rassegna stampa

Transcript

rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA
venerdì 20 novembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
BENI COMUNI/AMBIENTE
CULTURA E SCUOLA
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Huffington Post del 20/11/15
Francesca Chiavacci, Presidente nazionale Arci
Roberto Roversi, Presidente dell’associazione nazionale UCCA (Unione Circoli
Cinematografici Arci)
È proprio questo il momento per vedere
"Napolislam", il film sui napoletani convertiti
Il film Napolislam, di Ernesto Pagano, documenta la storia della conversione all'Islam di
dieci persone a Napoli e, come dice il regista, parte dall'idea che "l'integrazione è ormai
una realtà, e certo questo dipende anche dalla natura della città in cui il film è ambientato,
con luoghi come piazza Mercato, dove c'è la moschea e contemporaneamente il culto
della madonna Bruna, che è un vero laboratorio di integrazione".
È uno dei film che abbiamo scelto per "L'Italia che non si vede", la rassegna itinerante del
cinema del reale che Ucca, l'associazione dei circoli del cinema dell'ARCI, sta proponendo
in molti sue basi associative. E che quindi si potrà vedere, fortunatamente, in tanti cineclub
e cinema ARCI in Italia. Nella presentazione della rassegna lo abbiamo valorizzato proprio
perché coniuga la compiutezza formale alla capacità di rivelare squarci di vita quotidiana
di persone normali che si sono avvicinate all'Islam ed è un documento utile alla riflessione
e alla comprensione di questa realtà, particolarmente in questi momenti drammatici dopo
le stragi di Parigi.
Lo sguardo dell'autore che, inter alia, è un noto e stimato giornalista e saggista,
collaboratore di testate quali Internazionale, Report e Reset, sulla piccola comunità
islamica di Napoli, è infatti neutro e asettico, quasi da entomologo. L'approccio è laico e
non dà giudizi. Aiuta a comprendere una dinamica sociologicamente interessante, che
andrebbe approfondita. Ancora nelle parole del regista:
"I convertiti hanno delle storie diverse: molti arrivano da militanze in partiti di estrema
sinistra, altri hanno sposato delle persone di religione musulmana o nell'Islam hanno
semplicemente trovato delle risposte che le loro precedenti religioni o ideologie non erano
riuscite a dare".
Insomma: un'analisi complessa e stimolante, che mostra impietosamente tutti i limiti dei
reportage sensazionalistici che ogni sera ci ammorbano in talk show in crisi di ascolti,
occupati più ad alzare l'asticella dell'indignazione popolare che ad informare e ad
approfondire i temi in discussione. E se un plauso va rivolto ad I Wonder Pictures che,
dopo l'affermazione del film al Biografilm Festival, ha deciso di distribuire il film sul
territorio nazionale, lo stesso non si può dire dell'esercizio cinematografico e in particolare
di UCI Cinemas, il grande circuito di multiplex che programma oltre 450 schermi nel nostro
paese.
La presentazione del film, prevista il 25 novembre in 15 sale italiane del circuito, è stata
procrastinata con questo perentorio comunicato da parte di UCI Cinemas:
"La proiezione del film Napolislam, di Ernesto Pagano, in un primo momento annunciata
proprio per il 25 novembre, è rimandata alla riapertura della rassegna a febbraio 2016. In
queste giornate di forte tensione e shock a seguito dei tragici eventi di Parigi, visti i temi
delicati e complessi trattati, pur con grande sensibilità, dal film, si è preferito rimandare la
proiezione a un momento più sereno".
Si tratta di una decisione che riteniamo quanto meno discutibile, soprattutto per le
motivazioni addotte. "Un momento più sereno": davvero UCI pensa che rimandare il
2
racconto di questa storia possa "rasserenare" un clima anziché rafforzare la superficiale e
sbrigativa equazione "musulmano = terrorista"? Davvero la paura deve per forza avere
come effetto la riduzione della libertà? Di fronte a questa decisione, non possiamo che
dirci "interdetti" come l'autore e condividere la sua sconsolata constatazione:
"Napolislam è un film che si prende il tempo di osservare, al di là dell'emergenzialità
degli attentati terroristici. Ma forse una certa Italia è culturalmente impreparata ad
accettare la complessità dei fenomeni".
E infine, mai come in questa vicenda, la domanda che spesso abbiamo usato (se non ora
quando?) rimbalza prepotentemente.
http://www.huffingtonpost.it/francesca-chiavacci/il-momento-giusto-per-vederenapolislam_b_8608122.html?utm_hp_ref=italy
da Redattore Sociale del 20/11/15
Giornata infanzia, Arci e Arciragazzi: no alle
disuguaglianze, ogni giorno sia il 20
novembre
Le associazioni nella Giornata infanzia: eliminare la discriminazione dei
minori d’età, in particolare verso quelli di origine straniera, di cui molti
non accompagnati
ROMA - Arci e Arciragazzi si impegnano perché "ogni giorno sia il 20 novembre, specie
ora dove bambine e bambini, ragazze e ragazzi sono vittime del terrore delle guerre e dei
terrorismi". Così le organizzazioni nel 26° anniversario della Convenzione Internazionale
sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, approvata dall'Assemblea Generale dell'Onu nel
1989.
"Impegnarsi quotidianamente per l’eguaglianza dei diritti di tutti i bambini e ragazzi,
eliminare la discriminazione dei minori d’età, in particolare verso quelli di origine straniera,
di cui molti non accompagnati, che cercano rifugio dai drammi delle guerre e della
diseguaglianza economica. Impegnarsi perché sia data la cittadinanza ai minori d’età di
origine straniera che vivono nel nostro Paese. - si legge in una nota - Impegnarsi perché ci
sia sempre maggiore ascolto e partecipazione dei bambini e dei ragazzi. Impegnarsi
perché vi sia un piano per l’Infanzia con opportune risorse per prevenire il disagio e
favorire la scuola. Quando venne adottata la convenzione dall’ Assemblea delle Nazioni
Unite l’allora Segretario Generale Kofi A. Annan pronunciò queste parole: “l’umanità deve
all’infanzia il meglio di ciò che ha da offrire”. Il nostro impegno è perché questo accada, e
questo può accadere solo se mettiamo fine alle diseguaglianze".
Da GreenReport del 20/11/15
Marcia globale per il clima, in tutto il mondo
meno che a Parigi
A Roma appuntamento il 29 novembre a Piazza Farnese. A Milano “Un
clima diverso per l’Europa”
A Parigi la Marcia Globale per il Clima è stata cancellata a causa delle misure di sicurezza
imposte dagli attentati, ma 50 grandi manifestazioni sono programmate in tutto il mondo il
3
28 e 29 novembre, per chiedere di arrivare finalmente a un accordo vincolante che fermi i
cambiamenti climatici.
Gli organizzatori della Global Climate March parigina, che doveva precedere l’apertura
ufficiale e istituzionale della 21esima Conferenza delle parti Unfccc, sono naturalmente
molto delusi, ma non mollano e in un comunicato congiunto scrivono: «Il governo può
proibire queste manifestazioni, ma la nostra voce non sarà silenziata. Anche se questo ci
rende difficile proseguire con le iniziative che avevamo organizzato, troveremo un modo
affinché a Parigi l’appello per la giustizia climatica venga ascoltato, e incoraggiamo tutti,
ovunque nel mondo, a unirsi alla Marcia Globale per il Clima e ad alzare la voce più forte
che mai. Non c’è ne è mai stato così bisogno. I nostri piani su Parigi devono cambiare, ma
il movimento per la giustizia climatica non rallenta. In tutto il mondo marce, dimostrazioni e
disobbedienza civile sono in programma per le settimane e i mesi a venire. Insieme,
continueremo a ergerci contro la violenza e l’odio con la nostra pace e la nostra
determinazione. Per le persone in tutto il mondo, unitevi alla Marcia Globale per il Clima
nella vostra comunità per mostrare il sostegno alla giustizia climatica. Per coloro che
hanno in programma di venire a Parigi, venite e unitevi a noi, troveremo un modo per agire
insieme».
Infatti, i terroristi non l’avranno vinta e il movimento organizza più di 2.173 eventi, incluse
più di 50 grandi manifestazioni, in tutto il mondo come parte della Marcia Globale per il
Clima del 28 e 29 novembre. Molti degli eventi già programmati a Parigi per le due
settimane della COP21 stanno andando avanti , incluso il concerto con Thom Yorke, Patti
Smith e altri. Gli organizzatori incoraggiano anche gli attivisti ad «arrivare a Parigi per i
giorni finali della conferenza per essere sicuri che i popoli, non gli inquisitori nè i politici,
abbiano la parola finale».
A Roma, la Marcia Globale per il Clima è organizzata dalla Coalizione italiana clima, che
conferma l’appuntamento del 29 novembre e invita tutti alla partecipazione: «In marcia per
il clima e per la pace: partenza alle 14 da Piazza Farnese per raggiungere via dei Fori
imperiali dove si terrà poi un concerto. Sul palco si alterneranno numerosi artisti e
testimonial». Alla marcia romana parteciperanno anche i movimenti pacifisti e le
organizzazioni che lavorano con i migranti.
La Coalizione italiana per il Clima sottolinea che «Dopo i fatti tragici di Parigi e il divieto del
governo francese di organizzare le manifestazioni per il clima, la marcia di Roma si carica
di ulteriore significato per sconfiggere la paura e costruire la pace. Marceremo anche per
tutti quelli che a Parigi non potranno più aderire a questa manifestazione globale. E’
importante essere in tanti per far sentire la voce della società civile, perché i cambiamenti
climatici ci riguardano tutti, da molto vicino, e sono un’emergenza con ripercussioni in tutti i
campi: ambientale, sociale, economico e geopolitico. La questione climatica è, infatti,
strettamente intrecciata con le migrazioni, le guerre e i drammatici eventi che scuotono il
medio oriente, l’Europa e il mondo intero. E’ la partita della gestione delle risorse e
rappresenta l’occasione per definire un nuovo scenario energetico e un nuovo modello di
sviluppo che punti alla tutela del bene comune e delle risorse naturali».
La Coalizione italiana clima, alla quale aderiscono oltre 150 soggetti fra sindacati e
organizzazioni nazionali e locali della società civile, degli agricoltori, di solidarietà
internazionale e di difesa dei diritti umani, ambientaliste, confessionali, sindacali,
movimenti sociali e enti locali, è nata per dare la parola ai cittadini in previsione della
COP21 e ricorda che «Per fermare l’aumento della temperatura almeno entro 2 gradi
centigradi, il tempo stringe. Gli impegni già sottoscritti dagli Stati in previsione del Summit
di Parigi, purtroppo, non bastano. Servono oggi obiettivi e misure più ambiziosi. La partita
che si gioca alla COP21 è quella del futuro del mondo: una questione che non può
prescindere dalla partecipazione della società civile e dall’ascolto delle sue proposte. Per
4
questo è fondamentale essere in tanti il 29 novembre, per chiedere con forza giustizia
climatica, un nuovo scenario energetico che fermi le emissioni di gas serra e apra la
strada a equilibri nuovi e sostenibili».
Il corteo partirà da Piazza Farnese alle 14,00 e raggiungerà i Fori Imperiali, dove si terrà il
concerto a partire dalle 17,00 fino alle 21,00. Gli organizzatori evidenziano ancora una
volta che «Dopo i tragici fatti di Parigi la marcia assume ulteriore significato e dobbiamo
essere in tantissimi per sconfiggere insieme il clima di paura che serpeggia dappertutto. A
Parigi sono state vietate le manifestazioni di piazza del 29 novembre e del 12 dicembre,
marceremo anche per loro. Dobbiamo utilizzare i 9 giorni che ci rimangono per diffondere
l’informazione e invitare amici e parenti a partecipare. In sede sono disponibili volantini,
locandine, manifesti che ognuno potrà diffondere nel proprio quartiere/condominio». I
pullman che da tutta italia partiranno per la Marcia del 29 novembre a Roma saranno
autofinanziati. Le associazioni che coordinano l’organizzazione dei pullman a livello
territoriale sono: Arci, Legambiente, Arci Uisp e Wwf
Il 21 novembre, il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, interverrà a nome
della Coalizione Italiana per il Clima sul palco della manifestazione della Fiom che partirà
da Piazza Esedra alle ore 9,30 per concludersi a Piazza del Popolo.
Rossella Muroni, direttrice nazionale di Legambiente, è convinta che «Le tante marce della
Global Climate March, che vedranno centinaia di migliaia di persone scendere in piazza e
attraversare numerose città in tutto il pianeta, testimonieranno la volontà della società
civile di far sentire la propria voce contro i cambiamenti climatici e le ingiustizie che ne
derivano, di voler reagire al clima di paura e di terrore, di voler costruire un mondo in cui i
popoli vivano in pace senza razzismi. Per queste ragioni, le organizzazioni pacifiste hanno
deciso di partecipare alla marcia per il clima del 29. Mancano 9 giorni alla marcia,
utilizziamoli al massimo per diffondere l’invito a partecipare alla manifestazione del 29 a
Roma e aiutare a vincere la paura, compresa quella contro gli immigrati».
Intanto Legambiente sta preparando “Un clima diverso per l’Europa” un altro evento che si
terrà a Milano il 10 dicembre, alla vigilia del decimo congresso nazionale del Cigno Verde.
Gli ambientalisti spiegano che i temi dell’iniziativa sono: «L’identità europea alla prova
delle trasformazioni economiche e sociali, dei cambiamenti climatici, delle prospettive
dell’economia circolare, dei nuovi diritti di cittadinanza. Le risposte possibili per rendere
l’Europa capace di affrontare le sfide in modo adeguato, democratico, inclusivo e
innovativo per costruire una nuova identità comune, superare le paure e restituire la
speranza»Secondo il Cigno Verde, « Negli ultimi anni l’Europa è stata posta di fronte a sfide che ne
hanno messo a nudo le grandi debolezze e le eccessive timidezze. La crisi greca e le
politiche dell’austerity, il bisogno di rilanciare consumi e welfare, la sfida dei cambiamenti
climatici e la rivoluzione energetica in corso, le ondate ricorrenti di migranti e l’inaccettabile
distinzione tra profughi di guerra e profughi economici, i nuovi diritti di cittadinanza sono lo
specchio di questo malessere. Occorre un grande sforzo collettivo, in cui l’ambientalismo
può dare un contributo decisivo, per ripensare e rilanciare un Progetto di Europa sociale,
ambientale, culturale, capace di riconoscere nuovi diritti e di aprirsi ad una più autentica
cittadinanza. Ed è in questa prospettiva che il vecchio continente deve imparare ad
ascoltare con più attenzione le istanze, le idee, e le proposte che vengono dal
Mediterraneo. È necessario che l’Europa recuperi la sua vocazione umanistica e assuma
un ruolo innovativo e dirompente, ponendo la lotta ai cambiamenti climatici come la base
su cui costruire un nuovo profilo, perché significa muoversi nell’interesse della gente e non
delle grandi lobby finanziarie, significa cambiare politica dell’accoglienza e assumere un
ruolo propositivo nel Mediterraneo e nei Paesi dove originano le catastrofi ambientali e
belliche, significa rivedere alla luce di questi cambiamenti il welfare e le politiche sul suolo,
5
l’agricoltura e le aree urbane. Tutto ciò può avere un punto di caduta forte sia in termini di
impegni concreti da prendere su clima e politiche dei suoli, sia sui migranti, formalizzando
all’ONU la richiesta del riconoscimento dei profughi ambientali, per cancellare la
distinzione oggi proposta dall’Ue tra i profughi di guerra e gli altri, rilanciando la campagna
per il diritto di voto alle amministrative per gli immigrati che risiedono nel nostro Paese da
almeno cinque anni».
http://www.greenreport.it/news/clima/marcia-globale-per-il-clima-in-tutto-il-mondo-meno-aparigi/
Da Repubblica.it (Genova) del 19/11/15
Quelle "Energie solidali" che l'Arci spande
per il mondo
Nasce a Genova un progetto di collaborazioni internazionali: ne parla
Walter Massa, presidente di Arci Liguria
di MATTEO MACOR
19 novembre 2015
Quelle "Energie solidali" che l'Arci spande per il mondo
Migranti sulle strade in Ungheria: nel progetto di Arci anche sostegni concreti
Si chiama “Energie solidali”, nasce a Genova, ed è “la risposta che pensiamo di dover
dare in quanto associazione a quello che è diventato oggi il nostro mondo: un mondo dove
60milioni di persone si ritrovano a fuggire da guerre e dittature, dove la cooperazione
internazionale deve per forza cambiare pelle, dove i temi caldi sono più di tutti quelli
dell’accoglienza e dell’immigrazione forzata”. Lo strumento, di fatto “un contenitore –
continua Walter Massa, il presidente di Arci Liguria – che andrà a racchiudere tutti quei
progetti Arci trasversali a cultura, immigrazione e solidarietà internazionale”, è stato varato
ufficialmente negli ultimi due giorni, tra Castello d’Albertis e la Casa 25 aprile, con la
“Marcia dei Migranti”. Una due giorni di dibattiti e ospiti nazionali, con cui Arci Liguria “ha
tentato di darsi un’indicazione sulla strada da seguire”.
Massa, Arci Liguria è in realtà impegnata da sempre sul campo dell’educazione alla
pace e della solidarietà internazionale. Cosa cambia con Energie solidali?
"Abbiamo deciso, da quest’anno, di mettere a sistema le nostre attività sul tema,
convogliandone all’interno di questo nuovo contenitore. Per ora regionale, ma con “vista”
sul nazionale. Energie Solidali si poggia sull’esperienza di tutto il lavoro dell’Arci ligure in
materia di cooperazione, intesa sia come missioni all’estero che come attività di
sensibilizzazione, di restituzione e di riflessione".
Un nuovo modo di lavorare, di definire il proprio lavoro di associazione, che viene
inaugurato con una due giorni di convegno intitolata alla marcia dei migranti di
quest’estate.
"Oggi il tema immigrazione è la vera questione politica capace di cambiare interi continenti
e soprattutto di cambiare le nostre comunità. Al contempo crediamo sia necessaria una
maggiore interazione e sinergia tra movimenti spontanei e società civile organizzata, tanto
nel panorama internazionale, quanto in quello nazionale".
Il primo dei due incontri della due giorni di Arci a Genova si intitola “L’Europa dei
muri, l’Europa dei diritti”. Hanno partecipato Raffaella Bolini, delle relazioni
internazionali Arci, e Silvia Stilli, portavoce nazionale dell’Associazione delle
Organizzazioni Italiane di cooperazione e solidarietà internazionale.
6
"Abbiamo voluto mettere al centro delle nostre riflessioni l'Europa, e fare il punto su questa
Europa alla prova dell'immigrazione. Siamo partiti dal tema della marcia dei migranti, il
tema politico nuovo e più importante di questo ultimo periodo, e riflettere sul ruolo che
dovrebbe avere l’Europa in tutto questo. Scoprendo un continente molto debole nella
capacità di lettura del mondo, e della globalizzazione".
Cosa farà, nel concreto, Energie Solidali?
"Comprenderà tutti quei nostri lavori che andranno nella direzione di una proposta di
solidarietà internazionale che tenga insieme ciò che in passato è stato tenuto troppo
separato: migrazioni, cultura e cooperazione".
E come cambia, questo nuovo mondo, il modo di lavorare dell’Arci?
"Penso che i nuovi fenomeni migratori abbiano cambiato la stessa natura della
cooperazione internazionale, è uno strumento che abbiamo visto mutare profondamente.
Pensiamo al movimento spontaneo di accoglienza che è nato lungo la rotta dei migranti: è
paragonabile al popolo di Seattle, al movimento di Genova del 2001, è questo la nuova
società civile, ed è questo in un certo senso il nuovo modo con cui fare cooperazione. E in
questo contesto associazioni come la nostra rischiano di non essere più utili come un
tempo".
Ovvero?
"Ci dobbiamo “riposizionare”. Non possiamo più prescindere dal fenomeno migratorio che
cambierà comunità, continenti e quartieri, e dobbiamo ripartire da lì. E il tema
fondamentale da tenere da conto in tutto questo, per tornare ad avere un ruolo, è uno: la
cultura, uno scambio vero di cultura. Tornare ad avere scambi concreti con altri pezzi di
mondo, e fare cooperazione proprio e soprattutto attraverso la cultura".
Di fatto, quello che già state “costruendo” a Cuba.
"A Cuba siamo attivi a Santa Fe, poco lontano dall’Avana. Qui si lavora insieme a
laboratori di espressione culturale, attività nelle scuole, progetti di sviluppo agricoltura
sostenibile biologica. Sono poi in corso anche scambi tra artisti, sul modello di quello che
ha portato vari artisti cubani la primavera scorsa a Genova e lo stesso farà nella prossima
estate. Esempi di come pensiamo dovrà essere la cooperazione internazionale".
http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/11/19/news/quelle_energie_solidali_che_l_arci_s
pande_per_il_mondo-127741454/
Da Repubblica.it (Palermo) del 19/11/15
Catania: Capossela in difesa della "Piazza dei
libri"
Galleria fotografica
C'era anche Vinicio Capossela ieri sera a Catania, per unirsi ai tanti artisti che hanno dato
il sostegno a "La Piazza dei Libri", la biblio-emeroteca realizzata e gestita
dall'associazione Gammazita. Tante le accuse che sono state mosse contro il progetto
volontario e autofinanziato dell'associazione che fa parte del circolo Arci: dall'occupazione
del suolo pubblico alla mancata registrazione nell'elenco delle associazioni, dai rapporti
ritenuti da alcuni "privilegiati" con il Comune all'idea che il loro sia un centro sociale. Ma in
piazza Federico di Svevia, a due passi dal castello Ursino, i ragazzi hanno spiegato punto
per punto tutti i dubbi e le voci inesatte che circolano sulla loro attività che conta centinaia
di libri, consultabili sempre e da chiunque durante tutta la giornata. Gratuitamente. Volumi
donati anche dall'estero e che riempono una piazza che, prima dell'iniziativa di
Gammazita, era un parcheggio per auto. Con l'arrivo della biblio-emeroteca ha cambiato
7
completamente aspetto: vasi colorati, panchine e nei fine settimana, incontri con scrittori e
manifestazioni sul piacere della lettura. Caposella ha voluto sostenere l'iniziativa con la
sua presenza ieri sera, dopo la presentazione del suo nuovo libro all'Università di Catania.
