Resistenza - ANPI Botticino
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Resistenza - ANPI Botticino
MEMORIE DELLA RESISTENZA A BOTTICINO appunti per un libro di storia locale a cura di Fabio Secondi Fondazione OLGA FURLAN ANPI Botticino GAM editrice © 2014 GAM Editrice - Rudiano (Bs) © Per i testi gli autori Proprietà letterarie riservate. Riproduzione anche parziale vietata. Grafica e stampa: GAM di A. Mena & C. snc [email protected] - www.gamonline.it Tel. 030.716202 - Fax 030.716514 ISBN 0000000000000000 La Resistenza italiana rappresenta una pagina straordinaria non solo del nostro passato nazionale, ma, per la propria diffusione, organizzazione e forza, dell’intera Storia europea. Un fenomeno che si compone delle moltissime e rilevanti vicende locali. È questa una delle ragioni per cui, ogni anno, noi pensionati di Cgil, Cisl e Uil proponiamo quello che si potrebbe definire “un appuntamento con la Storia locale”. Sono molti i luoghi della città e della provincia in cui, in occasione di ogni anniversario della Liberazione, ci siamo recati per ricordare fatti salienti della storia della Resistenza bresciana. Si tratta di una delle iniziative a cui dedichiamo più impegno, cura e attenzione. Lo facciamo nella convinzione che la conoscenza della storia locale sia essenziale per comprendere un fenomeno come quello della Resistenza che si caratterizzò per la sua diffusione. Come pensionati, sentiamo la necessità e l’importanza di conservare la memoria, di attualizzarla nelle scelte del presente, contribuendo alla vita democratica. Vogliamo commemorare il sacrificio di molti giovani e ricordarne gli ideali di riferimento, le ragioni che motivarono la ribellione e l’opposizione alla dittatura fascista. Portiamo avanti queste iniziative convinti che la conoscenza del passato sia elemento essenziale per la piena comprensione della dimensione sociale e politica del presente. Per questo, nel 2014, Contestualmente vogliamo parlare dello spirito originario della Carta, anche ripercorrendo i fatti della Resistenza botticinese, la lotta dei partigiani e l’eccidio della Fratta. Abbiamo sostenuto, insieme al Comune, il progetto di ristampa di questo volume. Un lavoro prezioso, curato da Fabio Secondi, che ricostruisce i fatti, dà voce alle testimonianze, contribuisce a scrivere uno dei molti tasselli della grande Storia dell’opposizione italiana al fascismo. Le Segreterie Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp Uil Brescia 3 Il sacrificio dei giovani che persero la vita o rimasero feriti, settant’anni fa alla Fratta, è una vicenda entrata indelebilmente nel cuore della storia locale, diventano parte della memoria della comunità. Una vicenda nota a molti degli abitanti di Botticino che l’Anpi locale e la Fondazione Olga Furlan, con intelligenza e lungimiranza , hanno scelto, anni fa, di mettere per iscritto, avvalendosi del lavoro di ricerca curato da Fabio Secondi. Così facendo si è fornita una preziosa testimonianza storica documentata dei fatti accaduti, Una fonte che ha moltissimi meriti: permette di divulgare la conoscenza in maniera ampia, fornisce una ricostruzione fondata su solide basi, lascia una traccia utile anche a chi, in futuro, vorrà approfondire le vicende trattate. La scrittura conferisce, inoltre, ai fatti narrati caratteri di riconoscibilità e ufficialità. Il testo, poi, ha un merito ulteriore: dà voce ai cittadini di Botticino riportando le loro testimonianze, dando valore - non sempre accade - agli occhi con cui la gente, il popolo ha visto correre la Storia. Oggi, il Comune è onorato di proporre, insieme ai sindacati dei pensionati di Cgil, Cisl e Uil, la ristampa di quel volume. Il tempo passa e il bisogno di ricordare quanto avvenne negli anni difficilissimi della guerra e del fascismo cresce. Anzitutto, per non dimenticare i caduti, il loro sacrificio, il loro coraggio e i loro ideali. Cresce per non perdere il legame con la cultura antifascista che si radicò, dopo la guerra, anche a partire dalle storie locali. La riedizione del libro, con alcune importanti integrazioni, sarà uno strumento di approfondimento della storia locale, da divulgare a partire dai luoghi di cultura e formazione presenti nella nostra realtà. Un modo per ricordare chi ha vissuto uno dei periodi più difficili della storia d’Italia e contribuire a dare nuova vitalità agli ideali resistenziali: pace, libertà, democrazia. Botticino, aprile 2014 Il Sindaco Mario Benetti 5 MEMORIE DELLA RESISTENZA A BOTTICINO Nuova edizione e ristampa - Nota dei curatori Questa ricerca risale al febbraio del 1996 su proposta dell’ANPI locale che intendeva raccogliere memorie botticinesi sul periodo resistenziale. Il libro rimasto per alcuni anni nel cassetto per motivi meramente economici ha potuto vedere la luce grazie all’intervento della Fondazione Olga Furlan, creata dalla famiglia presso la Biblioteca Civica di Botticino, e al sostegno del Comune di Botticino e di alcune associazioni. Oggetto del lavoro sono i fatti e le persone che hanno in qualche modo vissuto la Resistenza a Botticino o che sono state testimoni dirette di quegli anni. Il corpo principale della ricerca (la seconda parte del libro) è rappresentato dalle testimonianze raccolte, trascritte e riportate senza modificare il linguaggio dei testimoni e cercando solo di sistemarle, almeno in parte, dal punto di vista cronologico. Da esse traspaiono, oltre ai ricordi, le emozioni del tempo e le valutazioni su quel periodo. Non si possano comprendere singoli fatti della Resistenza senza conoscere il contesto all’interno del quale si sono sviluppati: per questo è stata ricostruita la situazione storica cui fanno riferimento le testimonianze formulando una schematica traccia degli avvenimenti nazionali, ma soprattutto bresciani, nei quali vanno inquadrate le vicende botticinesi. Questa ricostruzione cronologica, che costituisce la prima parte del libro, è basata su testi già pubblicati, testi di storia locale in genere. Le vicende botticinesi sono legate in gran parte a quelle della 122° Brigata Garibaldi che ha operato in Val Trompia, molto meno a quelle della Perlasca che ha operato in Valle Sabbia. L’obiettivo è stato quello di una ricostruzione storica locale che non ha la pretesa di aggiungere novità sostanziali al quadro delineato dalla storiografia resistenziale bresciana, ma si propone di mettere a fuoco il coinvolgimento botticinese in quelle vicende. Il lavoro cerca di riferire testimonianze e notizie in maniera sufficientemente obiettiva senza cadere nei due estremi del rifiuto o dell’agiografia resistenziale nella convinzione che finalmente si possa parlare di Resistenza – ricordando sempre che quella vicenda ha rappresentato l’atto di nascita della nostra democrazia - in modo corretto, onesto e anche critico su alcune vicende. In occasione di questa ristampa sono state aggiunte tre testimonianze che sono state acquisite in anni più recenti. Una riporta il punto di vista di un uomo che all’epoca era poco più che un bambino e ci offre alcuni tratti di vita quotidiana. La seconda è la testimonianza di una delle quattro donne che, per prime, salirono alla Fratta e ci dà conto di quei momenti drammatici vissuti da ragazze poco più che adolescenti e dalla gente di San Gallo. La terza è il racconto di uno dei partigiani riuscito a fuggire dalla Fratta; una testimonianza del tutto inedita che conferma i racconti precedenti. Infine è stata riportata (in forte sintesi) la biografia di Santina Damonti, detta “Berta”, che di famiglia e nascita era di San Gallo e fu staffetta e partigiana della 122° brigata Garibaldi e partecipò ad importanti azioni, tanto da divenire una delle più conosciute e apprezzate figure femminili della Resistenza bresciana. 7 Le testimonianze dirette delle persone che hanno vissuto la lotta partigiana, l’importante contributo portato dalle persone - soprattutto giovani ragazzi e ragazze - di Botticino, la documentazione raccolta e gli importanti scritti recentemente donati all’A.N.P.I. di Botticino dalla figlia di Casimiro Lonati, Uliana, ci incoraggiano e ci suggeriscono la necessità di proseguire il lavoro di ricerca volto a realizzare (risorse economiche permettendo) un’ulteriore pubblicazione sulla storia della Resistenza e a custodire una memoria da trasmettere soprattutto alle nuove generazioni. La Fratta è il luogo simbolo di Botticino, dove la barbarie fascista ha consumato una delle sue brutali violenze. Un luogo simbolo che ci ricorda il monito di Piero Calamandrei: “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dov’è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati”. Botticino aprile 2014 Fabio Secondi Osvaldo Squassina 8 Introduzione All’alba del 28 ottobre del 1944, alla Fratta (nel comune di Botticino), i fascisti circondavano la cascina, dove c’era un distaccamento di otto partigiani della 122^ brigata Garibaldi e consumavano una strage: tre ragazzi furono selvaggiamente uccisi, tre furono feriti. Due fortunatamente riuscirono a nascondersi e ad uscirne, più o meno, illesi. Quest’anno ricorre il settantesimo anniversario di quella tragedia. Per non dimenticare il grande valore della lotta partigiana, dalla quale ha origine la Repubblica Italiana, che ha come valore fondante la Carta Costituzionale, e per salvaguardarne la memoria da trasmettere alle nuove generazioni, l’A.N.P.I. di Botticino ha deciso di realizzare la ristampa del libro di Fabio Secondi “Memorie della Resistenza a Botticino”. La ristampa raccoglie al suo interno dei racconti importanti e per certi aspetti inediti. Vorrei evidenziare il racconto di Giovanni (Vittorio) Ciocchi, uno dei partigiani del gruppo della Fratta, che descrive con la massima precisione quello che avvenne quella mattina del 28 ottobre del 1944 sul monte vicino a San Gallo e inoltre la testimonianza di Giulia Busi, una delle quattro ragazze che per prime raggiunsero il luogo dell’eccidio fascista e trovarono i corpi martoriati dei giovani partigiani uccisi. Questa ristampa è stata possibile grazie all’impegno di Fabio Secondi e di Osvaldo Squassina, al contributo dell’Amministrazione comunale di Botticino e di Spi Cgil, Fnp Cisl,Uilp Uil di Brescia. Botticino, aprile 2014 Marco Soccini Presidente A.N.P.I. di Botticino 9 Quel giorno, stranamente, c’era l’intera segreteria. Era il 28 febbraio 1996. Il presidente Giulio Oliani ci aveva riunito per fare il punto della situazione dopo il congresso di sezione e per pianificare l’attività annuale. Oltre al presidente erano presenti Dino Bolpagni, Vito Ronchi, Jolanda Barbieri, Olga Furlan, Angela Piccinotti, Guido Damonti, Alfredo Poli, Cesare Fornari. Prima che iniziassero i lavori, Alfredo Poli, con il massimo candore, esce con una battuta: “Ma come mai non è mai stato scritto nulla sulla Resistenza a Botticino? È una mancanza che va colmata”. Ci guardammo tutti stupiti e un poco spaventati. Come fosse una cosa semplice scrivere un libro! Cominciarono ad incrociarsi i commenti, le osservazioni, ma il tarlo era ormai entrato nella testa di tutti i presenti. Si delinearono le linee guida e ben presto dalle parole si passò ai fatti. “Ma chi si assume l’onere di tale immensa fatica?”. Nessuno dei presenti si sentiva in grado di affrontare un onere così pesante e qualcuno lanciò l’idea di interpellare Fabio Secondi il quale aveva una discreta esperienza nel campo. Invitato ad una riunione successiva Fabio Secondi accettò l’incarico. Così, semplicemente, ebbe inizio l’opera rimasta per alcuni anni nel cassetto di una scrivania per motivi meramente economici. Non si riusciva a trovare un mecenate disposto a sborsare il necessario, il Comune non aveva i quattrini necessari … e solo oggi la ricerca riesce a vedere la luce grazie all’intervento della Fondazione Olga Furlan creata dalla famiglia presso la Biblioteca Civica di Botticino. La segreteria dell’A.N.P.I. ringrazia pubblicamente Fabio Secondi che si è sobbarcato il gravoso onere di portare a termine questa fatica nell’interesse della popolazione di Botticino. "Cercare che cosa fu la Resistenza vuol dire indagare dentro di noi che cosa è rimasto vivo della Resistenza nella nostra coscienza" Piero Calamandrei 10 Il percorso Questo lavoro è iniziato nel febbraio del ‘96 su proposta di esponenti dell’ANPI locale (l’indimenticata Olga Furlan, Cesare Fornari, Alfredo Poli e il presidente Giulio Oliani) che intendevano raccogliere memorie botticinesi sul periodo resistenziale. Ho volentieri aderito alla proposta perché ero per mio conto curioso di approfondire questo aspetto che in un precedente lavoro (“I ricordi sono pietre”, condotto con Carlo Simoni) non era stato indagato in quanto sembrava mancassero elementi sufficienti a giustificare una ricerca storica locale. In effetti, su questo piano, si sono verificate una sostanziale mancanza di documenti cartacei, salvo poche cose negli archivi familiari, rare fotografie e manifesti dell’ANPI, ma anche una relativa scarsità di fonti orali dovuta a una certa ritrosia a ricordare fatti per molti aspetti drammatici o forse anche al perdurare di un atteggiamento di riservatezza, o di vera e propria segretezza, legato alle vicende di quegli anni in cui il rischio della vita era reale e quindi indispensabile mantenere il silenzio. Silenzio che, a quel tempo, veniva tenuto anche in famiglia e con gli amici più stretti, tanto che a sorpresa alcuni si sono trovati a fianco, nel corso di azioni, vicini di casa o addirittura amici. È quindi risultato indispensabile, per lo svolgimento di una ricerca corretta, individuare preliminarmente i testimoni del periodo in esame per raccoglierne i ricordi conservati a cinquant’anni di distanza dagli avvenimenti. Ho affiancato alle Testimonianze l’uso di testi già pubblicati per rintracciare i fatti necessari per realizzare una ricostruzione cronologica attendibile. Testi di storia locale in genere. Le vicende botticinesi sono legate in gran parte a quelle della 122° Brigata Garibaldi che ha operato in Val Trompia, molto meno a quelle della Perlasca che ha operato in Valle Sabbia. L’obiettivo è stato quello di una ricostru- zione storica locale che non ha quindi la pretesa di aggiungere novità sostanziali al quadro delineato dalla storiografia resistenziale bresciana, ma si propone di mettere a fuoco il coinvolgimento botticinese in quelle vicende. In appendice ho riportato un elenco, forzatamente incompleto, di donne e uomini che hanno, più o meno direttamente, partecipato a quegli eventi sia a Botticino che in altri luoghi. Non va infatti dimenticato che le vicende hanno condotto molti lontano dal proprio paese, così come tra i nomi si possono trovare persone che sono arrivate a Botticino nel dopoguerra. Le difficoltà, per la grande distanza di tempo, a reperire notizie su ciascuno di loro, lascia questo elenco nudo e scarno; la sua “nudità” è però anche un modo per ricordare le tante persone che anonimamente hanno contribuito a quegli eventi. Di tante donne e uomini sconosciuti è fatta la Resistenza a Botticino come ovunque. D’altra parte i partigiani erano i soldati di un esercito senza servizi né retrovie e perciò avevano la necessità di poter contare, prima di tutto, sulla silenziosa collaborazione delle popolazioni, donne e uomini che spesso sono rimasti sconosciuti, ma che furono tanti, pronti a soccorrere, a dare rifugio ed a tacere di fronte alle rappresaglie del nemico. L’approfondimento sulla figura di Casimiro Lonati è legato in parte alla recente ricorrenza del centenario della nascita (3 ottobre 1897), ma soprattutto al ruolo di rilievo che egli ebbe proprio all’inizio della Resistenza; l’intera vicenda della sua vita ne fa poi un personaggio di forte caratura, un botticinese che merita quindi il nostro ricordo accanto ad altri certamente più conosciuti. Probabilmente, anche per la qualità del materiale recuperato, questo personaggio potrà essere oggetto di una ulteriore ricerca. 11 Questo lavoro ha richiesto in alcuni passaggi, sia nella cronologia che nella trascrizione delle Testimonianze, un atteggiamento di delicatezza (mai di reticenza, comunque) rispetto ad alcune vicende il cui racconto è stato fonte di difficoltà anche per me: i fatti narrati sono legati allo svolgersi della Resistenza ma hanno riflessi in storie umane drammatiche in cui la morte ha un ruolo centrale e numerosi sono i riferimenti a persone (parenti, protagonisti viventi, ecc.) che ancora in qualche modo sono toccate da alcune di quelle vicende. Per altro, nomi e fatti sono già comparsi in varie pubblicazioni: valga ad esempio l’interessante libro di don Sandro Gorni (“Botticino Mattina, la parrocchia dei santi Faustino e Giovita”) che già li riporta, anche se ovviamente all’interno di un lavoro di altra natura. Proprio dal libro di don Gorni ho ricavato una serie di notizie riguardanti l’ambiente cattolico nel periodo considerato. Il mio lavoro intende riferire testimonianze e notizie in maniera sufficientemente obiettiva senza cadere, spero, nei due estremi del rifiuto o dell’agiografia resistenziale. Sono convinto che finalmente si possa parlare di Resistenza – ricordando sempre che quella vicenda ha rappresentato l’atto di nascita della nostra democrazia - in modo corretto, onesto e anche critico su alcune vicende. Non si possano comprendere singoli fatti della Resistenza senza conoscere il contesto all’interno del quale si sono sviluppati: per questo ho ritenuto utile introdurre le Testimonianze di chi ha vissuto quelle situazioni ricostruendone il contesto e formulando quindi una schematica traccia degli avvenimenti nazionali, ma soprattutto bresciani, nei quali vanno inquadrate le vicende botticinesi. Per capire la presenza del movimento partigiano a Botticino è altresì necessario dare uno sguardo a ritroso agli anni che vanno dalla fine della prima guerra mondiale all’avvento del fascismo, giungere fino alla seconda guerra mondiale e percorrere alcuni fatti che possono dare una spiegazione al retroterra politico della Resistenza botti12 cinese, in gran parte di origine socialcomunista, ma che spiegano anche la partecipazione dei cattolici popolari. Alcuni episodi e fatti antecedenti alla guerra sono quindi riportati per aiutare a comprendere l’esistenza di un movimento e la scelta di singole persone avverse al fascismo. In assenza di questo, il solo rifiuto della guerra e la relativa stanchezza forse non basterebbero a giustificare il nascere e il manifestarsi della Resistenza a Botticino. Il corpo principale della ricerca è rappresentato dalle Testimonianze (raccolte e trascritte con l’aiuto paziente e tenace di Olga Furlan e di Cesare Fornari): le ho riportate senza modificare il linguaggio dei testimoni e cercando solo di sistemarle, almeno in parte, dal punto di vista cronologico. Da esse traspaiono, oltre ai ricordi, le emozioni del tempo e le valutazioni su quel periodo. Averle raccolte a cinquant’anni di distanza evidenzia nei testimoni una progressiva messa a fuoco dei loro giudizi e delle loro interpretazioni, da cui traspaiono tuttavia comuni impressioni e ricorrenti modi di sentire. È prevalente quello che sin dagli inizi aveva alimentato la loro ribellione: la speranza in una nuova società, più giusta e più umana, nella quale fossero garantiti la libertà e il rispetto per ciascuno. Le speranze e gli ideali, la fiducia nella possibilità di costruire una società diversa dal passato, e migliore, si scontrano, quando termina la lotta resistenziale, con una realtà dura e complessa. A volte pare che quanto è stato fatto sia risultato inutile, come traspare in alcune Testimonianze, ma al di là delle inevitabili delusioni, la lotta di liberazione resta il punto di riferimento (che non viene meno neppure nei momenti più duri del dopo-guerra), dal quale tutti fanno partire il processo di rinnovamento democratico del nostro paese. Ancora oggi, quindi, la Resistenza rifiuta di essere imbalsamata e conserva intatti la sua carica polemica e il suo messaggio di speranza. Questa pagine sono rivolte ai giovani botti- cinesi perché sappiano che la libertà di cui godiamo è il frutto di sacrifici fatti da donne e uomini che si sono battuti contro la tirannide nazifascista pagando, in alcuni casi, anche con il sacrificio della vita. Voglio ricordare i botticinesi che fecero una scelta coraggiosa, combattendo contro il nemico nazifascista o rifiutando di essere rimpatriati dai campi di concentramento in Germania per non servire il nemico della democrazia, morendo di stenti, malattie e torture per la causa della libertà, botticinesi che nella maggior parte non sono mai stati ricordati nella storia locale a oltre 50 anni dalla fine della guerra. Pur concordando con chi auspica la “riconciliazione degli animi e l’onore ai caduti”, penso non sia possibile porre sullo stesso piano tutti i morti di quel particolare momento storico, perché resta una differenza sostanziale tra chi è morto per sostenere la sopravvivenza della dittatura fascista e chi è caduto per la riconquista della libertà. Infine, non vanno dimenticate le persone e le famiglie botticinesi che in quel periodo di clandestinità hanno dato il loro contributo correndo grandi pericoli, nascondendo ricercati politici, ex prigionieri di guerra in fuga dopo l’8 settembre, assistendoli e avviandoli in posti sicuri o affidandoli a formazioni partigiane, rifornendoli inoltre con danaro, vestiario, cibo. Queste famiglie, queste persone sono rimaste nell’anonimato, senza chiedere nulla, contribuendo tuttavia in modo determinante ad alimentare la Resistenza in tutte le sue componenti. Verso questi anonimi personaggi (e sono molti) tutti i cittadini botticinesi hanno un debito di riconoscenza. Fabio Secondi Botticino, luglio 1998 Nota e ringraziamenti. Le note a piè di pagina non sono un vezzo da storico dilettante ma un riconoscimento a lavori già eseguiti (e in alcuni casi, purtroppo, poco conosciuti) da cui ho tratto informazioni essenziali. Il presente lavoro è stato agevolato dalla lettura dei libri che Don Sandro Gorni, con cura certosina, ha dedicato alle vicende di Botticino Mattina e dai quali ho attinto numerose notizie, nomi, fatti. Lo ringrazio a posteriori non avendolo interpellato in precedenza. Analogo grazie va a Gio.Pietro Biemmi per avermi concesso l’uso di materiale da lui raccolto. Un grazie devo a Massimo Tedeschi che mi ha fornito copia della sua inchiesta pubblicata su Bresciaoggi e che ho riportato in buona parte: la correttezza e l’obiettività del lavoro di Massimo Tedeschi sono state utili per affrontare il periodo più complesso della vicenda trattata in queste pagine. Preziosi sono stati i consigli di Gianfranco Porta all’inizio della ricerca e fondamentali la pazienza e la competenza di Carlo Simoni che si è sobbarcato la lettura del testo per indicarmi opportune correzioni. Spero di non aver deluso entrambi. Un grazie va agli amici dell’ANPI, agli intervistati e a quanti hanno collaborato alla pubblicazione consentendomi quest’interessante esperienza. Infine voglio dedicare questo lavoro a mio padre Italo Secondi, soldato dell’esercito italiano, e a mio zio Silvio Ruggeri, partigiano in Valtrompia: due modi di servire il proprio Paese e due diverse culture che, nel continuo e reciproco rispetto, mi hanno concretamente educato al senso della democrazia e all’amore per la mia patria. 13 Cronologia Il 4 novembre 1918, la firma dell’armistizio tra Austria e Italia, segna la fine della prima guerra mondiale. Tra i molti problemi del dopoguerra si fanno evidenti quelli della riconversione industriale e dei debiti con l’estero, con conseguente perdita del valore monetario e aumento dei prezzi dei generi alimentari. Lo stato in cui era precipitata l’agricoltura e il mancato assegnamento della terra ai contadini, come promesso dopo Caporetto, accrescono drammaticamente la disoccupazione e accentuano il malcontento popolare. Malcontento ulteriormente acuito dall’inflazione, che colpisce tutte le classi sociali. Si registrano rivolte popolari contro il carovita, inizia l’occupazione di terre e fabbriche. to Mussolini, nato come movimento “anti”: anti sistema, anti partiti, non propositivo. La sua prima denominazione è infatti “Fasci di Combattimento”: fasci di combattimento con il nemico straniero, durante la guerra, con il nemico interno ora che la guerra è finita. È un movimento caratterizzato da un esasperato nazionalismo, che si scaglia con violenza verso gli elementi ritenuti antinazionali - socialisti, popolari, ecc. - che prima erano contrari alla guerra e ora guidano le masse lavoratrici; da qui lo squadrismo e la violenza del movimento fascista, che si scatenano contro il movimento operaio e si danno alla sistematica soppressione di sedi di giornali, cooperative, case del popolo, sindacati socialisti e cattolici. Nell’autunno del 1920, in contemporanea a quella delle fabbriche di Brescia, si attua l’occupazione delle cave di marmo e dei cantieri di Rezzato, Mazzano, Virle e Botticino. Qui l’occupazione è guidata per i socialisti da Angelo Previcini, per i popolari dal curato Pietro Tedoldi. Le rivendicazioni rispecchiano quelle delle industrie, innanzitutto aumenti salariali e partecipazione alla gestione delle cave da parte dei lavoratori.1 Nel 1921 il movimento fascista diventa un partito, il P.N.F. (Partito Nazionale Fascista). Vengono avanti e si vanno affermando sulla scena politica strati sociali e classi che fino allora ne erano stati storicamente esclusi: buona parte della classe operaia, del lavoro salariato e dell’industria, la grande massa contadina. Questi soggetti sono presentati come fautori di disordine politico e sociale: scioperi nelle fabbriche e nelle campagne, occupazioni di terre, paralisi dei servizi pubblici, agitazioni di piazza e così via. Ma è l’affermazione politica delle classi escluse, e non il disordine, la vera novità degli anni 1919 e 1920, quelli che vengono definiti il “biennio rosso”. A Botticino Mattina il movimento operaio è presente ed organizzato con una società di mutuo soccorso, una cooperativa di scalpellini e un circolo operaio, denominato “Circolo Cooperativo Fratellanza”, che ha una propria sede in via Cave dove organizza una scuola serale e varie iniziative di istruzione e svago per gli operai, soprattutto cavatori. Esiste una “sezione socialista” che ha propri rappresentanti eletti in Consiglio Comunale. La lega degli scalpellini aderisce alla Camera del lavoro di Brescia. 2 Nel 1922 nasce a Botticino Mattina “la musica proletaria”, chiamata anche “musica rossa”, grazie ad “un gruppo di volonterosi giovani” istruiti da Giovitta Gorni. La banda viene ufficialmente festeggiata il 30 aprile; nell’occasione l’onorevole Viotto, socialista, elogia “questi compagni per i sacrifici che fanno per crearsi le loro istituzioni.”3 La reazione è affidata alle violenze del movimento fascista, fondato nel 1919 da Beni- Durante l’estate dello stesso anno si sta 1 2 Ibidem, pag.19-22 3 Ibidem, pag.26 F. Secondi-C.Simoni, I ricordi sono pietre, Botticino 1992, pag.24 15 ultimando, a cura della “Cooperativa Casa del Popolo”, la costruzione di una nuova sede in via Marconi a Botticino Mattina. Lo scopo è quello di “esplicare una sana e forte opera di propaganda sindacale e cooperativistica”. In agosto si svolge l’assemblea generale dei soci, durante la quale viene ricordato il contributo di lavoro offerto dai lavoratori e si incita a difendere la nuova Casa del popolo “dalla raffica e dalla violenza dei nuovi costruttori tricolorati”, i quali, “demolendo rabbiosamente e violentemente le istituzioni nostre che rappresentano e e costituiscono la migliore prova del progresso umano e civile del proletariato, credono di sopprimere e di distruggere quello che per oltre trent’anni siamo andati edificando attraverso un calvario di martiri e di sangue.” 4 Le violenze squadristiche sono già cominciate anche a Botticino, soprattutto a Mattina per la presenza di operai conosciuti come esponenti del partito socialista, come racconta un testimone dell’epoca: “la domenica sono incominciate le squadre fasciste. Tutte le domeniche autocarri pieni di fascisti che venivano a fare scorrazzate a Botticino, fascisti forestieri che venivano e picchiavano quelli che trovavano per strada e li mandavano a dormire. Tutte le domeniche alle sette, bisognava sgombrare il paese e andare a dormire perché arrivavano loro. Noi eravamo giovani, si faceva presto a scappare, i vecchi invece...”5 Si registrano aggressioni e intimidazioni ai danni di operai che si erano azzardati a discutere di politica all’osteria o perché conosciuti come socialisti.6 Anche la casa del Popolo di via Marconi subisce l’assalto dei fascisti, che entrano, spaccano i mobili e sparano alle damigiane del vino, del marsala e del vermut che sono in cantina. 4 Ibidem, pag.26 5 Testimonianza orale di Mario Rossi in F.Secondi-C. Simoni, op. cit., pag.60 6 16 Testimonianze orali di M. Rossi e altri I danni vengono riparati ma la casa del Popolo non avrà lunga vita e un paio d’anni più tardi passerà ad altra proprietà: l’avvento del fascismo e debiti non ancora estinti consentiranno ad un dirigente della locale sezione del PNF di acquisirla.7 In questo contesto opera Don Pietro Tedoldi, curato a Botticino Mattina fino al 1921, che raduna i giovani cattolici e promuove una scuola di musica, la “musica bianca”, diretta dal maestro Dante Colosio, affinché “i giovani possano divertirsi, istruendosi”. Si interessa anche del mondo del lavoro: sostiene le “leghe bianche”, fonda la cooperativa cattolica, si impegna personalmente per difendere i diritti dei lavoratori e per contrastare, secondo la sua ispirazione, l’ingiustizia sociale. A lui succede don Emilio Maffezzoli, che ne continua l’opera condividendo aspirazioni e ideali di promozione umana e cristiana. Il gruppo della “sezione musica”, con una trentina di altri giovani, dà vita al Circolo cattolico. Il 4 febbraio 1923 si tengono le prime elezioni e il Circolo viene iscritto all’Unione Nazionale della Gioventù Cattolica Italiana. Si forma una filodrammatica che presenta alcune commedie e si tengono adunanze mensili in cui si affrontano vari problemi, legati non solo alla catechesi. Queste iniziative disturbano l’emergente potere fascista e dalle iniziali parole lusinghiere, si passa alle minacce sia contro il Curato che contro i giovani cattolici e a pressioni effettuate su alcuni membri perché passino alla banda musicale del sindacato fascista. Le due “musiche” infatti, quella bianca e quella rossa, nel frattempo si sono praticamente fuse e raccolgono elementi, provenienti da entrambe, che si erano rifiutati di aderire alla banda musicale organizzata dai fascisti, che difatti avrà vita brevissima.8 I rapporti col partito fascista non sono per nulla cordiali e concilianti: il segretario del locale P.N.F. minaccia un giovane perché 7 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.26 8 S.Gorni, 30 anni di Azione Cattolica, Botticino Mattina 1918-1948, Brescia 1995, pag.61 porta il distintivo della Gioventù Cattolica Italiana (26 agosto 1923); ulteriore prova è il resoconto della manifestazione del 4 novembre 1923, cui partecipa la banda del Circolo, dove viene denunciata l’invadente presenza di “alcuni capeggiatori di sapore anticlericale e fascisti i quali occuparono i primi posti facendosi belli dei meriti altrui, non avendone per sé...” In questo clima di contrasti, avviene l’inaugurazione della bandiera del Circolo, il 2 dicembre 1923. Tra gli intervenuti anche l’avv. Trebeschi di Brescia, che morirà nel 1945 in un campo di sterminio. La sezione di musica continua il suo impegno sotto la direzione del maestro Giuseppe Mastini. Le difficoltà non mancano, il Curato insiste sul fatto “che ci vuole energia e spirito di sacrificio per reagire contro il male, da qualunque parte venga, e per formarsi una coscienza cristiana”.9 Il clima del periodo è reso efficacemente nelle parole di Mario Rossi (1909-1997), cavatore e acuto osservatore dei fatti sociali e politici di Botticino: “Nel ‘20 abbiamo fatto l’occupazione delle cave: quando sono state occupate tutte le fabbriche, anche noi abbiamo occupato tutte le cave. È durata otto giorni l’occupazione ... ma si è continuato il lavoro con il nostro capo fatto da noi: abbiamo sempre avuto la coscienza di lavorare anche se eravamo in occupazione e non c’era il padrone. I blocchi si erano scavati e hanno dovuto pagarci anche le giornate di occupazione .... Anche mio papà era socialista. .... Era socialista perché allora chi lavorava nelle cave era socialista. Però c’erano anche i bianchi: non bisogna dimenticare che la lega bianca era forte a Botticino Mattina a quei tempi. Anche fra i cavatori. Non erano tanti, ma c’era una pattuglia di cavatori molto aggressiva, che lavoravano con noi. Non eravamo solo la lega rossa, socialista: eravamo alleati anche alla lega bianca, c’era grande collaborazione. C’era antagonismo politico quando si face9 S.Gorni, Botticino Mattina, la parrocchia dei santi Faustino e Giovita, Brescia 1992, pag. 194-196 vano le elezioni, ma come interessi di lavoro nelle cave erano al nostro fianco. Hanno occupato anche loro le cave e durante l’occupazione sono venuti a lavorare anche loro. La popolazione di Botticino, i giovani in particolar modo erano tutti impegnati in qualche cosa: a Botticino Mattina c’erano due musiche, una bianca e una rossa, e in più un’orchestra che era indipendente, ma quasi tutti quelli che non suonavano nella musica né nell’orchestra erano capaci di suonare la chitarra o il mandolino. Quando si era giovani si andava a fare qualche salto la domenica sera, dopo fatto una settimana di lavoro nelle cave e quasi una giornata a far la legna. Ma quando si era giovani la stanchezza si sentiva poco e perciò la sera con questi mandolini e queste chitarre si faceva qualche salto con le ragazze e ci si divertiva. ... Io suonavo nella musica rossa: ero un bambino grande così, ho cominciato a 11 anni a suonare; la musica rossa è campata fino al 1923, anche quando c’erano i fascisti. ... Eravamo una trentina nella musica rossa. E una trentina saranno stati in quella bianca. E dopo c’era una quindicina che suonavano nell’orchestra. Dopo il 1923, con il fascismo, la musica è diventata una sola. Non si è aggregata al fascismo, ma hanno voluto continuare a suonare e allora si è fatta la mescolanza di bianchi e rossi. ... Suonavamo l’Internazionale, Bandiera rossa e tutte le altre; in tanti concerti si faceva la musica classica pezzi di opere come la Gazza Ladra, che era abbastanza difficile. Si facevano tanti concerti non solamente con le marce o con i cori, anche con la musica classica. Mi ricordo per esempio che abbiamo fatto un concerto a Rezzato, perché allora non c’era mica niente nei paesi: ogni tanto si cambiava il paese e si faceva un concerto di tutte le musiche in un posto. Uno a Rezzato e uno l’abbiamo fatto a Botticino, tutte le orchestre assieme. Dopo, i concerti, si facevano anche musica per musica, paese per paese. Quelli della lega bianca facevano i loro concerti anche loro con la musica classica in diversi paesi. Allora si faceva così perché non c’era mica 17 la situazione di adesso ed era l’unico modo per concentrare la popolazione. La popolazione si spostava volentieri perché non c’erano altre alternative. Si suonava la domenica, sempre la domenica pomeriggio, quando erano libere le donne, liberi tutti di venire ad ascoltare...”10 Al congresso nazionale fascista, tenutosi a Napoli nell’ottobre del 1922, viene deciso un colpo di forza contro il governo. Il 22 ottobre i fascisti, provenienti da tutta Italia, marciano su Roma. Il capo del governo Facta vuole decretare lo stato d’assedio contro le squadre fasciste, ma il re Vittorio Emanuele III non firma il decreto e addirittura affida a Mussolini il compito di formare un nuovo governo illudendosi di riuscire a mettere sotto controllo la difficile situazione governativa. L’Italia liberale di Giolitti non esiste più e si determinano le condizioni per una svolta autoritaria. Tra il 1922 e il 1924 nascono il Gran Consiglio Fascista e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.), una specie di organizzazione militare di partito che viene tollerata accanto alle forze dell’esercito e della polizia. Nel 1924 il Comune di Botticino Mattina aderisce alla Federazione dei Comuni Fascisti.11 Nello stesso anno viene conferita la “cittadinanza onoraria a Sua Eminenza Benito Mussolini”.12 Sempre nel 1924 la Cooperativa, nata dalla fusione tra la “cooperativa scalpellini” di Botticino e la “cooperativa lavoranti in marmo e affini” di Rezzato, è costretta a dare la sua adesione al sindacato provinciale fascista di Brescia.13 Dopo le sostanziali sconfitte elettorali pre10 Testimonianza di Mario Rossi in F.Secondi, C.Simoni, op. cit., pag. 60-62 11 Archivio Comunale di Botticino (ACB), Verbali Consiglio Comunale, 1.3.1924 12 ACB, Verbali Consiglio Comunale, 16.5.1924 13 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.27 18 cedenti il P.N.F. partecipa alle elezioni politiche nazionali, le elezioni del 1924, dove ottiene la vittoria con il proprio “listone fascista”, grazie anche a brogli e intimidazioni. Giacomo Matteotti, che aveva denunciato in Parlamento le violenze e i brogli, viene picchiato a morte. In seguito al delitto Matteotti nelle cave di Botticino si registrano sospensioni del lavoro per protesta; l’uccisione del deputato socialista suscita sdegno diffuso, ma è anche pretesto per azioni squadristiche come nell’episodio avvenuto al Ghiacciarolo e rievocato nella testimonianza di Angelo Marelli: “Anche a Botticino succedono degli incidenti: l’assalto alla Casa del Popolo e poi una spedizione al Ghiacciarolo. I fascisti del paese non potevano sopportare che al “licenzì dei Mènes” ci fosse gente poco d’accordo col regime ed era un po’ di tempo che ci pensavano. Non era la prima volta che alcune donne, che si credevano chissà chi perché erano mogli di alcuni caporioni, dovevano scappare lungo i sentieri della Falia per non essere “cresimate”. Quelle donne nella stagione dei marroni non si accontentavano di spigolare, ma andavano dritte nella marronera: si erano prese qualche pedata. La stessa roba era capitata per via delle mele, quando erano state fatte fuggire dai cani lungo la Lassa. Insomma loro volevano prendersi la roba dei contadini, ma le avevano fatte correre. L’occasione per dare una lezione a quelli dei Mènes è capitata proprio con il fatto di Matteotti; ne è diretta testimone la Teresa Ragnoli (classe 1906, di San Gallo) che mi ha raccontato come è andata: “... Era la fine di agosto del 1924 e qualcuno che era andato per funghi aveva buttato via un giornale con la fotografia di Matteotti che era appena stato ucciso: era così bello, poveretto! A me è venuto il sentimento di ritagliarla e di portarla a casa e come sono arrivata in cortile l’ho appoggiata sulla finestra, dentro l’inferriata. Si vede però che a qualcuno dava fastidio e allora è andato a fare la spia e a raccontare che al “licinzì dei Mènes” c’era della propaganda sovversiva. Una domenica mattina, quattro fascisti sono arrivati su e ne hanno date un sacco a Angel de Tone: aveva perfino il segno degli scarponi sulla faccia, poi hanno preso una roncola, ma per fortuna c’era mio zio Andrì che è riuscito a portargliela via e a gettarla nella siepe; loro visto come si mettevano le cose se ne sono tornati in paese. Ma verso sera, quando cominciava ad imbrunire ed io ero fuori con alcune amiche a prendere un po’ di fresco, abbiamo sentito all’improvviso dei passi e abbiamo visto una combriccola che saliva di nascosto in silenzio con brutte intenzioni. Infatti come sono arrivati nel cortile è scoppiata subito la baraonda: bestie che muggivano nella stalla, vetri che andavano in frantumi e gente che scappava spaventata. Alcuni di quei brutti lazzaroni per non farsi riconoscere avevano sul muso un fazzoletto e tutti menavano di brutto e spaccavano quello che trovavano. Hanno mandato in frantumi la lucerna sotto il portico e sono entrati nel “licinzì” dove era seduto Elia Casali e gli hanno mollato una manganellata che lui è riuscito a schivare; il manganello nel picchiare sul tavolo si è spaccato a metà e la punta, che è volata via, ha preso al braccio la mia mamma che era in cucina e le è restato per un po’ di tempo il braccio viola. Angelo nel vedere quello che succedeva è riuscito a gattoni a nascondersi nella cantina e a ripararsi dentro una botte; il povero Ceciò di Castello di Serle è corso su per le scale che portano in camera e si è nascosto sotto il letto. Mio fratello Francesco che si stava rifugiando sul fienile è stato tirato giù per le bretelle dagli scalini e ne ha prese tante che gli è rimasto sulla schiena il segno di tredici manganellate. Anche Busi Mosè di San Gallo ha preso la sua razione. Altri invece, Zaccaria Tolotti di San Gallo e Giuseppe Lonati di Mattina sono riusciti a farla franca. Quei brutti figuri dopo avere rotto tutto e mandato in mille pezzi il mio catino di porcellana, hanno lasciato il Ghiacciarolo e hanno puntato verso San Gallo, passando per la Falia. E ancora non soddisfatti sono andati giù di brutto con Bortolo dei Li Pùrsì che è finito in un canale e per fortuna che gli è passato per la mente di far finta di essere morto; mentre era lì steso immobile ha sentito dire: “andiamo, che la bestia è morta!” Poi è successo ancora di peggio: a ‘Ndrì dei Filuche gli hanno sparato una rivolverata nella gamba e lui, poveretto, per l’infezione ci lascerà la pelle. Dopo queste vicende alcuni di quei bellimbusti hanno dovuto sparire dalla circolazione e sono rimasti via un bel po’ prima di farsi rivedere a Botticino.”14 Nel 1925, dopo la crisi politica seguita all’assassinio di Matteotti e l’inizio della fase decisamente dittatoriale, più pesante si fa anche l’intervento del regime nella vita economica di Botticino: il 3 settembre viene stipulato il primo dei contratti tra la ditta Lombardi e il Comune di Botticino rappresentato dal commissario prefettizio Pietro Calzoni, podestà di Brescia, che prospetta l’affidamento del bacino marmifero comunale alla ditta rezzatese.15 Sono molti i lavoratori botticinesi che in questi anni emigrano in Francia per motivi politici, ma anche per motivi di lavoro: i nuovi contratti espellono manodopera dalle cave. I giovani della parrocchia di Botticino Mattina aderiscono all’invito di “dare definitivamente il loro nome dimostrando di voler appartenere al Circolo”: l’8 dicembre 1925 c’è l’inaugurazione del Circolo, col tesseramento, cui interviene mons. Pavanelli, assistente diocesano, che porta il suo plauso e il suo incoraggiamento. Si vuole dare maggior decoro e funzionalità alla sede del Circolo, nella chiesa vecchia: nel maggio inizia l’opera per l’ingrandimento del palcoscenico e l’arredamento della sala.16 Dal 1926 la svolta verso la dittatura si fa decisa con la creazione dei sindacati di stato, la ridotta libertà di stampa e di attivi14 Testimonianza raccolta da Gio. Pietro Biemmi; vedi anche dello stesso: Da l’Albania a le stèpe del Don, Brescia 1996 e Celoto mèdoler de Bùtisì de Matina, Brescia 1997 15 F. Secondi C. Simoni, op. cit. pag.28 16 S.Gorni, Botticino Mattina…,op. cit., pag. 197 19 tà politica, l’accentramento dei poteri nelle mani del Duce. In seguito tutti i movimenti e i partiti politici vengono dichiarati illegali. Molti uomini politici vengono arrestati, altri sono costretti all’esilio. Con podestà Pietro Calzoni, nell’autunno, un altro contratto fra Lombardi e il Comune di Botticino sanziona il monopolio di questa ditta su tutte le cave di Botticino.17 Nel 1927 si avvia l’unificazione dei comuni di Botticino Sera e Mattina per “razionalizzare l’amministrazione” secondo la direttive del regime, ma anche per controllare la ricchezza delle cave concedendo meno spazio ai cavatori.18 Un rapporto della questura segnala, nell’agosto 1927, una furiosa lite tra rappresentanti locali del regime che si trovavano nell’osteria ricavata da Santo Gorni nella ex casa del Popolo. Motivo del diverbio sono i risvolti della trattativa verificatasi pochi mesi prima fra il Comune e la ditta Lombardi, in cui i dirigenti locali si sono sentiti quantomeno scavalcati.19 In effetti non è solo la popolazione operaia di Botticino Mattina a mantenere un atteggiamento di contrarietà - più volte segnalato dai rapporti della questura - rispetto all’accordo siglato dal Comune con Lombardi. Gli stessi dirigenti fascisti nutrono perplessità e manifestano divergenze di giudizio tali da essere indotti a rivolgersi al segretario provinciale e tramite questo al prefetto, per denunciare la situazione: “animato da una grande buona volontà di ridare alla popolazione eminentemente operaia una sicura tranquillità per l’avvenire, che si presenta fin d’ora ancora piuttosto oscuro per alcuni incidenti verificatisi - si legge nel memoriale che giunge al prefetto l’8 maggio 1930 - il Direttorio è pervenuto nella determinazione di illustrare i lati deboli della convenzione tra il comune e la ditta Lombardi per l’esercizio delle cave.” In sostanza il Direttorio locale segnala una serie di preoccupazioni in ordine al monopolio della Lombardi che ritiene più vantaggioso per la ditta anziché per il Comune e rileva come la popolazione “nella sua stragrande maggioranza ebbe apertamente a mostrarsi contraria a simile monopolio e tale concetto continua a manifestarsi in ogni circostanza”.20 Il 1° aprile 1928 i comuni di Botticino Sera, Botticino Mattina e Caionvico vengono riuniti in un unico comune.21 Nel 1929 vengono firmati i Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa col chiaro obiettivo di allargare il consenso dei cattolici al fascismo. Altre forme di propaganda sono la “battaglia del grano” e la “bonifica integrale”, che hanno anche lo scopo di diminuire la dipendenza alimentare dai paesi stranieri. Comincia il periodo del “consenso al regime”, consenso costruito abilmente attraverso la demagogia, il populismo, l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione (la radio e il cinema), una efficace campagna di immagine del duce stesso, il completo controllo sulla scuola e sulle professioni. La maggioranza degli italiani non avversa il fascismo, ma si trova in una condizione di apatia, di accettazione ed appoggio non consapevoli. Forme di conformismo e di adattamento riassunte efficacemente in un ironico gioco di parole “P.N.F.: Per Necessità Familiari”; non va dimenticato infatti che per lavorare alle dipendenze dello stato è necessario avere la tessera del partito fascista. Conformismo e adesione al mito del duce, abilmente costruiti dalla propaganda fascista, sono alla base del periodo di consenso al regime che per ogni evenienza si avvale anche della propria milizia che efficacemente controlla il territorio come ricordato da molte Testimonianze. 