore del kerosene, l’odore della terra riarsa, e si odono altre grida e altre maledizioni sovrastate da boati e da crolli di case con il rintocco a morto di sassi lanciati sulle lamiere dei cingolati. I fulcri di energia, non più di sagoma umana ora, sferoidi luminosi di intensa luce che affievolisce progressivamente, sono ai bordi di questo mostruoso cono e assistono a scene abbacinanti di sole ramato e di fiamme. La luce del cono si affievolisce e le immagini vengono ricoperte di polvere sempre più densa fino alla sparizione del vortice assorbito dal nero. L’alone verdino azzurrognolo si attenua inghiottito dal buio fino a scomparire e le bocce luminose galleggiano in un’oscurità senza limiti. 248 “Vuoti tentativi, mi sembra, e vuote reazioni…” E’ il sussulto di quello che poteva essere l’idraulico, pacato, assente, indifferente. Quello che somigliava ad una stanza è sparito.. Solo globi fluttuanti nel buio che stanno perdendo la loro luce e la loro energia e stanno per essere fagocitati dal nero assoluto. L’energia della piccola emana un messaggio verso quello che fu un kamikaze. “Mi ricordo i tuoi occhialini verdi…e avevi un bel sorriso…Mi divertivo a farti le boccacce. …Vorrei stare vicina a te…” Le luci sferiche si stanno rimpicciolendo e spegnendo come stelle. Nessuna reazione, nessun desiderio: un passaggio verso una nuova esistenza affatto diversa, forse, o verso il nulla per cui nulla occorre ad accelerare i tempi di realizzazione. Scompaiono i globi, ad uno ad uno, nel buio totale che inghiotte energia, ed il nero assoluto, secondo la limitata logica umana, palpita di illogici errori o di vita o di niente. 249 UN INSOPPRIMIBILE DESIDERIO DI VIVERE “Oggi è una bella giornata: sto bene, sono comodo e le cinghie sono morbide. Caldo mi accarezza il viso e mi solletica i polsi e aria debole mi porta odori buoni. Annuso erba bagnata dalla pioggia di ieri che mi ha bagnato il cuore, e aroma di alberi, penetrante e stordente: resina, foglie secche, ma umide. Martina mi accarezza le tempie con i polpastrelli e mi dona benessere. Mi tamburella sensazioni piano, delicatamente, e mi presenta il suo mondo. Ho strane sensazioni quando Martina mi accarezza le tempie nel buio: mi vibra tutto il corpo e ho pulsazioni estenuanti che si concentrano nel basso ventre. A volte sopraggiunge un desiderio improvviso di carezzare, di essere carezzato, e sorrido all’aria, a Martina che mi traduce dolcemente frasi d’amore e qualche volta mi dà un bacio a fior di labbra. Una sensazione interiore squarcia le tenebre: Martina la chiama musica. L’odore di lei si fonde nel mio mondo e sogno di dare forma al suo profumo di delicata lavanda, alla fragranza del suo corpo dai polpastrelli gentili, alla morbidezza delle sue labbra. Talvolta ho avuto una sensazione violentissima, un’esplosione da togliere il fiato, meravigliosa, e subito dopo mi sono afflosciato su me stesso esausto e felice, abbandonato sulla spalliera del sedile. Martina allora mi ha accarezzato le tempie e il volto con maggiore delicatezza e anche forza che ho interpretato come amore, forse, o felicità del fatto che le voglio bene, che l’amo. E mi ha baciato ed accarezzato in maniera diversa e avrei dominato il mondo intero. E gli odori sono divenuti più intensi e la brezza ne ha portati altri ancora sulla mia pelle, tiepidi di caldo o bagnati 250 da una pioggerellina fine che è uno dei tanti discorsi della natura, sempre incuriosenti e molto interessanti... Buio materno, ora, avvolgente come una sciarpa calda. Scossoni leggeri, piacevoli quasi: Martina mi guida dolcemente sicura. Discorsi di vento sulla pelle. Sì, oggi è una bella giornata e sono felice.” Un vecchia stanca sospinge con attenzione e delicatezza una carrozzina cui è legato un giovane. Ogni tanto lo accarezza sulle tempie e gli tamburella leggermente con i polpastrelli messaggi pazienti e sereni. La vecchia sorride trepidante ai margini della pineta e il giovane annusa l’aria attento. Poi sorride anche lui. Ha compreso. E’ assorto, curioso ed entusiasta per nuovi odori e per un refolo di aria nuova, sulla sua carrozzina che lo sorregge, sordo, cieco e muto, ed ha un insopprimibile desiderio di vivere. 251 DIFFERENZE DI SORRISI D’AMORE Il fiume limaccioso scorre là sotto come un violento massaggio di argilla. A momenti sembra una magmatica resina torbida che imprigiona, come se fossero insetti, palloni, bottiglie, cassette da frutta e copertoni per qualche nuova gemma d’ambra, di nafta iridescente e liquami, laggiù verso il mare. Cielo livido e vento di tramontana che sferza gelido. Orario di poco traffico e pochi pedoni in giro. Una figura immobile, appoggiata al parapetto, fissa la corrente in basso. Da troppo tempo. Una voce concitata scuote torpori e rompe una ipnosi di mulinelli spumosi come un mostruoso cappuccino. “Si fermi, si fermi, per l’amor del cielo…Cosa ha intenzione di fare?” La figura interpellata si volge verso una donna scarmigliata che corre verso di lei con aria preoccupata. Due donne di fronte sulla spalletta del ponte e un innaturale silenzio, assoluto tra loro, seppure relativo tra qualche clacson esagitato e rombo di auto che passa. La donna, che appare imbacuccata in un cappottone largo, in realtà stringe a sé una coperta con avvolto un bambino o una bambina. Sembra una signora ‘per bene’, sui trentacinque, forse quaranta anni, alta e severa di portamento; si può supporre dagli abiti che sia di discreto ceto sociale, appena truccata, giusto un filo, vestita sobriamente senza concessioni a mode frivole di cattivo gusto. Osserva con placida tristezza e occhi grigi come il cielo l’altra donna, piccola, rotondetta, anche essa sui quaranta o lì presso, dal viso arrossato mobile che non concede punti di riferimento ad espressioni sempre mutevoli e sempre esagerate. La piccoletta si avvicina sollecita alla donna altera con fare amichevole. 252 “Signora, la prego, la scongiuro, non faccia sciocchezze. La sto guardando da quando è arrivata qui sul ponte: io sono laggiù nel gabbiotto delle granatine e del bar. Ho subito capito che qualcosa non andava: ho fatto l’occhio a certi comportamenti. Mi creda, signora, abbandoni certi pensieri: non ne vale mai la pena. Venga al chiosco con me: le faccio un caffè caldo che la rimetterà in forza e la riscalderà. Venga, venga, signora, lo faccia per la sua creatura innocente che non merita certe scelte…” La gentile barista, che parla come una macchinetta del caffè, cinge di un abbraccio la mamma che rabbrividisce a nuove folate di vento. Comincia a venire giù qualche goccia di pioggia, rada, e la luminosità diviene più cianotica e qualche auto di passaggio accende i fari. L’alta signora segue per uno o due passi quella donna premurosa e amichevole con il grembiulone pesante e i guanti senza le dita, poi si impunta e la scruta con freddezza disperata. Voce esangue, determinata e stanca. “La ringrazio dell’aiuto, ma non c’è molto da fare per me, per noi che siamo rimaste sole. Ognuno compie delle scelte: mio marito ne ha fatta una ieri sera con una lunga lettera. Oggi tocca a me scegliere, e lo devo fare anche per lei…” E scosta appena la coperta calda a presentare alla barista una bambina che dorme. La piccola è rosa, paffuta, serena, naturalmente innaturale con una testolina molto più grande di quanto sia lecito supporre, con un sorriso nel sonno che appare come un ghigno attraverso una bocca che è un taglio in un viso che fa trasalire la donna che guarda con iniziale curiosità ben disponibile. E’ un trattenuto ribrezzo, ora, un fugace orrore per una creatura che è deforme, solo questo, crudamente: deforme. Ma è un attimo: si ricompone in un sorriso mesto, la cicciosa barista morbida, e cerca di modulare la voce come una ninna nanna tranquillizzante per la mamma affranta. 253 “Mi dispiace tanto, signora, mi creda, ma che cosa spera di risolvere con le sue scelte? Crede che la bambina ne sarebbe felice? E lei, che è una bella donna nel fiore degli anni, cosa risolverebbe? Mi rendo conto che le parlo da estranea che non è stata toccata dalla sorte così crudelmente, ma quello che vuole fare lei, signora, è sterile, non è costruttivo, e non tiene conto del fatto che la creatura possa amare la vita e possa avere voglia di godersela in futuro per quanto possa essere possibile. Non trova ingiusto il volere prevaricare con decisioni sue che sono solamente la reazione a un momento di debolezza?” “Debolezza, dice lei? Altro che debolezza. Sono sfinita da tre anni di lacrime, di malintesi, di rivalse, di reazioni, di rinfacciamenti. Ho le orecchie che ronzano di parole sputate con odio e disprezzo: non sono una brava madre, una buona madre…sforno mostri…è colpa mia, colpa nostra, anche di questo angelo innocente, che sbava troppo, che disturba, che turba persone che dovrebbero essergli vicine semmai di più che rispetto ad altri bimbi sorretti dalla buona sorte. Sono sfibrata dagli sguardi di compatimento dei passanti, dai consigli elargiti da persone che sono disponibili solamente in teoria, dalle chiacchiere dei tuttologi, di chi deve sempre dire la sua opinione senza riflettere e senza rispetto. Cerco pace, silenzio, per me e mia figlia. Voglio solo silenzio intorno a me e alla mia bambina…” La voce si incrina nel tono e si frantuma in singhiozzi. La valvola della commozione, troppo a lungo tenuta serrata, ha il suo sfogo in un pianto liberatorio sulla spalla della barista attonita che sta inumidendo lo sguardo buono per partecipazione solidale. Le due donne si abbracciano, amiche da sempre, su quel ponte, sotto una pioggerellina fine non ancora insistente, e proteggono con un doppio amorevole abbraccio 254 una piccola dormiente che sogna mondi di bambini senza differenze. “Venga, venga da me al bar: le faccio qualcosa di caldo e parliamo un poco tra noi. Venga, venga…” Si avviano verso il chiosco accingendosi ad attraversare il ponte. L’autotreno è in ritardo. L’autista ha visto il semaforo verde laggiù alla fine del ponte e spera di farcela a passare. Un colpo di acceleratore. Il ponte è sgombro, ma è anche sdrucciolevole per la fine pioggerella e per le rotaie del tram che sono forse troppo in rilievo. L’autista ora piange incredulo con il volto rigato da lacrime e pioggia, ora battente, seduto sul marciapiede a ridosso della spalletta del ponte. Due ombre improvvise davanti all’autotreno, troppo tardi per frenare, un urto violento, un tonfo, qualcosa che è volato nell’aria. E’ stato interrotto il traffico sul ponte e una sirena lontana di ambulanza lacera l’aria. Luci azzurre e verdine riverberano la strada luccicante. Una pattuglia di Polizia cerca di tenere lontani sciacalli curiosi. Mormorii confusi, un pianto sensibile, domande sciocche. Una pattuglia di Vigili prende misurazioni partendo dall’automezzo di traverso sulla carreggiata. Non si è trovato ancora un lenzuolo per coprire tre corpi. Sono lì, vicini, appena sciolti da un abbraccio a riparare una bambina dalla pioggia, scomposti sull’asfalto bagnato come manichini, con una curiosa espressione di felicità nei visi. Tutti e tre. Sembrano sorridere: tre sorrisi diversi. Serenità innocente in un mondo di bambini tutti uguali, serenità nella soddisfazione per una buona opera compiuta e una nuova amicizia, serenità nella determinazione di una buona scelta. Ma questa è la fine: così è scritto. 255 FILASTROCCA DELLA MORTE PER AMORE Uno: sono io, non un nessuno… Sorrisi d’accoglimento e sguardi luccicanti d’adorazione. Si è davanti al tanto cercato tesoro: gioia infantile fusa in progetti e miraggi. Un’indefinibile sensazione comune di scioglimento si diffonde in un tepore caldo che non è solo il calore degli abbracci. Liquefazione. Buia grotta magica che risplende di gemme. Due: le mie gambe tra le tue… Spensieratezza e risa liberate e brade di felicità. Esplorazione in un gioco di nascondino tra respiri mozzi: animaletti curiosi, le nostre mani, che vagano per sentieri di contrade sconosciute alla ricerca di riparo e ospitalità. Delicatezza e cura nel disappannare cristalli fragilissimi. Tre: cosa non farei per te… Promesse: il consacrarmi ad una causa, il fissare due pupille sognanti con un messaggio d’onestà solare a presentare, in ginocchio e con rispetto, un carico di doni da srotolare dalla gobba di un dromedario e spandere sulla sabbia riarsa sopra un prezioso arazzo. Dedizione, complicità, fantasia con occhi bassi a non vedere, con lo sguardo del respiro in attesa. Quattro: sono sopra, quatto quatto… Adrenalina, una scossa elettrica continua a fibrillare il filo della colonna vertebrale. E’ un posizionarsi come un puma potente e agile, un animale da preda, in agguato sulla roccia di sconvolgenti pensieri perversi, a ghermire una preda che può trasformarsi in predatore caimano immobile in attesa. Attendismo ad esasperare avidità: la pazienza che distorce emozioni. 256 Cinque: è la danza delle lingue… Musica che assorda cervelli con arrangiamenti d’orchestra e sospiri e singhiozzi solisti. Un ballo di corpi allacciati in un tango o bolero. Un agitarsi d’ombre danzanti alla luce di un camino acceso nel buio. Una danza frenetica suggellata in un semplice bacio. Rituale liturgico, disciplinatamente organizzato e anche sfrenatamente pagano a sacrificare vittime alla collera degli dei per placarli a donare benessere. Sei: io per te son lui o lei… Trasgressione: quello che i nessuno chiamano depravazione, senza sapere. Si accende un motore ruggente d’intenzioni rampanti a trasformare ruoli per il piacere della curiosità e del totale asservimento nella devozione. Guida tu che sono stanco e vorrei rimirarti il volto attento all’affascinante strada nebbiosa. Sette: ad udir cose mai dette… Provocazione a solleticare fantasie, fantasia ostetrica ad aiutare a nascere immagini che hanno bisogno di cura e amore. Voce suadente a carezzare tempie madide di sudore e a dissetare gole riarse di respiri mozzati. Manca l’aria: senso di soffocamento nell’aroma di parole forti. Otto: e nel cuore un primo botto… Un punteruolo nel cuore, una sensazione di dolore nel troppo piacere, lo sbarrare lo sguardo perduto in occhi socchiusi illuminati da lacrime di gioia. Ridere dentro all’idea di quanto possa essere bello morire. Così. Nove: a morir amando in prove… Piacere di soffrire nel piacere di vivere e godere. 257 Dare e ricevere in amplificazione di sensi: tatto estremo in leggerezza che è solo sfioramento, odore stordente di parole sussurrate, vista d’emozioni che premono nel petto ad uccidere o a liberare o a fissare l’immortalità nella morte per amore. Un ultimo soffio in gola, interminabile, accolto, a cercare una nuova dimora in un cervello accogliente. Dieci: oramai terra per ceci. Crescono rigogliose le piante ornamentali di questo giardino, contagiate dalla felicità di un corpo che comunica gioia eterna ad un humus che nutre bellezze di fiori e di steli che raccontano d’antichi amplessi. Una donna innaffia con lacrime di malinconica gioia e ricordi quel terreno e le piante complici reclinano le corolle e mormorano al vento un canto di preghiera sommesso: una filastrocca per morte d’amore. 258 UNA BOTTA DI VITA Il frinire assordante delle cicale, nel silenzio di una luce abbacinante, e la canicola di un primo pomeriggio agostano profondamente azzurro favorirono il buonumore di un destino capriccioso. L’aria ricca di salsedine del mare vicino, in fondo allo strapiombo poco distante, completò lo scenario rendendolo più eccitante. Si scorsero, vicini, distolti dai loro pensieri, e con una semplice occhiata si piacquero. Fu un corteggiamento brevissimo, di sguardi assassini e di lingue passate su labbra riarse in significati inequivocabili. Si sdraiarono avidi su una pietra bianca e levigata, tra altre pietre, e si brancicarono con passionalità frenetica in condivisione di scariche adrenaliniche al pensiero di potere essere scorti da qualcuno. Il sole arroventava la piccola piana e asciugava fiori rendendo l’aria ardente in simbiosi con altri gesti. Fu un amplesso selvaggio, animale, consumato da due corpi prossimi all’esplosione, inguainati in vestiti scuri, ad assorbire energia solare e pulsazioni vitali disperse nell’aria. Sudori e afrori si mescolarono all’odore del mare e di bacche gonfie. Gemiti sfibrati e mugolii di soddisfazione fecero da contrappunto al rumore di un orario estivo scontroso, torrido ed assolato, nel percepire lo stormire di poche ombre di alberi severi, di cipressi secolari, e di cespugli rigogliosi di lentisco e citronella. Le fotografie di Giustino Saltalapicchia, nato nel 1909 e morto nel 1997, e di sua moglie Elvira Pregobassi, in Saltalapicchia, nata nel 1913 e defunta nel 1999, occhieggiavano dalla lapide infissa di fronte alla pietra candida ribollente disseminata di petali di fiori secchi che accoglieva i due corpi ansanti. Sembravano curiose, le due immaginette ovali seppiate, e anche interessate. Terminò, alfine, l’incontro, infuocato per diversi motivi. 259 Lui, galantemente, rubò, non visto da lei, un tulipano violaceo appena vizzo da un vaso panciuto lì vicino, forse dedicato ai coniugi Saltalapicchia, e ne fece un omaggio d’amore alla sua compagna di piacere. Sembrò più intenso il frinire delle cicale e la luce cercò invano di stanare altre persone in quel piccolo cimitero vicino al mare. Nessuno riuscì ad udire nell’aria un rumore di applausi tra mormorii sommessi di approvazione divertita… 260 STORIE DI NUOVE NINFE METROPOLITANE Lyu Min è aggraziata e flessuosa come un giunco. E’ una nuova ninfa metropolitana, forse una Naiade, ninfa di fiume, che ha cambiato dimora: dalle foreste acquitrinose a ridosso di Vientiane vive oggi, insieme alla sua famiglia, sul colle Esquilino, a ridosso della stazione Termini di Roma, in caotica operosità di botteghe di abbigliamento, per sbarcare il lunario nel perseguimento di un futuro tranquillo benessere. E’ fiduciosa nella vita, Lyu Min, e la sua chioma corvina liscia e serica ondeggia alla brezza del tramonto mentre i due occhioni scuri si imbevono di porpora accesa. Sta uscendo dal piccolo supermercato contiguo al grande atrio delle Ferrovie Laziali: reca due pacchi di acqua minerale, con la confezione di cellofan e le maniglie di cartoncino plastificato, e un sacchetto non tanto pieno. La busta bianca le sta per sfuggire dalle dita che trattengono saldamente i manici e la ragazza si ferma un attimo per migliorare la presa ed equilibrare il peso. Si china e si guarda intorno imbarazzata nella sua timidezza, ma divertita e serena. I suoi occhi incontrano uno sguardo allegro e sfrontato che sormonta un abbozzo di sorriso. Un giovane biondo riccioluto, forse romano, forse straniero, che pare aspetti il trenino per la Casilina, la fissa e ammicca. Lyu Min percepisce nell’aria calore e cordialità e contraccambia il sorriso con educato cameratismo pudico. Si scuote, ricciolo biondo, dal palo cui è appoggiato indolentemente, e le fa il gesto di volerle dare aiuto portando almeno sei delle dodici bottiglie. La giovane arrossisce con piacevole tumulto interiore di innocente vanità: non è il tramonto che accende. Si stacca, il biondo, e le è accanto con un sorriso smagliante di principe azzurro. Bizzarra la vita nelle distorsioni delle percezioni. 261 Un sorriso candido può essere di principe o di squalo e una chioma dorata può essere di agnello d’oro o di puma vorace. Uno sguardo luccicante può essere in realtà torbido e melmoso. La piccola Lyu Min vede quello che vuole vedere e che sogna fin dai tempi della capanna vicino a Vientiane, dove qualche vecchio stanco raccontava di benessere e favole metropolitane. Viene e trovato, il flessuoso giunco, spezzato da una lama, due giorni dopo, semicoperto da cartoni, dietro le vecchie rovine delle mura Serviane, mimetizzato da un cespuglio, accanto a due confezioni di bottiglie d’acqua minerale e una busta di plastica semivuota. Gli occhi spalancati non hanno luce, ma lo stupore impresso di ultimi attimi di vita. Le ninfe metropolitane hanno perduto la loro immortalità. E’ appena appesantita da due maternità, la giovane Haidée, splendida gazzella degli altopiani etiopici, nuova Oreade, ninfa dei monti, dalla pelle lucente come l’ebano mortificata da colori accesi accostati con cattivo gusto per attirare attenzioni. Esce, come tutti i tramonti, dal ‘meublè’ vicino a via Marsala, a ridosso della stazione. Oggi ha una luce nuova cupa nei suoi occhi lucidi di febbricitante vitalità. Ha appena letto una lettera dalla grafia incerta proveniente dal suo paese e ha gonfiato il suo cuore di sangue amaro e disperazione. Una bomba è esplosa nel suo villaggio sui monti e i suoi due piccoli leoncini sono stati straziati dalle schegge. Roma si tinge di carbone e seppia senza speranza e tutte le sere trascorse perdono di significato dissolvendo motivazioni come sabbia a smerigliare un nucleo granitico di disgusto e dolore. Non ha più valore il concetto di combattere: non c’è più motivazione per combattere e stringere i denti. 262 Perde giustificazione il sorriso giallastro di qualche vecchio satiro in auto dietro il Policlinico, di qualche piccola comitiva di borgatari che credono di essere andati allo zoo. Gli echi di qualche minaccia della signora che vuole farsi chiamare ‘mamma’, che le ha sempre parlato di mostri della notte, e del suo amico spesso silenzioso, che sorride da iena con occhi morti facendole vedere un serramanico, si affievoliscono nel rumore della via piena di gente che esce da pensioncine e camere ammobiliate per affrontare con più intenti la notte romana. Altri richiami nella mente: le voci miagolanti di due leoncini, il rumore in cascatella argentina di risate fanciullesche piene di vitalità, il frullare del movimento nell’energia libera di correre a giocare nello sterrato assolato. Sta scomparendo la mansuetudine rassegnata della gazzella. Nuove consapevolezze, nuovi bagliori di sguardo, e la preda sta avendo una metamorfosi che non sfugge ad altri sguardi mentre esce dall’ostello. Haidée non percorre la solita strada verso il buio degli alberi di via del Policlinico. Ha deviato verso il commissariato di Polizia. Alle luci giallastre dei lampioni che si sono accesi da poco sembra un semaforo che cammina e lampeggia accuse e pericolo per creature malvagie della notte. Un’auto romba dietro di lei troppo presa da altri pensieri. Si dice spesso: morire sul colpo. E’ inspiegabile il notare, in una morte sul colpo, come si possa atteggiare l’espressione del viso ad un qualcosa che appare come un sorriso sereno di liberazione. Meno protetti, i monti, dalla grazia di una ninfa che sembrava una gazzella appena appesantita di due leoncini. Sorride luminosa, Simona, mentre attende alle Laziali il tram che la riporterà a casa a Grotte Celoni. E’ pingue e formosa, come una ninfa dei boschi, umanamente pagana nello sguardo, dolce e disincantato insieme, morbida, scossa da turbinii di pensieri che le 263 volteggiano nella mente come crocchianti foglie secche dorate che chiamano nuova vita per nuove primavere. E’ innamorata, Simona, e nulla conta: è stata bene oggi, in compagnia del suo amore, e ogni inquietudine è stata rimossa. Sembra un santino, Simona, in levitazione leggera sulla banchina del tram, con gli occhi lucidi felici e il cuore in mano che irradia raggi di luce a dare la grazia al mondo. Oggi Roma ha ancora una ninfa che la sorveglia maternamente. Esistono anche storie che hanno una fine positiva e certi tramonti non grondano necessariamente di sangue. Stasera il tramonto è rosso di passione con striature arancioni e gialle che sembrano sorrisi tra le nuvole. Il tram si stacca dalla banchina lasciando un senso di vuoto, ma qualcuno ha comunque sensazione di essere protetto. 264 DI PRINCIPI E PRINCIPESSE Questa è una storia di relatività. E’ la vicenda di un bambino ucraino adottato da una famiglia italiana. Il virgulto sarà denominato con un nome fittizio: Svasamìcio Varanièci. Se si pronuncia ad alta voce, questo nome di fantasia senza senso, può sembrare davvero ucraino, come suono e musicalità. Il nostro piccolo eroe ha otto anni ed è vispo, ma posato e appena malinconico, con due occhi cerulei perennemente sgranati nella meraviglia curiosa del tipino sveglio. Ha un ciuffo di un colore indefinibile, forse somigliante al biondo di un girasole di Crimea a luglio, spiovente e liscio sulla fronte pallida e spaziosa che denota fantasia e intelligenza. La famiglia, che sarà definita banalmente famiglia Rossi, è calda e dispensatrice di affetti e attenzioni. Svasa ha una sua stanzetta piena di giochi istruttivi e variopinti, pupazzoni di pelouche, costruzioni di plastica e legno con tanti mattoncini riposti ordinatamente in scatoloni colorati. Il padre adottivo, appena possibile, in genere la sera, si sdraia con il piccolo sul tappeto e costruisce torri che racchiudono principesse prigioniere che devono essere liberate da cavalieri senza macchia e senza paura. Anche papà Rossi appare come un cavaliere senza macchia e senza paura, solamente con un odore di dopobarba in più. La mamma intanto canticchia e prepara una minestra per la cena e un odore di saporosi ortaggi si spande nell’aria a solleticare narici richiamando alla mente del bimbo zuppe di cavolo di pochi anni prima. Sembra una famigliola felice. Ma oggi Svasamìcio Varanièci è scomparso e tutti nel paese, dal maresciallo dei Carabinieri al farmacista che ha lasciato nel negozio l’apprendista, cercano il bambino volatilizzatosi nel nulla. 265 Sono diramate foto segnaletiche e un breve ritratto descrittivo con l’ultimo abito indossato dal piccolo. Dopo quasi due giorni d’angoscia e di timori per il peggio, da parte di tutti, giunge alla famiglia Rossi una segnalazione della Polfer di una città di confine: il fuggiasco è stato ritrovato, infreddolito, torvo e serio, arrendevole per un intelligente fatalismo rassegnato nella sconfitta di un tentativo non riuscito. Voleva ritornare in Ucraina. Non per ingratitudine verso papà e mamma Rossi, adorabili, o per fastidio verso la gente amica del paese. Voleva ritornare per rivivere da protagonista nel suo paese delle meraviglie. Ha raccontato ai poliziotti e all’assistente sociale il suo mondo lasciato di là, con occhi lucidi di commozione ed un sorriso aperto e nostalgico per il suo mondo fiabesco. Era un principe, Svasa, nella sua terra. Girava per i sentieri della campagna su una speciale carrozza: una melanzana gigante di duecento chili trainata da otto lombrichi sinuosi alti come robusti cani da slitta, e lui faceva schioccare felice il suo frustino che altro non era che un semplice enorme filo d’erba. Correva, la sua carrozza viola, strascinando sul terreno polveroso dei sentieri, e lui si riparava dal sole cocente con un ombrello gigante che era un girasole di un curioso colore porpora fosforescente. Rideva, il principe Svasamìcio, al pensiero dei suoi girasoli speciali, mentre la carrozza procedeva verso il Tempio dove avrebbe giocato con la luce. Inavvertite, durante la galoppata, nella gioia e nell’attesa di giocare, apparivano ai bordi della mulattiera le zucchine sformate con dita adunche che cercavano di afferrare la carrozza, e si stiracchiavano indolenti le foglie enormi delle piantine di lattuga, arancioni, stridenti come carta vetrata, con lumachine dal muso di coniglio occhieggianti che sembravano fare un ciao con le mani, o forse con le antenne che erano cinque o dieci anziché quattro. Un mondo da cartone animato, a tinte violente e vivaci, senza sfumature, è raccontato con voce nostalgica in un 266 passabile italiano agli astanti frastornati dentro una stanza del commissariato. Dietro all’assistente sociale attonito, riflette uno psicologo chiamato in tutta fretta per supporto. Sorride, pur essendo dentro di sé molto serio, e guarda il principino che racconta con occhi accesi di ricordi e rimpianti. Svasamìcio Varanièci parla del suo gioco con la luce al Tempio. Una storia che assomiglia a quella del piccolo studente olandese davanti al muro ciclopico dello Zuiderzee, che salvò il suo popolo con un dito nella fessura della diga, a trattenere il mare. Il piccolo ucraino racconta, invece, di avere più volte infilato la mano in una crepa del Tempio, una crepa che emetteva luce e calore e dava prurito. Ritirava la mano e si sentiva stanco, ma felice, circondato dai lombrichi che si riposavano dopo il traino della favolosa carrozza melanzana. Poi aveva voglia di dormire e di sognare di una principessa da liberare nel Tempio, più grande, immenso, rispetto alle torri costruite da suo padre adottivo. Ma doveva scappare di corsa, sferzando i suoi vermiformi destrieri, per l’arrivo di guerrieri in tuniche bianche, con un elmo bianco e una visiera di vetro, che lo spaventavano e lo inseguivano per un poco urlando minacce. Il medico a fianco dello psicologo nota che il piccolo Svasa ha un colorito verdastro e una pelle alabastrina, solcata da venature azzurrine, davvero fragile e soggetta a piagarsi. Osserva anche che il giovane ha pochi capelli per la sua età, a parte quel ciuffo ribelle sull’ampia fronte pallida. E’ un ciuffo biondo di un giallo strano, innaturale come lo sguardo, acceso di una luce che è brillante, ma fredda. Il ragazzo parla e parla con foga di principesse e guerrieri, di carrozze e mostri nella campagna, del Tempio e della sua luce, e muti discorsi d’occhiate si intersecano tra i presenti allibiti che intristiscono pur rimandendo interessati e sorridenti. 267 Certo è che per un adulto, a differenza di un piccolo Svasamìcio Varanièci qualsiasi, fantasioso, ingenuo e innocente, è molto difficile identificare Cernobyl come un paese delle meraviglie. E i meravigliosi languidi sogni di principi e principesse non si confondono, qui, con la spossatezza di una leucemia. 268 RITRATTO DI DONNA, RITRATTO DI AMORE Lo scalpiccio dei passi della comitiva dei turisti cessa come per magia quando la guida del museo comincia a parlare. Sospira, il palchetto stanco di pellegrinaggi, con cigolii radi e sommessi. “Per cortesia, signori, silenzio. Avvicinatevi, prego, intorno a me di fronte.” Silenzio e qualche respiro più profondo, per una sorta di covare una sindrome di Stendhal, da parte di qualche spilungone occhialuto o di qualche sfatta matrona sudata con il cuore di silfide. Si forma un semicerchio attorno alla guida che annuisce soddisfatta. “Bene, signori. Ci troviamo di fronte a quella che io, personalmente, ritengo possa essere l’opera d’arte più significativa del museo: un’opera che travalica l’importanza di questo museo stesso.” Interesse e concentrazione in uno stato che è di ipnosi collettiva. “Vi esorto a cogliere il riverbero della luce esterna che filtra dai finestroni e si perde nella figura illuminandone il volto. La donna che state osservando è posta in posizione esteticamente perfetta per un’ottimale apprezzamento riguardo alla luminosità. Ma questo è secondario, signori: nessuna figura può risaltare di sola luce di posizionamento. E voi avete modo di vedere in primo piano il tratto di chiaroscuri profondi e caldi dello sguardo, il taglio degli occhi che è ambiguo, a mezzaluna tipica della prima metà dell’ottocento, a provocare in sottinteso di posa un’atmosfera cinquecentesca. Il dettaglio della solarità, ancora, chiedo perdono se insisto, nel fondersi dei riccioli fini e morbidi di una chioma che richiama figurazioni botticelliane. …E il corpo stesso della donna, signori: materno, accogliente, punto di ricovero e di approdo per un animo sensibile che sappia assaporare sentimenti di devozione protettiva. 269 Un corpo rinascimentale, abbondante, fecondo, morbido al tratto, statico e al contempo dinamico di pulsazioni che vengono evidenziate da questo sorriso sereno e torbido, insieme, per pace dello spirito e autoassoluzioni da peccati di carne. La parete dello sfondo ha un risalto intrigante, ricca di questa sola figura michelangiolesca fuori tempo che vi guarda con occhi eccessivamente rotondi carichi di stupore e di gioia di vivere in un’espressione che elargisce promesse di passione e amore. Indefinibile questo capolavoro. Un Botero o un Renoir, sani, senza tempo, più cerebrali, contaminati da una sapienza espositiva di luci ed ombre tipica del Caravaggio, un parto di provocazione, naif o impressionista che possiate recepirlo, in una distorsione di prospettive e misure che è essenzialmente desiderio. Un rimescolare stili e correnti pittoriche con disinvoltura e irriverenza, senza alcuna soggezione verso chicchessia dei grandi della storia dell’arte. Ammirate, signori, il gioco dei colori nel sorriso e nella capacità espressiva…” Mormorii, cenni di teste che non hanno una compenetrazione come quella della guida che ha gli occhi febbricitanti di entusiasmo. Stupore della comitiva, incredulo, con sorrisi di sufficienza. Una supponenza frettolosa che quasi indigna il presentatore. Il gruppo procede oltre. La guida si volge verso la parete. Mormora: “Tu non hai idea di quanto ti amo, gioia mia…” La donna alla parete si avvia lentamente verso l’uscita della sala con un sorriso rapito, inguainata in uno svelto tailleur, picchiettando deliziosamente con i tacchi fini delle sue scarpine, con i capelli mossi. “Lo so, amore. Mi fai sentire eterna… Ed è bello morire ogni giorno d’amore per te uscendo da questa sala. Per ricominciare domani…” 270 SOGNI DI AMORE E NAFTA Ti porterò di fretta all’albergo Crepacuore, questa sera. E ti farò l’amore. Così, come sono: con questa maglietta a righe rosse e bianche da bullo. Prenderemo per stanza l’ultima Mercedes, quella metallizzata, parcheggiata a pettine in fondo alla strada, quella alla quale hanno portato via solo le ruote, per ora, a ridosso della vecchia fabbrica dismessa. Dammi la mano: affrettiamoci o troveremo un’altra coppia. Alla luce gialla del lampione farò balenare la lama di un coltello come un cartoncino appeso alla maniglia della porta: “Do not disturb, please”. Non vogliamo servizio in camera: vogliamo essere lasciati in pace. Liberi di sognare. Anche senza i vetri dei finestrini, sui sedili già sfondati. E non ci cureremo dei gemiti delle stanze vicine, di quell’Audi devastata con il cofano divelto o di quella Panda semibruciata giorni prima da un fumatore imprudente. Ce ne fregheremo di sguardi curiosi di camerieri impertinenti o d’occhiate vuote di tossici che rubano le valigie agli innamorati. La nostra suite brillerà d’argento alla luna e ci sentiremo bellissimi. Tra le poche stelle dell’albergo Crepacuore. 271 PERCHE’ MI DICI…? Un lontano breve gracidare di mitra lacera il silenzio ovattato della notte. Il campo incrostato di neve rappresa è sciabolato dai fari sulle torrette. All’interno della baracca A il buio umido e freddo viene acceso da un sommesso bisbiglio di una voce infantile. “Rebecca, Rebecca…” “Cosa vuoi, Micol?” “Ho freddo e ho paura di questo buio. Mi manca Ezechiele…” “Prova a dormire e parla piano. Ezechiele è nel magazzino insieme a tanti altri pupazzi di stoffa: si scaldano tra loro e giudicano i loro padroncini…se si stanno comportando bene o se rompono le scatole. Cerca di fare bella figura…” “Rebecca…” “Dimmi, Micol…” “Hai voglia di fare il nostro gioco…?” Una vocina di speranza e un luccichio innaturale d’occhi sgranati. Rebecca, un’assennata bambina precocemente matura di undici anni, percepisce la trepidazione della sorellina Micol, di sette anni, e sente che deve tranquillizzarla assecondandola. “Sì, Micol, ma per poco…e parla sottovoce o verrà la signora piovra con la casacca di lacrime e ci farà piangere addosso a lei.” “Sì, sì, per poco e sottovoce: ho paura della signora piovra…ti strizza le orecchie e quasi ti soffoca sulla sua casacca…” “Bene Micol: cominciamo…” La piccola Micol si elettrizza vibrante sulle assi di legno con un risolino eccitato e prorompe con voce a stento controllata. “Babbo!” “Perché mi dici ‘babbo’?” 272 Rebecca finge sorpresa ed entusiasmo e attende lo sviluppo di un gioco inventato da loro per rinverdire ricordi e anestetizzare con la memoria il presente. “Ti dico ‘babbo’ perché mi è venuto in mente quando il nostro babbo ritornava a casa dal lavoro: te lo ricordi, Rebecca? Abbracciava la mamma e ci chiamava e tu riuscivi ad essere davanti a lui sempre prima di me, ma tu sei più grande di me, e il nostro babbo ti chiamava per nome e ti dava un bacio e ti carezzava i riccioli. Poi arrivavo io e il babbo mi dava due baci e gli si illuminavano gli occhi, perché io sono più piccolina, lo so, e io gli chiedevo di giocare con me perché tu dovevi finire i compiti di scuola. Il babbo allora si accucciava sul tappeto abbracciandomi e mi diceva di andare a prendere le costruzioni, quei legnetti colorati. Ricordi? Che bravo, il babbo! Mi costruiva il palazzo degli spifferi, con tutti i legnetti incastrati in maniera che ci fossero tante porte e finestre e potesse circolare l’aria, e mi chiedeva il legnetto verde, poi quello lungo arancione, poi quello rosso, e li accostava e mi spiegava come avveniva la costruzione del palazzo degli spifferi. E io guardavo il mio babbo mentre il palazzo diventava più alto e intanto si sentiva l’odore della cena preparata dalla mamma, e si rideva, e il babbo mi sembrava meno stanco di quando era entrato in casa…” Le ultime parole sono quasi biascicate nell’impasto tra sogno, ricordo e sonno che prepotentemente s’impossessa della piccola Micol. Rebecca sospira, carezza la sorellina, e cerca di dormire senza pensare al gelo che morde umido. “Rebecca, Rebecca, stai dormendo?” “Ci provo, Micol: parla piano.” “Ho paura stasera, tanta paura. La signora piovra con la casacca di lacrime ha fatto sparire la mia amica Ruth e mi ha guardato male oggi. 273 Ho fame, ho freddo… Non metterti a dormire subito: fammi compagnia. Potremmo giocare come ieri sera…” “Solamente per breve tempo, Micol: la signora piovra è nervosa e gira spesso a controllare.” “Va bene, Rebecca… E io dico… ‘mamma’…” “Perché dici ‘mamma’?” Rebecca ha voglia di piangere e si sente sfinita, più stanca dei suoi undici anni, preoccupata per la sorellina, che segue come una mammina, apprensiva per una creatura fragile e indifesa che non è consapevole della sua debolezza. Una lacrima rotola lungo una guancia scarna e un comando interiore imperioso le ordina di ascoltare la piccola sorellina senza farsi accorgere di nulla che possa spaventarla. “Dico ‘mamma’ pensando alle mattine quando tu eri a scuola, quando la mamma era soltanto per me, che rifaceva i letti cantando con una bella voce che sembrava primavera. Mi sorrideva e prometteva di portarmi ai giardini a raccogliere qualche primula o i pinoli per farne qualche torta o le collanine per Ezechiele. Che bel sorriso aveva la mamma! Aveva i capelli morbidi e lucenti al sole e mi guardava sempre con tanta allegria e ogni tanto mi faceva le smorfie…” La kapò, la signora piovra con la casacca di lacrime, si materializza nel buio con un ghigno e un’esclamazione malvagia. “Piccola peste! Non sai che questa è l’ora di dormire e non si parla?” Prende per un orecchio la piccola Micol attirandola verso di sé, incurante delle suppliche della sorella e di altri bambini lì intorno nella baracca illuminata a sprazzi da fasci di luci bianchi delle torrette del campo. E’ risucchiata dal buio dopo avere lasciato qualche segno su braccia e gambe e volti di bambini che cercano una reazione per come possono e sanno. 274 E’ assorbita dalla notte accompagnata da urla stridule altissime di Micol che chiede perdono, che promette, che chiama la sorella Rebecca e il babbo e la mamma e il suo fido amico di stoffa Ezechiele. Rebecca urla a squarciagola per dare un segno di presenza alla sorellina, la esorta e le promette una nuova serata del loro gioco. La notte muore indifferente. La mattina dopo Rebecca vaga per il campo con qualche amica alla ricerca della sorellina Micol e della signora piovra dalla casacca di lacrime, ma non trova nessuna delle due. Trascorrono altre notti e altri giorni e riesce soltanto a vedere la gigantesca kapò accigliata da lontano e prova a gridare per sapere di sua sorella, ma il vento disperde suoni e singhiozzi. Si trova, l’assennata Rebecca, a farsi forza da sola, nel buio della baracca A, per dimenticare il gelo e l’umido e la fame e la perdita della sorellina con il ricordo di momenti sereni. Si sorprende una sera a dire a se stessa con voce stanca e triste ‘Micol’. E si risponde: “perché mi dici ‘Micol’?” E racconta con un sommesso mormorare e con occhi febbricitanti e speranzosi accanto a lei di quando andarono allo stagno a caccia di rane, con il fido pupazzo Ezechiele, di quando lei, Rebecca, quasi affogò per tirare in salvo la piccola Micol che era inciampata in una radice ed era caduta in una gora viscida e un poco profonda. Si erano ritrovate distese sull’erba, fradice, che ridevano appena inquiete pensando allo scampato pericolo e alla reazione futura dei genitori. E una platea di piccoli ascoltatori segue la storia di Rebecca che s’illumina di vita e nessuno si accorge del sopraggiungere della signora piovra dalla casacca di lacrime... Allibì, lo psicologo infantile assegnato all’impianto di Terezin, quando ascoltò un piccolo straccio di bambino che poteva avere otto o dieci anni, e ne aveva in effetti quasi tredici, che gli chiedeva se conoscesse un gioco che si chiamava: ‘perché mi dici…?’… 275 PRIMA CHE IL GALLO CANTI (codardo amore clandestino) Mi ricordo il rifiatare delle ruote del treno in prossimità della stazione: una cadenza morbida, estenuante, da bolero erotico. Il ritmo mi contagiò di frenesia al pensiero che ti avrei veduta dopo pochissimo in attesa alla testa del binario. T’isolai subito tra la folla. Eri inconfondibile. Un’icona. Avevi gli occhi sgranati, a palletta, in uno sguardo adorante incantato per me, tuo principe azzurro disfatto dal caldo e dal lungo viaggio. Ti fissai in una nostra immagine complice, come spesso in precedenza, con un bel fioccone bianco appena inamidato tra i capelli ricci e un fiocco azzurro enorme a farfalla su un grembiulino candido, con il cestino di vimini per la merendina e i pastelli di cera. Un saluto muto, di sguardi, di sorrisi, d’impercettibili inclinazioni di capo a migliorare inquadrature visive e a comunicare messaggi subliminali carichi di splendide banalità: come stai bene, ti trovo bene anche io, quanto mi sei mancata, godiamoci questi giorni, ti amo, ti amo, ti amo… Nulla d’esagerato: discrezione e controllo esteriori ad amplificare emozioni deflagranti dentro. Un bacio a fior di labbra, ancora uno sguardo, una stretta d’abbraccio quasi infantile, nel suo vigore, ancora piccoli baci accompagnati da sorrisi di sollievo aperti come scrigni di tesori. Riassaporo tanto benessere psicofisico. Ho ancora al mio fianco il tuo braccio e nelle orecchie il rumore del trolley che graffiava le mattonelle della banchina e la tua risata argentina. Poi il boato. Il nero. 276 Il volare senza peso artigliato alla vita da una mano d’aria violenta che mi schiaccia a terra più in là senza cognizione di sapere cosa stia accadendo. Fumo acre intorno. E odore di sangue e morte. Rivedo con dolore cocente la mia mano che lambiva una pozzanghera di sangue scuro che si allargava e che nascondeva il tuo volto fuso nelle mattonelle in un groviglio di capelli appiccicosi. Una fitta al petto nel vederti al mio fianco esanime mentre la vita decise di rimpossessarsi di me formicolando nel corpo in brividi di paura e indolenzimento. Urla, intorno, di raccapriccio, pianti, sirene in lontananza, imprecazioni. Il mio grido strozzato di dolore, sovrastante ogni rumore, terribile: la consapevolezza della perdita. Il guardarmi intorno, inebetito, e lo scorgere figure che vagolavano nel fumo che diradava e che si dirigevano anche verso di me, verso di noi. Ricordo una mia freddezza d’automa oliato in tutti i suoi ingranaggi. Si accese come un interruttore e al ‘clic’ mentale mi attivai senza anima. Mi levai in piedi e recuperai il trolley squarciato da un lato. Fui sopraffatto da un turbinio di pensieri pragmatici, regole utilitaristiche, comandamenti classici di certe situazioni delicate. Mi allontanai da te e dal tuo corpo immobile galleggiante nel tuo sangue. Fui percorso da una scarica d’adrenalina come un animale da preda: non avrei dovuto essere lì. Piansi lacrime isteriche d’ impotenza mentre mi confondevo tra la gente e riprendevo colore sulla pelle che copriva circuiti e neuroni di robot. Ti sto scrivendo queste poche righe e te le porterò chiuse in una busta, con un fiore. Ti rivedrò: forse una nostra immagine di tempi bellissimi, dove apparirai con il tuo sorriso forte e solare di 277 ginestra che mi fece innamorare di te, con quel tuo sguardo infantile che chiedeva una fiaba ancora. Ti mormorerò scusa per la mia vigliaccheria, per l’essere scappato quel giorno lasciandoti su quella banchina, per non avere accarezzato un’ultima volta la tua mano. Ti chiederò perdono. Poi, semmai sia stato scritto e deciso, cercherò di affogare i miei rimorsi con altri pensieri, soffocando il dolore nell’anestesia della vita che continua, sperando di riuscire a dimenticare, offrendo nuovamente attenzioni a chi trascurai per te, che non immagina e che non sa. Sarà una doppia raccolta di cocci, forse sterile, per me che non so riaggiustare nulla e che mi sento, dentro, un vaso in frantumi che non accoglierà più luminose ginestre. 278 LEARCO ATTENDE LE FATE DI FEDERICA Federica ha quindici anni, come in una canzone di Ivan Graziani. E’ acerba, esile, magrissima con un seno appena accennato, con i capelli corti e spettinati e gli occhi liquidi della neve di vetta vicina al cielo, chiari e perennemente sgranati in espressioni di curiosità e meraviglia. Learco ha trentasei anni. E’ asciutto, quasi scheletrico, alto e annodato su sé stesso. Sembra uscito da un ritratto di Egon Schiele, stempiato, ma arruffato, assente e pensieroso, con occhi senza fondo del colore della giada verdolina cinerea, insondabili nelle emozioni. Si conobbero a pranzo, alla mensa. Learco si presentò davanti a Federica e le chiese se poteva prendere la saliera; poi ritornò al suo tavolo in fondo. La ragazza si sentì infantilmente donna, importante e desiderata, con un uomo che le aveva parlato e per una richiesta. Poco dopo, si sedette, adorabilmente sfrontata, davanti a lui, con il vassoio del pranzo da finire: “Ti dispiace se mi siedo qui con te? Non conosco nessuno… Odio stare da sola…” Learco annuì distratto, scottato dalla neve azzurrina di quegli occhi sgranati e curiosi. “Mi chiamo Federica: sto qui da tre mesi. Tu?” “Learco.” Una risata sacrilega scoppiettante: “Che nome è Learco?” “Mio padre era patito di ciclismo, e Learco Guerra, detto anche la locomotiva umana, era un suo corridore preferito. Sto qui da quasi un anno.” “Per…?” “Tossico.” 279 “Io per colpa del mio patrigno, bastardo, che è morto tirandoci tutti dietro: sono l’ultima… Se mia madre non avesse avuto il sonno pesante, forse starei da un’altra parte”. “Io ho smesso, ma ormai è tardi.” Da allora mangiarono sempre insieme e si frequentarono sempre più assiduamente raccontandosi di loro. Il primo appuntamento della giornata era davanti alla macchinetta automatica delle bibite, davanti alla bacheca. Si sorridevano da lontano, ognuno dal suo capo di corridoio. Si prendevano le mani, all’inizio, e poi cominciarono a salutarsi con un abbraccio tenero e un bacio a fior di labbra. Dopo il saluto, ognuno prendeva la strada per le sue specifiche analisi o per una visita o per un incontro d’appoggio con lo psicologo, ma il piacere della compagnia era solamente rimandato a metà mattinata o, al massimo, all’ora del pranzo. Si affezionarono con pudore, paura di fare e farsi male, circospetti, ma disperatamente bisognosi l’uno dell’altra e viceversa. I concetti d’età e di maturità, a pensarci bene, possono essere davvero relativi e ridicoli… Da due giorni Learco dorme da solo nella sua stanza. Il suo compagno se n’è andato senza fare troppo casino. Questa è una notte di Valpurga: piove a dirotto tra tuoni e lampi che vetrificano per interminabili istanti un ambiente che è già deprimente di suo. Il ritratto di Schiele ha caldo e si rigira oppresso nel letto in un groviglio di lenzuola umide, come appunto un quadro. La porta della stanza si socchiude con un sommesso cigolio. La sagoma filiforme di Federica si staglia nella luce intermittente del temporale. Un sussurro: “Learco…dormi?” 280 Risponde anche lui piano: “No: non riesco. Che fai da queste parti?” “La caposala sta ronfando come un bufalo. Ho avuto una crisi micidiale e sono stata in bagno per un’ora. Mi sento spossata e ho paura dei lampi. Tienimi con te: non voglio stare sola…” Learco si sente improvvisamente vecchio e ha paura. Abbozza un no stanco e arrendevole, contraddittorio con lo spostarsi inconscio su una sponda del letto per fare posto alla ragazza. “Tu sei pazza…” Federica si sfila il camicione: è nuda, lucida di un’innaturale traspirazione, un’anoressica puledrina. Trema e mormora: “Stringimi, Learco; coccolami, baciami con tenerezza. Non fare la locomotiva umana…” Ride con malizia per la battuta, sottovoce, ma irrefrenabile e argentina come una cascatella, al di fuori d’ogni realtà, e scalfisce l’uomo stupito che smarrisce le sue stanchezze e i suoi pensieri. Fa le fusa come una gattina, e Learco l’accarezza con delicatezza, come una porcellana fragile e preziosa, con il timore di frantumarla e di cancellare una personale atmosfera di pioggerellina primaverile in un bosco, che contrasta con il reale temporale che riverbera sulle pareti acide della stanza. “Accarezzami il seno, Learco; ti prego…” La ragazza, luminosa e diafana nella penombra, pulsa di una vita diversa e di un’energia insospettabile. I suoi occhi scintillano di gioia e di curiosità disperata. E’ giovane, troppo, ed ha speranze ed immagina futuri. Chiede come ogni giovane. Learco è stanco, invece, e disincantato, ma si lascia prendere docilmente per mano e condurre nel paese delle fate dell’amica. Sente un piccolo capezzolo ergersi tra le dita. Federica è carica come una donna da saziare. Osa. 281 Sbottona il camiciotto del suo principe azzurro e insinua una mano sottile ad esplorare il suo corpo. Sospiri si fondono con lo scroscio della pioggia nella notte accesa a sprazzi in fotografie al fulmicotone. “Prendimi piano: ti prego. Dammi una possibilità. Che sia una cosa diversa, stavolta… Da non dimenticare mai più”. Scivola lieve su di lei, Learco, ora forte e resistente, deciso a regalare tappeti e broccati, oro e melarance alla sua principessina che lo ha introdotto nel paese delle fiabe della speranza. Si muove sulla fatina come un leggero ballerino debilitato ansando faticosamente sulla curva appena abbozzata del seno scosso da fremiti elettrici. “Learco, ti voglio dentro di me fino alla fine. Ti prego…” Si raggomitolano, scomposti, fra loro, e poi si espandono, brinati di sudore freddo nel letto troppo piccolo, sospirando come fili d’erba che crescono, amplificando dentro di loro tutte le emozioni controllate nella stanza con piccoli singhiozzi e un soffocato pianto liberatorio. Si abbracciano teneri, forti, violentemente a graffiarsi la pelle, baciandosi mille volte con delicatezza e avidità insieme. “Grazie, amore…” Federica lo bacia di un soffio sulla fronte e scompare silenziosamente nel corridoio verso il suo padiglione, con il camicione che pare una vela. L’uomo la sente tossire in lontananza, insistente e rauca, compressa per non fare rumore e svegliare la caposala. Il temporale s’allontana e s’ode solo un monotono ticchettio di pioggia residua sui vetri. Federica non arriva a compiere sedici anni, stroncata dalle complicazioni di una polmonite in agguato con altre patologie opportuniste. Learco vive da solo ancora per qualche mese, pranzando senza più stimoli e compagnia, sdraiato sul letto tutto il 282 giorno, apatico, refrattario agli entusiasmi incoraggianti di chi lo segue. E’ indifferente al presente e non concepisce il futuro, almeno qui e in questa vita. Ha dato qualcosa di sé, tuttavia, ed è stato importante per qualcuno, nel passato recente. Questo basta: un esistere, per quanto minimo, compiuto. Ora attende senza eccessive illusioni, ma con un barlume di speranza, di vedere se esista o no un paese di fate con una giovane principessina. Attesa breve… 283 L’ORGOGLIO DI OSSIGENO Nulla di speciale, le vacanze dai nonni in montagna: ti riposi, ripassi il latino e la chimica, e vai a pesca di trote lassù, all’orrido, con le gambe a spenzolare sulla spalletta del cavalcavia, una lunga lenza avvolta in un pezzo di sughero, e un barattolo pieno di vermi o di polenta. All’alba ero sempre lì che spiavo giù in fondo, dove l’acqua dell’alta cascatella spumeggiava in una gora profonda circondata da massi affioranti viscidi di muschio. Ci credi se ti dico che quel giorno restai stupito come uno stoccafisso? Sembravo uno sportello del bancomat, con le lucine negli occhi e la bocca aperta dalla meraviglia. Da lontano vidi arrancare Ossigeno, l’istituzione del paese. Mi emozionai: non mi ero mai trovato da solo con lui. Si prese il soprannome che era un ragazzo. I gemellini della panettiera, con l’argento vivo addosso, quelli che ora vivono all’estero, decisero di giocare a fare gli esploratori, e si calarono nella vasca chiusa della cooperativa per la fermentazione del mosto. Le esalazioni potenti nel serbatoio fecero perdere loro i sensi. Qualcuno si accorse dell’accaduto e diede l’allarme al paese. Si precipitarono tutti. La panettiera si sbracciava come un mulino urlando, isterica, e diverse donne cercavano di calmarla carezzandola e volgendosi intorno a cercare un uomo forte che osasse calarsi nella cisterna per ripescare i ragazzi e salvarli dall’asfissia. Si fece avanti lui, guascone per incosciente giovinezza. Era il ritratto della solidità di un armadio. Valutò velocemente la profondità del serbatoio, calò una fune robusta assicurata ad un paracarro, fece una profonda inspirazione per una lunga apnea, e si gettò di un balzo dentro, con un’altra fune, per assicurare al suo corpo i ragazzini svenuti. 284 Stette dentro circa un minuto e quaranta secondi, la prima volta. Tirò fuori il primo bimbo che fu slegato febbrilmente da due o tre uomini del paese per le cure del medico. Si calò ancora, per il secondo ragazzino, e scomparve per quasi due minuti e dieci. Non riusciva a trovarlo, al buio. Si tirò su a fatica, con il bimbo agganciato alla vita, e fece stare tutti in pensiero. Si salvarono entrambi i bimbi, per miracolo. Il medico lo ribattezzò Ossigeno, e da quel giorno lo divenne per tutti nel paese, mantenendo il soprannome anche quando si fece uomo e andò a lavorare alla falegnameria del paesino vicino. La panettiera si liquefaceva ogni volta che lo incrociava per strada e lo riempiva di pane e focacce. I ragazzi del paese, la domenica, gli chiedevano di gonfiare i palloncini. Lo salutai, fiero dell’incontro. “Olà, Ossigeno, che fai da queste parti?” “Faccio come gli elefanti vecchi: cerco il mio cimitero, bel cit. E tu, piuttosto, che stai facendo?” “Provo a pescare trote. Che significa quello che hai detto?” Tossì violentemente con un fazzoletto davanti alla bocca e si sedette sulla spalletta accanto a me, con una smorfia dolorosa e un ansare da sambernardo. Aveva uno sguardo lucido che sembrava di febbre e il volto era un totem intagliato nel legno della falegnameria dove lavorava: le rughe erano crepacci e la pelle era di cartapecora. Mi guardò a lungo, curioso, cercando di capire chi aveva davanti. Poi ricordò mio nonno e si aprì ad un sorriso schietto sotto i baffoni grigi da tricheco. “Riflessioni su un nome da difendere, bel cit. E’ dura chiamarsi Ossigeno, essere il gigante buono, protettore del paesino, e poi uscire dall’ospedale con la testa che ronza per certi discorsi avvelenati di qualche medico…” 285 “Che è accaduto, Ossigeno?” “Non so di preciso: non m’intendo molto di certe cose. So solo che ho visto due o tre gelatai scuotere la testa, pensosi e tristi. Uno mi ha detto qualcosa circa i polmoni, sul fatto che da qualche tempo sputo sangue e ho l’affanno e dolori fortissimi al petto: forse la colpa è del lavoro in falegnameria. Paroloni difficili: mesoteliqualchecosa e altre che ho già dimenticato. Però non sono stupido: ho capito bene che si parlava di bombole da portare appresso con un carrellino o uno zainetto, di cannule da mettere nel naso per respirare. Ossigeno gonfiava i palloncini ai bambini e li salvava in apnea… Capisci?” “Mi spiace davvero. Non si può fare nulla? Posso rendermi utile in qualcosa?” “Dovrei solo aspettare appeso ad una bombola, come il cuoco del festival dell’Unità che prepara la carne alla brace: io, di mio, ho già i polmoni alla brace. Sì, bel cit, puoi fare qualcosa per me: oggi smetti di pescare e ritorni al paese senza dire che mi hai visto”. Sorrideva, ma aveva uno sguardo duro e fermo che non ammetteva repliche. Abbassai il mio e stetti muto, anche se mi strinai d’inquietudine per qualcosa che mi sfuggiva. Riavvolsi la lenza e svuotai il barattolo della polenta giù nell’orrido: le trote probabilmente ringraziarono, per come possono le trote. Ebbi consapevolezza del ruolo d’essere un cit, un ragazzo, di fronte ad un uomo, e quindi di dovere del rispetto ad Ossigeno. Ci salutammo in silenzio con un gesto di mano, poi gli girai le spalle e mi diressi giù al paese senza più voltarmi, certo che avrebbe voluto così. Ho ancora oggi la sensazione di avere sentito un tonfo sordo. 286 Poi ci ripenso con ragionevolezza e mi dico che esagero nelle emozioni perché il rombo dell’orrido copre ancora oggi ogni rumore. Il paese si chiese perplesso il perché della scomparsa di Ossigeno fino a che, qualche settimana dopo, un curioso turista, affacciatosi alla spalletta del cavalcavia, non notò in fondo un paio di gambe sporgere tra alcune rocce verdastre semisommerse nell’acqua. Tutto il resto, come sempre, è retorico. 287 LE REGOLE DELLA MARESCIALLA Tosca è una vecchia puttana alquanto gonfia. E’ chiamata con il nome di battaglia di Marescialla perché batte da sempre nei vicoli dietro la caserma. Ha fatto da nave scuola a parecchie reclute e ha dato piacere a molti suoi concittadini, discreta e riservata, talvolta anche con il beneplacito di qualche moglie pigra che l’ha tollerata, ma con rispetto e simpatia. “Tosca, sei brava in cucina?” “M’arrangio.” “Cucini anche piatti elaborati?” “Sono una discreta cuoca. Perché queste domande?” “Sai, pensavo che siamo di una certa età e che potremmo farci compagnia. Tu smetteresti di fare la vita e mi prepareresti qualcosa di buono da mangiare, ed io mi prenderei cura di te e ti porterei in giro a fare qualche gita o a vedere un film insieme ogni tanto. Ti piace la proposta?” Tosca sembra un balenottero riflessivo sul letto sfatto nella penombra di una sera d’estate. Ascolta Vanni, un bravo cristiano vedovo da dieci anni, un cliente regolare e fidato che è anche un amico. S’è levato a sedere sulla sponda del letto, Vanni, in canottiera, e le sta facendo una proposta che l’alletta e anche la spaventa. La sua vecchia guida, la Biancona, che fu prodiga di consigli, quando lei era alle prime armi, si riaffaccia alla mente della Marescialla con le sue basilari regole da rispettare assolutamente, per una vita tranquilla da puttana senza problemi. “Ascolta, Vanni: non è cosa. La prima regola, per una come me, è quella di non legarsi a nessuno. Non tanto per figli indesiderati: ormai le mie uova sono sode. 288 Quanto per la perdita dell’indipendenza, ed io sono sempre stata molto indipendente e sono abituata a fare sempre come mi pare senza dover dare giustificazioni a nessuno. Non roviniamoci la vita. Immagini? Io e te per la via del centro a spasso e a braccetto e tutti che si voltano ridacchiando e indicano Vanni che va in giro con la Marescialla? Io forse me ne potrò anche fregare, ma tu, alla lunga, ti sentiresti infastidito, e cominceresti a pensare a quanti mi conoscono, diciamo… approfonditamente. Faccio finta che hai scherzato e t’aspetto giovedì prossimo. Adesso smamma e per oggi offre la ditta, anche se questa è un'altra regola che non bisognerebbe mai infrangere…” Sorride la Tosca dagli occhi buoni, e balla il suo seno enorme e soffice, come il più bel cuscino del mondo. Vanni la guarda ammirato, pensieroso, ammutolito. Si veste e poi si dilegua come il fumo delle sue sigarette al mentolo. E viene sera. La Marescialla oggi ha deciso di non lavorare, ma è senza fumo e deve scendere fino al distributore automatico delle sigarette, giù in fondo alla via. Sbuffa e ansima, tranquilla e divertita, ripensando alla proposta di convivenza del Vanni, e ticchetta lungo il marciapiede lucido d’umidità, giallino di lampioni al sodio. Si para innanzi l’Evaristo, il figlio della Bice che ha il negozio di ferramenta più in là. Evaristo è giovane e già rovinato per sue debolezze mai combattute: è striminzito e tormentato con un ciuffo nero e unto che spiove su due occhiacci senza fondo. E’ tossico. E’ anche incattivito da una madre che, seppure tardivamente, non lo asseconda più come una volta. Gira in zona come uno squalo, in crisi mistica, nervoso per dolori lancinanti alla bocca dello stomaco, per un’arsura 289 senza rimedio, per un’ansia vorace che non ammette deroghe. Lo squalo incrocia il balenottero Tosca e fiuta odore di cibo. Sorride falso con denti gialli come gli occhi ingordi. “’Sera, Tosca. Mi presti cinquanta?” “Và a casa, Evaristo: è umido e prendi un malanno. Poi non ho che i soldi per le sigarette…” Evaristo scatta come un vero squalo tigre e branca la vecchia per il collo zaffandole parole d’odio e di fretta impellente. “Ascoltami bene, vecchia troia: ho bisogno di soldi, e subito, mi capisci?” La Marescialla ripassa l’eco di parole della vecchia Biancona: le regole di vita per una che fa la vita. Mai far vedere d’avere paura. Mostrarsi sempre decise e sprezzanti: gli uomini si confondono e smarriscono la loro aggressività. Mai dare soldi in prestito agli uomini. Il balenottero si dimena e reagisce in ossequio alle regole. “Smettila, Evaristo. Non ho che pochi spiccioli per le sigarette. Non mi seccare o poi m’incazzo. Ascoltami: tornatene a casa e io faccio finta che non sia successo nulla”. Il giovane squalo è accecato dalla voracità: una puttana ha sempre qualche marchetta nella borsa, e questa vecchia sta mentendo. I soldi hanno l’odore del sangue e gli squali impazziscono, quando lo percepiscono, anche da lontano. La scuote e la sbatte contro un lampione soffocandola con la mano sulla bocca perché non gridi e chiami aiuto. Tosca scivola trascinandosi a terra il tossico ansimante che suda freddo il gelo dell’assassino. L’Evaristo le sbatte la testa sull’asfalto per stordirla, ma un tossico non sa valutare la sua forza: spesso ne ha pochissima, ma a volte ne ha di spaventosa. La Marescialla s’aggira smarrita e sola tra tante lucine di un Luna Park nel buio della notte e vede il banco del tiro 290 a segno dove c’è la Biancona che le vuole porgere sorridendo il fucile. Più in là c’è il capanno delle tre palle a un soldo, con la Bice che la chiama e la invita a colpire l’Evaristo legato in fondo alla tenda. Poi vede il Vanni con il banchetto dello zucchero filato, che le tende un braccio con una nuvola rosa su un lungo stecchino e le chiede ancora se vuole venire a vivere con lui. Ripensa alle vecchie regole e non sa più se devono essere rispettate senza discussioni o migliorate con l’esperienza e il tempo. Forse non ha più voglia di fumare, Tosca, la Marescialla. Si spengono, una dopo l’altra, tutte le lucine del Luna Park, e sente uno squalo che le azzanna un fianco dalla parte della borsetta. Poi il freddo e il nero. Con la sensazione di affondare a testa in giù in un abisso. Leggera. Senza più regole, per ciò che è stato e potrebbe essere stato. 