Nella piazza dei libri ha incontrato lettori e fan, firmato libri e partecipato alla
manifestazione in cui è stato ribadito dal presidente di Gammazita, Manola Micalizzi, che
la Piazza dei Libri "è di tutti, è dei catanesi che hanno sostenuto la campagna web
#PiazzaDeiLibri #NonSiTocca" (di Grazia La Paglia. Foto di Alessia Glen)
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2015/11/19/foto/catania_capossela_in_difesa_della_pi
azza_dei_libri_-127728759/1/#1
Da la Stampa.it (Torino) del 20/11/15
"B.ART E IL PITTORE VOLANTE" ALLA SEDE
ARCI TORINO
Nell'ambito del Tff Off, proiezione del docufilm "B.ART e il Pittore Volante", realizzato da
Francesco Bordino e Isabela Giurgiu, per raccontare l'esperienza internazionale del bando
B.ART- Arte in Barriera, del suo vincitore e di come i suoi tredici disegni hanno conquistato
un intero quartiere. Ventidue minuti che ripercorreranno gli aspetti più salienti di un
progetto innovativo, che ha messo al centro l'arte come strumento di rigenerazione del
quartiere torinese Barriera di Milano e che ha coinvolto attivamente gli abitanti: dalla scelta
delle facciate alla selezione delle due giurie, fino al dialogo tra l'artista e il territorio, che ha
portato a una scelta condivisa, soprattutto rispetto alle opere realizzate. I disegni di
Francesco Giorgino in arte Millo, sono presto diventati motivo di orgoglio non solo per gli
abitanti, ma anche per i molti visitatori che li hanno ammirati in bici, in bus e a piedi grazie
ai numerosi tour promossi in quartiere. Una proiezione speciale durante la quale il
pubblico avrà la possibilità di dialogare con l'artista, gli autori del video e i promotori del
bando. B.ART - Arte in Barriera è un bando internazionale di arte pubblica promosso dalla
Città di Torino, dal Comitato Urban Barriera di Milano e indetto dalla Fondazione Contrada
Torino. L'intervento si inserisce tra gli oltre 30 progetti del Programma di rigenerazione
urbana della Città di Torino, con l'obiettivo di migliorare la qualità ambientale del quartiere
e la vivibilità degli spazi pubblici. Parteciperanno alla proiezione: Ilda Curti, Assessore alla
Rigenerazione Urbana, Città di Torino - Luca Cianfriglia, Direttore del Comitato Urban Germano Tagliasacchi, Direttore di Fondazione Contrada Torino - Francesco Giorgino, in
arte Millo, vincitore del bando B.ART - Arte in Barriera Francesco Bordino e Isabela
Giurgiu, autori del docufilm "B.ART e il pittore volante.
http://www.lastampa.it/2015/11/19/torinosette/eventi/bart-e-il-pittore-volante-alla-sede-arcitorino-7Q93ZZNWC42QcBqoBZ3pnK/pagina.html
Da il Giunco del 20/11/15
Caritas, Arci e associazioni islamiche contro
il terrorismo «Diciamo sì all’accoglienza»
GROSSETO – Un’incontro pubblico contro il terrorismo e in favore dell’accoglienza e della
legalità. Questo l’appuntamento di domani 20 novembre, organizzato dall’ARCI di
8
Grosseto in collaborazione con il Comune, la Caritas diocesana e la “Sezione Islamica
Italiana”. Si comincia alle 17, nella sala consiliare comunale.
Obiettivo quello di mettere in risalto l’importanza di un dialogo capace di separare i
fenomeni terroristici legati all’integralismo islamico, che anche in queste ore occupano le
prime pagine dei media mondiali, dalla realtà di milioni di persone, cittadini o profughi di
religione islamica o meno, che nulla hanno a che fare con il terrorismo.
Si parte proprio da una frase del Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude
Juncker che afferma: “Quelli che hanno perpetrato gli attentati sono esattamente quelli da
cui i rifugiati fuggono, e non il contrario”.
Saranno presenti all’iniziativa il sindaco Emilio Bonifazi, il presidente provinciale ARCI
Grosseto, Christian Sensi, il direttore della Caritas, Don Enzo Capitani, l’imam di Firenze e
presidente nazionale UCOII (Unione delle comunità islamiche d’Italia), Izzedin Elzir e il
referente locale della “Sezione Islamica Italiana”, Durim Mema. A moderare l’incontro, il
giornalista Giacomo D’Onofrio.
http://www.ilgiunco.net/evento/caritas-arci-e-associazioni-islamiche-contro-il-terrorismodiciamo-si-allaccoglienza/
9
ESTERI
del 20/11/15, pag. 4
Emergenza estesa in Francia e Belgio
Francia. Il "belga" ha avuto "un ruolo determinante" negli attentati.
Valls: allarme attacco chimico. L'Assemblée vota il prolungamento per 3
mesi dello stato di emergenza, con solo 6 voti contrari. Anche in Belgio
vara una legge drastica e manda la Leopold I a fianco della portaerei
Charles De Gaulle. Cazeneuve denuncia la mancanza di informazioni
dagli altri paesi europei
Anna Maria Merlo
PARIGI
La conferma ufficiale della morte di Abdelhamid Abaaoud nell’assalto del Raid mercoledi’
a Saint-Denis è arrivata mentre i deputati stavano discutendo e votando all’Assemblée
nationale il prolungamento per tre mesi dello stato di emergenza. Il ministro degli Interni,
Bernard Cazeneuve, ha confermato che Abaaoud, il “belga”, ha avuto “un ruolo
determinante” negli attacchi del 13 novembre a Parigi ed è stato “implicato” in altri 4 dei 6
attentati che la Francia ha evitato dalla scorsa primavera, tra cui quello del Thalys. In
parlamento, il nervosismo era tale per far passare la legge sullo stato d’emergenza
modificato, che il primo ministro, Manuel Valls, è arrivato a dire che ormai “non possiamo
escludere nulla, lo dico con tutte le precauzioni possibili, ma lo sappiamo e l’abbiamo
presente: ci sono anche rischi di armi chimiche, batteriologiche”. Matignon ha poi
attenuato la portata della frase: è un’ipotesi fatta “per avvertire”, una “constatazione
realista” basata sul fatto che ci sono informazioni che Daech sia in possesso di armi
chimiche, di gas moutarde (quello usato nella prima guerra mondiale), in Siria e in Iraq.
Sul Journal Officiel di domenica, è uscito un decreto che permette l’uso anche per i civili
del solfato d’atropina, finora riservato all’esercito, un antidoto contro le armi chimiche.
Le analisi scientifiche hanno identificato formalmente Abaaoud tra i morti dell’assalto del
Raid a Saint-Denis, grazie alle impronte digitali. Non si sa ancora se sia stato ucciso dai
poliziotti oppure si sia fatto esplodere, come la kamikaze, che pare essere sua cugina. Un
altro corpo di un sospetto non è stato ancora identificato. Salah Abdeslam, individuato
come terrorista che ha partecipato agli attacchi di venerdi’, è ancora in fuga, come un altro
membro dei commando all’opera venerdi’. Assieme agli otto fermati a Saint Denis (tra cui
una donna), questi individui facevano parte di un quarto gruppo, che avrebbe potuto
entrare in azione. Cazeneuve ha affermato che Abaaoud, belga di origine marocchina
sotto mandato d’arresto internazionale e condannato in Belgio a 20 anni, nel 2014 ha
viaggiato tra il Belgio e la Siria, passando per paesi europei. “Non abbiamo avuto nessuna
informazione da altri paesi europei” sulla presenza di Abaaoud in Europa, ha denunciato
Cazeneuve, che oggi propone a Bruxelles, a un Consiglio Interni, di accelerare
nell’adozione di nuove misure di lotta comuni contro il terrorismo, dal Pnr (Passenger
Name Record) a un maggiore coordinamento nella lotta al traffico d’armi, passando per un
“rafforzamento delle frontiere esterne”. Cazeneuve ha lanciato un appello ai partner per
“una presa di coscienza collettiva, in fretta e con forza”. La Francia ha avuto l’informazione
di un passaggio in Grecia di Abaaoud solo il 16 novembre, cioè tre giorni dopo gli attentati,
da “un paese extra-europeo”, probabilmente in Marocco.
Oggi il Senato vota l’estensione per tre mesi, dal 26 novembre (alla scadenza del decreto
di 12 giorni), dello stato di emergenza, già approvata ieri dall’Assemblea, dopo 5 ore di
10
dibattito, con 551 voti a favore, 6 contrari (3 Ps, 3 Verdi) e un’astensione. Anche Marion
Maréchal-Le Pen ha votato a favore, come tutta la destra dei Républicains, che avrebbe
voluto un giro di vite ancora maggiore. Il testo è un compromesso, che cede alle posizioni
della destra, che ora attacca su Schengen. Per il portavoce del gruppo socialista, Bruno
Le Roux, “i francesi sono pronti, credo, a una restrizione della libertà molto relativa,
inquadrata, controllata e limitata nel tempo”. La nuova legge sullo stato d’emergenza
conferma la proibizione delle manifestazioni e prevede la possibilità di domicilio coatto
extragiudiziario: “ampliamo la possibilità di farvi ricorso – ha detto Valls – non soltanto per
attività pericolose provate, ma anche per minacce fondate su elementi seri”, basate su
“comportamenti o frequentazioni, affermazioni o progetti”. Potrà anche venire imposto il
braccialetto elettronico, finora prerogativa dei giudici. La censura sulla stampa è
soppressa, ma viene introdotta la possibilità di bloccare dei siti Internet e sciogliere gruppi
o associazioni giudicati pericolosi. Da sabato scorso, 118 persone sono in domicilio coatto,
ci sono state 144 perquisizioni, tra cui una a Aulnay-sous-Bois al domicilio della madre di
uno dei kamikaze. Verrà anche creata, entro l’anno, una struttura per “giovani radicalizzati”
pentiti, i poliziotti fuori servizio potranno essere armati. Il Verde Noël Mamère, che ha
votato contro, ha denunciato “una corsa securitaria che punta a trasformare l’eccezione
nella normalità”, tre mesi di leggi d’eccezione che “relegano il potere giudiziario, protettore
delle libertà fondamentali, in secondo piano”. Per il comunista André Chassaigne va
rispettato “un equilibrio tra protezione della sicurezza e rispetto delle libertà pubbliche” ci
vuole “molta vigilanza in un momento in cui l’emozione potrebbe portarci verso la scelta di
un predominio del securitario”. In Belgio, ieri, dove ci sono stati 9 fermi, è passata una
legge ancora più restrittiva di quella francese. E mentre Hollande ha parlato con Obama,
esercito francese e russo si sono coordinati per la prima volta, la Francia ha sganciato una
sessantina di bombe su Raqqa, il Belgio ha deciso di inviare la fregata Leopold I a fianco
della portaerei nucleare francese Charles De Gaulle, già in rotta per il Mediterraneo
orientale.
I costi aggiuntivi per la sicurezza saranno tra i 600 milioni e il miliardo, pari cioè allo 0,05%
del pil, ha precisato ieri il commissario agli Affari monetari, Pierre Moscovici. La
Commissione ritiene quindi che questo aumento di spesa non metterà a rischio la
traiettoria del Fiscal Compact.
In Francia, Lione annulla la Fête des Lumières e il Centre Pompidou oggi espone sulla
facciata un verso di Paul Eluard, scritto nel ’42 e illustrato da Léger: “Liberté, j’écris ton
nom”.
Del 20/11/2015, pag. 10
Bruxelles.
Riunione urgente dei ministri di Interni e Giustizia: “Ma non vanno
messi in discussione gli accordi”
Schengen sotto accusa “Alle frontiere
esterne anche i cittadini europei saranno
controllati”
ANDREA BONANNI
BRUXELLES.
11
Schengen è sotto accusa. Non tanto l’accordo di libera circolazione tra i Paesi europei,
che pure qualcuno vorrebbe rimettere in discussione, quanto piuttosto il sistema di
controllo alle frontiere esterne della Ue e l’efficacia della comunicazione tra le forze di
polizia nazionali. Il fatto che la mente degli attentati di Parigi, Abdelhamid Abaaoud, abbia
potuto tranquillamente andare e venire tra il Belgio, la Francia e la Siria, pur essendo da
tempo ricercato, o che un altro degli attentatori sia entrato in Grecia con la marea dei
profughi senza essere correttamente identificato, dimostra che il sistema di controlli in
ingresso e in uscita dall’area Schengen non funziona come dovrebbe.
Sarà questo il problema che i ministri della Giustizia e dell’Interno, convocati d’urgenza
oggi a Bruxelles, cercheranno di risolvere. «Non intendiamo aprire una discussione sul
futuro di Schengen: ci sono cose che si possono migliorare, tuttavia mettere in questione
gli accordi sarebbe un passo indietro», avverte il commissario alla libera circolazione
Dimitris Avramopoulos. Ma ci sono molti buchi da riempire. Il primo riguarda il controllo alle
frontiere esterne dello spazio Schengen. I ministri approveranno una modifica al
regolamento che consenta verifiche approfondite anche sui cittadini europei, confrontando
i loro dati con il casellario centrale del sistema europeo Sis.
La seconda falla è politicamente più delicata, perchè si incrocia con l’emergenza
immigrazione. Occorre, dicono i ministri nella bozza di conclusione che sarà approvata
oggi, «una sistematica registrazio- ne, compresa quella delle impronte digitali, dei migranti
irregolari e dei richiedenti asilo che entrano nell’area Schengen ». I nuovi arrivati dovranno
anche sottoporsi a «controlli di sicurezza» collegati alle banche dati europee. La
registrazione dei migranti non è in sè una novità, in quanto è già prevista dalle norme
europee. Ma molto spesso non viene applicata nei Paesi di primo arrivo, in particolare la
Grecia e l’Italia, perchè li obbligherebbe a trattenere l’immigrato o il richiedente asilo senza
lasciarlo proseguire verso il Nord Europa, che è spesso la meta finale del suo viaggio.
L’inosservanza di queste norme, e la mancanza dei cosiddetti «hot spots» per
l’identificazione e lo smistamento dei profughi, ha indotto il governo olandese a ventilare
addirittura la possibilità di ridurre l’area di libera circolazione dando vita a una «miniSchengen» limitata ad Austria, Germania e paesi Benelux, e creando campi di raccolta
profughi al di fuori di quest’area. L’idea, più una minaccia indiretta che una ipotesi
realistica, non è neppure stata presentata alle autorità comunitarie e non verrà discussa
dai ministri. Del resto i tedeschi sono stati i primi a bocciarla. «La soluzione alla crisi dei
migranti va trovata sulle frontiere esterne della Ue», ha detto la cancelliera tedesca Angela
Merkel dopo un incontro con il cancelliere austriaco Faymann. Ma il solo fatto che un
governo europeo abbia potuto contemplare una eventualità simile dà la misura di quanto
gli attentati di venerdì scorso a Parigi e l’allerta terrorismo abbiano ulteriormente
complicato la già drammatica emergenza immigrazione.
I ministri, oggi, dovranno però fare i conti anche con altri buchi nella rete della sicurezza
che hanno facilitato l’operato dei terroristi. Il più grave è la mancanza di comunicazione tra
i servizi di polizia dei vari Paesi. Le forze dell’ordine europee da tempo dispongono di
diverse banche dati comuni, dal sistema SIS a quella di Europol. Ma se informazioni
potenzialmente rilevanti non vengono inserite nel sistema, come è stato il caso per i
terroristi di Parigi, è evidente che l’efficacia della rete antiterrorista ne risulta molto
indebolita. Per la verità è da tempo che, ad ogni riunione dei ministri degli Interni, i
responsabili politici sottolineano la necessità di rafforzare lo scambio di informazioni. Ma
evidentemente le buone intenzioni dei governi non sono finora bastate a cambiare le
cattive abitudini dei servizi di sicurezza.
Poi ci sono le novità da introdurre. Nel comunicato che approveranno oggi, i ministri
chiederanno la messa in opera «entro il 2015» del PRN, il sistema di registrazione dei
passaggeri aerei «anche sui voli interni». Il registro, in preparazione da tempo, è bloccato
12
dalle resistenze degli europarlamentari che temono violazioni sul diritto alla privacy dei
cittadini europei. Già dopo la strage di Charlie Hebdo si era solennemente deciso di
affrettarne la messa in opera. Evidentemente senza risultato. Infine dovrà subire una
accelerazione il progetto per il varo di un passaporto europeo con i dati biometrici,
sollecitato dalla Francia, per evitare che i terroristi utilizzino, come fanno ora, documenti
autentici ma appartenenti a persone somiglianti sfruttando la scarsa attendibilità delle foto
di indentificazione.
del 20/11/15, pag. 4
Controlli alle frontiere anche per i comunitari
e leggi più severe sulle armi
Europa. Nuove misure antiterrorismo al vertice di oggi dei ministri degli
interni dei 28
Controlli alle frontiere anche per i cittadini comunitari e possibilità di mettere
immediatamente sotto sorveglianza passeggeri considerati sospetti. Utilizzo di Frontex nel
contrasto ai foreign fighters. Misure utili a ostacolare riciclaggio di denaro e ogni altra
forma di finanziamenti dei terroristi e giro di vite per l’acquisto di armi on-line. Ma anche
divieto di possedere armi semi automatiche e regole comuni tra gli stati membri che
consentano di rintracciare in tutta l’Unione europea una pistola, un fucile o un mitra
utilizzato nel corso di un’azione terroristica.
Una settimana dopo gli attentati di Parigi l’Europa si prepara ad adottare nuove norme
contro il terrorismo, anche a costo di aumentare i controlli sui movimenti dei suoi cittadini.
La decisione verrà presa oggi a Bruxelles durante il vertice dei ministri degli Interni dei 28,
summit previsto inizialmente per discutere di un’altra crisi, quella dei migranti, ma nel
quale si parlerà invece soprattutto di contrasto al terrorismo. Tema delicatissimo, al punto
che alla vigilia dell’incontro Amnesty international, pur condividendo la necessità di
garantire la massima sicurezza, ha comunque sentito il bisogno di raccomandare ai leader
europei il rispetto dei diritti umani invitandoli anche a respingere la retorica anti rifugiati che
— ha ricordato l’organizzazione — già dilaga in alcuni paesi.
Quello che i ministri degli Interni dovranno discutere oggi è un documento preparato dalla
presidenza lussemburghese e dai funzionari europei dell’antiterrorismo, e pur evitando di
proporre la sospensione di Schengen prevede un aumento dei controlli su tutti coloro che
arrivano nella Ue provenienti da un paese terzo. Senza eccezione per nessuno, neanche
per i cittadini comunitari che oggi godono del diritto alla libera circolazione.
Il documento propone che nei porti, negli aeroporti e in ogni punto di ingresso all’Unione
vengano prese le impronte digitali e la scansione del viso dei passeggeri, dati da far
confluire nei datebase già esistenti insieme alla data di ingresso e di uscita dal paese. E’
prevista l’impiego di squadre di intervento rapido (Rabit) e di polizia alle frontiere per
garantire i controlli di sicurezza e la possibilità di una «segnalazione immediata» dei
passeggeri sospetti, o perché foreign fighters di ritorno da un paese in guerra, o perché
ritenuti possibili attentatori. La segnalazione consente di avviare subito le misure di
sorveglianza verso il sospetto mettendo in atto, se necessario, anche «controlli specifici».
C’è poi la richiesta di nuovi compiti per Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere
europee che fino a oggi si è occupata di immigrazione. Il documento chiede che a partire
dal prossimo mese di dicembre la Commissione europea proponga una nuovo
regolamento dell’agenzia che ne consenta la cooperazione con Europol nella lotta contro i
13
foreign fighters. Su questo, però, ci sarebbe l’opposizione di Frontex che riterrebbe di non
essere in grado di svolgere simili compiti. Va da sé che aumenteranno i controlli sui
migranti in arrivo in Europa, compito che l’agenzia è chiamata a svolgere negli hotspot
situati nei primi paesi in cui sbarcano.
Un altro punto importante è quello che riguarda la necessità di rendere più difficile per i
terroristi reperire armi e esplosivi. Le proposte dell’Ue prevedono il divieto di possedere
armi semi automatiche, ma si chiede anche ai paesi membri di approvare leggi più severe
che ne rendano più difficile l’acquisto on line e regole comuni ce consentano seguirne gli
spostamenti all’interno dell’Unione. Proposta anche l’istituzione di nuovi reati legati al
terrorismo.
