scritti di don stefano

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scritti di don stefano
CARISMI E DELITTI
ANNO 2011
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Carismi e delitti
Per il lettore: alcuni racconti sembrano frutto della fantasia
ma sono terribilmente veri.
Una vecchia mendicante
A un ragazzino di terza elementare l’unica cosa che possa interessare è il gioco. Nel cinquanta gli italiani sognano l’estate
al mare, i ragazzi sperano in una bicicletta nuova e fiammeggiante, i genitori desiderano per i figli l’impiego in banca, ma
a lui di modesta famiglia operaia questi sogni non sono neppure consentiti. C’è un salmo che dice: nell’andare se ne va e
piange portando la semente da gettare, ma nel ritorno viene
con giubilo portando i suoi covoni. E’ un salmo che s’addice
molto bene a quanti studiano. Si esce da casa per andare a
scuola col volto triste del condannato a morte, ma si ritorna a
mezzodì con la gioia nel cuore: l’incubo è finito.
Grembiule bianco, la coccarda al collo, una cartella quasi
vuota, raramente qualche lira nella tasca. Un saluto e si scende
nella strada. E il primo sguardo è per il bidone della spazzatura sempre pieno, poi un’occhiata alla mastodontica Birreria
Peroni. Una struttura gigantesca che nel pomeriggio inonda
l’aria di canzoni che spesso sono tristi. E’ difficile per l’uomo
dimenticare gli ancora recenti fatti di guerra anche se sogna
un futuro migliore.
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Poi svolto l’angolo e c’è una sola strada da percorrere per arrivare a scuola.
E cammino senza paure. Non è ancora il tempo del rapimento
dei bambini che angoscia i piccoli e impaurisce i grandi.
Una strada piccola ma piena di botteghe.
E ricordi tanti: don Raffaele, i suoi detersivi e le sue due belle
figlie, la farmacia Gargiulo del cui titolare, sottovoce, si diceva
che fosse un poeta, autore di canzoni famose, e la pasticceria.
Don Ciro, un omino mingherlino e quasi calvo, ma generoso.
Quel bancone su cui posavano grossi recipienti di vetro contenenti caramelle e confetti, e quelle mani che spesso si immergevano in essi donando a noi bambini un attimo di paradiso: don Ciro, è nù buon omme, diceva papà.
Un’edicola che nel corso degli anni non ha mai subito mutamenti e infine, nell’angolo di fronte, una donna grassa, sui
quarant’anni, un grembiule nero non sai se per il colore o per
la sporcizia e una gigantesca caldaia di rame nella quale cuocevano castagne d’inverno o spighe d’estate.
Timidamente porgevi le lire e ricevevi in cambio cinque castagne in un sudicio foglio di quaderno, arrotolato nella caratteristica forma del cuppetiello. E mentre le mangiavi con appetito, deliziandoti, ti ritrovavi tra le mani il foglio in cui l’inchiostro a contatto col caldo delle castagne si era liquefatto.
Infine svoltavi a sinistra, pago nel desiderio, e la scuola era lì
come mostro che tutto inghiotte.
Banchi neri e sgangherati, alquanto scomodi con due calamai
incastonati.
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Un liquido nero, l’inchiostro, e la penna con il pennino che
quando meno te lo aspettavi si spuntava per cui non era più
possibile scrivere. Quelle macchie che all’improvviso cadevano sul quaderno e la fretta con cui bisognava asciugarle.
Che tragedia ancora più grande era lasciarle depositare, certo
involontariamente sul grembiule. I rimproveri di tua madre ti
avrebbero perseguitato per tutta la vita.
In seguito la storia racconterà della rivoluzione culturale di
Mao Tse Tung e del suo libretto rosso ma la vera rivoluzione fu silente. Benedetta la bic che poco alla volta avrebbe
sostituito la tradizionale penna.
Del mio maestro non saprei quantificare l’età, allora mi sembrava terribilmente anziano ma non doveva esserlo perché
suo figlio era mio compagno di classe.
Una volta alla settimana veniva distribuito a tutti un giornale:
Vera Vita. Il fumetto tra le mani. I ragazzi di oggi che hanno
tra le mani playstation, dvd e altre diavolerie della tecnica moderna sorrideranno a sentire queste cose. Mi emozionava il
racconto della primitiva comunità cristiana. Ricordo ancora
Pietro che dice al paralitico: non ho né oro, né argento, ma
quello che ho te lo do, nel nome di Gesù nazareno, alzati e
cammina. In quel momento vedevo finalmente il volto di Dio
onnipotente, ed era il volto di Pietro.
E un panino e un formaggino, a taglio quadrangolare, di cioccolato nella stagnola dorata era una conquista per chi lo riceveva: Raramente chiamato a prenderlo mi sentivo un leone
nel ritornare al posto La preda era nelle mie mani.
Ritornavo a casa e come sempre quando sono solo fantastico.
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E mentre cammino penso, ma non solo, vedo anche con l’immaginazione cose strane: una vecchia, mai vista prima, bassa,
capelli molto disordinati, un abito lungo parecchio e sudicio,
le gambe molto arcuate. Si ferma presso un lontano cumulo
di rifiuti, guarda, rovista, scarta, tocca, depone e poi continua
il suo lento camminare fin sotto al mio palazzo dove fa mostra
orgoglioso di sé un altro contenitore di rifiuti maleodoranti.
E nella visione si stagna netto ciò che è a terra, molti loti sfracellati da procurare conati di vomito solo a vederli. Lei, la
donna, ancora una volta rovista, scava, tocca, posa poi si
ferma, si china, prende da terra un loto e lo mangia. Questo
io vidi in visione e un senso di repulsione mi prese. E camminando, camminando voltai l’angolo e mi fermai incuriosito e
leggermente impaurito.
In lontananza c’era quella donna. Non so come ma i miei pensieri si erano materializzati e questo mi impauriva. Era così
come l’avevo intravista in visione, bassa, sudicia, e quelle
gambe così arcuate da difficilmente dimenticare.
E quello scavare, rovistare, guardare, posare e poi l’avvicinarsi
lenta vero di me, verso il vicinissimo contenitore di rifiuti.
E allora che guardai a terra allibito, come se avessi visto un
uomo assassinato. Forse sarei rimasto meno impressionato.
C’erano a terra dei loti fradici e puzzolenti, molli e repellenti.
E mentre si avvicinava mi ripetevo: non toccarli, ti prego, non
mangiarli, ti supplico. Volevo salvarmi da quella situazione,
ma la donna ormai vicina guarda nel contenitore, rovista,
tocca, posa poi si china a terra e ne prende uno e lo mangia.
Allora il terrore in me è sovrano. Non reggo più la situazione.
E’ troppo grande per me. E fuggo, di corsa, fino al secondo
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piano e mi fermo. Sento di essermi bagnato. Un liquido giallo
mi ha inzuppato i pantaloni.
E mia madre guardandomi dirà: assurdo, farsi la pipì addosso
alla tua età.
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Presagio di morte
Il raggio di sole, quella mattina, mentre le campane spandevano nell’aria i rintocchi gioiosi, entrava prepotentemente
dall’unica malandata finestra con grate e si fermava sulla piccola scrivania di ferro in quel locale angusto che tutti chiamavano sacrestia.
Il giovane prete che in tarda età scoprirà di essere stato piacente mangia con gusto la colazione del mattino che le mani
amorose di Assunta, una donna piuttosto anziana e massiccia
di corporatura, avevano deposto sulla scrivania, grissini e prosciutto e una tazza di caffè bollente.
Un ragazzino di scuola media, mio alunno, entra, saluta e
corre poi sulla strada a giocare.
Assunta è seduta vicino all’ingresso dello studio per fermare
chiunque voglia disturbare il pasto della fiera.
Pochi anziani che si erano attardati per una preghiera personale sciamano all’esterno godendosi quelle stupende giornate
di primavera.
C’è fretta in tutti. E’ domenica: è doveroso comprare una pagnotta di pane cafone su una bancarella, fermarsi dal pescivendolo per il fritto di pesce, passare per la pasticceria. Il
pranzo per i figli e i nipoti che raramente vengono in visita
deve essere solenne. Così si innalzeranno nel primo pomeriggio un po dovunque profumo di arrosto e l’odore acre della
frittura.
La colazione abbondante è stata consumata in fretta, il caffè
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sorseggiato ti ristora, una voce ti dice: a domani, padre, e sbirciando nella chiesa ti accorgi di essere solo. E’ il momento
delle notizie e con calma sfoglio il giornale. Uno sguardo
come è abitudine solo ai titoli grandi. I politici perennemente
in disaccordo, ma allora non si apostrofavano con parolacce
e perfino sputi, l’incidente sul lavoro, il solito corteo dei disoccupati che nei vicoli laterali hanno parcheggiato comode
macchine, le partite e lo sport in generale. Gli avvenimenti di
sempre.
Improvvisi rumori sulla cantoria, nell’aria musica sacra. Allora
sento che è Paolo, un altro mio alunno. L’amore per la musica
e il canto è vivo in lui.
E suona per quasi un’ora. E di giorno in giorno migliora nella
esecuzione. Maggiore padronanza nelle note e un ritmo sempre più veloce.
E la musica ti fa compagnia. Anche se sei solo, tu non ti senti
solo.
E poi quella domenica la musica è cessata quasi subito e lui è
qui davanti a te, le mani appoggiate sullo scrittorio. E’ bassino,
ma è solo un ragazzino di tredici anni. Crescerà in altezza e
anche in ingegno.
Ci guardiamo in silenzio. C’è una strana intesa tra noi, in quel
momento. Qualche volta si parla senza parole, e normalmente
è bellissimo.
Lo guardo quasi a chiedermi perché stia li e non a suonare e
poi parlo e dico qualcosa di terribile, qualcosa di non pensato,
ma che irruentemente è uscito contro le mie intenzioni, qualcosa che mi sconvolge e che deve essere stato tremendo per
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chi l’ha ascoltato. E divento rosso, di fuoco, sento il sangue
fluirmi dentro, ho paura di scoppiare mentre sento che dico:
Paolo, tu morirai prima di aver compiuto quattordici anni.
Sconvolgente! Assurdo! Terrificante!
Cosa avrà pensato quel ragazzino? Che emozioni avrà avuto?
Paura, angoscia, incredulità? Ma è sereno quando risponde,
almeno così giudico io, particolarmente pentito di aver detto
quella crudele enormità.
Mi chiamo Paolo perché porto il nome di un mio zio morto a
vent’anni.
Sentii quelle parole che il messaggio era stato accolto con dignità: era l’accettazione di un fato ineluttabile.
