arte e multitudo

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arte e multitudo
Editore Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo | S.S. 5 bis n. 5, 67100 L’Aquila
Tribunale dell’Aquila n°553 del Registro Giornali 18.03.2006
Periodico Trimestrale Gratuito - Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale - 70% - Pescara
Anno X / I Trimestre n° 32 - 2015
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ARTE E MULTITUDO
SPECIALE ARTE FIERA
OFF SITE ART
L’OPINIONE: GABI SCARDI
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EDITORIALE
Germana Galli & Antonella Muzi
MU6 n.32
Periodico Trimestrale ideato da Germana Galli
Editore
Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo
S.S. 5bis n.5, 67100 L’Aquila
[email protected]
www.rivistamu6.it
Direttore Responsabile
Walter Capezzali
Coordinamento editoriale
Germana Galli
Redazione
Nicla Cassino, Angela Ciano, Giovanni Di Bartolomeo,
Paola Mulas, Antonella Muzi, Massimiliano Scuderi,
Filippo Tronca.
Hanno collaborato:
Davide Ferri, Licia Galizia, Salvatore Iaconesi, Aldo Iori,
Mauro Mattia, Santa Nastro, Veronica Santi, Gabi Scardi,
Marinella Senatore, Claudio Spadoni, Paolo Verri,
Giorgio Verzotti.
Si ringraziano inoltre:
Giorgio Castriota Scanderberg, Antinisca Di Marco,
Valentina Laneve, Lisson Gallery Milano, Matteo Lucchetti,
Claudia Pajewski.
Progetto grafico
Ad.Venture / Compagnia di comunicazione
Impaginazione
Franco Mancinelli, Ybrand
Foto
Aurelio Amendola, pagg 28, 29
Filippo Giannone-Agronomi e Forestali Senza Frontiere, pag 10
Mauro Mattia, pag 25
Paolo Terzi, pag 21
Claudia Pajewski, cover, pagg 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20
Stampa
Publish.it - Villanova di Cepagatti / Pescara
Distribuzione
Spedizione postale
© MU6 / 2015 stampato in Italia
In questi anni di attività e in modo particolare da ultimo, abbiamo promosso e sostenuto l’esprimersi dell’arte
urbana. Stiamo immaginando, progettando e proponendo una diversa interazione, un rapporto più importante
tra l’abitato, il costruito produttivo e la natura. La prima forma di rapporto tollerante è tra l’uomo, quello che
pensa, quello che realizza e il Prossimo inteso nell’accezione più ampia. Così in questi giorni vissuti come testimoni degli orrendi esiti dell’odio, abbiamo alzato la nostra matita unica vera arma contro la violenza e l’intolleranza: nulla dies sine linea, Plinio il Vecchio.
Il rispetto dell’altro anche nei rapporti urbani sia nelle diversità di una comunità, sia nei rapporto dell’opera dell’uomo con la natura, garanti i governi e cioè la res publica intesa come stato ma anche come ciò che è utile ad
una collettività per il proprio vivere e progredire, insieme.
Pubblico è l’AGGETTIVO impiegato per definire la qualità di apertura, assenza di limitazioni e di accessibilità. Pubblico è un progetto che assume il significato del VERBO “pubblicare” cioè aprirsi all’esterno, avere bisogno - per
esistere - di uscire allo scoperto. Non possiamo non considerare che oggi i confini dello spazio pubblico sono profondamente mutati anche solo rispetto a dieci anni fa: è luogo pubblico a tutti gli effetti anche la piazza virtuale e un’operazione realizzata in rete o un post sui social network hanno lo stesso valore di un prodotto del mondo “reale”.
Mondo fisico e mondo virtuale sono sempre più irrelati e interdipendenti, lo sappiamo tutti.
Ma pubblico è anche un progetto che è portatore di valori collettivi che hanno l’ambizione di migliorare la qualità
della vita comunitaria, così come pubblica può essere la qualità intrinseca di un’opera d’arte, con i suoi valori espressivi e metaforici.
Pubblico è il SOGGETTO, un gruppo di persone a cui un prodotto - culturale e non - è rivolto. Un pubblico considerato per decenni come un magma indistinto, un nome collettivo da declinare al singolare non solo a livello formale ma anche sotto il profilo sostanziale. Finalmente da qualche anno a questa parte anche in Italia abbiamo accolto la dizione nata in ambito francese di “pubblici”. Nome collettivo declinato al plurale. Non un tutto omogeneo
ma infinite combinazioni, comunità interpretative, gruppi diversi per desideri, vissuto, aspettative, bisogni.
I progetti di arte pubblica si muovono su questi piani, con diversi gradienti di intensità. Occuparsi di arte pubblica
vuol dire, quindi, aprire, coinvolgere, costruire zone di pensiero critico, perché con l’arte si torni ad avere confidenza,
perché l’arte abbia davvero la capacità di incidere nella vita delle persone. Ma occorre prudenza. I rischi di strumentalizzazione sono in agguato in questo campo. Si chiede ai progetti di arte pubblica di trasformare le città, di
rifondarne l’estetica, in operazioni spesso legate a doppio filo con la politica del consenso. Qual è il rischio? Facile. È quello di punteggiare gli spazi nei quali viviamo di strutture, sculture, installazioni dal valore decorativo, decantandone invece l’elevato valore poetico. Vengono ammantati di un carattere artistico oggetti dubbi, sospesi tra
l’ornamento e l’arredo urbano, ma che di arte non hanno nulla. Mentre hanno molto di velleitario. Ecco allora che
il concetto di pubblico viene spesso adoperato per pura demagogia, perché va di moda, in progetti che poi sono
elitari e del tutto chiusi in se stessi. Del resto la retorica del “bene pubblico”, anche nel mondo dell’arte, è sempre
pericolosamente in agguato.
Occorre prestare attenzione, sia se si è soggetti sia se si è destinatari di un intervento di arte pubblica. In gioco ci
siamo noi che, singolarmente e collettivamente, siamo PUBBLICO.
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MU2
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ARTE E
MULTITUDO
COVER
PAGINA 4
PAGINA 6
L’OPINIONE
TRASFORMAZIONI URBANE:
QUANDO L’ARTE PRODUCE
NUOVI MODELLI DI CITTADINANZA
L’OPINIONE
ARTE TORNA PUBBLICA
in copertina:
Off Site Art / Artbridge per L’Aquila
Carmen Mitrotta, Death foods for new worlds.
Piazza Regina Margherita, L’Aquila
Photo: Claudia Pajewski
Massimiliano Scuderi
Gabi Scardi
PAGINA 8
IL PERSONAGGIO
MARINELLA SENATORE
Intervista a cura di Antonella Muzi
PAGINA 10
ARTI
COLAN
DO
PAGINA 12
PAGINA 13
UNA RIFLESSIONE SUL GENIUS LOCI
OFF SITE ART / ARTBRIDGE
PER L’AQUILA
Paola Mulas
Veronica Santi
PAGINA 21
PAGINA 22
PAGINA 23
PAGINA 24
MOSTRE
FRANCO GUERZONI
ARCHEOLOGIE SENZA RESTAURO
ART IS OPEN SOURCE
SALVATORE IACONESI
ART IS OPEN SOURCE
PAOLO VERRI
Intervista a cura di Nicla Cassino
Intervista a cura di Nicla Cassino
ARTEFIERA 2015
GIORGIO VERZOTTI
CLAUDIO SPADONI
Intervista a cura di Davide Ferri
Intervista
PAGINA 25
PAGINA 26
PAGINA 27
PAGINA 28
EDITORIA
MUSEI E TERRITORIO
COSÌ BELLI CHE SEMBRANO VERI
FORMAZIONE
LA SCUOLA DIVENTA MUSEO
D’ARTE CONTEMPORANEA
SUONO E COLORE NEL TEMPO
DEL SAPERE: UNA NUOVA OPERA
PERMANENTE DI DIEGO ESPOSITO
Angela Ciano
Aldo Iori
REWIND. TIZIANA FUSARI, UN’ARTISTA
SULL’ALTALENA DELLA MEMORIA
Antonella Muzi
Filippo Tronca
PAGINA 25
ARCHITETTURA
ESPOSIZIONI UNIVERSALI
ARCHITETTURE PER LA SOCIETÀ
Giovanni Di Bartolomeo
PADIGLIONE EDITORIA
STAND 26
MU3
Pedro Reyes, Palas por Pistolas [Guns for Shovels], 2007-present. Courtesy Lisson Gallery, Milano
TRASFORMAZIONI URBANE:
QUANDO L’ARTE PRODUCE
NUOVI MODELLI DI CITTADINANZA
GABI SCARDI
Un piccolo scarto di prospettiva che scompagina la visione di sempre; uno scarto che
può innescare nuovi pensieri e un nuovo sentire; questo l’arte ci può dare, se le prestiamo
attenzione.
Esiste però uno specifico ambito dell’arte
contemporanea nella quale rientrano artisti particolarmente sensibili alle istanze di
qualità di vita, trasformazione sociale e
urbana. Pur considerando che si fa riferimento a poetiche sempre uniche e singolari, possiamo dire questi artisti sono accomunati dall’attitudine a reagire agli scenari quotidiani proponendo nuovi possibili
modelli di socialità e di cittadinanza. Questo orientamento progettuale e costruttivo si riscontra oggi in un ampio numero di
artisti; e, quando la loro progettualità si coniuga con l’energia, la vitalità e l’ambizione,
genera oggi opere e interventi tra i più significativi.
Pensiamo a un artista come Pedro Reyes:
nato a Città del Messico nel 1972, architetto
di formazione, il suo lavoro origina dall’idea
che, mettendo in campo gesti coinvolgenti e di forte significato simbolico, l’arte
possa trasformare ciò che tocca. Così, per
esempio, il suo Palas Por Pistolas - Pale al
posto delle pistole, consiste, con le sue parole, in “una campagna per il controllo del
commercio delle armi leggere”; l’artista
MU4
ottiene infatti dai cittadini di Culiacán, comune noto come centro della violenza legata
al narcotraffico, millecinquecentoventisette armi da fuoco; in cambio dà loro dei voucher con cui comprare materiale elettronico, rispondendo così a un loro desiderio.
Dopo aver fuso le armi pubblicamente ne fa
altrettante pale, che ridistribuisce presso la
popolazione affinché vengano utilizzate
per piantare alberi nella città.
Dopo Palas Por Pistolas Reyes realizza
Imagine: in questo caso all’origine del lavoro
ci sono migliaia di armi da fuoco sequestrate
dal Ministero della Difesa messicano ai
trafficanti di droga. L’artista ottiene di poterle utilizzare e, tramite un minuzioso lavoro, che coinvolge un grande numero di
specialisti, le trasforma in un’ampia serie di
strumenti musicali funzionanti. Gli strumenti,
passati dall’essere dispositivi per uccidere
all’essere strumenti di comunicazione attraverso la musica, saranno effettivamente suonati nell’ambito di concerti pubblici:
un modo per dare voce e visibilità pubblica
alle alternative che esistono.
È chiaro che, per Reyes, il tema portante del
lavoro artistico è la possibilità di una reale
trasformazione della società, e l’opera ne è
metafora; e la condivisione riguarda sia le
preoccupazioni da cui l’opera scaturisce, sia
la lunga e complessa fase di elaborazione,
sia il momento della restituzione. Questa
condivisione del proprio lavoro artistico, così
chiaramente perseguita, da un lato è in sé
elemento di senso, dall’altro contribuisce a
fare dell’intervento artistico una piattaforma di azione comune, concreta e insieme
simbolica, e quindi un veicolo di cambiamento potente ed efficace.
L’orientamento esemplificato attraverso il
progetto di Reyes, che
privilegia progetti basati su condivisione, socialità, scambio di competenze, senso di vigilanza civile, desiderio di dire la propria su
tematiche fondamentali, e come perno per
un possibile cambiamento – seppur a lungo, o anche a lunghissimo termine - anima
le opere di molti altri tra gli artisti più interessanti del presente.
“Perhaps – scriveva nel 2012 Nato Thompson nel suo importante LIVING AS FORM in reaction to the steady state of mediated
two- dimensional cultural production, or a
reaction to the alienating effects of spectacle, artists, activists, citizens, and advertisers alike are rushing headlong into
methods of working that allow genuine interpersonal human relationships to develop. The call for art into life at this particular moment in history implies both an urgency to matter as well as a privileging of
the lived experience. These are two different
things, but within much of this work, they are
blended together.”
Queste istanze conferiscono ai progetti in
questione una valenza “pubblica”.
Nei secoli l’arte occidentale è stata essenzialmente pubblica, ossia vincolata; funzionale al bisogno di autorappresentazione
e di comunicazione, di trasmissione della
storia e della memoria del committente da
cui l’artista dipendeva. Per il principe, per la
gerarchia ecclesiastica, per il banchiere, l’opera d’arte costituiva un veicolo diretto di
prestigio, di promozione, di celebrazione personale. Che realizzasse una pala d’altare o
gli affreschi che, nelle Chiese, dovevano fungere da biblia pauperum, le pitture murali
di un ospedale o il monumento a cavallo che
avrebbe segnato il fulcro di una piazza, che
si mettesse al servizio del principe come organizzatore della vita di corte e dei suoi riti,
l’artista rispondeva a un ruolo ufficiale, codificato per convenzione e sancito da precisi contratti; in questo senso era integrato alla vita sociale, e la rappresentava. Il suo
linguaggio doveva corrispondere ai coevi codici di lettura dell’opera; la sperimentazione formale poteva quindi procedere solo per
minime variazioni sul tema.
La consapevolezza del ruolo di creatore e
di intellettuale, l’ambizione a un maggiore
margine di autonomia emersero, negli ar-
L’OPINIONE
tisti, lentamente e progressivamente, a
partire dall’età umanistica. E solo molto più
tardi andò maturando un senso di responsabilità civile che, sullo scorcio del Settecento, li portò a guardare alla storia con libertà critica, e a farsene interpreti in prima persona.
La strada da percorrere era ancora lunga.
Doveva passare attraverso le avanguardie
con la loro sperimentazione linguistica
sempre più veloce e con la loro polemica
contro la tradizione e contro la tendenza dell’arte a farsi espressione del conformismo
sociale. Ma è soprattutto con la prima
metà del Novecento, con i grandi totalitarismi, con la crisi di certezze che ne consegue e con il profondo mutamento della
temperie culturale, con la sempre maggiore difficoltà a pensare il rapporto con la storia, quindi a rappresentarla, che l’artista, tra
le figure più attente alle trasformazioni, ai
nuovi contesti e ai nuovi valori, alle istanze
sociali del presente, avverte la necessità di
recuperare rapporto, suffragio e una posizione di responsabilità con la realtà mutata. Un processo che va di pari passo con la
generale democratizzazione della società,
ma anche, come già sottolineato da Thompson, con l’esigenza di contrastare l’effetto totalizzante della società dello spettacolo,
così efficacemente denunciato dal Situazionismo sin da fine anni Cinquanta.
Con questa posizione di rinnovato impegno
all’interno della compagine sociale, sono
molti gli artisti che, già da quegli anni, decidono di assumere un ruolo di vigilanza critica e scelgono di uscire dallo studio, dalla
galleria, dagli spazi deputati e dai percorsi
predestinati. È un momento di grande rinnovamento del quadro linguistico e con-
cettuale e, nelle sperimentazioni più radicali, si assiste a un avvicinamento – fino al
limite della fusione - tra arte e vita: l’opera
comincia a farsi, “situazione”. Basti pensare
a una figura come Pinot Gallizio, o agli artisti Fluxus per i quali ogni gesto può essere arte, se realizzato intenzionalmente e all’interno di un percorso dichiarato; perché,
con le parole di Filiou, “l’art, c’est ce qui fait
que la vie est plus intéressante que l’art”.
Con tutto ciò, la storia dell’arte nell’accezione
contestuale a cui oggi facciamo riferimento è recente; non solo; come ogni altro
aspetto dell’arte contemporanea è erratica, ed evolvendosi con i ritmi e con la velocità con cui il contesto si trasforma, richiede di essere sempre aggiornata. Non si tratta di una debolezza, ma di un elemento di
vitalità che la rende organica, intrinsecamente votata alla crescita, sostenibile nel
tempo: è materia viva, consistente nel cercare forme sempre nuove e diverse per affrontare la complessità del mondo nelle sue
sfaccettature, per comprenderne ed esprimerne le dinamiche fondamentali, gli incroci
di culture diverse, per raccogliere la continua domanda di ridefinizione degli spazi e
dei modelli di vita.
L’accezione di arte sinora contemplata non
è isolabile, ma può rappresentare un nucleo
intorno al quale si articola una costellazione di opere; esemplare in questo senso la
Silent University dell’artista turco Ahmet
Ögüt: una para-università destinata a raccogliere e mettere in circolo quel sapere che
rischia di andare perduto in quanto appartenente a soggetti che non sono in grado di
condividerlo né di metterlo a frutto; magari perché la loro cittadinanza non è pienamente riconosciuta dalla società; come
Ahmet Ögüt, The Silenti University London, lecture
avviene, in molti casi, per gli immigrati o i richiedenti asilo; che nei loro paesi di origine possono essere dottori, mentre nei luoghi in cui si trovano ad abitare sono costretti
a svolgere mansioni che con la loro preparazione non hanno nulla a che fare. La Silent University li invita allora ad assumere
il ruolo attivo di docenti impostando corsi e
seminari su temi a loro scelta, in modo che
queste competenze non vadano disperse. Le
persone invitate offrono il loro tempo su base
volontaria, e chiunque può partecipare alle
lezioni iscrivendosi online. Si tratta dunque
di un’iniziativa nata per dare voce a chi non
ne ha e intesa a protrarsi al di là dell’intervento dell’artista, che ne ha semplicemen-
te costituito l’innesco. Questa è la sfida di
questo genere di progetti: l’arte, però, non
sta solo agli artisti; sta invece nel rapporto che ognuno di noi riesce a instaurare con
l’opera. Un rapporto diverso per ognuno e in
ogni momento. Perché la voce degli strumenti che Pedro Reyes assembla, delle
persone a cui Ögüt dà uno spazio ci possano raggiungere, occorre da parte nostra altrettanta attenzione, disponibilità all’ascolto. Quando queste condizioni si verificano l’opera costituisce effettivamente
una straordinaria possibilità di apertura
alla realtà e di arricchimento.
Ahmet Ögüt, The Silent University Orientation Module at the Visible project space in Brussels
MU5
Zafos Xagoraris, Downhills, 2013
ARTE TORNA PUBBLICA
MASSIMILIANO SCUDERI
Céline Condorelli, 2014, vista della mostra bau bau. Photo Agostino Osio, Courtesy Fondazione HangarBicocca
Questo numero della rivista rimanda direttamente ad un libro di recente pubblicazione, una raccolta di lettere di Toni Negri (vedi nella sezione articolando a pag. 10)
in cui il filosofo afferma il principio per cui
l’arte è da considerarsi come espressione
ed affermazione degli uomini e del lavoro
collettivo e libero. Riportando lo stesso titolo in copertina si è voluto intendere quindi la necessità di condurre una riflessione,
condivisa da tutta la redazione, per trovare una chiave di lettura ed una posizione rispetto al ruolo della cultura e dell’arte
nella società contemporanea. Personalmente ho voluto riferirmi, parafrasandolo,
al titolo di un altro libro, che ho amato molto, riguardante lo statuto stesso dell’arte.
