Masse Creative - Il fenomeno crowdsourcing: rivoluzione o
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Masse Creative - Il fenomeno crowdsourcing: rivoluzione o
perché i brand dovrebbero amare i contenuti user-generated? il crowdsourcing creativo è davvero una guerra tra poveri? che fine faranno i graphic designer professionisti? quale futuro rimane per le agenzie di comunicazione? Il fenomeno crowdsourcing: rivoluzione o fregatura? 1 p r e f a z i o n e Crowdsorsi. Così potrebbe chiamarsi il libro di Stefano Torregrossa che, nato senza l’intenzione di entrare a far parte della famosa “letteratura di riferimento”, si prende anzitutto il vantaggio di non voler essere esaustivo, si spiega ad episodi e non ha ansie da teoria, né timore di affermare certi paradossi. Ed ecco un primo elemento di autenticità e differenziazione rispetto alle bibliografie ufficiali. Sull’idea alla base del crowdsourcing ha già dato ottime risposte Jeff Howe, l’uomo che più di quattro anni fa, un pò ispirato un pò compiaciuto, si fece sfuggire di bocca il termine dalle colonne di Wired e sul quale poi è stato costretto a pubblicare un libro, visto che continuavano a chiedergli spiegazioni (da poco è stato tradotto e rilasciato anche in Italia). Stefano si pone la domanda delle domande (what the hell is crowdsourcing?) ma non compra il libro di Howe, bensì si sente chiamato in causa e parte alla ricerca della risposta. Ho ritrovato su Skype la parte di discussione in cui mi parla privatamente per la prima volta di Masse Creative. Ve la incollo: > > > > > > sentivo sempre più parlare di crowdsourcing la cosa mi lasciava un po’ così :) c’erano molti aspetti che non capivo e che ho deciso di approfondire ho cominciato quindi a tradurre un po’ di articoli ad informarmi su libri e magazine > > > mi sono iscritto su alcune piattaforme ho intervistato due community manager e una ventina di user e insomma, da cosa nasce cosa... e ne è venuto fuori un libro Voglio darvi una buona notizia: il libro contiene la risposta alla domanda, ma nelle pagine che leggerete se ne trova solo metà. L’altra metà è contenuta nella maniera in cui il libro è stato composto e realizzato: data un’esigenza, interrogare tutti i punti di vista disponibili e lavorare per metterli insieme cercando di ottenere ed estrarre la migliore delle soluzioni, è già crowdsourcing. Perciò, questo libro non è quello di Jeff Howe e questo è un merito per almeno un paio di motivi: il primo (quasi un primato) è quello di aver pubblicato un lavoro sul crowdsourcing, operando in crowdsourcing; a dimostrazione di ciò l’indagine resta aperta a nuovi e significativi contributi, a chiunque pensi che sia giusto o necessario aggiungere altro. Il secondo è dato dal privilegio che ha Stefano di poter osservare il fenomeno da una prospettiva che non è quella dell’azienda, non è quella del marketer, non è quella del teorico della comunicazione, ma è quella dell’utente professionista creativo (il che si nota chiaramente in molte scelte di stile e linguaggio), cioè chi, nel gioco delle parti, dovrebbe togliere loro le castagne dal fuoco. Un punto di vista che nel mercato attuale manca e che proprio per questo penso interesserà molto alle stesse aziende, ai marketer e ai divulgatori di successo. Perché l’impressione è quella che ci sia ancora bisogno di chiarire certe posizioni prima che si instauri quel clima di fiducia reciproca che renderebbe il sistema molto più stabile, cosa a cui aspirano tutti i sostenitori del crowdsourcing. Prima che abbia luogo la tanto annunciata “rivoluzione” e prima che i margini del concetto disegnino un perimetro riconoscibile è necessario aprirsi al confronto, mettersi al lavoro e, ovviamente, investire. Sulla fiducia, appunto. Per permettere ai “filosofi” di continuare ad immaginare come adattare e declinare questo modello, agli addetti ai lavori di continuare a sperimentare, alle aziende di capire bene i parametri giusti per misurare quel valore che spesso si dà per disponibile ancora prima che esista una vera community in grado di generarlo. E quindi, cosa più importante, permettere al talento di esprimersi. Sorseggiatene, e godetevi la scena. francesco martinelli Francesco Martinelli è toscano e a maggio fa 30 anni. Gli piace scrivere canzoni e fare finta di saperle suonare, osservare i fenomeni digitali che nascono e prosperano nel web e fare finta di comprenderli, leggere libri e fare finta di essere la persona giusta per scriverne le introduzioni, ed altre estemporaneità. Attualmente ricopre il ruolo di Social Media Manager presso Wind Telecomunicazioni, ma per fargli mollare tutto basterebbe la parola “fiorentina”, si tratti di calcio o di carne... 5 formato chiuso a5 (148x210 mm) · numero di pagine: 106 C0 M10 Y10 K93 Pantone Black 5 C C70 M0 Y0 K0 Pantone 306 C Aller [Light, Regular, Bold] abcdefghijklmnopqrstuvwxyzabcdefghijklmnopqrstuvwxyz0123456789 Cosmos [Light, Medium, Extrabold] abcdefghijklmnopqrstuvwxyzabcdefghijklmnopqrstuvwxyz0123456789 nessun font è stato maltrattato durante la realizzazione di questo documento grazie per il prezioso contributo a: Adimo, Afpileggi, Chiara Bernardi, Alessandro Bigardi, Elisabetta Bruno, Alessandro Cappellotto, Mirko Cappai, Patrizia Chiodini, Ciro De Caro, Federico Di Caro, Steve Douglas, Matt Evans, Damiano Falchetti, Walter Franchetti, Gianfranco Grenar, Jeff Howe, Innocent, Annapaola Intrisano, Jurij, Lucabis, Riccardo Luna, Francesco Martinelli, Amalia Martino, Lisa Mikulski, Maryilina, Max, MeM, Mimedia, Massimiliano Nascimbeni, Navarh, Bruno Pellegrini, Pamela Pfiffner, Consuelo Ruglioni, SDrago, StefyGraf, Catherine Wentworth, Robert Wurth. masse creative · il fenomeno crowdsourcing: rivoluzione o fregatura? è un documento in free download i n t r o d u z i o n e Non sono un giornalista, sia ben chiaro a tutti. Sono un graphic designer curioso, tutto qua. Uno che si diverte ad approfondire le cose e che si diverte ancora di più a distribuirle, meglio se gratuitamente. Di crowdsourcing sentivo parlare da un po’. Mi ero iscritto a qualche piattaforma, ma al momento di valutare un contest mi ripetevo sempre la stessa cosa: “Lavoro da 10 anni come freelance, mi faccio il culo da mattina a notte inoltrata e dovrei perdere tempo a far la guerra tra poveri, contro presunti creativi e dilettanti allo sbaraglio, in cambio di quattro soldi?” ”È soltanto una bolla di sapone”, mi dicevo fino a poco tempo fa. Eppure di crowdsourcing, specialmente applicato alla comunicazione aziendale, si continua a discutere. Ne parlano i blogger, ne parlano le aziende, ne parlano magazine e quotidiani. E sempre più brand di portata internazionale (Google, Microsoft, Nestlé, Unilever, Honda, IBM, tanto per citarne qualcuno) affidano i propri brief a community con competenze discutibili che condividono, votano, scambiano, collaborano, commentano. E (quasi) tutti sembrano felici di come funziona il meccanismo. Da una parte, quindi, un fenomeno che coinvolge felicemente sempre più designer, sempre più persone, sempre più grandi brand. E dall’altra il mio sesto senso, che continua a sussurrarmi che non si può fare l’idraulico di giorno e il direttore creativo la sera (non si può fare nemmeno il contrario, a dirla tutta), che non possono bastare Photoshop e un po’ di tempo libero per scrivere sul curriculum “Ho lavorato per Unilever”. Chi ha ragione, dunque? C’è una fregatura? E se c’è, dove si nasconde? Nessuno riesce a darmi risposta, anche per una certa carenza di approfondimenti in lingua italiana sul tema. Eppure, sono proprio italiane alcune tra le grandi piattaforme di crowdsourcing internazionale. E allora, perché non studiare l’argomento e vedere cosa salta fuori? Lo ripeto: non sono un giornalista. Questa micro-indagine sarà incompleta, aperta e discutibile. Ma almeno non è parziale: ho cercato di dar voce a tutti i soggetti in merito, con un occhio di riguardo – dovete pur concedermelo – ai designer. E ho cercato, per quanto possibile, di essere neutro e trasparente nei giudizi, esporre fatti e resoconti, e far parlare articoli, estratti e persone assai più interessanti di qualunque mio contributo personale: come in una sorta di best of sull’argomento. Come sempre, non è finita qui: se volete contribuire in prima persona a quanto scritto per espandere e completare questo documento, ne sarò ben lieto: che siate dalla parte dei brand, delle community o dei designer, se avete qualcosa da dire in proposito questo potrebbe essere uno dei posti giusti per farlo. In fondo al libro trovate tutti i miei contatti. Sia ben chiaro, infine, che nessuno ci guadagna una lira da questo libro: quindi, se proprio vi viene voglia di tagliare dei pezzi o estrapolarne delle parti, magari citatemi tra i credits che mi fate contento. Buona lettura! stefano torregrossa | onice design Sommario. 1. Crowdsourcing what? Una volta qui era tutto outsourcing 10 Crowdsourcing creativo: piace a tutti! 22 La nascita del crowdsourcing di Jeff Howe12 Il potere del crowdsourcing di Matt H. Evans16 Un fenomeno dei nostri tempi? 19 Le aziende chiamano, le community rispondono Quanti sono davvero? 2. Crowdsourcing rules! La community dei talenti e dei dilettanti 32 Dall’Italia con furore 33 Non soltanto “molte idee a poco prezzo” di Alessandro Cappellotto 35 intervista: Alessandro Cappellotto (Zooppa) 38 intervista: Bruno Pellegrini (UserFarm) 46 Riassumendo52 3. Crowdsourcing sucks! Educare i designer, educare i clienti 23 29 57 La carta dei diritti del designer di Lisa Mikulski62 Una scommessa che non paga di Pamela Pfiffner64 Perché i contest fanno male alle aziende di Robert Wurth69 Ecco perché dovresti farti un logo in crowdsourcing di Steve Douglas73 Riassumendo82 4. Crowdsourcing me! Crowd-core 86 È possibile una conclusione? 99 Imparare le regole del gioco 87 sondaggio: Cosa ne pensano gli zoopers88 intervista: Ciro De Caro (vincitore contest Prime Uve su UserFarm) 94 01 Crowdsourcing WHA HAT? Ovvero: di cosa stiamo parlando esattamente? 8 È l'atto di prendere un lavoro, solitamente svolto da un designato individuo all'interno dell'azienda, e farlo svolgere all'esterno dell'azienda da un gruppo numeroso e indefinito di persone, attraverso una chiamata aperta a tutti. È l'applicazione dei principi open-source a campi diversi da quello del software. La genesi del fenomeno Una volta qui era tutto outsourcing 10 Giugno 2006. Sul numero di Wired US esce un articolo firmato da Jeff Howe: “The Rise of Crowdsourcing”. Il neologismo crowdsourcing viene in questo modo consegnato per sempre alla storia. Le tecnologie avanzate e l’estrema diffusione del web stanno favorendo, secondo Howe, la riduzione del gap tra professionisti e dilettanti, in qualunque settore. Le aziende, quindi, possono raggiungere più facilmente una vasta gamma di soggetti – inclusi quelli potenzialmente interessanti per i loro scopi. Si passa quindi dall’outsourcing (consegnare a professionisti o agenzie esterne un progetto o parte dello stesso) al crowdsourcing: è la folla anonima, il vasto pubblico con qualunque livello di esperienza precostituita sull’argomento – e che al contempo può anche essere utente dei servizi dell’azienda – a fornire la soluzione ad un problema. La realtà è che il crowdsourcing c’era già, ma nessuno gli aveva ancora da un nome. Un esempio più recente è Wikipedia, che vive di contenuti assolutamente user-generated dal 2003 (anche se è nata due anni prima): nessuna autorità suprema, nessuna eminenza grigia, nessun Devoto-Oli della rete a far piovere dall’alto definizioni, sinonimi, informazioni. Sono gli stessi utenti della community a scrivere, correggersi l’un l’altro, condividere, completare, pubblicare le medesime voci di cui poi usufruiranno in prima persona. Il tutto, addirittura, in forma assolutamente volontaria e gratuita. 11 ©Wired US, Giugno 2006 La nascita del crowdsourcing di Jeff Howe Vi ricordate l'outsourcing? Far fare i lavori in India e in Cina fa tanto 2003. La nuova fonte del lavoro economico sono le persone di tutti i giorni, che usano il loro tempo libero per creare contenuti, risolvere problemi, persino occuparsi di ricerca e sviluppo. Claudia Menashe ha bisogno di foto di gente ammalata. È direttrice di progetto al National Health Museum di Washington DC, Stati Uniti; e sta mettendo insieme una serie di pannelli informativi per informare i cittadini su pandemie come l’influenza aviaria. Il designer ha già il progetto pronto, ma alla Menashe mancano le immagini che dovranno accompagnare il testo. Anziché rintracciare un fotografo per organizzare un set fotografico personalizzato, decide di usare foto pre-esistenti: le cosiddette foto di stock, o “foto d’archivio”. Nell’ottobre 2004 incontra dunque Mark Harmel, fotografo freelance di Manhattan Beach, California. Sua moglie è medico, e Harmel è specializzato in foto d’archivio legate al settore salute e medicina. [...] “Il budget era ristretto, così ho applicato la mia tariffa per le aziende no-profit” dice Harmel, che lavora in un ufficio pieno di roba sul retro della casa che condivide con la moglie e il figliastro. Offre quindi al Museo uno sconto generoso: da 100 a 150 dollari per foto. “È praticamente la metà di quanto chiederei ad un cliente qualunque” ci dice. La Menashe voleva quattro scatti fotografici: per Harmel, dunque, il progetto valeva 600 dollari. 