Sulle Tracce di un Film Immaginato

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Sulle Tracce di un Film Immaginato
I testi in copertina sono su riproduzioni del frontespizio originale della sceneggiatura
firmata Suso Cecchi D'amico, con note autografe di Luchino Visconti
Alla Ricerca
del Tempo Perduto
Sulle Tracce di un Film Immaginato
Luoghi Persone
Spoleto58 Festival dei 2Mondi
TEATRO CAIO MELISSO SPAZIO CARLA FENDI
La performance
Sulle tracce di un Film Immaginato
di Enrico Medioli con Loredana Scaramella
Una strada di Roma, poco lontano da Porta Portese.
L’ingresso del grande archivio è dissimulato dietro un
portone come tanti altri. Una volta dentro, file di scaffali
carichi di raccoglitori danno al luogo un profumo
inconfondibile: siamo all’Istituto Gramsci. Un personaggio
femminile si muove con la sicurezza di chi conosce quei
contenitori uno a uno. Su un tavolo coperto di documenti ben
ordinati viene poggiata una scatola, una delle tante che
contengono appunti, bozzetti, foto. Sul coperchio una sigla:
UA35, Fondo Visconti, A la recherche du temps perdu.
Attente mani femminili aprono i lembi della scatola.
Casa Visconti. Un giorno del 1920. Il giovane Luchino vede suo
padre, Giuseppe, completamente assorto nella lettura di un
libro giunto da Parigi.
“Accortosi del mio stupore per tanto suo interesse” racconterà
poi, “smise la lettura per un attimo e mi confessò che soffriva a
ogni pagina voltata, pensando che ben presto quel romanzo
prodigioso sarebbe arrivato alla fine. Era Du coté de chez
Swann di Marcel Proust. Avrò avuto diciassette anni… Beh, fu
proprio una febbre… E io sono rimasto lì. A Proust […] ”.
Questo primo incontro folgorante ha tutto il carattere della
predestinazione. Passerà del tempo prima che si avvicini alla forma
artistica che gli sarebbe stata più congeniale. L’occasione per un
film si presenterà solo nel ’69, preceduta da un prologo tortuoso.
L’arrivo della Recherche in Italia risale agli anni successivi
alla pubblicazione in Francia, avvenuta nel 1913, ma
bisognerà aspettare la versione di Natalia Ginsburg del 1946
per leggere Du coté de chez Swann in italiano.
Enrico Medioli, amico e collaboratore fedele di Visconti,
racconta di aver incontrato la Recherche grazie al suo
insegnante di liceo, il poeta Attilio Bertolucci. Quando però
chiese al padre di farne arrivare una copia personale da
Parigi, la risposta fu che mai quel libro sarebbe entrato in
casa sua.
Cosa conteneva di così perturbante l’opera di Proust? Questa
cattedrale di più di un milione di parole, costruita in
quattordici anni e popolata da più di 200 personaggi?
L’autore la presenta così:
“Pubblico un solo volume, Du coté de chez Swann, di un
romanzo che avrà come titolo generale A la Recherche du
temps perdu, e che […] avrei voluto pubblicare tutto insieme.
[…] Mi trovo nelle condizioni di una persona che possegga un
arazzo troppo grande per gli appartamenti d’oggi e sia
costretta a tagliarlo. […] Come spiegarvelo? […] Spero che
alla fine del mio libro un certo piccolo fatto sociale senza
importanza, un matrimonio tra due persone che nel primo
volume appartengono a due mondi molto diversi, indicherà
che è passato del tempo e assumerà quella bellezza che hanno
certi tubi di piombo patinati di Versailles, che il tempo ha
inguainati in un fodero di smeraldo”.
Data la scabrosità sociale e sessuale di alcune situazioni, si
scatenò un eccitante gioco di riconoscimento. Ma a chi gli
chiedeva quali fossero i modelli dei personaggi della sua
opera, lo scrittore continuava a negare di aver copiato questo
o quel personaggio vivente, e affermava: “… non ci sono
chiavi per questo libro, o meglio, ce ne sono otto o dieci per
uno solo […] ”.
Piuttosto che a svelare i suoi modelli, Proust sembra molto
interessato a presentare lo strumento principale della sua scrittura.