17 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.28 18 Ibidem, pag.28 20 Ibidem, pag.29 19 Ibidem, pag.28 21 ACB, Verbali Consiglio Comunale, 1.4.1928 20 A Botticino Sera c’è la sede del partito, nella casa prospiciente l’attuale Casa di Riposo, dove vengono “invitati a presentarsi” quelli che in discussioni all’osteria si sono lasciati sfuggire critiche al governo o hanno tenuto atteggiamenti non conformi alle direttive del regime; i bambini delle scuole partecipano alle manifestazioni del sabato fascista o alle giornate di istruzione premilitare sulle colline circostanti Botticino. La scuola stessa è mezzo di propaganda capillare dell’ideologia e dell’impostazione sociale fascista. Alcune persone sono segnalate come oppositori e vengono trattenute in Questura in occasione di celebrazioni o della visita di autorità: succede a Giuseppe Piccinotti a Mattina e, seppure in misura minore, a Giuseppe Scarpari a Sera; a San Gallo è soprattutto la famiglia di Casimiro Lonati ad essere tenuta sotto controllo. Questo situazione di controllo e di imposizione ideologica è diffusa ma, come nel resto del paese, anche a Botticino esistono elementi di opposizione, presenti soprattutto tra la classe operaia di origine socialcomunista e tra le file cattoliche che hanno subito imposizioni dal regime. In Italia va maturando un clima politico ostile all’Azione Cattolica: nel maggio 1931 si sviluppa una forte polemica con una massiccia partecipazione della stampa; alla fine di maggio, dopo una serie di soprusi contro le sedi dei Circoli Cattolici e dei loro soci, il governo ne delibera lo scioglimento. Lo scioglimento dei Circoli giovanili impressiona fortemente i cattolici botticinesi, suscitando sdegno e condanna. Anche il circolo botticinese viene sciolto, ma i giovani continuano la loro attività attraverso adunanze e incontri formativi, e approfittano pure del teatro, per lanciare messaggi ispirati ai valori cristiani. Attraverso queste rappresentazioni la gioventù ha modo di riunirsi “istruendo se stessi e il prossimo, che numeroso partecipava nella chiesa vecchia, trasformata in teatro”.22 Nel 1932 si costituisce la “Cooperativa operai cavatori del Botticino” che è costretta ad aderire alla Federazione nazionale fascista delle imprese cooperative. L’anno seguente, nel 1933, Hitler va al potere in Germania. Nello stesso periodo, a Botticino, l’assegnazione delle cave alla Lombardi provoca il fallimento o la chiusura delle altre ditte che inevitabilmente licenziano operai: questo crea malcontento e disagio tra la popolazione operaia, puntualmente segnalati dalla questura. Essa segnala che in paese vi sono 170 disoccupati e, contemporaneamente, che è stata rilevata “un’attività, sebbene non palese, negli elementi sovversivi, alcuni dei quali, recentemente, avrebbero cantato Bandiera rossa. Vi sono elementi - si sottolinea - ostili al regime, che necessita sorvegliare, essendo sospetti di propaganda spicciola”.23 Nel febbraio del 1933 c’è in paese una manifestazione, nei pressi del Municipio, di cavatori disoccupati che accendono un falò con la legna destinata al riscaldamento dell’edificio pubblico. La manifestazione riscuote un successo tale da indurre il Lombardi stesso alla trattativa per la riassunzione di gran parte dei disoccupati. Alcuni fra gli operai intuiscono le difficoltà che serpeggiano fra i componenti dell’Amministrazione e cercano di acuirle. Sempre fra le carte della questura si registrano voci che accusano il vice podestà di aver ottenuto alcuni terreni in cambio dell’appoggio dato alla stipula del contratto, e lettere anonime che denunciano l’inefficienza del nuovo podestà Giovanni Rossi. La questione è spia di un certo malessere all’interno del PNF locale, tanto da indurre lo stesso segretario botticinese, Umberto Ferrari, a prendere carta e penna per difendere, davanti al Prefetto, l’onore e la correttezza amministrativa del “camerata Rossi”.24 23 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.30 22 S.Gorni, Botticino Mattina..., op. cit., pag.197-199 24 Ibidem, pag.30 21 Dopo il rientro in cava in seguito agli accordi conclusi con la Lombardi, gli operai trovano il salario decurtato: la situazione si fa tesa al punto che viene allestita una caserma dei carabinieri ai piedi delle cave (smobilitata pochi anni dopo). In queste vicende si sono messi in luce alcuni operai, che sospettati di simpatie comuniste e socialiste, vengono periodicamente chiamati in questura e invitati genericamente “a star calmi”.25 Nel 1935 l’Italia aggredisce l’Etiopia. Le grandi potenze impongono al Regno d’Italia le sanzioni economiche. Mussolini invita gli Italiani all’autarchia. Il 1936 è l’anno della guerra di Spagna, dove l’Italia invia i cosiddetti “Legionari”; tra i volontari che accorrono invece in difesa della repubblica sono segnalati alcuni botticinesi tra cui uno dei fratelli Lonati di S.Gallo e un Filippini di Botticino Sera. In Spagna si verifica il primo scontro armato tra fascisti e antifascisti fuoriusciti. Nello stesso anno viene costituito l’Asse Roma-Berlino. In seguito all’annessione del “Corno d’Africa” viene proclamato “l’Impero”. A Botticino il podestà convoca le ditte locali per illustrare il progetto di costruzione di un monumento che ricordi i caduti e nello stesso tempo celebri la fondazione dell’impero. Il podestà sollecita a fare “opera di convinzione” presso gli operai perché concorrano alla spesa. Il monumento che nella sua forma riprodurrà l’iniziale di Mussolini, sorgerà nella piazza comunale (dov’è tuttora) grazie al “generoso sentimento degli operai” ai quali vengono imposte 48 ore di trattenute sotto forma di ore di lavoro straordinario; alla cooperativa vengono invece richieste 24 ore più 3 metri cubi di marmo per ogni socio.26 Un rapporto steso nel 1937 da Italo Nicoletto per il Centro estero del PCI, riferisce di una realtà difficile ma per alcuni versi in mo- vimento. Invitati dallo stesso Nicoletto a far presente le proprie rivendicazioni i cavatori botticinesi segnalano il rischio in cui incorrerebbero: “sarebbero stati licenziati, perché i padroni avrebbero dato per un certo tempo quanto gli operai avevano diritto, ma i promotori alla prima occasione sarebbero stati licenziati e non avrebbero più trovato lavoro nel loro mestiere. (...) Molte volte - precisa l’esponente comunista - preferiscono fare un lavoro cospirativo (distribuire stampe ecc.) col quale rischiano parecchi anni di carcere, che fare un lavoro per il quale nella peggiore delle ipotesi vengono licenziati.”27 Questo rapporto conferma l’esistenza, espressa in alcune Testimonianze, di un inizio di diffusione di propaganda antifascista in gran parte collegata all’esperienza clandestina comunista: copie dell’Unità, volantini, materiali riferiti alla situazione dell’Unione Sovietica. Alcuni operai, come racconta Mario Rossi, riescono a leggere libri proibiti dal regime grazie all’aiuto del curato di Mattina che mette a disposizione la sua biblioteca.28 Il 7 aprile 1937 Nicoletto sfugge all’arresto e resosi latitante viene ospitato a San Gallo da dove, presi gli ultimi contatti, inizia la fuga che lo porta a Gorizia e quindi in Yugoslavia.29 Vi sono quindi elementi che indicano la presenza di avversione al regime e, soprattutto tra gli operai delle cave, di una qualche organizzazione antifascista, evidentemente limitata e ovviamente clandestina, che non investe la maggioranza della popolazione. Solamente nel ‘42-43, a guerra avanzata, dopo la tragica ritirata di Russia e il forte peggioramento delle condizioni economiche, il dissenso diverrà generalizzato anche a Botticino. Nel 1939 viene firmato il “Patto d’acciaio” tra Italia e Germania. Nel settembre di 27 Ibidem, pag.32.33 28 Ibidem, pag.64 25 Ibidem, pag.31 26 Ibidem, pag.32 22 29 I. Nicoletto, Lettere dal carcere, dal confino dall’esilio, Brescia 1980, pag.XXIX quell’anno la Germania invade la Polonia: inizia così la seconda guerra mondiale. L’Italia per il momento rimane neutrale. Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra contro Francia e Gran Bretagna. Il 23 ottobre la guerra dell’Italia viene estesa ai Balcani. A Botticino il PNF non naviga in buone acque. Una relazione della questura del 27 febbraio 1940 segnala l’iscrizione di soli 238 uomini e 55 donne sui 5.016 abitanti del comune. Gli iscritti sono in gran parte concentrati a Sera. Quella che si sta verificando è una erosione costante delle adesioni, tanto che nel dicembre 1942 un altro rapporto della questura parlerà apertamente di “abbandono” della sezione del fascio botticinese.30 Allo scoppio della guerra nel 1940, i giovani e gli uomini vengono chiamati alle armi e mandati al fronte. Il Parroco di Botticino Mattina don Pietro Tiboni si fa promotore di un’iniziativa coinvolgente con cui invita alla preghiera per i soldati. Così durante una solenne celebrazione nella chiesa parrocchiale si fa il sorteggio dei nomi dei soldati che vengono abbinati ai ragazzi del paese per cui ognuno di essi diventa “l’angelo custode” di un soldato, per il quale è incaricato di pregare per il suo ritorno incolume alla famiglia e al paese. L’abbinamento soldato bambino viene registrato su un quaderno compilato da Maria Squassina, a quel tempo delegata dei fanciulli cattolici.31 Nel 1941 inizia la guerra contro l’URSS, che porta ad una grande tragedia per le truppe italiane là inviate. Gli USA, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour del 7 dicembre, intervengono a fianco degli alleati europei. economiche a Botticino. Molti giovani botticinesi sono alle armi, gli altri verranno inviati al lavoro a Ghedi, presso la Totd. I carabinieri segnalano il 29 luglio 1941 una manifestazione singolare: un gruppo di donne e bambini composto di circa 200 persone si presenta in Municipio protestando per la mancanza di pane e di farina gialla. Il prefetto dispone una maggiore distribuzione di questi generi. 32 Dopo la battaglia di Stalingrado (settembre-novembre 1942) inizia la controffensiva russa. In ottobre inizia l’offensiva anglo-americana nell’Africa settentrionale. Nel marzo 1943 si svolgono varie manifestazioni popolari, soprattutto scioperi nelle fabbriche, contro il fascismo e la guerra. Tra il 9 e il 10 luglio avviene lo sbarco degli alleati in Sicilia. Il 25 luglio, dopo l’esito del Gran Consiglio del fascismo, il re fa arrestare Mussolini. Pochi minuti prima della mezzanotte del 25 luglio del 1943, l’EIAR trasmette due comunicati del re e del generale Badoglio, nominato capo del governo, con cui gli italiani apprendono che Mussolini è stato imprigionato. Questo fatto viene interpretato come la caduta del fascismo e la fine della guerra: la popolazione scende nelle piazze a manifestare la sua gioia fino alla tarda sera del 26 luglio. Nelle fabbriche si costituiscono commissioni interne di operai, i partiti escono dalla clandestinità nonostante i divieti governativi. Negli stessi giorni nasce un comitato interpartitico (poi CLN), nel quale sono rappresentati principalmente socialisti, comunisti e democratico-cristiani. Gli anni della guerra segnano il rallentamento e spesso l’arresto delle principali attività Già prima del 25 luglio si era costituito, a Brescia, il Fronte del lavoro, organizzazione unitaria di sinistra, creata da socialisti e comunisti, di cui era segretario Casimiro Lonati.33 30 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.33 32 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.33 31 S.Gorni, Botticino Mattina…,op. cit., pag. 234-243 33 M.Ruzzenenti: Il movimento operaio bresciano nella 23 È un lavoro ancora sotterraneo che si svilupperà soprattutto in direzione delle fabbriche dove vengono ricostituite cellule di comunisti (che possedevano un certo patrimonio di lotta clandestina) e si cerca di contrastare la propaganda fascista sfruttando le condizioni di disagio causate dalla penuria di generi di prima necessità e dal continuo aumento dei prezzi.34 Già precedentemente Casimiro Lonati (come responsabile della Federazione clandestina del PCI) aveva tenuto numerosi incontri con gli operai delle fabbriche della Val Trompia. Tra essi anche il botticinese Rino Gorni.35 Casimiro Lonati (col nome di Spartaco) dirige il lavoro politico e organizzativo in Val Trompia e si fa anche promotore della costituzione delle commissioni interne di fabbrica.36 Trascorrono così i 45 giorni del governo di Badoglio, la guerra continua a fianco dell’alleato germanico. Il 3 settembre Badoglio, visto che gli alleati stanno per attaccare la penisola, decide di capitolare firmando a Cassibile (in Sicilia) l’armistizio con gli anglo-americani. Solo l’8 settembre 1943 ciò viene reso noto al popolo; il re e Badoglio fuggono a sud verso gli Alleati, lasciando l’esercito privo di un comandante e di direttive sul da farsi, soprattutto nei confronti dei tedeschi, che intanto hanno cominciato l’invasione della penisola. Proprio la sera dell’8 settembre il botticinese Casimiro Lonati si trova a Collio, a casa di Pietro Gerola, dove assieme ad altri giovani del luogo viene costituito il primo nucleo di resistenti in alta Valle Trompia.37 Soldati alla ricerca di abiti civili, ex prigionieri alleati che scappano attraverso le montagne verso la Svizzera, sbandati che riparano sui monti per organizzare un miresistenza, Roma 1975, pag.54 nimo di difesa in attesa della fine del conflitto ritenuto imminente: si formano così i primi gruppi partigiani, sulla base di motivazioni diverse. Per la maggior parte si tratta di porre fine ad una guerra non sentita, di sfuggire alla cattura, di “fare qualcosa” di fronte all’invasione tedesca.38 Fin da quei giorni inizia un’azione di orientamento e già si parla di aiuti a coloro che sono in montagna o intendono andarvi.39 In Valsabbia già all’indomani dell’8 settembre, si formano in maniera spontanea e piuttosto improvvisata, alcuni gruppi costituiti prevalentemente da militari sbandati, in massima parte abitanti della valle. Ad alcuni gruppi si pone immediatamente, tra gli altri, il problema organizzativo del trasferimento in Svizzera degli ex prigionieri alleati che, fuggiti dal campo di concentramento di Vestone dopo l’armistizio, si erano portati verso la montagna e nei dintorni di Forno d’Ono. Questa attività fino al gennaio 1944 sarà una delle più rilevanti di alcuni gruppi valsabbini.40 Già dal 10 settembre 1943, giorno stesso dell’entrata delle truppe tedesche nel capoluogo, gruppi di ex militari si nascondono sulle colline e sulle montagne: si trovano via via sulle balze di Botticino, a San Gallo, a Serle e in molte altre località della provincia bresciana. Accorrono sempre più numerosi i giovani, soprattutto dopo il bando di presentazione alle armi delle classi 1923-1924-1925 e a seguito del proclama del comandante superiore delle forze germaniche, colonnello V. Wuthenau. Infatti dopo la proclamazione dell’armistizio cominciano a comparire in tutti i paesi i proclami dei tedeschi, che rivelano subito la ferocia del loro programma di repressione.41 38 M.Ruzzenenti: La 122a brigata…, op.cit., pag.15 34 M.Ruzzenenti: La 122a brigata Garibaldi e la resistenza nella Valle Trompia, Brescia 1977, pag.13 39 R.Anni, Storia della brigata Perlasca, Brescia 1980, pag.17 35 Ibidem, pag.29 40 Ibidem, pag.22 36 Ibidem, pag.30 41 Comunità montane di Sebino Bresciano e Valle Trompia, Croce di Marone la prima battaglia della resistenza, Lumezzane 1983, pag.3 37 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza a Gardone VT, Gardone VT 1995, pag.141 24 Il 12 settembre un reparto di paracadutisti tedeschi libera Mussolini dalla sua prigione sul Gran Sasso. Dopo un periodo di permanenza in Germania, Mussolini forma uno stato fantoccio nell’Italia occupata dai tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.) A Brescia il 12 settembre giunge Leonardo Speziale, comunista con esperienza militare nella Resistenza francese. Futuro animatore della 122° brigata Garibaldi si mette al lavoro per organizzare i primi G.A.P. (Gruppi di Azione Patriottica).42 I partiti democratici bresciani danno vita il 18 settembre al Comitato di Liberazione nazionale, composto da Giuseppe Ghetti, Casimiro Lonati (PCI), Bigio Savoldi (PSI), Andrea Vasa (Pd’A), Enrico Testa (DC).43 Il 28 settembre il partito socialista e quello comunista, all’interno della resistenza bresciana, rinnovano il patto di unità d’azione con lo specifico compito di combatte- re il nazifascismo. Al botticinese Casimiro Lonati, uno dei fondatori della Federazione del PCI di Brescia, in quel tempo residente provvisoriamente a Villa Carcina, viene assegnato il ruolo di massima responsabilità.44 Casimiro Lonati (Spartaco) si occupa dell’organizzazione politica della zona di collina e di media montagna a nord di Brescia, compito cui si aggiunge una funzione di carattere militare in riferimento alle particolari necessità della zona intorno al monte Guglielmo, dove sono dislocate le prime bande partigiane.45 Casimiro Lonati come membro del CLN tiene anche i contatti con alcuni giovani renitenti alla leva della Repubblica di Salò fino al 1944, quando viene inviato a Novara come ispettore delle brigate Garibaldi dell’Alto Novarese.46 44 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag.89 42 M.Ruzzenenti: La 122a brigata…, op. cit., pag.17 45 M.Ruzzenenti, Il movimento operaio…,op. cit., pag.69 43 M.Ruzzenenti: Il movimento operaio…, op. cit., pag.64 46 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.33.34 Casimiro Lonati San Gallo di Botticino 3.10 1897 - Botticino Mattina 13.4.1983 Trasferitosi a Sant’Eufemia giovanissimo, entrò nel partito socialista e nel 1919 si dedicò all’attività sindacale tra gli edili. Era infatti muratore. Aderì al partito comunista sin dalla fondazione, nel 1921. Attivo antifascista, fu costretto ad espatriare47, assieme ai fratelli, alla ricerca di lavoro. Stabilitosi nei pressi di Parigi, nel 1922-1923 continuò la sua attività politica tra i fuoriusciti italiani: ricoprì cariche sindacali e politiche come membro del Comitato Nazionale, Ufficio mano d’opera straniera. Espulso dalla Francia nel febbraio 1930 riparò nel Belgio dove divenne redattore del giornale “Il Riscatto”, nonché segretario delle “Leghe Antifasciste” attive tra gli italiani emigrati in Belgio, Olanda e Lussemburgo. Nel 1931 entrò a far parte dell’apparato centrale del Partito Comunista d’Italia. Per missione di partito rientrò clandestinamente in Italia e svolse la propria attività clandestina specialmente a Mila47 25 no. In quel periodo i fratelli che erano rientrati in Italia a causa di una malattia della madre, vengono più volte portati in questura e fatti oggetto di interrogatorio, soprattutto Angelo, e spesso trattenuti alla ricerca di informazioni. Dopo qualche tempo Miro Lonati fu inviato a Mosca, ove frequentò l’università leninista. Rientrato in Italia nel 1934, lavorò nelle organizzazioni antifasciste clandestine di Milano e Genova, dove fu arrestato nel giugno e assegnato per 5 anni al confino nell’isola di Ponza. Nel 1935, in seguito ad agitazioni di protesta dei confinati, assieme a numerosi suoi compagni fu processato a Napoli e condannato a 10 mesi che scontò nel carcere di Poggioreale. Nel luglio del 1939 fu trasferito alla colonia penale di Pisticci dove il 26 dicembre venne prosciolto dal confino. Riacquistata la libertà, ritornò a Sant’Eufemia e Botticino e poté riabbracciare la famiglia, alcuni membri della quale non vedeva da 19 anni. Quindi riprese la lotta pur costantemente vigilato dalla polizia e fino al 1943 fu segretario della Federazione comunista clandestina di Brescia. Qui d’intesa con i socialisti, costituì il “Fronte del Lavoro”, organismo che ebbe parte importante negli scioperi del marzo. Il 26.7.1943, alla caduta del fascismo, con il socialista Giovanni Ferrari occupava il palazzo dei sindacati e veniva nominato vice-commissario dei sindacati del bresciano. Dopo l’8.9.1943, sostituito da Giovanni Grilli nella direzione della Federazione comunista bresciana, entrò a far parte del C.L.N. locale con Bigio Savoldi e il col. Pizzuto assumendosi il compito di mantenere i contatti con le prime formazioni partigiane della provincia. Col nome di “Spartaco” lavorò soprattutto in Valtrompia, dove risiedette per un certo tempo a Villa Carcina assieme alla madre a ai fratelli. Dal 4 febbraio 1944 venne trasferito dal partito a Novara come ispettore delle brigate Garibaldi dell’alto novarese (col nome di “Pippo Coppo”) e successivamente come responsabile politico della 2° Divisione operante nel Cusio e nell’Ossola col nome di battaglia “Verdi”. Rappresentò successivamente il P.C.I. nel governo provvisorio della repubblica dell’Ossola (40 giorni) e dopo la sua caduta finì coi partigiani dell’Anzasca. Dopo la Liberazione divenne segretario della Federazione comunista di Novara. Tornato a Brescia, va a vivere a S.Eufemia con il fratello Angelo e la sorella Maria. Divenne membro della segreteria provinciale del P.C.I., del comitato esecutivo della C.d.L. per la categoria degli edili, segretario della F.I.L.E.A., dirigente del lavoro sindacale del P.C.I. e segretario della Confederterra di Brescia. Nell’ottobre 1948 venne nominato segretario della C.d.L. di Manerbio. Fu inoltre presidente dell’A.N.P.P.I.A. provinciale. È stato consigliere comunale del P.C.I. a Botticino dal 1956 al 1960. 26 Un personaggio dalla vita avventurosa e complessa; certamente un militante per il quale “il partito, la politica venivano prima di ogni cosa”, come racconta la figlia. Si sposò in età avanzata, dopo la guerra. Nei ricordi era una persona dal carattere introverso, quasi timido, forse rintracciabile nelle sue origini montanare di San Gallo, ma comunque apprezzato e ben voluto dagli operai e dai compagni di partito, tanto è vero che viene spesso citato nelle Testimonianze con affetto. Purtroppo una malattia lo privò progressivamente della vista e altri problemi di salute gli impedirono di proseguire la sua attività politica, benché, fino a che fu possibile, lo si poteva incontrare sui mezzi pubblici, con il suo bastone bianco, recarsi a Brescia alla Federazione del PCI allora in via Gramsci. Passò gli ultimi anni, finché la vista glielo consentì, a leggere e prendere appunti sulle vicende politiche del nostro paese: non ostante le sue origini si era costruito una notevole cultura politica e i quaderni ancora conservati dalla famiglia ne sono testimonianza. Visse gli ultimi anni a Botticino dove morì il 13 aprile 1983.48 47/48 Le notizie sono ricavate da: Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, La Pietra - Walk Over ed.; Testimonianza della figlia Uliana Lonati (Botticino 4.12.1997) Il comitato interpartitico, diventato CLN, cerca di organizzare le diverse bande di ribelli. Occorre procurare indumenti, cibo, armi e munizioni a centinaia di persone. Spontaneamente vengono emergendo alcune personalità che dimostrano capacità di direzione. Attorno ad esse si coagulano le prime formazioni partigiane. La più numerosa si trova a Croce di Marone e a Colma di Zone e si raccoglie intorno all’ufficiale dell’esercito Martini e a Peppino Pelosi; un altro gruppo nella zona di Croce di Pozzuolo al comando di Francesco Cinelli; un gruppo autonomo alla Sella di Polaveno con Ferruccio Lorenzini (in questo gruppo milita anche Giuseppe Gheda, futuro vicecomandante della 122° brigata Garibaldi), altri gruppi operano in alta Valle Trompia con i fratelli Gerola. Data la mancanza di armamento, e dopo due incontri falliti con esponenti della Beretta per negoziare delle armi, si opta per il colpo di mano alla fabbrica d’armi gardonese. La notte fra il 6 e il 7 ottobre 1943 un gruppo di partigiani delle diverse bande, diretti per l’occasione da Martini e Pelosi, con un’azione molto ben preparata e con la collaborazione di elementi interni alla Beretta, riesce a prelevare una notevole quantità di armi, successivamente trasportate a S.Rocco e lì divise tra i vari gruppi. Il giorno dopo i tedeschi, per ritorsione, fanno arrestare tutti i componenti della commissione interna della fabbrica. Da ricordare, per quanto riguarda il rifornimento di armi, anche l’aiuto fornito da molti operai gardonesi che riescono a prelevare armi di nascosto durante gli allarmi aerei o addirittura trasportando parti di armi separatamente, ricostruendole poi in officine clandestine, improvvisate in cantine o solai.49 Nel novembre del 43 è segnalata l’esistenza di un gruppo di partigiani operanti sul monte S. Vito tra Nave e Botticino capeggiato da un certo tenente Volpi.. Il gruppo partecipa all’assalto alla caserma dei carabinieri di Nave da cui asporta armi e munizioni.50 49 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag.14 50 S.Peli, Il primo anno della resistenza. Brescia 19431944, Brescia 1994, pag.57 27 Nel novembre il partigiano Pietro Gerola preleva dalle cave di Botticino esplosivo usato per l’escavazione del marmo, assieme a molti detonatori. La gelatina verrà portata a Brescia, Milano, Udine e Padova. 51 Il 12 novembre una bomba viene fatta esplodere presso la caserma del Comando Generale della M.V.S.N. a S.Eufemia.52 Tutte queste ed altre attività non possono che preoccupare i nazifascisti, che decidono quindi il primo grande rastrellamento. L’obiettivo è Croce di Marone: l’attacco avviene il 9 novembre 1943: si tratta di uno dei primi scontri armati tra gruppi partigiani e forze nazifasciste nell’Italia occupata e si conclude con uno sfacelo non ostante l’accanita Resistenza partigiana. A questo rastrellamento ne seguono altri, il 20 e 21 novembre in alta Valle, ed il 13 dicembre nella zona di Gardone V.T. dove si registrano i primi arresti. In seguito a quest’ultimo rastrellamento i partigiani della valle vengono dispersi, i principali comandanti (Cinelli, Lorenzini, Pelosi) catturati e giustiziati, mentre Gheda viene condannato a vent’anni di carcere. Da ciò deriva una crisi del movimento partigiano che durerà fino alla tarda primavera del ‘44.53 Una battuta d’arresto deriva anche dalla feroce rappresaglia e dall’eccidio di piazza Rovetta del 13 novembre, ad opera dei nazifascisti, che pone ostacoli all’attività di Casimiro Lonati e degli altri e intimidisce gli elementi di base.54 Resta attivo in quel periodo un gruppo formato da russi ex prigionieri di guerra, poi fuggiti da Brescia verso le montagne. Questi operano tra la media Val Trompia e la Val Sabbia al comando di Nicola Pankov, che 51 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag.130 52 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.17 53 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag.14 54 M.Ruzzenenti, Il movimento operaio…, op. cit., pag.70 28 ha la sua base d’appoggio presso alcune famiglie di Marcheno. Anche questo gruppo per tutto l’inverno fino alla primavera del ‘44 non svolge attività militare, svernando in montagna tra mille difficoltà, arrangiandosi in qualche modo. L’inverno ‘43-44 è durissimo: repressioni, rappresaglie e rastrellamenti fiaccano l’onda spontanea della rivolta e fanno cadere le illusioni di chi credeva che la guerra fosse alla fine. Il fronte si stabilizza sugli Appennini; la Repubblica di Salò grazie al sostegno tedesco sembra riprendere forza. L›unica forma di resistenza clandestina esiste all›interno delle fabbriche, in alcune delle quali continua l›operazione di raccolta delle armi.55 Con l’arrivo della primavera del ‘44 molti giovani, in seguito alla chiamata alle armi delle classi 1924, ‘25 e ‘26 da parte della RSI, preferiscono raggiungere le montagne: la scadenza dell’8 marzo, termine ultimo entro il quale presentarsi, e la legge del 18 febbraio, che commina la pena di morte ai renitenti, hanno l’effetto di accrescere e moltiplicare le file dei patrioti; si indirizzano quasi tutti verso il gruppo dei russi. Sono questi giovani che in seguito daranno vita alla 122a Brigata Garibaldi, la formazione combattente organizzata nel bresciano fra l’estate del ‘44 e la Liberazione. Nello stesso mese di giugno del 1944 viene inviato dalla federazione del PCI Marchina, di Gussago, che deve prendere il comando di tutti i giovani che si erano uniti ai russi. Il gruppo misto di questi raggiunge così un numero di 250 giovani; si ripresenta il problema dell’armamento e del vettovagliamento. Dopo un fallito lancio di rifornimenti da parte degli alleati sul monte Guglielmo (effettuato invece in Valle Camonica), Marchina decide il trasferimento di una parte di questi giovani verso le zone in cui opera55 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag.14 no Fiamme Verdi e la 54a Garibaldi, con la speranza di ottenere qualche armamento. La colonna si scontra nella zona del monte Muffetto con un gruppo di nazifascisti, molti i feriti e 17 i prigionieri che sono spediti in Germania. Per i superstiti quella è un’esperienza tremenda, molti preferiscono riparare nelle loro case e restarvi nascosti. Pochi fanno ritorno al monte Guglielmo unendosi al gruppo misto di Nicola. Sul finire del giugno 1944, il 28, questo gruppo misto decide l’attacco alla caserma della GNR a Brozzo, dando così segno della nuova forza acquisita. Il colpo ha doppia importanza: da una parte rifornisce i partigiani di armi e munizioni, dall’altra, essendo seguito da fatti analoghi a Bovegno e a Collio (dove operano un gruppo autonomo intorno ai fratelli Cecco e Arturo Vivenzi e gruppi di Fiamme Verdi attestati sulla Corna Blacca e sul Dosso Alto), determina l’abbandono dell’alta valle da parte dei fascisti. Da quel momento nell’alta Val Trompia non rimane più alcuna guarnigione fascista: da qui la decisione di porre a Gardone una porta in via Zanardelli e una sbarra sulla statale all’altezza della Beretta (quasi a delimitare due territori diversi) per il controllo del traffico verso l’alta valle che è diventata una sorta di “zona libera”. I reparti nazifascisti raggiungono quei paesi solo per attuarvi rastrellamenti e rappresaglie.56 Il 5 giugno 1944 è avvenuta la liberazione di Roma, il 6 è cominciato lo sbarco in Normandia. Himmler, capo supremo delle SS, dichiara l’Italia settentrionale e centrale come “zone per la lotta contro le bande di ribelli”. La crescita dei componenti dei gruppi, favorita dalla speranza che con l’estate sarebbe ripresa l’offensiva alleata (come dimostrava la liberazione di Roma) e che quindi la fine della guerra fosse prossima se non imminente, ha come primo risultato una maggiore spinta morale ad agire che si traduce in una serie di iniziative prima isolate, spontanee e prive di coordinamento tra i vari nuclei, poi in collegamento, per quanto possibile, tra di loro.57 Si rende sempre più necessaria la costituzione di un’unica brigata, ma mancano gli elementi capaci di porsi alla guida di essa con adeguata esperienza militare. Il 13 luglio 1944, durante il bombardamento di Brescia, Bruno Gheda, Leonardo Speziale (Arturo) e altri, riescono a fuggire dal carcere e a riparare in Val Trompia. Qui riorganizzano il movimento partigiano, raccogliendo molti uomini, provenienti anche dal gruppo misto dei russi. Questi ultimi, mantengono però un comportamento autonomo rifiutandosi di collaborare col CLN, e ciò determinerà in seguito la condanna a morte del loro comandante Nicola. I garibaldini ormai diventati 122a Garibaldi rappresentano il punto di riferimento per tutti i giovani della nostra zona che scelgono la montagna.58 A comandarla è Bruno Gheda e il commissario politico è Leonardo Speziale (che per l’occasione cambia il nome di battaglia in Carlo); ai primi di agosto si unisce anche Luigi Guitti (Tito). Si accentua il processo di dissoluzione dei gruppi autonomi e di aggregazione intorno al nucleo garibaldino, che per la sua coesione ideale e l’omogeneità politica, oltre che per il prestigio dei suoi comandanti, diviene fattore di coesione per il movimento partigiano valtrumpino.59 I partigiani hanno contatti con la popolazione di Botticino, soprattutto a San Gallo, per cercare viveri e indumenti: raccontano le loro esperienze e fanno opera di proselitismo fra gli operai rimasti, i renitenti alla leva repubblichina e i giovani appartenenti alle famiglie di vecchia fede socialista e comunista.60 57 R.Anni, Storia della…, op. cit., pag. 64-65 58 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag. 15 59 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.51 56 Ibidem, pag.14 60 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.34 29 A San Gallo arriva, da Serle, Stefano Allocchio per raccogliere informazioni e tenere contatti con altri gruppi ribelli della Valle Sabbia.61 Allocchio guida un distaccamento della Brigata Perlasca costituitosi a Serle: è un gruppo di notevole importanza sia per i collegamenti della brigata che opera in Valsabbia con la città, sia per il controllo che può effettuare sulla statale per il Garda e 61 Caterina Rossi Tonni, I giorni del Tesio, Serle 1995, pag.22 per la Valsabbia stessa.62 Il movimento di Liberazione a Botticino Mattina trova fertile terreno anche in persone di estrazione cattolica, che aiutano come possono; specialmente alcune donne di Azione Cattolica si fanno promotrici di aiuti materiali e di sostegno morale ai patrioti che sono sulle montagne. Maria Squassina, Maria Rossi, Angela Casali ed altre donne, col consenso del parroco e col pretesto di raccogliere le offerte per le campane, passano nelle famiglie a chiedere il contributo per i partigiani. 62 R.Anni, Storia della…, op. cit., pag. 108-109 Le campane di Botticino Mattina Durante la seconda guerra mondiale, le campane di Botticino Mattina rischiano la distruzione. Nel 1943 giunge in canonica un ordine di requisizione secondo il quale Botticino Mattina deve consegnare 20 quintali di bronzo da trasformare in armi per i bisogni della guerra (Reale Decreto 23 aprile 1942 - XX, n. 505). Due campane vengono tolte dalla torre e trasportate a Ghedi in un campo di raccolta insieme ad altre della nostra zona. “Quando ormai si dispera di salvarle, si apre uno spiraglio: gli avvenimenti politici che si accavallano in quel periodo, fermano l’esodo delle campane bresciane, molte delle quali erano già state distrutte. Le botticinesi nel dicembre del 1943 sono ancora intatte e si pensa di recuperarle andando a Ghedi a prelevarle: occorrono L. 5.000 per riscattarle”. Nell’archivio parrocchiale esiste il “resoconto offerte campane” eseguito dal parroco in data 31 dicembre 1943, dove sono segnati i nomi degli offerenti. Raggiunta la cifra occorrente, si pagano le cinquemila lire di riscatto e si vanno a prendere a Ghedi. Il trasporto viene eseguito da Marino Antonelli (Scàrpa) che “si porta a Ghedi con la sua “carata” trainata da due cavalli. Eseguito il carico, prende la via del ritorno evitando le strade maestre per non fare spiacevoli incontri, e giunge a Botticino Mattina quando ormai è notte, perciò si ferma alla ex “Casa del popolo”. La mattina seguente le campane fanno il loro ingresso per la via principale del paese (via Roma) dove è accorsa gente attirata dal loro suono essendo percosse con il martello”. Vengono scaricate nel cortile della canonica e “ricollocate in torre” dalla ditta Filippi Giuseppe e Figlio con una spesa di L. 3.600: la fattura porta la data del 5 maggio 1944.63 63 Sandro Gorni, Botticino Mattina…,op. cit., pag.149 30 Dopo la guerra si riconoscerà questo impegno da parte dei partigiani garibaldini. Maria Squassina risponderà per iscritto alla commissione garibaldina - sezione di Botticino Mattina - che voleva ricompensarla per il bene fatto, mettendo in risalto la gratuità della sua partecipazione, anche a nome delle altre donne dell’Azione Cattolica: “per quanto riguarda il riconoscimento di aver contribuito ad aiutare i partigiani nel periodo dell’occupazione tedesca vi informo che quel poco che ho fatto, l’ho fatto per amore fraterno verso coloro che uniti da un solo ideale si sacrificavano per liberare la nostra cara Patria. Perciò non desidero altra ricompensa, che la soddisfazione di vedere libera la nostra cara Patria”.64 L’episodio è indice della solidarietà che accomuna persone di differente estrazione di fronte alle difficoltà e ai pericoli; solidarietà che andrà disperdendosi a guerra conclusa per il prevalere delle diverse opzioni politiche.65 Nel mese di maggio giovani di Gavardo e delle zone vicine che dovevano presentarsi per il servizio militare sotto la RSI lasciano il lavoro, le famiglie, per non sottostare a questi ordini e, con un po’ di cibo, si dirigono verso Serle, Botticino, San Gallo. Allocchio conduce la sua attività in collaborazione con alcuni comandanti partigiani che vengono periodicamente in Tesio per prelevare i giovani. Allocchio manda rifornimenti anche ai partigiani della Garibaldi di San Gallo.66 Alla fine di settembre 1944 sul Tesio arrivano tre partigiani provenienti, con un viaggio avventuroso, dall’altipiano di Asiago: uno di loro, un “bel ragazzo, altissimo, biondo”, è il livornese Giuseppe Biondi e chiede di essere aggregato alla brigata Garibaldi che opera a San Gallo; il secondo, un milanese chiede di entrare a far parte delle Fiamme Verdi e viene accompagnato a Livemmo, mentre il terzo, un piacentino, viene sistemato presso una famiglia di contadini in attesa di tornare a casa. Biondi, che indossava ancora un giubbotto mimetico americano ma con pantaloncini corti, trova di che vestirsi grazie ai partigiani di Bedizzole che avevano mandato in Valpiana di Serle degli indumenti sottratti ai tedeschi; viene poi accompagnato a San Gallo dove si aggregherà ad un gruppo di garibaldini lì dislocati.67 Il 4 ottobre 1944 la nuova brigata 122a viene formalmente incorporata nel comando generale delle Brigate d’assalto Garibaldi e quindi nel Corpo Volontari della Libertà e ne assume il comando Giuseppe Verginella (Alberto), il quale subito raduna gli uomini per predisporre un piano di recupero di armi, scarpe e soldi per far fronte ai bisogni della formazione.68 Subito viene organizzato un colpo ai danni del Calzaturificio Alberti di S.Eufemia, dove vengono prelevate 250 paia di scarpe di tipo militare.69 Il 13 ottobre viene effettuato un prelievo di vestiario alla “Tadini e Verza” di Brescia, si trafugano circa 300 abiti destinati in Germania.70 A fine ottobre circola in paese, a Botticino, un biglietto di propaganda, incitante i giovani ad arruolarsi nelle file partigiane, recante l’emblema della falce e martello.71 Approssimandosi la cattiva stagione e dato l’intensificarsi dei rastrellamenti, la 122a brigata viene divisa in tre gruppi: uno dislocato verso Brescia, uno nelle località Quarone e Camaldoli e il terzo a San Gallo, sotto il comando di Gheda.72 67 Ibidem, pag.44 68 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.55-56 69 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag.16 70 Ibidem, pag.139 64Ibidem 71 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.33 65 Testimonianze orali di Luigi Previcini e altri 72 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag.16 66 Caterina Rossi Tonni, I giorni…, op. cit., pag.45 31 San Gallo è luogo di collegamento fra la brigata garibaldina e i partigiani della zona di Brescia est: il luogo e le famiglie che avevano dato alloggio e consentito la fuga di Nicoletto verso la Jugoslavia nel ‘37 sono ora a disposizione delle necessità logistiche e di rifugio dei partigiani. Nel settembre del ‘44, ad esempio, si segnala che “il compagno Pedretti viene ricoverato a San Gallo”, senza specificare se per ferita o malattia. Da Botticino salgono a San Gallo con viveri, indumenti e informazioni i partigiani locali, raccolti soprattutto intorno a Rino Gorni, riportando notizie sulla preparazione di azioni, loro compito è quello di fornire l’appoggio necessario.73 A Botticino Mattina sono attive due cellule: una localizzabile in via San Nicola (oltre al Gorni, Arnaldo Arici, Emilio Moreschi, Angelo Damonti e altri), l’altra intorno a via Cave (Amilcare Benetti, Luigi Tomasotti, Angelo Noventa). A Botticino Sera, dove le difficoltà sono maggiori, sia per la minore presenza antifascista sia per la vicinanza alla città, ma anche perché vi alloggiano ufficiali tedeschi e i fascisti hanno una presenza più marcata, esiste un gruppetto legato a Scarpari, Fraboni, Quadri, Della Fiore; quest’ultimo, garzone fornaio, gode di una certa libertà di movimento, per cui fa anche da “postino” per la propaganda oltre a partecipare ad alcune azioni di appoggio. 73 Testimonianze orali di F.Moreschi e altri Giuseppe Scarpari (Bortol dei Bù) Botticino 28.5.1895 - 27.7.1976 Giuseppe Scarpari, discendente di quel Michelangelo Scarpari garibaldino botticinese partecipante all’impresa dei mille, nasce a Botticino Sera nel 1985; compie un corso di studi che lo porta ad un diploma tecnico contabile per cui entra al lavoro in una banca cooperativa bresciana di cui diviene capo-contabile. Viene invitato a prendere la tessera del fascio, la cui ideologia però è lontana dalle sue idee di matrice socialista che aspirano a condizioni di uguaglianza per tutti: è solito ripetere che il fascismo è un disastro per i poveri che sono destinati a divenirlo ancora di più. Perciò rifiuta la tessera fascista e viene licenziato. Sceglie di dedicarsi alla coltivazione delle vigne e alla produzione del vino a Botticino dove la sua famiglia possiede alcuni terreni: proprio questa via di uscita lavorativa gli consente di mantenere una posizione di autonomia rispetto al regime nascente e di resistere alle lusinghe ricorrenti del regime stesso che cerca di attirarlo tra le proprie fila per il consenso personale e per l’autorevolezza che circonda la sua figura in paese. Militante socialista non si piega nemmeno alla violenza fascista tanto da subire per questa resistenza prigione e sistematiche angherie. In occasione di un anniversario della marcia su Roma viene trovato dai militi fascisti mentre accudisce le sue vigne e per questo motivo tradotto e trattenuto per alcuni giorni in prigione. Il periodo più lungo di carcerazione avviene nel 1926: Scarpari viene arrestato il 18 giugno per attività contro il regime fascista e rimesso in libertà provvisoria il 4 agosto. 32 Successivamente, sempre nello stesso anno, viene fermato altre due volte per “misure di pubblica sicurezza” e sottoposto a perquisizioni personali e domiciliari. Inoltre con ordinanza della commissione provinciale fascista in data 21 dicembre 1926, viene sottoposto ai “vincoli dell’ammonizione per la durata di anni due, quale socialista massimalista”. Per queste motivazioni, nel dopo guerra, gli verrà assegnata una pensione in qualità di perseguitato politico antifascista. Viene più volte ammanettato con vari pretesti e portato in questura a Brescia; in questi frangenti conosce e diviene amico di Alghisio Bottarelli, comunista di Nuvolera, che troverà la morte a Botticino, ucciso da soldati tedeschi il 28 aprile 1945. Giuseppe Scarpari costituisce per i giovani e per gli antifascisti di Botticino Sera un punto di riferimento e partecipa all’organizzazione di azioni di appoggio alla Resistenza; soprattutto è promotore della diffusione di propaganda clandestina, grazie anche alle sue capacità di scrittore. Entra, dopo il 25 aprile, a far parte del comitato di liberazione che amministra provvisoriamente il Comune di Botticino con il primo sindaco Livio Perugini. È tra i fondatori della sezione del PSI botticinese nel dopoguerra che trova sede proprio in un locale da lui messo a disposizione in via Scarpari a Botticino Sera. Aderisce poi al partito socialdemocratico fondato da Giuseppe Saragat dopo la scissione di palazzo Barberini. Bortol dei Bù ebbe sempre fiducia incrollabile in un futuro più giusto e in questa sua convinzione si alimentò la sua adesione al socialismo: fu un personaggio di notevole personalità tanto da conoscere personalmente ed essere apprezzato da leader nazionali come Pietro Nenni.74 74 Testimonianza e documenti d’archivio della famiglia Scarpari Il compito del distaccamento di San Gallo, oltre alla raccolta di viveri e indumenti, è quello di preparare il sabotaggio per mezzo di esplosivo della stazione ferroviaria di Rezzato dove transitano i convogli militari tedeschi.75 Il 28 ottobre 1944 tre partigiani appartenenti a questo distaccamento vengono uccisi in località Fratta.76 75 Testimonianze orali di G.Giordani e altri 76 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op cit., pag.16; anche F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.34 e in M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op.cit., Brescia 1977, pag.58 Il gruppo si era accampato nella cascina Fratta a nord di Botticino. Quando il comandante Gheda all’alba si alza per una perlustrazione si accorge di qualche movimento sospetto e al suo “chi va là” subito crepitano colpi di mitra che lo feriscono. La cascina è provvista di due uscite opposte, entrambe sorvegliate dai fascisti. Gli otto partigiani che stanno all’interno tentano subito una sortita, approfittando dell’oscurità, per sottrarsi all’accerchiamento. Uno a uno cercano di abbandonare la cascina buttandosi nei cespugli all’intorno protetti dal fuoco di sbarramento dei compagni. Cinque garibaldini però restano all’interno: tre vengono catturati, mentre due di loro, 33 Ciocchi di Bovegno e Giuseppe Giordani (Capèla) di Iseo riescono a nascondersi nella cisterna, costretti ad ascoltare le voci e i rumori che accompagnano la tragica fine dei loro compagni, Giuseppe Biondi, Beniamino Cavalli e Francesco Di Prizio, picchiati e uccisi sul posto dai fascisti. Gheda, colpito di striscio, riesce a mettersi in salvo e a ricongiungersi al resto del distaccamento.77 Don Sandro Gorni, nel suo libro78, riporta l’episodio: “È una mattina grigia. Su S. Gallo e le colline che lo circondano grava una fitta nebbia. All’alba gli abitanti della frazione botticinese vengono svegliati di soprassalto da colpi d’arma da fuoco che echeggiano in tutta la vallata. Una lunga serie di raffiche di mitra si ode provenire dal monte Fratta. Dopo mezz’ora una pattuglia di nazi-fascisti scende nella borgata e, giunta davanti alla casa parrocchiale, chiama ad alta voce il sacerdote dicendo: “Vada sul monte Fratta che vi sono dei morti da benedire”. Questa frase viene sentita da molti, ma le prime ad accorrere sul luogo dell’eccidio sono quattro donne, alle quali appare una scena raccapricciante. Nei pressi della cascina, che porta la denominazione della collina, tre cadaveri straziati, tre giovani vite: Giuseppe Biondi di Livorno, Beniamino Cavalli di Castrezzato e Francesco di Prizio di Iseo, tre partigiani appartenenti alla 122a Brigata Garibaldi, tutti giovanissimi, giacciono esanimi in una pozza di sangue”. I due superstiti dell’eccidio, fortunosamente riparatisi nella cisterna dell’acqua, a sera vengono accompagnati a Castello di Serle dove il parroco li nasconde per un paio di giorni sul campanile, dopodiché ritornano in Val Trompia per riunirsi con i compagni della 122a brigata.79 Il 22 novembre un gruppo dei GAP si reca in paese a Botticino Mattina per giustiziare una donna accusata di essere una spia: si presentano alla casa della donna alla quale intimano di seguirli. La donna tenta di dare l’allarme gridando. I GAP le sparano: la donna però rimane solo ferita.80 Il registro dei defunti, nell’archivio parrocchiale, riporta e annota i morti del periodo di guerra, sepolti a Botticino Mattina: sia quelli scomparsi per morte naturale che quelli uccisi. Tra questi, Engarda Maria Bodei in Zanola, abitante in via Gazzolo n. 18 (Silistì), nata a Nuvolera il 22 marzo 1903 e deceduta e Botticino Mattina il 27 novembre 1944, a 41 anni di età per la seguente causa: “Decessa improvvisamente per timore davanti ad una G.R. (era in corso un rastrellamento dei tedeschi coi Repubblichini di Salò), morta per arresto cardiocircolatorio”, così scrive don Tiboni.81 Nello stesso periodo è segnalata (con nota dello stesso parroco) la morte di un Casali, “guardia boschiva, la cui giovane vita è stata stroncata da mano assassina in via Sott’acqua, vicino a casa”. Era l’alba del 5 dicembre 1944.82 Casali è ritenuto l’informatore che aveva guidato i nazi-fascisti alla Fratta; viene ucciso per vendetta al mattino, mentre è nel gabinetto fuori di casa, con un colpo sparatogli attraverso la finestra da un partigiano della 122a.83 Il 7 gennaio 1945 a Serle vengono arrestati Stefano Allocchio ed alcuni altri partigiani: questo tuttavia non provoca la sospensione dell’attività del gruppo che in seguito può controllare il campo di lancio alleato in Cariadeghe dove nel marzo successivo si verifica la prima missione aereotrasportata alleata.84 Il 10 gennaio 1945, reso irriconoscibile dalle torture, viene portato a Lumezzane e 80 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., ag.84 81 S.Gorni, Botticino Mattina…, op. cit., pag.245 77 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag. 58 82 Ibidem, pag.246 78 S. Gorni: “Botticino Mattina …” op. cit., pag. 244-245 83 Testimonianze orali di A.Zanola e altri 79 Testimonianze orali di G.Giordani e altri 84 R.Anni, Storia della…, op. cit., pag. 134 34 fucilato Giuseppe Verginella, il comandante “Alberto”, che era stato arrestato il precedente 24 dicembre nei pressi di Iseo. La scarica di mitra lo lascia agonizzante sul terreno per molte ore: deve servire da monito.85 Il 12 gennaio nei pressi di San Gallo un distaccamento della 122a brigata Garibaldi, in fase di ricostituzione, subisce un ennesimo rastrellamento.86 Dopo i rastrellamenti subiti in Vaghezza, a San Gallo, a Quarone e ai Camaldoli, fino alle porte della città, il comando di brigata ordina lo scioglimento dei distaccamenti e la costituzione di piccoli gruppi dislocati un po’ ovunque; si formano così nuclei a Marcheno, Gardone V.T., Iseo, Provaglio, Botticino, San Gallo, nella Bassa e in vari punti della città: la decisione consente di evitare altre gravi perdite. Si può superare così l’inverno e al ritorno della primavera riprendere la strada della montagna. In questo periodo è particolarmente prezioso il lavoro delle staffette, soprattutto donne. Sono loro che mantengo- no i contatti tra i gruppi dispersi nei vari rifugi, che si occupano di rifornirli quasi quotidianamente di viveri, che li tengono informati sui movimenti dei fascisti, che portano informazioni e ordini. Numerose erano state le ragazze che avevano fin dall’inizio aiutato attivamente il movimento partigiano: sono loro che, consce delle difficoltà di resistenza morale e psicologica per quei giovani, si schierano al loro fianco aiutandoli concretamente nei collegamenti con il fondovalle e in alcuni casi partecipando alle azioni militari.87 Trascorre così l’inverno 1944-45, ritorna la primavera e si sente che la liberazione è vicina, gli uomini della Brigata cominciano a raccogliersi intorno a Giuseppe Gheda (Bruno), dopo che Verginella è stato ucciso e Speziale è stato trasferito.88 A San Gallo si ricostituisce un distaccamento di 12 uomini.89 Il comando della brigata dal marzo è affidato a Tito (Luigi Guitti), autore di numerose e audaci azioni militari. 