Poi il silenzio imbarazzante scese tra noi come una barriera
insormontabile e mentre si allontanava pregavo nell’intimo
che non lo avesse raccontato alla famiglia.
E’ il giorno del giudizio, senza angeli sterminatori e suono di
trombe, che ugualmente preoccupa e impensierisce. Il verdetto è nelle mani del bidello, pochi fogli che con punesse
saranno affissi nell’atrio della veneranda ma squallida scuola
di s. Alfonso M. de’ Liquori.
E poi c’è confusione, enorme confusione. E’ Babilonia, dove
tutti parlano e commentano, ma senza dialogare con l’altro.
Volti gioiosi e pugno in alto in segno di vittoria e volti improvvisamente impalliditi. Occhi che seguono attenti il percorso della riga: guai a sbagliare, promosso, promosso, respinto, ripara, promosso.
Il volto illuminato dalla gioia si stacca della calca, Paolo, e si
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dirige verso casa.
E nella immaginazione appare il pianoforte, quello a muro
perché la casa, piccolina, non consente altro e anche perché quello a coda non è disponibile per le modeste entrate
familiari.
Il papà è un impiegato ed è l’unico a lavorare e poi il matrimonio dei due figli più grandi, lo ha già dissanguato.
Bussa forte ed entra. Una volta nei nostri palazzi si viveva
senza troppa paura. Sui ballatoi porte spalancate, giochi di
bambini e pettegolezzi delle donne.
La notizia, la richiesta, un “no!” bruciante ed inatteso
Un rifiuto che non ammette repliche. “E’ una richiesta assurda che non posso esaudire.”
Il dolore del padre nel rifiutare, l’agitazione della mamma che
tenta una mediazione, il pianto silenzioso del ragazzino che si
sente sconfitto, una lunga discussione che non approda a
niente e poi il silenzio che dura qualche giorno. Ed è un silenzio duro da sopportare, fatto di rancori non espressi. Ed un
consiglio, il consiglio di chi conoscendo il marito e i figli suggerisce: trasferisciti a …, rasserenati e riposati. Il parco è meraviglioso e poi c’è anche una gigantesca piscina. Nel frattempo tuo padre, come altre volte, ci ripenserà e vedrai che al
tuo ritorno ti accontenterà.
E allora la decisone è presa.
I bagagli sono a terra, un saluto prima di partire, un bacio offerto e rifiutato.
Il parco è immerso nel silenzio. Il caldo è insopportabile, il
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sole scotta. Chi può riposa in attesa che con l’ombra si possa
scendere a fare due passi, sostare con qualche gelato al tavolo
di un bar, guardare i passanti, criticare il governo.
Improvvisamente alcuni ragazzi con un pallone si fermano sul
bordo della piscina e guardano distrattamente per decidere se
giocare a pallone o immergersi in essa per un bagno ristoratore.
Un urlo e tutti sono sconvolti ed è un correre dovunque per
chiedere aiuto: sul fondo hanno intravisto un corpo inanimato:
E’ un ragazzo e non ha ancora quattordici anni: Paolo.
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Un angelo
Spesso mi ritrovo a sostituire qualche catechista che si è assentato per un imprevisto e allora racconto ai bambini le storie della scrittura che ancora oggi affascinano i cuori puri.
Spesso sono le storie che vedono protagonisti gli angeli, questi messaggeri straordinari per mezzo dei quali Dio comunica
all’uomo i suoi voleri, veloci esecutori dei suoi ordini, adoratori perenni del suo santo Nome.
I ragazzi ascoltano attenti mentre racconto di Abramo e dei
tre angeli alla quercia di Mamre, della loro visita a Lot nella
città di Sodomia che sarà distrutta dal fuoco, della paura di
Gedeone quando un angelo gli apparve presso il terebinto di
Ofra o la paura di Zaccaria quando lo intravide tra dense nuvole di incenso nell’oscurità del tempo.
Ascoltano e tacciono. Solo una volta un bambino mi pose una
domanda imbarazzante: Ma tu hai mai visto un angelo?
Quando ricordo quel pomeriggio il pensiero evoca una poesia
di Garcia Lorca, alle cinque de la tarde, il cui contenuto si presenta evanescente. Cosa è accaduto alle cinque della sera: è
stato ammazzato il toro o il torero?
Ero sul sagrato della chiesa di s. Attanasio. Solo, e guardavo
distratto la strada, tre vicoletti, uno conduce a casa mia, quello
a destra porta a via don Bosco, e quello a sinistra all’Arenaccia.
Non c’ è un’anima viva che passi. Il rito del battesimo è previsto per le cinque ma io sono là per tempo, la puntualità mi
uccide.
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La solitudine è sempre cattiva consigliera. Ti induce a pensare
lasciandoti spesso irrequieto nel cuore, insoddisfatto della
vita, pentito dei tuoi gesti.
E il passato ti pesa e saresti pronto a cambiarlo.
Pensavo in quel momento ai pochi anni del mio presbiterato
e a quel presente che mi sembrava monotono e senza quelle
emozioni che agli altri sono consentite, emozioni che ti danno
gioia e che ti gratificano, almeno nel momento in cui le vivi.
E mentre nel mio intimo piango su di me, la strada si anima
all’improvviso. E’ l’ora del battesimo.
Alcune auto si fermano. Il papà ti saluta: buonasera, padre, e
poi prende il lettino nel quale il bimbo dorme ignaro del suo
domani. Il volto dell’uomo è gioioso e fiero. Con mano ferma
porta il trofeo. La moglie è raggiante e sono abbracci e baci
con tutti. I familiari, i nonni, gli amici, tutti si congratulano
per il bambino: è bello, è tranquillo, mangia con appetito, sarà
certamente un grande uomo nel suo futuro. E così con sogni
e parole entrano in chiesa.
E il giovane prete resta ancora fuori a guardare in attesa delle
altre famiglie. E pesa nell’intimo quel che ha visto. Quella
gioia lo ha turbato.
Perché a me è negata? Una sensazione strana nel cuore e forse
anche negli occhi: è chiamata invidia. E l’invidia è dolore, è
mortificazione della propria dignità.
Un uomo appare in lontananza. Istintivamente la mano cerca
una moneta da dare, e un interiore moto di stizza l’accompagna. Sono troppi, sono tanti e qualche volta anche ossessivi,
noiosi come mosche.
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E’ alto, l’uomo che non ha nome, capelli bianchi e disordinati,
quasi non vedessero il pettine da mesi. Un capotto a quadroni,
stile scozzese, grigio con righine di colore diverso e la fodera
che da un lato fuoriesce.
Nella tasca desta c’è un grosso finocchio e l’erba che fuoriesce
attira il mio sguardo.
La bocca è imbrattata di sugo perché sbocconcella pane avuto
da un pietoso donatore.
E ora è lì davanti a me, la moneta è nelle mie mani.
Mi guarda e mi chiede: “Sei tu il parroco?” Il tu allora mi infastidiva.
Si, mentii, cosa vuoi?
E parlò per alcuni minuti ed io allibii perché non chiese niente
e donò tanto.
Il Signore ti dice: Perché sei amareggiato e avvilito? Perché
invidi i giorni degli altri? Egli ti ha scelto perché tu lo serva
nell’amore. Sii contento della vita che gli hai offerto. Non rimpiangere il si che gli hai detto. Egli ha bisogno di te per incontrare gli uomini. E poi aggiunse altro che non ricordo bene e
addentando di nuovo quel tozzo di pane continuò per la sua
strada.
Si allontanava lentamente ed io guardavo chiedendomi chi
fosse.
Ero meravigliato per quel che avevo sentito ma quel che più
conta sono i sentimenti che aveva suscitato in me, una grande
gioia e la consapevolezza che Dio aveva ascoltato il grido del
mio dolore e aveva risposto.
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Un angelo mi era apparso e quando chiesi informazioni su di
lui mi dissero che si chiamava Costantino o pazzo, che mai
più incontrerò.
Chi mi ha parlato? Costantino oppure un vero angelo?
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Zio Vincenzo
Una casa al piano terra, all’interno di un cortile di un palazzo
plurisecolare e fatiscente. Perennemente in ombra e raramente baciata dai raggi del sole.
E’ gente umile, la famiglia di mio padre. Contenta del pane
quotidiano non ha sogni impossibili e allora, nonostante gli
affanni giornalieri, è serena.
Il leone rampante accanto alla possente quercia stampati sui
vetri dell’unico ingresso e su quelli della cristalliera e il mobilio
intarsiato, lavorato a mano da quell’esperto ebanista che è il
nonno, da noi mai conosciuto, raccontano di nobiltà decaduta
e di povertà accettata come volontà di Dio.
Sulle pareti campeggia una gigantografia di nonno Michele, che da Pietralcina si trasferisce a Napoli all’inizio del secolo scorso e per amore di nonna Pasqualina, terminata la leva
militare, si adatta al mestiere di portiere.
Attira l’attenzione una pergamena che è senza dubbio antichissima. Presenta il leone rampante accanto alla quercia ma
ciò che conta è la scritta sottostante in cui si afferma che il
nostro antenato era il marchese Arcangelo de Nu(g)no, governatore di Napoli al tempo di Isabella di Castiglia. Sarà stato
vero?
La cucina piccola e angusta ha il sapore di medioevo. Il focolare di mattoni, il vasellame appeso alla parete, il tavolo che
una rete ha trasformato in pollaio, una finestra con una grata
di ferro quasi sempre chiusa e una lampada che manda una
fioca luce ti portano indietro nel tempo quando c’erano le
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streghe e i boschi erano popolati di elfi e nelle case percepivi
la presenza del “munaciello” o della bella “mbriana”, gli spiriti
protettori della casa.
Ed è qui che noi bambini incontravamo “zì Vicienzo” e le due
sorelle di papà, zitelle per loro scelta.
A vedere zia Ernestina avresti creduto alle streghe. Magra,
tutta pelle ed ossa, instabile nel camminare per l’artrosi molto
pronunciata, volto arcigno e severo ma di una grande bontà e
generosità. Tenera con i bambini, anche con quelli estranei, e
quel soldino che improvvisamente passava dal vecchio borsellino nelle mani del piccolo incantato.
Zia Ida, bassa e cicciottella, era la tesoriera della famiglia perché aveva dei risparmi, frutto del lavoro in una vetreria della
zona. Interveniva sovente nelle difficoltà di tutti con un prestito che però bisognava restituire.
E qui in questo castello magico zì Vicienzo era il padrone,
servito, riverito e temuto perché “spustato”.
Con questa parola, nel gergo popolano, si voleva sottolineare
soprattutto il suo modo di vivere e di concepire la vita al di là
delle abitudini consolidate nel tempo, le abitudini di tutti.