“La mia opera è dominata dalla distinzione fra la memoria
involontaria e la memoria volontaria. Per me, la memoria
volontaria […] ci offre del passato soltanto facce prive di verità;
ma basta che un odore, un sapore ritrovati in circostanze del
tutto diverse, ridestino in noi, senza che lo vogliamo, il passato,
e subito sentiamo quanto tale passato fosse diverso da quello
che credevamo di ricordarci e che la nostra memoria volontaria
dipingeva, come i cattivi pittori, con colori senza verità”.
Certo di quella memoria involontaria che Proust pone a
fondamento della sua creazione, Visconti conosceva l’alfabeto.
Dei suoi primi anni di vita ricorda: “…quell’odore di Milano che
nessuno mi restituirà, i giardini sul Naviglio, le carrozze, i
profumi che uscivano dalle botteghe, […] le campane di San
Carlo, le signore che uscivano dal caffè Canetta…”.
Confrontando le sue emozioni con quelle del Narratore – i
salotti, le persone, la musica – ogni pagina avrebbe potuto
essere una descrizione della sua vita.
Nato nel 1906, sette anni prima della pubblicazione de Du coté
de chez Swann, il conte Luchino Visconti di Modrone è un
autentico Guermantes, erede di una famiglia che ha retto la
città di Milano nei secoli, ne ha fatto costruire la cattedrale, e
gioca un ruolo fondamentale nella storia del Teatro alla Scala.
Donna Carla, la madre amatissima, avvolta in impalpabili veli
mauve nel suo palco, è Oriane de Guermantes all’Opéra.
L’ansiosa attesa che la madre venisse a dargli il bacio della
buona notte, il desiderio di andare a vedere una grande attrice,
la Borelli, la Duse, la Bernhard - che Visconti aveva potuto
ammirare quando era venuta a Milano - appartenevano a lui
non meno che a Proust. Come erano comuni a entrambi alcune
passioni musicali, da Wagner a Cesar Franck, che Donna Carla
amava ed eseguiva al piano con l’abilità di una concertista.
Quanto emerge è soprattutto un’ assonanza di temi: il ricordo
di un’ infanzia mitizzata, la descrizione di un mondo sull’orlo
dell’abisso, l’inafferrabilità dell’amato, l’amore per la madre,
l’omosessualità. Certo il carattere è diverso: Visconti non solo
non subisce la dimensione omosessuale come una colpa oscura,
ma accoglie sul suo cammino Muse magnifiche e diverse, delle
notevolissime fate - da Coco Chanel alla Callas, da Elsa Morante
a Suso Cecchi d’Amico - che seduce tutte con il suo fascino e la
sua genialità. Luchino si lasciava amare. Con benevolenza.
Marcel Proust, costretto ben presto dalla malattia a una vita di
clausura, non conobbe questa libertà.
Ma seguiamo insieme le tracce del film. Il caso volle che nel 1962
un’attrice e produttrice francese, Nicole Stéphane, nata
baronessa Rothschild, acquisisse i diritti cinematografici della
Recherche e, nella ricerca di un regista e di uno sceneggiatore
per il suo progetto, la scelta cadesse su René Clément e su Ennio
Flaiano, e per i ruoli principali su Mastroianni e Jeanne Moreau.
La sceneggiatura di Flaiano si sviluppa intorno agli
amori paralleli dell’ambiguo e grandioso Barone di Charlus per
il violinista Morel, e del Narratore per Albertine, raccontati da
Proust in Sodoma e Gomorra. Ma il progetto, per quanto abbia
tutti i requisiti per partire, si blocca.
Georges Beaume, agente della Stéphane e di Alain Delon,
consiglia Nicole: “ Réne Clément non è il tuo uomo, il mondo
di Proust non è il suo, mi sembra chiaro che il regista ideale sia
Visconti”. E poi racconta: “Insieme ci recammo a Milano dove
Luchino stava lavorando alla Scala. Facemmo colazione al
Principe di Savoia e Visconti si lanciò in uno dei suoi irresistibili
discorsi… Sapeva del film, ma non vi fece cenno; parlò soltanto
della sua concezione di Proust. Nicole impazzì di gioia”.