C’è, infine, il capitolo riguardante la necessità di limitare le possibilità economiche di cui
dispongono i terroristi. Il documento della presidenza lussemburghese prevede il
congelamento dei beni e dei fondi delle persone ritenute coinvolte in atti di terrorismo, una
possibilità prevista dall’articolo 75 del Trattato di Lisbona. Si richiede inoltre un
monitoraggio più stretto sul riciclaggio di denaro sporco e sul traffico di opere d’arte
insieme a controlli più stretti sui pagamenti non bancari, come i trasferimenti attraverso
valute virtuali.
del 20/11/15, pag. 8
Mosca intensifica i raid
Bombe sul petrolio dell’Isis
Putin aumenta la pressione militare sul Califfato con gli “alleati”
francesi Obama martedì incontrerà Hollande per spingere la caduta di
Assad
Maurizio Molinari
Bombe sulle cisterne di greggio a Deir ez-Zor, droni contro i mezzi blindati attorno ad
Aleppo e obici di artiglieria contro le postazioni fortificate a Hama e Homs: la Russia di
Vladimir Putin accresce la pressione militare sul Califfato di Abu Bakr Al Baghdadi in
coincidenza con una integrazione senza precedenti con le forze armate della Francia di
Francois Hollande.
È una telefonata fra Valery Gerasimov e Pierre de Villiers, capi di Stato Maggiore russo e
francese, a dare la misura di quanto sta avvenendo sul teatro di operazioni siriano. I due
generali discutono «il coordinamento delle operazioni contro Isis» e si «scambiano
valutazioni sulla situazione tattica» perché «consideriamo gli attentati del Sinai e Parigi
parte della stessa catena», come spiega Gerasimov. Ciò significa che la Francia, il più
importante partner della coalizione guidata dagli Usa, diventa de facto «alleato di Mosca»,
nella definizione di Putin.
Legame operativo inedito
È la prima volta che un simile legame operativo si crea fra Mosca ed un Paese Nato. Le
conseguenze si vedono sul campo: i Sukhoi decollati da Latakia colpiscono, per il secondo
giorno consecutivo, centinaia di cisterne di greggio nell’Est della Siria, sostenuti da
bombardieri speciali e dagli obici della fanteria. Erano stati i francesi ad inaugurare questo
tipo di «obiettivi», per indebolire le finanze del Califfato, ed ora Putin li condivide con
l’impiego anche dei bombardieri strategici. Se il Pentagono fornisce ai jet francesi le
informazioni per identificare gli obiettivi - grazie al sistema satellitare - sono russi e
francesi a colpirli. Al tempo stesso i video girati dal ministero della Difesa russo mostrano i
14
carri armati dello Stato Islamico colpiti dai propri droni, indicando l’arrivo in Siria anche di
un tipo di arma che finora in Medio Oriente è stata identificata con la proiezione del potere
militare degli Stati Uniti. E infine, vi sono gli obici d’artiglieria. In questo caso è la tv russa
che mostra - per errore o meno - una mappa che evidenzia la presenza di unità di
artiglieria russe a fianco dei reparti avanzati di Bashar Assad. Si tratta di obici da 152 mm
«Msta» della 120a brigata di artiglieria, posizionati a Sadad, 60 km a Sud di Homs. Il
Cremlino sceglie il basso profilo, limitandosi a parlare di «assistenza tecnica» e Damasco
ammette solo che «a Sadad si trovano unità tecniche russe a sostegno dei raid». Ma in
realtà gli obici «Msta» sono armamenti terrestri, operati da contingenti di truppe scelte, e
ciò significa che Mosca ha scelto di adoperare la più tradizionale delle armi russe per
abbattere la resistenza dei gruppi jihadisti.
In cerca della «svolta»
L’impressione è che Mosca, d’intesa con Parigi, punti a cogliere in fretta un risultato
militare capace di raffigurare una svolta: può trattarsi della liberazione di Palmira o
dell’arrivo delle truppe ad Aleppo. Ad intuire ciò che sta per avvenire con l’escalation
militare franco-russa è il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che fra dieci giorni si
recherà al Cremlino da Putin - per le seconda volta in due mesi - per «colloqui» su Siria e
Isis. Ovvero per la cooperazione d’intelligence.
Il presidente americano Obama intanto continua una partita tutta diplomatica: martedì
accoglierà a Washington Francois Hollande per cementare la «strategia siriana» che verte
attorno alla decisione di far cadere il regime di Assad nel tentativo di inserirsi in questa
maniera, come un cuneo, fra Teheran che difende il regime di Assad ad oltranza e Mosca
la cui priorità è la transizione.
del 20/11/15, pag. 12
Vietato lasciare la città, perquisiti gli Internet point, arruolamenti dai 14
anni «L’Isis vuole usare i civili come scudi umani»
Voci da Raqqa sotto le bombe
«I miliziani impediscono ai civili di lasciare la città. Una mia parente di 27 anni ha un
bambino piccolo, le ho parlato ieri, è bloccata nel suo appartamento. Alcuni civili sono
rimasti uccisi». Raheb Alwany è una dottoressa di Raqqa scappata mesi fa dalla città
siriana. Parla al Corriere da Londra. È alla conferenza «Trust Women» ma non fa che
pensare ai suoi familiari intrappolati nella capitale del Califfato. In risposta agli attacchi di
Parigi, da giorni la città sull’Eufrate viene bombardata con intensità da francesi e russi.
È difficile sapere con certezza ciò che accade sul terreno. L’unica finestra sono
testimonianze come quella di Raheb e gli aggiornamenti degli attivisti di «Raqqa viene
uccisa in silenzio», un gruppo ostile sia al Califfato che al regime di Assad e che opera
clandestinamente dal 2014. I rischi sono altissimi: lo scorso mese uno dei membri, il
ventenne Ibrahim Abdul Qader è stato ucciso al confine turco-siriano dai sicari dell’Isis.
«L’elettricità viene attivata per circa due ore al giorno, ma quando ci sono i bombardamenti
viene sospesa del tutto. Il web funziona ma solo negli Internet point», ci scrive Abu
Mohammed, un ventisettenne laureato in legge, tra i fondatori del gruppo «Raqqa viene
uccisa in silenzio», attraverso la app Viber. Poco dopo la nostra conversazione però i
miliziani hanno chiuso anche gli Internet café, per verificare che i computer non siano usati
per diffondere messaggi anti Isis.
«Quello che vogliamo sottolineare è che tutti i bombardamenti hanno colpito sedi e posti di
blocco Isis e non ci sono state vittime tra la popolazione civile», continua Abu Mohammed
15
(il gruppo ha riconosciuto più tardi solo l’uccisione di sette civili in un raid russo contro
installazioni petrolifere). La dottoressa Alwany invece crede che le vittime siano più
numerose. «Non puoi colpire l’Isis senza uccidere i civili. I jihadisti sono sparpagliati
ovunque. Se c’è un palazzo con quattro appartamenti, due sono occupati da loro».
Il dibattito è aperto anche sui danni inferti dai raid ai jihadisti. «Non ci avete nemmeno
sporcato le scarpe», sostiene la propaganda. Pare in effetti che gli obiettivi — tra cui
campi di addestramento, uno stadio e un museo usati come prigioni — fossero già stati
abbandonati. Secondo l’«Osservatorio siriano dei diritti umani» da domenica sarebbero
morti 33 combattenti, per lo più ai checkpoint. Gli uomini dell’Isis sono cauti: girano nei
vicoli, evitano di guidare di notte. «In generale — osserva Abu Mohammed — le incursioni
aeree della coalizione nell’ultimo anno non hanno avuto grandi effetti, ma hanno procurato
tra le file dei jihadisti molta paura. Anche questo è importante».
La paura cresce però anche tra la popolazione. Le voci secondo cui, al passaggio dei jet
francesi, le donne — obbligate a portare veli spessi e lunghi — si sarebbero tolte il niqab
sui balconi sono esagerate. «Ci sono dei casi di sfida al potere di Daesh — dice Abu
Mohammed, usando la sigla araba di Isis — ma sono pochi e non eclatanti». Il divieto di
lasciare la città imposto a ottobre, in risposta all’avanzata delle forze curde a nord, è ora
applicato con più rigore e fa temere che l’Isis voglia usare i civili come scudi umani.
Washington dice di aver evitato spesso di bombardare Raqqa per evitare vittime
collaterali; Damasco ha intensificato i raid, colpendo secondo gli attivisti anche delle
scuole. Ma l’Isis teme di più l’avanzata di terra: ha imposto la coscrizione obbligatoria dai
14 anni. «La maggior parte della gente odia Daesh — dice Alwany —. Ma c’è chi si è unito
a loro perché ha bisogno di soldi». «Non credere che siano pochi i loro seguaci a Raqqa
— nota invece Abu Mohammed —. Il consenso è aumentato dopo che le forze curde
hanno bruciato le case della gente di etnia araba. Daesh non è fatta solo di miliziani e
armi, è un’idea che fa proseliti».
(Ha collaborato Farid Adly)
Viviana Mazza
del 20/11/15, pag. 6
Ritirata jihadista verso Mosul
Siria/Iraq. Nella città siriana Francia e Mosca cooperano, ma restano
distanti sul destino di Assad: «Senza una seria presenza diplomatica e
militare, l'Isis continuerà a prosperare sotto terra, nelle comunità
sunnite», dice il giornalista iracheno al-Nasrawi
Chiara Cruciati
SULAIMANIYA
Sei civili siriani uccisi dalle bombe internazionali che puntavano su camioni di greggio a
nord di Raqqa. È il primo bilancio a 5 giorni dall’inizio dell’operazione francese. Le ultime
ore hanno visto l’intensificazione dei raid russi e Usa contro le campagne di Raqqa e Deir
Ezzor: nel mirino ancora una volta veicoli che trasportavano greggio dall’Iraq. Il petrolio va
da Mosul a Raqqa, i leader dell’Isis fanno il viaggio contrario: in poche ore la città irachena
è diventata la nuova “capitale” del califfato, raggiunta da centinaia di capi militari islamisti
in fuga dalla rappresaglia francese.
Un’evacuazione che si accompagna alla ritirata dalla zona sud di Hasakah, area kurda a
nord di Raqqa: a spingere indietro gli islamisti è stata un’operazione congiunta di esercito
16
siriano e aviazione russa. Mosca ha raddoppiato i raid, con lancio di missili dal mar
Mediterraneo, mentre la stampa francese riportava di voci interne al Ministero della Difesa
secondo cui si starebbe ipotizzando l’invio di forze speciali di terra.
Ufficialmente Parigi e Mosca non hanno ancora definito i dettagli dell’attuale cooperazione
militare (il russo Putin e il francese Hollande si incontreranno il 26 novembre), ma l’azione
congiunta potrebbe tranquillizzare il presidente siriano Assad che considera la Francia
responsabile di violare la sovranità di Damasco, bombardandone il territorio senza
autorizzazione. Violazione su cui si può soprassedere se il coordinamento avverrà con
Mosca. Diplomazia e azioni militari si muovono su binari opposti: Hollande, strenuo
avversario di Assad, discute di operazioni militari con il suo sostenitore Putin. Una
strategia simile la persegue, oltreoceano, il presidente Usa Obama che siede al tavolo del
negoziato con Mosca e poi reitera, di nuovo ieri, l’intransigenza di Washington: «Non vedo
come la guerra civile possa finire se Assad resta al potere», ha detto da Manila.
Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha subito risposto: senza Assad non ci può essere la
pace. La questione resta centrale: «Sul piano militare, è risaputo che i bombardamenti
aerei non sconfiggeranno Daesh – spiega al manifesto il giornalista iracheno Salah alNasrawi, analista di Al-Ahram – Nessuna guerra è mai stata vinta solo con i raid,
specialmente le guerre asimettriche, tra eserciti e milizie. La coalizione può distruggere
basi militari, può uccidere islamisti, ma non vincerà fino a quando non metterà i piedi sul
terreno, che sia quello militare o quello diplomatico».
«La ragione è semplice: senza una presenza seria, militare o diplomatica, non si manderà
il giusto messaggio alla comunità sunnita, quella che in parte sostiene Daesh con uomini e
denaro. Le uniche sul campo di battaglia sono le forze sciite, Hezbollah e Iran. Se
resteranno sole, se l’accordo di Vienna non si realizzerà, le forze sciite alieneranno
ulteriormente la popolazione sunnita, in Siria come in Iraq, a Ramadi, Anbar e Mosul.
Senza la consapevolezza che la componente sunnita sarà integrata nel futuro processo
politico non si toglierà potere a Daesh. Si deve arrivare ad una vittoria politica per i sunniti
iracheni e siriani o lo Stato Islamico inizierà a muoversi sotto terra, nelle comunità locali,
portando ad un futuro di ulteriore instabilità».
Raqqa come Mosul, città specchio dello stesso sistema di potere e roccaforti islamiste
tanto salde da garantire all’Isis il tempo di riorganizzarsi. Lo dicono i residenti di Raqqa
che riportano della costruzione di tunnel e trincee da parte islamista, azioni confermate dai
peshmerga a Sinjar: i kurdi si sono trovati di fronte una complessa rete di tunnel e bunker
sotterranei provvisti di un sistema di aereazione, un’alta opera ingegneristica come l’ha
definita il maggiore Murad.
«Seppure gli islamisti dovessero perdere Raqqa – conclude al-Nasrawi – non perderanno
la guerra. C’è Mosul, che resterà dov’è perché Baghdad non è pronto ad una
controffensiva, senza prima passare per Ramadi e Anbar, e perché i peshmerga non vi
prenderanno parte. È una città sunnita, non la potrebbero gestire».
Non sono in pochi a immaginare un rallentamento delle operazioni nell’ovest dell’Iraq.
Mosul non è ancora nei piani, almeno quelli terrestri: ieri l’aviazione irachena ha lanciato
sulla città volantini in cui chiede ai civili di allontanarsi dalle postazioni Isis per evitare di
essere colpiti da eventuali raid aerei. Nelle stesse ore la coalizione colpiva camion di
greggio a ovest di Mosul.
Non manca però chi si sta preparando a più intensi raid contro la città irachena: sono le
Nazioni Unite che nei giorni scorsi hanno diramato un comunicato nel quale si dicono
preoccupate per una possibile nuova ondata di sfollati sunniti in fuga da Mosul, nel caso le
forze aeree occidentali decidano di spostare il mirino da Raqqa all’Iraq.
17
del 20/11/15, pag. 8
Petrolio e affari, gli interessi che bloccano il
Medio Oriente
Oltre Siria e Iraq - L’Isis avanza perché nessuno dei protagonisti della
regione vuole davvero cambiare i rapporti di forza, dai sauditi all’Iran al
piccolo Kuwait
di Stefano Feltri
Nessuno ha davvero interesse a turbare il caotico equilibrio del Medio Oriente. Perché
vorrebbe dire stabilire vincitori e vinti. È questa la ragione per cui, dopo la strage di Parigi,
i protagonisti sembrano così restii a cambiare strategia per contenere l’Isis e gestire il
disastro della Siria. Ecco gli schieramenti e gli interessi sullo scacchiere del “grande gioco”
mediorientale.
Greggio e sciiti, il triplo Iraq
La fondazione del sedicente Stato islamico è stata in Iraq, a Mosul. Da lì Abu Bakr alBaghdadi ha proclamato il Califfato nel giugno 2014, dopo averla conquistata. La
situazione oggi è questa: il governo guidato dal premier sciita Haider al-Abadi è quello che
avrebbe più interesse a contenere l’Isis. Ma più cerca il coinvolgimento di potenze
straniere (Russia e Stati Uniti) per stabilizzare il Paese, più iracheni sunniti rischiano di
essere attratti nell’orbita dell’Isis. Ci sono i combattenti curdi, i peshmerga, che sono in
prima linea e ottengono vittorie anche rilevanti come a Sinjar, strappata al Califfato proprio
il giorno della strage di Parigi. Ma l’Isis conserva il controllo di pozzi petroliferi che gli
permettono di ottenere fino a 100.000 barili di greggio al giorno che riesce a vendere
sottocosto per un incasso annuo stimato attorno ai 400 milioni. Non si conosce ancora
l’impatto dei raid americani e francesi di questi giorni che potrebbero aver ridotto il numero
di pozzi in mano agli uomini del Califfo.
L’Iran gioca solo sulla difensiva
L’Iran è la potenza sciita della regione mentre l’Isis è cresciuto nel mondo sunnita.
L’azione del regime di Teheran in Iraq non è stata tanto contro l’Isis, quanto a difesa della
comunità sciita, che è maggioranza (ma esclusa dal potere durante la dittatura di Saddam
Hussein). I sunniti iracheni, ora esclusi dal potere, non hanno opposto resistenza
all’ascesa dell’Isis. L’Iran è stato importante nell’arginare l’avanzata dell’esercito del
Califfato verso Baghdad, ma si trova a beneficiare del caos creato dall’Isis, soprattutto
perché destabilizza il mondo sunnita. La crisi siriana è degenerata anche perché la
Russia, che ha difeso a lungo il regime del dittatore Bashar al Assad, era decisiva per gli
Stati Uniti nel negoziato sul nucleare iraniano. Che si è chiuso, dicono i critici di Barack
Obama, in modo abbastanza positivo per Teheran che può continuare il suo programma
atomico, sia pure più lentamente e sotto sorveglianza. Non si poteva affrontare il caos
siriano prima di aver chiuso l’accordo con Teheran che, a sua volta, è da sempre una delle
potenze di riferimento del regime di Assad in Siria. Se gli Stati Uniti decidessero un
maggiore impegno in Iraq o Siria, l’Iran reagirebbe male e le conseguenze potrebbero
manifestarsi in modo cruento soprattutto attraverso le milizie sostenute da Teheran, come
Hezbollah. Tra le ragioni alla base della linea di cautela dell’Italia nel dopo-Parigi c’è
anche l’impiego dei militari italiani in Libano. Sarebbero tra i primi a rischiare rappresaglie
da Hezbollah.
I sauditi vincono (quasi) sempre
18
L’Arabia Saudita, sunnita, non è priva di responsabilità nell’ascesa dell’Isis che
destabilizza un Paese filo-sciita come la Siria e mina l’egemonia sciita anche in Iraq. Il
caos rende inevitabile per i Paesi occidentali – dagli Stati Uniti all’Italia – continuare a fare
perno sulla stabile monarchia dei Saud. Riyad ha appena comprato bombe per 1,2 miliardi
– scrive il Sole 24 Ore – proprio dagli Usa, arrivando a 100 miliardi in cinque anni. Armi
che userà anche nello Yemen contro i ribelli Houthi, sciiti, nell’indifferenza occidentale. Il
regime di Riyad ha in mano un’altra leva potente: se tagliasse la produzione facendolo
salire il prezzo del greggio (nel cartello dei produttori Opec) farebbe rifiatare banche e
imprenditori che negli Usa hanno investito sull’estrazione di petrolio dalle rocce, ma
renderebbe più ricco l’Isis con il suo contrabbando petrolifero.
Il doppio fronte della Turchia
Il presidente turco Erdogan è stato accusato di essere indulgente con l’Isis perché colpisce
i curdi iracheni indebolendo così la causa indipendentista e allontanando ogni progetto di
Kurdistan. Ma Ankara è nemica dei curdi turchi, non di quelli iracheni, come dimostra la
recente costruzione di un oleodotto che porta il petrolio da Erbil (capitale dell’Iraq curdo) al
centro turco di raffinazione di Ceyan. Dall’inizio della guerra civile in Siria nel 2011, la
Turchia ha ospitato oltre un milione di profughi siriani. Più forte è l’Isis, maggiore è la
pressione sulla Turchia.
L’ambiguità del Kuwait
Il piccolo Stato del Kuwait non può permettersi il lusso dell’instabilità, incuneato tra Iraq e
Arabia Saudita. Nel 2011, il generale Al Sisi prende il potere in Egitto con un colpo di
Stato, insieme a quella egiziana perde potere anche la Fratellanza musulmana kuwaitiana,
da sempre politicamente molto rilevante. Indeboliti i Fratelli musulmani, trovano spazio i
salafiti, dalle loro organizzazioni caritatevoli sarebbero passati anche finanziamenti ai
movimenti terroristi come l’Isis. Il governo del Kuwait resta uno dei più filo-occidentali,
comprerà da un consorzio di imprese europee (capofila Alenia-Finmeccanica) caccia
Eurofighter per 8 miliardi. Il Kuwait è anche socio del Fondo strategico della Cassa
Depositi e Prestiti che dovrebbe difendere le imprese italiane più rilevanti.
del 20/11/15, pag. 12
Le radici dell’odio nel dopo Saddam che ha
trasformato i sunniti in paria (con amici
potenti)
Lorenzo Cremonesi
Possiamo averne un immenso terrore, odiarlo, volerlo combattere in ogni modo, ma prima
di tutto l’Isis va compreso. E per comprenderlo occorre andare laggiù dove è nato, nelle
regioni sunnite del Medio Oriente.
È vero che oggi c’è anche un Isis occidentale, radicato nelle banlieue parigine, in settori
infimi dei musulmani europei, figlio del retaggio di Al Qaeda e della marginalizzazione. Ma
le radici di ciò che è cresciuto negli ultimi anni sono da individuare tra Iraq e Siria.
Invasione Usa in Iraq
Isis nasce principalmente in Iraq. E questo avviene ben prima della sua clamorosa presa
di Mosul il 10 giugno del 2014 contro l’esercito iracheno che si sbanda, fugge nelle zone
curde e lascia sul terreno il meglio degli arsenali donati dagli americani. Le sue origini
vanno cercate nell’invasione Usa dell’Iraq nel 2003 e nell’incapacità di gestire il dopo
19
Saddam. In pochi mesi le speranze di rinascita e democrazia per il Paese, già minato
dall’embargo e dal pugno di ferro dell’ex dittatura, sprofondano in una sanguinosa guerra
civile e religiosa che si trascina sino a oggi. Alle prime libere elezioni gli sciiti (circa il 65
per cento della popolazione) creano il loro governo. Il fallimento è subito evidente: invece
di cooperare con l’agguerrita minoranza sunnita (il 30 per cento), la emarginano,
perseguitano, impoveriscono.