87 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.63-64 85 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.63 86 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag.140 88 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag. 15-16 89 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.66 Luigi Guitti (Tito) S.Eufemia 24.11.1911 - Collebeato 17.11.1968 Nelle vicende resistenziali, anche botticinesi, compare la figura di Tito Tobegia, nome di battaglia di Luigi Guitti. Che Tito fosse a suo modo una figura romanzesca lo conferma un episodio curioso. Mario Rigoni Stern, che lo ebbe come compagno d’armi in Albania, dedica parecchie pagine del suo romanzo “Quota Albania” al Tobegia di Sant’Eufemia. Tito era nato il 24 Novembre 1911 a Sant’Eufemia. Faceva di professione il meccanico, anche se la leggenda popolare gli attribuisce un passato da contrabbandiere. I suoi guai con il regime cominciano nel ‘40, quando “Tobegia”, durante un litigio in un’osteria di Sant’Eufemia sfascia un ritratto del Duce. L’episodio non passa inosservato e Tobegia preferisce cambiare aria. Raggiunge Brindisi e da lì traghetta per l’Albania dove si aggrega, da civile, alla divisione alpina Tridentina che segue 35 anche in Russia. Gran podista, discreto sciatore, svolge il ruolo di portaordini. Dopo l’8 Settembre è di nuovo a Sant’Eufemia, da dove aiuta alcuni prigionieri americani e inglesi a raggiungere la Svizzera ed entra a far parte del movimento partigiano. È in collegamento con il gruppo comunista di S.Eufemia che nel novembre ‘43 collabora con i primi G.A.P. operanti a Brescia sotto la direzione di Leonardo Speziale. Catturato dai fascisti, è in prigione dal novembre del ‘43 al luglio del ‘44. A Canton Mombello avviene la sua sommaria politicizzazione. Il 13 luglio 1944 si trova fra i prigionieri politici che, approfittando di un bombardamento, fuggono dalle carceri assieme a Giuseppe Gheda e a Leonardo Speziale. Con questi ultimi Guitti si sposta sulle montagne della Val Trompia con i partigiani comunisti dando vita al nucleo di quella che sarebbe divenuta la 122° Brigata Garibaldi; da questo momento le azioni militari cui interviene e che lo vedono spesso protagonista non si possono contare. Va ricordato comunque di particolare rilievo il fatto d’arme di Mura dove Tito si trova solo in mezzo alla strada e fa un macello dei militi impauriti dal suo coraggio, come viene narrato con linguaggio pittoresco ma efficace nella relazione per la proposta di decorazione al valore militare. Tito, in seguito a quell’episodio, venne proposto come comandante di distaccamento. La 122° Brigata Garibaldi dirada le sue azioni dopo la cattura (24 Dicembre 1944) e la fucilazione (10 gennaio 1945) del comandante Giuseppe Verginella. Nel febbraio la Brigata si ricostituisce e Tito nel marzo viene designato comandante: lo sostengono le sue caratteristiche di uomo d’azione più che il rigore ideologico; suo vice è Giuseppe Gheda, commissario politico Giovanni Casari. Gheda con altri 17 combattenti della Brigata cade a Lumezzane il 19 aprile, sei giorni prima della liberazione. Dopo l’eccidio di Sant’Eufemia, la giustizia si interessa di Tito nel ‘45. Dopo 13 mesi di carcerazione, con l’appoggio di una martellante campagna del PCI, Luigi Guitti torna libero nel ‘46 ed è salutato come “eroe” da una manifestazione comunista in piazza della Vittoria (in quel periodo ribattezzata Martiri della Libertà). Nel ‘47 la nuova inchiesta della magistratura sull’eccidio e la decisione del PCI di far espatriare l’ingombrante “eroe”. Guitti passa in Jugoslavia e da lì in Cecoslovacchia dove si risposa, ha due figli e lavora come contadino nei pressi di Terezin. Negli anni ‘60, dopo fugaci riapparizioni, il definitivo ritorno a Brescia del fuoriuscito. E a Collebeato la drammatica fine, avvenuta il 17 novembre 1968: otto giovani fanno visita a Tito, chiedendogli di raccontare le sue imprese. Poi si rivelano per quello che sono: neo fascisti giunti in spedizione punitiva. Nasce un violento diverbio durante il quale, nell’atto di scagliare una lampada per difendersi, Tito si accascia, fulminato a 56 anni da un infarto che non gli dà scampo. Duemila persone accompagnano il suo feretro mentre i nemici di sempre scrivono frasi ingiuriose sui manifesti funebri. Certamente Tito fu un personaggio abbastanza singolare: portò nella 36 lotta militare lo spirito temerario e intraprendente caratteristico della sua vita avventurosa. Di indiscusso coraggio mancava però di altrettanta capacità politica. Fu il partigiano per certi versi leggendario che riscuoteva la fiducia dei suoi uomini e l’ammirazione di larghi strati popolari.90 90 M. Tedeschi, in Bresciaoggi 11.9.1990 Nella notte tra il 13 e il 14 aprile 1945 un gruppo della 122a Garibaldi, in cui sono presenti alcuni botticinesi, aiuta una trentina di soldati e cinque sottufficiali del 131° battaglione dell’esercito della RSI (dei quali due avevano preso accordi con la 122° per disertare) a lasciare la caserma di Botticino con armi ed equipaggiamento e dirigersi verso il Sonclino accompagnati da una decina di partigiani. La caserma era situata nell’edificio comunale che attualmente ospita la biblioteca. I fuggitivi prendono la strada di San Gallo, dove sostano, per poi avviarsi verso la Val Trompia.91 Alcuni dei soldati fuggiti si uniscono ai partigiani garibaldini; la fuga dei militari da Botticino irrita i fascisti e costituisce una delle cause del rastrellamento del 19 aprile sul Sonclino. Alla vigilia del rastrellamento sei dei militari fuggiti chiedono al comandante Tito di potersene andare, perché hanno paura ed indossano ancora la divisa militare. Essi pensano di potersi consegnare ai fascisti, facendo credere di essere stati prelevati dalla caserma dai partigiani e di essere stati costretti a seguirli in montagna. Invece vengono fatti prigionieri dai tedeschi che li portano a Marcheno presso il loro comando e il pomeriggio del giorno seguente li fucilano.92 Al monte Sonclino avviene il più grosso scontro della 122a brigata Garibaldi con i nazifascisti che in forze (circa 400 uomini della San Marco appoggiati da un gruppo di tedeschi) attaccano le postazioni partigiane: numerosi i nazifascisti uccisi e feriti. Vengono catturati e poi fucilati 18 garibaldini; il vice comandante Gheda muore combattendo. La battaglia del Sonclino, dagli esiti drammatici, è indice dell’insurrezione finale ormai vicina ed è l’ultimo disperato tentativo fascista di colpire la parte più avanzata e combattiva del movimento partigiano.93 Il CLN provinciale dà l’ordine di insurrezione generale. Questa avviene in città e in tutti i paesi della provincia fra il 25 e il 28 aprile del ‘45 con la partecipazione della popolazione che combatte facendo prigionieri migliaia di soldati tedeschi e fascisti con le loro armi. È la Liberazione. La 122a ha il compito di scendere dalla Valtrompia a liberare Brescia: a San Gallo viene inviato un numeroso distaccamento. Questo gruppo di garibaldini passa attraverso il Ghiacciarolo e la zona delle cave giungendo inquadrato militarmente nella piazza del Municipio a Botticino già nel tardo pomeriggio del 24 aprile. Il distaccamento partigiano occupa la sede comunale ed organizza un centro di raccolta di viveri e indumenti e, a nome del CLN, una prima forma di amministrazione in “terra libera”. Il 24 aprile anche il gruppo di Serle delle Fiamme Verdi scende a Brescia costeggiando Botticino attraverso il monte Maddalena.94 Il 26 aprile muore a San Gallo Giovanni Busi, ucciso, mentre porta al pascolo le sue mucche, da un tedesco in fuga. 91 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op. cit., pag.18 93 M.Ruzzenenti, La 122° brigata…, op. cit.,pag.69 92 Ibidem, pag.18.19 94 Caterina Rossi Tonni, I giorni…, op. cit., pag.94 37 Un’altra vittima, il 30 aprile 1945, è Teodolinda Lanzi, moglie di Giacomo Panada , abitante in Via Gazzolo n. 75. Il parroco don Tiboni lascia scritto sul registro il motivo della morte: “Decessa per commozione celebrale in seguito a panico avuto di fronte alla lotta dei patrioti contro i tedeschi, asseragliati nella sua casa”.95 Lo scontro tra soldati tedeschi e partigiani avviene il 28 aprile 1945, presso il “casì de Panàda”. Qui un gruppo di soldati tedeschi ha preso possesso del piccolo edificio e ucciso alcune pecore che vi erano custodite. Un gruppo di partigiani, avvisato del fatto, sale nei pressi della casa in attesa di rinforzi per snidare e catturare gli occupanti: i tedeschi sparano dalle finestre nel tentativo di aprirsi un varco e fuggire verso la valle di Nuvolera. Arriva sul posto Alghisio Bottarelli, di Nuvolera, che proprio la sera precedente aveva raggiunto Botticino, e poiché conosce il tedesco chiede di parlamentare. Bottarelli entra a parlare con i soldati tedeschi rifugiati nel “casì de Panada”. I militari fingono di arrendersi e quando il partigiano si affaccia alla porta per chiamare i suoi, viene pugnalato alle spalle; i soldati escono con le armi in pugno sparando verso i partigiani che si stanno avvicinando credendo alla resa; nella sparatoria rimangono feriti i botticinesi Giovanni Zanola, Adelino Zanola, Costantino Zanola e Umberto Della Fiore. Alcuni soldati riescono a fuggire verso Nuvolera, mentre due di essi si asserragliano di nuovo nella casa. Con l’arrivo dei rinforzi la casa viene parzialmente incendiata e i due tedeschi, costretti ad uscire, vengono catturati (uno di loro è ferito) e condotti attraverso il paese fino ad essere sottoposti ad una esecuzione sommaria davanti al cimitero di Mattina. Vengono passati per le armi da Tito Tobegia accorso sul posto poiché nessuno dei partigiani locali aveva il coraggio di eseguire la sentenza.96 Sulla facciata della casupola è tuttora leggibile la lapide che ricorda il fatto con que- sta iscrizione: “BOTTARELLI ALGHISIO MARTIRE COMUNISTA CADUTO PER LA LIBERTA’ E L’INDIPENDENZA D’ITALIA NELLA LOTTA INSURREZIONALE IL 28 APRILE I945. I COMPAGNI POSERO.” Il 28 aprile 1945 trovano la morte a Botticino 4 soldati dell’esercito tedesco: Giovanni Vogt, Edrvin Fitz, Lodovico Lichtenfels, Ervin Scibert. Due sono i fucilati davanti al cimitero e ancora Tito è l’esecutore dell’uccisione degli altri due, sottufficiali, che si rifiutavano di arrendersi ai partigiani.97 I due militari facevano parte di un camion tedesco giunto per sbaglio a Botticino Mattina mentre cercava la fuga verso il lago di Garda. Il gruppo di soldati era in possesso di munizioni e bombe ed era stato catturato e imprigionato presso il municipio. Qui, nella galleria soprastante il porticato, i due soldati impugnano le armi di fronte ad un gruppo di giovani aggregati ai partigiani: al diniego di consegna delle armi, in un moto di rabbia e forse nel timore di una sparatoria dagli esiti certamente tragici, Tito scarica il mitra sui tedeschi uccidendoli. I due episodi, seppure di origine diversa, avvengono nella stessa giornata.98 L’archivio parrocchiale di Botticino Mattina conserva un carteggio tra le famiglie dei soldati e il Parroco Don Giuseppe Parisio, da cui si apprende che i militari tedeschi hanno avuto sepoltura nel locale cimitero e che le loro tombe vengono accudite da persone del luogo. Anni dopo, anche per l’interessamento del Comune di Botticino, le salme dei quattro soldati tedeschi rientreranno in patria.99 Negli stessi giorni i partigiani botticinesi intercettano presso San Gallo un plotone di tedeschi in fuga che viene scortato fino al luogo, presso S.Eufemia, dove gli Alleati hanno predisposto un campo di raccolta prigionieri.100 97 S.Gorni, Botticino Mattina…, op. cit.,pag.246 95 S.Gorni, Botticino Mattina…,op. cit.,pag.246 98 Testimonianze orali di M.Comini e altri 96 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.34 e Testimonianze orali di U.Della Fiore, A.Zanola e altri 99 S.Gorni, Botticino Mattina…, op. cit.,pag. 245-246 38 100Testimonianze orali di L.Previcini e altri I partigiani promettono giustizia per chi ha sofferto e requisiscono ai tedeschi materiali da distribuire alle famiglie e ai reduci, bisognosi di tutto; si tratta di telerie, scarpe, giacche, pastrani militari e altro; ci sono anche soldi, di cui i tedeschi risultano ben forniti. Purtroppo parte del materiale raccolto in Municipio viene sottratto furtivamente un po’ alla volta: mancano ordine e organizzazione e fra i partigiani si sono infiltrate persone che nulla hanno a che fare con la Resistenza. In occasione dello scontro al “casì de Panada”, mentre il gruppo dei partigiani lascia il Municipio per partecipare alla spedizione, qualcuno fa sparire i soldi rimasti incustoditi. I sospetti si concentrano su un botticinese, ma in mancanza di prove non se ne fa nulla.101 Botticino è interessato, seppur indirettamente, da un grave episodio di vendetta di cui viene ritenuto responsabile Tito Guitti: ai primi di maggio, il 9, i suoi uomini effettuano un rastrellamento in cui vengono catturati dei lumezzanesi, alcuni dei quali appartenenti alla X Mas, ritenuti responsabili dell’eccidio e delle torture inflitte ai partigiani presi sul Sonclino. Questi vengono sommariamente interrogati e poi uccisi nei pressi delle scuole elementari di S.Eufemia: i corpi di 10 di loro vengono caricati su un camion e trasportati a san Gallo nei pressi del “Mulì de l’ora”; qui vengono gettati in una fossa comune e cosparsi di vetriolo per renderne impossibile il riconoscimento. La fossa viene scoperta il 20 maggio del ‘45. 101Ibidem I fatti di Sant’Eufemia - maggio 1945 L’apice dello scontro tra camice nere e comunisti delle Brigate Garibaldi viene raggiunto con la cattura e l’uccisione, dopo 16 giorni di interrogatori e sevizie, di Giuseppe Verginella. I repubblichini lo portano per la fucilazione a Lumezzane, facendo del comune della Valgobbia un luogo topico dello scontro. Il 19 aprile in un rastrellamento sul Sonclino cade in combattimento Giuseppe Gheda. Altri 17 partigiani (membri di una brigata di 80 unità) vengono catturati: dopo sevizie, documentate da foto agghiaccianti, vengono passati per le armi. È con questo cumulo d’odio, e di spirito di vendetta, che si arriva al 25 aprile, quando i resti della 122° Brigata Garibaldi entrano in città comandati da Luigi Guitti, il Tito di S.Eufemia che proprio nella frazione stabilisce il suo quartier generale, trasformando le scuole elementari in base logistica e tribunale improvvisato. Una volta assunto il controllo della città il CLN cerca di instaurare subito la legalità del nuovo ordine: si impegnano in questo senso il comandante della piazza militare colonnello Zani, il prefetto Bulloni (democristiano), il sindaco Ghislandi (socialista) e il questore Bonora (comunista). Ma per due settimane i garibaldini acquartierati a S.Eufemia si sottraggono a questo controllo e cercano di “farsi giustizia” da sé. Mentre in provincia si segnalano rare vendette individuali, gli uomini di Tito effettuano un rastrellamento sistematico il 9 maggio. A Gardone vengono bloccati 6 fra ufficiali e sottufficiali della X Mas ritenuti responsabili dell’eccidio dei partigiani presi sul Sonclino. Altre 18 persone vengono prelevate a Toscolano Maderno: i loro nomi figurano su un elenco di funzionari, 39 fiancheggiatori o ufficiali della Repubblica sociale italiana. Chi avesse compilato quell’elenco e la sua veridicità non sono mai stati ufficialmente accertati. Ma è a Lumezzane che avviene l’episodio più oscuro. Gli uomini di Tito arrivano in Valgobbia quando alcuni civili sono già stati ammassati in un edificio del villaggio Gnutti. Ne prelevano 11 in base a segnalazioni che rispondono, sembra, più a rancori locali che a effettive militanze politiche e tanto meno a responsabilità di spicco nella RSI. I 35 fermati vengono sommariamente interrogati nelle scuole elementari di S.Eufemia. Le Testimonianze di due di loro che al momento della fucilazione si salveranno per miracolo sono agghiaccianti. Verso la mezzanotte arriva l’esecuzione di massa: a piccoli gruppi i prigionieri vengono portati verso un fossato, scavato a suo tempo dai tedeschi dietro il monastero. Per i “condannati” c’è un colpo alla nuca e una sventagliata di mitra. Due di loro riescono a fuggire approfittando dell’oscurità: per le 33 vittime c’è una sommaria sepoltura: poco più della metà vengono inumate sul luogo dell’esecuzione, le altre salme vengono caricate su un camion e trasportate a San Gallo, per l’esattezza oltre il Molino dell’Ora, dopo il “Giasaròl”. Qui vengono gettate in una fossa comune e cosparse di vetriolo per impedirne il riconoscimento. Le fosse comuni vengono scoperte il 20 maggio del ‘45. Quattro giorni dopo gli americani entrano nella scuola di S.Eufemia smantellando l’ex base garibaldina. Per il comandante Tito cominciano i guai con la legge cui si sottrarrà rifugiandosi all’Est. Il tempo della giustizia sommaria - ironia della sorte - a Brescia finisce due giorni dopo l’eccidio di S.Eufemia. All’indomani del 12 maggio Italo Nicoletto, che era stato comandante della piazza militare di Torino, arriva a Brescia e impone senza mezzi termini al PCI le direttive di Togliatti: “Le armi - ribadirà sul giornale “la Verità” del 16 giugno - tutte le armi devono essere consegnate. È questo un imperativo, un ordine al quale nessun partigiano deve venir meno. Noi comunisti siamo contrari ad ogni atto illegale, a ogni azione di violenza. Da qualunque parte essa venga”.102 102Bresciaoggi 11.9.1990. Articoli di M. Tedeschi sui giorni della Liberazione a Brescia, pubblicati dall’11.9.190 al 23.9.1990. La lotta di liberazione nel Bresciano, alla fine della guerra lascia sul terreno oltre 2.000 vittime tra partigiani caduti in azione (74 nella sola brigata Garibaldi a fronte di 185 garibaldini sopravvissuti), morti nel corso di insurrezioni o nei campi di sterminio tedeschi, e civili uccisi per rappresaglia. istituzionale sulla futura Italia (monarchia o repubblica). La maggioranza si pronuncia per la repubblica. Il 2 giugno 1946 gli italiani sono chiamati al referendum per risolvere la questione Il 2 gennaio 1964 il consiglio comunale di Botticino approva “il collaudo lavori del 40 Il 1° gennaio 1948 entra in vigore la nuova Costituzione. L’Italia finalmente è un paese democratico. 1° lotto dell’edificio delle Scuole di Botticino Mattina”. La scuola elementare verrà intitolata al partigiano Tita Secchi. In precedenza era stata intitolata ad Emiliano Rinaldini, maestro e partigiano, la scuola elementare di San Gallo (costruita negli anni Trenta). Nel periodo 1970-72 si costituisce a Botticino per iniziativa di Luigi Romano, partigiano della 122a, una sezione dell’ANPI la cui sede dedicata al fondatore si trova attualmente in via Cave presso l’edificio comunale Villa Labus. Nel 1974 gli appartenenti all’ANPI botticinese decidono di erigere un monumento a ricordo dei tre giovani partigiani uccisi alla Fratta. Il monumento si trova al centro del prato che ora si estende davanti alla cascina posta a quota 699 metri a nord di Botticino: è formato da un rudimentale masso di pietra, proveniente dalla zona di Sonico, sul quale campeggia una lapide con le fotografie e i nomi dei caduti, sormontata da una targa indicante la formazione partigiana di appartenenza. Ogni anno, in ottobre, davanti a quella testimonianza l’ANPI locale e il Comune di Botticino organizzano una manifestazione commemorativa alla quale partecipano secondo un’ormai consolidata tradizione associazioni, scuole e cittadini di tutte le età. Nell’aprile 1994, presso la scuola media di Botticino, l’ANPI, grazie all’iniziativa dei suoi dirigenti Olga Furlan e Giulio Oliani, realizza un masso rozzamente squadrato, proveniente dalle cave botticinesi, corredato da una targa a ricordo dei valori che “dovrebbero resistere nel tempo più solidi di una roccia”. Il masso deposto nel giardino della scuola è accompagnato da un murale realizzato dagli allievi della media Scalvini. Il murale, alto un paio di metri e lungo quattordici, riprende disegni di Guttuso rielaborati e reinterpretati dai ragazzi sui temi dell’oppressione, della guerra, della Resistenza e della Liberazione con squarci rivolti ai problemi e alle speranze del futuro. 41 25 aprile 1945: partigiani e insurrezionali nel Municipio di Botticino Gruppo di partigiani appartenente a alla 122 Brigata Garibaldi 42 Cascina Fratta, Botticino. Monumento a ricordo dell’eccidio della Fratta del 28 ottobre 1944. Monumento ai Caduti della Resistenza presso la Scuola Media G. Scalvini. Cerimonia di inaugurazione del 25 aprile 1994 43 Testimonianze orali Testimonianza di LUIGI PREVICINI (1.2.1927) Nella mia famiglia c’erano mio padre che andava in cava, mio fratello più vecchio da Lombardi, poi due sorelle, io ed un altro mio fratello: io lavoravo in cava e anche lui, che era più giovane (del 1929), ha cominciato a lavorare in cava nel ‘45. La nostra era una famiglia antifascista al 100%, ma tanti qui a Botticino erano antifascisti, in modo particolare tutti i miei parenti. La mia famiglia era una delle più esposte: io sono cresciuto in quell’atmosfera. I miei cugini (erano socialisti, e dopo il 1921 saranno diventati comunisti, come mio padre) una volta sono stati picchiati dai fascisti: non lo ricordo personalmente, ma l’episodio mi è stato raccontato. Li hanno picchiati fuori dai “Giosi”, l’osteria del Romanino; allora ci si trovava all’osteria: li hanno attesi fuori e li hanno pestati di botte. Era una famiglia prettamente socialista e antifascista, vero è che poi hanno dovuto andare all’estero. Sono stati costretti ad andare all’estero perché perseguitati: uno era mio parente per parte di mia madre, si chiamava Arici Fausto è andato a lavorare in Francia, anche perché allora in Italia il lavoro era scarso; l’altro, un fratello di mio padre, Previcini Carlo, anche lui perseguitato ed emigrato successivamente in Francia, anche se nel caso specifico, non ha inciso solo la persecuzione fascista, ma la mancanza di lavoro. Un mio zio pur essendo operaio, aveva costituito una specie di scuola e ricordo molti giovani che mi dicevano di essere stati a scuola da mio zio il quale, pur avendo fatto solo la terza elementare, ma avendo letto la stampa clandestina, si era fatto una cultura personale. Si chiamava Angelo Previcini ed era anche tra i fondatori della Cooperativa: la scuola serale che avevano organizzato si chiamava “Circolo della Fratellanza”. Mi pare che i locali fossero in via Cave: allora io era ancora piccolo, ma la cosa mi è stata raccontata da coloro che hanno frequentato questa scuola. Era stata organiz44 zata ancora prima dell’avvento del fascismo ma ha continuato a funzionare anche durante tale periodo perché coloro che mi hanno raccontato questa cosa erano delle classi 19101912: avevano allora 1012 anni per cui la scuola ha continuato a funzionare anche dopo il 1922, sicuramente fino al 19241925. Ecco perché è stato picchiato dai fascisti: perché lui era noto in paese come antifascista, e lo diceva apertamente, così come mio padre. Ogni tanto, tra giovani, avvenivano degli scontri che finivano a botte tra socialisti e fascisti: una volta i fascisti hanno persino sparato. C’era stata una questione a proposito di una bandiera rossa, il fatto preciso ora mi sfugge, ma è un fatto che i fascisti erano armati: il Previcini è stato costretto a fuggire ed a nascondersi per diverso tempo. I fascisti volevano impossessarsi di quella bandiera rossa e la bandiera è stata portata in Piemonte per essere salvata. Hanno voluto salvare quella bandiera perché era un simbolo e non volevano che i fascisti se ne impossessassero perché sicuramente l’avrebbero bruciata, come avevano bruciato la Camera del Lavoro. Uno di quella famiglia era andato a lavorare in Piemonte come contadino e per essere sicuri, gli hanno consegnato la bandiera perché la portasse con sé e la salvasse. Queste famiglie antifasciste quando, ad esempio, c’era il “sabato fascista” non hanno mai partecipato; mio padre partecipava solo alle cerimonie del 4 Novembre; quando andavo a scuola, ed era obbligatorio avere la divisa da balilla, le mie sorelle nascondevano a mio padre la divisa e la tiravano fuori solo quando serviva. Allora si festeggiava il 21 Aprile, il 4 Novembre e la maestra ci obbligava ad andare a scuola in divisa, che mio padre non ha mai visto. Si tratta di cose magari anche piccole ma importanti e significative del clima che aleggiava nelle famiglie. Le mie sorelle tenevano nascosta la divisa e me la facevano indossare di nascosto da mio padre, costringendomi ad uscire dalla parte posteriore della casa in modo che lui non vedesse: quella divisa mio padre non l’ha mai vista. Mi ricordo, pur essendo allora ancora piccolo, avevo circa 10 anni, che la sera non potevi circolare per il paese, perché ti mandavano a casa: la violenza nasceva da lì. Ricordo una volta che mio padre voleva uscire da solo e si era messo in tasca una roncola e mia madre voleva togliergliela perché temeva che nel caso lo avessero provocato all’osteria, avendo magari lui bevuto in bicchiere di vino, potesse accadere qualche fattaccio. Durante il fascismo la cosa peggiore era la violenza fisica che esercitavano su quelli che non la pensavano come loro. Una sera al Ghiacciarolo una squadra è salita dal paese e ha fatto un danno tremendo. Il perché di preciso non l’ho mai saputo: la squadra che saliva era composta da fascisti e non ho mai capito perché abbiano fatto questa azione. Hanno ammazzato tre o quattro bestie: probabilmente avevano avuto divergenze con qualcuno di quella cascina. Hanno rovinato quella famiglia, hanno sparato nelle botti del vino ed hanno fatto una danno tremendo perché allora l’economia era basata tutta sull’agricoltura. Da lì ho capito che i fascisti erano inclini alla violenza fisica: anche se ero giovane e la parola odio non entrava nella mia mentalità non li potevo sopportare. A parte poi il discorso sulla politica che il fascismo attuava e che noi osteggiavamo perché incomprensibile; mio padre ci spiegava le contraddizioni della politica fascista: il delitto Matteotti ad esempio, le cooperative che bruciavano, il colpo di stato che avevano fatto nel ‘22. In famiglia si parlava sempre di questi problemi. I fascisti erano impegnati con altre famiglie: la famiglia del podestà, poi c’erano quelli denominati i “negher”, i Bodei e altri, tra i quali c’era quello che faceva la guardia in Castello; le famiglie che dominavano il paese erano queste: poi gli altri erano tutti antifascisti, fossero essi cattolici o rossi. Nel periodo del fascismo gli antifascisti si riunivano e ad alcune riunioni partecipò Italo Nicoletto prima di fuggire in Jugoslavia per poi partecipare alla guerra di Spagna; si leggevano giornali clandestini (non ricordo se a quei tempi si chiamasse già “L’Unità”). Non mi ricordo chi li portava, comunque arrivavano da Brescia: l’attività si limitava a questo. I socialisti ed i cattolici si trovavano sempre per discutere ma non hanno mai trovato le basi per un fronte comune organizzato: mio padre mi ha raccontato che Nicoletto aveva organizzato due o tre riunioni, aveva distribuito dei volantini in occasione della guerra d’Abissinia contro ciò che affermava la stampa di partito, contro l’imperialismo del duce, contro l’uso dei gas usati durante questa guerra, ma non si sono mai raggiunti risultati apprezzabili. Avevo 12 anni ed all’epoca queste notizie mi sfioravano solamente ma successivamente, nella maturazione, queste cose si venivano evidenziando nella mia mente, spingendomi verso l’antifascismo e verso la sinistra. Questo atteggiamento antifascista prima del 1943 e negli anni trenta quando il fascismo aveva raggiunto il massimo dei consensi traspariva attraverso i contatti con le persone e, durante la guerra, quando si andava ad ascoltare “radio Londra”; allora a Botticino esistevano solo tre o quattro radio e ci si ritrovava insieme. Una radio era dove c’è ora la forneria, in via San Nicola, vicino a casa mia, un’altra era in casa dei “Papagai”, oppure dai Moreschi o dagli Arici. Ci si trovava appunto presso queste famiglie per ascoltare insieme. Radio Londra era un faro per noi; non credevamo alla propaganda fascista che esaltava sempre vittorie inesistenti: annunciavano l’abbattimento di numerosi aerei, la distruzione di carri armati, poi ascoltando radio Londra le cose si ridimensionavano. Dopo l’8 settembre si sono formate le prime cellule di appoggio alla Resistenza: ricordo in particolare la famiglia Busi di San Gallo, Milio Moreschi ed altri, che sono 45 morti nel frattempo, i quali hanno partecipato ad una o due azioni credo sul monte Maddalena. Le donne aiutavano in ogni occasione, poi portavano da mangiare ai partigiani. Noi avevamo contatti con i partigiani, prima che scendessero dalla montagna, attraverso Rino Gorni che faceva qui a Botticino il commissario per conto della 122 brigata Garibaldi. Lui era stato a Gardone V.T., dove lavorava, poi è venuto a Botticino e qui aveva creato una cellula; le notizie trapelavano attraverso quel poco che i compagni riuscivano a fargli dire. Gli episodi accaduti o le azioni li conoscevamo dai racconti dei partigiani: la 122 brigata Garibaldi aveva un distaccamento a San Vito, cui le cellule davano aiuto, facevano da appoggio e portavano i viveri; a conoscenza di queste cose c’erano Milio Moreschi, Palmiro Quecchia, Giossi, Banana (Adelino Zanola), Amilcare Benetti. A Botticino hanno fatto alcuni rastrellamenti, ma non impegnativi; cercavano disertori, renitenti alla leva. Noi andavamo sulla montagna quando ci informavano che stavano facendo un rastrellamento partendo da Sera: partivamo la notte quando c’erano queste voci. Non c’è stata una forte repressione: anche a San Gallo, che ha partecipato attivamente alla Resistenza, non vi sono state rappresaglie e non mi spiego il perché. Certi paesi sono stati bruciati anche per molto meno. Mi ricordo che all’epoca a dare ordini c’erano il segretario politico ed il federale. Quando hanno venduto le cave nel 1932 tutti gli operai sono passati a contratto: probabilmente quelle persone cercavano di frenare gli eccessi. Allora il podestà era Giovanni Rossi che possedeva una forneria, c’erano i suoi interessi ed i suoi parenti, e forse queste persone hanno posto un freno. Probabilmente il Lombardi e gli altri industriali avevano interesse che gli operai lavorassero tranquillamente: forse a causa della vendita delle cave c’era un interesse a mantenere in zona una certa tranquillità. 46 Sono nato nel 1927, quindi quando è scoppiata la guerra nel 1940 avevo 13 anni, nel 1943 ne avevo 16 ed a quell’età non ho partecipato personalmente. Quando i partigiani sono scesi dalla montagna mi trovavo per caso proprio nella piazza del Municipio: era consuetudine, dopo il lavoro, ritrovarsi al bar o in piazza; per me è stata una bellissima esperienza vederli arrivare inquadrati militarmente con i loro comandanti. Scendevano dalle cave, credo dalla parte di San Gallo. Era il giorno 24 aprile verso le 18,30 anche se la data ufficiale dell’insurrezione è fissata al 25, ed hanno preso possesso del Municipio. Il giorno successivo è avvenuta la mobilitazione con la distribuzione delle armi alla popolazione perché circolavano ancora diversi tedeschi e fascisti. Venivano date le armi agli uomini e ai giovani che si presentavano e io mi sono presentato: c’erano Rino Gorni e il vice comandante, certo Nello, un giovane di Urago Mella, che conoscevo bene perché l’avevo visto diverse volte a Botticino, e si è creato il corpo “Volontari della Libertà”; eravamo molti i giovani. Quando mi sono presentato in Municipio a prendere le armi mio padre non voleva perché diceva che ero troppo giovane, vero è che è venuto a cercarmi; mi sono presentato perché sono nato in una famiglia antifascista ed ho visto anche i rastrellamenti e per di più avevo provato anche la prigione sotto i fascisti. Nel 1943, alla caduta di Mussolini, io lavoravo a Brescia e l’officina era proprio vicina alla sezione di Sorlini, che allora era un federale, che poi, durante la repubblica di Salò, aveva creato le bande che andavano a fare i rastrellamenti: lui era una iena. Accadde che nell’intervallo di mezzogiorno per la colazione c’era un grande movimento di popolo: tutti gli operai erano usciti dalle fabbriche, la gente dalla case, ritratti del duce e del re per terra, la gente per le strade, le sedi fasciste devastate: fuori dalla sede di Sorlini c’era un fascio di metallo su un piedistallo di cemento alto circa 40/50 centimetri. Noi siamo usciti dall’officina e notiamo questa grande confusione e la gente ci invitava ad andare a prendere degli attrezzi per poter demolire questo fascio; ci dicevano di andare a prendere delle leve, dei piedi di porco, delle mazze, per aiutarli ad abbatterlo, anche perché a Brescia il Sorlini era odiato, vero è che poi è stato ucciso con una raffica di mitra in corte d’Assise all’inizio del processo da un carabiniere al quale il Sorlini aveva ammazzato un fratello. Mentre stavamo demolendo il monumento, è passata una camionetta dei carabinieri che ci volevano arrestare: tutte le donne sono insorte e ci hanno protetto; il giorno dopo però i carabinieri sono venuti in officina, ci hanno arrestato e come prigionieri politici ci hanno portato a Canton Mombello: avevo allora 16 anni. Ecco perché quando ho visto i partigiani mi sono aggregato: mi hanno consegnato alcune bombe a mano e poi il “91”. I partigiani avevano occupato il Municipio: noi giovani facevamo, come incarico, la guardia al Comune ed andavamo in perlustrazione. Quando si veniva a conoscenza che c’erano tedeschi nei dintorni, si formava un autocarro, comandato da uno o due partigiani che impartivano le direttive, e si andava a controllare, come nel caso della cattura di un intero plotone a San Gallo; ho partecipato anch’io a questa spedizione ed i tedeschi, che erano in buon numero, si sono spaventati alla vista dei partigiani e, dopo essersi arresi, sono stati portati a piedi al campo di concentramento provvisorio che era stato predisposto a Sant’Eufemia, nella parte bassa della frazione, dove ora c’è la centrale elettrica. Lì c’era un prato nel quale gli americani erano campeggiati. Mentre passavamo la gente ci offriva qualcosa: uova o pane perché pensava che venissimo dalla montagna, invece eravamo solo di scorta. Quando è accaduto l’episodio al “casì de Panada” io non c’ero. Da quanto ho sentito dire i tedeschi volevano impossessarsi di una pecora, i proprietari si rifiutavano di consegnarla ed una delle donne è scesa in paese per avvertire che al “Casino” c’erano i tedeschi. Un gruppo di partigiani è salito sul posto ed ha piazzato le armi: i tedeschi hanno iniziato a sparare ed hanno ferito Adelino Zanola, suo papà e suo zio. Bottarelli era arrivato la notte da Nuvolera e siccome in quel paese non vi era un presidio partigiano era venuto a Botticino: l’ho ricevuto proprio io in Municipio. La mattina successiva, il 28 aprile, i tedeschi avevano esposto una bandiera bianca e Bottarelli, che conosceva un poco il tedesco, si è offerto di fare l’interprete: come è entrato in casa è stato pugnalato. A questo punto è iniziata la battaglia e due tedeschi, fatti prigionieri, sono stati portati al camposanto e sono stati giustiziati da Tito Tobegia . Poi ricordo un altro fatto: un camion, pieno di tedeschi, convinti di andare verso il Garda, ha sbagliato strada e si sono ritrovati qui a Botticino; vistisi a mal partito, hanno consegnato le armi e si sono arresi. Purtroppo ci sono sempre i profittatori i quali, accortisi che i tedeschi erano pieni soldi, li hanno alleggeriti dei loro averi: noi ci limitavamo a consegnarli senza perquisirli, si parlava allora di un sacco pieno di soldi. Poi c’è l’episodio di una bestia sequestrata ai Cremonesi e non pagata, che era servita non solo per il rancio dei partigiani, ma anche dei prigionieri fascisti (fra i quali il segretario federale, il segretario comunale, ecc.): mi ricordo che anch’io ho portato il vitto ai prigionieri. La cucina era stata sistemata nella galleria del palazzo comunale, sopra il porticato; oggi è chiusa da una vetrata ma allora era tutta aperta. Penso comunque sia stato un errore non pagare la bestia. La bestia era stata prelevata da una cascina a nome dei partigiani: a questo proposito era sorta una discussione con i proprietari della cascina che ne pretendevano il pagamento ed erano passati alle vie di fatto, poi sono intervenuti dei pacieri che hanno sedato la lite. Ricordo anche l’episodio del curato di Mattina: si sono recati a casa sua in tre o quattro partigiani perché avevano avuto sentore che possedesse delle armi, ma le dicerie 47 non si sono dimostrate vere, ed il curato si è sentito offeso. Il maestro Casali ha poi denunciato pubblicamente questo episodio in occasione dei festeggiamenti del I° Maggio del 1945. Dinanzi al Municipio erano presenti praticamente tutti gli abitanti di Botticino: il maestro Casali è salito sul muretto antistante il Comune (allora non c’era la cancellata) ed ha denunciato il fatto: è stato picchiato e per di più è stato trattenuto uno o due giorni poi è stato rilasciato. Da parte mia ho condannato subito questi incidenti e la dimostrazione è che ancora vent’anni dopo ci venivano rinfacciati dai nostri avversari politici ed hanno incrinato l’unità del popolo. Ad ogni buon conto, questi piccoli episodi marginali non tolgono certo valore al significato della Resistenza ed all’unità del popolo. Ho ricordato questi episodi per dimostrare che, purtroppo, quando accadono eventi straordinari, accadono piccoli fatti negativi che, anche se antipatici, non incidono sulla grandiosità dei fatti. D’altro canto i ricordi che mi sono rimasti impressi sono questi. Prima eravamo tutti uniti, sia democristiani che comunisti e socialisti, dopo questi episodi i democristiani sono usciti. A parte il fatto che poi è venuta la “guerra fredda” e l’unità si sarebbe egualmente rotta, ma sicuramente i nostri avversari politici ci rinfacciavano in continuazione questi fatti. Questa unità era nata con l’antifascismo e con l’antinazismo. C’è sempre stata fra le famiglie di Botticino, anche con quelle che magari non andavano in chiesa e non erano praticanti: mio padre era comunista e non andava in chiesa ma non è mai stato discriminato. Questa unità c’era a Mattina sicuramente, a Sera vi era una realtà locale diversa; a Mattina c’erano le cave e gli operai delle stesse che creavano una maggiore coesione, così come la maggioranza dei contadini. Le famiglie di Botticino Mattina erano quasi tutte antifasciste, salvo rare eccezioni. In Comune chi ha preso in mano la situazione e faceva da coordinatore era Nello. 48 C’erano Nello ed i partigiani, ma l’amministrazione era stata assunta da tutt’altre persone. C’erano Cenedella che era di Brescia e un altro di Botticino che era ragioniere; sull’amministrazione vera e propria i partigiani non hanno responsabilità: non sono stati loro i “furbi” della situazione. Dopo sono arrivati i due Ponti provenienti da Ferrara i quali si erano spacciati per partigiani e poi invece si è saputo che erano fuggiti da Ferrara perché fascisti. Ciò che di negativo è uscito è da imputare a queste persone e non sicuramente ai partigiani i quali la sera raggiungevano le loro famiglie e si disinteressavano dell’amministrazione. Anche la famosa questione della bestia non pagata ai proprietari è da imputare a queste persone, così come la scomparsa della cassa comunale: per cui le malefatte compiute sono da imputare esclusivamente a queste persone che non c’entrano con la Resistenza. I partigiani scesi dalle montagne, arrivati a Botticino inquadrati, godevano fiducia sicuramente: avevano fatto la Resistenza, avevano appena sopportato una grossa battaglia al Sonclino e sono sicuro che loro non hanno toccato quattrini. A guerra finita mi sono iscritto al P.C.I. quasi subito. Il fatto di vivere in una famiglia antifascista, di aver dovuto prendere le armi in pugno, il capire che le cose non erano come venivano dipinte, dava fiducia e speranze che dalla Resistenza e dall’insurrezione arrivasse un cambiamento. Ricordo che la prima delusione, non per me che allora avevo 18 anni, ma per quelli più vecchi di me, come mio padre e tutti gli antifascisti, è stata quando Togliatti ha fatto approvare dal governo l’amnistia, mi pare fosse il 1947, che poi è risultata politicamente una mossa vincente. Lui voleva la pacificazione, ma a quelli che avevano fatto la Resistenza non gli andava giù. Poi è accaduto che Scelba ha buttato fuori tutti i partigiani che erano nella polizia, fra i quali vi era anche Adelino Zanola. Era il 19481949: allora si è capito che il sacrificio fatto in montagna era finito da un’altra parte. Noi giovanni di circa 19 anni invece cosa speravamo... Non c’erano grosse esigenze: allora non c’era disoccupazione, il lavoro c’era per tutti, eravamo sicuri che i fascisti non c’erano più e che il fascismo non sarebbe più tornato, però nel 1950 la vita era molto grama: Scelba che sparava sugli operai faceva pensare che si fosse tornati a periodi peggiori del fascismo. Poi c’è stato il governo Tambroni: io mi sono trovato in piazza in quelle occasioni e quelli sono stati periodi molto caldi. Le due o tre famiglie fasciste delle quali ho fatto cenno, dopo la guerra di problemi non ne hanno avuto molti perché il Bodei è stato trattenuto tre o quattro giorni, ma non ha subito violenze: andavo io a portargli da mangiare. Queste famiglie che facevano riferimento al fascismo, dopo la guerra sono passate tutte indenni, non ci sono state grandi rappresaglie verso gli ex fascisti. Non hanno subito nulla Si era creato il movimento cooperativo che era abbastanza forte il quale organizzava le proprie adunate: si festeggiava il 1° Maggio con la partecipazione di bande musicali, ma quelli sono stati lasciati fuori. Non c’è stata vendetta nei loro confronti. Con la fine della guerra tutto è finito, e non ricordo alcun episodio significativo. L’unico caso è stato quello del maestro Casali. Casali, a mio avviso, è stato un fatto dovuto alla sua imprudenza di denunciare in un comizio pubblico, quando c’erano ancora le armi “calde”. Lui si era limitato a sottotolineare che si parlava di democrazia, mentre venivano commesse prepotenze e loro l’hanno considerato un nemico. Diverso il caso in tempo di guerra, dell’altro Casali, ucciso perché accusato di aver fatto la spia: la gente diceva di averlo visto su alla Fratta e lui ha detto che stava allenando i cani in quanto era un cacciatore; ma sapevano che era di stanza in Castello a Brescia e che faceva parte delle brigate nere e da ciò nacque il sospetto che la spia fosse lui, perché poi lui ha accompagnato i rastrellatori visto che loro non conoscevano la strada: infatti alcuni sono saliti da San Gallo e alcuni li ha portati su suo fratello da Mattina. Non gli è stato perdonato. Un mattina si stava recando al gabinetto fuori casa ed è stato colpito. Abitava in una località che era denominata “Pusù” dove c’è attualmente il lavatoio in via del Marmo: lui abitava in quella casa e dietro alla casa, nel terreno, c’era un gabinetto di frasche: una mattina, saranno state le sei e mezza ed era ancora scuro, è stato ammazzato. Si temeva che i fascisti facessero qualche cosa ma non avvenne nulla. Lui si era compromesso troppo con il regime fascista, forse se non fosse stato così compromesso... Se si tornasse indietro a quei tempi non so se farei le stesse cose. Allora ero inesperto: ero giovane, non si faceva politica e l’unica cosa che ci sosteneva era l’antifascismo: con l’esperienza di oggi non so cosa avrei potuto fare. Ciò che è avvenuto andava fatto. Sicuramente l’insurrezione andava fatta: i fascisti alleati ai tedeschi, la popolazione stremata da sacrifici e privazioni, poi tutta la colpa della guerra era loro; sentivo i vecchi che dicevano che “quel porco ha fatto la guerra, ha mandato a morire i nostri figli”. Non si poteva attendere per vedere di chi era la colpa. L’odio era sorto a causa di tutte le malefatte che il fascismo aveva fatto. Stando così le cose potrai capire come tutti erano convinti che bisognava insorgere. Io avevo diciassette anni, ma c’erano ragazzi che avevano due, tre anni meno di me: il padre della Loredana Lonati era più giovane di me e anche lui è venuto a prendere le armi. Qui a Botticino hanno partecipato tutti: chi ha preso le armi, chi curava i feriti, chi dava da mangiare, chi i vestiti; tutto il paese ha partecipato all’insurrezione. L’episodio della bestia non pagata, la perquisizione in casa del sacerdote: bisogna avere il coraggio di condannare ciò che di sbagliato è stato fatto, pur riconoscendo che in una rivoluzione possono capitare anche episodi poco simpatici, senza con questo avere la pretesa di prendere il bilancino per misurare i pro ed i contro. 