Nel ‘69 quindi Visconti si incontra con Flaiano, che gli ha fatto
recapitare la sua sceneggiatura accompagnata da un biglietto
stringato e fulminante: “Sia indulgente”. Enrico Medioli ed
Enzo Siciliano intanto lavorano a un nuovo trattamento che
contempla tutta l’opera: venti cartelle. Visconti lo giudica
troppo lungo, salvo poi aggiungere numerosi altri episodi di suo
pugno. Insieme a Flaiano elabora nel contempo una proposta
comune, che rispetto alla stesura precedente sposta
l’attenzione sulla rappresentazione d’ambiente cambiando la
cifra espressiva. “Il film” dice Visconti, “deve proporsi un fine
proprio, di spettacolo”.
I modi di concepire il cinema sono troppo lontani perché la
collaborazione fra Visconti e Flaiano possa andare avanti,
infatti si interrompe.
Visconti però non abbandona l’idea di un Proust cinematografico
ed invita la sua collaboratrice di sempre, Suso Cecchi d’Amico, a
scrivere una nuova sceneggiatura. Gli incontri preliminari sono
pochissimi: la materia è stata al centro di mille conversazioni
svolte durante gli anni di lavoro in comune.
Suso Cecchi D’Amico lavora pressoché da sola, avendo chiaro
che Visconti vuole suggerire la dimensione del romanzo
monumentale. La nuova stesura inizia con il soggiorno a
Balbec, durante il quale vengono presentati tutti i personaggi
principali, e si conclude con la serata dai Verdurin, la morte di
Albertine e le rivelazioni su Saint-Loup e Charlus, senza alcun
salto temporale. Scritta in francese, non contiene che dialoghi
e descrizioni narrative, lasciando un meraviglioso sospeso su
quanto non è descritto e definito.
Lavorano al progetto per otto mesi. Con Mario Garbuglia,
incaricato della scenografia, passano al setaccio la Francia per
sei settimane alla ricerca dei luoghi: prima a Parigi, poi nel
castello di Ferriére, la grande residenza belle époque che
apparteneva a Guy de Rothschild, infine a Combray e a
Cabourg, la Balbec della Recherche, riuscendo persino a
convincere le autorità del luogo a posticipare la demolizione del
Grand Hotel dove Proust era solito alloggiare.
Si accumulano migliaia di fotografie e bozzetti.
Gli attori erano stati scelti e alcuni avevano già firmato il
contratto, anche se per la maggioranza dei personaggi
restavano aperte diverse ipotesi. La Mangano sarebbe stata
Oriane de Guermantes; Delon o Dustin Hoffman, il Narratore,
nel film Marcel; Helmut Berger, il violinista Morel; la
Rampling, forse, Albertine. Per Charlus aveva pensato a Marlon
Brando, che giudicava un attore straordinario, ma la casa di
produzione si opponeva e la parte del Barone sarebbe stata
forse interpretata da Laurence Olivier. La Bardot gli aveva fatto
sapere che le sarebbe piaciuto partecipare al film e Visconti ve
l’aveva inclusa, nel piccolo ruolo di una Odette de Crecy un po’
invecchiata. E per la Regina di Napoli, Greta Garbo.
Il film sarebbe durato poco meno di quattro ore. Il colore
sarebbe stato evocativo, le immagini duplicate, triplicate come
in un gioco di specchi, per fondere passato e presente.
Nel frattempo, Piero Tosi comincia a disegnare i bozzetti per i
costumi, in ansioso allarme per la precisione con la quale
Proust descrive gli abiti e per l’arco di tempo che il film - e di
conseguenza l’abbigliamento dei personaggi - dovranno
coprire. Ogni mattina, recandosi al suo studio, non tralascia
mai di entrare nella chiesa degli Spagnoli, a via Condotti, per
accendere una candela... perché il film non si faccia! Dice;
“Proust descrive così bene il colore e la sostanza degli abiti di
Oriane de Guermantes e la veste rosa di Odette che tutto
diventa di una difficoltà terrificante. I suoi non sono
personaggi, sono persone”.