Oggi diremmo “è un tipo strano”.
Non era raro nel far visita agli zii vederlo seduto dietro al tavolo, imbeccare una gallina con vino e bicarbonato per guarirla dall’influenza e poi lasciarla libera di scorrazzare nella piccola stanza suscitando l’ira furibonda di zia Ida che temeva le
galline. Fuori nel cortile una manciata di riso nutriva uno
stuolo di colombi fra le imprecazioni dei vicini. E l’asino
dell’ortolano che per la gioia ragliava al vederlo.
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In questa casa angusta, che in precedenza nel palazzo confinante aveva un altro vano a cui successivamente avevano rinunciato per motivo di risparmio erano nati 12 figli di cui
nove sopravvissuti e i più piccoli erano zio Vincenzo e papà
che al lavoro avevano soprannominato “agliutiello”, aglietto,
per la sua piccola età. Nella casa risuona ancora la voce della
nonna che dice al ragazzino “Viciè” mettiti la maglia pulita e
quel suo cercare, nei giorni successivi, la maglia sporca da lavare che non si trova, e non si trova neanche la precedente. Dove saranno?
La ricerca è affannosa ma inutile. “Viciè” dove le hai messe?”
E il ragazzino, meravigliato per quella domanda, le mostra: Le
indossava tutte l’una sull’altra. Aveva interpretato alla lettera
l’invito: “Metti la maglia pulita”
Amava collezionare liquori ma non li beveva. Bottiglie nella
cristalliera, nella credenza, nell’armadio, sotto il letto, perfino
sul soppalco in cucina che era la sua camera da letto. Bottiglie
ovunque ed erano il regalo che dava ai nipoti per le nozze. Beveva solo vino ed allora potevi sentire una canzone, una barzelletta ed infine la solita litania offensiva a cui zia Ernestina
rispondeva con un “vaffan...” mentre zia Ida versava fiumi di
lacrime.
Raramente visitava i parenti.
Lo annunciava il trillìo del campanello, prolungato e fastidioso. Entrava, un sorriso, un saluto e quando, poco dopo,
ritornavi dalla cucina con una buona tazza di caffè, ti accorgevi che senza neanche salutare era andato via. Come un soffio che spegne la candela così erano le sue visite.
Con noi nipotini dialogava poco. Non ho ricordo di carezze
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o regalini. Ricordo solo i suoi inviti a pranzo che col tempo
credemmo opportuno non accettare.
Seduti introno alla mensa, sorretta da un’aquila con le ali spiegate, finemente lavorata dal nonno ebanista, ci guardavamo
gioiosi, noi e i cuginetti della nostra stessa età, non per il
pranzo che avremmo gustato ma per i dolci che si intravedevano sul comò, poggiati davanti alla gigantografia del nonno
e le innumerevoli foto dei nostri defunti.
Nonostante fossero i tempi del miracolo economico, così dicono i politici di oggi, per molte famiglie erano ancora tempi
duri e sbarcare il lunario era un’impresa faticosa. Il pane quotidiano, l’indispensabile cioè, non mancava grazie al lavoro
mal pagato dei nostri genitori, ma le leccornie, le potevi solo
ammirare nelle pasticcerie del quartiere. Ed ora immagina a
cosa pensassimo tutti mentre mangiavamo. Immagina cosa
provassimo quando incominciava una lunghissima predica sul
dovere di unire il pane alle pietanze per riempire di più la pancia.
E tutto si sopportava in vista di quel momento in cui, tolte le
posate, si deponeva al centro della tovaglia che nel frattempo
aveva perduto il suo candore, la sospirata guantiera di dolci.
E allora eravamo invitati a scegliere. E gli occhi puntavano or
questo or quello indecisi, perché per il desiderio ognuno le
avrebbe scelte tutte.
Quando ognuno aveva espresso il desiderio, ecco allora
l’inimmaginabile: la guantiera con i dolci, per le mani della
succube zia Ida, ritornava sul comò davanti alla gigantografia
del nonno, mentre egli usciva e andava al bar per incontrare
gli amici.
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E nella stanza era un guardarci triste nell’attesa del ritorno allorché la bufera si abbatteva inclemente sulle due sventurate
sorelle perché avrebbero dovuto distribuire i dolci e non lo
avevano fatto.
Padrone della propria giornata frequentava volentieri il “Gloria”, il cinema della mia infanzia, una gran sala al piano terra
e una più modesta al primo piano. Ricordi dolcissimi di film
mai più rivisti, “Per un pugno di dollari”, un western all’italiana, “Il cappotto” con Renato Rascel sulle condizioni misere
degli impiegati di quel tempo, storie di “Visi pallidi” e di tribù
selvagge.
E quel pomeriggio sentivamo lo zio ridere e raccontare con
un linguaggio sibillino affinché noi non capissimo. E anche
noi stavamo al gioco perché nonostante tutto avevamo capito: Seduto accanto ad una coppia aveva importunato la ragazza dalla quale aveva ricevuto uno schiaffo così sonoro che
in tanti avevano udito. Fortuna volle che in quel momento si
illuminasse la sala e zio Vincenzo con prontezza, in piedi, apostrofa la sventurata con voce severa dicendo: “Questo è
niente, quando verrai a casa avrai il resto”
La coppia malcapitata fu costretta ad alzarsi e ad andare via
perché il commento degli altri non era benevolo: “Poverino,
ha scoperto la moglie con l’amante”.
E l’ilarità di tutti è alle stelle.
Un tipo strano buontempone e nonostante tutto molto amato
nel quartiere.
Diceva spesso che se gli avessero riscontrato un male incurabile si sarebbe lasciato morire d’inedia e così fu, colpito da un
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terribile male rifiutò cibo e bevanda per molti giorni fino a
quando si addormentò nel Signore.
A distanza di anni, ora che ho i capelli bianchi, lo ricordo con
tenerezza
Perché anch’io, forse, sono un tipo strano: colleziono mignon
di liquori e sono tante, e anche le mie visite sono un soffio e
l’arguzia e l’humor non mi mancano.
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Hai tratto dalla fossa la mia vita
Nella mia vita sono stato come un nomade, ho cambiato più
volte abitazione. Nato in tempo di guerra i miei trovarono rifugio in una casa, messa a disposizione da uno zio che si era
trasferito in Africa insieme alla famiglia. Poi gli italiani furono
espulsi e senza alcun bene ritornarono in Italia e pertanto
chiesero giustamente di poter abitare in quella che era la loro
casa e così partimmo per una piccola stanza in coabitazione
con una sorella di papà, zia Elena, nel palazzo nel quale oggi
abito.
La coabitazione è sempre un male soprattutto quando la cucina e il bagno sono in comune, quando uno ha un reddito
più che sufficiente e l’altro modestissimo, quando uno non ha
figli e l’altro tre. E allora i miei incominciarono a ingoiare
amaro.
Quando nacque mio fratello, il cognato di papà, zio Pasquale
ebbe così a commentare la nascita del bambino, parlando alla
moglie: “facimmo proprio schifo, non siamo stati capaci di
avere un figlio!” ed ebbe per mio fratello un affetto smisurato
e tante delicatezze che non riservava né a me più grandicello
di circa tre anni né a mia sorella quando nacque. Gli occhi
solo per Rosario a cui tutto era permesso, fare anche la pipì
su un’ottima collezione di dischi, mentre a me non permetteva
neanche di toccarli.
E allora dopo litigi vari e molto amaro ingoiato, mia madre
che è stata la guida della famiglia, contrasse un colossale debito e cambiammo casa, dove niente è mancato ma dove il
superfluo non c’è mai stato.
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Due stanze e una cucina, un gabinetto piccolo dove ci si muoveva con difficoltà, due lettini quattro sedie e un tavolo. Veramente poveri. In compenso in alto sul soffitto erano dipinti
colombi e fiori e nelle stanze correvano topolini piccoli che
fummo costretti ad estirpare col veleno nonostante il consiglio dell’inquilino precedente che diceva fossero portafortuna.
Ed è qui che ho abitato fino al compimento dei miei 25 anni.
La casa dei miei ricordi, di una gioventù povera ma felice, di
una salute buona che il Signore si è ripresa, di sogni infranti
dalla vita. La casa dei miei giorni giovanili.
La stanza da pranzo che era anche l’ingresso, ampia e assolata,
un tavolo di opalina nera e mobili vecchi avuti in regalo dallo
zio falegname. Poco distante dalla finestra la nonna guarda e
con i suoi occhi penetranti e il suo sorrisetto critica senza parlare. Mamma e la vicina lavorano con l’uncinetto e ridono allegre o criticano i conoscenti. Al tavolo di opalina nera cerco
di disegnare col compasso un cerchio sulla piantina del giorno
e intorno al tavolo i piccoli della vicina giocano a rincorrersi:
e nonostante tanta confusione mi diplomai perito metalmeccanico con buoni voti.
Stavamo bene in quella casa nonostante la sua angustia fino a
quando in prossimità dell’ordinazione sacerdotale non si sentì
la necessità di una casa più grande, per riservarmi l’intimità di
una stanza. E finalmente accadde: una casa nuova e più spaziosa, quasi il doppio dell’altra.
Ero presbitero da almeno quattro anni quando fui contattato
dalla morte.
Una sera, eravamo in quaresima, provai delle strane e paurose
sensazioni che mi tormentarono per un buon periodo di
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tempo. Conobbi il morire e quel che avviene dopo. Sono stato
abituato a dormire con le imposte chiuse e senza alcuna luce.
Quella sera, ricordo che nello spegnere la lampada del comodino, il mobilio, desiderato da una vita, scompariva nel buio
della stanza e un senso di paura mi invadeva.
“Vedi”, mi dicevo, “quando sarai morto, tutto continuerà ad
esistere ma tu non lo vedrai, la vita continua ma senza di te.
Solo il buio e sarai solo nel buio”. Impaurito sentii la necessità
di riaccendere il lume e sollievo, tutto era lì immobile, tutto
era nella luce, anch’io.
Risollevato alquanto spensi il lume nuovamente e il pensiero
divenne sensazioni fisiologiche. Mi sentivo chiudere nella
cassa e il respiro che diventava faticoso. E scendevo nella
fossa, assaggiando il freddo del marmo e il panico di chi è
claustrofobico ed è costretto a stare in luogo chiuso dove la
chiave della serratura è stata buttata via.