49 Questi piccoli episodi, sia pur insignificanti, ma antipatici, ci sono stati fatti pagare per anni. I democristiani, nelle riunioni comunali, o nelle discussioni che si facevano all’osteria, ci rinfacciavano sempre questi episodi. I democristiani erano anche loro d’accordo nel momento della Resistenza, ma politicamente sfruttavano questi due o tre episodi per metterci in difficoltà: probabilmente avranno avuto anche ragione. Ci sono stati momenti di grande unità, nei quali eravamo tutti dalla stessa parte, ma dopo tutto si è rivolto contro i comunisti: loro non facevano distinzione tra partigiani e comunisti e si sono rivolti contro di noi, e le colpe sono diventate nostre. Si può dire quindi dire che i grossi meriti sono stati offuscati da queste vicende marginali; le cose importanti sono state fatte insieme, a parte questi piccoli episodi che sono stati strumentalizzati a scopi politici. Ma questa è un po’ la storia seguente ... Botticino, 13 febbraio 1996 Testimonianza di FLAMINIO MORESCHI (3.9.1925) Mio padre, faceva il contadino ed era socialista, è morto nel 1938. Siamo rimasti io, mia madre e tre sorelle. Una aveva sposato il Lonati di San Gallo, che era nella Resistenza, Casimiro, poi una si è sposata a Brescia, ma allo stato attuale sono tutte morte. Quando è morto mio padre, le mie sorelle sono andate a lavorare al calzificio, mia madre coltivava un pezzo di terreno di nostra proprietà dal quale si ricavava un po’ di vino, e si campava così... Io ho cominciato a lavorare a quattordici anni, ma c’era la guerra; sono andato un anno alla Metallurgica Tempini di Brescia, poi nel 1943 ho preso le patenti ed ho iniziato a fare il camionista e poi ho sempre fatto quel mestiere. Nel 1943 sono stato arrestato la prima volta, insieme a Bigio Previcini e a uno di Borgosatollo. Siamo andati in prigione perché al 26/27 di luglio, era Santanì e Sant’Anna, lavoravamo a Brescia io e Bigio. Di fianco c’era il circolo fascista Sorlini ed esternamente al circolo c’era un fascio littorio in marmo; noi eravamo andati con una scala ad abbatterlo: sono arrivati i carabinieri: allora, in quel periodo, dal 25 luglio in poi c’erano solo i carabinieri a mantenere l’ordine, hanno arrestato me, Bigio, Stefano e un certo Piero di Borgosatollo e ci hanno tenuto in galera per 7/8 giorni. Ci hanno portato prima in piazza Tebaldo Brusato e poi a Canton Mombello. Allora eravamo ancora minorenni: io non avevo ancora 18 anni e Bigio ne avrà avuti 16. Sono andato 50 al circolo di Sorlini ad abbattere l’insegna del fascio d’istinto: ero convinto che il fascismo fosse finito, era il periodo dal 25 luglio all’ 8 settembre, era tutta una baraonda, allora comandava Badoglio. La seconda volta è stato all’epoca in cui lavoravo alla officina Odolini che produceva pompe ad iniezione per i tedeschi. Quando mi hanno arrestato era la vigilia di Natale del 1944: avevano fatto un rastrellamento qui in paese provocato da uno di Virle, che era un fascista: alcuni venivano dalla valle di Nuvolera e li hanno presi: Menec de Resa, Rossi. Loro li hanno presi la mattina che andavano a Brescia a piedi e io stavo andando in bicicletta: mi ha visto quello di Virle e così hanno preso anche me. Mi hanno preso perché stavano compiendo un rastrellamento e tutti quelli che trovavano li prendevano: anche quei ragazzi non erano clandestini, perché lavoravano nella valle di Virle. Allora ero già nelle “G.A.P.” dopo l’8 di settembre; non ho fatto la montagna ma facevo parte dei gruppi armati della pianura. Quando mi hanno preso mi hanno portato a Brescia all’arsenale di via Francesco Crispi, poi con il cellulare a Canton Mombello poi, siccome lavoravo per i tedeschi, mia sorella conosceva il mio datore di lavoro il quale si è interessato e mi hanno fatto uscire. Non sapevano che ero nei “G.A.P.” Mi hanno rilasciato il giorno dell’Epifania. Noi siamo cresciuti nel periodo del fascismo però non eravamo fascisti... Ci mancherebbe! Facevamo il premilitare qualche volta quando ce lo facevano fare, ci obbligavano, altrimenti noi non ci andavamo sicuramente. Non ero d’accordo con il fascismo prima di tutto per la famiglia nella quale sono nato e cresciuto: mio padre era appena morto e mia madre raccontava che nel 1923 mio padre era stato picchiato più volte a Botticino ed era anche stato arrestato. Perché non era fascista ed a loro non andava bene e poi era una persona che i fascisti di Botticino, per questi motivi, avevano segnato a dito. Allora i socialisti erano numerosi anche se non tutti avevano il coraggio di dirlo apertamente. È stata l’influenza dell’ambiente nel quale sono cresciuto che mi ha portato a fare le scelte; tenuto conto dell’età che avevamo, certe cose non avremmo potuto farle senza serie convinzioni, perché diversamente saremmo stati incoscienti: se uno non sapeva cosa era il fascismo e l’antifascismo chi glielo avrebbe fatto fare di correre i rischi che abbiamo corso senza saperne il perché: noi pensavamo che il fascismo fosse finito, che se ne andavano. Dopo il 25 luglio credevamo finisse, invece andava avanti ancora. Che non mi piaceva del fascismo era il modo di fare perché comandavano sempre e ti obbligavano a fare cose che non ti andavano, sia a scuola che a fare il premilitare, che non mi sentivo di fare e loro, quel sabato che mancavi, i capoccia e gli altri poi ti picchiavano; quindi proprio non mi andava e per di più delle mie sorelle due su tre avevano la stessa tendenza, una poveretta era sempre in chiesa a pregare per noi; sono cresciute attaccate ai genitori e quindi hanno subito la loro influenza e sono sempre state contrarie al fascismo. Una infatti ha sposato il Casimiro Lonati. Dall’8 settembre qui a Botticino hanno avuto luogo alcune riunioni: c’era il povero “Rusì de Somia” (Arici Arnaldo) e tre o quattro antifascisti. C’erano Arici padre e figlio, un altro era Damonti Angelo, adesso purtroppo sono tutti morti e non ricordo con precisione: io sono cresciuto con loro: ricordo che mi hanno fatto la tessera del P.C.I. Il 9 settembre del ‘43 nella riunione già cercavano di creare dei gruppi: non ricordo se la formazione “G.A.P.” sia stata formata già in quell’occasione o successivamente. Già distribuivano volantini fuori dalle fabbriche e altre cose: io no, ma mia sorella sì. Non è che nel nostro piccolo paese si potesse fare molto e poi eravamo in pochi: oltre a me ricordo l’Arici, il Giossi, quello del Romanino, fino alla fine della guerra, poi quest’ultimo che era democristiano non si è più visto. Però allora si prestava anche lui e quel poco che si poteva fare lo faceva. Allora si facevano incontri dal povero “Polenta”, veniva Tobegia, il Tito di Sant’Eufemia, lui cominciava già ad organizzare qualche cosa: non ce n’erano molti qui a Botticino, c’era Fulmine ma lui era già sugli Appennini, di botticinesi che hanno fatto la vera montagna ce ne sono pochi. Noi eravamo legati all’organizzazione del partito. Io se l’ho fatto l’ho sempre fatto per il partito; come ti dicevo le riunioni si facevano dal “Polenta”: ci si trovava con il Tito Tobegia, ma si stava molto attenti perché non c’erano sicurezze. Il materiale arrivava lì e noi poi pensavamo alla distribuzione o a portarlo a San Gallo. A San Gallo c’era il papà dei Tolotti. A San Gallo non c’erano partigiani della montagna. Quello era un posto di riferimento: si portava lì il materiale e poi scendevano quelli della montagna a prelevarlo. Qui in paese non c’era niente: il punto base era a San Gallo. C’era il Nono, Damonti ed i soliti che tutti conoscevamo. Talvolta si macellavano animali di nascosto e poi si inviavano in montagna ed anch’io ho portato tre o quattro volte pezzi di animali a San Gallo. Allora si doveva pagare il dazio e denunciando gli animali si sarebbe saputo. Il mese di settembre abbiamo fatto questa riunione per cominciare. L’8 Settembre c’è stato l’armistizio ed avevano già parlato di andare in montagna i soldati sbandati 51 e raccoglievano tutti quelli che volevano lavorare qui e si prestavano. Ricordo che il giorno 9 abbiamo fatto una riunione in casa di Arici Arnaldo (Bruno) detto “Somia” di soprannome. In questo periodo, dal 9 settembre ‘43 al 25 aprile 1945 abbiamo fatto alcune riunioni, sempre in casa dell’Arici Domenico, e si parlava del partito, si facevano previsioni sulla probabile data di fine della guerra: si sperava finisse presto anche per l’intervento dei partigiani che si pensava avrebbero affrettato una fine delle ostilità. Poi si parlava del fascismo e si confrontava con il socialismo. Qui, nella zona detta del “Vaticano” (in via San Nicola), eravamo otto o dieci famiglie, ma che partecipavano erano solo quattro o cinque, in quanto le altre avevano paura. Venivano i Colturi, gli “Ambros”, io e le mie sorelle; eravamo solitamente in 7 o 8 : uno o due per famiglia. Si facevano discussioni politiche: quello che era stato, quello che sarebbe venuto, ciò che poteva cambiare, le possibilità che c’erano. C’era la Menega de Ambros, quella era forte, le mia sorelle, quel Rusì, quelli che avevano la radio e potevano ascoltare radio Londra, mia sorella, sua cognata ma altre donne non ricordo. C’eravamo io, quel Rossi che poi hanno arrestato con me. Le riunioni si tenevano qui vicino in via San Nicola. Le donne facevano parte anche loro dei G.A.P.: mia sorella e sua cognata consegnavano biglietti e propaganda, vestiario. Poi si ascoltava “Radio Londra”: l’andavo ad ascoltare dagli “Ambros”, che erano antifascisti ed abitavano vicino a casa mia. Si ascoltavano i messaggi che la radio inviava alle formazioni partigiane. Poi arrivava gente da Brescia la quale consegnava volantini che dovevano essere portati a San Gallo, o darli fuori qui e noi li portavamo. Distribuivamo i volantini e portavamo da mangiare, abbiamo fatto queste cose: era l’inverno del 1944. Comunque qui in paese di partigiani non ne ho mai visti. Quando scendevano dal52 la montagna si fermavano dal “Polenta”, forse perché lì si sentivano più sicuri perché vicini alla montagna. Lì dal “Polenta” si facevano molte riunioni, alle quali abbiamo partecipato anche noi, ma soprattutto vi partecipavano persone che venivano da fuori, e che poi prendevano la strada della montagna. Prima di san Gallo c’era quel posto lì. Qui in paese no, non ho mai sentito: a parte che allora ero giovane in quanto avevo 18 anni. Io le cose le facevo così, non ero veramente cosciente. Il 95% della gente aveva paura e si tratteneva: noi invece andavamo sempre fuori perché non avevamo paura. In quel periodo avevano trasformato in caserma le scuole di Botticino Sera che erano in piazza 4 novembre e dentro c’erano i soldati di leva, saranno stati circa 25. Non ricordo da dove venivano: ricordo che erano sistemati in uno stanzone grande nelle scuole ed abbiamo fatto fuggire quelli che c’erano dentro. Io non so se erano d’accordo o meno: sicuramente nessuno ha sparato. C’ero io, l’Arici, altri due o tre di San Gallo ed erano venuti 7 o 8 partigiani dalla montagna per quell’azione. Li abbiamo portati a San Gallo e poi li hanno accompagnati, attraverso i monti, nella zona di Lumezzane e poi non so che fine abbiano fatto. Praticamente hanno disertato e si sono uniti ai partigiani. La logica era quella. Dopo noi siamo tornati a casa attraverso i campi e non ho più sentito niente di loro; la loro destinazione era verso la montagna. Poi fino alla fine della guerra non ho fatto nulla di rilevante, anche se avrei voluto fare di più; avevo i mitra in casa ma non li ho mai adoperati: il freno era rappresentato anche dalla giovane età, non avevo paura di niente, ma ...Pensa: la prima arma che ho posseduto è stata una bomba a mano, che praticamente non sapevo quasi cosa fosse. Me l’hanno data quelli che sono scesi dalla montagna la notte che siamo andati a Sera, dove era stato fissato il ritrovo: di armi non ne avevamo ed uno mi ha messo in mano la bomba a mano, ad un altro hanno dato una pistola, ma armi grosse tipo fucili o mitra non ne ho visti. Il mitra l’ho usato solo dopo la Liberazione per andare a prendere le scarpe in un magazzino dei tedeschi: qui a Botticino anche dopo la Liberazione in paese di armi ne circolavano poche: qualche mitra, ma non bastavano nemmeno per tutti. Il 25 aprile sono arrivati i partigiani: è sceso il Tito, io conoscevo due o tre partigiani, ma che comandava era lui. Lui era il comandante della “Garibaldi” e venivano da sopra Lumezzane e sono scesi a Botticino. Lui, non vorrei sbagliarmi, dopo la guerra è fuggito a Praga perché era ricercato, Il 25 aprile, massimo il 26, era a Botticino e dava lui gli ordini di ciò che si doveva fare. Attorno al 25 aprile, prima di tutto siamo andati a Rezzato ed abbiamo organizzato un posto di blocco, c’era anche Bigio Previcini. Dopo il 25 aprile abbiamo fatto dei posti di blocco anche qui a Botticino ed è successo il fatto del “casì de Panada”. “Siamo amici, siamo amici....” I tedeschi che poi sono andati al “casì de Panada” sono passati di qui ed i ragazzi li hanno lasciati passare in quanto non erano in divisa e non li hanno riconosciuti. Io quel giorno ero a Gussago: ero andato, non ricordo con chi, guidavo un camioncino tedesco e mi avevano detto che bisognava andare là perché sparavano: su alla Stella c’erano i tedeschi. Qui a Botticino si era organizzato il Municipio, si era fatto un deposito, poi siamo andati a prendere i materiali: c’erano scarpe, vestiario, e di mano in mano che tornavano i prigionieri glielo davamo. Man mano che tornavano dalla prigionia glieli davamo. Le scarpe siamo andati a prenderle in un palazzo a Bedizzole, era il 26 o il 27 aprile, e le abbiamo scaricate in Municipio, c’erano anche sigarette. Questa merce la davamo ai militari che tornavano a casa e il cui rientro è iniziato dopo qualche giorno. Dal 25 Aprile siamo rimasti in municipio per circa 2-3 mesi: c’erano armi e merci, l’automobile del Barbisù, alimentari quali scatolette di carne, non molti ma c’erano: era tutta merce americana. Noi giovani stavamo lì fissi: c’erano due o tre stanze ed alloggiavamo in due o tre per stanza: si parlava di ciò che accadeva ma di incarichi specifici non ne avevamo. Eravamo un poco abbandonati a noi stessi. L’unico che comandava era il Tito, ma altri che potessero guidarci non ce n’erano. Eravamo cresciuti così, senza che nessuno ci guidasse veramente. In quel periodo, dopo il 25 Aprile, finita la guerra, la nostra speranza era di finire in fretta con i tedeschi ed i fascisti, ricominciare di nuovo, tornare al lavoro se era possibile, pulire dai residui di fascisti e tedeschi che erano rimasti, e cambiare vita. Prima di tutto perché gli anni vissuti sino a quel momento non erano certo belli perché eravamo privati di tutto non avevano nessuna delle libertà che si vuole a 20 anni, anche solo di poter uscire la sera senza che nessuno ti dicesse nulla, poter andare all’osteria senza che i fascisti ti controllassero, ti faceva sentire la libertà nell’aria ed era già molto. Poi la speranza del lavoro: il fatto di poter guadagnare e migliorare le nostre condizioni: io non avevo molte capacità ma già vedevo un avvenire migliore. Ripensandoci oggi penso che allora avrei potuto fare di più e mi trovo pentito di non averlo fatto, però in fondo mi è andata bene: non mi è accaduto nulla, anche qui in paese non sono accaduti grandi fatti, a meno che qualcuno ricordi qualcosa più di me: io ricordo solo i fatti principali e la prigione, perché l’ho subita. D’altra parte allora si aveva paura e le notizie che solo pochi conoscevano circolavano con circospezione. La gente aiutava, però chi lo faceva non parlava perché aveva paura Alcuni sono rimasti nascosti sino dopo la fine, vero è che gli chiedevamo: “Scendi dal solaio?”, hanno aspettato che gli altri facessero loro la “pappa” prima di mettere il naso fuori di casa. Dopo la guerra è stata una delusione perché nella vita non ho mai avuto fortuna: ho sempre cercato di andare a lavorare e non mi hanno mai voluto perché ero un comu53 nista. È inutile ti racconti la mia tragedia perché è lunga: ho sempre avuto necessità di lavorare e mi hanno sempre detto di no. Dopo la guerra avevo la qualifica di tornitore e fresatore, ero disoccupato, avevo voglia di lavorare, c’erano le assunzioni alla “O.M.”: io con la qualifica non venivo assunto mentre assumevano i raccomandati. Ricordo che allora alla “O.M.” c’era un ingegnere che faceva le assunzioni il quale faceva entrare solo i raccomandati. Alla “Sant’Eustacchio” era la stessa cosa: entravano i socialisti ed io che ero comunista non venivo assunto. Questo per dimostrare come l’essere comunista è sempre stato difficile. Anche quando mi ero messo in proprio acquistando un camion il lavoro non lo trovavo mai: per fortuna lavoravano le mie sorelle. Io sono sempre stato comunista e mi vanto della scelta fatta, anche se ha sempre rappresentato un grande ostacolo dal punto di vista economico; se io avessi tenuto nascosta la mia fede politica non avrei avuto problemi nel trovare un lavoro. Bastava non mi fossi dichiarato ed un lavoro l’avrei trovato subito perché allora c’era una buona richiesta di mano d’opera nella mia specializzazione. Noi che avevamo preso parte alla Liberazione non eravamo molto considerati. Per farti un esempio ti racconterò un particolare. Subito dopo la Liberazione consegnavano, ai partigiani ed ai gappisti, degli attestati del generale Alexander, che facilitavano l’avviamento al lavoro; eravamo io e quello che era soprannominato il “Patatì”: lui è stato subito assunto alla “O.M.” ed io no. Subito dopo la Liberazione avevamo creato una sezione del P.C.I. ed alle riunioni partecipava moltissima gente anche se io raramente intervenivo perché ho sempre avuto difficoltà nell’esprimermi. Qui in paese dopo la guerra noi giovani, assieme ai militari che erano rientrati a casa, avevamo organizzato delle veglie nel palazzo comunale nel mese di settembre. Vicino a casa mia avevamo costruito una baracca di legno: ci davamo da fare per organizzare feste. Come popolazione non abbiamo mai 54 avuto problemi, effettivamente non eravamo malvisti. Alcuni dicevano che avevamo rubato. Dicevamo che mangiavamo e bevevamo perché avevamo preso i soldi del comune, mentre invece noi utilizzavamo le scatolette di carne degli americani. Subito dopo la Liberazione circolavano molti soldi ma non li abbiamo certo presi noi: quelli che li hanno rubati sono stati il Cenedella e gli altri due fratelli fascisti dei quali sicuramente te ne ha già parlato il Bigio. Il Cenedella e gli altri che dicevo erano fascisti si erano infiltrati con noi. Loro erano sfollati a Botticino e non si sapeva bene chi fossero e si presentavano bene: dicevano di essere fuggiti perché avevano paura dei fascisti e noi abbiamo abboccato all’inganno. Noi eravamo giovani ed inesperti e siamo caduti nel tranello: sicuramente gli anziani avrebbero dovuto informarci che erano persone inaffidabili ed alle quali non si poteva affidare con leggerezza il municipio. È finita che noi abbiamo fatto brutta figura e la cassa del comune se la sono portati via loro. A Rezzato ad esempio, erano in tanti e tutto era molto più controllato e quindi non è successo nulla. L’unico fatto è avvenuto quando hanno bombardato un treno e la gente dopo lo ha saccheggiato. Dopo la Liberazione ci hanno consegnato quei diplomi di gappisti all’A.N.P.I. che era in piazza Loggia dove c’è rimasta per molto tempo. È stato dato a me, a quello soprannominato “Patatì”, al Bruno detto “Rusì”, eravamo in quattro o cinque. Non ho fotografie. Allora non si facevano fotografie: non possedevo nemmeno la macchina fotografica. Non era come oggi, allora le fotografie erano rare; nel dopoguerra si è iniziato a fare fotografie in occasione dei matrimoni. Tolto che giornali, pochi, e la radio altro non c’era. Arrivava allora solo il giornale del partito, il P.C.I., che facevamo circolare tra di noi. So che arrivava anche un altro giornale, ma non ricordo il nome della testata. Botticino, 23 febbraio 1996 Testimonianza di SANTINA DAMONTI (19.2.1922) Quando parlo con i miei nipoti di queste cose loro non mi stanno ad ascoltare, uno poi non vuole assolutamente sentire questi discorsi. Io penso invece che per governare una nazione bisogna avere un po’ d’amore, perché altrimenti è inutile farlo. Sono del 1922, quando è nato il fascismo. Ho frequentato la scuola elementare qui a San Gallo ed ho superato solo la terza elementare: qui a San Gallo la quarta non c’era. Conservo ancora la fotocopia della pagella: ho cancellato tutti gli emblemi fascisti. Ho sempre abitato a San Gallo. Ho lavorato a Brescia, facevo la commessa presso la ditta Dolcini, in piazza del Mercato prima della guerra e anche in tempo di guerra, poi ho proseguito a lavorare anche dopo sposata. Mio padre faceva il contadino. Si mangiava ciò che si produceva in casa; eravamo undici fratelli: abbiamo sofferto la fame, il freddo, tutto. Poi ho avuto quattro fratelli militari: uno è stato ferito in Russia, era negli alpini della divisione Julia, la compagnia Tridentina, un altro era negli artiglieri, anche lui nella divisione Julia: sono partiti inizialmente per l’Albania, poi sono stati mandati in Russia: era arrivato il telegramma che era disperso ed invece è tornato a casa alla fine del 1945. Pesava 42 chili, pieno di pidocchi e di tutto. Quando ci penso... Quando frequentavo la scuola c’era il fascismo; a San Gallo c’era una sola maestra che insegnava a cinquanta bambini di prima, seconda e terza. La mattina insegnava ai bambini di seconda e terza ed al pomeriggio faceva la prima. Quella maestra insegnava molto bene, era di Rezzato, si chiamava Battaleni, amava molto i bambini ed era bravissima: io ho un ricordo molto bello. Noi scolari non facevamo niente di particolare, non partecipavamo nemmeno alle manifestazioni del “sabato fascista”, forse perché eravamo pochi rispetto a quelli di Botticino. Andare a scuola mi piaceva molto. Io desideravo proprio studiare: io andavo a casa mi fermavo sui libri, facevo subito i compiti; oggi quando vedo i bambini che non hanno amore e che i genitori li devono sgridare per fare i compiti me ne rammarico. Con me nessuno ha mai gridato perché facessi i compiti. Qui a San Gallo il fascismo era molto avversato. Ricordo uno dei miei fratelli, si chiamava Santo, faceva il calzolaio ed era andato a lavorare a Milano perché qui a San Gallo non c’era lavoro: era il 1935. Una domenica arrivano i carabinieri a cercarlo: stavano facendo le indagini perché cercavano i sovversivi. Non so perché c’erano degli antifascisti a San Gallo, comunque anche mio padre lo era. Mio padre aveva fatto la prima guerra mondiale. Mio padre non lavorava in cava: all’inizio erano in pochi che lavoravano alle cave, successivamente sono diventati più numerosi ed anche mio fratello più vecchio, che era del 1905, è andato a lavorare in cava. Non so come mai mio fratello è stato accusato di essere sovversivo; anche il Lonati Casimiro, che era zio di mio marito, è stato accusato dello stesso reato. Forse lo hanno accusato proprio perché parente del Lonati. In casa, quando ero ancora giovane, non parlavamo tanto di politica, di fascismo, anche perché si aveva molta paura. Avevano paura perché se lo venivano a sapere li arrestavano e li portavano via. Qui a San Gallo non è accaduto che qualcuno sia stato portato via. Però accadeva, quando facevano i rastrellamenti, che prendessero gli uomini e li portassero a Brescia, poi magari li rilasciavano. Prima della guerra i rastrellamenti non sono stati effettuati. C’erano persone sospettate e basta. Qui a S.Gallo non c’era la sede del “fascio”, se c’era il “sabato fascista” bisognava recarsi in sede a Botticino. Quando c’era il sabato fascista non lavoravano ma non venivano fatte attività speciali. Nicoletto quando è fuggito in Jugoslavia prima è venuto a San Gallo. Era ospitato in una casa proprio dietro alla mia. Era ospi- 55 tato in casa di Lonati, il fratello della mia suocera: loro erano quattro o cinque fratelli. Nicoletto è venuto qui a San Gallo perché conosceva il Casimiro Lonati ed i suoi fratelli e sapeva che erano tutti antifascisti. Allora il Casimiro ha fatto venire a San Gallo Nicoletto e questi si è fermato alcuni giorni. Casimiro Lonati era di San Gallo: è nato qui e qui ha vissuto: poi è partito in cerca di lavoro. Poi dalla Francia è rientrato clandestinamente in Italia ma è stato preso, credo a Genova, ed è stato confinato all’isola di Ponza per diversi anni. Per essere confinato però doveva essere considerato un elemento molto pericoloso. Casimiro è stato anche in Russia a scuola di partito. Casimiro Lonati era antifascista: francamente ne ignoro i motivi; so che è andato in Francia per lavoro e poi anche là hanno creato formazioni antifasciste. Nicoletto è venuto a San Gallo a nascondersi, qui c’era la casa di uno dei fratelli Lonati, che erano considerati sovversivi, ma non so quando si sono conosciuti. Non lo so dove Nicoletto è andato quando è andato via da San Gallo, anche perché erano cose che venivano fatte di nascosto: anche mio marito, allora era ancora un ragazzino, era andato dalla zia a giocare con i cuginetti ed era salito sul solaio della casa ed ha visto Nicoletto che era nascosto là: è sceso urlando che c’era un uomo nel solaio, perché nessuno lo sapeva. Allora non si poteva parlare perché era estremamente pericoloso e quindi tutti usavano la massima prudenza: per questi motivi molti documenti sono anche andati distrutti. Mi sono sposata all’inizio del 1946, mio marito lo conoscevo già, in quanto abitava a San Gallo. Abbiamo cominciato ad aiutare i partigiani subito dopo l’8 settembre ‘43: i miei fratelli hanno lavorato molto, andavano a Brescia con il carro a prendere la farina e tutto ciò che potevano trovare. Mio marito lavorava nei G.A.P. perché era riformato (gli mancavano due dita) e non aveva quindi l’obbligo del servizio militare ed ha partecipato ad alcune azioni. 56 Mi ha raccontato qualche cosa ma ora ricordo poco: ricordo che una volta erano andati a S. Eufemia dove c’era un calzaturificio per portar via le scarpe e le hanno portate qui a San Gallo, che era un luogo di raccolta; dopo venivano smistate: la notte venivano a prenderle e le portavano via attraverso San Vito. So che c’era gente che veniva anche da lontano. I materiali (vitto, vestiario, ecc.) venivano poi portati a spalle in montagna, talvolta sino al Sonclino. Anche quando è precipitato un aereo su in collina, prima di arrivare alla Fratta hanno subito pensato di mettere al sicuro il pilota per la notte e la mattina successiva lo hanno accompagnato in montagna. Mio marito si chiamava Busi Sebastiano, lo chiamavano “Nono”. Lui lavorava in cava ed indossava sempre un berrettino ed i compagni di lavoro lo scherzavano perché dicevano che sembrava un “nonno”: da quel momento gli è rimasto il nomignolo. Di San Gallo insieme a mio marito c’era uno dei suoi fratelli, Mario, che era il più anziano, poi c’era Tolotti Andrea, che poi è morto, Lonati Annibale. Qui a San Gallo c’era qualcuno che veniva dalla Valtrompia: era una cugina di mio marito che faceva la staffetta, si chiamava Berta. Era la moglie del Lino Belleri, quello che fa il commercialista. Le derrate e le merci che portavano venivano scaricate e nascoste in qualche fienile, ma venivano subito inoltrate per le loro destinazioni. Prendevano accordi, quando arrivavano, per venirle a prendere. Qui a San Gallo venivano i partigiani anche per il vitto e gli uomini e le donne li aiutavano. Noi dicevamo che la guerra non aveva più fine: quando gli alleati sono arrivati a Cassino, e da lì non si muovevano, eravamo tutti ansiosi si giungesse alla fine. Poi un’altra fermata gli alleati l’hanno avuta sulla linea gotica. Qui a San Gallo sono avvenuti rastrellamenti, ne hanno fatti moltissimi: hanno anche bruciato delle cascine: una sopra la mia e se questa non è stata bruciata è stato proprio un miracolo... È stata bruciata perché hanno visto che qualcuno aveva dormito dentro, mentre invece nel fienile non avevano dormito estranei, ma i proprietari del campo che lavorava mio padre, invece i fascisti dicevano che vi avevano dormito i partigiani. I rastrellamenti arrivavano all’improvviso specialmente nelle case isolate. Ricordo che era fine settembre, primi di ottobre, erano le cinque della mattina ed in quel periodo era ancora buio, avevo a casa uno dei miei fratelli che era della classe 1924: la casa era molto scura e lui ha fatto appena in tempo ad infilarsi in un piccolo camino ed a nascondersi dietro un sacco di crusca che si era tirato addosso: loro hanno fatto passare tutta la casa ma per fortuna non lo hanno scoperto. Hanno portato via gente di San Gallo. Li prendevano ma siccome non avevano armi poi li rilasciavano. Sicuramente mi ricordo che quando i fascisti facevano i rastrellamenti prendevano persone che poi portavano a Brescia: anche uno dei miei fratelli era stato fermato e trattenuto per alcuni giorni ed ha passato il Natale a Brescia rinchiuso all’arsenale. Lui era della classe 1926 e non era fra le classi richiamate; volevano farlo parlare, ma lui non ha detto niente. Un altro mio fratello che era del 1924, l’ultima classe che in quel periodo era stata chiamata alle armi è stato fuggiasco per diverso tempo. rastrellamento da parte dei militi fascisti e dei soldati tedeschi che in quei giorni giravano numerosi sulle nostre montagne; ma i fascisti sono scesi dalla Fratta molto tardi: chissà cosa avranno fatto tutto quel tempo. Verso le otto, sono scesa a Botticino Sera perché servivano le medicine per il mio papà ammalato. Di ritorno dalla farmacia, arrivata in località “Case sparse” mi ha fermata una pattuglia di militi fascisti e di soldati tedeschi muniti di cani-poliziotto che mi hanno perquisita. Poiché non avevo nulla di compromettente, mi hanno lasciata andare. Venivano su con i camion cantando i loro inni. La volta che sono tornati dopo l’eccidio della Fratta, scendevano con i camion cantando “giovinezza” e tutte le loro canzoni. All’ingresso della stalla (allora non c’era la casa com’è adesso) abbiamo visto i cadaveri dei tre ragazzi uccisi: quello di Livorno, che era un giovanotto grande e grosso, era là, disteso per terra: una delle donne che erano con me si è inginocchiata per terra ed ha cominciato a pregare. Le donne che erano con me sono tutte vive ma tra di noi non abbiamo più parlato di questo episodio. Era il 28 ottobre del 1944. Ricordo che ero a messa e stavano facendo il mese della Madonna, mese che di solito è di maggio ma, per poter avere disponibili più persone era stato spostato ad ottobre poiché i contadini erano più liberi dai lavori. Erano le sei del mattino e la celebrazione era quasi alla fine quando sentiamo sparare dalla Fratta, che è proprio di fronte alla chiesa; siamo fuggiti tutti a casa, per evitare pericoli di Intanto verso le otto e trenta i fascisti erano giunti a San Gallo e sono andati dal parroco per avvertirlo che su alla Fratta c’erano tre morti e che decidesse lui cosa voleva fare. Verso le undici siamo partite in quattro e scendendo la vallata e risalendo la china del monte siamo arrivate sul posto, al Monte Fratta per vedere cosa era successo. Il parroco non è venuto, eravamo solo in quattro donne. La Fratta non era un campo base: magari arrivavano si fermavano uno o due giorni e poi ripartivano. Il proprietario della cascina non è quello attuale: era un tizio che abitava a Castello di Serle; ma sicuramente deve esserci stata una spia perché salire da Botticino Mattina ed essere sul luogo già alle cinque di mattina è evidente che dovevano essere bene informati. Nel frattempo era arrivata altra gente di S.Gallo. Io, mia sorella Rosa e Busi Giacomo siamo corse a Botticino Mattina dal parroco, il quale però non ha voluto assumersi alcuna responsabilità: anche lui aveva un 57 poco di paura anche perché era anziano, così come il parroco di San Gallo, e non si fidavano a salire. Noi allora siamo corse in Comune dove abbiamo trovato il segretario federale. Costui ci ha accolte con insulti, dicendoci che i tre “banditi” erano dei fuori legge e che noi non dovevamo occuparci di queste cose altrimenti ci avrebbero fatto fare la stessa fine. Siamo tornati a S.Gallo e poi ho saputo che verso sera alcuni uomini e alcune donne della mia frazione erano saliti al Monte Fratta con portantine e lenzuola per comporre le salme e portarle alla sala mortuaria del cimitero di San Gallo. C’era molta gente e sono stati seppelliti mettendoli in terra senza la cassa. Durante la notte i compagni della 122° brigata Garibaldi hanno onorato le salme con delle ghirlande che sono state posate sui tre tumuli e su questi è stata posta una scritta che press’a poco diceva “I garibaldini vi vendicheranno “. Tutto avvenne in silenzio e di nascosto. Non so di preciso, ma non credo che poi stati veramente vendicati. Anche perché dopo la brigata Garibaldi si è ritirata sul Sonclino. Nella mia mente e nel mio cuore rimarranno sempre vivi i ricordi di quella triste, piovosa e nebbiosa mattina di fine Ottobre: ricorderò per sempre lo strazio di quei corpi dilaniati. Altri due partigiani che erano con loro sono riusciti a salvare la vita gettandosi nella cisterna all’interno del fienile e rimanendovi nascosti per alcune ore. Tanta paura avevano quei poveri giovani che non si fidavano ad uscire perché temevano che ci fossero ancora i fascisti e i tedeschi. I due nascosti si chiamano Ciotti e Giordani Giuseppe (detto Capèla) di Iseo. Io avevo portato con me un poco di vivande ed un poco di medicazioni: quando i due sono uscire dalla stalla con il mitra in mano la gente si è spaventata ma poi ha capito che si trattava dei sopravvissuti e la paura è scomparsa. Poi i due sono stati accompagnati via, credo a Serle dove c’era un altro distaccamento partigiano. 58 La mia Testimonianza vuole essere come un testamento da lasciare ai giovani che verranno: amate sempre la patria come io l’ho amata e ricordatevi che non è nata dal nulla, ma dall’impegno e dal sacrificio di sangue di tante giovani vite! Ai tre partigiani, Giuseppe Biondi di Livorno, Beniamino Cavalli di Castrezzato e Francesco Di Prizio di Iseo caduti per un’ideale di pace e giustizia vada riconoscente il nostro ricordo. Dopo questo episodio, è morto lo zio di mio marito. Molti tedeschi, dopo la Liberazione fuggivano passando da San Gallo per evitare le strade principali e non correre il rischio di essere fatti prigionieri: allora non esisteva la strada come adesso e ne passavano moltissimi e molti sono anche stati fermati: si lasciavano disarmare e provvisoriamente venivano rinchiusi nelle scuole. Lo zio di mio marito era molto arrabbiato in quanto diceva che avendo quattro figli in guerra intendeva vendicarli e mia sorella cercava di fermarlo; anzi gli aveva persino consegnato un ombrello perché quel giorno pioveva e continuava ad insistere di starsene a casa che lo avrebbero ammazzato: ed infatti fu ritrovato sotto San Vito con ben sette pugnalate nella schiena. Com’è realmente accaduto il fatto non so, il tedesco non sono riusciti a prenderlo per cui non si è mai saputo bene com’è accaduto il fatto: di sicuro lui era disarmato perché aveva solo l’ombrello che gli aveva dato mia sorella. Quando i partigiani hanno preso possesso del Comune non è sceso nessuno da San Gallo: qui a San Gallo provvedevano a fermare tutti i fuggiaschi che passavano dalla frazione perché dopo il 25 Aprile, come ho già detto, passavano moltissimi tedeschi. La cosa sarà durata 5 o 6 sei giorni circa sino al 2 o al 3 di maggio. È stato fatto prigioniero un intero plotone: hanno visto che si arrendevano e non esisteva più la necessità di combattere. Quelli fermati a San Gallo non ricordo dove sono stati portati. Dopo il 25 Aprile 1945 abbiamo fatto festa, la festa è durata alcuni giorni: si mangiava, si cantava. Nei giorni dell’insurrezione noi donne siamo andate dai “Frecane” e preparavamo il vitto: eravamo in diverse. Donne che hanno fatto la staffetta e portato messaggi non ce n’erano qui a San Gallo. Praticamente qui a San Gallo si ritrovavano quelli che scendevano dalla Valtrompia e venivano qui per prendere vitto ed altro e poi ripartivano; quindi era una specie di punto d’incontro. Che saliva a San Gallo da Mattina e da Sera mi ricordo Remo Cattina, che ora è morto. Noi abbiamo aiutato i partigiani e alla fine della guerra mio marito si aspettava di cambiare il regime, dopo sono sorti tre o quattro partiti e ci chiedevamo come mai fossero così tanti, ed ancora adesso me lo chiedo, e mi chiedo ancora oggi come mai i comunisti siano stati maltrattati come fossero dei malfattori. Quelli che hanno fatto i partigiani la maggior parte erano comunisti. Dopo la Liberazione mio marito era iscritto al P.C.I. Qui a San Gallo durante la Resistenza le persone lavoravano di nascosto e quindi era difficile individuare le persone che si attivavano. Ed a guerra finita, quando si è saputo che alcune persone aiutavano i partigiani, la gente anche dopo era ancora circospetta: ricordo che quando si è votato nel 1948 ci hanno avvisato di non dormire a casa perché diversamente sarebbero venuti a prelevarci, e siamo stati costretti a passare la notte in un cascinale su in collina a San Vito. Ricordo anche che il parroco di allora aveva acceso cinquanta candele davanti all’altare della Madonna per scongiurare la vittoria dei comunisti. Io poi non ho più potuto frequentare la chiesa perché tutti sparlavano della mia famiglia. Noi poi siamo passati alla storia perché mio marito, dopo la sua morte, è stato sepolto con il funerale civile. Io però voglio essere sincera: senza l’aiuto dei miei figli non ce l’avrei fatta. D’altro canto mio marito ha sempre detto che voleva il funerale civile ed io quindi non mi sentivo di trasgredire le sue volontà. D’altro canto mio marito non aveva certo molta simpatia per il parroco di allora, il quale non faceva altro che predicare in chiesa contro il pericolo comunista: sembrava che il peccato peggiore che una persona potesse compiere era quello di essere comunista. Ora è tutto cambiato: i comunisti avevano la scomunica mentre ora non è più peccato, la libertà è un diritto. Nella mia famiglia eravamo tutti antifascisti anche per la parentela che ci legava ai Lonati, ma la gente di San Gallo era indifferente. Ma durante la guerra le cose sono cambiate poiché diversamente ci avrebbero fatto portar via tutti. Durante il periodo della resistenza le famiglie si sono unite sempre più ed in modo particolare dopo la Liberazione. Anche le famiglie che durante la resistenza non hanno collaborato si sono poi ritrovate dopo la Liberazione. Il cambiamento è avvenuto dopo il trasferimento del parroco il quale, ripeto, influiva pesantemente sulla popolazione. Ad ogni modo qui a San Gallo di gente che credeva nel fascismo ce n’era molto poca: si sarà trattato in tutto di una decina di persone e non di più. Ad ogni modo, ritornando al funerale di mio marito, malgrado si sia svolto con il rito civile, c’era una moltitudine di gente. San Gallo, 28 marzo 1996 Testimonianza di GIUSEPPE GIORDANI (Iseo 31.5.1927) Mio fratello aveva 21 anni, doveva andare soldato perché lo chiamavano. E lui invece di andare via è andato sul monte. Parlava di portare anche me e allora sono andato anch’io. Avevo 17 anni e 4 mesi nel giugnoluglio del ‘44. Quando siamo saliti non ero da solo, eravamo in 10 di Iseo. Siamo andati direttamente alla brigata “Garibaldi”, la 122. C’era già un po’ di organizzazione, c’era dentro anche mio fratello, qui nel paese. Non sapevamo niente di antifascismo, di 59 politica. Ma un po’ quell’Ugo che usciva da Brescia e ci spiegava alcune cose, qualche volantino, i giornali clandestini, così siamo andati in montagna coi partigiani. Poi c’erano altri: Cecco Usanza, Vigilio Brona del ‘24, che andava soldato e subito dopo scappava. Poi c’erano qui giovani accampati (fuggiti dopo l’8 settembre): noi li ascoltavamo. Poi c’erano quelli che erano andati in Russia. Uno era stato deportato in Germania. Non ne potevamo più della guerra. Lì abbiamo cominciato a fare politica, ad avere qualche barlume di quello che succedeva. Non avevamo ancora una cultura. Un po’ quello e poi anche lo spirito di avventura: eravamo giovani. Io ero cattolico e sono andato con la brigata 122° che erano comunisti. Erano duri, non ci pensavano un momento. Io adesso sono del PDS., per dire, ma allora erano proprio convinti e non si tiravano indietro. Dovevamo andare su tra Livemmo e Lodrino. Lì c’era anche Ciotti, quello che era alla Fratta. Durante la notte abbiamo attraversato il Mella, poi sul fianco del Guglielmo e dopo lì dietro.... Sapevamo di andare lì perché c’era già una organizzazione qui a Iseo: c’era uno che usciva da Brescia; lo chiamavano Ugo. Si faceva qualche riunione, si andava giù a Sassabaneck dove ora c’è il centro turistico, prima era una palude. Ci si trovava lì noi giovani e poi è uscita quella cosa della chiamata. Io e altri nove di Iseo ci siamo messi assieme e siamo saliti. Due ci sono venuti incontro dalla brigata a prenderci per accompagnarci. Abbiamo impiegato due giorni, camminando di notte per arrivare su tra Marmentino, Lodrino, passo della Savola, Livemmo, Mura... Quando eravamo su eravamo diventati troppi, più di 120: se ci avessero preso in un rastrellamento... guai! Non eravamo granché armati; chi aveva il mitra, era il meglio, io avevo un fucile 38, cioè il ‘91 rimodernato. Non siamo rimasti sempre lì, ci si spostava in Vaghezza e in altri posti... dietro al Sonclino: ci si fermava 7 - 8 giorni al massimo, non di più. 60 Nel settembre (‘44) sono cominciati i rastrellamenti e in quel periodo è arrivato Verginella che comandava la brigata; prima c’era Tito, quello di Sant’Eufemia, poi c’era il commissario di brigata che era Carlo Speziali, che faceva un po’ di tutto. Nell’arrivare Verginella ha detto che eravamo un po’ troppi e allora ci ha divisi in gruppi di 30 per andare qui e là. Su cominciava a nevicare, siamo scesi e una trentina siamo venuti qui sopra S.Gallo: abbiamo attraversato tutta la valle, non avevamo fretta! Arrivavamo dalla Val Trompia. Lì ci siamo divisi ancora in tre gruppi. Il nostro si è fermato all’inizio a San Vito dove c’era una cascina, ma ci avevano detto che c’erano delle buche pericolose (il Bus del Negondol, della Aca, ecc.) e non bisognava passarci. Ce lo dicevano i contadini, il “Nono” (Busi Sebastiano) quando ci portavano da mangiare. Allora dopo qualche giorno che eravamo lì, abbiamo attraversato e siamo venuti alla Fratta. Eravamo: io, Gheda che era il comandante del distaccamento, Ciotti di Bovegno, il Francese, Di Prizio e Cavalli. Un altro gruppo è sceso in una cascina lì vicino alla Fratta. In quella abbiamo trovato quello di Livorno Biondi, lui e un romano. Ci aveva detto la gente: attenti che lì ci sono due... Loro indossavano un giubbotto di quelli americani e non si sapeva se erano dei nostri o no. Allora abbiamo circondato la cascina e siamo entrati. Loro si sono fatti riconoscere come partigiani. Venivano dagli altipiani di Asiago. Scappavano da là per i continui rastrellamenti. Abbiamo chiacchierato un po’, poi uno è rimasto lì, l’altro, Biondi, è venuto alla Fratta con noi. Preparavamo gli ordigni per far saltare i treni a Rezzato: infatti i treni si fermavano a Rezzato, non entravano più a Brescia. Lì i tedeschi andavano a caricare e scaricare. Il nostro compito era di scendere la notte e farli saltare. Per preparare gli ordigni usavamo la dinamite che ci procuravano tramite Gardone Val Trompia, i vari stabilimenti. C’erano su Lino Belleri, Mario Zoli, tutta gente che lavorava alla Beretta e avevano la possibilità di rubarla. Noi preparavamo il materiale per poi scendere. C’era Di Prizio che era più vecchio di noi e aveva lavorato in miniera e aveva le idee di come farlo. Ricordo che faceva le bombe con i tubi di una ringhiera: li riempiva di esplosivo e poi metteva la miccia. Io lo guardavo e non li toccavo per la paura che mi saltassero in mano. Per stare in cascina non abbiamo chiesto a nessuno, siamo andati lì e basta. Noi cominciavamo a stare troppo bene. Prima facevamo tutti i turni di guardia, poi abbiamo cominciato a mezzanotte, poi più tardi, poi alle 5 finché: “vai tu”, “vai tu” e nessuno si alzava... Ci eravamo tranquillizzati e facevamo poco la guardia perché giù si vedeva chi saliva. Poi per venire su si passava da San Gallo dove c’era il Nono che teneva gli occhi aperti. Poi c’era l’altra cascina: pensavamo che prima di venire da noi dovessero passare da quella: pensavamo che prendessero prima quella o qualcuno di San Gallo vedesse l’arrivo. Un giorno è capitato quello che, come ci hanno detto, ha fatto la spia: era passato lì da noi, diceva che andava a caccia. È stato lì a mangiare con noi. Noi non sospettavamo nulla. Gheda e anche Tito e Speziali che ci hanno detto: “asini, se aveva il fucile era un fascista, perché a caccia va solo chi ha la tessera del fascio”. Ma noi che ne sapevamo: eravamo troppo giovani ed inesperti. Quella è stata l’unica persona non partigiana che è capitata lì. Poi non so se sia stato proprio lui o no a fare la spia. Mi hanno detto che era uno di Botticino, che poi è stato ucciso. E una mattina sono arrivati. Come me ne ricordo di quel giorno! Stavamo dormendo e hanno sparato una raffica. Hanno circondato il prato (c’era la vigna allora) e hanno sparato sui coppi. Noi dormivamo sul fienile, dove ora ci sono le camere e sotto dove c’è la stalla. C’era una stalla con giù tutte le “trape” perché era pieno di viti. Dove adesso c’è il cucinino c’era il “patòs” (fogliame, legna) e un po’ di patate e dietro c’era la cisterna dove si andava a prendere l’acqua. Ci siamo svegliati: questa è la guardia nazionale repubblicana! Abbiamo indossato qualcosa e Bruno Gheda, il Francese e un altro sono scesi nella stalla dal buco del fienile e poi sono fuggiti nel bosco; loro li hanno visti, hanno sparato e Gheda è stato ferito. Io e Ciotti di Bovegno siamo scesi dal buco del fienile e abbiamo cercato di uscire, io ero davanti, ma lui mi ha spinto a terra: è arrivata una raffica: ciao! mi avrebbe tagliato a metà. “Che facciamo?” “Dove vuoi andare, non vedi che ti segano a metà?”. C’era la cisterna dell’acqua, c’era il buco sopra, era alta, la spina era in fondo. C’era scuro, per salire c’era un bastone e si saltava dentro: allora ero magro. Era in una posizione scura e chi non lo sapeva non la vedeva e non individuava il buco sopra. Noi siamo entrati lì dentro. Abbiamo sentito le voci che urlavano a quello di Livorno, Cavalli e Di Prizio, di arrendersi. Erano entrati e li avevano presi. Si sentivano i rumori di percosse, li “sbattevano su”. Poi parlavano delle cose trovate: il cinturone, un telo, delle cose che avevamo lasciato. Ricordo la paura e Ciotti che diceva mentre ancora c’erano i soldati: “se buttano le bombe a mano stenditi sott’acqua che attutisce il colpo”. I compagni che erano nell’altra cascina, quel giorno hanno sentito sparare e sono venuti su, ma non c’era niente da fare. Hanno fatto bene a ritirarsi e a salvare la pelle. Hanno tentato di aiutarci ma è meglio che si siano sbandati, altrimenti avrebbero ucciso anche loro. Erano tanti i fascisti anche se non sono riuscito a vederli perché praticamente non sono uscito. Dalla cascina siamo entrati nella cisterna. Noi siamo rimasti nella cisterna e nel venire sera abbiamo messo fuori la testa. Mentre eravamo nella cisterna abbiamo sentito le voci delle donne ma non ci arrischiavamo ad uscire. Quando siamo usciti le donne avevano già coperto i corpi e ho scambiato quattro parole con la moglie del “Nono” che ho trovato lì. Loro ci hanno raccontato che 61 i fascisti lo avevano detto in paese: “andate su che ci sono tre morti”. Loro sono venute a vedere e sono arrivati anche quelli di Castello: lì fa presto a passare la voce. Quando siamo andati a vederli: c’erano Cavalli e Di Prizio miei paesani (anche se Cavalli era di Castrezzato). Gli avevano sparato di fronte senza tante cerimonie. Cavalli aveva una scatoletta per il tabacco delle sigarette: era tutta bucherellata. Li hanno portati fuori e li hanno uccisi, ma prima li hanno picchiati. Ho sentito i rumori dei colpi, i loro lamenti e quelli che urlavano “li abbiamo presi”. Pensavamo li portassero in Castello a Brescia, invece li hanno portati lì dietro e gli hanno sparato. Era il 28 ottobre. Aveva fatto l’amnistia il duce: che amnistia aveva fatto! Tre sono riusciti a fuggire dalla parte superiore. Quello che era stato lì, come mi hanno detto, ha fatto la spia: sapeva dove dormivamo, dove mangiavamo. Abbiamo visto arrivare il prete di Castello. Ho detto: “c’è qui il prete, si vede che se ne sono andati”. Dopo noi siamo andati a casa del prete di Castello che ci ha dato da mangiare: ricordo che ci aveva dato i gnocchi, e a dormire ci aveva messo nel campanile. Dicevamo: “guarda ha la farina per fare i gnocchi”. Lassù era solo farina di marroni. Pane quando riuscivano a portarcene un po’. Dal Castello di Serle ce ne siamo andati verso le mie terre: almeno sapevo dove andare. Attraverso i monti siamo arrivati nella zona di Iseo. Poi mi hanno detto che hanno ucciso quello che aveva fatto la spia: non so chi è stato, forse uno della 122°, ma a me hanno solo raccontato qualcosa, che era stato preso lì a Botticino, mi pare. Io me ne ero tornato dalle mie parti. Forse sapeva qualcosa Ciotti che era rimasto a fare l’ortolano a Botticino. Lo chiamavano “l’Ortolà”. Nei giorni precedenti ci portavano da mangiare: il Nono, poi veniva Bonardi Pasquale, anche lui del ‘27, veniva la mattina e scendeva la sera. C’era un gruppo che faceva da tramite: c’era Spartaco Damonti, che avevo conosciuto su in brigata. Poi c’era Tito. Loro passavano a vedere come comandanti l’andamen62 to. Ci avevano portato vestiti e anche una mitraglia, era grossa del 15/18: ma cosa ce ne facevamo di una cosa del genere! Chi la raccoglie se si deve fuggire? Chi se la tira dietro con quel treppiede pesante mica da ridere! Poi Spartaco l’ha portata via. Avevamo delle pistole rubate a Gardone Val Trompia, ma erano dei chiodi, non andavano. Dovevamo limare i caricatori per farli star dentro. Avevo dato il mio moschetto in cambio della pistola al Francese che mi ha preso per matto. Poi lui l’ha perso mentre fuggiva: gli è rimasto appeso ai fili delle viti mentre scappava: si era inciampato nei fili. Si chiamava Erik. Poi l’hanno trovato quelli di San Gallo. Oltre al “Nono” e Bonardi, venivano anche delle donne a portare da mangiare; di solito chi aveva contatti era Spartaco. Avevano paura che venissimo scoperti e riconosciuti. Io mi chiamo Giordani Giuseppe ma mi chiamavano “Capéla” e gli altri conoscevano solo il soprannome, non il mio nome. Come arrivavi in brigata ti dicevano: “ Il tuo nome non c’è più, via! Dimmi come vuoi chiamarti”. Era una forma di sicurezza. Il Cavalli lo chiamavano “Corno”, Di Prizio era “El Negher”.. Lo cambiavamo perché se prendevano uno non potesse dire chi era il tale o il tal altro. Biondi era “El Biond” perché era biondo, alto uno e novanta, un pezzo di figliolo. Ne aveva già passate: lui era del ‘21, era stato in marina, la sera raccontava le sue storie. Ci raccontava che quando era “scoppiata” la repubblica lui si era sbandato, dopo l’8 settembre. Si trovava a Livorno, il suo paese, e aveva fatto presto a scappare. Dopo era andato coi partigiani. Era stato sull’altipiano di Asiago e da là quando cominciavano a “grattare” era venuto qui. Per passare le giornate alla Fratta pulivamo le armi, poi si chiacchierava. Poi ci facevano “l’ora di politica “, cioè si discuteva di politica. Teneva l’ora di politica Carlo Speziali che era il commissario: era stato in Spagna, poi era andato in Francia e dopo l’otto settembre era venuto qui. Speziali, che era siciliano, e Gheda discutevano sempre e urlavano anche. Immaginati cosa ne capivo io che avevo fatto la terza elementare ed ero giovane: democrazia e quelle cose lì. I contatti erano tenuti da Bruno Gheda, Tito e Spartaco; li tenevano anche con la popolazione. Di Botticino ricordo Damonti Angelo che faceva parte del “G.A.P.”