Visconti è affascinato dal tema dell’impossibilità dell’amore. E
lo afferma chiaramente: “ […] decisi di lasciare da parte
l’infanzia di Marcel e il mondo sociale per seguire uno dei
sentimenti fondamentali dell’opera: l’amore inteso
come inseparabile dalla gelosia. […] Il film sarà centrato
sull’amore di Marcel per Albertine e su quello del Barone per
Morel. Insomma, è Sodoma e Gomorra. […] Una certa società
di oggi ricalca molti aspetti di quella descritta da Proust. La
malattia di quel mondo è anche la nostra”.
L’inizio delle riprese è previsto per l’agosto del ‘71, anno in cui
ricorre il centenario di Proust. Visconti afferma: “So fin d’ora
che nessuno sarà soddisfatto, che tutti protesteranno,
contesteranno, resteranno indignati, offesi, scandalizzati. Ci
sono migliaia di vestali di Proust, più o meno autorevoli;
ognuno è sicuro d ‘essere l’unico depositario dell’unica verità
sulla Recherche e giudicherà il mio film una bestemmia, un
tradimento. Non me ne preoccupo. Lavoro in serenità, perché
sono sicuro che dispiacerò a tutti”.
Ed ecco che all’improvviso il film si ferma.
Sembra sia un problema economico, in effetti il preventivo è
stratosferico. La produzione decide di aspettare. Poi una sera
il coproduttore telefona a Nicole Stéphane e le dice che Visconti
lo ha chiamato: non può, non vuole più fare il film. La Stéphane
corre a Roma, è arrabbiata, insiste, ma non c’è niente da fare.
Propone un compenso doppio per la regia, ma evidentemente
non è una questione di soldi. Invece di aspettare, Visconti
comincia a lavorare a quello che descrive come “un piccolo
film”, Ludwig, che a sua volta prende più tempo del previsto.
La casa di produzione francese, pensando che abbia
abbandonato la Recherche, gli fa causa.
Nicole Stéphane si sente tradita: si rivolge a Joseph Losey per
la regia, e incarica Harold Pinter di scrivere la sceneggiatura di
un film che Visconti considerava suo di diritto, tanto da
intraprendere a sua volta un’azione legale. La situazione è
bloccata: Losey non può fare il film senza il permesso di
Visconti, le Majors non sostengono il progetto, il costo è
eccessivo…. Neppure questo film vede la luce.
Visconti scompare nel 1976 e il mitico incontro con Proust non
si è realizzato. Per mancanza di fondi? Eppure tante volte i
fondi erano stati trovati, come era successo per La Caduta degli
Dei, completata con finanziamenti americani. Per una strana
forma di superstizione? Per mancanza di tempo? Per un
rispetto eccessivo per un’opera tanto amata? Non sappiamo
perché abbia deciso di non fare il suo film sulla Recherche, certo
è che abbiamo perso qualcosa di grande. Ma creare è un atto di
libertà, esattamente come il rifiuto di creare. Forse Visconti era
arrivato alla conclusione che la Recherche non si poteva fare,
mentre più volte aveva ripetuto che se doveva esserci un film
proustiano doveva nascere da Jean Santeuil, il romanzo
giovanile dal quale non si separava mai, una sorta di prova
generale della Recherche.
Eppure per tutta la vita Luchino continua a mettere in scena
l’opera di Proust e i suoi personaggi. In un’intervista ad
Antonello Trombadori afferma: “La mia ambizione più grande
è che Tancredi e Angelica, nella notte del ballo a Palazzo
Ponteleone, ricordino allo spettatore Odette e Swann”. E poi
ricrea la spiaggia e l’albergo di Balbec in Morte a Venezia,
trasfigura l’amore fra Charlus e Morel nella relazione fra il
personaggio della Mangano e quello interpretato da Helmut
Berger in Gruppo di famiglia in un interno, esalta Wagner in
Ludwig, nell’Innocente ricostruisce il salotto dei Verdurin e,
come confida complice a Medioli, mette in scena la morte dello
scrittore Filippo D’Arborio, proprio come Proust descrive la
morte del romanziere Bergotte. E ancora in Gruppo di famiglia
in un interno è tutta proustiana la citazione dell’inquilino del
piano di sopra, la morte, con cui il Professore saluta la fittizia
famiglia che ha invaso la sua esistenza solitaria.