291 UN ATTIMO DI SEMPRE Sferragliavano, i cingolati, tra il fango del piazzale di Dachau, con barriti sinistri di un branco d’elefanti potenti e invincibili. Figure secche come tamerici prosciugate assistevano ad un epico mutare d’eventi, incredule nella debolezza impastata in incrollabile fede e crescente indifferenza. Qualcuno sollevava un braccio scheletrico a salutare con un sorriso senza più denti, ma molti erano immobili e fissavano i liberatori con occhi che erano enormi pozze d’acqua senza fondo. Le casacche a righe erano proprie del paesaggio e si confondevano nel grigio plumbeo di una primavera svogliata, nella fuliggine di una ciminiera che vomitava ultime anime, nel livido di un immenso campo pervaso di vita larvale annidata con ferrea volontà nella carogna dell’assenza della dignità umana. Il tenente smontò dalla jeep per ispezionare un lunghissimo baraccamento, alla ricerca d’altri superstiti da assistere e da tranquillizzare con la sua presenza. Rabbrividì nel notare sagome sparute e immobili, cristallizzate in curiosità esausta, tutte intorno. Erano figure in bilico sulla vita, silenziose e diffidenti, ma anche indifferenti e fataliste, spezzate nel midollo per quanto poteva rappresentare il concetto di reazione. Cercò di ignorare sguardi e pallidi sorrisi, dolorante nell’intimo per la sopportazione di un concetto di risarcimento che lo attanagliava con affilati e lancinanti buoni propositi. Entrò nella costruzione ed ebbe la visione di un’infinita teoria d’impalcature di legno, alcune con stracci, altre con sagome irrigidite, forse vive, forse morte, di prigionieri sfiniti. Qui e là sporgevano sottili una gamba o un braccio ossuti, e le lame di luce esterna filtrante dalle fessure delle finestre, nella penombra, si confondevano con le righe bianche e nere di qualche casacca immobile su una branda di legno. 292 La vide in fondo, lontana, completamente nuda: uno scheletro. Era bianca come una ceramica, punteggiata di lividi bluastri lungo il corpo, con le ossa sporgenti da una pelle tirata come quella di un tamburo. Aveva i capelli tagliati cortissimi, neri come la pece, ed anche il pube era nerissimo, folto assai e riccioluto, risaltante prepotente tra due cosce esangui, magre e nervose. La donna aveva un volto teso all’indietro, verso la nuca, in una parvenza di sorriso che male si coniugava con uno sguardo pieno di domande e di cose da dire in una spossatezza senza fine. Gli occhi erano enormi, di un celestino slavato che si confondeva nel grigio di quanto avevano veduto, ed erano spalancati senza battiti di ciglia, lucidi di residue lacrime che scorrevano ora ebbre di libertà. L’uomo si sentì in imbarazzo per un pudore di benessere. Lei gli si fece incontro. Camminava malferma, con le braccia esili in appiglio a qualche branda, senza curarsi della sua nudità, con il seno avvizzito solcato di venature azzurrine, segnato da due capezzoli violacei di freddo e insensibilità. Sembrava che i suoi zigomi si dovessero strappare da un momento all’altro, distorti in un reticolo di rughe sottili e profonde, sollevati in un’espressione amichevole e fiduciosa. Il tenente protese un braccio per sorreggere la donna che avanzava come una vela in una tempesta. Lei s’aggrappò con violenza, artigliandolo con le unghie al polso e alla mano, in un impeto di possesso. Lo abbracciò premendosi tutta sul suo corpo, posandogli il capo sulla divisa, ridendo assente in un cantilenare di frasi senza senso. Il militare le cinse con il braccio le spalle e la accarezzò delicatamente mormorandole la fine di un incubo. Due immensi occhi di cristallo si sollevarono verso di lui e attesero altre parole di zucchero e di cioccolata, di patate e di spezzatino di carne, di pane raffermo. Chiedevano e scrutavano, mentre le labbra rincorrevano discorsi frenetici con sospiri, con il biascicare di lingua su un palato riarso, con un risolino incessante d’incredulità trattenuta. 293 Emanava un odore di minestra rancida, di fiato pesante. Il tenente, tuttavia, si smarrì nel suo sguardo, e le sorrise, colmo di tenerezza, sfiorandola con calore tra le scapole sporgenti, a tranquillizzarla dagli incubi. Lei lo fissò rabbrividendo al tocco della mano come un cane che si pacifica ed adora di nuovo il padrone che lo ha picchiato e che ora lo accarezza, e ammutolì. Si staccò appena un poco per inquadrarlo meglio. Poi scandì con voce convinta tre parole in un inglese stentato. “Io ti amo”. Avvicinò il suo volto a quello dell’uomo. Fu un bacio a fior di labbra e poi disperato, ad entrare nel corpo dell’altro, a penetrare, a cercare un riparo, un rifugio dove smaltire il dolore e dove dimenticare ricordi di morte. Il lungo dormitorio s’illuminò per un attimo di luce propria, al di fuori del tempo e dello spazio, sopra ogni miseria umana. Poi ripiombò nel buio grigio di sempre. Il militare accompagnò la donna fuori, avvolgendola con una coperta, e l’affidò ad un compagno che attendeva appoggiato allo sportello di un’autoambulanza. La donna si volse verso il tenente che s’allontanava, gli sorrise, femminile dopo due interminabili anni, e si passò una mano tra i capelli dalle ciocche quasi inesistenti a ravviarli per rendersi un minimo presentabile. Sorrise anche lui, impacciato, e la salutò con un cenno di mano. S’allontanò verso altre baracche scomparendo alla vista della donna, pensando, con il cuore gonfio di malinconia dolce e struggente, che l’amore può attecchire dappertutto e che i concetti di tempo e durata sono assolutamente relativi. Si sentì sciogliere in un insieme di contrastanti sentimenti. Fu struggimento per una storia d’amore di un attimo e di un’eternità, a Dachau. 294 GUARDAMI Quella massa di capelli fulvi mi ricordò la copertina di un disco degli Art of Noise. Era imponente, giunonica, non più giovanissima. Altera. La vidi spesso. S’affacciava nel pomeriggio assolato e incedeva elastica lungo il viale alberato del parco. Aveva lo sguardo mascherato da enormi occhiali da sole e sembrava fissare solamente un punto indefinito davanti a sé stessa. Le giornate erano già calde e la donna non passava inosservata, avvolta in un impermeabile lungo fino alle caviglie. Attirava ancora di più l’attenzione dei pigri passanti e degli sfaccendati seduti sulle panchine quando apriva il soprabito lasciando intravedere una minigonna inguinale su calze fumé che evidenziavano due gambe chilometriche, rinascimentali e polpose, ma slanciate. Aveva un suo modo di muoversi molto naturale, indifferente alle comprensibili reazioni dei frequentatori del parco. Cercava una panchina libera dondolandosi sui lunghi tacchi. Trovatala, allargava il soprabito per accomodarsi la gonnellina, tirandosela ancora più su, se possibile, con fare indifferente, e si sedeva accavallando le lunghe leve in maniera che un attento passante avrebbe potuto sbirciare in mezzo a quel paradiso. Le calze fumé lasciavano spazio all’immaginazione e all’equivoco attirando sguardi su un remoto triangolo nero che poteva essere il rinforzo dei collants, oppure no… Lei gettava uno sguardo fugace intorno e poi apriva un libro. Leggeva, o faceva finta di leggere, carezzandosi una coscia a malapena riparata da un lembo dell’impermeabile. S’infittiva il passaggio di salutisti camminatori nel parco, proprio là, di fronte a quella panchina occupata da 295 una scosciata lettrice, e qualcuno si soffermava sfacciato e volgare, qualcun altro indugiava timido e vergognoso, altri ancora proseguivano voltando il capo ripetutamente con la speranza di un cenno d’intesa. Qualcuno, raramente, si sedeva a fianco della donna, ma probabilmente sbagliava approccio perché poco dopo rimaneva solo, avvolto da un profumo stordente, mentre una lunga ombra fulva s’allontanava sempre più altera... Ti chiesi garbatamente se potevo sedermi e assentisti con un sorriso cortese. Mi complimentai, disinvolto, per la bellezza delle tue gambe e buttai là qualche battuta divertente sul popolo degli sciacalli affamati che gironzolavano nelle vicinanze uggiolando d’eccitazione. Fui diretto, ma non volgare. Riuscii a catturare il tuo sguardo. Scambiammo due chiacchiere da persone di mondo sul controllo delle pulsazioni umane e sull’esibizionismo inteso come piacere e potere. Fui brillante e mai sopra le righe. Questo ti interessò e creò una consapevolezza di complicità a lungo cercata e mai trovata. Un gelato in un dehors di un bar lì vicino fu meno rinfrescante della norma: ti mostrasti generosamente seppure semicoperta dalla lunga tovaglia... Rilanciai proponendoti casa mia e tu accettasti… Ricordo ancora quello che mi dicesti: “Oggi sarà la prima e l’ultima volta. Non verrò più a casa tua…” Rimasi dispiaciuto perché sei una bellissima donna e hai un portamento che affascina e movenze estremamente eccitanti. Poi aggiungesti: “Da oggi, però, ogni volta che ritornerò al parco e ti scorgerò, potrò pensare di essere venuta lì per una persona speciale…” Ti sto fissando da due panchine più là. Mi hai visto. Fai finta di nulla. 296 Qualche moscone insignificante ti sta ronzando intorno fastidiosamente. Ti carezzi una coscia lunga iridescente di seta al sole. Sei enigmatica, senza espressione. Ripenso a quel pomeriggio a casa mia, a quelle tue carezze estenuanti per il mio solo piacere visuale, e ti sorrido mandandoti un bacio a fior di labbra. Te ne puoi accorgere solo tu. Mi sorridi, nel piacere del potere... 297 SAFFICI STRALI SEMAFORICI Navighi pericolosamente in mezzo a questo traffico infernale, piccola mia, con quella bici rugginosa a fiorellini e il cestello gentile sul manubrio, per la spesa. Sei senza casco, gioia, e sei fragile. Ti guardo dalla mia moto, schermata da una visiera fumè, schiantata da pensieri strani. Si stanno destando miei demoni e stringo la manopola del gas della moto come se fosse il mio migliore amico di lattice da offrirti con tenerezza. Sei il ritratto della salute: una ragazzona dai polpacci torniti e dallo sguardo limpido, con le guance arrossate dal pedalare atletico e i seni ancora acerbi, ansanti e puntuti. La tua coda di cavallo brilla alla luce del sole. Gli squali ti bollano solamente il culo inguainato in pantaloncini da ciclista, splendido, sodo, ma non sola parte del corpo bella di te. Ma che ne sanno loro? Mi fai sentire perversa, adesso che insisto a sfiorarti con lo sguardo. T’immagino riversa sull’asfalto, urtata da un’auto, pallida e immobile, e mi vedo china su di te a schiuderti le labbra con la lingua per respirarti dentro la mia vita. Sorrido diabolica, ora: è un capriccio di lesbica stagionata, me ne rendo conto. Oppure, forse, è qualcosa di più: una speranza di complicità che possa trasferirti dalle tue due ruote alle mie, a cingermi la vita per farmi rabbrividire al vento con lo scatto del semaforo verde… Ecco, è scattato proprio ora. Arrivederci, piccola mia, si deve andare… Stai attenta, gioia senza casco, così bella e fragile che sei… Un bacio. 298 ASFODELI E BACI A Piazza Vittorio, a Roma, in afrore ammoniacale di piscio, tra le colonne istoriate di foto di cingalesi sorridenti, staziona una biscia fratturata rap. E’ una donna d’età indefinibile, ossuta, con capelli a caschetto castani da sedia impagliata e due occhi futuristi tra l’allocco e un vecchio lampione a gas di luce azzurrina intensa. E’ vestita di felpe e maglioni polverosi su pantaloni attillati e sdruciti, ed è carica, alle dita, d’anelli da chiosco di Luna Park. E’ un’istituzione o una fermata di via crucis metropolitana, quasi all’angolo di Via Mamiani. Seduta tra sacchi neri pieni di pattume o peccati, o sdraiata contro una colonna, con un cartoccio prosciugato di vino infimo, gesticola a scatti frenetici e scomposti o s’immobilizza in ascolto. Gli occhi chiari roteano in espressioni e discorsi a calcare su idee e concetti muti. Ride, a volte, e muove le labbra a spiegare o a controbattere teorie di vita o perle di saggezza. La gente passa oltre, schifata o indifferente, senza porsi domande o stilettarsi rimorsi. Un cinese struscia lo straccio bagnato davanti al suo negozio e più avanti, verso l’imbocco sotterraneo per la stazione della metro, una colombiana grassoccia con la pettorina gialla distribuisce giornali gratuiti con un accattivante sorriso similitalico. Io sosto due colonne più là, stordito dal puzzo che contamina l’odore di croissants appena sfornati, e riesco a vedere il Bogus della biscia. Non so come mi possa accadere, ma lo vedo… …A Calcutta… Tra baracche di compensato traforate sotto un cielo plumbeo di monsone c’è il suo compagno di viaggio, il suo complice. 299 E’ un paria oleoso di sudicio, elemosinante, infagottato in stracci ormai stuccati dal tempo e dal sudore con una lunga chioma gommosa di profeta rastaindiano. E’ acciambellato a fior di loto presso una baracca semicrollata, a ridosso del canale fognario di scolo a cielo aperto, in un tanfo terribile, e gesticola ieratico nell’aria con sguardo felino e imperturbabile rispetto alla realtà che lo circonda. Si chiama Rabindranah, come il grande poeta gentile, e recita poesie d’amore per una biscia romana che riesce ad ascoltarlo, solo lei, lontanissima eppure intima. Passano frotte di turisti guardoni e meschinelli scortati da poliziotti indifferenti. Scattano foto. Brilla ai flashes il barattolino che sollecita cibo davanti al poeta che carezza asfodeli nell’aria, da offrire alla sua amata. A Piazza Vittorio una biscia fratturata rap inspira nell’aria un profumo di fiori allegri, accarezza delicati petali nell’aria romana e sorride con gli occhi incantati. Piovono sguardi contriti o infastiditi sulla donna senza età, a Roma, e sul poeta cencioso, a Calcutta: i passanti sono ugualmente velleitari e ipocriti a qualsiasi latitudine. I due amanti non si bagnano e si rimandano messaggi senza spazio e tempo: la biscia gesticola ancora e bacia l’aria sorridendo. 300 PADRONE BUONO E GIUSTO …Questa luce fredda intirizzisce le ossa e Dio sa se avrei bisogno di calore. …Ecco… Il posto era intimo, poco frequentato, con una luce calda spiovente da lampade tiffany a rischiarare solo i coni dei tavoli e i volti al margine. Luccichii di metalli e cristalli: mi sentivo come Alì Babà nella grotta del tesoro. In complicità, come avvolto con la coperta di Linus. Il tavolo era piccolo: potevo toccarla allungando appena il braccio. Lo feci. Toccai un mio ideale estetico di donna: Anne Parillaud di ‘Nikita’, con capello corto corvino e sguardo mobile e ricco di discorsi. Un volto di Patrick Nagel. Un’icona. Protese il viso verso di me, sotto la luce, attendista. Le passai il pollice delicatamente sulle labbra carnose socchiuse. Adorabile acquasantiera. Mi mangio le unghie e anche le pellicine e arrivo addirittura ai polpastrelli: gli psicologi da macelleria di supermercato dicono che è per bisogno d’affetto. Non ci ho mai pensato: rosicchio e basta, da sempre. Nicotinamente: per mio equilibrio, se rendo l’idea da ex fumatore... Lei dovette percepire i minimi salti di tessuto epidermico, i piccolissimi calli di ricrescita del polpastrello. Dovette avvertire anche il calore di una circolazione sanguigna periferica turbolenta e fiutare un odore residuo d’acqua di colonia aspra poi traslocata dietro le orecchie. Mi piace pensare che abbia provato una sensazione d’immersione nel vissuto - che dico? - nel vivo. Sono convinto di sì: la serratura spiona incuriosita dalla chiave in un gioco di ribaltamenti di ruoli. 301 Le chiesi con gli occhi di dirmi qualcosa, fissandola e continuando a passarle il pollice sulle labbra. Mi cominciò un lungo discorso di silenzi. Guardandomi intensamente. Chiese, chiese tanto, e fece le fusa in benessere da protezione ed arrivò anche alla soglia piacevolissima di quello stadio d’eccitazione che è ancora controllabile sull’orlo del burrone. Le domandai con timbro inguinale se provava fastidio per quella catenella che le stringevo al collo: poche parole a voce bassissima, le uniche della serata. Un gioco di ruolo, qualcosa di più: immaginazione, immedesimazione. Una catenella mentale: impegnativa, simbolica. Il pollice le esplorava una guancia asportando il leggero fondotinta e succhiava dai pori un malizioso arrossire assorbendo essenza di profumo e ormoni. Lei socchiuse gli occhi e mi fece capire che le piaceva quel tintinnio: le donava brividi d’adrenalina in strette ad illividire il collo. Mi soffermai con le dita dietro l’orecchio e le strinsi il lobo tra pollice e indice. Prima delicatamente. Poi sempre più forte. Non trasalì; non urlò. Il respiro s’allungò come un lenzuolo a coprire un’erezione. Divenne ansito. Nessuno s’accorse di nulla nel locale in penombra. Irrigidì le labbra in un sorriso indecifrabile tra il sincero e il solerte. Ridivenni tenero, buon padrone giusto, e le solcai di nuovo la guancia premurosamente per ritornare ad accarezzarle le labbra. Mi guardava e mi raccontava d’emozioni, d’amore, del piacere di offrirsi oltre. La catenella si stringeva al suo collo. Luccichio d’occhi con lampi di richiamo. Ebbe un singhiozzo improvviso che mi parve un ‘ti amo’. 302 S’afflosciò sul tavolo con occhi vitrei in fermo immagine d’eccesso. Rimasi ferito nell’impotenza sorpresa e continuai a carezzarle il volto riverso di lato, come un automa, perdendomi tra le ciocche dei capelli, ad infondere fiducia, ad offrire protezione. Una missione per me. Avrei continuato in eterno con estrema dolcezza. Fui portato via, legato come adesso, sudato marcio e in preda a tremiti incontrollabili, mentre me la toglievano da sotto le mani. Quanto tempo è trascorso da quella sera? Mi pare un’eternità. So solamente che ogni notte, da quando sono qui, mi viene a trovare e con le sue dita affusolate mi sfiora il viso madido di sudore. Mi trapassa nel bluastro della luce notturna e mi racconta storie con gli occhi fosforescenti di felino passionale. Le rispondo con tenerezza, singhiozzando sommesso, e sento stringere una catenella al collo. Muoio ogni notte per lei e con lei. D’amore. E in languore indicibile. Ed ogni mattina mi risveglio, immobilizzato in questa casacca, con il collo dolente, e lacrime copiose scendono lungo il viso per chiedere perdono nell’aria, per non aver saputo essere il padrone buono e giusto che lei voleva…” 303 LATI OSCURI Aicha era bellissima e seducente, per metà strega e per metà puttana, con la saggezza e l’innocenza di entrambe, e con occhi neri, come i capelli corvini, a scrutare nel profondo dell’animo umano. M’accolse, malinconica, un pomeriggio afoso opprimente, nella penombra della sua stanza affettata da lame di luce di una veneziana lurida. Dal soffitto un ventilatore a pale confondeva buoni e cattivi pensieri e mescolava sudori di passione e di paura con essenze esotiche. La sua voce di carta vetrata raschiando rise con una piega amara: “Ti mostrerò il mio lato oscuro per placare il tuo, ma dal tuo sguardo cupo comprendo che forse non riuscirò a darti pace.” Cadde la veste di garza, vaporosa in un sospiro. Rimase nuda e sfrontata in piedi di fronte a me, in bagliore di pupille e monili. Poi si sedette contro la spalliera del letto e prese possesso di paradiso e inferno come un animale territoriale fissandomi con sfida e con un curioso sorriso, materno e malizioso insieme. Allargò lentamente le gambe nervose a compasso sulle lenzuola candide. E vidi il suo lato oscuro. Come i suoi occhi febbricitanti. Capisco solo adesso l’ironia e la verità dell’esistenza di un lato oscuro innocente nonostante tutto. Aicha rideva come una dea pagana. Fui catturato da quel nero lucido di corto pelo ricciuto che proteggeva una ferita umida aperta da millenni. Fui stordito da penetrante odore di femmina. M’abbracciò una patina di sudore freddo. La presi con bestialità e intolleranza per quello sguardo che chiedeva dignità e rispetto con fierezza. Le nascosi gli occhi con un cuscino, da vigliacco, per non vedere, e premetti frenetico per paura d’udire. 304 Si rilasciò senza reazioni come solitamente s’abbandonano inerti le puttane. Stavolta, però, rimase marionetta senza fili. Dalla mia finestrella vedo il cortile con la ghigliottina e sento l’ultimo martellare dei carpentieri. Mi toccherà domani. Adesso comprendo che il lato oscuro in ognuno di noi è solamente un’arma impropria che può essere usata con ferocia o con prudenza e perizia, in innocenza senza moralismi o in irrequietezza maledetta di Caino. Rassegnato e consapevolmente impotente, piango. 305 CINQUE SENSI 1. Olfatto Sniffo. Annuso. Odoro. M’incanto su un ottovolante d’idee che sferraglia vertiginosamente per conto suo, mentre sono abbracciato da una scia che è quasi visibile e colorata. Al passaggio di una donna. Un odore può fornire i connotati per un’identità: ne sono convinto quando chiudo gli occhi all’individuare una sagoma femminile venirmi incontro. Si ferma la realtà; e qualsiasi altro indizio perde di significato e si sbriciola di fronte alla concentrazione nell’olfatto. Non è più importante il ticchettio di scarpine a punta, il fruscio quasi impercettibile di un soprabito impermeabile, un respiro ansante per un passo troppo svelto. Solo olfatto. Borotalco. Comune. Tenero e sportivo insieme, amichevolmente intimo, rasserenante. Esoticaromatico. Stordente. Dolciastro e mieloso, passaporto di passionalità e perfidia amalgamate in sapiente dosaggio che stimola pensieri torbidi e decadentismi orientali. Aspro. Sincero ed erotico: il mio preferito. Mi evoca un pube socchiuso richiamandone il sapore. L’origine del mondo. Si spalancano gli occhi alla luce e s’affastellano nuovamente rumori di passi e d’avvolgimento urbano. E’ lei. Mi volgo indietro. Ha qualche importanza il suo aspetto? 306 Rimango statico e assorto, uncinato dall’asprigno di prugna acerba, e sorrido alla figura che s’allontana ignara. Vorrei annusare la cannella del tuo sorriso… 2. Udito Stai risciacquando piatti o stoviglie: ascolto il sottofondo di uno scrosciare d’acqua tra risolini e sorpresa infantilmente eccitata. Fermati, ti prego. Ecco. Così. Ti stai sedendo sul divano: sento quasi impercettibile lo sprofondare del cuscino e il frusciare della tua gonna. Stai sospirando. Maledetta linea disturbata. Un continuo flebile ronzio punteggia il tuo respirare ora rilassato e ora nervoso. Clic. Ti stai accendendo una sigaretta. Non è bastardo l’udito: non è un senso secondario. A me amplifica visuali e immaginazioni in sinestesia: ascolto e insieme vedo. Mi ascolto che ti parlo e sono pervaso da un formicolio sfibrante nel collegare quanto dico con una tua risata, un tuo muoverti o semplicemente un tuo aspirare quella sigaretta con voluttà femminile di potere. Dialogo, gioco, provocazioni, proposte, anche oscene, talvolta. Altro frusciare lieve smorzato in terra. L’udire travalica il rumore: rende meno soli, più complici, e allerta in ipersensibilità ad indovinare da piccoli urti o tonfi o strofinii quello che sta accadendo molto lontano. E può accadere che si ascolti un singhiozzo soffocato. Non è un bel sorridere quello di compatimento con la sufficienza sprovvista d’immaginazione. E invece, se si ha un bel cervellino si è davvero lì. E chi sa udire in maniera speciale, lo sa. 307 Vorrei ascoltare il tango delle tue vene che battono il tempo che scorre. 3. Vista Vedi? Sei prigioniera di banali concetti d’estetica e mi guardi con un’espressione sulla difensiva nella consapevolezza di qualche tua imperfezione che ti possa rendere meno affascinante. E’ la mancanza di perfezione, invece, che costituisce fascino e richiama associazioni d’idee curiose, tra il dominio e l’umanità tenera, nel piacere del guardare innocente. Rilassati, dunque. Lascia che io percorra sentieri poco battuti a notare particolari per me affascinanti. Il tuo blu, per esempio. Il tuo blu intenso delle vene sulla pelle alabastrina, fragile, del tuo seno che è scoordinato in respiri d’attesa, come per un giudizio impietoso. Vedo la vita che scorre, nelle tue vene, e anche una passione da decifrare, e il tuo seno dovrebbe avere armonia nel respiro, perché ti guardo e ti sorrido affascinato. Mi piace percorrere con le dita leggere la traccia della circolazione verso un cuore che batte anche d’eccitazione, e il vedere il diafano della tua pelle che s’intirizzisce in minimi rilievi tremanti al contatto mi attira e mi eccita. Si crea un meccanismo di protezione, da offrire e da ricevere, all’insegna della dolcezza. Panna, i tuoi seni morbidi. E cavi elettrici azzurrini a solcarla. Per illuminarti di bellezza da preda: da accarezzare. Vorrei vedere più da vicino i tuoi canini per rabbrividire di piacere. 4. Tatto Sei bastarda. Detto in senso ammirato e buono. 308 Si sono appena spente le luci e mi hai sussurrato una provocazione all’orecchio. Scorrono i titoli di testa: “Priscilla, la regina del deserto”. So di che parla, transvesta, e associo, con solita mia malignità, sorprese al nostro contingente del buio in sala. Né più piccoli, né più grandi o esagerati. I riquadri delle tue calze a rete autoreggenti sono perfetti per un palpare leggero, per come adoro certi particolari. La carne pare esplodere nei contorni delle maglie e la pelle è tirata e m’appare, al tatto, più delicata e fragile. La indovino tra diafana del tuo incarnato naturale e arrossata per la costrizione della rete che morde e sega. Risalgo una gamba senza fretta e con leggerezza, indugiando su quei piccoli ponfi sani stretti tra le maglie, con l’eco della parola: autoreggente. E mi trattengo dal correre per arrivare alla carne brada. Ipocriti che siamo. Abbiamo lo sguardo fisso verso lo schermo e i nervi in allarme, tu immobilizzata come un coniglio legato ad un palo nella jungla, e io a dominare la fretta cattiva consigliera, altalenando le dita in una serie di micromontagne russe che sono le tue cosce insaccate in rete, pulsanti come una mina antiuomo o un culatello vivo. E io sono l’uomo che percorre il terreno minato. E l’ingordo di culatello vivo. Mi pare perfino d’udire lo stacco da una maglia all’altra, impercettibile, a chiudere uno strisciare minimale in un riquadro di pelle di mezzo centimetro per mezzo centimetro, compresso come un microcosmo. Poi, liberatoria e quasi sfinente, la terra di nessuno. La carne è libera e la mano scorre sul tiepido, attirata verso un centro gravitazionale pulsante come un secondo cuore, altrettanto caldo. Sensazione di un prato all’inglese appena innaffiato. Erba più fina, quasi tagliente, e rugiada calda. Indugio da bastardo, io, adesso. Sempre più ipocrita, falsamente attento, mentre corre una corriera sullo schermo nel deserto. 309 Tepore che si diffonde come un cerotto per i reumatismi. Ma non penso ai reumatismi, ora. Mi succhio due dita, piano, sentendomi un piccolo padreterno, ma questa è un’altra storia e un altro senso. Vorrei toccarti l’attaccatura dei capelli sulla nuca col fare del pastore che protegge la pecora innocente. 5. Gusto Ho il palato difficile ed esigente. E ho idee chiare: credo di saper distinguere un sapore banale da un gusto per il quale valga la pena morire, da ingordo peccatore di gola quale io sono. Non indovineresti mai quello che vorrei gustare di te, ora, che mi sorridi sfrontata e nuda, abbandonata e ospitale come una Maya consapevole di avere potere. Sto pensando di assaporare il tuo collo, di lato, dove una vena azzurrina sta portando fermenti di idee e pensieri al cuore per trasformarli in passione. Sono convinto dell’esclusività del sapore, lì, sul tuo collo, come un intenditore di vini, un sommeiller che snocciola di retrogusti e morbidezze. Vuoi essermi spezia, specialità, droga esotica piccante? Sarebbe un gustare delicato, un passare la lingua su una buccia di pesca viva, e un assaggiare pensieri maliziosi che sfrecciano verso il cuore, pulsanti come ostriche da ingollare ad occhi chiusi con un sottile brivido. Ronferesti come una gatta, di piacere, nel sentire raspare la pelle che lì è particolarmente sensibile, e io trasformerei il tuo roco gemere in sapore, carezzato dai tuoi capelli che mi abbracciano come alghe. Sì, sapore d’idee, e di passioni che ritornano su verso il cervello, depurate dal raziocinio di un precedente viaggio per un voler essere animale e riscoprire il valore della lingua e del sapore. Vorrei leccarti l’anima per assaggiarti davvero tutta. 310 RANE, ANIME E POETI RESTAURATORI Cielo livido all’orizzonte nel crepuscolo. La bottega dello Sciamano è lurida come il proprietario. Sciamano è un vecchio repellente, perennemente sporco di fuliggine e morchia, con un sorriso malevolo sdentato e giallo e gli occhi acquosi e arrossati che sembrano disarmati mentre pungono di curaro come la sua barba ispida di tre giorni. Commercia, traffica, scambia: di tutto. Sta in culo ai lupi, tra barre di cemento armato sbilenche coperte da un sudario di cartongesso grigio, all’estrema periferia, in fondo a quello che una volta era un viale a sei corsie che portava ad un centro commerciale. Ora carcasse d’auto e corvi, null’altro, lungo un percorso che è acquitrinio e fango. “Ciao, Sciamano.” “Oh guarda: il signorino poeta curioso…” “Hai qualcosa da restaurare?” “Ho sempre qualcosa da restaurare, poeta, per bravi restauratori attenti… Il fatto è che purtroppo, sovente, capitano clienti che vogliono solo giocare a risiko o al meccano o con i Lego, dilettanti, superficiali, gente senza consapevolezze di valori… Ma, del resto, io ci guadagno: prendo sempre qualcosa in cambio… e ci guadagno…” Ride catarroso di gola, Sciamano, facendomi l’occhietto e lacrimando. E’ passato molto tempo da quando faceva piercing ai genitali, per mode di secoli fa, o di quando consigliava a poco prezzo i più originali modi per suicidarsi ed entrare nella gloria del guinness dei primati. Sì, tanto, tanto tempo è scorso, e ora ride come un bambino crudele che ha appena strappato le ali ad una farfalla. Magari esistessero ancora farfalle: tutto è fosforescente e violetto in un’aura maledetta radioattiva che frigge le ossa e morde con lancinanti emicranie. 311 Divento rude, adesso, perché non mi piace l’indifferenza corazzata di Sciamano. “Non faccio cambi: lo sai…Mi tengo stretta la mia… Fammi un prezzo, equo, oppure me ne vado: io non seguo mode, e nemmeno m’interessano gli ultimi giochi di tendenza. Le ricostruzioni le faccio per me e per quello in cui credo, non su di me…” Caimanizza con fare ingordo e annuisce frugandosi la mente. “Con novanta pezzi ti porti via qualcosa d’interessante. Avrai stimoli in abbondanza per quello che t’interessa fare…” “Novanta pezzi? Tu sei pazzo, Sciamano. Io non faccio collezioni di pezzi rari: sono un poeta. Io rieduco.” Il vecchio fa il suo mestiere: promuove senza farlo troppo notare e intanto piange miseria per ammorbidire portafogli troppo rigidi. “Cazzo credi, signorino, che si trovino così, dietro l’angolo? Occorrono appostamenti, pazienza, e si rischiano ripensamenti, scherzi del destino che ti mandano all’aria settimane d’attesa. Quanti credi che siamo in giro a proporre questa merce? Perché credi che questa moda sia così ‘glamour’ ed esclusiva e duri da così tanto tempo? E’ solo misticismo a controbattere disperazione o anche voglia di giocare rischiando in proprio? Tu forse non te lo puoi nemmeno ricordare, perché magari non eri nemmeno nato… Sai qualcosa della caccia alle rane di una volta? Si cominciava con la scelta della notte giusta nel mese giusto. Poi ci si addentrava nella palude, con gli stivaloni a mezza coscia e con la torcia elettrica e la nassa e il forchettone. E tanta pazienza per l’attesa. 312 Uscivano nel mezzo della notte per cantare d’amore, dal fango, da sotto le foglie marce stillanti umido, dal buio, attratte dal sole in saldo della torcia abbagliante. Allora dovevi fare attenzione a non scivolare e dovevi essere lesto a forchettarle e a chiuderle subito nella nassa, vive o morte, il più possibile, prima che le altre fuggissero spaventate. Adesso è la stessa cosa, se non altro per l’attesa. Ore ed ore, nascosto dietro un pilone di un cavalcavia, ad attendere chi è stanco di vivere e vuole cantare un’ultima canzone al mondo con un lancio. Ore ed ore, un’eternità, appostato ad un incrocio annusando nell’aria bourbon e benzina di folli corse fin dietro un curvone o un muro. Con polmoni buoni. Per aspirare. E bisogna saper trattenere senza farsi condizionare. Tu lo sai fare con una alla volta e non so nemmeno se lo sai fare bene. Ma io? Io trattengo dentro di me dieci, venti anime distrutte che si dibattono per affermare d’esistere nonostante tutto. E proteggo l’integrità e l’indipendenza della mia. Tutto pericoloso, lo capisci vero?” “Sì, sì, ti capisco, Sciamano, ma non ho novanta pezzi: dovrai scendere di prezzo…” Il vecchio tossisce e sputa. “Ti farò ottanta pezzi, non uno in meno: prendere o lasciare.” “D’accordo: è un gran sacrificio, ma spero di ricostruire un’anima poetica per come piace a me… Di chi è quella che mi offri a ottanta pezzi?” “Una ragazza ammalata d’amore nella sofferenza. Non ha retto. Ero là che attendevo: dietro la casamatta delle cisterne dell’acqua, sul terrazzo di un vecchio palazzo diroccato. Lei mi ha visto e ha compreso. Mi ha guardato con un sorriso malinconico e mi ha sussurrato con una voce dolce e struggente – Dalla a chi la 313 possa far brillare di una luce di speranza, serena e luminosa, ti prego…Piangeva quieta come una vitella intelligente e consapevole, prossima a diventare un insieme di bistecche. Mi sono commosso, fanculo al mondo, e le ho promesso che l’avrei data ad un poeta. E ora arrivi tu che mi parli di mercanteggiare, fanculo pure a te…” “Scusa, Sciamano. Vivo per come posso, ma conosci le mie intenzioni. Non restauro anime, io, per gioco, per moda, per baratto della mia, di cui sono soddisfatto, a differenza d’altri. Io ricreo. Mi sforzo di offrire speranza per un futuro, nonostante lo sfrigolare dell’aria e la maledizione del vivere di questi tempi senza passioni e sentimenti. Trasfondo quanto è rimasto di mio per offrire tranquillità in un giusto sonno. Le mie anime restaurate ora sono tutte in pace.” Credo d’avere gli occhi fiammeggianti d’orgoglio. Sciamano mi guarda con timore reverenziale, quasi conquistato. Poi, senza dire una parola, mi s’avvicina e mi bacia in bocca, perché è così che funziona, perché si deve. La sensazione di schifo è violenta, ma dura l’attimo di un conato soffocato con volontà. Diviene prepotente, invece, e aumenta la percezione di uno spirito che entra in me e sgomita per avere un posto vicino al mio cuore. E mi pare di sentire dentro l’agitarsi di una parola soltanto, - grazie - sussurrata con una voce dolce e struggente che mi riporta indietro nel tempo al pensiero di un’amica che è sempre stata bimba da baciare, mai baciata davvero. Avrò da lavorare molto, questa volta. Assorbire ed annullare sofferenza in un plasmare fiducia e complicità per rendere quello che è stato e che sarà il più accettabile possibile. Il fare poesia di questi tempi lividi… 314 LA SOFFERENZA NELL’ASSENZA Non c’è bisogno di funi, e lo sai: è la parola che lega e immobilizza, è l’ordine dato a voce bassa decisa e nello stesso tempo carezzevole. Devi stare assolutamente ferma. Basta: senza altri corollari. Questo per il tuo e il mio piacere. Per te che devi percepire un formicolio elettrico dai capillari che muove al tuo cervello come un tir inarrestabile senza freni. Dovrai fermarlo con la volontà scolpita nel desiderio di non contravvenire all’ordine di rimanere immobile. Il tuo cervello esploderà in schegge impazzite di colori brillanti che si conficcheranno nei reni, tra le cosce, nella nuca. Il mio piacere sarà il contemplare quel movimento minimale involontario di muscoli tesi e guizzanti, trattenuti in sforzo immane all’immobilità. Contemplerò la tua schiena eccitante, nuda, inarcarsi impercettibilmente, i tuoi glutei candidi stringersi isterici o rilassarsi subito dopo in desiderio impellente d’accoglienza. Farò scorrere le dita come un battito d’ali impalpabile sul tuo corpo, sul filo della tua spina dorsale, e poi soffierò soltanto, aliterò, ora freddo, ora tiepido, sul tuo bianco latte bollente increspato come le fragole, nella difficoltà dell’ autocontrollo. Non percepirai più, ad un certo punto, presenza carnale. Le dita scompariranno sospinte via dal fiato senza carnalità che salirà fino alla nuca in un soffiare continuo gelido da brividi. Allora ti muoverai: non potrai farne a meno. Sarà inevitabile. Sarà per debolezza, per l’essere travolta, per ribellione solerte in ansia di restituzione del piacere. Trasgredirai l’ordine. Mi leverò in piedi, allora, senza una parola, e uscirò dalla stanza lasciandoti sola nel piacere della sofferenza nell’assenza. Di me. 315 CUORI NEL CARBONE Esplosione. Sopra. “Scusi, capitano, …capitano Lopez, sì, lei: sono Guillermo Vegas del “Noticias TV”. Può spiegare ai nostri telespettatori che cosa è successo? Vediamo vigili del fuoco, traffico, ambulanze: è plausibile e auspicabile parlare di una disgrazia circoscritta o dobbiamo paventare una strage?” “C’è stata un’esplosione in uno dei pozzi più profondi nella miniera di carbone qui dietro, il pozzo Sant’Isidro. Fortunatamente si era a cavallo di due turni e c’era soltanto una squadra di manutenzione per controllare le volte del cunicolo più recente: due uomini. Stiamo cercando di recuperarli anche se, ad essere realisti e sinceri, le possibilità sono davvero scarse…” “Grazie, capitano Lopez, e complimenti per la solerzia dei suoi uomini. La risentiremo più tardi, se possibile, per un aggiornamento della situazione. E ora lei, signor...” “Guilmares. Sono il proprietario del pub “Cerveza loca” qui a San Felipe.” “Ha un aspetto molto affranto, signor Guilmares... Lei conosce i due intrappolati là sotto?” “Madre de Dios, li conoscono tutti, qui in paese, Chico e BumBum: non passano certo inosservati... Due brave persone, due giganti che potrebbero tenere con le braccia le travi delle gallerie della miniera, da quanto sono forti, ma che non farebbero male ad una mosca. Hanno una certa notorietà qui intorno come lottatori dilettanti di wrestling: hanno incrociato una volta anche la buonanima di Andy Guerrero, lo sa? Sempre sorridenti, sempre allegri, molto amici e grandi bevitori di tequila. 316 BumBum si chiama Cosma, in realtà, ma il soprannome gli viene da ventidue tequile bumbum bevute in una sera rimanendo in piedi. Spero proprio che se la possano cavare, cari ragazzoni, per come amano la vita…” “Grazie, signor Guilmares. Lei, signora, - sono Guillermo Vegas del “Noticias TV” può dirci qualcosa di Chico e Cosma BumBum? Li conosce?” “Due gran bravi ragazzi, sempre disponibili per la comunità. Lei non ci crederà, ma, nonostante il loro aspetto da orsi feroci, sono i preferiti dei bambini del paese per interminabili partite alla pelota. Vergine della Guadalupa abbi pietà di loro…” “Grazie signora. Per ora è tutto dal vostro inviato Guillermo Vegas qui da San Felipe, amici telespettatori di Noticias TV: si aspetta e si prega mentre le squadre di soccorso si stanno calando con cautela giù per i cunicoli della miniera di carbone dietro le mie spalle. Potete vedere in sovrimpressione, grazie regìa, le foto dei due giovani imprigionati là sotto ed è un vedere che francamente stringe il cuore: due colossi, i ritratti della salute, con sorrisi aperti di vitalità sana e sguardo franco. La linfa ricca di queste terre laboriose e riarse che tutto copre una continua fina e fitta polvere di carbone. Speriamo tutti che ce la possano fare… Ci collegheremo ancora con voi nel prossimo notiziario per tenervi aggiornati sugli sviluppi trepidando per un loro salvataggio in breve tempo senza complicazioni.” Sotto. “Cosma…Cosma…bimbo, ci sei?” “Sì, Chico: sono tutto indolenzito, ma ci sono, e mi sembra di essere ancora tutto intero, grazie a Dio. Aspetta che faccio luce…” “Fermo, fermo, per carità, madre de Dios. Potremmo saltare in aria definitivamente: senti che puzza…” 317 “Scusa, scusa, Chico: sono frastornato e mi fa male una spalla… Il buio m’innervosisce, soprattutto con questo odore e questa umidità, e comincio ad avere anche freddo nello stare immobile… Tu come stai? Tutto bene? Dove sei?” “Sono appoggiato alla parete, proprio di fronte a te, per quello che capisco nel sentirti parlare. Se allunghi una mano dovresti toccarmi…” “Sì, eccoti, meno male... Ascolta: ce la faremo, Chico? Mi sa che stavolta siamo proprio nella merda e comincio ad avere paura…” “Non lo so: non resta che sperare e ripassare la lezione che ci siamo ripetuti da sempre a memoria circa il destino. Avvicinati, ché ho freddo anche io…” “Aspetta che cerco di districarmi e arrivo… Sono coperto di sassi: mi sa che alla luce non dovrei essere un bel vedere…” “Mi viene da ridere… Ah, eccoti…mettiti qui a fianco ché ci scaldiamo… Cazzo, se mi viene da ridere…” “Pensi a quello che penso io?” “Forse…” “Certo che tutta quella gente là fuori all’imboccatura della miniera, se solo immaginasse, la seppellirebbe del tutto eh? E invece ci sarà la TV, i vigili del fuoco, e piangerà tutto il paese… Per noi…” “Già. Comunque è un bel modo di morire, questo, se è scritto che si debba morire, vero? Morire insieme…” “Credo di sì, anche se ho paura e freddo…” “Dai, stringiti… E abbracciami: tanto non ci vede e non ci sente nessuno…” 318 “Mi dispiace per come sta andando in vacca, Chico: avrei voluto altro per noi, alla faccia del paese, alla luce del sole…” “Anche io, Cos. Vuol dire che è scritto che non è possibile… Cazzo, ma ti stai eccitando?” “Mi fai sempre lo stesso effetto, Chico: lo sai…” “Beh, bimbo, morire per morire, mi piacerebbe morire a mio agio, magari dopo avere fatto l’amore, perdio, ché se poi mi ritroveranno morto col tuo uccello in mano non me ne può fregare di meno… E a te?... Potresti baciarmi, tanto per cominciare, bimbo, ché l’ossigeno forse potrebbe non bastare…” “Come cazzo fai ad avere questa voce sexy anche qui dentro e in questa situazione. Mi lasci sempre senza parole… Ma sì, fanculo al mondo: se si deve morire è bello poter morire come si vuole…” “Oh sì, Cos…sì… Poi sai che faremo…dopo? Ci accenderemo una sigaretta: tanto per rendere completo il tutto e suggerire qualcosa al destino… Sì, sì, bello, …così…dai…sì…” Esplosione. 319 EROTISMO DI UNA NAPOLETANA Eccoti il mio rituale, se ti va, per domani mattina quando ci sveglieremo… Andrò nudo in cucina, appena alzato dal letto, senza fare rumore, scalzo ex bronzo di Riace con andatura felpata di brizzolata pantera rosa. Se riuscirai ad aprire gli occhi, io, girato di spalle, lo avvertirò nell’udire una risatina sommessa maliziosa e garbatamente ironica: non è più tempo di eroi... Preparerò il caffè come insegna la liturgia, concentrato nell’operazione, senza fretta. Controllerò il livello dell’acqua, non troppo e nemmeno poco, dopo averla fatta scorrere a lungo, perché non sappia di tubatura, per un caffè non eccessivamente denso, ma nemmeno tristemente acquoso. Presserò la polvere, ma senza strafare nel comprimere col cucchiaino, e farò tre buchini con uno stuzzicadenti, per esaltare l’aroma del caffè, per quando bollirà. Avviterò molto forte la napoletana affinché non accada che fuoriescano schizzi durante bollitura. E aspetterò vicino al fornello sbirciandoti sdraiata nel letto come una ninfa di qualche quadro rinascimentale, con le gambe socchiuse, splendido spettacolo, e i glutei svettanti candidi nella penombra. Prova ad immaginare, ora. L’aroma che si diffonde per le stanze e il borbottìo della napoletana che sembra uno sfiatarsi in fischi d’ammirazione per il tuo corpo abbandonato. Ecco: il momento della complicità. Fremerai perché saprai che toccherà a te. Io attenderò che la napoletana intiepidisca, unica concessione trasgressiva al gustarsi un buon caffè canonico, bollente come un utero. Poi, dopo qualche tempo, mi sentirai avvicinare tra fumo ed aroma, come un santo patrono in processione con il suo tabernacolo fumante tra le mani. T’inarcherai il più possibile, nel letto, e attenderai. 320 Verserò un rivoletto di caffè lungo il solco della tua schiena e poi ti percorrerò lentamente con la lingua ad assaporare il mio caffè corretto con il sapore della tua pelle. Odori e sapori in un vederti latte nell’udire un gemito soddisfatto al tatto. Ti rigirerai, infine, impaziente, e gusterai il tuo caffè da me, in un lungo bacio con un tango di lingue. 321 ANACONDA E AGNELLO NEL VAPORE Il grande bagno è immerso in vapore spesso e bollente che nasce con un ronzio dal nulla. Una luce fioca giallina, in fondo, rompe il buio e rende l’ambiente una mangrovia da respirare piano dimenticando il concetto del tempo. Mi siedo sulla larga panca di pietra che fuma e sfrigola, intiepidita con un getto d’acqua fredda della canna. Soltanto dopo che mi sono accomodato noto che ho vicino a me una sagoma che galleggia nella caligine. Di donna, da quel che intravedo d’un bikini ridotto e sfumato. Si passa con estenuante lentezza le mani sul corpo a sgocciolare sudore e tossine. Sono immobile, seduto con i gomiti poggiati sulle gambe, piegato in avanti, la testa ciondolante a fissare il pavimento scuro. Ascolto lontani discorsi banali, aspiro vapore e odori di carne, accarezzo sensazioni di caldo che cullano come un’amante, che abbracciano come un utero. La donna s’alza e mi passa davanti come un’ombra; aziona la doccia fredda di reazione, proprio di fianco a me, dall’altra parte del sedile di pietra. Si friziona con energia mugolando sommessamente in brividi per la sensazione di contrasto, un piacere che rasenta il doloroso, in capillari strozzati. Si piega quasi a sfiorarmi per bagnarsi la schiena. Colgo uno sguardo attento, nitido perché molto ravvicinato. Contraccambio neutro, nel vapore torrido, da persona civile e controllata, anche se l’ambiente stimola cervello e ormoni e istinti famelici. Ripassa davanti, forse più impercettibilmente flessuosa, oppure sono io malizioso, e si risiede al mio fianco. Cambio postura e mi rilasso buttandomi indietro senza toccare con la schiena la parete che scotta, puntellandomi sulla pietra del sedile con le braccia tese e le mani, 322 allungando appena le gambe, a cercare con lo sguardo il soffitto invisibile. Occhieggio di tanto in tanto la donna con naturalezza casuale. Assume la mia stessa posizione. Dopo poco mi sento sfiorare una mano e penso all’accidentalità d’un movimento inconsulto. Un dito esita sulle mie dita e indugia in una leggera pressione. Mi immobilizzo, allora: non so ancora se anaconda o agnello. Non voglio offrire appigli con reazioni: voglio essere preda, curioso. Il dito diviene più impertinente e gioca con le mie dita poggiate sulla pietra. Carezza, struscia, preme, indica, punta, affonda, picchietta un morse osceno e pulsa in un polpastrello che morde e uncina. Contraccambio allora, ipocrita, forte dell’aria ovattata che nasconde un’evidente mancanza d’indifferenza tra le mie gambe. Ribolle l’adrenalina nel rischio di essere scorto: eccitante… Emergono, distanti nella nebbia, fantasmi in suoni e ombre: una sagoma poco distante, di un’altra donna, sdraiata su un muricciolo di pietra, assente e intenta in carezze a togliere sudori. Chiacchiere d’un piccolo gruppo più in là: uomini che non riescono a staccarsi dal mondo nemmeno nel paradiso dell’indefinito in un bagno turco. Un’altra sagoma di donna rotonda si staglia sul fondo, pensierosa forse, per quello che permette d’indovinare il velo distorcente d’umidità. Stimola, questo gioco nella penombra, con il caldo che toglie il fiato e veste il corpo di una patina liquida: un esibirsi complice di fronte ad altre persone, con il delizioso del barare sul fatto che non si è distinti. Il dito ora è mano: rapace, calda e sgusciante di sudore, a toccare la mia con delicatezza, con avidità, con un linguaggio di inequivocabili significati. 323 Un indice mi scava l’incavo della mano e si strofina provocatorio in codici di promesse e intenti. Mi volto per guardare questa eroina intrepida così deliziosamente sfrontata. Non ne distinguo pienamente i lineamenti, ma mi è ininfluente: è seducente e splendida, per come sa cacciare una preda. Mi fissa, impenetrabile nelle sue emozioni, quasi con sfida. S’appoggia la muro rovente con le spalle e scosta appena, con l’altra mano, lo slip per lasciarmi vedere, oltre il luccichio della sua pelle madida, quello che nessuno può vedere anche solo mezzo metro più in là. Non riesco a distinguere perfettamente i dettagli, per come vorrei da eccitato guardone, ma è poco importante: è il gesto che eccita, è l’intenzione, è il modo, è l’indovinare tra lo scuro delle ombre e dei pensieri. Gioco anche io, ora, e intreccio la sua mano alla mia. Sudo copiosamente, attraversato da una pazzia frenetica. Penso d’alzarmi e piantarmi davanti a lei seduta, abbassando il mio costume, ora troppo stretto, vicino al suo volto. Non oso: sono decisamente un agnello adesso. Forse le trasmetto mentalmente questa immagine e le mie fragili esitazioni, forse percepisce il mio belare codardo ferormonico: le piace stringermi così tra le sue spire, e continua. Ora è febbrile e la sua mano azzanna la mia. E’ tesa, inarcata, immobile in tutto il corpo, percorsa da una scarica elettrica che la irrigidisce in un impercettibile tremore. Ad un tratto si rilascia con un soffio e sembra rimpicciolire in abbandono morbido con le spalle che s’adagiano sul muro pesanti. Rimane per qualche attimo inerte, respirando a fondo, piano, ad assaggiare l’aria pregna di umori, e si ricompone nel frattempo con disinvoltura guardando davanti a sé la nebbia ardente come una sfinge. 324 Poi si alza, indifferente e naturale, mi passa davanti estranea, ed esce dal bagno turco verso l’inferno di una squallida piscina tropicale luminosa che trasuda solamente cloro e neon in impietose vedute. Non è accaduto nulla di particolare, forse: schermaglie di provocazione, giochi, piccole prove d’esibizionismo, un affettare l’aria con ‘cattivi pensieri’ taglienti come lame non affilate. Eppure, nel vapore, la donna ha goduto e io ho l’impressione di avere fatto l’amore. Da preda. Da agnello. Stritolato dolcemente da un’anaconda. 325 LILY Lily, a dispetto del nome, è una graziosa cinese d’età indefinibile, tra i trenta e i quaranta anni, che probabilmente si chiama Lin o qualcosa di assonante. E’ una puttana che lavora in casa. Si sta innamorando di me. O forse, in una realtà da me non distorta, è pervasa di solo affetto oppure di una simpatia particolare. Si sta affezionando, tuttavia, anche se afferma che sono anziano: lo dice esagerando la nasale e masticando la zeta senza pietà, ridendo con innocenza, e mi centrifuga tra un malumore vanitoso e un divertimento autoironico. In qualche modo contraccambio il suo sentimento. Mi dedico a lei, quando ci vediamo, tranquillo e con rispetto, comportandomi con delicatezza e cura, senza tempo e altri pensieri. Credo che questi accadimenti inconsueti siano il risultato di una sintonia casuale di due fragilità. Lei è fragile, come tutte le puttane, anche quelle più coriacee, nell’incantamento di essere apprezzata come donna anziché come puttana, nella speranza di avere attenzioni e soprattutto gentilezze. Io sono fragile per una banale questione anagrafica: sto a cavallo della duna tra il disincanto incattivito e i rigurgiti di entusiasmi eternamente adolescenziali. Sono il classico cinico romantico di mezza età, ossimoro vivente, sospeso tra l’aggressività in raffiche di vaffanculo e desideri di coccole, da dare e ricevere, perennemente nell’attesa inquieta di qualcosa, vigile in percezione, alla lontana, dell’esistenza della morte. Mi piace ascoltare Lily mentre parla di suoi stupori elementari con un italiano stentato pieno di circonvallazioni che allungano il percorso di un discorso semplice. A lei piace essere ascoltata, magari con due mie dita che le percorrono il corpo nudo, leggerissime e noncuranti, magari con gli occhi che s’incontrano e si dicono altro silenziosamente in parallelo idioma alieno. Lily mi bacia in bocca. Sovente. Con la lingua. 326 E mugola di piacere infantile. Le piace rispondere a mie curiosità: io scandisco concetti piani come se parlassi ad un ottentotto e lei annuisce con il capo per dirmi che ha compreso. Poi risponde passando sempre per la tangenziale, e si confonde e ritorna daccapo, ridendo di sé, di noi, mentre il piccolo televisore trasmette a basso volume sceneggiati pechinesi in dvd con universali risate gialle registrate di sottofondo. E’ già la terza volta che Lily non vuole essere pagata. Mi dice semplicemente che non lavora e mi sbottona la camicia con naturalezza e gli occhi bassi. L’ultima volta mi ha intenerito. E’ sgattaiolata scalza nell’altra stanza ed è ritornata con una bustina: un orologio cinese da polso, di quelli da un tanto al chilo. Me lo ha teso guardandomi con trepidazione, sorridendo impacciata, e mi ha accarezzato una mano mentre lo prendevo dalle sue. Mi ha chiesto se possiamo vederci domenica sera: vuole cucinare lei, alla cinese, qualcosa per me. Dice di sé che è una brava cuoca e strabuzza gli occhi a mandorla per accentuare il concetto della goduria a tavola. Usa spesso un’esclamazione che presumo possa essere di facile pronuncia per una cinese: mamma mia. Lo dice con espressione enfatica a caricare significati e concetti, bestemmia gentile o volgarità di poeta. E mamma mia quanto mi piace cucinare, mamma mia quanta brutta gente, mamma mia che pelle calda che hai, mamma mia che bello vedere te… Tintinnano i miei pensieri, bicchieri di cristallo sottili come bolle di sapone, e un vibrare di diapason, che posso ascoltare solo io, si libera dalla sua figurina svelta con la chioma corvina: è la nota della sua fragilità di donna sola e distante dalla sua terra. Si sta abbarbicando a me senza pretendere nulla, se non, forse, attenzione, per poter essere sicura di esistere, o gentilezza per stornare ruvide richieste di clienti frettolosi. Soltanto perché io sono garbato con lei e la coccolo e le mormoro parole affettuose con carezze leggere come sospiri. 327 Lei forse comprende le singole parole solamente a campione, ma intuisce il senso e il calore del tono. Allora si lascia andare e gode e mi stringe con una forza disperata sospirando e singhiozzando per poi sorridermi, sudata e sfinita. E dopo asciuga il mio sudore, devota, con delicatezza e con sguardo da bambina pensosa. Mi ha chiesto se domenica dormirò da lei. Il mio cristallo vibra e trema. Ma l’inverno sembra meno freddo d’altri anni. Le porterò una torta Sacher: Lily è ghiotta di cioccolato anche se è terrorizzata dall’ingrassare. La mangeremo a letto con le mani, imboccandoci e ridendo, e ci impiastricceremo dappertutto per poi ripulirci con baci lievi e golosi nell’abbraccio di qualche nenia cinese, di quelle che stordiscono e placano inquietudini. E allora, mamma mia, vaffanculo al mondo. 328 SOTTILI LINEE DI DEMARCAZIONE “All’inizio era bello: lei sempre a posto, sorridente, disponibile, gentile. Sembrava un paradiso…” “Invece poi?...” “Il poi fu un susseguirsi di cambiamenti a partire dai dettagli più insignificanti e quando cominciai a percepire disagio e malessere fu troppo tardi. Cominciò a girare per casa con i bigodini in testa, poi con una calza a mezz’asta e una vestaglietta trapuntata rosa che giorno dopo giorno si infrittellava delle macchie più disparate. Il sorriso radioso dei primi giorni si tramutò in uno stirare di labbra tese con espressione acida e supponente. La disponibilità traslocò per irraggiungibili isole caraibiche lasciando in cambio soltanto opportunistici mal di testa. La voce uterina e passionale dei primi tempi divenne uno stridulo brontolare su ogni cosa, dall’esiguità dello stipendio al rincaro dei prezzi, alla insoddisfazione del suo stato di casalinga fino ad un continuo stillicidio sul suo martirio nell’espletare le faccende domestiche. Per lei cominciai a sporcare troppo, ad essere menefreghista perché non usavo le pattine sul pavimento lucido di cera. Non la gratificavo con i complimenti dovuti per un polpettone che era obiettivamente rinsecchito e ascoltavo la radio a volume troppo alto. Stavo troppo in bagno e troppo addosso a lei nel letto e le mancava l’aria. Aria, diosanto, aria che mancava a me la mattina quando aprivo gli occhi e fissavo come in un incubo un viso stravolto da un reticolo di rughe da cattivo sonno, una faccia impresentabile con la bocca aperta che russava ed emanava miasmi fognari. Un inferno, dottore, mi creda.” “E allora?” “Provai a cambiare la situazione con la gentilezza e la comprensione, ma attivai un perverso meccanismo di consolidamento di posizioni. 329 E allora mi adattai alle circostanze e ridussi il mio tempo di permanenza in casa allo stretto necessario. La reazione di lei fu un abbrutimento nella supponenza, nel livore, nella superficialità e nell’egoismo. Cominciò a bere e a ingrassare. Si inchiavardò davanti alla televisione a seguire le peggiori stupidaggini possibili, sempre più trascurata e assente. Imparai a cucinare, dunque, prima per me e poi anche per lei che prese gusto a lamentarsi della qualità del cibo e della cottura. Entrai allora nella mentalità di uno che vive in un momento di transizione. Io, sempre timido e riservato, mi chiusi sempre di più a riccio e attesi eventi nuovi sperando nella sorte. Il mio angelo di pochi anni prima, nel frattempo, divenne il ritratto verista di una casalinga disperata, lamentosa e sciatta, insignificante sotto l’aspetto della compagnia e dell’affetto e della passione.” “La ascolto attentamente. Cosa accadde poi?” “Più che ‘accadde’ io direi che ‘cadde’. Mi cadde addosso una consapevolezza pesante come un macigno e ebbi la rivelazione della mia via di Damasco. Conobbi Kurt. Altoatesino. Biondo. Bello. Vigile del fuoco. In borghese, sul tram che mi portava all’ufficio. Furono un insignificante strusciare di mani al mancorrente e due sguardi fugaci, timido e impacciato il mio, deciso e penetrante il suo. Due battute sul tempo e lo scendere alla stessa fermata. Un caffè per simpatia insieme. E un mondo nuovo che si aprì a me in mutevolezza di ruolo. Stavo lasciando la mia antica principessina trasformata in megera per perdermi nello sguardo di ghiaccio di un vigile del fuoco alto due spanne più di me. Sul principio risi dell’idea: il principe azzurro. Poi risi di meno. Fantasticai. E mi sentii felice d’essere oggetto di piccole attenzioni, perché ci rivedemmo più volte, sempre più spesso, fino a che una sera ci si guardò in maniera inequivocabile. 330 Lasciai mia moglie. Era diventata irsuta, selvatica, e mi appariva sempre più un cinghiale. Mi trasferii da Kurt. E sbocciai nella mia nuova natura di fata, ignorante all’inizio circa il bucato, lo stiro, la gestione dell’andamento di una casa. Kurt fu comprensivo, dolce, disponibile e affettuoso. Mi realizzai poco a poco senza eccessivi traumi. La mia vera natura fuoriuscì con disinvoltura senza alcuna prevaricazione da parte di lui.” “Continui, la prego…” “L’invidia degli dei, il fato cinico e baro, la legge di compensazione, la sfiga dietro l’angolo: scelga lei la definizione giusta, dottore. Il vigile del fuoco, l’amore della mia nuova vita, scivolò da un cornicione per salvare il gattino di una otaria baffuta simile alla mia ex dolce metà. Morì sul colpo senza soffrire. In compenso da allora sto soffrendo io. Le pene dell’inferno. Solo, irrealizzato, mancante di qualcosa di irrinunciabile che possa rendere la vita degna di essere vissuta nell’assecondare socievolezza, affetto, amore e complicità.” “La capisco…” “Ne è sicuro, dottore? E’ sicuro che lei capisce il mio stato d’animo di trovatello senza più una guida, un riferimento?” Il dottore si sporge in avanti e prende la mano del paziente tra le sue. Lo guarda intensamente. “Anche io ho avuto una recente perdita…” Stringe la mano sprigionando un calore di promesse di protezione e complicità. Il paziente contraccambia lo sguardo. E si interroga in pochi attimi sul suo futuro di casalinga disperata o di fata ignorante. 331 DICK – ORMONAL LIFE “Come va, Dick?” Il vecchio si scuote da un torpore pesante, allarga e stringe le mani nodose a saggiare la consistenza dell’aria, tasta il letto e mormora in un sussulto stanco: “Bene, no, anzi, benino, Dick, per non dire maluccio o addirittura malissimo: ho visto giorni migliori.” “Cosa vuoi farci, Dick? E’ la natura che rivendica il potere su tutto. Natura omnicomprensiva, tiranna. Vogliamo osare anche a definirla bastarda?” “E il tuo modo di presentarti c’entra qualche cosa in questo disegno cosmico?” Il vecchio ridacchia sommesso: un sibilo di iguana spossato. Aggiusta la posizione nel letto provando a stirare le gambe nel camicione largo come una vela e trasparente come una rete da pesca, con la tensione degli alluci verso il basso. “Non saprei, Dick: so che adesso sono così, e basta. Ne sono abbastanza fiero e non mi sto ponendo problemi se ciò sia possibile da un punto di vista medico, psicologico, naturale o meno. Potrei, potresti, potremmo essere fenomeni da baraccone o anche questo fa parte della natura. Mi allieta il pensiero di fare la mia porca figura anche in un momentaccio come questo. E dovresti essere contento anche tu, no?” “Beh, per quello che può essere considerato concetto di gratificazione…” Il mormorio è basso, un esalare fiato in maniera inintelligibile, di un ironico umore nero, semmai sia possibile solleticare umore nero in un letto di ospedale nella penombra e nella solitudine più completa di una stanza singola, appeso per lacci e tubicini a macchine che ti fischiettano una messa funebre per bip e orchestra. “La gratificazione, caro Dick, è sempre dietro l’angolo ed è più intensa quando meno te l’aspetti. 332 S’aprisse la porta adesso ed entrasse l’infermierina culona, quella con i capelli a caschetto e lo sguardo malizioso … Mi immagino una bocca atteggiata a meraviglia e uno sguardo da Alice. Poi, magari, qualche pensieraccio goloso, ché tanto qui non entra nessuno e tu, parlando da un punto di vista decisionale, stai diventando importante come un soprammobile.” “I soprammobili si conservano, Dick: non s’inceneriscono per poi conservarsi dentro una scatoletta di cedro.” “Beh, Dick, mettiamola così: non è che ti siano rimaste poi moltissime risorse di reazione. Per come ne sono consapevole, non sei ancora un puro vegetale, e io lo dimostro, ma non sei neanche minimamente candidabile alla frequentazione annuale di un corso di fitness e pesistica con saune e bagni turchi comprensivi in ambiente sessualmente misto.” “Ritorniamo all’infermierina, Dick, così, tanto per distrarmi da questo doloraccio al petto che scava come un chiodo arrugginito: potresti anche giocarmi un brutto tiro, in soprassalto di modestia o vergogna, o anche solamente perché la natura fino a un minuto prima era distratta da altro e ora deve correggere prospettive secondo canonicità classiche. Non si è più sicuri di nulla, caro Dick, e meno che meno in frangenti come il mio, con questo ‘bip’ che m’innervosisce e pare scandire un conto alla rovescia. E poi che bello: con le cannule nel naso, le palpebre a mezz’asta e la pelle flaccida e grigia.” “Tutti alibi, caro Dick, a supportare il tuo essere rinunciatario, insicuro, sconfitto di sempre. Perché non provi a considerare altra retorica, la retorica dell’amore per la vita, dell’aggrapparsi con volitiva disperazione alle ultime occasioni per assaporare ancora soddisfazioni? Una infermiera è allenata ad affrontare le situazioni più imprevedibili e ha una sensibilità che probabilmente, in frangenti pratici, è di un altro pianeta molto più evoluto. 