L’apparato statale cade nelle mani delle tribù e dei partiti sciiti. Esercito e polizia diventano
milizie sciite che irrompono nelle regioni sunnite, uccidono, arrestano impunemente,
spesso rapinano e sequestrano. In breve tempo i sunniti, che dall’inizio della dominazione
ottomana, quasi cinque secoli fa, erano stati classe dirigente, diventano una minoranza
paria.
Iran vs Arabia Saudita
La loro reazione è violenta. Sono abituati a fare la guerra. Gli ex generali baathisti
reclutano il vecchio esercito messo in pensione dagli americani e poi decimato dagli sciiti.
Entrano quasi subito in campo gli attori regionali. L’Iran, nemico storico contro cui Saddam
Hussein ha combattuto otto anni di guerra, arriva a Bagdad trionfante. Tanti leader sciiti,
tra cui lo stesso ex premier Nouri al Maliki, sono stati in esilio lunghi anni a Teheran,
l’alleanza è subito stretta, s’impone l’egemonia iraniana. Inevitabilmente i sunniti stringono
i già forti legami con gli Stati sunniti, Arabia Saudita in testa. Da Falluja e Ramadi si
allargano le antiche piste cammelliere che attraverso il deserto arrivano a Riad. Al Qaeda
prima e Isis poi diventano così il braccio armato di questo nuovo fronte che mira a
cacciare l’Iran nel suo confine, ben oltre il Tigri. Si noti che per i baathisti l’alleanza con Isis
è per lo più strumentale. «Quando avremo vinto, ce ne libereremo», dicono. Ma intanto ne
sono succubi alleati.
Gli alawiti di Assad
I sunniti iracheni fuggono in massa in Siria. E qui si trovano quando, nella primavera del
2011, esplodono le rivolte contro il regime alawita (una setta sciita) di Bashar Assad. Al
contrario che in Iraq, in Siria la maggioranza sunnita è in guerra con la minoranza sciita (il
12 per cento della popolazione). Esercito e polizia siriani reagiscono con la consueta
brutalità: rapimenti, torture, esecuzioni di massa, bombardamenti a tappeto, anche con
armi chimiche, contro popolazioni inermi. La repressione durissima è tra la cause maggiori
della crescita del fondamentalismo islamico tra i sunniti siriani. Cui si aggiunge la
liberazione dei prigionieri accusati di militare tra i gruppi radicali jihadisti. Assad utilizza Isis
per criminalizzare l’intera opposizione.
In parte il suo piano ha successo, visto che Barack Obama rinuncia all’intervento militare
in Siria anche a causa della presenza di Isis tra i gruppi ribelli. Ma Isis resta una brutta
bestia da controllare. Oggi probabilmente una buona parte dei ribelli sunniti in Siria
dovendo scegliere tra Isis e Assad opterebbe per quest’ultimo, cosa che invece non
pensano i sunniti iracheni nei confronti del governo di Bagdad .
del 20/11/15, pag. 10
Video e riviste patinate
Così funziona il marketing che promuove il
Califfato
20
Con minacce e rivendicazioni dettano l’agenda ai media Gli jihadisti
hanno creato una loro “narrativa”: un’arma
Giordano Stabile
Che cosa vogliono gli islamisti e come vogliono ottenerlo. La risposta ce la danno loro
stessi. Nei video e nelle pubblicazioni di propaganda. La più articolata è in Dabiq, mensile
online che ora ha anche una versione cartacea patinata. Il 12° numero, mese di safar nel
calendario islamico, è uscito cinque giorni dopo il massacro di Parigi. Riassume tutta la
strategia: glorificare i propri successi, minacciare nemici esterni e interni, offrire una
prospettiva terrena e ultraterrena ai propri seguaci. Già nell’ottobre del 2014, sempre su
«Dabiq», l’Isis annunciava attacchi di massa in Occidente e la volontà di «conquistare
Roma». Un programma più che una minaccia.
Capacità di reazione
Con gli attentati, quando purtroppo ci riescono, e ancor più con la tempistica delle
rivendicazioni, gli jihadisti sono riusciti finora a «dettare l’agenda». Anche ai media
occidentali. «Dabiq» numero 12 apre ovviamente con gli attentati di Parigi. Ma l’aspetto
più interessante è la rivendicazione dell’abbattimento dell’Airbus russo sul Sinai. Quando
gli egiziani negavano che si trattasse di un attentato, e i russi tacevano, con un audio dal
Sinai l’Isis prometteva: «Vi diremo come abbiamo fatto, ma quando vogliamo noi. Vi
stupiremo». E a pagina 3 della rivista ecco mostrata la «lattina-bomba» usata nell’attacco.
I jihadisti hanno stupito e hanno guadagnato in credibilità.
«Siamo uno Stato»
La realizzazione del programma è l’ossessione dell’Isis. Gran parte dei video, quelli che
non «bucano» gli schermi occidentali, sono dedicati alla costruzione del Califfato,
all’educazione e ai servizi sociali. Lunghe carrellate di aiuole e strade riparate, cibo e soldi
distribuiti ai poveri. E scuole. Dove si vedono bambini che studiano e imbracciano il
kalashnikov. Come a pagina 35 dell’ultimo numero di Dabiq. Corano e moschetto. L’altro
elemento della propaganda serve a disciplinare i seguaci. I riferimenti «all’ascolto e
all’obbedienza» coranici sono fitti. Le critiche agli altri gruppi islamici «murtaddin» cioè
apostati, servono a indicare la via. Al Qaeda per esempio è accusata di non aver applicato
la sharia nella città yemenita di Al Mukalla, conquistata quattro mesi fa.
Il notiziario dalle province
Lo Stato islamico è lì per «espandersi e resistere». Il bollettino di guerra fa una carrellata
delle operazioni provincia per provincia, comprese quelle in Egitto e Libia. Ma la
prospettiva non è solo terrena. Il fine è la battaglia che darà il via alla fine del mondo, a
Dabiq, villaggio al confine fra Siria e Turchia. Un mito che ha dato il nome alla rivista. Abu
Mus’ab al Zarqawi, il fondatore dello Stato islamico in Iraq, la citava già nel 2004: «La
scintilla è stata accesa in Iraq e il fuoco crescerà finché le armate crociate saranno
bruciate a Dabiq».
Il riconoscimento
Gli attacchi sono giustificati anche in questo senso escatologico, cioè sul destino finale
dell’umanità. I «crociati» vanno provocati e attirati a Dabiq. Dopo la battaglia ci sarà il
giudizio finale, al yaum al din. E i «buoni» risorgeranno. Ma come sempre nell’Isis religione
e politica si mischiano. E il risvolto terreno ce lo rivela l’articolo di John Cantlie, il reporter
britannico da tre anni ostaggio. In tuta gialla, quella dei detenuti non ancora destinati al
patibolo, Cantlie accenna a una «tregua», «prevista dalla sharia». Il Califfato non disdegna
una pausa, potrebbe sospendere gli attentati. L’alternativa è quella annunciata nel video di
ieri: «Cinture esplosive e autobomba in proporzione alla frequenza dei raid: la Casa
Bianca diventerà nera con il nostro fuoco».
21
del 20/11/15, pag. 13
Vigliacchi, usano la religione ma non sanno
nulla di Islam I veri musulmani sono in lutto
«L’estremismo è una perversione che dobbiamo combattere insieme»
Sono rimasto scioccato, come lo è stato qualunque essere umano, nel venire a
conoscenza del gesto vigliacco, odioso, terribile e insensato che è stato commesso a
Parigi la scorsa settimana. Questo attentato è scandaloso e offende la coscienza di ogni
persona normale, a prescindere dalla sua identità religiosa. Voglio ribadire
categoricamente, e senza equivoci, la nostra completa solidarietà e il nostro sostegno
incrollabile al popolo francese in questa tragica circostanza e nella sua determinazione a
combattere il terrore. Le vittime innocenti e le loro famiglie sono nei nostri pensieri e nelle
nostre preghiere. L’intera comunità musulmana è in lutto, come tutto il popolo francese,
poiché un attacco di questa portata è in realtà un attacco all’umanità intera, com’è scritto
nel nostro Libro sacro.
Sono stato assolutamente chiaro e inequivocabile nel condannare tutti gli atti di terrorismo
e da giustizieri come questo, e ribadisco che l’Islam respinge e condanna l’estremismo di
ogni genere. Le organizzazioni terroristiche fanno un uso sfacciato della religione per
coprire le loro azioni vigliacche. La loro falsa ideologia tradisce una logica perversa e non
esita ad attingere a fonti male informate e non autentiche per giustificare la loro sete
insaziabile di potere, controllo e spargimento di sangue. Queste ideologie di odio e di
terrore devono essere combattute e annientate.
Ma da dove nasce tutto ciò? Sia nell’Islam che in altre religioni stiamo assistendo a un
fenomeno in cui uomini senza una vera e propria formazione e cultura religiosa si sono
autoproclamati guide spirituali, pur mancando della necessaria preparazione in materia
per poter emettere valide interpretazioni della legge religiosa e morale. Questo
atteggiamento ribelle e stravagante verso la religione ha spalancato la porta alle
interpretazioni estremiste dell’Islam, che non trovano alcun riscontro nella realtà. Per di
più, e questo è molto importante, nessuno di questi estremisti è mai stato istruito nei veri
centri riconosciuti di formazione islamica. Essi sono, invece, il prodotto di situazioni di
disagio, e hanno aderito a interpretazioni distorte ed errate dell’Islam che non trovano
alcun riscontro nella dottrina tradizionale islamica. Il loro scopo è quello di seminare caos
e terrore nel mondo.
Esiste, tuttavia, un’altra variabile in questa equazione. Sono stato assolutamente chiaro e
inequivocabile nel condannare tutti gli atti di terrorismo... Se vogliamo affrontare questo
problema, però, occorre fare un sforzo per capire appieno i molti fattori che generano una
spiegazione razionale del terrorismo e dell’estremismo di ogni genere nel mondo
moderno. Altrimenti, corriamo il rischio di non riuscire mai ad affrontare questo flagello per
eliminarlo una volta per tutte. Occorre capire questo, se vogliamo seriamente costruire un
futuro migliore, in cui sapremo affrontare e metter fine a questa gravissima situazione che
minaccia gli esseri umani in ogni parte del globo. Non abbiamo altra scelta.
Dobbiamo ricordare, tuttavia, che l’estremismo violento non riconosce nessuna fede in
particolare, come hanno dimostrato i recenti eventi in molte parti del mondo. Piuttosto, si
tratta di una perversione della condizione umana, e come tale dovrà essere affrontata.
Siamo tutti responsabili, collettivamente, di combattere contro questa perversione.
Musulmani, europei, americani, asiatici — noi tutti abbiamo il dovere di eradicare questa
minaccia e il compito dovrà essere condiviso da tutti.
22
È assolutamente indispensabile, in un momento critico come questo, condividere uno
spirito di piena collaborazione e pertanto sono preoccupato per la strumentalizzazione dei
sentimenti di rabbia da parte di alcuni gruppi di fanatici, che potrebbero mettere a rischio
l’esistenza stessa dei musulmani in Europa. Incolpare una religione intera e prendere di
mira una comunità religiosa molto diversificata e prevalentemente pacifica, per causa delle
azioni di qualche folle, non è soltanto ingiusto, ma anche controproducente nel
raggiungere il nostro obiettivo comune, che è quello di sconfiggere il terrore...
È importante evitare di demonizzare i musulmani senza motivo, non per salvaguardare i
musulmani, ma perché la nostra futura capacità di eradicare il flagello del terrorismo
dipende dalla nostra collaborazione.
(Testo pubblicato sul sito della Tv al Arabiya e tradotto da Rita Baldassarre)
Del 20/11/2015, pag. 1-38
LA POLEMICA
Le misure del dolore
ADRIANO SOFRI
C’È un gran discutere sulla disparità e l’iniquità del modo in cui reagiamo. Tutti per Parigi,
nessuno per Beirut, dove il giorno prima due kamikaze dell’Is hanno ucciso 41 persone e
ferite 200.
DICIAMO: «Sono Parigi» e non diciamo mai «Sono Peshawar» o «Sono Mogadiscio». È
utile che ne discutiamo, senza fare confusione. La reazione alla violenza, la stessa
solidarietà con le vittime, sono una cosa, il lutto è un’altra cosa. Il lutto ci riguarda
personalmente, e distingue fra le perdite. Fra le ossa che ogni giorno in terra e in mare
semina morte. Il lutto è di una persona, di una famiglia, di una comunità. Più spesso è
prossimo nel senso della vicinanza, ma può unirci anche a una gran distanza. Quando
siamo colpiti dal lutto, diciamo: «È come se avessi perduto una parte di me». Siamo
umani, ma siamo fatti da ciò che nel tempo e nello spazio è diventato parte di noi, cui
abbiamo appartenuto e apparteniamo. Appartengo a Parigi più di quanto appartenga a
Beirut. Il mio amico Gad Lerner, che è nato a Beirut e ci torna in corpo e anima, non
scriverebbe la stessa frase. Il lutto è così profondamente nostro che ci accomuna fino a
farci uscire da noi, a farci riconoscere e abbracciare, non solo coi nostri famigliari, ma con
gli sconosciuti che lo condividono, come avviene quando i passanti si prendono per mano
durante il minuto di silenzio. E allo stesso tempo siamo intimamente gelosi del nostro lutto.
È una faccenda nostra: mia e di Parigi. Mia e di Beirut. Di Ankara e mia. Del Bardo e mia.
A ciascuno il suo lutto.
A ciascuno, anche, la sua gioia. C’è una disparità anche nell’amore. L’amore non è la
giustizia. La giustizia dovrebbe essere distribuita in dose uguale per tutti. Ma il giusto
maestro del vangelo, così capace di amore, ha le sue predilezioni scoperte, e insegna che
il tuo prossimo è colui in cui ti imbatti e ha bisogno del tuo soccorso, hai bisogno del suo
soccorso. La dialettica di vicino e lontano è complicata. Vengono rapite 247 nigeriane dalle
canaglie di Boko Haram, e mezzo mondo dice: «Ridateci le nostre ragazze». La Nigeria è
lontana e le ragazze sono nere. Qualcuno obietterà che è perché sono cristiane, e perché
sono ragazze e studentesse. C’è sempre una vittima più infelice e più ignorata, se si voglia
a ogni costo fare una classifica. Nel Sud Sudan vengono rapite e massacrate bambine e
donne a migliaia, e Michelle Obama non si mette un nastrino, come per le ragazze
nigeriane. La comparazione è una buona maestra, purché non se ne abusi. Una buona
norma è di sincerarsi su chi deplora il risalto dato a una sofferenza in nome di un’altra
23
trascurata: lui, o lei, si è dedicato a quell’altra sofferenza? A chi vi rinfacci di essere troppo
commosso per il destino della pastora Diesel mentre i cuccioli umani della terra muoiono
di fame, chiedete, con cortesia, che cosa faccia lui di solito per i bambini affamati: caso
mai, avrete una buona occasione per dargli una mano, senza dovervi sbarazzare del
vostro bassotto. Sulla scia di questi confronti, su Facebook qualcuno ha contrapposto
l’indifferenza per 146 universitari kenyoti trucidati a Garissa dagli assassini somali di al
Shabab al lutto per Parigi. Nella piena dell’indignazione, hanno preso quell’eccidio per
appena avvenuto, invece che nello scorso aprile. A me toccò scriverne qui: i loro coetanei
di Zagabria e di Caracas e di non so quali altri posti del mondo si sdraiarono poi a fare il
morto, e nel parco al centro di Nairobi si radunarono ad accendere candeline e deporre
messaggi. Il fatto è che non abbiamo “due pesi e due misure”: abbiamo innumerevoli pesi
e misure, tante quante le sventure del mondo e la nostra capacità di parteciparne. È vero
che la disparità delle reazioni mostra che non tutte le morti sono uguali: ma questo è solo il
complemento del fatto che non tutte le vite sono uguali, e anzi sono così diseguali da far
pensare che il genere umano sia un modo di dire, e sia composto di specie viventi e
morenti abissalmente distanti. Per questo abbiamo bisogno di leggi e istituzioni: perché ci
si occupi secondo umanità anche di quelli che non succede a noi di amare, o di incontrare
come il nostro prossimo. Come i “250 mila morti in Siria”. Non possiamo volergli bene, il
bene vive di dettaglio, non di ingrosso. Possiamo voler bene a qualcuno di loro, perché
l’abbiamo visto, sentito piangere o gridare — o tacere. Ma di tutti dovevamo volere la
salvezza, ed esigere che qualcuno ne avesse la responsabilità in nome di tutti noi. L’Onu
non fu immaginata per i minuti di silenzio.
C’è Parigi, e ci fu il piccolo Aylan. Perfino con lui si lamentò un privilegio! Successe anche
a me di provare un sentimento di pena per il fratellino Galip. Di lui non avemmo una
fotografia. Forse aveva cercato di afferrare Aylan, come fa un fratello maggiore anche se
non ha nemmeno cinque anni, prima di essere travolto e portato dove nessuno l’avrebbe
più visto, dei milioni che guardarono Aylan. Ma ci sono luoghi e persone che diventano il
cuore del mondo: Aylan, Parigi. Valgono per tutti.
24
INTERNI
Del 20/11/2015, pag. 1-16
La sicurezza. Otto persone su dieci ritengono che l’attacco non riguardi
solo la Francia. “Chiudere le frontiere”
“Gli attentati di Parigi minacciano anche noi”
un italiano su due è pronto a cambiare stile di
vita
ILVO DIAMANTI
I SANGUINOSI attentati di Parigi hanno emozionato e coinvolto anche noi. In Italia. Non si
tratta di un effetto preterintenzionale. Al contrario. La scelta dei luoghi, delle vittime, la
stessa rappresentazione dei massacri rivelano una evidente intenzione – e capacità – di
colpire “nel mucchio”. Molti bersagli “umani”. Molti giovani. Ma anche di lanciare messaggi.
Di trasferire paure, inquietudini, ben oltre i confini di Parigi e della Francia. Fino a noi.
Paese confinante. Dove ha sede il Vaticano. Dove i flussi migratori dal Nord Africa
continuano, incessanti. Lo conferma il sondaggio condotto da Demos per Repubblica, nei
giorni scorsi. Certo, la maggioranza degli intervistati (50%) vede negli attentati una
“punizione” contro la Francia, colpevole di partecipare ai bombardamenti in Siria e in Iraq.
Più di quanti (40%) lo considerano, invece, un avvertimento, contro luoghi e riti del
consumismo occidentale. Tuttavia, oltre 8 italiani su 10 ritengono che questo attacco non
abbia implicazioni solamente “francesi”. Ma riguardi, al contrario, anche noi.
Oltre metà delle persone (intervistate) ammette di sentirsi preoccupata per l’eventualità di
atti terroristici. Con un aumento di 14 punti, nell’ultimo anno, e di circa 20 rispetto al 2010.
Gli effetti sul clima d’opinione risultano evidenti. Anzitutto, sul piano dell’in-sicurezza, che
appare diffusa.
Componenti ampie della popolazione (meglio: del campione) pensano, infatti, che oggi
convenga adottare comportamenti prudenti. Più che in passato. In particolare, il 46%
ritiene opportuno evitare di partecipare a manifestazioni ed eventi pubblici. Il 43%: di
viaggiare all’estero. Il 38%: di prendere l’aereo. Si tratta, perlopiù, di persone più anziane e
meno istruite. Che, comunque, sono meno disponibili a mobilitarsi e hanno minore
confidenza “con il mondo”. Ma il segnale è chiaro. L’insicurezza sta penetrando nella
società. E spinge le aree “periferiche” – dal punto di vista sociale ma anche territoriale (i
piccoli comuni di provincia e le banlieue metropolitane) a chiudersi in casa. A guardare gli
altri con diffidenza. Quasi 4 persone su 10, infatti, oggi percepiscono gli immigrati come
“un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone”. E si rivolgono all’Islam con
atteggiamento diffidente. La scia di sangue lasciata dalle aggressioni criminali avvenute a
Parigi, dunque, è arrivata fin qui. E ha alimentato, presso gli italiani, l’inquietudine. Ha
allargato le distanze, meglio, il distacco fra noi e gli altri. Percepiti come possibili minacce.
Nemici. Così, il trattato di Schengen, che ha “aperto” le frontiere, reso più facili le
comunicazioni e i movimenti personali, diviene un problema. Un rischio. E insieme alle
porte di casa diventiamo più disponibili a chiudere anche le frontiere. Anche se
“temporaneamente”. È un provvedimento auspicato dal 56% degli intervistati.
Al tempo stesso, come avviene quando la paura penetra fra noi, diventiamo meno
esigenti, sotto il profilo dei diritti e delle nostre libertà. Così, oltre 9 italiani su 10 si dicono
disponibili ad aumentare la sorveglianza di strade e luoghi pubblici attraverso telecamere.
25
Mentre quasi la metà di essi (per la precisione: il 46%) vorrebbe rendere più facile alle
autorità il controllo sulle nostre comunicazioni. Dalla posta elettronica alle telefonate.
Quasi 20 punti in più, rispetto al 2009. In altri termini, i fatti di Parigi hanno accentuato la
sindrome d’assedio, cresciuta negli anni della crisi. Alimentata dalla globalizzazione che ci
espone, emotivamente, a ogni evento drammatico, che avvenga altrove. Anche lontano. È
come se fosse qui. A maggior ragione quando si tratta di una “città esemplare”, come
Parigi. Destinazione degli itinerari da tutto il mondo. Per motivi turistici, di studio e di
lavoro. Tanto più da qui. Dall’Italia. Affacciata ai confini. Per questo colpire Parigi significa
colpire l’Europa, di cui è il centro. Un Centro strategico e attraente. Per questo colpire
Parigi ha un impatto rilevante, sui nostri sentimenti. Per questo rischia di diventare un
ostacolo, ulteriore, alla costruzione europea. All’integrazione politica, culturale.