Non sarà che Visconti, invece di un adattamento letterale, ci
offre una citazione in filigrana di quanto nella Recherche gli era
più caro?
Una scelta che ricorda quella di Proust, che a proposito del Jean
Santeuil confidava all’amico Reynaldo Hahn: “Voglio che siate
sempre presente, ma come un Dio travestito, in modo che
nessun mortale vi riconosca”.
Come un Dio travestito.
Su una spiaggia deserta un albero maestro, una conchiglia, un
ramo restano testimoni di un naufragio; così, in quella scatola
aperta sulla quale campeggia la sigla U35, Fondo Visconti, foto,
bozzetti e appunti sono le tracce dell’impresa mai realizzata.
Questi resti oggi, con l’affetto e la cura che meritano le preziose
briciole di un genio, sono portati alla luce e collocati negli spazi
del Festival dei 2 Mondi.
Nella Chiesa della Manna d’Oro, i luoghi: scelti dal regista ci
accolgono in un universo di immagini amplificate dalla
memoria.
In una struttura simmetrica, nell’ex Museo Civico, i personaggi
reali, le persone: i molteplici modelli di ciascun protagonista
del romanzo. Colti in un istante di vita dall’obiettivo di Nadar,
si mostrano in silhouette accanto alle figure degli attori che
avrebbero dovuto interpretarli; con i bozzetti dei costumi, i
tanti accessori già studiati da Piero Tosi, e le inedite note di
regia scritte di suo pugno da Visconti.
I due luoghi sono trasformati come a creare un respiro, a
infondere vita a un mondo non finito, a un film mai nato, che
per il generoso intuito di Carla Fendi e della sua Fondazione
ognuno potrà immaginare, ricomponendo i frammenti in un
mosaico personale e segreto.
Un po’ di insana confusione tra arte e vita
di Alessandro Piperno
Al termine di una delle mie prime conferenze su Proust fui
avvicinato da una signora. Con garbo adeguato alle circostanze
mi chiese se non mi vergognassi di aver confuso per ben due
volte, durante la prolusione, il nome di Marcel Proust con
quello del narratore della Recherche. La suscettibilità,
esacerbata dall’inesperienza, mi consigliò un silenzio cauto e
contegnoso. A molti anni di distanza, dovendo ancora una
risposta alla signora (e a me stesso), sento l’esigenza di rompere
quel giovanile riserbo.
Cos’è la Recherche? Un memoir straordinariamente dettagliato? Un romanzo ispirato alla vita dell’autore? Il canto del
cigno di un’era irreplicabile come la Belle Epoque? Un titanico
tour de force balzacchiano? Una cattedrale modernista? Un
tentativo senza precedenti di mettere a nudo il cuore umano?
O una vibrata protesta contro la morte?
E chi è l’individuo che all’inizio ci parla delle sue difficoltà a
prendere sonno, e di lì in poi, per pagine e pagine, ci intrattiene
con ubbie nevrotiche, amori infelici, successi mondani e frustrazioni artistiche? Abbiamo il diritto di assimilarlo a Marcel
Proust? O, come pensava la mia intransigente signora (e con lei
molti altri assai più titolati), tale sovrapposizione è un esercizio
indebito e vergognoso?
E’ stato Proust il primo a diffidare i futuri esegeti dal confondere la sua opera con la sua vita. Aveva buoni motivi per farlo,
non tutti limpidi. Non era molto fiero di sé. Non aveva un buon
rapporto con la sua omosessualità né con le sue origini ebraiche. Si vergognava di un’esistenza inconcludente e parassitaria.
A giudicare dalle troppe lettere che scriveva non era l’uomo più
schietto del mondo, anzi era un ipocrita fin troppo incline alla
piaggeria. Per questo e molto altro, chiedeva ai posteri di non
essere giudicato per ciò che aveva fatto ma per ciò che aveva
scritto. Dichiarava assurda la relazione tra l’io profondo (così
lo chiamava) e l’io biografico. Non deve sorprendere che la Recherche pulluli di grandi artisti non proprio integerrimi.
Fin qui alcune delle ragioni di Proust, del tutto comprensibili,
e a ben vedere provviste persino di una certa bellezza. Ma perché prenderle per oro colato se dopotutto non ci riguardano?