In Arte torna Arte lo scultore Luciano Fabro
volle, attraverso la trascrizione di alcune delle sue lezioni all’Accademia di Brera, ap-
MU6
profondire i motivi di una scelta etica ancor prima che estetica. Come nel capitolo
dedicato proprio alla scultura pubblica e
monumentale in cui afferma una cosa
fondamentale ovvero che solo ciò che ha un
senso molto forte e necessario per sé e per
gli altri, (…) e che permette tra sé e gli altri, tra sé gli altri e le cose un legame profondo può essere chiamato opera d’arte. A tal
proposito, in questi ultimi anni, ho osservato e registrato un mutamento in atto nel
mondo dell’arte rappresentato dal ruolo che
gli artisti stanno lentamente provando ad
acquisire nella società contemporanea.
Questo atteggiamento che trova la sua matrice culturale in buona parte nell’arte del
secolo scorso, dalle avanguardie storiche
in poi, non è da confondere con talune operazioni, come stigmatizzato da Jacques
Ranciere circa l’attività dei designer che
reinventano una comunità a partire da un
nuovo arredo urbano, o degli artisti relazionali che introducono un oggetto, un’immagine o un’iscrizione insolita nel paesaggio delle periferie difficili.1
L’ estetica moderna, ad esempio in Kant e
Hegel, ha sempre posto in essere come condizione fondamentale la conciliazione dei
conflitti, l’armonia, la regolarità in un’ottica conoscitiva e di unità organica. Diversamente, con Nietzche e Freud, nasce
un’idea di contrasto, di contraddizione
dialettica. Sempre più artisti contemporanei si stanno alienando dalla tradizione
estetica e dalla sua degenerazione, come
ben descrito da Baudrllard circa l’estetizzazione totale e la reificazione dell’arte attraverso il mercato; questa posizione deriva dallo sviluppo di un pensiero della
‘differenza’, che fa si di non identificarsi con
un dato sistema. Questo pensiero considera
problematiche reali e sociali in un mondo
vero2, per le quali attraverso un atteggiamento di lateralità rispetto alla chiusura di
un dato contesto sviluppa delle soluzioni,
delle progettualità che attingono per necessità ad altre modalità, più eterogenee e
complesse, non più confinabili ad un solo
ambito disciplinare e questo viene fatto con
un atteggiamento che è consapevole e
vergine al tempo stesso. È interessante riportare un’espressione di Pierre Bourdieu
circa l’opinione di chi non appartiene alla
stretta cerchia dei sostenitori del gusto
estetico, cioè quello generico e facilmente accessibile: lo sguardo puro presuppone una rottura con l’atteggiamento ordinario nei confronti del mondo che costituisce per ciò stesso una rottura sociale.
Possiamo riprendere Ortega y Gasset quando attribuisce all’arte moderna, che non fa
che portare alle ultime conseguenze una intenzione iscritta nell’arte a partire dal Rinascimento, un rifiuto sistematico di tutto ciò che è “umano”, intendendo con ciò
le passioni, le emozioni, i sentimenti con cui
gli uomini ordinari affrontano la loro esistenza ordinaria.3
Mi sembra per questo importante ricordare il contributo del filosofo Boris Groys
che ha sviluppato una visione anti-estetica dell’arte, non tradizionale, ma come
una forma più specifica di estetica. L’aspetto
più importante dell’analisi del filosofo berlinese sta nell’aver evidenziato il rapporto
dialettico tra pubblico e artista, quest’ultimo impegnato in una pratica rivolta alla società più che votata all’auto-referenzialità,
ed il pubblico non più considerato come un
consumatore passivo, ma come soggetto
desiderante e progettuale. Questo rientra
anche in una sofisticata strategia dell’artista contemporaneo stesso che, come
dice Boris Groys4, si auto-proclama attraverso un gesto progettuale, proponendo
opere che risultino collaborative, riconquistando un terreno di condivisione delle
esperienze, superando il concetto di estetica tout-court, coinvolgendo il pubblico attivamente ed eliminando quella distanza che
permette agli osservatori di non essere più
estranei, di giudicare un’opera da una prospettiva esterna. Dice appunto quando
l’osservatore è coinvolto in una pratica artistica fin dall’inizio, del resto, ogni critica
diventa autocritica.
Nelle esperienze più recenti di Public Art
(sempre se abbia ancora senso questo ter-
L’OPINIONE
mine), l’artista potremmo dire che si sia reso
interprete di un sentimento comunitario, attraverso il recupero di un dialogo interrotto con la società che diventa per molti versi partecipe di responsabilità, attraverso
nuove processualità che hanno inteso ricomporre la frattura tra mondo dell’arte, in
tutte le sue espressioni, ed il pubblico,
spettatore di un gioco di cui ignorava qualsiasi tipo di regola5. Bisogna dire che lo spazio pubblico, per molto tempo, è stato oggetto di una cultura della privatizzazione6
che ha determinato la perdita del senso collettivo del suo statuto, constatazione che
nasce da quella cultura degli anni Ottanta
per cui l’arte non era più inscrivibile in un
racconto collettivo, ma all’interno di un affare privato. Il rapporto tra pubblici e opera d’arte aveva portato ad una strutturazione individualistica dell’esperienza espositiva, ma anche della produzione e dell’uso dei beni culturali.
In questi ultimi decenni però una nuova sensibilità7, attraverso anche l’apporto di protocolli innovativi basati sulla condivisione
paritaria delle responsabilità legate alla costruzione di un’opera d’arte pubblica o al ricorso della cultura come catalizzatore
identitario nei processi di riqualificazione,
ha avuto il merito di riscrivere la storia di
questi spazi e del ruolo dell’arte nella società, contribuendo alla rigenerazione dei
tessuti urbani attraverso nuove pratiche artistiche, e innovative forme di aggregazione comunitaria finalizzata all’espressione
di soggetti nuovi e autonomi di committenza, cosa che ha coadiuvato, e in alcuni
casi completamento eluso, l’attività dei
city managers e dei classici istituti che regolano la governance delle città.
In questo senso è esemplare il lavoro svolto in Francia attraverso l’evoluzione del protocollo de Les Nouveaux Commanditaires
(di cui si è già parlato nel numero 30 di MU6)
e dal centro d’arte contemporanea Le Consortium di Digione, in particolare da alcuni operatori culturali che ne gestiscono il
programma come Xavier Douroux, Francois
Hers, Eric Troncy e Franck Gautarc8. Il loro
impegno, attraverso anche la Fondazione
di Francia, rappresenta un punto di svolta
sul tema della cultura e in particolare dell’
arte pubblica in relazione allo spazio urbano
ed ai processi rigenerativi.
Un processo di lento abbandono del significato di arte come affaire privè permette
di reimmettere l’arte stessa nei flussi vitali
e nella costruzione delle strutture sociali,
come elemento catalizzatore delle istanze
di comunità spontanee.
L’altra trasformazione in questi tipi di interventi è che l’azione può svolgersi ovunque e che non deve essere gestita o controllata da un’autorità politica o finanziaria ma dagli attori stessi del processo,
con l’aiuto di mediatori indipendenti e
competenti in materia d’arte9. Quanto alla
loro azione, essa si concretizza grazie al sostegno di soggetti intermedi indipendenti
la cui utilità pubblica sia anch’essa riconosciuta. Istituzioni in grado di incaricarsi dell’iniziativa privata, di agire sul lungo termine e di assicurare una ridistribuzione delle risorse disponibili che sia sempre oltremodo vicina alla contingenza, al fine di non
scoraggiare l’iniziativa e di tener conto
dei vincoli specifici di ogni produzione.
Questo tipo di approccio ‘strategico’ attraverso il contributo di artisti e creativi,
come dice il filosofo Boris Groys, è da intendersi come un meccanismo teso a neutralizzare i sospetti da parte degli utenti, di
manipolazioni ciniche, di strumentalizzazioni per propaganda politica, di intrighi nascosti e criminali legati ai processi di trasformazione delle città. L’artista gioca il ruolo dell’unica persona onesta in un mondo
di corrotti ed ipocriti. Questi prova a riconquinstare il terreno di condivisione con il
pubblico, attirandolo fuori dalla passività ed
eliminando quella distanza estetica che permette agli osservatori non coinvolti nelle decisioni legate alle trasformazioni dei luoghi,
in questo caso gli abitanti, di giudicare dall’esterno un’opera pubblica come già detto. Fino ad ora, in particolare negli ultimi decenni, il pubblico era visto esclusivamente come consumatore, cioè gli veniva negato qualsiasi tipo di ruolo attivo e qualsiasi
Niek van de Steeg, L’étage I dela Trés Grande Administration Démocratique: La Salle de Rèunion, 1994,
Collezione FRAC Poitou- Charentes, Angouléme
capacità progettuale. In effetti già Michel
de Certeau10 parlava delle tattiche di resistenza e di una insospettabile capacità di
reinventare il quotidiano da parte dell’uomo comune per eludere I vincoli sociali.
Questa impostazione sembrerebbe tendere ad una prospettiva nichilista e senza
sbocchi. Seguendo anche il ragionamento
di Toni Negri nel libro Arte e Moltitudo la domanda che ne scaturisce è: cosa ne è dell’artista come autore? La risposta a questa domanda è desumibile dal caso dei laboratori urbani, ad esempio, in cui l’artista
mette in scena una vera e propria “morte
dell’autore”, un suicidio simbolico e, come
analizzato da Bataille, gli individui che
compiono il sacrificio più impegnativo ottengono riconoscimento e fama maggiori. Con ciò non si intende limitare questi artisti al ruolo di antropologi, nella pratica metodologica di natura etnografica stigmatizzata da Hal Foster11 circa le ricerche basate sull’interazione con le comunità locali,
ma è un atteggiamento che appartiene all’approccio metodologico di queste nuove
figure che entrano in contatto diretto con
la realtà e non con i suoi surrogati.
1. J. Ranciere, Il disagio dell’estetica,
P. Godani (a cura di), Edizioni Ets, Pisa, 2009
2. Basti pensare alla recente vicenda che ha interessato l’artista cubana Tania Bruguera, fermata all’Havana a causa di un suo progetto
denominato “#YoTambienExijo”. L’ azione realizzata nella piazza più importante dell’Havana, si basava sul fatto di permettere ai cubani di esprimere la loro posizione sulle
scelte del governo e sui cambiamenti in
atto. Per questo motivo l’artista è stata arrestata per alcuni giorni.
3. P. Bourdieu, La distinzione, il Mulino, Bologna,
2001
4. Groys B., Going Public, Postmedia, Milano,
2014
5. Heinich N., La sociologia dell’arte, il Mulino,
Bologna, 2004
6. AAVV, Faire Art Comme on Fait Société, Le
Nouveaux Commanditaires, Les presses du
Reél, Digione (FR), 2013
7. J. Ranciere, Le spectateur émancipé, La fabrique éditions, Parigi, 2008
8. cfr n° 30 MU6
9. tratto dall’intervista fatta a Francois Hers da
Paola Mulas nel n°30 di MU6
10.Certeau M., l’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001
11.in M. Kwon, One place after another, Mit press,
Cambridge, 2004
Tania Bruguera
MU7
In questa pagina: The School of Narrative Dance_Equador, 2014, Installation: mixed media, Performance. Courtesy the artist
MARINELLA SENATORE
INTERVISTA
MARINELLA SENATORE (CAVA DEI TIRRENI 1977) È UNA DELLE ARTISTE
ITALIANE CHE PIÙ SI OCCUPA DI ARTE PUBBLICA. È PARTITA DALL’ANALISI
E DALL’USO DEL MEZZO CINEMATOGRAFICO, PER APPRODARE AD UNA
RICERCA ARTISTICA CHE HA NELLA PARTECIPAZIONE E NELL’INCLUSIONE
DELLA GENTE IL SUO CUORE PULSANTE. CAPACE DI LAVORARE CON DIVERSI
LINGUAGGI: PERFORMANCE, VIDEO, INSTALLAZIONE, DISEGNI - SEMPRE
LEGATI DAL FIL ROUGE DELLA COMUNE PARTECIPAZIONE - HA VINTO
IL PREMIO MAXXI 2014 ED È REDUCE DA DUE MOSTRE A LONDRA
E BERLINO. PER QUESTO NUMERO DI MU6 DEDICATO ALL’ARTE PUBBLICA
NOI L’ABBIAMO INTERVISTATA, PER CAPIRE IN CHE MODO, NEL SUO LAVORO,
IL PUBBLICO DA SPETTATORE PASSIVO DIVENTA PROTAGONISTA ATTIVO.
MU8
Antonella Muzi: Il tuo lavoro ha un forte carattere “pubblico”: spesso avviene in spazi pubblici, coinvolge la collettività a vari livelli nella produzione dell’opera e il pubblico nella fruizione. Ci spiegheresti le ragioni più profonde di questa scelta?
Marinella Senatore: Mi ha sempre interessato molto l’elemento della coralità, in tutte le
forme di arte, dalla musica classica alle arti visive. Quello che mi affascinava di più nel lavoro con il pubblico era l’essere presente – come protagonista e con le mie competenze
– ma accanto a tante altre individualità, ciascuna impegnata a lavorare insieme per la stessa sceneggiatura, performance, lo stesso progetto. In questo senso soprattutto l’esperienza
con le orchestre classiche ha reso estremamente semplice riconsiderare il concetto di autorialità e aprire la mia creatività e l’opera d’arte al pubblico. Per me è molto più importante l’obiettivo della creazione condivisa, in cui si manifestano di continuo differenze, contrasti come punti di incontro, è un atto che mi dona ormai un’enorme soddisfazione; e non
importa se il soggetto di uno short film viene scritto grazie all’esperienza, alla memoria
e al contributo anche di centinaia di persone, questo non mi rende meno autore dei miei
lavori, e sapere che il pubblico può rendersi conto di poter essere qualcosa di diverso da
un fruitore passivo, uno dei protagonisti, attivo e partecipante, in uno scambio onesto di
energie ed esperienze, anche grazie al mio ruolo di “catalizzatore” che attiva un processo, mi appaga moltissimo!
AM: Ci parleresti del tuo lavoro The School of Narrative Dance, un progetto con cui hai vinto il Premio MAXXI 2014?
MS: Lavorare con tantissime persone, per anni, ad un certo punto mi ha fatto pensare a
un progetto un po’ più ambizioso, appunto una vera e propria scuola, anche se priva di una
sede fissa o di una denominazione legalmente riconosciuta, che potesse diventare soprattutto
una piattaforma sperimentale in grado di funzionare anche senza la mia presenza. Così
nel 2013, insieme al collettivo di coreografe ESPZ, è nata The School of Narrative Dance,
una scuola di storytelling, aperta a chiunque ne voglia fare parte e completamente gra-
Nui Simu (That’s Us), 2010, Single channel HD video on Blu-Ray Disc, stereo, color, 15’:00’’, Stills from video. Courtesy, MOTInternational, London & Brussels, Mendes Wood, São Paulo and the artist. Produced by Riso Museum, Palermo (I)
tuita, dove il teatro danza e la danza comunitaria sono i principali strumenti narrativi. Per
me la scuola risponde soprattutto all’esigenza di creare un “sistema” di livelli didattici alternativi, che favoriscano l’inclusione, l’emancipazione dello studente e l’attivazione di processi auto-formativi.
AM: In che misura secondo te l’arte deve essere il frutto di una negoziazione di significati tra i produttori e i destinatari?
MS: Nella misura in cui i soggetti coinvolti riescono ad essere flessibili; io non ho alcun problema a descrivere i miei lavori utilizzando un “io” plurale, sono perfettamente consapevole dell’importanza del mio ruolo di attivatore e della mia presenza nei miei progetti partecipativi; conosco bene dunque il mio contributo come le potenzialità delle comunità con
le quali lavoro, e solo se entrambe le parti, soprattutto quella degli artisti, sono disposte
a mettere in gioco il loro contributo e il loro lavoro si potrà creare un reale e sincero scambio privo di qualsivoglia atto di presunzione o arroganza.
AM: Nel 2010 hai realizzato Nui Simu, un progetto di collaborazione con una comunità siciliana. Qual è ad oggi il bilancio di quel lavoro?
MS: Ancora oggi Nui Simu rimane uno dei lavori ai quali sono più legata, soprattutto emotivamente. Lavorare con gruppi di persone che avevano una storia di vita da offrire così forte e difficile da restituire mi ha aperto il cuore. E lo ha fatto ancora di più quando ho saputo che persone di 80 anni, mai uscite prima dalla Sicilia, avevano deciso autonomamente
di viaggiare sino a Venezia per vedere il lavoro in Biennale… un’emozione indescrivibile.
AM: Qual è, a tuo parere, il ruolo della didattica nell’arte?
MS: La didattica può essere uno degli scopi, e soprattutto una grande opportunità, ma solo
laddove non esista presunzione di “scolarizzazione”. Io so di aver costruito un tentativo
The School of Narrative Dance: Little Chaos, 2013, Fine Art Prints on Hahnemühle paper, framed. 160 x 300 cm
Courtesy Peres Projects, Berlin; MOTInternational, London & Brussels, Mendes Wood, São Paulo and the artist.
Produced by Musei Civici and Comune of Cagliari, (I)
di “sistema didattico” alternativo, basato sull’inclusione reale del pubblico – senza alcun
limite o termine di selezione – nella realizzazione di opere d’arte nel comune senso inteso e con lo scopo di ridurre il gap spesso esistente tra questo stesso pubblico e i luoghi
oggi deputati ad accogliere e conservare l’arte e i suoi protagonisti. L’idea alla base di The
School of Narrative Dance è quella di tentare di costruire una diversa modalità di “percepire” un lavoro artistico: soprattutto l’inclusione e la partecipazione attiva del pubblico contribuiscono al tentativo di ribaltamento dei tradizionali processi didattici, attraverso l’offerta di “lezioni” gratuite sulle più disparate materie che attraverso varie forme di narrazione conducono sempre alla realizzazione di un’opera finale (performance teatrale, video, ecc.). In questo senso il ruolo didattico dell’artista a mio avviso può avere un senso,
cercando dunque di comunicare “saperi” ed esperienze e allo stesso tempo innescando
processi di scambio di questi stessi saperi tra i partecipanti ai miei lavori.
AM: In che modo l’arte contemporanea può uscire da se stessa, dal sistema, dagli ingranaggi del mercato, dal mondo dorato delle élites per andare davvero verso il pubblico, coinvolgerlo e far sì che la gente “usi” l’arte per comprendere il presente in cui vive?