E allora la luce apparve ed io mi sentii tirato fuori. E da quella
sera in poi era un tormento prendere sonno. Accendere e spegnere, poi riaccendere e spegnere per molto tempo ed ero
esausto, impaurito, depresso, finché...una domenica, non ricordo se di quaresima o del tempo pasquale, celebrando la
liturgia delle ore 8 a S. Attanasio non fui guarito istantaneamente dalla Parola di Dio che curò quelle mie debolezze psicologiche. Cosa diceva? “Non ti lascerò marcire nella tomba,
popolo mio, l’ho detto e lo farò”. E In quel momento vidi un
uomo affascinante, giovanile nell’aspetto, seduto dietro una
bella scrivania, che batteva il pugno sul tavolo a conferma di
quel che diceva quasi a sottolineare che “Qui comando Io”.
Allora la calma entrò in me e le paure andarono via perché so
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che Dio è fedele e mantiene le promesse.
Ma poi nella fossa sono veramente sceso.
Familiari ed amici erano tutti presenti all’interro di una parente, donna saggia e amorevole, anche nei riguardi del genero, mio fratello. Entravo nella cripta proprio mentre i becchini con apposite funi abbassavano il feretro nella fossa, e
volendo guadagnare il tempo del mio ritardo ebbi la felice idea
di non camminare sul corridoio della cripta, pavimento stabile, ma di prendere una scorciatoia poggiando i piedi sulle
lapidi delle fosse, quando mi accorsi, con grande paura di
sprofondare nel terreno come nelle sabbie mobili quasi fino
alle spalle. Avevo calpestato la lapide sul bordo per cui inclinatasi aveva provocato la mia lenta e graduale penetrazione in
un terreno freddo, umido, untuoso e certamente pericoloso
per eventuali infezioni. Il panico e le grida di aiuto fecero accorrere i miei familiari che con fatica mi trassero fuori.
“Hai tratto dalla fossa la mia vita” dice il salmo.
Ora lontano nei giorni ricordo questo episodio con umorismo.
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Viaggiare nella notte
Cronista:
Vorrei raccontare una storia che ha il fascino della fantasia.
Ma è storia vera e lascerò che parlino i protagonisti, il prete
del villaggio, una anziana professoressa di filosofia in pensione, un medico molto noto nel quartiere.
La donna:
Ho conosciuto il prete del villaggio alcuni anni fa quando, in
quaresima secondo la consuetudine, è passato di casa in casa,
per annunciare la Pasqua ormai vicina, aspergendo con acqua
lustrale le nostre abitazioni. Onestamente devo dire che fui
alquanto turbata nel vederlo, volto arcigno e severo, parola
tagliente, quasi sgarbata, un parlare in dialetto. Lo ritenni in
quella circostanza arrogante ed ignorante. Tuttavia diventammo amici e scoprii che mi ero completamente sbagliata sul
suo conto. Lo ritengo ora gentile, molto istruito, un uomo
capace di comprendere i problemi altrui, molto disponibile
nell’accoglienza.
Il prete:
Ricordo il nostro primo incontro. Tristezza e solitudine sentii
in me. E raccontò così del suo lavoro, l’insegnamento della
filosofia in un liceo della zona, dei suoi allievi, dei tempi mutati, della sua solitudine e del suo bisogno d’affetto. Solo allora
mi accorsi di una foto che nell’ingresso poggiava su una mensola alla base di una bella specchiera. Un uomo molto giovane, forse sui trent’anni, decisamente attraente.
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Chiesi: “E’ suo figlio?”. Allora il bisogno di raccontare divenne un fiume di parole e con molta semplicità confidò che
era stato il suo amante degli ultimi tempi, che l’aveva impoverita con le sue molteplici richieste e poi era sparito, lasciandole
un gran vuoto che il tempo non aveva ancora riempito. Non
mi ero sbagliato, quella casa diceva tristezza e solitudine
Il cronista:
La donna viaggia molto per distrarsi. D’altra parte perché non
dovrebbe? Ha visitato molti paesi europei e anche diverse
zone dell’Africa selvaggia. Si entusiasma a parlare dei villaggi
alle falde del Kilimangiaro ma i suoi occhi diventano luccicanti quando parla dei Watussi, della loro fiera bellezza, dei
loro corpi statuari, della loro abilità nella caccia, della loro agilità nei balli tribali. E allora malignare diviene facile.
Il cronista:
E’ maggio, uno degli ultimi giorni di maggio. Il tempo è stupendo, la primavera fra giorni cederà il passo alla conturbante
estate che anche quest’anno anticipa la sua visita con grande
gioia di quanti amano il mare.
I campi sono in fiore, biondeggiano le messi e cantano gli uccelli in amore ma nella sacrestia che s’affaccia in una graziosa
piazzetta si respira l’aria di tutti i giorni, sempre la stessa. Un
timido raggio di sole decisamente impaurito, gli anziani che
entrano, salutano e chiedono sempre cose conosciute da sempre, il prete di campagna, così si autodefinisce il nostro eroe,
che sorseggia, seduto alla scrivania, una tazza di caffè, quello
di casa, che qualche volta corrobora e qualche volta disgusta
perché mal fatto.
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Il prete:
Anche oggi ho ricevuto la visita della signora……… ed è ormai una consuetudine. Sorseggiavo, gustandolo, il caffè del
mattino, come altre volte, preparato da una cara amica.
“Gradisce un caffè?” le ho proposto e la sua risposta è stata
piuttosto sgarbata: “Non bevo brodaglie”.
Dalla risposta scortese capisco che ha delle preoccupazioni,
non riesce a trovare il passaporto e così vede in pericolo l’agognato e imminente viaggio in Russia, da tempo desiderato.
La donna:
Quest’uomo mi sorprende ogni giorno di più. Non riesco a a
capire quando parla se è serio oppure burlone. Quando gli ho
raccontato del passaporto smarrito si è offerto, in cambio di
un regalino, di trovarlo.
“Questa notte”, mi ha detto, “verrò nella sua camera da letto
e le dirò dove lo ha messo”. Ciò che più mi stupisce è la sua
serietà nel parlare. Sembrava convinto di ciò che diceva.
Il cronista:
Poiché per mestiere sono e debbo essere curioso mi sono presentato in casa del prete a sera tardi. L’ho sentito dire: “Finalmente a letto! sono stanco”, poi “poveretta, speriamo che lo
trovi”.
E poi un fastidiosissimo russare.
Il prete:
Mi sono alzato di buon ora, stanco come se avessi camminato
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nella notte, e mi avvio brontolando verso la parrocchia. E’
l’ora di sempre, sono le sette del mattino. Perché alzarsi così
presto? È la domanda di tutti a cui non si dà risposta. Sono
meravigliato, in lontananza vedo qualcuno che mi aspetta, è
una donna, la professoressa di filosofia e le domando perché
così mattiniera.
“Per ringraziarla, ho trovato il passaporto”, risponde
La invito ad entrare, a sedere e a raccontare. L’ascolto con
attenzione senza lasciar trapelare i sentimenti di incredulità
per quel che dice, perché sarebbe stato offensivo, mentre
guardo riconoscente la banconota di grosso taglio deposta
sulla scrivania.
Mi ha raccontata che, svegliata nel cuore della notte, mi ha
visto entrare nella sua camera da letto. Con voce decisa, mostrandole l’armadio, le avrei chiesto di aprirlo, di rimuovere le
coperte invernali per poter aprire un cassetto che queste coprivano, di guardare tra le carte perché in fondo a tutte, lo
avrebbe trovato.
Stupore e meraviglia, dice, ma era lì.
Poverina, penso, mentre saluta e si allontana, ha confuso il
sogno con la realtà.
“Siete entrato nella mia camera”, e come avrei potuto? Terribile è la vecchiaia. Poverina.
La donna:
“E’ entrato nella mia camera e mi ha detto...”
Alcuni mesi dopo.
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Il cronista:
E’ novembre. Foglie morte portate dal vento. Le cialde sulla
brace, così chiamava le castagne un mendicante toscano, terribilmente femmineo, riesumando il linguaggio medioevale
della nonna. Un sole che non riscalda e una sottile malinconia
che ti pervade. Forse l’inconsapevole nostalgia di chi non è
più.
Il prete:
“Eravamo tre amici al bar”, così cantava Gino Paoli, almeno
così ricordo.
Sono tre amici, da sempre, il dottor C, il maresciallo S, il professor M, stessa corporatura, medesima adipe, una comune
lentezza nei movimenti e un identico pensare.
Assidui la domenica alla liturgia delle 10,30, ma oltre ad un
rispettoso saluto non hanno mai aggiunto parola. Forse non
sono mai stato loro simpatico.
Il dottor C:
Vivo a Napoli da sempre e dirigo una delle ASL della città,
ma le mie origini sono nel casertano. Raramente frequento la
parrocchia perché il mio cuore è nell’erigendo santuario di Casapesenna che visito regolarmente più volte all’anno con la
mia famiglia.
E’ da due anni che non incontro il parroco, onestamente non
condivido alcuni suoi pensieri sulla vita.
Il cronista:
Anche questa sera lo sorveglio nella sua intimità. Noto che è
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nervoso. E’ quasi mezzanotte ed è ancora sveglio. Si alza, uno
sguardo all’orologio, un sorso d’acqua, un’occhiata al frigorifero, un biscotto rubacchiato poi di nuovo a letto. Gira e rigira
e la danza continua. E’ quasi l’una quando prende sonno.
Il prete:
Non dormo. Mi tormenta un unico pensiero: il bilancio parrocchiale non quadra, è decisamente, da mesi, in rosso.
Sono poco generosi gli abitanti del quartiere, eppure sono
benestanti, almeno la maggior parte.
Il mio pensiero ora diventa voce. Parlare da soli non è un
buon segno. A voce alta poi dice esaurimento e depressione.
Un attimo di silenzio e poi sussurro: “Se tutte le famiglie della
parrocchia dessero ogni mese mille lire, metterei da parte una
piccola somma che mi consentirebbe di onorare gli impegni
mensili”. All’improvviso un volto si materializza nella mente
e mi irrita, il dottor C.
“Ecco uno che non ha mai dato niente per le opere parrocchiali”, uno scatto d’ira e una inesorabile minaccia: “Questa
notte andrò da lui e gli dirò: tu mi devi dare almeno mille lire”.
Il cronista:
Finalmente russa, è insopportabile.
Il prete:
In questo momento, sono le dieci del mattino, mi accingo ad
aprire l’ufficio parrocchiale quando una mano s’appoggia gentilmente sulla spalla destra procurandomi un senso di fastidio.
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Mi volto e sono sorpreso: è il dottor C. che amabilmente sorride.
“Buongiorno, parroco, volevo parlarle, son già venuto alle
sette del mattino ma ho atteso inutilmente la sua venuta”.
“Sono stato in curia per risolvere alcuni problemi, rispondo
ma non li ho risolti”, dico, “cosa posso fare per lei?”