Perché, leggendo la Recherche, dovremmo impedirci di amalgamare la vita di Proust a quella del narratore se tale promiscuità procura piaceri ineguagliabili e allarga lo spettro della
nostra comprensione? E’ bello e utile sapere che Proust avesse
nozione diretta di ciò che scriveva. La saggezza proustiana, per
niente libresca, deriva dalla sua irripetibile esperienza.
Nella primavera del 1895 Marcel visse una delle prime tormentose storie d’amore. Lui si chiamava Reynaldo Hahn e condivideva parecchie cose con Proust: quasi coetaneo, avvenente, di
buona famiglia, di origine ebraica, dal precoce temperamento
artistico, Reynaldo amava la vita i salotti e i ragazzi. Proust provava per lui gelosie proustiane (all’epoca non si chiamavano ancora così). Una volta, non trovandolo a un ricevimento in cui si
erano dati convegno, Marcel s’infuriò. La lettera piena di livore
che scrisse a Reynaldo si chiude così: “Ecco per me la vera tragedia palpitante e profonda che scriverò forse un giorno e che
nell’attesa vivo”. Già all’epoca, appena ventiquattrenne, Proust
coltivava la speranza che la vita potesse offrirgli materiale da
riciclare nella sua opera. Era come se posasse per se stesso. Di
fatto quella lettera prefigura una delle scene più celebri di Un
amour de Swann: giunto in ritardo nel salotto dei Verdurin,
Swann cerca invano Odette e viene afferrato da un’angoscia
straziante.
A un certo punto il legame tra vita e arte divenne talmente inestricabile da capovolgersi. Quando Alfred Agostinelli, il suo autista amante, muore in un incidente aereo, Proust aveva già
immaginato una fine analoga per Albertine. Tale luttuosa coincidenza gli ispirò un’amara considerazione: “Da molto tempo
ormai la vita non mi offre più che eventi che ho già descritto”.
Una frase spesso attribuita a Hemingway recita più o meno:
“C’è chi scrive per scopare e chi scopa per scrivere”. Proust apparteneva decisamente alla seconda categoria.
A metà degli anni ’50, in una delle mirabili lezioni sulla Recherche alla Cornell University, il professor Vladimir Nabokov ammoniva i suoi fortunati studenti: “C’è una cosa che dovete
imprimervi bene in mente: l’opera non è un’autobiografia, il
narratore non è Proust in persona e i personaggi non sono mai
esistiti se non nella mente dell’autore. Non occupiamoci,
quindi, della vita che in questo caso non è importante e ingenererebbe soltanto confusione, soprattutto perché narratore e
autore s’assomigliano per più di un aspetto e si muovono pressappoco nel medesimo ambiente”.
A costo di contraddirmi, vorrei chiarire che concordo con Nabokov: mescolare in modo pedissequo le esperienze dell’autore
a quelle del narratore è un’ingenuità imperdonabile. Dissento
però da Nabokov quando ci esorta a non occuparci della vita di
Proust, a non creare un nesso. Dissento, non perché creda che
tra la vita e l’opera di un artista ci sia una relazione di causa/effetto - non è detto che tutti gli omosessuali sensibili e di buona
famiglia diventino Marcel Proust. Ma perché il prisma che divide l’esperienza umana di uno scrittore dal fiabesco mondo
della sua opera offre a noi lettori ingenui e sentimentali una varietà infinita di piaceri voluttuosi e commoventi: sarebbe un
peccato privarsene!
E’ Proust in un passo di La Prisonnière a edificare il ponte tra
la sua vita e il suo romanzo: un inciso nel cuore sanguinolento
dell’opera. Siamo nel quinto libro, quello che Proust non
avrebbe mai scritto se non gli fosse stato ispirato dalla relazione
con Agostinelli. Nel giro di poche pagine, mentre l’amore tra il
narratore e Albertine degenera in patologia, muoiono due tra i
personaggi più eminenti e rappresentativi della Recherche: Bergotte e Swann.