MS: Come dicevo prima, gli artisti e i progetti che fungono da catalizzatori, che non “utilizzano” le persone e la loro presenza ma si pongono l’obiettivo di attivare processi, nei quali chiunque possa intervenire e svolgere un ruolo da protagonista, sono una grande ed unica opportunità per avvicinare il pubblico soprattutto alle istituzioni pubbliche e ai grandi
musei di arte contemporanea: se in qualche modo tentiamo un coinvolgimento diverso delle persone che si avvicinano perché incuriosite, se facciamo sentire il pubblico non un mero
soggetto passivo bensì un potenziale agente come chiunque altro, la distanza fisica e intellettuale tra questi due mondi allora può accorciarsi e di molto. Far “usare” l’arte a mio
avviso passa innanzitutto attraverso la coralità e la condivisione.
Rosas: Opera in 3 Acts, 2012, 3 HD videos on Blu Ray Disc 23’, 35’, 20’ each, 10 Hantarex monitors (7 mute, 3 sound), 10 DVD
players, headphones. Coll. Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Italy. Stills from video. Courtesy Peres Projects, Berlin;
MOTInternational, London & Brussels, Mendes Wood, São Paulo and the artist. Produced by Kunstlerhaus Bethanien, Berlin (D);
Quad, Derby (UK) and Matadero, Madrid (E)
MU9
ARTICOLANDO
THINGS THAT HAPPEN
OSMAčE E BREžANI
AND THINGS THAT ARE DONE. PREMIO INTERNAZIONALE
ON BEGINNINGS AND MATTER. CARLO SCARPA PER IL GIARDINO
Campi di grano saraceno a Osmače. Photo Filippo Giannone-Agronomi e Forestali Senza Frontiere
Petra Feriancova è un’artista che riesce ad elaborare gli aspetti autobiografici in modo autentico, fondendoli con altre informazioni che provengono dagli ambiti più disparati, traducendo il tutto in cataloghi, intimi ed universali al contempo, che hanno l’afflato delle narrazioni epiche. In questa occasione racconta di miti e di misteri che, nella loro indicibilità, apparentano il tempo dell’uomo
contemporaneo all’uomo arcaico.
La mostra, visitabile fino al 20 gennaio 2015, è organizzata, nell’ambito di Progetto XXI promosso dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, in collaborazione con la Fondazione
Morra Greco.
Nella manifestazione del sacro un oggetto, come una pietra o un albero, si trasforma in qualcos’altro, pur rimanendo sé stesso e continuando ad essere partecipe dell’ordine cosmico. Una ierofania, per dirla con le parole di Mircea Eliade, determina la saturazione dell’essere nella sua pienezza, si compie in qualsiasi azione del fare quotidiano, compresi i bisogni fisiologici, inscrivendo l’uomo all’interno di una logica fondativa che è in grado di risignificare il mondo nella sua totalità fenomenologica. Petra Feriancova è un’artista che riesce ad elaborare gli aspetti autobiografici in modo autentico, fondendoli con altre informazioni che provengono dagli ambiti più disparati, traducendo il tutto in cataloghi, intimi ed universali al contempo, che hanno l’afflato delle narrazioni epiche, quantunque siano frammenti, fragili partiture o situazioni che potremmo definire infra-ordinarie. In questa occasione racconta di miti e di misteri che, nella loro indicibilità,
apparentano il tempo dell’uomo contemporaneo all’uomo arcaico. Un’opera che si potrebbe definire civilizzatrice attraverso il rapporto con la materia, con gli elementi naturali e per mezzo dell’atto creativo, del lavoro manuale come atto fondativo. Il suo approccio fa parte del campo metodologico della storia e permette di racchiudere tutti i fenomeni attorno ad un unico centro, ad
una visione del mondo, una forma d’assieme, includendo lo spazio della dispersione attraverso concatenazioni di segni.
Massimiliano Scuderi
Petra Feriancova. Things that Happen, and Things that are Done. On Beginnings and Matter
11 dicembre 2014 - 20 gennaio 2015 | Fondazione Morra Greco, Largo Proprio di Avellino, 17, Napoli
Info: +39 081 21 06 90
COEXISTENCE:
FOR A NEW ADRIATIC KOINE’
Va a due villaggi del Podrinje, regione della Bosnia orientale, ai confini con la Serbia, il premio
internazionale Carlo Scarpa per il giardino, promosso e organizzato dalla Fondazione Benetton
Studi Ricerche. Siamo sull’altopiano sopra Srebrenica, scavato da corsi d’acqua e ondulato come
un gheriglio di noce, stretto dentro i profondi canaloni di una grande ansa della Drina, un fiume
cruciale della storia e della cultura europea, confine e insieme legame di civilizzazioni che si sono
confrontate nella geografia balcanica. Un territorio di fronte al quale è inevitabile interrogarsi
sulla contraddizione tra la bellezza della natura e i segni onnipresenti di una guerra ancora leggibile. Osmače e Brežani compongono insieme uno dei tanti luoghi della Bosnia-Erzegovina dai
quali due decenni or sono è stata strappata la vita di una comunità, devastata la sua convivenza multiculturale di lunga durata, dispersi i sopravvissuti. Tra questi ultimi, e ciò ne fa un luogo
di testimonianza e di esperienza altamente significative, un piccolo nucleo di famiglie di agricoltori e allevatori cerca da qualche anno di trovare la strada del ritorno e la trama della memoria,
di costruire nuove relazioni tra persone, di rinnovare il legame necessario tra spazio da abitare,
terra da curare, casa da ricostruire, condizione umana da conquistare. “Prima dello strappo”, nel
1991, Osmače aveva 942 abitanti e Brežani 273. I borghi mostrano tra loro rapporti privi di
gerarchia, in una condizione senza centro che ci sorprende. Ma in realtà l’arcipelago insediativo
che dà forma a un microcosmo multiculturale si costituisce dentro misure di spazi e presenze di
segni di diverse memorie e ierofanie, i diversi edifici religiosi, il piccolo cimitero, il tempietto con
la lista dei caduti, il crocevia con la fontana, luogo di incontro per le persone che passano e per
gli animali che pascolano. Nessuno vi ha abitato dal 1993 al 2002. Oggi un centinaio di persone
vive nei borghi di Osmače ; mentre alcune famiglie vivono nei borghi del contiguo villaggio di
Brežani. La strada del ritorno è stata presa all’inizio degli anni Duemila e si svolge in un quadro
di faticosa elaborazione e sperimentazione di piccoli passi, mentre ancora tutto, le persone, le
case, le felci che invadono i prati, tutto continua a mostrare il peso di un trauma e di una lunga
assenza.
I Luoghi e le vicende oggetto di questo premio ci aiutano a intendere il senso e il valore di un’esperienza di piccole dimensioni socioeconomiche e di alto profilo civile, che si inscrive, con simbolica intensità, nel diffuso fenomeno del “ritorno alla terra”. Più da vicino, e con urgenza, ci pongono il tema della costruzione dello spazio multiculturale non come attitudine distributiva di
posti ai diversi ma come spazio di compresenza unitaria di diversi.
www.fbsr.it
Una mostra “adriatica”. Culmina in Puglia, presso la Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare,
il “tour” della mostra Coexistence: for a new Adriatic Koiné dopo gli appuntamenti di Tirana
(Albania), Cetinje (Montenegro), Rijeka (Croazia), Venezia (Italia). Il 31 gennaio 2015 (fino al 1
marzo 2015) gli spazi della Fondazione saranno abitati, per una mostra a cura di Antonio Frugis,
dagli artisti dei cinque Paesi partner della rassegna: Albania, Montenegro, Croazia, Italia (Veneto e Puglia). Sono Endri Dani, Sulejman Fani, Ilir Kaso, Alketa Ramaj, Anila Rubiku per l’Albania,
Irena Lagator Pejović, Nataljia Vujošević, Jovana Vujanović, Igor Rakčević, Jelena Tomašević per
il Montenegro, Gildo Bavčević, Nika Rukavina, Fokus Grupa, Ana Hušman, Davor Sanvincenti per
la Croazia, Giulia Maria Belli, Chiara Bugatti, Enej Gala, Annamaria Maccapani, Francesca Piovesan per il Veneto, Dario Agrimi, Sarah Ciracì, Gianmaria Giannetti, Francesca Loprieno, Giuseppe
Teofilo per la Puglia.
Cooperare per dar voce all’arte, per moltiplicarne le visioni, per costruire un racconto a più voci,
collegate in una grande rete adriatica e transmediale: questo è lo spirito di Coexistence: for a
new adriatic Koinè, nel corso del suo viaggio attraverso l’adriatico. La mostra è inserita nel progetto “arTvision. A live art channel” finanziato nell’ambito del Programma europeo IPA Adriatic
CBC 2007/2013, con l’intento di mobilitare e connettere l’energia creativa di giovani artisti chiamati a partecipare da protagonisti. È un progetto pilota guidato dalla Regione Puglia - Area Politiche per la Promozione del Territorio, dei Saperi e dei Talenti, con il supporto tecnico dell’Apulia
Film Commission, che coinvolge: Fondazione Pino Pascali Museo d’Arte Contemporanea; Regione del Veneto - Direzione Attività culturali e Spettacolo; Accademia di Belle Arti di Venezia; Ministero della Cultura del Montenegro; Facoltà di Arti Drammatiche di Cetinje – Montenegro; Ministero della Cultura dell’Albania; Università delle Arti di Tirana – Albania; Contea Litoranea-Montana – Croazia; Kanal RI - Croazia. L’idea promotrice è volta a strutturare un dialogo ravvicinato
tra Nazioni transfrontaliere attraverso un’operazione culturale al fine di rintracciare comunanze
e discontinuità tra popoli che condividono il mare nostrum del Mediterraneo adriatico. Una
mostra e cinque declinazioni in location e territori differenti per affermare il concetto di una
nuova Koinè linguistica che traduca le identità territoriali nelle dinamiche della relazione, dell’apertura e del confronto. Gli artisti provenienti dalle differenti aree geografiche, coordinati da un
team di curatori diretti dalla Fondazione Museo Pino Pascali, in collaborazione con i rispettivi
coordinatori dei Paesi partner, si sono confrontati su tematiche comuni quali storie e narrazioni, miti e leggende, spiritualità e religioni, migrazioni e nomadismo, per giungere a rafforzare
un’idea di europeità comune troppo spesso dimenticata.
Dario Agrimi, Limbo, 2014, wood crude oil and other materials, 200 x 100 x 15 cm. Courtesy the artist
MU10
ARTICOLANDO
TONI NEGRI
ARTE E MULTITUDO
Attraverso una serie di lettere a suoi amici e
colleghi1, Toni Negri conduce una riflessione
per frammenti sulla sua personale visione
del concetto di bellezza, passando dalla tradizione modernista, alla condizione postmoderna e oltre. Tra gli argomenti trattati
l’esperienza del sublime come salto dal teorico al pratico. Una pratica che si appoggia
sull’essere, trasformandolo. Lo spazio di un
fare poetico che come per Leopardi, ed il suo
insistere sul sensismo, attraverso l’immaginazione e la creazione produce salvezza. Ma
se l’esperienza del sublime indica la via, il
passaggio alla pratica avviene attraverso la
trasformazione delle nostre emozioni in
azioni-etiche materiali. Ed in questo c’è il
passaggio dalla condizione teorica a quella
etica, segnando così il superamento della
condizione postmoderna. Costruire un
mondo sensato questa è la condizione di
superamento delle piccole narrazioni postmoderne e della sua fenomenologia priva di
immagini potenti. L’arte è al contrario
potenza ed etica. Questa riflessione si nutre
dell’atteggiamento antitetico di Negri al
mercato. L’arte è anti-mercato, dice Negri,
in quanto pone la moltitudine delle singolarità contro l’unicità ridotta a prezzo. L’arte
ed il bello si rivelano in un’eccedenza dell’essere, eccedenza come evento creativo. E
questa eccedenza si verifica attraverso il
Toni Negri, Arte e Multitudo; Nicolas Martino
lavoro collettivo degli uomini, è l’insieme del
(a cura di), editore Derive e Approdi, Roma,
lavoro umano, che si accumula e determina
2014
un valore, o un plus-valore ( a tal proposito
Negri approfondisce in un altro capitolo proprio la relazione tra lavoro, oggetto e valore), universale ed insieme singolare. Rispondendo a
Massimo Cacciari afferma che l’arte quindi non è il prodotto degli angeli2, riferendosi ad un suo
importante saggio di estetica, ma che tutti gli uomini sono angeli, nella misura in cui il lavoro
artistico è lavoro liberato, è espressione di una produzione in piena libertà.
Massimiliano Scuderi
1. Tra i destinatari delle lettere: Massimo Cacciari, Gian Marco Montesano, Giorgio Agamben, Nanni Balestrini
2. Cacciari M., L’angelo necessario, Adelphi, Milano,1986
WILLIAM KENTRIDGE
SULLE SPONDE DEL TEVERE
William Kentridge, Triumphs and Laments (proposal), Piazza Tevere, Roma. Rendering Andrea Biagioni, Pippo Marino (2014)
William Kentridge, Triumphs and Laments (proposal), Piazza Tevere, Roma. Rendering Andrea Biagioni (2013)
È una grande opera di arte pubblica nel cuore della Capitale, sulle sponde Tevere, quella che il
celebre artista sudafricano William Kentridge sta realizzando in Italia. Attingendo alla straordinaria storia della romanità, Triumphs and Laments sarà un lungo fregio che rappresenta le grandi
vittorie e le sconfitte della civiltà romana, dalla mitologia ai giorni nostri. Si tratta di una sorta di
gigantesco fregio che si snoda, come una moderna colonna Traiana, lungo i muraglioni del fiume
romano. Utilizzando silhouette, figurine, ombre alte fino a 9 metri, Kentridge trasferisce in scala
monumentale le caratteristiche del suo linguaggio espressivo fatto di narrazione, cortei, musica,
teatro ma anche di riflessioni intense sulla società contemporanea. Come realizzare questo fregio contemporaneo? Kentridge ha progettato un’opera in cui le figure non saranno dipinte o incollate sulle pareti ma emergeranno dalla pulitura selettiva dei muraglioni. La realizzazione tecnica
del lavoro, quindi, pone delle riflessioni sul tema del degrado urbano e della durata dell’opera in
uno spazio cittadino. Anche per questo è arte pubblica. Grande arte pubblica. La speranza è che,
nonostante gli intoppi burocratici, Triumphs and Laments veda la luce entro l’anno.
MICHELANGELO
PISTOLETTO
IL TERZO PARADISO - l’ACquila
Edizioni AMA, 23,5X29, 49 immagini,
testo di Michelangelo Pistoletto
www.rivistamu6.it
L’ARTE DISCRETA
DENTRO UNA ROTATORIA
“Voglio un’Accademia aperta al territorio, protagonista dell’offerta culturale che recuperi alla significanza
artistica luoghi pubblici suscettibili di valorizzazione, come ad esempio le rotatorie stradali”.
È la missione per nulla impossibile che si appresta a intraprendere Marco Brandizzi, scultore
romano e nuovo direttore dell’Accademia delle Belle Arti dell’Aquila.
E che si è insediato dopo un anno di guerra di successione, stracci volanti e turbillon di polemiche
e carte bollate.
Per Brandizzi l’Accademia "deve per prima cosa colmare un vuoto, quello della non adeguata presenza sul territorio, per di più dopo il terremoto del 6 aprile del 2009, riallacciando le sinergie in modo
continuativo con tutte le forze vive e creative che il territorio esprime”.
E tra i luoghi di elezione ci sono anche quei non luoghi che sono le rotatorie stradali, che nel capoluogo, a seguito del terremoto dell’aprile 2009, e del considerevole rifacimento della viabilità, si sono
moltiplicate di numero e di dimensioni.
“L’Accademia - spiega Brandizzi - è pronta a offrire il suo supporto nell’elaborazione estetica degli spazi pubblici della città. A tal proposito le rotatorie sono un oggetto apparentemente semplice, neutro, ma in esse si può intervenire in maniera discreta, che è la qualità di fare arte, che non
è mai monumentale.
Occorre evitare in altre parole – sottolinea il direttore - la retorica, la pesantezza, e fare piuttosto
tesoro delle Lezioni americane di Italo Calvino, lì dove si associa l’arte alla leggerezza, ad un esercizio di sottrazione, piuttosto che di aggiunta. Nelle rotatorie immagino presenze che possono essere viste, oppure ignorate, pensate anche in un disegno d’insieme e di contesto.
La leggerezza è una parola chiave dopo un terremoto, e dopo il dolore e la distruzione che esso ha
portato. L’Accademia potrebbe avviare uno studio molto interessante sulla psicologia della forma
riferita in questo caso all’intervento estetico nelle rotatorie stradali”.
Ma ovviamente il ritrovato protagonismo dell’Accademia non si limiterà agli intervenenti nelle rotatorie e altri spazi pubblici.
Esso sarà fatto anche della materia impalpabile, ma molto concreta, della costante interazione con
il territorio.
Mediante eventi, mostre, happening che riportino l’Accademia ai fasti di quando negli anni settanta forte e fecondo era il sodalizio artistico con Carmelo Bene e Sylvano Bussotti, e altri protagonisti della cultura italiana del novecento.
E non solo, andranno moltiplicati anche i corsi liberi, aperti a tutti i cittadini, ai non iscritti all’anno
accademico.
“La nostra intenzione – conferma Brandizzi – sarà quella di programmare corsi liberi, senza esami, come la scuola libera del nudo o i corsi del Laboratorio ad alta tecnologia, unico in Italia”.
il Laboratorio ad alta tecnologia, che sarà inaugurato a metà febbraio, è dotato di una stampante
e scanner 3d, laser cutter, fresatrici a calcolo numerico, che permettono di copiare e costruire qualsiasi oggetto, sia scavando, che assemblando materia. Tecnologie che aprono infinite possibilità di
sviluppo e applicazioni, anche in campo artistico.
Filippo Tronca
MU11
Santuario di Ise. Scorcio del tempio ricostruito, dal recinto esterno (nell'area sono proibite le fotografie).
OGGETTI INANIMATI, AVETE DUNQUE UN’ANIMA1
CHE SI CONGIUNGE ALLA NOSTRA ANIMA...
PAOLA MULAS
In Giappone, nel cuore di una maestosa foresta sacra presso Ise sull’isola di Honshu, si erge
un tempio millenario. Dedicato alla dea Amaterasu, divinità che è al contempo personificazione del sole e antenata mitologica della famiglia imperiale, viene ricostruito ogni vent’anni da maestranze specializzate per mezzo di somme colossali raccolte grazie all’impegno della popolazione giapponese. Il compimento e la contemplazione di questo gesto perpetuo, che
manifesta l’impermanenza delle cose e il rinnovarsi continuo della vita, è in sé già patrimonio: dello spirito, ovviamente, ma anche di una cultura che consacra i migliori artisti e artigiani come tesoro nazionale e sa in questo modo tramandare il proprio sapere ai posteri.