12 Dopo molte settimane di trattative, la Menashe invia a Harmel una e-mail dicendo, dispiaciuta, che le foto non sarebbero servite più. “Ho scoperto un sito, iStockphoto, che vende foto a prezzo abbordabile”. Un eufemismo: lo stesso giorno, la Menashe acquista 56 foto a circa 1 dollaro l’una. iStockPhoto, nato da un servizio gratuito di scambio di foto usato da un gruppo di designer, ha applicato un costo di oltre il 99% inferiore a quello di Harmel. Com’è stato possibile? Ha creato uno spazio di vendita per fotografi dilettanti: studenti, ingegneri, ballerini, architetti. Oggi ci sono quasi 22.000 utenti che contribuiscono al sito, che si fa pagare da 1 a 5 dollari per foto (quelle più grandi e ad alta risoluzione arrivano anche a 40 dollari). A differenza dei professionisti, chi vende foto su iStockphoto non ha bisogno di incassare 130.000 dollari l’anno per vivere: 130 dollari extra, per arrotondare, sono più che sufficienti. “Posso negoziare le mie tariffe finché si vuole,” dice Harmel “ma come faccio a competere con un dollaro?”. Non può, naturalmente. Harmel ha imparato una lezione: il prodotto che offre non è più così “di nicchia”. Con meno di 1000 dollari, chiunque può comprare una macchina fotografica di alto livello; con un computer e una copia di Photoshop, qualunque dilettante con un po’ di entusiasmo può creare foto in grado di competere con quelle di professionisti come Harmel. Aggiungete Internet e le tecnologie dei motori di ricerca, e la condivisione di queste immagini diventa facilissima. E iStockphoto intanto cresce di circa il 14% al mese e il servizio ha a disposizione oltre 10 milioni di immagini nel 2006, molte di più di quelle a disposizione di Getty e delle altre agenzie assai più costose. > continua 13 Il crowdsourcing si configura come una importante e concreta idea per il business. Le definizioni in proposito possono variare, ma l’idea di base è di sfruttare l’intelligenza collettiva del pubblico per completare un progetto che, normalmente, l’azienda dovrebbe svolgere internamente o affidare ad un’azienda esterna. Eppure, il lavoro “gratis” è solo una piccola parte del fascino del crowdsourcing. Più importante ancora, il crowdsourcing permette ai manager di espandere enormemente la fascia di creativi da cui attingere e, contemporaneamente, entrare profondamente in contatto con ciò che i consumatori vogliono davvero. What is crowdsourcing by Jennifer Alsever 14 [...] Il movimento software open source ha dimostrato che una rete di appassionati volontari è in grado di scrivere codice altrettanto bene degli sviluppatori pagati profumatamente alla Microsoft o alla Sun Microsystem. Wikipedia ha stupito il mondo, facendo vedere che il modello poteva essere usato per creare una enciclopedia online incredibilmente vasta. E compagnie come eBay e MySpace hanno costruito business ragguardevoli che non potrebbero esistere senza il contributo degli utenti. Tutte queste compagnie sono nate e cresciute nell’era di Internet, pensate per avvantaggiarsi della rete stessa. Ma oggi, il potenziale produttivo di milioni di persone collegate sta attirando l’attenzione anche delle vecchie aziende. Negli ultimi dieci anni, le aziende hanno cercato manodopera a basso costo in India e in Cina. Oggi, invece, non importa più dove sono i lavoratori – dietro l’angolo o in Indonesia, non fa differenza – purché siano connessi alla rete. La tecnologia si diffonde sempre più rapidamente, dai software alle videocamere, abbattendo le barriere che separano dilettanti da professionisti. Appassionati, part-time e semplici dilettanti, all’improvviso, hanno un mercato per i loro sforzi; e intanto le aziende – dal settore televisivo al farmaceutico – scoprono nuovi modi per utilizzare il talento latente della folla. Non sempre il lavoro è gratis: ma costa senz’altro meno che pagare un dipendente o un professionista. Non è più outsourcing: è crowdsourcing. 15 ©Matt Evans, Dicembre 2008 Il potere del crowdsourcing di Matt Evans Sono molti i brand che, per raggiungere buoni risultati sul lungo termine, hanno realizzato l'importanza di stringere legami con i propri clienti e con gli altri stakeholders. Negli ultimi anni, è nato quasi per caso un approccio al pubblico molto potente: si chiama crowdsourcing, e ormai lo si trova quasi dappertutto. Pensiamo alle previsioni del tempo, o alla situazione del traffico: chi se ne occupa coinvolge spesso direttamente il pubblico, in modo da ottenere report veloci ed efficaci su situazioni che non potrebbero mai gestire con facilità. Anche autori e giornalisti spesso preferiscono raccogliere la storia dalle bocche della massa, più che da quelle di pochi informati. Il crowdsourcing è un risultato del mondo globalizzato delle idee. I grandi brand possono fare outsourcing verso la massa (da cui la parola: crowdsourcing) per scoprire se i propri prodotti o servizi sono ben fatti. Ciò che rende il crowdsourcing così efficace è l’ampia partecipazione che si ottiene, a quasi nessun costo. Le soluzioni sono generate da volontari o da professionisti freelance, che vengono pagati solo nel momento in cui le aziende utilizzano le loro idee. Una grossa fetta di persone, inoltre, è felice di condividere la propria creatività anche in modo gratuito, quando ha a disposizione l’opportunità di far parte di qualcosa. Internet e la rete, in questo senso, aiutano la partecipazione della folla al lavoro di un’azienda. 16 Tra gli esempi, basti citare YouTube per la creazione e il posting dei video o il potere acquisito dalle comunità dietro alle recenti campagne politiche, come nel caso di Barack Obama. [...] Alcune compagnie come IdeaScale, WhyzeGroup o InnoCentive, si specializzano nella gestione delle comunità: in un istante, l’azienda può connettersi con gruppi preselezionati di persone interessate, pronte ad assisterla nel design dei suoi prodotti. Una volta compreso quanto è potente questa risorsa a fronte di costi relativamente bassi, è necessario entrare nell’ottica di voler accedere a queste sacche globali di creatività. Questo permetterebbe ad un’azienda di guidare la propria innovazione attraverso la collaborazione di massa: e l’innovazione estrema è il cuore di un’azienda che vuola restare competitiva. 17 Siamo qui per ricordare che la creatività è entrata nell’era del mash-up, degli user-generated contents, delle reti sociali, della rielaborazione infinita, dove internet non è un luogo a sé, è dovunque. E non potremo più tornare indietro. Siamo qui per ricordare che è in atto un cambiamento epocale nelle relazioni fra le persone, le cose e le idee, in cui tutti i vecchi modelli vengono scardinati e riscritti, e quello che succederà ancora non lo sappiamo. Ma sappiamo che è già successo, mentre lo diciamo. Siamo qui per ricordare che incontrare altri appassionati [...], far conoscere le proprie idee a chiunque, condividerle, confrontarsi, migliorare, sperimentare, divertirsi e promuoversi come creativi, prima era impossibile. Oggi non solo è possibile, ma è solo l’inizio. Zooppa Manifesto, su zooppa.it/corporate/manifesto 18 Un fenomeno dei nostri tempi? Se collegate “crowdsourcing” al solo uso della rete, alla creazione e condivisione di contenuti esclusivamente attraverso il web, beh, la risposta non potrà che essere: sì, è un fenomeno dei nostri tempi. Ma basta leggere la storia del passato per accorgerci che non è così: da sempre, si consulta la massa per avere idee, progetti, soluzioni. Ecco due esempi noti. La costruzione del Duomo di Firenze si ferma all’improvviso all’inizio del 1400. Nessuno ha trovato una soluzione valida per la copertura della celeberrima cupola: come costruire e dove appoggiare le enormi centine di legno che avrebbero dovuto sostenerla, fino alla chiusura definitiva con la chiave di volta? L’architetto aveva previsto una cupola diversa, più tradizionale. Ma il progetto è stato modificato, e ora servono risposte. L’Opera del Duomo indice, dunque, un concorso pubblico, aperto a tutta la cittadinanza. Secondo la tradizione, non vinse nessuno: e la conclusione dell’opera, ancora oggi un capolavoro dell’architettura, viene affidata a Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti. Secoli dopo la facciata, dalla quale Francesco I alla fine del 1500 aveva rimosso marmi e sculture preferendo una versione dipinta, è ancora incompleta dopo interventi posticci e provvisori durati trecento anni. Finalmente, nel 1864, viene indetto un nuovo concorso. Arrivano moltissimi progetti (oggi esposti al Museo dell’Opera del Duomo), e il vincitore inizia i lavori pochi anni dopo. Ma l’architetto muore, e così il suo successore, e i lavori si fermano tra mille polemiche. Resta un dubbio sulla conclusione della facciata: le navate laterali vanno coronate con un ballatoio piano, come nelle antiche basiliche, o con delle cuspidi come nel Duomo di Orvieto? Vengono costruite sulle due navate le due versioni possibili, una per lato. E si indice un referendum, coinvolgendo tutta la popolazione, per chiedere consigli utili a prendere la decisione. Vincerà l’attuale versione con il ballatoio, inaugurata nel 1887. > continua 19 Italia, primi anni ‘50. L’Agip di Enrico Mattei ha scoperto da poco un importante giacimento di petrolio vicino Piacenza, e si prepara ad immettere una nuova benzina sul mercato: la “Supercortemaggiore”. Di lì a poco sarebbe nato l’ENI, come organismo di gestione e controllo della produzione e distribuzione degli idrocarburi in Italia. Mattei, che non è uno sprovveduto, vuole associare una forte immagine pubblicitaria al nuovo carburante Agip. Rifonda quindi l’ufficio pubblicità e lancia un contest, aperto a tutti gli italiani, per la creazione di un marchio, di alcuni cartelloni stradali (con il mitico slogan: “La potente benzina italiana”) e per la colorazione delle colonnine dei distributori. Il premio totale ammonta alla bella cifra di 10 milioni di lire: moltissimi, per l’epoca (oggi ammonterebbero a 124 mila euro). La Giuria è composta da personaggi di grande rilievo nel mondo dell’arte e della comunicazione dell’epoca: l’architetto Giò Ponti, Mario Sironi, Mino Maccari, Antonio Baldini, Silvio Negro. Il concorso ha un successo strepitoso: sono oltre quattromila i bozzetti presentati da appassionati, disegnatori, designer, uomini qualunque. Ci vogliono quattordici riunioni della Giuria per scegliere, finalmente, il vincitore: il cane-drago a sei zampe, dello scultore Luigi Broggini coadiuvato da Giuseppe Guzzi (c’è anche qui una interessante vicenda sulla vera paternità dell’opera: ma non è questo il luogo per approfondirla). Lo stesso drago a sei zampe che, presentato ufficialmente nel 1954, diventa il simbolo dell’Eni: ancora oggi, dopo due restyling (di cui il primo, celeberrimo, ad opera di Bob Noorda negli anni ‘70), è rimasto pressoché intatto. 20 Enzo Baldoni: questo nome è collegato ad una tragica vicenda in Iraq. Baldoni, in qualità di giornalista freelance, viene rapito da un’organizzazione terroristica il 21 agosto 2004 e ucciso. Ciò che molti non sanno, è che Baldoni è stato uno dei più noti copywriter e blogger italiani degli anni d’oro. Nato nel 1948, è stato tra i primi utilizzatori di Macintosh in Italia. Ha fondato mailing list che funzionano ancora oggi (Zonker’s Zone è la più famosa da Zonker, il suo nickname online) e aprì un blog quando gli italiani sapevano a malapena cos’era Internet. Sono sue alcune tra le migliori produzioni di advertising legate ai brand Gillette, Bic e McDonald’s. Il nome di Baldoni è legato a doppio filo con quello del gigante degli hamburger americano. Nel 2002, il giorno di San Sebastiano, si inventa uno dei primi esperimenti di crowdsourcing via web in Italia: il concorso “Quanto casino per un panino”, inaugurato con l’immagine di un Big Mac trafitto dalle frecce. L’annuncio ha un successo inaspettato: in pieno stile open-source, si invitano gli italiani a partecipare con un libero contributo creativo, che non sarà utilizzabile commercialmente. McDonald’s sta al gioco e rinuncia ad ogni censura. L’agenzia di Baldoni (Le Balene) si aspetta 200 o 300 proposte al massimo: sarà sommersa da 1476 annunci. I “panini” arrivano da tutta Italia, e dalle persone più diverse: dal geometra all’art director, dal giovane copywriter all’anziano impiegato. È una gigantesca azione di arte popolare, di creatività in crowdsourcing, da cui una giuria seleziona attentamente i vincitori che rimbalzano tra un evento dell’ADCI, il Rolling Stone e – soprattutto – la rete. 21 Quando il crowdsourcing incontra le esigenze di comunicazione dei brand Crowdsourcing creativo: piace a tutti! 22 Le aziende chiamano? La community risponde In ambito creativo, il crowdsourcing sta vivendo il suo periodo d’oro. Perché, apparentemente, tutti i soggetti coinvolti ci guadagnano: l’azienda risparmia sul budget, la piattaforma di condivisione prolifera, il designer più bravo prende i soldi, i designer più scarsi fanno esperienza e si divertono. Il crowdsourcing in ambito creativo ruota attorno a piattaforme web con tre soggetti principali in gioco: una community di grafici, fotografi, designer, autori, videomaker di ogni livello di esperienza ed età; il mediatore del servizio, ovvero il gestore della piattaforma, in particolare nella figura del community manager; e infine, l'azienda che commissiona il progetto. Quest'ultima lancia un contest attraverso la piattaforma (anziché con i mezzi classici del contest a cui siamo abituati), con un brief preciso in cui si evidenziano oggetto del concorso, target, tecniche stilistiche, tempistiche, storia dell'azienda e si fornisce quanto serve a realizzare l’oggetto del contest. La call prevede, nella maggior parte dei casi, un premio in denaro all’idea migliore. La community, a questo punto risponde volontariamente: produce idee e le carica su un database (spesso visibile a tutti, con possibilità di votare le proposte migliori). Al termine della gara, l'azienda sceglie la più adatta e paga il vincitore. Talvolta la community e i gestori della piattaforma premiano a loro volta la proposta più votata, anche quando non è quella selezionata dal committente. > continua 23 Chi ci guadagna? Apparentemente, tutti. Ci guadagna l'azienda che commissiona il progetto, investendo un budget minimo rispetto alla quantità di proposte tra cui scegliere. Ci guadagnano i creativi, che prendono soldi quando vincono e, se sono meritevoli, visibilità quando partecipano. Ci guadagna, ovviamente, la società proprietaria della piattaforma dove si svolge il tutto. Le differenze rispetto al classico contest sono, ovviamente, innumerevoli e tutte a pieno vantaggio dell’azienda. · i creativi interpellati sono molti di più: non tutti professionisti, non tutti “del mestiere”, certo: ma le possibilità di incontrare un talento sono ampissime; · la community, oltre che essere portatrice di soluzioni nei confronti dell’azienda, è anche un vero e proprio focus group di consumatori potenziali, in grado di far cogliere all’azienda punti di forza e debolezze del prodotto; · a parità di budget, anzichè ottenere poche proposte formalizzate il committente può ricevere centinaia di idee, spunti, stimoli; · la piattaforma di crowdsourcing e la stessa community sono in grado di fornire un’ampia promozione alla call del bando, garantendo quindi una risposta più ampia ed efficace. Il crowdsourcing è dunque il paradiso della comunicazione? La Morte Nera delle pachidermiche agenzie verticali? Il futuro dell’advertising? L’Eldorado della creatività? 