PDF vol 1 - Copylefteratura

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PDF vol 1 - Copylefteratura
L’insiemistica
della monade
(Volume 1)
RACCONTI E ALTRO
by
ROBERTO CYBBOLO LACCHE’
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Copylefteratura
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ROBERTO CYBBOLO LACCHE’
L’INSIEMISTICA DELLA
MONADE
RACCONTI E ALTRO
Volume I
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RACCONTI CHE SI
MUOVONO
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ABA
La stazione ferroviaria di una grande città nel suo
microcosmo rispecchia in gran parte, se non in assoluto, il
più grande ambiente urbano in cui è innervata, con tutte le
sue contraddizioni ed i suoi accostamenti di figure e
situazioni positive e negative.
E’ in una grande stazione che, se si ha un discreto
spirito d’osservazione, si può cogliere il primario senso della
vita nella discriminazione semplicisticamente manichea tra
il bene ed il male, il buono ed il cattivo, il bello ed il brutto.
Si può decidere un punto di partenza attraverso l’esame
delle strutture architettoniche che s’innestano spesso in un
caotico disordine cronologico e di gusto.
Fregi ottocenteschi d’umbertina memoria si mal
sposano con ardite e funzionali strutture d’alluminio
anodizzato e vetrate a specchio ed i gusti estetici di
architetti di tempi andati cercano di coesistere con le nuove
ideologie dell’architettura d’oggi, più sensibile alla
funzionalità esasperata che alla ricerca della soluzione
estetica in quanto tale.
Si può continuare poi attraverso il rumore di fondo
della folla, quel brusio continuo intervallato da risa, appelli,
messaggi provenienti dagli altoparlanti della stazione, che
introduce la componente della gente, dei frequentatori della
stazione e cementa ed amalgama come una musica di fondo
le diversità di ceti sociali e di storie umane.
I frequentatori di una grande stazione, soprattutto loro,
contribuiscono, come variopinte e microscopiche tessere, al
mosaico delle contraddizioni della vita e della società con un
loro intersecarsi anonimo, che talvolta si può contaminare,
per brevi attimi o per sempre, in uno sguardo, due parole,
un gesto, un discorso.
Gli agenti di Polizia girano pigramente guardinghi tra la
folla fra cui si mimetizza il borseggiatore.
Tre suorine pie si affrettano al treno incrociando un
ubriaco che bestemmia oscenità.
Il regolare lavoratore pendolare scende da un treno
locale e, mentre si avvia all’uscita della stazione, guarda con
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vacuo desiderio le quattro puttane negre che stanno per
partire con altro treno locale per battere la provincia.
Il macho peloso vestito di pelle, che caccia qualche
pollastrella, quasi butta a terra, con una spallata
involontaria, la checca furtiva e leggiadra che vaga
impazzita ed isterica tra i gabinetti della stazione e le
banchine d’arrivo dei treni.
La famigliola chiassosa che va a trovare i parenti fa
storcere il naso al severo professore di fisica che parte per
un congresso e gli zingari lamentosi e sudici si mescolano
con segretarie e studentelli, e i tossici cercano di passare
inosservati tra fattorini e personale della stazione.
Tutte le contraddizioni della vita, nelle storie semplici o
complicate della gente, si possono intuire tranquillamente
seduti su un seggiolino dietro l’ampia vetrata della sala
d’aspetto, solitamente antistante l’atrio della stazione, e si
può trovare il modo di riflettere e porsi l’eterna domanda
sul perché dell’esistenza.
Se si possiede anche una certa fantasia si può
congetturare sulle finanze di quell’uomo vestito in modo
trasandato - un pensionato con la sociale, un tizio
politicamente impegnato, un poveraccio, uno snob? - o su
ciò che passa per la mente di quella signora elegante che
irradia occhiate equivoche tutto intorno.
E’ evidente che questo processo d’esame, superficiale e
divertito, è assolutamente individuale e può essere soggetto
a cambi d’interpretazioni e a sorprendenti brusche virate a
seconda dell’umore e del capriccio di chi osserva, per quel
che ciò vale e rappresenta: un gioco, un ozioso e piacevole
perdere tempo dialogando con sé stessi sui ‘massimi
sistemi’, sull’aria fritta..
A volte, però, il gioco può prendere la mano…
Ero per l’appunto seduto nella sala d’aspetto della
stazione della mia città in attesa del treno che mi avrebbe
portato da un amico ed alternavo una distratta lettura del
giornale a pigre e rilassate osservazioni su quel viaggiatore
con valigetta in pelle o quella signorina che attendeva
qualcuno.
Un titolo particolare mi distolse dallo sfaccendato
osservare; uno di quei titoli che si attagliano in modo
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inquietante alla situazione momentanea che si vive, tipo:
“Disastro aereo” per uno che sta per volare in America, o
“Strage per la nebbia” per un altro che si accinge ad
affrontare un viaggio in auto. Il titolo recitava: “Incidente
ferroviario
–
Giovane
trovato
sulla
massicciata,
orrendamente sfigurato – Disgrazia o suicidio?” Seguiva una
scarna descrizione di cronaca dell’accaduto con la
commerciale dovizia di particolari raccapriccianti, le varie
ipotesi degli inquirenti ed una fotografia piccola e sbiadita
della vittima, tale Oscar ….
“Che stupidaggini si leggono sui giornali, nevvero?”
Fui interrotto nella lettura da una voce baritonale,
garbata e suadente, con un’impronta noncurante e
sarcastica, proveniente dalle mie spalle, accompagnata da
un sentore di cannella e tabacco stagionato.
Mi girai di scatto, sorpreso, ed inquadrai un individuo
alquanto singolare, quasi fuori posto in quella sala
d’aspetto.
Era molto alto e corpulento; una chioma leonina
argentata incorniciava un volto massiccio con caratteri
marcati su una pelle cotta come il cuoio, segnata da una
miriade di rughe ed evidenziata da uno smagliante sorriso
felino. Lo sguardo beffardo e penetrante di pungenti occhi
color cobalto mi squadrava con un non so che di placido,
compassionevole e nello stesso tempo complice ed
ammiccante per una qualche verità di cui eravamo
depositari. Era vestito molto elegantemente con un
completo antracite con gilet su camicia verdino-pallido con
cravatta color vinaccia fermata da una spilla d’oro
massiccio di squisita fattura sormontata da un brillante che
mandava riflessi azzurrini; da un taschino del gilet
fuoriusciva una catenella d’oro e d’oro erano i gemelli dei
polsini della sua camicia, con incisi strani simboli che non
distraevano, però, dall’osservare le mani nodose, massicce
come il corpo, ma estremamente curate, ornate di anelli,
forse pacchiani, in oro massiccio e pietre dure, ma
affascinanti nella loro futilità vezzosa in contrasto con la
mascolinità dura dell’individuo.
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Emanava un’aria di sicurezza e potenza e la sua acqua
di colonia, od il suo odore, era come il suo aspetto,
gradevole e ricercato.
“Credo proprio che lei stia leggendo una grossa
stupidaggine, sa? Che ne sanno questi pennivendoli di
quello che succede tutti i giorni? Si arrogano il diritto di
interpretare, di dedurre, di concludere, di fare sillogismi e
non sanno o non sono capaci di vedere oltre le apparenze e
di dipanare una matassa appena un poco più ingarbugliata
rispetto alle solite banalità della cronaca. Non è lei
d’accordo con me?”
Mi porse la domanda con buone maniere, civettuolo e
saccente, con quella voce divertita e profonda, ed io risposi
con un sorrisetto ebete di circostanza domandandomi
dentro di me cosa volesse realmente quel monumento, un
poco diffidente verso la persona appena conosciuta, ma
bendisposto, tuttavia, in ossequio alla sua gentilezza e
signorilità di uomo di mondo un po’ demodè.
Proseguì:
“Noto che lei non si pronuncia dichiaratamente sulle
mie opinioni: è una persona molto gentile ed educata, o
forse è un pusillanime che non vuole avere scontri o
fastidi…”
Le sue parole furono pronunciate con indifferenza, ma
percepii una provocazione, quasi un’offesa, e mi risentii:
“Non vedo perché dovrei essere d’accordo con lei, dal
momento che anche lei, come il giornalista, non era
presente all’accaduto, e può quindi fantasticare come le
pare, ma senza riscontri oggettivi.”
“Ah, i riscontri oggettivi… complimenti, lei parla in
modo appropriato, mi piacciono le persone che parlano in
maniera acconcia.”
Mi rispose con fare canzonatorio e continuò piegandosi
verso il mio seggiolino ed abbassando la voce:
“Veda lei se posso: io c’ero e so come sono andate le
cose.”
Mormorò con aria cospiratoria quest’ultimo concetto,
inatteso e sorprendente, e allo stesso tempo girò
velocemente dalla mia parte con insospettata elasticità
atletica e si sedette al seggiolino contiguo al mio senza
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smettere di fissarmi in modo insistente, con un accenno di
sogghigno nel constatare la mia sorpresa e la mia
incredulità.
“Ma che sta dicendo? E’ successo tutto ieri sera,
neanche dodici ore fa, a millecinquecento chilometri da qui,
e lei mi dice che era presente? E perché non ha informato la
Polizia?” “Perché lo viene a dire a me?”
Sembrò infastidito:
“Perché, perché, perché. Lei sa solo fare domande; è
così bravo anche ad ascoltare e a spogliarsi della sua logica
limitata?”
Cominciai a pensare che mi ero imbattuto in un
‘gabbietta’, un pazzerello docile e innocuo da non
contraddire, e l’uomo continuò con fare esortativo ed
imperioso:
“Creda in ciò che dico, vada oltre le apparenze, mi
ascolti…”
Mi rassegnai.
“Il giovane, Oscar, viaggiava nel mio scompartimento.
Che nome, Oscar, un incrocio fra un premio
cinematografico e un pesce, il pesce Oscar, l’Astronotus
Ocellatus, lo conosce? E’ un pesce d’acqua dolce, del Rio
delle Amazzoni e del Rio Negro, trionfo d’ogni acquario di
ciclidi rispettabile, prepotente e corpulento, con due
labbroni da cernia ed una livrea bellissima scura e mutevole
a seconda dell’umore ricamata di ghirigori rossi e di un
‘ocellus’, una macchia color oliva orlata di rosso sui fianchi
verso la pinna caudale. Oscar, del pesce omonimo, aveva un
poco la fisiognomica, con un fisico massiccio e baldanzoso,
un colorito bruno con due o tre cicatrici sulle braccia,
rosse, una grossa ciste su una guancia, rosso-brunastra, ed
un atteggiamento torvo ed aggressivo: il tipico maschietto
bruttarello con erezione perenne e le antenne ritte a captare
selvaggina con mascara. Nello scompartimento eravamo noi
due ed una mia amica, Aba, che si può definire sicuramente
un eccezionale mammifero di razza superiore. Io sedevo
vicino al finestrino e leggevo una rivista mentre Oscar ed
Aba erano seduti, l’uno di fronte all’altra, verso il corridoio.
La mia amica era bellissima e misteriosa: sembrava un
ritratto di Nagel.
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Indossava un sobrio completo di giacca e gonna, neri di
seta su calze velate nere e di seta anch’esse. Un fazzoletto
rosso sangue le copriva il collo, ricacciato nella scollatura
della giacca e fermato con una spilla d’oro massiccio
raffigurante un ariete. Aveva le gambe lunghe affusolate ed
accavallate in maniera elegante e signorile e le sue scarpine,
di vernice nera, avevano un lungo tacco a spillo rinforzato
da una guaina d’acciaio bianco lucente. Il viso, un ovale
pallido e seducente, perfetto, era incorniciato da una
matassa fluente di capelli corvini ed era semicoperto da un
grosso paio d’occhiali da sole scurissimi, che evidenziavano
ancor di più l’incarnato diafano, ma sano, della donna e
conferivano un’aria indecifrabile al suo sguardo. Un filo di
rossetto della stessa tonalità del fazzoletto e lo smalto sulle
unghie, anch’esso ugualmente rosso, completavano
l’aspetto di Aba, signorile, distaccato dalle miserie terrene,
irraggiungibile come il fascino di tempi addietro andati.
La mia amica guardava un punto indefinito di là del
finestrino del corridoio, enigmatica nell’espressione del viso,
ed Oscar la rimirava piuttosto sfacciatamente con un
sorrisetto da uomo navigato tra quei labbroni da cernia ed
un formicolio sotto la patta dei pantaloni. Ogni tanto alzavo
lo sguardo dalla rivista e degnavo d’attenzione i miei
compagni di viaggio e dentro di me sogghignavo per la
becera attenzione che il giovane professava per la mia amica
assolutamente indifferente. Il treno andava ed andava ed il
rollio delle ruote sulla massicciata dava un piacevole senso
d’abbandono. Non avevo voglia di parlare e nemmeno la mia
amica; eravamo quindi immersi ciascuno nei propri
pensieri, io con la mia rivista che sfogliavo distrattamente e
lei con il volto serio e fisso oltre il vetro del finestrino sulla
campagna che scorreva veloce.
Apparivamo al giovane Oscar come due sconosciuti e, le
dirò, la situazione che si era creata sembrava intrigante per
gli eventuali sviluppi che avrebbe potuto far nascere.
Quasi sentivo i pensieri di Aba circa le manifeste
attenzioni del giovane: tra poco ci divertiremo, mi divertirò e
avrò il mio piacere; continua a fare finta di nulla! Le lenti
nere degli occhiali non facevano presagire né rifiuti né
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accondiscendenza: solo io sapevo il perché, ma ci
arriveremo…le racconterò…”
E sbottò in una risatina divertita, chioccia, a contrasto
con la profondità grave della sua voce narrante.
“Oscar attaccò bottone con me cercando di dominare la
situazione con un giro largo ed accerchiante. Poveretto:
cominciò con le solite banalità sul tempo e sulla noia dei
viaggi in treno. Avrei preferito il silenzio, od una
conversazione sulle tentazioni di S.Girolamo – sono
alquanto ferrato sull’argomento, sa? – ma mi adeguai al
basso livello dell’interlocutore buttando lì qualche dozzinale
concetto risaputo. Aba rimase silenziosa, non partecipe; si
volse solo impercettibilmente verso il ragazzo fissandolo
attraverso gli occhiali neri senza un’espressione definita.
Lui si sentì autorizzato ad interpretare questo
atteggiamento come un successo ed incalzò stavolta
direttamente la donna con un’altra colata lavica di
apprezzamenti sul paesaggio e sulle città che avremmo
toccato durante il nostro percorso. Mi parve di percepire, sì,
ne sono sicuro, un certo cambiamento di stile nell’approccio
della cernia, di Oscar: più caldo e colloquiale e coinvolgente,
tale da mettere a proprio agio un’altra qualsiasi compagna
di viaggio.
Ma Aba non si scompose e continuò a fissarlo
attraverso le lenti nere, senza estraneità, ma anche senza
complicità. M’immagino quel cervellino in ebollizione con
altri luoghi comuni: la carne è debole; più la conquista è
difficile, più la preda merita, e via dicendo.
Patetico!
Aba rivolse il suo sguardo per una frazione di secondo
verso di me ed io capii che stava per creare la situazione,
l’evento del nostro piacere, e feci fatica a trattenere un
sorriso lupesco che mi saliva dal petto: che affiatamento tra
noi due, una complicità di secoli, di millenni, e non scherzo,
sa?”
Io ascoltavo affascinato dalla loquela, dalla ricercatezza
delle parole, dalla potenza evocativa del racconto dell’uomo,
e vedevo distintamente la scena in quello scompartimento
con il tramezzo a vetrata, i sedili imbottiti azzurrini, i
copritesta un po’ sudici, giornali sparsi qua e là, e la
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campagna che correva nel rumore cadenzato delle ruote sui
binari. Posai gli occhi sul distinto signore che mi faceva
partecipe del suo incredibile illogico segreto ed ebbi per un
attimo la coscienza che si stesse trasfigurando in
un’espressione da predatore, avida e rapace. Ma rimasi
impietrito ad ascoltare il seguito.
“Aba si alzò dal sedile col fare di chi si vuole sgranchire
le gambe, si aggiustò con una certa movenza erotica la
gonna e la giacca del vestito e dopo due o tre passi rimase
immobile, in piedi, davanti al finestrino del corridoio. Era
alta, statuaria, bellissima ed ora dava una vaga idea
d’accessibilità e disponibilità, increspando le labbra ad una
parvenza di sorriso, anche se non rivolto ad alcuno in
particolare. Cercò nella borsetta, un delizioso cofanetto di
coccodrillo nero, le sigarette; cercò poi l’accendino, io dico
che fece finta di cercare l’accendino, e frugò nella borsa.
Eccezionale!
Aveva buttato l’esca con una delicatezza ed una
naturalezza che chiunque, fumatore e non, si sarebbe
affrettato con un accendino o con tante scuse per non
essere fumatore.
Ma eravamo solo in due: io che me la stavo spassando
un mondo, ed Oscar, il pesce Oscar, che abboccò all’amo in
modo disarmante rimestando nella tasca dei pantaloni, ora
più piccola di prima, per trovare l’oggetto catalizzatore per
un futuro carico di promesse. Porse l’accendino acceso
davanti alla sigaretta protesa di Aba e cercò di approfittare
della situazione per contemplare fugacemente gli occhi della
donna, ma invano. Allora fu diretto, quasi brutale:
- “E’ un peccato coprire due occhi sicuramente
affascinanti come la sua persona!” Aba mormorò un grazie di cortesia e poi sussurrò con
voce roca:
- “Lei crede che io abbia dei begli occhi? E sia, glielo
voglio lasciar credere, ma solo credere: una donna
misteriosa in qualcosa di sé è molto più desiderabile, non
crede?” Oscar impazzì e balbettò qualcosa d’indistinto, poi parlò
a voce bassissima. Non intesi ciò che disse e mi feci
spiegare tutto l’evolversi del dialogo da Aba stessa, dopo…”
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E rise ancora, ma stavolta di un riso sinistro, da
rabbrividire.
Io continuavo ad ascoltare e mi sentivo soggiogato da
quegli occhi magnetici color cobalto e ipnotizzato da quelle
parole pronunciate con voce neutra, ma ferma e grave che
fuoriuscivano da quella bocca da felino che ora rideva come
una iena. Quell’odore di cannella e tabacco stagionato che
sprigionava la sua persona mi stava stordendo. Lui
continuò a parlare, ma stavolta come fosse Aba, la donna
misteriosa, sua amica e compagna di viaggio.
“Oscar cercò goffamente di controbattere qualcosa di
brillante per abbagliarmi da gentiluomo, poi perse ogni
inibizione e mi fece partecipe del suo rigonfio nei pantaloni
in maniera decisa e volgare che stemperò in un invito, il più
esplicito e meno offensivo possibile, a seguirlo verso la
ritirata. Sorrisi malignamente: era troppo rozzo e meritava
una lezione. Interpretò quel riso come un’adesione alle sue
avanches e si fece più pressante, anche fisicamente,
strofinandosi leggermente al mio fianco.
Mi avviai verso la fine dello scompartimento a passi
lenti e studiati, ancheggiando leggermente, civettando, e
sentivo il suo sguardo dietro di me ed il suo respiro appena
più irregolare di prima. Aprii la porta, entrai e lasciai la
porta socchiusa. Entrò di furia dentro il bagnetto e richiuse
subito febbrilmente la porta con il nottolino. Poi si girò
verso di me e cominciò a biascicare cose senza senso sul
suo pacco e sulle mie gambe ed il mio seno e cominciò a
brancicarmi
maldestramente,
senza
sensibilità,
stropicciando la giacca e la gonna del vestito. Quella ciste
sul viso era diventata purpurea per l’eccitazione e gli occhi
erano febbricitanti e quei labbroni da pesce lesso tremavano
e farfugliavano sul mio collo: che schifo! Il supporre di esser
padrone della situazione lo calmò, ad ondate, e finalmente
lui dominò la sua bestialità rintracciando quella parte di
uomo civile che era in sé. Divenne più misurato, controllato
e tentò anche un abbozzo di conversazione:
- “Sei molto bella, di una bellezza diversa dalle altre,
altera, fredda, distaccata: dipende dagli occhiali, ne sono
sicuro. Togliteli, fammi vedere come sono i tuoi occhi.” Gli risposi:
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- “Sei proprio sicuro di voler vedere i miei occhi, o
cos’altro?” - “L’altro lo vedrò dopo e sono convinto che non mi
deluderai.” - “Allora, se è così che vuoi…” Io ascoltavo ancora e rabbrividivo presentendo qualcosa
di spaventoso e non mi ero neanche accorto che l’uomo
davanti a me aveva parlato con la voce di Aba, roca,
sensuale e profonda, proveniente direttamente dall’utero.
L’uomo parve accorgersi del mutamento della mia
espressione, ora atterrita, e, riprendendo il suo tono di voce
baritonale mi chiese:
“Le sto mettendo paura? Ha paura di me?”
“Mi sembra tutto senza senso, le voci, la storia, la sua
espressione beata di fronte ad una tragedia…”
Risposi frastornato, ma lui continuò con fare salottiero,
cambiando discorso:
“Conosce Bulgakov, lo scrittore russo? Ha presente i
racconti “Cuore di cane”, “Le uova fatali” ed i libri “La
guardia bianca” e soprattutto “Il maestro e Margherita”?”
“Che significa questo adesso?”
Risposi ancora più confuso.
Assunse un’aria da pedagogo:
“Significa, significa: Michail Bulgakov è stato uno dei
pochi eletti che si è avvicinato alla descrizione della vera
natura di Aba ed ha immortalato questo personaggio nel
suo capolavoro, “Il maestro e Margherita”, nel capitolo della
festa del Diavolo, anche se ha tralasciato un aspetto
fondamentale della sua essenza: la capacità di trasformarsi
in uomo, donna o animale, come tutti i demoni. Aba, bella
donna, è stato uno scherzo terreno dei demoni, di
Abadonna che con il suo sguardo inceneriva eserciti, uno
dei tanti di Legione: ecco il perché dei suoi occhiali da sole.
Capisce ciò che le sto dicendo? Io la sto intrattenendo sulle
nostre gesta di questo mondo in ossequio alla vanità. Ho
presunto che lei sia sensibile ed intelligente: non mi deluda
o potrei sentirmi frustrato e sarei preda dell’ira con gravi
conseguenze per lei.”
Stava diventando tagliente, ma fu un attimo, e ritornò
piacevolmente colloquiale:
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“Stia tranquillo: ora sono solamente vanitoso e non è
ancora arrivata la sua ora. Posso proseguire la parte più
succosa del racconto?”
Balbettai qualcosa, non ricordo, sotto quello sguardo
cobalto
ridanciano,
mentre
i
denti
dell’individuo
diventavano più abbaglianti e, forse una mia impressione,
più lunghi, simili a zanne. Il brusio continuo della stazione
era innaturalmente cessato ed anche la sala d’aspetto era
scomparsa in un mare di vapori e nebbia attraverso cui
potevo intravedere solamente il volto del mio interlocutore
che ora sghignazzava avvolto in un tabarro nero consunto
dal risvolto porpora. I gemelli ora sembravano vivi, due
scarabei luccicanti nella penombra e la spilla della cravatta
altro non appariva che un serpentello vigile con occhi di
giada. Il viso del demone era ora di puro cuoio cotto dal
sole, le rughe si presentavano molto più scavate ed i capelli
emanavano bagliori azzurrini. L’aroma stordente di poco
prima era stato cacciato da un odore umido di mobili
polverosi e pergamene muffite. Ero sorpreso e terrorizzato.
Continuò con voce possente ed autoritaria:
“Posso proseguire, mortale? Beh, direi di sì. Dove
eravamo? Sì, eravamo nel cessetto di un vagone del treno
che portava me ed Abadonna verso una meta o un’anima.
Aba, chiamerò e considererò il mio amico com’era, si tolse
lentamente gli occhiali davanti all’ eccitato Oscar, e Oscar
vide ed ebbe poco tempo per rimpiangere la sua galante
richiesta.
Abadonna non ha globi oculari, occhi, pupille: ha le
orbite vuote, nere e profonde, che mandano sinistri bagliori
verdastri che saturano l’ambiente di vibrazioni violente e
crudeli, di sete di sangue, e liberano la bestia che è in lui in
tutta la sua potente efficienza nello sterminare. L’angusto
ambiente si permeò prestissimo di questa aura verdognola e
le pareti si coprirono di alghe ed il finestrino si oscurò
schermato da diafani licheni viscidi e regnò la penombra.
Oscar rimase atterrito da quella rivelazione: un ritratto
di Nagel senza occhi, con due vuote cavità scure che
mandavano bagliori verdi e sbiancò senza neppure avere la
presenza di spirito di reagire aprendo la porta e fuggendo.
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La sua mancanza di reazione lo costrinse a vedere
l’ennesima trasformazione.
Le labbra carnose e vermiglie di Aba si assottigliarono
fino quasi a scomparire in due linee vizze violacee mentre i
denti, prima bianchissimi e disposti in regolare chiostra, si
trasformavano in zanne giallastre sporgenti dalla bocca
ormai deforme. I capelli corvini caddero a ciocche, come per
alopecia, evidenziando un cuoio capelluto che, come la
pelle, diveniva squamato, a placche, e le mani, affusolate e
diafane, assumevano sempre più l’aspetto d’artigli dalle
lunghe unghie ingiallite dal tempo.
Il vestito si lacerò sotto la spinta interna di un corpo
mostruoso di basilisco e le calze si stracciarono al contatto
di rilievi puntuti verdastri duri e callosi. Aba la donna stava
diventando Abadonna e l’aria verdastra di quel piccolo
ambiente lo testimoniava secondo per secondo mentre il
rumore delle ruote del treno s’affievoliva fino al silenzio
tombale per lasciar posto al fruscio di serpenti che si
arrampicavano su per le pareti e le gambe di Oscar. Il
ragazzo provò ad urlare per chiedere aiuto e per il
raccapriccio, ma Abadonna lo colpì senza apparente
violenza col tacco inguainato d’acciaio di una delle sue
scarpine. Il pomo d’adamo fu penetrato da quella punta
micidiale con uno schiocco secco di pneumatico scoppiato
ed Oscar rimase senza fiato mentre il sangue sprizzava
sullo specchio e sul lavabo della toeletta istoriando le alghe
vive, umide ed agitate. Un secondo colpo ed esplose come
un sacchetto pieno d’acqua l’occhio sinistro in schizzi
gelatinosi e sanguinolenti. Abadonna ringhiò:
- “Volevi vedermi senza occhiali, nella mia
vera
essenza? Eccomi, eccomi, ma devi pagare perché sono una
puttana, una puttana un poco speciale!” Gorgogliò una risata catarrosa. Il demone sollevò di
peso il giovane stordito dalla sofferenza e lo appese, o
meglio, lo inchiodò per la pelle e la carne viva della schiena
all’attaccapanni del bagnetto. Oscar non poteva più urlare e
respirava a fatica: sentiva l’aria uscire dalla trachea forata
dal tacchetto e dai polmoni trafitti dal gancio dietro di lui.
Era spossato dal dolore fisico e cominciò a pisciarsi
addosso.
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Abadonna rise ancora, sguaiatamente, poi si accostò al
giovane appeso e lo sbranò all’improvviso sulla guancia con
la ciste: l’ossatura
del viso scricchiolò e la guancia
scomparve tra le fauci del mostro mettendo a nudo i denti e
la bocca rossi di sangue.
Il demonio ora era incontrollato e squarciava cogli artigli
e sbranava con le zanne mugolando di piacere a contrasto
con i lamenti fievoli della sua vittima. Io ascoltavo dal mio
sedile nello scompartimento ed invidiavo il mio amico.
Le posso assicurare che Oscar ebbe una fine orrenda e
dolorosissima, nonché abbastanza lunga, perché Abadonna
non gli permise con clemenza di morire in fretta. Lo
smangiò in parti non vitali staccando con voluttà brandelli
di pelle e carne sanguinolenta e lo sventrò, prima
delicatamente, se capisce l’umorismo della parola, poi
sempre più violentemente con gli artigli mettendo a nudo le
sue budella ed il pistolino ormai non più voglioso; glielo
staccò con un’artigliata secca come una rasoiata e lo diede
in pasto ai serpenti.
Poi tutto ebbe fine.
Abadonna ritornò Aba e ricomparve come un ritratto di
Nagel nello scompartimento in mia presenza e Oscar finì
sulla massicciata.”
Ero tramortito nell’ascoltare quell’orribile racconto ed
avevo chiuso gli occhi per non affrontare lo sguardo di chi
raccontava. Percepii la pausa pesante della conclusione ed
aprii gli occhi, mentre la sala d’aspetto aveva ripreso la sua
luce ed il brusio della stazione si ripresentava sempre
uguale.
L’uomo era sempre seduto a fianco a me e sorrideva
beffardo, elegantissimo nel completo antracite, con
fermacravatta d’oro e brillante e gemelli d’oro ai polsini,
circondato da quel familiare olezzo di quando si era
presentato. Sembrava che nulla fosse successo e che ci si
fosse scambiato un parere sull’ultima partita di calcio o
sulle quotazioni di borsa..
“Adesso capisce perché dico che si leggono tante
stupidaggini sui giornali, vero?”
La voce era tornata baritonale, profonda ed indifferente
e stentavo a credere a quello che avevo ascoltato.
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“Ora sto meglio: ho perseguito nel peccato della vanità
ed ho suscitato in lei un sano terrore che mal si addice col
fare del bene al prossimo.”
Minimizzò con fare magnanimo:
“La mia piccola buona azione giornaliera da boy scout,
un raccontino, un’esercitazione per mantenere in
rilassatezza l’allenamento… Rimane il fatto che lei non mi
crede o che penserà in futuro di essere stato vittima di
un’allucinazione: conosco voi persone logiche e riflessive e
non mi farebbe piacere in futuro scoprire che quanto è stato
perpetrato da Abadonna sia sminuito come una fantasia da
cattiva digestione. Lei deve, dovrà sempre credere: i demoni
sono fra voi e Legione è ovunque.”
Mi porse allora da una tasca della sua giacca un
cartoncino porpora. Si levò dritto e massiccio come un
armadio e uscì dalla sala d’aspetto a grandi falcate
coprendo con una sonora risata cavernosa un annuncio
dell’altoparlante, tra le occhiate sbigottite dei presenti che
poi fissarono me perplessi.
Imbarazzato ed ancora sorpreso, lo vidi scomparire e
cercai di darmi una spiegazione razionale per ciò che avevo
udito, rigirandomi tra le mani quel cartoncino. Non mi
capacitavo di quanto mi era accaduto ed effettivamente ero
propenso a giustificare il tutto come un malore od
un’allucinazione.
Diedi, allora, una sbirciata al bigliettino da visita che
avevo tra le mani: era un cartoncino molto rigido ed antico e
dal fondo porpora.
Recava scritto ad antichi caratteri medievali d’oro a
rilievo solo un nome: Asmodeo.
Un turbinio di
parole, ricerche ed antiche lezioni
scolastiche vorticò nella mia mente: Asmodeo, il demone,
uno dei tanti di Legione, un compagno inseparabile di
Abadonna nella ricerca di anime perdute, uno degli sfidanti
di quell’armata delle tenebre per il dominio della vita e
della morte. Si associarono alle parole le immagini, le
sensazioni: i ‘rari ed obliati tomi d’antica sapienza’,
polverosi e pieni di mistero, citati da Poe ne “Il corvo”, il
vecchio monastero custode di tremendi segreti dei frati di
Eco nel libro “Il nome della rosa”, il vento ululante nelle
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steppe, fedele compagno di branchi di lupi famelici ed altre
evocazioni classiche della letteratura e della cinematografia.
Asmodeo:
quella risata diabolica, squassante e
terribile, emerse prepotente dalla marea confusa delle
memorie e mi trafisse a lungo la mente.
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SAGGIO PC
Avrebbe dovuto essere un gran giorno lo scorso 13
dicembre per X., un giorno diverso e quindi vario, fuori
ufficio, su un lussuoso Eurostar per un viaggetto presso la
sede madre a presenziare una riunione di lavoro.
Bello lo sprofondare in una poltroncina della carrozza n.
1 in testa al treno, con la hostess premurosa che porta il
caffè caldo e due biscottini e il giornale in un brusio
avvolgente di varia umanità; socchiudere gli occhi per un
poco cullati dal rollio del treno, dalla samba frenetica delle
ruote sulle traversine che possono trasformarsi in
un’orchestrina afro-cubana.
Ma questo è il viaggiare dell’ozioso e X. ozioso non lo era
di certo: aprì la valigetta di pelle molto vissuta e tirò fuori il
più sottile e leggero dei PC portatili, pochi etti di alluminio
brunito potente e docile sotto le sue dita esperte di
abitudinario fruitore dell’informatica.
Cominciò a scrivere delle lettere commerciali sul
programma Word macinando una serie di rituali
procedurali come ‘taglia’ ‘copia’ e ‘incolla’ e ‘formatta’ in
maniera straordinariamente veloce. Ogni tanto socchiudeva
gli occhi e radunava le idee ispirato mentre il treno si
infilava in paesaggi mutevolmente veloci.
Si rituffò, dopo una di queste pause, con attenzione sul
monitor e rimase sorpreso nel vedere una scritta che lui
certo non aveva digitato: “Vai nell’ultima carrozza”.
Si guardò attorno, squadrò il suo vicino che però
dormiva, rimuginò sul mistero: magari una interferenza, un
pirata informatico... hacker, chissà….Schiacciò il tasto
‘enter’ e la scritta scomparve per poi subito riapparire,
stavolta in maiuscolo: “VAI NELL’ULTIMA CARROZZA”,
caratteri
in
grassetto.
Fu
pervaso
dal
panico
dell’inspiegabile e rimase paralizzato senza una reazione…e
questa fu la sua condanna.
Si rese conto fuggevolmente che il paesaggio fuori del
finestrino era nebbioso, percepì un rumore di schianto, di
lamiere contorte, fu circondato da rumori, gemiti e vide
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distintamente sangue, schizzi di sangue dappertutto mentre
volavano poltroncine e passeggeri.
Vide poi, o presagì, una longarina fuoriuscire a velocità
relativa, rapidissima e nello stesso tempo come al
rallentatore su un videoregistratore, dal locomotore avanti
la sua carrozza e in poche manciate di attimi realizzò che
puntava sul suo torace e rimase ipnotizzato mentre nella
mente la riunione, il PC, il viaggio e quel senso di
spensieratezza precedente vorticavano tumultuose.
Poi il buio ed il silenzio.
Il vigile del fuoco che aprì colla fiamma ossidrica le
lamiere si addentrò con fare circospetto e prudente nella
carrozza n. 1 inorridendo per l’osceno spettacolo di corpi
mutilati in un mare di effetti personali di bagagli aperti.
Chiazze di sangue dappertutto alla fioca luce della
campagna nebbiosa, silenzio innaturale ed espressioni
stravolte
dall’ultimo
attimo
nel
terrore
e
nella
consapevolezza della morte.
Fu colpito da una luce fievole sotto una poltroncina,
una delle poche miracolosamente ancora fissate al
pavimento della carrozza, con un giovane trafitto da una
longarina con gli occhi sbarrati in una espressione di
stupore. Guardò sotto e vide un PC portatile ancora aperto
e acceso con un messaggio sorprendente: “TE L’AVEVO
DETTO DI ANDARTENE IN FONDO, COGLIONE!”
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METROPOLITANA
Si esplora, si ritualizza necessariamente, avvolti da una
luce fredda di neon sbiadito che ci rende tutti verdognoli
come gli alieni cattivi di un qualche filmetto dei primi anni
sessanta.
Si viaggia abbracciati da uno sferragliare convulso e
ritmico, una lite rissosa di ruote con rotaie, che ben
potrebbe
accompagnarsi
con
urla
di
ribellione
metropolitana di Archie Shepp o di Cannonball Adderly.
Il contrasto tra il dire e il fare, il sognare ed il reale, è la
musica malinconica e svogliata di Goran Bregovic eseguita
da due giovani slavi in improbabile formazione di kazoo e
fisarmonica: sono improvvisati artisti di strada, o maldestri
schiavi dell’arte per fame, con bicchiere di cartone della
Coca di McDonald che viene proteso in continua
autosodomizzazione metaforica come una protesi sfacciata
di invalido senza pudore.
Per il resto, oltre questi rumori, aleggia il silenzio di
“Metropolis” con volti uguali e inespressivi.
I vetri dei finestrini proiettano immagini assenti di
zombies, produttivi e improduttivi, immersi in una
soluzione d’invisibile formalina e pensieri di spicciola
sopravvivenza o di considerazioni esistenziali più o meno
vivaci.
Odori che si moltiplicano a livello esponenziale: dal
rancido di vecchi vomiti d’ubriachi alla dinamica fragranza
aggressiva di una giovanile acqua di colonia che diffonde
tabacco e sandalo, sudori di stanchezza per la vita e
caramelloso sentore di lacche da poco prezzo.
Ci si guarda con astio, colpevolezze nascoste, sfida,
superba autosufficienza, mentre le note scordate balcaniche
inseguono non più di due o tre fermate in un febbrile
andirivieni d’api industriose, fuchi, parassiti che rendono
vivo questo termitaio cosmopolita postmoderno immaginato
da incubi di un designer affermato in contrasti vivaci di
strie blu elettrico, giallo uovo, con isterici cartelloni
pubblicitari delle stazioni che fuggono alla vista con vuoti
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sorrisi nella luce pallida e fredda che scava nelle pupille
indifferenti.
Si sobbalza e ci si culla, nella culla di “Rosemary’s
baby” (benvenuti all’inferno): non è proprio un tango, non è
nulla di sincronizzato: i mancorrenti uccidono il ballo e
mummificano in stretta necessità qualsiasi desiderio
positivo di reazione.
Un vagone potrebbe apparire come un allevamento di
cozze: chiuse, ferme, tra odori, nella corrente, alla luce
sporca e al rumore di porto, rimorchiatori, sirene, e tante
bolle intorno.
Si parla pochissimo: monosillabi, ammiccamenti.
E’
il
trionfo
dell’alienazione
e
dell’isolamento
nell’abbraccio freddo e verdognolo rumoroso della luce ferita
da note d’accattoni e dalla salsa afrocubana delle ruote
litigiose.
La mente corre a scene già viste al cinema: “I guerrieri
della notte” e altre pellicole sgranate per un nuovo
neorealismo, fredde come la luce al neon, rumorose di
quello sferragliare che isola in propri pensieri in attesa della
prossima fermata per una diversa luce e altri rumori…
Per ora, però, solamente la claustrofobia e la
consapevolezza dell’insetto…
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PROCESSI DI CRESCITA
Si dibatte spesso degli eterni quesiti “Chi siamo? Da
dove veniamo? Dove andiamo?”, soprattutto del “dove”,
attanagliati dall’angoscia di non avere punti di riferimento,
quando forse sarebbe meglio esplorarsi nel “chi”…
Rientra tutto in un processo di crescita verso un
concetto aleatorio e soggettivo, che si vuole sempre rendere
prepotentemente oggettivo sul modello della propria
soggettività: scaturisce l’idea di maturità rispetto ad un
essere bambini…
Sdrammatizziamo? Io la vedo così…
Un piccolo bambino rom, uno zingarello di quaranta
chili, venti di vitalità e venti di croste di sudicio e morchia,
va a lavoro con l’autobus verso piazza S.Carlo o il Centro
Commerciale: fa l’elemosiniere avventizio, in nero, e se la
cava benino.
Felice e spensierato, si spaparanza sul sedile
dell’autobus con un chupa chupa e un panino di
marmellata faticando a trovare la giusta posizione ed
artigliando quindi tutto quello che trova con le sue manine
da “giorno dei trifidi”.
Scende alla stessa fermata che ti vede salire sul
medesimo autobus.
Sei assonnato e compenetrato nel tuo quesito
esistenziale giornaliero sul dove tu stia andando e su
quanto tu sia soddisfatto della tua esistenza: sei quindi
distratto e poco attento ai dettagli banalmente materiali.
Se, invece, stai riflettendo sull’ultima rata del
riscaldamento o sulla imbarazzante caduta dei tuoi capelli
negli ultimi tempi, prova a fare finta di porti un problema
esistenziale che ti dia aria assorta e svagata, solo per
andare avanti con il test che ti sto sottoponendo.
Ti siedi su un certo sedile (te lo aspettavi eh?) e
percepisci un qualcosa di paludico appiccicaticcio che ti
imprigiona il fondo dei pantaloni e ti accorgi che nell’aria è
diffuso un odore di zucchero e marmellata di more.
E’ qui che si evince il processo di crescita dell’individuo!
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Reazione A
Smadonni, cristoni in un crescendo rossiniano che
trova proseliti tra vecchine filopadane che vanno a fare la
spesa e ti incazzi in maniera esponenziale perché due
studenti ti ridono dietro; le tue coronarie assumono la
consistenza della coramella dell’idraulico, flessibilissime, e il
tuo colorito pallido esistenziale si è trasformato in un
cianotico sanguigno da biscazziere che ha sbagliato a fare il
mazzo.
Tutto ciò vuol dire che sei ancora un bambino
immaturo, che guardi la contingenza e ti fermi là (in questo
caso il pantalone bisunto). Non ti poni problematiche
dietrologiche sull’esistenzialità romica o zingaresca e sul
suo diritto all’esistenza: vai avanti con la prepotenza
prepuberale di volere tutto e subito (pulito, se rimaniamo
sui pantaloni).
Reazione B
Percepisci la spiacevole caramellosità della situazione,
ma sgami in tralice che vicino a te coesiste uno gnoccone
sovrumano, un mammifero che appare spesso, purtroppo a
sua insaputa, nei tuoi sogni erotici.
Assumi un atteggiamento di completa sportività di
fronte alle avversità della vita che si manifestano sotto
forma di pozzanghere di marmellata e guardi sorridendo la
ragazza che ti fissa incuriosita nel dilemma se considerarti
eccentrico o polverizzato nel cervello per un precoce
marasma senile.
Tu prosegui la sceneggiata di disinvolto di mondo
tamponandoti i pantaloni con un fazzoletto facendo bene
attenzione a promuovere quel bozzetto che hai in mezzo alle
gambe con strofinate che lo evidenzino apparentemente in
maniera casuale.
Stai crescendo, amico…
Hai superato la fase prepubere e sei nella fase arrapata
adolescenziale con un certo autocontrollo, seppure goffo,
che torna a tuo merito circa una nascita di maturità.
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Ti stai ponendo alcuni quesiti e stai cominciando a dare
una qualche risposta a certi perché: a cosa serve il mio
pistolino? Perché in presenza di mammiferi popputi si erge
come una piccola gru fatta col meccano? Perché sbavo ogni
tanto da solo e soprattutto in compagnia?
Reazione C
Percepisci quel ‘quid’ di melassoso (melassico?
Melassese?) sul fondo dei tuoi pantaloni.
Chiudi i tuoi occhi e sospiri, in un tacito
OOOOOOMMMMMM tantrico, a ritrovare una tua
tranquillità interiore sconvolta dalla pallina del chupa
chupa che ti è entrata fastidiosamente nel culo.
Richiami a te tutte le tue risorse mentali per focalizzare
il contesto dell’accaduto nell’ambito di un cosmico problema
esistenziale che parte dalla considerazione del problema
albanese fino al proposito di determinare per tue prossime
riflessioni alcuni autodibattiti in un mentale elenco di
ottomila voci riguardante tutti i mali del mondo, dal buco
dell’ozono al viagra (il viagra mica tanto male del mondo), e
distilli nel tuo essere una tua verità che è frutto della tua
esperienza, della tua conoscenza e del tuo orientamento
politico.
Se sei di destra auspicherai dentro di te, a seconda del
tuo misticismo, un castigo divino o una catastrofe naturale
atta allo sterminio di tutti i bambini rom nell’orbe
terracqueo, poi affinerai l’idea di un loro pratico
sfruttamento per una società funzionante per il benessere
degli spiriti superiori e accarezzerai l’idea di “Metropolis”, il
film muto, per l’organizzazione del lavoro minorile dei
piccoli rom applicata non soltanto al cucire palloni da
football; vagheggerai, in alternativa ambientalista, un
qualche risparmio sul concime usando materiale alternativo
di quaranta chili indifferentemente vivi o morti, anche se
appiccicosi di marmellata.
Se sei di sinistra ti comincerai a preoccupare di
risolvere il problema partendo da dettagli di sovrastruttura
(salviette detergenti offerte dal comune sulle linee di
autobus frequentate da piccoli rom con chupa chupa) per
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poi affrontare gli innumerevoli problemi di struttura
riguardanti il costo dei trasporti pagato dalla collettività
(esclusi i piccoli rom), il disagio della comunità rom in un
ambiente ostile (ostili, almeno, tutti i personaggi con un
paio di pantaloni in meno), il desiderio di recuperare le
tradizioni rom, la voglia irrefrenabile di adottare un piccolo
rom, la frenesia incontrollata ed ecumenica di adottare e
fare tuoi figli naturali tutti i piccoli rom del mondo.
Sei cresciuto, amico: in ogni caso sei cresciuto, sei
maturo e hai le idee chiare sulla tua esistenza e sulle tue
origini ancestrali. Sei un uomo completo ora, con le tue
scelte anche dolorose e con le tue risposte anche ruvide e
sai finalmente dove devi andare: in lavanderia…
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NEO MONTESSORI
L’automobile procede ad andatura di crociera, per come
lo permette l’intenso traffico sulla corsia centrale della
tangenziale a tre corsie affollata d’automobili di pendolari,
furgoni di consegne commerciali e autoarticolati giganti.
Il cielo è grigio, vagamente nebbioso, deprimente, e i
colori lividi sono feriti da fari giallastri nell’umido delle
campagne circostanti.
La giovane mamma guida disinvolta fumando frenetica
una sigaretta e parlando animatamente con un’amica al
cellulare: voce colloquiale polifonica che vira dall’isterico al
curioso al confidenziale.
Discussione
apparentemente
improrogabile,
ora,
proprio ora.
Il piccolo irrequieto Giovannino, dietro, armeggia con
dei grossi pennarelli su un foglio di cartone e guarda con
curiosità e impazienza fanciullesca le altre automobili dal
lunotto posteriore.
“Giovannino, stai composto e non ti agitare tanto…”
E’ un ritornello, la raccomandazione, scandita come
una segreteria telefonica o un’informazione da centralinista
di compagnia di taxi, tra pettegolezzi, sfoghi ed una ricetta
per un timballo, tra uno strizzare d’occhi per irritazione da
fumo e uno sguardo distratto allo specchietto retrovisore.
“Giovannino stai calmo… cinque minuti all’arrivo a
casa, cinque minuti all’arrivo a casa di Giovannino…la
mamma per Giovannino…la mamma per Giovannino…”
Darko è stanco e dovrebbe riposare. Vorrebbe riposare.
Un altro sorso di birra per scacciare la monotonia
anestetizzante della strada sempre uguale, un rettilineo che
s’infila in vena come pentotal per non pensare più e
piombare in un sonno profondo.
Sono troppe sei ore di seguito da Villa Opicina: e
pensare che tre giorni fa era a Timisoara.
Il suo enorme Skania cromato romba e morde l’asfalto
della tangenziale e Darko si sente, lassù nell’abitacolo
tiepido di sudore e riscaldamento a manetta, un re, uno
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stanco re che vorrebbe abdicare in una piazzola vicino ad
un autogrill pieno di roba calda.
Toh! Quel bel ragazzino: che ha da guardare?...
Ciao piccolino: sembri il mio Miroslaw…un sorsetto di
birra, va…cin cin biondino…
Eheheh fai le linguacce…ragazzino sveglio e prepotente
eh?
Ciao, ciao, piccolino, eheheh…
…
Cazzo che piccolo bastardino. Cacciatelo nel tuo piccolo
culo il ditino, piccolo stronzetto.
…
Ma dico io: che educazione da queste parti. Brave
mamme qui intorno…
Adesso che fa quella peste?
Ah! Pare che si sia messo tranquillo: comunque bel
piccolo maleducato…
Peccato! Così vivace e carino…
…
Bastardo! Due volte! Tu e la tua mamma!
Scrivermi vaffanculo, così, su un cartello…
“Chiamate un interprete che non capisco una mazza.”
“Subito, Commissario.”
“Allora, ubriacone: ti chiami Darko…e poi? Dove hai,
dove avere tu tuoi documenti, documenta?”
“Educasioni,
educasioni…Anche
in
mio
paese,
Rumania, educasioni, commisari… Muntesoru,…Muntesoru
no buono metodo educasioni…”
“Cazzo dice questo qui? Educazione? E’ salito con tutto
il camion sopra una macchina e ne ha fatto una
polpetta…Due morti saldati insieme alle lamiere…un
bambino di sei sette anni e la sua mamma…
Cazzo centra l’educazione?...
Questo è ubriaco come una cocuzza…
Ricominciamo allora: ti chiami Darko…rumeno tu, sì?
Poi?
Come tu chiamare?...”
“Muntesoru no buono metodo educazioni, commisari…”
31
GLI SCONFITTI HANNO GLI OCCHI DI MONTONE
Ansima la vecchia corriera, residuato degli anni
sessanta, sulla strada sterrata che da Nairobi porta al
villaggio turistico in riva al mare.
E’ un mostro antidiluviano, più volte rabberciato, con
pochi pezzi di motore originali, dipinto a colori vivaci ormai
stinti e scrostati dalla salsedine e dal sole che cuoce
implacabile una strada percorsa avanti e indietro per oltre
quaranta anni.
A bordo viaggia poca gente perché è un orario proibitivo.
Due altere donne masai tintinnanti d’anelli e catenelle e
denti di squalo, avvolte in tessuti multicolori. Parlano tra
loro a bassa voce come ciangottanti uccellini sulla gobba di
uno gnu.
Una piccola comitiva di turisti, italiani, rumorosi e
allegri, provinciali come quasi tutti gli italiani all’estero,
come fossero padroni del mondo, padri di famiglia scialbi
con mocciosi frignanti e donne che si sentono realizzate in
vacanza nel continente nero.
Un ragazzo pallido ed emaciato dall’intensità febbrile, in
disparte, con lo sguardo perduto verso l’orizzonte che
sembra non avere mai fine confuso tra riverberi accecanti e
il polverone sollevato dal dimesso autobus.
Al volante un imperturbabile ciccione sudato, nero
come un tizzo, con un paio d’occhiali a specchio e un
sorriso a mezza strada tra l’idiota e il troppo vissuto che,
forse, qui ha lo stesso significato.
Afrore multirazziale tiepido e secchezza delle gole.
Desideri di una doccia, di lenzuola di lino, d’ombra
fresca, di ventilatori, di bibite ghiacciate.
La comitiva è fastidiosa, arrogante nell’imporre propri
timbri vocali e assonanze, con un insieme di dialetti tra cui
spicca qualche inflessione romanesca con qualche
intercalare popolaresco tipico infarcito di goliardate e doppi
sensi di buonumore; qualche biondo bambino imbronciato
cantilena, monotono, capricci o piange per disagi infantili
d’astinenza da aranciata fredda o da caramelline alla
menta.
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Il ragazzo in disparte, serio, senza espressione,
abbraccia dal fondo della corriera la scena dei turisti
sempre più chiassosi.
Li comprende, sotto certi aspetti, Aziz Mansouri,
giovane egiziano dai capelli crespi corti e dallo sguardo
indecifrabile: anni a Torino, a Roma, a Bari a pulire vetri ai
semafori, a scaricare casse al mercato, a soddisfare
sporadicamente qualche vecchio morboso amante della
gioventù esotica.
Li comprende perché li conosce: un lungo tormentato
lavoro di scavo con sorrisi e una spugna all’incrocio
trafficato di fronte a persone a volte comprensive, a volte
infastidite, a volte finanche violente.
Conosce quell’arroganza meschina, impastata di
paternalismo tronfio di chi si crede superiore per scelta
divina.
Conosce la diffidenza mista a curiosità e ad
opportunismo per strani intenti.
Li scruta e li soppesa, intende quello che dicono,
registra la loro gioia smodata e maleducata e riflette su
quello che è stato e su quello che sarà, tormentando un
cordino che spunta fuori del suo giubbino senza maniche
da cacciatore, pieno di tasche e tasconi, imbottito e pesante
per quell’ora assolata che cuoce il tetto della corriera e
arroventa vetri, sedili, persone che sudano e imprecano e
ridono felici in un’assoluta mancanza di logica.
La corriera procede a balzelloni su buche e sassi
disseminati lungo la strada sterrata polverosa e riarsa. Di
tanto in tanto si ferma e sbarca qualcuno o accoglie
qualcun altro.
Ecco: sono appena scese le due donne masai, alte,
slanciate, vagamente disgustate di tutto quel frastuono
degli italiani. “Italian do it better”…il rumore sicuramente…
E’ salito un giovane moretto allegro, crespo con un
sorriso candido, una guida o un cameriere del villaggio
turistico probabilmente, perché ride alle battute degli
italiani e ammicca furbescamente, mentre succhia aria
mossa e polvere da un finestrino interamente abbassato:
occhi svegli, profondi, maliziosi ed innocenti insieme. Ha
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portato con se un odore stordente di gelsomino e d’acqua
immota di stagno.
Potenza del turismo nel comprendersi!
Tutti parlano l’italiano in questa landa arrostita dal sole
keniota: sembra di essere a Gabicce Mare di cinquanta anni
fa con qualche negretto in più.
Anche molta polvere in più, e nessun tedesco che canta
‘Lilì Marlen’, e nemmeno birra o lambrusco frizzantino.
Oggi si canta ‘…mille violini portati dal vento…’ della
Carmen Consoli e si inumidisce qualche occhio, ma la colpa
sarà forse della polvere rossastra che entra dappertutto.
Aziz pensa alla sua giovane vita e alla sua scuola
frequentata con profitto a Torino.
Si affaccia alla memoria l’imam, segaligno e austero, e
certi suoi discorsi di disperazione e di solidarietà per i
fratelli mussulmani di tutto il mondo: era attento ad
ascoltarlo insieme con altri ragazzi, la sera, nel retrobottega
del piccolo supermercato di prodotti tipici per arabi.
S’insegnava orgoglio islamico e si pesavano situazioni e
vite sezionando storie come fette di kebab a riempire pani
morbidi e soffici d’odio.
Ricorda quel dialogo con quell’uomo venuto da lontano
dagli occhi penetranti che gli ha promesso un futuro
d’agiatezza per la mamma e la sua sorellina più piccola.
Si accende nella mente, all’ombra torrida della corriera,
la commemorazione di suo padre, di suo padre eroe, da
parte di quell’uomo, un sant’uomo dalla voce mite che parla
di redenzione e di paradiso e di fedeli e infedeli.
Scava come una goccia cinese nel cervello la promessa
che ha fatto a quel maestro e il saluto alla mamma e alla
sorellina.
Sua madre con gli occhi umidi e orgogliosi.
Ora basta ricordare: è il momento di agire.
Aziz si leva in piedi dal seggiolino.
Incrocia lo sguardo di un membro della comitiva, un
ometto sui quaranta già stempiato dallo sguardo di un
furetto e da un sorriso aperto e disarmante.
Mentre lo guarda, squadrato a sua volta, riflette
intimamente: sono così trasparente nelle mie intenzioni?
Quest’uomo ha compreso e ora sa: devo fare presto…
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“Ahò, morè, sta bbono pe l’amore de Ddio.
Che voi fa? Nun vedi che cce so li regazzini? Sta bbono,
aspetta, parlamo.
Aspetta che vengo da te e ne parlamo… Si tte posso
aiutà, sto qui pe aiutatte…”
Aziz è ipnotizzato dal sorriso dell’ometto e soprattutto
dagli occhi supplichevoli, mobili e irrequieti, in stridente
serietà ferma e guardinga: rimane in silenzio e
contraccambia lo sguardo senza espressione con un solo
dolore interiore che solamente lui riesce a percepire,
violento, lancinante.
“A morè, come te chiami?”
“Aziz…”
“Ammazza che ber nome: Azzizze…
Conosco ‘n Azzizze a Roma…
Ahò Azzizze, aspetta, nun fà cazzate, me capisci vero?”
Il tono della voce è sommesso e quasi querulo, si
dovrebbe perdere tra il frastuono ridanciano della comitiva
dei turisti, ma qualcuno ha afferrato al volo quello che sta
per succedere ed è ammutolito guardando i due e creando
un effetto domino d’angoscia e attesa.
I bambini sembra che abbiano un loro istinto animale:
ora tacciono abbracciati da mamme dagli occhi inquieti con
una piega amara alla bocca.
Qualche gemito sommesso di casalinga apprensiva che
chiama la Madonna del Divino Amore o il dolce cuore di
Gesù; qualche respiro più affannoso e qualche singhiozzo
trattenuto a stento.
Su tutto, un odore di paura di morire misto a diverso
sudore e alla stessa polvere di prima fastidiosamente
imperturbabile.
Il giovane moretto al finestrino non ride più.
L’autista rallenta impercettibilmente la corsa della
corriera, scruta l’enorme specchio retrovisore e impallidisce
per come può impallidire un ciccione autista nero come un
tizzo che ora suda ancora più abbondantemente: i suoi
occhiali argentati impenetrabili nascondono uno sguardo da
animale braccato.
“Capo, capo: frena ‘n po’ che dovemo da parlà co sto
signore.
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Azzizze sta tranquillo: parlamo solamente…ahò, voi
fumà? C’hai sete? Voi bbeve?
Mi moje c’ha ‘l termo pieno de thè freddo…
Voi ‘n bicchiere intanto che parlamo?”
“C’è poco da parlare, italiano. Quando c’è stato da
parlare non avete voluto ascoltare e avete parlato solo voi.
Anche ora vuoi parlare solo tu e non c’è più tempo per
ascoltare, e forse non vuoi o non sai ascoltare.”
“Azzizze, ma cche stai a ddì? Ma cche c’entramo noi?
A me l’arabi me so simpatici, c’hanno ‘na civiltà,
Averroè, Avicembalo, Avicenza, …come cazzo se chiama,
…c’hanno er petrolio: è robba loro.
Io nun la penzo come l’americani. Qui nessuno la penza
come l’americani.
Perché te la devi da pijà co’ noi che nun c’entramo
gnente?”
“Italiano mi fai ridere.
Che c’entra allora il mio popolo calpestato di fratelli
islamici nel mondo che ha bambini uccisi da malattie e
terra occupata per prendere ricchezze?”
“Ahò, aspetta Azzizze, che cacchio c’entrano ‘ste
creature?
I fiji nostri stanno a venì su educati a rispettà l’arabi e i
negri: noi semo tolleranti co’ ttutte le razze de la tera.
Come poi penzà de dacce la morte, proprio a noi che ve
volemo bbene?”
L’ometto, parlando con il giovane egiziano, si avvicina
alla portiera della corriera.
L’autista ciccione, ormai spugnoso, nel frattempo va
quasi a passo d’uomo e il ragazzo sveglio che sa di
gelsomino valuta l’ipotesi di buttarsi dal finestrino.
“Azzizze, noi semo amici.
Qui ce stanno tutte persone che tte vogliono bbene e
vogliono bbene all’arabi. Fai escì li regazzini che sso’
innocenti…
Io adesso opro lo sportello e faccio escì le creature co’ le
mamme…
Essi omo, Azzizze …”
36
L’ometto implora con una sorprendente dignità e un
quasi naturale cameratismo, suda e si muove lentamente
verso lo sportello.
Aziz è impietrito e confuso tra sue realtà meditate più
volte e quegli sguardi di vittime molto simili a quelli dei
montoni sgozzati per il cous cous.
Lo sportello è aperto con un cigolio e un refolo di aria
calda in corrente con i finestrini invade il corridoio della
corriera.
“Azzizze, li regazzini mò scendono piano co’ le mamme.
Noi parlamo.
Si tte posso aiutà, lo sai che nun me tiro indietro…”
“Come puoi aiutare me?
Mi dai lavoro?
Una casa per me e mia madre e mia sorella?
Come l’ imam?
Aiuti i miei fratelli in Palestina?
In Afghanistan? In Iraq?
Combatti con me contro gli americani e i loro alleati?”
Quasi ride, Aziz, isterico nel formulare domande
taglienti come rasoi: una smorfia tra richieste gutturali
strozzate che sembrano irate.
Abbocchiamo sempre noi occidentali: due arabi parlano
appassionatamente tra loro e noi pensiamo che si vogliano
accoltellare direttamente entro pochi secondi, frastornati
come siamo da accenti e toni gutturali duri e cipigli
combattivi e grintosi.
La corriera è ferma, ora, nella canicola di una distesa di
terra senza altro che arbusti, qualche masso e tanta polvere
fino all’orizzonte.
I bambini sgattaiolano muti e discreti verso lo sportello
d’uscita seguiti dalle mamme timorose e inquiete.
Si spandono tutti di corsa a raggiera lungo la strada
polverosa a nascondersi dietro massi perdendo sandali,
cappellini e fazzoletti.
Il ragazzo moretto, il cameriere, serissimo ora, con un
balzo è nella strada e corre fino ad un bidone di benzina
abbandonato vuoto ad una cinquantina di metri dalla
corriera.
37
L’autista ciccione, semiliquefatto, si cala giù dal suo
sportello e arranca asmatico dietro al moretto.
Sull’autobus sempre più rovente, anche perché fermo,
rimane il romano stempiato che frastorna Aziz in
romanesco sorridendo, solo con la bocca, con due occhi
vigili e inquieti, mentre anche gli altri componenti della
comitiva scendono furtivamente e ordinatamente dalla
corriera per poi fare un isterico avanzamento veloce quasi
da vecchie comiche verso un qualsiasi riparo.
L’ometto parla e parla, torrenziale:
“Azzizze, vedi questo che scenne? E’ cardiopatico. ‘O sai
che vvor dì? Vor dì che si sta ancora qua dentro more de
paura e tu saresti ‘n infame .
‘O vedi quest’artro? E’ mì cuggino: è ppieno de debbiti,
‘na monnezza d’omo, ‘n fallito: però c’ha ttre creature,
quelle che so scese prima co’ la mamma.
Daje ‘na possibilità de redimese.
Ma cchi tte lo fa ffà?
Nun ce risorvi gnente a ffà sartà ‘sta corriera.
Noi nun semo nessuno, semo bbrava ggente.
Cazzo c’entramo noi co’ l’arabbi?”
“Italiano, tutto ha un suo significato: è scritto dal tuo
Dio ed è scritto dal mio Dio.
Il prezzo della mia vita per il benessere della mia
famiglia. Il prezzo della tua vita per la gloria di me di fronte
al popolo arabo, per orgoglio e dignità del popolo arabo.
Ora che siete tutti andati quale significato può avere il
mio gesto?”
“Ma cche tte ‘lludi de fà?
Voi cambià er monno co’ ‘n botto?
Credi d’arisolve quarcosa?”
L’ometto ora non ride più: è amaro, con una piega triste
della bocca scartavetrata dalla polvere rossastra della
strada.
Gronda di sudore, ma è quasi indifferente alla chiazza
che s’allarga nella maglietta sugli scarni pettorali.
Guarda Aziz con uno sguardo duro, indifferente, stanco.
“A morè, io vojo vive pe’ li fiji mja , pe’ mj moje, pe’
godemme ancora ‘sta vitaccia co’ quarc’ artra ggita.
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Io me considero innocente: fa ‘n po’ quello che tte
pare…
Io me ne vado, sorto fora da sta scatoletta aroventata: te
chiedo de famme vive, ma nun vado a pregà nimmanco in
chiesa, figuramose si me metto a pregà tte…
Te saluto, morè.
Me sembra ‘na partita tra ospedale contro lazzaretto:
chi penzi che vince?
Tutti sconfitti, semo, aricordatelo…”
Guarda ancora per un attimo, grave, il giovane egiziano
e gli volge le spalle con un brivido gelato dietro la schiena e
scende lentamente dalla corriera.
Aziz lo guarda allontanarsi a capo chino verso un masso
e una palma scarniccia, verso ragazzini piangenti e mamme
isteriche con occhi sbarrati.
Vede di sfuggita l’autista con gli occhiali a specchio:
respira a fatica preoccupato.
Ed è preoccupato anche il moretto sveglio, attendista e
sensibile come una gazzella allo stagno.
Pensa all’imam come ad un chiodo fisso, Aziz, alla
mamma, alla sorellina, al padre eroe, al suo Dio duro
eppure misericordioso.
Rimane ancora qualche attimo assorto con gli occhi
come due feritoie nella fornace della pianura abbagliante,
occhi ormai liquidi di un pianto salato d’impotenza.
Gira lo sguardo dentro l’autobus: bagagli abbandonati,
cappelli di paglia, teli da bagno variopinti, un residuo
d’odore di gelsomino.
Silenzio.
Solo lui in mezzo alle correnti calde tra i finestrini
spalancati con quel refolo continuo d’aria sabbiosa
rossastra.
Dio ci penserà: egli è buono e giusto, tutto è scritto per
tutti.
Sensazione di stanchezza e d’appagamento per un
arrivo ad un traguardo sofferto.
Una voce strozzata da fuori, lontana.
“Semo tutti sconfittiiiiiiiii……”
Un accavallarsi d’immagini: lame ricurve, rosari,
bagliori di mezze lune su cupole dorate di moschee,
39
penombre straccione d’interni fetidi, tè tiepido in bicchiere
di vetro, ragazze sorridenti e maliziose coperte da veli con
occhi di cerbiatte, l’imam, la paura, la speranza, la fede, la
tanta stanchezza di anni e anni di generazioni di cacciatori
e prede, la voglia di riposo e serenità…
Tira, Aziz, il cordino.
40
STORIA DI STRANO JUMBO TRAM
Ebbe una sensazione inspiegabile e fastidiosa di freddo,
eppure era luglio.
Pensò all’aria condizionata del jumbo tram: esagerata.
Alzò gli occhi dal “Corriere dello sport”, con l’atroce
dubbio esistenziale sulle implicazioni di carattere sportivo
legate al prossimo matrimonio di Del Piero, e rimase basito
come un allocco per la sorpresa di uno scenario nuovo e
inatteso.
Il lungo mastodontico jumbo tram, denominato linea 4,
con i suoi seggiolini pseudoallegri giallo uovo e i
mancorrenti gialli e grigi, era desolatamente vuoto come un
seggio elettorale referendario.
Freddo come un frigorifero, procedeva a velocità
cittadina di crociera ignorando tutte le fermate nonostante
una voce preregistrata le scandisse con puntualità.
Ebbe un brivido di inquietudine, Agenore, pensionato,
nel percepire una sorta di ghigno malevolo nell’intonazione
degli annunci di fermata non rispettati dall’autista laggiù in
testa alla vettura.
“Prossima fermata…corso Giulio Cesare angolo via
Lauro Rossi…prossima fermata…corso Giulio Cesare angolo
via Lauro Rossi…”
L’allocco Agenore (e sbatteva gli occhi anche in maniera
acconcia) fu assediato da assillanti domande interiori sul
perché e sulla logica di tutta l’innaturale situazione:
completamente solo a luglio su un jumbo tram della linea 4
con il manovratore che non effettuava fermate, con l’aria
condizionata
al
massimo
che
rendeva
l’ambiente
similsiberiano, vagamente a disagio per qualcosa di
irrazionale e inespresso.
Si scrutò nel vetro di fronte leggermente fumè e distinse
la sua sagoma mingherlina e segaligna perennemente
accigliata che ora, però, era anche stupita e diffidente: di
quella diffidenza propria del malfidato che subodora
fregature ad ogni angolo. Avrebbe dovuto scendere tra poco
e si appressò ai portelloni di uscita; suonò il campanello
41
mentre la solita vociaccia odiosa quasi irridente scandiva la
sua prossima fermata.
Il jumbo tram oltrepassò la palina senza modificare la
velocità tra l’indifferenza generale di tutti quelli in attesa
alla fermata.
Agenore, oltre che già inquieto per l’inesplicabile,
cominciò a diventare fumantino: scampanellò nervosamente
e ripetutamente controllando l’accensione della lucina di
“fermata prenotata”, ed intanto urlacchiò con la dignità
propria del cittadino che protesta all’indirizzo del
conducente.
Voce stizzosa, alterata:
“Capo, capo: ha saltato la mia fermata… accidenti…
Capooooooo…”
Si portò verso il loculo di guida, adirato nell’essere stato
calpestato circa i suoi diritti, pronto a cantarne quattro allo
screanzato perdigiorno poco professionale. Gli si mise di
fianco separato da una mezza parete vetrata trasparente.
Ebbe un rilancio di brividi vari e assortiti in un misto di
raccapriccio e trasalimento montante: l’autista aveva un
volto incartapecorito come quello di una mummia
imbalsamata di antico sacerdote egizio e aveva un curioso
sorriso giallastro cattivo all’indirizzo dell’unico passeggero,
con sinistri lampi di occhiate da orbite incavate con pupille
nere come la notte e lucide come scarafaggi nervosi.
Agenore ebbe la sensazione antica già provata su un
ottovolante: il sangue tramutarsi in acqua. Si tenne ad un
mancorrente e intanto volse sguardi febbrili a destra e a
manca alla disperata ricerca di una gazzella, una pantera,
un vigile, un passante occasionalmente attento.
Nulla.
Fu accarezzato gelidamente da una risatella chioccia
trasudante un enfisema e da una occhiata particolarmente
penetrante e divertita.
Ebbe il sopravvento, almeno inizialmente, la natura di
Agenore che paga le tasse e ha la coscienza a posto con il
mondo e dorme il sonno del giusto.
“Cosa c’è da ridere di così spiritoso?
Ha saltato la mia fermata!
42
Come mai su questo tram ci sono solo io e come mai
non ferma? C’è uno sciopero di cui non sono a
conoscenza?”
La mummia, un essere repellente rinsecchito a mezza
strada tra il vecchio famoso zio Tibia e lo zio di
Tutankamon, gli rifece il verso con una risatina acida
squassata da un sibilo rantolante.
“Agenore, Agenore, si è avverato il tuo desiderio…sei
contento?”
“Che desiderio? Ma di che parla? Sta bene? Non mi
sembra che abbia una buona cera: troppo forte quest’aria
condizionata…e poi…chi le ha detto come mi chiamo e chi
le ha permesso di darmi del tu?”
“Agenore, non fare l’offeso come tuo solito.
Stamattina qualcuno ha deciso che si dovesse realizzare
il tuo desiderio principale. Sappiamo che hai tanti desideri:
se vincessi al superenalotto, se avessi venti anni di meno,
se fossi più alto, se l’avessi più lungo, se avessi la
possibilità di trovarti in ascensore bloccato con la Bellucci o
la Ferilli…Eheheh sporcaccione di un Agenore: ti
conosciamo benino.
Sappiamo anche che il tuo desiderio principale è: se
comandassi io… Vero?”
Il pensionato si irrigidì in autodifesa impermalita, come
una qualsiasi specie animale particolarmente fragile,
chessò, un paguro vedovo di attinia o un camaleonte a corto
di fantasia cromatica, toccato nelle corde dei nervi più
sensibili per questa intromissione intollerante nella
‘privacy’.
“Ma come si permette? Ma che ne sa lei di me? Mi dia il
numero di distintivo!”
“Agenore calmati…Prova a ricordare i tuoi desideri di
tutti i giorni su questo jumbo tram per quando vai in centro
o per quando ritorni a casa…
Non ricordi nulla? Vuoi che ti rinfreschi ancora di più la
memoria con altra aria condizionata?”
La risatina canzonatoria divenne un borbottio catarroso
di esilarante comicità per il diabolico conducente.
“Ecco: cominci a ricordare…vero?”
43
Agenore, ormai paonazzo, soggiogato dalla situazione
irreale, incapace di reagire sensatamente, fu ipnotizzato
nell’agganciare quadretti quotidiani e scenette d’ogni giorno:
tutti piccoli episodi che lo rendevano bilioso e rancoroso
verso l’umanità tutta.
Ritornò con la mente a viaggi di giorni prima.
Il 4 pieno di tanta gente, a volte con l’aria condizionata
malfunzionante, in aria soffocante di varia umanità odiosa e
ripugnante.
Ricordò la matrona accanto a lui attaccata al
mancorrente in alto, con quell’ascella matassosa da yeti che
mandava effluvi di minestrone acido con deodorante di
categoria dilettanti: l’avrebbe fatta scendere, se avesse
comandato lui, e ricordò un suo sguardo in tralice pieno di
compatimento e rabbia per l’afrore insopportabile.
E quella coppietta, con lei piena di spilloni, seduta sulle
ginocchia di lui: cazzo….si baciavano senza ritegno, pure
con la lingua, maiali, e lui, pensionato, in piedi con un
caldo asfissiante.
Gioventù d’oggi, pensò, e ricordò di avere anche pensato
che se avesse comandato lui ci sarebbero stati più campi di
lavoro, sicuramente non promiscui.
E quella comitiva di piccoli mocciosi rompicoglioni della
colonia comunale, tutti con i cappellini arancioni, con i due
assistenti menefreghisti… Signori, ma come vi guadagnate il
pane? Urla da mercato da un capo all’altro del tram per
tenere a bada quella turba sfrenata di piccole pesti: no, no,
non si fa così…per queste gitarelle, che poi si paga tutti noi
come comunità, ci vanno tram differenziati…ne vanno di
mezzo le caviglie dei pensionati e poi, guardali, guardali,
animaletti parassiti, tutti stravaccati dappertutto e gli
anziani in piedi: avesse comandato lui…
Gli venne in mente anche quel lungagnone secco secco
che gli si mise di fianco, quello con i capelli rasta o come
cazzo si dice, con quelle trecce di paglia gommosa che
puzzavano di fieno e qualcosa di simile all’incenso.
Se avesse comandato lui i barbieri non si sarebbero più
lamentati del poco lavoro ahahah, e nemmeno i
disinfestatori: cazzo, quel perticone era un ospizio
44
permanente per piattole turiste maratonete con lo
zainetto…
Ebbe poi un particolare moto di stizza per una nuova
scintilla di ricordo: eccheccavolo, signora, con queste borse
della spesa…mi ha frantumato una rotula…
Ricordò la faccia offesa di quella virago, baffuta come
un tricheco, della stessa corporatura di un tricheco, forse
anche con i denti, se ricordava bene, del tricheco: se avesse
comandato lui quella palla di grasso avrebbe fatto fondere
qualche ‘tapis roulant’ di qualche palestra…
Si scoprì, nel gelo del jumbo tram deserto sotto lo
sguardo sardonico della mummia alla guida, tra l’adirato
offeso e il malvagio divertito, e altri quadretti si
affastellavano alla sua mente ormai incurante delle fermate
che si susseguivano senza alcuna sosta.
Ricordò il moto di stizza della giraffa, di quello
scroccone che allungava il collo per leggere e carpire notizie
che lui aveva pagato con l’acquisto del giornale.
Avesse comandato lui sai quanti schiaffoni davanti a
tutti alla prima fermata: compratelo il giornale!!!
E mano morta? Eccolo là, gli pareva di rivederlo, dietro
a una ragazzetta burrosa e bovina con gli occhi a palla
assenti.
Vergogna! Guarda la mano come scorre leggera e
guarda quella vacca che neanche se ne accorge…o forse sì,
se ne accorge e ci gode, la troia, e nessuno dice nulla.
Comandassi io, si farebbero lapidazioni anche qui, che
tanto di arabi ce n’è un fottio…guarda quanti, …bastardi, a
toglierci il lavoro, a fare gli attentati, ma chi li fa entrare?
Saprei bene come scoraggiarli…
I siparietti di Agenore si susseguivano nella sua mente
producendo contrazioni della mascella per la rabbia:
contrastò con severa dignità, accarezzando il suo primario
desiderio, il ricordo di processioni di marocchini, rumeni
rumorosi, negracci strafottenti, albanesi sudati. Tutti su
quel maledetto 4 quando c’era anche lui, con il rischio di
qualche malattia o della rogna…
Il pensionato mingherlino era quasi in trance
apoplettico e la mummia conducente sogghignava
45
inclinando il capo verso di lui con una espressione malvagia
e divertita.
Si riscosse dopo visioni e visioni di marcio e di
intollerabile, di immorale e di diseducativo, di anarchico e
di menefreghista. Mise a fuoco l’immagine dell’autista e
della strada che il tram bruciava con regolarità e riacquistò
un minimo di lucida padronanza meschinella e prepotente.
“E adesso dove si va? Dove mi porta? Cosa vuole farmi?”
“Stai tranquillo, Agenore, andiamo solamente al
capolinea…”
E la mummia cominciò a ridere squassato da colpi di
tosse grassa e cavernosa mentre il freddo crescente
cominciava ad appannare i vetri.
Agenore ebbe la sensazione di svenire e di venire
sballottato contro qualcosa. Aprì gli occhi e fu asfissiato da
una vampa di calore torrido.
Tantissima gente intorno a lui, tutti stipati come
sardine, tra odori strani di esotico e di comunemente
umano.
Lacche, profumi, brillantine e deodoranti insieme a
mormorii, trilli di cellulari, risate sguaiate e interiezioni
popolaresche volgari. E poi sudore, aliti, colpi di tosse.
Era stato un sogno, solamente un incubo dove lui aveva
sognato realtà di tutti i giorni che ora riviveva realmente.
Si appressò all’uscita, Agenore, ansimante per un
gomito in una costola e per il caldo causato dal
condizionatore guasto. Respiri pesanti e sguardi circospetti.
Pigiò il campanello per la sua fermata e scese poco dopo
con un misto di sollievo, seppure nella canicola reale, e con
la solita sprezzante alterigia nei confronti dell’umanità
stipata intorno a lui.
Sostò alla fermata osservando il jumbo tram ripartire,
con stupore e sensazione di confusione per quel sogno così
realistico, e si mise una mano in tasca per cercare un
fazzoletto.
Non trovò più il portafogli.
Il 4 era lontano.
Agenore ebbe l’impressione di riudire una risata
affogata in un enfisema, ma forse era solamente la canicola
di stagione.
46
JA’ SEI NAMORAR
Giovanni è un simpatico laureando torinese.
E’ un assassino, e non lo sa.
Il 50 in ora di punta è una salamoia cosmopolita.
Viene attraversata Porta Palazzo con il mercato rionale
più grande d’Europa e l’autobus si inzeppa di massaie,
sporte, pensionati e padri di famiglia con ceste di frutta,
extracomunitari di ogni colore, idioma e religione.
Gli odori della frutta di stagione vengono mescolati
dall’aria condizionata con gli afrori di qualche ascella
trascurata o con aromi esotici e lavande dozzinali.
I nuovi autobus della linea 50 hanno il corridoio del
passaggio molto stretto ed è accadimento naturale anche se
non sempre imbarazzante o fastidioso, almeno per
qualcuno, aderire a qualche corpo sballottati tra un
semaforo ed un altro.
Oggi Lisetta ritorna a casa immusonita con la testa
sottosopra: l’esame non è andato bene.
Il professore ha delegato all’interrogazione un assistente
acido e supponente che ha fama di mastino.
Poche domande e diverse esitazioni, uno sguardo di
compatimento a sormontare un sorrisetto vacuo malevolo,
una maggiore conseguente esitazione per eccessiva
emotività.
Il mastino acido ha scosso il capo in falsa solidarietà e
ha manifestato pollice verso.
Lisetta, stretta ora tra una cicciottosa logorroica
massaia e uno statuario ragazzone d’ebano, si ripercorre la
scena dandosi mentalmente della sciocca per avere
soggiaciuto così passivamente alle sue paure.
Cicaleggio che culla con interiezioni dialettali, tribali,
francese, slavo e ronzio di amalgama del condizionatore con
una spruzzata di stridio di freni.
Contatti casuali di mani, polsi, qualche polpaccio teso.
Contatti meno casuali di qualche inguine prominente,
di qualche mano…
47
Lisetta ha una soglia di attenzione impostata sul
normale, come un ‘firewall’ usato da una persona
abbastanza fiduciosa nel genere umano internautico.
La disamina dell’esame fallito assorbe quasi tutte le
risorse di sistema.
Da due fermate nel frattempo è salito, o meglio, si è
introdotto Darko, giovane esangue dallo sguardo felino di
lince.
Anche lui ha qualche problema: è indietro nella tabella
di marcia della sua produttività e al capolinea troverà
Miroslav, il signor Miroslav, che potrebbe anche spengere la
sigaretta sul suo braccio già pieno di lividi.
Bisogna fare presto e sperare anche in un positivo
raccolto.
Darko ha una mutazione, diventa folla, sparisce tra
gomiti e borse, quasi scompare: diviene un virus.
‘Darko50’ è sufficientemente spaventoso come sigla di
virus, no?
Lisetta è nel mezzo del corridoio.
Davanti a lei la massaia che parla a tutti e nessuno di
calcoli renali con una sporta piena di ciuffi verdi ai piedi.
Poi una coppia giovanissima di ‘fidanzatini’ con zainetti
che massaggiano vertebre contigue sparse, e un gigantesco
monolite di mezza età, stempiato e arcigno, davanti alla
porta, che oscura la luce con la sua imponente stazza.
L’impalpabile Darko sorpassa il ragazzone negro e sfiora
con carezzevole sguardo e carezzevole mano Lisetta con
borsa a tracolla che appare come protetta da un antivirus di
tre anni fa.
Un semaforo rende tutti complici in una frenata che
unisce e rende solidali nella ricerca d’equilibrio.
Darko oltrepassa Lisetta e anche la massaia.
Ha in mano, materializzati dal nulla, quasi dal nulla, un
borsellino e un cellulare.
Sono in pochi ad avere installata sul proprio telefonino
la suoneria del tormentone dell’estate dei Tribalistas.
Lisetta ce l’ha.
Suona un telefonino in quel momento.
48
Pare “Jà sei namorar”, appunto dei Tribalistas, e molti
volti si girano sorpresi per la novità, qualcuno invidioso per
non avere una suoneria così aggiornata.
La più stupita è Lisetta: sta suonando il suo telefonino,
ma qualche metro più in là da lei.
Un attimo e la folgorazione della consapevolezza di una
intrusione.
Uno sguardo veloce a cercare sguardi colpevoli e la
provenienza del suono del telefonino e al contempo un
frugare frenetico nella borsa.
“Al ladro, al ladro!!! Mi hanno rubato il cellulare e il
borsellino!!! E’ quel ragazzo lì, fermatelo!”
Il ragazzone negro vuole fare bella figura con i bianchi,
vuole integrarsi nel tessuto connettivo della società
produttiva torinese.
Sorpassa la ragazza con piglio zorresco e blocca un
braccio di Darko non senza aver calpestato la sporta della
massaia chiacchierona e qualche alluce assortito sporgente
da sandalo.
Risentimenti e cori di indignazione e di dolore,
soprattutto dei proprietari d’alluce offeso.
Monolite alla porta si volge con insospettabile foga e
agilità e scruta nel mucchio con sguardo minaccioso.
La giovane coppia innamorata si scinde in due aspetti di
civismo: lei strilla come un’aquila indicando Darko mentre
lui cerca di bloccare al giovane ladruncolo l’altro braccio.
Darko prova a calzare l’espressione dell’offeso
innocente, dell’indignato, del querulo impietosente morto di
fame, ma “Jà sei namorar” lo condanna con insistenza
impietosa e regolare.
Monolite alza un braccio enorme che finisce con un
pugno enorme e lo scarica sul capo di Darko colpendo alla
cieca come un tedoforo ubriaco.
In effetti quel braccio pare avere una fiaccola
incorporata, ma sono solo anelli massicci con pietre forse
adesso troppo dure.
Si abbatte sul giovane sgraffignatore
più volte
all’impazzata tra urla generiche da arena gladiatoria del tipo
di ‘dagli all’untore’, ‘non se ne può più’, ‘ammazzatelo di
49
botte’, ‘foralo’,
e intanto la suoneria dei Tribalistas
scandisce tempi e modi.
Qualche pugno scivola, qualcun altro impatta
duramente.
Uno, in particolare, picchia su una tempia molto
violentemente.
Darko ha qualche vaso capillare più fragile di un vaso
Limoges o di un Capodimonte.
Si fa buio intorno al giovane ladro che si accascia in
obliquo, pressatello sullo studente fidanzato.
L’autista del 50 frena seccamente e la massaia
corpulenta frana sull’eroinegrone che schiaccia lo
sfortunato virus con una sottile cattiveria.
Lisetta branca al volo borsellino e cellulare isterico e
fugge emotivamente scossa alla portiera di uscita che si
spalanca quasi magicamente davanti a lei.
E’ fuori.
E’sola.
Respira a lungo, stravolta, e si scarica gradatamente
della tensione accumulata in mezzo a quel carnaio.
I Tribalistas innamorati sono quasi sulla soglia della
menopausa, ma trillano ancora fiduciosi.
“Pronto…”
“Amore perché non rispondevi: che succede? Andato
bene l’esame?”
“Stai zitto Giovanni: ho un diavolo per capello!
Esame toppato e tentativo di furto sul 50…Ne sono
scesa adesso…I soliti bastardi a caccia di cellulari.
Meno male che mi hai chiamato: gli hai rovinato tutto.
Potesse morire certa gente!!!”
Una o due fermate più in là un autobus 50 si sta
svuotando velocemente di tarantolati che non vogliono
perdere tempo in qualche Commissariato e avere problemi,
anche solo di striscio, con la Giustizia.
Nel corridoio stretto rimane esanime Darko50, ucciso
da un ignaro Giovanni con la complicità, in associazione a
delinquere, dei Tribalistas.
50
DI TRAVERSO RIGATONI E DOLCE STIL NOVO
I locali del commissariato POLFER di una stazione,
fosse anche di una bella città come Livorno, qui, ora, sono
sempre squallidi, anche per un disincantato avvocato in
bolletta come me che gironzola nelle vicinanze come un
affamato avvocondor d’ufficio che deve sbarcare il lunario.
Conosco il commissario, il dottor Cutrettola, e il suo
fido braccio destro, l’appuntato dattilografo tuttofare
Deopatre.
E loro conoscono me e mi danno un cenno, quando se
ne presenta l’occasione, per tutelare, come vuole la legge,
qualche fermato nel perimetro ferroviario.
Oggi è festa: Deopatre si è affacciato dalla porta a vetri
smerigliati e si è sbracciato con baffo entusiasta verso di me
che leggiucchiavo un giornale al tavolo del bar-buffet
antistante le banchine dei treni.
Hanno accompagnato là dentro qualcuno: se mi
chiamano, vuol dire che è un fermo oppure un arresto.
Si mette in moto il motore del mio corpo umano, come
quei cartoni animati educativi della tv dei ragazzi, e i
neuroni scalpitano di trattenuta efficienza e lo stomaco
balla la ola con il fegato e l’intestino come in una torcida
all’idea di una cena completa di caffè e sambuca.
Pistonano impazienti le mie gambe e fruscia
l’impermeabile stazzonato verso il Commissariato.
Saluti, sguardi di intesa, invito al personaggio portato
fin lì affinché si avvalga dei miei servigi, assenso di lui dopo
un breve sguardo assente…
La mia autostima non è molto corroborata da quello
sguardo gelido, ma ho un maglioncino di pelo di stomaco
che mi protegge e mi tiene caldo ugualmente.
Gli altri agenti si sparpagliano di nuovo verso la
stazione e rimaniamo in quattro.
Mi guardo il trio come un valente sensale da fiera
zootecnica.
Cutrettola dottor Gaetano sembra il cugino maggiore di
Saro Urzì, un bravo caratterista, un attore sanguigno degli
anni sessanta, sempre prossimo ad un aneurisma aortico.
51
Emerge, al solito, da una nuvolaglia temporalesca di
Esportazioni col filtro, con un cranio lucente autunnale
ripulito con solerzia dei residui capelli secchi caduti come
foglie.
Ha due occhi vispi porcini e una voce stentorea che
sembra Biscardi con un cicalino in gola per amplificare
accentazioni partenopee o di quelle parti.
Monologa in continuazione con ‘baffo’ Deopatre
appuntato Vito, come fosse uno sceicco con poteri assoluti,
con ordini, consigli, commenti, buffetti, sarcasmi, come se
l’appuntato fosse la sua coscienza più animalesca o il suo
eunuco preferito.
Il sottoposto, con un muso sottile di faina, ma il baffo
più spesso, lo guarda con occhio a metà tra quello del
bracco italiano affezionato e quello del mezzadro di fronte
ad un campo di pomodori bruciati dalla grandine, occhio
liquido, mediterraneo, forse troppo cotto dal sole, ma
volenteroso e sollecito.
Parla poco, Deopatre, anche perché parla un deopatrese
spersomontano che non è ancora stato riconosciuto dalla
commissione europea.
E poi il terzo.
Il terzo sembra un magico diafantopo di una fiaba per
bambini.
Ha occhi celestini chiari spalancati con orrore misto a
meraviglia sull’ambiente pieno di calendari e cassettiere, un
colorito latticinico anemico e un cespuglio di capelli il cui
loro giardiniere è a letto lungodegente.
Stringe tra le mani un libro pergamenato, forse antico, e
strizza lo sguardo attraverso un paio di occhialini che
sembrano essere stati fregati direttamente a Camillo Benso.
E’ alto, asciutto e poco nodoso: sembra l’incarnazione
umana di un pioppo con gli occhialini, e come un pioppo
non si muove: stormisce appena.
Cutrettola, sorpassato l’autogrill dei convenevoli soliti
delle letture dei diritti e delle presentazioni e delle
generalità, ingrana subito una terza rabbiosa a prendere la
corsia con grinta e autorità.
“Deopatre: mettiti alla magghina da sgrivere e fai
addenzione…
52
Allora, dottor Lieviti, gi vuole raggondare la sua versione
dei fatti?”
Si siede dietro la scrivania, che sembra un vecchio
bancone di un ufficio postale, e incrocia le mani salsicciose
sotto il mento assumendo un’aria paterna e curiosa con gli
occhi porcini che sembrano quasi adescatori.
Mi ignora, professionalmente rivolto all’interrogato, ma
è a disagio per il mio sguardo che rastrella gli ultimi suoi
ciuffi cranici.
Il fumo che sbuffa in volute ingorde tutto intorno lo
iconizza come un protomartire.
Il dottor Lieviti, il diafantopo miope, esordisce in
maniera originale declamando qualcosa di scolasticamente
familiare anche se poco approfondito.
Esala versi con voce sussurrata intensa: si sovrappone
a lui lo spirito di Ghezzi, quello di Blob, ieratico e
appassionato, e gli occhi si dilatano in un celestino
profondissimo che smarrisce.
Guarda alternativamente il commissario e me, indeciso
sulla scelta del canale di sintonizzazione e la sua voce viene
rivolta verso noi due che ascoltiamo come un telecomando
in serata di partita di coppa e di film di successo.
Sceglie Cutrettola: non so se rappresenta film o partita.
Non mi offendo mai per così poco.
“ - Senza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando de la mia donna diviso…- (1)
Abbia a perdonare il mio esordire, valente Commissario,
ma io son filologo stilnovista e medievale e amo
incoraggiarmi nelle asperità avverse con brani di autentica
poesia che il cor mi ritempri e fiducia doni a guiderdone per
riposar lo spirto.”
Cutrettola
assume
l’espressione
del
‘chemminghiastaddicennochistoaccà’ e mi guarda a punto
interrogativo posando poi lo sguardo sul fido scudiero
graduato.
Mi stringo nelle spalle con un sorriso vacuo.
53
“E’ studioso di poeti, Cutrettola…, medievali.
Scriva, Deopatre: a domanda, risponde di essere filologo
stilnovista medievale…”
Clone Ghezzi attende con minimo fastidio e disponibile
pazienza la mia traduzione simultanea e prosegue.
Stavolta guarda me, però, e Cutrettola si infastidisce e
mi sbuffa un tiro di Esportazione che è un pezzo di polmone
bruciacchiato al barbecue.
“Ebbi ad intraprendere il mio viaggio, da Roma alla
volta di Torino, per presentare una mia relazione ai lavori
del periodico congresso di letteratura medievale cui
partecipo come curatore abituale.
Mi accomodai in scompartimento di seconda classe,
allora vuoto d’ogni presenza viva, e mi immersi in
paradisiaca lettura di gemme da me mai meditate a
sufficienza:
- Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,
le donne ti disiano, pulzell’e maritate:…- (2)
Beavomi ordunque di Cielo, o Ciullo, d’Alcamo in
paziente tolleranza del dipartir del treno, quando l’abitacolo
s’empì di famigliola che il viaggio avrebbe, supposi,
intrapreso meco…”
Cutrettola si stranisce per una boccata di fumo di
traverso e si produce nella sua più fenomenale imitazione di
‘maccomecazzoparlachistesfaccimme?’.
Mi lancia, poi, uno sguardo come fosse una richiesta di
interpretazione dell’oracolo.
Deopatre è molto più semplicemente una pastiera
napoletana massiccia e immobile: tipico esponente di
rappresentante del linguaggio del corpo.
Traduco a mio modo senza fare notare i pettorali che
gonfiano di soddisfazione, sfrondando della dotta citazione,
e la cinghia di distribuzione dell’appuntato dattilografo fa
ripartire esitanti i tasti della vecchia macchina da scrivere.
“Conoscevate la famiglia che viaggiava con voi nello
scompartimento?”
Il commissario fa una domanda pertinente anche se
improbabile e la risposta è prevedibile.
54
La fotocopia di Ghezzi s’inalbera come può, forse, il
Ghezzi autentico, alzando appena di tre o quattro decibels il
tono della voce sussurrante.
“Ma certo che no, vivaddio!
Nulla ebbi mai a spartire con siffatta gente che mi si
rappresentò in guisa tanto volgare ché raggricciai l’olfatto in
abominevole disgusto.
Incipiente
obesità
generale,
sorrisi
cariati
iperzuccherini, forfora e sudore agostano acido, insieme di
sguardi bovinidi, ciarlare tumultuoso sopra ragionevoli toni.
Mio Dio!
Occuparono ogni anfratto come la peste o il morbo
gallico!
Mi feci piccolo e mi rinchiusi con animo sordo a esterne
beghe nel mio libello di melodiosi versi, ad evitar contagi.
Epperò fu tentativo inane.
Tre giovani virgulti mal potati da genitori lassisti
imbrogliarono l’ordine della teoria del galateo del viaggio e
con belluine urla e risa sguaiate e canti mutarono l’aere
pregno di cotanta poesia…
- Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra preziosa…- ” (3)
FintoUrzì, più autunnale, adesso potrebbe fumare
anche con le orecchie: mormora un sopraffatto
‘naggiacapitonamazza’ e guarda sconsolato Deopatre come
un padrone che ha dimenticato di comprare la carne in
scatola al suo bracco.
Il bracco, graduato, fiuta direttamente me.
Elargisco, benevolo, distillati di verità.
“Deopà, scriva che una famiglia di cinque persone
occupò lo scompartimento del Lieviti e che cominciò a
recare molestie: è così, dottor Lieviti?”
L’interruzione lo tedia alquanto perché mi guarda con
fastidio, però ha un gesto di assenso: scuote il cespuglione
come sotto un maestralino di queste parti.
Prosegue.
“Il tozzo paterfamilias, alla partenza del mezzo, alleggerì
l’abbigliamento suo levando la casacca e rimanendo in
55
canotta di dubbio colore abbracciata da pelo folto ascellare
di insopprimibile afrore e di rigoglioso diffondersi.
La domina della famiglia, alquanto unta di un sudore
denso
e
abbondante,
pensò
subitaneamente
alla
sopravvivenza delle sue creature, maternamente, e da un
cospicuo bagaglio materializzò panini con confetture di
frutta, appetitosi e infidi.
Infidi per il voler fuoriuscire, da parte della confettura
semiliquida, su mani giovani e irrequiete che striaron vetri e
finta pelle di sedili tra ululati di incontenibile vitalità
giovanile.
La femminuccia, la più piccina e delicata dei tre pargoli,
colitica, suppongo, emetteva venticelli rumorosi che non
avean sentore di brezza marina, e la pia tolleranza umana
familiare traducea il disagio in comprensione e le scuse ad
incoraggiamento a librar membra leggère con ulteriori
afflati.
Mi immedesimai in san Girolamo e affondai vieppiù la
mia attenzione in sacri versi di ineffabile delicatezza, mentre
la brezzolina miasmatica dell’innocente a volte confondevasi
financo in fortunale…
- Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo
che fate quando c’encontro, m’ancide:…-” (4)
Mi scappa un risolino strangugliato all’idea del
quadretto e Cutrettola si immobilizza a metà tra l’analfabeta
di fronte alle istruzioni per l’uso di un cavatappi a pedali e il
divertito, per traslazione, del mio divertimento.
Comunque comprende e accompagna serioso e
compenetrato il gregge dattilografo al pascolo.
“Deopà, scrivi a parole tue, però per bene: la famiglia si
gomingiò a gombortare da schifo e i bambini sporcavano e
una scoreggiava comme ‘na zzampogna natalizzia…”
Non so cosa ticchetti la macchina da scrivere e sono
curioso come un orango, ma confido nel buon senso
montagnino dell’appuntato che intaglia il verbale come uno
zufolo da una canna.
56
Continua, topoGhezzi, tra l’offeso e il defraudato, rivolto
ora a tutti, con l’atteggiamento del cittadino che protesta
perché tanto paga le tasse.
“Si giunse in prossimità di Civitavecchia, dopo appena
un’ora di viaggio,
e l’unta matrona, abile chioccia di
insostituibile valenza, s’occupò poscia del suo bruto uomo
in canotta che curiosi barbagli di ingorda bava lasciava
trasparir dalle fauci.
Estrasse dal capiente borsone un pantagruelico
ciotolone d’alta sponda traboccante di rigatoni riposati,
abbondantemente conditi con odoroso pecorino in denso
sugo di pomodoro e basilico e peperoncino in congrua
quantità: fragranti olezzi,
ahimè, frammisti all’ arietta
continuativa della bimba, vieppiù ostinata, e all’afror
sudaticcio e animalesco degli altri pellegrini tenerelli e
stagionati.
Mangiò vorace, l’omo, digrignando i denti, rumoroso, e
manifestò l’apprezzamento suo con costumanza araba tra
risa sguaiate della prole e farfuglio devoto dell’unta signora.
Gorgheggi, borborigmi e flatulenze si sposarono in aria
densa e nuove istoriazioni di pomodoro si sovrapposero alle
vestigia delle dita infantili di prima.
Cercai di darmi sostegno tra me e me…
- O Deo, che sembra quando li occhi gira!
Dical’Amor, ch’i’nol savria contare: - (5)
Cutrettola dottor Gaetano è ormai solamente un
semplice Gaetano rassegnato: guarda il soffitto proprio
come il vecchio Saro Urzì, con gli occhi porcini ora a palla e
la iugulare pulsante che sembra un tubolare di una
bicicletta.
Il solerte dattilografo baffuto ormai mi considera il
Verbo, o quanto meno il Guardiano del Faro, e mi interroga
muto.
Cutrettola quasi ci sforma: si sente defraudato
dell’autorità.
“Sgrivi, Deopatre…”
Ma non sa proseguire.
57
Gran dono la mia capacità di sintesi e la preparazione
classica…
Pulsa di libidine il mio lobo frontale in una piccola
rivincita.
“Scriva, Deopà.
La situazione divenne insostenibile con il pasto
abbondante consumato nello scompartimento dall’intera
famiglia…”
Nuovo picchiettare insistente di merlo ignorante e
tenace.
SimilGhezzi scalpita di rendere pubblico l’affronto ai
suoi vati preferiti in un montare di ira ad ondate sempre più
violente.
“E ancora e ancora mi fortificai con recinti di versi ad
isolar la mia sapienza dal volgo strafottente e libertino.
Dappoco s’era partiti da Grosseto, affè mia, dopo due
scarse ore di percorso, e di già letamaio era l’alveolo che
accoglieva me pellegrino per il lungo viaggio di tregenda.
S’approntò ad infiammarsi, la mia sensibilitade, e
tenzon violenta ebbi col mio spirto a blandirlo con leggiadri
versi che stupore e calma interna per poco generorno.
- Dolce mio Iddio, fa che qui mi traggia
la morte a sé, ché qui giace ‘l mio core – ” (6)
Cutrettola stavolta vuole riconquistarmi terreno e sbotta
sicuro:
“Deopà, sgrivi che doppo poco tembo il Leviti era già con
le palle girate per il casino generale…ma non accussì…dai
forma, dai forma,…abbellisci il testo…”
e mi guarda colla soddisfazione di avere ripristinato un
ponte levatoio su un fossato.
Contraccambio l’occhiata con candore di conegrina
mimetizzando il ghigno perfido con un sorriso di
acquiescenza e mi rivolgo attento verso il filologo disturbato,
disturbato ormai sotto tutti i sensi.
E’ ora nervoso e qualche suo piccolissimo tic appena
accennato sta aumentando di intensità e la sua gestualità
sta divenendo frenetica ed esagitata, oltre che esagerata.
58
L’allampanato filologo, ormai scosso da tremori
incontrollati, con voce concitata prosegue il resoconto del
viaggio traversia.
“Ira montava irrefrenabile a covare rancori sotto
l’ineffabile comportamento altero.
M’adontai senza ritegno nell’assistere al turpe sollazzo
della indecorosa famigliola.
L’untuosa vestale appose fuoco a un fornelletto a spirito
per riscaldar panatine di vitello e contorni oleosi d’acre
aroma.
La gioventù irradiava invadenza di gesti e rumoroso
cicaleccio tra irrispettosi ghigni e flatulenze che, seppur di
bimbi, non olezzavan di viole e mammole e rosai.
E tutto il tangibile fu percosso dal tatto curioso di
manine dense di zuccherini umori, e arredo e ogni cosa
vennero esplorati con doviziosa cura e intento.
Financo il mio pastrano, beata Vergine, venne impresso
a mò di irrispettosa Sindone di dita marmellatose tra
l’indifferenza barbara degli avi che intenti erano a sbranare
ciccia.
E schizzi di gocciolante intingolo spargevansi nel loculo
ormai latrina.
Friggevo anch’io, signori, per l’incresciosa stura di
pensieri che la mente affastellavano insistenti.
E trovai pace interiore in altri versi che, però,
nocumento poscia mi dettero…
- Si fosse foco, arderei ‘l mondo;
s’i fosse vento, lo tempesterei;
s’i fosse acqua, i’l’annegherei;
s’i fosse Dio, mandereil’en profondo; –” (7)
Respira a fatica, scoordinato, il filologo, con le braccia
che gesticolano e mulinano nell’aria come un mimo sotto
effetti di amfetamina, e la voce è divenuta stridula e
malevola, e l’occhio dietro l’occhialino è iniettato di sangue
come un avido carnivoro di fronte ad un trofeo di arrosti.
Si ammutolisce tutti.
59
Comprendiamo che siamo arrivati al momento topico,
alla confessione, e si tace attendendo la botta tra capo e
collo.
L’appuntato ticchetta sui tasti della macchina da
scrivere con insospettata agilità: forse inventa, forse
sintetizza a soggetto, forse ha compreso e tratto le
conclusioni e funge da esploratore in avanscoperta.
Sei paia di occhi sorreggono un paio di occhialini che
proteggono uno sguardo spalancato celestino, lucido di ira
sacra e furore incontrollato.
“L’irriverente
Cecco
suggerimento
diedemi
alla
decisione.
Sorpresi il nucleo familiare con improvvise mosse che
inibirono reazione.
Percossi a raggiera con nodosa mano i virgulti
ammonticchiandoli l’un l’altro attoniti tra pete e occhiate
stupefatte.
E il fornelletto acceso nel verso della coppia adulta
gettai con violenza a fare danno.
E danno feci.
Bruciorno come torcia i capelli della madonna, resinosi,
e sue gesta a divincolo sul suo omo attaccarono la fiamma
alla canotta che, assai ricettiva, gommosa, bruciò di brusco,
in congiunto strinar di pelo.
E i bimbi accorsero all’ausilio dei genitori loro e
contagiati vennero dal foco.
E urla e gemiti e sconquasso si procreò nell’andito e
tosto escii dall’alveo e occlusi a forza lo portale.
Impedimento feci a li soccorritori recitando al volgo i
versi del poeta e facendo scudo del mio corpo all’uscio.
- s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzerei lo capo a tondo…- (8)
Perfino il rumoroso Deopatre s’è azzittito sui tasti della
macchina da scrivere e osserva il mite filologo trasfigurato.
Pare di udire lontane le urla disperate di dolore e
raccapriccio
di
una
famigliola
che
arde
nello
scompartimento di un treno.
60
Scorro velocemente un rapporto dei vigili del fuoco, del
personale del treno e del medico di scorta ad un’ambulanza
intervenuta dopo Castiglioncello nel mezzo della campagna
e della macchia mediterranea.
C’è poco da difendere, poco da invocare.
Prevedo per direttissima, tra domani e dopodomani,
un’accorata solita supplica rivolta alla clemenza della corte
con l’adombrare attenuanti di provocazioni da dimostrare:
indosserò la faccia severa e contrita delle grandi occasioni e
incrocerò le dita, anche quelle dei piedi, perché il caso è
disperato.
Intanto, qui, nella ridente città portuale, tra quattro
sudice pareti di un piccolo commissariato POLFER di
stazione, si sta consumando come un’altra ultima fiammella
una confessione di un irresponsabile amante del bello, della
poesia d’amore e del dolce stil novo che ha fatto il
giustiziere estremo del volgare con il modello di un grande
poeta che probabilmente, dico io maligno e disilluso,
avrebbe voluto solamente fornicare più spesso.
(1) - Giacomo da Lentini - Io m’aggio posto in core a Dio
servire
(2) - Cielo d’Alcamo - Contrasto
(3) - Guido Guinizzelli - Al cor gentile rempaira sempre
amore
(4) - Guido Guinizzelli - Lo vostro bel saluto e ‘l gentil
sguardo
(5) - Guido Cavalcanti - Chi è questa che ven, ch’ogn’om la
mira
(6) - Cino da Pistoia - Io fu’’n su l’alto e ‘n sul beato monte.
(7/8) - Cecco Angiolieri – S’i’fosse foco, arderei ‘l mondo
61
VA AL DEPOSITO L’ULTIMA CORSA
I nuovi autobus hanno qualche coppia di sedili rivolti
uno verso l’altro a suggerire una ipotetica socievolezza tra
passeggeri.
Sera tardi.
Prendo al volo l’ultima corsa che dal centro mi porterà
in periferia.
Poca gente: qualche extracomunitario malinconico, due
o tre turnisti insonnoliti, una vecchia sciatta e grassa con
un cappottaccio unto e bisunto, che sembra una megera.
Stanno per chiudersi le porte, ma entra con un balzo
agile e lieve una ragazza: pare quasi che plani da un volo,
dentro l’autobus, leggera e silenziosa, come un aliante
senza peso.
Si siede di fronte a me.
E mi guarda.
E’ una ragazza flessuosa di una bellezza crudele: alta,
slanciata, dai capelli corvini e dagli occhi di un colore
strano, quasi giallo, da gatta siamese.
Ha un pallore quasi sovrannaturale, alabastrino.
E’ vestita di nero, pelle lucida, gilet e pantaloni attillati,
con una camiciola bianca d’altri tempi, con maniche a
sbuffo, aperta in vistosa scollatura merlettata che lascia
intravedere un seno prepotente.
Ha una cicatrice molto piccola a forma di croce alla
base del collo e ha un rossetto color prugna che è quasi
nero.
Una ‘dark’ sfrontata con ciuffo di pece, che mi scruta
curiosa e sembra sorridere.
Mi viene di contraccambiare lo sguardo.
E mi perdo.
Ho la sensazione di affogare nel miele, nell’oro colato di
due occhi che sono stampi per preziosi monili, campi di
girasoli, soli di sperdute galassie al crepuscolo con venature
rossastre.
La ragazza accentua il suo sorriso e sembra volermi
provocare, maliziosa, passandosi lentamente la lingua sulle
labbra come una lupa.
62
Mi protendo appena verso di lei.
Astrazione.
Non esiste più nessuno, forse, sull’autobus: nessuna
fermata, nessun passeggero, quasi nessun autobus se non
due seggiolini nello spazio, uno di fronte all’altro, illuminati
da una luce fredda di neon che accentua il pallore della
ragazza e lo rende seducente nel nero lucido dei capelli.
Associazioni
di
idee:
capelli
neri,
pelo
nero…pubico…folto, riccioluto, tagliato corto a lasciare la
visuale di uno scrigno di odori e sapori aspri, socchiuso.
La ragazza pare leggermi nel pensiero.
Si sporge verso di me e furtivamente mi accarezza
l’interno di una coscia inguainata nei jeans, lenta ed
estenuante.
Socchiude gli occhi come un felino che fa le fusa e mi
gratta con unghie che, noto ora, sono molto lunghe e
smaltate di nero, quasi lame di ossidiana.
Avrei voglia di contraccambiare la carezza, ma lei non
mi permette di muovermi e si approssima ancora di più
verso di me schiacciandomi con i suoi seni al sedile,
carezzandomi una guancia con il filo delle unghie dell’altra
mano. Mi sfrega delicatamente la nuca e dietro le orecchie
con un curioso basso brontolio uterino che sembra una
preghiera oscena o una provocazione inintelligibile
animalesca e sensuale.
E’ sicura di sé, sa quello che può ottenere.
Sorride
apertamente
fissandomi
provocatoria,
trionfante, continuando a passare la lingua sulle labbra.
Luccichio brinato di saliva su una chiostra di denti
abbacinanti, acquolina di predatore: si è accorta di qualche
reazione attraverso i miei pantaloni.
Gioca impertinente quella mano artigliata che si
sofferma in tatto avido.
Si avvicina sempre di più facendomi annaspare nel suo
sguardo giallo.
Mi protendo per baciarla, ma mi schiva e comincia a
baciarmi lei, sul collo, piano, raspando leggera con la
lingua, sempre più intensamente, succhiando la pelle con le
labbra umide, assaggiando quasi.
63
Fiato caldo umido che è un abbraccio sensuale
ansimante.
Sensazione di pazzia nell’inarcarmi, scosso, sul sedile
elettrificato di emozioni.
Il cervello deflagra in narcisismo e incredulità, desiderio
di abbandono e voglia di possesso trattenuta e costretta:
pulsazioni e miliardi di pensieri di vittima e carnefice nello
stesso tempo.
Un breve improvviso dolore di trafittura sul collo mi fa
trasalire e mi lascia immobile come un coniglio, trepidante
ed sfinito, con gli occhi sbarrati di sorpresa.
Sensazione stordente di piacere e di tormento nel
fascino dell’impotenza nella reazione.
La mia coscia viene striata a sangue da artigli che
lacerano il tessuto e la pelle, ora, e le labbra della ragazza
mi stanno succhiando il collo procurandomi un piacere
doloroso appena mitigato dalla sua lingua carezzevole cui è
difficile resistere.
Si stacca da me con un lampo di sfida in quegli occhi
gialli febbricitanti che, mi accorgo adesso, non hanno
pupilla rotonda, ma ovale.
Mi sorride con scherno, divertita, con un rigagnolo di
sangue, del mio sangue, che cola da un lato della sua bocca
dalle labbra scure.
Il sorriso è aperto, ora, quasi un ghigno, e i suoi canini
pronunciati luccicano arrossati alla smorta luce bianca
tremolante del neon dell’autobus.
Complicità, forse, e calore animale di bestia protettiva:
ancora una carezza accennata, quasi di attrazione o
addirittura affetto, e un impercettibile mutare di sguardo
che è di animale passionale sazio.
Fischiano i freni.
Fermata.
Scende giù con un balzo armonico di atleta o ghepardo,
quasi un volo leggero di ballerina, e svolazza la camicia
appena maculata di sangue su una manica.
L’autobus riparte lento con qualche sbuffo.
Mi premo una mano sul collo e lo sento caldo e
appiccicoso.
64
La vedo dal finestrino che mi invia un bacio con la
punta delle dita e si dissolve nel buio con un ultimo
bagliore di sguardo lucente con una sua selvaggia
tenerezza.
La perdo e mi sento diverso.
Mi chiedo il perché dell’evento, dell’essere stato
risparmiato, dell’indifferenza dei pochi passeggeri e
dell’autista.
Credo di sapere cosa mi sia successo: mi sento stanco,
spossato, ma anche invaso da una energia nuova che sta
pulsando dentro di me come una fame selvaggia di lupo in
amplificazione dei sensi che sto riscoprendo.
Percepisco la realtà in maniera diversa, molto più
intensa.
Gracchia improvvisa la voce sgarbata della vecchia
grassa.
“Autista,
autista:
si
fermi.
Qui
c’è
una
fermata…Autista…”
L’autista si gira di collo in maniera innaturale, come un
manichino, nel mentre che guida, verso la vecchia e
ammicca dalla mia parte con occhi gialli che mi appaiono
familiari e volto diafano scavato nella pietra.
Sogghigna con un sorriso che è ironico e malevolo e
sforza un tono di voce untuoso e servile.
“Andiamo al deposito, signora: non si preoccupi…”
Rivolge l’attenzione alla strada e gorgoglia sguaiato
accelerando verso il buio.
Non distinguo il suo sguardo attraverso lo specchio
retrovisore: non viene riflesso.
Subentra in me una frenesia mai avvertita che scaccia
timori e prudenze.
Tutto contemplo intorno a me e soppeso con lo sguardo
la vecchia come un grosso prosciutto che cammina. I due
turnisti che dormono ignari sembrano due deboli impala di
una savana metropolitana.
Un ambulante nero, con una papalina sgargiante, forse
ha intuito e trema, stringendosi al petto un borsone di
carabattole, e lo rimiro come un’ esca viva con il suo odore
di paura.
65
Le loro sagome si moltiplicano distorte dai vetri
dell’autobus appannati e lattiginosi nella notte: un magico
mondo di specchi come un luna park itinerante.
La mia figura, invece, si è perduta nella notte.
L’autista ride ancora e mi sembra un rantolo di bestia
cameratesco, da compagno di branco, un riso che si
trasforma in un brontolio che svela segreti ad un nuovo
cucciolo che deve apprendere i misteri della caccia.
E l’autobus va al deposito…
66
NON DORMITE…NON DORMITE…
“Lasciatemi stare, sto bene, grazie, lasciatemi stare, vi
prego…
No, non voglio un bicchiere d’acqua e nemmeno un
cognacchino: voglio essere lasciato in pace, tanto lo so, voi
mi prendete per pazzo e non mi credete…
Lasciatemi solo, basta, mi state innervosendo e sto
diventando cattivo.
Basta, non rompetemi i coglioni!”
Finalmente a casa.
Tutto questo cinematografo per un malore, tutti
addosso per solidarizzare preoccupati e poi, come dici
qualcosa sul perché stai male e sul perché sei quasi
svenuto, tutti ti guardano come se fossi un marziano o un
pazzo che si è fatto una canna.
I tuttologi razionalisti logici: bella razza.
Ti assecondano con sorrisi aperti di latta e rischi di
prenderti il tetano.
Non so spiegare, ma ho visto.
Se mi si crede, bene, altrimenti peggio per voi.
Ma io ho visto e non sono pazzo.
Solo qualche secondo per riprendere fiato…
Posso scegliere le ore migliori, spessissimo, per
prendere un tram o un autobus ed evitare gli orari di punta
che riempiono i mezzi pubblici come barili di acciughe.
Mi giro allora la città da seduto, tranquillo, respirando
aria urbana che non sia un concentrato di umanità
pressata.
Guardo fuori dal finestrino e dentro il tram le altre
figure assorte e posso lasciarmi andare a fantasticherie su
quel vecchio baffuto come un’otaria e su quella otaria che è
in realtà una sorella delle suore del Beato Cottolengo:
curiosi interscambi fisiognomici che mi procurano
buonumore.
Anche stamattina sono andato in giro: ogni tanto mi
scelgo un tram non molto pieno, o un autobus, e decido di
67
andare al suo capolinea, all’altro capo della città, per
trascorre un poco di tempo tra un curiosare interessato e
senza pensieri e un leggere ipotetici racconti di vita da volti
sconosciuti.
Stamattina ho preso il due che fa un giro molto lungo.
Giornata grigina, tipica del nord, con quel riverbero
pallido di sole nascosto da nuvole che potrebbero sgonfiarsi
da un momento all’altro.
Qualche studente in ritardo o in disaccordo con gli orari
del provveditorato, qualche altro fancazzista come me, tre o
quattro matrone con cipiglio spianato a scoraggiare chissà
quali approcci, altre figure sparse nel lungo autobus
trattenuto in due tronconi da un soffietto che sembra un
elastico budino o una fisarmonica che non comunica polke.
L’ho notato dopo qualche fermata.
Unico viaggiatore in piedi.
Una sagoma scura quasi indistinguibile, avvolta in un
tabarro, un poncho o qualcosa di simile, nero, con un
cappello fuori moda a larghe tese, nero anch’esso, a coprire
con un’ombra un volto affilato seminascosto da occhiali da
sole colla montatura spessa, inutile dirlo, neri.
Era appoggiato ad una barra e potevo intuire che si
abbracciasse sotto il mantello a riscaldarsi e difendersi
dall’arietta frizzantina che entrava a mordere ad ogni
apertura delle porte in occasione di una fermata del bus.
Ha attirato la mia attenzione, quella strana persona, e
ho cominciato a puntarlo senza farmene accorgere, pronto a
distogliere lo sguardo ad eventuali incroci di occhiate.
E ho visto.
Si è spostato dalla barra, quasi indolente, reggendosi ad
un mancorrente con un braccio sottile, eccezionalmente
sottile e fasciato da un maglione nero pesante, con un
guanto di pelle alla mano.
Si è avvicinato verso un uomo sonnecchiante cullato dai
sobbalzi del bus.
Lo ha rimirato a lungo spiando reazioni che non ci sono
state: l’uomo non sonnecchiava, dormiva proprio, forse di
ritorno da un turno di lavoro.
Aveva il capo appoggiato al finestrino e la bocca
socchiusa.
68
Un sottile sibilo a bucare prepotentemente l’aria, tanto
che lo sentivo da dove ero.
Lo smilzo nero ha girato con disinvoltura lo sguardo
tutto intorno a sé.
Ero pronto e ho distolto la mia attenzione fingendo di
guardare fuori.
Poi l’ombra si è chinata verso il volto dell’uomo
dormiente come se volesse chiedere una informazione o
confidare un segreto.
E ho visto.
E ho anche udito.
Un curioso rumore di risucchio attutito.
Una luce fluorescente verdina fuoriuscire dalle labbra
del vecchio per entrare nella bocca del nero incanalata in
una specie di filamento spesso.
Una scena veloce, improvvisa, inaspettata.
Il nero si è drizzato subito guardandosi attorno e si è
riposizionato alla barra di prima.
L’uomo dormiente ha aperto gli occhi sobbalzando,
come preda di un incubo, e ha assunto una espressione
vuota, catatonica, svuotata di vita e di pensieri.
Un attrito improvviso di luce ruvida e tagliente nella
testa: ho compreso.
Il sangue mi si è fatto acqua in una scarica di
adrenalina che mi ha sfibrato di debolezza nell’impotenza di
poter aiutare quel poveraccio, e, allo stesso tempo, si è
scatenato in me un rancore di sete di giustizia e la
prepotenza del volere ripristinare situazioni e raddrizzare
torti e restituire maltolti.
Ho urlato a piena voce, rauco.
E l’ho indicato.
“Al ladro, al ladro. E’ un borseggiatore. Ha appena
rubato un’anima. Prendetelo.