L’affascinante racconto di questo caso apre un libello scritto nel 2010 dal geografo francese Jean Robert Pitte, Le génie des lieux2. L’espressione latina genius loci definisce nella cultura classica la sacralità di un luogo, e Pitte recupera questo aspetto affermando l’esigenza
di un re-enchantement, di un rinnovato incanto del mondo che aiuti a cogliere (ed accogliere) la diversità delle espressioni territoriali e culturali, che altro non sono che la risposta dell’uomo al suo ambiente. Accostarsi alla loro unicità ed onorare la capacità degli uomini di vibrare all’unisono con il loro territorio potrebbe significare allora il felice allontanamento da
un’interpretazione univoca della relazione con quanto ci circonda così come dai dogmatismi
ecologisti, dalle paure millenariste e dallo choc delle civiltà. Un aspetto di estremo interesse, specie quando si osservi che l’utilizzo che si fa oggi dell’espressione latina è spesso condizionato da strategie di mercato che, per contrastare una globalizzazione interpretata unicamente come processo uniformante e deleterio per le singole culture ed economie, le contrappongono talenti e specificità locali con intento e strumenti prevalentemente promozionali che mirano più che altro all’acquisizione di un vantaggio competitivo. Questo aspetto è
sì presente nella tesi di Pitte, che difende l’idea di beni e servizi “geografici” che contrastino
la standardizzazione; ma lo studioso percorre una via di sintesi tra questo aspetto e la radice spirituale del genius loci introducendo nel suo ragionamento, tramite il concetto di ineffabile, una sfumatura che intende approcciare la complessità e l’unicità delle situazioni spaziali fisiche e mentali, avanzando il ragionevole dubbio che disconoscere questi aspetti possa inficiare l’elaborazione e la comprensione delle diversità. La via suggerita da Pitte afferma la libertà dell’uomo di fronte all’ambiente che lo circonda, promuovendo un’appropriazione
di spazi materiali e immateriali non lontana dalla lezione di Braudel che osservava la storia
del Mediterraneo3 vedendone l’essenza nel confluire dei favori e delle maledizioni della natura e degli sforzi molteplici degli uomini. Quel che Pitte afferma tra le righe è però un’esigenza di consapevolezza e di cultura, poiché nel vibrare degli uomini stanno non solo il carattere della relazione stabilita con lo spazio e le tante possibilità che essa comporta, ma anche i
maggiori rischi.
Una riflessione sui presupposti e le modalità sulle quali basiamo la nostra conquista dello
MU12
UNA RIFLESSIONE SUL GENIUS LOCI
spazio vitale e l’appropriazione dei luoghi urbani e rurali e della loro storia passata e presente
è un tema di estrema importanza che dovrebbe impegnare la collettività forse più di quanto avvenga. Il caso del tempio di Ise, col suo movimento di costruzione continuamente ripetuto, sottolinea come l’impegno contemporaneamente individuale e collettivo possa farsi presenza, che si raccoglie poi nell’esperienza dei luoghi. Raccontando ciò che vi è di emotivo, intellettuale, progettuale nella relazione con ciò che ci circonda, manifesta quanto il valore del patrimonio stia nel congiungersi di componenti speculative, umane e materiali colte nel loro essere vive, presenti nel quotidiano della nostra storia.
Raymond Williams, grande teorico degli studi culturali, in un suo libro della fine degli anni Settanta4 affronta lo studio della storia e dell’uso di alcuni dei termini più complessi e frequentemente utilizzati: arte, educazione, società... Tra le parole esaminate, alla voce cultura Williams illustra come il significato processuale che denotava l’iniziale senso della parola, legata alla crescita o all’allevamento di piante o animali, si sia esteso per metafora al processo di sviluppo umano e sia restato a lungo dominante. La ricostruzione di Williams mostra come questo significato lasci poi spazio ad un’accezione astratta del termine, comparabile a quella maggiormente in uso oggi e derivante da mutamenti sociali e culturali che determinano una distinzione sostanzialmente di classe nel Diciottesimo secolo. Un uso che in
realtà si afferma in tempi relativamente recenti e che fa sì che l’idea di un processo relativo allo sviluppo intellettuale, spirituale o estetico si trasferisca agli oggetti e pratiche che prima lo sostenevano. Questo passaggio lascia intuire quali implicazioni abbiano, e quanto siano politiche, espressioni come “la letteratura è cultura, il teatro è cultura, l’arte è cultura”.
Quanto distinguano qualcosa che si ha da qualcosa a cui si tende (tramite i più affascinanti degli strumenti).
Allo stesso modo, il nostro patrimonio è cultura. Ma progettandolo nei soli termini di un investimento o operando alla sua manutenzione con il pudore di chi intende conservare un simulacro senza confrontarsi con il suo significato storico e attuale, mancheremmo degli obiettivi fondamentali: accrescerlo, affermando per il suo tramite il valore collettivo di ogni esperienza specifica. E farne uno strumento concreto per il nostro sviluppo intellettuale e l’emancipazione del nostro pensiero.
1. Liberamente tradotto dal verso di Alphonse de Lamartine « Objets inanimés, avez-vous donc une âme
Qui s’attache à notre âme et la force d’aimer ? », che conclude Milly, ou la terre natale, dalle Harmonies
poétiques et religieuses. Citato da Jean Robert Pitte nel testo che fa l’oggetto di questa riflessione.
2. Pitte, J-R., Le génie des lieux, CNRS Editions, Parigi, 2010
3. Braudel F., Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Bompiani, Milano, 1992 (edizione Saggi Tascabili). Edizione originale La Méditerranée, Flammarion, Paris, 1985
4. Williams R., Keywords. A vocabulary of culture and society, Fontana Communication Series, William Collins Sons and Co Ltd Glasgow, Great Britain, 1981 (1 ed. 1976)
Da sinistra: Dritan Hyska, Objekt; Danilo Susi, Aquilastratta; Claudia Esposito, Senza Titolo; G&G - Giannicola De Antoniis e Gabriella Sperandio, Take Off L'Aquila; Lucia Uni, Senza Titolo; Iacopo Pasqui, Senza Titolo #26. Cantiere Piazza Palazzo - L’Aquila
DI VERONICA SANTI | FOTO CLAUDIA PAJEWSKI
ALL’AQUILA
L’ARTE È IN COSTRUZIONE
È un normale giorno di settimana all’Aquila. L’odore della pietra nell’aria, le nuvole gonfie e basse, la punta del Gran Sasso innevata.
Gli operai sono svegli da un pezzo, hanno riempito piazza Palazzo di macchine
e furgoni parcheggiati alla rinfusa. Una gru gialla si muove, lenta e decisa, ritagliando cerchi nel cielo. Gracchia al vento, svetta e affianca i tre poster ultra pop
formato vinile della serie “Take Off L’Aquila”, frutto dell’estro del duo Giannicola De Antonis e Gabriella Sperandio, in arte G&G, dove l’iconografia tratta dai classici della musica rock degli anni ‘60 e ‘70 rivive nei luoghi simbolo del capoluogo abruzzese: il sottomarino dei Beatles galleggia tra le 99 Cannelle; la lingua dei
Rolling Stones sbuca dal rosone dalla basilica San Bernardino; il branco di aeroplanini e cuoricini rossi targati Lou Reed aleggiano, tra grazia e torsione, intorno alle due donne della Fontana Luminosa.
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Un signore aquilano, seduto sulla panchina, controlla il trasporto dei materiali edili, tiene le mani ancorate al bastone di legno, la pupilla attenta scheggia veloce
e liquida in attesa che qualcosa accada. Un turista biondo lo vede e scatta una
fotografia. Poi si gira e scatta ancora, puntando stavolta gli edifici in ristrutturazione. Cartoline e cicatrici.
Da lontano, il cantiere dell’impresa Di Vincenzo & Strever in piazza Palazzo è una
parata di sette immagini lunga circa settanta metri. Campeggiano sul ponteggio mentre intorno si susseguono senza sosta le quotidiane operazioni per ricostruire la città dopo il sisma del 6 Aprile 2009.
La gru gialla al centro del cantiere inizia il suo ciclo trasportando un blocco di mattoni pesanti e facendoli sfilare in aria davanti alle riproduzioni alte quasi 8 metri delle opere di Ditran Hyska, Danilo Susi e Claudia Esposito.
SPECIALE OFF SITE ART
IL PROGETTO
Off Site Art / ArtBridge per L’Aquila è un progetto di arte pubblica che replica e adatta nel capoluogo abruzzese il format già collaudato da ArtBridge
negli Stati Uniti, esponendo sulle impalcature dei cantieri la riproduzione di
opere di artisti emergenti selezionati da una giuria di critici e curatori tramite il meccanismo delle call for art.
Due delibere comunali hanno permesso a Off Site Art / ArtBridge per L’Aquila di entrare nell’ iter della ricostruzione: le imprese edili che lavorano alla
ricostruzione dell’Aquila possono scegliere di stampare le opere degli artisti
sui teli che coprono i propri ponteggi, sostenendo un progetto continuativo
che punta a trasformare il centro storico della città in una grande galleria
d’arte en plain air. L’affissione di ogni opera rappresenta dunque un segnale,
un ID con nome e cognome di un giovane artista, la cui presenza avverte che
dietro quell’immagine sono iniziati i lavori per il recupero di quell’edificio.
Vista l’unicità del capoluogo abruzzese, a oggi il cantiere edile più grande
d’Europa, il cui centro storico è pressoché disabitato e in continua trasformazione, l’operazione artistica acquista un valore sociale ancora inesplorato. Il progetto volge lo sguardo sul presente dell’Aquila, intende dare nuove
identità a luoghi che ne sono stati privati dal terremoto e un motivo a cittadini e turisti per tornare a passeggiare nelle vie della città antica. L'arte, in
questo caso, vuole essere segno, seppur effimero, della cultura contemporanea, stimolo per una crescita collettiva, culturale ed emotiva, e recupero della
bellezza del territorio urbano in transizione.
Una città è un sistema di segni e di spazi che nel tempo hanno perso la
capacità di trasmettere idee: Off Site Art e gli artisti emergenti propongono
letture parallele.
La prima, “Objekt”, raffigura un pattern in bianco e nero, realizzato dall’artista
di origini albanesi fotografando le recenti costruzioni edilizie sorte nelle periferie del suo paese, simbolo del nuovo linguaggio architettonico in voga dopo la caduta del regime. La ripetizione astratta e infinita di matrice minimalista, tra griglia e costrizione, è qui tradita grazie al grande formato della stampa dell’immagine
che permette di vedere, dentro alle finestrelle tutte perfettamente uguali, le tendine calate a differenti livelli, come piccole, sottili imperfezioni che indicano la
vita all’interno delle abitazioni e il tocco dell’agire individuale.
Dall’astrattismo architettonico di Dritan Hyska si passa a quello naturalistico di
Danilo Susi con la sua “Aquilastratta”: un quadrato vibrante verde smeraldo porta con sé un riflesso bianco a forma di “T” che ricorda la sagoma delle crepe sui
muri. È la fotografia di uno specchio d’acqua, con la quale l’artista ha voluto ricordare la storia e l’etimologia del nome L’Aquila, derivante appunto dall’abbondanza delle sorgenti che si trovavano nel luogo di fondazione della città (da
de Acquilis).
Infine, l’immagine della 23enne Claudia Esposito, in cui sbucano le gambe di una
donna vestita di nero che scende le scale con eleganza, come se arrivasse dall’alto del cielo. L’opera, “Senza titolo”, è accompagnata dalle parole della poetessa Dunya Mikhali: “Ho lasciato la mia scarpa a Bagdad, come Cenerentola. Ma
con la poesia mi sento a casa anche in esilio”.
Tra innocenti evasioni e pensieri eversivi il blocco di mattoni ha finito il suo percorso e viene fatto calare all’interno della recinzione del cantiere, proprio sotto
i piedi della misteriosa signora che scende le scale dell’Esposito. Qui, un operaio
con occhiali e caschetto rosso afferra il blocco e lo libera dal gancio, urla qual-
Il Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica
dell’Univeristà dell’Aquila sta sviluppando una app per smartphone che fornirà le informazioni sul progetto Off Site Art / ArtBridge per L’Aquila. Come
una guida virtuale, la app accompagnerà gli utenti nella fruizione delle
opere attraverso tour tematici supportati da una mappa interattiva delle
installazioni e dalla geo-localizzazione dell’utente.
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Federica Peyrolo, Allacciare le cinture di sicurezza. Piazza Regina Margherita - L’Aquila
cosa con accento straniero e la gru gialla riparte, percorrendo lo stesso tragitto circolare di prima, da una parte all’altra della piazza. In arrivo dai Quattro Cantoni, un collega gli va incontro fischiettando; guida una carriola vuota, ha delle
cuffie insonorizzanti. Si ferma di fianco alla foto di un enorme ippopotamo, prende il telefono dalla tasca e, col sopracciglio aggrottato, manda messaggi alla fidanzata. L’operaio con gli occhiali e caschetto rosso gli fa il verso poi gli lancia
un sassolino colpendolo sulle cuffie. Lui si spaventa, guarda in alto come se gli
stesse per crollare un tetto sulla testa, perde l’equilibrio e casca all’indietro dentro la carriola, il telefono vola e atterra sul petto. Gli altri da sopra il ponteggio
hanno visto la scena e ridono goliardicamente. L’unico che rimane impassibile
è l’ippopotamo dall’occhio languido e l’espressione malinconica. È l’immagine tratta dalla serie “Uncommune Time” di Iacopo Pasqui: uno scatto bizzarro, inquietante e divertente, catturato mentre l’animale è perfettamente di profilo, sotto
i fari puntati e una scritta “royal” scintillante, esibito come un trofeo al centro
di un tendone da circo, mentre sullo sfondo, nella penombra, si intravedono tre
figure che, come fantasmi, si apprestano ad entrare in scena.
Dopo il momento di ilarità i lavori al cantiere riprendono e il rumore del trapano
torna assordante, rimbomba dentro i palazzi vuoti mescolandosi al fruscio dei
silos che fanno il cemento. E proprio sopra i silos, come la fenice dal fuoco, ecco
l’immagine di Lucia Uni: un collage digitale di fotografie scattate dall’artista e dai
vigili del fuoco durante i giorni del post-sisma, nel quale si staglia la sagoma di
un’aquila che si alza in volo dalle macerie.
Il sole adesso è alto, filtra di tanto in tanto dai nuvoloni grigi. Anche la cima
del Gran Sasso è coperta e c’è odore di pioggia nell’aria. In piazza Regina Margherita un elettricista mangia in piedi durante la pausa pranzo. Il gomito appoggiato al tavolino rotondo, mastica il suo panino di gomma da solo mentre
OFF SITE ART / ARTBRIDGE PER L’AQUILA
Il progetto nasce nell’Ottobre del 2013 dall’incontro tra il fondatore di ArtBridge Rodney Durso, la curatrice indipendente Veronica Santi e un gruppo
di cittadini aquilani, tra cui l’architetto Camilla Inverardi e la ricercatrice
Antinisca di Marco. Per circa un anno, è realizzato da ArtBridge grazie alla
preziosa collaborazione con le realtà locali Terrae Mutatae, GlobalIA, MU6,
Smartly s.r.l e Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e
Matematica dell’Università dell’Aquila.
Nel dicembre 2014 Off Site Art si costituisce in associazione no-profit con
sede all’Aquila che, assorbendo alcune figure professionali già impegnate
nel progetto, produce Off Site Art / ArtBridge per L’Aquila in partnership con
ArtBridge.
Off Site Art / ArtBridge per L’Aquila è reso possibile grazie al sostegno dei
cittadini e delle istituzioni pubbliche e private presenti sul territorio abruzzese. Ha ricevuto il patrocinio del Comune, della Regione e dell’Università
degli Studi dell’Aquila. È realizzato con il generoso contributo di Gran
Sasso Science Institute, ANCE L'Aquila, Fondazione Carispaq, Banca
Popolare dell’Emilia Romagna BPER e Ordine degli Architetti della Provincia dell’Aquila.
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ArtBridge è un’organizzazione no-profit di arte pubblica con sede a New
York che utilizza le impalcature per esporre opere di artisti emergenti e avvicinare i cittadini all’arte. L’ultimo intervento di ArtBridge “Another New York”
è stato commissionato per i lavori del nuovo stadio di New York (Barclays
Center, Brooklyn) e recensito dai più importanti giornali americani, compreso New York Times, New York Magazine, Time Out e The Wall Street Journal.
Off Site Art / ArtBridge per L’Aquila è il primo progetto di ArtBridge realizzato fuori gli Stati Uniti per un’area colpita da un disastro naturale.
Pietro Del Bianco, In un soffio. Piazza Palazzo - L’Aquila
fissa le immagini dell’artista 28enne Daniele Davitti attaccate al ponteggio del
cantiere dell’impresa Mancini. Si tratta di quattro tavole illustrate che, con sarcasmo e ironia, raccontano piccoli “Divertissements di società”. La storia di
un’improbabile famiglia borghese dal gusto noir e quella di un artista vittima
del sistema dell’arte si succedono in un mix di temi tanto contemporanei quanto decadenti.
L’elettricista manda giù il boccone con un sorso di birra, riguarda la sequenza di
Davitti e storce la faccia, ma non fa in tempo a domandarsi cosa le immagini vogliano raccontare che subito un collega gli fischia da lontano indicando l’orologio sul polso.
Più in là, sull’altro lato di piazza Regina Margherita, due amiche che non sono andate a scuola bevono alla fontanella, una di loro ride indicando l’immagine coloratissima di Federica Peyrolo “Allacciare le cinture di sicurezza”. L’artista 25enne
piemontese si è fatta fotografare durante una delle sue performance vestita interamente di oggetti presi in prestito dalla sua cameretta, il corpo non si riconosce più divenuto una casa di cose ambulante: un puffo, un boccaglio rosa, uno
sgabello con la seduta a farfalla, una borsa vintage, una scarpetta da ballo, una
sfilza di braccialetti, una paperella gialla...”Mamma mamma guarda un pesciolino!” grida un bambino alla mamma tirandola per la mano dalla parte opposta
della piazza. Stavolta è l’immagine di Carmen Mitrotta appena srotolata dall’al-
LA GIURIA
Gli artisti della prima call sono stati selezionati da una giuria di esperti composta da
Ida Panicelli, curatrice alla Galleria Nazionale d’arte Moderna di
Roma dal 1979 al 1987. Dal 1988
al 1992 ha diretto la rivista Artforum a New York, di cui è contributing editor dal 1992. Dal 1992 al
1994 ha diretto il Centro per l’Arte
Contemporanea Luigi Pecci di
Prato. È autrice di numerosi testi
per artisti e cataloghi;
Cecilia Alemani è Donald R. Mullen, Jr.
Curator & Director di High Line Art,
progetto di arte lungo il parco High
Line di New York. È inoltre curatrice
dei Frieze Projects presentati durante Frieze Art Fair di New York. Precedentemente ha collaborato con
musei, istituzioni e fondazioni;
Cecilia Guida è dottore in Comunicazione e Nuove Tecnologie e curatrice
indipendente di base a Milano. Insegna Storia dell’Arte all’Accademia di
Belle Arti de L’Aquila e Analisi dei Processi Comunicativi all’Accademia di
Belle Arti di Firenze. Si occupa delle
relazioni tra pratiche artistiche,
nuove tecnologie e spazio pubblico
contemporaneo;
Giuseppe Lignano è fondatore e
presidente dello studio LOT-EK a
Napoli e New York. Lignano è
Adjunct Professor alla Graduate
School of Architecture, Planning
and Preservation (GSAPP) della
Columbia University. Ha inoltre
tenuto corsi al Massachusetts
Institute of Technology (MIT).
