Masse Creative - Il fenomeno crowdsourcing: rivoluzione o

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Masse Creative - Il fenomeno crowdsourcing: rivoluzione o
perché i brand dovrebbero amare i contenuti user-generated?
il crowdsourcing creativo è davvero una guerra tra poveri?
che fine faranno i graphic designer professionisti?
quale futuro rimane per le agenzie di comunicazione?
Il fenomeno crowdsourcing:
rivoluzione o fregatura?
1
p r e f a z i o n e
Crowdsorsi.
Così potrebbe chiamarsi il libro di Stefano Torregrossa che, nato senza
l’intenzione di entrare a far parte della famosa “letteratura di riferimento”, si prende anzitutto il vantaggio di non voler essere esaustivo,
si spiega ad episodi e non ha ansie da teoria, né timore di affermare certi
paradossi. Ed ecco un primo elemento di autenticità e differenziazione rispetto alle bibliografie ufficiali.
Sull’idea alla base del crowdsourcing ha già dato ottime risposte Jeff Howe,
l’uomo che più di quattro anni fa, un pò ispirato un pò compiaciuto, si fece
sfuggire di bocca il termine dalle colonne di Wired e sul quale poi è stato
costretto a pubblicare un libro, visto che continuavano a chiedergli spiegazioni (da poco è stato tradotto e rilasciato anche in Italia).
Stefano si pone la domanda delle domande (what the hell is crowdsourcing?)
ma non compra il libro di Howe, bensì si sente chiamato in causa e parte
alla ricerca della risposta. Ho ritrovato su Skype la parte di discussione in
cui mi parla privatamente per la prima volta di Masse Creative. Ve la incollo:
>
>
>
>
>
>
sentivo sempre più parlare di crowdsourcing
la cosa mi lasciava un po’ così :)
c’erano molti aspetti che non capivo
e che ho deciso di approfondire
ho cominciato quindi a tradurre un po’ di articoli
ad informarmi su libri e magazine
>
>
>
mi sono iscritto su alcune piattaforme
ho intervistato due community manager e una ventina di user
e insomma, da cosa nasce cosa... e ne è venuto fuori un libro
Voglio darvi una buona notizia: il libro contiene la risposta alla domanda, ma nelle pagine che leggerete se ne trova solo metà. L’altra metà
è contenuta nella maniera in cui il libro è stato composto e realizzato:
data un’esigenza, interrogare tutti i punti di vista disponibili e lavorare
per metterli insieme cercando di ottenere ed estrarre la migliore delle
soluzioni, è già crowdsourcing.
Perciò, questo libro non è quello di Jeff Howe e questo è un merito per
almeno un paio di motivi: il primo (quasi un primato) è quello di aver pubblicato un lavoro sul crowdsourcing, operando in crowdsourcing; a dimostrazione di ciò l’indagine resta aperta a nuovi e significativi contributi, a
chiunque pensi che sia giusto o necessario aggiungere altro. Il secondo è
dato dal privilegio che ha Stefano di poter osservare il fenomeno da una
prospettiva che non è quella dell’azienda, non è quella del marketer, non
è quella del teorico della comunicazione, ma è quella dell’utente professionista creativo (il che si nota chiaramente in molte scelte di stile e linguaggio), cioè chi, nel gioco delle parti, dovrebbe togliere loro le castagne
dal fuoco. Un punto di vista che nel mercato attuale manca e che proprio
per questo penso interesserà molto alle stesse aziende, ai marketer e ai
divulgatori di successo.
Perché l’impressione è quella che ci sia ancora bisogno di chiarire certe
posizioni prima che si instauri quel clima di fiducia reciproca che renderebbe il sistema molto più stabile, cosa a cui aspirano tutti i sostenitori
del crowdsourcing. Prima che abbia luogo la tanto annunciata “rivoluzione” e prima che i margini del concetto disegnino un perimetro riconoscibile è necessario aprirsi al confronto, mettersi al lavoro e, ovviamente, investire. Sulla fiducia, appunto. Per permettere ai “filosofi” di continuare
ad immaginare come adattare e declinare questo modello, agli addetti ai
lavori di continuare a sperimentare, alle aziende di capire bene i parametri
giusti per misurare quel valore che spesso si dà per disponibile ancora
prima che esista una vera community in grado di generarlo. E quindi, cosa
più importante, permettere al talento di esprimersi.
Sorseggiatene, e godetevi la scena.
francesco martinelli
Francesco Martinelli è toscano e a maggio fa 30 anni. Gli piace scrivere canzoni e fare finta
di saperle suonare, osservare i fenomeni digitali che nascono e prosperano nel web e fare
finta di comprenderli, leggere libri e fare finta di essere la persona giusta per scriverne le
introduzioni, ed altre estemporaneità. Attualmente ricopre il ruolo di Social Media Manager
presso Wind Telecomunicazioni, ma per fargli mollare tutto basterebbe la parola “fiorentina”, si tratti di calcio o di carne...
5
formato chiuso a5 (148x210 mm) · numero di pagine: 106
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nessun font è stato maltrattato durante la realizzazione di questo documento
grazie per il prezioso contributo a:
Adimo, Afpileggi, Chiara Bernardi, Alessandro Bigardi, Elisabetta Bruno, Alessandro Cappellotto, Mirko Cappai,
Patrizia Chiodini, Ciro De Caro, Federico Di Caro, Steve Douglas, Matt Evans, Damiano Falchetti, Walter
Franchetti, Gianfranco Grenar, Jeff Howe, Innocent, Annapaola Intrisano, Jurij, Lucabis, Riccardo Luna, Francesco
Martinelli, Amalia Martino, Lisa Mikulski, Maryilina, Max, MeM, Mimedia, Massimiliano Nascimbeni, Navarh,
Bruno Pellegrini, Pamela Pfiffner, Consuelo Ruglioni, SDrago, StefyGraf, Catherine Wentworth, Robert Wurth.
masse creative · il fenomeno crowdsourcing: rivoluzione o fregatura? è un documento in free download
i n t r o d u z i o n e
Non sono
un giornalista,
sia ben chiaro a tutti. Sono un graphic designer curioso, tutto qua. Uno
che si diverte ad approfondire le cose e che si diverte ancora di più a distribuirle, meglio se gratuitamente.
Di crowdsourcing sentivo parlare da un po’. Mi ero iscritto a qualche piattaforma, ma al momento di valutare un contest mi ripetevo sempre la stessa
cosa: “Lavoro da 10 anni come freelance, mi faccio il culo da mattina a
notte inoltrata e dovrei perdere tempo a far la guerra tra poveri, contro
presunti creativi e dilettanti allo sbaraglio, in cambio di quattro soldi?”
”È soltanto una bolla di sapone”, mi dicevo fino a poco tempo fa. Eppure
di crowdsourcing, specialmente applicato alla comunicazione aziendale, si
continua a discutere. Ne parlano i blogger, ne parlano le aziende, ne parlano magazine e quotidiani. E sempre più brand di portata internazionale
(Google, Microsoft, Nestlé, Unilever, Honda, IBM, tanto per citarne qualcuno) affidano i propri brief a community con competenze discutibili che
condividono, votano, scambiano, collaborano, commentano. E (quasi) tutti
sembrano felici di come funziona il meccanismo.
Da una parte, quindi, un fenomeno che coinvolge felicemente sempre più
designer, sempre più persone, sempre più grandi brand. E dall’altra il mio
sesto senso, che continua a sussurrarmi che non si può fare l’idraulico di
giorno e il direttore creativo la sera (non si può fare nemmeno il contrario, a dirla tutta), che non possono bastare Photoshop e un po’ di tempo
libero per scrivere sul curriculum “Ho lavorato per Unilever”.
Chi ha ragione, dunque? C’è una fregatura? E se c’è, dove si nasconde?
Nessuno riesce a darmi risposta, anche per una certa carenza di approfondimenti in lingua italiana sul tema. Eppure, sono proprio italiane alcune tra
le grandi piattaforme di crowdsourcing internazionale. E allora, perché non
studiare l’argomento e vedere cosa salta fuori?
Lo ripeto: non sono un giornalista. Questa micro-indagine sarà incompleta,
aperta e discutibile. Ma almeno non è parziale: ho cercato di dar voce a tutti i soggetti in merito, con un occhio di riguardo – dovete pur concedermelo
– ai designer. E ho cercato, per quanto possibile, di essere neutro e trasparente nei giudizi, esporre fatti e resoconti, e far parlare articoli, estratti
e persone assai più interessanti di qualunque mio contributo personale:
come in una sorta di best of sull’argomento.
Come sempre, non è finita qui: se volete contribuire in prima persona a
quanto scritto per espandere e completare questo documento, ne sarò
ben lieto: che siate dalla parte dei brand, delle community o dei designer, se avete qualcosa da dire in proposito questo potrebbe essere uno
dei posti giusti per farlo. In fondo al libro trovate tutti i miei contatti.
Sia ben chiaro, infine, che nessuno ci guadagna una lira da questo libro:
quindi, se proprio vi viene voglia di tagliare dei pezzi o estrapolarne delle
parti, magari citatemi tra i credits che mi fate contento.
Buona lettura!
stefano torregrossa | onice design
Sommario.
1. Crowdsourcing what?
Una volta qui era tutto outsourcing
10
Crowdsourcing creativo: piace a tutti!
22
La nascita del crowdsourcing di Jeff Howe12
Il potere del crowdsourcing di Matt H. Evans16
Un fenomeno dei nostri tempi?
19
Le aziende chiamano, le community rispondono
Quanti sono davvero?
2. Crowdsourcing rules!
La community dei talenti e dei dilettanti
32
Dall’Italia con furore
33
Non soltanto “molte idee a poco prezzo” di Alessandro Cappellotto
35
intervista: Alessandro Cappellotto (Zooppa)
38
intervista: Bruno Pellegrini (UserFarm)
46
Riassumendo52
3. Crowdsourcing sucks!
Educare i designer, educare i clienti
23
29
57
La carta dei diritti del designer di Lisa Mikulski62
Una scommessa che non paga di Pamela Pfiffner64
Perché i contest fanno male alle aziende di Robert Wurth69
Ecco perché dovresti farti un logo in crowdsourcing di Steve Douglas73
Riassumendo82
4. Crowdsourcing me!
Crowd-core
86
È possibile una conclusione?
99
Imparare le regole del gioco
87
sondaggio: Cosa ne pensano gli zoopers88
intervista: Ciro De Caro (vincitore contest Prime Uve su UserFarm)
94
01
Crowdsourcing
WHA
HAT?
Ovvero: di cosa stiamo parlando esattamente?
8
È l'atto di prendere un lavoro, solitamente
svolto da un designato individuo all'interno
dell'azienda, e farlo svolgere all'esterno
dell'azienda da un gruppo numeroso
e indefinito di persone, attraverso una
chiamata aperta a tutti.
È l'applicazione dei principi open-source
a campi diversi da quello del software.
La genesi del fenomeno
Una volta qui
era tutto
outsourcing
10
Giugno 2006.
Sul numero di Wired US esce un articolo firmato da Jeff Howe: “The Rise
of Crowdsourcing”. Il neologismo crowdsourcing viene in questo modo
consegnato per sempre alla storia.
Le tecnologie avanzate e l’estrema diffusione del web stanno favorendo,
secondo Howe, la riduzione del gap tra professionisti e dilettanti, in qualunque settore. Le aziende, quindi, possono raggiungere più facilmente
una vasta gamma di soggetti – inclusi quelli potenzialmente interessanti
per i loro scopi. Si passa quindi dall’outsourcing (consegnare a professionisti o agenzie esterne un progetto o parte dello stesso) al crowdsourcing:
è la folla anonima, il vasto pubblico con qualunque livello di esperienza
precostituita sull’argomento – e che al contempo può anche essere utente
dei servizi dell’azienda – a fornire la soluzione ad un problema.
La realtà è che il crowdsourcing c’era già, ma nessuno gli aveva ancora da
un nome. Un esempio più recente è Wikipedia, che vive di contenuti assolutamente user-generated dal 2003 (anche se è nata due anni prima): nessuna autorità suprema, nessuna eminenza grigia, nessun Devoto-Oli della
rete a far piovere dall’alto definizioni, sinonimi, informazioni. Sono gli stessi utenti della community a scrivere, correggersi l’un l’altro, condividere,
completare, pubblicare le medesime voci di cui poi usufruiranno in prima
persona. Il tutto, addirittura, in forma assolutamente volontaria e gratuita.
11
©Wired US, Giugno 2006
La nascita del
crowdsourcing
di Jeff Howe
Vi ricordate l'outsourcing? Far fare i lavori in India e in Cina fa tanto 2003. La nuova fonte del lavoro economico sono le persone di
tutti i giorni, che usano il loro tempo libero per creare contenuti,
risolvere problemi, persino occuparsi di ricerca e sviluppo.
Claudia Menashe ha bisogno di foto di gente ammalata. È direttrice di progetto
al National Health Museum di Washington DC, Stati Uniti; e sta mettendo insieme una serie di pannelli informativi per informare i cittadini su pandemie
come l’influenza aviaria. Il designer ha già il progetto pronto, ma alla Menashe
mancano le immagini che dovranno accompagnare il testo. Anziché rintracciare
un fotografo per organizzare un set fotografico personalizzato, decide di usare
foto pre-esistenti: le cosiddette foto di stock, o “foto d’archivio”. Nell’ottobre
2004 incontra dunque Mark Harmel, fotografo freelance di Manhattan Beach,
California. Sua moglie è medico, e Harmel è specializzato in foto d’archivio legate al settore salute e medicina. [...]
“Il budget era ristretto, così ho applicato la mia tariffa per le aziende no-profit”
dice Harmel, che lavora in un ufficio pieno di roba sul retro della casa che condivide con la moglie e il figliastro. Offre quindi al Museo uno sconto generoso:
da 100 a 150 dollari per foto. “È praticamente la metà di quanto chiederei ad
un cliente qualunque” ci dice. La Menashe voleva quattro scatti fotografici: per
Harmel, dunque, il progetto valeva 600 dollari.