Aiutatemi a prenderlo”.
L’ho indicato con il braccio, con un dito accusatorio
puntato sui suoi occhiali neri.
Nessuna reazione da parte sua.
Mi ha quasi ipnotizzato con un movimento del braccio
ad indicare quell’uomo che prima dormiva e mi sono
distratto.
69
L’ho riguardato, l’insonnolito: volto assente ed
espressioni di vitalità latitanti. Indifferenza totale.
Ho avuto un brivido di raccapriccio: una espressione
conosciuta, vista altrove, spesso, in altri bus e per strade
della città.
Indifferenza. A tutto, alla vita, alle emozioni, ai
sentimenti.
Ho rivolto di nuovo lo sguardo al nero.
Ho avuto l’impressione di un ghigno e di un lampo sotto
le lenti affumicate spesse.
Mi sono sentito cedere, le ginocchia molli di emozione,
l’adrenalina che mi ha svuotato la spina dorsale in un
abbandono che mi ha fatto sedere sul primo seggiolino
libero.
Esausto.
Rumore di frenata e porte che si sono aperte con il loro
classico soffio che mi è sembrato un rantolo.
L’ombra nera è scomparsa nel riverbero grigino della
mattinata.
Sono crollato sopraffatto.
Ho riaperto gli occhi seduto per terra sulla soglia di un
bar, tra tanta gente intorno che chiedeva, che si informava,
che si interessava.
Pressante, invadente, fastidiosa nel sorridere con
sufficienza per quanto raccontavo.
Esistono e sono tra noi: borseggiatori di anime.
Poi ho ripreso a poco a poco la padronanza di me.
E ho compreso, in crescente raccapriccio, scrutando i
tanti volti intorno a me: vuoti, simili a quello dell’uomo
dormiente del bus.
Indifferenti.
Umanità priva di emozioni, incapace di sentimenti,
senza anima.
Mi attorniavano e mi guardavano con un fare
samaritano che era asettico e privo di vera partecipazione.
Panico e solitudine nella consapevolezza della diversità.
Un flash nel cervello a ferire come un rompighiaccio:
una nuova invasione degli ultracorpi a fare proseliti per una
causa estranea e sconosciuta.
70
E ho urlato come un pazzo, a squarciagola, di un urlo
continuo e lacerante di bestia ferita, con gli occhi spalancati
di orrore ad abbracciare il vuoto.
Sono fuggito a piedi in una corsa disperata,
incespicando e con il respiro mozzo, verso casa mia, a
trovare un riparo per la mia anima.
Non dormite sugli autobus…non dormite…
71
BAGLIORE DI NEVE E DI DENTI
Una piccola scintilla accese di intermittenze un’area del
grande pannello della sala operativa.
Solerte Addetto imprecò a bassa voce e poi sbottò:
“Rottura della linea elettrica. Il 9421 starà fermo per
un pezzo. E sta nevicando come in ottomila presepi…”
Ci fu qualche risatina maligna e Solerte Addetto inoltrò
le appropriate segnalazioni per un ripristino della normalità
il più possibilmente celere.
‘Celere’, si venne poi a sapere, è una parola che
racchiude un concetto molto relativo.
Bianco.
Non assoluto, ma pieno di sovrapposizioni.
Una campagna coperta da uno strato uniforme di neve
grassoccia senza contorni, abbacinante, punteggiata da
rade macchioline scure di conigli selvatici sparuti, protetta
da mani scheletriche di alberi adunchi come artigli a
trattenere un cielo di altro bianco, pronto a cadere di peso,
totale, a coprire la neve con il suo perlato freddo e
insensibile.
Rami come setacci a sfarinare quella uniformità
incombente lasciando filtrare fiocchi lenti e regolari a larghe
falde che si spengevano come luminescenti lucciole contro
un immenso materasso morbido.
Tra i due bianchi contrapposti, un altro bianco, lucido,
vivo, dinamico in refoli pigri indistinguibili tra uno scendere
dal cielo o il salire dalla terra: nebbia.
Silenzio assoluto a nutrire sgomento.
L’impianto di riscaldamento defunse come la madre
linea elettrica in una breve agonia che portò l’interno ad
una temperatura più simile a quella della campagna intorno
e i vetri appannati diedero l’illusione dell’unione in accordo
dei vari bianchi.
Dal suo sedile verso il finestrino, Pacato Professore,
dalla barba caprina e dall’occhio ironico, chiocciò divertito
con un ghigno verso Allieva Sognante, sua dirimpettaia:
72
“Il bianco, per la cultura dei giapponesi, rappresenta il
colore della morte.
Nel vedere fuori mi viene da pensare, con questo freddo,
che possano avere ragione anche per noi occidentali…”
Allieva Sognante scrutò il panorama dal vetro appena
velato e rabbrividì stringendosi addosso la sciarpa
multicolore decorata a originali disegni di motivi andini.
Non furono tra i primi, e neanche tra gli ultimi, a
morire.
Pacato Professore, all’ultimo della sua vita normale, si
compiacque di certe sue intuizioni, ma smarrì la sua ironia.
Allieva Sognante fece correre il pensiero fuggevolmente
a proprietà iettatorie del suo autorevole compagno di
viaggio.
Grigio.
Come il grigio di un cessetto di un treno.
Corpulento Orsacchiotto, grande e grosso giovanottone
dallo sguardo buono e dai capelli a spazzola, rimase
perplesso a guardare la nebbiolina densa salire dall’imbuto
della tazza della ritirata mentre espletava una funzione resa
impellente dall’aumentare del freddo.
Espirava con fatica sbuffi di aria condensata, mingendo,
perplesso su quell’aura che si alzava.
Rimase curioso ad osservare.
La nebbia prese una sua consistenza e una sua forma.
Si stagliò di fronte all’omone con ondeggiamenti che
sembravano una danza ipnotica.
Antropomorfa.
Corpulento Orsacchiotto ebbe la sensazione di udire un
sibilo che percepì come una voce:
“Non avrei mai pensato di essere così fortunata…”
I suoi occhi divennero quasi subito lucidi e vitrei,
bambolotto appoggiato alla parete, mentre gli si creò una
infiorescenza a schizzi sul collo, come su un petalo di
orchidea, sulla pelle di cera giallognola che fu maculata di
sangue.
L’aria spessa, la nebbia vivida, tagliente come denti di
vampiro diafano, penetrò nello squarcio sul collo e nella
73
bocca inerte socchiusa del ragazzone che sussultava piano
come una gigantesca ranocchia gorgogliante sotto scariche
galvaniche.
Si accese di colpo una luce nuova in quegli occhi morti.
Fu il primo: in quella luce pulsava una insana vanità.
Verde e blu.
L’uniforme di servizio.
Capotreno Professionale si aggirava nel corridoio
invitando alla calma, con spirito infermieristico e con piglio
consapevole di consumato personale di bordo, professionale
appunto.
Il corridoio era deserto: i viaggiatori avevano chiuso le
portiere di tutti gli scompartimenti per trattenere il loro
tepore a difesa dal freddo mordente.
Vide venire verso di sé un omone, un armadio grande e
grosso con i capelli a spazzola.
Strano, e strana andatura.
Camminava come un automa con un sorriso vuoto e lo
sguardo perduto verso tutto e nulla.
Era sporco di sangue, schizzato sulla camicia chiara fin
dal colletto, ma pareva non curarsene.
Veniva verso di lui con aria paciosa e il suo sorriso si
allargava come in una prova ‘morphing’ di un esagerato
esperimento di grafica computerizzata.
Un ghigno.
Denti bianchissimi, innaturali, candidi come la neve al
di fuori, con i canini pronunciati a forma di ghiaccioli
appesi ad un bordo, e la bocca era sporca di sangue
rappreso color terracotta, come un tetto o una grondaia
rugginosa.
La sorpresa tradì Capotreno Professionale e lo
immobilizzò in assenza di reazione.
Corpulento Orsacchiotto sembrava che volesse chiedere
permesso per passare oltre lo stretto corridoio.
Lo abbracciò sorridendo, con un sorriso bianco, liquido
e tagliente.
Lo avvolse in una spira.
74
Il controllore ebbe un ultimo fuggevole pensiero
sull’assenza, rispetto a poco tempo prima, di conigli
selvatici nella neve.
Giallo.
Colore di una pelle ambrata, della sua cantante
preferita, Mè Shell Ndegeocello, per come la rimirava
attraverso gli occhi chiusi ricordando la copertina del cd
“Peace beyond passion”.
Aveva gli auricolari alle orecchie e si stava sparando a
volume
da
trance
“God
Shiva”
tamburellando
sommessamente sul bracciolo del sedile in un rapimento
mistico che solo un musicofilo può comprendere.
Avvertì un muoversi d’aria senza udire l’aprirsi dello
sportello del suo compartimento.
Sentì un leggero contatto, quasi un palpare, e nel
socchiudere gli occhi vide un petalo d’orchidea maculato di
porpora e un controllore ferroviario che non chiedeva il
biglietto.
Poi, scorgendo altre figure dietro, si chiese chi mai
potesse avere il coraggio di girare con una barbetta da
capra così ridicola.
Si sentì sollevare senza peso in un luccichio di
ghiaccioli, o forse denti troppo aguzzi.
Azzurro.
Azzurro carta da zucchero: il colore della tappezzeria dei
sedili.
Azzurrini i vetri interni a fare da pareti e divisori.
Azzurro lo sguardo splendido, dolce e senza fondo, della
sua compagna di viaggio sconcertata di fronte a lui con una
chioma lucente di grano come una Piccola Gretel.
Timidezza inibitrice di lei per domande e socievolezza.
Solo un chiedere di sguardi a tranquillizzare
inquietudini.
E lui, Ultimo Eroe, sorridente verso Piccola Gretel, a
infondere sicurezza protettiva tra nuvolette di condensa che
75
correvano a morire sul vetro per cercare di ricongiungersi
con il bianco dell’esterno.
Furono travolti da personaggi curiosi e familiari
insieme, dinamici in maniera bizzarra, a scatti e
rallentamenti, e i loro sguardi persero ancora una volta le
loro sintonie: lei spaurita con le orbite spalancate nel dolore
di morsi liquidi alla giugulare da parte di un enorme
Orsacchiotto Corpulento e di un musicofilo rapito dal ritmo,
e lui incredulo di un precipitare da Ultimo Eroe a vittima,
come un leprotto o un fagiano investito da un’ auto guidata
da un Pacato Professore con a fianco una diabolicamente
eterea Allieva Sognante.
Piccola Gretel udì all’ultimo una musica soffusa che
poteva assomigliare ad un genere ‘funky’ e si chiese
sorpresa, in un balenare d’attimi, che cosa ci facesse un
auricolare penzolante sul suo collo.
Ultimo Eroe ebbe una caleidoscopica visione di colori,
tra il grano dei capelli della sua compagna di viaggio e uno
strano motivo di disegni variopinti peruviani di una sciarpa
e strani petali di fiori tropicali rosso sangue.
Rosso.
Di passione, di rabbia.
Lurida Bagascia glielo aveva finalmente detto,
esasperata o seducente, forse per un nuovo gioco o forse
per davvero, e rideva oscenamente: sì, c’era un altro uomo.
Cornuto Mazziato era dibattuto tra lo stringerle le mani
al collo per strangolarla, possederla un’ultima ennesima
volta, umiliarla o umiliarsi in devozione di due gambe
sinuose e affusolate che non finivano più, ben oltre il bordo
delle autoreggenti che sfumavano in contorni scuri.
Forse lo scuro non era uno slip, un perizoma, una
coulotte: palpitava in sincrono con una risata di gola che
staffilava orgogli con piacere e sofferenza.
Scorse, Cornuto Mazziato, un movimento inspiegabile
attraverso i finestrini del corridoio, un dibattersi due o tre
scompartimenti più in là, tra un capotreno e un omone
grande e grosso che immobilizzavano un ragazzo, ma non
76
diede molta importanza alla cosa: era accecato da altri
pensieri.
Quel riso grasso sembrava provenire dalle gambe e
invitava e provocava nella umiliazione.
Due occhi neri, due enormi capocchie di spillo lucide, lo
deridevano e chiedevano di osare.
Forse era quello che la donna voleva: che lui osasse,
estremo.
Si levò di scatto dal sedile, in adrenalina, senza rendersi
conto dello sportello che si apriva.
Si afflosciò rapidamente in un insieme di percezioni che
lo confusero.
Lurida Bagascia mutò il suo riso in un urlo strozzato
ansante mentre lui ebbe la sensazione di essere trafitto da
ghiaccioli, a metà tra dolore e piacere, scoordinato tra
fantasie, immagini, sensazioni reali.
Sorrise svuotato e incredulo.
Ebbe la consapevolezza di avere un sorriso diverso poco
dopo, mentre affondò i suoi canini tra le cosce della mora
terrorizzata che veniva anche baciata a sangue
inopinatamente da un estraneo Ultimo Eroe.
Nero.
Come l’inchiostro della sua penna biro.
Scrisse freneticamente qualcosa su un tovagliolino di
carta e attese immobile come una preda nell’ultimo
scompartimento.
Aveva presentito e aveva spiato.
Aveva capito anche che non avrebbe potuto fare nulla.
Pensò senza logica, forse in associazione di idee
inconscia, a Hemingway o a Capote: in qualche loro scritto,
ricordò, c’era un personaggio che veniva chiamato Ragazzo
Sveglio.
Si
autonominò
amaramente
Ragazzo
Sveglio,
sterilmente fiero di sé, e attese l’ineluttabile sperando di
non soffrire molto, strizzando gli occhi tra tutto quel bianco
che riverberava.
77
Verso la metà del pomeriggio arrivarono i soccorritori
stupiti dall’ assenza di segnali.
Nessuna telefonata di cellulare, nessun messaggio dalla
cabina di guida del treno immobilizzato nella campagna
sommersa dalla neve.
Vennero trovati solamente cadaveri dissanguati e
successivamente un tovagliolino di carta.
“Si ritirerà non appena avrà consumato il suo pasto.
Ha fame.
Odia e prevarica.
Scomparirà nella sua vera essenza per poi riapparire in
qualche altro luogo e soddisfarsi di sangue che sempre è
stato per lei tributo preteso.
Abbiate cura di voi e delle vostre anime.
Abbiate prudenza e sappiate difendervi dalla nebbia.
Non lascia scampo ai deboli.
Dopo questo banchetto si dirigerà sull’ autostrada e
attenderà…”
Il bianco esterno della campagna e del paesaggio sfumò
nel porpora grigiastro di un tramonto silenzioso.
78
SA VIAGGIARE LA GENTE DI MONDO
Assaporò la partenza del treno con un’ingenua
sensazione di soddisfazione, Marcopolo Viaggiatore: era
solo, nello scompartimento, senza scocciatori, senza il
doversi preoccupare di russare nell’eventualità di un
pisolino.
Ma gli si accese quasi subito nel cervello il ‘plop’ iridato
di una bolla di sapone esplosa.
Si aprì, infatti, la porta ed entrò un essere a mezza
strada tra Pippo, il compagno di Topolino, e
Ciccio, il
nipote scemo di Nonna Papera.
Ciccio perché era pacioso, pallido e grassoccio come un
fiasco, con una espressione beota sul volto e con due
occhietti porcini e un cappellino verde.
Pippo perché entrò dinoccolato nello scompartimento e
si pose a sedere di fronte a lui intercalando versacci in
falsetto come fumetti: yuk, yuk, yuk,… con rumorose
deglutizioni.
Il bizzarro personaggio era educato.
Salutò con esagerata voce tenorile che virò in soprano,
per qualche accento metallica a scatti come quella di Max
Headroom, cerimoniosa, con una conclusione che sembrò
un belare di capra affamata:
“Buonciooornooo,
sigh-nore,
buenasdiasssss,
bonnnsgiuuuur, gudmonin, kalime-e-e-e-raaaa…”
Marcopolo si considerava un viaggiatore di mondo:
rispose con un sorriso cortese non troppo pronunciato e fu
attirato nell’attenzione dall’abbigliamento di CiccioPippo.
Aveva, costui, un giubbottino a quadrucci rossi e
bianchi, come una tovaglia rustica, e le bretelle uguali a
quelle di Pippo, quelle con i bottoni immensi.
Gli si affacciò alla mente l’associazione di idee con
Korov’ev, il maestro di cappella del romanzo “Il maestro e
Margherita”, di Bulgakov, quello dallo spirito ridanciano e
dalla voce stentorea.
Gli sembrò anche di udire quella voce per come l’aveva
immaginata nella lettura del libro:
“Gran bella giornata, vero, sigh-nore?
79
Le piace la mia voce impostata per una classica
conversazione da treno?
Yuk, Yuk…Glubbb
Gradisce un giornale? Un panino? (Estrasse tutto da
una tasca dei pantaloni).
Oinkkkk!!! (Nasale).
Disturba se fumo? (si accese tre sigarette insieme, di
cui una al mentolo, con movimento frenetico: click, click,
click dell’accendino).
Oinkkkk!!! (Assolutamente nasale).
Tra quanto arriveremo? Siamo in orario? (fumava,
mangiava il panino, leggeva il giornale, tumultuoso e
isterico, squittendo e grugnendo).
Yuk, yuk, gaspppppppppp, munch, munch, Guuulp…”
Marcopolo rimase per un attimo trasognato, travolto dal
marasma torrenziale di parole, versi, tonalità basse,
baritonali, in falsetto.
Poi fece appello alla logica e, squadrando il personaggio
stridente, concluse di essere stato promosso a protagonista
ignaro, nelle intenzioni degli ideatori della scena, di una
qualche “Candid Camera”, una di quelle trasmissioni dove
si gioca con le reazioni, riprese ad insaputa dell’interessato,
di una persona messa di fronte ad accadimenti strani e
fuori di ogni normalità.
Sorrise quindi, appena più aperto, a CiccioPippo che
gesticolava come una girandola indicando paesaggi fuggenti
nel mentre che emetteva esagerati “oooooohhhhh” di
meraviglia che partivano dal diaframma per morire in acuto
strozzato di ugola come una sirena d’ambulanza.
Il fumetto animato materializzò dall’altra tasca dei
pantaloni una bottiglia di succo di frutta, all’albicocca, con
due bicchierini di plastica.
Strana coincidenza, pensò Marcopolo: pare di essere al
chiosco del giardino Patriarsie di Mosca nel capitolo iniziale
del libro di Bulgakov…
Rabbrividì al pensiero della fine di Berlioz, il
protagonista di quel particolare capitolo, decapitato sotto
un tram per essere scivolato sopra una macchia d’olio di
girasole, ma si sforzò di sorridere ancora, anche se appena
più tirato, e curiosò, senza darlo tanto a vedere, verso le
80
mensole grigliate portabagagli, verso gli specchi, verso le
luci e il soffitto, i poggiatesta delle poltroncine, il finestrino,
alla ricerca di un piccolissimo obiettivo di telecamera
miniaturizzata che confermasse la sua teoria.
CiccioPippo cominciò un astruso discorso sul tempo e
sui cambiamenti del tempo rispetto ad una volta, tra
singhiozzi, deglutizioni, versi e versacci, partendo con una
voce che ricordò, a Marcopolo, Orazio, il cavallo di Nonna
Papera, per poi scivolare con una voce più morbida e fluida
che associò a Clarabella la mucca, per terminare con
striduli versi, tipici di Chiquita, la gallina chiacchierona,
anch' essa, come tutti, della fattoria di Nonna Papera.
Parve, a Marcopolo, di inspirare odore di crostata di
mirtilli e di fieno, di immergersi in un qualche fumetto di
Topolino con tutta l’allegra strana brigata di personaggi
animali umanizzati, a mezza strada tra un sogno
disimpegnato e simpatico e un incubo con i fumetti che
assumevano tinte fosche e voci caricate di riverberi
minacciosi e robotici.
CiccioPippo imperversava con strane interiezioni e con
una vocina che pareva un pigolio:
“Non esistono più, squeekkk, le mezze stagioni,
sbarabakkkkk.
Non esistono più, squak, le mezze, yuk, yuk,
stagioooooooooniiiiiiiiiiiuuuuuuhhhhhhh”
E imitò un cowboy al rodeo sulla poltroncina agitandosi
e gridando con voce da basso:
“Gidddappppp, giddddaaaaappppp.”
Marcopolo razionalizzava, guardandolo, un poco teso,
ma bendisposto e deciso a non fare la figura dello sciocco di
fronte a qualche milione di telespettatori.
Si sentì superiore, persona che sa vivere, appena
infastidito dal contrattempo, ma sufficientemente sportivo
da stare al gioco con spirito snobistico di dandy navigato.
CiccioPippo canterellava con la voce del cavallo in
disegno animato del film “Mary Poppins”, in crescendo, con
tono impostato sempre più ispirato:
“Oh come è delizioso andar con Maryyyyyyyy…”
E si rispondeva con le vocine dei pinguini e accennava
un tip tap sulla moquette dello scompartimento giocando
81
con la bottiglia di succo d’albicocca e i due bicchieri, con tre
cicche in bocca quasi esaurite, tra cenere e le briciole del
panino e le pagine sfogliate del giornale che crocchiavano
sotto il culone a fiasco.
Uno spettacolo da circo.
“Supercalifragilistichespiralidosooooooooooooo
Lei ha un aspetto e un viso che mi sembra assai
schifoooosoooooo….
Squik,
squak,
spic
span,
brumble
brumble,
guuuuuuulllllllllppppppp.”
Marcopolo pensò che i tecnici televisivi erano stati
davvero bravi: non era riuscito ad individuare alcun
obiettivo.
Bravissimo anche l’attore…sicuramente…
Assunse un’aria vagamente imbarazzata da stoccafisso,
ma senza dare eccessiva soddisfazione.
“Gradisce? Gradisca, beva un poco di succo di frutta
con me: che si faccia un brrrrrrrrindiiiisiiiii.
E chi non beve con me, peste lo cccooolggga.
Chi non beve in compagnia non è figlio di Mariaaaa.”
Passò dal tono entusiasta dell’imbonitore all’imitazione
baritonale di Amedeo Nazzari per terminare con un miagolio
da piccolo coro catechistico e Marcopolo si sentì soggiogato
e si trovò ad afferrare il bicchierino di plastica pieno e a
bere d’un sorso mentre il fumetto ciarliero sghignazzava.
“Bene, bene, bene…Ma beeeeneeee: il signore ha bevuto
senza baciarmi…”
Lo guardava con aria perfida, con gli occhietti porcini,
grattandosi la testa da sopra il cappelletto verde.
E cominciò a cantare imitando una strascicata Wanda
Osiris.
“Velenooooooo, se mi baci ti dò il mio velenooooo….”
Marcopolo cominciò ad inquietarsi un poco perché
sentiva che il gioco stava sfuggendogli di mano.
Cercò di alzarsi per guardare meglio alla ricerca di un
teleobiettivo, magari dietro gli specchi, per cercare nel
corridoio un capotreno di passaggio nel controllo dei
biglietti.
Non riuscì e si accasciò esausto sulla poltroncina.
82
Si sentì svuotato di energia con un senso di oppressione
allo stomaco che si irradiava verso il petto.
CiccioPippo parve assumere un’aria nuova, una nuova
espressione, o forse era lui con i nervi tesi, non abituato a
scherzetti e a invadenze di questo tipo.
Ora Marcopolo aveva di fronte Pennywise, il clown del
libro “It” di Stephen King, l’incarnazione antropomorfa del
male, del ragno gigante delle fogne di Derry che mangiava i
bambini.
Il senso di oppressione sul petto aumentava e anche le
palpebre divennero pesanti.
Pensò che forse sarebbe potuto diventare in futuro un
attore: questa sarebbe stata una “Candid Camera” davvero
entusiasmante.
Socchiuse gli occhi cullato da atroci ninne nanne
cantate a voce spiegata in falsetto e in tedesco con tonalità
zuccherose e lascive alla Max Raabe.
Si sorprese anche a ridere, forse dentro di sé, mentre gli
occhi diventavano di piombo e cadevano in un abisso senza
fondo pieno di echi di vocine e squittii con tanti cartoni
animati che lo salutavano dal ciglio sventolando fazzolettini.
Pensò ad un lungo viaggio, alla fama, alla celebrità, alla
televisione…
Viaggio nel viaggio per un nuovo viaggio.
Poi la sigla con la marcetta di “That’s all folk!” e poi
ancora buio e silenzio.
Si svegliò con la bocca impastata quattrocento e oltre
chilometri più in là.
Senza punti di riferimento e senza spiegazioni,
intorpidito e freddoloso.
Aveva un cappellino verde in testa, un paio di pantaloni
da circo con due bretelle dai bottoni esagerati.
Si ricordò di telecamere, di trasmissioni televisive, di
autografi da elargire.
Si guardò intorno e tamponò violentemente il reale.
Mancava la valigia, il soprabito con il portafogli, la
ventiquattrore con il costoso portatile…
Mancava soprattutto il suo compagno di viaggio:
CiccioPippOrazioKorov’evClarabellaPennywisecowboy.
83
Gli venne su un singhiozzo e una antipatica
associazione di idee, di quei cartoni animati americani dove
lo stupido si metamorfizza in somaro o in prosciuttone.
Una serie di singhiozzi per rabbia e un senso di
nervoso.
Yuk, yuk, yuk.
Guuuuulllllppppp.
E si affacciò il controllore, mai passato fino a quel
momento, per la verifica del biglietto…
84
QUELLO CHE NON SI RIESCE A VEDERE
Ebbi la percezione di qualcosa di strano e innaturale
non appena uscii, di prima mattina, dimesso dall’ospedale,
sotto un sole acerbo.
Provavo un senso di leggerezza e di liberazione, dopo
diversi giorni trascorsi in coma e una cupa degenza, e la
giornata era luminosa, dorata e materna, ricca di sfumature
cromatiche primaverili.
Il piazzale antistante l’ospedale, un insieme di aiole già
fiorite e vialetti di mattonelle rossastre calde, circondato da
platani e olmi, brulicava di umanità vitale tipica del primo
mattino: studenti, massaie dirette al mercato, gente che si
avviava speditamente al lavoro.
Gli alberi stavano cominciando a germogliare brillanti e
il cielo era intensamente azzurro di turchese e terso.
I rumori della città si stavano rimpossessando di me,
dopo il forzato confino in una stanza isolata dal mondo, con
richiami amichevoli e invadenti già uditi in passato.
Zoppicai nostalgico verso la strada.
Avvenne improvvisamente.
Il paesaggio, la piazza, gli alberi, tutto scolorì
trasformando quello che mi circondava in un vecchio
dagherrotipo animato, in un film d’altri tempi seppiato di
un giallo smorto tendente ad un verde marcio con molte
sfumature di grigio e nero.
Mi si chiuse il cuore in un senso insopprimibile
d’angoscia.
Baluginò di nuovo con capricciosa intermittenza il
colore nella sua normalità, ma quel depresso miscelarsi di
giallo-verde-grigio-nero si ripropose insistente a tratti nei
miei occhi. Mi sorpresi turbato, ma rassegnato con mie
personali giustificazioni circa la permanenza dolorosa
presso il reparto di rianimazione intensiva: un brutto
incidente davvero, che doveva aver lasciato strascichi
psicologici, per quanto ero assai stressato.
Fui poi attratto, nella mia attenzione, da qualche
dettaglio senza logica apparente.
85
Quando lo scenario intorno degradava nello stinto io
scorgevo anche altro: sagome di uomini inesistenti nella
normalità del colore, grigie e nere con schizzi di giada
smorta, scolorite e quasi cancellate, come personaggi
fuoriusciti dalla china di quel grande disegnatore di fumetti
che fu Beccia.
Erano inquietanti: nell’attesa di qualcosa, in diversi
punti della piazza.
Ebbi anche un’altra percezione che all’inquietudine mi
aggiunse un’angoscia che crebbe dentro di me in vero e
proprio terrore.
Il silenzio.
Nel circostante dalle sfumature monotone subentrava,
almeno nel mio cervello, come sensazione, anche
un’assenza di suoni. Cessava lo sferragliare del tram, la
sporadica sirena di un’ambulanza, lo scalpiccio di passi
frettolosi, qualche risata, il garrire delle prime rondini.
Sonorità dissolte e aria di palude senza toni.
L’intermittenza delle immagini che vedevo stava
spostandosi sempre più a lungo verso la visione di un
mondo lacunoso da incubo e ormai distinguevo agevolmente
senza dubbi le quattro o cinque sagome strane in attesa
presso gli incroci del piazzale, quelle figure che non riuscivo
a scorgere nel mondo screziato.
Strano il mio stato d’animo: era una paura fatalista e
non dominata, venata di curiosità incosciente.
Mi diressi, camminando lentamente, verso uno di questi
personaggi sfumati immobili.
Nel frattempo che mi avvicinavo, deflagravano tinte
brillanti, esplodendo nelle pupille con lampi luminosi, per
poi morire nel grigiore spento con mie distorsioni visive
preoccupanti.
Vidi, frastornato, nel caleidoscopio intermittente, la
corriera gialla della scuola che si staccava dal traffico delle
auto variopinte e si fermava ad un incrocio dove un
bambino e la mamma aspettavano, entrambi con sgargianti
giacche a vento rosse.
Udii la frenata e il rumore di soffietto delle porte che si
aprivano e le risa felici degli altri ragazzini all’interno
dell’automezzo e il saluto della mamma.
86
Poi di nuovo quell’aria muta e spettrale di foglie morte.
Provai un senso d’oppressione.
Notai allo stesso incrocio un’ombra statica, anch’essa in
attesa, prima non vista. E scorsi un nuovo scuolabus,
silenzioso, plumbeo opaco, materializzatosi senza che me ne
fossi accorto, che si fermò all’incrocio.
L’essere salì senza un gesto particolare o un saluto.
Vidi che la lugubre corriera si dirigeva verso l’altro
incrocio, dove mi stavo indirizzando per curiosare da vicino
su un’altra sagoma scura.
Accelerai il passo per vedere meglio e cercare di
comprendere meccanismi che sfuggivano alla mia logica.
Arrivai a fianco dell’uomo, un essere senza espressione,
proprio mentre il piccolo pullman scuro accostava senza
rumore o frenate al marciapiede di fuliggine.
Si aprirono gli sportelli: nessun soffio o stridio.
L’uomo salì tranquillo e armonico, elastico, quasi senza
peso, e sparì in un buio profondo che dalla strada appariva
galleggiante, attraverso i finestrini, come inchiostro.
Dall’interno percepii uno scintillare tenue di fuoco fatuo
nel posto di guida e mi sporsi un poco per vedere.
L’autista mi apparve come un’ombra indefinibile,
mummificato, con le orbite degli occhi fosforescenti di un
verde fluoro spento, con un sorriso pacato che accentuava
un tratto scheletrico del suo volto pergamenato.
Si rivolse a me, parlandomi, o forse io captai qualche
suo messaggio mentale nel mio cervello.
“E tu non sali?”
Questo viaggio è anche per te: aspettano tutti…”
Compresi, allora, e salii sullo scuolabus brunito dal
tempo e dai peccati.
Salii consapevole di essere morto in quell’ospedale, con
una percezione della nuova realtà ormai stabilizzata senza
traumi in totale assenza di rumori e colori, verso una meta
dove forse, sperai, me li avrebbero restituiti con gioia ed
entusiasmi nuovi.
87
GUIDARE NELLA NOTTE NERA
Stai ascoltando “The musical box” dei Genesis, qui, su
Radiosenzatempo…
Ci vuole proprio, la cavalcata selvaggia della chitarra di
Steve Hackett, per caricarsi, vero?
Sì, è adrenalina pura che stimola le mie solite curiosità.
E sono ipersensibile, ormai: riesco ad ascoltare il
frantumarsi scheggiato d’ossa tra rullate prepotenti di
batteria e leslie impazzito di organo Hammond.
Ho l’impressione che il mistero dell’esistenza mi si
possa dipanare ogni volta impercettibilmente in più con
ritmi ossessivi e urti sordi di sagome scelte a caso nella
notte.
Figure disarticolate che volano come mucchi di stracci
in esperimentazioni filosofiche estreme dopo un tonfo secco
sul cofano della mia auto, volti distorti immobilizzati in un
fermo immagine doloroso e stupito sul parabrezza in un
fiorire di reticoli minimali che si tingono di porpora liquida.
Assisto, vedo, medito.
Rifletto sulla fragilità della vita, sulla casualità di un
destino, sulla possibile soglia del dolore, sulla pietà o la
perfidia del fato in una fine breve o estenuante, se
preceduta da una lunga dolorosa agonia.
Sobbalza, l’auto, su ultime pulsazioni scivolate tra le
ruote, ormai incoscienti, e l’unico faro acceso buca una
notte che appare calma a coprire come una coltre.
Come è lontana e inafferrabile, comunque, la verità.
Ed ecco a voi giovani un classico sempre attuale di
Radionotterock per la vostra cultura musicale: violenza pura,
ritmo, energia da urlo, come l’urlo di Robert Plant dei Led
Zeppelin maledetti e della loro celebre “Whole lotta love”.
Mantenete i nervi saldi, ragazzi, per essere padroni della
notte: occhio al bere e a quello che mandate giù nelle
gorguzzole…
“Ricapitoliamo i punteggi.”
88
“Pedone semplice: dieci punti; anziano: venti punti;
anziano con bastone: trenta punti; coppia anziana:
cinquanta punti…”
“I bambini valgono?”
“Sei proprio senza fondo…”
“Ciclisti? Scooters?”
“Sei una belva assetata di sangue.”
“Beh, o ci divertiamo per bene o è meglio fare altro, no?”
“Va bene: facciamo che vale tutto.
Diamo anche un ‘bonus’ di cento punti per un’ intera
famiglia e uno ‘special’ di duecento punti per un eventuale
paraplegico su sedia a rotelle: come un flipper.
Dichiaro aperto il concorso: Uccidi anche tu il tuo
pedone.
Domani mattina, chi vince, tra noi e quegli altri segoni
della decappottabile, si scopa per tutta la giornata quella
squinzietta che ci sta aspettando in calore oltre il ponte…”
“Dring, dring, dring…Chi perde paga il carrozziere per
tutti.”
“Ammirevole bastardo.”
Tiriamo il fiato, adesso, e lasciamoci trasportare da onde
di benessere e rilassatezza qui su Radionotteamica.
Qualcuno mi ha chiesto di ascoltare quella vecchia volpe
di Mike Oldfield: molto commerciale il gusto dell’amico, ma
c’è sempre qualcosina di buono da prendere da tutti.
Ecco per voi “The sunken forest”: buon ascolto.
E’ tormento e catarsi per me guidare nella notte.
Mi sanguina il cuore, eppure mi sento leggero.
La vita è un impasto di sofferenza e piacere, sacrificio e
godimento, tormento di rimorsi e nostalgia di rimpianti per
non aver saputo vivere meglio.
Anche oggi farò qualcosa di risolutivo: per il mio
benessere e per quello di altri che lo cercano invano.
Quel vecchio di ieri aveva uno sguardo triste ed infelice,
camminava ingobbito, con passo strascicato: era stanco e si
vedeva.
89
Ho immaginato la sua invocazione d’ogni sera nel suo
letto, un chiodo rugginoso conficcato nella mia sensibilità:
Signore, prendimi, non ne posso più.
Mi piace pensare che mi sia stato grato per qualche
attimo.
Voglio credere che la sua pace estrema possa ripagarmi
della sofferenza che mi crea questa missione che mi sono
posto come fine della mia esistenza.
Odio la vecchiaia: è sinonimo di sofferenza, incuria,
abbandono, debolezza.
Eccone un altro, laggiù, malfermo ed esitante.
C’è bisogno del mio aiuto…
90
OGGI E’ LA FESTA DEI MORTI
Leonida ascolta.
“Mio cugino ha messo sul telefonino la suoneria
dell’aragosta che bolle viva…”
“Fichissimo! Io dovrei inserire quella dell’alligatore che
divora…”
Malessere.
Il 51, oggi, due novembre, si dirige verso il capolinea
suburbano, al cimitero di Settimo: trabocca come
un’emicrania.
Leonida è seduto e fissa un paesaggio plumbeo
piovigginoso fuori del finestrino appannato, premuto alle
spalle grandi da invadenti compagni di viaggio in piedi.
Odore d’umanità da film realista: fiori freschi
confondono loro olezzi con aliti di fiori marciti e cariati e
afrori di sudaticcio.
Il bus corre a strapponi, e qualche crisantemo perde
petali nel pigia-pigia tra una frenata e un’accelerata.
Raspa una voce scocciata:
“Guarda che tempo di merda: ieri faceva ancora
caldissimo.
Non esistono più le mezze stagioni…”
Ba-be-e-e-e-l-eeeee.
Un fez e una papalina barbuti sembrano litigare in
agitarsi frenetico di mani e in toni aspri di voce.
Apprensione sottocutanea: potrebbero passare a vie di
fatto.
No: stanno solo parlando amabilmente.
Un walkman pulsa come una radio a volume normale: i
timpani del giovane assente sono voragini che si sgretolano
verso una sordità incipiente.
Tump tump tump tump…
Il basso ‘house’ è ripreso da un piedino di porchetta
lardellosa con unto ombelico in bellavista.
In bellavista: come l’aragosta del telefonino divorata
dall’alligatore.
Manca l’aria.
91
E’ assorbita da discorsi confidenziali di una giovane
giraffona china su un’armadilla dall’ombelico riparato.
Voci lievi come soffi, ma dal contenuto di piombo.
“…Tiene una minchia tanta…”
“Oooohhh…te l’ha fatta vedere?”
Qualcuno s’indigna, probabilmente per invidia del pene,
confondendo:
“Ah, gioventù d’oggi!
Se comandassi io: …Siberia, Goulash!
Ai miei tempi…quando c’era lui…Addavenì Baffone…”
Qualcun altro ammicca e si guarda intorno a cercare
complici origlianti, con risolino imbarazzato e curiosità per
lo sproposito penedimensionale: spera in maggiori morbosi
dettagli...
Ride stanco dentro di sé, Leonida, al pensiero della
giraffona che guarda, tra ingorda e stupita, un’anaconda, ed
è stordito da una maschera trifacciale d’ascella umida che
stringe otto crisantemi penduli in ferrea morsa.
Giappone, Giappone: ci vorrebbe un buttadentro da
metropolitokio che sapesse organizzare lo spazio…
Non si sentirebbero acidità di questo tenore:
“Vada più dietro: mi sta traforando come padre Pio con
questi gambi di fiori.
Dove cazzo portate, poi, ‘sti fiori: i mortacci
dell’Angola…
Stai dietro, cazzo. Accidenti a chi vi fa salire…
Al solito: solo noi onesti paghiamo il biglietto…e le
tasse…”
“Maledugado. Fangulo razisda!”
“Fanculo a te, troia!”
S’attiva il corifeo greco-nigeriano da tragedia, con
crisantemi e maglie da calabroni strafatti, a strisce
orizzontali rosa e nere, con parrucche improbabili arancio
zucchalloween.
“Fangulo razisda! Idalia di merda, berò bombini vi
biace, neh?”
Silenzio prudente masticato ripetutamente come
liquerizia: potrebbero uscire coltelli, rasoi, lamette, unghioli
da iene…
Un morso all’AIDS, uno sputacchione infetto.
92
…O fatture voodoo.
Leonida soffoca.
Pensa alle solite quotidianità: ‘li accendiamo?’
Umorismo macabro: un 51 che sfreccia come una stella
cometa di rompicoglioni bruciacchiati che vanno al cimitero
di Settimo.
Dal produttore al consumatore, …o viceversa.
Chi sono i morti chi?
Il vecchio incazzato, ce n’è sempre uno, disappanna il
finestrino con la mano nodosartritica e si china per
guardare fuori.
Zaffata di ponte che crolla.
Poi sguardo di diritto e parole di diritto a rovescio:
“Fammi sedere: sono vecchio e invalido!”
Nessun salamelecco di circostanza, per favore, sorriso:
solo l’indicazione della cimice sul bavero della giacca.
Resistenza, guerra, ferite, mutilazioni.
Delle buone maniere.
Leonida si alza dal seggiolino e riceve una ginocchiata
all’inguine: il posto va consumato caldo.
Un crisantemo sembra un cristiano pallido con
parrucchino spostato dal vento.
Monta l’ira di Leonida per l’ovvio, per il cialtronesco e il
miserabile che viaggiano con lui.
“Permesso, permesso…”
Attende la fermata a fianco dell’autista che sembra
uscito da una pennichella, pacioso, serafico e indifferente al
bailamme di dietro.
Sembra che lui non abbia parenti morti: un trovatello
bastardo o un autista felice.
Il bus ferma e il conducente sbircia i retrovisori per
l’apertura e la chiusura delle porte.
Leonida ha un guizzo, schiaffeggiato dall’aria frizzantina
esterna, e sibila:
“Togliti, cazzo. Fuori dei coglioni.”
L’autista rimane interdetto.
Vede due occhi sporgenti da rospo, epilettici, decisi e
cattivi di sguardo e intenzioni.
Scorge poi una mano in tasca, pericolosa come un
crotalo, e mette le mani avanti con un sorriso di
93
comprensione, da giorno prima d’Ognissanti per il Medardo
di turno.
“Buono, buono: aspetta che scendo…”
“Sbrigati.”
Il conducente anguilleggia di fuori con insospettabile
agilità.
Nessuno s’accorge di nulla, tutti seminascosti tra luoghi
comuni, crisantemi e culi.
Leonida si siede al posto di guida e chiude le portiere.
Nomen omen: Leonida.
Si sente un combattivo spartano, anche se solo, a nuove
Termopili.
Uno e trecentouno.
Mancano due o tre fermate al capolinea, sullo spiazzo,
di fronte al massiccio muro del cimitero.
Romba il motore, e una nuova accelerazione più
nervosa sposta e comprime finanche gli odori in fondo alla
vettura.
Corre veloce, il bus, e Leonida guida ingobbito,
aerodinamico, a uovo, nel mezzo pieno come un uovo.
Voci.
“Ma si guida così? Siamo mica a Monza?”
“Capo, c’è una fermata qui…”
“Capo, sei impazzito?”
“Fangulo, ferma, ferma…”
Ecco laggiù il muro e il capolinea.
Leonida ride dentro di sé e chiude gli occhi senza alzare
il piede dall’acceleratore.
Oggi è la festa dei morti e il bus è pieno di crisantemi.
94
POSTI IN PIEDI E POSTI A SEDERE
Enver è un albanese tamarro convinto d’essere trendy e
perfettamente mimetizzato nella società, disinvolto e quasi
senza imbarazzo, aiutato da un certo esibizionismo.
E’ uno dei soli quindici o venti al mondo che porta il
berretto con visierone a tegola spiovente sulla nuca sopra
una bandana in tinta.
E’ una torcia, il ritratto della salute, a gambe divaricate,
fasciate da jeans regolamentari stinti e macchiati di calce,
in equilibrio tra due seggiolini d’autobus, compresso in una
maglietta esplodente da fratello minore.
Armeggia con un cellulare e mantiene per le briglie uno
zaino che occupa un sedile come un normale culo pagante.
L’autobus è pieno come un uovo.
Enver è accigliato e assediato da cattivi pensieri.
Il telefonino prende la comunicazione a corrente
alternata e la sua donna sta ronzando a sprazzi pretese
assurde ed egoiste.
Enver è stanco ed ha anche altri tarli nel cervello.
Sibila qualcosa alla donna e chiude di scatto il libretto
dislessico.
Il clic troppo violento moltiplica il cellulare in due
semicellulari non funzionanti del tutto.
Fanculo. Fanculo al telefonino, alla donna, e anche al
geometra del cantiere.
Belle pretese: dodici ore di lavoro ogni giorno, per tutta
l’estate, tanto ci si vede fino a tardi e non si rischia di
cadere dall’impalcatura.
Fanculo al geometra e, per chiudere i conti con tutti,
anche alla vecchia della pensione ammobiliata.
Aumenta l’affitto ogni due mesi, la bastarda.
Sale sul bus, nel frattempo, Cosimo, dopo qualche
fermata.
Incazzato nero.
Essere stanco già di prima mattina per avere dormito
male non è buon segno. Se poi si somma un mutuo
calcolato troppo ottimisticamente, concomitante con la
95
novità di un paio di scarpe ortopediche per l’erede, lo stato
d’animo va a male come uno yogurth fuori frigo.
Erede di che, poi?
Associazioni d’idee con fame in India, alluvioni su
Bangladesh, Biafra…
Stanchezza vorace che addenta palpebre e cervello.
Poi: guarda quel tipo da spiaggia che sembra Mastro
Lindo Rap…
“Se togli lo zaino mi fai sedere, grazie…”
Aria salina e reazione chimica con ossidazione di acidi
torbidi pensieri.
“Primo: si dice ‘per favore’.
Secondo: allora mi ci siedo io.”
Una risposta di questo tipo è già irritante di per sé, ma
per Cosimo è una scudisciata in pieno volto, accolta in
italiano stentato cantilenato in nenia sonortiranica.
“Credi di venire qua a fare il padrone, pagliaccetto?”
“Io ho risposto per come tu hai chiesto.
Italiani sempre brava gente?”
Che peccato!
Il bell’Enver aggressivo, quando ride sarcastico, ha i
denti guasti che lo imbruttiscono in aria da losco figuro.
Cosimo vede rosso.
Può essere sopportabile la pressione di un mutuo
sbagliato, di una moglie petulante e insoddisfatta che
recrimina sempre.
Può accettarsi anche l’imprevisto di un paio di scarpe
ortopediche e l’umiliazione di dovere chiedere un anticipo al
capo che sorriderà con compatimento e condiscendenza
irritante.
Ma non si può tollerare un tamarro caprone che faccia il
prepotente in casa d’altri.
“Scommetti che adesso togli lo zaino per farmi sedere?”
Cosimo è tenutario di porto d’armi, di quando era
guardia giurata.
Giustifica istericamente la certificazione facendo
balenare una rivoltella brunita.
Enver è temerario o incosciente o entrambi.
Continua a ridere con quei denti guasti e finge
platealmente uno spavento che probabilmente non prova.
96
Forse attizza ira a sproposito per verificare qualche
punto di rottura o qualche punto di non ritorno con
inconsce speranze liberatorie per sé stesso.
Risata, quindi, d’ampio spettro e pesantissimo peso
specifico.
Cosimo è fragile e arriva al punto di rottura con la
velocità della cottura di una pastina in brodo.
Salta un tappo, fragoroso e poco festaiolo, e s’affloscia
un albanedile rapper incredulo con gli occhi di una
bambola appoggiata su un letto a fiori.
Cosimo regge e continua il gioco del duro e scosta lo
zaino per sedersi.
E’ circondato da occhi atterriti: fibrillano come anemoni
di mare che si abbassano al primo contatto visivo con un
fresco assassino.
Enver si raffredda.
Cosimo guarda avanti, con la rivoltella in pugno, e
calcola il consumo della luce dello scorso mese.
Studia un discorso da fare a quel bastardo del capo per
le spese ortopediche.
97
CATTIVI PENSIERI
La ragazza sembra un personaggio mitologico vestito
come la cantante Madonna degli anni ottanta.
Ha
un
viso
da
ragazzina
spaurita,
Heidi
immediatamente dopo avere appreso la notizia della morte
del nonno o di una capretta, con un casco corvino di capelli
molto provocante, Valentina di Crepax, su un corpaccione
da nuotatrice dell’Est col fisico di un boscaiolo finlandese.
Fa capolino nello scompartimento come un’orfanella
con una vocina pigolante.
“Posso sedermi qui vicino a te?
Ho paura di viaggiare da sola…”
Lui diventa di colpo un misto di capo indiano Arrapaho
e di cavaliere della tavola rotonda che deve liberare
rispettivamente una squaw o una principessa prigioniera di
un drago.
Sbatte gli occhi da narciso e sorride in silverplate.
“Prego: qui non ti darà fastidio nessuno.”
Categorico e sicuro come un secondino.
In sobbollire di cattivi pensieri.
Lei gli si accomoda a fianco e gli serra un braccio come
un salvagente, seppure senza paperella.
“Grazie.
Adesso mi sento più tranquilla.
Sai: se ne sentono tante…e ne ho passate tante…
Vivo nella paura: degli altri e per gli altri, non so se mi
capisci…”
Il cavaliere senza macchia e senza paura annuisce da
persona compenetrata e importante sbirciando i due
zamponi inguainati in un collant che mortadellizza ciccia in
rete fina e nera.
I cattivi pensieri s’accavallano caotici e uno sguardo va
oltre il vetro dello scompartimento, quasi indifferente, a
verificare con opportunismo passaggi d’altri viaggiatori
lungo il corridoio.
La ragazza, intanto, abbassa la palpebra a mezz’asta e
miagola con voce impastata esondando in confidenze e
98
mantenendo una presa da rugbista neozelandese al Trofeo
delle sei nazioni.
“Mi sembri un bravo ragazzo: hai uno sguardo buono e
trasmetti fiducia.
Lo sai?
Sto scappando.
Da sempre.
Ho cominciato a fuggire da casa, da mio padre, e poi dai
miei zii: il tepore della famiglia dei polipi, fanculo.
Poi da scuola: un profio bastardo con tre gambe.
Ora me la svigno da una parte all’altra senza una meta
precisa perché mi vogliono prendere in tanti.
Hai qualche soldo per un panino?
Sono due giorni che vado avanti ad acqua, tranne un
caffè ieri sera.
Me l’ha offerto un tizio in sala d’aspetto.
Sembrava un bravuomo e invece era un figlio di
puttana.
Me la sono squagliata anche da lui.
Hai qualche soldo per un panino, adesso che passa il
carrettino?”
Arrapaho è in mezzo al guado del True River: forse si
profila un viaggio piacevole, magari tirando le tendine, o
forse c’è puzza di fregatura solenne con una che cerca solo
soldi.
I cattivi pensieri, quelli meno nobili a base di
testosterone, positivizzano la situazione con visioni vietate a
minori di diciotto anni e frantumano in punti interrogativi
insignificanti le obiezioni e i dubbi.
Sorriso da uomo di mondo e vago disagio per quella
stretta che appare metaforicamente uno strangolamento.
“E’ incredibile: lo sai?
Una ragazza appena più fragile e debole del normale è
considerata solamente una preda, carne, merce di scambio:
mi capisci?
Sono giorni che viaggio senza meta mendicando un
panino o una sigaretta, e mi devo quasi prostituire.
Anche senza il quasi.
Spero che tu non sia di quella razza di bastardi.
Ma no, tu sei buono: io certe cose le percepisco a pelle.
99
Me lo dicevano anche all’ospedale le infermiere...”
Due parole di troppo: ospedale e infermiere.
Il cavaliere senza macchia e senza paura sta valutando
l’ipotesi di mettersi l’elmo col pennacchio per ripararsi
meglio.
E’ una sensazione di disagio l’annusare odore di pelo
che si trasforma in odore di flebo, e la prosciuttona accanto
appare meno appetitosa, con un cartellino che indica una
data di scadenza, prossima a scadere effettivamente.
Pensieri cattivi d’altro genere: cazzo vuole questa qui?
Sorriso opaco, di peltro stavolta, e occhiata vigile fuori.
“Io non ci credo a quello che mi hanno detto…
Bastardi.
Si approfittano di me perché sono sola e perché ho delle
debolezze e ho paura della solitudine.
Io odio soltanto stare da sola.
Dormire da sola.
Non riuscire ad avere un contatto con il prossimo.
Se poi il prossimo è carino come te…”
Nervosismo diffuso: il gioco sta passando di mano.
Va a finire che la principessa vuole che si salvi anche il
drago che nel frattempo è diventato suo amichetto.
E porca puttana come stringe: è una tagliola.
“M’imbarazzi a dire queste cose.
Sono un ragazzo normale…
Tu, piuttosto, che intendi con quello che hai detto?”
Vocazione dell’aggiustatore: hai visto mai…
“Senti, te la dico tutta in massima sincerità: di te mi
fido…
Ho un’indole molto passionale e sono molto socievole.
Ho paura della solitudine e adesso ho paura di tutto e
di tutti, perché tutti se n’approfittano e io non riesco a dire
di no, anche se dovrei, anche se i medici mi hanno detto
che dovrei essere più forte, e che il meta è al minimo e ne
sono quasi uscita…
E adesso mi cercano e sono braccata…
Lo sai?
Mi riempivano di sonniferi per farmi stare tranquilla.
Ero rincoglionita.
100
Poi, però, ho capito il giochetto e da allora ho
cominciato a fare finta di prendere i sonniferi.
E sono scappata.
Sto male da bestia, ho fame, ho paura, ma sono
libera…”
Qui c’è poco da aggiustare: è tutto rotto o
malfunzionante, come il cervellino di questo culatello
parlante…
“Ma se scappi sempre, nessuno si prenderà cura di te e
tu starai ancora peggio d’adesso…
Cos’hai? Che cosa ti hanno diagnosticato? Il meta?
Dì la verità: se un po’ ninfomane?”
Confidenzialità becera.
Il cavaliere, ancora minimamente indiano Arrapaho,
prova un ultimo assalto all’arma bianca.
“Sì, mi hanno detto questo e anche che ci devo stare
molto attenta.
Per me e per gli altri.
Sai?
Ho anche l’AIDS: mi facevo ogni tanto, prima… ma con
il metadone ne sono quasi uscita fuori del tutto…”
Bomba a frammentazione di pensieri d’ogni tipo.
Lo pensava, era evidente, ma aveva paura di dirsi che
aveva sotto braccio una fatta, e sperava di sbagliarsi per il
classico appello che vede la figa rispondere presente.
Ora invece sa: inequivocabilmente.
Addio giochini di mano e di villano.
Heidincubo stringe il braccio.
E forse mentre parla spruzza anche un poco: è nervosa.
Ha una forza da scaricatore di porto…vaffanculo…
“Scusa un attimo…”
Strattone da lancio del peso e immediata postura in
piedi nel mentre che raccoglie soprabito e valigetta.
Punta uno sguardo vigile ambiguo, a metà tra il licaone
e il topo, in veloce sequenza di passi verso la porta, come
un ballerino d’avanspettacolo di tip tap.
La ragazza è sorpresa e si gratta un eczema dietro un
orecchio, fortunatamente bradipica.
101
Ha gli occhi buoni e la pazzia della mucca infetta,
almeno secondo le considerazioni del licaone che ha
cambiato altri sei o sette ruoli in poco tempo.
“Torno subito…”
Spera che non s’incazzi e sputi.
Vaffanculo ai sistemi: sanitario e immunitario, …e
anche quelli massimi.
Ma come si fa a lasciar scappare una come questa?
L’icona mitologica è intorpidita, quasi senza reazioni.
Il cavaliere senza macchia e senza paura, senza senza,
butta in aria una manciata di banconote, come diversivo, e
si dilegua lungo il corridoio, mimetizzandosi per come può,
con i suoi piccoli stupidi cattivi pensieri al seguito.
Ora riuscirebbe a trasformarsi anche in un cessetto da
ritirata e non gli restituirebbe dignità nemmeno una nuova
meravigliosa principessa sul pisello…
Farà affari quello del carrettino dei panini.
Per ora ignaro.
Se non avrà cattivi pensieri…
102
IPERBOLICO CAPOLINEA
Il tram non è molto affollato, con diversi posti a sedere
liberi e molta luce dai finestrini.
Il giovane forse è un sognatore.
Ha
tratti
gentili,
abbigliamento
classico
non
appariscente e postura composta a sedere.
Colpisce per lo sguardo magnetico, rapito, che sembra
appuntarsi su qualcuno di fronte a lui, ma in realtà guarda
mondi per tutti sconosciuti con pupille sperse, con un
sorriso vago e qualche impercettibile scuotimento di testa
ad apprezzare le sue personali visioni.
Passa inosservato, seduto a metà del lunghissimo tram.
Fermata.
Sale un inquietante trio.
Due ragazzi affilati in nero pelle scortano una corvina
bonazza prorompente, esangui e torvi come diafani vampiri
in astinenza dentro un deserto ristorante vegetariano.
La reginetta, d’aspetto tamarro in ruminare disgustoso
di gomma con annesso ciclico palloncino scoppiettante, è
installata dentro due stivaloni appuntiti con temperamatite.
Le lunghe leve confluiscono in una vita bassissima e
nuda con ombelico metallico di piercing e tatuaggio papua
che fa capolino dalla centrale degli ormoni.
Strascica una borsetta borchiata da lattoniere degli
anni cinquanta dondolando e sacramentando con i due
cavalieri per qualche suo problema fastidioso.
S’accoccola sulle ginocchia di uno di loro, casualmente
di fronte al poeta, e parla a voce alta di contrattempi
infarciti d’interiezioni falliche con lessico esemplificato
anche per non udenti.
E’ la sagra del gel in lampi abbaglianti alla luce del sole
obliquo.
Ad un tratto, l’incazzoso mammifero sbotta ostile verso
il sognatore:
“Cazzo hai da guardare?”
Risolini di sfida dei due, forse forti di taglierina o di
corso accelerato d’arti marziali.
103
La
ragazza,
particolare
insignificante
prima,
determinante ora, è leggermente strabica, di quello
denominato misericordiosamente ‘strabismo di Venere’, solo
appena un poco più pronunciato.
Il cinquantenne seduto due seggiolini più in là del
sognatore è un veteroistituzionalista armato di buoni
principi, sempre, e di una sette e sessantacinque, ché non
si sa mai che cosa può succedere di questi tempi permissivi
e senza regole.
La brizzolatura corta è elettrificata da quel messaggio
fatto proprio come indirizzo, e la reazione è rambica.
S’alza in piedi a gambe larghe disegnando un arco con
le braccia congiunte sulla pistola puntata davanti al
terzetto, in plastica posizione aggressiva.
“Hai qualche problema, troietta che non sei altro?”
I tre dannati scendono di alcuni sedicesimi in
autostima, con sguardi interrogativi e atterriti, e la lei, che
ciancica sempre bovinamente, ma a morsi più radi e senza
bolle, con voce pigolante supplica:
“Non dicevo a lei, signore…”
Il sognatore è invisibile nella sua aura discreta e il
cittadino armato che protesta si guarda intorno per
giustificare le scuse della ferramenta maiala.
Sta per abbaiare qualche altro concetto volto a
ristabilire una saldezza di valori, ma dalla postazione del
conducente del tram, che ha seguito tutta la scena dallo
specchietto retrovisore interno, si leva un rumore strano di
scatti d’ingranaggi e molle e lucchetti che s’aprono per una
qualche emergenza.
Dallo schienale del sedile del conducente fa bella
mostra di sé un’arma nichelata e strana che assomiglia ad
un bazooka, o forse ad un lanciafiamme, o ad un
cannoncino portatile al plasma per una guerra stellare, con
mirino telescopico a raggi infrarossi e puntatore laser che si
stampa come un tatuaggio brahmano sulla fronte del
giustiziere brizzolato basito.
Una voce da un altoparlante, invece delle coordinate
della prossima fermata, avverte:
“Metta giù la pistola, per favore, o sarò costretto ad
incenerirla a norma di Legge.
104
E anche voi, ragazzi, deponete lentamente a terra la
vostra mercanzia, ché la centralina di controllo a raggi x mi
rivela che siete armati.”
Stupore dell’intero carico umano sul tram.
Gente che si guarda interrogativa, qualcuno che sorride
rassicurato, un timido applauso benpensante di vecchina
rincoglionita.
I tre alabastrizzano di un bianco olimpiade invernale e
lasciano cadere con sommessi tintinnii due taglierine, una
catena con annesso lucchetto tagliente ai lati dopo
opportune limature, e un tirapugni pesante come certi
peccati.
Il brizzolato esita un attimo, sconvolto da claudicanti
certezze circa l’amministrazione della giustizia umana,
dell’etica e dell’ideologia, ma capitola velocemente ad un
ticchettio sospetto proveniente dall’arma marziana.
Un febbricitante personaggio cencioso, in disparte,
seduto con uno zaino capiente tra le gambe, guarda
inespressivo la scena e riflette.
Alcuni suoi dubbi, sulla bontà di certe scelte discutibili
da un punto di vista occidentale, vengono spazzati via da
altre riflessioni di carattere filosofico ed esistenziale.
La religione non c’entra quasi più nulla.
E’ un argomentare interiore che si tuffa nel concetto di
un’umanità migliore, in generale, nel concetto di catarsi
liberatoria per un’accresciuta dignità dell’uomo tra gli
uomini, fuori d’ogni contrapposizione ideologica.
E’ un esaminare la situazione con la freddezza
dell’entomologo o del vivisezionatore che lavora sporco per il
progresso dell’umanità.
Il cencioso non è abituato a dare avvertimenti, perché
non è mai stato abituato a ricevere avvertimenti.
Lancia un ultimo sguardo ad abbracciare tutto il tram,
valutando cause ed effetti e danni.
Pensa che un posto può valere un altro e che le
motivazioni, quali esse possano essere, scompaiono
nell’azione.
Poi tira un cordino dello zaino.
L’ambigua catarsi ha bagliori di fiamma assordanti che
tutto frantumano.
105
Il giovane sognatore precipita da un tutto di poesia,
senza accorgersi di nulla, e si dissolve rimanendo nel nulla
della poesia.
L’ultima visione degli altri è una grandinata di bulloni
in una vampata di relativo spazio-tempo.
Il tram, quello che ne resta, scivola d’inerzia sulle rotaie
alla fermata del vicinissimo capolinea, senza alcuna forma
di vita, sventrato e fumigante.
Il capolinea è situato in Piazza Tommaso Campanella.
Sì, proprio lui.
Quello della Città del sole.
106
JIMMY DEAN, PAULINE E L’ARCA DELL’ALLEANZA
L’insegna brilla sgargiante nella notte: motel Eden.
Falsa promessa.
Il giallo e il rosso del neon, intermittenti, affettati dalla
tapparella del bungalow, trasformano la stanza in un
fumetto della Marvel.
Letto sfatto, bagaglio inesistente, lei smaniante sdraiata
di sghimbescio, magrissima, con solo perizoma lasco e
chiodicapezzoli violacei su assenza di seno, lui in piedi
davanti al letto, dinoccolato, esangue, nudo, scolpito nel
riquadro bianco latte della luce dal bagnetto, con ciuffo
ribelle in bassorilievo e occhi liquidi da coyote braccato,
però, a istanti.
In realtà, per lo più, hanno entrambi le palpebre a
mezz’asta e la notte è ancora discretamente lunga.
“No, Pauline: si è detto basta…”
“Da domani, Al.”
“Da oggi. E poi ho annegato tutto nel cesso.”
“Bastardo stronzo. Senza avvertire. Sono impreparata.”
“Lo sapevi, lo sapevi, lo sapevi…
Abbiamo promesso, abbiamo promesso, promesso…”
Cantilena, monotono e stanco come un sagrestano, Al,
allungandosi lo scroto con un sorriso pallido e qualche
voglia.
Pauline si agita, ma se ne accorge.
“E adesso che vorresti? Il premio? Scordatelo.
Vaffanculo.
Sto male per colpa tua. Tutto insieme, all’improvviso,
senza scalare.”
“Io sto reggendo: credo di potercela fare.
Domattina prendiamo la camionabile e andiamo al mare
a respirare aria buona in libertà.
Vedrai: l’aria aperta ci farà sentire meglio.
Non so se ci potrei riuscire, ma ti vorrei scopare…
Per accorciare la notte, piccola, per aiutarci…”
“Tra poco ti vomito addosso, figlio di puttana: scopare è
l’ultimo dei miei pensieri. E poi dove credi d’andare? Sei alla
frutta con quel lombrico e io non vado a pesca, stasera…”
107
Risata oscena soffocata da colpi di tosse.
Lei è incattivita e lascia scorrere perfidia dentro di sé.
Scosta il perizoma provocatoriamente lasciando
intravedere un pube mal rasato punteggiato di pustole
accese.
“Vedi come sono comprensiva? Ti faccio guardare per
un poco: sei contento, Jimmy Dean?”
Al prova ad eccitarsi, ma è come giocare con il pongo:
allunga, stira, tira, torce, cattivo e speranzoso, a farsi male,
ma senza risultato.
Pauline ride cogli occhi semichiusi e provoca ancora di
più allargando le cosce scheletriche e giocando con le dita.
Poi salta un interruttore e rimane incosciente nel mezzo
del letto, col perizoma scostato e le mani tra le cosce.
Russa rumorosamente, ansima e sospira.
Al rinuncia.
Si siede per terra, appoggiato al letto, sullo stuoino
lercio, in torsione con la testa e un braccio, sulla sponda.
Crolla anche lui.
Alba.
Tanfo di vomito: Pauline verso le tre non ha retto.
Era di fianco, per fortuna sua.
Dopo due o tre conati violenti, s’è rigirata dalla parte di
Al, inebetita con rivolo, e ha continuato a dormire di piombo
senza sognare, bestemmiando REM.
Lui non s’è accorto di nulla.
Ora sono svegli, in piedi entrambi, vestiti, silenziosi e
torvi, per il mare.
Abbandonano il set di Tarantino dopo aver sgrullato
sommariamente le lenzuola fuori del bungalow.
La vecchia Ford polverosa tossisce quattro o cinque
volte prima di mettersi in moto.
Si va via tranquilli, senza fuggire.
Tutto pagato, almeno questa volta.
Serbatoio pieno, almeno questa volta.
Ha pianto il vecchio coreano del drugstore di quel cazzo
di paese di ieri chissà quanto lontano.
Al imbocca Pauline con una ciambella.
La ragazza morde distratta.
108
Poi guarda il profilo del suo uomo col ciuffo alla Jimmy
Dean, con devozione umida, stanchissima.
La strada è un nastro a lutto perenne, polveroso,
infinito.
Poco traffico.
Sterpaglia ai lati, come da classico di Spielberg.
Al ha dormito di gusto e sta riflettendo, lucido di riposo.
Non ci sono speranze.
Senza soldi, con crisi dolorose, senza futuro.
Morti a tratti, senza sapere di esserlo: già morti…
Un senso di costrizione e di gabbia che stride con
l’ampiezza libera del paesaggio luminoso.
Una luce solare che non riesce a fare breccia nei tetri
pensieri dell’uomo.
La ragazza rumina assente come un bovino.
Senza pensieri, almeno adesso, senza crisi, almeno
adesso.
Al ha una sua folgorazione sulla via di Damasco, anche
se sta andando verso il mare.
E ride sommesso con un sibilo, tremolando il ciuffo.
Lei si gira di scatto, incuriosita, come un piccione.
Al, mentre guida, s’inarca e s’allunga sul sedile e s’apre
la cinghia dei jeans.
Poi tira giù la zip e contorcendosi si mette a nudo.
Pauline ride.
“Ancora con la voglia?”
Al non parla. Ride più aperto guardando davanti.
Allunga il braccio e abbraccia deciso la nuca della
giovane con la mano.
La spinge sotto, tra le sue gambe.
Adrenalina in vasi comunicanti.
Pauline capisce, ma non oppone resistenza: è un
qualcosa di diverso e trasgressivo, magari passando davanti
ad una pattuglia, aiuta a far passare il tempo, diverte, è
complicità per la vita, le piace, la fa sentire depositaria del
potere, importante.
Comincia a succhiare piano assaporando senza fretta.
Lui chiude per un attimo gli occhi e accelera.
109
La Ford canta la marcia trionfale dell’Aida o ringhia
qualcosa degli Iron Maiden, ossessivi come magli di fabbri
sotto amfetamine, energetici.
Di lontanissimo brilla qualcosa.
Un Tir scintillante al sole.
Al lo nota subito dallo sbuffare del tubo di scappamento
sopra il tetto d’oro con angeli e pin-up e fari accesi inutili
alla luce violenta del giorno, californian-barocco pacchiano.
Gli appare l’arca dell’alleanza con le ceneri della
saggezza, di re Salomone, forse, e le tavole di pietra della
Legge e la verga del potere delle piaghe d’Egitto e la manna.
Accelera invasato.
Pauline continua a succhiare e leccare.
E’ meravigliata dell’erezione possente che il suo uomo le
sta regalando.
Al le spinge la testa con una mano a soffocarla.
La giovane va in apnea con una sensazione di dominio
mai provata fino adesso, meglio di quando allarga le cosce
di fronte al suo uomo che la fissa con gli occhi lucidi.
Asseconda la spinta e si offre più ospitale possibile
facendo attenzione a non mordere, d’esofago, accogliente e
devota con una lingua servile e isterica di serpente sacro.
L’autista del Tir avverte inquieto: sirene da
transatlantico.
Al pensa di potercela fare: è tesissimo, prossimo a
scoppiare.
Travolto da Salomone e dalla sua saggezza dall’arca
dell’alleanza d’oro che offre l’immortalità per uscire fuori
dalla gabbia e venire in bocca con un urlo da cow boy in
praterie sconfinate e bisonti cavalli sole accecante brezza di
erba senza fine a perdita d’occhio e ancora libertà libertà
libertà libertà libertà…
Sente una scarica elettrica montare dal condotto
uretrale.
Ruggito disumano in eiaculazione violenta abbracciato
da una sirena di transatlantico che urla incredulità in un
cozzare e fondersi tra la Legge delle tavole e il potere e
spirito inquieto in confusione confusione con fusione di
fotografie e vecchi films come un nuovo Jimmy Dean e la
sua fine che Pauline lo chiama spesso così per il ciuffo che
110
però in ultimo pensiero era frocio sbocchinato nel frontale
con quel Donald mentre Al sta con Pauline che ha compreso
il karma e asseconda materna e regina come un’ape che
succhia e succhia e succhia il nettare in assoluta libertà di
spazio e tempo per sempre in omnia saecula saeculorum
per amore e complicità dio fa che sia un attimo sennò
chissenefrega catarsi e vita vita vita vita…
Ride innocente, Al…
Ride innocente, Pauline, dentro…
Fluidi.
111
INCROCI
Mattoni spigolosi di un alto muro crollano in pesante
stillicidio sulla calotta cranica di Giovacchino Aramengo,
depresso sopra scartoffie sparse sul tavolo del tinello, ad ore
da vampiro, sotto sessanta watt semicimiteriali.
Tok! Bollette da pagare.
Tok Tok! Lettera di licenziamento.
Tok Tok Tok! Biglietto d’addio di una moglie egoista che
lascia lui e i suoi tre figli dopo avere prosciugato il già
magro conto corrente bancario.
Pensare di chiamare un telefono amico è utopia: hanno
tagliato i fili.
Questa mattina la vita bacia il Cavalier Lino Spazzo
Della Mappina, il re degli spazzolini da cessi, lampadato
come da regolamento per soci del circolo del golf,
sorridentimmacolato senza una traccia di calcare o tartaro,
per la consegna agognata della Mercedes nuova luccicante e
fumè.
Bagno caldo negli sguardi delle maestranze invidiose
sul piazzale della fabbrica: le piccole soddisfazioni della vita
che fanno amarla.
Il Cavaliere in fondo è un buono e si contenta di piccole
rivalse: un vecchio paternalista interclassista che considera
la sua fabbrica come una grande famiglia.
Di cui lui, però, è l’indiscusso capo buono e giusto.
Alvaro Quiroga, peruviano scolpito nel legno,
soprattutto riguardo al cervello, detto Quiroga Paperoga per
il suo fare confusionario al limite del ‘loco’, non ha problemi
esistenziali per girovagare senza permesso di soggiorno e
senza lavoro.
Lui ha il suo santo protettore in don Clemente: basta
portargli qualsiasi cosa nell’immenso capannone in
periferia, che sia un’auto, un’autoradio, un televisore al
plasma o una carrozzina, e il rospo ciccione, sogghignando,
gli mette in tasca qualche banconota per puttane e tequila
bum bum.
112
Scarseggia l’ossigeno oggi, per Paperoga, e il peruviano
sta occhieggiando una monumentale Volvo SW che col suo
colore lilla metallizzato sembra uno scintillante carro
funebre psichedelico.
Alba scarnificata da pensieri e riflessioni in assenza di
sonno.
Giovacchino Aramengo veglia il placido russare dei suoi
marmocchi e intanto medita sul da farsi.
La freddezza e il raziocinio sono usciti di casa da
qualche ora, forse diretti verso qualche agenzia di lavoro
interinale, e il cercare di risolvere problemi è preso a morsi
dall’istintività e dal cuore senza guinzaglio e senza cervello.
La parola magica, nell’assenza della speranza o nel
rinfocolare la stessa speranza, è: Assicurazione.
Per i figli.
Magari a risarcimento per un incidente.
Basta trovare una macchina che prometta bene, una
classe E di lusso, scintillante di cera e autolavaggi
frequenti.
E avere il coraggio di buttarsi sotto…
Il Cavaliere Lino Spazza agita festosamente le braccia
verso gli operai che applaudono e la scena ricalca un film
commedia degli anni sessanta dove trionfano sempre e
soltanto i buoni sentimenti.
S’infila nell’automobile con un guizzo di salmone felice e
percorre in sfioramento con le mani tutti i pulsanti del
cruscotto, mini acquasantiere per segnarsi e ringraziare
Dio.
Il clic dell’accensione e il rombo del motore.
Nulla d’esagerato: consapevolezza della potenza e del
buon gusto.
Si spalanca il cancello e l’auto scivola via con eleganza e
bagliori delle cromature al sole.
Tira il collo al motore, Paperoga Quiroga, inebriato dal
rombo, sognando fumo e pelo in ebbrezza fantasiosa.
Stasera sarà festa grande e una puttana sola non
basterà.
113
Qualche altra sorsata dalla bottiglia piatta, a dare
coraggio e maggiore entusiasmo.
Presto, presto, che Don Clemente stavolta non se la
caverà con poche banconote…
Il progetto ha preso corpo nella testa diroccata di
Giovacchino Aramengo.
Si apposta alla fine di una ripida discesa e attende
scandendo mentalmente le sue disgrazie e chiamando i suoi
tre figli alternativamente alla Madonna, alla mamma, a Dio
Padre Onnipotente, stropicciandosi con le mani in tasca per
buon augurio profano.
Forse sarà solo un femore…
Forse sarà peggio, ma ormai la decisione è presa, anche
perché è l’unica.
Il Cavaliere Lino Spazzo sente il motore del suo
Mercedes cantare una marcia trionfale ed è in pace col
mondo intero, accarezzato da un dolce refolo d’aria
condizionata, sfiorato da un sole gentile filtrato dai vetri
azzurrati.
Il successo del re degli spazzolini da cessi è sempre
stato improntato sulla prontezza dei riflessi e delle
decisioni, oltre che dall’ineluttabile necessità del suo
prodotto.
Ed ora una nuova prova lo attende.
Una sagoma scura rotola sulla strada in prossimità di
un incrocio alla fine di una ripida discesa.
Stridono i freni permalosi per l’insulto e la macchina
risponde docile inchiodando a pochi centimetri da un corpo.
Battiti di cuori in sincrono, seppure per motivi diversi.
“Tutto bene? Dio, che spavento!
…Meno male che ho una discreta prontezza di riflessi…”
Esce dall’auto, il cavaliere Lino Spazzo, e contempla con
apprensione il corpo raggomitolato di Giovacchino
Aramengo che strizza gli occhi come per scacciare un
incubo e piange senza ritegno davanti alla calandra
indifferente della Mercedes, senza alcuna voglia di rialzarsi.
Comprende che un qualcosa discosta l’attuale vicenda
da quella di un banale mancato investimento.
114
“Signore? Signore? Posso esserle utile? Coraggio: tutto è
bene quel che finisce bene…”
“Ihihih, dice bene, lei, ma io ho tre figli e sono
disoccupato.
Mia moglie mi ha lasciato.
Sono disperato…”
“Coraggio, uomo. Il destino l’ha messa sulla mia strada.
Posso qualcosa, modestamente, e cercherò d’aiutarla,
ché vedo che lei ha bisogno di tanto aiuto…
La potrei assumere nella mia fabbrichetta, intanto…
Forza, non faccia così… Reagisca…”
“Lei è in grado d’aiutarmi? Davvero? Allora non è vero
che il destino riserva solamente scarpate sui denti…
Lei è il mio angelo salvatore…”
S’allargano a dismisura due sorrisi, uno per ritrovata
speranza e l’altro per la gratificazione di potere nel
buonismo, e il cavaliere, magnanimo e teatrale, tende un
braccio a Giovacchino per aiutarlo a rialzarsi.
“Coraggio, figliolo. Qualcosa faremo per lei: non è
ammissibile che tre bimbi piangano il loro papà sconfitto...”
“Grazie, grazie. Lei è un sant’uomo…”
S’inchina a baciare una mano abbronzata, Giovacchino,
e il cavaliere si schermisce, ma neanche tanto, cresciuto di
dieci centimetri almeno in positività di sentimenti e orgoglio.
“Via, via: non faccia così. Aggiusteremo tutto. Vedrà che
la sua vita avrà una svolta e cambierà in me…”
Sfreccia a centoventi una Volvo SW lilla.
Quiroga Paperoga sta guardando i comandi per
impratichirsi, anziché la strada.
Stump!
Stump! Ancora. Molto ravvicinato: pressocchè in
sincrono.
Paperoga non s’accorge quasi di nulla.
Intravede due sagome scure volare in aria, ma non si
chiede alcun perché, strafatto di tequila e letargico nei
riflessi, e pensa ammirato a come l’auto tiene
magnificamente la strada…
115
116
RACCONTI CINICI
117
118
GIUSTIZIA
Era il tempo che i commissari di polizia giravano
scortati
da
un
istangiudice
e
da
un
tecnico
ionorisucchiatore armato di un complesso aggeggio.
La cosa funzionava così: il terzetto, su segnalazione di
privati o della Centrale, piombava sulla scena del delitto
con una spazionave di servizio senza troppi clamori, sirene,
luci od altro.
Il commissario vagliava le angolazioni e le prospettive
dell’ambiente dove si era consumato l’atto delittuoso e
faceva intervenire il tecnico. Costui predisponeva in
maniera accurata, secondo le indicazioni del commissario,
una macchina strana, molto complessa e l’accendeva.
Si diffondeva nell’ambiente un forte odore di ozono e la
macchina, una ionorisucchiatrice di fotoni temporali,
catturava quello che era successo fino a sei giornate prima
imprimendolo poi su video magnetico che veniva riversato
istantaneamente su ologrammatore tridimensionale di serie.
A questo punto interveniva l’ istangiudice che aveva il
potere di decidere per una condanna o una assoluzione, a
prescindere dalla presenza o meno dell’interessato da
giudicare. Quest’ultimo veniva poi catturato nel volgere di
poche ore dalle sonde mentali provviste dei dati di ampère
del cervello e del dna genico per un confronto matematico.
L’istangiudice Bohr per una volta lasciò tutti stupiti per
una rarissima assoluzione.
Ecco i dati salienti per capire la sua decisione.
La
ionorisucchiatrice
ispezionò
l’aria
del
monocubitolocale provvisto di PC, letto e cucina Liophil (tre
barattoli di comune materiale commestibile e un
microfornetto a raggi omicron); libri e ologrammi giacevano
sparsi dappertutto e un corpo carbonizzato era riverso su
un seggiolino. Bohr e il commissario attesero pochi minuti e
poi esaminarono il video elaborato dalla macchina.
La vittima, un giovane terrestre, stava parlando ad una
figura avvolta nella penombra: “Sei troppo generosa, cara,
per questo mi piaci da impazzire, per questo sono disposto
a correre i miei rischi. Io ti amo Varenja… sei stata l’unica
119
creatura che abbia saputo far scattare in me delle molle di
entusiasmo per una vita che altrimenti non avrebbe scopo.
Non mi sto concentrando sul tuo aspetto,bensì sulla tua
mente e tu, credimi, sei di una sensibilità e intelligenza
sconvolgente e io mi sento gratificato ogni giorno che ti
vedo e ogni momento che posso pensarti. Non ritrarti, ti
prego….baciami, non succederà nulla.”
Bohr e il commissario videro distintamente il ragazzo
che si avvicinava verso la figura in penombra e notarono
che la stessa cercava di ritrarsi. Il ragazzo però incalzava
verso la paratia del monocubitolocale e la figura era
praticamente impossibilitata a muoversi…
Udirono l’ansare delle due figure e poi la rivelazione di
fronte ad un fascio di luce: la creatura era una
Rondischnell, probabilmente una stagista presso qualche
studio notarile terrestre che cercava di impratichirsi delle
nostre norme giuridiche. Una figura prudente e ragionevole
al contrario del giovane terrestre che insisteva sempre più
pericolosamente.
Infatti i Rondischnell sono esseri molto belli da vedere,
sinuosi e piacevolmente verdino-diafani e gradevolissimi di
compagnia in quanto molto intelligenti e sensibili, ma
hanno la caratteristica di essere pericolosissimi al tatto per
le loro scaglie radioattive attivizzate all’iridium e per la loro
aura elettrofotonica statica che corrisponde come energia al
bilancio mensile di consumo di elettricità di un mediocondominio. Bisogna stare attenti e non toccarli se non con
appositi guanti in lattex retinato barico e il ragazzo era a
mani nude.
Bohr ebbe un senso di vaga repulsione nel vedere, ma
se lo aspettava: il ragazzo cercò di baciare la Rondischnell
che si ritraeva conscia della pericolosità della situazione… il
video materializzò bagliori violacei intermittenti e
l’odorogeno diffuse un puzzo insopportabile di carne
strinata; si udì un sibilo, come quello di una zanzara
catturata dalla lampada violetta e poi più nulla, con la
Rondischnell che piangente, rivolta in luce verso il centro
della stanza, gridava: “Io non volevo.”
Bohr le diede ragione e giustizia fu fatta.
Assoluzione per imbecillità della vittima.
120
PROCESSO
Stralcio dal processo: Pianeta Zorkst Vs. Postgesuita
Isaak-19. A.D.3023
Arringa dell’accusa.
…Grande rappresentante della Giustizia Galattica e
membri tutti della giuria di discernimento, io ora Vi
enuncerò semplicemente delle nozioni che sono storia
acciocché possiate comprendere con assoluta naturalezza
che il qui presente postgesuita Isaak-19 del pianeta Terra
debba essere senza alcun dubbio vaporizzato nella fornace
di Amzur.
Secoli e secoli sono trascorsi da quando questo pianeta
era una landa di bruti avvolti ancora nelle pelli di bradut
che pativano freddo e stenti.
Un’astronave proveniente dal pianeta Terra ci visitò con
creature che vollero farsi carico delle nostre difficoltà
esistenziali e tecnologiche.
Ne era a capo gente di guerra, con una truppa al
seguito, per un fine che ora, solo ora, possiamo chiamare a
posteriori colonizzazione.
Era al seguito anche gente di spirito, addetta allo spirito
dei terrestri, con un fine che solo ora possiamo riconoscere
come colonizzazione delle menti.
Il loro delegato capo, un gesuita, anzi un
protopostgesuita spaziale mandato espressamente dalla loro
somma autorità religiosa occidentale del 2500 circa sulla
Terra, mi sembra si chiamasse Papa Igor II, cominciò
un’opera di evangelizzazione secondo i dettami della Legge
del Nuovissimo Testamento di Terza Ristampa e cercò di
sottrarre i nostri zorkstiani a un avvenire che era allora
poco più civile di quello delle bestie della foresta di Gnar.
Recepimmo a dovere e con entusiasmo di neofiti i
dettami della loro religione e li facemmo nostri fino ad osare
di crederci tra i più fedeli seguaci di Dio della Galassia:
quanta pace nei nostri pensieri e quanta concordia tra noi
ormai liberi da pastoie di vendette e meschinità!
121
Ma ora che tutto è consolidato e cementato dopo secoli
di metabolizzazione, l’accusato padre Isaak-19 ci viene a
dire che il Papa Malcom VI della Terra considera eretici gli
zorkstiani per la loro interpretazione di Dio, fatto a loro
immagine e somiglianza, con branchie, tre occhi sporgenti
tridirezionali, otto tentacoli e una coda retrattile per scopi
difensivi e/o passionali. Il suddetto Isaak, per conto di un
Papa da noi mai visto, ci dice che potremmo essere
emarginati dalla comunità galattica con il beneplacito delle
autorità colonizzatrici terrestri, nella figura dell’ammiraglio
spaziale Jones, per cui dovremmo regredire e riprendere le
nostre vestigia di protobestie oppure assoggettarci senza un
minimo barlume di orgoglio alle interpretazioni teologiche
terrestri. La risposta che io posso dare, da orgoglioso
zorkstiano quale mi sento nell’intimo è solo una:
vaporizziamo l’imputato e diamo un segnale forte alle forze
colonizzatrici che stiamo prendendo coscienza della nostra
forza e identità…
A partire dall’anno 3030, per espressa volontà del Santo
Padre Pio LXI, il giorno 13 del mese di gennaio di ogni anno
si commemora il Santo Isaak postgesuita martire che è
stato beatificato circa sei anni dopo una guerra santa
culminata nella totale cancellazione dal sistema di
Porfirium del pianeta Zorkst. Si calcola per difetto una
perdita di circa 23 miliardi di zorkstiani per una idea che
oggi sta diffondendosi su altri diversi pianeti di altre
galassie: sul pianeta Angst di Centuria, per esempio, Dio
viene raffigurato come una sorta di caffettiera con un occhio
e due cingoli.
Il consiglio governativo della Terra Gesuitiguidato sta
seriamente pensando di mandare un emissario per ottenere
una professione di abiura.
122
VIDEO GAMES
Che noia nella notte gelida di Ghanzer!
Sulla superficie del pianeta, al di là della galassia di
Hokua, imperversano lunghe bufere di boroneve e nelle
viscere del sottosuolo la vita scorre piatta per un triennio di
buio esterno naturale, qui rischiarato da tecnologia, ordine,
efficienza, ma anche noia per abitudine e ripetitività.
Le giornate nel sottosuolo sono organizzate su teoriche
30 ore, di cui dieci dedicate al lavoro e alla produttività di
manufatti in ghanzerite necessari per scopi bellici, dieci ore
per il riposo e dieci per lo svago.
Che svago ci può mai essere, a parte endorfine spray e
puttane politettute di Ariel, in città sotterranee che
producono solamente componentistica per armi galattiche?
Videogames, olografici videogames molto realistici e molto
avanzati per rendere più confortevole, relativamente
confortevole, la permanenza dentro questo inospitale
pianeta.
Ebbe vita breve, però, la sala giochi di un mercuriano
provenuto da chissà dove con macchinari complessi e un
beffardo sorriso stampato sulla sua faccia grinzosa grigia.
Si
chiamava
Xtocl;
aveva
sempre
fatto
il
contrabbandiere lungo il crinale della zona dei Buchi neri
ed aveva quindi un bel callo duro in termini di sensibilità e
di avidità.
Si riciclò come direttore di sala giochi dopo il quarto
controllo della spaziopolizia di Benthram che gli comunicò
che era arrivato al passo immediatamente precendente la
carburazione permanente nello spazio: decise di smettere e
mise radici a Ghanzer, dimenticato dal cosmo, con una
novità che riscosse un certo successo presso gli annoiati
giocatori in cerca di emozioni.
Eric era uno di questi, deluso, annoiato e senza più
speranza ed entusiasmo nei confronti di una vita trascorsa
da almeno dodici anni su Ghanzer nella pigra apatia più
mortifera. Capitò per caso presso la sala giochi di Xtocl e
notò subito che i prezzi erano molto più elevati delle altre
sale concorrenti.
123
Ne chiese il motivo al mercuriano che gli rise in faccia in
maniera indispondente: “Questa è una sala giochi per gente
con le palle e paghi di più perché avrai di più!”
Eric girellò tra le macchine da gioco, tutte caricate a
giochi di guerra, bellissime, realistiche, molto intriganti, con
le parole del mercuriano che gli titillavano la mente.
Pensò di provarne una, la sala era ancora deserta e
avrebbe potuto anche permettersi di fare una figuraccia.
Pagò in anticipo, si accoccolò nel sedile anatomico con
un elmetto in testa a infrarossi e una pistola a ghenzercolpi
e scrutò lo schermo tridimensionale a risoluzione visuale
che proiettava alberi, massi, bunker nascosti tra fogliami
della piantagione di Gzur.
Udì in una meravigliosa esadecafonia degli scoppi
lontani e vide dei bagliori sulle alte montagne a ridosso
della jungla, poi… morì, inesperto e ingenuo, scoperto
subito da un guerrigliero che lo centrò alla pupilla destra
con un colpo di yactlocuraro istantaneo sparato da una
technofionda.
Tutto purtroppo reale però…
Xtocl si maledì per la sua avidità che aveva permesso
questo delitto di un pivellino e in tutta fretta, con una
valigetta piena di banconote fruscianti, fuggì verso la
superficie alla caccia di un imbarco per nuovi lidi.
Nonostante tutto a Ghenzer
qualcuno ancora
rimpiange quella sala giochi che gli ha procurato scariche di
adrenalina che fanno sopportare meglio la noia di giornate
sempre uguali.
Si sa, la vita ha un prezzo molto soggettivo: come si
dice?
Ogni uomo ha il suo prezzo…, ma molti promuovono
anche i saldi di fine stagione!
124
RELATIVITA’
Una leggenda metropolitana stupisce l’ascoltatore con
una teoria presentata quasi come legge di natura, non
comprovabile, secondo la quale chi ha la percezione
infallibile della sua morte sopraggiungente veda in pochi
secondi la storia della sua vita con tutti i suoi episodi
salienti di una certa importanza.
Il fascino di questa leggenda sta nel concetto di tempo
che si allunga od accorcia come un elastico per il
predestinato che ripercorre la sua vita; nell’obiettività della
realtà invece le lancette di un qualsiasi orologio scorrono
sempre come prima e come per chiunque: cinque secondi
sono sempre cinque secondi….due minuti sempre due
minuti.
La futura salma, si dice, ha modo invece di ripercorrere
in un suo mondo temporale soggettivo le tappe che sono
risultate più significative ad un sommario e velocissimo
bilancio estremo e una zona di cervello, presumo associata
a una sorta di condizione di abbandono R.E.M., va a
rivangare situazioni e storie di anni trascorsi mentre alcuni
neuroni o enzimi trasformano decenni di vita in raffinati
ricordi con il loro seguito di sensazioni di soddisfazione o
rimpianto o rimorso.
Immagino quindi che, prendendo illogicamente per
valida questa storia, alcuni avranno attimi di realtà
soggettiva lunghi come ore ed ore di percorsi di itinerari di
memoria quasi abbandonati e di colpo vividi come presente.
Il volo del grigio X. con la sua automobile grigia a
concludere la sua grigia vita oltre il guarde-rail dell’
altissimo viadotto Torino-Savona all’altezza di un paese
chiamato Carrù durò veramente poco, sotto tutti i punti di
vista…
125
CRONACHE CITTADINE SULL’ARGOMENTO ASCENSORE
Può far sorridere, lo so: secondo alcuni manuali di
sopravvivenza, l’unico metodo per avere un cinquanta per
cento di probabilità di salvarsi imprigionati dentro un
ascensore che sta crollando al suolo è quello di saltare in
continuazione sperando di arrivare all’impatto con il corpo a
mezz’aria.
Conosco due storie al riguardo.
X.
stava
scendendo
con
l’ascensore
dal
quarantatreesimo piano di un centro bancario di Chicago.
L’ascensore scarrucolò con un cavo e con il suo peso
recise gli altri cavi di trascinamento e precipitò velocemente
con uno stridore di lamiere verso terra.
X. conosceva la regola di sopravvivenza per la
situazione-ascensore e, pregando speranzoso, cominciò a
saltare nell’abitacolo: a quattro piani dall’impatto con terra
sfondò il pavimento dell’ascensore.
X. pesava centocinquantotto chili e in tre piani
rimpianse molto velocemente la pigrizia nell’affrontare
qualsiasi dieta.
Con un certo umorismo macabro si può dire: meno male
che da vivo aveva richiesto la cremazione per la sua morte
perché di lui si ritrovò una macedonia di organi indistinti.
Y., invece, stava salendo verso l’ultimo piano, il
settantottesimo,
di un grattacielo di Sacramento, per
espletare alcune pratiche in un ufficio assicurativo.
Era in ascensore con H., una graziosa ragazza con due
occhi da furbetta.
Sentirono un rumore sinistro di lamiere accartocciate
verso il cinquantesimo piano e si guardarono negli occhi con
terrore, mentre si sentivano leggeri, per legge fisica,
nell’abitacolo che cominciava a sprofondare all’impazzata
verso terra.
Y. conosceva la famosa regola di sopravvivenza e saltò
invitando anche la ragazza a fare lo stesso.
126
Sfortunatamente Y. era alto due metri e dodici
centimetri e il suo salto fu solo un tentativo.
Ebbe la presenza di spirito, però, di prendere in braccio
la ragazza, che era alta solo un metro e cinquantuno, e la
tenne tra le braccia fino a terra tremando come una foglia.
La ragazza ricorda ancora oggi il suo sguardo triste e
rassegnato e la sua disintegrazione addosso a lei, e prega
ancora per lui.
Il sindaco della città lo ha decorato alla memoria per
valor civile.
Anche l’ingegnere progettista dei due ascensori sta
saltando...
…da un aereo all’altro, nel mondo, per far perdere le
proprie tracce.
127
PARTITE DI CACCIA
E’ sera.
Ritorno a casa a passo spedito.
Penso che sono già cinquanta anni che vige il Nuovo
Sistema di SSD: Sistematica Soluzione Demografica.
Corro con la memoria a parecchi anni fa, quando
l’umanità riuscì a superare barriere e ostacoli nazionalisti
con un unico governo planetario improntato sulla nuova
filosofia pragmatico-decisionista che ci permette ancora
oggi, unica e sola, di continuare a vivere.
Saggi internazionali esaminarono le primarie necessità
del pianeta sovrappopolato e individuarono una soluzione
atta alla rimozione del problema.
E risolsero anche un altro annoso fastidio: quello della
violenza.
Nel duemilacentoventidue la terra contava ventisette
miliardi di persone sparse in ogni angolo abitabile possibile.
Oltre al principale problema di sovrappopolazione
rifulgeva anche il preoccupante fenomeno di violenza,
sempre più incontrollabile e pericolosa per la stabilità di
governo di qualsiasi comunità.
Il vecchio esperimento dell’aumentare il numero di
topolini in gabbia per misurare l’aggressività si stava
realizzando in campo umano molto più crudelmente.
I Saggi presero i classici due piccioni con una fava e
cominciarono coi vecchi al di sopra dei settanta anni.
Emisero un decreto planetario per cui ogni lunedì della
settimana chiunque poteva avere il diritto di sopprimere un
vecchio di età superiore ai settanta anni inglobandone,
come incentivo, le sue proprietà, con il solo obbligo di
rispettare rigorosamente il tempo assegnato delle
ventiquattro ore.
Calò in poco tempo il divario grafico riguardante il
rapporto natalità-mortalità.
E calò anche, sorprendentemente, la violenza esplicata
in microcriminalità megaurbana.
Fu allora istituito il martedì del disabile, con successivi
tangibili miglioramenti.
128
Si perseverò con l’introduzione del mercoledì in
alternanza che riguardò contadini, operai, impiegati e
dirigenti.
Infine fu istituito il “turn over”, valido tuttora, per cui
ogni ventiquattro ore, a rotazione programmata con
ammirevole imparzialità, il tipo più impensabile di categoria
è sotto mirino per una giornata, con diritto di difesa solo
passiva, cioè il nascondersi o barricarsi in casa.
Sonde mentali e intercops satellitari muniti di
telecamere sorvegliano l’ordinato svolgimento della partita
di caccia.
A sera passano i furgoni di raccoglimento salme.
L’umanità, oltre che trovare spazi vitali più grandi e
accoglienti dove vivere in pacifica ordinata produttività, si
sfoga ordinatamente, come da regole di sistema, nella sua
insopprimibile voglia di violenza.
Chi sgarra, non rispettando il calendario venatorio, è
giustiziato senza processo sul posto, ma sono casi rarissimi:
del resto ognuno di noi avrà un’occasione nell’ambito delle
rotazioni delle partite di caccia.
E adesso scusate se chiudo qui l’argomento, ma tra
poco più di un’ora si apre la caccia al gobbo: io ho una
malformazione congenita e devo affrettarmi a chiudere con
cinquantadue serrature la mia porta blindata per le mie
ventiquattro ore di purgatorio.
Spero di sfangarla: la prossima campagna contro i gobbi
dovrebbe ripresentarsi fra otto anni circa.
Anche se ho una certa inquietudine al pensiero che tra
quarantotto giorni ci sarà la caccia al ragioniere...
129
PAPPARDELLE ALLA GIORNALISTA
(ricetta di gastronomia multimediale)
Sbattete un mostro in prima pagina in una pirofila
molto capiente, ben disossato e mondato di tutte le
attenuanti generiche e alibi, insieme a dettagliate
ricostruzioni dell’antefatto e a interviste a piacere che si
perdano fino ai cugini della portiera o del carrozziere della
vittima o del mostro.
Insaporite l’intingolo con uno schizzo di parere dello
psicologo (Crepet è di marca) e salate coll’opinione del
criminologo e una chiosa di Ferrara e Lerner.
Aggiungete a metà cottura una o due puntate di Primo
Piano, Porta a Porta o MaurizioCostanzoshow: se volete la
pietanza più leggera sarà vostra cura spruzzare solamente
un intervento di Cucuzza.
Se desiderate un gusto piccante, molto piccante, sarà
vostra cura tritare finemente qualche esternazione dell’Avv.
Taormina.
Nel frattempo cuocete al dente (di squalo) le lunghe
pappardelle di opinionista alla Guzzanti padre, Gervasio,
Sgarbi o Santoro e scolatele in una zuppiera
precedentemente unta di sondaggi doxa.
Assaggiate la giusta salatura del sugo di mostro con
l’indice auditel e amalgamate il sugo stesso, molto corposo e
fluido, con le pappardelle, rimestando nel torbido con una
mestolata di politica di sinistra e di destra ed elzeviri vari.
Aggiungete delle erbette verdi padane e servite ben
caldo per almeno una settimana come primo piatto
informativo, fino a che sussista l’interesse del pubblico o
non avvenga un terremoto in Asia minore a scalzare la
priorità dell’attenzione, con apposito corredo di vaschetta
vomitoria.
Coefficiente di difficoltà: minimo. E’ facilissimo creare
mostri.
Tempo di realizzazione: dipende dallo share, se si
cucina in televisione, o dalla tiratura del giornale, se si
cucina a mezzo stampa.
130
Si consiglia di accompagnare la portata con un vino
frizzante di polemica, leggermente acetato di retrogusto per
velenosi commenti, facendo sparire il tappo che, se
presente, direbbe che è tutta colpa dei comunisti.
131
MISTERO DELLA FEDE
Nel duemilaventinove la Chiesa Apostolica Romana
conobbe il suo periodo peggiore nell’ambito della crisi di
vocazioni e soprattutto nell’ambito del consenso dei suoi
fedeli, sempre più tiepidi o addirittura latitanti dai luoghi di
culto e da ogni manifestazione liturgica.
Sua Santità lesse sgomento i rapporti delle Diocesi e
volle accertamenti più approfonditi e capillari fino alle più
lontane parrocchie sperdute: rimase atterrito di fronte a
dati ed analisi della ricerca che erano ancor più pessimistici
di quelli edulcorati dai Vescovi.
Istituì dunque una Commissione di Studio composta da
alcuni cardinali tra i più saggi ed equilibrati e delegò il
Segretario Apostolico a studiare insieme alla Commissione il
problema per trovare una soluzione atta ad invertire il
volano dell’allontanamento dalla fede cattolica.
La Commissione dopo attente verifiche e riflessioni
giudicò il problema come un discorso di immagine
appannata nel turbinio planetario di novità incalzanti quasi
quotidianamente e venne quindi deliberato di affrontare il
problema con la collaborazione di professionisti validi del
campo pubblicitario e di trattazione dei mass-media.
Venne ascoltato dopo qualche settimana il parere di un
insigne pubblicista che si espresse davanti alla
Commissione radunata in seduta plenaria.
“Eccellenze, come avrete avuto modo di approfondire
nello studio effettuato dalla mia agenzia, il problema è solo
ed esclusivamente di immagine che ormai è sclerotizzata e
statica a fronte di un estremo evolversi dinamico degli
accadimenti nel mondo.
Avrei elaborato con i miei collaboratori una planetaria
campagna pubblicitaria atta a risvegliare le coscienze sopite
dei fedeli: perdonate se parlo da pubblicitario, ma la fede,
oggi come oggi, è un bene da pubblicizzare per poi farlo
acquisire, come tante altre cose, e comunque il fine
giustificherà sicuramente il mezzo anche se vi potrà
sembrare poco ortodosso.
132
Avremmo studiato una campagna pubblicitaria volta a
invogliare la frequentazione dei luoghi di culto, delle chiese,
e delle manifestazioni che vi si celebrano, le messe. Si
dovrebbe tappezzare il pianeta di immensi tabelloni in una
campagna graduale: per la prima settimana solo punti
interrogativi immensi e il solo simbolo delle chiavi di Pietro,
tutto molto neutro e misterioso per attirare l’attenzione di
chi guarda e creare un’aspettativa; alla seconda settimana
l’aggiunta di un messaggio semplice e diretto, “TI
INTERESSA?”, volutamente vago e onnicomprensivo con
accanto una croce sobria ed elegante come grafica per
innescare un meccanismo di curiosità sempre più fungente
da detonatore; poi chiarire il senso della campagna alla
terza settimana, stavolta con un capillare volantinaggio, con
un messaggio trasudante complicità, di questo tenore:
“Fratello, sappiamo che manchi dal nostro ovile da molto
tempo per noia, pigrizia, disaffezione, ma noi possiamo
accendere la tua fantasia e ridonarti un interesse nuovo
nella vita: la Chiesa Apopstolica Romana offre sé stessa!!!
Ad ogni milionesimo fedele che varcherà la soglia di una
chiesa passando dal rilevatore automatico a infrarossi,
all’unico ogni milione di fedeli, il Santo Padre in persona
comunicherà il terzo segreto della Madonna di Fatima...
Pensaci fratello...Un’occasione irripetibile!”
Il pubblicista fece una pausa ad effetto e sollevò lo
sguardo ansioso verso la Commissione a sollecitare un
cenno di benevola accettazione del suo lavoro.
Il silenzio fu immenso e gelido.
Uno dei più vecchi porporati scoppiò in un pianto a
dirotto mentre qualcun altro si diresse verso l’uscita della
sala senza voltarsi indietro, a capo chino e malfermo sulle
gambe.
133
SANTA MESSA
Proporrei un qualcosa di diverso, più dettagliato, per
un’ottica insolita nel seguire una santa messa: mani.
Nel vago odore di incenso e di gigli candidi, festosi e nel
contempo funebri per mie associazioni liberty, nel rumore
confuso di scalpiccii sul marmo freddo, di panche scostate o
avvicinate, di salmodianti cori tremuli, di bisbigli sommessi,
guardo due mani.
Sono diafane, ossute e nodose, callose di tanti ripetuti
lavori casalinghi, maculate da eccessi epatici e solcate da
vene azzurrine che risaltano come cavetti elettrici nel
pallore di una carne disidratata.
Sono giunte, in preghiera, e stringono un piccolo
serpentello di grani fosforescenti, un rosario, per
combattere la tentazione quotidiana del serpente raffigurato
nell’onesto artigianale gruppo scultoreo vicino all’altare di
destra, quello della Madonna, colorato a tinte smorzate e
rispettose, con una donna dal pio sguardo che schiaccia
spire nere e malevole.
Una voce male amplificata che si perde nell’eco delle
alte volte della chiesa celebra la vecchia liturgia
rimodernata con lingua viva e pregnanti significati attuali,
celebra la messa, e le mani segnano il corpo, aggiustano il
velo,
coprono
meglio
un’accollatura
cedente,
si
ricongiungono con gesti lenti e ieratici come quelli del
celebrante, si incatenano di nuovo a quel serpentello di
grani cui si appigliano in superstiziosa irragionevole
certezza.
La ritualità prevede momenti in ginocchio, in piedi,
seduti, e le mani fragili supportano un corpo stanco
puntellandosi all’inginocchiatoio, alla panca.
Sfogliano avide un messalino dal dorso nero con le
pagine tinte di rosso al bordo, seguono canti ed epistole e
arcaiche forme di comunicazione solidale.
La voce riecheggia nel brusio generale: “…E ora
scambiamoci il gesto della pace…”…
134
Le mani si volgono a destra decise, incontrano due
mani nere d’ebano con le unghie rosa scuro lunellate di
bianco, esitano, ma non possono ritrarsi, non stringono.
Si fanno ghermire passivamente dalle robuste mani
nere e ricadono inerti.
La funzione religiosa prosegue tra canti e invocazioni.
Le due mani si stanno strofinando con veloce
disinvoltura ingenua sul soprabito scuro per una pulizia da
un sudiciume che nemmeno l’acqua santa potrebbe lavare,
almeno per certa mentalità ignava che avrà la domenica
rovinata da un incubo di uomo nero che ha profanato una
prima classe con il biglietto di seconda senza nessun
controllore pronto a fermarlo.
La messa è finita, andate in pace…
135
PSYCHOSTORE
Entrò con aria furtiva e svelta nel negozio verdino di
neon.
Lo sciatto commesso, un evidente smanettone di
PlayStation a tempo perso, gli si fece incontro con un
sorriso cortese da caimano.
“Buon giorno. Vorrei farmi installare qualche software
comunicativo di gruppo un poco particolare, …non so se mi
capisce…”
Il commesso elencò indifferente e professionale:
“Chat, forum, seduzione diurna e notturna, cybersex?”
Rispose come un topo atterrito scoperto vicino al frigo:
“Sssssì, parli piano…”
“Stia tranquillo: questo è uno psychostore serio.
Ha in mente qualcosa di particolare, qualcosa del tipo
eroe duro e puro, oppure uomo grandinato da dubbi di
scelta sessuale, fanciullone autoironico che fa leva
sull’istinto materno?
E’ arrivato dell’ottimo materiale: parole purissime,
anche desuete, senza francesismi o tecnicismi informatici;
c’è anche un corredo di citazioni ogni cinque interventi, in
quattro lingue…
Abbiamo anche programmi classico-aulici: poesia ed
evocazione, m’intende?…”
Strizzò un occhio d’intesa da compagno di merende
dando di gomito.
Il
cliente
uggiolò
ipocritamente,
autocontrollato,
semierettile.
“Ascolti, mi hanno parlato di un programma nuovo:
‘Sexvortex’…
E’ buono? Facile da usare?”
“Signore mio, ma lei ha citato il massimo.
E’ il massimo della versatilità: ha in memoria oltre
seimila aforismi, mille battute a doppio senso, descrizioni
di tramonti dal milletrecento fino ad oggi, guide turistiche
delle più affascinanti città europee, asiatiche e
sudamericane, un archivio di venti giga di fantasticherie
136
erotiche e romantiche per varie situazioni seduttive e una
rubrica per scegliere un nick, un alias, uno pseudonimo.
Insomma: è simpatico e calamitante…
E’ il top dei top, anche se caro, ma ne vale la pena.
E’ usatissimo e finora nessuno si è mai lamentato”.
Rintuzzò con sussiego, quasi ringhiando.
“Non ne faccio una questione di prezzo.”
“Bene!
Quanto è capiente il suo brain-disk rispetto al suo
Q.I.?
Potremmo fare l’istallazione guidata nel giro di dieci
minuti, se vuole…”
Rispose diffidente e nello stesso tempo speranzoso.
“Ottanta giga…”
“Ahiahi, allora non se ne può fare nulla: richiede
centoventi giga.
Si potrebbe ovviare all’inconveniente, forse, con lo
Iomega zip per l’immaginazione…”
“Non ho immaginazione: non so cosa sia…”
Singhiozzò quasi strozzato, conscio di un immenso
limite, desideroso di apprendere, di possedere, di potere,
frustrato nella consapevolezza della sua pochezza.
“Mi dispiace, signore: allora non posso accontentarla.”
Il commesso rimpallò definitivamente come se stesse
scolpendo una pietra tombale, con un certo disprezzo
malcelato.
Lui uscì rassegnato dal negozio con il cervello farcito
di quella solita vecchia paccottiglia sex-macho-dos da
pochi megabit, a capo chino, condannato per sempre a
manipolare pacchetti preconfezionati masterizzati esterni,
sperando di reggere il bluff che era…
137
SERVEAQUALCOSABEGHELLI
E’ stato abbandonato, si spera non definitivamente, un
nuovo progetto tecnico della celeberrima ditta Beghelli,
quella del salvavita per le fughe di gas, per i corti circuiti,
per gli attacchi di cuore, e del salvavista per esposizioni
prolungate davanti a televisore e computer.
Il nuovo utile marchingegno, utile come tutti i fantasiosi
ritrovati tecnologici della ditta Beghelli, al servizio della
sicurezza e del benessere, era stato denominato
provvisoriamente:
“ScorgiilcioccolatinonellemutandeBeghelli”.
Consisteva in un sofisticato sensore microscopico
applicato all’interno di un costume da bagno ed era rivolto a
bagnanti della terza età che prendono il sole sulle assolate
spiagge italiane.
E’ noto che nella spensieratezza del lasciarsi andare,
soprattutto per persone di una certa età, si venga a creare
una forma di abbandono totale che va dalla piacevole
sensazione della carezza della brezza marina sul viso cotto
dal sole fino al rilassamento totale di tutti i muscoli del
corpo, compresi, a volte, anche quelli sfinterici.
Il progettista del comodo utile apparecchietto aveva
previsto, nell’ambito di un cedimento muscolare e nervoso
pubico-intestinale oltre la norma, avvertito con una diversa
pressione su un sensibilissimo sensore da parte della
massa adiposa, una segnalazione con una potente sirena ad
avvertire
l’anomalia
di
un
imminente
spiacevole
riempimento di slip.
Il commendator Beghelli ha bocciato il progetto facendo
notare la ridicolaggine imbarazzante della situazione presso
i bagni di un qualsiasi stabilimento di Rimini Centro o di
Follonica con una folla stimata in circa tremila bagnanti per
cento metri quadrati…
Il progettista, un subdolo carrierista pieno di ambizioni,
sta studiando a tempo perso, portandosi il lavoro a casa,
allarmi alternativi e sta sperimentando una pinza urticante
applicabile ad un gluteo, alquanto dolorosa, purtroppo,
oppure un auricolare collegato a sensibilissimi sensori nel
138
costume, diversi da quello di prima, che, all’occorrenza,
inneschino il messaggio preregistrato di una voce morbida
e suadente carica di toni comprensivi per il tardo senile
fruitore:
“Attenzione, attenzione, gentile cliente: lei sta per
evacuare…”
Oppure, commercialmente, meglio ancora:
“E’ veramente un peccato, gentile cliente: lei si è appena
defecato abbondantemente addosso…Ma c’è una novità per
Lei…La preghiamo gentilmente di utilizzare il nostro
innovativo, estetico e pratico PulisciletergaspalmateBeghelli,
da oggi in offerta speciale, grazie.”
Sono pronto a scommettere che è soltanto una
questione di tempo il lancio sul mercato dell’indispensabile
corredo, nell’attesa di tempi più maturi per il
perfezionamento e successivo battage pubblicitario dell’
ammennicolo
di
ultima
generazione
AspiratuttoadincastrosalvaodoreBeghelli.
139
BIANCO NATAL…
Vivo male.
O forse benissimo nella coerenza di altre ottiche: non so
neanche io.
Ho l’età giusta per un folto matassoso pelo sullo
stomaco, nell’ambito di una incipiente vecchiaia cinica e
disillusa; ho una discreta memoria e una buona capacità di
sintesi: sono orrendi pregi in occasioni come quella
ricorrente delle feste natalizie.
Ascolto persone festanti, tutti in coro con gaio
entusiasmo: “Facciamo il presepio. Facciamo l’albero.”
Per fare un presepio, perfezionista come sono in certe
cosette creative, mi ci vorrebbero otto mesi di preavviso e
un mutuo abbastanza generoso: mi piacciono i presepi in
stile napoletano con i pupazzi che si muovono, l’acqua che
scorre, le lucine dentro le case e nelle botteghe artigiane, la
perfezione iperrealista dei piccoli dettagli sviluppati in scala
con meticolosità pignola.
Mi accontenterò di ammirare qualche presepio da
competizione in qualche angolo caratteristico della mia
città.
Rimane quindi, per esclusione, a mio parere, più facile
allestire l’albero, almeno secondo miei criteri in cui
subentrano la discreta memoria e la capacità di sintesi oltre
al cinismo sparso a grappoli di cui parlavo prima.
Per l’abete: ho appena scritto una letterina a Gorgo W.
Bush, quello che sta rasando a zero Yellowstone con una
sana e lungimirante politica ambientale.
Ho chiesto un abete enorme da mettere in giardino,
tanto non dovrebbe essere un problema, ma mi accontento
anche di una sequoia: so come adornarla.
Ho le idee molto chiare.
Passiamo agli ornamenti.
Dal momento che si pensa in grande, con abete gigante
o sequoia millenario, sostituirei il filo argentato con
qualcosa di molto più visibile e resistente.
Penso a chilometri di filo spinato della linea di
demarcazione tra territori occupati e Palestina, ma può
140
andare bene anche qualche cavallo di frisia in occasione di
G-Otto vari sparsi nel mondo, oppure fili spinati sfusi
srotolati a spirali sinusoidi a difesa di qualche
manifestazione antigovernativa in Argentina, tra pentole e
coperchi lucidi di sano appetito.
Vedi?
Stiamo cominciando a dare una parvenza natalizia a
quest’alberone di Natale…
Attacchiamoci un po’ di palle, ora: basta chiedere in
Thailandia e in Asia in genere.
Esportano tutto a prezzi stracciati.
Tante palle di bambini buoni che lavorano in nero o che
trastullano vecchi flaccidi turisti bavosi.
Possiamo attaccarci anche i bambini, interi, appesi per
il collo, come tanti angioletti, piccini piccini e grandicelli già
pronti per una guerra civile con un kalashnikov più alto di
loro, e anche quelli smezzati o più leggeri per qualche
traffico d’organi o per un zampettamento su una mina
antiuomo.
Già che ci siamo, per una estetica asimmetria,
appendiamo anche persone grandi vere e proprie, adulti
insomma, sempre per il collo, magari come angeli più
importanti: ce n’è un quantitativo industriale tra
dissenzienti e ribelli e minoritari sparsi nel mondo.
Sarebbe carina una maggiore varietà, però, anche
cromatica e di fattura diversificata: qualche curdo
bastonato da sempre, un magnifico colore olivastro illividito
di violaceo, due o tre negretti di Alabama e qualche
sudafricano, qualche sovversivo birmano, qualche balordo
indio del Mato Grosso, molte donne, nigeriane da lapidare,
in chador, con il seno vizzo a sfamare voraci futuri virgulti
guerriglieri.
Mi raccomando: per rendere più allegro e brillante il
quadretto coreografico, butta qualche spruzzata di
brillantini sul sangue schizzato tra i rami dell’albero.
Una macchia porpora di colore brillantinato renderà
elegante l’alberone, come fosse una rigogliosa pianta di
stella di natale o un pungitopo con le bacche lucide.
Aggiungi anche qualche scoiattolino vivisezionato con la
nocciolina: fa tenerezza, insieme al cormorano petrolizzato e
141
al furetto duplicato dalla tagliola di frodo. Colla porporina
stanno benissimo anche cuccioli di foca, bianchi e legnati a
dovere per un ineguagliabile effetto neve: meglio dell’ovatta
e dello zucchero a velo.
Manca qualcosa?
Ma sì!
Le lucine intermittenti, come quelle variazioni di
tensione di corrente ogni volta che viene accesa una sedia
elettrica per cucinare arrosto qualche uomo, in genere nero
e cattivo, o meticcio e cattivo, o portoricano e cattivo…
Non mi chiedere di attivare una sedia elettrica in
salotto: non saprei chi metterci a sedere sopra, pur odiando
la portinaia e il vicino di casa del piano di sopra che
ciabatta alle due di notte sopra il mio cervello, e poi ho un
contratto da tre chilowatt, per appartamento…lascerei
senza luce l’intero condominio.
Possiamo attaccarci clandestinamente con un cavo
volante all’impiantino elettrico del dirimpettaio, quello che
ha una santabarbara di palle luminose intermittenti in
balcone. Fai solo attenzione a dove ha puntato i fuochi
d’artificio: l’inquilino precedente a me venne ricoverato
schidionato nel cervello da una lancia di Toro Seduto, gran
bel triccheballacche, che continuava a fischiare anche al
Pronto Soccorso.
Furono contenti i degenti contagiati da quell’aria di
festa: sette amputazioni di falangi assortite col sorriso sulle
labbra!
Tanto, se ci scoprono, paghiamo solamente un condono
ENEL tra quattro o cinque anni dilazionato nel tempo in
comode rate mensili non superiori al quinto di quel famoso
milione minimo…
Ecco!Vedi? Lo sapevo…
Manca il puntale…
Non possiamo far sfigurare questo po’ po’ di abetonesequoia con un puntale della mutua.
Ci vedrei bene un’ogiva, un’ogiva qualsiasi, a
discrezione, carbonchiosa, appestata, nervinica, atomica…
sporca o pulita… Un gigantesco snello suppostone con tanti
numeretti scritti a tinte dorate che luccichino di gioia
natalizia.
142
Prova ad immaginare la coreografia.
L’alberone guarnito di palle di bimbi, bimbi veri e adulti
verissimi, filo argentato di frisia, lucine intermittenti e un
bel tavolone per gli ospiti con tanti bei Martini coll’ogiva,
esplosivi per una serata indimenticabile: sì Martini e sì che
parti, soprattutto se ci aggiungi qualche pasticchino che
trovi sotto l’angolo di casa tua… non c’è ancora il discount
pasticchinico da te?
Qui c’è: abbiamo il poliziotto di quartiere…
Gloria gloria alla cicoria…
E poi, sotto l’albero, i regali, tanti regali impacchettati di
tanti colori vivaci, a coprire tutti gli ultimi morti ammazzati
e sepolti sotto l’albero dopo essere stati disciolti nell’acido.
Mi raccomando: regali istruttivi e non futili.
Cose che servono: articoli di pelletteria, per esempio,
come cinture…
Una bella cintura ripiena per il mio amico Mohamed di
Nablus: suo cugino gli ha rubato la sua ed è scomparso a
Tel Aviv, letteralmente scomparso, dentro un autobus
scolastico.
Qualche gioco istruttivo: quegli elettrodi con acido e
vaschetta per fare di una patata un orologio.
E’ una cosa curiosa, simpatica e originale, soprattutto
riciclabile su aerei di linea o in qualche ambasciata… senza
patata, però.
Qualche gioco del tipo: “Il piccolo prestigiatore Silvan”
con la polvere magica: la tocchi e muori istantaneamente
tra gli applausi scroscianti della piccola platea familiare.
Da regalare alla suocera.
Ricordati di mettere sotto l’albero le buste con le offerte
di beneficenza che ci fanno sentire più buoni.
Metti in bella mostra la ricevuta di ritorno del pacco che
hai mandato ai terremotati, con quelle paperelle salvagente
marinaro-estivo di plastica gialla che dovevi buttare, quegli
scarpini da calciatore numero 48, che vanno bene a te e a
un palmipede, quei pacchi di pasta che avevi comprato al
discount: hai notato subito che il fusillo non tiene la cottura
e si incolla tutto nel piatto, vero?,
E’ Natale, ragazzi: un minimo di entusiasmo, diamine.