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Da sinistra: Dritan Hyska, Objekt; Danilo Susi, Aquilastratta; Claudia Esposito, Senza Titolo; G&G - Giannicola De Antoniis e Gabriella
Sperandio, Take Off L'Aquila. Cantiere Piazza Palazzo - L’Aquila
ARTISTI SELEZIONATI
Sono al momento visibili nel centro storico dell’Aquila le immagini di sedici artisti: Elena Adamou, Daniele Davitti, Edoardo De Falchi, Pietro
Del Bianco, Sandro Di Camillo, Federica Di Carlo,
Claudia Esposito, Antonella Finucci, G&G Giannicola De Antoniis e Gabriella Sperandio, Dritan
Hyska, Arianna Lodeserto, Carmen Mitrotta,
Iacopo Pasqui, Federica Peyrolo, Danilo Susi,
Lucia Uni. Tre gli artisti della prima call in attesa
di essere ospitati sui prossimi cantieri: Gianni
Zanni, artista di Bari, attivo nell’ambito della
fotografia già dai primi anni ‘70, che presenta
un’immagine omaggio sul terremoto aquilano;
Marjan Fahimi, nata nel 1982 a Teheran che propone una pittura di altri tempi,
leggera e sofisticata, dove natura e colore si sposano in un connubio poetico;
Iolanda Di Bonaventura, 21enne aquilana che utilizza performance e fotografia
per raccontare simbolicamente la sua città attraverso la metafora del corpo
della donna.
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to del ponteggio a destare l’attenzione dei passanti: una scultura impossibile dove
una sardina con l’occhio sbarrato e un pisello verde stanno in bilico su un kiwi
tagliuzzato. “Death foods for new worlds”, come un biglietto da visita che osa realtà
parallele, dà il suo benvenuto alle porte del centro storico della città, dove il Corso apre un varco sull’orizzonte e il punto di fuga arriva sulle montagne ricoperte di alberi verde scuro.
La mamma, sbigottita, non capisce cosa accade, ma il bambino è incontenibile
e la trascina davanti a un’altra immagine, quella della 29enne abruzzese giramondo Antonella Finucci, intitolata “Futuro Prossimo”.
“Che c’è scritto mamma?”. Lei si ricompone e legge la scritta al lato destro delle immagini: “Antonella Finucci…o esse a. OSA. Vedi? Sono delle persone dopo
il terremoto, hanno questi cartelli davanti al viso dove c’è scritto “Arriverò...Sorriderò...Saprò e...” Non fa in tempo a finire che il bimbo la tira via supplicando
la merenda.
Le gru intanto si sono fermate, gli autocarri in fila escono dal centro, timbri metallici, fischi, stridii e rimbombi non si sentono più. Il vento è cambiato all’improvviso,
ora soffia più forte, è freddo, pungente e asciutto e ha spazzato via tutta la foschia. Il sole, scollinando, ha tinto il Gran Sasso di un rosa accecante, come un
Olimpo non troppo lontano. Solo pochi minuti per ammirare questo spettacolo
della natura. Le ombre si posano velocemente sui palazzi e le strade, i fari di emergenza dei cantieri si accendono e l’orizzonte blu scuro sembra senza confini.
Dall’alto di una terrazza in piazza Duomo si vedono le luci della città fuori porta
che brillano di vita e abbracciano il centro con la sua “Zona Rossa”, buia e disabitata. È l’ora dell’aperitivo, si prende la macchina e si scende per andare dalle
parti del Castello e Fontana Luminosa dove già da tempo si vedono sorgere, di
mese in mese, bar e ristoranti, come chiazze di un Limbo in via di espansione,
vogliose di ramificarsi e penetrare nel centro della città da ricostruire.
Nel teatro della strada gli attori si alternano e affrontano gli abissi delle proprie
abitudini. Adesso, c’è gente di ogni età, ammassata nei locali e sui marciapiedi
a fumare sigarette e bere del vino. Cresce ogni giorno la voglia di ritrovarsi, relazionarsi, stare insieme e confrontarsi, vicini, nello stesso luogo.
In via Castello una libreria storica della città ha da poco riaperto proprio accanto
al cantiere di Rosa Edilizia dove sono appena state montate sul ponteggio due
cornici di tubi uguali, lunghe 7,9 e alte 5 metri. Si affacciano sopra la mantovana, sprigionano tutta l’ansia e la magia dell’attesa. Presto vi saranno ancorate le immagini degli artisti Federica Di Carlo e Sandro Di Camillo: due paesaggi
urbani, un interno e un esterno, affiancati nel segno della speranza; da una parte, una stanza nuova, vuota e illuminata, firmata dalla silhouette verticale di un
arcobaleno, dall’altra lo skyline di Berlino, città per eccellenza distrutta e ricostruita, spezzata, disgregata e poi riunita, oggi meta di artisti e nuove tendenze d’avanguardia.
Il vino scivola giù e le strade iniziano a svuotarsi, c’è chi va a cena al ristorante
e chi torna a casa. Quattro studenti fuorisede si sono dati appuntamento come
sempre sul Corso, davanti a “Fuller”, immagine dell’artista Arianna Lodeserto dove
Da sinistra: Edoardo De Falchi, Scanpaintings. Via Cascina - L’Aquila; Elena Adamou, P-Ending Time. Via Garibaldi - L’Aquila
campeggia il Flatiron Building circondato da taxi gialli; fa parte della serie “Immagini appena quasi mai un secondo”, vedute di New York sezionate e ricucite,
poco leggibili se non nei piccoli grandi particolari che ne restituiscono il senso
generale e i diversi angoli prospettici.
I quattro universitari decidono di andare a mangiare fuori porta, recuperano la
macchina davanti alla chiesa senza più il tetto di Santa Maria Paganica e sfrecciano su, per via Garibaldi, con la musica elettronica ad alto volume. Si fermano
a un bivio, i fari abbaglianti illuminano le opere di Edoardo De Falchi e Elena Adamou che segnano due direzioni e sprigionano l’energia di qualcosa che si scopre nascosto agli angoli del mondo.
La prima è lunga 9 metri e alta 7,5, ritaglia di nero la sagoma di una casa all’interno della quale si apre la veduta di tetti metropolitani sovrappopolati di antenne
e paraboliche. Elena Adamou, 23enne di Cipro che studia a Milano, ce la racconta
così: “Mi affascinano le geometrie incisive che si possono ricavare da tutto ciò
che ci circonda nella vita quotidiana e che non sempre riusciamo a vedere...”.
La seconda, 7,5 per 7,5 metri, è un’immagine di architetture e interni deformata dopo il passaggio nello scanner che, come un pennello metallico, polverizza
e distorce ogni figurazione fino ad arrivare a un risultato quasi interamente astratto. Paradossi visivi che si articolano nelle parole dello stesso artista di Roma: “Tutto è possibile. Quindi tutto deve anche essere impossibile”.
Uno dei ragazzi abbassa il finestrino e lancia contro le immagini un grido che sa
di felicità e angoscia, per esserci qui e ora, con questi amici così veri, in questo
posto così strano, così surreale, con questa natura così presente e questa città
piena di mistero, terribilmente affascinante, che rapisce e fa restare…così ancorata al passato ma proiettata in un futuro tutto da ricostruire….l’orgoglio, l’appartenenza e l’identità. Poi, rimette la testa dentro al finestrino e dice agli altri:
“questo fine settimana non si torna a casa, si rimane qua e si va a ballare all’Asilo occupato!”. Gli altri tre lo guardano perplessi e scoppiano a ridere, la macchina prende a sinistra, scoda sotto l’opera di Edoardo De Falchi e scende giù per
via Cascina.
È notte fonda, tutto tace. Sotto i portici ingabbiati dai puntellamenti un cane da
pastore trova riparo nell’anfratto di un negozio di cui non si legge più l’insegna.
Si sentono solo il rumore dei passi di una coppia che cammina barcollando mano
nella mano.
“Il freddo mi stalattisce il naso, fa più freddo in centro che altrove” – dice lei. “Questi palazzi vuoti sono celle frigorifere aperte che producono e rilasciano il gelo
all’esterno!”. Vagano come fantasmi senza meta per le vie senza nome della città
deserta, con le spalle al mondo scavalcano una recinzione e cercano scorciatoie,
perché la città con i suoi segreti appartiene loro, come l’avventura.
Il silenzio li fa stare in silenzio, ogni tanto qualcosa scricchiola e si sguardano,
impauriti per un attimo, mentre il vento taglia gli orecchi sibilando. Si accoccolano su una panchina in piazza Palazzo sotto un cielo bucato di stelle e un sorriso di luna che basta a illuminare i vicoli bui.
Passano in rassegna le immagini davanti a loro e i nomi degli artisti, leggono le
informazioni sul web dal cellulare, il palazzo di Hyska, l’acqua verde smeraldo di
Susi, la signora che scende le scale di Esposito, i poster di G&G, l’aquila in volo
di Uni e l’ippopotamo di Pasqui. Poi, elencano i negozi che fino a cinque anni fa
marcavano ogni metro delle strade intorno. Piangono e poi la smettono, si dividono l’ultima sigaretta e si zittiscono di nuovo, sprofondando nei ricordi che non
ricordano. Hanno paura di sviare su discorsi retorici e banali, sempre veri e sempre poco reali. La mente tradisce ma il loro spirito si ribella, e incontra un’immagine
che prima non c’era, perchè si era persa “In un Soffio”, l’opera di Pietro Del Bianco lasciata un po’ sola, lassù, in alto sul ponteggio....”è l’ingrandimento ingigantito
di una bolla di sapone colorata con i colori dell’arcobaleno, realizzata con una pozione speciale di saponi e fotografata in formato sedici noni” sentenzia lei. Poi
sospira e si rilassa. E aggiunge: “Sembra un grande occhio che guarda il cielo...o
il sorgere di un nuovo pianeta...”
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Inserto della rivista MU6 n. 32 - www.rivistamu6.it
FRANCO GUERZONI
ARCHEOLOGIE SENZA RESTAURO
Davide Ferri: Perché hai deciso proprio ora, a distanza di più di quarant’anni, di raccontare la
storia della tua amicizia con Luigi Ghirri?
(inizio così, con una domanda che ti ho fatto molte volte, ma il punto è che ogni volta mi piace sentire la risposta. Per me è una questione fondamentale, questa del momento in cui un
artista, non più giovane, sente di avere le spalle abbastanza larghe per rivisitare gli irrisolti di
un passato apparentemente molto remoto…)
Franco Guerzoni: Quando mi sono incaricato di scrivere una memoria sul mio rapporto amicale e ormai antico con Luigi Ghirri, “nessun luogo da nessuna parte viaggi randagi con Luigi
Ghirri, Skira Editore, non avrei trovato le parole, se non avessi ritrovato un grande giacimento
di foto risalenti alla fine degli anni sessanta e tutti i settanta. La percezione del loro implicito
profondo ha fatto il resto. Mi hanno così consentito di riportare alla memoria un tempo che fino
a qualche anno primo credevo perduto. Le immagini che con Luigi andavo scattando nelle prime periferie di Modena, la nostra città, fino spingerci per strade vicinali verso la bassa mantovana, trovavano come soggetto principe le case in abbandono, le loro stanze, le pietre delle
frequenti demolizioni, le pareti che come libri da sfogliare diventavano per noi i volumi del tempo. Si, credo sia stato il tempo, un tempo giusto per ripercorrere la mia biografia all’indietro nel
tentativo anche di pacificarmi con quel tempo che solo qualche hanno fa pensavo irrecuperabile. Aggiungo che ciò che è accaduto a me, il viaggiare a ritroso sia una caratteristica degli
artisti che hanno camminato molto.
DF: Un’osservazione, più che una domanda. Nelle immagini dei vostri viaggi randagi ho sempre percepito chiaramente la convergenza di due approcci: il tuo, focalizzato/interessato soprattutto alle cose (i muri, le rovine, i casotti, le impalcature, ecc), alla loro nuda presenza nell’inquadratura, e quello Ghirri, più inclusivo, sempre pronto ad accogliere nell’immagine un filare di pioppi, una strada, un viadotto, il paesaggio circostante insomma… (è proprio quando
lo sguardo si apre, si allarga - come nella serie Orsi a Modena ad esempio - che io riconosco
di più il Ghirri maturo)
FG: Non ricordo l’importanza dei paesaggi circostanti, forse perché tutto allora era paesaggio.
Gli interni sembravano esterni e gli esterni interni, ammantati com’erano di natura, di muffe e licheni, di polvere e di vegetazione che ne spaccava le pietre così da apparire una jungla bonsai.
Certo, come bene dici tu, gli scatti di Luigi non sono mai neutri, diventano ibridi legandosi alla
mia richiesta di allora. Io cercavo una immagine scarica e fredda come supporto per le mie ricerche, la sua risposta certo era più sentimentale. Riusciva a portare negli scatti da me richiesti
la sua necessità di aprire lo sguardo a 180 gradi, non accontentandosi del soggetto che gli offrivo. Non guardava soltanto a quello ma lo circondava di mondo. Del resto se si guarda alla infinità di foto che dedicava allo stesso soggetto, fosse esso una casa abbandonata oppure una
montagna di pietre si resta stupiti dai tanti punti di osservazione dai quali le coglieva.
DF: Nelle vostre foto non appare quasi mai, se non in controluce o per frammenti o come per
errore, la figura (sei quasi sempre tu a comparire nelle foto, soprattutto in quelle immagini che
sono documenti di azioni e interventi più o meno estemporanei…). Penso anche al vostro amore per la pittura ottocentesca, di cui tante volte mi hai parlato: non avete mai avuto la tentazione di fotografare le persone, le figure nel paesaggio che andavate perlustrando, come inevitabilmente ha fatto Ghirri dopo?
FG: Una delle nostre prime preoccupazioni era non fare comparire nei nostri scatti, che spesso erano di Luigi, anima viva. Ci piaceva e ci impauriva quel vuoto che non faticavamo a trova-
re, perché quel mondo in rovina era privo di figure. Qualche volta Luigi mi riprendeva, piccolino e lontano, come quelle figure delle stampe settecentesche che esistevano per dare allo
spettatore la misura e la profondità del paesaggio. Eravamo probabilmente in bilico tra l’amore per “La citta che sale” di Boccioni ed il “Quarto stato” di Pelizza da Volpedo. Questa disequilibrata condizione ci consentiva di cercare il nuovo con un piede nell’ottocento del quale amavamo l’ardore socialista paleocristiano. Quei paesaggi, si potrebbe oggi pensare, appartenevano nella loro rovina ad un tempo anteriore, e questo spostarsi indietro era certamente più confortante della ricerca di un nuovo a tutti i costi, che entrambi e in modi diversi volevamo cercare.
DF: Vorrei chiederti una cosa riguardo a quel discorso sul paesaggio emiliano/padano, che Ghirri, assieme a scrittori come Celati e Cavazzoni, è andato costruendo. Fino a che punto senti
che i vostri viaggi, e le vostre foto di quegli anni, appartengono a questa specie di “epica della pianura”?
FG: Non ricordo, e non credo che ci si interessasse allora a quella “Pianura” a quelle nebbie e
alle figure stravaganti che hanno poi abitato la letteratura divertita di Ermanno Cavazzoni e Celati e di quanti narratori vi hanno ambientato storie.
La nebbia non era rara ed i paesaggi erano lo scenario normale dei nostri movimenti acerbi. In
verità poi, degli infiniti scatti di allora ne sono entrati pochissimi nei miei lavori.
L’infinito dialogo tra noi sulla definizione dell’ immagine che come supporto serviva alle mie ricerche era tanto censorio che trovata il consenso duale ad una immagine, la stessa compariva
in formati ed elaborazioni diverse su diversi lavori. Sembrava esistere solo quella e poche altre.
DF: Quando ti sento raccontare ho sempre l’impressione che fosse proprio il conflitto, la diversa angolazione da cui guardavate alla fotografia, a creare le condizioni per una complementarietà di sguardi molto proficua e intensa. Non hai una terribile nostalgia verso quelle infinite discussioni sull’immagine?
FG: Rivedere oggi quell’infinità di scatti, che forse solo oggi potevo vedere mi ha promosso tenerezza più che senso critico. Un vero e proprio film di un tempo giocoso e bizzarro che si articola attraverso infinite sequenze. Così quel mazzo di foto ha stimolato in me un ritorno consapevole verso quelle ricerche, camminando a ritroso nella mia biografia, sono ritornato impigliato in alcune immagini che in occasione della mia esposizione alla Triennale di Milano ed
in questa ultima al mambo di Bologna hanno dato luogo ad un piccolo grappo di lavori dal titolo “Archeologie senza restauro”.
Le immagini alle quali mi sono riferito oggi producono in me inquietudine, come del resto la producevano allora, quando pensavo in contrasto con Luigi che la foto non basta a se stessa. Stampate su lastrine di scagliola, e a frammenti sono ritornate nei miei dipinti come se i dipinti fossero i contenitori preparati a ricevere le piccole “Ninfe”. C’è voluto quasi mezzo secolo per pacificarmi con quelle foto, così come occorrono tempi lunghi per accettarsi nelle fotografie famigliari delle quali non accettiamo le nostre fogge imbarazzanti fino a quando più indulgenti
con noi stessi e con gli altri ci “Rivediamo” sorridendo.
Franco Guerzoni. Archeologie senza restauro
MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna | 19 dicembre 2014 - 19 aprile 2015
a cura di Gianfranco Maraniello
INFO: 051 6496611 - [email protected]
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ART IS OPEN SOURCE
La nuova frontiera relazionale dell’arte si esprime attraverso un concetto universale che partendo dall’informatica ha raggiunto le nuove economie, l’amministrazione e l’ecologia. All’interno di un’overdose collettiva di beni e mezzi la società ricerca il silenzio della vera socializzazione, un approccio attivo e non
semplicemente open content alla creatività. Una doppia intervista per un solo tema, due personaggi un network internazionale e una Capitale Europea della
Cultura che ha puntato tutto sul concetto di “cittadinanza attiva” e di “risorse condivise”.
SALVATORE IACONESI
INTERVISTA
SALVATORE IACONESI
È UN’ARTISTA, INGEGNERE
E HACKER.
È IDEATORE DEL NETWORK
INTERNAZIONALE AOS.
Nicla Cassino: Ci puoi parlare brevemente
del progetto art is open source?
Salvatore Iaconesi: Art is Open Source
(AOS) è un progetto nato nel 2004 e che, nel
corso degli anni, è mutato numerose volte.