Eppure, evidenziare quanto gli attentati di Parigi abbiano cambiato il nostro modo di
guardare gli altri e noi stessi, non basta. Potrebbe perfino essere deviante. Se non
aggiungessimo che, nonostante tutto, la paura non è sfociata in panico. La diffidenza non
è degenerata in distacco, segregazione. La percezione negativa nei confronti dell’Islam,
come religione e comunità, infatti, non ha cambiato misura, nell’ultimo anno. Nonostante
tutto. E oltre 7 italiani su 10 pensano che le responsabilità delle violenze di Parigi siano da
attribuire a una “frazione di integralisti”. Solo una minoranza le riconduce all’Islam, come
tale. L’insicurezza suscitata dall’immigrazione, inoltre, è elevata. Ma non è cresciuta molto,
negli ultimi mesi. Rispetto allo scorso giugno è perfino calata. Ed molto più bassa, in
confronto all’autunno 2007, quando la campagna mediale preparava quella elettorale.
Scandita – e decisa dalle “paure”. Ci muoviamo, dunque, in una terra instabile, lungo il
confine mobile fra diverse destinazioni. Diverse soluzioni. Marcate da diversi livelli di insicurezza, apertura e - reciprocamente - chiusura. Verso le altre persone, le altre religioni.
Verso gli altri Paesi. E ciò tende a estremizzare i sentimenti personali, i rapporti con gli
“altri”, ma anche gli orientamenti politici. Così, si allargano gli spazi per gli “imprenditori
politici della paura”. Che fanno dell’insicurezza e della sfiducia una risorsa da investire sul
mercato politico. Insieme alla disponibilità verso i controlli. Sui comportamenti degli altri,
ma anche sulle nostre relazioni. Sulla nostra vita personale. Da “sorvegliati speciali”, a
tempo pieno. Si tratta di capire se l’unica strada possibile sia questa. Rassegnarsi a uno
“stato di emergenza” permanente. Fino a diventare ostaggi di se stessi. Di noi stessi.
Significherebbe cedere alla logica del terrore. In fondo, arrendersi ai terroristi.
Del 20/11/2015, pag. 6
La sicurezza.
Falsi allarmi bomba ed evacuazioni: nelle metropolitane giornata di caos
Soldati e posti di blocco per blindare le città
ma da Roma a Milano è già psicosi terrorismo
CORRADO ZUNINO
ROMA. Le notizie da Parigi e l’innalzo dell’allarme terrorismo al livello 2 hanno regalato,
ieri, una giornata di falsi allarmi. In tutta Italia. A Roma, lungo la metropolitana A, stazione
di Lepanto (la più vicina a San Pietro), un sacchetto della spazzatura abbandonato sulla
banchina ha scatenato il panico tra i pendolari. Dentro c’era solo un pezzo di narghilè. Nel
pomeriggio altre due segnalazioni: la prima alla stazione di Torre Gaia sulla linea C (due
borse frigo dimenticate da una bambina), la seconda ancora sulla linea A per una borsa
26
lasciata su un vagone alla fermata Cornelia. Conteneva cibo. Artificieri e cani, infine, per
un trolley abbandonato all’aeroporto di Fiumicino.
A Milano, in serata, è stata chiusa per mezz’ora la stazione di piazza Duomo (linea 3):
valigia sospetta. Due allarmi infondati anche a Genova. Nella zona della stazione Brignole
gli alunni di una scuola elementare sono stati evacuati per uno zaino dimenticato da una
maestra. Un’ora dopo: bombola di gas lasciata sui sedili di un’auto parcheggiata sotto gli
uffici del Terminal di Voltri. Gli artificieri hanno rotto il parabrezza e reso inerte la bombola.
Un furgone con targa belga, infine, ha destato ansie a Peretola, la zona aeroportuale di
Firenze. Mercoledì due siriani sono stati arrestati all’aeroporto di Orio al Serio, Bergamo:
19 e 30 anni. Sui loro cellulari foto di guerra e dell’Isis, una ritraeva il più grande con una
mitragliatrice in mano. I documenti, falsi, erano austriaco e norvegese. A Catania la polizia
sta cercando un musulmano di 23 anni, Amed: a La7 ha detto di appoggiare i terroristi di
Parigi.
LE PIAZZE SORVEGLIATE
In piazza San Pietro sono stati installati nuovi metal detector all’altezza del colonnato,
controlli e posti di blocco sono stati intensificati nell’area. Il prefetto Franco Gabrielli ha
disposto la “no-fly zone” su tutta Roma per il periodo del Giubileo (inizia l’8 dicembre): «Se
sarà necessario abbatteremo i droni». Settecento militari sono già in servizio, ne
arriveranno altri 300: controlleranno, tra l’altro, le quattro basiliche e l’Auditorium. Il
Codacons denuncia una scarsa presenza di agenti alla Stazione Termini.
A Milano i metal detector sono comparsi agli accessi al Teatro alla Scala. Controlli serrati
si vedono all’ingresso del Duomo. Da ieri in strada ci sono 250 forze dell’ordine e 400 vigili
in più. Dei seicento militari in servizio all’Expo, 150 resteranno a disposizione della città.
Potenziata la videosorveglianza: ora sono due le sale di controllo. E la Regione Lombardia
ha stanziato 5 milioni per i Comuni che installeranno sistemi di videosorveglianza. Accordi
con la Svizzera per visionare le immagini di frontiera. A Genova sono stati incrementati
i passaggi di forze dell’ordine in porto, all’aeroporto, al centro commerciale la Fiumara,
intorno agli ipernegozi di Campi. Vigilantes alla stazione Marittima, i controlli dei documenti
dei passeggeri sono passati dalle compagnie di navigazione alla polizia.
ARTIFICIERI E UNITÀ CINOFILE
Weekend difficile per Torino, che al Pala Alpitour ospita tre concerti di Madonna: ieri
sera, domani e domenica. Artificieri e unità cinofile: bonifiche in tombini e cassonetti.
Domani l’arrivo del premier Renzi alla Reggia di Venaria e la sera Juventus-Milan.
Il sindaco De Magistris chiede più forze dell’ordine a Napoli, «trascurata». Reparti speciali
in assetto a Palermo. Sinagoga e aeroporto presidiati costantemente a Verona (dieci
agenti dell’unità speciale sul territorio). A Bari controlli sui migranti del Centro
d’accoglienza per richiedenti asilo. In provincia, blitz a forze congiunte ad Ascoli Piceno.
Ieri e oggi date blindate per il concerto di Bob Dylan al Manzoni di Bologna.
PATTUGLIE E METAL DETECTOR
Pattuglie della polizia sono in molti caselli autostradali. Allerta in tutti gli aeroporti. A
Fiumicino i controlli a campione al passaggio dei viaggiatori sono stati aumentati: il metal
detector suona a un passaggio ogni cinque (prima ogni trenta). Più stretto il raccordo con i
servizi, che inviano alle dogane liste di persone o gruppi sospetti.
I CORTEI VIETATI
Dopo aver abbreviato, martedì scorso, il corteo degli studenti romani, la questura della
capitale ha vietato oggi la manifestazione Cobas sul lavoro pubblico. Domani, invece,
sono stati autorizzati i cortei della Coalizione sociale e degli arabi moderati.
27
del 20/11/15, pag. 7
La scomunica del papa contro guerra e
trafficanti d’armi
Vaticano. Francesco denuncia il traffico di armi: «Siete delinquenti»
Adriana Pollice
Dopo gli attentati di Parigi l’Europa si avvia allo scontro armato e papa Francesco ieri ha
pronunciato una vera e propria scomunica: siano «maledetti» ha esclamato, durante la
messa a Santa Marta, quanti per arricchirsi fanno la guerra, che provoca vittime innocenti
e riempiono le tasche dei trafficanti. «La guerra — ha denunciato — è proprio la scelta per
le ricchezze: ’Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’, e andiamo avanti con il
nostro interesse’. C’è una parola brutta del Signore: ’Maledetti!’. Perché Lui ha detto:
’Benedetti gli operatori di pace!’. Questi che operano la guerra, che fanno le guerre, sono
maledetti, sono delinquenti».
E poi ha sollevato il velo sulla retorica che sta accompagnando gli attacchi in Medio
Oriente, Terzo conflitto mondiale non dichiarato ufficialmente: «Una guerra si può
giustificare, fra virgolette, con tante, tante ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi,
è in guerra, tutto il mondo!, è una guerra mondiale a pezzi: qui, là, là, dappertutto, non c’è
giustificazione».
Il papa torna a chiedere un nuovo cammino sulla «strada della pace», a partire dalla
lezione del Vangelo: «Anche oggi Gesù piange — ha sottolineato Bergoglio — perché noi
abbiamo preferito la strada delle guerre, la strada dell’odio, la strada delle inimicizie.
Siamo vicini al Natale: ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi,
tutto truccato: il mondo continua a fare la guerra. Il mondo non ha compreso la strada della
pace». Anche le commemorazioni recenti sulla Seconda guerra mondiale sembrano
adesso vuote: «Stragi inutili — ha ripetuto il pontefice -, dappertutto c’è la guerra, oggi, c’è
l’odio. Cosa rimane di una guerra, di questa, che noi stiamo vivendo adesso? Rovine,
migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! e tanti soldi nelle tasche
dei trafficanti di armi.
E mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro e intascano tanti soldi — ha continuato
papa Francesco — ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona,
un’altra, un’altra, danno la vita, morendo per aiutare la gente». Uno j’accuse che chiama in
causa anche l’Italia: nella costituzione è scritto che la repubblica ripudia la guerra ma
basta — però — farla senza dichiararla. «Questo mondo non riconosce la strada della
pace — ha rimarcato il papa — Vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla.
Chiediamo la conversione del cuore. Proprio alla porta di questo Giubileo della
Misericordia, che il nostro giubilo, la nostra gioia sia la grazia che il mondo ritrovi la
capacità di piangere per i suoi crimini, per quello che fa con le guerre». Il Giubileo si farà
nonostante tutto, anche se ieri il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ha
ammesso: «Non si può negare che ci siano dei timori, purtroppo nessuno può escludere a
priori di essere sotto l’attenzione di queste brutalità».
Durante la conferenza internazionale del Pontificio consiglio degli operatori sanitari, ieri,
Bergoglio si è scagliato anche contro il rifiuto della cultura dell’accoglienza. Ricordando gli
«atteggiamenti abituali di Gesù nei confronti di malati, pubblici peccatori, indemoniati,
emarginati, poveri, stranieri», ha proseguito: «Curiosamente questi nella nostra attuale
cultura dello scarto sono respinti, sono lasciati da parte, non contano. E’ curioso questo,
questo vuol dire che la cultura dello scarto non è di Gesù, non è cristiana».
28
Nel suo discorso dedicato ai venti anni della enciclica di Giovanni Paolo II “Evangelium
vitae”, Bergoglio ha ricordato: «Questa vicinanza all’altro, fino a sentirlo come qualcuno
che mi appartiene, supera ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione.
Supera anche quella cultura in senso negativo secondo la quale, sia nei paesi ricchi che in
quelli poveri, gli esseri umani vengono accettati o rifiutati secondo criteri utilitaristici, in
particolare di utilità sociale o economica».
Superare ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione, conclude il papa:
«Vicinanza all’altro, fino a sentirlo come qualcuno che mi appartiene, fino ad amare il
nostro nemico». Dal 25 al 30 novembre il Papa sarà in Kenya, Uganda e Repubblica
centrafricana «per la pace e la riconciliazione».
del 20/11/15, pag. 9
Verso una fiducia sulla fiducia
Legge di stabilità. A Palazzo Madama un testo in bianco. I tagli al Sud
finanzieranno la sicurezza. Sì all’ennesimo aumento dei fondi alle
scuole private
Andrea Colombo
ROMA
Cotta e mangiata: arrivata nell’aula di palazzo Madama ieri, la legge di stabilità ne uscirà
oggi, licenziata col voto di fiducia. In realtà il maxiemendamento sul quale verrà posta la
questione di fiducia, annunciato e atteso già da ieri mattina, a sera non era ancora
arrivato. Segno che sui conti tra palazzo Chigi e ministero dell’Economia ancora non
riescono a trovare una quadra su qualche punto dolente.
Sull’aula di palazzo Madama, convocata alla 20, pendeva addirittura la minaccia di una
seduta fiume notturna. In realtà per uno scarno «dibattito generale» seguito dalle
dichiarazioni di voto e poi per la fatidica chiama basta e avanza la mattinata di oggi.
La fretta del governo, rivelata dalla tentazione della maratona notturna, non si spiega con
la necessità di rispettare i tempi: piuttosto con l’incubo del weekend. Si sa che sin dal
venerdì pomeriggio i senatori scalpitano per tornare a casa. Se il voto dovesse slittare a
domani mattina c’è il rischio che tra i banchi della maggioranza si registri qualche vuoto di
troppo.
Capita infatti che sia venuto a mancare il paracadute di Denis Verdini. Gli emendamenti
della sua Ala non sono stati accolti da governo e maggioranza: la reazione dei
«responsabili» è tanto stizzita da far sospettare che ci fosse stata una qualche più o meno
vaga promessa in senso opposto. D’Anna, capo transfuga, è furioso: «Il nostro voto non lo
avrete e non lo avrete nemmeno quando la sinistra tenterà l’ennesimo sgambetto a Renzi.
Caro Gotor, non ti daremo un dispiacere. Cerca di procurarli tu i voti che mancano,
altrimenti il governo andrà sotto».
Il richiamo alla sinistra del Pd è pertinente. Capita infatti anche che la frantumazione
dell’Ncd, il partito mai nato fuori dal Parlamento, dovrebbe sottrarre al governo quattro o
cinque voti preziosi. Di qui la paura che la corsa al meritato riposo dei senatori di
maggioranza possa provocare imprevisti incidenti.
Non sarà così. La minoranza del Pd, nonostante abbia strepitato sul tetto del contante a
3000 euro, cioè la norma a rischio che ha giustificato il ricorso alla fiducia, non ha alcuna
intenzione di mettere il governo in pericolo. La legge di stabilità sarà votata di corsa, di
fatto senza neppure il tempo di leggere il maxiemendamento. La fiducia verrà data, alla
29
lettera, sulla fiducia, poi la palla passerà alla Camera. Sono state infatti lasciate in bianco
un paio di voci tutt’altro che secondarie: il Sud e la sicurezza. Il governo promette di
riempire quelle pagine vuote in tempo per farle votare senza un fiato dai deputati.
I due capitoletti sono purtroppo confliggenti: uno dei due fronti andrà sacrificato, e non
bisogna possedere doti profetiche per indovinare quale sarà.
Il Sud, che dalla legge di stabilità sarebbe comunque stato trattato come la solita
Cenerentola, dovrà stringere ancor più la cinghia per consentire al governo di stanziare i
fondi necessari contro il terrorismo, lievitati, va da sé, dopo la mattanza parigina.
«La verità – afferma il capogruppo di Sel in commissione Bilancio Luciano Uras – è che il
governo ha scelto di investire dove le cose vanno meglio e di penalizzare le aree dove
vanno peggio. Se si potrà dire che il tasso di disoccupazione a livello nazionale è sceso di
un punto, gli andrà benissimo, anche se magari in Campania sale di due punti».
Così i 120 milioni in più destinati alla sicurezza verranno tolti quasi certamente al Sud,
mentre resteranno intoccabili i 25 milioni in più destinati alle scuole private. Un
emendamento approvato in commissione Bilancio all’ultimo minuto stabilisce che i fondi
per le «scuole non statali» non saranno «computati ai fini del patto di stabilità interno». Via
libera.
Quella sulla scuole private è una delle poche modifiche apportate alla legge dalla
commissione Bilancio. La principale delle quali riguarda l’estensione dell’esenzione dalla
tassa sulla prima casa anche a chi lascia la medesima in comodato a figli e genitori.
Oggi il voto, per un esame, quello del Parlamento, che preoccupa Renzi molto meno di
quello di aprile, quando sarà l’Europa a dover sciogliere la riserva sui «rimandati» di
Roma.
del 20/11/15, pag. 15
Sinistra, più uniti contro la legge di stabilità
In parlamento . Chi ha visibilità deve evitare incomprensibili divisioni
dei «vertici»
Sergio Cofferati, Andrea Ranieri
Forse è a portata di mano un obiettivo che solo qualche mese fa sembrava impossibile:
ricostruire una vera e seria forza di sinistra nel nostro Paese.
Una forza alternativa al quadro politico ed economico dominante, all’appiattimento della
stessa socialdemocrazia europea sulla gestione dell’esistente, alla riduzione degli spazi di
democrazia nel nostro Paese. Radicale nei suoi assunti, ma non velleitaria. Capace di
porsi in una prospettiva di governo, ma già oggi al servizio di quanti, movimenti, realtà
associative, persone, non si rassegnano all’impoverimento della democrazia e delle
condizioni di vita della gran parte della popolazione, che sanno come una prospettiva
diversa si può far vivere già oggi conquistando spazi di autogoverno nei territori, nei luoghi
della vita e del lavoro.
Una forza politica che non si ritiene e non si riterrà mai autosufficiente, perché ha imparato
in questi anni che nessun potere istituzionale è in grado di cambiare davvero le cose se
non è contestuale ad una ripoliticizzazione della società, ad una rivitalizzazione del
sindacato e delle realtà associative, la ricchezza della democrazia.
Abbiamo salutato come un evento importante e significativo la costruzione del gruppo
parlamentare Sinistra Italiana. Il fatto che i parlamentari che mettono in discussione da
sinistra la politica dell’attuale governo, che intendono opporsi su punti qualificanti alla
legge di stabilità finanziaria, si mettano insieme, presentino in maniera concorde
30
emendamenti per un radicale cambio delle politiche economiche e sociali del governo, e si
impegnino a sostenere le proposte del sindacato e della rete delle realtà associative di
base, come quelle della contro finanziaria di “Sbilanciamoci”, ci sembra una ottima notizia.
Sarebbe auspicabile che tutti i parlamentari dell’opposizione di sinistra si trovassero uniti
in una azione parlamentare comune. Proprio perchè l’unità del gruppo parlamentare non
vuole e non può essere il partito, non è comprensibile che i parlamentari che condividono
la necessità di una svolta radicale nelle politiche del governo non lavorino insieme.
Sappiamo benissimo, e crediamo che lo sappiamo gli stessi parlamentari, che non basterà
il loro impegno per dare avvio a un nuovo soggetto politico di sinistra. Ma proprio per
questo è assurdo che non si trovi nel lavoro parlamentare una casa comune.
Una lunga esperienza politica e sindacale ci ha insegnato che se si vuol promuovere
creatività e iniziativa politica nella società, se proprio in questo si individua il carattere di
novità del nuovo soggetto politico e la sua discontinuità rispetto alla politica del ‘900, è
necessario che chi ha visibilità mediatica e istituzionale si mostri il più possibile unito. La
divisione dei “vertici” è un invito a schierarsi più che alla partecipazione attiva e creativa. E
questo è tanto più grave quando il popolo a cui si fa riferimento è lo stesso e gli stessi
sono gli obiettivi di fondo.
Ci sentiamo parte attiva del percorso che porterà a metà gennaio all’assemblea che darà il
via alla costruzione del nuovo soggetto politico. La pensiamo ampia, partecipata, non una
passerella di vecchi o nuovi presunti leader, ma una tre giorni di intenso lavoro politico, sui
valori e sugli obiettivi di fondo, e sulle forme organizzative del nuovo soggetto politico.
Perché ciò avvenga è necessario da subito costruire iniziative in tutto il Paese,
intrecciando la mobilitazione sulla finanziaria ad una riflessione la più ampia possibile sul
nuovo soggetto politico. E da subito le persone che vogliono essere parte del progetto si
esprimano in prima persona, al di fuori delle caselle delle vecchie e nuove organizzazioni
di riferimento.
Il nuovo soggetto politico non può essere una federazione di sigle. Sarebbe la cosa più
vecchia del mondo, e il modo perverso per far sì che il passato si mangi il futuro. Se
sapremo far questo, se gennaio sarà il mese in cui le diversità esistenti si incontrano per
costruire insieme, le elezioni amministrative di primavera potranno essere una occasione
positiva, e non, come spesso è stato nella storia più o meno recente della sinistra
alternativa, il soffocamento del bambino nella culla.
del 20/11/15, pag. 16
Il futuro di Genova, intervista a Mark Covell
L'intervista. La recente condanna di 16 poliziotti per il massacro di Mark
Covell al G8 del 2001 riapre antiche ferite e illumina di una luce nera
polizia e Viminale. L’Italia saprà voltare pagina senza dimenticare?
Leonardo Clausi
LONDRA
Il giornalista inglese Mark Covell suo malgrado è uno dei simboli del G8 genovese del
2001. Fu ridotto in fin di vita nei pressi della scuola Diaz, pestato a morte dalla polizia.
In settimana la corte dei conti della Liguria ha condannato 16 poliziotti un risarcimento di
oltre 100mila euro.
Quali sono le sue reazioni alla notizia?