Il dottor C, mettendo le mani all’interno della giacca, sulla sinistra, prende il portafoglio e prelevando una mille lire di carta
me la offre con insistenza.
“Mi usi la cortesia, parroco, di accettarla”. Il gesto mi distrugge. Mi toglie la parola e il silenzio viene equivocato tanto
che il medico aggiunge porgendo un biglietto di dieci mila lire:
“Sia cortese, le do anche questi soldi. Li spenda come vuole,
ma prende questa mille lire”
La sua insistenza e la sua visita così mattiniera mi lasciano intravedere in lui una paura non confessabile o almeno un disagio interiore che non saprei come chiamare.
Allora finalmente parlo chiedendo timoroso il perché di questa sua insistenza e la risposta che ormai prevedevo mi lascia
sconvolto, e dice, usando il “voi”:
“Questa notte siete entrato nella mia stanza e con fare minaccioso mi avete detto: Tu mi devi dare mille lire, ed io son venuto a portargliele.”
Raccontare ora i miei sentimenti diventa quasi impossibile. Il
ricordo precedente affiora, l’affermazione è la stessa, “Siete
entrato nella mia camera e…”.
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E se ho influito sui sogni della professoressa, come avrei fatto
ad influire sui sogni di un uomo che non vedo da anni? Credo
che questi mi abbiano veramente visto materializzato nelle
loro stanze. Eppure io non ho ricordo alcuno.
Intanto il medico è spaventato, si vede. Ora sono frastornato,
interiormente tremo, impallidisco nel volto, ringrazio e saluto.
Il giorno scorre come altre volte.
Lo incontrerò anni dopo per il matrimonio della figlia.
Il cronista:
Sono stato testimone di altri episodi che non credo opportuno raccontare, ma sento che l’interessato, ora, è veramente
convinto di aver viaggiato qualche volta nella notte
Il prete:
Quanto leggete è vestito di verità, ma voi ritenete il tutto una
simpatica e irreale storia.
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Uno schiaffo
Il sagrato per molte generazioni è stato ed è ancora un campetto per giocare a pallone. Gioia per i ragazzi, incuranti dei
rimproveri, e motivo di preoccupazioni per i passanti, soprattutto gli anziani che sentono l’esigenza di partecipare all’Eucarestia domenicale in questa che è una delle più belle chiese
di Napoli.
Ancora oggi, nelle grandi solennità, ricevo la visita di sconosciuti che ricordano con tenerezza e malinconia il tempo della
loro gioventù quando sognavano gloria e futuro ed esorcizzavano le paure passandosi una palla.
Sul sagrato vedi la vita nella sua bellezza: la gioventù che è
voglia di vivere e capacità di sognare, desiderio di un amico a
cui raccontare senza timori i segreti del cuore, ricerca affannosa di una carezza dolce come quelle di tua madre ma ben
più diversa da quelle di tua madre, e mentre scrivo sfilano
come in una passerella i volti dei ragazzi di allora che ora sono
uomini, felicemente sposati e che io rivedo sempre con
grande gioia soprattutto quando sono accompagnati dai figli.
Nell’ufficio parrocchiale, se origli, puoi sentirmi litigare con
un uomo. Non ricordo il motivo del disaccordo, il fulcro della
discussione, ma il colloquio è aspro. Siamo ambedue irati.
Un rumore quasi impercettibile e nell’armadio che è anche archivio viene conservato il pallone che fino a quel momento
aveva dominato il sagrato.
Il temerario che ha osato invadere la mia intimità è F., un sim182
patico quattordicenne, poco amante dello studio, che ritiene la vita solo un gioco.
Per un attimo ho smesso di litigare, inoltre l’antagonista è andato via. F. è fuori a due passi da me.
Un nome, un urlo: “F., vieni qui!” e quando il ragazzo entra,
meravigliato, chiede “Sì?”, gli allungo un ceffone con la destra
così forte da sentirmela indolenzita. E’ pietrificato il ragazzo
per tanta violenza, poi scatta e afferrandomi per il petto sento
che dice qualcosa che ricorderò per sempre: “Non ti salto addosso e non ti meno perché ti voglio bene”.
Mi seggo, mi accarezzo il mento, sorrido, gli occhi illuminati
e penso…penso e sorrido…
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Una telefonata impossibile
Sono l’unico ospite in un lussuoso residence, alla periferia di
Palena, un paesino in provincia di Chieti. E’ un monolocale
carino e comodo messo a disposizione per alcuni giorni da un
amico carissimo. E’ situato il residence lontano qualche chilometro dal centro abitato, su una collinetta . Dall’unica finestra è possibile ammirare in basso un pendio che declina dolcemente sempre più giù, un verde ora intenso, ora triste e alberi cullati dal vento che in questo periodo si accompagna
sempre ad una sottile pioggerellina che ti penetra nelle ossa e
ti comunica un senso di malinconia anche perché sei solo e
l’unica compagnia è quella del cane, uno stupendo incrocio
tra un collie e un pastore tedesco.
In alto noti la strada asfaltata che porta lontano, non saprei
dove, e il parcheggio per le auto degli ospiti del residence,
confinante con un casermone molto ampio che io ritengo abbandonato.
E le nuvole, che si muovono lente, in un cielo senza sole, sembrano che vogliano entrare in casa e così accrescono ancora
di più quella malinconia che si è impossessata di fin dal momento in cui gli accompagnatori, affidandoti le chiavi del monolocale, sono andati via.
Sei solo con te stesso! E ti senti in terra straniera. O Napoli
bella, così amata, così odiata.
La piazza del paese è la meta quotidiana. I negozi, sotto piccole arcate, parlano di antichità, un bar e pochi tavolini ti consentono di guadare gli altri, la vita che scorre tranquilla. Ho
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tra le mani una tela e una matita che però resta inerte. Non
sento ispirazione alcuna.
Il cane, al guinzaglio, è ai miei piedi. Condivido con lui o lei,
visto che è femmina, un buon caffè freddo tra lo stupore incredulo del cameriere che si è soffermato all’ingresso del bar
per constatare la veridicità di quanto avevo detto: “Un caffè
per me ed uno per il mio cane”.
Passeggiando lentamente scorgo un ridente parco per il gioco
dei bambini, uno scivolo, un’altalena, le panchine, sempre
agognate e nel guardare i piccoli giocare sento per essi una
grande tenerezza che una sola volta nella vita è diventato desiderio di una paternità fisica. Il cane attira i loro sguardi.
Qualcuno è impaurito e non si avvicina, qualche altro si lascia
andare ad una timida carezza.
La solitudine in cui ho vissuto in questi tre giorni di vacanza
è inesprimibile, e in questa notte assume contorni tragici. Il
cane è irrequieto, si agita, guaisce come se avvertisse qualcosa
e mi comunica il suo malessere, le sue paure. E mi sento insicuro, forse anche nel panico. E temo una visita notturna. Ladri? Ma nel residence il silenzio è totale. No, non credo! Il
pensiero è un altro, unico, fisso: “il terremoto?”.
Gli animali avvertono molto tempo prima accada la scossa
che irrimediabilmente verrà.
E così nell’attesa di una scossa che non ci sarà è l’alba: le
finestre spalancate sul mondo allontanano i fantasmi e le
paure della notte. Il sole che timido si affaccia e che credo
esploderà nel pomeriggio, il cielo azzurro e sereno e l’aria
pungente che ti comunica un piacevole brivido raccontano
che oggi sarà un giorno molto diverso dagli altri: un giorno da
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ricordare.
Con queste sensazioni prendo chiavi, soldi e cane e scendo,
nonostante le primissime ore del mattino, per una piacevole
passeggiata e con forza chiudo la porta alle spalle.
Il passo è leggero e svelto e il cane per la gioia scodinzola
intorno finché ciò che vedi ti procura un’ira che diventa urla
selvagge e incomposte. A terra, nel primo piano, un ricordino
del cane che bisognava decisamente rimuovere. Ed è un salire
blaterando contro che aveva cambiato la mia vita, il ragazzo
che mi aveva lasciato il cane.
Chiavi, soldi, portafoglio, tutto è scaraventato sull’unico tavolo, il cane è legato alla finestra e armato dell’occorrente
scendo a compiere l’ingrato compito.
Il cuore colmo ancora di ribellione, prendo il cane e ridiscendo per quella che era una passeggiata desiderata. E chiudo
la porta ancora con più forza.
La macchina è nel parcheggio, coperta di rugiada e la camicia
che indosso non mi ripara dal freddo che è più pungente di
quanto pensassi. Istintivamente cerco le chiavi. Nulla. Le ho
lasciate in casa sul tavolo, con quelle di casa, con i soldi i documenti, tutto.
L’urlo è nel silenzio, un urlo poderoso, alla Fantozzi, case che
crollano, alberi abbattuti, aerei che precipitano, la terra che si
squarcia. Sono sconvolti i cieli e la terra. Niente si è mosso e
tutto ride di te: poverino!
Vorrei potervi raccontare la tempesta di sentimenti che era in
me. Un desiderio struggente di casa e dei miei giorni monotoni ma sempre sereni, una voglia di fuggire, lasciare tutto e
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col primo treno ritornare a casa, ma come arrivare in paese e
con quali soldi pagare il biglietto? Voi che leggete certamente
riderete di me e della situazione pensando che io stia facendo
di una banale situazione una assurda tragedia.
E’ vero! La situazione sarà banale per tutti, purtroppo non lo
era per me perché per natura sono un tipo poco dinamico,
per niente avventuriero, il classico studioso che passeggia sui
libri sognando avventure mitiche e irreali.
Superato lo sgomento iniziale, l’amara sorpresa, decido di telefonare all’amico di Napoli che conosce bene questa cittadina
perché mi dia l’indirizzo di un buon fabbro che cambi la serratura.
Ed eccomi allora alla ricerca di un telefono pubblico, in tasca
solo la misera somma di cinquecento lire, cinque monete da
cento, sufficienti per una rapida telefonata.
La strada è lunga, solitaria, faticosa, il cane corre divertito, per
lui in libertà, senza guinzaglio, è gran festa. Finalmente esulto,
a pochi metri, si staglia contro il cielo l’oggetto tanto desiderato: un telefono pubblico.
Affretto il passo, spingo la porta, alzo la cornetta e per poco
non svengo: un biglietto abbastanza grande e una sola parola,
guasto.
Caparbiamente introduco le monete, sono certo che è veramente guasto, ma voglio tentare ugualmente: è guasto.
E’ il momento di dire: cadete su di noi, monti, e copriteli.