Inizialmente era un festival continuo, mutante e open source, che aveva luogo al Linux Club di Roma e che ha ospitato una gran
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parte degli esponenti europei delle arti e culture digitali del periodo. Continuo, nel senso che non finiva mai, occupando tutti i giorni dei quattro mesi della sua durata. Mutante
e open source, in quanto assumeva la forma della piattaforma partecipativa, in cui
ogni artista o ricercatore intervenuto era
chiamato a proporre una propria forma per
lo spazio/tempo a disposizione. Nel cuore
di via Libetta, infatti, si manifestava questo spazio liberato e mutante in cui robot,
proiezioni, virus informatici, strani strumenti
musicali, grafica generativa ed altro costituivano una sorta di rave psicotecnologico,
in cui tutto era fluido, in divenire, completamente aperto.
Fino ad arrivare alla situazione attuale, in
cui AOS è diventato un network internazionale in cui artisti, designer, ricercatori,
architetti, hacker, attivisti e molti altri
prendono parte in uno sforzo collettivo il cui
fine è la comprensione, sempre in divenire, delle mutazioni apportate alle società e
all’ambiente ad opera della vasta disponibilità ed accessibilità di dati, informazioni
e saperi ubiqui.
Ad oggi AOS è una sorta di università disseminata, che opera unendo in maniera interdisciplinare scienze differenti lavorando sulla rilevazione e creazione di immaginari, unendo poetica e politica attraverso l’arte, producendo opere d’arte, ricerca
scientifica, imprese, iniziative civiche e
azioni in grado di saggiare la nostra percezione del possibile, senza soluzione di
continuità.
NC: Concretamente come pensi che l’arte
possa migrare da un sistema autorefe-
renziale ormai consolidato ad un sistema,
invece, relazionale?
SI: È una domanda molto complessa. Soprattutto considerando il momento storico in cui ci troviamo, al termine dell’era industriale e all’inizio di quella dell’informazione, della comunicazione, della conoscenza, dell’innovazione esponenziale e
del sopraggiungere del limite ambientale,
con l’incombere del cambiamento climatico, delle crescenti disuguaglianze sociali ed economiche, della trasformazione
del lavoro e della produzione, del sorgere
massivo delle scienze computazionali ed algoritmiche. Non ci sono formulette magiche. È possibile, al contrario, una discussione complessa.
Innanzitutto considerando che, come sempre, “il futuro non è equamente distribuito”, e che qualsiasi considerazione facciamo non potrà essere universale.
L’arte è sempre stata relazionale. In un’opera d’arte non si è soli: c’è l’autore, il medium, lo spettatore, la società, le culture e
le loro evoluzioni; e poi la semantica, la sintassi e la pragmatica, nella semiotica, che
comporta di per sé relazioni, frutto della traduzione che, potenzialmente, ogni soggetto
fa dell’opera.
Se nel passato tali relazioni si esperivano
attraverso lo sguardo, ora si instaurano attraverso una moltitudine di modalità differenti e con un numero di soggetti potenzialmente infinito, disseminati ubiquamente sul pianeta, in diversi spazi, tempi,
culture, contesti, esperienze.
Si tratta di un cambiamento non solo
quantitativo, ma qualitativo, per cui la
creazione dell’opera d’arte si trasforma definitivamente nella creazione di una piattaforma per l’espressione, per la produzione
creativa mediante modalità performative.
In questo processo l’artista, quindi, si trasforma: diventa, da un lato, il nuovo colletto
blu dell’industria creativa; e, dall’altro lato,
diventa imprenditore creativo. Da una parte diventa il nuovo operaio, assieme a designer e agli altri creativi, che operano all’interno delle piattaforme, predisposte da
altri, che siano concorsi, siti web, magazine o altro. Dall’altra parte diventa un imprenditore, un creatore di piattaforme che
ospitano la creatività e la performatività altrui, che siano spettatori (adesso prosumer),
o altri artisti o creativi. Questa divergenza
è anche alla base della confusione attuale tra il ruolo dell’artista e quello del curatore, e dell’inaspettato ruolo, in questo, del
museo e della galleria, nelle loro forme tradizionali e in quelle più innovative.Quello che
manca, in questo scenario, quello che, ancora, è stato poco esplorato, è una sincera presa di coscienza di questo tipo di processo, e delle sue implicazioni. Unita al recupero del rapporto tra arti e scienze, ed all’apertura verso il post-umano, porteranno ad una nuova dimensione della relazionalità.
Cosa succede quando un algoritmo, o
un’intelligenza artificiale, o una corporation
come Google diventano musei, curatori o artisti? Tutti questi scenari già stanno avvenendo, ma non ne abbiamo ancora colto gli
impatti psicologici, sociali e politici.
www.artisopensource.net
PAOLO VERRI
INTERVISTA
PAOLO VERRI È IL DIRETTORE
DI “MATERA 2019”. EDITORE,
ORGANIZZATORE CULTURALE ED
ESPERTO DI SVILUPPO URBANO.
Nicla Cassino: Quanto ha inciso la moltitudine, il tessuto sociale vero, sulla candidatura e sulla successiva nomina di Matera a Capitale Europea della Cultura 2019?
Paolo Verri: Dal mio punto di vista, tantissimo già in fase progettuale. È stata proprio l’Europa a chiederci di lavorare su
due concetti: il tema della dimensione europea e il tema della partecipazione della
cittadinanza. La partecipazione della cittadinanza era già alla base del nostro progetto. La candidatura stessa si fondava su
questo concetto, già nel 2009 un gruppo di
ragazzi materani aveva sviluppato l’idea della candidatura e l’aveva offerta al Comune
e alle Istituzioni. La candidatura nasce dal
basso. C’è un progetto parallelo che è “Visioni Urbane”, che fa sì che la comunità
creativa lucana si possa esprimere all’interno di luoghi non valorizzati. Non in maniera top-down, non con qualcuno che ha
delle idee da offrire ad altri che devono consumarle, ma piuttosto sono le Istituzioni che
mettono a disposizione luoghi e temi sui
quali la collettività intende confrontarsi.
Quindi di base il tema della partecipazione
attiva dal basso è stato centrale nella posizione della candidatura. Nella fase centrale, quella del primo dossier, il nostro slogan era “insieme”, “together”. Lei può immaginare quanto fosse importante costruire progetti che derivassero dalla collettività, in un territorio come quello della
Basilicata, grande per estensione, ma con
poca popolazione, in cui molti attori si
sono espressi soprattutto attraverso i nuovi media. Abbiamo immaginato un nuovo
modo di partecipare collettivo ed abbiamo
costituito, anche grazie all’apporto di
esperti, una community online, una vera e
propria web community, che ha avuto il
compito di proporre attività da realizzare sul
territorio. La proposta non era velleitaria, ma
molto concreta: i cittadini proponevano direttamente sia i contenuti che la realizzazione, quindi la soluzione stessa ai problemi di contenuto culturale che promuovevano. Questa aspetto si è incrociato in
maniera ottimale con le Istituzioni che, invece di arroccarsi, si sono aperte. Esemplare
la situazione di Palazzo Lanfranchi, il museo più importante della Basilicata. La soprintendente BSAE Marta Ragozzino, ha
messo in campo un programma di apertura
del palazzo, che invece di essere solo luogo di mostre è diventato una specie di casa
della cultura contemporanea. C’è stato
tutto un percorso in questi cinque anni di
lavoro che ha fatto sì che la partecipazione non fosse una parola vuota, ma fosse un
metodo per cambiare le cose e desse la
possibilità al maggior numero si persone
possibili di diventare parte integrante della candidatura. Per noi il ruolo della moltitudine è fondamentale e devo dire che non
si tratta di una vicenda quantitativa, ma
piuttosto di una vicenda qualitativa.
NC: Rispetto allo stato attuale dell’Expo di
Milano in cui, invece, molti imprenditori pare
non abbiano compreso appieno il potenziale
di un evento cosi grande, risulta ancora più
significativa la partecipazione dei cittadini e dei privati in un contesto come quello
della Basilicata.
PV: Lavorando anche all’Expo, devo dire che
sono proprio due approcci molto diversi.
Mentre nel caso della capitale Europea
della cultura si è immaginato un modello innovativo generale, nell’Expo si è immaginato
un modello innovativo di esposizione, ci saranno cose nuove mai viste nei precedenti Expo. Si è puntato, però, seguendo un po’
la tradizione milanese, a lavorare sul concetto del valore commerciale dell’iniziativa. Leggevo un’intervista dell’assessore
alla cultura della Regione Piemonte che parlava dell’Expo come di una fiera. Ecco chi ne
parla in questi termini non ha capito niente… L’Expo non è una fiera, è un grande momento di educazione. Se vogliamo di edutainment, di educazione attraverso lo spettacolo. È un parco tematico temporaneo,
dove non si va a comprare o a vendere, ma
dove si va a spiegare quali sono le filosofie dei territori. Il valore economico dell’Expo
è legato alle derivate stesse dell’evento, non
è dentro l’Expo. È intorno all’Expo. Ci deve
essere il valore morale ed etico del tema. In
un momento in cui abbiamo, come disse
Huntington, forti “Scontri di Civiltà”, mettere insieme tutti gli Stati e tutte le Civiltà
intorno ad un tavolo; quella è un’occasione straordinaria. Avere 160 Stati che discutono tutti degli stessi argomenti per sei
mesi è un’occasione straordinaria. L’Italia
dovrebbe parlare di questo valore, non del
valore economico, ma del valore politico, sociale e filosofico.
NC: Città come incubatori di cultura e cultura come motore di nuove economie.
Cosa cerca un territorio che vive come altri in Italia una profonda situazione di difficoltà economica da una Capitale della Cultura?
PV: Ad essere sincero, posso dirle, intanto
cosa noi promuoviamo attraverso la Capitale Europea della Cultura. Poi non posso
esprimere il parere di tutti i cittadini, né in
generale delle persone. Anzi il dibattito va
molto aperto. Per noi la cultura è innanzitutto un’ancora rispetto all’identità e alla responsabilità nei confronti del nostro territorio. Un territorio che può anche essere fragile, che usato da troppi turisti potrebbe perdere il suo valore intrinseco. Quindi non vogliamo togliere quella che Benjamin chiamava un secolo fa, l’aura, il valore intrinseco
di Matera. Matera deve confrontarsi sui valori del presente e soprattutto su quelli del
passato e del futuro. Non a caso uno dei
temi per noi fondamentali ha come titolo
“Futuro Remoto”, cerchiamo attraverso la
cultura quelli che saranno i modelli socio
culturali dei prossimi due o tre secoli. Noi
lavoriamo sui tempi lunghi, questa è la
scommessa di Matera. Scommessa che la
cittadinanza ha capito mettendosi a disposizione. Non puntiamo sul cosiddetto
Homo Oeconomicus, cioè qualcuno che
lavora per fare reddito e per accumulare ricchezze, ma qualcuno che diventa abitante culturale e che è principalmente interessato al dialogo e allo scambio. Quindi per
noi la cultura non è fondamento economico diretto, la cultura consente il cambiamento della società e consentendo il cambiamento della società in maniera più rapida indica nuovi modelli economici e quindi nuovi modelli di occupazione.
www.matera-basilicata2019.it
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ARTEFIERA 2015
PARLIAMO DELLA NUOVA EDIZIONE DELLA FIERA D’ARTE PIù ITALIANA DI TUTTE CON I DUE CURATORI GIORGIO VERZOTTI E CLAUDIO SPADONI.
UNA RITROVATA FIDUCIA NEI CONFRONTI DELL’ARTE ITALIANA AFFIANCA NUOVI PROGETTI CHE GUARDANO OLTRE IL MARE E VERSO IL FUTURO.
GIORGIO VERZOTTI
CLAUDIO SPADONI
Perché il settore dell’arte attrae un pubblico così vasto ed eterogeneo? Cosa permette ad
un momento espositivo come quello di Artefiera di appagare artisti, collezionisti, gallerie e
pubblico meno esperto?
Me lo spiego perché Artefiera è sempre stata una fiera di questo tipo, una fiera aperta al pubblico più indifferenziato. Sono presenti gli specialisti e anche il pubblico più vasto, quello curioso di sapere cosa si produce nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Poi bisogna
considerare che da un lato l’opera d’arte rimane un rifugio abbastanza sicuro in momenti economicamente incerti come il nostro e dall’altro che negli ultimi anni l’arte contemporanea,
soprattutto, è diventata di moda. Se ne parla molto di più sui giornali a larga tiratura, sui settimanali e in generale molto più di prima. Molto più degli anni in cui io facevo il curatore nei
musei, anni nei quali era abbastanza difficile trovare notizie di arte contemporanea. C’è da
un po’ di anni un interesse molto maggiore, anche grazie a questa sorta di cambiamento all’interno dell’opinione pubblica. Le provocazioni di Maurizio Cattelan, o anche di altri artisti
che fanno notizia, attraggono il pubblico più incuriosito. Ad Artefiera c’è un po’ di tutto, c’è
il classico e l’anticlassico, c’è la composizione pittorica tradizionale e quella più di ricerca,
ci sono i grossi nomi e i giovanissimi quasi sconosciuti, ci sono le gallerie importanti conosciute in tutto il mondo e ci sono le gallerie locali conosciute solo nelle città. L’abbiamo sempre definita una fiera generalista, quindi il nostro pubblico è sempre stato molto vasto, anche per questo motivo.
Perché Artefiera 2015 ha riscosso un tale incremento di espositori? Nuova fiducia nel mercato dell’arte in Italia o curiosità nei confronti di una programmazione più ampia e diversificata?
C’è, intanto, un aumento di espositori dovuto al fatto che ci sono alcune novità, alcune sezioni si sono arricchite, per esempio la sezione dedicata alla fotografia in partnership con
Miafair, che ha quest’anno avrà ventiquattro partecipanti. Si sono registrati, inoltre, numerosi ritorni importanti da parte di gallerie italiane che da tempo non venivano più ad Artefiera, penso a gallerie storiche come Artiaco, Minini, Mazzoli, oltre alla bolognese De’ Foscherari.
L’aumento del numero di espositori rispetto al precedente anno è dovuto a una nuova impostazione generale della fiera e certamente anche a una nuova fiducia, credo di poter dire,
non solo del mercato italiano, ma anche delle gallerie internazionali nei confronti della stessa arte italiana. C’è un rinnovato interesse per artisti che fino a pochissimo tempo fa godevano di una molto relativa considerazione soprattutto nel mercato internazionale. Artisti come
Bonalumi, Grazia Varisco, Colombo, Griffa, per citarne soltanto alcuni, si aggiungono a quelli
già ampiamente acclarati come i futuristi, De Chirico, Morandi, Sironi e diversi altri e poi andando più avanti con Fontana, Capogrossi, Manzoni e Burri che quest’anno sarà ricordato dalla fiera, in occasione del centenario dalla nascita, affiancando una grande mostra newyorkese. Tutto questo si spera che porti a un rafforzamento della fiducia nel mercato degli Italiani. Già due anni fa abbiamo in qualche modo presagito questo ritorno di interesse per gli italiani dedicando la nostra prima edizione, quella del 2013 all’insegna del made in Italy. Questa scelta non era affatto un semplice ripiegamento ai valori dell’arte italiana, ma era un’indicazione dell’importanza che diversi artisti italiani avevano avuto e che non era ancora stata riconosciuta pienamente sul piano internazionale. A tutto questo noi aggiungiamo un’apertura, non occasionale e indiscriminata all’arte internazionale. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo introdotto un focus sui paesi dell’est europeo, una sezione che quest’anno viene riproposta e ampliata anche all’area del Medio Oriente (Too early, too late. Middle East and
Modernity). Da tre anni puntiamo a questo binomio: tradizione e apertura internazionale.
DIRETTORE ARTISTICO SEZIONE ARTE CONTEMPORANEA ARTEFIERA 2015
Le fiere anticipano le nuove tendenze o semplicemente le consolidano portandole al grande pubblico?
Le fiere secondo me consolidano, non hanno il potere di lanciare nuove tendenze. Questo spetta più che alle fiere, alle grandi mostre come le Biennali. Questa è anche l’epoca delle Biennali, ce ne sono più di cento in tutto il mondo, prima non era cosi. È in queste rassegne di
arte contemporanea a scadenze ravvicinate che si formano le nuove tendenze, lì vengono
fuori gli artisti che diverranno poi i protagonisti della scena internazionale e lì per esempio
vengono anche rivalutati quegli artisti che godono di una seconda giovinezza. Stiamo assistendo, per esempio, in questi anni a una rivalutazione dell’arte cinetica. Questo fenomeno
non viene fuori dalle fiere, ma piuttosto dalle gallerie e dalle grandi mostre. Non ho mai visto un movimento o un artista lanciato da una fiera. Li ho visti lanciati da gallerie, da mostre e da istituzioni museali.
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DIRETTORE ARTISTICO SEZIONE ARTE MODERNA ARTEFIERA 2015
Cosa manca ad Artefiera, se pensa che manchi qualcosa, rispetto alle fiere internazionali
che fanno numeri da capogiro? È l’Italia a piacere meno o forse ci sono troppe fiere?
Artefiera è la tipica fiera d’arte italiana, ha un carattere identitario proprio, e ciò non vuol dire
che abbia carenze rispetto alle fiere maggiori del mondo. Artefiera è fortemente legata alla
realtà italiana, una realtà di pubblico e di mercato. La fiera prende molto in considerazione
il contesto in cui opera. Per esempio Artissima di Torino è incentrata sul contemporaneo, mentre la nostra parte più da lontano prendendo anche tutto il moderno, a partire dall’inizio del
‘900. Artefiera di Bologna è una cosa diversa, parte da uno zoccolo storico consolidato non
solo italiano, all’interno di un mercato che fa i conti con condizioni molto diverse da quelle
di altri Paesi.
Pigmenti in polvere, colla e acqua su carta 29,5 x 21 cm
Tiziana Fusari, Teatro S.Filippo, L’Aquila, 1990. photo Mauro Mattia
REWIND
Due anni e mezzo. Leggere. Rileggere. Scavare. Decifrare calligrafia e pensieri. Questo
ha fatto Mauro Mattia poco dopo la scomparsa di Tiziana Fusari, avvenuta all’improvviso nel 2012. Il risultato è un volume
potente e delicato insieme, prezioso per
scelte formali e sostanziali. Netto, senza sbavature, affilato e aperto, miccia pronta a innescare riflessioni multiformi, come il pensiero che ha animato la ricerca dell’artista
nata a Macerata, casa e studio a L’Aquila e
amante dei viaggi. REWIND, pubblicato dalla prestigiosa Quodlibet, si chiude con questa citazione d’artista: «Voglio confrontarmi solo con quello che è instabile come
me, che deve avere poca vita. Lo strappo, l’inconsistenza mi sono più congeniali». Ed è
qui, nella chiusura, che si può trovare il viatico per accostarsi al lavoro di Tiziana Fusari. Il suo inizio, da autodidatta negli anni
Ottanta, è legato all’Astrattismo e all’Informale, con scomposizioni geometriche dello spazio in rette e compenetrazioni di sfumature e piani di colore. Alla fine dello
stesso decennio avvia la serie delle Vele, che
durerà per quasi tutta la sua vita. Amava l’uso della carta modello, Tiziana Fusari, che
gessava, e sulla quale dipingeva un universo popolato di esseri umani, animali, oggetti,
parole. Gli Abbecedari sono libricini, quasi
scrigni-gioiello fatti di pagine gessate e dipinte, spesso con l’oro, in cui a ogni lettera è associata - in modo inatteso e a tratti misterioso - una parola. È cruciale, nel suo
lavoro, l’uso della parola, che è conferma dell’esistenza delle cose, strategia con cui
tentiamo di comprendere il mondo, sin da
bambini. Bambini. Tutto è intimamente
collegato e coerente nel lavoro di Fusari. Sì,
l’infanzia è un’altra delle dimensioni più
scandagliate e analizzate pressoché in ogni
ciclo dei suoi lavori. «La ricerca parte sem-
TIZIANA FUSARI: UN’ARTISTA
SULL’ALTALENA DELLA MEMORIA.
pre da lì, perché era già tutto lì nell’infanzia,
i segni e i sogni, poi si passa il resto del tempo a scavarci dentro e vedere se si riesce a
trovare la strada, se si recupera il bandolo
della matassa che si è ingarbugliata, annodata, sfilacciata» scriveva nel 1999.