31
Sono soddisfatto che il ruolo di Canterini e Fournier nel mio tentato omicidio sia stato
riconosciuto da un tribunale civile (ma non da uno penale), meno soddisfatto invece che gli
altri quattordici poliziotti coinvolti siano stati multati solo di 10.000 euro per calunnia e
arresto illegale. Alcuni dei nomi elencati erano direttamente coinvolti nel tentativo di
uccidermi alla Diaz, e colpevoli di «codice blu». Canterini era lì fuori della scuola (troppo
pavido per guidare i suoi uomini) e non cercò di intervenire per salvarmi la vita. Anzi,
ordinò a Fournier di guidare la prima squadra del VII nucleo per la strada che conduceva a
entrambe le scuole. Fournier è colpevole di essere direttamente coinvolto nella mia
aggressione e lo sa. Per questo tardò a salire al primo piano e per questo non poté
«fermare» la «macelleria messicana» dentro la scuola. Così come non sono contento che
a quasi quindici anni da quella notte non siano stati decisi o pagati risarcimenti per le
violazioni dei di diritti umani a Genova nel 2001. Spero inoltre che un giorno i nomi di
Canterini, Fournier e altri finiscano per tentato omicidio in questa lista. Quanto agli altri 14
nomi condannati a risarcimento per calunnia, alcuni di loro dovrebbero essere processati
per essere direttamente coinvolti nel mio tentato omicidio. L’ordine di risarcimento di
10.000 euro è poca cosa rispetto al male inflitto. Se fossero riusciti nelle loro false accuse
e nella manipolazione delle prove adesso starei scontando 15 anni nel carcere di Pavia:
un errore giudiziario ancora peggiore.
diaz film vicari
Sei in contatto con il pubblico ministero Zucca? Che cosa ti ha detto?
Non gli ho ancora parlato ma sono sicuro che sia contento della notizia. Colgo l’occasione
per esprimere un sincero grazie a lui, ai miei avvocati, al team di supporto legale, ai nostri
sostenitori e a tutti quelli sono coinvolti nella storia di questo caso. Per Zucca, far pagare a
gente come Canterini e Fournier i propri crimini è una piccola vittoria.
Ti definivano ironicamente «lo spirito»: di 340 poliziotti nessuno ti vide di fronte alla
scuola. Ti senti meno incorporeo adesso?
Nelle indagini sulla Diaz, il mio caso era soprannominato «dello spirito» perché, nella
copertura del mio tentato omicidio, tutti i riferimenti e le dichiarazioni scritte quella notte
furono modificate o scomparirono agli ordini dei comandanti del raid alla Diaz. Benché ci
fossero 27 altri testimoni e vari video collegati al mio sadico tentato omicidio, solo due
carabinieri, i tenenti Cremonini e Del Gais, dichiararono di avermi visto al cancello. È
sconcertante che più di trecento poliziotti che mi passarono davanti mentre facevano
irruzione nella Diaz abbiano finto di non avermi visto. A oggi, nessun poliziotto si è mai
fatto avanti per fornire dettagli e prove sul mio caso. Questo silenzio ne fa uno dei tentati
omicidi più controversi dell’Italia recente. A tutto questo si aggiunge l’aver poi fatto ricorso
a calunnie e falsificazione delle prove per farmi dare 15 anni di carcere, un errore
giudiziario ai miei danni ancora peggiore. Se a Zucca sta molto a cuore il mio caso è
perché i poliziotti imputati hanno con tanto zelo prima cercato di uccidermi e poi di far
sparire le prove, e deve essergli pesato non riuscire a incriminarli. Se lo fossero stati, la
gente si renderebbe conto che non volevano solamente torturarci ma che erano entrati alla
Diaz con l’intenzione di uccidere.
Hai parlato della presenza di un furgone dei carabinieri alla scuola e che il loro
comandante, il tenente Cremonini, fosse l’unico ad aver trasgredito il cosiddetto
«codice blu». Hai qualcosa da dirgli?
Voglio ringraziarlo per non aver rispettato il «codice blu» e per aver testimoniato sul mio
caso. Può andare a testa alta nella migliore tradizione dei Carabinieri per la sua umanità,
per aver cercato di prestarmi soccorso mentre ero in coma e moribondo sul marciapiede
davanti alla scuola. Sono sicuro che sappia di più su quanto mi è accaduto ma comprendo
che tema di dire altro che possa attrarre sulla polizia di stato altre accuse criminose. Gli
32
dico: «Spero di poterti incontrare per ringraziarti della tua testimonianza, perché hai di
certo rischiato la tua vita nel farlo».
Hai ripetutamente affermato che c’erano due carabinieri, uno dei quali intervenne
durante la seconda aggressione che hai subito ad opera dei poliziotti, benché siano
scomparsi poco prima che si scatenasse la terza. Si chiama Del Gais: è lui l’uomo
che ti ha salvato la vita?
In tutte le mie dichiarazioni ho parlato di un carabiniere che cercò di salvarmi la vita
durante la seconda aggressione, quella in cui mi spezzarono una mano, le costole e mi
danneggiarono la colonna vertebrale. Mentre svariati comandanti e uomini del VII nucleo
mi pestavano, questo carabiniere non identificato gridò «Basta! Basta!», frenò la polizia
dall’uccidermi e mi trascinò ai cancelli della Diaz Pertini dall’altra parte della strada. Per
una ragione ignota, non poté restare a proteggermi dal terzo pestaggio, che mi costò quasi
tutti i denti e mi spedì in coma. Per anni, in seguito, mi fu ripetuto dagli inquirenti che
nessun carabiniere faceva parte del raid iniziale e che dovevo aver confuso le divise: ma
nella primavera del 2010 emersero le prove che pochi carabinieri avevano, in effetti, fatto
parte di un’avanguardia (davanti al resto dell’unità di Cremonini) per dare man forte
nell’abbattimento della porta secondaria della Diaz Pascoli nei primi istanti del raid.
Divenne poi chiaro che il tenente Del Gais era con Cremonini, e che entrambi erano lì
all’inizio dell’irruzione. Del Gais, del X Battaglione Campania dei carabinieri, è l’uomo a cui
vorrei parlare. Penso sia lui che ha cercato di salvarmi la vita alla Diaz ma non è stato mai
interrogato e non so per certo sia lui. Se lo è, si tratta di un vero eroe, e i Carabinieri
dovrebbero decorarlo. Chiunque abbia cercato di salvarmi la vita ha rischiato la propria e il
suo lavoro per farlo. Comprendo senz’altro che farsi avanti comporterebbe anche il fare
dei nomi. Oppure, ora che il processo principale è concluso, avrà il coraggio di dire tutto
quello che sa? Sei davvero quello che mi ha salvato? Di questi due uomini, i vertici dei
carabinieri dovrebbero riconoscere che sono dei bravi militari che hanno cercato di
proteggere vittime innocenti dalla furia criminale di poliziotti durante l’irruzione alla Diaz e
che hanno fronteggiato assai bene una situazione straordinaria che andava ben al di là dei
loro compiti.
Hai invocato per l’Italia una commissione indipendente di controllo dell’operato
della polizia analoga alla britannica IPCC («Independent Police Complaints
Commission»). Pensi ci si stia lentamente avvicinando a una cosa simile?
Una Ipcc italiana sarebbe una buona idea, e andrebbe presa in considerazione dal
parlamento. Durante tutte le traversie nelle indagini del pubblico ministero, la polizia e il
ministero dell’Interno hanno ostacolato, bloccato e occultato le prove per proteggere
ufficiali e semplici poliziotti che erano alla Diaz. Mentre sono certo che il RIS dei
Carabinieri è una buona agenzia investigativa interna, è stata resa impotente dal numero e
dalle caratteristiche dei comandanti coinvolti nel raid. Inoltre, non aveva le risorse o gli
uomini per gestire un’indagine così ampia. Al processo avremmo perso se ci fossimo
basati solo sul RIS e sulle poche prove da loro raccolte. Data la situazione, ho creato il
«Diaz Supervideo», il più grande montaggio di prove in video, per superare questa
mancanza e vincere il caso. Se da una parte non mi pesa aver fatto questo lavoro,
dall’altra non bisognerebbe lasciare a una persona gravemente ferita l’investigazione del
crimine di cui è stata vittima com’è successo a me. Per questo un’istituzione come la Ipcc
è così necessaria. Spero che il governo italiano, preoccupato per l’immagine della polizia
dopo le conclusioni alla Diaz, voglia considerare una commissione di inchiesta italiana per
restituire fiducia all’opinione pubblica, cosicché le denunce di violazioni di diritti umani e di
omicidio contro la polizia possano essere indagate propriamente e in modo indipendente.
Questa sentenza ti dà speranze sulla giustizia italiana?
33
È passato molto tempo e sono soddisfatto che il tribunale abbia riconosciuto il ruolo di
Canterini e Fournier nel mio tentato omicidio. Spero compiano il passo successivo e
spingano il governo italiano a saldare tutti gli altri casi di risarcimento ancora aperti. Si
tratta di milioni di euro per più di duecento vittime del G8. Inoltre, il mio caso, in cui sono
alcuni poliziotti a pagare un risarcimento, è solo l’inizio. Sono loro che dovrebbero coprire
tutte le spese dei risarcimenti alle vittime, non i contribuenti.
Quali sono i tuoi sentimenti nei confronti di Genova e dell’Italia?
Amo Genova e la sua gente. Mi fanno sempre sentire benvenuto come cittadino onorario
(cittadinanza insignitami dal sindaco di Genova) e la considero una mia seconda casa.
L’Italia mi sta molto a cuore per via del mio intenso coinvolgimento in queste vicende.
L’Italia ha dei problemi seri, uno dei quali è la crescita del fascismo del XXI secolo.
Benché sia per me il momento di voltare pagina e di cercare di cominciare una nuova vita
dopo la Diaz, sarò sempre dalla parte di chi vuole combatterlo.
34
LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 20/11/2015, pag. 25
CASSAZIONE BOCCIATO L’ARRESTO DI AZZOLLINI
Renzi contro i pm “L’avviso di garanzia non è
una condanna”
GIUSEPPE ALBERTO FALCI
ROMA.
«Basta con le condanne per un avviso di garanzia perché solo così la politica smetterà di
essere succube del populismo ». Si toglie più di un sassolino dalle scarpe il premier
Matteo Renzi dopo la decisione della Cassazione di annullare con rinvio l’ordine di arresto
del senatore del Nuovocentrodestra, Antonio Azzollini. Il presidente del Consiglio si serve
della Enews, consueto appuntamento con i supporter, per rivendicare la scelta dell’aula
del Senato di respingere la richiesta di arresti domiciliari per il senatore di Area Popolare.
Ha prevalso la linea garantista - è la sintesi del ragionamento di Palazzo Chigi - e abbiamo
avuto ragione. «Ricordate le polemiche - è l’incipit del “pensierino della sera” - ricevute
sulla questione di un senatore, per il quale la Procura di Trani aveva richiesto l’arresto,
arresto negato dai senatori semplicemente perché dai documenti era chiara la
infondatezza della richiesta?». Quando l’aula di Palazzo Madama si pronunciò sul caso
Azzollini, esprimendo un voto contrario sull’arresto, le polemiche non mancarono.
Sollevate dai cinquestelle e dai leghisti, ma anche dai una fetta di Pd che contestò
aspramente la decisione della maggioranza del Nazareno. Spiega Renzi: «Allora io
dicevo: il Parlamento non è il passacarte della procura di Trani. Ci furono reazioni
spigolose e qualcuno disse che noi difendevamo la casta. Ieri abbiamo scoperto che la
Cassazione ha addirittura annullato quell’arresto. Quando si parla di libertà delle persone,
si può perdere consenso, per carità. Ma si deve procedere sempre con i piedi di piombo».
Da oggi, continua il premier, la musica cambia e ci vorrà «più rispetto per la presunzione di
innocenza». In sintesi, «finché non ti condannano, sei innocente».
La decisione della Corte di Cassazione è giunta nella serata di martedì, ed ha annullato la
misura cautelare disposta dalla Procura di Trani lo scorso 10 giugno. Adesso toccherà al
Tribunale del riesame di Bari ripronunciarsi sulla misura cautelare degli arresti domiciliari
per Antonio Azzollini. Oggi, però, esultano i parlamentari di Area popolare. Il primo a
chiamare il senatore pugliese, per esprimergli “affettuosa vicinanza”, è stato il ministro
dell’Interno e leader di Ncd Angelino Alfano: «Evitato un caso di ingiusta detenzione ».
Soddisfatto anche il capogruppo al Senato Renato Schifani: «Il Parlamento ha dimostrato
la sua autonomia, senza obbedire a logiche di partito». Maurizio Sacconi, presidente della
Commissione Lavoro al Senato, twitta: «Evviva, c’è un giudice a Berlino». Sulla stessa
scia Maurizio Lupi, presidente dei deputati di Ap, che lancia un ultimantum: «Basta
richieste di arresto facili».
Del 20/11/2015, pag. 25
“Su Borsellino inutile la mia testimonianza”
35
Napolitano ai giudici della strage di via Amelio: si ipotizzano per me
domande di una “assurda vaghezza”
ALESSANDRA ZINITI
PALERMO.
«Sorprendente per la sconfinata comprensività della richiesta, non meno che per la sua
assurda vaghezza». Adesso che non è più al Quirinale, Giorgio Napolitano usa parole
dure per esprimere tutto il suo fastidio per la nuova citazione ad un processo dopo quella
alla quale lo costrinsero (prima volta nella storia della Presidenza della Repubblica) i pm
della Dda di Palermo che lo chiamarono a deporre nel processo per la trattativa Statomafia. Al presidente della corte d’assise di Caltanissetta davanti alla quale si sta
celebrando il processo Borsellino-quater, l’ex capo dello Stato risponde con una lettera di
cinque pagine. «La mia deposizione al processo Borsellino non sarebbe rilevante, sarebbe
invece ripetitiva» scrive ricordando che sulle stesse circostanze su cui i giudici vorrebbero
sentirlo ha già detto tutto quello che sa.
La testimonianza dell’ex presidente della Repubblica è già stata fissata per il 14 dicembre
a Palazzo Giustiniani, ma Napolitano chiede al presidente Antonio Balsamo di rivedere la
decisione con la quale la corte ha accolto la richiesta di citarlo come testimone, questa
volta arrivata non dalla pubblica accusa, ma dall’avvocato Fabio Repici che rappresenta la
parte civile di Salvatore Borsellino.
Ricordando la sua deposizione al processo sulla trattativa Stato-mafia, Napolitano
sottolinea che «in quell’occasione nel rispondere alle domande della pubblica accusa e
delle altre parti del processo, ho avuto modo di illustrare ampiamente fatti e vicende
politico- istituzionali di cui sono venuto a conoscenza nella mia qualità di Presidente della
Camera nello stesso giro di anni e in relazione ad accadimenti storici largamente
coincidenti». «La ripetizione - dice ancora l’ex Capo dello Stato - di quelle dichiarazioni o
l’eventuale evocazione di altri ricordi personali, peraltro lontani nel tempo, attinenti a
vicende connesse, non darebbero lumi su nulla di significativo ».
Ma cosa vorrebbe chiedere a Napolitano il legale di Paolo Borsellino? I punti del capitolato
che l’ex capo dello Stato definisce «assurdamente vago» sono diversi:
dall’avvicendamento al Viminale tra Scotti e Mancino nell’estate del ‘92 ai comportamenti
dei vertici del Ros dei Carabinieri fino al dibattito parlamentare sulla conversione in legge
del ddl che introdusse il carcere duro per i mafiosi.
Napolitano dice di non essere «venuto a conoscenza di alcun fatto rilevante ai fini penali
nè per questo, nè per altro processo: ove ciò fosse avvenuto naturalmente lo avrei, e da
tempo, dichiarato alle autorità competenti». E conclude la lettera con un invito al
presidente della Corte Antonio Balsamo a dispensarlo dalla deposizione: «Auspico che la
Corte condivida la convinzione maturata in una vita al servizio delle istituzioni e cioè che
l’accertamento dei reati richieda la massima concentrazione delle energie processuali e
non la loro dispersione».
del 20/11/15, pag. 18
Trionfa il film su Lea Garofalo
Ma la sorella critica: “Non è lei”
Raphael Zanotti
Per le istituzioni e per il pubblico è stato un successo. Per parte della famiglia, no. «Lea»,
il film di Marco Tullio Giordana andato in onda in prima serata su Rai Uno, fa parlare di sé.
36
Incentrato sulla figura di Lea Garofalo, la testimone di giustizia che denunciò i suoi familiari
legati alla ’ndrangheta e per questo venne rapita e uccisa nel 2009 dal suo ex compagno e
padre della sua bambina Denise, il film è andato in onda in prima serata su Rai Uno
raccogliendo oltre quattro milioni di telespettatori.
«Un grande omaggio e un gesto d’amore che si moltiplica per una donna coraggiosa» ha
commentato ieri il regista a La Stampa. «Un bellissimo film e un esempio importante di
servizio pubblico» ha dichiarato Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare
antimafia.
Il film, però, non è piaciuto alla sorella di Lea, Marisa, che intervistata dalla trasmissione
«Buongiorno regione» del tg regionale calabrese, ha espresso pesanti critiche: «Lea è
stata rappresentata malissimo, come una ragazza rozza, ma Lea non era così. Era molto
signorile e parlava benissimo l’italiano». E ancora: «Ci sono momenti e scene che non
corrispondono alla verità, ma hanno rappresentato molto bene l’associazione Libera, e
forse lo scopo era proprio questo». La sorella non ha risparmiato l’associazione,
sollevando il dubbio di non riuscire a vedere la nipote Denise «ogni volta che faccio
riferimento a Libera».
Marco Tullio Giordana non vuole essere trascinato in una polemica: «Succede spesso,
quando si fa un film con personaggi reali, che qualcuno non sia soddisfatto, ma io penso
che questo sia un grande omaggio al coraggio di Lea. E molto coraggiosa è stata la rete
che ha deciso di mandare in onda un film vero, con interpreti bravissimi ma non conosciuti
al grande pubblico e con un uso del dialetto che, seppur reso comprensibile, non è
l’italiano a cui la maggior parte delle persone è abituata. Penso che questo sia un
bell’esempio di servizio pubblico».
Gli assassini di Lea Garofalo, sei, sono stati tutti condannati in via definitiva grazie anche
alla testimonianza della figlia Denise. Tra loro il padre di quest’ultima, Carlo Cosco, e
l’allora fidanzato Carmine Venturino.
37
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 20/11/2015, pag. 11
OBAMA PREPARA IL VETO
No ai rifugiati la Camera Usa boccia
l’accoglienza
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
Con un voto a grande maggioranza, 283 voti contro 137, la Camera dei Rappresentanti ha
bocciato il piano Obama per migliaia di rifugiati in fuga dalla Siria. Un voto scontato (i
repubblicani hanno la maggioranza della House) dopo la “rivolta dei governatori” che in 25
Stati guidati dal Grand Old Party - più il democratico New Hampshire - avevano scelto, con
l’appoggio di Fox News e dei guru conservatori delle radio (che hanno un’audience di
decine di milioni) il no alla Casa Bianca con un consenso popolare crescente dopo i
massacri di Parigi. Per il presidente lo schiaffo è stato più forte del previsto, considerato
che 47 deputati democratici si sono schierati a fianco dei repubblicani in un voto da loro
definito bipartisan su una questione (terrorismo e sicurezza) che dall’11 settembre 2001 è
una ferita sempre aperta negli Stati Uniti. La legge votata ieri che blocca, per ora, il
programma per chi fugge dalla Siria (nel 2016 ne dovevano arrivare 16mila) prevede che
per ogni “applicante” ci sia il via libera (con conferma scritta) del direttore del Fbi, del
Segretario alla Homeland Security (il ministero degli Interni Usa) e del direttore della
National Security Agency. Come dire le tre persone più importanti (dopo lo stesso
presidente) degli Stati Uniti in materia di sicurezza nazionale.
Per la Casa Bianca si tratta di una misura assolutamente “insostenibile”. Gli uomini di
Obama hanno tentato fino all’ultimo di convincere i deputati democratici a non votare a
fianco di quelli repubblicani, ma è stato tutto inutile. Con i media in cui le notizie più viste,
lette o cliccate sono quelle che riguardano i fatti di Parigi, i kamikaze dello Stato Islamico
addestrati in Siria e via dicendo, la scelta di appoggiare il piano del presidente è oggi
estremamente impopolare anche nell’elettorato democratico (città come New York o San
Francisco a parte). In attesa del voto del Senato - che dovrebbe avere luogo dopo li giorni
di vacanza per Thanksgiving della settimana prossima - dove dovrebbe facilmente
passare sia pure con una maggioranza più risicata che alla Camera, il presidente ha già
annunciato che metterà il veto sulla legge. «È offensivo pensare che non vogliamo aiutare
i rifugiati, ma se leggiamo il disegno di legge vediamo che si tratta solo di un semplice
processo di controllo da aggiungere a quello esistente», ha risposto Sean Patrick
Maloney, uno dei democratici ribelli.
Per Obama questi controlli ulteriori non «forniranno nessuna significativa garanzia di
sicurezza per il popolo americano », perché l’obiettivo dichiarato di lunghi e complessi
controlli è solo quello di bloccare del tutto il programma di ingresso dei rifugiati. Il
presidente conferma quindi di voler mettere il veto contro una misura «contraria ai valori
americanizzi accoglienza per chi fugge da guerra e terrorismo».
38
Del 20/11/2015, pag. 14
I cortei.
Domani la mobilitazione delle comunità a Roma e Milano: “Not in my
name, il terrore non ci appartiene”
Dai ragazzi agli imam i musulmani in piazza
“Gli autori delle stragi bestemmiano Allah”
VLADIMIRO POLCHI
«Dopo l’orrore dell’11 settembre ho tolto il velo. Troppa l’ostilità verso noi musulmani. Oggi
lo tengo con fierezza, perché gli attentati sono contro ogni essere umano e contro ogni
Dio». Manar Mohamed, 31enne di Reggio Emilia, indossa l’hijab. Per lei, «i terroristi non
c’entrano nulla con la vera fede». È la “rivolta” dell’altro islam, dei musulmani di casa
nostra: ragazzi e ragazze nati o cresciuti in Italia che gridano «Not in my name, il terrore
non ci appartiene ».
