Resistenza - ANPI Botticino

Transcript

Resistenza - ANPI Botticino
MEMORIE DELLA
RESISTENZA A BOTTICINO
appunti per un libro
di storia locale
a cura di Fabio Secondi
Fondazione OLGA FURLAN
ANPI Botticino
GAM
editrice
© 2014 GAM Editrice - Rudiano (Bs)
© Per i testi gli autori
Proprietà letterarie riservate.
Riproduzione anche parziale vietata.
Grafica e stampa: GAM di A. Mena & C. snc
[email protected] - www.gamonline.it
Tel. 030.716202 - Fax 030.716514
ISBN 0000000000000000
La Resistenza italiana rappresenta una pagina straordinaria non solo del nostro
passato nazionale, ma, per la propria diffusione, organizzazione e forza, dell’intera Storia europea.
Un fenomeno che si compone delle moltissime e rilevanti vicende locali.
È questa una delle ragioni per cui, ogni anno, noi pensionati di Cgil, Cisl e Uil
proponiamo quello che si potrebbe definire “un appuntamento con la Storia
locale”.
Sono molti i luoghi della città e della provincia in cui, in occasione di ogni anniversario della Liberazione, ci siamo recati per ricordare fatti salienti della storia
della Resistenza bresciana.
Si tratta di una delle iniziative a cui dedichiamo più impegno, cura e attenzione.
Lo facciamo nella convinzione che la conoscenza della storia locale sia essenziale
per comprendere un fenomeno come quello della Resistenza che si caratterizzò
per la sua diffusione. Come pensionati, sentiamo la necessità e l’importanza di
conservare la memoria, di attualizzarla nelle scelte del presente, contribuendo
alla vita democratica.
Vogliamo commemorare il sacrificio di molti giovani e ricordarne gli ideali di
riferimento, le ragioni che motivarono la ribellione e l’opposizione alla dittatura
fascista.
Portiamo avanti queste iniziative convinti che la conoscenza del passato sia elemento essenziale per la piena comprensione della dimensione sociale e politica
del presente.
Per questo, nel 2014,
Contestualmente vogliamo parlare dello spirito originario della Carta, anche ripercorrendo i fatti della Resistenza botticinese, la lotta dei partigiani e l’eccidio
della Fratta.
Abbiamo sostenuto, insieme al Comune, il progetto di ristampa di questo volume. Un lavoro prezioso, curato da Fabio Secondi, che ricostruisce i fatti, dà voce
alle testimonianze, contribuisce a scrivere uno dei molti tasselli della grande
Storia dell’opposizione italiana al fascismo.
Le Segreterie
Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp Uil Brescia
3
Il sacrificio dei giovani che persero la vita o rimasero feriti, settant’anni fa alla
Fratta, è una vicenda entrata indelebilmente nel cuore della storia locale, diventano parte della memoria della comunità.
Una vicenda nota a molti degli abitanti di Botticino che l’Anpi locale e la Fondazione Olga Furlan, con intelligenza e lungimiranza , hanno scelto, anni fa, di
mettere per iscritto, avvalendosi del lavoro di ricerca curato da Fabio Secondi.
Così facendo si è fornita una preziosa testimonianza storica documentata dei
fatti accaduti,
Una fonte che ha moltissimi meriti: permette di divulgare la conoscenza in maniera ampia, fornisce una ricostruzione fondata su solide basi, lascia una traccia utile anche a chi, in futuro, vorrà approfondire le vicende trattate.
La scrittura conferisce, inoltre, ai fatti narrati caratteri di riconoscibilità e ufficialità.
Il testo, poi, ha un merito ulteriore: dà voce ai cittadini di Botticino riportando
le loro testimonianze, dando valore - non sempre accade - agli occhi con cui la
gente, il popolo ha visto correre la Storia.
Oggi, il Comune è onorato di proporre, insieme ai sindacati dei pensionati di
Cgil, Cisl e Uil, la ristampa di quel volume.
Il tempo passa e il bisogno di ricordare quanto avvenne negli anni difficilissimi
della guerra e del fascismo cresce. Anzitutto, per non dimenticare i caduti, il
loro sacrificio, il loro coraggio e i loro ideali.
Cresce per non perdere il legame con la cultura antifascista che si radicò, dopo
la guerra, anche a partire dalle storie locali.
La riedizione del libro, con alcune importanti integrazioni, sarà uno strumento
di approfondimento della storia locale, da divulgare a partire dai luoghi di cultura e formazione presenti nella nostra realtà.
Un modo per ricordare chi ha vissuto uno dei periodi più difficili della storia
d’Italia e contribuire a dare nuova vitalità agli ideali resistenziali: pace, libertà,
democrazia.
Botticino, aprile 2014
Il Sindaco
Mario Benetti
5
MEMORIE DELLA RESISTENZA A BOTTICINO
Nuova edizione e ristampa - Nota dei curatori
Questa ricerca risale al febbraio del 1996 su proposta dell’ANPI locale che intendeva raccogliere memorie botticinesi sul periodo resistenziale. Il libro rimasto
per alcuni anni nel cassetto per motivi meramente economici ha potuto vedere
la luce grazie all’intervento della Fondazione Olga Furlan, creata dalla famiglia
presso la Biblioteca Civica di Botticino, e al sostegno del Comune di Botticino e
di alcune associazioni.
Oggetto del lavoro sono i fatti e le persone che hanno in qualche modo vissuto la
Resistenza a Botticino o che sono state testimoni dirette di quegli anni.
Il corpo principale della ricerca (la seconda parte del libro) è rappresentato dalle
testimonianze raccolte, trascritte e riportate senza modificare il linguaggio dei
testimoni e cercando solo di sistemarle, almeno in parte, dal punto di vista cronologico. Da esse traspaiono, oltre ai ricordi, le emozioni del tempo e le valutazioni su quel periodo.
Non si possano comprendere singoli fatti della Resistenza senza conoscere il
contesto all’interno del quale si sono sviluppati: per questo è stata ricostruita la
situazione storica cui fanno riferimento le testimonianze formulando una schematica traccia degli avvenimenti nazionali, ma soprattutto bresciani, nei quali
vanno inquadrate le vicende botticinesi.
Questa ricostruzione cronologica, che costituisce la prima parte del libro, è basata su testi già pubblicati, testi di storia locale in genere. Le vicende botticinesi
sono legate in gran parte a quelle della 122° Brigata Garibaldi che ha operato in
Val Trompia, molto meno a quelle della Perlasca che ha operato in Valle Sabbia.
L’obiettivo è stato quello di una ricostruzione storica locale che non ha la pretesa
di aggiungere novità sostanziali al quadro delineato dalla storiografia resistenziale
bresciana, ma si propone di mettere a fuoco il coinvolgimento botticinese in quelle
vicende.
Il lavoro cerca di riferire testimonianze e notizie in maniera sufficientemente
obiettiva senza cadere nei due estremi del rifiuto o dell’agiografia resistenziale
nella convinzione che finalmente si possa parlare di Resistenza – ricordando
sempre che quella vicenda ha rappresentato l’atto di nascita della nostra democrazia - in modo corretto, onesto e anche critico su alcune vicende.
In occasione di questa ristampa sono state aggiunte tre testimonianze che sono
state acquisite in anni più recenti. Una riporta il punto di vista di un uomo che
all’epoca era poco più che un bambino e ci offre alcuni tratti di vita quotidiana.
La seconda è la testimonianza di una delle quattro donne che, per prime, salirono alla Fratta e ci dà conto di quei momenti drammatici vissuti da ragazze poco
più che adolescenti e dalla gente di San Gallo.
La terza è il racconto di uno dei partigiani riuscito a fuggire dalla Fratta; una
testimonianza del tutto inedita che conferma i racconti precedenti.
Infine è stata riportata (in forte sintesi) la biografia di Santina Damonti, detta
“Berta”, che di famiglia e nascita era di San Gallo e fu staffetta e partigiana della
122° brigata Garibaldi e partecipò ad importanti azioni, tanto da divenire una
delle più conosciute e apprezzate figure femminili della Resistenza bresciana.
7
Le testimonianze dirette delle persone che hanno vissuto la lotta partigiana,
l’importante contributo portato dalle persone - soprattutto giovani ragazzi e ragazze - di Botticino, la documentazione raccolta e gli importanti scritti recentemente donati all’A.N.P.I. di Botticino dalla figlia di Casimiro Lonati, Uliana, ci
incoraggiano e ci suggeriscono la necessità di proseguire il lavoro di ricerca volto
a realizzare (risorse economiche permettendo) un’ulteriore pubblicazione sulla
storia della Resistenza e a custodire una memoria da trasmettere soprattutto
alle nuove generazioni.
La Fratta è il luogo simbolo di Botticino, dove la barbarie fascista ha consumato
una delle sue brutali violenze. Un luogo simbolo che ci ricorda il monito di Piero
Calamandrei:
“Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dov’è nata la nostra Costituzione,
andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati”.
Botticino aprile 2014
Fabio Secondi Osvaldo Squassina
8
Introduzione
All’alba del 28 ottobre del 1944, alla Fratta (nel comune di Botticino), i fascisti
circondavano la cascina, dove c’era un distaccamento di otto partigiani della
122^ brigata Garibaldi e consumavano una strage: tre ragazzi furono selvaggiamente uccisi, tre furono feriti. Due fortunatamente riuscirono a nascondersi e
ad uscirne, più o meno, illesi.
Quest’anno ricorre il settantesimo anniversario di quella tragedia. Per non dimenticare il grande valore della lotta partigiana, dalla quale ha origine la Repubblica Italiana, che ha come valore fondante la Carta Costituzionale, e per
salvaguardarne la memoria da trasmettere alle nuove generazioni, l’A.N.P.I. di
Botticino ha deciso di realizzare la ristampa del libro di Fabio Secondi “Memorie
della Resistenza a Botticino”.
La ristampa raccoglie al suo interno dei racconti importanti e per certi aspetti
inediti. Vorrei evidenziare il racconto di Giovanni (Vittorio) Ciocchi, uno dei partigiani del gruppo della Fratta, che descrive con la massima precisione quello
che avvenne quella mattina del 28 ottobre del 1944 sul monte vicino a San Gallo e inoltre la testimonianza di Giulia Busi, una delle quattro ragazze che per
prime raggiunsero il luogo dell’eccidio fascista e trovarono i corpi martoriati dei
giovani partigiani uccisi.
Questa ristampa è stata possibile grazie all’impegno di Fabio Secondi e di Osvaldo Squassina, al contributo dell’Amministrazione comunale di Botticino e di Spi
Cgil, Fnp Cisl,Uilp Uil di Brescia.
Botticino, aprile 2014
Marco Soccini
Presidente A.N.P.I. di Botticino
9
Quel giorno, stranamente, c’era l’intera segreteria.
Era il 28 febbraio 1996.
Il presidente Giulio Oliani ci aveva riunito per fare il punto della situazione dopo il
congresso di sezione e per pianificare l’attività annuale.
Oltre al presidente erano presenti Dino Bolpagni, Vito Ronchi, Jolanda Barbieri,
Olga Furlan, Angela Piccinotti, Guido Damonti, Alfredo Poli, Cesare Fornari.
Prima che iniziassero i lavori, Alfredo Poli, con il massimo candore, esce con una
battuta: “Ma come mai non è mai stato scritto nulla sulla Resistenza a Botticino?
È una mancanza che va colmata”.
Ci guardammo tutti stupiti e un poco spaventati.
Come fosse una cosa semplice scrivere un libro!
Cominciarono ad incrociarsi i commenti, le osservazioni, ma il tarlo era ormai entrato nella testa di tutti i presenti.
Si delinearono le linee guida e ben presto dalle parole si passò ai fatti.
“Ma chi si assume l’onere di tale immensa fatica?”.
Nessuno dei presenti si sentiva in grado di affrontare un onere così pesante e
qualcuno lanciò l’idea di interpellare Fabio Secondi il quale aveva una discreta
esperienza nel campo.
Invitato ad una riunione successiva Fabio Secondi accettò l’incarico.
Così, semplicemente, ebbe inizio l’opera rimasta per alcuni anni nel cassetto di
una scrivania per motivi meramente economici.
Non si riusciva a trovare un mecenate disposto a sborsare il necessario, il Comune non aveva i quattrini necessari … e solo oggi la ricerca riesce a vedere la luce
grazie all’intervento della Fondazione Olga Furlan creata dalla famiglia presso la
Biblioteca Civica di Botticino.
La segreteria dell’A.N.P.I. ringrazia pubblicamente Fabio Secondi che si è sobbarcato il gravoso onere di portare a termine questa fatica nell’interesse della popolazione di Botticino.
"Cercare che cosa fu la Resistenza vuol dire
indagare dentro di noi che cosa è rimasto
vivo della Resistenza nella nostra coscienza"
Piero Calamandrei
10
Il percorso
Questo lavoro è iniziato nel febbraio del ‘96
su proposta di esponenti dell’ANPI locale
(l’indimenticata Olga Furlan, Cesare Fornari, Alfredo Poli e il presidente Giulio Oliani) che intendevano raccogliere memorie
botticinesi sul periodo resistenziale.
Ho volentieri aderito alla proposta perché
ero per mio conto curioso di approfondire
questo aspetto che in un precedente lavoro
(“I ricordi sono pietre”, condotto con Carlo
Simoni) non era stato indagato in quanto
sembrava mancassero elementi sufficienti
a giustificare una ricerca storica locale.
In effetti, su questo piano, si sono verificate una sostanziale mancanza di documenti
cartacei, salvo poche cose negli archivi familiari, rare fotografie e manifesti dell’ANPI,
ma anche una relativa scarsità di fonti orali
dovuta a una certa ritrosia a ricordare fatti
per molti aspetti drammatici o forse anche
al perdurare di un atteggiamento di riservatezza, o di vera e propria segretezza, legato
alle vicende di quegli anni in cui il rischio
della vita era reale e quindi indispensabile
mantenere il silenzio. Silenzio che, a quel
tempo, veniva tenuto anche in famiglia e
con gli amici più stretti, tanto che a sorpresa alcuni si sono trovati a fianco, nel corso
di azioni, vicini di casa o addirittura amici.
È quindi risultato indispensabile, per lo
svolgimento di una ricerca corretta, individuare preliminarmente i testimoni del
periodo in esame per raccoglierne i ricordi
conservati a cinquant’anni di distanza dagli avvenimenti.
Ho affiancato alle Testimonianze l’uso di
testi già pubblicati per rintracciare i fatti
necessari per realizzare una ricostruzione
cronologica attendibile. Testi di storia locale in genere. Le vicende botticinesi sono
legate in gran parte a quelle della 122° Brigata Garibaldi che ha operato in Val Trompia, molto meno a quelle della Perlasca che
ha operato in Valle Sabbia.
L’obiettivo è stato quello di una ricostru-
zione storica locale che non ha quindi la
pretesa di aggiungere novità sostanziali
al quadro delineato dalla storiografia resistenziale bresciana, ma si propone di mettere a fuoco il coinvolgimento botticinese in
quelle vicende.
In appendice ho riportato un elenco, forzatamente incompleto, di donne e uomini che
hanno, più o meno direttamente, partecipato a quegli eventi sia a Botticino che in
altri luoghi. Non va infatti dimenticato che
le vicende hanno condotto molti lontano
dal proprio paese, così come tra i nomi si
possono trovare persone che sono arrivate
a Botticino nel dopoguerra.
Le difficoltà, per la grande distanza di tempo, a reperire notizie su ciascuno di loro,
lascia questo elenco nudo e scarno; la sua
“nudità” è però anche un modo per ricordare le tante persone che anonimamente
hanno contribuito a quegli eventi. Di tante
donne e uomini sconosciuti è fatta la Resistenza a Botticino come ovunque. D’altra parte i partigiani erano i soldati di un
esercito senza servizi né retrovie e perciò
avevano la necessità di poter contare, prima di tutto, sulla silenziosa collaborazione
delle popolazioni, donne e uomini che spesso sono rimasti sconosciuti, ma che furono
tanti, pronti a soccorrere, a dare rifugio
ed a tacere di fronte alle rappresaglie del
nemico.
L’approfondimento sulla figura di Casimiro Lonati è legato in parte alla recente
ricorrenza del centenario della nascita (3
ottobre 1897), ma soprattutto al ruolo di
rilievo che egli ebbe proprio all’inizio della
Resistenza; l’intera vicenda della sua vita
ne fa poi un personaggio di forte caratura,
un botticinese che merita quindi il nostro
ricordo accanto ad altri certamente più conosciuti. Probabilmente, anche per la qualità del materiale recuperato, questo personaggio potrà essere oggetto di una ulteriore
ricerca.
11
Questo lavoro ha richiesto in alcuni passaggi, sia nella cronologia che nella trascrizione delle Testimonianze, un atteggiamento
di delicatezza (mai di reticenza, comunque)
rispetto ad alcune vicende il cui racconto
è stato fonte di difficoltà anche per me: i
fatti narrati sono legati allo svolgersi della
Resistenza ma hanno riflessi in storie umane drammatiche in cui la morte ha un ruolo centrale e numerosi sono i riferimenti a
persone (parenti, protagonisti viventi, ecc.)
che ancora in qualche modo sono toccate
da alcune di quelle vicende.
Per altro, nomi e fatti sono già comparsi in
varie pubblicazioni: valga ad esempio l’interessante libro di don Sandro Gorni (“Botticino Mattina, la parrocchia dei santi Faustino e Giovita”) che già li riporta, anche se
ovviamente all’interno di un lavoro di altra
natura. Proprio dal libro di don Gorni ho ricavato una serie di notizie riguardanti l’ambiente cattolico nel periodo considerato.
Il mio lavoro intende riferire testimonianze
e notizie in maniera sufficientemente obiettiva senza cadere, spero, nei due estremi del
rifiuto o dell’agiografia resistenziale. Sono
convinto che finalmente si possa parlare di
Resistenza – ricordando sempre che quella
vicenda ha rappresentato l’atto di nascita
della nostra democrazia - in modo corretto,
onesto e anche critico su alcune vicende.
Non si possano comprendere singoli fatti
della Resistenza senza conoscere il contesto all’interno del quale si sono sviluppati:
per questo ho ritenuto utile introdurre le
Testimonianze di chi ha vissuto quelle situazioni ricostruendone il contesto e formulando quindi una schematica traccia
degli avvenimenti nazionali, ma soprattutto bresciani, nei quali vanno inquadrate le
vicende botticinesi.
Per capire la presenza del movimento partigiano a Botticino è altresì necessario dare
uno sguardo a ritroso agli anni che vanno dalla fine della prima guerra mondiale
all’avvento del fascismo, giungere fino alla
seconda guerra mondiale e percorrere alcuni fatti che possono dare una spiegazione
al retroterra politico della Resistenza botti12
cinese, in gran parte di origine socialcomunista, ma che spiegano anche la partecipazione dei cattolici popolari. Alcuni episodi e
fatti antecedenti alla guerra sono quindi riportati per aiutare a comprendere l’esistenza di un movimento e la scelta di singole
persone avverse al fascismo. In assenza di
questo, il solo rifiuto della guerra e la relativa stanchezza forse non basterebbero a
giustificare il nascere e il manifestarsi della
Resistenza a Botticino.
Il corpo principale della ricerca è rappresentato dalle Testimonianze (raccolte e trascritte con l’aiuto paziente e tenace di Olga
Furlan e di Cesare Fornari): le ho riportate
senza modificare il linguaggio dei testimoni e cercando solo di sistemarle, almeno in
parte, dal punto di vista cronologico. Da
esse traspaiono, oltre ai ricordi, le emozioni
del tempo e le valutazioni su quel periodo.
Averle raccolte a cinquant’anni di distanza evidenzia nei testimoni una progressiva
messa a fuoco dei loro giudizi e delle loro
interpretazioni, da cui traspaiono tuttavia
comuni impressioni e ricorrenti modi di
sentire.
È prevalente quello che sin dagli inizi aveva
alimentato la loro ribellione: la speranza in
una nuova società, più giusta e più umana,
nella quale fossero garantiti la libertà e il
rispetto per ciascuno.
Le speranze e gli ideali, la fiducia nella possibilità di costruire una società diversa dal
passato, e migliore, si scontrano, quando
termina la lotta resistenziale, con una realtà dura e complessa. A volte pare che quanto è stato fatto sia risultato inutile, come
traspare in alcune Testimonianze, ma al di
là delle inevitabili delusioni, la lotta di liberazione resta il punto di riferimento (che
non viene meno neppure nei momenti più
duri del dopo-guerra), dal quale tutti fanno
partire il processo di rinnovamento democratico del nostro paese.
Ancora oggi, quindi, la Resistenza rifiuta
di essere imbalsamata e conserva intatti la
sua carica polemica e il suo messaggio di
speranza.
Questa pagine sono rivolte ai giovani botti-
cinesi perché sappiano che la libertà di cui
godiamo è il frutto di sacrifici fatti da donne
e uomini che si sono battuti contro la tirannide nazifascista pagando, in alcuni casi,
anche con il sacrificio della vita.
Voglio ricordare i botticinesi che fecero una
scelta coraggiosa, combattendo contro il
nemico nazifascista o rifiutando di essere
rimpatriati dai campi di concentramento in
Germania per non servire il nemico della
democrazia, morendo di stenti, malattie e
torture per la causa della libertà, botticinesi che nella maggior parte non sono mai
stati ricordati nella storia locale a oltre 50
anni dalla fine della guerra.
Pur concordando con chi auspica la “riconciliazione degli animi e l’onore ai caduti”,
penso non sia possibile porre sullo stesso
piano tutti i morti di quel particolare momento storico, perché resta una differenza
sostanziale tra chi è morto per sostenere la
sopravvivenza della dittatura fascista e chi
è caduto per la riconquista della libertà.
Infine, non vanno dimenticate le persone e
le famiglie botticinesi che in quel periodo di
clandestinità hanno dato il loro contributo
correndo grandi pericoli, nascondendo ricercati politici, ex prigionieri di guerra in
fuga dopo l’8 settembre, assistendoli e avviandoli in posti sicuri o affidandoli a formazioni partigiane, rifornendoli inoltre con
danaro, vestiario, cibo. Queste famiglie,
queste persone sono rimaste nell’anonimato, senza chiedere nulla, contribuendo tuttavia in modo determinante ad alimentare
la Resistenza in tutte le sue componenti.
Verso questi anonimi personaggi (e sono
molti) tutti i cittadini botticinesi hanno un
debito di riconoscenza.
Fabio Secondi
Botticino, luglio 1998
Nota e ringraziamenti. Le note a piè di pagina non sono un vezzo da storico dilettante ma
un riconoscimento a lavori già eseguiti (e in alcuni casi, purtroppo, poco conosciuti) da cui
ho tratto informazioni essenziali.
Il presente lavoro è stato agevolato dalla lettura dei libri che Don Sandro Gorni, con cura
certosina, ha dedicato alle vicende di Botticino Mattina e dai quali ho attinto numerose
notizie, nomi, fatti. Lo ringrazio a posteriori non avendolo interpellato in precedenza. Analogo grazie va a Gio.Pietro Biemmi per avermi concesso l’uso di materiale da lui raccolto.
Un grazie devo a Massimo Tedeschi che mi ha fornito copia della sua inchiesta pubblicata
su Bresciaoggi e che ho riportato in buona parte: la correttezza e l’obiettività del lavoro di
Massimo Tedeschi sono state utili per affrontare il periodo più complesso della vicenda
trattata in queste pagine. Preziosi sono stati i consigli di Gianfranco Porta all’inizio della
ricerca e fondamentali la pazienza e la competenza di Carlo Simoni che si è sobbarcato la
lettura del testo per indicarmi opportune correzioni. Spero di non aver deluso entrambi.
Un grazie va agli amici dell’ANPI, agli intervistati e a quanti hanno collaborato alla pubblicazione consentendomi quest’interessante esperienza.
Infine voglio dedicare questo lavoro a mio padre Italo Secondi, soldato dell’esercito italiano,
e a mio zio Silvio Ruggeri, partigiano in Valtrompia: due modi di servire il proprio Paese e
due diverse culture che, nel continuo e reciproco rispetto, mi hanno concretamente educato al senso della democrazia e all’amore per la mia patria.
13
Cronologia
Il 4 novembre 1918, la firma dell’armistizio tra Austria e Italia, segna la fine della
prima guerra mondiale. Tra i molti problemi
del dopoguerra si fanno evidenti quelli della riconversione industriale e dei debiti con
l’estero, con conseguente perdita del valore
monetario e aumento dei prezzi dei generi
alimentari. Lo stato in cui era precipitata
l’agricoltura e il mancato assegnamento della terra ai contadini, come promesso dopo
Caporetto, accrescono drammaticamente
la disoccupazione e accentuano il malcontento popolare. Malcontento ulteriormente
acuito dall’inflazione, che colpisce tutte le
classi sociali. Si registrano rivolte popolari contro il carovita, inizia l’occupazione di
terre e fabbriche.
to Mussolini, nato come movimento “anti”:
anti sistema, anti partiti, non propositivo.
La sua prima denominazione è infatti “Fasci
di Combattimento”: fasci di combattimento
con il nemico straniero, durante la guerra,
con il nemico interno ora che la guerra è
finita. È un movimento caratterizzato da un
esasperato nazionalismo, che si scaglia con
violenza verso gli elementi ritenuti antinazionali - socialisti, popolari, ecc. - che prima erano contrari alla guerra e ora guidano
le masse lavoratrici; da qui lo squadrismo
e la violenza del movimento fascista, che si
scatenano contro il movimento operaio e si
danno alla sistematica soppressione di sedi
di giornali, cooperative, case del popolo,
sindacati socialisti e cattolici.
Nell’autunno del 1920, in contemporanea a quella delle fabbriche di Brescia, si
attua l’occupazione delle cave di marmo
e dei cantieri di Rezzato, Mazzano, Virle e
Botticino. Qui l’occupazione è guidata per i
socialisti da Angelo Previcini, per i popolari
dal curato Pietro Tedoldi. Le rivendicazioni
rispecchiano quelle delle industrie, innanzitutto aumenti salariali e partecipazione alla
gestione delle cave da parte dei lavoratori.1
Nel 1921 il movimento fascista diventa un
partito, il P.N.F. (Partito Nazionale Fascista).
Vengono avanti e si vanno affermando sulla
scena politica strati sociali e classi che fino
allora ne erano stati storicamente esclusi:
buona parte della classe operaia, del lavoro
salariato e dell’industria, la grande massa
contadina. Questi soggetti sono presentati
come fautori di disordine politico e sociale:
scioperi nelle fabbriche e nelle campagne,
occupazioni di terre, paralisi dei servizi
pubblici, agitazioni di piazza e così via. Ma
è l’affermazione politica delle classi escluse, e non il disordine, la vera novità degli
anni 1919 e 1920, quelli che vengono definiti il “biennio rosso”.
A Botticino Mattina il movimento operaio è
presente ed organizzato con una società di
mutuo soccorso, una cooperativa di scalpellini e un circolo operaio, denominato “Circolo
Cooperativo Fratellanza”, che ha una propria sede in via Cave dove organizza una
scuola serale e varie iniziative di istruzione
e svago per gli operai, soprattutto cavatori.
Esiste una “sezione socialista” che ha propri
rappresentanti eletti in Consiglio Comunale.
La lega degli scalpellini aderisce alla Camera del lavoro di Brescia. 2
Nel 1922 nasce a Botticino Mattina “la musica proletaria”, chiamata anche “musica
rossa”, grazie ad “un gruppo di volonterosi
giovani” istruiti da Giovitta Gorni. La banda
viene ufficialmente festeggiata il 30 aprile;
nell’occasione l’onorevole Viotto, socialista,
elogia “questi compagni per i sacrifici che
fanno per crearsi le loro istituzioni.”3
La reazione è affidata alle violenze del movimento fascista, fondato nel 1919 da Beni-
Durante l’estate dello stesso anno si sta
1
2
Ibidem, pag.19-22
3
Ibidem, pag.26
F. Secondi-C.Simoni, I ricordi sono pietre, Botticino
1992, pag.24
15
ultimando, a cura della “Cooperativa Casa
del Popolo”, la costruzione di una nuova
sede in via Marconi a Botticino Mattina. Lo
scopo è quello di “esplicare una sana e forte
opera di propaganda sindacale e cooperativistica”.
In agosto si svolge l’assemblea generale dei
soci, durante la quale viene ricordato il contributo di lavoro offerto dai lavoratori e si
incita a difendere la nuova Casa del popolo “dalla raffica e dalla violenza dei nuovi
costruttori tricolorati”, i quali, “demolendo
rabbiosamente e violentemente le istituzioni
nostre che rappresentano e e costituiscono
la migliore prova del progresso umano e civile del proletariato, credono di sopprimere e
di distruggere quello che per oltre trent’anni
siamo andati edificando attraverso un calvario di martiri e di sangue.” 4
Le violenze squadristiche sono già cominciate anche a Botticino, soprattutto a Mattina
per la presenza di operai conosciuti come
esponenti del partito socialista, come racconta un testimone dell’epoca: “la domenica
sono incominciate le squadre fasciste. Tutte
le domeniche autocarri pieni di fascisti che
venivano a fare scorrazzate a Botticino, fascisti forestieri che venivano e picchiavano
quelli che trovavano per strada e li mandavano a dormire. Tutte le domeniche alle sette, bisognava sgombrare il paese e andare a
dormire perché arrivavano loro. Noi eravamo
giovani, si faceva presto a scappare, i vecchi
invece...”5
Si registrano aggressioni e intimidazioni ai
danni di operai che si erano azzardati a discutere di politica all’osteria o perché conosciuti come socialisti.6
Anche la casa del Popolo di via Marconi
subisce l’assalto dei fascisti, che entrano,
spaccano i mobili e sparano alle damigiane
del vino, del marsala e del vermut che sono
in cantina.
4
Ibidem, pag.26
5
Testimonianza orale di Mario Rossi in F.Secondi-C.
Simoni, op. cit., pag.60
6
16
Testimonianze orali di M. Rossi e altri
I danni vengono riparati ma la casa del Popolo non avrà lunga vita e un paio d’anni
più tardi passerà ad altra proprietà: l’avvento del fascismo e debiti non ancora estinti
consentiranno ad un dirigente della locale
sezione del PNF di acquisirla.7
In questo contesto opera Don Pietro Tedoldi,
curato a Botticino Mattina fino al 1921, che
raduna i giovani cattolici e promuove una
scuola di musica, la “musica bianca”, diretta dal maestro Dante Colosio, affinché “i giovani possano divertirsi, istruendosi”.
Si interessa anche del mondo del lavoro: sostiene le “leghe bianche”, fonda la cooperativa cattolica, si impegna personalmente per
difendere i diritti dei lavoratori e per contrastare, secondo la sua ispirazione, l’ingiustizia sociale.
A lui succede don Emilio Maffezzoli, che ne
continua l’opera condividendo aspirazioni e
ideali di promozione umana e cristiana.
Il gruppo della “sezione musica”, con una
trentina di altri giovani, dà vita al Circolo
cattolico. Il 4 febbraio 1923 si tengono le
prime elezioni e il Circolo viene iscritto all’Unione Nazionale della Gioventù Cattolica
Italiana. Si forma una filodrammatica che
presenta alcune commedie e si tengono adunanze mensili in cui si affrontano vari problemi, legati non solo alla catechesi.
Queste iniziative disturbano l’emergente potere fascista e dalle iniziali parole lusinghiere, si passa alle minacce sia contro il Curato che contro i giovani cattolici e a pressioni
effettuate su alcuni membri perché passino
alla banda musicale del sindacato fascista.
Le due “musiche” infatti, quella bianca e
quella rossa, nel frattempo si sono praticamente fuse e raccolgono elementi, provenienti da entrambe, che si erano rifiutati di
aderire alla banda musicale organizzata dai
fascisti, che difatti avrà vita brevissima.8
I rapporti col partito fascista non sono per
nulla cordiali e concilianti: il segretario del
locale P.N.F. minaccia un giovane perché
7
F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.26
8
S.Gorni, 30 anni di Azione Cattolica, Botticino Mattina
1918-1948, Brescia 1995, pag.61
porta il distintivo della Gioventù Cattolica
Italiana (26 agosto 1923); ulteriore prova
è il resoconto della manifestazione del 4 novembre 1923, cui partecipa la banda del
Circolo, dove viene denunciata l’invadente
presenza di “alcuni capeggiatori di sapore
anticlericale e fascisti i quali occuparono i
primi posti facendosi belli dei meriti altrui,
non avendone per sé...”
In questo clima di contrasti, avviene l’inaugurazione della bandiera del Circolo, il 2
dicembre 1923. Tra gli intervenuti anche
l’avv. Trebeschi di Brescia, che morirà nel
1945 in un campo di sterminio. La sezione
di musica continua il suo impegno sotto la
direzione del maestro Giuseppe Mastini.
Le difficoltà non mancano, il Curato insiste
sul fatto “che ci vuole energia e spirito di
sacrificio per reagire contro il male, da qualunque parte venga, e per formarsi una coscienza cristiana”.9
Il clima del periodo è reso efficacemente
nelle parole di Mario Rossi (1909-1997), cavatore e acuto osservatore dei fatti sociali e
politici di Botticino:
“Nel ‘20 abbiamo fatto l’occupazione delle
cave: quando sono state occupate tutte le
fabbriche, anche noi abbiamo occupato tutte le cave. È durata otto giorni l’occupazione
... ma si è continuato il lavoro con il nostro
capo fatto da noi: abbiamo sempre avuto la
coscienza di lavorare anche se eravamo in
occupazione e non c’era il padrone. I blocchi
si erano scavati e hanno dovuto pagarci anche le giornate di occupazione ....
Anche mio papà era socialista. .... Era socialista perché allora chi lavorava nelle cave
era socialista. Però c’erano anche i bianchi:
non bisogna dimenticare che la lega bianca
era forte a Botticino Mattina a quei tempi.
Anche fra i cavatori. Non erano tanti, ma
c’era una pattuglia di cavatori molto aggressiva, che lavoravano con noi. Non eravamo
solo la lega rossa, socialista: eravamo alleati anche alla lega bianca, c’era grande collaborazione.
C’era antagonismo politico quando si face9
S.Gorni, Botticino Mattina, la parrocchia dei santi Faustino e Giovita, Brescia 1992, pag. 194-196
vano le elezioni, ma come interessi di lavoro
nelle cave erano al nostro fianco. Hanno occupato anche loro le cave e durante l’occupazione sono venuti a lavorare anche loro.
La popolazione di Botticino, i giovani in particolar modo erano tutti impegnati in qualche cosa: a Botticino Mattina c’erano due
musiche, una bianca e una rossa, e in più
un’orchestra che era indipendente, ma quasi tutti quelli che non suonavano nella musica né nell’orchestra erano capaci di suonare la chitarra o il mandolino. Quando si
era giovani si andava a fare qualche salto la
domenica sera, dopo fatto una settimana di
lavoro nelle cave e quasi una giornata a far
la legna. Ma quando si era giovani la stanchezza si sentiva poco e perciò la sera con
questi mandolini e queste chitarre si faceva
qualche salto con le ragazze e ci si divertiva.
...
Io suonavo nella musica rossa: ero un bambino grande così, ho cominciato a 11 anni a
suonare; la musica rossa è campata fino al
1923, anche quando c’erano i fascisti. ...
Eravamo una trentina nella musica rossa. E
una trentina saranno stati in quella bianca.
E dopo c’era una quindicina che suonavano
nell’orchestra.
Dopo il 1923, con il fascismo, la musica è
diventata una sola. Non si è aggregata al
fascismo, ma hanno voluto continuare a
suonare e allora si è fatta la mescolanza di
bianchi e rossi. ...
Suonavamo l’Internazionale, Bandiera rossa e tutte le altre; in tanti concerti si faceva la musica classica pezzi di opere come
la Gazza Ladra, che era abbastanza difficile. Si facevano tanti concerti non solamente
con le marce o con i cori, anche con la musica classica. Mi ricordo per esempio che abbiamo fatto un concerto a Rezzato, perché
allora non c’era mica niente nei paesi: ogni
tanto si cambiava il paese e si faceva un
concerto di tutte le musiche in un posto. Uno
a Rezzato e uno l’abbiamo fatto a Botticino,
tutte le orchestre assieme. Dopo, i concerti,
si facevano anche musica per musica, paese
per paese. Quelli della lega bianca facevano
i loro concerti anche loro con la musica classica in diversi paesi.
Allora si faceva così perché non c’era mica
17
la situazione di adesso ed era l’unico modo
per concentrare la popolazione. La popolazione si spostava volentieri perché non c’erano altre alternative. Si suonava la domenica, sempre la domenica pomeriggio, quando
erano libere le donne, liberi tutti di venire ad
ascoltare...”10
Al congresso nazionale fascista, tenutosi
a Napoli nell’ottobre del 1922, viene deciso un colpo di forza contro il governo. Il
22 ottobre i fascisti, provenienti da tutta
Italia, marciano su Roma. Il capo del governo Facta vuole decretare lo stato d’assedio contro le squadre fasciste, ma il re
Vittorio Emanuele III non firma il decreto
e addirittura affida a Mussolini il compito
di formare un nuovo governo illudendosi di
riuscire a mettere sotto controllo la difficile
situazione governativa.
L’Italia liberale di Giolitti non esiste più e
si determinano le condizioni per una svolta
autoritaria.
Tra il 1922 e il 1924 nascono il Gran Consiglio Fascista e la Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.), una specie
di organizzazione militare di partito che viene tollerata accanto alle forze dell’esercito e
della polizia.
Nel 1924 il Comune di Botticino Mattina
aderisce alla Federazione dei Comuni Fascisti.11
Nello stesso anno viene conferita la “cittadinanza onoraria a Sua Eminenza Benito
Mussolini”.12
Sempre nel 1924 la Cooperativa, nata dalla fusione tra la “cooperativa scalpellini” di
Botticino e la “cooperativa lavoranti in marmo e affini” di Rezzato, è costretta a dare la
sua adesione al sindacato provinciale fascista di Brescia.13
Dopo le sostanziali sconfitte elettorali pre10 Testimonianza di Mario Rossi in F.Secondi, C.Simoni,
op. cit., pag. 60-62
11 Archivio Comunale di Botticino (ACB), Verbali Consiglio
Comunale, 1.3.1924
12 ACB, Verbali Consiglio Comunale, 16.5.1924
13 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.27
18
cedenti il P.N.F. partecipa alle elezioni politiche nazionali, le elezioni del 1924, dove
ottiene la vittoria con il proprio “listone fascista”, grazie anche a brogli e intimidazioni.
Giacomo Matteotti, che aveva denunciato
in Parlamento le violenze e i brogli, viene
picchiato a morte.
In seguito al delitto Matteotti nelle cave di
Botticino si registrano sospensioni del lavoro
per protesta; l’uccisione del deputato socialista suscita sdegno diffuso, ma è anche pretesto per azioni squadristiche come nell’episodio avvenuto al Ghiacciarolo e rievocato
nella testimonianza di Angelo Marelli:
“Anche a Botticino succedono degli incidenti: l’assalto alla Casa del Popolo e poi una
spedizione al Ghiacciarolo. I fascisti del paese non potevano sopportare che al “licenzì
dei Mènes” ci fosse gente poco d’accordo col
regime ed era un po’ di tempo che ci pensavano.
Non era la prima volta che alcune donne,
che si credevano chissà chi perché erano
mogli di alcuni caporioni, dovevano scappare lungo i sentieri della Falia per non essere
“cresimate”. Quelle donne nella stagione dei
marroni non si accontentavano di spigolare,
ma andavano dritte nella marronera: si erano prese qualche pedata. La stessa roba era
capitata per via delle mele, quando erano
state fatte fuggire dai cani lungo la Lassa.
Insomma loro volevano prendersi la roba dei
contadini, ma le avevano fatte correre.
L’occasione per dare una lezione a quelli dei
Mènes è capitata proprio con il fatto di Matteotti; ne è diretta testimone la Teresa Ragnoli (classe 1906, di San Gallo) che mi ha
raccontato come è andata:
“... Era la fine di agosto del 1924 e qualcuno che era andato per funghi aveva buttato
via un giornale con la fotografia di Matteotti
che era appena stato ucciso: era così bello,
poveretto! A me è venuto il sentimento di ritagliarla e di portarla a casa e come sono
arrivata in cortile l’ho appoggiata sulla finestra, dentro l’inferriata. Si vede però che a
qualcuno dava fastidio e allora è andato a
fare la spia e a raccontare che al “licinzì dei
Mènes” c’era della propaganda sovversiva.
Una domenica mattina, quattro fascisti sono
arrivati su e ne hanno date un sacco a Angel
de Tone: aveva perfino il segno degli scarponi sulla faccia, poi hanno preso una roncola, ma per fortuna c’era mio zio Andrì che è
riuscito a portargliela via e a gettarla nella
siepe; loro visto come si mettevano le cose se
ne sono tornati in paese.
Ma verso sera, quando cominciava ad imbrunire ed io ero fuori con alcune amiche a
prendere un po’ di fresco, abbiamo sentito
all’improvviso dei passi e abbiamo visto una
combriccola che saliva di nascosto in silenzio con brutte intenzioni. Infatti come sono
arrivati nel cortile è scoppiata subito la baraonda: bestie che muggivano nella stalla,
vetri che andavano in frantumi e gente che
scappava spaventata. Alcuni di quei brutti
lazzaroni per non farsi riconoscere avevano
sul muso un fazzoletto e tutti menavano di
brutto e spaccavano quello che trovavano.
Hanno mandato in frantumi la lucerna sotto
il portico e sono entrati nel “licinzì” dove era
seduto Elia Casali e gli hanno mollato una
manganellata che lui è riuscito a schivare;
il manganello nel picchiare sul tavolo si è
spaccato a metà e la punta, che è volata via,
ha preso al braccio la mia mamma che era
in cucina e le è restato per un po’ di tempo il
braccio viola.
Angelo nel vedere quello che succedeva è riuscito a gattoni a nascondersi nella cantina
e a ripararsi dentro una botte; il povero Ceciò di Castello di Serle è corso su per le scale
che portano in camera e si è nascosto sotto
il letto. Mio fratello Francesco che si stava
rifugiando sul fienile è stato tirato giù per le
bretelle dagli scalini e ne ha prese tante che
gli è rimasto sulla schiena il segno di tredici
manganellate. Anche Busi Mosè di San Gallo ha preso la sua razione. Altri invece, Zaccaria Tolotti di San Gallo e Giuseppe Lonati
di Mattina sono riusciti a farla franca. Quei
brutti figuri dopo avere rotto tutto e mandato in mille pezzi il mio catino di porcellana,
hanno lasciato il Ghiacciarolo e hanno puntato verso San Gallo, passando per la Falia.
E ancora non soddisfatti sono andati giù di
brutto con Bortolo dei Li Pùrsì che è finito in
un canale e per fortuna che gli è passato per
la mente di far finta di essere morto; mentre
era lì steso immobile ha sentito dire: “andiamo, che la bestia è morta!”
Poi è successo ancora di peggio: a ‘Ndrì dei
Filuche gli hanno sparato una rivolverata
nella gamba e lui, poveretto, per l’infezione
ci lascerà la pelle.
Dopo queste vicende alcuni di quei bellimbusti hanno dovuto sparire dalla circolazione
e sono rimasti via un bel po’ prima di farsi
rivedere a Botticino.”14
Nel 1925, dopo la crisi politica seguita
all’assassinio di Matteotti e l’inizio della
fase decisamente dittatoriale, più pesante
si fa anche l’intervento del regime nella vita
economica di Botticino: il 3 settembre viene stipulato il primo dei contratti tra la ditta
Lombardi e il Comune di Botticino rappresentato dal commissario prefettizio Pietro
Calzoni, podestà di Brescia, che prospetta
l’affidamento del bacino marmifero comunale alla ditta rezzatese.15
Sono molti i lavoratori botticinesi che in questi anni emigrano in Francia per motivi politici, ma anche per motivi di lavoro: i nuovi
contratti espellono manodopera dalle cave.
I giovani della parrocchia di Botticino Mattina aderiscono all’invito di “dare definitivamente il loro nome dimostrando di voler appartenere al Circolo”: l’8 dicembre 1925
c’è l’inaugurazione del Circolo, col tesseramento, cui interviene mons. Pavanelli, assistente diocesano, che porta il suo plauso e il
suo incoraggiamento. Si vuole dare maggior
decoro e funzionalità alla sede del Circolo,
nella chiesa vecchia: nel maggio inizia l’opera per l’ingrandimento del palcoscenico e
l’arredamento della sala.16
Dal 1926 la svolta verso la dittatura si fa
decisa con la creazione dei sindacati di stato, la ridotta libertà di stampa e di attivi14 Testimonianza raccolta da Gio. Pietro Biemmi; vedi
anche dello stesso: Da l’Albania a le stèpe del Don, Brescia 1996 e Celoto mèdoler de Bùtisì de Matina, Brescia
1997
15 F. Secondi C. Simoni, op. cit. pag.28
16 S.Gorni, Botticino Mattina…,op. cit., pag. 197
19
tà politica, l’accentramento dei poteri nelle
mani del Duce. In seguito tutti i movimenti
e i partiti politici vengono dichiarati illegali.
Molti uomini politici vengono arrestati, altri
sono costretti all’esilio.
Con podestà Pietro Calzoni, nell’autunno,
un altro contratto fra Lombardi e il Comune
di Botticino sanziona il monopolio di questa
ditta su tutte le cave di Botticino.17
Nel 1927 si avvia l’unificazione dei comuni
di Botticino Sera e Mattina per “razionalizzare l’amministrazione” secondo la direttive
del regime, ma anche per controllare la ricchezza delle cave concedendo meno spazio
ai cavatori.18
Un rapporto della questura segnala, nell’agosto 1927, una furiosa lite tra rappresentanti locali del regime che si trovavano
nell’osteria ricavata da Santo Gorni nella ex
casa del Popolo. Motivo del diverbio sono i risvolti della trattativa verificatasi pochi mesi
prima fra il Comune e la ditta Lombardi, in
cui i dirigenti locali si sono sentiti quantomeno scavalcati.19
In effetti non è solo la popolazione operaia di
Botticino Mattina a mantenere un atteggiamento di contrarietà - più volte segnalato dai
rapporti della questura - rispetto all’accordo
siglato dal Comune con Lombardi. Gli stessi
dirigenti fascisti nutrono perplessità e manifestano divergenze di giudizio tali da essere
indotti a rivolgersi al segretario provinciale e
tramite questo al prefetto, per denunciare la
situazione: “animato da una grande buona
volontà di ridare alla popolazione eminentemente operaia una sicura tranquillità per
l’avvenire, che si presenta fin d’ora ancora
piuttosto oscuro per alcuni incidenti verificatisi - si legge nel memoriale che giunge al
prefetto l’8 maggio 1930 - il Direttorio è
pervenuto nella determinazione di illustrare
i lati deboli della convenzione tra il comune e
la ditta Lombardi per l’esercizio delle cave.”
In sostanza il Direttorio locale segnala una
serie di preoccupazioni in ordine al monopolio della Lombardi che ritiene più vantaggioso per la ditta anziché per il Comune e
rileva come la popolazione “nella sua stragrande maggioranza ebbe apertamente a
mostrarsi contraria a simile monopolio e
tale concetto continua a manifestarsi in ogni
circostanza”.20
Il 1° aprile 1928 i comuni di Botticino Sera,
Botticino Mattina e Caionvico vengono riuniti
in un unico comune.21
Nel 1929 vengono firmati i Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa col chiaro obiettivo di allargare il consenso dei cattolici al
fascismo. Altre forme di propaganda sono
la “battaglia del grano” e la “bonifica integrale”, che hanno anche lo scopo di diminuire la dipendenza alimentare dai paesi
stranieri.
Comincia il periodo del “consenso al regime”, consenso costruito abilmente attraverso la demagogia, il populismo, l’uso dei
nuovi mezzi di comunicazione (la radio e il
cinema), una efficace campagna di immagine del duce stesso, il completo controllo
sulla scuola e sulle professioni.
La maggioranza degli italiani non avversa
il fascismo, ma si trova in una condizione
di apatia, di accettazione ed appoggio non
consapevoli. Forme di conformismo e di
adattamento riassunte efficacemente in un
ironico gioco di parole “P.N.F.: Per Necessità Familiari”; non va dimenticato infatti
che per lavorare alle dipendenze dello stato
è necessario avere la tessera del partito fascista.
Conformismo e adesione al mito del duce,
abilmente costruiti dalla propaganda fascista, sono alla base del periodo di consenso
al regime che per ogni evenienza si avvale anche della propria milizia che efficacemente controlla il territorio come ricordato
da molte Testimonianze.
17 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.28
18 Ibidem, pag.28
20 Ibidem, pag.29
19 Ibidem, pag.28
21 ACB, Verbali Consiglio Comunale, 1.4.1928
20
A Botticino Sera c’è la sede del partito, nella
casa prospiciente l’attuale Casa di Riposo,
dove vengono “invitati a presentarsi” quelli
che in discussioni all’osteria si sono lasciati
sfuggire critiche al governo o hanno tenuto
atteggiamenti non conformi alle direttive del
regime; i bambini delle scuole partecipano
alle manifestazioni del sabato fascista o
alle giornate di istruzione premilitare sulle
colline circostanti Botticino. La scuola stessa
è mezzo di propaganda capillare dell’ideologia e dell’impostazione sociale fascista.
Alcune persone sono segnalate come oppositori e vengono trattenute in Questura in occasione di celebrazioni o della visita di autorità: succede a Giuseppe Piccinotti a Mattina
e, seppure in misura minore, a Giuseppe
Scarpari a Sera; a San Gallo è soprattutto la
famiglia di Casimiro Lonati ad essere tenuta
sotto controllo.
Questo situazione di controllo e di imposizione ideologica è diffusa ma, come nel resto
del paese, anche a Botticino esistono elementi di opposizione, presenti soprattutto
tra la classe operaia di origine socialcomunista e tra le file cattoliche che hanno subito
imposizioni dal regime.
In Italia va maturando un clima politico
ostile all’Azione Cattolica: nel maggio 1931
si sviluppa una forte polemica con una massiccia partecipazione della stampa; alla fine
di maggio, dopo una serie di soprusi contro
le sedi dei Circoli Cattolici e dei loro soci, il
governo ne delibera lo scioglimento.
Lo scioglimento dei Circoli giovanili impressiona fortemente i cattolici botticinesi, suscitando sdegno e condanna.
Anche il circolo botticinese viene sciolto, ma
i giovani continuano la loro attività attraverso adunanze e incontri formativi, e approfittano pure del teatro, per lanciare messaggi
ispirati ai valori cristiani. Attraverso queste
rappresentazioni la gioventù ha modo di riunirsi “istruendo se stessi e il prossimo, che
numeroso partecipava nella chiesa vecchia,
trasformata in teatro”.22
Nel 1932 si costituisce la “Cooperativa operai cavatori del Botticino” che è costretta ad
aderire alla Federazione nazionale fascista
delle imprese cooperative.
L’anno seguente, nel 1933, Hitler va al potere in Germania.
Nello stesso periodo, a Botticino, l’assegnazione delle cave alla Lombardi provoca il
fallimento o la chiusura delle altre ditte che
inevitabilmente licenziano operai: questo
crea malcontento e disagio tra la popolazione operaia, puntualmente segnalati dalla
questura.
Essa segnala che in paese vi sono 170 disoccupati e, contemporaneamente, che è
stata rilevata “un’attività, sebbene non palese, negli elementi sovversivi, alcuni dei
quali, recentemente, avrebbero cantato Bandiera rossa. Vi sono elementi - si sottolinea
- ostili al regime, che necessita sorvegliare,
essendo sospetti di propaganda spicciola”.23
Nel febbraio del 1933 c’è in paese una
manifestazione, nei pressi del Municipio, di
cavatori disoccupati che accendono un falò
con la legna destinata al riscaldamento
dell’edificio pubblico. La manifestazione riscuote un successo tale da indurre il Lombardi stesso alla trattativa per la riassunzione di gran parte dei disoccupati.