Un’infanzia che spesso vagheggiamo come
luogo protetto e spensierato ma che nella
ricerca dell’artista è sì vertigine di possibilità e orizzonti ma anche luogo di turbamenti,
impossibile da raggiungere perché inquinata
dallo sguardo duro della vita adulta. Infanzia e memoria sono prepotenti protagoniste di uno dei suoi ultimi progetti, La vita in
fasce, una narrazione fotografica in cui
compare, in ogni scatto, una borsa realizzata dalla madre dell’artista a partire da una
coperta di corredo di sua nonna. La borsa
[…] è il fil rouge di un racconto senza storia, dove la storia è solo nella sua presenza, poiché in essa sono già tutte le storie, tutto un racconto di vite che attraversa qualsiasi ambientazione in cui la vorrò inserire»,
scriveva Fusari nel 2010.
Le tante figure femminili presenti nei suoi
lavori sono quasi sempre prive di testa ma
definite dettagliatamente nel corpo e negli
accessori. La scelta di allontanarsi dal tradizionale canone del ritratto, scegliendo
un’inquadratura così ravvicinata che esclude dal campo visivo il volto, obbedisce alla
convinzione dell’artista che il corpo non sia
capace di mentire, e possa invece esprimere
molte più cose di un viso. L’universo femminile è un campo di indagine molto importante per Fusari: le sue sono donne
dalla muscolatura forte eppure hanno protesi o uncini, sono trafitte o sospese, come
i protagonisti della serie Comédie humaine,
omaggiando Balzac nel tentativo di delineare
i tratti di un universo in cui, nonostante il vivere in società, ciascun individuo è solo e
precario. E allora non suona strano scoprire che Fusari amava il lavoro di artisti quali
Francis Bacon o Louise Bourgeois, o la
danza di Pina Bausch. Immagini quotidiane, quasi banali perché appartenenti al
comune panorama visivo e che invece suonano dissonanti perché contengono dettagli inusuali: aghi, arpioni, coccodrilli, spilloni. Sono un invito a non limitarci alla superficie del già visto ma ad affinare lo
sguardo, ad andare oltre, al di là dei nostri
confini, delle convenzioni individuali e sociali,
consapevolmente praticate ma più spesso
inconsapevolmente assunte. La sua è una
ricerca verticale, che scende in profondità,
che ha un non so che di stratigrafico. «Arte
come ricerca morale. Indagine continua di
una nobiltà dell’esistenza, magari mettendone a nudo il grottesco l’osceno il ridicolo. Un setaccio, dunque, alla ricerca della pepita», scriveva in uno dei suoi Diari. È una ricerca pura, senza fronzoli o autocompiacimenti, condita da una straordinaria ironia
che se sulle prime strappa un sorriso, poi
graffia, scuote, morde. Stupisce nella monumentale produzione artistica di Tiziana
Fusari – di cui il volume restituisce la massima parte del lavoro ma non la totalità – la
coerenza che travalica i confini dei linguaggi espressivi, dei media utilizzati: pittura, tanta pittura, ma anche scultura,
azioni, ricamo, timbri, disegno. E sarà prezioso potersi immergere in questo universo molteplice, sarcastico e tagliente, nella
retrospettiva in programma per marzo
2015 alla Galleria Il Fondaco di Bra, dove nel
2010 Tiziana Fusari aveva realizzato la sua
ultima mostra.
Antonella Muzi
Tiziana Fusari, REWIND, Mauro Mattia (a cura di),
Edizioni Quodlibet, Macerata, 2014
dalla serie Comédie humaine,
tecnica mista su cartoncino, 8,5 x 14,5 cm
dalla serie Vele, pigmenti in polvere, colla e acqua
su carta modello, 150 x 100 cm
Abbecedario 2006,
libro d’artista, tecnica mista su carta modello, 16 x 22 cm
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TRA IL VERO
E IL FALSO
VIAGGIO NEI PAESI DIPINTI
FILIPPO TRONCA
Il Gran Sasso visto dalla Valle Siciliana ricorda l’onda pietrificata di Hokusai.
Abbassando lo sguardo e lasciandolo correre lungo i vicoli di Azzinano, si incontrano esplosioni
di colori e tanti bambini che giocano. Non con l’ipad e con la play station, ma a schiùppete e
schiazze, a moscacieca, salto alla mula e schiaffo del soldato, a capriole sui pascoli e alla guerra dentro le stalle. Con mattoni, palle di stracci, improvvisati birilli, fucili di bambù, funi, ciottoli e ingegnose carabattole autocostruite.
“Il bello sarà la gioia di riconoscersi insieme”, sta scritto nel libro di un cattivo maestro che ci
portiamo dietro a mò di cartina psicogeografica. E ancora che l’arte “è il tentativo di agire sulla vita, da dentro la vita, per qualificarne la dimensione comune, per costruirne un senso”, ed
è “un processo di liberazione che produce linguaggio, parole colori e suoni che si stringono in
comunità”.
Qui ad Azzinano, come in altri paesi dipinti, si sostiene che l’arte è uscita dai musei ed è tornata in strada, il valore d’uso, invade gli spazi spadroneggiati come ovunque dal valore di scambio, la parete privata si offre alla fruzione di tutti, e in un’epoca dove è generalizzato il disprezzo
e l’indifferenza per i beni comuni, c’è qualcuno che ha avuto cura di rendere un luogo più ospitale e sorprendente.
I bambini, dettaglio non secondario, sono però solo disegnati, in stile naif, sulle pareti delle case,
molte delle quali vuote e con le serrande serrate per molti mesi in un anno.
Quel futuro e quell’utopia che il gioco e l’arte promettono sono un passato da rimpiangere, qui
nel paese dei bambini dipinti, dove sono rimasti a vivere sopratutto gli anziani, perché i giovani scendono in prossimità dei luoghi di lavoro e di consumo.
Ciò nulla toglie all’encomiabile impegno civile dei cittadini che animano la Pro loco di Azzinano, che a partire dalle opere e dall’esempio della pittrice naif Annunziata Scipione, hanno trasformato il paese in una galleria d’arte all’aperto. Con un buon ritorno di immagine, e di visite
turistiche.
Uno di loro, Beppe Gargini, informatico, è consapevole che un paese dipinto rischia di diventare un’operazione di facciata. “I murales non bastano ci sono molte case disabitate, la natalità non sopperisce la mortalità, chi si sposa va a vivere in città. Ed è per questo che stiamo cercando di costruire qui ad Azzinano una proposta pedagogica e didattica di qualità, rivolta soprattutto alle scuole.
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Ci sono le premesse per aprire un albergo diffuso, negozi con souvenir e gadget artigianali, ed
anche ristoranti con piatti tipici. Solo così queste case potranno essere riabitate. Con la cultura ci si deve poter mangiare, l’arte noi vogliamo metterla in vendita”.
Lo informiamo che il cattivo maestro potrebbe storcere il naso e inarcare il sopracciglio udendo affermazioni così tanto postmoderne. “Cosa vuole che le dica, qui siamo un pò naif...”, si giustifica con un sorriso il signor Beppe.
Al bar un avventore tautologico offre il caffè e spiega che la valle siciliana si chiama così perchè un tempo ci sono stati i siciliani. Il barista vende una bella casa in paese con un grande camino e un pezzo di terra al prezzo che in città non compreresti neanche un garage.
L’arte è inseparabile dalla concretezza delle forme di vita che fanno degli individui una moltitudo. L’arte non è il prodotto dell’angelo, ma l’affermazione, ogni volta la nuova scoperta, che
tutti gli uomini sono angeli.
Le parole arcane e sfuggenti del cattivo maestro di cui sopra, ci accompagnano oltre le colline e i calanchi, verso il mare. A Casoli di Atri siamo accolti da un funerale. Sopra il feretro, una
grande natura morta affrescata, di girasoli che hanno già gettato il seme.
Casoli pinta è nata nel 1996, grazie all’intraprendenza dei cittadini aderenti all’associazione Castellum vetus, che nel corso degli anni hanno accolto decine di artisti per dare vita ad happening e momenti di creazione partecipata.
Ricorda uno degli artisti. “Il blu cielomare, il colore caldo di questa terra e di chi ci vive, ti vanno diritti dentro e ti lasciano il segno. E tu che guardi e sei guardato, tu che vuoi lasciare la tua
traccia, sei continuamente colpito dalla traboccante umanità che hai intorno e da esso sei diventato un bersaglio, sei il bersaglio che hai sempre desiderato essere: appeso con quattro fili
al muro di una casa che per un po’ ti ha sentito anche suo”.
E così ora dalla piazza centrale lungo via san Filippo lo straniero è accolto da un Cristo pantocratore, cavalli alati, vulcani damascati che eruttano cuori, dai sogni geometrici di un adolescente, una vela immaginata dopo un caffè, un albero della luce, trompe l’oeil di svariati altrove
che si aprono sulle pareti.
Ma anche qui, come la risacca dopo un’ondata di percezioni, un’inquietudine ti sfiora.
Quei murales, non conta quanto belli e ben contestualizzati, ti osservano muti. Spaesati nel cuore di un paese. Coriandoli di colore di una festa che si è consumata nel momento della creazione collettiva.
Tra quei dei che giocano a scacchi e la redenzione, la distanza sembra essere ampia come quella che separa Achille da una tartaruga.
Un turista passeggia, osserva e fotografa. Un paesano spiega che quel dipinto gli piace molto, fa parte oramai del suo vicolo, come la fontanella e il portone. Altri dipinti invece non li ha
capiti. Un’anziana sola spia da dietro una persiana socchiusa, sopra un incantatore di uccelli.
Sotto la Majella e la costa dei trabocchi sta Treglio, il terzo ed ultimo dei paesi dipinti d’Abruzzo. Qui a cimentarsi sulle parete giovani artisti, ospitati dagli stessi paesani, che offrono loro
anche pranzi e cene indimenticabili.
Tema ricorrente il lavoro dei campi, i suoi frutti, e i riti della vita contadina, che fanno da scenografia ogni autunno ad una festa del vino novello a cui partecipano migliaia di persone. Il Comune per dare continuità e senso a questa esperienza organizza tutto l’anno corsi di pittura,
musica e artigianato.
Ci accoglie il signor Antonio, democristiano doc, amministratore per ventanni al comune, mostra con orgoglio le piccole bellezze nascoste del suo borgo rurale. Racconta dei tempi quando c’era lui, Remo Gaspari, che qui ha portato il metano, strade asfaltate, e ha dato tanto lavoro grazie all’industrstializzazione della vicina Val di sangro. Ed è per questo che qui non c’è
stato spopolamento, la gente non è stata costretta ad emigrare. Si è limitata a lasciare la vecchia casa in paese e costruirsi una villetta sulle colline circostanti. Antonio mostra poi le campagne coperte dalla neve e rivela che oramai il 60 per cento dei campi sono abbandonati. Lontani i tempi quando partivano per il nord dalla stazione di Lanciano anche sette vagoni ricolmi di uva pergolone. Inevitabile: chi era destinato a fare l’agricoltore, si è messo a fare l’operaio, e ora assembla pezzi di furgoni e scooter alla Sevel e alla Honda.
Quei murales evocano dunque mondi scomparsi, come i calli e le rughe degli anziani spaparanzati al sole su una panchina del belvedere.
Sono simili ad una zappa lucidata e appesa alla parete di un agriturismo. A un precario finta
partita Iva travestito da lanzichenecco durante una rievocazione medioevale. A un contadino
imbalsamato in un museo delle vetuste tradizioni.
Due giovani si aggirano tra i vicoli, si segnano i numeri di telefono delle tante case in vendita.
Sono due bergamaschi che si sono stufati di fare lavori idioti e sono sono emigrati al sud con
un furgone. Perchè, spiegano, il tempo è troppo poco e prezioso per regalarlo ad un padrone.
Il lavoro liberato è figlio del desiderio. L’arte è costruire non sulle macerie, ma sulle germinazioni. La bellezza è un’eccedenza di essere.
Le oscure parole del cattivo maestro si fanno un pò più chiare, e pure i dipinti di Treglio per un
istante ti sembrano capolavori.
LA SCUOLA
DIVENTA MUSEO
D’ARTE
CONTEMPORANEA
ANGELA CIANO
Ha preso il via l’anno dopo il terremoto con la consapevolezza che sarebbe potuta diventare un’esperienza unica e soprattutto indispensabile per gli adolescenti aquilani che affrontavano il post
sisma senza più punti di riferimento. Così a cinque anni di distanza il progetto del Liceo Scientifo “A. Bafile” dell’Aquila è uno di quelli che fanno “scuola” “L’Esperienza di Polvere negli occhi,
nel cuore sogni sin dal 2010 è stata per il Liceo Scientifico “A.Bafile” una novità assoluta non essendo una scuola d’arte - spiega l’insegnate ed artista Licia Galizia ideatrice del progetto - Il primo anno è stato un motore per la rinascita, per fare della scuola un centro di aggregazione, ricordo i lunghi pomeriggi freddi passati a scuola tra grida di gioia e risate nei corridoi man mano
sempre più colorati e contaminati da “segni non convenzionali”; è stato per tutti, alunni e artisti,
divertente, coinvolgente e fortemente creativo. Una vera festa. Poi nell’edizione del 2011 ho pensato di portare alcuni laboratori anche fuori dalla scuola e precisamente in due Centri Commerciali (luoghi di aggregazione post sisma per gli aquilani ndr) Meridiana e i Quattro Cantoni dove
sono state installate grandi opere che sono rimaste esposte per un intero anno. Adesso, come
tutte le altre opere, sono installate permanentemente negli spazi del Liceo a costituire la Collezione. Anche nei Centri commerciali abbiamo portato, grazie ai ragazzi e agli artisti, una ventata di novità e di allegria”. Insomma due edizioni intense anche per il valore sociale che questo progetto ha assunto e che si è sviluppato attraverso più di quaranta laboratori con la realizzazione
di altrettante opere site specific. Le successive due edizioni del 2013 e 2014 hanno coinvolto altri 17 artisti di cui un collettivo e due coppie, Neola Project, Botto&Bruno e Sten Lex e man mano
ha preso corpo la collezione permanente di arte contemporanea del liceo aquilano che oggi dopo
cinque edizioni e la presenza di Michelangelo Pistoletto a dicembre scorso che ha lavorato con i
ragazzi, conta circa 60 opere. Proprio la presenza di Pistoletto ha ribadito un presupposto essenziale
di questa esperienza: la scelta degli artisti, da sempre, è stata fatta tenendo conto del lavoro ma
anche della capacità di ognuno di creare con i ragazzi una giusta empatia. “L’ambizione di questo progetto - continua Licia Galizia - è stata da sempre quella di far entrare gli allievi attivamente
nel lavoro di ogni artista per meglio far comprendere loro il senso profondo di ogni operazione e
coinvolgerli più intimamente possibile. Ho invitato artisti di diverse parti d’Italia e con linguaggi
diversi in modo da dare una giusta testimonianza dell’arte contemporanea nazionale ma più possibile di respiro internazionale. Gli artisti infatti sono eterogenei per età, linguaggi e mezzi espressivi, ma tutti rappresentanti indiscussi del panorama contemporaneo più vivace e riconosciuto.
Tutti i ragazzi che in questi anni hanno seguito i laboratori hanno acquisito conoscenze e competenze altrimenti impossibili in una scuola come il Liceo scientifico e soprattutto hanno compreso che non si deve mai giudicare senza conoscere a fondo le cose e non bisogna fermarsi mai
alla sola percezione estetica di un’opera d’arte ma cercarne il senso, il concetto, il bisogno profondo che ha ispirato l’artista”.
Professoressa Galizia ci spiega come sono stati coinvolti gli alunni e soprattutto cosa resta loro
di questa esperienza? “Gli allievi sono stati sempre impegnati ad ogni inaugurazione e ad ogni
MICHELANGELO
PISTOLETTO
Straordinario protagonista dell’arte contemporanea, Michelangelo Pistoletto
non ha bisogno di presentazioni. La sua
ricerca artistica si pone in stretta rela-
zione con i diversi ambiti del tessuto sociale
quando, nel corso degli anni Novanta, crea
a Biella Cittadellarte-Fondazione Pistoletto e l’Università delle Idee. Quando nel
2004 l’Università di Torino gli conferisce la
laurea honoris causa in Scienze Politiche,
Pistoletto annuncia quella che costituisce
la fase più recente del suo lavoro, denominata Terzo Paradiso, descrivendola così: «il
progetto del Terzo Paradiso consiste nel
condurre l’artificio, cioè la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la politica a restituire vita alla Terra, congiuntamente
all’impegno di rifondare i comuni principi e
comportamenti etici, in quanto da questi dipende l’effettiva riuscita di tale obiettivo. […]
Il Terzo Paradiso è il nuovo mito che porta
ognuno ad assumere una personale re-
visita del pubblico a fare da guide con la consapevolezza che potevano esserci diversi tipi di visitatori, alcuni anche arroganti e che loro dovevano essere in grado di far capire a chiunque che
l’arte contemporanea esige un approccio diverso dall’arte classica. L’arte oggi non rincorre più
necessariamente il bello o il vero e neppure vuole solo rappresentare la natura e la realtà e quindi alla domanda banale e ricorrente: cosa rappresenta? Bisogna rispondere: Cosa vuole dire?,
qual è il senso di questa opera? E loro questo l’hanno imparato benissimo!!! Poi vanno a visitare i Musei d’Arte Contemporanea e ci portano anche i genitori. Hanno sviluppato curiosità e
rispetto per questa forma di espressione anche se spesso l’arte contemporanea è lontana e
autoreferenziale e purtroppo non invita il pubblico ma lo demotiva. Solo, quindi, un’ educazione diversa e un approccio didattico attivo può negli anni colmare questo gap con una buona
dose da parte degli artisti di ripensare alla funzione dell’arte che oggi più che mai deve tornare ad avere un ruolo sociale e aggregante. La diffidenza rispetto a ciò che non si conosce è il
sentimento più comune che si scatena in tutti noi, ragazzi e adulti”.