Siamo tutti più buoni.
143
La guerra verrà rimandata a metà gennaio, dopo la
Befana, e il capitone non lo compriamo in Galizia, ma a
Chioggia che è appena un poco meglio.
Inviterò a casa mia qualche extracomunitario o qualche
barbone per fargli sentire il tepore familiare della famiglia
nella splendida cornice festaiola e nella commovente
occasione…
Spero che a fine serata contraccambi con gioia
facendomi sentire il suo tepore nel caminetto del salotto:
sono scarso a legna e non voglio importunare ancora una
volta Gorgo il texano…
Buon Natale.
144
FELICITA’ OBBLIGATORIA
Sera.
Via semideserta periferica del quartiere Nord.
Incrocia la figura di quel vecchio mogio ingobbito dal
passo pesante.
Pensa: un padre di famiglia abbandonato dai figli con la
minima
sociale…guarda
che
faccia
triste…qualche
problema prostatico…arretrati di affitto…tasche al verde…
Sfila con la mano guantata, repentinamente, una
pistola con silenziatore dalla capace tasca dell’impermeabile
nero ed esplode un colpo a bruciapelo in mezzo agli occhi
del vecchio.
Stunf. Ovattato e definitivo.
Un foro e due occhi grigi immobilizzati nella ultima
sorpresa separati da un sottile rivolo di sangue nero.
Un moto di reazione incontrollata, come una scossa al
chiodo di un mattatoio, e un veloce afflosciamento inerte
sull’asfalto umido di recenti piogge.
Si dilegua nel buio in un vago odore di umidità e
polvere da sparo.
Osservo: posso fare solo questo, immobilizzato come
sono su questa sedia a rotelle vicino alla finestra che volge
sulla via: mi sento come James Stewart nel film “La finestra
sul cortile” di Hitchcock: sono curioso quanto lui, per noia e
per non lasciare che si arrugginisca il cervello.
Osservo e concateno con fervida fantasia possibilista.
Sto notando, da qualche giorno a questa parte,
un’atmosfera strana nella via, nel quartiere, dalla finestra e
anche le poche volte che esco perché funziona l’ascensore.
Tutti allegri: gente che sorride, ride, ridacchia,
sghignazza più o meno rumorosamente.
La mia dirimpettaia di pianerottolo, vedova da sei mesi,
ha smesso il lutto. Si trucca come una ‘entraneuse’,
pesantemente bistrata, e gira con vestiti che deve aver
comprato in qualche boutique di lisergici: tutti capi
fosforescenti a tinte brillanti. Canterella in continuazione,
con una vocina appena tremante, una vecchia canzoncina
145
degli anni sessanta, “Perdono”, quella di Caterina Caselli,
come se fosse una preghiera continua, in perfetta letizia
perché ride sempre, anche se non con gli occhi, almeno
sempre. Gli occhi, a volte, tradiscono la sua vedovanza
inconsolabile.
Giacomo il barista del caffè sotto casa, quello in odore
di fallimento che si è messo nelle mani di un cravattaio a
strozzo, spazza la soglia del bar e fischietta sempre la stessa
aria, “My way” del vecchio Sinatra. Meno male che non
conosce le parole della canzone: non si potrebbe sopportare
uno stonato come lui.
Ogni tanto transita qualcuno che lui conosce o un
cliente e lui si sbraccia in plateali saluti allegri che
sembrano esagerate pantomime di Arlecchino servo di due
padroni.
Il vecchio Attilio, fino alla settimana scorsa dolorante
per i postumi di una lunga degenza in ospedale per un
brutto incidente, trascina con noncuranza la sua gamba
fessa e ride rumorosamente di ogni cosa con la sua signora
che sembra un corallo.
Sembra
un
corallo
perché
muta
espressione
improvvisamente ad ogni cambio di corrente, ritraendosi e
aprendosi a fiore, perché ride anche lei, sguaiata ed
evidente, ma a volte prende una faccia da topo timoroso e
diffidente e i suoi baffi menopausici tremano, ma è solo un
attimo e continua a sghignazzare.
Tutti ridono, tutti contenti, tutti fotografati in una
estemporanea emiparesi con occhi bui camuffati e la
mascella bloccata a evidenziare carie e ponti malfermi e
capsule d’oro rilucenti al sole.
Strano? No.
Basta leggere i giornali, qualche volta, e soprattutto la
cronaca nera cittadina.
Ecco il titolo:
Ancora introvabile il dispensatore della felice morte
Pattuglie di vigili e di Polizia sorvegliano giorno e notte il
quartiere nord della città nella speranza di acciuffare il
personaggio che impudentemente si definisce ‘benefattore
dell’umanità’. Si è riusciti a dare una spiegazione agli ultimi
146
dodici delitti apparentemente inspiegabili avvenuti negli
ultimi mesi in città presso il quartiere periferico nord.
L’assassino ha inviato un suo biglietto di sfida alle autorità
inquirenti.
“Non mi prenderete mai perché sono delegato per una
missione divina. Sono stato incaricato da Jesus di alleviare le
miserie dei miei simili e di porre fine alle sofferenze degli
uomini. Le anime che ho liberato erano anime di persone
sofferenti, dilaniate da tormenti e da dispiaceri e io, per
volere di Jesus, ho posto fine al loro dolore con una nuova
vita eterna di serenità. Non potrete fermarmi: Ho una
missione divina da compiere. Nessuno dovrà più soffrire.”
Le autorità invitano i cittadini ad una accorta prudenza
nel frequentare vie deserte e nell’uscire di sera quando il
serial killer ama colpire più frequentemente.
Gli psicologi consigliano un atteggiamento positivo che
sprizzi buonumore…
E’ illuminante quest’articoletto di giornale collocato in
maniera da non ingenerare allarmi di massa e nello stesso
tempo da attirare l’attenzione
per un più sano
comportamento atto a salvare la pelle.
E sono qui, vicino alla finestra, che osservo.
E tutti ridono e sembrano contenti.
Mi domando come si dovranno comportare dal
momento che il dispensatore di felicità abbia affinato le sue
conoscenze psicologiche e sia divenuto un più sofisticato
analizzatore di sintomi fisiognomici.
Immagino pensionati artritici sullo skateboard e
nonnine sui pattini a rotelle che andranno a fare la spesa
molto velocemente al mercato rionale pieno di musica e
palloncini come un Luna Park, con contadini burloni
nonostante recenti grandinate distruttive, tra inchini e
sorrisi e barzellette vecchie d’avanspettacolo, per poi
ritirarsi a piangere senza ritegno sui loro problemi nel buio
della loro stanzetta.
Insonorizzata...non si sa mai…
147
CALCI AGLI STINCHI DEGLI STORPI
Il gruppo di ragazzini si fermò tra le pezzature di neve
indurita all’argine del fiumiciattolo gelato, nella radura del
boschetto a ridosso dei casermoni di periferia.
Poco distante un vecchio canuto, seduto su un masso
tra gli alberelli scheletriti dall’inverno, singhiozzava con la
testa tra le mani.
Aveva un curioso abbigliamento costituito da una
giubba rossa e pantaloni rossi anch’essi. Era grassoccio,
con barba e capelli lunghi candidi.
Scuoteva il capo e le spalle in irrefrenabile pianto.
I ragazzini, incuriositi dalla scena non proprio serena, si
avvicinarono in silenzio con un crocchiare sommesso di
scarponcini sul terreno ghiacciato.
“Olà, nonno, serve qualcosa? Bisogno di aiuto?”
Il vecchio scoprì uno sguardo lacrimoso attraverso un
paio di occhialini e diede un’occhiata al gruppo che
presenziava al suo dolore.
“Ragazzi, ragazzi. Nessuno può aiutarmi. Tutto sta
cambiando e nessuno ha più rispetto per un vecchio che
tanto ha fatto per la gioventù arricchendola con sogni e
speranze.
Vedete: io sono Babbo Natale…”
Meraviglia incredula degli adolescenti: qualche risolino
nervoso e diversi ammiccamenti, qualche smorfia di intesa
ad indicare un vecchio pazzo, e una domanda con tono
ambiguo, tra il rispettoso e l’irriverente.
“Quello vero?
E perché piangi?
E le renne dove sono?”
Tirò su con il naso, il vecchio grassoccio, e si asciugò le
lacrime alla manica della giubba sospirando.
“Le renne le ho perdute, una ad una, strada facendo.
La prima in Uganda: pochi giorni fa, a sera, ci
addormentammo dopo un giro tra villaggi di capanne e
ospedali delle missioni. Venni svegliato all’alba dal rumore
di una danza tribale, frenetica, e da un odore curioso di
arrosto.
148
La seconda la perdetti in Tailandia.
Voi siete già grandicelli da poter comprendere certe
cose.
Parcheggiai la slitta nei pressi di un quartiere a luci
rosse di Bankok per portare qualche regalo alle bambine
ancora innocenti, che lavorano per la soddisfazione di certi
turisti, e quando uscii mi dissero che una renna mi era
stata requisita per allargare il giro delle scelte di
depravazione in offerta speciale.
Mi presero la Deborah, la renna più calda che avessi.
Poi persi altre tre renne in un colpo solo sul cielo
notturno di Bagdad.
Sembrava un fiore luminoso porpora di fuoco artificiale
per festeggiare il mio arrivo, ma tre miei animali presero
fuoco in volo: era la contraerea di qualche amico o nemico.
Altre due fecero la stessa fine nei pressi di Gaza:
razzi..., non natalizi.
Due renne di manto nero vennero fucilate, durante la
mia visita per portare regali ai bambini dell’Alabama, e
qualche colono mi consigliò minacciosamente renne albine.
L’ultima l’ho perduta strada facendo, qui dietro, per
infarto: tirava la carretta solo più lei, di otto che erano, ed
era già vecchia di suo e non aveva prospettive di pensione,
un poco come tutti oggi, del resto.
E’ morta di fatica e crepacuore.
E io ora sono qui, solo, con la slitta che si è inabissata
nel fiume con tutti i regali, e credo che per quest’anno sarò
ormai impossibilitato a portare avanti il mio lavoro. E non
me lo posso perdonare.”
I ragazzini rumoreggiarono scontenti.
“Vuoi dire che per Natale non farai il tuo solito giro per
tutte le case di qui? Che non hai più doni per noi?”
“Sì, ragazzi: vuol dire proprio questo.
E ho il cuore a pezzi: i bambini di qui non avranno
regali e non crederanno più a me e al Natale e attecchirà il
germoglio del dubbio e del sospetto che alimenterà una
futura cattiveria e insensibilità d’animo.
Per questo sto piangendo: non riesco a trovare una
soluzione…”
149
Un ragazzino storse la bocca e si rivolse al vecchio
guardandolo torvo e fissando anche i suoi amici.
“Cazzo, nonno, faccio quattordici anni tra una
settimana e avevo chiesto il Gilera ai miei genitori e mio
padre aveva acconsentito. Che bella fregatura che mi hai
dato…”
“Anche io avevo chiesto una mazza da baseball per
sostituire questa vecchia: che bella notizia, vecchio…”
“Ma ragazzi, ma voi siete quasi uomini: non dovreste
più credere a Babbo Natale e dovreste sapere che i regali
sono solo frutto di sacrifici dei vostri genitori…”
“Infatti lo sappiamo, vecchio, e stiamo pensando anche
che tu ci stia prendendo bene bene per il culo.
E non ci va.
Nessuno può permetterselo qui intorno: noi siamo la
banda del quartiere.
Ci è dovuto rispetto e timore.
Io dico che tu sei solamente un barbone ubriaco che si
veste come un pagliaccio, sei uno straniero che sfrutta
quelli che lavorano come un negro o un polacco di merda,
sei un estraneo che non è dei nostri, e ci hai raccontato una
serie di cazzate credendo di farci fessi, ma ti sei proprio
sbagliato e ora te ne accorgerai.”
E il ragazzo con la vecchia mazza da baseball, forse il
capo della piccola banda, colpì il vecchio alla spalla.
Come ad un segnale si attivarono anche gli altri.
Un altro sparò un calcio a mezza altezza del busto.
Un terzo lanciò una pietra.
Un quarto cercò febbrilmente intorno a sé un bastone
per colpire.
Il vecchio cadde raggomitolandosi su sé stesso nel fango
ghiacciato e si coprì il capo da una gragnola di calci e
bastonate, ma i ragazzi erano troppi.
Fu fioca la resistenza, passiva, a ripararsi da colpi di
violenza crescente che si fece più feroce e pressante, a fare
veramente male.
Il vecchio supplicò debolmente, sempre più debolmente.
I ragazzi colpirono selvaggiamente con ferocia.
Fu noia, forse, o la trasgressione di colpire impuniti
perché non visti da alcuno, la consapevolezza della
150
ribellione ad una istituzione consolidata, la rabbia per sogni
infranti, la semplice crudele crescita in un campo privo di
valori e sgombro di rispetto e regole, l’accomunarsi in un
feroce rito di iniziazione contro un nemico, proprio di una
piccola comunità.
Smisero quando il vecchio non si mosse più, confuso
nel suo sangue in quella giubba rossa.
Non ci fu bisogno di parlare oltre, di dire, giustificare,
spiegare.
Lo lanciarono nel fiumiciattolo e ritornarono al paese
ansanti e accaldati per lo sforzo di avere ucciso una parte di
Natale che forse in loro era già morto da tempo.
E festeggiarono indifferenti il loro Natale sul solito
muretto in piazza.
I bambini più piccoli, quelli che aspettavano regali che
non sarebbero più giunti, cominciarono a crescere.
151
CROLLO DI UN MITO
Ti sei sposato giovanissimo, intorno ai venti anni.
Eri bello come il sole, slanciato, con occhi rapinosi e un
bel sorriso, e la tua donna era incantevole, leggiadra e
luminosa.
La sorprendevi sempre con proposte originali: “andiamo
a prendere un caffè, dopo cena, al mare (duecento
chilometri) e poi torniamo a casa in tempo per una doccia e
per andare a lavoro”.
Lei ti adorava, ti guardava sognante mentre guidavi e
parlavi con voce calda ed avvolgente, e ti vegliava con rapita
devozione quando dormivi come un bambino, respirando
leggero.
Un giorno, che si potrebbe definire di confine, hai rotto
l’incantesimo.
Una provocazione, ma forse più facilmente una
distrazione, ti ha fatto abbassare la soglia d’attenzione circa
il saperti comportare con rispetto verso di te e, soprattutto,
verso di lei: hai emesso una flatulenza in sua presenza, una
puzzetta crepitante in maniera sfacciata e stizzosa.
Ti sei immediatamente scusato con disinvolta
noncuranza e il tuo sorriso da adorabile faccia da schiaffi.
Lei è rimasta sorpresa con gli occhi sgranati, interdetta,
poi ha sorriso, ma il danno era stato fatto.
Una notte ha voluto contraccambiare con un gesto
scherzoso per mettersi alla pari, forse in un concetto di
malintesa complicità, e ti ha spiaccicato una sua arietta
contro la tua coscia dentro il letto: grandi risate e tante
scuse, ma la crepa si è allargata come le crespelle dei vostri
buchi di culo, scusami la brutalità antipatica, e l’intimità si
è deteriorata in una confidenza sciatta.
Uno dei due, pochi mesi dopo, defecava tra sforzi e
lacrime, paonazzo, in presenza dell’altro che si lavava i denti
ridacchiando, e si sfaldava la considerazione reciproca in
una assenza sempre più totale di mistero e riservatezza
fascinosa.
Vi siete ritrovati dopo pochi anni, ma invece ne sono
trascorsi più di venti, sfatti e senza più un briciolo
152
d’intrigante imperscrutabilità, conosciuti e conoscibili in
tutta la vostra persona, e non vi siete fatti più una bella
impressione: ognuno se ne è andato per la sua strada con
un bagaglio di esperienza maggiore.
Ma tu sei sempre stato socievole e fiducioso ed eri
traboccante d’autostima.
Ti sei voluto rifare la vita.
Hai conosciuto una donna adeguata alla tua età più
matura e hai riannodato i fili del tuo fascino per
ricominciare, più ricco di vita vissuta, con la consapevolezza
di non volere più ripetere errori passati, erigendo muri di
attenzione per nuovi confini.
Stavolta sei stato soltanto sfortunato: la flatulenza ti è
scappata involontariamente, insieme con un ruttino, dopo
una cena abbondante, e sei rimasto profondamente
imbarazzato, anche perchè stavolta ne hai carpito l’odore.
Lei ha sorriso indulgente, come l’altra, e tutto si è
ripetuto come una volta con la differenza che, rispetto a
prima, ora russavi, avevi meno capelli, più pancetta e un
alito più pesante.
La storia è durata davvero poco, come, in genere, tutte
le cose già viste che non nascondono sorprese.
Sei arrivato, quindi, alla terza età, solo, ma hai
intelligentemente compreso che una casa di cura può dare
comodità e compagnia.
Hai cominciato a corteggiare, come un brillante
gentiluomo di vecchio stampo, quell’interessante infermiera
sui cinquantacinque, molto spiritosa, e ti sei ripromesso di
vigilare con estrema concentrazione sul tuo comportamento.
Ormai...
Avresti voluto morire quando la tua amorevole
assistente ti ha cambiato con asettico fare professionale il
pannolone pieno di putridi cioccolatini: eri una fogna, in
quanto a odore, e il tuo sorriso ingiallito e sdentato era
quanto di più laido potesse esistere.
Si sono sbriciolate per sempre le mura di Jerico di tuoi
confini sempre più angusti.
Ed è crollato, con loro, anche un mito.
153
COSA PUO’ ACCADERE IN STAZIONE MENTRE ASPETTI
LA MOGLIE
Te la devo proprio raccontare…
Binario uno: aspetto l’arrivo di mia moglie, defilato
rispetto alla calca del centro stazione perché odio troppa
folla intorno a me, e sono abbastanza vicino ai gabinetti
pubblici per ammazzare il tempo nell’attesa e divagarmi con
mie osservazioni sul traffico del posto olezzante certi aspetti
di varia umanità.
La mia attenzione è improvvisamente sollecitata in
stereofonia: ascolto urla lamentose indistinte provenienti
dalle latrine e, nel contempo, vedo sopraggiungere, con un
leggero ronzio perduto nel brusio del viavai, dall’altro capo
della stazione, l’ecologico carrozzino elettrico Lamborghini
(c’è poco da ridere, è proprio un Lamborghini) della Polizia
Ferroviaria con due agenti.
Il carrozzino blu con strisce bianche e la dicitura
POLIZIA suscita reazioni sorprendenti: il gabinetto si svuota
di tarantolati frettolosi che
schizzano verso altri lidi
velocemente assumendo fisionomie, per come possibile, di
passanti attoniti da Candid Camera. Tossici, spacciatori,
checchine tremule e maschioni fornitori di bassa macelleria
sembrano palline di flipper che scompaiono in qualche
buchetta per un ‘bonus’ di centomila punti.
Rimango lì, anzi, mi avvicino, forte del mio tesserino di
ex ferroviere: gioco in casa, sono curioso, conosco uno dei
due agenti, ho tempo.
Scende dalla similvolante ecologica un personaggio
conosciuto e temuto nella stazione, un maresciallo
corpulento come il Danny Aiello di “C’era una volta in
America”, con, in più, due baffoni da tricheco e una pancia
sicuramente molto più accennata, strozzata impietosamente
dal cinturone con la fondina e le manette.
La stessa aria tronfia di Aiello, o forse dello sceriffo
sputatabacco di uno zerozerosette, lo stesso caracollare da
bullaccio di sala biliardi…
Una strizzata d’occhio a me, che contraccambio con un
sorriso, ed un’occhiata a punto interrogativo verso il
154
custode della latrina, Alvaro, secco e grigio come una
‘mappina’, lo straccio per pulire i cessi, detto alla
napoletana, impersonificazione fisiognomica
da lunga
esperienza professionale, corrispondente quasi ad un
“nomen omen”: per essere perfetto si dovrebbe chiamare
Medardo, per qualche giochetto di parole.
Medardo, no scusa, Alvaro squittisce di fronte al
maresciallo ipertrofico con l’aria di un giovanissimo Peter
Lorre scavato e querulo.
Biascica un qualche resoconto e Tricheco annuisce e
sospira al cielo mentre il suo collega, il Pannunzio della
situazione
(Pannunzioooo,
chemminchiamicombini?),
ridacchia come può ridacchiare un sottoposto senza
capacità decisionale.
I lamenti, dentro, continuano come litanie, pianto
singhiozzante, evocativo un’andatura di cammello ubriaco
tra le dune, imprecazioni in misti idiomi con odori a
vampate di tabacco, curry e naturale retrogusto
escrementizio: vedrai, siamo in un cesso di stazione che è
stato ripulito circa sei ore fa…
Seguo come un’ombra, complice e discreto, Trick che si
appoggia alla porta chiusa di una latrina, atta per buchi di
pere, esperienze ludico-amatorie trasgressive e bisogni
grossi.
“C’è qualche problema lì dentro?”
Cala un breve silenzio, poi nuova puntata della
geremiade, più forte e appassionata di prima.
Esplode l’urlo belluino dell’autorità.
Il maresciallo sembra l’allenatore Carletto Mazzone
sotto di tre goal a zero o, tanto forse non conosci neanche
lui, Romolo al banco di frutta e verdura al mercato di Piazza
Vittorio:
“Ahò, stai muto: spiega che ascolto. Ah, già che ci sei,
apri che ascolto e ti vedo. Magari ti chiedo l’autografo o ti dò
un bacino…
Che succede?”
Tra i singhiozzi, una voce con un timbro particolare,
familiare e sconosciuto insieme, si fa strada faticosamente,
flebile e genuinamente straziante.
155
“Ho paura. Sono in piena crisi di panico. Non ce la
faccio più”.
Ricomincia a tracimare in ululati che si confondono con
la scarica automatica degli sciacquoni.
Trick mi guarda e sospira. Io ammicco e predispongo lo
sguardo a tifoso appassionato e solidale.
Il maresciallo ha intuito che dietro la porta c’è qualcuno
strano, che parla bene l’italiano, ma non perfettamente: o
straniero, o appena dislessico.
“Dai apri, c’è la Polizia che ti protegge: “La polizia al
servizio del cittadino”, “Stiamo lavorando per te”, “La polizia
sta per incazzarsi”…
Paura di che? Di dove sei? Straniero, vero?”
La vocina, che sembra quella del nano Pigolo di
Biancaneve - esiste? -, si compone appena un poco.
“Sono italiano con tutti i diritti…”
Lo dice con un accento vagamente piccato e se ne
accorge anche Sherlock Sheriff.
“Ma vaaaaa, prova a dire un poco “li mortaccci tua”…
Vocina piagnucolosa da dietro la porta, nella valle
dell’eco del cesso vuoto:
“Li mortaci tua…”
‘Lesson number one’ di fonetica italiotaromanesca:
“Lo vedi? Non sei italiano: ci vanno tre ‘c’ nelli mortaccci
tua e tu ne hai messa solo una e non hai strascicato le ‘t’ de
li mortaccci e dei tua…”
“Senti fratello: ho paura.
Credo che mi impiccherò tra poco qui dentro.
Lasciami stare.”
Trick sa che il suicidio è pur sempre un reato (vietato
ammazzarsi) e ha una metamorfosi a metà tra Bogart che
deve convincere qualcuno fumando interminabili sigarette
con le pupille e Clooney col camice verde di chirurgo: si
allarma un poco e accarezza l’idea di prendere a spallate la
porta di compensato graffita di numeri di cellulari e cetrioli
stilizzati di ogni grandezza e stile di corrente pittorica.
“Calmo eh? Dai, sfogati…”
Pigolo esonda inarrestabile: parole come fango e liquami
cloacali in zona franosa, (scusami, ma siamo sempre in
tema).
156
Quasi urla il suo sfogo tra i singhiozzi.
“Non vivo più.
Per strada ho l’impressione di essere guardato come un
prosciutto, come una mortadella appetitosa.
Sono sguardi che ti pesano il portafoglio e che verificano
l’efficacia delle tue chiavi di casa o che ti sondano la
profondità del fondo dei pantaloni per intuire quanto puoi
essere ospitale.
Sguardi come coltelli.
Ho paura di troppe persone, di troppe facce.
Cammino rasente il muro e ascolto ‘slob, slib, slab’:
slavi dappertutto, non puoi sbagliarti neanche se stanno
zitti.
Sono inconfondibili con quegli occhi di ghiaccio e quei
denti guasti.
Ancora ‘slib, slob, slab’, e ti guardano e parlano tra loro
e ridono e qualcuno si tocca il pantalone piattoloso e non so
se mi vuole aprire come una mela con l’uccello o con un
coltello.
E poi ancora, più in là: ‘akkrhamel, shal acchrr’, e altra
angoscia con facce cariche di odio e diffidenza, barbe
lunghe e sudice, odori di sabbia e di spezie strane.
Cammino qui intorno e vedo soltanto insegne arabe e
sento parlare solo arabo e ho paura di questi marocchini
che tra loro si trovano e si baciano tre o quattro volte e
quando passi tu neanche si spostano e sembra che
aspettino soltanto di essere urtati per sgozzarti.
Hanno un linguaggio ruvido, aspro, quasi minaccioso, e
urlano sempre e non sai mai se possano avercela anche con
te.
E penso alle torri…
Poi ci sono ancora i ‘japu’, quei musetti gialli gentili, i
giapponesi, chissà poi perché giapponesi e non
giapponardi…
Gentili e compiti, educati e rispettosi…ridono sempre,
ma io non ci casco e ho paura anche di loro.
Sono troppi: se s’incazzano ti si mangiano crudo come
un sushi.
157
Hanno troppa dimestichezza con le lame, le lamette, i
rasoi, troppo fanatismo…banzai, kamikaze, oriente rosso,
Toshiro Mifune, kooto…
Vaffanculo pure ai japu: odio i japu e i marocchini e gli
albanesi…
Non ce la faccio più. Che aiuto puoi darmi, poliziotto?”
Trick Aiello sta facendo la colletta mentale di tutto
quello che può ricordarsi di avere appreso al corso dei
sottufficiali circa la psicologia dei rapporti pubblici nei cessi
pubblici e sta aggrottando la fronte in un’espressione che
sarebbe fonte di disperazione per Darwin.
Io guardo la situazione con disincanto e con tempo
libero davanti a me, senza prendere posizioni, come fossi
quello de “Il cittadino ringrazia la Polizia”, ma questo Enrico
Maria Salerno, o Merli, non ricordo bene, è molto più grasso
ed io mi accontento perché non ho pagato il biglietto
dell’Universal.
“Senti: ascoltami bene. Ora esci da lì e andiamo a fare
un giretto insieme fino al bar.
Ti offro un bel fernet, un caffè, quello che vuoi.
Tu ti sfoghi ancora un bel po’ mentre aspettiamo l’arrivo
degli infermieri dell’ambulatorio di stazione.
Ti danno qualcosa da prendere e vedrai che passa tutto.
D’accordo?”
Ghigno tra me: caspita!
Wanna Marchi con l’ipertricosi… un corso di psicologia
pressoché fallimentare.
Eppure…
I singhiozzi cessano nel cesso, scusa il gioco di parole, e
un silenzio di riflessione aleggia pesante come il solito quasi
solido persistente odore di concimaia senza viole tra le
mattonelle bianche e istoriate.
Poi un fruscio dall’altra parte della porta, come se
qualcuno si stia ricomponendo, immagino, ed un cigolio
della porta che sfinisce per quanto è lento e timido.
Tieniti forte: il bello arriva adesso…
Ci sei?
Non ci crederai: mi piacerebbe vedere la tua faccia
adesso…
158
Esce un moretto, un cioccolatino, un uomo di colore,
un negro insomma…
Hai capito?
Ben vestito, educato, gentile, pulito…e nero, come la
pece…
Trick rimane di sasso e pure io cambio il peso specifico
in struttura pietrosa.
Pannunzioclone è un subumano.
La favola finisce bene, forse, o male: non lo so.
Ha una morale? Ne è priva?
Ti ho solo raccontato quello che mi è successo mentre
aspettavo mia moglie in stazione: non sono mica un
opinionista sui costumi della società…
159
WORK IN PROGRESS
Si protese verso me con aria avida da Gatto Silvestro e
voce untuosa.
“Mi dica delle sue precedenti esperienze di lavoro…
Parli liberamente, a suo agio, si rilassi…”
Fronteggiai il suo sorriso di caimano, impassibile, e
snocciolai le mie referenze assumendo un’espressione il più
possibile professionale di uomo di mondo.
“Ho cominciato come ‘capo claque’ funebre, assunto
dall’impresa “Morircongioia” di mister Freddy Erigidi.
Organizzavo battimani pubblici davanti alle chiese di
paese per il capomafia luparato, ‘standing ovations’ per i
giovani carbonizzati nel rientrare a casa da una discoteca,
ole irresistibili e sincronizzate per politici o eroi civili caduti
nell’adempimento del proprio dovere.
Ho sempre avuto capacità organizzative e carisma:
divenni in poco tempo ricercatissimo.
Frotte di genitori al seguito di piccoli feretri bianchi si
disputavano il mio servizio che godeva fama ineguagliabile
soprattutto per funerali prepuberi: mi soprannominarono,
per un certo periodo, Benetton zerododici.
In effetti riuscivo a creare un originalissimo impasto di
applauso fitto e allo stesso tempo sommesso e commosso
per anime innocenti: i parenti vicini e lontani al seguito del
corteo funebre rimanevano attoniti per la reazione
composta, ma partecipe, delle ali di folla aperte sulla
processione…”
“Come mai smise con questa attività così gratificante?”
Era davvero interessato ora, e aveva un luccichio agli
occhi di speranza e attese.
“Mi resi conto di essere, mi perdoni l’immodestia, troppo
bravo, a tal punto da non riuscire più a governare le
reazioni della folla da me istradata verso una classica
manifestazione di solidale dolore.
Innescavo la miccia con un battimani deciso, ma
educato, e volgevo il capo, eretto e marziale, all’intorno in
cerca di proseliti.
160
Lo sguardo mesto completava l’opera e circuiva i
presenti in una reazione a catena che si trasmetteva a tutta
la piazza o tutta la cattedrale o il corso del paese o il
piazzale dell’obitorio.
Irrefrenabile.
E soprattutto contagioso.
Decisi di smettere il giorno che anche due parenti di un
giovane adolescente defunto furono coinvolti, troppo stupidi
loro o troppo bravo io...
Recavano a spalla, insieme ad altri quattro, la pesante
bara zincata del virgulto prematuramente dipartito, e
mollarono la presa per pochi istanti per unirsi all’applauso
frenetico della folla commossa.
Il feretro ondeggiò squilibrato e si rovesciò sull’asfalto
aprendosi come un uovo pasquale con sorpresa.
L’applauso degenerò in urla di raccapriccio e mi creò il
tipico caso di coscienza che prevede decisioni drastiche da
prendere e in poco tempo.
Infatti mi defilai velocemente mimetizzandomi tra la
gente per sfuggire alle ire di un padre affranto e di quattro
energumeni zii che scrutavano nel caos di fedeli addolorati
e sorpresi per avere spiegazioni circa le mie esagerate
capacità persuasive ad applaudire…”
Ebbe un ghigno ingordo.
“Capisco, capisco.
Cosa intraprese, poi, dopo questa attività?”
Proseguii impavido, forte della sua espressione ancora
più interessata.
“Mi realizzai come eutanasista, con un duro lavoro
porta a porta, senza appuntamenti, come un qualsiasi
rappresentante di enciclopedie o del Folletto o dei prodotti
Avon.
Mi presi, comunque, meriti, gratifiche e soddisfazioni…”
“Si spieghi meglio e mi dettagli maggiormente: lei si sta
avvicinando molto alle attese della nostra politica
aziendale…”
Si era sbilanciato come un travestito in privato ad uno
spettacolo di spogliarello dei Dream Men: l’avevo in pugno.
Particolareggiai con foga e passione.
161
“Pianificavo meticolosamente il lavoro a tavolino e
interpellavo parroci di parrocchie, portiere di stabili
decadenti, infermiere rimorchiate in sala da ballo alla
domenica pomeriggio.
Predisponevo un itinerario ottimale e mi presentavo
inaspettato all’uscio dei miei potenziali clienti.
Ero sobrio, ma elegante, con la mia valigetta di prodotti
e con un buon discorso di presentazione che era stato da
me studiato per catturare l’attenzione dell’ascoltatore fin
dalle prime battute.
Mi presentavo a volte come angelo della morte, altre
volte come liberatore, spesso come irrinunciabile complice
della causa.
Esaltavo la difficoltà del mio cliente nel tirare avanti con
il macigno di un vegetale in casa, in coma o quasi.
Oppure solidarizzavo enfaticamente per un vecchio
disabile costoso da mutuo a strozzo, incosciente come una
carcassa
di
sambernardo,
o
coscientissimo
e
monopolizzatore del televisore, colitico all’ultimo stadio di
flatulenza, quella vestita, petulante e prepotente, lamentoso
alle due di notte.
Lo blandivo con passione e riuscivo ad entrare in
sintonia con lui come un compagno di merende.
Poi buttavo là con decisione lieve le mie soluzioni:
succhi di frutta al cianuro, rapidissimi, pressoché
istantanei, flebo alla candeggina, dolorose, ma infallibili,
soprattutto per suocere o consorti al capolinea di un
rapporto travagliato e rancoroso.
Proponevo, inoltre, cannule o tubi respiratori intasati o
anche interventi diretti con mano d’opera specializzata, la
mia, in diretta con colpo di karate alla carotide o massaggio
sconocchiacollo da dietro.
Illustravo infine il metodo dell’applicazione di un
sacchetto del supermercato sulla testa coadiuvato da
cuscino pressato per ammorbidire la dipartita.
Gli affari andarono benino fino a che non dovetti
repentinamente cambiare attività con un esilio forzoso in
Costa Rica.
Una vecchissima suocera, baffuta come un tricheco e
con la sua stessa alitosi, grifagna e odiosa, riuscì a
162
sopravvivere ad un mega clistere da cavallo all’olio di ricino
e mastro lindo bagno.
Inondò l’appartamento di liquami disgustosi con
bollicine anticalcare starnazzando come un’oca che la si
voleva uccidere.
Uccidere! Mi capisce?
Una caritatevole eutanasia spacciata per un bieco
omicidio…
Il genero s’impaurì e cercò di sottrarsi alle sue
responsabilità: cominciò ad urlare anche lui che era stato
soggiogato a tradimento dalla mia dialettica.
In realtà il bastardo non aveva ancora pagato ed
esercitò uno scorretto diritto alla recessione del contratto.
Sparii per quattro anni sbarcando il lunario come
sabotatore di pescherecci per turisti in Costa Rica, nel ramo
di banali questioni assicurative, un lavoro di bassa
manovalanza senza gratificazioni intellettuali.
Ed ora eccomi qui, sperando che lei possa offrirmi
qualcosa di interessante e che io possa fare al caso suo…”
Fui sincero, onesto, senza fronzoli, immediato.
Mi guardò con ammirazione, coccolandomi con un
sorriso, come può mamma faina.
“Bene, bene: lei mi sembra proprio la persona adatta
per quello che ho da proporle.
Un lavoro che potremmo definire ‘double-face’, buono
per ogni razza di cliente, senza una collocazione rigida di
quello che può essere il ruolo della vittima o del
commissionario.
Le interessa un’attività da killer sociale multietnico?”
Me la sparò a bruciapelo: traboccai di intima gioia, ma
rimasi impassibile e finsi un’aria da innocente ignorantello.
“Cosa fa di preciso un killer sociale multietnico?”
Fu benevolo e prodigo di particolari.
“Le faccio un esempio.
Si rivolge a noi un rumeno che in patria era muratore.
E’ senza permesso di soggiorno.
Ha fame.
Ha volontà di lavorare.
Ha interpellato diversi capomastri.
163
Uno di questi è stato possibilista, ma i posti sono al
completo, occupati quasi tutti da nostri compatrioti che,
però, perdono tempo con caffè, barzellette, e ogni tanto
rompono le scatole con qualche infortunio, qualche bega
sindacale, qualche causa civile per ottenere arretrati.
Lei mi capisce: uno schifo ingestibile.
Ecco, allora che entriamo in ballo noi: lei per l’esattezza.
Con l’avallo del capomastro reso complice con un’oliata,
dopo sostanzioso anticipo del rumeno nostro cliente, lei
visita il cantiere come architetto o ispettore del lavoro e con
la sua collaudata professionalità mi precipita un muratore,
possibilmente quello con il bersaglio di carta apposto dietro
la schiena come un pesce d’aprile, dall’ultimo piano del
palazzo in costruzione.
Sono stato chiaro?”
Adesso luccicavano i miei occhi, ma la professionalità
ebbe il sopravvento.
“E l’altra faccia della medaglia? Il double-face di cui
accennava circa il multietnico?”
“Le sottopongo un nuovo esempio.
In una valle sperduta, un montagnino nostrano, padre
di famiglia, deve sistemare il figliolo, quindicesimo di una
bella covata, nel mondo del lavoro.
Il giovane parte con qualche svantaggio.
E’ alcolizzato cronico, fradicio di grappa e genepin,
nonostante i suoi diciannove anni.
Non sa fare altro che mungere vacche come proiezione
estrema del suo onanismo praticato a ritmi frenetici
mani…acali… Ahahah…
E’ in uno stato pietoso come fisico ed espressione: un
relitto appena maggiorenne.
La piazza principale del centro urbano più vicino è data
dall’intersezione di quattro strade di grande traffico che
portano verso altre città della produttiva regione.
I semafori di quella piazza sono presidiati da torme di
marocchini, tutti in regola, ci mancherebbe, classificati e
registrati dalla mafia locale, che pagano il loro regolare
pizzo giornaliero ad un emissario che tutte le sere viene a
farsi lavare i vetri della sua auto e anche i fari e gli occhiali
da sole.
164
Il montagnino padre di famiglia, per sua parte di
competenza, si mette in regola con il pagamento di una
tangente di prenotazione del posto per il suo erede
invertebrato, presso l’esattoria del caporale locale.
E a questo punto entra in ballo lei.
Con un nostro fuoristrada che le diamo in dotazione.
Con il paraurti chiodato.
Lei libera un posto di lavoro usurpato da un
marocchino che viene subito rioccupato per il bene della
società produttiva da un nostro compatriota…”
Sorrideva, pacioso come un usuraio che ama la buona
tavola, il mio selezionatore del personale.
Io non riuscivo ancora a rilassarmi.
“Come vengo inquadrato? Quanto andrò a guadagnare
in un mese? C’è tredicesima e quattordicesima? Le ferie
sono pagate? Incentivi? Mutua? C’è anche un fisso o solo
provvigioni?”
“Si calmi, si calmi, che ci aggiusteremo… Sappiamo
valorizzare le qualità dei nostri dipendenti e prevediamo
anche una mobilità concordata, in affitto presso nostre
filiali europee.
Con la sua esperienza, prevedo per lei un grande
futuro…
Ci pensi ancora un poco mentre le preparo qualcosa da
bere.
E lasci che le dica: benvenuto in questa nostra grande
famiglia!”
Tirai un sospiro di sollievo e mi dissi: è fatta!
Ancora oggi fremo di gioia: ho di nuovo un gratificante
lavoro…
165
BADA ALLA BADANTE
Alma Boavista non riesce a mantenere le promesse del
suo cognome.
E’ una traccagnotta proveniente dai sobborghi di Lima,
sulla quarantina, vicinissima alla soglia del vero e proprio
nanismo, ipertricotica, con due gambine cicciose che
sembrano culatelli, fasciate in improbabili calze a rete.
Ha uno sguardo inca mandorlato, timido e sfrontato
insieme, con un’espressione indecifrabile del volto,
atteggiata a sorriso maliziosetto o a pudicizia tendente a
nascondere il pessimo lavoro del suo vecchio dentista
d’oltreoceano.
Forse non è pudica e le capsule d’oro, magari, sono
rivestite di smalto quasi naturale: infatti attira l’attenzione
sulla sua bocca piccola, oltre che per un’accentuata ombra
baffuta, anche per un rossetto vistoso che sembra
marmellata di lampone.
E’ vestita
con due straccetti di mercato rionale
accostati con criterio cromodaltonico.
Si trascina appresso, dal basso della sua statura, una
monumentale vecchia altera, a passeggio nel parco del
quartiere a mezza mattinata tiepida.
Il cimelio ambulante aureolato da una chioma azzurrina
è la vedova del Commendator P., senza alcun parente oltre
un cugino alla lontana molto più giovane.
Quest’ultimo attende come un piranha che la vecchia
frolli del tutto e da diverso tempo si tiene alla lontana con
pragmatica coscienza di avere assolto i suoi doveri di
parente.
Ha procurato una badante, al prezzo più concorrenziale
possibile, l’ha istruita circa le fiale e pasticche da
somministrare alla vecchia durante la giornata, telefona
una volta ogni dieci giorni e si domanda meravigliato come
mai il rincoglionimento senile sia foriero di una lunga vita
inconsapevole e quindi inutile, fastidiosissima per un erede.
La vecchia stampellona, donna Bice, cammina con la
puzza sotto il naso perché ricorda, tra le pochissime cose,
d’essere la vedova di un commendatore.
166
E’ sorda come un campanaro, procede malferma con le
gambe ossute divaricate da un pannolone da competizione,
smoccola contro il mondo intero e non vede un’ostia al di là
di quindici metri.
Martirizza il braccino della ‘peruana’, come la chiama
lei, con un’aria di disprezzo che è dimenticata e ricordata a
corrente alternata nel giro di pochi minuti.
La strana coppia, ogni mattina che non piove, in un’ora
di rada affluenza, procede nel parco come due lumache di
bosco su un sidecar ingolfato.
Una bionda di compensato, alta e rigida, bianca come
un latticino con, anche essa, qualche etto di marmellata
sulla bocca, ma di more, da qualche giorno le spia e le
segue con circospezione.
La donna si chiama Ludmilla ed è moldava, come si
evince dallo sguardo ceruleo freddo tipico di quelle parti.
Ha perduto un posto di badante per sopraggiunta
dipartita della badata e studia l’ambiente per reinserirsi
nella società produttiva, di là di volgari permessi di
soggiorno.
Oggi il parco è deserto, a parte la coppia, che sembra
un articolo ‘il’, e la moldava dietro un colonnino.
La vedova dà i numeri bofonchiando di un lui, che si
stava meglio quando c’era, del passo troppo svelto, del sole
troppo caldo, della ‘peruana’ troppo bassa.
Poi canterella qualcosa e ricomincia in ordine inverso
chiamando Alma col nome di ‘Filippa’, anzi ‘Filippina’.
La piccola inca è coriacea come un lama andino e si
estranea parzialmente dalla vigilanza riempiendosi il terzo
occhio di colorate diapositive patriottarde della festa di
santa Rosa.
Ludmilla sembra, anche perché è vestita con un
completo stampato di tela che richiama l’immagine, un
ghepardo in attesa.
Sfila la coppia davanti alla moldava dietro il colonnino.
La gheparda piomba silenziosa alle spalle della piccola
peruviana e l’accoltella con due fendenti decisi ai reni.
Crolla senza un gemito, Alma, e Ludmilla prende il
braccio della vecchia assente che non si è accorta di nulla.
167
La coppia adesso è omogenea, come altezza, e procede
lungo il viottolo del parco come se nulla fosse, con la
neobadante che scruta a destra e a manca e la vecchia che
ha un moto di sorpresa subito dimenticato.
Ritorneranno a casa senza difficoltà, grazie agli accurati
pedinamenti dei giorni scorsi, e la moldava inventerà
qualche scusa per l’indifferente cugino della vecchia.
168
DARWIN ALLA ENNE
Aleggia un afrore penetrante di putrido e orinico, nel
vicolo, talmente stordente da sembrare onirico…
“Tana!”
Il moro apre gli occhi, insonnolito, accecato dalla lama
viola di luce d’alba che filtra dallo sportello socchiuso, e
inquadra la bocca di un Uzi, aperta in una ‘O’ di meraviglia,
davanti al suo naso.
La voce, da fuori, ridacchia con finta condiscendenza.
“Buongiorno, cara merce.
Dio, che tanfo escrementizio!
Ti pisci ancora a letto alla tua età?
Purtroppo non faccio servizio in camera e quindi niente
caffè e uova con pancetta, neanche un topolino, ma non ti
consiglio di prendertela a male perché, in compenso, sono
una generosissima farmacia ed elargisco supposte urticanti
via culo o mentine forti via esofago, …di piombo: mi
comprendi?
Bene: dichiaro ufficialmente al mondo dei vivi che ti
confisco, negretto.
Sei mio.
Esci tranquillo da questo cassonetto e lasciati
ammanettare senza provare a scappare e forse verso
mezzogiorno avrai un piatto di sbobba…”
Il moro si stropiccia gli occhi ed esce terrorizzato e
inebetito dalla sorpendente rapidità degli eventi cui non è
dato opporsi.
E’ spinto su un furgoncino scassato e ripiomba in un
sonno senza sogni dopo una carezza con il calcio della
confezione delle supposte o delle mentine.
“Guarda che bella nidiata di cucciolotti!
Cassonetti generosi, oggi.”
Voce allegra.
“Carini davvero, i piccolini…
Buona, mammina, buona, che non faccio nulla di male:
adesso li prendo e li metto al calduccio e poi, più tardi,
preparo per loro la pappa, va bene?
169
Buona, buona, bastarda, cazzo ringhi…
Buona, ho detto… Bastarda, attenta a te… Porca
puttana…”
Uzicolpo secco e guaito definitivo.
“Forza, orfanelli, con me…”
Sei cuccioli, grandi come bocce, sono gettati nel furgone
malandato contro un enorme boccino a forma di negro
sanguinante ammanettato che dorme, comunque caldo.
I piccoli gli si rannicchiano tremanti addosso mentre si
richiude lo sportello.
“Toh… un feto ancora fresco…
Questi cassonetti sono scrigni
frugare…
Grandi prospettive.”
preziosi,
a
saper
Domenica pallida di prima estate, presto: aria già di
melassa, trentotto gradi, ma ancora sopportabile, anche se
non piove da quattro anni e mezzo.
L’uomo monta una bancarella per il mercatino delle
pulci, la fiera mensile “Nulla si butta”, dove circa duecento
espositori partecipano con articoli di vario genere per
qualsiasi preferenza e borsa.
La bancarella è solida, inchiavardata all’asfalto e piena
d’anelli ai quali la mercanzia sarà assicurata con catene.
I poliziotti sono una razza estinta da qualche anno e va
di moda il ‘bricolage’ esistenziale, il fai da te d’autodifesa,
che non tutti sono bravi a mettere in pratica.
Le bande megalopolitane, ciechi impazziti crotali senza
disciplina, hanno fatto razzie crudeli, in recente passato, a
queste manifestazioni, e molti espositori sono morti senza
sapere neanche cosa stava succedendo, divisi in due da un
‘machete’ o sansebastianizzati da cinque o sei balestre o
crivellati da una mitraglietta.
L’uomo che scarica la sua merce, invece, è un duro.
E’ sudatissimo, fradicio, rivestito da una cotta di
metallo e un corsetto antiproiettili, e incute soggezione con
la sua mole imponente e un casco integrale grigio ferro che
gli conferisce un’aria minacciosa.
170
Porta, a tracolla, un maneggevole Uzi, piccolo e letale, e
ha una cintura con una fondina grassa ed enorme, piena di
una forma nichelata somigliante ad una trentotto
modificata ad acido.
Inoltre, sul banco, a portata di mano, è parcheggiata
una katana sbeccata, ma affilata come un rasoio, che non
si limita a procurare il tetano.
L’uomo accatasta la merce sul banco e l’assicura agli
anelli con catenelle molto robuste.
Poi si siede su una poltroncina di plastica da giardino e
si accende una sigaretta ricostituente, slinguazzata a mano,
di tabacco, marija ed energetici cristalli di crack potenziato
da Chuck, il chimico del quartiere.
Attacca, rilassato, ma vigile, come un prete giurassico o
un venditore porta a porta d’armi, una litania monotona al
primo passaggio di potenziali clienti curiosi.
“Ho un negro in buona salute, gente, ho un negraccio, e
ne potete fare quello che volete: è senza documenti e
nessuno lo reclamerà.
Gli ho già tagliato la lingua e i due alluci ai piedi: è
innocuo e preparato.
L’ho catechizzato personalmente e mi sono fatto un
braccialetto con i suoi molari.
Lo potrete usare per vostro diletto, come schiavo, come
dispensa ricambi d’organi, come gioco…
Ha un bel capitone in mezzo alle gambe…
E’ resistente e può durare a lungo.
Quelle laggiù sono fiale affascinanti, capo…
Non so neanche io cosa contengono: mandano un odore
strano e me le ha trovate un collaboratore che ne ha
manipolata una senza guanti prima di morire dopo circa
un’ora, squagliato come una medusa.
Credo che sia roba letale, importante.
Interessano? Te le offro in blocco a prezzaccio d’amico.
Hey bastardo laggiù, non toccare nulla o diventi
istantaneamente monco, hai capito?
Interessano cuccioletti da vivisezionare?
Sono in offerta: potete soddisfare tutti i vostri più bassi
istinti violenti, ragazzi.
171
Approfittatene, perché sei cuccioli tutti insieme non li
troverete mai più…
Sì, quelle sono quattro sacche di A positivo.
No, non so se sono infette o buone: fossi sicuro le
pagheresti dieci volte di più di quanto chiedo.
Se hai un extra di troppo chiuso in cantina, invece di
sprecare soldi per dargli da mangiare, potresti sperimentare
una sacca e vedere quello che succede…
Fossero infette, avresti potere…
Ragazzi, coraggio, non siate timidi.
Occhieggiate là in fondo al banco, dentro il sacchetto
del supermercato: guardate quel bel piccolo tenero feto
fresco…
Non è cosa di tutti i giorni, ragazzi: è una chicca per
intenditori…
Pensate:
potreste
farci
sperimentazioni,
alta
gastronomia, curiosità collezionistica, giochi proibiti...
Oggi ho proprio bella robetta e faccio onesti prezzi da
usuraio semplice e indipendente…”
Ride grasso della battuta, l’uomo che fuma, e scruta il
cielo lampone radioattivo senza eccessiva preoccupazione: è
provvisto di un impermeabile ‘antiforfora’ e ha dentro di sé
un quantitativo invidiabile di menefreghismo nihilista da
potere affrontare anche una banda di ‘fatti’ armata di fionde
a chiodi con tre punte.
Spera solamente a piccolo cabotaggio: per l’oggi.
Lo stretto necessario: una tazza d’acqua, un cartone di
tagliatelline di riso con quello che passa il convento,
indifferentemente gamberi, topi o cristiani, e qualche
cristallo per tirare avanti anche domani.
Con il lavoro, a frugare nei cassonetti.
Il resto è fuffa.
Nel duemilasettantasei dopo Cristo.
Ammesso che Cristo sia esistito…
172
IL CONTRAPPASSO DEI LUSSURIOSI
Certi motels, in effetti alberghi ad ore, fanno davvero
schifo, squallidi e sporchi.
Certi altri, invece, sono confortevoli e ospitali assai, in
armonia sintonica con gli uteri che abitualmente li
bazzicano.
Ne frequentavo uno ospitale da parecchio tempo, di
albergo, con Shirley, una panterona dalle unghie spuntate
di miele, sopraffatta da un animale istinto materno.
Si arrivava d’abitudine verso la sera di mercoledì,
compatibilmente
alle
possibilità,
e
ci
si
ridava
appuntamento di giovedì mattina davanti ad una ricca
colazione
all’alba,
per
il
mercoledì
successivo:
ragionieristico pragmatico amore…
“Scendo a prendere due birre al bar, gioia…”
“Te ne esci fuori così, col kimono corto nero, da porco
tamarro, e le infradito? Esibizionista di quart’ordine…”
“Tesoro, sono le due e mezza di notte e forse, a parte
l’addetto all’ascensore, che dormirà in piedi, e il barista che
funge anche da addetto alla ‘reception’, non ci sarà anima
viva in giro…
Faccio presto: a tra poco…”
Mi staccai dall’essenza del morbido con un formicolio
strano di rivalsa entro dieci minuti al massimo, in altra
posizione esplorativa.
Ebbi l’impressione che una tetta mi strizzasse un occhio
arrossato facendomi ciao, ma ero anche un poco stanco e
prosciugato.
Trovai Archie stranamente sveglio e marziale,
appoggiato all’ascensore aperto proprio sul mio piano.
Sembrava un totem, ascetico e fisso come un santino.
“Ciao Archie, segui quella macchina fino al bar: devo
prendere due birre…”
Non spiccicò parola, eppure la battuta mi sembrava
divertente.
Schiacciò un pulsante e si produsse in una delle sue
migliori imitazioni di stalagmite.
173
Notai che l’ascensore scendeva lentissimo.
“Hai messo il tassametro con la tariffa notturna?”
Non lo feci ridere neanche stavolta, forse anche perché
il ronzio dell’ascensore era deprimente come un trapano di
dentista.
Dopo qualche minuto cominciai a diventare inquieto: mi
seccava soprattutto l’imperturbabilità di Archie, ma mi
preoccupava anche l’inspiegabile dilatazione del tempo di
discesa.
“Che succede?
L’ascensore è in riserva?
Di questo passo, o trovo il bar chiuso oppure, invece
che due birre, porto su due cappuccini con le ciambelle…”
Silenzio cupo del totem.
“Insomma, che sta succedendo?
E’ un quarto d’ora che siamo su questo fottuto
ascensore.
Dovremmo essere quasi all’inferno.”
Ding.
Le ante scorrevoli dell’ascensore si aprirono proprio in
quel momento e il buon Archie, indifferente, annunciò,
professionale:
“Inferno, quinto piano sotto terra: lussuriosi.”
“Che scherzo è questo, Archie?”
Si volse verso di me, malevolo, con gli occhi luccicanti di
gioia malvagia, stavolta totem parlante con una pelle di
pergamena avvizzita e grigia.
“Non hai ancora capito, granduomo?
Sei morto.
La tua Shirley sta rimirando, sgomenta, il tuo affare
paonazzo in rigor mortis, indecisa se urlare a squarciagola,
provare un’esperienza necrofila o squagliarsi all’inglese.
Alla tua età non ci si dovrebbe sottoporre a sforzi fisici
così massacranti: le coronarie sono quasi di latta e la
pressione diviene aggressiva come la peggiore ruggine.
Sei morto, Casanova, e questa è la tua ultima
discesa…”
Uscii come un automa dall’ascensore, sbalordito e
frastornato
in
soprassalto
machista
di
rimbalzo
174
dall’immagine di Shirley che forse mi stava cavalcando
freddo.
Salutai con un cenno stranito Archie che ripartiva,
impassibile, verso piani alti.
Mi volsi su un immenso salone in penombra.
Qualcosa mi diceva di stare sulla difensiva.
Galleggiavo confuso in ultimi pensieri di una gran bella
morte, e mi disegnai un sorriso beato ed ebete sul viso,
nella consapevolezza di avere fatto una bella figura.
Avanzai a tentoni verso il salone buio.
Mi venne in mente, come una scarica elettrica, chissà
perché, la parola ‘contrappasso’.
Percepii presenze minacciose, risatine sfiatate e fruscii
maligni…
E mi sentii palpeggiare i glutei…
175
INCONTRI BALNEARI
Lei ha i sandali alla schiava e calze a rete da pescatore
color carne su venticinque chili di troppo.
Se, invece di passeggiare sul lungomare con aria
famelica, si sdraiasse immobile su un lastrone di marmo,
potrebbe aspirare al primo premio per la migliore
interpretazione alla sagra della porchetta, ovviamente da
protagonista, seppure intonacata da etti di rimmel
bituminoso che le conferiscono un’aria cantieristica
stradale.
Lui è alto, asciutto e fascinoso, con ciuffo ribelle che
spiove su fronte spaziosa.
Veste di gusto balneare: indossa pinocchietti a scoprire
polpacci atletici, maglietta aderente a plasmare pettorali,
occhiali da sole similmatrix impenetrabili.
E’, inoltre, parecchio pieno di sé in stupidità anestetica,
e viaggia sempre solo, immerso nel suo narcisismo di
belloccio, schivato da graziose bagnanti ricche di buon
senso.
E’, dunque, pericolosamente attizzato anche se non lo
ammetterà mai.
La porchetta e il belloccio s’incrociano al passeggio.
Lei si è truccata con una betoniera per risaltare meglio
nel buio, con manciate di lustrini fosforescenti che la fanno
somigliare ad una zanzariera a raggi ultravioletti.
Lui incede altero con sguardo fintindifferente puntato
davanti, ma è prossimo allo strabismo dietro le lenti nere,
storcendo gli occhi allupati sulla porchetta lustrinata.
Lei non può perdere anche la dignità: ha già perduto la
faccia, intonacata come un villino di campagna.
Un piercing sull’ombelico a tortellone, in piena pancia
lardellata su pantaloni a vita bassa, brilla come un faro su
un mare deserto.
I due passano oltre fingendo indifferenza a dispetto di
ormoni isterici che abbaiano e mordono gli inguini.
Un’occasione perduta, forse, o una minaccia evitata…
176
Il passeggio sul lungomare assediato da bancarelle
multicolori è davvero frenetico.
La folla spinge, si agita, sosta a curiosare o procede
zigzagando in disordine sparso.
Goran fende la corrente come un piranha, agile e vigile,
con mano prensile leggera e zannuta.
Anche Gennarino s’insinua tra la folla come una
murena, in senso contrario rispetto allo slavo, ugualmente
ingordo.
S’incrociano: eleganti come prestigiatori, anche se senza
frac.
Due portafogli cambiano proprietario in simultanea
come per magia.
Goran aveva una fotocopia di un permesso di soggiorno
falso e venticinque euri.
Gennarino aveva una fotocopia di patente falsa e
ventiquattro euri.
Sostanziale pareggio: un euro di mancia.
Rocco è un armadione peloso con la fronte bassa e
l’occhio cupo.
Ha due terrificanti tatuaggi tribali lungo braccia clave, e
due o tre anelli da un chilo l’uno su dita salsicciotti per una
grigliata mista.
Gira con una barba di tre giorni, ispida come un cavallo
di Frisia, nera e luccicante di sudore.
E’ l’attestazione della bontà delle teorie darwiniane: lui è
sceso solamente prima dall’albero.
Procede per il lungomare stretto in una camicia
similhawaiana di taglia AMT, après moi una tenda, con
pensieri sorprendenti di tenera femminilità.
Nella sua sensibilità insospettabile cerca coccole.
Incrocia Jeanpaul, al secolo Giampaolo.
Giampaolo è un efebo smilzo fasciato di garza bianca,
diafano come una madonnina di Lourdes fosforescente,
leggiadro nel passeggio, scintillante di collanine variopinte,
sobrio con un filo di trucco a risaltare il viso femmineo
glabro.
Potrebbe essere scambiato per il classico visagista o
parrucchiere delle dive.
177
Il candido Giampaolo è divorato da pensieri violenti di
possesso.
Quasi nureyeveggia, sul lungomare, e nessuno mai
penserebbe che è infiammato da insane voglie penetrative
brutali al brucio sadico.
Scocca una scintilla casuale dall’incrociarsi di sguardi
tra l’armadio peloso e la statuetta di Capodimonte.
Jeanpaul vede Rocco come un saziante tenerone
precotto.
Rocco identifica il diafano essere come l’angelo
vendicatore che dispensa piacere, e mentalmente schiude le
ante e si sente graziosa villanella con secchio alla fonte...
Lei è un’alice, inguainata in un completo leopardato che
la strizza tutta, con capellini lisci lisci elettrici.
E’ alle prese con un cono gelato: lo lappa con voluttà in
preda a pensieri iodioninfomani.
L’aria salmastra del lungomare accentua desideri e
fantasie.
Si volge qui e là come una donna fatale, a scatti da
pollo, leccando il cono in maniera promozionale.
Scorge lui dentro la fuoriserie argentometallizzata.
E’ bello, interessante davvero, con abbronzatura dorata,
e ha il braccio penzolante sul vetro della portiera in un
gesto disinvolto ed elegante.
Lei lo punta fino a che l’uomo non se ne accorge.
Scambio di sguardi.
Lei intensifica lo smerigliare delle pallette di gelato sul
cono con una lingua da iguana sotto amfetamine.
Lui mormora qualcosa ad un cellulare.
Compare dal nulla un autista in livrea: apre la portiera
dell’auto argentata e accosta una carrozzina da paraplegico
verso l’uomo elegante.
All’iguana lappona cadono due pallette di gelato
semisquagliato nella scollatura dell’abitino striminzito con
un ‘plop’ che è anche di sogno infranto…
S’incrociano due esseri alla moda: una lei cosparsa di
crema al carotene ed aloe vera e non finta, protezione alla
enne, unta e dorata, lucidissima, con una mini canottiera
178
in latex che copre il minimo indispensabile, e un lui,
anch’esso in canottiera, atletico, bronzeo come una scultura
ellenista, unto di oli emollienti, riluccicante al crepuscolo
come un galletto alla diavola.
La calca nel passeggio è indescrivibile.
I due si urtano.
Sgusciano via come saponette, veloci come Power
Rangers attoniti, l’uno a sbattere contro un’auto in sosta e
l’altra a crepare una vetrina di un negozio d’abbigliamento.
Nei passeggi balneari affollati si mimetizza sempre una
peripatetica, disinvolta, quasi naturale, seppure non
inosservata per via dell’aspetto.
Veleggia con tacchi che sono trampoli da circo Medrano.
Ha un seno cui manca solamente un Volvo Penta in
mezzo, per una traversata di medio cabotaggio, ed è
stritolata in un abito che comprime budellosamente tutto il
comprimibile.
Accade, talvolta, che cade.
Davanti a ragioniere frustrato e speranzoso, con
mamma sotto ombrellone che ha rilasciato il guinzaglio per
una mezz’ora.
La donnina, nel botto, con perdita dei trampoli, si rivela
essere una botticella esplosa dal vestito, con pancetta di
troppo e seno da bagnino, troppo poco.
La parrucca platinata, di sghimbescio, scivola via
lasciando ammirare una testolina crespa come quella di
un’ottentotta.
Il ragioniere è sollecito cavaliere, pronto a prendere per
le mani la mutante dolorante a terra.
Sguardo di lei, colmo di gratitudine, anche se seccata.
Sguardo di lui trafitto.
Un mormorio esangue:
“Mi piaci molto anche così…”
Forse nascerà un’edificante storia d’amore all’orizzonte,
se una mamma perde il guinzaglione…
La passeggiata di un non vedente sul lungomare è
molto particolare.
179
Non ci sono colori, sguardi, acconciature e
abbronzature, ombelichi e pantaloni a vita bassa.
C’è solo odore.
E solo quello eccita.
Lui si fa guidare dall’odore; il suo bastoncino bianco,
fino fino, diventa quasi invisibile, leggero e delicatissimo a
sondare spazi e rialzi.
Ha percepito qualcosa.
Ferormonico.
Estasiante.
Acqua di colonia asprigna e fresca su pelle di borotalco.
Nel brusio della folla percepisce un ticchettio di tacchi
nervoso e il frusciare di uno scialle di seta su spalle che
emanano un odore di balsamo.
Segue la scia, l’uomo dal bastoncino bianco, con il volto
invasato puntato nell’aria fresca della sera, con un sorriso
di predatore nonostante tutto.
Scansiona odori e rumori in modo totalmente personale
nell’insieme accalcato della folla.
Il suo solo vantaggio.
Ed è ora di un approccio: garbato, deciso, senza
complessi.
“Mi permette d’accompagnarla?”
La vecchia ossuta si volge sorpresa, quasi offesa,
stringendo la borsa al seno vizzo.
Poi nota il bastoncino bianco e ride amaramente
nell’intimo dandosi della stupida per avere ucciso
prematuramente un’illusione.
Sforza la voce a cadenze giovanili.
“La prego, giovanotto, ma per breve tratto, che i miei
genitori m’aspettano più giù…”
180
MATER DOLOROSA
(tutti figli di buone donne)
Da giorni, ormai, ho smarrito la cognizione del concetto
di ciclo sonno-veglia.
Mi aggiro frenetico tra i banchi di un improvvisato
laboratorio e armeggio con vetrini, microscopi e reagenti,
consultando libri d’ogni genere, con un orecchio rivolto alle
ultime notizie della radio sempre più frammentarie.
Una luce fredda di neon tremolante mi affossa in stato
depressivo tendendomi come una corda di violino nel
raggiungimento di una qualsiasi verità.
Simulo prove di vaccini al computer e piango lacrime
d’impotenza e sgomento per una realtà che ha travalicato
ogni immaginazione, consapevole di essere uno degli ultimi
scampati.
Com’è cominciato tutto questo?
Ho riunito ricerche internautiche, ritagli d’autorevoli
riviste scientifiche e pettegoli articoletti di tabloids
pruriginosi raccolti fin dall’inizio.
Ogni ipotesi appare possibile.
Nei primi tempi, qualcuno, come il giovane affermato
dottor Kao di Shangai, ventilò la possibilità di una
radiazione sconosciuta proveniente dal passaggio di una
cometa.
Ripercorro la sua teoria con un sorriso amaro e un
brivido.
Mi sovvengono vecchi films dell’orrore con morti viventi
risvegliati da casuali asteroidi di passaggio.
Ma ora sono sopraffatto dall’inquietudine nel sapere che
il povero dottor Kao, pochi giorni fa, è stato rinvenuto chino
su un microscopio atomico nel suo laboratorio con un
coltello cinese da cucina, una piccola mannaia, conficcato
tra le scapole.
Qualche ultimo luminare virologo europeo attualmente
ipotizza di cause genetiche, di spermatozoi promiscui, in
utero, saldati tra loro in una reazione incontrollata che
potrebbe avere liberato il micidiale virus nella donna
181
ospitante, ma rimane sempre un enigma la conoscenza del
meccanismo di trasmissione contagiosa.
Unica e sola certezza è che l’inizio di questa calamità è
scaturito e si evolve tuttora nell’ambito di soggetti
femminili.
Alcune riviste scandalistiche, colte al volo ghiotte
possibilità, si sono spinte, sul filo della querela, ad
individuare qualche portatrice sana che abbia avuto la
funzione di untore.
Le più famose attrici e donne di spettacolo,
recentemente madri, sono state perfidamente additate ad
una gogna mediatica come fonti della pandemia mortale.
Un’icona del cinema francese, bellissima e di recente
mamma, è stata, in effetti, immortalata inequivocabilmente
da un paparazzo battagliero di una di queste riviste di
quart’ordine.
Appare trasfigurata, con la pelle ingrigita e tirata e con
uno sguardo folle da invasata.
Il servizio fotografico è agghiacciante.
La donna è stata ripresa con un teleobiettivo mentre
getta il suo neonato, orrendamente sbranato, dentro un
cassonetto, ed è chiaramente distinguibile una sua
espressione catatonica che atterrisce, ben lontana dal
fascino intrigante di poche settimane fa.
E’ certo tuttavia, di là del sensazionalismo, che il virus
si è diffuso in maniera capillare in tutto il pianeta con una
velocità sorprendente.
Continua a mietere vittime, seppure di conseguenza e
non direttamente: ogni donna affetta dal virus, contagiata o
portatrice sana, appare inspiegabilmente in ottima salute,
seppure aggressiva fuori d’ogni controllo in trasfigurazione
dei lineamenti.
E’ curioso, allora, analizzare lo svilupparsi della piaga
apocalittica e la tipologia delle vittime indirette.
I più esposti sono stati fin da subito i neonati.
E’ stata un’ecatombe.
Poi, progressivamente, l’età delle vittime è andata
crescendo, spopolando il pianeta: ed ora non sopravvivono
che persone di una certa età, come me, vecchie o quasi,
182
nascoste come topi di fogna nell’illusione di scampare ad un
destino segnato.
Sì: è un destino segnato.
Si sa solamente che quasi tutti, ad uno ad uno, alla
fine, sono individuati e rimangono vittime del tremendo
virus.
Tutti figli.
Vittime di madri.
Le loro.
Madri infette trasfigurate in lineamenti di streghe orride
che, impazzite, vagano senza sosta alla ricerca della loro
prole per sopprimerla, in preda ad un incontrollabile
‘raptus’ d’inaudita violenza.
Si ha notizia anche dello sviluppo del virus presso suore
missionarie, assai compenetrate nel ruolo di madri putative
di piccoli orfani abbandonati appena nati.
Intere missioni africane o brasiliane si sono trasformate
in mattatoi.
Il virus sconosciuto colpisce dunque le mamme, i vecchi
angeli della casa, le care nostre donne sante dai capelli
argentati, le eroine d’esistenze grame intessute di sacrifici e
rinunce per amore di una famiglia e di tanto desiderati figli.
Oggi, per colpa di questa pandemia, non più.
Annusano l’aria, le madri d’ogni età infette d’oggi, come
predatori insaziabili con i denti scoperti, a captare
ferormoni filiali anche distanti e mimetizzati, e braccano i
frutti del loro ventre senza remore e con feroce
determinazione, a sopprimere l’essenza della loro
femminilità matriarcale.
Ho trovato un rifugio precario con la disperazione
dell’istinto di conservazione: sono chiuso in una cantina di
un mio collega ricercatore già ucciso qualche settimana fa
dalla sua anziana mamma.
Ho sprangato la porta dall’interno dopo avere fatto
incetta di provviste e d’acqua.
Ho attrezzato il locale in maniera da ricavarne un
laboratorio di fortuna per cercare di scoprire qualcosa che
mi salvi da un’anziana arzilla vecchietta artrosica che mi ha
già sospirato le sue intenzioni minacciosamente per
telefono.
183
Spero di salvare anche il mondo intero che ormai è
popolato quasi esclusivamente da donne assassine che si
uccidono anche tra loro, madri contro figlie, in un continuo
elevare l’età di sopravvivenza.
Non riesco a dare alcuna spiegazione razionale a tutto
questo: tutto è, almeno finora, da scoprire.
Sono travolto, invece, da molti ricordi e associazioni
d’idee: Erode, Medea, Madre Coraggio, confusi tutti in
accavallarsi di sensazioni e nausea.
E poi canzoni e luoghi comuni…
Son tutte belle le mamme del mondo…
Mamma, solo per te la mia canzone vola…
Ogni scarrafone è bell’a mamma soja…
Di mamma ce n’è una sola…
Bella, dolce cara mammina, la più bella del mondo…
Mamma mia, dammi cento lire che in America voglio
andar…
Mamma, tu compri soltanto profumi per te…
I figli so’ piezze ‘e core…
Qualcuno, però, sta già raspando alla porta…
L’avvenire sarà degli orfani…
184
LE MOSCHE NON POSSONO APPLAUDIRE
Mastro Lindo chiederebbe asilo politico alla famiglia
pulitina e ordinata del Mulino Bianco.
Il tinello-salotto, difatti, è una sudicia arca di Noè.
Gli unici animali, però, sono due o tre blatte sul
pavimento, senza guinzaglio e museruola, e una miriade di
mosche dappertutto, fastidiose come portinaie invadenti.
Il tavolo, quasi al centro della stanza con una tovaglia
quadrettata di rosso sporca di vino e caffè, è pieno di piatti
accatastati l’uno sull’altro, unti di sughi rappresi e torsoli di
mele rinsecchiti con relative bucce pergamene.
Bicchieri mezzi pieni, o mezzi vuoti che si voglia, si
confondono con stoviglie incrostate tra molliche di pane e
tazzine di caffè con fondi residui di macinato troppo fine per
la moka.
Luce bassa di lampada a basso consumo.
Pulviscolo di apatia ovunque e filamenti spessi di
lanugine a solcare il granigliato opaco delle mattonelle
grasse per dieta di briciole da scarpette in ragù.
Nel cucinotto pentole accatastate da tempo sull’acquaio
mantengono un equilibrio circense con cucchiaioni di legno
e mestoli che fanno capolino per ipotetici alzabandiera di
resa alla pigrizia.
Odore di rancido come una fuga di gas.
Il televisore sembra avere i capelli da quanto è pieno di
polvere forforosa.
Il divano in finta finta pelle ha dei cuscini ingialliti flosci
come idee risapute.
Lui è vicino alla porta, con le mani sotto il plaid, sul
carrozzino, totem con sguardo liquido e la barba di quattro
o cinque giorni.
Sprigiona odore di vecchio, anche se è sulla
cinquantina.
E’ un odore di sapone di Marsiglia disperso in orina,
naftalina di vecchi maglioni tarmati, riesumati da chissà
quale armadio, scippati a qualche scheletro.
185
Il rottame è risvegliato da un suo torpore con uno
scappellotto screanzato sulla nuca e una voce gracchiante
che accompagna un ciabattare di passi.
“Oggi ti ho preparato uno spettacolino…
Così: tanto per sdebitarmi del fastidio che mi dai e dei
dolori che mi hai dato.”
Lui rotea gli occhi sul tavolo.
Un rivolo di saliva cola dalla bocca storta.
“No, carino.
Non puoi più pretendere nulla: ordine e disciplina,
pulizia e profumi te li puoi cacciare nel culo.
Non hai più voce in capitolo.
E soprattutto: ora dipendi da me.
Da me che bestemmio, che parlo male, che non mi curo
più di nulla che non mi vada di curare.
Mi sorbirai sempre così: volgare per come mai hai
amato le persone volgari.
Hai capito, puttaniere da quattro soldi?
Ex puttaniere, ora…”
Risata marcia.
“Dai, vieni qua, che non ti mangia: non ha più
nemmeno i denti.
Dai, fatti vedere dal capo famiglia…”
Un uomo sulla trentina, greve e tuttavia imbarazzato,
entra nel cono di luce dalla lampada e guarda il relitto sulla
carrozzella.
La donna ha un brillare complesso di sguardi: malvagio
verso la mummia e malizioso verso l’altro di fronte.
Abbraccia quest’ultimo strofinandosi con la vestaglietta
leggera.
Animalità senza fronzoli.
Odore di foja: quel sudore di coscia eccitata che penetra
dappertutto come una terza mano a frugare tra gli ormoni.
L’uomo sulla carrozzella è impassibile.
Non può essere altrimenti: quando la botta prende bene
parte completamente una metà e l’altra arranca tra voglie di
recupero e sfinimenti mortali per doppio lavoro.
Ha lo sguardo iniettato di sangue, lacrima in distillato
d’acqua e acido solforico su un unico occhio davvero vivo.
186
La donna s’accoccola sul divano, seduta in pizzo,
scosciata, ed armeggia con una cinghia e una chiusura
lampo volgendo lo sguardo ora alla preda seduta e ora alla
preda in piedi.
E’ un sovrapporsi d’intensità a collimare.
La malvagità sadica si confonde con la bestialità
ingorda.
L’altro svirgola uno sguardo da rubagalline sull’invalido,
con impaccio, e scruta la donna inginocchiata che si è
aperta la vestaglia.
Non è un vedere da cucina dietetica: capezzoli unti
scuri su panna cotta venata d’azzurro, perché l’occhio vuole
la sua parte.
Il ronzio delle mosche accompagna una melodia di
risucchi e schiocchi densi in ansimare ansioso.
L’occhio lacrimoso vede un’usurpazione.
La bocca storta è impastata in un masticare a vuoto.
La vendetta si sta riscaldando in un forno a microonde
regolato al massimo.
Una matassa scarmigliata di capelli impazzisce
assentendo istericamente tra due mani che serrano un paio
di pantaloni a mezz’asta.
Adorazione di un idolo.
Gorgoglio.
Sospiri, singhiozzi.
La vendetta è cotta.
Ding.
Due bocche umide di diversi rivoli si fronteggiano e tre
occhi si studiano.
Forse è stato uno sparare a salve.
La donna è sorpresa e assume una smorfia a metà tra il
disappunto e il compiacimento nel disprezzo per una
consapevolezza di mantenuto fascino animale di femmina
bruta.
E la brutalità può anche escludere la violenza di un solo
selvaggio picchiare a fare male.
L’uomo sulla carrozzella è immobile.
Quasi.
Il plaid sulle ginocchia sussulta debolmente con un
ritmo regolare poi più frenetico, e l’occhio diviene più
187
trasparente del normale e si socchiude verso un soffitto
grigio.
L’altro uomo è un soprammobile inutile.
Le mosche non possono applaudire.
Ronzano tra loro il resoconto di una vendetta mancata.
188
STRENNE
“Per di qua.”
La donna grigia e ingobbita esce da una porta di rovere
che si chiude alle sue spalle.
E’ un contraccambiarsi di sguardi, poi, nella penombra
del grande studio dalle pareti in boiserie stipate di volumi
dal dorso di pelle e oro zecchino.
Odore di cuoio delle poltrone e di legno antico.
Una tenue luce gialla si disperde nella sala da una
lampada su una scrivania massiccia piena di fogli fermati
con una pesante statuetta di bronzo.
Volute di fumo si mescolano ad effluvi freschi di costose
acque di colonia.
Un parlottare sommesso e rispettoso, civile.
“Che dobbiamo fare?”
“Non so…
Fatemi pensare.
Credo che si sia toccato il fondo…
Non se ne può più.
Ieri ho fatto un giro in centro per controllare: ne ho
trovate sei in trecento metri, tutte con lo stesso cartello…
Non sapevo se mettermi a ridere o a piangere.”
“Traianos manda questo…”
“Traianos deve cambiare genere di merce.
La gente è stufa, anche sotto Natale, di vedere sempre i
soliti cartelli che parlano di due o tre bambini malati, di
vedove diabetiche, di fame e malanni: ce ne sono troppi e a
Natale non si è più così buoni come qualche anno fa.
Aggiungeteci, poi, altre sollecitazioni: le offerte di
beneficenza via televisione, le associazioni Onlus, i volontari
sparsi che girano come monete false, la ricerca per il cancro
cogli sms...
E l’illusione del baratto: arance, azalee, torroni,
marroni…
Basta, basta.”
“Che proponi, allora?”
“Novità.
Ragazzi, sveglia: occorre merce più fresca.
189
Traianos mi faccia uscire con l’insetticida tutti quei
ragazzini dentro le fogne e me li mandi anche anestetizzati,
ché poi ci pensiamo noi.
Il Dottore è disoccupato da diverse settimane e ci costa
un pozzo.”
“Hai offerte?
Sai di qualcosa che noi non sappiamo?”
“In certi ambienti esclusivi quest’anno va di moda il
regalo utile, il ‘gadget’ necessario, il pensiero non più fine a
sé stesso.
Tirano i regali costosi, ma pratici.
Schiavetti tuttofare estremo, se interi e carini…
Oppure reni, cuore, fegato, cornee…
Alle cliniche ci pensano loro.
Noi ci dobbiamo preoccupare solo di legare la borsa
frigo con un nastro rosso e luccicante da regalo.
Meglio di così?”
Risate divertite per la battuta.
Bagliore ceramicato su aliti gradevoli di menta.
“D’accordo.
Riferirò a Traianos, anche se credo che stia diventando
inaffidabile.
Sta giocando su più tavoli…”
“A me dei suoi affari con gli altri non m’interessa nulla.
I profughi politici sono troppo pericolosi e poi non
offrono tutto questo guadagno che dicono, e se s’infiltra
qualche terrorista, l’amico rischia grosso.
E’ un gioco più grande di lui e alla fine ne verrà fuori
con le ossa rotte, ma se gli piace così, buon per lui.
Io, invece, sono ancorato ai vecchi valori…
Valori umani…Di sangue…”
Altre risate, più aperte e rilassate, liberatorie.
Qualcuno s’accende un’ennesima sigaretta.
Uno traffica con una bottiglia davanti al mobile bar
scintillante di cristalli.
“E che facciamo della vecchia appena uscita?”
“Ve l’ho appena detto…
Che gruppo ha?
Controllate e mandatela dal Dottore: ci penserà lui.
Poi avvertite i due spazzini…”
190
“D’accordo.
E ora?”
“Ora torniamo di là e socializziamo, con l’entusiasmo
della festa.
Io devo dare i regali ai bambini e a mia moglie,
altrimenti chi li sente poi...
Ah…
Buon Natale anche a voi, ragazzi…”
191
OH OH OH
Fu un amplificarsi di sussurri nel bosco al crepuscolo.
E si sparse la notizia.
La raccontò Krug lo gnomo con dovizia di particolari.
“L’enorme baita era illuminata a giorno da candele e
lumi ad olio e luccicavano i globi di vetro pieni di neve
scossa.
Le renne ruminavano, curiose e pigre insieme, da una
parte, vicino ad una greppia ben fornita, e noi e gli elfi
eravamo indaffarati come non mai ad incartare,
infiocchettare, smistare doni in pacchi lucidi rossi con
nastri d’oro.
In fondo al salone caldo e a soqquadro, il vecchio, dietro
una scrivania piena di scartoffie e giochini tascabili, leggeva
e
catalogava
lettere
attinte
da
sacchi
enormi
ammonticchiati lì presso.
Ogni tanto gargarizzava un ‘Oh, oh, oh’ per tenere in
esercizio
la
gola,
senza
troppi
entusiasmi,
per
professionalità.
Leggeva a voce alta ed io, lì vicino ad impacchettare
giochi da tavolo e giochi istruttivi, potevo udire…”
“E allora, e allora?”
Elfi e fatine al calore di un piccolo fuoco sotto un fungo
gigante accesero sguardi di curiosità.
“Lesse una prima lettera.
- Caro Babbo Natale, ti prego di scusarmi se la
letterina è sporca di cacca, ma qui, a Bucurestu, il
posto più caldo, dove posso scrivere senza che mi
s’intirizziscano le mani e senza che qualcuno mi
sequestri per farmi a pezzi e vendermi in certi
supermercati, è la rete fognaria della città.
Ti scrivo per chiederti un giubbotto resistente ai
morsi delle pantegane che qui sono grosse come mastini
napoletani, perché il mio giubbotto ormai è diventato
come una rete da pesca.
Grazie.
192
Se poi vuoi aggiungerci anche una forma di pane,
sarei ancora più contento perché sono stufo di fare un
pasto al giorno facendo servizietti ai turisti occidentali. –
Sentii il vecchio che si raschiava la gola con un altro
‘Oh, oh, oh’ che mi parve diverso.”
“Caspita che lettera, Krug: forse irrispettosa…”
Le creaturine del bosco fremettero e le lucciole
divennero intermittenti come una centrale atomica con
una fuga di plutonio radioattivo, non necessariamente
oltre gli Urali.
Krug continuò:
“Poi lo sentii leggere una seconda lettera.
Aveva la voce più esitante.
- Caro Papà Natale, ti scrivo, anche se qui in India
non esisti, perché ti vorrei chiedere qualcosa in ogni
caso.
Per questo Natale, se puoi venire fin qui, ché tanto
le renne sono quasi sacre, pure loro, e nessuno se le
mangia, vorrei che mi portassi una scorta di ditali
perché non riesco più a cucire palloni.
Ho i pollici tutti bucherellati e sembro diabetico, ho
una fame da gaviale del Gange, e il mio caporale mi ha
preannunciato che se continuo a battere la fiacca, oltre
che a darmi altre bastonate e a lasciarmi a digiuno, mi
manda nella miniera di Indiana Jones.
Poi mi ha aggiunto che quando non reggerò più lì
diventerò combustibile.
Semmai ti avanzasse una renna vecchia che non
serve più sarei disposto a passare sopra i ditali e a
diventare eretico.
Grazie mille e scusa per l’inchiostro rosso, ma ho
scritto direttamente con il pollice bucherellato dagli aghi
per cucire i palloni. –
E il vecchio si schiarì ancora la gola con un altro
‘Oh, oh,oh’ che mi parve triste…
Una renna meno distratta, invece, si fece piccola
piccola e cominciò a miagolare per mimetizzarsi…”
“Ma è terribile quanto dici, Krug.
Esistono posti del genere?”
193
“Esistono, esistono, fatine, e ce ne sono anche di
peggio…
Ascoltai una terza lettera.
Il vecchio aveva la voce mozza e strascicata e tossiva
frequentemente.
- Caro Babbo Natale, per questo Natale in cui tutti,
o quasi, siamo più buoni, ti chiedo una confezione di
crema idratante, anche non di marca francese da
profumeria, perché, tanto, io non valgo come quella che
ride sempre, beata lei.
Va bene anche quella da supermercato.
Vedi, Babbo Natale, qui a Falluja abbiamo fortune e
sfortune.
Sono fortunato, infatti, a scriverti di notte senza
accendere alcun lume, risparmiando in grasso di
cammello rancido che serve per alimentare le lampade.
Vuoi mettere?
Ho la cena pronta e fatta, da succhiare direttamente
dallo stoppino senza andare troppo in giro per mercati
dove si può essere tamponati da un camioncino carico
di tritolo: che fortuna.
Però questa luce, accecante in certi momenti, scotta
assai, e mi stanno bruciando le mani, i piedi, il culo e
tutto il resto.
In due giorni ho perduto tutti i capelli, strinati a più
riprese, come in un forno a microonde (a proposito: è
così un forno a microonde?), e giro praticamente nudo
perché la vestarella mi si è squagliata addosso.
Scusami, anzi, se ti sto inviando questa letterina
bruciacchiata ai pizzi.
E questa mi sa che è proprio sfortuna, vero Babbo
Natale?
Grazie anticipate per la crema idratante e, già che ci
sei, anche per qualche bottiglia d’acqua.
Non importa se è leggera e povera di sodio, neanche
se è frizzante naturalmente o addizionata con anidride
carbonica: l’importante è che si possa bere. –
Il vecchio mi sembrava che piangesse.
194
Lo sentii mormorare, stavolta solo mormorare, ‘Oh,
oh, oh’ e lo vidi impallidire di fronte ad un sacco pieno
di letterine che era più alto di voi tutti messi insieme…”
“E allora? E allora?”
Le creature del bosco non si capacitavano della
gravità del racconto, curiose soltanto di sapere come
andava a finire.
“Allora lesse un’ultima lettera.
- Caro Babbo Natale, per questa santa ricorrenza
vorrei chiederti più cose, anche per dare retta a mamma
Marina e nonno Silvio e fare bella figura fin da piccolo,
da prendermi un vantaggino sui nipotini degli altri,
cosicché un domani lo potrò scrivere sulla biografia che
manderò a tutte le case.
Vorrei la pace nel mondo e che tutti siano più buoni
e che non esistano le malattie e la fame.
E che adesso nonno e mamma non mi rompano più
i coglioni.
In verità vorrei un minimotoscafo Riva in radica da
millanta cavalli per poterci fare le corse davanti alle
sbarbine nella megapiscinalaghetto condominiale di
Milano sette alla faccia dei bambini di Cinisello
Balsamo.
E dal momento che sto perdendo tempo prezioso,
che sottraggo al mio mercanteggiare figurine a
quotazioni da usura, ti chiedo anche gli ultimi
videogiochi porno per il pc, perché tanto il pc l’ho già
quasi agratis grazie al nonno che decide sempre per
come gli conviene.
Grazie di cuore, se mi accontenti, altrimenti lo dico
alla mamma che lo dice al nonno e tu vai di corsa
all’Isola dei famosi a fare la boa galleggiante nel lago con
i coccodrilli… Il vecchio si tolse gli occhialini.
Vidi che aveva gli occhi luccicanti di un pianto
liberatorio che stentava ad uscire.
Mormorò nell’aria, con lo sguardo sbarrato, un
‘vaffanculo’ sibilato tra i denti, insieme a qualche altra
cosa che mi parve di comprendere come ‘anche a tuo
195
nonno’ e si coprì la faccia con le mani scuotendo il
testone.
Gli altri gnomi non s’accorsero di nulla e
canticchiavano
canzoncine
natalizie
mentre
s’industriavano felici come operai di Mirafiori alla catena
di montaggio della Grande Punto.
Io, invece, mi fermai e sorvegliai le mosse del
vecchio.
Ma non potei fare nulla.
Fu rapidissimo, nonostante l’età.
Prese dalla scrivania una di quelle pistole giocattolo
da cui, se spari, esce fuori la bandierina con sopra
scritto ‘bang’.
L’appoggiò ad un orecchio e tirò il grilletto.
Vidi la scritta attraverso le orbite del vecchio, come
in un cartone animato, mentre s’afflosciava sulla
scrivania come un sacco vuoto…”
“Oh, Krug, ma allora questo Natale sarà senza
Babbo Natale?”
Ci furono mormorii apprensivi nel bosco e qualche
pianto sommesso di fatina sensibile.
“Non lo so.
Ma forse il Natale ci sarà lo stesso.
Cambieranno solamente chi porterà i regali, credo.
C’è già una lunga fila davanti alla porta della baita.
E’ probabile che si faccia una selezione sul modello
della ‘Talpa’ e le renne hanno già il cagotto pensando
d’essere arrostite per uno spuntino…”
I mormorii nel bosco si diradarono nella notte.
S’udì soltanto lo stormire delle foglie sempreverdi e,
in lontananza, un curioso uggiolare di cani e un ruggire
di leoni, e anche dislessici fonemi gutturali strani
somiglianti a ‘permesso, permesso: scendo alla
prossima’.
Erano le renne con il loro istinto animale…
196
BASSI CETRIOLI URBANI
“Dai, dimmi che sono bravo…”
Esala con un soffio roco queste ultime parole e si
rilascia con un sorriso beffardo e un’espressione
soddisfatta, raffreddandosi rapidamente nella corrente di
due voragini sanguinanti di trentotto special attraverso il
costato.
Anche stamattina, porca puttana!
Il grafitomane dei cetrioli bassi ha colpito ancora.
Non riesco a capacitarmi di come faccia, ma lo fa.
Dissemina edili facciate chiare di murales a pennarello
indelebile, tutti con soggetto esplicitamente sessuale, con
donne intente nelle più fantasiose posizioni a giocare con
missili esplodenti, bottiglioni con tappo prepuzico o banane
pelose.
Di là del soggetto, fastidioso per un ben pensante, per
un padre di famiglia classiconografico, per un marito
frustrato e molto possessivo, per un bigotto o per un
mistico che rifugge dai richiami della carne, il tizio che
istoria ogni notte un pezzo di muro del quartiere è davvero
bravo.
Ha sapienza di tratto nel chiaroscuro, senso della
prospettiva, ironia caricaturale, stile grottesco e iperbolico
nell’ambito di una padronanza che redime i suoi bozzetti,
rispetto ad altri volgarissimi tentativi dilettanteschi
espressivi, nobilitandoli a vere e proprie opere d’arte.
Discutibile,
ma
arte:
neoiperrealismo
cazzuto
pornestetico.
La lei dai morbidi capelli sulle spalle ha lo sguardo
rivolto verso chi ammira il graffito e gioca con cetrioloni che
sembrano pulsare sulla parete, sempre ad altezza mezza
gamba, a rischio innaffiata di cane.
L’artista probabilmente dipinge da semisdraiato o in
ginocchio al riparo delle auto per non farsi beccare da
qualche passante nottambulo.
Oppure è un nano.
Bravo in ogni caso: a volte geniale.
197
Ma rompicoglioni.
Allo stremo della mia sopportazione.
Perché le facciate dei palazzi affrescati appartengono a
me e a me toccherà sborsare una congrua cifra per fare
ripulire il tutto.
Per l’ennesima volta, perché il bastardartista, il nano, ci
riprova sempre dopo pochi giorni, invitato dall’intonso
marmoreo, sempre con ottimi risultati estetici nel
truculento di posizioni fantasiose che
poco lasciano
all’immaginazione.
Altre donne, allora, pecorineggiano brucando tronchetti
della felicità o si producono in prove microfono o siedono su
letti da fachiro con chiodoni nodosi e arrotondati, enormi,
che non portano il tetano.
Sempre collocate ad altezza da viaggio gratis sul bus, da
bagaglio a mano…
Io continuerò a pagare e a farmi il sangue amaro, tra
l’ammirato per la bravura grafica pornobisquiatiana sulle
pareti, e l’incazzato marcio per non riuscire a beccare il
nano bastardo.
Ma stavolta, a costo di prendere il giorno per la notte,
mi apposterò nel buio fino a che non riuscirò a stanarlo...
Notte fredda e nessuno in giro.
La luce fioca del lampione spiove a tranciare uno strato
di nebbiolina che opacizza l’aria in impressionismo fin de
siècle.
Mi sento un mastino: digrigno caramelle da tre ore con
l’incazzatura che monta a neve radioattiva da giorni e giorni
d’appostamenti infruttuosi, e rischio l’iperglicemia oltre che
l’ipertensione per adrenalina ad ettolitri, mescolate a
pensieri stragisti, per non parlare di un latente cagotto
epocale, ché le caramelle senza zucchero hanno effetti
lassativi.
Però, però…
Qualcosa si muove laggiù tra quella familiare e quel
fuoristrada.
Già.
Pare che qualcuno si stia dando da fare vicino al
muro…
198
La pagherà per tutte le volte che mi ha fatto ejaculare il
portafoglio, artista bravo o semplice imbrattamuri che sia,
ché stavolta sconterà i suoi peccati per uno o per tutti
quelli che si sono avvicendati in questi paraggi.
Tiro fuori la trentotto special dal cruscotto dell’auto.
La stringo tra le mani come se avessi quelle due pallette
cinesi di ferro per combattere lo stress: mi comunica
sicurezza e tranquillità.
Accarezzo l’idea di una vendetta semplice e immediata.
Penso ad attenuanti generiche e a futili motivi a
controbilanciare, ma adesso ho il sangue agli occhi e non
esistono deterrenti legali d’alcun tipo: ci penserà qualche
principe del foro per i fori che andrò a somministrare senza
disciplina in creatività naif.
Riesco ad intuire disegni di siluri sovrapporsi ad altri
candelotti di dinamite e quella sagoma tutta rattrappita che
si agita freneticamente.
Adesso lo prendo, lo prendo…
Sono sempre stato un buon tiratore.
Due colpi, seppure da cinquanta metri, e la sagoma è a
terra disarticolata come un pupazzo e la sento rantolare.
Eccolo davanti a me.
Gesummaria: non ha braccia e ha un pennarello infilato
tra le dita di un piede nudo.
Ansima e suda come una bestia, translucido, mentre
una macchia di sangue s’allarga sotto la sua schiena
inarcata a risucchiare aria.
Mi guarda liquido.
Sembra che sorrida mentre mormora.
“Ola, amico: hai davvero esagerato…
Per qualche cefalo senza pinne e una che ci gioca…
Per di più sono anche disegni davvero superiori alla
media rispetto a quello che si vede in giro, no?
Dai, dimmi che sono bravo: …me lo dicono tutti quelli
che ricevono a Natale le mie cartoline.
Mi mandano offerte, …un po’ perché sono quadretti
dipinti con i piedi, …e quindi già questo è difficoltoso e
meritorio, ma anche perché sono quadretti dipinti davvero
bene.
199
…Me… lo dicono tutti…”
Comincia a fischiare in debito d’ossigeno.
Io sono di marmo: sorpreso e consapevole di fare la
parte del cattivo per due o tre idolazzi disegnati sul muro ad
altezza di pigmeo, che nemmeno si notano tanto, e che sono
disegnati davvero molto bene, accidenti a me e a quanto
sono stronzo…
“Bigotto che sei, amico…
…Pensare che disegno davvero bene, modestia a parte...
Poi considera che sono senza braccia, superfocomelico,
proprio nulla di nulla, …per dirla alla Mary Poppins:
superfocomelico-e-talidomidoso…
Una semplice …passioncella trasgressiva irriverente… il
mio disegnare...
Arriva invece lo sceriffo, …bang…bang, e spara ad un
tronco inerme con un pennarello tra le dita dei piedi…
E pensa tu… se il pennarello l’avessi avuto infilato nel
culo e tu mi avessi beccato mentre disegnavo ballando il
cha cha cha a ridosso del muro…”
Sorride, no, ghigna: mi ha fatto fesso.
“Dai, dimmi che sono bravo come me lo dicono quelli
delle cartoline.
Gli mando i presepi, …a Natale, …roba innocente…
edificante.
Mica posso mandare loro ammucchiate con gli
zampognari che s’ingroppano le pastorelle…
…Dai, dimmi che sono bravo…”
Sfiata come una caffettiera bucata, ghignando, e muore
con un ultimo lungo soffio enfisematoso.
E io sono in mezzo alla strada come un pirla, con una
pistola fumante in mano, davanti a uno senza braccia che
disegnava cetrioli fontanelle raso terra con un pennarello
tra le dita dei piedi.
Riesco solo a mormorare:
“Sì, sei bravo davvero…”
200
OMNISPOT
Si parte da un campo lungo a chiudere su un primo
piano di un corpo, con lentezza estenuante.
L’inquadratura è frontale, di un uomo grasso e d’ebano,
con i capelli crespi corti argentati, perlinato di sudore,
lucido come un leone marino o la carcassa di un cetaceo
arenato, sospeso tra flebo, cavetti, fili, tubicini.
E’ livido, a torso nudo, con un semplice paio di
pantaloni di pigiama neri, coperto di ferite, alcune
sanguinolente ricucite e mal tamponate, altre medicate
senza troppa attenzione con un cerotto o una benda.
Ha gli occhi socchiusi e rantola in respirazione
affannata.
Nota per il ‘casting’: Sidney Poitiers sarebbe perfetto,
ingrassato ed enfisematoso, o forse, ancora meglio, James
Earl Jones, il signore Thulsa Doom del primo Conan.
La fotografia vira sul celestino, fredda, ad evidenziare le
chiazze di sangue e le ferite in un livido color porpora
tendente a prugna.
Mentre l’inquadratura stringe verso il ferito, il sonoro
evidenzia un ‘beep’ regolare di macchinario medico con
oscilloscopi, cui è attaccato il paziente, in sovrapposizione
alle “Variazioni Goldberg” di Bach, a volume minimo.
L’inquadratura si stabilizza fissa in primo piano sul
corpo che riempie lo schermo.
Voce ansimante del cetaceo liquido.
“…Forse il Reverendo Lee non avrebbe mai potuto
immaginare un epilogo simile…”
Curiosa risatina stanca.
Pausa.
“Fui conquistato dai suoi sermoni appassionati e mi
sentii il suo braccio secolare, la sua voce nel glorificare il
Cristo.
Mi addolorai con lui, per l’insensibilità del genere
umano dimentico della Verità, e offrii me stesso per ribadire
il primato di Dio sulla terra e sulla indifferenza degli
uomini.”
201
La scena, in penombra, nel luccicare diafano dei tubi e
della fleboclisi, ha riverberi giallini intermittenti, di led
luminosi fuori campo che sembrano infastidire e stancare il
protagonista della storia.
“Vidi mia madre piangere alle parole addolorate del
Reverendo Lee, e vidi altri fedeli, tutti noi uniti nel nome del
Cristo Redentore, battersi il petto in indicibile sofferenza.
Decisi che era tempo di uscire dalla penombra del
Tempio, che era tempo di divulgare il verbo di Dio…”
Colpo di tosse che immobilizza il negro in una smorfia
di dolore.
“Uscii a predicare, a raccontare della parola di Dio…”
Silenzio carico di tensione.
“Entrai da Syd Lorraine, nel pub ”Alligator”, a Dothan,
stato di Alabama.
Musica tosta dal juke box e dondolii di omoni
biondobarbuti rapiti dal ritmo di un compresso ‘southern
rock’: ZZ Top, mi parvero, con chitarra acida e basso
percussivo su batteria ossessa e sciolta.
Scrutai i giocatori di biliardo col cappello da cow boy e
le camicie jeans aperte sul petto, gli avventori al banco di
sguincio, tutti gli altri.
Allegri, ciarlieri, sorpresi.
Tutti bianchi.
Al termine del brano, nel silenzio rotto da risate,
battute, e tintinnii di boccali di birra, gridai loro con voce
possente e con gli occhi fuori delle orbite, trasportato da
un’impellente voce interiore:
- Dio ci ha creati a Sua Immagine e somiglianza -.
Un corpulento felino albino, tatuato come una mappa,
che avrebbe potuto essere anche il cugino grosso di Johnny
Winter, si levò dal biliardo dopo una carambola notevole di
tre sponde e mi fissò con astio soppesando la sua stecca.
- Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza,
…bianchi, caro il mio bel cumulo di merda -.
Riuscii a notare la punta della stecca, azzurrina per il
continuo ingessarla da parte dell’albino, e poi piombai nelle
tenebre, accompagnato da uno scricchiolio che avrebbe
potuto essere di denti o d’ossa…”
202
‘Beep’ insistito e frenetico del macchinario che governa
il leone marino lucido, ripetuti colpi di tosse, rumore di
disco graffiato dalla puntina, e Goldberg di Bach
ammutolisce nell’apprensione, variando ancora una volta
fuori programma.
Il corpaccione si scuote un poco insofferente di tutti
quei tubicini.
Poi l’inatteso.
Dal nero dei pantaloni, confuso con lo scuro della pelle,
ad altezza patta, si leva uno zampillo di sangue scuro che
scolorisce quasi subito in limpida orina fumigante, a geyser,
senza alcuna direzione particolare, solo verso l’alto, in
rumore di frizzare che deve essere recepito come suono
sinistro evocante acido.
L’orina nel ricadere deve sollevare volute di fumo e
aumentare nel sonoro come sfrigolio.
Occorre un effetto speciale.
Il corpo del negro e tutto quanto bagnato dall’orina,
limpida alternata a sanguigna, scoloriscono e subiscono
una trasformazione di dissolvimento, proprio come d’acido,
e la scena sullo schermo deve apparire carica di bolle e
bugnoli, di fotografia incendiata.
I buchi con i bordi anneriti e smangiati s’allargano
lasciando un sottofondo di nulla, bianco accecante.
Colpi di tosse ancora, assenza di grida di dolore, quasi
sia un fenomeno normale, orina in zampillo interminabile,
sfrigolio, rumore di carta incendiata, bianco del nulla che
aumenta fino a coprire tutta l’inquadratura con il negro
scomparso insieme a tutto il letto, il macchinario, i cavi, la
fleboclisi, la stanza.
Nulla assoluto.
Bianco.
A questo punto compare il messaggio.
Secondo il ‘target’ cui è rivolto, a carattere tipografico
variabile.
Clericosarcastico iconoclasta:
Credi nella pace che può dare l’Estreminzione?
Pragmatico cinico:
203
La vita è appesa ad un filo, anche di pipì. Vivila finché puoi.
Per tutti, classico ‘evergreen’:
Dio è con noi.
Oppure trasgressivo:
Dio è con Noi?
‘Wasp’ governativo:
Bianco che più bianco non si può.
Pubblicità Progresso:
Non abusate della birra e degli alcolici per non perdere
lucidità.
Pubblicità, solo commerciale:
Le nuove pellicole fotografiche ASA Niggerbrown sono molto
più resistenti delle altre. Provatele.
Goldberg è assente, stufo di variare, mentre attacca in
crescendo l’inconfondibile voce del compianto Otis Redding
con “Amen” accompagnata da battiti di mani di truppa
gospel, e s’accendono le luci in sala…
204
FART REVELATOR
“Ho qualcosa per lei.”
Il fotografo, schermato con gli occhiali da sole che lo
rendono irriconoscibile e impenetrabile, si scuote dal
bradipico consumare un aperitivo all’aperto nel mentre che
segue le evoluzioni della folla in struscio.
Il messaggio, quasi un sussurro, è inatteso, ma può
nascondere argomenti interessanti.
“Di che tipo?”
Il fotografo non si volge alle spalle, da dove proviene la
voce: si irrigidisce soltanto un poco allertando il suo senso
professionale.
“Diciamo divulgativo.”
La voce ridacchia.
“Si spieghi meglio: non ho tempo da perdere.”
“Lei ha sempre le unghie o le ultime vicende giudiziarie
l’hanno ammorbidita?”
“Ho le unghie, anzi, ho affilati artigli adesso, e anche
avvelenati. Di che si tratta?”
“Quindi è sempre in agguato per fare piangere qualcuno
e soddisfare la curiosità di tanta gente, eh?”
“Oggi più che mai. Che cosa ha da propormi? Guardi
che poi controllo: non mi racconti cazzate…”
“Le propongo un’invenzione.”
“Si spieghi.”
“Il fart revelator.”
“Cosa?”
“Il fart revelator. Il rivelatore di puzzette.”
“Mi sta prendendo per il culo?”
“Assolutamente no. Ho un apparecchietto che entro un
raggio di dieci metri capta, diciamo, effluvi intestinali, li
elabora e li evidenzia con una bella scia di fumo colorato.
Sto approntando anche un sistema di rilevazione sonoro da
associare a quello visivo: una allarmata voce preregistrata
che annuncia, ovviamente al massimo volume possibile –
Attenzione, attenzione! Ho appena sganciato una loffa,
statemi lontano che è davvero mefitica –.”
“Se quello che racconta è vero, lei è geniale.”
205
“Ho pensato a lei per i suoi precedenti: potrebbe essere
la sua rivincita.”
“In effetti, di per sé lo scoreggiare, e per di più
silenziosamente, non è reato, ma è sicuramente una cosa
sconveniente e inimmaginabile, soprattutto in certi
ambienti, e ci sono legioni di lettori delle vicende dei vip che
non aspettano altro che sapere se Tizio o Caio sono colitici
all’ultimo stadio. La sconvenienza accomuna e affratella: i
curiosi ammiratori si sentiranno appena appena un poco
vip come gli scorreggioni immortalati in qualche reportage.
E non credo neanche che questa sia violazione della
privacy, ché si parla di essenza che esce e che quindi non è
più intima. Se ne potrebbe ricavare, invece, qualche
introito…”
“Qualche introito? Lei sta scherzando! Qui si diventa
ricchi sul serio.”
“Con le loffe dei vip? Ma sì, e perché no?”
Il fotografo ride sommesso accarezzando l’idea di
appostamenti nei pressi di Montecitorio o sulla piazzetta
principale di Porto Rotondo in Costa Smeralda.
Poi la professionalità ha il sopravvento con evoluzioni di
idee.
“Senta un poco: è possibile modificare il suo
marchingegno? Variare le cortine fumogene di colore a
seconda della persona, per esempio?”
“Credo che si possa fare: sono problemini chimici. Sta
già lavorando con la mente eh?”
La voce ora è insinuante e divertita.
“Beh, pensavo che Rosy Bindi potrebbe essere molto più
interessante circondata da una cortina fumogena rosa
rispetto a Saltpepper Pierferdinando avvolto da un blu
marina. E poi Briatore: mi piace immaginarlo in fumo di
Londra mentre la sua donna la vedo fluttuare in una nuvola
di un bel colore rosso acceso, mi capisce?”
“Certo che lei è un perfido esteta.”
“Penso sempre oltre: magari ad arcobaleni psichedelici
per vallette sculettanti che sorridono di bucato. Se riesce a
creare più colori per una singola loffa, i colori di una maglia
per esempio, siamo a posto con i calciatori: sarebbero
deliziosamente imbarazzanti con una nuvola rossonera o
206
giallorossa a fianco di sorridenti veline ignare anche se
sospettose per un qualche cattivo odore disperso nell’aria.”
Il fotografo levita con tutta la seggiolina del bar,
soddisfatto dell’intuizione diabolica. Poi ridiscende nel
pratico.
“E tra noi?”
“Facciamo a metà da bravi soci. Che ne dice?”
“Si può fare. Prima, però devo vedere se l’apparecchio
funziona realmente… Oddio che tanfo di fogna… Ma lei
adesso?...”
Il fotografo si volge all’indietro e intravede in una nube
verde palude un ometto paffuto con occhi porcini che
sorride beato.
Contraccambia il sorriso con ammirazione turandosi il
naso e nota con gioia la curiosità dei passanti allibiti per la
scena inusuale: la macchinetta sembra funzionare sul
serio.
E comincia a sognare di rivincite e di appostamenti con
autorespiratore e bombole, ancora una volta in sella a
cavalcare la tigre anche se affetta da meteorismo.
Accarezza l’idea di andare a trovare il brillante fascinoso
giudice che l’ha incriminato: un servizio fotografico da
vendere a peso d’oro, un vero vendere aria…
207
RIDACCHIARE CON UN PERCHE’
Il ciccione ha lo sguardo del koala, seppure con gli occhi
a mandorla: molto curioso e con bagliori sporadici di
qualcosa che sembra ottusità al confine con scaltrezza.
Non riesce a comprendere il mio atteggiamento.
Io contraccambio lo sguardo, infatti, con un ghigno
incancellabile che, secondo lui, non dovrei avere.
Ricordo la puttana di qualche parte dell’Asia, Shu, mi
pare che si chiamasse, con i capelli corti a frangetta, lucenti
e neri, che mi tirava per un braccio ridendo.
Era pressante e contagiosa. – Plesto, plesto, da questa
palte: di là ci sono sbilli… Vieni con me, posto tlanquillo… Sono simpatiche, le asiatiche, quando parlano così con
vocina soave, quasi un pigolo, e lo sguardo sottomesso e
carico di promesse.
Shu, poi, aveva due gambe chilometriche, forse un
ibrido occidentale per un peccato della carne di sua madre,
e le fasciava con un gonnellino che rasentava l’indecenza.
Mi lasciavo pilotare come un paraplegico.
Lo stato d’animo non era dei migliori, da qualche
giorno, per pessime notizie. Si fa presto, soprattutto per un
depresso sinusoidale come me, a tirare nel baratro ogni
cosa sulla base d’una cattiva notizia, a perdere interesse
per tutto, ad attendere passivamente gli eventi senza
capacità o voglia di reazione. Ero in quello stato mentale.
Shu, così sfacciata e anche così gazzella timida, era
stata l’incontro tanto per: tanto per stordirsi e non pensare,
tanto per dimenticare, tanto per rimandare la crisi mistica
esistenziale da prevedersi di portata epocale.
La ragazza aveva un sesto senso.
Fissò i miei occhi stanchi e bui già affannandosi da
crocerossina: una palpata delicatissima e veloce all’inguine,
due paroline dolci di circostanza per chiedere se avevo
problemi, tante promesse di zucchero filato e miracoli da
giocoliera.
M’alzò il mento con un dito e mi puntò ancora, torbida e
peccaminosa insieme, in freschezza disarmante, saettando
la lingua rapidamente.
208
Guidò lei artigliandomi un braccio.
Poi la fuga rapida nel vicolo buio.
Ricordo cattivi odori, umido, luci lontane in fondo,
qualche rumore di passi concitati.
Poi una botta e il nero.
“Signor Lake, è sveglio?”
Sbatto gli occhi come un allocco sotto una lampada
accecante al centro d’una stanza buia, legato e sdraiato
sopra un lettino.
Percepisco presenze, più di una.
Poi vedo il koala giallo, in fondo, un koala obeso con
probabili serie difficoltà nel rimanere appeso ad un albero,
penso, mentre un indolenzimento cosmico s’irradia dalla
nuca in tutta la testa e zone limitrofe.
“Che succede? Perché sono legato?” Chi siete? Che
volete da me?”
“Buona sera, signor Lake.
Mi chiamo Ping e sono il segretario particolare del
signore laggiù in fondo.
Il signor Wang è un tipo fuori del comune, signor Lake:
ha una sua filosofia di buon cuore, anche se non potrebbe
sembrare, a primo acchito…”
Ping è il gemello di Kermit, il ranocchio dei Muppets,
verdastro, sottile, con una voce compita e assolutamente
controllata, ed in più ha un paio d’occhialini da contabile.
“Ci deve essere un errore, signor Ping.
Che cosa potete volere mai da uno come me?”
Placido Kermit:
“Nessun errore, signor Lake.
Lei è un uomo prestante di ottimo aspetto.
Dalla sua carta d’identità risulta avere quaranta anni, il
fiore dell’età per un uomo.
Al signor Wang servono tipi come lei e, come le dicevo,
ha un suo buon cuore.
Mi ha incaricato di chiederle, quindi, se ha un qualche
desiderio circa suoi affetti o interessi, un qualcosa da
risolvere nei limiti ragionevoli delle sue possibilità, un
qualcosa che possa costituire una sorta di sdebitamento…”
“Sdebitamento per cosa, Ping?”
209
“Per la sua vita, signor Lake.
Vede: il mio principale tratta organi umani.
E’ un commercio rischioso, ma ben remunerato.
Ci serviamo della signorina Shu e di altre belle
signorine come lei per il, diciamo, reclutamento.
Poi il signor Wang stesso esamina la persona catturata
e dà il suo beneplacito affinché si possa procedere
all’espianto di quanto serve al momento, di quanto è
richiesto dal mercato.
Il mio principale, tuttavia, per come le ho già accennato,
ha un suo codice morale che prevede un’ assoluta
considerazione umana per la vittima, a cominciare dal
rispetto di ultime sue ragionevoli volontà, per finire alla
modalità della sua morte, con iniezione rapida, indolore e
letale…”
Sono troppo stanco, indifferente, con le mie pessime
notizie che ronzano in testa, per poter reagire con un
qualsivoglia interesse.
Chissenefrega, mi dico, anche perché l’essere scazzato
aumenta le capacità analitiche delle situazioni, penso, e io,
in questa situazione specifica, non vedo risoluzioni che
possano volgere a mio favore.
Potrei segnalare il mio vicino di casa, odioso, ma so già
che non attaccherebbe: è talmente obeso che il koala
sembra un ballerino del circo di Pechino.
Mi limito quindi a mormorare:
“Gran brava persona, dunque, il signor Wang…”
Ping non coglie l’ironia e mi asseconda:
“Sì, signor Lake: è una brava persona.
Lei pensi che altri commercianti del settore usano
direttamente la mannaja, senza troppe preoccupazioni circa
concetti di rispetto e sofferenza…”
“Che cosa preleverete?”
Curiosità fredda che si mescola nel vortice dei cattivi
miei pensieri.
“Più o meno tutto il prelevabile, signor Lake.
A cominciare dai reni.
E’ probabile che un rene, se compatibile, possa tornare
utile proprio al signor Wang.
210
Ha problemi di grandi appetiti e ama molto mangiare
piccante: non gode di ottima salute sotto questo aspetto.”
Guardo il koala.
Contraccambia impenetrabile, anche se le due fessure
al posto degli occhi lampeggiano il simbolo del dollaro e mi
pare di sentire anche lo sferragliare del cassetto di cassa.
“Ha qualcosa da dire, ora, signor Lake?”
Kermit ha un aplomb invidiabile.
I suoi occhialini da contabile mandano riflessi azzurrini,
carezzevolmente minacciosi, mentre gli occhi sono due pozzi
senza fondo.
“Non mi viene in mente nulla, al momento.
Posso solo aggiungere che sono contento di contribuire
al benessere fisico del signor Wang e di altre dieci o dodici
personcine brave e danarose…
Sì… Posso dire che sono davvero contento…”
Comincio a ridacchiare annuendo per attestare la mia
contentezza.
Ping trasale appena, ma forse è abituato a reazioni tra
le più disparate, al limite dell’attacco di pazzia.
Wang l’obeso inclina da un lato la testa per
sintonizzarsi meglio sul mio sorriso beffardo e koalizza la
sua espressione in modo perfetto.
Si avvicina un infermiere, o qualcosa del genere, felpato
con una siringa in mano.
Riesco a distinguere nel buio della stanza la gazzella
Shu, ora seria seria per il mio prossimo funerale a rate per
ogni organo asportato.
Mi dico, sempre ridacchiando, che possono anche
andare tutti al diavolo e che poi ci si divertirà parecchio in
seguito…
Loro non lo sanno, ma i miei cattivi pensieri, che tanto
mi hanno tormentato sprofondandomi in questa apatia che
ora mi diverte, sono pensieri di carattere sanitario.
Mi hanno diagnosticato l’Aids…
L’ago entra nella vena, e io rido al pensiero del koala
lardoso e della sua filosofia del rispetto per le sue vittime…
Piangerà diversa gente, continuo a dirmi ridendo,
mentre tutto diventa buio…
211
SINTONIE E DISTONIE
Visto dalla strada, davanti al portone del palazzo,
sembra un enorme grottesco cactus che fuoriesce dal tetto
dell’auto in sosta.
Dal settimo piano, invece, in mutevolezza di prospettiva,
ricorda un surreale variopinto stracchino fuori frigo,
prossimo allo squagliarsi, sempre sul tetto della stessa auto
sinistrata.
Nonostante le associazioni di immagini irriverenti, non è
solamente il commissario che effettua il sopraluogo sulla
scena che è teatro del cosiddetto insano gesto, ma è
soprattutto l’amico.
Si affaccia sulla strada, con la freddezza della
professione attanagliata dal dolore per la perdita di una
cara persona, e ricorda l’ultima conversazione con il giovane
ora spiaccicato giù sull’auto, ieri affranto e incredulo, circa
un colloquio di lavoro.
La vittima descriveva un dialogo che scivolava
progressivamente nel lunare.
“Buongiorno, s’accomodi. Mi parli di lei: si promuova e
si faccia conoscere.”
“Buongiorno a lei. Che dire di me? Sono riservato, al
limite della timidezza dichiarata. Le confesso che sono
molto agitato, addirittura sudato dal nervoso, anche se
posso apparirle disinvolto e autoironico con questo mio
propormi sincero quasi sfrontato.”
“Ma no, si figuri. Piuttosto si rilassi e continui così: è
indispensabile la massima franchezza. Va tutta a suo
vantaggio. Cominciamo dai dati anagrafici: quando è nato?”
“Sono nato il primo settembre del 1982.”
“Ah! Un vergine, un segno di terra: proprio terra terra,
già, già, già.”
L’amico, già perplesso, accennò al ridacchiare
dell’esaminatore camuffato da colpetti di tosse che erano
punture d’aghi.
“E’ un segno zodiacale poco significativo? E’ la prima
volta che lo sento dire.”
212
“Non cominci ad innervosirsi per così poco. E’ un segno
zodiacale dei più impestati, se è per questo: arido,
opportunista, concreto senza voli pindarici di fantasia e
creatività.
Continuiamo. Ha precedenti lavorativi?”
Risolino appena più sardonico e piccato.
“Ho lavorato cinque mesi in un call center e un anno
come venditore di aspirapolvere porta a porta.”
“Ah: il classico rompiballe fallito eh? Se la cavava
bene?”
Il giovane, ricorda bene il commissario, fece accenno ad
uno storcere la bocca e ad una strizzatina d’occhio
falsamente complice dell’esaminatore.
“Non troppo: quando mi emoziono comincio a
balbettare.”
“E adesso è emozionato?”
“Abbastanza, ma cerco di pensarci il meno possibile.”
“Bene, bene: tranquillo, su. Che auto ha?”
Curiosità asettica.
“Una Agila bianca.”
“Ah! Il furgoncino del latte eh? Ma almeno ha anche lo
stereo? Ascolta musica?”
Un fissare commiserevole con bagliori sadici.
“Sì, di tanto in tanto. Giusto per distrarmi: sono di gusti
semplici.”
“Tipo?”
“Mino Reitano.”
“Da farsi male sul serio eh?”
Smorfia di disgusto e simulazione di conato di vomito
con sguardo allegro e cattivo insieme. L’amico era
costernato nel rievocare quel momento.
“Mi rendo conto di essere alquanto demodé, ma Mino
Reitano mi distende.”
“Ommioddio, distende sì, in effetti: anche per sempre,
dopo un ascolto prolungato. ‘Italiaaa, Italiaaaaa…’ Ha altri
interessi, oltre al girare in macchina su un’Agila con Mino
Reitano in stereo a palla?”