Alcuni fra gli operai intuiscono le difficoltà
che serpeggiano fra i componenti dell’Amministrazione e cercano di acuirle. Sempre
fra le carte della questura si registrano voci
che accusano il vice podestà di aver ottenuto
alcuni terreni in cambio dell’appoggio dato
alla stipula del contratto, e lettere anonime
che denunciano l’inefficienza del nuovo podestà Giovanni Rossi. La questione è spia di
un certo malessere all’interno del PNF locale, tanto da indurre lo stesso segretario botticinese, Umberto Ferrari, a prendere carta
e penna per difendere, davanti al Prefetto,
l’onore e la correttezza amministrativa del
“camerata Rossi”.24
23 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.30
22 S.Gorni, Botticino Mattina..., op. cit., pag.197-199
24 Ibidem, pag.30
21
Dopo il rientro in cava in seguito agli accordi
conclusi con la Lombardi, gli operai trovano
il salario decurtato: la situazione si fa tesa
al punto che viene allestita una caserma dei
carabinieri ai piedi delle cave (smobilitata
pochi anni dopo). In queste vicende si sono
messi in luce alcuni operai, che sospettati di
simpatie comuniste e socialiste, vengono periodicamente chiamati in questura e invitati
genericamente “a star calmi”.25
Nel 1935 l’Italia aggredisce l’Etiopia. Le
grandi potenze impongono al Regno d’Italia
le sanzioni economiche. Mussolini invita gli
Italiani all’autarchia.
Il 1936 è l’anno della guerra di Spagna,
dove l’Italia invia i cosiddetti “Legionari”;
tra i volontari che accorrono invece in difesa della repubblica sono segnalati alcuni
botticinesi tra cui uno dei fratelli Lonati di
S.Gallo e un Filippini di Botticino Sera.
In Spagna si verifica il primo scontro armato tra fascisti e antifascisti fuoriusciti.
Nello stesso anno viene costituito l’Asse
Roma-Berlino.
In seguito all’annessione del “Corno d’Africa” viene proclamato “l’Impero”.
A Botticino il podestà convoca le ditte locali per
illustrare il progetto di costruzione di un monumento che ricordi i caduti e nello stesso tempo
celebri la fondazione dell’impero. Il podestà
sollecita a fare “opera di convinzione” presso
gli operai perché concorrano alla spesa.
Il monumento che nella sua forma riprodurrà
l’iniziale di Mussolini, sorgerà nella piazza
comunale (dov’è tuttora) grazie al “generoso sentimento degli operai” ai quali vengono
imposte 48 ore di trattenute sotto forma di
ore di lavoro straordinario; alla cooperativa
vengono invece richieste 24 ore più 3 metri
cubi di marmo per ogni socio.26
Un rapporto steso nel 1937 da Italo Nicoletto per il Centro estero del PCI, riferisce di
una realtà difficile ma per alcuni versi in mo-
vimento. Invitati dallo stesso Nicoletto a far
presente le proprie rivendicazioni i cavatori
botticinesi segnalano il rischio in cui incorrerebbero: “sarebbero stati licenziati, perché i
padroni avrebbero dato per un certo tempo
quanto gli operai avevano diritto, ma i promotori alla prima occasione sarebbero stati
licenziati e non avrebbero più trovato lavoro nel loro mestiere. (...) Molte volte - precisa
l’esponente comunista - preferiscono fare un
lavoro cospirativo (distribuire stampe ecc.)
col quale rischiano parecchi anni di carcere,
che fare un lavoro per il quale nella peggiore
delle ipotesi vengono licenziati.”27
Questo rapporto conferma l’esistenza,
espressa in alcune Testimonianze, di un inizio di diffusione di propaganda antifascista
in gran parte collegata all’esperienza clandestina comunista: copie dell’Unità, volantini, materiali riferiti alla situazione dell’Unione Sovietica.
Alcuni operai, come racconta Mario Rossi, riescono a leggere libri proibiti dal regime grazie all’aiuto del curato di Mattina che mette
a disposizione la sua biblioteca.28
Il 7 aprile 1937 Nicoletto sfugge all’arresto e resosi latitante viene ospitato a San
Gallo da dove, presi gli ultimi contatti, inizia
la fuga che lo porta a Gorizia e quindi in Yugoslavia.29
Vi sono quindi elementi che indicano la presenza di avversione al regime e, soprattutto tra gli operai delle cave, di una qualche
organizzazione antifascista, evidentemente
limitata e ovviamente clandestina, che non
investe la maggioranza della popolazione.
Solamente nel ‘42-43, a guerra avanzata,
dopo la tragica ritirata di Russia e il forte
peggioramento delle condizioni economiche,
il dissenso diverrà generalizzato anche a
Botticino.
Nel 1939 viene firmato il “Patto d’acciaio” tra Italia e Germania. Nel settembre di
27 Ibidem, pag.32.33
28 Ibidem, pag.64
25 Ibidem, pag.31
26 Ibidem, pag.32
22
29 I. Nicoletto, Lettere dal carcere, dal confino dall’esilio,
Brescia 1980, pag.XXIX
quell’anno la Germania invade la Polonia:
inizia così la seconda guerra mondiale. L’Italia per il momento rimane neutrale.
Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra
contro Francia e Gran Bretagna.
Il 23 ottobre la guerra dell’Italia viene
estesa ai Balcani.
A Botticino il PNF non naviga in buone acque. Una relazione della questura del 27
febbraio 1940 segnala l’iscrizione di soli
238 uomini e 55 donne sui 5.016 abitanti
del comune. Gli iscritti sono in gran parte
concentrati a Sera. Quella che si sta verificando è una erosione costante delle adesioni, tanto che nel dicembre 1942 un altro
rapporto della questura parlerà apertamente di “abbandono” della sezione del fascio
botticinese.30
Allo scoppio della guerra nel 1940, i giovani e gli uomini vengono chiamati alle armi
e mandati al fronte. Il Parroco di Botticino
Mattina don Pietro Tiboni si fa promotore di
un’iniziativa coinvolgente con cui invita alla
preghiera per i soldati. Così durante una solenne celebrazione nella chiesa parrocchiale
si fa il sorteggio dei nomi dei soldati che vengono abbinati ai ragazzi del paese per cui
ognuno di essi diventa “l’angelo custode” di
un soldato, per il quale è incaricato di pregare per il suo ritorno incolume alla famiglia e
al paese.
L’abbinamento soldato bambino viene registrato su un quaderno compilato da Maria
Squassina, a quel tempo delegata dei fanciulli cattolici.31
Nel 1941 inizia la guerra contro l’URSS,
che porta ad una grande tragedia per le
truppe italiane là inviate.
Gli USA, dopo l’attacco giapponese a Pearl
Harbour del 7 dicembre, intervengono a
fianco degli alleati europei.
economiche a Botticino. Molti giovani botticinesi sono alle armi, gli altri verranno inviati
al lavoro a Ghedi, presso la Totd.
I carabinieri segnalano il 29 luglio 1941
una manifestazione singolare: un gruppo di
donne e bambini composto di circa 200 persone si presenta in Municipio protestando
per la mancanza di pane e di farina gialla. Il
prefetto dispone una maggiore distribuzione
di questi generi. 32
Dopo la battaglia di Stalingrado (settembre-novembre 1942) inizia la controffensiva russa.
In ottobre inizia l’offensiva anglo-americana nell’Africa settentrionale.
Nel marzo 1943 si svolgono varie manifestazioni popolari, soprattutto scioperi nelle
fabbriche, contro il fascismo e la guerra.
Tra il 9 e il 10 luglio avviene lo sbarco degli alleati in Sicilia.
Il 25 luglio, dopo l’esito del Gran Consiglio
del fascismo, il re fa arrestare Mussolini.
Pochi minuti prima della mezzanotte del
25 luglio del 1943, l’EIAR trasmette due
comunicati del re e del generale Badoglio,
nominato capo del governo, con cui gli italiani apprendono che Mussolini è stato imprigionato. Questo fatto viene interpretato
come la caduta del fascismo e la fine della
guerra: la popolazione scende nelle piazze a
manifestare la sua gioia fino alla tarda sera
del 26 luglio.
Nelle fabbriche si costituiscono commissioni interne di operai, i partiti escono dalla
clandestinità nonostante i divieti governativi. Negli stessi giorni nasce un comitato
interpartitico (poi CLN), nel quale sono rappresentati principalmente socialisti, comunisti e democratico-cristiani.
Gli anni della guerra segnano il rallentamento e spesso l’arresto delle principali attività
Già prima del 25 luglio si era costituito, a
Brescia, il Fronte del lavoro, organizzazione unitaria di sinistra, creata da socialisti
e comunisti, di cui era segretario Casimiro
Lonati.33
30 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.33
32 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.33
31 S.Gorni, Botticino Mattina…,op. cit., pag. 234-243
33 M.Ruzzenenti: Il movimento operaio bresciano nella
23
È un lavoro ancora sotterraneo che si svilupperà soprattutto in direzione delle fabbriche dove vengono ricostituite cellule di
comunisti (che possedevano un certo patrimonio di lotta clandestina) e si cerca di
contrastare la propaganda fascista sfruttando le condizioni di disagio causate dalla
penuria di generi di prima necessità e dal
continuo aumento dei prezzi.34
Già precedentemente Casimiro Lonati (come
responsabile della Federazione clandestina
del PCI) aveva tenuto numerosi incontri con
gli operai delle fabbriche della Val Trompia.
Tra essi anche il botticinese Rino Gorni.35
Casimiro Lonati (col nome di Spartaco) dirige il lavoro politico e organizzativo in Val
Trompia e si fa anche promotore della costituzione delle commissioni interne di fabbrica.36
Trascorrono così i 45 giorni del governo
di Badoglio, la guerra continua a fianco
dell’alleato germanico.
Il 3 settembre Badoglio, visto che gli alleati stanno per attaccare la penisola, decide
di capitolare firmando a Cassibile (in Sicilia) l’armistizio con gli anglo-americani.
Solo l’8 settembre 1943 ciò viene reso
noto al popolo; il re e Badoglio fuggono a
sud verso gli Alleati, lasciando l’esercito
privo di un comandante e di direttive sul da
farsi, soprattutto nei confronti dei tedeschi,
che intanto hanno cominciato l’invasione
della penisola.
Proprio la sera dell’8 settembre il botticinese Casimiro Lonati si trova a Collio, a
casa di Pietro Gerola, dove assieme ad altri
giovani del luogo viene costituito il primo
nucleo di resistenti in alta Valle Trompia.37
Soldati alla ricerca di abiti civili, ex prigionieri alleati che scappano attraverso le
montagne verso la Svizzera, sbandati che
riparano sui monti per organizzare un miresistenza, Roma 1975, pag.54
nimo di difesa in attesa della fine del conflitto ritenuto imminente: si formano così i
primi gruppi partigiani, sulla base di motivazioni diverse. Per la maggior parte si tratta di porre fine ad una guerra non sentita,
di sfuggire alla cattura, di “fare qualcosa”
di fronte all’invasione tedesca.38
Fin da quei giorni inizia un’azione di orientamento e già si parla di aiuti a coloro che
sono in montagna o intendono andarvi.39
In Valsabbia già all’indomani dell’8 settembre, si formano in maniera spontanea
e piuttosto improvvisata, alcuni gruppi costituiti prevalentemente da militari sbandati, in massima parte abitanti della valle.
Ad alcuni gruppi si pone immediatamente,
tra gli altri, il problema organizzativo del
trasferimento in Svizzera degli ex prigionieri alleati che, fuggiti dal campo di concentramento di Vestone dopo l’armistizio, si
erano portati verso la montagna e nei dintorni di Forno d’Ono. Questa attività fino al
gennaio 1944 sarà una delle più rilevanti
di alcuni gruppi valsabbini.40
Già dal 10 settembre 1943, giorno stesso dell’entrata delle truppe tedesche nel capoluogo, gruppi di ex militari si nascondono
sulle colline e sulle montagne: si trovano via
via sulle balze di Botticino, a San Gallo, a
Serle e in molte altre località della provincia
bresciana.
Accorrono sempre più numerosi i giovani,
soprattutto dopo il bando di presentazione
alle armi delle classi 1923-1924-1925 e a
seguito del proclama del comandante superiore delle forze germaniche, colonnello
V. Wuthenau. Infatti dopo la proclamazione dell’armistizio cominciano a comparire
in tutti i paesi i proclami dei tedeschi, che
rivelano subito la ferocia del loro programma di repressione.41
38 M.Ruzzenenti: La 122a brigata…, op.cit., pag.15
34 M.Ruzzenenti: La 122a brigata Garibaldi e la resistenza nella Valle Trompia, Brescia 1977, pag.13
39 R.Anni, Storia della brigata Perlasca, Brescia 1980,
pag.17
35 Ibidem, pag.29
40 Ibidem, pag.22
36 Ibidem, pag.30
41 Comunità montane di Sebino Bresciano e Valle Trompia, Croce di Marone la prima battaglia della resistenza, Lumezzane 1983, pag.3
37 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza a
Gardone VT, Gardone VT 1995, pag.141
24
Il 12 settembre un reparto di paracadutisti tedeschi libera Mussolini dalla sua prigione sul Gran Sasso. Dopo un periodo di
permanenza in Germania, Mussolini forma uno stato fantoccio nell’Italia occupata
dai tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana
(R.S.I.)
A Brescia il 12 settembre giunge Leonardo
Speziale, comunista con esperienza militare nella Resistenza francese. Futuro animatore della 122° brigata Garibaldi si mette al lavoro per organizzare i primi G.A.P.
(Gruppi di Azione Patriottica).42
I partiti democratici bresciani danno vita il
18 settembre al Comitato di Liberazione
nazionale, composto da Giuseppe Ghetti,
Casimiro Lonati (PCI), Bigio Savoldi (PSI),
Andrea Vasa (Pd’A), Enrico Testa (DC).43
Il 28 settembre il partito socialista e quello comunista, all’interno della resistenza
bresciana, rinnovano il patto di unità d’azione con lo specifico compito di combatte-
re il nazifascismo. Al botticinese Casimiro
Lonati, uno dei fondatori della Federazione
del PCI di Brescia, in quel tempo residente provvisoriamente a Villa Carcina, viene
assegnato il ruolo di massima responsabilità.44
Casimiro Lonati (Spartaco) si occupa dell’organizzazione politica della zona di collina e
di media montagna a nord di Brescia, compito cui si aggiunge una funzione di carattere militare in riferimento alle particolari
necessità della zona intorno al monte Guglielmo, dove sono dislocate le prime bande
partigiane.45
Casimiro Lonati come membro del CLN tiene anche i contatti con alcuni giovani renitenti alla leva della Repubblica di Salò
fino al 1944, quando viene inviato a Novara come ispettore delle brigate Garibaldi
dell’Alto Novarese.46
44 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag.89
42 M.Ruzzenenti: La 122a brigata…, op. cit., pag.17
45 M.Ruzzenenti, Il movimento operaio…,op. cit., pag.69
43 M.Ruzzenenti: Il movimento operaio…, op. cit., pag.64
46 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.33.34
Casimiro Lonati
San Gallo di Botticino 3.10 1897 - Botticino Mattina 13.4.1983
Trasferitosi a Sant’Eufemia giovanissimo, entrò nel partito socialista e nel 1919 si dedicò all’attività sindacale tra gli edili. Era
infatti muratore. Aderì al partito comunista sin dalla fondazione,
nel 1921. Attivo antifascista, fu costretto ad espatriare47, assieme
ai fratelli, alla ricerca di lavoro. Stabilitosi nei pressi di Parigi, nel 1922-1923 continuò la sua attività politica tra i fuoriusciti italiani: ricoprì cariche sindacali e politiche come membro
del Comitato Nazionale, Ufficio mano d’opera straniera. Espulso dalla
Francia nel febbraio 1930 riparò nel Belgio dove divenne redattore
del giornale “Il Riscatto”, nonché segretario delle “Leghe Antifasciste” attive tra gli italiani emigrati in Belgio, Olanda e Lussemburgo.
Nel 1931 entrò a far parte dell’apparato centrale del Partito Comunista d’Italia. Per missione di partito rientrò clandestinamente in
Italia e svolse la propria attività clandestina specialmente a Mila47
25
no. In quel periodo i fratelli che erano rientrati in Italia a causa
di una malattia della madre, vengono più volte portati in questura e
fatti oggetto di interrogatorio, soprattutto Angelo, e spesso trattenuti alla ricerca di informazioni.
Dopo qualche tempo Miro Lonati fu inviato a Mosca, ove frequentò
l’università leninista.
Rientrato in Italia nel 1934, lavorò nelle organizzazioni antifasciste clandestine di Milano e Genova, dove fu arrestato nel giugno
e assegnato per 5 anni al confino nell’isola di Ponza. Nel 1935, in
seguito ad agitazioni di protesta dei confinati, assieme a numerosi suoi compagni fu processato a Napoli e condannato a 10 mesi che
scontò nel carcere di Poggioreale. Nel luglio del 1939 fu trasferito
alla colonia penale di Pisticci dove il 26 dicembre venne prosciolto
dal confino.
Riacquistata la libertà, ritornò a Sant’Eufemia e Botticino e poté
riabbracciare la famiglia, alcuni membri della quale non vedeva da
19 anni.
Quindi riprese la lotta pur costantemente vigilato dalla polizia e
fino al 1943 fu segretario della Federazione comunista clandestina
di Brescia.
Qui d’intesa con i socialisti, costituì il “Fronte del Lavoro”,
organismo che ebbe parte importante negli scioperi del marzo. Il
26.7.1943, alla caduta del fascismo, con il socialista Giovanni Ferrari occupava il palazzo dei sindacati e veniva nominato vice-commissario dei sindacati del bresciano.
Dopo l’8.9.1943, sostituito da Giovanni Grilli nella direzione della Federazione comunista bresciana, entrò a far parte del C.L.N.
locale con Bigio Savoldi e il col. Pizzuto assumendosi il compito
di mantenere i contatti con le prime formazioni partigiane della
provincia. Col nome di “Spartaco” lavorò soprattutto in Valtrompia,
dove risiedette per un certo tempo a Villa Carcina assieme alla madre a ai fratelli.
Dal 4 febbraio 1944 venne trasferito dal partito a Novara come ispettore delle brigate Garibaldi dell’alto novarese (col nome di “Pippo
Coppo”) e successivamente come responsabile politico della 2° Divisione operante nel Cusio e nell’Ossola col nome di battaglia “Verdi”. Rappresentò successivamente il P.C.I. nel governo provvisorio
della repubblica dell’Ossola (40 giorni) e dopo la sua caduta finì
coi partigiani dell’Anzasca.
Dopo la Liberazione divenne segretario della Federazione comunista
di Novara.
Tornato a Brescia, va a vivere a S.Eufemia con il fratello Angelo e
la sorella Maria. Divenne membro della segreteria provinciale del
P.C.I., del comitato esecutivo della C.d.L. per la categoria degli
edili, segretario della F.I.L.E.A., dirigente del lavoro sindacale
del P.C.I. e segretario della Confederterra di Brescia. Nell’ottobre
1948 venne nominato segretario della C.d.L. di Manerbio. Fu inoltre
presidente dell’A.N.P.P.I.A. provinciale.
È stato consigliere comunale del P.C.I. a Botticino dal 1956 al 1960.
26
Un personaggio dalla vita avventurosa e complessa; certamente un militante per il quale “il partito, la politica venivano prima di ogni
cosa”, come racconta la figlia. Si sposò in età avanzata, dopo la
guerra. Nei ricordi era una persona dal carattere introverso, quasi
timido, forse rintracciabile nelle sue origini montanare di San Gallo, ma comunque apprezzato e ben voluto dagli operai e dai compagni
di partito, tanto è vero che viene spesso citato nelle Testimonianze
con affetto.
Purtroppo una malattia lo privò progressivamente della vista e altri
problemi di salute gli impedirono di proseguire la sua attività politica, benché, fino a che fu possibile, lo si poteva incontrare sui
mezzi pubblici, con il suo bastone bianco, recarsi a Brescia alla
Federazione del PCI allora in via Gramsci. Passò gli ultimi anni,
finché la vista glielo consentì, a leggere e prendere appunti sulle
vicende politiche del nostro paese: non ostante le sue origini si
era costruito una notevole cultura politica e i quaderni ancora conservati dalla famiglia ne sono testimonianza.
Visse gli ultimi anni a Botticino dove morì il 13 aprile 1983.48
47/48 Le notizie sono ricavate da: Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, La Pietra - Walk Over ed.; Testimonianza della figlia Uliana Lonati (Botticino 4.12.1997)
Il comitato interpartitico, diventato CLN,
cerca di organizzare le diverse bande di ribelli. Occorre procurare indumenti, cibo,
armi e munizioni a centinaia di persone.
Spontaneamente vengono emergendo alcune personalità che dimostrano capacità
di direzione. Attorno ad esse si coagulano le prime formazioni partigiane. La più
numerosa si trova a Croce di Marone e a
Colma di Zone e si raccoglie intorno all’ufficiale dell’esercito Martini e a Peppino Pelosi; un altro gruppo nella zona di Croce di
Pozzuolo al comando di Francesco Cinelli;
un gruppo autonomo alla Sella di Polaveno
con Ferruccio Lorenzini (in questo gruppo
milita anche Giuseppe Gheda, futuro vicecomandante della 122° brigata Garibaldi),
altri gruppi operano in alta Valle Trompia
con i fratelli Gerola.
Data la mancanza di armamento, e dopo
due incontri falliti con esponenti della Beretta per negoziare delle armi, si opta per il
colpo di mano alla fabbrica d’armi gardonese.
La notte fra il 6 e il 7 ottobre 1943 un
gruppo di partigiani delle diverse bande,
diretti per l’occasione da Martini e Pelosi,
con un’azione molto ben preparata e con la
collaborazione di elementi interni alla Beretta, riesce a prelevare una notevole quantità di armi, successivamente trasportate a
S.Rocco e lì divise tra i vari gruppi. Il giorno
dopo i tedeschi, per ritorsione, fanno arrestare tutti i componenti della commissione interna della fabbrica. Da ricordare, per
quanto riguarda il rifornimento di armi, anche l’aiuto fornito da molti operai gardonesi
che riescono a prelevare armi di nascosto
durante gli allarmi aerei o addirittura trasportando parti di armi separatamente,
ricostruendole poi in officine clandestine,
improvvisate in cantine o solai.49
Nel novembre del 43 è segnalata l’esistenza
di un gruppo di partigiani operanti sul monte
S. Vito tra Nave e Botticino capeggiato da
un certo tenente Volpi.. Il gruppo partecipa
all’assalto alla caserma dei carabinieri di
Nave da cui asporta armi e munizioni.50
49 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag.14
50 S.Peli, Il primo anno della resistenza. Brescia 19431944, Brescia 1994, pag.57
27
Nel novembre il partigiano Pietro Gerola preleva dalle cave di Botticino esplosivo
usato per l’escavazione del marmo, assieme
a molti detonatori. La gelatina verrà portata
a Brescia, Milano, Udine e Padova. 51
Il 12 novembre una bomba viene fatta
esplodere presso la caserma del Comando
Generale della M.V.S.N. a S.Eufemia.52
Tutte queste ed altre attività non possono
che preoccupare i nazifascisti, che decidono quindi il primo grande rastrellamento.
L’obiettivo è Croce di Marone: l’attacco avviene il 9 novembre 1943: si tratta di uno
dei primi scontri armati tra gruppi partigiani e forze nazifasciste nell’Italia occupata e
si conclude con uno sfacelo non ostante
l’accanita Resistenza partigiana.
A questo rastrellamento ne seguono altri,
il 20 e 21 novembre in alta Valle, ed il
13 dicembre nella zona di Gardone V.T.
dove si registrano i primi arresti. In seguito a quest’ultimo rastrellamento i partigiani della valle vengono dispersi, i principali comandanti (Cinelli, Lorenzini, Pelosi)
catturati e giustiziati, mentre Gheda viene
condannato a vent’anni di carcere. Da ciò
deriva una crisi del movimento partigiano
che durerà fino alla tarda primavera del
‘44.53
Una battuta d’arresto deriva anche dalla
feroce rappresaglia e dall’eccidio di piazza Rovetta del 13 novembre, ad opera dei
nazifascisti, che pone ostacoli all’attività di
Casimiro Lonati e degli altri e intimidisce gli
elementi di base.54
Resta attivo in quel periodo un gruppo formato da russi ex prigionieri di guerra, poi
fuggiti da Brescia verso le montagne. Questi
operano tra la media Val Trompia e la Val
Sabbia al comando di Nicola Pankov, che
51 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag.130
52 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.17
53 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag.14
54 M.Ruzzenenti, Il movimento operaio…, op. cit., pag.70
28
ha la sua base d’appoggio presso alcune famiglie di Marcheno. Anche questo gruppo
per tutto l’inverno fino alla primavera del
‘44 non svolge attività militare, svernando
in montagna tra mille difficoltà, arrangiandosi in qualche modo.
L’inverno ‘43-44 è durissimo: repressioni,
rappresaglie e rastrellamenti fiaccano
l’onda spontanea della rivolta e fanno
cadere le illusioni di chi credeva che la
guerra fosse alla fine.
Il fronte si stabilizza sugli Appennini; la Repubblica di Salò grazie al sostegno tedesco
sembra riprendere forza.
L›unica forma di resistenza clandestina
esiste all›interno delle fabbriche, in alcune
delle quali continua l›operazione di raccolta
delle armi.55
Con l’arrivo della primavera del ‘44 molti
giovani, in seguito alla chiamata alle armi
delle classi 1924, ‘25 e ‘26 da parte della
RSI, preferiscono raggiungere le montagne:
la scadenza dell’8 marzo, termine ultimo
entro il quale presentarsi, e la legge del 18
febbraio, che commina la pena di morte
ai renitenti, hanno l’effetto di accrescere e
moltiplicare le file dei patrioti; si indirizzano
quasi tutti verso il gruppo dei russi. Sono
questi giovani che in seguito daranno vita
alla 122a Brigata Garibaldi, la formazione
combattente organizzata nel bresciano fra
l’estate del ‘44 e la Liberazione. Nello stesso mese di giugno del 1944 viene inviato
dalla federazione del PCI Marchina, di Gussago, che deve prendere il comando di tutti
i giovani che si erano uniti ai russi.
Il gruppo misto di questi raggiunge così un
numero di 250 giovani; si ripresenta il problema dell’armamento e del vettovagliamento.
Dopo un fallito lancio di rifornimenti da
parte degli alleati sul monte Guglielmo (effettuato invece in Valle Camonica), Marchina decide il trasferimento di una parte di
questi giovani verso le zone in cui opera55 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag.14
no Fiamme Verdi e la 54a Garibaldi, con la
speranza di ottenere qualche armamento.
La colonna si scontra nella zona del monte Muffetto con un gruppo di nazifascisti,
molti i feriti e 17 i prigionieri che sono spediti in Germania. Per i superstiti quella è
un’esperienza tremenda, molti preferiscono
riparare nelle loro case e restarvi nascosti.
Pochi fanno ritorno al monte Guglielmo
unendosi al gruppo misto di Nicola.
Sul finire del giugno 1944, il 28, questo
gruppo misto decide l’attacco alla caserma
della GNR a Brozzo, dando così segno della nuova forza acquisita. Il colpo ha doppia
importanza: da una parte rifornisce i partigiani di armi e munizioni, dall’altra, essendo seguito da fatti analoghi a Bovegno e a
Collio (dove operano un gruppo autonomo
intorno ai fratelli Cecco e Arturo Vivenzi e
gruppi di Fiamme Verdi attestati sulla Corna Blacca e sul Dosso Alto), determina l’abbandono dell’alta valle da parte dei fascisti.
Da quel momento nell’alta Val Trompia non
rimane più alcuna guarnigione fascista:
da qui la decisione di porre a Gardone una
porta in via Zanardelli e una sbarra sulla
statale all’altezza della Beretta (quasi a delimitare due territori diversi) per il controllo
del traffico verso l’alta valle che è diventata
una sorta di “zona libera”. I reparti nazifascisti raggiungono quei paesi solo per attuarvi rastrellamenti e rappresaglie.56
Il 5 giugno 1944 è avvenuta la liberazione
di Roma, il 6 è cominciato lo sbarco in Normandia. Himmler, capo supremo delle SS,
dichiara l’Italia settentrionale e centrale
come “zone per la lotta contro le bande di
ribelli”.
La crescita dei componenti dei gruppi, favorita dalla speranza che con l’estate sarebbe
ripresa l’offensiva alleata (come dimostrava
la liberazione di Roma) e che quindi la fine
della guerra fosse prossima se non imminente, ha come primo risultato una maggiore spinta morale ad agire che si traduce in una serie di iniziative prima isolate,
spontanee e prive di coordinamento tra i
vari nuclei, poi in collegamento, per quanto
possibile, tra di loro.57
Si rende sempre più necessaria la costituzione di un’unica brigata, ma mancano gli
elementi capaci di porsi alla guida di essa
con adeguata esperienza militare.
Il 13 luglio 1944, durante il bombardamento di Brescia, Bruno Gheda, Leonardo
Speziale (Arturo) e altri, riescono a fuggire
dal carcere e a riparare in Val Trompia. Qui
riorganizzano il movimento partigiano, raccogliendo molti uomini, provenienti anche
dal gruppo misto dei russi. Questi ultimi,
mantengono però un comportamento autonomo rifiutandosi di collaborare col CLN,
e ciò determinerà in seguito la condanna a
morte del loro comandante Nicola.
I garibaldini ormai diventati 122a Garibaldi
rappresentano il punto di riferimento per
tutti i giovani della nostra zona che scelgono la montagna.58
A comandarla è Bruno Gheda e il commissario politico è Leonardo Speziale (che per
l’occasione cambia il nome di battaglia in
Carlo); ai primi di agosto si unisce anche
Luigi Guitti (Tito). Si accentua il processo
di dissoluzione dei gruppi autonomi e di
aggregazione intorno al nucleo garibaldino,
che per la sua coesione ideale e l’omogeneità politica, oltre che per il prestigio dei suoi
comandanti, diviene fattore di coesione per
il movimento partigiano valtrumpino.59
I partigiani hanno contatti con la popolazione di Botticino, soprattutto a San Gallo, per
cercare viveri e indumenti: raccontano le loro
esperienze e fanno opera di proselitismo fra
gli operai rimasti, i renitenti alla leva repubblichina e i giovani appartenenti alle famiglie di vecchia fede socialista e comunista.60
57 R.Anni, Storia della…, op. cit., pag. 64-65
58 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag. 15
59 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.51
56 Ibidem, pag.14
60 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.34
29
A San Gallo arriva, da Serle, Stefano Allocchio per raccogliere informazioni e tenere contatti con altri gruppi ribelli della Valle
Sabbia.61
Allocchio guida un distaccamento della
Brigata Perlasca costituitosi a Serle: è un
gruppo di notevole importanza sia per i collegamenti della brigata che opera in Valsabbia con la città, sia per il controllo che
può effettuare sulla statale per il Garda e
61 Caterina Rossi Tonni, I giorni del Tesio, Serle 1995,
pag.22
per la Valsabbia stessa.62
Il movimento di Liberazione a Botticino Mattina trova fertile terreno anche in persone di
estrazione cattolica, che aiutano come possono; specialmente alcune donne di Azione
Cattolica si fanno promotrici di aiuti materiali
e di sostegno morale ai patrioti che sono sulle montagne. Maria Squassina, Maria Rossi,
Angela Casali ed altre donne, col consenso
del parroco e col pretesto di raccogliere le offerte per le campane, passano nelle famiglie
a chiedere il contributo per i partigiani.
62 R.Anni, Storia della…, op. cit., pag. 108-109
Le campane di Botticino Mattina
Durante la seconda guerra mondiale, le campane di Botticino Mattina
rischiano la distruzione. Nel 1943 giunge in canonica un ordine di
requisizione secondo il quale Botticino Mattina deve consegnare 20
quintali di bronzo da trasformare in armi per i bisogni della guerra
(Reale Decreto 23 aprile 1942 - XX, n. 505).
Due campane vengono tolte dalla torre e trasportate a Ghedi in un
campo di raccolta insieme ad altre della nostra zona.
“Quando ormai si dispera di salvarle, si apre uno spiraglio: gli
avvenimenti politici che si accavallano in quel periodo, fermano
l’esodo delle campane bresciane, molte delle quali erano già state
distrutte. Le botticinesi nel dicembre del 1943 sono ancora intatte
e si pensa di recuperarle andando a Ghedi a prelevarle: occorrono L.
5.000 per riscattarle”.
Nell’archivio parrocchiale esiste il “resoconto offerte campane” eseguito dal parroco in data 31 dicembre 1943, dove sono segnati i nomi
degli offerenti. Raggiunta la cifra occorrente, si pagano le cinquemila lire di riscatto e si vanno a prendere a Ghedi. Il trasporto
viene eseguito da Marino Antonelli (Scàrpa) che “si porta a Ghedi con
la sua “carata” trainata da due cavalli. Eseguito il carico, prende
la via del ritorno evitando le strade maestre per non fare spiacevoli incontri, e giunge a Botticino Mattina quando ormai è notte,
perciò si ferma alla ex “Casa del popolo”. La mattina seguente le
campane fanno il loro ingresso per la via principale del paese (via
Roma) dove è accorsa gente attirata dal loro suono essendo percosse
con il martello”.
Vengono scaricate nel cortile della canonica e “ricollocate in torre” dalla ditta Filippi Giuseppe e Figlio con una spesa di L. 3.600:
la fattura porta la data del 5 maggio 1944.63
63 Sandro Gorni, Botticino Mattina…,op. cit., pag.149
30
Dopo la guerra si riconoscerà questo impegno da parte dei partigiani garibaldini. Maria Squassina risponderà per iscritto alla
commissione garibaldina - sezione di Botticino Mattina - che voleva ricompensarla per
il bene fatto, mettendo in risalto la gratuità della sua partecipazione, anche a nome
delle altre donne dell’Azione Cattolica: “per
quanto riguarda il riconoscimento di aver
contribuito ad aiutare i partigiani nel periodo dell’occupazione tedesca vi informo che
quel poco che ho fatto, l’ho fatto per amore fraterno verso coloro che uniti da un solo
ideale si sacrificavano per liberare la nostra
cara Patria. Perciò non desidero altra ricompensa, che la soddisfazione di vedere libera
la nostra cara Patria”.64
L’episodio è indice della solidarietà che accomuna persone di differente estrazione di
fronte alle difficoltà e ai pericoli; solidarietà
che andrà disperdendosi a guerra conclusa
per il prevalere delle diverse opzioni politiche.65
Nel mese di maggio giovani di Gavardo e
delle zone vicine che dovevano presentarsi
per il servizio militare sotto la RSI lasciano il
lavoro, le famiglie, per non sottostare a questi ordini e, con un po’ di cibo, si dirigono
verso Serle, Botticino, San Gallo. Allocchio
conduce la sua attività in collaborazione con
alcuni comandanti partigiani che vengono
periodicamente in Tesio per prelevare i giovani. Allocchio manda rifornimenti anche ai
partigiani della Garibaldi di San Gallo.66
Alla fine di settembre 1944 sul Tesio arrivano tre partigiani provenienti, con un
viaggio avventuroso, dall’altipiano di Asiago: uno di loro, un “bel ragazzo, altissimo,
biondo”, è il livornese Giuseppe Biondi e
chiede di essere aggregato alla brigata Garibaldi che opera a San Gallo; il secondo, un
milanese chiede di entrare a far parte delle
Fiamme Verdi e viene accompagnato a Livemmo, mentre il terzo, un piacentino, viene
sistemato presso una famiglia di contadini
in attesa di tornare a casa.
Biondi, che indossava ancora un giubbotto
mimetico americano ma con pantaloncini
corti, trova di che vestirsi grazie ai partigiani
di Bedizzole che avevano mandato in Valpiana di Serle degli indumenti sottratti ai tedeschi; viene poi accompagnato a San Gallo
dove si aggregherà ad un gruppo di garibaldini lì dislocati.67
Il 4 ottobre 1944 la nuova brigata 122a
viene formalmente incorporata nel comando generale delle Brigate d’assalto Garibaldi e quindi nel Corpo Volontari della Libertà
e ne assume il comando Giuseppe Verginella (Alberto), il quale subito raduna gli uomini per predisporre un piano di recupero di
armi, scarpe e soldi per far fronte ai bisogni
della formazione.68
Subito viene organizzato un colpo ai danni del Calzaturificio Alberti di S.Eufemia,
dove vengono prelevate 250 paia di scarpe
di tipo militare.69
Il 13 ottobre viene effettuato un prelievo di
vestiario alla “Tadini e Verza” di Brescia, si
trafugano circa 300 abiti destinati in Germania.70
A fine ottobre circola in paese, a Botticino,
un biglietto di propaganda, incitante i giovani ad arruolarsi nelle file partigiane, recante
l’emblema della falce e martello.71
Approssimandosi la cattiva stagione e dato
l’intensificarsi dei rastrellamenti, la 122a
brigata viene divisa in tre gruppi: uno dislocato verso Brescia, uno nelle località
Quarone e Camaldoli e il terzo a San Gallo,
sotto il comando di Gheda.72
67 Ibidem, pag.44
68 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.55-56
69 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag.16
70 Ibidem, pag.139
64Ibidem
71 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.33
65 Testimonianze orali di Luigi Previcini e altri
72 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag.16
66 Caterina Rossi Tonni, I giorni…, op. cit., pag.45
31
San Gallo è luogo di collegamento fra la brigata garibaldina e i partigiani della zona di
Brescia est: il luogo e le famiglie che avevano dato alloggio e consentito la fuga di Nicoletto verso la Jugoslavia nel ‘37 sono ora a
disposizione delle necessità logistiche e di
rifugio dei partigiani.
Nel settembre del ‘44, ad esempio, si segnala che “il compagno Pedretti viene ricoverato a San Gallo”, senza specificare se per
ferita o malattia.
Da Botticino salgono a San Gallo con viveri,
indumenti e informazioni i partigiani locali,
raccolti soprattutto intorno a Rino Gorni, riportando notizie sulla preparazione di azioni, loro compito è quello di fornire l’appoggio
necessario.73
A Botticino Mattina sono attive due cellule:
una localizzabile in via San Nicola (oltre al
Gorni, Arnaldo Arici, Emilio Moreschi, Angelo Damonti e altri), l’altra intorno a via Cave
(Amilcare Benetti, Luigi Tomasotti, Angelo
Noventa).
A Botticino Sera, dove le difficoltà sono maggiori, sia per la minore presenza antifascista
sia per la vicinanza alla città, ma anche perché vi alloggiano ufficiali tedeschi e i fascisti
hanno una presenza più marcata, esiste un
gruppetto legato a Scarpari, Fraboni, Quadri, Della Fiore; quest’ultimo, garzone fornaio, gode di una certa libertà di movimento,
per cui fa anche da “postino” per la propaganda oltre a partecipare ad alcune azioni
di appoggio.
73 Testimonianze orali di F.Moreschi e altri
Giuseppe Scarpari (Bortol dei Bù)
Botticino 28.5.1895 - 27.7.1976
Giuseppe Scarpari, discendente di quel Michelangelo Scarpari garibaldino botticinese partecipante all’impresa dei mille, nasce a Botticino Sera nel 1985; compie un corso di studi che lo porta ad un
diploma tecnico contabile per cui entra al lavoro in una banca cooperativa bresciana di cui diviene capo-contabile. Viene invitato a
prendere la tessera del fascio, la cui ideologia però è lontana dalle
sue idee di matrice socialista che aspirano a condizioni di uguaglianza per tutti: è solito ripetere che il fascismo è un disastro
per i poveri che sono destinati a divenirlo ancora di più. Perciò
rifiuta la tessera fascista e viene licenziato. Sceglie di dedicarsi
alla coltivazione delle vigne e alla produzione del vino a Botticino dove la sua famiglia possiede alcuni terreni: proprio questa
via di uscita lavorativa gli consente di mantenere una posizione di
autonomia rispetto al regime nascente e di resistere alle lusinghe
ricorrenti del regime stesso che cerca di attirarlo tra le proprie
fila per il consenso personale e per l’autorevolezza che circonda la
sua figura in paese.
Militante socialista non si piega nemmeno alla violenza fascista
tanto da subire per questa resistenza prigione e sistematiche angherie. In occasione di un anniversario della marcia su Roma viene trovato dai militi fascisti mentre accudisce le sue vigne e per questo
motivo tradotto e trattenuto per alcuni giorni in prigione.
Il periodo più lungo di carcerazione avviene nel 1926: Scarpari viene arrestato il 18 giugno per attività contro il regime fascista e
rimesso in libertà provvisoria il 4 agosto.
32
Successivamente, sempre nello stesso anno, viene fermato altre due
volte per “misure di pubblica sicurezza” e sottoposto a perquisizioni personali e domiciliari.
Inoltre con ordinanza della commissione provinciale fascista in data
21 dicembre 1926, viene sottoposto ai “vincoli dell’ammonizione per
la durata di anni due, quale socialista massimalista”.
Per queste motivazioni, nel dopo guerra, gli verrà assegnata una
pensione in qualità di perseguitato politico antifascista. Viene più
volte ammanettato con vari pretesti e portato in questura a Brescia;
in questi frangenti conosce e diviene amico di Alghisio Bottarelli,
comunista di Nuvolera, che troverà la morte a Botticino, ucciso da
soldati tedeschi il 28 aprile 1945.
Giuseppe Scarpari costituisce per i giovani e per gli antifascisti
di Botticino Sera un punto di riferimento e partecipa all’organizzazione di azioni di appoggio alla Resistenza; soprattutto è promotore della diffusione di propaganda clandestina, grazie anche alle sue
capacità di scrittore.
Entra, dopo il 25 aprile, a far parte del comitato di liberazione
che amministra provvisoriamente il Comune di Botticino con il primo
sindaco Livio Perugini.
È tra i fondatori della sezione del PSI botticinese nel dopoguerra
che trova sede proprio in un locale da lui messo a disposizione in
via Scarpari a Botticino Sera.
Aderisce poi al partito socialdemocratico fondato da Giuseppe Saragat dopo la scissione di palazzo Barberini.
Bortol dei Bù ebbe sempre fiducia incrollabile in un futuro più giusto
e in questa sua convinzione si alimentò la sua adesione al socialismo: fu un personaggio di notevole personalità tanto da conoscere
personalmente ed essere apprezzato da leader nazionali come Pietro
Nenni.74
74 Testimonianza e documenti d’archivio della famiglia Scarpari
Il compito del distaccamento di San Gallo,
oltre alla raccolta di viveri e indumenti, è
quello di preparare il sabotaggio per mezzo di esplosivo della stazione ferroviaria di
Rezzato dove transitano i convogli militari
tedeschi.75
Il 28 ottobre 1944 tre partigiani appartenenti a questo distaccamento vengono uccisi
in località Fratta.76
75 Testimonianze orali di G.Giordani e altri
76 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op
cit., pag.16; anche F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.34
e in M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op.cit., Brescia
1977, pag.58
Il gruppo si era accampato nella cascina
Fratta a nord di Botticino. Quando il comandante Gheda all’alba si alza per una perlustrazione si accorge di qualche movimento
sospetto e al suo “chi va là” subito crepitano
colpi di mitra che lo feriscono.
La cascina è provvista di due uscite opposte,
entrambe sorvegliate dai fascisti. Gli otto
partigiani che stanno all’interno tentano subito una sortita, approfittando dell’oscurità,
per sottrarsi all’accerchiamento. Uno a uno
cercano di abbandonare la cascina buttandosi nei cespugli all’intorno protetti dal fuoco di sbarramento dei compagni.
Cinque garibaldini però restano all’interno:
tre vengono catturati, mentre due di loro,
33
Ciocchi di Bovegno e Giuseppe Giordani (Capèla) di Iseo riescono a nascondersi nella
cisterna, costretti ad ascoltare le voci e i rumori che accompagnano la tragica fine dei
loro compagni, Giuseppe Biondi, Beniamino
Cavalli e Francesco Di Prizio, picchiati e uccisi sul posto dai fascisti. Gheda, colpito di
striscio, riesce a mettersi in salvo e a ricongiungersi al resto del distaccamento.77
Don Sandro Gorni, nel suo libro78, riporta l’episodio:
“È una mattina grigia. Su S. Gallo e le colline
che lo circondano grava una fitta nebbia.
All’alba gli abitanti della frazione botticinese vengono svegliati di soprassalto da colpi
d’arma da fuoco che echeggiano in tutta la
vallata. Una lunga serie di raffiche di mitra
si ode provenire dal monte Fratta.
Dopo mezz’ora una pattuglia di nazi-fascisti
scende nella borgata e, giunta davanti alla
casa parrocchiale, chiama ad alta voce il
sacerdote dicendo: “Vada sul monte Fratta
che vi sono dei morti da benedire”. Questa
frase viene sentita da molti, ma le prime ad
accorrere sul luogo dell’eccidio sono quattro
donne, alle quali appare una scena raccapricciante.
Nei pressi della cascina, che porta la denominazione della collina, tre cadaveri straziati, tre giovani vite: Giuseppe Biondi di
Livorno, Beniamino Cavalli di Castrezzato
e Francesco di Prizio di Iseo, tre partigiani
appartenenti alla 122a Brigata Garibaldi,
tutti giovanissimi, giacciono esanimi in una
pozza di sangue”.
I due superstiti dell’eccidio, fortunosamente
riparatisi nella cisterna dell’acqua, a sera
vengono accompagnati a Castello di Serle
dove il parroco li nasconde per un paio di
giorni sul campanile, dopodiché ritornano in
Val Trompia per riunirsi con i compagni della
122a brigata.79
Il 22 novembre un gruppo dei GAP si reca
in paese a Botticino Mattina per giustiziare
una donna accusata di essere una spia: si
presentano alla casa della donna alla quale
intimano di seguirli. La donna tenta di dare
l’allarme gridando. I GAP le sparano: la donna però rimane solo ferita.80
Il registro dei defunti, nell’archivio parrocchiale, riporta e annota i morti del periodo di
guerra, sepolti a Botticino Mattina: sia quelli
scomparsi per morte naturale che quelli uccisi. Tra questi, Engarda Maria Bodei in Zanola, abitante in via Gazzolo n. 18 (Silistì), nata
a Nuvolera il 22 marzo 1903 e deceduta e
Botticino Mattina il 27 novembre 1944, a
41 anni di età per la seguente causa: “Decessa improvvisamente per timore davanti
ad una G.R. (era in corso un rastrellamento
dei tedeschi coi Repubblichini di Salò), morta per arresto cardiocircolatorio”, così scrive
don Tiboni.81
Nello stesso periodo è segnalata (con nota
dello stesso parroco) la morte di un Casali, “guardia boschiva, la cui giovane vita è
stata stroncata da mano assassina in via
Sott’acqua, vicino a casa”. Era l’alba del 5
dicembre 1944.82
Casali è ritenuto l’informatore che aveva
guidato i nazi-fascisti alla Fratta; viene ucciso per vendetta al mattino, mentre è nel gabinetto fuori di casa, con un colpo sparatogli
attraverso la finestra da un partigiano della
122a.83
Il 7 gennaio 1945 a Serle vengono arrestati Stefano Allocchio ed alcuni altri partigiani: questo tuttavia non provoca la sospensione dell’attività del gruppo che in seguito
può controllare il campo di lancio alleato
in Cariadeghe dove nel marzo successivo si
verifica la prima missione aereotrasportata
alleata.84
Il 10 gennaio 1945, reso irriconoscibile
dalle torture, viene portato a Lumezzane e
80 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., ag.84
81 S.Gorni, Botticino Mattina…, op. cit., pag.245
77 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag. 58
82 Ibidem, pag.246
78 S. Gorni: “Botticino Mattina …” op. cit., pag. 244-245
83 Testimonianze orali di A.Zanola e altri
79 Testimonianze orali di G.Giordani e altri
84 R.Anni, Storia della…, op. cit., pag. 134
34
fucilato Giuseppe Verginella, il comandante
“Alberto”, che era stato arrestato il precedente 24 dicembre nei pressi di Iseo.
La scarica di mitra lo lascia agonizzante sul
terreno per molte ore: deve servire da monito.85
Il 12 gennaio nei pressi di San Gallo un
distaccamento della 122a brigata Garibaldi,
in fase di ricostituzione, subisce un ennesimo rastrellamento.86
Dopo i rastrellamenti subiti in Vaghezza, a
San Gallo, a Quarone e ai Camaldoli, fino
alle porte della città, il comando di brigata
ordina lo scioglimento dei distaccamenti e
la costituzione di piccoli gruppi dislocati
un po’ ovunque; si formano così nuclei a
Marcheno, Gardone V.T., Iseo, Provaglio,
Botticino, San Gallo, nella Bassa e in vari
punti della città: la decisione consente di
evitare altre gravi perdite.
Si può superare così l’inverno e al ritorno
della primavera riprendere la strada della
montagna. In questo periodo è particolarmente prezioso il lavoro delle staffette, soprattutto donne. Sono loro che mantengo-
no i contatti tra i gruppi dispersi nei vari
rifugi, che si occupano di rifornirli quasi
quotidianamente di viveri, che li tengono
informati sui movimenti dei fascisti, che
portano informazioni e ordini.
Numerose erano state le ragazze che avevano fin dall’inizio aiutato attivamente il movimento partigiano: sono loro che, consce
delle difficoltà di resistenza morale e psicologica per quei giovani, si schierano al loro
fianco aiutandoli concretamente nei collegamenti con il fondovalle e in alcuni casi
partecipando alle azioni militari.87
Trascorre così l’inverno 1944-45, ritorna
la primavera e si sente che la liberazione
è vicina, gli uomini della Brigata cominciano a raccogliersi intorno a Giuseppe Gheda
(Bruno), dopo che Verginella è stato ucciso
e Speziale è stato trasferito.88
A San Gallo si ricostituisce un distaccamento di 12 uomini.89
Il comando della brigata dal marzo è affidato a Tito (Luigi Guitti), autore di numerose e audaci azioni militari.
87 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.63-64
85 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.63
86 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag.140
88 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag. 15-16
89 M.Ruzzenenti, La 122a brigata…, op. cit., pag.66
Luigi Guitti (Tito)
S.Eufemia 24.11.1911 - Collebeato 17.11.1968
Nelle vicende resistenziali, anche botticinesi, compare la figura di
Tito Tobegia, nome di battaglia di Luigi Guitti. Che Tito fosse a
suo modo una figura romanzesca lo conferma un episodio curioso. Mario Rigoni Stern, che lo ebbe come compagno d’armi in Albania, dedica parecchie pagine del suo romanzo “Quota Albania” al Tobegia di
Sant’Eufemia.
Tito era nato il 24 Novembre 1911 a Sant’Eufemia. Faceva di professione il meccanico, anche se la leggenda popolare gli attribuisce un
passato da contrabbandiere.
I suoi guai con il regime cominciano nel ‘40, quando “Tobegia”, durante un litigio in un’osteria di Sant’Eufemia sfascia un ritratto
del Duce. L’episodio non passa inosservato e Tobegia preferisce cambiare aria. Raggiunge Brindisi e da lì traghetta per l’Albania dove
si aggrega, da civile, alla divisione alpina Tridentina che segue
35
anche in Russia. Gran podista, discreto sciatore, svolge il ruolo di
portaordini. Dopo l’8 Settembre è di nuovo a Sant’Eufemia, da dove
aiuta alcuni prigionieri americani e inglesi a raggiungere la Svizzera ed entra a far parte del movimento partigiano. È in collegamento
con il gruppo comunista di S.Eufemia che nel novembre ‘43 collabora
con i primi G.A.P. operanti a Brescia sotto la direzione di Leonardo
Speziale.
Catturato dai fascisti, è in prigione dal novembre del ‘43 al luglio
del ‘44. A Canton Mombello avviene la sua sommaria politicizzazione.