12
Dopo molte settimane di trattative, la Menashe invia a Harmel una e-mail dicendo, dispiaciuta, che le foto non sarebbero servite più. “Ho scoperto un sito,
iStockphoto, che vende foto a prezzo abbordabile”. Un eufemismo: lo stesso
giorno, la Menashe acquista 56 foto a circa 1 dollaro l’una.
iStockPhoto, nato da un servizio gratuito di scambio di foto usato da un gruppo di designer, ha applicato un costo di oltre il 99% inferiore a quello di Harmel. Com’è stato possibile? Ha creato uno spazio di vendita per fotografi dilettanti: studenti, ingegneri, ballerini, architetti.
Oggi ci sono quasi 22.000 utenti che contribuiscono al sito, che si fa pagare da
1 a 5 dollari per foto (quelle più grandi e ad alta risoluzione arrivano anche a
40 dollari). A differenza dei professionisti, chi vende foto su iStockphoto non
ha bisogno di incassare 130.000 dollari l’anno per vivere: 130 dollari extra, per
arrotondare, sono più che sufficienti. “Posso negoziare le mie tariffe finché si
vuole,” dice Harmel “ma come faccio a competere con un dollaro?”.
Non può, naturalmente. Harmel ha imparato una lezione: il prodotto che offre
non è più così “di nicchia”. Con meno di 1000 dollari, chiunque può comprare una macchina fotografica di alto livello; con un computer e una copia di
Photoshop, qualunque dilettante con un po’ di entusiasmo può creare foto
in grado di competere con quelle di professionisti come Harmel. Aggiungete
Internet e le tecnologie dei motori di ricerca, e la condivisione di queste immagini diventa facilissima.
E iStockphoto intanto cresce di circa il 14% al mese e il servizio ha a disposizione oltre 10 milioni di immagini nel 2006, molte di più di quelle a disposizione di Getty e delle altre agenzie assai più costose.
> continua
13
Il crowdsourcing
si configura come una
importante e concreta
idea per il business.
Le definizioni in proposito possono variare, ma l’idea di base è di sfruttare l’intelligenza collettiva del pubblico per completare un progetto che,
normalmente, l’azienda dovrebbe svolgere internamente o affidare ad
un’azienda esterna.
Eppure, il lavoro “gratis” è solo una piccola parte del fascino del crowdsourcing. Più importante ancora, il crowdsourcing permette ai manager di
espandere enormemente la fascia di creativi da cui attingere e, contemporaneamente, entrare profondamente in contatto con ciò che i consumatori
vogliono davvero.
What is crowdsourcing by Jennifer Alsever
14
[...]
Il movimento software open source ha dimostrato che una rete di appassionati volontari è in grado di scrivere codice altrettanto bene degli sviluppatori
pagati profumatamente alla Microsoft o alla Sun Microsystem.
Wikipedia ha stupito il mondo, facendo vedere che il modello poteva essere
usato per creare una enciclopedia online incredibilmente vasta.
E compagnie come eBay e MySpace hanno costruito business ragguardevoli
che non potrebbero esistere senza il contributo degli utenti.
Tutte queste compagnie sono nate e cresciute nell’era di Internet, pensate per
avvantaggiarsi della rete stessa. Ma oggi, il potenziale produttivo di milioni di
persone collegate sta attirando l’attenzione anche delle vecchie aziende. Negli
ultimi dieci anni, le aziende hanno cercato manodopera a basso costo in India e
in Cina. Oggi, invece, non importa più dove sono i lavoratori – dietro l’angolo o
in Indonesia, non fa differenza – purché siano connessi alla rete.
La tecnologia si diffonde sempre più rapidamente, dai software alle videocamere, abbattendo le barriere che separano dilettanti da professionisti. Appassionati, part-time e semplici dilettanti, all’improvviso, hanno un mercato per i
loro sforzi; e intanto le aziende – dal settore televisivo al farmaceutico – scoprono nuovi modi per utilizzare il talento latente della folla. Non sempre il lavoro è
gratis: ma costa senz’altro meno che pagare un dipendente o un professionista.
Non è più outsourcing: è crowdsourcing.
15
©Matt Evans, Dicembre 2008
Il potere del
crowdsourcing
di Matt Evans
Sono molti i brand che, per raggiungere buoni risultati sul lungo
termine, hanno realizzato l'importanza di stringere legami con i
propri clienti e con gli altri stakeholders. Negli ultimi anni, è nato
quasi per caso un approccio al pubblico molto potente: si chiama
crowdsourcing, e ormai lo si trova quasi dappertutto.
Pensiamo alle previsioni del tempo, o alla situazione del traffico: chi se ne occupa coinvolge spesso direttamente il pubblico, in modo da ottenere report veloci ed efficaci su situazioni che non potrebbero mai gestire con facilità. Anche
autori e giornalisti spesso preferiscono raccogliere la storia dalle bocche della
massa, più che da quelle di pochi informati.
Il crowdsourcing è un risultato del mondo globalizzato delle idee. I grandi brand
possono fare outsourcing verso la massa (da cui la parola: crowdsourcing) per
scoprire se i propri prodotti o servizi sono ben fatti.
Ciò che rende il crowdsourcing così efficace è l’ampia partecipazione che
si ottiene, a quasi nessun costo. Le soluzioni sono generate da volontari o
da professionisti freelance, che vengono pagati solo nel momento in cui le
aziende utilizzano le loro idee. Una grossa fetta di persone, inoltre, è felice
di condividere la propria creatività anche in modo gratuito, quando ha a disposizione l’opportunità di far parte di qualcosa. Internet e la rete, in questo
senso, aiutano la partecipazione della folla al lavoro di un’azienda.
16
Tra gli esempi, basti citare YouTube per la creazione e il posting dei video o il
potere acquisito dalle comunità dietro alle recenti campagne politiche, come
nel caso di Barack Obama. [...]
Alcune compagnie come IdeaScale, WhyzeGroup o InnoCentive, si specializzano nella gestione delle comunità: in un istante, l’azienda può connettersi con
gruppi preselezionati di persone interessate, pronte ad assisterla nel design dei
suoi prodotti.
Una volta compreso quanto è potente questa risorsa a fronte di costi relativamente bassi, è necessario entrare nell’ottica di voler accedere a queste sacche
globali di creatività. Questo permetterebbe ad un’azienda di guidare la propria
innovazione attraverso la collaborazione di massa: e l’innovazione estrema è il
cuore di un’azienda che vuola restare competitiva.
17
Siamo qui
per ricordare che
la creatività è entrata
nell’era del mash-up,
degli user-generated contents, delle reti sociali, della rielaborazione infinita, dove internet non è un luogo a sé, è dovunque. E non potremo più
tornare indietro.
Siamo qui per ricordare che è in atto un cambiamento epocale nelle relazioni fra le persone, le cose e le idee, in cui tutti i vecchi modelli vengono
scardinati e riscritti, e quello che succederà ancora non lo sappiamo. Ma
sappiamo che è già successo, mentre lo diciamo.
Siamo qui per ricordare che incontrare altri appassionati [...], far conoscere le proprie idee a chiunque, condividerle, confrontarsi, migliorare, sperimentare, divertirsi e promuoversi come creativi, prima era impossibile.
Oggi non solo è possibile, ma è solo l’inizio.
Zooppa Manifesto, su zooppa.it/corporate/manifesto
18
Un fenomeno
dei nostri tempi?
Se collegate “crowdsourcing” al solo uso della rete, alla creazione
e condivisione di contenuti esclusivamente attraverso il web, beh,
la risposta non potrà che essere: sì, è un fenomeno dei nostri tempi. Ma basta leggere la storia del passato per accorgerci che non
è così: da sempre, si consulta la massa per avere idee, progetti,
soluzioni. Ecco due esempi noti.
La costruzione del Duomo di Firenze si ferma all’improvviso all’inizio del
1400. Nessuno ha trovato una soluzione valida per la copertura della celeberrima cupola: come costruire e dove appoggiare le enormi centine di legno
che avrebbero dovuto sostenerla, fino alla chiusura definitiva con la chiave di
volta? L’architetto aveva previsto una cupola diversa, più tradizionale. Ma il
progetto è stato modificato, e ora servono risposte. L’Opera del Duomo indice,
dunque, un concorso pubblico, aperto a tutta la cittadinanza. Secondo la tradizione, non vinse nessuno: e la conclusione dell’opera, ancora oggi un capolavoro dell’architettura, viene affidata a Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti.
Secoli dopo la facciata, dalla quale Francesco I alla fine del 1500 aveva rimosso
marmi e sculture preferendo una versione dipinta, è ancora incompleta dopo
interventi posticci e provvisori durati trecento anni. Finalmente, nel 1864,
viene indetto un nuovo concorso. Arrivano moltissimi progetti (oggi esposti
al Museo dell’Opera del Duomo), e il vincitore inizia i lavori pochi anni dopo.
Ma l’architetto muore, e così il suo successore, e i lavori si fermano tra mille
polemiche. Resta un dubbio sulla conclusione della facciata: le navate laterali vanno coronate con un ballatoio piano, come nelle antiche basiliche, o con
delle cuspidi come nel Duomo di Orvieto? Vengono costruite sulle due navate
le due versioni possibili, una per lato. E si indice un referendum, coinvolgendo
tutta la popolazione, per chiedere consigli utili a prendere la decisione. Vincerà
l’attuale versione con il ballatoio, inaugurata nel 1887.
> continua
19
Italia, primi anni ‘50. L’Agip di Enrico Mattei ha scoperto da poco un importante
giacimento di petrolio vicino Piacenza, e si prepara ad immettere una nuova
benzina sul mercato: la “Supercortemaggiore”. Di lì a poco sarebbe nato l’ENI,
come organismo di gestione e controllo della produzione e distribuzione degli
idrocarburi in Italia. Mattei, che non è uno sprovveduto, vuole associare una
forte immagine pubblicitaria al nuovo carburante Agip.
Rifonda quindi l’ufficio pubblicità e lancia un contest, aperto a tutti gli italiani, per la creazione di un marchio, di alcuni cartelloni stradali (con il mitico
slogan: “La potente benzina italiana”) e per la colorazione delle colonnine dei
distributori. Il premio totale ammonta alla bella cifra di 10 milioni di lire: moltissimi, per l’epoca (oggi ammonterebbero a 124 mila euro).
La Giuria è composta da personaggi di grande rilievo nel mondo dell’arte e
della comunicazione dell’epoca: l’architetto Giò Ponti, Mario Sironi, Mino Maccari, Antonio Baldini, Silvio Negro. Il concorso ha un successo strepitoso: sono
oltre quattromila i bozzetti presentati da appassionati, disegnatori, designer,
uomini qualunque. Ci vogliono quattordici riunioni della Giuria per scegliere,
finalmente, il vincitore: il cane-drago a sei zampe, dello scultore Luigi Broggini
coadiuvato da Giuseppe Guzzi (c’è anche qui una interessante vicenda sulla
vera paternità dell’opera: ma non è questo il luogo per approfondirla). Lo stesso
drago a sei zampe che, presentato ufficialmente nel 1954, diventa il simbolo dell’Eni: ancora oggi, dopo due restyling (di cui il primo, celeberrimo, ad
opera di Bob Noorda negli anni ‘70), è rimasto pressoché intatto.
20
Enzo Baldoni: questo nome è collegato ad una tragica vicenda in Iraq. Baldoni,
in qualità di giornalista freelance, viene rapito da un’organizzazione terroristica
il 21 agosto 2004 e ucciso. Ciò che molti non sanno, è che Baldoni è stato uno
dei più noti copywriter e blogger italiani degli anni d’oro. Nato nel 1948, è stato
tra i primi utilizzatori di Macintosh in Italia. Ha fondato mailing list che funzionano ancora oggi (Zonker’s Zone è la più famosa da Zonker, il suo nickname
online) e aprì un blog quando gli italiani sapevano a malapena cos’era Internet.
Sono sue alcune tra le migliori produzioni di advertising legate ai brand Gillette, Bic e McDonald’s.
Il nome di Baldoni è legato a doppio filo con quello del gigante degli hamburger americano. Nel 2002, il giorno di San Sebastiano, si inventa uno dei primi
esperimenti di crowdsourcing via web in Italia: il concorso “Quanto casino
per un panino”, inaugurato con l’immagine di un Big Mac trafitto dalle frecce.
L’annuncio ha un successo inaspettato: in pieno stile open-source, si invitano
gli italiani a partecipare con un libero contributo creativo, che non sarà utilizzabile commercialmente. McDonald’s sta al gioco e rinuncia ad ogni censura.
L’agenzia di Baldoni (Le Balene) si aspetta 200 o 300 proposte al massimo: sarà
sommersa da 1476 annunci. I “panini” arrivano da tutta Italia, e dalle persone
più diverse: dal geometra all’art director, dal giovane copywriter all’anziano impiegato. È una gigantesca azione di arte popolare, di creatività in crowdsourcing,
da cui una giuria seleziona attentamente i vincitori che rimbalzano tra un evento dell’ADCI, il Rolling Stone e – soprattutto – la rete.
21
Quando il crowdsourcing incontra
le esigenze di comunicazione dei brand
Crowdsourcing
creativo:
piace a tutti!
22
Le aziende chiamano?
La community risponde
In ambito creativo, il crowdsourcing sta vivendo il suo periodo d’oro. Perché, apparentemente, tutti i soggetti coinvolti ci guadagnano: l’azienda risparmia sul budget, la piattaforma di condivisione prolifera, il designer più
bravo prende i soldi, i designer più scarsi fanno esperienza e si divertono.
Il crowdsourcing in ambito creativo ruota attorno a piattaforme web con tre
soggetti principali in gioco: una community di grafici, fotografi, designer, autori, videomaker di ogni livello di esperienza ed età; il mediatore del servizio,
ovvero il gestore della piattaforma, in particolare nella figura del community
manager; e infine, l'azienda che commissiona il progetto.
Quest'ultima lancia un contest attraverso la piattaforma (anziché con i mezzi
classici del contest a cui siamo abituati), con un brief preciso in cui si evidenziano oggetto del concorso, target, tecniche stilistiche, tempistiche, storia
dell'azienda e si fornisce quanto serve a realizzare l’oggetto del contest. La call
prevede, nella maggior parte dei casi, un premio in denaro all’idea migliore.