Insomma un’esperienza più che positiva ma è stato sempre tutto così facile? “Non nego che,
il primo anno, tutti anche i colleghi osservavano con scetticismo quello che stavamo facendo.
Il Preside Natale De Angelo che mi aveva coraggiosamente autorizzato con l’approvazione del
Collegio, era perplesso ma fortemente convinto che bisognasse cogliere l’occasione per fare della scuola un luogo di ricostruzione dell’identità culturale persa con il terremoto. Devo dire che i
risultati ottenuti e i prestigiosi riconoscimenti avuti hanno pian piano convinto anche i più scettici. Da due anni abbiamo una nuova Preside, Sabina Adacher, ex docente di storia dell’arte, e il
Liceo Artistico accorpato, quindi questo progetto ha avuto e spero continuerà ad avere un buon
seguito e a darci a tutti grandi soddisfazioni. L’ultima meravigliosa esperienza è di alcune settimane fa quando è venuto al Istituto Bafile, Michelangelo Pistoletto, grazie all’Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo. Abbiamo realizzato un laboratorio con gli studenti per costruire la Mela
reintegrata del Terzo Paradiso e abbiamo, sempre con i ragazzi collaborato a montare e completare con gli stracci la famosa “Venere degli stracci” che è esposta fino al 31 gennaio. La mela,
invece, è stata donata da Pistoletto alla nostra scuola per entrare a far parte della Collezione Permanente” … e per il futuro? “Stiamo lavorando già alla quinta edizione del progetto che presenta
però una novità: nell’ambito del Progetto Smart Ring a L’Aquila, è in corso un percorso formativo con gli studenti dell’Istituto Superiore“Bafile”, con il quale ENEA ha stipulato una convenzione. Il progetto mira a creare una esperienza di Smart Communities al fine di contribuire a consolidare il “senso di comunità” attraverso la creazione collettiva di contributi legati ai beni ed ai
processi culturali. Il percorso rientra nel Social Urban Network (SUN). Il progetto stabilisce una
connessione organica e stretta con un progetto già in corso presso lo stesso Istituto,“Polvere
negli occhi, nel cuore sogni”. Insomma anche quella del 2015 sarà un’esperienza forte e coinvolgente con la consapevolezza che “non tutti possono diventare grandi artisti, ma un grande
artista può celarsi in chiunque” (Ego dal film Disney Ratatuille).
sponsabilità in questo frangente epocale.
Il Terzo Paradiso è raffigurato simbolicamente da una riconfigurazione del segno
matematico dell’infinito. Con il “Nuovo Segno d’Infinito” si disegnano tre cerchi: i due
cerchi opposti significano natura e artificio, quello centrale è la congiunzione dei due
e rappresenta il grembo generativo del
Terzo Paradiso» (Michelangelo Pistoletto,
Il Terzo Paradiso 2003 - 2012).
Il 10 Aprile 2014 MU6 nell’ambito della IV
edizione di RE_PLACE, la città si illumina di
“nuovo”, ha invitato Michelangelo Pistoletto
a portare in città il suo messaggio e la sua
installazione del Terzo Paradiso. Prima
una tavola rotonda presso l’Auditorium
del Parco, durante la quale l’artista ha diffuso il messaggio del Terzo Paradiso e si è
messo a disposizione della città e dei suoi
attori, per accompagnarne il processo di
rinascita. Poi una grande performance
collettiva, Il Terzo Paradiso – l’ACquila, che
ha visto la realizzazione di un grande simbolo del Terzo Paradiso con acqua elemento naturale che rimanda alla nascita della città - e secchi da cantiere oggetto simbolo del costruire - che si è
composto pian piano, secondo le indicazioni in progress date dall’artista. In
centinaia hanno partecipato alla performance pubblica: segnale di un desiderio
di responsabilità e cambiamento di cui
anche l’arte contemporanea può farsi
ispiratrice.
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SUONO E COLORE
NEL TEMPO DEL SAPERE:
UNA NUOVA OPERA PERMANENTE
DI DIEGO ESPOSITO
ALDO IORI
L’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TERAMO SI ARRICCHISCE DI
UNA NUOVA OPERA D’ARTE CONTEMPORANEA ALL’INTERNO
DI UNO DEI SUOI LUOGHI PIÙ PRESTIGIOSI: L’AULA MAGNA
DELLA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA NEL MODERNO
CAMPUS UNIVERSITARIO DI COSTE SANT’AGOSTINO.
L’università, nella persona del rettore prof. Luciano D’Amico, ha incaricato della progettazione e realizzazione dell’opera Diego Esposito un artista di notorietà internazionale nativo
proprio di Teramo. Egli è residente da molti anni a Milano e Venezia, ma è ancora molto legato alla sua città natale dove ha esposto in differenti occasioni. Si ricordi la vasta mostra
personale del 2003 divisa nelle due sedi della Pinacoteca Civica e della fabbrica dismessa
di Villeroy & Boch, e l’opera Naos (2000-2001), un elemento scultoreo cubico in acciaio corten che per alcuni anni con la sua luce gialla ha fornito una particolare e magica visione del
laghetto della Villa comunale della città.
L’aula magna del moderno edificio è strutturata in maniera semplice come un vasto ambiente degradante verso il palco, con i varchi di accesso posti a destra e sinistra della scalea, occupata da sedie di vivo colore rosso, e una vasta parete finestrata alle spalle del pubblico. L’attenzione dell’artista si è focalizzata su di una parte dell’ambiente che ne costituisce la maggior caratteristica architettonica: il soffitto. Esso è finestrato in quattro fasce trasversali che attraversano, da destra a sinistra, tutto il vasto ambiente e possiede ampie porzioni di parete intonacata costituite da otto fasce trasversali e inclinate, quattro visibili dalla parte del pubblico e quattro dalla parte del palco. Su questa doppia possibilità
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di visione dell’opera, mai percepibile nella sua interezza, Diego Esposito ha concepito e strutturato Scale di colore Suono del tempo, opera che già nel titolo indica l’ambito, non certo
nuovo per lui, in cui ha inteso spaziare. Egli infatti ha voluto ancora una volta modulare la
propria composizione visiva in relazione alla disciplina musicale, certamente affine a quella pittorica per storia comune e per molteplici sinergie culturali presenti anche nella contemporaneità.
Dalla parte del pubblico sono visibili quattro pitture murali che sul fondo bianco recano ognuna al centro il nome di un artista legato al territorio teramano. Luca d’Atri è un pittore la cui
importante opera, rilevabile nell’area italiana centrale e nel meridione angioino, è posta a cavallo tra il XIV e il XV secolo e il suo nome è associato a un quadrato giallo dorato. Andrea Delitio è anch’egli un pittore del pieno Rinascimento la cui presenza è documentata da Venezia a Roma, ma soprattutto in terra abruzzese: al suo nome è associato un quadrato rosso.
Zachara da Teramo è un musicista attivo anch’egli tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo:
il suo nome campeggia sul bianco e ai lati sono riportate tre quartine di una sua ballata amorosa. Infine, quasi a ridosso del palco, il nome di Jacobello del Fiore, pittore veneto presente nel Duomo cittadino con un meraviglioso polittico: dal suo nome si dipartono quattro assi
orientati, secondo i cardinali, nei quattro colori oro/est rosso/ovest, giallo/nord e blu/sud.
Sul versante opposto delle fasce trasversali, le pitture, visibili dal palco, sono strutturate secondo le regole della prospettiva a cannocchiale della cultura orientale, assiduamente frequentata dall’artista o secondo quelle della prospettiva inversa medioevale, in omaggio agli
artisti citati, Il cono visivo si apre così verso l’orizzonte dominato, nella vetrata che chiude
la sala, da una visione del maestoso massiccio del Gran Sasso d’Italia, elemento geografico di importanza fondamentale nella cultura abruzzese. La parte inferiore di ciascuna pittura riporta cinque linee, senza soluzione di continuità nella prima e poi frammentate in sette, sei e cinque parti nelle seguenti, in un mutare dal colore oro al blu, al rosso e al giallo del-
l’ultima. Sopra questo ideale pentagramma ogni volta sette quadrati di vari colori ruotano
nello spazio a definire una nuova e pittorica annotazione musicale.
L’opera Scale di colore Suono del tempo, come altre che l’artista ha realizzato nella sua ormai lunga carriera, sembra connotarsi come un’opera ‘orientata verso est’, nel senso che sempre più l’artista sembra trarre energia non solo dal vasto giacimento culturale della storia
artistica occidentale, ma anche da quella di paesi più lontani: sono presenti infatti echi suprematisti della moderna cultura iconica russa ed echi anche del lontano Oriente che egli ben
conosce per un’assidua frequentazione. In questo particolare caso l’opera si dispiega nello
spazio richiamando e ponendo una relazione anche con l’antica presenza di artisti della sua
terra, artisti che hanno operato in un particolare momento di crisi e di rifondazione culturale, per alcuni aspetti simile al nostro, nel passaggio dal pensiero medioevale a quello dell’Umanesimo; momento in cui l’icona era ancora ancorata a una forte spiritualità e la realtà
si affacciava nella nuova astrazione prospettica. Tempi in cui la pittura era colta soglia attraverso la quale cominciare a mostrare e narrare l’invisibile ai più.
Scale di colore Suono del tempo rappresenta oggi un’ulteriore, interessante e nuova formalizzazione di una poetica che da molti anni Diego Esposito persegue. In occasioni recenti l’artista ha esposto opere che hanno una precisa affinità con questa di Teramo: in particolare Suoni di luce presentato al Museo Genaro Perez di Cordoba in Argentina nel 2010 e
Tessitori di suoni al Centro Cultural Ccori di Lima l’anno successivo. In entrambe le occasioni
era presente l’evocazione (e non solo) del suono.
Questo rivela la presenza nella poetica dell’artista di una sua colta discendenza dal pensiero illuminista che fin dal XVII secolo ha inteso coniugare l’aspetto visivo a quello uditivo. Dai
primi esperimenti dell’abate Bertrand Castel fino ai più noti esiti di Wassilij Kandinsky o del
nostro Luigi Veronesi. In diverse occasioni Diego Esposito ha cercato diretti rapporti con compositori o musicisti che come lui credono nel rapporto sinergico tra le arti.
Il suo interesse a evocare l’aspetto uditivo è presente fin dal 1972 nell’opera Suono di tela,
dodici tele rosse e tre gialle che compongono con le loro piegature una precoce mappa armonica; questo interesse è poi ripreso come suggestione iconica nei primissimi anni Novanta
nelle sette notazioni presenti nell’opera pavimentale Stanza dell’aria (1989-90) della cinquecentesca Villa Imbarcati a San Quirico (nella campagna pistoiese e oggi irrimediabilmente
distrutta in uno scellerato intervento consolidativo voluto dalla nuova proprietà), nelle opere della Stanza della Musica /la luce dell’udito realizzata nel 1991 nel Castello Estense di Mesola a Ferrara: tra queste compare Forma sonora nella quale l’artista modella la forma secondo un’idea di flusso armonico. Anche nelle opere presentate all’Università di San Diego
nel 2000, al Kunstverein di Ludwigsburg nel 2001 e nel Giardino Yuwaku dell’Università di Kanazawa in Giappone nel 2004 i richiami al suono musicale sono fortemente presenti anche
se solo a livello iconografico e poetico.
Un interesse al coinvolgimento diretto del suono compare successivamente, nel 1995, nei
sette differenti suoni dei salti dell’acqua di Cascata nella Villa Jucker, nel 1999 nella scultura O suono nel parco della Collezione Gori sulla quale all’inaugurazione interviene un noto
percussionista e nel 2003 in Hys (Haifa Yellow Sound), presentata alla Second International Installation Triennale di Haifa, un’opera composta da un pannello giallo, un neon giallo
e dal suono registrato di una musica appositamente composta ed eseguita al violino. Nella
personale romana del 2009, presso la Galleria Giacomo Guidi, Diego Esposito presenta in quell’occasione sette grandi acquarelli accostati a Magnetic attraction, un’opera la cui concezione risale al 1991: nove quadrati gialli sospesi sul pavimento e nove elementi circolari neri
alle pareti sono accompagnati da un’apposita elaborazione musicale, ad opera del Maestro
Roberto Cacciapaglia, di nove suoni ognuno evocativo di altrettanti venti.
In altra occasione sarà interessante indagare le opere del progetto Latitudine Longitudine,
presenti in Italia, Cina, Argentina, Perù e, prossimamente, in Francia, nelle quali tramite lo
sguardo dell’osservatore la profondità della pietra viene messa in rapporto con le “musicalità armoniche” dei corpi celesti.
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PIOTR HANZELEWICZ
QUASI UN EURO
Quasi un euro, 2014, ossidazione da monete da 1 eurocent su carta Hahnemühle
SERIE DI 40 MONOTIPI
PROGETTO SPECIALE DI PIOTR HANZELEWICZ PER MU6
,PARTICOLARE-
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ARCHITETTURA
Filip Dujardin, Untitled, 2009
ESPOSIZIONI UNIVERSALI
Architetture per la società
Alle porte di un’inaugurazione storica, affamati dalle poche notizie raccolte spiando dai buchi del tendone, non resta che
spingersi oltre con la fantasia per cercare di immaginare cosa ci attenderà in primavera oltre i confini del grande parco tematico italiano. Durante l’attesa sembra interessante provare a sfruttare il vantaggio
dell’ultimo arrivato, guardando alle chance giocate dai precedenti ospiti, per cercare di capire cosa guardare quando saremo sopraffatti dallo stupore delle novità.
Senza dubbio, ciò che sarà ricordato per
sempre della grande esposizione di Parigi del 1989, sarà la Tour Eiffel, impressionante sforzo ingegneristico del tempo,
sfoggio di muscolatura nella gara tra potenze, oggi icona eterna della capitale. Ogni
esposizione, una volta spenta, ha lasciato dei totem a memoria. Se abbiamo voglia
di riscoprire un’esposizione universale,
non resta altro che vistare le architetture
che ha lasciato al suo passaggio, quasi
sempre gloriosi padiglioni. Una grande
gara dello spettacolo tra nazioni accompagna da sempre la storia dell’evento. A
Shanghai ad aggiudicarsi il premio del
più visitato è stato il padiglione inglese, il
più piccolo per dimensioni, ma sicuramente non privo di appeal. 60.000 aculei
di acrilico trasparente sospendono il guscio nel vuoto e catturano la luce per caricare di magia l’interno; agli apici di ciascuno di essi, rari semi cristallizzati, sem-
brano suggerire che l’intero universo vegetale sia stato raccolto per danzare intorno a noi, senza dubbio un grande fascino.
Ma se il vero obiettivo dell’Expo diventa sempre più analizzare e indirizzare la società verso l’innovazione del vivere, appare importante ripercorrere le passate edizioni alla ricerca di rari esempi di architetture per la società. Progetti residenziali, nati in primo luogo come risposta ai temi dalle esposizioni
e poi costretti a confrontarsi con le mutate esigenze che la società, con il passare del
tempo, esprimeva all’interno del tema abitativo. Piani urbanistici, villaggi operai, housing sperimentale, tutti accomunati dalla
medesima ambizione: ricercare nuove soluzioni abitative in grado di migliorare la qualità della vita, lasciando segni, più o meno
grandi, all’interno delle città.
Nel 1938 al quarto kilometro della via Laurentina sorgeva il villaggio operaio E42, in
quello che sarebbe diventato il monumentale progetto del quartiere EUR, acronimo di
“Esposizione Universale Roma”, il primo
Expo costruito per durare e non per essere
smontato. Il team condotto da Piacentini
scolpisce il nuovo volto monumentale per la
Roma del regime, celebrazione dell’impero
e della romanità e insieme della tensione verso la modernità. Un villaggio semplice e organizzato, quello destinato alle maestranze del grande cantiere. Case basse, disposte lungo il viale centrale, nascondono giardini e piccoli orti. Lo scoppio del conflitto
mondiale non permetterà mai all’Expo romano di aprire le porte. Le abitazioni costruite
per ospitare le mani della vittoria, diventano ricovero e nuova dimora per gli esuli di
guerra. Dall’Istria e dalla Dalmazia una comunità già consolidata vi si trasferisce portando con sé scuola, assistenza sanitaria e
attività commerciali. L’architettura della
moltitudine risolve quesiti che non erano stati posti in fase progettuale, accompagnando esigenze che mutano con la storia. Il progetto dell’architettura residenziale raffina il
suo pensiero e sorprende l’attualità figurativa e di contenuto di “Habitat 67”. Quella che
potrebbe sembrare l’ultima opera dell’artista belga Filip Dujardin è invece un primitivo tentativo di risolvere le eterne incongruenze della periferia. L’Esposizione Universale di Montreal del 1967 diventa l’occasione per realizzare l’utopia del giovane architetto di origine israeliana Moshe Safdie
che, partendo dagli studi della sua tesi di laurea, porterà a compimento un progetto visionario di integrazione tra funzione abitativa, spazi pubblici, commerciali e istituzionali. 158 abitazioni, 1200 quelle del progetto originale, assemblate con 365 moduli prefabbricati in cemento armato. Un unico
complesso architettonico che si innalza a spirale, attraversato da strade pedonali e da una
linea di trasporto pubblico che collega Habitat con il resto della città. Le unità abitali
risultano essere avanzamenti dalle precedenti Unité d’Habitation lecorbusiane, fun-
GIOVANNI DI BARTOLOMEO
zionali, ma stranianti; Habitat 67 lavora sul
tema della privacy, della riconoscibilità e del
vicinato in un organismo ad alta densità. Le
città dello junkspace iniziavano a costituirsi e questo complesso gioco strutturale
raccoglieva dati per una ricerca che ancora oggi coinvolge gli studiosi. Cosa accade
invece nel grande progetto di Milano città dell’Esposizione 2015? Torri residenziali, in
fase di costruzione, aspirano ad essere il
quartiere di social housing più grande d’Italia.
La sostenibilità energetica avanzata è al centro del progetto. Sette torri a emissioni
zero, progettate dagli architetti Mca di Mario Cucinella, Architects, Teknoarch, B22 e
Pura, saranno alimentate esclusivamente da
fonti di energia rinnovabili. Il nuovo quartiere si estenderà su una superficie di 540.000
mq, 52.500 mq dei quali destinati ad housing sociale. Il tutto immerso in un parco pubblico attrezzato di oltre 200 mila mq e servito da dieci kilometri di piste ciclabili che collegheranno l’Expo alla città di Milano. Lo spazio del nostro vivere è la vera sfida architettonica di ogni Esposizione Universale.
“L’Esposizione Universale, quando funziona
al meglio, quando riesce a portare in una città,
davanti a noi tutti, le grandi sfide dell’umanità, è un evento di globalizzazione e accelerazione della storia; un evento che porta il
mondo in un luogo e porta il futuro nel presente”. Stefano Boeri
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