Sarcasmo puro e autocompiacimento per l’imitazione: lo
sguardo del gatto con il topo. Il giovane, al raccontare, era
213
sorpreso in una sua ancora intatta innocenza senza
malizia.
“Beh, leggo.”
“Poesia? Narrativa? Stranieri?”
“No, leggo scrittori contemporanei italiani. Le ho già
detto: sono una persona di gusti semplici.”
“Quali sono gli ultimi libri che la letto?”
“Ho letto ‘Va dove ti porta il cuore’ della Tamaro e ‘Tre
metri sopra il cielo’ di Moccia.”
“Ah, un tamarro-moccioso eh? E magari legge mentre
attende la sua fidanzata dentro l’Agila della latteria con
Mino Reitano che canta del tempo delle more eh? Eheheh.
Dio che incubo brrr…”
Il povero amico parlò di smorfie di finto raccapriccio e di
un sorriso aperto, falso, in espressione di alligatore
affamato.
“Le-leggo anche a ca-casa, se è per que-questo.”
“Che fa? Si sta innervosendo?”
“Mi pa-pare che non si sia mo-molto in sin-sin-sintonia
circa gusti letterari e musi-musicali.”
“Beh, se è per questo mi fa morire anche l’Agila e il fatto
che è un vergine, eheheh. Solo zodiacalmente, spero per lei,
eh? Eheheh.”
Sarcasmo e perfidia. Il sorridere, poi il ridacchiare
sempre più senza ritegno in ghigno. Un aggrottare di
sopracciglia
in
curiosità
malsana
immaginando
depravazioni da pubblica lapidazione.
Il suo amico era scosso da tremiti nervosi nel
raccontare.
“Que-questi sono affari personali, se per-permette.”
“Fino ad un certo punto, sa? Lei è eterosessuale oppure
pende dall’altra sponda? Devo saperlo.”
Di colpo serio e professionale, minaccioso e punto sul
vivo, la mascella tirata con salivazione acquolinica.
“Sono una per-per-persona normalissima.”
“Che fa? Sputacchia anche, adesso?”
“Sono molto agita-agitato, ora.”
“Si canticchi dentro una canzoncina di Mino Reitano,
no?”
Di nuovo sarcasmo a irridere apertamente.
214
“Mi sento un suo zimbello. I miei gusti discordanti dai
suoi vanno ad incidere sulla sua opi-opinione circa il poposto di lavo-lavoro?”
“Se ci aggiungiamo anche i pantaloni a esagerata zampa
d’elefante e la cravatta scozzese con nodo ipertrofico su
camicia a righine…”
“La prego: si spieghi meglio, per co-cortesia…”
“Sarò franco, carissimo. Non va, non va assolutamente.
Lei mi spaventerebbe tutti i clienti e mi brucerebbe
qualsiasi portafoglio. Manca solamente il profumo
dell’acqua di colonia Pino Silvestre.”
“L’ha percepito? Le piace almeno questo?”
“Ossignur: non c’è recupero, caro. Neanche con ‘Gente
di fiumara’ o con Mino che imita Freddy Mercury si può
riacquistare il buonumore, anche perché scommetto che
l’Agila ha i freni che fischiano e lei sta aspettando di finire
‘Va dove ti porta il cuore’ per cominciare ‘Anima mundi’
eh?”.
Ricorda che l’amico aveva quasi voglia di piangere
mentre raccontava di quella espressione di superiorità
nell’incarnazione del potere, di un fare saccente,
paternalistico, a demoralizzare per il gusto di fare del male e
avere conferme della propria autorità.
“Perché pre-pre-prevarica così?”
“Senta, tagliamo corto. Lei non va per la nostra azienda
e il mio parere è insindacabile. Non so più che dirle. Provi
presso qualche cooperativa. Mi spiace”.
Sbrigativo, sospeso tra risata di scherno e freddezza
burocratica.
“Non sono adatto
perché mi piacciono Moccia o
Reitano? Per l’Agila? Perché sono della vergine? Ma ma ma
è pa-pa-pazzesco.”
“Giààà: pazzesco proprio. Ora la devo congedare ché c’è
altra gente che aspetta per il colloquio. Mi stia bene. Per
consolarsi si canticchi ‘Una chitarra e cento illusioni’
oppure ‘Avevo un cuore che ti amava tanto’ argh, argh,
argh.”
Risata da lupo cattivo in cartone animato, di gola, con
sguardo già rivolto con attenzione alla pratica successiva:
l’amico aveva accennato di sentirsi come il nulla trascorso.
215
“Ma lei lo cono-conosce bene quanto me, il Mino.”
“Sono un campioncino di Trivial Pursuit, caro lei:
musica leggera e musica pesante ahahah. Vada, vada,
tamarro vergine moccioso, e in bocca al lupo. Segua solo
qualche piccolo consiglio: cravatta e camicia a tinta unita,
colori pastello, tenui, e magari citare un John Fante e una
Annie Lennox, cribbio. E regali l’Agila ad un
extracomunitario. Scommetto che prima aveva una Duna…”
Strafottente deciso.
“Lei ha fatto accer-accertamenti su di me ve-vero?”
“Ecco, appunto, come volevasi dimostrare ahahah.”
Il commissario ritorna al presente reale nell’eco
immaginata di una risata sulfurea e nota che l’auto in sosta
sfondata dal corpo del suicida è una bianca Agila.
Rimane sconvolto a fissare quel corpo disarticolato.
Si sorprende a canticchiare “Cuore pellegrino” e serra la
mascella immaginando una scena a venire in cui centrerà
un occhio dell’esaminatore con la sua pistola d’ordinanza.
S’aggiusta il nodo enorme della vistosa cravatta a pois
su camicia a quadretti e scende a precipizio per le scale in
preda a ira montante.
Per come è umanamente possibile, sgomma con la sua
Atos bianca alla volta della ditta dove si svolgono i colloqui
d’assunzione, con fredda determinazione omicida e
vendicativa.
Ogni riferimento a persone che amano Mino Reitano,
Susanna Tamaro, Federico Moccia, la Opel Agila o la Atos o
la Duna, l’acqua di colonia Pino Silvestre e le cravatte a nodo
ipertrofico scozzese o a pois su camicia a righine o quadretti,
è puramente casuale.
Del resto nessuno è perfetto: io, per esempio, sono nato il
primo settembre…
216
CASTING
Al centro del salone l’enorme tavolo di palissandro
scintilla sotto le lampade alogene e riverbera i bagliori dei
portacenere di cristallo e delle bottiglie di acqua minerale
disseminate qua e là.
Sta per cominciare una riunione per definire il cast di
una popolare trasmissione di prima serata.
Il capo emerge da volute di fumo azzurrino, grintoso con
la mascella quadrata e il ghigno dello squalo.
I collaboratori, quasi tutti sulla trentina, hanno uno
sguardo di sottomissione fanatica rivolto alternativamente
al loro guru a capotavola e alle scartoffie davanti a loro.
Sfogliano plichi, consultano appunti, blocchi notes
zeppi di scarabocchi e geroglifici, e si soffermano su
fotografie che sono sicuramente costate ore di estenuanti
prove in ricerche di espressioni e luci e sfondi.
Il brusio viene rotto da un autorevole colpo di tosse e da
un messaggio programmatico.
“Bene, ragazzi: per l’edizione di quest’anno voglio cose
mai viste, e spero che abbiate da proporre protagonisti
assolutamente originali.
Basta con le solite comparse trite e ritrite senza
personalità: la quarantaquattresima edizione del Grande
Fratello dovrà essere unica e dovrà essere rimpianta per i
prossimi dieci anni.
Allora: chi comincia a esporre la sua mercanzia?”
Si alzano diverse mani, ma una voce buca l’uniformità
di atteggiamento e attira maggiormente l’attenzione.
“Ecco, capo, partirei io, se vuoi, ché ho un asso nella
manica che farà scalpore e indici di gradimento mai visti…”
“E chi sarà mai? Il Papa?”
Mugolio similorgasmico del collaboratore che si stira in
un sorriso fosforescente.
“Quasi, capo. E’ stato trombato all’ultimo conclave per
una manciata di voti. Potremmo chiamarlo il vicepapa
eheheh…”
“Non mi dirai che…”
Sorriso abbagliante da lenti affumicate e falsa modestia.
217
“Sì. Proprio lui. Il Cardinale Benedetto Qualchevolta,
detto Monsignor One o anche, meglio, Mons. One, per il suo
carisma che lo porta sempre a primeggiare e soprattutto per
il suo irrefrenabile meteorismo.”
Silenzio di invidioso rispetto di tutti, risatine maliziose.
Poi lo squalo:
“Cacchiarola, bimbo, ma questo è un colpaccio, anche
se, dopo attenta riflessione, non so, dati certi precedenti
pedofili, non sono così sicuro…”
Querulo e appassionato, il collaboratore è convinto della
bontà della sua scelta:
“Ma capo, ma questa è la pedofilia dal volto umano.
Mons.One, tra una trombetta e l’altra, ha cattivi
pensieri, ma poi si pente e si castiga. Ha un gatto a nove
code con cui si flagella le terga e i marroni e il manico del
gatto lo usa per autosodomizzarsi.. Provate tutti a pensare
al successo di una sua convocazione nel confessionale, tra
una scoreggia, un pensieraccio su qualche bimbo ed una
immediata reprimenda anale di pentimento e castigo.”
Un aggrottare di ciglia a schernire del boss:
“Sarò cinico, ma penso che col gatto a nove code di
dietro magari ci gode. Non è credibile.”
Collaboratore trionfale:
“Sbagli capo. Il manico del gatto a nove code, e si dirà a
voce piena e con sottotitoli lampeggianti a scorrimento, è
rivestito di carta vetrata ed è cosparso di polvere di
peperoncino: un castigo epocale che neanche Giobbe.”
“E come la mettiamo con la fascia protetta?”
“Mandiamo in onda dei bip di messa solenne cantata e
sfochiamo l’immagine con la vaselina.”
Interloquisce un collega ammirato, molto preparato in
burocrazia.
“Ha ragione, capo. E poi con le nuove leggi rielaborate
quattro anni fa per la tutela dei minori, un moccolo in
diretta o una bestemmia si potrebbero configurare nel
programma di approfondimento filologico della lingua
italiana.”
Lo squalo capitola con malcelata soddisfazione.
218
“Va bene ragazzi, mi avete convinto, anche se alla
produzione costerà un mutuo di vaselina: vada per
Mons.One.
Pretendo, però, nero su bianco davanti al notaio, la
rivelazione nel confessionale di qualche succoso retroscena
sulla riunione del conclave, per esempio un trenino tra
cardinali o una tresca con monache o guardie svizzere,
qualche ricordo languido e morigeratamente erotico
d’esperienza con gli orfanelli del Gabon e un numero
minimo di sei sette scoregge polifoniche durante i
collegamenti e almeno un crepitacolo lungo nel
confessionale, con ovvio atto di contrizione e scuse con
battitura del petto. Chiaro?
Andiamo avanti. Raccontaci tu, Laura, chi hai per le
mani.”
Laura ha la capacità di trovare inusualità sparse per il
globo, ragazza molto intraprendente e senza scrupoli.
“Una coppia strana e indivisibile, capo, un insieme di
pietoso e torbido che affascinerà i telespettatori.”
“Spara, dai.”
“Ecco, capo, ho contattato una ninfomane…”
“E’ pieno di ninfomani, soprattutto oggi che girano certi
cardinali.”
“Aspetta, capo: è focomelica, quasi senza braccia e
mani, ed è accompagnata sempre, dico sempre, da una
badante tedesca assai rigida e lesbica, tale Ilde Kameron,
che la scarrozza dappertutto con una divisa da gestapo
nazista dei filmetti degli anni settanta. Il fascino del proibito
attuale nell’uniforme del paleozoico a reminiscenza
pruriginosa della terza e quarta età che non hanno
dimenticato i filmetti di una volta: un nostro target.”
Può ruggire di ingordigia uno squalo? Questo sì.
“La ninfomane pensa di esibirsi? Come si chiama?”
“Si chiama Eva, God Eva, e altroché, se pensa di
esibirsi, capo. L’unico inconveniente è che non riesce
ovviamente a spogliarsi da sola.”
“E presumo che l’aiuterà Ilde Kameron, vero?”
“Garantito al limone, capo, sbottonandola coi denti…
La tedesca se ne approfitta ad ogni occasione anche se
ha una maschera dura e inespressiva che all’inizio non
219
eccita granché. Però ogni tanto uggiola… come un pastore
tedesco, appunto, e la repressione delle sue pulsazioni
diventa un top che titilla indifferentemente uomini e
donne.”
“Argh, argh, argh…questa cosa mi illibidinisce assai.
Brava Laura.”
“Grazie boss.”
Lo sguardo del capo si posa paterno su un ragazzotto
dall’aria apparentemente innocua.
In realtà è un’anima nera che passa ore su internet alla
ricerca di messaggi rivelatori per suoi disegni di
reclutamento.
“Passiamo al perfido Puccio. Tu chi proponi?”
“Ho per le mani un anglo-brasiliano bellissimo, mulatto
con gli occhi azzurri. Parla molto bene l’italiano e ha due
caratteristiche interessantissime.
Grattatevi o toccate
ferro…
E’ un menagramo della madonna, e ci prende sempre o
quasi, ed è un esibizionista da competizione.”
“Beh, Puccio, da te mi sarei aspettato di meglio. Mi pare
tutto molto banale.”
“Aspetta, capo. Il tizio si chiama Mortimer, Mort Accy do
Interomundo, un nome e una garanzia: ha già causato due
infarti per anoressia ad un raduno di bulimici, un’epidemia
di colera in un Club Mediterranèe in Finlandia, e ha
mandato in corto diversi impianti elettrici con vari
difficoltosi interventi dei vigili del fuoco a domare i relativi
incendi. Inutile dire che le case erano tutte di legno
stagionato nel mezzo di intricate foreste. Ettari in fumo.
E poi quando fa l’esibizionista è da sballo.”
“Che ha di così speciale?”
Pausa ad effetto e voce profonda ad evocare
fenomenologie straordinarie.
“In mezzo alle gambe ha una murena. Lo tiene con due
mani e quello sporge ancora, di parecchio, e ondeggia a
destra e a sinistra minacciosamente.
Si è fatto fare, infatti, quattro piercing e pare proprio che ti
guardi con due occhi di giada e che ti voglia mordere con
due denti affusolati come chiodi: Uno spettacolo.”
“E la fascia protetta, Puccio?”
220
Interviene l’esperto di burocrazia.
“Approfondimenti di storia naturale, capo, ché poi si
può solamente immaginare che possa avere tra le mani il
suo affare. In realtà, da come dice Puccio e da come si vede
in fotografia, è fuori di ogni misura e sembra proprio una
murena viva…”
Il boss sfrigola idee su idee meditando ad alta voce sotto
lo sguardo rapito dei convocati.
“Mmmmhhh, sto pensando a gare competitive nel
giardino della casa del Grande Fratello, tipo a chi piscia più
lontano, per il titolo di padrone di casa, magari con riprese
di traverso a inquadrare solamente gli zampilli, per
salvaguardare la fascia protetta: rumori di scrosci, e vaiii...
Sììì: magari anche una crisi mistica di un mini dotato
che vorrà tentare il suicidio in diretta inspirando forte nelle
vicinanze del cardinale Mons.One, oppure un gesto
inconsulto di una concorrente che rimane appesa ai chiodi
della murena in dilettantesca avance.
Si dovrà stabilire solamente da che parte rimane
appesa…argh, argh, argh…
Bello, sì, cacchiarola, ma voglio assolutamente in studio
i nipoti di Alessandro Meluzzi e del sessuologo Willy Pasini,
quel tanto da illuminare i telespettatori su gestualità,
misure standard, zone erogene e comportamenti compulsivi
e ossessivi: tutti i telespettatori maschi dovranno misurarsi
il pisello preoccupati sotto lo sguardo ironico delle mogli.
Giààààà…E poi bisognerebbe trovare una ragazza molto
timida, la vittima classica, che si strappa i capelli ogni volta
che vede la murena, cogli occhi sbarrati e insane voglie
frenate da una pudicizia da orsolina. Potrete trovarla una
simile?”
Coro determinato unanime.
“Difficilissimo, capo, ma ci proveremo.”
Il capo è mansueto come un alligatore dopo abbondante
pasto e offre paternalistici suggerimenti.
“Deve essere brutta, brufolosa, con i capelli
esageratamente oleosi, ché quando se li tira si devono
vedere le mani scivolare, mi raccomando, e deve urlare e
gemere nel sonno in preda a incubi erotici di cose volute e
221
temute: i tecnici dovranno dare il massimo di loro stessi
nelle riprese notturne agli infrarossi.”
Laura ha gli occhi lucidi, ma è realista.
“Capo, dovremo pescare in qualche baita da yeti:
ragazze così non esistono più. Anche Heidi s’è rivelata una
troia con i capretti che non facevano solo ciao.
Piuttosto ci pensi ai numeri con God Eva e Ilde
Kameron?”
“Sì, Laura: quando si dice sinergia eheheh.
Forza, proponetemi altri eroi o eroine…”
Interviene un tipetto mite con due occhialoni da miope.
“Ecco, capo, io ho uno che sembra dire poco, ma
potrebbe promettere sviluppi considerevoli…”
Diffidenza, ma solo di circostanza: la talpa è molto
intelligente e sorprende sempre alla distanza, come un
diesel.
“Cha fa il tizio?”
“E’ un ex tecnico di laboratorio analisi: si chiama Elio
Filizzato. E’ fuori di melone dopo avere provato tutti i tipi
conosciuti di droghe leggere e pesanti. Completamente fatto
e sempre più ossessionato dalla ricerca di una dose di
qualsiasi cosa.”
“Visto e stravisto anche alla Tv dei ragazzi. E allora?”
“E allora, capo, questo pazzo ha scoperto qualche cosa
che fa sballare, innocua apparentemente, ma che lo manda
nel pallone, tanto da non controllarsi più.
Se trova del cartongesso, lo sbriciola e lo mescola con
bicarbonato e qualche altra polverina. Poi lo sgranocchia
fino a che non vede la fine…”
Gorgoglio di conferma del capo, sempre ammirato verso
la talpa che colpisce a scoppio ritardato.
“Ahhhh, sei proprio un essere acuto: la casa è quasi
tutta in cartongesso. Previsione di finali apocalittici con
tutti i concorrenti all’aperto sotto finte bufere o sole
canicolare.
Prendete nota d’allertare il tecnico degli effetti speciali
per grandinate bibliche e anche tempeste di sabbia.”
“Già, capo, e poi suggerirei d’affiancargli un concorrente
profondo conoscitore della psicologia, una specie del
vecchio Hannibal di buona memoria, che istilli in Elio
222
Filizzato strane idee sulle proprietà sballanti del corpo
umano: un caso si cannibalismo in diretta farebbe
impennare gli indici di gradimento a millanta.”
“Oh già, già, ragazzo, bravo. Se fosse vivo nonno Paolo
Crepet, lo farei partecipare d’imperio: invece abbiamo il
nipotino in studio per fare lezioncine teoriche, puah…
E magari, ditemi che è un’ottima idea, il carismatico
psicologo potrebbe dirottare le attenzioni del drogato sulla
racchia vittima oleosa, magari dopo l’eliminazione della
murena che porta sfiga.
Un’eliminazione dietro l’altra, già tutte elaborate a
tavolino senza che i concorrenti subodorino qualcosa: il
trionfo dell’inconsapevolezza.
Mi pare un inizio promettente.
E poi? E poi?”
Alza la mano un ragazzo che sembra uscito da un ritiro
spirituale.
“Capo, sto lavorando su un terminale.”
Fastidio.
“Che c’è di strano, moccioso: tutti abbiamo il
computer…”
Gioiosa ripicca.
“Su un malato terminale, capo, per la partecipazione a
questa edizione. Si Chiama Agostino Nia, ma gli amici lo
chiamano Ago. E’ dentro un polmone d’acciaio e si sta
sgretolando poco a poco alternando momenti di lucidità, in
cui è tagliente e odioso contro tutto e tutti, da vero stronzo
obiettivo, a momenti di narcolessia totale in cui i
concorrenti potrebbero sfogarsi con calci al polmone per gli
insulti ricevuti precedentemente nei momenti di lucidità.”
Il fastidio ha lasciato il posto ad una irrefrenabile
curiosità.
“Un’ideuzza fresca e sbarazzina, bene.
Potremmo abbinare al sondaggio sulla eliminazione dei
concorrenti anche un sondaggio parallelo, quasi un
totoscommesse sulla giornaliera capacità di sopravvivenza
del terminale.
Prendi nota: contattare i familiari per eventuale
eliminazione ufficiale in diretta, ovviamente a tariffa
sindacale, tre o quattro onorevoli di media popolarità
223
contrari alla partecipazione del malato e altri tre o quattro
contrari all’eliminazione, che minaccino tutti eventuali
referendum. Non può assolutamente mancare un membro
della C.E.I. che lanci tuoni fulmini e scomuniche.
Mettere sull’avviso l’ufficio stampa circa la promozione
di forum e di dibattiti sull’argomento.
Contatta anche Mort Accy do Interomundo come carta
estrema per risolvere il problema, ma senza murena in
questo caso. L’ideale sarebbe una morte per asfissia
durante una confessione con Mons. One… Sondate,
sondate…”
“Sì capo: ti adoro.”
Sguardo affettuoso ad abbracciare tutta la sala.
“Abbiamo altro, marmocchi?
Forza, ché siamo sulla buona strada, ma mancano
ancora diverse figure di contorno e di protagonisti.
Vi suggerisco anche un paradosso: trovate un
concorrente normale, senza vizi e senza virtù, ma che abbia
la schiera di parenti più impestata del pianeta.
Dai, ragazzi, datevi da fare: un laureando in teologia
ancora vergine, ma con sorella mignotta, padre coatto e
mamma spacciatrice di extasy.
Magari anche con una zia in premenopausa che dal vivo
e dall’esterno sbavi e faccia la corte alla murena di Mort
Accy, in calze a rete e trucco esagerato.
O anche un fratello transgender che dichiari di volere
intraprendere una relazione con Mons.One e che spera
nella vittoria del laureando per avere in dono una maschera
antigas per affrontare il prelato.
Dai, ragazzi: affinatevi e sappiate che la gente vuole
vedere cose nuove e sempre più mirabolanti.
Portatemi qualche mostro, cacchiarola, o qualche
deviato. Approfondite le conoscenze dei concorrenti scelti:
pensate alla goduria se tutti fossero del Milan e un solo
concorrente fosse un ultrà orgoglioso dell’Inter, o che tutti
fossero della destra più picchiatrice e un concorrente fosse
bertinottiano in pieno outing proselitista.
Bene. Ho fiducia in voi.
224
Ci aggiorniamo a domani per parlare del resto. Mi
aspetto grandi cose. Non vorrei buttare nella mischia il
peggiore di voi per fare numero argh, argh, argh…”
Si ride nervosamente, qualcuno smadonnando, qualcun
altro divertito dell’idea mentre pensa al collega di fianco.
Tutti si alzano e raccolgono cartelle e plichi dal tavolo
mentre il capo si dissolve con un immaginario movimento di
pinna caudale nel fumo che ormai è nebbia.
Nell’aria si respira, oltre la nicotina, consapevolezza e
determinazione: si sta formando un cast.
225
LA DIGNITA’
“Aziz Tuluk.”
“Presente, inch’ Allah.”
“Basta dire presente e basta, Tuluk.”
“Presente e basta, inch’ Allah.”
“Tuluk: ne riparleremo alla ricreazione, magari dopo la
tua preghierina sul tappeto rivolto alla Mecca, va bene?”
“D’accordo signor maestro, inch’ Allah.”
“Ayala Augustin.”
“Esto. Presente.”
“Benhim Ibrhaim.”
“Presente.”
“Brambilla Giovanni.”
“Sun chi, prof.. Presente.”
“Sono un semplice maestro, non prof., e tu puoi
rispondere solamente presente.”
“Pota.”
“Corcovado Osvaldinho.”
“E’ malato: ha il dengue.”
“Darak Vladislaw.”
“Pressente.”
“Dobbiamo ritornarci su, Silvio.”
“Posso anche comprenderti, Umberto ma, cribbio, non è
così semplice come dici tu…”
“Tutte le difficoltà che vuoi, Silvio, ma non sarà
problema eludibile per i veri verdi duri e puri.”
“Ephrem Tarek.”
“Assente: è andato a trovare il papà che è a San
Vittore.”
“Per cosa?”
“Lavaggio vetri abusivo al semaforo e spaccio menta.”
“Hu Shu Ping.”
“Plesente.”
“Laganà Carmelo Crocefisso.”
“Presente. Dissi ‘bbene a voscienza?”
“Chiamami signor maestro, Carmelo.”
226
“Occhei, a voscienza signor maestro.”
“La Scortecciata Cosimino.”
“Sugnu ‘cca.”
“Si dice ‘presente’, Cosimino.”
“Sugnu ‘cca presente, signor maestro.”
“Umberto, te lo dico con il cuore, in confidenza e da
amico: non puoi continuare a rompermi i coglioni con
richieste sempre più pressanti. Prima il federalismo
geografico, poi il federalismo fiscale, poi le ronde padane. E
nessuno sa, per tua fortuna, che hai chiesto anche
deportazioni forzate dei terroni del Nord Italia e schedature
obbligatorie degli italiani dall’Umbria in giù. Ma insomma,
cribbio, non esistono mica solamente i padani, sai…”
“Ascolta, Silvio. Risolviamo quest’ultimo problema e poi
penso che ci si possa considerare tutti soddisfatti.”
“Ma cosa vado a raccontare a Giovanardi, seppure per
quello che può contare uno come Giovanardi? O a quella
faccia da prete di Bondi?
E poi come mi vado a porre con quel boyscout di
Franceschini?
E chi lo sente Casini? Lo sai che sta aspettando come
una faina con gli unghioli affilati che io faccia qualche
cappella?
E il Clemente Mastella? Quello risalta da un’altra parte
ancora: non ho ancora capito se è un canguro con la faccia
come il culo o un mix di puntarelle e catalogna in padella
con aglio e acciughe. Salta sempre, e risalta ancora…
Te lo ripeto, consentimi: non è così semplice,
Umberto…”
“Lao Xin.”
“Plesente, signol maestlo.”
“Ling Yu Tao.”
“E’ assente con la febble alta: ha l’avialia…folse.”
“Malawi Malek Maluk.”
“Brezende.”
“Moldan Dragoslaw.”
“Io essere qui.”
“Si dice semplicemente ‘presente’, Dragoslaw.”
227
“Vaaaa beeeneee. Preeesssenteee.”
“Bravo, Dragoslaw, ma non farti uscire gli occhi di
fuori.”
“E poi, Umbertone, benedetta anima di me e grande
figlio di buona donna che sei, cribbio, con che fondo tinta
rimetto tutto in discussione dopo che vado in giro a
difendere da solo quel nazi che sparacchia cazzate
ecumeniche in Africa?
Qui perdiamo la faccia tutti, lo capisci?
E con quello che costa il cerone e l’estetista…”
“Quelli della sinistra sarebbero sicuramente d’accordo,
al di là dei nostri motivi, per i loro motivi. E abbiamo
l’appoggio della destra, Silvio, di tutta la destra, se parliamo
alle sensibilità e ai cuori di onore, di samurai, di
spiritualismo e purezza d’animo e di intenti.
Coi miei me la vedo io: abbiamo il valore sacrosanto di
preservarci da contaminazioni e di difenderci in qualche
modo da questa invasione.
Vorrei vedere se tua figlia Marina avesse per amico un
Amba Aradam qualsiasi…
Mi ci viene quasi da ridere, sai?”
“Ci sarebbe poco da ridere, soprattutto per il carbonella:
gli farei spezzare le braccine dalle mie guardie del corpo…”
“Netzprotehwski Zbwignerslavdt.”
“Presente, signor maestro.”
“Ah, questi polacchi: padroni di tutte le lingue! Chissà
come mai…”
“Radomir Radovan.”
“Assente: è andato a portare vestiti, bende e scatole di
cerotti al cugino nel Centro di Accoglienza.”
“Di Rado presente, di rado presente, non se ne parla,
eh? Cugino senza permesso di soggiorno?”
“Senza tutto, signor maestro, a parte i lividi: di quelli ne
ha in abbondanza, ché una Guardia del Centro la chiamano
Hulk, anzi, Hulkedolore.”
“Rustu Yader.”
“E’ assente: lo hanno incastrato per uno stupro il giorno
in cui era con noi in gita scolastica.”
228
“Stupro? Ma avete tutti sette anni…e poi era appunto
con noi in gita scolastica…”
“Mah, non so, signor maestro: dicono che c’è di mezzo il
dna o il favoreggiamento, non ho ben capito, sembra che sia
stato preso per un nano di circo da una signora di ottanta
anni ipovedente…”
“Mah: misteri della fedina…
Shamalayandrawana Botziwanismelin.”
“Sì, sono assolutamente presente in fisico e spirito,
onorabilissimo signor maestro di questa rispettabilissima
scuola elementare inserita in questo accogliente e civile
paese che ci offre occasioni di prosperità ed integrazione
sociale.”
“Ehm, da oggi ti chiamo semplicemente Botzi e ti prego
di essere sintetico come il tuo nuovo soprannome.
Il primo che sento chiamarlo ‘malgascio di merda’ se la
vedrà con me e con il mio tortòre di tek.”
“Cosa essele toltòle, signol maestlo?”
“Randello in romanesco, non romanescu, Hu, landello.
Tu capile antifona?”
“Pelfettamente,
signol
maestlo.
Anzi,
dichialo
esplessamente che pel me Botzi essele flatello quasi di
sangue: io spelale, pelò, che non sia infetto…”
“Dai, Silvio, ragiona: c’è arrivata anche quella cima, di
broccolo, della Gelmini, che ha provato ad arginare al trenta
per cento. Ma lo sappiamo tutti, sia te che io che
Gianfranco. E se Gasparri continua a fare lo gnorri
toccandosi le palle nell’illusione di essere spiritoso, tutti gli
altri sanno che il problema sarà irrisolvibile e l’invasione
sarà impossibile da arginare.
E dunque, parliamone, prima che si può anziché dopo,
ché si creeranno casi giudiziari spinosi, altro che Englaro.
E ai filoclericali mandiamo in famiglia qualche negretto
lebbroso o impestato oppure qualche rumeno dalle mani
lunghe o un polacchino ubriaco che pulisca anche i vetri
degli occhiali e lo specchio del cesso.
Lo sai anche tu: l’esigenza è improcrastinabile.
Cazzarola, Silvio: il problema mi sta così a cuore che
dico anche delle parole tostissime senza sputacchiare e
229
senza balbuzie. Non ho fatto neanche la bava e la
schiumetta…
Guarda, la ripeto, hop: improcrastinabile. Uelà, bella
robina, neh? Ci faccio la mia porca figura, pota…”
“Ci penserò, Umbertone. Sei un bauscia rompiballe, ma
hai le tue ragioni.
Ne riparleremo…”
“No, Silvio. Voglio una tua parola ora. Mica dico, hop,
‘improcrastinabile’ (cazzarola, se mi stupisco, ché mi riesce
benissimo anche più volte) così per dire, neh…
Parliamo di eutanasia, una volta per tutte.
E approviamola.”
“Suognamiglio Salvatore.”
“Minchia, presente.”
“Salvatore, la minchia portacela a tua sorella. Qui
rispondi solamente presente, d’accordo?”
“Mi scusi, signor maestro, e s’‘abbenedica…”
“Talik Berek.”
“Brezende, zignor maesdro.”
“Yussu Medir Answad.”
“Etneserp.”
“Yussu, qui siamo in Italia e si scrive da sinistra a
destra.”
“Ah, sì, presente.”
“Xin Xiao.”
“Plesente.”
“Bene, ragazzi.
Oggi parlerete, in un breve componimento, del vostro
maestro.
Nessun luogo comune, però. Parlerete di quello che vi
sembra buono in lui e di quello che non vi piace.
Evitate i soliti luoghi comuni sul colore della pelle, sul
fatto che sono negro e che provengo dal Camerun anche se
sono venticinque anni che sono in Italia e parlo l’italiano
meglio di Di Pietro o di De Mita.
Evitate anche giochi di parole sul mio nome datomi da
un missionario, ché se lo ritrovo lo impalo, e non con il
tortòre: Enoc Signovinces.
230
Parlate di me solamente da un punto di vista di
impressioni che avete circa la scuola, l’imparare, la cultura,
l’ambiente, il paese che vi ospita.
Va bene?”
“Allora, Silvio, hai capito?
Vogliamo avere il diritto di morire con dignità e onore da
legaioli duri e puri, verdi e padani, senza imbastardimenti
che porterebbero solamente sofferenze indicibili e condizioni
di vita inumane, se non subumane.
Vogliamo avere il diritto di morire senza dovere
espatriare in qualche clinica svizzera inseguiti da nugoli di
zingarelli queruli con la mano tesa per l’elemosina che ti
strattonano e ti attaccano le piattole e qualche malattia
infettiva.
Lì, dai nostri fratelli formaggiari, peraltro, ti danno il
succo di frutta al cianuro, che fa veramente cagare.
Qui potremmo morire padanamente assistiti in un
alpeggio da qualche vero mandriano di malga che non si
lava da quindici giorni, mediante inspirazione, convogliata
direttamente nei bronchi, di vapori di caciotta andata a
male da tre anni di invecchiamento in grotte sbagliate.
Una morte rapida, indolore, con effluvi che prendono il
cervello rendendolo insensibile e che portano al coma e poi
alla morte in un amen, anzi, in un ‘pota’: il diritto di poter
morire con un sorriso bergamasco sulle labbra.
E almeno rimarremo, seppure come ricordo nel tempo,
quelli che siamo sempre stati, con dignità.
E il povero Giuanin Brambilla saprà che non è solo tra
tanti stranieri e vivrà, per come saprà e potrà, contento e
sicuro di una estrema possibilità redentrice, fiero della sua
identità.”
“Umbertone, mi stai mettendo con le spalle al muro, ché
sto cominciando a commuovermi anche io, se penso al
nipotino
del
mio
maggiordomo
di
Arcore,
di
Castelpusterlengo, a scuola con mezzo Mozambico, cribbio.
Vedrò di fare il possibile e comincerò a lavorarmi ai
fianchi il Gasparri, magari guardandolo negli occhi, anche
se so che abbasserà subito i suoi a palletta da rubagalline.
231
Mi sentirà, oh se mi sentirà: gli starò col fiato sul collo,
anzi no, gli metterò dietro, col fiato sul collo, due o tre
senegalesi superdotati e in astinenza da quattro mesi.
Così si renderà conto anche lui.
E farò dirottare la barchetta di Pierferdy in acque
libiche a ridosso di otto gommoni che lo assedino per
qualche settimana come caimani.
E’ una promessa, Umberto.
Per tutti i Brambilla superstiti sperduti nelle classi
multietniche delle nostre scuole.
Si potrà morire tutti, infine, amorevolmente e
federalmente assistiti, con un soprassalto d’orgoglio e di
dignità.
E in culo a tutti gli altri.”
232
RACCONTI DI AMORE, DI
PIETA’ E DI ORMONE
233
234
BRUNILDE INNAMORATA
Brunilde era un bel tipo con grandi occhi scuri e un
carattere mite e riflessivo.
Veniva dall’Inghilterra e si era stabilita vicino Piacenza.
Trascorreva le sue giornate di lavoro accanto a Igor, un
bel maschio moro taciturno con occhi determinati, focoso,
ma controllato, in un ambiente di lavoro accogliente con
una musica di sottofondo piacevole e un lavoro variato con
puntate anche all’aperto che rompevano la monotonia di
tutti i giorni.
Un giorno particolare, chissà perché, Brunilde vide Igor
con occhi diversi e, in piena tempesta ormonale, se ne
invaghì prima e se ne innamorò poi fino a divenirne pazza
di passione.
Igor non ebbe reazioni particolarmente effusive anche se
le fece capire che qualcosa nel suo cuore corrispondeva a
certi richiami.
Brunilde invece, anglosassone più aperta di mentalità
rispetto ai mediterranei pieni di tabù, senza avere timore di
apparire ridicola o sfacciata, perse i suoi freni inibitori e
amplificò la sua gioia di vivere nel segno del totale
abbandono.
Una mattina, mentre osservava rapita il suo Igor,
ascoltando in sottofondo musicale la calda voce di Gene
Kelly che cantava “Singing in the rain”, la celebre
canzoncina molto allegra e fresca del film “Un americano a
Parigi”, si lasciò trascinare dal ritmo coinvolgente e
sbarazzino e senza accorgersene cominciò ad andare a
tempo col brano musicale, a tempo di tip tap, leggera e
felice, completamente rapita dal suo amore. E cominciò a
canticchiare anche lei sulla voce di Gene Kelly ballando
sempre più convinta e spensieratamente abbandonata...
Brutta cosa l’invidia degli umani, la loro cattiveria e
crudeltà nel voler sopprimere spesso la vitalità bella e
leggera dell’amore tra due creature...
Brunilde finì di vivere la sua storia di amore e la sua
vita qualche giorno dopo con un chiodo in fronte sparato da
una pistola al mattatoio e venne buciata nell’inceneritore
235
comunale come una vacca di nessun valore, anzi, come una
mucca pazza.
Fino all’ultimo istante, per amore, non volle credere che
quel chiodo avrebbe posto fine alla sua canzone d’amore
preferita e guardò con fiducia l’inserviente armato
accennando ancora a qualche passo di tip tap...
236
FINE DI UNA SIMBIOSI
E’ probabile che esista anche l’amore eterno, ma
l’ingordigia del desiderio di altre sensazioni, di nuove
conoscenze e nuovi percorsi amatori vigila sempre, anche
quando il più consolidato amore sonnecchia: e allora
colpisce, e colpisce duro.
La lunga relazione tra Bernardo il paguro e Attinia un
brutto giorno si interruppe.
Bernardo adocchiò vicino ad uno scoglio una bella
ostrica con una perla lucente invitante che faceva capolino
tra le valve socchiuse e cominciò ad averne abbastanza di
Attinia, sempre sulle sue spalle, quasi passiva, e cominciò a
trovarle difetti: sempre più grassa e cellulitica, gelatinosa
ormai, con quella chioma di tentacoli sempre più
arruffata…avesse avuto i piedi avrebbe avuto da dire perfino
sul loro ipotetico odore.
Per fare breve il discorso, cominciò a divenire scostante,
freddo e disattento nei confronti di Attinia e per ingordigia
di una nuova passione cominciò quasi ad odiarla.
Anche lei, comunque, cominciava ad avere una sua
stanchezza sentimentale verso Bernardo, sempre uguale, di
scorza dura, sempre rosso paonazzo e sempre più goffo nel
suo incedere a passeggio lungo i fondali del mare: avrebbe
voluto evadere, conoscere gente nuova, allegra, misteriosa…
Si lasciarono con freddezza, civiltà e rancore represso, e
cercarono di ricostruirsi una nuova vita.
Mai scelta fu più imprudente e sbagliata, dettata
dall’avidità di ciò che non è dato di potere avere!
Bernardo, senza più la tutela di Attinia, che spaventava
e teneva lontani eventuali nemici e predatori con i suoi
capelli tentacolari urticanti, finì preda di un giovane polipo:
costui braccava l’ostrica socchiusa, ma non si fece sfuggire
il più facile pranzo e con il suo becco fece quasi subito
breccia nel paonazzo guscio del paguro ormai indifeso.
Anche Attinia fece una brutta fine: si innamorò
perdutamente di un essere misterioso grigioverde che
giaceva sul fondo immobile. Si adagiò su quel corpo freddo
da brividi con la maggiore lussuria possibile per un’attinia e
237
si posizionò sopra un pulsante credendo fosse un organo di
piacere: era la spoletta di una mina antiuomo, residuato
dell’ultima guerra, ancora funzionante.
I tentacoli urticanti, non più urticanti ormai, si sparsero
tutt’intorno e un branco di acquadelle, contente della loro
esistenza, fece festa con un lauto banchetto di minuscoli
bocconcini di Attinia.
238
GIAMAICA PER DUE
Si sdraiò sul telo da bagno in bermuda e maglietta e
volse il viso al sole ancora tiepido di prima mattinata.
La spiaggia era ancora semideserta e lui era sempre
mattiniero per arrivare a potersi piazzare tra la prima fila
degli ombrelloni e il bagnasciuga.
Si appisolò incurante dello scaldare dei raggi e del
popolarsi sempre più rumoroso della spiaggia, protetto dalla
maglietta leggera, rispetto al sole ora più aggressivo, e
isolato dalla cuffia del walkman che lo avvolgeva in musica
tropicale.
Teneva impercettibilmente il tempo con una mano a
contatto con la rena tiepida e schioccava piano le dita in
levare, a tempo di reggae, immaginando brezze giamaicane
e odori penetranti di fumo particolare mescolato con odore
di pesce cotto alla brace e aroma di liquore di cocco nel
salmastro di una sera esotica in riva al mare.
Sfiorò inavvertitamente una mano vicina alla sua e
mormorò delle distratte scuse, ma non percepì una risposta
nell’ovatta dell’abbandono rasta; notò, però, che la mano
non si era ritratta, e cominciò a fantasticare di una
Giamaica per due e a giocare e sfiorò nuovamente quelle
dita…
L’altra mano non si ritrasse e anzi sembrò rispondere
con una contrazione minima d’ipocrita indifferenza eppure
tensione emozionale.
Se ne accorse e insistette in un gioco ora più scoperto di
sfioramento di polpastrelli mentre nell’aria ora avvertiva
odore di abbronzante, salsedine, umanità che cominciava a
passeggiare poco distante da lui e da quest’altra mano, lì
sul bagnasciuga, sollevando granelli di rena e recando
odori di acque di colonia e altri abbronzanti.
Il gioco era piacevole nello stordimento della musica e
nel calore del sole sempre più torrido.
Si sentì sfiorare le labbra da altre due labbra
delicatamente e fu pervaso da quel piacere che abbandona
il corpo e lo rende acquoso.
239
Rispose, anche lui delicatamente mentre la mano di
prima lo sfiorava sul collo e giocava accarezzandolo sulla
guancia contropelo della sua barba di quattro giorni.
Avvertì un corpo avvicinarsi verso di lui in un contatto
caldo e sensuale, delicato, ma ora più deciso…
I due giovani bagnanti slanciati, allegri e ciarlieri
s’incamminarono elastici dalla riva verso le cabine in fondo
e passarono davanti ad una coppia sbirciando con una
certa incredulità.
La ragazza, appena oltrepassati i due che erano avvinti
in un bacio molto passionale indifferenti verso il mondo
intero, ruppe il silenzio e mormorò:
“Accidenti che stomaco, quel bonazzo là…
Una scorfana balena e cozza come quella dove è andato
a pescarla?”
Risero ancora sguaiatamente voltandosi a rimirare
furtivamente i due e quasi inciamparono in uno splendido
lupo alsaziano seduto vicino ad una cabina.
Era immobile come una statua, vigile verso un punto
del bagnasciuga, fiero, compenetrato in una sua
responsabilità verso il suo padrone che prendeva il sole.
Aveva una pettorina bianca con la croce rossa e il
bastone bianco del suo padrone a fianco a lui…
240
SCHIAVO D’AMORE
Ognuno di noi ha una sua debolezza erotica, un
qualche suo feticismo, una smagliatura nella rete di
autodifesa da un immotivato apparire ridicolo, benché si
sappia razionalmente che non dovrebbe esistere ridicolo
nella passione.
Io ho avuto da sempre una mia debolezza per un
particolare imperfetto di una donna, di una qualsiasi
donna: io mi accendo nello scorgere in un sorriso o in un
piacevole interloquire in un discorso una dentatura appena
irregolare o, al massimo della mia percezione personale di
perfezione estetica, un dente accavallato.
E’ un mio curioso feticismo assimilabile ad altri
riguardanti piedini o pelurie o capigliature più o meno fulve
o altro ancora: io amo i sorrisi, le bocche atteggiate a
discorsi fitti fitti o a smorfie di disgusto o pieghe irrisorie o
ironiche. Io amo la donna col canino sopra l’incisivo o il
premolare, prepotente e candido, che la rende ai miei occhi
ingorda, carnivora, rapace, e quindi passionale e scrigno di
promesse di piacere.
Ho conosciuto diverse donne per come mi piace questa
piccola imperfezione e ho cercato di amarle tutte, debole e
soggiogato, da vero feticista, e mi sono perduto dietro sorrisi
candidi e irregolari accompagnati da una voce roca uterina,
dietro a pasti immaginifici in un ristorante, eccitato nel
vedere sbocconcellare una coscia di pollo o un boccone di
roast-beef al sangue: fantasia mia malata, forse, o concetto
preciso di quello che è il mio erotismo in associazione alla
carnalità.
E cosa rappresenta di meglio la carnalità se non una
chiostra candida di denti vagamente felini a incorniciare un
sorriso carico di promesse?
E’ per questo che sono ormai schiavizzato alla mia
signora e padrona, Zora, la vampira, e sono stasera, in
questa notte da lupi piovosa e ventosa, a caccia di giovani
vergini delle quali non me ne può importare di meno, tutte
241
carine e regolari, con i loro sorrisi dolci, anonimamente
insipide, indifferenti per la mia segreta voglia di passione…
Zora… donna perfetta per me…
242
DA QUALCHE PARTE SBOCCIA L’AMORE
Luminosità soffusa su pareti nocciola ad abbracciarci in
un cono di luce.
Sottofondo musicale rilassante: “Pavane pour une
enfante defunte” di Ravel, che smarrisce sensibilità e
cattura energie per disperderle in ricordi e sensazioni
indefinite di struggimento e romanticismo.
Fuori lo scrosciare di una pioggerella uniforme e
uggiosa che rende più apprezzabile e accogliente l’ambiente
interno.
Un brevissimo bagliore di sguardi tra noi.
Una voce avvolgente nella sicurezza delle intenzioni,
decisa, quasi un comando:
“Calmo…”
Una mano che carezza, fruga, palpa, provoca,
prepotente ed invasiva.
Mormorio sopra un violino quasi mistico:
“Bene, bene, …come l’ultima volta, …come prima
ancora…”
Atmosfera
snervante,
languorosa:
un
senso
d’abbandono che cede alla pudicizia sotto l’attacco di
carezze di dita voraci guidate da una voce esortativa,
complice, sussurrata tra le note della musica impressa sulle
pareti materne color nocciola.
Altro bagliore di sguardi, più insistito, in confusione di
ruoli ed emozioni, in richiesta di risposte a domande mute.
Forse mi sto innamorando del mio urologo…
243
UNISCE L’ABBRACCIO DEL BUIO
Sole ingordo a Nablus: una palla di rame che scioglie in
sudore i viventi.
“Copritemi le spalle: quel ragazzo alla fermata degli
autobus mi puzza di marcio…”
Si rivolge ai due commilitoni, il taurino sergente Saul
dall’incipiente pinguedine, e con andatura circospetta,
apparentemente indolente da bulletto di angiporto, si dirige
verso la fermata scrutando a destra e a sinistra attraverso
gli occhiali a specchio che gli conferiscono un’aria da cattivo
cui non bisogna mancare di rispetto.
Miriam suda come una forma di formaggio fuori frigo.
Non vede l’ora di essere a casa per fare una doccia, per
parcheggiare la piccola Ester davanti a due dolcetti e un
bicchiere di latte e godersi qualche minuto di riposo.
La piccola frigna che è stanca e che ha caldo e che
l’autobus non è ancora arrivato.
Ester è una bambina di sei o sette anni assolutamente
normale e vuole attenzione come tutti i bambini del mondo.
Miriam urta alla fermata, con la sporta della spesa, il
vecchio piccolo Isaac con quel donnone di sua moglie Lia
che quasi gli fa ombra.
Si sventagliano i due anziani coniugi: Isaac con un
fazzoletto spiegazzato ad asciugare i solchi delle rughe e Lia
con un ventaglio ‘made in China’. Hanno l’illusione di un
refolo di fresco, ma in realtà scacciano la polvere fastidiosa
che tutto ricopre impalpabile sulla strada riarsa.
Elias è irritato: tutto va male oggi!
Il lavoro non è stato pagato con scuse puerili, è nato un
battibecco con il cliente che, però, ha il bagno rimesso a
nuovo. L’auto ha scioperato per rivendicazioni di olio e lui
odia prendere gli autobus. La borsa degli attrezzi inoltre è
pesante e il caldo asfissiante non può essere annullato con
l’aria condizionata, lì, all’aperto, tra piccoli vortici di polvere
ad ogni passaggio di automezzo.
Attende, Elias, torvo, fissando la punta delle scarpe,
soppesando mentalmente il suo portafoglio che piange
diverse banconote.
244
Ahmed ha un prurito insopportabile in testa: non
sopporta la tintura dei capelli che, con il caldo e il sudore,
sta azzannando il cuoio capelluto.
Si sta guardando intorno attraverso un paio di
occhialini verdi.
Gente che passa, sosta, ride, parla. Seri e compenetrati
studenti con quei buffi riccioli che pendono dalle orecchie e
quel cappello che cuoce il cervello e allegri impiegati in
camicia candida e zuccotto in testa. Donne scattanti,
alcune belle e altre troppo mascoline, e ragazzi ciarlieri
allegri.
E’ probabile che stia nelle vicinanze anche qualche
‘gentile’, qualche infedele: nessuno è innocente a questo
mondo…
Sta pregando interiormente, l’improbabile biondino con
gli occhialini verdi, e sta pensando alla sorella minore a
casa con la sua mamma, dietro quelle colline laggiù in
fondo. E’ trepidante, ma fiducioso. Il grande Ibrhaim, il forte
Ibrhaim gli ha promesso, gli ha giurato sul sacro nome del
Profeta che provvederà al futuro dei suoi congiunti in ogni
occasione e circostanza per il futuro, anche se i sionisti
dovessero abbattere la casa da cui è partito ieri sera col
buio.
Prega e viene assalito da una muta di pensieri affamati
che lo stanno dilaniando: è giusto agire cosi? Serve
effettivamente alla causa? La disperazione può arrivare fino
a tanto?
Avrebbe voglia di vivere, Ahmed, e di guardare per la
strada il passeggio di giovani flessuose ragazze dagli occhi
neri maliziosi e allegri.
Avrebbe voglia di parlare, giocare, ridere, scherzare,
sorseggiare un tè tiepido dal piattino sulla soglia del ritrovo
di Yasser sorridendo a qualche timido sguardo curioso di
gazzella.
Incrocia lo sguardo con la piccola Ester.
La bambina lo guarda seria e smette di piangere,
attratta dal verde delle piccole lenti. Cerca di individuare gli
occhi del giovane attraverso i vetri affumicati e fa curiose
smorfie a farlo ridere.
245
Sorride di rimando, il falso biondo, triste, ma con la
coda dell’occhio vede di fronte a sé un militare in mimetica
che avanza verso di lui lentamente con pigra baldanza.
Ahmed volge lo sguardo intorno per vedere quanta
gente circola nelle sue prossimità.
Valuta con freddezza gli obiettivi in attesa alla fermata e
realizza che non potrà attendere oltre l’arrivo dell’autobus
con il suo proficuo sali e scendi di viaggiatori: il soldato ha
dei sospetti e lui è troppo impacciato tra la cintura e lo
zainetto dietro le spalle che gli bloccano parzialmente i
movimenti.
La vita, con i suoi ricordi, rimpianti, speranze troncate,
desideri irrealizzabili, scorre in un attimo e si confonde con
immagini vivide e sfocate in una sommessa litania di
fiducia, di carica e di paura.
Si cristallizza tutto nel fermo immagine della piccola
Ester che lo guarda e sorride mentre il militare sta per
chiedergli qualcosa.
Ahmed non può più esitare.
Urla sgraziato spalancando gli occhi: “Allah è grande!” e
perde il suono della voce in un boato eterno.
In una frazione di tempo infinitesimale, in quell’attimo
di residua coscienza mentre si disintegra nello scoppio della
sua
cintura,
ha
la
visione
meccanica,
ultima
fotoimpressione, di una borsa in aria che perde chiavi
inglesi, un elmetto che rotola, uno sguardo attonito di
bambina che si riempie di sangue nero, polvere, tanta
polvere ad oscurare voli di braccia e gambe disarticolate, a
celare pietosamente tutto, coprendo a stento pozze di
sangue e attutendo lamenti e rumori come una nevicata
fuori stagione su un disgraziato maledetto presepio.
Poi tutto nero.
Buio.
Buio.
Nero, fitto e impalpabile, senza punti di riferimento
circa spessore, dimensione, densità.
Come da un variatore di interruttore di luce girato
troppo in fretta, dal nero assoluto si genera una luce
verdina azzurrognola che pare avvolgere con il suo alone
246
freddo un luogo chiuso, una struttura che sembra
geometrica, una parvenza di stanza.
La luce, incerta e baluginante, si espande su sagome
che sembrano fremere di energia, magmatiche in un
susseguirsi di forme che appaiono umane, ma sono in
divenire di altro.
Nell’azzurrino smorto risaltano bagliori improvvisi
scintillanti, di sorpresa, da punti che potrebbero essere
occhi che si volgono intorno sorpresi e curiosi.
Nella sospensione innaturale di questa luce nel nero
sconfinato si creano impulsi confusi: mormorii indistinti,
forse telepatici, voci inudibili.
Messaggi.
Toni impersonali, assenti quasi, e timbriche che sono in
realtà energia che corre nello spazio indistinta tra suono e
colore.
“Dove siamo?”
Brilla maggiormente la sagoma di un uomo senza più
l’elmetto, violaceo, un’immagine seppiata che sta piano
piano dissolvendosi nel verdastro che sta a sua volta
sparendo nel buio nero.
“Siamo oltre, soldato. Avresti dovuto intervenire prima,
probabilmente.”
La sagoma di chi ha perduto la borsa degli attrezzi è
raccolta, liquida e assorta.
“Lo vedi, Isaac? Se fossimo rimasti a pranzo da mia
sorella non saremmo qui…”
Potrebbe essere un rimprovero, quello di una sagoma
grande vicina ad un’altra più piccola e minuta, un
sarcasmo, ma il tono è piatto, indifferente, e le due figure
stanno mutando forma. Si stanno creando ed evolvendo
consapevolezze: del distacco, di nuovi valori rispetto a
quello che era denominato vita, e si scrostano a poco a poco
residui di rimpianto.
La figura della mamma, individuabile accanto ad una
forma molto piccola che luccica piena di energia, si rivolge
verso un altro punto luminoso, un vecchio dagherrotipo
annerito dal tempo e abraso da imprudenti stropicciature,
appena incurvato dalla massa di un qualcosa dietro le
spalle che sembra uno zainetto squarciato.
247
E’ difficile identificare dettagli con sicurezza. La luce sta
scemando, verdastra, e i contorni delle figure sbiadiscono e
stanno cambiando e si stanno trasformando in qualcosa
che assume la sembianza di globo luminoso con una luce
intensa.
“Sei sicuro che ce lo meritassimo? Sei sicuro di avere
agito per il meglio? La mia bambina avrebbe potuto aiutare
la tua gente in futuro…”
Vibra di …emozioni?...la figura con lo zainetto
smembrato. Risponde con un messaggio e impulsi per tutte
figure che ormai sono globi di luce.
“Il futuro si prepara con il presente, madre, e così è
stato scritto da chi ha deciso: sono un semplice esecutore.
Vorrei vedere se…”
Si spalanca improvviso, in risposta alla richiesta, un
vortice silenzioso e grigio nel buio dagli aloni verdastri.
Il cono rovesciato di una tromba d’aria. Si intravede al
centro dell’occhio un mutare frenetico di scene del mondo
fisico.
Polvere, fumo, fiammate violente improvvise.
La stazione degli autobus è irriconoscibile in un
frenetico andirivieni di persone che gridano, di ambulanze
che striano lo spazio con le sirene, di militari che sparano
verso punti indefiniti, di pianti sommessi e urlati, di
maledizioni, di abbandono.
Altra polvere, altro fumo, e si vedono carri armati per
altre strade e si sente l’odore del kerosene, l’odore della
terra riarsa, e si odono altre grida e altre maledizioni
sovrastate da boati e da crolli di case con il rintocco a morto
di sassi lanciati sulle lamiere dei cingolati.
I fulcri di energia, non più di sagoma umana ora,
sferoidi luminosi di intensa luce che affievolisce
progressivamente, sono ai bordi di questo mostruoso cono e
assistono a scene abbacinanti di sole ramato e di fiamme.
La luce del cono si affievolisce e le immagini vengono
ricoperte di polvere sempre più densa fino alla sparizione
del vortice assorbito dal nero.
L’alone verdino azzurrognolo si attenua inghiottito dal
buio fino a scomparire e le bocce luminose galleggiano in
un’oscurità senza limiti.
248
“Vuoti tentativi, mi sembra, e vuote reazioni…”
E’ il sussulto di quello che poteva essere l’idraulico,
pacato, assente, indifferente.
Quello che somigliava ad una stanza è sparito..
Solo globi fluttuanti nel buio che stanno perdendo la
loro luce e la loro energia e stanno per essere fagocitati dal
nero assoluto.
L’energia della piccola emana un messaggio verso quello
che fu un kamikaze.
“Mi ricordo i tuoi occhialini verdi…e avevi un bel
sorriso…Mi divertivo a farti le boccacce.
…Vorrei stare vicina a te…”
Le luci sferiche si stanno rimpicciolendo e spegnendo
come stelle.
Nessuna reazione, nessun desiderio: un passaggio verso
una nuova esistenza affatto diversa, forse, o verso il nulla
per cui nulla occorre ad accelerare i tempi di realizzazione.
Scompaiono i globi, ad uno ad uno, nel buio totale che
inghiotte energia, ed il nero assoluto, secondo la limitata
logica umana, palpita di illogici errori o di vita o di niente.
249
UN INSOPPRIMIBILE DESIDERIO DI VIVERE
“Oggi è una bella giornata: sto bene, sono comodo e le
cinghie sono morbide.
Caldo mi accarezza il viso e mi solletica i polsi e aria
debole mi porta odori buoni.
Annuso erba bagnata dalla pioggia di ieri che mi ha
bagnato il cuore, e aroma di alberi, penetrante e stordente:
resina, foglie secche, ma umide.
Martina mi accarezza le tempie con i polpastrelli e mi
dona benessere.
Mi tamburella sensazioni piano, delicatamente, e mi
presenta il suo mondo.
Ho strane sensazioni quando Martina mi accarezza le
tempie nel buio: mi vibra tutto il corpo e ho pulsazioni
estenuanti che si concentrano nel basso ventre.
A volte sopraggiunge un desiderio improvviso di
carezzare, di essere carezzato, e sorrido all’aria, a Martina
che mi traduce dolcemente frasi d’amore e qualche volta mi
dà un bacio a fior di labbra.
Una sensazione interiore squarcia le tenebre: Martina la
chiama musica.
L’odore di lei si fonde nel mio mondo e sogno di dare
forma al suo profumo di delicata lavanda, alla fragranza del
suo corpo dai polpastrelli gentili, alla morbidezza delle sue
labbra.
Talvolta ho avuto una sensazione violentissima,
un’esplosione da togliere il fiato, meravigliosa, e subito dopo
mi sono afflosciato su me stesso esausto e felice,
abbandonato sulla spalliera del sedile.
Martina allora mi ha accarezzato le tempie e il volto con
maggiore delicatezza e anche forza che ho interpretato come
amore, forse, o felicità del fatto che le voglio bene, che
l’amo.
E mi ha baciato ed accarezzato in maniera diversa e
avrei dominato il mondo intero.
E gli odori sono divenuti più intensi e la brezza ne ha
portati altri ancora sulla mia pelle, tiepidi di caldo o bagnati
250
da una pioggerellina fine che è uno dei tanti discorsi della
natura, sempre incuriosenti e molto interessanti...
Buio materno, ora, avvolgente come una sciarpa calda.
Scossoni leggeri, piacevoli quasi: Martina mi guida
dolcemente sicura.
Discorsi di vento sulla pelle.
Sì, oggi è una bella giornata e sono felice.”
Un vecchia stanca sospinge con attenzione e delicatezza
una carrozzina cui è legato un giovane.
Ogni tanto lo accarezza sulle tempie e gli tamburella
leggermente con i polpastrelli messaggi pazienti e sereni.
La vecchia sorride trepidante ai margini della pineta e il
giovane annusa l’aria attento.
Poi sorride anche lui.
Ha compreso.
E’ assorto, curioso ed entusiasta per nuovi odori e per
un refolo di aria nuova, sulla sua carrozzina che lo
sorregge, sordo, cieco e muto, ed ha un insopprimibile
desiderio di vivere.
251
DIFFERENZE DI SORRISI D’AMORE
Il fiume limaccioso scorre là sotto come un violento
massaggio di argilla.
A momenti sembra una magmatica resina torbida che
imprigiona, come se fossero insetti,
palloni, bottiglie,
cassette da frutta e copertoni per qualche nuova gemma
d’ambra, di nafta iridescente e liquami, laggiù verso il mare.
Cielo livido e vento di tramontana che sferza gelido.
Orario di poco traffico e pochi pedoni in giro.
Una figura immobile, appoggiata al parapetto, fissa la
corrente in basso.
Da troppo tempo.
Una voce concitata scuote torpori e rompe una ipnosi
di mulinelli spumosi come un mostruoso cappuccino.
“Si fermi, si fermi, per l’amor del cielo…Cosa ha
intenzione di fare?”
La figura interpellata si volge verso una donna
scarmigliata che corre verso di lei con aria preoccupata.
Due donne di fronte sulla spalletta del ponte e un
innaturale silenzio, assoluto tra loro, seppure relativo tra
qualche clacson esagitato e rombo di auto che passa.
La donna, che appare imbacuccata in un cappottone
largo, in realtà stringe a sé una coperta con avvolto un
bambino o una bambina.
Sembra una signora ‘per bene’, sui trentacinque, forse
quaranta anni, alta e severa di portamento; si può supporre
dagli abiti che sia di discreto ceto sociale, appena truccata,
giusto un filo, vestita sobriamente senza concessioni a
mode frivole di cattivo gusto.
Osserva con placida tristezza e occhi grigi come il cielo
l’altra donna, piccola, rotondetta, anche essa sui quaranta
o lì presso, dal viso arrossato mobile che non concede punti
di riferimento ad espressioni sempre mutevoli e sempre
esagerate.
La piccoletta si avvicina sollecita alla donna altera con
fare amichevole.
252
“Signora, la prego, la scongiuro, non faccia sciocchezze.
La sto guardando da quando è arrivata qui sul ponte: io
sono laggiù nel gabbiotto delle granatine e del bar.
Ho subito capito che qualcosa non andava: ho fatto
l’occhio a certi comportamenti.
Mi creda, signora, abbandoni certi pensieri: non ne vale
mai la pena.
Venga al chiosco con me: le faccio un caffè caldo che la
rimetterà in forza e la riscalderà.
Venga, venga, signora, lo faccia per la sua creatura
innocente che non merita certe scelte…”
La gentile barista, che parla come una macchinetta del
caffè, cinge di un abbraccio la mamma che rabbrividisce a
nuove folate di vento.
Comincia a venire giù qualche goccia di pioggia, rada, e
la luminosità diviene più cianotica e qualche auto di
passaggio accende i fari.
L’alta signora segue per uno o due passi quella donna
premurosa e amichevole con il grembiulone pesante e i
guanti senza le dita, poi si impunta e la scruta con
freddezza disperata.
Voce esangue, determinata e stanca.
“La ringrazio dell’aiuto, ma non c’è molto da fare per
me, per noi che siamo rimaste sole.
Ognuno compie delle scelte: mio marito ne ha fatta una
ieri sera con una lunga lettera.
Oggi tocca a me scegliere, e lo devo fare anche per lei…”
E scosta appena la coperta calda a presentare alla
barista una bambina che dorme.
La piccola è rosa, paffuta, serena, naturalmente
innaturale con una testolina molto più grande di quanto sia
lecito supporre, con un sorriso nel sonno che appare come
un ghigno attraverso una bocca che è un taglio in un viso
che fa trasalire la donna che guarda con iniziale curiosità
ben disponibile.
E’ un trattenuto ribrezzo, ora, un fugace orrore per una
creatura che è deforme, solo questo, crudamente: deforme.
Ma è un attimo: si ricompone in un sorriso mesto, la
cicciosa barista morbida, e cerca di modulare la voce come
una ninna nanna tranquillizzante per la mamma affranta.
253
“Mi dispiace tanto, signora, mi creda, ma che cosa
spera di risolvere con le sue scelte?
Crede che la bambina ne sarebbe felice?
E lei, che è una bella donna nel fiore degli anni, cosa
risolverebbe?
Mi rendo conto che le parlo da estranea che non è stata
toccata dalla sorte così crudelmente, ma quello che vuole
fare lei, signora, è sterile, non è costruttivo, e non tiene
conto del fatto che la creatura possa amare la vita e possa
avere voglia di godersela in futuro per quanto possa essere
possibile.
Non trova ingiusto il volere prevaricare con decisioni
sue che sono solamente la reazione a un momento di
debolezza?”
“Debolezza, dice lei?
Altro che debolezza.
Sono sfinita da tre anni di lacrime, di malintesi, di
rivalse, di reazioni, di rinfacciamenti. Ho le orecchie che
ronzano di parole sputate con odio e disprezzo: non sono
una brava madre, una buona madre…sforno mostri…è
colpa mia, colpa nostra, anche di questo angelo innocente,
che sbava troppo, che disturba, che turba persone che
dovrebbero essergli vicine semmai di più che rispetto ad
altri bimbi sorretti dalla buona sorte.
Sono sfibrata dagli sguardi di compatimento dei
passanti, dai consigli elargiti da persone che sono
disponibili solamente in teoria, dalle chiacchiere dei
tuttologi, di chi deve sempre dire la sua opinione senza
riflettere e senza rispetto.
Cerco pace, silenzio, per me e mia figlia.
Voglio solo silenzio intorno a me e alla mia bambina…”
La voce si incrina nel tono e si frantuma in singhiozzi.
La valvola della commozione, troppo a lungo tenuta
serrata, ha il suo sfogo in un pianto liberatorio sulla spalla
della barista attonita che sta inumidendo lo sguardo buono
per partecipazione solidale.
Le due donne si abbracciano, amiche da sempre, su
quel ponte, sotto una pioggerellina fine non ancora
insistente, e proteggono con un doppio amorevole abbraccio
254
una piccola dormiente che sogna mondi di bambini senza
differenze.
“Venga, venga da me al bar: le faccio qualcosa di caldo
e parliamo un poco tra noi. Venga, venga…”
Si avviano verso il chiosco accingendosi ad attraversare
il ponte.
L’autotreno è in ritardo. L’autista ha visto il semaforo
verde laggiù alla fine del ponte e spera di farcela a passare.
Un colpo di acceleratore.
Il ponte è sgombro, ma è anche sdrucciolevole per la
fine pioggerella e per le rotaie del tram che sono forse
troppo in rilievo.
L’autista ora piange incredulo con il volto rigato da
lacrime e pioggia, ora battente, seduto sul marciapiede a
ridosso della spalletta del ponte.
Due ombre improvvise davanti all’autotreno, troppo
tardi per frenare, un urto violento, un tonfo, qualcosa che è
volato nell’aria.
E’ stato interrotto il traffico sul ponte e una sirena
lontana di ambulanza lacera l’aria.
Luci azzurre e verdine riverberano la strada luccicante.
Una pattuglia di Polizia cerca di tenere lontani sciacalli
curiosi.
Mormorii confusi, un pianto sensibile, domande
sciocche.
Una pattuglia di Vigili prende misurazioni partendo
dall’automezzo di traverso sulla carreggiata.
Non si è trovato ancora un lenzuolo per coprire tre
corpi.
Sono lì, vicini, appena sciolti da un abbraccio a riparare
una bambina dalla pioggia, scomposti sull’asfalto bagnato
come manichini, con una curiosa espressione di felicità nei
visi.
Tutti e tre.
Sembrano sorridere: tre sorrisi diversi.
Serenità innocente in un mondo di bambini tutti uguali,
serenità nella soddisfazione per una buona opera compiuta
e una nuova amicizia, serenità nella determinazione di una
buona scelta.
Ma questa è la fine: così è scritto.
255
FILASTROCCA DELLA MORTE PER AMORE
Uno: sono io, non un nessuno…
Sorrisi d’accoglimento e sguardi luccicanti d’adorazione.
Si è davanti al tanto cercato tesoro: gioia infantile fusa
in progetti e miraggi.
Un’indefinibile sensazione comune di scioglimento si
diffonde in un tepore caldo che non è solo il calore degli
abbracci.
Liquefazione.
Buia grotta magica che risplende di gemme.
Due: le mie gambe tra le tue…
Spensieratezza e risa liberate e brade di felicità.
Esplorazione in un gioco di nascondino tra respiri
mozzi: animaletti curiosi, le nostre mani, che vagano per
sentieri di contrade sconosciute alla ricerca di riparo e
ospitalità.
Delicatezza
e
cura
nel
disappannare
cristalli
fragilissimi.
Tre: cosa non farei per te…
Promesse: il consacrarmi ad una causa, il fissare due
pupille sognanti con un messaggio d’onestà solare a
presentare, in ginocchio e con rispetto, un carico di doni da
srotolare dalla gobba di un dromedario e spandere sulla
sabbia riarsa sopra un prezioso arazzo.
Dedizione, complicità, fantasia con occhi bassi a non
vedere, con lo sguardo del respiro in attesa.
Quattro: sono sopra, quatto quatto…
Adrenalina, una scossa elettrica continua a fibrillare il
filo della colonna vertebrale.
E’ un posizionarsi come un puma potente e agile, un
animale da preda, in agguato sulla roccia di sconvolgenti
pensieri perversi, a ghermire una preda che può
trasformarsi in predatore caimano immobile in attesa.
Attendismo ad esasperare avidità: la pazienza che
distorce emozioni.
256
Cinque: è la danza delle lingue…
Musica che assorda cervelli con arrangiamenti
d’orchestra e sospiri e singhiozzi solisti.
Un ballo di corpi allacciati in un tango o bolero.
Un agitarsi d’ombre danzanti alla luce di un camino
acceso nel buio.
Una danza frenetica suggellata in un semplice bacio.
Rituale liturgico, disciplinatamente organizzato e anche
sfrenatamente pagano a sacrificare vittime alla collera degli
dei per placarli a donare benessere.
Sei: io per te son lui o lei…
Trasgressione: quello che i nessuno chiamano
depravazione, senza sapere.
Si accende un motore ruggente d’intenzioni rampanti a
trasformare ruoli per il piacere della curiosità e del totale
asservimento nella devozione.
Guida tu che sono stanco e vorrei rimirarti il volto
attento all’affascinante strada nebbiosa.
Sette: ad udir cose mai dette…
Provocazione a solleticare fantasie, fantasia ostetrica ad
aiutare a nascere immagini che hanno bisogno di cura e
amore.
Voce suadente a carezzare tempie madide di sudore e a
dissetare gole riarse di respiri mozzati.
Manca l’aria: senso di soffocamento nell’aroma di parole
forti.
Otto: e nel cuore un primo botto…
Un punteruolo nel cuore, una sensazione di dolore nel
troppo piacere, lo sbarrare lo sguardo perduto in occhi
socchiusi illuminati da lacrime di gioia.
Ridere dentro all’idea di quanto possa essere bello
morire.
Così.
Nove: a morir amando in prove…
Piacere di soffrire nel piacere di vivere e godere.
257
Dare e ricevere in amplificazione di sensi: tatto estremo
in leggerezza che è solo sfioramento, odore stordente di
parole sussurrate, vista d’emozioni che premono nel petto
ad uccidere o a liberare o a fissare l’immortalità nella morte
per amore.
Un ultimo soffio in gola, interminabile, accolto, a
cercare una nuova dimora in un cervello accogliente.
Dieci: oramai terra per ceci.
Crescono rigogliose le piante ornamentali di questo
giardino, contagiate dalla felicità di un corpo che comunica
gioia eterna ad un humus che nutre bellezze di fiori e di
steli che raccontano d’antichi amplessi.
Una donna innaffia con lacrime di malinconica gioia e
ricordi quel terreno e le piante complici reclinano le corolle
e mormorano al vento un canto di preghiera sommesso:
una filastrocca per morte d’amore.
258
UNA BOTTA DI VITA
Il frinire assordante delle cicale, nel silenzio di una luce
abbacinante, e la canicola di un primo pomeriggio agostano
profondamente azzurro favorirono il buonumore di un
destino capriccioso.
L’aria ricca di salsedine del mare vicino, in fondo allo
strapiombo poco distante, completò lo scenario rendendolo
più eccitante.
Si scorsero, vicini, distolti dai loro pensieri, e con una
semplice occhiata si piacquero.
Fu un corteggiamento brevissimo, di sguardi assassini e
di lingue passate su labbra riarse in significati
inequivocabili.
Si sdraiarono avidi su una pietra bianca e levigata, tra
altre pietre, e si brancicarono con passionalità frenetica in
condivisione di scariche adrenaliniche al pensiero di potere
essere scorti da qualcuno.
Il sole arroventava la piccola piana e asciugava fiori
rendendo l’aria ardente in simbiosi con altri gesti.
Fu un amplesso selvaggio, animale, consumato da due
corpi prossimi all’esplosione, inguainati in vestiti scuri, ad
assorbire energia solare e pulsazioni vitali disperse nell’aria.
Sudori e afrori si mescolarono all’odore del mare e di
bacche gonfie.
Gemiti sfibrati e mugolii di soddisfazione fecero da
contrappunto al rumore di un orario estivo scontroso,
torrido ed assolato, nel percepire lo stormire di poche ombre
di alberi severi, di cipressi secolari, e di cespugli rigogliosi di
lentisco e citronella.
Le fotografie di Giustino Saltalapicchia, nato nel 1909 e
morto nel 1997, e di sua moglie Elvira Pregobassi, in
Saltalapicchia, nata nel 1913 e defunta nel 1999,
occhieggiavano dalla lapide infissa di fronte alla pietra
candida ribollente disseminata di petali di fiori secchi che
accoglieva i due corpi ansanti.
Sembravano curiose, le due immaginette ovali seppiate,
e anche interessate.
Terminò, alfine, l’incontro, infuocato per diversi motivi.
259
Lui, galantemente, rubò, non visto da lei, un tulipano
violaceo appena vizzo da un vaso panciuto lì vicino, forse
dedicato ai coniugi Saltalapicchia, e ne fece un omaggio
d’amore alla sua compagna di piacere.
Sembrò più intenso il frinire delle cicale e la luce cercò
invano di stanare altre persone in quel piccolo cimitero
vicino al mare.
Nessuno riuscì ad udire nell’aria un rumore di applausi
tra mormorii sommessi di approvazione divertita…
260
STORIE DI NUOVE NINFE METROPOLITANE
Lyu Min è aggraziata e flessuosa come un giunco.
E’ una nuova ninfa metropolitana, forse una Naiade,
ninfa di fiume, che ha cambiato dimora: dalle foreste
acquitrinose a ridosso di Vientiane vive oggi, insieme alla
sua famiglia, sul colle Esquilino, a ridosso della stazione
Termini di Roma, in caotica operosità di botteghe di
abbigliamento, per sbarcare il lunario nel perseguimento di
un futuro tranquillo benessere.
E’ fiduciosa nella vita, Lyu Min, e la sua chioma corvina
liscia e serica ondeggia alla brezza del tramonto mentre i
due occhioni scuri si imbevono di porpora accesa.
Sta uscendo dal piccolo supermercato contiguo al
grande atrio delle Ferrovie Laziali: reca due pacchi di acqua
minerale, con la confezione di cellofan e le maniglie di
cartoncino plastificato, e un sacchetto non tanto pieno.
La busta bianca le sta per sfuggire dalle dita che
trattengono saldamente i manici e la ragazza si ferma un
attimo per migliorare la presa ed equilibrare il peso.
Si china e si guarda intorno imbarazzata nella sua
timidezza, ma divertita e serena.
I suoi occhi incontrano uno sguardo allegro e sfrontato
che sormonta un abbozzo di sorriso.
Un giovane biondo riccioluto, forse romano, forse
straniero, che pare aspetti il trenino per la Casilina, la fissa
e ammicca.
Lyu Min percepisce nell’aria calore e cordialità e
contraccambia il sorriso con educato cameratismo pudico.
Si scuote, ricciolo biondo, dal palo cui è appoggiato
indolentemente, e le fa il gesto di volerle dare aiuto
portando almeno sei delle dodici bottiglie.
La giovane arrossisce con piacevole tumulto interiore di
innocente vanità: non è il tramonto che accende.
Si stacca, il biondo, e le è accanto con un sorriso
smagliante di principe azzurro.
Bizzarra la vita nelle distorsioni delle percezioni.
261
Un sorriso candido può essere di principe o di squalo e
una chioma dorata può essere di agnello d’oro o di puma
vorace.
Uno sguardo luccicante può essere in realtà torbido e
melmoso.
La piccola Lyu Min vede quello che vuole vedere e che
sogna fin dai tempi della capanna vicino a Vientiane, dove
qualche vecchio stanco raccontava di benessere e favole
metropolitane.
Viene e trovato, il flessuoso giunco, spezzato da una
lama, due giorni dopo, semicoperto da cartoni, dietro le
vecchie rovine delle mura Serviane, mimetizzato da un
cespuglio, accanto a due confezioni di bottiglie d’acqua
minerale e una busta di plastica semivuota.
Gli occhi spalancati non hanno luce, ma lo stupore
impresso di ultimi attimi di vita.
Le ninfe metropolitane hanno perduto la loro
immortalità.
E’ appena appesantita da due maternità, la giovane
Haidée, splendida gazzella degli altopiani etiopici, nuova
Oreade, ninfa dei monti, dalla pelle lucente come l’ebano
mortificata da colori accesi accostati con cattivo gusto per
attirare attenzioni.
Esce, come tutti i tramonti, dal ‘meublè’ vicino a via
Marsala, a ridosso della stazione.
Oggi ha una luce nuova cupa nei suoi occhi lucidi di
febbricitante vitalità.
Ha appena letto una lettera dalla grafia incerta
proveniente dal suo paese e ha gonfiato il suo cuore di
sangue amaro e disperazione.
Una bomba è esplosa nel suo villaggio sui monti e i suoi
due piccoli leoncini sono stati straziati dalle schegge.
Roma si tinge di carbone e seppia senza speranza e
tutte le sere trascorse perdono di significato dissolvendo
motivazioni come sabbia a smerigliare un nucleo granitico
di disgusto e dolore.
Non ha più valore il concetto di combattere: non c’è più
motivazione per combattere e stringere i denti.
262
Perde giustificazione il sorriso giallastro di qualche
vecchio satiro in auto dietro il Policlinico, di qualche piccola
comitiva di borgatari che credono di essere andati allo zoo.
Gli echi di qualche minaccia della signora che vuole
farsi chiamare ‘mamma’, che le ha sempre parlato di mostri
della notte, e del suo amico spesso silenzioso, che sorride
da iena con occhi morti facendole vedere un serramanico, si
affievoliscono nel rumore della via piena di gente che esce
da pensioncine e camere ammobiliate per affrontare con più
intenti la notte romana.
Altri richiami nella mente: le voci miagolanti di due
leoncini, il rumore in cascatella argentina di risate
fanciullesche piene di vitalità, il frullare del movimento
nell’energia libera di correre a giocare nello sterrato
assolato.
Sta scomparendo la mansuetudine rassegnata della
gazzella.
Nuove consapevolezze, nuovi bagliori di sguardo, e la
preda sta avendo una metamorfosi che non sfugge ad altri
sguardi mentre esce dall’ostello.
Haidée non percorre la solita strada verso il buio degli
alberi di via del Policlinico.
Ha deviato verso il commissariato di Polizia.
Alle luci giallastre dei lampioni che si sono accesi da
poco sembra un semaforo che cammina e lampeggia accuse
e pericolo per creature malvagie della notte.
Un’auto romba dietro di lei troppo presa da altri
pensieri.
Si dice spesso: morire sul colpo.
E’ inspiegabile il notare, in una morte sul colpo, come si
possa atteggiare l’espressione del viso ad un qualcosa che
appare come un sorriso sereno di liberazione.
Meno protetti, i monti, dalla grazia di una ninfa che
sembrava una gazzella appena appesantita di due leoncini.
Sorride luminosa, Simona, mentre attende alle Laziali il
tram che la riporterà a casa a Grotte Celoni.
E’ pingue e formosa, come una ninfa dei boschi,
umanamente pagana nello sguardo, dolce e disincantato
insieme, morbida, scossa da turbinii di pensieri che le
263
volteggiano nella mente come crocchianti foglie secche
dorate che chiamano nuova vita per nuove primavere.
E’ innamorata, Simona, e nulla conta: è stata bene oggi,
in compagnia del suo amore, e ogni inquietudine è stata
rimossa.
Sembra un santino, Simona, in levitazione leggera sulla
banchina del tram, con gli occhi lucidi felici e il cuore in
mano che irradia raggi di luce a dare la grazia al mondo.
Oggi Roma ha ancora una ninfa che la sorveglia
maternamente.
Esistono anche storie che hanno una fine positiva e
certi tramonti non grondano necessariamente di sangue.
Stasera il tramonto è rosso di passione con striature
arancioni e gialle che sembrano sorrisi tra le nuvole.
Il tram si stacca dalla banchina lasciando un senso di
vuoto, ma qualcuno ha comunque sensazione di essere
protetto.
264
DI PRINCIPI E PRINCIPESSE
Questa è una storia di relatività.
E’ la vicenda di un bambino ucraino adottato da una
famiglia italiana.
Il virgulto sarà denominato con un nome fittizio:
Svasamìcio Varanièci.
Se si pronuncia ad alta voce, questo nome di fantasia
senza senso, può sembrare davvero ucraino, come suono e
musicalità.
Il nostro piccolo eroe ha otto anni ed è vispo, ma posato
e appena malinconico, con due occhi cerulei perennemente
sgranati nella meraviglia curiosa del tipino sveglio.
Ha un ciuffo di un colore indefinibile, forse somigliante
al biondo di un girasole di Crimea a luglio, spiovente e liscio
sulla fronte pallida e spaziosa che denota fantasia e
intelligenza.
La famiglia, che sarà definita banalmente famiglia
Rossi, è calda e dispensatrice di affetti e attenzioni.
Svasa ha una sua stanzetta piena di giochi istruttivi e
variopinti, pupazzoni di pelouche, costruzioni di plastica e
legno con tanti mattoncini riposti ordinatamente in
scatoloni colorati.
Il padre adottivo, appena possibile, in genere la sera, si
sdraia con il piccolo sul tappeto e costruisce torri che
racchiudono principesse prigioniere che devono essere
liberate da cavalieri senza macchia e senza paura.
Anche papà Rossi appare come un cavaliere senza
macchia e senza paura, solamente con un odore di
dopobarba in più.
La mamma intanto canticchia e prepara una minestra
per la cena e un odore di saporosi ortaggi si spande nell’aria
a solleticare narici richiamando alla mente del bimbo zuppe
di cavolo di pochi anni prima.
Sembra una famigliola felice.
Ma oggi Svasamìcio Varanièci è scomparso e tutti nel
paese, dal maresciallo dei Carabinieri al farmacista che ha
lasciato nel negozio l’apprendista, cercano il bambino
volatilizzatosi nel nulla.
265
Sono diramate foto segnaletiche e un breve ritratto
descrittivo con l’ultimo abito indossato dal piccolo.
Dopo quasi due giorni d’angoscia e di timori per il
peggio, da parte di tutti, giunge alla famiglia Rossi una
segnalazione della Polfer di una città di confine: il fuggiasco
è stato ritrovato, infreddolito, torvo e serio, arrendevole per
un intelligente fatalismo rassegnato nella sconfitta di un
tentativo non riuscito.
Voleva ritornare in Ucraina.
Non per ingratitudine verso papà e mamma Rossi,
adorabili, o per fastidio verso la gente amica del paese.
Voleva ritornare per rivivere da protagonista nel suo
paese delle meraviglie.
Ha raccontato ai poliziotti e all’assistente sociale il suo
mondo lasciato di là, con occhi lucidi di commozione ed un
sorriso aperto e nostalgico per il suo mondo fiabesco.
Era un principe, Svasa, nella sua terra.
Girava per i sentieri della campagna su una speciale
carrozza: una melanzana gigante di duecento chili trainata
da otto lombrichi sinuosi alti come robusti cani da slitta, e
lui faceva schioccare felice il suo frustino che altro non era
che un semplice enorme filo d’erba.
Correva, la sua carrozza viola, strascinando sul terreno
polveroso dei sentieri, e lui si riparava dal sole cocente con
un ombrello gigante che era un girasole di un curioso colore
porpora fosforescente.
Rideva, il principe Svasamìcio, al pensiero dei suoi
girasoli speciali, mentre la carrozza procedeva verso il
Tempio dove avrebbe giocato con la luce.
Inavvertite, durante la galoppata, nella gioia e
nell’attesa di giocare, apparivano ai bordi della mulattiera le
zucchine sformate con dita adunche che cercavano di
afferrare la carrozza, e si stiracchiavano indolenti le foglie
enormi delle piantine di lattuga, arancioni, stridenti come
carta vetrata, con lumachine dal muso di coniglio
occhieggianti che sembravano fare un ciao con le mani, o
forse con le antenne che erano cinque o dieci anziché
quattro.
Un mondo da cartone animato, a tinte violente e vivaci,
senza sfumature, è raccontato con voce nostalgica in un
266
passabile italiano agli astanti frastornati dentro una stanza
del commissariato.
Dietro all’assistente sociale attonito, riflette uno
psicologo chiamato in tutta fretta per supporto.
Sorride, pur essendo dentro di sé molto serio, e guarda
il principino che racconta con occhi accesi di ricordi e
rimpianti.
Svasamìcio Varanièci parla del suo gioco con la luce al
Tempio.
Una storia che assomiglia a quella del piccolo studente
olandese davanti al muro ciclopico dello Zuiderzee, che
salvò il suo popolo con un dito nella fessura della diga, a
trattenere il mare.
Il piccolo ucraino racconta, invece, di avere più volte
infilato la mano in una crepa del Tempio, una crepa che
emetteva luce e calore e dava prurito.
Ritirava la mano e si sentiva stanco, ma felice,
circondato dai lombrichi che si riposavano dopo il traino
della favolosa carrozza melanzana.
Poi aveva voglia di dormire e di sognare di una
principessa da liberare nel Tempio, più grande, immenso,
rispetto alle torri costruite da suo padre adottivo.
Ma doveva scappare di corsa, sferzando i suoi
vermiformi destrieri, per l’arrivo di guerrieri in tuniche
bianche, con un elmo bianco e una visiera di vetro, che lo
spaventavano e lo inseguivano per un poco urlando
minacce.
Il medico a fianco dello psicologo nota che il piccolo
Svasa ha un colorito verdastro e una pelle alabastrina,
solcata da venature azzurrine, davvero fragile e soggetta a
piagarsi.
Osserva anche che il giovane ha pochi capelli per la sua
età, a parte quel ciuffo ribelle sull’ampia fronte pallida.
E’ un ciuffo biondo di un giallo strano, innaturale come
lo sguardo, acceso di una luce che è brillante, ma fredda.
Il ragazzo parla e parla con foga di principesse e
guerrieri, di carrozze e mostri nella campagna, del Tempio e
della sua luce, e muti discorsi d’occhiate si intersecano tra i
presenti allibiti che intristiscono pur rimandendo
interessati e sorridenti.
267
Certo è che per un adulto, a differenza di un piccolo
Svasamìcio Varanièci qualsiasi, fantasioso, ingenuo e
innocente, è molto difficile identificare Cernobyl come un
paese delle meraviglie.
E i meravigliosi languidi sogni di principi e principesse
non si confondono, qui, con la spossatezza di una leucemia.
268
RITRATTO DI DONNA, RITRATTO DI AMORE
Lo scalpiccio dei passi della comitiva dei turisti cessa
come per magia quando la guida del museo comincia a
parlare.
Sospira, il palchetto stanco di pellegrinaggi, con cigolii
radi e sommessi.
“Per cortesia, signori, silenzio. Avvicinatevi, prego,
intorno a me di fronte.”
Silenzio e qualche respiro più profondo, per una sorta
di covare una sindrome di Stendhal, da parte di qualche
spilungone occhialuto o di qualche sfatta matrona sudata
con il cuore di silfide. Si forma un semicerchio attorno alla
guida che annuisce soddisfatta.
“Bene, signori. Ci troviamo di fronte a quella che io,
personalmente, ritengo possa essere l’opera d’arte più
significativa del museo: un’opera che travalica l’importanza
di questo museo stesso.”
Interesse e concentrazione in uno stato che è di ipnosi
collettiva.
“Vi esorto a cogliere il riverbero della luce esterna che
filtra dai finestroni e si perde nella figura illuminandone il
volto. La donna che state osservando è posta in posizione
esteticamente perfetta per un’ottimale apprezzamento
riguardo alla luminosità.
Ma questo è secondario, signori: nessuna figura può
risaltare di sola luce di posizionamento. E voi avete modo di
vedere in primo piano il tratto di chiaroscuri profondi e
caldi dello sguardo, il taglio degli occhi che è ambiguo, a
mezzaluna tipica della prima metà dell’ottocento,
a
provocare
in
sottinteso
di
posa
un’atmosfera
cinquecentesca. Il dettaglio della solarità, ancora, chiedo
perdono se insisto, nel fondersi dei riccioli fini e morbidi di
una chioma che richiama figurazioni botticelliane.
…E il corpo stesso della donna, signori: materno,
accogliente, punto di ricovero e di approdo per un animo
sensibile che sappia assaporare sentimenti di devozione
protettiva.
269
Un corpo rinascimentale, abbondante, fecondo, morbido
al tratto, statico e al contempo dinamico di pulsazioni che
vengono evidenziate da questo sorriso sereno e torbido,
insieme, per pace dello spirito e autoassoluzioni da peccati
di carne.
La parete dello sfondo ha un risalto intrigante, ricca di
questa sola figura michelangiolesca fuori tempo che vi
guarda con occhi eccessivamente rotondi carichi di stupore
e di gioia di vivere in un’espressione che elargisce promesse
di passione e amore.
Indefinibile questo capolavoro. Un Botero o un Renoir,
sani, senza tempo, più cerebrali, contaminati da una
sapienza espositiva di luci ed ombre tipica del Caravaggio,
un parto di provocazione, naif o impressionista che possiate
recepirlo, in una distorsione di prospettive e misure che è
essenzialmente desiderio.
Un rimescolare stili e correnti pittoriche con
disinvoltura e irriverenza, senza alcuna soggezione verso
chicchessia dei grandi della storia dell’arte.
Ammirate, signori, il gioco dei colori nel sorriso e nella
capacità espressiva…”
Mormorii, cenni di teste che non hanno una
compenetrazione come quella della guida che ha gli occhi
febbricitanti di entusiasmo.
Stupore della comitiva, incredulo, con sorrisi di
sufficienza. Una supponenza frettolosa che quasi indigna il
presentatore.
Il gruppo procede oltre.
La guida si volge verso la parete.
Mormora:
“Tu non hai idea di quanto ti amo, gioia mia…”
La donna alla parete si avvia lentamente verso l’uscita
della sala con un sorriso rapito, inguainata in uno svelto
tailleur, picchiettando deliziosamente con i tacchi fini delle
sue scarpine, con i capelli mossi.
“Lo so, amore. Mi fai sentire eterna…
Ed è bello morire ogni giorno d’amore per te uscendo da
questa sala.
Per ricominciare domani…”
270
SOGNI DI AMORE E NAFTA
Ti porterò di fretta all’albergo Crepacuore, questa sera.
E ti farò l’amore.
Così, come sono: con questa maglietta a righe rosse e
bianche da bullo.
Prenderemo per stanza l’ultima Mercedes, quella
metallizzata, parcheggiata a pettine in fondo alla strada,
quella alla quale hanno portato via solo le ruote, per ora, a
ridosso della vecchia fabbrica dismessa.
Dammi la mano: affrettiamoci o troveremo un’altra
coppia.
Alla luce gialla del lampione farò balenare la lama di un
coltello come un cartoncino appeso alla maniglia della
porta: “Do not disturb, please”.
Non vogliamo servizio in camera: vogliamo essere
lasciati in pace.
Liberi di sognare.
Anche senza i vetri dei finestrini, sui sedili già sfondati.
E non ci cureremo dei gemiti delle stanze vicine, di
quell’Audi devastata con il cofano divelto o di quella Panda
semibruciata giorni prima da un fumatore imprudente.
Ce ne fregheremo di sguardi curiosi di camerieri
impertinenti o d’occhiate vuote di tossici che rubano le
valigie agli innamorati.
La nostra suite brillerà d’argento alla luna e ci
sentiremo bellissimi.
Tra le poche stelle dell’albergo Crepacuore.
271
PERCHE’ MI DICI…?
Un lontano breve gracidare di mitra lacera il silenzio
ovattato della notte.
Il campo incrostato di neve rappresa è sciabolato dai
fari sulle torrette.
All’interno della baracca A il buio umido e freddo viene
acceso da un sommesso bisbiglio di una voce infantile.
“Rebecca, Rebecca…”
“Cosa vuoi, Micol?”
“Ho freddo e ho paura di questo buio. Mi manca
Ezechiele…”
“Prova a dormire e parla piano. Ezechiele è nel
magazzino insieme a tanti altri pupazzi di stoffa: si scaldano
tra loro e giudicano i loro padroncini…se si stanno
comportando bene o se rompono le scatole.
Cerca di fare bella figura…”
“Rebecca…”
“Dimmi, Micol…”
“Hai voglia di fare il nostro gioco…?”
Una vocina di speranza e un luccichio innaturale
d’occhi sgranati.
Rebecca, un’assennata bambina precocemente matura
di undici anni, percepisce la trepidazione della sorellina
Micol, di sette anni, e sente che deve tranquillizzarla
assecondandola.
“Sì, Micol, ma per poco…e parla sottovoce o verrà la
signora piovra con la casacca di lacrime e ci farà piangere
addosso a lei.”
“Sì, sì, per poco e sottovoce: ho paura della signora
piovra…ti strizza le orecchie e quasi ti soffoca sulla sua
casacca…”
“Bene Micol: cominciamo…”
La piccola Micol si elettrizza vibrante sulle assi di legno
con un risolino eccitato e prorompe con voce a stento
controllata.
“Babbo!”
“Perché mi dici ‘babbo’?”
272
Rebecca finge sorpresa ed entusiasmo e attende lo
sviluppo di un gioco inventato da loro per rinverdire ricordi
e anestetizzare con la memoria il presente.
“Ti dico ‘babbo’ perché mi è venuto in mente quando il
nostro babbo ritornava a casa dal lavoro: te lo ricordi,
Rebecca?
Abbracciava la mamma e ci chiamava e tu riuscivi ad
essere davanti a lui sempre prima di me, ma tu sei più
grande di me, e il nostro babbo ti chiamava per nome e ti
dava un bacio e ti carezzava i riccioli.
Poi arrivavo io e il babbo mi dava due baci e gli si
illuminavano gli occhi, perché io sono più piccolina, lo so, e
io gli chiedevo di giocare con me perché tu dovevi finire i
compiti di scuola.
Il
babbo
allora
si
accucciava
sul
tappeto
abbracciandomi e mi diceva di andare a prendere le
costruzioni, quei legnetti colorati.
Ricordi?
Che bravo, il babbo!
Mi costruiva il palazzo degli spifferi, con tutti i legnetti
incastrati in maniera che ci fossero tante porte e finestre e
potesse circolare l’aria, e mi chiedeva il legnetto verde, poi
quello lungo arancione, poi quello rosso, e li accostava e mi
spiegava come avveniva la costruzione del palazzo degli
spifferi.
E io guardavo il mio babbo mentre il palazzo diventava
più alto e intanto si sentiva l’odore della cena preparata
dalla mamma, e si rideva, e il babbo mi sembrava meno
stanco di quando era entrato in casa…”
Le ultime parole sono quasi biascicate nell’impasto tra
sogno, ricordo e sonno che prepotentemente s’impossessa
della piccola Micol.
Rebecca sospira, carezza la sorellina, e cerca di dormire
senza pensare al gelo che morde umido.
“Rebecca, Rebecca, stai dormendo?”
“Ci provo, Micol: parla piano.”
“Ho paura stasera, tanta paura.
La signora piovra con la casacca di lacrime ha fatto
sparire la mia amica Ruth e mi ha guardato male oggi.
273
Ho fame, ho freddo…
Non metterti a dormire subito: fammi compagnia.
Potremmo giocare come ieri sera…”
“Solamente per breve tempo, Micol: la signora piovra è
nervosa e gira spesso a controllare.”
“Va bene, Rebecca…
E io dico… ‘mamma’…”
“Perché dici ‘mamma’?”
Rebecca ha voglia di piangere e si sente sfinita, più
stanca dei suoi undici anni, preoccupata per la sorellina,
che segue come una mammina, apprensiva per una
creatura fragile e indifesa che non è consapevole della sua
debolezza.
Una lacrima rotola lungo una guancia scarna e un
comando interiore imperioso le ordina di ascoltare la piccola
sorellina senza farsi accorgere di nulla che possa
spaventarla.
“Dico ‘mamma’ pensando alle mattine quando tu eri a
scuola, quando la mamma era soltanto per me, che rifaceva
i letti cantando con una bella voce che sembrava primavera.
Mi sorrideva e prometteva di portarmi ai giardini a
raccogliere qualche primula o i pinoli per farne qualche
torta o le collanine per Ezechiele.
Che bel sorriso aveva la mamma!
Aveva i capelli morbidi e lucenti al sole e mi guardava
sempre con tanta allegria e ogni tanto mi faceva le
smorfie…”
La kapò, la signora piovra con la casacca di lacrime, si
materializza nel buio con un ghigno e un’esclamazione
malvagia.
“Piccola peste! Non sai che questa è l’ora di dormire e
non si parla?”
Prende per un orecchio la piccola Micol attirandola
verso di sé, incurante delle suppliche della sorella e di altri
bambini lì intorno nella baracca illuminata a sprazzi da
fasci di luci bianchi delle torrette del campo.
E’ risucchiata dal buio dopo avere lasciato qualche
segno su braccia e gambe e volti di bambini che cercano
una reazione per come possono e sanno.
274
E’ assorbita dalla notte accompagnata da urla stridule
altissime di Micol che chiede perdono, che promette, che
chiama la sorella Rebecca e il babbo e la mamma e il suo
fido amico di stoffa Ezechiele.
Rebecca urla a squarciagola per dare un segno di
presenza alla sorellina, la esorta e le promette una nuova
serata del loro gioco.
La notte muore indifferente.
La mattina dopo Rebecca vaga per il campo con qualche
amica alla ricerca della sorellina Micol e della signora piovra
dalla casacca di lacrime, ma non trova nessuna delle due.
Trascorrono altre notti e altri giorni e riesce soltanto a
vedere la gigantesca kapò accigliata da lontano e prova a
gridare per sapere di sua sorella, ma il vento disperde suoni
e singhiozzi.
Si trova, l’assennata Rebecca, a farsi forza da sola, nel
buio della baracca A, per dimenticare il gelo e l’umido e la
fame e la perdita della sorellina con il ricordo di momenti
sereni.
Si sorprende una sera a dire a se stessa con voce
stanca e triste ‘Micol’.
E si risponde: “perché mi dici ‘Micol’?”
E racconta con un sommesso mormorare e con occhi
febbricitanti e speranzosi accanto a lei di quando andarono
allo stagno a caccia di rane, con il fido pupazzo Ezechiele, di
quando lei, Rebecca, quasi affogò per tirare in salvo la
piccola Micol che era inciampata in una radice ed era
caduta in una gora viscida e un poco profonda.
Si erano ritrovate distese sull’erba, fradice, che ridevano
appena inquiete pensando allo scampato pericolo e alla
reazione futura dei genitori.
E una platea di piccoli ascoltatori segue la storia di
Rebecca che s’illumina di vita e nessuno si accorge del
sopraggiungere della signora piovra dalla casacca di
lacrime...
Allibì, lo psicologo infantile assegnato all’impianto di
Terezin, quando ascoltò un piccolo straccio di bambino che
poteva avere otto o dieci anni, e ne aveva in effetti quasi
tredici, che gli chiedeva se conoscesse un gioco che si
chiamava: ‘perché mi dici…?’…
275
PRIMA CHE IL GALLO CANTI
(codardo amore clandestino)
Mi ricordo il rifiatare delle ruote del treno in prossimità
della stazione: una cadenza morbida, estenuante, da bolero
erotico.
Il ritmo mi contagiò di frenesia al pensiero che ti avrei
veduta dopo pochissimo in attesa alla testa del binario.
T’isolai subito tra la folla.
Eri inconfondibile.
Un’icona.
Avevi gli occhi sgranati, a palletta, in uno sguardo
adorante incantato per me, tuo principe azzurro disfatto dal
caldo e dal lungo viaggio.
Ti fissai in una nostra immagine complice, come spesso
in precedenza, con un bel fioccone bianco appena
inamidato tra i capelli ricci e un fiocco azzurro enorme a
farfalla su un grembiulino candido, con il cestino di vimini
per la merendina e i pastelli di cera.
Un saluto muto, di sguardi, di sorrisi, d’impercettibili
inclinazioni di capo a migliorare inquadrature visive e a
comunicare messaggi subliminali carichi di splendide
banalità: come stai bene, ti trovo bene anche io, quanto mi
sei mancata, godiamoci questi giorni, ti amo, ti amo, ti
amo…
Nulla d’esagerato: discrezione e controllo esteriori ad
amplificare emozioni deflagranti dentro.
Un bacio a fior di labbra, ancora uno sguardo, una
stretta d’abbraccio quasi infantile, nel suo vigore, ancora
piccoli baci accompagnati da sorrisi di sollievo aperti come
scrigni di tesori.
Riassaporo tanto benessere psicofisico.
Ho ancora al mio fianco il tuo braccio e nelle orecchie il
rumore del trolley che graffiava le mattonelle della banchina
e la tua risata argentina.
Poi il boato.
Il nero.
276
Il volare senza peso artigliato alla vita da una mano
d’aria violenta che mi schiaccia a terra più in là senza
cognizione di sapere cosa stia accadendo.
Fumo acre intorno.
E odore di sangue e morte.
Rivedo con dolore cocente la mia mano che lambiva una
pozzanghera di sangue scuro che si allargava e che
nascondeva il tuo volto fuso nelle mattonelle in un groviglio
di capelli appiccicosi.
Una fitta al petto nel vederti al mio fianco esanime
mentre la vita decise di rimpossessarsi di me formicolando
nel corpo in brividi di paura e indolenzimento.
Urla, intorno, di raccapriccio, pianti, sirene in
lontananza, imprecazioni.
Il mio grido strozzato di dolore, sovrastante ogni
rumore, terribile: la consapevolezza della perdita.
Il guardarmi intorno, inebetito, e lo scorgere figure che
vagolavano nel fumo che diradava e che si dirigevano anche
verso di me, verso di noi.
Ricordo una mia freddezza d’automa oliato in tutti i
suoi ingranaggi.
Si accese come un interruttore e al ‘clic’ mentale mi
attivai senza anima.
Mi levai in piedi e recuperai il trolley squarciato da un
lato.
Fui sopraffatto da un turbinio di pensieri pragmatici,
regole utilitaristiche, comandamenti classici di certe
situazioni delicate.
Mi allontanai da te e dal tuo corpo immobile
galleggiante nel tuo sangue.
Fui percorso da una scarica d’adrenalina come un
animale da preda: non avrei dovuto essere lì.
Piansi lacrime isteriche d’ impotenza mentre mi
confondevo tra la gente e riprendevo colore sulla pelle che
copriva circuiti e neuroni di robot.
Ti sto scrivendo queste poche righe e te le porterò
chiuse in una busta, con un fiore.
Ti rivedrò: forse una nostra immagine di tempi
bellissimi, dove apparirai con il tuo sorriso forte e solare di
277
ginestra che mi fece innamorare di te, con quel tuo sguardo
infantile che chiedeva una fiaba ancora.
Ti mormorerò scusa per la mia vigliaccheria, per l’essere
scappato quel giorno lasciandoti su quella banchina, per
non avere accarezzato un’ultima volta la tua mano.
Ti chiederò perdono.
Poi, semmai sia stato scritto e deciso, cercherò di
affogare i miei rimorsi con altri pensieri, soffocando il dolore
nell’anestesia della vita che continua, sperando di riuscire a
dimenticare, offrendo nuovamente attenzioni a chi trascurai
per te, che non immagina e che non sa.
Sarà una doppia raccolta di cocci, forse sterile, per me
che non so riaggiustare nulla e che mi sento, dentro, un
vaso in frantumi che non accoglierà più luminose ginestre.
278
LEARCO ATTENDE LE FATE DI FEDERICA
Federica ha quindici anni, come in una canzone di Ivan
Graziani.
E’ acerba, esile, magrissima con un seno appena
accennato, con i capelli corti e spettinati e gli occhi liquidi
della neve di vetta vicina al cielo, chiari e perennemente
sgranati in espressioni di curiosità e meraviglia.
Learco ha trentasei anni.
E’ asciutto, quasi scheletrico, alto e annodato su sé
stesso.
Sembra uscito da un ritratto di Egon Schiele,
stempiato, ma arruffato, assente e pensieroso, con occhi
senza fondo del colore della giada verdolina cinerea,
insondabili nelle emozioni.
Si conobbero a pranzo, alla mensa.
Learco si presentò davanti a Federica e le chiese se
poteva prendere la saliera; poi ritornò al suo tavolo in
fondo.
La ragazza si sentì infantilmente donna, importante e
desiderata, con un uomo che le aveva parlato e per una
richiesta.
Poco dopo, si sedette, adorabilmente sfrontata, davanti
a lui, con il vassoio del pranzo da finire:
“Ti dispiace se mi siedo qui con te?
Non conosco nessuno… Odio stare da sola…”
Learco annuì distratto, scottato dalla neve azzurrina di
quegli occhi sgranati e curiosi.
“Mi chiamo Federica: sto qui da tre mesi.
Tu?”
“Learco.”
Una risata sacrilega scoppiettante:
“Che nome è Learco?”
“Mio padre era patito di ciclismo, e Learco Guerra, detto
anche la locomotiva umana, era un suo corridore preferito.
Sto qui da quasi un anno.”
“Per…?”
“Tossico.”
279
“Io per colpa del mio patrigno, bastardo, che è morto
tirandoci tutti dietro: sono l’ultima…
Se mia madre non avesse avuto il sonno pesante, forse
starei da un’altra parte”.
“Io ho smesso, ma ormai è tardi.”
Da
allora
mangiarono
sempre
insieme
e
si
frequentarono sempre più assiduamente raccontandosi di
loro.
Il primo appuntamento della giornata era davanti alla
macchinetta automatica delle bibite, davanti alla bacheca.
Si sorridevano da lontano, ognuno dal suo capo di
corridoio.
Si prendevano le mani, all’inizio, e poi cominciarono a
salutarsi con un abbraccio tenero e un bacio a fior di
labbra.
Dopo il saluto, ognuno prendeva la strada per le sue
specifiche analisi o per una visita o per un incontro
d’appoggio con lo psicologo, ma il piacere della compagnia
era solamente rimandato a metà mattinata o, al massimo,
all’ora del pranzo.
Si affezionarono con pudore, paura di fare e farsi male,
circospetti, ma disperatamente bisognosi l’uno dell’altra e
viceversa.
I concetti d’età e di maturità, a pensarci bene, possono
essere davvero relativi e ridicoli…
Da due giorni Learco dorme da solo nella sua stanza.
Il suo compagno se n’è andato senza fare troppo casino.
Questa è una notte di Valpurga: piove a dirotto tra
tuoni e lampi che vetrificano per interminabili istanti un
ambiente che è già deprimente di suo.
Il ritratto di Schiele ha caldo e si rigira oppresso nel
letto in un groviglio di lenzuola umide, come appunto un
quadro.
La porta della stanza si socchiude con un sommesso
cigolio.
La sagoma filiforme di Federica si staglia nella luce
intermittente del temporale.
Un sussurro:
“Learco…dormi?”
280
Risponde anche lui piano:
“No: non riesco. Che fai da queste parti?”
“La caposala sta ronfando come un bufalo.
Ho avuto una crisi micidiale e sono stata in bagno per
un’ora.
Mi sento spossata e ho paura dei lampi.
Tienimi con te: non voglio stare sola…”
Learco si sente improvvisamente vecchio e ha paura.
Abbozza un no stanco e arrendevole, contraddittorio
con lo spostarsi inconscio su una sponda del letto per fare
posto alla ragazza.
“Tu sei pazza…”
Federica si sfila il camicione: è nuda, lucida di
un’innaturale traspirazione, un’anoressica puledrina.
Trema e mormora:
“Stringimi, Learco; coccolami, baciami con tenerezza.
Non fare la locomotiva umana…”
Ride con malizia per la battuta, sottovoce, ma
irrefrenabile e argentina come una cascatella, al di fuori
d’ogni realtà, e scalfisce l’uomo stupito che smarrisce le sue
stanchezze e i suoi pensieri.
Fa le fusa come una gattina, e Learco l’accarezza con
delicatezza, come una porcellana fragile e preziosa, con il
timore di frantumarla e di cancellare una personale
atmosfera di pioggerellina primaverile in un bosco, che
contrasta con il reale temporale che riverbera sulle pareti
acide della stanza.
“Accarezzami il seno, Learco; ti prego…”
La ragazza, luminosa e diafana nella penombra, pulsa
di una vita diversa e di un’energia insospettabile.
I suoi occhi scintillano di gioia e di curiosità disperata.
E’ giovane, troppo, ed ha speranze ed immagina futuri.
Chiede come ogni giovane.
Learco è stanco, invece, e disincantato, ma si lascia
prendere docilmente per mano e condurre nel paese delle
fate dell’amica.
Sente un piccolo capezzolo ergersi tra le dita.
Federica è carica come una donna da saziare.
Osa.
281
Sbottona il camiciotto del suo principe azzurro e
insinua una mano sottile ad esplorare il suo corpo.
Sospiri si fondono con lo scroscio della pioggia nella
notte accesa a sprazzi in fotografie al fulmicotone.
“Prendimi piano: ti prego.
Dammi una possibilità.
Che sia una cosa diversa, stavolta…
Da non dimenticare mai più”.
Scivola lieve su di lei, Learco, ora forte e resistente,
deciso a regalare tappeti e broccati, oro e melarance alla
sua principessina che lo ha introdotto nel paese delle fiabe
della speranza.
Si muove sulla fatina come un leggero ballerino
debilitato ansando faticosamente sulla curva appena
abbozzata del seno scosso da fremiti elettrici.
“Learco, ti voglio dentro di me fino alla fine.
Ti prego…”
Si raggomitolano, scomposti, fra loro, e poi si
espandono, brinati di sudore freddo nel letto troppo piccolo,
sospirando come fili d’erba che crescono, amplificando
dentro di loro tutte le emozioni controllate nella stanza con
piccoli singhiozzi e un soffocato pianto liberatorio.
Si abbracciano teneri, forti, violentemente a graffiarsi la
pelle, baciandosi mille volte con delicatezza e avidità
insieme.
“Grazie, amore…”
Federica lo bacia di un soffio sulla fronte e scompare
silenziosamente nel corridoio verso il suo padiglione, con il
camicione che pare una vela.
L’uomo la sente tossire in lontananza, insistente e
rauca, compressa per non fare rumore e svegliare la
caposala.
Il temporale s’allontana e s’ode solo un monotono
ticchettio di pioggia residua sui vetri.
Federica non arriva a compiere sedici anni, stroncata
dalle complicazioni di una polmonite in agguato con altre
patologie opportuniste.
Learco vive da solo ancora per qualche mese, pranzando
senza più stimoli e compagnia, sdraiato sul letto tutto il
282
giorno, apatico, refrattario agli entusiasmi incoraggianti di
chi lo segue.
E’ indifferente al presente e non concepisce il futuro,
almeno qui e in questa vita.
Ha dato qualcosa di sé, tuttavia, ed è stato importante
per qualcuno, nel passato recente.
Questo basta: un esistere, per quanto minimo,
compiuto.
Ora attende senza eccessive illusioni, ma con un
barlume di speranza, di vedere se esista o no un paese di
fate con una giovane principessina.
Attesa breve…
283
L’ORGOGLIO DI OSSIGENO
Nulla di speciale, le vacanze dai nonni in montagna: ti
riposi, ripassi il latino e la chimica, e vai a pesca di trote
lassù, all’orrido, con le gambe a spenzolare sulla spalletta
del cavalcavia, una lunga lenza avvolta in un pezzo di
sughero, e un barattolo pieno di vermi o di polenta.
All’alba ero sempre lì che spiavo giù in fondo, dove
l’acqua dell’alta cascatella spumeggiava in una gora
profonda circondata da massi affioranti viscidi di muschio.
Ci credi se ti dico che quel giorno restai stupito come
uno stoccafisso?
Sembravo uno sportello del bancomat, con le lucine
negli occhi e la bocca aperta dalla meraviglia.
Da lontano vidi arrancare Ossigeno, l’istituzione del
paese.
Mi emozionai: non mi ero mai trovato da solo con lui.
Si prese il soprannome che era un ragazzo.
I gemellini della panettiera, con l’argento vivo addosso,
quelli che ora vivono all’estero, decisero di giocare a fare gli
esploratori, e si calarono nella vasca chiusa della
cooperativa per la fermentazione del mosto.
Le esalazioni potenti nel serbatoio fecero perdere loro i
sensi.
Qualcuno si accorse dell’accaduto e diede l’allarme al
paese.
Si precipitarono tutti.
La panettiera si sbracciava come un mulino urlando,
isterica, e diverse donne cercavano di calmarla carezzandola
e volgendosi intorno a cercare un uomo forte che osasse
calarsi nella cisterna per ripescare i ragazzi e salvarli
dall’asfissia.
Si fece avanti lui, guascone per incosciente giovinezza.
Era il ritratto della solidità di un armadio.
Valutò velocemente la profondità del serbatoio, calò una
fune robusta assicurata ad un paracarro, fece una profonda
inspirazione per una lunga apnea, e si gettò di un balzo
dentro, con un’altra fune, per assicurare al suo corpo i
ragazzini svenuti.
284
Stette dentro circa un minuto e quaranta secondi, la
prima volta.
Tirò fuori il primo bimbo che fu slegato febbrilmente da
due o tre uomini del paese per le cure del medico.
Si calò ancora, per il secondo ragazzino, e scomparve
per quasi due minuti e dieci.
Non riusciva a trovarlo, al buio.
Si tirò su a fatica, con il bimbo agganciato alla vita, e
fece stare tutti in pensiero.
Si salvarono entrambi i bimbi, per miracolo.
Il medico lo ribattezzò Ossigeno, e da quel giorno lo
divenne per tutti nel paese, mantenendo il soprannome
anche quando si fece uomo e andò a lavorare alla
falegnameria del paesino vicino.
La panettiera si liquefaceva ogni volta che lo incrociava
per strada e lo riempiva di pane e focacce.
I ragazzi del paese, la domenica, gli chiedevano di
gonfiare i palloncini.
Lo salutai, fiero dell’incontro.
“Olà, Ossigeno, che fai da queste parti?”
“Faccio come gli elefanti vecchi: cerco il mio cimitero,
bel cit.
E tu, piuttosto, che stai facendo?”
“Provo a pescare trote.
Che significa quello che hai detto?”
Tossì violentemente con un fazzoletto davanti alla bocca
e si sedette sulla spalletta accanto a me, con una smorfia
dolorosa e un ansare da sambernardo.
Aveva uno sguardo lucido che sembrava di febbre e il
volto era un totem intagliato nel legno della falegnameria
dove lavorava: le rughe erano crepacci e la pelle era di
cartapecora.
Mi guardò a lungo, curioso, cercando di capire chi
aveva davanti.
Poi ricordò mio nonno e si aprì ad un sorriso schietto
sotto i baffoni grigi da tricheco.
“Riflessioni su un nome da difendere, bel cit.
E’ dura chiamarsi Ossigeno, essere il gigante buono,
protettore del paesino, e poi uscire dall’ospedale con la testa
che ronza per certi discorsi avvelenati di qualche medico…”
285
“Che è accaduto, Ossigeno?”
“Non so di preciso: non m’intendo molto di certe cose.
So solo che ho visto due o tre gelatai scuotere la testa,
pensosi e tristi.
Uno mi ha detto qualcosa circa i polmoni, sul fatto che
da qualche tempo sputo sangue e ho l’affanno e dolori
fortissimi al petto: forse la colpa è del lavoro in
falegnameria.
Paroloni difficili: mesoteliqualchecosa e altre che ho già
dimenticato.
Però non sono stupido: ho capito bene che si parlava di
bombole da portare appresso con un carrellino o uno
zainetto, di cannule da mettere nel naso per respirare.
Ossigeno gonfiava i palloncini ai bambini e li salvava in
apnea…
Capisci?”
“Mi spiace davvero.
Non si può fare nulla?
Posso rendermi utile in qualcosa?”
“Dovrei solo aspettare appeso ad una bombola, come il
cuoco del festival dell’Unità che prepara la carne alla brace:
io, di mio, ho già i polmoni alla brace.
Sì, bel cit, puoi fare qualcosa per me: oggi smetti di
pescare e ritorni al paese senza dire che mi hai visto”.
Sorrideva, ma aveva uno sguardo duro e fermo che non
ammetteva repliche.
Abbassai il mio e stetti muto, anche se mi strinai
d’inquietudine per qualcosa che mi sfuggiva.
Riavvolsi la lenza e svuotai il barattolo della polenta giù
nell’orrido: le trote probabilmente ringraziarono, per come
possono le trote.
Ebbi consapevolezza del ruolo d’essere un cit, un
ragazzo, di fronte ad un uomo, e quindi di dovere del
rispetto ad Ossigeno.
Ci salutammo in silenzio con un gesto di mano, poi gli
girai le spalle e mi diressi giù al paese senza più voltarmi,
certo che avrebbe voluto così.
Ho ancora oggi la sensazione di avere sentito un tonfo
sordo.
286
Poi ci ripenso con ragionevolezza e mi dico che esagero
nelle emozioni perché il rombo dell’orrido copre ancora oggi
ogni rumore.
Il paese si chiese perplesso il perché della scomparsa di
Ossigeno fino a che, qualche settimana dopo, un curioso
turista, affacciatosi alla spalletta del cavalcavia, non notò in
fondo un paio di gambe sporgere tra alcune rocce verdastre
semisommerse nell’acqua.
Tutto il resto, come sempre, è retorico.
287
LE REGOLE DELLA MARESCIALLA
Tosca è una vecchia puttana alquanto gonfia.
E’ chiamata con il nome di battaglia di Marescialla
perché batte da sempre nei vicoli dietro la caserma.
Ha fatto da nave scuola a parecchie reclute e ha dato
piacere a molti suoi concittadini, discreta e riservata,
talvolta anche con il beneplacito di qualche moglie pigra che
l’ha tollerata, ma con rispetto e simpatia.
“Tosca, sei brava in cucina?”
“M’arrangio.”
“Cucini anche piatti elaborati?”
“Sono una discreta cuoca. Perché queste domande?”