La community, a questo punto risponde volontariamente: produce idee e le carica su un database (spesso visibile a tutti, con possibilità di votare le proposte
migliori). Al termine della gara, l'azienda sceglie la più adatta e paga il vincitore. Talvolta la community e i gestori della piattaforma premiano a loro volta la
proposta più votata, anche quando non è quella selezionata dal committente.
> continua
23
Chi ci guadagna? Apparentemente, tutti.
Ci guadagna l'azienda che commissiona il progetto, investendo un budget
minimo rispetto alla quantità di proposte tra cui scegliere. Ci guadagnano i
creativi, che prendono soldi quando vincono e, se sono meritevoli, visibilità
quando partecipano. Ci guadagna, ovviamente, la società proprietaria della
piattaforma dove si svolge il tutto.
Le differenze rispetto al classico contest sono, ovviamente, innumerevoli e
tutte a pieno vantaggio dell’azienda.
· i creativi interpellati sono molti di più: non tutti professionisti, non tutti “del
mestiere”, certo: ma le possibilità di incontrare un talento sono ampissime;
· la community, oltre che essere portatrice di soluzioni nei confronti dell’azienda, è anche un vero e proprio focus group di consumatori potenziali, in grado
di far cogliere all’azienda punti di forza e debolezze del prodotto;
· a parità di budget, anzichè ottenere poche proposte formalizzate il committente può ricevere centinaia di idee, spunti, stimoli;
· la piattaforma di crowdsourcing e la stessa community sono in grado di fornire un’ampia promozione alla call del bando, garantendo quindi una risposta
più ampia ed efficace.
Il crowdsourcing è dunque il paradiso della comunicazione? La Morte Nera
delle pachidermiche agenzie verticali? Il futuro dell’advertising? L’Eldorado
della creatività?
24
Immaginiamo un futuro
senza agenzie
di comunicazione,
ma solo con clienti che
usano le piattaforme
di crowdsourcing.
Ci libereremmo di tutti quelli che fanno creatività mediocre da presunti
professionisti: perché, venendo pagato soltanto se il tuo ad viene venduto, essere creativo non sarà più un mestiere che si “ha”, ma che si “fa”.
[...] C’è però una speranza per noi professionisti: siamo ancora più bravi, nel
nostro mestiere, rispetto alla massa. Ma temo che questo valga solo oggi,
quando le proposte per un contest sono soltanto 700, e non 70.000.
Gordon Comstock su Creative Review, Ottobre 2010
25
Outsourcing
1.
L’azienda ha un’esigenza di comunicazione da sviluppare.
Individua il professionista più adatto allo scopo.
2.
Il professionista valuta il progetto,
decide il suo costo e si mette al lavoro.
3.
Il professionista termina il lavoro e viene pagato.
Tempo
Proposte
Budget
Creativi coinvolti
Il lavoro con un professionista, spesso, riduce le tempistiche di realizzazione. Per contro, è lui a proporre il compenso necessario. Il numero di proposte presentate, inoltre, è ridotto quanto il numero dei creativi coinvolti – anche se talvolta, per un talento vero, una sola proposta può essere quella vincente.
Contest classico
1.
L’azienda ha un’esigenza di comunicazione da sviluppare.
Stabilisce un budget ed indice un contest pubblico, con premio in denaro.
2.
Al contest possono partecipare, come accade spesso, solo professionisti.
Rispondono singolarmente e lavorano singolarmente, senza conoscere cosa proporrà l’altro.
3.
Al termine del bando, l’azienda valuta le proposte, sceglie la più adatta
e premia il vincitore.
Tempo
Proposte
Budget
Creativi coinvolti
Tramite contest, sicuramente le tempistiche di realizzazione si allungano. Nonostante sia l’azienda a decidere il budget, è pur vero che premi troppo bassi
non invoglierebbero nessuno a partecipare. I designer coinvolti e le proposte presentate, rispetto al lavoro in outsourcing, possono aumentare sensibilmente.
La quantità
di conoscenza
e di talento dispersa
nella razza umana
ha sempre superato qualunque nostro tentativo di utilizzarla:
il crowdsourcing risolve questo problema.
Ma nel farlo, libera la straordinaria forza distruttrice della creatività.
Crowdsourcing: why the power of the crowd
is driving the future of business by Jeff Howe
28
Quanti sono
davvero?
Applicare il modello wiki (una delle prime forme di crowdsourcing)
ai progetti di crowdsourcing esistenti oggi è possibile. Ci ha pensato TheBlog.Tv. Crowdsourcing Network è un portale che raccoglie le oltre 200 piattaforme di user-generated content: dalla grafica all'advertising, dall'innovazione alla politica.
Non è certo l’unico elenco di progetti: ne trovate di altrettanto validi (giudicate
voi se più o meno completi) nei siti indicati in calce.
Sfogliando l’elenco alfabetico di Crowdourcing Network si resta colpiti dall’abbondanza di realtà disponibili. A farla da padrone, naturalmente, sono gli ambiti grafica e advertising (è qui che appaiono Zooppa, BootB e UserFarm – ma
non mancano realtà più recenti come LogoPro o 99 Design Project). Stupisce
invece l’abbondanza di piattaforme libere di consulenza aziendale per le startup: dai laboratori di idee (IdeaStorm, Banca delle Idee) al fundraising (Ushahidi,
KickStarter Project) fino a progetti più dedicati all’innovazione e al kick-start
(Innovation Exchange Project).
Mi permetto una considerazione. Una volta il modello di imprenditore con possibilità di successo era l’inventore, in grado di avere l’idea geniale e rivoluzionaria; poi fu l’avvento dell’uomo con il capitale, ricco mecenate pronto ad investire
denaro; infine, l’uomo–marketing, capace di organizzare una rete di risorse e
professionalità tali da garantirgli il successo. Oggi, non serve più nessuna di
queste figure. Idee, soldi e professionalità si trovano in rete, spesso svendute
a poco prezzo o di discutibile validità: ma ci sono.
Chi potrà mai essere, dunque, l’imprenditore del futuro?
29
02
Crowdsourcing
RUL
30
LES!
Ovvero: l’opinione di chi gestisce le piattaforme di crowdsourcing.
31
Per chi ci crede davvero, il crowdsourcing
sarà il futuro della comunicazione creativa.
La community
dei talenti e
dei dilettanti
32
Dall'Italia
con furore.
Sono italiane alcune delle piattaforme di crowdsourcing più famose e
frequentate in Italia e all’estero. Scopriamole da vicino.
Zooppa, nata in seno alla H-Farm di Treviso ma con sedi in Brasile e Stati
Uniti. Conta più di 95.000 iscritti – a vari livelli di partecipazione– da tutto
il mondo, si ispira alle dinamiche dei social network, sfruttando le potenzialità di internet e l’interazione con la propria community per proporre ai
brand idee, grafiche, ads, video, audio e contenuti virali.
UserFarm: è un progetto di TheBlogTV, fondata dall’italiano Bruno Pellegrini ma attiva anche in Spagna, Francia e Regno Unito. Si occupa in particolare di crowdsourcing audiovisivo e user-generated advertising. Conta
più di 20.000 iscritti.
Non voglio sembrare polemico, ma devo raccontare perché non ho intervistato l’arcinota
piattaforma BootB. Mesi fa scrivo (in inglese) una richiesta attraverso l’apposito form sul
loro sito web. La risposta arriva settimane dopo, chiedendomi maggiori informazioni via
mail. Rispondo (in italiano) descrivendo cosa faccio e di cosa ho bisogno. Passano giorni e
giorni. Mi viene inviato il contatto mail del sig. Bancale, CEO di BootB. Gli scrivo rispiegando daccapo la faccenda. Mi chiede lumi, un mio curriculum e un po’ di info sulla ricerca. Gli
invio il necessario. Mi risponde giorni dopo, dicendo di avere un’agenda fitta e se, per cortesia, posso spedirgli le domande via mail in lingua inglese. Traduco e invio le domande.
Sono passate settimane e, nonostante le mie insistenze, non ho ricevuto alcuna risposta.
Quindi, mi arrendo. Peccato per loro, non posso aspettarli ancora.
33
Crowdsourcing
I L
M O D E L L O
1.
D I
L’azienda ha un’esigenza di comunicazione che intende sviluppare in ambito
social media, spesso all’interno di un preciso piano di marketing aziendale.
Stabilisce un budget e si rivolge a Zooppa.
2.
Tramite un open call con premi finali, pubblicato
sulla piattaforma Zooppa con cui firma un contratto, l’azienda interpella una community eterogenea di ogni età e grado di professionalità.
3.
In base al brief, ciascun utente fa le sue proposta in modo visibile a tutti.
Tutti – basta iscriversi a Zooppa – possono guardare, valutare e votare
le idee altrui, in un clima di scambio, trasparenza e collaborazione.
Gli utenti possono followarsi come in Twitter e dialogare su un forum.
4.
Allo scadere del bando, si valutano le proposte migliori. I premi possono essere:
– Client Award, i premi principali rilasciati dal cliente e di buona entità;
– Zooppa Staff Award, di media entità, rilasciato dallo staff di Zooppa;
– Community Buzz, di piccola entità, rilasciati dalla comunità;
– Honorable Mentions, di piccola entità, per tutti gli altri lavori meritevoli.
(non tutti e quattro i premi sono proposti necessariamente per ogni contest)
Non soltanto:
“molte idee
a poco prezzo”
di Alessandro Cappellotto
Alessandro Cappellotto, community manager di Zooppa.it, analizza in questo post online su Shannon.it i veri punti di forza del
crowdsourcing creativo, soprattutto in relazione al rapporto con
le aziende. Perché ottenere molti contenuti creativi con budget
tutto sommato ridotti, in fondo, non è che la punta dell'iceberg.
[...]
I contenuti.
I contenuti creati dai membri della community offrono all’azienda numerosi
spunti di riflessione a livello creativo e possono essere riutilizzati (in base
agli accordi sottoscritti con noi) per azioni di comunicazione contestuali o
future. Fra diversi lavori che si caratterizzano soprattutto per la spontaneità
giocosa e dilettantistica, ve ne sono alcuni che sono vere e proprie perle, capaci
di creare attenzione, divertire, sedurre, emozionare, informare.
L’utilizzo di questi contenuti può essere molteplice e non necessariamente indirizzato alla produzione di nuovi contenuti pubblicitari per i canali tradizionali.
In questo, è anche l’azienda che deve mettere in moto la sua inventiva e allo
stesso tempo noi di Zooppa possiamo dare la nostra consulenza e il nostro
supporto. La strategia di utilizzo può venire dopo, ma più spesso e più correttamente avviene prima. Il brief della gara serve anche a quello.
> continua
35
La viralità.
La viralità può nascere sia dal contenuto stesso, capace di propagarsi spontaneamente, sia – più spesso – dal naturale meccanismo di condivisione messo in
atto dagli utenti, i quali postano i propri lavori nei social network e nelle piattaforme di content-sharing per chiamare i propri contatti e visitatori al voto
(il meccanismo della gara creativa è uno stimolo al passaparola); o semplicemente per cercare visibilità o raccontare di sé, parlando delle loro ultime creazioni per questo o quel marchio nelle loro conversazioni on e off-line. In più,
noi stessi uplodiamo negli account Zooppa sulle principali piattaforme di condivisione (Youtube, Facebook, Vimeo, ecc.) i contenuti della nostra community.
Senza contare i visitatori spontanei della nostra piattaforma.
In questo modo si innesca una “disseminazione” del brand, il cui obiettivo è
soprattutto la crescita della brand awareness più che la dimostrazione di vantaggi tangibili contestuali al momento del bisogno o dell’interesse. Ogni lavoro
genera un alto numero di contatti, in rete e fuori dalla rete: con un grado di attenzione, credibilità e simpatia solitamente alto, perché rafforzato dal rapporto
relazionale fra le persone.
Il percepito del brand.
Emerge dai commenti, dalle conversazioni che si fanno su Zooppa intorno al
marchio oggetto del contest, nonché dalle associazioni di pensiero ricorrenti nelle pubblicità generate. L’azienda può interpretare il contest come un
grande focus group intorno al suo nome. In questo Zooppa offre un servizio
specifico e ulteriore, offrendo ai brand che esplicitamente lo desiderano un
report finale di tipo qualitativo assai approfondito, con un’analisi dei contenuti
creati ricca e dettagliata. Alcuni clienti si sono rivolti a noi puntando soprattutto
a questo scopo: capire cosa la nostra community pensasse di loro.
36
La relazionalità.
È forse l’output attualmente meno compreso e sfruttato in tutte le sue potenzialità, ma davvero prezioso. Il brand si mette nelle mani delle persone, si presta
alla loro manipolazione, diventa tema delle loro conversazioni, si pone volontariamente su un piano alla pari. Per le aziende, Zooppa diventa l’opportunità di
entrare in contatto con persone di valore, di scoprire talenti o anche di poter
iniziare a costruire una propria community creativa, di impostare una strategia di tribal marketing, di “rompere il muro” che separa tutte le aziende dai suoi
consumatori-osservatori per entrare in contatto diretto, stimolando simpatia e
affezione attorno al suo nome.
Addirittura, nel miglior spirito wiki, di imparare da loro. Un territorio in gran
parte inesplorato ma, almeno sulla carta, gravido di opportunità se è vero
che il livello di engagement del cliente è un importante fattore di vantaggio
competitivo.
[...]
Personalmente credo che Zooppa non basti a se stessa e che una strategia di
marketing dovrebbe prevedere una panoplia di strumenti più vasta. Ritengo
però allo stesso tempo che Zooppa possa essere davvero il perno strategico di
una campagna di comunicazione che metta realmente al centro la relazione con
il pubblico – consumatore e produttore di senso – in un’ottica di brand awareness e di posizionamento. [...]
in commento a
www.shannon.it/blog/pubblicita-del-futuro-lesperienza-dellitaliana-zooppacom/
37
Le agenzie non
moriranno mai
I N T E R V I S TA
Raggiungo via Skype Alessandro Cappellotto, community manager di Zooppa Italia. Mi sento in dovere di sottolineare la sua assoluta disponibilità a questo progetto: dalla lunga chiacchierata,
alle numerose segnalazioni via mail, fino all’invio di materiale utilissimo alla composizione di questa ricerca.
come funziona la community di zooppa?