. A volte andavamo in paese ma i contatti li tenevano Tito e Spartaco che ci davano le informazioni, oppure il “Nono”. Alcuni facevano parte della 122°, ma erano in casa, cioè restavano in paese. Procuravano da mangiare, i vestiti, o quelle cose lì. Io però li ho conosciuti dopo di persona. Io ho preferito tornare al mio paese perché conoscevo il territorio e sapevo dove andare. Lì invece non lo conoscevo. A Rezzato non abbiamo fatto in tempo a scendere: avevamo preparato gli ordigni ma non siamo riusciti a fare niente. Siamo rimasti in tutto si e no 15 giorni oltre alla settimana a San Vito dove ci sono le grotte che dicevano erano pericolose. Finita la guerra sono tornato a casa: a turno mettevano in prigione qualcuno. Ho nascosto le armi e poi le ho consegnate. Ho ricominciato ad andare a morose: avevo 18 anni. Mi hanno dato il diploma del generale Alexander: chi aveva fatto qualcosa doveva dichiararlo e raccontare. Qui a Iseo eravamo diventati più di 350! Allora dovevano scrivere dove erano stati, chi era il comandante e quelle cose lì. Io l’ho fatto per me. A chi non sapeva che scrivere io dicevo: metti dove sei stato, chi era il tuo comandante... erano diventati tutti partigiani! Io sapevo dove ero stato, chi mi aveva comandato, cosa avevo fatto... Iseo, 28 marzo 1996 Testimonianza di LUIGI TOMASOTTI (9.2.1923) Mio padre era cavatore, la mamma è morta che io avevo 5 anni. C’eravamo io e mia sorella. Quando ero giovane c’era il fascismo, andavamo a scuola, eravamo ragazzi, e ci insegnavano solo quello e poi basta. Il duce, il fascismo, la religione, solo quello ci insegnavano. A casa mio padre non si dichiarava ma non è mai stato fascista; poi c’era uno zio che è stato picchiato dai fascisti perché era socialista. Lui era contro al cento per cento e allora è stato picchiato: il giorno delle ultime elezioni, io ero appena nato, e questo me lo raccontavano. Dopo il 1925 questo mio zio, Giacinto Tomasotti, è emigrato in Brasile ed è morto là. Io non ho neanche fatto il soldato. Prima di andare alla visita c’era il premilitare: tutti i sabato in Comune si facevano le esercitazioni. Alla visita mi hanno scartato per insufficienza toracica. Io alla visita c’ero andato tre volte perché mi avevano fatto rivedibile ma avevo sempre quelle misure. Anche nel ‘45, a guerra finita, mi hanno chiamato ancora per andare alla visita. Poi è scoppiata la guerra. Io sono andato a lavorare a Brescia, un po’ alla Orlandi, poi alla “O.M.”. Prima di andare alla “O.M.” lavoravo a Sant’Eufemia a fare il pasticciere. In quel periodo mi hanno mandato la cartolina, nel ‘43, che dovevo andare in Germania. Al momento che mi è arrivata la cartolina dovevano andare alla visita quelli del ‘26 ma non ci sono andati perché c’era la Repubblica Sociale e non si sono presentati. Allora, due di quelli che avevano paura a stare a casa che li venissero a cercare, sono andati in montagna coi partigiani; anch’io avevo paura perché non mi ero presentato. È cominciata così e andavamo anche un po’ all’avventura per quello spirito dell’età, ma soprattutto è cresciuto questo spirito quando sono venuti i tedeschi: volevamo mandarli via, non sopportavamo che fossero qui ad occupare, poi dove eri a lavorare dovevi fare solo quello che volevano loro, per forza. Io ho cominciato a far parte di una cellula. A Botticino c’erano altre cellule ma noi non lo sapevamo perché era una cosa segreta. C’erano due o tre gruppi ma non ci conoscevamo l’un l’altro. Eravamo amici ma 63 non sapevamo di appartenere a cellule partigiane: il pericolo era che se prendevano qualcuno e lo facevano parlare al massimo faceva i nomi solo dei tre o quattro che conosceva e non di altri gruppi, così le altre cellule si sarebbero salvate. Era una misura di sicurezza. Non so se anche a Botticino Sera c’erano gruppi. Noi facevamo la nostra vita normale poi ogni tanto capitava di andare a fare qualche azione. Qui a Botticino mettevamo giù qualcosa della nostra paga per sostenere quelli che erano in montagna, per mandargli un po’ di roba. Loro venivano giù a prendere la roba. Poi una sera mi hanno detto che c’era un’azione da fare: c’era d’andare a Sant’Eufemia dove c’era la filanda e c’era dentro la guardia repubblicana, c’era un magazzino di roba. Si trattava di riuscire ad entrare per prendere coperte, vestiti, scarpe, ecc. Infatti in quattro o cinque della nostra cellula di Botticino ci siamo trovati assieme ad un gruppo di San Gallo che aveva le armi. Siamo andati sopra Sant’Eufemia passando dalla Maddalena e c’erano Tito e Sabattoli (fornaio di Sant’Eufemia) che venivano da San Gallo. Loro due sono entrati in un’osteria di Sant’Eufemia dove c’erano due della guardia repubblicana che erano del magazzino. Volevano combinare per andare a prendere un po’ di roba. Sono entrati nell’osteria, detta “della Concordia” appena dentro in Sant’Eufemia, hanno preso quei due e gli hanno detto le loro intenzioni: è scoppiata una sparatoria e dei due uno è morto e l’altro ferito. Tito e Sabattoli sono stati costretti a fuggire perché sopraggiungevano altre guardie. Lì è andata a monte la cosa: noi eravamo appostati poco sopra in attesa del segnale per andare a prendere la roba. Invece è arrivato Tito e siamo fuggiti: loro a San Gallo e noi, a notte, a casa nostra. Quando siamo andati a prendere i militari a Sera, eravamo due cellule di Botticino, una di San Gallo e poi c’era il gruppo dei partigiani che erano su al Sonclino. Il nostro capo cellula Amilcare Benetti ci ha detto che c’era da fare un’azione. Ci vedevamo 64 in paese. Del mio gruppo c’erano lui, io, un Giossi che faceva l’oste e un altro. Ci siamo trovati alla Lassa con quelli di San Gallo e con alcuni partigiani della 122°. Avevano le armi; siamo arrivati lì e abbiamo trovato un altro gruppo di Botticino Mattina: che fate qui? e voi che fate? Loro facevano attività e noi non lo sapevamo, non sapevamo chi erano. Abbiamo preso le armi, un moschetto con due o tre caricatori ciascuno e bombe a mano e siamo scesi a Botticino Sera, in piazza (4 Novembre). Abbiamo bloccato le strade di accesso e alcuni sono entrati nell’edificio (l’attuale biblioteca). Avevano contattato due sergenti, credo, era una cosa preparata, erano già d’accordo di andare a prelevare quei soldati. C’erano due camerate, una sopra e una sotto. Li abbiamo svegliati, fatti vestire, in silenzio, hanno preso le armi, io ho raccolto due moschetti francesi che ricordo toccavano quasi terra perché sono piccolo, le munizioni e una trentina di soldati sono venuti via. Quelli di sopra non si sono accorti di niente: solo il mattino dopo hanno trovato la camerata vuota. Erano soldati di leva chiamati dalla repubblica di Salò: alcuni stavano zitti, altri avevano paura. Ricordo uno che mi ha chiesto di accendere la sigaretta e ricordo che tremava tutto. Io gli ho detto di non aver paura che noi non gli facevamo niente. Tremava. Uno mi ha detto di fare attenzione ai sergenti: io ho avvisato della cosa un partigiano della montagna. Li abbiamo accompagnati a San Gallo e poi noi siamo venuti a casa. Loro sono andati in montagna verso il Sonclino: so che alcuni di questi sono stati fatti prigionieri dai tedeschi e fucilati. Noi li abbiamo liberati perché alcuni potessero andare assieme ai partigiani perché erano stati obbligati ad andare di leva. Avevamo imparato ad usare le armi proprio facendo il premilitare con i fascisti. Io ero addirittura un tiratore scelto. Quando siamo andati a prendere i soldati a Botticino Sera, c’era quel Giossi che era stato via 4 o 5 mesi militare e non sapeva ancora caricare un moschetto: aveva solo il colpo in canna da sparare. E aveva fatto 4 o 5 mesi di soldato... Fortuna non c’è stata la sparatoria perché lui poteva sparare solo il colpo che aveva in canna! A Botticino Mattina ogni tanto venivano dei soldati tedeschi: c’era una che faceva anche un po’ da spia. Una sera due partigiani le hanno sparato e l’hanno ferita. Poi hanno ucciso quello sospettato di aver portato i fascisti su alla Fratta: lui faceva la guardia boschiva. Quella notte precedente del 28 ottobre io andavo alla “O.M.” a lavorare e nell’osteria qui in via Cave le squadre dei fascisti si sono fermate e hanno fatto alzare l’oste per dargli da bere. Alcuni sono saliti a San Gallo, alcuni sono saliti da qui per i sentieri. Erano qui con il camion: sulla strada qui avevano piantato il mitragliatore. Io avevo sentito i rumori e ero spaventato perché ero dentro i gruppi di partigiani. Quando sono uscito la mattina del 28 ottobre per andare a Brescia a lavorare ho dovuto passare in mezzo a loro. Nessuno mi ha detto niente e io, pioveva, col mio mantello sono andato al lavoro. Al ritorno ho saputo che avevano ammazzato quei tre ragazzi. Mi hanno raccontato che era stato quello di Mattina a portarli su. Me lo ha confermato uno di Botticino Sera, che era nelle brigate nere, e che avevo incontrato a Brescia. Me lo ha detto perché non sapeva quello che facevo io. Poi quello è stato ucciso dai partigiani della 122°. Dicono che in Castello anche lui facesse la guardia ai partigiani catturati. In quei giorni io ero a Merano per lavoro con la “O.M.” e quando sono venuto a casa mi hanno detto che l’avevano ucciso. Lo hanno aspettato al mattino quando è uscito per andare al gabinetto, che allora era un casotto nel campo, e gli hanno sparato. Al momento della Liberazione ci siamo trovati qui in un’osteria tutti assieme. Sono arrivati i partigiani dalla montagna e siamo andati al Comune tutti in fila e lo abbiamo occupato. Lì al Comune facevamo i turni di guardia e così via. La sera della Liberazione, abbiamo disarmato uno delle brigate nere che era qui, un toscano, che aveva parenti da queste parti. Lo abbiamo catturato e lo abbiamo portato insieme agli altri. C’è stata poi una sparatoria a Rezzato con una autocolonna tedesca. Il gruppo delle brigate nere è scappato dal “palazzo della contessa” e noi siamo andati e lì c’è stata la sparatoria con l’autocolonna che passava sullo stradone mentre si ritiravano verso il lago per tornare in Germania. Abbiamo occupato il palazzo della contessa e ci hanno detto di prendere tutto quello che trovavamo: scatolette, zaini, camicie, maglieria per portarla qui in Comune. Alla sparatoria con la colonna hanno partecipato quelli di Botticino; ricordo Angelo Damonti, uno di Caionvico e i partigiani della montagna. A Botticino poi c’è stata l’uccisione di due tedeschi davanti al cimitero. Per me è stato uno sbaglio: dovevano fucilarli subito sul posto per quello che avevano fatto: uccidere uno che era lì a parlamentare con la bandiera bianca, Bottarelli, che voleva entrare per parlare per farli arrendere, invece col pugnale lo hanno ucciso. Noi siamo saliti, abbiamo circondato questo “casì”, non volevano uscire; hanno buttato della benzina dalla finestra e dato fuoco, sono usciti per forza. Nell’uscire hanno lanciato una bomba a mano e hanno ferito uno di Botticino Sera, poi con una sventagliata di mitraglia hanno ferito altri due. I due tedeschi sono stati portati giù e uccisi ma non sono stati quelli di Botticino, erano altri che venivano da fuori. Era una cosa che andava fatta subito sul posto, mentre uscivano dalla casetta. Lo sbaglio è stato passare per il paese così. La guerra è la guerra non c’è molto da dire, ne succedono di cose che non vanno fatte: la guerra è la guerra. Era meglio se l’episodio finiva là. Poi c’è stato l’episodio qui in Comune e quello è stato Tito: due ufficiali tedeschi non volevano consegnare le armi ma volevano arrendersi solo ad un ufficiale. Erano tedeschi che con un camion avevano sbagliato strada ed erano finiti qui; erano stati catturati e tenuti qui in Comune. I due ufficiali che comandavano quel camion volevano essere disarmati da un ufficiale; il comandante della 122° brigata era Tito, ma 65 loro volevano un ufficiale dell’esercito; allora lui li ha uccisi nella galleria del Comune. A Bedizzole c’era un magazzino dei tedeschi e con un camion che c’era qui, uno faceva l’autista, noi andavamo a prendere le robe da portare qui in Comune: calze, camicie, appena avvenuta la Liberazione. Quella roba l’abbiamo data a chi aveva partecipato all’azione e poi il resto lo distribuivamo alla popolazione: c’era una tessera su cui facevano il timbro e gli davano qualcosa: un po’ di stoffa, canottiere, calze, fazzoletti, roba così. In Comune c’era un commissario politico che dirigeva: Gorni Rino; poi noi facevamo la guardia; poi, siccome il podestà ed il segretario erano riusciti a scappare, è stato nominato un sindaco provvisorio: un socialista anziano, una persona onesta. A guerra finita ci sono state delle polemiche perché qualcuno aveva portato via della roba. Poi siccome la maggioranza di noi erano comunisti, qualche socialista, è cominciata la polemica politica. Anche perché la maggioranza della gente non sapeva nemmeno cosa avevamo fatto, perché c’era il vincolo della segretezza. Nemmeno mio padre sapeva che ero in quel gruppo. Mi ha chiesto perché non gliel’ho detto, ma era pericoloso, era meglio non farlo sapere a nessuno che non fosse nei gruppi. Erano momenti balordi, non c’era da andare in giro a raccontarlo. Noi non ci aspettavamo niente, dopo la Liberazione. Speravamo solo che andasse meglio la vita e che cambiasse anche il governo. Allora però sapevamo anche poco Testimonianza di ADELINO ZANOLA Mio papà ha sempre lavorato in cava. È andato in Germania prima della guerra, quando è venuta la crisi del marmo; sono andati in 7 o 8 di Botticino. È rientrato alla svelta perché era in miniera di carbone e non ce la faceva fisicamente: lavorare in miniera, risalire, 2 ore sotto il bagno caldo, andare a mangiare e trovare una zuppa di patate...È venuto un momento che non ce la faceva più Aveva un contratto di un anno, ma dopo 3-4 mesi 66 perché leggevamo poca roba e poi la scuola l’avevamo fatta sotto il fascismo. Qualcosa sentivamo alla radio, ma erano pochi quelli che l’avevano. Alla radio abbiamo sentito i discorsi del duce perché portavano la radio a scuola solo per quello... Anche per il lavoro l’aver fatto il partigiano non contava; io ero alla “O.M.” e dopo la Liberazione ne hanno lasciati a casa 1.000 in un colpo, tenevano solo quelli buoni a far qualcosa. Io sono andato alle cave e ho lavorato lì per 30 anni. Un ricordo bello è quando hanno cominciato a fare i comizi per le elezioni, e cominciavamo a seguirli anche noi coi camioncini, le moto. Andavamo a Botticino Sera, a San Gallo a fare propaganda, c’era finalmente il senso della libertà. Prima non potevamo fare quelle cose. Non c’erano nemmeno le elezioni durante il fascismo. Finalmente si poteva cominciare a muoversi e a parlare liberamente. Durante il fascismo uscivamo la sera ma poi ad una cert’ora bisognava rientrare. Poi c’erano i vecchi socialisti antifascisti che dovevano stare in guardia: c’erano state delle lotte tra socialisti e fascisti. Dovevano stare attenti perché li cercavano per picchiarli. Non si poteva fare niente, attenzione a come si parlava, bisognava continuare a dire signorsì. Sono qui ancora... a 50 anni di distanza rifarei quello che ho fatto, forse con più esperienza. Allora per forza bisognava farlo: se nessuno l’avesse fatto saremmo qui ancora con il fascismo. Botticino, 7 maggio 1996 (27.9.1926) si è rifiutato di scendere nel pozzo, finché l’hanno lasciato venire a casa. Lui aveva lavorato nelle cave di Lombardi, ma al ritorno ha ripreso a fare il contadino: avevamo un pezzo di terra su al Gazzolo.... Poi aveva passione ad allevare le bestie: le comperava, le vendeva, si è dato un po’ da fare; eravamo in cinque fratelli. Nel ‘44 hanno ucciso mia madre in casa, il 27 novembre. È rimasto lui solo con 5 figli: era magra, insomma. Io dovevo essere militare essendo della classe 1926, ma dopo l’otto settembre nessuno andava militare; chi era militare scappava. Io non mi sono presentato; alcuni miei amici lavoravano allora sotto la Todt a Ghedi: io non volevo andare sotto i tedeschi. Allora stavo un po’ all’erta. Nel periodo 1940-1945 aiutavo mio padre nel campo. Fino a 18 anni. Ho fatto un anno alla Portesi di Virle. Si lavorava un po’ qua un po’ là: c’era poco lavoro e si cambiava. Da ragazzo, dopo la scuola, perché era un po’ magra, aiutavo altre famiglie a tenere le bestie: mi davano un po’ di farina, ecc. Si tirava a campare così. Quel giorno stavamo mangiando, a mezzogiorno, è arrivato un ragazzo che abitava appena sopra di me e mi ha detto: “ Adelino, guarda che dalla valle di Nuvolera sono venuti su 25-30 fascisti, entrano in tutte le case a controllare”. Era una squadra di fascisti che faceva il rastrellamento. Ho lasciato il mangiare e sono andato a nascondermi. Loro sono entrati in casa. C’era la cucina e poi una stanza che era una cantina-ripostiglio. Hanno chiesto cosa c’era e volevano vedere e mio padre li ha accompagnati dentro. Dietro una porta c’era una chiave attaccata. Hanno chiesto che chiave era; era la chiave della camera. “La prenda e mi accompagni su in camera”. Sono saliti in camera con mia sorella che ha due anni meno di me, aveva 16 anni; hanno cominciato ad aprire gli armadi e uno si è messo con un mitra puntato su mia madre e lei d’un colpo è morta. Hanno chiamato il dottore ma era già morta. Io ero nascosto: ho sentito che gridavano, piangevano; sentivo sparare perché c’era gente sul monte: gli sfollati che facevano la legna; i fascisti sparavano per farli venire giù. Sento dire: “C’è la siringa, c’è la puntura”, sento arrivare una mia zia, aveva ottanta anni, e mi dice “ Adelino vieni a casa che non sta mica bene tua madre”. Mia madre aveva lavorato tutta mattina, andava per legna, mungeva, tagliava l’erba, faceva un po’ di tutto: era in gamba, non era malata. Sono entrato passando dal cortile dove si era fatta gente, ho infilato la scala ad andare su e ho incontrato il medico che ha scosso la testa: morta. I ragazzi renitenti alla leva scappavano: uno aveva fatto un buco; levavano le pietre e si nascondevano dentro; si erano messi anche in quei casini, stalle, che erano in mezzo alla campagna. Però è successo che dopo che hanno ucciso i ragazzi su alla Fratta nel rastrellamento, quando vedevano una stalla di quelle i fascisti ci buttavano dentro una bomba a mano. Allora non c’era da fidarsi. Bisognava stare all’erta: si dormiva con un occhio solo. Tanti erano così: erano scappati l’otto settembre, hanno trovato una stalla, come quelli che sono stati uccisi. Li hanno visti, forse una spia, sono andati su alle 3-4 del mattino: hanno sparato e li hanno uccisi tutti, solo in due sono riusciti a scappare. Si sapeva chi era andato su e tutto. A Botticino c’è stato un momento che volevano uccidere quello lì che aveva fatto la spia e mandato fuori una squadra. Abitava qua a Sott’acqua. Quelli di Botticino sapevano che la mattina andava in Castello a Brescia e rientrava a casa la sera. Un mattina è andato nel gabinetto che dava sulla ferrovia di Lombardi: gli hanno sparato e ucciso. È stato un partigiano della 122 , un certo Garas. C’era uno spauracchio mica da ridere a Botticino: adesso faranno rappresaglie si pensava. Invece si sono mossi un po’, sono venuti da Brescia ma non è successo niente. C’erano alcuni di Botticino collegati con la 122 brigata Garibaldi. Oltre a me ricordo, c’era Previcini (Stenchi) che era un po’ una staffetta, Milio Sauneta, el Ros de Somia, era del ‘24 e ha fatto qualcosa di più perché era più vecchio di noi; degli anziani c’era Rino Gorni. Quello è andato un po’ in malora per il suo impegno: ha fatto tanto in quei tempi. Era con Cattanea che era fuggito a casa sua. Di San Gallo poi c’erano il “Nono” Busi con i fratelli e la famiglia di Casimiro Lonati. 67 Anche se non siamo andati in montagna, qui c’erano gruppi organizzati. Eravamo patrioti, gente che voleva fare qualche cosa. È successo il fatto di mia madre, eravamo già in mezzo un po’, è divampato questo voler fare qualcosa, anche questo odio... Si stava cambiando e tutti facevano qualche cosa. Si sapeva che c’era un gruppo in un posto, si portava da mangiare. Ogni tanto venivano giù, si facevano delle riunioni e ti chiedevano cosa era successo, se quello si era mosso, ecc. Le riunioni si facevano in case private. A volte a casa mia, a volte di altri. Eravamo giovani della mia età e qualche anziano come mio padre o mio zio che era più vecchio. Eravamo già politicizzati allora perché la mia famiglia era un po’ martellata dai fascisti per le idee politiche. Han fatto 3 o 4 volte per venire su a casa mia, ero un bambino e me l’hanno raccontato. Me lo ha raccontato mio zio che adesso ha 94 anni, invalido della prima guerra, che ora vive a Brescia. Appena tornato dalla guerra un sabato era sceso in paese per giocare a carte e non arrivava più: lo hanno trovato la domenica mattina le donne che andavano a Messa prima in un angolo della strada. Lo avevano portato nell’osteria dove si trovavano sempre i “camerati” di Botticino in fondo a via S. Nicola. L’hanno tirato dentro e gli hanno dato un sacco di botte a lui che non aveva fatto niente. Era il regalo per la guerra che aveva fatto. L’hanno trovato le donne. A casa nel togliergli la camicia e la maglia gli è venuta giù la pelle dalla schiena. Due o tre volte hanno fatto per venire su a casa, però arrivavano a un certo punto ma si fermavano e si chiedevano: “Siamo sicuri di tornare indietro tutti?”, perché i miei zii erano tutti cacciatori. Mio papà forse no, ma i miei zii erano decisi a tutto. Quando è successo il caso di mia madre le donne, mogli e figlie dei miei zii, han capito l’antifona subito e sono andate a nascondere il fucile a quel mio zio. Perché la prima cosa che ha fatto è stato di cercare il fucile. Se lo trovava va a finire che si fa ammazzare perché lui era uno che andava fuori anche se erano in venti. Era un carattere così. 68 Poi è venuta la Liberazione, è venuto il 25 Aprile, hanno fatto il Comitato di Liberazione e sono venuti qua i partigiani. La mattina del 28 Aprile c’erano due mitragliette una di qua e una di là del ponte “Savona”, quello di via Marconi, e il comitato era qui in Comune. Il comandante di questi gruppi dormiva qui a Botticino nella casa vicino a Balduzzi. Alle 3 della mattina arriva un camion e gli danno l’altolà, parola d’ordine. Alla seconda o terza volta hanno risposto “enculet”. Questo camion era tutto chiuso col telo, hanno pensato “saranno partigiani che arrivano qua”, è passato. Quando è stato ai giardini ha spento i fari e si è girato verso via San Nicola. Nei pressi del monumento c’era una pattuglia, erano in tre, tra cui anche un soldato mongolo. Hanno dato l’altolà: niente, parola d’ordine: niente, allora questo mongolo ha sparato nel radiatore del camion e ha fatto scendere tutti, di notte, così: erano 36 uomini e una donna che faceva da interprete. Erano lì in via San Nicola, questa donna, poiché erano vestiti a qualche modo, diceva che erano americani e che avevano perso la strada per andare sul Garda. Li hanno guardati bene: erano tutti tedeschi, 36 e una donna. Li hanno disarmati, ma il comandante non voleva lasciare le armi, voleva l’onore delle armi. Non riconosceva i partigiani, diceva che non avevano il diritto di disarmarli. Allora li hanno portati nella scuola di Botticino, dove c’è il Comune adesso. Hanno mandato a chiamare quello che comandava allora, Tobegia, di S. Eufemia, Tito. È venuto e gli ha chiesto 2 o 3 volte se volevano disarmarsi, ma loro non volevano lasciare le armi e lui li ha fucilati: comandante e vice-comandante. Gli altri li hanno presi e li hanno portati a S.Eufemia, dove adesso c’è la Pastori, dove c’era un campo di concentramento . Anche lì poteva succedere un disastro: erano armati e avevano armi pesanti; ricordo che quando si erano sdraiati nella sala del Comune avevano appoggiato la testa sullo zaino pieno di bombe a mano. Chissà cosa facevano. Erano un po’ sbandati altrimen- ti li avrebbero ammazzati tutti ancora quel giorno lì. voleva dire, chi è stato ad ucciderli qua al cimitero. È successo lo stesso giorno il caso del casì di Panada. Si va su dal Gazzolo, lì alla “Eva” si gira a destra, lo si vede ancora. Allora era abitato da un vecchio, una vecchia e una ragazza. Avevano 5 o 6 pecore: c’era la stalla sotto e la cucina sopra. Vivevano un po’ in miseria. Quella ragazza era rimasta incinta, in quel periodo, di un contrabbandiere che veniva qua a vendere il tabacco. Loro erano sette tedeschi, sbandati dopo il 26 Aprile, che sono entrati lì: dalla stalla alla cucina avevano fatto un buco e c’era una scala a pioli per salire, avevano anche ucciso una pecora. Quando è successo il caso del casino di Panada si era intrufolato in mezzo in quei giorni della Liberazione un fascista. Mentre noi eravamo su, è sparito un mucchio di soldi a Botticino nel Comune. Tutti pensano che siano andati in mano a lui. Adesso è morto. La gente diceva: ecco i partigiani che hanno fatto. I due vecchi sono venuti a chiedere aiuto a casa mia e siamo andati su in 5 o 6 : abbiamo circondato un po’ da lontano. Avevamo mandato uno a chiedere rinforzi giù in Municipio: è arrivata una squadra e c’era uno di Nuvolera che sapeva il tedesco. È andato dentro disarmato, aveva un telo tenda sulle spalle perché pioveva, a chiedere di arrendersi. A un certo punto è uscito sulla porta della stalla e ha detto: “Avanti che si arrendono”. Invece quando siamo stati vicini, l’hanno tirato dentro e l’hanno pugnalato e hanno sparato a tutti quelli che eravamo lì. Siamo stati feriti io, mio papà, un fratello di mio papà e uno di Sera. In quel mentre arriva il rinforzo, ma non si sono arresi. Allora hanno dato fuoco alla casa con un fusto di benzina. Quelli che erano in cucina sono arrivati a scappare verso Nuvolera, i due che erano nella stalla sono venuti fuori. . Come sono usciti volevano ucciderli sparando. Qualcuno ha detto: “No, li fuciliamo al cimitero”. Siccome c’era un ferito li hanno fatti scendere e poi sono stati fucilati qui al cimitero di Botticino. Dicono che un prigioniero non si può uccidere, invece è stato fatto. Qualcuno ha cercato di sapere come era andata. Per un paio di anni hanno cercato di sapere come era successo. Anche i parenti dei tedeschi. Ma nessuno sapeva, o Mio padre ed io (una pallottola mi ha attraversato la bocca) siamo stati in ospedale; siamo usciti: senza lavoro. Quando siamo usciti dall’ospedale io e mio papà erano momenti brutti. Andavo avanti e indietro da Brescia perché mi avevano detto che alla S.Eustacchio assumevano operai. Mi dicevano “Ripassi”. Poi una mattina ho letto sul giornale che si poteva fare domanda per andare nella polizia, ma avevano la precedenza gli internati in Germania o chi aveva fatto 15 mesi di partigiano. Allora ho fatto domanda e sono andato in caserma, allora era in via dei Mille. Come sono entrato ho trovato un tenente che era all’ospedale con me, ferito, mi sono fatto conoscere e così mi ha fatto arruolare. Sono stato lì 13 o 14 mesi. Fino a quando hanno cominciato a dare il nome “la celere” alla polizia. Ricordo che era venuto Togliatti a parlare al cinema Odeon: eravamo in servizio. Volevano che... ci hanno portato il manganello di gomma per picchiare chi scioperava. Questo tenente mi diceva: “ porta pazienza, facciamo domanda di andare nella polizia stradale”, perché anche lui la pensava come me. Fatta la domanda, l’hanno respinta, si vede perché sapevano che queste cose non mi andava di farle. Allora mi sono congedato. Sono andato un paio di mesi, tutte le mattine, da Lombardi a cercare il lavoro in cava. Sono entrato da Lombardi dopo varie mattine: allora c’era la coda a cercare lavoro. Mi ha assunto il ragioniere di Lombardi che ha saputo che ero figlio di Zanola di Botticino, Giovanni. Lui e anche mio zio Aldo 69 avevano lavorato da Lombardi, prima di andare in Germania. Dopo la Liberazione è iniziata l’attività del partito. Il primo che è venuto a farmi la tessera è stato Cinque (Mario Rossi). Facevamo qualche riunione. Ho fatto la prima tessera (a quel punto non sapevo ancora cosa voleva dire comunista o non comunista) perché, dicevo: mi hanno espulso dalla scuola perché mio papà non voleva che andassi alle dimostrazioni dei balilla; crescendo mi sono detto che l’idea è quella: c’è da cambiare; ci sono stati morti per la Liberazione e sono morti perché volevano cambiare qualche cosa. Allora si diceva: io divento comunista per quello che hanno fatto a casa mia, hanno picchiato mio padre perché non ha salutato mentre inauguravano il monumento in piazza, tutte queste cose mi hanno fatto credere giusto fare un partito come quello comunista per andare avanti e cambiare la situazione in Italia. Senonché ho vissuto gli anni più duri e più andavo avanti mi dicevo: ho fatto bene o ho sbagliato a essere comunista ? Perché tante volte si andava a qualche riunione e io pensavo di discutere e mi sentivo di dire anch’io la mia, come vedevo la faccenda. A volte rimanevo male perché a noi giovani c’era sempre un anziano che ci zittiva. Era giusto che lui avesse più esperienza ma erano momenti in cui mi sentivo un po’ mortificato. Questo fatto mi demoralizzava perché non potevo esprimere le mie idee come volevo. Tornando al dopoguerra: i giovani che avevano partecipato all’attività partigiana erano visti non bene. C’era una delusione e la gente li vedeva male. La gente di Botticino, in buona quantità, diceva che avevamo sbagliato noi: diceva che dovevamo lasciare stare i tedeschi che tanto avrebbero ucciso solo qualche pecora. Così per l’uccisione del fascista. Non ricordavano più che aveva fatto uccidere tre ragazzi... Botticino, 10 maggio 1991 Testimonianza di UMBERTO DELLA FIORE (19.11.1927) Sono nato nel 1927, nel mese di novembre e ho sempre abitato a Botticino Sera. Quando ero bambino, dopo la scuola, con i miei compagni si andava sul monte per legna, poi quando si rientrava si facevano i compiti; allora non c’era nemmeno la radio: a Botticino Mattina la possedeva solo una famiglia. In tempo di guerra, io facevo il fornaio, avevo 16 anni e lavoravo nel panificio di mio zio: mia madre, siccome si lavorava di notte, mi accompagnava al panificio in quanto non esisteva l’illuminazione pubblica ed era buio pesto. Alle cinque tornavo a casa e per la strada incontravo sempre i militi della repubblica di Salò. Poi a quell’ora incontravo alcuni socialisti: due abitavano qui sopra e mi davano dei biglietti antifascisti da inserire nei sacchetti del pane. Erano socialisti di Botticino: uno era Fraboni, ora è morto, un altro era Berto Quadri, che era comunista, e mi dava- 70 no questi biglietti da inserire nei sacchetti del pane. Ma i biglietti li mettevo solo alle famiglie conosciute, non certo nei sacchetti destinati alle famiglie fasciste perché ci avrebbero denunciato. Ho iniziato a dare una mano ai socialisti a diffondere la loro stampa perché ci conoscevamo e loro sapevano che per il mio lavoro di fornaio giravo di notte e mi hanno contattato. Si fidavano di me: prima di tutto uno di loro, il Fraboni, era un mio parente e poi ci si conosceva e, anche se la mia famiglia non era antifascista, sapevano di poter contare su me. Su quei volantini c’era scritto un po’ di tutto: poi ogni tanto si riunivano proprio in una casa vicino alla mia. C’erano persone antifasciste che partecipavano a queste riunioni. C’erano antifascisti, si conoscevano, facevano delle riunioni in una casa qui in fondo alla via... Anche se qui era solo un posto di passaggio, si trovavano. Noi giovani non sapevamo molto di cosa facevano, ma come dicevo lo Scarpari, papà di Felice, era socialista e li riuniva. Anche Bottarelli era venuto qui. Per poter circolare di notte era necessario un permesso, che noi fornai avevamo, e talvolta di notte loro mi guardavano il permesso e mi accompagnavano fino a casa: erano soldati dell’esercito regolare, che erano stati richiamati ed erano buoni, non certo come le “SS”. In piazza 4 novembre c’erano sempre i soldati: erano militari richiamati dopo l’otto settembre, che erano stati presi ed erano stati sistemati nelle scuole. Una mattina, mentre stavo per arrivare a casa, è arrivata una squadra di camicie nere in bicicletta: ho poi saputo che erano quelli che hanno ammazzato i tre partigiani alla Fratta. Due giorni prima dell’eccidio alla Fratta era arrivata una caratta di armi e munizioni da Montichiari destinata ai partigiani: si trattava di un carro trainato da cavalli. Le cinque o sei casse erano coperte sotto delle zucche e sono state scaricate di nascosto a casa di mio cugino. Quando i brigatisti neri sono saliti alla Fratta, sono passati vicino alle casse: hanno preso tre o quattro delle zucche che le ricoprivano ed hanno continuato il tragitto, fortunatamente senza accorgersi cosa c’era sotto le zucche. Dopo una settimana dall’eccidio, le armi, sempre di notte, le abbiamo portate a San Vito. Poi non so dove siano finite: probabilmente in Valtrompia. A portar via le armi da Montichiari eravamo stati quattro o cinque giovani: c’era Primo Busi che ha passato poi un lungo periodo in montagna, ora è morto, poi due di San Gallo che avevano la mia età, morti anche loro; uno era Busi Giulio e l’altro era Sebastiano Busi detto il “Nono”; un altro era Busi Antonio, detto “Teta” di soprannome, il quale ha trascorso anche lui un lungo periodo in montagna. Di solito noi portavamo la roba San Vito, poi quelli di San Gallo la riprendevano e la portavano in montagna. Qui ci portavano le cose e noi le portavamo su. A San Vito trasportavamo un po’ di tutto: viveri, armi e tutto quanto serviva alla gente che era in montagna. Poi anche le famose zucche che coprivano le casse delle armi sono finite in montagna insieme alla farina e tutto quanto potesse essere utile agli uomini che erano in montagna. Qui a Botticino Sera non c’era un gruppo organizzato, non c’era una vera e propria organizzazione: c’erano i vecchi socialisti e comunisti che facevano propaganda antifascista. San Gallo era un po’ un avamposto, poi andavano di là. Qui a Botticino non si sono avute azioni di rilievo: si trattava più che altro di un luogo di passaggio. Poi siamo saliti anche a Serle, dove c’era un certo Naldini che abitava dopo la chiesa in una stradina in discesa, e sono stato suo ospite per una settimana: poi una notte sono capitate le brigate nere. Siamo saliti a Serle perché avevamo un appuntamento con qualcuno che doveva venire a parlarci, ma è venuta la gente del paese ad avvertirci che dovevamo fuggire perché stavano arrivando le brigate nere. Eravamo in sette o otto: c’ero io, due o tre di San Gallo e il Premoli che abitava a Rezzato. Quando hanno fatto fuggire i soldati dalle scuole di Botticino Sera io non c’ero; quella notte io non c’ero perché ero sempre a lavorare: quando mi chiamavano allora collaboravo a fare i trasporti e portavo i materiali su a San Vito. Dopo la Liberazione ero in mezzo anch’io perché ormai ero coinvolto. Il giorno della Liberazione, c’erano qui a Botticino due autocarri: siamo saliti e siamo andati a Brescia all’albergo “Orologio” che era il covo delle brigate nere. Appena arrivati abbiamo cominciato a sparare poi qualcuno è riuscito ad entrare e li hanno fatti prigionieri. Poi con gli stessi autocarri siamo andati a Gussago, nei pressi del cimitero; sul monte soprastante si erano asserragliati alcuni fascisti e si è sparato per un paio d’ore. Questi fatti sono accaduti alla fine della guerra proprio negli ultimi giorni. 71 Tornando al fatto di Gussago, una scaramuccia di un’ora o due, si trattava di militi che erano alloggiati alla caserma Papa e che fuggendo si erano rifugiati sulla collina posta dietro al cimitero di Gussago. Colui che ci comandava aveva come nome di battaglia “Pedro” e gli autocarri dei partigiani e degli insorti erano sette o otto. Poi siamo rientrati a Botticino, dove avevano fermato un camion carico di tedeschi, e li hanno portati alla chiesa di San Nicola: vicino c’era una vecchia casa dove sono stati provvisoriamente alloggiati. Da lì poi sono stati trasferiti a Brescia: c’ero anch’io ad accompagnarli e li abbiamo condotti alle scuole “Pastori”, che dopo l’otto settembre 1943 era stata trasformata in una caserma fascista.Quell’autocarro era finito a Botticino perché probabilmente avevano sbagliato strada, ma ormai gli alleati erano a Castenedolo e non sarebbero comunque certo andati molto lontano. In Comune, dal 26 Aprile 1945, si è formato un concentramento di partigiani. Insieme ai partigiani c’erano anche dei russi. So che sono accaduti alcuni fatti, ma quella mattina io non c’ero: ho poi saputo che Tito Tobegia deve aver ammazzato uno o due ufficiali, i quali facevano parte del gruppo fermato sull’autocarro in fuga e che non si erano arresi e si erano rifiutati di consegnare le armi in quanto preferivano consegnarsi agli alleati e non ai partigiani. Alcuni di quelli che erano riusciti a fuggire dall’autocarro, circa 7 o 8 militari, si sono ritrovati in questa località e non so chi li abbia bloccati. Noi dal Comune siamo saliti al “casì de Panada”, dove sono stato ferito. Comunque i tedeschi si sono asserragliati ed hanno iniziato a sparare: per stanarli avevamo utilizzato anche della benzina ed avevamo dato fuoco ma loro, uscendo hanno continuato a sparare. Io sono stato ferito ad una spalla. Oltre a me ricordo che sono stati feriti Adelino Zanola e suo zio.È in quell’occasione che i tedeschi hanno ammazzato Bottarelli. Bottarelli era colui che comandava il gruppo ed era entrato per parlamentare. 72 Eravamo in Municipio e si è sparsa la voce e siamo accorsi: eravamo circa una ventina, ma loro erano ben coperti, asserragliati dentro la cascina: per fortuna che attorno vi erano piante tagliate che ci offrivano un poco di riparo; io mi trovano proprio di fronte ad una apertura dalla quale sono partiti i colpi che mi hanno ferito; Adelino anche lui, pur essendo più lontano di me, è stato trapassato da un colpo ed anche suo padre è stato colpito. Bottarelli ha voluto entrare per parlamentare e lo hanno ammazzato. Era uno dei primi socialisti, come Scarpari, il nonno di Michelangelo, che era amico di Nenni e di altri socialisti della direzione nazionale. Scarpari mi faceva leggere i libri socialisti ancora prima del 25 Luglio 1943: mi auguro che quei libri esistano ancora e non siano andati distrutti perché erano molto belli. Scarpari era un esponente importante del partito socialista locale e Bottarelli era un suo carissimo amico. Tornando al fatto del “casì de Panada”, i tedeschi poi sono stati presi: io sono stato portato in ospedale ed ho saputo che due di quei tedeschi sono stati ammazzati al cimitero. Poi quando sono tornato dall’ospedale mi sono nuovamente messo a disposizione in Municipio: altri fatti importanti qui a Botticino non sono accaduti. Qui a Botticino, durante la Resistenza, si faceva solo servizio di rifornimento alle formazioni partigiane. Come quando andavamo nella bassa bresciana a prendere la farina dai contadini: ricordo di essere stato con altri a Pompiano con piccoli sacchi che riempivamo appunto di farina e li portavamo su.Quando portavamo la merce a San Gallo, prima la portavamo a casa e poi venivano a prenderla: bisognava cercare di non farsi vedere dai fascisti, altrimenti la merce veniva sequestrata. Si cercavano le strade nascoste... Nella scuola di Botticino Sera erano stati riuniti soldati sbandati dopo l’8 settembre, che erano stati rastrellati ed erano controllati da due o tre tedeschi della Wermacht e non dalle”S.S.”, le quali erano dislocate a Sant’Eufemia. Dopo l’8 settembre era arrivata qua un’autoblinda con tanti soldati tedeschi. Noi eravamo ragazzotti e siamo andati a vedere. Ci hanno chiesto di andare a prendergli dell’uva. Lì a S.Eufemia avevano disposto due camion e i soldati delle caserme hanno cominciato a scappare. Tanti sono stati presi, caricati sui camion e portati in Germania nelle fabbriche. Altri invece nei campi di concentramento, quelli che non collaboravano. Alcuni anche di Botticino: un Temponi e altri. Qui a Botticino c’era anche un generale della “Todt”: dove attualmente c’è la farmacia c’era, a quel tempo, una casa di contadini che era stata requisita; questo generale mi pare si chiamasse Ran e c’era sempre un gran movimento di persone: Quartararo, Pitigrilli, Sorlini, ed altri personaggi importanti che erano ospiti a colazione o a cena; il generale era una persona tranquilla e tutte le mattine partiva per la città; verso la fine della guerra, quando gli alleati si stavano avvicinando, una mattina nell’uscire da casa ci ha salutato, com’era sua consuetudine e non l’abbiamo più visto. A Botticino (a Brescia) erano arrivati molti fascisti che erano scappati da Roma. Alla casa del generale della Todt c’erano anche attori: Roberto Villa, Lilla Brignone, che venivano a mangiare: in quella casa c’era sempre festa. C’erano dei contrabbandieri che uccidevano le bestie e poi vendevano la carne. Si vede che li lasciavano fare perché poi dovevano portare una coscia alla casa del generale. Lui era buono, non dava fastidio a nessuno tranne a uno che forse si era rifiutato di portare la carne; forse era stufo di dover sempre portargli la roba. Qui a Botticino c’erano alloggiati personaggi fascisti che poi sono scappati o arrestati. Uno era qui da Silio. Erano qui a dormire e mangiare, poi andavano a Brescia. Uno era là dove c’è la via Valverde. Credo che a casa di quel generale della Todt ci sia venuto anche Priebke. C’era un certo Siaranton (?) sicuramente un fascista di Roma che veniva da Brescia a casa di quel generale. Lui era in questura in via delle Cossere: era conosciuto perché cavava le unghie a quelli che interrogava: cavava le unghie a tutti, li torturava. Quel Sciaranton sparava agli apparecchi: sorvolavano Botticino, Rezzato sulla ferrovia per bombardare e lui andava nel cortile e gli sparava con la mitragliatrice. Guarda te: erano caporioni venuti via da Roma quando c’è stata la repubblica di Salò. A Botticino c’erano tanti fascisti, ce ne sono ancora che hanno il quadro del duce a casa! Adesso forse ce ne sono di più. Allora tanti erano fascisti perché erano obbligati per lavorare e così via, ma adesso ce ne sono... Allora ce ne erano alcuni che andavano a Messa la domenica vestiti da fascisti, con la berretta nera. Li conoscevo tutti. Il capo Mussolini ha fatto delle stupidate, ma i suoi hanno fatto peggio, i caporioni. Quando andavamo a vedere il Brescia, andavamo in bici. Andavamo a Cremona: quando arrivava Farinacci bisognava alzarsi tutti in piedi. Figurarsi. Altri di Brescia li ho visti vicino l’osteria dove ci sono i giochi di bocce (Antico Sole), in parte c’era una casa. Nel gioco c’erano alcuni partigiani che chissà come erano giù, sono arrivati i fascisti, tutti forestieri, e i tedeschi: due sono arrivati a scappare, uno è uscito dal cancello e andava incontro ai tedeschi in bici. Gli hanno sparato ma non l’hanno colpito. È entrato all’osteria dove io andavo a cercare il sale. È riuscito ad andare dietro ma l’hanno preso e portato a S. Eufemia dove ci sono le scuole, lì c’era un comando. Da lì ogni tanto uscivano in bicicletta o con le auto: erano però soldati, non “S.S.”