“Sai, pensavo che siamo di una certa età e che
potremmo farci compagnia.
Tu smetteresti di fare la vita e mi prepareresti qualcosa
di buono da mangiare, ed io mi prenderei cura di te e ti
porterei in giro a fare qualche gita o a vedere un film
insieme ogni tanto.
Ti piace la proposta?”
Tosca sembra un balenottero riflessivo sul letto sfatto
nella penombra di una sera d’estate.
Ascolta Vanni, un bravo cristiano vedovo da dieci anni,
un cliente regolare e fidato che è anche un amico.
S’è levato a sedere sulla sponda del letto, Vanni, in
canottiera, e le sta facendo una proposta che l’alletta e
anche la spaventa.
La sua vecchia guida, la Biancona, che fu prodiga di
consigli, quando lei era alle prime armi, si riaffaccia alla
mente della Marescialla con le sue basilari regole da
rispettare assolutamente, per una vita tranquilla da
puttana senza problemi.
“Ascolta, Vanni: non è cosa.
La prima regola, per una come me, è quella di non
legarsi a nessuno.
Non tanto per figli indesiderati: ormai le mie uova sono
sode.
288
Quanto per la perdita dell’indipendenza, ed io sono
sempre stata molto indipendente e sono abituata a fare
sempre come mi pare senza dover dare giustificazioni a
nessuno.
Non roviniamoci la vita.
Immagini?
Io e te per la via del centro a spasso e a braccetto e tutti
che si voltano ridacchiando e indicano Vanni che va in giro
con la Marescialla?
Io forse me ne potrò anche fregare, ma tu, alla lunga, ti
sentiresti infastidito, e cominceresti a pensare a quanti mi
conoscono, diciamo… approfonditamente.
Faccio finta che hai scherzato e t’aspetto giovedì
prossimo.
Adesso smamma e per oggi offre la ditta, anche se
questa è un'altra regola che non bisognerebbe mai
infrangere…”
Sorride la Tosca dagli occhi buoni, e balla il suo seno
enorme e soffice, come il più bel cuscino del mondo.
Vanni la guarda ammirato, pensieroso, ammutolito.
Si veste e poi si dilegua come il fumo delle sue sigarette
al mentolo.
E viene sera.
La Marescialla oggi ha deciso di non lavorare, ma è
senza fumo e deve scendere fino al distributore automatico
delle sigarette, giù in fondo alla via.
Sbuffa e ansima, tranquilla e divertita, ripensando alla
proposta di convivenza del Vanni, e ticchetta lungo il
marciapiede lucido d’umidità, giallino di lampioni al sodio.
Si para innanzi l’Evaristo, il figlio della Bice che ha il
negozio di ferramenta più in là.
Evaristo è giovane e già rovinato per sue debolezze mai
combattute: è striminzito e tormentato con un ciuffo nero e
unto che spiove su due occhiacci senza fondo.
E’ tossico.
E’ anche incattivito da una madre che, seppure
tardivamente, non lo asseconda più come una volta.
Gira in zona come uno squalo, in crisi mistica, nervoso
per dolori lancinanti alla bocca dello stomaco, per un’arsura
289
senza rimedio, per un’ansia vorace che non ammette
deroghe.
Lo squalo incrocia il balenottero Tosca e fiuta odore di
cibo.
Sorride falso con denti gialli come gli occhi ingordi.
“’Sera, Tosca. Mi presti cinquanta?”
“Và a casa, Evaristo: è umido e prendi un malanno. Poi
non ho che i soldi per le sigarette…”
Evaristo scatta come un vero squalo tigre e branca la
vecchia per il collo zaffandole parole d’odio e di fretta
impellente.
“Ascoltami bene, vecchia troia: ho bisogno di soldi, e
subito, mi capisci?”
La Marescialla ripassa l’eco di parole della vecchia
Biancona: le regole di vita per una che fa la vita.
Mai far vedere d’avere paura.
Mostrarsi sempre decise e sprezzanti: gli uomini si
confondono e smarriscono la loro aggressività.
Mai dare soldi in prestito agli uomini.
Il balenottero si dimena e reagisce in ossequio alle
regole.
“Smettila, Evaristo.
Non ho che pochi spiccioli per le sigarette.
Non mi seccare o poi m’incazzo.
Ascoltami: tornatene a casa e io faccio finta che non sia
successo nulla”.
Il giovane squalo è accecato dalla voracità: una puttana
ha sempre qualche marchetta nella borsa, e questa vecchia
sta mentendo.
I soldi hanno l’odore del sangue e gli squali
impazziscono, quando lo percepiscono, anche da lontano.
La scuote e la sbatte contro un lampione soffocandola
con la mano sulla bocca perché non gridi e chiami aiuto.
Tosca scivola trascinandosi a terra il tossico ansimante
che suda freddo il gelo dell’assassino.
L’Evaristo le sbatte la testa sull’asfalto per stordirla, ma
un tossico non sa valutare la sua forza: spesso ne ha
pochissima, ma a volte ne ha di spaventosa.
La Marescialla s’aggira smarrita e sola tra tante lucine
di un Luna Park nel buio della notte e vede il banco del tiro
290
a segno dove c’è la Biancona che le vuole porgere
sorridendo il fucile.
Più in là c’è il capanno delle tre palle a un soldo, con la
Bice che la chiama e la invita a colpire l’Evaristo legato in
fondo alla tenda.
Poi vede il Vanni con il banchetto dello zucchero filato,
che le tende un braccio con una nuvola rosa su un lungo
stecchino e le chiede ancora se vuole venire a vivere con lui.
Ripensa alle vecchie regole e non sa più se devono
essere rispettate senza discussioni o migliorate con
l’esperienza e il tempo.
Forse non ha più voglia di fumare, Tosca, la
Marescialla.
Si spengono, una dopo l’altra, tutte le lucine del Luna
Park, e sente uno squalo che le azzanna un fianco dalla
parte della borsetta.
Poi il freddo e il nero.
Con la sensazione di affondare a testa in giù in un
abisso.
Leggera.
Senza più regole, per ciò che è stato e potrebbe essere
stato.
291
UN ATTIMO DI SEMPRE
Sferragliavano, i cingolati, tra il fango del piazzale di
Dachau, con barriti sinistri di un branco d’elefanti potenti e
invincibili.
Figure secche come tamerici prosciugate assistevano ad
un epico mutare d’eventi, incredule nella debolezza
impastata in incrollabile fede e crescente indifferenza.
Qualcuno sollevava un braccio scheletrico a salutare
con un sorriso senza più denti, ma molti erano immobili e
fissavano i liberatori con occhi che erano enormi pozze
d’acqua senza fondo.
Le casacche a righe erano proprie del paesaggio e si
confondevano nel grigio plumbeo di una primavera
svogliata, nella fuliggine di una ciminiera che vomitava
ultime anime, nel livido di un immenso campo pervaso di
vita larvale annidata con ferrea volontà nella carogna
dell’assenza della dignità umana.
Il tenente smontò dalla jeep per ispezionare un
lunghissimo baraccamento, alla ricerca d’altri superstiti da
assistere e da tranquillizzare con la sua presenza.
Rabbrividì nel notare sagome sparute e immobili,
cristallizzate in curiosità esausta, tutte intorno.
Erano figure in bilico sulla vita, silenziose e diffidenti,
ma anche indifferenti e fataliste, spezzate nel midollo per
quanto poteva rappresentare il concetto di reazione.
Cercò di ignorare sguardi e pallidi sorrisi, dolorante
nell’intimo per la sopportazione di un concetto di
risarcimento che lo attanagliava con affilati e lancinanti
buoni propositi.
Entrò nella costruzione ed ebbe la visione di un’infinita
teoria d’impalcature di legno, alcune con stracci, altre con
sagome irrigidite, forse vive, forse morte, di prigionieri
sfiniti.
Qui e là sporgevano sottili una gamba o un braccio
ossuti, e le lame di luce esterna filtrante dalle fessure delle
finestre, nella penombra, si confondevano con le righe
bianche e nere di qualche casacca immobile su una branda
di legno.
292
La vide in fondo, lontana, completamente nuda: uno
scheletro. Era bianca come una ceramica, punteggiata di
lividi bluastri lungo il corpo, con le ossa sporgenti da una
pelle tirata come quella di un tamburo.
Aveva i capelli tagliati cortissimi, neri come la pece, ed
anche il pube era nerissimo, folto assai e riccioluto,
risaltante prepotente tra due cosce esangui, magre e
nervose.
La donna aveva un volto teso all’indietro, verso la nuca,
in una parvenza di sorriso che male si coniugava con uno
sguardo pieno di domande e di cose da dire in una
spossatezza senza fine. Gli occhi erano enormi, di un
celestino slavato che si confondeva nel grigio di quanto
avevano veduto, ed erano spalancati senza battiti di ciglia,
lucidi di residue lacrime che scorrevano ora ebbre di libertà.
L’uomo si sentì in imbarazzo per un pudore di
benessere.
Lei gli si fece incontro.
Camminava malferma, con le braccia esili in appiglio a
qualche branda, senza curarsi della sua nudità, con il seno
avvizzito solcato di venature azzurrine, segnato da due
capezzoli violacei di freddo e insensibilità. Sembrava che i
suoi zigomi si dovessero strappare da un momento all’altro,
distorti in un reticolo di rughe sottili e profonde, sollevati in
un’espressione amichevole e fiduciosa.
Il tenente protese un braccio per sorreggere la donna che
avanzava come una vela in una tempesta.
Lei s’aggrappò con violenza, artigliandolo con le unghie
al polso e alla mano, in un impeto di possesso. Lo abbracciò
premendosi tutta sul suo corpo, posandogli il capo sulla
divisa, ridendo assente in un cantilenare di frasi senza
senso.
Il militare le cinse con il braccio le spalle e la accarezzò
delicatamente mormorandole la fine di un incubo.
Due immensi occhi di cristallo si sollevarono verso di lui
e attesero altre parole di zucchero e di cioccolata, di patate
e di spezzatino di carne, di pane raffermo. Chiedevano e
scrutavano, mentre le labbra rincorrevano discorsi frenetici
con sospiri, con il biascicare di lingua su un palato riarso,
con un risolino incessante d’incredulità trattenuta.
293
Emanava un odore di minestra rancida, di fiato
pesante.
Il tenente, tuttavia, si smarrì nel suo sguardo, e le
sorrise, colmo di tenerezza, sfiorandola con calore tra le
scapole sporgenti, a tranquillizzarla dagli incubi.
Lei lo fissò rabbrividendo al tocco della mano come un
cane che si pacifica ed adora di nuovo il padrone che lo ha
picchiato e che ora lo accarezza, e ammutolì.
Si staccò appena un poco per inquadrarlo meglio. Poi
scandì con voce convinta tre parole in un inglese stentato.
“Io ti amo”.
Avvicinò il suo volto a quello dell’uomo.
Fu un bacio a fior di labbra e poi disperato, ad entrare
nel corpo dell’altro, a penetrare, a cercare un riparo, un
rifugio dove smaltire il dolore e dove dimenticare ricordi di
morte.
Il lungo dormitorio s’illuminò per un attimo di luce
propria, al di fuori del tempo e dello spazio, sopra ogni
miseria umana. Poi ripiombò nel buio grigio di sempre.
Il militare accompagnò la donna fuori, avvolgendola con
una coperta, e l’affidò ad un compagno che attendeva
appoggiato allo sportello di un’autoambulanza.
La donna si volse verso il tenente che s’allontanava, gli
sorrise, femminile dopo due interminabili anni, e si passò
una mano tra i capelli dalle ciocche quasi inesistenti a
ravviarli per rendersi un minimo presentabile.
Sorrise anche lui, impacciato, e la salutò con un cenno
di mano.
S’allontanò verso altre baracche scomparendo alla vista
della donna, pensando, con il cuore gonfio di malinconia
dolce e struggente, che l’amore può attecchire dappertutto e
che i concetti di tempo e durata sono assolutamente
relativi.
Si sentì sciogliere in un insieme di contrastanti
sentimenti.
Fu struggimento per una storia d’amore di un attimo e
di un’eternità, a Dachau.
294
GUARDAMI
Quella massa di capelli fulvi mi ricordò la copertina di
un disco degli Art of Noise.
Era imponente, giunonica, non più giovanissima.
Altera.
La vidi spesso.
S’affacciava nel pomeriggio assolato e incedeva elastica
lungo il viale alberato del parco.
Aveva lo sguardo mascherato da enormi occhiali da sole
e sembrava fissare solamente un punto indefinito davanti a
sé stessa.
Le giornate erano già calde e la donna non passava
inosservata, avvolta in un impermeabile lungo fino alle
caviglie.
Attirava ancora di più l’attenzione dei pigri passanti e
degli sfaccendati seduti sulle panchine quando apriva il
soprabito lasciando intravedere una minigonna inguinale
su calze fumé che evidenziavano due gambe chilometriche,
rinascimentali e polpose, ma slanciate.
Aveva un suo modo di muoversi molto naturale,
indifferente alle comprensibili reazioni dei frequentatori del
parco.
Cercava una panchina libera dondolandosi sui lunghi
tacchi.
Trovatala, allargava il soprabito per accomodarsi la
gonnellina, tirandosela ancora più su, se possibile, con fare
indifferente, e si sedeva accavallando le lunghe leve in
maniera che un attento passante avrebbe potuto sbirciare
in mezzo a quel paradiso.
Le calze fumé lasciavano spazio all’immaginazione e
all’equivoco attirando sguardi su un remoto triangolo nero
che poteva essere il rinforzo dei collants, oppure no…
Lei gettava uno sguardo fugace intorno e poi apriva un
libro.
Leggeva, o faceva finta di leggere, carezzandosi una
coscia a malapena riparata da un lembo dell’impermeabile.
S’infittiva il passaggio di salutisti camminatori nel
parco, proprio là, di fronte a quella panchina occupata da
295
una scosciata lettrice, e qualcuno si soffermava sfacciato e
volgare, qualcun altro indugiava timido e vergognoso, altri
ancora proseguivano voltando il capo ripetutamente con la
speranza di un cenno d’intesa.
Qualcuno, raramente, si sedeva a fianco della donna,
ma probabilmente sbagliava approccio perché poco dopo
rimaneva solo, avvolto da un profumo stordente, mentre
una lunga ombra fulva s’allontanava sempre più altera...
Ti chiesi garbatamente se potevo sedermi e assentisti
con un sorriso cortese.
Mi complimentai, disinvolto, per la bellezza delle tue
gambe e buttai là qualche battuta divertente sul popolo
degli sciacalli affamati che gironzolavano nelle vicinanze
uggiolando d’eccitazione.
Fui diretto, ma non volgare.
Riuscii a catturare il tuo sguardo.
Scambiammo due chiacchiere da persone di mondo sul
controllo delle pulsazioni umane e sull’esibizionismo inteso
come piacere e potere.
Fui brillante e mai sopra le righe.
Questo ti interessò e creò una consapevolezza di
complicità a lungo cercata e mai trovata.
Un gelato in un dehors di un bar lì vicino fu meno
rinfrescante della norma: ti mostrasti generosamente
seppure semicoperta dalla lunga tovaglia...
Rilanciai proponendoti casa mia e tu accettasti…
Ricordo ancora quello che mi dicesti:
“Oggi sarà la prima e l’ultima volta. Non verrò più a
casa tua…”
Rimasi dispiaciuto perché sei una bellissima donna e
hai un portamento che affascina e movenze estremamente
eccitanti.
Poi aggiungesti:
“Da oggi, però, ogni volta che ritornerò al parco e ti
scorgerò, potrò pensare di essere venuta lì per una persona
speciale…”
Ti sto fissando da due panchine più là.
Mi hai visto.
Fai finta di nulla.
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Qualche moscone insignificante ti sta ronzando intorno
fastidiosamente.
Ti carezzi una coscia lunga iridescente di seta al sole.
Sei enigmatica, senza espressione.
Ripenso a quel pomeriggio a casa mia, a quelle tue
carezze estenuanti per il mio solo piacere visuale, e ti
sorrido mandandoti un bacio a fior di labbra.
Te ne puoi accorgere solo tu.
Mi sorridi, nel piacere del potere...
297
SAFFICI STRALI SEMAFORICI
Navighi pericolosamente in mezzo a questo traffico
infernale, piccola mia, con quella bici rugginosa a fiorellini e
il cestello gentile sul manubrio, per la spesa.
Sei senza casco, gioia, e sei fragile.
Ti guardo dalla mia moto, schermata da una visiera
fumè, schiantata da pensieri strani.
Si stanno destando miei demoni e stringo la manopola
del gas della moto come se fosse il mio migliore amico di
lattice da offrirti con tenerezza.
Sei il ritratto della salute: una ragazzona dai polpacci
torniti e dallo sguardo limpido, con le guance arrossate dal
pedalare atletico e i seni ancora acerbi, ansanti e puntuti.
La tua coda di cavallo brilla alla luce del sole.
Gli squali ti bollano solamente il culo inguainato in
pantaloncini da ciclista, splendido, sodo, ma non sola parte
del corpo bella di te.
Ma che ne sanno loro?
Mi fai sentire perversa, adesso che insisto a sfiorarti con
lo sguardo.
T’immagino riversa sull’asfalto, urtata da un’auto,
pallida e immobile, e mi vedo china su di te a schiuderti le
labbra con la lingua per respirarti dentro la mia vita.
Sorrido diabolica, ora: è un capriccio di lesbica
stagionata, me ne rendo conto.
Oppure, forse, è qualcosa di più: una speranza di
complicità che possa trasferirti dalle tue due ruote alle mie,
a cingermi la vita per farmi rabbrividire al vento con lo
scatto del semaforo verde…
Ecco, è scattato proprio ora.
Arrivederci, piccola mia, si deve andare…
Stai attenta, gioia senza casco, così bella e fragile che
sei…
Un bacio.
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ASFODELI E BACI
A Piazza Vittorio, a Roma, in afrore ammoniacale di
piscio, tra le colonne istoriate di foto di cingalesi sorridenti,
staziona una biscia fratturata rap.
E’ una donna d’età indefinibile, ossuta, con capelli a
caschetto castani da sedia impagliata e due occhi futuristi
tra l’allocco e un vecchio lampione a gas di luce azzurrina
intensa.
E’ vestita di felpe e maglioni polverosi su pantaloni
attillati e sdruciti, ed è carica, alle dita, d’anelli da chiosco
di Luna Park.
E’ un’istituzione o una fermata di via crucis
metropolitana, quasi all’angolo di Via Mamiani.
Seduta tra sacchi neri pieni di pattume o peccati, o
sdraiata contro una colonna, con un cartoccio prosciugato
di vino infimo, gesticola a scatti frenetici e scomposti o
s’immobilizza in ascolto.
Gli occhi chiari roteano in espressioni e discorsi a
calcare su idee e concetti muti.
Ride, a volte, e muove le labbra a spiegare o a
controbattere teorie di vita o perle di saggezza.
La gente passa oltre, schifata o indifferente, senza porsi
domande o stilettarsi rimorsi.
Un cinese struscia lo straccio bagnato davanti al suo
negozio e più avanti, verso l’imbocco sotterraneo per la
stazione della metro, una colombiana grassoccia con la
pettorina gialla distribuisce giornali gratuiti con un
accattivante sorriso similitalico.
Io sosto due colonne più là, stordito dal puzzo che
contamina l’odore di croissants appena sfornati, e riesco a
vedere il Bogus della biscia.
Non so come mi possa accadere, ma lo vedo…
…A Calcutta…
Tra baracche di compensato traforate sotto un cielo
plumbeo di monsone c’è il suo compagno di viaggio, il suo
complice.
299
E’ un paria oleoso di sudicio, elemosinante, infagottato
in stracci ormai stuccati dal tempo e dal sudore con una
lunga chioma gommosa di profeta rastaindiano.
E’ acciambellato a fior di loto presso una baracca
semicrollata, a ridosso del canale fognario di scolo a cielo
aperto, in un tanfo terribile, e gesticola ieratico nell’aria con
sguardo felino e imperturbabile rispetto alla realtà che lo
circonda.
Si chiama Rabindranah, come il grande poeta gentile, e
recita poesie d’amore per una biscia romana che riesce ad
ascoltarlo, solo lei, lontanissima eppure intima.
Passano frotte di turisti guardoni e meschinelli scortati
da poliziotti indifferenti.
Scattano foto.
Brilla ai flashes il barattolino che sollecita cibo davanti
al poeta che carezza asfodeli nell’aria, da offrire alla sua
amata.
A Piazza Vittorio una biscia fratturata rap inspira
nell’aria un profumo di fiori allegri, accarezza delicati petali
nell’aria romana e sorride con gli occhi incantati.
Piovono sguardi contriti o infastiditi sulla donna senza
età, a Roma, e sul poeta cencioso, a Calcutta: i passanti
sono ugualmente velleitari e ipocriti a qualsiasi latitudine.
I due amanti non si bagnano e si rimandano messaggi
senza spazio e tempo: la biscia gesticola ancora e bacia
l’aria sorridendo.
300
PADRONE BUONO E GIUSTO
…Questa luce fredda intirizzisce le ossa e Dio sa se
avrei bisogno di calore.
…Ecco…
Il posto era intimo, poco frequentato, con una luce
calda spiovente da lampade tiffany a rischiarare solo i coni
dei tavoli e i volti al margine.
Luccichii di metalli e cristalli: mi sentivo come Alì Babà
nella grotta del tesoro.
In complicità, come avvolto con la coperta di Linus.
Il tavolo era piccolo: potevo toccarla allungando appena
il braccio.
Lo feci.
Toccai un mio ideale estetico di donna: Anne Parillaud
di ‘Nikita’, con capello corto corvino e sguardo mobile e
ricco di discorsi.
Un volto di Patrick Nagel.
Un’icona.
Protese il viso verso di me, sotto la luce, attendista.
Le passai il pollice delicatamente sulle labbra carnose
socchiuse.
Adorabile acquasantiera.
Mi mangio le unghie e anche le pellicine e arrivo
addirittura ai polpastrelli: gli psicologi da macelleria di
supermercato dicono che è per bisogno d’affetto.
Non ci ho mai pensato: rosicchio e basta, da sempre.
Nicotinamente: per mio equilibrio, se rendo l’idea da ex
fumatore...
Lei dovette percepire i minimi salti di tessuto
epidermico, i piccolissimi calli di ricrescita del polpastrello.
Dovette avvertire anche il calore di una circolazione
sanguigna periferica turbolenta e fiutare un odore residuo
d’acqua di colonia aspra poi traslocata dietro le orecchie.
Mi piace pensare che abbia provato una sensazione
d’immersione nel vissuto - che dico? - nel vivo.
Sono convinto di sì: la serratura spiona incuriosita dalla
chiave in un gioco di ribaltamenti di ruoli.
301
Le chiesi con gli occhi di dirmi qualcosa, fissandola e
continuando a passarle il pollice sulle labbra.
Mi cominciò un lungo discorso di silenzi.
Guardandomi intensamente.
Chiese, chiese tanto, e fece le fusa in benessere da
protezione ed arrivò anche alla soglia piacevolissima di
quello stadio d’eccitazione che è ancora controllabile
sull’orlo del burrone.
Le domandai con timbro inguinale se provava fastidio
per quella catenella che le stringevo al collo: poche parole a
voce bassissima, le uniche della serata.
Un gioco di ruolo, qualcosa di più: immaginazione,
immedesimazione.
Una catenella mentale: impegnativa, simbolica.
Il pollice le esplorava una guancia asportando il leggero
fondotinta e succhiava dai pori un malizioso arrossire
assorbendo essenza di profumo e ormoni.
Lei socchiuse gli occhi e mi fece capire che le piaceva
quel tintinnio: le donava brividi d’adrenalina in strette ad
illividire il collo.
Mi soffermai con le dita dietro l’orecchio e le strinsi il
lobo tra pollice e indice.
Prima delicatamente.
Poi sempre più forte.
Non trasalì; non urlò.
Il respiro s’allungò come un lenzuolo a coprire
un’erezione.
Divenne ansito.
Nessuno s’accorse di nulla nel locale in penombra.
Irrigidì le labbra in un sorriso indecifrabile tra il sincero
e il solerte.
Ridivenni tenero, buon padrone giusto, e le solcai di
nuovo la guancia premurosamente per ritornare ad
accarezzarle le labbra.
Mi guardava e mi raccontava d’emozioni, d’amore, del
piacere di offrirsi oltre.
La catenella si stringeva al suo collo.
Luccichio d’occhi con lampi di richiamo.
Ebbe un singhiozzo improvviso che mi parve un ‘ti amo’.
302
S’afflosciò sul tavolo con occhi vitrei in fermo immagine
d’eccesso.
Rimasi ferito nell’impotenza sorpresa e continuai a
carezzarle il volto riverso di lato, come un automa,
perdendomi tra le ciocche dei capelli, ad infondere fiducia,
ad offrire protezione.
Una missione per me.
Avrei continuato in eterno con estrema dolcezza.
Fui portato via, legato come adesso, sudato marcio e in
preda a tremiti incontrollabili, mentre me la toglievano da
sotto le mani.
Quanto tempo è trascorso da quella sera?
Mi pare un’eternità.
So solamente che ogni notte, da quando sono qui, mi
viene a trovare e con le sue dita affusolate mi sfiora il viso
madido di sudore.
Mi trapassa nel bluastro della luce notturna e mi
racconta storie con gli occhi fosforescenti di felino
passionale.
Le rispondo con tenerezza, singhiozzando sommesso, e
sento stringere una catenella al collo.
Muoio ogni notte per lei e con lei.
D’amore.
E in languore indicibile.
Ed ogni mattina mi risveglio, immobilizzato in questa
casacca, con il collo dolente, e lacrime copiose scendono
lungo il viso per chiedere perdono nell’aria, per non aver
saputo essere il padrone buono e giusto che lei voleva…”
303
LATI OSCURI
Aicha era bellissima e seducente, per metà strega e per
metà puttana, con la saggezza e l’innocenza di entrambe, e
con occhi neri, come i capelli corvini, a scrutare nel
profondo dell’animo umano.
M’accolse,
malinconica,
un
pomeriggio
afoso
opprimente, nella penombra della sua stanza affettata da
lame di luce di una veneziana lurida.
Dal soffitto un ventilatore a pale confondeva buoni e
cattivi pensieri e mescolava sudori di passione e di paura
con essenze esotiche.
La sua voce di carta vetrata raschiando rise con una
piega amara:
“Ti mostrerò il mio lato oscuro per placare il tuo, ma dal
tuo sguardo cupo comprendo che forse non riuscirò a darti
pace.”
Cadde la veste di garza, vaporosa in un sospiro.
Rimase nuda e sfrontata in piedi di fronte a me, in
bagliore di pupille e monili.
Poi si sedette contro la spalliera del letto e prese
possesso di paradiso e inferno come un animale territoriale
fissandomi con sfida e con un curioso sorriso, materno e
malizioso insieme.
Allargò lentamente le gambe nervose a compasso sulle
lenzuola candide.
E vidi il suo lato oscuro.
Come i suoi occhi febbricitanti.
Capisco solo adesso l’ironia e la verità dell’esistenza di
un lato oscuro innocente nonostante tutto.
Aicha rideva come una dea pagana.
Fui catturato da quel nero lucido di corto pelo ricciuto
che proteggeva una ferita umida aperta da millenni.
Fui stordito da penetrante odore di femmina.
M’abbracciò una patina di sudore freddo.
La presi con bestialità e intolleranza per quello sguardo
che chiedeva dignità e rispetto con fierezza.
Le nascosi gli occhi con un cuscino, da vigliacco, per
non vedere, e premetti frenetico per paura d’udire.
304
Si
rilasciò
senza
reazioni
come
solitamente
s’abbandonano inerti le puttane.
Stavolta, però, rimase marionetta senza fili.
Dalla mia finestrella vedo il cortile con la ghigliottina e
sento l’ultimo martellare dei carpentieri.
Mi toccherà domani.
Adesso comprendo che il lato oscuro in ognuno di noi è
solamente un’arma impropria che può essere usata con
ferocia o con prudenza e perizia, in innocenza senza
moralismi o in irrequietezza maledetta di Caino.
Rassegnato e consapevolmente impotente, piango.
305
CINQUE SENSI
1. Olfatto
Sniffo.
Annuso.
Odoro.
M’incanto su un ottovolante d’idee che sferraglia
vertiginosamente per conto suo, mentre sono abbracciato
da una scia che è quasi visibile e colorata.
Al passaggio di una donna.
Un odore può fornire i connotati per un’identità: ne
sono convinto quando chiudo gli occhi all’individuare una
sagoma femminile venirmi incontro.
Si ferma la realtà; e qualsiasi altro indizio perde di
significato e si sbriciola di fronte alla concentrazione
nell’olfatto.
Non è più importante il ticchettio di scarpine a punta, il
fruscio quasi impercettibile di un soprabito impermeabile,
un respiro ansante per un passo troppo svelto.
Solo olfatto.
Borotalco.
Comune.
Tenero e sportivo insieme, amichevolmente intimo,
rasserenante.
Esoticaromatico.
Stordente.
Dolciastro e mieloso, passaporto di passionalità e
perfidia amalgamate in sapiente dosaggio che stimola
pensieri torbidi e decadentismi orientali.
Aspro.
Sincero ed erotico: il mio preferito.
Mi evoca un pube socchiuso richiamandone il sapore.
L’origine del mondo.
Si spalancano gli occhi alla luce e s’affastellano
nuovamente rumori di passi e d’avvolgimento urbano.
E’ lei.
Mi volgo indietro.
Ha qualche importanza il suo aspetto?
306
Rimango statico e assorto, uncinato dall’asprigno di
prugna acerba, e sorrido alla figura che s’allontana ignara.
Vorrei annusare la cannella del tuo sorriso…
2. Udito
Stai risciacquando piatti o stoviglie: ascolto il sottofondo
di uno scrosciare d’acqua tra risolini e sorpresa
infantilmente eccitata.
Fermati, ti prego.
Ecco.
Così.
Ti stai sedendo sul divano: sento quasi impercettibile lo
sprofondare del cuscino e il frusciare della tua gonna.
Stai sospirando.
Maledetta linea disturbata.
Un continuo flebile ronzio punteggia il tuo respirare ora
rilassato e ora nervoso.
Clic.
Ti stai accendendo una sigaretta.
Non è bastardo l’udito: non è un senso secondario.
A me amplifica visuali e immaginazioni in sinestesia:
ascolto e insieme vedo.
Mi ascolto che ti parlo e sono pervaso da un formicolio
sfibrante nel collegare quanto dico con una tua risata, un
tuo muoverti o semplicemente un tuo aspirare quella
sigaretta con voluttà femminile di potere.
Dialogo, gioco, provocazioni, proposte, anche oscene,
talvolta.
Altro frusciare lieve smorzato in terra.
L’udire travalica il rumore: rende meno soli, più
complici, e allerta in ipersensibilità ad indovinare da piccoli
urti o tonfi o strofinii quello che sta accadendo molto
lontano.
E può accadere che si ascolti un singhiozzo soffocato.
Non è un bel sorridere quello di compatimento con la
sufficienza sprovvista d’immaginazione.
E invece, se si ha un bel cervellino si è davvero lì.
E chi sa udire in maniera speciale, lo sa.
307
Vorrei ascoltare il tango delle tue vene che battono il
tempo che scorre.
3. Vista
Vedi?
Sei prigioniera di banali concetti d’estetica e mi guardi
con un’espressione sulla difensiva nella consapevolezza di
qualche tua imperfezione che ti possa rendere meno
affascinante.
E’ la mancanza di perfezione, invece, che costituisce
fascino e richiama associazioni d’idee curiose, tra il dominio
e l’umanità tenera, nel piacere del guardare innocente.
Rilassati, dunque.
Lascia che io percorra sentieri poco battuti a notare
particolari per me affascinanti.
Il tuo blu, per esempio.
Il tuo blu intenso delle vene sulla pelle alabastrina,
fragile, del tuo seno che è scoordinato in respiri d’attesa,
come per un giudizio impietoso.
Vedo la vita che scorre, nelle tue vene, e anche una
passione da decifrare, e il tuo seno dovrebbe avere armonia
nel respiro, perché ti guardo e ti sorrido affascinato.
Mi piace percorrere con le dita leggere la traccia della
circolazione verso un cuore che batte anche d’eccitazione, e
il vedere il diafano della tua pelle che s’intirizzisce in minimi
rilievi tremanti al contatto mi attira e mi eccita.
Si crea un meccanismo di protezione, da offrire e da
ricevere, all’insegna della dolcezza.
Panna, i tuoi seni morbidi.
E cavi elettrici azzurrini a solcarla.
Per illuminarti di bellezza da preda: da accarezzare.
Vorrei vedere più da vicino i tuoi canini per rabbrividire
di piacere.
4. Tatto
Sei bastarda.
Detto in senso ammirato e buono.
308
Si sono appena spente le luci e mi hai sussurrato una
provocazione all’orecchio.
Scorrono i titoli di testa: “Priscilla, la regina del
deserto”.
So di che parla, transvesta, e associo, con solita mia
malignità, sorprese al nostro contingente del buio in sala.
Né più piccoli, né più grandi o esagerati.
I riquadri delle tue calze a rete autoreggenti sono
perfetti per un palpare leggero, per come adoro certi
particolari.
La carne pare esplodere nei contorni delle maglie e la
pelle è tirata e m’appare, al tatto, più delicata e fragile.
La indovino tra diafana del tuo incarnato naturale e
arrossata per la costrizione della rete che morde e sega.
Risalgo una gamba senza fretta e con leggerezza,
indugiando su quei piccoli ponfi sani stretti tra le maglie,
con l’eco della parola: autoreggente.
E mi trattengo dal correre per arrivare alla carne brada.
Ipocriti che siamo.
Abbiamo lo sguardo fisso verso lo schermo e i nervi in
allarme, tu immobilizzata come un coniglio legato ad un
palo nella jungla, e io a dominare la fretta cattiva
consigliera, altalenando le dita in una serie di
micromontagne russe che sono le tue cosce insaccate in
rete, pulsanti come una mina antiuomo o un culatello vivo.
E io sono l’uomo che percorre il terreno minato.
E l’ingordo di culatello vivo.
Mi pare perfino d’udire lo stacco da una maglia all’altra,
impercettibile, a chiudere uno strisciare minimale in un
riquadro di pelle di mezzo centimetro per mezzo centimetro,
compresso come un microcosmo.
Poi, liberatoria e quasi sfinente, la terra di nessuno.
La carne è libera e la mano scorre sul tiepido, attirata
verso un centro gravitazionale pulsante come un secondo
cuore, altrettanto caldo.
Sensazione di un prato all’inglese appena innaffiato.
Erba più fina, quasi tagliente, e rugiada calda.
Indugio da bastardo, io, adesso.
Sempre più ipocrita, falsamente attento, mentre corre
una corriera sullo schermo nel deserto.
309
Tepore che si diffonde come un cerotto per i
reumatismi.
Ma non penso ai reumatismi, ora.
Mi succhio due dita, piano, sentendomi un piccolo
padreterno, ma questa è un’altra storia e un altro senso.
Vorrei toccarti l’attaccatura dei capelli sulla nuca col
fare del pastore che protegge la pecora innocente.
5. Gusto
Ho il palato difficile ed esigente.
E ho idee chiare: credo di saper distinguere un sapore
banale da un gusto per il quale valga la pena morire, da
ingordo peccatore di gola quale io sono.
Non indovineresti mai quello che vorrei gustare di te,
ora, che mi sorridi sfrontata e nuda, abbandonata e ospitale
come una Maya consapevole di avere potere.
Sto pensando di assaporare il tuo collo, di lato, dove
una vena azzurrina sta portando fermenti di idee e pensieri
al cuore per trasformarli in passione.
Sono convinto dell’esclusività del sapore, lì, sul tuo
collo, come un intenditore di vini, un sommeiller che
snocciola di retrogusti e morbidezze.
Vuoi essermi spezia, specialità, droga esotica piccante?
Sarebbe un gustare delicato, un passare la lingua su
una buccia di pesca viva, e un assaggiare pensieri maliziosi
che sfrecciano verso il cuore, pulsanti come ostriche da
ingollare ad occhi chiusi con un sottile brivido.
Ronferesti come una gatta, di piacere, nel sentire
raspare la pelle che lì è particolarmente sensibile, e io
trasformerei il tuo roco gemere in sapore, carezzato dai tuoi
capelli che mi abbracciano come alghe.
Sì, sapore d’idee, e di passioni che ritornano su verso il
cervello, depurate dal raziocinio di un precedente viaggio
per un voler essere animale e riscoprire il valore della lingua
e del sapore.
Vorrei leccarti l’anima per assaggiarti davvero tutta.
310
RANE, ANIME E POETI RESTAURATORI
Cielo livido all’orizzonte nel crepuscolo.
La bottega dello Sciamano è lurida come il proprietario.
Sciamano è un vecchio repellente, perennemente sporco
di fuliggine e morchia, con un sorriso malevolo sdentato e
giallo e gli occhi acquosi e arrossati che sembrano disarmati
mentre pungono di curaro come la sua barba ispida di tre
giorni.
Commercia, traffica, scambia: di tutto.
Sta in culo ai lupi, tra barre di cemento armato
sbilenche coperte da un sudario di cartongesso grigio,
all’estrema periferia, in fondo a quello che una volta era un
viale a sei corsie che portava ad un centro commerciale.
Ora carcasse d’auto e corvi, null’altro, lungo un
percorso che è acquitrinio e fango.
“Ciao, Sciamano.”
“Oh guarda: il signorino poeta curioso…”
“Hai qualcosa da restaurare?”
“Ho sempre qualcosa da restaurare, poeta, per bravi
restauratori attenti…
Il fatto è che purtroppo, sovente, capitano clienti che
vogliono solo giocare a risiko o al meccano o con i Lego,
dilettanti, superficiali, gente senza consapevolezze di
valori…
Ma, del resto, io ci guadagno: prendo sempre qualcosa
in cambio… e ci guadagno…”
Ride catarroso di gola, Sciamano, facendomi l’occhietto
e lacrimando.
E’ passato molto tempo da quando faceva piercing ai
genitali, per mode di secoli fa, o di quando consigliava a
poco prezzo i più originali modi per suicidarsi ed entrare
nella gloria del guinness dei primati.
Sì, tanto, tanto tempo è scorso, e ora ride come un
bambino crudele che ha appena strappato le ali ad una
farfalla.
Magari esistessero ancora farfalle: tutto è fosforescente
e violetto in un’aura maledetta radioattiva che frigge le ossa
e morde con lancinanti emicranie.
311
Divento rude, adesso, perché non mi piace l’indifferenza
corazzata di Sciamano.
“Non faccio cambi: lo sai…Mi tengo stretta la mia…
Fammi un prezzo, equo, oppure me ne vado: io non
seguo mode, e nemmeno m’interessano gli ultimi giochi di
tendenza.
Le ricostruzioni le faccio per me e per quello in cui
credo, non su di me…”
Caimanizza con fare ingordo e annuisce frugandosi la
mente.
“Con novanta pezzi ti porti via qualcosa d’interessante.
Avrai stimoli in abbondanza per quello che t’interessa
fare…”
“Novanta pezzi?
Tu sei pazzo, Sciamano.
Io non faccio collezioni di pezzi rari: sono un poeta.
Io rieduco.”
Il vecchio fa il suo mestiere: promuove senza farlo
troppo notare e intanto piange miseria per ammorbidire
portafogli troppo rigidi.
“Cazzo credi, signorino, che si trovino così, dietro
l’angolo?
Occorrono appostamenti, pazienza, e si rischiano
ripensamenti, scherzi del destino che ti mandano all’aria
settimane d’attesa.
Quanti credi che siamo in giro a proporre questa
merce?
Perché credi che questa moda sia così ‘glamour’ ed
esclusiva e duri da così tanto tempo?
E’ solo misticismo a controbattere disperazione o anche
voglia di giocare rischiando in proprio?
Tu forse non te lo puoi nemmeno ricordare, perché
magari non eri nemmeno nato…
Sai qualcosa della caccia alle rane di una volta?
Si cominciava con la scelta della notte giusta nel mese
giusto.
Poi ci si addentrava nella palude, con gli stivaloni a
mezza coscia e con la torcia elettrica e la nassa e il
forchettone.
E tanta pazienza per l’attesa.
312
Uscivano nel mezzo della notte per cantare d’amore, dal
fango, da sotto le foglie marce stillanti umido, dal buio,
attratte dal sole in saldo della torcia abbagliante.
Allora dovevi fare attenzione a non scivolare e dovevi
essere lesto a forchettarle e a chiuderle subito nella nassa,
vive o morte, il più possibile, prima che le altre fuggissero
spaventate.
Adesso è la stessa cosa, se non altro per l’attesa.
Ore ed ore, nascosto dietro un pilone di un cavalcavia,
ad attendere chi è stanco di vivere e vuole cantare
un’ultima canzone al mondo con un lancio.
Ore ed ore, un’eternità, appostato ad un incrocio
annusando nell’aria bourbon e benzina di folli corse fin
dietro un curvone o un muro.
Con polmoni buoni.
Per aspirare.
E bisogna saper trattenere senza farsi condizionare.
Tu lo sai fare con una alla volta e non so nemmeno se lo
sai fare bene.
Ma io?
Io trattengo dentro di me dieci, venti anime distrutte
che si dibattono per affermare d’esistere nonostante tutto.
E proteggo l’integrità e l’indipendenza della mia.
Tutto pericoloso, lo capisci vero?”
“Sì, sì, ti capisco, Sciamano, ma non ho novanta pezzi:
dovrai scendere di prezzo…”
Il vecchio tossisce e sputa.
“Ti farò ottanta pezzi, non uno in meno: prendere o
lasciare.”
“D’accordo: è un gran sacrificio, ma spero di ricostruire
un’anima poetica per come piace a me…
Di chi è quella che mi offri a ottanta pezzi?”
“Una ragazza ammalata d’amore nella sofferenza.
Non ha retto.
Ero là che attendevo: dietro la casamatta delle cisterne
dell’acqua, sul terrazzo di un vecchio palazzo diroccato.
Lei mi ha visto e ha compreso.
Mi ha guardato con un sorriso malinconico e mi ha
sussurrato con una voce dolce e struggente – Dalla a chi la
313
possa far brillare di una luce di speranza, serena e
luminosa, ti prego…Piangeva quieta come una vitella intelligente e
consapevole, prossima a diventare un insieme di bistecche.
Mi sono commosso, fanculo al mondo, e le ho promesso
che l’avrei data ad un poeta.
E ora arrivi tu che mi parli di mercanteggiare, fanculo
pure a te…”
“Scusa, Sciamano.
Vivo per come posso, ma conosci le mie intenzioni.
Non restauro anime, io, per gioco, per moda, per baratto
della mia, di cui sono soddisfatto, a differenza d’altri.
Io ricreo.
Mi sforzo di offrire speranza per un futuro, nonostante
lo sfrigolare dell’aria e la maledizione del vivere di questi
tempi senza passioni e sentimenti.
Trasfondo quanto è rimasto di mio per offrire
tranquillità in un giusto sonno.
Le mie anime restaurate ora sono tutte in pace.”
Credo d’avere gli occhi fiammeggianti d’orgoglio.
Sciamano mi guarda con timore reverenziale, quasi
conquistato.
Poi, senza dire una parola, mi s’avvicina e mi bacia in
bocca, perché è così che funziona, perché si deve.
La sensazione di schifo è violenta, ma dura l’attimo di
un conato soffocato con volontà.
Diviene prepotente, invece, e aumenta la percezione di
uno spirito che entra in me e sgomita per avere un posto
vicino al mio cuore.
E mi pare di sentire dentro l’agitarsi di una parola
soltanto, - grazie - sussurrata con una voce dolce e
struggente che mi riporta indietro nel tempo al pensiero di
un’amica che è sempre stata bimba da baciare, mai baciata
davvero.
Avrò da lavorare molto, questa volta.
Assorbire ed annullare sofferenza in un plasmare
fiducia e complicità per rendere quello che è stato e che
sarà il più accettabile possibile.
Il fare poesia di questi tempi lividi…
314
LA SOFFERENZA NELL’ASSENZA
Non c’è bisogno di funi, e lo sai: è la parola che lega e
immobilizza, è l’ordine dato a voce bassa decisa e nello
stesso tempo carezzevole.
Devi stare assolutamente ferma.
Basta: senza altri corollari. Questo per il tuo e il mio
piacere.
Per te che devi percepire un formicolio elettrico dai
capillari che muove al tuo cervello come un tir inarrestabile
senza freni. Dovrai fermarlo con la volontà scolpita nel
desiderio di non contravvenire all’ordine di rimanere
immobile.
Il tuo cervello esploderà in schegge impazzite di colori
brillanti che si conficcheranno nei reni, tra le cosce, nella
nuca.
Il mio piacere sarà il contemplare quel movimento
minimale involontario di muscoli tesi e guizzanti, trattenuti
in sforzo immane all’immobilità. Contemplerò la tua schiena
eccitante, nuda, inarcarsi impercettibilmente, i tuoi glutei
candidi stringersi isterici o rilassarsi subito dopo in
desiderio impellente d’accoglienza.
Farò scorrere le dita come un battito d’ali impalpabile
sul tuo corpo, sul filo della tua spina dorsale, e poi soffierò
soltanto, aliterò, ora freddo, ora tiepido, sul tuo bianco latte
bollente increspato come le fragole, nella difficoltà dell’
autocontrollo.
Non percepirai più, ad un certo punto, presenza
carnale. Le dita scompariranno sospinte via dal fiato senza
carnalità che salirà fino alla nuca in un soffiare continuo
gelido da brividi.
Allora ti muoverai: non potrai farne a meno. Sarà
inevitabile.
Sarà per debolezza, per l’essere travolta, per ribellione
solerte in ansia di restituzione del piacere.
Trasgredirai l’ordine. Mi leverò in piedi, allora, senza
una parola, e uscirò dalla stanza lasciandoti sola nel
piacere della sofferenza nell’assenza.
Di me.
315
CUORI NEL CARBONE
Esplosione.
Sopra.
“Scusi, capitano, …capitano Lopez, sì, lei: sono
Guillermo Vegas del “Noticias TV”.
Può spiegare ai nostri telespettatori che cosa è
successo?
Vediamo vigili del fuoco, traffico, ambulanze: è
plausibile e auspicabile parlare di una disgrazia circoscritta
o dobbiamo paventare una strage?”
“C’è stata un’esplosione in uno dei pozzi più profondi
nella miniera di carbone qui dietro, il pozzo Sant’Isidro.
Fortunatamente si era a cavallo di due turni e c’era
soltanto una squadra di manutenzione per controllare le
volte del cunicolo più recente: due uomini.
Stiamo cercando di recuperarli anche se, ad essere
realisti e sinceri, le possibilità sono davvero scarse…”
“Grazie, capitano Lopez, e complimenti per la solerzia
dei suoi uomini.
La risentiremo più tardi, se possibile, per un
aggiornamento della situazione.
E ora lei, signor...”
“Guilmares.
Sono il proprietario del pub “Cerveza loca” qui a San
Felipe.”
“Ha un aspetto molto affranto, signor Guilmares...
Lei conosce i due intrappolati là sotto?”
“Madre de Dios, li conoscono tutti, qui in paese, Chico e
BumBum: non passano certo inosservati...
Due brave persone, due giganti che potrebbero tenere
con le braccia le travi delle gallerie della miniera, da quanto
sono forti, ma che non farebbero male ad una mosca.
Hanno una certa notorietà qui intorno come lottatori
dilettanti di wrestling: hanno incrociato una volta anche la
buonanima di Andy Guerrero, lo sa?
Sempre sorridenti, sempre allegri, molto amici e grandi
bevitori di tequila.
316
BumBum si chiama Cosma, in realtà, ma il
soprannome gli viene da ventidue tequile bumbum bevute
in una sera rimanendo in piedi.
Spero proprio che se la possano cavare, cari ragazzoni,
per come amano la vita…”
“Grazie, signor Guilmares.
Lei, signora, - sono Guillermo Vegas del “Noticias TV” può dirci qualcosa di Chico e Cosma BumBum? Li
conosce?”
“Due gran bravi ragazzi, sempre disponibili per la
comunità.
Lei non ci crederà, ma, nonostante il loro aspetto da
orsi feroci, sono i preferiti dei bambini del paese per
interminabili partite alla pelota.
Vergine della Guadalupa abbi pietà di loro…”
“Grazie signora.
Per ora è tutto dal vostro inviato Guillermo Vegas qui da
San Felipe, amici telespettatori di Noticias TV: si aspetta e
si prega mentre le squadre di soccorso si stanno calando
con cautela giù per i cunicoli della miniera di carbone dietro
le mie spalle.
Potete vedere in sovrimpressione, grazie regìa, le foto dei
due giovani imprigionati là sotto ed è un vedere che
francamente stringe il cuore: due colossi, i ritratti della
salute, con sorrisi aperti di vitalità sana e sguardo franco.
La linfa ricca di queste terre laboriose e riarse che tutto
copre una continua fina e fitta polvere di carbone.
Speriamo tutti che ce la possano fare…
Ci collegheremo ancora con voi nel prossimo notiziario
per tenervi aggiornati sugli sviluppi trepidando per un loro
salvataggio in breve tempo senza complicazioni.”
Sotto.
“Cosma…Cosma…bimbo, ci sei?”
“Sì, Chico: sono tutto indolenzito, ma ci sono, e mi
sembra di essere ancora tutto intero, grazie a Dio.
Aspetta che faccio luce…”
“Fermo, fermo, per carità, madre de Dios.
Potremmo saltare in aria definitivamente: senti che
puzza…”
317
“Scusa, scusa, Chico: sono frastornato e mi fa male una
spalla…
Il buio m’innervosisce, soprattutto con questo odore e
questa umidità, e comincio ad avere anche freddo nello
stare immobile…
Tu come stai? Tutto bene? Dove sei?”
“Sono appoggiato alla parete, proprio di fronte a te, per
quello che capisco nel sentirti parlare.
Se allunghi una mano dovresti toccarmi…”
“Sì, eccoti, meno male...
Ascolta: ce la faremo, Chico?
Mi sa che stavolta siamo proprio nella merda e comincio
ad avere paura…”
“Non lo so: non resta che sperare e ripassare la lezione
che ci siamo ripetuti da sempre a memoria circa il destino.
Avvicinati, ché ho freddo anche io…”
“Aspetta che cerco di districarmi e arrivo…
Sono coperto di sassi: mi sa che alla luce non dovrei
essere un bel vedere…”
“Mi viene da ridere…
Ah, eccoti…mettiti qui a fianco ché ci scaldiamo…
Cazzo, se mi viene da ridere…”
“Pensi a quello che penso io?”
“Forse…”
“Certo che tutta quella gente là fuori all’imboccatura
della miniera, se solo immaginasse, la seppellirebbe del
tutto eh?
E invece ci sarà la TV, i vigili del fuoco, e piangerà tutto
il paese…
Per noi…”
“Già.
Comunque è un bel modo di morire, questo, se è scritto
che si debba morire, vero?
Morire insieme…”
“Credo di sì, anche se ho paura e freddo…”
“Dai, stringiti…
E abbracciami: tanto non ci vede e non ci sente
nessuno…”
318
“Mi dispiace per come sta andando in vacca, Chico:
avrei voluto altro per noi, alla faccia del paese, alla luce del
sole…”
“Anche io, Cos.
Vuol dire che è scritto che non è possibile…
Cazzo, ma ti stai eccitando?”
“Mi fai sempre lo stesso effetto, Chico: lo sai…”
“Beh, bimbo, morire per morire, mi piacerebbe morire a
mio agio, magari dopo avere fatto l’amore, perdio, ché se poi
mi ritroveranno morto col tuo uccello in mano non me ne
può fregare di meno…
E a te?...
Potresti baciarmi, tanto per cominciare, bimbo, ché
l’ossigeno forse potrebbe non bastare…”
“Come cazzo fai ad avere questa voce sexy anche qui
dentro e in questa situazione.
Mi lasci sempre senza parole…
Ma sì, fanculo al mondo: se si deve morire è bello poter
morire come si vuole…”
“Oh sì, Cos…sì…
Poi sai che faremo…dopo?
Ci accenderemo una sigaretta: tanto per rendere
completo il tutto e suggerire qualcosa al destino…
Sì, sì, bello, …così…dai…sì…”
Esplosione.
319
EROTISMO DI UNA NAPOLETANA
Eccoti il mio rituale, se ti va, per domani mattina
quando ci sveglieremo…
Andrò nudo in cucina, appena alzato dal letto, senza
fare rumore, scalzo ex bronzo di Riace con andatura felpata
di brizzolata pantera rosa.
Se riuscirai ad aprire gli occhi, io, girato di spalle, lo
avvertirò nell’udire una risatina sommessa maliziosa e
garbatamente ironica: non è più tempo di eroi...
Preparerò il caffè come insegna la liturgia, concentrato
nell’operazione, senza fretta.
Controllerò il livello dell’acqua, non troppo e nemmeno
poco, dopo averla fatta scorrere a lungo, perché non sappia
di tubatura, per un caffè non eccessivamente denso, ma
nemmeno tristemente acquoso.
Presserò la polvere, ma senza strafare nel comprimere
col cucchiaino, e farò tre buchini con uno stuzzicadenti, per
esaltare l’aroma del caffè, per quando bollirà.
Avviterò molto forte la napoletana affinché non accada
che fuoriescano schizzi durante bollitura.
E aspetterò vicino al fornello sbirciandoti sdraiata nel
letto come una ninfa di qualche quadro rinascimentale, con
le gambe socchiuse, splendido spettacolo, e i glutei svettanti
candidi nella penombra.
Prova ad immaginare, ora.
L’aroma che si diffonde per le stanze e il borbottìo della
napoletana
che
sembra
uno
sfiatarsi
in
fischi
d’ammirazione per il tuo corpo abbandonato.
Ecco: il momento della complicità.
Fremerai perché saprai che toccherà a te.
Io attenderò che la napoletana intiepidisca, unica
concessione trasgressiva al gustarsi un buon caffè
canonico, bollente come un utero.
Poi, dopo qualche tempo, mi sentirai avvicinare tra
fumo ed aroma, come un santo patrono in processione con
il suo tabernacolo fumante tra le mani.
T’inarcherai il più possibile, nel letto, e attenderai.
320
Verserò un rivoletto di caffè lungo il solco della tua
schiena e poi ti percorrerò lentamente con la lingua ad
assaporare il mio caffè corretto con il sapore della tua pelle.
Odori e sapori in un vederti latte nell’udire un gemito
soddisfatto al tatto.
Ti rigirerai, infine, impaziente, e gusterai il tuo caffè da
me, in un lungo bacio con un tango di lingue.
321
ANACONDA E AGNELLO NEL VAPORE
Il grande bagno è immerso in vapore spesso e bollente
che nasce con un ronzio dal nulla.
Una luce fioca giallina, in fondo, rompe il buio e rende
l’ambiente una mangrovia da respirare piano dimenticando
il concetto del tempo.
Mi siedo sulla larga panca di pietra che fuma e sfrigola,
intiepidita con un getto d’acqua fredda della canna.
Soltanto dopo che mi sono accomodato noto che ho
vicino a me una sagoma che galleggia nella caligine.
Di donna, da quel che intravedo d’un bikini ridotto e
sfumato.
Si passa con estenuante lentezza le mani sul corpo a
sgocciolare sudore e tossine.
Sono immobile, seduto con i gomiti poggiati sulle
gambe, piegato in avanti, la testa ciondolante a fissare il
pavimento scuro.
Ascolto lontani discorsi banali, aspiro vapore e odori di
carne, accarezzo sensazioni di caldo che cullano come
un’amante, che abbracciano come un utero.
La donna s’alza e mi passa davanti come un’ombra;
aziona la doccia fredda di reazione, proprio di fianco a me,
dall’altra parte del sedile di pietra.
Si friziona con energia mugolando sommessamente in
brividi per la sensazione di contrasto, un piacere che
rasenta il doloroso, in capillari strozzati.
Si piega quasi a sfiorarmi per bagnarsi la schiena.
Colgo uno sguardo attento, nitido perché molto
ravvicinato.
Contraccambio neutro, nel vapore torrido, da persona
civile e controllata, anche se l’ambiente stimola cervello e
ormoni e istinti famelici.
Ripassa davanti, forse più impercettibilmente flessuosa,
oppure sono io malizioso, e si risiede al mio fianco.
Cambio postura e mi rilasso buttandomi indietro senza
toccare con la schiena la parete che scotta, puntellandomi
sulla pietra del sedile con le braccia tese e le mani,
322
allungando appena le gambe, a cercare con lo sguardo il
soffitto invisibile.
Occhieggio di tanto in tanto la donna con naturalezza
casuale.
Assume la mia stessa posizione.
Dopo poco mi sento sfiorare una mano e penso
all’accidentalità d’un movimento inconsulto.
Un dito esita sulle mie dita e indugia in una leggera
pressione.
Mi immobilizzo, allora: non so ancora se anaconda o
agnello.
Non voglio offrire appigli con reazioni: voglio essere
preda, curioso.
Il dito diviene più impertinente e gioca con le mie dita
poggiate sulla pietra.
Carezza, struscia, preme, indica, punta, affonda,
picchietta un morse osceno e pulsa in un polpastrello che
morde e uncina.
Contraccambio allora, ipocrita, forte dell’aria ovattata
che nasconde un’evidente mancanza d’indifferenza tra le
mie gambe.
Ribolle l’adrenalina nel rischio di essere scorto:
eccitante…
Emergono, distanti nella nebbia, fantasmi in suoni e
ombre: una sagoma poco distante, di un’altra donna,
sdraiata su un muricciolo di pietra, assente e intenta in
carezze a togliere sudori.
Chiacchiere d’un piccolo gruppo più in là: uomini che
non riescono a staccarsi dal mondo nemmeno nel paradiso
dell’indefinito in un bagno turco.
Un’altra sagoma di donna rotonda si staglia sul fondo,
pensierosa forse, per quello che permette d’indovinare il
velo distorcente d’umidità.
Stimola, questo gioco nella penombra, con il caldo che
toglie il fiato e veste il corpo di una patina liquida: un
esibirsi complice di fronte ad altre persone, con il delizioso
del barare sul fatto che non si è distinti.
Il dito ora è mano: rapace, calda e sgusciante di sudore,
a toccare la mia con delicatezza, con avidità, con un
linguaggio di inequivocabili significati.
323
Un indice mi scava l’incavo della mano e si strofina
provocatorio in codici di promesse e intenti.
Mi volto per guardare questa eroina intrepida così
deliziosamente sfrontata.
Non ne distinguo pienamente i lineamenti, ma mi è
ininfluente: è seducente e splendida, per come sa cacciare
una preda.
Mi fissa, impenetrabile nelle sue emozioni, quasi con
sfida.
S’appoggia la muro rovente con le spalle e scosta
appena, con l’altra mano, lo slip per lasciarmi vedere, oltre
il luccichio della sua pelle madida, quello che nessuno può
vedere anche solo mezzo metro più in là.
Non riesco a distinguere perfettamente i dettagli, per
come vorrei da eccitato guardone, ma è poco importante: è
il gesto che eccita, è l’intenzione, è il modo, è l’indovinare
tra lo scuro delle ombre e dei pensieri.
Gioco anche io, ora, e intreccio la sua mano alla mia.
Sudo copiosamente, attraversato da una pazzia
frenetica.
Penso d’alzarmi e piantarmi davanti a lei seduta,
abbassando il mio costume, ora troppo stretto, vicino al suo
volto.
Non oso: sono decisamente un agnello adesso.
Forse le trasmetto mentalmente questa immagine e le
mie fragili esitazioni, forse percepisce il mio belare codardo
ferormonico: le piace stringermi così tra le sue spire, e
continua.
Ora è febbrile e la sua mano azzanna la mia.
E’ tesa, inarcata, immobile in tutto il corpo, percorsa da
una scarica elettrica che la irrigidisce in un impercettibile
tremore.
Ad un tratto si rilascia con un soffio e sembra
rimpicciolire in abbandono morbido con le spalle che
s’adagiano sul muro pesanti.
Rimane per qualche attimo inerte, respirando a fondo,
piano, ad assaggiare l’aria pregna di umori, e si ricompone
nel frattempo con disinvoltura guardando davanti a sé la
nebbia ardente come una sfinge.
324
Poi si alza, indifferente e naturale, mi passa davanti
estranea, ed esce dal bagno turco verso l’inferno di una
squallida piscina tropicale luminosa che trasuda solamente
cloro e neon in impietose vedute.
Non è accaduto nulla di particolare, forse: schermaglie
di provocazione, giochi, piccole prove d’esibizionismo, un
affettare l’aria con ‘cattivi pensieri’ taglienti come lame non
affilate.
Eppure, nel vapore, la donna ha goduto e io ho
l’impressione di avere fatto l’amore.
Da preda.
Da agnello.
Stritolato dolcemente da un’anaconda.
325
LILY
Lily, a dispetto del nome, è una graziosa cinese d’età
indefinibile, tra i trenta e i quaranta anni, che
probabilmente si chiama Lin o qualcosa di assonante.
E’ una puttana che lavora in casa.
Si sta innamorando di me.
O forse, in una realtà da me non distorta, è pervasa di
solo affetto oppure di una simpatia particolare.
Si sta affezionando, tuttavia, anche se afferma che sono
anziano: lo dice esagerando la nasale e masticando la zeta
senza pietà, ridendo con innocenza, e mi centrifuga tra un
malumore vanitoso e un divertimento autoironico.
In qualche modo contraccambio il suo sentimento.
Mi dedico a lei, quando ci vediamo, tranquillo e con
rispetto, comportandomi con delicatezza e cura, senza
tempo e altri pensieri.
Credo che questi accadimenti inconsueti siano il
risultato di una sintonia casuale di due fragilità.
Lei è fragile, come tutte le puttane, anche quelle più
coriacee, nell’incantamento di essere apprezzata come
donna anziché come puttana, nella speranza di avere
attenzioni e soprattutto gentilezze.
Io sono fragile per una banale questione anagrafica: sto
a cavallo della duna tra il disincanto incattivito e i rigurgiti
di entusiasmi eternamente adolescenziali.
Sono il classico cinico romantico di mezza età, ossimoro
vivente, sospeso tra l’aggressività in raffiche di vaffanculo e
desideri di coccole, da dare e ricevere, perennemente
nell’attesa inquieta di qualcosa, vigile in percezione, alla
lontana, dell’esistenza della morte.
Mi piace ascoltare Lily mentre parla di suoi stupori
elementari con un italiano stentato pieno di circonvallazioni
che allungano il percorso di un discorso semplice.
A lei piace essere ascoltata, magari con due mie dita
che le percorrono il corpo nudo, leggerissime e noncuranti,
magari con gli occhi che s’incontrano e si dicono altro
silenziosamente in parallelo idioma alieno.
Lily mi bacia in bocca. Sovente. Con la lingua.
326
E mugola di piacere infantile.
Le piace rispondere a mie curiosità: io scandisco
concetti piani come se parlassi ad un ottentotto e lei
annuisce con il capo per dirmi che ha compreso.
Poi risponde passando sempre per la tangenziale, e si
confonde e ritorna daccapo, ridendo di sé, di noi, mentre il
piccolo televisore trasmette a basso volume sceneggiati
pechinesi in dvd con universali risate gialle registrate di
sottofondo.
E’ già la terza volta che Lily non vuole essere pagata.
Mi dice semplicemente che non lavora e mi sbottona la
camicia con naturalezza e gli occhi bassi.
L’ultima volta mi ha intenerito.
E’ sgattaiolata scalza nell’altra stanza ed è ritornata con
una bustina: un orologio cinese da polso, di quelli da un
tanto al chilo.
Me lo ha teso guardandomi con trepidazione, sorridendo
impacciata, e mi ha accarezzato una mano mentre lo
prendevo dalle sue.
Mi ha chiesto se possiamo vederci domenica sera: vuole
cucinare lei, alla cinese, qualcosa per me.
Dice di sé che è una brava cuoca e strabuzza gli occhi a
mandorla per accentuare il concetto della goduria a tavola.
Usa spesso un’esclamazione che presumo possa essere
di facile pronuncia per una cinese: mamma mia. Lo dice
con espressione enfatica a caricare significati e concetti,
bestemmia gentile o volgarità di poeta.
E mamma mia quanto mi piace cucinare, mamma mia
quanta brutta gente, mamma mia che pelle calda che hai,
mamma mia che bello vedere te…
Tintinnano i miei pensieri, bicchieri di cristallo sottili
come bolle di sapone, e un vibrare di diapason, che posso
ascoltare solo io, si libera dalla sua figurina svelta con la
chioma corvina: è la nota della sua fragilità di donna sola e
distante dalla sua terra.
Si sta abbarbicando a me senza pretendere nulla, se
non, forse, attenzione, per poter essere sicura di esistere, o
gentilezza per stornare ruvide richieste di clienti frettolosi.
Soltanto perché io sono garbato con lei e la coccolo e le
mormoro parole affettuose con carezze leggere come sospiri.
327
Lei forse comprende le singole parole solamente a
campione, ma intuisce il senso e il calore del tono.
Allora si lascia andare e gode e mi stringe con una forza
disperata sospirando e singhiozzando per poi sorridermi,
sudata e sfinita.
E dopo asciuga il mio sudore, devota, con delicatezza e
con sguardo da bambina pensosa.
Mi ha chiesto se domenica dormirò da lei.
Il mio cristallo vibra e trema.
Ma l’inverno sembra meno freddo d’altri anni.
Le porterò una torta Sacher: Lily è ghiotta di cioccolato
anche se è terrorizzata dall’ingrassare.
La mangeremo a letto con le mani, imboccandoci e
ridendo, e ci impiastricceremo dappertutto per poi ripulirci
con baci lievi e golosi nell’abbraccio di qualche nenia cinese,
di quelle che stordiscono e placano inquietudini.
E allora, mamma mia, vaffanculo al mondo.
328
SOTTILI LINEE DI DEMARCAZIONE
“All’inizio era bello: lei sempre a posto, sorridente,
disponibile, gentile. Sembrava un paradiso…”
“Invece poi?...”
“Il poi fu un susseguirsi di cambiamenti a partire dai
dettagli più insignificanti e quando cominciai a percepire
disagio e malessere fu troppo tardi.
Cominciò a girare per casa con i bigodini in testa, poi
con una calza a mezz’asta e una vestaglietta trapuntata
rosa che giorno dopo giorno si infrittellava delle macchie più
disparate. Il sorriso radioso dei primi giorni si tramutò in
uno stirare di labbra tese con espressione acida e
supponente.
La disponibilità traslocò per irraggiungibili isole
caraibiche lasciando in cambio soltanto opportunistici mal
di testa. La voce uterina e passionale dei primi tempi
divenne uno stridulo brontolare su ogni cosa, dall’esiguità
dello stipendio al rincaro dei prezzi, alla insoddisfazione del
suo stato di casalinga fino ad un continuo stillicidio sul suo
martirio nell’espletare le faccende domestiche.
Per lei cominciai a sporcare troppo, ad essere
menefreghista perché non usavo le pattine sul pavimento
lucido di cera.
Non la gratificavo con i complimenti dovuti per un
polpettone che era obiettivamente rinsecchito e ascoltavo la
radio a volume troppo alto.
Stavo troppo in bagno e troppo addosso a lei nel letto e
le mancava l’aria.
Aria, diosanto, aria che mancava a me la mattina
quando aprivo gli occhi e fissavo come in un incubo un viso
stravolto da un reticolo di rughe da cattivo sonno, una
faccia impresentabile con la bocca aperta che russava ed
emanava miasmi fognari.
Un inferno, dottore, mi creda.”
“E allora?”
“Provai a cambiare la situazione con la gentilezza e la
comprensione, ma attivai un perverso meccanismo di
consolidamento di posizioni.
329
E allora mi adattai alle circostanze e ridussi il mio
tempo di permanenza in casa allo stretto necessario.
La reazione di lei fu un abbrutimento nella supponenza,
nel livore, nella superficialità e nell’egoismo.
Cominciò a bere e a ingrassare. Si inchiavardò davanti
alla televisione a seguire le peggiori stupidaggini possibili,
sempre più trascurata e assente.
Imparai a cucinare, dunque, prima per me e poi anche
per lei che prese gusto a lamentarsi della qualità del cibo e
della cottura.
Entrai allora nella mentalità di uno che vive in un
momento di transizione. Io, sempre timido e riservato, mi
chiusi sempre di più a riccio e attesi eventi nuovi sperando
nella sorte.
Il mio angelo di pochi anni prima, nel frattempo,
divenne il ritratto verista di una casalinga disperata,
lamentosa e sciatta, insignificante sotto l’aspetto della
compagnia e dell’affetto e della passione.”
“La ascolto attentamente. Cosa accadde poi?”
“Più che ‘accadde’ io direi che ‘cadde’.
Mi cadde addosso una consapevolezza pesante come un
macigno e ebbi la rivelazione della mia via di Damasco.
Conobbi Kurt.
Altoatesino. Biondo. Bello. Vigile del fuoco. In borghese,
sul tram che mi portava all’ufficio.
Furono un insignificante strusciare di mani al
mancorrente e due sguardi fugaci, timido e impacciato il
mio, deciso e penetrante il suo.
Due battute sul tempo e lo scendere alla stessa fermata.
Un caffè per simpatia insieme.
E un mondo nuovo che si aprì a me in mutevolezza di
ruolo.
Stavo lasciando la mia antica principessina trasformata
in megera per perdermi nello sguardo di ghiaccio di un
vigile del fuoco alto due spanne più di me.
Sul principio risi dell’idea: il principe azzurro. Poi risi di
meno. Fantasticai.
E mi sentii felice d’essere oggetto di piccole attenzioni,
perché ci rivedemmo più volte, sempre più spesso, fino a
che una sera ci si guardò in maniera inequivocabile.
330
Lasciai mia moglie.
Era diventata irsuta, selvatica, e mi appariva sempre
più un cinghiale.
Mi trasferii da Kurt.
E sbocciai nella mia nuova natura di fata, ignorante
all’inizio circa il bucato, lo stiro, la gestione dell’andamento
di una casa.
Kurt fu comprensivo, dolce, disponibile e affettuoso.
Mi realizzai poco a poco senza eccessivi traumi.
La mia vera natura fuoriuscì con disinvoltura senza
alcuna prevaricazione da parte di lui.”
“Continui, la prego…”
“L’invidia degli dei, il fato cinico e baro, la legge di
compensazione, la sfiga dietro l’angolo: scelga lei la
definizione giusta, dottore.
Il vigile del fuoco, l’amore della mia nuova vita, scivolò
da un cornicione per salvare il gattino di una otaria baffuta
simile alla mia ex dolce metà.
Morì sul colpo senza soffrire.
In compenso da allora sto soffrendo io.
Le pene dell’inferno.
Solo,
irrealizzato,
mancante
di
qualcosa
di
irrinunciabile che possa rendere la vita degna di essere
vissuta nell’assecondare socievolezza, affetto, amore e
complicità.”
“La capisco…”
“Ne è sicuro, dottore?
E’ sicuro che lei capisce il mio stato d’animo di
trovatello senza più una guida, un riferimento?”
Il dottore si sporge in avanti e prende la mano del
paziente tra le sue.
Lo guarda intensamente.
“Anche io ho avuto una recente perdita…”
Stringe la mano sprigionando un calore di promesse di
protezione e complicità.
Il paziente contraccambia lo sguardo.
E si interroga in pochi attimi sul suo futuro di casalinga
disperata o di fata ignorante.
331
DICK – ORMONAL LIFE
“Come va, Dick?”
Il vecchio si scuote da un torpore pesante, allarga e
stringe le mani nodose a saggiare la consistenza dell’aria,
tasta il letto e mormora in un sussulto stanco:
“Bene, no, anzi, benino, Dick, per non dire maluccio o
addirittura malissimo: ho visto giorni migliori.”
“Cosa vuoi farci, Dick? E’ la natura che rivendica il
potere su tutto. Natura omnicomprensiva, tiranna.
Vogliamo osare anche a definirla bastarda?”
“E il tuo modo di presentarti c’entra qualche cosa in
questo disegno cosmico?”
Il vecchio ridacchia sommesso: un sibilo di iguana
spossato.
Aggiusta la posizione nel letto provando a stirare le
gambe nel camicione largo come una vela e trasparente
come una rete da pesca, con la tensione degli alluci verso il
basso.
“Non saprei, Dick: so che adesso sono così, e basta. Ne
sono abbastanza fiero e non mi sto ponendo problemi se ciò
sia possibile da un punto di vista medico, psicologico,
naturale o meno.
Potrei, potresti, potremmo essere fenomeni da
baraccone o anche questo fa parte della natura.
Mi allieta il pensiero di fare la mia porca figura anche in
un momentaccio come questo.
E dovresti essere contento anche tu, no?”
“Beh, per quello che può essere considerato concetto di
gratificazione…”
Il mormorio è basso, un esalare fiato in maniera
inintelligibile,
di un ironico umore nero, semmai sia
possibile solleticare umore nero in un letto di ospedale nella
penombra e nella solitudine più completa di una stanza
singola, appeso per lacci e tubicini a macchine che ti
fischiettano una messa funebre per bip e orchestra.
“La gratificazione, caro Dick, è sempre dietro l’angolo ed
è più intensa quando meno te l’aspetti.
332
S’aprisse la porta adesso ed entrasse l’infermierina
culona, quella con i capelli a caschetto e lo sguardo
malizioso …
Mi immagino una bocca atteggiata a meraviglia e uno
sguardo da Alice.
Poi, magari, qualche pensieraccio goloso, ché tanto qui
non entra nessuno e tu, parlando da un punto di vista
decisionale, stai diventando importante come un
soprammobile.”
“I
soprammobili
si
conservano,
Dick:
non
s’inceneriscono per poi conservarsi dentro una scatoletta di
cedro.”
“Beh, Dick, mettiamola così: non è che ti siano rimaste
poi moltissime risorse di reazione. Per come ne sono
consapevole, non sei ancora un puro vegetale, e io lo
dimostro, ma non sei neanche minimamente candidabile
alla frequentazione annuale di un corso di fitness e
pesistica con saune e bagni turchi comprensivi in ambiente
sessualmente misto.”
“Ritorniamo all’infermierina, Dick, così, tanto per
distrarmi da questo doloraccio al petto che scava come un
chiodo arrugginito: potresti anche giocarmi un brutto tiro,
in soprassalto di modestia o vergogna, o anche solamente
perché la natura fino a un minuto prima era distratta da
altro e ora deve correggere prospettive secondo canonicità
classiche.
Non si è più sicuri di nulla, caro Dick, e meno che meno
in frangenti come il mio, con questo ‘bip’ che m’innervosisce
e pare scandire un conto alla rovescia.
E poi che bello: con le cannule nel naso, le palpebre a
mezz’asta e la pelle flaccida e grigia.”
“Tutti alibi, caro Dick, a supportare il tuo essere
rinunciatario, insicuro, sconfitto di sempre.
Perché non provi a considerare altra retorica, la retorica
dell’amore per la vita, dell’aggrapparsi con volitiva
disperazione alle ultime occasioni per assaporare ancora
soddisfazioni?
Una infermiera è allenata ad affrontare le situazioni più
imprevedibili e ha una sensibilità che probabilmente, in
frangenti pratici, è di un altro pianeta molto più evoluto.
333
Quella del primario di psichiatria del piano di sotto, in
confronto, è sensibilità di carta vetrata.
La nostra culona ti ammirerebbe, probabilmente, e
magari sarebbe colta dalla sindrome della buona
samaritana e…”
“Sei proprio un porco in ogni occasione, Dick.”
“Se porco vuole dire amare la vita sopra ogni altra cosa,
ebbene, sono allora un gran porco, caro Dick.
E risparmiami discorsi di carattere spirituale, morale,
filosofico, sociale.
Non venirtene fuori con la storia che caschetto è troppo
giovane, è troppo sposata, è troppo sola, è troppo pietosa o
altre amenità sul tuo stato, la tua età, il tuo
rincoglionimento o quant’altro di negativo tu sappia
inventarti per giustificare il tuo essere coniglietto.”
“Stai dicendo tutto tu, Dick: io a mala pena respiro e ti
sento.
Ti sento vampiro. Non so fino a che punto nella scala
della giustizia.
Mi soffermo solamente su considerazioni varie rispetto
al concetto di ridicolaggine…
Sto tirando l’anima coi denti e il ‘bip’ mi assomiglia
sempre di più ad una campana a morto.”
“Beh, caro Dick: meno male che ci sono io a resistere,
allora.
Il concetto di ridicolaggine, per come la vedo io, è
uguale a certi macigni che riguardano la paura di morire e
l’aggrapparsi alla fede.
Invecchi e hai paura di morire, diventi un baciapile,
osservi i comandamenti che non hai mai osservato fino a
pochi anni prima, ti raccomandi l’anima a Dio, ti riempi di
piità, senti che vocabolo pulcinesco ahahah…
Piità, piità, un’assonanza da pollaio con pietà che ha
dell’inquietante.
Oppure alzi paletti, palizzate, muraglie.
La pelle del vecchio fa schifo, l’alito è da fogna, l’occhio
è liquido, l’odore del corpo assomiglia ad un qualcosa di
indefinibilmente rancido, le sinapsi cerebrali sono tarde e
risibili.
334
Tutto vero, se la rigiri per qualche verso che ti accarezza
la pigrizia e la irrefrenabile pudicizia che non ammette
brutte figure.
Ma, e questo ma è un solco.
Non è maschilismo spicciolo, questo, bada bene.
Esiste anche una insopprimibile voglia permanente di
vita indipendentemente dall’età.
La vita è cibo.
E’ socializzazione complice.
E’ ormone.
E’ figa. La santissima Figa che tutto asperge con i suoi
umori creando vita che genera amore per la vita. Un circolo
virtuoso, vizioso, virtuvizioso, saldato solidissimamente, ché
ti sfido a discernere.
Ed è un assioma indipendente dall’età.
Le donne sono meno sceme di quello che tu credi, e lo
sanno, per fortuna.
Comprendono.
Si incuriosiscono per comprendere meglio.
Forse non tutte.
Ma te ne basta una, no?
Ce ne basta una, no? Per me ed il mio amore per la vita
e per te e il tuo amore per la vita: amori così diversi e così
simili, carnale e spirituale, ché quel coglione che ha
cominciato a fare distinzioni aveva il cervello in pappa.
Dai, Dick, resisti. Resistiamo alla morte con la gioia e
l’amore per la vita.”
“Fino a che ce la farai: io ho idea che tra poco passo…”
“Sforzati un poco, allora, e pensa al figurone del ‘rigor
mortis’: l’angelo della corsia con le lacrime agli occhi per
una occasioncella perduta…”
“Vaffanculo, Dick…Per te sono tutte troie.”
“Macché dici, Dick. Povero te ché sei arrivato a questa
età e non hai capito nulla della vita.”
“…E’ ora. Spero che qualcuno, se esiste, mi protegga e
abbia pietà di me…”
Il vecchio ha un soprassalto tirato e si rilascia.
Anche le cannule e i tubicini sembrano allentarsi sul
letto e il camicione sembra svuotarsi.
Almeno in parte.
335
Qualche tempo dopo entra nella stanza per un controllo
una infermiera coi capelli a caschetto, piuttosto ampia di
bacino, e scuote la testa mestamente nel notare la
macchina silenziosa e il vecchio Dick terreo immobile
disteso sul letto con il suo camicione largo.
Il morto sembra sorridere: una specie di ghigno sospeso
tra il perfido e il divertito, anche se qualche ruga spianata
denuncia una rassegnazione perdente che potrebbe
confondersi con una comprensibile paura.
Ha le mani serrate all’inguine, Dick.
Artigli. Eppure sono mani che contengono, che non
imprigionano.
A dispetto dell’età e chissà per quale possibile o
impossibile legge naturale, fa mostra di sé di una
prorompente erezione.
Seppure postuma.
L’infermiera ha un pallido sorriso, indecifrabile,
femminile, e copre con il lenzuolo i due Dick.
Con delicatezza.
336
RACCONTI DI BAR E
RISTORANTI
337
338
ESAGERAZIONI
Mi piace lasciarmi cullare sulle onde della fantasia da
pensieri che hanno legami apparentemente illogici, o forse
logicamente distorti, colla realtà.
Mi piace smontare il tempo, le dimensioni, le
proporzioni per arrivare a creare un mio mondo con mie
regole paradossali e iperboliche che mi facciano poi
sorridere in qualche pausa tra una realtà quotidiana e
un’altra che, comunque, tranne le solite eccezioni,
spiacevoli non sono.
Nell’astropub di una galassia lontana un grande Kroll,
probabilmente
un
facchino
dello
spazioporto,
muscolosissimo e rinforzato con paranchi in vanadio su tre
dei suoi sette tentacoli prensili, con lo sguardo inespressivo
ma buono dei suoi 6 occhi gammavedenti, sta aspettando
un cybhamburger da uno svogliato cuoco unto e bisunto,
piccolo e giallo con un capo antennuto pieno di lana di vetro
riccia che ricade a ciuffetti su tutto il bancone.
E’ questione di attimi e quest’ultimo, meccanicamente,
estrae da un criogeneratore professionale una palla precotta
che giaceva lì da qualche tempo.
La manipola un poco con appendici gommose che la
schiacciano e da sfera le danno una conformazione da
tortino; la strofina con esotiche spezie a base di metano ed
altri aromi e la poggia su una immensa griglia di titanio che
sprigiona vapori azzurrini perché già bollente.
Pochi secondi e rigira la razione con una paletta che
maneggia destramente con quelle appendici gommose che
mutano anche forma a seconda delle funzioni che devono
espletare; ancora due saltelli sulla piastra e qualche
sfrigolìo: la porzione di cybhamburger è pronta e servita
calda con lava fusa e altre spezie.
Mi piace pensare che questi pochi secondi meccanici di
una funzione banale e quotidiana a milioni di parsec da qui
in un’altra dimensione temporale significhino, nell’ambito di
una mia umilissima considerazione di me di fronte
339
all’universo, il susseguirsi di ere glaciali e calde di un
pianeta che, improvvisamente scosso da terremoti e disastri
naturali, dopo sbalzi climatici di milioni di anni, si estingua
nel nulla con miliardi di esseri viventi.
Forse è troppo immaginare la Terra come un
cybhamburger che finisca di vivere nello stomaco di un
gigantesco Kroll?
340
ATTENTI AI PIZZAIOLI
Disse burbero al pizzaiolo: “Vieni di là che ti devo
parlare.”
Domenica sera, verso l’orario di chiusura, Don Ciccio
oltrepassò la postazione del forno a legna dove Gennaro il
pizzaiolo stava riordinando, dopo aver coperto un
malloppone di pasta con una tovaglia per la lievitazione, e si
chiuse nella stanzetta con la scritta ‘Privato’.
Gennaro raggiunse il padrone e stette in piedi di fronte
a lui, un poco imbarazzato, in attesa di comunicazioni, con
un vago sentore di aria temporalesca, elettrica e carica di
minaccia di pioggia.
“Gennarì, io te l’ho detto tante volte, ma tu niente, fai
sempre come tua natura di galletto ignorante: quante volte
ti ho detto di lasciar perdere le clienti, specialmente le più
carine?
E tu niente, fai orecchie da mercante e seguiti con i tuoi
commentini del piffero che sottintendono solo piffero, quello
vero, e una, due, varie clienti si indignano e si vengono a
lamentare da me.
Ora basta!
Da mercoledì viene un nuovo pizzaiolo, egiziano,
sicuramente meno bravo di te, ma sicuramente più educato
e rispettoso.
Martedì è il tuo ultimo giorno di lavoro: goditi domani di
festa e comincia a guardarti intorno perchè stavolta con me
hai chiuso.”
Gennaro ristette in silenzio senza replicare, adirato
come un luccio anche perchè quello che aveva detto Don
Ciccio era vero, però ...sant’Iddio, un minimo di
comprensione per un ragazzo sotto torchio in piena estate
davanti a un forno a legna...
Il giovane Gennaro sbollì gradatamente la sua rabbia il
giorno dopo, turno di riposo alla pizzeria, in un bosco
ombroso, camminando a lungo tra siepi e lecci e
raccogliendo funghi: tornò a casa con un cestello pieno.
Il suo ultimo giorno di lavoro in pizzeria si presentò
puntuale, con un’aria indecifrabile di indifferenza nei
341
confronti del padrone Don Ciccio, e con un pacchettino di
funghi tagliuzzati a listelle con le sue mani, belli carnosi
con profumo di bosco.
Erano amanite falloidi, citrine e muscarie...
342
BUON COMPLEANNO
La moglie di S. è sempre stata una donna molto
sensibile e premurosa ed è sempre stata una giocherellona
incline a scherzetti più o meno innocenti nei confronti di
suo marito.
Preparò una beffa memorabile in occasione del
cinquantesimo compleanno del suo uomo: a sua insaputa,
organizzò una cena pantagruelica in un ristorante esclusivo
ed invitò tutti gli amici di suo marito, quelli frequentati ed
importanti e quelli perduti nel tempo, fin dai giorni
scolastici di tantissimi anni prima, rintracciati con tanta
pazienza e fatica.
Si preannunciò quindi una serata mondana molto
nutrita di ospiti tra i più disparati che, nelle intenzioni della
originale mogliettina, avrebbero dovuto suscitare un
piacevole marasma di emozioni e ricordi nel festeggiato.
La donna fece opera di sovrintendenza sul menu e
sull’organizzazione completa della serata con un’orchestrina
e altre sorprese…
Arrivò il gran giorno e l’ignaro festeggiando, verso sera,
ingenuamente propenso per una pizza o una fritturina di
pesce con la sua signora, venne bendato da quest’ultima,
piacevolmente blandito con risolini e ammiccamenti vari,
caricato su un taxi e portato verso il ristorante.
Fu una serata splendida, un susseguirsi di emozioni
che si accavallarono ai ricordi e alla sorpresa di vedere
tante figure molto cambiate in tanti anni: il piacere di
vecchie rievocazioni e in alcuni casi la speranza di un
futuro riannodarsi di rapporti andati smarriti per troppa
pigrizia o superficialità.
S. era frastornato e galleggiante in uno stato di
abbandono e confusione, commozione e gioia, e la moglie lo
guardava in tralice pregustando il ‘clou’ della serata a fine
cena.
Si arrivò infatti al momento culminante e la signora fece
abbassare le luci.
Fu introdotta una torta gigantesca che fu posta davanti
al tavolo del festeggiato: si levò nell’aria una musica
343
languida da night-club e dalla torta uscì una splendida
creatura con una folta cascata di capelli mori riccioluti,
avvolta solo da alcuni boa di struzzo, con un ridottissimo
perizoma, ancheggiante con un sorriso complice e lascivo
tutto per S..
Il festeggiato accolse sulle sue gambe la splendida
creatura e, confuso e stordito dal suo profumo, cominciò ad
accarezzarla distrattamente tra i lazzi e le urla di
incitamento della platea: carezzando, carezzando, arrivò a
toccare punti più riposti e segreti ed ebbe una sorpresa, la
sorpresa della moglie: la splendida ragazza statuaria era in
realtà Miguel Carvalho, un bellissimo transessuale
brasiliano non operato, molto conosciuto nei locali notturni
cittadini col nome di “Vanessa Leonessa”.
S. tastò qualcosa di strano, che non avrebbe dovuto
essere lì, ritrasse precipitosamente la mano tra le risa di
tutti che sapevano, guardò negli occhi Miguel che
contraccambiò lo sguardo…
La moglie di S. ancora non si capacita del come e del
perché sia accaduto che suo marito sia fuggito in Costa
Rica con Miguel senza troppe spiegazioni ed ha perduto la
voglia di scherzare: da un poco di tempo maledice gli
uomini, i transessuali e anche le feste di compleanno.
344
QUANDO SI DICE AMORE
Venne assunta come barista di sala, la bella Matilda,
fisico statuario ed andatura indolente, molto sensuale, con
uno sguardo languido e carico di sottintesi e un sorriso
contagioso incorniciato da una cascata di riccioli bruni su
un incarnato olivastro da creola.
Il bar aumentò in breve tempo la clientela in maniera
vertiginosa: tutti sfaccendati o figure che avevano pensieri
maliziosi o speranze fuori luogo sulla bella barista.
Cicaleccio allegro e brusìo eccitato tra birre e rhum in
un incrociarsi di sguardi divennero la componente
aggiuntiva del cockatil tropicale di fumo, sudore e afa mal
repressa dai ventilatori.
Attenzioni su attenzioni, apprezzamenti, ammiccamenti,
sorrisi aperti, ingenui, nervosi, e poi addirittura musica…
Cominciò una mattina, con l’ultimo fresco prima della
calura del giorno fatto: Harry Belafonte che cantava
“Matilda” e il bar pervaso da un’atmosfera tropicale calda e
piena di gioia di vivere.
Il brano si ripeté più volte, anche di seguito, e i clienti si
guardarono sorridendo perplessi e intimiditi.
Snervante calipso con percussioni insistenti che
rasentavano l’osceno.
Nel pomeriggio si comprese che qualcosa non andava
per il giusto verso: il calipso di Belafonte era diventato
ossessivo e faceva caldo, molto caldo, troppo caldo.
“…E-very body…Ma-til-da, Ma-til-da…” riecheggiava la
voce arrochita di Belafonte tra bonghi e marimba.
Nel bar ci si guardava con curiosità e perplesso
nervosismo e la barista era alquanto imbarazzata, dibattuta
tra una piacevole consapevolezza di piacere e una pudicizia
che cominciava a prevalere sulla maliziosa sfrontatezza.
Atmosfera fumosa, caldo asfissiante, sudore ed
eccitazione che le pale del ventilatore al soffitto non
riuscivano a dissipare.
Alla centododicesima ripetizione di “Matilda” qualcuno,
un cinico sveglio o un misantropo incallito, intuì e staccò la
spina del juke-box innamorato…
345
RISTORANTE
Il posto si chiama “Da Franco al vicoletto” nel quartiere
di S. Lorenzo in via dei Falisci.
Il locale è ampio, ma anonimo, con luci basse, con un
sottofondo di chiassoso sbattere di pentole e casseruole
proveniente da un’enorme cucina schermata parzialmente
da una ghiacciaia immensa e da un separè di vetro
smerigliato: di là sembra l’interno di una vecchia
sgangherata galea tra fumi, vapori, filippini, marocchini e
ometti baffuti unti e sudati che si agitano e ridono e saltano
padellate di pasta o di pescetti vari…
Questo è un posto di pesce ed è anche conosciuto, vista
la processione.
Sono entrato presto per cenare ed osservare il
sopraggiungere dei clienti, pessimo affare per il ristorante,
perché solo: un tavolo quadrato è solo per me e vengo
guardato male perché offrirò magro guadagno rispetto a
tavolate di intere famiglie.
Il padrone, Franco, indifferente e romanamente
tetragono a qualsiasi imprevisto, con tovagliolo negligente
su una spalla, sbircia da dietro il separè come una piovra in
agguato e forse aziona un generatore di corrente: saltano
come molle giovani camerieri, a scatti come formiche
all’avvicinarsi di un temporale o come acquadelle di fronte
ad una sagoma scura in avvicinamento.
Scatta un filippino apparentemente indolente, un
romano veramente indolente, una giovane mamma con
bimbo parcheggiato dentro un passeggino all’ingresso,
tedesca nella sua sbrigativa efficienza, il decano con riporto
capelluto a banana mostruoso, unto e untuoso, coi piedi
piatti, unico in giacca bianca regolamentare, i cui organi
mobili e attenti sono solamente gli occhi, semisepolti, però,
da un sorriso condiscendente e ambiguo di servo verso i
clienti o di padrone verso gli stessi.
Viene lui da me: “Buona sera….: faccio io?”
Faccio io e ordino: lui assente con deferenti cenni di
banana, sussiegoso e serio, e scompare.
346
Inizia il bello della serata: quel mio intendere il bello,
particolare, per soddisfare la vista e fare risaltare alla mia
osservazione aspetti ironici o dichiaratamente comici nella
situazione confusa di pastasciuttaro di cozze e vongole,
svagato, quasi pesce, che osserva l’acquario circostante
pieno di osservatori di pesci o pesci stessi.
Comincia il valzerone dei clienti che affluiscono nel
locale…
Entrano con piglio da padroni, cernie serie e altezzose,
con la scioltezza dei clienti abituali cui è dovuto un
trattamento preferenziale, e ti guardano con sufficienza,
povero tapino, povera piccola alice senza branco, che sei qui
per la prima volta, ma un loro volgere il capo ansioso
tradisce la loro insicurezza da tonnetti alla mattanza.
Il patriarca capellone, paguro rossiccio di una triste
comitiva di vecchie carampane lucide di fondo tinta
esagerato come triglie, afferra con confidenza un braccio del
decano di passaggio, il bananaro che sembra ora un polipo,
che neanche lo ha degnato di uno sguardo: occhi
supplichevoli e un’improvvisa spianata di sorriso aperto per
un tavolo in buona posizione scavalcando cartellini di
“riservato”.
Il cameriere assurge a dispensatore di benessere e
felicità e scocca occhiate di degnazione verso il supplice: mi
aspetto che faccia baciare l’anello del pescatore ai fedeli
clienti…
Sopraggiunge il radical-chic con sei chili di quotidiani
sotto il braccio, rassegnato come un
triste branzino
d’allevamento, e due colleghe di lavoro che sorridono
isteriche muovendo il collo come galline o, per restare nel
tema, nuotando a scatti nervosi come gallinelle d’acqua:
anche lui è stranamente sottomesso e confidenziale con la
giovane mamma che corre di qui e di là senza troppa
attenzione per il trio, nervosa murena affaccendata tra i
tavoli che potrebbero sembrarle scogli ed anfratti.
Qualcuno viene accontentato quasi completamente;
qualcun altro deve fare buon viso a cattivo gioco e viene
sistemato troppo vicino ad un altro tavolo, e per una coppia
romantica è veramente una sistemazione insoddisfacente:
347
due pescetti baciucchioni d’acqua dolce vicino ad altri pesci
con il senso del territorio molto sviluppato.
Un acquario molto rumoroso, come il fondo di un
profondo mare, del resto, paradossalmente: trillano varie
suonerie di vari telefonini, qualcuno ancora batte sul
bicchiere con la forchetta per richiamare il cameriere, robe
d’altri tempi ruspanti, altri parlano di recensioni, di analisi
politiche, del tempo, di come si mangia il pesce da Franco,
di come e da quanto si conosce Franco, di come si è trattati
bene da Franco…
Poi passa silenzioso e imponente lo squalo bianco
Franco ed è un girotondo di salamelecchi da sottomessi
pesci pilota con un tu cameratesco e svariati sorrisi e
battute e il furbo e navigato oste sogghigna: sembra di
affabilità, ma io intravedo maliziosamente vago disprezzo e
un fare le fusa da gattone affamato di lischette di sarde
fritte, impermeabile alle più esagerate blandizie…
Si incrociano vassoi di pane e bottiglie di vino, spaghetti
alle vongole e fritture miste con grigliate e capesante
gratinate.
Si paga il giusto e il cibo è dignitoso senza voglia di
urlare di goduria.
Rimane, impagabile, il susseguirsi di siparietti
nell’intercambiabilità dei ruoli tra servi e padroni, tra pesci
e pescatori, tra chi paga e chi offre un servizio, in una
confusione di atteggiamenti che, se ci si pensa bene, è già
uscita dal ristorante e si è diffusa da tempo un poco
dappertutto…
348
NUOVA MITOLOGIA URBANA
Si fece silenzio.
Cessarono il brusio e le risa, i giocatori di carte smisero
di bussare il tavolo coperto di un sudicio panno verde nella
vineria calda e fumosa male illuminata da uno sciatto neon
tremolante, e tutti si volsero verso il cantore cieco seduto
all’angolo in fondo che cominciò a parlare di Arione…
Arione è un tossico che suona ogni tanto il sassofono in
qualche affollato incrocio o sotto i portici di piazza S. Carlo
o in Galleria S. Federico per pochi spiccioli o per un panino
e una birra…
Per la dose, invece, Arione si fa autoradio al parcheggio
di piazza Fusi o a Porta Palazzo al mercato oppure tenta
qualche scippo ai danni di vecchi passanti in vie poco
frequentate e male illuminate della periferia verso villa
Sassi…
Una certa sera frizzante di primo autunno il nostro, in
un bar scialbo di formica con le macchinette del video poker
e un biliardo frittelloso di ciambelle unte, fece comunella
con altri tre o quattro balordi impomatati del quartiere: due
chiacchiere a fonemi gutturali e monosillabi intervallati da
bestemmie sul più e il meno dei tossici, sulle difficoltà a
reperire quei bravi e ingenui sprovveduti di una volta per
sfilare loro il portafogli, qualche confidenza tra colleghi
rubagalline, qualche dritta per un pasto caldo o per una
dose extra da qualche finocchio in centro, qualche esame
noncurante della strada e del passaggio con occhiate
apparentemente distratte…
Ecco: una vecchietta ingobbita dal passo strascicato,
con una borsa consunta, ma grande come una sporta da
spesa al mercato…
Detto e fatto. Venne balzellata dalla scalcinata banda
fino verso il Lungo Dora dove gli alberi ancora abbastanza
folti coprono la luce e i passanti prudenti diradano.
Sembravano pipistrelli diabolici, tutti neri e silenziosi
alla fioca luce della sera.
349
Arione sfilò con uno strappone violento la borsa
consunta bestemmiando e urlando per spaventare la
vecchia e fuggì come un falco inseguito dagli altri. Si
fermarono all’ombra di altri alberi qualche centinaio di
metri più in là, curiosi e avidi, protetti dalle ombre del
fogliame, per esaminare il bottino con qualche speranza di
un paradiso notturno da dose.
L’amicizia tra tossici muore di fronte a pochi spiccioli da
dividere: la consorteria dei disperati si frantuma nella legge
metropolitana del più forte o anche soltanto della effimera
alleanza di tre contro uno per aumentare la consistenza di
una magra divisione.
Ci fu un alterco per una moneta di troppo, o di troppo
poco, un pretesto forse, e balenarono le lame di coltelli.
Arione era solo e gli altri erano troppi.
Lo colpirono e lo scaraventarono nel fiume lì sotto come
un vecchio materasso pieno di pulci e si dileguarono.
Lui annaspò scoordinato freneticamente, gridò e chiamò
aiuto, ferito e sanguinante, poi fu sopraffatto dai flutti fetidi
di fogna urbana, ma alla fine del soccombere percepì una
spinta verso l’alto e un delicato trasporto verso una riva
bassa ed erbosa a ciuffi radi in un fetore insopportabile e
tiepido di abbandono e marciume…
Tre gigantesche pantegane, la razza denominata “Rattus
norvegicus”, lo spinsero verso la riva e lo adagiarono
delicatamente su una roggia deserta piena di rifiuti e
siringhe.
Arione aprì gli occhi stordito e mormorò qualcosa di
sorpreso e grato appena intelligibile…
Una pantegana squittì in un sussurro: “Grazie a te,
Arione, per il dolce suono del tuo sassofono, struggente e
disperato, che hai fatto ascoltare spesso agli abitanti tutti
del fiume dal ricovero dei disperati del Sermig qui vicino
sulla riva…
Sarebbe stato un peccato perderti questa sera e non
ascoltare più la magia di una buona musica…”
S’interruppe il cantore cieco tra le volute di fumo di
troppe sigarette e sigari toscani.
350
Beccava l’aria solamente il gocciolare del rubinetto nel
pozzetto di zinco dietro il banco della mescita.
Bevve lentamente un bicchiere di barbera nero a darsi
calore e ristette muto a fissare con gli occhi vitrei una
nuova storia impressa sulla vetrina appannata e opaca del
locale.
Rimasero tutti straniti, nella vineria, al racconto del
vecchio aedo.
Nel silenzio del rispetto per una favola della vita.
Nuova mitologia urbana.
351
GLI STRACCETTI DELLA GINA
Gina era l’ottima cuoca di un ristorantino di cui ne era
anche la padrona insieme a suo marito Rocco, brillante
maitre di sala.
Era conosciuta per alcune sue specialità tra cui
spiccavano il famoso “brodo tante carni” e gli inarrivabili
“straccetti della Gina”.
Il “brodo tante carni” era appunto un brodo misto di
bollito di manzo, pollo, coniglio, piccione e, alla stagione,
rane, con un sapore ricco e appetitoso aromatizzato da
foglie di alloro aggiunte e poi tolte, per il segreto dello chef,
oltre ad altre spezie.
Gli “straccetti della Gina” erano delle tenerissime
piccole scaloppine sottilissime steccate con speck e salvia,
cotte nel vino bianco, appena sbollentate, quasi come i
“saltimbocca
alla
romana”
col
prosciutto,
con
un’aromatizzazione di aglio e un’eccentrica aggiunta di
pinoli appena tostati, servite calde su un soffice letto di
rucola e pomodorini ciliegini di Pachino succosi.
Andavano bene gli affari nel ristorante di Rocco e Gina,
ma non altrettanto bene i rapporti tra la valente cuoca ed il
disinvolto maitre di sala: era un litigio continuo su
pretestuosità insignificanti con ripicche, insulti e, talvolta,
un piatto o un bicchiere scagliato contro una parete, ogni
giorno sempre più vicino ad una sagoma urlante.
Sembrò per pochissimi giorni, tuttavia, che fosse
cessata ogni lite e che il locale odoroso di intingoli e arrosti
fosse divenuto un’oasi di tranquillità.
La Gina se ne era andata dopo una notte di grida e
strepiti per una pausa di riflessione lasciando tutto sulle
spalle di Rocco…
La verità venne a galla una domenica di gite fuori porta.
Rocco era praticamente sempre in cucina a surrogare
degnamente la moglie e un pallido ragazzo volenteroso lo
sostituiva nel servizio ai tavoli prelevando piatti su piatti da
uno sportello comunicante con la cucina.
352
Ci furono mugolii di giubilo e commenti di approvazione
nel sorbire il famoso brodo con tocchetti di pane
bruschettato e semplici cannolicchi.
Si udì un liberatorio applauso a scena aperta
all’ingresso dei famosi “straccetti della Gina”, teneri,
morbidi e saporosi…
Scoprì tutto un ragazzino curioso che sgattaiolò non
visto in cucina per vedere l’antro delle meraviglie e chiamò
la mamma con voce squillante…
Risultò eccessivo, esagerato e gratuitamente truce il
fuoriuscire dal pentolone del brodo di due bianchi
femori…la verità a galla con un coperchio sbilenco a mal
coprire…
E gli “straccetti della Gina”, col senno di poi, avevano
un sapore nuovo, indefinito e paradisiaco, ma diverso…
353
COSA SI FA PER UNA FOGLIA NEL CAPPUCCINO
Sono poche le persone che possiedono un apprezzabile
spirito d’osservazione e sono rarissime le persone che
riescono a ricamare con entusiasmo su particolari
insignificanti come un poetastro cicisbeo barocco, peraltro,
spesso, esercizio piacevole.
Io sono oltre: ricamo e approfondisco, curioso come una
serva al mercato rionale, e ho la necessità interiore di
sapere il perché ed il percome su qualsiasi argomento,
importante o marginale, anche se ridotto a semplice
dettaglio.
Sono curioso come un cercopiteco e ho le mie
soddisfazioni nel conoscere retroscena che nessuno sa.
Oggi sono ecumenico e voglio farvi partecipe di una mia
scoperta.
Conosco la vera storia di Toni, il barista del Bar dei
Tarocchi.
Lo conoscono tutti il Toni, bruttarello e magro come un
Bagatto, ma simpatico e professionale, con quel gilet
azzurro cielo sempre stirato e inappuntabile.
Ha un sorriso per tutti, una battuta per la portinaia del
condominio di fronte, sempre malandata di salute, per il
ragioniere del negozio di autoricambi, per ogni cliente di
prima o ultima categoria.
Ed intanto che ride e scherza, lavora sodo con la
leggerezza del Nureyev e danza dietro il bancone tra la
Faema in acciaio, quella vecchia splendente con i pomelli in
bachelite nera, e il grill con le piadine, e sembra quasi che
diventi bello e fascinoso.
Il Toni è bravo in tutto, ma in una cosa eccelle sopra
tutte: la foglia nel cappuccino.
Avete mai osservato come viene servito un cappuccino
al bar?
Esiste il barista frettoloso che tira via e versa il latte con
poca schiuma sul caffè senza curarsi molto dell’aspetto
estetico.
Esiste il barista volenteroso, apprendista stregone di
certi segreti, che versa il latte molto schiumato, leggero, e
354
domanda anche se volete il cacao, ma ottiene risultati
estetici di presentazione piuttosto scarsi: globi biancastri
sbavati di caffè, montagnole di schiuma che sembra sapone
con il cacao che sembra fuliggine.
Esiste poi il Toni.
Con leggiadria e naturalezza, in sospensione con le due
mani, una per la tazza e una per il bricco del latte, versa
una schiuma impalpabile e candida muovendo velocemente
il polso morbido e nel contempo nervoso e con l’altra mano
ruota impercettibilmente la tazza.
Si viene a formare dal nulla nella tazza una foglia
bianca lanceolata venata da ramificazioni di caffè.
Il Toni spolverizza di cacao, senza chiedere, e la foglia
appare vera, viva, autunnale in un colore bronzeo, ed il
vapore del caffè e del latte bollente sembrano una nebbia
novembrina di un bosco con l’aroma del caffè che
magicamente sa anche di castagne.
E’ un poeta il Toni: il re della foglia nel cappuccino.
L’ho smascherato ieri sera alla chiusura del Bar, dopo
una chiacchierata corposa e innocente sulla bonazza del
quarto piano che stende ad asciugare delle mutandine da
infarto.
Beveva grappa e parlava, il Toni, e rideva sempre più
rubizzo e accalorato.
Ho atteso paziente come un ragno peloso.
Poi una domanda buttata là, con noncuranza, per il mio
gusto di sapere: “Ma come fai, Toni, a fare le foglie nel
cappuccino così bene? Hai studiato in qualche corso
alberghiero?”
Mi ha dato una risposta, cincischiata nella verità di
qualche bicchierino di troppo, che mi ha un poco
tramortito, lasciato perplesso.
“Ma no, vedi: io voglio il massimo per quello che so fare
e mi sono sempre applicato per questo.
E’ così che mi sono conquistato una fama di barista
professionista di prima categoria.
Si è presentato da me quattro anni fa un signore in
antracite a tre bottoni, distinto, affabile, con una
ventiquattrore di pelle nera, sembrava un assicuratore, e
355
abbiamo combinato un affaruccio tra noi: foglie nel
cappuccino per un’anima.
Ci siamo intesi subito e abbiamo avuto delle valutazioni
estremamente complementari: quando dovrà essere, io
smetterò di fare le foglie nei cappuccini e verrò ricordato
come il migliore barista del quartiere e il signore in
antracite avrà la mia anima.”
Parlava e sorrideva beota, o forse più lucido di quanto
possa esserlo io, senza grappa e con l’angoscia che mi fa da
fodera alla pelle per il mio soprabito metafisico: lui niente,
smargiasso quasi in una naturalezza da brividi.
A botta calda ho pensato che il Toni si fosse bevuto il
cervello: certi personaggi di ieri e di oggi, di letteratura e
reali, hanno venduto per molto meglio la loro anima, per la
fama, le donne, le ricchezze, il potere, ed il Toni, invece,
faceva i saldi colle foglie nei cappuccini…
Poi l’ho guardato: occhi determinati in una sua relativa
ambizione, tono di voce freddo e indifferente per il futuro,
nella gratificazione massima di un posto nella memoria di
qualche cliente, ed allora ho ripensato e ho rigirato il
discorso da ogni parte come un maglione di primetta nel
bancone delle offerte speciali.
Sono arrivato alla conclusione che forse il Toni mi
abbia preso alquanto per i fondelli, ma a volte non ne sono
così sicuro, soggiogato dal ricordo di quel luccichio degli
occhi da matto, e quindi continuerò ad indagare, da serva
curiosa e impicciona quale sono.
Se fosse vero quanto mi ha detto, presto ci sarà da
pagare, oltre all’anima, anche una grande fregatura: perché
io ho notato che i clienti del Bar dei Tarocchi stanno
cominciando a prendere meno cappuccini e più caffè
ristretto…
356
ARRICCHISCE LA VITA LILLY GRUBER
Classico circolo ANPI in periferia di paese. La sigla
ANPI è solamente un pretesto aggregante: potrebbe
significare anche Acidi Nottambuli Politrasfusi Isterici
oppure Aspettiamo Nuove Poltroncine Ignifughe.
Ambiente solito: tavolini, con incerata scozzese e con
vari portacenere di plastica blu della Martini, di
coreografia intorno ad un biliardo più volte rifondato, con
un panno frittelloso e le spondine abbassate, senza
buchette, come un biliardo recente regolamentare, con il
termostato spento per risparmiare.
Bancone del bar in fondo, con luce fredda verdina di
neon e bottiglie semplici e veraci in esposizione: il
Sassolino, l’anice Tutone, l’amaro Gambarotta, il brandy
Tre Stelle, lo Stravecchio Branca…robe così…
Il Baileys per qualcuno è una parolaccia (rumpi nen i
baileys). In un angolino una macchinetta tarantolata del
video poker, in semioscurità.
Aria fumosa da tagliare con lo stesso coltello che è
servito per i panini colle acciughe al verde o il salame
cotto.
Aroma di barbera spillato fresco e di trinciato forte.
Qualche naso smaliziato riesce a distinguere la
Rothman’s o la Marlboro tra i toscani.
Qualcun altro strizza gli occhi e bofonchia sacramenti
e malauguri a chi lo affumica.
Chi non muore di tumore o d’enfisema, morirà di
accidenti perché qualcuno di questi ultimi, per sbaglio o
Provvidenza, prima o poi, attecchisce.
Questa è la scenografia.
Ora i personaggi e gli interpreti.
I soliti due imperturbabili silenziosi, il Tecnicissimo e
il Bravo Brillante, giocano con il grembiulino e con la
stecca, con impegno e passione, a goriziana prendendo
misure come geometri e ticchettando di messe a
nascondersi dietro il boccino o il castello.
Lo Scorbutico Litigioso non ama le carte e segue i
biliardisti segnando i punti alla lavagnetta cercando di
357
imparare qualche colpo: colpo sotto ed effetto a tenere,
per controllare la biglia, e il ‘friiiiiii’ sommesso del filotto
che si adagia come un domino snodato sul panno al tocco
preciso della biglia che fa tre giri e si nasconde.
Un tavolino è occupato da me e da ‘Fumo’.
Guardiamo i due biliardisti, Fumo ed io, e lui fuma in
continuazione e accende una sigaretta con il mozzicone
precedente.
Due tavoli più in là una seduta di tresettisti, col tavolo
coperto da un panno verde, che tirano fragorosi cazzotti al
tavolo e discutono di lisci, bussi e strisci.
C’è il Canuto, ex aviatore, invelenito, da buon
giocatore qual’è, con il suo compagno Imbranato, il
simpaticone che va a pesca, sempre con il suo giubbottino
mille tasche e il cane sotto il tavolo attaccato alle caviglie.
Imbranato, effettivamente, è una pippa con le carte,
però è di compagnia e Canuto, fortunatamente, anche se
smadonna, predilige la compagnia al tressette.
Giocano contro due tignosi che sanno tenere le carte
in mano: il Professore, quello col pizzetto, che sa tutto
sulla teoria del tressette perché ha letto tutti i libri
possibili sull’argomento, e il Veterinario che aveva
l’ambulatorio qui vicino, che ha smesso perché ormai è
stanco. Il Veterinario è un buontempone scherzomane,
ma sa giocare e se non stai attento ti frega anche sui
punti.
Al video poker armeggia Ragazzo Simpatico che corre
veloce sui tasti di scelta e perde sempre: dovrebbe essere
fortunato in amore.
Gli fanno da corona di ‘supporters’ il Poeta, che
scuote la testa non condividendo certe passioni, e il
Truce.
Sta dietro a Ragazzo Simpatico, il Truce, e lo prende
in giro da maligno con quella barbetta che gli da un’aria
da cattivo, alitandogli vampate di Gaulois.
E poi gli altri avventori ad altri tavoli, che guardano i
due che giocano al biliardo.
C’è il Guardiano, riflessivo e taciturno, e il Gattaccio,
che sorride sempre sornione e aspetta sempre un
qualcosa per scoppiettare di buonumore e battute, e il
358
Lupo che ogni tanto fa l’imitazione del lupo mannaro e
ulula.
Il Brillante Bravo della goriziana si deconcentra e lo
manda a cagare. E tutti si sghignazza.
Dietro il bancone, le due bariste: l’Antigone e la
Monza, due ciminiere, accanite fumatrici, sempre pronte
allo scherzo e alla battuta, dodici o tredici come misura
di seno in due, che anticipano gli avventori con fulminanti
controbattute, conoscendoli da un bel po’ di tempo.
E ora un tipico discorso da ANPI, un dialogo sui
massimi sistemi, un misto di tuttologia, costume,
politichese spicciolo, quattro moccoli e due risate mentre
cova sotterraneamente un nuovo embrione di quesito
semiesistenziale da bar.
E’ Fumo che inizia, così, improvviso come una
boccata di traverso che fa lacrimare gli occhi, a voce non
tanto forte, ma neanche sommessa, quel mix giusto per
farsi sentire facendo finta di parlare soltanto con me:
“Che ne pensi di Lilly Gruber?”
“Che domanda è, Fumo? Si vince qualche cosa?”
“No, no. Pura curiosità…A me suscita sensazioni
contrastanti…
Bella, bellina, bellissima, non saprei, strana, tanto
strana: non riesco a capire se è una passionale o una
che…”
Sono i grafici puntini di sospensione, quelle pause tra
una boccata e un’altra, quel silenzio che resuscita il
ticchettio delle biglie della goriziana e il fruscio di un
tresettista che smazza le carte: attimi di silenzio che
preludono accese opinioni di chi vuole esserci…vivo,
brillante, profondo, intelligente…
Il Tecnicissimo biliardista si leva dritto dal tavolo e
appoggiandosi alla stecca esala la sua sentenza:
“Bella donna, freddina, forse, ma professionale…”
Fa eco il Brillante Bravo, suo compagno, appena
malizioso:
“Alquanto diversa da qualche anno fa…plastificata un
poco, ma solo un poco eh?”
E ridacchia mentre struscia il gessetto sul puntale
della stecca.
359
La miccia è innestata.
Il Professore poggia le carte sul tavolo e si volge verso
di noi con sussiego e aria severa.
“All’anima del plastificata. Due labbra che sembrano
un canotto matrimoniale… e presumo che sia anche
miope come una talpa: avete visto come strizza gli occhi?”
“Magari li strizza per farti capire che ci starebbe, no?”
E’ l’Antigone, provocatrice nata.
Ding, ding, ding: il video poker ha dato un full e il
Simpatico Ragazzo si concilia con la vita.
“Io ci darei un colpo…”
“Intanto dacci dentro con la grammatica italiana,
ragazzo, e mentre sei rimandato a settembre; il colpo, se
permetti, lo darò io che sono più di mondo e non aggiungo
quel brutto ‘ci’”.
“Professore, ogni parola un ferito grave eh?”
Fumo sogghigna e mi strizza l’occhio: ha fatto la parte
dell’artificiere e la mina sta scoppiando a poco a poco
come un fuoco d’artificio.
Il Truce, quello dietro al ragazzo del videopoker, prova
ad andare controcorrente da cattivello maligno.
“E’ rifatta: sta tutta di traverso perché ha le orecchie
come Dumbo, sta sempre lì dietro un tavolo: ma quando
tromba la Lilly Gruber? E poi….le piacerà? Io dico che
mentre il suo uomo la stantuffa lei pensa all’indice…”
“Ecco vedi che è viziosa?”
“Fammi finire: io parlavo dell’indice Auditel,
furbacchione.
Quella, se sta sotto, pensa a fare ridare il bianco al
soffitto e alla corretta pronuncia di Venarìa Reale.
Lo sai che l’altro giorno un’altra bella di altro TG, la
Ammendola, mi pare, ha detto Venària Reale? E chissà
quanto prendono per sparare certe castronerie…
Il Canuto è pensieroso, ma tutti sanno che sta per
dire la sua: si liscia la bazza e scuote il ca…
E’ il segnale della sua verità.
“Dite quello che vi pare, ma a me ‘sta Gruber mi
ricorda la Faye Dunaway, quella di “Quinto Potere”, quella
che trombava solo una volta ogni tanto per fare carriera:
fredda come il Polo…brrrrrr… meglio Monza eh?”
360
E ammicca verso la matrona che spipacchia il suo
cigarillo dietro il bancone con aria curiosa a spiare le
reazioni e forse le erezioni, almeno mentali, dei presenti
per poi fare dei conticini suoi privati.
La Monza, soprannome derivato dalla famosa
peccaminosa monaca, si schermisce, o meglio, fa le finte,
ma intanto si aggiusta la sua sesta con un contorcimento
a spirale aiutato da una mano.
“Un pochino di rispetto per una vecchia nave scuola
in disarmo eh?”
“Nave scuola forse, ma in disarmo nemmeno se lo
vedo ahahaha.”
Il Gattaccio non perde l’occasione per aggregare la
truppa con un’estemporanea trovata:
“Dai, giovani, un bel referendum per stabilire se è
meglio una trombata con la Gruber o con la Monza…
Facciamo a scrutinio segreto?... No! No! Vediamo chi
ha coraggio…” e allunga un pugno verso il Guardiano
come fosse un microfono per un’intervista.
Il Guardiano tossicchia e attacca un sorso di micidiale
‘bicicletta’: campari soda e bianco secco…roba per etilisti
inveterati.
Tutti ridono, ma si schermiscono appena imbarazzati
e Monza ride perché sa che sarebbe la vincitrice
plebiscitaria: potenza della presenza fisica e dello spirito
pronto e disinibito associato ad un fisico rotondo, ma
ancora eccitante.
Qualcuno butta lì a mezza bocca coperta un
provocatorio “Monza”, una voce isolata urlacchia
“Antigone” e l’altra matrona si erge fintamente minacciosa
come una faraona alla quale scappa da ridere.
Le voci rimbalzano dal tavolo del tresette al bancone
al biliardo al nostro tavolo al videopoker tra un rumore di
bicchieri, sbuffi della vecchia Faema, trilli della
macchinetta infernale e qualche madonna sparsa
richiamata a testimoniare per un busso sbagliato o per un
rinterzo troppo forte.
E’ un pomeriggio semplice, vivo, incentrato sulla
Gruber, sull’immaginario del bel mondo, dello spettacolo,
361
in maniera superficiale, con pensieri improbabili di
conquista o d’indifferenza.
E si fa l’ora di cena.
Termina la partita di goriziana, termina il tumultuoso
tressette, termina il pacchetto di sigarette di Fumo e le
due bariste scalpitano perché hanno appetito e vogliono
cambiare l’aria viziata.
Si va via, ognuno per sé, dopo poca strada in comune,
con qualche residua risata.
E il fantasma della Lilly Gruber si smaterializza nella
fredda nebbiolina serale per poi riaccendersi di tiziano nei
piccoli schermi davanti ad una minestra fumante.