Finalmente sono alla periferia del quartiere. Imposte chiuse,
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dormono tutti. Solo un bambino e gioca col pallone. Mi avvicino titubante. Vorrei chiedergli se era possibile una telefonata col telefono di casa e il permesso dei genitori. Non oso,
sento solo che gli chiedo: “dimmi, dove è possibile trovare
un telefono pubblico?” e la risposta suona beffarda: “C’è una
sola cabina”, e indica quella da me visitata, “ ma il telefono è
guasto da parecchi giorni”
Sono avvilito!
Rientro in quell’unico telefono pubblico e chiedo
aiuto all’unica donna che può risolvere i problemi di tutti.
Timidamente a voce alta risuona l’Ave Maria e poi una parola:
Aiutami.
Introduco le monete, compongo il numero e una grande gioia
mi pervade, e la voce di G. risuona nitida. Pochi minuti, un
nome e un indirizzo, un ringraziamento e via per la strada che
conduce dal fabbro.
Pochi metri e l’esigenza di una ulteriore informazione mi riporta nella cabina. Impossibile telefonare: è guasto, è guasto.
Non mi ero sbagliato pensando che quel giorno sarebbe stato
diverso dagli altri. Avevo sperimentato che lassù qualcuno ti
ama.
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La tempesta
Il peschereccio scivola veloce sulle acque serene del mare di
Galilea nella magica cornice di un tramonto stupendo.
All’orizzonte cielo e mare si confondono assumendo il colore
della luce, un bianco intenso che si muta in alcuni tratti
nell’oro o in un gradevole arancione. In alto domina con prepotenza, colorando perfino le nubi, il rosso ora vivo come il
sangue, ora solenne come la porpora. Ma scenderà la sera e la
notte ingoierà ogni cosa a meno che non si affaccerà la luna.
E’ Natale. E Natale è l’incanto, la poesia, la fanciullezza, in
una parola magia.
Il freddo è così pungente che qualche volta ti penetra non
solo nelle ossa ma perfino nel cuore per quella sottile malinconia che a tratti ti prende perché il finire dell’anno ti parla di
un altro finire. E allora lenisce quella tua inconfessata tristezza
le vetrine addobbate a festa, la solenne illuminazione stradale
e quelle bancarelle sulle quali sono esposti i pastori di sempre
e quanto serve per abbellire l’albero più famoso del mondo.
Il pranzo è pronto e sono accolto con gioia di tutti, forse perché possono finalmente mangiare. Anche i cani scodinzolano
e abbaiano.
Il primo sguardo è per il presepe, lo stesso da anni. Lo guardo
e in un attimo si presentano irrimediabilmente i ricordi. La
nostra prima abitazione e il primo presepe. I miei genitori giovani e noi bambini. E papà che si industria a creare ma non
ha fantasia e la mamma che lo imbecca e lo rimprovera.
La carta accartocciata, bagnata nella colla, che diventa roccia
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e strade e montagne e quei pastori di creta così costosi e tanto
delicati da perdere, solo toccandoli, un braccio o una gamba
furbamente disposti dietro le rocce perdevano la loro infermità.
Siamo in tanti intorno al tavolo e mamma ha posto accanto a
me. Si chiacchiera, si ride, si mangia con gusto, si commenta
il costo della vita. L’atmosfera è serena, gioiosa.
Guardo mamma. E’ invecchiata. La morte di papà, e son tre
anni, l’ha cambiata. La guardo e il rimprovero esce immediato
e con severità:” Non ti vergogni a sedere in maniera così indecente?”.
Avevo notato che in quel momento che per lei era di distensione il suo stare seduto, sul bordo della sedia e con le gambe,
a parer mio, molto divaricate. Una posizione che per la mia
moralità ritenevo quasi oscena. La risposta fu dolorosa
come se una pallottola mi avesse colpito nel cuore.
“Non mi è possibile sedere diversamente. Nell’inguine ho
qualcosa che lo impedisce e ho anche un certo fastidio che
non ti so descrivere”.
Ammutolisco e poi a stento balbetto: “Chiederò ad Angela
che ti visiti”.
Nell’Apocalisse quando si parla del Regno di Dio che verrà e
lo si chiama “Cieli nuovi e terra nuova” si dice che in esso non
ci sarà più il mare. E con ragione perché il mare che una vecchia canzone apostrofa con “crudele”, “e la barca tornò sola,
mare crudele, mare crudele…” è infido e traditore.
Un forte vento orientale, improvviso, squarcia la serenità del
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navigare sballottando il peschereccio tra flutti sempre più minacciosi. Soffia forte ed impetuoso il vento da smuovere le
nubi che copriranno l’impaurita luna, mentre onde alte, sempre più alte, si abbattono inclementi sul peschereccio così da
intimorire quei poveri pescatori: “Siamo perduti!”.
Lo studio come sempre è poco illuminato ma ciò che mi spaventa è il buio nel mio cuore, avverto la tempesta che verrà.
“Vostra madre ha un carcinoma all’utero”, dice, pacatamente
ma anche tristemente, Angela, amica da sempre, una donna
giovane colta e intelligente da poco laureata in medicina. Poi
il suggerimento di una visita da un buon oncologo per la conferma della diagnosi.
La pizzeria è elegante, ampia con pochi avventori. Seduti
l’uno di fronte all’altra evitiamo quasi di guardarci. La diagnosi
era esatta. Angela, purtroppo, non si era sbagliata. “Ricovero
urgentissimo” era stato il consiglio dell’oncologa che avevamo consultato un’ora prima.
Un silenzio imbarazzante, come una fredda cappa. È sceso su
di noi. Poche parole per una conversazione banale, mentre
avremmo voluto dire altro e non osiamo farlo.
Tutto è irreale, un sogno, un terribile sogno. E ti vorresti svegliare ma non puoi.
La pizza è sul tavolo e senza crederci ne magnifichiamo la
bontà ma vorresti gridare che il vento è impetuoso e le onde
inabissano la barca, la tua barca.
E’ l’alba. L’appuntamento è per le otto. La donna, apre la
porta, tocca le pareti di casa, le bacia ed esce mormorando
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“Casa mia bella, casa mia bella, chi sa se ti rivedrò più” e dolcemente chiudiamo la porta sospirando nell’intimo “Signore,
noi affondiamo e tu dormi?”.
“Taci”, risuona impetuoso il comando del Signore e zittisce il
vento e si umilia il mare.
Una galleria sotterranea collega tra loro i padiglioni dell’ospedale. Fiocamente illuminati evocano immagini surreali, e non
sai se quello che vedi è realtà o la tua fantasia ardita.
Ma i passi che nel silenzio totale risuonano molto amplificati
sono i tuoi. Sei tu e non sei solo. Ed è l’ora in cui la sera cede
il posto alla notte.
Lo sconosciuto spinge una barella su cui mamma dorme avvolta nell’improvvisato sudario e spinge forse pensando a una
eventuale e generosa regalia. Ed io cammino, lesto quanto lui,
e non mi accorgo di cantare, prima molto sottovoce, poi infine a voce alta il cantico di Mosè che parla della sconfitta del
faraone e del suo esercito che nella notte di Pasqua significa
la vittoria di Cristo sulla morte.
E canto e nessuno sente. E il canto va oltre le nubi. E canto.
Ora tutti lo ascoltano. E il mio saluto è strano, “Buonanotte
mamma” poi aggiungo:
“Anzi buongiorno, perché ora sei nel giorno di Dio”.
E la vedo con quella sua camicia da notte bianca, in piedi,
davanti alla finestra illuminata dal sole di primavera, tenue nel
calore ma intenso per la luce, che sorride gioiosa e mi dice:
“Hai visto, mi sono alzata!”
Questa sera mamma è nuovamente in piedi.
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Non soffia il vento e il mare non c’è nel regno di Dio.
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Una canzone
La vita dell’uomo è ritmata dal canto. Molti ricordi gioiosi e
tristi sono legati alle note di una canzone. La melodia che
qualche volta improvvisamente si alza nel tuo ambiente o perché la radio la trasmette o perché qualcuno sommessamente
la canticchia ti fa sobbalzare nell’intimo e il tuo cuore saltella
come un giovane bufalo nel suo recinto e allora il sorriso illumina il tuo viso o qualche lacrima si adagia lentamente sulle
guance.
Alcuni canti sono legati alla mia gioventù.
“A luna rossa me parla e te”, e rivedo mio padre giovane, con
i capelli neri impomatati dalla famosa brillantina Linetti, antenata della più celebre gelatina per i capelli, seduto a capo tavola e noi intorno.
Gioioso, allegro, forse anche per il bicchiere di vino in più che
aveva bevuto. Spezzava golosamente le fave e le ingoiava con
voracità accompagnandole con pezzi di capocollo. E poi era
un canto forse anche stonato, “a luna rossa me parla e te”, ed
infine si paragonava, per la simpatia e bellezza, al mitico Rodolfo Valentino e noi ridevamo di lui.
Mia mamma ricamava. Le piaceva e con soddisfazione mostrava le sue opere. E la vedo intenta a questo lavoro di precisione mentre sento nell’aria la celebre melodia di “parlami
d’amore Mariù” oppure l’altra:
“Noi siam come le lucciole, brilliamo nelle tenebre”. Cantava
di amori e di lucciole e solo più tardi ho capito che le lucciole
erano le donnine che si riscaldavano la sera con i copertoni
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d’auto.
Le canzoni della mia gioventù sono legate a Gianni Moranti e
Rita Pavone e ad altri cantanti che ora mi sfuggono. Li ho
rivisti ultimamente in uno spettacolo televisivo e mi sono immalinconito. Dove è finita la loro gioventù, dove è finita la
mia?
Era la pasqua, il mio primo anno vissuto in seminario, Ed era
notte. Eravamo tornati dalla veglia pasquale celebrata in cattedrale. Avevo sonno ed ero stanco. Ma rientrati tutti ci fu
detto di fermare nel cortile dove troneggia una splendida statua dell’Assunta.
E mi chiedevo del perché di questa sosta. Improvvisamente
tutti a cantare. Una sola voce nella notte ed io sentivo che
anche gli angeli cantavano con noi. Era il Regina Coeli a due
voci che si innalzavo forte nella notte e la divideva in due: la
notte degli uomini che pregano, la notte di Dio che
ascolta: Rallegrati Regina del cielo, Cristo è risorto! E mai più
dopo mi è stato dato di ascoltare quel canto. E la vita è diventata dura e la notte è quella degli uomini e spesso ti pare che
Dio sia assente.
Il terzo piano del Pascale è lindo, pulito, il marmo del pavimento luccica. Poche stanze sulla sinistra e a destra le finestre
che danno luce. Al centro una statua dell’Immacolata guarda
tutti, ascolta paziente e silenziosa e implora per i degenti misericordi e guarigione.