Il 13 luglio 1944 si trova fra i prigionieri politici che, approfittando di un bombardamento, fuggono dalle carceri assieme a Giuseppe
Gheda e a Leonardo Speziale. Con questi ultimi Guitti si sposta sulle montagne della Val Trompia con i partigiani comunisti dando vita
al nucleo di quella che sarebbe divenuta la 122° Brigata Garibaldi;
da questo momento le azioni militari cui interviene e che lo vedono
spesso protagonista non si possono contare. Va ricordato comunque di
particolare rilievo il fatto d’arme di Mura dove Tito si trova solo
in mezzo alla strada e fa un macello dei militi impauriti dal suo
coraggio, come viene narrato con linguaggio pittoresco ma efficace
nella relazione per la proposta di decorazione al valore militare.
Tito, in seguito a quell’episodio, venne proposto come comandante di
distaccamento.
La 122° Brigata Garibaldi dirada le sue azioni dopo la cattura (24
Dicembre 1944) e la fucilazione (10 gennaio 1945) del comandante
Giuseppe Verginella. Nel febbraio la Brigata si ricostituisce e Tito
nel marzo viene designato comandante: lo sostengono le sue caratteristiche di uomo d’azione più che il rigore ideologico; suo vice è
Giuseppe Gheda, commissario politico Giovanni Casari. Gheda con altri 17 combattenti della Brigata cade a Lumezzane il 19 aprile, sei
giorni prima della liberazione.
Dopo l’eccidio di Sant’Eufemia, la giustizia si interessa di Tito
nel ‘45. Dopo 13 mesi di carcerazione, con l’appoggio di una martellante campagna del PCI, Luigi Guitti torna libero nel ‘46 ed è
salutato come “eroe” da una manifestazione comunista in piazza della
Vittoria (in quel periodo ribattezzata Martiri della Libertà). Nel
‘47 la nuova inchiesta della magistratura sull’eccidio e la decisione del PCI di far espatriare l’ingombrante “eroe”. Guitti passa in
Jugoslavia e da lì in Cecoslovacchia dove si risposa, ha due figli e
lavora come contadino nei pressi di Terezin.
Negli anni ‘60, dopo fugaci riapparizioni, il definitivo ritorno a
Brescia del fuoriuscito. E a Collebeato la drammatica fine, avvenuta
il 17 novembre 1968: otto giovani fanno visita a Tito, chiedendogli
di raccontare le sue imprese. Poi si rivelano per quello che sono:
neo fascisti giunti in spedizione punitiva. Nasce un violento diverbio durante il quale, nell’atto di scagliare una lampada per difendersi, Tito si accascia, fulminato a 56 anni da un infarto che non
gli dà scampo. Duemila persone accompagnano il suo feretro mentre i
nemici di sempre scrivono frasi ingiuriose sui manifesti funebri.
Certamente Tito fu un personaggio abbastanza singolare: portò nella
36
lotta militare lo spirito temerario e intraprendente caratteristico
della sua vita avventurosa. Di indiscusso coraggio mancava però di
altrettanta capacità politica. Fu il partigiano per certi versi leggendario che riscuoteva la fiducia dei suoi uomini e l’ammirazione di
larghi strati popolari.90
90 M. Tedeschi, in Bresciaoggi 11.9.1990
Nella notte tra il 13 e il 14 aprile 1945
un gruppo della 122a Garibaldi, in cui sono
presenti alcuni botticinesi, aiuta una trentina di soldati e cinque sottufficiali del 131°
battaglione dell’esercito della RSI (dei quali
due avevano preso accordi con la 122° per
disertare) a lasciare la caserma di Botticino
con armi ed equipaggiamento e dirigersi verso il Sonclino accompagnati da una decina
di partigiani. La caserma era situata nell’edificio comunale che attualmente ospita la
biblioteca. I fuggitivi prendono la strada di
San Gallo, dove sostano, per poi avviarsi
verso la Val Trompia.91
Alcuni dei soldati fuggiti si uniscono ai
partigiani garibaldini; la fuga dei militari da Botticino irrita i fascisti e costituisce
una delle cause del rastrellamento del 19
aprile sul Sonclino. Alla vigilia del rastrellamento sei dei militari fuggiti chiedono
al comandante Tito di potersene andare,
perché hanno paura ed indossano ancora
la divisa militare. Essi pensano di potersi
consegnare ai fascisti, facendo credere di
essere stati prelevati dalla caserma dai partigiani e di essere stati costretti a seguirli in
montagna. Invece vengono fatti prigionieri dai tedeschi che li portano a Marcheno
presso il loro comando e il pomeriggio del
giorno seguente li fucilano.92
Al monte Sonclino avviene il più grosso
scontro della 122a brigata Garibaldi con i
nazifascisti che in forze (circa 400 uomini
della San Marco appoggiati da un gruppo
di tedeschi) attaccano le postazioni partigiane: numerosi i nazifascisti uccisi e feriti.
Vengono catturati e poi fucilati 18 garibaldini; il vice comandante Gheda muore combattendo.
La battaglia del Sonclino, dagli esiti drammatici, è indice dell’insurrezione finale ormai vicina ed è l’ultimo disperato tentativo
fascista di colpire la parte più avanzata e
combattiva del movimento partigiano.93
Il CLN provinciale dà l’ordine di insurrezione generale. Questa avviene in città e in
tutti i paesi della provincia fra il 25 e il 28
aprile del ‘45 con la partecipazione della
popolazione che combatte facendo prigionieri migliaia di soldati tedeschi e fascisti
con le loro armi. È la Liberazione.
La 122a ha il compito di scendere dalla Valtrompia a liberare Brescia: a San Gallo viene
inviato un numeroso distaccamento. Questo
gruppo di garibaldini passa attraverso il
Ghiacciarolo e la zona delle cave giungendo inquadrato militarmente nella piazza del
Municipio a Botticino già nel tardo pomeriggio del 24 aprile.
Il distaccamento partigiano occupa la sede
comunale ed organizza un centro di raccolta
di viveri e indumenti e, a nome del CLN, una
prima forma di amministrazione in “terra libera”.
Il 24 aprile anche il gruppo di Serle delle
Fiamme Verdi scende a Brescia costeggiando Botticino attraverso il monte Maddalena.94
Il 26 aprile muore a San Gallo Giovanni
Busi, ucciso, mentre porta al pascolo le sue
mucche, da un tedesco in fuga.
91 ANPI-FFVV-Comune di Gardone VT, La resistenza…, op.
cit., pag.18
93 M.Ruzzenenti, La 122° brigata…, op. cit.,pag.69
92 Ibidem, pag.18.19
94 Caterina Rossi Tonni, I giorni…, op. cit., pag.94
37
Un’altra vittima, il 30 aprile 1945, è Teodolinda Lanzi, moglie di Giacomo Panada ,
abitante in Via Gazzolo n. 75. Il parroco don
Tiboni lascia scritto sul registro il motivo della morte: “Decessa per commozione celebrale in seguito a panico avuto di fronte alla lotta dei patrioti contro i tedeschi, asseragliati
nella sua casa”.95
Lo scontro tra soldati tedeschi e partigiani
avviene il 28 aprile 1945, presso il “casì
de Panàda”. Qui un gruppo di soldati tedeschi ha preso possesso del piccolo edificio e
ucciso alcune pecore che vi erano custodite.
Un gruppo di partigiani, avvisato del fatto,
sale nei pressi della casa in attesa di rinforzi per snidare e catturare gli occupanti: i
tedeschi sparano dalle finestre nel tentativo
di aprirsi un varco e fuggire verso la valle di
Nuvolera.
Arriva sul posto Alghisio Bottarelli, di Nuvolera, che proprio la sera precedente aveva
raggiunto Botticino, e poiché conosce il tedesco chiede di parlamentare.
Bottarelli entra a parlare con i soldati tedeschi rifugiati nel “casì de Panada”. I militari
fingono di arrendersi e quando il partigiano si affaccia alla porta per chiamare i suoi,
viene pugnalato alle spalle; i soldati escono
con le armi in pugno sparando verso i partigiani che si stanno avvicinando credendo
alla resa; nella sparatoria rimangono feriti
i botticinesi Giovanni Zanola, Adelino Zanola, Costantino Zanola e Umberto Della Fiore.
Alcuni soldati riescono a fuggire verso Nuvolera, mentre due di essi si asserragliano di
nuovo nella casa. Con l’arrivo dei rinforzi la
casa viene parzialmente incendiata e i due
tedeschi, costretti ad uscire, vengono catturati (uno di loro è ferito) e condotti attraverso il paese fino ad essere sottoposti ad una
esecuzione sommaria davanti al cimitero di
Mattina. Vengono passati per le armi da Tito
Tobegia accorso sul posto poiché nessuno
dei partigiani locali aveva il coraggio di eseguire la sentenza.96
Sulla facciata della casupola è tuttora leggibile la lapide che ricorda il fatto con que-
sta iscrizione: “BOTTARELLI ALGHISIO
MARTIRE COMUNISTA CADUTO PER LA
LIBERTA’ E L’INDIPENDENZA D’ITALIA
NELLA LOTTA INSURREZIONALE IL 28
APRILE I945. I COMPAGNI POSERO.”
Il 28 aprile 1945 trovano la morte a Botticino 4 soldati dell’esercito tedesco: Giovanni
Vogt, Edrvin Fitz, Lodovico Lichtenfels, Ervin
Scibert. Due sono i fucilati davanti al cimitero e ancora Tito è l’esecutore dell’uccisione
degli altri due, sottufficiali, che si rifiutavano di arrendersi ai partigiani.97
I due militari facevano parte di un camion
tedesco giunto per sbaglio a Botticino Mattina mentre cercava la fuga verso il lago di
Garda. Il gruppo di soldati era in possesso
di munizioni e bombe ed era stato catturato e imprigionato presso il municipio. Qui,
nella galleria soprastante il porticato, i due
soldati impugnano le armi di fronte ad un
gruppo di giovani aggregati ai partigiani: al
diniego di consegna delle armi, in un moto di
rabbia e forse nel timore di una sparatoria
dagli esiti certamente tragici, Tito scarica il
mitra sui tedeschi uccidendoli. I due episodi,
seppure di origine diversa, avvengono nella
stessa giornata.98
L’archivio parrocchiale di Botticino Mattina
conserva un carteggio tra le famiglie dei soldati e il Parroco Don Giuseppe Parisio, da
cui si apprende che i militari tedeschi hanno
avuto sepoltura nel locale cimitero e che le
loro tombe vengono accudite da persone del
luogo.
Anni dopo, anche per l’interessamento del
Comune di Botticino, le salme dei quattro
soldati tedeschi rientreranno in patria.99
Negli stessi giorni i partigiani botticinesi
intercettano presso San Gallo un plotone
di tedeschi in fuga che viene scortato fino
al luogo, presso S.Eufemia, dove gli Alleati
hanno predisposto un campo di raccolta prigionieri.100
97 S.Gorni, Botticino Mattina…, op. cit.,pag.246
95 S.Gorni, Botticino Mattina…,op. cit.,pag.246
98 Testimonianze orali di M.Comini e altri
96 F.Secondi-C.Simoni, op. cit., pag.34 e Testimonianze
orali di U.Della Fiore, A.Zanola e altri
99 S.Gorni, Botticino Mattina…, op. cit.,pag. 245-246
38
100Testimonianze orali di L.Previcini e altri
I partigiani promettono giustizia per chi ha
sofferto e requisiscono ai tedeschi materiali da distribuire alle famiglie e ai reduci, bisognosi di tutto; si tratta di telerie, scarpe,
giacche, pastrani militari e altro; ci sono anche soldi, di cui i tedeschi risultano ben forniti. Purtroppo parte del materiale raccolto in
Municipio viene sottratto furtivamente un po’
alla volta: mancano ordine e organizzazione
e fra i partigiani si sono infiltrate persone
che nulla hanno a che fare con la Resistenza. In occasione dello scontro al “casì de Panada”, mentre il gruppo dei partigiani lascia
il Municipio per partecipare alla spedizione,
qualcuno fa sparire i soldi rimasti incustoditi. I sospetti si concentrano su un botticinese, ma in mancanza di prove non se ne fa
nulla.101
Botticino è interessato, seppur indirettamente, da un grave episodio di vendetta di cui
viene ritenuto responsabile Tito Guitti: ai primi di maggio, il 9, i suoi uomini effettuano
un rastrellamento in cui vengono catturati dei
lumezzanesi, alcuni dei quali appartenenti
alla X Mas, ritenuti responsabili dell’eccidio
e delle torture inflitte ai partigiani presi sul
Sonclino. Questi vengono sommariamente
interrogati e poi uccisi nei pressi delle scuole
elementari di S.Eufemia: i corpi di 10 di loro
vengono caricati su un camion e trasportati
a san Gallo nei pressi del “Mulì de l’ora”;
qui vengono gettati in una fossa comune e
cosparsi di vetriolo per renderne impossibile
il riconoscimento. La fossa viene scoperta il
20 maggio del ‘45.
101Ibidem
I fatti di Sant’Eufemia - maggio 1945
L’apice dello scontro tra camice nere e comunisti delle Brigate Garibaldi viene raggiunto con la cattura e l’uccisione, dopo 16 giorni
di interrogatori e sevizie, di Giuseppe Verginella. I repubblichini
lo portano per la fucilazione a Lumezzane, facendo del comune della
Valgobbia un luogo topico dello scontro. Il 19 aprile in un rastrellamento sul Sonclino cade in combattimento Giuseppe Gheda. Altri 17
partigiani (membri di una brigata di 80 unità) vengono catturati:
dopo sevizie, documentate da foto agghiaccianti, vengono passati per
le armi.
È con questo cumulo d’odio, e di spirito di vendetta, che si arriva
al 25 aprile, quando i resti della 122° Brigata Garibaldi entrano in
città comandati da Luigi Guitti, il Tito di S.Eufemia che proprio
nella frazione stabilisce il suo quartier generale, trasformando le
scuole elementari in base logistica e tribunale improvvisato.
Una volta assunto il controllo della città il CLN cerca di instaurare subito la legalità del nuovo ordine: si impegnano in questo
senso il comandante della piazza militare colonnello Zani, il prefetto Bulloni (democristiano), il sindaco Ghislandi (socialista) e
il questore Bonora (comunista). Ma per due settimane i garibaldini
acquartierati a S.Eufemia si sottraggono a questo controllo e cercano di “farsi giustizia” da sé. Mentre in provincia si segnalano rare
vendette individuali, gli uomini di Tito effettuano un rastrellamento
sistematico il 9 maggio. A Gardone vengono bloccati 6 fra ufficiali
e sottufficiali della X Mas ritenuti responsabili dell’eccidio dei
partigiani presi sul Sonclino. Altre 18 persone vengono prelevate a
Toscolano Maderno: i loro nomi figurano su un elenco di funzionari,
39
fiancheggiatori o ufficiali della Repubblica sociale italiana. Chi
avesse compilato quell’elenco e la sua veridicità non sono mai stati
ufficialmente accertati.
Ma è a Lumezzane che avviene l’episodio più oscuro. Gli uomini di
Tito arrivano in Valgobbia quando alcuni civili sono già stati ammassati in un edificio del villaggio Gnutti. Ne prelevano 11 in base
a segnalazioni che rispondono, sembra, più a rancori locali che a
effettive militanze politiche e tanto meno a responsabilità di spicco
nella RSI.
I 35 fermati vengono sommariamente interrogati nelle scuole elementari di S.Eufemia. Le Testimonianze di due di loro che al momento
della fucilazione si salveranno per miracolo sono agghiaccianti.
Verso la mezzanotte arriva l’esecuzione di massa: a piccoli gruppi
i prigionieri vengono portati verso un fossato, scavato a suo tempo
dai tedeschi dietro il monastero. Per i “condannati” c’è un colpo
alla nuca e una sventagliata di mitra. Due di loro riescono a fuggire approfittando dell’oscurità: per le 33 vittime c’è una sommaria
sepoltura: poco più della metà vengono inumate sul luogo dell’esecuzione, le altre salme vengono caricate su un camion e trasportate a
San Gallo, per l’esattezza oltre il Molino dell’Ora, dopo il “Giasaròl”. Qui vengono gettate in una fossa comune e cosparse di vetriolo
per impedirne il riconoscimento.
Le fosse comuni vengono scoperte il 20 maggio del ‘45. Quattro giorni dopo gli americani entrano nella scuola di S.Eufemia smantellando
l’ex base garibaldina. Per il comandante Tito cominciano i guai con
la legge cui si sottrarrà rifugiandosi all’Est.
Il tempo della giustizia sommaria - ironia della sorte - a Brescia
finisce due giorni dopo l’eccidio di S.Eufemia. All’indomani del 12
maggio Italo Nicoletto, che era stato comandante della piazza militare di Torino, arriva a Brescia e impone senza mezzi termini al
PCI le direttive di Togliatti: “Le armi - ribadirà sul giornale “la
Verità” del 16 giugno - tutte le armi devono essere consegnate. È
questo un imperativo, un ordine al quale nessun partigiano deve venir meno. Noi comunisti siamo contrari ad ogni atto illegale, a ogni
azione di violenza. Da qualunque parte essa venga”.102
102Bresciaoggi 11.9.1990. Articoli di M. Tedeschi sui giorni della Liberazione a Brescia, pubblicati dall’11.9.190 al
23.9.1990.
La lotta di liberazione nel Bresciano, alla
fine della guerra lascia sul terreno oltre
2.000 vittime tra partigiani caduti in azione (74 nella sola brigata Garibaldi a fronte
di 185 garibaldini sopravvissuti), morti nel
corso di insurrezioni o nei campi di sterminio tedeschi, e civili uccisi per rappresaglia.
istituzionale sulla futura Italia (monarchia
o repubblica). La maggioranza si pronuncia
per la repubblica.
Il 2 giugno 1946 gli italiani sono chiamati al referendum per risolvere la questione
Il 2 gennaio 1964 il consiglio comunale
di Botticino approva “il collaudo lavori del
40
Il 1° gennaio 1948 entra in vigore la nuova Costituzione. L’Italia finalmente è un paese democratico.
1° lotto dell’edificio delle Scuole di Botticino
Mattina”. La scuola elementare verrà intitolata al partigiano Tita Secchi.
In precedenza era stata intitolata ad Emiliano Rinaldini, maestro e partigiano, la scuola
elementare di San Gallo (costruita negli anni
Trenta).
Nel periodo 1970-72 si costituisce a Botticino per iniziativa di Luigi Romano, partigiano della 122a, una sezione dell’ANPI la cui
sede dedicata al fondatore si trova attualmente in via Cave presso l’edificio comunale
Villa Labus.
Nel 1974 gli appartenenti all’ANPI botticinese decidono di erigere un monumento a
ricordo dei tre giovani partigiani uccisi alla
Fratta. Il monumento si trova al centro del
prato che ora si estende davanti alla cascina posta a quota 699 metri a nord di Botticino: è formato da un rudimentale masso
di pietra, proveniente dalla zona di Sonico,
sul quale campeggia una lapide con le fotografie e i nomi dei caduti, sormontata da
una targa indicante la formazione partigiana di appartenenza. Ogni anno, in ottobre,
davanti a quella testimonianza l’ANPI locale e il Comune di Botticino organizzano una
manifestazione commemorativa alla quale
partecipano secondo un’ormai consolidata
tradizione associazioni, scuole e cittadini di
tutte le età.
Nell’aprile 1994, presso la scuola media di
Botticino, l’ANPI, grazie all’iniziativa dei suoi
dirigenti Olga Furlan e Giulio Oliani, realizza
un masso rozzamente squadrato, proveniente dalle cave botticinesi, corredato da una
targa a ricordo dei valori che “dovrebbero
resistere nel tempo più solidi di una roccia”.
Il masso deposto nel giardino della scuola è
accompagnato da un murale realizzato dagli
allievi della media Scalvini. Il murale, alto
un paio di metri e lungo quattordici, riprende
disegni di Guttuso rielaborati e reinterpretati
dai ragazzi sui temi dell’oppressione, della
guerra, della Resistenza e della Liberazione
con squarci rivolti ai problemi e alle speranze del futuro.
41
25 aprile 1945: partigiani
e insurrezionali nel Municipio
di Botticino
Gruppo di partigiani
appartenente
a
alla 122 Brigata Garibaldi
42
Cascina Fratta, Botticino. Monumento a ricordo dell’eccidio della Fratta del 28 ottobre 1944.
Monumento ai Caduti della Resistenza presso la Scuola Media G. Scalvini.
Cerimonia di inaugurazione del 25 aprile 1994
43
Testimonianze orali
Testimonianza di LUIGI PREVICINI (1.2.1927)
Nella mia famiglia c’erano mio padre che
andava in cava, mio fratello più vecchio da
Lombardi, poi due sorelle, io ed un altro mio
fratello: io lavoravo in cava e anche lui, che
era più giovane (del 1929), ha cominciato a
lavorare in cava nel ‘45. La nostra era una
famiglia antifascista al 100%, ma tanti qui
a Botticino erano antifascisti, in modo particolare tutti i miei parenti. La mia famiglia
era una delle più esposte: io sono cresciuto
in quell’atmosfera.
I miei cugini (erano socialisti, e dopo il
1921 saranno diventati comunisti, come
mio padre) una volta sono stati picchiati
dai fascisti: non lo ricordo personalmente,
ma l’episodio mi è stato raccontato. Li hanno picchiati fuori dai “Giosi”, l’osteria del
Romanino; allora ci si trovava all’osteria: li
hanno attesi fuori e li hanno pestati di botte. Era una famiglia prettamente socialista
e antifascista, vero è che poi hanno dovuto
andare all’estero.
Sono stati costretti ad andare all’estero perché perseguitati: uno era mio parente per
parte di mia madre, si chiamava Arici Fausto è andato a lavorare in Francia, anche
perché allora in Italia il lavoro era scarso;
l’altro, un fratello di mio padre, Previcini
Carlo, anche lui perseguitato ed emigrato
successivamente in Francia, anche se nel
caso specifico, non ha inciso solo la persecuzione fascista, ma la mancanza di lavoro.
Un mio zio pur essendo operaio, aveva costituito una specie di scuola e ricordo molti giovani che mi dicevano di essere stati a
scuola da mio zio il quale, pur avendo fatto
solo la terza elementare, ma avendo letto la
stampa clandestina, si era fatto una cultura personale. Si chiamava Angelo Previcini
ed era anche tra i fondatori della Cooperativa: la scuola serale che avevano organizzato si chiamava “Circolo della Fratellanza”. Mi pare che i locali fossero in via Cave:
allora io era ancora piccolo, ma la cosa mi
è stata raccontata da coloro che hanno frequentato questa scuola. Era stata organiz44
zata ancora prima dell’avvento del fascismo ma ha continuato a funzionare anche
durante tale periodo perché coloro che mi
hanno raccontato questa cosa erano delle
classi 19101912: avevano allora 1012 anni
per cui la scuola ha continuato a funzionare anche dopo il 1922, sicuramente fino
al 19241925. Ecco perché è stato picchiato dai fascisti: perché lui era noto in paese
come antifascista, e lo diceva apertamente,
così come mio padre.
Ogni tanto, tra giovani, avvenivano degli
scontri che finivano a botte tra socialisti e
fascisti: una volta i fascisti hanno persino
sparato. C’era stata una questione a proposito di una bandiera rossa, il fatto preciso
ora mi sfugge, ma è un fatto che i fascisti
erano armati: il Previcini è stato costretto a
fuggire ed a nascondersi per diverso tempo.
I fascisti volevano impossessarsi di quella
bandiera rossa e la bandiera è stata portata
in Piemonte per essere salvata. Hanno voluto salvare quella bandiera perché era un
simbolo e non volevano che i fascisti se ne
impossessassero perché sicuramente l’avrebbero bruciata, come avevano bruciato
la Camera del Lavoro. Uno di quella famiglia era andato a lavorare in Piemonte come
contadino e per essere sicuri, gli hanno
consegnato la bandiera perché la portasse
con sé e la salvasse.
Queste famiglie antifasciste quando, ad
esempio, c’era il “sabato fascista” non hanno mai partecipato; mio padre partecipava
solo alle cerimonie del 4 Novembre; quando
andavo a scuola, ed era obbligatorio avere
la divisa da balilla, le mie sorelle nascondevano a mio padre la divisa e la tiravano fuori solo quando serviva. Allora si festeggiava il 21 Aprile, il 4 Novembre e la maestra
ci obbligava ad andare a scuola in divisa,
che mio padre non ha mai visto. Si tratta di
cose magari anche piccole ma importanti
e significative del clima che aleggiava nelle famiglie. Le mie sorelle tenevano nascosta la divisa e me la facevano indossare di
nascosto da mio padre, costringendomi ad
uscire dalla parte posteriore della casa in
modo che lui non vedesse: quella divisa mio
padre non l’ha mai vista.
Mi ricordo, pur essendo allora ancora piccolo, avevo circa 10 anni, che la sera non
potevi circolare per il paese, perché ti mandavano a casa: la violenza nasceva da lì. Ricordo una volta che mio padre voleva uscire
da solo e si era messo in tasca una roncola e mia madre voleva togliergliela perché
temeva che nel caso lo avessero provocato all’osteria, avendo magari lui bevuto in
bicchiere di vino, potesse accadere qualche
fattaccio.
Durante il fascismo la cosa peggiore era la
violenza fisica che esercitavano su quelli
che non la pensavano come loro. Una sera
al Ghiacciarolo una squadra è salita dal paese e ha fatto un danno tremendo. Il perché
di preciso non l’ho mai saputo: la squadra
che saliva era composta da fascisti e non
ho mai capito perché abbiano fatto questa
azione. Hanno ammazzato tre o quattro bestie: probabilmente avevano avuto divergenze con qualcuno di quella cascina. Hanno rovinato quella famiglia, hanno sparato
nelle botti del vino ed hanno fatto una danno tremendo perché allora l’economia era
basata tutta sull’agricoltura. Da lì ho capito che i fascisti erano inclini alla violenza
fisica: anche se ero giovane e la parola odio
non entrava nella mia mentalità non li potevo sopportare.
A parte poi il discorso sulla politica che il
fascismo attuava e che noi osteggiavamo
perché incomprensibile; mio padre ci spiegava le contraddizioni della politica fascista: il delitto Matteotti ad esempio, le cooperative che bruciavano, il colpo di stato
che avevano fatto nel ‘22. In famiglia si parlava sempre di questi problemi.
I fascisti erano impegnati con altre famiglie: la famiglia del podestà, poi c’erano
quelli denominati i “negher”, i Bodei e altri,
tra i quali c’era quello che faceva la guardia
in Castello; le famiglie che dominavano il
paese erano queste: poi gli altri erano tutti
antifascisti, fossero essi cattolici o rossi.
Nel periodo del fascismo gli antifascisti si
riunivano e ad alcune riunioni partecipò
Italo Nicoletto prima di fuggire in Jugoslavia per poi partecipare alla guerra di Spagna; si leggevano giornali clandestini (non
ricordo se a quei tempi si chiamasse già
“L’Unità”). Non mi ricordo chi li portava,
comunque arrivavano da Brescia: l’attività
si limitava a questo.
I socialisti ed i cattolici si trovavano sempre
per discutere ma non hanno mai trovato
le basi per un fronte comune organizzato:
mio padre mi ha raccontato che Nicoletto
aveva organizzato due o tre riunioni, aveva
distribuito dei volantini in occasione della
guerra d’Abissinia contro ciò che affermava
la stampa di partito, contro l’imperialismo
del duce, contro l’uso dei gas usati durante questa guerra, ma non si sono mai raggiunti risultati apprezzabili.
Avevo 12 anni ed all’epoca queste notizie
mi sfioravano solamente ma successivamente, nella maturazione, queste cose si
venivano evidenziando nella mia mente,
spingendomi verso l’antifascismo e verso la
sinistra.
Questo atteggiamento antifascista prima
del 1943 e negli anni trenta quando il fascismo aveva raggiunto il massimo dei consensi traspariva attraverso i contatti con le
persone e, durante la guerra, quando si andava ad ascoltare “radio Londra”; allora a
Botticino esistevano solo tre o quattro radio
e ci si ritrovava insieme.
Una radio era dove c’è ora la forneria, in via
San Nicola, vicino a casa mia, un’altra era
in casa dei “Papagai”, oppure dai Moreschi
o dagli Arici. Ci si trovava appunto presso
queste famiglie per ascoltare insieme. Radio Londra era un faro per noi; non credevamo alla propaganda fascista che esaltava
sempre vittorie inesistenti: annunciavano
l’abbattimento di numerosi aerei, la distruzione di carri armati, poi ascoltando radio
Londra le cose si ridimensionavano.
Dopo l’8 settembre si sono formate le prime cellule di appoggio alla Resistenza: ricordo in particolare la famiglia Busi di San
Gallo, Milio Moreschi ed altri, che sono
45
morti nel frattempo, i quali hanno partecipato ad una o due azioni credo sul monte Maddalena. Le donne aiutavano in ogni
occasione, poi portavano da mangiare ai
partigiani.
Noi avevamo contatti con i partigiani, prima che scendessero dalla montagna, attraverso Rino Gorni che faceva qui a Botticino il commissario per conto della 122
brigata Garibaldi. Lui era stato a Gardone
V.T., dove lavorava, poi è venuto a Botticino e qui aveva creato una cellula; le notizie trapelavano attraverso quel poco che i
compagni riuscivano a fargli dire.
Gli episodi accaduti o le azioni li conoscevamo dai racconti dei partigiani: la 122
brigata Garibaldi aveva un distaccamento
a San Vito, cui le cellule davano aiuto, facevano da appoggio e portavano i viveri;
a conoscenza di queste cose c’erano Milio
Moreschi, Palmiro Quecchia, Giossi, Banana (Adelino Zanola), Amilcare Benetti.
A Botticino hanno fatto alcuni rastrellamenti, ma non impegnativi; cercavano
disertori, renitenti alla leva. Noi andavamo sulla montagna quando ci informavano che stavano facendo un rastrellamento partendo da Sera: partivamo la notte
quando c’erano queste voci.
Non c’è stata una forte repressione: anche
a San Gallo, che ha partecipato attivamente alla Resistenza, non vi sono state rappresaglie e non mi spiego il perché. Certi
paesi sono stati bruciati anche per molto meno. Mi ricordo che all’epoca a dare
ordini c’erano il segretario politico ed il
federale. Quando hanno venduto le cave
nel 1932 tutti gli operai sono passati a
contratto: probabilmente quelle persone
cercavano di frenare gli eccessi. Allora il
podestà era Giovanni Rossi che possedeva
una forneria, c’erano i suoi interessi ed i
suoi parenti, e forse queste persone hanno
posto un freno. Probabilmente il Lombardi e gli altri industriali avevano interesse
che gli operai lavorassero tranquillamente:
forse a causa della vendita delle cave c’era
un interesse a mantenere in zona una certa tranquillità.
46
Sono nato nel 1927, quindi quando è scoppiata la guerra nel 1940 avevo 13 anni, nel
1943 ne avevo 16 ed a quell’età non ho partecipato personalmente.
Quando i partigiani sono scesi dalla montagna mi trovavo per caso proprio nella
piazza del Municipio: era consuetudine,
dopo il lavoro, ritrovarsi al bar o in piazza;
per me è stata una bellissima esperienza
vederli arrivare inquadrati militarmente
con i loro comandanti. Scendevano dalle
cave, credo dalla parte di San Gallo. Era il
giorno 24 aprile verso le 18,30 anche se la
data ufficiale dell’insurrezione è fissata al
25, ed hanno preso possesso del Municipio. Il giorno successivo è avvenuta la mobilitazione con la distribuzione delle armi
alla popolazione perché circolavano ancora
diversi tedeschi e fascisti. Venivano date
le armi agli uomini e ai giovani che si presentavano e io mi sono presentato: c’erano
Rino Gorni e il vice comandante, certo Nello, un giovane di Urago Mella, che conoscevo bene perché l’avevo visto diverse volte a
Botticino, e si è creato il corpo “Volontari
della Libertà”; eravamo molti i giovani.
Quando mi sono presentato in Municipio
a prendere le armi mio padre non voleva
perché diceva che ero troppo giovane, vero
è che è venuto a cercarmi; mi sono presentato perché sono nato in una famiglia antifascista ed ho visto anche i rastrellamenti e
per di più avevo provato anche la prigione
sotto i fascisti.
Nel 1943, alla caduta di Mussolini, io lavoravo a Brescia e l’officina era proprio vicina alla sezione di Sorlini, che allora era
un federale, che poi, durante la repubblica
di Salò, aveva creato le bande che andavano a fare i rastrellamenti: lui era una iena.
Accadde che nell’intervallo di mezzogiorno
per la colazione c’era un grande movimento di popolo: tutti gli operai erano usciti
dalle fabbriche, la gente dalla case, ritratti
del duce e del re per terra, la gente per le
strade, le sedi fasciste devastate: fuori dalla
sede di Sorlini c’era un fascio di metallo su
un piedistallo di cemento alto circa 40/50
centimetri. Noi siamo usciti dall’officina e
notiamo questa grande confusione e la gente ci invitava ad andare a prendere degli attrezzi per poter demolire questo fascio; ci
dicevano di andare a prendere delle leve,
dei piedi di porco, delle mazze, per aiutarli ad abbatterlo, anche perché a Brescia
il Sorlini era odiato, vero è che poi è stato ucciso con una raffica di mitra in corte
d’Assise all’inizio del processo da un carabiniere al quale il Sorlini aveva ammazzato
un fratello. Mentre stavamo demolendo il
monumento, è passata una camionetta dei
carabinieri che ci volevano arrestare: tutte
le donne sono insorte e ci hanno protetto; il
giorno dopo però i carabinieri sono venuti
in officina, ci hanno arrestato e come prigionieri politici ci hanno portato a Canton
Mombello: avevo allora 16 anni. Ecco perché quando ho visto i partigiani mi sono
aggregato: mi hanno consegnato alcune
bombe a mano e poi il “91”.
I partigiani avevano occupato il Municipio: noi giovani facevamo, come incarico, la
guardia al Comune ed andavamo in perlustrazione. Quando si veniva a conoscenza
che c’erano tedeschi nei dintorni, si formava un autocarro, comandato da uno o due
partigiani che impartivano le direttive, e si
andava a controllare, come nel caso della
cattura di un intero plotone a San Gallo;
ho partecipato anch’io a questa spedizione
ed i tedeschi, che erano in buon numero, si
sono spaventati alla vista dei partigiani e,
dopo essersi arresi, sono stati portati a piedi al campo di concentramento provvisorio
che era stato predisposto a Sant’Eufemia,
nella parte bassa della frazione, dove ora
c’è la centrale elettrica. Lì c’era un prato
nel quale gli americani erano campeggiati.
Mentre passavamo la gente ci offriva qualcosa: uova o pane perché pensava che venissimo dalla montagna, invece eravamo
solo di scorta.
Quando è accaduto l’episodio al “casì de
Panada” io non c’ero. Da quanto ho sentito dire i tedeschi volevano impossessarsi di
una pecora, i proprietari si rifiutavano di
consegnarla ed una delle donne è scesa in
paese per avvertire che al “Casino” c’erano
i tedeschi. Un gruppo di partigiani è salito
sul posto ed ha piazzato le armi: i tedeschi
hanno iniziato a sparare ed hanno ferito
Adelino Zanola, suo papà e suo zio.
Bottarelli era arrivato la notte da Nuvolera
e siccome in quel paese non vi era un presidio partigiano era venuto a Botticino: l’ho
ricevuto proprio io in Municipio. La mattina
successiva, il 28 aprile, i tedeschi avevano
esposto una bandiera bianca e Bottarelli,
che conosceva un poco il tedesco, si è offerto di fare l’interprete: come è entrato in
casa è stato pugnalato. A questo punto è
iniziata la battaglia e due tedeschi, fatti prigionieri, sono stati portati al camposanto e
sono stati giustiziati da Tito Tobegia .
Poi ricordo un altro fatto: un camion, pieno
di tedeschi, convinti di andare verso il Garda, ha sbagliato strada e si sono ritrovati
qui a Botticino; vistisi a mal partito, hanno
consegnato le armi e si sono arresi. Purtroppo ci sono sempre i profittatori i quali,
accortisi che i tedeschi erano pieni soldi, li
hanno alleggeriti dei loro averi: noi ci limitavamo a consegnarli senza perquisirli, si
parlava allora di un sacco pieno di soldi.
Poi c’è l’episodio di una bestia sequestrata
ai Cremonesi e non pagata, che era servita non solo per il rancio dei partigiani, ma
anche dei prigionieri fascisti (fra i quali il
segretario federale, il segretario comunale,
ecc.): mi ricordo che anch’io ho portato il
vitto ai prigionieri. La cucina era stata sistemata nella galleria del palazzo comunale, sopra il porticato; oggi è chiusa da una
vetrata ma allora era tutta aperta. Penso
comunque sia stato un errore non pagare
la bestia. La bestia era stata prelevata da
una cascina a nome dei partigiani: a questo
proposito era sorta una discussione con i
proprietari della cascina che ne pretendevano il pagamento ed erano passati alle vie
di fatto, poi sono intervenuti dei pacieri che
hanno sedato la lite.
Ricordo anche l’episodio del curato di Mattina: si sono recati a casa sua in tre o quattro partigiani perché avevano avuto sentore che possedesse delle armi, ma le dicerie
47
non si sono dimostrate vere, ed il curato
si è sentito offeso. Il maestro Casali ha poi
denunciato pubblicamente questo episodio
in occasione dei festeggiamenti del I° Maggio del 1945. Dinanzi al Municipio erano
presenti praticamente tutti gli abitanti di
Botticino: il maestro Casali è salito sul muretto antistante il Comune (allora non c’era
la cancellata) ed ha denunciato il fatto: è
stato picchiato e per di più è stato trattenuto uno o due giorni poi è stato rilasciato.
Da parte mia ho condannato subito questi
incidenti e la dimostrazione è che ancora
vent’anni dopo ci venivano rinfacciati dai
nostri avversari politici ed hanno incrinato
l’unità del popolo.
Ad ogni buon conto, questi piccoli episodi
marginali non tolgono certo valore al significato della Resistenza ed all’unità del
popolo. Ho ricordato questi episodi per
dimostrare che, purtroppo, quando accadono eventi straordinari, accadono piccoli
fatti negativi che, anche se antipatici, non
incidono sulla grandiosità dei fatti. D’altro
canto i ricordi che mi sono rimasti impressi
sono questi.
Prima eravamo tutti uniti, sia democristiani che comunisti e socialisti, dopo questi
episodi i democristiani sono usciti. A parte
il fatto che poi è venuta la “guerra fredda”
e l’unità si sarebbe egualmente rotta, ma
sicuramente i nostri avversari politici ci
rinfacciavano in continuazione questi fatti.
Questa unità era nata con l’antifascismo e
con l’antinazismo. C’è sempre stata fra le
famiglie di Botticino, anche con quelle che
magari non andavano in chiesa e non erano praticanti: mio padre era comunista e
non andava in chiesa ma non è mai stato
discriminato. Questa unità c’era a Mattina
sicuramente, a Sera vi era una realtà locale
diversa; a Mattina c’erano le cave e gli operai delle stesse che creavano una maggiore coesione, così come la maggioranza dei
contadini. Le famiglie di Botticino Mattina
erano quasi tutte antifasciste, salvo rare
eccezioni.
In Comune chi ha preso in mano la situazione e faceva da coordinatore era Nello.
48
C’erano Nello ed i partigiani, ma l’amministrazione era stata assunta da tutt’altre
persone. C’erano Cenedella che era di Brescia e un altro di Botticino che era ragioniere; sull’amministrazione vera e propria
i partigiani non hanno responsabilità: non
sono stati loro i “furbi” della situazione.
Dopo sono arrivati i due Ponti provenienti
da Ferrara i quali si erano spacciati per
partigiani e poi invece si è saputo che erano
fuggiti da Ferrara perché fascisti. Ciò che
di negativo è uscito è da imputare a queste
persone e non sicuramente ai partigiani i
quali la sera raggiungevano le loro famiglie
e si disinteressavano dell’amministrazione.
Anche la famosa questione della bestia non
pagata ai proprietari è da imputare a queste persone, così come la scomparsa della
cassa comunale: per cui le malefatte compiute sono da imputare esclusivamente a
queste persone che non c’entrano con la
Resistenza.
I partigiani scesi dalle montagne, arrivati
a Botticino inquadrati, godevano fiducia
sicuramente: avevano fatto la Resistenza,
avevano appena sopportato una grossa
battaglia al Sonclino e sono sicuro che loro
non hanno toccato quattrini.
A guerra finita mi sono iscritto al P.C.I.
quasi subito. Il fatto di vivere in una famiglia antifascista, di aver dovuto prendere
le armi in pugno, il capire che le cose non
erano come venivano dipinte, dava fiducia
e speranze che dalla Resistenza e dall’insurrezione arrivasse un cambiamento. Ricordo che la prima delusione, non per me
che allora avevo 18 anni, ma per quelli più
vecchi di me, come mio padre e tutti gli antifascisti, è stata quando Togliatti ha fatto
approvare dal governo l’amnistia, mi pare
fosse il 1947, che poi è risultata politicamente una mossa vincente. Lui voleva la
pacificazione, ma a quelli che avevano fatto
la Resistenza non gli andava giù.
Poi è accaduto che Scelba ha buttato fuori
tutti i partigiani che erano nella polizia, fra
i quali vi era anche Adelino Zanola. Era il
19481949: allora si è capito che il sacrificio fatto in montagna era finito da un’altra
parte.
Noi giovanni di circa 19 anni invece cosa
speravamo... Non c’erano grosse esigenze:
allora non c’era disoccupazione, il lavoro
c’era per tutti, eravamo sicuri che i fascisti non c’erano più e che il fascismo non
sarebbe più tornato, però nel 1950 la vita
era molto grama: Scelba che sparava sugli
operai faceva pensare che si fosse tornati a
periodi peggiori del fascismo. Poi c’è stato
il governo Tambroni: io mi sono trovato in
piazza in quelle occasioni e quelli sono stati
periodi molto caldi.
Le due o tre famiglie fasciste delle quali ho
fatto cenno, dopo la guerra di problemi non
ne hanno avuto molti perché il Bodei è stato trattenuto tre o quattro giorni, ma non
ha subito violenze: andavo io a portargli da
mangiare.
Queste famiglie che facevano riferimento al
fascismo, dopo la guerra sono passate tutte
indenni, non ci sono state grandi rappresaglie verso gli ex fascisti. Non hanno subito
nulla
Si era creato il movimento cooperativo che
era abbastanza forte il quale organizzava le
proprie adunate: si festeggiava il 1° Maggio con la partecipazione di bande musicali, ma quelli sono stati lasciati fuori. Non
c’è stata vendetta nei loro confronti. Con la
fine della guerra tutto è finito, e non ricordo
alcun episodio significativo.
L’unico caso è stato quello del maestro Casali. Casali, a mio avviso, è stato un fatto
dovuto alla sua imprudenza di denunciare in un comizio pubblico, quando c’erano
ancora le armi “calde”. Lui si era limitato a
sottotolineare che si parlava di democrazia,
mentre venivano commesse prepotenze e
loro l’hanno considerato un nemico.
Diverso il caso in tempo di guerra, dell’altro Casali, ucciso perché accusato di aver
fatto la spia: la gente diceva di averlo visto
su alla Fratta e lui ha detto che stava allenando i cani in quanto era un cacciatore;
ma sapevano che era di stanza in Castello
a Brescia e che faceva parte delle brigate
nere e da ciò nacque il sospetto che la spia
fosse lui, perché poi lui ha accompagnato i
rastrellatori visto che loro non conoscevano
la strada: infatti alcuni sono saliti da San
Gallo e alcuni li ha portati su suo fratello
da Mattina.
Non gli è stato perdonato. Un mattina si
stava recando al gabinetto fuori casa ed è
stato colpito. Abitava in una località che
era denominata “Pusù” dove c’è attualmente il lavatoio in via del Marmo: lui abitava in
quella casa e dietro alla casa, nel terreno,
c’era un gabinetto di frasche: una mattina,
saranno state le sei e mezza ed era ancora
scuro, è stato ammazzato. Si temeva che i
fascisti facessero qualche cosa ma non avvenne nulla. Lui si era compromesso troppo con il regime fascista, forse se non fosse
stato così compromesso...
Se si tornasse indietro a quei tempi non so
se farei le stesse cose. Allora ero inesperto:
ero giovane, non si faceva politica e l’unica cosa che ci sosteneva era l’antifascismo:
con l’esperienza di oggi non so cosa avrei
potuto fare. Ciò che è avvenuto andava fatto. Sicuramente l’insurrezione andava fatta: i fascisti alleati ai tedeschi, la popolazione stremata da sacrifici e privazioni, poi
tutta la colpa della guerra era loro; sentivo
i vecchi che dicevano che “quel porco ha
fatto la guerra, ha mandato a morire i nostri figli”.
Non si poteva attendere per vedere di chi
era la colpa. L’odio era sorto a causa di tutte le malefatte che il fascismo aveva fatto.
Stando così le cose potrai capire come tutti
erano convinti che bisognava insorgere. Io
avevo diciassette anni, ma c’erano ragazzi
che avevano due, tre anni meno di me: il
padre della Loredana Lonati era più giovane di me e anche lui è venuto a prendere le
armi.
Qui a Botticino hanno partecipato tutti:
chi ha preso le armi, chi curava i feriti, chi
dava da mangiare, chi i vestiti; tutto il paese ha partecipato all’insurrezione.
L’episodio della bestia non pagata, la perquisizione in casa del sacerdote: bisogna
avere il coraggio di condannare ciò che
di sbagliato è stato fatto, pur riconoscendo che in una rivoluzione possono capitare anche episodi poco simpatici, senza
con questo avere la pretesa di prendere il
bilancino per misurare i pro ed i contro.
49
Questi piccoli episodi, sia pur insignificanti, ma antipatici, ci sono stati fatti pagare
per anni. I democristiani, nelle riunioni comunali, o nelle discussioni che si facevano
all’osteria, ci rinfacciavano sempre questi
episodi. I democristiani erano anche loro
d’accordo nel momento della Resistenza,
ma politicamente sfruttavano questi due
o tre episodi per metterci in difficoltà: probabilmente avranno avuto anche ragione.
Ci sono stati momenti di grande unità, nei
quali eravamo tutti dalla stessa parte, ma
dopo tutto si è rivolto contro i comunisti:
loro non facevano distinzione tra partigiani
e comunisti e si sono rivolti contro di noi, e
le colpe sono diventate nostre. Si può dire
quindi dire che i grossi meriti sono stati offuscati da queste vicende marginali; le cose
importanti sono state fatte insieme, a parte
questi piccoli episodi che sono stati strumentalizzati a scopi politici. Ma questa è
un po’ la storia seguente ...
Botticino, 13 febbraio 1996
Testimonianza di FLAMINIO MORESCHI (3.9.1925)
Mio padre, faceva il contadino ed era socialista, è morto nel 1938. Siamo rimasti io,
mia madre e tre sorelle.
Una aveva sposato il Lonati di San Gallo,
che era nella Resistenza, Casimiro, poi una
si è sposata a Brescia, ma allo stato attuale
sono tutte morte.
Quando è morto mio padre, le mie sorelle
sono andate a lavorare al calzificio, mia madre coltivava un pezzo di terreno di nostra
proprietà dal quale si ricavava un po’ di vino,
e si campava così... Io ho cominciato a lavorare a quattordici anni, ma c’era la guerra; sono andato un anno alla Metallurgica
Tempini di Brescia, poi nel 1943 ho preso le
patenti ed ho iniziato a fare il camionista e
poi ho sempre fatto quel mestiere.
Nel 1943 sono stato arrestato la prima volta, insieme a Bigio Previcini e a uno di Borgosatollo. Siamo andati in prigione perché
al 26/27 di luglio, era Santanì e Sant’Anna,
lavoravamo a Brescia io e Bigio. Di fianco
c’era il circolo fascista Sorlini ed esternamente al circolo c’era un fascio littorio in
marmo; noi eravamo andati con una scala
ad abbatterlo: sono arrivati i carabinieri:
allora, in quel periodo, dal 25 luglio in poi
c’erano solo i carabinieri a mantenere l’ordine, hanno arrestato me, Bigio, Stefano e
un certo Piero di Borgosatollo e ci hanno
tenuto in galera per 7/8 giorni. Ci hanno
portato prima in piazza Tebaldo Brusato
e poi a Canton Mombello. Allora eravamo
ancora minorenni: io non avevo ancora 18
anni e Bigio ne avrà avuti 16. Sono andato
50
al circolo di Sorlini ad abbattere l’insegna
del fascio d’istinto: ero convinto che il fascismo fosse finito, era il periodo dal 25 luglio
all’ 8 settembre, era tutta una baraonda,
allora comandava Badoglio.
La seconda volta è stato all’epoca in cui lavoravo alla officina Odolini che produceva
pompe ad iniezione per i tedeschi. Quando
mi hanno arrestato era la vigilia di Natale
del 1944: avevano fatto un rastrellamento
qui in paese provocato da uno di Virle, che
era un fascista: alcuni venivano dalla valle di Nuvolera e li hanno presi: Menec de
Resa, Rossi. Loro li hanno presi la mattina
che andavano a Brescia a piedi e io stavo
andando in bicicletta: mi ha visto quello di
Virle e così hanno preso anche me.
Mi hanno preso perché stavano compiendo
un rastrellamento e tutti quelli che trovavano li prendevano: anche quei ragazzi non
erano clandestini, perché lavoravano nella
valle di Virle.
Allora ero già nelle “G.A.P.” dopo l’8 di settembre; non ho fatto la montagna ma facevo parte dei gruppi armati della pianura.
Quando mi hanno preso mi hanno portato
a Brescia all’arsenale di via Francesco Crispi, poi con il cellulare a Canton Mombello poi, siccome lavoravo per i tedeschi, mia
sorella conosceva il mio datore di lavoro il
quale si è interessato e mi hanno fatto uscire. Non sapevano che ero nei “G.A.P.” Mi
hanno rilasciato il giorno dell’Epifania.
Noi siamo cresciuti nel periodo del fascismo
però non eravamo fascisti... Ci mancherebbe!
Facevamo il premilitare qualche volta quando ce lo facevano fare, ci obbligavano, altrimenti noi non ci andavamo sicuramente.
Non ero d’accordo con il fascismo prima di
tutto per la famiglia nella quale sono nato
e cresciuto: mio padre era appena morto
e mia madre raccontava che nel 1923 mio
padre era stato picchiato più volte a Botticino ed era anche stato arrestato. Perché
non era fascista ed a loro non andava bene
e poi era una persona che i fascisti di Botticino, per questi motivi, avevano segnato a
dito. Allora i socialisti erano numerosi anche se non tutti avevano il coraggio di dirlo
apertamente.
È stata l’influenza dell’ambiente nel quale
sono cresciuto che mi ha portato a fare le
scelte; tenuto conto dell’età che avevamo,
certe cose non avremmo potuto farle senza
serie convinzioni, perché diversamente saremmo stati incoscienti: se uno non sapeva
cosa era il fascismo e l’antifascismo chi glielo avrebbe fatto fare di correre i rischi che
abbiamo corso senza saperne il perché: noi
pensavamo che il fascismo fosse finito, che
se ne andavano. Dopo il 25 luglio credevamo
finisse, invece andava avanti ancora.
Che non mi piaceva del fascismo era il modo
di fare perché comandavano sempre e ti obbligavano a fare cose che non ti andavano,
sia a scuola che a fare il premilitare, che
non mi sentivo di fare e loro, quel sabato
che mancavi, i capoccia e gli altri poi ti picchiavano; quindi proprio non mi andava e
per di più delle mie sorelle due su tre avevano la stessa tendenza, una poveretta era
sempre in chiesa a pregare per noi; sono
cresciute attaccate ai genitori e quindi hanno subito la loro influenza e sono sempre
state contrarie al fascismo. Una infatti ha
sposato il Casimiro Lonati.