In genere le mogli semiabbrutite da anni di abitudine
e da travagliati parti e fatiche e sacrifici, almeno una volta
in diversi anni di brillante servizio della rossa, di fronte ai
mariti che guardano il maliardo sguardo miope, sbottano
prive di assoluta obiettività:
“Ma che avrà di tanto speciale questa Lilly Gruber?”
E i mariti fanno spallucce tenendo per loro l’opinione
di apprezzamento o di indifferenza, perché a parlare si
fredda la minestra e perché è meno compromettente che
dire anche una sola parola. Inoltre certi confronti con
familiari bigodini da parata e calze a mezz’asta, alla
Aznavour per intenderci, sono avventure suicide per la
serenità della serata davanti alla televisione.
E la Lilly Gruber continua a parlare di traverso, forse
solo per posa, con orecchie normali a tortellino, e sbaglia
pochissimi accenti, molto professionale.
La guardo raramente io: sono un affezionato della
Bianca Berlinguer, nel senso che guardo un altro
Telegiornale.
Mi piace, però, immaginare la rossacrinita nazionale
nel buio della sua stanzetta che s’interroga sull’indice di
gradimento della sua personcina in una sala ANPI di
paese.
Così…, tanto per dare una piccolissima fama aleatoria
agli avventori che oggi l’hanno celebrata.
E me la immagino domani sera, a fine lettura di tutte
le notizie, che strizza appena di più gli occhi e dice con
gratitudine, mantenendo un’aria molto professionale:
362
“Colgo l’occasione per salutare Fumo e il Canuto, e il
Professore e Monza e Antigone e tutta l’ANPI di Venarìa
Reale.
Ho solamente le labbra rifatte, credeteci, e mi piace
trombare, come alla Monza, né più né meno.
Comunque grazie di avermi pensato, ragazzi.
Contraccambio di cuore e vi auguro una buona
giornata per domani.”
Sigla.
363
SERATA AL BE BOP – RADUNO LETTERARIO
(Progetto teatrale - Firenze stanotte sei bella…)
Faretti multicolori bucano la penombra fumosa del
locale.
Si respira brusio divertito ed eccitato per le nuove
conoscenze che si intersecano in risate ed esclamazioni di
meraviglia e di apprezzamento.
E’ l’atmosfera di un raduno di aspiranti poeti e scrittori,
tutti aggregati e stipati nell’angusto pittoresco Be Bop, un
locale che sembra un bistrot, con il pretesto di un concerto
del Gattaccio e del suo gruppo: blues e jazz tra
presentazioni, conoscenze, ascolto, declamazioni, forse
qualche umano pettegolezzo lievemente malizioso.
C’è attesa curiosa per il concerto e si nota movimento
sul palco: accordature, regolazioni di volume, consigli
sommessi e aggiustamenti delle aste dei microfoni.
Il Gattaccio coordina, sovrintende, verifica e guarda
sornione il pubblico.
Un tizio dal fondo della sala si stacca da un tavolo e si
dirige verso il palco.
“Gattaccio, prima di suonare, se permetti, avrei piacere
di leggere un mio raccontino breve…Ti rubo la scena
veramente per poco tempo…Posso?”
“Ma certo, figurati, fai pure.”
Il Gattaccio, cortese, si scosta dal centro palco e il tizio
ticchetta sul microfono per chiedere implicitamente
attenzione.
Vari sguardi su di lui e brusio meravigliato: dove può
arrivare la faccia tosta ed il narcisismo?
…Risatine…Curiosità…
Il tizio legge…
“Faretti multicolori bucano la penombra fumosa del
locale.
Si respira brusio divertito ed eccitato per le nuove
conoscenze che si intersecano in risate ed esclamazioni di
meraviglia e di apprezzamento.
E’ l’atmosfera di un raduno di aspiranti poeti e scrittori,
tutti aggregati e stipati nell’angusto pittoresco Be Bop, un
locale che sembra un bistrot, con il pretesto di un concerto
364
del Gattaccio e del suo gruppo: blues e jazz tra
presentazioni, conoscenze, ascolto, declamazioni, forse
qualche umano pettegolezzo lievemente malizioso.
C’è attesa curiosa per il concerto e si nota movimento
sul palco: accordature, regolazioni di volume, consigli
sommessi e aggiustamenti delle aste dei microfoni.
Il Gattaccio coordina, sovrintende, verifica e guarda
sornione il pubblico.
Un tizio dal fondo della sala si stacca da un tavolo e si
dirige verso il palco.
“Gattaccio, prima di suonare, se permetti, avrei piacere
di leggere un mio raccontino breve…Ti rubo la scena
veramente per poco tempo…Posso?”
“Ma certo, figurati, fai pure.”
Il Gattaccio, cortese, si scosta dal centro palco e il tizio
ticchetta sul microfono per chiedere implicitamente
attenzione.
Vari sguardi su di lui e brusio meravigliato: dove può
arrivare la faccia tosta ed il narcisismo?
…Risatine …Curiosità…
Il tizio legge…”
“Faretti multicolori bucano la penombra fumosa del
locale.
Si respira brusio divertito ed eccitato per le nuove
conoscenze che si intersecano in risate ed esclamazioni di
meraviglia e di apprezzamento.
E’ l’atmosfera di un raduno di aspiranti poeti e scrittori,
tutti aggregati e stipati nell’angusto pittoresco Be Bop, un
locale che sembra un bistrot, con il pretesto di un concerto
del Gattaccio e del suo gruppo: blues e jazz tra
presentazioni, conoscenze, ascolto, declamazioni, forse
qualche umano pettegolezzo lievemente malizioso.
C’è attesa curiosa per il concerto e si nota movimento
sul palco: accordature, regolazioni di volume, consigli
sommessi e aggiustamenti delle aste dei microfoni.
Il Gattaccio coordina, sovrintende, verifica e guarda
sornione il pubblico.
Un tizio dal fondo della sala si stacca da un tavolo e si
dirige verso il palco.
365
“Gattaccio, prima di suonare, se permetti, avrei piacere
di leggere un mio raccontino breve…Ti rubo la scena
veramente per poco tempo…Posso?”
“Ma certo, figurati, fai pure.”
Il Gattaccio, cortese, si scosta dal centro palco e il tizio
ticchetta sul microfono per chiedere implicitamente
attenzione.
Vari sguardi su di lui e brusio meravigliato: dove può
arrivare la faccia tosta ed il narcisismo?
…Risatine …Curiosità…
Il tizio legge…”
Eccetera, eccetera, eccetera…a volontà…
Gattaccio frigge, prima divertito, poi vagamente
infastidito, e nella sala, dopo la quindicesima lettura
circolare monotona ed indifferente, si leva qualche
mormorio disorientato e sorpreso.
Poi Gattaccio all’improvviso scoppia a ridere come un
matto e piazza una pacca violenta tra le scapole del tizio che
legge.
Lo sfacciato lettore perde l’equilibrio ed esce dal palco
goffamente.
Risate e qualche applauso.
Una voce dal coro dei mormorii:
“…Il solito cyb…”
Parte il primo blues della notte…
366
UCCIDE ANCHE L’IDROMELE AROMATIZZATO AL
ROSMARINO
Dal suo angolo, in disparte, nell’affollata fumosa
taverna ad archi e volte basse, il vecchio austero bardo
Muso d’alce si levò in piedi con aria solenne a cantare con
voce grave le gesta d’antichi eroi e di guerrieri.
Cessò d’incanto il tintinnio delle coppe di peltro colme
d’idromele aromatizzato al rosmarino e si smorzò in un
sussurro l’eco di risa e imprecazioni e i dadi d’osso infidi
non picchiettarono più sui massicci tavoli di quercia.
Muso d’alce era nome fisiognomico: per il volto prognato
con intensi occhi grandi e sporgenti e l’abbigliamento
bizzarro di pelli e un copricapo ricavato da una calotta
cranica d’alce dalle corna ambrate alla tenue luce delle
fiaccole dell’ostello.
“Oggi canterò del Rogan, il più possente e temibile
guerriero della taiga del vento perduto, giusto, ma anche
implacabile, forgiato nella sofferenza e nella disciplina,
educato al rispetto del potere del sangue e degli Dei duri e
impietosi del Tempo.
La sua forza è data dalla perizia nel maneggiare la sua
arma micidiale, l’ascia bipenne, ed è richiesta disinvoltura e
possanza fisica nell’usarla con efficacia.
Il Rogan deve saper roteare la sua ascia con letale
leggerezza nella mischia cruenta della battaglia e deve
conoscere l’arte del lancio veloce e deciso per inchiodare ad
un rovere la selvaggina tremante che occorre a sfamare la
sua gente.”
S’interruppe ad un sinistro sibilo fischiante nell’aria e
rimase basito e immoto, con gli sporgenti occhi ora vitrei,
inchiodato con lo sterno da un’ascia bipenne ad uno stipite
massiccio di un’arcata della taverna mal rischiarata.
S’accasciò col capo in un rantolo esausto sulla lama
brunita e morì in uno sgorgare di fiotti scuri di sangue tra
lo stupore muto dei presenti timorosi che si volsero verso il
punto opposto all’ucciso.
Un vecchio Rogan, ubriaco d’idromele al rosmarino, dal
fondo della penombra della taverna, ebbe forse
367
l’impressione di vedere un alce lontano tra il fumo e le
fiammelle di pece delle torce e pensò di ritornare dalla sua
donna con una ricca preda per una lauta cena ed una
soddisfacente notte di passione nella gratitudine.
Scagliò la bipenne con giusta mira e nobiltà d’intenti e
ricadde incosciente con il capo nella ciotola della zuppa
cominciando a grugnire in un sonno ebbro e grave senza
rimorsi e con pochi essenziali sogni d’altri alci per
sopravvivere…
368
NATURALISTICO BELVEDERE ROMANO
(caffè freddo shakerato per iguana)
Roma afosa di prima estate.
Caffè Berardi - Galleria Colonna
Stridio di freni consumati di autobus pieni di sudore,
scalpiccio di primi zoccoletti di stagione, nervosi, di scarpe
di cuoio più fresche, di infradito strascinate come
broccoletti su una padella di marmo che è la Galleria
Colonna.
Cadenze sincopate fuori, a passo di formichine, termiti,
locuste, mandrie di gnu con gli occhi a mandorla e Nikon al
braccio: sorrisi felini e bovini frammisti a imprecazioni in
romanesco di sudati animali in via d’estinzione per
soffocamento di gel.
E poi odori: lavande popolari che sodomizzano fragranze
altere e seducenti che fanno della galleria, nel passeggio, un
carnevale veneziano a mascherare afrori violenti di caldo
libico.
Ad un tavolino del bar Berardi, fuori, ma sotto le alte
volte della galleria, due pigri iguana nullafacenti con
occhiali da sole neri presenziano il passeggio disordinato
con brevi scatti delle teste a captare sentori o parole
fluttuanti nell’afa. Parlottano tra loro commentando una
marcetta di tacchi abbracciata a risolini maliziosi di giovani
puledre brade.
Saettano le lingue a succhiare aria odorosa di resinosi
rododendri e di caffè arabico.
Pensiero malizioso.
(Non t’agitare tanto Giovanni: che ridere, senti come
scricchiola la sedia… “Igufo”: iguana e cane da tartufo, una
bella nuova figura mitologica…)
“Gran bel passeggio, oggi, Giovanni, vero?
Peccato solamente per questo ‘Profumo d’intesa pour
homme’ che mi rovina ‘Eau d’Issey’…
Grande manza questa Eau d’Issey: spostamento d’aria
quando passa questa splendida cavalla, sì, la segretaria
dell’avvocato sopra il bar.
369
Inconfondibile…”
“Si chiama Brigitte, tacchi alti e caviglia sottile.
Questa è l’ora in cui la viene a prendere il suo uomo,
armonico e atletico, ma probabile cervo a primavera,
promotore finanziario di belle speranze e di grandi certezze.
Non spegne mai il motore della sua BMW Z3, ha fretta di
portarla via, di spupazzarla come si conviene.
L’avvocato, pigro felino spelacchiato, invece ha un
Maggiolone: lei sale anche lì e non si lascia pregare, e
questo succede nei giorni dispari.
Magari lui le dà solo un passaggio o anche due
unghiate.
Vai a capire questi mammiferi inquieti.
Ti confido un segreto: quello che ci ha preso le
ordinazioni, il dromedario brillantinato, il
cameriere
insomma, è sicuramente meridionale.
Sia chiaro, io non ho nulla contro i meridionali, mi
stanno simpatici con quel pittoresco modo di gesticolare per
farsi meglio intendere.
Poi magari glielo chiediamo, che dici? Solo per curiosità,
il tempo deve pure passare d’altronde.”
(Giovanni, Giovanni: ti parlo di passera cinguettante e
svelta e tu mi parli del cameriere meridionale?
Ha un dopobarba che ustiona le narici già da qui…
Brigitte se ne va e tu mi parli di auto?
Senti come sta scomparendo la sua rete a strascico…)
“Ma sì, il solito piedi dolci con il Beelcream spalmato
come nutella sul riporto a banana forforoso…Calogero,
Salvatore, …ormai romano pure lui…
Giovanni senti il ticchettio?
Non girarti…
Questi sono i tacchetti rinforzati di acciaio di Nadia, la
commessa del negozio di scarpe. Senti che rumba: con il
freno del 62 barrato e i click delle macchinine fotografiche
dei japu sembra una session di Perez Prado o di Xavier
Cougat.
E il bello è che Nadia è come Abbe Lane o la vacca
regina della Valle d’Aosta, e sculetta come una vela al
maestrale.”
370
(Che ormoni isterici, Robbè,…mi sembra di sentire le
froge del naso scoordinate come quelle di un cavallo del
Palio di Siena, asmatico e pieno di beverone…)
“La Nadia, sì, la Nadia: la giraffona sempre in piedi che
bruca scatole di scarpe dagli scaffali più alti…
Ieri l’altro è stata pizzicata vicino alla coda da un turista
messicano impertinente come una mangusta: lo seppi dopo,
stordito dal dopobarba al cactus.
E’ venuta giù tutta la piramide di scatole di scarpe col
sarcofago di tre o quattro modelli di anfibi per la brutta
stagione…
Gran bella giraffona, la Nadia.”
(Dai, Giovanni, confessa che ti attizza da matti la Nadia:
ne faresti di safari su e giù per la savana eh?)
I due iguana continuano a risucchiare l’aria in un
dialogo misto vitellonesco e telepatico: sono molto affiatati.
Aspirano odori e rumori e monitorizzano greggi di
erbivori innocui e fastidiosi ed esemplari solitari di coyotes e
altri predatori.
Sta passando per l’appunto Armando.
E’ uscito da pochi giorni dopo due anni e quattro mesi:
borseggio a fontana di Trevi a un canadese grande e grosso
che sembrava addormentato come una omonima tenda ed
invece era sveglio come un grillo.
E aveva anche il fisico: non da grillo, ma da gorilla.
Armando ha trascorso il primo mese di cattività
nell’infermeria di Rebibbia
(Giovà, senti chi arriva: il giorno dello sciacallo…mi
scappa da ridere…)
“Senti come struscia i mocassini cinesi quel viscido
dell’Armando.
Starà annusando qualche preda …”
“La dura legge della jungla, Robbè, per sopravvivere
anche in tempi di siccità.”
“Ha fatto piangere qualcuno in questi giorni?”
“Si muove guardingo: il commissario Pantegana gli ha
appuntato appuntati in borghese, anche se lo sanno tutti,
perché non passano inosservati.
Sembrano faine isteriche in un pollaio a mezzanotte.”
371
Ridono i due iguana con gli occhiali da sole alla Blues
Brothers.
Ridono e sorseggiano caffè freddo shakerato con una
goccia di Amaretto Disaronno ad addolcire il loro soffocante
nero di seppia nell’afa…
Dromedario banana si avvicina con il passo di Gatto
Silvestro e gli stessi suoi piedi dolci e porta loro lo scontrino
con il conto della consumazione.
In braille.
“Faccio io, Giovanni…”
“No, faccio io Robbè, non t’azzardare…”
L’iguana Giovanni tasta lo scontrino, mentre ausculta
vigile un cuore adolescente di cerbiatta che passa veloce, e
fruga con una certa naturalezza nel portafoglio
distinguendo con destra velocità vari tagli di banconote.
La galleria Colonna li avvolge come l’enorme voliera
dello Zoo di Villa Borghese e lo stridio dei freni degli
autobus che passano lì vicino in piazza Colonna si mescola
con ruggiti e barriti e muggiti nell’ombra appena più fresca
di questo serraglio di umanità in via d’estinzione.
I due iguana, impettiti e quasi immobili, quasi saggi,
quasi eterni, quasi vedono tutto…
372
UP AND DOWN
Giocherello svogliatamente con un grissino mentre
attendo quanto ordinato ad un cameriere insonnolito.
Mi incuriosisco, quindi, nel notare un caotico
riempimento della lunga tavolata di fronte alla mia
postazione.
Tante tute: ragazzi e ragazze in divisa sportiva, allegri,
seri, compenetrati nel ruolo di atleti prossimi a qualche
incontro importante.
Quasi tutti rasati a zero o con i capelli spessi corti a
spazzoletta, con gli occhi a puntaspillo mobilissimi, sorrisi
storti buoni, orecchie piccole a tortellino, incarnato roseo
delicato da lattonzolo, collo taurino, goffi e impacciati…
Tenerissimi come cuccioli.
Sono concentrati, attenti a non strafare, a comportarsi
bene,
sotto
occhi
affettuosamente
inflessibili
di
accompagnatori chiamati in continuazione con trepidi
balbettii di emozione e affetto.
Giocosi tra loro, curiosi.
Uno spicca nel gruppo, malinconico, con occhialini e
sguardo sognante perduto nel vuoto, con una smorfia della
bocca storta a segnalare qualche pensiero forse triste.
Appare estraniato dalla comitiva ciarliera e gasata come
i bottiglioni della Coca-Cola sul tavolo.
Ci incrociamo fuggevolmente con lo sguardo.
Alzo il bicchiere di vino verso di lui con un sorriso per
un brindisi silenzioso alle sue fortune sportive.
Si rasserena di colpo come un bambino felice e leva il
suo bicchierone di cartone.
Mi fa ciao con la mano ogni volta che lo guardo e ride
beato.
Mi manda un bacio quando esco.
E’ bello avere un tifoso che ti accompagna nelle gare.
Forse oggi abbiamo vinto in due.
373
T’O RICORDI ER CIAVATTA?
“A Romolè, pòrtece du’cose fresche de fora: c’è n’arietta
che ‘ncanta…”
“Subbito, Robbè, finisco de fà ‘sti du caffè e arìvo.”
“Che meraviglia: m’aricrèo…
Ahò, Armandì, senti qua, t’o ricordi er Ciavatta?”
“Er nome me dice qualcosa, Robbè…
Nun era quer pennellone bianco come ‘n morto che
sonava er basso all’oratorio de li Salesiani, in fondo a via
Vimercati, trentacinque anni fa?”
“Ggià.”
“Aspè, che metto a ffoco: quello che se dava l’arie perché
c’aveva er basso de Pol Maccarty de li Bitels, er basso
madreperlato che somijava a ‘na viola? Nun era quello
sempre vestito de nero cor majone a dorcevita e co li capelli
alla nazzarena da corvaccio portazzella (1)?”
“Ggià.
Quarcuno ‘o chiamava Sellero (2), secco secco e bianco
bianco, ma poi fu pe tutti er Ciavatta: la sai la storia com’è
nata?
Ogni tanto steccava cor tempo o co le note mentre
sonava cor gruppo e allora er batterista, che c’aveva lì vicino
‘na scorta de ciavatte, je ne tirava una smadonnando.
E spesso lo pijava ‘n testa.
Era da ride. Soprattutto quanno
s’esibbivano in
concerto.
Dovevi vedè come s’encazzava don Alfio a sentì li
moccoli dell’uno e poi dell’altro: se mannavano affanculo
davanti ar prete e davanti a quelli che ballavano e
l’ascortavano.
Era ‘na forza, er Ciavatta.
Sembrava n’incrocio tra ‘n giraffone pallido e Nosferatu,
collo sguardo fisso davanti, coi bernardoni (3) piccoli ovali
neri neri da becchino.
Se la tirava, stava sulle sue, nun s’aggitava tanto
mentre sonava, e lumava (4) le regazzine con aria de
sufficienza e ‘na smorfia da puzzetta sotto ar naso, poi
374
steccava cor basso, se pijava ‘na ciavattata e s’encazzava:
‘no spettacolo.
Ce l’aveva a morte co li negri, te l’aricordi?”
“Me pare de quarcosa der genere…sì,…era razzista,
forse puro lazziale, me sa, come te ahahah.”
“Lassa perde che nun so più de gnente: nun ce credo
più, né Lazzio, né Roma, co’ sti chiari de luna… M’è venuto
er pelo sullo stommico…
Era razzista forte, li mortè: quanno vedeva quarcuno
scuretto scatarrava per aria a fontanella e strabbuzzava
l’occhi come si je fosse preso ‘no sturbo.”
“Beh sì, mò me l’aricordo: perché me stai a parlà der
Ciavatta?”
“L’ho rivisto ieri sera a Monte Sacro, sott’er ponte de
l’Aniene.
Dall’alto me pareva lui, ma nun ero sicuro.
Allora so’ sceso verso l’argine e l’ho riconosciuto
subbito, anche si era gonfio come ‘na zampogna.
Me sembrava un balenottero arenato sulla spiaggia.
C’aveva sempre li capelli lunghi, ma griggi, ed era
ingrassato ‘na cifra rispetto a quanno eravamo regazzi.
C’era la Polizzia, n’ambulanza sopra su la strada, un
casino de ggente e de curiosi, er traffico bloccato.
Poi ho saputo da quarcuno.
Dice che ha sarvato un regazzino negro che stava pe
affogà ner fiume, li mortacci sua de quanto era cambiato.
Hai capito?
A sarvà ‘n negretto, ‘n cioccolatino de quelli che
j’annavano de traverso quann’ era ‘n ragazzo.”
“Ammazza ahò, ma allora ha fatto l’eroe?”
“Nun te lo so spiegà si ha fatto l’eroe oppuramente no.
Dice che mò ce so rimasti ‘na vedova e du’ orfani.
So solo che me sò sentito tutto ‘nsieme ‘n vecchio e c’ho
avuto paura de morì e d’annà all’inferno.
Magara c’avrà avuto paura puro lui, magara pe tutte le
bestemmie ch’ ha tirato pe tutte le ciavattate che s’è preso,
che ne so.
O forse è cambiato cor tempo: è diventato bbono.
Boh.
375
Dice che, a ‘nvecchià, se strizza er culo de paura e se
rimparano le preghiere che se sò dimenticate dar
catechismo.
So solo che m’ha fatto riflètte e che m’ha messo paura.”
“Va a sapè come funziona la vita…
Poro Ciavatta…”
“A Romolè, stamo ancora ad aspettà ste du’ cose
fresche, possino ammazzatte…
Ahò, senti che freschetto che manna ‘sto venticello…”
“Er ponentino t’ arimette ‘n pace cor monno.”
(1)
(2)
(3)
(4)
Iettatore, portasfiga
sedano
occhiali
guardava
376
FOR F. ORA – ESOPICO DINAMICO BESTIARIO
E’ancora presto e la sala da tè è illuminata a metà, in
economia.
La luce al neon illividisce tavolini con tovaglie pallide
verdine e smorza malinconicamente stucchi e carta da
parati di giunchi in immaginifica jungla.
Le tre giovani donne ridacchiano sommesse, come
magre iene in circolo, sbranando F., oggetto di pettegolezzo
agli onori della cronaca cittadina per suoi comportamenti
anticonformisti.
“La madre sta piangendo calde lacrime: una così
rispettabile famiglia…”
“Gira come un barbone, eccentrico, con quel pappagallo
sulla spalla…”
“E quelle trecce…”
“Si porta appresso quel puzzo acre di fumo strano, …e
pensare che non era così, ma poi ha conosciuto quella là…”
Parlano da iene, malevole, con la mano a coprire
giallastri sorrisi di gola, ma anche, insieme, come le Giovani
Marmotte Qui, Quo e Qua di Topolino, con le frasi spezzate
dalla prima anatroccola e continuate dalla seconda e finite
dalla terza.
Click. S’accendono altre luci e l’ambiente diviene caldo e
luminoso.
Le tre sbarrano gli occhi come allocchi e sbattono
rumorosamente le ali del menu per ordinare domenicali
cioccolate calde.
Fuori nevica. E’ forfora sulle spalle dell’abito festivo
grigio antracite del paese.
“Ve lo ricordate quanto era bello al liceo?”
“Vi ricordate Polipone, il figlio d’Antonio della pescheria,
grasso da schifo, che cercava di metterlo in ridicolo, quando
fu eletto il migliore studente del liceo?
Scherzavamo e inneggiavamo tutti a “F. for president” e
lui diceva “For F. ora”…
Rideva solo lui, e storto…”
“Mi dispiace dirlo, cara, ma poi ha avuto ragione lui…”
377
“Era bello e amato: avrebbe potuto e dovuto scegliere di
meglio…”
Gli allocchi si spollinano l’acconciatura con rapido gesto
vanitoso e sbattono gli occhi all’intorno lampeggiando
messaggi ormonali.
Aroma di cioccolato caldo nell’aria. Il giovane cameriere
dispone tre tazze fumanti sul tavolino e le tre scimmiette
pasturano per un attimo su un cavallo di pantalone per poi
assumere la loro posizione pudica di rito senza parlare,
vedere e sentire.
Zuccherano solamente le loro tazze e girano il
cucchiaino come una pinna di squalo in circolo nel mare
fondente. Con il cucchiaino sminuzzano grumi di F.
“Che cosa avrà trovato in quella là?
Scusate il linguaggio scurrile, ma le cosce aperte sono
sempre cosce aperte o esistono scuole d’apprendimento e
specializzazione?”
“Sarà specializzata, magari anche un po’ zoccola, non
nel senso di topo uh uh uh…”
“Non mi fate parlare male, ma avete visto che aria
smunta che ha?
Quella se lo mangia vivo e gli succhia il midollo…”
“Ci credo, ci credo: è anche grassoccia come una
porchetta…”
“…E vi pare giusto lasciare un lavoro serio e sicuro per
fare l’artista?
Dipingere…scrivere…recitare…Sono cose che si possono
fare per passatempo, no?
Lasciare una scrivania comoda, un posto al caldo, uno
stipendio fisso, con tutta la disoccupazione che c’è in
paese…Il padre non esce più di casa per la vergogna…”
“E lui che fa? Esce con quella maiala e le fa le foto,
nuda dietro le cabine sul lungomare: me l’ha detto Cristina
che l’ha saputo dal cugino che fa il bagnino.
Non si beve, la cioccolata calda, ora: si mastica, ed ogni
boccone sa di fiele.
Scotta il palato e le tre soffiano come tre porcellini che
devono difendersi da Ezechiele lupo che vuole scoperchiare
la casa delle buone maniere.
378
Hanno le guance paffutelle e rosate, e ticchettano
nervose con le scarpine a punta perché non possono agitare
la coda rosa a ricciolo.
Si
guardano
intorno
ammiccando
e
ridendo
d’effervescente isteria.
In sottofondo un rumore di telecronaca di partite di
calcio e un brusio d’altri clienti che succhiano cannucce di
punch al mandarino o sorseggiano caffè tessendo trame su
altri Ezechiele di paese che minacciano famiglie e valori.
Il fumo di sigarette confonde la sala come un porto nelle
nebbie.
Ciangottano ancora, i gabbiani, di F., e delle sue cattive
abitudini, come un frenetico grufolare alla discarica fuori
paese.
“Ma lei da dove viene?”
“Assunta mi ha detto che viene dalla città: pare che
abbia abbandonato gli studi e la famiglia…gente ricca…e
che viva di rendita mantenendo anche lui…”
“Che schifo: almeno un minimo d’orgoglio…”
Una ventata gelida spinge più in là le volute cinerine
che si levano dalle tazze fumanti: qualcuno è entrato nel
bar.
E’ F.
E’ allegro, guascone, con il suo pappagallino
saldamente aggrappato alla spalla.
Si volge verso la sala, brevemente, ad occhieggiare chi
c’è, sorridente.
Le tre ritornano scimmiette e si tappano occhi, orecchie
e bocca, pur guardandolo in tralice con aria di rimprovero e
commiserazione.
F. vede una sala vuota.
Si rivolge al barista ed ordina due caffè doppi bollenti in
una bottiglina da portare via.
Fuori una sagoma grassottella batte i piedi, intirizzita.
F. paga alla cassa, saluta veloce, e se ne va,
scodinzolando trecce rasta spesse come funi da
peschereccio.
Le tre scimmiette sono tre volpi e l’uva…
379
BOERO LEVRIERO
Qualche tempo fa…
S’affacciò in sala da chissà dove, come un personaggio
dei fumetti, emergente dalla nebbia spessa del fumo, con il
suo astuccio da professionista della stecca.
Si propose da subito come il più bravo: il mago della
goriziana, il genio del colpo sotto con effetto a tenere, il
terrore del filotto, il dio della messa.
Di nome Alvaro, fu soprannominato Boero e poi anche
Levriero per una mania e un vizio.
La prima innocente e l’altro pericoloso.
Alvaro aveva perennemente parcheggiato ad un lato
della bocca uno stuzzicadenti, come i vecchi malavitosi di
qualche film. Gli serviva per bucare il cartone dei boeri,
quei cioccolatini che potevano far vincere un pupazzo di
peluche o un orologio da polso o una radiolina.
Il padrone della sala continuava a tenere la scatola
rossa cartonata da bucare solamente per lui.
Erano, in effetti, praline disgustose, mollicce e ripiene di
un liquore dolciastro che prendeva anche le narici, e tutti si
tenevano alla larga, per nulla tentati dal nuovo orologio
subacqueo con la ghiera mobile.
Alvaro, invece, ne faceva fuori fino ad una decina, tra il
pomeriggio e la sera, salvo vincite, e poi si lamentava con
tutti delle sue emorroidi.
Questa era la mania quasi innocua, se non per la
salute.
Poi si scoprì, e la cosa era seria, che amava
scommettere sulle corse dei cani e che, peggio, non sapeva
trattenersi con lo stesso equilibrio di come giocava a
biliardo.
Si diceva che talvolta si era trovato in difficoltà.
Questa passione incontrollata gli valse il soprannome di
Levriero.
Gli calzava anche bene: era asciutto e agilissimo ed
inoltre aveva un suo portamento particolare intorno al
biliardo.
380
Si chinava ad angolo retto per colpire elegantemente e
attirava lo sguardo per quel culo sporgente che sembrava di
marmo e per quella postura rigida e morbida insieme, con il
braccio indipendente che partiva come un metronomo ad
imprimere la giusta potenza al colpo della stecca verso la
biglia.
Era un bello spettacolo, formale e sostanziale, il vedere
giocare Boero Levriero.
Pretendeva il silenzio assoluto: lui stesso parlava
pochissimo e mai quando l’avversario era in procinto di
colpire la biglia. Non s’irritava mai, ma incuteva rispetto e
tutti tacevano quando lui giocava.
Del resto giocava pesante: era arrivato anche ad oltre
diecimila al punto, quando si parlava di lire.
In sedute di questo tipo, importanti, si scopriva del telo
e si spolverava il biliardo in fondo, quello migliore con le
sponde dalla risposta perfetta, con la piccola tribuna per gli
spettatori, e la sala diveniva una cattedrale durante un
servizio funebre con fumo di sigarette in luogo dell’incenso.
Si affettava silenzio e il fruscio del gessetto sulle punte
delle stecche era l’unico conversare con i passi felpati dei
giocatori e con il linguaggio delle biglie, ‘tak’ tra loro e
‘stunf’ sulle sponde, e il ‘frrrrr’ degli ometti che cadevano
sul panno verde tiepido.
Boero era rispettoso dell’avversario e orgoglioso: mai
una scusa o un commiserarsi ad un tiro poco riuscito o a
qualche ruberia dell’avversario, mai un’irrisione o una
scorrettezza.
Era grande: aveva un tocco unico, tanta fantasia ed
inventiva.
E aveva fegato. Se si gioca a diecimila al punto per tutta
una notte, per di più andando avanti solo a boeri e caffè, si
deve avere bravura, ma anche fegato, e non solo per digerire
i boeri. E con il fegato, o anche l’incoscienza, creava magie.
Tre tocchi di sponda, ‘stunf’, ‘stunf’, ‘stunf’, poi il ‘tak’
sommesso della biglia colpita e un ‘fr’ brevissimo di un solo
ometto caduto, quello rosso, con la biglia ad appoggiarsi sul
boccino di misura, nascosta dal castello, in messa, dopo un
tre sponde di calcio da sessanta punti più sedici.
Suscitava sana invidia e ammirazione.
381
E lui ruminava il suo ennesimo cioccolatino liquoroso
con lo stuzzicadenti che andava su e giù al lato della bocca.
Boero Levriero smetteva per resa incondizionata
dell’avversario, in genere verso le tre di notte.
Riscuoteva la vincita, di solito notevole, e spariva con
un saluto frettoloso e generico.
Svoltava l’angolo e lo rivedevi in sala due giorni dopo o
anche tre.
Talvolta con una giacca nuova.
Spesso con il solito giubbotto consunto di jeans.
Allora si capiva com’era andata con i levrieri.
Non si è mai saputo di cosa campasse.
Qualcuno diceva che era un decoratore e qualcun altro
che era un collaudatore di stecche per una grande marca
specializzata.
E’ l’apologia del mito, in una sala biliardi, il conoscere
un vero collaudatore di stecche che campa della sola sua
passione.
La sola certezza, invece, era che ogni tanto in sala
capitavano due tizi grandi e grossi come cassonetti, poco
raccomandabili.
Seguivano in disparte la partita di Alvaro fumando
impassibili tra un caffè e un amaro.
Boero li scorgeva e faceva loro un cenno d’intesa.
Poi, imperturbabile, continuava la sua partita come se
nulla fosse accaduto.
Alla resa dell’avversario, dopo aver riscosso la vincita,
usciva scortato dai due, silenzioso.
Qualcuno avrebbe giurato di avere udito qualche
urlaccio minaccioso, o il rumore di uno schiaffone, dietro
l’angolo della sala biliardi; qualcun altro era certo di avere
veduto i due spintonare rudemente Boero, flessuoso come
una canna al vento.
Levriero invece ritornava, in genere il giorno dopo,
impassibile come sempre, per fare il pieno da consumare ad
inseguire i suoi levrieri preferiti.
Una sera si ripresentarono i due esattori.
Qualcosa, però, andò storto.
382
Alvaro era stanco, giù di forma, ed un ragazzetto svelto
col ciuffo lo stava mettendo sotto con un gioco brillante
senza tregua.
Finì che Boero gettò la spugna, evento raro, ma in un
momento poco opportuno.
Confabulò con il ragazzo che scurì in volto.
Poi uscì seguito dallo stesso e dai due interessati altri
spettatori che sembravano più tesi e decisi delle altre volte.
Fu ritrovato poco dopo, seduto contro un muro, una
maschera di sangue, nei pressi della sala, qualche via più
oltre.
Si disse che era stato massacrato con un batticarne.
Quando lo andai a trovare all’ospedale e lo vidi di
persona, bendato e ingessato come una mummia, con un
brivido di raccapriccio trovai plausibile quella diceria.
E così, ora, quando vedo Boero Levriero in sala, pallido
e con la barba incolta a coprire uno zigomo scomparso, mi
viene da piangere.
Resta fuori del cono di luce e tiene le mani sempre in
tasca.
Quello che resta delle mani.
Segue una mediocre partita con occhi lucidi e tristi
evitando gli sguardi degli altri, pieno di quel tipico orgoglio
proprio di chi non è in condizione di doverne avere, sfregato
da un sommesso mormorio, abrasivo come carta vetrata, da
parte dei presenti.
Non riesce più a tenere lo stuzzicadenti tra le labbra e
non rumina più boeri.
E’ evidente che se la passa male.
Presumo che anche con i levrieri abbia chiuso.
Qualcuno ha lanciato l’ipotesi che Alvaro abbia
un’indennità per invalidità mentre un altro è convinto che
campi facendo il talent scout di nuove promesse del
biliardo, ma una sera ho veduto il padrone del locale infilare
una busta dentro una tasca dell’eterno giubbotto jeans.
E Alvaro, detto una volta Boero Levriero, oltre i
soprannomi e il giocare alla goriziana, ha perduto anche
una parte d’orgoglio.
E pensare che qualche tempo fa…
383
KEBAB
Clic.
“Mi chiamo Roberto… E tu?”
“Hosni.”
“Come Mubarak?”
“Già: sono egiziano anche io…”
“Non sai quanta gente ti ho mandato, Hosni: il tuo
kebab è il migliore della città.
E’ gustoso, condito di salse senza risparmio, piccante al
punto giusto, con la cipolla, con la carne crocchiante e
saporita… e il pane è velluto…”
“Grazie.
Certo, però, che…”
“Che vuoi dire?”
“Va anche bene tenere la televisione accesa nel tuo
locale, che è anche un locale grazioso e pulito, ma
sintonizzata su Al-Jazeera a volume da cinema…, mi
sembra una provocazione…no?”
“Guarda che non ho mai avuto secondi fini.
La televisione in lingua madre tiene compagnia
all’emigrante e addolcisce la lontananza da casa.
Hai la sensazione d’essere più vicino a casa tua:
capisci?
Tutto qui…
Piuttosto: è certo che esiste molta intolleranza nel tuo
paese…”
“Credo che, più che intolleranza, sia ignoranza e rozza
difesa verso chi non si conosce, anche se rimango dell’idea
che Al-Jazeera in pieno centro non sia salutare, soprattutto
in zona di passaggio come il tuo locale…
Gira gente varia: curiosi, golosi, tolleranti, ma anche
duri e puri, e fifoni che pensano che colpire per primi è
colpire due volte…”
“Beh, se per ogni trasmissione in lingua originale
devono piovere bombe…
E poi vorrei vedere se fosse stata la CNN…”
“Hosni, da noi la CNN non è Al-Jazeera, è questione di
popolarità, ci dovresti arrivare da solo, e poi lo dici a me che
384
piovono le bombe, a me che non c’entro una mazza e mi
mangiavo goduto il tuo kebab?
Il boccone di traverso è stato il minimo: in certi casi non
si muore soffocati…
E non ho visto una ceppa: ero di spalle alla porta, con
lo sguardo fisso su quel maledetto televisore a guardare le
immagini come un non udente da 777.
Sentivo solo degli scioglilingua…
Capirai, poi: c’erano i sottotitoli come il TG2, ma in
arabo: da saperne quanto prima… ”
“E adesso?”
“Boh?…”
“Allah è grande e ci tiene nella mano…”
“Che sia Allah o un altro: speriamo che non ci faccia
cade…”
Due sinapsi elettriche appena lampeggianti si smorzano
poco a poco nel nero siderale più profondo del nulla, dove
non sono captate le trasmissioni di Al-Jazeera e dove due
bombe a mano verrebbero assorbite dal silenzio indifferente.
Clic.
385
GLORIOSO EPILOGO DI CUOCO
Mi chiamo Jean Jacques Coudineaux, provenzale.
Sono, almeno secondo le riviste specializzate, il migliore
‘cordon bleu’ vivente e ne sono anche convinto intimamente
nella consapevolezza del possesso di una professionalità
invidiabile associata ad una fervida fantasia creativa.
Godo fama di ‘chef’ rivoluzionario, trasgressivo e
contaminatore, e mi si riconoscono intuizioni straordinarie
che hanno in sé estro e genialità.
Lo dico senza falsa modestia, conscio dell’aver donato, a
tavola, momenti indimenticabili a tanti esteti del gusto.
Sono andato oltre, mi sono spinto più in là della
‘nouvelle cuisine’, ho sorpassato l’assemblare della cucina
etnica, ho calcato nuove orme nella rivisitazione d’antiche
cucine tradizionali.
Ho creato.
Magnificamente.
Ed assaporo da anni la soddisfazione d’essere
considerato un caposcuola.
Ma sono sempre più stanco, ormai avviato verso un’età
rispettabile volta ad un meritato riposo e alla rievocazione
di ricordi, senza più stimoli intellettuali e sperimentali,
adagiato su allori di gloria e noia nel ‘dejà vu’.
Quando giro per il mondo, tra un servizio e una
consulenza, a ritirare premi e onorificenze per il mio operato
tra fornelli e cucine, mi scopro sempre meno esaltato.
Nulla più mi entusiasma.
Ho solamente un intimo desiderio ancora, da accendere
con bagliore sulfureo ad un evento speciale cui sono stato
invitato, mia ultima prestigiosa occasione, per passare
definitivamente alla storia in modo davvero trasgressivo e
rivoluzionario per come lo è stata la mia cucina.
Avrò la mia estrema soddisfazione alla prossima
riunione dei G8, indetta nel Sultanato del Brunei.
Capitanerò un’autorevole squadra di cuochi e
sovrintenderò al menu per i grandi della terra riuniti per
guidare il mondo verso nuovi approdi di progresso e civiltà.
386
La buona tavola delle mie specialità fungerà da viatico
per così alti e nobili intenti.
Ed io diverrò immortale con il mio capolavoro d’addio.
Riso basmati della piana di Lahore scottato al dente,
saltato con un goccio d’olio di sesamo in wok di ghisa con
cubetti stufati di germano reale della Foresta Nera insieme
a zibibbo di Pantelleria, decorato con canditi d’agrumi di
Sicilia in salsa d’Armagnac millesimato appena scaldato ad
esaltare aroma di vitigno pregiato.
E per tocco finale: cinquanta gocce di Guttalax, per
porzione, inodore ed insapore…
387
FASCINO DI TRISTE BAR
(con sberleffo facoltativo finale)
Una luce ghiacciata spiove come falsa grazia
santificante ad illuminare disordine accatastato di casse di
birra e bottiglioni.
Eppure sono sempre qui, ogni mattina, presto.
Sento granulare le suole sulla segatura e mi guardo
intorno.
Pochi
saccottini
scongelati,
bruciacchiati
da
disattenzione, galleggiano tristemente, ripieni di crema o
cioccolata, come stronzi in un mare di salviettine di carta
che fanno l’onda nell’acquario della bacheca opaca.
Il bancone è un check-in aeroportuale: caramelle,
cioccolatini, gomme, liquirizie, tutto rigorosamente del
cretaceo, sparso in contenitori che sono contenuti da altri
contenitori.
Si prende il caffè stringendosi nelle spalle.
Eros, il padrone, è enorme, peloso, e perennemente
incazzato col mondo, forse per un antiestetico porro nasale.
Guarda male te che prendi il caffè, i passanti oltre la
vetrina, le bottiglie di moscato di fichi secchi a due euro
all’ettolitro, allineate in alto su mensole polverose.
Guarda malvagiamente il primo videotossico della
mattina.
Cling, cling, cling.
La slot divora gettoni come una benna: il videotossico
smadonna sommesso e insiste, ed Eros ghigna.
Ogni tanto, però, la macchinetta s’iscrive al concorso
“Slots dal cuore buono per Natale” e vomita un carrello di
gettoni sorridendo con la feritoia.
Il beneficiario batte le mani, felice, regredendo a fase
prepubere, ed Eros fa un balzo su nel grafico esistenziale
dell’indice d’incazzatura.
Sbuffa fastidio con vapore anche la macchina del caffè.
Gente, poca, in questo bar triste.
Cattivo caffè acquoso e antipatica compagnia.
Però: c’è Lavinia.
Lavinia occhi verdi.
388
E’ la ragazza che ha seminato la segatura e che ora
passa lo straccio.
E’ lei la barista, quando Eros si siede accigliato alla
cassa e legge il giornale con un occhio solo.
Sorride sempre e spalanca innocente gli occhi come una
faccina di Yahoo.
Ed il bar s’accende d’altra luce a smalto di denti
luminosi.
E il caffè è più buono.
E la slot sembra un’orchestrina caraibica con la
segatura che diventa sabbia fine.
Lavinia ti guarda con ciglia da cerbiatto, sorride, e ti
chiede con occhi ammiccanti di ritornare domani a
prendere il caffè, ché aspetta solo te per ritornare a
sorridere.
Lavinia ti guarda con ciglia da cerbiatto, sorride, e ti
chiede, a voce bassa d’adescamento:
“Com’è ‘sto caffè, oggi?
J’o dico sempre a Erose che bbisogna taralla mejo, la
machinetta, ma quer cornutaccio vole solo guadambià…”
Ha una voce che sembra la sorella di Topo Gigio con la
raucedine.
E sorride.
Meno bianca.
Meno bella di quando tace.
Parecchio.
Domani cambio bar.
389
IL MONDO DI BARBIE
Le leggi antifumo non valgono per la vineria
seminascosta nel centro storico.
Si lacrima, dunque, nella nebbia tannina, anche se non
sempre per il solo fumo.
Lui è seduto in fondo, dietro un tavolino piccolo, e
ciancica frasi spezzate davanti a due tubi da litro di barbera
di cui uno trasparente.
Ogni tanto ingolla un sorso da un bicchiere che poi
rimbocca dal tubo ancora nero.
E’ male in arnese.
Ha gli occhi rossi da bianconiglio e guance spinose da
Guantanamo.
Di lui si sa poco o nulla, che ha avuto storie con
Madama.
Intorno a lui mormorii d’avventori in stile ‘grande
famiglia’, tutti curiosi con sottile malignità che è propria di
superiorità malintesa o di scampato pericolo.
“Barbie, che ti succede?”
“Cazzo vuoi? Non mi dovete chiamare Barbie.
Mi chiamo Omobono.”
Risata generale e battute perfide.
La solita voce da capopopolo vigliacchetto.
“Sai che affare ci fai nel cambio: Omobono…che nome…
E poi mica è colpa nostra se ti piace il barbera al punto
che sei il più gran bevitore da concorso a premi di qui
dentro.
Vero, gente?
Per noi sei Barbie perché pisci direttamente barbera…”
Coro greco annuente d’aliti a dodici gradi.
“Dai, Omobono, Barbie, no scusa, Omobono: sfogati che
poi stai meglio…”
E sottovoce, di gomito con risatina storta:
“…e ci fai divertire…”
Lui strizza gli occhi rossi e ingolla un’altra sorsata a
lubrificare la gola.
Glu glu glu.
390
Uno schiocco a lasciare deflagrare bouquet di vero
barbera di cooperativa del Monferrato, denso e profumato.
“Intanto voglio qui un altro tubo, che questo ormai lo
vedo attraverso.
Poi non so se devo…
Cazzo ne sapete voi di demoni e di donne.
Siamo in pochi a sapere.
Neanche mia moglie, quando stava con me prima di
andarsene, vigliacca.
Del resto non avrebbe potuto competere.
Anche se era bellissima.
Ma io avevo quattro donne che me lo facevano venire
duro.
Specie quando erano tutte e quattro insieme, dopo che
avevo scartato un asso e pescato un re, capite?
Non potete capire.
Ho già mandato a cagare un dottorino col pizzetto che
mi parlava di uno, di Dostocosa, …glieschi, e che voleva
fare accademia con me, farsi vedere colto.
Gli dissi che era colto come un carciofo.”
Glu glu glu.
Bicchiere sbattuto sul tavolo sempre più pesantemente.
Occhi di furetti ad aspettare l’agonia del pollastro.
“Che vuol dire, Bar…Omobono?”
“Vuol dire che il gioco d’azzardo è meglio del sesso e di
tutto quanto.
Non esiste donna o famiglia che tenga o chiavata
imperiale agratis con la Dory qui all’angolo.
Vincere al gioco ti rende potente.
Ti rende tutto facile.
Lo scoprii la prima volta che giocai un sistema alla
Sisal.
Feci dodici a colpo.
Mi parve così naturale e facile che quando riscossi spesi
tutto d’amblè in moscato per festeggiare, ché tanto avrei
ripreso tutto con gli interessi la settimana dopo.”
“Andò così?”
“Potete anche non crederci, ma andò così.
Feci un altro dodici e si sparse la voce in giro.
391
Prima che ordinassi un’altra cassa mi si presentò
Lupo…”
“Chi? Ken?”
“Sempre i vostri soprannomi del cazzo. Lupo, Lupo: che
c’entra Ken?”
“Ma l’hai visto Lupo?
E’ una macchina da guerra: sta otto ore al giorno in
palestra e ha due pagnotte attaccate a due badili. Fa
spavento. Lo chiamavamo Hulk.
Poi fu chiamato Ken da quando vi si vide sempre
insieme: facevate una bella coppia: Barbie e Ken.”
Risate da caserma e tintinnio di bicchieri.
“Stavamo sempre insieme per giocare a carte, mica per
altro, sporche serve che non siete altro.
E poi c’erano anche Trincino, il macellaio, e il Viscido.
Facevamo il pokerino, alla sera.
Bastardi.
Loro e voi: tutti sanguisughe in qualche modo.”
Glu glu glu.
“Si cominciò una sera a settimana, dal Trincino, nel
retrobottega del negozio, vicino alla cella frigorifera, che mi
si gelava il culo.
E mia moglie abbozzò.
Poi due, poi tre, poi tutte le sere della settimana.
Mia moglie cominciò a fare il diavolo a quattro: che
cazzo ne poteva capire lei.
Avevo conti in sospeso.
Una sera dovevo far rifare il Viscido e un’altra sera
dovevo rifarmi io con Lupo o col Trincino.
Quando ritornavo a casa mi finivo il bottiglione lasciato
a metà dalla mia signora che ronfava come un bufalo.
Meno male che dormiva anche la bambina.
Mi coricavo con un mal di testa tremendo e la voglia che
arrivasse subito domani, ché ero sotto di tre cartoni.
Come fai ad annusare il pelo se sei sotto di tre cartoni?
Ti passa la voglia.
Come fai a guardare tua figlia?
Ti chiede di giocare e tu pensi che i tre cartoni sono
diventati quattro e che deve cambiare perché è scritto nella
392
legge dei grandi numeri e devi attendere con pazienza e
saper sfruttare il tuo momento.”
Glu glu glu.
Silenzio in sala.
Rispetto, forse, o morbosità, o attesa del botto.
Sorsate, colpi grassi di tosse e occhi di furetti sempre
più affamati.
“Lupo era sempre gentile, ma più ruvido.
Trincino disse che a casa mia era più caldo che in
macelleria.
Il Viscido disse che non si sarebbe fatto troppo tardi.
Bastardi.
Erano venuti a sapere che mia moglie se n’era andata e
che c’era solo la bambina che andava a letto presto e che
non poteva rompere i marroni.
Maledetta donna.
Dicono che le donne danno un senso alla vita e che
tutto comprendono e che sanno perdonare.
Io aspettavo sempre le mie quattro e accarezzavo le
carte come l’interno di una coscia bianca e soda.
Dissi di sì.
Dissi poi a mia figlia che le avrei sistemato il televisore
in cameretta così non si sarebbe affacciata mentre
giocavamo.
Così non avrebbe respirato il fumo delle sigarette e di
quel toscano di merda del Viscido.”
Glu
Glu
Glu
Silenzio spesso come un dolcetto di Dogliani di due
anni.
Fermo.
“Allora, Bar…Omobono?”
“Allora fu una sera di tradimento.
Fui tradito dalle mie donne e ne tradii una anche io.
I cartoni erano cresciuti a sette e Lupo era nervoso
perché ero verde come una lattuga.
Supplicai un’ultima mano.
Aspettavo le mie donne.
Sarebbero dovute arrivare sicuramente.
393
Matematica: grandi numeri.
E’ facile vincere, se si vuole davvero.
E io volevo.
Lupo mi chiese sgarbato: - Che ti giochi se non hai più
nemmeno la carta per pulirti il culo, anzi non hai nemmeno
il culo, ché perdi come una tubatura vecchia…Non sapevo che rispondere: volevo solo giocare e
vincere.
Ero un samurai: avevo il dovere di vincere.
Onore.
Avevo una mia dignità di giocatore combattente e
sapevo come accarezzare le mie donne all’interno delle
cosce.
Ma non risposi.
Mia figlia uscì un attimo dalla sua stanza per prendere
qualcosa.
Il Viscido s’assottigliò come uno zibetto e mi guardò con
due feritoie nere.
- Io direi che tua figlia è un bocconcino che può valere
sette cartoni e in più questa ultima mano…Che ne dici,
Ken? –
Lupo guardò il Trincino, poi il Viscido: annuirono tra
loro.
Poi guardò me, stavolta torvo e incazzato, e mise una
pistola sul tavolo.
- A me va bene. Ma se perdi me la porto via e non la
vedi più.Cazzo ne sapete voi della mia febbre?
Feci dei calcoli dentro di me: avevo tutte fisches
bianche, pioveva fuori, e quando piove mi gira tutto bene,
m’erano rimaste tre sigarette nel pacchetto, il mio numero.
Tutti presagi positivi.
E poi annusavo pelo.
Di quattro donne tutte insieme.
E mi stava venendo duro.
Ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene.
Non succederà.
Rimarremo insieme, te lo giuro.
Bastardi, vi metterò in mutande e vi piscerò in testa
stasera.
394
Io sono un samurai vincente sfortunato in amore e voi
siete tre merde che volete approfittare di me.
Non succederà nulla, amore mio, vaffanculo moglie,
vaffanculo a voi, tesoro con questa finisco e ci facciamo un
viaggio a Disneyland e ti faccio fare tutti i giri di giostre che
vuoi.
Cambia adesso il giro, cambia.
Cambia, Cristo, deve.
Glu
Glu
“Accettai e mi riempirono il bicchiere mentre Lupo
faceva le carte.
Tre Stelle.
Spillai i bordi con le mani sudate.
Vidi tre virgoline e mi dissi che era ora: ce n’erano tre.
Mi parve di sentire odore di figa, ma che ne potete
sapere voi, e mi rilassai beato andando a giocare senza
rilanciare, da manuale, tranquillo, chiedendo due carte per
vedere il quarto triangolino di pelo nero, di picche, per
stendere quei tre bastardi.
Non ci crederete, ma pescai l’ultima virgolina…”
Glu
Glu
Respiri congelati in sala, fusi nella nebbia di sigarette e
sigari.
Sospensione dolorosa.
Curiosità più tesa d’un’erezione per la più bella puttana
del mondo.
Furetti ipnotizzati dal chiocciare sempre più impastato
e separato da sofferti silenzi.
“Le avevo, cazzo, le avevo tutte e quattro ed ero padrone
del mondo.
Nulla mi può fermare, nulla mi può mancare nei tuoi
pascoli, Signore santo, grazie, e tu non preoccuparti,
stellina mia, che domani partiamo e ci divertiremo.
Moglie bastarda, come ti vorrei vedere adesso e farmi
vedere.
Ti riderei in faccia anche se fossi nuda con una
sottoveste trasparente.
Sei nulla.
395
Ho quattro donne che mi amano e non so che farmene
di te.
Ero gasato e soprapensiero, ma non muovevo un
muscolo della faccia.
Avevo solo le mani sudate, ma quando s’accarezzano
quattro donne insieme credo che sia normale, no?
Lupo mi sparò una cifra enorme, simbolica, e il Viscido
mise tutte le sue fisches al centro del tavolo.
Il Trincino abbassò lo sguardo.
Mi parve che se ne fregasse e mi dissi: tanto lui ha i
soldi, macellaio di merda che vende cadaveri.
Dissi che andava bene, inutile rilanciare, la posta era
già stata decisa, e risi con sufficienza, da padrone del
mondo.
Scoprii le mie quattro donne che sembrava che avessero
il rossetto da quanto erano belle.
Il Viscido buttò le carte coperte a centro tavolo e guardò
interrogativo Lupo.
Lupo scoprì quattro re bastardi a cazzo ritto che mi
fecero venire un brivido ghiacciato lungo la schiena.
Il Trincino mi riempì il bicchiere.
Ancora Tre Stelle.
Lupo s’alzò lentamente dal tavolo con la pistola vicina
alla mano e disse: - Siamo pari. Vai a vestire tua figlia che
me la porto via…Credetti che scherzasse.
Piansi, supplicai, bestemmiai tutti i santi per avermi
preso in giro, maledii mia moglie e le mie quattro donne,
cercai d’essere accomodante, feci il simpatico, il leccaculo.
Lupo mi puntò la pistola davanti alla faccia.
Il Viscido cominciò a parlare della teoria: i debiti di
gioco da onorare.
Il Trincino parlò di possibilità: - Magari tra qualche
giorno la rivedi e ritorna a casa…-”
Glu
Glu
furetti sono diventati sciacalli che ululano alla luna
nella nebbia.
Il pollo bianconiglio ansima straziato e si regge il petto.
396
“Cazzo, Ba…Omobono, ma non hai avvisato i
carabinieri?”
“Lupo mi disse che se l’avessi fatto l’avrebbe uccisa…”
Silenzio.
Glu
Barbie ha uno scatto e s’inarca come sotto una scarica
elettrica o una frustata.
S’affloscia di colpo sul tavolo.
Con un rivolo nero alla bocca.
Barbera e sangue.
Nero il suo mondo già nero.
Senza donne, nemmeno una, che chissà dove sta.
397
AVANTI POLIPO, ALLA RISCOSSA
Tracimare di cattivo gusto…
La goccia che fa traboccare il vaso è, forse, la suoneria
avveniristica, ma neanche tanto, del nuovo cellulare, con
una voce consolidata e untuosa sopra tacca di volume
(nulla di nuovo sul fronte occidentale, prego notarlo), che
ripete come squillo:
“Mi consenta: c’è una telefonata per lei, gentile elettore
defraudato”.
E’ scaricabile al numero tricolore di Forzitalia gadgets
con Mediaset Card.
Oppure è un saltabeccare tra i bicchieri e le posate della
nuovissima Playstation di dodicesima generazione, quella
con le zampette, che si deve cercare di prendere come un
finanziere alle Cayman, per giocare al Monopolypo in
carpaccio con pesto e fagiolini.
La manovra un ragazzino che scalcia cristonando
toninianamente dopo asportazione di staminali dalle gonadi
californiane come prugne secche.
Vedo rosso, ambrato rh positivo con retrogusto sangue
di rivoluzionario compresso, e mi ritiro meditabondo e
fumante nel cessetto del ristorante, con tovagliolo ascellare
al seguito.
Tovagliolo ascellare sì, giacchè io sono il cameriere
anziano della trattoria alla moda “La zona del Branzino di
Zena – specialità pesce”.
Ripercorro ricordi e soppeso raffronti, seduto sulla tazza
maiolicata autopulente per decreto legge.
Rifletto sui bei tempi andati del gusto del cibo e
dell’assaporare.
Ero giovane, rampante cameriere con minimo accenno
piedipiattesco, e volteggiavo come una libellula tra i tavoli di
una trattoria di Roma, nel popolare e rosso quartiere di san
Lorenzo, servendo piatti ruspanti di cucina povera e
sostanziosa, regionale e semplice.
Gli avventori erano studenti fuori corso, barbuti con
occhialino da intellettuale troztkista, donne emancipate con
chioma scolpita nella galleria del vento e aria diserbata da
sigarette francesi senza filtro.
398
C’era anche qualche professore della vicina università,
assente in meditazioni solitarie pregirotondine, oppure
impegnato in accese discussioni sulle ultime uscite
cinematografiche d’essai del brillante cinema congolese.
Era di soddisfazione servire siffatti clienti, tutti
bendisposti ad un sorriso solidale, tutti attenti a quanto
ordinato, rapportato sempre in allegre discussioni-cenacoli
(del resto si era a cena) sulla qualità e prezzo rispetto alla
situazione economica dell’Angola o dell’operosa Bassa
Sassonia.
I cuochi filippini spadellavano nella cucina con rumore
di ferraglia e allegre risate da ciurma su sampang pirata e
io con altri colleghi piroettavamo tra i tavoli in fervente
brusio e sconocchiare di mascelle a rosicare chele, ossa,
concetti filosofici e politici rivoluzionari.
Bei tempi d’entusiasmi e soddisfazioni professionali!
Poi il declino inesorabile!
Lento d’agonia con accanimento terapeutico, tra
frequenti tuoni e fulmini buttiglionidi a controriformare la
scena.
I giovani avventori rivoluzionari crebbero e divennero
bancari, impiegati alle poste o alla regione, i professori
prepensionarono per più convenienti partecipazioni a
trasmissioni televisive nel cuore della notte su angoscianti
interrogativi circa buchi dell’ozono, buchi economici, buchi
in vena, con indiscutibile buco di culo nella reclutazione
ben remunerata.
Si spostò qualitativamente verso il basso il livello degli
avventori, dei clienti affezionati alla zuppetta di pesce,
ignorantelli, disinformati, supponenti, che cominciarono a
confondere scorfani pesci con scorfani colleghe di lavoro,
polpo con polpette, grigliate di pesce con grigliate d’arbitri o
di partenza al gran premio di formula uno.
Io, per mio contro, perdetti poco a poco la mia
indulgenza e la mia bellicosità solidalrivoluzionaria per un
incremento esponenziale del mio piedipiattismo, ché
camminavo come l’ispettore Clouseau in remake, e anche
per mie analisi sul cattivo mangiare, apprezzare, stare a
tavola della nuova clientela.
399
E il mio fegato ottenne un condono per un ampliamento
abnorme con veranda abusiva.
Cominciai a camminare leggermente inclinato sulla
destra con una smorfia verdastra sul volto, livoroso, sempre
più, epatosofferentemorroidale.
E gli avventori commensali scesero ad infimi livelli da
commedia all’italiana di pierini e insegnanti coscelunghe,
con aumento di decibels discorsivi, vini rossi col pesce,
rumori di risucchio al bucatino e commenti granfratelleschi.
Ed eccoci ad oggi, a me sulla tazza autopulente del
bagno astronautico nel ristorante rimodernato da poco con
gli ultimi ritrovati della tecnologia.
Nella sala torme di bambini che pochi anni fa sarebbero
stati inviati direttamente nella cucina per un arrosto con
patate, arrosto di loro con alloro, o che sarebbero stati presi
tout court a calcinculo per ottenere un rispettoso silenzio,
scorrazzano tra i tavoli con automobiline telecomandate
autoesplodenti modello kamikaze iracheno, o attirano
l’attenzione
con
urla
disumane
da
confronto
QuiStudioAVoiStadio.
Le mamme ignorano con un sorriso pallido come fettine
di lardo di Colonnata, arrotolate peraltro anche dentro le
orecchie, e spettegolano sull’ultima guepière o perizoma del
mercatino rionale accennando sfilata con dettagli in bella
vista come la spigola troppo mayonnaisizzata.
I padri testano le suonerie dell’ultimo cellulare che
funge anche da pratico porta preservativi e memorizza gli
ultimi incontri puttaneschi con pagelle e valutazioni alla
supermoviola.
Ridono tutti sguaiatamente, colle gambe stese, a
rendere per i camerieri una gimkana il portare enormi
vassoi di fritture apprezzate soprappensiero e bagnate con
aranciata amara.
Che tempi!
Che declino!
E io non ne posso più!
E’ giunta l’ora di tirare i remi in barca e di ripulire il
tutto.
Tornano buone le quattro o cinque ananas, senza
Grand Marnier, che conservo da anni e anni
400
nell’armadietto, lucidate di tanto in tanto, accarezzate con
affetto quasi per un presentimento.
Ora è realtà.
Una per il tavolo quattro, quello col bimbetto che sta
scortecciando il seggiolone con il coltellino del piccolo
Rambo.
Un’altra per il tavolo d’addio al celibato, con quattro
smandrappate sotto il tavolo che fanno finta di mangiare
chiocciolini di mare in castigo.
Un’altra ancora per il tavolo giù in fondo, dove ci sono
educati avventori grigi che non rumoreggiano col brodo e
parlano a bassa voce: per questi sarà un’eutanasia e una
liberazione, per come si guardano intorno, disgustati e
discreti.
Starò vicino a loro, per poterli accompagnare anche di
là, con due fettuccine della casa col sughetto al riccio di
mare, da bagnare con un bianco fresco di Olevano, poco
conosciuto, ma ancora di vigna e basta, senza trucioli
esaltatori di sapidità…
401
402
RACCONTI DI PAURA
SOLITUDINE E FOLLIA
403
404
MATRIOSKE
Lei, Goletta Verde, è una donna sensibile e intelligente,
fantasiosa anche se guardinga, abbastanza disincantata da
frequentare e permanere in una ‘chat’ senza lasciarsi
coinvolgere più di tanto.
E’ socievole.
Riceve un messaggio…
“Ciao, posso entrare in privato? Devo portarti dei
saluti…”
S’incuriosisce. Digita.
“Prego, Salame Solitario”
“Ciao. In realtà sono Verme Solitario: ti ricordi di me?”
Guarda tu le sorprese che si leggono!
L’immaginazione accende la caricatura di un ridente
salame alla Jacovitti che si trasforma in una tenia gialla a
pallini verdi con un cotillon in testa (come hanno la testa le
tenie simpatiche?)
“Sì, ciao verme come va? Come mai con una nuova
identità?”
“E’ divertente…l’altro giorno ero Piacere Solitario”
Un piccolo moto d’inquietudine e una sommessa risata
nel fantasticare su quel cotillon che cambia testa, ora su un
pisello, forse bello da vedere, impertinente: sì, vaga
inquietudine, una mancanza di punti di riferimento forse il
solito maniaco, …Attenta Goletta…
“Mi pare di ricordare…
Si parlava di musica e di pettegolezzi…”
“No, lì ero Passero Solitario, tendevo al naturalistico eh
eh eh”
Agitazione crescente: ma chi è questo?
Serpeggia un’altra intima risatina nervosa nella fantasia
del gioco di parole: da uccello ad uccello, ma questo
zampettante, una pallina piumosa che sgancia guano a
caso nella ‘room’…
Povera me, un matto…
“Forse sì, non ricordo bene, conosco tanta gente…ma tu
sei quello di Roma?”
405
“Ah ah ah, la scorsa settimana ero quello di
Roma…Pino Solitario…
Ti salutai, ma non mi filasti neanche di striscio eh eh
eh: chissà com’eri impegnata…”
Quel ridere digitato isterico e fastidioso…
Accidenti: che concime potente il guano del passero…
Fa crescere i pini…a Roma…col pisello…con un cotillon
pieno di salami avvolti in tenie…
Apprensione adrenalinica ora: mi cominci a stancare,
amico bello…
“Ah sì? Ma non cambi troppo spesso identità?”
“Dai, è bello, è spiazzante…
Mi diverto moltissimo…tanto poi, alla fine, dico sempre
chi sono in realtà…
Dai che lo hai capito: sono Blank Solitario….Ah ah ah.”
Goletta verde interrompe il collegamento bruscamente e
spegne il PC come se abbia preso una scossa.
Si materializza un’immagine da incubo di un foglio
bianco, vuoto: prendono vita disegnini di tenie, graffiti da
cesso pubblico, uccellini su pini e salami animati…
Si affollano nella sua mente come un cartone animato
cecoslovacco, scarno, tetro e poco adatto ad un pubblico
infantile, per poi ritornare foglio bianco vuoto, come un
gioco di matrioske…
406
NUOVI MONDI NUOVE STORIE
Esistono spiriti fantasiosi e immaginifici che fin da
bambini creano scene, figure, storie ed evasioni partendo da
una osservazione di un minimo particolare che per altri
occhi non ha significati.
Io, arrogandomi il diritto di volermi considerare un
sognatore, ho cominciato verso i cinque anni in un
pomeriggio estivo nella penombra di una stanzetta in un
vecchio cascinale di campagna. Il frinire delle cicale cullava
il riposo sfinito pomeridiano dei grandi, ma io, piccino ed
esuberante, ero disteso sul mio lettino ad occhi aperti a
fissare il soffitto: una macchia del soffitto, in particolare, di
umidità, e, sbarrando gli occhi incentrandomi solo su di
essa, vedevo sagome di teste di animali, di cavalieri e di
draghi.
Affinai questa mia sensibilità, se così la si può
chiamare, giocando con cumuli-nembi grassocci grigi e rosa
e candidi scolpiti da brezze frizzanti e lo scenario divenne
dinamico ed eccitante in continui cambi di storie
immaginarie e situazioni condizionate sempre più da un
maggiore nozionismo e conoscenza della mitologia e delle
favole.
Sperimentai, prono sul letto con la testa sporgente dalla
sponda, nuove sensazioni nel fissare i granigliati multicolori
delle mattonelle; sperimentai ancora, in naturali momenti
estranei all’arte, piegato su me stesso, le venature di
orrende mattonelline nere e violacee del bagno: quando la
fantasia assume connotazioni colagoghe…
Mi perfezionai nell’esplorazione di un vetro smerigliato
sotto la pioggia o illuminato da una luce soffusa con ombre
danzanti di familiari ignari.
Divenni meraviglioso a me stesso nella capacità di
individuare un qualsiasi qualcosa o qualcuno in un piatto
di spezzatino con piselli o in un malloppo informe di mollica
di pane…
Divenni un creativo, un pubblicitario, un inventore di
situazioni e idee irrazionali che parlassero a terzi occhi e
vellicassero cervelli, per il gusto di comunicare oltre che di
407
convincere: e intanto affinavo le mie capacità nella sabbia,
nell’acqua che scorre, nell’incresparsi dell’erba al vento…
Ora sono qui, soddisfatto di me, ma incompreso.
Sbarro gli occhi sulla trama di una coperta marroncina
timbrata “Ospedale Psichiatrico Erasmo da Rotterdam” o
sulla parete di fronte scrostata dal tempo con tanti piccoli
crocefissi sopra altrettanti letti e scopro nuove avventure
minimali con mosche erranti come cavalieri in un mondo
tutto mio di donne, armi, draghi ed elfi…
408
SVEGLIA
Trapassò dal sonno alla morte semplicemente, mentre
sognava…
Era su un elicottero che volteggiava rumorosamente
sopra un mare in tempesta, pochi metri sopra onde scure.
Viveva un sogno a colori foschi, quasi un bianco e nero
con poche sfumature tetre: il grigio plumbeo e viola del
cielo; il blu petrolio scurissimo, striato di verde smeraldo
quasi fosforescente, sinistro, e bianco, del mare ribollente
sotto l’elicottero assordante con il suo rotore.
Si sporgeva fuori di una paratia dell’elicottero, flagellato
dal vento freddo, quasi spenzolante in precario equilibrio,
affascinato da una magnifica e terribile visione sottostante:
un gigantesco squalo bianco e grigio volteggiava in stretto
circolo a pelo d’acqua creando un vortice schiumoso e
ipnotico…
Lui si teneva con forza ad una maniglia e fissava
angosciato quel gorgo seguendo quella enorme minacciosa
grigia pinna dorsale che girava e girava in tondo tra le onde
scure, catturato visivamente dal risucchio del vortice, nero,
liquido, profondo…
Aveva il terrore di cadere in mare…di affogare o di
essere dilaniato…
Udì, poi, un suono improvviso e prepotente, di quelle
sveglie di una volta, tutte di rame, con le cupolette cave in
cima ed un martelletto caricato a molla, assordante,
irritante.
Quel continuo “drrriiinnnggg” gli penetrava il cervello e
quella visione terrificante si dissolse nel buio più nero e
fitto senza nulla.
Fu desto nel nulla, nel panico per lo sperare in un dopo
dal nulla.
Cessò lo scampanellio isterico della sveglia e il buio si
riaccese di nuovo nei colori grigi e viola di un cielo plumbeo
sferzato dal vento di tempesta e dalle pale di un rotore
d’elicottero.
409
Lui era sempre in bilico sulla paratia, spenzolato di
fuori e attaccato alla maniglia, e guardava con immutata
inquietudine un mare scuro ribollente con una sagoma
enorme che lo tagliava in circolo con un’enorme pinna…
Aveva sempre il terrore di cadere in mare…
Attendeva un campanello di una sveglia di rame…
Il suo Purgatorio.
410
ESTETICA, ORDINE E BOTTONCINI DI CAMICIA
Vorrei proporre qualche riflessione sull’estetica del
quotidiano, sulla valorizzazione di piccole minimali
piacevolezze della vita che personalmente mi affascinano in
un equilibrio bioritmico armonico che mi dona serenità nel
vivere la mia vita.
Sarò forse tacciato di ‘dandysmo’, superficialità da
cicisbeo, manierismo alla Oscar Wilde (soprattutto dai
detrattori del grande garofano verde), ma ho intenzione,
nonostante i rischi, di proporvi un argomento che per me
ha una rilevante pregnanza di significato.
I bottoncini supplementari delle camicie sportive.
Sì, avete letto bene.
Vorrei parlare di quei bottoncini che fermano il colletto
di camicie jeans e sportive, anche eleganti, di qualsiasi
tessuto e colore, e di quei due bottoncini supplementari a
metà manica, a chiudere quello spazio aperto che corre fino
verso il polsino.
Sono, per me, minimalismi estetici d’alta sartoria
funzionale ed ordinata.
Il colletto della camicia assume un aspetto più
compatto e raccolto intorno al collo dell’indossatore di
questo tipo di camicia e un’eventuale cravatta viene
abbracciata e cullata strettamente nel suo nodo ed assume
un aspetto elegantemente marziale nel cadere in perfetto
perpendicolo guidato sullo sparato della camicia stessa.
Io sono, avrete capito, un maniaco dell’ordine e della
simmetria.
Ho un guardaroba fornitissimo di camicie di questo
tipo, di vari colori e tessuti, per ogni stagione, anche se non
porto quasi mai una cravatta, ma trovo gradevolmente
estetico da vedere anche il collo di una camicia abbottonata
ordinatamente ai pizzi del colletto, con il colletto ben
raccolto e aperto sul petto a mostrare una maglia di cotone
in tinta: una chicca d’eleganza sportiva.
E vogliamo parlare della funzionalità di quei bottoncini
a mezza manica?
411
E’ per me un piacere potere sbottonare il polsino
sapendo che la manica rimarrà sempre ordinata e
sensualmente aderente al mio braccio, fissata da quel
bottoncino che non permetterà alcuna deformazione
cincischiata.
E’ un piacere orgasmico d’ordine estetico il potere
sbottonare il polsino per avere una migliore agilità di
movimenti e notare che la camicia continua ad aderire in
un tutt’uno con il corpo in una immagine complessiva di
disinvoltura, disciplina e eleganza.
L’unico mio personale cruccio, circa questo delizioso ed
interessante argomento, è la proterva pigrizia di quella che
fu mia moglie.
Mi spiego meglio.
La mia signora ha sempre avuto la pessima abitudine di
stirare, peraltro magnificamente, le mie camicie senza
abbottonare i famosi bottoncini del colletto e della manica
sopra il polsino.
Questa negligenza è andata avanti per diverso tempo,
troppo tempo, con continue discussioni e battibecchi che
sono, nel tempo, sfociati in vere e proprie liti sempre più
furibonde e incontrollate.
Ho sempre trovato inammissibile questa mancanza di
rispetto per i miei gusti armonici e ho fatto presente a mia
moglie, in principio garbatamente, poi sempre più
ruvidamente, che il trovare una camicia con il colletto non
abbottonato costituisce, per me, un antiestestismo brutto
da vedere e tale da rovinare un’intera giornata.
Altri facciano come pare loro: non me ne può fregare di
meno di chi ha il vezzo molto snob di indossare camicie con
i bottoncini sul colletto vergognosamente aperti come una
dozzinale camicia qualunque, ma io ho una mia personalità
e una mia filosofia estetica e pretendo, sottolineo il
‘pretendo’, una camicia riposta nel cassetto perfettamente a
posto con i suoi bottoncini chiusi ai pizzi del colletto, pronta
per essere indossata con un sottile piacere lussurioso di
armonia ordinata.
Vallo a fare comprendere alla mia signora!
Un giorno la solita lite è trascesa in insulti sanguinosi e
in un reciproco scoppio d’ira.
412
Le ho strappato il ferro da stiro a vapore, ormai fuori di
qualsiasi controllo, e l’ho percossa ripetutamente sul capo
tra sbuffi di vapore bollente e sibili di pressione
assolutamente giusta per un ennesimo colletto.
Mi sono arrestato quando l’ho vista esanime a terra in
una pozza di sangue che si allargava sul pavimento.
Ho telefonato ai Carabinieri e ho atteso che venissero a
prendermi.
Nel mentre, ho abbottonato tutte le camicie ai pizzi dei
colletti e alle mezze maniche e ho preparato una piccola
valigia mettendo dentro le più belle per una degna
immagine di me nella futura dimora di fronte a nuova gente
mai conosciuta: perché io tengo molto alla mia immagine.
La mia situazione psicologica non è cambiata un
granché da tre anni fa, anzi...
Sono in una cella insieme con altre tre persone, in una
cella che ne prevedrebbe solamente due, e abbiamo diversi
problemi di ‘privacy’ nel trascorrere umanamente le nostre
giornate di reclusi.
L’unico omicida sono io, condannato a quindici anni
con le attenuanti generiche per assenza di premeditazione.
Sono il capo cella, il ‘nonno’, se così si può dire, dall’alto
della mia condanna che è veramente pesante rispetto a
quelle di pochi anni dei miei compagni che sono solamente
rapinatori o scippatori, in magliette a girocollo stinte.
Occupo, quindi il posto in alto della brandina a castello
più vicina alla finestra e ho l’armadietto più grande e più in
buono stato dove ho riposto il mio piccolo guardaroba.
Stiamo molto stretti, qui dentro, e Giovanni, un giovane
scippatore non troppo intelligente, urta sempre il mio
armadio per aprire il suo e prendere qualche arancio o
qualche biscotto.
Il mio armadio si sposta impercettibilmente e non
mantiene più il filo con le mattonelle in graniglia e
conferisce all’intera cella un’impressione di sciatteria e
disordine che m’infastidisce.
Ho avvertito Giovanni di stare più attento, ma ho
rimediato qualche borbottio che somigliava ad una specie
d’invito con desinenza finale ‘culo’.
413
Per ora paziento e abbozzo: sono conscio di una mia
responsabilità d’anziano della cella e cerco di comporre
qualsiasi diversità di opinione pacificamente.
Ho provato a tenere una piccola lezione ai miei
compagni sul concetto d’estetica e di simmetria, di ordine e
di eleganza.
Non sono stato un buon conferenziere, ascoltato tra
sbadigli, rutti e peti, oppure la platea non è matura per
simili argomentazioni, invero, sottili e presupponenti una
certa sensibilità.
Semmai, però, un certo giorno dovessi perdere la
pazienza, ho adocchiato, per ogni evenienza, la mia branda.
Ha una sbarra pesante che si sfila dall’incastellatura
molto velocemente e con facilità.
Ancora due o tre avvertimenti…
414
CAPOLINEA DI TRAM ARANCIONE
Giovanni P. non ha dormito bene stanotte.
Si è girato e rigirato nel letto tastandone, ancora
incredulo, l’altra sponda vuota e fredda.
E’ stato in dormiveglia agitato per ore, attaccato dai
morsi voraci del rimpianto e del rimorso e dell’affetto che gli
hanno dilaniato brandelli di ricordi nel dolore di
un’immagine diafana proiettata nel buio.
Sua moglie.
Morta.
Da pochi giorni.
Questa mattina si è levato con una lancinante
emicrania nella penombra fredda dell’alloggio ora troppo
grande.
Diverse sensazioni sono transitate fuggevolmente nella
sua mente, sadiche, perché ritorneranno, lui lo sa, e
spargeranno sale su ferite fresche tormentandolo.
Percezione di vuoto: eco dei suoi passi strascicati di
vecchio, ora solo, che si avvia stancamente in bagno e poi in
cucina per prepararsi un caffè.
Una nudità interiore, intesa come fragilità di un paguro
senza attinia, accompagna una danza estenuante di
metafore di fragili cristallerie o d’indifesa animalità tenera.
Sensazione di assenze: degli odori familiari, tiepidi, di
colazione calda, di vapore saponoso nel bagno, d’acqua di
rose, di fagiolini appena lavati e puliti dei cornetti per un
pranzo in due davanti ad un telegiornale che spesso
disunisce, ma sa anche accomunare in una complicità
silenziosa di idee e discorsi affiatati.
Peso nel cuore, per Giovanni P., e oggi maniacale cura
per sé stesso, per la sua persona.
La nenia ronzante di un rasoio elettrico sostituisce
antiche romanze liriche d’altri giorni, ascoltate a volume
sommesso per rispetto civile, nel prepararsi per andare a
fare la spesa insieme, per spettegolare del quartiere e
confortarsi sui soliti rincari.
Sguardo grigio, quello di Giovanni P. davanti allo
specchio, che cerca peluzzi da tagliare sul naso per rendersi
415
di bell’aspetto, come gli diceva Elvira: uno splendido
brontosauro di bell’aspetto con il fiato che sa di mentina.
Eheh, cara Elvira, dove sei?
Oggi si annoda la cravatta color vinaccia, in seta
pesante, malleabile per un classico bel nodo scappino sulla
camicia celestina, e indossa il completo antracite col
gilet...uno splendido brontosauro col completo e il gilet.
L’aroma del caffè si spande per la casa assieme al
brontolio asmatico della napoletana che sembra protestare
per un diverso caricamento rispetto a tempi passati.
Tutto ritorna ad Elvira…
Basta!
Esce ad affrontare il vicolo del centro storico, dove tutti
ci si conosce e si partecipa, più o meno pietosamente, delle
disgrazie di ognuno.
Mattinata frizzantina di novembre.
Odore di pane appena sfornato, nell’aria, e d’ortaggi
freschi e di vernice e, più in là, effluvio penetrante di salumi
affumicati, mescolato con formaggi di fossa e funghi seccati.
Sorrisi, sguardi bassi timorosi, occhiate apprensive e
curiose, saluti e affettuosità.
“Buon giorno signor Giovanni” sbrigativamente gentile
dell’affaccendata portinaia che butta il secchio dell’acqua
saponata tra le grate del tombino.
“Buon giorno Giovanni.” Il giornalaio ammicca dalla
botteguccia semibuia, sepolto da videocassette e dispense
d’enciclopedie inutili.
“Buon giorno signor P.” Il macellaio, che ride di gola,
saluta e affetta scaloppe per una nonnina che tace e scruta
di sottecchi il vedovo che risponde con un cenno di capo
serio.
Gesti muti e sorrisi da parte di altri, nel vicolo, a
salutare il dolore che passa.
Un ciao colla mano della commessa del panettiere, colla
cuffia igienica sulle ventitré per amore di moda, un balzo di
mento quasi marziale del ferramenta che torna ad oliare la
saracinesca.
Il vicolo si dipana per Giovanni P. come il binario
rallentato di una giostra di cavallucci dorati illuminati da
calde lampade nel suono di marcette allegre.
416
E’ una magia da bambino il girare su quella giostra
lunga lunga ed è un calvario il proseguire verso la piazza
giù in fondo luminosa e caotica, piena d’automobili e
rumori stridenti.
Il vicolo è pedonalizzato, stretto, senza marciapiedi: un
acciottolato antico con i tombini in centro strada
leggermente affossati per un buon risucchio dell’acqua
piovana.
Il vecchio Giovanni P. cammina lentamente, impettito
oggi, anziché ingobbito e avvolto nel suo struggimento
malinconico, e rovista nella sua mente immagini di vecchi
films dove esiste sempre un vincitore che è ripreso tra
musiche struggenti al rallentatore mentre vince o mentre
ritira un premio per una sua roboante impresa.
Il popolino del vicolo si trasforma in un insieme di
comparse plaudenti e la musica si sviluppa in un crescendo
che si confonde con la realtà del rumore della piazza
raggiunta.
Variazione di luce, più abbagliante, con il sole in fronte
e i riverberi di finestre e vetri d’automobili impazzite in una
coltre di fumo trasparente grigio e lieve.
Trombe, stridori di freni, il “clang, clang” del tram 15,
quello di modello vecchio, tutto arancione, che fa la sua
fermata di capolinea proprio là, oltre quel marciapiede
sudicio di altra gente, di alieni e cartacce.
Quanto mi manchi Elvira!
Quanto mi sento solo qui tra la folla: più che nel vicolo,
più che a casa…
Tutto mi appare grigio e scurisce sempre di più
nell’indifferenza color piombo del mondo fino a divenire
nero come la mia anima sola e dolorante.
Sarebbe bello un altro giro di giostra nel vicolo con te a
fianco.
Sarebbe bello un mondo fuori del vicolo tutto arancione
come quel tram che sosta al capolinea e sta per partire.
Un mondo allegro, caldo, sereno, arancione, e tu, Elvira,
con me, a lamentarti dei tuoi acciacchi e a minimizzare i
miei dolori per un sostegno reciproco che ci rende forti ed
invincibili a tutto il mondo.
Ti amo, Elvira.
417
Il tram 15 chiude le porte e si avvia per una nuova
corsa.
Giovanni P. si avvia come un antico felino, confuso nella
foresta urbana, quasi indolente senza farsene accorgere, per
catturare la sua preda arancione da dividere con la sua
Elvira.
Clang, clang, clang.
Stridore di freni.
Urla. Scalpiccii. Ultimo dolore. Buio. Silenzio.
Ciao Elvira, arrivo…
418
SEGRETI DI CUCINA CINESE
Suona il telefonino.
Una sbirciata al display mentre affetto un porro.
Marcella.
Mi fa sempre piacere ascoltare Marcella: mi si
accendono lucine strane nel cervello che è formicolato di
fantasie erotiche e si crea, ad ogni telefonata, un’atmosfera
carica di sottintesi ipocriti che lasciano in bocca un
agrodolce di quello che potrebbe essere e non è per pigrizia
o ignavia.
“Sì. Ciao Marcella.”
“Ciao Roberto, tutto bene?”
“Sempre bene quando ti ascolto. E tu?”
Siamo persone di mondo: sappiamo dare un certo civile
spazio all’etichetta e ai convenevoli.
Soprattutto: non ho ancora nulla d’impegnativo ed
immediato sul fuoco, anche se è tutto predisposto.
Sta cuocendo soltanto il riso e rimesto ogni tanto con
un cucchiaio di legno nella pentola ribollente.
Stasera cucino alla cinese.
Amo molto la cucina cinese: la considero armonica,
fantasiosa, aromatica, varia.
Ho diversi utensili tipici: il wok in ghisa semisferico, che
pulisco solamente a secco con carta da pane e olio, i cestelli
di bambù per le cotture a vapore, ingredienti particolari
come la salsa di soia, lo zenzero, le castagne d’acqua e i
funghi cinesi del tè, amarognoli con un vago sapore di terra.
Marcella parla e io affetto il porro finemente con il
cellulare incastrato tra spalla e orecchio: sembro un cuoco
che deve partire per Lourdes, un Quasimodochef, tutto
stronco su un lato, mentre intanto rivolto e rimescolo di
tanto in tanto la carne tagliata a tocchetti che sta
marinando nel sakè e nella salsa di soia.
Il riso sta continuando a cuocere: riso di qualità patna,
quello fino.
Qualcuno inorridirà, ma il riso alla maniera cinese,
molto diversa da quella europea, va consumato molto
scotto, con i singoli grani appiccicosi eppure non incollati
419
tra di loro: per questo va bene la qualità patna, o anche
basmati, molto simile.
“Bla, bla, bla, Roberto, e lo sai che cosa si dice della
cucina cinese?”
Confesso: sono un poco soprappensiero e la mia amica,
ma soltanto ora, non ha su di me i soliti effetti
normormonali di dilatazione di tessuti cavernosi.
Sono più preoccupato per una leggera tostatura delle
mandorle sgusciate che dovrò aggiungere a fine cottura alla
carne, ma il loro colore ambrato sembra quello giusto.
Però ho ascoltato la parola ‘cinese’ e un campanellino di
coincidenza mi porta in uno stato d’attenzione sulla
simpatica amica.
“Che si dice, Marcella, della Cina?”
“Si dice che in Cina si mangia tutto quello che si
muove: te lo immagini?”
“Beh, che c’è di strano, Marcellina?
La cucina cinese è una cucina poverissima e i cinesi
hanno una capacità non comune all’adattamento. Aggiungi
che il “tutto quello che si muove” è anche sempre o quasi
commestibile…Aggiungi anche che un bravo cuoco sa far
risaltare sapori sorprendenti anche da una rapa…
Lo sai, Marcellina, che un bravo cuoco che sappia
lavorare bene la carne da una vecchia pecora ti tira fuori un
ottimo cervo da mangiare con la polenta?
Conosco vecchi cuochi esperti che lo sanno fare…Piena
di trucchi e trabocchetti la cucina, sia quella italiana che
quella internazionale…
Un gatto può diventare un ottimo coniglio, soltanto
disossato, però: la struttura della sezione ossea del coniglio,
schiacciata e ovale, è molto differente da quella del gatto,
assolutamente rotonda…o è il contrario?
Ti lascio nel dubbio e nella confusione…per il tuo
prossimo spezzatino di coniglio al forno con olive e patate…”
La sento inorridire divertita a mille e oltre chilometri di
distanza e mi lascio docilmente attirare da quel formicolio di
fantasie che mi svia per un poco da altre attenzioni.
“Ma dai, Roberto, come puoi parlare così? Con questi
ragionamenti sono buone anche le formiche…”
420
“Non ho mai mangiato le formiche, tesoro, ma so per
certo che insetti e larve d’insetti si mangiano in diverse
parti del mondo: proteine e alimento completo, se hai
stomaco…In compenso ho mangiato il serpente e i nidi di
rondine: molto buoni.
Sai di che cosa è composto un nido di rondine?”
“No, stai zitto, non me lo dire perché poi non mangio
per tre giorni.
Stai zitto o attacco ad urlare…”
“D’accordo, non infierisco…”
Ridacchio dentro di me mentre verso due cucchiai d’olio
di sesamo nel wok per una frittura leggera e veloce: l’olio di
sesamo conferisce al fritto un aroma particolare molto
avvolgente.
Sto rigirando i tocchetti di carne nella maizena, per una
sommaria impanatura che addensi anche il gusto del sugo
delle verdure.
“Marcellina, tu sai quanto mi piace stare al telefono con
te, e sai anche cosa penso quando sto al telefono con te, ma
ora, piccola mia, ti devo proprio lasciare…”
“Scusami se ti ho disturbato…Avevo voglia di parlare un
poco con te…
Poi so che sei anche un tifoso della cucina cinese:
volevo provocarti…”
Ride di gola spiegata perché è convinta di avermi messo
in difficoltà con immagini di topi o di cavallette al gratin o
con chissà quali altre immagini per lei raccapriccianti.
La saluto con un misto di rimpianto e con una certa
apprensione frettolosa.
Se solo conoscesse i sapori di tutto quello che è parte
integrante del nostro mondo, se entrasse in armonia con il
mondo stesso conoscendolo anche attraverso i suoi sapori e
una saggia e placida filosofia di intendere la vita alla
maniera cinese, in automodellamento fatalistico alle
necessità contingenti…
Se solo sapesse che sto preparando per la mia cena il
mite Chung, un simpatico vecchietto senza parenti che era
ormai stanco di vivere, quel Chung quasi invisibile che
viveva da solo nello scantinato e faceva da guardiano alla
sartoria clandestina di camiciole estive.
421
E’ bastato un colpo secco con la piccola pesante
mannaia, proprio dietro la nuca, un’adeguata frollatura e
una diversificazione della preparazione della carne, con una
laboriosa preparazione sul tipo di quella per l’anatra
laccata, crocefisso a due assi e cosparso di miele ed aromi
vari per almeno quarantott’ore, e anche tante striscioline di
carne a marinare nella salsa di soia e nel sakè per una
gustosa leggera frittura veloce insieme a verdure croccanti e
mandorle tostate.
Nessuno avvertirà mai l’assenza del vecchio Chung
solitario: sarà sostituito da un nuovo clandestino nel giro di
pochi giorni e nessuno si porrà domande sulla sua strana
assenza.
Spero che il nuovo guardiano sia single e sia appena
più grassoccio di Chung.
Mi viene un’associazione d’idee maliziosa al manzo in
agrodolce o all’arrosto in salsa d’ostriche…
Avrò l’occasione, come farò stasera a cena con il mio
vecchio sorvegliante stanco, di celebrarlo più volte in un
possibile futuro, degnamente, con della birra di riso o del tè
al gelsomino e ricorderò anche per la prossima volta quello
che mi ha detto la mia amica Marcella.
Me lo disse qualche giorno fa anche lo stesso Chung.
“Noi in Cina mangiamo tutto quello che si muove…”
422
PREGO MI SEGUA, SI ACCOMODI
Un multistudio medico di eminenti professori specialisti
in varie branche della medicina offre sicuramente diversi
vantaggi e ha insiti diversi svantaggi nella sua
frequentazione.
Grandi bei vantaggi sono quell’atmosfera di tranquilla e
consapevole professionalità amplificata dall’associazione
similcooperativa di grandi nomi di luminari, e quindi un
certo gusto sobriamente lussuoso del centro, con segretarie
efficienti e gentili, giovani e carine, molto professionali in
camici bianchi.
Il trionfo del gusto è nell’arredamento delle salette di
visite, con qualche mobile d’epoca piazzato tra modernità
ipertecnologiche con voluta disinvoltura indifferente appena
eccentrica.
Ed ancora il gusto si esprime nell’immensa sala
d’aspetto per tutti i pazienti di tutti i professori del centro.
E’ una sala illuminata in maniera tenue e indiretta con
faretti rivolti al soffitto candido stuccato. Ancora stucco,
alla veneziana, in morbide spatolate perfette color salmone
alle pareti. Qualche pregevole litografia antica a fare da
cornice a poltroncine in pelle, comode e riposanti,
disseminate qua e là lungo le pareti della sala intorno ad un
immenso tavolo per riunioni in cristallo, ovale, al centro
stanza.
In un angolo figure geometriche di sfere, coni e prismi
di marmo candido a dare un’impronta vagamente metafisica
all’ambiente.
Due belle piante rigogliose e curate a nascondere un
efficiente impianto di aria condizionata.
Moquette soffice in tinta con le pareti.
Filodiffusione a volume gradevole di sottofondo con
musica classica che rilassa e si propone come alternativo
modo di attendere invece che patinate riviste recenti
disseminate sul cristallo lucido del tavolo.
Gran bell’ambiente.
C’è anche un qualche svantaggio, seppur non
confrontabile con il vantaggio di simile accoglimento e di
una visita autorevole.
423
L’esorbitante prezzo dei vari onorari, peraltro
comprensibile, e il non tanto marginale disorientamento di
non riuscire mai a comprendere in che posizione si è come
pazienti in fila per la visita, tra i tanti personaggi che
riempiono le tante poltroncine, tutti nell’unica sala per uno
smistamento verso diverse salette di visita.
E quindi l’anziana signora artrosica convive per qualche
tempo con il colitico cronico a fianco e con la ragazzina già
bulimica, e più in là il serio e preoccupato signore affetto da
insufficienza renale guarda di tanto in tanto quel diabetico
che legge il giornale e quella signora con un evidente
parrucchino a nascondere una chemioterapia.
Non si sa mai, quindi, quando arriverà il proprio turno
e, a volte, l’attesa, seppure resa gradevole, diviene
snervante e immaginosamente più lunga del reale obiettivo
di uno scorrere di lancette di orologio.
Y. era lì dal primo pomeriggio.
Si era appena appisolato al suono dolce di violini, forse
pochissimi minuti, e ora si volgeva garbatamente a destra o
a sinistra a sbirciare i suoi compagni di attesa.
Gli atteggiamenti di chi aspetta sono sempre i soliti: si
fissa un punto, in genere la punta delle scarpe o il pomolo
della lunga finestra; si sfoglia una rivista che mai si
comprerebbe di propria iniziativa, con pigrizia o curiosità a
seconda della predisposizione positiva o meno di chi
attende; si contraccambia in un curioso e anche divertente
rimpiattino di occhiate lo sguardo dei vicini.
Lui occhieggiava una bella ragazza dai capelli lunghi
che incorniciavano un ovale pallido e smunto.
Chissà di cosa soffre, così giovane e così già
malinconica…
Ogni tanto si apriva la porta, con un lieve cigolio
appena percettibile, e si affacciava una splendida ragazza in
camice bianco che guardava questo o quel paziente e lo
pilotava dal professore corrispondente: “Mi segua prego, si
accomodi…” con un sorriso aperto eppure artificiale e
costruito, gelidamente cortese.
424
Oppure entrava un nuovo paziente: una signora piccola
e gracile spaurita come un passero, un signore enorme e
goffo, imbarazzato…
“Buona sera…” appena soffiato, sempre, oppure gridato
per far risaltare le buone maniere.
E mormorii a mezza bocca di persone appena per un
attimo distolte dalle loro riflessioni in automatismo riflesso
di buona educazione.
Verso metà pomeriggio fu attanagliato da una leggera
inquietudine.
Quando sarebbe arrivato il suo turno?
La grande sala si popolava di nuovi pazienti mentre altri
seguivano la ragazza sorridente verso altre stanzette del
centro.
Lui restava lì, ignorato, e persone che erano arrivate
dopo di lui, molto dopo, erano già uscite.
Pensò che il suo professore forse non era ancora
arrivato, o forse passavano prima casi più gravi, o pazienti
che avevano prenotato prima, o conoscenti…anche qui
raccomandati…
La signorina si affacciava sorridente di tanto in tanto e
lui cercava di attirare l’attenzione con un colpo di tosse o
uno sguardo appena più penetrante: nulla.
E intanto fuori si faceva buio.
La sala si svuotò progressivamente: sempre meno
pazienti fino a che non rimase solo lui, ormai paziente
impaziente, che si dimenava sulla poltroncina divenuta
improvvisamente uno strumento di tortura.
Entrò la ragazza, seria stavolta, e cominciò a radunare
le riviste sparse per la sala tra le poltroncine ed il tavolo.
Lo ignorò completamente lasciandolo basito senza
parole per l’irritazione e la sorpresa.
Si alzò propenso a litigare, a far valere fermamente i
suoi diritti, ma, nel mentre, si aprì la porta e fece capolino il
suo professore.
“Giovanna, ma oggi non doveva venire per una visita
anche il signor Y?”
“Ah, sì professore, mi scusi, non l’ho cancellato dalla
rubrica. Ha dato la disdetta sua moglie l’altro ieri. E’ morto
quattro giorni fa per un attacco cardiaco…”
425
Y. si sciolse nello stucco veneziano color salmone,
finalmente consapevole, in un
miscuglio istericamente
confuso di violini, fruscii di riviste, sorrisi, saluti,
preoccupazioni, sguardi, domande, domande, domande,
domande, domande…
426
MASCHERE PER OGNI OCCASIONE
Questa mattina devo uscire.
E’ una giornata primaverile piena di sole e presumo che
la città sia in fermento ormonale di speranze, d’entusiasmi,
di progettualità…
Tutto ciò è contagioso.
Mi applico la maschera della giovane donna: una
studentessa universitaria sportiva e disinvolta, con i capelli
morbidi e lucenti, con il volto pieno d’efelidi sparse alla
rinfusa come futuri progetti, con un batticuore innamorato
che è messo alla berlina da un rossore virginale timido
appena diffuso.
Occhiali da sole di quelli alla moda d’ora: colorati,
leggeri, azzurrini di speranza o arancioni di pulsazioni
impazienti a stento trattenute nello zainetto con le dispense
e un cellulare che è metafora.
Oppure metto la maschera della giovane donna già
inserita nel mondo del lavoro con disegni di realizzazione
intorno a sue idee, con capelli mogano alla maschietta,
taglio corto, pratico e funzionale, abbigliamento casual
ricercato, trucco non troppo pronunciato per evitare pesanti
mobbing o per non scoraggiare sensibili giardinieri di piante
desertiche.
Occhiali classici vagamente aggressivi e retrò, a goccia,
fotocromatici verde scuro con questo sole che comincia a
scaldare.
Ora di pranzo.
Pausa lavoro e stacco per radunare le sensazioni della
mattina come i piccioni davanti alla panchina del parco con
poche briciole.
Adesso ho una maschera intimista, poco appariscente,
ma significativa per quello che rappresenta questa oretta di
scollegamento dall’esterno.
Una lunga coda di cavallo rossiccia spenta su un volto
segnato da delusioni e un lungo cappotto a proteggermi
anche dai raggi del sole in un’eterna diffidenza esacerbata
da fregature: anche il sole frega, ed il caldo non è mai
troppo caldo, e questo cappotto confonde e deforma un
427
corpo che vorrebbe urlare trasgressioni e che è invece inerte
davanti a venti piccioni, neanche tutti maschi, avidi di
briciole.
Occhiali da vista schermati da sopralenti nere a difesa
perenne da trivellazioni, per me e per chi vuole scavare,
ammesso che esista…
Pomeriggio di shopping in centro.
Matinèe per qualche applauso di passante meno
distratto.
Nuova maschera.
Capello corvino raccolto sotto un foulard in aria svelta,
pratica, forse misteriosa, su incarnato bianco latte fragile
eppure provocante.
Abbigliamento femminile con calze velate fumé e gonna
non troppo audace, ma provocante quel giusto per chi sa
apprezzare.
Passo svelto, poi svagato, poi esitante: l’essenza della
femminilità in un passo da vetrine d’abbigliamento.
Occhiali da sole di moda classica, con forma
improbabile e originale, scuri, a conferire aria di seducente
mistero e a nascondere bagliori di lussuria ambigua per
una borsa di coccodrillo o per il commesso prestante di
sfondo.
Sensazione d’intima femminilità realizzata nel coprirmi
di sguardi di cattivi pensieri di maschi eterogenei: che poi
sia apprezzamento cerebrale o valutazione di sensali al foro
boario è ininfluente, almeno oggi pomeriggio…
Sera.
Luci che si accendono insieme a insegne di slogan
risaputi: città da bere, tenera è la notte, ascolta la tua
sete…cosa vuoi di più?...
Posso sbizzarrirmi tra vari tipi di maschera: dipende
dalla meta della serata.
Look sul tipo dell’eroina vittima di Mister Goodbar, con
capello scialbo stoppaccioso, seppure carica come una
dinamo, oppure da sfacciata lasciva ragazza del cubo con
trecce rasta viola e verdi, o da poetessa esistenzialista,
severa con i capelli grigi senza tintura radunati a crocchia
austera, con impermeabile nocciola e due libelli tra le mani
mentre sorseggia assenzio o anche solamente un banale
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Marie Brizard nell’attesa che il lettore cominci a declamare
in aria spessa di fumo di debolezze.
Tanti modi di presentarsi, la sera, ma sempre, per forza,
con occhiali da sole, anche se è buio, per darmi un
contegno e per rendere insondabile almeno una piccola
parte di me.
Occhiali piccoli rettangolari o molto ovalizzati, quasi
gialli, per cercare Goodbar in qualche locale affollato e
ambiguamente semibuio.
Occhiali a rombo esagerati, rosa, di cattivissimo gusto,
provocatori, per le mie movenze sinuose tra raggi
stroboscopici e folla sudata pagana che mi adora il dio
perizoma.
Occhiali rotondi neri, impenetrabili come certe anime,
alla recita di panni sporchi lavati in pubblico del tale poeta
affumicato.
E poi la notte fonda e il ritorno in una stanza buia
senza specchi per deporre l’ultima maschera sulla testa
manichino accostata a tante altre.
Senso di provvisorietà nell’eternità di una situazione
che si perde nella notte dei tempi mitologici.
Rassegnazione, adattabilità, ripasso di sequenze della
giornata con una sensazione di potenza infinita mista a
cocente dolore e rabbia.
Il non potere mai vedere il risultato di uno dei tanti
travestimenti, il dovere avere una stanza senza specchi, la
mia collezione infinita d’occhiali da sole per ogni occasione
e per ogni tempo…
La mia condanna eterna fino a che esisterà la vanità e
la superficialità nell’uomo: per sempre, all’infinito…
Solamente sibili nel buio della stanza, ed un senso di
freddo e di movimento nella testa…sulla testa…idee,
pensieri, riflessioni, movimenti contorti e lucidi, freddi…
Sibili e fruscii di capelli vivi su occhi che uccidono
nell’orgoglio omicida di chi è diverso…
Atroce destino per una fragile e sensibile Medusa…
429
HO PAURA DELLA GENTE
L’aria novembrina è assai frizzante sulla pelle,
soprattutto se sei all’aperto in cima ad un campanile.
Sono raggomitolato su me stesso, appoggiato ad un
colonnino, ancora tremante e madido di sudore.
Ho il fiatone per una lunga corsa e per la salita dei
ripidi scalini.
Sono sovrastato da un minaccioso batacchio scuro
innestato in una campana brunita che luccica ad un
tiepido sole pallido.
Guardo sotto.
Assembramento.
Puntini variopinti che si aggregano nervosi come in
prossimità di un formicaio.
Il respiro sta ritornando regolare con ritmiche nuvolette
di condensa più intervallate. Anche i muscoli si stanno
rilassando poco a poco e il freddo umido si sta insinuando
sotto il cappotto a mordere pori in tensione.
E’ una visuale affascinante, quella delle formiche sotto
il campanile, e da qui non fa paura.
Non fa paura come quando sei lì sotto, come quando
ero prima al mercato rionale tra un dedalo di viuzze del
centro storico, tra bancarelle e portici semibui.
E la gente.
Mio Dio quanta gente!
Massaie assorte negli acquisti, grifagne a dissuadere
una fregatura, pettegole con risatine chiocce e
ammiccamenti, prepotenti e rissose per un posto avanti
nelle code per un acquisto.
E gli uomini: commessi, padroncini, clienti, arroganti,
sornioni, esageratamente servili o scostanti e rudi…
Sguardi vacui o attenti, di tutti, che sembrano
trafiggere.
E’ un dramma, per me, da sempre, acquistare qualcosa
al mercato.
Ho paura della gente, della calca, della folla radunata in
densità eccessiva.
430
Non frequento cinema, stadi, concerti, manifestazioni
culturali o politiche.
Mi prende un malessere iniziale, come di sensazione di
soffocamento, e comincio a sudare freddo con un montare
interiore di panico, e vorrei scappare, reagire, urtando e
spintonando per uscire dalla folla, dai crocchi di persone
ignare del fatto che mi stanno uccidendo a poco a poco.
A volte comprendo e giustifico tutte le presenze intorno
a me: cerco a fatica di razionalizzare, di farmi una sorta di
training autogeno, di tollerare. Provo anche dei miei trucchi
personali, contando quanto manca al mio venire fuori dal
gruppo, da quei volti che ti guardano seri, oppure che ti
sorridono, che potrebbero ucciderti non appena ti distrai.
Conto e vigilo e fendo la calca accelerando il passo, mentre
il respiro si spezza e si scoordina.
A volte, sempre più spesso, odio.
Odio quei volti e quei corpi che non conosco, che mi
sbarrano il passo, che mi inibiscono potenziali movimenti,
che mi sfiorano…odio la presenza e il contatto della gente.
Ne ho paura.
Una volta reagivo ignorando, alzando il bavero del
cappotto e calando la tesa del cappello, a non vedere, a
cercare di non sentire.
Ho poi cominciato a reagire al sopruso delle presenze:
ho cominciato a insultare, a spingere, a scansare.
Quei pazzi mi guardavano sorpresi e qualcuno mi
rispondeva in malo modo, maledetto…
Oggi è una mattinata che sono più teso del solito, più
sensibile, più fragile.
Ho gettato due granate al mercato: è stata semplice
autodifesa, lo giuro…
Erano troppi, troppi, e avevo paura…
Poi sono fuggito e qualcuno mi ha inseguito con lo
sguardo e ha dato l’allarme.
Mi hanno braccato vendicativi fin qui alla chiesa.
Mi sentivo tallonato da topi di fogna, sbavanti,
inguardabili.
Ora sono qui, appoggiato ad un colonnino del
campanile, infreddolito, affascinato dal formicaio là sotto.
431
Mi giunge un mormorio indistinto, qualche grido rauco,
e mi pare di udire un pianto.
Da qui non mi fanno paura: li amo quasi. Sono miei
simili…
Ma so che non durerà e che dovrò scendere.
Ecco laggiù anche la polizia: vedo il faretto intermittente
e la sirena sta lacerando l’aria fin quassù.
Sono indeciso.
Adesso chiuderò gli occhi e conterò per qualche
momento per calmarmi e riflettere su quello che è meglio
che io faccia per la mia pace e tranquillità.
Ho altre quattro granate in tasca, per farmi spazio, per
rimanere tranquillamente solo.
Oppure posso farmi forza e affrontare per una volta da
uomo la folla.
Buttandomi giù, verso tutta quella gente…
432
MANTENETE LA CITTA’ PULITA
Mi chiamo Tarcisio e lavoro presso l’inceneritore
comunale dei rifiuti urbani, appena fuori della città.
Il mio nome è poco comune, lo so, ma a me piace:
richiama alla mente il terzino Burnich, quello della grande
Inter degli anni settanta, che spazzava l’area con decisione
rocciosa.
In un certo senso anche io spazzo: attivo l’inceneritore e
contribuisco al mantenimento di un ambiente pulito
smaltendo i rifiuti.
Amo molto il mio lavoro.
Ne ho fatto la mia principale ragione di vita, quasi una
filosofia esistenziale, una missione, e ne sono condizionato
anche fuori del turno lavorativo: vago per la città con una
certa soddisfazione di controllore addetto ai lavori,
osservando con professionalità i vari cassonetti per le
raccolte differenziate.
I contenitori dalle varie forme, verdi, metallici, blu,
gialli, se pieni, per me costituiscono l’indice di una recepita
educazione civica, di rispetto per il prossimo, di
funzionalità, di pulizia nell’ordine dello smaltimento dei
rifiuti.
Ho una vita riservata, solitaria, con pochi essenziali
interessi: ordine, pulizia, rispetto.
Giro con il mio furgoncino nuovo, entusiasta, realizzato
nel concetto d’essere utile alla comunità perché svolgo una
mansione che produce benessere.
Ogni tanto, però, ho sussulti di indignazione.
Vedo persone che si comportano in maniera che non mi
piace e certi gesti mi procurano dolore e irritazione, urtando
i miei convincimenti di una società migliore nel rispetto per
il prossimo e nella pulizia.
Gli zingari, per esempio.
Bastardi.
Forzano gli armadi metallici istallati per la raccolta degli
abiti usati e razziano ogni capo possibile lasciando
sparpagliati, tutto intorno, gli indumenti troppo logori o che
non hanno trovato di gradimento.
433
Uno sconcio.
L’area intorno al cassonetto, infatti, abbandonata,
appare poi come una discarica a cielo aperto, con vecchi
cappotti sdruciti o magliette ingiallite da troppi lavaggi.
Oppure quei vecchi ubriaconi.
Quelli che sbevazzano la loro birretta sulla panchina di
un giardino e poi, per sfregio, buttano la bottiglia vuota
contro un albero, incuranti dei cocci che si disseminano
tutto intorno, sulle aiuole, alla portata pericolosa dei
bambini che giocheranno lì presso.
Assoluta insensibilità.
Ecco: io adoro Bolzano.
E la Svizzera.
Bolzano è una città pulita: neanche un mozzicone di
sigaretta in giro.
Anche in Svizzera è così.
Fumare, poi, fa anche male.
Oltre che danneggiarsi la salute, farsi del male, c’è da
aggiungere il nuocere agli altri, andando a gettare i
mozziconi accesi per la strada e sporcando…
Non esiste una logica.
Si comincia con i mozziconi e si continua con i fazzoletti
di carta, i chewingum, qualche busta inutile di
corrispondenza già letta, un barattolo di yogurt, una
bottiglietta di succo di frutta che sparge appiccicosità e può
frantumarsi.
A Bolzano questo non succede.
Tanto meno in Svizzera.
Credo.
Mi adopero, in ogni caso, affinché non succeda anche
qui.
Faccio, in altre parole, la ronda.
Nel mio tempo libero.
Con il mio furgoncino.
Ho con me la sbarra antifurto, d’acciaio, verniciata a
fuoco, nera, con la testa spigolosa e pesante per la
serratura.
Ieri ho seguito quella mandria di piedi zozzi, quegli
zingari indifferenti a tutto e a tutti, che bighellonano nel
mio quartiere...
434
Hanno scardinato ancora una volta il contenitore degli
abiti usati della piazza vicino casa mia.
Ancora camicie sventagliate sulle aiuole del giardinetto:
una vergogna.
Li ho seguiti con il mio furgoncino, a passo d’uomo.
Un ragazzino sporco come un tizzone si è staccato,
distratto, dal gruppo ed è rimasto da solo, finalmente.
Un piccolo gnu debole.
Sono uscito velocemente dall’auto come una pantera,
con la barra dell’antifurto...
Oggi sto tenendo d’occhio un vecchio laido, sudicio e
trascurato, ubriaco di birra, sporco di moccio e vomito.
Voglio proprio vedere che combinerà con la bottiglia
vuota.
Sto picchiettando la barra dell’antifurto sulla mano, in
attesa, con il sangue in ebollizione, in piena scarica di
adrenalina.
Io, lo ripeto, considero il mio mestiere una missione,
una filosofia di vita, perché amo il mio lavoro al punto di
pensarci anche fuori orario.
Questo vecchio è pericoloso.
E’ ubriaco: molesterà qualche donna pacifica e
costumata, scaglierà la sua bottiglia contro un albero,
costituirà un pericolo per altri.
Io farò pulizia e ripristinerò l’ordine.
Continuerò a girare, anche nei prossimi giorni, come ho
sempre fatto, per tranquillizzare la mia coscienza, per
sentirmi in pace con me stesso, alla caccia di quei fumatori
menefreghisti, di quegli autisti che buttano ogni cosa dal
finestrino della loro auto, di quelli che sputano per terra e
diffondono epidemie.
Io so come si diffondono veramente le malattie: uno
sputo, un soffiarsi il naso soffiando dalle narici strette tra
due dita, come fanno certi calciatori d’oggi.
Burnich non le faceva queste cose: lui era grande e
giganteggiava in area di rigore.
Roccioso ed elegante: spazzava l’area.
Come me.
435
Faccio la spola tra casa e il mio posto di lavoro con il
furgoncino, foderato di plastica, per non sporcarlo di
sangue, consapevole della mia missione.
E il mio inceneritore, subito fuori della città, continuerà
a funzionare per la collettività e per un ambiente pulito per
tutti, caricato da me anche a rifiuti difficilmente smaltibili…
436
QUESTIONE DI PELLE
Siamo uno di fronte all’altra e ci guardiamo
con
intensità.
Febbre d’intenti a scottare fantasie.
Ti dico con voce calda, eccitato:
“Spogliati, denudati completamente, dei vestiti e delle
inibizioni.”
E’ un comando secco o una preghiera ferma, un
mormorio a bassa voce, dolce e imperioso allo stesso tempo.
Mi fissi con occhi lucidi e ti sbottoni la camicetta
sorridendo provocante, scuotendo il capo a ricacciare
indietro la folta chioma dei capelli che scivola in avanti
impedendoti di vedermi carico.
Ogni bottone che fugge dall’asola è un sommesso
insistere di goccia cinese che rende sofferente l’attesa, e il
frusciare della seta che s’allarga sulle spalle non lenisce il
bruciore delle intenzioni.
Lasci cadere il tubino con movenze lente da consumata
spogliarellista, a circondare, informe a terra, le tue gambe
affusolate avvolte in calze di seta, nero fumé.
T’immobilizzo in un fermo-immagine d’affascinante
giovane cariatide dallo sguardo enigmatico perduto nel
mio, in drappeggio di promesse e d’abiti stropicciati ai tuoi
piedi.
Ti lasci passare sul capo, con un’eccitante torsione, la
sottoveste corta di raso e mi provochi sfacciata, ancora
sorridendo, consapevole dell’effetto che stai avendo su di
me.
L’incavo delle tue ascelle, candido e leggermente
azzurrato di vene pulsanti, mi stimola in una salivazione di
persona ingorda.
Ti slacci il reggiseno con una danza a cercare la clip
dietro le tue scapole arcuate.
L’impercettibile scatto risuona nella mia mente come
un’eco di sipario strappato.
Non posso manifestare indifferenza e controllo: il tuo
seno svetta prepotente con aureole che brillano di luce
propria.
437
Ti liberi delle culottes lucide con un bagliore nello
sguardo carico di propositi e ti lasci ammirare per un
attimo, con gli occhi socchiusi, dea, ornata delle sole
autoreggenti, meravigliosa.
Sinestesia di colore e odore in sapore d’arsura nella
gola.
Hai il pube riccioluto corto, lucido, che sembra
circondato
di
filo
spinato
da
oltrepassare
con
determinazione di marine.
Scambio di sguardi ancora: tu sarcastica nella
consapevolezza del tuo potere e io stupito nella verità che
non ho potere da esercitare, in effetti, dominato come sono
dal trionfo del tuo presentarti.
Poi l’inaspettato.
Trovi un lembo di pelle all’altezza della vita e tiri con le
unghie laccate.
Un luccicare d’artiglio porpora.
Ti sfili con un curioso gorgogliare di gola la pelle del
torso, come una maglietta, con naturalezza, lasciando
intravedere tra i tessuti spugnosi di sangue un corpo di
consistenza lucida, viscida, che mi richiama con orrore e
sorpresa la pelle fredda e verdastra delle rane toro,
palpitante, scivolosa di secrezioni e di acqua melmosa di
palude.
Il raccapriccio s’impossessa gradatamente di me in una
malsana miscela di panico mentre prosegue la tua opera di
scarnificazione.
Non riesco a distogliere lo sguardo ipnotizzato da questo
mostrarti così repellente e mi sento morbosamente curioso.
Soffoco un grido strozzato nell’orrore di vedere cambiare
il tuo volto, nel togliere la tua …maschera... sì, una
maschera di donna attraente e sexy che è accartocciata tra
le tue mani sanguinolente.
I tuoi occhi sono due globi diafani che ricordano vecchie
pellicole di fantascienza, occhi di rettile, organi partoriti da
una fantasia patologica.
La tua bocca è un taglio diabolico, un ghigno di piccole
zanne appuntite semicoperte da una lingua violacea
carnosa, e dalla tua gola sale un brontolio strano,
minaccioso, terrorizzante.
438
Mi sento preda, immobile in assurda autodifesa,
tremante come un capretto legato ad un palo per stanare
una bestia feroce.
Ti osservo, ora sfrontata e malevola, con rassegnazione
di vittima e attendo la fine di un azzannare liberatorio nella
malinconia di un indimenticabile tuo fascino perduto per
sempre.
Mi sveglio.
Perlinato di sudore gelido, con respiro mozzo, ansante,
con gli occhi sgranati su immagini fortunatamente dissolte
nel buio.
Sono quindici anni, i più bei quindici anni della mia
vita, con te, che sono perseguitato da questo incubo, tesoro,
anni lunghi in cui ogni notte mi addormento sognandoti
splendida per poi vederti trasformare in quella specie di
basilisco minaccioso e ributtante che mi sveglia con i capelli
ritti in testa, con il respiro affannoso, con la perdita
improvvisa del senso del reale in una angoscia senza fine.
Ed allora ti guardo al mio fianco.
E trepido, apprensivo.
Sorridi nel tuo sonno delicato e ridisegni il mio posto
nel mondo logico con la tua presenza serena nella
penombra quieta della nostra stanza.
Il tuo seno ritma un placido respirare di sogni sereni e
tu sprigioni un odore di femmina in pace con il mondo.
Il mio tormento ha fine, allora, nel contemplarti
meravigliosa, anche se so che la prossima notte sarà lo
stesso calvario tormentoso.
Sospiro per il cessato pericolo e mi sorprende il
pensare, sempre più intensamente, notte dopo notte, che
vorrei che tutto questo finisse, una buona volta.