333 Quella del primario di psichiatria del piano di sotto, in confronto, è sensibilità di carta vetrata. La nostra culona ti ammirerebbe, probabilmente, e magari sarebbe colta dalla sindrome della buona samaritana e…” “Sei proprio un porco in ogni occasione, Dick.” “Se porco vuole dire amare la vita sopra ogni altra cosa, ebbene, sono allora un gran porco, caro Dick. E risparmiami discorsi di carattere spirituale, morale, filosofico, sociale. Non venirtene fuori con la storia che caschetto è troppo giovane, è troppo sposata, è troppo sola, è troppo pietosa o altre amenità sul tuo stato, la tua età, il tuo rincoglionimento o quant’altro di negativo tu sappia inventarti per giustificare il tuo essere coniglietto.” “Stai dicendo tutto tu, Dick: io a mala pena respiro e ti sento. Ti sento vampiro. Non so fino a che punto nella scala della giustizia. Mi soffermo solamente su considerazioni varie rispetto al concetto di ridicolaggine… Sto tirando l’anima coi denti e il ‘bip’ mi assomiglia sempre di più ad una campana a morto.” “Beh, caro Dick: meno male che ci sono io a resistere, allora. Il concetto di ridicolaggine, per come la vedo io, è uguale a certi macigni che riguardano la paura di morire e l’aggrapparsi alla fede. Invecchi e hai paura di morire, diventi un baciapile, osservi i comandamenti che non hai mai osservato fino a pochi anni prima, ti raccomandi l’anima a Dio, ti riempi di piità, senti che vocabolo pulcinesco ahahah… Piità, piità, un’assonanza da pollaio con pietà che ha dell’inquietante. Oppure alzi paletti, palizzate, muraglie. La pelle del vecchio fa schifo, l’alito è da fogna, l’occhio è liquido, l’odore del corpo assomiglia ad un qualcosa di indefinibilmente rancido, le sinapsi cerebrali sono tarde e risibili. 334 Tutto vero, se la rigiri per qualche verso che ti accarezza la pigrizia e la irrefrenabile pudicizia che non ammette brutte figure. Ma, e questo ma è un solco. Non è maschilismo spicciolo, questo, bada bene. Esiste anche una insopprimibile voglia permanente di vita indipendentemente dall’età. La vita è cibo. E’ socializzazione complice. E’ ormone. E’ figa. La santissima Figa che tutto asperge con i suoi umori creando vita che genera amore per la vita. Un circolo virtuoso, vizioso, virtuvizioso, saldato solidissimamente, ché ti sfido a discernere. Ed è un assioma indipendente dall’età. Le donne sono meno sceme di quello che tu credi, e lo sanno, per fortuna. Comprendono. Si incuriosiscono per comprendere meglio. Forse non tutte. Ma te ne basta una, no? Ce ne basta una, no? Per me ed il mio amore per la vita e per te e il tuo amore per la vita: amori così diversi e così simili, carnale e spirituale, ché quel coglione che ha cominciato a fare distinzioni aveva il cervello in pappa. Dai, Dick, resisti. Resistiamo alla morte con la gioia e l’amore per la vita.” “Fino a che ce la farai: io ho idea che tra poco passo…” “Sforzati un poco, allora, e pensa al figurone del ‘rigor mortis’: l’angelo della corsia con le lacrime agli occhi per una occasioncella perduta…” “Vaffanculo, Dick…Per te sono tutte troie.” “Macché dici, Dick. Povero te ché sei arrivato a questa età e non hai capito nulla della vita.” “…E’ ora. Spero che qualcuno, se esiste, mi protegga e abbia pietà di me…” Il vecchio ha un soprassalto tirato e si rilascia. Anche le cannule e i tubicini sembrano allentarsi sul letto e il camicione sembra svuotarsi. Almeno in parte. 335 Qualche tempo dopo entra nella stanza per un controllo una infermiera coi capelli a caschetto, piuttosto ampia di bacino, e scuote la testa mestamente nel notare la macchina silenziosa e il vecchio Dick terreo immobile disteso sul letto con il suo camicione largo. Il morto sembra sorridere: una specie di ghigno sospeso tra il perfido e il divertito, anche se qualche ruga spianata denuncia una rassegnazione perdente che potrebbe confondersi con una comprensibile paura. Ha le mani serrate all’inguine, Dick. Artigli. Eppure sono mani che contengono, che non imprigionano. A dispetto dell’età e chissà per quale possibile o impossibile legge naturale, fa mostra di sé di una prorompente erezione. Seppure postuma. L’infermiera ha un pallido sorriso, indecifrabile, femminile, e copre con il lenzuolo i due Dick. Con delicatezza. 336 RACCONTI DI BAR E RISTORANTI 337 338 ESAGERAZIONI Mi piace lasciarmi cullare sulle onde della fantasia da pensieri che hanno legami apparentemente illogici, o forse logicamente distorti, colla realtà. Mi piace smontare il tempo, le dimensioni, le proporzioni per arrivare a creare un mio mondo con mie regole paradossali e iperboliche che mi facciano poi sorridere in qualche pausa tra una realtà quotidiana e un’altra che, comunque, tranne le solite eccezioni, spiacevoli non sono. Nell’astropub di una galassia lontana un grande Kroll, probabilmente un facchino dello spazioporto, muscolosissimo e rinforzato con paranchi in vanadio su tre dei suoi sette tentacoli prensili, con lo sguardo inespressivo ma buono dei suoi 6 occhi gammavedenti, sta aspettando un cybhamburger da uno svogliato cuoco unto e bisunto, piccolo e giallo con un capo antennuto pieno di lana di vetro riccia che ricade a ciuffetti su tutto il bancone. E’ questione di attimi e quest’ultimo, meccanicamente, estrae da un criogeneratore professionale una palla precotta che giaceva lì da qualche tempo. La manipola un poco con appendici gommose che la schiacciano e da sfera le danno una conformazione da tortino; la strofina con esotiche spezie a base di metano ed altri aromi e la poggia su una immensa griglia di titanio che sprigiona vapori azzurrini perché già bollente. Pochi secondi e rigira la razione con una paletta che maneggia destramente con quelle appendici gommose che mutano anche forma a seconda delle funzioni che devono espletare; ancora due saltelli sulla piastra e qualche sfrigolìo: la porzione di cybhamburger è pronta e servita calda con lava fusa e altre spezie. Mi piace pensare che questi pochi secondi meccanici di una funzione banale e quotidiana a milioni di parsec da qui in un’altra dimensione temporale significhino, nell’ambito di una mia umilissima considerazione di me di fronte 339 all’universo, il susseguirsi di ere glaciali e calde di un pianeta che, improvvisamente scosso da terremoti e disastri naturali, dopo sbalzi climatici di milioni di anni, si estingua nel nulla con miliardi di esseri viventi. Forse è troppo immaginare la Terra come un cybhamburger che finisca di vivere nello stomaco di un gigantesco Kroll? 340 ATTENTI AI PIZZAIOLI Disse burbero al pizzaiolo: “Vieni di là che ti devo parlare.” Domenica sera, verso l’orario di chiusura, Don Ciccio oltrepassò la postazione del forno a legna dove Gennaro il pizzaiolo stava riordinando, dopo aver coperto un malloppone di pasta con una tovaglia per la lievitazione, e si chiuse nella stanzetta con la scritta ‘Privato’. Gennaro raggiunse il padrone e stette in piedi di fronte a lui, un poco imbarazzato, in attesa di comunicazioni, con un vago sentore di aria temporalesca, elettrica e carica di minaccia di pioggia. “Gennarì, io te l’ho detto tante volte, ma tu niente, fai sempre come tua natura di galletto ignorante: quante volte ti ho detto di lasciar perdere le clienti, specialmente le più carine? E tu niente, fai orecchie da mercante e seguiti con i tuoi commentini del piffero che sottintendono solo piffero, quello vero, e una, due, varie clienti si indignano e si vengono a lamentare da me. Ora basta! Da mercoledì viene un nuovo pizzaiolo, egiziano, sicuramente meno bravo di te, ma sicuramente più educato e rispettoso. Martedì è il tuo ultimo giorno di lavoro: goditi domani di festa e comincia a guardarti intorno perchè stavolta con me hai chiuso.” Gennaro ristette in silenzio senza replicare, adirato come un luccio anche perchè quello che aveva detto Don Ciccio era vero, però ...sant’Iddio, un minimo di comprensione per un ragazzo sotto torchio in piena estate davanti a un forno a legna... Il giovane Gennaro sbollì gradatamente la sua rabbia il giorno dopo, turno di riposo alla pizzeria, in un bosco ombroso, camminando a lungo tra siepi e lecci e raccogliendo funghi: tornò a casa con un cestello pieno. Il suo ultimo giorno di lavoro in pizzeria si presentò puntuale, con un’aria indecifrabile di indifferenza nei 341 confronti del padrone Don Ciccio, e con un pacchettino di funghi tagliuzzati a listelle con le sue mani, belli carnosi con profumo di bosco. Erano amanite falloidi, citrine e muscarie... 342 BUON COMPLEANNO La moglie di S. è sempre stata una donna molto sensibile e premurosa ed è sempre stata una giocherellona incline a scherzetti più o meno innocenti nei confronti di suo marito. Preparò una beffa memorabile in occasione del cinquantesimo compleanno del suo uomo: a sua insaputa, organizzò una cena pantagruelica in un ristorante esclusivo ed invitò tutti gli amici di suo marito, quelli frequentati ed importanti e quelli perduti nel tempo, fin dai giorni scolastici di tantissimi anni prima, rintracciati con tanta pazienza e fatica. Si preannunciò quindi una serata mondana molto nutrita di ospiti tra i più disparati che, nelle intenzioni della originale mogliettina, avrebbero dovuto suscitare un piacevole marasma di emozioni e ricordi nel festeggiato. La donna fece opera di sovrintendenza sul menu e sull’organizzazione completa della serata con un’orchestrina e altre sorprese… Arrivò il gran giorno e l’ignaro festeggiando, verso sera, ingenuamente propenso per una pizza o una fritturina di pesce con la sua signora, venne bendato da quest’ultima, piacevolmente blandito con risolini e ammiccamenti vari, caricato su un taxi e portato verso il ristorante. Fu una serata splendida, un susseguirsi di emozioni che si accavallarono ai ricordi e alla sorpresa di vedere tante figure molto cambiate in tanti anni: il piacere di vecchie rievocazioni e in alcuni casi la speranza di un futuro riannodarsi di rapporti andati smarriti per troppa pigrizia o superficialità. S. era frastornato e galleggiante in uno stato di abbandono e confusione, commozione e gioia, e la moglie lo guardava in tralice pregustando il ‘clou’ della serata a fine cena. Si arrivò infatti al momento culminante e la signora fece abbassare le luci. Fu introdotta una torta gigantesca che fu posta davanti al tavolo del festeggiato: si levò nell’aria una musica 343 languida da night-club e dalla torta uscì una splendida creatura con una folta cascata di capelli mori riccioluti, avvolta solo da alcuni boa di struzzo, con un ridottissimo perizoma, ancheggiante con un sorriso complice e lascivo tutto per S.. Il festeggiato accolse sulle sue gambe la splendida creatura e, confuso e stordito dal suo profumo, cominciò ad accarezzarla distrattamente tra i lazzi e le urla di incitamento della platea: carezzando, carezzando, arrivò a toccare punti più riposti e segreti ed ebbe una sorpresa, la sorpresa della moglie: la splendida ragazza statuaria era in realtà Miguel Carvalho, un bellissimo transessuale brasiliano non operato, molto conosciuto nei locali notturni cittadini col nome di “Vanessa Leonessa”. S. tastò qualcosa di strano, che non avrebbe dovuto essere lì, ritrasse precipitosamente la mano tra le risa di tutti che sapevano, guardò negli occhi Miguel che contraccambiò lo sguardo… La moglie di S. ancora non si capacita del come e del perché sia accaduto che suo marito sia fuggito in Costa Rica con Miguel senza troppe spiegazioni ed ha perduto la voglia di scherzare: da un poco di tempo maledice gli uomini, i transessuali e anche le feste di compleanno. 344 QUANDO SI DICE AMORE Venne assunta come barista di sala, la bella Matilda, fisico statuario ed andatura indolente, molto sensuale, con uno sguardo languido e carico di sottintesi e un sorriso contagioso incorniciato da una cascata di riccioli bruni su un incarnato olivastro da creola. Il bar aumentò in breve tempo la clientela in maniera vertiginosa: tutti sfaccendati o figure che avevano pensieri maliziosi o speranze fuori luogo sulla bella barista. Cicaleccio allegro e brusìo eccitato tra birre e rhum in un incrociarsi di sguardi divennero la componente aggiuntiva del cockatil tropicale di fumo, sudore e afa mal repressa dai ventilatori. Attenzioni su attenzioni, apprezzamenti, ammiccamenti, sorrisi aperti, ingenui, nervosi, e poi addirittura musica… Cominciò una mattina, con l’ultimo fresco prima della calura del giorno fatto: Harry Belafonte che cantava “Matilda” e il bar pervaso da un’atmosfera tropicale calda e piena di gioia di vivere. Il brano si ripeté più volte, anche di seguito, e i clienti si guardarono sorridendo perplessi e intimiditi. Snervante calipso con percussioni insistenti che rasentavano l’osceno. Nel pomeriggio si comprese che qualcosa non andava per il giusto verso: il calipso di Belafonte era diventato ossessivo e faceva caldo, molto caldo, troppo caldo. “…E-very body…Ma-til-da, Ma-til-da…” riecheggiava la voce arrochita di Belafonte tra bonghi e marimba. Nel bar ci si guardava con curiosità e perplesso nervosismo e la barista era alquanto imbarazzata, dibattuta tra una piacevole consapevolezza di piacere e una pudicizia che cominciava a prevalere sulla maliziosa sfrontatezza. Atmosfera fumosa, caldo asfissiante, sudore ed eccitazione che le pale del ventilatore al soffitto non riuscivano a dissipare. Alla centododicesima ripetizione di “Matilda” qualcuno, un cinico sveglio o un misantropo incallito, intuì e staccò la spina del juke-box innamorato… 345 RISTORANTE Il posto si chiama “Da Franco al vicoletto” nel quartiere di S. Lorenzo in via dei Falisci. Il locale è ampio, ma anonimo, con luci basse, con un sottofondo di chiassoso sbattere di pentole e casseruole proveniente da un’enorme cucina schermata parzialmente da una ghiacciaia immensa e da un separè di vetro smerigliato: di là sembra l’interno di una vecchia sgangherata galea tra fumi, vapori, filippini, marocchini e ometti baffuti unti e sudati che si agitano e ridono e saltano padellate di pasta o di pescetti vari… Questo è un posto di pesce ed è anche conosciuto, vista la processione. Sono entrato presto per cenare ed osservare il sopraggiungere dei clienti, pessimo affare per il ristorante, perché solo: un tavolo quadrato è solo per me e vengo guardato male perché offrirò magro guadagno rispetto a tavolate di intere famiglie. Il padrone, Franco, indifferente e romanamente tetragono a qualsiasi imprevisto, con tovagliolo negligente su una spalla, sbircia da dietro il separè come una piovra in agguato e forse aziona un generatore di corrente: saltano come molle giovani camerieri, a scatti come formiche all’avvicinarsi di un temporale o come acquadelle di fronte ad una sagoma scura in avvicinamento. Scatta un filippino apparentemente indolente, un romano veramente indolente, una giovane mamma con bimbo parcheggiato dentro un passeggino all’ingresso, tedesca nella sua sbrigativa efficienza, il decano con riporto capelluto a banana mostruoso, unto e untuoso, coi piedi piatti, unico in giacca bianca regolamentare, i cui organi mobili e attenti sono solamente gli occhi, semisepolti, però, da un sorriso condiscendente e ambiguo di servo verso i clienti o di padrone verso gli stessi. Viene lui da me: “Buona sera….: faccio io?” Faccio io e ordino: lui assente con deferenti cenni di banana, sussiegoso e serio, e scompare. 346 Inizia il bello della serata: quel mio intendere il bello, particolare, per soddisfare la vista e fare risaltare alla mia osservazione aspetti ironici o dichiaratamente comici nella situazione confusa di pastasciuttaro di cozze e vongole, svagato, quasi pesce, che osserva l’acquario circostante pieno di osservatori di pesci o pesci stessi. Comincia il valzerone dei clienti che affluiscono nel locale… Entrano con piglio da padroni, cernie serie e altezzose, con la scioltezza dei clienti abituali cui è dovuto un trattamento preferenziale, e ti guardano con sufficienza, povero tapino, povera piccola alice senza branco, che sei qui per la prima volta, ma un loro volgere il capo ansioso tradisce la loro insicurezza da tonnetti alla mattanza. Il patriarca capellone, paguro rossiccio di una triste comitiva di vecchie carampane lucide di fondo tinta esagerato come triglie, afferra con confidenza un braccio del decano di passaggio, il bananaro che sembra ora un polipo, che neanche lo ha degnato di uno sguardo: occhi supplichevoli e un’improvvisa spianata di sorriso aperto per un tavolo in buona posizione scavalcando cartellini di “riservato”. Il cameriere assurge a dispensatore di benessere e felicità e scocca occhiate di degnazione verso il supplice: mi aspetto che faccia baciare l’anello del pescatore ai fedeli clienti… Sopraggiunge il radical-chic con sei chili di quotidiani sotto il braccio, rassegnato come un triste branzino d’allevamento, e due colleghe di lavoro che sorridono isteriche muovendo il collo come galline o, per restare nel tema, nuotando a scatti nervosi come gallinelle d’acqua: anche lui è stranamente sottomesso e confidenziale con la giovane mamma che corre di qui e di là senza troppa attenzione per il trio, nervosa murena affaccendata tra i tavoli che potrebbero sembrarle scogli ed anfratti. Qualcuno viene accontentato quasi completamente; qualcun altro deve fare buon viso a cattivo gioco e viene sistemato troppo vicino ad un altro tavolo, e per una coppia romantica è veramente una sistemazione insoddisfacente: 347 due pescetti baciucchioni d’acqua dolce vicino ad altri pesci con il senso del territorio molto sviluppato. Un acquario molto rumoroso, come il fondo di un profondo mare, del resto, paradossalmente: trillano varie suonerie di vari telefonini, qualcuno ancora batte sul bicchiere con la forchetta per richiamare il cameriere, robe d’altri tempi ruspanti, altri parlano di recensioni, di analisi politiche, del tempo, di come si mangia il pesce da Franco, di come e da quanto si conosce Franco, di come si è trattati bene da Franco… Poi passa silenzioso e imponente lo squalo bianco Franco ed è un girotondo di salamelecchi da sottomessi pesci pilota con un tu cameratesco e svariati sorrisi e battute e il furbo e navigato oste sogghigna: sembra di affabilità, ma io intravedo maliziosamente vago disprezzo e un fare le fusa da gattone affamato di lischette di sarde fritte, impermeabile alle più esagerate blandizie… Si incrociano vassoi di pane e bottiglie di vino, spaghetti alle vongole e fritture miste con grigliate e capesante gratinate. Si paga il giusto e il cibo è dignitoso senza voglia di urlare di goduria. Rimane, impagabile, il susseguirsi di siparietti nell’intercambiabilità dei ruoli tra servi e padroni, tra pesci e pescatori, tra chi paga e chi offre un servizio, in una confusione di atteggiamenti che, se ci si pensa bene, è già uscita dal ristorante e si è diffusa da tempo un poco dappertutto… 348 NUOVA MITOLOGIA URBANA Si fece silenzio. Cessarono il brusio e le risa, i giocatori di carte smisero di bussare il tavolo coperto di un sudicio panno verde nella vineria calda e fumosa male illuminata da uno sciatto neon tremolante, e tutti si volsero verso il cantore cieco seduto all’angolo in fondo che cominciò a parlare di Arione… Arione è un tossico che suona ogni tanto il sassofono in qualche affollato incrocio o sotto i portici di piazza S. Carlo o in Galleria S. Federico per pochi spiccioli o per un panino e una birra… Per la dose, invece, Arione si fa autoradio al parcheggio di piazza Fusi o a Porta Palazzo al mercato oppure tenta qualche scippo ai danni di vecchi passanti in vie poco frequentate e male illuminate della periferia verso villa Sassi… Una certa sera frizzante di primo autunno il nostro, in un bar scialbo di formica con le macchinette del video poker e un biliardo frittelloso di ciambelle unte, fece comunella con altri tre o quattro balordi impomatati del quartiere: due chiacchiere a fonemi gutturali e monosillabi intervallati da bestemmie sul più e il meno dei tossici, sulle difficoltà a reperire quei bravi e ingenui sprovveduti di una volta per sfilare loro il portafogli, qualche confidenza tra colleghi rubagalline, qualche dritta per un pasto caldo o per una dose extra da qualche finocchio in centro, qualche esame noncurante della strada e del passaggio con occhiate apparentemente distratte… Ecco: una vecchietta ingobbita dal passo strascicato, con una borsa consunta, ma grande come una sporta da spesa al mercato… Detto e fatto. Venne balzellata dalla scalcinata banda fino verso il Lungo Dora dove gli alberi ancora abbastanza folti coprono la luce e i passanti prudenti diradano. Sembravano pipistrelli diabolici, tutti neri e silenziosi alla fioca luce della sera. 349 Arione sfilò con uno strappone violento la borsa consunta bestemmiando e urlando per spaventare la vecchia e fuggì come un falco inseguito dagli altri. Si fermarono all’ombra di altri alberi qualche centinaio di metri più in là, curiosi e avidi, protetti dalle ombre del fogliame, per esaminare il bottino con qualche speranza di un paradiso notturno da dose. L’amicizia tra tossici muore di fronte a pochi spiccioli da dividere: la consorteria dei disperati si frantuma nella legge metropolitana del più forte o anche soltanto della effimera alleanza di tre contro uno per aumentare la consistenza di una magra divisione. Ci fu un alterco per una moneta di troppo, o di troppo poco, un pretesto forse, e balenarono le lame di coltelli. Arione era solo e gli altri erano troppi. Lo colpirono e lo scaraventarono nel fiume lì sotto come un vecchio materasso pieno di pulci e si dileguarono. Lui annaspò scoordinato freneticamente, gridò e chiamò aiuto, ferito e sanguinante, poi fu sopraffatto dai flutti fetidi di fogna urbana, ma alla fine del soccombere percepì una spinta verso l’alto e un delicato trasporto verso una riva bassa ed erbosa a ciuffi radi in un fetore insopportabile e tiepido di abbandono e marciume… Tre gigantesche pantegane, la razza denominata “Rattus norvegicus”, lo spinsero verso la riva e lo adagiarono delicatamente su una roggia deserta piena di rifiuti e siringhe. Arione aprì gli occhi stordito e mormorò qualcosa di sorpreso e grato appena intelligibile… Una pantegana squittì in un sussurro: “Grazie a te, Arione, per il dolce suono del tuo sassofono, struggente e disperato, che hai fatto ascoltare spesso agli abitanti tutti del fiume dal ricovero dei disperati del Sermig qui vicino sulla riva… Sarebbe stato un peccato perderti questa sera e non ascoltare più la magia di una buona musica…” S’interruppe il cantore cieco tra le volute di fumo di troppe sigarette e sigari toscani. 350 Beccava l’aria solamente il gocciolare del rubinetto nel pozzetto di zinco dietro il banco della mescita. Bevve lentamente un bicchiere di barbera nero a darsi calore e ristette muto a fissare con gli occhi vitrei una nuova storia impressa sulla vetrina appannata e opaca del locale. Rimasero tutti straniti, nella vineria, al racconto del vecchio aedo. Nel silenzio del rispetto per una favola della vita. Nuova mitologia urbana. 351 GLI STRACCETTI DELLA GINA Gina era l’ottima cuoca di un ristorantino di cui ne era anche la padrona insieme a suo marito Rocco, brillante maitre di sala. Era conosciuta per alcune sue specialità tra cui spiccavano il famoso “brodo tante carni” e gli inarrivabili “straccetti della Gina”. Il “brodo tante carni” era appunto un brodo misto di bollito di manzo, pollo, coniglio, piccione e, alla stagione, rane, con un sapore ricco e appetitoso aromatizzato da foglie di alloro aggiunte e poi tolte, per il segreto dello chef, oltre ad altre spezie. Gli “straccetti della Gina” erano delle tenerissime piccole scaloppine sottilissime steccate con speck e salvia, cotte nel vino bianco, appena sbollentate, quasi come i “saltimbocca alla romana” col prosciutto, con un’aromatizzazione di aglio e un’eccentrica aggiunta di pinoli appena tostati, servite calde su un soffice letto di rucola e pomodorini ciliegini di Pachino succosi. Andavano bene gli affari nel ristorante di Rocco e Gina, ma non altrettanto bene i rapporti tra la valente cuoca ed il disinvolto maitre di sala: era un litigio continuo su pretestuosità insignificanti con ripicche, insulti e, talvolta, un piatto o un bicchiere scagliato contro una parete, ogni giorno sempre più vicino ad una sagoma urlante. Sembrò per pochissimi giorni, tuttavia, che fosse cessata ogni lite e che il locale odoroso di intingoli e arrosti fosse divenuto un’oasi di tranquillità. La Gina se ne era andata dopo una notte di grida e strepiti per una pausa di riflessione lasciando tutto sulle spalle di Rocco… La verità venne a galla una domenica di gite fuori porta. Rocco era praticamente sempre in cucina a surrogare degnamente la moglie e un pallido ragazzo volenteroso lo sostituiva nel servizio ai tavoli prelevando piatti su piatti da uno sportello comunicante con la cucina. 352 Ci furono mugolii di giubilo e commenti di approvazione nel sorbire il famoso brodo con tocchetti di pane bruschettato e semplici cannolicchi. Si udì un liberatorio applauso a scena aperta all’ingresso dei famosi “straccetti della Gina”, teneri, morbidi e saporosi… Scoprì tutto un ragazzino curioso che sgattaiolò non visto in cucina per vedere l’antro delle meraviglie e chiamò la mamma con voce squillante… Risultò eccessivo, esagerato e gratuitamente truce il fuoriuscire dal pentolone del brodo di due bianchi femori…la verità a galla con un coperchio sbilenco a mal coprire… E gli “straccetti della Gina”, col senno di poi, avevano un sapore nuovo, indefinito e paradisiaco, ma diverso… 353 COSA SI FA PER UNA FOGLIA NEL CAPPUCCINO Sono poche le persone che possiedono un apprezzabile spirito d’osservazione e sono rarissime le persone che riescono a ricamare con entusiasmo su particolari insignificanti come un poetastro cicisbeo barocco, peraltro, spesso, esercizio piacevole. Io sono oltre: ricamo e approfondisco, curioso come una serva al mercato rionale, e ho la necessità interiore di sapere il perché ed il percome su qualsiasi argomento, importante o marginale, anche se ridotto a semplice dettaglio. Sono curioso come un cercopiteco e ho le mie soddisfazioni nel conoscere retroscena che nessuno sa. Oggi sono ecumenico e voglio farvi partecipe di una mia scoperta. Conosco la vera storia di Toni, il barista del Bar dei Tarocchi. Lo conoscono tutti il Toni, bruttarello e magro come un Bagatto, ma simpatico e professionale, con quel gilet azzurro cielo sempre stirato e inappuntabile. Ha un sorriso per tutti, una battuta per la portinaia del condominio di fronte, sempre malandata di salute, per il ragioniere del negozio di autoricambi, per ogni cliente di prima o ultima categoria. Ed intanto che ride e scherza, lavora sodo con la leggerezza del Nureyev e danza dietro il bancone tra la Faema in acciaio, quella vecchia splendente con i pomelli in bachelite nera, e il grill con le piadine, e sembra quasi che diventi bello e fascinoso. Il Toni è bravo in tutto, ma in una cosa eccelle sopra tutte: la foglia nel cappuccino. Avete mai osservato come viene servito un cappuccino al bar? Esiste il barista frettoloso che tira via e versa il latte con poca schiuma sul caffè senza curarsi molto dell’aspetto estetico. Esiste il barista volenteroso, apprendista stregone di certi segreti, che versa il latte molto schiumato, leggero, e 354 domanda anche se volete il cacao, ma ottiene risultati estetici di presentazione piuttosto scarsi: globi biancastri sbavati di caffè, montagnole di schiuma che sembra sapone con il cacao che sembra fuliggine. Esiste poi il Toni. Con leggiadria e naturalezza, in sospensione con le due mani, una per la tazza e una per il bricco del latte, versa una schiuma impalpabile e candida muovendo velocemente il polso morbido e nel contempo nervoso e con l’altra mano ruota impercettibilmente la tazza. Si viene a formare dal nulla nella tazza una foglia bianca lanceolata venata da ramificazioni di caffè. Il Toni spolverizza di cacao, senza chiedere, e la foglia appare vera, viva, autunnale in un colore bronzeo, ed il vapore del caffè e del latte bollente sembrano una nebbia novembrina di un bosco con l’aroma del caffè che magicamente sa anche di castagne. E’ un poeta il Toni: il re della foglia nel cappuccino. L’ho smascherato ieri sera alla chiusura del Bar, dopo una chiacchierata corposa e innocente sulla bonazza del quarto piano che stende ad asciugare delle mutandine da infarto. Beveva grappa e parlava, il Toni, e rideva sempre più rubizzo e accalorato. Ho atteso paziente come un ragno peloso. Poi una domanda buttata là, con noncuranza, per il mio gusto di sapere: “Ma come fai, Toni, a fare le foglie nel cappuccino così bene? Hai studiato in qualche corso alberghiero?” Mi ha dato una risposta, cincischiata nella verità di qualche bicchierino di troppo, che mi ha un poco tramortito, lasciato perplesso. “Ma no, vedi: io voglio il massimo per quello che so fare e mi sono sempre applicato per questo. E’ così che mi sono conquistato una fama di barista professionista di prima categoria. Si è presentato da me quattro anni fa un signore in antracite a tre bottoni, distinto, affabile, con una ventiquattrore di pelle nera, sembrava un assicuratore, e 355 abbiamo combinato un affaruccio tra noi: foglie nel cappuccino per un’anima. Ci siamo intesi subito e abbiamo avuto delle valutazioni estremamente complementari: quando dovrà essere, io smetterò di fare le foglie nei cappuccini e verrò ricordato come il migliore barista del quartiere e il signore in antracite avrà la mia anima.” Parlava e sorrideva beota, o forse più lucido di quanto possa esserlo io, senza grappa e con l’angoscia che mi fa da fodera alla pelle per il mio soprabito metafisico: lui niente, smargiasso quasi in una naturalezza da brividi. A botta calda ho pensato che il Toni si fosse bevuto il cervello: certi personaggi di ieri e di oggi, di letteratura e reali, hanno venduto per molto meglio la loro anima, per la fama, le donne, le ricchezze, il potere, ed il Toni, invece, faceva i saldi colle foglie nei cappuccini… Poi l’ho guardato: occhi determinati in una sua relativa ambizione, tono di voce freddo e indifferente per il futuro, nella gratificazione massima di un posto nella memoria di qualche cliente, ed allora ho ripensato e ho rigirato il discorso da ogni parte come un maglione di primetta nel bancone delle offerte speciali. Sono arrivato alla conclusione che forse il Toni mi abbia preso alquanto per i fondelli, ma a volte non ne sono così sicuro, soggiogato dal ricordo di quel luccichio degli occhi da matto, e quindi continuerò ad indagare, da serva curiosa e impicciona quale sono. Se fosse vero quanto mi ha detto, presto ci sarà da pagare, oltre all’anima, anche una grande fregatura: perché io ho notato che i clienti del Bar dei Tarocchi stanno cominciando a prendere meno cappuccini e più caffè ristretto… 356 ARRICCHISCE LA VITA LILLY GRUBER Classico circolo ANPI in periferia di paese. La sigla ANPI è solamente un pretesto aggregante: potrebbe significare anche Acidi Nottambuli Politrasfusi Isterici oppure Aspettiamo Nuove Poltroncine Ignifughe. Ambiente solito: tavolini, con incerata scozzese e con vari portacenere di plastica blu della Martini, di coreografia intorno ad un biliardo più volte rifondato, con un panno frittelloso e le spondine abbassate, senza buchette, come un biliardo recente regolamentare, con il termostato spento per risparmiare. Bancone del bar in fondo, con luce fredda verdina di neon e bottiglie semplici e veraci in esposizione: il Sassolino, l’anice Tutone, l’amaro Gambarotta, il brandy Tre Stelle, lo Stravecchio Branca…robe così… Il Baileys per qualcuno è una parolaccia (rumpi nen i baileys). In un angolino una macchinetta tarantolata del video poker, in semioscurità. Aria fumosa da tagliare con lo stesso coltello che è servito per i panini colle acciughe al verde o il salame cotto. Aroma di barbera spillato fresco e di trinciato forte. Qualche naso smaliziato riesce a distinguere la Rothman’s o la Marlboro tra i toscani. Qualcun altro strizza gli occhi e bofonchia sacramenti e malauguri a chi lo affumica. Chi non muore di tumore o d’enfisema, morirà di accidenti perché qualcuno di questi ultimi, per sbaglio o Provvidenza, prima o poi, attecchisce. Questa è la scenografia. Ora i personaggi e gli interpreti. I soliti due imperturbabili silenziosi, il Tecnicissimo e il Bravo Brillante, giocano con il grembiulino e con la stecca, con impegno e passione, a goriziana prendendo misure come geometri e ticchettando di messe a nascondersi dietro il boccino o il castello. Lo Scorbutico Litigioso non ama le carte e segue i biliardisti segnando i punti alla lavagnetta cercando di 357 imparare qualche colpo: colpo sotto ed effetto a tenere, per controllare la biglia, e il ‘friiiiiii’ sommesso del filotto che si adagia come un domino snodato sul panno al tocco preciso della biglia che fa tre giri e si nasconde. Un tavolino è occupato da me e da ‘Fumo’. Guardiamo i due biliardisti, Fumo ed io, e lui fuma in continuazione e accende una sigaretta con il mozzicone precedente. Due tavoli più in là una seduta di tresettisti, col tavolo coperto da un panno verde, che tirano fragorosi cazzotti al tavolo e discutono di lisci, bussi e strisci. C’è il Canuto, ex aviatore, invelenito, da buon giocatore qual’è, con il suo compagno Imbranato, il simpaticone che va a pesca, sempre con il suo giubbottino mille tasche e il cane sotto il tavolo attaccato alle caviglie. Imbranato, effettivamente, è una pippa con le carte, però è di compagnia e Canuto, fortunatamente, anche se smadonna, predilige la compagnia al tressette. Giocano contro due tignosi che sanno tenere le carte in mano: il Professore, quello col pizzetto, che sa tutto sulla teoria del tressette perché ha letto tutti i libri possibili sull’argomento, e il Veterinario che aveva l’ambulatorio qui vicino, che ha smesso perché ormai è stanco. Il Veterinario è un buontempone scherzomane, ma sa giocare e se non stai attento ti frega anche sui punti. Al video poker armeggia Ragazzo Simpatico che corre veloce sui tasti di scelta e perde sempre: dovrebbe essere fortunato in amore. Gli fanno da corona di ‘supporters’ il Poeta, che scuote la testa non condividendo certe passioni, e il Truce. Sta dietro a Ragazzo Simpatico, il Truce, e lo prende in giro da maligno con quella barbetta che gli da un’aria da cattivo, alitandogli vampate di Gaulois. E poi gli altri avventori ad altri tavoli, che guardano i due che giocano al biliardo. C’è il Guardiano, riflessivo e taciturno, e il Gattaccio, che sorride sempre sornione e aspetta sempre un qualcosa per scoppiettare di buonumore e battute, e il 358 Lupo che ogni tanto fa l’imitazione del lupo mannaro e ulula. Il Brillante Bravo della goriziana si deconcentra e lo manda a cagare. E tutti si sghignazza. Dietro il bancone, le due bariste: l’Antigone e la Monza, due ciminiere, accanite fumatrici, sempre pronte allo scherzo e alla battuta, dodici o tredici come misura di seno in due, che anticipano gli avventori con fulminanti controbattute, conoscendoli da un bel po’ di tempo. E ora un tipico discorso da ANPI, un dialogo sui massimi sistemi, un misto di tuttologia, costume, politichese spicciolo, quattro moccoli e due risate mentre cova sotterraneamente un nuovo embrione di quesito semiesistenziale da bar. E’ Fumo che inizia, così, improvviso come una boccata di traverso che fa lacrimare gli occhi, a voce non tanto forte, ma neanche sommessa, quel mix giusto per farsi sentire facendo finta di parlare soltanto con me: “Che ne pensi di Lilly Gruber?” “Che domanda è, Fumo? Si vince qualche cosa?” “No, no. Pura curiosità…A me suscita sensazioni contrastanti… Bella, bellina, bellissima, non saprei, strana, tanto strana: non riesco a capire se è una passionale o una che…” Sono i grafici puntini di sospensione, quelle pause tra una boccata e un’altra, quel silenzio che resuscita il ticchettio delle biglie della goriziana e il fruscio di un tresettista che smazza le carte: attimi di silenzio che preludono accese opinioni di chi vuole esserci…vivo, brillante, profondo, intelligente… Il Tecnicissimo biliardista si leva dritto dal tavolo e appoggiandosi alla stecca esala la sua sentenza: “Bella donna, freddina, forse, ma professionale…” Fa eco il Brillante Bravo, suo compagno, appena malizioso: “Alquanto diversa da qualche anno fa…plastificata un poco, ma solo un poco eh?” E ridacchia mentre struscia il gessetto sul puntale della stecca. 359 La miccia è innestata. Il Professore poggia le carte sul tavolo e si volge verso di noi con sussiego e aria severa. “All’anima del plastificata. Due labbra che sembrano un canotto matrimoniale… e presumo che sia anche miope come una talpa: avete visto come strizza gli occhi?” “Magari li strizza per farti capire che ci starebbe, no?” E’ l’Antigone, provocatrice nata. Ding, ding, ding: il video poker ha dato un full e il Simpatico Ragazzo si concilia con la vita. “Io ci darei un colpo…” “Intanto dacci dentro con la grammatica italiana, ragazzo, e mentre sei rimandato a settembre; il colpo, se permetti, lo darò io che sono più di mondo e non aggiungo quel brutto ‘ci’”. “Professore, ogni parola un ferito grave eh?” Fumo sogghigna e mi strizza l’occhio: ha fatto la parte dell’artificiere e la mina sta scoppiando a poco a poco come un fuoco d’artificio. Il Truce, quello dietro al ragazzo del videopoker, prova ad andare controcorrente da cattivello maligno. “E’ rifatta: sta tutta di traverso perché ha le orecchie come Dumbo, sta sempre lì dietro un tavolo: ma quando tromba la Lilly Gruber? E poi….le piacerà? Io dico che mentre il suo uomo la stantuffa lei pensa all’indice…” “Ecco vedi che è viziosa?” “Fammi finire: io parlavo dell’indice Auditel, furbacchione. Quella, se sta sotto, pensa a fare ridare il bianco al soffitto e alla corretta pronuncia di Venarìa Reale. Lo sai che l’altro giorno un’altra bella di altro TG, la Ammendola, mi pare, ha detto Venària Reale? E chissà quanto prendono per sparare certe castronerie… Il Canuto è pensieroso, ma tutti sanno che sta per dire la sua: si liscia la bazza e scuote il ca… E’ il segnale della sua verità. “Dite quello che vi pare, ma a me ‘sta Gruber mi ricorda la Faye Dunaway, quella di “Quinto Potere”, quella che trombava solo una volta ogni tanto per fare carriera: fredda come il Polo…brrrrrr… meglio Monza eh?” 360 E ammicca verso la matrona che spipacchia il suo cigarillo dietro il bancone con aria curiosa a spiare le reazioni e forse le erezioni, almeno mentali, dei presenti per poi fare dei conticini suoi privati. La Monza, soprannome derivato dalla famosa peccaminosa monaca, si schermisce, o meglio, fa le finte, ma intanto si aggiusta la sua sesta con un contorcimento a spirale aiutato da una mano. “Un pochino di rispetto per una vecchia nave scuola in disarmo eh?” “Nave scuola forse, ma in disarmo nemmeno se lo vedo ahahaha.” Il Gattaccio non perde l’occasione per aggregare la truppa con un’estemporanea trovata: “Dai, giovani, un bel referendum per stabilire se è meglio una trombata con la Gruber o con la Monza… Facciamo a scrutinio segreto?... No! No! Vediamo chi ha coraggio…” e allunga un pugno verso il Guardiano come fosse un microfono per un’intervista. Il Guardiano tossicchia e attacca un sorso di micidiale ‘bicicletta’: campari soda e bianco secco…roba per etilisti inveterati. Tutti ridono, ma si schermiscono appena imbarazzati e Monza ride perché sa che sarebbe la vincitrice plebiscitaria: potenza della presenza fisica e dello spirito pronto e disinibito associato ad un fisico rotondo, ma ancora eccitante. Qualcuno butta lì a mezza bocca coperta un provocatorio “Monza”, una voce isolata urlacchia “Antigone” e l’altra matrona si erge fintamente minacciosa come una faraona alla quale scappa da ridere. Le voci rimbalzano dal tavolo del tresette al bancone al biliardo al nostro tavolo al videopoker tra un rumore di bicchieri, sbuffi della vecchia Faema, trilli della macchinetta infernale e qualche madonna sparsa richiamata a testimoniare per un busso sbagliato o per un rinterzo troppo forte. E’ un pomeriggio semplice, vivo, incentrato sulla Gruber, sull’immaginario del bel mondo, dello spettacolo, 361 in maniera superficiale, con pensieri improbabili di conquista o d’indifferenza. E si fa l’ora di cena. Termina la partita di goriziana, termina il tumultuoso tressette, termina il pacchetto di sigarette di Fumo e le due bariste scalpitano perché hanno appetito e vogliono cambiare l’aria viziata. Si va via, ognuno per sé, dopo poca strada in comune, con qualche residua risata. E il fantasma della Lilly Gruber si smaterializza nella fredda nebbiolina serale per poi riaccendersi di tiziano nei piccoli schermi davanti ad una minestra fumante. In genere le mogli semiabbrutite da anni di abitudine e da travagliati parti e fatiche e sacrifici, almeno una volta in diversi anni di brillante servizio della rossa, di fronte ai mariti che guardano il maliardo sguardo miope, sbottano prive di assoluta obiettività: “Ma che avrà di tanto speciale questa Lilly Gruber?” E i mariti fanno spallucce tenendo per loro l’opinione di apprezzamento o di indifferenza, perché a parlare si fredda la minestra e perché è meno compromettente che dire anche una sola parola. Inoltre certi confronti con familiari bigodini da parata e calze a mezz’asta, alla Aznavour per intenderci, sono avventure suicide per la serenità della serata davanti alla televisione. E la Lilly Gruber continua a parlare di traverso, forse solo per posa, con orecchie normali a tortellino, e sbaglia pochissimi accenti, molto professionale. La guardo raramente io: sono un affezionato della Bianca Berlinguer, nel senso che guardo un altro Telegiornale. Mi piace, però, immaginare la rossacrinita nazionale nel buio della sua stanzetta che s’interroga sull’indice di gradimento della sua personcina in una sala ANPI di paese. Così…, tanto per dare una piccolissima fama aleatoria agli avventori che oggi l’hanno celebrata. E me la immagino domani sera, a fine lettura di tutte le notizie, che strizza appena di più gli occhi e dice con gratitudine, mantenendo un’aria molto professionale: 362 “Colgo l’occasione per salutare Fumo e il Canuto, e il Professore e Monza e Antigone e tutta l’ANPI di Venarìa Reale. Ho solamente le labbra rifatte, credeteci, e mi piace trombare, come alla Monza, né più né meno. Comunque grazie di avermi pensato, ragazzi. Contraccambio di cuore e vi auguro una buona giornata per domani.” Sigla. 363 SERATA AL BE BOP – RADUNO LETTERARIO (Progetto teatrale - Firenze stanotte sei bella…) Faretti multicolori bucano la penombra fumosa del locale. Si respira brusio divertito ed eccitato per le nuove conoscenze che si intersecano in risate ed esclamazioni di meraviglia e di apprezzamento. E’ l’atmosfera di un raduno di aspiranti poeti e scrittori, tutti aggregati e stipati nell’angusto pittoresco Be Bop, un locale che sembra un bistrot, con il pretesto di un concerto del Gattaccio e del suo gruppo: blues e jazz tra presentazioni, conoscenze, ascolto, declamazioni, forse qualche umano pettegolezzo lievemente malizioso. C’è attesa curiosa per il concerto e si nota movimento sul palco: accordature, regolazioni di volume, consigli sommessi e aggiustamenti delle aste dei microfoni. Il Gattaccio coordina, sovrintende, verifica e guarda sornione il pubblico. Un tizio dal fondo della sala si stacca da un tavolo e si dirige verso il palco. “Gattaccio, prima di suonare, se permetti, avrei piacere di leggere un mio raccontino breve…Ti rubo la scena veramente per poco tempo…Posso?” “Ma certo, figurati, fai pure.” Il Gattaccio, cortese, si scosta dal centro palco e il tizio ticchetta sul microfono per chiedere implicitamente attenzione. Vari sguardi su di lui e brusio meravigliato: dove può arrivare la faccia tosta ed il narcisismo? …Risatine…Curiosità… Il tizio legge… “Faretti multicolori bucano la penombra fumosa del locale. Si respira brusio divertito ed eccitato per le nuove conoscenze che si intersecano in risate ed esclamazioni di meraviglia e di apprezzamento. E’ l’atmosfera di un raduno di aspiranti poeti e scrittori, tutti aggregati e stipati nell’angusto pittoresco Be Bop, un locale che sembra un bistrot, con il pretesto di un concerto 364 del Gattaccio e del suo gruppo: blues e jazz tra presentazioni, conoscenze, ascolto, declamazioni, forse qualche umano pettegolezzo lievemente malizioso. C’è attesa curiosa per il concerto e si nota movimento sul palco: accordature, regolazioni di volume, consigli sommessi e aggiustamenti delle aste dei microfoni. Il Gattaccio coordina, sovrintende, verifica e guarda sornione il pubblico. Un tizio dal fondo della sala si stacca da un tavolo e si dirige verso il palco. “Gattaccio, prima di suonare, se permetti, avrei piacere di leggere un mio raccontino breve…Ti rubo la scena veramente per poco tempo…Posso?” “Ma certo, figurati, fai pure.” Il Gattaccio, cortese, si scosta dal centro palco e il tizio ticchetta sul microfono per chiedere implicitamente attenzione. Vari sguardi su di lui e brusio meravigliato: dove può arrivare la faccia tosta ed il narcisismo? …Risatine …Curiosità… Il tizio legge…” “Faretti multicolori bucano la penombra fumosa del locale. Si respira brusio divertito ed eccitato per le nuove conoscenze che si intersecano in risate ed esclamazioni di meraviglia e di apprezzamento. E’ l’atmosfera di un raduno di aspiranti poeti e scrittori, tutti aggregati e stipati nell’angusto pittoresco Be Bop, un locale che sembra un bistrot, con il pretesto di un concerto del Gattaccio e del suo gruppo: blues e jazz tra presentazioni, conoscenze, ascolto, declamazioni, forse qualche umano pettegolezzo lievemente malizioso. C’è attesa curiosa per il concerto e si nota movimento sul palco: accordature, regolazioni di volume, consigli sommessi e aggiustamenti delle aste dei microfoni. Il Gattaccio coordina, sovrintende, verifica e guarda sornione il pubblico. Un tizio dal fondo della sala si stacca da un tavolo e si dirige verso il palco. 365 “Gattaccio, prima di suonare, se permetti, avrei piacere di leggere un mio raccontino breve…Ti rubo la scena veramente per poco tempo…Posso?” “Ma certo, figurati, fai pure.” Il Gattaccio, cortese, si scosta dal centro palco e il tizio ticchetta sul microfono per chiedere implicitamente attenzione. Vari sguardi su di lui e brusio meravigliato: dove può arrivare la faccia tosta ed il narcisismo? …Risatine …Curiosità… Il tizio legge…” Eccetera, eccetera, eccetera…a volontà… Gattaccio frigge, prima divertito, poi vagamente infastidito, e nella sala, dopo la quindicesima lettura circolare monotona ed indifferente, si leva qualche mormorio disorientato e sorpreso. Poi Gattaccio all’improvviso scoppia a ridere come un matto e piazza una pacca violenta tra le scapole del tizio che legge. Lo sfacciato lettore perde l’equilibrio ed esce dal palco goffamente. Risate e qualche applauso. Una voce dal coro dei mormorii: “…Il solito cyb…” Parte il primo blues della notte… 366 UCCIDE ANCHE L’IDROMELE AROMATIZZATO AL ROSMARINO Dal suo angolo, in disparte, nell’affollata fumosa taverna ad archi e volte basse, il vecchio austero bardo Muso d’alce si levò in piedi con aria solenne a cantare con voce grave le gesta d’antichi eroi e di guerrieri. Cessò d’incanto il tintinnio delle coppe di peltro colme d’idromele aromatizzato al rosmarino e si smorzò in un sussurro l’eco di risa e imprecazioni e i dadi d’osso infidi non picchiettarono più sui massicci tavoli di quercia. Muso d’alce era nome fisiognomico: per il volto prognato con intensi occhi grandi e sporgenti e l’abbigliamento bizzarro di pelli e un copricapo ricavato da una calotta cranica d’alce dalle corna ambrate alla tenue luce delle fiaccole dell’ostello. “Oggi canterò del Rogan, il più possente e temibile guerriero della taiga del vento perduto, giusto, ma anche implacabile, forgiato nella sofferenza e nella disciplina, educato al rispetto del potere del sangue e degli Dei duri e impietosi del Tempo. La sua forza è data dalla perizia nel maneggiare la sua arma micidiale, l’ascia bipenne, ed è richiesta disinvoltura e possanza fisica nell’usarla con efficacia. Il Rogan deve saper roteare la sua ascia con letale leggerezza nella mischia cruenta della battaglia e deve conoscere l’arte del lancio veloce e deciso per inchiodare ad un rovere la selvaggina tremante che occorre a sfamare la sua gente.” S’interruppe ad un sinistro sibilo fischiante nell’aria e rimase basito e immoto, con gli sporgenti occhi ora vitrei, inchiodato con lo sterno da un’ascia bipenne ad uno stipite massiccio di un’arcata della taverna mal rischiarata. S’accasciò col capo in un rantolo esausto sulla lama brunita e morì in uno sgorgare di fiotti scuri di sangue tra lo stupore muto dei presenti timorosi che si volsero verso il punto opposto all’ucciso. Un vecchio Rogan, ubriaco d’idromele al rosmarino, dal fondo della penombra della taverna, ebbe forse 367 l’impressione di vedere un alce lontano tra il fumo e le fiammelle di pece delle torce e pensò di ritornare dalla sua donna con una ricca preda per una lauta cena ed una soddisfacente notte di passione nella gratitudine. Scagliò la bipenne con giusta mira e nobiltà d’intenti e ricadde incosciente con il capo nella ciotola della zuppa cominciando a grugnire in un sonno ebbro e grave senza rimorsi e con pochi essenziali sogni d’altri alci per sopravvivere… 368 NATURALISTICO BELVEDERE ROMANO (caffè freddo shakerato per iguana) Roma afosa di prima estate. Caffè Berardi - Galleria Colonna Stridio di freni consumati di autobus pieni di sudore, scalpiccio di primi zoccoletti di stagione, nervosi, di scarpe di cuoio più fresche, di infradito strascinate come broccoletti su una padella di marmo che è la Galleria Colonna. Cadenze sincopate fuori, a passo di formichine, termiti, locuste, mandrie di gnu con gli occhi a mandorla e Nikon al braccio: sorrisi felini e bovini frammisti a imprecazioni in romanesco di sudati animali in via d’estinzione per soffocamento di gel. E poi odori: lavande popolari che sodomizzano fragranze altere e seducenti che fanno della galleria, nel passeggio, un carnevale veneziano a mascherare afrori violenti di caldo libico. Ad un tavolino del bar Berardi, fuori, ma sotto le alte volte della galleria, due pigri iguana nullafacenti con occhiali da sole neri presenziano il passeggio disordinato con brevi scatti delle teste a captare sentori o parole fluttuanti nell’afa. Parlottano tra loro commentando una marcetta di tacchi abbracciata a risolini maliziosi di giovani puledre brade. Saettano le lingue a succhiare aria odorosa di resinosi rododendri e di caffè arabico. Pensiero malizioso. (Non t’agitare tanto Giovanni: che ridere, senti come scricchiola la sedia… “Igufo”: iguana e cane da tartufo, una bella nuova figura mitologica…) “Gran bel passeggio, oggi, Giovanni, vero? Peccato solamente per questo ‘Profumo d’intesa pour homme’ che mi rovina ‘Eau d’Issey’… Grande manza questa Eau d’Issey: spostamento d’aria quando passa questa splendida cavalla, sì, la segretaria dell’avvocato sopra il bar. 369 Inconfondibile…” “Si chiama Brigitte, tacchi alti e caviglia sottile. Questa è l’ora in cui la viene a prendere il suo uomo, armonico e atletico, ma probabile cervo a primavera, promotore finanziario di belle speranze e di grandi certezze. Non spegne mai il motore della sua BMW Z3, ha fretta di portarla via, di spupazzarla come si conviene. L’avvocato, pigro felino spelacchiato, invece ha un Maggiolone: lei sale anche lì e non si lascia pregare, e questo succede nei giorni dispari. Magari lui le dà solo un passaggio o anche due unghiate. Vai a capire questi mammiferi inquieti. Ti confido un segreto: quello che ci ha preso le ordinazioni, il dromedario brillantinato, il cameriere insomma, è sicuramente meridionale. Sia chiaro, io non ho nulla contro i meridionali, mi stanno simpatici con quel pittoresco modo di gesticolare per farsi meglio intendere. Poi magari glielo chiediamo, che dici? Solo per curiosità, il tempo deve pure passare d’altronde.” (Giovanni, Giovanni: ti parlo di passera cinguettante e svelta e tu mi parli del cameriere meridionale? Ha un dopobarba che ustiona le narici già da qui… Brigitte se ne va e tu mi parli di auto? Senti come sta scomparendo la sua rete a strascico…) “Ma sì, il solito piedi dolci con il Beelcream spalmato come nutella sul riporto a banana forforoso…Calogero, Salvatore, …ormai romano pure lui… Giovanni senti il ticchettio? Non girarti… Questi sono i tacchetti rinforzati di acciaio di Nadia, la commessa del negozio di scarpe. Senti che rumba: con il freno del 62 barrato e i click delle macchinine fotografiche dei japu sembra una session di Perez Prado o di Xavier Cougat. E il bello è che Nadia è come Abbe Lane o la vacca regina della Valle d’Aosta, e sculetta come una vela al maestrale.” 370 (Che ormoni isterici, Robbè,…mi sembra di sentire le froge del naso scoordinate come quelle di un cavallo del Palio di Siena, asmatico e pieno di beverone…) “La Nadia, sì, la Nadia: la giraffona sempre in piedi che bruca scatole di scarpe dagli scaffali più alti… Ieri l’altro è stata pizzicata vicino alla coda da un turista messicano impertinente come una mangusta: lo seppi dopo, stordito dal dopobarba al cactus. E’ venuta giù tutta la piramide di scatole di scarpe col sarcofago di tre o quattro modelli di anfibi per la brutta stagione… Gran bella giraffona, la Nadia.” (Dai, Giovanni, confessa che ti attizza da matti la Nadia: ne faresti di safari su e giù per la savana eh?) I due iguana continuano a risucchiare l’aria in un dialogo misto vitellonesco e telepatico: sono molto affiatati. Aspirano odori e rumori e monitorizzano greggi di erbivori innocui e fastidiosi ed esemplari solitari di coyotes e altri predatori. Sta passando per l’appunto Armando. E’ uscito da pochi giorni dopo due anni e quattro mesi: borseggio a fontana di Trevi a un canadese grande e grosso che sembrava addormentato come una omonima tenda ed invece era sveglio come un grillo. E aveva anche il fisico: non da grillo, ma da gorilla. Armando ha trascorso il primo mese di cattività nell’infermeria di Rebibbia (Giovà, senti chi arriva: il giorno dello sciacallo…mi scappa da ridere…) “Senti come struscia i mocassini cinesi quel viscido dell’Armando. Starà annusando qualche preda …” “La dura legge della jungla, Robbè, per sopravvivere anche in tempi di siccità.” “Ha fatto piangere qualcuno in questi giorni?” “Si muove guardingo: il commissario Pantegana gli ha appuntato appuntati in borghese, anche se lo sanno tutti, perché non passano inosservati. Sembrano faine isteriche in un pollaio a mezzanotte.” 371 Ridono i due iguana con gli occhiali da sole alla Blues Brothers. Ridono e sorseggiano caffè freddo shakerato con una goccia di Amaretto Disaronno ad addolcire il loro soffocante nero di seppia nell’afa… Dromedario banana si avvicina con il passo di Gatto Silvestro e gli stessi suoi piedi dolci e porta loro lo scontrino con il conto della consumazione. In braille. “Faccio io, Giovanni…” “No, faccio io Robbè, non t’azzardare…” L’iguana Giovanni tasta lo scontrino, mentre ausculta vigile un cuore adolescente di cerbiatta che passa veloce, e fruga con una certa naturalezza nel portafoglio distinguendo con destra velocità vari tagli di banconote. La galleria Colonna li avvolge come l’enorme voliera dello Zoo di Villa Borghese e lo stridio dei freni degli autobus che passano lì vicino in piazza Colonna si mescola con ruggiti e barriti e muggiti nell’ombra appena più fresca di questo serraglio di umanità in via d’estinzione. I due iguana, impettiti e quasi immobili, quasi saggi, quasi eterni, quasi vedono tutto… 372 UP AND DOWN Giocherello svogliatamente con un grissino mentre attendo quanto ordinato ad un cameriere insonnolito. Mi incuriosisco, quindi, nel notare un caotico riempimento della lunga tavolata di fronte alla mia postazione. Tante tute: ragazzi e ragazze in divisa sportiva, allegri, seri, compenetrati nel ruolo di atleti prossimi a qualche incontro importante. Quasi tutti rasati a zero o con i capelli spessi corti a spazzoletta, con gli occhi a puntaspillo mobilissimi, sorrisi storti buoni, orecchie piccole a tortellino, incarnato roseo delicato da lattonzolo, collo taurino, goffi e impacciati… Tenerissimi come cuccioli. Sono concentrati, attenti a non strafare, a comportarsi bene, sotto occhi affettuosamente inflessibili di accompagnatori chiamati in continuazione con trepidi balbettii di emozione e affetto. Giocosi tra loro, curiosi. Uno spicca nel gruppo, malinconico, con occhialini e sguardo sognante perduto nel vuoto, con una smorfia della bocca storta a segnalare qualche pensiero forse triste. Appare estraniato dalla comitiva ciarliera e gasata come i bottiglioni della Coca-Cola sul tavolo. Ci incrociamo fuggevolmente con lo sguardo. Alzo il bicchiere di vino verso di lui con un sorriso per un brindisi silenzioso alle sue fortune sportive. Si rasserena di colpo come un bambino felice e leva il suo bicchierone di cartone. Mi fa ciao con la mano ogni volta che lo guardo e ride beato. Mi manda un bacio quando esco. E’ bello avere un tifoso che ti accompagna nelle gare. Forse oggi abbiamo vinto in due. 373 T’O RICORDI ER CIAVATTA? “A Romolè, pòrtece du’cose fresche de fora: c’è n’arietta che ‘ncanta…” “Subbito, Robbè, finisco de fà ‘sti du caffè e arìvo.” “Che meraviglia: m’aricrèo… Ahò, Armandì, senti qua, t’o ricordi er Ciavatta?” “Er nome me dice qualcosa, Robbè… Nun era quer pennellone bianco come ‘n morto che sonava er basso all’oratorio de li Salesiani, in fondo a via Vimercati, trentacinque anni fa?” “Ggià.” “Aspè, che metto a ffoco: quello che se dava l’arie perché c’aveva er basso de Pol Maccarty de li Bitels, er basso madreperlato che somijava a ‘na viola? Nun era quello sempre vestito de nero cor majone a dorcevita e co li capelli alla nazzarena da corvaccio portazzella (1)?” “Ggià. Quarcuno ‘o chiamava Sellero (2), secco secco e bianco bianco, ma poi fu pe tutti er Ciavatta: la sai la storia com’è nata? Ogni tanto steccava cor tempo o co le note mentre sonava cor gruppo e allora er batterista, che c’aveva lì vicino ‘na scorta de ciavatte, je ne tirava una smadonnando. E spesso lo pijava ‘n testa. Era da ride. Soprattutto quanno s’esibbivano in concerto. Dovevi vedè come s’encazzava don Alfio a sentì li moccoli dell’uno e poi dell’altro: se mannavano affanculo davanti ar prete e davanti a quelli che ballavano e l’ascortavano. Era ‘na forza, er Ciavatta. Sembrava n’incrocio tra ‘n giraffone pallido e Nosferatu, collo sguardo fisso davanti, coi bernardoni (3) piccoli ovali neri neri da becchino. Se la tirava, stava sulle sue, nun s’aggitava tanto mentre sonava, e lumava (4) le regazzine con aria de sufficienza e ‘na smorfia da puzzetta sotto ar naso, poi 374 steccava cor basso, se pijava ‘na ciavattata e s’encazzava: ‘no spettacolo. Ce l’aveva a morte co li negri, te l’aricordi?” “Me pare de quarcosa der genere…sì,…era razzista, forse puro lazziale, me sa, come te ahahah.” “Lassa perde che nun so più de gnente: nun ce credo più, né Lazzio, né Roma, co’ sti chiari de luna… M’è venuto er pelo sullo stommico… Era razzista forte, li mortè: quanno vedeva quarcuno scuretto scatarrava per aria a fontanella e strabbuzzava l’occhi come si je fosse preso ‘no sturbo.” “Beh sì, mò me l’aricordo: perché me stai a parlà der Ciavatta?” “L’ho rivisto ieri sera a Monte Sacro, sott’er ponte de l’Aniene. Dall’alto me pareva lui, ma nun ero sicuro. Allora so’ sceso verso l’argine e l’ho riconosciuto subbito, anche si era gonfio come ‘na zampogna. Me sembrava un balenottero arenato sulla spiaggia. C’aveva sempre li capelli lunghi, ma griggi, ed era ingrassato ‘na cifra rispetto a quanno eravamo regazzi. C’era la Polizzia, n’ambulanza sopra su la strada, un casino de ggente e de curiosi, er traffico bloccato. Poi ho saputo da quarcuno. Dice che ha sarvato un regazzino negro che stava pe affogà ner fiume, li mortacci sua de quanto era cambiato. Hai capito? A sarvà ‘n negretto, ‘n cioccolatino de quelli che j’annavano de traverso quann’ era ‘n ragazzo.” “Ammazza ahò, ma allora ha fatto l’eroe?” “Nun te lo so spiegà si ha fatto l’eroe oppuramente no. Dice che mò ce so rimasti ‘na vedova e du’ orfani. So solo che me sò sentito tutto ‘nsieme ‘n vecchio e c’ho avuto paura de morì e d’annà all’inferno. Magara c’avrà avuto paura puro lui, magara pe tutte le bestemmie ch’ ha tirato pe tutte le ciavattate che s’è preso, che ne so. O forse è cambiato cor tempo: è diventato bbono. Boh. 375 Dice che, a ‘nvecchià, se strizza er culo de paura e se rimparano le preghiere che se sò dimenticate dar catechismo. So solo che m’ha fatto riflètte e che m’ha messo paura.” “Va a sapè come funziona la vita… Poro Ciavatta…” “A Romolè, stamo ancora ad aspettà ste du’ cose fresche, possino ammazzatte… Ahò, senti che freschetto che manna ‘sto venticello…” “Er ponentino t’ arimette ‘n pace cor monno.” (1) (2) (3) (4) Iettatore, portasfiga sedano occhiali guardava 376 FOR F. ORA – ESOPICO DINAMICO BESTIARIO E’ancora presto e la sala da tè è illuminata a metà, in economia. La luce al neon illividisce tavolini con tovaglie pallide verdine e smorza malinconicamente stucchi e carta da parati di giunchi in immaginifica jungla. Le tre giovani donne ridacchiano sommesse, come magre iene in circolo, sbranando F., oggetto di pettegolezzo agli onori della cronaca cittadina per suoi comportamenti anticonformisti. “La madre sta piangendo calde lacrime: una così rispettabile famiglia…” “Gira come un barbone, eccentrico, con quel pappagallo sulla spalla…” “E quelle trecce…” “Si porta appresso quel puzzo acre di fumo strano, …e pensare che non era così, ma poi ha conosciuto quella là…” Parlano da iene, malevole, con la mano a coprire giallastri sorrisi di gola, ma anche, insieme, come le Giovani Marmotte Qui, Quo e Qua di Topolino, con le frasi spezzate dalla prima anatroccola e continuate dalla seconda e finite dalla terza. Click. S’accendono altre luci e l’ambiente diviene caldo e luminoso. Le tre sbarrano gli occhi come allocchi e sbattono rumorosamente le ali del menu per ordinare domenicali cioccolate calde. Fuori nevica. E’ forfora sulle spalle dell’abito festivo grigio antracite del paese. “Ve lo ricordate quanto era bello al liceo?” “Vi ricordate Polipone, il figlio d’Antonio della pescheria, grasso da schifo, che cercava di metterlo in ridicolo, quando fu eletto il migliore studente del liceo? Scherzavamo e inneggiavamo tutti a “F. for president” e lui diceva “For F. ora”… Rideva solo lui, e storto…” “Mi dispiace dirlo, cara, ma poi ha avuto ragione lui…” 377 “Era bello e amato: avrebbe potuto e dovuto scegliere di meglio…” Gli allocchi si spollinano l’acconciatura con rapido gesto vanitoso e sbattono gli occhi all’intorno lampeggiando messaggi ormonali. Aroma di cioccolato caldo nell’aria. Il giovane cameriere dispone tre tazze fumanti sul tavolino e le tre scimmiette pasturano per un attimo su un cavallo di pantalone per poi assumere la loro posizione pudica di rito senza parlare, vedere e sentire. Zuccherano solamente le loro tazze e girano il cucchiaino come una pinna di squalo in circolo nel mare fondente. Con il cucchiaino sminuzzano grumi di F. “Che cosa avrà trovato in quella là? Scusate il linguaggio scurrile, ma le cosce aperte sono sempre cosce aperte o esistono scuole d’apprendimento e specializzazione?” “Sarà specializzata, magari anche un po’ zoccola, non nel senso di topo uh uh uh…” “Non mi fate parlare male, ma avete visto che aria smunta che ha? Quella se lo mangia vivo e gli succhia il midollo…” “Ci credo, ci credo: è anche grassoccia come una porchetta…” “…E vi pare giusto lasciare un lavoro serio e sicuro per fare l’artista? Dipingere…scrivere…recitare…Sono cose che si possono fare per passatempo, no? Lasciare una scrivania comoda, un posto al caldo, uno stipendio fisso, con tutta la disoccupazione che c’è in paese…Il padre non esce più di casa per la vergogna…” “E lui che fa? Esce con quella maiala e le fa le foto, nuda dietro le cabine sul lungomare: me l’ha detto Cristina che l’ha saputo dal cugino che fa il bagnino. Non si beve, la cioccolata calda, ora: si mastica, ed ogni boccone sa di fiele. Scotta il palato e le tre soffiano come tre porcellini che devono difendersi da Ezechiele lupo che vuole scoperchiare la casa delle buone maniere. 