Dall’8 settembre qui a Botticino hanno
avuto luogo alcune riunioni: c’era il povero “Rusì de Somia” (Arici Arnaldo) e tre o
quattro antifascisti. C’erano Arici padre e
figlio, un altro era Damonti Angelo, adesso purtroppo sono tutti morti e non ricordo con precisione: io sono cresciuto con
loro: ricordo che mi hanno fatto la tessera
del P.C.I.
Il 9 settembre del ‘43 nella riunione già cercavano di creare dei gruppi: non ricordo se
la formazione “G.A.P.” sia stata formata già
in quell’occasione o successivamente. Già
distribuivano volantini fuori dalle fabbriche
e altre cose: io no, ma mia sorella sì.
Non è che nel nostro piccolo paese si potesse fare molto e poi eravamo in pochi: oltre a me ricordo l’Arici, il Giossi, quello del
Romanino, fino alla fine della guerra, poi
quest’ultimo che era democristiano non si è
più visto. Però allora si prestava anche lui e
quel poco che si poteva fare lo faceva.
Allora si facevano incontri dal povero “Polenta”, veniva Tobegia, il Tito di Sant’Eufemia, lui cominciava già ad organizzare
qualche cosa: non ce n’erano molti qui a
Botticino, c’era Fulmine ma lui era già sugli
Appennini, di botticinesi che hanno fatto la
vera montagna ce ne sono pochi.
Noi eravamo legati all’organizzazione del
partito. Io se l’ho fatto l’ho sempre fatto per
il partito; come ti dicevo le riunioni si facevano dal “Polenta”: ci si trovava con il Tito
Tobegia, ma si stava molto attenti perché
non c’erano sicurezze. Il materiale arrivava
lì e noi poi pensavamo alla distribuzione o
a portarlo a San Gallo. A San Gallo c’era il
papà dei Tolotti.
A San Gallo non c’erano partigiani della
montagna. Quello era un posto di riferimento: si portava lì il materiale e poi scendevano quelli della montagna a prelevarlo.
Qui in paese non c’era niente: il punto base
era a San Gallo. C’era il Nono, Damonti ed
i soliti che tutti conoscevamo. Talvolta si
macellavano animali di nascosto e poi si
inviavano in montagna ed anch’io ho portato tre o quattro volte pezzi di animali a
San Gallo. Allora si doveva pagare il dazio e
denunciando gli animali si sarebbe saputo.
Il mese di settembre abbiamo fatto questa
riunione per cominciare. L’8 Settembre c’è
stato l’armistizio ed avevano già parlato
di andare in montagna i soldati sbandati
51
e raccoglievano tutti quelli che volevano
lavorare qui e si prestavano. Ricordo che
il giorno 9 abbiamo fatto una riunione in
casa di Arici Arnaldo (Bruno) detto “Somia”
di soprannome.
In questo periodo, dal 9 settembre ‘43 al 25
aprile 1945 abbiamo fatto alcune riunioni,
sempre in casa dell’Arici Domenico, e si parlava del partito, si facevano previsioni sulla
probabile data di fine della guerra: si sperava finisse presto anche per l’intervento dei
partigiani che si pensava avrebbero affrettato una fine delle ostilità. Poi si parlava del
fascismo e si confrontava con il socialismo.
Qui, nella zona detta del “Vaticano” (in via
San Nicola), eravamo otto o dieci famiglie,
ma che partecipavano erano solo quattro o
cinque, in quanto le altre avevano paura.
Venivano i Colturi, gli “Ambros”, io e le mie
sorelle; eravamo solitamente in 7 o 8 : uno
o due per famiglia. Si facevano discussioni
politiche: quello che era stato, quello che
sarebbe venuto, ciò che poteva cambiare, le
possibilità che c’erano.
C’era la Menega de Ambros, quella era forte, le mia sorelle, quel Rusì, quelli che avevano la radio e potevano ascoltare radio
Londra, mia sorella, sua cognata ma altre
donne non ricordo. C’eravamo io, quel Rossi che poi hanno arrestato con me.
Le riunioni si tenevano qui vicino in via San
Nicola.
Le donne facevano parte anche loro dei
G.A.P.: mia sorella e sua cognata consegnavano biglietti e propaganda, vestiario.
Poi si ascoltava “Radio Londra”: l’andavo
ad ascoltare dagli “Ambros”, che erano antifascisti ed abitavano vicino a casa mia. Si
ascoltavano i messaggi che la radio inviava
alle formazioni partigiane.
Poi arrivava gente da Brescia la quale consegnava volantini che dovevano essere portati a San Gallo, o darli fuori qui e noi li
portavamo. Distribuivamo i volantini e portavamo da mangiare, abbiamo fatto queste
cose: era l’inverno del 1944.
Comunque qui in paese di partigiani non
ne ho mai visti. Quando scendevano dal52
la montagna si fermavano dal “Polenta”,
forse perché lì si sentivano più sicuri perché vicini alla montagna. Lì dal “Polenta”
si facevano molte riunioni, alle quali abbiamo partecipato anche noi, ma soprattutto
vi partecipavano persone che venivano da
fuori, e che poi prendevano la strada della montagna. Prima di san Gallo c’era quel
posto lì.
Qui in paese no, non ho mai sentito: a parte che allora ero giovane in quanto avevo 18
anni. Io le cose le facevo così, non ero veramente cosciente. Il 95% della gente aveva
paura e si tratteneva: noi invece andavamo
sempre fuori perché non avevamo paura.
In quel periodo avevano trasformato in caserma le scuole di Botticino Sera che erano
in piazza 4 novembre e dentro c’erano i soldati di leva, saranno stati circa 25.
Non ricordo da dove venivano: ricordo che
erano sistemati in uno stanzone grande
nelle scuole ed abbiamo fatto fuggire quelli che c’erano dentro. Io non so se erano
d’accordo o meno: sicuramente nessuno ha
sparato. C’ero io, l’Arici, altri due o tre di
San Gallo ed erano venuti 7 o 8 partigiani
dalla montagna per quell’azione. Li abbiamo portati a San Gallo e poi li hanno accompagnati, attraverso i monti, nella zona
di Lumezzane e poi non so che fine abbiano fatto. Praticamente hanno disertato e si
sono uniti ai partigiani. La logica era quella.
Dopo noi siamo tornati a casa attraverso i
campi e non ho più sentito niente di loro;
la loro destinazione era verso la montagna.
Poi fino alla fine della guerra non ho fatto
nulla di rilevante, anche se avrei voluto fare
di più; avevo i mitra in casa ma non li ho mai
adoperati: il freno era rappresentato anche
dalla giovane età, non avevo paura di niente,
ma ...Pensa: la prima arma che ho posseduto
è stata una bomba a mano, che praticamente non sapevo quasi cosa fosse. Me l’hanno
data quelli che sono scesi dalla montagna la
notte che siamo andati a Sera, dove era stato
fissato il ritrovo: di armi non ne avevamo ed
uno mi ha messo in mano la bomba a mano,
ad un altro hanno dato una pistola, ma armi
grosse tipo fucili o mitra non ne ho visti.
Il mitra l’ho usato solo dopo la Liberazione per andare a prendere le scarpe in un
magazzino dei tedeschi: qui a Botticino anche dopo la Liberazione in paese di armi ne
circolavano poche: qualche mitra, ma non
bastavano nemmeno per tutti.
Il 25 aprile sono arrivati i partigiani: è sceso il Tito, io conoscevo due o tre partigiani,
ma che comandava era lui. Lui era il comandante della “Garibaldi” e venivano da
sopra Lumezzane e sono scesi a Botticino.
Lui, non vorrei sbagliarmi, dopo la guerra è
fuggito a Praga perché era ricercato,
Il 25 aprile, massimo il 26, era a Botticino e
dava lui gli ordini di ciò che si doveva fare.
Attorno al 25 aprile, prima di tutto siamo
andati a Rezzato ed abbiamo organizzato
un posto di blocco, c’era anche Bigio Previcini.
Dopo il 25 aprile abbiamo fatto dei posti di
blocco anche qui a Botticino ed è successo
il fatto del “casì de Panada”.
“Siamo amici, siamo amici....” I tedeschi
che poi sono andati al “casì de Panada”
sono passati di qui ed i ragazzi li hanno lasciati passare in quanto non erano in divisa e non li hanno riconosciuti. Io quel giorno ero a Gussago: ero andato, non ricordo
con chi, guidavo un camioncino tedesco e
mi avevano detto che bisognava andare là
perché sparavano: su alla Stella c’erano i
tedeschi.
Qui a Botticino si era organizzato il Municipio, si era fatto un deposito, poi siamo andati a prendere i materiali: c’erano scarpe,
vestiario, e di mano in mano che tornavano
i prigionieri glielo davamo. Man mano che
tornavano dalla prigionia glieli davamo.
Le scarpe siamo andati a prenderle in un
palazzo a Bedizzole, era il 26 o il 27 aprile, e
le abbiamo scaricate in Municipio, c’erano
anche sigarette.
Questa merce la davamo ai militari che tornavano a casa e il cui rientro è iniziato dopo
qualche giorno. Dal 25 Aprile siamo rimasti in municipio per circa 2-3 mesi: c’erano
armi e merci, l’automobile del Barbisù, alimentari quali scatolette di carne, non molti
ma c’erano: era tutta merce americana.
Noi giovani stavamo lì fissi: c’erano due o
tre stanze ed alloggiavamo in due o tre per
stanza: si parlava di ciò che accadeva ma di
incarichi specifici non ne avevamo.
Eravamo un poco abbandonati a noi stessi.
L’unico che comandava era il Tito, ma altri
che potessero guidarci non ce n’erano. Eravamo cresciuti così, senza che nessuno ci
guidasse veramente.
In quel periodo, dopo il 25 Aprile, finita la
guerra, la nostra speranza era di finire in
fretta con i tedeschi ed i fascisti, ricominciare di nuovo, tornare al lavoro se era possibile, pulire dai residui di fascisti e tedeschi che erano rimasti, e cambiare vita.
Prima di tutto perché gli anni vissuti sino a
quel momento non erano certo belli perché
eravamo privati di tutto non avevano nessuna delle libertà che si vuole a 20 anni,
anche solo di poter uscire la sera senza che
nessuno ti dicesse nulla, poter andare all’osteria senza che i fascisti ti controllassero,
ti faceva sentire la libertà nell’aria ed era
già molto.
Poi la speranza del lavoro: il fatto di poter
guadagnare e migliorare le nostre condizioni: io non avevo molte capacità ma già vedevo un avvenire migliore.
Ripensandoci oggi penso che allora avrei
potuto fare di più e mi trovo pentito di non
averlo fatto, però in fondo mi è andata bene:
non mi è accaduto nulla, anche qui in paese non sono accaduti grandi fatti, a meno
che qualcuno ricordi qualcosa più di me: io
ricordo solo i fatti principali e la prigione,
perché l’ho subita.
D’altra parte allora si aveva paura e le notizie che solo pochi conoscevano circolavano
con circospezione. La gente aiutava, però
chi lo faceva non parlava perché aveva paura Alcuni sono rimasti nascosti sino dopo
la fine, vero è che gli chiedevamo: “Scendi
dal solaio?”, hanno aspettato che gli altri
facessero loro la “pappa” prima di mettere
il naso fuori di casa.
Dopo la guerra è stata una delusione perché nella vita non ho mai avuto fortuna: ho
sempre cercato di andare a lavorare e non
mi hanno mai voluto perché ero un comu53
nista. È inutile ti racconti la mia tragedia
perché è lunga: ho sempre avuto necessità
di lavorare e mi hanno sempre detto di no.
Dopo la guerra avevo la qualifica di tornitore e fresatore, ero disoccupato, avevo voglia di lavorare, c’erano le assunzioni alla
“O.M.”: io con la qualifica non venivo assunto mentre assumevano i raccomandati. Ricordo che allora alla “O.M.” c’era un
ingegnere che faceva le assunzioni il quale faceva entrare solo i raccomandati. Alla
“Sant’Eustacchio” era la stessa cosa: entravano i socialisti ed io che ero comunista
non venivo assunto. Questo per dimostrare
come l’essere comunista è sempre stato difficile.
Anche quando mi ero messo in proprio acquistando un camion il lavoro non lo trovavo mai: per fortuna lavoravano le mie sorelle. Io sono sempre stato comunista e mi
vanto della scelta fatta, anche se ha sempre
rappresentato un grande ostacolo dal punto di vista economico; se io avessi tenuto
nascosta la mia fede politica non avrei avuto problemi nel trovare un lavoro. Bastava
non mi fossi dichiarato ed un lavoro l’avrei
trovato subito perché allora c’era una buona richiesta di mano d’opera nella mia specializzazione.
Noi che avevamo preso parte alla Liberazione non eravamo molto considerati. Per farti un esempio ti racconterò un particolare.
Subito dopo la Liberazione consegnavano,
ai partigiani ed ai gappisti, degli attestati del generale Alexander, che facilitavano
l’avviamento al lavoro; eravamo io e quello che era soprannominato il “Patatì”: lui è
stato subito assunto alla “O.M.” ed io no.
Subito dopo la Liberazione avevamo creato
una sezione del P.C.I. ed alle riunioni partecipava moltissima gente anche se io raramente intervenivo perché ho sempre avuto
difficoltà nell’esprimermi.
Qui in paese dopo la guerra noi giovani, assieme ai militari che erano rientrati a casa,
avevamo organizzato delle veglie nel palazzo comunale nel mese di settembre. Vicino
a casa mia avevamo costruito una baracca
di legno: ci davamo da fare per organizzare
feste. Come popolazione non abbiamo mai
54
avuto problemi, effettivamente non eravamo malvisti.
Alcuni dicevano che avevamo rubato. Dicevamo che mangiavamo e bevevamo perché
avevamo preso i soldi del comune, mentre
invece noi utilizzavamo le scatolette di carne degli americani. Subito dopo la Liberazione circolavano molti soldi ma non li abbiamo certo presi noi: quelli che li hanno
rubati sono stati il Cenedella e gli altri due
fratelli fascisti dei quali sicuramente te ne
ha già parlato il Bigio.
Il Cenedella e gli altri che dicevo erano fascisti si erano infiltrati con noi. Loro erano
sfollati a Botticino e non si sapeva bene chi
fossero e si presentavano bene: dicevano di
essere fuggiti perché avevano paura dei fascisti e noi abbiamo abboccato all’inganno.
Noi eravamo giovani ed inesperti e siamo
caduti nel tranello: sicuramente gli anziani
avrebbero dovuto informarci che erano persone inaffidabili ed alle quali non si poteva
affidare con leggerezza il municipio.
È finita che noi abbiamo fatto brutta figura
e la cassa del comune se la sono portati via
loro. A Rezzato ad esempio, erano in tanti e
tutto era molto più controllato e quindi non
è successo nulla. L’unico fatto è avvenuto
quando hanno bombardato un treno e la
gente dopo lo ha saccheggiato.
Dopo la Liberazione ci hanno consegnato
quei diplomi di gappisti all’A.N.P.I. che era
in piazza Loggia dove c’è rimasta per molto
tempo. È stato dato a me, a quello soprannominato “Patatì”, al Bruno detto “Rusì”,
eravamo in quattro o cinque.
Non ho fotografie. Allora non si facevano fotografie: non possedevo nemmeno la macchina fotografica. Non era come oggi, allora
le fotografie erano rare; nel dopoguerra si
è iniziato a fare fotografie in occasione dei
matrimoni.
Tolto che giornali, pochi, e la radio altro
non c’era. Arrivava allora solo il giornale
del partito, il P.C.I., che facevamo circolare
tra di noi. So che arrivava anche un altro
giornale, ma non ricordo il nome della testata.
Botticino, 23 febbraio 1996
Testimonianza di SANTINA DAMONTI (19.2.1922)
Quando parlo con i miei nipoti di queste
cose loro non mi stanno ad ascoltare, uno
poi non vuole assolutamente sentire questi
discorsi. Io penso invece che per governare
una nazione bisogna avere un po’ d’amore,
perché altrimenti è inutile farlo.
Sono del 1922, quando è nato il fascismo.
Ho frequentato la scuola elementare qui a
San Gallo ed ho superato solo la terza elementare: qui a San Gallo la quarta non c’era. Conservo ancora la fotocopia della pagella: ho cancellato tutti gli emblemi fascisti.
Ho sempre abitato a San Gallo. Ho lavorato
a Brescia, facevo la commessa presso la ditta Dolcini, in piazza del Mercato prima della
guerra e anche in tempo di guerra, poi ho
proseguito a lavorare anche dopo sposata.
Mio padre faceva il contadino. Si mangiava ciò che si produceva in casa; eravamo
undici fratelli: abbiamo sofferto la fame, il
freddo, tutto. Poi ho avuto quattro fratelli
militari: uno è stato ferito in Russia, era negli alpini della divisione Julia, la compagnia
Tridentina, un altro era negli artiglieri, anche lui nella divisione Julia: sono partiti inizialmente per l’Albania, poi sono stati mandati in Russia: era arrivato il telegramma
che era disperso ed invece è tornato a casa
alla fine del 1945. Pesava 42 chili, pieno di
pidocchi e di tutto. Quando ci penso...
Quando frequentavo la scuola c’era il fascismo; a San Gallo c’era una sola maestra
che insegnava a cinquanta bambini di prima, seconda e terza. La mattina insegnava
ai bambini di seconda e terza ed al pomeriggio faceva la prima. Quella maestra insegnava molto bene, era di Rezzato, si chiamava Battaleni, amava molto i bambini ed
era bravissima: io ho un ricordo molto bello. Noi scolari non facevamo niente di particolare, non partecipavamo nemmeno alle
manifestazioni del “sabato fascista”, forse
perché eravamo pochi rispetto a quelli di
Botticino.
Andare a scuola mi piaceva molto. Io desideravo proprio studiare: io andavo a casa
mi fermavo sui libri, facevo subito i compiti; oggi quando vedo i bambini che non
hanno amore e che i genitori li devono sgridare per fare i compiti me ne rammarico.
Con me nessuno ha mai gridato perché facessi i compiti.
Qui a San Gallo il fascismo era molto avversato. Ricordo uno dei miei fratelli, si
chiamava Santo, faceva il calzolaio ed era
andato a lavorare a Milano perché qui a
San Gallo non c’era lavoro: era il 1935. Una
domenica arrivano i carabinieri a cercarlo:
stavano facendo le indagini perché cercavano i sovversivi. Non so perché c’erano degli
antifascisti a San Gallo, comunque anche
mio padre lo era.
Mio padre aveva fatto la prima guerra mondiale. Mio padre non lavorava in cava: all’inizio erano in pochi che lavoravano alle
cave, successivamente sono diventati più
numerosi ed anche mio fratello più vecchio, che era del 1905, è andato a lavorare
in cava.
Non so come mai mio fratello è stato accusato di essere sovversivo; anche il Lonati
Casimiro, che era zio di mio marito, è stato
accusato dello stesso reato. Forse lo hanno
accusato proprio perché parente del Lonati.
In casa, quando ero ancora giovane, non
parlavamo tanto di politica, di fascismo,
anche perché si aveva molta paura. Avevano paura perché se lo venivano a sapere li
arrestavano e li portavano via.
Qui a San Gallo non è accaduto che qualcuno sia stato portato via. Però accadeva,
quando facevano i rastrellamenti, che prendessero gli uomini e li portassero a Brescia,
poi magari li rilasciavano. Prima della guerra i rastrellamenti non sono stati effettuati.
C’erano persone sospettate e basta.
Qui a S.Gallo non c’era la sede del “fascio”,
se c’era il “sabato fascista” bisognava recarsi in sede a Botticino. Quando c’era il
sabato fascista non lavoravano ma non venivano fatte attività speciali.
Nicoletto quando è fuggito in Jugoslavia
prima è venuto a San Gallo. Era ospitato in
una casa proprio dietro alla mia. Era ospi-
55
tato in casa di Lonati, il fratello della mia
suocera: loro erano quattro o cinque fratelli. Nicoletto è venuto qui a San Gallo perché conosceva il Casimiro Lonati ed i suoi
fratelli e sapeva che erano tutti antifascisti. Allora il Casimiro ha fatto venire a San
Gallo Nicoletto e questi si è fermato alcuni
giorni. Casimiro Lonati era di San Gallo:
è nato qui e qui ha vissuto: poi è partito
in cerca di lavoro. Poi dalla Francia è rientrato clandestinamente in Italia ma è stato
preso, credo a Genova, ed è stato confinato
all’isola di Ponza per diversi anni. Per essere confinato però doveva essere considerato
un elemento molto pericoloso. Casimiro è
stato anche in Russia a scuola di partito.
Casimiro Lonati era antifascista: francamente ne ignoro i motivi; so che è andato
in Francia per lavoro e poi anche là hanno
creato formazioni antifasciste.
Nicoletto è venuto a San Gallo a nascondersi, qui c’era la casa di uno dei fratelli Lonati, che erano considerati sovversivi, ma non
so quando si sono conosciuti.
Non lo so dove Nicoletto è andato quando
è andato via da San Gallo, anche perché
erano cose che venivano fatte di nascosto:
anche mio marito, allora era ancora un ragazzino, era andato dalla zia a giocare con i
cuginetti ed era salito sul solaio della casa
ed ha visto Nicoletto che era nascosto là: è
sceso urlando che c’era un uomo nel solaio,
perché nessuno lo sapeva.
Allora non si poteva parlare perché era
estremamente pericoloso e quindi tutti
usavano la massima prudenza: per questi
motivi molti documenti sono anche andati
distrutti.
Mi sono sposata all’inizio del 1946, mio
marito lo conoscevo già, in quanto abitava
a San Gallo. Abbiamo cominciato ad aiutare i partigiani subito dopo l’8 settembre
‘43: i miei fratelli hanno lavorato molto, andavano a Brescia con il carro a prendere la
farina e tutto ciò che potevano trovare. Mio
marito lavorava nei G.A.P. perché era riformato (gli mancavano due dita) e non aveva
quindi l’obbligo del servizio militare ed ha
partecipato ad alcune azioni.
56
Mi ha raccontato qualche cosa ma ora ricordo poco: ricordo che una volta erano
andati a S. Eufemia dove c’era un calzaturificio per portar via le scarpe e le hanno
portate qui a San Gallo, che era un luogo
di raccolta; dopo venivano smistate: la notte venivano a prenderle e le portavano via
attraverso San Vito.
So che c’era gente che veniva anche da lontano. I materiali (vitto, vestiario, ecc.) venivano poi portati a spalle in montagna,
talvolta sino al Sonclino. Anche quando è
precipitato un aereo su in collina, prima di
arrivare alla Fratta hanno subito pensato
di mettere al sicuro il pilota per la notte e la
mattina successiva lo hanno accompagnato in montagna.
Mio marito si chiamava Busi Sebastiano, lo
chiamavano “Nono”. Lui lavorava in cava ed
indossava sempre un berrettino ed i compagni di lavoro lo scherzavano perché dicevano che sembrava un “nonno”: da quel
momento gli è rimasto il nomignolo.
Di San Gallo insieme a mio marito c’era
uno dei suoi fratelli, Mario, che era il più
anziano, poi c’era Tolotti Andrea, che poi è
morto, Lonati Annibale.
Qui a San Gallo c’era qualcuno che veniva dalla Valtrompia: era una cugina di mio
marito che faceva la staffetta, si chiamava
Berta. Era la moglie del Lino Belleri, quello
che fa il commercialista.
Le derrate e le merci che portavano venivano scaricate e nascoste in qualche fienile,
ma venivano subito inoltrate per le loro destinazioni. Prendevano accordi, quando arrivavano, per venirle a prendere. Qui a San
Gallo venivano i partigiani anche per il vitto
e gli uomini e le donne li aiutavano.
Noi dicevamo che la guerra non aveva più
fine: quando gli alleati sono arrivati a Cassino, e da lì non si muovevano, eravamo tutti
ansiosi si giungesse alla fine. Poi un’altra
fermata gli alleati l’hanno avuta sulla linea
gotica.
Qui a San Gallo sono avvenuti rastrellamenti, ne hanno fatti moltissimi: hanno
anche bruciato delle cascine: una sopra la
mia e se questa non è stata bruciata è stato
proprio un miracolo... È stata bruciata perché hanno visto che qualcuno aveva dormito dentro, mentre invece nel fienile non
avevano dormito estranei, ma i proprietari
del campo che lavorava mio padre, invece i
fascisti dicevano che vi avevano dormito i
partigiani.
I rastrellamenti arrivavano all’improvviso
specialmente nelle case isolate. Ricordo
che era fine settembre, primi di ottobre,
erano le cinque della mattina ed in quel
periodo era ancora buio, avevo a casa uno
dei miei fratelli che era della classe 1924: la
casa era molto scura e lui ha fatto appena
in tempo ad infilarsi in un piccolo camino
ed a nascondersi dietro un sacco di crusca
che si era tirato addosso: loro hanno fatto
passare tutta la casa ma per fortuna non lo
hanno scoperto.
Hanno portato via gente di San Gallo. Li
prendevano ma siccome non avevano armi
poi li rilasciavano.
Sicuramente mi ricordo che quando i fascisti facevano i rastrellamenti prendevano
persone che poi portavano a Brescia: anche uno dei miei fratelli era stato fermato e
trattenuto per alcuni giorni ed ha passato il
Natale a Brescia rinchiuso all’arsenale. Lui
era della classe 1926 e non era fra le classi
richiamate; volevano farlo parlare, ma lui
non ha detto niente. Un altro mio fratello
che era del 1924, l’ultima classe che in quel
periodo era stata chiamata alle armi è stato
fuggiasco per diverso tempo.
rastrellamento da parte dei militi fascisti e
dei soldati tedeschi che in quei giorni giravano numerosi sulle nostre montagne; ma i
fascisti sono scesi dalla Fratta molto tardi:
chissà cosa avranno fatto tutto quel tempo.
Verso le otto, sono scesa a Botticino Sera
perché servivano le medicine per il mio
papà ammalato. Di ritorno dalla farmacia, arrivata in località “Case sparse” mi ha
fermata una pattuglia di militi fascisti e di
soldati tedeschi muniti di cani-poliziotto
che mi hanno perquisita. Poiché non avevo
nulla di compromettente, mi hanno lasciata andare.
Venivano su con i camion cantando i loro
inni. La volta che sono tornati dopo l’eccidio
della Fratta, scendevano con i camion cantando “giovinezza” e tutte le loro canzoni.
All’ingresso della stalla (allora non c’era la
casa com’è adesso) abbiamo visto i cadaveri
dei tre ragazzi uccisi: quello di Livorno, che
era un giovanotto grande e grosso, era là,
disteso per terra: una delle donne che erano con me si è inginocchiata per terra ed ha
cominciato a pregare. Le donne che erano
con me sono tutte vive ma tra di noi non
abbiamo più parlato di questo episodio.
Era il 28 ottobre del 1944. Ricordo che ero a
messa e stavano facendo il mese della Madonna, mese che di solito è di maggio ma,
per poter avere disponibili più persone era
stato spostato ad ottobre poiché i contadini erano più liberi dai lavori. Erano le sei
del mattino e la celebrazione era quasi alla
fine quando sentiamo sparare dalla Fratta,
che è proprio di fronte alla chiesa; siamo
fuggiti tutti a casa, per evitare pericoli di
Intanto verso le otto e trenta i fascisti erano
giunti a San Gallo e sono andati dal parroco
per avvertirlo che su alla Fratta c’erano tre
morti e che decidesse lui cosa voleva fare.
Verso le undici siamo partite in quattro
e scendendo la vallata e risalendo la china del monte siamo arrivate sul posto, al
Monte Fratta per vedere cosa era successo.
Il parroco non è venuto, eravamo solo in
quattro donne.
La Fratta non era un campo base: magari
arrivavano si fermavano uno o due giorni e
poi ripartivano. Il proprietario della cascina
non è quello attuale: era un tizio che abitava a Castello di Serle; ma sicuramente deve
esserci stata una spia perché salire da Botticino Mattina ed essere sul luogo già alle
cinque di mattina è evidente che dovevano
essere bene informati.
Nel frattempo era arrivata altra gente di
S.Gallo. Io, mia sorella Rosa e Busi Giacomo siamo corse a Botticino Mattina dal parroco, il quale però non ha voluto assumersi
alcuna responsabilità: anche lui aveva un
57
poco di paura anche perché era anziano,
così come il parroco di San Gallo, e non si
fidavano a salire. Noi allora siamo corse in
Comune dove abbiamo trovato il segretario
federale.
Costui ci ha accolte con insulti, dicendoci che i tre “banditi” erano dei fuori legge
e che noi non dovevamo occuparci di queste cose altrimenti ci avrebbero fatto fare la
stessa fine.
Siamo tornati a S.Gallo e poi ho saputo
che verso sera alcuni uomini e alcune donne della mia frazione erano saliti al Monte
Fratta con portantine e lenzuola per comporre le salme e portarle alla sala mortuaria del cimitero di San Gallo. C’era molta
gente e sono stati seppelliti mettendoli in
terra senza la cassa.
Durante la notte i compagni della 122° brigata Garibaldi hanno onorato le salme con
delle ghirlande che sono state posate sui
tre tumuli e su questi è stata posta una
scritta che press’a poco diceva “I garibaldini vi vendicheranno “. Tutto avvenne in
silenzio e di nascosto.
Non so di preciso, ma non credo che poi
stati veramente vendicati. Anche perché
dopo la brigata Garibaldi si è ritirata sul
Sonclino.
Nella mia mente e nel mio cuore rimarranno sempre vivi i ricordi di quella triste, piovosa e nebbiosa mattina di fine Ottobre: ricorderò per sempre lo strazio di quei corpi
dilaniati. Altri due partigiani che erano con
loro sono riusciti a salvare la vita gettandosi nella cisterna all’interno del fienile e
rimanendovi nascosti per alcune ore. Tanta
paura avevano quei poveri giovani che non
si fidavano ad uscire perché temevano che
ci fossero ancora i fascisti e i tedeschi.
I due nascosti si chiamano Ciotti e Giordani Giuseppe (detto Capèla) di Iseo. Io avevo portato con me un poco di vivande ed
un poco di medicazioni: quando i due sono
uscire dalla stalla con il mitra in mano la
gente si è spaventata ma poi ha capito che
si trattava dei sopravvissuti e la paura è
scomparsa. Poi i due sono stati accompagnati via, credo a Serle dove c’era un altro
distaccamento partigiano.
58
La mia Testimonianza vuole essere come
un testamento da lasciare ai giovani che
verranno: amate sempre la patria come io
l’ho amata e ricordatevi che non è nata dal
nulla, ma dall’impegno e dal sacrificio di
sangue di tante giovani vite!
Ai tre partigiani, Giuseppe Biondi di Livorno, Beniamino Cavalli di Castrezzato e
Francesco Di Prizio di Iseo caduti per un’ideale di pace e giustizia vada riconoscente
il nostro ricordo.
Dopo questo episodio, è morto lo zio di mio
marito. Molti tedeschi, dopo la Liberazione
fuggivano passando da San Gallo per evitare le strade principali e non correre il rischio di essere fatti prigionieri: allora non
esisteva la strada come adesso e ne passavano moltissimi e molti sono anche stati
fermati: si lasciavano disarmare e provvisoriamente venivano rinchiusi nelle scuole.
Lo zio di mio marito era molto arrabbiato
in quanto diceva che avendo quattro figli
in guerra intendeva vendicarli e mia sorella
cercava di fermarlo; anzi gli aveva persino
consegnato un ombrello perché quel giorno
pioveva e continuava ad insistere di starsene a casa che lo avrebbero ammazzato: ed
infatti fu ritrovato sotto San Vito con ben
sette pugnalate nella schiena. Com’è realmente accaduto il fatto non so, il tedesco
non sono riusciti a prenderlo per cui non
si è mai saputo bene com’è accaduto il fatto: di sicuro lui era disarmato perché aveva
solo l’ombrello che gli aveva dato mia sorella.
Quando i partigiani hanno preso possesso
del Comune non è sceso nessuno da San
Gallo: qui a San Gallo provvedevano a fermare tutti i fuggiaschi che passavano dalla
frazione perché dopo il 25 Aprile, come ho
già detto, passavano moltissimi tedeschi.
La cosa sarà durata 5 o 6 sei giorni circa
sino al 2 o al 3 di maggio.
È stato fatto prigioniero un intero plotone:
hanno visto che si arrendevano e non esisteva più la necessità di combattere. Quelli
fermati a San Gallo non ricordo dove sono
stati portati.
Dopo il 25 Aprile 1945 abbiamo fatto festa,
la festa è durata alcuni giorni: si mangiava,
si cantava. Nei giorni dell’insurrezione noi
donne siamo andate dai “Frecane” e preparavamo il vitto: eravamo in diverse. Donne che hanno fatto la staffetta e portato
messaggi non ce n’erano qui a San Gallo.
Praticamente qui a San Gallo si ritrovavano quelli che scendevano dalla Valtrompia
e venivano qui per prendere vitto ed altro
e poi ripartivano; quindi era una specie di
punto d’incontro. Che saliva a San Gallo da
Mattina e da Sera mi ricordo Remo Cattina,
che ora è morto.
Noi abbiamo aiutato i partigiani e alla fine
della guerra mio marito si aspettava di
cambiare il regime, dopo sono sorti tre o
quattro partiti e ci chiedevamo come mai
fossero così tanti, ed ancora adesso me lo
chiedo, e mi chiedo ancora oggi come mai i
comunisti siano stati maltrattati come fossero dei malfattori. Quelli che hanno fatto
i partigiani la maggior parte erano comunisti. Dopo la Liberazione mio marito era
iscritto al P.C.I.
Qui a San Gallo durante la Resistenza le
persone lavoravano di nascosto e quindi era difficile individuare le persone che
si attivavano. Ed a guerra finita, quando
si è saputo che alcune persone aiutavano
i partigiani, la gente anche dopo era ancora circospetta: ricordo che quando si è
votato nel 1948 ci hanno avvisato di non
dormire a casa perché diversamente sarebbero venuti a prelevarci, e siamo stati costretti a passare la notte in un cascinale
su in collina a San Vito. Ricordo anche che
il parroco di allora aveva acceso cinquanta candele davanti all’altare della Madonna
per scongiurare la vittoria dei comunisti. Io
poi non ho più potuto frequentare la chiesa
perché tutti sparlavano della mia famiglia.
Noi poi siamo passati alla storia perché mio
marito, dopo la sua morte, è stato sepolto
con il funerale civile. Io però voglio essere sincera: senza l’aiuto dei miei figli non
ce l’avrei fatta. D’altro canto mio marito ha
sempre detto che voleva il funerale civile ed
io quindi non mi sentivo di trasgredire le
sue volontà. D’altro canto mio marito non
aveva certo molta simpatia per il parroco di
allora, il quale non faceva altro che predicare in chiesa contro il pericolo comunista:
sembrava che il peccato peggiore che una
persona potesse compiere era quello di essere comunista. Ora è tutto cambiato: i comunisti avevano la scomunica mentre ora
non è più peccato, la libertà è un diritto.
Nella mia famiglia eravamo tutti antifascisti anche per la parentela che ci legava ai
Lonati, ma la gente di San Gallo era indifferente.
Ma durante la guerra le cose sono cambiate
poiché diversamente ci avrebbero fatto portar via tutti. Durante il periodo della resistenza le famiglie si sono unite sempre più
ed in modo particolare dopo la Liberazione.
Anche le famiglie che durante la resistenza
non hanno collaborato si sono poi ritrovate
dopo la Liberazione. Il cambiamento è avvenuto dopo il trasferimento del parroco il
quale, ripeto, influiva pesantemente sulla
popolazione. Ad ogni modo qui a San Gallo
di gente che credeva nel fascismo ce n’era
molto poca: si sarà trattato in tutto di una
decina di persone e non di più.
Ad ogni modo, ritornando al funerale di mio
marito, malgrado si sia svolto con il rito civile, c’era una moltitudine di gente.
San Gallo, 28 marzo 1996
Testimonianza di GIUSEPPE GIORDANI (Iseo 31.5.1927)
Mio fratello aveva 21 anni, doveva andare
soldato perché lo chiamavano. E lui invece
di andare via è andato sul monte. Parlava
di portare anche me e allora sono andato
anch’io. Avevo 17 anni e 4 mesi nel giugnoluglio del ‘44. Quando siamo saliti non ero
da solo, eravamo in 10 di Iseo. Siamo andati direttamente alla brigata “Garibaldi”,
la 122.
C’era già un po’ di organizzazione, c’era
dentro anche mio fratello, qui nel paese.
Non sapevamo niente di antifascismo, di
59
politica. Ma un po’ quell’Ugo che usciva da
Brescia e ci spiegava alcune cose, qualche
volantino, i giornali clandestini, così siamo
andati in montagna coi partigiani.
Poi c’erano altri: Cecco Usanza, Vigilio
Brona del ‘24, che andava soldato e subito dopo scappava. Poi c’erano qui giovani
accampati (fuggiti dopo l’8 settembre): noi
li ascoltavamo. Poi c’erano quelli che erano
andati in Russia. Uno era stato deportato
in Germania. Non ne potevamo più della
guerra.
Lì abbiamo cominciato a fare politica, ad
avere qualche barlume di quello che succedeva. Non avevamo ancora una cultura.
Un po’ quello e poi anche lo spirito di avventura: eravamo giovani. Io ero cattolico e
sono andato con la brigata 122° che erano
comunisti. Erano duri, non ci pensavano
un momento. Io adesso sono del PDS., per
dire, ma allora erano proprio convinti e non
si tiravano indietro.
Dovevamo andare su tra Livemmo e Lodrino. Lì c’era anche Ciotti, quello che era alla
Fratta. Durante la notte abbiamo attraversato il Mella, poi sul fianco del Guglielmo e
dopo lì dietro....
Sapevamo di andare lì perché c’era già una
organizzazione qui a Iseo: c’era uno che
usciva da Brescia; lo chiamavano Ugo. Si
faceva qualche riunione, si andava giù a
Sassabaneck dove ora c’è il centro turistico, prima era una palude. Ci si trovava lì
noi giovani e poi è uscita quella cosa della
chiamata. Io e altri nove di Iseo ci siamo
messi assieme e siamo saliti.
Due ci sono venuti incontro dalla brigata
a prenderci per accompagnarci. Abbiamo
impiegato due giorni, camminando di notte per arrivare su tra Marmentino, Lodrino,
passo della Savola, Livemmo, Mura...
Quando eravamo su eravamo diventati troppi, più di 120: se ci avessero preso
in un rastrellamento... guai! Non eravamo
granché armati; chi aveva il mitra, era il
meglio, io avevo un fucile 38, cioè il ‘91 rimodernato.
Non siamo rimasti sempre lì, ci si spostava
in Vaghezza e in altri posti... dietro al Sonclino: ci si fermava 7 - 8 giorni al massimo,
non di più.
60
Nel settembre (‘44) sono cominciati i rastrellamenti e in quel periodo è arrivato
Verginella che comandava la brigata; prima
c’era Tito, quello di Sant’Eufemia, poi c’era
il commissario di brigata che era Carlo Speziali, che faceva un po’ di tutto.
Nell’arrivare Verginella ha detto che eravamo un po’ troppi e allora ci ha divisi in
gruppi di 30 per andare qui e là.
Su cominciava a nevicare, siamo scesi e una trentina siamo venuti qui sopra
S.Gallo: abbiamo attraversato tutta la valle, non avevamo fretta! Arrivavamo dalla
Val Trompia.
Lì ci siamo divisi ancora in tre gruppi. Il
nostro si è fermato all’inizio a San Vito dove
c’era una cascina, ma ci avevano detto che
c’erano delle buche pericolose (il Bus del
Negondol, della Aca, ecc.) e non bisognava passarci. Ce lo dicevano i contadini, il
“Nono” (Busi Sebastiano) quando ci portavano da mangiare. Allora dopo qualche
giorno che eravamo lì, abbiamo attraversato e siamo venuti alla Fratta.
Eravamo: io, Gheda che era il comandante del distaccamento, Ciotti di Bovegno, il
Francese, Di Prizio e Cavalli. Un altro gruppo è sceso in una cascina lì vicino alla Fratta. In quella abbiamo trovato quello di Livorno Biondi, lui e un romano.
Ci aveva detto la gente: attenti che lì ci sono
due... Loro indossavano un giubbotto di
quelli americani e non si sapeva se erano
dei nostri o no. Allora abbiamo circondato
la cascina e siamo entrati. Loro si sono fatti
riconoscere come partigiani. Venivano dagli
altipiani di Asiago. Scappavano da là per
i continui rastrellamenti. Abbiamo chiacchierato un po’, poi uno è rimasto lì, l’altro,
Biondi, è venuto alla Fratta con noi.
Preparavamo gli ordigni per far saltare i
treni a Rezzato: infatti i treni si fermavano
a Rezzato, non entravano più a Brescia. Lì
i tedeschi andavano a caricare e scaricare.
Il nostro compito era di scendere la notte e
farli saltare.
Per preparare gli ordigni usavamo la dinamite che ci procuravano tramite Gardone Val
Trompia, i vari stabilimenti. C’erano su Lino
Belleri, Mario Zoli, tutta gente che lavorava
alla Beretta e avevano la possibilità di rubarla.
Noi preparavamo il materiale per poi scendere. C’era Di Prizio che era più vecchio di
noi e aveva lavorato in miniera e aveva le
idee di come farlo. Ricordo che faceva le
bombe con i tubi di una ringhiera: li riempiva di esplosivo e poi metteva la miccia. Io
lo guardavo e non li toccavo per la paura
che mi saltassero in mano.
Per stare in cascina non abbiamo chiesto a
nessuno, siamo andati lì e basta.
Noi cominciavamo a stare troppo bene. Prima facevamo tutti i turni di guardia, poi
abbiamo cominciato a mezzanotte, poi più
tardi, poi alle 5 finché: “vai tu”, “vai tu” e
nessuno si alzava... Ci eravamo tranquillizzati e facevamo poco la guardia perché
giù si vedeva chi saliva. Poi per venire su
si passava da San Gallo dove c’era il Nono
che teneva gli occhi aperti. Poi c’era l’altra
cascina: pensavamo che prima di venire da
noi dovessero passare da quella: pensavamo che prendessero prima quella o qualcuno di San Gallo vedesse l’arrivo.
Un giorno è capitato quello che, come ci hanno detto, ha fatto la spia: era passato lì da noi,
diceva che andava a caccia. È stato lì a mangiare con noi. Noi non sospettavamo nulla.
Gheda e anche Tito e Speziali che ci hanno
detto: “asini, se aveva il fucile era un fascista, perché a caccia va solo chi ha la tessera del fascio”. Ma noi che ne sapevamo:
eravamo troppo giovani ed inesperti. Quella
è stata l’unica persona non partigiana che
è capitata lì. Poi non so se sia stato proprio
lui o no a fare la spia. Mi hanno detto che
era uno di Botticino, che poi è stato ucciso.
E una mattina sono arrivati. Come me ne
ricordo di quel giorno!
Stavamo dormendo e hanno sparato una
raffica. Hanno circondato il prato (c’era la
vigna allora) e hanno sparato sui coppi. Noi
dormivamo sul fienile, dove ora ci sono le
camere e sotto dove c’è la stalla. C’era una
stalla con giù tutte le “trape” perché era
pieno di viti.
Dove adesso c’è il cucinino c’era il “patòs”
(fogliame, legna) e un po’ di patate e dietro
c’era la cisterna dove si andava a prendere
l’acqua.
Ci siamo svegliati: questa è la guardia nazionale repubblicana! Abbiamo indossato
qualcosa e Bruno Gheda, il Francese e un
altro sono scesi nella stalla dal buco del
fienile e poi sono fuggiti nel bosco; loro li
hanno visti, hanno sparato e Gheda è stato
ferito.
Io e Ciotti di Bovegno siamo scesi dal buco
del fienile e abbiamo cercato di uscire, io
ero davanti, ma lui mi ha spinto a terra:
è arrivata una raffica: ciao! mi avrebbe tagliato a metà. “Che facciamo?” “Dove vuoi
andare, non vedi che ti segano a metà?”.
C’era la cisterna dell’acqua, c’era il buco
sopra, era alta, la spina era in fondo. C’era
scuro, per salire c’era un bastone e si saltava dentro: allora ero magro. Era in una
posizione scura e chi non lo sapeva non la
vedeva e non individuava il buco sopra. Noi
siamo entrati lì dentro.
Abbiamo sentito le voci che urlavano a
quello di Livorno, Cavalli e Di Prizio, di arrendersi. Erano entrati e li avevano presi.
Si sentivano i rumori di percosse, li “sbattevano su”. Poi parlavano delle cose trovate:
il cinturone, un telo, delle cose che avevamo lasciato. Ricordo la paura e Ciotti che
diceva mentre ancora c’erano i soldati: “se
buttano le bombe a mano stenditi sott’acqua che attutisce il colpo”.
I compagni che erano nell’altra cascina,
quel giorno hanno sentito sparare e sono
venuti su, ma non c’era niente da fare.
Hanno fatto bene a ritirarsi e a salvare la
pelle.
Hanno tentato di aiutarci ma è meglio che
si siano sbandati, altrimenti avrebbero ucciso anche loro. Erano tanti i fascisti anche
se non sono riuscito a vederli perché praticamente non sono uscito. Dalla cascina
siamo entrati nella cisterna.
Noi siamo rimasti nella cisterna e nel venire sera abbiamo messo fuori la testa. Mentre eravamo nella cisterna abbiamo sentito
le voci delle donne ma non ci arrischiavamo
ad uscire. Quando siamo usciti le donne
avevano già coperto i corpi e ho scambiato
quattro parole con la moglie del “Nono” che
ho trovato lì. Loro ci hanno raccontato che
61
i fascisti lo avevano detto in paese: “andate
su che ci sono tre morti”. Loro sono venute
a vedere e sono arrivati anche quelli di Castello: lì fa presto a passare la voce.
Quando siamo andati a vederli: c’erano Cavalli e Di Prizio miei paesani (anche se Cavalli era di Castrezzato). Gli avevano sparato di fronte senza tante cerimonie. Cavalli
aveva una scatoletta per il tabacco delle
sigarette: era tutta bucherellata. Li hanno
portati fuori e li hanno uccisi, ma prima li
hanno picchiati. Ho sentito i rumori dei colpi, i loro lamenti e quelli che urlavano “li
abbiamo presi”. Pensavamo li portassero in
Castello a Brescia, invece li hanno portati lì
dietro e gli hanno sparato. Era il 28 ottobre.
Aveva fatto l’amnistia il duce: che amnistia
aveva fatto! Tre sono riusciti a fuggire dalla parte superiore. Quello che era stato lì,
come mi hanno detto, ha fatto la spia: sapeva dove dormivamo, dove mangiavamo.
Abbiamo visto arrivare il prete di Castello. Ho detto: “c’è qui il prete, si vede che
se ne sono andati”. Dopo noi siamo andati a casa del prete di Castello che ci ha
dato da mangiare: ricordo che ci aveva dato
i gnocchi, e a dormire ci aveva messo nel
campanile. Dicevamo: “guarda ha la farina
per fare i gnocchi”. Lassù era solo farina di
marroni. Pane quando riuscivano a portarcene un po’.
Dal Castello di Serle ce ne siamo andati verso le mie terre: almeno sapevo dove andare.
Attraverso i monti siamo arrivati nella zona
di Iseo. Poi mi hanno detto che hanno ucciso quello che aveva fatto la spia: non so chi
è stato, forse uno della 122°, ma a me hanno solo raccontato qualcosa, che era stato
preso lì a Botticino, mi pare. Io me ne ero
tornato dalle mie parti. Forse sapeva qualcosa Ciotti che era rimasto a fare l’ortolano
a Botticino. Lo chiamavano “l’Ortolà”.
Nei giorni precedenti ci portavano da mangiare: il Nono, poi veniva Bonardi Pasquale,
anche lui del ‘27, veniva la mattina e scendeva la sera.
C’era un gruppo che faceva da tramite: c’era Spartaco Damonti, che avevo conosciuto
su in brigata. Poi c’era Tito. Loro passavano a vedere come comandanti l’andamen62
to. Ci avevano portato vestiti e anche una
mitraglia, era grossa del 15/18: ma cosa ce
ne facevamo di una cosa del genere! Chi la
raccoglie se si deve fuggire? Chi se la tira
dietro con quel treppiede pesante mica da
ridere! Poi Spartaco l’ha portata via.
Avevamo delle pistole rubate a Gardone Val
Trompia, ma erano dei chiodi, non andavano. Dovevamo limare i caricatori per farli
star dentro.
Avevo dato il mio moschetto in cambio della pistola al Francese che mi ha preso per
matto. Poi lui l’ha perso mentre fuggiva:
gli è rimasto appeso ai fili delle viti mentre scappava: si era inciampato nei fili. Si
chiamava Erik. Poi l’hanno trovato quelli di
San Gallo.
Oltre al “Nono” e Bonardi, venivano anche
delle donne a portare da mangiare; di solito chi aveva contatti era Spartaco. Avevano
paura che venissimo scoperti e riconosciuti.
Io mi chiamo Giordani Giuseppe ma mi
chiamavano “Capéla” e gli altri conoscevano
solo il soprannome, non il mio nome. Come
arrivavi in brigata ti dicevano: “ Il tuo nome
non c’è più, via! Dimmi come vuoi chiamarti”. Era una forma di sicurezza. Il Cavalli lo
chiamavano “Corno”, Di Prizio era “El Negher”.. Lo cambiavamo perché se prendevano uno non potesse dire chi era il tale
o il tal altro. Biondi era “El Biond” perché
era biondo, alto uno e novanta, un pezzo
di figliolo. Ne aveva già passate: lui era del
‘21, era stato in marina, la sera raccontava
le sue storie. Ci raccontava che quando era
“scoppiata” la repubblica lui si era sbandato, dopo l’8 settembre. Si trovava a Livorno,
il suo paese, e aveva fatto presto a scappare. Dopo era andato coi partigiani. Era
stato sull’altipiano di Asiago e da là quando
cominciavano a “grattare” era venuto qui.
Per passare le giornate alla Fratta pulivamo
le armi, poi si chiacchierava. Poi ci facevano
“l’ora di politica “, cioè si discuteva di politica. Teneva l’ora di politica Carlo Speziali
che era il commissario: era stato in Spagna, poi era andato in Francia e dopo l’otto
settembre era venuto qui. Speziali, che era
siciliano, e Gheda discutevano sempre e
urlavano anche. Immaginati cosa ne capivo
io che avevo fatto la terza elementare ed ero
giovane: democrazia e quelle cose lì.
I contatti erano tenuti da Bruno Gheda,
Tito e Spartaco; li tenevano anche con la
popolazione.
Di Botticino ricordo Damonti Angelo che faceva parte del “G.A.P.”. A volte andavamo in
paese ma i contatti li tenevano Tito e Spartaco che ci davano le informazioni, oppure
il “Nono”. Alcuni facevano parte della 122°,
ma erano in casa, cioè restavano in paese.
Procuravano da mangiare, i vestiti, o quelle
cose lì. Io però li ho conosciuti dopo di persona. Io ho preferito tornare al mio paese
perché conoscevo il territorio e sapevo dove
andare.
Lì invece non lo conoscevo. A Rezzato non
abbiamo fatto in tempo a scendere: avevamo preparato gli ordigni ma non siamo riusciti a fare niente. Siamo rimasti in tutto
si e no 15 giorni oltre alla settimana a San
Vito dove ci sono le grotte che dicevano erano pericolose.
Finita la guerra sono tornato a casa: a turno mettevano in prigione qualcuno. Ho nascosto le armi e poi le ho consegnate. Ho
ricominciato ad andare a morose: avevo 18
anni. Mi hanno dato il diploma del generale
Alexander: chi aveva fatto qualcosa doveva
dichiararlo e raccontare. Qui a Iseo eravamo diventati più di 350! Allora dovevano
scrivere dove erano stati, chi era il comandante e quelle cose lì.