Funziona un po’ come tutte le comunità: con vari livelli di coinvolgimento. Ci
sono cicli di affezione che si esauriscono, poi nascono e riprendono, come in
ogni forum. Ad adesso, l’intero ecosistema di Zooppa (cioè: Italia, Stati Uniti e
Brasile) punta verso i 100.000 utenti. E più della metà sono italiani.
Di questi, il 9-10% (parlando dell’intero sistema Zooppa: in Italia saliamo sopra il 10%) ha creato almeno un contenuto relativamente ad una campagna
su Zooppa. È un po’ un sistema a cipolla, diciamo: il nucleo esterno è fatto di
tantissimi utenti registrati che hanno caricato uno, due o tre contenuti; o che,
magari, si sono iscritti solo per votare la proposta di un amico. Man mano che
si va verso il nucleo cala il numero di utenti, ma aumentano i contenuti postati
per singolo utente, fino ad arrivare agli iscritti più attivi che hanno caricato numerosi contenuti su diverse campagne.
il crowdsourcing, per definizione, accoglie “cani e porci”, se mi passi il termine. secondo il tuo polso della situazione, qual’è il livello di competenza
dell’utente medio? che tipo di professionalità ha?
Non è quasi mai un dilettante. È una persona con esperienza professionale nel
settore, magari non molto approfondita, ma ha spesso già iniziato un percorso
nel settore creatività. Di sicuro è fuori dal “grande giro”: vede in Zooppa l’opportunità di mettere la propria creatività su brand e situazioni che non sono
nella sua quotidianità. Gente anche parecchio brava, per capirci, ma che territorialmente o professionalmente è tagliata fuori perché, ad esempio, non lavora
a Milano o Roma.
Diversi iscritti lavorano anche per agenzie famose, dove però soffrono per l’assenza di libertà creativa. Su Zooppa, invece, non c’è nessun direttore creativo,
nessun account che ti vincola. L’unico vincolo è il brief: il contenuto che hai in
testa lo puoi trasferire immediatamente. C’è persino qualche direttore creativo
vero e proprio, che magari ha lavorato in passato in agenzie grosse e ora ne ha
aperta una propria, e magari su Zooppa si diverte e basta.
Ci sono poi studenti alle prime armi e, tra i più assidui, c’è anche chi ha semplicemente una passione che ha sempre coltivato ma non è mai riuscito ad
applicare davvero.
Una delle cose di cui sono sicuro, però, è che non c’è quasi mai l’assoluto dilettante. Certo, ci sono utenti che nella vita fanno un lavoro completamente
diverso. Ma hanno sempre un profondo interesse per la creatività, che sia il
videomaking o la fotografia. Quando abbiamo lanciato Zooppa pensavamo, in
tutta sincerità, che sarebbero arrivati davvero cani e porci.
Ma in realtà, Zooppa non può far nascere un interesse: può solo alimentarlo, ma
l’interesse e la passione ce li devi avere dentro, dall’inizio. Se non li hai, non ti
iscrivi a Zooppa, ecco tutto.
> continua
*Dati: Novembre 2010
Brasile
Stati Uniti
Italia
community TOTALE
87.000+
utenti attivi
commenti
930.000+
print ads pubblicati
video ads pubblicati
37.200+
6.000+
concepts pubblicati
radio ads pubblicati
4.300+
550+
MEDIA di CONTENUTI pubblicati PER singolo CONTEST
60-100
video
400-1000
grafiche
è presumibile che, dietro ai grandi brand che si rivolgono al crowdsourcing,
ci siano grandi agenzie che li seguono da molto tempo. quale interesse può
avere l’agenzia a non gestire internamente il processo creativo e lanciare
invece un contest rivolto ad una folla di sconosciuti?
Questo è un tema ancora aperto. Posso darti la mia opinione, ma anche noi ci
stiamo ancora interrogando. Perché un brand non potrà mai fare a meno di un’agenzia? I motivi secondo me sono almeno due, e sono imprescindibili.
Il primo è la strategia. Noi non proponiamo strategie ai nostri clienti; anzi, ai
brand che ci interpellano diciamo sempre che per trarre il massimo potenziale
da Zooppa, la campagna va inserita all’interno di una strategia più ampia, che
preveda magari l’uso dei social media, della viralità, del web. Ti faccio notare
una cosa: i nostri contest, noi preferiamo chiamarli campagne. Perché l’azione di
interrogare una community, di lanciare input in un contesto di spiccata relazionalità e viralità, è già parte di una campagna di sviluppo del brand: e lo sviluppo
del brand non può farlo la folla, deve farlo l’agenzia.
Il secondo fattore sono i servizi. Quando all’azienda arriva un output creativo
da Zooppa va declinato, va adattato ai media e ai supporti, va magari rifinito
meglio. Può dunque esistere sovrapposizione tra Zooppa e agenzia per l’aspetto strettamente creativo, di generazione delle idee: ma per tutto ciò che riguarda i servizi e la strategia, assolutamente no.
quindi le agenzie hanno un futuro?
Assolutamente! Con un logo e uno spot generati da crowdsourcing, un brand
non può fare identità di marca: non bastano i contenuti, insomma. La consulenza strutturata non la fai con la crowd, la fai in agenzia.
In passato forse era più facile: i canali attraverso cui accedere al pubblico erano
meno frammentati. C’erano la carta stampata, l’affissione, e c’era la televisione,
che però era per pochissimi.
> continua
Oggi, invece, le aziende si sentono spesso confuse per l’iperframmentarietà
dell’era digitale. Sono nate nuove competenze, nuovi canali, nuove possibilità.
Sarebbe ottimo, per un’azienda, poter produrre contenuti diversificati, ritagliati
su ogni singolo canale; ma con i costi di produzione classici sarebbe impossibile. L’idea creativa, quindi, può arrivare in maniera più sostenibile (soprattutto
economicamente) dal crowdsourcing. Sarà poi compito dell’agenzia declinarla,
gestirla e inserirla in una strategia più ampia.
ok, la strategia. ma è la fine dei creativi professionisti nelle agenzie?
Certo che no. Intendiamoci: molta creatività potrebbe essere assegnata alla folla. Ma alcune creatività di alto livello non possono comunque emergere da una
crowd. Ad esempio, per girare uno spot che richiede una execution complessa,
l’azienda ha bisogno di professionalità elevate: videomaker, set, produzione costosa, modelli e chissà che altro. Una creatività di alto livello, con un’alta componente organizzativa e di servizi non potrà che restare in agenzia, ed essere
gestita secondo i processi di lavoro che ben conosiamo.
ma le agenzie si sono accorte del fenomeno?
Ti dirò, c’è ancora un po’ di “inerzia” nelle agenzie di oggi. Nei confronti del
crowdsourcing anzitutto, ma ancor di più verso il web in generale, con tutte le
enormi possibilità di canali che offre.
Molte agenzie sono ancora legate alle professionalità classiche, basate prettamente sulla carta stampata. Ci sono agenzie che ignorano la potenza di strumenti web basilari come le campagne pay-per-click. Ho visto progettare siti web
come fossero progetti per la carta stampata. In pochi fanno davvero interaction
design per il web, cercando di capire cosa funziona e cosa non funziona nella
rete. C’è un po’ di difficoltà ad interpretare il cambiamento, insomma, anche se
le cose stanno già cambiando.
una polemica che sento spesso sollevare riguarda il pricing delle campagne.
insomma, diciamoci la verità: investendo un budget ridotto, alla fine all’azienda restano in mano decine o centinaia di idee e input...
Ci sono due risposte a questa domanda: una più tranquilla, e l’altra più brutale.
Quella tranquilla è questa: bisogna rendersi conto che, al di là del valore monetario, in ogni campagna c’è un altro valore, ed è l’opportunità di partecipare. Se
un utente entra, posta il suo contenuto per una campagna e poi se ne va, non ha
accesso a tutti gli altri valori aggiunti che ottiene partecipando alla community:
i feedback, la possibilità di votare e parlare, i commenti, il forum, i lavori degli
altri, il confronto.
L’obiettivo di Zooppa è il coinvolgimento, prima ancora della generazione di
contenuti per le aziende. Per questo è importante avere un forum, un blog, la
possibilità per gli utenti di commentare i lavori l’un l’altro. Ogni nostro contest
diventa così un’occasione di conversazione di massa: chi genera le idee apprezza soprattutto la possibilità di confrontarsi, di vedere cosa fanno gli altri,
di imparare e migliorare se stessi. L’utile per un utente su Zooppa non è solo il
denaro vinto dai premi: è anche la community stessa.
E comunque in Zooppa abbiamo differenziato e moltiplicato i premi, proprio
per andare incontro a questa esigenza. Stiamo anche cercando di individuare
benefit più concreti per la community, soprattutto pensando a quella parte che
“non vince” una campagna. Abbiamo una convenzione con la casa editrice Lupetti che garantisce agli utenti il 20% di sconto nell’acquisto di libri. Proponiamo workshop di viral video con il grande Alex Orlwoski: gli Zoopers che vogliono partecipare possono farlo con il 40% di sconto. Ancora, in passato abbiamo
promosso l’edizione di un libro con una selezione delle creatività generate per
una specifica campagna, con relativi credits di ciascun autore.
> continua
e la risposta brutale qual’è?
La risposta brutale è questa: è il mercato che decide cosa sta in piedi e cosa no.
Finchè la gente continua a partecipare a queste condizioni, voglio dire, evidentemente è perché oggi le condizioni sono sufficienti. È l’incontro tra la domanda
e l’offerta a fare il prezzo.
in che senso?
Voglio dire: sarei felicissimo se un brand si rivolgesse a Zooppa per proporre
una campagna con 100.000 euro di premi: potremmo fare cose grandissime, e
rendere felici di partecipare un sacco di utenti della nostra community. Ci sono
aziende capaci di spendere decine di migliaia di euro per un singolo passaggio
televisivo: sarebbe fantastico se rinunciassero ad uno o due passaggi televisivi
per proporre un’iniziativa di crowdsourcing con premi molto ricchi. Ma di fatto,
questo ancora non succede, probabilmente per il tipo di valore e credibilità che
le aziende danno, oggi, al crowdsourcing.
quindi cosa succederà? le aziende continueranno a speculare sulla folla?
Tutt’altro: sono profondamente convinto che, con il crowdsourcing in rapida
espansione – come utenza iscritta, come brand e come quantità di piattaforme
stesse – i budget delle singole campagne si alzeranno sempre di più. Come ti
dicevo, è il mercato che decide cosa sta in piedi e cosa no.
Se un brand lancia una campagna che non è creativa, che paga poco, che non dà
soddisfazione, cosa farà l’utente? Si concentrerà su un’altra proposta, un altro
contest: il tutto a scapito della quantità e qualità di contenuti generabili per il
brand. Sta quindi emergendo una concorrenza tra brand, un fenomeno nuovissimo: non una concorrenza sul mercato, perché magari parliamo di aziende con
prodotti o servizi in categorie merceologiche completamente diverse.
È una concorrenza tutta interna al pianeta crowdsourcing, una concorrenza trasversale ai brand, che cercano di contendersi e corteggiare gli utenti della community proponendo campagne sempre più interessanti e con un alto rewarding
rispetto ai concorrenti: pena la scarsa partecipazione. Le aziende stanno cominciando a rendersi conto che se speculano tenendo i premi bassi, l’engagement
della community sarà scarsissimo.
quindi, più il crowdsourcing si diffonde, più i premi si alzano?
Sì, anche se con difficoltà sempre maggiori. In questo momento in Italia ci sono,
per esempio, 10 contest video attivi. Se i contest aperti diventassero 500, è
chiaro che non tutti avranno successo: perché gli utenti sceglieranno dove partecipare in base al rewarding e al tipo di brand coinvolto.
E poi non dimentichiamo che, oltre al brand, a perderci se il pricing o i valori offerti sono bassi, è la piattaforma stessa. Se Zooppa non riesce a dare un corretto
valore alle campagne e a tutto quello che ci gira attorno, alla lunga l’utenza si
sposterebbe da Zooppa ad altre piattaforme, e saremmo i primi a rimetterci.
Crowdsourcing
I L
M O D E L L O
D I
1.
L’azienda ha un’esigenza di comunicazione da sviluppare.
Stabilisce un budget e si rivolge a UserFarm.
2.
Tramite un call con premio finale, pubblicato sulla piattaforma UserFarm con cui firma un contratto, l’azienda interpella una community eterogenea di ogni età e grado di professionalità.
3.
Nel rispetto del brief, ciascun utente fa le sue proposta.
L’eventuale visibilità della proposta (a nessuno o tutti tra gli altri utenti della
community, o addirittura all’esterno di UserFarm), e la qualità della community
coinvolta vengono decise, di volta in volta, dall’azienda.
4.
Allo scadere del bando, l’azienda valuta la proposta migliore e premia il vincitore.
Crowdsourcing?
Chi non lo fa
verrà tagliato fuori
I N T E R V I S TA
Bruno Pellegrini è Founder & CEO presso TheBlogTV / UserFarm.
Intervistandolo emerge una diversa visione del profilo delle future agenzie, e una proposta interessante di crowdsourcing segmentato: per permettere alle aziende di selezionare i creativi in
base alla loro competenza.
per chi non vi conosce, ci parli un po’ di userfarm?
UserFarm è una piattaforma di content e creatività crowdsourcing: ovvero, è un
network di circa 20.000 creativi (filmakers, designer, fotografi, etc.) cui si rivolgono canali televisivi, agenzie di comunicazione, brand, imprese alla ricerca di
contenuti e creatività originale e poco costosa.
sono circa 5.000 i designer iscritti a userfarm. qual’è l’utente medio? è un
professionista, un novellino, un freelance, un’agezia?
Ci sono dei grandi utilizzatori di UserFarm, pari a circa il 20% del totale, che
partecipano alla maggior parte dei contest: sono spesso designer e registi che
lavorano in agenzie medio–piccole e case di produzione, oppure sono freelance. Un altro 50% viene a trovarci spesso, circa una volta al mese, per vedere
quali sono i contest aperti. Un 30% è invece frequentatore meno assiduo.