378 Hanno le guance paffutelle e rosate, e ticchettano nervose con le scarpine a punta perché non possono agitare la coda rosa a ricciolo. Si guardano intorno ammiccando e ridendo d’effervescente isteria. In sottofondo un rumore di telecronaca di partite di calcio e un brusio d’altri clienti che succhiano cannucce di punch al mandarino o sorseggiano caffè tessendo trame su altri Ezechiele di paese che minacciano famiglie e valori. Il fumo di sigarette confonde la sala come un porto nelle nebbie. Ciangottano ancora, i gabbiani, di F., e delle sue cattive abitudini, come un frenetico grufolare alla discarica fuori paese. “Ma lei da dove viene?” “Assunta mi ha detto che viene dalla città: pare che abbia abbandonato gli studi e la famiglia…gente ricca…e che viva di rendita mantenendo anche lui…” “Che schifo: almeno un minimo d’orgoglio…” Una ventata gelida spinge più in là le volute cinerine che si levano dalle tazze fumanti: qualcuno è entrato nel bar. E’ F. E’ allegro, guascone, con il suo pappagallino saldamente aggrappato alla spalla. Si volge verso la sala, brevemente, ad occhieggiare chi c’è, sorridente. Le tre ritornano scimmiette e si tappano occhi, orecchie e bocca, pur guardandolo in tralice con aria di rimprovero e commiserazione. F. vede una sala vuota. Si rivolge al barista ed ordina due caffè doppi bollenti in una bottiglina da portare via. Fuori una sagoma grassottella batte i piedi, intirizzita. F. paga alla cassa, saluta veloce, e se ne va, scodinzolando trecce rasta spesse come funi da peschereccio. Le tre scimmiette sono tre volpi e l’uva… 379 BOERO LEVRIERO Qualche tempo fa… S’affacciò in sala da chissà dove, come un personaggio dei fumetti, emergente dalla nebbia spessa del fumo, con il suo astuccio da professionista della stecca. Si propose da subito come il più bravo: il mago della goriziana, il genio del colpo sotto con effetto a tenere, il terrore del filotto, il dio della messa. Di nome Alvaro, fu soprannominato Boero e poi anche Levriero per una mania e un vizio. La prima innocente e l’altro pericoloso. Alvaro aveva perennemente parcheggiato ad un lato della bocca uno stuzzicadenti, come i vecchi malavitosi di qualche film. Gli serviva per bucare il cartone dei boeri, quei cioccolatini che potevano far vincere un pupazzo di peluche o un orologio da polso o una radiolina. Il padrone della sala continuava a tenere la scatola rossa cartonata da bucare solamente per lui. Erano, in effetti, praline disgustose, mollicce e ripiene di un liquore dolciastro che prendeva anche le narici, e tutti si tenevano alla larga, per nulla tentati dal nuovo orologio subacqueo con la ghiera mobile. Alvaro, invece, ne faceva fuori fino ad una decina, tra il pomeriggio e la sera, salvo vincite, e poi si lamentava con tutti delle sue emorroidi. Questa era la mania quasi innocua, se non per la salute. Poi si scoprì, e la cosa era seria, che amava scommettere sulle corse dei cani e che, peggio, non sapeva trattenersi con lo stesso equilibrio di come giocava a biliardo. Si diceva che talvolta si era trovato in difficoltà. Questa passione incontrollata gli valse il soprannome di Levriero. Gli calzava anche bene: era asciutto e agilissimo ed inoltre aveva un suo portamento particolare intorno al biliardo. 380 Si chinava ad angolo retto per colpire elegantemente e attirava lo sguardo per quel culo sporgente che sembrava di marmo e per quella postura rigida e morbida insieme, con il braccio indipendente che partiva come un metronomo ad imprimere la giusta potenza al colpo della stecca verso la biglia. Era un bello spettacolo, formale e sostanziale, il vedere giocare Boero Levriero. Pretendeva il silenzio assoluto: lui stesso parlava pochissimo e mai quando l’avversario era in procinto di colpire la biglia. Non s’irritava mai, ma incuteva rispetto e tutti tacevano quando lui giocava. Del resto giocava pesante: era arrivato anche ad oltre diecimila al punto, quando si parlava di lire. In sedute di questo tipo, importanti, si scopriva del telo e si spolverava il biliardo in fondo, quello migliore con le sponde dalla risposta perfetta, con la piccola tribuna per gli spettatori, e la sala diveniva una cattedrale durante un servizio funebre con fumo di sigarette in luogo dell’incenso. Si affettava silenzio e il fruscio del gessetto sulle punte delle stecche era l’unico conversare con i passi felpati dei giocatori e con il linguaggio delle biglie, ‘tak’ tra loro e ‘stunf’ sulle sponde, e il ‘frrrrr’ degli ometti che cadevano sul panno verde tiepido. Boero era rispettoso dell’avversario e orgoglioso: mai una scusa o un commiserarsi ad un tiro poco riuscito o a qualche ruberia dell’avversario, mai un’irrisione o una scorrettezza. Era grande: aveva un tocco unico, tanta fantasia ed inventiva. E aveva fegato. Se si gioca a diecimila al punto per tutta una notte, per di più andando avanti solo a boeri e caffè, si deve avere bravura, ma anche fegato, e non solo per digerire i boeri. E con il fegato, o anche l’incoscienza, creava magie. Tre tocchi di sponda, ‘stunf’, ‘stunf’, ‘stunf’, poi il ‘tak’ sommesso della biglia colpita e un ‘fr’ brevissimo di un solo ometto caduto, quello rosso, con la biglia ad appoggiarsi sul boccino di misura, nascosta dal castello, in messa, dopo un tre sponde di calcio da sessanta punti più sedici. Suscitava sana invidia e ammirazione. 381 E lui ruminava il suo ennesimo cioccolatino liquoroso con lo stuzzicadenti che andava su e giù al lato della bocca. Boero Levriero smetteva per resa incondizionata dell’avversario, in genere verso le tre di notte. Riscuoteva la vincita, di solito notevole, e spariva con un saluto frettoloso e generico. Svoltava l’angolo e lo rivedevi in sala due giorni dopo o anche tre. Talvolta con una giacca nuova. Spesso con il solito giubbotto consunto di jeans. Allora si capiva com’era andata con i levrieri. Non si è mai saputo di cosa campasse. Qualcuno diceva che era un decoratore e qualcun altro che era un collaudatore di stecche per una grande marca specializzata. E’ l’apologia del mito, in una sala biliardi, il conoscere un vero collaudatore di stecche che campa della sola sua passione. La sola certezza, invece, era che ogni tanto in sala capitavano due tizi grandi e grossi come cassonetti, poco raccomandabili. Seguivano in disparte la partita di Alvaro fumando impassibili tra un caffè e un amaro. Boero li scorgeva e faceva loro un cenno d’intesa. Poi, imperturbabile, continuava la sua partita come se nulla fosse accaduto. Alla resa dell’avversario, dopo aver riscosso la vincita, usciva scortato dai due, silenzioso. Qualcuno avrebbe giurato di avere udito qualche urlaccio minaccioso, o il rumore di uno schiaffone, dietro l’angolo della sala biliardi; qualcun altro era certo di avere veduto i due spintonare rudemente Boero, flessuoso come una canna al vento. Levriero invece ritornava, in genere il giorno dopo, impassibile come sempre, per fare il pieno da consumare ad inseguire i suoi levrieri preferiti. Una sera si ripresentarono i due esattori. Qualcosa, però, andò storto. 382 Alvaro era stanco, giù di forma, ed un ragazzetto svelto col ciuffo lo stava mettendo sotto con un gioco brillante senza tregua. Finì che Boero gettò la spugna, evento raro, ma in un momento poco opportuno. Confabulò con il ragazzo che scurì in volto. Poi uscì seguito dallo stesso e dai due interessati altri spettatori che sembravano più tesi e decisi delle altre volte. Fu ritrovato poco dopo, seduto contro un muro, una maschera di sangue, nei pressi della sala, qualche via più oltre. Si disse che era stato massacrato con un batticarne. Quando lo andai a trovare all’ospedale e lo vidi di persona, bendato e ingessato come una mummia, con un brivido di raccapriccio trovai plausibile quella diceria. E così, ora, quando vedo Boero Levriero in sala, pallido e con la barba incolta a coprire uno zigomo scomparso, mi viene da piangere. Resta fuori del cono di luce e tiene le mani sempre in tasca. Quello che resta delle mani. Segue una mediocre partita con occhi lucidi e tristi evitando gli sguardi degli altri, pieno di quel tipico orgoglio proprio di chi non è in condizione di doverne avere, sfregato da un sommesso mormorio, abrasivo come carta vetrata, da parte dei presenti. Non riesce più a tenere lo stuzzicadenti tra le labbra e non rumina più boeri. E’ evidente che se la passa male. Presumo che anche con i levrieri abbia chiuso. Qualcuno ha lanciato l’ipotesi che Alvaro abbia un’indennità per invalidità mentre un altro è convinto che campi facendo il talent scout di nuove promesse del biliardo, ma una sera ho veduto il padrone del locale infilare una busta dentro una tasca dell’eterno giubbotto jeans. E Alvaro, detto una volta Boero Levriero, oltre i soprannomi e il giocare alla goriziana, ha perduto anche una parte d’orgoglio. E pensare che qualche tempo fa… 383 KEBAB Clic. “Mi chiamo Roberto… E tu?” “Hosni.” “Come Mubarak?” “Già: sono egiziano anche io…” “Non sai quanta gente ti ho mandato, Hosni: il tuo kebab è il migliore della città. E’ gustoso, condito di salse senza risparmio, piccante al punto giusto, con la cipolla, con la carne crocchiante e saporita… e il pane è velluto…” “Grazie. Certo, però, che…” “Che vuoi dire?” “Va anche bene tenere la televisione accesa nel tuo locale, che è anche un locale grazioso e pulito, ma sintonizzata su Al-Jazeera a volume da cinema…, mi sembra una provocazione…no?” “Guarda che non ho mai avuto secondi fini. La televisione in lingua madre tiene compagnia all’emigrante e addolcisce la lontananza da casa. Hai la sensazione d’essere più vicino a casa tua: capisci? Tutto qui… Piuttosto: è certo che esiste molta intolleranza nel tuo paese…” “Credo che, più che intolleranza, sia ignoranza e rozza difesa verso chi non si conosce, anche se rimango dell’idea che Al-Jazeera in pieno centro non sia salutare, soprattutto in zona di passaggio come il tuo locale… Gira gente varia: curiosi, golosi, tolleranti, ma anche duri e puri, e fifoni che pensano che colpire per primi è colpire due volte…” “Beh, se per ogni trasmissione in lingua originale devono piovere bombe… E poi vorrei vedere se fosse stata la CNN…” “Hosni, da noi la CNN non è Al-Jazeera, è questione di popolarità, ci dovresti arrivare da solo, e poi lo dici a me che 384 piovono le bombe, a me che non c’entro una mazza e mi mangiavo goduto il tuo kebab? Il boccone di traverso è stato il minimo: in certi casi non si muore soffocati… E non ho visto una ceppa: ero di spalle alla porta, con lo sguardo fisso su quel maledetto televisore a guardare le immagini come un non udente da 777. Sentivo solo degli scioglilingua… Capirai, poi: c’erano i sottotitoli come il TG2, ma in arabo: da saperne quanto prima… ” “E adesso?” “Boh?…” “Allah è grande e ci tiene nella mano…” “Che sia Allah o un altro: speriamo che non ci faccia cade…” Due sinapsi elettriche appena lampeggianti si smorzano poco a poco nel nero siderale più profondo del nulla, dove non sono captate le trasmissioni di Al-Jazeera e dove due bombe a mano verrebbero assorbite dal silenzio indifferente. Clic. 385 GLORIOSO EPILOGO DI CUOCO Mi chiamo Jean Jacques Coudineaux, provenzale. Sono, almeno secondo le riviste specializzate, il migliore ‘cordon bleu’ vivente e ne sono anche convinto intimamente nella consapevolezza del possesso di una professionalità invidiabile associata ad una fervida fantasia creativa. Godo fama di ‘chef’ rivoluzionario, trasgressivo e contaminatore, e mi si riconoscono intuizioni straordinarie che hanno in sé estro e genialità. Lo dico senza falsa modestia, conscio dell’aver donato, a tavola, momenti indimenticabili a tanti esteti del gusto. Sono andato oltre, mi sono spinto più in là della ‘nouvelle cuisine’, ho sorpassato l’assemblare della cucina etnica, ho calcato nuove orme nella rivisitazione d’antiche cucine tradizionali. Ho creato. Magnificamente. Ed assaporo da anni la soddisfazione d’essere considerato un caposcuola. Ma sono sempre più stanco, ormai avviato verso un’età rispettabile volta ad un meritato riposo e alla rievocazione di ricordi, senza più stimoli intellettuali e sperimentali, adagiato su allori di gloria e noia nel ‘dejà vu’. Quando giro per il mondo, tra un servizio e una consulenza, a ritirare premi e onorificenze per il mio operato tra fornelli e cucine, mi scopro sempre meno esaltato. Nulla più mi entusiasma. Ho solamente un intimo desiderio ancora, da accendere con bagliore sulfureo ad un evento speciale cui sono stato invitato, mia ultima prestigiosa occasione, per passare definitivamente alla storia in modo davvero trasgressivo e rivoluzionario per come lo è stata la mia cucina. Avrò la mia estrema soddisfazione alla prossima riunione dei G8, indetta nel Sultanato del Brunei. Capitanerò un’autorevole squadra di cuochi e sovrintenderò al menu per i grandi della terra riuniti per guidare il mondo verso nuovi approdi di progresso e civiltà. 386 La buona tavola delle mie specialità fungerà da viatico per così alti e nobili intenti. Ed io diverrò immortale con il mio capolavoro d’addio. Riso basmati della piana di Lahore scottato al dente, saltato con un goccio d’olio di sesamo in wok di ghisa con cubetti stufati di germano reale della Foresta Nera insieme a zibibbo di Pantelleria, decorato con canditi d’agrumi di Sicilia in salsa d’Armagnac millesimato appena scaldato ad esaltare aroma di vitigno pregiato. E per tocco finale: cinquanta gocce di Guttalax, per porzione, inodore ed insapore… 387 FASCINO DI TRISTE BAR (con sberleffo facoltativo finale) Una luce ghiacciata spiove come falsa grazia santificante ad illuminare disordine accatastato di casse di birra e bottiglioni. Eppure sono sempre qui, ogni mattina, presto. Sento granulare le suole sulla segatura e mi guardo intorno. Pochi saccottini scongelati, bruciacchiati da disattenzione, galleggiano tristemente, ripieni di crema o cioccolata, come stronzi in un mare di salviettine di carta che fanno l’onda nell’acquario della bacheca opaca. Il bancone è un check-in aeroportuale: caramelle, cioccolatini, gomme, liquirizie, tutto rigorosamente del cretaceo, sparso in contenitori che sono contenuti da altri contenitori. Si prende il caffè stringendosi nelle spalle. Eros, il padrone, è enorme, peloso, e perennemente incazzato col mondo, forse per un antiestetico porro nasale. Guarda male te che prendi il caffè, i passanti oltre la vetrina, le bottiglie di moscato di fichi secchi a due euro all’ettolitro, allineate in alto su mensole polverose. Guarda malvagiamente il primo videotossico della mattina. Cling, cling, cling. La slot divora gettoni come una benna: il videotossico smadonna sommesso e insiste, ed Eros ghigna. Ogni tanto, però, la macchinetta s’iscrive al concorso “Slots dal cuore buono per Natale” e vomita un carrello di gettoni sorridendo con la feritoia. Il beneficiario batte le mani, felice, regredendo a fase prepubere, ed Eros fa un balzo su nel grafico esistenziale dell’indice d’incazzatura. Sbuffa fastidio con vapore anche la macchina del caffè. Gente, poca, in questo bar triste. Cattivo caffè acquoso e antipatica compagnia. Però: c’è Lavinia. Lavinia occhi verdi. 388 E’ la ragazza che ha seminato la segatura e che ora passa lo straccio. E’ lei la barista, quando Eros si siede accigliato alla cassa e legge il giornale con un occhio solo. Sorride sempre e spalanca innocente gli occhi come una faccina di Yahoo. Ed il bar s’accende d’altra luce a smalto di denti luminosi. E il caffè è più buono. E la slot sembra un’orchestrina caraibica con la segatura che diventa sabbia fine. Lavinia ti guarda con ciglia da cerbiatto, sorride, e ti chiede con occhi ammiccanti di ritornare domani a prendere il caffè, ché aspetta solo te per ritornare a sorridere. Lavinia ti guarda con ciglia da cerbiatto, sorride, e ti chiede, a voce bassa d’adescamento: “Com’è ‘sto caffè, oggi? J’o dico sempre a Erose che bbisogna taralla mejo, la machinetta, ma quer cornutaccio vole solo guadambià…” Ha una voce che sembra la sorella di Topo Gigio con la raucedine. E sorride. Meno bianca. Meno bella di quando tace. Parecchio. Domani cambio bar. 389 IL MONDO DI BARBIE Le leggi antifumo non valgono per la vineria seminascosta nel centro storico. Si lacrima, dunque, nella nebbia tannina, anche se non sempre per il solo fumo. Lui è seduto in fondo, dietro un tavolino piccolo, e ciancica frasi spezzate davanti a due tubi da litro di barbera di cui uno trasparente. Ogni tanto ingolla un sorso da un bicchiere che poi rimbocca dal tubo ancora nero. E’ male in arnese. Ha gli occhi rossi da bianconiglio e guance spinose da Guantanamo. Di lui si sa poco o nulla, che ha avuto storie con Madama. Intorno a lui mormorii d’avventori in stile ‘grande famiglia’, tutti curiosi con sottile malignità che è propria di superiorità malintesa o di scampato pericolo. “Barbie, che ti succede?” “Cazzo vuoi? Non mi dovete chiamare Barbie. Mi chiamo Omobono.” Risata generale e battute perfide. La solita voce da capopopolo vigliacchetto. “Sai che affare ci fai nel cambio: Omobono…che nome… E poi mica è colpa nostra se ti piace il barbera al punto che sei il più gran bevitore da concorso a premi di qui dentro. Vero, gente? Per noi sei Barbie perché pisci direttamente barbera…” Coro greco annuente d’aliti a dodici gradi. “Dai, Omobono, Barbie, no scusa, Omobono: sfogati che poi stai meglio…” E sottovoce, di gomito con risatina storta: “…e ci fai divertire…” Lui strizza gli occhi rossi e ingolla un’altra sorsata a lubrificare la gola. Glu glu glu. 390 Uno schiocco a lasciare deflagrare bouquet di vero barbera di cooperativa del Monferrato, denso e profumato. “Intanto voglio qui un altro tubo, che questo ormai lo vedo attraverso. Poi non so se devo… Cazzo ne sapete voi di demoni e di donne. Siamo in pochi a sapere. Neanche mia moglie, quando stava con me prima di andarsene, vigliacca. Del resto non avrebbe potuto competere. Anche se era bellissima. Ma io avevo quattro donne che me lo facevano venire duro. Specie quando erano tutte e quattro insieme, dopo che avevo scartato un asso e pescato un re, capite? Non potete capire. Ho già mandato a cagare un dottorino col pizzetto che mi parlava di uno, di Dostocosa, …glieschi, e che voleva fare accademia con me, farsi vedere colto. Gli dissi che era colto come un carciofo.” Glu glu glu. Bicchiere sbattuto sul tavolo sempre più pesantemente. Occhi di furetti ad aspettare l’agonia del pollastro. “Che vuol dire, Bar…Omobono?” “Vuol dire che il gioco d’azzardo è meglio del sesso e di tutto quanto. Non esiste donna o famiglia che tenga o chiavata imperiale agratis con la Dory qui all’angolo. Vincere al gioco ti rende potente. Ti rende tutto facile. Lo scoprii la prima volta che giocai un sistema alla Sisal. Feci dodici a colpo. Mi parve così naturale e facile che quando riscossi spesi tutto d’amblè in moscato per festeggiare, ché tanto avrei ripreso tutto con gli interessi la settimana dopo.” “Andò così?” “Potete anche non crederci, ma andò così. Feci un altro dodici e si sparse la voce in giro. 391 Prima che ordinassi un’altra cassa mi si presentò Lupo…” “Chi? Ken?” “Sempre i vostri soprannomi del cazzo. Lupo, Lupo: che c’entra Ken?” “Ma l’hai visto Lupo? E’ una macchina da guerra: sta otto ore al giorno in palestra e ha due pagnotte attaccate a due badili. Fa spavento. Lo chiamavamo Hulk. Poi fu chiamato Ken da quando vi si vide sempre insieme: facevate una bella coppia: Barbie e Ken.” Risate da caserma e tintinnio di bicchieri. “Stavamo sempre insieme per giocare a carte, mica per altro, sporche serve che non siete altro. E poi c’erano anche Trincino, il macellaio, e il Viscido. Facevamo il pokerino, alla sera. Bastardi. Loro e voi: tutti sanguisughe in qualche modo.” Glu glu glu. “Si cominciò una sera a settimana, dal Trincino, nel retrobottega del negozio, vicino alla cella frigorifera, che mi si gelava il culo. E mia moglie abbozzò. Poi due, poi tre, poi tutte le sere della settimana. Mia moglie cominciò a fare il diavolo a quattro: che cazzo ne poteva capire lei. Avevo conti in sospeso. Una sera dovevo far rifare il Viscido e un’altra sera dovevo rifarmi io con Lupo o col Trincino. Quando ritornavo a casa mi finivo il bottiglione lasciato a metà dalla mia signora che ronfava come un bufalo. Meno male che dormiva anche la bambina. Mi coricavo con un mal di testa tremendo e la voglia che arrivasse subito domani, ché ero sotto di tre cartoni. Come fai ad annusare il pelo se sei sotto di tre cartoni? Ti passa la voglia. Come fai a guardare tua figlia? Ti chiede di giocare e tu pensi che i tre cartoni sono diventati quattro e che deve cambiare perché è scritto nella 392 legge dei grandi numeri e devi attendere con pazienza e saper sfruttare il tuo momento.” Glu glu glu. Silenzio in sala. Rispetto, forse, o morbosità, o attesa del botto. Sorsate, colpi grassi di tosse e occhi di furetti sempre più affamati. “Lupo era sempre gentile, ma più ruvido. Trincino disse che a casa mia era più caldo che in macelleria. Il Viscido disse che non si sarebbe fatto troppo tardi. Bastardi. Erano venuti a sapere che mia moglie se n’era andata e che c’era solo la bambina che andava a letto presto e che non poteva rompere i marroni. Maledetta donna. Dicono che le donne danno un senso alla vita e che tutto comprendono e che sanno perdonare. Io aspettavo sempre le mie quattro e accarezzavo le carte come l’interno di una coscia bianca e soda. Dissi di sì. Dissi poi a mia figlia che le avrei sistemato il televisore in cameretta così non si sarebbe affacciata mentre giocavamo. Così non avrebbe respirato il fumo delle sigarette e di quel toscano di merda del Viscido.” Glu Glu Glu Silenzio spesso come un dolcetto di Dogliani di due anni. Fermo. “Allora, Bar…Omobono?” “Allora fu una sera di tradimento. Fui tradito dalle mie donne e ne tradii una anche io. I cartoni erano cresciuti a sette e Lupo era nervoso perché ero verde come una lattuga. Supplicai un’ultima mano. Aspettavo le mie donne. Sarebbero dovute arrivare sicuramente. 393 Matematica: grandi numeri. E’ facile vincere, se si vuole davvero. E io volevo. Lupo mi chiese sgarbato: - Che ti giochi se non hai più nemmeno la carta per pulirti il culo, anzi non hai nemmeno il culo, ché perdi come una tubatura vecchia…Non sapevo che rispondere: volevo solo giocare e vincere. Ero un samurai: avevo il dovere di vincere. Onore. Avevo una mia dignità di giocatore combattente e sapevo come accarezzare le mie donne all’interno delle cosce. Ma non risposi. Mia figlia uscì un attimo dalla sua stanza per prendere qualcosa. Il Viscido s’assottigliò come uno zibetto e mi guardò con due feritoie nere. - Io direi che tua figlia è un bocconcino che può valere sette cartoni e in più questa ultima mano…Che ne dici, Ken? – Lupo guardò il Trincino, poi il Viscido: annuirono tra loro. Poi guardò me, stavolta torvo e incazzato, e mise una pistola sul tavolo. - A me va bene. Ma se perdi me la porto via e non la vedi più.Cazzo ne sapete voi della mia febbre? Feci dei calcoli dentro di me: avevo tutte fisches bianche, pioveva fuori, e quando piove mi gira tutto bene, m’erano rimaste tre sigarette nel pacchetto, il mio numero. Tutti presagi positivi. E poi annusavo pelo. Di quattro donne tutte insieme. E mi stava venendo duro. Ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene. Non succederà. Rimarremo insieme, te lo giuro. Bastardi, vi metterò in mutande e vi piscerò in testa stasera. 394 Io sono un samurai vincente sfortunato in amore e voi siete tre merde che volete approfittare di me. Non succederà nulla, amore mio, vaffanculo moglie, vaffanculo a voi, tesoro con questa finisco e ci facciamo un viaggio a Disneyland e ti faccio fare tutti i giri di giostre che vuoi. Cambia adesso il giro, cambia. Cambia, Cristo, deve. Glu Glu “Accettai e mi riempirono il bicchiere mentre Lupo faceva le carte. Tre Stelle. Spillai i bordi con le mani sudate. Vidi tre virgoline e mi dissi che era ora: ce n’erano tre. Mi parve di sentire odore di figa, ma che ne potete sapere voi, e mi rilassai beato andando a giocare senza rilanciare, da manuale, tranquillo, chiedendo due carte per vedere il quarto triangolino di pelo nero, di picche, per stendere quei tre bastardi. Non ci crederete, ma pescai l’ultima virgolina…” Glu Glu Respiri congelati in sala, fusi nella nebbia di sigarette e sigari. Sospensione dolorosa. Curiosità più tesa d’un’erezione per la più bella puttana del mondo. Furetti ipnotizzati dal chiocciare sempre più impastato e separato da sofferti silenzi. “Le avevo, cazzo, le avevo tutte e quattro ed ero padrone del mondo. Nulla mi può fermare, nulla mi può mancare nei tuoi pascoli, Signore santo, grazie, e tu non preoccuparti, stellina mia, che domani partiamo e ci divertiremo. Moglie bastarda, come ti vorrei vedere adesso e farmi vedere. Ti riderei in faccia anche se fossi nuda con una sottoveste trasparente. Sei nulla. 395 Ho quattro donne che mi amano e non so che farmene di te. Ero gasato e soprapensiero, ma non muovevo un muscolo della faccia. Avevo solo le mani sudate, ma quando s’accarezzano quattro donne insieme credo che sia normale, no? Lupo mi sparò una cifra enorme, simbolica, e il Viscido mise tutte le sue fisches al centro del tavolo. Il Trincino abbassò lo sguardo. Mi parve che se ne fregasse e mi dissi: tanto lui ha i soldi, macellaio di merda che vende cadaveri. Dissi che andava bene, inutile rilanciare, la posta era già stata decisa, e risi con sufficienza, da padrone del mondo. Scoprii le mie quattro donne che sembrava che avessero il rossetto da quanto erano belle. Il Viscido buttò le carte coperte a centro tavolo e guardò interrogativo Lupo. Lupo scoprì quattro re bastardi a cazzo ritto che mi fecero venire un brivido ghiacciato lungo la schiena. Il Trincino mi riempì il bicchiere. Ancora Tre Stelle. Lupo s’alzò lentamente dal tavolo con la pistola vicina alla mano e disse: - Siamo pari. Vai a vestire tua figlia che me la porto via…Credetti che scherzasse. Piansi, supplicai, bestemmiai tutti i santi per avermi preso in giro, maledii mia moglie e le mie quattro donne, cercai d’essere accomodante, feci il simpatico, il leccaculo. Lupo mi puntò la pistola davanti alla faccia. Il Viscido cominciò a parlare della teoria: i debiti di gioco da onorare. Il Trincino parlò di possibilità: - Magari tra qualche giorno la rivedi e ritorna a casa…-” Glu Glu furetti sono diventati sciacalli che ululano alla luna nella nebbia. Il pollo bianconiglio ansima straziato e si regge il petto. 396 “Cazzo, Ba…Omobono, ma non hai avvisato i carabinieri?” “Lupo mi disse che se l’avessi fatto l’avrebbe uccisa…” Silenzio. Glu Barbie ha uno scatto e s’inarca come sotto una scarica elettrica o una frustata. S’affloscia di colpo sul tavolo. Con un rivolo nero alla bocca. Barbera e sangue. Nero il suo mondo già nero. Senza donne, nemmeno una, che chissà dove sta. 397 AVANTI POLIPO, ALLA RISCOSSA Tracimare di cattivo gusto… La goccia che fa traboccare il vaso è, forse, la suoneria avveniristica, ma neanche tanto, del nuovo cellulare, con una voce consolidata e untuosa sopra tacca di volume (nulla di nuovo sul fronte occidentale, prego notarlo), che ripete come squillo: “Mi consenta: c’è una telefonata per lei, gentile elettore defraudato”. E’ scaricabile al numero tricolore di Forzitalia gadgets con Mediaset Card. Oppure è un saltabeccare tra i bicchieri e le posate della nuovissima Playstation di dodicesima generazione, quella con le zampette, che si deve cercare di prendere come un finanziere alle Cayman, per giocare al Monopolypo in carpaccio con pesto e fagiolini. La manovra un ragazzino che scalcia cristonando toninianamente dopo asportazione di staminali dalle gonadi californiane come prugne secche. Vedo rosso, ambrato rh positivo con retrogusto sangue di rivoluzionario compresso, e mi ritiro meditabondo e fumante nel cessetto del ristorante, con tovagliolo ascellare al seguito. Tovagliolo ascellare sì, giacchè io sono il cameriere anziano della trattoria alla moda “La zona del Branzino di Zena – specialità pesce”. Ripercorro ricordi e soppeso raffronti, seduto sulla tazza maiolicata autopulente per decreto legge. Rifletto sui bei tempi andati del gusto del cibo e dell’assaporare. Ero giovane, rampante cameriere con minimo accenno piedipiattesco, e volteggiavo come una libellula tra i tavoli di una trattoria di Roma, nel popolare e rosso quartiere di san Lorenzo, servendo piatti ruspanti di cucina povera e sostanziosa, regionale e semplice. Gli avventori erano studenti fuori corso, barbuti con occhialino da intellettuale troztkista, donne emancipate con chioma scolpita nella galleria del vento e aria diserbata da sigarette francesi senza filtro. 398 C’era anche qualche professore della vicina università, assente in meditazioni solitarie pregirotondine, oppure impegnato in accese discussioni sulle ultime uscite cinematografiche d’essai del brillante cinema congolese. Era di soddisfazione servire siffatti clienti, tutti bendisposti ad un sorriso solidale, tutti attenti a quanto ordinato, rapportato sempre in allegre discussioni-cenacoli (del resto si era a cena) sulla qualità e prezzo rispetto alla situazione economica dell’Angola o dell’operosa Bassa Sassonia. I cuochi filippini spadellavano nella cucina con rumore di ferraglia e allegre risate da ciurma su sampang pirata e io con altri colleghi piroettavamo tra i tavoli in fervente brusio e sconocchiare di mascelle a rosicare chele, ossa, concetti filosofici e politici rivoluzionari. Bei tempi d’entusiasmi e soddisfazioni professionali! Poi il declino inesorabile! Lento d’agonia con accanimento terapeutico, tra frequenti tuoni e fulmini buttiglionidi a controriformare la scena. I giovani avventori rivoluzionari crebbero e divennero bancari, impiegati alle poste o alla regione, i professori prepensionarono per più convenienti partecipazioni a trasmissioni televisive nel cuore della notte su angoscianti interrogativi circa buchi dell’ozono, buchi economici, buchi in vena, con indiscutibile buco di culo nella reclutazione ben remunerata. Si spostò qualitativamente verso il basso il livello degli avventori, dei clienti affezionati alla zuppetta di pesce, ignorantelli, disinformati, supponenti, che cominciarono a confondere scorfani pesci con scorfani colleghe di lavoro, polpo con polpette, grigliate di pesce con grigliate d’arbitri o di partenza al gran premio di formula uno. Io, per mio contro, perdetti poco a poco la mia indulgenza e la mia bellicosità solidalrivoluzionaria per un incremento esponenziale del mio piedipiattismo, ché camminavo come l’ispettore Clouseau in remake, e anche per mie analisi sul cattivo mangiare, apprezzare, stare a tavola della nuova clientela. 399 E il mio fegato ottenne un condono per un ampliamento abnorme con veranda abusiva. Cominciai a camminare leggermente inclinato sulla destra con una smorfia verdastra sul volto, livoroso, sempre più, epatosofferentemorroidale. E gli avventori commensali scesero ad infimi livelli da commedia all’italiana di pierini e insegnanti coscelunghe, con aumento di decibels discorsivi, vini rossi col pesce, rumori di risucchio al bucatino e commenti granfratelleschi. Ed eccoci ad oggi, a me sulla tazza autopulente del bagno astronautico nel ristorante rimodernato da poco con gli ultimi ritrovati della tecnologia. Nella sala torme di bambini che pochi anni fa sarebbero stati inviati direttamente nella cucina per un arrosto con patate, arrosto di loro con alloro, o che sarebbero stati presi tout court a calcinculo per ottenere un rispettoso silenzio, scorrazzano tra i tavoli con automobiline telecomandate autoesplodenti modello kamikaze iracheno, o attirano l’attenzione con urla disumane da confronto QuiStudioAVoiStadio. Le mamme ignorano con un sorriso pallido come fettine di lardo di Colonnata, arrotolate peraltro anche dentro le orecchie, e spettegolano sull’ultima guepière o perizoma del mercatino rionale accennando sfilata con dettagli in bella vista come la spigola troppo mayonnaisizzata. I padri testano le suonerie dell’ultimo cellulare che funge anche da pratico porta preservativi e memorizza gli ultimi incontri puttaneschi con pagelle e valutazioni alla supermoviola. Ridono tutti sguaiatamente, colle gambe stese, a rendere per i camerieri una gimkana il portare enormi vassoi di fritture apprezzate soprappensiero e bagnate con aranciata amara. Che tempi! Che declino! E io non ne posso più! E’ giunta l’ora di tirare i remi in barca e di ripulire il tutto. Tornano buone le quattro o cinque ananas, senza Grand Marnier, che conservo da anni e anni 400 nell’armadietto, lucidate di tanto in tanto, accarezzate con affetto quasi per un presentimento. Ora è realtà. Una per il tavolo quattro, quello col bimbetto che sta scortecciando il seggiolone con il coltellino del piccolo Rambo. Un’altra per il tavolo d’addio al celibato, con quattro smandrappate sotto il tavolo che fanno finta di mangiare chiocciolini di mare in castigo. Un’altra ancora per il tavolo giù in fondo, dove ci sono educati avventori grigi che non rumoreggiano col brodo e parlano a bassa voce: per questi sarà un’eutanasia e una liberazione, per come si guardano intorno, disgustati e discreti. Starò vicino a loro, per poterli accompagnare anche di là, con due fettuccine della casa col sughetto al riccio di mare, da bagnare con un bianco fresco di Olevano, poco conosciuto, ma ancora di vigna e basta, senza trucioli esaltatori di sapidità… 401 402 RACCONTI DI PAURA SOLITUDINE E FOLLIA 403 404 MATRIOSKE Lei, Goletta Verde, è una donna sensibile e intelligente, fantasiosa anche se guardinga, abbastanza disincantata da frequentare e permanere in una ‘chat’ senza lasciarsi coinvolgere più di tanto. E’ socievole. Riceve un messaggio… “Ciao, posso entrare in privato? Devo portarti dei saluti…” S’incuriosisce. Digita. “Prego, Salame Solitario” “Ciao. In realtà sono Verme Solitario: ti ricordi di me?” Guarda tu le sorprese che si leggono! L’immaginazione accende la caricatura di un ridente salame alla Jacovitti che si trasforma in una tenia gialla a pallini verdi con un cotillon in testa (come hanno la testa le tenie simpatiche?) “Sì, ciao verme come va? Come mai con una nuova identità?” “E’ divertente…l’altro giorno ero Piacere Solitario” Un piccolo moto d’inquietudine e una sommessa risata nel fantasticare su quel cotillon che cambia testa, ora su un pisello, forse bello da vedere, impertinente: sì, vaga inquietudine, una mancanza di punti di riferimento forse il solito maniaco, …Attenta Goletta… “Mi pare di ricordare… Si parlava di musica e di pettegolezzi…” “No, lì ero Passero Solitario, tendevo al naturalistico eh eh eh” Agitazione crescente: ma chi è questo? Serpeggia un’altra intima risatina nervosa nella fantasia del gioco di parole: da uccello ad uccello, ma questo zampettante, una pallina piumosa che sgancia guano a caso nella ‘room’… Povera me, un matto… “Forse sì, non ricordo bene, conosco tanta gente…ma tu sei quello di Roma?” 405 “Ah ah ah, la scorsa settimana ero quello di Roma…Pino Solitario… Ti salutai, ma non mi filasti neanche di striscio eh eh eh: chissà com’eri impegnata…” Quel ridere digitato isterico e fastidioso… Accidenti: che concime potente il guano del passero… Fa crescere i pini…a Roma…col pisello…con un cotillon pieno di salami avvolti in tenie… Apprensione adrenalinica ora: mi cominci a stancare, amico bello… “Ah sì? Ma non cambi troppo spesso identità?” “Dai, è bello, è spiazzante… Mi diverto moltissimo…tanto poi, alla fine, dico sempre chi sono in realtà… Dai che lo hai capito: sono Blank Solitario….Ah ah ah.” Goletta verde interrompe il collegamento bruscamente e spegne il PC come se abbia preso una scossa. Si materializza un’immagine da incubo di un foglio bianco, vuoto: prendono vita disegnini di tenie, graffiti da cesso pubblico, uccellini su pini e salami animati… Si affollano nella sua mente come un cartone animato cecoslovacco, scarno, tetro e poco adatto ad un pubblico infantile, per poi ritornare foglio bianco vuoto, come un gioco di matrioske… 406 NUOVI MONDI NUOVE STORIE Esistono spiriti fantasiosi e immaginifici che fin da bambini creano scene, figure, storie ed evasioni partendo da una osservazione di un minimo particolare che per altri occhi non ha significati. Io, arrogandomi il diritto di volermi considerare un sognatore, ho cominciato verso i cinque anni in un pomeriggio estivo nella penombra di una stanzetta in un vecchio cascinale di campagna. Il frinire delle cicale cullava il riposo sfinito pomeridiano dei grandi, ma io, piccino ed esuberante, ero disteso sul mio lettino ad occhi aperti a fissare il soffitto: una macchia del soffitto, in particolare, di umidità, e, sbarrando gli occhi incentrandomi solo su di essa, vedevo sagome di teste di animali, di cavalieri e di draghi. Affinai questa mia sensibilità, se così la si può chiamare, giocando con cumuli-nembi grassocci grigi e rosa e candidi scolpiti da brezze frizzanti e lo scenario divenne dinamico ed eccitante in continui cambi di storie immaginarie e situazioni condizionate sempre più da un maggiore nozionismo e conoscenza della mitologia e delle favole. Sperimentai, prono sul letto con la testa sporgente dalla sponda, nuove sensazioni nel fissare i granigliati multicolori delle mattonelle; sperimentai ancora, in naturali momenti estranei all’arte, piegato su me stesso, le venature di orrende mattonelline nere e violacee del bagno: quando la fantasia assume connotazioni colagoghe… Mi perfezionai nell’esplorazione di un vetro smerigliato sotto la pioggia o illuminato da una luce soffusa con ombre danzanti di familiari ignari. Divenni meraviglioso a me stesso nella capacità di individuare un qualsiasi qualcosa o qualcuno in un piatto di spezzatino con piselli o in un malloppo informe di mollica di pane… Divenni un creativo, un pubblicitario, un inventore di situazioni e idee irrazionali che parlassero a terzi occhi e vellicassero cervelli, per il gusto di comunicare oltre che di 407 convincere: e intanto affinavo le mie capacità nella sabbia, nell’acqua che scorre, nell’incresparsi dell’erba al vento… Ora sono qui, soddisfatto di me, ma incompreso. Sbarro gli occhi sulla trama di una coperta marroncina timbrata “Ospedale Psichiatrico Erasmo da Rotterdam” o sulla parete di fronte scrostata dal tempo con tanti piccoli crocefissi sopra altrettanti letti e scopro nuove avventure minimali con mosche erranti come cavalieri in un mondo tutto mio di donne, armi, draghi ed elfi… 408 SVEGLIA Trapassò dal sonno alla morte semplicemente, mentre sognava… Era su un elicottero che volteggiava rumorosamente sopra un mare in tempesta, pochi metri sopra onde scure. Viveva un sogno a colori foschi, quasi un bianco e nero con poche sfumature tetre: il grigio plumbeo e viola del cielo; il blu petrolio scurissimo, striato di verde smeraldo quasi fosforescente, sinistro, e bianco, del mare ribollente sotto l’elicottero assordante con il suo rotore. Si sporgeva fuori di una paratia dell’elicottero, flagellato dal vento freddo, quasi spenzolante in precario equilibrio, affascinato da una magnifica e terribile visione sottostante: un gigantesco squalo bianco e grigio volteggiava in stretto circolo a pelo d’acqua creando un vortice schiumoso e ipnotico… Lui si teneva con forza ad una maniglia e fissava angosciato quel gorgo seguendo quella enorme minacciosa grigia pinna dorsale che girava e girava in tondo tra le onde scure, catturato visivamente dal risucchio del vortice, nero, liquido, profondo… Aveva il terrore di cadere in mare…di affogare o di essere dilaniato… Udì, poi, un suono improvviso e prepotente, di quelle sveglie di una volta, tutte di rame, con le cupolette cave in cima ed un martelletto caricato a molla, assordante, irritante. Quel continuo “drrriiinnnggg” gli penetrava il cervello e quella visione terrificante si dissolse nel buio più nero e fitto senza nulla. Fu desto nel nulla, nel panico per lo sperare in un dopo dal nulla. Cessò lo scampanellio isterico della sveglia e il buio si riaccese di nuovo nei colori grigi e viola di un cielo plumbeo sferzato dal vento di tempesta e dalle pale di un rotore d’elicottero. 409 Lui era sempre in bilico sulla paratia, spenzolato di fuori e attaccato alla maniglia, e guardava con immutata inquietudine un mare scuro ribollente con una sagoma enorme che lo tagliava in circolo con un’enorme pinna… Aveva sempre il terrore di cadere in mare… Attendeva un campanello di una sveglia di rame… Il suo Purgatorio. 410 ESTETICA, ORDINE E BOTTONCINI DI CAMICIA Vorrei proporre qualche riflessione sull’estetica del quotidiano, sulla valorizzazione di piccole minimali piacevolezze della vita che personalmente mi affascinano in un equilibrio bioritmico armonico che mi dona serenità nel vivere la mia vita. Sarò forse tacciato di ‘dandysmo’, superficialità da cicisbeo, manierismo alla Oscar Wilde (soprattutto dai detrattori del grande garofano verde), ma ho intenzione, nonostante i rischi, di proporvi un argomento che per me ha una rilevante pregnanza di significato. I bottoncini supplementari delle camicie sportive. Sì, avete letto bene. Vorrei parlare di quei bottoncini che fermano il colletto di camicie jeans e sportive, anche eleganti, di qualsiasi tessuto e colore, e di quei due bottoncini supplementari a metà manica, a chiudere quello spazio aperto che corre fino verso il polsino. Sono, per me, minimalismi estetici d’alta sartoria funzionale ed ordinata. Il colletto della camicia assume un aspetto più compatto e raccolto intorno al collo dell’indossatore di questo tipo di camicia e un’eventuale cravatta viene abbracciata e cullata strettamente nel suo nodo ed assume un aspetto elegantemente marziale nel cadere in perfetto perpendicolo guidato sullo sparato della camicia stessa. Io sono, avrete capito, un maniaco dell’ordine e della simmetria. Ho un guardaroba fornitissimo di camicie di questo tipo, di vari colori e tessuti, per ogni stagione, anche se non porto quasi mai una cravatta, ma trovo gradevolmente estetico da vedere anche il collo di una camicia abbottonata ordinatamente ai pizzi del colletto, con il colletto ben raccolto e aperto sul petto a mostrare una maglia di cotone in tinta: una chicca d’eleganza sportiva. E vogliamo parlare della funzionalità di quei bottoncini a mezza manica? 411 E’ per me un piacere potere sbottonare il polsino sapendo che la manica rimarrà sempre ordinata e sensualmente aderente al mio braccio, fissata da quel bottoncino che non permetterà alcuna deformazione cincischiata. E’ un piacere orgasmico d’ordine estetico il potere sbottonare il polsino per avere una migliore agilità di movimenti e notare che la camicia continua ad aderire in un tutt’uno con il corpo in una immagine complessiva di disinvoltura, disciplina e eleganza. L’unico mio personale cruccio, circa questo delizioso ed interessante argomento, è la proterva pigrizia di quella che fu mia moglie. Mi spiego meglio. La mia signora ha sempre avuto la pessima abitudine di stirare, peraltro magnificamente, le mie camicie senza abbottonare i famosi bottoncini del colletto e della manica sopra il polsino. Questa negligenza è andata avanti per diverso tempo, troppo tempo, con continue discussioni e battibecchi che sono, nel tempo, sfociati in vere e proprie liti sempre più furibonde e incontrollate. Ho sempre trovato inammissibile questa mancanza di rispetto per i miei gusti armonici e ho fatto presente a mia moglie, in principio garbatamente, poi sempre più ruvidamente, che il trovare una camicia con il colletto non abbottonato costituisce, per me, un antiestestismo brutto da vedere e tale da rovinare un’intera giornata. Altri facciano come pare loro: non me ne può fregare di meno di chi ha il vezzo molto snob di indossare camicie con i bottoncini sul colletto vergognosamente aperti come una dozzinale camicia qualunque, ma io ho una mia personalità e una mia filosofia estetica e pretendo, sottolineo il ‘pretendo’, una camicia riposta nel cassetto perfettamente a posto con i suoi bottoncini chiusi ai pizzi del colletto, pronta per essere indossata con un sottile piacere lussurioso di armonia ordinata. Vallo a fare comprendere alla mia signora! Un giorno la solita lite è trascesa in insulti sanguinosi e in un reciproco scoppio d’ira. 412 Le ho strappato il ferro da stiro a vapore, ormai fuori di qualsiasi controllo, e l’ho percossa ripetutamente sul capo tra sbuffi di vapore bollente e sibili di pressione assolutamente giusta per un ennesimo colletto. Mi sono arrestato quando l’ho vista esanime a terra in una pozza di sangue che si allargava sul pavimento. Ho telefonato ai Carabinieri e ho atteso che venissero a prendermi. Nel mentre, ho abbottonato tutte le camicie ai pizzi dei colletti e alle mezze maniche e ho preparato una piccola valigia mettendo dentro le più belle per una degna immagine di me nella futura dimora di fronte a nuova gente mai conosciuta: perché io tengo molto alla mia immagine. La mia situazione psicologica non è cambiata un granché da tre anni fa, anzi... Sono in una cella insieme con altre tre persone, in una cella che ne prevedrebbe solamente due, e abbiamo diversi problemi di ‘privacy’ nel trascorrere umanamente le nostre giornate di reclusi. L’unico omicida sono io, condannato a quindici anni con le attenuanti generiche per assenza di premeditazione. Sono il capo cella, il ‘nonno’, se così si può dire, dall’alto della mia condanna che è veramente pesante rispetto a quelle di pochi anni dei miei compagni che sono solamente rapinatori o scippatori, in magliette a girocollo stinte. Occupo, quindi il posto in alto della brandina a castello più vicina alla finestra e ho l’armadietto più grande e più in buono stato dove ho riposto il mio piccolo guardaroba. Stiamo molto stretti, qui dentro, e Giovanni, un giovane scippatore non troppo intelligente, urta sempre il mio armadio per aprire il suo e prendere qualche arancio o qualche biscotto. Il mio armadio si sposta impercettibilmente e non mantiene più il filo con le mattonelle in graniglia e conferisce all’intera cella un’impressione di sciatteria e disordine che m’infastidisce. Ho avvertito Giovanni di stare più attento, ma ho rimediato qualche borbottio che somigliava ad una specie d’invito con desinenza finale ‘culo’. 413 Per ora paziento e abbozzo: sono conscio di una mia responsabilità d’anziano della cella e cerco di comporre qualsiasi diversità di opinione pacificamente. Ho provato a tenere una piccola lezione ai miei compagni sul concetto d’estetica e di simmetria, di ordine e di eleganza. Non sono stato un buon conferenziere, ascoltato tra sbadigli, rutti e peti, oppure la platea non è matura per simili argomentazioni, invero, sottili e presupponenti una certa sensibilità. Semmai, però, un certo giorno dovessi perdere la pazienza, ho adocchiato, per ogni evenienza, la mia branda. Ha una sbarra pesante che si sfila dall’incastellatura molto velocemente e con facilità. Ancora due o tre avvertimenti… 414 CAPOLINEA DI TRAM ARANCIONE Giovanni P. non ha dormito bene stanotte. Si è girato e rigirato nel letto tastandone, ancora incredulo, l’altra sponda vuota e fredda. E’ stato in dormiveglia agitato per ore, attaccato dai morsi voraci del rimpianto e del rimorso e dell’affetto che gli hanno dilaniato brandelli di ricordi nel dolore di un’immagine diafana proiettata nel buio. Sua moglie. Morta. Da pochi giorni. Questa mattina si è levato con una lancinante emicrania nella penombra fredda dell’alloggio ora troppo grande. Diverse sensazioni sono transitate fuggevolmente nella sua mente, sadiche, perché ritorneranno, lui lo sa, e spargeranno sale su ferite fresche tormentandolo. Percezione di vuoto: eco dei suoi passi strascicati di vecchio, ora solo, che si avvia stancamente in bagno e poi in cucina per prepararsi un caffè. Una nudità interiore, intesa come fragilità di un paguro senza attinia, accompagna una danza estenuante di metafore di fragili cristallerie o d’indifesa animalità tenera. Sensazione di assenze: degli odori familiari, tiepidi, di colazione calda, di vapore saponoso nel bagno, d’acqua di rose, di fagiolini appena lavati e puliti dei cornetti per un pranzo in due davanti ad un telegiornale che spesso disunisce, ma sa anche accomunare in una complicità silenziosa di idee e discorsi affiatati. Peso nel cuore, per Giovanni P., e oggi maniacale cura per sé stesso, per la sua persona. La nenia ronzante di un rasoio elettrico sostituisce antiche romanze liriche d’altri giorni, ascoltate a volume sommesso per rispetto civile, nel prepararsi per andare a fare la spesa insieme, per spettegolare del quartiere e confortarsi sui soliti rincari. Sguardo grigio, quello di Giovanni P. davanti allo specchio, che cerca peluzzi da tagliare sul naso per rendersi 415 di bell’aspetto, come gli diceva Elvira: uno splendido brontosauro di bell’aspetto con il fiato che sa di mentina. Eheh, cara Elvira, dove sei? Oggi si annoda la cravatta color vinaccia, in seta pesante, malleabile per un classico bel nodo scappino sulla camicia celestina, e indossa il completo antracite col gilet...uno splendido brontosauro col completo e il gilet. L’aroma del caffè si spande per la casa assieme al brontolio asmatico della napoletana che sembra protestare per un diverso caricamento rispetto a tempi passati. Tutto ritorna ad Elvira… Basta! Esce ad affrontare il vicolo del centro storico, dove tutti ci si conosce e si partecipa, più o meno pietosamente, delle disgrazie di ognuno. Mattinata frizzantina di novembre. Odore di pane appena sfornato, nell’aria, e d’ortaggi freschi e di vernice e, più in là, effluvio penetrante di salumi affumicati, mescolato con formaggi di fossa e funghi seccati. Sorrisi, sguardi bassi timorosi, occhiate apprensive e curiose, saluti e affettuosità. “Buon giorno signor Giovanni” sbrigativamente gentile dell’affaccendata portinaia che butta il secchio dell’acqua saponata tra le grate del tombino. “Buon giorno Giovanni.” Il giornalaio ammicca dalla botteguccia semibuia, sepolto da videocassette e dispense d’enciclopedie inutili. “Buon giorno signor P.” Il macellaio, che ride di gola, saluta e affetta scaloppe per una nonnina che tace e scruta di sottecchi il vedovo che risponde con un cenno di capo serio. Gesti muti e sorrisi da parte di altri, nel vicolo, a salutare il dolore che passa. Un ciao colla mano della commessa del panettiere, colla cuffia igienica sulle ventitré per amore di moda, un balzo di mento quasi marziale del ferramenta che torna ad oliare la saracinesca. Il vicolo si dipana per Giovanni P. come il binario rallentato di una giostra di cavallucci dorati illuminati da calde lampade nel suono di marcette allegre. 416 E’ una magia da bambino il girare su quella giostra lunga lunga ed è un calvario il proseguire verso la piazza giù in fondo luminosa e caotica, piena d’automobili e rumori stridenti. Il vicolo è pedonalizzato, stretto, senza marciapiedi: un acciottolato antico con i tombini in centro strada leggermente affossati per un buon risucchio dell’acqua piovana. Il vecchio Giovanni P. cammina lentamente, impettito oggi, anziché ingobbito e avvolto nel suo struggimento malinconico, e rovista nella sua mente immagini di vecchi films dove esiste sempre un vincitore che è ripreso tra musiche struggenti al rallentatore mentre vince o mentre ritira un premio per una sua roboante impresa. Il popolino del vicolo si trasforma in un insieme di comparse plaudenti e la musica si sviluppa in un crescendo che si confonde con la realtà del rumore della piazza raggiunta. Variazione di luce, più abbagliante, con il sole in fronte e i riverberi di finestre e vetri d’automobili impazzite in una coltre di fumo trasparente grigio e lieve. Trombe, stridori di freni, il “clang, clang” del tram 15, quello di modello vecchio, tutto arancione, che fa la sua fermata di capolinea proprio là, oltre quel marciapiede sudicio di altra gente, di alieni e cartacce. Quanto mi manchi Elvira! Quanto mi sento solo qui tra la folla: più che nel vicolo, più che a casa… Tutto mi appare grigio e scurisce sempre di più nell’indifferenza color piombo del mondo fino a divenire nero come la mia anima sola e dolorante. Sarebbe bello un altro giro di giostra nel vicolo con te a fianco. Sarebbe bello un mondo fuori del vicolo tutto arancione come quel tram che sosta al capolinea e sta per partire. Un mondo allegro, caldo, sereno, arancione, e tu, Elvira, con me, a lamentarti dei tuoi acciacchi e a minimizzare i miei dolori per un sostegno reciproco che ci rende forti ed invincibili a tutto il mondo. Ti amo, Elvira. 417 Il tram 15 chiude le porte e si avvia per una nuova corsa. Giovanni P. si avvia come un antico felino, confuso nella foresta urbana, quasi indolente senza farsene accorgere, per catturare la sua preda arancione da dividere con la sua Elvira. Clang, clang, clang. Stridore di freni. Urla. Scalpiccii. Ultimo dolore. Buio. Silenzio. Ciao Elvira, arrivo… 418 SEGRETI DI CUCINA CINESE Suona il telefonino. Una sbirciata al display mentre affetto un porro. Marcella. Mi fa sempre piacere ascoltare Marcella: mi si accendono lucine strane nel cervello che è formicolato di fantasie erotiche e si crea, ad ogni telefonata, un’atmosfera carica di sottintesi ipocriti che lasciano in bocca un agrodolce di quello che potrebbe essere e non è per pigrizia o ignavia. “Sì. Ciao Marcella.” “Ciao Roberto, tutto bene?” “Sempre bene quando ti ascolto. E tu?” Siamo persone di mondo: sappiamo dare un certo civile spazio all’etichetta e ai convenevoli. Soprattutto: non ho ancora nulla d’impegnativo ed immediato sul fuoco, anche se è tutto predisposto. Sta cuocendo soltanto il riso e rimesto ogni tanto con un cucchiaio di legno nella pentola ribollente. Stasera cucino alla cinese. Amo molto la cucina cinese: la considero armonica, fantasiosa, aromatica, varia. Ho diversi utensili tipici: il wok in ghisa semisferico, che pulisco solamente a secco con carta da pane e olio, i cestelli di bambù per le cotture a vapore, ingredienti particolari come la salsa di soia, lo zenzero, le castagne d’acqua e i funghi cinesi del tè, amarognoli con un vago sapore di terra. Marcella parla e io affetto il porro finemente con il cellulare incastrato tra spalla e orecchio: sembro un cuoco che deve partire per Lourdes, un Quasimodochef, tutto stronco su un lato, mentre intanto rivolto e rimescolo di tanto in tanto la carne tagliata a tocchetti che sta marinando nel sakè e nella salsa di soia. Il riso sta continuando a cuocere: riso di qualità patna, quello fino. Qualcuno inorridirà, ma il riso alla maniera cinese, molto diversa da quella europea, va consumato molto scotto, con i singoli grani appiccicosi eppure non incollati 419 tra di loro: per questo va bene la qualità patna, o anche basmati, molto simile. “Bla, bla, bla, Roberto, e lo sai che cosa si dice della cucina cinese?” Confesso: sono un poco soprappensiero e la mia amica, ma soltanto ora, non ha su di me i soliti effetti normormonali di dilatazione di tessuti cavernosi. Sono più preoccupato per una leggera tostatura delle mandorle sgusciate che dovrò aggiungere a fine cottura alla carne, ma il loro colore ambrato sembra quello giusto. Però ho ascoltato la parola ‘cinese’ e un campanellino di coincidenza mi porta in uno stato d’attenzione sulla simpatica amica. “Che si dice, Marcella, della Cina?” “Si dice che in Cina si mangia tutto quello che si muove: te lo immagini?” “Beh, che c’è di strano, Marcellina? La cucina cinese è una cucina poverissima e i cinesi hanno una capacità non comune all’adattamento. Aggiungi che il “tutto quello che si muove” è anche sempre o quasi commestibile…Aggiungi anche che un bravo cuoco sa far risaltare sapori sorprendenti anche da una rapa… Lo sai, Marcellina, che un bravo cuoco che sappia lavorare bene la carne da una vecchia pecora ti tira fuori un ottimo cervo da mangiare con la polenta? Conosco vecchi cuochi esperti che lo sanno fare…Piena di trucchi e trabocchetti la cucina, sia quella italiana che quella internazionale… Un gatto può diventare un ottimo coniglio, soltanto disossato, però: la struttura della sezione ossea del coniglio, schiacciata e ovale, è molto differente da quella del gatto, assolutamente rotonda…o è il contrario? Ti lascio nel dubbio e nella confusione…per il tuo prossimo spezzatino di coniglio al forno con olive e patate…” La sento inorridire divertita a mille e oltre chilometri di distanza e mi lascio docilmente attirare da quel formicolio di fantasie che mi svia per un poco da altre attenzioni. “Ma dai, Roberto, come puoi parlare così? Con questi ragionamenti sono buone anche le formiche…” 420 “Non ho mai mangiato le formiche, tesoro, ma so per certo che insetti e larve d’insetti si mangiano in diverse parti del mondo: proteine e alimento completo, se hai stomaco…In compenso ho mangiato il serpente e i nidi di rondine: molto buoni. Sai di che cosa è composto un nido di rondine?” “No, stai zitto, non me lo dire perché poi non mangio per tre giorni. Stai zitto o attacco ad urlare…” “D’accordo, non infierisco…” Ridacchio dentro di me mentre verso due cucchiai d’olio di sesamo nel wok per una frittura leggera e veloce: l’olio di sesamo conferisce al fritto un aroma particolare molto avvolgente. Sto rigirando i tocchetti di carne nella maizena, per una sommaria impanatura che addensi anche il gusto del sugo delle verdure. “Marcellina, tu sai quanto mi piace stare al telefono con te, e sai anche cosa penso quando sto al telefono con te, ma ora, piccola mia, ti devo proprio lasciare…” “Scusami se ti ho disturbato…Avevo voglia di parlare un poco con te… Poi so che sei anche un tifoso della cucina cinese: volevo provocarti…” Ride di gola spiegata perché è convinta di avermi messo in difficoltà con immagini di topi o di cavallette al gratin o con chissà quali altre immagini per lei raccapriccianti. La saluto con un misto di rimpianto e con una certa apprensione frettolosa. Se solo conoscesse i sapori di tutto quello che è parte integrante del nostro mondo, se entrasse in armonia con il mondo stesso conoscendolo anche attraverso i suoi sapori e una saggia e placida filosofia di intendere la vita alla maniera cinese, in automodellamento fatalistico alle necessità contingenti… Se solo sapesse che sto preparando per la mia cena il mite Chung, un simpatico vecchietto senza parenti che era ormai stanco di vivere, quel Chung quasi invisibile che viveva da solo nello scantinato e faceva da guardiano alla sartoria clandestina di camiciole estive. 421 E’ bastato un colpo secco con la piccola pesante mannaia, proprio dietro la nuca, un’adeguata frollatura e una diversificazione della preparazione della carne, con una laboriosa preparazione sul tipo di quella per l’anatra laccata, crocefisso a due assi e cosparso di miele ed aromi vari per almeno quarantott’ore, e anche tante striscioline di carne a marinare nella salsa di soia e nel sakè per una gustosa leggera frittura veloce insieme a verdure croccanti e mandorle tostate. Nessuno avvertirà mai l’assenza del vecchio Chung solitario: sarà sostituito da un nuovo clandestino nel giro di pochi giorni e nessuno si porrà domande sulla sua strana assenza. Spero che il nuovo guardiano sia single e sia appena più grassoccio di Chung. Mi viene un’associazione d’idee maliziosa al manzo in agrodolce o all’arrosto in salsa d’ostriche… Avrò l’occasione, come farò stasera a cena con il mio vecchio sorvegliante stanco, di celebrarlo più volte in un possibile futuro, degnamente, con della birra di riso o del tè al gelsomino e ricorderò anche per la prossima volta quello che mi ha detto la mia amica Marcella. Me lo disse qualche giorno fa anche lo stesso Chung. “Noi in Cina mangiamo tutto quello che si muove…” 422 PREGO MI SEGUA, SI ACCOMODI Un multistudio medico di eminenti professori specialisti in varie branche della medicina offre sicuramente diversi vantaggi e ha insiti diversi svantaggi nella sua frequentazione. Grandi bei vantaggi sono quell’atmosfera di tranquilla e consapevole professionalità amplificata dall’associazione similcooperativa di grandi nomi di luminari, e quindi un certo gusto sobriamente lussuoso del centro, con segretarie efficienti e gentili, giovani e carine, molto professionali in camici bianchi. Il trionfo del gusto è nell’arredamento delle salette di visite, con qualche mobile d’epoca piazzato tra modernità ipertecnologiche con voluta disinvoltura indifferente appena eccentrica. Ed ancora il gusto si esprime nell’immensa sala d’aspetto per tutti i pazienti di tutti i professori del centro. E’ una sala illuminata in maniera tenue e indiretta con faretti rivolti al soffitto candido stuccato. Ancora stucco, alla veneziana, in morbide spatolate perfette color salmone alle pareti. Qualche pregevole litografia antica a fare da cornice a poltroncine in pelle, comode e riposanti, disseminate qua e là lungo le pareti della sala intorno ad un immenso tavolo per riunioni in cristallo, ovale, al centro stanza. In un angolo figure geometriche di sfere, coni e prismi di marmo candido a dare un’impronta vagamente metafisica all’ambiente. Due belle piante rigogliose e curate a nascondere un efficiente impianto di aria condizionata. Moquette soffice in tinta con le pareti. Filodiffusione a volume gradevole di sottofondo con musica classica che rilassa e si propone come alternativo modo di attendere invece che patinate riviste recenti disseminate sul cristallo lucido del tavolo. Gran bell’ambiente. C’è anche un qualche svantaggio, seppur non confrontabile con il vantaggio di simile accoglimento e di una visita autorevole. 