Io l’ho fatto per me. A chi non sapeva che
scrivere io dicevo: metti dove sei stato, chi
era il tuo comandante... erano diventati
tutti partigiani! Io sapevo dove ero stato,
chi mi aveva comandato, cosa avevo fatto...
Iseo, 28 marzo 1996
Testimonianza di LUIGI TOMASOTTI (9.2.1923)
Mio padre era cavatore, la mamma è morta che io avevo 5 anni. C’eravamo io e mia
sorella. Quando ero giovane c’era il fascismo, andavamo a scuola, eravamo ragazzi,
e ci insegnavano solo quello e poi basta. Il
duce, il fascismo, la religione, solo quello ci
insegnavano. A casa mio padre non si dichiarava ma non è mai stato fascista; poi
c’era uno zio che è stato picchiato dai fascisti perché era socialista. Lui era contro al
cento per cento e allora è stato picchiato: il
giorno delle ultime elezioni, io ero appena
nato, e questo me lo raccontavano. Dopo il
1925 questo mio zio, Giacinto Tomasotti, è
emigrato in Brasile ed è morto là.
Io non ho neanche fatto il soldato. Prima di
andare alla visita c’era il premilitare: tutti
i sabato in Comune si facevano le esercitazioni. Alla visita mi hanno scartato per
insufficienza toracica. Io alla visita c’ero
andato tre volte perché mi avevano fatto
rivedibile ma avevo sempre quelle misure.
Anche nel ‘45, a guerra finita, mi hanno
chiamato ancora per andare alla visita.
Poi è scoppiata la guerra. Io sono andato a
lavorare a Brescia, un po’ alla Orlandi, poi
alla “O.M.”. Prima di andare alla “O.M.” lavoravo a Sant’Eufemia a fare il pasticciere.
In quel periodo mi hanno mandato la cartolina, nel ‘43, che dovevo andare in Germania. Al momento che mi è arrivata la cartolina dovevano andare alla visita quelli del
‘26 ma non ci sono andati perché c’era la
Repubblica Sociale e non si sono presentati. Allora, due di quelli che avevano paura a
stare a casa che li venissero a cercare, sono
andati in montagna coi partigiani; anch’io
avevo paura perché non mi ero presentato.
È cominciata così e andavamo anche un po’
all’avventura per quello spirito dell’età, ma
soprattutto è cresciuto questo spirito quando sono venuti i tedeschi: volevamo mandarli via, non sopportavamo che fossero qui
ad occupare, poi dove eri a lavorare dovevi
fare solo quello che volevano loro, per forza.
Io ho cominciato a far parte di una cellula.
A Botticino c’erano altre cellule ma noi non
lo sapevamo perché era una cosa segreta.
C’erano due o tre gruppi ma non ci conoscevamo l’un l’altro. Eravamo amici ma
63
non sapevamo di appartenere a cellule partigiane: il pericolo era che se prendevano
qualcuno e lo facevano parlare al massimo
faceva i nomi solo dei tre o quattro che conosceva e non di altri gruppi, così le altre
cellule si sarebbero salvate.
Era una misura di sicurezza. Non so se anche a Botticino Sera c’erano gruppi.
Noi facevamo la nostra vita normale poi
ogni tanto capitava di andare a fare qualche azione.
Qui a Botticino mettevamo giù qualcosa
della nostra paga per sostenere quelli che
erano in montagna, per mandargli un po’ di
roba. Loro venivano giù a prendere la roba.
Poi una sera mi hanno detto che c’era un’azione da fare: c’era d’andare a Sant’Eufemia dove c’era la filanda e c’era dentro la
guardia repubblicana, c’era un magazzino
di roba. Si trattava di riuscire ad entrare
per prendere coperte, vestiti, scarpe, ecc.
Infatti in quattro o cinque della nostra
cellula di Botticino ci siamo trovati assieme ad un gruppo di San Gallo che aveva
le armi. Siamo andati sopra Sant’Eufemia
passando dalla Maddalena e c’erano Tito e
Sabattoli (fornaio di Sant’Eufemia) che venivano da San Gallo. Loro due sono entrati
in un’osteria di Sant’Eufemia dove c’erano
due della guardia repubblicana che erano
del magazzino. Volevano combinare per andare a prendere un po’ di roba. Sono entrati
nell’osteria, detta “della Concordia” appena
dentro in Sant’Eufemia, hanno preso quei
due e gli hanno detto le loro intenzioni: è
scoppiata una sparatoria e dei due uno è
morto e l’altro ferito. Tito e Sabattoli sono
stati costretti a fuggire perché sopraggiungevano altre guardie. Lì è andata a monte
la cosa: noi eravamo appostati poco sopra
in attesa del segnale per andare a prendere
la roba. Invece è arrivato Tito e siamo fuggiti: loro a San Gallo e noi, a notte, a casa
nostra.
Quando siamo andati a prendere i militari a Sera, eravamo due cellule di Botticino,
una di San Gallo e poi c’era il gruppo dei
partigiani che erano su al Sonclino. Il nostro capo cellula Amilcare Benetti ci ha detto che c’era da fare un’azione. Ci vedevamo
64
in paese. Del mio gruppo c’erano lui, io, un
Giossi che faceva l’oste e un altro. Ci siamo
trovati alla Lassa con quelli di San Gallo e
con alcuni partigiani della 122°. Avevano le
armi; siamo arrivati lì e abbiamo trovato un
altro gruppo di Botticino Mattina: che fate
qui? e voi che fate? Loro facevano attività
e noi non lo sapevamo, non sapevamo chi
erano.
Abbiamo preso le armi, un moschetto
con due o tre caricatori ciascuno e bombe a mano e siamo scesi a Botticino Sera,
in piazza (4 Novembre). Abbiamo bloccato
le strade di accesso e alcuni sono entrati
nell’edificio (l’attuale biblioteca). Avevano contattato due sergenti, credo, era una
cosa preparata, erano già d’accordo di andare a prelevare quei soldati. C’erano due
camerate, una sopra e una sotto. Li abbiamo svegliati, fatti vestire, in silenzio, hanno
preso le armi, io ho raccolto due moschetti
francesi che ricordo toccavano quasi terra perché sono piccolo, le munizioni e una
trentina di soldati sono venuti via. Quelli
di sopra non si sono accorti di niente: solo
il mattino dopo hanno trovato la camerata
vuota. Erano soldati di leva chiamati dalla
repubblica di Salò: alcuni stavano zitti, altri avevano paura. Ricordo uno che mi ha
chiesto di accendere la sigaretta e ricordo
che tremava tutto. Io gli ho detto di non
aver paura che noi non gli facevamo niente.
Tremava. Uno mi ha detto di fare attenzione ai sergenti: io ho avvisato della cosa un
partigiano della montagna. Li abbiamo accompagnati a San Gallo e poi noi siamo venuti a casa. Loro sono andati in montagna
verso il Sonclino: so che alcuni di questi
sono stati fatti prigionieri dai tedeschi e fucilati. Noi li abbiamo liberati perché alcuni
potessero andare assieme ai partigiani perché erano stati obbligati ad andare di leva.
Avevamo imparato ad usare le armi proprio
facendo il premilitare con i fascisti. Io ero
addirittura un tiratore scelto. Quando siamo andati a prendere i soldati a Botticino
Sera, c’era quel Giossi che era stato via 4
o 5 mesi militare e non sapeva ancora caricare un moschetto: aveva solo il colpo in
canna da sparare. E aveva fatto 4 o 5 mesi
di soldato... Fortuna non c’è stata la sparatoria perché lui poteva sparare solo il colpo
che aveva in canna!
A Botticino Mattina ogni tanto venivano dei
soldati tedeschi: c’era una che faceva anche un po’ da spia. Una sera due partigiani
le hanno sparato e l’hanno ferita.
Poi hanno ucciso quello sospettato di aver
portato i fascisti su alla Fratta: lui faceva
la guardia boschiva. Quella notte precedente del 28 ottobre io andavo alla “O.M.”
a lavorare e nell’osteria qui in via Cave le
squadre dei fascisti si sono fermate e hanno fatto alzare l’oste per dargli da bere. Alcuni sono saliti a San Gallo, alcuni sono
saliti da qui per i sentieri. Erano qui con il
camion: sulla strada qui avevano piantato
il mitragliatore. Io avevo sentito i rumori e
ero spaventato perché ero dentro i gruppi
di partigiani. Quando sono uscito la mattina del 28 ottobre per andare a Brescia a
lavorare ho dovuto passare in mezzo a loro.
Nessuno mi ha detto niente e io, pioveva,
col mio mantello sono andato al lavoro. Al
ritorno ho saputo che avevano ammazzato
quei tre ragazzi.
Mi hanno raccontato che era stato quello di
Mattina a portarli su. Me lo ha confermato
uno di Botticino Sera, che era nelle brigate
nere, e che avevo incontrato a Brescia. Me
lo ha detto perché non sapeva quello che
facevo io.
Poi quello è stato ucciso dai partigiani della
122°. Dicono che in Castello anche lui facesse la guardia ai partigiani catturati. In
quei giorni io ero a Merano per lavoro con
la “O.M.” e quando sono venuto a casa mi
hanno detto che l’avevano ucciso. Lo hanno
aspettato al mattino quando è uscito per
andare al gabinetto, che allora era un casotto nel campo, e gli hanno sparato.
Al momento della Liberazione ci siamo trovati qui in un’osteria tutti assieme. Sono
arrivati i partigiani dalla montagna e siamo
andati al Comune tutti in fila e lo abbiamo
occupato. Lì al Comune facevamo i turni
di guardia e così via. La sera della Liberazione, abbiamo disarmato uno delle brigate
nere che era qui, un toscano, che aveva parenti da queste parti. Lo abbiamo catturato
e lo abbiamo portato insieme agli altri.
C’è stata poi una sparatoria a Rezzato con
una autocolonna tedesca. Il gruppo delle
brigate nere è scappato dal “palazzo della
contessa” e noi siamo andati e lì c’è stata
la sparatoria con l’autocolonna che passava sullo stradone mentre si ritiravano verso
il lago per tornare in Germania. Abbiamo
occupato il palazzo della contessa e ci hanno detto di prendere tutto quello che trovavamo: scatolette, zaini, camicie, maglieria
per portarla qui in Comune. Alla sparatoria
con la colonna hanno partecipato quelli di
Botticino; ricordo Angelo Damonti, uno di
Caionvico e i partigiani della montagna.
A Botticino poi c’è stata l’uccisione di due
tedeschi davanti al cimitero. Per me è stato
uno sbaglio: dovevano fucilarli subito sul
posto per quello che avevano fatto: uccidere uno che era lì a parlamentare con la
bandiera bianca, Bottarelli, che voleva entrare per parlare per farli arrendere, invece
col pugnale lo hanno ucciso.
Noi siamo saliti, abbiamo circondato questo “casì”, non volevano uscire; hanno buttato della benzina dalla finestra e dato fuoco, sono usciti per forza. Nell’uscire hanno
lanciato una bomba a mano e hanno ferito
uno di Botticino Sera, poi con una sventagliata di mitraglia hanno ferito altri due. I
due tedeschi sono stati portati giù e uccisi
ma non sono stati quelli di Botticino, erano
altri che venivano da fuori. Era una cosa
che andava fatta subito sul posto, mentre
uscivano dalla casetta. Lo sbaglio è stato
passare per il paese così.
La guerra è la guerra non c’è molto da dire,
ne succedono di cose che non vanno fatte:
la guerra è la guerra. Era meglio se l’episodio finiva là.
Poi c’è stato l’episodio qui in Comune e
quello è stato Tito: due ufficiali tedeschi
non volevano consegnare le armi ma volevano arrendersi solo ad un ufficiale. Erano
tedeschi che con un camion avevano sbagliato strada ed erano finiti qui; erano stati catturati e tenuti qui in Comune. I due
ufficiali che comandavano quel camion volevano essere disarmati da un ufficiale; il
comandante della 122° brigata era Tito, ma
65
loro volevano un ufficiale dell’esercito; allora lui li ha uccisi nella galleria del Comune.
A Bedizzole c’era un magazzino dei tedeschi
e con un camion che c’era qui, uno faceva
l’autista, noi andavamo a prendere le robe
da portare qui in Comune: calze, camicie,
appena avvenuta la Liberazione. Quella
roba l’abbiamo data a chi aveva partecipato
all’azione e poi il resto lo distribuivamo alla
popolazione: c’era una tessera su cui facevano il timbro e gli davano qualcosa: un po’
di stoffa, canottiere, calze, fazzoletti, roba
così.
In Comune c’era un commissario politico
che dirigeva: Gorni Rino; poi noi facevamo
la guardia; poi, siccome il podestà ed il segretario erano riusciti a scappare, è stato
nominato un sindaco provvisorio: un socialista anziano, una persona onesta. A guerra
finita ci sono state delle polemiche perché
qualcuno aveva portato via della roba.
Poi siccome la maggioranza di noi erano
comunisti, qualche socialista, è cominciata
la polemica politica. Anche perché la maggioranza della gente non sapeva nemmeno
cosa avevamo fatto, perché c’era il vincolo
della segretezza. Nemmeno mio padre sapeva che ero in quel gruppo. Mi ha chiesto
perché non gliel’ho detto, ma era pericoloso,
era meglio non farlo sapere a nessuno che
non fosse nei gruppi. Erano momenti balordi, non c’era da andare in giro a raccontarlo. Noi non ci aspettavamo niente, dopo
la Liberazione. Speravamo solo che andasse meglio la vita e che cambiasse anche il
governo. Allora però sapevamo anche poco
Testimonianza di ADELINO ZANOLA
Mio papà ha sempre lavorato in cava. È
andato in Germania prima della guerra,
quando è venuta la crisi del marmo; sono
andati in 7 o 8 di Botticino.
È rientrato alla svelta perché era in miniera di carbone e non ce la faceva fisicamente: lavorare in miniera, risalire, 2 ore
sotto il bagno caldo, andare a mangiare e
trovare una zuppa di patate...È venuto un
momento che non ce la faceva più Aveva
un contratto di un anno, ma dopo 3-4 mesi
66
perché leggevamo poca roba e poi la scuola
l’avevamo fatta sotto il fascismo. Qualcosa
sentivamo alla radio, ma erano pochi quelli
che l’avevano. Alla radio abbiamo sentito i
discorsi del duce perché portavano la radio
a scuola solo per quello... Anche per il lavoro l’aver fatto il partigiano non contava;
io ero alla “O.M.” e dopo la Liberazione ne
hanno lasciati a casa 1.000 in un colpo, tenevano solo quelli buoni a far qualcosa. Io
sono andato alle cave e ho lavorato lì per
30 anni. Un ricordo bello è quando hanno
cominciato a fare i comizi per le elezioni, e
cominciavamo a seguirli anche noi coi camioncini, le moto. Andavamo a Botticino
Sera, a San Gallo a fare propaganda, c’era finalmente il senso della libertà. Prima
non potevamo fare quelle cose. Non c’erano
nemmeno le elezioni durante il fascismo.
Finalmente si poteva cominciare a muoversi e a parlare liberamente. Durante il fascismo uscivamo la sera ma poi ad una cert’ora bisognava rientrare. Poi c’erano i vecchi
socialisti antifascisti che dovevano stare in
guardia: c’erano state delle lotte tra socialisti e fascisti. Dovevano stare attenti perché
li cercavano per picchiarli. Non si poteva
fare niente, attenzione a come si parlava,
bisognava continuare a dire signorsì. Sono
qui ancora... a 50 anni di distanza rifarei
quello che ho fatto, forse con più esperienza. Allora per forza bisognava farlo: se
nessuno l’avesse fatto saremmo qui ancora
con il fascismo.
Botticino, 7 maggio 1996
(27.9.1926)
si è rifiutato di scendere nel pozzo, finché
l’hanno lasciato venire a casa.
Lui aveva lavorato nelle cave di Lombardi,
ma al ritorno ha ripreso a fare il contadino:
avevamo un pezzo di terra su al Gazzolo....
Poi aveva passione ad allevare le bestie:
le comperava, le vendeva, si è dato un po’
da fare; eravamo in cinque fratelli. Nel ‘44
hanno ucciso mia madre in casa, il 27 novembre. È rimasto lui solo con 5 figli: era
magra, insomma.
Io dovevo essere militare essendo della classe 1926, ma dopo l’otto settembre nessuno
andava militare; chi era militare scappava.
Io non mi sono presentato; alcuni miei amici lavoravano allora sotto la Todt a Ghedi:
io non volevo andare sotto i tedeschi. Allora
stavo un po’ all’erta.
Nel periodo 1940-1945 aiutavo mio padre
nel campo. Fino a 18 anni. Ho fatto un
anno alla Portesi di Virle. Si lavorava un po’
qua un po’ là: c’era poco lavoro e si cambiava. Da ragazzo, dopo la scuola, perché
era un po’ magra, aiutavo altre famiglie a
tenere le bestie: mi davano un po’ di farina,
ecc. Si tirava a campare così.
Quel giorno stavamo mangiando, a mezzogiorno, è arrivato un ragazzo che abitava
appena sopra di me e mi ha detto: “ Adelino, guarda che dalla valle di Nuvolera sono
venuti su 25-30 fascisti, entrano in tutte
le case a controllare”. Era una squadra di
fascisti che faceva il rastrellamento.
Ho lasciato il mangiare e sono andato a
nascondermi. Loro sono entrati in casa.
C’era la cucina e poi una stanza che era
una cantina-ripostiglio. Hanno chiesto
cosa c’era e volevano vedere e mio padre
li ha accompagnati dentro. Dietro una
porta c’era una chiave attaccata. Hanno
chiesto che chiave era; era la chiave della
camera.
“La prenda e mi accompagni su in camera”.
Sono saliti in camera con mia sorella che
ha due anni meno di me, aveva 16 anni;
hanno cominciato ad aprire gli armadi e
uno si è messo con un mitra puntato su
mia madre e lei d’un colpo è morta. Hanno
chiamato il dottore ma era già morta.
Io ero nascosto: ho sentito che gridavano,
piangevano; sentivo sparare perché c’era
gente sul monte: gli sfollati che facevano la
legna; i fascisti sparavano per farli venire
giù.
Sento dire: “C’è la siringa, c’è la puntura”,
sento arrivare una mia zia, aveva ottanta
anni, e mi dice “ Adelino vieni a casa che
non sta mica bene tua madre”.
Mia madre aveva lavorato tutta mattina,
andava per legna, mungeva, tagliava l’erba,
faceva un po’ di tutto: era in gamba, non
era malata.
Sono entrato passando dal cortile dove si
era fatta gente, ho infilato la scala ad andare su e ho incontrato il medico che ha
scosso la testa: morta.
I ragazzi renitenti alla leva scappavano:
uno aveva fatto un buco; levavano le pietre
e si nascondevano dentro; si erano messi
anche in quei casini, stalle, che erano in
mezzo alla campagna.
Però è successo che dopo che hanno ucciso i ragazzi su alla Fratta nel rastrellamento, quando vedevano una stalla di quelle i
fascisti ci buttavano dentro una bomba a
mano. Allora non c’era da fidarsi. Bisognava stare all’erta: si dormiva con un occhio
solo.
Tanti erano così: erano scappati l’otto settembre, hanno trovato una stalla, come
quelli che sono stati uccisi. Li hanno visti,
forse una spia, sono andati su alle 3-4 del
mattino: hanno sparato e li hanno uccisi
tutti, solo in due sono riusciti a scappare.
Si sapeva chi era andato su e tutto. A Botticino c’è stato un momento che volevano
uccidere quello lì che aveva fatto la spia e
mandato fuori una squadra. Abitava qua
a Sott’acqua. Quelli di Botticino sapevano
che la mattina andava in Castello a Brescia
e rientrava a casa la sera. Un mattina è andato nel gabinetto che dava sulla ferrovia
di Lombardi: gli hanno sparato e ucciso. È
stato un partigiano della 122 , un certo Garas.
C’era uno spauracchio mica da ridere a Botticino: adesso faranno rappresaglie si pensava. Invece si sono mossi un po’, sono venuti da Brescia ma non è successo niente.
C’erano alcuni di Botticino collegati con la
122 brigata Garibaldi. Oltre a me ricordo,
c’era Previcini (Stenchi) che era un po’ una
staffetta, Milio Sauneta, el Ros de Somia,
era del ‘24 e ha fatto qualcosa di più perché
era più vecchio di noi; degli anziani c’era
Rino Gorni. Quello è andato un po’ in malora per il suo impegno: ha fatto tanto in quei
tempi. Era con Cattanea che era fuggito a
casa sua. Di San Gallo poi c’erano il “Nono”
Busi con i fratelli e la famiglia di Casimiro
Lonati.
67
Anche se non siamo andati in montagna,
qui c’erano gruppi organizzati. Eravamo
patrioti, gente che voleva fare qualche cosa.
È successo il fatto di mia madre, eravamo
già in mezzo un po’, è divampato questo voler fare qualcosa, anche questo odio...
Si stava cambiando e tutti facevano qualche cosa. Si sapeva che c’era un gruppo in
un posto, si portava da mangiare. Ogni tanto venivano giù, si facevano delle riunioni e
ti chiedevano cosa era successo, se quello
si era mosso, ecc. Le riunioni si facevano
in case private. A volte a casa mia, a volte
di altri.
Eravamo giovani della mia età e qualche
anziano come mio padre o mio zio che era
più vecchio. Eravamo già politicizzati allora
perché la mia famiglia era un po’ martellata
dai fascisti per le idee politiche.
Han fatto 3 o 4 volte per venire su a casa
mia, ero un bambino e me l’hanno raccontato. Me lo ha raccontato mio zio che adesso ha 94 anni, invalido della prima guerra,
che ora vive a Brescia.
Appena tornato dalla guerra un sabato era
sceso in paese per giocare a carte e non
arrivava più: lo hanno trovato la domenica mattina le donne che andavano a Messa
prima in un angolo della strada. Lo avevano
portato nell’osteria dove si trovavano sempre i “camerati” di Botticino in fondo a via
S. Nicola. L’hanno tirato dentro e gli hanno
dato un sacco di botte a lui che non aveva fatto niente. Era il regalo per la guerra
che aveva fatto. L’hanno trovato le donne. A
casa nel togliergli la camicia e la maglia gli
è venuta giù la pelle dalla schiena.
Due o tre volte hanno fatto per venire su a
casa, però arrivavano a un certo punto ma
si fermavano e si chiedevano: “Siamo sicuri
di tornare indietro tutti?”, perché i miei zii
erano tutti cacciatori. Mio papà forse no,
ma i miei zii erano decisi a tutto.
Quando è successo il caso di mia madre le
donne, mogli e figlie dei miei zii, han capito
l’antifona subito e sono andate a nascondere il fucile a quel mio zio. Perché la prima
cosa che ha fatto è stato di cercare il fucile.
Se lo trovava va a finire che si fa ammazzare perché lui era uno che andava fuori anche se erano in venti. Era un carattere così.
68
Poi è venuta la Liberazione, è venuto il 25
Aprile, hanno fatto il Comitato di Liberazione e sono venuti qua i partigiani.
La mattina del 28 Aprile c’erano due mitragliette una di qua e una di là del ponte
“Savona”, quello di via Marconi, e il comitato era qui in Comune. Il comandante di
questi gruppi dormiva qui a Botticino nella
casa vicino a Balduzzi. Alle 3 della mattina
arriva un camion e gli danno l’altolà, parola
d’ordine. Alla seconda o terza volta hanno
risposto “enculet”. Questo camion era tutto chiuso col telo, hanno pensato “saranno
partigiani che arrivano qua”, è passato.
Quando è stato ai giardini ha spento i fari
e si è girato verso via San Nicola. Nei pressi
del monumento c’era una pattuglia, erano
in tre, tra cui anche un soldato mongolo.
Hanno dato l’altolà: niente, parola d’ordine: niente, allora questo mongolo ha sparato nel radiatore del camion e ha fatto
scendere tutti, di notte, così: erano 36 uomini e una donna che faceva da interprete.
Erano lì in via San Nicola, questa donna,
poiché erano vestiti a qualche modo, diceva
che erano americani e che avevano perso la
strada per andare sul Garda.
Li hanno guardati bene: erano tutti tedeschi, 36 e una donna. Li hanno disarmati, ma il comandante non voleva lasciare le
armi, voleva l’onore delle armi. Non riconosceva i partigiani, diceva che non avevano il
diritto di disarmarli. Allora li hanno portati
nella scuola di Botticino, dove c’è il Comune adesso.
Hanno mandato a chiamare quello che comandava allora, Tobegia, di S. Eufemia,
Tito. È venuto e gli ha chiesto 2 o 3 volte se
volevano disarmarsi, ma loro non volevano
lasciare le armi e lui li ha fucilati: comandante e vice-comandante. Gli altri li hanno
presi e li hanno portati a S.Eufemia, dove
adesso c’è la Pastori, dove c’era un campo
di concentramento .
Anche lì poteva succedere un disastro: erano armati e avevano armi pesanti; ricordo
che quando si erano sdraiati nella sala del
Comune avevano appoggiato la testa sullo
zaino pieno di bombe a mano. Chissà cosa
facevano. Erano un po’ sbandati altrimen-
ti li avrebbero ammazzati tutti ancora quel
giorno lì.
voleva dire, chi è stato ad ucciderli qua al
cimitero.
È successo lo stesso giorno il caso del casì
di Panada. Si va su dal Gazzolo, lì alla “Eva”
si gira a destra, lo si vede ancora. Allora era
abitato da un vecchio, una vecchia e una
ragazza.
Avevano 5 o 6 pecore: c’era la stalla sotto e
la cucina sopra. Vivevano un po’ in miseria.
Quella ragazza era rimasta incinta, in quel
periodo, di un contrabbandiere che veniva
qua a vendere il tabacco.
Loro erano sette tedeschi, sbandati dopo il
26 Aprile, che sono entrati lì: dalla stalla
alla cucina avevano fatto un buco e c’era
una scala a pioli per salire, avevano anche
ucciso una pecora.
Quando è successo il caso del casino di
Panada si era intrufolato in mezzo in quei
giorni della Liberazione un fascista. Mentre
noi eravamo su, è sparito un mucchio di
soldi a Botticino nel Comune. Tutti pensano che siano andati in mano a lui. Adesso
è morto. La gente diceva: ecco i partigiani
che hanno fatto.
I due vecchi sono venuti a chiedere aiuto a
casa mia e siamo andati su in 5 o 6 : abbiamo circondato un po’ da lontano. Avevamo
mandato uno a chiedere rinforzi giù in Municipio: è arrivata una squadra e c’era uno
di Nuvolera che sapeva il tedesco. È andato
dentro disarmato, aveva un telo tenda sulle
spalle perché pioveva, a chiedere di arrendersi.
A un certo punto è uscito sulla porta della
stalla e ha detto: “Avanti che si arrendono”.
Invece quando siamo stati vicini, l’hanno
tirato dentro e l’hanno pugnalato e hanno
sparato a tutti quelli che eravamo lì. Siamo
stati feriti io, mio papà, un fratello di mio
papà e uno di Sera. In quel mentre arriva il rinforzo, ma non si sono arresi. Allora
hanno dato fuoco alla casa con un fusto di
benzina. Quelli che erano in cucina sono
arrivati a scappare verso Nuvolera, i due
che erano nella stalla sono venuti fuori. .
Come sono usciti volevano ucciderli sparando. Qualcuno ha detto: “No, li fuciliamo
al cimitero”. Siccome c’era un ferito li hanno fatti scendere e poi sono stati fucilati qui
al cimitero di Botticino. Dicono che un prigioniero non si può uccidere, invece è stato
fatto.
Qualcuno ha cercato di sapere come era
andata. Per un paio di anni hanno cercato
di sapere come era successo. Anche i parenti dei tedeschi. Ma nessuno sapeva, o
Mio padre ed io (una pallottola mi ha attraversato la bocca) siamo stati in ospedale;
siamo usciti: senza lavoro. Quando siamo
usciti dall’ospedale io e mio papà erano momenti brutti.
Andavo avanti e indietro da Brescia perché
mi avevano detto che alla S.Eustacchio assumevano operai. Mi dicevano “Ripassi”.
Poi una mattina ho letto sul giornale che si
poteva fare domanda per andare nella polizia, ma avevano la precedenza gli internati
in Germania o chi aveva fatto 15 mesi di
partigiano.
Allora ho fatto domanda e sono andato in
caserma, allora era in via dei Mille. Come
sono entrato ho trovato un tenente che era
all’ospedale con me, ferito, mi sono fatto conoscere e così mi ha fatto arruolare.
Sono stato lì 13 o 14 mesi. Fino a quando
hanno cominciato a dare il nome “la celere”
alla polizia. Ricordo che era venuto Togliatti a parlare al cinema Odeon: eravamo in
servizio. Volevano che... ci hanno portato
il manganello di gomma per picchiare chi
scioperava. Questo tenente mi diceva: “
porta pazienza, facciamo domanda di andare nella polizia stradale”, perché anche
lui la pensava come me. Fatta la domanda,
l’hanno respinta, si vede perché sapevano
che queste cose non mi andava di farle. Allora mi sono congedato.
Sono andato un paio di mesi, tutte le mattine, da Lombardi a cercare il lavoro in cava.
Sono entrato da Lombardi dopo varie mattine: allora c’era la coda a cercare lavoro.
Mi ha assunto il ragioniere di Lombardi che
ha saputo che ero figlio di Zanola di Botticino, Giovanni. Lui e anche mio zio Aldo
69
avevano lavorato da Lombardi, prima di
andare in Germania.
Dopo la Liberazione è iniziata l’attività del
partito. Il primo che è venuto a farmi la tessera è stato Cinque (Mario Rossi). Facevamo qualche riunione.
Ho fatto la prima tessera (a quel punto non
sapevo ancora cosa voleva dire comunista
o non comunista) perché, dicevo: mi hanno
espulso dalla scuola perché mio papà non
voleva che andassi alle dimostrazioni dei
balilla; crescendo mi sono detto che l’idea
è quella: c’è da cambiare; ci sono stati morti per la Liberazione e sono morti perché
volevano cambiare qualche cosa. Allora si
diceva: io divento comunista per quello che
hanno fatto a casa mia, hanno picchiato
mio padre perché non ha salutato mentre
inauguravano il monumento in piazza, tutte queste cose mi hanno fatto credere giusto fare un partito come quello comunista
per andare avanti e cambiare la situazione
in Italia.
Senonché ho vissuto gli anni più duri e più
andavo avanti mi dicevo: ho fatto bene o ho
sbagliato a essere comunista ?
Perché tante volte si andava a qualche riunione e io pensavo di discutere e mi sentivo di dire anch’io la mia, come vedevo la
faccenda. A volte rimanevo male perché a
noi giovani c’era sempre un anziano che ci
zittiva. Era giusto che lui avesse più esperienza ma erano momenti in cui mi sentivo
un po’ mortificato. Questo fatto mi demoralizzava perché non potevo esprimere le mie
idee come volevo.
Tornando al dopoguerra: i giovani che avevano partecipato all’attività partigiana erano visti non bene. C’era una delusione e la
gente li vedeva male.
La gente di Botticino, in buona quantità,
diceva che avevamo sbagliato noi: diceva
che dovevamo lasciare stare i tedeschi che
tanto avrebbero ucciso solo qualche pecora. Così per l’uccisione del fascista. Non ricordavano più che aveva fatto uccidere tre
ragazzi...
Botticino, 10 maggio 1991
Testimonianza di UMBERTO DELLA FIORE (19.11.1927)
Sono nato nel 1927, nel mese di novembre e ho sempre abitato a Botticino Sera.
Quando ero bambino, dopo la scuola, con
i miei compagni si andava sul monte per
legna, poi quando si rientrava si facevano i
compiti; allora non c’era nemmeno la radio:
a Botticino Mattina la possedeva solo una
famiglia.
In tempo di guerra, io facevo il fornaio, avevo 16 anni e lavoravo nel panificio di mio
zio: mia madre, siccome si lavorava di notte, mi accompagnava al panificio in quanto non esisteva l’illuminazione pubblica ed
era buio pesto. Alle cinque tornavo a casa
e per la strada incontravo sempre i militi
della repubblica di Salò.
Poi a quell’ora incontravo alcuni socialisti:
due abitavano qui sopra e mi davano dei biglietti antifascisti da inserire nei sacchetti
del pane. Erano socialisti di Botticino: uno
era Fraboni, ora è morto, un altro era Berto Quadri, che era comunista, e mi dava-
70
no questi biglietti da inserire nei sacchetti
del pane. Ma i biglietti li mettevo solo alle
famiglie conosciute, non certo nei sacchetti destinati alle famiglie fasciste perché ci
avrebbero denunciato.
Ho iniziato a dare una mano ai socialisti
a diffondere la loro stampa perché ci conoscevamo e loro sapevano che per il mio
lavoro di fornaio giravo di notte e mi hanno
contattato.
Si fidavano di me: prima di tutto uno di loro,
il Fraboni, era un mio parente e poi ci si conosceva e, anche se la mia famiglia non era
antifascista, sapevano di poter contare su
me. Su quei volantini c’era scritto un po’ di
tutto: poi ogni tanto si riunivano proprio in
una casa vicino alla mia.
C’erano persone antifasciste che partecipavano a queste riunioni. C’erano antifascisti,
si conoscevano, facevano delle riunioni in
una casa qui in fondo alla via... Anche se
qui era solo un posto di passaggio, si trovavano.
Noi giovani non sapevamo molto di cosa facevano, ma come dicevo lo Scarpari, papà
di Felice, era socialista e li riuniva. Anche
Bottarelli era venuto qui.
Per poter circolare di notte era necessario
un permesso, che noi fornai avevamo, e
talvolta di notte loro mi guardavano il permesso e mi accompagnavano fino a casa:
erano soldati dell’esercito regolare, che erano stati richiamati ed erano buoni, non certo come le “SS”.
In piazza 4 novembre c’erano sempre i soldati: erano militari richiamati dopo l’otto
settembre, che erano stati presi ed erano
stati sistemati nelle scuole.
Una mattina, mentre stavo per arrivare a
casa, è arrivata una squadra di camicie
nere in bicicletta: ho poi saputo che erano
quelli che hanno ammazzato i tre partigiani
alla Fratta.
Due giorni prima dell’eccidio alla Fratta era
arrivata una caratta di armi e munizioni da
Montichiari destinata ai partigiani: si trattava di un carro trainato da cavalli. Le cinque o sei casse erano coperte sotto delle
zucche e sono state scaricate di nascosto a
casa di mio cugino. Quando i brigatisti neri
sono saliti alla Fratta, sono passati vicino
alle casse: hanno preso tre o quattro delle
zucche che le ricoprivano ed hanno continuato il tragitto, fortunatamente senza accorgersi cosa c’era sotto le zucche. Dopo
una settimana dall’eccidio, le armi, sempre
di notte, le abbiamo portate a San Vito. Poi
non so dove siano finite: probabilmente in
Valtrompia.
A portar via le armi da Montichiari eravamo
stati quattro o cinque giovani: c’era Primo
Busi che ha passato poi un lungo periodo
in montagna, ora è morto, poi due di San
Gallo che avevano la mia età, morti anche
loro; uno era Busi Giulio e l’altro era Sebastiano Busi detto il “Nono”; un altro era
Busi Antonio, detto “Teta” di soprannome,
il quale ha trascorso anche lui un lungo periodo in montagna.
Di solito noi portavamo la roba San Vito,
poi quelli di San Gallo la riprendevano e la
portavano in montagna. Qui ci portavano le
cose e noi le portavamo su.
A San Vito trasportavamo un po’ di tutto:
viveri, armi e tutto quanto serviva alla gente che era in montagna. Poi anche le famose zucche che coprivano le casse delle armi
sono finite in montagna insieme alla farina
e tutto quanto potesse essere utile agli uomini che erano in montagna.
Qui a Botticino Sera non c’era un gruppo
organizzato, non c’era una vera e propria
organizzazione: c’erano i vecchi socialisti e
comunisti che facevano propaganda antifascista. San Gallo era un po’ un avamposto,
poi andavano di là.
Qui a Botticino non si sono avute azioni di
rilievo: si trattava più che altro di un luogo
di passaggio.
Poi siamo saliti anche a Serle, dove c’era un
certo Naldini che abitava dopo la chiesa in
una stradina in discesa, e sono stato suo
ospite per una settimana: poi una notte
sono capitate le brigate nere.
Siamo saliti a Serle perché avevamo un appuntamento con qualcuno che doveva venire a parlarci, ma è venuta la gente del paese
ad avvertirci che dovevamo fuggire perché
stavano arrivando le brigate nere. Eravamo
in sette o otto: c’ero io, due o tre di San Gallo e il Premoli che abitava a Rezzato.
Quando hanno fatto fuggire i soldati dalle
scuole di Botticino Sera io non c’ero; quella
notte io non c’ero perché ero sempre a lavorare: quando mi chiamavano allora collaboravo a fare i trasporti e portavo i materiali su
a San Vito. Dopo la Liberazione ero in mezzo
anch’io perché ormai ero coinvolto.
Il giorno della Liberazione, c’erano qui a
Botticino due autocarri: siamo saliti e siamo
andati a Brescia all’albergo “Orologio” che
era il covo delle brigate nere. Appena arrivati abbiamo cominciato a sparare poi qualcuno è riuscito ad entrare e li hanno fatti
prigionieri. Poi con gli stessi autocarri siamo
andati a Gussago, nei pressi del cimitero;
sul monte soprastante si erano asserragliati
alcuni fascisti e si è sparato per un paio d’ore. Questi fatti sono accaduti alla fine della
guerra proprio negli ultimi giorni.
71
Tornando al fatto di Gussago, una scaramuccia di un’ora o due, si trattava di militi che erano alloggiati alla caserma Papa e
che fuggendo si erano rifugiati sulla collina
posta dietro al cimitero di Gussago. Colui
che ci comandava aveva come nome di battaglia “Pedro” e gli autocarri dei partigiani
e degli insorti erano sette o otto. Poi siamo
rientrati a Botticino, dove avevano fermato un camion carico di tedeschi, e li hanno portati alla chiesa di San Nicola: vicino c’era una vecchia casa dove sono stati
provvisoriamente alloggiati. Da lì poi sono
stati trasferiti a Brescia: c’ero anch’io ad
accompagnarli e li abbiamo condotti alle
scuole “Pastori”, che dopo l’otto settembre
1943 era stata trasformata in una caserma
fascista.Quell’autocarro era finito a Botticino perché probabilmente avevano sbagliato
strada, ma ormai gli alleati erano a Castenedolo e non sarebbero comunque certo
andati molto lontano.
In Comune, dal 26 Aprile 1945, si è formato un concentramento di partigiani. Insieme ai partigiani c’erano anche dei russi. So
che sono accaduti alcuni fatti, ma quella
mattina io non c’ero: ho poi saputo che Tito
Tobegia deve aver ammazzato uno o due
ufficiali, i quali facevano parte del gruppo
fermato sull’autocarro in fuga e che non si
erano arresi e si erano rifiutati di consegnare le armi in quanto preferivano consegnarsi agli alleati e non ai partigiani.
Alcuni di quelli che erano riusciti a fuggire
dall’autocarro, circa 7 o 8 militari, si sono
ritrovati in questa località e non so chi li
abbia bloccati. Noi dal Comune siamo saliti
al “casì de Panada”, dove sono stato ferito.
Comunque i tedeschi si sono asserragliati ed hanno iniziato a sparare: per stanarli
avevamo utilizzato anche della benzina ed
avevamo dato fuoco ma loro, uscendo hanno continuato a sparare. Io sono stato ferito ad una spalla. Oltre a me ricordo che
sono stati feriti Adelino Zanola e suo zio.È
in quell’occasione che i tedeschi hanno ammazzato Bottarelli. Bottarelli era colui che
comandava il gruppo ed era entrato per
parlamentare.
72
Eravamo in Municipio e si è sparsa la voce
e siamo accorsi: eravamo circa una ventina, ma loro erano ben coperti, asserragliati
dentro la cascina: per fortuna che attorno vi erano piante tagliate che ci offrivano un poco di riparo; io mi trovano proprio
di fronte ad una apertura dalla quale sono
partiti i colpi che mi hanno ferito; Adelino
anche lui, pur essendo più lontano di me, è
stato trapassato da un colpo ed anche suo
padre è stato colpito.
Bottarelli ha voluto entrare per parlamentare e lo hanno ammazzato. Era uno dei
primi socialisti, come Scarpari, il nonno
di Michelangelo, che era amico di Nenni e
di altri socialisti della direzione nazionale.
Scarpari mi faceva leggere i libri socialisti
ancora prima del 25 Luglio 1943: mi auguro che quei libri esistano ancora e non
siano andati distrutti perché erano molto
belli. Scarpari era un esponente importante
del partito socialista locale e Bottarelli era
un suo carissimo amico.
Tornando al fatto del “casì de Panada”, i
tedeschi poi sono stati presi: io sono stato
portato in ospedale ed ho saputo che due di
quei tedeschi sono stati ammazzati al cimitero. Poi quando sono tornato dall’ospedale
mi sono nuovamente messo a disposizione in Municipio: altri fatti importanti qui a
Botticino non sono accaduti.
Qui a Botticino, durante la Resistenza, si
faceva solo servizio di rifornimento alle formazioni partigiane. Come quando andavamo nella bassa bresciana a prendere la
farina dai contadini: ricordo di essere stato con altri a Pompiano con piccoli sacchi
che riempivamo appunto di farina e li portavamo su.Quando portavamo la merce a
San Gallo, prima la portavamo a casa e poi
venivano a prenderla: bisognava cercare di
non farsi vedere dai fascisti, altrimenti la
merce veniva sequestrata. Si cercavano le
strade nascoste...
Nella scuola di Botticino Sera erano stati
riuniti soldati sbandati dopo l’8 settembre,
che erano stati rastrellati ed erano controllati da due o tre tedeschi della Wermacht e
non dalle”S.S.”, le quali erano dislocate a
Sant’Eufemia.
Dopo l’8 settembre era arrivata qua un’autoblinda con tanti soldati tedeschi. Noi
eravamo ragazzotti e siamo andati a vedere. Ci hanno chiesto di andare a prendergli
dell’uva. Lì a S.Eufemia avevano disposto
due camion e i soldati delle caserme hanno cominciato a scappare. Tanti sono stati
presi, caricati sui camion e portati in Germania nelle fabbriche. Altri invece nei campi di concentramento, quelli che non collaboravano. Alcuni anche di Botticino: un
Temponi e altri.
Qui a Botticino c’era anche un generale
della “Todt”: dove attualmente c’è la farmacia c’era, a quel tempo, una casa di contadini che era stata requisita; questo generale mi pare si chiamasse Ran e c’era sempre
un gran movimento di persone: Quartararo, Pitigrilli, Sorlini, ed altri personaggi
importanti che erano ospiti a colazione o
a cena; il generale era una persona tranquilla e tutte le mattine partiva per la città;
verso la fine della guerra, quando gli alleati
si stavano avvicinando, una mattina nell’uscire da casa ci ha salutato, com’era sua
consuetudine e non l’abbiamo più visto.
A Botticino (a Brescia) erano arrivati molti
fascisti che erano scappati da Roma. Alla
casa del generale della Todt c’erano anche
attori: Roberto Villa, Lilla Brignone, che
venivano a mangiare: in quella casa c’era
sempre festa. C’erano dei contrabbandieri
che uccidevano le bestie e poi vendevano la
carne. Si vede che li lasciavano fare perché
poi dovevano portare una coscia alla casa
del generale. Lui era buono, non dava fastidio a nessuno tranne a uno che forse si era
rifiutato di portare la carne; forse era stufo
di dover sempre portargli la roba.
Qui a Botticino c’erano alloggiati personaggi fascisti che poi sono scappati o arrestati.
Uno era qui da Silio. Erano qui a dormire e
mangiare, poi andavano a Brescia. Uno era
là dove c’è la via Valverde. Credo che a casa
di quel generale della Todt ci sia venuto anche Priebke.
C’era un certo Siaranton (?) sicuramente
un fascista di Roma che veniva da Brescia
a casa di quel generale. Lui era in questura
in via delle Cossere: era conosciuto perché
cavava le unghie a quelli che interrogava:
cavava le unghie a tutti, li torturava. Quel
Sciaranton sparava agli apparecchi: sorvolavano Botticino, Rezzato sulla ferrovia per
bombardare e lui andava nel cortile e gli
sparava con la mitragliatrice.
Guarda te: erano caporioni venuti via da
Roma quando c’è stata la repubblica di
Salò.
A Botticino c’erano tanti fascisti, ce ne sono
ancora che hanno il quadro del duce a casa!
Adesso forse ce ne sono di più. Allora tanti erano fascisti perché erano obbligati per
lavorare e così via, ma adesso ce ne sono...
Allora ce ne erano alcuni che andavano a
Messa la domenica vestiti da fascisti, con la
berretta nera. Li conoscevo tutti.
Il capo Mussolini ha fatto delle stupidate,
ma i suoi hanno fatto peggio, i caporioni. Quando andavamo a vedere il Brescia,
andavamo in bici. Andavamo a Cremona:
quando arrivava Farinacci bisognava alzarsi tutti in piedi. Figurarsi.
Altri di Brescia li ho visti vicino l’osteria
dove ci sono i giochi di bocce (Antico Sole),
in parte c’era una casa. Nel gioco c’erano alcuni partigiani che chissà come erano giù,
sono arrivati i fascisti, tutti forestieri, e i
tedeschi: due sono arrivati a scappare, uno
è uscito dal cancello e andava incontro ai
tedeschi in bici. Gli hanno sparato ma non
l’hanno colpito. È entrato all’osteria dove io
andavo a cercare il sale. È riuscito ad andare dietro ma l’hanno preso e portato a S.
Eufemia dove ci sono le scuole, lì c’era un
comando. Da lì ogni tanto uscivano in bicicletta o con le auto: erano però soldati, non
“S.S.”. Le “S.S.” erano come quei fascisti
che avevano la “crapa da morto”, quelli delle brigate nere, la Muti, la San Marco e così
via. Qui oltre a queste cose non è successo
un gran ché, io però ero un ragazzo, forse ci
saranno state altre cose che non hosaputo.
Solo dopo la Liberazione si è saputo tutto
quello che avevano fatto.
Davanti alla Casa di Riposo c’è quella casa
vecchia: lì sopra, dove ci sono quelle finestre ancora uguali, c’era la sede dei fascisti.
Quando combinavamo qualcosa da ragazzi,
73
prima della guerra, ci chiamavano lì, mandavano un biglietto con scritto “presentarsi” e ci facevano la paternale. Avevano
manganelli di cuoio pieni di “trisia” (pallini
di piombo): se combinavi qualche cosa che
non andava te la facevano sentire. A quelli adulti gliele hanno date. La gente andava nelle osterie a giocare a carte, a morra,
poi entravano in qualche discorso politico
e c’era qualcuno che li conosceva e andava
a riferire ai fascisti che poi li chiamavano
a presentarsi. Magari parlavano male di
qualcuno e due o tre giorni dopo gli arrivava il biglietto di presentarsi perché avevano
qualcosa da dirgli. Questi erano quelli di
Botticino.Quando c’erano i fascisti bisognava presentarsi se qualcuno faceva la
spia: se non andavi ti venivano a prendere.
Li picchiavano, magari non quelli di Botticino, ma quelli che venivano da S.Eufemia.
Portavano a S.Eufemia chi era conosciuto
come antifascista (lì alla Pastori) e lo “grattavano”. Quelli che dicevano qualcosa di
contrario, c’era la spia, venivano convocati alla sede del fascio, che era davanti alla
“Casa di Riposo” (attuale), dove venivano
picchiati. Qui a Botticino hanno fatto un
po’ la spia, hanno picchiato qualcuno.
Quando ero ragazzo ricordo che c’erano alcuni di Botticino che ci facevano istruzione
dietro il Comune al sabato: la ginnastica, il
premilitare. Il giovedì nel giorno libero della
scuola andavamo su in Castello (Serle), poi
venivano su da altre parti, con moschetti e
pallottole a salve ci facevano fare esercitazioni: da ragazzi, andavamo ancora a scuola! Come quando si vedevano quelle cose lì
in Cina; così noi da ragazzi, vestiti con la
divisa del duce, con la berretta e guai se
non li avevi. Anche alcune maestre, altre
no, ci tenevano a farci andare. Eravamo ragazzi, allora non c’era niente, non avevamo
nemmeno la radio, si facevano perché era-
vamo ragazzi e non sapevamo niente.
Durante la guerra abbiamo cominciato ad
andare nella casa di chi aveva la radio, porte e finestre chiuse ed oscurate a sentire
radio Londra che c’era Paternostro. A Botticino la prendevano in tanti: ci si trovava
a sentire, se capitava qualcuno si scappava
nei prati dietro casa.
Dopo il 25 è arrivata la colonna degli americani: è arrivata a Castenedolo. I tedeschi
sono stati uno spettacolo: nel giro di un’ora
erano già tutti in fuga: fuori da Porta Venezia c’era una colonna e dietro i camion che
abbandonavano lungo il Naviglio canistri di
benzina per bruciare e rallentare gli americani. Gli americani hanno bruciato una
colonna di tedeschi: alcuni gli sono andati
incontro per arrendersi e li hanno mitragliati contro una siepe. Se ne sono viste di
cose: erano tutti come impazziti.
Dopo la guerra noi che avevamo aiutato i
partigiani non ci siamo trovati molto. Alcuni di S.Eufemia ci tenevano e hanno organizzato qualche riunione e ricordo c’era
stato un discorso di Scoccimarro, quello
del P.C.I. Poi è uscito anche Nicoletto.
Poi si è sciolto un po’ tutto, poi hanno fatto
l’A.N.P.I., c’erano i comizi per le elezioni e
così via.
I fascisti sono stati per un po’ chiusi nelle case poi sono usciti. Qui però non c’era quell’odio come nei paesi dove avevano
ucciso la gente e le cose si sono calmate.
Dopo la guerra non ci sono state vendette.
Ma dopo la guerra si è calmato tutto: poi è
cominciata la lotta tra comunisti e democrazia cristiana; i comunisti andavo in giro
con la “roncaia” appesa alla cintura.
C’era lotta quando c’erano i comizi dopo la
guerra: si picchiavano anche. Ma soprattutto succedeva a Brescia.
Botticino, 7 maggio 1996
Testimonianza di MAURIZIO COMINI (17.3.1927)
La mia famiglia era composta dalla mamma, mio fratello Ettore e la sorella Giulia.
Io sono nato dopo sette mesi dalla morte
del papà, sono cresciuto abbastanza bene
74
perché avevo la mamma molto energica.
Quando arrivavo a casa lei sapeva già se
avevo fatto qualchemarachella... E come
arrivavo, sai le mamme di un tempo, ti
“palpavano”. Io sono arrivato al punto che a
volte quasi la odiavo: lei mi picchiava ed io
mi arrabbiavo; poi ho cominciato a 14 anni
ad andare al lavoro a Brescia, alla “F.I.A.T.”
di Bertolotti.
Nel ‘43 sono dovuto scappare per non finire
in Germania e sono andato in montagna,
per il mio carattere ribelle che ho tutt’oggi.
Se mi fanno qualcosa scatto subito. Sono
arrivato per fortuna a portare a casa la pellaccia nel’45: ho fatto tutta la lotta clandestina. Quando è morto il povero Gheda
nell’ultima battaglia del Sonclino io ero lì
vicino. Erano giorni tristi ma ce l’abbiamo
fatta.