24 Immaginiamo un futuro senza agenzie di comunicazione, ma solo con clienti che usano le piattaforme di crowdsourcing. Ci libereremmo di tutti quelli che fanno creatività mediocre da presunti professionisti: perché, venendo pagato soltanto se il tuo ad viene venduto, essere creativo non sarà più un mestiere che si “ha”, ma che si “fa”. [...] C’è però una speranza per noi professionisti: siamo ancora più bravi, nel nostro mestiere, rispetto alla massa. Ma temo che questo valga solo oggi, quando le proposte per un contest sono soltanto 700, e non 70.000. Gordon Comstock su Creative Review, Ottobre 2010 25 Outsourcing 1. L’azienda ha un’esigenza di comunicazione da sviluppare. Individua il professionista più adatto allo scopo. 2. Il professionista valuta il progetto, decide il suo costo e si mette al lavoro. 3. Il professionista termina il lavoro e viene pagato. Tempo Proposte Budget Creativi coinvolti Il lavoro con un professionista, spesso, riduce le tempistiche di realizzazione. Per contro, è lui a proporre il compenso necessario. Il numero di proposte presentate, inoltre, è ridotto quanto il numero dei creativi coinvolti – anche se talvolta, per un talento vero, una sola proposta può essere quella vincente. Contest classico 1. L’azienda ha un’esigenza di comunicazione da sviluppare. Stabilisce un budget ed indice un contest pubblico, con premio in denaro. 2. Al contest possono partecipare, come accade spesso, solo professionisti. Rispondono singolarmente e lavorano singolarmente, senza conoscere cosa proporrà l’altro. 3. Al termine del bando, l’azienda valuta le proposte, sceglie la più adatta e premia il vincitore. Tempo Proposte Budget Creativi coinvolti Tramite contest, sicuramente le tempistiche di realizzazione si allungano. Nonostante sia l’azienda a decidere il budget, è pur vero che premi troppo bassi non invoglierebbero nessuno a partecipare. I designer coinvolti e le proposte presentate, rispetto al lavoro in outsourcing, possono aumentare sensibilmente. La quantità di conoscenza e di talento dispersa nella razza umana ha sempre superato qualunque nostro tentativo di utilizzarla: il crowdsourcing risolve questo problema. Ma nel farlo, libera la straordinaria forza distruttrice della creatività. Crowdsourcing: why the power of the crowd is driving the future of business by Jeff Howe 28 Quanti sono davvero? Applicare il modello wiki (una delle prime forme di crowdsourcing) ai progetti di crowdsourcing esistenti oggi è possibile. Ci ha pensato TheBlog.Tv. Crowdsourcing Network è un portale che raccoglie le oltre 200 piattaforme di user-generated content: dalla grafica all'advertising, dall'innovazione alla politica. Non è certo l’unico elenco di progetti: ne trovate di altrettanto validi (giudicate voi se più o meno completi) nei siti indicati in calce. Sfogliando l’elenco alfabetico di Crowdourcing Network si resta colpiti dall’abbondanza di realtà disponibili. A farla da padrone, naturalmente, sono gli ambiti grafica e advertising (è qui che appaiono Zooppa, BootB e UserFarm – ma non mancano realtà più recenti come LogoPro o 99 Design Project). Stupisce invece l’abbondanza di piattaforme libere di consulenza aziendale per le startup: dai laboratori di idee (IdeaStorm, Banca delle Idee) al fundraising (Ushahidi, KickStarter Project) fino a progetti più dedicati all’innovazione e al kick-start (Innovation Exchange Project). Mi permetto una considerazione. Una volta il modello di imprenditore con possibilità di successo era l’inventore, in grado di avere l’idea geniale e rivoluzionaria; poi fu l’avvento dell’uomo con il capitale, ricco mecenate pronto ad investire denaro; infine, l’uomo–marketing, capace di organizzare una rete di risorse e professionalità tali da garantirgli il successo. Oggi, non serve più nessuna di queste figure. Idee, soldi e professionalità si trovano in rete, spesso svendute a poco prezzo o di discutibile validità: ma ci sono. Chi potrà mai essere, dunque, l’imprenditore del futuro? 29 02 Crowdsourcing RUL 30 LES! Ovvero: l’opinione di chi gestisce le piattaforme di crowdsourcing. 31 Per chi ci crede davvero, il crowdsourcing sarà il futuro della comunicazione creativa. La community dei talenti e dei dilettanti 32 Dall'Italia con furore. Sono italiane alcune delle piattaforme di crowdsourcing più famose e frequentate in Italia e all’estero. Scopriamole da vicino. Zooppa, nata in seno alla H-Farm di Treviso ma con sedi in Brasile e Stati Uniti. Conta più di 95.000 iscritti – a vari livelli di partecipazione– da tutto il mondo, si ispira alle dinamiche dei social network, sfruttando le potenzialità di internet e l’interazione con la propria community per proporre ai brand idee, grafiche, ads, video, audio e contenuti virali. UserFarm: è un progetto di TheBlogTV, fondata dall’italiano Bruno Pellegrini ma attiva anche in Spagna, Francia e Regno Unito. Si occupa in particolare di crowdsourcing audiovisivo e user-generated advertising. Conta più di 20.000 iscritti. Non voglio sembrare polemico, ma devo raccontare perché non ho intervistato l’arcinota piattaforma BootB. Mesi fa scrivo (in inglese) una richiesta attraverso l’apposito form sul loro sito web. La risposta arriva settimane dopo, chiedendomi maggiori informazioni via mail. Rispondo (in italiano) descrivendo cosa faccio e di cosa ho bisogno. Passano giorni e giorni. Mi viene inviato il contatto mail del sig. Bancale, CEO di BootB. Gli scrivo rispiegando daccapo la faccenda. Mi chiede lumi, un mio curriculum e un po’ di info sulla ricerca. Gli invio il necessario. Mi risponde giorni dopo, dicendo di avere un’agenda fitta e se, per cortesia, posso spedirgli le domande via mail in lingua inglese. Traduco e invio le domande. Sono passate settimane e, nonostante le mie insistenze, non ho ricevuto alcuna risposta. Quindi, mi arrendo. Peccato per loro, non posso aspettarli ancora. 33 Crowdsourcing I L M O D E L L O 1. D I L’azienda ha un’esigenza di comunicazione che intende sviluppare in ambito social media, spesso all’interno di un preciso piano di marketing aziendale. Stabilisce un budget e si rivolge a Zooppa. 2. Tramite un open call con premi finali, pubblicato sulla piattaforma Zooppa con cui firma un contratto, l’azienda interpella una community eterogenea di ogni età e grado di professionalità. 3. In base al brief, ciascun utente fa le sue proposta in modo visibile a tutti. Tutti – basta iscriversi a Zooppa – possono guardare, valutare e votare le idee altrui, in un clima di scambio, trasparenza e collaborazione. Gli utenti possono followarsi come in Twitter e dialogare su un forum. 4. Allo scadere del bando, si valutano le proposte migliori. I premi possono essere: – Client Award, i premi principali rilasciati dal cliente e di buona entità; – Zooppa Staff Award, di media entità, rilasciato dallo staff di Zooppa; – Community Buzz, di piccola entità, rilasciati dalla comunità; – Honorable Mentions, di piccola entità, per tutti gli altri lavori meritevoli. (non tutti e quattro i premi sono proposti necessariamente per ogni contest) Non soltanto: “molte idee a poco prezzo” di Alessandro Cappellotto Alessandro Cappellotto, community manager di Zooppa.it, analizza in questo post online su Shannon.it i veri punti di forza del crowdsourcing creativo, soprattutto in relazione al rapporto con le aziende. Perché ottenere molti contenuti creativi con budget tutto sommato ridotti, in fondo, non è che la punta dell'iceberg. [...] I contenuti. I contenuti creati dai membri della community offrono all’azienda numerosi spunti di riflessione a livello creativo e possono essere riutilizzati (in base agli accordi sottoscritti con noi) per azioni di comunicazione contestuali o future. Fra diversi lavori che si caratterizzano soprattutto per la spontaneità giocosa e dilettantistica, ve ne sono alcuni che sono vere e proprie perle, capaci di creare attenzione, divertire, sedurre, emozionare, informare. L’utilizzo di questi contenuti può essere molteplice e non necessariamente indirizzato alla produzione di nuovi contenuti pubblicitari per i canali tradizionali. In questo, è anche l’azienda che deve mettere in moto la sua inventiva e allo stesso tempo noi di Zooppa possiamo dare la nostra consulenza e il nostro supporto. La strategia di utilizzo può venire dopo, ma più spesso e più correttamente avviene prima. Il brief della gara serve anche a quello. > continua 35 La viralità. La viralità può nascere sia dal contenuto stesso, capace di propagarsi spontaneamente, sia – più spesso – dal naturale meccanismo di condivisione messo in atto dagli utenti, i quali postano i propri lavori nei social network e nelle piattaforme di content-sharing per chiamare i propri contatti e visitatori al voto (il meccanismo della gara creativa è uno stimolo al passaparola); o semplicemente per cercare visibilità o raccontare di sé, parlando delle loro ultime creazioni per questo o quel marchio nelle loro conversazioni on e off-line. In più, noi stessi uplodiamo negli account Zooppa sulle principali piattaforme di condivisione (Youtube, Facebook, Vimeo, ecc.) i contenuti della nostra community. Senza contare i visitatori spontanei della nostra piattaforma. In questo modo si innesca una “disseminazione” del brand, il cui obiettivo è soprattutto la crescita della brand awareness più che la dimostrazione di vantaggi tangibili contestuali al momento del bisogno o dell’interesse. Ogni lavoro genera un alto numero di contatti, in rete e fuori dalla rete: con un grado di attenzione, credibilità e simpatia solitamente alto, perché rafforzato dal rapporto relazionale fra le persone. Il percepito del brand. Emerge dai commenti, dalle conversazioni che si fanno su Zooppa intorno al marchio oggetto del contest, nonché dalle associazioni di pensiero ricorrenti nelle pubblicità generate. L’azienda può interpretare il contest come un grande focus group intorno al suo nome. In questo Zooppa offre un servizio specifico e ulteriore, offrendo ai brand che esplicitamente lo desiderano un report finale di tipo qualitativo assai approfondito, con un’analisi dei contenuti creati ricca e dettagliata. Alcuni clienti si sono rivolti a noi puntando soprattutto a questo scopo: capire cosa la nostra community pensasse di loro. 36 La relazionalità. È forse l’output attualmente meno compreso e sfruttato in tutte le sue potenzialità, ma davvero prezioso. Il brand si mette nelle mani delle persone, si presta alla loro manipolazione, diventa tema delle loro conversazioni, si pone volontariamente su un piano alla pari. Per le aziende, Zooppa diventa l’opportunità di entrare in contatto con persone di valore, di scoprire talenti o anche di poter iniziare a costruire una propria community creativa, di impostare una strategia di tribal marketing, di “rompere il muro” che separa tutte le aziende dai suoi consumatori-osservatori per entrare in contatto diretto, stimolando simpatia e affezione attorno al suo nome. Addirittura, nel miglior spirito wiki, di imparare da loro. Un territorio in gran parte inesplorato ma, almeno sulla carta, gravido di opportunità se è vero che il livello di engagement del cliente è un importante fattore di vantaggio competitivo. [...] Personalmente credo che Zooppa non basti a se stessa e che una strategia di marketing dovrebbe prevedere una panoplia di strumenti più vasta. Ritengo però allo stesso tempo che Zooppa possa essere davvero il perno strategico di una campagna di comunicazione che metta realmente al centro la relazione con il pubblico – consumatore e produttore di senso – in un’ottica di brand awareness e di posizionamento. [...] in commento a www.shannon.it/blog/pubblicita-del-futuro-lesperienza-dellitaliana-zooppacom/ 37 Le agenzie non moriranno mai I N T E R V I S TA Raggiungo via Skype Alessandro Cappellotto, community manager di Zooppa Italia. Mi sento in dovere di sottolineare la sua assoluta disponibilità a questo progetto: dalla lunga chiacchierata, alle numerose segnalazioni via mail, fino all’invio di materiale utilissimo alla composizione di questa ricerca. come funziona la community di zooppa? Funziona un po’ come tutte le comunità: con vari livelli di coinvolgimento. Ci sono cicli di affezione che si esauriscono, poi nascono e riprendono, come in ogni forum. Ad adesso, l’intero ecosistema di Zooppa (cioè: Italia, Stati Uniti e Brasile) punta verso i 100.000 utenti. E più della metà sono italiani. Di questi, il 9-10% (parlando dell’intero sistema Zooppa: in Italia saliamo sopra il 10%) ha creato almeno un contenuto relativamente ad una campagna su Zooppa. È un po’ un sistema a cipolla, diciamo: il nucleo esterno è fatto di tantissimi utenti registrati che hanno caricato uno, due o tre contenuti; o che, magari, si sono iscritti solo per votare la proposta di un amico. Man mano che si va verso il nucleo cala il numero di utenti, ma aumentano i contenuti postati per singolo utente, fino ad arrivare agli iscritti più attivi che hanno caricato numerosi contenuti su diverse campagne. il crowdsourcing, per definizione, accoglie “cani e porci”, se mi passi il termine. secondo il tuo polso della situazione, qual’è il livello di competenza dell’utente medio? che tipo di professionalità ha? Non è quasi mai un dilettante. È una persona con esperienza professionale nel settore, magari non molto approfondita, ma ha spesso già iniziato un percorso nel settore creatività. Di sicuro è fuori dal “grande giro”: vede in Zooppa l’opportunità di mettere la propria creatività su brand e situazioni che non sono nella sua quotidianità. Gente anche parecchio brava, per capirci, ma che territorialmente o professionalmente è tagliata fuori perché, ad esempio, non lavora a Milano o Roma. Diversi iscritti lavorano anche per agenzie famose, dove però soffrono per l’assenza di libertà creativa. Su Zooppa, invece, non c’è nessun direttore creativo, nessun account che ti vincola. L’unico vincolo è il brief: il contenuto che hai in testa lo puoi trasferire immediatamente. C’è persino qualche direttore creativo vero e proprio, che magari ha lavorato in passato in agenzie grosse e ora ne ha aperta una propria, e magari su Zooppa si diverte e basta. Ci sono poi studenti alle prime armi e, tra i più assidui, c’è anche chi ha semplicemente una passione che ha sempre coltivato ma non è mai riuscito ad applicare davvero. Una delle cose di cui sono sicuro, però, è che non c’è quasi mai l’assoluto dilettante. Certo, ci sono utenti che nella vita fanno un lavoro completamente diverso. Ma hanno sempre un profondo interesse per la creatività, che sia il videomaking o la fotografia. Quando abbiamo lanciato Zooppa pensavamo, in tutta sincerità, che sarebbero arrivati davvero cani e porci. Ma in realtà, Zooppa non può far nascere un interesse: può solo alimentarlo, ma l’interesse e la passione ce li devi avere dentro, dall’inizio. Se non li hai, non ti iscrivi a Zooppa, ecco tutto. > continua *Dati: Novembre 2010 Brasile Stati Uniti Italia community TOTALE 87.000+ utenti attivi commenti 930.000+ print ads pubblicati video ads pubblicati 37.200+ 6.000+ concepts pubblicati radio ads pubblicati 4.300+ 550+ MEDIA di CONTENUTI pubblicati PER singolo CONTEST 60-100 video 400-1000 grafiche è presumibile che, dietro ai grandi brand che si rivolgono al crowdsourcing, ci siano grandi agenzie che li seguono da molto tempo. quale interesse può avere l’agenzia a non gestire internamente il processo creativo e lanciare invece un contest rivolto ad una folla di sconosciuti? Questo è un tema ancora aperto. Posso darti la mia opinione, ma anche noi ci stiamo ancora interrogando. Perché un brand non potrà mai fare a meno di un’agenzia? I motivi secondo me sono almeno due, e sono imprescindibili. Il primo è la strategia. Noi non proponiamo strategie ai nostri clienti; anzi, ai brand che ci interpellano diciamo sempre che per trarre il massimo potenziale da Zooppa, la campagna va inserita all’interno di una strategia più ampia, che preveda magari l’uso dei social media, della viralità, del web. Ti faccio notare una cosa: i nostri contest, noi preferiamo chiamarli campagne. Perché l’azione di interrogare una community, di lanciare input in un contesto di spiccata relazionalità e viralità, è già parte di una campagna di sviluppo del brand: e lo sviluppo del brand non può farlo la folla, deve farlo l’agenzia. Il secondo fattore sono i servizi. Quando all’azienda arriva un output creativo da Zooppa va declinato, va adattato ai media e ai supporti, va magari rifinito meglio. Può dunque esistere sovrapposizione tra Zooppa e agenzia per l’aspetto strettamente creativo, di generazione delle idee: ma per tutto ciò che riguarda i servizi e la strategia, assolutamente no. quindi le agenzie hanno un futuro? Assolutamente! Con un logo e uno spot generati da crowdsourcing, un brand non può fare identità di marca: non bastano i contenuti, insomma. La consulenza strutturata non la fai con la crowd, la fai in agenzia. In passato forse era più facile: i canali attraverso cui accedere al pubblico erano meno frammentati. C’erano la carta stampata, l’affissione, e c’era la televisione, che però era per pochissimi. > continua Oggi, invece, le aziende si sentono spesso confuse per l’iperframmentarietà dell’era digitale. Sono nate nuove competenze, nuovi canali, nuove possibilità. Sarebbe ottimo, per un’azienda, poter produrre contenuti diversificati, ritagliati su ogni singolo canale; ma con i costi di produzione classici sarebbe impossibile. L’idea creativa, quindi, può arrivare in maniera più sostenibile (soprattutto economicamente) dal crowdsourcing. Sarà poi compito dell’agenzia declinarla, gestirla e inserirla in una strategia più ampia. ok, la strategia. ma è la fine dei creativi professionisti nelle agenzie? Certo che no. Intendiamoci: molta creatività potrebbe essere assegnata alla folla. Ma alcune creatività di alto livello non possono comunque emergere da una crowd. Ad esempio, per girare uno spot che richiede una execution complessa, l’azienda ha bisogno di professionalità elevate: videomaker, set, produzione costosa, modelli e chissà che altro. Una creatività di alto livello, con un’alta componente organizzativa e di servizi non potrà che restare in agenzia, ed essere gestita secondo i processi di lavoro che ben conosiamo. ma le agenzie si sono accorte del fenomeno? Ti dirò, c’è ancora un po’ di “inerzia” nelle agenzie di oggi. Nei confronti del crowdsourcing anzitutto, ma ancor di più verso il web in generale, con tutte le enormi possibilità di canali che offre. Molte agenzie sono ancora legate alle professionalità classiche, basate prettamente sulla carta stampata. Ci sono agenzie che ignorano la potenza di strumenti web basilari come le campagne pay-per-click. Ho visto progettare siti web come fossero progetti per la carta stampata. In pochi fanno davvero interaction design per il web, cercando di capire cosa funziona e cosa non funziona nella rete. C’è un po’ di difficoltà ad interpretare il cambiamento, insomma, anche se le cose stanno già cambiando. una polemica che sento spesso sollevare riguarda il pricing delle campagne. insomma, diciamoci la verità: investendo un budget ridotto, alla fine all’azienda restano in mano decine o centinaia di idee e input... Ci sono due risposte a questa domanda: una più tranquilla, e l’altra più brutale. Quella tranquilla è questa: bisogna rendersi conto che, al di là del valore monetario, in ogni campagna c’è un altro valore, ed è l’opportunità di partecipare. Se un utente entra, posta il suo contenuto per una campagna e poi se ne va, non ha accesso a tutti gli altri valori aggiunti che ottiene partecipando alla community: i feedback, la possibilità di votare e parlare, i commenti, il forum, i lavori degli altri, il confronto. L’obiettivo di Zooppa è il coinvolgimento, prima ancora della generazione di contenuti per le aziende. Per questo è importante avere un forum, un blog, la possibilità per gli utenti di commentare i lavori l’un l’altro. Ogni nostro contest diventa così un’occasione di conversazione di massa: chi genera le idee apprezza soprattutto la possibilità di confrontarsi, di vedere cosa fanno gli altri, di imparare e migliorare se stessi. L’utile per un utente su Zooppa non è solo il denaro vinto dai premi: è anche la community stessa. E comunque in Zooppa abbiamo differenziato e moltiplicato i premi, proprio per andare incontro a questa esigenza. Stiamo anche cercando di individuare benefit più concreti per la community, soprattutto pensando a quella parte che “non vince” una campagna. Abbiamo una convenzione con la casa editrice Lupetti che garantisce agli utenti il 20% di sconto nell’acquisto di libri. Proponiamo workshop di viral video con il grande Alex Orlwoski: gli Zoopers che vogliono partecipare possono farlo con il 40% di sconto. Ancora, in passato abbiamo promosso l’edizione di un libro con una selezione delle creatività generate per una specifica campagna, con relativi credits di ciascun autore. > continua e la risposta brutale qual’è? La risposta brutale è questa: è il mercato che decide cosa sta in piedi e cosa no. Finchè la gente continua a partecipare a queste condizioni, voglio dire, evidentemente è perché oggi le condizioni sono sufficienti. È l’incontro tra la domanda e l’offerta a fare il prezzo. in che senso? Voglio dire: sarei felicissimo se un brand si rivolgesse a Zooppa per proporre una campagna con 100.000 euro di premi: potremmo fare cose grandissime, e rendere felici di partecipare un sacco di utenti della nostra community. Ci sono aziende capaci di spendere decine di migliaia di euro per un singolo passaggio televisivo: sarebbe fantastico se rinunciassero ad uno o due passaggi televisivi per proporre un’iniziativa di crowdsourcing con premi molto ricchi. Ma di fatto, questo ancora non succede, probabilmente per il tipo di valore e credibilità che le aziende danno, oggi, al crowdsourcing. quindi cosa succederà? le aziende continueranno a speculare sulla folla? Tutt’altro: sono profondamente convinto che, con il crowdsourcing in rapida espansione – come utenza iscritta, come brand e come quantità di piattaforme stesse – i budget delle singole campagne si alzeranno sempre di più. Come ti dicevo, è il mercato che decide cosa sta in piedi e cosa no. Se un brand lancia una campagna che non è creativa, che paga poco, che non dà soddisfazione, cosa farà l’utente? Si concentrerà su un’altra proposta, un altro contest: il tutto a scapito della quantità e qualità di contenuti generabili per il brand. Sta quindi emergendo una concorrenza tra brand, un fenomeno nuovissimo: non una concorrenza sul mercato, perché magari parliamo di aziende con prodotti o servizi in categorie merceologiche completamente diverse. È una concorrenza tutta interna al pianeta crowdsourcing, una concorrenza trasversale ai brand, che cercano di contendersi e corteggiare gli utenti della community proponendo campagne sempre più interessanti e con un alto rewarding rispetto ai concorrenti: pena la scarsa partecipazione. Le aziende stanno cominciando a rendersi conto che se speculano tenendo i premi bassi, l’engagement della community sarà scarsissimo. quindi, più il crowdsourcing si diffonde, più i premi si alzano? Sì, anche se con difficoltà sempre maggiori. In questo momento in Italia ci sono, per esempio, 10 contest video attivi. Se i contest aperti diventassero 500, è chiaro che non tutti avranno successo: perché gli utenti sceglieranno dove partecipare in base al rewarding e al tipo di brand coinvolto. E poi non dimentichiamo che, oltre al brand, a perderci se il pricing o i valori offerti sono bassi, è la piattaforma stessa. Se Zooppa non riesce a dare un corretto valore alle campagne e a tutto quello che ci gira attorno, alla lunga l’utenza si sposterebbe da Zooppa ad altre piattaforme, e saremmo i primi a rimetterci. Crowdsourcing I L M O D E L L O D I 1. L’azienda ha un’esigenza di comunicazione da sviluppare. Stabilisce un budget e si rivolge a UserFarm. 2. Tramite un call con premio finale, pubblicato sulla piattaforma UserFarm con cui firma un contratto, l’azienda interpella una community eterogenea di ogni età e grado di professionalità. 3. Nel rispetto del brief, ciascun utente fa le sue proposta. L’eventuale visibilità della proposta (a nessuno o tutti tra gli altri utenti della community, o addirittura all’esterno di UserFarm), e la qualità della community coinvolta vengono decise, di volta in volta, dall’azienda. 