La suora che dirige il reparto è bassa di statura e grassoccia.
E’ più un bulldog che impaurisce che una presenza che richiama l’amore di Dio. Perciò nel reparto ogni cosa ha il suo
posto, e questo è un bene.
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La prima stanza è la sala d’aspetto per le visite dei familiari.
Poche sedie e un televisore per ingannare il pomeriggio dei
malati qualora volessero distrarsi e dimenticare il posto in cui
si trovano.
E’ qui che ho trascorso spesso il riposo pomeridiano e qualche volta mettendo le sedie una accanto all’altra ho formato
uno strano e scomodo divano su cui sdraiato ho riposato un
po’ le stanche ossa.
Un pomeriggio ascolto una canzone, sono i “Ricchi e Poveri”
che cantano “paese mio ti lascio e vado via, che sarà che sarà
che sarà, che sarà della mia vita chi lo sa”.
Mi volto. Uno scatto ed una sedia direi che vola. La donna
che ascoltava fugge veloce nella stanza in cui mia madre riposava. E allora corro e giungo in tempo per vedere la donna
piangere ed esclamare “ che sarà, che sarà, che sarà, della mia
vita che sarà”.
“che sarà?” Io so che sarà della mia vita. Dolore e morte.
Pochi mesi dopo quelle donne che avevano condiviso una
stanza e un unico destino erano tutte ritornate alla casa del
Padre.
Ed io ricordo la canzone e il pianto di quella donna diventa il
mio pianto.
“che sarà, che sarà, della mia vita che sarà?”
Hai sciolto il mio saio
Mi hai cinto d’allegria
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Da poco avevo con i miei amici neocatecumeni conclusa la
celebrazione della Parola di Dio, in chiesa. Era tardi e camminavo pensoso nel ritornare a casa. Una casa silenziosa e fredda
come tutte le abitazioni nelle quali non c’è nessuno che ti
aspetti. Il ricordo delle ore precedenti trascorse con i fratelli
nella fede, le letture proclamate, le considerazioni sulla propria vita messe in comune e la musica delle chitarre e la voce
melodiosa del nostro giovane cantore Davide che ti comunica
gioia e pace interiore.
E tutto questo appesantiva il mio ritorno a casa, in quell’ora
tarda, in quella sera di inizio d’estate. Un pensiero: “che cosa
cenerò?”. Mi stringe il cuore pensare pentole e fornelli e il
tempo che ci vuole per mettere sotto i denti qualcosa che tutto
sommato neanche desideri. Un’idea improvvisa: “mangerò
una pizza” e deciso entro nella pizzeria sotto casa mia.
Uno squallore. Luci al risparmio, non un cliente, neanche una
voce. Nella cucina due donne silenziose e pazienti aspettano i
clienti che non sarebbero venuti. Trovo un tavolo e mi seggo.
Ordino e poi aspetto con il capo tra le mani, cercando di non
sentire quelle voci interiori che dicevano: “La solitudine è un
peso se tu non l’accetti”.
Improvviso il silenzio è rotto da una voce familiare, la voce di
Davide, che domanda: “Siete solo?”.
Che domanda, pensai, non vedi che non c è nessuno? E lo
guardai notando sulla sua faccia la sorpresa nell’incontrarmi e
la tristezza nel vedermi in una luce nuova, non ridente come
sempre, non gioioso, non trascinatore di popoli come all’altare ma come un uomo qualsiasi che medita sulla sua nullità.
“Siete solo?”. “No, Davide, non sono solo” e accennando alla
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sedia vuota che mi era accanto, risposi con prontezza “Ti presento la signorina Valeria Marini” che tutti voi conoscete
come una bella soubrette. Davide senza scomporsi si voltò
verso la sedia vuota e inchinandosi verso la inesistente
donna, facendo il gesto di un cavalleresco baciamano aggiunge: “Lieto di conoscerla, signorina” e si sedette.
Una parola, un’altra e vengono consegnate le pizze che Davide avrebbe portato a casa e nel salutare affettuosamente non
dimentica la inesistente soubrette. Si inchina verso la sedia
vuota, salutando “Lieto signorina di averla conosciuta. Auguri
per la sua carriera, a presto rivederci, buona serata” e mi
strizza anche l’occhio come normalmente si fa per complicità.
Il tutto mi aveva riscaldato l’animo e la serata fu serena.
La sera successiva non aspettavo visite e solo come sempre
ero al computer. Il campanello squilla e sulla soglia Davide
sorride e mi porge del cibo preparato dalla suocera. Spontaneamente al vedere il suo volto sorridente come tra complici
gridai forte verso il lontano bagno: “Valeria, non siamo soli,
ora che esci dal bagno, mi raccomando rivestiti” e una risata
simultanea si udì per alcuni lunghissimi minuti.
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Un chirurgo venuto dal cielo
Vagamente ricordo nonna Maria che dopo la vedovanza è
sempre vissuta nella nostra casa. Grossa di corporatura, alquanto silenziosa, con difficoltà motorie dovute all’età e
quella sua incapacità a parlare napoletano. Contadina del
Friuli, sbarcata a Napoli in tempo di guerra non aveva mai
abbandonato il dialetto della sua prima gioventù. E’ stata una
presenza umile, consapevole di non entrare nei problemi familiari perché sarebbero stati ingranditi. Dalla tasca del grembiule traeva furtivamente un dolcetto, una frutta, una caramella e la mangiava di nascosto come se l’avesse rubata. E noi
facevamo finta di non notalo. E’ una mania dei vecchi.
A sessant’anni le apparve, un mattino, sul naso un porro di
circa due cm. A guardarlo disgustava. Deturpava il suo bel
volto, bello nonostante l’età. Sembrava su quella sedia una
vecchia matrona romana.
Questo porro le rimase sul naso per sempre fino a quando un
tumore al cervello la fece partire per una vacanza senza ritorno all’età credo di 85 anni, all’incirca.
Non ricordo che giorno era, ma avevo da poco compiuto i
sessant’anni. Ma ricordo come se fosse ora quel che provai
quel mattino guardandomi allo specchio. Inorridisco. Nella
notte mi era cresciuto sul naso un porro di circa due cm, alquanto filiforme, nello stesso posto in cui era sul naso della
nonna.
Non credevo ai miei occhi. In una notte. Possibile? Ed ora il
volto nello specchio mi disgustava. Lo toccavo e ritoccavo
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ma era sempre lì, dannatamente al suo posto. Mille pensieri! Toglierlo? Certamente. Lasciarlo? Forse è meglio, non
disturbare il cane che dorme. Che impressione farò agli altri?
E se nel tempo si trasformasse nel cervello come tumore?
Che sarà di me? E nel frattempo la mia immagine nello specchio non mi dava risposta.
Un incubo entrare nei negozi, parlare con amici, celebrare la
liturgia. Mi sentivo guardato e giudicato. E poi dissi: “Lo toglierò” Decisione dura ma necessaria.
Al vecchio Pellegrini una suora molto anziana mi procurò un
incontro con lo specialista di questo intervento che ponendomi varie domande accrescono il turbamento che già era in
m, dico turbamento per non dire paura. “E’ una operazione
delicata, dopo dovrà fare la plastica al naso. Vuole affrontarla
col bisturi o col laser?”
“Ci penserò” annotando le indicazioni dello studio presso il
quale mi sarei dovuto recare.
Una preghiera saliva al cielo: “Intervieni, Signore, con la tua
potenza”
Non ricordo che giorno era, ma l’ansia che mi perseguitava la
ricordo bene. Non ricordo che giorno era quel mattino in cui
lo specchio rifletteva una strana immagine. Incredibile ma
vera, fantastica e reale. Sul naso non c’era più niente. Quel
porro che lo deturpava era sparito nella notte.
E toccavo e ritoccavo, incredulo, ma non c’era nessuna traccia
che testimoniasse che c’era stato. Pensieri molti: nel dormire
devo averlo estirpato con le mani. No, mi dicevo, avrei dovuto trovare un residuo della base e qui la pelle è liscia senza
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segni di manomissione. Allora il mio cuore si innalzò a Dio
creatore: grazie, Signore, per questo tuo dono.
E poi con una punta di orgoglio mi dicevo: “Sei stato veramente un uomo fortunato per essere stato operato da un chirurgo così eccezionale”. E ridevo per la gioia.
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L’uomo di Pietrelcina
Alla fine dell’ottocento Michele, un contadino di Pietrelcina,
un piccolo e sconosciuto paese del beneventano, venne a Napoli per ottemperare agli obblighi della leva militare. A Napoli
conobbe Pasqualina per la quale non ritornò più al paese dove
la sua fama di ebanista era notoria. Portiere in uno stabile del
Risanamento, otto figli, Armando, Francesco, Anna, Maria,
Ernestina, Ida, Ettore e Vincenzo e una vita serena nonostante sull’Europa spirassero venti di guerra. Tempi duri, per
violenza e sangue, paura delle bombe, pane razionato, l’urlo
delle sirene, il buio del sottoscala.
Michele non vide la fine della guerra perché, amputate le
gambe per il diabete, si lasciò morire per il rifiuto totale di
cibo. Di lui ricordo una sua gigantografia: corporatura simile
a quella di san Giuseppe Moscati ma i baffi enormi come
quelli di Stalin. L’unica cosa che lasciò, oltre ad un mobilio di
eccezionale fattura, scolpito tutto dalle sue mani, una pergamena ingiallita dal tempo dove accanto ad una quercia c’era
un leone rampante e la dicitura con grafia medioevale raccontava i natali della nostra famiglia accennando al capostipite
Arcangelo de Nugno, governatore di Napoli al tempo di Isabella di Castiglia nel 1942 quando Cristoforo Colombo scoprì
l’America. E quella quercia e quel leone rampante erano dipinti sui vetri della casa a partire dalla debole portafinestra.
Nella adolescenza frequentavo i miei cugini, figli di zio Vittorio, nella casa dove vidi la luce del sole. E fu allora che sentii
parlare di un frate cappuccino, nel convento di S. Giovanni
Rotondo che, per la sua santità. Attraeva moltitudini di gente.
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Venivano da lontano per partecipare alla liturgia delle 7 del
mattino durante la quale entrava in estasi per molti minuti ed
era una gara per baciargli la mano. Camminava lentamente
sorretto da amabili confratelli e attiravano la tua attenzione i
guanti alle mani, per le stigmate ricevute anni prima.
Burbero nel comunicare ma attraeva. I santi sono come la calamita, attirano soprattutto i peccatori, che si sentono nonostante tutto amati.