. Le “S.S.” erano come quei fascisti che avevano la “crapa da morto”, quelli delle brigate nere, la Muti, la San Marco e così via. Qui oltre a queste cose non è successo un gran ché, io però ero un ragazzo, forse ci saranno state altre cose che non hosaputo. Solo dopo la Liberazione si è saputo tutto quello che avevano fatto. Davanti alla Casa di Riposo c’è quella casa vecchia: lì sopra, dove ci sono quelle finestre ancora uguali, c’era la sede dei fascisti. Quando combinavamo qualcosa da ragazzi, 73 prima della guerra, ci chiamavano lì, mandavano un biglietto con scritto “presentarsi” e ci facevano la paternale. Avevano manganelli di cuoio pieni di “trisia” (pallini di piombo): se combinavi qualche cosa che non andava te la facevano sentire. A quelli adulti gliele hanno date. La gente andava nelle osterie a giocare a carte, a morra, poi entravano in qualche discorso politico e c’era qualcuno che li conosceva e andava a riferire ai fascisti che poi li chiamavano a presentarsi. Magari parlavano male di qualcuno e due o tre giorni dopo gli arrivava il biglietto di presentarsi perché avevano qualcosa da dirgli. Questi erano quelli di Botticino.Quando c’erano i fascisti bisognava presentarsi se qualcuno faceva la spia: se non andavi ti venivano a prendere. Li picchiavano, magari non quelli di Botticino, ma quelli che venivano da S.Eufemia. Portavano a S.Eufemia chi era conosciuto come antifascista (lì alla Pastori) e lo “grattavano”. Quelli che dicevano qualcosa di contrario, c’era la spia, venivano convocati alla sede del fascio, che era davanti alla “Casa di Riposo” (attuale), dove venivano picchiati. Qui a Botticino hanno fatto un po’ la spia, hanno picchiato qualcuno. Quando ero ragazzo ricordo che c’erano alcuni di Botticino che ci facevano istruzione dietro il Comune al sabato: la ginnastica, il premilitare. Il giovedì nel giorno libero della scuola andavamo su in Castello (Serle), poi venivano su da altre parti, con moschetti e pallottole a salve ci facevano fare esercitazioni: da ragazzi, andavamo ancora a scuola! Come quando si vedevano quelle cose lì in Cina; così noi da ragazzi, vestiti con la divisa del duce, con la berretta e guai se non li avevi. Anche alcune maestre, altre no, ci tenevano a farci andare. Eravamo ragazzi, allora non c’era niente, non avevamo nemmeno la radio, si facevano perché era- vamo ragazzi e non sapevamo niente. Durante la guerra abbiamo cominciato ad andare nella casa di chi aveva la radio, porte e finestre chiuse ed oscurate a sentire radio Londra che c’era Paternostro. A Botticino la prendevano in tanti: ci si trovava a sentire, se capitava qualcuno si scappava nei prati dietro casa. Dopo il 25 è arrivata la colonna degli americani: è arrivata a Castenedolo. I tedeschi sono stati uno spettacolo: nel giro di un’ora erano già tutti in fuga: fuori da Porta Venezia c’era una colonna e dietro i camion che abbandonavano lungo il Naviglio canistri di benzina per bruciare e rallentare gli americani. Gli americani hanno bruciato una colonna di tedeschi: alcuni gli sono andati incontro per arrendersi e li hanno mitragliati contro una siepe. Se ne sono viste di cose: erano tutti come impazziti. Dopo la guerra noi che avevamo aiutato i partigiani non ci siamo trovati molto. Alcuni di S.Eufemia ci tenevano e hanno organizzato qualche riunione e ricordo c’era stato un discorso di Scoccimarro, quello del P.C.I. Poi è uscito anche Nicoletto. Poi si è sciolto un po’ tutto, poi hanno fatto l’A.N.P.I., c’erano i comizi per le elezioni e così via. I fascisti sono stati per un po’ chiusi nelle case poi sono usciti. Qui però non c’era quell’odio come nei paesi dove avevano ucciso la gente e le cose si sono calmate. Dopo la guerra non ci sono state vendette. Ma dopo la guerra si è calmato tutto: poi è cominciata la lotta tra comunisti e democrazia cristiana; i comunisti andavo in giro con la “roncaia” appesa alla cintura. C’era lotta quando c’erano i comizi dopo la guerra: si picchiavano anche. Ma soprattutto succedeva a Brescia. Botticino, 7 maggio 1996 Testimonianza di MAURIZIO COMINI (17.3.1927) La mia famiglia era composta dalla mamma, mio fratello Ettore e la sorella Giulia. Io sono nato dopo sette mesi dalla morte del papà, sono cresciuto abbastanza bene 74 perché avevo la mamma molto energica. Quando arrivavo a casa lei sapeva già se avevo fatto qualchemarachella... E come arrivavo, sai le mamme di un tempo, ti “palpavano”. Io sono arrivato al punto che a volte quasi la odiavo: lei mi picchiava ed io mi arrabbiavo; poi ho cominciato a 14 anni ad andare al lavoro a Brescia, alla “F.I.A.T.” di Bertolotti. Nel ‘43 sono dovuto scappare per non finire in Germania e sono andato in montagna, per il mio carattere ribelle che ho tutt’oggi. Se mi fanno qualcosa scatto subito. Sono arrivato per fortuna a portare a casa la pellaccia nel’45: ho fatto tutta la lotta clandestina. Quando è morto il povero Gheda nell’ultima battaglia del Sonclino io ero lì vicino. Erano giorni tristi ma ce l’abbiamo fatta. Io ero a lavorare alla F.I.A.T. a Brescia, a porta Venezia: il capo era Giulio di Sant’Eufemia, che era il socio del vecchio Bertolotti, ha portato via alcuni iniettori di camion, un sabotaggio. Io al mattino seguente, all’entrata del lavoro, ed altri due, Garbelli e Bonometti, abbiamo visto che c’era qualcosa che non funzionava ed io ho saputo la cosa. Ci hanno detto: siete in pericolo voi tre. Io non ho guardato più niente ed invece di entrare mi sono girato, sono uscito e sono scappato. In tre quarti d’ora ho fatto la Maddalena, da via Rebuffone fino a San Gallo e poi a Botticino: ho avvisato la mamma che dovevo scappare altrimenti finivo in Germania. Non ricordo la data esatta. Sono andato su a San Gallo con Tito Tobegia. Lì a San Gallo c’era il dottor Cattanea che era il medico della 122° brigata Garibaldi. Io sono andato su perché c’erano dei miei cugini, tra cui Benetti Domenico, che erano in contatto con i partigiani, che me lo hanno indicato. Sono andato io personalmente su a San Gallo e da lì ho cominciato la mia lotta partigiana. A Botticino Mattina c’era già qualcosa: Milio Moreschi, el Rusì de Somia (Arnaldo Arici), Milio Sauneta (Quecchia Emilio), Rino Gorni che era quello che teneva i contatti. Anche a Botticino c’erano tante case dove c’era gente che si dava da fare: ricordo Marchetti in via Cave, ed altri. A Botticino Sera, per quel che so c’era “Bortol dei Bù”, il nonno di Scarpari, quello che vende le bibite e il vino. Era un socialista. A Botticino venivano i fascisti a fare i ra- strellamenti per cercare i renitenti alla leva. C’era una donna, la Maria “Todesca” che ci avvisava di scappare. Lei sapeva il tedesco e veniva usata come interprete. Questi si nascondevano sul cornicione della chiesa per non essere presi e portati via. Io ero giovane, erano momenti difficili, io volevo portare a casa la mia pelle, avevo i miei familiari. Anche a San Gallo c’erano persone che sembravano normalissime e invece erano al corrente di tutto e in contatto. La clandestinità era già avanzata: questi si davano da fare da molto prima del ‘42-’43. Avevano cominciato molto prima perché i fascisti hanno sempre “bateccato”. C’era stato su anche Nicoletto, c’era la stampa clandestina... Da San Gallo mi hanno portato su al Sonclino. Dopo tre giorni a tappe sono arrivato e ho avuto contatto con Bruno Gheda, il comandante della Brigata. Lui mi ha detto che ero giovane: io gli ho risposto che era meglio per me morire a casa mia piuttosto che andare a morire in Germania, perché ero sicuro che sarei finito così. Mi ha chiesto se volevo fermarmi in montagna o fare la staffetta: io gli ho detto che preferivo andare e venire. Mi ha spiegato tutte le precauzioni da tenere, l’uso della parola d’ordine; noi la ricevevamo il giorno prima di quelli che stavano nella zona. Io ero chiamato “il Cavallo” perché camminavo veloce: ancora adesso ho il passo che ho preso allora. Avevamo gli orari: se non rispettavi gli orari rischiavi di mettere in pericolo persone cui noi facevamo da tramite. Io sono sempre stato puntuale per non creare disguidi che mettessero in pericolo altre persone. Io portavo gli ordini. Magari serviva qualcosa, vestiario, ecc., si doveva assaltare qualcosa come a Sant’Eufemia dove abbiamo preso le scarpe, si portava l’ordine alla staffetta del posto. Si prendevano gli accordi, gli orari, si controllava il percorso, poi si portava il materiale. Strada facendo, la notte, c’erano posti di blocco dove dovevi avere la parola d’ordine: nomi di persone, di città, ecc. La staffetta le aveva il giorno prima per poter viaggiare. Noi siamo sempre andati bene. Io, facendo la staffetta, 75 avevo la “pelle contata” minuto per minuto perché non sapevo se portavo in porto la mia missione, i rapporti che dovevo portare, persone che chiedevano di andare in montagna che dovevo accompagnare su... Camminando la notte perché si partiva sempre la sera. Quando arrivavi in un punto c’era il riferimento: se non arrivavi in tempo dovevi aspettare la notte dopo perché di giorno non camminavamo. Sempre in giro la notte, eravamo dei camosci. Noi le montagne le conoscevamo tutte perché i sentieri da praticare non erano sempre gli stessi. Due giorni facevi un itinerario, altri giorni altri itinerari per non dare nell’occhio. Poi si cambiava: la staffetta che faceva da Gardone VT. al Sonclino, faceva da Gardone V.T. a San Gallo e noi viceversa. Erano mescolate le strade, insomma noi non siamo mai stati scoperti. La nostra brigata era su al Sonclino. San Gallo era un distaccamento delle staffette che prendevano ordini, portavano ordini, poi c’erano quelli che ascoltavano, raccoglievano informazioni e le trasmettevano su al comando della Brigata. Poi portavano dei documenti. San Gallo era il punto di riferimento per il Sonclino, dove c’era il comando. Da Brescia, Sant’Eufemia, venivano a San Gallo dove c’era la casa del “Nono”. Il “Nono” era il riferimento. Quando arrivavi a San Gallo dovevi stare attento prima di entrare: se venivi scoperto non era solo la tua pelle che andava di mezzo, ma anche tante altre vite. Quando vedevi che l’aria era pulita andavi dentro: io bussavo con i miei due colpi secchi. Da un’altra parte invece chiamavo con il nome di battaglia. Ogni posto aveva il suo modo di chiamare. Erano tutti modi per evitare di farscoprire quello che portavo perché sarebbe stato fatale non solo per me ma anche per tanti altri: ne andavano di mezzo loro e le loro famiglie. Ne avevamo tante di missioni e di cose da portare, ma sempre ognuno aveva una quantità ridotta e non sapeva niente degli altri. Chi sapeva il tutto era solo Bruno Gheda, il comandante. Noi parlavamo ognuno con chi ci dava i documenti da portare, l’orario, ma non avevamo contatti con gli altri. Dovevamo arri76 vare sul posto,aspettare il segnale o altro. Però quello che portavi era segreto: magari buste chiuse con tracciati per scoprire se venivano aperte e così via. Per questioni di sicurezza non si doveva sapere più di quel che facevamo per evitare in caso di cattura di rivelare nomi e notizie che coinvolgevano altre persone. Ho fatto circa due anni di montagna ma ho fatto delle pazzie... a volte stavo due o tre giorni senza mangiare perché mi trovavo in zone dove non c’era nessuno. Dove arrivavi magari saltavi perché avevano già dato da mangiare a staffette arrivate prima di te. Quello era il meno, poi sono stati anni freddissimi: il gelo con la neve che c’era è stato micidiale perché non potevi camminare e c’era l’orario da rispettare. Se non arrivavi in tempo dovevi aspettare il giorno dopo e così via. Forse in città era più pericoloso perché erano più esposti, ma in montagna d’inverno era dura. Poi se ci prendevano c’era la fucilazione. Io ho sempre lavorato da solo perché sapevo quel che facevo e preferivo non avere un’altra persona da dover magari tirare perché non teneva il mio passo: ero molto veloce. A Botticino Mattina facevano azione di appoggio: tu portavi i suggerimenti del comando e riportavi le informazioni o quello che avevano raccolto per noi su in montagna. Io facevo da staffetta tra la montagna e questi gruppi che lavoravano in clandestinità nei paesi. Io avevo una pistola personale che mi avevano dato sin dall’inizio a San Gallo. Ho partecipato alla battaglia del Sonclino e ho visto morire Gheda. Il fascista che lo ha ucciso è stato picchiato ed ucciso sul posto dai partigiani. C’è stato l’episodio degli uccisi alla Fratta perché c’è stato quel Casali che ha fatto la spia. Lui era un sottufficiale della milizia fascista che era in Castello a Brescia, un picchiatore. Era di Botticino Mattina. Lui e suo fratello hanno fatto andare su i fascisti. A San Gallo c’era un distaccamento e alcuni erano alla Fratta perché erano ragazzi che erano stanchi e anche ammalati e li avevano mandati lì per un po’ di tempo. Quando abbiamo sentito i fruscii, c’era ancora scuro, poi si è sentito gridare, forse qualche staffetta che c’era in giro: “i fascisti, i fascisti”. Uno è andato nella cisterna e si è salvato, gli altri li hanno fucilati subito. Io stavo portando da mangiare e sono riuscito a scappare: mentre stavo scavalcando la cinta sono caduto e ho sentito sparare nella mia direzione. Ero sdraiato e forse è stata la mia salvezza. Sono andato a finire verso Castello diSerle dove c’erano dei parenti di mio padre. Credevo di scappare al sicuro, invece nell’arrivare mi hanno detto di fuggire perché lì tutti i giorni c’erano rastrellamenti e perquisizioni nelle case. Guardavano sotto i letti, infilavano sbarre di acciaio nel fieno per vedere se c’era qualcuno nascosto. Quella mattina ero alla Fratta perché stavo venendo giù dal Sonclino a portare gli ordini a quelli lì. Non ho fatto in tempo a parlare con loro. Avevo uno zainetto con della roba da mangiare e dei medicinali. Quando ho sentito urlare “i fascisti, i fascisti” sono scappato, non potevi mica fermarti! Poi ho sentito che hanno ammazzato quei tre. I militari che abbiamo fatto scappare da Botticino Sera li abbiamo accompagnati su noi: erano ragazzi di leva che volevano scappare perché li volevano portare in Germania. Dovevano essere trasferiti: loro hanno preferito andare in montagna. Con questi si erano aggregati due o tre russi e questi, poveretti, non hanno portato a casa la pelle: erano volonterosi, quando c’era una battaglia volevano farsi notare che lottavano per il loro ideale, difatti sono quelliche ci hanno lasciato la pelle prima di noi. Noi li abbiamo sempre tenuti in considerazione perché erano bravi ragazzi. Dopo il ‘45, dopo la Liberazione, i loro familiari sono stati avvisati e credo che siano venuti a prendere i corpi che erano stati portati a Gardone V.T. Quando siamo scesi dalla montagna sono venuto qui a Botticino e ho collaborato con l’organizzazione del Comune: il Comune era vuoto, siamo entrati noi e abbiamo formato il nostro Comitato di Liberazione e a questo si è appoggiato Tito Tobegia, quello di Sant’Eufemia che era il nuovo comandante della 122°. C’era chi veniva a prendere le armi, i viveri, ci davano da mangiare nella gavetta: c’era crisi totale e le botteghe non ti davano niente. A volte si andava a prendere con le brutte perché soldi non ce n’erano. Ci davano qualcosa perché ci conoscevano. Ma erano tanti quelli che dovevano mangiare. C’è stato qualcuno birichino in queste cose tra quelli delle botteghe. Questo è durato 15-20 giorni. La roba requisita ai tedeschi è stata data un po’ alla gente che ne aveva bisogno e un po’ è sparita perché qualcuno si era infiltrato e ne ha approfittato. Dopo un po’ di tempo abbiamo saputo che delle persone si sono appropriate della roba, ma non hanno fatto nomi. Ricordo quei due tedeschi che avevano ucciso Bottarelli su al casì de Panada e ferito gli altri partigiani. Li hanno presi e portati al cimitero. Quei tedeschi stavano scappando, erano dispersi, erano entrati nel casino e volevano uccidere una pecora. Il vecchio che c’era là voleva fermarli. Sono saliti tre o quattro partigiani: li avevano consigliati di aspettare. I tedeschi non volevano arrendersi... Hanno ammazzato Bottarelli. Altre volte abbiamo catturato dei tedeschi e li abbiamo portati al campo di concentramento a Sant’Eufemia. Quelli senza niente hanno ammazzato un partigiano che voleva parlamentare per farli arrendere... Li hanno portati al cimitero: quel giorno avevo la sten russa. Tito mi ha preso lo sten e li ha uccisi. Hanno fatto una buca e li hanno seppelliti lì. Dopo anni i parenti hanno recuperato i loro resti e li hanno portati in Germania. Quando hanno ucciso gli altri due tedeschi io ero in città perché come staffetta andavo da altre parti per vari incarichi. A Sant’Eufemia c’era un campo cintato dove mettevano i tedeschi catturati dopo il 25 Aprile: stavano là due o tre giorni e poi li portavano via. A Botticino sono stati catturati quelli su al casì de Panada e quelli del camion che si erano bloccati in via San Nicola: volevano andare verso il lago. Ho conosciuto Tito, Tobegia era un sopran77 nome. Lui era Guitti. Un gran cuore, d’acciaio. Non ci pensava un attimo se doveva uccidere qualcuno. Non ha mai dato un buffetto a nessuno, ma poi nella lotta partigiana ha visto qualcosa che non andava, delle ingiustizie fatte dai fascisti e quella sua rabbia l’ha sfogata in quel modo. È stato lui che ha ucciso quelli di Lumezzane e li ha portati a sotterrare su al Mulì de l’Ora. Li ha uccisi, gli ha buttato la nafta e gli ha dato fuoco.Erano fascisti di Lumezzane: è successo dopo la Liberazione. Se qualcuno aveva fatto qualcosa di ingiusto lui li andava a prendere per quella rabbia che aveva addosso e li faceva fuori. Ricordo dopo la Liberazione c’era stato un comizio a Botticino davanti al Municipio, il primo maggio. Il maestro Casali di Botticinoha detto che i partigiani avevano “fatto alla peggio” più dei fascisti, quello (Carlo Gnec di Castenedolo) ha preso la mitraglietta e voleva ammazzarlo e uno vicino gliel’ha alzata per non farlo sparare addosso al Casali. Noi non avevamo persone da andare a prendere. L’unico era Ghitti, il direttore del calzificio Ferrari, un fascista. Chi l’ha salvato è stato Rino Gorni perché anche lui aveva fatto qualcosa per aiutare Rino quando era partigiano. Si sono ricambiati l’aiuto. Qui c’erano fascisti, non per l’ideale ma per sbarcare il lunario, per la fame: di lavoro non ce n’era. Se non eri fascista non lavoravi. C’erano delle persone cattive sia a Sera che a Mattina e non ci potevano vedere e ci giudicavano come delinquenti: dicevano che avevamo rubato qua e là. Ma noi ci dovevamo arrangiare: nessuno ci dava le scarpe, anche d’inverno stavamo in stalle e fienili con poche coperte. Era rischioso anche accendere fuochi soprattutto di notte. Era pazzesco. A Sant’Eufemia c’era un macello di cavalli: ci davano il grasso di cavallo con cui ungevamo le gambe e i piedi nei punti dove il freddo pungeva di più. Mani, ginocchia non si sono congelate grazie a questo. L’estate andava bene perché si asciugava anche la roba bagnata, ma d’inverno ti si stecchiva la roba addosso. Io ho fatto due anni che sono stati tremendi: a volte mi 78 chiedevo chi me lo faceva fare. Ma non avevo scelta perché ho dovuto scappare. Altri hanno fatto altre cose. Qualcuno se ne è andato alla “Todt” e se ne è fregato della lotta clandestina. Forse hanno preferito la sicurezza. Io ero già destinato per andare in Germania, perché ero sospettato di sabotaggio. Quando è uscito il decreto di consegnare le armi io ho riconsegnato la mia pistola, ho fatto il porto d’armi più tardi, quando ho cominciato a fare l’autista per la Federazione del P.C.I. e portavo una pistola (dal 1952 al ‘53).Noi partigiani dopo la guerra siamo stati trattati bene quando la gente è venuta a conoscenza di quel che abbiamo fatto. Poi Botticino Mattina era rosso, Sera no. Poi sono cominciati i litigi: noi volevamo dividere il Comune quelli di Sera no, per via delle cave che erano un patrimonio da cui venivano un po’ di soldi. A Sera c’era solo il calzificio, ma la ricchezza è venuta dopo. Allora era dura. C’erano quelli che ti apprezzavano e quelli no. Tutto perché eri un comunista e dicevano che avevamo fatto la lotta per il nostro ideale. Noi del resto eravamo nella 122° Garibaldi non eravamo nelle Fiamme Verdi. Qualcuno forse ha aiutato le Fiamme Verdi, nell’ambiente della Parrocchia è così, ma io non lo so, non ho sentito niente. Noi e le Fiamme Verdi eravamo due brigate diverse, non so se loro avevano riferimenti a Botticino. Se dovessi tornare indietro forse non sarei capace di fare ancora una cosa del genere, forse perché adesso hai più esperienza... Ma allora non se ne poteva più: sempre quelle persone davanti agli occhi: i fascisti che comandavano. Ricordo una volta che sono stato schiaffeggiato da un’ausiliaria fascista per un equivoco: è successo pochi giorni prima della mia fuga. Volevo reagire ma per fortuna mi hanno trattenuto. Se l’avessi ritrovata dopo il 25 Aprile chissà cosa le avrei fatto... Avevo un grande rancore verso i fascisti, ancora tutt’oggi io li odio. Il mio rammarico è che certa gente sia ancora in giro. Ma è la democrazia. Io sono cresciuto comunista tramite il mio tutore Benetti detto Milunsì, il papà di Ateo, Cor- nelio e Amilcare. Con mia mamma erano parenti alla lunga. Io avevo questo tutore e lui veniva sempre ad ascoltare la radio clandestina, Radio Londra, a sentire Ruggero Orlando. Veniva là perché nella mia casa c’era la cantina sotto il monte e non si poteva sentire da fuori. Lui mi chiamava, mi diceva di ascoltare ma di non andare a dire niente a nessuno. Io sono cresciuto un po’ di sinistra grazie a lui. Allora era un po’, poi strada facendo mi sono confermato. Botticino, 2 gennaio 1997 Testimonianza di ANGELO LONATI (15.2.1909) Sono nato a San Gallo e vi sono rimasto sino a 14-15 anni, dopo sono andato in Francia per lavoro e sono tornato perché la mamma era ammalata. Ho cominciato qui a lavorare: mia mamma era ammalata, mio fratello senza un braccio era sempre ammalato anche lui. Ho dovuto andare al “medol” perché non c’era altro, lì ho trovato lavoro: ci sono rimasto per 7-8 anni, prima dai Lombardi, poi dai Gaffuri. Tutta la mia famiglia era andata in Francia: eravamo in sei. Mio papà era morto giovane, i miei fratelli erano più piccoli di me. Facevano chi il muratore, chi lavorava in officina. A quell’epoca lavoravamo tutti, ma poi ci sono stati degli sconvolgimenti anche là: uno dei miei fratelli è venuto qui, uno l’hanno mandato in Germania e non ne ho più saputo nulla (uno era del ‘95 e questo del ‘97). Poi c’era quello del ‘99 che è andato in Spagna e c’è rimasto tre anni. Era andato in guerra, si chiamava Fausto. Anche un mio cugino è andato in Spagna: ne ho conosciuto molti che sono andati in Spagna. Sono andati in Spagna con i comunisti, alcuni erano repubblicani di Pacciardi, erano un po’ di tutti, socialisti... Erano volontari, non li ha obbligati nessuno: erano dalla parte del popolo. Ma è andata male... per quella parte che combatteva contro Franco. Avevamo una casa e il lavoro in Francia e potevamo tirare avanti. Anche mio fratello Casimiro era in Francia. Quello più vecchio era Santo, Miro del ‘97 e uno del ‘99. Io ero più giovane. Sono tornati i meno indiziati... In Francia avevamo comperato una casa abbastanza grande, vicino a Parigi; avevamo qualche soldo, allora abbiamo venduto la casa qui (mio padre era morto giovane) e abbiamo preso quella in Francia. Siamo andati in Francia perché ci andavano in molti a quell’epoca, era forse una garanzia di trovare il lavoro innanzitutto e secondariamente di avere la libertà di partito, delle idee, che qui in Italia non c’era. Qui non si poteva vivere: erano contro tanto, erano contro poco, non ti lasciavano vivere. Bisognava arrangiarsi e trovare i mezzi per vivere meglio. Forse anche perché all’epoca eravamo un popolo ignorante e seguivamo l’onda, i fascisti si sentivano protetti, si sentivano forti e seguitavano così... In Francia erano organizzati, c’erano anche le edicole: c’erano l’Unità, l’Avanti. Qui a San Gallo non c’era niente: si sapeva quel che si poteva, a voce di popolo. Miro faceva il muratore in una piccola impresa di tre o quattro soci. Santino era in un’officina dove facevano la carta. Io sono tornato in Italia perché si era ammalata gravemente la mamma ed ero quello meno indiziato per i fascisti. Tanto è vero... che hanno fatto presto ad indiziarmi. Sono venuti i carabinieri ad “intervistarmi”, a parlarmi... Anche un generale della milizia è venuto a parlarmi. A quell’epoca non si muoveva per uno qualsiasi: ci sono state un po’ di chiacchiere e sono venuti da me; siccome c’era la guerra in Spagna, avevano dei sospetti sui miei fratelli. I miei fratelli erano indiziati perché così era a chi non “teneva” al fascismo. O con loro o contro di loro. Erano contro perché erano operai e come tali non c’era da andare ad insegnargli. Non c’era bisogno di insegnargli perché a quell’epoca là non potevano parlare veramente, non come adesso che si può parlare liberamente. Era naturale che l’operaio fosse contro il fascismo: l’operaio difendeva il suo lavoro, il fascismo difende- 79 va l’interesse del padrone. Era facile essere contro il fascismo perché stava dalla parte del padrone. È sempre stata una vita triste e restrittiva perché o si dava ragione a loro, alla loro idea (del fascismo) o si era contro. O l’uno o l’altro. Nella mia famiglia eravamo tutti contro tanto è vero che uno ha avuto la fortuna di venire a casa, l’altro è morto in Germania, non è più tornato: è morto in campo di concentramento. L’hanno deportato dalla Francia dove aveva la famiglia: sono stati i tedeschi che là comandavano. Nicoletto è stato a casa mia perché usciva di prigione, dal confino, e doveva scappare. È stato a casa mia perché casa mia, a San Gallo, non era abitata, lui stava là. Gli faceva da mangiare mia cognata. Mi sembra un sogno riandare quell’epoca. Io non conoscevo Nicoletto. L’ho incontrato su per andare alla Trinità: mi avevano detto chi era e che idee aveva. Lui era stato lì a casa mia. Non si faceva vedere durante il giorno. La sera, col tempo, si era fatto conoscere e ci incontravamo con i dovuti “riguardi” perché bisognava stare attenti, non farsi vedere, non farsi sentire. Era triste la storia. Io non lo auguro a nessuno. Io non so: c’erano di quelli che se ne fregavano, altri che se la prendevano a cuore. Se uno se la prendeva a cuore non aveva più pace, purtroppo... Il generale della milizia è venuto su a San Gallo; io ero qui alle cave a lavorare ed è venuta mia moglie a chiamarmi. Avevano rastrellato quelli che intendevano loro e non li mollavano fino a che non mi sono presentato io. Sono andato lì a presentarmi alle scuole di San Gallo. Mi hanno fatto l’interrogatorio: tante non le indovinava per niente e cercava di farmi parlare, ma io non gli dicevo niente. Sapevano che io e i miei parenti eravamo amici di antifascisti e finché non mi sono presentato io non mollavano le altre persone che avevano rastrellato. Tante volte ho dovuto andare a presentarmi ai carabinieri: una volta Sant’Eufemia, due o tre volte a Brescia a porta Venezia. Volevano sapere con chi eravamo a contatto, cosa facevamo, che ragionamenti facevamo, i problemi più importanti che avevamo. A volte dicevamo la verità: per esempio che 80 volevamo andare a casa... Inventavamo. Poi negavamo... Come riferimento avevano preso me per poter avere notizie di Casimiro (Miro) perché gli altri erano tutti in Francia. A quell’epoca potevano andare dappertutto: nelle case, nelle stalle, accertarsi come era e come non era. Noi di possibilità non ne avevamo. In tempo di guerra eravamo andati a Villa Carcina: io e Miro e gli altri fratelli. Miro era appena uscito dal confino e siamo andati a stare là. Avevamo un’osteria, facevamo un po’ il muratore... A Villa Carcina eravamo in contatto con i partigiani: con questo o con quello. Era una casa di rifugio: quando un partigiano si staccava di qua e doveva andare di là sapeva dove andare, dove appoggiarsi. A San Gallo c’erano i miei nipoti che aiutavano i partigiani: il “nonno”, Busi Sebastiano, Mario... Erano tutti coinvolti ad aiutare l’uno con l’altro. O perché ci tenevano o perché erano di famiglia, avevano la voglia di aiutare. Erano tutti disponibili, poco o tanto. a quell’epoca era tutto proibito quello che si faceva, era un rischio. A Villa Carcina siamo riusciti a far perdere un po’ le nostre tracce: là non sono venuti a cercarci. Nel periodo della guerra, delle sconfitte, c’è stato un po’ di smarrimento anche da parte loro (dei fascisti), si sono scombussolati; anche perché a Carcina non davamo a vedere chi eravamo, facevamo di nascosto. Alla gente che non si conosceva non dicevamo le nostre idee: bisognava stare attenti. Nascondevamo i partigiani quando potevamo, lo facevamo volentieri senz’altro, anche se poi si riusciva e non si riusciva, ma lo facevamo. Se si poteva si faceva senz’altro, dal primo sino all’ultimo, senza guardare in faccia nessuno: o fare il proprio dovere o era inutile. Adesso è finita, ma allora... Poi abbiamo dovuto lasciare l’osteria e andarcene perché qualcuno della polizia che non era d’accordo con i tedeschi ci ha avvisati e allora tutta la famiglia è scappata ed è tornata a San Gallo. Là abbiamo avuto ospitalità dalla gente. È stato un passaggio, come un sogno: la tranquillità non c’era mai stata perché o l’uno o l’altro… poi ogni tanto uno era arrestato e si aveva paura di “palesare” anche gli altri. Durante la guerra con Miro non ci siamo quasi più visti: avevamo notizie di quel che faceva. Lasciava detto a qualcuno di farci sapere di lui. Sapevamo che era vivo ma non quel che faceva. Dopo la guerra ci siamo ritrovati quando siamo andati a Novara: un viaggio in camion! Dopo la guerra è cambiata tutta. Siamo andati ad abitare a Sant’Eufemia dove ci hanno dato una casa perché noi non ne avevamo più di case. Ci hanno dato la casa di uno che era soldato ed era disperso: assieme a noi c’erano altre due famiglie. Non eravamo alle larghe, ma piuttosto di niente... È passata, erano magre. C’era sempre la paura che venissero a prenderti: dormivo la notte con quel pensiero. Bastava uno in famiglia che faceva qualcosa che eravamo bersagliati tutti. Non penso che per quel che abbiamo fatto dobbiamo avere delle ricompense, sarebbe una pretesa: quel che abbiamo fatto è stato fatto, qualcuno ci ha lasciato la pelle, ne sono successe di tutte. Si era giovani, avremmo potuto fare una vita diversa, abbiamo lavorato. Lavoravo da Lombardi e volevo farmi intendere perché non mi pagavano giusto e mi hanno lasciato a casa e sono andato dai Gaffuri. Sono stato a casa alcuni giorni: avevo chiesto l’aumento perché mi facevano fare una categoria più alta, facevo la lizzatura. Avevo chiesto di aumentarmi secondo il merito, se facevo come gli altri che prendevano di più. Quel che è, è che mi hanno cacciato a casa. Allora ti licenziavano sui due piedi. Ricordo che Carlo Lombardi ci diceva: “Io so che voi volete venire qui al mio posto! Voi pretendete di prendere il nostro posto e farci andare su noi a lavorare...” Botticino, 2 maggio 1996 Testimonianza di ANGELA PICCINOTTI (6.10.1932) Ho conosciuto mio marito, Luigi Romano, tramite le feste dell’ A.N.P.I. perché lui era dentro proprio con la testa, con il cuore, con tutto proprio... Ci siamo sposati ed è venuto ad abitare a Botticino, ma lui ha continuato la sua attività. Lui abitava a Sant’Eufemia. Era nell’ A.N.P.I. perché a 17 anni appena compiuti era andato in montagna nella 122° Brigata Garibaldi: c’è stato per 4 mesi e mezzo come partigiano. Ha fatto il partigiano dal 28.12.1944 al 25.4.1945. Quei quattro mesi glieli hanno riconosciuti come servizio militare anche se all’inizio non volevano riconoscerglieli. Io l’ho conosciuto dopo, quando aveva già fatto i mesi in montagna. Era andato in montagna perché lui era già in collegamento con i partigiani....Era in contatto con i partigiani, lui era amico di Ezio Maccarinelli, un partigiano, ce n’erano 5 o 6 a Sant’Eufemia con cui era amico intimo: stava più a casa di Maccarinelli che a casa sua e si vede che trascinato dagli amici.... Doveva portare una pistola, non so a chi, e l’hanno trovato sul tram; l’hanno trovato con questa pistola e lui essendo di età di 17 anni è riuscito a prendere delle scuse: l’ho trovata e così via. Siccome era minorenne l’hanno lasciato andare al momento, ma hanno cominciato a tenerlo d’occhio, ad andare a fare domande al papà e alla mamma... hanno cominciato i fascisti ad andare a casa. Allora hanno dovuto farlo andare via per non mettere a rischio anche gli altri fratelli, erano in otto fratelli, per evitare conseguenze in famiglia hanno dovuto farlo andare in montagna. Tramite Tito è andato su al Sonclino dove ha fatto la battaglia con la 122°. Mio marito era legato, perché era di Sant’Eufemia, a Tito. Per un periodo era stato suo comandante alla brigata 122° dopo la morte di Verginella. Poi c’è stato Bruno Gheda. Lui ha fatto tre azioni con la 122°, in quelle azioni c’era anche lui non ostante la giovane età: una quando da Concesio lui e Maccarinelli sono venuti giù a prendere delle forme di formaggio per i partigiani. Mi rac- 81 contava quell’episodio: quando sono stati a metà strada gli è scappata una forma perché erano pesanti e hanno dovuto tornare in dietro per non perderla e quando sono arrivati su sono stati rimproverati dal comandante perché gli ha detto che non dovevano tornare indietro che era pericoloso perché avevano i loro tempi da rispettare. Non ricordo dove sono andati a prenderle. Poi ricordo l’azione quando sono andati a prendere le scarpe da Alberti e l’altra quando sono venuti a Botticino a prendere i soldati che erano dove ora c’è la biblioteca. Di questo episodio mi ha raccontato tutti i particolari che ora però non ricordo: so che sono arrivati di notte, sono entrati nella camerata, però non hanno obbligato i soldati a seguirli, hanno detto chi vuole andare, chi vuole seguirli. Tra l’altro c’era proprio dentro uno che ha sposato una mia cugina di Verona e ci siamo conosciuti dopo e mi ha confermato l’episodio. Io l’ho conosciuto quando aveva già quasi 20 anni e io ne avevo 16. Ci siamo sposati e siamo andati ad abitare a Botticino Mattina e dal ‘56 a Botticino Sera. Ricordo che una volta quando veniva a morose (dopo la guerra) erano le dieci di sera, sento bussare alla porta: è arrivato uno che non conoscevo, l’ha chiamato in parte e ricordo che doveva andare a prendere a Brescia una persona con la sua moto per portarlo al confine con la Jugoslavia perché dovevano portarlo via. Non so il motivo. Questo per dire come era dentro a queste cose, coi partigiani e poi con l’A.N.P.I. L’attività dell’A.N.P.I. l’ha sempre fatta ed è stato presidente locale per 10 - 12 anni. Ha cominciato nel ‘72 e dopo due anni ha fatto costruire il monumento su alla Fratta: aveva degli amici a Sonico e sono andati a prenderlo là; infatti non è marmo di Botticino, è una pietra di quella zona. L’hanno inaugurato nel ‘74. Hanno fatto tre giorni di festa dell’A.N.P.I., venerdì sabato e domenica, che era proprio il 28 ottobre, ricorrenza dell’eccidio della Fratta. L’idea di fare il monumento alla Fratta è nata perché lui voleva qualcosa che ricordasse perché diceva sempre: quando io non ci sarò più non so se continueranno nel la82 voro, invece così rimarrà il ricordo, voglio un cippo che ricordi anche quando io non ci sarò più. Tutti gli anni, ancor oggi, vedo che il ricordo è mantenuto. A quel tempo, quando ha fatto il monumento alla Fratta, c’erano contatti con l’Amministrazione. Il sindaco era Bettinzana e aveva presenziato alla ricorrenza. Per le riunioni dell’ A.N.P.I. avevamo una stanzetta. All’inizio erano a casa nostra. Prima Luigi era dell’A.N.P.I. di Brescia, poi ha cominciato qua a Botticino con poco... Prima del ‘ 72 l’ A.N.P.I. non era organizzata a livello locale: erano iscritti all’A.N.P.I. provinciale: qui l’ha organizzata lui. Però erano in diversi: c’era un gruppo volonteroso, c’era Damonti Angelo, Galli Mario, quello delle Fiamme Verdi, Pasquale Bonardi, Remo Pedretti, erano 5 o 6 ma hanno fatto tanto lavoro. Dopo mio marito, quando si è ammalato, voleva che a fare le sue veci fosse proprio uno che aveva fatto il partigiano. Ma Galli, vicepresidente, era già ammalato, non voleva, e allora gli hanno indicato Giulio Oliani. L’ha mandato a chiamare e ha cominciato a partecipare e gli è subentrato quando è morto. Anche Oliani proviene da Sant’Eufemia. I primi anni dell’A.N.P.I. a Botticino sono dal ‘70 in poi. Le prime attività erano le feste che facevano due volte l’anno: le facevano una alle Marcolini dove c’era il prato (adesso c’è la piazza) e una, quella più grande, davanti al campo comunale di calcio: la facevano in settembre ottobre. L’ultima volta Luigi c’è andato con la febbre a 39... ma lui voleva vedere come andava. La festa era un momento per ritrovarsi, non tanto per il guadagno, loro volevano sentire che c’erano: venivano quelli di Sant’Eufemia, di Rezzato, si trovavano, cantavano un po’ di inni partigiani... Erano delle belle feste! C’erano le bibite, i panini, senza la cucina, vino bianco e rosso: prendevano quegli stand piccoli coi banchi di legno che allora si usavano. Adesso non darebbero nemmeno più il permesso per cose così. Con semplicità: venivano i garibaldini di Sant’Eufemia e dei paesi vicini. Di solito preparavano la festa il sabato e durava la sera e la domenica seguente, e veniva sempre fuori uno da Brescia a dire due parole. Ricordo Bonomini, presidente dell’ A.N.P.I. di Brescia... Non ballavano, né niente, era proprio una festa per stare insieme. Erano feste sentite, ci veniva molta gente anche del paese. va perché c’era chi ascoltava. Vicino a noi c’era una fruttivendola dove si trovavano a chiacchierare ed hanno smesso perché ogni tanto capitavano dei fascisti. Hanno portato via quell’Arici perché pensavano che si trovassero lì a parlare contro il fascismo. Mio marito era riuscito a fare la tessera anche a don Luigi Scaroni, il parroco di Sera, perché lui aveva nascosto dei partigiani e aveva fatto scappare un partigiano dall’ospedale di Verona travestendolo con una sua tonaca. Era andato da lui una domenica e gli aveva fatto la tessera. Al tempo della Resistenza avevo 12-13 anni... Si sentiva già qualcosa in paese dei partigiani, si sapeva. Avevo il papà che ci teneva. Ascoltavamo Radio Londra: andavamo da una famiglia vicino a noi che aveva la cucina proprio sotto il monte a Botticino Mattina. Era la famiglia Forti, vicino alla chiesa di San Nicola. Alle 8 di sera cominciava. Sono andata anch’io che non volevano farmi andare e invece mi piaceva così tanto sentire. Mio papà era un cavatore ed era socialista, o comunista. In casa vedevano che le cose non andavano bene... mio papà diceva: se avessi qualche anno di meno andrei su anch’io; mia mamma ci pensava e diceva che magari una mattina si svegliava e non lo trovava più perché era andato in montagna. La volontà ce l’aveva ma non era più giovane. Vedevano che le cose non andavano: sentivano che avevano preso uno vicino a noi (Arici Attilio) l’avevano portato in Castello a Brescia e l’avevano riportato a casa dopo tre o quattro giorni che non si riconosceva più per tutte le botte che gli avevano dato. Dicevano che lui sapeva qualcosa e invece poverino, per quel che ne sapevamo noi, era un uomo qualunque. Vedevo i miei sempre con il terrore che venivano a prenderli vedendo che prendevano persone che non avevano fatto niente. Ricordo la tensione della mia mamma; diceva sempre: ti raccomando non dire niente... si arrivava anche a non andar fuori la sera per il timore. Era un rischio anche andare all’osteria: bisognava stare attenti a quello che si dice- Mi è rimasto impresso quando hanno ucciso quel Casali a Sott’Acqua che dicevano appunto che era stato lui a fare la spia a quelli della Fratta. Mi ha colpito perché andavo a scuola con suo figlio. A Botticino dicevano che lui in Castello aveva dei collegamenti e denunciava tutto quello che vedeva; però quella cosa lì che erano stati i partigiani ad ucciderlo mi era rimasta impressa. Da casa mia si vedeva il casì de Panada: eravamo lì sul portone a vedere. Si vedeva il fumo della bomba che buttavano e dopo abbiamo visto passare i due tedeschi catturati, uno era ferito al braccio. Dopo hanno detto che li hanno portati al cimitero e sono stati fucilati là da Tito, mi sembra. Al momento qualcuno diceva poverini, però avevano ucciso Bottarelli. Qualcuno diceva: hanno fatto bene perché avevano ferito anche papà e figlio Zanola: a uno gli ha attraversato la guancia la pallottola. Sai le donne come sono, vedendo che li hanno fucilati... però poverini anche loro. Altre invece rispondevano: guai, non ti rendi conto cosa hanno fatto su là? È tornato a casa mio papà che tremava. Adesso non si capisce ma in quei momenti era così: se si fossero arresi senza uccidere Bottarelli e sparare agli altri non succedeva niente. Con una cosa del genere li hanno portati giù e uccisi. Ma nessuno aveva il coraggio: hanno telefonato a Tito e come gli hanno detto cos’era successo in un attimo erano già morti. Ho visto qualche volta Tito, non saprei dire: ha fatto molte azioni, aveva del fegato, era deciso, se diceva una cosa era quella, non si tirava indietro. Ha fatto diverse azioni, dopo non so, qualche volta ho saputo che ha anche sbagliato. Sai com’è. Mio marito aveva fiducia in lui: guai a toccargli Tito! 83 Non so se era per l’amicizia. Io penso che più che l’amicizia era perché era deciso, non lo faceva per interesse ma perché era convinto. I due tedeschi che hanno portato al cimitero nessuno aveva il coraggio di ucciderli e allora hanno telefonato a Tito ed in cinque minuti era lì e gli ha sparato. Vedi, era così: non ci pensava due volte. Dopo il 25 Aprile ricordo che vedevo nel Comune tutti questi uomini col mitra, tutto un andare e venire... Il papà ci raccontava tutto perché anche lui aveva fatto la guardia di notte quando hanno occupato il Comune. È stato su diverse notti, facevano i turni. In quel periodo erano tutti contro i fascisti, per i fatti che avevano fatto. Ricordo un episodio, che adesso non si può capire, quando in piazza del Comune a quattro ragazze hanno tagliato i capelli. Vedo queste donne sedute in mezzo alla piazza: tagliava un barbiere di Botticino Sera. “Glieli tagli troppo bene” gli dicevano: volevano che lasciasse un ciuffettino per riconoscerle. La gente era arrabbiata perché avevano fatto delazioni o avevano avuto rapporti coi fascisti o i tedeschi. Erano chiamate le “repubblichine”. Ce n’e- ra una che aveva una relazione con un tedesco e dicevano che teneva i collegamenti per spiare a Botticino Mattina: a fine guerra le hanno tagliato i capelli.... L’idea allora non era dei partiti, l’idea era quella di liberarsi dai tedeschi, di finire la guerra. In quel periodo non c’erano partiti, erano tutti contro il fascismo e volevano venirci fuori, anche quelli della chiesa. La Maria Squassina, era mia catechista, ho sentito che dava da mangiare ai partigiani. Non so se glielo mandava o se passavano di lì. So che l’ho sentito dire che li aiutava, magari raccoglieva soldi. Ho saputo che a Botticino Mattina c’era una persona che raccoglieva i soldi per mandarli ai partigiani: anche mio papà una volta ha detto che se salvava qualcosa stavolta ce lo mandava su. Mi pare che fosse Rino Gorni che teneva il collegamento: i soldi li davano a lui che poi li faceva avere in montagna, ma non so tramite chi. Rino è stato un partigiano che ha sempre avuto collegamenti. Lui non era andato in montagna ma ha sempre fatto un buon lavoro qua: ed era molto rischioso. Botticino, 14 novembre 1996 Testimonianza di MARIA ARICI (26.2.1928) Io e mio marito siamo entrambi Arici. Lui era Arnaldo. Lo chiamavano però Bruno. Era conosciuto anche col soprannome di “Rusì de Sòmia”. Quando è iniziata la guerra abitavo qui in via San Nicola: avevo paura anche se ero una ragazzina e non avevo grande cognizione delle cose. Soprattutto la paura quando è arrivato “Pippo” che bombardava Rezzato e anche Botticino: una sera hanno sganciato una bomba qui vicino, in via Massiago, ed eravamo in 3 o 4. Ci siamo trovati senza luce. Una mia cugina aveva in braccio una bambina piccola che piangeva ed è finita sotto il tavolo. Che spavento! Fortunatamente la bomba è finita nel campo. Paure e disastri ne abbiamo avuti. Bruno ha partecipato ad alcune azioni. Anch’io facevo qualcosa dopo la Libera- 84 zione: cucivo delle fasce che usavano con il nome sul braccio. Dopo la Liberazione si sono organizzati in Comune e io e mia mamma facevamo queste fasce di riconoscimento con su C.L.N. C’era questa organizzazione e avevano mobilitato anche i ragazzi di 15 - 16 anni che andavano in Municipio con il mitra a fare la guardia. Io non sono stata protagonista per niente, ma c’erano donne che portavano la roba ai partigiani, da mangiare: lo facevano in casa e lo portavano in Comune. Dopo l’8 Settembre c’era la speranza che finisse, invece si sono creati altri disagi ed è cominciato il vero disagio perché la guerra era guerra, ma lì è cominciato il vero contrasto con il regime fascista. Non se me poteva più e hanno cominciato a far qualcosa per mandarli via. Il fascismo quando eravamo giovani (durante la guerra) ci faceva vivere tristemente; mancava da mangiare: andavo in bici fino a Calvisano per trovare un po’ di farina per fare la polenta. Si stava male. Eravamo poveri in famiglia, mio padre era mezzadro, si pagava la bottega una volta l’anno, tanto per dire. Avevamo almeno la casa dove abitare e un po’ di terra. Alcuni stavano peggio: avevano veramente fame. Noi ci arrangiavamo perché la mamma faceva un po’ la sarta. Ricordo che cuoceva lo strutto di maiale, burro non ce n’era, zucchero nemmeno. C’era poco da mangiare, non c’era niente di bello, la guerra è un brutto ricordo. In questa via (S. Nicola) di partigiani c’era Bruno (Arici Arnaldo) che l’ha fatto per 7-8 mesi. Era stato in Russia e poi è tornato a casa ed è scappato e si nascondeva qua e là. Andava in una stalletta sul monte a dormire sulla paglia con l’aiuto di suo papà. Era un po’ ribelle, non voleva fare il soldato. È andato due mesi a Parma, lui e Paolo Foresti, per salvarsi dalla “repubblichina”. Per non essere richiamato. In Russia aveva preso una medaglia con una motivazione per quello che aveva fatto (ma l’ho persa). Era stato in combattimento ed era riuscito a salvare sé e i suoi compagni da un accerchiamento. Lui poi ha disertato non per la paura, che ha fatto il partigiano, ma perché non voleva fare il soldato, ancora di meno sotto la “repubblichina”. Quando era a Parma è riuscito a salvarsi scappando su un treno, nascosto sotto il sedile del treno. Qui a casa ha cominciato: ogni tanto doveva partire, portare degli ordini, aveva la parola d’ordine da sapere, faceva questi servizi anche pericolosi. Una volta lui e un Lorandi di Nuvolera andando su in montagna hanno rischiato di essere presi: quella volta ha avuto paura di lasciarci la pelle. Rino Gorni che aveva fatto molto, era il primo. Lui aveva tenuto anche i partigiani a casa sua a mangiare. C’erano i patrioti che erano quelli più giovani: andavano per esempio a vedere cosa succedeva e così via, a Botticino Sera. C’erano i partigiani e i pa- trioti che stavano a casa a aiutavano con le informazioni e così via. Bruno aveva già fatto il soldato, quelli erano ragazzi. C’è stato il momento finale a cui hanno partecipato in tanti. Lui è stato riconosciuto come partigiano per otto mesi (sul foglio matricolare). Una mattina presto erano arrivati qui i fascisti per fare una perquisizione nelle case di via S.Nicola. Lui era sceso a dormire da suo padre: erano le cinque di mattina, avevano già preso uno. Lui è fuggito sul fienile della casa, attraverso una finestrina che non aveva il telaio. Avanzavano fuori le scarpe, ma fortunatamente non l’hanno visto. Gli è andata bene. Poi faceva parte dei G.A.P., portava gli ordini, della roba ai partigiani. Lui era qui a casa e gli altri erano su. Portava la roba su a S.Gallo. Era con Tomasotti Luigi, Amilcare Benetti, Angelo (“Fulmine”) Noventa. Lui lo chiamavano Bruno Rusì, Rusì de Somia (suo padre lo chiamavano Somia perché andava sempre a vedere uno che passava con la scimmietta ammaestrata). Era rosso di capelli e lentigginoso. Lo chiamavano Bruno perché c’erano problemi col nome Arnaldo (da Brescia): suo papà era un socialista storico, era considerato un sovversivo: Arici Domenico. Anche sua sorella, la “Mora”, era stata messa in prigione per una manifestazione con la bandiera rossa (nel ‘19). Era una famiglia di socialisti storici, poi sono diventati comunisti. Erano antifascisti anche per questo. Facevano delle riunioni clandestine da “Zeca”, Arici Luigi: questi custodiva la bandiera rossa ed era conosciuto e controllato e a volte uscivano dei fascisti a spiare la sua casa; per trovarsi fingevano di giocare a carte. A volte si trovavano proprio solo per giocare. “Zeca” era stato portato anche in Castello a Brescia. Io e Arnaldo ci siamo sposati dopo la guerra, avevo 18 anni, a Natale del 46. Lui parlava di quei fatti con orgoglio, era un comunista “spinto”, di carattere deciso, faceva discussioni all’osteria rischiando il litigio. Ci teneva e non voleva che si parlasse male dei partigiani. Era amico di Ezio Maccari85 nelli, quello di S.Eufemia. Lui faceva quel che c’era da fare, senza tante chiacchiere. Dopo la guerra andava alle cave, ci sono stati gli scioperi, ha cominciato anche lui con quella linea di opposizione, di lotta sindacale. È morto il 30 Maggio 1985. Gli hanno dato il riconoscimento di partigiano ed era iscritto all’ A.N.P.I.: lui, Ezio Mac- carinelli e Luigi Romano partecipavano alle ricorrenze, poi ha aiutato a fare l’A.N.P.I. a Botticino fino al tempo di Galli presidente. Facevano delle feste, raccoglievano del denaro per sostenere l’organizzazione dell’A.N.P.I.. Giravano per le varie feste e celebrazioni in provincia di Brescia. Botticino, 10 aprile 1997 Testimonianza di GUIDO ROSSI (12.6.1914) La mia era una famiglia di contadini, fino al 1950 eravamo 17 in casa; negli anni prima della guerra si viveva da contadini, qualcuno andava in cava, c’erano le bestie in casa e chi non aveva mucche allevava una capretta. Tutti cercavano di avere qualcosa per vivere: allora c’erano i bachi da seta, che erano la maggiore entrata; a San Piero si pagava la bottega e quello che avevamo di debiti. Dopo la guerra è cambiato tutto; allora con poca terra campavamo e lavoravamo tutto a mano. Adesso ci sono le macchine e va avanti solo chi ha un’azienda: sulla terra non ci vive più nessuno se è poca. Adesso si fa un po’ di vino DOC per avere un prezzo migliore... Bisogna che col tempo si uniscano i piccoli appezzamenti, quando non ci saremo più noi vecchi, magari fare una cooperativa. Così mettendola assieme riprenderanno forse a lavorare la terra. Negli anni del fascismo, nel ‘21, nel ‘24 specialmente, ero un ragazzino curioso e andavo a vedere le elezioni. Davano via di quelle “bacate”: era come una rivoluzione. Invece dopo il ‘25 quando Mussolini (il capo dei briganti) alla Camera si è assunto tutte le responsabilità, allora è cominciata un po’ di pacificazione: hanno lasciato da parte quelli della rivoluzione e hanno cominciato a chiamare quelli delle famiglie buone. Cercavano di mettere podestà gente affidabile. Poi è cominciato l’entusiasmo dell’Africa nel ‘35, la conquista, “faccetta nera”; io ero soldato a Rovereto: hanno fatto grande festa. Avevano creato entusiasmo: d’altra parte a scuola insegnavano tutto per il fascismo. C’era proprio l’indottrinamento. Anche a Botticino c’era calma. I vecchi socialisti si 86 erano fatti da parte, il paese era tranquillo durante il fascismo. In principio al fascismo invece tanti sono dovuti fuggire in Francia, quelli che non volevano sottomettersi e mantenere le proprie idee. Tanti sono andati in Francia a lavorare la pietra, perché ci sono cave anche là. Tante famiglie non sono più tornate indietro. Dopo, nel ‘32, c’è stata la crisi delle cave. Poi la crisi della moneta, la “quota 90” che ha buttato a terra tutti. Chi non aveva soldi, o aveva debiti... A Botticino hanno fatto 14 o 15 case col prestito della Cassa di Risparmio; con la “quota 90” ne è rimasta una sola. Uno aveva 22-23 mila lire di risparmio, ha dovuto vendere il campo e aveva ancora 10 mila lire da pagare, ci ha rimesso la proprietà. Sono andate tutte all’asta perché non riuscivano a pagare gli interessi. Col ‘35 sono andati in Africa, hanno cominciato a muoversi col lavoro. Quando Lombardi ha fatto la ferrovia prendevano 7 lire al giorno. Ma chi non lavorava andava a “prendere la minestra dal duce”: avevano fatto una cucina pubblica, dicevano “ la minestra del duce”. C’è stata una crisi enorme dal ‘29 al ‘32: le cave erano ferme.