4. Allo scadere del bando, l’azienda valuta la proposta migliore e premia il vincitore. Crowdsourcing? Chi non lo fa verrà tagliato fuori I N T E R V I S TA Bruno Pellegrini è Founder & CEO presso TheBlogTV / UserFarm. Intervistandolo emerge una diversa visione del profilo delle future agenzie, e una proposta interessante di crowdsourcing segmentato: per permettere alle aziende di selezionare i creativi in base alla loro competenza. per chi non vi conosce, ci parli un po’ di userfarm? UserFarm è una piattaforma di content e creatività crowdsourcing: ovvero, è un network di circa 20.000 creativi (filmakers, designer, fotografi, etc.) cui si rivolgono canali televisivi, agenzie di comunicazione, brand, imprese alla ricerca di contenuti e creatività originale e poco costosa. sono circa 5.000 i designer iscritti a userfarm. qual’è l’utente medio? è un professionista, un novellino, un freelance, un’agezia? Ci sono dei grandi utilizzatori di UserFarm, pari a circa il 20% del totale, che partecipano alla maggior parte dei contest: sono spesso designer e registi che lavorano in agenzie medio–piccole e case di produzione, oppure sono freelance. Un altro 50% viene a trovarci spesso, circa una volta al mese, per vedere quali sono i contest aperti. Un 30% è invece frequentatore meno assiduo. > continua mi elenchi tre vantaggi e tre svantaggi, per un designer, nel partecipare ad un contest su userfarm? Tra i vantaggi, sicuramente guadagnare qualche soldo e parecchia visibilità. E poi, ovviamente, stabilire relazioni con utenti e aziende. Svantaggi, in tutta sincerità, non ne vedo alcuno. è presumibile che le grandi aziende abbiano alle spalle delle agenzie che le seguono nella comunicazione. quale interesse può avere un’agenzia a rinunciare allo svolgimento interno del lavoro per affidarlo ad una community? Lavoriamo spesso e volentieri con le agenzie, che possono scegliere di utilizzare UserFarm sia per farsi dare suggerimenti e idee out of the box oppure per declinare un concept già sviluppato per lo spot mainstream, in maniera originale e virale. Le agenzie possono scegliere di attivare call private (invitando cioè solo alcuni creativi) o pubbliche (per tutti), decidendo se far vedere i contenuti a tutti, ai partecipanti o a nessuno. e quindi, quale futuro intravedi per le agenzie “classiche” in un’ottica di crowdsourcing sempre più diffuso? Le agenzie classiche dovranno dotarsi anche loro di una piattaforma simile: il destino di tutte le imprese è di aprirsi verso l’esterno attraverso modelli come il crowdsourcing. Chi non lo farà sarà sempre meno competitivo. è dunque l’inizio di una rivoluzione? la comunicazione del futuro sarà sempre più user-generated? La comunicazione del futuro sarà sempre più partecipativa e condivisa. Non solo per piattaforme come UserFarm, ma per la complessiva tendenza verso la convergenza dei mezzi mainstream e individuali. Social network e fandom sono un altro esempio. > continua *Dati: Novembre 2010 community 5.000 su call aperte 85 creativi, 20.000 iscritti Rai Fox IBM Banca Intesa Kaspersky Alpitour Honda Cisco BUDGET da 5 euro a 15.000 euro MEDIA di CONTENUTI PUBBLICATI PER singolo CONTEST 200-500 il crowdsourcing solleva diverse polemiche in rete. l’azienda che commissiona il contest investe un budget ridotto rispetto alle centinaia di proposte, punti di vista e commenti che potranno organizzare, in seguito, nello sviluppo della vera proposta premiata. Su piattaforme come UserFarm viene data grande attenzione alla gestione dei diritti, a tutela sia delle aziende che dei partecipanti. La partecipazione è sempre volontaria e il metodo di selezione e utilizzo dei contributi è sempre trasparente. Davvero non vedo il problema! Soprattutto se confronto questa modalità di partecipazione (dove l’autore della creatività riceve visibilità) a quella che vige nelle agenzie, dove le idee dei giovani creativi vengono sfruttate dai partner senza vedersi riconoscere la paternità. altro versante della polemica: la vostra policy tutela in qualche modo le opere “scartate”? o restano a completa disposizione della community (o dell’azienda stessa)? L’azienda acquista solo le opere selezionate. Le altre rimangono di proprietà dell’autore che potrà decidere di metterle a disposizione di altre aziende nel marketplace. Il tutto nella massima trasparenza. in un mondo in cui chiunque ha accesso a software più o meno professionali di graphic design, gli “aspiranti creativi” senza in realtà alcuna effettiva competenza intasano il web. possono piattaforme come userfarm, in qualche modo, dar fiato ad una comunità senza controllo di grafici improvvisati? UserFarm, come altre piattforme di crowdsourcing, sono disegnate per consentire un graduale affinamento della community e far crescere i propri migliori contributori. In una seconda fase di sviluppo, infatti, procederemo verso la segmentazione del network di creativi al fine di differenziarne l’ingaggio per le aziende, che potranno quindi scegliere di volta in volta il “grado di competenza” dei creativi da coinvolgere. in questo senso, c’è chi lamenta la scarsa qualità delle proposte. il che è curioso, perché tecnicamente lo sharing delle proposte nella community dovrebbe garantire una certa scrematura delle idee più rozze, o sbaglio? Non abbiamo avuto lamentele rilevanti, non saprei cosa rispondere. Spesso però i problemi sono nel brief e nel premio, che possono non essere coerenti con le aspettative. per finire, una previsione. dopo l’informazione e la creatività, quale sarà il prossimo settore dove sbocceranno piattaforme di crowdsourcing? Tutti i settori dove il prodotto è immateriale, e quindi producibile da persone diverse in posti diversi, vedrà fiorire il crowdsourcing. Già oggi lo troviamo all’opera per le idee, i brevetti, le invenzioni, la conoscenza, l’informazione, la creatività, i contenuti, il customer-care, il fundraising, le decisioni politiche. E in futuro sarà sempre più diffuso e coinvolgente. L'azienda gestisce comodamente l’intero processo on-line, senza riunioni o spostamenti; ha a che fare con una community ampissima, ricca di potenziali talenti; la community è direttamente interessata e si autoseleziona rispetto al brief; la community può diventare un focus-group sulla validità del prodotto; il budget è basso rispetto alla quantità di idee che si ottiene; il brand viaggia in modo virale per la rete; si mette sullo stesso piano dei suoi consumatori. La piattaforma acquista forza, fama e validità, man mano che espande la propria community; guadagna da ogni singolo brief che pubblica; gestisce un preziosissimo bacino di talenti, altrimenti nascosti, ignoti o irraggiungibili; i brand e la community parlano della piattaforma nelle proprie discussioni on-line e off-line. Il creativo ha la possibilità di lavorare con grandi brand, indipendentemente dalla propria esperienza; nessuno gli domanda di essere formato, aggiornato, professionista, titolare di Partita IVA; se vince viene pagato; se vince, il suo nome si diffonde nella community, nella rete e nei social network; può crescere professionalmente dal confronto con tutta la community; attiva collaborazioni e contatti; può esprimersi liberamente; può avere accesso a sconti, benefit, convenzioni. L'agenzia si può concentrare sulla strategia lasciando la realizzazione delle idee alla community; il budget da richiedere all’azienda è basso rispetto alla quantità di idee che si ottiene; individua e cattura talenti creativi nella community messa a disposizione. 03 Crowdsourcing SUC 54 CKS! Ovvero, il lato oscuro del crowdsourcing: sfruttamento e faciloneria. 55 Qualunque azienda che affidi la realizzazione del proprio sito ai suoi utenti non soltanto si dimostra irrispettosa nei loro confronti: non ha nemmeno capito esattamente ciò che dovrebbe fare in realtà. Il suo lavoro dovrebbe essere: fornire agli utenti una struttura attraverso la quale collaborare. Ma questo richiede un sacco di lavoro. Le comunità non si creano solo buttandoci dentro dei soldi: ci vuole tempo per farle crescere in modo sano. Le vere aziende di successo sono in grado di costruire un solido rapporto di fiducia con il proprio pubblico. The Wales Rules for Web 2.0 by Jimmy “Jimbo” Wales (fondatore di Wikipedia) 56 © NO!SPEC Campaign Educare i designer, educare i clienti Il design speculativo e i contest che si fondano su di esso sono in continua e preoccupante crescita. Per educare da una parte chi lavora nella comunicazione visiva, e dall’altra gli stessi clienti, un gruppo di designer si è unito per diffondere un messaggio contro la speculazione nel mondo della creatività. cos’è il design speculativo? Essenzialmente, si parla di design speculativo quando un designer propone ad un cliente un progetto, parziale o finito che sia, senza avere la sicurezza della conclusione del lavoro o di ricevere l’adeguato compenso. È il caso, ad esempio, delle opere di design per partecipare ad un contest o da sottoporre ad un cliente come in una sorta di “test” per scegliere il fornitore migliore. A queste condizioni, il designer perde spesso tutti i suoi diritti sull’opera, non firmando alcun contratto o accordo: il cliente può dunque avere la facoltà di utilizzare il progetto del designer, senza pagarlo e senza il timore di ripercussioni legali. perché non è etico? Il designer lavora gratis o con la promessa di lavori futuri non meglio specificati; oppure, in cambio di altre forme insufficienti di compenso. Solitamente questi finti premi attirano designer alle prime armi, che abboccano a finte promesse tipo “i nostri sono ottimi lavori per il tuo portfolio” o “con noi guadagnerai un sacco di visibilità”. In realtà, spesso non ricevono nulla di tutto questo. Più facilmente, sono obbligati a firmare un contratto che lo privi dei propri diritti sulla creatività, cedendola di fatto a chi gli ha proposto il lavoro. […] > continua 57 Il cliente può usare lo stesso metodo per più designer contemporaneamente, in modo da ottenere più creatività a basso costo, o addirittura a costo zero. Questo atteggiamento promuove anche la forzata riduzione del proprio compenso da parte dei designer, nella speranza di battere nel prezzo potenziali rivali, svalutando di fatto sia le proprie capacità, sia quelle dell’intera industria grafica. […] sono un cliente e voglio proporre un contest: è lavoro speculativo? Per saperlo, chiediti: pagherei con la stessa cifra un lavoro di un designer che vince un contest e quello di un designer assunto a progetto con un regolare contratto? Sarei disposto a negoziare un compenso per l’utilizzo della creatività prodotta, in proporzione alle capacità del designer? Sarei pronto a restituire tutti i file e i diritti di utilizzo ai rispettivi designer, specialmente a quelli che non vinceranno? Se la risposta ad una sola di queste domande è “no”, stai promuovendo lavoro speculativo. cosa c’è che non va nei contest? Oltre a dare al committente l’idea che la creatività non abbia valore, un contesto lo penalizza. Per vincere un contest, i designer non fanno le adeguate ricerche (di marketing, ma non solo) necessarie al progetto, e di conseguenza non sono in grado di proporre la soluzione migliore al cliente il quale, quindi, sceglierà esclusivamente il design più bello: non il più efficace e funzionale alle sue esigenze. Non dimentichiamo che il designer professionista è capace di leggere e interpretare le necessità del cliente, e di aiutarlo nelle sue scelte di comunicazione. Dopotutto, nessun cliente direbbe al suo legale in che modo difenderlo ad un processo; né direbbe al suo meccanico come riparargli l’auto: guarderebbe la storia e l’esperienza del professionista a cui si rivolge, per poter scegliere il migliore. Per questo ci sono i portfolio dei designer: se un cliente cerca il miglior designer, il modo migliore è guardare i portfolio. 58 come cliente, perché non dovrei indire un concorso per avere un logo? Oltre a quanto già detto: un logo non è semplicemente un disegno stampato sopra ad un berretto da baseball. È un simbolo che rappresenta il cliente e l’intera azienda. Aiuta ad identificare immediatamente un brand e a trasmettere un messaggio a chi lo osserva. Un contest non permette ad un designer di fare le adeguate ricerche per proporre un simbolo efficace. perché dovrei pagare un singolo professionista per fare un lavoro di cui mi proporrà solo alcune bozze, anziché indire un contest e ricevere decine o centinaia di proposte? Perché promuovendo il lavoro gratuito impedisci al designer di ottenere il compenso che merita. Come cliente, lavoreresti gratis con la speranza di essere, forse, ricompensato? Non credo. Considera che ai contest spesso partecipano designer inesperti che, anche a causa della pressione per la competizione e la scadenza del bando, tendono a fare un pessimo lavoro. Come cliente, alla fine del contest, corri il rischio di trovarti con centinaia di pessime proposte che, se adottate, non rappresenteranno adeguatamente la tua azienda nel futuro. Potrebbe costarti più di quanto credi sul lungo termine: in visibilità e qualità della comunicazione. Un lavoro professionale, al contrario, fornirà proposte ragionate, su misura, e che riflettono anni e anni di esperienza di design sul campo. non capisco bene questa faccenda dei diritti di utilizzo. I diritti sul risultato di un lavoro di design sono specificati nel contratto. Normalmente, i designer concedono al cliente l’utilizzo dei file finali e degli esecutivi di stampa. Se, come cliente, ti impossessi del lavoro senza pagare il designer, per passare i file a qualcun altro che modificherà o finirà il lavoro gratis, stai commettendo un furto. A meno che non sia specificato nel contratto, il cliente non ha diritto a modificare i file prodotti da un designer senza autorizzazione o senza l’adeguato compenso. […] > continua 59 cosa si intende con “macchina-fabbrica-loghi”? È una pratica dannosa, sfortunatamente in crescita, che vede molte aziende usare i contest come procedura principale, inserita a pieno diritto nel loro modello di business: il risultato è gettare i designer in un ring, costringendoli a lottare tra loro come in un combattimento tra galli per vincere la gara. I creativi che finiscono in questo trend, tendono a produrre in serie idee poco efficaci, concepite malamente e spesso direttamente plagiate da altri professionisti: l’unico scopo è vincere quanti più contest possibili. Più creatività grossolana producono, più soldi riescono a guadagnare. […] in qualità di cliente, come posso essere sicuro che, pagando un designer professionista, otterrò un buon lavoro? Proprio perché paghi un professionista, che è esperto nel suo lavoro: il suo unico scopo è produrre un buon lavoro. e come distinguo un buon designer da un altro? Basta guardare i loro portfolio. […] Basta analizzarli con cura, fino ad individuare un designer il cui stile possa essere funzionale ed efficace alle necessità della tua azienda. Quindi, contatta il designer e discutine direttamente con lui. Ottenuta un’impressione positiva sia dai suoi lavori che dalla sua personalità, saprai rapidamente se c’è la possibilità di avere un proficuo rapporto di lavoro. 60 Un'azienda può vedere il crowdsourcing come una minaccia ai suoi copyright e alle sue proprietà intellettuali, o come una forma di competizione non desiderata. Oppure, nella migliore delle ipotesi, vede nel crowdsourcing una nuova popolazione, pronta per essere sfruttata come risorsa. Douglas Rushkoff on Wired US, Luglio 2007 61 © Lisa Mikulski La carta dei diritti del designer di Lisa Mikulski In qualità di professionista, il designer: 1. ha diritto ad un contratto scritto e firmato. Un contratto aiuta a stabilire esattamente di quale lavoro si tratta ed entro quali tempistiche va svolto. Certifica una relazione, un rapporto e un futuro, e aiuta entrambe le parti (designer e cliente) a proseguire il lavoro insieme. 