Io ero a lavorare alla F.I.A.T. a Brescia, a
porta Venezia: il capo era Giulio di Sant’Eufemia, che era il socio del vecchio Bertolotti,
ha portato via alcuni iniettori di camion, un
sabotaggio. Io al mattino seguente, all’entrata del lavoro, ed altri due, Garbelli e Bonometti, abbiamo visto che c’era qualcosa che non funzionava ed io ho saputo la
cosa. Ci hanno detto: siete in pericolo voi
tre. Io non ho guardato più niente ed invece di entrare mi sono girato, sono uscito e
sono scappato. In tre quarti d’ora ho fatto
la Maddalena, da via Rebuffone fino a San
Gallo e poi a Botticino: ho avvisato la mamma che dovevo scappare altrimenti finivo in
Germania. Non ricordo la data esatta. Sono
andato su a San Gallo con Tito Tobegia. Lì
a San Gallo c’era il dottor Cattanea che era
il medico della 122° brigata Garibaldi.
Io sono andato su perché c’erano dei miei
cugini, tra cui Benetti Domenico, che erano
in contatto con i partigiani, che me lo hanno indicato. Sono andato io personalmente
su a San Gallo e da lì ho cominciato la mia
lotta partigiana. A Botticino Mattina c’era
già qualcosa: Milio Moreschi, el Rusì de Somia (Arnaldo Arici), Milio Sauneta (Quecchia Emilio), Rino Gorni che era quello che
teneva i contatti. Anche a Botticino c’erano
tante case dove c’era gente che si dava da
fare: ricordo Marchetti in via Cave, ed altri.
A Botticino Sera, per quel che so c’era “Bortol dei Bù”, il nonno di Scarpari, quello che
vende le bibite e il vino. Era un socialista.
A Botticino venivano i fascisti a fare i ra-
strellamenti per cercare i renitenti alla leva.
C’era una donna, la Maria “Todesca” che
ci avvisava di scappare. Lei sapeva il tedesco e veniva usata come interprete. Questi
si nascondevano sul cornicione della chiesa per non essere presi e portati via. Io ero
giovane, erano momenti difficili, io volevo
portare a casa la mia pelle, avevo i miei familiari.
Anche a San Gallo c’erano persone che
sembravano normalissime e invece erano
al corrente di tutto e in contatto. La clandestinità era già avanzata: questi si davano
da fare da molto prima del ‘42-’43. Avevano cominciato molto prima perché i fascisti
hanno sempre “bateccato”. C’era stato su
anche Nicoletto, c’era la stampa clandestina...
Da San Gallo mi hanno portato su al Sonclino. Dopo tre giorni a tappe sono arrivato e ho avuto contatto con Bruno Gheda, il
comandante della Brigata. Lui mi ha detto
che ero giovane: io gli ho risposto che era
meglio per me morire a casa mia piuttosto
che andare a morire in Germania, perché
ero sicuro che sarei finito così. Mi ha chiesto se volevo fermarmi in montagna o fare la
staffetta: io gli ho detto che preferivo andare e venire. Mi ha spiegato tutte le precauzioni da tenere, l’uso della parola d’ordine;
noi la ricevevamo il giorno prima di quelli
che stavano nella zona. Io ero chiamato “il
Cavallo” perché camminavo veloce: ancora adesso ho il passo che ho preso allora.
Avevamo gli orari: se non rispettavi gli orari
rischiavi di mettere in pericolo persone cui
noi facevamo da tramite. Io sono sempre
stato puntuale per non creare disguidi che
mettessero in pericolo altre persone.
Io portavo gli ordini. Magari serviva qualcosa, vestiario, ecc., si doveva assaltare
qualcosa come a Sant’Eufemia dove abbiamo preso le scarpe, si portava l’ordine alla
staffetta del posto. Si prendevano gli accordi, gli orari, si controllava il percorso, poi
si portava il materiale. Strada facendo, la
notte, c’erano posti di blocco dove dovevi
avere la parola d’ordine: nomi di persone,
di città, ecc. La staffetta le aveva il giorno
prima per poter viaggiare. Noi siamo sempre andati bene. Io, facendo la staffetta,
75
avevo la “pelle contata” minuto per minuto
perché non sapevo se portavo in porto la
mia missione, i rapporti che dovevo portare,
persone che chiedevano di andare in montagna che dovevo accompagnare su... Camminando la notte perché si partiva sempre
la sera. Quando arrivavi in un punto c’era il
riferimento: se non arrivavi in tempo dovevi aspettare la notte dopo perché di giorno
non camminavamo. Sempre in giro la notte, eravamo dei camosci. Noi le montagne
le conoscevamo tutte perché i sentieri da
praticare non erano sempre gli stessi. Due
giorni facevi un itinerario, altri giorni altri itinerari per non dare nell’occhio. Poi si
cambiava: la staffetta che faceva da Gardone VT. al Sonclino, faceva da Gardone V.T.
a San Gallo e noi viceversa. Erano mescolate le strade, insomma noi non siamo mai
stati scoperti.
La nostra brigata era su al Sonclino. San
Gallo era un distaccamento delle staffette
che prendevano ordini, portavano ordini,
poi c’erano quelli che ascoltavano, raccoglievano informazioni e le trasmettevano
su al comando della Brigata. Poi portavano dei documenti. San Gallo era il punto
di riferimento per il Sonclino, dove c’era il
comando. Da Brescia, Sant’Eufemia, venivano a San Gallo dove c’era la casa del
“Nono”. Il “Nono” era il riferimento. Quando arrivavi a San Gallo dovevi stare attento
prima di entrare: se venivi scoperto non era
solo la tua pelle che andava di mezzo, ma
anche tante altre vite.
Quando vedevi che l’aria era pulita andavi dentro: io bussavo con i miei due colpi
secchi. Da un’altra parte invece chiamavo
con il nome di battaglia. Ogni posto aveva
il suo modo di chiamare. Erano tutti modi
per evitare di farscoprire quello che portavo
perché sarebbe stato fatale non solo per me
ma anche per tanti altri: ne andavano di
mezzo loro e le loro famiglie. Ne avevamo
tante di missioni e di cose da portare, ma
sempre ognuno aveva una quantità ridotta
e non sapeva niente degli altri. Chi sapeva
il tutto era solo Bruno Gheda, il comandante. Noi parlavamo ognuno con chi ci dava i
documenti da portare, l’orario, ma non avevamo contatti con gli altri. Dovevamo arri76
vare sul posto,aspettare il segnale o altro.
Però quello che portavi era segreto: magari
buste chiuse con tracciati per scoprire se
venivano aperte e così via. Per questioni di
sicurezza non si doveva sapere più di quel
che facevamo per evitare in caso di cattura
di rivelare nomi e notizie che coinvolgevano
altre persone.
Ho fatto circa due anni di montagna ma ho
fatto delle pazzie... a volte stavo due o tre
giorni senza mangiare perché mi trovavo in
zone dove non c’era nessuno. Dove arrivavi magari saltavi perché avevano già dato
da mangiare a staffette arrivate prima di te.
Quello era il meno, poi sono stati anni freddissimi: il gelo con la neve che c’era è stato
micidiale perché non potevi camminare e
c’era l’orario da rispettare. Se non arrivavi
in tempo dovevi aspettare il giorno dopo
e così via. Forse in città era più pericoloso
perché erano più esposti, ma in montagna
d’inverno era dura. Poi se ci prendevano
c’era la fucilazione.
Io ho sempre lavorato da solo perché sapevo quel che facevo e preferivo non avere un’altra persona da dover magari tirare
perché non teneva il mio passo: ero molto
veloce.
A Botticino Mattina facevano azione di appoggio: tu portavi i suggerimenti del comando e riportavi le informazioni o quello
che avevano raccolto per noi su in montagna. Io facevo da staffetta tra la montagna
e questi gruppi che lavoravano in clandestinità nei paesi.
Io avevo una pistola personale che mi avevano dato sin dall’inizio a San Gallo. Ho
partecipato alla battaglia del Sonclino e ho
visto morire Gheda. Il fascista che lo ha ucciso è stato picchiato ed ucciso sul posto
dai partigiani.
C’è stato l’episodio degli uccisi alla Fratta
perché c’è stato quel Casali che ha fatto la
spia. Lui era un sottufficiale della milizia
fascista che era in Castello a Brescia, un
picchiatore. Era di Botticino Mattina. Lui
e suo fratello hanno fatto andare su i fascisti. A San Gallo c’era un distaccamento
e alcuni erano alla Fratta perché erano ragazzi che erano stanchi e anche ammalati
e li avevano mandati lì per un po’ di tempo. Quando abbiamo sentito i fruscii, c’era
ancora scuro, poi si è sentito gridare, forse
qualche staffetta che c’era in giro: “i fascisti, i fascisti”. Uno è andato nella cisterna e
si è salvato, gli altri li hanno fucilati subito.
Io stavo portando da mangiare e sono riuscito a scappare: mentre stavo scavalcando
la cinta sono caduto e ho sentito sparare
nella mia direzione. Ero sdraiato e forse è
stata la mia salvezza. Sono andato a finire
verso Castello diSerle dove c’erano dei parenti di mio padre. Credevo di scappare al
sicuro, invece nell’arrivare mi hanno detto di fuggire perché lì tutti i giorni c’erano
rastrellamenti e perquisizioni nelle case.
Guardavano sotto i letti, infilavano sbarre di acciaio nel fieno per vedere se c’era
qualcuno nascosto. Quella mattina ero alla
Fratta perché stavo venendo giù dal Sonclino a portare gli ordini a quelli lì. Non
ho fatto in tempo a parlare con loro. Avevo
uno zainetto con della roba da mangiare e
dei medicinali. Quando ho sentito urlare “i
fascisti, i fascisti” sono scappato, non potevi mica fermarti! Poi ho sentito che hanno
ammazzato quei tre. I militari che abbiamo
fatto scappare da Botticino Sera li abbiamo accompagnati su noi: erano ragazzi di
leva che volevano scappare perché li volevano portare in Germania. Dovevano essere trasferiti: loro hanno preferito andare in
montagna. Con questi si erano aggregati
due o tre russi e questi, poveretti, non hanno portato a casa la pelle: erano volonterosi, quando c’era una battaglia volevano
farsi notare che lottavano per il loro ideale,
difatti sono quelliche ci hanno lasciato la
pelle prima di noi. Noi li abbiamo sempre
tenuti in considerazione perché erano bravi
ragazzi.
Dopo il ‘45, dopo la Liberazione, i loro familiari sono stati avvisati e credo che siano venuti a prendere i corpi che erano stati
portati a Gardone V.T.
Quando siamo scesi dalla montagna sono
venuto qui a Botticino e ho collaborato con
l’organizzazione del Comune: il Comune
era vuoto, siamo entrati noi e abbiamo formato il nostro Comitato di Liberazione e a
questo si è appoggiato Tito Tobegia, quello
di Sant’Eufemia che era il nuovo comandante della 122°.
C’era chi veniva a prendere le armi, i viveri,
ci davano da mangiare nella gavetta: c’era crisi totale e le botteghe non ti davano
niente. A volte si andava a prendere con le
brutte perché soldi non ce n’erano. Ci davano qualcosa perché ci conoscevano. Ma
erano tanti quelli che dovevano mangiare.
C’è stato qualcuno birichino in queste cose
tra quelli delle botteghe. Questo è durato
15-20 giorni. La roba requisita ai tedeschi
è stata data un po’ alla gente che ne aveva
bisogno e un po’ è sparita perché qualcuno
si era infiltrato e ne ha approfittato. Dopo
un po’ di tempo abbiamo saputo che delle
persone si sono appropriate della roba, ma
non hanno fatto nomi.
Ricordo quei due tedeschi che avevano ucciso Bottarelli su al casì de Panada e ferito
gli altri partigiani. Li hanno presi e portati
al cimitero. Quei tedeschi stavano scappando, erano dispersi, erano entrati nel casino
e volevano uccidere una pecora. Il vecchio
che c’era là voleva fermarli. Sono saliti tre
o quattro partigiani: li avevano consigliati
di aspettare. I tedeschi non volevano arrendersi... Hanno ammazzato Bottarelli.
Altre volte abbiamo catturato dei tedeschi
e li abbiamo portati al campo di concentramento a Sant’Eufemia. Quelli senza niente
hanno ammazzato un partigiano che voleva
parlamentare per farli arrendere...
Li hanno portati al cimitero: quel giorno
avevo la sten russa. Tito mi ha preso lo
sten e li ha uccisi. Hanno fatto una buca
e li hanno seppelliti lì. Dopo anni i parenti hanno recuperato i loro resti e li hanno
portati in Germania.
Quando hanno ucciso gli altri due tedeschi
io ero in città perché come staffetta andavo
da altre parti per vari incarichi.
A Sant’Eufemia c’era un campo cintato
dove mettevano i tedeschi catturati dopo il
25 Aprile: stavano là due o tre giorni e poi
li portavano via. A Botticino sono stati catturati quelli su al casì de Panada e quelli
del camion che si erano bloccati in via San
Nicola: volevano andare verso il lago.
Ho conosciuto Tito, Tobegia era un sopran77
nome. Lui era Guitti. Un gran cuore, d’acciaio. Non ci pensava un attimo se doveva
uccidere qualcuno. Non ha mai dato un
buffetto a nessuno, ma poi nella lotta partigiana ha visto qualcosa che non andava,
delle ingiustizie fatte dai fascisti e quella
sua rabbia l’ha sfogata in quel modo. È stato lui che ha ucciso quelli di Lumezzane e li
ha portati a sotterrare su al Mulì de l’Ora.
Li ha uccisi, gli ha buttato la nafta e gli ha
dato fuoco.Erano fascisti di Lumezzane: è
successo dopo la Liberazione. Se qualcuno
aveva fatto qualcosa di ingiusto lui li andava a prendere per quella rabbia che aveva
addosso e li faceva fuori.
Ricordo dopo la Liberazione c’era stato un
comizio a Botticino davanti al Municipio, il
primo maggio. Il maestro Casali di Botticinoha detto che i partigiani avevano “fatto
alla peggio” più dei fascisti, quello (Carlo
Gnec di Castenedolo) ha preso la mitraglietta e voleva ammazzarlo e uno vicino
gliel’ha alzata per non farlo sparare addosso al Casali.
Noi non avevamo persone da andare a
prendere. L’unico era Ghitti, il direttore
del calzificio Ferrari, un fascista. Chi l’ha
salvato è stato Rino Gorni perché anche
lui aveva fatto qualcosa per aiutare Rino
quando era partigiano. Si sono ricambiati
l’aiuto. Qui c’erano fascisti, non per l’ideale
ma per sbarcare il lunario, per la fame: di
lavoro non ce n’era. Se non eri fascista non
lavoravi.
C’erano delle persone cattive sia a Sera che
a Mattina e non ci potevano vedere e ci giudicavano come delinquenti: dicevano che
avevamo rubato qua e là. Ma noi ci dovevamo arrangiare: nessuno ci dava le scarpe,
anche d’inverno stavamo in stalle e fienili con poche coperte. Era rischioso anche
accendere fuochi soprattutto di notte. Era
pazzesco. A Sant’Eufemia c’era un macello
di cavalli: ci davano il grasso di cavallo con
cui ungevamo le gambe e i piedi nei punti
dove il freddo pungeva di più. Mani, ginocchia non si sono congelate grazie a questo.
L’estate andava bene perché si asciugava
anche la roba bagnata, ma d’inverno ti si
stecchiva la roba addosso. Io ho fatto due
anni che sono stati tremendi: a volte mi
78
chiedevo chi me lo faceva fare. Ma non avevo scelta perché ho dovuto scappare. Altri
hanno fatto altre cose. Qualcuno se ne è
andato alla “Todt” e se ne è fregato della
lotta clandestina. Forse hanno preferito la
sicurezza. Io ero già destinato per andare
in Germania, perché ero sospettato di sabotaggio.
Quando è uscito il decreto di consegnare le
armi io ho riconsegnato la mia pistola, ho
fatto il porto d’armi più tardi, quando ho
cominciato a fare l’autista per la Federazione del P.C.I. e portavo una pistola (dal 1952
al ‘53).Noi partigiani dopo la guerra siamo
stati trattati bene quando la gente è venuta
a conoscenza di quel che abbiamo fatto. Poi
Botticino Mattina era rosso, Sera no.
Poi sono cominciati i litigi: noi volevamo
dividere il Comune quelli di Sera no, per
via delle cave che erano un patrimonio da
cui venivano un po’ di soldi. A Sera c’era
solo il calzificio, ma la ricchezza è venuta
dopo. Allora era dura. C’erano quelli che ti
apprezzavano e quelli no. Tutto perché eri
un comunista e dicevano che avevamo fatto la lotta per il nostro ideale. Noi del resto
eravamo nella 122° Garibaldi non eravamo
nelle Fiamme Verdi. Qualcuno forse ha aiutato le Fiamme Verdi, nell’ambiente della
Parrocchia è così, ma io non lo so, non ho
sentito niente. Noi e le Fiamme Verdi eravamo due brigate diverse, non so se loro
avevano riferimenti a Botticino.
Se dovessi tornare indietro forse non sarei
capace di fare ancora una cosa del genere,
forse perché adesso hai più esperienza...
Ma allora non se ne poteva più: sempre
quelle persone davanti agli occhi: i fascisti
che comandavano. Ricordo una volta che
sono stato schiaffeggiato da un’ausiliaria
fascista per un equivoco: è successo pochi
giorni prima della mia fuga. Volevo reagire ma per fortuna mi hanno trattenuto. Se
l’avessi ritrovata dopo il 25 Aprile chissà
cosa le avrei fatto... Avevo un grande rancore verso i fascisti, ancora tutt’oggi io li
odio. Il mio rammarico è che certa gente sia
ancora in giro. Ma è la democrazia. Io sono
cresciuto comunista tramite il mio tutore
Benetti detto Milunsì, il papà di Ateo, Cor-
nelio e Amilcare. Con mia mamma erano
parenti alla lunga. Io avevo questo tutore
e lui veniva sempre ad ascoltare la radio
clandestina, Radio Londra, a sentire Ruggero Orlando. Veniva là perché nella mia
casa c’era la cantina sotto il monte e non
si poteva sentire da fuori. Lui mi chiamava,
mi diceva di ascoltare ma di non andare a
dire niente a nessuno. Io sono cresciuto un
po’ di sinistra grazie a lui. Allora era un po’,
poi strada facendo mi sono confermato.
Botticino, 2 gennaio 1997
Testimonianza di ANGELO LONATI (15.2.1909)
Sono nato a San Gallo e vi sono rimasto
sino a 14-15 anni, dopo sono andato in
Francia per lavoro e sono tornato perché
la mamma era ammalata. Ho cominciato
qui a lavorare: mia mamma era ammalata,
mio fratello senza un braccio era sempre
ammalato anche lui. Ho dovuto andare al
“medol” perché non c’era altro, lì ho trovato
lavoro: ci sono rimasto per 7-8 anni, prima
dai Lombardi, poi dai Gaffuri.
Tutta la mia famiglia era andata in Francia:
eravamo in sei. Mio papà era morto giovane, i miei fratelli erano più piccoli di me.
Facevano chi il muratore, chi lavorava in
officina. A quell’epoca lavoravamo tutti, ma
poi ci sono stati degli sconvolgimenti anche
là: uno dei miei fratelli è venuto qui, uno
l’hanno mandato in Germania e non ne ho
più saputo nulla (uno era del ‘95 e questo
del ‘97). Poi c’era quello del ‘99 che è andato
in Spagna e c’è rimasto tre anni. Era andato in guerra, si chiamava Fausto. Anche un
mio cugino è andato in Spagna: ne ho conosciuto molti che sono andati in Spagna.
Sono andati in Spagna con i comunisti, alcuni erano repubblicani di Pacciardi, erano
un po’ di tutti, socialisti... Erano volontari, non li ha obbligati nessuno: erano dalla
parte del popolo. Ma è andata male... per
quella parte che combatteva contro Franco.
Avevamo una casa e il lavoro in Francia e
potevamo tirare avanti. Anche mio fratello
Casimiro era in Francia. Quello più vecchio
era Santo, Miro del ‘97 e uno del ‘99. Io ero
più giovane. Sono tornati i meno indiziati...
In Francia avevamo comperato una casa
abbastanza grande, vicino a Parigi; avevamo qualche soldo, allora abbiamo venduto
la casa qui (mio padre era morto giovane)
e abbiamo preso quella in Francia. Siamo
andati in Francia perché ci andavano in
molti a quell’epoca, era forse una garanzia
di trovare il lavoro innanzitutto e secondariamente di avere la libertà di partito, delle
idee, che qui in Italia non c’era. Qui non
si poteva vivere: erano contro tanto, erano
contro poco, non ti lasciavano vivere. Bisognava arrangiarsi e trovare i mezzi per
vivere meglio. Forse anche perché all’epoca eravamo un popolo ignorante e seguivamo l’onda, i fascisti si sentivano protetti, si
sentivano forti e seguitavano così...
In Francia erano organizzati, c’erano anche
le edicole: c’erano l’Unità, l’Avanti. Qui a
San Gallo non c’era niente: si sapeva quel
che si poteva, a voce di popolo. Miro faceva
il muratore in una piccola impresa di tre
o quattro soci. Santino era in un’officina
dove facevano la carta.
Io sono tornato in Italia perché si era ammalata gravemente la mamma ed ero quello
meno indiziato per i fascisti. Tanto è vero...
che hanno fatto presto ad indiziarmi. Sono
venuti i carabinieri ad “intervistarmi”, a
parlarmi... Anche un generale della milizia
è venuto a parlarmi. A quell’epoca non si
muoveva per uno qualsiasi: ci sono state
un po’ di chiacchiere e sono venuti da me;
siccome c’era la guerra in Spagna, avevano
dei sospetti sui miei fratelli.
I miei fratelli erano indiziati perché così era
a chi non “teneva” al fascismo. O con loro
o contro di loro. Erano contro perché erano
operai e come tali non c’era da andare ad
insegnargli. Non c’era bisogno di insegnargli perché a quell’epoca là non potevano
parlare veramente, non come adesso che si
può parlare liberamente. Era naturale che
l’operaio fosse contro il fascismo: l’operaio
difendeva il suo lavoro, il fascismo difende-
79
va l’interesse del padrone. Era facile essere
contro il fascismo perché stava dalla parte
del padrone. È sempre stata una vita triste
e restrittiva perché o si dava ragione a loro,
alla loro idea (del fascismo) o si era contro.
O l’uno o l’altro. Nella mia famiglia eravamo
tutti contro tanto è vero che uno ha avuto
la fortuna di venire a casa, l’altro è morto
in Germania, non è più tornato: è morto in
campo di concentramento. L’hanno deportato dalla Francia dove aveva la famiglia:
sono stati i tedeschi che là comandavano.
Nicoletto è stato a casa mia perché usciva
di prigione, dal confino, e doveva scappare.
È stato a casa mia perché casa mia, a San
Gallo, non era abitata, lui stava là. Gli faceva da mangiare mia cognata. Mi sembra
un sogno riandare quell’epoca.
Io non conoscevo Nicoletto. L’ho incontrato
su per andare alla Trinità: mi avevano detto chi era e che idee aveva. Lui era stato lì
a casa mia. Non si faceva vedere durante il
giorno. La sera, col tempo, si era fatto conoscere e ci incontravamo con i dovuti “riguardi” perché bisognava stare attenti, non
farsi vedere, non farsi sentire.
Era triste la storia. Io non lo auguro a nessuno. Io non so: c’erano di quelli che se ne
fregavano, altri che se la prendevano a cuore. Se uno se la prendeva a cuore non aveva più pace, purtroppo... Il generale della
milizia è venuto su a San Gallo; io ero qui
alle cave a lavorare ed è venuta mia moglie
a chiamarmi. Avevano rastrellato quelli che
intendevano loro e non li mollavano fino a
che non mi sono presentato io. Sono andato lì a presentarmi alle scuole di San Gallo.
Mi hanno fatto l’interrogatorio: tante non
le indovinava per niente e cercava di farmi
parlare, ma io non gli dicevo niente. Sapevano che io e i miei parenti eravamo amici
di antifascisti e finché non mi sono presentato io non mollavano le altre persone che
avevano rastrellato.
Tante volte ho dovuto andare a presentarmi
ai carabinieri: una volta Sant’Eufemia, due
o tre volte a Brescia a porta Venezia. Volevano sapere con chi eravamo a contatto,
cosa facevamo, che ragionamenti facevamo, i problemi più importanti che avevamo.
A volte dicevamo la verità: per esempio che
80
volevamo andare a casa... Inventavamo. Poi
negavamo... Come riferimento avevano preso me per poter avere notizie di Casimiro
(Miro) perché gli altri erano tutti in Francia.
A quell’epoca potevano andare dappertutto: nelle case, nelle stalle, accertarsi come
era e come non era. Noi di possibilità non
ne avevamo.
In tempo di guerra eravamo andati a Villa
Carcina: io e Miro e gli altri fratelli. Miro era
appena uscito dal confino e siamo andati a
stare là. Avevamo un’osteria, facevamo un
po’ il muratore... A Villa Carcina eravamo
in contatto con i partigiani: con questo o
con quello. Era una casa di rifugio: quando
un partigiano si staccava di qua e doveva
andare di là sapeva dove andare, dove appoggiarsi. A San Gallo c’erano i miei nipoti
che aiutavano i partigiani: il “nonno”, Busi
Sebastiano, Mario... Erano tutti coinvolti
ad aiutare l’uno con l’altro. O perché ci tenevano o perché erano di famiglia, avevano
la voglia di aiutare. Erano tutti disponibili,
poco o tanto. a quell’epoca era tutto proibito quello che si faceva, era un rischio.
A Villa Carcina siamo riusciti a far perdere
un po’ le nostre tracce: là non sono venuti
a cercarci.
Nel periodo della guerra, delle sconfitte, c’è
stato un po’ di smarrimento anche da parte loro (dei fascisti), si sono scombussolati; anche perché a Carcina non davamo a
vedere chi eravamo, facevamo di nascosto.
Alla gente che non si conosceva non dicevamo le nostre idee: bisognava stare attenti.
Nascondevamo i partigiani quando potevamo, lo facevamo volentieri senz’altro, anche
se poi si riusciva e non si riusciva, ma lo
facevamo. Se si poteva si faceva senz’altro,
dal primo sino all’ultimo, senza guardare
in faccia nessuno: o fare il proprio dovere o
era inutile. Adesso è finita, ma allora... Poi
abbiamo dovuto lasciare l’osteria e andarcene perché qualcuno della polizia che non
era d’accordo con i tedeschi ci ha avvisati e
allora tutta la famiglia è scappata ed è tornata a San Gallo. Là abbiamo avuto ospitalità dalla gente. È stato un passaggio, come
un sogno: la tranquillità non c’era mai stata perché o l’uno o l’altro… poi ogni tanto
uno era arrestato e si aveva paura di “palesare” anche gli altri. Durante la guerra con
Miro non ci siamo quasi più visti: avevamo
notizie di quel che faceva. Lasciava detto a
qualcuno di farci sapere di lui. Sapevamo
che era vivo ma non quel che faceva. Dopo
la guerra ci siamo ritrovati quando siamo
andati a Novara: un viaggio in camion!
Dopo la guerra è cambiata tutta. Siamo andati ad abitare a Sant’Eufemia dove ci hanno dato una casa perché noi non ne avevamo più di case. Ci hanno dato la casa
di uno che era soldato ed era disperso: assieme a noi c’erano altre due famiglie. Non
eravamo alle larghe, ma piuttosto di niente... È passata, erano magre. C’era sempre
la paura che venissero a prenderti: dormivo
la notte con quel pensiero. Bastava uno in
famiglia che faceva qualcosa che eravamo
bersagliati tutti.
Non penso che per quel che abbiamo fatto
dobbiamo avere delle ricompense, sarebbe una pretesa: quel che abbiamo fatto è
stato fatto, qualcuno ci ha lasciato la pelle,
ne sono successe di tutte. Si era giovani,
avremmo potuto fare una vita diversa, abbiamo lavorato.
Lavoravo da Lombardi e volevo farmi intendere perché non mi pagavano giusto
e mi hanno lasciato a casa e sono andato dai Gaffuri. Sono stato a casa alcuni
giorni: avevo chiesto l’aumento perché mi
facevano fare una categoria più alta, facevo
la lizzatura. Avevo chiesto di aumentarmi
secondo il merito, se facevo come gli altri
che prendevano di più. Quel che è, è che mi
hanno cacciato a casa. Allora ti licenziavano sui due piedi. Ricordo che Carlo Lombardi ci diceva: “Io so che voi volete venire
qui al mio posto! Voi pretendete di prendere
il nostro posto e farci andare su noi a lavorare...”
Botticino, 2 maggio 1996
Testimonianza di ANGELA PICCINOTTI (6.10.1932)
Ho conosciuto mio marito, Luigi Romano,
tramite le feste dell’ A.N.P.I. perché lui era
dentro proprio con la testa, con il cuore, con
tutto proprio... Ci siamo sposati ed è venuto
ad abitare a Botticino, ma lui ha continuato la sua attività. Lui abitava a Sant’Eufemia. Era nell’ A.N.P.I. perché a 17 anni
appena compiuti era andato in montagna
nella 122° Brigata Garibaldi: c’è stato per
4 mesi e mezzo come partigiano. Ha fatto
il partigiano dal 28.12.1944 al 25.4.1945.
Quei quattro mesi glieli hanno riconosciuti come servizio militare anche se all’inizio
non volevano riconoscerglieli. Io l’ho conosciuto dopo, quando aveva già fatto i mesi
in montagna.
Era andato in montagna perché lui era già
in collegamento con i partigiani....Era in
contatto con i partigiani, lui era amico di
Ezio Maccarinelli, un partigiano, ce n’erano 5 o 6 a Sant’Eufemia con cui era amico
intimo: stava più a casa di Maccarinelli che
a casa sua e si vede che trascinato dagli
amici....
Doveva portare una pistola, non so a chi,
e l’hanno trovato sul tram; l’hanno trovato
con questa pistola e lui essendo di età di
17 anni è riuscito a prendere delle scuse:
l’ho trovata e così via. Siccome era minorenne l’hanno lasciato andare al momento,
ma hanno cominciato a tenerlo d’occhio, ad
andare a fare domande al papà e alla mamma... hanno cominciato i fascisti ad andare
a casa. Allora hanno dovuto farlo andare
via per non mettere a rischio anche gli altri fratelli, erano in otto fratelli, per evitare
conseguenze in famiglia hanno dovuto farlo
andare in montagna. Tramite Tito è andato
su al Sonclino dove ha fatto la battaglia con
la 122°.
Mio marito era legato, perché era di Sant’Eufemia, a Tito. Per un periodo era stato suo
comandante alla brigata 122° dopo la morte di Verginella. Poi c’è stato Bruno Gheda.
Lui ha fatto tre azioni con la 122°, in quelle
azioni c’era anche lui non ostante la giovane età: una quando da Concesio lui e Maccarinelli sono venuti giù a prendere delle
forme di formaggio per i partigiani. Mi rac-
81
contava quell’episodio: quando sono stati a
metà strada gli è scappata una forma perché erano pesanti e hanno dovuto tornare
in dietro per non perderla e quando sono
arrivati su sono stati rimproverati dal comandante perché gli ha detto che non dovevano tornare indietro che era pericoloso
perché avevano i loro tempi da rispettare.
Non ricordo dove sono andati a prenderle.
Poi ricordo l’azione quando sono andati a
prendere le scarpe da Alberti e l’altra quando sono venuti a Botticino a prendere i soldati che erano dove ora c’è la biblioteca.
Di questo episodio mi ha raccontato tutti i
particolari che ora però non ricordo: so che
sono arrivati di notte, sono entrati nella camerata, però non hanno obbligato i soldati
a seguirli, hanno detto chi vuole andare,
chi vuole seguirli. Tra l’altro c’era proprio
dentro uno che ha sposato una mia cugina
di Verona e ci siamo conosciuti dopo e mi
ha confermato l’episodio.
Io l’ho conosciuto quando aveva già quasi
20 anni e io ne avevo 16. Ci siamo sposati e
siamo andati ad abitare a Botticino Mattina
e dal ‘56 a Botticino Sera. Ricordo che una
volta quando veniva a morose (dopo la guerra) erano le dieci di sera, sento bussare alla
porta: è arrivato uno che non conoscevo,
l’ha chiamato in parte e ricordo che doveva
andare a prendere a Brescia una persona
con la sua moto per portarlo al confine con
la Jugoslavia perché dovevano portarlo via.
Non so il motivo.
Questo per dire come era dentro a queste
cose, coi partigiani e poi con l’A.N.P.I.
L’attività dell’A.N.P.I. l’ha sempre fatta ed
è stato presidente locale per 10 - 12 anni.
Ha cominciato nel ‘72 e dopo due anni ha
fatto costruire il monumento su alla Fratta:
aveva degli amici a Sonico e sono andati a
prenderlo là; infatti non è marmo di Botticino, è una pietra di quella zona.
L’hanno inaugurato nel ‘74. Hanno fatto tre
giorni di festa dell’A.N.P.I., venerdì sabato
e domenica, che era proprio il 28 ottobre,
ricorrenza dell’eccidio della Fratta.
L’idea di fare il monumento alla Fratta è
nata perché lui voleva qualcosa che ricordasse perché diceva sempre: quando io non
ci sarò più non so se continueranno nel la82
voro, invece così rimarrà il ricordo, voglio
un cippo che ricordi anche quando io non
ci sarò più. Tutti gli anni, ancor oggi, vedo
che il ricordo è mantenuto.
A quel tempo, quando ha fatto il monumento alla Fratta, c’erano contatti con l’Amministrazione. Il sindaco era Bettinzana e
aveva presenziato alla ricorrenza. Per le riunioni dell’ A.N.P.I. avevamo una stanzetta.
All’inizio erano a casa nostra.
Prima Luigi era dell’A.N.P.I. di Brescia, poi
ha cominciato qua a Botticino con poco...
Prima del ‘ 72 l’ A.N.P.I. non era organizzata a livello locale: erano iscritti all’A.N.P.I.
provinciale: qui l’ha organizzata lui. Però
erano in diversi: c’era un gruppo volonteroso, c’era Damonti Angelo, Galli Mario, quello delle Fiamme Verdi, Pasquale Bonardi,
Remo Pedretti, erano 5 o 6 ma hanno fatto
tanto lavoro. Dopo mio marito, quando si è
ammalato, voleva che a fare le sue veci fosse proprio uno che aveva fatto il partigiano.
Ma Galli, vicepresidente, era già ammalato,
non voleva, e allora gli hanno indicato Giulio Oliani. L’ha mandato a chiamare e ha
cominciato a partecipare e gli è subentrato
quando è morto. Anche Oliani proviene da
Sant’Eufemia.
I primi anni dell’A.N.P.I. a Botticino sono
dal ‘70 in poi. Le prime attività erano le feste
che facevano due volte l’anno: le facevano
una alle Marcolini dove c’era il prato (adesso c’è la piazza) e una, quella più grande,
davanti al campo comunale di calcio: la facevano in settembre ottobre. L’ultima volta
Luigi c’è andato con la febbre a 39... ma lui
voleva vedere come andava.
La festa era un momento per ritrovarsi, non
tanto per il guadagno, loro volevano sentire che c’erano: venivano quelli di Sant’Eufemia, di Rezzato, si trovavano, cantavano
un po’ di inni partigiani... Erano delle belle
feste! C’erano le bibite, i panini, senza la
cucina, vino bianco e rosso: prendevano
quegli stand piccoli coi banchi di legno che
allora si usavano. Adesso non darebbero
nemmeno più il permesso per cose così.
Con semplicità: venivano i garibaldini di
Sant’Eufemia e dei paesi vicini.
Di solito preparavano la festa il sabato e
durava la sera e la domenica seguente, e
veniva sempre fuori uno da Brescia a dire
due parole. Ricordo Bonomini, presidente
dell’ A.N.P.I. di Brescia...
Non ballavano, né niente, era proprio una
festa per stare insieme. Erano feste sentite, ci veniva molta gente anche del paese.
va perché c’era chi ascoltava. Vicino a noi
c’era una fruttivendola dove si trovavano a
chiacchierare ed hanno smesso perché ogni
tanto capitavano dei fascisti. Hanno portato via quell’Arici perché pensavano che si
trovassero lì a parlare contro il fascismo.
Mio marito era riuscito a fare la tessera anche a don Luigi Scaroni, il parroco di Sera,
perché lui aveva nascosto dei partigiani e
aveva fatto scappare un partigiano dall’ospedale di Verona travestendolo con una
sua tonaca. Era andato da lui una domenica e gli aveva fatto la tessera.
Al tempo della Resistenza avevo 12-13
anni... Si sentiva già qualcosa in paese dei
partigiani, si sapeva. Avevo il papà che ci
teneva. Ascoltavamo Radio Londra: andavamo da una famiglia vicino a noi che aveva la cucina proprio sotto il monte a Botticino Mattina. Era la famiglia Forti, vicino
alla chiesa di San Nicola. Alle 8 di sera
cominciava. Sono andata anch’io che non
volevano farmi andare e invece mi piaceva
così tanto sentire. Mio papà era un cavatore ed era socialista, o comunista. In casa
vedevano che le cose non andavano bene...
mio papà diceva: se avessi qualche anno
di meno andrei su anch’io; mia mamma ci
pensava e diceva che magari una mattina
si svegliava e non lo trovava più perché era
andato in montagna. La volontà ce l’aveva
ma non era più giovane.
Vedevano che le cose non andavano: sentivano che avevano preso uno vicino a noi
(Arici Attilio) l’avevano portato in Castello
a Brescia e l’avevano riportato a casa dopo
tre o quattro giorni che non si riconosceva
più per tutte le botte che gli avevano dato.
Dicevano che lui sapeva qualcosa e invece poverino, per quel che ne sapevamo noi,
era un uomo qualunque.
Vedevo i miei sempre con il terrore che venivano a prenderli vedendo che prendevano
persone che non avevano fatto niente. Ricordo la tensione della mia mamma; diceva
sempre: ti raccomando non dire niente... si
arrivava anche a non andar fuori la sera
per il timore.
Era un rischio anche andare all’osteria: bisognava stare attenti a quello che si dice-
Mi è rimasto impresso quando hanno ucciso quel Casali a Sott’Acqua che dicevano appunto che era stato lui a fare la spia
a quelli della Fratta. Mi ha colpito perché
andavo a scuola con suo figlio. A Botticino dicevano che lui in Castello aveva dei
collegamenti e denunciava tutto quello che
vedeva; però quella cosa lì che erano stati i
partigiani ad ucciderlo mi era rimasta impressa.
Da casa mia si vedeva il casì de Panada:
eravamo lì sul portone a vedere. Si vedeva
il fumo della bomba che buttavano e dopo
abbiamo visto passare i due tedeschi catturati, uno era ferito al braccio. Dopo hanno
detto che li hanno portati al cimitero e sono
stati fucilati là da Tito, mi sembra.
Al momento qualcuno diceva poverini, però
avevano ucciso Bottarelli. Qualcuno diceva: hanno fatto bene perché avevano ferito anche papà e figlio Zanola: a uno gli ha
attraversato la guancia la pallottola. Sai le
donne come sono, vedendo che li hanno fucilati... però poverini anche loro. Altre invece rispondevano: guai, non ti rendi conto
cosa hanno fatto su là?
È tornato a casa mio papà che tremava.
Adesso non si capisce ma in quei momenti
era così: se si fossero arresi senza uccidere
Bottarelli e sparare agli altri non succedeva
niente. Con una cosa del genere li hanno
portati giù e uccisi. Ma nessuno aveva il
coraggio: hanno telefonato a Tito e come gli
hanno detto cos’era successo in un attimo
erano già morti.
Ho visto qualche volta Tito, non saprei dire:
ha fatto molte azioni, aveva del fegato, era
deciso, se diceva una cosa era quella, non
si tirava indietro. Ha fatto diverse azioni,
dopo non so, qualche volta ho saputo che
ha anche sbagliato. Sai com’è. Mio marito
aveva fiducia in lui: guai a toccargli Tito!
83
Non so se era per l’amicizia. Io penso che
più che l’amicizia era perché era deciso,
non lo faceva per interesse ma perché era
convinto. I due tedeschi che hanno portato
al cimitero nessuno aveva il coraggio di ucciderli e allora hanno telefonato a Tito ed in
cinque minuti era lì e gli ha sparato. Vedi,
era così: non ci pensava due volte.
Dopo il 25 Aprile ricordo che vedevo nel Comune tutti questi uomini col mitra, tutto
un andare e venire... Il papà ci raccontava
tutto perché anche lui aveva fatto la guardia di notte quando hanno occupato il Comune. È stato su diverse notti, facevano i
turni. In quel periodo erano tutti contro i
fascisti, per i fatti che avevano fatto.
Ricordo un episodio, che adesso non si
può capire, quando in piazza del Comune
a quattro ragazze hanno tagliato i capelli.
Vedo queste donne sedute in mezzo alla
piazza: tagliava un barbiere di Botticino
Sera. “Glieli tagli troppo bene” gli dicevano:
volevano che lasciasse un ciuffettino per
riconoscerle. La gente era arrabbiata perché avevano fatto delazioni o avevano avuto
rapporti coi fascisti o i tedeschi.
Erano chiamate le “repubblichine”. Ce n’e-
ra una che aveva una relazione con un tedesco e dicevano che teneva i collegamenti
per spiare a Botticino Mattina: a fine guerra le hanno tagliato i capelli....
L’idea allora non era dei partiti, l’idea era
quella di liberarsi dai tedeschi, di finire la
guerra. In quel periodo non c’erano partiti, erano tutti contro il fascismo e volevano
venirci fuori, anche quelli della chiesa. La
Maria Squassina, era mia catechista, ho
sentito che dava da mangiare ai partigiani.
Non so se glielo mandava o se passavano
di lì. So che l’ho sentito dire che li aiutava,
magari raccoglieva soldi.
Ho saputo che a Botticino Mattina c’era una
persona che raccoglieva i soldi per mandarli ai partigiani: anche mio papà una volta
ha detto che se salvava qualcosa stavolta
ce lo mandava su.
Mi pare che fosse Rino Gorni che teneva
il collegamento: i soldi li davano a lui che
poi li faceva avere in montagna, ma non so
tramite chi. Rino è stato un partigiano che
ha sempre avuto collegamenti. Lui non era
andato in montagna ma ha sempre fatto un
buon lavoro qua: ed era molto rischioso.
Botticino, 14 novembre 1996
Testimonianza di MARIA ARICI (26.2.1928)
Io e mio marito siamo entrambi Arici. Lui
era Arnaldo. Lo chiamavano però Bruno.
Era conosciuto anche col soprannome di
“Rusì de Sòmia”.
Quando è iniziata la guerra abitavo qui in
via San Nicola: avevo paura anche se ero
una ragazzina e non avevo grande cognizione delle cose. Soprattutto la paura quando
è arrivato “Pippo” che bombardava Rezzato
e anche Botticino: una sera hanno sganciato una bomba qui vicino, in via Massiago,
ed eravamo in 3 o 4. Ci siamo trovati senza
luce. Una mia cugina aveva in braccio una
bambina piccola che piangeva ed è finita
sotto il tavolo. Che spavento! Fortunatamente la bomba è finita nel campo. Paure e
disastri ne abbiamo avuti.
Bruno ha partecipato ad alcune azioni.
Anch’io facevo qualcosa dopo la Libera-
84
zione: cucivo delle fasce che usavano con
il nome sul braccio. Dopo la Liberazione
si sono organizzati in Comune e io e mia
mamma facevamo queste fasce di riconoscimento con su C.L.N. C’era questa organizzazione e avevano mobilitato anche
i ragazzi di 15 - 16 anni che andavano in
Municipio con il mitra a fare la guardia.
Io non sono stata protagonista per niente,
ma c’erano donne che portavano la roba ai
partigiani, da mangiare: lo facevano in casa
e lo portavano in Comune.
Dopo l’8 Settembre c’era la speranza che finisse, invece si sono creati altri disagi ed è
cominciato il vero disagio perché la guerra
era guerra, ma lì è cominciato il vero contrasto con il regime fascista. Non se me poteva più e hanno cominciato a far qualcosa
per mandarli via.
Il fascismo quando eravamo giovani (durante la guerra) ci faceva vivere tristemente; mancava da mangiare: andavo in bici
fino a Calvisano per trovare un po’ di farina
per fare la polenta. Si stava male. Eravamo
poveri in famiglia, mio padre era mezzadro,
si pagava la bottega una volta l’anno, tanto
per dire. Avevamo almeno la casa dove abitare e un po’ di terra. Alcuni stavano peggio: avevano veramente fame. Noi ci arrangiavamo perché la mamma faceva un po’
la sarta. Ricordo che cuoceva lo strutto di
maiale, burro non ce n’era, zucchero nemmeno. C’era poco da mangiare, non c’era
niente di bello, la guerra è un brutto ricordo.
In questa via (S. Nicola) di partigiani c’era
Bruno (Arici Arnaldo) che l’ha fatto per 7-8
mesi. Era stato in Russia e poi è tornato a
casa ed è scappato e si nascondeva qua e
là. Andava in una stalletta sul monte a dormire sulla paglia con l’aiuto di suo papà.
Era un po’ ribelle, non voleva fare il soldato. È andato due mesi a Parma, lui e Paolo
Foresti, per salvarsi dalla “repubblichina”.
Per non essere richiamato.
In Russia aveva preso una medaglia con
una motivazione per quello che aveva fatto (ma l’ho persa). Era stato in combattimento ed era riuscito a salvare sé e i suoi
compagni da un accerchiamento. Lui poi
ha disertato non per la paura, che ha fatto
il partigiano, ma perché non voleva fare il
soldato, ancora di meno sotto la “repubblichina”. Quando era a Parma è riuscito a
salvarsi scappando su un treno, nascosto
sotto il sedile del treno.
Qui a casa ha cominciato: ogni tanto doveva partire, portare degli ordini, aveva la
parola d’ordine da sapere, faceva questi
servizi anche pericolosi.
Una volta lui e un Lorandi di Nuvolera andando su in montagna hanno rischiato di
essere presi: quella volta ha avuto paura di
lasciarci la pelle.
Rino Gorni che aveva fatto molto, era il
primo. Lui aveva tenuto anche i partigiani
a casa sua a mangiare. C’erano i patrioti
che erano quelli più giovani: andavano per
esempio a vedere cosa succedeva e così via,
a Botticino Sera. C’erano i partigiani e i pa-
trioti che stavano a casa a aiutavano con
le informazioni e così via. Bruno aveva già
fatto il soldato, quelli erano ragazzi.
C’è stato il momento finale a cui hanno
partecipato in tanti. Lui è stato riconosciuto come partigiano per otto mesi (sul foglio
matricolare).
Una mattina presto erano arrivati qui i fascisti per fare una perquisizione nelle case
di via S.Nicola. Lui era sceso a dormire da
suo padre: erano le cinque di mattina, avevano già preso uno. Lui è fuggito sul fienile della casa, attraverso una finestrina
che non aveva il telaio. Avanzavano fuori
le scarpe, ma fortunatamente non l’hanno
visto. Gli è andata bene.
Poi faceva parte dei G.A.P., portava gli ordini, della roba ai partigiani. Lui era qui a
casa e gli altri erano su. Portava la roba su
a S.Gallo. Era con Tomasotti Luigi, Amilcare Benetti, Angelo (“Fulmine”) Noventa. Lui
lo chiamavano Bruno Rusì, Rusì de Somia
(suo padre lo chiamavano Somia perché
andava sempre a vedere uno che passava
con la scimmietta ammaestrata). Era rosso di capelli e lentigginoso. Lo chiamavano
Bruno perché c’erano problemi col nome
Arnaldo (da Brescia): suo papà era un socialista storico, era considerato un sovversivo: Arici Domenico. Anche sua sorella, la
“Mora”, era stata messa in prigione per una
manifestazione con la bandiera rossa (nel
‘19). Era una famiglia di socialisti storici,
poi sono diventati comunisti. Erano antifascisti anche per questo.
Facevano delle riunioni clandestine da
“Zeca”, Arici Luigi: questi custodiva la bandiera rossa ed era conosciuto e controllato
e a volte uscivano dei fascisti a spiare la
sua casa; per trovarsi fingevano di giocare a carte. A volte si trovavano proprio solo
per giocare. “Zeca” era stato portato anche
in Castello a Brescia.
Io e Arnaldo ci siamo sposati dopo la guerra, avevo 18 anni, a Natale del 46. Lui parlava di quei fatti con orgoglio, era un comunista “spinto”, di carattere deciso, faceva
discussioni all’osteria rischiando il litigio.
Ci teneva e non voleva che si parlasse male
dei partigiani. Era amico di Ezio Maccari85
nelli, quello di S.Eufemia. Lui faceva quel
che c’era da fare, senza tante chiacchiere.
Dopo la guerra andava alle cave, ci sono
stati gli scioperi, ha cominciato anche lui
con quella linea di opposizione, di lotta
sindacale. È morto il 30 Maggio 1985. Gli
hanno dato il riconoscimento di partigiano
ed era iscritto all’ A.N.P.I.: lui, Ezio Mac-
carinelli e Luigi Romano partecipavano alle
ricorrenze, poi ha aiutato a fare l’A.N.P.I.
a Botticino fino al tempo di Galli presidente. Facevano delle feste, raccoglievano
del denaro per sostenere l’organizzazione
dell’A.N.P.I.. Giravano per le varie feste e
celebrazioni in provincia di Brescia.
Botticino, 10 aprile 1997
Testimonianza di GUIDO ROSSI (12.6.1914)
La mia era una famiglia di contadini, fino al
1950 eravamo 17 in casa; negli anni prima
della guerra si viveva da contadini, qualcuno andava in cava, c’erano le bestie in
casa e chi non aveva mucche allevava una
capretta. Tutti cercavano di avere qualcosa
per vivere: allora c’erano i bachi da seta,
che erano la maggiore entrata; a San Piero
si pagava la bottega e quello che avevamo
di debiti.
Dopo la guerra è cambiato tutto; allora con
poca terra campavamo e lavoravamo tutto
a mano. Adesso ci sono le macchine e va
avanti solo chi ha un’azienda: sulla terra
non ci vive più nessuno se è poca. Adesso si fa un po’ di vino DOC per avere un
prezzo migliore... Bisogna che col tempo si
uniscano i piccoli appezzamenti, quando
non ci saremo più noi vecchi, magari fare
una cooperativa. Così mettendola assieme
riprenderanno forse a lavorare la terra.
Negli anni del fascismo, nel ‘21, nel ‘24
specialmente, ero un ragazzino curioso e
andavo a vedere le elezioni. Davano via di
quelle “bacate”: era come una rivoluzione.
Invece dopo il ‘25 quando Mussolini (il capo
dei briganti) alla Camera si è assunto tutte
le responsabilità, allora è cominciata un po’
di pacificazione: hanno lasciato da parte
quelli della rivoluzione e hanno cominciato
a chiamare quelli delle famiglie buone. Cercavano di mettere podestà gente affidabile.
Poi è cominciato l’entusiasmo dell’Africa nel
‘35, la conquista, “faccetta nera”; io ero soldato a Rovereto: hanno fatto grande festa.
Avevano creato entusiasmo: d’altra parte a
scuola insegnavano tutto per il fascismo.
C’era proprio l’indottrinamento. Anche a
Botticino c’era calma. I vecchi socialisti si
86
erano fatti da parte, il paese era tranquillo
durante il fascismo.
In principio al fascismo invece tanti sono
dovuti fuggire in Francia, quelli che non volevano sottomettersi e mantenere le proprie
idee. Tanti sono andati in Francia a lavorare la pietra, perché ci sono cave anche là.
Tante famiglie non sono più tornate indietro.
Dopo, nel ‘32, c’è stata la crisi delle cave.
Poi la crisi della moneta, la “quota 90” che
ha buttato a terra tutti. Chi non aveva soldi, o aveva debiti... A Botticino hanno fatto 14 o 15 case col prestito della Cassa di
Risparmio; con la “quota 90” ne è rimasta
una sola.
Uno aveva 22-23 mila lire di risparmio, ha
dovuto vendere il campo e aveva ancora 10
mila lire da pagare, ci ha rimesso la proprietà. Sono andate tutte all’asta perché
non riuscivano a pagare gli interessi.