È cominciata la guerra d’Africa, un po’ sono andati in Africa e il fascismo è “cominciato ad andar su”, ad aumentare il consenso, fin che poi è scoppiata la guerra. C’è stato il periodo dal ‘35, per l’Africa, ma anche la guerra del’40: la gente diceva che andava bene. C’era la propaganda che era capace di dare a intendere... Fino al ‘41, inizio ‘42 era così, poi ha cominciato a cala- re, poi con la perdita in Russia, la disfatta, è cominciato il dissenso aperto. Il dissenso con il fascismo è emerso quando la guerra ha cominciato ad andare male, c’è stata una ribellione anche per le condizioni di vita. Anche se a Botticino si arrangiavano ancora. Quando è caduto il fascismo dopo il 25 luglio e l’8 settembre è cominciato il dissenso, le minacce al podestà. Poi c’è stata la ripresa (Mussolini liberato) e certi socialisti che si erano messi in vista hanno dovuto ritirarsi. Quel mio cugino, Arici Luigi, era stato chiamato in Castello a Brescia perché avevano tenuto il Comune nel periodo tra la caduta del fascismo e l’avvento della “Repubblica di Salò”. Lo consideravano un sovversivo. È stato salvato da un certo Trombetta che è stato commissario al Comune. C’è stato il caso di Martinelli che era rivale di Sorlini, ma era una cosa interna dei fascisti. È scappato sui tetti. Sorlini era suo rivale: Martinelli è scappato qui a casa mia a nascondersi, poi non si sentiva sicuro, è andato a Serle dove è stato preso. Lo hanno salvato i tedeschi! Dopo l’8 settembre c’era più tanta paura di prima: c’erano i fascisti ma anche i tedeschi. Poi c’erano i partigiani: erano momenti burrascosi. C’è stata lotta partigiana dopo l’8 settembre, prima c’era quiete in paese; qui, dopo l’8 settembre, si sapeva che i comunisti erano armati, ma non hanno fatto nessuna azione. Facevano azione di rifornimento e aiuto. C’è stata l’uccisione dei tre partigiani su alla Fratta. Poi hanno ammazzato quello che credevano avesse fatto la spia. Quel Casali che è stato ucciso era nella milizia a Brescia, non faceva servizio qui. Non so come è stata. L’hanno ucciso fuori di casa.C’è stato un rastrellamento, ne avevano presi 7 o 8, ma poi è intervenuto il Comune e li hanno rilasciati. Erano momenti così. Il caso del “casì de Panada” quando scappavano i tedeschi; siccome c’è stato un incidente e hanno ucciso un partigiano han- no fatto prigionieri due tedeschi e sebbene feriti li hanno portati sul cancello del cimitero e li hanno fucilati. Ricordo che io ero qui a casa, in via San Nicola: si è sentito movimento e sono arrivati i due tedeschi in mezzo ai partigiani. Uno aveva il braccio ferito, se rallentavano li spingevano con il fucile; uno ha chiesto da bere e gli hanno dato un calcio. In piazza hanno tentato di scappare quando hanno visto che andavano verso il cimitero. Erano tedeschi in fuga, si erano fermati per mangiare: forse se ne sarebbero andati senza fare niente, scappavano. Ma sono venuti in paese ad avvertire e così sono andati su, altrimenti se ne sarebbero andati dopo aver mangiato. Poi è entrato quello di Nuvolera e l’hanno ucciso. Li hanno presi e portati giù e invece dell’ambulatorio sono andati al camposanto. Il curato aveva una sposa e non è potuto andare subito, poi è corso al cimitero ma li avevano già uccisi. Forse se arrivava prima non li ammazzavano. Poi li hanno sotterrati così. I corpi poi li hanno riportati a casa in Germania. Erano momenti così. Nei giorni della Liberazione è successo che tutti i partigiani che erano qui avevano fatto la sede in Comune. Una notte si è fermato un camion di tedeschi, li hanno fatti prigionieri e portati nel palazzo municipale. Radio Londra aveva detto che bisognava dare l’onore delle armi agli ufficiali. Un ufficiale tedesco voleva l’onore delle armi, allora l’hanno messo da parte con il suo attendente. È venuto Tobegia, Tito: “Chi sono? Vogliono l’onere delle armi? Glielo do io l’onore delle armi”. Ha preso il mitra e li ha uccisi. Erano momenti così. Poi è arrivato il “C.L.N.” con i camion e ha portato via tutti gli altri prigionieri. C’è poi stato l’episodio a San Gallo dove Tito ha portato 10 o 12 di Lumezzane, ha fatto una fossa e li ha uccisi e coperti con la calcina. Quelli di Lumezzane li hanno uccisi a S. Eufemia e poi li hanno portati a S. Gallo in una buca. Si sa chi li ha uccisi e chi li ha portati. Era uno che faceva l’autista (ora è morto), e il trasporto lo ha fatto lui con un camioncino. Non ha mai parlato. Tito poi è scappato all’estero. 87 Ci sono stati momenti tristi. Anche vendette personali. Contro Bodei, ex segretario del fascio, che aveva fatto il contratto delle cave: lo hanno mandato a pulire i gabinetti e roba del genere. O il maestro Casali: la sera c’era stata una riunione nel cortile del Municipio e lui aveva detto che non era democrazia, che la libertà era per tutti. Era lì sul muretto del Comune: l’hanno preso e con Bodei portato a Brescia al “C.L.N.”. Là gli hanno detto: “Che fate? Che vi prende?” Erano momenti così.. Pensa che il maestro era uno che era stato nascosto perché era riuscito a fuggire dal treno che lo deportava in Germania. Dopo la Liberazione è iniziata la lotta politica quando sono arrivati i partigiani e si sono impossessati del Comune. Dopo la Liberazione noi popolari non eravamo preparati: abbiamo cominciato a cercare quelli che erano stati dentro l’amministrazione prima del fascismo, perché qui socialisti e comunisti erano organizzati; avevano fatto il “Fronte Popolare” e si erano impossessati del Comune. Quando sono arrivati gli americani e così via, si è riusciti a fare il sindaco, mio cugino, Arici Luigi. Volevano mettere me sindaco, ma in quella baraonda.... C’erano i giovani del “Fronte della Gioventù” (P.C.I.) che venivano su in Municipio, volevano i soldi per le loro iniziative, volevano tutto. Era un momento di burrasca. Si è arrivati alle elezioni ed eravamo riusciti ad organizzarci. La sede era la parrocchia, andavamo sempre dal curato. La formazione del partito, la DC, l’abbiamo fatta in canonica, avevamo fatto un segretario. La differenza politica è diventata evidente dopo la Liberazione. La Liberazione non è stata vista allo stesso modo da tutti. Per i comunisti era la liberazione per loro, del comunismo sul fascismo. Nella lotta partigiana ha avuto prevalenza il comunismo perché era organizzato. C’è stata la lotta di liberazione, ma nello stesso tempo la lotta di conquista del potere. I primi giorni della liberazione sono stati difficili. I democristiani facevano silenzio ma lavo88 ravano sotto: facevano riunioni in parrocchia e così via: ma sono cominciate dopo la guerra. Abbiamo ripreso contatti con i vecchi popolari: Gorni “Macel”, Casali Battista, quelli che erano in amministrazione prima del fascismo. Nelle elezioni del ‘46 c’è stata la sorpresa: i comunisti credevano di vincere, invece nessuno di loro è stato eletto : 10 a 4. I socialisti sono stati più furbi, perché hanno concentrato le preferenze sui loro nomi. I comunisti votavano la lista, voto al partito senza pensare alla preferenza. Sono stati eletti 4 socialisti. Credevano di vincere le elezioni e quando hanno fatto lo spoglio sono rimasti di pietra. Non si sono occupati più di nulla, hanno restituito le armi che avevano nascosto. Poi sono usciti Nicoletto e altri e c’è stata la calma. Sindaco era Perugini, poi c’è stato il referendum e poi le cose hanno cominciato ad andare avanti bene. Ci sono poi state le crisi per il rinnovo del contratto delle cave, stipulato durante il fascismo. A Botticino Mattina non c’erano Fiamme Verdi e cattolici, se c’erano erano a Botticino Sera, perché ricordo Ferrari Ovidio che era giovane ma era stato in mezzo a quelli. Dicevano che a Sera c’erano un po’ di armi perché si erano preparati armati in caso vincesse il comunismo. A Mattina i comunisti avevano le armi ma non le hanno usate perché subito dopo le elezioni le hanno riconsegnate. C’era la Maria Squassina che raccoglieva qualcosa per i partigiani di qui che erano collegati con quelli di Nave e della Valtrompia. Come attività c’era questa raccolta di viveri e soldi per aiutare, ma non altro. Non c’erano qui le Fiamme Verdi. Durante la Liberazione c’era don Pilotti, poi è venuto don Parisio. Il curato ci ha sempre aiutato ma soprattutto dopo la Liberazione. Abbiamo aiutato Bosio, l’impiegato comunale (ex-fascista), a scappare: lui era stato nella “X Mas”; al ritorno l’avevano preso e portato in Comune: volevano ucciderlo. L’hanno colpito ed è stato portato a casa. Durante la notte è stato fatto fuggire a Nuvolera. Poi è stato riabilitato. Don Parisio, quando è arrivato, l’ha messo in una recita nel teatro. La sera della rappresentazione, presenti il segretario socialista e comunista, è comparso sul palco e c’è stata una gran confusione e la fuga dalla porta posteriore... È stato via ancora un po’, ma poi il “C.L.N.” dove era stato l’ha riconosciuto per aver aiutato e dato da mangiare, ecc. ed è potuto tornare. Lo stesso è successo con Conti, un altro impiegato che poi ha potuto tornare in Comune. In quei momenti non erano molti che si esponevano. Io ho dovuto andare a Botticino Sera per convincerli a fare qualcosa. C’è stato un periodo turbolento dopo la Liberazione fino alle elezioni e al Referendum poi è tutto tornato tranquillo: c’è stata burrasca, ma senza scontri. C’era lotta politica: si organizzavano democristiani, socialisti, comunisti. Ma non era lotta tra persone, salvo gli episodi (Bodei e Casali) che ho detto. Era lotta politica. Botticino, 25 giugno 1997 Testimonianza di ROSA BORGHETTI MACCARINELLI (25.10.1926) Sono di Marmentino, in Valtrompia; mio marito Ezio Maccarinelli era di S. Eufemia. Noi ci siamo conosciuti dopo la guerra. Io sono stata riconosciuta partigiana combattente, ho anche la croce al merito. Facevo la staffetta, ho cominciato subito dopo l’8 settembre quando è iniziato lo sbandamento dei militari che passavano là, si nascondevano e dopo pian piano si è formata la brigata Garibaldi, la 122°, c’era anche Tito. Ho cominciato a fare la staffetta, a portare in giro gli ordini, a Brescia e poi su in Valtrompia. Io al 29 dicembre 1944 sono stata arrestata dalle brigate nere. Mi hanno portato in prigione a Brescia e poi al tribunale militare di Bergamo e sono uscita alla Liberazione. Ho cominciato perché a Marmentino c’erano i primi partigiani, che poi hanno formato la brigata, che passavano da casa nostra. Per il cibo. Noi eravamo nove fratelli ma avevamo la campagna, le bestie e allora qualche cosa potevamo darla. Poi due partigiani ammalati sono stati parecchio lì a casa nostra. È cominciata così: “non potresti portare...” ecc., così è iniziata. Avevo 17 anni. Sono entrata e ho continuato. Si fermavano a casa nostra perché tutti noi ospitavamo gli sbandati, perché li aiutavamo, perché i miei genitori pensavano che se anche i loro figli fossero in difficoltà qualcuno li avrebbe aiutati. Allora tutti i miei fratelli erano più giovani di me ed erano perciò a casa. Poi uno che si era ferito alla Beretta di Gardone, l’abbiamo curato e tenuto a nostra: Pellacini. Sono stati diversi i casi del genere. Mio marito Ezio l’ho conosciuto dopo. Lui era venuto in montagna ma era sempre su verso S.Gallo. Poi quando è salito io ero già a Bergamo, in prigione. Avevamo paura delle rappresaglie ma tutti in paese, chi tanto chi poco, ospitavano gli sbandati e poi i partigiani. Ci sono stati rastrellamenti, hanno catturato uno che ospitava un russo: una notte i tedeschi l’hanno portato via e non è più tornato. Un’altra famiglia ne aveva lì due: tutti si davano da fare per aiutarli. Era così in tutti i paesini di quella zona: hanno aiutato tutti anche se non c’erano idee particolari, forse c’erano socialisti e così via, ma non era scopo politico, lo facevano disinteressatamente per senso di umanità. Erano tremendi quando facevano i rastrellamenti: partivano in 150 - 200, circondavano tutto il monte, salivano e quelli che trovavano li portavano via, o anche li ammazzavano. Come quelli in piazza Rovetta. Ricordo durante un rastrellamento uno che era fuggito è stato bruciato vivo dai tedeschi dentro la baita dove si era rifugiato. 89 Bruciato vivo!Botti di Iseo lo hanno trascinato per i piedi lungo la montagna e poi in fondo lo hanno ucciso. Il rastrellamento di Bovegno è del 15 agosto 1944, il 16 sono venuti a Marmentino e hanno bruciato 15 cascine e portato via tutto quello che hanno trovato: bestie, formaggio. Però non hanno ucciso nessuno perché la gente li ha visti in fondo alla valle e sono fuggiti. Ne hanno fatte di cose, a pensarci! E perché? Abbiamo tribolato tanto... Io andavo a prendere la roba da mangiare nei posti che mi indicavano. Andavo a Livemmo, a Gardone, Mura. Venivo anche a S. Eufemia e andavo a dormire a casa di Tito. Sua moglie e i due bambini erano su a casa mia. Io andavo da lui o da un’altra donna, la Bruna Berardi che abitava a Brescia e faceva anche lei la staffetta. Con lei ho lavorato moltissimo. Avevano fatto un colpo alla fabbrica di scarpe di S. Eufemia (Alberti), le hanno portate a San Gallo e noi siamo venuti a prenderle: con le nostre scarpe a spalle siamo risaliti su in valle. Erano scarponi li abbiamo portati su con i sacchi. Quando c’era un colpo portavano la roba in posti di collegamento come S.Gallo e poi noi la portavamo su alla brigata. Come staffetta portavo gli ordini. Quando mi hanno arrestato io portavo una lettera e l’ho mangiata. Dovevo portarla al comandante della brigata che era Carlo Speziali. Dovevo portarla a Brescia, mi sono fermata a Collebeato dove c’erano due fratelli partigiani (uno poi è stato ucciso al distretto militare che era stato trasferito a Sarezzo). Io sono passata da casa loro, qualcuno ha fatto la spia, mi hanno seguita e arrestata. La notte di Natale avevano fatto un rastrellamento a Marmentino e avevano portato via due mie sorelle, una di 15 e una di 14 anni. Quando hanno preso me le hanno lasciate andare: ero io quella che cercavano. Si vede che anche al paese c’era qualche spia. Mi hanno preso a Collebeato e portato in questura e poi alle carceri. Quando mi hanno arrestata mi hanno portato alla “Tognù” lì alla Stocchetta e poi in questura e poi in prigione. Poi sono venuti a prendermi e mi hanno tenuto dieci giorni in 90 caserma al comando della “G.N.R.” a Gardone per interrogarmi per voler sapere dove erano i partigiani: ma io non gliel’ho detto. Avevano arrestato anche la Bruna Berardi e ci siamo trovate in prigione: c’era stata una retata a Brescia. Mi hanno riportato a Brescia e in febbraio mi hanno portato a Bergamo. Quando ero a Gardone mi mandavano una donna che conoscevo, lavorava nelle cucine, per cercare di farmi confidare dove erano i partigiani. “Dimmelo” diceva, ma io fingevo di non sapere niente e dicevo che avevano sbagliato ad arrestarmi e che mi avevano confuso con la Ezia Borghetti, una maestrina di Marmentino che era già fuggita in Svizzera e che collaborava con la Fiamme Verdi. A Bergamo eravamo in tanti politici. C’era la Agape Nulli, la figlia di Bonomelli ucciso dai fascisti. Quando si è formato il comando della Brigata su al Sonclino io ormai ero già in prigione. Sono venuta spesso a S. Gallo dove incontravo la Santina Damonti che faceva la staffetta. Non la Santina di S. Gallo, ma quella di Brescia che era chiamata Berta. Ora è morta. Anche la Santina di San Gallo, la moglie del “Nono”, era partigiana. La Berta era sorella di Spartaco Damonti di S. Eufemia la cui famiglia era di S. Gallo. Lì, a San Vito, c’era il collegamento con la città. Mio marito ha partecipato alla battaglia del Sonclino poi è riuscito a fuggire a Irma e da lì con gli altri è sceso perché era il 25 Aprile, o il 24. Un gruppo è sceso a Brescia, in questura, nella caserma, alcuni sono arrivati a Botticino. Io dopo il 25 Aprile sono andata a casa mia e non ho partecipato ai fatti dopo la Liberazione. Ho conosciuto Ezio l’anno dopo quando c’è stata la commemorazione al Sonclino, nel 1946. Mi ha raccontato un po’ di quello che aveva fatto: lui era partito da S.Gallo per la Valtrompia. Era dovuto fuggire da S.Eufemia perché i fascisti portavano via tutti i giovani. Era amico di Luigi Romano che è andato su anche lui: assieme hanno partecipato alle varie azioni. Quando Ezio (Maccarinelli) e Luigi Romano avevano portato su le forme di formaggio avevano fatto una faticata. Poi non l’hanno nemmeno mangiato perché il giorno dopo c’è stato un rastrellamento e hanno bruciato il monte e così anche il formaggio è andato in fumo! Andavano in montagna non tanto per le idee, perché erano molto giovani, ma soprattutto per le condizioni di vita, il timore di essere deportati. Forse un po’ la famiglia che non era fascista, anche se al tempo bisognava avere la tessera per fare tutto. Ho conosciuto Verginella. Conoscevo Gheda ma quando è diventato comandante ero già a Bergamo: sono stata diverse volte a dormire a casa della sua famiglia. Gheda abitava in via Milano e quando sono uscita da Bergamo l’ho fatta tutta a piedi sino a Brescia e mi sono fermata a casa sua dove ho saputo che era morto. Sono poi andata alle scuole di S.Eufemia dove c’era Tito che comandava l’organizzazione. Tito era diventato comandante della 122°: lo conoscevo bene. Era un tipo... vivacissimo, deciso. Non guardava tanto per il sottile. Non so la sua vita prima, poi è dovuto andare via. Si sentiva dire che era un po’ brigante. Lui non aveva nessun interesse: aveva un carattere così, era anche buono, ma poi non ci pensava due volte ad ammazzare qualcuno. Era deciso, così, non l’ha mai fatto per interesse. È scappato perché volevano arrestarlo dopo quei fatti. È andato in Cecoslovacchia. Poi è rientrato a Collebeato. Un giorno sono arrivati dei fascisti, si sono fatti conoscere erano di Lumezzane. Ha fatto per reagire ma gli è venuto un infarto. Così almeno raccontano. Erano di Lumezzane perché lui ne aveva uccisi alcuni e li aveva sotterrati a S.Gallo vicino al “Mulì dell’Ora”. Dopo la guerra chi aveva fatto il partigiano qualcuno era visto bene, altri male. Specialmente noi donne che avevamo fatto la staffetta: mamma mia! Malviste perché ci consideravano poco di buono! Le donne erano impegnate come staffette non partecipavano alle azioni, al massimo facevano la guardia durante i colpi, c’erano fascisti dappertutto. Facevamo il palo. Dopo la guerra c’è stata col tempo un po’ di delusione perché non è stato fatto niente per noi... Ma se non ci fosse stata la Resistenza, adesso non ci sarebbe la democrazia. Botticino, 24 giugno 1997 91 Testimonianze orali aggiunte per questa edizione Testimonianza di AVELINO BUSI (San Gallo 10.10.1933) Mi ricordo quando all’età di sette anni andavo a Brescia con mio padre a trovare il cugino di mio nonno che si chiamava Fulvio Signaroli, altro non era che il nipote del famoso bandito Proana…… ! Braghe cùrte èmpesolade zò al medol tòtt de corsa, scarpe rote de me pader, pà e strachèt èn dè la borsa, “mammadora poarì” i ma dis i medoler “ fat slongà da la tò mama le braghine de nà spana” quante storie ho in mente. Per esempio, il primo giorno di asilo: un cestino quadrato di paglia nella manina (un’altra era occupata nella mano della mia mamma, bambini come me, mai visti prima e come mi sembravano brutti, tutti più brutti di me almeno cosi mi apparivano, si chiamavano o li chiamavano: Vincenzo, Vito, Angelo, Giacomo, Andrea, Ignazio, Nerio, Giovanni, Enzo, Cipriano, Paolo, Benedetto, e tanti altri ancora, dei quali non ricordo il nome, e le bambine? Qualcuna era carina, solo poche però: Angela, Giulia, Rosa, Teresina, Natalina, Adriana e tante altre ancora. Ricordo che provavo ad avvicinarmi più a loro che ai bambini. Erano gli anni ‘37-38 piena era fascista (comandava il duce, solo lui) la dittatura! Le suore ci preparavano ad un saggio, così facevano bella figura con la Signora cinica, una grassona con tettone enormi, moglie del podestà: erano scenette di guerra nelle quali io ero disteso su di una barella con la fronte fasciata sporca di sangue (era intrisa di cornioli maturi) al mio fianco una crocerossina che mi assisteva (avevano scelto la bambina che non mi piaceva!). Mi ricordo che dopo la recita ci fecero fare una mangiata di biscotti secchi. Nell’agosto1939 si lascia la casa dei nonni materni e andiamo ad abitare ai Tagliane (una casa diroccata posta sotto al piccolo cimitero di San Gallo): uno stanzone vicino ai bachi da seta serviva da camera da letto, tanto è vero che quando dormivamo si sentiva il cric cric dei dentini che masticavano le foglie di gelso accompagnato da una puz92 za nauseabonda. In camera dormiva tutta la famiglia: io e mia sorella Luigina in una cuccetta (uno alla testa e uno ai piedi essendo maschio e femmina), naturalmente facevamo la gara a tirarci calci nel sedere. Mio padre, mia madre e mio fratello Angelo (che allora aveva sette mesi) dormivano nel letto grande. Mi ricordo un particolare: le assi sopra la camera erano talmente distanti che si potevano contare le stelle perché il vento aveva spostato le tegole! Mio padre le chiamava per nome; la chioccia (penso sia stata l’orsa maggiore) i preder (tre stelle in fila ordinata) e la stèla de la dè (Venere). 1 ottobre 1939, primo giorno di scuola, costruzione nuova eretta vicino alla Chiesa, stessi compagni dell’asilo con la differenza che nella classe quarta c’erano degli alunni nati nel 1928, ripetenti e molto duri di comprendonio, ma non era tutta colpa loro dovendo fare a casa i più svariati lavori, dal lavoro nei campi a pascolare le mucche, da tagliare la legna nei boschi a portare col gerlo il letame nel campo, da tagliare l’erba con la falce o portare il grano al mulino a macinare, dal far scendere dal monte la legna con la teleferica o raccogliere le castagne sul monte Paina! E così addio compiti a casa. A scuola le classi erano miste: prima e seconda, terza e quarta, massima severità se no erano scappellotti. Tre quadri mi hanno colpito la fantasia, erano appesi sopra la cattedra della maestra: il Papa in mezzo e ai lati Benito Mussolini e Vittorio Emanuele Terzo Re D’Italia; avevamo la cartella, una borsa di cartone, il cui contenuto era semplice: il sillabario, un quaderno a righe, uno a quadretti, una matita e una penna con il pennino (il calamaio si trovava nel banco a scuola), un lusso se avevamo i gessetti (sette colori). Il problema erano gli zoccoli di legno che quando si consumavano, mio padre metteva sotto dei rinforzi ricavati dai barattoli di latta così quando il viottolo era gelato andavo spesso a gambe all’aria! A scuola in inverno un freddo cane, una stufa a legna per ogni aula di due classi, la bidella (zia Tine) le accendeva ancora alle sette, ma la legna era umida e faceva un fumo da sembrare una bolgia infernale, conseguenza: porte aperte e freddo! Sotto gli zoccoli restava sempre un po’ di fango e così un giorno, mentre la maestra si era assentata momentaneamente dall’aula, un nostro compagno comincia a levarsi dei pezzettini di fango dagli zoccoli e inizia un tiro al bersaglio contro il quadro di Benito Mussolini. Arriva la maestra e trova il quadro imbrattato di fango, naturalmente nessuno è stato! Spaventata chiama la bidella e lo fa pulire subito, se fosse stato scoperto dalle autorità questo gesto le sarebbe costato l’espulsione dalla scuola! Che dire di quel periodo? Per raccontare gli avvenimenti della seconda guerra mondiale bisognerebbe scrivere un libro, mi limiterò a narrare i fatti che più mi sono rimasti impressi nella memoria! Mio padre lavorava sotto la TODT a Ghedi, una ditta che era pagata dai tedeschi, partiva il lunedì mattina e tornava a casa il sabato sera, cosi noi rimanevamo soli a casa con mia madre. Era il periodo buio della guerra ’41 ’42, poco cibo, pochi vestiti, per fortuna c’erano i nonni, materni e paterni, che ci davano qualche scodella di tagliatelle o un po’ di latte per i miei fratelli (io non lo ho mai potuto soffrire). Riscaldamento? A casa una stufa di cemento, però le porte erano rotte e così il caldo usciva e l’aria fredda entrava. Per fortuna nelle lunghe sere c’era la stalla della nonna Teresa, bella calda, la teneva calda la Baghi una mucca magra ma con un grosso pancione; poi c’erano la pecora, il maiale e qualche coniglio. A volte eravamo in quindici compreso la nonna e le ragazze da marito che venivano sorvegliate a vista dalla nonna. Mi ricordo che una sera entrarono due giovani vestititi in modo strano; avevano dei giubbotti cachi e gli scarponi da montagna. Io e mio cugino notammo che sotto il giubbotto avevano la pistola e le bombe a mano: erano due partigiani! Mia nonna era terrorizzata e ci impose il silenzio assoluto Se lo avessero scoperto i fascisti avrebbero incendiato la casa (loro venivano per vedere le ragazze). C’era il coprifuoco e bisognava tappare tutte le finestre perché non trapelasse la luce, altrimenti passava Pippo (una cicogna tedesca che mitragliava e sganciava bombe leggere) Ogni tanto arrivavano delle camionette di fascisti e tedeschi a fare i rastrellamenti, e così arrestavano tutti coloro che si trovavano nei campi o nei boschi a tagliare la legna e li portavano a Botticino al Palazzo comunale per essere identificati trattenuti o rilasciati. Questa storia dei rastrellamenti era iniziata con la liberazione del duce dal Gran Sasso e trasferito a Salò per ordine di Hitler. Da li è iniziato il movimento per liberare l’Italia dai nazifascisti! Questa è una storia che meriterebbe un capitolo a parte per sottolineare i sacrifici le torture e le uccisioni dei nostri valorosi giovani che si sono sacrificati per donare al popolo italiano la libertà! Mi limiterò solo ad accennare alcuni episodi che meritano di essere tramandati ai posteri. E così successe tutto dopo l’otto settembre, dopo la disfatta dell’esercito italiano; molti giovani si dettero alla macchia per non entrare nella neonata repubblica di Salò formando le brigate partigiane. Dalle nostre parti operavano la 122a Brigata Garibaldi e le Fiamme Verdi. La prima operava nella zona della Valtrompia (monte Sonclino) la seconda operava nella Valle Sabbia (Corna Blacca le Pertiche). A San Gallo erano presenti dei sostenitori della brigata Garibaldi, tanto è vero che un giorno vennero a nascondere le armi sotto la legna dove abitavamo noi; solo mio padre ne era a conoscenza. Così una volta capitò che durante un rastrellamento, avvenuto nel mese di gennaio, qualche repubblichino abbia lanciato l’idea di accendere un fuoco per scaldarsi e prendere un po’ di quella legna che copriva le armi - a mio padre gli si rizzarono i capelli -per fortuna un ordine di spostarsi li ha fatti desistere. Questo fatto me lo raccontò mio padre a guerra finita. Per tanto tempo dopo conservava nascosta nel muro una pistola tedesca che nel 1960 io stesso tramite una persona fidata la feci 93 consegnare al maresciallo dei carabinieri de S. Eufemia. Nel mese di febbraio del 1944 i mitragliamenti alla stazione di Rezzato erano all’ordine del giorno. I caccia arrivavano da Bologna o dalla Toscana in gruppo di quattro o cinque, scendevano in picchiata sopra i vagoni carichi di munizioni mitragliando a tutto spiano, risalendo in quota rapidamente; allora entrava in azione la contraerea tedesca con cannoni e mitraglie pesanti, così un giorno, mentre noi ragazzi assistevamo al bombardamento abbiamo visto un caccia americano che si staccava dagli altri e con la coda fumante si diresse verso il monte Paina; arrivato sopra il dosso grande si buttò il pilota col paracadute, mentre l’aereo dopo trenta secondi andò a schiantarsi sotto il paese di Castello di Serle! Il pilota sceso a S Gallo fu accompagnato da un giovane del paese verso il monte Sonclino dove operava la 122a Brigata Garibaldi. Una notte mio padre mi sveglia “vieni a vedere i bengala sopra la Maddalena” - io non sapevo cosa fossero – quando alzai lo sguardo verso il cielo vidi come dei lampioni sospesi in cielo. Erano stati sganciati dagli aerei americani per illuminare la zona da bombardare (in questo caso era Brescia). Uno di questi non essendosi aperto il paracadute che lo avrebbe sostenuto nel cielo, cadde sopra la casa di Pisca in mezzo ai detriti di roccia. Pisca svegliato dal rumore della caduta si alza e corre sul posto con una lunga pertica cerca di rimuoverlo, questo s’incendia e comincia a fare un rumore infernale, costringendo il Pisca a scappare a gambe levate. Durante l’estate del 1944 le incursioni e i bombardamenti da parte degli aerei americani erano quasi all’ordine del giorno anzi anche di notte. Dalla casa dove abitavo si vedeva un buon tratto di pianura e nelle giornate limpide si vedevano gli Appennini (che mio padre chiamava le montagne di Parma). Ebbene, una notte fummo svegliati da rumori di aerei che scendevano in picchiata a mitragliare il campo d’aviazione di Ghedi e la polveriera vicina; sotto la contraerea tedesca cercava di abbattere gli aerei che picchiavano: sembrava l’inferno. Mia 94 madre piangente diceva: “vedete bambini , vostro padre è la sotto quel fuoco preghiamo per lui che la Madonna lo protegga”. Era quel periodo che lavorava a Ghedi sotto la TODT. Lo aspettavamo con ansia il sabato sera perché ci portava una grossa pagnotta di segale e qualche caramella! Ma il fatto più doloroso che ha lasciato un solco profondo nella mia memoria è stato l’uccisione da parte dei fascisti di tre partigiani della 122a brigata Garibaldi. Era la mattina del 28 ottobre del 1944, una mattina piovosa con la nebbia che rasentava le colline, improvvisamente sul monte Fratta si udirono delle raffiche di mitraglia accompagnate da grida di dolore. Dopo aver compiuto questo atto criminale, un gruppo di repubblichini scende a San Gallo e chiama il parroco Don Leopoldo Gaffuri dicendogli: “vada su alla Fratta che ci sono dei morti da benedire”. Ma le prime ad accorrere sul posto sono state alcune ragazze di San Gallo, è bene riportare qui i loro nomi: Margherita, Rosa, Santina, Giulia. La Santina ha raccontato poi che una di loro si è inginocchiata davanti ai cadaveri dei tre giovani e ha cominciato a pregare; verso sera sono saliti alla Fratta alcuni uomini e donne di S. Gallo e con delle barelle hanno trasferito i corpi nella chiesetta del cimitero di San Gallo, dove alcune donne pietosamente li hanno lavati dal sangue e ricomposti . Due giorni dopo sono stati seppelliti senza bara nel cimitero di San Gallo. Il muro del cimitero che guardava verso sud era crollato la vigilia di Natale del 1943 per un forte vento, pertanto i compagni dei partigiani trucidati non hanno avuto difficoltà ad entrare e deporre una corona di fiori con una scritta: “sarete vendicati”. Dopo l’uccisione dei tre partigiani alla Fratta per opera dei nazifascisti, i partigiani della 122a brigata Garibaldi si organizzarono e tennero contatti anche con le Fiamme Verdi che operavano in località Tesio, vicino a Serle, e lì penso sia nato un accordo per mandare uno di loro a rendere giustizia ai tre partigiani uccisi il 28 Ottobre alla Fratta; sicuramente non era del posto e neanche Italiano, pare sia stato un partigiano di origine cecoslovacca. Colui che doveva essere giustiziato era un guardaboschi di Botticino Mattina, che aveva fatto la spia indicando il luogo dove erano alloggiati i partigiani. Infatti la mattina del 5 Dicembre, era ancora buio, dalla casa dove abitavo si sentì una raffica di mitra proveniente dalle case di via Sott’acqua a Botticino Mattina. Mia madre subito ha intuito il fatto commentando: “ecco hanno ucciso la guardia”. Penso che lei fosse al corrente delle intenzioni dei partigiani di vendicare i loro compagni caduti per la libertà! Mentre era nel gabinetto di frasche è stato raggiunto da una raffica di mitra e ha fatto appena in tempo a rientrare in casa e sedersi dicendo: “chiamatemi il prete perché stò per morire”. Questo è accaduto nel 1944. (note autografe di Avelino Busi, San Gallo, marzo 2014) GIULIA BUSI (San Gallo 31.5.1926) La signora Giulia è una delle quattro donne, con Santina Damonti, Betta Busi (dei Zeche) e Pina Busi (dei Gioachì), che accorsero per prime con uno slancio di umana solidarietà portando bende e rudimentali medicamenti per dare un aiuto rivelatosi tragicamente inutile. Le quattro ragazze erano salite faticosamente alla Fratta dopo che un gruppo di brigate nere aveva sprezzantemente detto al parroco di San Gallo che “c’erano dei morti su alla Fratta e che decidesse lui cosa fare”. Giulia e le altre, giunte per prime sul luogo, avevano potuto solo trovare i corpi martoriati dei tre giovani partigiani e prestare i gesti di una umana carità e più tardi contribuire in qualche modo alla ricomposizione dei corpi e alla loro provvisoria sepoltura. Da allora, Giulia non aveva più parlato di quella vicenda, nemmeno con le altre donne testimoni del fatto. Aveva tenuto racchiuso in sé quel ricordo angoscioso. Finché il 20 ottobre del 2002, alla Fratta, invitata a raccontare la vicenda, ha superato il blocco del tempo e con semplici ma precise parole ha narrato quel fatto drammatico e doloroso. Qualche mese dopo abbiamo risentito la signora Giulia con più calma e abbiamo raccolto la sua testimonianza che qui pubblichiamo assieme ad una memoria scritta della stessa signora Giulia che rievoca il giorno dell’eccidio alla Fratta. Dobbiamo sottolineare la pacatezza e la lucidità con cui Giulia Busi ha rievocato quei tempi e quelle vicende: è stata, oltre che una testimonianza viva di storia, un’esperienza di vita e di grande umanità. Le parole di Giulia hanno rivelato il suo amore per la libertà, la tolleranza e il rispetto per la dignità di tutti. E ci ha detto parole, un messaggio, da lanciare ai giovani, ma che dobbiamo raccogliere anche noi più “in età”: “Non vorrei che facessero la mia esperienza per nessuna ragione al mondo, perché la violenza è la cosa più orrenda che esiste. Vorrei dire ai ragazzi: pensateci, guardate come è bello guardarsi in viso, sorridere, divertirci insieme senza pensare a farsi del male. Vorrei che capissero cosa vuol dire volersi bene e vivere in pace anche con se stessi. Prima dobbiamo averla dentro di noi, poi possiamo propagarla agli altri. Senza l’amore non può esserci la pace: invidia, odio, arrivismo non possono donarci la pace. Dobbiamo essere noi a conquistarla in noi stessi per passarla poi agli altri.” La testimonianza La mia famiglia era di San Gallo. Mio papà lavorava la campagna: eravamo in tanti in famiglia; quelle famiglie patriarcali, eravamo in 11. Ogni tanto capitavano questi rastrellamenti; avevano ospitato un fratello di una mia cugina, Ragnoli, era uno sbandato che doveva nascondersi altrimenti lo portavano via, allora lo mettevamo su in soffitta. Il rastrellamento era spaventoso per noi: entravano in casa, ci buttavano giù dal letto con 95 un mitra puntato alla testa o alla schiena; insoddisfatti per non aver trovato nulla di illegale, ci portavano via le cibarie, quelle misurate con la tessera annonaria. Quando non trovavano niente di quello che cercavano, portavano via tante cose, facevano razzia. Abitavamo in centro vicino alla fontana. Sostenevo questi ragazzi, che conoscevo quasi tutti: li chiamavo per nome, il loro nome di battaglia, se si poteva dargli una mano … noi avevamo il negozio gli davamo il pane. Ricordo venivano a prendere il pane: erano partigiani delle due frazioni la Garibaldi e le Fiamme Verdi. Alcuni di questi li conoscevo e poi si sono aggregati alla Garibaldi. Io avevo 16 anni, 17 alla fine della guerra. La mia famiglia era disponibile, tutti eravamo disponibili a S. Gallo: nessuno diceva “quella persona è pericolosa, bisogna stare attenti”, tutti eravamo d’accordo al di là delle idee politiche. La mia famiglia era antifascista, anche io che andavo a scuola, ho fatto le magistrali un anno a Brescia. A scuola avevo una professoressa che veniva da Roma e una qualche mia compagna ha detto cosa avevo fatto alla Fratta. Incontravo delle professoresse che mi mettevano la mano sulla spalla e mi dicevano “Brava Busi, brava”. Ma quella no: l’unico 4 che ho preso l’ho preso da lei, era una fascistona… veniva da Roma, era stata vicina al Duce, era dentro anima e corpo. Era venuta prima della Repubblichina. A casa si sapeva cosa facevano i partigiani. Il giorno della Fratta io andavo verso la chiesa, non si sapeva ancora cosa era successo; i fascisti sono venuti giù e l’hanno detto al prete: “là ci sono tre morti e due moribondi”. In effetti io credo che hanno visto quelli della cisterna perché ci hanno buttato dentro una carta infiammata e quelli erano lì in piedi dentro la cisterna. Difatti hanno detto “là ci sono due moribondi”. Che poi sono venuti fuori dopo un po’ che eravamo su noi questi ragazzi. Quando hanno fatto scappare quelli della biblioteca, tutte avevamo il morosino; non erano fascisti, erano stati richiamati. Per 96 me hanno fatto uno sbaglio a farli andare via gli ultimi giorni che poi li hanno ammazzati quasi tutti. Le foto le hanno messe poi davanti al Grande, sotto i portici, di questi ragazzi morti, le hanno incollate lì. Ne ricordo uno che cantava sempre una canzone: “sul paion de la caserma, e la Germania in compagnia, requiem eterna e così sia, sul paion de la caserma”. È stato il primo ad essere ammazzato: li hanno fatti fucilare per niente, non dovevano portarli su al Sonclino. A casa eravamo preoccupati, ma non per i partigiani. All›inizio erano sbandati. Allora se si aveva un mestiere o qualcosa si doveva avere la tessera: ma solo per quello. Mio fratello era avverso al fascismo in un modo. Quando volevano obbligarlo a mettere la divisa di balilla si ribellava, non voleva, A S. Gallo erano tutti così, antifascisti: mi han detto che adesso ci sono dei fascisti a S. Gallo ma questo mi è di sorpresa perché nessuna famiglia allora era fascista. I partigiani passavano di lì per andare su in montagna: tutti sono stati concordi nell›aiutare. Non si può dire nemmeno che qualcuno avesse fatto nascere sospetti. Il prete, quello vecchio il Gaffuri, diceva che eravamo come i “pom codogn” perché eravamo chiusi dentro. Alla liberazione siccome si parlava sempre di Garibladi avevamo messo la bandiera rossa sul campanile, non perché pensavamo al comunismo, ma pensavamo alla patria perché conoscevano la figura di Garibaldi più dalla scuola, la libertà, la pace, tutto questo. Eravamo in quattro salite alla Fratta: non ne abbiamo più parlato, abbiamo messo via le cose nel cassetto. Non ci siamo dette una parola. Per me è stata una sorpresa quando il sindaco ma ha detto di venire su alla Fratta, che “vengo a prenderti con la macchina”. Come mai ho deciso di parlarne? Un mio cugino (Giulio Busi) mi ha detto “ormai sono quasi morte tutte quelle ragazze, perché non vieni alla biblioteca che ne parlano?”; facevano la presentazione del libro sulla resistenza a Botticino e allora ho deciso di farlo. Io non avevo nessuna intenzione di parlare, l’avevo messa nel cassetto. Ora ci riesco. Io avevo rimosso queste cose, anche con le altre tre. Era una cosa talmente brutta. Ricordo che la Betta si è inginocchiata davanti a quei ragazzi piangeva e pregava. Io non ho pianto, ero così scioccata che non ho pianto vedendo una cosa così. Avesse visto il livornese, quel ragazzone: c’erano in terra i segni delle unghie che aveva raspato, questi capelli lunghi che aveva, biondi; aveva la testa tutta crivellata. I ragazzi gli altri, uno era sotto l’albero con gli occhi sbarrati guardava lontano; l’altro biondino aveva la faccia piegata per terra e il braccio destro con le ossa che fuoriuscivano: era tagliato così, usciva l’osso, la carne strappata. Quello aveva dei buchi uno qui, due qui, uno al cuore solo un goccio di goccio di sangue usciva. Vuol dire che gli hanno sparato che era morto: se fosse stato vivo ne usciva di più secondo me. Noi siamo salite perché eravamo compatti: non si parlava, non si diceva niente, si pensava e se c’era qualcosa si interveniva. Allora si vede che come abbiamo saputo dal prete queste cose ci siamo messe tutte quattro assieme, le altre erano più anziane, forse noi eravamo più ardite. Noi tre eravamo giù e la Santina che abitava più in alto, ci siamo messe insieme e siamo salite. Noi abbiamo preso delle bende, dei disinfettanti e una signora che aveva l’osteria lì vicino, questa signora che si chiamava Regina, ci ha dato una bottiglia di grappa se magari avevamo bisogno. Siamo andate dietro il cimitero con la montagna in piedi così, quanti ruzzoloni abbiamo fatto non so, poi siamo salite in piedi. Non eravamo mai state nessuna su quella montagna lì, pur essendo nate lì a S. Gallo. È successo che siamo arrampicate e arrivate alla Garossina che è una cascina più in basso e lì abbiamo perlustrato guardato ma c’era silenzio non c’era nessuno lì. Poi abbiamo sentito uno che batteva sulla legna, stava tagliando, ci siamo avvicinate a questo signore che aveva la barba. Allora abbiamo chiesto se aveva visto qualcuno, ma non rispondeva. “I fascisti sono passati?” “Sì” “Avete sentito sparare?” “Sì, di là verso la Fratta”. Allora abbiamo imboccato un sentiero piccolissimo che dovevamo spostare i rovi, tutto, siamo arrivate là, c’era un prato prima della vigna, dietro la cascina, abbiamo visto dei pezzi di piatti, cocci, delle magliette strappate; poi girando sul fianco abbiamo visto questa scena…. La sera prima del 25 aprile io e due mie cugine anziane siamo andate su in Valpiana a prendere le armi, ci siamo caricate le armi: mitra, bombe a mano. Mia mamma ha pianto per questo: non era ancora finita la guerra. Le abbiamo portate lì al Municipio e le abbiamo lasciate lì in deposito che c’erano i partigiani . Un mattino io e mia cugina siamo andate in una casa, di Martinelli, ci hanno cucito un biglietto nell’orlo della gonna da portare a Brescia. Siamo arrivate al monastero (di S.Eufemia) abbiamo visto fiamme ecc.: erano già arrivati gli Americani; eravamo in bici e allora siamo tornate indietro perché non si poteva passare. Io non sono politica e poi le cose ho voluto cancellarle le ho messo via. Nei giorni dopo la Fratta è successo che venendo fuori da scuola un giorno, uno vestito da fascista con la bici, io andavo (prendevo la corriera) in Piazza Arnaldo: continua a dirmi “chissà cosa insegnano a scuola ...”; io gli ho detto “non si parla di politica ma di italiano, matematica, cosa vuole ...”. E lui: “perché parla così?”. “Quella divisa, perché la porta?”. “Cos’ ho detto. Si dice che perderete” ecc... “Io vado a scuola e non mi interessano le altre cose”. Ho avuto l’impressione che fosse venuto per me, perché raccontarmi quelle cose lì? Non l’avevo mai visto. Dopo la guerra ho riconosciuto tanti di quei fascisti che venivano su a fare rastrellamento: mi veniva un roseghino. Li vedevo in città che andavano in giro liberi, mi dava fastidio. Dopo la guerra le cose sono andate un po’ meglio: prima di tutto eravamo liberi e questa era una gran cosa per me: poter parlare poter dire quello che si pensava. Poi l’Italia ha avuto un gran progresso. Ci sono state 97 delle lotte sindacali ecc. ed è stato giusto perché gli operai avevano bisogno. Per me è stato bene. Adesso è un caos infinito. A me piaceva molto De Gasperi, lo trovavo una persona molto in gamba, onesto; lo dico perché lo sento. L’Italia l’ha tirata su lui, eravamo a terra. Quanti disastri ha avuto solo Brescia che non era una grande città... Io dico che la Resistenza … perché come facevano a combattere il fascismo altrimenti. Anche gli Americani non ce l’avrebbero fatta ad arrivare qui: ce l’hanno fatta perché hanno avuto l’appoggio dei partigiani e della gente comune che aiutava e che sapeva quel che doveva fare in certi momenti. Ai giovani direi che non vorrei che facessero la mia esperienza perché la violenza è la cosa più orrenda che ci possa essere. Adesso siamo in un clima di violenze dico: ragazzi pensateci un po’. Guardate come è bello guardarsi in viso, sorridere, divertirsi senza pensare “oddio ti do una coltellata”... Non so, direi tante cose a quei ragazzi, vorrei che capissero cosa vuol dire amarsi, essere tranquilli, essere in pace, in pace anche con se stessi. Perché la pace prima l’abbiamo in noi, poi possiamo propagarla agli altri. Saperla propagare, e senza l’amore non può esserci pace. L’invidia, l’odio, l’arrivismo, quelle cose lì non possono darci la pace. Penso che la pace dobbiamo essere noi a conquistarla. Prima noi stessi poi darla agli altri. Alla Fratta ero emozionata, non ho usato parole forbite, ma ho detto la verità dei fatti. Sono diventata grande, ho avuto la famiglia, mi sono isolata da queste cose. Non ho più parlato con nessuno di loro. Betta è morta, non abbiamo più detto: ti ricordi? Mai più. Non si è più parlato di nulla. Quello che è successo in Comune quando hanno ammazzato i tedeschi non mi è piaciuto. Quando sono andata a lavare i morti l’odore del sangue mi ha sconvolto: quando sono entrata nella galleria del Comune ho sentito quell’odore lì. Tremavo dentro. Mi hanno detto che hanno ammazzato un te98 desco, mi hanno detto che è stata una donna, non Tobegia. Una che era lì vestita da militare e che era l’amante di uno non di Botticino. Tanti si sono improvvisati partigiani. Addirittura uno che faceva i rastrellamenti l’ho trovato lì in Municipio: io sono fisionomista. Gli ho detto “come mai che fai il partigiano che prima li uccidevi?” Lì c’è stato uno schifo perché qualcuno si è fatto i fatti suoi. Io ho rinunciato al posto in Comune, come mi aveva promesso il dottor Catanea, per non portarlo via a qualcuno. Botticino, 19 Febbraio 2003 La memoria scritta 28 Ottobre 1944. Brutto risveglio quella mattina d’autunno. Erano le cinque del mattino, accesi la luce e mi misi a studiare, ma un’inquietudine mi rendeva distratta. Finalmente venne l’ora di alzarmi e quando fui pronta per uscire, ho sentito una sparatoria proveniente dalla montagna opposta. Cosa sarà successo lassù? Corsi alla porta che dava sulla strada, chiesi ad una donna che passava se sapeva qualcosa e mi disse: un altro rastrellamento. La strada era tutta un pantano per la pioggia recentemente caduta, una nebbia spessa non permetteva di vedere cinque metri più avanti, ma tutto era silenzio. Sentivo che qualcosa di brutto era successo e senza riflettere mi misi correre verso la chiesa. Giunta davanti alla gradinata incontrai due partigiani appartenenti ad un altro gruppo; erano armati e stavano dirigendosi verso i campi. Lì chiamai per nome perché li conoscevo (nomi di battaglia) e li pregai di nascondersi perché non si sapeva ancora cosa ci fosse in ballo. mi feci dare la loro arma e corsi a nasconderla in camera mia. Pensavo che se li avessero trovati senza armi non potevano fucilarli. Con il cuore in ansia aspettai il chiaro del mattino. Erano le otto e mezza, un gruppo di brigate nere si fermarono davanti alla canonica. Questi entrarono da padroni dicendo al parroco: - se volete andare alla Fratta là ci sono tre morti e due moribondi. Il parroco non diede risposta, era rimasto annichilito e loro spavaldi e indifferenti se ne andarono. Saputo questo io e altre tre ragazze: Pina, Santina, Betta Zeche. Prendemmo bende e oggetti di medicazione con la bottiglia di grappa che ci aveva dato Regina, ci rifilammo di corsa giù per la china del monte. La china era sdrucciolevole, perciò Pina e Betta avendo ai piedi degli zoccoli di legno, erano più i ruzzoloni che i passi. Ma ci sentivano forti e ardite e il nostro grande desiderio era di arrivare al più presto alla montagna che ci stava davanti. Che cosa troveremo lassù? Ci saranno ancora i fascisti? E i morti? I due feriti li potremo salvare? Queste erano le domande che ci facevamo nell’affanno della corsa. Arrivate a valle cominciò l’ascesa faticosa senza sentiero. Non ne potevamo più sudate con la gola secca il respiro era faticoso ci attaccavamo ai cespugli per poter fare più in fretta, ma ad un certo momento, ci fermammo solo un attimo per poter respirare. “Ragazze noi vogliamo soccorrere, ma se arriviamo in questo stato saremo noi ad aver bisogno di aiuto”. Con le gambe tremanti e le caviglie che ci dolevano, in quella piccola sosta ci bagnammo la bocca con la grappa. Quell’attimo di pausa ci diede forza e correndo finalmente, imboccammo un sentiero, sicure che ci portasse alla cascina. Stemmo in ascolto, ma tutto era silenzio. Nessuna di noi conosceva il posto perciò ci avvicinammo alla cascina, io andai all’uscio provai a spingerlo, ma era chiuso. Era la Garossina, facemmo il giro intorno all’abitacolo, ma non vi era traccia di persona. Stemmo ancora in ascolto e ci parve di udire dei colpi di scura. Corremmo in quella direzione. C’era un uomo con una lunga barba che stava tagliando legna. Mi avvicinai, non so come incominciare a parlare, poi decisa chiedo: “C’è gente da queste parti?”