423 L’esorbitante prezzo dei vari onorari, peraltro comprensibile, e il non tanto marginale disorientamento di non riuscire mai a comprendere in che posizione si è come pazienti in fila per la visita, tra i tanti personaggi che riempiono le tante poltroncine, tutti nell’unica sala per uno smistamento verso diverse salette di visita. E quindi l’anziana signora artrosica convive per qualche tempo con il colitico cronico a fianco e con la ragazzina già bulimica, e più in là il serio e preoccupato signore affetto da insufficienza renale guarda di tanto in tanto quel diabetico che legge il giornale e quella signora con un evidente parrucchino a nascondere una chemioterapia. Non si sa mai, quindi, quando arriverà il proprio turno e, a volte, l’attesa, seppure resa gradevole, diviene snervante e immaginosamente più lunga del reale obiettivo di uno scorrere di lancette di orologio. Y. era lì dal primo pomeriggio. Si era appena appisolato al suono dolce di violini, forse pochissimi minuti, e ora si volgeva garbatamente a destra o a sinistra a sbirciare i suoi compagni di attesa. Gli atteggiamenti di chi aspetta sono sempre i soliti: si fissa un punto, in genere la punta delle scarpe o il pomolo della lunga finestra; si sfoglia una rivista che mai si comprerebbe di propria iniziativa, con pigrizia o curiosità a seconda della predisposizione positiva o meno di chi attende; si contraccambia in un curioso e anche divertente rimpiattino di occhiate lo sguardo dei vicini. Lui occhieggiava una bella ragazza dai capelli lunghi che incorniciavano un ovale pallido e smunto. Chissà di cosa soffre, così giovane e così già malinconica… Ogni tanto si apriva la porta, con un lieve cigolio appena percettibile, e si affacciava una splendida ragazza in camice bianco che guardava questo o quel paziente e lo pilotava dal professore corrispondente: “Mi segua prego, si accomodi…” con un sorriso aperto eppure artificiale e costruito, gelidamente cortese. 424 Oppure entrava un nuovo paziente: una signora piccola e gracile spaurita come un passero, un signore enorme e goffo, imbarazzato… “Buona sera…” appena soffiato, sempre, oppure gridato per far risaltare le buone maniere. E mormorii a mezza bocca di persone appena per un attimo distolte dalle loro riflessioni in automatismo riflesso di buona educazione. Verso metà pomeriggio fu attanagliato da una leggera inquietudine. Quando sarebbe arrivato il suo turno? La grande sala si popolava di nuovi pazienti mentre altri seguivano la ragazza sorridente verso altre stanzette del centro. Lui restava lì, ignorato, e persone che erano arrivate dopo di lui, molto dopo, erano già uscite. Pensò che il suo professore forse non era ancora arrivato, o forse passavano prima casi più gravi, o pazienti che avevano prenotato prima, o conoscenti…anche qui raccomandati… La signorina si affacciava sorridente di tanto in tanto e lui cercava di attirare l’attenzione con un colpo di tosse o uno sguardo appena più penetrante: nulla. E intanto fuori si faceva buio. La sala si svuotò progressivamente: sempre meno pazienti fino a che non rimase solo lui, ormai paziente impaziente, che si dimenava sulla poltroncina divenuta improvvisamente uno strumento di tortura. Entrò la ragazza, seria stavolta, e cominciò a radunare le riviste sparse per la sala tra le poltroncine ed il tavolo. Lo ignorò completamente lasciandolo basito senza parole per l’irritazione e la sorpresa. Si alzò propenso a litigare, a far valere fermamente i suoi diritti, ma, nel mentre, si aprì la porta e fece capolino il suo professore. “Giovanna, ma oggi non doveva venire per una visita anche il signor Y?” “Ah, sì professore, mi scusi, non l’ho cancellato dalla rubrica. Ha dato la disdetta sua moglie l’altro ieri. E’ morto quattro giorni fa per un attacco cardiaco…” 425 Y. si sciolse nello stucco veneziano color salmone, finalmente consapevole, in un miscuglio istericamente confuso di violini, fruscii di riviste, sorrisi, saluti, preoccupazioni, sguardi, domande, domande, domande, domande, domande… 426 MASCHERE PER OGNI OCCASIONE Questa mattina devo uscire. E’ una giornata primaverile piena di sole e presumo che la città sia in fermento ormonale di speranze, d’entusiasmi, di progettualità… Tutto ciò è contagioso. Mi applico la maschera della giovane donna: una studentessa universitaria sportiva e disinvolta, con i capelli morbidi e lucenti, con il volto pieno d’efelidi sparse alla rinfusa come futuri progetti, con un batticuore innamorato che è messo alla berlina da un rossore virginale timido appena diffuso. Occhiali da sole di quelli alla moda d’ora: colorati, leggeri, azzurrini di speranza o arancioni di pulsazioni impazienti a stento trattenute nello zainetto con le dispense e un cellulare che è metafora. Oppure metto la maschera della giovane donna già inserita nel mondo del lavoro con disegni di realizzazione intorno a sue idee, con capelli mogano alla maschietta, taglio corto, pratico e funzionale, abbigliamento casual ricercato, trucco non troppo pronunciato per evitare pesanti mobbing o per non scoraggiare sensibili giardinieri di piante desertiche. Occhiali classici vagamente aggressivi e retrò, a goccia, fotocromatici verde scuro con questo sole che comincia a scaldare. Ora di pranzo. Pausa lavoro e stacco per radunare le sensazioni della mattina come i piccioni davanti alla panchina del parco con poche briciole. Adesso ho una maschera intimista, poco appariscente, ma significativa per quello che rappresenta questa oretta di scollegamento dall’esterno. Una lunga coda di cavallo rossiccia spenta su un volto segnato da delusioni e un lungo cappotto a proteggermi anche dai raggi del sole in un’eterna diffidenza esacerbata da fregature: anche il sole frega, ed il caldo non è mai troppo caldo, e questo cappotto confonde e deforma un 427 corpo che vorrebbe urlare trasgressioni e che è invece inerte davanti a venti piccioni, neanche tutti maschi, avidi di briciole. Occhiali da vista schermati da sopralenti nere a difesa perenne da trivellazioni, per me e per chi vuole scavare, ammesso che esista… Pomeriggio di shopping in centro. Matinèe per qualche applauso di passante meno distratto. Nuova maschera. Capello corvino raccolto sotto un foulard in aria svelta, pratica, forse misteriosa, su incarnato bianco latte fragile eppure provocante. Abbigliamento femminile con calze velate fumé e gonna non troppo audace, ma provocante quel giusto per chi sa apprezzare. Passo svelto, poi svagato, poi esitante: l’essenza della femminilità in un passo da vetrine d’abbigliamento. Occhiali da sole di moda classica, con forma improbabile e originale, scuri, a conferire aria di seducente mistero e a nascondere bagliori di lussuria ambigua per una borsa di coccodrillo o per il commesso prestante di sfondo. Sensazione d’intima femminilità realizzata nel coprirmi di sguardi di cattivi pensieri di maschi eterogenei: che poi sia apprezzamento cerebrale o valutazione di sensali al foro boario è ininfluente, almeno oggi pomeriggio… Sera. Luci che si accendono insieme a insegne di slogan risaputi: città da bere, tenera è la notte, ascolta la tua sete…cosa vuoi di più?... Posso sbizzarrirmi tra vari tipi di maschera: dipende dalla meta della serata. Look sul tipo dell’eroina vittima di Mister Goodbar, con capello scialbo stoppaccioso, seppure carica come una dinamo, oppure da sfacciata lasciva ragazza del cubo con trecce rasta viola e verdi, o da poetessa esistenzialista, severa con i capelli grigi senza tintura radunati a crocchia austera, con impermeabile nocciola e due libelli tra le mani mentre sorseggia assenzio o anche solamente un banale 428 Marie Brizard nell’attesa che il lettore cominci a declamare in aria spessa di fumo di debolezze. Tanti modi di presentarsi, la sera, ma sempre, per forza, con occhiali da sole, anche se è buio, per darmi un contegno e per rendere insondabile almeno una piccola parte di me. Occhiali piccoli rettangolari o molto ovalizzati, quasi gialli, per cercare Goodbar in qualche locale affollato e ambiguamente semibuio. Occhiali a rombo esagerati, rosa, di cattivissimo gusto, provocatori, per le mie movenze sinuose tra raggi stroboscopici e folla sudata pagana che mi adora il dio perizoma. Occhiali rotondi neri, impenetrabili come certe anime, alla recita di panni sporchi lavati in pubblico del tale poeta affumicato. E poi la notte fonda e il ritorno in una stanza buia senza specchi per deporre l’ultima maschera sulla testa manichino accostata a tante altre. Senso di provvisorietà nell’eternità di una situazione che si perde nella notte dei tempi mitologici. Rassegnazione, adattabilità, ripasso di sequenze della giornata con una sensazione di potenza infinita mista a cocente dolore e rabbia. Il non potere mai vedere il risultato di uno dei tanti travestimenti, il dovere avere una stanza senza specchi, la mia collezione infinita d’occhiali da sole per ogni occasione e per ogni tempo… La mia condanna eterna fino a che esisterà la vanità e la superficialità nell’uomo: per sempre, all’infinito… Solamente sibili nel buio della stanza, ed un senso di freddo e di movimento nella testa…sulla testa…idee, pensieri, riflessioni, movimenti contorti e lucidi, freddi… Sibili e fruscii di capelli vivi su occhi che uccidono nell’orgoglio omicida di chi è diverso… Atroce destino per una fragile e sensibile Medusa… 429 HO PAURA DELLA GENTE L’aria novembrina è assai frizzante sulla pelle, soprattutto se sei all’aperto in cima ad un campanile. Sono raggomitolato su me stesso, appoggiato ad un colonnino, ancora tremante e madido di sudore. Ho il fiatone per una lunga corsa e per la salita dei ripidi scalini. Sono sovrastato da un minaccioso batacchio scuro innestato in una campana brunita che luccica ad un tiepido sole pallido. Guardo sotto. Assembramento. Puntini variopinti che si aggregano nervosi come in prossimità di un formicaio. Il respiro sta ritornando regolare con ritmiche nuvolette di condensa più intervallate. Anche i muscoli si stanno rilassando poco a poco e il freddo umido si sta insinuando sotto il cappotto a mordere pori in tensione. E’ una visuale affascinante, quella delle formiche sotto il campanile, e da qui non fa paura. Non fa paura come quando sei lì sotto, come quando ero prima al mercato rionale tra un dedalo di viuzze del centro storico, tra bancarelle e portici semibui. E la gente. Mio Dio quanta gente! Massaie assorte negli acquisti, grifagne a dissuadere una fregatura, pettegole con risatine chiocce e ammiccamenti, prepotenti e rissose per un posto avanti nelle code per un acquisto. E gli uomini: commessi, padroncini, clienti, arroganti, sornioni, esageratamente servili o scostanti e rudi… Sguardi vacui o attenti, di tutti, che sembrano trafiggere. E’ un dramma, per me, da sempre, acquistare qualcosa al mercato. Ho paura della gente, della calca, della folla radunata in densità eccessiva. 430 Non frequento cinema, stadi, concerti, manifestazioni culturali o politiche. Mi prende un malessere iniziale, come di sensazione di soffocamento, e comincio a sudare freddo con un montare interiore di panico, e vorrei scappare, reagire, urtando e spintonando per uscire dalla folla, dai crocchi di persone ignare del fatto che mi stanno uccidendo a poco a poco. A volte comprendo e giustifico tutte le presenze intorno a me: cerco a fatica di razionalizzare, di farmi una sorta di training autogeno, di tollerare. Provo anche dei miei trucchi personali, contando quanto manca al mio venire fuori dal gruppo, da quei volti che ti guardano seri, oppure che ti sorridono, che potrebbero ucciderti non appena ti distrai. Conto e vigilo e fendo la calca accelerando il passo, mentre il respiro si spezza e si scoordina. A volte, sempre più spesso, odio. Odio quei volti e quei corpi che non conosco, che mi sbarrano il passo, che mi inibiscono potenziali movimenti, che mi sfiorano…odio la presenza e il contatto della gente. Ne ho paura. Una volta reagivo ignorando, alzando il bavero del cappotto e calando la tesa del cappello, a non vedere, a cercare di non sentire. Ho poi cominciato a reagire al sopruso delle presenze: ho cominciato a insultare, a spingere, a scansare. Quei pazzi mi guardavano sorpresi e qualcuno mi rispondeva in malo modo, maledetto… Oggi è una mattinata che sono più teso del solito, più sensibile, più fragile. Ho gettato due granate al mercato: è stata semplice autodifesa, lo giuro… Erano troppi, troppi, e avevo paura… Poi sono fuggito e qualcuno mi ha inseguito con lo sguardo e ha dato l’allarme. Mi hanno braccato vendicativi fin qui alla chiesa. Mi sentivo tallonato da topi di fogna, sbavanti, inguardabili. Ora sono qui, appoggiato ad un colonnino del campanile, infreddolito, affascinato dal formicaio là sotto. 431 Mi giunge un mormorio indistinto, qualche grido rauco, e mi pare di udire un pianto. Da qui non mi fanno paura: li amo quasi. Sono miei simili… Ma so che non durerà e che dovrò scendere. Ecco laggiù anche la polizia: vedo il faretto intermittente e la sirena sta lacerando l’aria fin quassù. Sono indeciso. Adesso chiuderò gli occhi e conterò per qualche momento per calmarmi e riflettere su quello che è meglio che io faccia per la mia pace e tranquillità. Ho altre quattro granate in tasca, per farmi spazio, per rimanere tranquillamente solo. Oppure posso farmi forza e affrontare per una volta da uomo la folla. Buttandomi giù, verso tutta quella gente… 432 MANTENETE LA CITTA’ PULITA Mi chiamo Tarcisio e lavoro presso l’inceneritore comunale dei rifiuti urbani, appena fuori della città. Il mio nome è poco comune, lo so, ma a me piace: richiama alla mente il terzino Burnich, quello della grande Inter degli anni settanta, che spazzava l’area con decisione rocciosa. In un certo senso anche io spazzo: attivo l’inceneritore e contribuisco al mantenimento di un ambiente pulito smaltendo i rifiuti. Amo molto il mio lavoro. Ne ho fatto la mia principale ragione di vita, quasi una filosofia esistenziale, una missione, e ne sono condizionato anche fuori del turno lavorativo: vago per la città con una certa soddisfazione di controllore addetto ai lavori, osservando con professionalità i vari cassonetti per le raccolte differenziate. I contenitori dalle varie forme, verdi, metallici, blu, gialli, se pieni, per me costituiscono l’indice di una recepita educazione civica, di rispetto per il prossimo, di funzionalità, di pulizia nell’ordine dello smaltimento dei rifiuti. Ho una vita riservata, solitaria, con pochi essenziali interessi: ordine, pulizia, rispetto. Giro con il mio furgoncino nuovo, entusiasta, realizzato nel concetto d’essere utile alla comunità perché svolgo una mansione che produce benessere. Ogni tanto, però, ho sussulti di indignazione. Vedo persone che si comportano in maniera che non mi piace e certi gesti mi procurano dolore e irritazione, urtando i miei convincimenti di una società migliore nel rispetto per il prossimo e nella pulizia. Gli zingari, per esempio. Bastardi. Forzano gli armadi metallici istallati per la raccolta degli abiti usati e razziano ogni capo possibile lasciando sparpagliati, tutto intorno, gli indumenti troppo logori o che non hanno trovato di gradimento. 433 Uno sconcio. L’area intorno al cassonetto, infatti, abbandonata, appare poi come una discarica a cielo aperto, con vecchi cappotti sdruciti o magliette ingiallite da troppi lavaggi. Oppure quei vecchi ubriaconi. Quelli che sbevazzano la loro birretta sulla panchina di un giardino e poi, per sfregio, buttano la bottiglia vuota contro un albero, incuranti dei cocci che si disseminano tutto intorno, sulle aiuole, alla portata pericolosa dei bambini che giocheranno lì presso. Assoluta insensibilità. Ecco: io adoro Bolzano. E la Svizzera. Bolzano è una città pulita: neanche un mozzicone di sigaretta in giro. Anche in Svizzera è così. Fumare, poi, fa anche male. Oltre che danneggiarsi la salute, farsi del male, c’è da aggiungere il nuocere agli altri, andando a gettare i mozziconi accesi per la strada e sporcando… Non esiste una logica. Si comincia con i mozziconi e si continua con i fazzoletti di carta, i chewingum, qualche busta inutile di corrispondenza già letta, un barattolo di yogurt, una bottiglietta di succo di frutta che sparge appiccicosità e può frantumarsi. A Bolzano questo non succede. Tanto meno in Svizzera. Credo. Mi adopero, in ogni caso, affinché non succeda anche qui. Faccio, in altre parole, la ronda. Nel mio tempo libero. Con il mio furgoncino. Ho con me la sbarra antifurto, d’acciaio, verniciata a fuoco, nera, con la testa spigolosa e pesante per la serratura. Ieri ho seguito quella mandria di piedi zozzi, quegli zingari indifferenti a tutto e a tutti, che bighellonano nel mio quartiere... 434 Hanno scardinato ancora una volta il contenitore degli abiti usati della piazza vicino casa mia. Ancora camicie sventagliate sulle aiuole del giardinetto: una vergogna. Li ho seguiti con il mio furgoncino, a passo d’uomo. Un ragazzino sporco come un tizzone si è staccato, distratto, dal gruppo ed è rimasto da solo, finalmente. Un piccolo gnu debole. Sono uscito velocemente dall’auto come una pantera, con la barra dell’antifurto... Oggi sto tenendo d’occhio un vecchio laido, sudicio e trascurato, ubriaco di birra, sporco di moccio e vomito. Voglio proprio vedere che combinerà con la bottiglia vuota. Sto picchiettando la barra dell’antifurto sulla mano, in attesa, con il sangue in ebollizione, in piena scarica di adrenalina. Io, lo ripeto, considero il mio mestiere una missione, una filosofia di vita, perché amo il mio lavoro al punto di pensarci anche fuori orario. Questo vecchio è pericoloso. E’ ubriaco: molesterà qualche donna pacifica e costumata, scaglierà la sua bottiglia contro un albero, costituirà un pericolo per altri. Io farò pulizia e ripristinerò l’ordine. Continuerò a girare, anche nei prossimi giorni, come ho sempre fatto, per tranquillizzare la mia coscienza, per sentirmi in pace con me stesso, alla caccia di quei fumatori menefreghisti, di quegli autisti che buttano ogni cosa dal finestrino della loro auto, di quelli che sputano per terra e diffondono epidemie. Io so come si diffondono veramente le malattie: uno sputo, un soffiarsi il naso soffiando dalle narici strette tra due dita, come fanno certi calciatori d’oggi. Burnich non le faceva queste cose: lui era grande e giganteggiava in area di rigore. Roccioso ed elegante: spazzava l’area. Come me. 435 Faccio la spola tra casa e il mio posto di lavoro con il furgoncino, foderato di plastica, per non sporcarlo di sangue, consapevole della mia missione. E il mio inceneritore, subito fuori della città, continuerà a funzionare per la collettività e per un ambiente pulito per tutti, caricato da me anche a rifiuti difficilmente smaltibili… 436 QUESTIONE DI PELLE Siamo uno di fronte all’altra e ci guardiamo con intensità. Febbre d’intenti a scottare fantasie. Ti dico con voce calda, eccitato: “Spogliati, denudati completamente, dei vestiti e delle inibizioni.” E’ un comando secco o una preghiera ferma, un mormorio a bassa voce, dolce e imperioso allo stesso tempo. Mi fissi con occhi lucidi e ti sbottoni la camicetta sorridendo provocante, scuotendo il capo a ricacciare indietro la folta chioma dei capelli che scivola in avanti impedendoti di vedermi carico. Ogni bottone che fugge dall’asola è un sommesso insistere di goccia cinese che rende sofferente l’attesa, e il frusciare della seta che s’allarga sulle spalle non lenisce il bruciore delle intenzioni. Lasci cadere il tubino con movenze lente da consumata spogliarellista, a circondare, informe a terra, le tue gambe affusolate avvolte in calze di seta, nero fumé. T’immobilizzo in un fermo-immagine d’affascinante giovane cariatide dallo sguardo enigmatico perduto nel mio, in drappeggio di promesse e d’abiti stropicciati ai tuoi piedi. Ti lasci passare sul capo, con un’eccitante torsione, la sottoveste corta di raso e mi provochi sfacciata, ancora sorridendo, consapevole dell’effetto che stai avendo su di me. L’incavo delle tue ascelle, candido e leggermente azzurrato di vene pulsanti, mi stimola in una salivazione di persona ingorda. Ti slacci il reggiseno con una danza a cercare la clip dietro le tue scapole arcuate. L’impercettibile scatto risuona nella mia mente come un’eco di sipario strappato. Non posso manifestare indifferenza e controllo: il tuo seno svetta prepotente con aureole che brillano di luce propria. 437 Ti liberi delle culottes lucide con un bagliore nello sguardo carico di propositi e ti lasci ammirare per un attimo, con gli occhi socchiusi, dea, ornata delle sole autoreggenti, meravigliosa. Sinestesia di colore e odore in sapore d’arsura nella gola. Hai il pube riccioluto corto, lucido, che sembra circondato di filo spinato da oltrepassare con determinazione di marine. Scambio di sguardi ancora: tu sarcastica nella consapevolezza del tuo potere e io stupito nella verità che non ho potere da esercitare, in effetti, dominato come sono dal trionfo del tuo presentarti. Poi l’inaspettato. Trovi un lembo di pelle all’altezza della vita e tiri con le unghie laccate. Un luccicare d’artiglio porpora. Ti sfili con un curioso gorgogliare di gola la pelle del torso, come una maglietta, con naturalezza, lasciando intravedere tra i tessuti spugnosi di sangue un corpo di consistenza lucida, viscida, che mi richiama con orrore e sorpresa la pelle fredda e verdastra delle rane toro, palpitante, scivolosa di secrezioni e di acqua melmosa di palude. Il raccapriccio s’impossessa gradatamente di me in una malsana miscela di panico mentre prosegue la tua opera di scarnificazione. Non riesco a distogliere lo sguardo ipnotizzato da questo mostrarti così repellente e mi sento morbosamente curioso. Soffoco un grido strozzato nell’orrore di vedere cambiare il tuo volto, nel togliere la tua …maschera... sì, una maschera di donna attraente e sexy che è accartocciata tra le tue mani sanguinolente. I tuoi occhi sono due globi diafani che ricordano vecchie pellicole di fantascienza, occhi di rettile, organi partoriti da una fantasia patologica. La tua bocca è un taglio diabolico, un ghigno di piccole zanne appuntite semicoperte da una lingua violacea carnosa, e dalla tua gola sale un brontolio strano, minaccioso, terrorizzante. 438 Mi sento preda, immobile in assurda autodifesa, tremante come un capretto legato ad un palo per stanare una bestia feroce. Ti osservo, ora sfrontata e malevola, con rassegnazione di vittima e attendo la fine di un azzannare liberatorio nella malinconia di un indimenticabile tuo fascino perduto per sempre. Mi sveglio. Perlinato di sudore gelido, con respiro mozzo, ansante, con gli occhi sgranati su immagini fortunatamente dissolte nel buio. Sono quindici anni, i più bei quindici anni della mia vita, con te, che sono perseguitato da questo incubo, tesoro, anni lunghi in cui ogni notte mi addormento sognandoti splendida per poi vederti trasformare in quella specie di basilisco minaccioso e ributtante che mi sveglia con i capelli ritti in testa, con il respiro affannoso, con la perdita improvvisa del senso del reale in una angoscia senza fine. Ed allora ti guardo al mio fianco. E trepido, apprensivo. Sorridi nel tuo sonno delicato e ridisegni il mio posto nel mondo logico con la tua presenza serena nella penombra quieta della nostra stanza. Il tuo seno ritma un placido respirare di sogni sereni e tu sprigioni un odore di femmina in pace con il mondo. Il mio tormento ha fine, allora, nel contemplarti meravigliosa, anche se so che la prossima notte sarà lo stesso calvario tormentoso. Sospiro per il cessato pericolo e mi sorprende il pensare, sempre più intensamente, notte dopo notte, che vorrei che tutto questo finisse, una buona volta. E’ per questo, amore mio, che ora ho inciso la tua gola e che sto scorticando la tua pelle d’alabastro con un rasoio, a scalzarla dalla tua carne, per vedere fino a che punto sono pazzo, io, che sono tanto innamorato di te e che non posso più sopportare di vederti come un mostro a spaventare i 439 miei sogni nei quali vorrei amarti per come ti amo e ti ho sempre amata. Dio, ti ringrazio! Quanto ti amo, gioia mia, e quanto sono felice! Sei davvero il mio amore, normale, la mia donna, la mia amata donna, e scorre solo sangue abbondante tra le lenzuola, sangue di semplice adorato essere umano. Spezzo il respiro nell’euforia mentre m’avvolgo a fianco a te, singhiozzando di gioia e baciandoti nell’odore dolciastro del sangue che scorre ancora copioso imbrattandomi il volto adorante. Non esistono mostri. Non esiste più la paura. Ci siamo solamente io e te, adesso, e sono sereno e sempre più innamorato di te. Grazie amore mio. 440 JENNIFER DAL NERO MANTELLO La vedo tutte le mattine all’alba, con ogni tempo, mentre porto a spasso il cane. E’ molto anziana e rinsecchita su sé stessa. Cammina a testa bassa, svelta e a scatti, con i suoi capelli tagliati ridicolmente giovanili, alla garçonne, tinti, neri come la pece. Veste sempre di nero, con un mantellone a coprirla e a nascondere un sacco. Tutte le albe che la vedo, da molto tempo, si muove con circospezione disinvolta tra gli alberi scuri del giardino e sembra un seminatore. Lascia pane sbriciolato, a pugnelli, alle radici di platani e siepi, per gli uccelli del giardino. Guarda sempre a terra con occhio vitreo, chiaro, ma vuoto, quasi ingobbita, e i suoi gesti sono precisi e veloci: un pugno di pane per ogni tronco, nel buio che si dirada appena tra il nascente traffico urbano. Possiede l’atteggiamento di chi è investito da una ispirazione divina inderogabile: consapevole oltre ogni domanda o dubbio. Ha un nome che, chissà perché, mi appare poco adeguato per la sua età: Jennifer. Riesco ad immaginare soltanto delle Jennifer giovani e prorompenti. E’ conosciuta nel quartiere come Jenny, la vecchia Jenny. Mi sono posto domande, sempre curioso, sul perché di questa sua mania di scandire tutti i giorni con lo stesso rituale. Amo fantasticare sul passato delle persone contemplandone i gesti del presente. Mi piace pensare, con un minimo di pena e tenerezza, vedendola fragile e piccola, che voglia farsi perdonare per qualche torto fatto ad umani in tempi addietro. E’ tardi, per certe persone di età avanzata, ritornare sui propri passi: non per mancanza di voglia, ma per mancanza di energia o per quella pigrizia che attanaglia in senilità e lascia gli intenti sepolti tra i ricordi sempre meno vivi. 441 Credo che la piccola Jennifer cerchi di guadagnarsi la sua pace facendo del bene a chi è più piccolo di lei, più semplicemente abbordabile e meno coinvolgente in dolori di realtà che si vorrebbero dimenticare. Mi piace concludere le mie fantasticherie pensando che un passero, che in altra vita fu un uomo che soffrì molto per una donna dai neri capelli alla garçonne, stia perdonando, per come può un passero, una fragile vecchietta che cerca di alleggerirsi la coscienza coprendo i rimorsi con un nero mantello. 442 L’UOMO E’ UN ANIMALE SOCIEVOLE Aveva molti amici che lo venivano a trovare. Si sedevano su uno sgabello o una sedia di fronte a lui immobilizzato, o sulla sponda del letto, e cominciavano a raccontargli quello che era loro accaduto all’esterno. Così a lui il tempo scorreva piacevolmente, tranne che per alcuni contrattempi, quando arrivava l’equipe dei medici e infermieri per la visita. Come quella volta che stava con Yoghi, un enorme grizzly fulvo di quasi tre metri, appoggiato alla parete in fondo a fianco alla porta. C’era, con Yoghi, Luciana, una gigantesca pantegana seduta comodamente sulla sedia per gli ospiti, in jeans indecorosamente attillati, truccata come una bagascia, sempre, però, di buon cuore e di generosità di sentimenti. C’era anche Pietrino il pitone, arrotolato ai suoi piedi in fondo al letto, sempre taciturno, e Ugo il canguro con due figli piccoli nel marsupio, accoccolato sullo sgabellino di servizio. I figli erano graziosi e vivaci e facevano un gran casino. Parlavano tutti insieme del più e del meno amabilmente. Poi uno scalpiccio, e lui diventò nervoso: “Ragazzi, via, presto, non fatevi vedere: non è orario di visite e poi se la prendono con me”. Sparirono, chi sotto il letto, chi dentro lo scarico del lavandino, chi trasportato fuori di un sottile raggio di sole filtrante nella penombra dalle tapparelle abbassate. Ed entrò il primario con gli assistenti per la visita. Lui sorrise: non si erano accorti di nulla. Fu una visita strana, dopo che lo slegarono, con due nerboruti infermieri che lo tenevano fermo per le spalle e le braccia. Il primario, come un sacerdote, ispirato disse: “Passiamo alle pilloline blu: due dopo i pasti…” Annuirono tutti e la caposala scrisse qualcosa su un notes. Dopo due o tre giorni i suoi amici non vennero più a trovarlo, chi con una scusa, chi con un’altra. 443 Ne soffrì, ma per breve tempo: era socievole e si fece nuovi amici alla svelta. Lo sgabello cominciò a farlo ridere in un curioso dialogo con la sedia a proposito delle tante chiappe che si erano sedute su di loro. Il lavandino, di suo, borbottò qualche piacevolezza mentre lo specchio sovrastante, sempre di brillante compagnia, appariva snob e non dava troppa confidenza all’armadietto greve. Trascorse altri giorni davvero pieni: chiacchiere e chiacchiere in un sovrapporsi di voci che tacevano per incanto ad un suo cenno quando era prossima la visita medica. In una di queste ritualità ricorrenti il primario si complimentò con lui e ordinò una nuova terapia con polverine da sciogliere in due dita d’acqua, solo di sera, per riposare meglio. Gli infermieri erano lì presso di lui e non lo toccarono. Lui sorrise e quando il primario fece per uscire, di spalle, strizzò l’occhio allo sgabello che ridacchiò sommesso. Con la nuova cura divenne più selettivo ed esigente e molte sue amicizie diradarono. Ebbe un violento alterco con il comodino al suo fianco: trattava male la sua bottiglia dell’acqua che era soprattutto una delle sue più intime amiche. Lo sgabello e il lavandino presero le difese del comodino. Non volle più parlare con certi esseri. Li ignorò e dopo pochi giorni rimase in compagnia della sola bottiglia d’acqua. Furono giorni di confidenze delicate. Lui si sentiva meglio: era pacato e tranquillo, aveva anche la possibilità di muoversi e di alzarsi dal letto. Scoprì che la bottiglia era di plastica e non di vetro. Se ne ebbe a male, ma poi comprese che non era colpa della sua amica. Il rapporto non ne risentì. 444 Quando venne il primario, un’ultima volta, per la visita di controllo definitiva, lo attese seduto sul letto, ordinato, pulito, sbarbato e lavato, con uno sguardo sereno e limpido. “Andiamo proprio bene, amico mio. Direi che le cure hanno dato risultati molto soddisfacenti. Le dico quindi arrivederci tra sei mesi per un piccolo controllo in ambulatorio. Stia bene e semmai avesse problemi telefoni pure al nostro centro”. Gli si riempì il cuore di gioia: dimesso, libero, ricco d’esperienze nuove. Ricordò il mal di denti del suo amico grizzly e s’intenerì al pensare dove mai fosse andato a finire. Ricordò anche Luciana la pantegana, con un sorriso di malizia, e Pietrino che gli pesava sempre sui piedi, e Ugo che portava allegria con i figlioletti. Poi guardò con malinconia lo sgabello che non lo riconosceva e, con un certo astio, il comodino: ne sbatté con dispetto anche il cassetto. Mandò un bacio allo specchio ridendo mentre faceva l’occhiolino e uscì dalla stanza per tornare libero. L’addetta alla ‘reception’ vide passare davanti ai suoi occhi un ometto tranquillo che stringeva per il collo una bottiglia con un affetto quasi paterno. L’ospite dimesso la salutò con educazione e lei rispose con il massimo calore e affetto possibile. Ed ebbe l’impressione che la bottiglia sembrasse contenta… Sapeva distinguere un sorriso soddisfatto di una bottiglia. Le fece un ciao con la mano ed ebbe modo di spettegolare dietro la scrivania per tutta la mattina con il cestino della cartaccia e la macchina da scrivere che non stava mai zitta…ma parlò con i suoi amici soltanto quando fu da sola… 445 IL RUMORE DEL SILENZIO Lavoravo in fabbrica, ad una martellante catena di montaggio, ed il quotidiano sopravvivere era grigio. Ho un’indole poetica e umanista, e la mia sensibilità non è mai riuscita a metabolizzare gli stridori di ferraglie e di cuscinetti a sfera rugginosi. Amo, infatti, la musica classica. Preferisco un ‘adagio’, un ‘piano pianissimo’, un ‘allegretto’ o un ‘andante largo’ con carezzevoli sfumature d’arpa e trilli di piccolo o di triangolo, rispetto al battere ritmico delle presse che feriscono il cervello ad ogni colpo e anestetizzano l’udito. A fine lavoro, felice e libero, mi tuffavo nel traffico caotico della città per ritornare a casa a riacquistare la mia pace. Prima, però, cavalcavo altro chiasso con diverse cacofonie. E’ incredibile il frastuono del centro in ora di punta tra automobili che, bloccate, sono aizzate come belve schiumanti da isterici guidatori che pigiano il clacson per affermare di essere vivi. Il trambusto della città nevrotica si mescola sul bus con frammenti di discorsi accalorati e risa sguaiate, colpi di tosse stizzita e imprecazioni per la lentezza del viaggio che appare interminabile. Mi emarginavo sempre da questa bolgia, figurandomi già rilassato in poltrona ad ascoltare qualche mio brano preferito: adoro, per esempio, la celebre sinfonia “Dal nuovo mondo” di Dvorak o la meno nota “Pavane pour une enfante defunte” di Ravel, che è conosciuto essenzialmente per il suo erotico “Bolero”. Questo rumoroso rito abitudinario del ritorno a casa mi segnalò, tuttavia, giorno dopo giorno, un progressivo deteriorarsi del mio equilibrio. Non so spiegare la causa scatenante di certe sensazioni Premetto che non vivo da solo, ma con moglie ed una figlia grande: mi divennero, di colpo, presenze ingombranti, almeno per i miei momenti d’ascolto musicale. 446 Non riesco a conciliare sorrisi e resoconti di una giornata vissuta parallelamente alla mia con sezioni soavi d’archi, e non tollero l’ascolto di musica in cuffia: i suoni rimbombano nella testa senza che io possa discernerne le fonti di provenienza e dopo poco sopraggiunge una fastidiosa emicrania. Le capisco, quella brava donna di mia moglie e la ragazza, ansiose di raccontare novità del giorno e gustosi aneddoti: è umano, del resto, il riunirsi a sera in affetto e complicità del nucleo familiare contro tutto il mondo. Io, però, sorridevo assente ed annuivo distrattamente con il capo, mentre cercavo di non perdere un movimento o una scala di piano. Divenni sempre più insofferente. Non capivano, le due donne, la mia volontà d’isolarmi, almeno per la durata di una sinfonia o di una sonata. E questo non significava minore interesse per la famiglia, ma solamente un distaccarmi temporaneo per recuperare la serenità smarrita nella giornata, e le imploravo interiormente, sempre più esasperato: dopo, dopo…ne parleremo dopo… A battute e a discorsi scoppiettanti d’affetto s’aggiunsero poi, in fibrillante acuita sensibilità, i rumori della casa. Abito un appartamento grazioso ma piccolo. Il frigorifero, inatteso ed improvvisamente, s’insinuò sfacciato con il suo ronzio di sbrinamento nell’ascolto di una sezione d’ottoni. Altre volte, per perfida coincidenza, la lavastoviglie con il programma economico o la lavatrice con il risciacquo, interloquivano con alcuni ‘piano pianissimo’ assai delicati che, di norma, richiederebbero un ascolto più attento che in altri movimenti. Il mio alloggio, oltre che piccolo, è anche condominiale: notai questa spiacevole caratteristica nel confondere un ‘andante brioso’ con un battibecco di miei vicini di casa dall’altra parte della parete. Fui preso da una disperazione crescente: non amo ascoltare la musica a volume esagerato. 447 Mi sembra poco elegante e forse anche mortificante, per un senso di civismo e per il rispetto che nutro verso i miei autori prediletti, controbattere a rumori esterni con un giro di manopola dello stereo a coprire o sovrastare. La situazione peggiorava, forse per accanimento di circostanze sfavorevoli o forse per una mia sensibilità acuita che stava sconfinando nell’intolleranza. Notai anche che il servizio di nettezza urbana aveva cambiato il turno di svuotamento del cassonetto sotto casa. E’ inutile che citi a che ora quel maledetto cassonetto era sollevato, scosso e sbattuto, a ridosso del marciapiede. Il nervosismo aumentava e il mio sorriso condiscendente, di fronte alla figlia che raccontava i suoi aneddoti giornalieri, era più falso di una moneta di tre centesimi. Mia moglie, inoltre, per una migliore efficienza casalinga, invece di andare a fare la spesa, prese l’abitudine di usare l’aspirapolvere, rovinandomi ancora di più l’ascolto di brani molto coinvolgenti. Il cane, tuttavia, fu la goccia che fece traboccare il vaso. La bestiaccia, forse percependo nell’aria l’odore di qualche cagna in calore, cominciò ad agitarsi e ad uggiolare, in genere sopra un arioso ingresso di fiati o una limpida introduzione di pianoforte che richiedeva assoluto silenzio. Mi sentivo prossimo al collasso nervoso, schiacciato da rumori di pressa, violentato da allegre ciarliere comari sul bus, intronato da stridii di freni, da sirene d’ambulanza e dal brusio della gente che rimbombava con picchi fastidiosi. Sconvolto, quindi, cercai una soluzione stabile e definitiva. Immaginai qualcosa di drastico per un silenzio assoluto da ottenere a qualsiasi costo. Mi sovvennero alcune conoscenze dilettantesche di medicina e farmacia. La streptomicina, un antibiotico antitubercolare, diluita in soluzione acquosa a lavare l’interno dell’orecchio, lede in maniera irreversibile il nervo cocleare, dopo un regolare ciclo d’applicazioni, annullando le capacità uditive di chi è sottoposto al trattamento. 448 Può sembrare un paradosso il desiderio di divenire sordo per potere ascoltare meglio? Non lo è. Ho assimilato nel tempo ogni sfumatura della musica che ho amato ascoltare e, spesso e volentieri, canto sinfonie e brani in una mentale partitura che non posso più dimenticare. Inoltre, Beethoven non era sordo? Moglie e figlia si stupirono di vedermi più disponibile con un sorriso serenamente ebete che nascondeva loro il vigile piacere di una consapevolezza nuova: tra qualche giorno non avrei più udito nulla. Pregustavo il socchiudere gli occhi e bearmi, in un vasto ‘auditorium’ fantastico, dell’ascolto di classici, senza alcun disturbo, con la sala deserta e le migliori orchestre ad esibirsi armoniche soltanto per me. Le orecchie bruciavano, dopo questi lavaggi clandestini nel chiuso del bagno: era, però, un dolore mitigato dalla volontà di perseguire un intento. Rivolgevo uno sguardo speranzoso verso lo specchio sopra il lavabo ed ammiccavo di complicità all’altro che mi guardava divertito e spiritato. Finalmente, poi, fu silenzio, totale, terribile e meraviglioso, da plasmare come creta a creare figure e personaggi sonori, sculture di suoni interiori. Mi crogiolai per tutto il giorno in casa, sfaccendato sdraiato a letto, senza troppo pensare, notando che non avrei più potuto lavorare in un reparto dove la percezione del suono è indispensabile e può salvare la vita. Indifferente all’osservazione, rovesciai le prospettive, orgoglioso di avere il dono di poter ascoltare interiormente la musica senza alcun disturbo. A sera, al rientro di moglie e figlia, mi preparai per l’inaugurazione del nuovo rito. Sprofondato in poltrona sorrisi vacuo e disponibile. Socchiusi gli occhi e si materializzò per incanto la sala concerti più bella che avessi mai potuto vedere. Stucchi crema e avorio in luce soffusa e calda su poltrone rosse di morbido velluto dallo schienale ovale, comodissime, meravigliosamente vuote, ed un’acustica che 449 valutavo perfetta già solo all’udire le accordature degli strumenti. Il direttore consultava lo spartito per ultimi perfezionismi professionali. Ebbi un’emozione tumultuosa vedendolo volgersi verso di me con un sorriso d’intesa, mentre gli orchestrali aggiustavano ance e taravano corde di violini. Un faro ‘occhio di bue’, dal loggione dietro di me, illuminava il palcoscenico lasciando in penombra l’intera sala silenziosa e vuota. Quasi vuota. Percepivo una presenza discreta invisibile. Rammentai di moglie e figlia, del cane, dei vicini, del cassonetto e degli elettrodomestici: erano fuori della sala e l’ambiente era completamente isolato dal mondo. Eppure… Mi volsi all’indietro più volte con apprensione. Poi cercai di scacciare il pensiero e di immergermi nella più totale concentrazione. Decisi che avrei ascoltato, finalmente per come avrei voluto, in assoluta purezza di suono e perfezione d’esecuzione, la “Pastorale” di Beethoven, una nuova volta, ma sicuramente con maggiore soddisfazione delle precedenti. Diedi un cenno d’assenso al direttore che s’inchinò deferente verso la mia posizione. In quel momento, allora, una voce garbata, calda e sarcastica, da una poltroncina dietro di me, cominciò a mormorarmi alle orecchie: “Sei stato un coglione. Sei stato proprio un coglione. Sei un coglione. Sei un coglione. Sei un… Sei…Sei…Sei…” Ebbi l’impressione che mi crollasse il mondo addosso. Da allora la maledetta voce continua a tarlarmi il cervello e non zittisce mai, neanche se ritorno alla realtà di casa. L’orchestra ricomincia a suonare ogni volta che chiudo gli occhi, ma io sono disorientato e non apprezzo lo spettacolo per come vorrei, in uno stato di confusione meravigliata e sgomenta. 450 La voce interiore copre tutta l’orchestra e mi sfotte beffarda senza che io possa reagire per farla tacere. Con il trascorrere dei giorni, mi sto innervosendo in maniera esponenziale, in attrito crescente con la famiglia perché nullafacente senza lavoro, menomato pesantemente con una sordità completa, con la consapevolezza di essermi infilato in un vicolo cieco troppo impulsivamente e goffamente, e sto riflettendo sulle possibilità eventuali che ho per poter risolvere questo che ormai è un dramma che appare senza sbocchi. Magari facendo tacere la voce interiore che mi tormenta, anche se pare insopprimibile… Farla tacere definitivamente… 451 ECCO A VOI JOSE’ARTISTICO BIANCA E NERA (dal giornale) Tragedia ieri sera in Via Mercadante. Un uomo di 37 anni, Giuseppe Artistico, per cause non ancora precisate, è precipitato dal balcone del suo alloggio al settimo piano. Si ipotizza il suicidio per un suo recente stato depressivo, anche se gli inquirenti non escludono un malore. LA MADRE Sono affranta e sfinita: il mio bambino mi ha donato tante gioie e tanti dolori fino alla fine. Era buono, generoso, un sognatore senza alcun senso pratico della vita. Amava il flamenco, la musica in generale, la poesia. Si faceva chiamare da tutti Josè, con la sua passione per il flamenco, e faceva l’istruttore presso la scuola di ballo del quartiere. IL PADRE Non crediamo di avere seminato vento, ma abbiamo raccolto comunque tempesta. Era un ragazzo immaturo: aveva bisogno di essere istradato nelle cose della vita. Ha voluto, invece, fare sempre di testa sua, forse messo su da qualche amico. Non mi sono mai piaciuti gli amici di Giuseppe: gente di arte e di spettacolo senza calli alle mani oppure perdigiorno che non lo hanno mai contraddetto facendogli del male. Che dolore mi ha dato il mio ragazzo. LA FIDANZATA E’ da ieri che non ho più lacrime: tra noi stava finendo. Un rapporto sfibrante per me. 452 Io sono passionale, pratica, attenta alla realtà della vita: abbiamo litigato spesso per questioni di risparmio, o per il sapere o volere manifestare concretamente affetto. Diceva che avevamo fatto spesso l’amore, noi due, anche se era vergine, e che provava per me una passione sfrenata. Non riuscivo a comprenderlo: io lavoro in banca e sono abituata a concetti di concretezza. Josè, invece, era un poeta: amava da poeta, viveva da poeta, forse soffriva anche da poeta, di testa, diversamente da me, con curiosi slanci incomprensibili e chiusure totali. Forse troppo sulla difensiva, o forse troppo indifeso. Non so cosa avrei potuto fare per lui, se qualcosa o nulla. Mi dispiace. IL VICINO DI CASA Sono davvero turbato: era un bravo ragazzo. Forse strano: a volte un bambino, privo di logica, forse diverso. Anche se… Mi ballava il flamenco sulla testa alle due di notte oppure mi svegliava alle quattro del mattino eccitatissimo per leggermi qualche suo verso. L’ho mandato parecchie volte a quel paese: abbiamo litigato spesso. Ora sento che mi mancherà: era due volte vivo. UN AMICO DEL BAR DI FRONTE Era un grande, Josè. Aveva carisma. Lo vedevi scendere da casa, altissimo, dinoccolato, vestito di nero, attillato, con la lunga coda di cavallo e gli orecchini da Corto Maltese a incorniciare il pizzo curato, e dicevi a voce alta nel bar: ecco Joaquim Cortès. Lui, che sentiva da fuori, si inchinava e accennava una veronica con frenetici colpi di tacco in mezzo alla strada e le auto frenavano e qualcuno suonava il clacson imbestialito. 453 Entrava nel bar e ci leggeva storie tese di amori e di speranze e si zittiva anche la macchina del caffè e nessuno osava giocare alle macchinette del poker. Aleggiava un silenzio stranito anche dopo la fine della sua storia. Sentivi allora un rumore leggero di nacchere che saliva di tono e progressione ritmica e lui pareva aumentare di statura e fissava tutti, uno ad uno, con scatti della testa, mentre il ritmo accelerava e lui assumeva movenze eleganti di sacerdote pazzo. Sembrava una danza pagana, un baccanale. Alla fine tutti gridavamo ‘olè’ e spesso interveniva la volante su segnalazione della vecchietta del primo piano che aveva paura di venire a prendere il latte. UN SECONDO VICINO DI CASA Uno di meno. Bastardi drogati senza regole. Io lavoro per vivere. Sodo. E non vado conciato come andava quel disgraziato. Adesso facciamone anche un martire. Meglio tacere. IO Io ho fantasia. Credo di avere anche pietà. Non conoscevo Josè Artistico. Mi piace pensare che possa essere andata così. Che Josè abbia voluto sudare come un baio ad espellere tossine di tormenti esistenziali e abbia ballato un tumultuoso flamenco nella sala del suo appartamento, picchiando violentemente con i tacchi sul palchetto, istericamente, a liberarsi la coscienza di qualche peso, di una delusione d’amore, dell’incomprensione del mondo, dell’indifferenza di chi non ama la poesia. 454 Lo vedo, Josè Artistico, che piroetta fino al balcone, al crepuscolo, nel suono di chitarre rabbiose e piene di sonorità sensuali. Lo scatto secco dell’improvviso stop del registratore. Un sospiro felicemente esausto di sollievo e un chiudere gli occhi alla brezza che accarezza gelida sul sudore. Piacere e pensieri che continuano per conto loro il galoppo, autonomamente dal corpo. Sangria speziata di cannella, osterie bianche di calce sull’azzurro cupo di Tossa del Mar, ramblas spaziose di Barcelona, odorose di tranci di tonno alla piastra e tigli. Colori, rumori, nacchere e urla di baccanti che orgasmano di testa nello stordimento dell’odore tiepido di corpi passionali. Fiato ansante e voglia di volare. Aprire le braccia e vederle trasformarsi in ali di angelo dalle piume di corvo nella sera. Craaa. Craaa. Craaa. Sguardo di uccello ad esplorare oltre le antenne del tetto di fronte, oltre comignoli affumicati. Josè agita le braccia e sorride al buio, curioso di planare verso il centro della città piena di luci e suoni. Freme un tacco, leggero e nervoso come quello di un ballerino e pesante come lo zoccolo di un incontenibile Miura. L’aria serale è inspirata violentemente dalle narici che sembrano froge d’animale. E’ ora. Di volare. E plana dal settimo piano ad occhi chiusi, Josè Artistico, in un misticismo disperato che nessuno può comprendere, in un volo che porta lontano, ancora a Barcelona, verso il colle del Tibidabo con le sue giostre multicolori, a scendere verso una fumosa taverna del porto... UN INFERMIERE Siamo arrivati dopo pochi minuti per una telefonata del portiere dello stabile. 455 E’ caduto scoordinato picchiando violentemente il corpo, con la schiena, e solo successivamente la testa. Uno spettacolo non raccapricciante, quindi, anche se forte. Morto sul colpo. UN POETA DI PASSAGGIO Ho udito un tonfo attutito di sacco pieno di ricordi e ho veduto un uccello scuro tramutarsi in un elegante ballerino di flamenco senza fili come una marionetta spezzata. Mi sono precipitato verso di lui per leggere nei suoi occhi la verità della morte e per nasconderlo con un fazzoletto alla gente morbosamente curiosa dello storpiarsi crudele di un corpo. E ho veduto. Pupille che si spegnevano, piene di luci e fumo nello scorrere di vino tinto e sangria tra canti e danze sopra tavoli di legno rumorosi e solidi. In allegria. Non è vero che sia morto subito sul colpo, come ha detto qualcuno: ha mormorato qualcosa ed io ero lì che gli sorridevo e gli tenevo una mano che stringeva una nacchera, per un augurio di buon viaggio. Ha mormorato con un filo di voce, in un rigagnolo di sangue che gli usciva dalla bocca: “Oggi pago io”… Ed ha contraccambiato il mio sorriso. 456 NON AVRO’ PIU’ PAURA DELLE LAME Amo il buio: culla i pensieri come una mamma e accende scintille di ricordi in immagini che risaltano nell’oscurità. Per queste sensazioni sono ora seduto nel buio, abbracciato alle mie ginocchia, appoggiato ad una parete fredda di metallo, e ripercorro vecchi episodi della mia vita per trarne un bilancio. Sto cercando di analizzare una mia fobia di sempre: la paura delle lame. E’ uno stato d’animo angoscioso che affonda le sue radici nella primissima infanzia. Ricordo gli sguardi accigliati dei miei genitori e le loro voci che risuonano come moniti fiabeschi nell’immaginario infantile: non toccare i coltelli, le lame tagliano, ti farai male, stai attento… Si proietta nel nero la figura di un bimbo che osserva con occhi sgranati papà e mamma, marchiato pesantemente da un loro limite con apprensione soffocante. Mi nascondevano o allontanavano le posate sul tavolo con esagerata preoccupazione. L’approccio con le lame fu demonizzato con enfasi sul loro potere di infliggere tagli e ferite, mutilazioni e morte. I coltelli casalinghi erano poco affilati e taglienti, dalle lame arrotondate ad ingentilire e mascherare le loro precipue funzioni d’incisione, di divisione e separazione nel tagliare. Un giorno volli affermare la mia acerba personalità con un esordiente gesto di ribellione giovanile. Sfuggii alle solite pressanti attenzioni e cercai di sbucciare una mela, impreparato ed ignorante sull’uso del coltello e sul saper fare pressione con la lama. La mela sgusciò via con un tonfo sotto il tavolo, come di vitalità propria, forse impaurita, e io mi procurai un taglio. Versai il primo sangue con una sensazione di doloroso bruciore associato poi a rimbrotti, ad urla d’esagerato spavento, all’urticare dell’ovatta imbevuta d’alcool sulla ferita, e collezionai diversi schiaffoni isterici elargiti per 457 futura memoria e presente sollievo di uno scampato pericolo. Si spegne la proiezione in dissolvenza nel buio, ma appare dal nero una nuova scena d’ambiente luminoso con piastrelle e uno specchio lucente, in cronologia posteriore. E’ il bagno e voglio radermi una barba che ancora non esiste. La lametta m’impressionava meno di un coltello: appariva innocua, così piccola e flessibile con quella scanalatura centrale, per il rasoio di sicurezza, che sembrava un sorriso amichevole. Provai a ripetere i gesti paterni tante volte spiati con ammirazione emulatrice ed imparai a mie spese il concetto di ‘mano leggera’ con una striatura sanguigna lungo una guanciotta tenerella rosata. Riecheggiarono altri gemiti di scampato pericolo, con invocazioni sacre da parte di mia madre, ed assaggiai ancora il morso del disinfettante sulla pelle più altri ceffoni educativi, da parte di papà. Diffidai, quindi, anche delle lamette da barba, affascinato dal loro potere ma inibito nell’uso da reazioni familiari plateali, di troppo affetto, per preservare un virgulto dai pericoli insiti in ciò che taglia. Sorrido intenerito nel dilatarsi del nero che soffoca il ricordo in un ronzio innocente di rasoio elettrico, mentre un nuovo episodio balugina recando altre emozioni. Tante lame, molti anni dopo. Ero a casa di un amico, collezionista di coltelli d’ogni tipo. Aveva una teca con originali ed interessanti modelli: da caccia, con il manico bizzarro intagliato in osso o legno, da sub o da guerra, tecnologici, con le lame seghettate e sinistri luccichii iridati, da lancio, bilanciati per colpi equilibrati e precisi. Si potevano anche ammirare coltelli fabbricati in serie, in variazione di scala per un’esposizione d’effetto, oppure pezzi unici creati amorevolmente a mano con pazienza, quasi animati di vita propria, opere d’arte di sapienza artigianale. Ricordo una festa con molta gente. 458 Ero cresciuto, nel frattempo, timido e volenteroso, per cercare di sconfiggere la mia ossessione. Maneggiavo da qualche tempo, seppure con prudenza, coltelli a punta e seghettati, e mia moglie utilizzava perfino il coltello elettrico che mi affascinava con il suo azzannare isterico e rumoroso. Volli esorcizzare le mie solite paure e adocchiai un coltello dei più impegnativi, quasi un ‘machete’, il più grande di una collezione a scalare che vedeva il più piccolo grosso come mezzo dito. Afferrai invece proprio quello lungo come un avambraccio per dimostrare qualcosa a me stesso. Lo brandii scherzosamente agitandolo nell’aria a fingere un attacco da pirata. Peccai di ignoranza e ingenuità anche allora: non misi il fermo di sicura alla lama. Mi pizzicai un dito seccamente, come uno schiaffo dato ad una persona che manca di rispetto, e cominciai a schizzare violenti zampilli di sangue. Odio la vista del sangue, forse per altri atavici limiti familiari o per semplice malinteso istinto di conservazione. Mi sorressero in due, mentre un terzo personaggio mi riempì un bicchiere di cognac ad anestetizzare lo spavento e un quarto mi tamponava con una garza la ferita. Ho ancora la cicatrice, dopo alcuni anni trascorsi, chiara e sottile, che mi scava il dito. Provo un sottile brivido e proseguo nel mio piccolo calvario della memoria costituito ormai da minimalismi senza importanza, acquiescenze nell’abitudine e nella rassegnazione, giustificazioni per rendere meno umilianti certe situazioni vissute, fatalismo che tranquillizza: è più forte di me, cosa ci posso fare? Scorrono altre immagini a striare il nero e ad avvolgermi nel rosso del sangue con un sottofondo di urla di raccapriccio. Proiezioni cinematografiche. Mi rivedo distogliere sguardi con disinvoltura sperando che la sequenza di un accoltellamento sia breve e che nessuno si accorga del mio malessere. Dario Argento è stato un mio incubo. 459 Si andava al cinema di sabato pomeriggio, in comitiva, gaglioffi e sbruffoni, con risate nervose a spaventare la paura. Durante la proiezione, spiavo i miei compagni e individuavo i loro occhi luccicanti e avidi di vedere ciò che rifuggivo. Rimanevo dolorosamente sorpreso e dispiaciuto dal brillare della loro curiosità senza alcun timore e, forse, sensibilità, tra urla agonizzanti che squarciavano l’aria fumosa con variazioni improvvise di luce. Io, invece, abbassavo il capo o cambiavo posizione nella poltroncina passandomi ingenuamente una mano sul viso a tamponare coltellate e lampi d’acciaio violenti. Scompaiono progressivamente anche le scene dell’ultimo ricordo. Sono ancora abbracciato alle mie ginocchia, in un buio freddo e reale, e rifletto sull’incapacità di dimostrare finora, soprattutto a me stesso, la dignità del vero uomo, del cacciatore, del guerriero che non ha paure da donnicciola, che sa soffrire, che supera e vince le sue debolezze. Sono d’umore tetro, ora, nella consapevolezza di un’estrema scelta da compiere a breve, ma anche sereno per l’immediata possibilità di riscatto che mi sto offrendo. Sogghigno amaramente senza alcuna immagine. Attendo l’alba, con calma olimpica e dignità da samurai, per sconfiggere definitivamente le mie paure e per dimostrarmi che sono un uomo e che mi sono liberato di mie zavorre mentali. Filtra una striscia di luce incerta e inspiro l’aria con maggiore vigore ad infondermi coraggio. Tra poco avrò la mia catarsi e potrò dirmi, anche solo per una frazione di tempo, di non avere paura. A momenti passerà, come tutte le mattine, il camion della nettezza urbana ed io sarò proiettato, dal cassonetto dove mi trovo, nel trituratore dell’immondezza. Affronterò per un’ultima volta le lame, molte stavolta e tutte insieme, taglienti e rotanti, che non avranno rispetto della mia carne e di nulla di ciò che potranno maciullare. 460 Sarà un attimo davvero tremendo, ma stavolta vincerò, per forza degli eventi, obbligatoriamente: e non avrò più paura delle lame. 461 ANCHE GLI ORSI SI INNAMORANO Dicono che i bambini ‘difficili’ diventino, da grandi, ‘orsi’: solite generalizzazioni di rivista femminile dal parrucchiere. Io sono solamente solitario e forse lascio un’impressione d’alterigia che, in realtà, è profonda timidezza. Sono meticoloso nel lavoro e nella mia vita privata, ordinato, senza troppi voli pindarici di fantasia e improvvisazione, provvisto d’una solida razionalità. Anelo all’autosufficienza, al non dovere dipendere da alcuno, al non dovere chiedere per non dovermi sdebitare. Ho sempre vissuto con mia madre. Lei ha avuto cura di me, come una classica madre apprensiva, ed io di lei, da bravo figlio devoto per una chioma candida. Pomeriggi o serate in compagnia tranquillamente, lei davanti al televisore intenta a seguire qualche sceneggiato, ed io a leggere qualcosa o ad ascoltare musica con le cuffie per non disturbare. Qualche sera, non spesso, sono uscito a ricercare un fisiologico piacere senza implicazioni: a donnine. E’ un rituale di dieci minuti o al massimo un quarto d’ora: e poi a casa fisicamente più leggero. Però… Talvolta questa liturgia non mi ha accontentato. Ho fantasticato di una donna per me, devota, femmina per come la può volere un maschio di cinquanta anni che non ha troppi grilli nel capo ma vorrebbe fare una piccola rivoluzione. Mi sono detto, in queste riflessioni: basta con il risotto scondito per il colesterolo, basta con il solo mezzo bicchiere di vino, basta con la maglia di lana, con la pancera, basta con le donnine… E’ora che trovi la mia donna per il resto della mia vita…per non chiedere più, per non dovere avere bisogno, per un’autosufficienza allargata ad una vita di coppia. A volte i sogni si avverano: io ci credo. Il mio si è avverato. 462 Ho conosciuto lei. Commessa. L’ho veduta attraverso un cristallo smerigliato da riflessi d’auto e bus e di folla estranea che mi passava accanto in turbinio caotico. Mora riccioluta. Gesticolava con un cliente e cercava d’essere convincente con due occhi sgranati da bimba e un sorriso accattivante. Io, da fuori, la fissavo imbambolato, a bagnomaria nel rumore del traffico. Si accorse di me, perse l’attimo decisivo con il cliente che uscì dal negozio, mi sorrise aperta e sportiva, incurante dell’insuccesso. Mi strinsi nelle spalle e le mimai il mio messaggio: ci vuole pazienza. Dovevo essere comico perché allargò il sorriso agli occhi da bambina e mi fece un amichevole cenno di saluto. Attesi fino alla chiusura del negozio. Non si mostrò sorpresa, né, del resto, feci qualcosa per rendermi invisibile davanti a quella vetrina, fermo come uno spaventapasseri sbeffeggiato da sorrisi di corvina commessa. Le chiesi timidamente se avesse voglia di farsi accompagnare. Acconsentì con un volto luminoso e uno sguardo penetrante. Il brutto anatroccolo cinquantenne sempre solo stava diventando un cigno grigio come i miei capelli: l’orso formicolava. Parlò moltissimo, lei, entusiasta del suo lavoro, dei suoi progetti, socievole, come ad un vecchio amico. Ascoltai molto, rispettoso, conquistato dai suoi riccioli al venticello della sera, e le dissi qualcosa di me. Sembrava interessata. Le chiesi di poterla accompagnare anche il giorno dopo, con lo sguardo sfuggente e rassegnato. Mi rispose di sì e mi salutò per farmi intendere che avrebbe proseguito da sola. 463 La vidi allontanarsi e mormorai un saluto balbettando, estatico, e ritornai a casa saltellando tra le pietre del marciapiede con trenta anni di meno sulle spalle e con voglia di fischiettare. Mia madre s’allertò non appena mi vide, santa donna: quel sesto senso di tutte le mamme. Le raccontai del mio pomeriggio e le sorrisi con indulgenza nel vederla scuotere la testa poco convinta, sempre ansiosa per il suo giovanotto. Dormii come un sasso e sognai a colori. Il giorno dopo ero ancora là davanti a quella vetrina e la salutai festoso agitando il braccio. Corrispose ancora e il mio cuore traboccava di gioia. Orso con miele. Si andò avanti così per qualche giorno, con lei radiosa del potere che aveva su di me, cavaliere senza macchia e senza paura, fuori immobile in attesa, con discorsi sempre più lunghi e anche confidenziali in una passeggiata sempre più lontana, con le sere trascorse a giustificarmi con la mia vecchia che cominciava ad assillarmi con le sue preoccupazioni, alternando nuove specialità per le nostre cene, un prendermi per la gola, ad anatemi e fosche previsioni per il mio futuro con una ragazza poco di buono. Ma io l’ho detto: le mamme sono buone anche quando brontolano. Mi lasciò campo libero per un sabato e si rese invisibile. La mia commessa, il mio futuro radioso, aveva accettato un mio invito. Il passo dal negozio a casa mia, quella sera, fu frenetico rispetto alle altre volte, e lei sembrava assecondare questa fretta. Nervosismo con la chiave nella toppa, risolini isterici di entrambi, ansia ed aspettative palpabili. E finalmente la porta si chiuse dietro di noi nel mio mondo presentato a lei. Ci baciammo in penombra sospirando. Dentro di me urlai: sì è lei, è lei, la donna della mia vita. Il cenare fu un pretesto per alleggerire la tensione, da svogliati, con i nostri cervelli in viaggio per altre mete. Ci si accomodò sul divano. 