Oggi nel nostro Paese vivono oltre 1 milione e 600mila musulmani, tra loro tanti “g2”:
ragazzi di seconda generazione. Soprattutto a loro si rivolge l’appello delle comunità
islamiche a scendere in piazza domani a Roma alle 15 in piazza dei Santi Apostoli (ma
anche a Milano, alla stessa ora, in piazza San Babila) contro le stragi. «Dobbiamo dire che
quella di Parigi è stata una bestemmia contro il creatore e l’islam». A parlare è Izzedin
Elzir. Il presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) oggi ha 45 anni, è
arrivato in Italia quando ne aveva 19, lasciandosi alle spalle la sua città, Hebron, in
Palestina. Dal 2000 è anche imam a Firenze. «In piazza chiamiamo ogni religione —
spiega Izzedin — il nostro è un abbraccio al popolo francese con la voglia di ribadire che i
terroristi sono un cancro nell’islam». Il male può attecchire anche in Italia? «Dopo l’11
settembre abbiamo lavorato molto sulle nostre comunità e credo che oggi abbiamo gli
anticorpi contro l’estremismo». Quello a cui tiene Izzedin è far capire che «siamo tutti uniti
nella paura, tutte vittime possibili, ma uniti possiamo vincere».
Perché invece il terrore divide, aumenta la diffidenza. «Pochi giorni fa ero su un
Frecciarossa — racconta Chaimaa Fatihi, studentessa 22enne di Modena — e indossavo
il velo. Di fronte a me c’era un’anziana coppia, appena mi sono alzata per scendere la
donna ha detto al marito “per fortuna se ne va e non si è fatta esplodere”, le ho detto che
ero italiana come loro e me ne sono andata». Chaimaa è arrivata in Italia dal Marocco
assieme alla madre, quando aveva cinque anni. «Abbiamo raggiunto papà che lavorava
come autista a Castiglione delle Stiviere ». Oggi Chaimaa studia giurisprudenza a Modena
e sogna di diventare magistrato. Un anno fa ha giurato sulla Costituzione. «Ci sono voluti
più dei 10 anni previsti — ricorda — per colpa delle lentezze burocratiche, ma alla fine è
stata una cerimonia molto commovente ». Chaimaa è italiana e si sente tale. «Sono
arrivata che ero piccola, i miei primi pensieri e ragionamenti sono stati in italiano, ma vado
fiera anche delle mie origini marocchine ». Pure lei condanna gli attentatori, perché
tradiscono l’islam che «è una religione pacifica». Allora bisogna dissociarsi? «Non
dobbiamo dissociarci da qualcosa che non ci appartiene e non dobbiamo avere paura, se
no vincono loro». Hareth Amar ha 22 anni, è nato a Napoli da genitori palestinesi, studia
architettura ed è presidente dei Giovani musulmani d’Italia. Anche lui sarà in piazza a
manifestare, perché «siamo tutti colpiti come cittadini e nulla di simile deve mai più
accadere». L’Italia rischia? «Da molti anni — spiega Hareth — educhiamo i giovani
musulmani per evitare derive estremistiche e la grande rabbia che muove gli attentatori
francesi da noi ancora non c’è. O almeno non abbiamo campanelli d’allarme ».
39
«La religione non c’entra nulla con quanto accaduto», ripete Manar Mohamed. Nata a
Reggio Emilia da genitori egiziani, oggi Manar ha un figlio di pochi mesi e lavora per un
istituto di vigilanza. Lei non potrà essere in piazza perché deve lavorare, ma crede che «si
dovrebbe manifestare anche contro le stragi in Siria, perché non ci sono morti di serie A e
morti di serie B». Il suo timore è che crescano le discriminazioni, gli sguardi d’odio, «quelli
che mi hanno spinto anni fa a togliermi il velo. Ma ora non riaccadrà».
del 20/11/15, pag. 1/3
In piazza per noi e per tutti
Khalid Chaouki, Luigi Manconi
È apparso subito evidente, all’indomani della strage di Parigi, che si è di fronte a una
minaccia mortale per le società europee, ma anche per il mondo arabo e musulmano. E
bene hanno fatto le comunità islamiche italiane che hanno deciso di scendere in piazza in
solidarietà con le vittime e contro il terrorismo di Daesh il pomeriggio di sabato 21
novembre a Roma (alle ore 15 in piazza Santi Apostoli).
Spetta, infatti, soprattutto ai musulmani riconoscere, isolare e denunciare qualsiasi forma
di estremismo fondamentalista, pronto a dotarsi di armi micidiali.
E spetta a noi ora, cittadini italiani, associazioni laiche e religiose, donne e uomini di buona
volontà, il compito non lieve e non facile di accogliere con serietà quest’invito per
affermare i valori condivisi delle società democratiche.
Dunque, le musulmane e i musulmani d’Italia, in un simile momento storico sono nostri
preziosi alleati, in una sfida contro il terrorismo che vinceremo se e solo se saremo capaci
di rimanere uniti intorno al valore della intangibilità della vita umana. E se, e solo se,
saremo mossi dalla netta condanna di qualsiasi forma di fondamentalismo.
Per questo i musulmani d’Italia e d’Europa vanno sostenuti e tutelati nei confronti di chi li
associa a un Islam ridotto alla sua dimensione aggressiva e autoritaria e alla sua faccia
intollerante e feroce. E con ciò si dimentica che la guerra in corso è, in primo luogo, una
lotta all’ultimo sangue per l’egemonia all’interno del mondo musulmano, perfino al di là del
conflitto tra sciiti e sunniti.
Come ha scritto Amos Oz, questa «prima che essere una guerra contro l’Europa e
l’Occidente, è una guerra interna all’Islam, per il suo cuore. È un conflitto sul significato e
l’identità dei musulmani». Se non si capisce questo, è inevitabile che le opinioni pubbliche
occidentali — smarrite e insicure — creino nuovi mostri e coltivino nuovi incubi.
Si finisce così col guardare — cedendo a una equazione perversa — i flussi di profughi
che arrivano sulle nostre coste come potenziali seminatori di terrore. E, invece, la gran
parte di quanti giungono in Europa fugge da guerre e persecuzioni.
Fugge, quindi, da quello stesso terrore che ha colpito Parigi e da anni colpisce paesi come
la Nigeria, la Siria, l’Iraq, il Mali e l’Afghanistan.
A loro dovremmo dare la possibilità di arrivare nel nostro continente con viaggi legali e
sicuri. Ma mese dopo mese le nostre risposte si rivelano sempre più povere e inadeguate:
il programma di ricollocamento stenta a partire, le barriere si moltiplicano e, nelle ore
successive alla strage di Parigi, alcuni Stati hanno fatto marcia indietro sugli impegni presi
per la gestione della crisi umanitaria in atto.
Garantire il diritto d’asilo e consentire ai profughi di essere accolti con dignità e inclusi
nelle nostre società è un altro passo indispensabile nella difesa dei valori fondamentali in
cui ci riconosciamo.
40
Lo si è visto in questi anni: quanto più escludiamo e segreghiamo e quanti più ghetti
creiamo, tanta più miseria e tensione sociale finiamo col produrre.
Manca, all’Unione europea, un programma comune per l’immigrazione e per l’asilo; e, più
in generale, manca una strategia condivisa in politica estera e di difesa. La necessità di
pensare e attuare l’unità politica degli Stati membri, nonostante venga ribadita in tutte le
sedi, passa obbligatoriamente attraverso una serie di scelte che gli stessi Stati dovrebbero
fare. E anche in fretta.
L’incombenza della minaccia terroristica non fa altro che evidenziare fratture e
contrapposizioni, le quali potrebbero rivelarsi fatali per l’obiettivo di un’Europa unita.
del 20/11/15, pag. 25
Minori in fuga sui barconi Due su tre arrivano
soli
Dopo lo sbarco 5.707 irreperibili. Brambilla: agire subito
ROMA Messi sui barconi dalle famiglie che vogliono allontanarli dalla guerra e dalla
povertà. Spesso abusati e torturati nelle settimane precedenti il viaggio della speranza.
Quando arrivano in Italia sono soli e due su tre si rendono subito irreperibili e finiscono per
strada, facile preda degli sfruttatori e della criminalità organizzata. Sono i minori stranieri
non accompagnati: l’Italia, dice la presidente della commissione parlamentare Infanzia e
Adolescenza Michela Vittoria Brambilla, ha il «dovere di aiutarli, accoglierli, proteggerli. I
minori migranti sono tutt’altra storia rispetto al dibattito politico sui richiedenti asilo e su
quanti invece vanno giustamente rimpatriati».
È ai minori non accompagnati, ovvero ai bambini e ai ragazzi che arrivano da noi senza
famiglia, che la presidenza del Consiglio e il Parlamento dedicano oggi la giornata
mondiale per l’Infanzia e l’Adolescenza. I numeri, preparati dalla Commissione
parlamentare su dati del ministero dell’Interno e del ministero del Lavoro forniscono
un’istantanea nitida. Dal primo gennaio al 31 ottobre 2015 sono arrivati da noi quasi
tremila minori non accompagnati in meno rispetto allo stesso periodo del 2014 (erano
13.026, quest’anno sono 10.322, secondo il Viminale), tuttavia lo scorso anno i giovani
migranti senza famiglia erano la metà di tutti i minori sbarcati in Italia, nel 2015 sono il 73
per cento, molti di più. E due su tre sono completamente soli.
Ancora più drammatico, dicono i dati diffusi dalla Commissione, è che un terzo di questi
ragazzi — perlopiù maschi (95 per cento) maggiori di 15 anni (91,7 per cento) — svanisce
nel nulla. Non se ne sa più niente. Su 15.949 (questo è il dato del ministero del Lavoro,
che registra quindi un numero più alto rispetto alle cifre fornite dall’Interno), 5.707 sono
irreperibili, un adolescente su tre. «Se non è giusto rispondere all’emergenza
immigrazione, come anche al terrorismo, chiudendo le frontiere, ancora di più è
inaccettabile negare il nostro aiuto ai minori migranti senza famiglia - dice la presidente
Brambilla —. Non possono essere espulsi. Soccorrerli è un dovere morale oltre che
giuridico. Non si tratta soltanto di sbandierare la Convenzione dell’Onu ma di agire per
togliere questi ragazzi dalla strada».
Vengono soprattutto dall’Egitto (22 per cento), dall’Eritrea (11 per cento), dall’Albania (11
per cento). In totale, al 31 ottobre, sono arrivati in Italia 136 mila 432 migranti, di cui quasi
il 10 per cento minori. «Un record — spiega la Brambilla —. Nel 2014 erano 170 mila, tre
volte più del massimo precedente registrato nel 2011. All’emergenza nell’emergenza,
quella dei minori migranti non accompagnati, va data subito risposta, senza esitazioni, con
41
solidarietà e generosità. I giovani che spariscono dalle strutture di accoglienza sono
migliaia, esposti a rischi di abuso, sfruttamento e reclutamento da parte della criminalità».
Cosa fare? «Per prima cosa — spiega la presidente — coordinare la raccolta statistica dei
dati. Poi, subito, annullare i gravi ritardi che ancora abbiamo nella nomina dei tutori. Anche
la commissione europea ci ammonisce su questo. Ma avremmo molte più risorse per farlo
se non dovessimo spendere tanti soldi per accogliere e poi rimpatriare molti adulti che
rifugiati non sono».
Mariolina Iossa
Del 20/11/2015, pag. 49
Una petizione al governo per aiutare i piccoli
migranti
LAURA MONTANARI
Nel 2015 il 92% in più di richieste di asilo di bimbi in Europa
Quanti ne abbiamo perduti, quanti sono stati inghiottiti dal freddo, da un’onda, per una
mano che non è arrivata in tempo. Sono circa 700 i bambini morti nel 2015 nelle incerte e
disperate traversate del Mediterraneo. Dalle coste dell’Africa, dalla Grecia o dai Balcani. È
una stima, certo, nessuno ha la geografia esatta dei lutti, ma è firmata dall’Unicef che
racconta nell’ultimo rapporto l’epidemia delle violenze sui minori: dai bambini soldato agli
abusi sessuali, dallo sfruttamento sul lavoro alla malnutrizione. “La crisi dei rifugiati e dei
migranti in Europa è una crisi che colpisce drammaticamente i bambini”, si legge nelle
pagine che ci inchiodano alle cifre. “Nei primi otto mesi di quest’anno, rispetto al 2014, si è
verificato un aumento del 92% dei piccoli richiedenti asilo in Europa”. Significa che un
richiedente su quattro è un bambino, “700 al giorno, da gennaio a settembre 2015 fanno
circa 190mila”. Siamo pronti? L’Unicef sta promuovendo la petizione “Indigniamoci” per
chiedere fondi e un impegno preciso al governo italiano ( www. unicef. it/ indigniamoci) sul
tema dell’immigrazione.
Chi viene nel Vecchio Continente si aspetta prima di tutto un porto al riparo dalle guerre:
“Nessuno mette i propri figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della
terraferma”, scrive Warsan Shire, poetessa africana. I “ragazzi in cammino” che si lasciano
alle spalle i villaggi bombardati o i fantasmi della povertà, che fanno altrettanta paura,
sono cresciuti di numero in maniera esponenziale: “Quelli che viaggiano non
accompagnati sono sei volte di più: da 932 registrati ad agosto a 5.576 registrati a ottobre
nella ex Repubblica jugoslava di Macedonia”. I bambini soli che hanno chiesto asilo
all’Unione Europea dal 2014 a oggi sono 23.160, ma quelli che dal 2014 hanno
abbandonato le proprie case a causa delle guerre sono 30 milioni. Nelle cifre ci si perde,
ma dietro a ogni unità c’è un bisogno che grida, una storia: c’è necessità di un luogo dove
poter riposare, uno spazio sicuro per giocare, una nutrizione adeguata, abiti e servizi
igienici. In una parola, serve sostegno per rispettare il diritto di tutti al futuro. «L’intervento
sull’infanzia è fondamentale », spiega Giacomo Guerrera, presidente dell’Unicef Italia.
«Siamo davanti a flussi migratori biblici. Noi attraverso le donazioni che riceviamo siamo
impegnati in 190 Paesi a far crescere non soltanto il singolo ma un’intera comunità. Una
volta in Ciad incontrai un capo villaggio che mi mostrò alcune derrate alimentari e mi disse
che a loro non servivano quelle cose, se le avesse date alla sua gente avrebbero smesso
di coltivare il campo; lui voleva invece che noi insegnassimo loro a coltivare meglio per
produrre quelle stesse cose».
42
I numeri del rapporto Unicef 2015 sono a ogni capitolo un dito indice puntato contro il
mondo: “Si stima siano 232 milioni i bambini che vivono in zone coinvolte in conflitti», si
legge. «Il 36% di quelli che non vanno a scuola provengono da quelle aree». Soltanto in
Siria si contano 7,6 milioni di sfollati e i piccoli che hanno trovato rifugio in Egitto, Iraq,
Giordania, Libano e Turchia sono 2 milioni. Ma non ci sono soltanto le guerre o le carestie:
per esempio 200 milioni di bambini nel mondo soffrono di malnutrizione, anche se grazie
all’impegno dell’Unicef e di altre organizzazioni umanitarie il tasso è in diminuzione: dal
1990 al 2014 è passato infatti dal 39,4 al 23,8%.
43
BENI COMUNI/AMBIENTE
del 20/11/15, pag. 20
Sarà il Niño più caldo di sempre
ma l’inverno resta un’incognita
L’anomalo surriscaldamento del Pacifico scatena previsioni fantasiose
Luca Mercalli
Avviatosi in sordina tra fine 2014 e inizio 2015, nel corso di quest’anno El Niño si è
sviluppato fino a diventare uno degli episodi più intensi da quando viene monitorato,
ovvero dal 1950. Si tratta di un anomalo surriscaldamento delle acque superficiali
dell’Oceano Pacifico equatoriale e tropicale, al lago delle coste di Perù ed Ecuador, un
fenomeno di per sè naturale che di norma si ripete a intervalli di 2-7 anni, tuttavia si teme
che i cambiamenti climatici in corso possano alterarne le caratteristiche e aumentarne
l’intensità. Si genera quando l’indebolimento dei venti alisei, che soffiano costantemente
verso l’Equatore da entrambi gli emisferi, permette il riflusso di acqua molto calda dagli
arcipelaghi tra Sud-Est asiatico e Polinesia verso oriente, che va dunque a concentrarsi in
maniera insolita di fronte al Sud America. Furono i pescatori peruviani a chiamarlo «El
Niño», riferendosi al bambin Gesù, dal momento che il fenomeno spesso tocca il picco
proprio attorno al Natale.
Eccesso termico
Nell’ultima settimana una vasta porzione di oceano ha rilevato un eccesso termico di ben
3 gradi, come mai si era osservato in precedenza, tuttavia - per definirlo ufficialmente
l’evento più marcato negli annali – occorrerà aspettare le statistiche trimestrali complete.
L’insorgere del Niño determina in genere delle annate molto calde a scala planetaria, e
non a caso il 2015 – con la complicità del riscaldamento globale – è ormai certo che
diverrà l’anno più rovente dal 1880, ma la sua presenza è in grado di alterare i regimi di
temperatura e precipitazioni soprattutto sulle regioni tropicali, e grazie alla sua evoluzione
è possibile anticipare alcune anomalie climatiche più facilmente prevedibili proprio su
quelle regioni.
Ad esempio ci si attende che l’episodio in corso possa portare un inverno più mite del
consueto dall’India al Giappone, più siccitoso nel Sud-Est asiatico, alimentando
ulteriormente i gravi incendi in corso da mesi in Indonesia, più piovoso invece sugli Stati
americani del Golfo: inoltre l’estate australe potrebbe essere molto calda in Oceania.
Regioni tropicali
Via via che ci si allontana dalle regioni tropicali le influenze a lunga distanza - dette
teleconnessioni - si fanno più labili e sfumate così che individuare tendenze precise
sull’andamento stagionale soprattutto in Europa diviene un esercizio giustificato ai fini di
indagine scientifica, ma assolutamente prematuro per la diffusione al pubblico. Ecco
perchè sbandierare ai quattro venti con futuro coniugato all’indicativo dichiarazioni tipo
«Sarà un inverno gelido, o piovossissimo o asciuttissimo» non è corretto. Una previsione
deve avere un ragionevole livello di affidabilità per essere utile alla società, e per ora
questa soglia di credibilità si ottiene solo fino a un massimo di una decina di giorni. Se
queste previsioni stagionali funzionassero, qualcuno avrebbe dovuto avvertirvi a maggio
che avremmo avuto il luglio più caldo di sempre, oppure a settembre si sarebbe dovuto
anticipare un novembre tra i più miti da un secolo.
44
Se nessuno ve lo ha detto, non abbiamo ora motivi per credere agli annunci di un inverno
glaciale o tropicale. Accontentiamoci di navigare sull’orizzonte previsionale della
settimana, con la consapevolezza che il Niño ci porterà sicuramente molte sorprese
meteorologiche.
45
CULTURA E SPETTACOLO
del 20/11/15, pag. 18
Torino, un Festival di numeri (e si spera
anche di spettatori)
Cinquanta anteprime mondiali, 158 lungometraggi, di cui 47 opere prime
e seconde, più di 4mila film visionati
di Federico Pontiggia
Il Torino Film Festival compie 33 anni. E da oggi al 28 novembre festeggia sotto lo
sguardo malandrino di Orson Welles, cui è dedicata l’edizione nel centenario della nascita
e trentesimo della morte. Al timone Emanuela Martini, già braccio destro per Moretti,
Amelio e Virzì e direttrice in solitaria dall’anno scorso, il TFF fa ritorno al futuro: recuperati
tre schermi, per 11 totali, e il budget, due milioni e 400mila euro, si riparte dai livelli del
2013.
Martini mette le mani avanti, ma per applaudire: “Ringrazio sin d’ora il nostro pubblico
meraviglioso”. E sciorina la legge dei grandi numeri, specie se rapportati alla
contemporanea contrazione della Mostra di Venezia e della Festa di Roma: 158
lungometraggi, di cui 47 opere prime e seconde, 50 anteprime mondiali, più di 4mila film
visionati. Un mare magnum, buono per accontentare tutti i gusti cinefili, ma con il rischio
sensibile del gigantismo: il TFF può trarne reale giovamento?
Non sarebbe stato meglio lavorare su meno titoli ma con più registi e attori al seguito?
Interrogativi da mettere a consuntivo: sulla carta, la forza del TFF rimane quella del
pubblico, capace di garantirgli l’alloro di festival urbano, dato che i 900mila abitanti non
fanno del capoluogo piemontese una metropoli. Altrimenti, l’esperienza sarebbe
paragonabile a quella di Londra, forse addirittura di Toronto, l’exemplum perennemente
citato e mai accorciato dal festival di Roma, a patto di mettere sul tappeto rosso le stesse
star dei cugini inglesi e canadesi. La strada da fare è lunghissima: il red carpet Torino non
l’ha, se non altro non rimane vuoto come l’ultimo capitolino.
Ma se la crescita non vuole esser solo di titoli, la formula va perfezionata: il TFF non può
permettersi una superstar come Madonna, che canta per altre due date all’ex
Palaolimpico, ma avere questa sera al Lingotto per il film d’apertura Suffragette una Carey
Muligan, per non dire di Helena Bonham Carter o dell’impossibile Meryl Streep, non
avrebbe nociuto. Viceversa, ad accompagnare il biopic sul movimento femminista inglese
arriveranno la regista Sarah Gavron e la sceneggiatrice Abi Morgan: posson bastare?