. Quello non deve aver capito allora dico: “da quanto siete qui? I fascisti ci sono ancora?” (poteva essere un fascista) finalmente rispose: “sono qui dalle sette e la sparatoria la sentii verso la fratta” mormorammo un grazie e via. Il sentiero era stretto, perciò dovevamo camminare in fila indiana, folti cespugli ci intralciavano il passaggio e dovevamo usare mani e braccia per liberare la via. Camminavo davanti a tutte, il cuore mi batteva forte, il viso mi scottava, inciampai in una pietra e per poco non caddi a terra. “Oh ecco la cascina! Guarda qui ci sono maglie per terra e cocci di piatti, certo sono qui.” Girammo il fianco della cascina e guardando quello che ci si parava davanti sentivo un gelo dietro la schiena sudata. Sono morti! Proprio morti! Mi avvicinai loro e stetti a guardarli: della loro morte non c’erano dubbi. Non piansi, lo sbalordimento e il dolore me lo impedivano. Il primo che ho avvicinato era sdraiato sotto un albero, gli occhi aperti che guardavano lontano, un orizzonte nuovo per lui, quello senza fine. Una forte raffica di mitra gli aveva spaccato le ossa del cranio l’altro il biondino aveva una guancia appoggiata sull’erba, due pallottole gli avevano forato la gola, un altro foro in pieno petto e uno al cuore, ma da queste ferite nemmeno una goccia di sangue, forse era già morte quando gli dettero quegli spari. Il braccio destro era spezzato e ne fuoriusciva l’osso della carne lacerata. Solo da una gamba si vedeva il sangue uscito a profusione. Sicuramente li hanno torturati. Il terzo ragazzo (perché lo erano) era più giù verso il prato. Aveva una folta capigliatura bionda e lunga che le copriva il forte collo, indossava una canottiera blu sbiadito e si vedevano le robuste spalle e braccia, tutto denotava la sua forza. Ma lui giaceva a bocconi a terra le braccia allargate con le mani conficcate nel terreno si vedevano chiaramente i segni delle unghie dove aveva annaspato prima di morire. Il livornese (così era chiamato per le sue origini) era crivellato. La scatola cranica era maciullata e tutte le altre parti del corpo non erano state risparmiate. Come si poteva infierire così? Era un uomo. Lui era nuovo, sicuramente non conosceva i luoghi, davanti a loro c’era il mio paesello che si adagia lì lineare a metà Maddalena, forse non sapeva nemmeno che si chiama99 va san gallo. Sono arrivate altre persone, ma ad un tratto vedo un fuggi fuggi, due con il mitra in mano ci imposero l’alt. Erano i ragazzi della cisterna. Nel momento del rastrellamento si nascosero nella cisterna vuota e penso un anima ancora fuori li ha risparmiati . Io prego e spero che quei giovani non siano morti invano, e dal cielo benedicano le persone rimaste a lottare per la Libertà della nostra Patria. 29 Ottobre 1944. La sepoltura. Il giorno stesso della loro morte sul far della sera con delle fiaccole, i giovani del paese con barelle li trasportarono al cimitero. Dentro la piccola cappella erano distesi sopra tre brande. Un lenzuolo copriva i loro corpi. Teresa e Santina piangenti con un secchio entrarono nella chiesetta adibita a camera ardente e con un panno di lino cominciarono a lavare quei volti impiastricciati di terriccio e di sangue. Se questo succedesse ai nostri figli, che qualcuno abbiano pietà di loro e li ricompongono nel loro sonno eterno. Mi unii a loro e mi mise a fare i loro gesti. L’acqua calda a contatto con il sangue raggrumato emanava un odore sgradevole. Ma finito di pulire quelle mani e quei volti mi sentii fiera. Molti avevano paura per le minacce fatte dai fascisti, ma dentro di me mi sentivo orgogliosa, avevo trasgredito a un no minaccioso. Alle tre pomeridiane avvenne la sepoltura e anche lì fui presente, non era di nessun aiuto, ma pensavo alle mamme di quei ragazzi; al loro dolore straziante,(sofferenza di mamma) e piansi anch’io come molti dei presenti. Il cimitero era gremito, tutti stavano a guardare quella grande buca, non c’erano bare, ma solo qualche coperta straccia. A quella vista non resistetti più. Orrore per la morte, orrore per quella sepoltura. A tutto questo non resistetti più e singhiozzando forte scappai dal camposanto. Testo autografo di Giulia Busi Testimonianza di GIOVANNI (VITTORIO) CIOCCHI La testimonianza dell’eccidio sul monte Fratta di San Gallo, del tutto inedita e minuziosa, è stata scritta dal partigiano Giovanni (Vittorio) Ciocchi in una relazione depositata presso la Fondazione Micheletti. Essa ben evidenzia la durezza e la drammaticità di quei giorni e narra del sanguinoso assalto fascista avvenuto sul monte Fratta di San Gallo, durante il quale lui riesce a sottrarsi, sebbene ferito, mentre tre dei suoi compagni perdono la vita. Il rastrellamento “Erano due giorni che pioveva senza interruzione. Da parecchi nella Val Trompia fascisti (Brigate nere) al comando dei tedeschi facevano rastrellamenti , sapendo della esistenza di un forte gruppo di Partigiani che formavano la 122ª Brigata Garibaldina. In quei giorni la brigata si doveva spostare continuamente a causa di questi rastrella100 menti. Un gruppo della brigata della quale facevo parte, si era spostato da qualche giorno nei pressi di San Gallo. Il gruppo era formato da circa 30 compagni, comandati dal vice comandante di brigata Giuseppe Gheda. Questo gruppo era reduce da uno scontro con i nazifascisti, avutosi nei pressi di Vas sui monti che circondano Mura in Val Sabbia. Da qui attraverso i monti, con tappe di avvicinamento, e con gran difficoltà, sia a causa del maltempo, sia per la continua caccia dataci dai fascisti, che dalla quasi totale mancanza di viveri, in due giorni abbiamo raggiunto i monti presso San Gallo. Qualche giorno antecedente al 28 ottobre, festa dei fascisti, il governo fascista emanava una amnistia, per i ribelli, così eravamo chiamati, che si fossero presentati spontaneamente, che durava dal 28 ottobre al 10 novembre. Il gruppo originale si era frazionato in tre gruppi, il primo di otto uomini al comando di Gheda si accampava alla cascina Fratta, gli altri due poco lontano. Questo frazionamento fu fatto per evitare che, in caso d’attacco, non si fosse tutti circondati e per poter impegnare il nemico in più punti. Il piccolo gruppo che si era accampato alla cascina Fratta, di cui io facevo parte, dopo la mezzanotte, non aveva messo sentinelle, piovendo ininterrottamente e pensando all’amnistia”. Alle 4 del mattino del 28 ottobre ’44, il comandante Gheda si alzava per uscire a fare una perlustrazione. Al che si accorge di qualche movimento sospetto, ed intima il chi va là, per tutta risposta ha avuto il crepitare dei mitra. La cascina era provvista di due uscite opposte, ed i fascisti le sorvegliavano entrambe attendendo l’alba, probabilmente avvertiti; avevano paura ad entrare con una sortita, perché a quanto pare ci sapevano fortemente armati. Noi nella cascina facemmo un piano per evadere: si doveva uscire tutti e puntare nella direzione dove avremmo trovato il grosso del nostro gruppo, per poi vedere insieme il da farsi. Come d’accordo io, Vittorio, dovevo essere il primo, dietro di me, distanziati di 4 metri, dovevano uscire gli altri compagni: si doveva cercare di raggiungere la siepe sulla nostra destra, in modo da poter sfuggire alla maglia fascista. Come uscii i fascisti si misero a sparare, correndo ho risposto al fuoco, raggiunta la siepe mi son fermato, perché raggiunto alla schiena da una raffica di mitra; volevo sincerarmi della mia condizione, mossi il braccio destro e vidi che rispondeva ancora alle mie facoltà; allora volli sincerar midi essere stato seguito dai miei compagni, guardai in direzione della cascina attraverso il buio fitto, vidi delle ombre che correvano dalla cascina verso la siepe, sopra di me, ho pensato che fossero tutti i miei compagni che mi avevano seguito. Allora saltai la siepe cadendo dall’altra parte e inciampando per l’oscurità e per la fretta di sottrarmi al fuoco dei fascisti che era sempre molto intenso. Cadendo ho perso i sensi per un attimo, riprendendomi nel sentire una fitta di dolore al fianco e alla schiena. Da qui mi sono trascinato attraverso il bosco, a gran fatica sia per il dolore che sentivo in tutto il corpo, sia per l’attenzione che dovevo fare a non rivelare la mia posizione, finché individuai davanti a me una cascina verso la quale mi diressi. Giunta là, bussai alla porta sfinito, mi aprì una donna anziana, che vistomi in quelle condizioni subito cercò di aiutarmi come poteva, dandomi qualcosa di caldo da bere ed un po’ di cibo (…) dopo aver raggiunto un luogo meno pericoloso, cioè la cascina dell’amico Franzoni Domenico (…) da lui ricevetti le prime cure; essendosi aggravate le condizioni della ferita e sopraggiungendo il pericolo di infezione, Domenico che era in contatto con un gruppo di Fiamme verdi, comandato dal figlio Allocchio, provvide a mandare a chiamare un medico, che si presentò sprovvisto di medicinali, e per rimedio contro l’infezione non fece altro che spargermi sulla ferita della cenere. Dopo le prime cure fui portato in un fienile poco lontano. La sera del 28 ottobre la sorella di Domenico, con la cena mi portò notizia di come si era concluso lo scontro alla Fratta. Venni a sapere che 5 dei miei compagni non mi avevano seguito, dei quali tre erano stati catturati e fucilati sul posto dai fascisti: un livornese e due iseani di cui non ricordo il nome. Gli altri due, un certo Chicco di Bovegno V.T. e Capela [Giuseppe Giordani di Iseo], si erano nascosti nella cisterna della cascina, uscendone solo dopo che i fascisti si erano allontanati, trovandosi unici e inorriditi testimoni della tragica fine dei suoi compagni, trucidati dai fascisti. Gli altri due compagni, Gheda ed un francese, seppi che erano stati leggermente feriti, ma sfuggiti ai fascisti. Me ne andai presso amici nell’abitato di San Gallo, dove trascorsi la convalescenza”. 101 SANTINA DAMONTI “BERTA” (San Gallo di Botticino 28.01.1926 - Gardone Valtrompia 04.05.1997) San Gallo di Botticino è incastonato sul fianco della Maddalena, con la facciata rivolta al sorgere del sole. Il primitivo nucleo di abitazioni si snoda lungo stradine sinuose tra boschi e prati, dove il ruolo della montagna è dominante e lo scavalco verso la Valtrompia è a portata di mano, a San Vito, sul quale una piccola chiesetta segna il confine di Nave. Proprio sul davanti passa l’antico “Senter Bandit”, che collega la valle Sabbia con Brescia, utilizzato un tempo soprattutto da banditi e contrabbandieri, ma anche da viandanti e pellegrini. Basta mezz’ora di cammino da Botticino Sera, per raggiungere San Gallo salendo a piedi attraverso il Ghiacciarolo. Questo era il percorso dei lavoranti alle cave di marmo e il sentiero preferito dalla staffetta garibaldina Berta, Santina Damonti. È un cammino che attraversa territori dolorosi: qui i fascisti fecero la loro prima manifestazione tra il ’19 e il ‘20, da qui i fascisti salirono poi al paese per picchiare alcuni compagni, sparando poi alla gamba di un anziano e profferendo minacce; qui i garibaldini vittoriosi consumarono la loro vendetta. L’importanza di San Gallo come base attiva e sicura per la resistenza ha origine durante gli anni della guerra civile spagnola, ed è proprio in quel periodo che l’adolescente Santina si rende conto per la prima volta della persecuzione politica subita dai suoi famigliari e sente parlare della repressione fascista in paese Visto il clima ostile che s’era creato contro di loro, per sfuggire al pressante controllo politico, nel 1938 entrambe le famiglie di Faustino Damonti e Angelo Lonati si trasferiscono in Valle Trompia, e più tardi i due coniugi, Faustino Damonti e Maria Lonati, sorella di Casimiro, che hanno due figli, Pietro e Santina e sono in attesa della terzogenita Giuliana, a Sant’Eufemia. “Qualche anno dopo – racconta Giuseppina Damonti – la mia famiglia rientra nuo- 102 vamente nel mirino dei fascisti, ma fortunatamente veniamo avvertiti del pericolo. Ci viene in soccorso l’aiuto offerto dal sig. Franzoni, nostro fornitore di vino. Così, nel ‘42 la mia famiglia si trasferisce a Sant’Eufemia, dove prendiamo in gestione un’osteria chiamata «Il Forte». Pietro invece, appena riformato dal servizio militare, s’industria come può conducendo l’esercizio di una macelleria, cercando di trovare una propria strada all’interno di un paese dove vede privilegiati e poveracci, contrastando a modo suo la situazione”. Ma neanche qui c’è pace: i controlli burocratici sono asfissianti, i funzionari del regime arroganti ed è proprio lui per primo a farne le spese. L’osteria «Il Forte» di Sant’Eufemia è il punto d’incontro del primo Gap e diviene dunque la prima base logistica per le azioni gappiste da attuare nei dintorni e nel centro città. Qui Pietro avvia la sua attività combattentistica e qui Santina vede chiaramente davanti a sé qual è la sua strada. Non è certo il tipo di partecipare solo alle riunioni e difatti suo fratello la invita all’azione, essendo una tipa decisa, sebbene inesperta. “Santina aveva il compito di trasportare armi in bicicletta: i fucili venivano legati sul manubrio, avvolti in una coperta mentre bombe e munizioni erano celate in due grandi borse. Le fu raccomandato di non urtarle e di stare molto attenta. A un posto di blocco in piazza Vittoria si mise in coda a una famiglia, fingendo di farne parte. Le chiesero che cosa ci fosse nelle borse e sul manubrio e lei candidamente rispose: “Non si vede? Coperte e un po’ di roba per la mia famiglia”. L’apparenza era credibile e così poté oltrepassare indenne attraverso il blocco”. Oramai per tutti loro l’ora era suonata e Santina non è più solo una ragazza; lei stessa ha voglia di partecipare all’avventura. Uno scritto del ’75 del suo futuro marito Angelo (Lino) Belleri, vicecomandante della 122ª brigata Garibaldi, porterà luce su questa sua iniziazione: “Incominciò subi- to dopo l’8 settembre ’43 seguendo il fratello (uno dei primi gappisti di Brescia), raccogliendo informazioni sui fascisti, fungendo da staffetta nelle prime azioni, trasportando armi, ecc.. Data la giovane età (aveva 17 anni) era la meno in vista. Ma ecco che arriva a Brescia Carlo Speziale per organizzare i gruppi armati, ha bisogno subito di una staffetta, per il lavoro di collegamento, per organizzare le azioni, trova la Berta disposta e già sperimentata in questo lavoro. Chiede ai genitori di lei di poterla avere a sua disposizione. I genitori acconsentono. Incomincia così per la Berta un lavoro molto importante e rischioso nello stesso tempo. Dietro istruzione di Carlo comincia il lavoro di collegamento, accompagnando giovani in montagna, portando i rifornimenti alle basi, raccogliere informazioni utili, partecipando a parecchie azioni militari”. Un nucleo di 4/5 uomini guidati da Luigi Guitti (Tito) si aggira nei dintorni di Botticino, San Gallo, S. Eufemia. Tito collabora con i gappisti del suo paese oppure presso l’abitazione del “Polenta”, situata prima di San Gallo, dove si riunivano Arnaldo (el Rusì de Sömia) Arici e suo figlio, Angelo Damonti, Flaminio Moreschi, Emilio (Milio Saunèta) Quecchia, Rino Gorni (operaio a Gardone Vt e che perciò curava i collegamenti tra i due centri) e diversi compagni impegnati, tra l’altro, nella diffusione di volantini e nel reperimento di armi. Fu così che tra Botticino e San Gallo si creò nel tempo una rete di collaboratori e di staffette con il compito di trasmettere informazioni, fare propaganda, smistare vestiario, trasferire armi e cibo, ciò che sarà determinante per la il rilancio della 122ª brigata Garibaldi nell’autunno del ’44’ e la sua sopravvivenza dopo la crisi invernale del ‘45. Spie fasciste vere e proprie erano state dislocate un po’ ovunque, anche a San Gallo con l’intento di osservare e riferire e se ne ha traccia nelle testimonianze di Elisabetta e Mina Lonati. Una parla di una spia fascista insediata a San Gallo: “Vicino a casa nostra abitava un signore distinto di nome Gianni, il quale si spacciava per partigiano, era sposato e aveva una bambina; stranamente casa sua era piena di ogni sorta di cibarie, tant’è vero che appeso alla finestra aveva una pancetta enorme. L’abbondanza era tale che poteva permettersi di buttare pezzi di anguilla nel letamaio. Un giorno, mentre Lina stava recandosi a Botticino incontrò il sig. Gianni e percorrendo la strada insieme d’un tratto la valigia si aprì facendo cadere la divisa fascista. La sera stessa Gianni chiamò la mamma e con voce minacciosa le puntò la pistola alla gola intimandole di tacere. A proposito della divisa vista dalla figlia, la mamma fu sconvolta e impaurita perché non era preparata a una situazione del genere. In seguito informò chi di dovere dell’accaduto”. L’altra di uno strano frate: “Io e la cugina di mio marito Berta, durante la notte a piedi nudi strappavamo dai muri delle case del paese i manifesti della propaganda fascista. Era difficile uscire di casa in quel periodo, il nostro paese era affollato di sconosciuti, gente che rifiutava il servizio nella milizia della Rsi. Nell’esercito erano cresciuti i disertori, sfollati e sbandati, gente sconosciuta che girovagava: sembravano “innocue pecorelle” invece poi si rivelavano “lupi feroci”. Nel nostro paese arrivò un frate, dicendo di essere il nuovo parroco. In seguito si scoprì che era un ufficiale fascista sotto copertura. Celebrava la messa in maniera originale e una volta organizzò una messa a San Vito, invitando tutti, partigiani e disertori. Fortunatamente non arrivò nessuno perché molto probabilmente si trattava di un tranello per stanare partigiani e disertori”. Di persone lassù rifugiate, in cascine, stalle o fienili, o nei più strani pertugi ve ne sono diversi: ribelli, ricercati, giovani che vogliono evitare il servizio militare o la deportazione in Germania e sono in tanti ad offrire loro ospitalità, a proprio rischio e pericolo. Tra i professionisti ricercati dai fascisti vanno ricordati il farmacista di Rezzato e il dott. Pasquale Catanea, che diverrà il medico della brigata Garibaldi. San Gallo è soprattutto il punto di arrivo dei compagni di Botticino impegnati nello svolgimento d’un accurato servizio di rifor103 nimento e di aiuto concreto alla resistenza che, soprattutto a partire dall’estate del ’44, si svilupperà impetuosamente in Valtrompia. Portano nottetempo all’avamposto di San Vito viveri, soprattutto farina, armi e tutto quanto necessario alla sopravvivenza di gruppi armati partigiani in montagna; da qui le staffette portano la merce in luoghi distanti prestabiliti, specie verso Marcheno. San Gallo diventa per Santina la sua maturazione verso la lotta antifascista, avvertendo chiaramente di poter esprimere in questo spazio la propria appassionata volontà, offrendo aiuto concreto alla famiglia e portando soccorso ad altri perseguitati. Lei stessa ammetterà: “In quel periodo avevo più paura per la sorte della mia famiglia che non per quello che poteva capitare a me…” Il compito principale di Santina diviene quello di fare la spola tra San Gallo, Botticino, Sant’Eufemia e Brescia, a piedi o in bicicletta, trasportando armi, portando messaggi o raccogliendo informazioni, un’esperienza che risulterà determinante allorquando diventerà staffetta in ruolo presso la 122ª brigata Garibaldi al comando di Verginella. Significante la descrizione che ne fa la sorella Giuseppina: “Pur avendo un corpo esile, era di carattere forte, duro, sangue freddo. In genere se la giocava come voleva, si faceva passare per una 14enne, il suo aspetto era ingannevole, erano due persone in una; fisico fragile, temperamento astuto, volpino. Lei il futuro l’ha tenuto stretto al suo cuore e ancora più nel suo pensiero, questa piccola giovane donna, capace, coraggiosa …” Il suo aspetto inganna, sembra una ragazzina, invece è una delle staffette più importanti, visto che custodisce i segreti della 122ª brigata Garibaldi. Raccoglie informazioni sulla dislocazione dei fascisti, sui loro spostamenti, sulla loro forza numerica, ben presto la sua attività la rende una ricercata. La sua presenza è segnalata dalla questura in città e altrove. È costretta a cambiare spesso abbigliamento. Durante un trasferimento dalla città alla 104 valle con la filovia, uno della questura mostra una fotografia. Si rivolge a lei: “Questa, se la vedi, ci devi avvertire, la stiamo cercando”. Risponde: “Se la vedo , lo farò sapere”. Era lei! “Mi allontanai e subito pensai: dove avrà preso quella fotografia? Meno male che mi ero tagliata i capelli e fatta la permanente, come mi aveva consigliato Verginella, il comandante della brigata. Mi disse pure: «Cambia colore ai capelli, o porta un cappello, che dovrai calare sul viso». Indossavo un soprabito chiaro e una parte verde scuro (un double face)”. All’altezza di Gardone Valtrompia, nei pressi della fabbrica Beretta, c’era un posto di blocco con la sbarra. Mentre transita appare dietro di lei un tedesco, pure lui in bicicletta. Lei rallenta, si affianca, gli mette una mano sul manubrio, gli sorride, fa un po’ la carina come se lo conoscesse e così la lasciano passare senza creare problemi. Fatta la curva, dopo il posto di blocco, lo saluta e finge di non capire quello che lui vuole dirle. Berta ricorda che capitava spesso di incontrarsi in luoghi molto affollati, per non destare sospetti, ad esempio nei cinema, dove si scambiavano messaggi. Come segno di riconoscimento si utilizzavano vari metodi, parole d’ordine e una volta addirittura con il corrispondente di una banconota strappata. A un incontro le viene un sospetto: ha individuato un uomo della questura, lo riconosce per il suo modo di guardarsi in giro, così al momento dell’uscita chiede a una donna se può prenderla sottobraccio, perché le gira la testa. Quella acconsente e così riesce a dileguarsi senza essere notata. “La ringraziai”. Una azione combinata con Verginella si svolge a Gardone Valtrompia, capitale armiera della Rsi, nei primi giorni d’ottobre. Si tratta d’incontrare Pietro Beretta allo scopo d’ottenere armi, munizioni oltre a un cospicuo finanziamento da destinare alla brigata nascente. L’episodio è narrato dalla stessa protagonista: “… il comandante della Brigata mi chiese, alla fine di settembre, di accompagnarlo alla fabbrica d’armi Beretta per andare a domandare armi e soldi per i partigiani. Ci presentammo in portineria dove ci aspettava il nostro compagno Franco Cinelli il quale accompagnò il comandante Verginella al colloquio. Io attesi di sotto e quando tornò, Verginella mi disse che Beretta gli aveva promesso per la Brigata, solo soldi. Parecchi giorni più tardi venni a sapere che Pietro Beretta mi avrebbe consegnato i soldi. Lo incontrai in località Oneto e lì, lontano da occhi indiscreti, mi consegnò, tremante, una busta; poi si allontanò pregandomi di non seguirlo e di non farci più vedere perché aveva in casa i soldati tedeschi che lo sorvegliavano. Non ricordo bene l’ammontare esatto della somma che mi venne consegnata, ma ritengo non fosse inferiore alle 300.000 lire…” Santina partecipa a diverse azioni anche armate: il 13 ottobre alla «Tadini e Verza» per appropriarsi dei vestiti; successivamente alla «Società Elettrica Bresciana» per prelevare dei soldi, alla ditta «Alberti» di sant’Eufemia per rifornirsi di scarponi da montagna per i partigiani. L’assalto alla «G.K.Mot» ha lo scopo di distruggere le macchine e i camion militari che servono ai fascisti, mentre allo stabilimento «Sant’Eustacchio» per prendere armi. Berta non era semplice da individuare, ancora più difficile era prenderla; infatti lei era molto diffidente e adottava tutte le precauzioni possibili. Prima di avvicinarsi a un appuntamento chiedeva sempre alla gente che incontrava se avessero visto i fascisti o persone sospette. Quando arrivò a San Gallo in bicicletta stava andando a un appuntamento con dei compagni, vicino al paese. Qualcuno le disse che c’erano una quarantina di fascisti che l’aspettavano, perché qualcuno aveva fatto la spia. Lei cambiò strada e riuscì ad evitare la cattura. Ad un posto di blocco, quando venne fermata per un controllo dei documenti, ingoiò la carta di identità senza farsi vedere, dopo averla fatta a pezzetti. Se Berta non è mai stata presa lo deve alla prudenza, infatti lei non parla mai con nessuno di quel che fa e dove va; la sua improvvisazione nel trovare diversivi per dileguarsi all’istante è proverbiale. Nell’ottobre del 1944 la valle Trompia subisce un massiccio rastrellamento in tutta l’alta valle e per sfuggire ai fascisti la brigata si divide in piccoli gruppi che vanno in varie direzioni: la città, Iseo, Provaglio, Provezze, San Gallo, Urago Mella, Collebeato, Marcheno, Orzivecchi e Gardone V.T.. Berta svolge uno straordinario lavoro di contatto e di collegamento, ma i I rastrellamenti nazifascisti mettono a dura prova la resistenza dei giovani garibaldini in montagna. Questo fatto, unitamente all’approssimarsi dell’inverno, accelera il progetto di spostamento dei distaccamenti dalla montagna verso la zona collinare prossima alla città. Un gruppo è distaccato a San Gallo. Comito principale di questo distaccamento è di osservare attentamente e colpire con attentati la stazione ferroviaria di Rezzato, importante snodo ferroviario di materiali e soldati tedeschi. Il 28 ottobre si consuma l’eccidio sul monte Fratta di San Gallo: in merito al rastrellamento attuato alla cascina del monte Fratta e agli eventi luttuosi di contorno che si sono succeduti attingiamo qui alla testimonianza scritta Rosa (Rosi) Damonti, depositata presso l’archivio della resistenza di Micheletti. Questo il testo, scritto su due piccoli foglietti a quadretti: “ … quel giorno è stato molto doloroso, alle 5,30 abbiamo sentito gridare aiuto più volte e poi abbiamo sentito sparare, e subire un brutto rastrellamento – son salita sul posto Fratta dove c’era i partigiani e visto i 3 cadaveri: ci sono stati feriti rimasti in salvo: uno si è precipitato nella cisterna. Ho cercato subito di fare qualcosa attraverso al municipio tutto era impossibile, al tramonto dell’alba è arrivato un ordine al parroco di portarli in sala mortuaria al cimitero. Salimmo sul monte un gruppetto persone. Mi guardai attorno ero sola di donne con dodici uomini c’era solo il minimo numero per portare le portantine, io tenevo una piccola lampada facendo un po’ di guida una serata scura e piovosa e dovevamo fare un massimo silenzio attraverso boschi e vallate. Pensavo più volte a quei cadaveri ai suoi famigliari alle 105 loro mamme che non hanno avuto la soddisfazione di vedere i loro figli caduti per la libertà e l’indipendenza d’Italia dobbiamo ricordarlo tutti e farla conoscere e studiare ai nostri giovani anche la guerra partigiana fu una guerra di libertà”. Giuseppina Damonti ha risentita Rosa e questo è il racconto che ne è derivato: “Quando ci fu l’eccidio della Fratta, l’esperienza ci schioccò molto quel giorno. Alle 5,30, durante un rastrellamento, abbiamo sentito gridare aiuto più volte e degli spari. Alle 8,30 i fascisti giunti a San Gallo andarono dal parroco e gli dissero: “Alla Fratta ci sono 3 morti, decida lei cosa fare”. Mentre scendevano nei camion cantavano “Giovinezza” e altre loro canzoni. Alle ore 11,00 su indicazione del parroco ci avvicinammo alla Fratta in 4 donne, arrivate all’ingresso della stalla trovammo i corpi dilaniati, lo ricorderò per sempre, poi arrivò altra gente. Allora io, mia sorella Santina e Giacomo Busi siamo andati al municipio per richiedere di celebrare il loro funerale, era tutta gente che conoscevamo. Lì trovammo il segretario federale fascista che ci accolse dicendo: “Erano banditi… Non dovete occuparvi di questi altrimenti farete la stessa fine”. Era impassibile. Poi all’alba arrivò un ordine del parroco di portare le salme nella sala mortuaria del cimitero. Salimmo il monte un gruppetto di persone, ero sola con 12 uomini, numero indispensabile per portare tre barelle, io tenevo una piccola lampada ad olio facendo chiaro, era una serata scura e piovosa, dovevamo fare il massimo silenzio attraversando il bosco e la valle. Pulimmo i cadaveri dal sangue e li avvolgemmo nelle lenzuola per poi seppellirli senza bara. Sebastiano (Nóno) prese un carretto con cavallo, sapendo il rischio che correva, andò a comperare tre ghirlande di garofani rossi per il funerale. Alla cerimonia c’era tanta gente. Durante la notte i compagni della 122ª brigata Garibaldi hanno onorato le salme ponendo un nastro con scritto “i garibaldini vi vendicheranno” e tutto avvenne in silenzio”. La brigata garibaldina, nonostante questi drammatici momenti, viene favorita dal cre106 scere delle comunicazioni in modo globale ed efficiente tra i distaccamenti e non per niente la caccia nazifascista nei confronti delle staffette sarà altrettanto spietata di quella condotta contro i combattenti. Che cosa potevano fare di più queste ragazze staffette o ragazzi portaordini, queste donne intrepide per questi uomini combattenti? Hanno realizzato i loro compiti, hanno accettato di essere più di quello che erano anche perché la loro coscienza era illuminata da un nuovo sentire, ben oltre gli schemi ideologici o il sentimento politico. Noi possiamo comprendere in parte e valutare la loro opera e il loro sacrificio proprio attraverso i percorsi di una di loro, Berta, autentica “primula rossa”. Lei percorre in bicicletta molti chilometri, per collegare i gruppi nascosti e dispersi nei vari paesi, sulla neve e ghiaccio, portando ordini, viveri, notizie e cercando di tenere buono il morale degli altri partigiani. Il 24 dicembre 1944, a Cremignane d’Iseo, Berta arriva in ritardo sul luogo dell’imboscata a Verginella. Vede quando lo portarono via ammanettato. Verrà poi torturato e assassinato il 10 gennaio 1945. Alcuni tratti dello stupefacente carattere di Berta – che sfrutta con fulminea efficacia doni naturali che sono la sua dote principale - emergono in una emergenza che rischia di compromettere l’azione di tre compagni armati: “… Nei primi giorni di novembre del ’44, dovevo accompagnare i partigiani Lino, Spartaco e Rino (Emilio Trevaini) da Orzivecchi a Marcheno; loro erano armati di mitragliatore che tenevano smontato nascosto sotto il mantello, io avevo la pistola. Giunti a Brescia prendemmo il tram per Gardone, arrivati alla Stocchetta salirono sul tram un gruppo di fascisti per controllare se c’erano dei partigiani a bordo. Quando arrivarono all’ultima carrozza del tram, io mi misi in mezzo ai fascisti a ballare e scherzare cercando di distrarli, intanto il tram si era fermato a Villa Carcina e, approfittando della situazione, i tre partigiani scesero dal tram e si rifugiarono in una casa di Villa Carcina. Io invece continuai la corsa fino a Cogozzo…” Per la cronaca, i tre partigiani si nascosero a Villa Carcina in casa della zia paterna di Lino Belleri, che lei raggiunse dopo essere scesa a Cogozzo, un chilometro più avanti. Il primo incontro di Berta con Lino Belleri avviene il 31 ottobre a Provezze, dove lui si è rifugiato dopo essere sfuggito al rastrellamento nazista di monte Quarone, così come narrato dallo stesso protagonista: “Cerco di allontanarmi dal Quarone in direzione nord e giungo sul crinale (…) Più avanti incontro per caso Firmo Pozzi detto il “Catòlech”, anche lui sbandato: “Che fai tu qua? C’è il rastrellamento!” Insieme saliamo verso il cocuzzolo di Vesalla, quindi decidiamo di andare a vedere dove di solito il nostro gruppo prendeva il pane (…) Poi scendiamo giù verso Iseo, a Provezze, diretti da un contadino che collaborava con noi. Bussiamo, ci apre ma ci avverte che è pericoloso fermarsi da lui. Allora Firmo, che conosce molto bene la zona, mi guida da un mezzadro che governava un’altra cascina e lì ci nascondiamo nel fienile per passare la notte. Sarà lui a portarci da mangiare. Qui nel fieno aveva predisposto una buca profonda, dove potevamo stare sicuri e protetti, coperti dal fieno. Rimaniamo lì due o tre giorni finché un giorno, accompagnati da una staffetta, arrivano Verginella, Carlo Speziale e la staffetta “Berta”, che diventerà mia moglie. Noi stavamo mangiando un panino e ci ritiriamo prontamente nella buca. Anche Berta scende con noi ed è la prima volta che la vedo. È piccola e snella, ben vestita, con un tocco d’eleganza: indossa una gonna e porta in testa un bel cappellino con visiera. In quella buca non stavamo per niente comodi, ma lei sfoggia una calma interiore che ci pervade e rasserena. Verginella ce la presenta, poi su di un taccuino comincia a prendere appunti su chi è sopravvissuto al rastrellamento e chi è rimasto disperso, verificando le perdite e chiedendomi notizie di un compagno in particolare. Alla fine, prima di congedarsi, mi ordina di recarmi a Marcheno, al «Ruc», la mia casa, lasciando lì il mitra e portandomi solo la pistola. Firmo resta qui da solo. A Ponte Zanano, come mi aveva detto il comandante, trovo ad aspettarmi la staffetta Ermanno Zanoletti, che mi accompagna fino a casa mia”. Scrive Lino Belleri nella testimonianza scritta depositata presso la Fondazione Micheletti: “In febbraio ’45 la neve comincia a ritirarsi, i partigiani ritornano in montagna, la Berta svolge di nuovo il lavoro di collegamento, porta ordini ai diversi gruppi in città e nei paese, accompagna lei stessa qualche giovane in montagna. Usando la bicicletta, spesse volte sotto la pioggia, fa la spola da Marcheno a Brescia, a Iseo, S. Gallo, Palazzolo, Orzivecchi, Mura, Gardone V.T., a S. Eufemia, aiutata qualche volta nel suo lavoro dalle staffette dei vari paesi. Raggiunge parecchie volte la Brigata per portare le comunicazioni del centro o per informare la Brigata sui movimenti dei fascisti. Accompagna in montagna anche ispettori delle Brigate Garibaldi (Remo) Lombardi, (Cichino) [Francesco] Poinelli, (Tone) A. Scalvini”. Il 13 aprile del 1945, Berta riesce a prendere accordi con due soldati prigionieri dei fascisti a Botticino. La caserma di Botticino si trova nell’edificio comunale che oggi è adibito a biblioteca e lì ci sono diversi soldati coi loro sottufficiali appartenenti alla Rsi che vogliono scappare dalla caserma. Viene quindi decisa l’azione armata della 122ª brigata Garibaldi per aiutarli a fuggire. I soldati riescono a scappare con armi ed equipaggiamento e si dirigono verso il Sonclino, accompagnati da una decina di partigiani, prendendo la strada per San Gallo, dove sostano, per poi avviarsi verso la Valtrompia. Per meglio comprendere l’episodio di Botticino è opportuno precisare altri dettagli sull’importante ruolo dal lei svolto nella vicenda. Approfittando del buio, “42 militari di truppa, fra i quali cinque sottufficiali appartenenti ad una compagnia del genio di stanza a Botticino Sera (Brescia) si allontanavano in armi e col corredo personale dal reparto, a scopo di diserzione. Sono in corso accertamenti”. Così riferisce la relazione della questura di Brescia compilata il 19.04.1945. Quello che realmente è successo lo possiamo conoscere da diverse fonti. A Botticino Sera, nell’edificio prospiciente piazza 4 Novembre, allora adibito a caserma, era allog107 giata una truppa di giovane reclute del 131° battaglione dell’esercito della Rsi, diretta da ufficiali e sottufficiali. È proprio Santina (Berta) Damonti che avvicina un sergente e lo convince a disertare, prendendo gli accordi per l’allontanamento suo e della sua truppa per il fatto che volevano trasferirli in Germania. Non è un approccio qualsiasi quello di Santina, ma una moral suasion derivata dalla sua naturale autorevolezza e dall’efficacia del proprio ruolo. Considerato che la guerra era alla fine, i soldati sarebbero stati accompagnati nottetempo in una distante zona di montagna dove c’erano gli alloggiamenti dei partigiani garibaldini, bisognosi di uomini in vista dell’imminente insurrezione. La meta è il Sonclino e tutto è stato predisposto alla perfezione. Nonostante le assicurazioni ricevute, un altro sergente è titubante e di ciò il comando partigiano è perfettamente al corrente. Così quella notte una formazione di uomini della resistenza locale (formata da due cellule di Botticino e una di San Gallo, con Santina) e 10 partigiani della 122ª scesi dalla montagna aiutano 37 soldati e 5 sottufficiali a lasciare in perfetto silenzio la propria camerata con le armi e le munizioni in dotazione. I commilitoni dormienti al piano di sopra non si accorgono di niente. La truppa si dirige indisturbata a San Vito scortata dai patrioti e da qui, guidata dai soli partigiani, risale compostamente alla base della brigata, nonostante il percorso sia lungo e faticoso. Il sentiero da San Vito, dopo aver costeggiato il due monti Dragoncello e Dragone, raggiunge le coste di S. Eusebio, incuneandosi poi con leggera pendenza verso il passo del Cavallo, posto alla sommità di Lumezzane; infine s’inerpica lungo le coste impervie del monte Ladino raggiungendo la vetta del Sonclino, sotto la quale sta la sede logistica garibaldina. Un percorso di tutto rispetto che i partigiani conoscono alla perfezione, anche camminando al buio. Alcuni dei soldati, poco prima del rastrellamento del 19 aprile preludio alla battaglia del Sonclino, chiedono al comandante Tito di potersene andare, perché hanno paura 108 ed indossano ancora la divisa militare. Pensano di potersi consegnare ai fascisti facendo credere di essere stati costretti a seguire i partigiani in montagna. Invece vengono fatti prigionieri dai tedeschi, che li portano a Marcheno, presso il loro comando e il pomeriggio del giorno seguente li fucilano. Il 19 aprile 1945 la Berta è a casa di Maria al Ruc a Marcheno. Ascolta nervosa gli spari della battaglia del Sonclino in cui è coinvolto suo fratello Spartaco e di Maria, Lino Belleri che dopo la guerra sposerà. Fortunatamente entrambi si salvano. I garibaldini superstiti alla battaglia si ritrovano in località «Pineta» di Lodrino e da qui convergono attraversando le montagne verso l’alpeggio dove la brigata era nata con Verginella sei mesi prima, in Visalla di Irma. Qui il 23 aprile Tito accoglie la resa del presidio Gnr di Gardone Vt. L’ordine di insurrezione giunge nella serata del 25 aprile. Le ultime azioni della brigata sono sintetizzate nella “Relazione sui fatti d’arme” elaborata nell’immediato dopoguerra: “Nei giorni dell’insurrezione la Brigata si è distinta per le azioni di attacco, a danno delle colonne tedesche in ritirata e nelle azioni di rastrellamento dei gruppi tedeschi che ancora operavano a resistenza armata. In località di S. Gallo 20 garibaldini hanno accerchiata in una cascina 5 soldati della S.S. tedesca catturandoli. In località di Botticino Mattina veniva fermata una colonna di automezzi la quale trasportava 40 tedeschi e varie armi. I soldati tedeschi si arrendevano mentre due ufficiali cercavano di opporre resistenza per cui i due ufficiali stessi venivano passati per le armi. Un altro distaccamento della Brigata attaccava varie colonne di carri tedeschi bruciando e distruggendone parecchie. Le nostre forze prima dell’insurrezione erano di circa 250 uomini”. La relazione si conclude con i nominativi del comando, la dislocazione territoriale dei distaccamenti della brigata e l’indicazione del numero dei caduti: “Il comandante militare Guitti Luigi (Tito) Commissario politico Ca- sari Giovanni (Gustavo) vice comandante Belleri Angelo (Lino) vice commissario Pedretti Luigi (Sergio) capo di Stato Maggiore Damonti Pietro (Spartaco). Dislocati in Valle T/ V.S. - località Gardone V.T. Sarezzo – Lumezzane – Mura – Casto – Bovegno –Marmentino – ecc. Caduti nell’attività di lotta contro i nazi-fascisti 70 garibaldini”. Alla fine della guerra consegnano a Santina Damonti “Berta” il certificato di patriota e una croce al merito. Lei ha sempre detto di non aver combattuto per le medaglie, però gradisce il riconoscimento di Pertini. Il clima del dopoguerra non è generoso con le donne. Santina dopo la guerra si dà da fare per cercare lavoro, ma non lo trova: “Dopo la liberazione Santina si dà da fare per cercare lavoro: la famiglia vive in cattive acque, suo padre ha dovuto vendere la casetta di San Gallo, quando sono fuggiti. Nessuno la assume. Aver lottato tanto per poi trovarsi in miseria! È piena di amarezza, anzi, di rabbia, non solo perché con la guerra hanno perso tutto, ma anche perché, nel momento in cui si sancisce l’entrata delle donne sulla scena della storia, le discriminazioni di genere continuano. Quando si presenta al capo della commissione, un ex partigiano, lui le dice che bisogna essere gentili e lei gli risponde con una borsata in faccia. Non troverà mai lavoro e questo segnerà la sua esclusione dalla vita sociale e politica. Spegnerà quella spinta alla partecipazione che l’aveva indotta ad assumere, giovanissima, un ruolo ben diverso da quello ricoperto in passato dalle sue coetanee”. Santina però è già avanti con i suoi progetti e guarda il mondo con occhi diversi. Non sta a contemplarsi o a lamentarsi. Si rimbocca le maniche. Si reinventa, perché la sua generazione non ha perso e non è sola. Quel giovane partigiano Lino Belleri, che di lei s’era innamorato al «Ruc», la sta corteggiando da tempo, arrivando da lei a Sant’Eufemia in bici fin da Marcheno, un appuntamento quasi bisettimanale, in attesa delle nozze. Lino ex capo ribelle e ora difensore dei diritti, continua la sua lotta in fabbrica contro le ingiustizie usando come armi la passione, le idee, il sindacato, opponendosi all’oppressione del nuovo sistema di potere, dentro e fuori la fabbrica. Berta sostiene pienamente l’impegno dell’uomo che ama. (sintesi biografica da “In volo con Berta. Santina Damonti”, ricerca storica di ISAIA MENSI) 109 Nominativi di cittadini di Botticino che hanno collaborato con la Resistenza ·Apostoli Vittorio, Botticino 8.1.1917 - disperso in Grecia 21.9.1945 ·Biondi Giuseppe, Livorno 3.8.1922 - San Gallo 28.10.1944, partigiano ·Boccacci Giuseppe, Botticino 11.4.1902 Mompiano 26.4.45, partigiano ·Bolpagni Ferdinando, staffetta ·Bolpagni Pierino ·Bolpagni Stefano, Botticino Sera 14.3.1920 - Botticino 26.10.1961, partigiano ·Borghetti Maccarinelli Rosa, Marmentino 25.10.1926, staffetta partigiana ·Cavalli Beniamino, Castrezzato 11.10.1926 - San Gallo 28.10.1944, partigiano ·Cantoni Bernardo, Brescia 20.5.1926 Botticino 29.9.85, staffetta ·Cantoni Giulio ·Colosio Guerino (David), Botticino Sera 6.6.1915 - Brescia 16.3.97 ·Colosio Vittorio (Pinco) ·Comini Maurizio, Botticino Mattina 17.3.1927, staffetta partigiana ·Ciocchi, Bovegno ·Bottarelli Alghisio, Nuvolera 1895 - Gazzolo di Botticino 28.4.1945, partigiano ·Damonti Angelo (Serlo), Botticino 20.6.1902 - Botticino 14.6.1960, patriota ·Broglio Filippo ·Damonti Battista (Frecane), San Gallo 21.2.1900 - Botticino 10.10.1975, patriota ·Broglio “Cibroi” ·Busi Benedetto (Cì), 1902, patriota ·Busi Giovanni, San Gallo 28.12.1884 25.4.1945 ·Busi Giuseppe, 29.12.1928 - Botticino 2.8.1994, partigiano ·Busi Mario, Botticino 8.9.1912, patriota ·Busi Giuseppe (Primo), partigiano, brigata Garibaldi ·Damonti Pietro (Spartaco), San Gallo 23.6.1923, partigiano ·Damonti Faustino, Ciliverghe 12.11.1900, patriota ·Damonti Santina, San Gallo 19.2.1922, patriota ·Damonti Rosa, Brescia 18.8.1921 - Botticino 13.11.1989, patriota ·Busi Santina, Botticino 5.3.1920, partigiana ·Della Fiore Umberto, Rezzato 19.11.27, partigiano ·Busi Sebastiano (Nono), San Gallo 28.5.1920 - Botticino12.11.1989, partigiano ·Di Prizio Francesco, Iseo 21.10.1924 - San Gallo 28.10.44, partigiano ·Busi Sebastiano (Bisola), partigiano ·Duina Angelo ·Busi Vittorio, Botticino 18.7.1920 - Passo Guselli (PC) 4.12.1944, partigiano ·Fornari Cesare, 13.7.1929, partigiano ·Catanea dott. Pasquale, Rezzato, partigiano 110 ·Furlan Olga, Brescia 3.2.1926 - Brescia 29.1.98, staffetta partigiana ·Giordani Giuseppe (Capèla), Iseo 31.5.27, partigiano ·Oprandi Pietro, Botticino 13.3.1906 - Brescia 14.8.1968, patriota ·Giossi Giacomo, Botticino Mattina 26.12.1925, patriota ·Pavan Bruno ·Gorni Giuseppe (Bepi Moneda), Botticino Sera 6.1.1924, partigiano ·Previcini Luigi, Botticino Mattina 1.2.1927, patriota ·Ragnoli Vittorio, Serle 7.2.1915, partigiano ·Gorni Rino (Cinciù), Botticino Mattina 21.10.1911 - Botticino 17.10.1979, partigiano ·Ragnoli Martino, Bottticino 20.8.1924, partigiano ·Lonati Annibale, 3.11.1915, patriota ·Romano Luigi, Sant’Eufemia 29.4.1928 9.1.1977, partigiano ·Lonati Maria, Botticino 7.2.1902 - Botticino 29.8.1987, patriota ·Lonati Angelo, San Gallo 15.2.1909, partigiano ·Rumi Domenico, Botticino 9.11.1918 Pomponne (Francia) 10.10.1945 ·Quecchia Palmiro, Botticino Mattina 10.1.1926, patriota ·Lonati Casimiro, San Gallo 3.10 1897 Botticino Mattina 13.4.1983, partigiano ·Tavelli Giulio (Primo) ·Lonati Francesco (Cesco), partigiano ·Tolotti Enrico ·Lusseri (Fornaio) ·Tomasotti Luigi, Botticino Mattina 9.2.1923, partigiano ·Maffezzoli Marcello ·Oliani Giulio, Brescia 6.7.1924, partigiano ·Maffeis Battista, partigiano, brigata X Giornate ·Moreschi Flaminio, Botticino Mattina 3.9.1925, patriota ·Zanola Adelino (Banana), Botticino Mattina 27.9.1926, partigiano · Zanoni Santo, Botticino 10.5.1911 - Ponte Pregno in Villa Carcina 26.4.1945, partigiano 111 Indice Le Segreterie Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp Uil Brescia p. 3 Il sindaco Mario Benetti p. 5 MEMORIE DELLA RESISTENZA A BOTTICINO Nuova edizione e ristampa - Nota dei curatori di Fabio Secondi e Osvaldo Squassina p. 7 Introduzione p. 9 Il percorso p. 11 Cronologia p. 15 Testimonianze orali p. 44 Testimonianze orali aggiunte per questa edizione p. 92 Nominativi di cittadini di Botticino che hanno collaborato con la Resistenza p. 110 Finito di stampare nel mese di Aprile 2014 per i tipi della GAM di A. Mena & C. snc In Rudiano - Bs