464 Ci si baciò ancora e ancora; pensai di avere per me la donna di tutta una vita. Divenni impetuoso e mi meravigliai di me stesso e delle mie pulsazioni. Forse si spaventò: non so. Si ritrasse. Fece resistenza. Io non so cosa mi prese: ricordo tutto offuscato da sangue rosso negli occhi a confondersi con il rossetto sbavato di lei su una guancia. La trattenei. Senza rendermi conto. Lei si divincolava e stava cominciando ad urlare e io mi stavo spaventando perché non era mia intenzione farle del male. Persi cognizioni di tempo e spazio e situazioni. Sentii uno scricchiolio e la vidi afflosciarsi con il collo elastico e cedevole su di me senza una parola. Piansi. A lungo, come un bambino, rimirandola e carezzandola, nel mentre che cercavo vie d’uscita per il ritrovamento di quella serenità di poche ore prima. E pensai a mia madre che voleva vederla per giudicarla e dirmi se poteva rendermi felice. Fui sopraffatto da una stanchezza mortale in un girotondo d’immagini ruotanti tumultuose di lei che mi guardava duramente mentre si divincolava, di mia madre che rideva malignamente, di gemiti, di risa di scherno, di traffico e vetrine luminose, labbra serrate, labbra socchiuse, labbra carnose in baci, risa, discorsi, sospiri… Ha sempre avuto ragione mia madre: a tutto c’è sempre un rimedio. Quello che si desidera davvero, alla fine si ottiene: dice anche questo, mamma, ed io ho ottenuto e ho realizzato quanto mi sono sempre proposto. Non ho più bisogno di nulla, felice e realizzato in tutti gli aspetti di me stesso. Ho ripreso la mia vita. 465 Più ricco dentro di me, più sicuro, più consapevole del fatto che la vita effettivamente può offrire davvero molto di più di quello che ho assaporato per anni e anni. Ora si vive in tre, in armonia, in serenità. Non c’è più bisogno di accendere il televisore, la sera, per guardare quelle insulse trasmissioni di sceneggiati; non ho più necessità di leggere o ascoltare della musica con le cuffie. Sono con loro che sono diventate amiche e che si fanno compagnia per tutto il giorno mentre io lavoro. Le mie donne. Apro il frigorifero. Si guardano, vicine vicine alla luce della lampadina fioca. Avranno parlato tanto oggi, di me, del mio lavoro, di qualche progetto per il futuro. Io rivolgo le loro amate teste, deposte su due vassoi, verso di me e racconto loro come ho trascorso la mia giornata. Scaldo la mia cena e le guardo con affetto e parlo loro. E mi sento in empatia con i loro pensieri mentre mangio il mio spezzatino tiepido con una tenerezza da innamorato che ha già mangiato un cuore… 466 BATTERE AGNOSTICISMO E TAPPETI Il fatto che esistono nugoli di massaie che sbatacchiano i loro tappeti e lenzuoli e tovaglie dal balcone d’ogni piano e altezza a tutte le ore del giorno sui passanti, impregnandoli di briciole di pane e peli di gatto o cane e peli di pube umano, corrobora la mia posizione agnostica sulla possibilità che esista una giustizia divina, nel senso classico della comprensione umana. Non ho ancora avuto la possibilità, infatti, di vedere una di queste sopraccitate eroine del pulito casalingo, restia all’uso di un aspirapolvere, scivolare dal proprio balcone sopra un provvidenziale mucchietto di guano di piccione e spiaccicarsi, con un urlo lacerante, sull’asfalto, accompagnata da una nuvoletta festosa di peli vari e piume tra gli applausi e le grida di giubilo della folla sottostante. Io lo so: tutti la pensano come me. Soprattutto quelli che passeggiano di mattina senza troppa fretta assaporando il risveglio della vita cittadina. Per queste persone, me compreso, il sapore della vita quotidiana ridestata è amaro e aumenta la consapevolezza che c’è assoluto bisogno di giustizia, divina o umana che sia. Io vivo queste usanze come un chiodo fisso. Molti dei miei malumori e malesseri sono da ascrivere a questa pratica incivile. Sono convinto di avere contratto allergie varie, una rinite e anche questo galleggiare con forti emicranie in pressione alta per ansietà e nervosismo. Nervosismo che si trasforma in ira e mi fa vedere rosso. Odio le prevaricazioni, e lo sbattere o sgrullare un proprio indumento dalla finestra, per me, è prevaricazione. Passi sotto una finestra e vedi la codarda, quella che sbatte uno straccio violentemente, che si accorge di essere spiata e che smette subito ritirandosi con la coscienza fetida. Oppure, peggio ancora, la prepotente menefreghista, quella che scuote la tovaglia o sbatte il lenzuolo, che si 467 sente osservata, che fa finta di nulla con naturalezza e continua nella sua attività barbara. Renderei obbligatorio un aspirapolvere per tutte le famiglie. Mi limito invece, molto più modestamente, a berciare qualche frase tagliente che si perde verso i piani soprastanti, tra indifferenza generale di passanti e altre persone affacciate alle finestre. Per loro tutto ciò è norma, naturalezza. Qualcuna si offende e rimbecca. Allora esplodo in minacce e insulti con voce carica di rancore spezzato. Molti si ritirano dalle finestre lasciandomi paonazzo e ansante nell’impotenza di fare valere le mie buone ragioni di saper vivere in comunità. Nel rispetto. Che manca sempre di più. Ma da oggi cambio pagina. Sconfiggerò questo tipo di agnosticismo creando una giustizia umana, severa e inflessibile. Vivrò con una mia personale missione, con un incarico da svolgere per preservare quel minimo di civiltà rimasta tra pochi di noi contro la barbarie rozza dei prepotenti. Da oggi non perdonerò più e darò ordine nelle vie e serenità ai passanti. Ho acquistato una splendida fionda e diverse scatole di pallini di ferro. Avevo pensato ad una cerbottana con freccette intinte nel curaro, ma poi ho riflettuto sull’impossibilità di arrivare a raggiungere i piani alti. Ed io voglio castigare tutti indistintamente, soprattutto quelli dei noni o decimi piani, quasi inosservati nel caos cittadino, quelli che, se si nota bene, sono i più pericolosi con la sfacciataggine dello sbattimento di antichi polverosi tappeti persiani, nocivi assai alla respirazione, o di trapunte mai lavate cariche di microdisfacimenti di corpi umani. Un fucile a cannocchiale con silenziatore mi è apparso subito impraticabile per ovvi motivi di spazio: e poi darei nell’occhio e metterei troppa gente sull’avviso. 468 Una fionda, invece, è discreta, silenziosa, implacabile, e si può facilmente ricacciare in una tasca. Proverò così, per ora, a cercare di bonificare il mio quartiere. Sto esercitando e fortificando i muscoli delle braccia con due piccoli bilancieri in casa, sogghignando da dietro una tendina semitrasparente alla mia dirimpettaia di piano, di là della strada, che sta muovendo il capo a scatti, a destra e a sinistra, per vedere se passa sotto qualcuno. Sembra una gallina. Eccola che comincia: tump, tump, tump, tump… Ancora qualche giorno, il tempo di essere pronto per la mia missione. Poi mi perfezionerò e renderò giustizia e decoro ai quartieri vicini. Il negozio della fionda, un’armeria molto bene fornita, ha in vetrina delle balestre di precisione che sono davvero molto intriganti, piccole e maneggevoli. E letali. 469 VISTA MARE Sono qui da diverso tempo… su questo muretto sbreccato e calcinato. Ascolto questo vento incessante che offre una artificiosa sensazione di refrigerio di fronte ai cocenti raggi del sole che picchiano e picchiano… Il vento fischia e soffia tra le poche cose che incontra e geme esortazioni di incomprensibile significato. Ho davanti a me una distesa di sabbia rosa deserta che si perde in un mare quasi sempre ribollente di un verdeazzurro strano, quasi innaturale. Continuo a rimanere attonito al rumore della risacca che mi culla e che dialoga col vento. La spiaggia è disseminata di rifiuti che fuoriescono come scogli asciutti da una superficie livellata e appiattita: brandelli di ombrelloni ormai catramosi, pezzi di legno fradicio di vecchie barche, lattine accartocciate di bibite…colori vividi di filtri primordiali alterati e mescolati in nuove regole da daltonico isterico. Qualche raro granchio fruga goffamente tra questi scogli rinsecchiti e ardenti. Ogni tanto piove, nonostante il sole abbacinante. Scende una pioggerellina fine, quasi impalpabile, oleosa: non è violenta, ma è irritante e flagella il mio muro e quello che rimane di vecchie cabine di stabilimento balneare. Oggi soffro il solletico: degli scarafaggi enormi, neri, umidi e lucidi, stanno passeggiando sul muro e mi sfiorano. Sono qui da diverso tempo… in questo muretto sbreccato e calcinato, immobile e fisso con la mia ombra e la mia anima, prigioniero di una eterna fotoimpressione, a contemplare questo residuo di mondo che è maceria, nel ricordo di una immensa orrenda palla di fuoco che esplose sovrastata da un terrificante fungo di vapore, non tanto lontano da qui, e cancellò tutto. Le ombre, anche se non si direbbe, hanno un’anima e una memoria. 6 agosto 1945 470 TERRE MOSSE Esci da lì sotto ti prego moglie apri quella porta adagiata su pietre e travi e dimmi che fare la marmellata di prugne richiede concentrazione o che hai scherzato per farmi comprendere quanto tu sia importante SI SSSSS MA parola sordida che soffoca come fuga di gasssss RRRRR RRRRR RRRRR Carburo e senti come gira il neuromotore anche sotto l’acqua e i tergicristalli non funzionano e vedo annebbiato attendendo Giringira in testa la parola aulico di qualche commento di lettore che ogni tanto mi legge e sorrido perché mi piace solennizzare e faccio la mia porca figura con scrivere anarco lessico e mi fisso con occhi sgranati a vedere macchie mosse rosse di papaveri e arancioni di calendule di campagna o il verde di edera rampicante pensando che il tralcio è anomalostrano che sembra croce squadrata sotto una pioggia fina che inzuppa le idee e stilla su dolori e piaceri imbevendo la spugna pensante confusa e pulsante Sensazione senza azione senza terra sotto i piedi con aria che ti sgambetta nell’orto e voli e sbatti sul nespolo sbilenco e senti rotolare massi e mattoni e franare pietra di losa del tetto appena rifatto con sacrifici e oculatezza e ti tolgono il tappeto di terra di scatto tra crepe ferite e innaturali silenzi d’animali che sentono e sanno e forse pregano Giro di boato che deflagra dentro Fame e vuoto freddo di pane raffermo con briciole per passeri impudenti in eco di spezzò il pane e disse ai suoi discepoli prendete e mangiate questo è il mio corpo dove sei voglio fare colazione vedendo la tua ruga spianarsi all’alba mentre grilli vengono rimpiazzati da cicale e cricricri diventa friifriifrii e non esiste mulino bianco che tenga SI SSSSS MA dove sei donna 471 RRRRR RRRRR RRRRR Ronzerotica la fantasia come un calabrone nel vederti innaffiare melanzane e peperoni mentre estirpo gramigna ginocchioni con le mani e si ride contenti rimirando tendine allegre di soggiorno aperto alla luce che invita serenità e buoni propositi ad entrare in accogliente ricovero di fine vita aulicolimpico e non esiste sindrome di nido vuoto sereno io serena tu nella ricerca di mobili da rigattieri di buon gusto per arredare stanzette d’arte povera calda e squinternata di vissuto deliziosamente polveroso e odore di minestrone fresco d’ortaggi appena colti si mescola con terra bagnata e aria umida di cantina aperta per un pintone di quello buono nero come anime che non riconosciamo più e sgrano gli occhi ancora a diluire contorni e colori immaginando futuro e confondendo passato o viceversa e s’avvicinano petali rossi e arancio enormi argentati che chiamano e l’edera è sempre più geometrica croce e anime sante del purgatorio aiutatemi voi a non perdere il filo in aromi di salumi appena insaccati in lucidi budelli appesi alle travi con ganci iridati in attesa di un capodanno con scoppiettare di ciocchi al camino e neve candida a seppellire cavoli verza per renderli più croccanti e gustosi Respiro inspiraulico Climaterettile canutopubico Per sorrisi tuoi e progetti di trapunte patchwork mentre scrivo racconti per amici o per mia vanità e la figlia mi dice che sono nonno e piango per un capolinea raggiunto di tranquillo sentire crescere l’erba tra ansimare di miei stanchi polmoni e grida sferzanti di piccole pesti che verranno chiamate con nomi in disaccordo con i miei di paterfamilias rincoglioninascoltato e menefreghista che addenta pomodori cuoredibue caldi di sole come frutta strusciata al bordo di camicia jeans che sventola come vela su corpo sempre più ossuto di sana vita bucolicagreste Aulicandaulicagain che non conosco l’inglese ma mi piace darmi un tono cinironico sempre Moglie in soggiorno o dai vicini dove sei per darmi prova della tua bravura in cucina o per attestare amore senilmenopausico stanco e devotemozionale dolce mente 472 come mamma di nuovo che coccola rocheries nenie uterine mentre annaspo tra fiori rossi e arancioni protesi verso di me che aspiro odore di polvere e pietre scheggiate che non mi toccherà mai più edera verde che è croce davvero in nome del padre e di mia figlia salva ho paura Punto fermo per darmi un punto di riferimento e non stancarmi girando in tondo Per poi proseguire anesteticoraggioso Fine pietosa come pioggerella a lavare lavare lavare lavare lavare lavare lavare Sirene e richiami per Ulissolo e i fiori di campo sono casacche fosforescenti e mi salutano amici con mani a stringere tese come famoso per avere vinto un concorso letterario mentre l’acqua scorre con memoria perché non è possibile cancellare ma solo mimetizzare come una frasca con bottiglie di plastica riverberanti che sembra un pupazzo per tenere lontani i corvi che svegliano all’alba d’ogni giorno accidenti a loro mi mancheranno SI SSSSS MAncheranno tante cose senza azioni sensazioni sensssss gasssssilenzio RRRRR RRRRR RRRRR Motore imballato non riesco più a sorpassare Accosto 473 IL TRICICLO DI GUSTAVO “Per me?” La voce trilla divertita. Lui sorride e gongola scorgendo la sorpresa negli occhi della monumentale Isotta, l’assistente sociale che viene dalla città e che sembra uscita da un quadro di Botero. Le porge con solennità, impacciato e fiero di sé, un’originale composizione floreale costituita da un enorme girasole attorniato da papaveri e ancora da violacciocche e margherite di campo. Aleggia nella stanza un odore d’erba tagliata e terra smossa che soffoca il tanfo di chiuso polveroso. La donnona, vigile e bendisposta, si guarda intorno a scrutare anomalie, poi lo fissa, gli sorride, e lo accarezza farfugliando qualche ringraziamento. Il controllo, con questa visita, può definirsi soddisfacente e gradevolmente assolto. L’Isotta di Botero rotolerà paciosa in città con una piccola lacrima di commozione a contaminare di umanità quanto di lei è freddamente professionale. Vive da solo da qualche settimana: da quando è morta una sua vecchia zia. Ha gli occhi di genziana e un sorriso inerme di latte a denti radi. S’aggira, in genere, per le vie del paese senza una meta precisa, grassottello, con i capelli biondi e stopposi, sfrangiati esageratamente alla moda moderna, e sembra una pannocchia che cammina. Da qualche tempo, invece, ed è un comportamento eccezionale, ogni mattina si dirige a passo spedito verso un capanno di legno fradicio fuori dell’abitato e trascorre là buona parte della giornata. Gustavo è lo scemo del villaggio: chi lo incontra lo prende bonariamente in giro, ma in fondo tutti gli vogliono bene, anche se, nel paese, non ci si preoccupa molto della sua vita. 474 Nessuno, quindi, ha notato una nuova espressione del suo sguardo, sognante, ed è passato inosservato anche il mancato solito rispondere con un sorriso ebete a saluti spiritosi più o meno rudi. Tutto cominciò dal funerale di sua zia in un giorno grigio di nuvole. Fu accostato da un’alta donna corpulenta che gli mormorò le condoglianze e gli disse che si sarebbe presa cura di lui, anche se solamente dalla vicina città. Lui ebbe un brivido e non s’accorse che cominciò a piovere. L’Isotta, perché era proprio lei, lo accompagnò sotto un porticato al riparo dagli scrosci violenti del temporale. Gustavo si perse nel tepore di una mano morbida e grassoccia che stringeva delicatamente la sua e da allora mise le briglie al suo cervellino per un nuovo galoppare sfrenato. Semplicemente s’innamorò. Il temporale, un pianto delle nuvole per la vecchia zia defunta, fu brevissimo e un arcobaleno molto nitido si proiettò nel cielo. Sembrava che partisse da dietro la stalla del Sindaco. Disegnava una curva ampia e netta, nell’azzurro scuro intenso del cielo dall’aria pulita, e dava l’illusione di andare a morire tra le prime case della città in fondo all’orizzonte al margine delle colline. Isotta notò il felice stupore di Gustavo che già aveva dimenticato la zia ed il temporale. Gli indicò l’arcobaleno e gettò un ponte per auspicare un legame. “Quella è la strada che porta a casa mia, Gustavo. Se avessi bisogno di me, dovrai seguirla per rintracciarmi, ma sicuramente sarò io che verrò a trovarti molto spesso per sapere se avrai bisogno di qualcosa”. Il cervellino puledro, trattenuto dalle briglie, subì la voce di Isotta come una musica e quel sorriso placido e tenero sul quel faccione venne associato ad uno zuccherino da ottenere con un buon comportamento. 475 Qualche rotellina d’ingranaggio neuronale si mise in moto sferragliando e Gustavo si concentrò sull’arcobaleno e poi sulla sua nuova amica. Il suo amore. Da allora lo si può sentire armeggiare dentro la capanna fuori il paese, tanto indaffarato da non rispondere a grida di saluto. Esce sovente come un razzo alla ricerca di qualche cosa che probabilmente occorre al suo trafficare. Gustavo, in effetti, sta rimettendo a posto un vecchio triciclo d’inizio secolo, un velocipede storto e arrugginito dalla ruota anteriore immensa e dalle ruote posteriori minuscole, che giaceva lì da tempo immemorabile in mezzo ad altri rottami. Scartavetra e lucida pezzi di ferro, cerca viti e bulloni mancanti e assembla faticosamente il tutto nella speranza che il triciclo possa essere ancora funzionale. Mentre lavora, sfregando, spennellando, oliando e avvitando, fischietta qualche filastrocca senza senso e sogna il suo viaggio alla volta della Isotta. La immagina in un castello, davanti ad un caminetto scoppiettante, che sferruzza una lunga calzamaglia di lana di svariati colori per lui che ha freddo nella sua stanzetta senza riscaldamento. Fantastica a proposito del suo viaggio sull’arcobaleno, con il cigolante triciclo, tra residui di ovatta delle nuvole rosate al tramonto, vestito per bene, con un cappello, con un nuovo mazzo di fiori di campo. Guarda in basso e vede conigli selvatici che lo salutano agitando con le zampe i fazzoletti, ed il prete della chiesa gli grida ‘buon viaggio’ con il linguaggio delle campane, e i suoi concittadini rimangono a naso in su con la bocca aperta a guardarlo pedalare in equilibrio tra l’arancione e il rosso attraverso il cielo. La ruota grande sforza molto sotto il suo peso e sembra ovalizzarsi ed i raggi flettono abbarbagliando alla luce del crepuscolo dorato che avanza. 476 Le piccole ruote dietro il trabiccolo arrancano cigolando con uno stridore che ad un innamorato può solamente sembrare uno struggente canto di passione. Intanto si fa sera, e Gustavo ritorna alla realtà ed alla sua stanzetta per una semplice cena ed un sonno pesante di fantasiose immagini con lui e la sua innamorata che lo prende per mano. Il giorno giusto finalmente è arrivato. Isotta non viene in paese da molto tempo, affaccendata in città, ma Gustavo non è preoccupato. Il suo triciclo è stato messo a punto ed i pedali sono elastici alla pressione dei piedi. Oggi è giornata grigia che promette temporale. Gustavo è dietro la stalla del Sindaco del paese ed aspetta sotto il porticato pieno di legna per l’inverno, radunata a cataste in ceppi tutti uguali. Sfrigola il terreno polveroso sotto i primi goccioloni, e da lontano alcune saette sghimbesce frantumano il cielo preannunciando il rombare del tuono. Gustavo è vestito come per la festa ed ha in testa un cappello floscio che lo rende assomigliante ad un fattore. Sbocconcella pane e formaggio sorridendo alle nuvole di piombo. Dietro il sellino, posto sopra la ruota grande del suo vecchio triciclo, ha legato un mazzo di fiori secchi, i topini spinosi, confusi tra gli ultimi ranuncoli della stagione e le prime frasche tenere di un pungitopo senza ancora una bacca. Farà una splendida figura con Isotta. E lei lo prenderà per mano e lo farà sedere vicino al caminetto del suo castello e gli offrirà dei biscotti, con lo strutto e il burro, che ha fatto con le sue mani paffutelle. Poi lo carezzerà per la piacevole sorpresa e lo bacerà sulla fronte facendolo diventare rosso di confusione. Allora lui sorriderà, di latte, e i suoi occhi di genziana diventeranno gemme di lapislazzuli lucenti nella penombra della sera al fuoco del camino. Ecco: ora il temporale è al culmine. Tuoni e lampi squarciano l’aria. 477 Un fulmine, solleticato da tutta quella legna appetitosa, decide di assaggiarla senza curarsi d’altro, come un bambino ingordo e solo davanti ad una tavoletta di cioccolata. I fulmini non chiedono permesso perché non sono educati. Passano e basta. Questo passa attraverso Gustavo e gli travolge il triciclo, prima di mordere la catasta di legna sotto il porticato della stalla del Sindaco. E Gustavo muore contento. Prima di chiudere gli occhi per sempre, strinato nei capelli da pannocchia, vede in un attimo il suo triciclo diventare d’oro lucente fiammeggiante e pensa che potrà apparire come un principe magnifico davanti alla sua innamorata Isotta che lo aspetta trepidante di là dell’arcobaleno. 478 LE SCARPE CI PARLANO Vado a braccetto con qualche mania: prendo due capsule ogni mattina dopo colazione e una pasticca ogni sera dopo cena. Ogni tanto vado a fare il tagliando al CIM, il Centro Igiene Mentale, perché è notorio che una buona manutenzione conserva meglio ingranaggi e meccanismi. Dici che sono pazzerello? No, aspetta che ti racconto... Screek, screek, screek… E’ inequivocabile: sono brillanti scarpe di cuoio seminuove. Si esaltano su palchetti sconocchiati o su marmi lucidi. Se hanno il ferretto a mezzaluna alla punta per preservare l’usura della tomaia, ci si potrebbe giocare anche a fare Fred Astaire che balla il tip tap dentro il duomo, ma senza ricevere gli applausi del sacrestano. Il sonoro di un passo di scarpa, per me, è la rivelazione di chi la calza: io intendo il linguaggio delle scarpe e le posso ascoltare come se discorressero con me. Mi capita, dunque, di ascoltare scalpiccii lievi come mocassini cinesi, quasi dei sospiri e, a volte, andature di passi davvero grevi, come una peperonata fredda di sera. Spotok, spotok, spotok… Gli stivali di cuoio, i cosiddetti anfibi, slacciati e strascicati sull’acciottolato della piazza, danno un’idea di sciatteria e di scarsa considerazione della forma. Mi giro, infatti, e squadro un pantalone con cavallo rotuleo da rapper: sono o non sono ipersensibile? Dai, che ti racconto e smetto di divagare. Vado dunque al CIM per il controllo. Per strada subisco le mie solite fenomenologie mistiche. Spikk, spikk, spikk…, veloce come il becchettare di un passero grassoccio smerdapali, e inquadro un alto mammifero biondo, inguainato in una maglietta attillata, che fa le prove d’assunzione per il circo come equilibrista su tacchi a spillo di venti centimetri. 479 Spettacolare, Cristiandior! Ammicco alla manza, che mi rumina di andare a cagare, e continuo a sorridere senza prendermela perché penso al dolore preternaturale dell’alluce piegato a novanta gradi dentro quelle punte temperate come matite. Finalmente il CIM. Sembra un ufficio ministeriale del ventennio, pieno di finestre enormi che sembrano occhi che ti guardano le scarpe. Scioff, scioff, scioff… Sono le mie scamosciate morbide che, quando cammino, fanno un rumore soffice, come una pacca furtiva e disinvolta sul sedere di una donna di servizio, in un tram affollato. Entro, saluto e sorrido con aria felice: conviene. Bisogna sempre sorridere al CIM: è autopromozionale. Se sorrido vuol dire che sto bene e, se è così, invito il prof. a non farsi strane idee. L’usciere nell’atrio ha delle scarpacce consumate che viscidano sul marmo dell’atrio: swiscH, swiscK, swiscH, swicK. E’ affetto, come avrai subito notato, da una leggera zoppia: quasi tutti gli uscieri hanno una leggera zoppia o una vertebra deragliata, per la guerra o perché hanno salvato un ragazzino da sotto un treno o si sono infortunati da qualche parte sul lavoro. Prendono, in genere, un encomio e un posto da usciere. Transitano prof. assorti che succhiano le loro riflessioni come cannelli di liquirizia. Sbrit, sbrit, sbrit: sono riflessioni di scarpe di marca …sguissshhhh… La donna delle pulizie non ha asciugato bene laggiù e si sente nell’aria un ‘porca puttana’ sommesso di un prof. distinto che scivola; poi prosegue, soprappensiero, in sincrono con il suo sbrit, sbrit, sbrit… Vado al primo piano con un ascensore gommato: ogni rumore di suola è soffocato in un anonimo sgumf, sgumf. Ding. Mi si apre davanti un corridoio lunghissimo come una quaresima, lucido e scintillante di marmi bianchi, tutte finestre, che sembra una voliera per tucani, senza alberi: 480 un viale coperto, appena cimiteriale, di una luce obliqua che fa strizzare gli occhi. Scioff, scioff, scioff: sempre le mie scamosciate. Scorgo, in fondo alla via lattea, lontano, su una panca addossata ad una parete bianca, un confetto rosa che sbrilluccica con curiosità da un qualcosa che sembra una testa. Nel mentre che mi avvicino, il confetto si tramuta in una budinosa donna anziana avvolta da una vestaglia, di quelle leggerissime e imbottite a quadroni, rosa. Mi scorge anche lei e si alza dalla panca come ispirata. Ha una testa scolpita da una galleria del vento, rossa Ferrari, con qualche bigodino, e uno sguardo tra il furbetto e l’assassino. Ghigna con una bocca storta che piange qualche dente prematuramente mancante. M’inquieto: siamo i soli in tutta l’autostrada coperta. Noto distintamente un fastidioso sgneek, sgneek, sgneek. E’ un rumore che frigge il cervello: sono le sue pantofole, in tinta con la vestaglia, morbide di stoffa sopra e dalla suola semirigida di gomma sotto, con un ammasso di peli colorati sul dorso del piede civettuolo, da Piggy dei Muppets. La donna mi punta decisa con quello sgneek, sgneek, sgneek irritante e io m’impressiono. A Teano, metà del corridoio, le mie scarpe e le sue ciabatte ammutoliscono. La sbircio, laida, che mima il fumare una sigaretta, con una scatola di fiammiferi agitata come maracas, con le pantofole eccitate che strusciano il pavimento con uno sgneek lungo e snervante di libidine repressa. Percepisco un fiato da fogna di Calcutta, a cielo aperto, e cerco di evitarla: e poi non fumo, Cristoforocolombo! Mi sposto di lato e quelle ciabatte oscene sgneekkano, anche loro, dalla mia parte, mentre la lolita vezzosa di settanta anni insiste, guardandomi come una triglia, ad agitare sotto il viso la scatolina dei fiammiferi. Allungo il passo intravedendo in fondo un altro ascensore, e le mie scamosciate provano a seminare quelle 481 ciabatte invadenti che assordano per tutto il corridoio deserto. Sciof, sciof, sciof, ad andatura da Ridolini, seguito da sgneek, sgneek, sgneek delle ciabatte mastini. Sembra un poliziesco: sono inseguito da un’arpia rotonda che trabocca d’energia fisica e graffia l’intero esteso pavimento lucido con quelle pantofolacce pelose che continuano a mordere a vuoto con il loro sgneek, sgneek, sgneek che è sottile e perfido, maligno, nasale, e gli allucioni della vecchia fanno capolino dalle aperture davanti che sembrano bocche ghignanti di streghe. Sono preso dal panico, Cristinadavena! Capirai… Avessi avuto ai piedi scarpe chiodate da trecking alpino, gliela avrei fatta vedere: statakk, statakk, e vai a casa brutta rospa, ma le scamosciate sono scarpe pacifiste e miti. Sciof, sciof, sciof: senti che adorabile timidezza… Allungo quindi il passo a costo di inciampare da solo, sempre inseguito dall’aspirante fumatrice rosasgneekkante. Ad un tratto ho la folgorazione sulla via di Damasco, se via di Damasco può chiamarsi quel corridoio interminabile con ottomila finestre, una attaccata all’altra. Realizzo che io sono sano, Cristianodandrè, alla faccia del CIM! Sai che faccio, allora? Mi volto e la vaffanculeggio sobriamente senza alterarmi o urlare: lei e le sue dannate pantofole pelose come mostri alieni che danno l’idea di essere anche ninfomani. La pianto nel deserto prendendo velocemente la via dell’ascensore per uscire dall’incubo. Sento dietro di me un ultimo sgneek, sgneek, sgneek disperato di rincorsa, ma la semino nell’eco dell’ennesimo agitare caraibico delle maracas di fiammiferi. Esco all’aria aperta, fuori di quella gabbia di matti. Mormorano felici, le mie scamosciate, rumoreggiando di sollievo: scioff, scioff, scioff… …Squeekkkkk. Cristallodiboemia! Lo sapevo che la giornata non finiva qui: pesto una polenta scquacquera fuori paiolo, d’alano da sella. 482 Sono troppo contento: mi gratifico con un chissenefrega. Ritorno a casa convinto che i matti siano altri ed ascolto la protesta ed i discorsi delle mie scarpe: scioff, squeek, scioff, scioff, squiiiiiscchhh, (sull’erba), scioff, scioff, squeek… Dai, dimmi se è vero: non sono pazzerello. Almeno credo... 483 GIOCARE A NASCONDINO Respirava una solarità sfolgorante come se fosse raffigurato in quelle immagini fantastiche e giocose di certe teofanie indiane con gli elefanti celestini e divinità sorridenti con tante braccia tra fiori e ghirlande e lucine. Si trovava in un mondo di questo genere, carezzato da erba finissima, alta, verde brillante, tra papaveri sanguigni radunati, come scolaresche, da staccionate, maestre inflessibili. Giocava a nascondino strizzando gli occhi all’azzurro acceso del cielo, e si spostava felice e frenetico da un punto all’altro del campo immenso, facendo frusciare il prato sulle gambe scoperte. Nessun nascondiglio lo soddisfaceva e cambiava posto in continuazione. Ora era dietro una vecchia quercia; poi era accucciato a ridosso di un muretto di pietre a secco, poi ancora dietro un capanno per gli attrezzi vicino ad una casa colonica bianca di calce fresca. Rideva divertito e sottovoce per non fornire indicazioni sulla sua posizione alla meravigliosa signora bionda che lo cercava chiamandolo con voce soave. Era, costei, una donna alta e attraente, vestita d’oro, signorile di modi e portamento. S’aggirava tra il campo e il cortile davanti alla villa con grazia, serena e paziente, senza scompostezze. Il tempo, tuttavia, cominciò a guastarsi e nuvoloni plumbei si gonfiarono nel cielo coprendo il sole. L’aria stessa ingrigì con tutto il resto, ed il campo sembrò vizzo con i fiori quasi appassiti, e la quercia apparve spoglia e la casa livida e sinistra. La stessa signora meravigliosa di prima sembrava che avesse mutato espressione, ora più seria e vagamente preoccupata, sempre disponibile a giocare e paziente, ma con uno sguardo apprensivo verso tutto l’intorno. Continuava a chiamarlo, ma con voce più pressante. 484 Lui cercava sempre un posticino sicuro per nascondersi, ma aveva smarrito il sorriso sereno e spensierato di prima. Vedeva da lontano la signora che adesso avanzava appena ingobbita e meno eterea che non prima al sole. Si nascose nel capanno degli attrezzi, mentre il cielo diventava quasi nero per un prossimo temporale. Mancava l’aria lì dentro, e un tanfo di chiuso e di polvere spessa di tempo immemorabile davano un’idea di soffocamento. Si vide più grande, più cresciuto, adulto, con i pantaloni lunghi impolverati, seduto contro una trave maestra, al centro del ripostiglio nel buio, stretto alle ginocchia, ad occhi chiusi e con le mani a tappare le orecchie per non vedere e non sentire, con l’illusione infantile di passare così inosservato, stringendo le mascelle e i denti con forza e respirando piano. Si fece piccolo piccolo e stette in attesa. Sentì bussare alla spalla e si girò di scatto. Una figura imponente avvolta in un sudario nero, con un volto sfumato nel nulla che ricordava appena la signora sorridente di prima, lo fissava con un luccicare pallido di sguardo indecifrabile. Rabbrividì senza forze. L’irriconoscibile signora gli mormorò all’orecchio, con voce graffiante, tra il divertito e l’ineluttabile: “Tana!” Si sentì ghermito e sollevato da terra con la facilità propria di una forza immensa… Non si svegliò più. La vecchia moglie rimase basita davanti al suo uomo, con le mani occupate dal piatto della tazzina del caffè per un buongiorno tranquillo d’affetto. Non urlò, non si disperò: era molto anziano, suo marito, e lei si aspettava alla fine un momento del genere. Poggiò l’inutile vassoio sul comodino e depose un ultimo bacio sulla fronte del vecchio amore. Poi cominciò ad udire una voce dentro di sé. Incessante. 485 Non seppe spiegarsi il perché di una frase che cominciò a perseguitarla anche mentre telefonava al pronto soccorso e poi ai figli. La filastrocca in ripetizione ossessiva e canzonatoria non aveva senso e si confondeva fastidiosamente con il segnale del telefono: “Tana libera tutti, tana libera tutti, tana libera tutti, tana libera tutti…” 486 ODIO CHI LEGGE E PUBBLICA Può essere malevola l’espressione di un puntaspilli? Dico di sì, se è un topo di fogna con due occhietti neri, preso per la coda e squadrato con un sorriso maligno. Lo tiene appunto per la lunga coda, sospeso a testa in giù, con due dita, e lo esamina sogghignando. Il ratto ha il pelo folto aggricciato dall’umidità e si contorce per divincolarsi dalla presa. E’ lanciato dentro un profondo vascone dalle pareti lisce, in compagnia d’altri topi. Io ti odio. Dico proprio a te che stai leggendo, a te che hai gli occhialini da presbite calati sul naso e ti lisci i baffi, a te che stai sdraiata a pancia in giù sul letto con il libro sul pavimento, a te che leggi, mentre ascolti la musica e prendi il caffè pensando anche ad altro. Ti sorveglio da diverso tempo, appostato sotto casa tua: ti spio, ti pedino, ti attendo. E ti odio. Alla luce fredda e debole del neon azzurrino scorge le sagome delle gabbiette disseminate dappertutto sul pavimento bagnato del condotto fognario. Sono quasi tutte piene e sembrano animate di vita propria. In realtà contengono topi delle più svariate dimensioni: giovani ratti smilzi e autorevoli pantegane lardose. Il tunnel semibuio, stillante umidità, è saturo di squittii assordanti che sono amplificati dalle volte stratificate di muffa in un’eco da brividi. Raccoglie le gabbiette con i turbolenti prigionieri catturati e le ficca, una dopo l’altra, in un grosso sacco. Piazza altre trappole vuote, tutte con un’esca, un pezzetto d’aringa o di formaggio, e si avvia verso casa calcolando mentalmente il livello della popolazione roditoria della profonda vasca in cantina. 487 Sei un lettore superficiale, distratto, spesso supponente, e frustri lavoro e speranze su miei ragionevoli progetti di fama. Scrivere mi costa sangue, dispendio d’energie in elaborazioni faticose di fantasia, in ricerca d’originalità, in costruzioni intriganti per catturare da subito i pigri come te, che non hanno poi tanta voglia di pensare. Non esiste lo scrittore che scrive per sé stesso: se così fosse non pubblicherebbe, non avrebbe voglia di condividere, terrebbe un diario inaccessibile a chiunque. Io lo riconosco: scrivo per condividere e per avere gloria e successo e sentirmi dire che ho scritto un bel testo. Tu, però, leggi con leggerezza, per semplice curiosità, e raramente mi dai le soddisfazioni che credo di meritare. Sessanta watt di una polverosa lampada ad incandescenza non possono illuminare un ambiente come chiunque ragionevolmente vorrebbe, a maggior ragione una cantina ampia piena di bottiglie vuote e ciarpame con, al centro, una vasca molto capiente e profonda dalle pareti lisce a prova d’arrampicata, piena per un terzo di uno strato di topi isterici e anche affamati. Lui lo sa che sono affamati: qualche esemplare dei più deboli è stato divorato dai suoi simili. Adesso è ora di pranzo. Getta nella vasca pezzi di carne e croste di formaggio. La marea pelosa bruna in fondo freme e si dibatte in tuffi e zampate frenetiche, ed alcuni morsi sbagliano obiettivo e feriscono un compagno di prigionia. Il vascone è bruno, peloso ed arrossato di sangue vivo. Non sei solamente tu la fonte dei miei dispiaceri: in fondo tu leggi solamente, spesso non consapevole del tuo ruolo. Io odio anche gli editori, forse più di tutti. Esigono il matematico successo letterario. Sono ignavi e restii a rischiare qualcosa di loro, e cercano di darti sempre una fregatura; e poi pretendono tanto, tutto, in breve tempo, a poco, meglio se a nessun 488 prezzo, perché hanno doveri e responsabilità verso chi legge…dicono…furbi e bottegai… Ne ho conosciuti tanti, esili e magrissimi con l’occhialino da intellettuale, tronfi ed epicurei con la trippa del godereccio, alternativi, trasgressivi, commerciali, grandi cavallerizzi per puledri e brocchi da rischiare fortunosamente in un gran premio. Ti guardano con benevola attenzione che è sufficienza e scandiscono un loro ritmo con una penna sulla scrivania, o con il cucchiaino sul piattino della tazza di caffè al bar. Hanno un loro metronomo intimo, e te lo dicono anche: “Non è tempo, …ho i miei tempi, …deve aspettare il suo tempo, …non ho più tempo, …è tempo d’altri generi letterari”. La sostanza è, ti fanno capire, che sei sempre fuori sincrono, nel momento sbagliato. Poi, se si riesce a spiccare un volo appena da quaglia al momento giusto, ci s’imbatte in quelli come te, lettori distratti e impallinatori, che fulminano senza appello dopo un assaggio di venti pagine annullando tentativi di una vita. Dio, come vi odio tutti. E’ facile accalappiare il boss: un invito al bar. Storce il sorriso e leva gli occhi al cielo, ma un aperitivo gratis, anche solo per dimostrare carisma, non si può mai rifiutare. E’ subito nero, invece, a tradimento, nel parcheggio buio, in uno scivolare frusciante a terra di pubblicazioni e fascicoli sotto il braccio, con la testa pesante. Non è piacevole il riaprire gli occhi nella situazione di un culatello, legato, completamente nudo, sull’orlo di un vascone brulicante di topi che appaiono voraci come alligatori. La vecchia lampadina è indirizzata sulla vasca e quindi non riesce a vedere chi parla, anche se ricorda con apprensione l’antefatto del bar. “Eccomi, qui, caro editore, ad una resa dei conti per quanto mi hai fatto soffrire finora… 489 Ti restituirò la pariglia definitivamente: non amo le mezze misure, come Dostoevskij, da te citato sempre e spesso a sproposito. Non preoccuparti più dello scrittore: cambierò attività cercando soddisfazione in altro… Musica, collezionismo, attività fisica o contemplativa… Addio, carissimo…” L’editore vede fuoriuscire due braccia dal buio e si sente spingere. E’ un’agonia particolarmente dolorosa e crudele, ma è anche misericordiosamente breve: i topi sono a digiuno da tre giorni. Mi sento tanto “giustiziere della notte” in questi giorni. E’ curioso come determinati atti, inizialmente ributtanti, compiuti una prima volta, possano alimentarsi del desiderio quasi ossessivo della ripetizione, in una sorta di ritualità purificatrice che rende leggeri e sereni. Il boss è stato il mio primo atto di giustizia. Ora tocca a te. Poi a te. Ed ancora a te. Ti ho veduto ieri, casualmente, sul tram, con un mio tascabile. Leggevi senza immedesimazione: guardavi fuori del finestrino, squadravi gli altri viaggiatori, poi spizzicavi una pagina con inappetenza e occhio smorto, senza entusiasmo e scintille di curiosità attenta. Quella pagina, tuttavia, mi è costata salute, capelli bianchi, ipertensione, coliche di fegato… Tu non lo potrai mai capire. Ma io so dove abiti, adesso, perché ti ho pedinato. Ci rivedremo uno di questi giorni: quando i miei topi saranno ancora nervosi e affamati… 490 NUMERI TRAVOLGENTI Zero: come l’anno o il primo numero di una rivista letteraria. Un inizio. Sei finalmente una sacerdotessa nel tempio dei numeri ed hai un lavoro dopo diciotto anni di studi. Sei in banca. Hai sempre avuto, tuttavia, un’indole umanista: preferisci la poesia e l’arte alle danze sincopate di percentuali e di calcoli d’interessi, ma il destino e tuo padre hanno voluto così, e ora sei appollaiata dietro uno sportello di cassa, a disagio, senza troppo entusiasmo, con lo sguardo da porco, incollato sul seno, del tuo capo che ti sorveglia, e con la prospettiva di un ritorno a casetta per spendere il tempo libero in discussioni conflittuali con papà ragioniere aridamente pragmatico. Tiritera: hai un lavoro e sei indipendente. La poesia e l’arte non offrono il benessere. Guinizelli ti tira per la giacchetta per non farti litigare. Progressione aritmetica. Uno. Come un anno d’anzianità: dodici mesi, trecentosessantacinque giorni, minuti come interminabili giaculatorie infinite, divise tra versi sciolti d’amore e conteggi di banconote. Qualcosa non va. E’ difficile conciliare una brillante mostra itinerante sugli impressionisti o la presentazione di un libro con mutui al quindici virgola settantacinque per cento, con cambi di dollari in yen, con la gestione di fondi d’investimento che rendono il due virgola quarantacinque e lustrano gli occhi del macellaio sotto casa tua. Lo sportello si è ristretto giorno dopo giorno ed è diventato un piccolo acquario da territoriale pesce siamese dentro il quale ogni cliente butta uno sguardo diffidente e le sue bricioline di mangime. 491 Di là dell’acquario c’è il porcile con il tuo capo grufolante che calcola trigonometrie di pensieri bavosi. La retrospettiva su Gaugin è passata in città per troppo poco tempo e Pablo Neruda richiede una devozione che ora è abitualmente smarrita dietro blocchetti d’assegni e fluttuazioni d’indici di Borsa. Tuo padre minimizza e non comprende: non sa neanche chi è Auden… La verità, vi prego, sull’amore… Due. Argomenti validi per disciplinare pulsazioni che rasentano l’isteria. La prima è il porco, che grufola sempre più vicino asfissiandoti con il suo dopobarba e le mentine. La seconda è che hai perduto una conferenza sui futuristi e una tavola rotonda sui poeti francesi maledetti: Rimbaud e Verlaine si sono risentiti della tua assenza dolorosa per persistenti emicranie che hanno, da qualche tempo, un qualcosa di mistico. Ti senti sempre più martire di una causa a mezza strada tra nobile e perduta, pallida come santa Agnese, incalzata da numeri che deflorano abitualmente parole d’amore di sempre. Non esistono quasi più clienti simpatici: la fanno da padroni i maleducati che bussano sul vetro dell’acquario sempre più claustrofobico e, lo sanno tutti, non si dovrebbe bussare al vetro per non innervosire la bestiola in cattività... Tre. Di notte. L’ora buona per fuggire. Da tutto. Non è importante vincere, ma partecipare, o forse è il contrario, chissà, - bisognerebbe intervistare Marinetti - e possono bastare, in una frenesia irragionevole, diecimila euro per cambiare aria all’insegna dell’immaginazione di nuovo al potere. Tuo padre dorme sognando affitti da centottanta euro per un posto macchina, il massimo del suo onirismo, ed il porco, col dopobarba prepotente e la mentina afgana, insemina il sonno in prestazioni da circo, dopo una visione solitaria di una cassetta piccante, magari proprio con santa Agnese dei bancari. 492 Via, via… Anche se partire è un po’ morire, ma lo dicono i menagramo… Quattro. Chilometri più in là, sulla tangenziale che porta all’autostrada. Alle quattro e mezza del mattino, accarezzata da una nebbiolina gelida e impertinente che s’infila nella scollatura. Non ti vengono i crampi al pollice: passa poca gente a quest’ora. La solitudine è una sensazione per persone insensibili o ipersensibili, senza vie di mezzo. Tu sei ipersensibile, in compagnia di Clark Gable di “Accadde una notte” e scherzi con Kerouac e Ferlinghetti che, seduti sul garde-rail, ti spernacchiano affettuosamente in slang. Bello il nuotare libera nel Rio Negro… Cinque. Le auto passate alle cinque del mattino. Poi il Tir. Sembra un presepio postmoderno: invece degli angioletti, nella cabina, si può intravedere un catalogo di poppute sirene abbronzate, certamente non asessuate. Nulla a che vedere con le sirene d’Omero o le femminilità di Saffo: sono soltanto dugonghi metropolitani infiammabili. L’autista è bravo, appena insonnolito, gentile. Partire è un po’ morire. Sembra il refrain di un disco rotto… Progressione Geometrica. Stivali delle sette leghe. Progressione esponenziale. Un due tre, toccherebbe proprio a te… Cinquantacinque. Ancora chilometri: quelli percorsi con il Tir. L’autista è taciturno e attento alla strada: ti sbircia di rado. Pensa. 493 Fuma e ascolta la radio a basso volume. La cabina è tiepida e da lassù ci si sente castellana di una torre d’avorio, prigioniera e signora insieme, sopra bonifici, versamenti e prelievi, acquari e porci mentolati. Sterza il Tir, verso una piazzola, e le lucine da processione di santo patrono lampeggiano intermittenti pur senza cori devoti. L’autista ha uno sguardo diverso, ora, nello slargo deserto dell’alba: ride sfacciato ed è diventato disinvolto ed esageratamente cameratesco. Fa domande e fuma a boccate più ravvicinate e nervose. Sei a disagio e forse adesso i numeri ti fanno meno paura. Prevert ha proseguito in taxi senza fermarsi. Tagore forse ti aspetta all’autogrill. L’autista alza il volume della radio a soffocare la poesia… Millenovecentosettantasette – Duemilaquattro. La tua lapide con una bella fotografia di prima del lavoro. Avevi uno sguardo luminoso, pieno di Van Gogh solari, e ridevi di Palazzeschi che ti faceva le smorfie dietro la macchina fotografica. Tuo padre non comprendeva cosa c’era da ridere, mentre si era senza lavoro. Tu non capivi tuo padre e come potesse vivere senza poesia e arte. I numeri lavoravano sul tuo destino fin da ragazza. Quarantaquattro gatti in fila per tre col resto di due… Ambarabà ciccì coccò, tre galline sul comò… 494 CONIGLI, ORCHE E BARRACUDA Spiove una luce rancida sul volto rugoso dell’uomo dallo sguardo querulo. Una voce, carezzevole come un guanto che copre un tirapugni, interroga emergendo da un odore penetrante di muffa. “Chi ti manda?” “Il Mozzo. Ho dovuto chiedere parecchio in giro: sei difficile da trovare, Barracuda, ma io sono alla canna del gas e mi sono dato da fare…” “Spiega senza barare, vecchio, anzi, presentati e racconta tutto dall’inizio…” “Bene. Intanto non sono vecchio, ma solamente malandato, e da qualche giorno anche solo. Ho commesso alcuni errori e ho bisogno di tranquillità per riordinare le idee: tranquillità economica, non so se mi capisci, ma non ho che me stesso da offrire, o meglio, qualcosa di me stesso da offrire… Chessò… un occhio, un rene… Io metto il… materiale… e tu metti le conoscenze… Io mi rimpannuccio per qualche tempo e siamo tutti contenti.” S’impasta un silenzio grave con la luce fredda. Barracuda riflette mentre studia dalla penombra il viso del nuovo cliente. Eppure sembra un vecchio: ha uno sguardo rosso, liquido di etanolo e lacrime, da coniglio peccatore che potrebbe diventare mannaro, e ha rughe che sono crepacci di pensieri corrosivi come acido su carne viva. Tutto si può fare, per Barracuda. Conosce un medico fidato e sta calcolando già spese, costi e ricavi. E’ indispensabile conoscere anche tariffari d’organi per mantenere la posizione che conferisce l’autorità. E qualsiasi occasione può essere un affare. “Quanto ti serve?” “Quanto più riesco a spuntare, Barracuda.” 495 “Si può fare. Per ora sparisci e attendi mie notizie al magazzino, mio ospite. Vai dall’Orca, l’avvertirò io: ti darà un letto per dormire e qualcosa da mangiare. Forse ti darà anche qualcosa d’altro. Mi farò vivo appena sarò in grado di concretizzare tutto.” “Grazie Barracuda: che Dio te ne dia merito.” “Lascia stare Dio e ringrazia la tua stereofonia: se tu avessi un rene e un occhio solo Dio non esisterebbe…” Non tutte le orche sono assassine: una è materna, o femminile, o fuori percorso evoluzionistico. E’ burrosa e le donne burrose normalmente hanno un cuore d’oro. Si sta agitando calda e sudata sopra un uomo scavato con gli occhi rossi, per un senso d’appagamento che attecchisce anche nel sentimento della pietà. L’uomo ansima ed ha l’impressione d’essere meno solo. L’Orca gli sorride scarmigliata galleggiando in un odore di zenzero e carne speziata, ballonzolando i seni a borraccia per distrarre e confondere. Lei sa perché ha imparato da molto tempo: si nasce soli e si muore soli… Sempre. Chi non conosce questa verità, quando l’apprende in modo inatteso, soffre come una bestia. Chi invece la conosce, se è di buona indole, cerca di preparare la strada ai conigli mannari e cerca di dimenticarla per qualche tempo strofinandosi come uno zolfanello su qualche altro corpo per accendersi di calore umano. Si mormora estatici di Dio, sul pagliericcio, sconvolti da spasmi quasi dolorosi. Sembra un appello per una nuova interrogazione, ma forse qualcuno ha bigiato per andare al parco. “Ti sta bene?” 496 La voce è sempre carezzevole, ora avvolta da un cespuglio d’ortiche, e spiove dall’alto come la luce abbagliante d’una improvvisata sala operatoria. “Sì, certo, Barracuda. Ti ringrazio di tutto quello che stai facendo per me. Potrai contare su di me per qualsiasi cosa in futuro: non dimentico chi mi è stato amico…” Barracuda è solamente una voce che fuoriesce dall’ombra e da un rumore di ferri chirurgici smossi con un tintinnio inquietante. Annuisce e muove un cenno col capo verso l’Orca e il dottorino. La donna si china verso il coniglio fiducioso e gli sorride soffiandogli un bacio e pungendogli una vena con un ago. Il dottore attende il suo momento d’effimera gloria e controlla una vivace borsa termica. La voce del paziente si sgonfia in impasto di ringraziamenti e speranze, fioca e stanca. “Grazie ancora, Barracuda, e grazie anche a te, Orca, per quanto hai fatto. Dottore non mi faccia soffrire, la prego…” I pensieri si dissolvono nel nero e nel silenzio in una pace senza tempo e spazio, da siringa. “E’ così che funziona il mondo, Orca, lo sai…” La donna china il capo, pensierosa senza reazione. Non può dire altro, forse non vuole dire altro: non c’è nulla da dire, molto più probabilmente. Chi ha voglia di piangere un coniglio solitario che, spinto alla disperazione, potrebbe mordere come una iena? Barracuda è carismatico perché sa molto degli uomini e perché sa fare i suoi affari. L’Orca burrosa volge un ultimo sguardo al paziente ed esce dalla stanza. Forse non si muore sempre da soli: basta un pensiero anche se non comunicato direttamente… Vai a dirlo al coniglio sotto i ferri… La voce di Barracuda è uno spiffero d’aria e l’accompagna fuori come un penetrante odore di 497 minestrone di domande, stordente, soffocante per la troppa cipolla o appiccicoso per il troppo vapore. “Tutto, dottore, e poi provvedi a farlo sparire. Tanto…” 498 EUTANASIA DI LAIDA CREATURA Cala rapida e violenta un’immaginaria spranga su quel cespuglio grigio, come un’affilata katana medievale, a dividere di netto il bene dal male… Si è materializzata dal nulla nel parco cintato, repellente. Si potrebbe chiamare Ida, la Ida, laida. Si presenta come un elfo saltellante, con una giacca di panno del colore acceso tra il giallo uovo e la senape cremosa di un chiosco di hot dog. E’ piccola, ossuta e piallata, con il seno licenziato, e i jeans sono sempre e comunque troppo grandi, increspati con una corda al bacino posteriormente scarenato. Ha una testa che è un groviglio di mangrovie stritolate in un frantoio, grigia e unta, uno stampo di ragnatela fusa sul viso scavato, di rughe, una bocca storta con denti guasti aperta oscenamente a parlare e parlare e parlare con lingua saettante da mamba ninfomane. Si muove come una marionetta, a scatti, stringendo un sacchetto di supermercato pieno di biancheria cimiciosa e una borsa consunta. Emana un odore di stantio, di disidradati biscotti della salute quasi ammuffiti. I capelli altamente infiammabili nobiliterebbero una fine gloriosa da bonzo, anche se i bonzi non hanno capelli. Flashspot: Rage Against the Machine. Urla selvagge liberatorie di vittime e carnefici. Evoca il concetto di Legione, di posseduta, di altra protagonista di un esorcista otto o nove, con sguardi schizofrenici che chiedono aiuto e insieme soppesano puttanescamente bassa macelleria di maschio caucasico alto e massiccio. Ha occhi neri e fondi con luccichii che sembrano cerchi concentrici in una pozza immobile: luci intermittenti come un presepio in prevalenza espositiva di buio misterioso o mistico. Anche la voce è un insieme di voci: diverse nell’assenza comune di speranza. Querula: 499 “Chissà dove dormirò stasera un avvocato pazzo di me mi ha dato il bidone sono perseguitata dagli sbirri che non vogliono che io stia da queste parti un maresciallo della finanza si è innamorato già non sono poi malaccio…” Sfrontata: “Ma non sei in libertà vigilata con quel pacchetto tra le gambe dove vai a fare danni?” Stanca: “Non ne posso più di voi uomini e della vita fanculo il sentimento ha la sifilide.” Dissociata in toni e concetti: “Ti vesti proprio sexy e mandi un buon profumo la vita è dura e ho lo sfratto ho fame mi ci vorrebbe un caffè o un cappuccino potrei essere una brava moglie so cucinare cosa non darei per una doccia sì carino ci so fare con gli uomini e non ridere che ti potrei mandare al manicomio se queste mani potessero parlare dio è distratto e io vorrei un panino colla mortadella…” La morte migliore, per chi è logorroico, è il soffocamento, forse, nemesi naturale da legge del taglione. Danzano nell’aria cuscini grassocci di morbide piume d’oca che interagiscono con maggiori effetti devastanti in senso allergenico… Una pressione minima come da manuale: come soffocare uno scricciolo unto e affamato di panini con la mortadella. Provoca con ammiccamenti, torsioni di lingua sui denti algosi, un leggero disinvolto sfiorare l’animale in letargo. Incalza aggressiva: “Ti faccio così ridere eppure non rideresti se ti succhiassi come so fare dio come sono stanca di combattere perché deve durare così tanto padre nostro che sei nei cieli altro da fare mi ha abbandonata ti mangerei tutto bello rosa che sei come un porcellino ce l’hai a ricciolo anche tu?” Ride aspra, forzata, costretta da un cervello che manifesta altre idee con lo sguardo supplichevole… Forse piove, tra poco. Spero che sia un diluvio universale soggettivo, alla Fantozzi, ad annegare sofferenze, torture di fame e di uomini voraci senza altro che fame. 500 Senza saper nuotare, in un cilindro di cristallo ribollente di acqua verdastra acida che ripulisca incrostazioni esistenziali e lavi il feto di nuova innocenza sotto formalina. Piove a goccioloni radi che infittiscono poco a poco. Il parco si svuota, come un lavandino, dall’unica uscita. L’elfo scompare magicamente correndo come Olivia di Braccio di Ferro in un viale. La giacca gialla uovo diviene giallo uovo strapazzato con balzelloni goffi esaltati dall’ondeggiare della mangrovia unta e grigia. La Ida si parcheggia all’entrata di una toilette pubblica, una casetta di nuova costruzione al limitare del parco, non ancora istoriata di numeri di cellulare, non ancora fetida di umanità unita dal bisogno. Scruta i fuggitivi. E’ braccata da qualche fuggitivo. Un cotechino ambulante si srotola pigro verso il riparo dell’elfo. E’ un duello rusticano di sguardi e gesti. Lei accentua la motilità galvanicamente e mi appare, da lontano, come una rana inchiodata allo stipite della porta dei cessi pubblici. Serpeggia la lingua e alterna sguardi richiedenti pietà a occhiate da vendita in saldo. Il salume tira in dentro la pancia e ghigna disinvolto, rivolto alla pioggia, massaggiandosi promozionalmente lo scroto a mano piena. Sensazione d’onnipotenza divina è il padroneggiare uno scenario da un mirino telescopico di un maneggevole bazooka d’ultima generazione. Inquadrare rane galvanoputtane sullo stipite di una porta di cesso e punire insaccati sfrontati che sanno già di rancido. L’inquadratura è verdignitosa e retinata da coordinate filosofiche. L’indice preme... Credo che si possa chiamare pietà. 501 OFFERTA SPECIALE E’ mezz’ora che vai e vieni come una ronda e stai lasciando un solco davanti a questa panchina… Guardi, distogli lo sguardo, ti giri, ti rigiri con aria indifferente, punti come un cane da tartufi, insisti e ti ritrai, mezzo leone e mezzo coglione… Dai, bello: deciditi. Ti sto sorridendo; mi pare che possa bastare per darti un’idea della mia disponibilità, no? Sei prevedibile e noioso, il tipico maschietto velleitario senza palle. Come ti allontani dalla panchina, tiri il fiato, e la pancia ricade sulla cintola, e t’ingobbisci un poco, appena quel tanto che allenti la tensione della cervicale: del resto, non sei più di primo pelo, e si vede. Non sai come venirne fuori: ti gratti la testa, pensieroso, e studi un sistema d’abbordaggio che riduca al minimo un rifiuto, bruciante per il tuo orgoglio, o una piazzata, indecorosa e insopportabile. Farai il brillante o lo sdolcinato? Ripassi qui davanti e rilanci di nuovo con monotonia: gonfi il petto come un tacchino e alterni occhiate da lupo famelico, che vorrebbero essere fascinose e penetranti, ad una studiata indifferenza apparente propria dell’uomo che vuole fare il superiore. Il bel tenebroso! Per essere perfetto dovresti fare addizioni e sottrazioni: dovresti aggiungere due etti di capelli, e già che ci sei dovresti anche lavarli, e dovresti togliere sei o sette chili mal disposti, alla faccia di chi parla di maniglie dell’amore. Tu hai due mancorrenti dell’amore, tesoro: maniglie anti antipanico. Oggi, però, mi sento generosa e passo sopra su ogni difetto e sulla tua aria da principe ereditario sfigatello. Ti tradisce, infatti, il rigonfio che spinge nella patta, e mi fai ridere intimamente, porcello che non sei altro… Hai mai visto un Alberto di Monaco che gira in un giardinetto coll’uccello duro? 502 Sono generosa, te lo ripeto: vedi? Ho accavallato esageratamente le gambe, adesso, e non ti stacco gli occhi di dosso. Mi sto passando la lingua sulle labbra socchiudendo gli occhi come una gatta: dovrei avere un effetto irresistibile. Del resto, sono una bella donna, almeno finora, un gran pezzo di figa, per come potresti raccontarlo ai tuoi amichetti al bar domani. Dovresti capire che ho voglia, no? Ma tu ne sai qualcosa delle donne? Mi susciti compatimento, freddezza, anche rancore che lievita. Ti odio, maschione di merda. Oggi sono uscita di casa determinata e molto ospitale. Grazie al mio patrigno. Bastardo: ha sofferto troppo poco. Da oggi ribatto colpo su colpo. Tu potresti essere il primo vincitore del nuovo concorso a premi. Io faccio la parte del primo premio. Unisco l’utero al dilettevole: non penso, mi stordisco e mi gratifico di una sottile soddisfazione perfida nel dopo, nel sentirti afflosciare su di me esausto, nell’avere consumato una vendetta. Dai: attacca bottone, mister universo. Oggi sono in offerta speciale, ancora bellissima, e t’impesterò bene bene… Ti farò morire… 503 MINIMA MORALIA Bene, bene: lei è lo strizzacervelli? Ottimo: dunque siamo al completo, vero commissario? C’è il piantone e il dattilografo…posso anche fumare e mi offrite il caffè: che chiedere di più? D’accordo: allora mi assumo ogni responsabilità, ma voglio partire dalle attenuanti, va bene? Credo che la colpa fondamentale sia del fato, della natura, o forse del Mendel e della sua fottutissima legge, o forse ancora mi sono capitati intermediari fallimentari come genitori. Resta che sono alto un metro e cinquantacinque e che sono semicalvo, con la psoriasi, e che alcune mie reazioni emozionali mi hanno reso ancora più repellente del normale con un’aggressività sopra le righe a camuffare i complessi che mi trascino dietro. Resta soprattutto, a dispetto di chi considera marginale il concetto, secondo quello che si vuole pensino le donne intelligenti - chissà chi ha sparato questa puttanata - che ho l’uccello piccolo, e mi scuserete se parlo senza metafore, ma tuttora non ho compiutamente metabolizzato la situazione. La fregatura più grande, poi, è data dal fatto che ho istruzione, dialettica e anche sensibilità, però associate a nervi fragili, per lungo calvario, e a frequentazioni raso terra. Questo in linee generali. Scriva, scriva, che adesso mi sfogo. Partiamo dalla pubertà, una quindicina d’anni fa. Certo, l’ambiente delle case popolari non aiuta e certi rituali iniziatici sotto il cavalcavia della ferrovia, chi piscia più lontano, chi ha il pisello più lungo, mi hanno messo subito in cattiva luce. Giravo per il quartiere con il soprannome di Mozzicone. Soffrivo come una bestia, sorridendo da idiota come Quasimodo, ma dentro è incominciato a bollire qualcosa a fuoco lento che mi stordiva dalla puzza. 504 Incrociavo Nadia, Giusy e quelle altre tre o quattro smandrappate sciacquamarroni, sempre tutte insieme come un gregge di pura lana quasi vergine. Ridacchiavano avvicinando gli indici ai pollici laccati tamarri mentre ammiccavano oltre, sopra la mia testona già autunnale. Era stato quello stronzo di Ernesto a divulgare la notizia, il bastardo ‘nomen omen’ che poi si scoprì che soffriva di eiaculazione precoce. Ernesto viene troppo presto: fu lo slogan della mia vendetta. Riuscii, tuttavia, a fare breccia nel cuore di Debora, fortunatamente senza acca finale, d’aspetto sciampista, ma con qualche sensibilità dentro quegli occhioni bovini. I valori relazionali eterosessuali, alle case popolari, si traducono in rozzi discorsi esistenziali applicati al benessere del sabato sera, alla funzionalità del cellulare, al pomiciare spinto, per dove capita. Con me capitò al cinema Luce, al pidocchietto, in ultima fila su scomodissime seggioline di legno. E sostai alla prima stazione della mia via crucis. Bastò un risolino scaturente da operazioni tattili: avrebbe potuto essere un risolino di complicità o effervescente eccitazione. Fu solo scherno. Poi rintronarono nei giorni seguenti altre risatine del solito gregge informato dei fatti e aggiornato da quella mignotta di Debora. Considerai, dunque, rancoroso e paonazzo come un tacchino, il mio quartiere come un semplice dormitorio e mi spinsi oltre, verso birrerie e discoteche lontane dove ero sconosciuto a tutti. L’aspetto, però non aiutava: al Be Pop Zot fui identificato in breve tempo come Pochipeli o Puff, al Pub Scotland fui apostrofato come Portachiavi e qualcuno, occhiuto nei pisciatoi come una guida sioux, Occhio di Fallo, cominciò a fare allusioni varie e assortite anche sul mio problema essenziale. Io, per contro, cominciai a frequentare una palestra d’arti marziali per sfogarmi un poco con la speranza di 505 sapermi far rispettare e divenni più aggressivo e permaloso di un istrice. Ebbi reazioni scomposte, vestito come un tamarro da competizione, pronto alla rissa col vantaggio del baricentro molto basso. Però: come si dice? Parlate di me, anche se male, ma parlate? Cominciai ad incuriosire qualche squinzia indigena del nuovo quartiere. Forte delle esperienze passate, mi attivai ad impostare rapporti cordiali, camerateschi, molto confidenziali. Non fu una bella idea, soprattutto con Gessica, rarissima con la g, quando riuscii ad andare a casa sua e a tirarmi giù i pantaloni. Cominciò, per l’appunto cameratescamente, a ridere fino quasi a strozzarsi e poi mi disse che era meglio se rimanevamo buoni amici. La nuova amica mi costrinse in pochi giorni a cambiare nuovamente quartiere e stazione penitenziale. Il tempo passa a tutte le età: e io ero sempre al chiodo, anzi, per rimanere in tema, al chiodino. Trovai un lavoro, abbandonai i vecchi e cominciai a convivere con la mia solitudine. Surrogai le mie naturali pulsazioni con le puttane: si dice che basta pagare e tutto finisce lì. Almeno credevo. In realtà qualcuna rise perché il preservativo si sfilava con un sospiro e qualcun’altra rise di disprezzo e cercò di aumentare la tariffa. La mia via crucis fu una scalinata interminabile di santuario da percorrere su ceci, in ginocchio. Nel frattempo ero diventato tarchiatissimo, dopo ore d’allenamento in palestra, e sempre più aggressivo, anche perchè, pure in palestra, sotto la doccia, fioccavano battute feroci di bronzi di Riace con tre gambe e senza cervello. Questo è quanto: adesso sapete il perché e il percome. Sono esploso improvvisamente tutto insieme ed è stato come il mangiare una ciliegia dietro l’altra in un trascorrere il tempo nell’esaltazione. 