> continua
mi elenchi tre vantaggi e tre svantaggi, per un designer, nel partecipare ad
un contest su userfarm?
Tra i vantaggi, sicuramente guadagnare qualche soldo e parecchia visibilità. E
poi, ovviamente, stabilire relazioni con utenti e aziende. Svantaggi, in tutta sincerità, non ne vedo alcuno.
è presumibile che le grandi aziende abbiano alle spalle delle agenzie che le
seguono nella comunicazione. quale interesse può avere un’agenzia a rinunciare allo svolgimento interno del lavoro per affidarlo ad una community?
Lavoriamo spesso e volentieri con le agenzie, che possono scegliere di utilizzare UserFarm sia per farsi dare suggerimenti e idee out of the box oppure per
declinare un concept già sviluppato per lo spot mainstream, in maniera originale e virale. Le agenzie possono scegliere di attivare call private (invitando cioè
solo alcuni creativi) o pubbliche (per tutti), decidendo se far vedere i contenuti
a tutti, ai partecipanti o a nessuno.
e quindi, quale futuro intravedi per le agenzie “classiche” in un’ottica di
crowdsourcing sempre più diffuso?
Le agenzie classiche dovranno dotarsi anche loro di una piattaforma simile: il
destino di tutte le imprese è di aprirsi verso l’esterno attraverso modelli come
il crowdsourcing. Chi non lo farà sarà sempre meno competitivo.
è dunque l’inizio di una rivoluzione? la comunicazione del futuro sarà sempre più user-generated?
La comunicazione del futuro sarà sempre più partecipativa e condivisa. Non
solo per piattaforme come UserFarm, ma per la complessiva tendenza verso la
convergenza dei mezzi mainstream e individuali. Social network e fandom sono
un altro esempio.
> continua
*Dati: Novembre 2010
community
5.000
su
call aperte
85
creativi,
20.000 iscritti
Rai
Fox
IBM
Banca Intesa
Kaspersky
Alpitour
Honda
Cisco
BUDGET
da
5 euro a 15.000 euro
MEDIA di CONTENUTI
PUBBLICATI PER singolo CONTEST
200-500
il crowdsourcing solleva diverse polemiche in rete. l’azienda che commissiona il contest investe un budget ridotto rispetto alle centinaia di proposte, punti di vista e commenti che potranno organizzare, in seguito, nello
sviluppo della vera proposta premiata.
Su piattaforme come UserFarm viene data grande attenzione alla gestione dei
diritti, a tutela sia delle aziende che dei partecipanti. La partecipazione è sempre volontaria e il metodo di selezione e utilizzo dei contributi è sempre trasparente. Davvero non vedo il problema! Soprattutto se confronto questa modalità
di partecipazione (dove l’autore della creatività riceve visibilità) a quella che
vige nelle agenzie, dove le idee dei giovani creativi vengono sfruttate dai partner senza vedersi riconoscere la paternità.
altro versante della polemica: la vostra policy tutela in qualche modo le
opere “scartate”? o restano a completa disposizione della community (o
dell’azienda stessa)?
L’azienda acquista solo le opere selezionate. Le altre rimangono di proprietà
dell’autore che potrà decidere di metterle a disposizione di altre aziende nel
marketplace. Il tutto nella massima trasparenza.
in un mondo in cui chiunque ha accesso a software più o meno professionali
di graphic design, gli “aspiranti creativi” senza in realtà alcuna effettiva
competenza intasano il web. possono piattaforme come userfarm, in qualche
modo, dar fiato ad una comunità senza controllo di grafici improvvisati?
UserFarm, come altre piattforme di crowdsourcing, sono disegnate per consentire un graduale affinamento della community e far crescere i propri migliori contributori. In una seconda fase di sviluppo, infatti, procederemo verso la
segmentazione del network di creativi al fine di differenziarne l’ingaggio per le
aziende, che potranno quindi scegliere di volta in volta il “grado di competenza” dei creativi da coinvolgere.
in questo senso, c’è chi lamenta la scarsa qualità delle proposte. il che è
curioso, perché tecnicamente lo sharing delle proposte nella community
dovrebbe garantire una certa scrematura delle idee più rozze, o sbaglio?
Non abbiamo avuto lamentele rilevanti, non saprei cosa rispondere. Spesso
però i problemi sono nel brief e nel premio, che possono non essere coerenti
con le aspettative.
per finire, una previsione. dopo l’informazione e la creatività, quale sarà il
prossimo settore dove sbocceranno piattaforme di crowdsourcing?
Tutti i settori dove il prodotto è immateriale, e quindi producibile da persone diverse in posti diversi, vedrà fiorire il crowdsourcing. Già oggi lo troviamo
all’opera per le idee, i brevetti, le invenzioni, la conoscenza, l’informazione, la
creatività, i contenuti, il customer-care, il fundraising, le decisioni politiche. E in
futuro sarà sempre più diffuso e coinvolgente.
L'azienda
gestisce comodamente l’intero processo on-line,
senza riunioni o spostamenti;
ha a che fare con una community ampissima,
ricca di potenziali talenti;
la community è direttamente interessata
e si autoseleziona rispetto al brief;
la community può diventare un focus-group
sulla validità del prodotto;
il budget è basso rispetto alla quantità
di idee che si ottiene;
il brand viaggia in modo virale per la rete;
si mette sullo stesso piano dei suoi consumatori.
La piattaforma
acquista forza, fama e validità, man mano
che espande la propria community;
guadagna da ogni singolo brief che pubblica;
gestisce un preziosissimo bacino di talenti,
altrimenti nascosti, ignoti o irraggiungibili;
i brand e la community parlano della piattaforma
nelle proprie discussioni on-line e off-line.
Il creativo
ha la possibilità di lavorare con grandi brand,
indipendentemente dalla propria esperienza;
nessuno gli domanda di essere formato,
aggiornato, professionista, titolare di Partita IVA;
se vince viene pagato;
se vince, il suo nome si diffonde nella community,
nella rete e nei social network;
può crescere professionalmente dal confronto
con tutta la community;
attiva collaborazioni e contatti;
può esprimersi liberamente;
può avere accesso a sconti, benefit, convenzioni.
L'agenzia
si può concentrare sulla strategia lasciando la
realizzazione delle idee alla community;
il budget da richiedere all’azienda è basso
rispetto alla quantità di idee che si ottiene;
individua e cattura talenti creativi
nella community messa a disposizione.
03
Crowdsourcing
SUC
54
CKS!
Ovvero, il lato oscuro del crowdsourcing: sfruttamento e faciloneria.
55
Qualunque azienda che
affidi la realizzazione
del proprio sito
ai suoi utenti
non soltanto si dimostra irrispettosa nei loro confronti: non ha nemmeno capito esattamente ciò che dovrebbe fare in realtà.
Il suo lavoro dovrebbe essere: fornire agli utenti una struttura attraverso la
quale collaborare. Ma questo richiede un sacco di lavoro.
Le comunità non si creano solo buttandoci dentro dei soldi: ci vuole tempo
per farle crescere in modo sano. Le vere aziende di successo sono in grado
di costruire un solido rapporto di fiducia con il proprio pubblico.
The Wales Rules for Web 2.0 by Jimmy “Jimbo” Wales (fondatore di Wikipedia)
56
© NO!SPEC Campaign
Educare i designer,
educare i clienti
Il design speculativo e i contest che si fondano su di esso sono in
continua e preoccupante crescita. Per educare da una parte chi
lavora nella comunicazione visiva, e dall’altra gli stessi clienti, un
gruppo di designer si è unito per diffondere un messaggio contro
la speculazione nel mondo della creatività.
cos’è il design speculativo?
Essenzialmente, si parla di design speculativo quando un designer propone ad
un cliente un progetto, parziale o finito che sia, senza avere la sicurezza della
conclusione del lavoro o di ricevere l’adeguato compenso. È il caso, ad esempio, delle opere di design per partecipare ad un contest o da sottoporre ad un
cliente come in una sorta di “test” per scegliere il fornitore migliore. A queste
condizioni, il designer perde spesso tutti i suoi diritti sull’opera, non firmando
alcun contratto o accordo: il cliente può dunque avere la facoltà di utilizzare il
progetto del designer, senza pagarlo e senza il timore di ripercussioni legali.
perché non è etico?
Il designer lavora gratis o con la promessa di lavori futuri non meglio specificati;
oppure, in cambio di altre forme insufficienti di compenso. Solitamente questi
finti premi attirano designer alle prime armi, che abboccano a finte promesse
tipo “i nostri sono ottimi lavori per il tuo portfolio” o “con noi guadagnerai un
sacco di visibilità”. In realtà, spesso non ricevono nulla di tutto questo. Più facilmente, sono obbligati a firmare un contratto che lo privi dei propri diritti sulla
creatività, cedendola di fatto a chi gli ha proposto il lavoro. […]
> continua
57
Il cliente può usare lo stesso metodo per più designer contemporaneamente, in
modo da ottenere più creatività a basso costo, o addirittura a costo zero. Questo
atteggiamento promuove anche la forzata riduzione del proprio compenso da
parte dei designer, nella speranza di battere nel prezzo potenziali rivali, svalutando di fatto sia le proprie capacità, sia quelle dell’intera industria grafica. […]
sono un cliente e voglio proporre un contest: è lavoro speculativo?
Per saperlo, chiediti: pagherei con la stessa cifra un lavoro di un designer che
vince un contest e quello di un designer assunto a progetto con un regolare
contratto? Sarei disposto a negoziare un compenso per l’utilizzo della creatività
prodotta, in proporzione alle capacità del designer? Sarei pronto a restituire
tutti i file e i diritti di utilizzo ai rispettivi designer, specialmente a quelli che
non vinceranno?
Se la risposta ad una sola di queste domande è “no”, stai promuovendo lavoro
speculativo.
cosa c’è che non va nei contest?
Oltre a dare al committente l’idea che la creatività non abbia valore, un contesto lo penalizza. Per vincere un contest, i designer non fanno le adeguate
ricerche (di marketing, ma non solo) necessarie al progetto, e di conseguenza
non sono in grado di proporre la soluzione migliore al cliente il quale, quindi,
sceglierà esclusivamente il design più bello: non il più efficace e funzionale
alle sue esigenze. Non dimentichiamo che il designer professionista è capace
di leggere e interpretare le necessità del cliente, e di aiutarlo nelle sue scelte
di comunicazione. Dopotutto, nessun cliente direbbe al suo legale in che modo
difenderlo ad un processo; né direbbe al suo meccanico come riparargli l’auto:
guarderebbe la storia e l’esperienza del professionista a cui si rivolge, per poter
scegliere il migliore. Per questo ci sono i portfolio dei designer: se un cliente
cerca il miglior designer, il modo migliore è guardare i portfolio.
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come cliente, perché non dovrei indire un concorso per avere un logo?
Oltre a quanto già detto: un logo non è semplicemente un disegno stampato
sopra ad un berretto da baseball. È un simbolo che rappresenta il cliente e l’intera azienda. Aiuta ad identificare immediatamente un brand e a trasmettere un
messaggio a chi lo osserva. Un contest non permette ad un designer di fare le
adeguate ricerche per proporre un simbolo efficace.
perché dovrei pagare un singolo professionista per fare un lavoro di cui mi
proporrà solo alcune bozze, anziché indire un contest e ricevere decine o
centinaia di proposte?
Perché promuovendo il lavoro gratuito impedisci al designer di ottenere il compenso che merita. Come cliente, lavoreresti gratis con la speranza di essere,
forse, ricompensato? Non credo. Considera che ai contest spesso partecipano
designer inesperti che, anche a causa della pressione per la competizione e la
scadenza del bando, tendono a fare un pessimo lavoro. Come cliente, alla fine
del contest, corri il rischio di trovarti con centinaia di pessime proposte che, se
adottate, non rappresenteranno adeguatamente la tua azienda nel futuro. Potrebbe costarti più di quanto credi sul lungo termine: in visibilità e qualità della
comunicazione. Un lavoro professionale, al contrario, fornirà proposte ragionate, su misura, e che riflettono anni e anni di esperienza di design sul campo.
non capisco bene questa faccenda dei diritti di utilizzo.
I diritti sul risultato di un lavoro di design sono specificati nel contratto. Normalmente, i designer concedono al cliente l’utilizzo dei file finali e degli esecutivi
di stampa. Se, come cliente, ti impossessi del lavoro senza pagare il designer,
per passare i file a qualcun altro che modificherà o finirà il lavoro gratis, stai
commettendo un furto. A meno che non sia specificato nel contratto, il cliente
non ha diritto a modificare i file prodotti da un designer senza autorizzazione o
senza l’adeguato compenso. […]
> continua
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cosa si intende con “macchina-fabbrica-loghi”?
È una pratica dannosa, sfortunatamente in crescita, che vede molte aziende
usare i contest come procedura principale, inserita a pieno diritto nel loro modello di business: il risultato è gettare i designer in un ring, costringendoli a
lottare tra loro come in un combattimento tra galli per vincere la gara. I creativi
che finiscono in questo trend, tendono a produrre in serie idee poco efficaci, concepite malamente e spesso direttamente plagiate da altri professionisti:
l’unico scopo è vincere quanti più contest possibili. Più creatività grossolana
producono, più soldi riescono a guadagnare. […]
in qualità di cliente, come posso essere sicuro che, pagando un designer professionista, otterrò un buon lavoro?
Proprio perché paghi un professionista, che è esperto nel suo lavoro: il suo unico scopo è produrre un buon lavoro.
e come distinguo un buon designer da un altro?
Basta guardare i loro portfolio. […] Basta analizzarli con cura, fino ad individuare
un designer il cui stile possa essere funzionale ed efficace alle necessità della
tua azienda. Quindi, contatta il designer e discutine direttamente con lui. Ottenuta un’impressione positiva sia dai suoi lavori che dalla sua personalità, saprai
rapidamente se c’è la possibilità di avere un proficuo rapporto di lavoro.
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Un'azienda può vedere
il crowdsourcing
come una minaccia
ai suoi copyright e alle sue proprietà intellettuali, o come una forma di
competizione non desiderata.
Oppure, nella migliore delle ipotesi, vede nel crowdsourcing una nuova
popolazione, pronta per essere sfruttata come risorsa.