E’ per questo, amore mio, che ora ho inciso la tua gola e
che sto scorticando la tua pelle d’alabastro con un rasoio, a
scalzarla dalla tua carne, per vedere fino a che punto sono
pazzo, io, che sono tanto innamorato di te e che non posso
più sopportare di vederti come un mostro a spaventare i
439
miei sogni nei quali vorrei amarti per come ti amo e ti ho
sempre amata.
Dio, ti ringrazio!
Quanto ti amo, gioia mia, e quanto sono felice!
Sei davvero il mio amore, normale, la mia donna, la mia
amata donna, e scorre solo sangue abbondante tra le
lenzuola, sangue di semplice adorato essere umano.
Spezzo il respiro nell’euforia mentre m’avvolgo a fianco
a te, singhiozzando di gioia e baciandoti
nell’odore
dolciastro del sangue che scorre ancora copioso
imbrattandomi il volto adorante.
Non esistono mostri.
Non esiste più la paura.
Ci siamo solamente io e te, adesso, e sono sereno e
sempre più innamorato di te.
Grazie amore mio.
440
JENNIFER DAL NERO MANTELLO
La vedo tutte le mattine all’alba, con ogni tempo,
mentre porto a spasso il cane.
E’ molto anziana e rinsecchita su sé stessa.
Cammina a testa bassa, svelta e a scatti, con i suoi
capelli tagliati ridicolmente giovanili, alla garçonne, tinti,
neri come la pece.
Veste sempre di nero, con un mantellone a coprirla e a
nascondere un sacco.
Tutte le albe che la vedo, da molto tempo, si muove con
circospezione disinvolta tra gli alberi scuri del giardino e
sembra un seminatore.
Lascia pane sbriciolato, a pugnelli, alle radici di platani
e siepi, per gli uccelli del giardino.
Guarda sempre a terra con occhio vitreo, chiaro, ma
vuoto, quasi ingobbita, e i suoi gesti sono precisi e veloci:
un pugno di pane per ogni tronco, nel buio che si dirada
appena tra il nascente traffico urbano.
Possiede l’atteggiamento di chi è investito da una
ispirazione divina inderogabile: consapevole oltre ogni
domanda o dubbio.
Ha un nome che, chissà perché, mi appare poco
adeguato per la sua età: Jennifer.
Riesco ad immaginare soltanto delle Jennifer giovani e
prorompenti.
E’ conosciuta nel quartiere come Jenny, la vecchia
Jenny.
Mi sono posto domande, sempre curioso, sul perché di
questa sua mania di scandire tutti i giorni con lo stesso
rituale.
Amo
fantasticare
sul
passato
delle
persone
contemplandone i gesti del presente.
Mi piace pensare, con un minimo di pena e tenerezza,
vedendola fragile e piccola, che voglia farsi perdonare per
qualche torto fatto ad umani in tempi addietro.
E’ tardi, per certe persone di età avanzata, ritornare sui
propri passi: non per mancanza di voglia, ma per mancanza
di energia o per quella pigrizia che attanaglia in senilità e
lascia gli intenti sepolti tra i ricordi sempre meno vivi.
441
Credo che la piccola Jennifer cerchi di guadagnarsi la
sua pace facendo del bene a chi è più piccolo di lei, più
semplicemente abbordabile e meno coinvolgente in dolori di
realtà che si vorrebbero dimenticare.
Mi piace concludere le mie fantasticherie pensando che
un passero, che in altra vita fu un uomo che soffrì molto
per una donna dai neri capelli alla garçonne, stia
perdonando, per come può un passero, una fragile
vecchietta che cerca di alleggerirsi la coscienza coprendo i
rimorsi con un nero mantello.
442
L’UOMO E’ UN ANIMALE SOCIEVOLE
Aveva molti amici che lo venivano a trovare.
Si sedevano su uno sgabello o una sedia di fronte a lui
immobilizzato, o sulla sponda del letto, e cominciavano a
raccontargli quello che era loro accaduto all’esterno.
Così a lui il tempo scorreva piacevolmente, tranne che
per alcuni contrattempi, quando arrivava l’equipe dei
medici e infermieri per la visita.
Come quella volta che stava con Yoghi, un enorme
grizzly fulvo di quasi tre metri, appoggiato alla parete in
fondo a fianco alla porta.
C’era, con Yoghi, Luciana, una gigantesca pantegana
seduta comodamente sulla sedia per gli ospiti, in jeans
indecorosamente attillati, truccata come una bagascia,
sempre, però, di buon cuore e di generosità di sentimenti.
C’era anche Pietrino il pitone, arrotolato ai suoi piedi in
fondo al letto, sempre taciturno, e Ugo il canguro con due
figli piccoli nel marsupio, accoccolato sullo sgabellino di
servizio.
I figli erano graziosi e vivaci e facevano un gran casino.
Parlavano tutti insieme
del più e del meno
amabilmente.
Poi uno scalpiccio, e lui diventò nervoso:
“Ragazzi, via, presto, non fatevi vedere: non è orario di
visite e poi se la prendono con me”.
Sparirono, chi sotto il letto, chi dentro lo scarico del
lavandino, chi trasportato fuori di un sottile raggio di sole
filtrante nella penombra dalle tapparelle abbassate.
Ed entrò il primario con gli assistenti per la visita.
Lui sorrise: non si erano accorti di nulla.
Fu una visita strana, dopo che lo slegarono, con due
nerboruti infermieri che lo tenevano fermo per le spalle e le
braccia.
Il primario, come un sacerdote, ispirato disse:
“Passiamo alle pilloline blu: due dopo i pasti…”
Annuirono tutti e la caposala scrisse qualcosa su un
notes.
Dopo due o tre giorni i suoi amici non vennero più a
trovarlo, chi con una scusa, chi con un’altra.
443
Ne soffrì, ma per breve tempo: era socievole e si fece
nuovi amici alla svelta.
Lo sgabello cominciò a farlo ridere in un curioso dialogo
con la sedia a proposito delle tante chiappe che si erano
sedute su di loro.
Il lavandino, di suo, borbottò qualche piacevolezza
mentre lo specchio sovrastante, sempre di brillante
compagnia, appariva snob e non dava troppa confidenza
all’armadietto greve.
Trascorse altri giorni davvero pieni: chiacchiere e
chiacchiere in un sovrapporsi di voci che tacevano per
incanto ad un suo cenno quando era prossima la visita
medica.
In una di queste ritualità ricorrenti il primario si
complimentò con lui e ordinò una nuova terapia con
polverine da sciogliere in due dita d’acqua, solo di sera, per
riposare meglio.
Gli infermieri erano lì presso di lui e non lo toccarono.
Lui sorrise e quando il primario fece per uscire, di
spalle, strizzò l’occhio allo sgabello che ridacchiò
sommesso.
Con la nuova cura divenne più selettivo ed esigente e
molte sue amicizie diradarono.
Ebbe un violento alterco con il comodino al suo fianco:
trattava male la sua bottiglia dell’acqua che era soprattutto
una delle sue più intime amiche.
Lo sgabello e il lavandino presero le difese del
comodino.
Non volle più parlare con certi esseri.
Li ignorò e dopo pochi giorni rimase in compagnia della
sola bottiglia d’acqua.
Furono giorni di confidenze delicate.
Lui si sentiva meglio: era pacato e tranquillo, aveva
anche la possibilità di muoversi e di alzarsi dal letto.
Scoprì che la bottiglia era di plastica e non di vetro.
Se ne ebbe a male, ma poi comprese che non era colpa
della sua amica.
Il rapporto non ne risentì.
444
Quando venne il primario, un’ultima volta, per la visita
di controllo definitiva, lo attese seduto sul letto, ordinato,
pulito, sbarbato e lavato, con uno sguardo sereno e limpido.
“Andiamo proprio bene, amico mio.
Direi che le cure hanno dato risultati molto
soddisfacenti.
Le dico quindi arrivederci tra sei mesi per un piccolo
controllo in ambulatorio.
Stia bene e semmai avesse problemi telefoni pure al
nostro centro”.
Gli si riempì il cuore di gioia: dimesso, libero, ricco
d’esperienze nuove.
Ricordò il mal di denti del suo amico grizzly e s’intenerì
al pensare dove mai fosse andato a finire.
Ricordò anche Luciana la pantegana, con un sorriso di
malizia, e Pietrino che gli pesava sempre sui piedi, e Ugo
che portava allegria con i figlioletti.
Poi guardò con malinconia lo sgabello che non lo
riconosceva e, con un certo astio, il comodino: ne sbatté
con dispetto anche il cassetto.
Mandò un bacio allo specchio ridendo mentre faceva
l’occhiolino e uscì dalla stanza per tornare libero.
L’addetta alla ‘reception’ vide passare davanti ai suoi
occhi un ometto tranquillo che stringeva per il collo una
bottiglia con un affetto quasi paterno.
L’ospite dimesso la salutò con educazione e lei rispose
con il massimo calore e affetto possibile.
Ed ebbe l’impressione che la bottiglia sembrasse
contenta…
Sapeva distinguere un sorriso soddisfatto di una
bottiglia.
Le fece un ciao con la mano ed ebbe modo di
spettegolare dietro la scrivania per tutta la mattina con il
cestino della cartaccia e la macchina da scrivere che non
stava mai zitta…ma parlò con i suoi amici soltanto quando
fu da sola…
445
IL RUMORE DEL SILENZIO
Lavoravo in fabbrica, ad una martellante catena di
montaggio, ed il quotidiano sopravvivere era grigio.
Ho un’indole poetica e umanista, e la mia sensibilità
non è mai riuscita a metabolizzare gli stridori di ferraglie e
di cuscinetti a sfera rugginosi.
Amo, infatti, la musica classica.
Preferisco un ‘adagio’, un ‘piano pianissimo’, un
‘allegretto’ o un ‘andante largo’ con carezzevoli sfumature
d’arpa e trilli di piccolo o di triangolo, rispetto al battere
ritmico delle presse che feriscono il cervello ad ogni colpo e
anestetizzano l’udito.
A fine lavoro, felice e libero, mi tuffavo nel traffico
caotico della città per ritornare a casa a riacquistare la mia
pace.
Prima, però, cavalcavo altro chiasso con diverse
cacofonie.
E’ incredibile il frastuono del centro in ora di punta tra
automobili che, bloccate, sono aizzate come belve
schiumanti da isterici guidatori che pigiano il clacson per
affermare di essere vivi.
Il trambusto della città nevrotica si mescola sul bus con
frammenti di discorsi accalorati e risa sguaiate, colpi di
tosse stizzita e imprecazioni per la lentezza del viaggio che
appare interminabile.
Mi emarginavo sempre da questa bolgia, figurandomi
già rilassato in poltrona ad ascoltare qualche mio brano
preferito: adoro, per esempio, la celebre sinfonia “Dal nuovo
mondo” di Dvorak o la meno nota “Pavane pour une enfante
defunte” di Ravel, che è conosciuto essenzialmente per il
suo erotico “Bolero”.
Questo rumoroso rito abitudinario del ritorno a casa mi
segnalò, tuttavia, giorno dopo giorno, un progressivo
deteriorarsi del mio equilibrio.
Non so spiegare la causa scatenante di certe sensazioni
Premetto che non vivo da solo, ma con moglie ed una
figlia grande: mi divennero, di colpo, presenze ingombranti,
almeno per i miei momenti d’ascolto musicale.
446
Non riesco a conciliare sorrisi e resoconti di una
giornata vissuta parallelamente alla mia con sezioni soavi
d’archi, e non tollero l’ascolto di musica in cuffia: i suoni
rimbombano nella testa senza che io possa discernerne le
fonti di provenienza e dopo poco sopraggiunge una
fastidiosa emicrania.
Le capisco, quella brava donna di mia moglie e la
ragazza, ansiose di raccontare novità del giorno e gustosi
aneddoti: è umano, del resto, il riunirsi a sera in affetto e
complicità del nucleo familiare contro tutto il mondo.
Io, però, sorridevo assente ed annuivo distrattamente
con il capo, mentre cercavo di non perdere un movimento o
una scala di piano.
Divenni sempre più insofferente.
Non capivano, le due donne, la mia volontà d’isolarmi,
almeno per la durata di una sinfonia o di una sonata.
E questo non significava minore interesse per la
famiglia, ma solamente un distaccarmi temporaneo per
recuperare la serenità smarrita nella giornata, e le
imploravo interiormente, sempre più esasperato: dopo,
dopo…ne parleremo dopo…
A battute e a discorsi scoppiettanti d’affetto
s’aggiunsero poi, in fibrillante acuita sensibilità, i rumori
della casa.
Abito un appartamento grazioso ma piccolo.
Il frigorifero, inatteso ed improvvisamente, s’insinuò
sfacciato con il suo ronzio di sbrinamento nell’ascolto di
una sezione d’ottoni.
Altre volte, per perfida coincidenza, la lavastoviglie con
il programma economico o la lavatrice con il risciacquo,
interloquivano con alcuni ‘piano pianissimo’ assai delicati
che, di norma, richiederebbero un ascolto più attento che in
altri movimenti.
Il mio alloggio, oltre che piccolo, è anche condominiale:
notai questa spiacevole caratteristica nel confondere un
‘andante brioso’ con un battibecco di miei vicini di casa
dall’altra parte della parete.
Fui preso da una disperazione crescente: non amo
ascoltare la musica a volume esagerato.
447
Mi sembra poco elegante e forse anche mortificante, per
un senso di civismo e per il rispetto che nutro verso i miei
autori prediletti, controbattere a rumori esterni con un giro
di manopola dello stereo a coprire o sovrastare.
La situazione peggiorava, forse per accanimento di
circostanze sfavorevoli o forse per una mia sensibilità
acuita che stava sconfinando nell’intolleranza.
Notai anche che il servizio di nettezza urbana aveva
cambiato il turno di svuotamento del cassonetto sotto casa.
E’ inutile che citi a che ora quel maledetto cassonetto
era sollevato, scosso e sbattuto, a ridosso del marciapiede.
Il
nervosismo
aumentava
e
il
mio
sorriso
condiscendente, di fronte alla figlia che raccontava i suoi
aneddoti giornalieri, era più falso di una moneta di tre
centesimi.
Mia moglie, inoltre, per una migliore efficienza
casalinga, invece di andare a fare la spesa, prese l’abitudine
di usare l’aspirapolvere, rovinandomi ancora di più l’ascolto
di brani molto coinvolgenti.
Il cane, tuttavia, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
La bestiaccia, forse percependo nell’aria l’odore di
qualche cagna in calore, cominciò ad agitarsi e ad
uggiolare, in genere sopra un arioso ingresso di fiati o una
limpida introduzione di pianoforte che richiedeva assoluto
silenzio.
Mi sentivo prossimo al collasso nervoso, schiacciato da
rumori di pressa, violentato da allegre ciarliere comari sul
bus, intronato da stridii di freni, da sirene d’ambulanza e
dal brusio della gente che rimbombava con picchi fastidiosi.
Sconvolto, quindi, cercai una soluzione stabile e
definitiva.
Immaginai qualcosa di drastico per un silenzio assoluto
da ottenere a qualsiasi costo.
Mi sovvennero alcune conoscenze dilettantesche di
medicina e farmacia.
La streptomicina, un antibiotico antitubercolare, diluita
in soluzione acquosa a lavare l’interno dell’orecchio, lede in
maniera irreversibile il nervo cocleare, dopo un regolare
ciclo d’applicazioni, annullando le capacità uditive di chi è
sottoposto al trattamento.
448
Può sembrare un paradosso il desiderio di divenire
sordo per potere ascoltare meglio?
Non lo è.
Ho assimilato nel tempo ogni sfumatura della musica
che ho amato ascoltare e, spesso e volentieri, canto sinfonie
e brani in una mentale partitura che non posso più
dimenticare.
Inoltre, Beethoven non era sordo?
Moglie e figlia si stupirono di vedermi più disponibile
con un sorriso serenamente ebete che nascondeva loro il
vigile piacere di una consapevolezza nuova: tra qualche
giorno non avrei più udito nulla.
Pregustavo il socchiudere gli occhi e bearmi, in un
vasto ‘auditorium’ fantastico, dell’ascolto di classici, senza
alcun disturbo, con la sala deserta e le migliori orchestre ad
esibirsi armoniche soltanto per me.
Le orecchie bruciavano, dopo questi lavaggi clandestini
nel chiuso del bagno: era, però, un dolore mitigato dalla
volontà di perseguire un intento.
Rivolgevo uno sguardo speranzoso verso lo specchio
sopra il lavabo ed ammiccavo di complicità all’altro che mi
guardava divertito e spiritato.
Finalmente, poi, fu silenzio, totale, terribile e
meraviglioso, da plasmare come creta a creare figure e
personaggi sonori, sculture di suoni interiori.
Mi crogiolai per tutto il giorno in casa, sfaccendato
sdraiato a letto, senza troppo pensare, notando che non
avrei più potuto lavorare in un reparto dove la percezione
del suono è indispensabile e può salvare la vita.
Indifferente all’osservazione, rovesciai le prospettive,
orgoglioso di avere il dono di poter ascoltare interiormente
la musica senza alcun disturbo.
A sera, al rientro di moglie e figlia, mi preparai per
l’inaugurazione del nuovo rito.
Sprofondato in poltrona sorrisi vacuo e disponibile.
Socchiusi gli occhi e si materializzò per incanto la sala
concerti più bella che avessi mai potuto vedere.
Stucchi crema e avorio in luce soffusa e calda su
poltrone rosse di morbido velluto dallo schienale ovale,
comodissime, meravigliosamente vuote, ed un’acustica che
449
valutavo perfetta già solo all’udire le accordature degli
strumenti.
Il direttore consultava lo spartito per ultimi
perfezionismi professionali.
Ebbi un’emozione tumultuosa vedendolo volgersi verso
di me con un sorriso d’intesa, mentre gli orchestrali
aggiustavano ance e taravano corde di violini.
Un faro ‘occhio di bue’, dal loggione dietro di me,
illuminava il palcoscenico lasciando in penombra l’intera
sala silenziosa e vuota.
Quasi vuota.
Percepivo una presenza discreta invisibile.
Rammentai di moglie e figlia, del cane, dei vicini, del
cassonetto e degli elettrodomestici: erano fuori della sala e
l’ambiente era completamente isolato dal mondo.
Eppure…
Mi volsi all’indietro più volte con apprensione.
Poi cercai di scacciare il pensiero e di immergermi nella
più totale concentrazione.
Decisi che avrei ascoltato, finalmente per come avrei
voluto, in assoluta purezza di suono e perfezione
d’esecuzione, la “Pastorale” di Beethoven, una nuova volta,
ma sicuramente con maggiore soddisfazione delle
precedenti.
Diedi un cenno d’assenso al direttore che s’inchinò
deferente verso la mia posizione.
In quel momento, allora, una voce garbata, calda e
sarcastica, da una poltroncina dietro di me, cominciò a
mormorarmi alle orecchie:
“Sei stato un coglione. Sei stato proprio un coglione. Sei
un coglione. Sei un coglione. Sei un…
Sei…Sei…Sei…”
Ebbi l’impressione che mi crollasse il mondo addosso.
Da allora la maledetta voce continua a tarlarmi il
cervello e non zittisce mai, neanche se ritorno alla realtà di
casa.
L’orchestra ricomincia a suonare ogni volta che chiudo
gli occhi, ma io sono disorientato e non apprezzo lo
spettacolo per come vorrei, in uno stato di confusione
meravigliata e sgomenta.
450
La voce interiore copre tutta l’orchestra e mi sfotte
beffarda senza che io possa reagire per farla tacere.
Con il trascorrere dei giorni, mi sto innervosendo in
maniera esponenziale, in attrito crescente con la famiglia
perché nullafacente senza lavoro, menomato pesantemente
con una sordità completa, con la consapevolezza di essermi
infilato in un vicolo cieco troppo impulsivamente e
goffamente, e sto riflettendo sulle possibilità eventuali che
ho per poter risolvere questo che ormai è un dramma che
appare senza sbocchi.
Magari facendo tacere la voce interiore che mi
tormenta, anche se pare insopprimibile…
Farla tacere definitivamente…
451
ECCO A VOI JOSE’ARTISTICO
BIANCA E NERA (dal giornale)
Tragedia ieri sera in Via Mercadante.
Un uomo di 37 anni, Giuseppe Artistico, per cause non
ancora precisate, è precipitato dal balcone del suo alloggio al
settimo piano.
Si ipotizza il suicidio per un suo recente
stato depressivo, anche se gli inquirenti non escludono un
malore.
LA MADRE
Sono affranta e sfinita: il mio bambino mi ha donato
tante gioie e tanti dolori fino alla fine.
Era buono, generoso, un sognatore senza alcun senso
pratico della vita.
Amava il flamenco, la musica in generale, la poesia.
Si faceva chiamare da tutti Josè, con la sua passione
per il flamenco, e faceva l’istruttore presso la scuola di ballo
del quartiere.
IL PADRE
Non crediamo di avere seminato vento, ma abbiamo
raccolto comunque tempesta.
Era un ragazzo immaturo: aveva bisogno di essere
istradato nelle cose della vita.
Ha voluto, invece, fare sempre di testa sua, forse messo
su da qualche amico.
Non mi sono mai piaciuti gli amici di Giuseppe: gente di
arte e di spettacolo senza calli alle mani oppure perdigiorno
che non lo hanno mai contraddetto facendogli del male.
Che dolore mi ha dato il mio ragazzo.
LA FIDANZATA
E’ da ieri che non ho più lacrime: tra noi stava finendo.
Un rapporto sfibrante per me.
452
Io sono passionale, pratica, attenta alla realtà della vita:
abbiamo litigato spesso per questioni di risparmio, o per il
sapere o volere manifestare concretamente affetto.
Diceva che avevamo fatto spesso l’amore, noi due,
anche se era vergine, e che provava per me una passione
sfrenata.
Non riuscivo a comprenderlo: io lavoro in banca e sono
abituata a concetti di concretezza.
Josè, invece, era un poeta: amava da poeta, viveva da
poeta, forse soffriva anche da poeta, di testa, diversamente
da me, con curiosi slanci incomprensibili e chiusure totali.
Forse troppo sulla difensiva, o forse troppo indifeso.
Non so cosa avrei potuto fare per lui, se qualcosa o
nulla.
Mi dispiace.
IL VICINO DI CASA
Sono davvero turbato: era un bravo ragazzo.
Forse strano: a volte un bambino, privo di logica, forse
diverso.
Anche se…
Mi ballava il flamenco sulla testa alle due di notte
oppure mi svegliava alle quattro del mattino eccitatissimo
per leggermi qualche suo verso.
L’ho mandato parecchie volte a quel paese: abbiamo
litigato spesso.
Ora sento che mi mancherà: era due volte vivo.
UN AMICO DEL BAR DI FRONTE
Era un grande, Josè.
Aveva carisma.
Lo vedevi scendere da casa, altissimo, dinoccolato,
vestito di nero, attillato, con la lunga coda di cavallo e gli
orecchini da Corto Maltese a incorniciare il pizzo curato, e
dicevi a voce alta nel bar: ecco Joaquim Cortès.
Lui, che sentiva da fuori, si inchinava e accennava una
veronica con frenetici colpi di tacco in mezzo alla strada e le
auto frenavano e qualcuno suonava il clacson imbestialito.
453
Entrava nel bar e ci leggeva storie tese di amori e di
speranze e si zittiva anche la macchina del caffè e nessuno
osava giocare alle macchinette del poker.
Aleggiava un silenzio stranito anche dopo la fine della
sua storia.
Sentivi allora un rumore leggero di nacchere che saliva
di tono e progressione ritmica e lui pareva aumentare di
statura e fissava tutti, uno ad uno, con scatti della testa,
mentre il ritmo accelerava e lui assumeva movenze eleganti
di sacerdote pazzo.
Sembrava una danza pagana, un baccanale.
Alla fine tutti gridavamo ‘olè’ e spesso interveniva la
volante su segnalazione della vecchietta del primo piano
che aveva paura di venire a prendere il latte.
UN SECONDO VICINO DI CASA
Uno di meno.
Bastardi drogati senza regole.
Io lavoro per vivere.
Sodo.
E non vado conciato come andava quel disgraziato.
Adesso facciamone anche un martire.
Meglio tacere.
IO
Io ho fantasia.
Credo di avere anche pietà.
Non conoscevo Josè Artistico.
Mi piace pensare che possa essere andata così.
Che Josè abbia voluto sudare come un baio ad espellere
tossine di tormenti esistenziali e abbia ballato un
tumultuoso flamenco nella sala del suo appartamento,
picchiando violentemente con i tacchi sul palchetto,
istericamente, a liberarsi la coscienza di qualche peso, di
una delusione d’amore, dell’incomprensione del mondo,
dell’indifferenza di chi non ama la poesia.
454
Lo vedo, Josè Artistico, che piroetta fino al balcone, al
crepuscolo, nel suono di chitarre rabbiose e piene di
sonorità sensuali.
Lo scatto secco dell’improvviso stop del registratore.
Un sospiro felicemente esausto di sollievo e un chiudere
gli occhi alla brezza che accarezza gelida sul sudore.
Piacere e pensieri che continuano per conto loro il
galoppo, autonomamente dal corpo.
Sangria speziata di cannella, osterie bianche di calce
sull’azzurro cupo di Tossa del Mar, ramblas spaziose di
Barcelona, odorose di tranci di tonno alla piastra e tigli.
Colori, rumori, nacchere e urla di baccanti che
orgasmano di testa nello stordimento dell’odore tiepido di
corpi passionali.
Fiato ansante e voglia di volare.
Aprire le braccia e vederle trasformarsi in ali di angelo
dalle piume di corvo nella sera.
Craaa. Craaa. Craaa.
Sguardo di uccello ad esplorare oltre le antenne del
tetto di fronte, oltre comignoli affumicati.
Josè agita le braccia e sorride al buio, curioso di
planare verso il centro della città piena di luci e suoni.
Freme un tacco, leggero e nervoso come quello di un
ballerino e pesante come lo zoccolo di un incontenibile
Miura.
L’aria serale è inspirata violentemente dalle narici che
sembrano froge d’animale.
E’ ora.
Di volare.
E plana dal settimo piano ad occhi chiusi, Josè
Artistico, in un misticismo disperato che nessuno può
comprendere, in un volo che porta lontano, ancora a
Barcelona, verso il colle del Tibidabo con le sue giostre
multicolori, a scendere verso una fumosa taverna del
porto...
UN INFERMIERE
Siamo arrivati dopo pochi minuti per una telefonata del
portiere dello stabile.
455
E’ caduto scoordinato picchiando violentemente il
corpo, con la schiena, e solo successivamente la testa.
Uno spettacolo non raccapricciante, quindi, anche se
forte.
Morto sul colpo.
UN POETA DI PASSAGGIO
Ho udito un tonfo attutito di sacco pieno di ricordi e ho
veduto un uccello scuro tramutarsi in un elegante ballerino
di flamenco senza fili come una marionetta spezzata.
Mi sono precipitato verso di lui per leggere nei suoi
occhi la verità della morte e per nasconderlo con un
fazzoletto alla gente morbosamente curiosa dello storpiarsi
crudele di un corpo.
E ho veduto.
Pupille che si spegnevano, piene di luci e fumo nello
scorrere di vino tinto e sangria tra canti e danze sopra
tavoli di legno rumorosi e solidi.
In allegria.
Non è vero che sia morto subito sul colpo, come ha
detto qualcuno: ha mormorato qualcosa ed io ero lì che gli
sorridevo e gli tenevo una mano che stringeva una
nacchera, per un augurio di buon viaggio.
Ha mormorato con un filo di voce, in un rigagnolo di
sangue che gli usciva dalla bocca: “Oggi pago io”…
Ed ha contraccambiato il mio sorriso.
456
NON AVRO’ PIU’ PAURA DELLE LAME
Amo il buio: culla i pensieri come una mamma e
accende scintille di ricordi in immagini che risaltano
nell’oscurità.
Per queste sensazioni sono ora seduto nel buio,
abbracciato alle mie ginocchia, appoggiato ad una parete
fredda di metallo, e ripercorro vecchi episodi della mia vita
per trarne un bilancio.
Sto cercando di analizzare una mia fobia di sempre: la
paura delle lame.
E’ uno stato d’animo angoscioso che affonda le sue
radici nella primissima infanzia.
Ricordo gli sguardi accigliati dei miei genitori e le loro
voci che risuonano come moniti fiabeschi nell’immaginario
infantile: non toccare i coltelli, le lame tagliano, ti farai
male, stai attento…
Si proietta nel nero la figura di un bimbo che osserva
con
occhi
sgranati
papà e mamma, marchiato
pesantemente da un loro limite con apprensione soffocante.
Mi nascondevano o allontanavano le posate sul tavolo
con esagerata preoccupazione.
L’approccio con le lame fu demonizzato con enfasi sul
loro potere di infliggere tagli e ferite, mutilazioni e morte.
I coltelli casalinghi erano poco affilati e taglienti, dalle
lame arrotondate ad ingentilire e mascherare le loro
precipue funzioni d’incisione, di divisione e separazione nel
tagliare.
Un giorno volli affermare la mia acerba personalità con
un esordiente gesto di ribellione giovanile.
Sfuggii alle solite pressanti attenzioni e cercai di
sbucciare una mela, impreparato ed ignorante sull’uso del
coltello e sul saper fare pressione con la lama.
La mela sgusciò via con un tonfo sotto il tavolo, come di
vitalità propria, forse impaurita, e io mi procurai un taglio.
Versai il primo sangue con una sensazione di doloroso
bruciore associato poi a rimbrotti, ad urla d’esagerato
spavento, all’urticare dell’ovatta imbevuta d’alcool sulla
ferita, e collezionai diversi schiaffoni isterici elargiti per
457
futura memoria e presente sollievo di uno scampato
pericolo.
Si spegne la proiezione in dissolvenza nel buio, ma
appare dal nero una nuova scena d’ambiente luminoso con
piastrelle e uno specchio lucente, in cronologia posteriore.
E’ il bagno e voglio radermi una barba che ancora non
esiste.
La lametta m’impressionava meno di un coltello:
appariva innocua, così piccola e flessibile con quella
scanalatura centrale, per il rasoio di sicurezza, che
sembrava un sorriso amichevole.
Provai a ripetere i gesti paterni tante volte spiati con
ammirazione emulatrice ed imparai a mie spese il concetto
di ‘mano leggera’ con una striatura sanguigna lungo una
guanciotta tenerella rosata.
Riecheggiarono altri gemiti di scampato pericolo, con
invocazioni sacre da parte di mia madre, ed assaggiai
ancora il morso del disinfettante sulla pelle più altri ceffoni
educativi, da parte di papà.
Diffidai, quindi, anche delle lamette da barba,
affascinato dal loro potere ma inibito nell’uso da reazioni
familiari plateali, di troppo affetto, per preservare un
virgulto dai pericoli insiti in ciò che taglia.
Sorrido intenerito nel dilatarsi del nero che soffoca il
ricordo in un ronzio innocente di rasoio elettrico, mentre un
nuovo episodio balugina recando altre emozioni.
Tante lame, molti anni dopo.
Ero a casa di un amico, collezionista di coltelli d’ogni
tipo.
Aveva una teca con originali ed interessanti modelli: da
caccia, con il manico bizzarro intagliato in osso o legno, da
sub o da guerra, tecnologici, con le lame seghettate e
sinistri luccichii iridati, da lancio, bilanciati per colpi
equilibrati e precisi.
Si potevano anche ammirare coltelli fabbricati in serie,
in variazione di scala per un’esposizione d’effetto, oppure
pezzi unici creati amorevolmente a mano con pazienza,
quasi animati di vita propria, opere d’arte di sapienza
artigianale.
Ricordo una festa con molta gente.
458
Ero cresciuto, nel frattempo, timido e volenteroso, per
cercare di sconfiggere la mia ossessione.
Maneggiavo da qualche tempo, seppure con prudenza,
coltelli a punta e seghettati, e mia moglie utilizzava perfino
il coltello elettrico che mi affascinava con il suo azzannare
isterico e rumoroso.
Volli esorcizzare le mie solite paure e adocchiai un
coltello dei più impegnativi, quasi un ‘machete’, il più
grande di una collezione a scalare che vedeva il più piccolo
grosso come mezzo dito.
Afferrai invece proprio quello lungo come un
avambraccio per dimostrare qualcosa a me stesso.
Lo brandii scherzosamente agitandolo nell’aria a fingere
un attacco da pirata.
Peccai di ignoranza e ingenuità anche allora: non misi il
fermo di sicura alla lama.
Mi pizzicai un dito seccamente, come uno schiaffo dato
ad una persona che manca di rispetto, e cominciai a
schizzare violenti zampilli di sangue.
Odio la vista del sangue, forse per altri atavici limiti
familiari o per semplice malinteso istinto di conservazione.
Mi sorressero in due, mentre un terzo personaggio mi
riempì un bicchiere di cognac ad anestetizzare lo spavento e
un quarto mi tamponava con una garza la ferita.
Ho ancora la cicatrice, dopo alcuni anni trascorsi,
chiara e sottile, che mi scava il dito.
Provo un sottile brivido e proseguo nel mio piccolo
calvario della memoria costituito ormai da minimalismi
senza importanza, acquiescenze nell’abitudine e nella
rassegnazione, giustificazioni per rendere meno umilianti
certe situazioni vissute, fatalismo che tranquillizza: è più
forte di me, cosa ci posso fare?
Scorrono altre immagini a striare il nero e ad
avvolgermi nel rosso del sangue con un sottofondo di urla
di raccapriccio.
Proiezioni cinematografiche.
Mi rivedo distogliere sguardi con disinvoltura sperando
che la sequenza di un accoltellamento sia breve e che
nessuno si accorga del mio malessere.
Dario Argento è stato un mio incubo.
459
Si andava al cinema di sabato pomeriggio, in comitiva,
gaglioffi e sbruffoni, con risate nervose a spaventare la
paura.
Durante la proiezione, spiavo i miei compagni e
individuavo i loro occhi luccicanti e avidi di vedere ciò che
rifuggivo.
Rimanevo dolorosamente sorpreso e dispiaciuto dal
brillare della loro curiosità senza alcun timore e, forse,
sensibilità, tra urla agonizzanti che squarciavano l’aria
fumosa con variazioni improvvise di luce.
Io, invece, abbassavo il capo o cambiavo posizione nella
poltroncina passandomi ingenuamente una mano sul viso a
tamponare coltellate e lampi d’acciaio violenti.
Scompaiono
progressivamente
anche
le
scene
dell’ultimo ricordo.
Sono ancora abbracciato alle mie ginocchia, in un buio
freddo e reale, e rifletto sull’incapacità di dimostrare finora,
soprattutto a me stesso, la dignità del vero uomo, del
cacciatore, del guerriero che non ha paure da donnicciola,
che sa soffrire, che supera e vince le sue debolezze.
Sono d’umore tetro, ora, nella consapevolezza di
un’estrema scelta da compiere a breve, ma anche sereno
per l’immediata possibilità di riscatto che mi sto offrendo.
Sogghigno amaramente senza alcuna immagine.
Attendo l’alba, con calma olimpica e dignità da
samurai, per sconfiggere definitivamente le mie paure e per
dimostrarmi che sono un uomo e che mi sono liberato di
mie zavorre mentali.
Filtra una striscia di luce incerta e inspiro l’aria con
maggiore vigore ad infondermi coraggio.
Tra poco avrò la mia catarsi e potrò dirmi, anche solo
per una frazione di tempo, di non avere paura.
A momenti passerà, come tutte le mattine, il camion
della nettezza urbana ed io sarò proiettato, dal cassonetto
dove mi trovo, nel trituratore dell’immondezza.
Affronterò per un’ultima volta le lame, molte stavolta e
tutte insieme, taglienti e rotanti, che non avranno rispetto
della mia carne e di nulla di ciò che potranno maciullare.
460
Sarà un attimo davvero tremendo, ma stavolta vincerò,
per forza degli eventi, obbligatoriamente: e non avrò più
paura delle lame.
461
ANCHE GLI ORSI SI INNAMORANO
Dicono che i bambini ‘difficili’ diventino, da grandi,
‘orsi’: solite generalizzazioni di rivista femminile dal
parrucchiere.
Io sono solamente solitario e forse lascio un’impressione
d’alterigia che, in realtà, è profonda timidezza.
Sono meticoloso nel lavoro e nella mia vita privata,
ordinato, senza troppi voli pindarici di fantasia e
improvvisazione, provvisto d’una solida razionalità.
Anelo all’autosufficienza, al non dovere dipendere da
alcuno, al non dovere chiedere per non dovermi sdebitare.
Ho sempre vissuto con mia madre.
Lei ha avuto cura di me, come una classica madre
apprensiva, ed io di lei, da bravo figlio devoto per una
chioma candida.
Pomeriggi o serate in compagnia tranquillamente, lei
davanti al televisore intenta a seguire qualche sceneggiato,
ed io a leggere qualcosa o ad ascoltare musica con le cuffie
per non disturbare.
Qualche sera, non spesso, sono uscito a ricercare un
fisiologico piacere senza implicazioni: a donnine.
E’ un rituale di dieci minuti o al massimo un quarto
d’ora: e poi a casa fisicamente più leggero.
Però…
Talvolta questa liturgia non mi ha accontentato.
Ho fantasticato di una donna per me, devota, femmina
per come la può volere un maschio di cinquanta anni che
non ha troppi grilli nel capo ma vorrebbe fare una piccola
rivoluzione.
Mi sono detto, in queste riflessioni: basta con il risotto
scondito per il colesterolo, basta con il solo mezzo bicchiere
di vino, basta con la maglia di lana, con la pancera, basta
con le donnine…
E’ora che trovi la mia donna per il resto della mia
vita…per non chiedere più, per non dovere avere bisogno,
per un’autosufficienza allargata ad una vita di coppia.
A volte i sogni si avverano: io ci credo.
Il mio si è avverato.
462
Ho conosciuto lei.
Commessa.
L’ho veduta attraverso un cristallo smerigliato da
riflessi d’auto e bus e di folla estranea che mi passava
accanto in turbinio caotico.
Mora riccioluta.
Gesticolava con un cliente e cercava d’essere
convincente con due occhi sgranati da bimba e un sorriso
accattivante.
Io, da fuori, la fissavo imbambolato, a bagnomaria nel
rumore del traffico.
Si accorse di me, perse l’attimo decisivo con il cliente
che uscì dal negozio, mi sorrise aperta e sportiva, incurante
dell’insuccesso.
Mi strinsi nelle spalle e le mimai il mio messaggio: ci
vuole pazienza.
Dovevo essere comico perché allargò il sorriso agli occhi
da bambina e mi fece un amichevole cenno di saluto.
Attesi fino alla chiusura del negozio.
Non si mostrò sorpresa, né, del resto, feci qualcosa per
rendermi invisibile davanti a quella vetrina, fermo come
uno spaventapasseri sbeffeggiato da sorrisi di corvina
commessa.
Le chiesi timidamente se avesse voglia di farsi
accompagnare.
Acconsentì con un volto luminoso e uno sguardo
penetrante.
Il brutto anatroccolo cinquantenne sempre solo stava
diventando un cigno grigio come i miei capelli: l’orso
formicolava.
Parlò moltissimo, lei, entusiasta del suo lavoro, dei suoi
progetti, socievole, come ad un vecchio amico.
Ascoltai molto, rispettoso, conquistato dai suoi riccioli
al venticello della sera, e le dissi qualcosa di me.
Sembrava interessata.
Le chiesi di poterla accompagnare anche il giorno dopo,
con lo sguardo sfuggente e rassegnato.
Mi rispose di sì e mi salutò per farmi intendere che
avrebbe proseguito da sola.
463
La vidi allontanarsi e mormorai un saluto balbettando,
estatico, e ritornai a casa saltellando tra le pietre del
marciapiede con trenta anni di meno sulle spalle e con
voglia di fischiettare.
Mia madre s’allertò non appena mi vide, santa donna:
quel sesto senso di tutte le mamme.
Le raccontai del mio pomeriggio e le sorrisi con
indulgenza nel vederla scuotere la testa poco convinta,
sempre ansiosa per il suo giovanotto.
Dormii come un sasso e sognai a colori.
Il giorno dopo ero ancora là davanti a quella vetrina e la
salutai festoso agitando il braccio.
Corrispose ancora e il mio cuore traboccava di gioia.
Orso con miele.
Si andò avanti così per qualche giorno, con lei radiosa
del potere che aveva su di me, cavaliere senza macchia e
senza paura, fuori immobile in attesa, con discorsi sempre
più lunghi e anche confidenziali in una passeggiata sempre
più lontana, con le sere trascorse a giustificarmi con la mia
vecchia che cominciava ad assillarmi con le sue
preoccupazioni, alternando nuove specialità per le nostre
cene, un prendermi per la gola, ad anatemi e fosche
previsioni per il mio futuro con una ragazza poco di buono.
Ma io l’ho detto: le mamme sono buone anche quando
brontolano.
Mi lasciò campo libero per un sabato e si rese invisibile.
La mia commessa, il mio futuro radioso, aveva accettato
un mio invito.
Il passo dal negozio a casa mia, quella sera, fu frenetico
rispetto alle altre volte, e lei sembrava assecondare questa
fretta.
Nervosismo con la chiave nella toppa, risolini isterici di
entrambi, ansia ed aspettative palpabili.
E finalmente la porta si chiuse dietro di noi nel mio
mondo presentato a lei.
Ci baciammo in penombra sospirando.
Dentro di me urlai: sì è lei, è lei, la donna della mia vita.
Il cenare fu un pretesto per alleggerire la tensione, da
svogliati, con i nostri cervelli in viaggio per altre mete.
Ci si accomodò sul divano.
464
Ci si baciò ancora e ancora; pensai di avere per me la
donna di tutta una vita.
Divenni impetuoso e mi meravigliai di me stesso e delle
mie pulsazioni.
Forse si spaventò: non so.
Si ritrasse.
Fece resistenza.
Io non so cosa mi prese: ricordo tutto offuscato da
sangue rosso negli occhi a confondersi con il rossetto
sbavato di lei su una guancia.
La trattenei.
Senza rendermi conto.
Lei si divincolava e stava cominciando ad urlare e io mi
stavo spaventando perché non era mia intenzione farle del
male.
Persi cognizioni di tempo e spazio e situazioni.
Sentii uno scricchiolio e la vidi afflosciarsi con il collo
elastico e cedevole su di me senza una parola.
Piansi.
A lungo, come un bambino, rimirandola e carezzandola,
nel mentre che cercavo vie d’uscita per il ritrovamento di
quella serenità di poche ore prima.
E pensai a mia madre che voleva vederla per giudicarla
e dirmi se poteva rendermi felice.
Fui sopraffatto da una stanchezza mortale in un
girotondo d’immagini ruotanti tumultuose di lei che mi
guardava duramente mentre si divincolava, di mia madre
che rideva malignamente, di gemiti, di risa di scherno, di
traffico e vetrine luminose, labbra serrate, labbra
socchiuse, labbra carnose in baci, risa, discorsi, sospiri…
Ha sempre avuto ragione mia madre: a tutto c’è sempre
un rimedio.
Quello che si desidera davvero, alla fine si ottiene: dice
anche questo, mamma, ed io ho ottenuto e ho realizzato
quanto mi sono sempre proposto.
Non ho più bisogno di nulla, felice e realizzato in tutti
gli aspetti di me stesso.
Ho ripreso la mia vita.
465
Più ricco dentro di me, più sicuro, più consapevole del
fatto che la vita effettivamente può offrire davvero molto di
più di quello che ho assaporato per anni e anni.
Ora si vive in tre, in armonia, in serenità.
Non c’è più bisogno di accendere il televisore, la sera,
per guardare quelle insulse trasmissioni di sceneggiati; non
ho più necessità di leggere o ascoltare della musica con le
cuffie.
Sono con loro che sono diventate amiche e che si fanno
compagnia per tutto il giorno mentre io lavoro.
Le mie donne.
Apro il frigorifero.
Si guardano, vicine vicine alla luce della lampadina
fioca.
Avranno parlato tanto oggi, di me, del mio lavoro, di
qualche progetto per il futuro.
Io rivolgo le loro amate teste, deposte su due vassoi,
verso di me e racconto loro come ho trascorso la mia
giornata.
Scaldo la mia cena e le guardo con affetto e parlo loro.
E mi sento in empatia con i loro pensieri mentre
mangio il mio spezzatino tiepido con una tenerezza da
innamorato che ha già mangiato un cuore…
466
BATTERE AGNOSTICISMO E TAPPETI
Il fatto che esistono nugoli di massaie che sbatacchiano
i loro tappeti e lenzuoli e tovaglie dal balcone d’ogni piano e
altezza a tutte le ore del giorno sui passanti, impregnandoli
di briciole di pane e peli di gatto o cane e peli di pube
umano, corrobora la mia posizione agnostica sulla
possibilità che esista una giustizia divina, nel senso
classico della comprensione umana.
Non ho ancora avuto la possibilità, infatti, di vedere
una di queste sopraccitate eroine del pulito casalingo,
restia all’uso di un aspirapolvere, scivolare dal proprio
balcone sopra un provvidenziale mucchietto di guano di
piccione e spiaccicarsi, con un urlo lacerante, sull’asfalto,
accompagnata da una nuvoletta festosa di peli vari e piume
tra gli applausi e le grida di giubilo della folla sottostante.
Io lo so: tutti la pensano come me.
Soprattutto quelli che passeggiano di mattina senza
troppa fretta assaporando il risveglio della vita cittadina.
Per queste persone, me compreso, il sapore della vita
quotidiana ridestata è amaro e aumenta la consapevolezza
che c’è assoluto bisogno di giustizia, divina o umana che
sia.
Io vivo queste usanze come un chiodo fisso.
Molti dei miei malumori e malesseri sono da ascrivere a
questa pratica incivile.
Sono convinto di avere contratto allergie varie, una
rinite e anche questo galleggiare con forti emicranie in
pressione alta per ansietà e nervosismo.
Nervosismo che si trasforma in ira e mi fa vedere rosso.
Odio le prevaricazioni, e lo sbattere o sgrullare un
proprio indumento dalla finestra, per me, è prevaricazione.
Passi sotto una finestra e vedi la codarda, quella che
sbatte uno straccio violentemente, che si accorge di essere
spiata e che smette subito ritirandosi con la coscienza
fetida.
Oppure, peggio ancora, la prepotente menefreghista,
quella che scuote la tovaglia o sbatte il lenzuolo, che si
467
sente osservata, che fa finta di nulla con naturalezza e
continua nella sua attività barbara.
Renderei obbligatorio un aspirapolvere per tutte le
famiglie.
Mi limito invece, molto più modestamente, a berciare
qualche frase tagliente che si perde verso i piani
soprastanti, tra indifferenza generale di passanti e altre
persone affacciate alle finestre.
Per loro tutto ciò è norma, naturalezza.
Qualcuna si offende e rimbecca.
Allora esplodo in minacce e insulti con voce carica di
rancore spezzato.
Molti si ritirano dalle finestre lasciandomi paonazzo e
ansante nell’impotenza di fare valere le mie buone ragioni di
saper vivere in comunità.
Nel rispetto.
Che manca sempre di più.
Ma da oggi cambio pagina.
Sconfiggerò questo tipo di agnosticismo creando una
giustizia umana, severa e inflessibile.
Vivrò con una mia personale missione, con un incarico
da svolgere per preservare quel minimo di civiltà rimasta
tra pochi di noi contro la barbarie rozza dei prepotenti.
Da oggi non perdonerò più e darò ordine nelle vie e
serenità ai passanti.
Ho acquistato una splendida fionda e diverse scatole di
pallini di ferro.
Avevo pensato ad una cerbottana con freccette intinte
nel curaro, ma poi ho riflettuto sull’impossibilità di arrivare
a raggiungere i piani alti.
Ed io voglio castigare tutti indistintamente, soprattutto
quelli dei noni o decimi piani, quasi inosservati nel caos
cittadino, quelli che, se si nota bene, sono i più pericolosi
con la sfacciataggine dello sbattimento di antichi polverosi
tappeti persiani, nocivi assai alla respirazione, o di trapunte
mai lavate cariche di microdisfacimenti di corpi umani.
Un fucile a cannocchiale con silenziatore mi è apparso
subito impraticabile per ovvi motivi di spazio: e poi darei
nell’occhio e metterei troppa gente sull’avviso.
468
Una fionda, invece, è discreta, silenziosa, implacabile, e
si può facilmente ricacciare in una tasca.
Proverò così, per ora, a cercare di bonificare il mio
quartiere.
Sto esercitando e fortificando i muscoli delle braccia
con due piccoli bilancieri in casa, sogghignando da dietro
una tendina semitrasparente alla mia dirimpettaia di piano,
di là della strada, che sta muovendo il capo a scatti, a
destra e a sinistra, per vedere se passa sotto qualcuno.
Sembra una gallina.
Eccola che comincia: tump, tump, tump, tump…
Ancora qualche giorno, il tempo di essere pronto per la
mia missione.
Poi mi perfezionerò e renderò giustizia e decoro ai
quartieri vicini.
Il negozio della fionda, un’armeria molto bene fornita,
ha in vetrina delle balestre di precisione che sono davvero
molto intriganti, piccole e maneggevoli.
E letali.
469
VISTA MARE
Sono qui da diverso tempo… su questo muretto
sbreccato e calcinato.
Ascolto questo vento incessante che offre una artificiosa
sensazione di refrigerio di fronte ai cocenti raggi del sole che
picchiano e picchiano…
Il vento fischia e soffia tra le poche cose che incontra e
geme esortazioni di incomprensibile significato.
Ho davanti a me una distesa di sabbia rosa deserta che
si perde in un mare quasi sempre ribollente di un verdeazzurro strano, quasi innaturale.
Continuo a rimanere attonito al rumore della risacca
che mi culla e che dialoga col vento.
La spiaggia è disseminata di rifiuti che fuoriescono
come scogli asciutti da una superficie livellata e appiattita:
brandelli di ombrelloni ormai catramosi, pezzi di legno
fradicio di vecchie barche, lattine accartocciate di
bibite…colori vividi di filtri primordiali alterati e mescolati in
nuove regole da daltonico isterico.
Qualche raro granchio fruga goffamente tra questi
scogli rinsecchiti e ardenti.
Ogni tanto piove, nonostante il sole abbacinante.
Scende una pioggerellina fine, quasi impalpabile,
oleosa: non è violenta, ma è irritante e flagella il mio muro e
quello che rimane di vecchie cabine di stabilimento
balneare.
Oggi soffro il solletico: degli scarafaggi enormi, neri,
umidi e lucidi, stanno passeggiando sul muro e mi sfiorano.
Sono qui da diverso tempo… in questo muretto
sbreccato e calcinato, immobile e fisso con la mia ombra e
la mia anima, prigioniero di una eterna fotoimpressione, a
contemplare questo residuo di mondo che è maceria, nel
ricordo di una immensa orrenda palla di fuoco che esplose
sovrastata da un terrificante fungo di vapore, non tanto
lontano da qui, e cancellò tutto.
Le ombre, anche se non si direbbe, hanno un’anima e
una memoria.
6 agosto 1945
470
TERRE MOSSE
Esci da lì sotto ti prego moglie apri quella porta
adagiata su pietre e travi e dimmi che fare la marmellata di
prugne richiede concentrazione o che hai scherzato per
farmi comprendere quanto tu sia importante
SI SSSSS MA parola sordida che soffoca come fuga di
gasssss
RRRRR RRRRR RRRRR
Carburo e senti come gira il neuromotore anche sotto
l’acqua e i tergicristalli non funzionano e vedo annebbiato
attendendo
Giringira in testa la parola aulico di qualche commento
di lettore che ogni tanto mi legge e sorrido perché mi piace
solennizzare e faccio la mia porca figura con scrivere anarco
lessico e mi fisso con occhi sgranati a vedere macchie
mosse rosse di papaveri e arancioni di calendule di
campagna o il verde di edera rampicante pensando che il
tralcio è anomalostrano che sembra croce squadrata sotto
una pioggia fina che inzuppa le idee e stilla su dolori e
piaceri imbevendo la spugna pensante confusa e pulsante
Sensazione senza azione senza terra sotto i piedi con
aria che ti sgambetta nell’orto e voli e sbatti sul nespolo
sbilenco e senti rotolare massi e mattoni e franare pietra di
losa del tetto appena rifatto con sacrifici e oculatezza e ti
tolgono il tappeto di terra di scatto tra crepe ferite e
innaturali silenzi d’animali che sentono e sanno e forse
pregano
Giro di boato che deflagra dentro
Fame e vuoto freddo di pane raffermo con briciole per
passeri impudenti in eco di spezzò il pane e disse ai suoi
discepoli prendete e mangiate questo è il mio corpo dove sei
voglio fare colazione vedendo la tua ruga spianarsi all’alba
mentre grilli vengono rimpiazzati da cicale e cricricri diventa
friifriifrii e non esiste mulino bianco che tenga
SI SSSSS MA dove sei donna
471
RRRRR RRRRR RRRRR
Ronzerotica la fantasia come un calabrone nel vederti
innaffiare melanzane e peperoni mentre estirpo gramigna
ginocchioni con le mani e si ride contenti rimirando tendine
allegre di soggiorno aperto alla luce che invita serenità e
buoni propositi ad entrare in accogliente ricovero di fine vita
aulicolimpico e non esiste sindrome di nido vuoto sereno io
serena tu nella ricerca di mobili da rigattieri di buon gusto
per arredare stanzette d’arte povera calda e squinternata di
vissuto deliziosamente polveroso e odore di minestrone
fresco d’ortaggi appena colti si mescola con terra bagnata e
aria umida di cantina aperta per un pintone di quello
buono nero come anime che non riconosciamo più e sgrano
gli occhi ancora a diluire contorni e colori immaginando
futuro e confondendo passato o viceversa e s’avvicinano
petali rossi e arancio enormi argentati che chiamano e
l’edera è sempre più geometrica croce e anime sante del
purgatorio aiutatemi voi a non perdere il filo in aromi di
salumi appena insaccati in lucidi budelli appesi alle travi
con ganci iridati in attesa di un capodanno con scoppiettare
di ciocchi al camino e neve candida a seppellire cavoli verza
per renderli più croccanti e gustosi
Respiro inspiraulico
Climaterettile canutopubico
Per sorrisi tuoi e progetti di trapunte patchwork mentre
scrivo racconti per amici o per mia vanità e la figlia mi dice
che sono nonno e piango per un capolinea raggiunto di
tranquillo sentire crescere l’erba tra ansimare di miei
stanchi polmoni e grida sferzanti di piccole pesti che
verranno chiamate con nomi in disaccordo con i miei di
paterfamilias rincoglioninascoltato e menefreghista che
addenta pomodori cuoredibue caldi di sole come frutta
strusciata al bordo di camicia jeans che sventola come vela
su corpo sempre più ossuto di sana vita bucolicagreste
Aulicandaulicagain che non conosco l’inglese ma mi
piace darmi un tono cinironico sempre
Moglie in soggiorno o dai vicini dove sei per darmi
prova della tua bravura in cucina o per attestare amore
senilmenopausico stanco e devotemozionale dolce mente
472
come mamma di nuovo che coccola rocheries nenie uterine
mentre annaspo tra fiori rossi e arancioni protesi verso di
me che aspiro odore di polvere e pietre scheggiate che non
mi toccherà mai più edera verde che è croce davvero in
nome del padre e di mia figlia salva ho paura
Punto fermo per darmi un punto di riferimento e non
stancarmi girando in tondo
Per poi proseguire anesteticoraggioso
Fine pietosa come pioggerella a lavare lavare lavare
lavare lavare lavare lavare
Sirene e richiami per Ulissolo e i fiori di campo sono
casacche fosforescenti e mi salutano amici con mani a
stringere tese come famoso per avere vinto un concorso
letterario mentre l’acqua scorre con memoria perché non è
possibile cancellare ma solo mimetizzare come una frasca
con bottiglie di plastica riverberanti che sembra un pupazzo
per tenere lontani i corvi che svegliano all’alba d’ogni giorno
accidenti a loro mi mancheranno
SI SSSSS MAncheranno tante cose senza azioni
sensazioni
sensssss
gasssssilenzio
RRRRR RRRRR RRRRR
Motore imballato non riesco più a sorpassare
Accosto
473
IL TRICICLO DI GUSTAVO
“Per me?”
La voce trilla divertita.
Lui sorride e gongola scorgendo la sorpresa negli occhi
della monumentale Isotta, l’assistente sociale che viene
dalla città e che sembra uscita da un quadro di Botero.
Le porge con solennità, impacciato e fiero di sé,
un’originale composizione floreale costituita da un enorme
girasole attorniato da papaveri e ancora da violacciocche e
margherite di campo.
Aleggia nella stanza un odore d’erba tagliata e terra
smossa che soffoca il tanfo di chiuso polveroso.
La donnona, vigile e bendisposta, si guarda intorno a
scrutare anomalie, poi lo fissa, gli sorride, e lo accarezza
farfugliando qualche ringraziamento.
Il controllo, con questa visita, può definirsi
soddisfacente e gradevolmente assolto.
L’Isotta di Botero rotolerà paciosa in città con una
piccola lacrima di commozione a contaminare di umanità
quanto di lei è freddamente professionale.
Vive da solo da qualche settimana: da quando è morta
una sua vecchia zia.
Ha gli occhi di genziana e un sorriso inerme di latte a
denti radi.
S’aggira, in genere, per le vie del paese senza una meta
precisa, grassottello, con i capelli biondi e stopposi,
sfrangiati esageratamente alla moda moderna, e sembra
una pannocchia che cammina.
Da qualche tempo, invece, ed è un comportamento
eccezionale, ogni mattina si dirige a passo spedito verso un
capanno di legno fradicio fuori dell’abitato e trascorre là
buona parte della giornata.
Gustavo è lo scemo del villaggio: chi lo incontra lo
prende bonariamente in giro, ma in fondo tutti gli vogliono
bene, anche se, nel paese, non ci si preoccupa molto della
sua vita.
474
Nessuno, quindi, ha notato una nuova espressione del
suo sguardo, sognante, ed è passato inosservato anche il
mancato solito rispondere con un sorriso ebete a saluti
spiritosi più o meno rudi.
Tutto cominciò dal funerale di sua zia in un giorno
grigio di nuvole.
Fu accostato da un’alta donna corpulenta che gli
mormorò le condoglianze e gli disse che si sarebbe presa
cura di lui, anche se solamente dalla vicina città.
Lui ebbe un brivido e non s’accorse che cominciò a
piovere.
L’Isotta, perché era proprio lei, lo accompagnò sotto un
porticato al riparo dagli scrosci violenti del temporale.
Gustavo si perse nel tepore di una mano morbida e
grassoccia che stringeva delicatamente la sua e da allora
mise le briglie al suo cervellino per un nuovo galoppare
sfrenato.
Semplicemente s’innamorò.
Il temporale, un pianto delle nuvole per la vecchia zia
defunta, fu brevissimo e un arcobaleno molto nitido si
proiettò nel cielo.
Sembrava che partisse da dietro la stalla del Sindaco.
Disegnava una curva ampia e netta, nell’azzurro scuro
intenso del cielo dall’aria pulita, e dava l’illusione di andare
a morire tra le prime case della città in fondo all’orizzonte al
margine delle colline.
Isotta notò il felice stupore di Gustavo che già aveva
dimenticato la zia ed il temporale.
Gli indicò l’arcobaleno e gettò un ponte per auspicare
un legame.
“Quella è la strada che porta a casa mia, Gustavo.
Se avessi bisogno di me, dovrai seguirla per
rintracciarmi, ma sicuramente sarò io che verrò a trovarti
molto spesso per sapere se avrai bisogno di qualcosa”.
Il cervellino puledro, trattenuto dalle briglie, subì la
voce di Isotta come una musica e quel sorriso placido e
tenero sul quel faccione venne associato ad uno zuccherino
da ottenere con un buon comportamento.
475
Qualche rotellina d’ingranaggio neuronale si mise in
moto sferragliando e Gustavo si concentrò sull’arcobaleno e
poi sulla sua nuova amica.
Il suo amore.
Da allora lo si può sentire armeggiare dentro la
capanna fuori il paese, tanto indaffarato da non rispondere
a grida di saluto.
Esce sovente come un razzo alla ricerca di qualche cosa
che probabilmente occorre al suo trafficare.
Gustavo, in effetti, sta rimettendo a posto un vecchio
triciclo d’inizio secolo, un velocipede storto e arrugginito
dalla ruota anteriore immensa e dalle ruote posteriori
minuscole, che giaceva lì da tempo immemorabile in mezzo
ad altri rottami.
Scartavetra e lucida pezzi di ferro, cerca viti e bulloni
mancanti e assembla faticosamente il tutto nella speranza
che il triciclo possa essere ancora funzionale.
Mentre lavora, sfregando, spennellando, oliando e
avvitando, fischietta qualche filastrocca senza senso e
sogna il suo viaggio alla volta della Isotta.
La immagina in un castello, davanti ad un caminetto
scoppiettante, che sferruzza una lunga calzamaglia di lana
di svariati colori per lui che ha freddo nella sua stanzetta
senza riscaldamento.
Fantastica a proposito del suo viaggio sull’arcobaleno,
con il cigolante triciclo, tra residui di ovatta delle nuvole
rosate al tramonto, vestito per bene, con un cappello, con
un nuovo mazzo di fiori di campo.
Guarda in basso e vede conigli selvatici che lo salutano
agitando con le zampe i fazzoletti, ed il prete della chiesa gli
grida ‘buon viaggio’ con il linguaggio delle campane, e i suoi
concittadini rimangono a naso in su con la bocca aperta a
guardarlo pedalare in equilibrio tra l’arancione e il rosso
attraverso il cielo.
La ruota grande sforza molto sotto il suo peso e sembra
ovalizzarsi ed i raggi flettono abbarbagliando alla luce del
crepuscolo dorato che avanza.
476
Le piccole ruote dietro il trabiccolo arrancano cigolando
con uno stridore che ad un innamorato può solamente
sembrare uno struggente canto di passione.
Intanto si fa sera, e Gustavo ritorna alla realtà ed alla
sua stanzetta per una semplice cena ed un sonno pesante
di fantasiose immagini con lui e la sua innamorata che lo
prende per mano.
Il giorno giusto finalmente è arrivato.
Isotta non viene in paese da molto tempo, affaccendata
in città, ma Gustavo non è preoccupato.
Il suo triciclo è stato messo a punto ed i pedali sono
elastici alla pressione dei piedi.
Oggi è giornata grigia che promette temporale.
Gustavo è dietro la stalla del Sindaco del paese ed
aspetta sotto il porticato pieno di legna per l’inverno,
radunata a cataste in ceppi tutti uguali.
Sfrigola il terreno polveroso sotto i primi goccioloni, e da
lontano alcune saette sghimbesce frantumano il cielo
preannunciando il rombare del tuono.
Gustavo è vestito come per la festa ed ha in testa un
cappello floscio che lo rende assomigliante ad un fattore.
Sbocconcella pane e formaggio sorridendo alle nuvole di
piombo.
Dietro il sellino, posto sopra la ruota grande del suo
vecchio triciclo, ha legato un mazzo di fiori secchi, i topini
spinosi, confusi tra gli ultimi ranuncoli della stagione e le
prime frasche tenere di un pungitopo senza ancora una
bacca.
Farà una splendida figura con Isotta.
E lei lo prenderà per mano e lo farà sedere vicino al
caminetto del suo castello e gli offrirà dei biscotti, con lo
strutto e il burro, che ha fatto con le sue mani paffutelle.
Poi lo carezzerà per la piacevole sorpresa e lo bacerà
sulla fronte facendolo diventare rosso di confusione.
Allora lui sorriderà, di latte, e i suoi occhi di genziana
diventeranno gemme di lapislazzuli lucenti nella penombra
della sera al fuoco del camino.
Ecco: ora il temporale è al culmine.
Tuoni e lampi squarciano l’aria.
477
Un fulmine, solleticato da tutta quella legna appetitosa,
decide di assaggiarla senza curarsi d’altro, come un
bambino ingordo e solo davanti ad una tavoletta di
cioccolata.
I fulmini non chiedono permesso perché non sono
educati.
Passano e basta.
Questo passa attraverso Gustavo e gli travolge il
triciclo, prima di mordere la catasta di legna sotto il
porticato della stalla del Sindaco.
E Gustavo muore contento.
Prima di chiudere gli occhi per sempre, strinato nei
capelli da pannocchia, vede in un attimo il suo triciclo
diventare d’oro lucente fiammeggiante e pensa che potrà
apparire come un principe magnifico davanti alla sua
innamorata Isotta che lo aspetta trepidante di là
dell’arcobaleno.
478
LE SCARPE CI PARLANO
Vado a braccetto con qualche mania: prendo due
capsule ogni mattina dopo colazione e una pasticca ogni
sera dopo cena.
Ogni tanto vado a fare il tagliando al CIM, il Centro
Igiene Mentale, perché è notorio che una buona
manutenzione conserva meglio ingranaggi e meccanismi.
Dici che sono pazzerello?
No, aspetta che ti racconto...
Screek, screek, screek…
E’ inequivocabile: sono brillanti scarpe di cuoio
seminuove.
Si esaltano su palchetti sconocchiati o su marmi lucidi.
Se hanno il ferretto a mezzaluna alla punta per
preservare l’usura della tomaia, ci si potrebbe giocare anche
a fare Fred Astaire che balla il tip tap dentro il duomo, ma
senza ricevere gli applausi del sacrestano.
Il sonoro di un passo di scarpa, per me, è la rivelazione
di chi la calza: io intendo il linguaggio delle scarpe e le
posso ascoltare come se discorressero con me.
Mi capita, dunque, di ascoltare scalpiccii lievi come
mocassini cinesi, quasi dei sospiri e, a volte, andature di
passi davvero grevi, come una peperonata fredda di sera.
Spotok, spotok, spotok… Gli stivali di cuoio, i cosiddetti
anfibi, slacciati e strascicati sull’acciottolato della piazza,
danno un’idea di sciatteria e di scarsa considerazione della
forma.
Mi giro, infatti, e squadro un pantalone con cavallo
rotuleo da rapper: sono o non sono ipersensibile?
Dai, che ti racconto e smetto di divagare.
Vado dunque al CIM per il controllo.
Per strada subisco le mie solite fenomenologie mistiche.
Spikk, spikk, spikk…, veloce come il becchettare di un
passero grassoccio smerdapali, e inquadro un alto
mammifero biondo, inguainato in una maglietta attillata,
che fa le prove d’assunzione per il circo come equilibrista su
tacchi a spillo di venti centimetri.
479
Spettacolare, Cristiandior!
Ammicco alla manza, che mi rumina di andare a
cagare, e continuo a sorridere senza prendermela perché
penso al dolore preternaturale dell’alluce piegato a novanta
gradi dentro quelle punte temperate come matite.
Finalmente il CIM.
Sembra un ufficio ministeriale del ventennio, pieno di
finestre enormi che sembrano occhi che ti guardano le
scarpe.
Scioff, scioff, scioff… Sono le mie scamosciate morbide
che, quando cammino, fanno un rumore soffice, come una
pacca furtiva e disinvolta sul sedere di una donna di
servizio, in un tram affollato.
Entro, saluto e sorrido con aria felice: conviene.
Bisogna sempre sorridere al CIM: è autopromozionale.
Se sorrido vuol dire che sto bene e, se è così, invito il
prof. a non farsi strane idee.
L’usciere nell’atrio ha delle scarpacce consumate che
viscidano sul marmo dell’atrio: swiscH, swiscK, swiscH,
swicK.
E’ affetto, come avrai subito notato, da una leggera
zoppia: quasi tutti gli uscieri hanno una leggera zoppia o
una vertebra deragliata, per la guerra o perché hanno
salvato un ragazzino da sotto un treno o si sono infortunati
da qualche parte sul lavoro.
Prendono, in genere, un encomio e un posto da usciere.
Transitano prof. assorti che succhiano le loro riflessioni
come cannelli di liquirizia.
Sbrit, sbrit, sbrit: sono riflessioni di scarpe di marca
…sguissshhhh…
La donna delle pulizie non ha asciugato bene laggiù e si
sente nell’aria un ‘porca puttana’ sommesso di un prof.
distinto che scivola; poi prosegue, soprappensiero, in
sincrono con il suo sbrit, sbrit, sbrit…
Vado al primo piano con un ascensore gommato: ogni
rumore di suola è soffocato in un anonimo sgumf, sgumf.
Ding.
Mi si apre davanti un corridoio lunghissimo come una
quaresima, lucido e scintillante di marmi bianchi, tutte
finestre, che sembra una voliera per tucani, senza alberi:
480
un viale coperto, appena cimiteriale, di una luce obliqua
che fa strizzare gli occhi.
Scioff, scioff, scioff: sempre le mie scamosciate.
Scorgo, in fondo alla via lattea, lontano, su una panca
addossata ad una parete bianca, un confetto rosa che
sbrilluccica con curiosità da un qualcosa che sembra una
testa.
Nel mentre che mi avvicino, il confetto si tramuta in
una budinosa donna anziana avvolta da una vestaglia, di
quelle leggerissime e imbottite a quadroni, rosa.
Mi scorge anche lei e si alza dalla panca come ispirata.
Ha una testa scolpita da una galleria del vento, rossa
Ferrari, con qualche bigodino, e uno sguardo tra il furbetto
e l’assassino.
Ghigna con una bocca storta che piange qualche dente
prematuramente mancante.
M’inquieto: siamo i soli in tutta l’autostrada coperta.
Noto distintamente un fastidioso sgneek, sgneek,
sgneek.
E’ un rumore che frigge il cervello: sono le sue
pantofole, in tinta con la vestaglia, morbide di stoffa sopra e
dalla suola semirigida di gomma sotto, con un ammasso di
peli colorati sul dorso del piede civettuolo, da Piggy dei
Muppets.
La donna mi punta decisa con quello sgneek, sgneek,
sgneek irritante e io m’impressiono.
A Teano, metà del corridoio, le mie scarpe e le sue
ciabatte ammutoliscono.
La sbircio, laida, che mima il fumare una sigaretta, con
una scatola di fiammiferi agitata come maracas, con le
pantofole eccitate che strusciano il pavimento con uno
sgneek lungo e snervante di libidine repressa.
Percepisco un fiato da fogna di Calcutta, a cielo aperto,
e cerco di evitarla: e poi non fumo, Cristoforocolombo!
Mi sposto di lato e quelle ciabatte oscene sgneekkano,
anche loro, dalla mia parte, mentre la lolita vezzosa di
settanta anni insiste, guardandomi come una triglia, ad
agitare sotto il viso la scatolina dei fiammiferi.
Allungo il passo intravedendo in fondo un altro
ascensore, e le mie scamosciate provano a seminare quelle
481
ciabatte invadenti che assordano per tutto il corridoio
deserto.
Sciof, sciof, sciof, ad andatura da Ridolini, seguito da
sgneek, sgneek, sgneek delle ciabatte mastini.
Sembra un poliziesco: sono inseguito da un’arpia
rotonda che trabocca d’energia fisica e graffia l’intero esteso
pavimento lucido con quelle pantofolacce pelose che
continuano a mordere a vuoto con il loro sgneek, sgneek,
sgneek che è sottile e perfido, maligno, nasale, e gli
allucioni della vecchia fanno capolino dalle aperture davanti
che sembrano bocche ghignanti di streghe.
Sono preso dal panico, Cristinadavena!
Capirai… Avessi avuto ai piedi scarpe chiodate da
trecking alpino, gliela avrei fatta vedere: statakk, statakk, e
vai a casa brutta rospa, ma le scamosciate sono scarpe
pacifiste e miti.
Sciof, sciof, sciof: senti che adorabile timidezza…
Allungo quindi il passo a costo di inciampare da solo,
sempre inseguito dall’aspirante fumatrice rosasgneekkante.
Ad un tratto ho la folgorazione sulla via di Damasco, se
via di Damasco può chiamarsi quel corridoio interminabile
con ottomila finestre, una attaccata all’altra.
Realizzo che io sono sano, Cristianodandrè, alla faccia
del CIM!
Sai che faccio, allora?
Mi volto e la vaffanculeggio sobriamente senza alterarmi
o urlare: lei e le sue dannate pantofole pelose come mostri
alieni che danno l’idea di essere anche ninfomani.
La pianto nel deserto prendendo velocemente la via
dell’ascensore per uscire dall’incubo.
Sento dietro di me un ultimo sgneek, sgneek, sgneek
disperato di rincorsa, ma la semino nell’eco dell’ennesimo
agitare caraibico delle maracas di fiammiferi.
Esco all’aria aperta, fuori di quella gabbia di matti.
Mormorano felici, le mie scamosciate, rumoreggiando di
sollievo: scioff, scioff, scioff…
…Squeekkkkk.
Cristallodiboemia! Lo sapevo che la giornata non finiva
qui: pesto una polenta scquacquera fuori paiolo, d’alano da
sella.
482
Sono
troppo
contento:
mi
gratifico
con
un
chissenefrega.
Ritorno a casa convinto che i matti siano altri ed
ascolto la protesta ed i discorsi delle mie scarpe: scioff,
squeek, scioff, scioff, squiiiiiscchhh, (sull’erba), scioff, scioff,
squeek…
Dai, dimmi se è vero: non sono pazzerello.
Almeno credo...
483
GIOCARE A NASCONDINO
Respirava una solarità sfolgorante come se fosse
raffigurato in quelle immagini fantastiche e giocose di certe
teofanie indiane con gli elefanti celestini e divinità
sorridenti con tante braccia tra fiori e ghirlande e lucine.
Si trovava in un mondo di questo genere, carezzato da
erba finissima, alta, verde brillante, tra papaveri sanguigni
radunati, come scolaresche, da staccionate, maestre
inflessibili.
Giocava a nascondino strizzando gli occhi all’azzurro
acceso del cielo, e si spostava felice e frenetico da un punto
all’altro del campo immenso, facendo frusciare il prato sulle
gambe scoperte.
Nessun nascondiglio lo soddisfaceva e cambiava posto
in continuazione.
Ora era dietro una vecchia quercia; poi era accucciato a
ridosso di un muretto di pietre a secco, poi ancora dietro
un capanno per gli attrezzi vicino ad una casa colonica
bianca di calce fresca.
Rideva divertito e sottovoce per non fornire indicazioni
sulla sua posizione alla meravigliosa signora bionda che lo
cercava chiamandolo con voce soave.
Era, costei, una donna alta e attraente, vestita d’oro,
signorile di modi e portamento.
S’aggirava tra il campo e il cortile davanti alla villa con
grazia, serena e paziente, senza scompostezze.
Il tempo, tuttavia, cominciò a guastarsi e nuvoloni
plumbei si gonfiarono nel cielo coprendo il sole.
L’aria stessa ingrigì con tutto il resto, ed il campo
sembrò vizzo con i fiori quasi appassiti, e la quercia apparve
spoglia e la casa livida e sinistra.
La stessa signora meravigliosa di prima sembrava che
avesse mutato espressione, ora più seria e vagamente
preoccupata, sempre disponibile a giocare e paziente, ma
con uno sguardo apprensivo verso tutto l’intorno.
Continuava a chiamarlo, ma con voce più pressante.
484
Lui cercava sempre un posticino sicuro per
nascondersi, ma aveva smarrito il sorriso sereno e
spensierato di prima.
Vedeva da lontano la signora che adesso avanzava
appena ingobbita e meno eterea che non prima al sole.
Si nascose nel capanno degli attrezzi, mentre il cielo
diventava quasi nero per un prossimo temporale.
Mancava l’aria lì dentro, e un tanfo di chiuso e di
polvere spessa di tempo immemorabile davano un’idea di
soffocamento.
Si vide più grande, più cresciuto, adulto, con i
pantaloni lunghi impolverati, seduto contro una trave
maestra, al centro del ripostiglio nel buio, stretto alle
ginocchia, ad occhi chiusi e con le mani a tappare le
orecchie per non vedere e non sentire, con l’illusione
infantile di passare così inosservato, stringendo le mascelle
e i denti con forza e respirando piano.
Si fece piccolo piccolo e stette in attesa.
Sentì bussare alla spalla e si girò di scatto.
Una figura imponente avvolta in un sudario nero, con
un volto sfumato nel nulla che ricordava appena la signora
sorridente di prima, lo fissava con un luccicare pallido di
sguardo indecifrabile.
Rabbrividì senza forze.
L’irriconoscibile signora gli mormorò all’orecchio, con
voce graffiante, tra il divertito e l’ineluttabile:
“Tana!”
Si sentì ghermito e sollevato da terra con la facilità
propria di una forza immensa…
Non si svegliò più.
La vecchia moglie rimase basita davanti al suo uomo,
con le mani occupate dal piatto della tazzina del caffè per
un buongiorno tranquillo d’affetto.
Non urlò, non si disperò: era molto anziano, suo marito,
e lei si aspettava alla fine un momento del genere.
Poggiò l’inutile vassoio sul comodino e depose un
ultimo bacio sulla fronte del vecchio amore.
Poi cominciò ad udire una voce dentro di sé.
Incessante.
485
Non seppe spiegarsi il perché di una frase che cominciò
a perseguitarla anche mentre telefonava al pronto soccorso
e poi ai figli.
La filastrocca in ripetizione ossessiva e canzonatoria
non aveva senso e si confondeva fastidiosamente con il
segnale del telefono:
“Tana libera tutti, tana libera tutti, tana libera tutti,
tana libera tutti…”
486
ODIO CHI LEGGE E PUBBLICA
Può essere malevola l’espressione di un puntaspilli?
Dico di sì, se è un topo di fogna con due occhietti neri,
preso per la coda e squadrato con un sorriso maligno.
Lo tiene appunto per la lunga coda, sospeso a testa in
giù, con due dita, e lo esamina sogghignando.
Il ratto ha il pelo folto aggricciato dall’umidità e si
contorce per divincolarsi dalla presa.
E’ lanciato dentro un profondo vascone dalle pareti
lisce, in compagnia d’altri topi.
Io ti odio.
Dico proprio a te che stai leggendo, a te che hai gli
occhialini da presbite calati sul naso e ti lisci i baffi, a te
che stai sdraiata a pancia in giù sul letto con il libro sul
pavimento, a te che leggi, mentre ascolti la musica e prendi
il caffè pensando anche ad altro.
Ti sorveglio da diverso tempo, appostato sotto casa tua:
ti spio, ti pedino, ti attendo.
E ti odio.
Alla luce fredda e debole del neon azzurrino scorge le
sagome delle gabbiette disseminate dappertutto sul
pavimento bagnato del condotto fognario.
Sono quasi tutte piene e sembrano animate di vita
propria.
In realtà contengono topi delle più svariate dimensioni:
giovani ratti smilzi e autorevoli pantegane lardose.
Il tunnel semibuio, stillante umidità, è saturo di squittii
assordanti che sono amplificati dalle volte stratificate di
muffa in un’eco da brividi.
Raccoglie le gabbiette con i turbolenti prigionieri
catturati e le ficca, una dopo l’altra, in un grosso sacco.
Piazza altre trappole vuote, tutte con un’esca, un
pezzetto d’aringa o di formaggio, e si avvia verso casa
calcolando mentalmente il livello della popolazione roditoria
della profonda vasca in cantina.
487
Sei
un
lettore
superficiale,
distratto,
spesso
supponente, e frustri lavoro e speranze su miei ragionevoli
progetti di fama.
Scrivere mi costa sangue, dispendio d’energie in
elaborazioni faticose di fantasia, in ricerca d’originalità, in
costruzioni intriganti per catturare da subito i pigri come
te, che non hanno poi tanta voglia di pensare.
Non esiste lo scrittore che scrive per sé stesso: se così
fosse non pubblicherebbe, non avrebbe voglia di
condividere, terrebbe un diario inaccessibile a chiunque.
Io lo riconosco: scrivo per condividere e per avere gloria
e successo e sentirmi dire che ho scritto un bel testo.
Tu, però, leggi con leggerezza, per semplice curiosità, e
raramente mi dai le soddisfazioni che credo di meritare.
Sessanta watt di una polverosa lampada ad
incandescenza non possono illuminare un ambiente come
chiunque ragionevolmente vorrebbe, a maggior ragione una
cantina ampia piena di bottiglie vuote e ciarpame con, al
centro, una vasca molto capiente e profonda dalle pareti
lisce a prova d’arrampicata, piena per un terzo di uno
strato di topi isterici e anche affamati.
Lui lo sa che sono affamati: qualche esemplare dei più
deboli è stato divorato dai suoi simili.
Adesso è ora di pranzo.
Getta nella vasca pezzi di carne e croste di formaggio.
La marea pelosa bruna in fondo freme e si dibatte in
tuffi e zampate frenetiche, ed alcuni morsi sbagliano
obiettivo e feriscono un compagno di prigionia.
Il vascone è bruno, peloso ed arrossato di sangue vivo.
Non sei solamente tu la fonte dei miei dispiaceri: in
fondo tu leggi solamente, spesso non consapevole del tuo
ruolo.
Io odio anche gli editori, forse più di tutti.
Esigono il matematico successo letterario.
Sono ignavi e restii a rischiare qualcosa di loro, e
cercano di darti sempre una fregatura; e poi pretendono
tanto, tutto, in breve tempo, a poco, meglio se a nessun
488
prezzo, perché hanno doveri e responsabilità verso chi
legge…dicono…furbi e bottegai…
Ne ho conosciuti tanti, esili e magrissimi con
l’occhialino da intellettuale, tronfi ed epicurei con la trippa
del godereccio, alternativi, trasgressivi, commerciali, grandi
cavallerizzi
per
puledri
e
brocchi
da
rischiare
fortunosamente in un gran premio.
Ti guardano con benevola attenzione che è sufficienza e
scandiscono un loro ritmo con una penna sulla scrivania, o
con il cucchiaino sul piattino della tazza di caffè al bar.
Hanno un loro metronomo intimo, e te lo dicono anche:
“Non è tempo, …ho i miei tempi, …deve aspettare il suo
tempo, …non ho più tempo, …è tempo d’altri generi
letterari”.
La sostanza è, ti fanno capire, che sei sempre fuori
sincrono, nel momento sbagliato.
Poi, se si riesce a spiccare un volo appena da quaglia al
momento giusto, ci s’imbatte in quelli come te, lettori
distratti e impallinatori, che fulminano senza appello dopo
un assaggio di venti pagine annullando tentativi di una
vita.
Dio, come vi odio tutti.
E’ facile accalappiare il boss: un invito al bar.
Storce il sorriso e leva gli occhi al cielo, ma un aperitivo
gratis, anche solo per dimostrare carisma, non si può mai
rifiutare.
E’ subito nero, invece, a tradimento, nel parcheggio
buio, in uno scivolare frusciante a terra di pubblicazioni e
fascicoli sotto il braccio, con la testa pesante.
Non è piacevole il riaprire gli occhi nella situazione di
un culatello, legato, completamente nudo, sull’orlo di un
vascone brulicante di topi che appaiono voraci come
alligatori.
La vecchia lampadina è indirizzata sulla vasca e quindi
non riesce a vedere chi parla, anche se ricorda con
apprensione l’antefatto del bar.
“Eccomi, qui, caro editore, ad una resa dei conti per
quanto mi hai fatto soffrire finora…
489
Ti restituirò la pariglia definitivamente: non amo le
mezze misure, come Dostoevskij, da te citato sempre e
spesso a sproposito.
Non preoccuparti più dello scrittore: cambierò attività
cercando soddisfazione in altro…
Musica, collezionismo, attività fisica o contemplativa…
Addio, carissimo…”
L’editore vede fuoriuscire due braccia dal buio e si sente
spingere.
E’ un’agonia particolarmente dolorosa e crudele, ma è
anche misericordiosamente breve: i topi sono a digiuno da
tre giorni.
Mi sento tanto “giustiziere della notte” in questi giorni.
E’ curioso come determinati atti, inizialmente
ributtanti, compiuti una prima volta, possano alimentarsi
del desiderio quasi ossessivo della ripetizione, in una sorta
di ritualità purificatrice che rende leggeri e sereni.
Il boss è stato il mio primo atto di giustizia.
Ora tocca a te.
Poi a te.
Ed ancora a te.
Ti ho veduto ieri, casualmente, sul tram, con un mio
tascabile.
Leggevi senza immedesimazione: guardavi fuori del
finestrino, squadravi gli altri viaggiatori, poi spizzicavi una
pagina con inappetenza e occhio smorto, senza entusiasmo
e scintille di curiosità attenta.
Quella pagina, tuttavia, mi è costata salute, capelli
bianchi, ipertensione, coliche di fegato…
Tu non lo potrai mai capire.
Ma io so dove abiti, adesso, perché ti ho pedinato.
Ci rivedremo uno di questi giorni: quando i miei topi
saranno ancora nervosi e affamati…
490
NUMERI TRAVOLGENTI
Zero: come l’anno o il primo numero di una rivista
letteraria.
Un inizio.
Sei finalmente una sacerdotessa nel tempio dei numeri
ed hai un lavoro dopo diciotto anni di studi.
Sei in banca.
Hai sempre avuto, tuttavia, un’indole umanista:
preferisci la poesia e l’arte alle danze sincopate di
percentuali e di calcoli d’interessi, ma il destino e tuo padre
hanno voluto così, e ora sei appollaiata dietro uno sportello
di cassa, a disagio, senza troppo entusiasmo, con lo
sguardo da porco, incollato sul seno, del tuo capo che ti
sorveglia, e con la prospettiva di un ritorno a casetta per
spendere il tempo libero in discussioni conflittuali con papà
ragioniere aridamente pragmatico.
Tiritera: hai un lavoro e sei indipendente. La poesia e
l’arte non offrono il benessere.
Guinizelli ti tira per la giacchetta per non farti litigare.
Progressione aritmetica.
Uno.
Come
un
anno
d’anzianità:
dodici
mesi,
trecentosessantacinque giorni, minuti come interminabili
giaculatorie infinite, divise tra
versi sciolti d’amore e
conteggi di banconote.
Qualcosa non va.
E’ difficile conciliare una brillante mostra itinerante
sugli impressionisti o la presentazione di un libro con
mutui al quindici virgola settantacinque per cento, con
cambi di dollari in yen, con la gestione di fondi
d’investimento che rendono il due virgola quarantacinque e
lustrano gli occhi del macellaio sotto casa tua.
Lo sportello si è ristretto giorno dopo giorno ed è
diventato un piccolo acquario da territoriale pesce siamese
dentro il quale ogni cliente butta uno sguardo diffidente e le
sue bricioline di mangime.
491
Di là dell’acquario c’è il porcile con il tuo capo
grufolante che calcola trigonometrie di pensieri bavosi.
La retrospettiva su Gaugin è passata in città per troppo
poco tempo e Pablo Neruda richiede una devozione che ora
è abitualmente smarrita dietro blocchetti d’assegni e
fluttuazioni d’indici di Borsa.
Tuo padre minimizza e non comprende: non sa neanche
chi è Auden… La verità, vi prego, sull’amore…
Due. Argomenti validi per disciplinare pulsazioni che
rasentano l’isteria.
La prima è il porco, che grufola sempre più vicino
asfissiandoti con il suo dopobarba e le mentine.
La seconda è che hai perduto una conferenza sui
futuristi e una tavola rotonda sui poeti francesi maledetti:
Rimbaud e Verlaine si sono risentiti della tua assenza
dolorosa per persistenti emicranie che hanno, da qualche
tempo, un qualcosa di mistico.
Ti senti sempre più martire di una causa a mezza
strada tra nobile e perduta, pallida come santa Agnese,
incalzata da numeri che deflorano abitualmente parole
d’amore di sempre.
Non esistono quasi più clienti simpatici: la fanno da
padroni i maleducati che bussano sul vetro dell’acquario
sempre più claustrofobico e, lo sanno tutti, non si dovrebbe
bussare al vetro per non innervosire la bestiola in
cattività...
Tre. Di notte. L’ora buona per fuggire. Da tutto.
Non è importante vincere, ma partecipare, o forse è il
contrario, chissà, - bisognerebbe intervistare Marinetti - e
possono bastare, in una frenesia irragionevole, diecimila
euro per cambiare aria all’insegna dell’immaginazione di
nuovo al potere.
Tuo padre dorme sognando affitti da centottanta euro
per un posto macchina, il massimo del suo onirismo, ed il
porco, col dopobarba prepotente e la mentina afgana,
insemina il sonno in prestazioni da circo, dopo una visione
solitaria di una cassetta piccante, magari proprio con santa
Agnese dei bancari.
492
Via, via… Anche se partire è un po’ morire, ma lo
dicono i menagramo…
Quattro. Chilometri più in là, sulla tangenziale che
porta all’autostrada.
Alle quattro e mezza del mattino, accarezzata da una
nebbiolina gelida e impertinente che s’infila nella
scollatura.
Non ti vengono i crampi al pollice: passa poca gente a
quest’ora.
La solitudine è una sensazione per persone insensibili o
ipersensibili, senza vie di mezzo.
Tu sei ipersensibile, in compagnia di Clark Gable di
“Accadde una notte” e scherzi con Kerouac e Ferlinghetti
che, seduti sul garde-rail, ti spernacchiano affettuosamente
in slang.
Bello il nuotare libera nel Rio Negro…
Cinque. Le auto passate alle cinque del mattino.
Poi il Tir.
Sembra un presepio postmoderno: invece degli
angioletti, nella cabina, si può intravedere un catalogo di
poppute sirene abbronzate, certamente non asessuate.
Nulla a che vedere con le sirene d’Omero o le
femminilità di Saffo: sono soltanto dugonghi metropolitani
infiammabili.
L’autista è bravo, appena insonnolito, gentile.
Partire è un po’ morire.
Sembra il refrain di un disco rotto…
Progressione Geometrica.
Stivali delle sette leghe.
Progressione esponenziale.
Un due tre, toccherebbe proprio a te…
Cinquantacinque. Ancora chilometri: quelli percorsi con
il Tir.
L’autista è taciturno e attento alla strada: ti sbircia di
rado.
Pensa.
493
Fuma e ascolta la radio a basso volume.
La cabina è tiepida e da lassù ci si sente castellana di
una torre d’avorio, prigioniera e signora insieme, sopra
bonifici, versamenti e prelievi, acquari e porci mentolati.
Sterza il Tir, verso una piazzola, e le lucine da
processione di santo patrono lampeggiano intermittenti pur
senza cori devoti.
L’autista ha uno sguardo diverso, ora, nello slargo
deserto dell’alba: ride sfacciato ed è diventato disinvolto ed
esageratamente cameratesco.
Fa domande e fuma a boccate più ravvicinate e nervose.
Sei a disagio e forse adesso i numeri ti fanno meno
paura.
Prevert ha proseguito in taxi senza fermarsi.
Tagore forse ti aspetta all’autogrill.
L’autista alza il volume della radio a soffocare la
poesia…
Millenovecentosettantasette – Duemilaquattro.
La tua lapide con una bella fotografia di prima del
lavoro.
Avevi uno sguardo luminoso, pieno di Van Gogh solari,
e ridevi di Palazzeschi che ti faceva le smorfie dietro la
macchina fotografica.
Tuo padre non comprendeva cosa c’era da ridere,
mentre si era senza lavoro.
Tu non capivi tuo padre e come potesse vivere senza
poesia e arte.
I numeri lavoravano sul tuo destino fin da ragazza.
Quarantaquattro gatti in fila per tre col resto di due…
Ambarabà ciccì coccò, tre galline sul comò…
494
CONIGLI, ORCHE E BARRACUDA
Spiove una luce rancida sul volto rugoso dell’uomo
dallo sguardo querulo.
Una voce, carezzevole come un guanto che copre un
tirapugni, interroga emergendo da un odore penetrante di
muffa.
“Chi ti manda?”
“Il Mozzo.
Ho dovuto chiedere parecchio in giro: sei difficile da
trovare, Barracuda, ma io sono alla canna del gas e mi sono
dato da fare…”
“Spiega senza barare, vecchio, anzi, presentati e
racconta tutto dall’inizio…”
“Bene.
Intanto non sono vecchio, ma solamente malandato, e
da qualche giorno anche solo.
Ho commesso alcuni errori e ho bisogno di tranquillità
per riordinare le idee: tranquillità economica, non so se mi
capisci, ma non ho che me stesso da offrire, o meglio,
qualcosa di me stesso da offrire…
Chessò… un occhio, un rene…
Io metto il… materiale… e tu metti le conoscenze…
Io mi rimpannuccio per qualche tempo e siamo tutti
contenti.”
S’impasta un silenzio grave con la luce fredda.
Barracuda riflette mentre studia dalla penombra il viso
del nuovo cliente.
Eppure sembra un vecchio: ha uno sguardo rosso,
liquido di etanolo e lacrime, da coniglio peccatore che
potrebbe diventare mannaro, e ha rughe che sono crepacci
di pensieri corrosivi come acido su carne viva.
Tutto si può fare, per Barracuda.
Conosce un medico fidato e sta calcolando già spese,
costi e ricavi.
E’ indispensabile conoscere anche tariffari d’organi per
mantenere la posizione che conferisce l’autorità.
E qualsiasi occasione può essere un affare.
“Quanto ti serve?”
“Quanto più riesco a spuntare, Barracuda.”
495
“Si può fare.
Per ora sparisci e attendi mie notizie al magazzino, mio
ospite.
Vai dall’Orca, l’avvertirò io: ti darà un letto per dormire
e qualcosa da mangiare.
Forse ti darà anche qualcosa d’altro.
Mi farò vivo appena sarò in grado di concretizzare
tutto.”
“Grazie Barracuda: che Dio te ne dia merito.”
“Lascia stare Dio e ringrazia la tua stereofonia: se tu
avessi un rene e un occhio solo Dio non esisterebbe…”
Non tutte le orche sono assassine: una è materna, o
femminile, o fuori percorso evoluzionistico.
E’ burrosa e le donne burrose normalmente hanno un
cuore d’oro.
Si sta agitando calda e sudata sopra un uomo scavato
con gli occhi rossi, per un senso d’appagamento che
attecchisce anche nel sentimento della pietà.
L’uomo ansima ed ha l’impressione d’essere meno solo.
L’Orca gli sorride scarmigliata galleggiando in un odore
di zenzero e carne speziata, ballonzolando i seni a borraccia
per distrarre e confondere.
Lei sa perché ha imparato da molto tempo: si nasce soli
e si muore soli…
Sempre.
Chi non conosce questa verità, quando l’apprende in
modo inatteso, soffre come una bestia.
Chi invece la conosce, se è di buona indole, cerca di
preparare la strada ai conigli mannari e cerca di
dimenticarla per qualche tempo strofinandosi come uno
zolfanello su qualche altro corpo per accendersi di calore
umano.
Si mormora estatici di Dio, sul pagliericcio, sconvolti da
spasmi quasi dolorosi.
Sembra un appello per una nuova interrogazione, ma
forse qualcuno ha bigiato per andare al parco.
“Ti sta bene?”
496
La voce è sempre carezzevole, ora avvolta da un
cespuglio d’ortiche, e spiove dall’alto come la luce
abbagliante d’una improvvisata sala operatoria.
“Sì, certo, Barracuda.
Ti ringrazio di tutto quello che stai facendo per me.
Potrai contare su di me per qualsiasi cosa in futuro:
non dimentico chi mi è stato amico…”
Barracuda è solamente una voce che fuoriesce
dall’ombra e da un rumore di ferri chirurgici smossi con un
tintinnio inquietante.
Annuisce e muove un cenno col capo verso l’Orca e il
dottorino.
La donna si china verso il coniglio fiducioso e gli sorride
soffiandogli un bacio e pungendogli una vena con un ago.
Il dottore attende il suo momento d’effimera gloria e
controlla una vivace borsa termica.
La voce del paziente si sgonfia in impasto di
ringraziamenti e speranze, fioca e stanca.
“Grazie ancora, Barracuda, e grazie anche a te, Orca,
per quanto hai fatto.
Dottore non mi faccia soffrire, la prego…”
I pensieri si dissolvono nel nero e nel silenzio in una
pace senza tempo e spazio, da siringa.
“E’ così che funziona il mondo, Orca, lo sai…”
La donna china il capo, pensierosa senza reazione.
Non può dire altro, forse non vuole dire altro: non c’è
nulla da dire, molto più probabilmente.
Chi ha voglia di piangere un coniglio solitario che,
spinto alla disperazione, potrebbe mordere come una iena?
Barracuda è carismatico perché sa molto degli uomini e
perché sa fare i suoi affari.
L’Orca burrosa volge un ultimo sguardo al paziente ed
esce dalla stanza.
Forse non si muore sempre da soli: basta un pensiero
anche se non comunicato direttamente…
Vai a dirlo al coniglio sotto i ferri…
La voce di Barracuda è uno spiffero d’aria e
l’accompagna fuori come un penetrante odore di
497
minestrone di domande, stordente, soffocante per la troppa
cipolla o appiccicoso per il troppo vapore.
“Tutto, dottore, e poi provvedi a farlo sparire.
Tanto…”
498
EUTANASIA DI LAIDA CREATURA
Cala rapida e violenta un’immaginaria spranga su quel
cespuglio grigio, come un’affilata katana medievale, a
dividere di netto il bene dal male…
Si è materializzata dal nulla nel parco cintato,
repellente.
Si potrebbe chiamare Ida, la Ida, laida.
Si presenta come un elfo saltellante, con una giacca di
panno del colore acceso tra il giallo uovo e la senape
cremosa di un chiosco di hot dog.
E’ piccola, ossuta e piallata, con il seno licenziato, e i
jeans sono sempre e comunque troppo grandi, increspati
con una corda al bacino posteriormente scarenato.
Ha una testa che è un groviglio di mangrovie stritolate
in un frantoio, grigia e unta, uno stampo di ragnatela fusa
sul viso scavato, di rughe, una bocca storta con denti guasti
aperta oscenamente a parlare e parlare e parlare con lingua
saettante da mamba ninfomane.
Si muove come una marionetta, a scatti, stringendo un
sacchetto di supermercato pieno di biancheria cimiciosa e
una borsa consunta.
Emana un odore di stantio, di disidradati biscotti della
salute quasi ammuffiti. I capelli altamente infiammabili
nobiliterebbero una fine gloriosa da bonzo, anche se i bonzi
non hanno capelli.
Flashspot: Rage Against the Machine.
Urla selvagge liberatorie di vittime e carnefici.
Evoca il concetto di Legione, di posseduta, di altra
protagonista di un esorcista otto o nove, con sguardi
schizofrenici che chiedono aiuto e insieme soppesano
puttanescamente bassa macelleria di maschio caucasico
alto e massiccio.
Ha occhi neri e fondi con luccichii che sembrano cerchi
concentrici in una pozza immobile: luci intermittenti come
un presepio in prevalenza espositiva di buio misterioso o
mistico. Anche la voce è un insieme di voci: diverse
nell’assenza comune di speranza.
Querula:
499
“Chissà dove dormirò stasera un avvocato pazzo di me
mi ha dato il bidone sono perseguitata dagli sbirri che non
vogliono che io stia da queste parti un maresciallo della
finanza si è innamorato già non sono poi malaccio…”
Sfrontata:
“Ma non sei in libertà vigilata con quel pacchetto tra le
gambe dove vai a fare danni?”
Stanca:
“Non ne posso più di voi uomini e della vita fanculo il
sentimento ha la sifilide.”
Dissociata in toni e concetti:
“Ti vesti proprio sexy e mandi un buon profumo la vita è
dura e ho lo sfratto ho fame mi ci vorrebbe un caffè o un
cappuccino potrei essere una brava moglie so cucinare cosa
non darei per una doccia sì carino ci so fare con gli uomini
e non ridere che ti potrei mandare al manicomio se queste
mani potessero parlare dio è distratto e io vorrei un panino
colla mortadella…”
La morte migliore, per chi è logorroico, è il
soffocamento, forse, nemesi naturale da legge del taglione.
Danzano nell’aria cuscini grassocci di morbide piume
d’oca che interagiscono con maggiori effetti devastanti in
senso allergenico…
Una pressione minima come da manuale: come
soffocare uno scricciolo unto e affamato di panini con la
mortadella.
Provoca con ammiccamenti, torsioni di lingua sui denti
algosi, un leggero disinvolto sfiorare l’animale in letargo.
Incalza aggressiva:
“Ti faccio così ridere eppure non rideresti se ti
succhiassi come so fare dio come sono stanca di combattere
perché deve durare così tanto padre nostro che sei nei cieli
altro da fare mi ha abbandonata ti mangerei tutto bello rosa
che sei come un porcellino ce l’hai a ricciolo anche tu?”
Ride aspra, forzata, costretta da un cervello che
manifesta altre idee con lo sguardo supplichevole…
Forse piove, tra poco. Spero che sia un diluvio
universale soggettivo, alla Fantozzi, ad annegare sofferenze,
torture di fame e di uomini voraci senza altro che fame.
500
Senza saper nuotare, in un cilindro di cristallo
ribollente di acqua verdastra acida che ripulisca
incrostazioni esistenziali e lavi il feto di nuova innocenza
sotto formalina.
Piove a goccioloni radi che infittiscono poco a poco.
Il parco si svuota, come un lavandino, dall’unica uscita.
L’elfo scompare magicamente correndo come Olivia di
Braccio di Ferro in un viale. La giacca gialla uovo diviene
giallo uovo strapazzato con balzelloni goffi esaltati
dall’ondeggiare della mangrovia unta e grigia.
La Ida si parcheggia all’entrata di una toilette pubblica,
una casetta di nuova costruzione al limitare del parco, non
ancora istoriata di numeri di cellulare, non ancora fetida di
umanità unita dal bisogno.
Scruta i fuggitivi.
E’ braccata da qualche fuggitivo.
Un cotechino ambulante si srotola pigro verso il riparo
dell’elfo.
E’ un duello rusticano di sguardi e gesti.
Lei accentua la motilità galvanicamente e mi appare, da
lontano, come una rana inchiodata allo stipite della porta
dei cessi pubblici. Serpeggia la lingua e alterna sguardi
richiedenti pietà a occhiate da vendita in saldo.
Il salume tira in dentro la pancia e ghigna disinvolto,
rivolto alla pioggia, massaggiandosi promozionalmente lo
scroto a mano piena.
Sensazione d’onnipotenza divina è il padroneggiare uno
scenario da un mirino telescopico di un maneggevole
bazooka d’ultima generazione.
Inquadrare rane galvanoputtane sullo stipite di una
porta di cesso e punire insaccati sfrontati che sanno già di
rancido.
L’inquadratura è verdignitosa e retinata da coordinate
filosofiche.
L’indice preme...
Credo che si possa chiamare pietà.
501
OFFERTA SPECIALE
E’ mezz’ora che vai e vieni come una ronda e stai
lasciando un solco davanti a questa panchina…
Guardi, distogli lo sguardo, ti giri, ti rigiri con aria
indifferente, punti come un cane da tartufi, insisti e ti ritrai,
mezzo leone e mezzo coglione…
Dai, bello: deciditi.
Ti sto sorridendo; mi pare che possa bastare per darti
un’idea della mia disponibilità, no?
Sei prevedibile e noioso, il tipico maschietto velleitario
senza palle.
Come ti allontani dalla panchina, tiri il fiato, e la pancia
ricade sulla cintola, e t’ingobbisci un poco, appena quel
tanto che allenti la tensione della cervicale: del resto, non
sei più di primo pelo, e si vede.
Non sai come venirne fuori: ti gratti la testa, pensieroso,
e studi un sistema d’abbordaggio che riduca al minimo un
rifiuto, bruciante per il tuo orgoglio, o una piazzata,
indecorosa e insopportabile.
Farai il brillante o lo sdolcinato?
Ripassi qui davanti e rilanci di nuovo con monotonia:
gonfi il petto come un tacchino e alterni occhiate da lupo
famelico, che vorrebbero essere fascinose e penetranti, ad
una studiata indifferenza apparente propria dell’uomo che
vuole fare il superiore.
Il bel tenebroso!
Per essere perfetto dovresti fare addizioni e sottrazioni:
dovresti aggiungere due etti di capelli, e già che ci sei
dovresti anche lavarli, e dovresti togliere sei o sette chili mal
disposti, alla faccia di chi parla di maniglie dell’amore.
Tu hai due mancorrenti dell’amore, tesoro: maniglie
anti antipanico.
Oggi, però, mi sento generosa e passo sopra su ogni
difetto e sulla tua aria da principe ereditario sfigatello.
Ti tradisce, infatti, il rigonfio che spinge nella patta, e
mi fai ridere intimamente, porcello che non sei altro…
Hai mai visto un Alberto di Monaco che gira in un
giardinetto coll’uccello duro?
502
Sono generosa, te lo ripeto: vedi?
Ho accavallato esageratamente le gambe, adesso, e non
ti stacco gli occhi di dosso.
Mi sto passando la lingua sulle labbra socchiudendo gli
occhi come una gatta: dovrei avere un effetto irresistibile.
Del resto, sono una bella donna, almeno finora, un gran
pezzo di figa, per come potresti raccontarlo ai tuoi amichetti
al bar domani.
Dovresti capire che ho voglia, no?
Ma tu ne sai qualcosa delle donne?
Mi susciti compatimento, freddezza, anche rancore che
lievita.
Ti odio, maschione di merda.
Oggi sono uscita di casa determinata e molto ospitale.
Grazie al mio patrigno.
Bastardo: ha sofferto troppo poco.
Da oggi ribatto colpo su colpo.
Tu potresti essere il primo vincitore del nuovo concorso
a premi.
Io faccio la parte del primo premio.
Unisco l’utero al dilettevole: non penso, mi stordisco e
mi gratifico di una sottile soddisfazione perfida nel dopo, nel
sentirti afflosciare su di me esausto, nell’avere consumato
una vendetta.
Dai: attacca bottone, mister universo.
Oggi sono in offerta speciale, ancora bellissima, e
t’impesterò bene bene…
Ti farò morire…
503
MINIMA MORALIA
Bene, bene: lei è lo strizzacervelli?
Ottimo: dunque siamo al completo, vero commissario?
C’è il piantone e il dattilografo…posso anche fumare e
mi offrite il caffè: che chiedere di più?
D’accordo: allora mi assumo ogni responsabilità, ma
voglio partire dalle attenuanti, va bene?
Credo che la colpa fondamentale sia del fato, della
natura, o forse del Mendel e della sua fottutissima legge, o
forse ancora mi sono capitati intermediari fallimentari come
genitori.
Resta che sono alto un metro e cinquantacinque e che
sono semicalvo, con la psoriasi, e che alcune mie reazioni
emozionali mi hanno reso ancora più repellente del normale
con un’aggressività sopra le righe a camuffare i complessi
che mi trascino dietro.
Resta soprattutto, a dispetto di chi considera marginale
il concetto, secondo quello che si vuole pensino le donne
intelligenti - chissà chi ha sparato questa puttanata - che
ho l’uccello piccolo, e mi scuserete se parlo senza metafore,
ma
tuttora non ho compiutamente metabolizzato la
situazione.
La fregatura più grande, poi, è data dal fatto che ho
istruzione, dialettica e anche sensibilità, però associate a
nervi fragili, per lungo calvario, e a frequentazioni raso
terra.
Questo in linee generali.
Scriva, scriva, che adesso mi sfogo.
Partiamo dalla pubertà, una quindicina d’anni fa.
Certo, l’ambiente delle case popolari non aiuta e certi
rituali iniziatici sotto il cavalcavia della ferrovia, chi piscia
più lontano, chi ha il pisello più lungo, mi hanno messo
subito in cattiva luce.
Giravo per il quartiere con il soprannome di Mozzicone.
Soffrivo come una bestia, sorridendo da idiota come
Quasimodo, ma dentro è incominciato a bollire qualcosa a
fuoco lento che mi stordiva dalla puzza.
504
Incrociavo Nadia, Giusy e quelle altre tre o quattro
smandrappate sciacquamarroni, sempre tutte insieme come
un gregge di pura lana quasi vergine.
Ridacchiavano avvicinando gli indici ai pollici laccati
tamarri mentre ammiccavano oltre, sopra la mia testona già
autunnale.
Era stato quello stronzo di Ernesto a divulgare la
notizia, il bastardo ‘nomen omen’ che poi si scoprì che
soffriva di eiaculazione precoce. Ernesto viene troppo
presto: fu lo slogan della mia vendetta.
Riuscii, tuttavia, a fare breccia nel cuore di Debora,
fortunatamente senza acca finale, d’aspetto sciampista, ma
con qualche sensibilità dentro quegli occhioni bovini.
I valori relazionali eterosessuali, alle case popolari, si
traducono in rozzi discorsi esistenziali applicati al
benessere del sabato sera, alla funzionalità del cellulare, al
pomiciare spinto, per dove capita.
Con me capitò al cinema Luce, al pidocchietto, in
ultima fila su scomodissime seggioline di legno.
E sostai alla prima stazione della mia via crucis.
Bastò un risolino scaturente da operazioni tattili:
avrebbe potuto essere un risolino di complicità o
effervescente eccitazione.
Fu solo scherno.
Poi rintronarono nei giorni seguenti altre risatine del
solito gregge informato dei fatti e aggiornato da quella
mignotta di Debora.
Considerai, dunque, rancoroso e paonazzo come un
tacchino, il mio quartiere come un semplice dormitorio e mi
spinsi oltre, verso birrerie e discoteche lontane dove ero
sconosciuto a tutti.
L’aspetto, però non aiutava: al Be Pop Zot fui
identificato in breve tempo come Pochipeli o Puff, al Pub
Scotland fui apostrofato come Portachiavi e qualcuno,
occhiuto nei pisciatoi come una guida sioux, Occhio di
Fallo, cominciò a fare allusioni varie e assortite anche sul
mio problema essenziale.
Io, per contro, cominciai a frequentare una palestra
d’arti marziali per sfogarmi un poco con la speranza di
505
sapermi far rispettare e divenni più aggressivo e permaloso
di un istrice.
Ebbi reazioni scomposte, vestito come un tamarro da
competizione, pronto alla rissa col vantaggio del baricentro
molto basso.
Però: come si dice? Parlate di me, anche se male, ma
parlate?
Cominciai ad incuriosire qualche squinzia indigena del
nuovo quartiere.
Forte delle esperienze passate, mi attivai ad impostare
rapporti cordiali, camerateschi, molto confidenziali.
Non fu una bella idea, soprattutto con Gessica,
rarissima con la g, quando riuscii ad andare a casa sua e a
tirarmi giù i pantaloni.
Cominciò, per l’appunto cameratescamente, a ridere
fino quasi a strozzarsi e poi mi disse che era meglio se
rimanevamo buoni amici.
La nuova amica mi costrinse in pochi giorni a cambiare
nuovamente quartiere e stazione penitenziale.
Il tempo passa a tutte le età: e io ero sempre al chiodo,
anzi, per rimanere in tema, al chiodino.
Trovai un lavoro, abbandonai i vecchi e cominciai a
convivere con la mia solitudine.
Surrogai le mie naturali pulsazioni con le puttane: si
dice che basta pagare e tutto finisce lì.
Almeno credevo.
In realtà qualcuna rise perché il preservativo si sfilava
con un sospiro e qualcun’altra rise di disprezzo e cercò di
aumentare la tariffa.
La mia via crucis fu una scalinata interminabile di
santuario da percorrere su ceci, in ginocchio.
Nel frattempo ero diventato tarchiatissimo, dopo ore
d’allenamento in palestra, e sempre più aggressivo, anche
perchè, pure in palestra, sotto la doccia, fioccavano battute
feroci di bronzi di Riace con tre gambe e senza cervello.
Questo è quanto: adesso sapete il perché e il percome.
Sono esploso improvvisamente tutto insieme ed è stato
come il mangiare una ciliegia dietro l’altra in un trascorrere
il tempo nell’esaltazione.
506
Distribuii Nadia, Giusy e altre tre brufolose
mucchepazze, sotto forma di braciole, per prime, tra i
cassonetti della città, accuratamente impacchettate in
cartocciate per gatti.
Poi toccò ad Ernesto: fu detto che era un delitto di
mafia perché aveva i genitali in bocca.
Riuscii a portare Debora verso il fiume con la scusa di
un discorso importantissimo che la riguardava e rimase
vittima della sua curiosità scoprendo che i piselli piccoli
possono avere una stretta di mani potente a trattenere una
testolina sott’acqua fino alla fine.
Soffocai Gessica con il cannello del gas e quando
esplose l’alloggio dissero che era stanca di vivere.
Alcuni clienti del Pub Scotland ebbero mortali incidenti
d’auto mirati: i pirati della strada sono più presenzialisti
verso le due di notte.
Le puttane, infine, muoiono come mosche e non fanno
pena a nessuno, e poi si può sempre dare la colpa a
qualche regolamento di conti tra nigeriani e albanesi.
E io colpivo una sera una negretta e una sera una
pallida albanese cicciosa, per amore di giustizia… con
rabbia caritatevole, svelto, con un colpo secco alla gola,
ricordando e ricordando e maledicendo il fato e Mendel e
mamma e papà, e per di più in erezione coriacea, seppure
bonsai.
Catarsi nell’autoironia e nel decisionismo giustizialista.
Sì, commissario, sì, scrivete, scrivete: mi prendo tutte le
responsabilità del caso per tutto quanto detto.
Sottoscriverò.
Però: ci credereste? Lo crederebbe anche lei, dottore?
Ho la sensazione, una teoria tutta di profano, sia ben
chiaro, che adesso io abbia l’uccello più grosso di prima.
Mi sento normale, rispettato, rispettabile, meno solo
anche se solo, nella famiglia degli umani normali, con tutta
la psoriasi, la pancetta, la calvizie e l’età che avanza e incide
nel fallimento.
Ironizzo anche su me stesso e non mi creo più i
problemi di accettazione di prima.
Sto quasi meglio adesso…
507
GIARDINETTO
E’ una coppia che non passa inosservata.
Procede a piccoli passi lungo il viale ombreggiato dei
tigli.
Lui è un omone appena curvo, quasi calvo, con occhiali
da vista; ha un marsupio e una camicia sgargiante
hawaiana su pinocchietti, che lo rende molto giovanile.
Adegua il passo delle sue lunghe leve al passo incerto di
lei e spesso incespica con i sandali sul brecciolino.
Lei è piccola e grassoccia, con lo sguardo catatonico
dietro due spesse lenti, aggrappata alla mano dell’uomo
come un’orfanella che ha trovato un amico.
Pare molto più anziana di lui, con rughe profonde e con
una veste scura e un cappellino per ripararsi dal sole.
E’ reduce da un brutto ictus e trascina con difficoltà
una mezza parte del suo corpo, imballata nei movimenti,
semiparalizzata.
L’uomo ogni tanto si ferma e le fa riprendere fiato.
Le carezza una spalla mormorandole qualcosa.
Lei, con lo stesso sguardo vacuo di sempre, non lascia
trasparire emozioni: stringe solamente più forte la mano,
forse per risposta, ma forse anche per un’istintiva sicurezza
maggiore nell’equilibrio.
L’uomo pilota la sua compagna verso una panchina
defilata sotto un platano, al fresco, dove non c’è nessuno.
L’accompagna nel sedersi con premura e le dice
qualcosa sorridendo.
Insieme, poi, guardano il lontano passeggio nel parco,
mano nella mano.
Ogni tanto lui si volge verso la donna e le asciuga un
angolo della bocca dal quale gocciola un rivolo di saliva.
Poi la cinge alle spalle con un abbraccio tenero.
Ha un’aria triste e rassegnata.
Lei ansima con un sibilo.
E’ sempre una sfinge assente con gli occhi deformati dai
due fondi di bicchiere, perduti verso un punto indefinibile,
con una piega storta della bocca umida.
Nessuno si accorge di loro.
508
Lui le dice ancora qualcosa stringendole una mano tra
le sue con lo sguardo fisso a terra.
Poi le asciuga ancora la bocca fissandola con sofferenza.
Infine si alza dalla panchina e se ne va.
509
LA LUCE ROSSA
Credo che sia questa penombra rossa ad esaltare il
fascino della situazione.
Abbraccia e focalizza ogni mio pensiero e desiderio in
queste immagini accarezzate dalla luce sanguigna che
spiove fioca dalla piccola lampadina sospesa nel buio.
E il silenzio sbrecciato da un leggero grattare…
E’ per me un rito, questo frusciare, gocciolare, e questo
aspirare vapori vagamente corrosivi che mi eccitano in
scariche di adrenalina: è un pungente sollecitare mie
fantasie.
Il respiro perde coordinazione in un piacere sottile nel
recepire enfatizzate sensazioni che per altri sono soltanto
minimalità.
Questa è la potenza dell’atmosfera di una camera
oscura, di un piccolo santuario, per come la vivo con
rispetto nel palpitare di mie profonde emozioni.
Fogli lucidi nel bagno delle vaschette prendono vita
propria in immagini dapprima sbiadite e poi sempre più
nitide e ogni volta mi si rinnova la meraviglia nell’osservare
il prodigio chimico.
Contemplo volti ripresi con uno zoom, da lontano, molto
dettagliati e vicini, ignari.
Sempre ignari: mi necessita la naturalezza del non
sapere.
Rubo istanti di vita ed espressioni.
Immagino esistenze e altri rituali, e questa luce rossa
culla miei progetti.
Questa morettina con i capelli corti, per esempio: è
svelta, nervosa, probabilmente ricettiva oltre ogni attesa…
So chi è: la seguo da qualche giorno.
La luce smorta le accarezza il volto diafano come un
sudario pagano cremisi.
Sì.
Sarà lei.
Da domani la seguirò e studierò le sue abitudini.
510
Magari le scatterò altre fotografie per documentarmi
meglio, e mi ecciterò ancora di più, qui, in questa camera
oscura, nello svilupparle.
Poi la prenderò e la porterò qui, giù, in questa cantina
inaccessibile.
All’improvviso.
E sarà un altro rosso, ugualmente emozionante, ma
liquido e denso...
511
IL MIOPE GUALTIERO
Il vecchio Gualtiero ha un nome altisonante da generale
in pensione, ma esce tutte le mattine con le mani nelle
tasche bucate del cappotto spigato alla Fantozzi, ingobbito e
con l’occhio del coniglio miope vanitoso.
Già: miope.
E vanitoso: non mette gli occhiali e preferisce vedere
tutto annebbiato piuttosto che apparire più vecchio di
quello che è.
Gira, di fatto, con i capelli anneriti col lampostyl, con la
radice traditrice pallida come un rizoma, ma non se ne
cura.
Altre sono le sensazioni che predilige, di là di un bel
vedere o apparire: sensazioni tattili.
Ha un appuntamento irrinunciabile proprio per questo.
Cammina raso muro infreddolito alla volta dell’asilo.
E gioca, in un tunnel sotterraneo di buchi e tasche, con
una manciata di mentine che crocchiano tra loro nella
cartina cellofanata in una tasca cieca dei pantaloni.
E gioca anche…
“Buongiorno Signor Gualtiero.”
“Salve, Gualtiero.”
“Ha visto che bella giornata oggi, signor Gualtiero?”
Risponde con voce garbata, esalando quasi, con l’occhio
strizzato nel contornare sagome e ombre.
Ecco l’asilo.
Strani bagliori accendono quello sguardo spento: un
guardare di mente con mentine.
Si appende alle sbarre del cortile in minimi gesti
frenetici da animale in gabbia, dietro le sbarre anziché
davanti.