Col ‘35 sono andati in Africa, hanno cominciato a muoversi col lavoro. Quando Lombardi ha fatto la ferrovia prendevano 7 lire
al giorno. Ma chi non lavorava andava a
“prendere la minestra dal duce”: avevano
fatto una cucina pubblica, dicevano “ la minestra del duce”. C’è stata una crisi enorme
dal ‘29 al ‘32: le cave erano ferme.È cominciata la guerra d’Africa, un po’ sono andati
in Africa e il fascismo è “cominciato ad andar su”, ad aumentare il consenso, fin che
poi è scoppiata la guerra.
C’è stato il periodo dal ‘35, per l’Africa, ma
anche la guerra del’40: la gente diceva che
andava bene. C’era la propaganda che era
capace di dare a intendere... Fino al ‘41,
inizio ‘42 era così, poi ha cominciato a cala-
re, poi con la perdita in Russia, la disfatta,
è cominciato il dissenso aperto.
Il dissenso con il fascismo è emerso quando
la guerra ha cominciato ad andare male, c’è
stata una ribellione anche per le condizioni
di vita. Anche se a Botticino si arrangiavano ancora.
Quando è caduto il fascismo dopo il 25 luglio e l’8 settembre è cominciato il dissenso, le minacce al podestà. Poi c’è stata la
ripresa (Mussolini liberato) e certi socialisti
che si erano messi in vista hanno dovuto
ritirarsi.
Quel mio cugino, Arici Luigi, era stato chiamato in Castello a Brescia perché avevano
tenuto il Comune nel periodo tra la caduta
del fascismo e l’avvento della “Repubblica
di Salò”. Lo consideravano un sovversivo.
È stato salvato da un certo Trombetta che
è stato commissario al Comune. C’è stato
il caso di Martinelli che era rivale di Sorlini, ma era una cosa interna dei fascisti.
È scappato sui tetti. Sorlini era suo rivale:
Martinelli è scappato qui a casa mia a nascondersi, poi non si sentiva sicuro, è andato a Serle dove è stato preso. Lo hanno
salvato i tedeschi!
Dopo l’8 settembre c’era più tanta paura di
prima: c’erano i fascisti ma anche i tedeschi. Poi c’erano i partigiani: erano momenti burrascosi.
C’è stata lotta partigiana dopo l’8 settembre, prima c’era quiete in paese; qui, dopo
l’8 settembre, si sapeva che i comunisti
erano armati, ma non hanno fatto nessuna
azione. Facevano azione di rifornimento e
aiuto.
C’è stata l’uccisione dei tre partigiani su alla
Fratta. Poi hanno ammazzato quello che
credevano avesse fatto la spia. Quel Casali
che è stato ucciso era nella milizia a Brescia, non faceva servizio qui. Non so come è
stata. L’hanno ucciso fuori di casa.C’è stato
un rastrellamento, ne avevano presi 7 o 8,
ma poi è intervenuto il Comune e li hanno
rilasciati. Erano momenti così.
Il caso del “casì de Panada” quando scappavano i tedeschi; siccome c’è stato un incidente e hanno ucciso un partigiano han-
no fatto prigionieri due tedeschi e sebbene
feriti li hanno portati sul cancello del cimitero e li hanno fucilati.
Ricordo che io ero qui a casa, in via San Nicola: si è sentito movimento e sono arrivati
i due tedeschi in mezzo ai partigiani. Uno
aveva il braccio ferito, se rallentavano li
spingevano con il fucile; uno ha chiesto da
bere e gli hanno dato un calcio. In piazza
hanno tentato di scappare quando hanno
visto che andavano verso il cimitero. Erano
tedeschi in fuga, si erano fermati per mangiare: forse se ne sarebbero andati senza
fare niente, scappavano. Ma sono venuti in
paese ad avvertire e così sono andati su,
altrimenti se ne sarebbero andati dopo aver
mangiato. Poi è entrato quello di Nuvolera
e l’hanno ucciso. Li hanno presi e portati
giù e invece dell’ambulatorio sono andati al
camposanto. Il curato aveva una sposa e
non è potuto andare subito, poi è corso al
cimitero ma li avevano già uccisi. Forse se
arrivava prima non li ammazzavano. Poi li
hanno sotterrati così. I corpi poi li hanno
riportati a casa in Germania. Erano momenti così.
Nei giorni della Liberazione è successo che
tutti i partigiani che erano qui avevano fatto la sede in Comune. Una notte si è fermato un camion di tedeschi, li hanno fatti
prigionieri e portati nel palazzo municipale. Radio Londra aveva detto che bisognava dare l’onore delle armi agli ufficiali. Un
ufficiale tedesco voleva l’onore delle armi,
allora l’hanno messo da parte con il suo
attendente. È venuto Tobegia, Tito: “Chi
sono? Vogliono l’onere delle armi? Glielo do
io l’onore delle armi”. Ha preso il mitra e li
ha uccisi. Erano momenti così.
Poi è arrivato il “C.L.N.” con i camion e ha
portato via tutti gli altri prigionieri.
C’è poi stato l’episodio a San Gallo dove Tito
ha portato 10 o 12 di Lumezzane, ha fatto
una fossa e li ha uccisi e coperti con la calcina. Quelli di Lumezzane li hanno uccisi a
S. Eufemia e poi li hanno portati a S. Gallo
in una buca. Si sa chi li ha uccisi e chi li ha
portati. Era uno che faceva l’autista (ora è
morto), e il trasporto lo ha fatto lui con un
camioncino. Non ha mai parlato. Tito poi è
scappato all’estero.
87
Ci sono stati momenti tristi. Anche vendette personali. Contro Bodei, ex segretario
del fascio, che aveva fatto il contratto delle
cave: lo hanno mandato a pulire i gabinetti
e roba del genere. O il maestro Casali: la
sera c’era stata una riunione nel cortile del
Municipio e lui aveva detto che non era democrazia, che la libertà era per tutti. Era
lì sul muretto del Comune: l’hanno preso e
con Bodei portato a Brescia al “C.L.N.”. Là
gli hanno detto: “Che fate? Che vi prende?”
Erano momenti così.. Pensa che il maestro
era uno che era stato nascosto perché era
riuscito a fuggire dal treno che lo deportava
in Germania.
Dopo la Liberazione è iniziata la lotta politica quando sono arrivati i partigiani e si
sono impossessati del Comune.
Dopo la Liberazione noi popolari non eravamo preparati: abbiamo cominciato a cercare quelli che erano stati dentro l’amministrazione prima del fascismo, perché qui
socialisti e comunisti erano organizzati;
avevano fatto il “Fronte Popolare” e si erano impossessati del Comune. Quando sono
arrivati gli americani e così via, si è riusciti
a fare il sindaco, mio cugino, Arici Luigi.
Volevano mettere me sindaco, ma in quella
baraonda....
C’erano i giovani del “Fronte della Gioventù” (P.C.I.) che venivano su in Municipio,
volevano i soldi per le loro iniziative, volevano tutto. Era un momento di burrasca.
Si è arrivati alle elezioni ed eravamo riusciti
ad organizzarci. La sede era la parrocchia,
andavamo sempre dal curato. La formazione del partito, la DC, l’abbiamo fatta in canonica, avevamo fatto un segretario.
La differenza politica è diventata evidente
dopo la Liberazione. La Liberazione non è
stata vista allo stesso modo da tutti. Per i
comunisti era la liberazione per loro, del
comunismo sul fascismo. Nella lotta partigiana ha avuto prevalenza il comunismo
perché era organizzato.
C’è stata la lotta di liberazione, ma nello
stesso tempo la lotta di conquista del potere. I primi giorni della liberazione sono stati
difficili.
I democristiani facevano silenzio ma lavo88
ravano sotto: facevano riunioni in parrocchia e così via: ma sono cominciate dopo
la guerra. Abbiamo ripreso contatti con i
vecchi popolari: Gorni “Macel”, Casali Battista, quelli che erano in amministrazione
prima del fascismo.
Nelle elezioni del ‘46 c’è stata la sorpresa:
i comunisti credevano di vincere, invece
nessuno di loro è stato eletto : 10 a 4. I
socialisti sono stati più furbi, perché hanno
concentrato le preferenze sui loro nomi. I
comunisti votavano la lista, voto al partito
senza pensare alla preferenza. Sono stati
eletti 4 socialisti. Credevano di vincere le
elezioni e quando hanno fatto lo spoglio
sono rimasti di pietra.
Non si sono occupati più di nulla, hanno
restituito le armi che avevano nascosto. Poi
sono usciti Nicoletto e altri e c’è stata la calma. Sindaco era Perugini, poi c’è stato il
referendum e poi le cose hanno cominciato
ad andare avanti bene. Ci sono poi state le
crisi per il rinnovo del contratto delle cave,
stipulato durante il fascismo.
A Botticino Mattina non c’erano Fiamme
Verdi e cattolici, se c’erano erano a Botticino Sera, perché ricordo Ferrari Ovidio che
era giovane ma era stato in mezzo a quelli.
Dicevano che a Sera c’erano un po’ di armi
perché si erano preparati armati in caso
vincesse il comunismo. A Mattina i comunisti avevano le armi ma non le hanno usate perché subito dopo le elezioni le hanno
riconsegnate.
C’era la Maria Squassina che raccoglieva
qualcosa per i partigiani di qui che erano
collegati con quelli di Nave e della Valtrompia. Come attività c’era questa raccolta di
viveri e soldi per aiutare, ma non altro.
Non c’erano qui le Fiamme Verdi.
Durante la Liberazione c’era don Pilotti, poi
è venuto don Parisio. Il curato ci ha sempre
aiutato ma soprattutto dopo la Liberazione.
Abbiamo aiutato Bosio, l’impiegato comunale (ex-fascista), a scappare: lui era stato nella “X Mas”; al ritorno l’avevano preso
e portato in Comune: volevano ucciderlo.
L’hanno colpito ed è stato portato a casa.
Durante la notte è stato fatto fuggire a Nuvolera. Poi è stato riabilitato.
Don Parisio, quando è arrivato, l’ha messo
in una recita nel teatro. La sera della rappresentazione, presenti il segretario socialista e comunista, è comparso sul palco e
c’è stata una gran confusione e la fuga dalla porta posteriore... È stato via ancora un
po’, ma poi il “C.L.N.” dove era stato l’ha riconosciuto per aver aiutato e dato da mangiare, ecc. ed è potuto tornare. Lo stesso è
successo con Conti, un altro impiegato che
poi ha potuto tornare in Comune. In quei
momenti non erano molti che si esponevano. Io ho dovuto andare a Botticino Sera
per convincerli a fare qualcosa. C’è stato
un periodo turbolento dopo la Liberazione
fino alle elezioni e al Referendum poi è tutto
tornato tranquillo: c’è stata burrasca, ma
senza scontri.
C’era lotta politica: si organizzavano democristiani, socialisti, comunisti. Ma non era
lotta tra persone, salvo gli episodi (Bodei e
Casali) che ho detto. Era lotta politica.
Botticino, 25 giugno 1997
Testimonianza di ROSA BORGHETTI MACCARINELLI (25.10.1926)
Sono di Marmentino, in Valtrompia; mio
marito Ezio Maccarinelli era di S. Eufemia.
Noi ci siamo conosciuti dopo la guerra.
Io sono stata riconosciuta partigiana combattente, ho anche la croce al merito. Facevo la staffetta, ho cominciato subito dopo
l’8 settembre quando è iniziato lo sbandamento dei militari che passavano là, si nascondevano e dopo pian piano si è formata
la brigata Garibaldi, la 122°, c’era anche
Tito.
Ho cominciato a fare la staffetta, a portare
in giro gli ordini, a Brescia e poi su in Valtrompia. Io al 29 dicembre 1944 sono stata
arrestata dalle brigate nere. Mi hanno portato in prigione a Brescia e poi al tribunale
militare di Bergamo e sono uscita alla Liberazione.
Ho cominciato perché a Marmentino c’erano i primi partigiani, che poi hanno formato la brigata, che passavano da casa nostra. Per il cibo. Noi eravamo nove fratelli
ma avevamo la campagna, le bestie e allora
qualche cosa potevamo darla.
Poi due partigiani ammalati sono stati parecchio lì a casa nostra. È cominciata così:
“non potresti portare...” ecc., così è iniziata.
Avevo 17 anni. Sono entrata e ho continuato.
Si fermavano a casa nostra perché tutti noi
ospitavamo gli sbandati, perché li aiutavamo, perché i miei genitori pensavano che se
anche i loro figli fossero in difficoltà qualcuno li avrebbe aiutati. Allora tutti i miei
fratelli erano più giovani di me ed erano
perciò a casa.
Poi uno che si era ferito alla Beretta di Gardone, l’abbiamo curato e tenuto a nostra:
Pellacini. Sono stati diversi i casi del genere.
Mio marito Ezio l’ho conosciuto dopo. Lui
era venuto in montagna ma era sempre su
verso S.Gallo. Poi quando è salito io ero già
a Bergamo, in prigione.
Avevamo paura delle rappresaglie ma tutti
in paese, chi tanto chi poco, ospitavano gli
sbandati e poi i partigiani. Ci sono stati rastrellamenti, hanno catturato uno che ospitava un russo: una notte i tedeschi l’hanno
portato via e non è più tornato. Un’altra famiglia ne aveva lì due: tutti si davano da
fare per aiutarli. Era così in tutti i paesini
di quella zona: hanno aiutato tutti anche se
non c’erano idee particolari, forse c’erano
socialisti e così via, ma non era scopo politico, lo facevano disinteressatamente per
senso di umanità.
Erano tremendi quando facevano i rastrellamenti: partivano in 150 - 200, circondavano tutto il monte, salivano e quelli che
trovavano li portavano via, o anche li ammazzavano. Come quelli in piazza Rovetta.
Ricordo durante un rastrellamento uno che
era fuggito è stato bruciato vivo dai tedeschi dentro la baita dove si era rifugiato.
89
Bruciato vivo!Botti di Iseo lo hanno trascinato per i piedi lungo la montagna e poi in
fondo lo hanno ucciso.
Il rastrellamento di Bovegno è del 15 agosto 1944, il 16 sono venuti a Marmentino e
hanno bruciato 15 cascine e portato via tutto quello che hanno trovato: bestie, formaggio. Però non hanno ucciso nessuno perché
la gente li ha visti in fondo alla valle e sono
fuggiti. Ne hanno fatte di cose, a pensarci!
E perché? Abbiamo tribolato tanto...
Io andavo a prendere la roba da mangiare nei posti che mi indicavano. Andavo a
Livemmo, a Gardone, Mura. Venivo anche
a S. Eufemia e andavo a dormire a casa di
Tito. Sua moglie e i due bambini erano su
a casa mia. Io andavo da lui o da un’altra
donna, la Bruna Berardi che abitava a Brescia e faceva anche lei la staffetta. Con lei
ho lavorato moltissimo.
Avevano fatto un colpo alla fabbrica di scarpe di S. Eufemia (Alberti), le hanno portate
a San Gallo e noi siamo venuti a prenderle:
con le nostre scarpe a spalle siamo risaliti
su in valle. Erano scarponi li abbiamo portati su con i sacchi.
Quando c’era un colpo portavano la roba
in posti di collegamento come S.Gallo e poi
noi la portavamo su alla brigata.
Come staffetta portavo gli ordini. Quando
mi hanno arrestato io portavo una lettera e
l’ho mangiata. Dovevo portarla al comandante della brigata che era Carlo Speziali.
Dovevo portarla a Brescia, mi sono fermata
a Collebeato dove c’erano due fratelli partigiani (uno poi è stato ucciso al distretto
militare che era stato trasferito a Sarezzo).
Io sono passata da casa loro, qualcuno ha
fatto la spia, mi hanno seguita e arrestata.
La notte di Natale avevano fatto un rastrellamento a Marmentino e avevano portato
via due mie sorelle, una di 15 e una di 14
anni. Quando hanno preso me le hanno lasciate andare: ero io quella che cercavano.
Si vede che anche al paese c’era qualche
spia. Mi hanno preso a Collebeato e portato
in questura e poi alle carceri.
Quando mi hanno arrestata mi hanno portato alla “Tognù” lì alla Stocchetta e poi in
questura e poi in prigione. Poi sono venuti a
prendermi e mi hanno tenuto dieci giorni in
90
caserma al comando della “G.N.R.” a Gardone per interrogarmi per voler sapere dove
erano i partigiani: ma io non gliel’ho detto.
Avevano arrestato anche la Bruna Berardi
e ci siamo trovate in prigione: c’era stata
una retata a Brescia. Mi hanno riportato
a Brescia e in febbraio mi hanno portato a
Bergamo. Quando ero a Gardone mi mandavano una donna che conoscevo, lavorava
nelle cucine, per cercare di farmi confidare
dove erano i partigiani. “Dimmelo” diceva,
ma io fingevo di non sapere niente e dicevo
che avevano sbagliato ad arrestarmi e che
mi avevano confuso con la Ezia Borghetti,
una maestrina di Marmentino che era già
fuggita in Svizzera e che collaborava con la
Fiamme Verdi.
A Bergamo eravamo in tanti politici. C’era
la Agape Nulli, la figlia di Bonomelli ucciso
dai fascisti.
Quando si è formato il comando della Brigata su al Sonclino io ormai ero già in prigione. Sono venuta spesso a S. Gallo dove
incontravo la Santina Damonti che faceva
la staffetta. Non la Santina di S. Gallo, ma
quella di Brescia che era chiamata Berta.
Ora è morta.
Anche la Santina di San Gallo, la moglie del
“Nono”, era partigiana.
La Berta era sorella di Spartaco Damonti di
S. Eufemia la cui famiglia era di S. Gallo.
Lì, a San Vito, c’era il collegamento con la
città.
Mio marito ha partecipato alla battaglia del
Sonclino poi è riuscito a fuggire a Irma e
da lì con gli altri è sceso perché era il 25
Aprile, o il 24. Un gruppo è sceso a Brescia,
in questura, nella caserma, alcuni sono arrivati a Botticino.
Io dopo il 25 Aprile sono andata a casa mia
e non ho partecipato ai fatti dopo la Liberazione.
Ho conosciuto Ezio l’anno dopo quando c’è
stata la commemorazione al Sonclino, nel
1946. Mi ha raccontato un po’ di quello
che aveva fatto: lui era partito da S.Gallo
per la Valtrompia. Era dovuto fuggire da
S.Eufemia perché i fascisti portavano via
tutti i giovani. Era amico di Luigi Romano
che è andato su anche lui: assieme hanno
partecipato alle varie azioni.
Quando Ezio (Maccarinelli) e Luigi Romano
avevano portato su le forme di formaggio
avevano fatto una faticata. Poi non l’hanno
nemmeno mangiato perché il giorno dopo
c’è stato un rastrellamento e hanno bruciato il monte e così anche il formaggio è andato in fumo!
Andavano in montagna non tanto per le
idee, perché erano molto giovani, ma soprattutto per le condizioni di vita, il timore
di essere deportati. Forse un po’ la famiglia
che non era fascista, anche se al tempo bisognava avere la tessera per fare tutto.
Ho conosciuto Verginella. Conoscevo Gheda ma quando è diventato comandante ero
già a Bergamo: sono stata diverse volte a
dormire a casa della sua famiglia. Gheda
abitava in via Milano e quando sono uscita
da Bergamo l’ho fatta tutta a piedi sino a
Brescia e mi sono fermata a casa sua dove
ho saputo che era morto. Sono poi andata
alle scuole di S.Eufemia dove c’era Tito che
comandava l’organizzazione.
Tito era diventato comandante della 122°:
lo conoscevo bene. Era un tipo... vivacissimo, deciso. Non guardava tanto per il sottile. Non so la sua vita prima, poi è dovuto
andare via. Si sentiva dire che era un po’
brigante. Lui non aveva nessun interesse:
aveva un carattere così, era anche buono,
ma poi non ci pensava due volte ad ammazzare qualcuno. Era deciso, così, non l’ha
mai fatto per interesse. È scappato perché
volevano arrestarlo dopo quei fatti. È andato in Cecoslovacchia. Poi è rientrato a Collebeato. Un giorno sono arrivati dei fascisti,
si sono fatti conoscere erano di Lumezzane. Ha fatto per reagire ma gli è venuto un
infarto. Così almeno raccontano. Erano di
Lumezzane perché lui ne aveva uccisi alcuni e li aveva sotterrati a S.Gallo vicino al
“Mulì dell’Ora”.
Dopo la guerra chi aveva fatto il partigiano
qualcuno era visto bene, altri male. Specialmente noi donne che avevamo fatto la
staffetta: mamma mia! Malviste perché ci
consideravano poco di buono! Le donne
erano impegnate come staffette non partecipavano alle azioni, al massimo facevano
la guardia durante i colpi, c’erano fascisti
dappertutto. Facevamo il palo.
Dopo la guerra c’è stata col tempo un po’
di delusione perché non è stato fatto niente
per noi... Ma se non ci fosse stata la Resistenza, adesso non ci sarebbe la democrazia.
Botticino, 24 giugno 1997
91
Testimonianze orali aggiunte per questa edizione
Testimonianza di AVELINO BUSI (San Gallo 10.10.1933)
Mi ricordo quando all’età di sette anni andavo a Brescia con mio padre a trovare il
cugino di mio nonno che si chiamava Fulvio Signaroli, altro non era che il nipote del
famoso bandito Proana…… !
Braghe cùrte èmpesolade zò al medol tòtt de
corsa, scarpe rote de me pader, pà e strachèt
èn dè la borsa, “mammadora poarì” i ma
dis i medoler “ fat slongà da la tò mama le
braghine de nà spana” quante storie ho in
mente.
Per esempio, il primo giorno di asilo: un
cestino quadrato di paglia nella manina
(un’altra era occupata nella mano della
mia mamma, bambini come me, mai visti
prima e come mi sembravano brutti, tutti
più brutti di me almeno cosi mi apparivano, si chiamavano o li chiamavano: Vincenzo, Vito, Angelo, Giacomo, Andrea, Ignazio,
Nerio, Giovanni, Enzo, Cipriano, Paolo, Benedetto, e tanti altri ancora, dei quali non
ricordo il nome, e le bambine? Qualcuna
era carina, solo poche però: Angela, Giulia,
Rosa, Teresina, Natalina, Adriana e tante
altre ancora. Ricordo che provavo ad avvicinarmi più a loro che ai bambini.
Erano gli anni ‘37-38 piena era fascista (comandava il duce, solo lui) la dittatura! Le
suore ci preparavano ad un saggio, così facevano bella figura con la Signora cinica,
una grassona con tettone enormi, moglie
del podestà: erano scenette di guerra nelle
quali io ero disteso su di una barella con la
fronte fasciata sporca di sangue (era intrisa
di cornioli maturi) al mio fianco una crocerossina che mi assisteva (avevano scelto la
bambina che non mi piaceva!). Mi ricordo
che dopo la recita ci fecero fare una mangiata di biscotti secchi.
Nell’agosto1939 si lascia la casa dei nonni
materni e andiamo ad abitare ai Tagliane
(una casa diroccata posta sotto al piccolo
cimitero di San Gallo): uno stanzone vicino
ai bachi da seta serviva da camera da letto,
tanto è vero che quando dormivamo si sentiva il cric cric dei dentini che masticavano
le foglie di gelso accompagnato da una puz92
za nauseabonda. In camera dormiva tutta
la famiglia: io e mia sorella Luigina in una
cuccetta (uno alla testa e uno ai piedi essendo maschio e femmina), naturalmente
facevamo la gara a tirarci calci nel sedere.
Mio padre, mia madre e mio fratello Angelo
(che allora aveva sette mesi) dormivano nel
letto grande. Mi ricordo un particolare: le
assi sopra la camera erano talmente distanti che si potevano contare le stelle perché il
vento aveva spostato le tegole! Mio padre le
chiamava per nome; la chioccia (penso sia
stata l’orsa maggiore) i preder (tre stelle in
fila ordinata) e la stèla de la dè (Venere).
1 ottobre 1939, primo giorno di scuola, costruzione nuova eretta vicino alla Chiesa,
stessi compagni dell’asilo con la differenza
che nella classe quarta c’erano degli alunni nati nel 1928, ripetenti e molto duri di
comprendonio, ma non era tutta colpa loro
dovendo fare a casa i più svariati lavori, dal
lavoro nei campi a pascolare le mucche, da
tagliare la legna nei boschi a portare col
gerlo il letame nel campo, da tagliare l’erba
con la falce o portare il grano al mulino a
macinare, dal far scendere dal monte la legna con la teleferica o raccogliere le castagne sul monte Paina! E così addio compiti
a casa.
A scuola le classi erano miste: prima e seconda, terza e quarta, massima severità se
no erano scappellotti.
Tre quadri mi hanno colpito la fantasia,
erano appesi sopra la cattedra della maestra: il Papa in mezzo e ai lati Benito Mussolini e Vittorio Emanuele Terzo Re D’Italia;
avevamo la cartella, una borsa di cartone,
il cui contenuto era semplice: il sillabario,
un quaderno a righe, uno a quadretti, una
matita e una penna con il pennino (il calamaio si trovava nel banco a scuola), un
lusso se avevamo i gessetti (sette colori).
Il problema erano gli zoccoli di legno che
quando si consumavano, mio padre metteva sotto dei rinforzi ricavati dai barattoli di
latta così quando il viottolo era gelato andavo spesso a gambe all’aria!
A scuola in inverno un freddo cane, una
stufa a legna per ogni aula di due classi, la
bidella (zia Tine) le accendeva ancora alle
sette, ma la legna era umida e faceva un
fumo da sembrare una bolgia infernale,
conseguenza: porte aperte e freddo!
Sotto gli zoccoli restava sempre un po’ di
fango e così un giorno, mentre la maestra si
era assentata momentaneamente dall’aula,
un nostro compagno comincia a levarsi dei
pezzettini di fango dagli zoccoli e inizia un
tiro al bersaglio contro il quadro di Benito
Mussolini. Arriva la maestra e trova il quadro imbrattato di fango, naturalmente nessuno è stato! Spaventata chiama la bidella
e lo fa pulire subito, se fosse stato scoperto
dalle autorità questo gesto le sarebbe costato l’espulsione dalla scuola!
Che dire di quel periodo? Per raccontare gli
avvenimenti della seconda guerra mondiale
bisognerebbe scrivere un libro, mi limiterò
a narrare i fatti che più mi sono rimasti
impressi nella memoria!
Mio padre lavorava sotto la TODT a Ghedi, una ditta che era pagata dai tedeschi,
partiva il lunedì mattina e tornava a casa
il sabato sera, cosi noi rimanevamo soli a
casa con mia madre.
Era il periodo buio della guerra ’41 ’42,
poco cibo, pochi vestiti, per fortuna c’erano
i nonni, materni e paterni, che ci davano
qualche scodella di tagliatelle o un po’ di
latte per i miei fratelli (io non lo ho mai potuto soffrire). Riscaldamento? A casa una
stufa di cemento, però le porte erano rotte
e così il caldo usciva e l’aria fredda entrava.
Per fortuna nelle lunghe sere c’era la stalla
della nonna Teresa, bella calda, la teneva
calda la Baghi una mucca magra ma con
un grosso pancione; poi c’erano la pecora, il
maiale e qualche coniglio. A volte eravamo
in quindici compreso la nonna e le ragazze
da marito che venivano sorvegliate a vista
dalla nonna. Mi ricordo che una sera entrarono due giovani vestititi in modo strano;
avevano dei giubbotti cachi e gli scarponi
da montagna. Io e mio cugino notammo
che sotto il giubbotto avevano la pistola e le
bombe a mano: erano due partigiani!
Mia nonna era terrorizzata e ci impose il
silenzio assoluto Se lo avessero scoperto i
fascisti avrebbero incendiato la casa (loro
venivano per vedere le ragazze).
C’era il coprifuoco e bisognava tappare tutte le finestre perché non trapelasse la luce,
altrimenti passava Pippo (una cicogna tedesca che mitragliava e sganciava bombe
leggere) Ogni tanto arrivavano delle camionette di fascisti e tedeschi a fare i rastrellamenti, e così arrestavano tutti coloro che si
trovavano nei campi o nei boschi a tagliare
la legna e li portavano a Botticino al Palazzo
comunale per essere identificati trattenuti
o rilasciati. Questa storia dei rastrellamenti era iniziata con la liberazione del duce
dal Gran Sasso e trasferito a Salò per ordine di Hitler. Da li è iniziato il movimento
per liberare l’Italia dai nazifascisti! Questa
è una storia che meriterebbe un capitolo a
parte per sottolineare i sacrifici le torture e
le uccisioni dei nostri valorosi giovani che
si sono sacrificati per donare al popolo italiano la libertà!
Mi limiterò solo ad accennare alcuni episodi che meritano di essere tramandati ai
posteri.
E così successe tutto dopo l’otto settembre,
dopo la disfatta dell’esercito italiano; molti
giovani si dettero alla macchia per non entrare nella neonata repubblica di Salò formando le brigate partigiane.
Dalle nostre parti operavano la 122a Brigata Garibaldi e le Fiamme Verdi. La prima
operava nella zona della Valtrompia (monte Sonclino) la seconda operava nella Valle
Sabbia (Corna Blacca le Pertiche).
A San Gallo erano presenti dei sostenitori
della brigata Garibaldi, tanto è vero che un
giorno vennero a nascondere le armi sotto
la legna dove abitavamo noi; solo mio padre
ne era a conoscenza. Così una volta capitò
che durante un rastrellamento, avvenuto
nel mese di gennaio, qualche repubblichino
abbia lanciato l’idea di accendere un fuoco
per scaldarsi e prendere un po’ di quella legna che copriva le armi - a mio padre gli si
rizzarono i capelli -per fortuna un ordine di
spostarsi li ha fatti desistere. Questo fatto
me lo raccontò mio padre a guerra finita.
Per tanto tempo dopo conservava nascosta
nel muro una pistola tedesca che nel 1960
io stesso tramite una persona fidata la feci
93
consegnare al maresciallo dei carabinieri
de S. Eufemia.
Nel mese di febbraio del 1944 i mitragliamenti alla stazione di Rezzato erano all’ordine del giorno. I caccia arrivavano da Bologna o dalla Toscana in gruppo di quattro
o cinque, scendevano in picchiata sopra i
vagoni carichi di munizioni mitragliando a
tutto spiano, risalendo in quota rapidamente; allora entrava in azione la contraerea tedesca con cannoni e mitraglie pesanti, così
un giorno, mentre noi ragazzi assistevamo
al bombardamento abbiamo visto un caccia americano che si staccava dagli altri
e con la coda fumante si diresse verso il
monte Paina; arrivato sopra il dosso grande si buttò il pilota col paracadute, mentre
l’aereo dopo trenta secondi andò a schiantarsi sotto il paese di Castello di Serle!
Il pilota sceso a S Gallo fu accompagnato da
un giovane del paese verso il monte Sonclino dove operava la 122a Brigata Garibaldi.
Una notte mio padre mi sveglia “vieni a
vedere i bengala sopra la Maddalena” - io
non sapevo cosa fossero – quando alzai lo
sguardo verso il cielo vidi come dei lampioni
sospesi in cielo. Erano stati sganciati dagli
aerei americani per illuminare la zona da
bombardare (in questo caso era Brescia).
Uno di questi non essendosi aperto il paracadute che lo avrebbe sostenuto nel cielo,
cadde sopra la casa di Pisca in mezzo ai
detriti di roccia.
Pisca svegliato dal rumore della caduta si
alza e corre sul posto con una lunga pertica
cerca di rimuoverlo, questo s’incendia e comincia a fare un rumore infernale, costringendo il Pisca a scappare a gambe levate.
Durante l’estate del 1944 le incursioni e i
bombardamenti da parte degli aerei americani erano quasi all’ordine del giorno anzi
anche di notte. Dalla casa dove abitavo si
vedeva un buon tratto di pianura e nelle
giornate limpide si vedevano gli Appennini (che mio padre chiamava le montagne di
Parma). Ebbene, una notte fummo svegliati
da rumori di aerei che scendevano in picchiata a mitragliare il campo d’aviazione di
Ghedi e la polveriera vicina; sotto la contraerea tedesca cercava di abbattere gli aerei
che picchiavano: sembrava l’inferno. Mia
94
madre piangente diceva: “vedete bambini ,
vostro padre è la sotto quel fuoco preghiamo per lui che la Madonna lo protegga”. Era
quel periodo che lavorava a Ghedi sotto la
TODT. Lo aspettavamo con ansia il sabato
sera perché ci portava una grossa pagnotta
di segale e qualche caramella!
Ma il fatto più doloroso che ha lasciato un
solco profondo nella mia memoria è stato
l’uccisione da parte dei fascisti di tre partigiani della 122a brigata Garibaldi. Era la
mattina del 28 ottobre del 1944, una mattina piovosa con la nebbia che rasentava le
colline, improvvisamente sul monte Fratta
si udirono delle raffiche di mitraglia accompagnate da grida di dolore.
Dopo aver compiuto questo atto criminale,
un gruppo di repubblichini scende a San
Gallo e chiama il parroco Don Leopoldo
Gaffuri dicendogli: “vada su alla Fratta che
ci sono dei morti da benedire”. Ma le prime
ad accorrere sul posto sono state alcune
ragazze di San Gallo, è bene riportare qui i
loro nomi: Margherita, Rosa, Santina, Giulia. La Santina ha raccontato poi che una di
loro si è inginocchiata davanti ai cadaveri
dei tre giovani e ha cominciato a pregare;
verso sera sono saliti alla Fratta alcuni uomini e donne di S. Gallo e con delle barelle
hanno trasferito i corpi nella chiesetta del
cimitero di San Gallo, dove alcune donne
pietosamente li hanno lavati dal sangue e
ricomposti .
Due giorni dopo sono stati seppelliti senza
bara nel cimitero di San Gallo. Il muro del
cimitero che guardava verso sud era crollato la vigilia di Natale del 1943 per un forte
vento, pertanto i compagni dei partigiani
trucidati non hanno avuto difficoltà ad entrare e deporre una corona di fiori con una
scritta: “sarete vendicati”.
Dopo l’uccisione dei tre partigiani alla Fratta per opera dei nazifascisti, i partigiani
della 122a brigata Garibaldi si organizzarono e tennero contatti anche con le Fiamme
Verdi che operavano in località Tesio, vicino
a Serle, e lì penso sia nato un accordo per
mandare uno di loro a rendere giustizia ai
tre partigiani uccisi il 28 Ottobre alla Fratta; sicuramente non era del posto e neanche Italiano, pare sia stato un partigiano
di origine cecoslovacca. Colui che doveva
essere giustiziato era un guardaboschi di
Botticino Mattina, che aveva fatto la spia
indicando il luogo dove erano alloggiati i partigiani. Infatti la mattina del 5 Dicembre, era ancora buio, dalla casa dove
abitavo si sentì una raffica di mitra proveniente dalle case di via Sott’acqua a Botticino Mattina. Mia madre subito ha intuito
il fatto commentando: “ecco hanno ucciso
la guardia”. Penso che lei fosse al corrente
delle intenzioni dei partigiani di vendicare i
loro compagni caduti per la libertà!
Mentre era nel gabinetto di frasche è stato raggiunto da una raffica di mitra e ha
fatto appena in tempo a rientrare in casa
e sedersi dicendo: “chiamatemi il prete perché stò per morire”. Questo è accaduto nel
1944.
(note autografe di Avelino Busi, San Gallo,
marzo 2014)
GIULIA BUSI (San Gallo 31.5.1926)
La signora Giulia è una delle quattro donne, con Santina Damonti, Betta Busi
(dei Zeche) e Pina Busi (dei Gioachì),
che accorsero per prime con uno slancio di
umana solidarietà portando bende e rudimentali medicamenti per dare un aiuto rivelatosi tragicamente inutile.
Le quattro ragazze erano salite faticosamente alla Fratta dopo che un gruppo di
brigate nere aveva sprezzantemente detto al parroco di San Gallo che “c’erano dei
morti su alla Fratta e che decidesse lui cosa
fare”.
Giulia e le altre, giunte per prime sul luogo,
avevano potuto solo trovare i corpi martoriati dei tre giovani partigiani e prestare i
gesti di una umana carità e più tardi contribuire in qualche modo alla ricomposizione
dei corpi e alla loro provvisoria sepoltura.
Da allora, Giulia non aveva più parlato di
quella vicenda, nemmeno con le altre donne testimoni del fatto. Aveva tenuto racchiuso in sé quel ricordo angoscioso.
Finché il 20 ottobre del 2002, alla Fratta,
invitata a raccontare la vicenda, ha superato il blocco del tempo e con semplici ma
precise parole ha narrato quel fatto drammatico e doloroso.
Qualche mese dopo abbiamo risentito la
signora Giulia con più calma e abbiamo
raccolto la sua testimonianza che qui pubblichiamo assieme ad una memoria scritta della stessa signora Giulia che rievoca il
giorno dell’eccidio alla Fratta.
Dobbiamo sottolineare la pacatezza e la lucidità con cui Giulia Busi ha rievocato quei
tempi e quelle vicende: è stata, oltre che
una testimonianza viva di storia, un’esperienza di vita e di grande umanità. Le parole di Giulia hanno rivelato il suo amore per
la libertà, la tolleranza e il rispetto per la dignità di tutti. E ci ha detto parole, un messaggio, da lanciare ai giovani, ma che dobbiamo raccogliere anche noi più “in età”:
“Non vorrei che facessero la mia esperienza
per nessuna ragione al mondo, perché la violenza è la cosa più orrenda che esiste. Vorrei
dire ai ragazzi: pensateci, guardate come è
bello guardarsi in viso, sorridere, divertirci
insieme senza pensare a farsi del male. Vorrei che capissero cosa vuol dire volersi bene
e vivere in pace anche con se stessi. Prima
dobbiamo averla dentro di noi, poi possiamo
propagarla agli altri. Senza l’amore non può
esserci la pace: invidia, odio, arrivismo non
possono donarci la pace. Dobbiamo essere
noi a conquistarla in noi stessi per passarla
poi agli altri.”
La testimonianza
La mia famiglia era di San Gallo. Mio papà
lavorava la campagna: eravamo in tanti in
famiglia; quelle famiglie patriarcali, eravamo in 11.
Ogni tanto capitavano questi rastrellamenti; avevano ospitato un fratello di una mia
cugina, Ragnoli, era uno sbandato che doveva nascondersi altrimenti lo portavano
via, allora lo mettevamo su in soffitta. Il rastrellamento era spaventoso per noi: entravano in casa, ci buttavano giù dal letto con
95
un mitra puntato alla testa o alla schiena;
insoddisfatti per non aver trovato nulla di
illegale, ci portavano via le cibarie, quelle
misurate con la tessera annonaria. Quando non trovavano niente di quello che cercavano, portavano via tante cose, facevano
razzia.
Abitavamo in centro vicino alla fontana. Sostenevo questi ragazzi, che conoscevo quasi
tutti: li chiamavo per nome, il loro nome di
battaglia, se si poteva dargli una mano …
noi avevamo il negozio gli davamo il pane.
Ricordo venivano a prendere il pane: erano
partigiani delle due frazioni la Garibaldi e le
Fiamme Verdi. Alcuni di questi li conoscevo
e poi si sono aggregati alla Garibaldi.
Io avevo 16 anni, 17 alla fine della guerra.
La mia famiglia era disponibile, tutti eravamo disponibili a S. Gallo: nessuno diceva
“quella persona è pericolosa, bisogna stare attenti”, tutti eravamo d’accordo al di là
delle idee politiche.
La mia famiglia era antifascista, anche io
che andavo a scuola, ho fatto le magistrali un anno a Brescia. A scuola avevo una
professoressa che veniva da Roma e una
qualche mia compagna ha detto cosa avevo
fatto alla Fratta.
Incontravo delle professoresse che mi mettevano la mano sulla spalla e mi dicevano
“Brava Busi, brava”. Ma quella no: l’unico
4 che ho preso l’ho preso da lei, era una
fascistona… veniva da Roma, era stata vicina al Duce, era dentro anima e corpo. Era
venuta prima della Repubblichina.
A casa si sapeva cosa facevano i partigiani.
Il giorno della Fratta io andavo verso la
chiesa, non si sapeva ancora cosa era successo; i fascisti sono venuti giù e l’hanno
detto al prete: “là ci sono tre morti e due moribondi”.
In effetti io credo che hanno visto quelli della cisterna perché ci hanno buttato dentro
una carta infiammata e quelli erano lì in
piedi dentro la cisterna. Difatti hanno detto
“là ci sono due moribondi”. Che poi sono venuti fuori dopo un po’ che eravamo su noi
questi ragazzi.
Quando hanno fatto scappare quelli della
biblioteca, tutte avevamo il morosino; non
erano fascisti, erano stati richiamati. Per
96
me hanno fatto uno sbaglio a farli andare
via gli ultimi giorni che poi li hanno ammazzati quasi tutti. Le foto le hanno messe poi davanti al Grande, sotto i portici, di
questi ragazzi morti, le hanno incollate lì.
Ne ricordo uno che cantava sempre una
canzone: “sul paion de la caserma, e la
Germania in compagnia, requiem eterna e
così sia, sul paion de la caserma”. È stato il
primo ad essere ammazzato: li hanno fatti
fucilare per niente, non dovevano portarli
su al Sonclino.
A casa eravamo preoccupati, ma non per i
partigiani. All›inizio erano sbandati.
Allora se si aveva un mestiere o qualcosa si
doveva avere la tessera: ma solo per quello.
Mio fratello era avverso al fascismo in un
modo. Quando volevano obbligarlo a mettere la divisa di balilla si ribellava, non voleva,
A S. Gallo erano tutti così, antifascisti: mi
han detto che adesso ci sono dei fascisti a
S. Gallo ma questo mi è di sorpresa perché
nessuna famiglia allora era fascista.
I partigiani passavano di lì per andare
su in montagna: tutti sono stati concordi
nell›aiutare.
Non si può dire nemmeno che qualcuno
avesse fatto nascere sospetti. Il prete, quello vecchio il Gaffuri, diceva che eravamo
come i “pom codogn” perché eravamo chiusi dentro.
Alla liberazione siccome si parlava sempre
di Garibladi avevamo messo la bandiera
rossa sul campanile, non perché pensavamo al comunismo, ma pensavamo alla patria perché conoscevano la figura di Garibaldi più dalla scuola, la libertà, la pace,
tutto questo.
Eravamo in quattro salite alla Fratta: non
ne abbiamo più parlato, abbiamo messo via
le cose nel cassetto. Non ci siamo dette una
parola.
Per me è stata una sorpresa quando il sindaco ma ha detto di venire su alla Fratta, che
“vengo a prenderti con la macchina”. Come
mai ho deciso di parlarne? Un mio cugino
(Giulio Busi) mi ha detto “ormai sono quasi
morte tutte quelle ragazze, perché non vieni
alla biblioteca che ne parlano?”; facevano la
presentazione del libro sulla resistenza a
Botticino e allora ho deciso di farlo. Io non
avevo nessuna intenzione di parlare, l’avevo messa nel cassetto. Ora ci riesco.
Io avevo rimosso queste cose, anche con le
altre tre. Era una cosa talmente brutta.
Ricordo che la Betta si è inginocchiata davanti a quei ragazzi piangeva e pregava. Io
non ho pianto, ero così scioccata che non
ho pianto vedendo una cosa così.
Avesse visto il livornese, quel ragazzone:
c’erano in terra i segni delle unghie che aveva raspato, questi capelli lunghi che aveva, biondi; aveva la testa tutta crivellata. I
ragazzi gli altri, uno era sotto l’albero con
gli occhi sbarrati guardava lontano; l’altro
biondino aveva la faccia piegata per terra e
il braccio destro con le ossa che fuoriuscivano: era tagliato così, usciva l’osso, la carne strappata. Quello aveva dei buchi uno
qui, due qui, uno al cuore solo un goccio di
goccio di sangue usciva. Vuol dire che gli
hanno sparato che era morto: se fosse stato
vivo ne usciva di più secondo me.
Noi siamo salite perché eravamo compatti: non si parlava, non si diceva niente, si
pensava e se c’era qualcosa si interveniva.
Allora si vede che come abbiamo saputo
dal prete queste cose ci siamo messe tutte
quattro assieme, le altre erano più anziane,
forse noi eravamo più ardite. Noi tre eravamo giù e la Santina che abitava più in alto,
ci siamo messe insieme e siamo salite.
Noi abbiamo preso delle bende, dei disinfettanti e una signora che aveva l’osteria lì
vicino, questa signora che si chiamava Regina, ci ha dato una bottiglia di grappa se
magari avevamo bisogno.
Siamo andate dietro il cimitero con la montagna in piedi così, quanti ruzzoloni abbiamo fatto non so, poi siamo salite in piedi.
Non eravamo mai state nessuna su quella
montagna lì, pur essendo nate lì a S. Gallo.
È successo che siamo arrampicate e arrivate alla Garossina che è una cascina più in
basso e lì abbiamo perlustrato guardato ma
c’era silenzio non c’era nessuno lì.
Poi abbiamo sentito uno che batteva sulla
legna, stava tagliando, ci siamo avvicinate
a questo signore che aveva la barba. Allora
abbiamo chiesto se aveva visto qualcuno,
ma non rispondeva.
“I fascisti sono passati?” “Sì” “Avete sentito
sparare?” “Sì, di là verso la Fratta”.
Allora abbiamo imboccato un sentiero piccolissimo che dovevamo spostare i rovi, tutto, siamo arrivate là, c’era un prato prima
della vigna, dietro la cascina, abbiamo visto dei pezzi di piatti, cocci, delle magliette
strappate; poi girando sul fianco abbiamo
visto questa scena….
La sera prima del 25 aprile io e due mie
cugine anziane siamo andate su in Valpiana a prendere le armi, ci siamo caricate le
armi: mitra, bombe a mano. Mia mamma
ha pianto per questo: non era ancora finita
la guerra. Le abbiamo portate lì al Municipio e le abbiamo lasciate lì in deposito che
c’erano i partigiani .
Un mattino io e mia cugina siamo andate
in una casa, di Martinelli, ci hanno cucito
un biglietto nell’orlo della gonna da portare a Brescia. Siamo arrivate al monastero
(di S.Eufemia) abbiamo visto fiamme ecc.:
erano già arrivati gli Americani; eravamo in
bici e allora siamo tornate indietro perché
non si poteva passare.
Io non sono politica e poi le cose ho voluto
cancellarle le ho messo via.
Nei giorni dopo la Fratta è successo che venendo fuori da scuola un giorno, uno vestito da fascista con la bici, io andavo (prendevo la corriera) in Piazza Arnaldo: continua a
dirmi “chissà cosa insegnano a scuola ...”;
io gli ho detto “non si parla di politica ma di
italiano, matematica, cosa vuole ...”. E lui:
“perché parla così?”. “Quella divisa, perché
la porta?”. “Cos’ ho detto. Si dice che perderete” ecc... “Io vado a scuola e non mi interessano le altre cose”.
Ho avuto l’impressione che fosse venuto
per me, perché raccontarmi quelle cose lì?
Non l’avevo mai visto.
Dopo la guerra ho riconosciuto tanti di quei
fascisti che venivano su a fare rastrellamento: mi veniva un roseghino. Li vedevo
in città che andavano in giro liberi, mi dava
fastidio.
Dopo la guerra le cose sono andate un po’
meglio: prima di tutto eravamo liberi e questa era una gran cosa per me: poter parlare
poter dire quello che si pensava. Poi l’Italia
ha avuto un gran progresso. Ci sono state
97
delle lotte sindacali ecc. ed è stato giusto
perché gli operai avevano bisogno. Per me è
stato bene. Adesso è un caos infinito. A me
piaceva molto De Gasperi, lo trovavo una
persona molto in gamba, onesto; lo dico
perché lo sento. L’Italia l’ha tirata su lui,
eravamo a terra. Quanti disastri ha avuto
solo Brescia che non era una grande città...
Io dico che la Resistenza … perché come facevano a combattere il fascismo altrimenti.
Anche gli Americani non ce l’avrebbero fatta ad arrivare qui: ce l’hanno fatta perché
hanno avuto l’appoggio dei partigiani e della gente comune che aiutava e che sapeva
quel che doveva fare in certi momenti.
Ai giovani direi che non vorrei che facessero la mia esperienza perché la violenza
è la cosa più orrenda che ci possa essere.
Adesso siamo in un clima di violenze dico:
ragazzi pensateci un po’. Guardate come è
bello guardarsi in viso, sorridere, divertirsi
senza pensare “oddio ti do una coltellata”...
Non so, direi tante cose a quei ragazzi, vorrei che capissero cosa vuol dire amarsi,
essere tranquilli, essere in pace, in pace
anche con se stessi. Perché la pace prima
l’abbiamo in noi, poi possiamo propagarla
agli altri. Saperla propagare, e senza l’amore non può esserci pace. L’invidia, l’odio,
l’arrivismo, quelle cose lì non possono darci
la pace.
Penso che la pace dobbiamo essere noi a
conquistarla. Prima noi stessi poi darla agli
altri.
Alla Fratta ero emozionata, non ho usato
parole forbite, ma ho detto la verità dei fatti.
Sono diventata grande, ho avuto la famiglia, mi sono isolata da queste cose.
Non ho più parlato con nessuno di loro.
Betta è morta, non abbiamo più detto: ti
ricordi? Mai più. Non si è più parlato di
nulla.
Quello che è successo in Comune quando
hanno ammazzato i tedeschi non mi è piaciuto.
Quando sono andata a lavare i morti l’odore del sangue mi ha sconvolto: quando
sono entrata nella galleria del Comune ho
sentito quell’odore lì. Tremavo dentro. Mi
hanno detto che hanno ammazzato un te98
desco, mi hanno detto che è stata una donna, non Tobegia. Una che era lì vestita da
militare e che era l’amante di uno non di
Botticino.
Tanti si sono improvvisati partigiani. Addirittura uno che faceva i rastrellamenti l’ho
trovato lì in Municipio: io sono fisionomista. Gli ho detto “come mai che fai il partigiano che prima li uccidevi?”
Lì c’è stato uno schifo perché qualcuno si è
fatto i fatti suoi. Io ho rinunciato al posto in
Comune, come mi aveva promesso il dottor
Catanea, per non portarlo via a qualcuno.
Botticino, 19 Febbraio 2003
La memoria scritta
28 Ottobre 1944. Brutto risveglio quella mattina d’autunno. Erano le cinque del
mattino, accesi la luce e mi misi a studiare,
ma un’inquietudine mi rendeva distratta.
Finalmente venne l’ora di alzarmi e quando
fui pronta per uscire, ho sentito una sparatoria proveniente dalla montagna opposta.
Cosa sarà successo lassù? Corsi alla porta
che dava sulla strada, chiesi ad una donna
che passava se sapeva qualcosa e mi disse:
un altro rastrellamento.
La strada era tutta un pantano per la pioggia recentemente caduta, una nebbia spessa non permetteva di vedere cinque metri
più avanti, ma tutto era silenzio.
Sentivo che qualcosa di brutto era successo e senza riflettere mi misi correre verso
la chiesa. Giunta davanti alla gradinata incontrai due partigiani appartenenti ad un
altro gruppo; erano armati e stavano dirigendosi verso i campi.
Lì chiamai per nome perché li conoscevo
(nomi di battaglia) e li pregai di nascondersi
perché non si sapeva ancora cosa ci fosse
in ballo. mi feci dare la loro arma e corsi a
nasconderla in camera mia. Pensavo che se
li avessero trovati senza armi non potevano
fucilarli. Con il cuore in ansia aspettai il
chiaro del mattino. Erano le otto e mezza,
un gruppo di brigate nere si fermarono davanti alla canonica.
Questi entrarono da padroni dicendo al
parroco: - se volete andare alla Fratta là ci
sono tre morti e due moribondi. Il parroco
non diede risposta, era rimasto annichilito e
loro spavaldi e indifferenti se ne andarono.
Saputo questo io e altre tre ragazze: Pina,
Santina, Betta Zeche.