Douglas Rushkoff on Wired US, Luglio 2007
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© Lisa Mikulski
La carta dei diritti
del designer
di Lisa Mikulski
In qualità di professionista, il designer:
1. ha diritto ad un contratto scritto e firmato. Un contratto aiuta a stabilire
esattamente di quale lavoro si tratta ed entro quali tempistiche va svolto. Certifica una relazione, un rapporto e un futuro, e aiuta entrambe le parti (designer
e cliente) a proseguire il lavoro insieme.
2. ha diritto ad un lavoro retribuito. Come clienti, non chiedete ad un designer
professionista di lavorare gratis e non speculate sulla sua professionalità: facendolo, il cliente degrada l’intera industria del design. [...]
4. ha il diritto di avere tempo a sufficienza per sviluppare le sue idee e soluzioni. Il design è un processo creativo: come tale, richiede tempo per svilupparsi. Il tempo permetterà al designer di fornire le migliori proposte alle esigenze
del cliente. Come cliente, ogni ritardo nel fornire il materiale richiesto si rifletterà in un ritardo da parte del designer nello sviluppo del progetto. Si consideri
inoltre che ogni lavoro fatto in condizioni di emergenza o in tempistiche ristrette, potrebbe comportare un aumento del costo finale. [...]
6. ha il diritto ad essere trattato con professionalità. Un designer è un professionista: come tale è felice di rispondere alle domande del cliente e fornirgli
tutto il supporto necessario. [...]
7. ha il diritto di presentarsi e comunicare direttamente con chi, in azienda,
prende le decisioni. Per svolgere al meglio il suo lavoro, è importante che siano aperte per lui tutte le linee di comunicazione diretta con chi è in grado di
decidere le sorti del progetto. [...]
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Al ristorante:
“Non so ancora
cosa voglio mangiare:
lo saprò quando
avrò assaggiato tutto.
Quindi vorrei che mi consegnasse a casa tutte le proposte dal suo menù.
Consideri che chiederò di fare la stessa cosa anche ai ristoranti cinese,
italiano e messicano qui vicino. Dopo che avrò assaggiato tutto, se avrò
ancora fame, sceglierò quale pasto acquistare e presso quale ristorante”.
L’esempio citato è chiaramente assurdo: nessun business al mondo fornisce gratis un prodotto o servizio, nella speranza che qualcuno lo paghi.
E il graphic design è un business, come tutti gli altri.
© Wildfire Marketing Group Content Development Team
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© CreativePro
Una scommessa
che non paga
di Pamela Pfiffner
Prendiamo l’esempio della piattaforma CrowdSpring. I clienti postano un briefing – per esempio, la realizzazione di un logo, del
proprio corporate, di un layout web – sul sito di CrowdSpring, descrivendo di cosa hanno bisogno e quant’è il premio. I designer
rispondono, postando il lavoro richiesto sul sito. Dopo un periodo stabilito di tempo, l’azienda cliente seleziona un vincitore, che
viene pagato in cambio del lavoro e dei diritti di utilizzo ad esso
associato. Tutti gli altri partecipanti restano a bocca asciutta.
[…]
Postare contenuti creativi su siti come CrowdSpring può avere un certo fascino.
I designer professionisti che soffrono l’attuale crisi economica possono trovare
facilmente del lavoro, qualunque esso sia. E i designer dilettanti possono costruirsi una buona base di clienti senza troppa fatica.
Tuttavia, consideriamo alcuni aspetti: quando un cliente indice un contest, il
designer non ha idea di quanti altri colleghi o presunti tali parteciperanno.
Sebbene siti come CrowdSpring segnalino il numero di entries per ogni concorso attivo, spesso questi contest attirano centinaia, a volte migliaia di designer; molti dei quali pubblicano più contenuti. Una recente call per un logo, su
CrowdSpring, ha totalizzato la bellezza di 1749 proposte – delle quali, naturalmente, 1748 non sono state pagate.
Un designer potrebbe pensare: la qualità del mio lavoro mi farà distinguere,
permettendomi di vincere più concorsi degli altri. Questo concetto, tuttavia,
dà per scontato che il cliente capisca e comprenda il design grafico di qualità;
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e dà per scontato che il designer sia in grado di avere abbastanza informazioni
sul cliente e sul lavoro richiesto, per fornire proposte adeguate.
Steve Douglas di The Logo Factory spiega così il reale costo di un’iniziativa
di crowdsourcing: “Secondo CrowdSpring, i designer hanno pubblicato oltre
219.000 proposte nei vari contest fino ad aprile 2009. Supponendo che dietro
ogni proposta ci sia una media di un’ora di lavoro, ed è una stima al ribasso,
risultano 25 anni di graphic design non pagato”.
Il proprio lavoro ha un valore preciso. Diventare un designer è un processo
faticoso. La buona progettazione grafica richiede ricerca, analisi, sperimentazione, creazione. Ci vuole tempo e ci vuole denaro. Non sottovalutatelo. “L’unica cosa peggiore un cliente che non dà il giusto valore al lavoro di un designer
professionista, è un designer che non dà il giusto valore al proprio lavoro”, dice
Jeff Fisher della Jeff Fisher LogoMotives.
Il buon design non equivale a buttare lì qualche proposta creativa nel tempo
libero. Se non si pubblica su un sito visibile a chiunque la propria migliore idea,
il rischio è di rovinarsi la reputazione. I progetti mediocri devono restare sul
proprio hard disk, a disposizione esclusiva del designer e di coloro dai quali è
opportuno ricevere un onesto feedback. […]
In qualità di designer, è necessario capire perché un cliente ha scelto te. Un
singolo lavoro creativo selezionato su una piattaforma di crowdsourcing, non
restituisce la corretta percezione delle motivazioni, e non aiuta il designer a
crescere professionalmente; così come non aiuta il cliente a stabilire alcun tipo
di relazione con un designer che potrebbe, in futuro, essere chiave di volta del
suo successo.
> continua
65
“Sapere come funzionano i software di design è solo una parte del processo
per diventare designer professionisti. Diventare un designer di successo significa imparare come comunicare con i clienti” dice Catherine Wentworth di Creative Latitude e leader del movimento No!Spec. […]
L’anima del processo di design creativo è la collaborazione, col cliente o con
gli altri designer, non la competizione. Il feedback sul proprio lavoro è un elemento fondamentale. Nel crowdsourcing, tuttavia, i designer gareggiano per
vincere. “I contest sono scenari in cui i designer combattono gli uni contro gli
altri, senza collaborare – continua Douglas –; le piattaforme di crowdsourcing
trasformano i potenziali prodotti finali dei creativi in semplicistiche “belle immagini” tra cui scegliere”. L’ideale sarebbe trovare altri creativi, con cui condividere idee e processi in un ‘ottica di brain-storming e critica costruttiva. […]
Ross Kimbarovski, co-fondatore di CrowdSpring, ammette che il crowdsourcing
sta vivendo il suo momento d’oro, ma non è certo apprezzato da tutti: “Altri designer, nella comunità creativa, non sono contenti del crowdsourcing.
CrowdSpring è una opzione tra mille altre. I designer più esperti e professionisti, d’altra parte, hanno già clienti regolari e paganti, e non hanno certo bisogno
del lavoro speculativo”.
Con la domanda di crowdsourcing in aumento vertiginoso, anche i designer professionisti avvertono la pressione. […] Bisogna cogliere questo cambiamento in
corso, ed agire di conseguenza: perché il buon design resista al crowdsourcing,
è necessario educare colleghi e clienti a dire no al lavoro non pagato.
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Su CrowdSpring,
i designer hanno
pubblicato ad oggi
219.000 proposte.
Se dietro ogni proposta c’è la media di un’ora di lavoro,
ed è evidentemente una stima al ribasso,
risultano 25 anni di graphic design non pagato.
© Steve Douglas, The Logo Factory
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Aprire all’esterno il
proprio processo creativo
è una grande idea:
ma raramente si
ottengono buoni risultati.
La frammentazione estrema della creatività condivisa fa perdere
di vista l’unità del proprio lavoro.
Si finisce per ragionare a strati e si perde di vista l’essenza
della cosa che si vuole realizzare.
Brian Eno on Wired IT Magazine, Novembre 2010
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© NO!SPEC Campaign
Perché i contest
fanno male
alle aziende
di Robert Wurth
Al momento c’è una tendenza nelle aziende: indire un concorso
per avere un buon lavoro di design – ad esempio, un logo. Si chiede ciò di cui si ha bisogno, i designer di tutto il mondo investono il loro tempo per proporre idee, e alla fine l’azienda scegli un
“vincitore”, che è l’unico a guadagnarci dei soldi.
All’apparenza sembra proprio una grande idea: anziché affidarsi ad un unico
designer, si possono coinvolgere decine o centinaia di talenti creativi. Solo che
non è così semplice.
La comunicazione è business, e lavorare con un designer è una relazione professionale. Ci sono molti fattori che incidono sul risultato finale. Le persone
cambiano dottore perché non si trovano bene; non fanno shopping in un certo
supermercato, nonostante i prodotti siano buoni, perché le cassiere sono scontrose; sono disposte a fare molta strada per far affari con qualcuno che gli piace,
anche se è più costoso o più scomodo da raggiungere.
> continua
69
Tra un’azienda e un designer funziona allo stesso modo. Non è soltanto importante trovare un talento in grado di rispettare una scadenza: le migliori relazioni
professionali tra agenzie e designer si creano quando nasce un feeling, quando
i due si capiscono, quando il designer entra in contatto con ciò che l’azienda
chiede. Questo è il tipo di relazione che non è quasi mai possibile ricreare in
un contest.
Un contest è una scommessa per i designer. Devono investire tempo ed energie per un lavoro che è essenzialmente alla cieca. Senza il vantaggio di un
briefing dal vivo e di un incontro faccia a faccia con chi commissiona il progetto,
senza avere la possibilità di approfondire le esigenze del cliente, il designer è
costretto a indovinare i gusti di chi deciderà il vincitore e provare semplicemente a fare qualcosa di bello.
Ciò che i clienti non capiscono, tuttavia, è che il modello del contest è una
forma di lotteria anche per le stesse aziende. Senza incontrare i designer coinvolti, senza valutare i loro lavori passati e le loro personalità, i clienti corrono un
grosso rischio. Basandosi soltanto su un’immagine pubblicata online, è impossibile determinare se il designer abbia o meno la conoscenza e il background
necessari a portare il progetto ad una conclusione efficace e di successo.
In fondo, bastano poche competenze creative per arrangiare un paio di forme
che siano belle da vedere. Tuttavia, fare in modo che queste forme abbiano i
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fondamenti tecnici e teorici per incontrare le vere esigenze dell’azienda committente è un altro paio di maniche; così come servono competenze ben più approfondite per seguire lo sviluppo di un progetto attraverso le future modifiche,
i cambiamenti e la produzione.
Una volta che il vincitore viene scelto tra la rosa di proposte, l’azienda è costretta in qualche modo a relazionarsi con il designer. Immaginate di scegliere la
vostra futura moglie in base ad una foto inviata via mail: al massimo sceglierete
la più bella, rischiando però di trovarvi con una donna stupida, che non conosce la vostra lingua, o persino incapace di parlare. Mi chiedo quante aziende
hanno le adeguate conoscenze e capacità, dopo un contest, di portare avanti
un progetto per conto loro se dovessero scoprire che il designer vincitore è un
incompetente, scelto solo perché la sua proposta era la più bella.
Il rischio è di perdere completamente il controllo della situazione.
Indicendo un contest, l’azienda rinuncia a scegliere un designer sulla base del
talento, delle competenze, della personalità e di tutti i fattori che rendono possibile e vantaggioso fare affari con qualcuno. Attraverso un contest, di fatto, si
comporta come chi spera continuamente di vincere la lotteria per far soldi.
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La cosa migliore è
che non importa più
se sei laureato alla Scuola
di Design di Rhode Island
o se sei una nonna
nel Tennessee
con del tempo libero
e una copia
di Adobe Illustrator.
Se il cliente preferisce l’idea della nonna, sarà lei a vincere il lavoro”
(Michael Samson, co-founder della piattaforma CrowdSpring)
Proprio un bel concetto.
Me le immagino le nonne, incollate ad Illustrator a sfornare design
su design per guadagnare qualche bigliettone.
E pensare che la mia povera nonna arrotondava la pensione
con gli spiccioli vinti a tombola.
© Steve Douglas, The Logo Factory
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© Steven Douglas, Creative Director @ The Logo Factory
Ecco perché
dovresti farti un logo
in crowdsourcing
di Steve Douglas
Tempo fa, la rivista Forbes ha sollevato un polverone in rete chiamando l’intera comunità dei designer “spocchiosa e snob”, in un
articolo intitolato “La creatività delle masse”. Per chi se lo fosse
perso, l’articolo sottolineava i benefici delle compagnie che offrono iniziative di crowdsourcing, evitando accuratamente di parlare di lavoro speculativo.
Nel testo, Forbes descriveva la piattaforma Crowdspring come una splendida
comunità ricca di anziani, inservienti e gente che ama i gattini, in grado di realizzare qualunque opera di graphic design per le piccole e medie imprese. Ho
sempre contrastato i contest relativi al design: sfruttano sottocosto le persone,
producono design di mediocre fattura, infrangono diritti e copyright, rovinano
sia le aziende che i designer professionisti – specialmente quando si ritiene
che partecipare ad un contest voglia dire “lavorare”. Ma ora, lo dico con orgoglio, ho finalmente visto la luce. […] Ci sono numerosi vantaggi nell’approfittare
del crowdsourcing: ecco sedici ottime ragioni per affidare alla massa la creazione del vostro prossimo logo.
> continua
73
1) Dovrai scegliere anche tra idee non originali. Il che è una figata.
I designer si ispirano sempre al lavoro di qualcun altro per un contest: hanno
capito che l’originalità è un concetto ormai superato. Certo, a volte le proposte
sono copiate di sana pianta da un altro progetto o da un’altra azienda, ma chi
se ne frega? È il risultato finale che conta, dopotutto: a chi importa da dove
arriva? E poi, se un logo ha aiutato il successo di un’altra azienda, aiuterà anche
il successo della tua.