2. ha diritto ad un lavoro retribuito. Come clienti, non chiedete ad un designer professionista di lavorare gratis e non speculate sulla sua professionalità: facendolo, il cliente degrada l’intera industria del design. [...] 4. ha il diritto di avere tempo a sufficienza per sviluppare le sue idee e soluzioni. Il design è un processo creativo: come tale, richiede tempo per svilupparsi. Il tempo permetterà al designer di fornire le migliori proposte alle esigenze del cliente. Come cliente, ogni ritardo nel fornire il materiale richiesto si rifletterà in un ritardo da parte del designer nello sviluppo del progetto. Si consideri inoltre che ogni lavoro fatto in condizioni di emergenza o in tempistiche ristrette, potrebbe comportare un aumento del costo finale. [...] 6. ha il diritto ad essere trattato con professionalità. Un designer è un professionista: come tale è felice di rispondere alle domande del cliente e fornirgli tutto il supporto necessario. [...] 7. ha il diritto di presentarsi e comunicare direttamente con chi, in azienda, prende le decisioni. Per svolgere al meglio il suo lavoro, è importante che siano aperte per lui tutte le linee di comunicazione diretta con chi è in grado di decidere le sorti del progetto. [...] 62 Al ristorante: “Non so ancora cosa voglio mangiare: lo saprò quando avrò assaggiato tutto. Quindi vorrei che mi consegnasse a casa tutte le proposte dal suo menù. Consideri che chiederò di fare la stessa cosa anche ai ristoranti cinese, italiano e messicano qui vicino. Dopo che avrò assaggiato tutto, se avrò ancora fame, sceglierò quale pasto acquistare e presso quale ristorante”. L’esempio citato è chiaramente assurdo: nessun business al mondo fornisce gratis un prodotto o servizio, nella speranza che qualcuno lo paghi. E il graphic design è un business, come tutti gli altri. © Wildfire Marketing Group Content Development Team 63 © CreativePro Una scommessa che non paga di Pamela Pfiffner Prendiamo l’esempio della piattaforma CrowdSpring. I clienti postano un briefing – per esempio, la realizzazione di un logo, del proprio corporate, di un layout web – sul sito di CrowdSpring, descrivendo di cosa hanno bisogno e quant’è il premio. I designer rispondono, postando il lavoro richiesto sul sito. Dopo un periodo stabilito di tempo, l’azienda cliente seleziona un vincitore, che viene pagato in cambio del lavoro e dei diritti di utilizzo ad esso associato. Tutti gli altri partecipanti restano a bocca asciutta. […] Postare contenuti creativi su siti come CrowdSpring può avere un certo fascino. I designer professionisti che soffrono l’attuale crisi economica possono trovare facilmente del lavoro, qualunque esso sia. E i designer dilettanti possono costruirsi una buona base di clienti senza troppa fatica. Tuttavia, consideriamo alcuni aspetti: quando un cliente indice un contest, il designer non ha idea di quanti altri colleghi o presunti tali parteciperanno. Sebbene siti come CrowdSpring segnalino il numero di entries per ogni concorso attivo, spesso questi contest attirano centinaia, a volte migliaia di designer; molti dei quali pubblicano più contenuti. Una recente call per un logo, su CrowdSpring, ha totalizzato la bellezza di 1749 proposte – delle quali, naturalmente, 1748 non sono state pagate. Un designer potrebbe pensare: la qualità del mio lavoro mi farà distinguere, permettendomi di vincere più concorsi degli altri. Questo concetto, tuttavia, dà per scontato che il cliente capisca e comprenda il design grafico di qualità; 64 e dà per scontato che il designer sia in grado di avere abbastanza informazioni sul cliente e sul lavoro richiesto, per fornire proposte adeguate. Steve Douglas di The Logo Factory spiega così il reale costo di un’iniziativa di crowdsourcing: “Secondo CrowdSpring, i designer hanno pubblicato oltre 219.000 proposte nei vari contest fino ad aprile 2009. Supponendo che dietro ogni proposta ci sia una media di un’ora di lavoro, ed è una stima al ribasso, risultano 25 anni di graphic design non pagato”. Il proprio lavoro ha un valore preciso. Diventare un designer è un processo faticoso. La buona progettazione grafica richiede ricerca, analisi, sperimentazione, creazione. Ci vuole tempo e ci vuole denaro. Non sottovalutatelo. “L’unica cosa peggiore un cliente che non dà il giusto valore al lavoro di un designer professionista, è un designer che non dà il giusto valore al proprio lavoro”, dice Jeff Fisher della Jeff Fisher LogoMotives. Il buon design non equivale a buttare lì qualche proposta creativa nel tempo libero. Se non si pubblica su un sito visibile a chiunque la propria migliore idea, il rischio è di rovinarsi la reputazione. I progetti mediocri devono restare sul proprio hard disk, a disposizione esclusiva del designer e di coloro dai quali è opportuno ricevere un onesto feedback. […] In qualità di designer, è necessario capire perché un cliente ha scelto te. Un singolo lavoro creativo selezionato su una piattaforma di crowdsourcing, non restituisce la corretta percezione delle motivazioni, e non aiuta il designer a crescere professionalmente; così come non aiuta il cliente a stabilire alcun tipo di relazione con un designer che potrebbe, in futuro, essere chiave di volta del suo successo. > continua 65 “Sapere come funzionano i software di design è solo una parte del processo per diventare designer professionisti. Diventare un designer di successo significa imparare come comunicare con i clienti” dice Catherine Wentworth di Creative Latitude e leader del movimento No!Spec. […] L’anima del processo di design creativo è la collaborazione, col cliente o con gli altri designer, non la competizione. Il feedback sul proprio lavoro è un elemento fondamentale. Nel crowdsourcing, tuttavia, i designer gareggiano per vincere. “I contest sono scenari in cui i designer combattono gli uni contro gli altri, senza collaborare – continua Douglas –; le piattaforme di crowdsourcing trasformano i potenziali prodotti finali dei creativi in semplicistiche “belle immagini” tra cui scegliere”. L’ideale sarebbe trovare altri creativi, con cui condividere idee e processi in un ‘ottica di brain-storming e critica costruttiva. […] Ross Kimbarovski, co-fondatore di CrowdSpring, ammette che il crowdsourcing sta vivendo il suo momento d’oro, ma non è certo apprezzato da tutti: “Altri designer, nella comunità creativa, non sono contenti del crowdsourcing. CrowdSpring è una opzione tra mille altre. I designer più esperti e professionisti, d’altra parte, hanno già clienti regolari e paganti, e non hanno certo bisogno del lavoro speculativo”. Con la domanda di crowdsourcing in aumento vertiginoso, anche i designer professionisti avvertono la pressione. […] Bisogna cogliere questo cambiamento in corso, ed agire di conseguenza: perché il buon design resista al crowdsourcing, è necessario educare colleghi e clienti a dire no al lavoro non pagato. 66 Su CrowdSpring, i designer hanno pubblicato ad oggi 219.000 proposte. Se dietro ogni proposta c’è la media di un’ora di lavoro, ed è evidentemente una stima al ribasso, risultano 25 anni di graphic design non pagato. © Steve Douglas, The Logo Factory 67 Aprire all’esterno il proprio processo creativo è una grande idea: ma raramente si ottengono buoni risultati. La frammentazione estrema della creatività condivisa fa perdere di vista l’unità del proprio lavoro. Si finisce per ragionare a strati e si perde di vista l’essenza della cosa che si vuole realizzare. Brian Eno on Wired IT Magazine, Novembre 2010 68 © NO!SPEC Campaign Perché i contest fanno male alle aziende di Robert Wurth Al momento c’è una tendenza nelle aziende: indire un concorso per avere un buon lavoro di design – ad esempio, un logo. Si chiede ciò di cui si ha bisogno, i designer di tutto il mondo investono il loro tempo per proporre idee, e alla fine l’azienda scegli un “vincitore”, che è l’unico a guadagnarci dei soldi. All’apparenza sembra proprio una grande idea: anziché affidarsi ad un unico designer, si possono coinvolgere decine o centinaia di talenti creativi. Solo che non è così semplice. La comunicazione è business, e lavorare con un designer è una relazione professionale. Ci sono molti fattori che incidono sul risultato finale. Le persone cambiano dottore perché non si trovano bene; non fanno shopping in un certo supermercato, nonostante i prodotti siano buoni, perché le cassiere sono scontrose; sono disposte a fare molta strada per far affari con qualcuno che gli piace, anche se è più costoso o più scomodo da raggiungere. > continua 69 Tra un’azienda e un designer funziona allo stesso modo. Non è soltanto importante trovare un talento in grado di rispettare una scadenza: le migliori relazioni professionali tra agenzie e designer si creano quando nasce un feeling, quando i due si capiscono, quando il designer entra in contatto con ciò che l’azienda chiede. Questo è il tipo di relazione che non è quasi mai possibile ricreare in un contest. Un contest è una scommessa per i designer. Devono investire tempo ed energie per un lavoro che è essenzialmente alla cieca. Senza il vantaggio di un briefing dal vivo e di un incontro faccia a faccia con chi commissiona il progetto, senza avere la possibilità di approfondire le esigenze del cliente, il designer è costretto a indovinare i gusti di chi deciderà il vincitore e provare semplicemente a fare qualcosa di bello. Ciò che i clienti non capiscono, tuttavia, è che il modello del contest è una forma di lotteria anche per le stesse aziende. Senza incontrare i designer coinvolti, senza valutare i loro lavori passati e le loro personalità, i clienti corrono un grosso rischio. Basandosi soltanto su un’immagine pubblicata online, è impossibile determinare se il designer abbia o meno la conoscenza e il background necessari a portare il progetto ad una conclusione efficace e di successo. In fondo, bastano poche competenze creative per arrangiare un paio di forme che siano belle da vedere. Tuttavia, fare in modo che queste forme abbiano i 70 fondamenti tecnici e teorici per incontrare le vere esigenze dell’azienda committente è un altro paio di maniche; così come servono competenze ben più approfondite per seguire lo sviluppo di un progetto attraverso le future modifiche, i cambiamenti e la produzione. Una volta che il vincitore viene scelto tra la rosa di proposte, l’azienda è costretta in qualche modo a relazionarsi con il designer. Immaginate di scegliere la vostra futura moglie in base ad una foto inviata via mail: al massimo sceglierete la più bella, rischiando però di trovarvi con una donna stupida, che non conosce la vostra lingua, o persino incapace di parlare. Mi chiedo quante aziende hanno le adeguate conoscenze e capacità, dopo un contest, di portare avanti un progetto per conto loro se dovessero scoprire che il designer vincitore è un incompetente, scelto solo perché la sua proposta era la più bella. Il rischio è di perdere completamente il controllo della situazione. Indicendo un contest, l’azienda rinuncia a scegliere un designer sulla base del talento, delle competenze, della personalità e di tutti i fattori che rendono possibile e vantaggioso fare affari con qualcuno. Attraverso un contest, di fatto, si comporta come chi spera continuamente di vincere la lotteria per far soldi. 71 La cosa migliore è che non importa più se sei laureato alla Scuola di Design di Rhode Island o se sei una nonna nel Tennessee con del tempo libero e una copia di Adobe Illustrator. Se il cliente preferisce l’idea della nonna, sarà lei a vincere il lavoro” (Michael Samson, co-founder della piattaforma CrowdSpring) Proprio un bel concetto. Me le immagino le nonne, incollate ad Illustrator a sfornare design su design per guadagnare qualche bigliettone. E pensare che la mia povera nonna arrotondava la pensione con gli spiccioli vinti a tombola. © Steve Douglas, The Logo Factory 72 © Steven Douglas, Creative Director @ The Logo Factory Ecco perché dovresti farti un logo in crowdsourcing di Steve Douglas Tempo fa, la rivista Forbes ha sollevato un polverone in rete chiamando l’intera comunità dei designer “spocchiosa e snob”, in un articolo intitolato “La creatività delle masse”. Per chi se lo fosse perso, l’articolo sottolineava i benefici delle compagnie che offrono iniziative di crowdsourcing, evitando accuratamente di parlare di lavoro speculativo. Nel testo, Forbes descriveva la piattaforma Crowdspring come una splendida comunità ricca di anziani, inservienti e gente che ama i gattini, in grado di realizzare qualunque opera di graphic design per le piccole e medie imprese. Ho sempre contrastato i contest relativi al design: sfruttano sottocosto le persone, producono design di mediocre fattura, infrangono diritti e copyright, rovinano sia le aziende che i designer professionisti – specialmente quando si ritiene che partecipare ad un contest voglia dire “lavorare”. Ma ora, lo dico con orgoglio, ho finalmente visto la luce. […] Ci sono numerosi vantaggi nell’approfittare del crowdsourcing: ecco sedici ottime ragioni per affidare alla massa la creazione del vostro prossimo logo. > continua 73 1) Dovrai scegliere anche tra idee non originali. Il che è una figata. I designer si ispirano sempre al lavoro di qualcun altro per un contest: hanno capito che l’originalità è un concetto ormai superato. Certo, a volte le proposte sono copiate di sana pianta da un altro progetto o da un’altra azienda, ma