E’ tempo che Proust si lasci andare. Lo fa con Bergotte in una
scena molto commentata; lo fa ancor più con Swann. Il che non
deve sorprenderci visto che Swann è il personaggio prediletto,
quello che gli somiglia. Fine, colto, ricchissimo, Swann ha sprecato la sua vita, sperperato il proprio talento per inettitudine e
pigrizia. Difficile che, una volta morto, qualcuno lo ricordi. Il
suo nome è destinato a svanire. L’investimento sulla mondanità
gli è stato fatale. Tocca a Proust salvarlo dalle tenebre dell’Oblio e per farlo ricorre a uno stratagemma inedito. Gli si rivolge direttamente, lo interpella come se fosse un vecchio
amico. Scrive: “Eppure, caro Charles Swann, che io ho conosciuto così poco quando ero tanto giovane e voi vicino alla
tomba, solo perché colui che dovevate considerare un piccolo
sciocco ha fatto di voi il protagonista di uno dei suoi romanzi,
si ricomincia a parlare di voi e forse voi vivrete”. Subito dopo,
per non dare adito a equivoci, Proust svela l’identità dell’uomo
che ha ispirato il personaggio: “Se nel quadro di Tissot raffigurante il balcone del Cercle de la rue Royale, dove siete tra Galiffet, Edmond de Polignac e Saint-Maurice, si parla tanto di
voi, è perché si vede che ci sono alcuni elementi vostri nel personaggio di Swann”.
Il gentiluomo ritratto nel quadro di Tissot non è altri che Charles Haas, un dandy inglese molto quotato nella Parigi di Proust.
E stavolta - con buona pace della mia intransigente signora, del
Professor Nabokov e di tanti altri ancora - è Proust stesso a fare
confusione tra personaggio e modello. E’ lui a favorire questo
incantevole, commovente cortocircuito, scivolando quasi impercettibilmente da Swann a Hass, dal narratore a se stesso, dal
romanzo alla vita.
Alla Ricerca
del Tempo Perduto
Sulle Tracce di un Film Immaginato
Luoghi
Direzione artistica
QVIRINO CONTI
Scenografo collaboratore
Michele Della Cioppa
Image maker
Fiorenzo Niccoli
Projection designer
Sergio Metalli
Consulenza letteraria
Daniela Bonanni
Riadattamenti e musiche originali
Giordano Corapi
Voce narrante
René Fiorentini
Sound designer
Giacomo Rende per DecibelPost
Coordinamento grafico
Cristiano Guerri
Realizzazione allestimento
TECNOSCENA
EMAKI
LE IMMAGINI, TRATTE DALLA DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA
RACCOLTA IN FRANCIA NELLA PRIMAVERA DEL 1971 DA LUCHINO VISCONTI
CON LO SCENOGRAFO MARIO GARBUGLIA E LO STAFF ORGANIZZATIVO DELLA PRODUZIONE,
SONO CONSERVATE NEL FONDO VISCONTI DELLA FONDAZIONE ISTITUTO GRAMSCI DI ROMA.
Hanno collaborato:
Archivi Alinari, Arnoldo Mondadori Editore, Bibliothèque nationale de France et la Réunion des musées nationaux –
Grand Palais, Caisse nationale des monuments historiques et des sites – Centre des monuments nationaux,
Institut Marcel Proust International, Librairie Galignani, Oxford University Press,
Société des Amis de Marcel Proust et des Amis de Combray.
UN PARTICOLARE RINGRAZIAMENTO A CATERINA D’AMICO
Photo Credits
Mario Garbuglia
Claude Schwartz
Alcune immagini prese da Internet sono state ritenute di pubblico dominio.
Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla diffusione e/o pubblicazione delle stesse,
non avranno che da segnalarlo e si provvederà prontamente alla loro rimozione.
ALL RIGHTS RESERVED
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Cristiano Guerri
Editing
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Rielaborazioni iconografiche
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Riadattamenti e musiche originali
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Hanno collaborato:
Fondazione Istituto Gramsci
e
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UN PARTICOLARE RINGRAZIAMENTO A
CATERINA D’AMICO, ENRICO MEDIOLI, PIERO TOSI
Si ringrazia per la collaborazione P.M.A. Tecnologie Industriali
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non avranno che da segnalarlo e si provvederà prontamente alla loro rimozione.
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TEATRO CAIO MELISSO
SPAZIO CARLA FENDI
28 Giugno 2015