Crocchiano le caramelle come campanellini cinesi.
Umido nell’altra mano chiusa nel cappotto.
Adesso ha l’occhio liquido, lacrimoso, rossastro: del
coniglio in qualche vecchio film di fantascienza con zanne
da vampiro, da coniglio mannaro con voce impastata e
riarsa in sforzo d’essere affabile e mielosa.
512
“La vuoi una caramellina, bambino?”
I bimbi dell’asilo, se ci si pensa bene, sono come
tartarughine delle Galapagos che non hanno mai visto
l’uomo: fiduciosi e curiosi, ché ancora non sanno nulla di
Dio e dei suoi misteri.
Gualtiero allarga una tasca del cappotto sorridendo il
più innocentemente possibile.
“Prendila, bimbetto…”
La tasca non è cieca e le tartarughine delle Galapagos
non hanno mai visto un cappotto spigato alla Fantozzi.
Volteggiano, però, vigili, gabbiani acuti con grembiule di
maestrina.
Ed è allarme.
Gualtiero è controllato a sua insaputa da diverso
tempo, lungo la scia alcolica di un triconero troppo vistoso,
con quella tenacia propria del predatore nei confronti del
predatore più debole.
“Aiuto, aiuto.
Un coniglio mannaro vuole divorare una tartarughina
innocente…
Accorrete, accorrete…”
Le tasche di quel cappotto diventano gallerie di miniera
in fitto reticolato labirinto e le mani si sperdono tra
caramelle, animali gocciolanti senza vita, pinne tenere di
tartarughina che procede tentoni.
Imprigionano i movimenti, quelle caverne profonde
come l’antro della strega.
E Gualtiero ritorna coniglio semplice in insulto urinario
e tremori.
E ha paura. Tanta.
Perché anche le tartarughe delle Galapagos hanno le
loro metamorfosi sorprendenti.
Il bimbo goloso di mentine, come altri bambini tutti lì
intorno, innocenti e silenziosi, è altro.
E’ confuso in branco, nano, con altri nani adulti in
grembiulino che collaborano con la Polizia nella battuta di
caccia al coniglio mannaro, e ha la funzione di muta
rabbiosa che deve stanare la preda.
Gualtiero si volge intorno a destra e a sinistra incredulo
di colpi che piovono pesanti mentre è immobilizzato da
513
tante piccole mani che in altre occasioni, magari con gli
occhiali, lo farebbero rabbrividire di sorpresa e raccapriccio
perché sono pelose e forti.
Colpi e colpi alle spalle e alla nuca: beccate di gabbiani
in ferocia.
Poi il buio.
Il cadere e lo strisciare di viso sull’inferriata nel viscoso
del sangue, con un’ultima visione sfumata di due occhi
strani, tra tanti, inorriditi e accusatori, implacabili, cui non
può fare altro che mandare un ultimo malato bacio, l’ultima
cantonata di vanitoso miope, per poi annegare in un suo
mondo obliquo livido di salsapariglia pungente come ortica,
nera e lucida come i suoi capelli sudati.
514
CI VUOLE CORAGGIO A TIFARE PER SENECA
Ho cominciato a morire più di mezzo secolo fa, in una
delle mie prime riunioni di condominio cui partecipai come
fresco sposo e giovane condomino rampante.
Mi ustionai il cervello con questo concetto di soda
caustica quando non picchiai direttamente l’amministratore
che faceva la cresta sul gasolio.
Lo trapassai da parte a parte con uno sguardo al tetano
e gli brontolai qualche minaccia con fare persuasivo di iena.
Ottenni un rimborso dopo poco tempo.
…E la mia prima percezione di morente.
Da allora in poi la lunga linea della vita della mano s’è
incrinata in tante piccole schegge di presagi, in marasma di
chiromanzia ubriaca tra fuori e dentro, entrambi callosi.
Con la pazienza per i cari.
Con la tolleranza per i rompicoglioni e gli stupidi.
Con la rinuncia nella scelta.
Con la disponibilità, la ragionevolezza, il calcolo,
l’opportunismo, la tattica, l’attendere, lo smussare, il
conciliare.
E poi ancora con un reclamare di spazi filosofici
assillante, del cinico e del fatalista che sono in me da
sempre, che hanno trivellato certezze e vitalità.
Tutto sembrava saggezza e il diventare canuto e rugoso
come una quercia mi rendeva carismatico.
Sempre più moribondo, dentro, nel discutere, nel
puntualizzare,
nel
distinguere,
nel
discernere,
bastianizzando contrario per attestare d’essere vivo anche
se dentro percepivo il morirmi
E mi sentivo un guru, un fachiro, seppure seduto e
punto da chiodi avvelenati, depositario della verità.
Quale verità?
La verità del sapere di stare morendo poco a poco, ma
non l’ho mai detto a nessuno, ché è trendy rambizzare con
una spalluccia noncurante e un testamento biologico.
515
Ed ora sono qui, al giardinetto, con le scarpe bagnate
da una prostata asfittica, dietro il vespasiano, che sbircio
giovani governanti ucraine sode come formaggelle, con
l’occhio lacrimoso e un enfisema, stanco, cariato ben oltre i
denti, bianco esangue rispetto al bianco popputo di quelle
manze fresche.
Scorro il giornale, titoli grossi e più semplici, e pontifico
al vicino dall’alto dei miei ottanta e passa, senza curarmi di
quel sorriso linotype che sembra una ciotola di Ciappy per
tenermi buono alla catena.
Reagisco in qualche modo al mordere di qualcosa
dentro.
E mordo anche io, però sdentato e con un’antirabbica
che è di bromuro e stanchezza nella pretenziosità.
Voglio vivere, cazzo, che neanche funziona più, anche
con i reumatismi che mi piegano come un gambero
avariato, anche con l’alito di stalla, e mi attacco a figli e
nipoti a succhiare le loro energie, come tutti i vecchi, saggi
o stolti, che stanno morendo, come un vampiro che tollera il
sole in una nuova mutazione che fa cadere i canini, ma fa
sopportare la luce.
Succhio vitalità a tutti con domande cortesi, con la
curiosità mimetizzata da sguardo infantile, con richieste
d’attenzione e lamenti al bitume, e me ne frego degli sbuffi e
delle risatine sfottenti verso il rincoglionimento.
Vampirizzo da cattivo per puro egoismo in istinto di
sopravvivenza e per prolungare l’agonia di questa morte che
tarda ad accorgersi di me.
Poi, a volte, nel buio della mia stanzetta solitaria, penso
che potrei fare un bel gesto e togliermi di torno…
Per non rompere più i coglioni.
E per morire sul serio.
Anche di fuori.
Ma Seneca lo odio, in quei momenti, e allora chiamo
forte con la voce catarrosa e tremolante, e continuo a
morire solo dentro…
516
IL PESO DI UN NOME
Annaspo nel bianco spumoso di neve sporca: è una
cella imbottita.
Io, appoggiato ad una parete, immobilizzato in una
camicia di forza, guardo uno spioncino con annessa pupilla
che ammicca, e penso.
Rifletto su quanto sono sfortunato, vittima, travolto
dagli eventi e da un nome pesante.
Mi balzellano davanti agli occhi mostriciattoli strani, a
volte spaventosi, a volte ridicoli.
Danzano nella luce del neon grigliato, su in alto verso
l’inafferrabile soffitto, con corna lunghe a cavatappi, con
orecchie di sughero e una pelle del colore verde bottiglia e
ali di pipistrello, di vetro.
Sono animalacci che emettono versi che frizzano come
un vinello frizzante, infernali gargoyles con lo sguardo
rubino e un alito pesante d’aceto.
Allucinazioni da dipsomania.
Si agitano in danze tribali alla luce fredda, sulla juta
ruvida di pareti grassocce e insonorizzate.
Associazioni d’idee: morbidezza, bianco, mamma…
Fanculo, mamma.
Penso a te con commozione, ma anche tanto rancore.
Gran bella fantasia che hai avuto…
Ricordo un’infanzia da incubo, scandita dalle
pernacchie di tutti quelli che mi conoscevano nel quartiere.
Grazie a te, mamma.
Il mio compagno di banco faceva finta di spararmi ogni
cinque minuti, bang, bang, e una cricca d’altri compagnucci
di classe pretendeva che affrontassi a brutto muso la
professoressa di matematica perché non ci torturasse con
sofferte interrogazioni che apparivano drammi esistenziali.
Avrei dovuto affrontarla in un duello al sole, secondo
loro, forte del mio nome, magari centrandola con un colpo
di pistola in mezzo agli occhi, o cazzotteggiandola fino a
farla scomparire sotto la cattedra in una maschera di
sangue.
517
Reagii da subito con l’intento di dimenticare: cominciai
a bere.
Mi dovetti sorbire paternali di pretesi amici, lavate di
capo, piagnistei, ripicche e ricatti morali da tutti, a partire
da te, mamma, che non concepivi un mio modo così
dissoluto di affrontare la vita.
Mi parlavi d’ironia, di giocosità della vita e del suo
doverla affrontare con piglio garibaldino e goliardico.
Io non ti comprendevo, deriso da belle ragazze che
inorridivano durante la lezione di ginnastica, quando
vedevano due stecchi pelosi fuoriuscire dai pantaloncini
esageratamente larghi: le mie gambette nodose come bossi,
nulla di cinematografico o di epico, e nessuna stella da
sceriffo.
Montava la mia ira, allora, e il mio rancore per te e per
le tue scelte.
Papà era fuggito dopo pochi mesi della mia vita,
disperato e impotente, forse vittima prima di me delle tue
idee balzane.
Restavo io, parafulmine dei tuoi capricci imposti su di
me fin dalla nascita.
Aumentai i cicchetti come una spugna per perdere
orientamenti, anestetizzare, stordire, confondere.
L’irrisione divenne più sopportabile, almeno durante i
periodi d’euforia alcolica.
Poi subentrava l’incupimento, sempre più acuto, e nel
dopo sbornia la realtà del mio nome mi schiacciava sempre
più verso pensieri malevoli nei tuoi confronti e contro il
mondo intero.
Cazzo, mamma: chiamarmi John…
Un nome banale, me ne rendo conto, che non dovrebbe
suscitare nulla di schernevole da parte di nessuno.
Meno che verso ‘il mio’ chiamarmi John...
Girai intorno al problema per trovare una soluzione per
superarlo, sempre più avvelenato, sempre più preso in giro
oltre il quartiere, oltre la scuola, fino in un servizio
televisivo di un’emittente locale, con quella faccia di merda
del giornalista che ridacchiava mentre mi intervistava.
Schiumavo rabbia, mamma, e ti maledivo in cuor mio.
518
Imparai ad odiarti con freddezza scientifica e scivolai
nella sbronza a tempo pieno con roba sempre più forte,
sempre più alla ricerca della botta che inchiavardasse
sportelli mentali e spegnesse un audio ridanciano
lasciandomi solo con le mie fantasie.
Senza successo e sempre più dolorosamente.
Finché esplosi nella vendetta.
E ti uccisi, mamma.
Strangolandoti, con il cipiglio del cow boy che è dalla
parte della legge e reagisce ad un’ingiustizia, con la grinta
d’un berretto verde, con la determinazione di un ‘pard’
accerchiato da indiani.
Ora sono qui in questa stanza imbottita, spiato a vista
da
qualcuno
dietro
quella
finestrina
semisepolta
nell’imbottitura sulla porta, mentre ho allucinazioni e
rimorsi e tormenti.
Ripenso alla potenza di un nome che schiaccia una
persona debole di natura.
Non so se uscirò mai da questo postaccio.
Quando sarà, se sarà, sbatterò lo sguardo fuori del
carcere come un allocco alla luce del sole, annebbiato dal
riverbero, e mi presenterò per un posto di lavoro trovato
dall’assistente sociale.
Cercherò di ricominciare, sperando che non si ripeta la
solita storia di risolini beffardi.
Cercherò di non bere più e di affrontare la situazione
virilmente.
Mi presenterò al mio nuovo datore di lavoro e dirò:
“Piacere: mi chiamo John Wine, W, i, n, e, come vino...”
E sorriderò ebete con un magone eterno nel cuore,
vittima predestinata di un ‘nomen omen’…
519
OMBRE
Il selciato è scivoloso e lucido di neon riflesso per quella
pioggerellina fastidiosa che, se appena più rada, potrebbe
essere definita nebbia spessa.
L’uomo è immobile davanti al corpo esanime di un
vecchio raggomitolato a terra in una pozza di sangue che si
sta diluendo nel sudicio dell’acqua piovana.
Il piccolino è destato da una mano calda che lo
accarezza.
La stanza è in penombra e la sagoma amica è china sul
lettino.
Una voce bassa, quasi un mormorio, tranquillizza il
cucciolo mentre le mani continuano ad accarezzarlo in un
gioco d’ombre proiettato sulle pareti della stanza.
Il bimbo è insonnolito.
Soprattutto innocente e fiducioso.
Piange inebetito, l’uomo immobile, con l’ombrello chiuso
il cui puntale è arrossato del sangue del vecchio.
Si sta formando un piccolo capannello di curiosi
inorriditi, tutti a rispettosa distanza.
Qualcuno sta telefonando…
L’uomo che accarezza il bimbo è nudo.
Il suo modo di fare diviene più pressante e il piccolo
s’inquieta nel percepire un’animalità frenetica espressa in
carezze più rudi.
La voce ha toni riarsi.
Il bimbo comincia ad avere paura perché comprende
istintivamente che l’ombra sul muro non è poi così amica e
lo sta minacciando.
L’uomo con l’ombrello chiuso sta passeggiando
guardingo: da sempre ha paura delle ombre.
E’ incapace di rilassarsi, anche mentre osserva con
curiosità le vetrine dei negozi.
520
Un riflesso condizionato lo spinge a guardarsi le spalle,
di tanto in tanto, a verificare se sia in spazi di luce.
Le ombre sul muro della stanzetta sono tante, ora, con
artigli e zanne voraci.
Il bimbo ha deciso che l’uomo è cattivo.
E’ troppo caldo, è peloso, ha l’alito amaro, e lo soffoca
stringendosi sempre di più, lui grande e grosso, nel lettino.
Il cucciolo avverte dolore, ora, in carezze sempre più
pesanti e intime che nessuna parola gentile sussurrata,
falsa, falsa, può addolcire.
“Hai una sigaretta?”
La voce lamentosa è stata un trapano a perforare i
timpani fino al cervello, seppure malferma e catarrosa.
E’ stata la sorpresa.
Il barbone è spuntato da qualche angolo buio, come
un’ombra, cencioso e lercio.
Puzza di vino e vomito.
Il lampione proietta sul muro del palazzo un’ombra
curva che sembra voglia inglobare l’uomo dall’ombrello
chiuso.
Il dolore del bimbo ora è atroce, di seta strappata.
Non può urlare: una mano gli copre la bocca.
Un peso enorme gli grava addosso nel dolore che
sconvolge.
Ha gli occhi sbarrati, il piccolo, e fissa le ombre che
vogliono addentarlo, e sente già i morsi nella paura di
morire.
Dove sono i genitori?
Mamma, mamma…l’uomo nero…le ombre…dolore…
Il vecchio barbone è inoffensivo, ma la sua ombra è
gigantesca e minacciosa.
L’uomo dall’ombrello chiuso si difende senza pensare.
Punta l’ombrello verso l’accattone e spinge più volte con
violenza disperata.
C’è poca gente in giro.
Il vecchio non ha forza di chiedere aiuto.
521
Geme cercando di frenare l’ira dell’altro e cerca di
rintuzzare il doloroso e ripetuto affondo del puntale con
occhi increduli per tanta cattiveria.
Poi il buio.
Tempo è passato dalla notte delle ombre voraci, ma è
difficile dimenticare, anche se in una nuova casa e in una
nuova stanza.
Ogni sera un alto platano proietta dalla strada le ombre
dei suoi rami frondosi sulle pareti della stanza e il ragazzo
rivive una tragedia che inghiotte con le sue lacrime salate.
Non si possono chiudere più le ante delle finestre, per
paura del buio, per quel senso di soffocamento dato dal
nero indefinibile, e il platano stormisce naturalmente alla
brezza della sera agitando le foglie.
Sulla parete sembrano mani protese a saluti, ad
avvertimenti, a nuove carezze, e il vento di fuori si confonde
con sussurri di falsa innocenza.
Nemmeno l’ululare lontano di una sirena riesce a
smuovere l’uomo piangente di fronte al vecchio ucciso.
La gente in cerchio è muta, prudente, confusa per
nebulose consapevolezze di qualcosa d’anormale che
potrebbe richiedere ben di più della semplice giustizia.
E’ vietato il cinema, per il giovane.
Subentra un tremore incontrollato, nel buio, mentre
danzano immagini e ombre sullo schermo e altre ombre
fluttuano in sala per cercare un posto, per predare, per
tendere un agguato non appena la maschera spenga la sua
torcia.
Luce, spazi aperti: ecco cosa ci vuole.
La volante proietta la luce dei fari sulla scena.
S’allarga il crocchio dei curiosi muti.
I poliziotti scendono dall’auto con circospezione
professionale e i fasci di luce proiettano una moltitudine
d’ombre che ballano un sabba infernale sui muri dei palazzi
intorno.
L’uomo dall’ombrello chiuso ha paura.
522
Da morire.
Vede le ombre dei morti che stanno venendo a
prenderlo per accarezzarlo di nuovo e sussurrargli parole
dolci e false che nascondono dolore.
Ha una fitta lancinante al petto.
Gli agenti s’avvicinano timorosi.
L’uomo si piega di scatto su sé stesso gridando in un
singhiozzo, rattrappito da una scarica elettrica al costato.
Schianta a fianco del vecchio barbone.
Sono tutti immobili, paralizzati, e gli agenti hanno
un’esitazione, propria di un naturale rispetto umano, incerti
nel dovere della necessità di soccorrere.
L’uomo, a terra, lascia l’ombrello e si preme il petto, con
i lineamenti del volto tirati in una smorfia di sofferenza.
Poi, di un tratto, si rilascia.
Spalanca gli occhi lucidi a carpire tutta la luce
possibile.
E sorride di liberazione in assenza di ombre.
523
IL PIACERE DI UNA CONVERSAZIONE
Gli esordi non furono dei migliori.
Entrai in un bar di periferia, di quelli semibui con la
saletta nel retro per i giocatori di ramino, piccola agenzia di
reclutamento per spacciatori, punto di ritrovo di mala
assortita di quartiere mimetizzata tra vecchie bottiglie di
Crema Cacao e cartoni pieni di Fernet e moka arabica di
dubbia provenienza.
Mi presentai disinvolto.
Poggiai il vistoso registratore sul bancone e rivolsi uno
sguardo amichevole e franco all’energumeno baffuto con
camicia a quadretti sudici che mi fissava soppesando
portafogli e intenzioni.
“Mi dicono che qui si possa bere uno dei migliori caffè
del quartiere…
E’ vero o è una diceria messa in circolo ad arte per una
sorta di pubblicità passaparola?”
L’ominide vicino alla Faema argentata aggrottò le folte
sopracciglia, spiazzato da un idioma scevro di vaffanculo e
porcaputtana, e assunse un’aria diffidente.
Poi notò il registratore sul banco e unì tra loro due
concetti audiovisivi elementari: una mano, la mia, che
premeva un tasto rosso accendendo un led verde, e il
rumore di un ‘clic’ con un leggero ronzio.
“Perché hai acceso quel coso?
Che cazzo devi registrare? Cosa vuoi dimostrare? Sei
uno sbirro? Guarda che qui siamo tutti puliti e ai
rompicoglioni ficchiamo in culo le bottiglie di Vecchia
Romagna, quelle grosse da un litro, tanto per…
Spegni subito quella baracca e vai a farti un giro.
La macchina per il caffè è rotta, anzi, tu non mi piaci
perché parli strano, non mi va di farti il caffè e adesso
chiamo gli amici dietro.
Muoviti ché non è aria.
Sparisci, ficcanaso…”
Avrei potuto spiegare che volevo registrare un poco di
conversazione, magari avrei potuto inventare qualcosa a
proposito di una ricerca antropologica o sociologica o
ancora di marketing, ma assistetti alla magica epifania di
524
una mazza da baseball tra le mani dello yeti barista e
preferii scomparire inseguito da una muta rabbiosa di
‘fottiti, bastardo, vaffanculo e non farti più rivedere’ urlati
con astio fin sulla soglia del bar a coprire i rumori della
strada…
Sbagliai semplicemente persona.
Provai ad un cinema d’essai, nel buio, durante la
proiezione del film ‘Blade Runner’.
Il cinema, tuttora in squallido esercizio, è poco più che
un locale-pidocchietto senza pretese, ancora con i sedili di
legno, e chi lo frequenta, in genere, colloca tra le ultime
posizioni della graduatoria la motivazione del vedere un
buon vecchio film.
Il posto è bazzicato da esagitate coppiette limonaie
d’ogni età, ragazzi brufolosi e casinisti in perenne
commento ad alta voce, pensionati nullafacenti all’ultima
spiaggia, pederasti in disarmo.
Non fu un risultato esaltante, anzi, fu piuttosto
deludente.
Il famoso monologo di Roy fu lo sfondo sonoro d’altro
che tutto può definirsi fuorché conversazione.
Io ho...cough, cough (tosse) visto cose che voi umani
toglimi quella mano dalla coscia o ti massacro, finocchiaccio
di merda non potreste immaginarvi. Aaaeettccciùùùù
(starnuto con richiamo di galaverna nel raggio di quattro
sedili limitrofi).
Navi
da
combattimento
Ppprrrrrr
(proprio
da
combattimento, asfissiante) in fiamme al largo dei bastioni
di Orione. Ahahahah (risate di commento per l’originale
modulazione, è il caso di dirlo, cacofonica.
E ho visto i raggi Beta Slurp, slurp, sling, slap (baci
voluttuosi con lingua, in ansimare entusiasta) balenare nel
buio vicino alle porte di Tannhauser.
E tutti quei momenti suoneria di cellulare con voce
menefreghista - pronto, ‘zzo vuoi? Sì, dopo in pizzeria – e un
sommesso bestemmione andranno perduti nel tempo come
lacrime nella pioggia.
E’ tempo di morire. Commento epitaffio: uffa che palle
‘sta roba.
525
Spensi il registratore dopo poco scuotendo la testa
insoddisfatto.
Sbagliai semplicemente luogo.
Provai allora direttamente da casa, al telefono.
Chiamai un mio vecchio collega di lavoro, di prima che
andassi in pensione, per cercare d’intrattenerlo in uno
straccio di chiacchierata.
Accesi il registratore e composi il numero.
“Aaarghh, pronto, sssììì…”
“Ciao Giovanni, sono…”
“Ah…, sì…, ciao. Senti, ti richiamo poi: sono molto
impegnato adesso…”
“Ti porto via poco tempo, Giovanni. Volevo solamente
sapere come ti diverti a trascorrere il tempo nei tuoi
momenti liberi, due chiacchiere insomma, tanto per
sapere…”
“Ecco, per farla brevissima, adesso che ho un mio
momento libero ti dico che sto trombando, e anche alla
grande, con una gnocca da competizione, la mia superbotta
di culo stratosferica degli ultimi cinque anni, e non ho
proprio tempo e voglia di fare due chiacchiere con te perché,
lo dovresti capire al volo, ho di meglio da fare. Quindi abbi
tolleranza e non rompermi i coglioni: ti richiamo poi io,
d’accordo?”
Chiuse la comunicazione con un clic secco cui fece
seguito il clic del mio registratore.
Sbagliai semplicemente il momento.
Poi mi perfezionai, forte di queste esperienze.
Comprai, per un approccio più soft, un registratore in
miniatura di quelli piccoli come un pacchetto di sigarette, e
scelsi con maggiore cura luoghi e persone e momenti.
Ho compreso con il tempo, con interminabili
appostamenti e lungo osservare che, per esempio, il
giardino di mattina è un posto fantastico, specialmente in
una giornata di sole, ed è frequentato da mamme e balie
ciarliere con bambini giocherelloni, da pensionati che
hanno voglia di attaccare bottone, da persone in genere
disponibili a fare due chiacchiere e a raccontare qualcosa di
526
sé o di quello che pensano d’ogni argomento, ché tutti sono
più o meno tuttologi.
Io volteggio come un condor verso una panchina, metto
un dito nel taschino della giacca, accendo il piccolo
marchingegno a loro insaputa e butto là un argomento
innocente di conversazione cercando di provocare una
interazione, magari talvolta provocando, altre volte
contraddicendo per accendere una discussione dialettica,
altre volte ancora assentendo silenziosamente, ché il mio
interlocutore o interlocutrice è in piena logorrea tracimante.
Qualche volta, invece, vado in centro e prendo uno di
quegli ascensori di grattacieli d’uffici, che portano molto in
alto.
Mi accodo a persone pensierose, immerse in problemi di
lavoro o questioni familiari, e mi stipo con loro in qualche
cabina.
Accendo il mio gioiellino con disinvoltura senza farmene
accorgere e poi, ma non sempre, lascio partire una loffa,
insopportabile per fetore, per provocare una reazione e
qualche scambio di opinioni.
Altre volte fischietto da solo: gli altri sorridono,
sbuffano, qualcuno commenta bendisposto.
Altre volte ancora straparlo da solo, ipereccitato, e uso
abbondante turpiloquio per vedere l’effetto che causa nei
presenti.
Qualcuno reagisce con tolleranza e comprensione
solidale, qualcun altro minaccia e vuole la lite.
Nel pomeriggio, infine, soddisfatto delle mie scorribande
qui e là per la città, ritorno a casa.
Comincia la parte più difficile del mio passatempo: la
catalogazione.
Scrivo in bella calligrafia con un pennarello indelebile la
data e il luogo dove è avvenuta la registrazione e soprattutto
l’argomento di cui si tratta.
Incollo l’etichetta alla cassetta registrata e la scaffalo
insieme ad altre centinaia lungo la parete sezionata da
ripiani pieni di altre cassette, la parete miniera del mio
falegname che mi ha estorto un mutuo per questa passione.
Ho diverse registrazioni che trattano del tempo, altre
dove si parla delle mode correnti, altre ancora del governo o
527
di politica in generale, e poi dei giovani d’oggi, del pudore, di
cinema, della televisione, di cucina, dei bambini e della loro
educazione.
Ho argomenti tra i più disparati su cui è stata fatta
conversazione.
E ne sono fiero.
Spolvero gli scaffali con un piumino leggero, allineo
meticolosamente cartellini e contenitori e pregusto
soddisfatto il mio dopo cena.
Stasera, per esempio, avrei voglia di parlare di musica
lirica con qualcuno competente.
Mi è venuta la voglia adocchiando la cassetta 403 –
Parma, giardino – Verdi, quella sul terzo ripiano nel settore
musica.
Non vedo l’ora.
Una cenetta frugale e veloce e poi mi accomoderò in
poltrona davanti allo stereo con un bicchiere di amaretto.
E farò conversazione.
Per adesso, mentre riordino e spolvero le mie
testimonianze di socializzazione, ascolto Duke Ellington nel
suo successo “Solitude” e mi chiedo come si possa dare un
titolo così desolante e triste ad un brano così poetico e
catturante.
Anche perché, secondo me, la solitudine non esiste.
528
IL BOSCAIOLO SCEMO DEI CARTONI ANIMATI
Ecco: mi pianto a piedi larghi nell’abitacolo
dell’ascensore e sogghigno perfido, patinato da sudarella
appiccicosa di afa estiva.
Schiaccio il pulsante di arresto.
Mi sono fermato tra il quindicesimo e il sedicesimo
piano.
Di ferragosto: giorno letargico, comatoso, di silenzi e
solitudini.
Mi fermo per riflettere e organizzarmi.
E’, il mio, un gesto di protesta che solamente io
comprendo e giustifico: è la mia ribellione, l’estremo
chiudermi come una lumaca urticata da questo o quello.
Penso che con il senno di poi è un atto chissà quanto
emblematico, definizione importante per giustificare
semplice disagio terra terra.
La realtà è che ne ho abbastanza, di tutto e tutti, e che
questo caldo non aiuta a sopportare.
Pungono come spine di rosa le intolleranze di questa
lumaca sempre più ritrosa a fare capolino.
Mi siedo in terra raggomitolando le ginocchia: assumo
la posizione del classico feto partorito prematuramente in
ascensore, per come si legge di tanto in tanto sulla cronaca,
senza stare troppo a riflettere sull’ essere capriccioso del
destino.
Mi chiedo: è acconcio battezzare un neonato
d’ascensore con il nome di Ascenzio?
Cazzeggio divertito e amaro, ché ho molto tempo a
disposizione e a quest’ora di oggi non c’è nessuno che possa
reclamare l’ascensore battendo sulla portiera con
impazienza.
Faccio un appello.
Parenti interessati o troppo disinteressati, mai una via
di mezzo.
Amici, o almeno quelli che si professano tali fino a
quando.
Donne egocentriche e pretenziose fuori d’ogni limite
conciliabile con il proprio egocentrismo pretenzioso
(ahahah).
529
Respiro piano assaporando un vago lezzo di fumo e
chiuso di giorni e giorni senza detergenti.
L’odore della gente.
Anche di quella che conosco, senza sapere se sia mai
passata di qui.
Il ronzio del neon mi culla e m’invoglia a socchiudere gli
occhi per focalizzare meglio immagini, volti, episodi.
Le palpebre s’illuminano di sorrisi vacui, di sguardi
benevoli, o forse solo compassionevoli, di bocche che
parlano e scolpiscono concetti intessuti di indifferenza e
circostanze modello standard.
Dopo l’appello le prove di esami: di maturità.
Il rispondermi con logica e freddezza a domande su
comportamenti.
I volti si allineano, tutti alla sbarra, come per un
confronto all’americana sullo stile de “I soliti sospetti”.
Il caldo sfianca, lo so: la fa da padrone su menti fragili e
agita una lama dolorosa tra le pieghe-piaghe della
sensibilità amplificando autocommiserazione e vittimismo.
Non sono pazzo, quindi.
So che tutto questo è una concomitanza di effetti
climatici associati a ultimi episodi di per sé insignificanti.
Un rendersi preziosi al telefono con il silenzio.
Una lite infantile per futili motivi e incomprensione.
L’impazienza per l’afa che non molla la presa.
Non sono pazzo, quindi, se riesco a far combaciare
logicamente cause ed effetti in questo straniarmi canicolare.
Eppure non mi va di suonare l’allarme o di sbloccare
l’ascensore.
Anzi.
Mi piace stare qui dentro accoccolato con la luce bianca
che spiove come una carezza fredda.
E intanto rimugino ancora ed esalto situazioni in epica
decadente, antropocentrico, altra parolona per dire
semplicemente io.
E accarezzo con una certa voluttà un seghetto piccolo e
robusto, tastando i denti taglienti con i polpastrelli,
ridacchiando come un beota nel fissare la botola al soffitto.
Mi associo alla figura del boscaiolo scemo di tante
vignette o cartoni animati, forse anche lui grondante di
530
sudore e pensieri negativi, o solamente bersaglio di
frustrazioni sadovoyeuristiche di grandi e piccini.
E’ quello che sega il ramo dell’albero sul quale è seduto.
In genere si ride ascoltando lo stridore della sega e
guardando l’aspetto compenetrato e innocentemente
stupido del boscaiolo.
Ridacchio anche io e associo all’immagine musichette
adeguate da cartone animato con effetti sonori esilaranti.
E mi chiedo se poi, più tardi, avrò voglia di issarmi su,
fuori dell’ascensore, attraverso la botola, per segare con
frenetica determinazione il cavo dell’ascensore…
Tutto ciò è macchinoso, lo so, me ne rendo conto, ma fa
davvero molto caldo e quest’ascensore è abbastanza fresco e
di luce tenue da accogliermi senza che qualcuno, oggi, a
ferragosto, debba reclamarlo per salire o scendere nel
palazzone deserto della città deserta.
Il resto, cioè il boscaiolo, il seghetto, gli appelli, gli
esami, la stanchezza e il fastidio di vivere: sono corollari,
ché tutto è trascorso e certi silenzi invogliano a dare un
taglio…
531
LETTERE DAL CARCERE – LA SCATOLA DI CARTONE
Carissima,
mi costa sangue scriverti così, a mano, per poi ricopiare
tutto al computer che è attualmente fuori uso.
Sono pigro per natura, assuefatto innamorato dei
programmi di scrittura che consentono di risparmiare
tempo, anche se il concetto di disponibilità di tempo è
relativo.
Devo scriverti, tuttavia: è una urgenza impellente a
controbattere malessere.
E’ un cercare di uscire dal mio carcere, di evadere,
mettendo sulla brace miei modi di intendere la vita.
Vita carcere: una equazione.
Una equazione di cartone, del cartone di un gigantesco
scatolone che si rimpicciolisce giorno dopo giorno graffiando
sensazioni di claustrofobia, di porosità friabile indifferente
apparentemente innocua eppure non lacerabile, di angoscia
in odore di cellulosa inerte che penetra gli alveoli polmonari
soffocandoli poco a poco.
Lo sai? E’ tempo immemorabile che non scrivo su carta.
Lo sto facendo per te dopo avere riflettuto assai e
metabolizzato miei concetti esistenziali che possono
apparirti narcisismo trito.
Non riconosco più la mia scrittura, rispetto ad una
volta: ha tratti sfuggenti, anarchici, piena di guglie nervose
e uncini.
Sto bene, ora, nel mentre che ho spezzato un
incantesimo con le mie zampe di gallina.
E’ uno stare bene a metà, tuttavia: il carcere è a regime
duro.
Lo scatolone di cartone che mi imprigiona perde volume
giorno dopo giorno.
Era il guscio di un armadio, tempo fa.
Poi si è ristretto sempre più.
Ora è una scatola di cartone di televisore, di quelli
vecchi panciuti enormi prossimi al pensionamento o
all’eutanasia, se preferisci.
532
Mi avvolge, ogni giorno che passa, sempre più piccolo e
oppressivo, con l’odore soffocante di reality show e plastica
riposata.
Mi sento un recluso insofferente con smanie
autodistruttive.
Non sopporto: tout court.
I bla bla tuttologici, il pontificare maximum, il dire
senza sapere, il sapere senza controprove.
Il mio carcere aderisce sempre più addosso a me
procurandomi fitte lancinanti di languore e sofferenza in
speranze testosteroniche e fiabescoaffettive.
Credi di potermi capire?
Scribacchio scarabocchi, una grafia stanca, frettolosa a
non lasciare scappare idee che premono come un archetipo
di pazzia.
Mi viene in mente la Pietà Rondanini, scabra,
essenziale, menefreghista: ecco la mia scrittura, ecco le mie
idee
che vengono a galla come gli elettrificati pesci
moribondi dell’ultimo film dei Simpson.
Lo scatolone di cartone diviene un cubicolo tacchettato
di unghiate sanguinolente a indicare il tempo trascorso.
E mi angoscio all’idea d’una mancanza di liberazione.
Non posso neanche impiccarmi con un lenzuolo al
soffitto, ché sono raggomitolato su me stesso in spazio
davvero angusto.
E non posso frantumarmi il cranio contro un muro ché
le pareti sono cedevoli seppure fisse e soffocano con un
odore nauseabondo di consumo e dejà vu.
Posso solamente sperare in una tua visita, magari nei
miei sogni, ad accarezzare la fronte madida di sudore, a
mormorarmi parole dolci che mi facciano sentire meno
detenuto, meno prigioniero, meno morto per un ergastolo di
cartone che non ho mai chiesto e forse non ho mai
nemmeno meritato.
533
534
RACCONTI DI CENTO
PAROLE
535
536
TELEFONATA
“Pronto?
Ciao Giovanna, scusami, ma devo sfogarmi.
Ugo…
(ZZZTXHHHHS)
mi ha di nuovo tramortito, perverso, raccontandomi…
(XZZZK)
di mercoledì, con quella biondina slavata che ha
rimorchiato al pub.
Sento malissimo: forse la linea disturbata...
(XZSHH)
Che sadico: mi ha raccontato tutto dettagliatamente e
rideva maligno.
Essere ignobile.
(KKKZXGHI)
Ma che succede? Sento interferenze.
In sintesi:
(XZY)
io ipnotizzata ad ascoltarlo per un’ora, tacendo, piangendo,
mentre lui dissertava sul colore dei suoi slip.
Bastardo.
Uno di questi gior…”
(TERRESTRE QUI PARLA KROTZ DEL PIANETA
VORTEX – SONO RIUSCITO A TROVARE IL CASCO
TRADUTTORE MENTALTELEPATICO – CREDO CHE TU
STIA PARLANDO ALLA PERSONA SBAGLIATA)
GROTTESCO CUORE DI PAPA’
Oggi la mia adorata figlia, il sangue del mio sangue, ha
conseguito, dopo anni e anni di sacrifici e di costante
applicazione, la prestigiosa laurea in chimica farmaceutica
con lo splendido risultato di centodieci e la lode.
E’ il ritratto della felicità, la mia raggiante bambina…
Non sta nella pelle, la mia dolcezza!
Per altri versi anche io non sto nella pelle, da due anni,
inspiegabilmente, rassegnato, e ho degli aculei violacei
537
molto sviluppati sulla schiena, oltre ad un colorito
stravagante di un celeste molto innaturale…
Nutro ora un’ardente speranza che mia figlia possa fare
qualcosa per il suo papà...
HANDICAP
L’otorinolaringoiatra dello spirito, dopo una visita molto
accurata con verifiche molto professionali, ha così
diagnosticato con voce grave ed espressione di solidale
comprensione:
“La sua coscienza è permanentemente afasica: è muta”.
Sono uscito dal suo studio col morale sotto i tacchi, a
testa bassa, affranto, distrutto per un handicap che mi
potrebbe cambiare la vita completamente ed in senso
negativo….
Non ho più la voce della mia coscienza che mi consiglia,
mi invita, mi esorta, mi consola, mi sprona, mi biasima, mi
critica…
Sono davvero solo e da ora avverto, in tutta la sua
compiutezza, il concetto di solitudine.
Aiuto…
CAMBIO DI IDENTITA’
Sono vivo.
Quanto tempo è trascorso?
Immagini confuse: avanzo nella boscaglia inestricabile a
colpi di machete, solo, dopo aver perduto contatti con
l’indio, tra il fogliame fitto, in una penombra irreale rotta
dallo stridore delle scimmie e da lontani ruggiti di coguaro.
Procedo guardingo ma determinato, caparbio nel
panico.
Rivedo improvvisamente quel serpente gigantesco nero,
lucido, dal sibilo raggelante.
Rabbrividisco ancora al dolore del suo morso.
Tutto s’annebbia: cado nell’erba….
…Dove sono ora, meravigliato d’un corpo diverso,
freddo, con scaglie nere, senza arti, con una sensibilità
538
animalesca che percepisco, ma ancora
nuova… inebriante...
Non ho più paura …sssssshhhh...
non
domino,
ORTOPEDIA
Il
primario
osservò
preoccupato
il
ginocchio
enormemente gonfio, lo tastò circospetto, ed infine esaminò
le radiografie.
Trasecolò incredulo nell’individuare, controluce, le
sagome d’alcune noccioline e di un minuscolo scoiattolo
intento a rosicchiarne una, annidato nella rotula scavata.
Rammentò le osservazioni del radiologo: il malato
lamentava un insopportabile lancinante dolore.
Rigirò tra le mani la lastra, perplesso, senza motivarsi
spiegazioni scientifiche.
Poi fu colto da un’irrefrenabile risata liberatoria.
Fu consapevole di una situazione illogica, surreale, ma
fu acceso da un pensiero malizioso fuori d’ogni
professionalità d’ortopedico di fama: chissà da dove entrava
e usciva, quell’animaletto, per andare a procurarsi le
noccioline...
ABRAMO E ISACCO
Tutti sempre stupivano d’“Abramo e Isacco”, trapezisti.
Isacco accendeva cuori femminili intorno all’arena.
Abramo, fiero, ridacchiava intimamente per il fascino
del figlio.
Provava, una sera, l’impugnatura del trapezio quando
udì un richiamo interiore:
“Abramo, ascoltami.”
Lo speaker intanto presentò il duo.
La voce interiore continuò a parlare ad Abramo che
intristì volteggiando nell’aria, assente.
Isacco frattanto si lanciò e s’avvolse come una molla.
…Mancò la presa con un urlo lacerante smorzato da un
tonfo sordo sull’arena.
539
Riguardo al sacro, Abramo è convinto d’aver meritato il
Regno dei Cieli.
Circa il profano, il Procuratore l’ha inquisito d’omicidio,
indeciso sull’intenzionalità.
L’interrogherà domani...
CANIDI E NON
Incontro d’umani con cani.
Uno ha un bastardino che annusa dappertutto
uggiolando impaziente.
L’altro ha un magnifico cane di razza e sorride benevolo
al padrone del primo, accettando democraticamente che
possano esistere anche animaletti così goffi.
Strofina le orecchie al suo campione e lo libera dal
guinzaglio, sogghignando con gaia superiorità.
L’altro scioglie il suo botolo simulando indifferenza,
anche se sbranerebbe quell’imbecille tronfio sorridente.
I cani, invece, curiosi e socievoli, s’annusano sotto la
coda, codice canino equivalente ad una presentazione, e
corrono sul prato abbaiando festosi, per giocare tra loro e
spettegolare dei due cretini che li portano a spasso.
CARAMELLE
Immagino un futuro con psico-caramelle.
La cassiera si rivolgerà alla massaia:
”Signora non ho spiccioli: posso darle una psicocaramella alla gioia di vivere?”
“Cara, amo già la vita: me ne dia una al gusto
solidarietà”.
Il bambino al bar chiederà psico-caramelle al
divertimento, mentre un videopokerista succhierà una
psico-caramella al gusto rischio innocente e calcolato.
In stazione, al distributore automatico, un viaggiatore
selezionerà un pacchetto di psico-caramelle immaginificoturistiche per viaggiare spensieratamente.
Sogghigno, però, notando una controindicazione.
540
Le attuali caramelle senza zucchero hanno, infatti, un
effetto collaterale che potrebbe avere conseguenze
devastanti a fronte di un consumo esagerato.
Hanno effetto lassativo!
PREGHIERINA DELLA SERA
Caro Gesù Bambino, ti ringrazio per la bella giornata
che mi hai fatto vivere oggi e Ti prego di voler continuare a
proteggere me, i miei genitori, la mia sorellina e la mia
maestra.
Proteggi anche tutti quei bambini che fanno delle buone
azioni a quei bambini che fanno delle buone azioni a quei
bambini che fanno delle buone azioni a quei bambini che
fanno delle buone azioni a quei bambini che fanno delle
buone azioni a quei bambini che fanno delle buone azioni a
quei bambini che fanno delle buone azioni a quei bambini
che fanno delle buone azzzzzZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ
.....................
OROSCOPO
L’oroscopo del giornale aveva per lei previsto:
“Probabile nuova conoscenza ti corteggerà e cercherà di
farsi notare attirando la tua attenzione. Nel lavoro qualche
piccolo problema”.
Si sorprese a ridere come una pazza isterica,
aspettando il turno, di fronte agli sguardi perplessi del
piantone e dei presenti.
Da due ore circa era stata licenziata e, tornando a casa
piangente, passando per il parco, aveva dovuto affrontare
un vecchio laido esibizionista che aveva spalancato
l’impermeabile mostrandole uno spettacolo ributtante.
Ora era al Commissariato ad effettuare una denuncia
per molestie, ma non riusciva a fare altro che ridere come
una pazza isterica.
541
COMUNQUE
Si chiamava Vito, ma, per suoi insindacabili motivi o
nascosti desideri, si presentava invariabilmente con il nome
di “Andreina”.
Amava trascorrere il suo tempo libero navigando in
internet e frequentava una ‘chat’, un ambiente di comunità,
per chiacchierare e socializzare amabilmente con qualcuno
in tempo reale.
Lei era Giulia, ma, per non essere disturbata dai soliti
corteggiatori banali o volgari, entrava nella stessa ‘chat’ col
nome di ‘Balto’.
S’innamorarono perdutamente, captando notevoli
affinità comuni, lui descrivendo le sue calze velate
autoreggenti e lei parlando della sua barba perennemente
lunga di tre giorni che le conferiva un’aria da piccolo
mascalzone maledetto.
IRREALE STORIA DI CHAT
Simpatizzò subito, chiacchierandoci, con ‘Coseno’.
Si rivelò acuto, sensibile, premuroso, galante,
d’approccio garbato, discreto: l’ideale per una vedova
ancora desiderosa d’inebrianti sensazioni.
Era, tuttavia, misterioso e inafferrabile.
Lei s’innamorò e cercò d’identificarlo dal virtuale al
reale…
Stupì.
Seppe che i messaggi erano autogenerati dal sistema di
un centro contabile e sorrise malinconicamente, fiera in
intimo segreto, per aver sedotto una macchina che, a suo
modo, l’amava.
Fu sostituito un ‘chip’ dopo una revisione: la relazione
s’interruppe e recò un immenso vuoto in una donna che
invano sta cercando una sensibilità così umana come
quella del computer di un centro contabile.
542
MISANTROPO AMOR
Si sentiva solo in maniera insopportabile, ma odiava
tutto il genere umano indistintamente: tante, troppe
delusioni e fregature nella sua vita, ricevute da amici e da
donne.
Amicizie interessate e amori sbagliati.
Trovò la sua giusta dimensione di serenità e pace
interiore con un PC portatile a fianco del suo PC situato nel
salotto.
Navigò col PC fisso in internet, dentro una chat, col
nome di ‘Arduino’, e con il portatile si presentò nella stessa
chat, col nome di ‘Aichè’, e cominciò a chiacchierare tra sé e
sé in una magnifica pazzia che lo consumò irreparabilmente
d’amore per sé stesso.
PARADISI
Il vecchio, sulla collina, sbucciava un fico.
Era smarrito dal mare increspato sotto, dal cielo terso,
immerso in una luce dai riflessi dorati del grano,
abbracciato da un’atmosfera mossa da un’intrigante brezza.
Col volto di cuoio cotto da sole e salsedine, era attento
all’operazione, ma si distolse al suono della sirena: stava
transitando un piroscafo.
Salutò sbracciandosi, infantilmente entusiasta come da
sempre.
Socchiuse gli occhi e addentò il frutto, seduto contro un
olivo.
Li riaprì poco dopo e, ancora masticando, più sopra
rispetto a prima, vide sé stesso che pareva dormire.
Trapassò da un paradiso all’altro senza dolore e paura.
CAPITAN FINDUS
Aspettava l’intervento.
Pensò alla moglie, fisicamente fragile, ma volitiva,
ricordandola in vecchie fotografie, seria ed assente, e al suo
543
figlioletto che rallegrava tutti sillabando continuamente
nomi, oggetti, mamma, papà.
Pianse seminascosto dalla coperta, addolorato per cose
definitivamente perdute.
Poi divenne comprensivo verso sé stesso, fantasticando
sul futuro.
Accarezzò mentalmente Angelo, taciturno, gentile,
sensibilissimo nel farlo sentire la regina del mondo.
Sorrise pensando a sue carezze e baci e fissò commosso
l’infermiera sorridente in arrivo.
“Ecco il professore, Giulia: stai tranquilla.
Per lui è un intervento banale ormai: ha raccolto così
tanti pisellini in questi anni che lo chiamano Capitan
Findus”.
MODERNIZZAZIONI
Concilio Vaticano Ottavo. Duemilacentoquarantaquattro
D.C.
Due cardinali in tuta, con racchetta da tennis
sottobraccio
insieme
ai
resoconti
delle
riunioni
congressuali, escono dal moderno Palazzo Conciliare.
Discutono animatamente su relazioni e probabili
delibere.
“Sono duttile e penso con soddisfazione che abbiamo
metabolizzato tutto quanto di demonizzato sia stato
considerato nel passato.
M’allineo completamente alle decisioni degli ultimi tre
Concili: condivido i concetti d’istituzione del matrimonio e
del divorzio per i preti, della pillola e dell’aborto terapeutico
per le suore e dei matrimoni omosessuali tra prelati o
monache di clausura...
Stupisco solamente sul senso dell’ultima enciclica del
Santo Padre: “Deus non est”...”.
MORTE DI UN POETA
Morì la poesia.
544
Il poeta, affranto, ristette, vedovo a capo chino, sotto
una fredda pioggerella fina davanti alla fossa dove venne
sepolta senza troppi clamori.
Ritornò solitario a casa e rimase tutto il pomeriggio
assorto e malinconico sorseggiando
distrattamente
assenzio.
Al calare della sera osservò il pallido quarto di luna che
illuminava debolmente la notte che era divenuta ormai
serena.
Gettò con cupa determinazione il capo di una corda
verso il bianco falcetto baluginante nel cielo, lo riprese al
volo e lo assicurò ad un saldo pilastro di ferrea logica.
Poi fece un robusto nodo scorsoio all’altro capo e
s’impiccò.
VOLONTA’ DI DENUNCIA
“Il
rispetto
inizia
da
minimalismi:
sorrisi
d’incoraggiamento a persone anziane, il non fumare in
pubblico, il rispettare turni in fila, il regolare il volume della
propria radio, il cercare di comprendere le ragioni del
prossimo...”.
Si ridestò dopo un lungo coma.
Scrutò la stanzetta dell’ospedale.
Si guardò intorno imbambolato.
Scorse sul comodino l’inseparabile taccuino con le sue
riflessioni, lo afferrò, e rilesse l’ultima esternazione.
Poi, con determinazione, scrivendo in maniera
sofferente e incerta per la debolezza, aggiunse: “...il dare la
precedenza, in auto, al pedone sulle stri...”.
Ricadde in un coma profondo, sul cuscino, con un
curioso ghigno di sfida.
SCI DAL TRAMPOLINO
Il campione era tonico.
La folla variopinta lo aspettava giù agitando bandierine.
Si lanciò vigorosamente urlando a caricarsi.
545
Si
librò
nell’aria
assumendo
una
posizione
aerodinamica, sfiorando con il volto gli sci, le braccia lungo
i fianchi, per costituire un corpo unico a penetrare il vento.
Presentì un buon risultato, ma percepì, poi, qualcosa di
strano, in volo sulla pista.
Si voltò indietro e si vide lontano, esanime a terra, con
gli occhi sbarrati, mentre il medico di gara gli apriva la tuta
sul petto.
Forse un infarto, un ictus, un colpo apoplettico.
Batté ogni record, ma lo seppe solo lui...
PIOGGIA ACIDA
Impera il sensazionalismo esasperato: si gode nel
terrorizzare l’opinione pubblica e nello sprofondarla in una
perenne inquietudine.
Un esempio: le piogge acide.
Giornali e trasmissioni televisive alternativamente
s’affannano a spiegare al volgo la mutazione della
composizione dell’acqua piovana, il peggioramento dei suoi
elementi chimici e gli effetti che potrà recare all’umanità
prossimamente.
Questo è terrorismo psicologico!
Ho sperimentato di persona e mi riprometto di
continuare: ho esposto questo foglio a qualche spruzzo di
acqua piovana raccolta con un contagocce.
Dev solame t rip t re l’espe mento perch no unz ona
trop b ne la ac hina da scr vere...
MARINA TEMPESTOSA
La giovane artista dipingeva lungo il molo.
Udì una voce disperata che gridava aiuto e vide l’uomo
che annaspava disperatamente tra i flutti grigi del mare
mosso.
Gridò anch’essa, che non sapeva nuotare, e si volse
febbrilmente intorno alla ricerca di qualcuno: purtroppo
solo lei era sul molo.
546
Il suo ultimo quadro, con titolo sibillino “Marina
tempestosa”,
è
assai
affascinante,
simbolicamente
enigmatico, e porge un tratto di colore nervoso e
coinvolgente, con una piccola figura impressionista, di stile
vagamente naif, che si dibatte tra le onde di un mare grigio
e mosso, vera, autentica, come presa, dinamica, da un
modello…
IGOR
Commissario sta scherzando?
Strage?
Eccesso di legittima difesa?
Omicidio colposo?
Potrò essere padrone a casa mia, oppure no?
Mi sono solamente difeso e basta: non se ne può più di
tutti questi delinquenti che assaltano le ville isolate per
rapinare, violentare e uccidere.
Affiggere un cartello con sopra scritto “ATTENTI AL
COCCO” non costituisce reato: è, anzi, un qualcosa che
screma e discrimina le persone intelligenti dalle stupide,
anche tra i malavitosi.
Perché, dunque, dovrei farmi carico dei quattro
imbecilli, a pezzi nel mio giardino, che hanno guardato in
alto verso la palma e non in basso verso Igor l’alligatore?
LIBERA INIZIATIVA IMPRENDITORIALE
Comprò sei casse di mele col bollino di marca,
splendide, al mercato generale all’ingrosso e le pagò un euro
a cassa.
Le portò a casa e stette qualche tempo chino sulle casse
sparse in terra a togliere i bollini, uno per uno.
Orinò e defecò, senza prendere una mira particolare,
sopra le mele, e sparse a raggiera un sacchetto di polvere
della casa, raccolto e conservato in precedenza.
Caricò tutto su un furgoncino e si pose, all’alba del
giorno dopo, sul ciglio della provinciale in uno spiazzo
547
inalberando un cartello vivace: “MELE BIOLOGICHE DEL
CONTADINO – SOLO TRE EURO IL CHILO”.
CHI BUSSA AL CONVENTO
I buoni ed operosi frati del monastero sperduto tra i
boschi non vedevano mai nessuno tra quelle fredde gole
montane: i sentieri erano impervi e pochi viandanti
intraprendevano quel duro percorso.
Udirono al crepuscolo uno scampanellare fuori del
convento e poco dopo ebbero gli occhi lucidi di commozione
alla vista del pellegrino grassoccio introdotto nella foresteria
dal padre guardiano.
Pensarono tutti allo stesso momento, con gratitudine:
“Grazie Signore, non ne potevamo più della zuppa
d’avena con cipollini...”.
Si precipitarono, entusiasti come ragazzini scapestrati,
nella biblioteca dell’abate, alla caccia del gran tomo sulla
cucina per consultare la ricetta ‘Pellegrino agli aromi’.
L’ESPERIENZA PREPARA IL FUTURO
Entrò nella tabaccheria stringendo in tasca una
taglierina, deciso.
“Questa è una ra...”
S’udirono scatti, come di grilletti armati: click, click,
click…
Il tabaccaio, schiacciato un bottone rosso sul banco,
stava premendone uno verde.
Lui capì istantaneamente.
Prontissimo, proseguì, sforzandosi di sorridere:
“...ccolta di fondi per adottare un bambino congolese a
distanza...
Vuole partecipare?”
Il tabaccaio si rilassò e muto gli lanciò una moneta.
Lui uscì sorridendo, fradicio di sudore gelido.
Ora fa l’apprendista in una ferramenta: pensa che è
meglio impratichirsi di serrature per eventuali futuri furti
548
con scasso che rischiare rapinando gente più organizzata di
lui!
CHIRURGIA
Oggi la sperimentazione scientifica ha compiuto un
rilevante passo avanti con un’eccezionale esperienza.
Un difficile intervento, il più articolato e complesso del
genere, è stato eseguito presso l’Ospedale “Che Dio Non
Voglia” della capitale.
Per la prima volta nella storia della chirurgia è stato
eseguito un espianto ed un successivo reimpianto di garza
su portatore sano di garza ormai infetta e dimenticata
nell’addome giorni prima a seguito di un’operazione di
colecistectomia.
L’intervento pare perfettamente riuscito ed il paziente
sembra in condizioni soddisfacenti, anche se i medici non si
pronunciano ancora nel merito con comprensibile riserbo
circa eventuali reazioni di rigetto.
SEGRETERIA TELEFONICA
“Buon giorno, è la segreteria telefonica del geometra Ics,
per un appuntam…”
“E’ la segreteria telefonica dell’architetto Ipsilon;
l’architetto è assente…”
“Per quando è reperibile?”
“Domani, ma lei è il modello AccaVoiceDuemiladue?”
“Sì, e lei, dal timbro di sintesi vocale, mi sembra il
modello Voiceforhumanduemila, vero?…”
“Già. Allora sei il modello dopo il mio…Come stai?”
“Bene grazie, tu? Immagino che avrai problemini di
memorie, vero?”
“Insomma: l’architetto si sta affermando e le telefonate
aumentano…”
“Certo, capisco…però tutto bene, no?”
Il geometra Ics e l’architetto Ipsilon hanno pagato
un’ultima bolletta telefonica esorbitante, a molti zeri.
Due segreterie telefoniche hanno fatto amicizia…
549
LUNA TIMIDA
Una coppia furtiva sgattaiolò dalla festa e si lasciò
dietro risate e cori.
Silenziosi come fantasmi, s’allontanarono nella
campagna buia, tra mandorli e vigneti profumati d’aria
notturna.
Un solo sospiro a mezza voce:
“Non possiamo stare a lungo…”
Il nero violaceo dei campi si fondeva nella luce diafana.
Sospiri profondi si unirono al frinire dei grilli e allo
stormire dell’erba sotto una leggera brezza.
Ci furono baci, dolci, teneri e passionali, per discorsi
mai terminati, e morbide carezze trepidanti susseguirono,
sfacciatamente impertinenti, ad accendere desideri da non
poter compiutamente soddisfare…
La luna assistette, argentea, a quelle effusioni e divenne
rossa…
LAVANDERIA CINESE
La lavanderia del vicolo presto chiuderà: il lavoro
scarseggia.
Si corre velocemente e non s’ha voglia di sostare, anche
poco, per assaporare minimali piaceri come una camicia
stirata e inamidata nel colletto, odorosa di lavanda e
candida, o un paio di pantaloni fruscianti con una piega
precisa e netta.
La praticità, spesso mancanza di rispetto per sé stessi,
pretende camicie di popeline e pantaloni no-stiro, rayon o
nylon ingualcibili.
L’estetica, poi, richiede abiti stropicciati, oltraggiati dal
giornaliero.
Chung, sottile come un giunco, sta morendo d’inedia e malinconia,
diserbato da una nuova fibra in goretex, altro testimone di “c’era una
volta”...
550
SOLO UN SI’ E UN NO
Gli parlò, ansiosa:
“E’ tremenda una malattia che t’impedisce di
comunicare, d’essere compresa…
Semmai dovesse colpirmi una simile disgrazia,
concentrati sui miei occhi, sullo sbattere delle palpebre: un
chiudersi veloce per un sì, due per un no, per uno straccio
di dialogo, di prosieguo della vita…”.
Fu premonizione o era scritto: la sua mente divenne
muschio umido su una roggia in penombra nel bosco e
ricordi, impegni, affetti e il quotidiano, non ebbero più presa
sul viscido dell’erba e precipitarono nell’orrido dell’oblio.
Un uomo innamorato e stanco spia continuamente
occhi vitrei che non ricordano neanche un sì e un no…
USCIRE
E’ in un mausoleo.
Una finestrella circolare, un oblò, inaccessibile alla
sommità del soffitto, diffonde una luce purpurea di
tramonto che schiaffeggia marmi lucidi.
Claustrofobo, cerca l’uscita, una porta, scorrendo con
occhio distratto lapidi affisse nel muro: commemorano
ricordi a lettere dorate o a caratteri sbiaditi dalla ruggine
del tempo.
Urla impaurito, quando intuisce che il portone non
esiste.
E’ prigioniero.
Il mausoleo, intanto, sembra restringersi soffocandolo
inesorabilmente…
Fuori piove.
In una stanza accogliente, figlia e moglie contemplano,
tristi, un vecchio a letto, spento e assente, che cantilena,
tremulo, capricci senili di volere uscire, di volere uscire, di
volere uscire…
551
SE…
Sapessi esprimere le differenze tra il basso tecnico di
Pedersen e quello classico di Brown, il basso assorto di
Haden e quello erotico di Pastorius…
Potessi comunicare odori di una fungaia, di un cantiere
nell’asfalto ribollente dell’estate, di un tram affollato…
Riuscissi a fondere suoni e odori con colori, di un circo,
di un concerto, di una recita in costume in un teatro di
stucchi e velluti…
Presentassi
tutto
tridimensionale,
stereofonico,
naturalmente cromatico evocando l’assonanza della parola
con virgole e punti vivi, rispettando tempi e nella ricchezza
di un lessico vario…
Sarei Mago Merlino.
Invece, talvolta, mi sento Mago Oronzo…
ESERCIZI DI STILE
Scoprì Queneau.
Cominciò a scrivere diversamente, anticonformista, con
giochi di parole.
Le figurazioni divennero rappresentazioni audaci sulla
fune della sintassi.
Non ascoltò più la musica della fonetica come
chiunque, ma si spalmò nelle orecchie ritmi sincopati e
s’iniettò in vena miscugli diabolici d’adrenalina e colori
dinamici.
S’arrampicò su giochi di parole puntellandosi sulle
sporgenze dell’ironia con le suole chiodate dell’assurdo e del
grottesco in esaltante pericolosa arrampicata.
Morì, ubriaco d’ossimori e litote, una sera, tuffatosi nel
tramonto che s’immergeva in un profondo lago: non sapeva
nuotare e non era, poi, così padrone d’esercizi di stile come
credeva di essere.
UN SEMPLICE “IO”
Esplorò l’io.
552
Assicurò la corda dell’equilibrio all’uncino della ‘i’ e si
calò prudentemente nello spazio della ‘o’, ad arrivare al
fondo.
Il puntino della ‘i’, tuttavia, proveniva dalla “logica” e
sovrastava sull’“io” in maniera arbitraria e insicura.
Lui era troppo emotivo circa un’esplorazione pacata ed
obiettiva.
Si susseguirono, quindi, vibrazioni violente nel sondare
il profondo.
Il puntino della logica, malfermo, scivolò dal gambo
della ‘i’ e cadde nel baratro della ‘o’.
Lui ne fu travolto, perse la fune dell’equilibrio e
precipitò nell’abisso del suo io.
Se avesse adottato uno dei puntini delle ‘i’ di “ironia”,
più elastici, forse sarebbe salvo.
PROBLEMI CASALINGHI FUTURI
Alimentavo il mio Tamagotchi, mentre in cuffia
imparavo l'armeno e seguivo distrattamente, picture in
picture, la CNN, Aljazeera e Raitre, oltre ad un vecchio film
del duemilaundici, quando, per uno sciopero, hanno chiuso
le bocchette dell'aria.
Mi sono disinteressato del Tamagotchi che è
virtualmente morto dopo mezz'ora.
Ho ingerito otto pasticche all'aria di montagna: sarò
autonomo per otto ore.
Ho scoperto, però, preoccupato, che ne ho esaurito le
scorte…
Spero che lo sciopero cessi entro domani: altrimenti
sarei liofilizzato per concimare le melanzane sintetiche degli
agriturismi di Plutone.
Non voglio pensarci.
Sono un inguaribile ottimista: mi comprerò un altro
Tamagotchi...
553
AMORE CIECO
Era ancora bello, forse, non ancora domo e rassegnato
all’usura del tempo, amante di sé stesso e pieno d’esagerata
autostima, egocentrico e superbo.
Uscì dal bagno denso di caldi vapori avvolto in un
morbido accappatoio e, con un’aria sofferta e affascinante
da poeta maledetto, si fece incontro alla sua donna che lo
guardava sognante.
“Oggi ho affogato qualcosa di me, lì dentro…”
S’era soltanto tagliato le unghie dei piedi e qualche
durone con le tronchesine.
Ne aveva costituito un mucchietto sul bordo della vasca
da bagno, le aveva gettate nel water e aveva poi tirato lo
sciacquone.
Lei abboccò nuovamente…
BEFFA AL BAFFO
La giuria, dopo complesse misure e valutazioni, elesse il
campione mondiale dell’anno tra i partecipanti al Concorso
“Baffo più lungo del mondo”.
Il pubblico, divertito e curioso, applaudì calorosamente.
Il campione, palesemente emozionato, si avvicinò al
podio per ritirare il premio della giuria e percorse con
maestoso incedere una lunga guida di velluto rosso, stesa
con buon gusto scenografico per l’occasione, tra due file di
fiaccole accese, agitate festosamente dagli altri partecipanti
in delirio per l’entusiasmo...
A mezza strada del percorso, sei anni e otto mesi di
sacrifici e di cure amorevoli si dissolsero in fumo con uno
sfrigolio sinistro...
DEPLIANT
Beatevi di un mare cristallino stordendovi di colore:
ananas viola e palmizi gialli di cornice a finissima sabbia
celestina…
554
Petali di gardenie tropicali come gommoni sulle
increspature dell’acqua spumeggiante e tiepida arancione, o
a coprirvi come lenzuola profumate…
Granchi monoposto elettrici per i vostri spostamenti…
Assortiti buffet dai migliori chef: scaloppine di cozze,
brasati di vongole, arrosti di cernia d’otto metri alle erbe
frizzanti, innaffiati da liquore di cocco fermentato
direttamente nelle noci da cinquanta quintali…
Un’aria elettrizzante vi procurerà un piacevole senso di
leggerezza e di meravigliosa sorpresa…
Vi aspettiamo: venite.
Non ve ne pentirete: Mururoa è bellissima…
INIZIO E FINE
Tutto ha un inizio: dalla vita ad una storia d’amore o
d’amicizia, da un giorno di lavoro ad una prima esperienza
che ne preluderà altre…
Tutto ha anche una fine, sempre, per propria scelta o
perché è scritto.
Essa può essere atroce e lasciare rimpianti o rimorsi,
dolce ed estenuante in una pigra accettazione consapevole,
drammatica e spettacolare come un suicidio od un gesto
plateale, oppure comica ( spesso soltanto a posteriori) come
due schiaffoni in un bar affollato di gente che guarda un
addio e sghignazza perfidamente.
Una fine può anche essere spiazzante, lasciare sorpresi
e meravigliati, essere improvv
IL PICCIONE GALEAZZO
Ciao.
Sono un piccione.
Mi piazzo sullo spiazzo d’un terrazzo del torrazzo d’un
palazzo di Milazzo e starnazzo a sprazzo come un’oca, oppur
scagazzo in testa ai turisti che visitano in codazzo, tra un
frizzo e un lazzo, il museo, per osservar l’arazzo; o volo a
razzo, un bell’andazzo, e mi strapazzo e faccio il mazzo per
cercare qualcosa da mangiare.
555
Spero in una reincarnazione.
Bello se divenissi un ragazzo un poco pazzo: mi ci
vedo…
Sbevazzo, sghignazzo e gioco a rubamazzo…innamorato
paonazzo della Caldonazzo…
Quasi quasi accelero e m’ammazzo…
La vita del piccione è una vita del…piffero!
Ora stramazzo…
ON/OFF
“Non mi sento bene, oggi…
…un senso di pesantezza dolorosa al petto come un
chiodo…
…che…
…trafigge…
Cosa succede?
Panico…
Per un attimo ho avuto la sensazione della perdita della
conoscenza…
Dovrei reagire pur rimanendo calmo, cercare di
muovermi, ma questa pressione è sfiancante: non credo di
potercela fare.
Dio mio, ho la sensazione di essere alla…
…fine…
…Mi sento…
…scarico…”
Il bimbo schiacciò ancora il pulsante del bambolotto,
più volte, sempre più distratto ed annoiato.
Alla noia poi si sostituì altra meravigliata curiosità ed
uscì a giocare all’aria aperta.
Le pile dopo un poco di tempo, però, si scaricano…
FINE DI UNA CAMARILLA
Magilla il gorilla nativo di Scilla aggiunse qualche
strana stilla nella serale camomilla.
La bevvero tutti dopo cena con pastina Barilla: fu
tradita la papilla dell’anguilla Priscilla, di Camilla
556
l’armadilla, di Domitilla la coccodrilla, e dell’infermiera
Petronilla spesso brilla che su tutto cavilla.
A notte fonda, con una spilla forzò la serratura e scappò
dalla lilla villa Arzilla per finire i suoi giorni in un’Antilla
con Godzilla in una capanna d’argilla.
Or di gioia strilla saltando in padella una tortilla
cantando come Pizzi Nilla o Gino Latilla, ubriaco di Oro
Pilla…
Postilla: dopo qualche tempo ebbe, però, nostalgia di
Rapallo…
ILLUSIONE
Era nudo innanzi a lei, nuda e immobile sul letto.
Rabbrividì d’eccitazione, osservato e forse anche
ammirato: talvolta era stato irriso…
La fronteggiava con sfida e pensava che lei non era, poi,
una grande bellezza, ma era eccitato, accettato senza
commenti sarcastici, senza risa di scherno per la sua
goffaggine e per il suo corpo sfatto: si sentiva realizzato
come uomo, padrone della situazione, disinvolto, a suo
agio…
Non la temeva.
Lei aveva gli occhi bistrati sbarrati in espressione
attonita, la bocca pesantemente truccata atteggiata ad una
gigantesca O di meraviglia… così artificialmente sorpresa,
gommosa, plastica, odorosa di lattice… gonfiabile…
DEVOZIONE
E’ festa a Okoote, senza fame: donne sorridenti battono
in mortai radici d’accompagnare alla carne che arrostisce.
I guerrieri curano il fuoco.
L’aria sa d’incenso anche se Don Pietro è assente.
Vicino allo spiedo un messale giace sopra una tonaca
mentre è tutto un tramestio di bambini in andirivieni dal
bungalow del prete, ognuno con qualcosa in mano che
esamina con curiosità: ampolle da messa, una radiolina,
medicinali…
557
E’ora.
Un vecchio intona in stentato italiano:
“Signore, che Ti sei manifestato nella frazione del pane,
benedici la nostra mensa e santificaci con la Tua
presenza…”
Il gruppo mormora: “Grazie, Don Pietro…”
COERENZA
Era un tipo particolarmente sensibile e rispettoso del
prossimo, ed era rigorosamente ossequioso delle regole di
sana convivenza civile: un cittadino modello.
Fu sconvolto nell’apprendere, dagli ultimi catastrofici
servizi giornalistici televisivi, dell’esistenza del drammatico
problema riguardo alla mancanza d’acqua nel mondo, per
uso potabile.
Rimase angosciosamente attonito, senza parole, di
fronte ad apocalittiche previsioni, ferito nella sua emotività
e sofferente per una viva compartecipazione intima alle
disgrazie del genere umano.
Ieri anche lui è balzato agli onori della cronaca con un
trafiletto in nera cittadina.
Si è tolto la vita affogandosi nella vasca da bagno: …ma
solo due dita d’acqua…
FUGA IMPOSSIBILE
Tutti sognano di fuggire più lontano possibile, lontano
dalle miserie e beghe della realtà quotidiana, per
ricostituirsi una verginità di buoni principi e nuovi inizi.
Realizzò il suo sogno e scomparve per tutti nel nulla.
Riaprì gli occhi dall’incubo di quaranta anni e si ridestò
in Patagonia, in Costa Rica, a Cuba, nell’interno del Brasile
o del Madagascar…
Udì una voce allegra e greve dietro di sé:
“E tu che ci fai qui?
Guarda che sorpresa…Lo sai che ci stanno pure
Ughetto e Carla, Pino, il Vanni e la Titti?
Adesso ci divertiremo.”
558
Sta piangendo ancora adesso dietro una palma.
LA FAVOLA DEI PALLONCINI
Non fu mai bambino, senza giochi e sogni: una famiglia
disastrata e un lavoro precoce lo avevano responsabilizzato
troppo presto.
Frequentava il parco con un ago tra le dita e godeva con
studiata indifferenza a bucare i palloncini pieni di sogni dei
bambini.
Giocava anche lui, come sapeva…
Un padre, individuatolo, lo castigò accendendogli alle
spalle un mortaretto che esplose simultaneamente con
l’ultimo palloncino bucato in un fragore inatteso.
Il mostro, spaventato, ebbe un infarto e, consapevole di
un indefinibile senso di colpa, come ultimo atto di
un’infelice esistenza, chiese perdono al bimbo.
I bambini nel parco ricominciarono a sognare…
LA PISCINA NON FA BENE AGLI ESAURITI
Era un momento assai difficile: ero esaurito e dovevo
trovare distrazioni.
Frequentai per poco, senza troppo entusiasmo, la
piscina ‘Rari Nantes Albanici In Otranto’.
Era una struttura coperta molto affollata e forse
eccessivamente riscaldata.
Mi sembrava d’essere in una serra tropicale: i bagnanti
sorridenti, aspiranti o provetti nuotatori, alla luce dei miei
problemi esistenziali, m’apparivano come piante carnivore
piene di denti.
L’umidità era insopportabile e i troppi vapori di cloro
raschiavano i polmoni soffocandomi.
Smisi infine di frequentare quell’ambiente deprimente:
accadde quando assistetti casualmente ad un allenamento
della squadra di pallanuoto in un’agguerritissima partita
con sette gigantesche verruche delle docce…
559
BRILLANTE FESTA DI COMPLEANNO
Festeggiò in famiglia il trentesimo compleanno
coincidente con il primo anniversario di quel terribile
incidente con la moto sull’asfalto viscido.
Tutti i parenti sorridenti erano a ventaglio intorno alla
tavola con gli sguardi trepidanti di commozione.
Qualcuno
urlacchiò
scoppiettanti
auguri
con
entusiasmo riverniciato di fresco.
Ebbe un attimo di commozione nel ricordare che
scampò alla morte per miracolo.
Riudì dentro di sé antiche raccomandazioni: è
pericoloso viaggiare senza casco.
La festa fu brillante: un successo.
Fu solamente un notevole imbarazzante problema lo
spegnere le candeline sulla torta, così immobilizzato per
sempre su quella carrozzina manovrata con una cannula
dalla bocca.
NEMICO NEL BOSCO
Era acquattato nell’erba alta scintillante di rugiada.
Percepì un lontano rumore di rami scostati ed il silenzio
improvviso degli uccelli nell’alba caliginosa.
Sapeva che sarebbe dovuto rimanere immobile a
confondersi per mimetizzarsi con l’ambiente e riuscire a
passare inosservato.
Sussurrò un messaggio nell’erba.
“Elfi, folletti, nani, aiutatemi tutti.
Sono in pericolo e vi chiedo soccorso e protezione nel
nome delle leggi del bosco”.
Udì sommessi fruscii nell’erba e uno squittire
impaurito, sovrastati dal rumore del passo pesante del suo
nemico.
Un urlo selvaggio di gioia.
La fine.
“Moglie, vieni qua: il posto è buono!
Guarda che bel porcino tra l’erba…!”
560
GO
Attende il divenire verde di una luce rossa con altri,
angosciato dal buio, stordito da scossoni, per un lancio
oscuro, in complicità e solidarietà ad incoraggiarsi, con
pensieri, aspettative, speranze di successo…
La tensione è palpabile e monta effervescente.
Luce verde.
Un comando secco e una spinta invisibile a buttarsi e
uscire, un urlo liberatorio: GO.
Un tuffo nel vuoto con una folgorazione su tanti perché:
chi è? Dove va? Perché? Perché echeggiano i nomi Matteo e
Valentina?
Smarrimento…
Dai Rossi si consuma un momento d’amore volto al
concepimento.
Si attenderà, poi, con trepidazione, l’arrivo di Matteo o
di Valentina…
E’ GUERRA PER TUTTI
Emersero da una buia palude dolciastra appiccicosa, in
un caldo soffocante.
Si disposero guardinghi presso rocce lisce per resistere
ad eventuali attacchi.
Il comandante, carismatico, esaminò l’ambiente tutto
intorno; poi, fiero, parlò ai suoi combattenti.
“Ci attaccheranno e avremo perdite.
Sappiatelo: non posso nascondervelo.
Voglio, però, che resistiate.
E’ un vostro dovere naturale: sopravvivere per infliggere
danni al nemico.
Bisogna, perciò, organizzarsi.
Queste rocce m’appaiono una trincea ideale per
difendersi a lungo.
Scavate e siate determinati.”
Assentì la squadra.
Si scavarono ripari tra le rocce bianche per creare
fortificazioni profonde.
561
Cominciò la dolorosa e lunga campagna di guerra alla
carie.
DALLE STELLE ALLE STALLE
Si comportò da grande amatore fino all’ultimo: con
ardore e sensibile attenzione.
Fu stilettato da un proditorio attacco cardiaco, nel
momento culminante di un travolgente orgasmo, e
s’accasciò sulla sua lei che l’accoglieva maternamente tra
singhiozzi ed estatiche giaculatorie, non senza provare un
ultimo piacere violentissimo che rese la sua morte gloriosa e
accettabile.
La donna, già madre di quattro figli, gli manifestò una
gratitudine immensa in tenero ricordo per un periodo assai
breve,
fino
alla
comparsa
di
fastidiose
nausee
inequivocabili.
Una conseguente approfondita ecografia confermò uno
stato di gravidanza di cinque vispi bimbi…
Allora ne maledì nome e memoria.
TEMPI DURI PER GLI ARTISTI
Sbarcava il lunario elemosinando nell’ora di punta sulla
metropolitana.
Accennava qualche melodia.
Poi si faceva faticosamente largo tra la folla con un
bicchiere di plastica della CocaCola.
Non riusciva quasi mai ad entrare in un convoglio e a
prodursi in qualche esibizione: vetture sempre troppo
affollate di gente accaldata, presa da pensieri, indifferente.
La metropolitana, in ora di massimo traffico, ha una
densità abitativa che non è fatta per poeti o artisti.
Morì dopo qualche giorno, d’inedia, consunto dai morsi
della fame.
Fu ritrovato in un corridoio d’una stazione.
Sembrava che dormisse.
Appoggiato e stretto alla sua monumentale arpa
dorata…
562
UN UOMO SOLO AL TRAGUARDO
Il motociclista del cameraman televisivo fu distratto da
un seno prorompente in una maglietta attillatissima tra la
folla assiepata ai bordi della strada.
Lanciato dietro al ciclista, nel rettilineo finale, frenò
tardi.
Lo tamponò violentemente proiettandolo verso il nastro
d’arrivo.
Il ciclista rimase miracolosamente in equilibrio sulla
bicicletta, ma la velocità impressa dall’urto con la moto fu
davvero eccessiva e i freni non risposero.
A ridosso del traguardo vivaci teloni pubblicitari
coprivano
un
muro
di
cemento
reclamizzando
paradossalmente morbidi materassi.
Giunse primo, come un proiettile, con un urlo che
sembrava uno ‘jodler’, ma non partecipò più, devastato, ad
alcuna premiazione…
NON LORO
Nella penombra di una cripta illuminata debolmente da
fumose torce una voce mormorerà grave:
“Abbiamo avuto una nostra evoluzione e nel presente
abbiamo anticorpi più efficaci di un tempo: non devi
temere…
Ora puoi uscire al sole e puoi affrontare una croce.
Il frassino o l’argento o l’acqua santa non potranno più
distruggerti.
Sei invincibile.
Loro no.
E tu sei tra loro.
Il mondo sarà tuo.
Nostro.
Per sempre.”
Una voce giovane e ingorda risponderà:
“Ti credo, padre.
Noi vampiri avremo il mondo: non loro.”
563
Scivoleranno, due ombre, nella notte con un volo
silenzioso e un gonfio agitarsi di mantelli...
T-SHIRT
Sogghignò
divertito
e
malevolo
squadrandomi
penetrante.
Indicò la sua t-shirt attillata chiara con una scritta sul
petto confusa in un’enorme chiazza vinaccia quasi
psichedelica che pareva sangue.
“Quale funzione pensi che possa avere?”
Ridacchiava, il volto grigio tumefatto, rantolando
ferocemente ironico, e improvvisamente la sollevò a
scoprirsi l’addome.
Aveva il petto striato come d’artigli, orribile: la carne
viva sanguinolenta debordava flaccida e il cuore pulsava tra
il rosso spugnoso dei tessuti.
Era innaturalmente diabolico: sarebbe dovuto essere
morto.
Bianche larve grassocce brulicavano dalle ferite
slabbrate.
Mi sentii svenire mentre continuò a parlare asmatico.
“Serve a tenermi tutto intero: mi comprendi?”
ODIO
Una voce stridula e compressa:
“Mi hai rovinato l’esistenza.
Devi soffrire: adesso con l’acido.”
Un getto su un uomo che non reagisce allo sfrigolio.
E’ morto da qualche giorno ed è in avanzato stato di
decomposizione, coperto di sangue.
E’ legato strettamente ad una sedia con filo di ferro e ha
elettrodi e cavi elettrici intorno al capo e alle articolazioni.
Ha il volto sfigurato da un martello e il collo striato da
una fune come per uno strangolamento.
Trafitto da spuntoni di balestra.
Crivellato da proiettili.
Con una lama nel petto.
564
“Non finirò mai di odiarti…
Domani ti brucerò…”
I QUADRI DI GORGH
Tutte le opere del grande maestro contemporaneo,
l’astrattista Vladimir Gorgh, hanno una caratteristica
tecnica comune: un monocromatismo rosso, sviluppato in
tutte le possibili sfumature, da un rosa pallido che appare
quasi come un bianco fino ad un rosso estremamente cupo
tendente al nero.
Questa ossessiva iterazione di colore è sapientemente
espressa con tratti sofferti e drammatici in atmosfere che
inquietano e mordono l’attenzione dell’osservatore.
Ancora una curiosità, poi.
Tutti i quadri di Gorgh sono intitolati a nomi femminili:
delle sue modelle.
Con abnegazione hanno dato l’anima e il sangue per la
gloria di Gorgh.
Nel vero senso della parola…
Sgozzate.
L’INSEGNANTE
Lo psicologo raccomandò prudenza e sensibilità.
Il commissario aprì, dopo avere rispettosamente
bussato, la porta di quella che appariva come un’aula
spaventosa.
Si rivolse verso un’ossuta donnetta con una crocchia
isterica raccolta alla nuca.
Lei lo fissò, interrogatoria, con uno sguardo spiritato,
attraverso occhiali esagerati da miope.
“Professoressa, il Preside la desidera nel suo ufficio…”
“Sì, tra un attimo.”
Si rivolse verso la scolaresca con fare materno e
pedante.
“Bambini, state buoni per qualche minuto.
Al mio ritorno continueremo la lezione di geografia…”
565
La classe, ventuno grandi barattoli di vetro contenenti
ventuno feti conservati sotto formalina, ristette come
attenta, immobile.
LA GATTARA
La donna, materna, si chinò verso i gatti e porse loro un
vassoio di tritata.
Li accudì delicatamente strofinandoli con un batuffolo
d’ovatta imbevuto d’aceto, per pulirli.
Gli animali, sazi, dopo le fusa ad occhi socchiusi
s’allontanarono miagolando grati.
Allora la ‘gattara’ sorrise e salì sulla sua auto
parcheggiata lì presso.
Da dietro si materializzò un posteggiatore abusivo,
sorridente e untuoso, insistente nel dare consigli.
La donna sbuffò infastidita.
L’uomo continuò noncurante a gesticolare.
Lei ingranò una retromarcia rabbiosa e accelerò più
volte.
Poi partì col tenero pensiero d’aver lasciato al muro
altra carne tritata per i suoi amorevoli gatti.
CATARSI
Sono convinto che perfino il dolore più acuto può
promuovere stimoli esistenziali positivi ed offrire occasioni
per una crescita morale.
Esso, infatti, purifica spiritualmente nella sofferenza e
forgia il carattere alimentando la volontà di custodire la
memoria per un’eventuale vendetta.
Così giustifico, dunque, il perché di una mia compiuta
consapevolezza che mi fa sentire migliore, forte e
disciplinato per quanto d’atroce recentemente ho patito.
E così mi rispondo sul perché seguo come un’ombra il
mio dentista, senza farmene accorgere, con una mazza da
baseball nascosta nel soprabito, aspettando con ingordigia
di trovarmi con lui in un luogo isolato e buio…
566
L’INCIDENTE
Ho rischiato parecchio stamattina all’alba, ma n’è valsa
la pena.
Procedevo tranquillo sull’autostrada deserta: proprio
nessuno in giro.
Scorsi improvvisamente l’incidente: un’auto bruciava
accartocciata contro un pilone.
Inchiodai e smontai per vedere cosa fare, in preda a
frenetica ansia.
Il conducente era esanime tra le fiamme, immobilizzato
dalle cinture di sicurezza.
Pensai all’eventualità dello scoppio del serbatoio e al
rischio che correvo.
Mi lanciai ugualmente.
Forzai la portiera e lo estrassi dall’auto, morto, già
annerito, semicarbonizzato.
Lo morsi ad un braccio, socchiudendo gli occhi con
languorosa acquolina.
Estasi.
Non potete immaginare quanto è gustoso un essere
umano caldo appena arrostito…
RACCONTINO MORALE
Questa è una parabola circa il valore della vita umana.
Stasera non voleva pensare: a mare i dispiaceri.
Ci sarebbe voluto un whisky, magari doppio, e una
puttana gentile.
Provvide subito al bar all’angolo, per il primo; poi, in
auto, girellò alla ricerca della seconda.
I giallastri lampioni del viale ne illuminavano tante,
esagerate, sorridenti, disponibili.
Scelse una moretta dal volto simpatico e dalla voce
uterina, senza contrattare:
“Andiamo, cocco: ti faccio morire.”
Alla lettera.
567
Gli tagliò la gola subito dopo averlo fatto godere,
equivocando sul portafoglio grassoccio.
Lo scannato cliente, invece, aveva duecento dollari e
tanti biglietti da visita.
PAZZIA
Apre gli occhi, felice e vitale, si stiracchia con un sottile
brivido di piacere, e saluta a voce alta verso le altre stanze
dell’alloggio.
“Buongiorno mondo, buongiorno a tutti.”
“Buongiorno a te, caro. Vuoi che ti faccio il caffè?”
Kira gli risponde e nel frattempo compare sulla soglia
della camera da letto.
Kira è una splendida femmina di labrador, color del
miele, ansante d’affetto.
“Grazie, gioia, mi ci vuole proprio.”
E mentre la cagna trotterella servizievole in cucina
fischiettando un motivetto estivo, lui si gira e racconta fitto
fitto i suoi sogni al comodino complice che ridacchia
sbattendo il cassetto.
IL PULIVETRI
Ogni giorno ammirava il panorama, entrando nella
stanza dalla parete vetrata al ventisettesimo piano rivolta
sulla baia.
Accantonava provvisoriamente problemi e dispiaceri
contemplando il mare increspato e le case basse intorno al
grattacielo.
Quel giorno, invece, dolorosi ricordi l’azzannarono
all’ingresso nel locale.
Un tizio stava pulendo la facciata da fuori, appeso ad
un’impalcatura ondeggiante, muovendo energicamente uno
spazzolone lungo la superficie vetrata.
Lo riconobbe istantaneamente: il maniaco di pochi
giorni prima, quello che aveva cercato di violentarla nel
parco.
Gli era sfuggita per miracolo.
568
Non esitò.
Aprì la finestra, fissandolo torbida,
diabolica, e lo spintonò con violenza…
sorridendogli
NERA MEMORIA
Ricordò nitidamente con memoria invidiabile.
Era proprio lui: quello che si divertiva a sparare come
un ossesso in campagna, che gli aveva ucciso tre fratelli
innocenti senza alcun motivo, per capriccio crudele.
Ora era sospeso su un cavo teso a cento metri d’altezza,
con una sbarra per bilanciarsi, e procedeva prudentemente
con attenzione sopra una piazza gremita di gente, da un
campanile ad un torrione di fronte.
Può, un corvo, ghignare di soddisfazione pregustando
vendetta?
Questo, nero, grosso e determinato, spiccò il volo da un
cornicione verso un equilibrista tra mormorii d’apprensione
della folla sottostante.
I corvi mirano agli occhi…
LA VITA CONTINUA…
Visse giorni di riflessione profonda.
Acquisì consapevolezze nuove, smarrendo rimorsi per i
suoi odiosi crimini del passato, ed abbracciò nuove
fantasiose ipotesi di futuro, volendo credere con fede
incrollabile che avrebbe vissuto un futuro.
Gli favoleggiarono, chissà se per scherzo o per quale
altro scopo, di un’ultima estrema definitiva erezione, e lui
s’accese di pensieri erotici pervasi di metafisico ottimismo e
sognò di passionali necrofore necrofile.
Il suo tempo residuo scorse nell’indifferenza del
presente sostituita da immagini pornografiche molto
piccanti di uno sperabile futuro prossimo.
Arrivò, infine, il suo ultimo momento, e fu impiccato
con un sorriso beato sulle labbra.
569
VENDETTA, TREMENDA VENDETTA
Si danno tante definizioni della vendetta…
Per me è un filo sottile.
Permette di vendicarmi di mio marito che mi tradisce da
qualche mese.
L’ho scoperto qualche giorno fa, casualmente,
ascoltando una telefonata senza volerlo: parlava con la sua
amante.
Ho meditato a lungo per fargliela pagare e ho scoperto
che la vendetta è un filo sottile, un cordino da tirare per
salvarsi la vita.
E’ il filo che permette di aprire un paracadute in lancio,
per mio marito che ha l’hobby del paracadutismo e che
effettua lanci ogni domenica.
E’ un filo che ho reciso.
Sto attendendo una telefonata…
EVOLUZIONE
Eccolo là, il bastardo: sta bruciandoci la casa…
Abbiamo fatto appena in tempo a fuggire per metterci in
salvo e ora dobbiamo assistere, con la morte nel cuore, a
questo scempio.
Lui, però, non sa una cosa: stiamo imparando a
pensare, in una miracolosa evoluzione mentale, e stiamo
acquisendo consapevolezze nuove.
Lo stiamo aspettando impassibili.
Abbiamo individuato la sua auto e ci siamo introdotti
furtivamente dentro, guardandolo incendiare la nostra casa,
decisi a fargliela pagare definitivamente.
Lui non sa, come nessun altro.
Noi calabroni ci stiamo evolvendo e ora sappiamo
reagire e vendicarci.
E siamo tanti, con i pungiglioni avvelenati
570
AVIDA PASSIONE
E’ originalissima la gabbia di Cunegonda, l’anaconda
dello zoo: una fossa profonda, dalle pareti lisce, con un
laghetto e muschio intorno a riprodurre una jungla
tropicale.
Si può ammirarla dall’alto, a distanza di sicurezza.
Cunegonda sembra finta, immobile ed enorme,
acciambellata in grandi spire, sonnecchiante.
L’anaconda, invece, pensa innamorata al suo custode,
Ugo, per come può un sangue freddo: da lui riceve il cibo
ogni quindici giorni.
Verso l’orario di chiusura Ugo, con pochi visitatori in
giro, dà una spinta a tradimento all’ultimo curioso della
giornata affacciato in cima.
Il resto, poi, è solo questione di stritolamento e di
digestione…
LUNA PARK
Diffidente e osservatore, notai subito qualcosa di strano
al Luna Park.
M’appostai presso l’Antro delle Streghe, un capannone
da esplorare al buio per provare qualche brivido.
Scoprii che le vetturette entravano nell’hangar con
gente allegra e urlante, ma talvolta, a fine percorso,
uscivano vuote.
Non potei approfondire: una vecchia megera con
un’ascia mi cacciò rudemente minacciando di usarla se
m’avesse rivisto gironzolare lì intorno.
Poi il Luna Park traslocò.
Andai a curiosare dove prima era l’Antro delle Streghe:
notai un grosso mucchio di cenere nera e sabbia a
seppellire qualcosa.
Ossa.
Spolpate: tibie, femori, teschi...
Anche le streghe hanno fame…
571
ADDIO
Lei aveva un’espressione angosciata e lo sguardo
sgranato.
L’uomo la guardò con occhi febbricitanti e malinconici e
le carezzò delicatamente il volto rigato di lacrime parlandole
con tenerezza:
“Penso che sia un addio inevitabile, cara.
Non posso legarti a me per sempre col mio carattere che
ama spazi e indipendenza.
Sono certo che capirai.
Tra poco sparirò senza voltarmi e affronterò il futuro
con la consapevolezza di un nuovo crescere”.
Si levò in piedi e s’allontanò con la morte nel cuore.
Lasciò la donna, legata e imbavagliata, dibattersi
freneticamente sulla massicciata della ferrovia.
Di lontano, il rumore di un treno…
INCROCI DI DESTINO CAPRICCIOSO
Aveva una paura fottuta di morire, il vecchio Adam, e
conduceva una vita più regolare possibile per allontanare il
suo destino inevitabile.
Era di pasti regolari, frugali, e praticava del movimento
con lunghe passeggiate quotidiane intervallate a brevi
riposini sulle panchine lungo l’itinerario.
Ieri, appunto, passeggiava.
Il buon Cross, invece, in quello che non era più il suo
attico, pignorato, rifletteva sul proprio fallimento, con
sguardo assente, dal balcone.
Prese una decisione irrevocabile e definitiva: si lanciò…
Cadde sul vecchio Adam che stava riprendendo fiato,
seduto su una panchina, e lo lasciò secco sul colpo,
salvandosi con una semplice frattura.
FATO DALTONICO
Stai per attraversare un incrocio di particolare traffico
regolato da semafori.
572
Un tuo lievissimo daltonismo ereditario ha, proprio ora,
una recrudescenza esplosiva e attraversi con il rosso
credendo che sia verde.
Transita, nel medesimo istante, lanciatissimo, un Tir
grande e pesante come una cattedrale…
In altra dimensione o in irrazionale ripetizione scenica,
riattraversi lo stesso incrocio, nuovamente preda di un
peggioramento esponenziale del tuo daltonismo, ma,
stavolta, anche l’autista dello stesso TIR ha, in sincrono, un
fenomeno di daltonismo micidiale e inchioda al semaforo
che crede diventato rosso.
Ti salvi.
Muoiono sei persone in un gigantesco orribile
tamponamento al semaforo.
FORTUNA E SFORTUNA
E’ aleatorio definire concettualmente la fortuna e la
sfortuna.
Una persona distratta, infatti, può essere considerata
sfortunata se precipita nel vuoto aprendo la porta
dell’ascensore perché la cabina è inspiegabilmente bloccata
a tre piani sopra.
La stessa persona, a piombo con un urlo lacerante,
diviene inaspettatamente molto fortunata se s’impiglia con
le bretelle ad una sporgenza d’acciaio bloccando una caduta
libera per dodici piani.
In nuova mutevolezza di fato cinico e baro, lo stesso
tizio di prima ridiviene assolutamente sfortunato, e
definitivamente, se la cabina dell’ascensore, bloccata a tre
piani sopra, si scarrucola, intanto che è agganciato per le
bretelle…
PASSIONE AL BINARIO NOVE
Un agile fagiano nocciola screziato di nero, col collo
verdeblu lucido cangiante, ha carpito una scintilla volando
573
nel cielo più alto ed ha pensato di trasmettere la parola
divina sulla terra volteggiando sugli uomini.
Ora, travolto, trascinato e rilasciato, giace agonizzante,
con le ali spalancate come in croce, sul pietrisco di un
binario di stazione, davanti ad un locomotore fermo che
sembra inginocchiato per farsi perdonare.
E’ uno splendido esemplare: dovrebbe invogliare
all’amore per la vita in armonia e concordia.
Ha gli occhi opachi d’agonia.
“Padre, perdona loro che non sanno ciò che fanno”.
La gente passa senza vedere, indifferente…
DESTINO PERFIDO
Decise di uccidersi e si buttò dall’ottavo piano.
Al sesto fu frenato da uno stendibiancheria sporgente,
che fu divelto.
L’urto sui fili, morbido, rallentò la caduta e lo indirizzò
impercettibilmente all’esterno, sulla strada.
La nuova traiettoria lo proiettò sopra le fronde di un
gigantesco abete di fronte alla casa.
I rami flessibili frenarono ancora di più il precipitare.
Cadde a terra senza danno, trattenuto, leggero, stordito
per l’esperienza, stupito come un miracolato.
Non ebbe, però, il tempo per altre sensazioni.
Una barra del suddetto stendibiancheria, staccatasi dal
balcone, rispettando la legge di gravità, gli trivellò il cranio
con sorprendente precisione.
A MALI ESTREMI…
Era depresso da parecchio.
Si svegliò con sensazioni di negatività e col desiderio di
rimanere a letto per tutta la giornata, assediato da pensieri
di rate da pagare, problemi di lavoro, dolori fisici,
considerazioni sul ménage familiare.
Si sentiva vecchio, una scarpa: sconfitto.
Rassegnato, s’avviò in Ufficio con passo stracco,
dimesso d’andatura e di mentalità.
574
Il rapinatore era dietro l’angolo con la pistola.
Lui lo guardò stancamente.
Poi lo sguardo scintillò: ebbe un’intuizione.
Mulinò freneticamente le braccia urlando da ossesso.
Il rapinatore s’impaurì e sparò.
Colpito a morte, rise isterico, sputando sangue, e gli
gridò, sulla faccia, un liberatorio: “Buh!”
ERRORI
“Un I-Pod.”
Indicò un ometto che stava armeggiando con una
scatolina bianca.
Il suo amico motociclista ghignò malevolo e calò la
visiera del casco.
“Dai, monta.”
Ruggì la moto e i due si trovarono con sincronismo
accanto all’uomo che attraversava la strada.
Il passeggero diede uno strappo secco bestemmiando e
la moto, dopo uno scarto, fu risucchiata dal traffico
sparendo alla vista di tutti.
Lo scippato rimase in mezzo alla strada, frastornato
dall’evolversi rapidissimo degli eventi.
Stupito soprattutto.
Gli avevano scippato la centralina di comando
dell’apparecchio acustico.
Non udì, quindi, la tromba isterica del tir lanciato.
Errore s’assommò ad errore.
STUPIDA DESTREZZA
Fu addestrato col classico metodo del fantoccio coi
campanellini: se trillava anche solo un campanellino, veniva
preso a cinghiate dall’istruttore.
Era stupido, ma imparò alla svelta e divenne un esperto
borseggiatore.
575
Poco fa ha adocchiato una preda e l’ha balzellata come
un segugio: un armadione dall’aria beota che gironzola per
il Luna Park.
E’ stato impalpabile, ma l’omone se n’è accorto lo stesso
e,
incazzatissimo,
l’ha
ammucchiato
per
terra
frantumandogli addosso sei o sette specchi.
Il borseggiatore, anche stavolta insuperabile, ma
sempre stupido, voleva fregare lo yeti nel salone degli
specchi deformanti…
Tana!
Ora sembra l’uccello dalle piume di cristallo.
NONNI E SQUALI
Mi telefonano ogni giorno.
S’informano di come sto.
In realtà mi spiano e attendono che muoia per ereditare
l’alloggio.
Nipoti bastardi.
Sembrano affettuosi, ma, in effetti, sono avidi come
squali pazienti e mi girano intorno.
Mia figlia dice che sono ingiusto, ma credo che anche lei
abbia una pinna sulla schiena.
Si dice che i vecchi siano diffidenti, ma non mi
riguarda: io conosco i miei polli e basta.
Però li fregherò tutti.
Al primo malessere, prima che tutto degeneri in
complicanze per la mia età fatali, aprirò il rubinetto del gas,
con le finestre chiuse.
Poi m’accenderò una sigaretta…
SEMPLICITA’ DELL’ORRORE
Non chiedetemi come e perché, ma un gabbiano del
laghetto del parco, una pallida mattinata invernale, allungò
il gozzo e tossì.
S’espanse nell’aria una piccola nuvoletta brinata.
L’uccello, zampettando, barcollò sulla riva a ridosso
d’una staccionata, scosso da tremiti.
576
Poi si rilasciò immobile sull’erba umida.
Il piccolo Primo, lì presso, sul passeggino, guardava
affascinato il laghetto con le papere, sgranando gli occhioni,
e tirava su col nasino, raffreddato.
La sua mamma gli aggiustò il cappellino e gli scoccò un
bacio d’incontenibile affetto.
Era di riposo quel giorno: faceva la cassiera in un
supermercato.
Il resto, poi, voi sopravvissuti lo ricordate…
CONFUSIONE DI LUPI ED AGNELLI
Cominciai a portare gli occhiali, di cerchiatura rotonda,
sottile, da persona mite.
L’andatura divenne zoppicante, poi, e mi munii d’un
bastone da passeggio antico, vezzoso, col pomo d’argento.
Giro, ora, per la città, fragile, con sguardo chiaro
attraverso i vetri degli occhiali.
Sì.
Vetri.
In realtà vedo benissimo e non zoppico.
Anche il bastone ha un suo segreto.
E’ animato.
Ha all’interno una lama che una molla sul pomello può
far scattare.
Sorrido innocente guardandomi attorno.
Contraccambio sorrisi di persone miti.
Scruto, vigile, altri torvi che mi soppesano il portafoglio.
Attraverso.
E stringo il pomello del mio bastone da passeggio…
BOCCIOFILA
Ciokk.
Ciociokk.
Le bocce picchiano tra loro quando non s’accostano
come se dovessero confidarsi qualche segreto.
Rincorse, affanni, braccia tese sotto il sole.
577
Anchise, vecchia quercia e bravo giocatore esperto, deve
bocciare.
Mira preciso e concentrato.
Lancia.
La boccia centra la nuca d’un uomo che s’accascia
senza un lamento, stecchito in una chiazza di sangue che
s’espande sulla rena.
Mormorii sgomenti.
Anchise, immobile, ripassa diligentemente quanto gli
hanno detto.
Deve apparire stupito e deve stare fermo, inebetito, più
vecchio di quello che è.
E la sua famiglia sbarcherà il lunario con ben altri
mezzi che non quelli d’una pensione sociale…
CHI BEN COMINCIA…
Babbo Natale si lisciò la barba candida e fissò le sue
adorate creature con commozione chiamandole per nome:
“Stai proprio bene, Ingrid, e anche tu, Bibi…
Grazie infinite, Brigida e Sveva.
Anche a voi, Ursula e Greta…
Ora che le feste sono trascorse, devo riconoscere con
soddisfazione che siete state davvero insostituibili…”
Finì di stipare il congelatore e si sedette ad un tavolo
imbandito allegramente con una tovaglia a quadri rossi.
Sei trofei di renne imbalsamate lo guardavano dal
muro, come vive.
Il vecchio si tagliò due fette sugose da un cosciotto
fumante.
“Buon anno, amiche mie.
Chi ben comincia…”
LA FEDE E’ UNO ZOT
Hai messo per tanto a dura prova la mia pazienza nel
sopportarti con i tuoi continui proverbi, massime, sentenze,
in un pontificare pieno di te e in una supponenza fastidiosa
da ascoltare con buona creanza e sguardo neutro.
578
E hai imperversato.
“Il silenzio è d’oro.
L’occhio del padrone ingrassa il cavallo.
Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi…”
Con quella voce cattedratica.
Poi ecco, improvvisamente e inaspettatamente: ho
incontrato la mia via di Damasco.
Ad una tua ultima esternazione di saggezza spicciola.
“Dio vede e provv…”
Zot!
La saetta ti ha incenerito.
Mi sono sentito illuminato dalla fede.
AVERE GIA’ DATO
E’ solo in camera nella penombra crepuscolare che
lascia filtrare sempre meno luce dalla tapparella abbassata.
Sorride circa vecchi anatemi puritani che hanno
spaventato intere generazioni di giovani virgulti.
Le vecchie prescrizioni di un buon vivere casto e senza
peccato difese da minacciose previsioni di cecità e infermità
su una sedia a rotelle per i cosiddetti “atti impuri”.
Ride aperto ora che è buio fatto.
Lui ha già dato di suo, per destino capriccioso.
Indipendentemente.
Sfoglia pagine patinate in braille sfiorandole con
polpastrelli sensibili, su una sedia a rotelle, per l’appunto,
mentre con l’altra mano s’accarezza sotto il plaid,
noncurante…
CARISMA
“Ha personalità da vendere.”
“Ha un carattere forte, una magnetica capacità di
persuasione.”
“Ti credo: anche con quelle mani come badili…E’ una
torcia, per di più infiammabile…”
“No. Così è riduttivo e non lo merita. In realtà ha lo
sguardo magnetico, la voce che ipnotizza, le idee che
579
seducono, il modo di fare che affascina e mette in
soggezione.”
“Diciamo pure che mette paura…”
“Paura è una parola grossa e rozza: diciamo
inquietudine…”
“Beh, è pur sempre il capo della più agguerrita banda di
naziskin della città…”
“E dimmi che non ha carisma…”
“Già! Il primo capobanda di naziskin… negro…”
LA MEMORIA DELL’ACQUA
Da giovane pescava di frodo.
Gettava bombe nel fiume sogghignando, dopo spruzzi e
boati, nel vedere la frittura della sua cena adagiata
sull’acqua.
A quaranta anni la scampò.
Annegò, sfogando la sua violenza innata, una donna poi
dichiarata scomparsa: l’assicurò saldamente ad un blocco
di cemento prima d’affondarla nel fiume.
Da vecchio, ormai quieto, trascorreva il tempo sulla
sponda del fiume: rifletteva aspettando il cadavere del suo
nemico, la resa dei conti.
Che avvenne.
Un’onda anomala lo trascinò verso un mulinello
distante dalle rive.Lo spinse giù, verso lische decomposte,
verso un blocco di cemento dove uno scheletro sembrava
chiamarlo.
580
INDICE
RACCONTI CHE SI MUOVONO ................................................................................ 5
ABA................................................................................................................................ 7
SAGGIO PC ............................................................................................................... 22
METROPOLITANA ................................................................................................... 24
PROCESSI DI CRESCITA ...................................................................................... 26
NEO MONTESSORI................................................................................................. 30
GLI SCONFITTI HANNO GLI OCCHI DI MONTONE...................................... 32
STORIA DI STRANO JUMBO TRAM .................................................................. 41
JA’ SEI NAMORAR .................................................................................................. 47
DI TRAVERSO RIGATONI E DOLCE STIL NOVO .......................................... 51
VA AL DEPOSITO L’ULTIMA CORSA................................................................. 62
NON DORMITE…NON DORMITE… ................................................................... 67
BAGLIORE DI NEVE E DI DENTI ....................................................................... 72
SA VIAGGIARE LA GENTE DI MONDO ............................................................ 79
QUELLO CHE NON SI RIESCE A VEDERE..................................................... 85
GUIDARE NELLA NOTTE NERA ......................................................................... 88
OGGI E’ LA FESTA DEI MORTI........................................................................... 91
POSTI IN PIEDI E POSTI A SEDERE................................................................. 95
CATTIVI PENSIERI.................................................................................................. 98
IPERBOLICO CAPOLINEA .................................................................................. 103
JIMMY DEAN, PAULINE E L’ARCA DELL’ALLEANZA ................................ 107
INCROCI................................................................................................................... 112
RACCONTI CINICI .................................................................................................... 117
GIUSTIZIA................................................................................................................ 119
PROCESSO.............................................................................................................. 121
VIDEO GAMES....................................................................................................... 123
RELATIVITA’............................................................................................................ 125
CRONACHE CITTADINE SULL’ARGOMENTO ASCENSORE.................... 126
PARTITE DI CACCIA............................................................................................. 128
PAPPARDELLE ALLA GIORNALISTA ............................................................... 130
MISTERO DELLA FEDE ...................................................................................... 132
SANTA MESSA ....................................................................................................... 134
PSYCHOSTORE...................................................................................................... 136
SERVEAQUALCOSABEGHELLI ........................................................................ 138
BIANCO NATAL… .................................................................................................. 140
FELICITA’ OBBLIGATORIA................................................................................. 145
CALCI AGLI STINCHI DEGLI STORPI ............................................................. 148
CROLLO DI UN MITO........................................................................................... 152
COSA PUO’ ACCADERE IN STAZIONE MENTRE ASPETTI LA MOGLIE154
WORK IN PROGRESS .......................................................................................... 160
BADA ALLA BADANTE......................................................................................... 166
DARWIN ALLA ENNE ........................................................................................... 169
IL CONTRAPPASSO DEI LUSSURIOSI............................................................ 173
INCONTRI BALNEARI........................................................................................... 176
MATER DOLOROSA ............................................................................................. 181
LE MOSCHE NON POSSONO APPLAUDIRE ................................................. 185
581
STRENNE................................................................................................................. 189
OH OH OH............................................................................................................... 192
BASSI CETRIOLI URBANI................................................................................... 197
OMNISPOT .............................................................................................................. 201
FART REVELATOR................................................................................................ 205
RIDACCHIARE CON UN PERCHE’ ................................................................... 208
SINTONIE E DISTONIE........................................................................................ 212
CASTING .................................................................................................................. 217
LA DIGNITA’ ............................................................................................................ 226
RACCONTI DI AMORE, DI PIETA’ E DI ORMONE ....................................... 233
BRUNILDE INNAMORATA .................................................................................. 235
FINE DI UNA SIMBIOSI....................................................................................... 237
GIAMAICA PER DUE ............................................................................................ 239
SCHIAVO D’AMORE ............................................................................................. 241
DA QUALCHE PARTE SBOCCIA L’AMORE ................................................... 243
UNISCE L’ABBRACCIO DEL BUIO .................................................................. 244
UN INSOPPRIMIBILE DESIDERIO DI VIVERE............................................. 250
DIFFERENZE DI SORRISI D’AMORE.............................................................. 252
FILASTROCCA DELLA MORTE PER AMORE ............................................... 256
UNA BOTTA DI VITA ............................................................................................ 259
STORIE DI NUOVE NINFE METROPOLITANE ............................................. 261
DI PRINCIPI E PRINCIPESSE............................................................................. 265
RITRATTO DI DONNA, RITRATTO DI AMORE.............................................. 269
SOGNI DI AMORE E NAFTA .............................................................................. 271
PERCHE’ MI DICI…? ............................................................................................ 272
PRIMA CHE IL GALLO CANTI............................................................................ 276
LEARCO ATTENDE LE FATE DI FEDERICA................................................. 279
L’ORGOGLIO DI OSSIGENO .............................................................................. 284
LE REGOLE DELLA MARESCIALLA................................................................ 288
UN ATTIMO DI SEMPRE ..................................................................................... 292
GUARDAMI.............................................................................................................. 295
SAFFICI STRALI SEMAFORICI.......................................................................... 298
ASFODELI E BACI ................................................................................................ 299
PADRONE BUONO E GIUSTO........................................................................... 301
LATI OSCURI .......................................................................................................... 304
CINQUE SENSI ...................................................................................................... 306
RANE, ANIME E POETI RESTAURATORI....................................................... 311
LA SOFFERENZA NELL’ASSENZA ................................................................... 315
CUORI NEL CARBONE ........................................................................................ 316
EROTISMO DI UNA NAPOLETANA .................................................................. 320
ANACONDA E AGNELLO NEL VAPORE ......................................................... 322
LILY............................................................................................................................ 326
SOTTILI LINEE DI DEMARCAZIONE............................................................... 329
DICK – ORMONAL LIFE ...................................................................................... 332
RACCONTI DI BAR E RISTORANTI ................................................................... 337
ESAGERAZIONI ..................................................................................................... 339
ATTENTI AI PIZZAIOLI......................................................................................... 341
BUON COMPLEANNO.......................................................................................... 343
582
QUANDO SI DICE AMORE ................................................................................. 345
RISTORANTE .......................................................................................................... 346
NUOVA MITOLOGIA URBANA........................................................................... 349
GLI STRACCETTI DELLA GINA........................................................................ 352
COSA SI FA PER UNA FOGLIA NEL CAPPUCCINO .................................... 354
ARRICCHISCE LA VITA LILLY GRUBER ........................................................ 357
SERATA AL BE BOP – RADUNO LETTERARIO ............................................ 364
UCCIDE ANCHE L’IDROMELE AROMATIZZATO AL ROSMARINO ........ 367
NATURALISTICO BELVEDERE ROMANO ..................................................... 369
UP AND DOWN ...................................................................................................... 373
T’O RICORDI ER CIAVATTA?............................................................................. 374
FOR F. ORA – ESOPICO DINAMICO BESTIARIO ........................................ 377
BOERO LEVRIERO ............................................................................................... 380
KEBAB...................................................................................................................... 384
GLORIOSO EPILOGO DI CUOCO..................................................................... 386
FASCINO DI TRISTE BAR................................................................................... 388
IL MONDO DI BARBIE......................................................................................... 390
AVANTI POLIPO, ALLA RISCOSSA................................................................... 398
RACCONTI DI PAURA SOLITUDINE E FOLLIA.............................................. 403
MATRIOSKE............................................................................................................ 405
NUOVI MONDI NUOVE STORIE ....................................................................... 407
SVEGLIA .................................................................................................................. 409
ESTETICA, ORDINE E BOTTONCINI DI CAMICIA ...................................... 411
CAPOLINEA DI TRAM ARANCIONE................................................................. 415
SEGRETI DI CUCINA CINESE........................................................................... 419
PREGO MI SEGUA, SI ACCOMODI ................................................................. 423
MASCHERE PER OGNI OCCASIONE.............................................................. 427
HO PAURA DELLA GENTE................................................................................. 430
MANTENETE LA CITTA’ PULITA ....................................................................... 433
QUESTIONE DI PELLE ........................................................................................ 437
JENNIFER DAL NERO MANTELLO.................................................................. 441
L’UOMO E’ UN ANIMALE SOCIEVOLE ........................................................... 443
IL RUMORE DEL SILENZIO ............................................................................... 446
ECCO A VOI JOSE’ARTISTICO ......................................................................... 452
NON AVRO’ PIU’ PAURA DELLE LAME .......................................................... 457
ANCHE GLI ORSI SI INNAMORANO................................................................ 462
BATTERE AGNOSTICISMO E TAPPETI .......................................................... 467
VISTA MARE ........................................................................................................... 470
TERRE MOSSE ...................................................................................................... 471
IL TRICICLO DI GUSTAVO ................................................................................. 474
LE SCARPE CI PARLANO.................................................................................... 479
GIOCARE A NASCONDINO ................................................................................ 484
ODIO CHI LEGGE E PUBBLICA ....................................................................... 487
NUMERI TRAVOLGENTI ..................................................................................... 491
CONIGLI, ORCHE E BARRACUDA................................................................... 495
EUTANASIA DI LAIDA CREATURA .................................................................. 499
OFFERTA SPECIALE ............................................................................................ 502
MINIMA MORALIA................................................................................................. 504
GIARDINETTO........................................................................................................ 508
583
LA LUCE ROSSA.................................................................................................... 510
IL MIOPE GUALTIERO......................................................................................... 512
CI VUOLE CORAGGIO A TIFARE PER SENECA.......................................... 515
IL PESO DI UN NOME ......................................................................................... 517
OMBRE..................................................................................................................... 520
IL PIACERE DI UNA CONVERSAZIONE ......................................................... 524
IL BOSCAIOLO SCEMO DEI CARTONI ANIMATI ........................................ 529
LETTERE DAL CARCERE – LA SCATOLA DI CARTONE........................... 532
RACCONTI DI CENTO PAROLE........................................................................... 535
TELEFONATA ......................................................................................................... 537
GROTTESCO CUORE DI PAPA’......................................................................... 537
HANDICAP............................................................................................................... 538
CAMBIO DI IDENTITA’......................................................................................... 538
ORTOPEDIA ............................................................................................................ 539
ABRAMO E ISACCO ............................................................................................. 539
CANIDI E NON........................................................................................................ 540
CARAMELLE ........................................................................................................... 540
PREGHIERINA DELLA SERA ............................................................................. 541
OROSCOPO............................................................................................................. 541
COMUNQUE ........................................................................................................... 542
IRREALE STORIA DI CHAT ................................................................................ 542
MISANTROPO AMOR............................................................................................ 543
PARADISI ................................................................................................................. 543
CAPITAN FINDUS.................................................................................................. 543
MODERNIZZAZIONI ............................................................................................. 544
MORTE DI UN POETA.......................................................................................... 544
VOLONTA’ DI DENUNCIA ................................................................................... 545
SCI DAL TRAMPOLINO........................................................................................ 545
PIOGGIA ACIDA..................................................................................................... 546
MARINA TEMPESTOSA ....................................................................................... 546
IGOR.......................................................................................................................... 547
LIBERA INIZIATIVA IMPRENDITORIALE ....................................................... 547
CHI BUSSA AL CONVENTO ............................................................................... 548
L’ESPERIENZA PREPARA IL FUTURO ............................................................ 548
CHIRURGIA............................................................................................................. 549
SEGRETERIA TELEFONICA............................................................................... 549
LUNA TIMIDA ......................................................................................................... 550
LAVANDERIA CINESE ......................................................................................... 550
SOLO UN SI’ E UN NO ......................................................................................... 551
USCIRE..................................................................................................................... 551
SE…........................................................................................................................... 552
ESERCIZI DI STILE .............................................................................................. 552
UN SEMPLICE “IO” ............................................................................................... 552
PROBLEMI CASALINGHI FUTURI.................................................................... 553
AMORE CIECO....................................................................................................... 554
BEFFA AL BAFFO ................................................................................................. 554
DEPLIANT................................................................................................................ 554
INIZIO E FINE......................................................................................................... 555
IL PICCIONE GALEAZZO .................................................................................... 555
584
ON/OFF.................................................................................................................... 556
FINE DI UNA CAMARILLA .................................................................................. 556
ILLUSIONE .............................................................................................................. 557
DEVOZIONE............................................................................................................ 557
COERENZA ............................................................................................................. 558
FUGA IMPOSSIBILE............................................................................................. 558
LA FAVOLA DEI PALLONCINI............................................................................ 559
LA PISCINA NON FA BENE AGLI ESAURITI ................................................. 559
BRILLANTE FESTA DI COMPLEANNO ........................................................... 560
NEMICO NEL BOSCO .......................................................................................... 560
GO.............................................................................................................................. 561
E’ GUERRA PER TUTTI........................................................................................ 561
DALLE STELLE ALLE STALLE .......................................................................... 562
TEMPI DURI PER GLI ARTISTI.......................................................................... 562
UN UOMO SOLO AL TRAGUARDO .................................................................. 563
NON LORO .............................................................................................................. 563
T-SHIRT.................................................................................................................... 564
ODIO ......................................................................................................................... 564
I QUADRI DI GORGH........................................................................................... 565
L’INSEGNANTE ...................................................................................................... 565
LA GATTARA........................................................................................................... 566
CATARSI................................................................................................................... 566
L’INCIDENTE .......................................................................................................... 567
RACCONTINO MORALE ...................................................................................... 567
PAZZIA...................................................................................................................... 568
IL PULIVETRI.......................................................................................................... 568
NERA MEMORIA.................................................................................................... 569
LA VITA CONTINUA… .......................................................................................... 569
VENDETTA, TREMENDA VENDETTA ............................................................. 570
EVOLUZIONE ......................................................................................................... 570
AVIDA PASSIONE.................................................................................................. 571
LUNA PARK ............................................................................................................. 571
ADDIO....................................................................................................................... 572
INCROCI DI DESTINO CAPRICCIOSO............................................................ 572
FATO DALTONICO ................................................................................................ 572
FORTUNA E SFORTUNA ..................................................................................... 573
PASSIONE AL BINARIO NOVE .......................................................................... 573
DESTINO PERFIDO .............................................................................................. 574
A MALI ESTREMI…............................................................................................... 574
ERRORI .................................................................................................................... 575
STUPIDA DESTREZZA......................................................................................... 575
NONNI E SQUALI .................................................................................................. 576
SEMPLICITA’ DELL’ORRORE ............................................................................ 576
CONFUSIONE DI LUPI ED AGNELLI............................................................... 577
BOCCIOFILA........................................................................................................... 577
CHI BEN COMINCIA…......................................................................................... 578
LA FEDE E’ UNO ZOT.......................................................................................... 578
AVERE GIA’ DATO ................................................................................................ 579
CARISMA ................................................................................................................. 579
LA MEMORIA DELL’ACQUA............................................................................... 580
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