chi se ne frega? È il risultato finale che conta, dopotutto: a chi importa da dove arriva? E poi, se un logo ha aiutato il successo di un’altra azienda, aiuterà anche il successo della tua. 2) Non c’è niente di male a copiare un logo. […] D’altra parte, è difficile che chi ha disegnato il logo originale da cui qualcuno ha ricopiato la proposta che hai scelto, lo venga a sapere. In Internet è molto difficile trovare informazioni sulle aziende. Ed ecco la parte migliore: con ogni probabilità, tu nemmeno sai che il tuo nuovo logo è stato copiato da quello di un’altra azienda – il che è un bene. Quando riceverai la lettera da un legale per violazione di copyright, tra qualche anno, potrai sempre rispondere che non sapevi che il tuo logo era copiato. Sono certo che l’ignoranza della legge sia un difesa validissima, e che gli avvocati capiranno la tua posizione. E dopotutto, quand’anche tra qualche anno fossi costretto a cambiare il tuo logo per violazione dei diritti di proprietà di un’altra azienda, dove sarà mai il problema? Non costerà molto rinnovare carta intestata, cartelle, buste, sito web, brochure, magliette, gadget, personalizzazioni sui veicoli, cartelli e tutto il resto. Devi solo ripartire da zero, che sarà mai? 74 3) Di più è meglio. La competizione fa bene. […] Pensaci: ti arriveranno centinaia e centinaia di proposte. E ancora. E ancora. E ancora. Certo, la maggior parte delle idee faranno schifo, alcune non saranno neanche originali: ma aspetta la fine del contest, quando arriveranno le proposte dei designer migliori. Non è che non vogliano condividere le idee con gli altri creativi: è solo che sono timidi. Le proposte dell’ultimo momento sono quelle che raccolgono le idee migliori di tutti gli altri creativi per modificarle in una nuova proposta non originale. I designer adorano fare queste cose: assistersi, aiutarsi, consigliarsi. […] Ed è proprio questa meravigliosa collaborazione tra creativi che ti assicurerà una marea di idee tra cui scegliere. Non stiamo parlando della qualità delle proposte, ma di quantità: pensa a quante idee potrai scartare prima della scelta finale. Tutti sanno che per scegliere un buon logo bisogna avere tra le mani almeno settanta proposte oscene, dieci decenti e tre buone: e la cosa va bene anche per chi gestisce la piattaforma di crowdsourcing, perché se non ottieni almeno venticinque proposte ti ridanno indietro i soldi. Fico, eh? Quindi, se le proposte stentano ad arrivare, sarà chi gestisce la piattaforma a pompare la comunità “timida” e farti arrivare ad almeno venticinque idee. Poi, certo, sarai obbligato a sceglierne almeno una, anche se fanno tutte schifo: ma in fondo va bene così. 4) Ricevi un sacco di idee da designer che non avrai bisogno di pagare. Gli spocchiosi designer d’elite insistono sempre con questa storia del venire > continua 75 pagati per il loro tempo. Perché mai dovrebbe essere pagato chi ama quello che fa? Voglio dire: sono i grafici che scelgono, di loro iniziativa, di investire migliaia di ore del loro tempo per Università, corsi serali e approfondimenti! Guarda tutti gli altri settori professionali (medici, dentisti, bibliotecai, meccanici, muratori, avvocati, cassieri, baristi, cuochi, quelli che friggono le patatine da McDonald’s): vengono forse pagati per fare il lavoro che amano? Non credo proprio, quindi perché dovresti pagare un designer? D’altra parte, “fare grafica” non è nemmeno un mestiere vero e proprio: è più un hobby. […] I designer esperti sono contenti di postare idee gratuite nei contest: se fanno questo lavoro da tanti anni, è perché gli piace moltissimo. Pensaci: il fatto di non essere pagati restringe automaticamente il campo ai designer che amano il loro mestiere, cioè quelli esperti. […] 7) Chiunque possegga un software di design è in grado di fare grafica. Oggi non è più necessario conoscere approfonditamente principi di equilibrio, kern, percezione, profilazione o stampa per essere designer. I software fanno tutto da soli: e chiunque può usare un software di design, basta cliccare sull’icona di Adobe in scrivania. Certo, c’è pieno di menù, palette e altre cose, ma sono messi lì dalle software house solo per dare un tono alla loro applicazione. Quasi sicuramente c’è un pulsante che si chiama “crea un logo fico” da qualche parte: Shift-F8, o qualcosa del genere. So per certo che ci sono sfumature, ombre, ef- 76 fetti lente e altri filtri che chiunque può usare, e che sono le cose più importanti da inserire in un qualunque logo. E mentre i designer professionisti perdono tempo a parlare di vettoriali, file .eps, quadricromia, risoluzione, sovrastampa, saturazione e altre ridicolaggini del genere, noi sappiamo bene la verità: non importa il mezzo, ma il design. […] 9) Partecipare ad un contest dà al grafico molta visibilità. Solo ai designer disperati interessano i soldi; agli altri interessa la visibilità, e sono emozionati già solo per il fatto di partecipare ad un contest proposto da un grande brand. Ok, la vera visibilità la ottengono soltanto se vincono il contest: ma d’altra parte, nessun designer vede mai stampate le proprie idee. Mai. L’unico modo che hanno, nella loro intera vita professionale, di veder stampato un loro progetto è vincere un contest. […] Certo, nel loro profilo sulla piattaforma di crowdsourcing risulta che hanno partecipato a 78 contest e ne hanno vinti solo 4, ma non importa. Il punto è che amano il loro lavoro, e che partecipando ai contest possono tenersi allenati ed essere coinvolti in sempre più briefing. Gratis. Ti dirò di più: sono sorpreso che i designer non paghino le piattaforme più di quanto già non facciano, in cambio di tutta questa visibilità. I grafici spesso pensano che serva un blog o un sito web per essere conosciuti: che sciocchezza. Se non fosse per le piattaforme di crowdsourcing e i contest, nessuno sentirebbe parlare dei designer, mai. > continua 77 10) Disegnare loghi gratis aiuta il designer a migliorare le proprie capacità. Anche se non venissero pagati, i designer pubblicherebbero comunque le loro idee nei siti di contest, così da poter essere criticati e corretti dagli altri. Il sistema di commenti di queste community aiuta i grafici a migliorare le proprie capacità. Una volta i designer andavano a scuola e studiavano insieme ad altri designer, imparavano la teoria, i principi e la professionalità del mestiere. Oggi, chi vuole imparare a fare il graphic designer può farlo ascoltando altre persone che ne sanno quanto lui, se non meno. È splendido, no? Il prezioso consiglio di un “collega” può aiutare un designer a crescere, e magari a vincere qualche contest, prima o poi. Commenti come: “Se esistessero i punti negativi te li dare. Hai fatto questo progetto manovrando il mouse con i piedi?” sono perfetti per motivare i giovani designer. E in più è tutto pubblico, il che rende la cosa ancora più utile. Certo, scrivere un commento esaustivo e costruttivo sarebbe bello, ma richiederebbe ad un designer troppo tempo. Nessun problema: le piattaforme di crowdsourcing hanno risolto la questione con il sistema delle stelle. Per ogni progetto, un designer può votare da 1 a 5 stelle e far contento il proprio collega creativo. Pubblicare lunghi commenti pieni di spiegazioni utili e motivate, in effetti, può mandare in confusione il creativo. Meglio lasciargli interpretare da sé il motivo per il quale gli hai dato solo una stella anzichè tre o cinque, in modo da permettergli di concentrarsi sul prossimo contest. E il seguente. E il seguente. E il seguente. […] 78 13) I contest sono estremamente popolari e amati dai designer (tranne da quei professionisti spocchiosi e snob). Sì: i designer amano i contest, il lavoro speculativo e il fatto di non essere pagati. Certo, c’è anche qualcuno contro questa filosofia: i designer professionisti, gli studenti di design, gli insegnanti, i freelance e praticamente ogni agenzia del pianeta. Tutta gente che spera inutilmente di avere un lavoro nel campo del graphic design dopo interi anni e migliaia di dollari spesi a studiare: d’altronde, che altro ti aspetteresti da chi vuole mantenere a tutti i costi il proprio status quo di snob e privilegiati? Tutto il resto del mondo (le nonne, gli inservienti, la gente che ama i gattini) pensa che il crowdsourcing sia figo: investono ore del proprio tempo senza nessuna possibilità di venire pagati per il proprio lavoro, sottoscrivono documenti che cedono ogni licenza del proprio lavoro, ricevono commenti da chi non ha nessun interesse a commentare, e stelline da chi di design non sa nulla. Sono i disperati del graphic design, quelli da cui i professionisti si devono ben guardare. E se, un giorno, uno di questi disperati dovesse cambiare idea e rendersi conto che i contest sono delle perdite di tempo, e capire che avrebbe fatto meglio ad impegnarsi per costruire un proprio studio e comportarsi da professionista, non cascateci. Ha solo cominciato a pensare come l’establishment del settore, che combatte per mantenere il proprio status quo. La sua opinione va aggiunta a quella della minoranza che odia il lavoro speculativo. Perché, lo ripetiamo: chi ama davvero il design ama anche i contest. […] > continua 79 15) Il crowdsourcing fa bene all’industria del design. I soliti spocchiosi designer professionisti insinuano che i contest danneggino il mercato. Altri sostengono, addirittura, che le piattaforme di crowdsourcing siano solo interessate a guadagnare dal lavoro gratuito degli altri. Sono solo illazioni. Pagare per un lavoro di design è roba antiquata. Il lavoro non pagato espande il mercato. Prima che esistessero questi contest, nessuno stampava mai i propri prodotti di design. Mai. Erano solo le grandi agenzie a progettare e stampare loghi e quant’altro, e nessuno faceva grafica a prezzi ragionevoli. Qualunque economista ve lo confermerà: non c’è niente di meglio per la salute di una professione che smettere di essere pagati per farla. D’altra parte, l’industria del design vale soltanto un paio di miliardi di dollari sul mercato. Se i designer smettessero di essere egoisti e lavorassero per amore, anziché per soldi, chi se ne accorgerebbe? Se i designer – che con i soldi che guadagnano comprano computer, libri, software, macchine fotografiche; pagano insegnanti, corsi e approfondimenti; e coinvolgono stampatori, illustratori, insegnanti, altri designer – si concentrassero di più sul produrre loghi gratuitamente anziché acquistare oggetti, sarebbe meglio. E chi in passato viveva grazie al design, potrebbe in questo modo guadagnare un sacco di tempo libero da passare con la famiglia. E quando Adobe distribuirà la prossima Creative Suite da 1300 dollari, a questi nuovi creativi basterà scaricarne la versione pirata da Internet. Possono farlo, è per il bene comune. 80 16) Il crowdsourcing fa bene all’intero sistema economico. Sì, è proprio così. È ovvio: l’economia va meglio quando si trasformano le persone che guadagnano in persone che non guadagnano più. Chi non viene pagato è felice di comprare cose e far girare l’economia. No, non è proprio così. In realtà, chi non viene pagato usa i risparmi messi da parte per comprare cose e far girare l’economia. Anzi no, mi sono di nuovo sbagliato. Volevo dire: chi non viene pagato sarà costretto a trovare un secondo lavoro sottopagato per portare a casa un po’ di soldi. No, non funziona. Allora diciamo che le aziende che licenziano i due grafici assunti nel proprio reparto comunicazione interno, per sfruttare centinaia di creativi non pagati – che sia legale o meno – fanno senz’altro bene all’economia. Chi lavora gratis sarà senz’altro meglio di un ragazzino che per anni ha studiato, pagato il college, pagato le tasse e acquistato cose, no? D’accordo, forse questa cosa dell’economia non mi è ancora chiarissima. Ma come posso non fidarmi della parola di chi gestisce le piattaforme di crowdsourcing? Sono tipi fighi, con il ciuffo a banana in testa e il naso rosso da clown. E chi ha il ciuffo a banana e il naso da clown non mente mai. Mai. L’articolo originale di Forbes commentato da Steve Douglas: 81 L'azienda non si affida a designer professionisti, con il rischio di ottenere solo lavori mediocri; non può stabilire una relazione professionale, diretta e immediata con un designer; affida l’intero corpo della sua esigenza di comunicazione a poche righe di brief; rischia di scegliere un progetto solo perché è bello, non perché è effettivamente valido o efficace; può trovare un designer dilettante non in grado di seguire l’evoluzione del progetto fino alla fine; svaluta la professionalità dei veri designer; se sceglie un lavoro inadeguato o non ragionato, potrebbe avere pessime ripercussioni sulla sua immagine nel lungo periodo; può trovarsi tra le mani un lavoro copiato o plagiato. La piattaforma dà fiato e corpo ad un sistema di lavoro speculativo; amplifica e legittima la percezione che chiunque possa fare creatività; guadagna sfruttando i designer e fornendo alle aziende prodotti e servizi spesso inadeguati. Il creativo non sa se verrà pagato per il lavoro svolto; vive l’urgenza di produrre più creatività possibile, spesso mal realizzata, per vincere più contest; può perdere i diritti sulla sua creatività; partecipa ad una guerra tra poveri, dove spesso non vince il migliore ma il più furbo, il più conosciuto o il più veloce; non ha la possibilità di costruire un rapporto a lungo termine con l’azienda committente; può essere costretto a plagiare lavori altrui per ottimizzare tempi e costi; rischia la frustrazione di chi investe tempo, denaro ed energie per vedersi superato da un dilettante; rischia la reputazione, pubblicando in rete progetti mediocri, creati solo per partecipare ad un contest. L'agenzia perde il suo ruolo professionale; viene surclassata e superata nelle scelte creative; può trovarsi a costruire intere strategie partendo da creatività mediocri o dilettantistiche; rischia di ridursi a mero studio di marketing anzichè completa agenzia di comunicazione. 