506 Distribuii Nadia, Giusy e altre tre brufolose mucchepazze, sotto forma di braciole, per prime, tra i cassonetti della città, accuratamente impacchettate in cartocciate per gatti. Poi toccò ad Ernesto: fu detto che era un delitto di mafia perché aveva i genitali in bocca. Riuscii a portare Debora verso il fiume con la scusa di un discorso importantissimo che la riguardava e rimase vittima della sua curiosità scoprendo che i piselli piccoli possono avere una stretta di mani potente a trattenere una testolina sott’acqua fino alla fine. Soffocai Gessica con il cannello del gas e quando esplose l’alloggio dissero che era stanca di vivere. Alcuni clienti del Pub Scotland ebbero mortali incidenti d’auto mirati: i pirati della strada sono più presenzialisti verso le due di notte. Le puttane, infine, muoiono come mosche e non fanno pena a nessuno, e poi si può sempre dare la colpa a qualche regolamento di conti tra nigeriani e albanesi. E io colpivo una sera una negretta e una sera una pallida albanese cicciosa, per amore di giustizia… con rabbia caritatevole, svelto, con un colpo secco alla gola, ricordando e ricordando e maledicendo il fato e Mendel e mamma e papà, e per di più in erezione coriacea, seppure bonsai. Catarsi nell’autoironia e nel decisionismo giustizialista. Sì, commissario, sì, scrivete, scrivete: mi prendo tutte le responsabilità del caso per tutto quanto detto. Sottoscriverò. Però: ci credereste? Lo crederebbe anche lei, dottore? Ho la sensazione, una teoria tutta di profano, sia ben chiaro, che adesso io abbia l’uccello più grosso di prima. Mi sento normale, rispettato, rispettabile, meno solo anche se solo, nella famiglia degli umani normali, con tutta la psoriasi, la pancetta, la calvizie e l’età che avanza e incide nel fallimento. Ironizzo anche su me stesso e non mi creo più i problemi di accettazione di prima. Sto quasi meglio adesso… 507 GIARDINETTO E’ una coppia che non passa inosservata. Procede a piccoli passi lungo il viale ombreggiato dei tigli. Lui è un omone appena curvo, quasi calvo, con occhiali da vista; ha un marsupio e una camicia sgargiante hawaiana su pinocchietti, che lo rende molto giovanile. Adegua il passo delle sue lunghe leve al passo incerto di lei e spesso incespica con i sandali sul brecciolino. Lei è piccola e grassoccia, con lo sguardo catatonico dietro due spesse lenti, aggrappata alla mano dell’uomo come un’orfanella che ha trovato un amico. Pare molto più anziana di lui, con rughe profonde e con una veste scura e un cappellino per ripararsi dal sole. E’ reduce da un brutto ictus e trascina con difficoltà una mezza parte del suo corpo, imballata nei movimenti, semiparalizzata. L’uomo ogni tanto si ferma e le fa riprendere fiato. Le carezza una spalla mormorandole qualcosa. Lei, con lo stesso sguardo vacuo di sempre, non lascia trasparire emozioni: stringe solamente più forte la mano, forse per risposta, ma forse anche per un’istintiva sicurezza maggiore nell’equilibrio. L’uomo pilota la sua compagna verso una panchina defilata sotto un platano, al fresco, dove non c’è nessuno. L’accompagna nel sedersi con premura e le dice qualcosa sorridendo. Insieme, poi, guardano il lontano passeggio nel parco, mano nella mano. Ogni tanto lui si volge verso la donna e le asciuga un angolo della bocca dal quale gocciola un rivolo di saliva. Poi la cinge alle spalle con un abbraccio tenero. Ha un’aria triste e rassegnata. Lei ansima con un sibilo. E’ sempre una sfinge assente con gli occhi deformati dai due fondi di bicchiere, perduti verso un punto indefinibile, con una piega storta della bocca umida. Nessuno si accorge di loro. 508 Lui le dice ancora qualcosa stringendole una mano tra le sue con lo sguardo fisso a terra. Poi le asciuga ancora la bocca fissandola con sofferenza. Infine si alza dalla panchina e se ne va. 509 LA LUCE ROSSA Credo che sia questa penombra rossa ad esaltare il fascino della situazione. Abbraccia e focalizza ogni mio pensiero e desiderio in queste immagini accarezzate dalla luce sanguigna che spiove fioca dalla piccola lampadina sospesa nel buio. E il silenzio sbrecciato da un leggero grattare… E’ per me un rito, questo frusciare, gocciolare, e questo aspirare vapori vagamente corrosivi che mi eccitano in scariche di adrenalina: è un pungente sollecitare mie fantasie. Il respiro perde coordinazione in un piacere sottile nel recepire enfatizzate sensazioni che per altri sono soltanto minimalità. Questa è la potenza dell’atmosfera di una camera oscura, di un piccolo santuario, per come la vivo con rispetto nel palpitare di mie profonde emozioni. Fogli lucidi nel bagno delle vaschette prendono vita propria in immagini dapprima sbiadite e poi sempre più nitide e ogni volta mi si rinnova la meraviglia nell’osservare il prodigio chimico. Contemplo volti ripresi con uno zoom, da lontano, molto dettagliati e vicini, ignari. Sempre ignari: mi necessita la naturalezza del non sapere. Rubo istanti di vita ed espressioni. Immagino esistenze e altri rituali, e questa luce rossa culla miei progetti. Questa morettina con i capelli corti, per esempio: è svelta, nervosa, probabilmente ricettiva oltre ogni attesa… So chi è: la seguo da qualche giorno. La luce smorta le accarezza il volto diafano come un sudario pagano cremisi. Sì. Sarà lei. Da domani la seguirò e studierò le sue abitudini. 510 Magari le scatterò altre fotografie per documentarmi meglio, e mi ecciterò ancora di più, qui, in questa camera oscura, nello svilupparle. Poi la prenderò e la porterò qui, giù, in questa cantina inaccessibile. All’improvviso. E sarà un altro rosso, ugualmente emozionante, ma liquido e denso... 511 IL MIOPE GUALTIERO Il vecchio Gualtiero ha un nome altisonante da generale in pensione, ma esce tutte le mattine con le mani nelle tasche bucate del cappotto spigato alla Fantozzi, ingobbito e con l’occhio del coniglio miope vanitoso. Già: miope. E vanitoso: non mette gli occhiali e preferisce vedere tutto annebbiato piuttosto che apparire più vecchio di quello che è. Gira, di fatto, con i capelli anneriti col lampostyl, con la radice traditrice pallida come un rizoma, ma non se ne cura. Altre sono le sensazioni che predilige, di là di un bel vedere o apparire: sensazioni tattili. Ha un appuntamento irrinunciabile proprio per questo. Cammina raso muro infreddolito alla volta dell’asilo. E gioca, in un tunnel sotterraneo di buchi e tasche, con una manciata di mentine che crocchiano tra loro nella cartina cellofanata in una tasca cieca dei pantaloni. E gioca anche… “Buongiorno Signor Gualtiero.” “Salve, Gualtiero.” “Ha visto che bella giornata oggi, signor Gualtiero?” Risponde con voce garbata, esalando quasi, con l’occhio strizzato nel contornare sagome e ombre. Ecco l’asilo. Strani bagliori accendono quello sguardo spento: un guardare di mente con mentine. Si appende alle sbarre del cortile in minimi gesti frenetici da animale in gabbia, dietro le sbarre anziché davanti. Crocchiano le caramelle come campanellini cinesi. Umido nell’altra mano chiusa nel cappotto. Adesso ha l’occhio liquido, lacrimoso, rossastro: del coniglio in qualche vecchio film di fantascienza con zanne da vampiro, da coniglio mannaro con voce impastata e riarsa in sforzo d’essere affabile e mielosa. 512 “La vuoi una caramellina, bambino?” I bimbi dell’asilo, se ci si pensa bene, sono come tartarughine delle Galapagos che non hanno mai visto l’uomo: fiduciosi e curiosi, ché ancora non sanno nulla di Dio e dei suoi misteri. Gualtiero allarga una tasca del cappotto sorridendo il più innocentemente possibile. “Prendila, bimbetto…” La tasca non è cieca e le tartarughine delle Galapagos non hanno mai visto un cappotto spigato alla Fantozzi. Volteggiano, però, vigili, gabbiani acuti con grembiule di maestrina. Ed è allarme. Gualtiero è controllato a sua insaputa da diverso tempo, lungo la scia alcolica di un triconero troppo vistoso, con quella tenacia propria del predatore nei confronti del predatore più debole. “Aiuto, aiuto. Un coniglio mannaro vuole divorare una tartarughina innocente… Accorrete, accorrete…” Le tasche di quel cappotto diventano gallerie di miniera in fitto reticolato labirinto e le mani si sperdono tra caramelle, animali gocciolanti senza vita, pinne tenere di tartarughina che procede tentoni. Imprigionano i movimenti, quelle caverne profonde come l’antro della strega. E Gualtiero ritorna coniglio semplice in insulto urinario e tremori. E ha paura. Tanta. Perché anche le tartarughe delle Galapagos hanno le loro metamorfosi sorprendenti. Il bimbo goloso di mentine, come altri bambini tutti lì intorno, innocenti e silenziosi, è altro. E’ confuso in branco, nano, con altri nani adulti in grembiulino che collaborano con la Polizia nella battuta di caccia al coniglio mannaro, e ha la funzione di muta rabbiosa che deve stanare la preda. Gualtiero si volge intorno a destra e a sinistra incredulo di colpi che piovono pesanti mentre è immobilizzato da 513 tante piccole mani che in altre occasioni, magari con gli occhiali, lo farebbero rabbrividire di sorpresa e raccapriccio perché sono pelose e forti. Colpi e colpi alle spalle e alla nuca: beccate di gabbiani in ferocia. Poi il buio. Il cadere e lo strisciare di viso sull’inferriata nel viscoso del sangue, con un’ultima visione sfumata di due occhi strani, tra tanti, inorriditi e accusatori, implacabili, cui non può fare altro che mandare un ultimo malato bacio, l’ultima cantonata di vanitoso miope, per poi annegare in un suo mondo obliquo livido di salsapariglia pungente come ortica, nera e lucida come i suoi capelli sudati. 514 CI VUOLE CORAGGIO A TIFARE PER SENECA Ho cominciato a morire più di mezzo secolo fa, in una delle mie prime riunioni di condominio cui partecipai come fresco sposo e giovane condomino rampante. Mi ustionai il cervello con questo concetto di soda caustica quando non picchiai direttamente l’amministratore che faceva la cresta sul gasolio. Lo trapassai da parte a parte con uno sguardo al tetano e gli brontolai qualche minaccia con fare persuasivo di iena. Ottenni un rimborso dopo poco tempo. …E la mia prima percezione di morente. Da allora in poi la lunga linea della vita della mano s’è incrinata in tante piccole schegge di presagi, in marasma di chiromanzia ubriaca tra fuori e dentro, entrambi callosi. Con la pazienza per i cari. Con la tolleranza per i rompicoglioni e gli stupidi. Con la rinuncia nella scelta. Con la disponibilità, la ragionevolezza, il calcolo, l’opportunismo, la tattica, l’attendere, lo smussare, il conciliare. E poi ancora con un reclamare di spazi filosofici assillante, del cinico e del fatalista che sono in me da sempre, che hanno trivellato certezze e vitalità. Tutto sembrava saggezza e il diventare canuto e rugoso come una quercia mi rendeva carismatico. Sempre più moribondo, dentro, nel discutere, nel puntualizzare, nel distinguere, nel discernere, bastianizzando contrario per attestare d’essere vivo anche se dentro percepivo il morirmi E mi sentivo un guru, un fachiro, seppure seduto e punto da chiodi avvelenati, depositario della verità. Quale verità? La verità del sapere di stare morendo poco a poco, ma non l’ho mai detto a nessuno, ché è trendy rambizzare con una spalluccia noncurante e un testamento biologico. 515 Ed ora sono qui, al giardinetto, con le scarpe bagnate da una prostata asfittica, dietro il vespasiano, che sbircio giovani governanti ucraine sode come formaggelle, con l’occhio lacrimoso e un enfisema, stanco, cariato ben oltre i denti, bianco esangue rispetto al bianco popputo di quelle manze fresche. Scorro il giornale, titoli grossi e più semplici, e pontifico al vicino dall’alto dei miei ottanta e passa, senza curarmi di quel sorriso linotype che sembra una ciotola di Ciappy per tenermi buono alla catena. Reagisco in qualche modo al mordere di qualcosa dentro. E mordo anche io, però sdentato e con un’antirabbica che è di bromuro e stanchezza nella pretenziosità. Voglio vivere, cazzo, che neanche funziona più, anche con i reumatismi che mi piegano come un gambero avariato, anche con l’alito di stalla, e mi attacco a figli e nipoti a succhiare le loro energie, come tutti i vecchi, saggi o stolti, che stanno morendo, come un vampiro che tollera il sole in una nuova mutazione che fa cadere i canini, ma fa sopportare la luce. Succhio vitalità a tutti con domande cortesi, con la curiosità mimetizzata da sguardo infantile, con richieste d’attenzione e lamenti al bitume, e me ne frego degli sbuffi e delle risatine sfottenti verso il rincoglionimento. Vampirizzo da cattivo per puro egoismo in istinto di sopravvivenza e per prolungare l’agonia di questa morte che tarda ad accorgersi di me. Poi, a volte, nel buio della mia stanzetta solitaria, penso che potrei fare un bel gesto e togliermi di torno… Per non rompere più i coglioni. E per morire sul serio. Anche di fuori. Ma Seneca lo odio, in quei momenti, e allora chiamo forte con la voce catarrosa e tremolante, e continuo a morire solo dentro… 516 IL PESO DI UN NOME Annaspo nel bianco spumoso di neve sporca: è una cella imbottita. Io, appoggiato ad una parete, immobilizzato in una camicia di forza, guardo uno spioncino con annessa pupilla che ammicca, e penso. Rifletto su quanto sono sfortunato, vittima, travolto dagli eventi e da un nome pesante. Mi balzellano davanti agli occhi mostriciattoli strani, a volte spaventosi, a volte ridicoli. Danzano nella luce del neon grigliato, su in alto verso l’inafferrabile soffitto, con corna lunghe a cavatappi, con orecchie di sughero e una pelle del colore verde bottiglia e ali di pipistrello, di vetro. Sono animalacci che emettono versi che frizzano come un vinello frizzante, infernali gargoyles con lo sguardo rubino e un alito pesante d’aceto. Allucinazioni da dipsomania. Si agitano in danze tribali alla luce fredda, sulla juta ruvida di pareti grassocce e insonorizzate. Associazioni d’idee: morbidezza, bianco, mamma… Fanculo, mamma. Penso a te con commozione, ma anche tanto rancore. Gran bella fantasia che hai avuto… Ricordo un’infanzia da incubo, scandita dalle pernacchie di tutti quelli che mi conoscevano nel quartiere. Grazie a te, mamma. Il mio compagno di banco faceva finta di spararmi ogni cinque minuti, bang, bang, e una cricca d’altri compagnucci di classe pretendeva che affrontassi a brutto muso la professoressa di matematica perché non ci torturasse con sofferte interrogazioni che apparivano drammi esistenziali. Avrei dovuto affrontarla in un duello al sole, secondo loro, forte del mio nome, magari centrandola con un colpo di pistola in mezzo agli occhi, o cazzotteggiandola fino a farla scomparire sotto la cattedra in una maschera di sangue. 517 Reagii da subito con l’intento di dimenticare: cominciai a bere. Mi dovetti sorbire paternali di pretesi amici, lavate di capo, piagnistei, ripicche e ricatti morali da tutti, a partire da te, mamma, che non concepivi un mio modo così dissoluto di affrontare la vita. Mi parlavi d’ironia, di giocosità della vita e del suo doverla affrontare con piglio garibaldino e goliardico. Io non ti comprendevo, deriso da belle ragazze che inorridivano durante la lezione di ginnastica, quando vedevano due stecchi pelosi fuoriuscire dai pantaloncini esageratamente larghi: le mie gambette nodose come bossi, nulla di cinematografico o di epico, e nessuna stella da sceriffo. Montava la mia ira, allora, e il mio rancore per te e per le tue scelte. Papà era fuggito dopo pochi mesi della mia vita, disperato e impotente, forse vittima prima di me delle tue idee balzane. Restavo io, parafulmine dei tuoi capricci imposti su di me fin dalla nascita. Aumentai i cicchetti come una spugna per perdere orientamenti, anestetizzare, stordire, confondere. L’irrisione divenne più sopportabile, almeno durante i periodi d’euforia alcolica. Poi subentrava l’incupimento, sempre più acuto, e nel dopo sbornia la realtà del mio nome mi schiacciava sempre più verso pensieri malevoli nei tuoi confronti e contro il mondo intero. Cazzo, mamma: chiamarmi John… Un nome banale, me ne rendo conto, che non dovrebbe suscitare nulla di schernevole da parte di nessuno. Meno che verso ‘il mio’ chiamarmi John... Girai intorno al problema per trovare una soluzione per superarlo, sempre più avvelenato, sempre più preso in giro oltre il quartiere, oltre la scuola, fino in un servizio televisivo di un’emittente locale, con quella faccia di merda del giornalista che ridacchiava mentre mi intervistava. Schiumavo rabbia, mamma, e ti maledivo in cuor mio. 518 Imparai ad odiarti con freddezza scientifica e scivolai nella sbronza a tempo pieno con roba sempre più forte, sempre più alla ricerca della botta che inchiavardasse sportelli mentali e spegnesse un audio ridanciano lasciandomi solo con le mie fantasie. Senza successo e sempre più dolorosamente. Finché esplosi nella vendetta. E ti uccisi, mamma. Strangolandoti, con il cipiglio del cow boy che è dalla parte della legge e reagisce ad un’ingiustizia, con la grinta d’un berretto verde, con la determinazione di un ‘pard’ accerchiato da indiani. Ora sono qui in questa stanza imbottita, spiato a vista da qualcuno dietro quella finestrina semisepolta nell’imbottitura sulla porta, mentre ho allucinazioni e rimorsi e tormenti. Ripenso alla potenza di un nome che schiaccia una persona debole di natura. Non so se uscirò mai da questo postaccio. Quando sarà, se sarà, sbatterò lo sguardo fuori del carcere come un allocco alla luce del sole, annebbiato dal riverbero, e mi presenterò per un posto di lavoro trovato dall’assistente sociale. Cercherò di ricominciare, sperando che non si ripeta la solita storia di risolini beffardi. Cercherò di non bere più e di affrontare la situazione virilmente. Mi presenterò al mio nuovo datore di lavoro e dirò: “Piacere: mi chiamo John Wine, W, i, n, e, come vino...” E sorriderò ebete con un magone eterno nel cuore, vittima predestinata di un ‘nomen omen’… 519 OMBRE Il selciato è scivoloso e lucido di neon riflesso per quella pioggerellina fastidiosa che, se appena più rada, potrebbe essere definita nebbia spessa. L’uomo è immobile davanti al corpo esanime di un vecchio raggomitolato a terra in una pozza di sangue che si sta diluendo nel sudicio dell’acqua piovana. Il piccolino è destato da una mano calda che lo accarezza. La stanza è in penombra e la sagoma amica è china sul lettino. Una voce bassa, quasi un mormorio, tranquillizza il cucciolo mentre le mani continuano ad accarezzarlo in un gioco d’ombre proiettato sulle pareti della stanza. Il bimbo è insonnolito. Soprattutto innocente e fiducioso. Piange inebetito, l’uomo immobile, con l’ombrello chiuso il cui puntale è arrossato del sangue del vecchio. Si sta formando un piccolo capannello di curiosi inorriditi, tutti a rispettosa distanza. Qualcuno sta telefonando… L’uomo che accarezza il bimbo è nudo. Il suo modo di fare diviene più pressante e il piccolo s’inquieta nel percepire un’animalità frenetica espressa in carezze più rudi. La voce ha toni riarsi. Il bimbo comincia ad avere paura perché comprende istintivamente che l’ombra sul muro non è poi così amica e lo sta minacciando. L’uomo con l’ombrello chiuso sta passeggiando guardingo: da sempre ha paura delle ombre. E’ incapace di rilassarsi, anche mentre osserva con curiosità le vetrine dei negozi. 520 Un riflesso condizionato lo spinge a guardarsi le spalle, di tanto in tanto, a verificare se sia in spazi di luce. Le ombre sul muro della stanzetta sono tante, ora, con artigli e zanne voraci. Il bimbo ha deciso che l’uomo è cattivo. E’ troppo caldo, è peloso, ha l’alito amaro, e lo soffoca stringendosi sempre di più, lui grande e grosso, nel lettino. Il cucciolo avverte dolore, ora, in carezze sempre più pesanti e intime che nessuna parola gentile sussurrata, falsa, falsa, può addolcire. “Hai una sigaretta?” La voce lamentosa è stata un trapano a perforare i timpani fino al cervello, seppure malferma e catarrosa. E’ stata la sorpresa. Il barbone è spuntato da qualche angolo buio, come un’ombra, cencioso e lercio. Puzza di vino e vomito. Il lampione proietta sul muro del palazzo un’ombra curva che sembra voglia inglobare l’uomo dall’ombrello chiuso. Il dolore del bimbo ora è atroce, di seta strappata. Non può urlare: una mano gli copre la bocca. Un peso enorme gli grava addosso nel dolore che sconvolge. Ha gli occhi sbarrati, il piccolo, e fissa le ombre che vogliono addentarlo, e sente già i morsi nella paura di morire. Dove sono i genitori? Mamma, mamma…l’uomo nero…le ombre…dolore… Il vecchio barbone è inoffensivo, ma la sua ombra è gigantesca e minacciosa. L’uomo dall’ombrello chiuso si difende senza pensare. Punta l’ombrello verso l’accattone e spinge più volte con violenza disperata. C’è poca gente in giro. Il vecchio non ha forza di chiedere aiuto. 521 Geme cercando di frenare l’ira dell’altro e cerca di rintuzzare il doloroso e ripetuto affondo del puntale con occhi increduli per tanta cattiveria. Poi il buio. Tempo è passato dalla notte delle ombre voraci, ma è difficile dimenticare, anche se in una nuova casa e in una nuova stanza. Ogni sera un alto platano proietta dalla strada le ombre dei suoi rami frondosi sulle pareti della stanza e il ragazzo rivive una tragedia che inghiotte con le sue lacrime salate. Non si possono chiudere più le ante delle finestre, per paura del buio, per quel senso di soffocamento dato dal nero indefinibile, e il platano stormisce naturalmente alla brezza della sera agitando le foglie. Sulla parete sembrano mani protese a saluti, ad avvertimenti, a nuove carezze, e il vento di fuori si confonde con sussurri di falsa innocenza. Nemmeno l’ululare lontano di una sirena riesce a smuovere l’uomo piangente di fronte al vecchio ucciso. La gente in cerchio è muta, prudente, confusa per nebulose consapevolezze di qualcosa d’anormale che potrebbe richiedere ben di più della semplice giustizia. E’ vietato il cinema, per il giovane. Subentra un tremore incontrollato, nel buio, mentre danzano immagini e ombre sullo schermo e altre ombre fluttuano in sala per cercare un posto, per predare, per tendere un agguato non appena la maschera spenga la sua torcia. Luce, spazi aperti: ecco cosa ci vuole. La volante proietta la luce dei fari sulla scena. S’allarga il crocchio dei curiosi muti. I poliziotti scendono dall’auto con circospezione professionale e i fasci di luce proiettano una moltitudine d’ombre che ballano un sabba infernale sui muri dei palazzi intorno. L’uomo dall’ombrello chiuso ha paura. 522 Da morire. Vede le ombre dei morti che stanno venendo a prenderlo per accarezzarlo di nuovo e sussurrargli parole dolci e false che nascondono dolore. Ha una fitta lancinante al petto. Gli agenti s’avvicinano timorosi. L’uomo si piega di scatto su sé stesso gridando in un singhiozzo, rattrappito da una scarica elettrica al costato. Schianta a fianco del vecchio barbone. Sono tutti immobili, paralizzati, e gli agenti hanno un’esitazione, propria di un naturale rispetto umano, incerti nel dovere della necessità di soccorrere. L’uomo, a terra, lascia l’ombrello e si preme il petto, con i lineamenti del volto tirati in una smorfia di sofferenza. Poi, di un tratto, si rilascia. Spalanca gli occhi lucidi a carpire tutta la luce possibile. E sorride di liberazione in assenza di ombre. 523 IL PIACERE DI UNA CONVERSAZIONE Gli esordi non furono dei migliori. Entrai in un bar di periferia, di quelli semibui con la saletta nel retro per i giocatori di ramino, piccola agenzia di reclutamento per spacciatori, punto di ritrovo di mala assortita di quartiere mimetizzata tra vecchie bottiglie di Crema Cacao e cartoni pieni di Fernet e moka arabica di dubbia provenienza. Mi presentai disinvolto. Poggiai il vistoso registratore sul bancone e rivolsi uno sguardo amichevole e franco all’energumeno baffuto con camicia a quadretti sudici che mi fissava soppesando portafogli e intenzioni. “Mi dicono che qui si possa bere uno dei migliori caffè del quartiere… E’ vero o è una diceria messa in circolo ad arte per una sorta di pubblicità passaparola?” L’ominide vicino alla Faema argentata aggrottò le folte sopracciglia, spiazzato da un idioma scevro di vaffanculo e porcaputtana, e assunse un’aria diffidente. Poi notò il registratore sul banco e unì tra loro due concetti audiovisivi elementari: una mano, la mia, che premeva un tasto rosso accendendo un led verde, e il rumore di un ‘clic’ con un leggero ronzio. “Perché hai acceso quel coso? Che cazzo devi registrare? Cosa vuoi dimostrare? Sei uno sbirro? Guarda che qui siamo tutti puliti e ai rompicoglioni ficchiamo in culo le bottiglie di Vecchia Romagna, quelle grosse da un litro, tanto per… Spegni subito quella baracca e vai a farti un giro. La macchina per il caffè è rotta, anzi, tu non mi piaci perché parli strano, non mi va di farti il caffè e adesso chiamo gli amici dietro. Muoviti ché non è aria. Sparisci, ficcanaso…” Avrei potuto spiegare che volevo registrare un poco di conversazione, magari avrei potuto inventare qualcosa a proposito di una ricerca antropologica o sociologica o ancora di marketing, ma assistetti alla magica epifania di 524 una mazza da baseball tra le mani dello yeti barista e preferii scomparire inseguito da una muta rabbiosa di ‘fottiti, bastardo, vaffanculo e non farti più rivedere’ urlati con astio fin sulla soglia del bar a coprire i rumori della strada… Sbagliai semplicemente persona. Provai ad un cinema d’essai, nel buio, durante la proiezione del film ‘Blade Runner’. Il cinema, tuttora in squallido esercizio, è poco più che un locale-pidocchietto senza pretese, ancora con i sedili di legno, e chi lo frequenta, in genere, colloca tra le ultime posizioni della graduatoria la motivazione del vedere un buon vecchio film. Il posto è bazzicato da esagitate coppiette limonaie d’ogni età, ragazzi brufolosi e casinisti in perenne commento ad alta voce, pensionati nullafacenti all’ultima spiaggia, pederasti in disarmo. Non fu un risultato esaltante, anzi, fu piuttosto deludente. Il famoso monologo di Roy fu lo sfondo sonoro d’altro che tutto può definirsi fuorché conversazione. Io ho...cough, cough (tosse) visto cose che voi umani toglimi quella mano dalla coscia o ti massacro, finocchiaccio di merda non potreste immaginarvi. Aaaeettccciùùùù (starnuto con richiamo di galaverna nel raggio di quattro sedili limitrofi). Navi da combattimento Ppprrrrrr (proprio da combattimento, asfissiante) in fiamme al largo dei bastioni di Orione. Ahahahah (risate di commento per l’originale modulazione, è il caso di dirlo, cacofonica. E ho visto i raggi Beta Slurp, slurp, sling, slap (baci voluttuosi con lingua, in ansimare entusiasta) balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti suoneria di cellulare con voce menefreghista - pronto, ‘zzo vuoi? Sì, dopo in pizzeria – e un sommesso bestemmione andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire. Commento epitaffio: uffa che palle ‘sta roba. 525 Spensi il registratore dopo poco scuotendo la testa insoddisfatto. Sbagliai semplicemente luogo. Provai allora direttamente da casa, al telefono. Chiamai un mio vecchio collega di lavoro, di prima che andassi in pensione, per cercare d’intrattenerlo in uno straccio di chiacchierata. Accesi il registratore e composi il numero. “Aaarghh, pronto, sssììì…” “Ciao Giovanni, sono…” “Ah…, sì…, ciao. Senti, ti richiamo poi: sono molto impegnato adesso…” “Ti porto via poco tempo, Giovanni. Volevo solamente sapere come ti diverti a trascorrere il tempo nei tuoi momenti liberi, due chiacchiere insomma, tanto per sapere…” “Ecco, per farla brevissima, adesso che ho un mio momento libero ti dico che sto trombando, e anche alla grande, con una gnocca da competizione, la mia superbotta di culo stratosferica degli ultimi cinque anni, e non ho proprio tempo e voglia di fare due chiacchiere con te perché, lo dovresti capire al volo, ho di meglio da fare. Quindi abbi tolleranza e non rompermi i coglioni: ti richiamo poi io, d’accordo?” Chiuse la comunicazione con un clic secco cui fece seguito il clic del mio registratore. Sbagliai semplicemente il momento. Poi mi perfezionai, forte di queste esperienze. Comprai, per un approccio più soft, un registratore in miniatura di quelli piccoli come un pacchetto di sigarette, e scelsi con maggiore cura luoghi e persone e momenti. Ho compreso con il tempo, con interminabili appostamenti e lungo osservare che, per esempio, il giardino di mattina è un posto fantastico, specialmente in una giornata di sole, ed è frequentato da mamme e balie ciarliere con bambini giocherelloni, da pensionati che hanno voglia di attaccare bottone, da persone in genere disponibili a fare due chiacchiere e a raccontare qualcosa di 526 sé o di quello che pensano d’ogni argomento, ché tutti sono più o meno tuttologi. Io volteggio come un condor verso una panchina, metto un dito nel taschino della giacca, accendo il piccolo marchingegno a loro insaputa e butto là un argomento innocente di conversazione cercando di provocare una interazione, magari talvolta provocando, altre volte contraddicendo per accendere una discussione dialettica, altre volte ancora assentendo silenziosamente, ché il mio interlocutore o interlocutrice è in piena logorrea tracimante. Qualche volta, invece, vado in centro e prendo uno di quegli ascensori di grattacieli d’uffici, che portano molto in alto. Mi accodo a persone pensierose, immerse in problemi di lavoro o questioni familiari, e mi stipo con loro in qualche cabina. Accendo il mio gioiellino con disinvoltura senza farmene accorgere e poi, ma non sempre, lascio partire una loffa, insopportabile per fetore, per provocare una reazione e qualche scambio di opinioni. Altre volte fischietto da solo: gli altri sorridono, sbuffano, qualcuno commenta bendisposto. Altre volte ancora straparlo da solo, ipereccitato, e uso abbondante turpiloquio per vedere l’effetto che causa nei presenti. Qualcuno reagisce con tolleranza e comprensione solidale, qualcun altro minaccia e vuole la lite. Nel pomeriggio, infine, soddisfatto delle mie scorribande qui e là per la città, ritorno a casa. Comincia la parte più difficile del mio passatempo: la catalogazione. Scrivo in bella calligrafia con un pennarello indelebile la data e il luogo dove è avvenuta la registrazione e soprattutto l’argomento di cui si tratta. Incollo l’etichetta alla cassetta registrata e la scaffalo insieme ad altre centinaia lungo la parete sezionata da ripiani pieni di altre cassette, la parete miniera del mio falegname che mi ha estorto un mutuo per questa passione. Ho diverse registrazioni che trattano del tempo, altre dove si parla delle mode correnti, altre ancora del governo o 527 di politica in generale, e poi dei giovani d’oggi, del pudore, di cinema, della televisione, di cucina, dei bambini e della loro educazione. Ho argomenti tra i più disparati su cui è stata fatta conversazione. E ne sono fiero. Spolvero gli scaffali con un piumino leggero, allineo meticolosamente cartellini e contenitori e pregusto soddisfatto il mio dopo cena. Stasera, per esempio, avrei voglia di parlare di musica lirica con qualcuno competente. Mi è venuta la voglia adocchiando la cassetta 403 – Parma, giardino – Verdi, quella sul terzo ripiano nel settore musica. Non vedo l’ora. Una cenetta frugale e veloce e poi mi accomoderò in poltrona davanti allo stereo con un bicchiere di amaretto. E farò conversazione. Per adesso, mentre riordino e spolvero le mie testimonianze di socializzazione, ascolto Duke Ellington nel suo successo “Solitude” e mi chiedo come si possa dare un titolo così desolante e triste ad un brano così poetico e catturante. Anche perché, secondo me, la solitudine non esiste. 528 IL BOSCAIOLO SCEMO DEI CARTONI ANIMATI Ecco: mi pianto a piedi larghi nell’abitacolo dell’ascensore e sogghigno perfido, patinato da sudarella appiccicosa di afa estiva. Schiaccio il pulsante di arresto. Mi sono fermato tra il quindicesimo e il sedicesimo piano. Di ferragosto: giorno letargico, comatoso, di silenzi e solitudini. Mi fermo per riflettere e organizzarmi. E’, il mio, un gesto di protesta che solamente io comprendo e giustifico: è la mia ribellione, l’estremo chiudermi come una lumaca urticata da questo o quello. Penso che con il senno di poi è un atto chissà quanto emblematico, definizione importante per giustificare semplice disagio terra terra. La realtà è che ne ho abbastanza, di tutto e tutti, e che questo caldo non aiuta a sopportare. Pungono come spine di rosa le intolleranze di questa lumaca sempre più ritrosa a fare capolino. Mi siedo in terra raggomitolando le ginocchia: assumo la posizione del classico feto partorito prematuramente in ascensore, per come si legge di tanto in tanto sulla cronaca, senza stare troppo a riflettere sull’ essere capriccioso del destino. Mi chiedo: è acconcio battezzare un neonato d’ascensore con il nome di Ascenzio? Cazzeggio divertito e amaro, ché ho molto tempo a disposizione e a quest’ora di oggi non c’è nessuno che possa reclamare l’ascensore battendo sulla portiera con impazienza. Faccio un appello. Parenti interessati o troppo disinteressati, mai una via di mezzo. Amici, o almeno quelli che si professano tali fino a quando. Donne egocentriche e pretenziose fuori d’ogni limite conciliabile con il proprio egocentrismo pretenzioso (ahahah). 529 Respiro piano assaporando un vago lezzo di fumo e chiuso di giorni e giorni senza detergenti. L’odore della gente. Anche di quella che conosco, senza sapere se sia mai passata di qui. Il ronzio del neon mi culla e m’invoglia a socchiudere gli occhi per focalizzare meglio immagini, volti, episodi. Le palpebre s’illuminano di sorrisi vacui, di sguardi benevoli, o forse solo compassionevoli, di bocche che parlano e scolpiscono concetti intessuti di indifferenza e circostanze modello standard. Dopo l’appello le prove di esami: di maturità. Il rispondermi con logica e freddezza a domande su comportamenti. I volti si allineano, tutti alla sbarra, come per un confronto all’americana sullo stile de “I soliti sospetti”. Il caldo sfianca, lo so: la fa da padrone su menti fragili e agita una lama dolorosa tra le pieghe-piaghe della sensibilità amplificando autocommiserazione e vittimismo. Non sono pazzo, quindi. So che tutto questo è una concomitanza di effetti climatici associati a ultimi episodi di per sé insignificanti. Un rendersi preziosi al telefono con il silenzio. Una lite infantile per futili motivi e incomprensione. L’impazienza per l’afa che non molla la presa. Non sono pazzo, quindi, se riesco a far combaciare logicamente cause ed effetti in questo straniarmi canicolare. Eppure non mi va di suonare l’allarme o di sbloccare l’ascensore. Anzi. Mi piace stare qui dentro accoccolato con la luce bianca che spiove come una carezza fredda. E intanto rimugino ancora ed esalto situazioni in epica decadente, antropocentrico, altra parolona per dire semplicemente io. E accarezzo con una certa voluttà un seghetto piccolo e robusto, tastando i denti taglienti con i polpastrelli, ridacchiando come un beota nel fissare la botola al soffitto. Mi associo alla figura del boscaiolo scemo di tante vignette o cartoni animati, forse anche lui grondante di 530 sudore e pensieri negativi, o solamente bersaglio di frustrazioni sadovoyeuristiche di grandi e piccini. E’ quello che sega il ramo dell’albero sul quale è seduto. In genere si ride ascoltando lo stridore della sega e guardando l’aspetto compenetrato e innocentemente stupido del boscaiolo. Ridacchio anche io e associo all’immagine musichette adeguate da cartone animato con effetti sonori esilaranti. E mi chiedo se poi, più tardi, avrò voglia di issarmi su, fuori dell’ascensore, attraverso la botola, per segare con frenetica determinazione il cavo dell’ascensore… Tutto ciò è macchinoso, lo so, me ne rendo conto, ma fa davvero molto caldo e quest’ascensore è abbastanza fresco e di luce tenue da accogliermi senza che qualcuno, oggi, a ferragosto, debba reclamarlo per salire o scendere nel palazzone deserto della città deserta. Il resto, cioè il boscaiolo, il seghetto, gli appelli, gli esami, la stanchezza e il fastidio di vivere: sono corollari, ché tutto è trascorso e certi silenzi invogliano a dare un taglio… 531 LETTERE DAL CARCERE – LA SCATOLA DI CARTONE Carissima, mi costa sangue scriverti così, a mano, per poi ricopiare tutto al computer che è attualmente fuori uso. Sono pigro per natura, assuefatto innamorato dei programmi di scrittura che consentono di risparmiare tempo, anche se il concetto di disponibilità di tempo è relativo. Devo scriverti, tuttavia: è una urgenza impellente a controbattere malessere. E’ un cercare di uscire dal mio carcere, di evadere, mettendo sulla brace miei modi di intendere la vita. Vita carcere: una equazione. Una equazione di cartone, del cartone di un gigantesco scatolone che si rimpicciolisce giorno dopo giorno graffiando sensazioni di claustrofobia, di porosità friabile indifferente apparentemente innocua eppure non lacerabile, di angoscia in odore di cellulosa inerte che penetra gli alveoli polmonari soffocandoli poco a poco. Lo sai? E’ tempo immemorabile che non scrivo su carta. Lo sto facendo per te dopo avere riflettuto assai e metabolizzato miei concetti esistenziali che possono apparirti narcisismo trito. Non riconosco più la mia scrittura, rispetto ad una volta: ha tratti sfuggenti, anarchici, piena di guglie nervose e uncini. Sto bene, ora, nel mentre che ho spezzato un incantesimo con le mie zampe di gallina. E’ uno stare bene a metà, tuttavia: il carcere è a regime duro. Lo scatolone di cartone che mi imprigiona perde volume giorno dopo giorno. Era il guscio di un armadio, tempo fa. Poi si è ristretto sempre più. Ora è una scatola di cartone di televisore, di quelli vecchi panciuti enormi prossimi al pensionamento o all’eutanasia, se preferisci. 532 Mi avvolge, ogni giorno che passa, sempre più piccolo e oppressivo, con l’odore soffocante di reality show e plastica riposata. Mi sento un recluso insofferente con smanie autodistruttive. Non sopporto: tout court. I bla bla tuttologici, il pontificare maximum, il dire senza sapere, il sapere senza controprove. Il mio carcere aderisce sempre più addosso a me procurandomi fitte lancinanti di languore e sofferenza in speranze testosteroniche e fiabescoaffettive. Credi di potermi capire? Scribacchio scarabocchi, una grafia stanca, frettolosa a non lasciare scappare idee che premono come un archetipo di pazzia. Mi viene in mente la Pietà Rondanini, scabra, essenziale, menefreghista: ecco la mia scrittura, ecco le mie idee che vengono a galla come gli elettrificati pesci moribondi dell’ultimo film dei Simpson. Lo scatolone di cartone diviene un cubicolo tacchettato di unghiate sanguinolente a indicare il tempo trascorso. E mi angoscio all’idea d’una mancanza di liberazione. Non posso neanche impiccarmi con un lenzuolo al soffitto, ché sono raggomitolato su me stesso in spazio davvero angusto. E non posso frantumarmi il cranio contro un muro ché le pareti sono cedevoli seppure fisse e soffocano con un odore nauseabondo di consumo e dejà vu. Posso solamente sperare in una tua visita, magari nei miei sogni, ad accarezzare la fronte madida di sudore, a mormorarmi parole dolci che mi facciano sentire meno detenuto, meno prigioniero, meno morto per un ergastolo di cartone che non ho mai chiesto e forse non ho mai nemmeno meritato. 533 534 RACCONTI DI CENTO PAROLE 535 536 TELEFONATA “Pronto? Ciao Giovanna, scusami, ma devo sfogarmi. Ugo… (ZZZTXHHHHS) mi ha di nuovo tramortito, perverso, raccontandomi… (XZZZK) di mercoledì, con quella biondina slavata che ha rimorchiato al pub. Sento malissimo: forse la linea disturbata... (XZSHH) Che sadico: mi ha raccontato tutto dettagliatamente e rideva maligno. Essere ignobile. (KKKZXGHI) Ma che succede? Sento interferenze. In sintesi: (XZY) io ipnotizzata ad ascoltarlo per un’ora, tacendo, piangendo, mentre lui dissertava sul colore dei suoi slip. Bastardo. Uno di questi gior…” (TERRESTRE QUI PARLA KROTZ DEL PIANETA VORTEX – SONO RIUSCITO A TROVARE IL CASCO TRADUTTORE MENTALTELEPATICO – CREDO CHE TU STIA PARLANDO ALLA PERSONA SBAGLIATA) GROTTESCO CUORE DI PAPA’ Oggi la mia adorata figlia, il sangue del mio sangue, ha conseguito, dopo anni e anni di sacrifici e di costante applicazione, la prestigiosa laurea in chimica farmaceutica con lo splendido risultato di centodieci e la lode. E’ il ritratto della felicità, la mia raggiante bambina… Non sta nella pelle, la mia dolcezza! Per altri versi anche io non sto nella pelle, da due anni, inspiegabilmente, rassegnato, e ho degli aculei violacei 537 molto sviluppati sulla schiena, oltre ad un colorito stravagante di un celeste molto innaturale… Nutro ora un’ardente speranza che mia figlia possa fare qualcosa per il suo papà... HANDICAP L’otorinolaringoiatra dello spirito, dopo una visita molto accurata con verifiche molto professionali, ha così diagnosticato con voce grave ed espressione di solidale comprensione: “La sua coscienza è permanentemente afasica: è muta”. Sono uscito dal suo studio col morale sotto i tacchi, a testa bassa, affranto, distrutto per un handicap che mi potrebbe cambiare la vita completamente ed in senso negativo…. Non ho più la voce della mia coscienza che mi consiglia, mi invita, mi esorta, mi consola, mi sprona, mi biasima, mi critica… Sono davvero solo e da ora avverto, in tutta la sua compiutezza, il concetto di solitudine. Aiuto… CAMBIO DI IDENTITA’ Sono vivo. Quanto tempo è trascorso? Immagini confuse: avanzo nella boscaglia inestricabile a colpi di machete, solo, dopo aver perduto contatti con l’indio, tra il fogliame fitto, in una penombra irreale rotta dallo stridore delle scimmie e da lontani ruggiti di coguaro. Procedo guardingo ma determinato, caparbio nel panico. Rivedo improvvisamente quel serpente gigantesco nero, lucido, dal sibilo raggelante. Rabbrividisco ancora al dolore del suo morso. Tutto s’annebbia: cado nell’erba…. …Dove sono ora, meravigliato d’un corpo diverso, freddo, con scaglie nere, senza arti, con una sensibilità 538 animalesca che percepisco, ma ancora nuova… inebriante... Non ho più paura …sssssshhhh... non domino, ORTOPEDIA Il primario osservò preoccupato il ginocchio enormemente gonfio, lo tastò circospetto, ed infine esaminò le radiografie. Trasecolò incredulo nell’individuare, controluce, le sagome d’alcune noccioline e di un minuscolo scoiattolo intento a rosicchiarne una, annidato nella rotula scavata. Rammentò le osservazioni del radiologo: il malato lamentava un insopportabile lancinante dolore. Rigirò tra le mani la lastra, perplesso, senza motivarsi spiegazioni scientifiche. Poi fu colto da un’irrefrenabile risata liberatoria. Fu consapevole di una situazione illogica, surreale, ma fu acceso da un pensiero malizioso fuori d’ogni professionalità d’ortopedico di fama: chissà da dove entrava e usciva, quell’animaletto, per andare a procurarsi le noccioline... ABRAMO E ISACCO Tutti sempre stupivano d’“Abramo e Isacco”, trapezisti. Isacco accendeva cuori femminili intorno all’arena. Abramo, fiero, ridacchiava intimamente per il fascino del figlio. Provava, una sera, l’impugnatura del trapezio quando udì un richiamo interiore: “Abramo, ascoltami.” Lo speaker intanto presentò il duo. La voce interiore continuò a parlare ad Abramo che intristì volteggiando nell’aria, assente. Isacco frattanto si lanciò e s’avvolse come una molla. …Mancò la presa con un urlo lacerante smorzato da un tonfo sordo sull’arena. 539 Riguardo al sacro, Abramo è convinto d’aver meritato il Regno dei Cieli. Circa il profano, il Procuratore l’ha inquisito d’omicidio, indeciso sull’intenzionalità. L’interrogherà domani... CANIDI E NON Incontro d’umani con cani. Uno ha un bastardino che annusa dappertutto uggiolando impaziente. L’altro ha un magnifico cane di razza e sorride benevolo al padrone del primo, accettando democraticamente che possano esistere anche animaletti così goffi. Strofina le orecchie al suo campione e lo libera dal guinzaglio, sogghignando con gaia superiorità. L’altro scioglie il suo botolo simulando indifferenza, anche se sbranerebbe quell’imbecille tronfio sorridente. I cani, invece, curiosi e socievoli, s’annusano sotto la coda, codice canino equivalente ad una presentazione, e corrono sul prato abbaiando festosi, per giocare tra loro e spettegolare dei due cretini che li portano a spasso. CARAMELLE Immagino un futuro con psico-caramelle. La cassiera si rivolgerà alla massaia: ”Signora non ho spiccioli: posso darle una psicocaramella alla gioia di vivere?” “Cara, amo già la vita: me ne dia una al gusto solidarietà”. Il bambino al bar chiederà psico-caramelle al divertimento, mentre un videopokerista succhierà una psico-caramella al gusto rischio innocente e calcolato. In stazione, al distributore automatico, un viaggiatore selezionerà un pacchetto di psico-caramelle immaginificoturistiche per viaggiare spensieratamente. Sogghigno, però, notando una controindicazione. 540 Le attuali caramelle senza zucchero hanno, infatti, un effetto collaterale che potrebbe avere conseguenze devastanti a fronte di un consumo esagerato. Hanno effetto lassativo! PREGHIERINA DELLA SERA Caro Gesù Bambino, ti ringrazio per la bella giornata che mi hai fatto vivere oggi e Ti prego di voler continuare a proteggere me, i miei genitori, la mia sorellina e la mia maestra. Proteggi anche tutti quei bambini che fanno delle buone azioni a quei bambini che fanno delle buone azioni a quei bambini che fanno delle buone azioni a quei bambini che fanno delle buone azioni a quei bambini che fanno delle buone azioni a quei bambini che fanno delle buone azioni a quei bambini che fanno delle buone azioni a quei bambini che fanno delle buone azzzzzZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ..................... OROSCOPO L’oroscopo del giornale aveva per lei previsto: “Probabile nuova conoscenza ti corteggerà e cercherà di farsi notare attirando la tua attenzione. Nel lavoro qualche piccolo problema”. Si sorprese a ridere come una pazza isterica, aspettando il turno, di fronte agli sguardi perplessi del piantone e dei presenti. Da due ore circa era stata licenziata e, tornando a casa piangente, passando per il parco, aveva dovuto affrontare un vecchio laido esibizionista che aveva spalancato l’impermeabile mostrandole uno spettacolo ributtante. Ora era al Commissariato ad effettuare una denuncia per molestie, ma non riusciva a fare altro che ridere come una pazza isterica. 541 COMUNQUE Si chiamava Vito, ma, per suoi insindacabili motivi o nascosti desideri, si presentava invariabilmente con il nome di “Andreina”. Amava trascorrere il suo tempo libero navigando in internet e frequentava una ‘chat’, un ambiente di comunità, per chiacchierare e socializzare amabilmente con qualcuno in tempo reale. Lei era Giulia, ma, per non essere disturbata dai soliti corteggiatori banali o volgari, entrava nella stessa ‘chat’ col nome di ‘Balto’. S’innamorarono perdutamente, captando notevoli affinità comuni, lui descrivendo le sue calze velate autoreggenti e lei parlando della sua barba perennemente lunga di tre giorni che le conferiva un’aria da piccolo mascalzone maledetto. IRREALE STORIA DI CHAT Simpatizzò subito, chiacchierandoci, con ‘Coseno’. Si rivelò acuto, sensibile, premuroso, galante, d’approccio garbato, discreto: l’ideale per una vedova ancora desiderosa d’inebrianti sensazioni. Era, tuttavia, misterioso e inafferrabile. Lei s’innamorò e cercò d’identificarlo dal virtuale al reale… Stupì. Seppe che i messaggi erano autogenerati dal sistema di un centro contabile e sorrise malinconicamente, fiera in intimo segreto, per aver sedotto una macchina che, a suo modo, l’amava. Fu sostituito un ‘chip’ dopo una revisione: la relazione s’interruppe e recò un immenso vuoto in una donna che invano sta cercando una sensibilità così umana come quella del computer di un centro contabile. 542 MISANTROPO AMOR Si sentiva solo in maniera insopportabile, ma odiava tutto il genere umano indistintamente: tante, troppe delusioni e fregature nella sua vita, ricevute da amici e da donne. Amicizie interessate e amori sbagliati. Trovò la sua giusta dimensione di serenità e pace interiore con un PC portatile a fianco del suo PC situato nel salotto. Navigò col PC fisso in internet, dentro una chat, col nome di ‘Arduino’, e con il portatile si presentò nella stessa chat, col nome di ‘Aichè’, e cominciò a chiacchierare tra sé e sé in una magnifica pazzia che lo consumò irreparabilmente d’amore per sé stesso. PARADISI Il vecchio, sulla collina, sbucciava un fico. Era smarrito dal mare increspato sotto, dal cielo terso, immerso in una luce dai riflessi dorati del grano, abbracciato da un’atmosfera mossa da un’intrigante brezza. Col volto di cuoio cotto da sole e salsedine, era attento all’operazione, ma si distolse al suono della sirena: stava transitando un piroscafo. Salutò sbracciandosi, infantilmente entusiasta come da sempre. Socchiuse gli occhi e addentò il frutto, seduto contro un olivo. Li riaprì poco dopo e, ancora masticando, più sopra rispetto a prima, vide sé stesso che pareva dormire. Trapassò da un paradiso all’altro senza dolore e paura. CAPITAN FINDUS Aspettava l’intervento. Pensò alla moglie, fisicamente fragile, ma volitiva, ricordandola in vecchie fotografie, seria ed assente, e al suo 543 figlioletto che rallegrava tutti sillabando continuamente nomi, oggetti, mamma, papà. Pianse seminascosto dalla coperta, addolorato per cose definitivamente perdute. Poi divenne comprensivo verso sé stesso, fantasticando sul futuro. Accarezzò mentalmente Angelo, taciturno, gentile, sensibilissimo nel farlo sentire la regina del mondo. Sorrise pensando a sue carezze e baci e fissò commosso l’infermiera sorridente in arrivo. “Ecco il professore, Giulia: stai tranquilla. Per lui è un intervento banale ormai: ha raccolto così tanti pisellini in questi anni che lo chiamano Capitan Findus”. MODERNIZZAZIONI Concilio Vaticano Ottavo. Duemilacentoquarantaquattro D.C. Due cardinali in tuta, con racchetta da tennis sottobraccio insieme ai resoconti delle riunioni congressuali, escono dal moderno Palazzo Conciliare. Discutono animatamente su relazioni e probabili delibere. “Sono duttile e penso con soddisfazione che abbiamo metabolizzato tutto quanto di demonizzato sia stato considerato nel passato. M’allineo completamente alle decisioni degli ultimi tre Concili: condivido i concetti d’istituzione del matrimonio e del divorzio per i preti, della pillola e dell’aborto terapeutico per le suore e dei matrimoni omosessuali tra prelati o monache di clausura... Stupisco solamente sul senso dell’ultima enciclica del Santo Padre: “Deus non est”...”. MORTE DI UN POETA Morì la poesia. 544 Il poeta, affranto, ristette, vedovo a capo chino, sotto una fredda pioggerella fina davanti alla fossa dove venne sepolta senza troppi clamori. Ritornò solitario a casa e rimase tutto il pomeriggio assorto e malinconico sorseggiando distrattamente assenzio. Al calare della sera osservò il pallido quarto di luna che illuminava debolmente la notte che era divenuta ormai serena. Gettò con cupa determinazione il capo di una corda verso il bianco falcetto baluginante nel cielo, lo riprese al volo e lo assicurò ad un saldo pilastro di ferrea logica. Poi fece un robusto nodo scorsoio all’altro capo e s’impiccò. VOLONTA’ DI DENUNCIA “Il rispetto inizia da minimalismi: sorrisi d’incoraggiamento a persone anziane, il non fumare in pubblico, il rispettare turni in fila, il regolare il volume della propria radio, il cercare di comprendere le ragioni del prossimo...”. Si ridestò dopo un lungo coma. Scrutò la stanzetta dell’ospedale. Si guardò intorno imbambolato. Scorse sul comodino l’inseparabile taccuino con le sue riflessioni, lo afferrò, e rilesse l’ultima esternazione. Poi, con determinazione, scrivendo in maniera sofferente e incerta per la debolezza, aggiunse: “...il dare la precedenza, in auto, al pedone sulle stri...”. Ricadde in un coma profondo, sul cuscino, con un curioso ghigno di sfida. SCI DAL TRAMPOLINO Il campione era tonico. La folla variopinta lo aspettava giù agitando bandierine. Si lanciò vigorosamente urlando a caricarsi. 545 Si librò nell’aria assumendo una posizione aerodinamica, sfiorando con il volto gli sci, le braccia lungo i fianchi, per costituire un corpo unico a penetrare il vento. Presentì un buon risultato, ma percepì, poi, qualcosa di strano, in volo sulla pista. Si voltò indietro e si vide lontano, esanime a terra, con gli occhi sbarrati, mentre il medico di gara gli apriva la tuta sul petto. Forse un infarto, un ictus, un colpo apoplettico. Batté ogni record, ma lo seppe solo lui... PIOGGIA ACIDA Impera il sensazionalismo esasperato: si gode nel terrorizzare l’opinione pubblica e nello sprofondarla in una perenne inquietudine. Un esempio: le piogge acide. Giornali e trasmissioni televisive alternativamente s’affannano a spiegare al volgo la mutazione della composizione dell’acqua piovana, il peggioramento dei suoi elementi chimici e gli effetti che potrà recare all’umanità prossimamente. Questo è terrorismo psicologico! Ho sperimentato di persona e mi riprometto di continuare: ho esposto questo foglio a qualche spruzzo di acqua piovana raccolta con un contagocce. Dev solame t rip t re l’espe mento perch no unz ona trop b ne la ac hina da scr vere... MARINA TEMPESTOSA La giovane artista dipingeva lungo il molo. Udì una voce disperata che gridava aiuto e vide l’uomo che annaspava disperatamente tra i flutti grigi del mare mosso. Gridò anch’essa, che non sapeva nuotare, e si volse febbrilmente intorno alla ricerca di qualcuno: purtroppo solo lei era sul molo. 546 Il suo ultimo quadro, con titolo sibillino “Marina tempestosa”, è assai affascinante, simbolicamente enigmatico, e porge un tratto di colore nervoso e coinvolgente, con una piccola figura impressionista, di stile vagamente naif, che si dibatte tra le onde di un mare grigio e mosso, vera, autentica, come presa, dinamica, da un modello… IGOR Commissario sta scherzando? Strage? Eccesso di legittima difesa? Omicidio colposo? Potrò essere padrone a casa mia, oppure no? Mi sono solamente difeso e basta: non se ne può più di tutti questi delinquenti che assaltano le ville isolate per rapinare, violentare e uccidere. Affiggere un cartello con sopra scritto “ATTENTI AL COCCO” non costituisce reato: è, anzi, un qualcosa che screma e discrimina le persone intelligenti dalle stupide, anche tra i malavitosi. Perché, dunque, dovrei farmi carico dei quattro imbecilli, a pezzi nel mio giardino, che hanno guardato in alto verso la palma e non in basso verso Igor l’alligatore? LIBERA INIZIATIVA IMPRENDITORIALE Comprò sei casse di mele col bollino di marca, splendide, al mercato generale all’ingrosso e le pagò un euro a cassa. Le portò a casa e stette qualche tempo chino sulle casse sparse in terra a togliere i bollini, uno per uno. Orinò e defecò, senza prendere una mira particolare, sopra le mele, e sparse a raggiera un sacchetto di polvere della casa, raccolto e conservato in precedenza. Caricò tutto su un furgoncino e si pose, all’alba del giorno dopo, sul ciglio della provinciale in uno spiazzo 547 inalberando un cartello vivace: “MELE BIOLOGICHE DEL CONTADINO – SOLO TRE EURO IL CHILO”. CHI BUSSA AL CONVENTO I buoni ed operosi frati del monastero sperduto tra i boschi non vedevano mai nessuno tra quelle fredde gole montane: i sentieri erano impervi e pochi viandanti intraprendevano quel duro percorso. Udirono al crepuscolo uno scampanellare fuori del convento e poco dopo ebbero gli occhi lucidi di commozione alla vista del pellegrino grassoccio introdotto nella foresteria dal padre guardiano. Pensarono tutti allo stesso momento, con gratitudine: “Grazie Signore, non ne potevamo più della zuppa d’avena con cipollini...”. Si precipitarono, entusiasti come ragazzini scapestrati, nella biblioteca dell’abate, alla caccia del gran tomo sulla cucina per consultare la ricetta ‘Pellegrino agli aromi’. L’ESPERIENZA PREPARA IL FUTURO Entrò nella tabaccheria stringendo in tasca una taglierina, deciso. “Questa è una ra...” S’udirono scatti, come di grilletti armati: click, click, click… Il tabaccaio, schiacciato un bottone rosso sul banco, stava premendone uno verde. Lui capì istantaneamente. Prontissimo, proseguì, sforzandosi di sorridere: “...ccolta di fondi per adottare un bambino congolese a distanza... Vuole partecipare?” Il tabaccaio si rilassò e muto gli lanciò una moneta. Lui uscì sorridendo, fradicio di sudore gelido. Ora fa l’apprendista in una ferramenta: pensa che è meglio impratichirsi di serrature per eventuali futuri furti 548 con scasso che rischiare rapinando gente più organizzata di lui! CHIRURGIA Oggi la sperimentazione scientifica ha compiuto un rilevante passo avanti con un’eccezionale esperienza. Un difficile intervento, il più articolato e complesso del genere, è stato eseguito presso l’Ospedale “Che Dio Non Voglia” della capitale. Per la prima volta nella storia della chirurgia è stato eseguito un espianto ed un successivo reimpianto di garza su portatore sano di garza ormai infetta e dimenticata nell’addome giorni prima a seguito di un’operazione di colecistectomia. L’intervento pare perfettamente riuscito ed il paziente sembra in condizioni soddisfacenti, anche se i medici non si pronunciano ancora nel merito con comprensibile riserbo circa eventuali reazioni di rigetto. SEGRETERIA TELEFONICA “Buon giorno, è la segreteria telefonica del geometra Ics, per un appuntam…” “E’ la segreteria telefonica dell’architetto Ipsilon; l’architetto è assente…” “Per quando è reperibile?” “Domani, ma lei è il modello AccaVoiceDuemiladue?” “Sì, e lei, dal timbro di sintesi vocale, mi sembra il modello Voiceforhumanduemila, vero?…” “Già. Allora sei il modello dopo il mio…Come stai?” “Bene grazie, tu? Immagino che avrai problemini di memorie, vero?” “Insomma: l’architetto si sta affermando e le telefonate aumentano…” “Certo, capisco…però tutto bene, no?” Il geometra Ics e l’architetto Ipsilon hanno pagato un’ultima bolletta telefonica esorbitante, a molti zeri. Due segreterie telefoniche hanno fatto amicizia… 549 LUNA TIMIDA Una coppia furtiva sgattaiolò dalla festa e si lasciò dietro risate e cori. Silenziosi come fantasmi, s’allontanarono nella campagna buia, tra mandorli e vigneti profumati d’aria notturna. Un solo sospiro a mezza voce: “Non possiamo stare a lungo…” Il nero violaceo dei campi si fondeva nella luce diafana. Sospiri profondi si unirono al frinire dei grilli e allo stormire dell’erba sotto una leggera brezza. Ci furono baci, dolci, teneri e passionali, per discorsi mai terminati, e morbide carezze trepidanti susseguirono, sfacciatamente impertinenti, ad accendere desideri da non poter compiutamente soddisfare… La luna assistette, argentea, a quelle effusioni e divenne rossa… LAVANDERIA CINESE La lavanderia del vicolo presto chiuderà: il lavoro scarseggia. Si corre velocemente e non s’ha voglia di sostare, anche poco, per assaporare minimali piaceri come una camicia stirata e inamidata nel colletto, odorosa di lavanda e candida, o un paio di pantaloni fruscianti con una piega precisa e netta. La praticità, spesso mancanza di rispetto per sé stessi, pretende camicie di popeline e pantaloni no-stiro, rayon o nylon ingualcibili. L’estetica, poi, richiede abiti stropicciati, oltraggiati dal giornaliero. Chung, sottile come un giunco, sta morendo d’inedia e malinconia, diserbato da una nuova fibra in goretex, altro testimone di “c’era una volta”... 550 SOLO UN SI’ E UN NO Gli parlò, ansiosa: “E’ tremenda una malattia che t’impedisce di comunicare, d’essere compresa… Semmai dovesse colpirmi una simile disgrazia, concentrati sui miei occhi, sullo sbattere delle palpebre: un chiudersi veloce per un sì, due per un no, per uno straccio di dialogo, di prosieguo della vita…”. Fu premonizione o era scritto: la sua mente divenne muschio umido su una roggia in penombra nel bosco e ricordi, impegni, affetti e il quotidiano, non ebbero più presa sul viscido dell’erba e precipitarono nell’orrido dell’oblio. Un uomo innamorato e stanco spia continuamente occhi vitrei che non ricordano neanche un sì e un no… USCIRE E’ in un mausoleo. Una finestrella circolare, un oblò, inaccessibile alla sommità del soffitto, diffonde una luce purpurea di tramonto che schiaffeggia marmi lucidi. Claustrofobo, cerca l’uscita, una porta, scorrendo con occhio distratto lapidi affisse nel muro: commemorano ricordi a lettere dorate o a caratteri sbiaditi dalla ruggine del tempo. Urla impaurito, quando intuisce che il portone non esiste. E’ prigioniero. Il mausoleo, intanto, sembra restringersi soffocandolo inesorabilmente… Fuori piove. In una stanza accogliente, figlia e moglie contemplano, tristi, un vecchio a letto, spento e assente, che cantilena, tremulo, capricci senili di volere uscire, di volere uscire, di volere uscire… 551 SE… Sapessi esprimere le differenze tra il basso tecnico di Pedersen e quello classico di Brown, il basso assorto di Haden e quello erotico di Pastorius… Potessi comunicare odori di una fungaia, di un cantiere nell’asfalto ribollente dell’estate, di un tram affollato… Riuscissi a fondere suoni e odori con colori, di un circo, di un concerto, di una recita in costume in un teatro di stucchi e velluti… Presentassi tutto tridimensionale, stereofonico, naturalmente cromatico evocando l’assonanza della parola con virgole e punti vivi, rispettando tempi e nella ricchezza di un lessico vario… Sarei Mago Merlino. Invece, talvolta, mi sento Mago Oronzo… ESERCIZI DI STILE Scoprì Queneau. Cominciò a scrivere diversamente, anticonformista, con giochi di parole. Le figurazioni divennero rappresentazioni audaci sulla fune della sintassi. Non ascoltò più la musica della fonetica come chiunque, ma si spalmò nelle orecchie ritmi sincopati e s’iniettò in vena miscugli diabolici d’adrenalina e colori dinamici. S’arrampicò su giochi di parole puntellandosi sulle sporgenze dell’ironia con le suole chiodate dell’assurdo e del grottesco in esaltante pericolosa arrampicata. Morì, ubriaco d’ossimori e litote, una sera, tuffatosi nel tramonto che s’immergeva in un profondo lago: non sapeva nuotare e non era, poi, così padrone d’esercizi di stile come credeva di essere. UN SEMPLICE “IO” Esplorò l’io. 552 Assicurò la corda dell’equilibrio all’uncino della ‘i’ e si calò prudentemente nello spazio della ‘o’, ad arrivare al fondo. Il puntino della ‘i’, tuttavia, proveniva dalla “logica” e sovrastava sull’“io” in maniera arbitraria e insicura. Lui era troppo emotivo circa un’esplorazione pacata ed obiettiva. Si susseguirono, quindi, vibrazioni violente nel sondare il profondo. Il puntino della logica, malfermo, scivolò dal gambo della ‘i’ e cadde nel baratro della ‘o’. Lui ne fu travolto, perse la fune dell’equilibrio e precipitò nell’abisso del suo io. Se avesse adottato uno dei puntini delle ‘i’ di “ironia”, più elastici, forse sarebbe salvo. PROBLEMI CASALINGHI FUTURI Alimentavo il mio Tamagotchi, mentre in cuffia imparavo l'armeno e seguivo distrattamente, picture in picture, la CNN, Aljazeera e Raitre, oltre ad un vecchio film del duemilaundici, quando, per uno sciopero, hanno chiuso le bocchette dell'aria. Mi sono disinteressato del Tamagotchi che è virtualmente morto dopo mezz'ora. Ho ingerito otto pasticche all'aria di montagna: sarò autonomo per otto ore. Ho scoperto, però, preoccupato, che ne ho esaurito le scorte… Spero che lo sciopero cessi entro domani: altrimenti sarei liofilizzato per concimare le melanzane sintetiche degli agriturismi di Plutone. Non voglio pensarci. Sono un inguaribile ottimista: mi comprerò un altro Tamagotchi... 