2) Non c’è niente di male a copiare un logo.
[…] D’altra parte, è difficile che chi ha disegnato il logo originale da cui qualcuno
ha ricopiato la proposta che hai scelto, lo venga a sapere. In Internet è molto
difficile trovare informazioni sulle aziende. Ed ecco la parte migliore: con ogni
probabilità, tu nemmeno sai che il tuo nuovo logo è stato copiato da quello di
un’altra azienda – il che è un bene. Quando riceverai la lettera da un legale per
violazione di copyright, tra qualche anno, potrai sempre rispondere che non
sapevi che il tuo logo era copiato. Sono certo che l’ignoranza della legge sia un
difesa validissima, e che gli avvocati capiranno la tua posizione. E dopotutto,
quand’anche tra qualche anno fossi costretto a cambiare il tuo logo per violazione dei diritti di proprietà di un’altra azienda, dove sarà mai il problema?
Non costerà molto rinnovare carta intestata, cartelle, buste, sito web, brochure,
magliette, gadget, personalizzazioni sui veicoli, cartelli e tutto il resto. Devi solo
ripartire da zero, che sarà mai?
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3) Di più è meglio. La competizione fa bene.
[…] Pensaci: ti arriveranno centinaia e centinaia di proposte. E ancora. E ancora.
E ancora. Certo, la maggior parte delle idee faranno schifo, alcune non saranno
neanche originali: ma aspetta la fine del contest, quando arriveranno le proposte dei designer migliori. Non è che non vogliano condividere le idee con
gli altri creativi: è solo che sono timidi. Le proposte dell’ultimo momento sono
quelle che raccolgono le idee migliori di tutti gli altri creativi per modificarle in
una nuova proposta non originale. I designer adorano fare queste cose: assistersi, aiutarsi, consigliarsi. […] Ed è proprio questa meravigliosa collaborazione
tra creativi che ti assicurerà una marea di idee tra cui scegliere.
Non stiamo parlando della qualità delle proposte, ma di quantità: pensa a quante idee potrai scartare prima della scelta finale. Tutti sanno che per scegliere
un buon logo bisogna avere tra le mani almeno settanta proposte oscene, dieci
decenti e tre buone: e la cosa va bene anche per chi gestisce la piattaforma di
crowdsourcing, perché se non ottieni almeno venticinque proposte ti ridanno
indietro i soldi. Fico, eh? Quindi, se le proposte stentano ad arrivare, sarà chi gestisce la piattaforma a pompare la comunità “timida” e farti arrivare ad almeno
venticinque idee. Poi, certo, sarai obbligato a sceglierne almeno una, anche se
fanno tutte schifo: ma in fondo va bene così.
4) Ricevi un sacco di idee da designer che non avrai bisogno di pagare.
Gli spocchiosi designer d’elite insistono sempre con questa storia del venire
> continua
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pagati per il loro tempo. Perché mai dovrebbe essere pagato chi ama quello che
fa? Voglio dire: sono i grafici che scelgono, di loro iniziativa, di investire migliaia
di ore del loro tempo per Università, corsi serali e approfondimenti! Guarda tutti gli altri settori professionali (medici, dentisti, bibliotecai, meccanici, muratori,
avvocati, cassieri, baristi, cuochi, quelli che friggono le patatine da McDonald’s):
vengono forse pagati per fare il lavoro che amano? Non credo proprio, quindi
perché dovresti pagare un designer?
D’altra parte, “fare grafica” non è nemmeno un mestiere vero e proprio: è più un
hobby. […] I designer esperti sono contenti di postare idee gratuite nei contest:
se fanno questo lavoro da tanti anni, è perché gli piace moltissimo. Pensaci: il
fatto di non essere pagati restringe automaticamente il campo ai designer che
amano il loro mestiere, cioè quelli esperti.
[…]
7) Chiunque possegga un software di design è in grado di fare grafica.
Oggi non è più necessario conoscere approfonditamente principi di equilibrio,
kern, percezione, profilazione o stampa per essere designer. I software fanno
tutto da soli: e chiunque può usare un software di design, basta cliccare sull’icona di Adobe in scrivania. Certo, c’è pieno di menù, palette e altre cose, ma sono
messi lì dalle software house solo per dare un tono alla loro applicazione. Quasi
sicuramente c’è un pulsante che si chiama “crea un logo fico” da qualche parte:
Shift-F8, o qualcosa del genere. So per certo che ci sono sfumature, ombre, ef-
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fetti lente e altri filtri che chiunque può usare, e che sono le cose più importanti
da inserire in un qualunque logo. E mentre i designer professionisti perdono
tempo a parlare di vettoriali, file .eps, quadricromia, risoluzione, sovrastampa,
saturazione e altre ridicolaggini del genere, noi sappiamo bene la verità: non
importa il mezzo, ma il design.
[…]
9) Partecipare ad un contest dà al grafico molta visibilità.
Solo ai designer disperati interessano i soldi; agli altri interessa la visibilità, e
sono emozionati già solo per il fatto di partecipare ad un contest proposto da
un grande brand. Ok, la vera visibilità la ottengono soltanto se vincono il contest: ma d’altra parte, nessun designer vede mai stampate le proprie idee. Mai.
L’unico modo che hanno, nella loro intera vita professionale, di veder stampato
un loro progetto è vincere un contest. […]
Certo, nel loro profilo sulla piattaforma di crowdsourcing risulta che hanno partecipato a 78 contest e ne hanno vinti solo 4, ma non importa. Il punto è che
amano il loro lavoro, e che partecipando ai contest possono tenersi allenati ed
essere coinvolti in sempre più briefing. Gratis. Ti dirò di più: sono sorpreso che i
designer non paghino le piattaforme più di quanto già non facciano, in cambio
di tutta questa visibilità. I grafici spesso pensano che serva un blog o un sito
web per essere conosciuti: che sciocchezza. Se non fosse per le piattaforme di
crowdsourcing e i contest, nessuno sentirebbe parlare dei designer, mai.
> continua
77
10) Disegnare loghi gratis aiuta il designer a migliorare le proprie capacità.
Anche se non venissero pagati, i designer pubblicherebbero comunque le loro
idee nei siti di contest, così da poter essere criticati e corretti dagli altri. Il sistema di commenti di queste community aiuta i grafici a migliorare le proprie
capacità. Una volta i designer andavano a scuola e studiavano insieme ad altri
designer, imparavano la teoria, i principi e la professionalità del mestiere. Oggi,
chi vuole imparare a fare il graphic designer può farlo ascoltando altre persone
che ne sanno quanto lui, se non meno. È splendido, no? Il prezioso consiglio
di un “collega” può aiutare un designer a crescere, e magari a vincere qualche
contest, prima o poi. Commenti come: “Se esistessero i punti negativi te li dare.
Hai fatto questo progetto manovrando il mouse con i piedi?” sono perfetti per
motivare i giovani designer. E in più è tutto pubblico, il che rende la cosa ancora
più utile.
Certo, scrivere un commento esaustivo e costruttivo sarebbe bello, ma richiederebbe ad un designer troppo tempo. Nessun problema: le piattaforme di
crowdsourcing hanno risolto la questione con il sistema delle stelle. Per ogni
progetto, un designer può votare da 1 a 5 stelle e far contento il proprio collega creativo. Pubblicare lunghi commenti pieni di spiegazioni utili e motivate,
in effetti, può mandare in confusione il creativo. Meglio lasciargli interpretare
da sé il motivo per il quale gli hai dato solo una stella anzichè tre o cinque, in
modo da permettergli di concentrarsi sul prossimo contest. E il seguente. E il
seguente. E il seguente.
[…]
78
13) I contest sono estremamente popolari e amati dai designer (tranne da
quei professionisti spocchiosi e snob).
Sì: i designer amano i contest, il lavoro speculativo e il fatto di non essere pagati. Certo, c’è anche qualcuno contro questa filosofia: i designer professionisti,
gli studenti di design, gli insegnanti, i freelance e praticamente ogni agenzia
del pianeta. Tutta gente che spera inutilmente di avere un lavoro nel campo del
graphic design dopo interi anni e migliaia di dollari spesi a studiare: d’altronde,
che altro ti aspetteresti da chi vuole mantenere a tutti i costi il proprio status
quo di snob e privilegiati? Tutto il resto del mondo (le nonne, gli inservienti, la
gente che ama i gattini) pensa che il crowdsourcing sia figo: investono ore del
proprio tempo senza nessuna possibilità di venire pagati per il proprio lavoro,
sottoscrivono documenti che cedono ogni licenza del proprio lavoro, ricevono
commenti da chi non ha nessun interesse a commentare, e stelline da chi di
design non sa nulla.
Sono i disperati del graphic design, quelli da cui i professionisti si devono ben
guardare. E se, un giorno, uno di questi disperati dovesse cambiare idea e rendersi conto che i contest sono delle perdite di tempo, e capire che avrebbe fatto meglio ad impegnarsi per costruire un proprio studio e comportarsi da professionista, non cascateci. Ha solo cominciato a pensare come l’establishment
del settore, che combatte per mantenere il proprio status quo. La sua opinione
va aggiunta a quella della minoranza che odia il lavoro speculativo. Perché, lo
ripetiamo: chi ama davvero il design ama anche i contest.
[…]
> continua
79
15) Il crowdsourcing fa bene all’industria del design.
I soliti spocchiosi designer professionisti insinuano che i contest danneggino
il mercato. Altri sostengono, addirittura, che le piattaforme di crowdsourcing
siano solo interessate a guadagnare dal lavoro gratuito degli altri. Sono solo
illazioni. Pagare per un lavoro di design è roba antiquata. Il lavoro non pagato
espande il mercato. Prima che esistessero questi contest, nessuno stampava
mai i propri prodotti di design. Mai. Erano solo le grandi agenzie a progettare
e stampare loghi e quant’altro, e nessuno faceva grafica a prezzi ragionevoli.
Qualunque economista ve lo confermerà: non c’è niente di meglio per la salute
di una professione che smettere di essere pagati per farla.
D’altra parte, l’industria del design vale soltanto un paio di miliardi di dollari sul
mercato. Se i designer smettessero di essere egoisti e lavorassero per amore,
anziché per soldi, chi se ne accorgerebbe? Se i designer – che con i soldi che
guadagnano comprano computer, libri, software, macchine fotografiche; pagano insegnanti, corsi e approfondimenti; e coinvolgono stampatori, illustratori,
insegnanti, altri designer – si concentrassero di più sul produrre loghi gratuitamente anziché acquistare oggetti, sarebbe meglio. E chi in passato viveva grazie al design, potrebbe in questo modo guadagnare un sacco di tempo libero da
passare con la famiglia. E quando Adobe distribuirà la prossima Creative Suite
da 1300 dollari, a questi nuovi creativi basterà scaricarne la versione pirata da
Internet. Possono farlo, è per il bene comune.
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16) Il crowdsourcing fa bene all’intero sistema economico.
Sì, è proprio così. È ovvio: l’economia va meglio quando si trasformano le persone che guadagnano in persone che non guadagnano più. Chi non viene pagato è
felice di comprare cose e far girare l’economia. No, non è proprio così. In realtà,
chi non viene pagato usa i risparmi messi da parte per comprare cose e far girare
l’economia. Anzi no, mi sono di nuovo sbagliato. Volevo dire: chi non viene pagato sarà costretto a trovare un secondo lavoro sottopagato per portare a casa un
po’ di soldi. No, non funziona. Allora diciamo che le aziende che licenziano i due
grafici assunti nel proprio reparto comunicazione interno, per sfruttare centinaia
di creativi non pagati – che sia legale o meno – fanno senz’altro bene all’economia. Chi lavora gratis sarà senz’altro meglio di un ragazzino che per anni ha
studiato, pagato il college, pagato le tasse e acquistato cose, no?
D’accordo, forse questa cosa dell’economia non mi è ancora chiarissima.
Ma come posso non fidarmi della parola di chi gestisce le piattaforme di
crowdsourcing? Sono tipi fighi, con il ciuffo a banana in testa e il naso rosso da
clown. E chi ha il ciuffo a banana e il naso da clown non mente mai. Mai.
L’articolo originale di Forbes commentato da Steve Douglas:
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L'azienda
non si affida a designer professionisti, con il rischio di
ottenere solo lavori mediocri;
non può stabilire una relazione professionale,
diretta e immediata con un designer;
affida l’intero corpo della sua esigenza
di comunicazione a poche righe di brief;
rischia di scegliere un progetto solo perché è bello,
non perché è effettivamente valido o efficace;
può trovare un designer dilettante non in grado di
seguire l’evoluzione del progetto fino alla fine;
svaluta la professionalità dei veri designer;
se sceglie un lavoro inadeguato o non ragionato,
potrebbe avere pessime ripercussioni
sulla sua immagine nel lungo periodo;
può trovarsi tra le mani un lavoro copiato o plagiato.
La piattaforma
dà fiato e corpo ad un sistema di lavoro speculativo;
amplifica e legittima la percezione che chiunque
possa fare creatività;
guadagna sfruttando i designer e fornendo alle
aziende prodotti e servizi spesso inadeguati.
Il creativo
non sa se verrà pagato per il lavoro svolto;
vive l’urgenza di produrre più creatività possibile,
spesso mal realizzata, per vincere più contest;
può perdere i diritti sulla sua creatività;
partecipa ad una guerra tra poveri, dove spesso
non vince il migliore ma il più furbo, il più conosciuto
o il più veloce;
non ha la possibilità di costruire un rapporto
a lungo termine con l’azienda committente;
può essere costretto a plagiare lavori altrui
per ottimizzare tempi e costi;
rischia la frustrazione di chi investe tempo, denaro
ed energie per vedersi superato da un dilettante;
rischia la reputazione, pubblicando in rete progetti
mediocri, creati solo per partecipare ad un contest.
L'agenzia
perde il suo ruolo professionale;
viene surclassata e superata nelle scelte creative;
può trovarsi a costruire intere strategie
partendo da creatività mediocri o dilettantistiche;
rischia di ridursi a mero studio di marketing
anzichè completa agenzia di comunicazione.
04
Crowdsourcing
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Ovvero: i creativi che il crowdsourcing lo fanno davvero.