04 Crowdsourcing 84 Ovvero: i creativi che il crowdsourcing lo fanno davvero. 85 Il vero motore del crowdsourcing, alla fine, sono i singoli utenti: si iscrivono, guardano, creano, commentano. Crowd–core 86 Imparare le regole del gioco A sentire le piattaforme, il crowdsourcing rende tutti felici. E a sentirne i detrattori, i designer sono sfruttati contro ogni etica. Ma è davvero così? I designer sono felici di partecipare anche quando perdono? Per rispondere ho contattato alcuni zoopers, gli utenti iscritti alla piattaforma Zooppa che partecipano ai relativi contest. I risultati sono stati interessanti, anzitutto per quanto riguarda l’utenza: mi aspettavo ragazzini impreparati, e invece mi hanno risposto molti quarantenni professionisti, in alcuni casi persino titolari di studi e agenzie. Insomma: il budget è quello che è, la community può anche premiare per semplice simpatia o amicizia, le aziende scelgono sempre i soliti senior user, buona parte delle idee pubblicate sono mediocri. Ma il crowdsourcing, oggi come oggi, mi sembra funzioni secondo il principio: se ti va bene partecipi, se non ti va puoi restarne fuori. 87 Cosa ne pensano gli zoopers S O N DAG G I O Ho raggiunto via e-mail la community di Zooppa, l'unica forte della presenza di un forum frequentato, per raccogliere alcune opinioni in merito al rapporto con le aziende e alle premiazioni dei contest. Mi hanno risposto in 18: chiaramente, il campione minimo vi autorizza a prendere i risultati del sondaggio con le dovute attenzioni. 1. L'utente di Zooppa Semplice appassionato PROFESSIONISTa DEL SETTORE 39% 61% di cui: 54% freelance 46% dipendente 72% 28% 11% 56% 33% ha tra i 21 e i 30 anni ha tra i 41 e i 50 anni ha tra i 31 e i 40 anni 2. Le valutazioni Ritieni che le valutazioni della community e dell’azienda siano state sempre corrette? 77% NO! 23% di cui 29% appassionato SI! di cui 71% professionista 75% appassionato 25% professionista le ragioni del no Spesso la valutazione della community dovrebbe essere imparziale, ma viene deviata dalle amicizie che con il tempo si vengono a formare tra gli utenti. È un vero e proprio scambio di favori. Le decisioni del cliente a volte sono poco chiare e non rispettano il brief indicato. Le valutazioni della community sono spesso falsate dai rapporti personali tra zoopers. le ragioni del SI Il cliente ha sempre ragione, solitamente funziona così! Chi paga ha il diritto di scegliere, no? Nella valutazione della creatività non esiste un testo biblico né un prontuario matematico. E la community, poi, premia chi si impegna di più, al di là del valore assoluto. Basta capire le regole per non rimanere delusi. 3. La vittoria è possibile? Hai mai vinto qualche contest? Ci racconti com’è andata? 22% Non ho mai vinto! 78% Ho vinto almeno una volta! Ho vinto in tutto 18.800 dollari: premi della community, premi cliente, premi dello staff. Ho vinto un premio da 7.500 dollari e tanti premi minori da 50 dollari. A chi mi invidia, dico: pensate a tutti i tentativi andati a vuoto che ho dovuto fare. Ho vinto una Honorable Mention. Ho partecipato a molti contest ed è andata bene per me: nel senso che mi sono sempre divertito. 4. L’effettivo utilizzo dell’idea L’azienda ha mai utilizzato la tua idea come l’hai concepita? O l’ha modificata, stravolta? Come video di apertura del loro brand per un anno, senza alcuna modifica. 77% NO! Non ha mai usato una mia idea. 23% Contattata per una pubblicazione grafica. Partecipato ad una Mostra a Milano e apparsa in un libro informativo, senza modifiche. 5. La community è fondamentale Oltre alla possibilità di vincere un contest, ricavi qualche altro vantaggio da Zooppa? 100% La possibilità di imparare, di migliorare, di farsi nuovi amici E IN PIù Visibilità per quanto riesco a fare da “non addetto ai lavori”. Per me sono esercitazioni fondamentali per usare la fantasia e sperimentare nuove tecniche grafiche. Sto su Zooppa per divertirmi. Nessuno ci sta realmente per soldi. È un libero sfogo di creatività repressa. Il vantaggio è che amo questo lavoro, e amo fare creatività. Il limite del crowdsourcing sta nelle leggi di mercato. La domanda di creatività crowdsourced aumenta. Anche l’offerta dei creativi aumenta, ma credo che quest’ultima sia destinata a decrescere dopo il picco, non a crescere all’infinito né a mantenersi costante. Il creativo che investe tempo (e spesso, denaro) per realizzare una proposta, deve vincere gare con regolarità per continuare a stare al gioco. Se ne perde qualcuna di troppo, si ritira: il tempo è una risorsa. [...] Il modello basato su grandi e piccoli premi assegnati a fine gara deve essere affiancato o sostituito da uno migliore, che preveda in prima battuta una gara come quelle attuali, aperta a tutti; poi un commissioning affidato solo ai creativi che hanno presentato le proposte migliori; e infine il premio finale, alla proposta definitiva. Gianfranco Grenar, in risposta al sondaggio 93 Tutto per gioco I N T E R V I S TA 11 maggio 2010. Sulla piattaforma di UserFarm appare un contest per Bonaventura Maschio, azienda friulana che produce grappe e distillati da oltre cent’anni. L’obiettivo del contest è promuovere un nuovo prodotto: Prime Uve. Il vincitore, Ciro De Caro, conquista un record: è suo il primo contenuto user-generated ad essere utilizzato come spot televisivo ufficiale da un’azienda italiana. La descrizione del prodotto nel brief recita: “Nasce dalla scelta di una materia prima nobilissima, solo uva di perfetta qualità, nella sua interezza di polpa e succo e non, come nel caso della grappa, dalla distillazione della vinaccia, la buccia dell’uva che rimane dopo la vinificazione. Prime Uve è un’acquavita preziosa, fruttata, elegante, con un aroma finissimo e delicato che anche le nuove generazioni sono chiamate a conoscere e apprezzare”. Al creativo è richiesto, a scelta: un video spot della durata massima di trenta secondi (i cinque selezionati vinceranno mille euro e saranno trasmessi online); oppure uno della durata massima di sette secondi, con cinquemila euro di premio al migliore e successiva trasmissione in televisione. Bonaventura Maschio chiede “un video che esalti l’essenza, l’eleganza di Prime Uve: esprimete la vostra idea di arte, passione, tradizione, movimento, innovazione. Ricreate l’atmosfera tipica di chi si abbandona al piacere di Prime Uve. Emozione, trasporto, ecstasy sensoriale (spero intendessero “estasi”! N.d.A.) al bar con gli amici come a casa, dopo cena, con i propri famigliari. Lasciatevi trasportare dal suo sapore. Al primo sorso vi sentirete come loro, al secondo come noi. Non mostrate grappoli d’uva, viti o quant’altro. Non è necessario. Quello che vi chiediamo è esprimere il suo essere raffinato, elegantemente custodito, amabile”. Al contest partecipano 159 creativi, che consegnano le loro proposte entro la data prevista (il 30 giugno). Il vincitore del premio da cinquemila euro, che ha visto il suo spot trasmesso sulla televisione nazionale, è Ciro De Caro. raccontami un po’ com’è andata col contest prime uve. Guarda, tutto è nato abbastanza per caso. Un amico mi ha mandato una mail con il link di questo contest su UserFarm: considera che non avevo mai partecipato ad un contest prima. Avevo appena acquistato una nuova macchina fotografica, e non vedevo l’ora di provarla. Quindi mi sono detto: perché no? cosa ti ha spinto a provarci? Io sono un regista di pubblicità, quindi uno “del mestiere”. Di solito giro con troupe numerose e budget consistenti. L’idea di questo contest mi ha stuzzicato: volevo vedere se con un budget basso e lo stimolo del premio, potevo fare uno spot vincente. ti ha aiutato qualcuno? Ho coinvolto diverse persone, tutte professioniste: due amiche producer (Erica Monello e Silvia Belleggia della Magic Pictures) un direttore della fotografia (Giuseppe Mottola, che ha portato qualche proiettore), un montatore (Alessandro Cerquetti), un musicista (Francesco D’Andrea, anche se poi il committente ha cambiato la sua musica) e ovviamente tre attori (Rossella D’Andrea, Valerio Di Benedetto e Luigi Valenti) più un paio di amici che ci hanno aiutato durante la giornata di riprese. > continua sei riuscito a convincere tutti questi professionisti a partecipare senza la garanzia di vincere? Sì, hanno partecipato tutti a titolo gratuito, con la promessa che se avessimo vinto ci saremmo fatti una bella mangiata tutti insieme. Il tutto è stato fatto quasi per gioco. come hai realizzato lo spot? Dal momento in cui abbiamo deciso di partecipare al contest a quello d’inizio delle riprese sono passate diverse settimane: volevamo essere certi che lo script fosse adatto e che avesse qualche chance di vittoria. Ci interessava, insomma, fare un bel lavoro pur divertendoci. Assieme a Rossella D’Andrea (che è anche attrice), dopo aver studiato attentamente il brief e esserci informati nei minimi dettagli sul cliente e sul prodotto, abbiamo abbozzato diversi script: all’inizio erano una decina, li abbiamo fatti leggere ad amici e colleghi per avere un parere. Infine, dopo varie “selezioni” e modifiche, abbiamo scelto quello che si è rivelato poi vincente. alla fine hai vinto cinquemila euro, che è una bella cifra. ma col senno di poi, ne é valsa la pena dal punto di vista strettamente monetario? Il video in sé è stato girato in otto/nove ore circa, più tutta la lavorazione prima e dopo le riprese. Calcolando le spese, i vari soldi che se ne andranno in tasse (sì: il premio non è un vero e proprio premio ma più un pagamento occasionale, su cui dunque pagheremo le tasse!) e un piccolo presente a chi ha partecipato allo spot… diciamo che non mi è rimasto molto, solo un piccolissimo rimborso. hai usato strumenti e tecnologie professionali per realizzare il tuo spot. che ne pensi di chi si improvvisa regista usando la videocamera del telefonino per le riprese? Dipende tutto dall’idea creativa: se narrativamente lo spot deve avere un aspetto amatoriale, si può anche girare con un telefonino e chiuderla lì. Ma che un’azienda pretenda di avere uno spot professionale praticamente gratis, non credo sia una strada percorribile oggi. In futuro chissà, con il progredire della tecnologia digitale forse certe cose saranno sempre meno rare. qual’è la tua opinione su questi contest in crowdsourcing? Non credo che si possano girare dei video con un minimo di standard qualitativo, senza avvalersi di professionisti o comunque di persone con un minimo di competenza. Per fare le cose fatte bene c’è bisogno di professionalità: persone che sanno fare il proprio mestiere e che devono essere pagate per questo. Non so, quindi, se parteciperò mai ad altri contest di questo tipo: si può fare una volta per divertirsi, ma non è pensabile che i professionisti lavorino gratis o con la semplice promessa di una probabile vittoria. a parte il premio, senti di aver guadagnato qualcos’altro dall’esperienza? visibilità, contatti con l’azienda, nuovi clienti? Bonaventura Maschio, per tutte le fasi di realizzazione vera e propria del video, ha interagito esclusivamente con UserFarm, mai con me. Quanto alla visibilità o ai nuovi clienti, per ora è tutto esattamente come prima. Ecco lo spot di Ciro De Caro che ha vinto il contest Prime Uve 98 È possibile una conclusione? La mia posizione in questo scenario è ben specifica: il graphic design è la mia professione da dieci anni, sono un freelance in perenne lotta con i clienti, i colleghi, il budget e contro la perenne percezione che il mio interlocutore ritenga questo mestiere soltanto fuffa. Con la creatività, insomma, ci guadagno il pane – e ci pago le tasse. Sapere che tra i miei nuovi competitors, oggi come oggi, c’è una nonna del Tennesse con del tempo libero e una copia di Illustrator, non può che infastidirmi: perché rovina la reputazione della categoria a cui appartengo io (e a cui, al contrario, non appartiene la nonna) e perché legittima in qualche modo la scorretta percezione che per fare comunicazione basti essere degli smanettoni di computer. Tuttavia, il concetto alla base del crowdsourcing non può non essere condivisibile: dare corpo ad una comunità virtuale di migliaia di designer, uniti dalla passione per il proprio lavoro, dalla necessità di un momento di catarsi creativa o dal semplice desiderio di esporsi, imparare, mettersi alla prova. Una comunità che genera dal basso idee, scelte, contenuti, risposte e soluzioni che un occhio abile e attento saprà interpretare e utilizzare. Quindi? Da che parte sto? Non ne ho idea e, tutto sommato, non interessa a voi almeno quanto non interessa a me. stefano torregrossa | onice design Stefano Torregrossa è graphic designer freelance da quasi 10 anni, musicista e pasticciere dilettante da molto più tempo (ma con meno risultati, bisogna ammetterlo). Insegna “Metodi e Tecniche dei Processi Editoriali” al Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Verona (a.a. 2010/2011). Non ha mai partecipato ad un’iniziativa di crowdsourcing creativo. Dal 2008 scrive di grafica, comunicazione e tendenze sul suo blog. Fuma sigarette e ascolta musica che gli altri giudicano inascoltabile. Il suo manuale sulla stampa Gutenberg’s World, oggi alla seconda edizione, è stato scaricato più di 2500 volte ed utilizzato per alcune lezioni allo IED di Milano per un Master in Graphic Design Management. Non possiede alcun hardware o software progettato da Microsoft. Collabora con il blog di web e new-media comunicazioni positive, con il portale di notizie dal mondo della grafica draft.it e, tra breve, al progetto weareopen.it. 100