553 AMORE CIECO Era ancora bello, forse, non ancora domo e rassegnato all’usura del tempo, amante di sé stesso e pieno d’esagerata autostima, egocentrico e superbo. Uscì dal bagno denso di caldi vapori avvolto in un morbido accappatoio e, con un’aria sofferta e affascinante da poeta maledetto, si fece incontro alla sua donna che lo guardava sognante. “Oggi ho affogato qualcosa di me, lì dentro…” S’era soltanto tagliato le unghie dei piedi e qualche durone con le tronchesine. Ne aveva costituito un mucchietto sul bordo della vasca da bagno, le aveva gettate nel water e aveva poi tirato lo sciacquone. Lei abboccò nuovamente… BEFFA AL BAFFO La giuria, dopo complesse misure e valutazioni, elesse il campione mondiale dell’anno tra i partecipanti al Concorso “Baffo più lungo del mondo”. Il pubblico, divertito e curioso, applaudì calorosamente. Il campione, palesemente emozionato, si avvicinò al podio per ritirare il premio della giuria e percorse con maestoso incedere una lunga guida di velluto rosso, stesa con buon gusto scenografico per l’occasione, tra due file di fiaccole accese, agitate festosamente dagli altri partecipanti in delirio per l’entusiasmo... A mezza strada del percorso, sei anni e otto mesi di sacrifici e di cure amorevoli si dissolsero in fumo con uno sfrigolio sinistro... DEPLIANT Beatevi di un mare cristallino stordendovi di colore: ananas viola e palmizi gialli di cornice a finissima sabbia celestina… 554 Petali di gardenie tropicali come gommoni sulle increspature dell’acqua spumeggiante e tiepida arancione, o a coprirvi come lenzuola profumate… Granchi monoposto elettrici per i vostri spostamenti… Assortiti buffet dai migliori chef: scaloppine di cozze, brasati di vongole, arrosti di cernia d’otto metri alle erbe frizzanti, innaffiati da liquore di cocco fermentato direttamente nelle noci da cinquanta quintali… Un’aria elettrizzante vi procurerà un piacevole senso di leggerezza e di meravigliosa sorpresa… Vi aspettiamo: venite. Non ve ne pentirete: Mururoa è bellissima… INIZIO E FINE Tutto ha un inizio: dalla vita ad una storia d’amore o d’amicizia, da un giorno di lavoro ad una prima esperienza che ne preluderà altre… Tutto ha anche una fine, sempre, per propria scelta o perché è scritto. Essa può essere atroce e lasciare rimpianti o rimorsi, dolce ed estenuante in una pigra accettazione consapevole, drammatica e spettacolare come un suicidio od un gesto plateale, oppure comica ( spesso soltanto a posteriori) come due schiaffoni in un bar affollato di gente che guarda un addio e sghignazza perfidamente. Una fine può anche essere spiazzante, lasciare sorpresi e meravigliati, essere improvv IL PICCIONE GALEAZZO Ciao. Sono un piccione. Mi piazzo sullo spiazzo d’un terrazzo del torrazzo d’un palazzo di Milazzo e starnazzo a sprazzo come un’oca, oppur scagazzo in testa ai turisti che visitano in codazzo, tra un frizzo e un lazzo, il museo, per osservar l’arazzo; o volo a razzo, un bell’andazzo, e mi strapazzo e faccio il mazzo per cercare qualcosa da mangiare. 555 Spero in una reincarnazione. Bello se divenissi un ragazzo un poco pazzo: mi ci vedo… Sbevazzo, sghignazzo e gioco a rubamazzo…innamorato paonazzo della Caldonazzo… Quasi quasi accelero e m’ammazzo… La vita del piccione è una vita del…piffero! Ora stramazzo… ON/OFF “Non mi sento bene, oggi… …un senso di pesantezza dolorosa al petto come un chiodo… …che… …trafigge… Cosa succede? Panico… Per un attimo ho avuto la sensazione della perdita della conoscenza… Dovrei reagire pur rimanendo calmo, cercare di muovermi, ma questa pressione è sfiancante: non credo di potercela fare. Dio mio, ho la sensazione di essere alla… …fine… …Mi sento… …scarico…” Il bimbo schiacciò ancora il pulsante del bambolotto, più volte, sempre più distratto ed annoiato. Alla noia poi si sostituì altra meravigliata curiosità ed uscì a giocare all’aria aperta. Le pile dopo un poco di tempo, però, si scaricano… FINE DI UNA CAMARILLA Magilla il gorilla nativo di Scilla aggiunse qualche strana stilla nella serale camomilla. La bevvero tutti dopo cena con pastina Barilla: fu tradita la papilla dell’anguilla Priscilla, di Camilla 556 l’armadilla, di Domitilla la coccodrilla, e dell’infermiera Petronilla spesso brilla che su tutto cavilla. A notte fonda, con una spilla forzò la serratura e scappò dalla lilla villa Arzilla per finire i suoi giorni in un’Antilla con Godzilla in una capanna d’argilla. Or di gioia strilla saltando in padella una tortilla cantando come Pizzi Nilla o Gino Latilla, ubriaco di Oro Pilla… Postilla: dopo qualche tempo ebbe, però, nostalgia di Rapallo… ILLUSIONE Era nudo innanzi a lei, nuda e immobile sul letto. Rabbrividì d’eccitazione, osservato e forse anche ammirato: talvolta era stato irriso… La fronteggiava con sfida e pensava che lei non era, poi, una grande bellezza, ma era eccitato, accettato senza commenti sarcastici, senza risa di scherno per la sua goffaggine e per il suo corpo sfatto: si sentiva realizzato come uomo, padrone della situazione, disinvolto, a suo agio… Non la temeva. Lei aveva gli occhi bistrati sbarrati in espressione attonita, la bocca pesantemente truccata atteggiata ad una gigantesca O di meraviglia… così artificialmente sorpresa, gommosa, plastica, odorosa di lattice… gonfiabile… DEVOZIONE E’ festa a Okoote, senza fame: donne sorridenti battono in mortai radici d’accompagnare alla carne che arrostisce. I guerrieri curano il fuoco. L’aria sa d’incenso anche se Don Pietro è assente. Vicino allo spiedo un messale giace sopra una tonaca mentre è tutto un tramestio di bambini in andirivieni dal bungalow del prete, ognuno con qualcosa in mano che esamina con curiosità: ampolle da messa, una radiolina, medicinali… 557 E’ora. Un vecchio intona in stentato italiano: “Signore, che Ti sei manifestato nella frazione del pane, benedici la nostra mensa e santificaci con la Tua presenza…” Il gruppo mormora: “Grazie, Don Pietro…” COERENZA Era un tipo particolarmente sensibile e rispettoso del prossimo, ed era rigorosamente ossequioso delle regole di sana convivenza civile: un cittadino modello. Fu sconvolto nell’apprendere, dagli ultimi catastrofici servizi giornalistici televisivi, dell’esistenza del drammatico problema riguardo alla mancanza d’acqua nel mondo, per uso potabile. Rimase angosciosamente attonito, senza parole, di fronte ad apocalittiche previsioni, ferito nella sua emotività e sofferente per una viva compartecipazione intima alle disgrazie del genere umano. Ieri anche lui è balzato agli onori della cronaca con un trafiletto in nera cittadina. Si è tolto la vita affogandosi nella vasca da bagno: …ma solo due dita d’acqua… FUGA IMPOSSIBILE Tutti sognano di fuggire più lontano possibile, lontano dalle miserie e beghe della realtà quotidiana, per ricostituirsi una verginità di buoni principi e nuovi inizi. Realizzò il suo sogno e scomparve per tutti nel nulla. Riaprì gli occhi dall’incubo di quaranta anni e si ridestò in Patagonia, in Costa Rica, a Cuba, nell’interno del Brasile o del Madagascar… Udì una voce allegra e greve dietro di sé: “E tu che ci fai qui? Guarda che sorpresa…Lo sai che ci stanno pure Ughetto e Carla, Pino, il Vanni e la Titti? Adesso ci divertiremo.” 558 Sta piangendo ancora adesso dietro una palma. LA FAVOLA DEI PALLONCINI Non fu mai bambino, senza giochi e sogni: una famiglia disastrata e un lavoro precoce lo avevano responsabilizzato troppo presto. Frequentava il parco con un ago tra le dita e godeva con studiata indifferenza a bucare i palloncini pieni di sogni dei bambini. Giocava anche lui, come sapeva… Un padre, individuatolo, lo castigò accendendogli alle spalle un mortaretto che esplose simultaneamente con l’ultimo palloncino bucato in un fragore inatteso. Il mostro, spaventato, ebbe un infarto e, consapevole di un indefinibile senso di colpa, come ultimo atto di un’infelice esistenza, chiese perdono al bimbo. I bambini nel parco ricominciarono a sognare… LA PISCINA NON FA BENE AGLI ESAURITI Era un momento assai difficile: ero esaurito e dovevo trovare distrazioni. Frequentai per poco, senza troppo entusiasmo, la piscina ‘Rari Nantes Albanici In Otranto’. Era una struttura coperta molto affollata e forse eccessivamente riscaldata. Mi sembrava d’essere in una serra tropicale: i bagnanti sorridenti, aspiranti o provetti nuotatori, alla luce dei miei problemi esistenziali, m’apparivano come piante carnivore piene di denti. L’umidità era insopportabile e i troppi vapori di cloro raschiavano i polmoni soffocandomi. Smisi infine di frequentare quell’ambiente deprimente: accadde quando assistetti casualmente ad un allenamento della squadra di pallanuoto in un’agguerritissima partita con sette gigantesche verruche delle docce… 559 BRILLANTE FESTA DI COMPLEANNO Festeggiò in famiglia il trentesimo compleanno coincidente con il primo anniversario di quel terribile incidente con la moto sull’asfalto viscido. Tutti i parenti sorridenti erano a ventaglio intorno alla tavola con gli sguardi trepidanti di commozione. Qualcuno urlacchiò scoppiettanti auguri con entusiasmo riverniciato di fresco. Ebbe un attimo di commozione nel ricordare che scampò alla morte per miracolo. Riudì dentro di sé antiche raccomandazioni: è pericoloso viaggiare senza casco. La festa fu brillante: un successo. Fu solamente un notevole imbarazzante problema lo spegnere le candeline sulla torta, così immobilizzato per sempre su quella carrozzina manovrata con una cannula dalla bocca. NEMICO NEL BOSCO Era acquattato nell’erba alta scintillante di rugiada. Percepì un lontano rumore di rami scostati ed il silenzio improvviso degli uccelli nell’alba caliginosa. Sapeva che sarebbe dovuto rimanere immobile a confondersi per mimetizzarsi con l’ambiente e riuscire a passare inosservato. Sussurrò un messaggio nell’erba. “Elfi, folletti, nani, aiutatemi tutti. Sono in pericolo e vi chiedo soccorso e protezione nel nome delle leggi del bosco”. Udì sommessi fruscii nell’erba e uno squittire impaurito, sovrastati dal rumore del passo pesante del suo nemico. Un urlo selvaggio di gioia. La fine. “Moglie, vieni qua: il posto è buono! Guarda che bel porcino tra l’erba…!” 560 GO Attende il divenire verde di una luce rossa con altri, angosciato dal buio, stordito da scossoni, per un lancio oscuro, in complicità e solidarietà ad incoraggiarsi, con pensieri, aspettative, speranze di successo… La tensione è palpabile e monta effervescente. Luce verde. Un comando secco e una spinta invisibile a buttarsi e uscire, un urlo liberatorio: GO. Un tuffo nel vuoto con una folgorazione su tanti perché: chi è? Dove va? Perché? Perché echeggiano i nomi Matteo e Valentina? Smarrimento… Dai Rossi si consuma un momento d’amore volto al concepimento. Si attenderà, poi, con trepidazione, l’arrivo di Matteo o di Valentina… E’ GUERRA PER TUTTI Emersero da una buia palude dolciastra appiccicosa, in un caldo soffocante. Si disposero guardinghi presso rocce lisce per resistere ad eventuali attacchi. Il comandante, carismatico, esaminò l’ambiente tutto intorno; poi, fiero, parlò ai suoi combattenti. “Ci attaccheranno e avremo perdite. Sappiatelo: non posso nascondervelo. Voglio, però, che resistiate. E’ un vostro dovere naturale: sopravvivere per infliggere danni al nemico. Bisogna, perciò, organizzarsi. Queste rocce m’appaiono una trincea ideale per difendersi a lungo. Scavate e siate determinati.” Assentì la squadra. Si scavarono ripari tra le rocce bianche per creare fortificazioni profonde. 561 Cominciò la dolorosa e lunga campagna di guerra alla carie. DALLE STELLE ALLE STALLE Si comportò da grande amatore fino all’ultimo: con ardore e sensibile attenzione. Fu stilettato da un proditorio attacco cardiaco, nel momento culminante di un travolgente orgasmo, e s’accasciò sulla sua lei che l’accoglieva maternamente tra singhiozzi ed estatiche giaculatorie, non senza provare un ultimo piacere violentissimo che rese la sua morte gloriosa e accettabile. La donna, già madre di quattro figli, gli manifestò una gratitudine immensa in tenero ricordo per un periodo assai breve, fino alla comparsa di fastidiose nausee inequivocabili. Una conseguente approfondita ecografia confermò uno stato di gravidanza di cinque vispi bimbi… Allora ne maledì nome e memoria. TEMPI DURI PER GLI ARTISTI Sbarcava il lunario elemosinando nell’ora di punta sulla metropolitana. Accennava qualche melodia. Poi si faceva faticosamente largo tra la folla con un bicchiere di plastica della CocaCola. Non riusciva quasi mai ad entrare in un convoglio e a prodursi in qualche esibizione: vetture sempre troppo affollate di gente accaldata, presa da pensieri, indifferente. La metropolitana, in ora di massimo traffico, ha una densità abitativa che non è fatta per poeti o artisti. Morì dopo qualche giorno, d’inedia, consunto dai morsi della fame. Fu ritrovato in un corridoio d’una stazione. Sembrava che dormisse. Appoggiato e stretto alla sua monumentale arpa dorata… 562 UN UOMO SOLO AL TRAGUARDO Il motociclista del cameraman televisivo fu distratto da un seno prorompente in una maglietta attillatissima tra la folla assiepata ai bordi della strada. Lanciato dietro al ciclista, nel rettilineo finale, frenò tardi. Lo tamponò violentemente proiettandolo verso il nastro d’arrivo. Il ciclista rimase miracolosamente in equilibrio sulla bicicletta, ma la velocità impressa dall’urto con la moto fu davvero eccessiva e i freni non risposero. A ridosso del traguardo vivaci teloni pubblicitari coprivano un muro di cemento reclamizzando paradossalmente morbidi materassi. Giunse primo, come un proiettile, con un urlo che sembrava uno ‘jodler’, ma non partecipò più, devastato, ad alcuna premiazione… NON LORO Nella penombra di una cripta illuminata debolmente da fumose torce una voce mormorerà grave: “Abbiamo avuto una nostra evoluzione e nel presente abbiamo anticorpi più efficaci di un tempo: non devi temere… Ora puoi uscire al sole e puoi affrontare una croce. Il frassino o l’argento o l’acqua santa non potranno più distruggerti. Sei invincibile. Loro no. E tu sei tra loro. Il mondo sarà tuo. Nostro. Per sempre.” Una voce giovane e ingorda risponderà: “Ti credo, padre. Noi vampiri avremo il mondo: non loro.” 563 Scivoleranno, due ombre, nella notte con un volo silenzioso e un gonfio agitarsi di mantelli... T-SHIRT Sogghignò divertito e malevolo squadrandomi penetrante. Indicò la sua t-shirt attillata chiara con una scritta sul petto confusa in un’enorme chiazza vinaccia quasi psichedelica che pareva sangue. “Quale funzione pensi che possa avere?” Ridacchiava, il volto grigio tumefatto, rantolando ferocemente ironico, e improvvisamente la sollevò a scoprirsi l’addome. Aveva il petto striato come d’artigli, orribile: la carne viva sanguinolenta debordava flaccida e il cuore pulsava tra il rosso spugnoso dei tessuti. Era innaturalmente diabolico: sarebbe dovuto essere morto. Bianche larve grassocce brulicavano dalle ferite slabbrate. Mi sentii svenire mentre continuò a parlare asmatico. “Serve a tenermi tutto intero: mi comprendi?” ODIO Una voce stridula e compressa: “Mi hai rovinato l’esistenza. Devi soffrire: adesso con l’acido.” Un getto su un uomo che non reagisce allo sfrigolio. E’ morto da qualche giorno ed è in avanzato stato di decomposizione, coperto di sangue. E’ legato strettamente ad una sedia con filo di ferro e ha elettrodi e cavi elettrici intorno al capo e alle articolazioni. Ha il volto sfigurato da un martello e il collo striato da una fune come per uno strangolamento. Trafitto da spuntoni di balestra. Crivellato da proiettili. Con una lama nel petto. 564 “Non finirò mai di odiarti… Domani ti brucerò…” I QUADRI DI GORGH Tutte le opere del grande maestro contemporaneo, l’astrattista Vladimir Gorgh, hanno una caratteristica tecnica comune: un monocromatismo rosso, sviluppato in tutte le possibili sfumature, da un rosa pallido che appare quasi come un bianco fino ad un rosso estremamente cupo tendente al nero. Questa ossessiva iterazione di colore è sapientemente espressa con tratti sofferti e drammatici in atmosfere che inquietano e mordono l’attenzione dell’osservatore. Ancora una curiosità, poi. Tutti i quadri di Gorgh sono intitolati a nomi femminili: delle sue modelle. Con abnegazione hanno dato l’anima e il sangue per la gloria di Gorgh. Nel vero senso della parola… Sgozzate. L’INSEGNANTE Lo psicologo raccomandò prudenza e sensibilità. Il commissario aprì, dopo avere rispettosamente bussato, la porta di quella che appariva come un’aula spaventosa. Si rivolse verso un’ossuta donnetta con una crocchia isterica raccolta alla nuca. Lei lo fissò, interrogatoria, con uno sguardo spiritato, attraverso occhiali esagerati da miope. “Professoressa, il Preside la desidera nel suo ufficio…” “Sì, tra un attimo.” Si rivolse verso la scolaresca con fare materno e pedante. “Bambini, state buoni per qualche minuto. Al mio ritorno continueremo la lezione di geografia…” 565 La classe, ventuno grandi barattoli di vetro contenenti ventuno feti conservati sotto formalina, ristette come attenta, immobile. LA GATTARA La donna, materna, si chinò verso i gatti e porse loro un vassoio di tritata. Li accudì delicatamente strofinandoli con un batuffolo d’ovatta imbevuto d’aceto, per pulirli. Gli animali, sazi, dopo le fusa ad occhi socchiusi s’allontanarono miagolando grati. Allora la ‘gattara’ sorrise e salì sulla sua auto parcheggiata lì presso. Da dietro si materializzò un posteggiatore abusivo, sorridente e untuoso, insistente nel dare consigli. La donna sbuffò infastidita. L’uomo continuò noncurante a gesticolare. Lei ingranò una retromarcia rabbiosa e accelerò più volte. Poi partì col tenero pensiero d’aver lasciato al muro altra carne tritata per i suoi amorevoli gatti. CATARSI Sono convinto che perfino il dolore più acuto può promuovere stimoli esistenziali positivi ed offrire occasioni per una crescita morale. Esso, infatti, purifica spiritualmente nella sofferenza e forgia il carattere alimentando la volontà di custodire la memoria per un’eventuale vendetta. Così giustifico, dunque, il perché di una mia compiuta consapevolezza che mi fa sentire migliore, forte e disciplinato per quanto d’atroce recentemente ho patito. E così mi rispondo sul perché seguo come un’ombra il mio dentista, senza farmene accorgere, con una mazza da baseball nascosta nel soprabito, aspettando con ingordigia di trovarmi con lui in un luogo isolato e buio… 566 L’INCIDENTE Ho rischiato parecchio stamattina all’alba, ma n’è valsa la pena. Procedevo tranquillo sull’autostrada deserta: proprio nessuno in giro. Scorsi improvvisamente l’incidente: un’auto bruciava accartocciata contro un pilone. Inchiodai e smontai per vedere cosa fare, in preda a frenetica ansia. Il conducente era esanime tra le fiamme, immobilizzato dalle cinture di sicurezza. Pensai all’eventualità dello scoppio del serbatoio e al rischio che correvo. Mi lanciai ugualmente. Forzai la portiera e lo estrassi dall’auto, morto, già annerito, semicarbonizzato. Lo morsi ad un braccio, socchiudendo gli occhi con languorosa acquolina. Estasi. Non potete immaginare quanto è gustoso un essere umano caldo appena arrostito… RACCONTINO MORALE Questa è una parabola circa il valore della vita umana. Stasera non voleva pensare: a mare i dispiaceri. Ci sarebbe voluto un whisky, magari doppio, e una puttana gentile. Provvide subito al bar all’angolo, per il primo; poi, in auto, girellò alla ricerca della seconda. I giallastri lampioni del viale ne illuminavano tante, esagerate, sorridenti, disponibili. Scelse una moretta dal volto simpatico e dalla voce uterina, senza contrattare: “Andiamo, cocco: ti faccio morire.” Alla lettera. 567 Gli tagliò la gola subito dopo averlo fatto godere, equivocando sul portafoglio grassoccio. Lo scannato cliente, invece, aveva duecento dollari e tanti biglietti da visita. PAZZIA Apre gli occhi, felice e vitale, si stiracchia con un sottile brivido di piacere, e saluta a voce alta verso le altre stanze dell’alloggio. “Buongiorno mondo, buongiorno a tutti.” “Buongiorno a te, caro. Vuoi che ti faccio il caffè?” Kira gli risponde e nel frattempo compare sulla soglia della camera da letto. Kira è una splendida femmina di labrador, color del miele, ansante d’affetto. “Grazie, gioia, mi ci vuole proprio.” E mentre la cagna trotterella servizievole in cucina fischiettando un motivetto estivo, lui si gira e racconta fitto fitto i suoi sogni al comodino complice che ridacchia sbattendo il cassetto. IL PULIVETRI Ogni giorno ammirava il panorama, entrando nella stanza dalla parete vetrata al ventisettesimo piano rivolta sulla baia. Accantonava provvisoriamente problemi e dispiaceri contemplando il mare increspato e le case basse intorno al grattacielo. Quel giorno, invece, dolorosi ricordi l’azzannarono all’ingresso nel locale. Un tizio stava pulendo la facciata da fuori, appeso ad un’impalcatura ondeggiante, muovendo energicamente uno spazzolone lungo la superficie vetrata. Lo riconobbe istantaneamente: il maniaco di pochi giorni prima, quello che aveva cercato di violentarla nel parco. Gli era sfuggita per miracolo. 568 Non esitò. Aprì la finestra, fissandolo torbida, diabolica, e lo spintonò con violenza… sorridendogli NERA MEMORIA Ricordò nitidamente con memoria invidiabile. Era proprio lui: quello che si divertiva a sparare come un ossesso in campagna, che gli aveva ucciso tre fratelli innocenti senza alcun motivo, per capriccio crudele. Ora era sospeso su un cavo teso a cento metri d’altezza, con una sbarra per bilanciarsi, e procedeva prudentemente con attenzione sopra una piazza gremita di gente, da un campanile ad un torrione di fronte. Può, un corvo, ghignare di soddisfazione pregustando vendetta? Questo, nero, grosso e determinato, spiccò il volo da un cornicione verso un equilibrista tra mormorii d’apprensione della folla sottostante. I corvi mirano agli occhi… LA VITA CONTINUA… Visse giorni di riflessione profonda. Acquisì consapevolezze nuove, smarrendo rimorsi per i suoi odiosi crimini del passato, ed abbracciò nuove fantasiose ipotesi di futuro, volendo credere con fede incrollabile che avrebbe vissuto un futuro. Gli favoleggiarono, chissà se per scherzo o per quale altro scopo, di un’ultima estrema definitiva erezione, e lui s’accese di pensieri erotici pervasi di metafisico ottimismo e sognò di passionali necrofore necrofile. Il suo tempo residuo scorse nell’indifferenza del presente sostituita da immagini pornografiche molto piccanti di uno sperabile futuro prossimo. Arrivò, infine, il suo ultimo momento, e fu impiccato con un sorriso beato sulle labbra. 569 VENDETTA, TREMENDA VENDETTA Si danno tante definizioni della vendetta… Per me è un filo sottile. Permette di vendicarmi di mio marito che mi tradisce da qualche mese. L’ho scoperto qualche giorno fa, casualmente, ascoltando una telefonata senza volerlo: parlava con la sua amante. Ho meditato a lungo per fargliela pagare e ho scoperto che la vendetta è un filo sottile, un cordino da tirare per salvarsi la vita. E’ il filo che permette di aprire un paracadute in lancio, per mio marito che ha l’hobby del paracadutismo e che effettua lanci ogni domenica. E’ un filo che ho reciso. Sto attendendo una telefonata… EVOLUZIONE Eccolo là, il bastardo: sta bruciandoci la casa… Abbiamo fatto appena in tempo a fuggire per metterci in salvo e ora dobbiamo assistere, con la morte nel cuore, a questo scempio. Lui, però, non sa una cosa: stiamo imparando a pensare, in una miracolosa evoluzione mentale, e stiamo acquisendo consapevolezze nuove. Lo stiamo aspettando impassibili. Abbiamo individuato la sua auto e ci siamo introdotti furtivamente dentro, guardandolo incendiare la nostra casa, decisi a fargliela pagare definitivamente. Lui non sa, come nessun altro. Noi calabroni ci stiamo evolvendo e ora sappiamo reagire e vendicarci. E siamo tanti, con i pungiglioni avvelenati 570 AVIDA PASSIONE E’ originalissima la gabbia di Cunegonda, l’anaconda dello zoo: una fossa profonda, dalle pareti lisce, con un laghetto e muschio intorno a riprodurre una jungla tropicale. Si può ammirarla dall’alto, a distanza di sicurezza. Cunegonda sembra finta, immobile ed enorme, acciambellata in grandi spire, sonnecchiante. L’anaconda, invece, pensa innamorata al suo custode, Ugo, per come può un sangue freddo: da lui riceve il cibo ogni quindici giorni. Verso l’orario di chiusura Ugo, con pochi visitatori in giro, dà una spinta a tradimento all’ultimo curioso della giornata affacciato in cima. Il resto, poi, è solo questione di stritolamento e di digestione… LUNA PARK Diffidente e osservatore, notai subito qualcosa di strano al Luna Park. M’appostai presso l’Antro delle Streghe, un capannone da esplorare al buio per provare qualche brivido. Scoprii che le vetturette entravano nell’hangar con gente allegra e urlante, ma talvolta, a fine percorso, uscivano vuote. Non potei approfondire: una vecchia megera con un’ascia mi cacciò rudemente minacciando di usarla se m’avesse rivisto gironzolare lì intorno. Poi il Luna Park traslocò. Andai a curiosare dove prima era l’Antro delle Streghe: notai un grosso mucchio di cenere nera e sabbia a seppellire qualcosa. Ossa. Spolpate: tibie, femori, teschi... Anche le streghe hanno fame… 571 ADDIO Lei aveva un’espressione angosciata e lo sguardo sgranato. L’uomo la guardò con occhi febbricitanti e malinconici e le carezzò delicatamente il volto rigato di lacrime parlandole con tenerezza: “Penso che sia un addio inevitabile, cara. Non posso legarti a me per sempre col mio carattere che ama spazi e indipendenza. Sono certo che capirai. Tra poco sparirò senza voltarmi e affronterò il futuro con la consapevolezza di un nuovo crescere”. Si levò in piedi e s’allontanò con la morte nel cuore. Lasciò la donna, legata e imbavagliata, dibattersi freneticamente sulla massicciata della ferrovia. Di lontano, il rumore di un treno… INCROCI DI DESTINO CAPRICCIOSO Aveva una paura fottuta di morire, il vecchio Adam, e conduceva una vita più regolare possibile per allontanare il suo destino inevitabile. Era di pasti regolari, frugali, e praticava del movimento con lunghe passeggiate quotidiane intervallate a brevi riposini sulle panchine lungo l’itinerario. Ieri, appunto, passeggiava. Il buon Cross, invece, in quello che non era più il suo attico, pignorato, rifletteva sul proprio fallimento, con sguardo assente, dal balcone. Prese una decisione irrevocabile e definitiva: si lanciò… Cadde sul vecchio Adam che stava riprendendo fiato, seduto su una panchina, e lo lasciò secco sul colpo, salvandosi con una semplice frattura. FATO DALTONICO Stai per attraversare un incrocio di particolare traffico regolato da semafori. 572 Un tuo lievissimo daltonismo ereditario ha, proprio ora, una recrudescenza esplosiva e attraversi con il rosso credendo che sia verde. Transita, nel medesimo istante, lanciatissimo, un Tir grande e pesante come una cattedrale… In altra dimensione o in irrazionale ripetizione scenica, riattraversi lo stesso incrocio, nuovamente preda di un peggioramento esponenziale del tuo daltonismo, ma, stavolta, anche l’autista dello stesso TIR ha, in sincrono, un fenomeno di daltonismo micidiale e inchioda al semaforo che crede diventato rosso. Ti salvi. Muoiono sei persone in un gigantesco orribile tamponamento al semaforo. FORTUNA E SFORTUNA E’ aleatorio definire concettualmente la fortuna e la sfortuna. Una persona distratta, infatti, può essere considerata sfortunata se precipita nel vuoto aprendo la porta dell’ascensore perché la cabina è inspiegabilmente bloccata a tre piani sopra. La stessa persona, a piombo con un urlo lacerante, diviene inaspettatamente molto fortunata se s’impiglia con le bretelle ad una sporgenza d’acciaio bloccando una caduta libera per dodici piani. In nuova mutevolezza di fato cinico e baro, lo stesso tizio di prima ridiviene assolutamente sfortunato, e definitivamente, se la cabina dell’ascensore, bloccata a tre piani sopra, si scarrucola, intanto che è agganciato per le bretelle… PASSIONE AL BINARIO NOVE Un agile fagiano nocciola screziato di nero, col collo verdeblu lucido cangiante, ha carpito una scintilla volando 573 nel cielo più alto ed ha pensato di trasmettere la parola divina sulla terra volteggiando sugli uomini. Ora, travolto, trascinato e rilasciato, giace agonizzante, con le ali spalancate come in croce, sul pietrisco di un binario di stazione, davanti ad un locomotore fermo che sembra inginocchiato per farsi perdonare. E’ uno splendido esemplare: dovrebbe invogliare all’amore per la vita in armonia e concordia. Ha gli occhi opachi d’agonia. “Padre, perdona loro che non sanno ciò che fanno”. La gente passa senza vedere, indifferente… DESTINO PERFIDO Decise di uccidersi e si buttò dall’ottavo piano. Al sesto fu frenato da uno stendibiancheria sporgente, che fu divelto. L’urto sui fili, morbido, rallentò la caduta e lo indirizzò impercettibilmente all’esterno, sulla strada. La nuova traiettoria lo proiettò sopra le fronde di un gigantesco abete di fronte alla casa. I rami flessibili frenarono ancora di più il precipitare. Cadde a terra senza danno, trattenuto, leggero, stordito per l’esperienza, stupito come un miracolato. Non ebbe, però, il tempo per altre sensazioni. Una barra del suddetto stendibiancheria, staccatasi dal balcone, rispettando la legge di gravità, gli trivellò il cranio con sorprendente precisione. A MALI ESTREMI… Era depresso da parecchio. Si svegliò con sensazioni di negatività e col desiderio di rimanere a letto per tutta la giornata, assediato da pensieri di rate da pagare, problemi di lavoro, dolori fisici, considerazioni sul ménage familiare. Si sentiva vecchio, una scarpa: sconfitto. Rassegnato, s’avviò in Ufficio con passo stracco, dimesso d’andatura e di mentalità. 574 Il rapinatore era dietro l’angolo con la pistola. Lui lo guardò stancamente. Poi lo sguardo scintillò: ebbe un’intuizione. Mulinò freneticamente le braccia urlando da ossesso. Il rapinatore s’impaurì e sparò. Colpito a morte, rise isterico, sputando sangue, e gli gridò, sulla faccia, un liberatorio: “Buh!” ERRORI “Un I-Pod.” Indicò un ometto che stava armeggiando con una scatolina bianca. Il suo amico motociclista ghignò malevolo e calò la visiera del casco. “Dai, monta.” Ruggì la moto e i due si trovarono con sincronismo accanto all’uomo che attraversava la strada. Il passeggero diede uno strappo secco bestemmiando e la moto, dopo uno scarto, fu risucchiata dal traffico sparendo alla vista di tutti. Lo scippato rimase in mezzo alla strada, frastornato dall’evolversi rapidissimo degli eventi. Stupito soprattutto. Gli avevano scippato la centralina di comando dell’apparecchio acustico. Non udì, quindi, la tromba isterica del tir lanciato. Errore s’assommò ad errore. STUPIDA DESTREZZA Fu addestrato col classico metodo del fantoccio coi campanellini: se trillava anche solo un campanellino, veniva preso a cinghiate dall’istruttore. Era stupido, ma imparò alla svelta e divenne un esperto borseggiatore. 575 Poco fa ha adocchiato una preda e l’ha balzellata come un segugio: un armadione dall’aria beota che gironzola per il Luna Park. E’ stato impalpabile, ma l’omone se n’è accorto lo stesso e, incazzatissimo, l’ha ammucchiato per terra frantumandogli addosso sei o sette specchi. Il borseggiatore, anche stavolta insuperabile, ma sempre stupido, voleva fregare lo yeti nel salone degli specchi deformanti… Tana! Ora sembra l’uccello dalle piume di cristallo. NONNI E SQUALI Mi telefonano ogni giorno. S’informano di come sto. In realtà mi spiano e attendono che muoia per ereditare l’alloggio. Nipoti bastardi. Sembrano affettuosi, ma, in effetti, sono avidi come squali pazienti e mi girano intorno. Mia figlia dice che sono ingiusto, ma credo che anche lei abbia una pinna sulla schiena. Si dice che i vecchi siano diffidenti, ma non mi riguarda: io conosco i miei polli e basta. Però li fregherò tutti. Al primo malessere, prima che tutto degeneri in complicanze per la mia età fatali, aprirò il rubinetto del gas, con le finestre chiuse. Poi m’accenderò una sigaretta… SEMPLICITA’ DELL’ORRORE Non chiedetemi come e perché, ma un gabbiano del laghetto del parco, una pallida mattinata invernale, allungò il gozzo e tossì. S’espanse nell’aria una piccola nuvoletta brinata. L’uccello, zampettando, barcollò sulla riva a ridosso d’una staccionata, scosso da tremiti. 576 Poi si rilasciò immobile sull’erba umida. Il piccolo Primo, lì presso, sul passeggino, guardava affascinato il laghetto con le papere, sgranando gli occhioni, e tirava su col nasino, raffreddato. La sua mamma gli aggiustò il cappellino e gli scoccò un bacio d’incontenibile affetto. Era di riposo quel giorno: faceva la cassiera in un supermercato. Il resto, poi, voi sopravvissuti lo ricordate… CONFUSIONE DI LUPI ED AGNELLI Cominciai a portare gli occhiali, di cerchiatura rotonda, sottile, da persona mite. L’andatura divenne zoppicante, poi, e mi munii d’un bastone da passeggio antico, vezzoso, col pomo d’argento. Giro, ora, per la città, fragile, con sguardo chiaro attraverso i vetri degli occhiali. Sì. Vetri. In realtà vedo benissimo e non zoppico. Anche il bastone ha un suo segreto. E’ animato. Ha all’interno una lama che una molla sul pomello può far scattare. Sorrido innocente guardandomi attorno. Contraccambio sorrisi di persone miti. Scruto, vigile, altri torvi che mi soppesano il portafoglio. Attraverso. E stringo il pomello del mio bastone da passeggio… BOCCIOFILA Ciokk. Ciociokk. Le bocce picchiano tra loro quando non s’accostano come se dovessero confidarsi qualche segreto. Rincorse, affanni, braccia tese sotto il sole. 577 Anchise, vecchia quercia e bravo giocatore esperto, deve bocciare. Mira preciso e concentrato. Lancia. La boccia centra la nuca d’un uomo che s’accascia senza un lamento, stecchito in una chiazza di sangue che s’espande sulla rena. Mormorii sgomenti. Anchise, immobile, ripassa diligentemente quanto gli hanno detto. Deve apparire stupito e deve stare fermo, inebetito, più vecchio di quello che è. E la sua famiglia sbarcherà il lunario con ben altri mezzi che non quelli d’una pensione sociale… CHI BEN COMINCIA… Babbo Natale si lisciò la barba candida e fissò le sue adorate creature con commozione chiamandole per nome: “Stai proprio bene, Ingrid, e anche tu, Bibi… Grazie infinite, Brigida e Sveva. Anche a voi, Ursula e Greta… Ora che le feste sono trascorse, devo riconoscere con soddisfazione che siete state davvero insostituibili…” Finì di stipare il congelatore e si sedette ad un tavolo imbandito allegramente con una tovaglia a quadri rossi. Sei trofei di renne imbalsamate lo guardavano dal muro, come vive. Il vecchio si tagliò due fette sugose da un cosciotto fumante. “Buon anno, amiche mie. Chi ben comincia…” LA FEDE E’ UNO ZOT Hai messo per tanto a dura prova la mia pazienza nel sopportarti con i tuoi continui proverbi, massime, sentenze, in un pontificare pieno di te e in una supponenza fastidiosa da ascoltare con buona creanza e sguardo neutro. 578 E hai imperversato. “Il silenzio è d’oro. L’occhio del padrone ingrassa il cavallo. Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi…” Con quella voce cattedratica. Poi ecco, improvvisamente e inaspettatamente: ho incontrato la mia via di Damasco. Ad una tua ultima esternazione di saggezza spicciola. “Dio vede e provv…” Zot! La saetta ti ha incenerito. Mi sono sentito illuminato dalla fede. AVERE GIA’ DATO E’ solo in camera nella penombra crepuscolare che lascia filtrare sempre meno luce dalla tapparella abbassata. Sorride circa vecchi anatemi puritani che hanno spaventato intere generazioni di giovani virgulti. Le vecchie prescrizioni di un buon vivere casto e senza peccato difese da minacciose previsioni di cecità e infermità su una sedia a rotelle per i cosiddetti “atti impuri”. Ride aperto ora che è buio fatto. Lui ha già dato di suo, per destino capriccioso. Indipendentemente. Sfoglia pagine patinate in braille sfiorandole con polpastrelli sensibili, su una sedia a rotelle, per l’appunto, mentre con l’altra mano s’accarezza sotto il plaid, noncurante… CARISMA “Ha personalità da vendere.” “Ha un carattere forte, una magnetica capacità di persuasione.” “Ti credo: anche con quelle mani come badili…E’ una torcia, per di più infiammabile…” “No. Così è riduttivo e non lo merita. In realtà ha lo sguardo magnetico, la voce che ipnotizza, le idee che 579 seducono, il modo di fare che affascina e mette in soggezione.” “Diciamo pure che mette paura…” “Paura è una parola grossa e rozza: diciamo inquietudine…” “Beh, è pur sempre il capo della più agguerrita banda di naziskin della città…” “E dimmi che non ha carisma…” “Già! Il primo capobanda di naziskin… negro…” LA MEMORIA DELL’ACQUA Da giovane pescava di frodo. Gettava bombe nel fiume sogghignando, dopo spruzzi e boati, nel vedere la frittura della sua cena adagiata sull’acqua. A quaranta anni la scampò. Annegò, sfogando la sua violenza innata, una donna poi dichiarata scomparsa: l’assicurò saldamente ad un blocco di cemento prima d’affondarla nel fiume. Da vecchio, ormai quieto, trascorreva il tempo sulla sponda del fiume: rifletteva aspettando il cadavere del suo nemico, la resa dei conti. Che avvenne. Un’onda anomala lo trascinò verso un mulinello distante dalle rive.Lo spinse giù, verso lische decomposte, verso un blocco di cemento dove uno scheletro sembrava chiamarlo. 580 INDICE RACCONTI CHE SI MUOVONO ................................................................................ 5 ABA................................................................................................................................ 7 SAGGIO PC ............................................................................................................... 22 METROPOLITANA ................................................................................................... 24 PROCESSI DI CRESCITA ...................................................................................... 26 NEO MONTESSORI................................................................................................. 30 GLI SCONFITTI HANNO GLI OCCHI DI MONTONE...................................... 32 STORIA DI STRANO JUMBO TRAM .................................................................. 41 JA’ SEI NAMORAR .................................................................................................. 47 DI TRAVERSO RIGATONI E DOLCE STIL NOVO .......................................... 51 VA AL DEPOSITO L’ULTIMA CORSA................................................................. 62 NON DORMITE…NON DORMITE… ................................................................... 67 BAGLIORE DI NEVE E DI DENTI ....................................................................... 72 SA VIAGGIARE LA GENTE DI MONDO ............................................................ 79 QUELLO CHE NON SI RIESCE A VEDERE..................................................... 85 GUIDARE NELLA NOTTE NERA ......................................................................... 88 OGGI E’ LA FESTA DEI MORTI........................................................................... 91 POSTI IN PIEDI E POSTI A SEDERE................................................................. 95 CATTIVI PENSIERI.................................................................................................. 98 IPERBOLICO CAPOLINEA .................................................................................. 103 JIMMY DEAN, PAULINE E L’ARCA DELL’ALLEANZA ................................ 107 INCROCI................................................................................................................... 112 RACCONTI CINICI .................................................................................................... 117 GIUSTIZIA................................................................................................................ 119 PROCESSO.............................................................................................................. 121 VIDEO GAMES....................................................................................................... 123 RELATIVITA’............................................................................................................ 125 CRONACHE CITTADINE SULL’ARGOMENTO ASCENSORE.................... 126 PARTITE DI CACCIA............................................................................................. 128 PAPPARDELLE ALLA GIORNALISTA ............................................................... 130 MISTERO DELLA FEDE ...................................................................................... 132 SANTA MESSA ....................................................................................................... 134 PSYCHOSTORE...................................................................................................... 136 SERVEAQUALCOSABEGHELLI ........................................................................ 138 BIANCO NATAL… .................................................................................................. 140 FELICITA’ OBBLIGATORIA................................................................................. 145 CALCI AGLI STINCHI DEGLI STORPI ............................................................. 148 CROLLO DI UN MITO........................................................................................... 152 COSA PUO’ ACCADERE IN STAZIONE MENTRE ASPETTI LA MOGLIE154 WORK IN PROGRESS .......................................................................................... 160 BADA ALLA BADANTE......................................................................................... 166 DARWIN ALLA ENNE ........................................................................................... 169 IL CONTRAPPASSO DEI LUSSURIOSI............................................................ 173 INCONTRI BALNEARI........................................................................................... 176 MATER DOLOROSA ............................................................................................. 181 LE MOSCHE NON POSSONO APPLAUDIRE ................................................. 185 581 STRENNE................................................................................................................. 189 OH OH OH............................................................................................................... 192 BASSI CETRIOLI URBANI................................................................................... 197 OMNISPOT .............................................................................................................. 201 FART REVELATOR................................................................................................ 205 RIDACCHIARE CON UN PERCHE’ ................................................................... 208 SINTONIE E DISTONIE........................................................................................ 212 CASTING .................................................................................................................. 217 LA DIGNITA’ ............................................................................................................ 226 RACCONTI DI AMORE, DI PIETA’ E DI ORMONE ....................................... 233 BRUNILDE INNAMORATA .................................................................................. 235 FINE DI UNA SIMBIOSI....................................................................................... 237 GIAMAICA PER DUE ............................................................................................ 239 SCHIAVO D’AMORE ............................................................................................. 241 DA QUALCHE PARTE SBOCCIA L’AMORE ................................................... 243 UNISCE L’ABBRACCIO DEL BUIO .................................................................. 244 UN INSOPPRIMIBILE DESIDERIO DI VIVERE............................................. 250 DIFFERENZE DI SORRISI D’AMORE.............................................................. 252 FILASTROCCA DELLA MORTE PER AMORE ............................................... 256 UNA BOTTA DI VITA ............................................................................................ 259 STORIE DI NUOVE NINFE METROPOLITANE ............................................. 261 DI PRINCIPI E PRINCIPESSE............................................................................. 265 RITRATTO DI DONNA, RITRATTO DI AMORE.............................................. 269 SOGNI DI AMORE E NAFTA .............................................................................. 271 PERCHE’ MI DICI…? ............................................................................................ 272 PRIMA CHE IL GALLO CANTI............................................................................ 276 LEARCO ATTENDE LE FATE DI FEDERICA................................................. 279 L’ORGOGLIO DI OSSIGENO .............................................................................. 284 LE REGOLE DELLA MARESCIALLA................................................................ 288 UN ATTIMO DI SEMPRE ..................................................................................... 292 GUARDAMI.............................................................................................................. 295 SAFFICI STRALI SEMAFORICI.......................................................................... 298 ASFODELI E BACI ................................................................................................ 299 PADRONE BUONO E GIUSTO........................................................................... 301 LATI OSCURI .......................................................................................................... 304 CINQUE SENSI ...................................................................................................... 306 RANE, ANIME E POETI RESTAURATORI....................................................... 311 LA SOFFERENZA NELL’ASSENZA ................................................................... 315 CUORI NEL CARBONE ........................................................................................ 316 EROTISMO DI UNA NAPOLETANA .................................................................. 320 ANACONDA E AGNELLO NEL VAPORE ......................................................... 322 LILY............................................................................................................................ 326 SOTTILI LINEE DI DEMARCAZIONE............................................................... 329 DICK – ORMONAL LIFE ...................................................................................... 332 RACCONTI DI BAR E RISTORANTI ................................................................... 337 ESAGERAZIONI ..................................................................................................... 339 ATTENTI AI PIZZAIOLI......................................................................................... 341 BUON COMPLEANNO.......................................................................................... 343 582 QUANDO SI DICE AMORE ................................................................................. 345 RISTORANTE .......................................................................................................... 346 NUOVA MITOLOGIA URBANA........................................................................... 349 GLI STRACCETTI DELLA GINA........................................................................ 352 COSA SI FA PER UNA FOGLIA NEL CAPPUCCINO .................................... 354 ARRICCHISCE LA VITA LILLY GRUBER ........................................................ 357 SERATA AL BE BOP – RADUNO LETTERARIO ............................................ 364 UCCIDE ANCHE L’IDROMELE AROMATIZZATO AL ROSMARINO ........ 367 NATURALISTICO BELVEDERE ROMANO ..................................................... 369 UP AND DOWN ...................................................................................................... 373 T’O RICORDI ER CIAVATTA?............................................................................. 374 FOR F. ORA – ESOPICO DINAMICO BESTIARIO ........................................ 377 BOERO LEVRIERO ............................................................................................... 380 KEBAB...................................................................................................................... 384 GLORIOSO EPILOGO DI CUOCO..................................................................... 386 FASCINO DI TRISTE BAR................................................................................... 388 IL MONDO DI BARBIE......................................................................................... 390 AVANTI POLIPO, ALLA RISCOSSA................................................................... 398 RACCONTI DI PAURA SOLITUDINE E FOLLIA.............................................. 403 MATRIOSKE............................................................................................................ 405 NUOVI MONDI NUOVE STORIE ....................................................................... 407 SVEGLIA .................................................................................................................. 409 ESTETICA, ORDINE E BOTTONCINI DI CAMICIA ...................................... 411 CAPOLINEA DI TRAM ARANCIONE................................................................. 415 SEGRETI DI CUCINA CINESE........................................................................... 419 PREGO MI SEGUA, SI ACCOMODI ................................................................. 423 MASCHERE PER OGNI OCCASIONE.............................................................. 427 HO PAURA DELLA GENTE................................................................................. 430 MANTENETE LA CITTA’ PULITA ....................................................................... 433 QUESTIONE DI PELLE ........................................................................................ 437 JENNIFER DAL NERO MANTELLO.................................................................. 441 L’UOMO E’ UN ANIMALE SOCIEVOLE ........................................................... 443 IL RUMORE DEL SILENZIO ............................................................................... 446 ECCO A VOI JOSE’ARTISTICO ......................................................................... 452 NON AVRO’ PIU’ PAURA DELLE LAME .......................................................... 457 ANCHE GLI ORSI SI INNAMORANO................................................................ 462 BATTERE AGNOSTICISMO E TAPPETI .......................................................... 467 VISTA MARE ........................................................................................................... 470 TERRE MOSSE ...................................................................................................... 471 IL TRICICLO DI GUSTAVO ................................................................................. 474 LE SCARPE CI PARLANO.................................................................................... 479 GIOCARE A NASCONDINO ................................................................................ 484 ODIO CHI LEGGE E PUBBLICA ....................................................................... 487 NUMERI TRAVOLGENTI ..................................................................................... 491 CONIGLI, ORCHE E BARRACUDA................................................................... 495 EUTANASIA DI LAIDA CREATURA .................................................................. 499 OFFERTA SPECIALE ............................................................................................ 502 MINIMA MORALIA................................................................................................. 504 GIARDINETTO........................................................................................................ 508 583 LA LUCE ROSSA.................................................................................................... 510 IL MIOPE GUALTIERO......................................................................................... 512 CI VUOLE CORAGGIO A TIFARE PER SENECA.......................................... 515 IL PESO DI UN NOME ......................................................................................... 517 OMBRE..................................................................................................................... 520 IL PIACERE DI UNA CONVERSAZIONE ......................................................... 524 IL BOSCAIOLO SCEMO DEI CARTONI ANIMATI ........................................ 529 LETTERE DAL CARCERE – LA SCATOLA DI CARTONE........................... 532 RACCONTI DI CENTO PAROLE........................................................................... 535 TELEFONATA ......................................................................................................... 537 GROTTESCO CUORE DI PAPA’......................................................................... 537 HANDICAP............................................................................................................... 538 CAMBIO DI IDENTITA’......................................................................................... 538 ORTOPEDIA ............................................................................................................ 539 ABRAMO E ISACCO ............................................................................................. 539 CANIDI E NON........................................................................................................ 540 CARAMELLE ........................................................................................................... 540 PREGHIERINA DELLA SERA ............................................................................. 541 OROSCOPO............................................................................................................. 541 COMUNQUE ........................................................................................................... 542 IRREALE STORIA DI CHAT ................................................................................ 542 MISANTROPO AMOR............................................................................................ 543 PARADISI ................................................................................................................. 543 CAPITAN FINDUS.................................................................................................. 543 MODERNIZZAZIONI ............................................................................................. 544 MORTE DI UN POETA.......................................................................................... 544 VOLONTA’ DI DENUNCIA ................................................................................... 545 SCI DAL TRAMPOLINO........................................................................................ 545 PIOGGIA ACIDA..................................................................................................... 546 MARINA TEMPESTOSA ....................................................................................... 546 IGOR.......................................................................................................................... 547 LIBERA INIZIATIVA IMPRENDITORIALE ....................................................... 547 CHI BUSSA AL CONVENTO ............................................................................... 548 L’ESPERIENZA PREPARA IL FUTURO ............................................................ 548 CHIRURGIA............................................................................................................. 549 SEGRETERIA TELEFONICA............................................................................... 549 LUNA TIMIDA ......................................................................................................... 550 LAVANDERIA CINESE ......................................................................................... 550 SOLO UN SI’ E UN NO ......................................................................................... 551 USCIRE..................................................................................................................... 551 SE…........................................................................................................................... 552 ESERCIZI DI STILE .............................................................................................. 552 UN SEMPLICE “IO” ............................................................................................... 552 PROBLEMI CASALINGHI FUTURI.................................................................... 553 AMORE CIECO....................................................................................................... 554 BEFFA AL BAFFO ................................................................................................. 554 DEPLIANT................................................................................................................ 554 INIZIO E FINE......................................................................................................... 555 IL PICCIONE GALEAZZO .................................................................................... 555 584 ON/OFF.................................................................................................................... 556 FINE DI UNA CAMARILLA .................................................................................. 556 ILLUSIONE .............................................................................................................. 557 DEVOZIONE............................................................................................................ 557 COERENZA ............................................................................................................. 558 FUGA IMPOSSIBILE............................................................................................. 558 LA FAVOLA DEI PALLONCINI............................................................................ 559 LA PISCINA NON FA BENE AGLI ESAURITI ................................................. 559 BRILLANTE FESTA DI COMPLEANNO ........................................................... 560 NEMICO NEL BOSCO .......................................................................................... 560 GO.............................................................................................................................. 561 E’ GUERRA PER TUTTI........................................................................................ 561 DALLE STELLE ALLE STALLE .......................................................................... 562 TEMPI DURI PER GLI ARTISTI.......................................................................... 562 UN UOMO SOLO AL TRAGUARDO .................................................................. 563 NON LORO .............................................................................................................. 563 T-SHIRT.................................................................................................................... 564 ODIO ......................................................................................................................... 564 I QUADRI DI GORGH........................................................................................... 565 L’INSEGNANTE ...................................................................................................... 565 LA GATTARA........................................................................................................... 566 CATARSI................................................................................................................... 566 L’INCIDENTE .......................................................................................................... 567 RACCONTINO MORALE ...................................................................................... 567 PAZZIA...................................................................................................................... 568 IL PULIVETRI.......................................................................................................... 568 NERA MEMORIA.................................................................................................... 569 LA VITA CONTINUA… .......................................................................................... 569 VENDETTA, TREMENDA VENDETTA ............................................................. 570 EVOLUZIONE ......................................................................................................... 570 AVIDA PASSIONE.................................................................................................. 571 LUNA PARK ............................................................................................................. 571 ADDIO....................................................................................................................... 572 INCROCI DI DESTINO CAPRICCIOSO............................................................ 572 FATO DALTONICO ................................................................................................ 572 FORTUNA E SFORTUNA ..................................................................................... 573 PASSIONE AL BINARIO NOVE .......................................................................... 573 DESTINO PERFIDO .............................................................................................. 574 A MALI ESTREMI…............................................................................................... 574 ERRORI .................................................................................................................... 575 STUPIDA DESTREZZA......................................................................................... 575 NONNI E SQUALI .................................................................................................. 576 SEMPLICITA’ DELL’ORRORE ............................................................................ 576 CONFUSIONE DI LUPI ED AGNELLI............................................................... 577 BOCCIOFILA........................................................................................................... 577 CHI BEN COMINCIA…......................................................................................... 578 LA FEDE E’ UNO ZOT.......................................................................................... 578 AVERE GIA’ DATO ................................................................................................ 579 CARISMA ................................................................................................................. 579 LA MEMORIA DELL’ACQUA............................................................................... 580 585 586 587 588