Quindici i titoli – tra opere prime, seconde e terze – in lizza per i premi, “romanzo di
formazione, autobiografia, riscoperta di padri e madri” per Leitmotiv, il Concorso prende in
prestito da Cannes l’impronta autarchica, con quattro italiani selezionati: Colpa di
comunismo di Elisabetta Sgarbi, in bilico tra doc e finzione, badanti romene e agricoltori
emiliani; Mia madre fa l’attrice di Mario Balsamo, che dialoga con Silvana Stefanini tra
Edipo e ironia; I racconti dell’orso, debutto di Samuele Sestieri e Olmo Amato, finanziato
col crowdfunding, basculante tra fantasy e naif; Lo scambio dell’esordiente Salvo Cuccia,
che ci riporta nella Palermo anni ’90 tra verità storica e finzione thriller. Nel ventennale del
Premio Cipputi uno alla carriera andrà a Francesca Comencini, mentre il guest director
Julien Temple porta in dote il suo nuovo The Ecstasy of Wilko Johnson, e Terence Davies,
vincitore del Gran Premio Torino, risponde con Sunset Song.
46
Madrina Chiara Francini, tra i piatti forti La felicità è un sistema complesso di Gianni
Zanasi, con Valerio Mastandrea e Hadas Yaron; il pluripremiato Quel fantastico peggior
anno della mia vita; Terrore nello spazio di Mario Bava, restaurato ad Cineteca Nazionale
e introdotto da Nicolas Winding Refn, il pressoché inedito Tragica alba a Dongo di Vittorio
Crucillà, sulla fine del Duce, restaurato dal Museo del Cinema.
del 20/11/15, pag. 12
Biblioteche in gioco
Videogame. Appuntamento domani con l’International Games Day,
ideato dal sistema bibliotecario americano a cui dal 2008 aderisce
anche l’Italia. Nonostante pregiudizi e critiche
Francesco Mazzetta
Quale lo sconcerto di paludati professori e di rigorosi intellettuali nello scoprire che il 21
novembre centinaia di biblioteche in tutto il mondo aderiranno all’International Games Day
@ your library organizzando eventi a base di giochi e videogiochi per i loro utenti!
L’International Games Day è un’iniziativa lanciata dall’associazione delle biblioteche
statunitensi, la American Library Association, nel 2008 che fin dal primo anno ha ricevuto
grande attenzione e partecipazione se pensiamo che ad essa parteciparono 617
biblioteche esclusivamente statunitensi (il nome all’epoca era ancora National Gaming
Day). Dall’edizione successiva iniziarono ad aggiungersi biblioteche di altri paesi per
arrivare nel 2014 a raggiungere quota 1.257 iscrizioni sia di biblioteche singole sia di interi
sistemi bibliotecari (da cui la media possibile di circa 1.500 biblioteche partecipanti in
totale).
Progressivamente si sono andati ad affiancare ad American Library Association,
l’Australian Library and Information Association, e il Nordic Game Day, evento parallelo
che aggiunge altre 90 biblioteche di Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia e Islanda.
Il 2014 è anche il primo anno di adesione formale all’evento dell’Associazione Italiana
Biblioteche e ha visto la partecipazione di 10 biblioteche italiane, un numero
apparentemente ridotto, ma tutto sommato apprezzabile se confrontato ad esempio alle 7
biblioteche tedesche o alle 16 del Regno Unito, entrambi paesi con una tradizione ed una
cura ben maggiore rispetto a quella italiana del proprio patrimonio culturale e bibliotecario.
Con la crescita della manifestazione, realtà editoriali hanno iniziato a sostenerla in qualità
di sponsor che donano i loro giochi alle biblioteche. Ad esempio a livello internazionale c’è
il produttore del gioco di carteYu-Gi-Oh! e la Steve Jackson Game. Già dal secondo anno
di partecipazione anche l’Italia, forte di oltre il doppio di biblioteche partecipanti rispetto
alla precedente edizione, gode del sostegno di Asterion Press che ha messo a
disposizione numerose copie dei giochi: Baba Yaga,La Lepre E La Tartaruga„I Tre
Porcellini,La Cicala E La Formica,Dixit,Il Piccolo Principe,Il Piccolo Principe Verso Le
Stelle (ispirato al film di prossima uscita) e Timeline.
L’organizzazione italiana ha aperto un blog (https://internationalgamesdayitalia.wordpress
.com, disponibile su esso l’elenco delle biblioteche partecipanti) parallelo a quello
internazionale in inglese (http://igd.ala.org) ed una bacheca Pinterest (https://www
.pinterest.com/igd_italy/international-games-day-2015/). Il blog è utilizzato per la diffusione
delle informazioni e per coordinare il gioco interbibliotecario dell’Impiccato letterario che
chiederà alle squadre di partecipanti messe in campo dalle biblioteche di risolvere nel
minor numero di mosse una versione letteraria del classico gioco dell’impiccato.
47
Di fronte a questo evento non mancano, anche all’interno delle stesse biblioteche, i
professori e gli intellettuali citati all’inizio che storcono il naso giudicando che, di fronte alla
contrazione immane delle risorse a disposizione, utilizzare parte di esse, sia pure spesso
non propriamente economiche ma di personale, di spazi, di strumenti, sia uno spreco e
che si dovrebbero concentrare invece gli sforzi sulla tutela e sulla promozione del
patrimonio librario. Questa impostazione si scontra però con una concezione della
biblioteca non semplice magazzino di libri a disposizione di una fetta importante ma
limitata della società — gli studiosi — quanto piuttosto servizio volto all’informazione ed
alla socializzazione visti come elementi non scindibili. Non è un caso che entrambe le
piattaforme che forniscono il servizio di «biblioteca digitale» alle biblioteche,Media Library
On Line (oMLOL) e ReteINDACO, abbiano inserito nel pacchetto di materiali che le
biblioteche possono mettere a disposizione per i propri utenti i classici videoludici (come
Defender,Wolfenstein 3D,Prince of Persia, ecc.) messi a disposizione dal progetto di
preservazione del web e dei materiali digitali Archive.org.
Inoltre sempre più biblioteche si stiano attrezzando per offrire — a fianco delle ludoteche,
già da tempo presenti in molte istituzioni — collezioni e organizzazione di eventi
videoludici come strumenti non solo di promozione ma soprattutto di condivisione, di
socializzazione, di educazione all’uso ed alla conoscenza dei nuovi media.
Per quanto la maggior parte delle biblioteche italiane partecipanti a IGD2015 organizzi
eventi a base di «tradizionali» giochi da tavolo come quelli donati da Asterion Press, ce ne
sono alcune che organizzano anche eventi di natura videoludica, tra cui di notevole
interesse quella del Multiplo di Cavriago (in provincia di Reggio Emilia) dedicata a tutta la
famiglia e realizzata in collaborazione con GameSearch.it, un portale che si pone lo scopo
di fornire a insegnanti, genitori e ai professionisti dell’informazione e dell’educazione
(campo in cui rientrano a pieno titolo i bibliotecari) una conoscenza dei videogiochi come
medium artistico e come strumento utilizzabile con finalità educative.
48
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 20/11/2015, pag. 48
Guerre, fame, malattie: nel mondo milioni di minori crescono in
condizioni drammatiche. Come emerge dal rapporto dell’Unicef
presentato oggi, la giornata in cui si celebra la Convenzione sui diritti
dell’infanzia e dell’adolescenza
Bambini Un futuro da costruire
VALERIA FRASCHETTI
Per i bambini di un campo profughi iracheno l’opportunità di una vita più giusta passa
anche per un rubinetto con acqua corrente. Per un neonato della Sierra Leone può essere
il documento con la registrazione della sua nascita. Nel caso di un bambino serbo con
sindrome di Down è magari l’accoglienza ricevuta da una coppia di genitori adottivi. Offrire
un’infanzia senza diseguaglianze è un traguardo che può essere perseguito percorrendo
strade molto diverse. E l’Unicef ce lo ricorda pubblicando il rapporto “Per ogni bambino la
giusta opportunità”, proprio oggi, il giorno in cui il mondo festeggia la Giornata
internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: la celebrazione della
Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata nel 1989. Il 20 novembre,
dunque, diventa un’occasione per fare un bilancio dei progressi raggiunti, ma soprattutto
delle sfide che ancora restano aperte, per rendere la Terra un pianeta più a misura di
bambino.
«Quando i bambini non hanno buone opportunità nella vita, fra i più e i meno avvantaggiati
emergono disuguaglianze significative», sottolinea il presidente di Unicef Italia, Giacomo
Guerrera. «Queste disuguaglianze si trasmettono di generazione in generazione in un
circolo vizioso che ha notevoli conseguenze economiche, politiche e sociali che creano un
mondo più ingiusto». L’iniquità è insomma una gramigna che s’insinua ovunque e fin dalla
nascita, come troppe statistiche ci ricordano. I bambini più poveri, per esempio, hanno
probabilità cinque volte maggiori di non frequentare la scuola rispetto a quelli più ricchi.
Fino alle estreme conseguenze: hanno anche probabilità quasi doppie di morire prima del
loro quinto compleanno.
A scavare il solco delle diseguaglianze non è certo solo la vanga del denaro. Anche gli altri
fattori che le determinano sfuggono completamente a ogni controllo. Si pensi all’etnia di
appartenenza, al luogo di nascita, al genere. Nascere donna, per dire, significa avere nella
vita maggiori probabilità di contrarre l’Hiv, visto che quasi due terzi delle infezioni fra gli
adolescenti colpiscono le ragazze. Così come nascere con una disabilità espone a rischi
quattro volte superiori di diventare vittime di violenze. Proprio dalla violenza, nelle sue
molteplici forme, deriva un corposo campionario delle vulnerabilità dei più piccoli. Che oggi
purtroppo è esemplificato con drammatica eloquenza da un Paese come il Sud Sudan.
Qui lo scorso anno la guerra civile ha provocato lo sfollamento di 750mila bambini,
determinato 235mila condizioni di malnutrizione acuta grave, causato un’epidemia di
colera con oltre 6mila casi e 170 morti, e interrotto la frequenza scolastica di 400mila
bambini. Conseguenze molto simili a quelle che subisce la maggior parte dei bambini
sfollati a causa di conflitti armati nel mondo (nel 2013 erano circa 26 milioni). Ma violenza
49
è anche quella che determina che in un Paese tecnicamente in pace come il Brasile gli
omicidi siano la prima causa di morte per i ragazzi fra i 10 e i 19 anni. Eppure non c’è
bisogno di proiettili perché la violenza segni in maniera profondamente negativa la crescita
di un bambino. Quella domestica coinvolge circa quattro bambini su cinque fra i 2 e i 14
anni. E le punizioni corporali, oltre a quelli psicologici, causano persino danni finanziari.
Secondo una stima citata nel rapporto Unicef, infatti, le conseguenze della violenza fisica,
psicologica e sessuale ai danni dei bambini potrebbero avere a livello globale addirittura
un impatto economico di 7mila miliardi di dollari. Trasformare questi circoli viziosi in
virtuosi è possibile, però. «Ogni bambino», sostiene Giacomo Guerrera, «può avere una
possibilità nella vita attraverso investimenti intelligenti e azioni mirate». Nel campo
dell’istruzione un esempio è il Bangladesh, che negli ultimi anni ha deciso di concentrare
proporzionalmente più risorse nelle scuole dei quartieri poveri, facendo migliorare
l’accesso all’istruzione dei più svantaggiati.
Del resto, secondo calcoli eseguiti in 139 Paesi, ogni anno di scuola frequentato
corrisponde in media a un aumento del 10 per cento nel reddito individuale. Il che significa
anche una crescita dei Pil nazionali, come spiega il presidente Unicef Italia: «Offrire giuste
opportunità ai bambini non avvantaggia solo loro, permette anche a noi di beneficiare delle
loro competenze e potenzialità, aumentando il progresso sociale ed economico».
del 20/11/15, pag. 9
900 mila bambini in cerca di asilo nido
Legge di stabilità. Oggi è la giornata mondiale dei diritti dell’infanzia,
Fp-Cgil lancia la campagna #ChiedoAsilo. «Mille asili in mille giorni»
disse un tempo Renzi. Ma oggi nella legge di stabilità non c’è un euro
Roberto Ciccarelli
C’era una volta la promessa di Renzi sui «mille asili in mille giorni». Di giorni dal suo
insediamento ne sono passati quasi 700, ma di nuovi asili non c’è alcuna traccia. Oggi
novecentomila bambini tra i sei mesi e i due anni cercano asilo. E la legge di Stabilità non
stanzia un euro per finanziare il disegno di legge Puglisi (Pd), inglobato nella cosiddetta
«Buona scuola», che renderà i nidi e le scuole dell’infanzia un diritto universale e non più
un servizio a domanda individuale. In compenso, alle scuole paritarie arriveranno altri 25
milioni di euro, portando così quasi a livello dello scorso anno (497 milioni totali rispetto su
500) il fondo riservato.
Lo prevede un emendamento alla legge di Stabilità che sarà approvata oggi in prima
lettura dal Senato. Mentre il governo si appresta a sforare il Fiscal Compact sulle spese
militari, finanzia le scuole private e quelle cattoliche, ma non gli asili o per il diritto allo
studio degli universitari a cui ha destinato risorse irrisorie.
Un mondo precario
Questa è la fotografia dell’istruzione pubblica scattata dalla Funzione pubblica della Cgil
(Fp) nella giornata mondiale dei diritti dell’infanzia prevista oggi. In questa occasione FpCgil ha promosso una campagna sugli asili nido lanciando l’hashtag #ChiedoAsilo. Il
sindacato ha elaborato una ricerca, condotta sui dati Istat sull’offerta comunale degli asili
nido e altri servizi socio-educativi. Il sistema noto nel mondo per le sue eccellenze mostra
un’altra faccia: precariato delle maestre, scarsa offerta pubblicata generata dai tagli, privati
che alzano tariffe per famiglie alle prese con la crisi e redditi bassi. Questa è l’altra faccia
50
dell’eccellenza italiana: un immenso bacino di bambini esclusi dal «diritto di asilo» e
condannati a restarlo a lungo.
La mappa nazionale dei servizi presenta enormi sperequazioni regionali. Se, infatti, la
copertura dei servizi per l’infanzia è al 24,8% in Emilia Romagna, in Campania è al 2%. La
media nazionale sull’offerta di asilo nido e di micro nidi pubblici e privati per la prima
infanzia oggi copre una fascia di bambini da zero a due anni pari al 17,9% (17,9 posti ogni
100 bambini): 289.851 bambine e bambini. Una percentuale lontanissima dalla media dei
paesi scandinavi, quasi il 50%, e dalla (passata) strategia di Lisbona che prevedeva una
copertura pari al 33% entro il 2010.
Per raggiungere lo standard europeo l’Italia dovrebbe creare 1700 nidi e scuole
dell’infanzia in più, garantendo il diritto all’asilo a 100 mila bambini. In questo modo 33
bambini su 100 – la percentuale prevista – potrebbero accedere al servizio. Per rendere
possibile questo sforzo, ha calcolato Fp Cgil, bisogna assumere 20 mila lavoratori.
Prospettiva impossibile finché resterà in vigore uno dei comandamenti dell’austerità: il
blocco del turn-over (al 25%) e delle assunzioni nella pubblica amministrazione. Un muro
che implementa il precariato in cui lavorano le maestre e gli insegnanti in Italia.
Se gli adulti sembrano equilibristi alla ricerca di una continuità di lavoro e della qualità del
servizio, il mondo del precariato visto dai bambini è un arcano esercizio ragionieristico. La
stima dei 900 mila «senza asilo» è ottenuta dal totale delle nascite avvenute dal 2010 fino
ai primi due mesi del 2012. Nel 2010 sono nati 561.944 bambini, nel 2011 546.585. Nei
primi due mesi del 2012 89.587. Il totale è di 1 milioni e 198.116 bambini ai quali vanno
sottratti i 289.851 che sono riusciti a trovare un posto al nido. I “senza asilo” sono 908.535.
Per loro non si prevede, a breve, un posto nelle strutture pubbliche. A meno che le
rispettive famiglie non facciano uno sforzo, pagando.
Fatti, non annunci
È interessante anche l’analisi della Fp Cgil sui 289 mila bambini che hanno trovato un
posto al nido. 146.647 sono iscritti agli asili comunali, 45 mila a quelli gestiti da terzi, 29
mila sono in asili nido privati con riserva di posti, mentre 13 mila bambine e bambini
usufruiscono dei contributi erogati (compresi i voucher) alle famiglie per la frequenza degli
asili. A questi vanno aggiunti ben 96 mila bambini che hanno trovato un posto nelle
strutture private, a carico delle famiglie. Questi 289 mila bambini si trovano in 3.656
strutture pubbliche e 5.214 private, per un totale di 8.870. A questa cifra, sostiene il
sindacato, si dovrebbero aggiungere le 7 mila strutture e i 20 mila posti in più. Per
permettere al sistema di recuperare in equità a tutti i livelli e per tutte le età.
«Servono fatti, non annunci – sostiene Federico Bozzanca, segretario Fp Cgil – a partire
da un finanziamento nella legge di Stabilità. I dati della ricerca dimostrano l’impatto del
blocco del turn-over, l’allungamento dell’età pensionabile e dei tagli agli enti locali sulla vita
dei bambini, delle famiglie e dei lavoratori. Il blocco e i tagli rischiano di metterei n crisi un
servizio che è sempre stato un fiore all’occhiello a livello internazionale».
51
ECONOMIA E LAVORO
Del 20/11/2015, pag. 25
Legge di stabilità al voto di fiducia
Entrate, dubbi Ue
Ieri il maxiemendamento al Senato Tasse record sulle imprese ma in
calo
ROBERTO PETRINI
Tra oggi e domani al Senato la fiducia sulla legge di stabilità. Il maximendamento
presentato ieri sera dal governo, che ha dato il via libera alla procedura parlamentare,
ricalca sostanzialmente il testo uscito dalla Commissione Bilancio. Tra le novità il
pacchetto- casa le esenzioni Tasi (figli, separati, disabili, canoni concordati), il tetto a
1.000 euro per il contante nei money transfer, la dilazione in 10 rate del canone Rai in
bolletta elettrica, la sanatoria delle delibere ai Comuni che rischia di provocare nuovi
aumenti sulla Tasi di quest’anno in pagamento il 16 dicembre o a gennaio. Interventi
anche sull’Iva: resta al 10 per cento quella sugli ormeggi brevi, bloccata al 22 per cento
quella sul pellet e sale dal 4 al 5 per cento l’aliquota sulle cooperative sociali. Molte
micromisure: fondi per terme , gran premio di Monza, Lsu di Palermo e parchi. La Camera
eredita i nodi più complessi: interventi per il Sud e flessibilità pensionistica.
Intanto la Commissione europea, nel documento tecnico che contiene il parere sulla legge
di stabilità, come ha riferito “Il Velino”, esprime valutazioni diverse dal governo
sull’aggiustamento strutturale (inferiore nel 2015) e il deficit nominale e strutturale (più
elevato nel 2016). Il documento attribuisce la differenza nelle stima ad una «valutazione
più prudente delle entrate previste e di alcune misure contenute nella manovra, come le
risorse aggiuntive dei giochi».
Torna in primo piano intanto la questione del fisco delle imprese. Il carico fiscale
complessivo sulle imprese in Italia è il più alto d’Europa: è 64,8 per cento (la Francia è
seconda con il 62,7 per cento e la media europea è del 40,6 per cento). A pesare sulle
imprese del nostro paese è la componente lavoro (43,4 punti di cui 7 attribuibili al Tfr).
Elevato anche il tempo medio annuale per gli adempimenti tributari: 269 ore, subito prima
del Burkina Faso e dopo la Tailandia. Anche il numero di pagamenti annuali al fisco ci
colloca in posizioni poco esaltanti: sono 14 e siamo tra la Romania e l’Iraq. Tirate le
somme, secondo il rapporto Banca Mondiale-Pwc (su dati 2014), presentato ieri al Mef,
l’Italia è al 137° posto (dopo la Colombia) per «condizioni fiscali» (sintesi dei tre indicatori)
su 189 economie del mondo.
Se si raffrontano i dati di oggi con il passato emerge che la situazione è tuttavia migliorata
(e migliorerà con alcune riforme in atto), ma non ancora al punto di portarci nel gruppo di
testa dei paesi «virtuosi». «Dal 2004 al 2014 il carico fiscale è sceso dal 76,8 per cento al
64,8, cioè di 12 punti, e il tempo impiegato per gli adempimenti tributari si è ridotto da 340
a 269 ore», ha spiegato, nel corso della presentazione del rapporto, Fabrizia Lapecorella,
direttore generale delle Finanze.
Sul fisco ieri è intervento anche il premier Renzi nella sua «Enews»: «Se scommettiamo
sull’innovazione telematica, l’evasione è morta. Abbiamo chiesto alla GdF di capire come
mai un signore di 61 anni di Roma, che risulta senza alcun reddito, è intestatario di
qualcosa come 833 auto». Completa il quadro della giornata il dato dell’Istat sulla
soddisfazione degli italiani per la propria situazione economica: nei primi mesi del 2015,
52
prosegue la tendenza favorevole già riscontrata nel 2014. La percentuale di persone
«molto o abbastanza soddisfatte » è del 47,5 per cento, quota che torna ai livelli del 2011.
Non ci credono i consumatori. «Dati inverosimili», hanno replicato Trefiletti e Lannutti di
Federconsumatori e Adusbef. «Basti pensare - hanno aggiunto - che il potere di acquisto
delle famiglie, dal 2008, è diminuito del 13,4%».
53