Prendemmo bende e oggetti di medicazione
con la bottiglia di grappa che ci aveva dato
Regina, ci rifilammo di corsa giù per la china del monte. La china era sdrucciolevole,
perciò Pina e Betta avendo ai piedi degli
zoccoli di legno, erano più i ruzzoloni che
i passi.
Ma ci sentivano forti e ardite e il nostro
grande desiderio era di arrivare al più presto alla montagna che ci stava davanti.
Che cosa troveremo lassù? Ci saranno ancora i fascisti? E i morti? I due feriti li potremo salvare? Queste erano le domande
che ci facevamo nell’affanno della corsa.
Arrivate a valle cominciò l’ascesa faticosa
senza sentiero. Non ne potevamo più sudate con la gola secca il respiro era faticoso ci
attaccavamo ai cespugli per poter fare più
in fretta, ma ad un certo momento, ci fermammo solo un attimo per poter respirare.
“Ragazze noi vogliamo soccorrere, ma se arriviamo in questo stato saremo noi ad aver
bisogno di aiuto”.
Con le gambe tremanti e le caviglie che ci
dolevano, in quella piccola sosta ci bagnammo la bocca con la grappa. Quell’attimo di
pausa ci diede forza e correndo finalmente, imboccammo un sentiero, sicure che ci
portasse alla cascina. Stemmo in ascolto,
ma tutto era silenzio. Nessuna di noi conosceva il posto perciò ci avvicinammo alla
cascina, io andai all’uscio provai a spingerlo, ma era chiuso. Era la Garossina, facemmo il giro intorno all’abitacolo, ma non vi
era traccia di persona.
Stemmo ancora in ascolto e ci parve di udire
dei colpi di scura. Corremmo in quella direzione. C’era un uomo con una lunga barba
che stava tagliando legna. Mi avvicinai, non
so come incominciare a parlare, poi decisa
chiedo: “C’è gente da queste parti?”. Quello
non deve aver capito allora dico: “da quanto
siete qui? I fascisti ci sono ancora?” (poteva
essere un fascista) finalmente rispose: “sono
qui dalle sette e la sparatoria la sentii verso la fratta” mormorammo un grazie e via.
Il sentiero era stretto, perciò dovevamo
camminare in fila indiana, folti cespugli ci
intralciavano il passaggio e dovevamo usare mani e braccia per liberare la via.
Camminavo davanti a tutte, il cuore mi
batteva forte, il viso mi scottava, inciampai
in una pietra e per poco non caddi a terra.
“Oh ecco la cascina!
Guarda qui ci sono maglie per terra e cocci
di piatti, certo sono qui.”
Girammo il fianco della cascina e guardando quello che ci si parava davanti sentivo
un gelo dietro la schiena sudata.
Sono morti! Proprio morti!
Mi avvicinai loro e stetti a guardarli: della
loro morte non c’erano dubbi.
Non piansi, lo sbalordimento e il dolore me
lo impedivano.
Il primo che ho avvicinato era sdraiato sotto un albero, gli occhi aperti che guardavano lontano, un orizzonte nuovo per lui,
quello senza fine.
Una forte raffica di mitra gli aveva spaccato
le ossa del cranio l’altro il biondino aveva
una guancia appoggiata sull’erba, due pallottole gli avevano forato la gola, un altro
foro in pieno petto e uno al cuore, ma da
queste ferite nemmeno una goccia di sangue, forse era già morte quando gli dettero
quegli spari.
Il braccio destro era spezzato e ne fuoriusciva l’osso della carne lacerata. Solo da
una gamba si vedeva il sangue uscito a profusione. Sicuramente li hanno torturati.
Il terzo ragazzo (perché lo erano) era più giù
verso il prato. Aveva una folta capigliatura
bionda e lunga che le copriva il forte collo,
indossava una canottiera blu sbiadito e si
vedevano le robuste spalle e braccia, tutto
denotava la sua forza.
Ma lui giaceva a bocconi a terra le braccia
allargate con le mani conficcate nel terreno
si vedevano chiaramente i segni delle unghie dove aveva annaspato prima di morire.
Il livornese (così era chiamato per le sue
origini) era crivellato. La scatola cranica era
maciullata e tutte le altre parti del corpo
non erano state risparmiate.
Come si poteva infierire così? Era un uomo.
Lui era nuovo, sicuramente non conosceva
i luoghi, davanti a loro c’era il mio paesello
che si adagia lì lineare a metà Maddalena,
forse non sapeva nemmeno che si chiama99
va san gallo.
Sono arrivate altre persone, ma ad un tratto vedo un fuggi fuggi, due con il mitra in
mano ci imposero l’alt.
Erano i ragazzi della cisterna. Nel momento
del rastrellamento si nascosero nella cisterna vuota e penso un anima ancora fuori li
ha risparmiati .
Io prego e spero che quei giovani non siano
morti invano, e dal cielo benedicano le persone rimaste a lottare per la Libertà della
nostra Patria.
29 Ottobre 1944. La sepoltura. Il giorno
stesso della loro morte sul far della sera
con delle fiaccole, i giovani del paese con
barelle li trasportarono al cimitero.
Dentro la piccola cappella erano distesi sopra tre brande. Un lenzuolo copriva i loro
corpi.
Teresa e Santina piangenti con un secchio
entrarono nella chiesetta adibita a camera
ardente e con un panno di lino cominciarono a lavare quei volti impiastricciati di terriccio e di sangue.
Se questo succedesse ai nostri figli, che
qualcuno abbiano pietà di loro e li ricompongono nel loro sonno eterno. Mi unii a
loro e mi mise a fare i loro gesti. L’acqua
calda a contatto con il sangue raggrumato emanava un odore sgradevole. Ma finito
di pulire quelle mani e quei volti mi sentii
fiera.
Molti avevano paura per le minacce fatte
dai fascisti, ma dentro di me mi sentivo orgogliosa, avevo trasgredito a un no minaccioso.
Alle tre pomeridiane avvenne la sepoltura
e anche lì fui presente, non era di nessun
aiuto, ma pensavo alle mamme di quei ragazzi; al loro dolore straziante,(sofferenza
di mamma) e piansi anch’io come molti dei
presenti.
Il cimitero era gremito, tutti stavano a guardare quella grande buca, non c’erano bare,
ma solo qualche coperta straccia.
A quella vista non resistetti più.
Orrore per la morte, orrore per quella sepoltura. A tutto questo non resistetti più e singhiozzando forte scappai dal camposanto.
Testo autografo di Giulia Busi
Testimonianza di GIOVANNI (VITTORIO) CIOCCHI
La testimonianza dell’eccidio sul monte
Fratta di San Gallo, del tutto inedita e minuziosa,
è stata scritta dal partigiano Giovanni
(Vittorio) Ciocchi in una relazione depositata
presso la Fondazione Micheletti. Essa ben
evidenzia la durezza e la drammaticità di
quei giorni e narra del sanguinoso assalto
fascista avvenuto sul monte Fratta di San
Gallo, durante il quale lui riesce a sottrarsi,
sebbene ferito, mentre tre dei suoi compagni
perdono la vita.
Il rastrellamento
“Erano due giorni che pioveva senza interruzione. Da parecchi nella Val Trompia fascisti (Brigate nere) al comando dei tedeschi
facevano rastrellamenti , sapendo della esistenza di un forte gruppo di Partigiani che
formavano la 122ª Brigata Garibaldina. In
quei giorni la brigata si doveva spostare
continuamente a causa di questi rastrella100
menti. Un gruppo della brigata della quale facevo parte, si era spostato da qualche
giorno nei pressi di San Gallo. Il gruppo era
formato da circa 30 compagni, comandati
dal vice comandante di brigata Giuseppe
Gheda. Questo gruppo era reduce da uno
scontro con i nazifascisti, avutosi nei pressi
di Vas sui monti che circondano Mura in Val
Sabbia. Da qui attraverso i monti, con tappe
di avvicinamento, e
con gran difficoltà, sia a causa del maltempo, sia per la continua caccia dataci dai
fascisti, che dalla quasi totale mancanza
di viveri, in due giorni abbiamo raggiunto i
monti presso San Gallo. Qualche giorno antecedente al 28 ottobre, festa dei fascisti,
il governo fascista emanava una amnistia,
per i ribelli, così eravamo chiamati, che si
fossero presentati spontaneamente, che durava dal 28 ottobre al 10 novembre. Il gruppo originale si era frazionato in tre gruppi, il
primo di otto uomini al comando di Gheda si
accampava alla cascina Fratta, gli altri due
poco lontano. Questo frazionamento fu fatto per evitare che, in caso d’attacco, non si
fosse tutti circondati e per poter impegnare il
nemico in più punti. Il piccolo gruppo che si
era accampato alla cascina Fratta, di cui io
facevo parte, dopo la mezzanotte, non aveva messo sentinelle, piovendo ininterrottamente e pensando all’amnistia”. Alle 4 del
mattino del 28 ottobre ’44, il comandante
Gheda si alzava per uscire a fare una perlustrazione. Al che si accorge di qualche movimento sospetto, ed intima il chi va là, per
tutta risposta ha avuto il crepitare dei mitra.
La cascina era provvista di due uscite opposte, ed i fascisti le sorvegliavano entrambe
attendendo l’alba, probabilmente avvertiti;
avevano paura ad entrare con una sortita,
perché a quanto pare ci sapevano fortemente armati. Noi nella cascina facemmo un piano per evadere: si doveva uscire tutti e puntare nella direzione dove avremmo trovato
il grosso del nostro gruppo, per poi vedere
insieme il da farsi. Come d’accordo io, Vittorio, dovevo essere il primo, dietro di me, distanziati di 4 metri, dovevano uscire gli altri
compagni: si doveva cercare di raggiungere
la siepe sulla nostra destra, in modo da poter sfuggire alla maglia fascista. Come uscii
i fascisti si misero a sparare, correndo ho risposto al fuoco, raggiunta la siepe mi son
fermato, perché raggiunto alla schiena da
una raffica di mitra; volevo sincerarmi della mia condizione, mossi il braccio destro e
vidi che rispondeva ancora alle mie facoltà;
allora volli sincerar midi essere stato seguito
dai miei compagni, guardai in direzione della cascina attraverso il buio fitto, vidi delle
ombre che correvano dalla cascina verso la
siepe, sopra di me, ho pensato che fossero
tutti i miei compagni che mi avevano seguito. Allora saltai la siepe cadendo dall’altra
parte e inciampando per l’oscurità e per la
fretta di sottrarmi al fuoco dei fascisti che
era sempre molto intenso. Cadendo ho perso i sensi per un attimo, riprendendomi nel
sentire una fitta di dolore al fianco e alla
schiena. Da qui mi sono trascinato attraverso il bosco, a gran fatica sia per il dolore
che sentivo in tutto il corpo, sia per l’attenzione che dovevo fare a non rivelare la mia
posizione, finché individuai davanti a me
una cascina verso la quale mi diressi. Giunta là, bussai alla porta sfinito, mi aprì una
donna anziana, che vistomi in quelle condizioni subito cercò di aiutarmi come poteva,
dandomi qualcosa di caldo da bere ed un
po’ di cibo (…) dopo aver raggiunto un luogo
meno pericoloso, cioè la cascina dell’amico
Franzoni Domenico (…) da lui ricevetti le prime cure; essendosi aggravate le condizioni
della ferita e sopraggiungendo il pericolo di
infezione, Domenico che era in contatto con
un gruppo di Fiamme verdi, comandato dal
figlio Allocchio, provvide a mandare a chiamare un medico, che si presentò sprovvisto
di medicinali, e per rimedio contro l’infezione non fece altro che spargermi sulla ferita
della cenere. Dopo le prime cure fui portato
in un fienile poco lontano. La sera del 28 ottobre la sorella di Domenico, con la cena mi
portò notizia di come si era concluso lo scontro alla Fratta. Venni a sapere che 5 dei miei
compagni non mi avevano seguito, dei quali
tre erano stati catturati e fucilati sul posto
dai fascisti: un livornese e due iseani di cui
non ricordo il nome. Gli altri due, un certo
Chicco di Bovegno V.T. e Capela [Giuseppe
Giordani di Iseo], si erano nascosti nella cisterna della cascina, uscendone solo dopo
che i fascisti si erano allontanati, trovandosi
unici e inorriditi testimoni della tragica fine
dei suoi compagni, trucidati dai fascisti. Gli
altri due compagni, Gheda ed un francese,
seppi che erano stati leggermente feriti, ma
sfuggiti ai fascisti. Me ne andai presso amici
nell’abitato di San Gallo, dove trascorsi la
convalescenza”.
101
SANTINA DAMONTI “BERTA”
(San Gallo di Botticino 28.01.1926 - Gardone Valtrompia 04.05.1997)
San Gallo di Botticino è incastonato sul
fianco della Maddalena, con la facciata rivolta al sorgere del sole. Il primitivo nucleo
di abitazioni si snoda lungo stradine sinuose tra boschi e prati, dove il ruolo della
montagna è dominante e lo scavalco verso
la Valtrompia è a portata di mano, a San
Vito, sul quale una piccola chiesetta segna
il confine di Nave.
Proprio sul davanti passa l’antico “Senter
Bandit”, che collega la valle Sabbia con
Brescia, utilizzato un tempo soprattutto
da banditi e contrabbandieri, ma anche da
viandanti e pellegrini.
Basta mezz’ora di cammino da Botticino
Sera, per raggiungere San Gallo salendo a
piedi attraverso il Ghiacciarolo.
Questo era il percorso dei lavoranti alle
cave di marmo e il sentiero preferito dalla
staffetta garibaldina Berta, Santina Damonti. È un cammino che attraversa territori dolorosi: qui i fascisti fecero la loro prima manifestazione tra il ’19 e il ‘20, da qui
i fascisti salirono poi al paese per picchiare
alcuni compagni, sparando poi alla gamba
di un anziano e profferendo minacce; qui
i garibaldini vittoriosi consumarono la loro
vendetta.
L’importanza di San Gallo come base attiva
e sicura per la resistenza ha origine durante gli anni della guerra civile spagnola, ed
è proprio in quel periodo che l’adolescente
Santina si rende conto per la prima volta
della persecuzione politica subita dai suoi
famigliari e sente parlare della repressione
fascista in paese
Visto il clima ostile che s’era creato contro
di loro, per sfuggire al pressante controllo
politico, nel 1938 entrambe le famiglie di
Faustino Damonti e Angelo Lonati si trasferiscono in Valle Trompia, e più tardi i due
coniugi, Faustino Damonti e Maria Lonati, sorella di Casimiro, che hanno due figli,
Pietro e Santina e sono in attesa della terzogenita Giuliana, a Sant’Eufemia.
“Qualche anno dopo – racconta Giuseppina Damonti – la mia famiglia rientra nuo-
102
vamente nel mirino dei fascisti, ma fortunatamente veniamo avvertiti del pericolo. Ci
viene in soccorso l’aiuto offerto dal sig. Franzoni, nostro fornitore di vino. Così, nel ‘42 la
mia famiglia si trasferisce a Sant’Eufemia,
dove prendiamo in gestione un’osteria chiamata «Il Forte». Pietro invece, appena riformato dal servizio militare, s’industria come
può conducendo l’esercizio di una macelleria, cercando di trovare una propria strada
all’interno di un paese dove vede privilegiati
e poveracci, contrastando a modo suo la situazione”. Ma neanche qui c’è pace: i controlli burocratici sono asfissianti, i funzionari del regime arroganti ed è proprio lui
per primo a farne le spese.
L’osteria «Il Forte» di Sant’Eufemia è il punto
d’incontro del primo Gap e diviene dunque
la prima base logistica per le azioni gappiste da attuare nei dintorni e nel centro città. Qui Pietro avvia la sua attività combattentistica e qui Santina vede chiaramente
davanti a sé qual è la sua strada. Non è
certo il tipo di partecipare solo alle riunioni
e difatti suo fratello la invita all’azione, essendo una tipa decisa, sebbene inesperta.
“Santina aveva il compito di trasportare
armi in bicicletta: i fucili venivano legati
sul manubrio, avvolti in una coperta mentre
bombe e munizioni erano celate in due grandi borse. Le fu raccomandato di non urtarle
e di stare molto attenta. A un posto di blocco
in piazza Vittoria si mise in coda a una famiglia, fingendo di farne parte. Le chiesero
che cosa ci fosse nelle borse e sul manubrio
e lei candidamente rispose: “Non si vede?
Coperte e un po’ di roba per la mia famiglia”.
L’apparenza era credibile e così poté oltrepassare indenne attraverso il blocco”.
Oramai per tutti loro l’ora era suonata
e Santina non è più solo una ragazza; lei
stessa ha voglia di partecipare all’avventura. Uno scritto del ’75 del suo futuro marito Angelo (Lino) Belleri, vicecomandante
della 122ª brigata Garibaldi, porterà luce
su questa sua iniziazione: “Incominciò subi-
to dopo l’8 settembre ’43 seguendo il fratello (uno dei primi gappisti di Brescia), raccogliendo informazioni sui fascisti, fungendo
da staffetta nelle prime azioni, trasportando armi, ecc.. Data la giovane età (aveva 17
anni) era la meno in vista. Ma ecco che arriva a Brescia Carlo Speziale per organizzare i gruppi armati, ha bisogno subito di una
staffetta, per il lavoro di collegamento, per
organizzare le azioni, trova la Berta disposta e già sperimentata in questo lavoro.
Chiede ai genitori di lei di poterla avere a
sua disposizione. I genitori acconsentono.
Incomincia così per la Berta un lavoro molto importante e rischioso nello stesso tempo.
Dietro istruzione di Carlo comincia il lavoro
di collegamento, accompagnando giovani in
montagna, portando i rifornimenti alle basi,
raccogliere informazioni utili, partecipando
a parecchie azioni militari”.
Un nucleo di 4/5 uomini guidati da Luigi
Guitti (Tito) si aggira nei dintorni di Botticino, San Gallo, S. Eufemia. Tito collabora
con i gappisti del suo paese oppure presso
l’abitazione del “Polenta”, situata prima di
San Gallo, dove si riunivano Arnaldo (el
Rusì de Sömia) Arici e suo figlio, Angelo Damonti, Flaminio Moreschi, Emilio
(Milio Saunèta) Quecchia, Rino Gorni
(operaio a Gardone Vt e che perciò curava i
collegamenti tra i due centri) e diversi compagni impegnati, tra l’altro, nella diffusione
di volantini e nel reperimento di armi.
Fu così che tra Botticino e San Gallo si creò
nel tempo una rete di collaboratori e di staffette con il compito di trasmettere informazioni, fare propaganda, smistare vestiario,
trasferire armi e cibo, ciò che sarà determinante per la il rilancio della 122ª brigata
Garibaldi nell’autunno del ’44’ e la sua sopravvivenza dopo la crisi invernale del ‘45.
Spie fasciste vere e proprie erano state dislocate un po’ ovunque, anche a San Gallo
con l’intento di osservare e riferire e se ne
ha traccia nelle testimonianze di Elisabetta
e Mina Lonati.
Una parla di una spia fascista insediata
a San Gallo: “Vicino a casa nostra abitava
un signore distinto di nome Gianni, il quale
si spacciava per partigiano, era sposato e
aveva una bambina; stranamente casa sua
era piena di ogni sorta di cibarie, tant’è vero
che appeso alla finestra aveva una pancetta
enorme. L’abbondanza era tale che poteva
permettersi di buttare pezzi di anguilla nel
letamaio. Un giorno, mentre Lina stava recandosi a Botticino incontrò il sig. Gianni e
percorrendo la strada insieme d’un tratto la
valigia si aprì facendo cadere la divisa fascista. La sera stessa Gianni chiamò la mamma e con voce minacciosa le puntò la pistola
alla gola intimandole di tacere. A proposito
della divisa vista dalla figlia, la mamma fu
sconvolta e impaurita perché non era preparata a una situazione del genere. In seguito
informò chi di dovere dell’accaduto”.
L’altra di uno strano frate: “Io e la cugina
di mio marito Berta, durante la notte a piedi nudi strappavamo dai muri delle case del
paese i manifesti della propaganda fascista.
Era difficile uscire di casa in quel periodo,
il nostro paese era affollato di sconosciuti,
gente che rifiutava il servizio nella milizia
della Rsi. Nell’esercito erano cresciuti i disertori, sfollati e sbandati, gente sconosciuta che girovagava: sembravano “innocue pecorelle” invece poi si rivelavano “lupi feroci”.
Nel nostro paese arrivò un frate, dicendo di
essere il nuovo parroco. In seguito si scoprì
che era un ufficiale fascista sotto copertura.
Celebrava la messa in maniera originale e
una volta organizzò una messa a San Vito,
invitando tutti, partigiani e disertori. Fortunatamente non arrivò nessuno perché molto
probabilmente si trattava di un tranello per
stanare partigiani e disertori”.
Di persone lassù rifugiate, in cascine, stalle
o fienili, o nei più strani pertugi ve ne sono
diversi: ribelli, ricercati, giovani che vogliono evitare il servizio militare o la deportazione in Germania e sono in tanti ad offrire
loro ospitalità, a proprio rischio e pericolo. Tra i professionisti ricercati dai fascisti
vanno ricordati il farmacista di Rezzato e il
dott. Pasquale Catanea, che diverrà il medico della brigata Garibaldi.
San Gallo è soprattutto il punto di arrivo
dei compagni di Botticino impegnati nello
svolgimento d’un accurato servizio di rifor103
nimento e di aiuto concreto alla resistenza
che, soprattutto a partire dall’estate del ’44,
si svilupperà impetuosamente in Valtrompia. Portano nottetempo all’avamposto di
San Vito viveri, soprattutto farina, armi e
tutto quanto necessario alla sopravvivenza di gruppi armati partigiani in montagna; da qui le staffette portano la merce
in luoghi distanti prestabiliti, specie verso
Marcheno.
San Gallo diventa per Santina la sua maturazione verso la lotta antifascista, avvertendo chiaramente di poter esprimere in questo spazio la propria appassionata volontà,
offrendo aiuto concreto alla famiglia e portando soccorso ad altri perseguitati. Lei
stessa ammetterà: “In quel periodo avevo
più paura per la sorte della mia famiglia che
non per quello che poteva capitare a me…”
Il compito principale di Santina diviene
quello di fare la spola tra San Gallo, Botticino, Sant’Eufemia e Brescia, a piedi o
in bicicletta, trasportando armi, portando messaggi o raccogliendo informazioni,
un’esperienza che risulterà determinante allorquando diventerà staffetta in ruolo
presso la 122ª brigata Garibaldi al comando di Verginella.
Significante la descrizione che ne fa la sorella Giuseppina: “Pur avendo un corpo esile,
era di carattere forte, duro, sangue freddo.
In genere se la giocava come voleva, si faceva passare per una 14enne, il suo aspetto
era ingannevole, erano due persone in una;
fisico fragile, temperamento astuto, volpino.
Lei il futuro l’ha tenuto stretto al suo cuore e
ancora più nel suo pensiero, questa piccola
giovane donna, capace, coraggiosa …”
Il suo aspetto inganna, sembra una ragazzina, invece è una delle staffette più importanti, visto che custodisce i segreti della
122ª brigata Garibaldi.
Raccoglie informazioni sulla dislocazione
dei fascisti, sui loro spostamenti, sulla loro
forza numerica, ben presto la sua attività la
rende una ricercata. La sua presenza è segnalata dalla questura in città e altrove. È
costretta a cambiare spesso abbigliamento.
Durante un trasferimento dalla città alla
104
valle con la filovia, uno della questura mostra una fotografia. Si rivolge a lei: “Questa,
se la vedi, ci devi avvertire, la stiamo cercando”. Risponde: “Se la vedo , lo farò sapere”.
Era lei!
“Mi allontanai e subito pensai: dove avrà
preso quella fotografia? Meno male che mi
ero tagliata i capelli e fatta la permanente, come mi aveva consigliato Verginella, il
comandante della brigata. Mi disse pure:
«Cambia colore ai capelli, o porta un cappello, che dovrai calare sul viso».
Indossavo un soprabito chiaro e una parte
verde scuro (un double face)”.
All’altezza di Gardone Valtrompia, nei pressi della fabbrica Beretta, c’era un posto di
blocco con la sbarra. Mentre transita appare dietro di lei un tedesco, pure lui in bicicletta. Lei rallenta, si affianca, gli mette
una mano sul manubrio, gli sorride, fa un
po’ la carina come se lo conoscesse e così
la lasciano passare senza creare problemi.
Fatta la curva, dopo il posto di blocco, lo
saluta e finge di non capire quello che lui
vuole dirle.
Berta ricorda che capitava spesso di incontrarsi in luoghi molto affollati, per non destare sospetti, ad esempio nei cinema, dove
si scambiavano messaggi. Come segno di
riconoscimento si utilizzavano vari metodi,
parole d’ordine e una volta addirittura con
il corrispondente di una banconota strappata. A un incontro le viene un sospetto:
ha individuato un uomo della questura, lo
riconosce per il suo modo di guardarsi in
giro, così al momento dell’uscita chiede a
una donna se può prenderla sottobraccio,
perché le gira la testa. Quella acconsente e
così riesce a dileguarsi senza essere notata.
“La ringraziai”.
Una azione combinata con Verginella si
svolge a Gardone Valtrompia, capitale armiera della Rsi, nei primi giorni d’ottobre.
Si tratta d’incontrare Pietro Beretta allo
scopo d’ottenere armi, munizioni oltre a un
cospicuo finanziamento da destinare alla
brigata nascente. L’episodio è narrato dalla
stessa protagonista: “… il comandante della
Brigata mi chiese, alla fine di settembre, di
accompagnarlo alla fabbrica d’armi Beretta
per andare a domandare armi e soldi per
i partigiani. Ci presentammo in portineria
dove ci aspettava il nostro compagno Franco Cinelli il quale accompagnò il comandante Verginella al colloquio.
Io attesi di sotto e quando tornò, Verginella mi disse che Beretta gli aveva promesso
per la Brigata, solo soldi. Parecchi giorni più
tardi venni a sapere che Pietro Beretta mi
avrebbe consegnato i soldi. Lo incontrai in
località Oneto e lì, lontano da occhi indiscreti, mi consegnò, tremante, una busta; poi si
allontanò pregandomi di non seguirlo e di
non farci più vedere perché aveva in casa i
soldati tedeschi che lo sorvegliavano. Non ricordo bene l’ammontare esatto della somma
che mi venne consegnata, ma ritengo non
fosse inferiore alle 300.000 lire…”
Santina partecipa a diverse azioni anche
armate: il 13 ottobre alla «Tadini e Verza»
per appropriarsi dei vestiti; successivamente alla «Società Elettrica Bresciana»
per prelevare dei soldi, alla ditta «Alberti»
di sant’Eufemia per rifornirsi di scarponi da montagna per i partigiani. L’assalto
alla «G.K.Mot» ha lo scopo di distruggere le
macchine e i camion militari che servono ai
fascisti, mentre allo stabilimento «Sant’Eustacchio» per prendere armi.
Berta non era semplice da individuare, ancora più difficile era prenderla; infatti lei
era molto diffidente e adottava tutte le precauzioni possibili. Prima di avvicinarsi a un
appuntamento chiedeva sempre alla gente
che incontrava se avessero visto i fascisti o
persone sospette. Quando arrivò a San
Gallo in bicicletta stava andando a un appuntamento con dei compagni, vicino al
paese. Qualcuno le disse che c’erano una
quarantina di fascisti che l’aspettavano,
perché qualcuno aveva fatto la spia. Lei
cambiò strada e riuscì ad evitare la cattura.
Ad un posto di blocco, quando venne fermata per un controllo dei documenti, ingoiò la carta di identità senza farsi vedere,
dopo averla fatta a pezzetti.
Se Berta non è mai stata presa lo deve alla
prudenza, infatti lei non parla mai con nessuno di quel che fa e dove va; la sua improvvisazione nel trovare diversivi per dileguarsi all’istante è proverbiale.
Nell’ottobre del 1944 la valle Trompia subisce un massiccio rastrellamento in tutta
l’alta valle e per sfuggire ai fascisti la brigata si divide in piccoli gruppi che vanno
in varie direzioni: la città, Iseo, Provaglio,
Provezze, San Gallo, Urago Mella, Collebeato, Marcheno, Orzivecchi e Gardone V.T..
Berta svolge uno straordinario lavoro di
contatto e di collegamento, ma i I rastrellamenti nazifascisti mettono a dura prova la
resistenza dei giovani garibaldini in montagna.
Questo fatto, unitamente all’approssimarsi
dell’inverno, accelera il progetto di spostamento dei distaccamenti dalla montagna
verso la zona collinare prossima alla città.
Un gruppo è distaccato a San Gallo. Comito principale di questo distaccamento
è di osservare attentamente e colpire con
attentati la stazione ferroviaria di Rezzato,
importante snodo ferroviario di materiali e
soldati tedeschi.
Il 28 ottobre si consuma l’eccidio sul monte
Fratta di San Gallo: in merito al rastrellamento attuato alla cascina del monte Fratta e agli eventi luttuosi di contorno che si
sono succeduti attingiamo qui alla testimonianza scritta Rosa (Rosi) Damonti, depositata presso l’archivio della resistenza di
Micheletti. Questo il testo, scritto su due
piccoli foglietti a quadretti: “ … quel giorno è stato molto doloroso, alle 5,30 abbiamo
sentito gridare aiuto più volte e poi abbiamo
sentito sparare, e subire un brutto rastrellamento – son salita sul posto Fratta dove
c’era i partigiani e visto i 3 cadaveri: ci sono
stati feriti rimasti in salvo: uno si è precipitato nella cisterna.
Ho cercato subito di fare qualcosa attraverso
al municipio tutto era impossibile, al tramonto dell’alba è arrivato un ordine al parroco di
portarli in sala mortuaria al cimitero. Salimmo sul monte un gruppetto persone. Mi guardai attorno ero sola di donne con dodici uomini c’era solo il minimo numero per portare
le portantine, io tenevo una piccola lampada
facendo un po’ di guida una serata scura e
piovosa e dovevamo fare un massimo silenzio attraverso boschi e vallate. Pensavo più
volte a quei cadaveri ai suoi famigliari alle
105
loro mamme che non hanno avuto la soddisfazione di vedere i loro figli caduti per la
libertà e l’indipendenza d’Italia dobbiamo
ricordarlo tutti e farla conoscere e studiare
ai nostri giovani anche la guerra partigiana
fu una guerra di libertà”.
Giuseppina Damonti ha risentita Rosa
e questo è il racconto che ne è derivato:
“Quando ci fu l’eccidio della Fratta, l’esperienza ci schioccò molto quel giorno. Alle
5,30, durante un rastrellamento, abbiamo
sentito gridare aiuto più volte e degli spari.
Alle 8,30 i fascisti giunti a San Gallo andarono dal parroco e gli dissero: “Alla Fratta ci
sono 3 morti, decida lei cosa fare”. Mentre
scendevano nei camion cantavano “Giovinezza” e altre loro canzoni. Alle ore 11,00 su
indicazione del parroco ci avvicinammo alla
Fratta in 4 donne, arrivate all’ingresso della
stalla trovammo i corpi dilaniati, lo ricorderò per sempre, poi arrivò altra gente. Allora io, mia sorella Santina e Giacomo Busi
siamo andati al municipio per richiedere di
celebrare il loro funerale, era tutta gente che
conoscevamo. Lì trovammo il segretario federale fascista che ci accolse dicendo: “Erano banditi… Non dovete occuparvi di questi
altrimenti farete la stessa fine”. Era impassibile. Poi all’alba arrivò un ordine del parroco di portare le salme nella sala mortuaria
del cimitero. Salimmo il monte un gruppetto
di persone, ero sola con 12 uomini, numero indispensabile per portare tre barelle, io
tenevo una piccola lampada ad olio facendo chiaro, era una serata scura e piovosa,
dovevamo fare il massimo silenzio attraversando il bosco e la valle. Pulimmo i cadaveri
dal sangue e li avvolgemmo nelle lenzuola
per poi seppellirli senza bara.
Sebastiano (Nóno) prese un carretto con
cavallo, sapendo il rischio che correva, andò
a comperare tre ghirlande di garofani rossi per il funerale. Alla cerimonia c’era tanta gente. Durante la notte i compagni della 122ª brigata Garibaldi hanno onorato le
salme ponendo un nastro con scritto “i garibaldini vi vendicheranno” e tutto avvenne in
silenzio”.
La brigata garibaldina, nonostante questi
drammatici momenti, viene favorita dal cre106
scere delle comunicazioni in modo globale
ed efficiente tra i distaccamenti e non per
niente la caccia nazifascista nei confronti
delle staffette sarà altrettanto spietata di
quella condotta contro i combattenti.
Che cosa potevano fare di più queste ragazze staffette o ragazzi portaordini, queste donne intrepide per questi uomini combattenti? Hanno realizzato i loro compiti,
hanno accettato di essere più di quello che
erano anche perché la loro coscienza era illuminata da un nuovo sentire, ben oltre gli
schemi ideologici o il sentimento politico.
Noi possiamo comprendere in parte e valutare la loro opera e il loro sacrificio proprio
attraverso i percorsi di una di loro, Berta,
autentica “primula rossa”.
Lei percorre in bicicletta molti chilometri,
per collegare i gruppi nascosti e dispersi
nei vari paesi, sulla neve e ghiaccio, portando ordini, viveri, notizie e cercando di
tenere buono il morale degli altri partigiani.
Il 24 dicembre 1944, a Cremignane d’Iseo,
Berta arriva in ritardo sul luogo dell’imboscata a Verginella. Vede quando lo portarono via ammanettato. Verrà poi torturato e
assassinato il 10 gennaio 1945.
Alcuni tratti dello stupefacente carattere di
Berta – che sfrutta con fulminea efficacia
doni naturali che sono la sua dote principale - emergono in una emergenza che rischia
di compromettere l’azione di tre compagni
armati: “… Nei primi giorni di novembre del
’44, dovevo accompagnare i partigiani Lino,
Spartaco e Rino (Emilio Trevaini) da
Orzivecchi a Marcheno; loro erano armati
di mitragliatore che tenevano smontato nascosto sotto il mantello, io avevo la pistola.
Giunti a Brescia prendemmo il tram per Gardone, arrivati alla Stocchetta salirono sul
tram un gruppo di fascisti per controllare se
c’erano dei partigiani a bordo. Quando arrivarono all’ultima carrozza del tram, io mi
misi in mezzo ai fascisti a ballare e scherzare cercando di distrarli, intanto il tram si
era fermato a Villa Carcina e, approfittando della situazione, i tre partigiani scesero
dal tram e si rifugiarono in una casa di Villa
Carcina. Io invece continuai la corsa fino a
Cogozzo…”
Per la cronaca, i tre partigiani si nascosero
a Villa Carcina in casa della zia paterna di
Lino Belleri, che lei raggiunse dopo essere
scesa a Cogozzo, un chilometro più avanti.
Il primo incontro di Berta con Lino Belleri
avviene il 31 ottobre a Provezze, dove lui si
è rifugiato dopo essere sfuggito al rastrellamento nazista di monte Quarone, così come
narrato dallo stesso protagonista: “Cerco di
allontanarmi dal Quarone in direzione nord
e giungo sul crinale (…) Più avanti incontro
per caso Firmo Pozzi detto il “Catòlech”,
anche lui sbandato: “Che fai tu qua? C’è il
rastrellamento!” Insieme saliamo verso il cocuzzolo di Vesalla, quindi decidiamo di andare a vedere dove di solito il nostro gruppo
prendeva il pane (…) Poi scendiamo giù verso
Iseo, a Provezze, diretti da un contadino che
collaborava con noi. Bussiamo, ci apre ma ci
avverte che è pericoloso fermarsi da lui. Allora Firmo, che conosce molto bene la zona, mi
guida da un mezzadro che governava un’altra cascina e lì ci nascondiamo nel fienile per
passare la notte. Sarà lui a portarci da mangiare. Qui nel fieno aveva predisposto una
buca profonda, dove potevamo stare sicuri e
protetti, coperti dal fieno. Rimaniamo lì due o
tre giorni finché un giorno, accompagnati da
una staffetta, arrivano Verginella, Carlo
Speziale e la staffetta “Berta”, che diventerà mia moglie. Noi stavamo mangiando un
panino e ci ritiriamo prontamente nella buca.
Anche Berta scende con noi ed è la prima
volta che la vedo. È piccola e snella, ben vestita, con un tocco d’eleganza: indossa una
gonna e porta in testa un bel cappellino con
visiera. In quella buca non stavamo per niente comodi, ma lei sfoggia una calma interiore
che ci pervade e rasserena. Verginella ce la
presenta, poi su di un taccuino comincia a
prendere appunti su chi è sopravvissuto al
rastrellamento e chi è rimasto disperso, verificando le perdite e chiedendomi notizie di
un compagno in particolare. Alla fine, prima
di congedarsi, mi ordina di recarmi a Marcheno, al «Ruc», la mia casa, lasciando lì il
mitra e portandomi solo la pistola. Firmo
resta qui da solo. A Ponte Zanano, come mi
aveva detto il comandante, trovo ad aspettarmi la staffetta Ermanno Zanoletti, che
mi accompagna fino a casa mia”.
Scrive Lino Belleri nella testimonianza
scritta depositata presso la Fondazione Micheletti: “In febbraio ’45 la neve comincia a
ritirarsi, i partigiani ritornano in montagna, la
Berta svolge di nuovo il lavoro di collegamento, porta ordini ai diversi gruppi in città e nei
paese, accompagna lei stessa qualche giovane in montagna. Usando la bicicletta, spesse
volte sotto la pioggia, fa la spola da Marcheno
a Brescia, a Iseo, S. Gallo, Palazzolo, Orzivecchi, Mura, Gardone V.T., a S. Eufemia, aiutata qualche volta nel suo lavoro dalle staffette
dei vari paesi. Raggiunge parecchie volte la
Brigata per portare le comunicazioni del centro o per informare la Brigata sui movimenti
dei fascisti. Accompagna in montagna anche ispettori delle Brigate Garibaldi (Remo)
Lombardi, (Cichino) [Francesco] Poinelli, (Tone) A. Scalvini”.
Il 13 aprile del 1945, Berta riesce a prendere accordi con due soldati prigionieri dei
fascisti a Botticino. La caserma di Botticino si trova nell’edificio comunale che oggi è
adibito a biblioteca e lì ci sono diversi soldati coi loro sottufficiali appartenenti alla
Rsi che vogliono scappare dalla caserma.
Viene quindi decisa l’azione armata della
122ª brigata Garibaldi per aiutarli a fuggire. I soldati riescono a scappare con armi
ed equipaggiamento e si dirigono verso il
Sonclino, accompagnati da una decina di
partigiani, prendendo la strada per San
Gallo, dove sostano, per poi avviarsi verso
la Valtrompia.
Per meglio comprendere l’episodio di Botticino è opportuno precisare altri dettagli
sull’importante ruolo dal lei svolto nella
vicenda. Approfittando del buio, “42 militari di truppa, fra i quali cinque sottufficiali
appartenenti ad una compagnia del genio
di stanza a Botticino Sera (Brescia) si allontanavano in armi e col corredo personale
dal reparto, a scopo di diserzione. Sono in
corso accertamenti”. Così riferisce la relazione della questura di Brescia compilata il
19.04.1945.
Quello che realmente è successo lo possiamo conoscere da diverse fonti. A Botticino
Sera, nell’edificio prospiciente piazza 4 Novembre, allora adibito a caserma, era allog107
giata una truppa di giovane reclute del 131°
battaglione dell’esercito della Rsi, diretta da
ufficiali e sottufficiali. È proprio Santina
(Berta) Damonti che avvicina un sergente
e lo convince a disertare, prendendo gli accordi per l’allontanamento suo e della sua
truppa per il fatto che volevano trasferirli
in Germania. Non è un approccio qualsiasi
quello di Santina, ma una moral suasion
derivata dalla sua naturale autorevolezza e
dall’efficacia del proprio ruolo. Considerato
che la guerra era alla fine, i soldati sarebbero stati accompagnati nottetempo in una
distante zona di montagna dove c’erano gli
alloggiamenti dei partigiani garibaldini, bisognosi di uomini in vista dell’imminente
insurrezione. La meta è il Sonclino e tutto
è stato predisposto alla perfezione. Nonostante le assicurazioni
ricevute, un altro sergente è titubante e di
ciò il comando partigiano è perfettamente
al corrente. Così quella notte una formazione di uomini della resistenza locale (formata da due cellule di Botticino e una di San
Gallo, con Santina) e 10 partigiani della
122ª scesi dalla montagna aiutano 37 soldati e 5 sottufficiali a lasciare in perfetto
silenzio la propria camerata con le armi e le
munizioni in dotazione. I commilitoni dormienti al piano di sopra non si accorgono
di niente.
La truppa si dirige indisturbata a San Vito
scortata dai patrioti e da qui, guidata dai
soli partigiani, risale compostamente alla
base della brigata, nonostante il percorso
sia lungo e faticoso. Il sentiero da San Vito,
dopo aver costeggiato il due monti Dragoncello e Dragone, raggiunge le coste di
S. Eusebio, incuneandosi poi con leggera
pendenza verso il passo del Cavallo, posto
alla sommità di Lumezzane; infine s’inerpica lungo le coste impervie del monte Ladino
raggiungendo la vetta del Sonclino, sotto la
quale sta la sede logistica garibaldina. Un
percorso di tutto rispetto che i partigiani
conoscono alla perfezione, anche camminando al buio.
Alcuni dei soldati, poco prima del rastrellamento del 19 aprile preludio alla battaglia
del Sonclino, chiedono al comandante Tito
di potersene andare, perché hanno paura
108
ed indossano ancora la divisa militare. Pensano di potersi consegnare ai fascisti facendo credere di essere stati costretti a seguire
i partigiani in montagna. Invece vengono
fatti prigionieri dai tedeschi, che li portano a Marcheno, presso il loro comando e il
pomeriggio del giorno seguente li fucilano.
Il 19 aprile 1945 la Berta è a casa di Maria
al Ruc a Marcheno.
Ascolta nervosa gli spari della battaglia
del Sonclino in cui è coinvolto suo fratello Spartaco e di Maria, Lino Belleri che
dopo la guerra sposerà. Fortunatamente
entrambi si salvano.
I garibaldini superstiti alla battaglia si ritrovano in località «Pineta» di Lodrino e da
qui convergono attraversando le montagne
verso l’alpeggio dove la brigata era nata
con Verginella sei mesi prima, in Visalla di
Irma. Qui il 23 aprile Tito accoglie la resa
del presidio Gnr di Gardone Vt.
L’ordine di insurrezione giunge nella serata
del 25 aprile.
Le ultime azioni della brigata sono sintetizzate nella “Relazione sui fatti d’arme”
elaborata nell’immediato dopoguerra: “Nei
giorni dell’insurrezione la Brigata si è distinta per le azioni di attacco, a danno delle colonne tedesche in ritirata e nelle azioni di rastrellamento dei gruppi tedeschi che ancora
operavano a resistenza armata. In località
di S. Gallo 20 garibaldini hanno accerchiata
in una cascina 5 soldati della S.S. tedesca
catturandoli.
In località di Botticino Mattina veniva fermata una colonna di automezzi la quale trasportava 40 tedeschi e varie armi. I soldati
tedeschi si arrendevano mentre due ufficiali
cercavano di opporre resistenza per cui i due
ufficiali stessi venivano passati per le armi.
Un altro distaccamento della Brigata attaccava varie colonne di carri tedeschi bruciando e distruggendone parecchie. Le nostre
forze prima dell’insurrezione erano di circa
250 uomini”.
La relazione si conclude con i nominativi del
comando, la dislocazione territoriale dei distaccamenti della brigata e l’indicazione del
numero dei caduti: “Il comandante militare
Guitti Luigi (Tito) Commissario politico Ca-
sari Giovanni (Gustavo) vice comandante Belleri Angelo (Lino) vice commissario Pedretti Luigi (Sergio) capo di Stato
Maggiore Damonti Pietro (Spartaco).
Dislocati in Valle T/ V.S. - località Gardone
V.T. Sarezzo – Lumezzane – Mura – Casto –
Bovegno –Marmentino – ecc. Caduti nell’attività di lotta contro i nazi-fascisti 70 garibaldini”.
Alla fine della guerra consegnano a Santina Damonti “Berta” il certificato di patriota e una croce al merito. Lei ha sempre detto di non aver combattuto per le medaglie,
però gradisce il riconoscimento di Pertini.
Il clima del dopoguerra non è generoso con
le donne. Santina dopo la guerra si dà da
fare per cercare lavoro, ma non lo trova:
“Dopo la liberazione Santina si dà da fare
per cercare lavoro: la famiglia vive in cattive acque, suo padre ha dovuto vendere la
casetta di San Gallo, quando sono fuggiti.
Nessuno la assume. Aver lottato tanto per
poi trovarsi in miseria! È piena di amarezza, anzi, di rabbia, non solo perché con la
guerra hanno perso tutto, ma anche perché,
nel momento in cui si sancisce l’entrata delle donne sulla scena della storia, le discriminazioni di genere continuano. Quando si
presenta al capo della commissione, un ex
partigiano, lui le dice che bisogna essere
gentili e lei gli risponde con una borsata in
faccia. Non troverà mai lavoro e questo segnerà la sua esclusione dalla vita sociale e
politica. Spegnerà quella spinta alla partecipazione che l’aveva indotta ad assumere,
giovanissima, un ruolo ben diverso da quello
ricoperto in passato dalle sue coetanee”.
Santina però è già avanti con i suoi progetti e guarda il mondo con occhi diversi. Non
sta a contemplarsi o a lamentarsi. Si rimbocca le maniche. Si reinventa, perché la
sua generazione non ha perso e non è sola.
Quel giovane partigiano Lino Belleri, che
di lei s’era innamorato al «Ruc», la sta corteggiando da tempo, arrivando da lei a
Sant’Eufemia in bici fin da Marcheno, un
appuntamento quasi bisettimanale, in attesa delle nozze.
Lino ex capo ribelle e ora difensore dei diritti, continua la sua lotta in fabbrica contro le ingiustizie usando come armi la passione, le idee, il sindacato, opponendosi
all’oppressione del nuovo sistema di potere,
dentro e fuori la fabbrica. Berta sostiene
pienamente l’impegno dell’uomo che ama.
(sintesi biografica da “In volo con Berta.
Santina Damonti”, ricerca storica di ISAIA
MENSI)
109
Nominativi di cittadini di Botticino
che hanno collaborato con la Resistenza
·Apostoli Vittorio, Botticino 8.1.1917 - disperso in Grecia 21.9.1945
·Biondi Giuseppe, Livorno 3.8.1922 - San
Gallo 28.10.1944, partigiano
·Boccacci Giuseppe, Botticino 11.4.1902 Mompiano 26.4.45, partigiano
·Bolpagni Ferdinando, staffetta
·Bolpagni Pierino
·Bolpagni Stefano, Botticino Sera 14.3.1920
- Botticino 26.10.1961, partigiano
·Borghetti Maccarinelli Rosa, Marmentino
25.10.1926, staffetta partigiana
·Cavalli Beniamino, Castrezzato
11.10.1926 - San Gallo 28.10.1944, partigiano
·Cantoni Bernardo, Brescia 20.5.1926 Botticino 29.9.85, staffetta
·Cantoni Giulio
·Colosio Guerino (David), Botticino Sera
6.6.1915 - Brescia 16.3.97
·Colosio Vittorio (Pinco)
·Comini Maurizio, Botticino Mattina
17.3.1927, staffetta partigiana
·Ciocchi, Bovegno
·Bottarelli Alghisio, Nuvolera 1895 - Gazzolo di Botticino 28.4.1945, partigiano
·Damonti Angelo (Serlo), Botticino
20.6.1902 - Botticino 14.6.1960, patriota
·Broglio Filippo
·Damonti Battista (Frecane), San Gallo
21.2.1900 - Botticino 10.10.1975, patriota
·Broglio “Cibroi”
·Busi Benedetto (Cì), 1902, patriota
·Busi Giovanni, San Gallo 28.12.1884 25.4.1945
·Busi Giuseppe, 29.12.1928 - Botticino
2.8.1994, partigiano
·Busi Mario, Botticino 8.9.1912, patriota
·Busi Giuseppe (Primo), partigiano, brigata
Garibaldi
·Damonti Pietro (Spartaco), San Gallo
23.6.1923, partigiano
·Damonti Faustino, Ciliverghe 12.11.1900,
patriota
·Damonti Santina, San Gallo 19.2.1922,
patriota
·Damonti Rosa, Brescia 18.8.1921 - Botticino 13.11.1989, patriota
·Busi Santina, Botticino 5.3.1920, partigiana
·Della Fiore Umberto, Rezzato 19.11.27,
partigiano
·Busi Sebastiano (Nono), San Gallo
28.5.1920 - Botticino12.11.1989, partigiano
·Di Prizio Francesco, Iseo 21.10.1924 - San
Gallo 28.10.44, partigiano
·Busi Sebastiano (Bisola), partigiano
·Duina Angelo
·Busi Vittorio, Botticino 18.7.1920 - Passo
Guselli (PC) 4.12.1944, partigiano
·Fornari Cesare, 13.7.1929, partigiano
·Catanea dott. Pasquale, Rezzato, partigiano
110
·Furlan Olga, Brescia 3.2.1926 - Brescia
29.1.98, staffetta partigiana
·Giordani Giuseppe (Capèla), Iseo 31.5.27,
partigiano
·Oprandi Pietro, Botticino 13.3.1906 - Brescia 14.8.1968, patriota
·Giossi Giacomo, Botticino Mattina
26.12.1925, patriota
·Pavan Bruno
·Gorni Giuseppe (Bepi Moneda), Botticino
Sera 6.1.1924, partigiano
·Previcini Luigi, Botticino Mattina 1.2.1927,
patriota
·Ragnoli Vittorio, Serle 7.2.1915, partigiano
·Gorni Rino (Cinciù), Botticino Mattina
21.10.1911 - Botticino 17.10.1979, partigiano
·Ragnoli Martino, Bottticino 20.8.1924, partigiano
·Lonati Annibale, 3.11.1915, patriota
·Romano Luigi, Sant’Eufemia 29.4.1928 9.1.1977, partigiano
·Lonati Maria, Botticino 7.2.1902 - Botticino
29.8.1987, patriota
·Lonati Angelo, San Gallo 15.2.1909, partigiano
·Rumi Domenico, Botticino 9.11.1918 Pomponne (Francia) 10.10.1945
·Quecchia Palmiro, Botticino Mattina
10.1.1926, patriota
·Lonati Casimiro, San Gallo 3.10 1897 Botticino Mattina 13.4.1983, partigiano
·Tavelli Giulio (Primo)
·Lonati Francesco (Cesco), partigiano
·Tolotti Enrico
·Lusseri (Fornaio)
·Tomasotti Luigi, Botticino Mattina
9.2.1923, partigiano
·Maffezzoli Marcello
·Oliani Giulio, Brescia 6.7.1924, partigiano
·Maffeis Battista, partigiano, brigata X
Giornate
·Moreschi Flaminio, Botticino Mattina
3.9.1925, patriota
·Zanola Adelino (Banana), Botticino Mattina 27.9.1926, partigiano
· Zanoni Santo, Botticino 10.5.1911 - Ponte
Pregno in Villa Carcina 26.4.1945, partigiano
111
Indice
Le Segreterie Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp Uil Brescia
p. 3
Il sindaco Mario Benetti
p. 5
MEMORIE DELLA RESISTENZA A BOTTICINO
Nuova edizione e ristampa - Nota dei curatori
di Fabio Secondi e Osvaldo Squassina
p. 7
Introduzione
p. 9
Il percorso
p. 11
Cronologia
p. 15
Testimonianze orali
p. 44
Testimonianze orali aggiunte per questa edizione
p. 92
Nominativi di cittadini di Botticino
che hanno collaborato con la Resistenza
p. 110
Finito di stampare nel mese di Aprile 2014
per i tipi della GAM di A. Mena & C. snc
In Rudiano - Bs