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Il vero motore del crowdsourcing, alla fine,
sono i singoli utenti: si iscrivono,
guardano, creano, commentano.
Crowd–core
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Imparare
le regole del gioco
A sentire le piattaforme, il crowdsourcing rende tutti felici. E a sentirne i
detrattori, i designer sono sfruttati contro ogni etica. Ma è davvero così?
I designer sono felici di partecipare anche quando perdono?
Per rispondere ho contattato alcuni zoopers, gli utenti iscritti alla piattaforma Zooppa che partecipano ai relativi contest. I risultati sono stati interessanti, anzitutto per quanto riguarda l’utenza: mi aspettavo ragazzini
impreparati, e invece mi hanno risposto molti quarantenni professionisti,
in alcuni casi persino titolari di studi e agenzie.
Insomma: il budget è quello che è, la community può anche premiare per
semplice simpatia o amicizia, le aziende scelgono sempre i soliti senior
user, buona parte delle idee pubblicate sono mediocri. Ma il crowdsourcing,
oggi come oggi, mi sembra funzioni secondo il principio: se ti va bene partecipi, se non ti va puoi restarne fuori.
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Cosa ne pensano
gli zoopers
S O N DAG G I O
Ho raggiunto via e-mail la community di Zooppa, l'unica forte della presenza di un forum frequentato, per raccogliere alcune opinioni in merito al rapporto con le aziende e alle premiazioni dei
contest. Mi hanno risposto in 18: chiaramente, il campione minimo vi autorizza a prendere i risultati del sondaggio con le dovute
attenzioni.
1. L'utente di Zooppa
Semplice appassionato
PROFESSIONISTa DEL SETTORE
39%
61%
di cui:
54% freelance
46% dipendente
72%
28%
11%
56%
33%
ha tra i 21 e i 30 anni
ha tra i 41 e i 50 anni
ha tra i 31 e i 40 anni
2. Le valutazioni
Ritieni che le valutazioni della community e dell’azienda siano state sempre corrette?
77%
NO!
23%
di cui
29%
appassionato
SI!
di cui
71%
professionista
75%
appassionato
25%
professionista
le ragioni del no
Spesso la valutazione della community dovrebbe essere imparziale, ma viene deviata dalle amicizie che con il tempo si vengono a formare tra gli utenti. È un vero e proprio scambio di favori.
Le decisioni del cliente a volte sono poco chiare e non rispettano il brief indicato. Le valutazioni della community sono spesso
falsate dai rapporti personali tra zoopers.
le ragioni del SI
Il cliente ha sempre ragione, solitamente funziona così! Chi paga
ha il diritto di scegliere, no?
Nella valutazione della creatività non esiste un testo biblico né
un prontuario matematico. E la community, poi, premia chi si impegna di più, al di là del valore assoluto. Basta capire le regole
per non rimanere delusi.
3. La vittoria è possibile?
Hai mai vinto qualche contest? Ci racconti com’è andata?
22%
Non ho mai vinto!
78%
Ho vinto almeno una volta!
Ho vinto in tutto 18.800 dollari: premi della community, premi cliente, premi dello staff. Ho vinto un
premio da 7.500 dollari e tanti premi minori da 50
dollari. A chi mi invidia, dico: pensate a tutti i tentativi
andati a vuoto che ho dovuto fare.
Ho vinto una Honorable Mention.
Ho partecipato a molti contest ed è andata bene per
me: nel senso che mi sono sempre divertito.
4. L’effettivo utilizzo dell’idea
L’azienda ha mai utilizzato la tua idea come l’hai concepita? O l’ha modificata, stravolta?
Come video di apertura del
loro brand per un anno, senza
alcuna modifica.
77%
NO!
Non ha mai usato
una mia idea.
23%
Contattata per una pubblicazione grafica.
Partecipato ad una Mostra a
Milano e apparsa in un libro informativo, senza modifiche.
5. La community è fondamentale
Oltre alla possibilità di vincere un contest, ricavi qualche altro vantaggio da Zooppa?
100%
La possibilità di imparare,
di migliorare, di farsi nuovi amici
E IN PIù
Visibilità per quanto riesco a fare da “non addetto ai lavori”.
Per me sono esercitazioni fondamentali per usare la fantasia e
sperimentare nuove tecniche grafiche.
Sto su Zooppa per divertirmi. Nessuno ci sta realmente per soldi.
È un libero sfogo di creatività repressa.
Il vantaggio è che amo questo lavoro, e amo fare creatività.
Il limite del
crowdsourcing sta
nelle leggi di mercato.
La domanda di creatività crowdsourced aumenta. Anche l’offerta dei
creativi aumenta, ma credo che quest’ultima sia destinata a decrescere
dopo il picco, non a crescere all’infinito né a mantenersi costante.
Il creativo che investe tempo (e spesso, denaro) per realizzare una proposta, deve vincere gare con regolarità per continuare a stare al gioco. Se ne
perde qualcuna di troppo, si ritira: il tempo è una risorsa. [...]
Il modello basato su grandi e piccoli premi assegnati a fine gara deve
essere affiancato o sostituito da uno migliore, che preveda in prima battuta una gara come quelle attuali, aperta a tutti; poi un commissioning
affidato solo ai creativi che hanno presentato le proposte migliori; e infine
il premio finale, alla proposta definitiva.
Gianfranco Grenar, in risposta al sondaggio
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Tutto per gioco
I N T E R V I S TA
11 maggio 2010. Sulla piattaforma di UserFarm appare un contest
per Bonaventura Maschio, azienda friulana che produce grappe e
distillati da oltre cent’anni. L’obiettivo del contest è promuovere
un nuovo prodotto: Prime Uve. Il vincitore, Ciro De Caro, conquista un record: è suo il primo contenuto user-generated ad essere
utilizzato come spot televisivo ufficiale da un’azienda italiana.
La descrizione del prodotto nel brief recita: “Nasce dalla scelta di una materia
prima nobilissima, solo uva di perfetta qualità, nella sua interezza di polpa e succo e non, come nel caso della grappa, dalla distillazione della vinaccia, la buccia
dell’uva che rimane dopo la vinificazione. Prime Uve è un’acquavita preziosa, fruttata, elegante, con un aroma finissimo e delicato che anche le nuove generazioni
sono chiamate a conoscere e apprezzare”.
Al creativo è richiesto, a scelta: un video spot della durata massima di trenta
secondi (i cinque selezionati vinceranno mille euro e saranno trasmessi online); oppure uno della durata massima di sette secondi, con cinquemila euro di
premio al migliore e successiva trasmissione in televisione.
Bonaventura Maschio chiede “un video che esalti l’essenza, l’eleganza di Prime
Uve: esprimete la vostra idea di arte, passione, tradizione, movimento, innovazione. Ricreate l’atmosfera tipica di chi si abbandona al piacere di Prime Uve. Emozione, trasporto, ecstasy sensoriale (spero intendessero “estasi”! N.d.A.) al bar con
gli amici come a casa, dopo cena, con i propri famigliari. Lasciatevi trasportare dal
suo sapore. Al primo sorso vi sentirete come loro, al secondo come noi. Non mostrate grappoli d’uva, viti o quant’altro. Non è necessario. Quello che vi chiediamo
è esprimere il suo essere raffinato, elegantemente custodito, amabile”.
Al contest partecipano 159 creativi, che consegnano le loro proposte entro la
data prevista (il 30 giugno). Il vincitore del premio da cinquemila euro, che ha
visto il suo spot trasmesso sulla televisione nazionale, è Ciro De Caro.
raccontami un po’ com’è andata col contest prime uve.
Guarda, tutto è nato abbastanza per caso. Un amico mi ha mandato una mail con
il link di questo contest su UserFarm: considera che non avevo mai partecipato
ad un contest prima. Avevo appena acquistato una nuova macchina fotografica,
e non vedevo l’ora di provarla. Quindi mi sono detto: perché no?
cosa ti ha spinto a provarci?
Io sono un regista di pubblicità, quindi uno “del mestiere”. Di solito giro con
troupe numerose e budget consistenti. L’idea di questo contest mi ha stuzzicato: volevo vedere se con un budget basso e lo stimolo del premio, potevo fare
uno spot vincente.
ti ha aiutato qualcuno?
Ho coinvolto diverse persone, tutte professioniste: due amiche producer (Erica
Monello e Silvia Belleggia della Magic Pictures) un direttore della fotografia
(Giuseppe Mottola, che ha portato qualche proiettore), un montatore (Alessandro Cerquetti), un musicista (Francesco D’Andrea, anche se poi il committente
ha cambiato la sua musica) e ovviamente tre attori (Rossella D’Andrea, Valerio
Di Benedetto e Luigi Valenti) più un paio di amici che ci hanno aiutato durante
la giornata di riprese.
> continua
sei riuscito a convincere tutti questi professionisti a partecipare senza la
garanzia di vincere?
Sì, hanno partecipato tutti a titolo gratuito, con la promessa che se avessimo
vinto ci saremmo fatti una bella mangiata tutti insieme. Il tutto è stato fatto
quasi per gioco.
come hai realizzato lo spot?
Dal momento in cui abbiamo deciso di partecipare al contest a quello d’inizio delle riprese sono passate diverse settimane: volevamo essere certi che
lo script fosse adatto e che avesse qualche chance di vittoria. Ci interessava,
insomma, fare un bel lavoro pur divertendoci.
Assieme a Rossella D’Andrea (che è anche attrice), dopo aver studiato attentamente il brief e esserci informati nei minimi dettagli sul cliente e sul prodotto,
abbiamo abbozzato diversi script: all’inizio erano una decina, li abbiamo fatti
leggere ad amici e colleghi per avere un parere. Infine, dopo varie “selezioni” e
modifiche, abbiamo scelto quello che si è rivelato poi vincente.
alla fine hai vinto cinquemila euro, che è una bella cifra. ma col senno di poi,
ne é valsa la pena dal punto di vista strettamente monetario?
Il video in sé è stato girato in otto/nove ore circa, più tutta la lavorazione prima
e dopo le riprese. Calcolando le spese, i vari soldi che se ne andranno in tasse
(sì: il premio non è un vero e proprio premio ma più un pagamento occasionale,
su cui dunque pagheremo le tasse!) e un piccolo presente a chi ha partecipato
allo spot… diciamo che non mi è rimasto molto, solo un piccolissimo rimborso.
hai usato strumenti e tecnologie professionali per realizzare il tuo spot.
che ne pensi di chi si improvvisa regista usando la videocamera del telefonino per le riprese?
Dipende tutto dall’idea creativa: se narrativamente lo spot deve avere un
aspetto amatoriale, si può anche girare con un telefonino e chiuderla lì. Ma che
un’azienda pretenda di avere uno spot professionale praticamente gratis, non
credo sia una strada percorribile oggi. In futuro chissà, con il progredire della
tecnologia digitale forse certe cose saranno sempre meno rare.
qual’è la tua opinione su questi contest in crowdsourcing?
Non credo che si possano girare dei video con un minimo di standard qualitativo, senza avvalersi di professionisti o comunque di persone con un minimo di
competenza. Per fare le cose fatte bene c’è bisogno di professionalità: persone
che sanno fare il proprio mestiere e che devono essere pagate per questo. Non
so, quindi, se parteciperò mai ad altri contest di questo tipo: si può fare una
volta per divertirsi, ma non è pensabile che i professionisti lavorino gratis o con
la semplice promessa di una probabile vittoria.
a parte il premio, senti di aver guadagnato qualcos’altro dall’esperienza?
visibilità, contatti con l’azienda, nuovi clienti?
Bonaventura Maschio, per tutte le fasi di realizzazione vera e propria del video,
ha interagito esclusivamente con UserFarm, mai con me. Quanto alla visibilità o
ai nuovi clienti, per ora è tutto esattamente come prima.
Ecco lo spot di Ciro De Caro che ha vinto il contest Prime Uve
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È possibile
una conclusione?
La mia posizione in questo scenario è ben specifica: il graphic design è
la mia professione da dieci anni, sono un freelance in perenne lotta con i
clienti, i colleghi, il budget e contro la perenne percezione che il mio interlocutore ritenga questo mestiere soltanto fuffa. Con la creatività, insomma,
ci guadagno il pane – e ci pago le tasse.
Sapere che tra i miei nuovi competitors, oggi come oggi, c’è una nonna
del Tennesse con del tempo libero e una copia di Illustrator, non può che
infastidirmi: perché rovina la reputazione della categoria a cui appartengo
io (e a cui, al contrario, non appartiene la nonna) e perché legittima in qualche modo la scorretta percezione che per fare comunicazione basti essere
degli smanettoni di computer.
Tuttavia, il concetto alla base del crowdsourcing non può non essere
condivisibile: dare corpo ad una comunità virtuale di migliaia di designer,
uniti dalla passione per il proprio lavoro, dalla necessità di un momento di
catarsi creativa o dal semplice desiderio di esporsi, imparare, mettersi alla
prova. Una comunità che genera dal basso idee, scelte, contenuti, risposte
e soluzioni che un occhio abile e attento saprà interpretare e utilizzare.
Quindi? Da che parte sto? Non ne ho idea e, tutto sommato, non interessa
a voi almeno quanto non interessa a me.
stefano torregrossa | onice design
Stefano Torregrossa è graphic designer freelance da quasi 10 anni, musicista e
pasticciere dilettante da molto più tempo (ma con meno risultati, bisogna ammetterlo). Insegna “Metodi e Tecniche dei Processi Editoriali” al Corso di Laurea in
Scienze della Comunicazione presso l’Università di Verona (a.a. 2010/2011). Non
ha mai partecipato ad un’iniziativa di crowdsourcing creativo. Dal 2008 scrive di
grafica, comunicazione e tendenze sul suo blog. Fuma sigarette e ascolta musica che gli altri giudicano inascoltabile. Il suo manuale sulla stampa Gutenberg’s
World, oggi alla seconda edizione, è stato scaricato più di 2500 volte ed utilizzato
per alcune lezioni allo IED di Milano per un Master in Graphic Design Management.
Non possiede alcun hardware o software progettato da Microsoft. Collabora con
il blog di web e new-media comunicazioni positive, con il portale di notizie dal
mondo della grafica draft.it e, tra breve, al progetto weareopen.it.
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