Zio Vittorio raccontava di prodigi, di guarigioni, di bilocazione e poi un giorno mi colpi quella che fu per me una rivelazione. La mamma di padre Pio e il bisnonno, papà di Michele, che io suppongo chiamarsi Francesco erano fratello e
sorella il che significa che padre Pio e nonno Michele erano
cugini, papà suo nipote ed io un pronipote.
Partimmo di notte, adolescenti, giovani, anziani con la gioia
nel cuore e, pur cantando, le ore non passavano mai, ma
all’alba, eravamo in chiesa per partecipare alla messa del santo
frate.
Eravamo a S. Giovanni Rotondo, là dove trascorse il resto
della sua vita. Accompagnato da due confratelli, camminava
lentamente ma il nostro sguardo era attirato dalle mani rivestite con mezzi guanti, quelli che coprono tutto lasciando le
dita libere. E la lode di tutti si elevò al Signore in un latino
mezzo fracassato.
Non so cosa pensassero gli altri durante l’Eucarestia ma io
ricordo che ero proteso verso quello che ci era stato promesso, incontrare il Padre, al primo piano, dove iniziava la
clausura, che per norme canoniche è luogo interdetto alle
donne.
203
Ed eccoci sopra, in un lunghissimo corridoio che portava
credo alla cella del Padre. Avevamo formato due file, lungo le
pareti, a destra e a sinistra dell’ingresso e quando si spalancò
la porta e apparve lui, un applauso lo accolse. Eravamo inginocchiati al suo passaggio, ed io aspettavo che si fermasse accanto a me perché avevo notato con gioia che aveva scelto la
nostra fila per salutarci e farsi baciare le mani. E man mano
che si incamminava verso di me il cuore entrava in fibrillazione, il battito era certamente accelerato.
Nella mia ingenuità mi aspettavo che dicesse quello che mi
volevo sentire dire: “Ciao, nipote mio, ti aspettavo”.
Sorpresa, dolore, indignazione. A due passi da me, si gira e va
verso l’altra fila salutando e così si sottrae ai nostri occhi. Non
mi aveva neanche guardato. Ci alzammo e scendemmo, portavo nel cuore delusione e un macigno, quasi rancore, che
tutt’ora dura ancora. Nella mia stupidità blateravo: “E poi dicono che è santo”, non è possibile.
Proclamato santo sentimmo l’esigenza con la parrocchia di
visitare i luoghi della sua infanzia, e Pietrelcina, origine della
mia famiglia, ci accolse.
Nella casa natale del santo una foto vecchia di anni attrasse la
mia attenzione, la foto della mamma di padre Pio, Maria De
Nunzio. Restai folgorato. Rassomigliava moltissimo a una sorella di papà, zia Ernestina, due gocce d’acqua. Due streghe
pensai, per la magrezza del volto e la bruttezza. Eppure, ambedue, nella vita furono lampade di carità, che si consumavano per la famiglia e per gli altri. Come è vero che i lineamenti fisici spesso tradiscono la bellezza dell’animo.
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Ora sono un prete anziano, da sempre burbero con un carattere difficile, anzi scostante, eppure stimato ed amato, perché
hanno sperimentato dopo 40 anni di vita nello stesso ambiente, che ho un cuore d’oro. Non ho estasi durante le celebrazioni, ma sofferenza, questa, si. Cammino lentamente col
bastone e devo essere aiutato a salire e a scendere dall’altare,
a sedermi e ad alzarmi, con mio disappunto e quel senso di
impotenza che ti fa sentire povero, perché bisognoso della carità altrui. Ma la mente è lucida e la parola semplice che spesso
suscita negli ascoltatori forti emozioni. In questo tempo il Signore mi ha chiamato a proclamare il vangelo della sofferenza
che salva.
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Uno scherzo diabolico
Eravamo quattro amici al bar, dice una nota canzone, e noi
quattro amici eravamo ma non seduti al bar perché in tasca il
soldo per il caffè non l’avevamo. Ma avevamo in compenso diciotto anni e la salute e i sogni dei diciottenni di una
volta. Il sottoscritto, che frequentava allora il quinto anno per
diplomarsi perito metalmeccanico, mio cugino Franco e due
fratelli che nomino A e D. Quattro inseparabili perditempo
nella piazza e nei locali della parrocchia di S. Maria della Fede,
dove avevo imparato a giocare a carte tanto da essere bocciato
al quarto anno con mia vergogna e il dispiacere dei miei genitori che vedevano allontanare di un anno l’inserimento nel
mondo del lavoro.
La mia insegnante di lettere era figlia del Procuratore della Repubblica di Napoli. Era il tempo in cui le cronache si interessavano del processo ai coniugi Bebawa. L’amante della donna
fu ucciso e i due ritenuti responsabili della sua morte. Purtroppo nel corso si lanciarono reciproche accuse tali da non
potersi stabile con certezza chi fosse stato l’assassino e così
furono assolti per insufficienza di prove.
Un giorno ebbi un’idea diabolica, prendermi gioco di A che
pochi giorni prima aveva conseguito la maturità classica
con buoni voti. Chiesi a mia sorella di scrivere a macchina e
di rispondere alle mie richieste come avrebbe fatto una qualunque segretaria.
“Guarda, Elena, sii attenta. Dobbiamo creare l’atmosfera di
un ufficio pubblico, ed ora telefona”
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“Buonasera, è la casa del signor A?”
“Si, dica pure, sono la mamma”.
“E’ possibile parlare con suo figlio?”
“In questo momento è fuori casa, può dire a me che poi riferirò?”
“Certamente, telefono dal Tribunale di Napoli”.
“Mio Dio, cosa è successo?”
“Non si preoccupi, Signora, niente di grave. Qui è l’ufficio del
Procuratore della Repubblica che vuol parlare con suo figlio.
Glielo passo”.
Ed intervengo io, interrompendo spesso il discorso per dare
ordine alla segretaria che nel frattempo inizia a scrivere a macchina. La sensazione che si tratti veramente di un ufficio pubblico è completa.
“Signora, dica a suo figlio che è chiamato da questo tribunale
a far da giurato nel processo Bebawa”
“Che significa?”
“Che per ogni presenza al processo avrà un gettone di 50 000
lire”
“Domani dunque l’aspetto in tribunale, nel mio ufficio, con
la tessera di identità. Mi raccomando sia puntuale”
“Grazie”, risponde la donna visibilmente emozionata e forse
negli occhi il disegno dei dollari come spesso si vede negli occhi di zio Paperone.
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Il giorno dopo di buon ora, elegantemente vestito munito di
tessera si presenta in tribunale e dopo varie domande bussa
alla segreteria del Procuratore della Repubblica. Stupore sulla
faccia di chi ascolta il motivo della sua venuta, poi un sorrisetto maligno sul volto dell’impiegata e poche parole che sembrano un uragano. “Mi dispiace, signore, si son presi gioco di
lei”. La faccia del mio amico diventa multicolore, voglia di
bestemmiare, mille maledizioni a chi gli ha procurato questa
figuraccia e ritorno a casa con pensieri di vendetta.
La curiosità mi spinge irresistibilmente verso la casa di A.
Muoio dalla voglia di conoscere i particolari del mattino e rido
immaginandomi il volto dell’amico beffato. Sulla mia faccia un impercettibile sorriso che scomparve immediatamente
dal volto quando, aperta la porta, mi accorgo che è la mamma
ad accogliermi.
“Buonasera, signora, c’è A?”
“No” è la risposta quasi violenta della madre visibilmente irritata. “Entrate” e poi l’esigenza di raccontare quanto era accaduto al figlio al mattino. Un’ira feroce, senza ritegno, fatta
di parolacce, imprecazioni, maledizioni verso l’anonimo ideatore dello scherzo. E la tentazione di rivelare l’identità
dell’ideatore fu sconfitta. Credo che mi avrebbe picchiato e
avrebbe fatto bene. Ero stato diabolico. Ad A non ho mai
rivelato la verità se non in questi ultimi anni, ma non abbiamo
riso, che la vita ai nostri giorni, severa com’è, non ti consente
di ridere su niente.
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Anche Dio scherza
L’umiltà è una pianta che nasce nel deserto che è consapevolezza e accettazione della propria nullità. E’ un fiore che piantato da Dio nel tuo cuore ha bisogno di una particolare tua
cura per crescere e inondare di profumo l’ambiente in cui tu
vivi.
Il mio curriculum scolastico non è mai stato eccellente, colpevole la mia Alma Mater, che aveva scelto per me un progetto di studio per il quale non ero nato: gli studi tecnici. Non
particolarmente interessato non avevo mai brillato per i risultati, anzi, al quarto, per amore eccessivo del gioco delle carte,
ero stato anche bocciato. Questa situazione causò in me un
senso di inferiorità, soprattutto quando ero paragonato agli
amici vicini di casa.
Ero nato per gli studi classici e teologici in particolare nei quali
brillai come stella luminosa. Ero finalmente consapevole di
non essere inferiore a nessuno. Intelligenza al di sopra della
media, una terribile memoria e anche un linguaggio forbito
che col tempo ho abbandonato usando in pubblico e in privato il dialetto napoletano, che ai nostri giorni dovrebbe essere tutelato perché ricchezza linguistica del nostro popolo
napoletano, bistrattato da sempre, ma ingegnoso e intelligente
più degli altri.
In questo periodo della mia vita, felice perché sentivo che ero
in cammino sulla strada che il Signore aveva scelto per me,
conobbi un santo prete, don Raffaele Alterio, che aveva abbracciato con gioia la sua condanna: glaucoma agli occhi, cecità per tutta la vita. Lo aiutavo nella celebrazione del mattino
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come lettore e anche come omileta. Mi chiedeva infatti di
commentare le letture al suo posto. Ed ero felice nel predicare
e mi esaltavo nell’intimo per gli elogi che ricevevo dai giovani
presenti di cui molti universitari e futuri professionisti. “Chi è
che non ama i complimenti? “E i complimenti sono il fumo
che penetra nell’appartamento anche quando è chiuso con
una serratura a doppia mandata”.
E così, giorno dopo giorno, un elogio oggi, uno domani e tu
incominci ad esaltarti. Pensi di essere superiore agli altri nel
commentare il vangelo, di avere una cultura massiccia, un fascino particolare nell’eloquio e allora, senza che tu lo sappia,
diventi orgoglioso, superbo, sprezzante con gli altri, il massimo tra gli amici. Povero te! Sei entrato nella categoria dei
superbi che Dio non ama.
Quella domenica non sapevo che scherzo Dio aveva preparato per me. Il tema delle letture era l’umiltà. Gonfio di me
come sempre avevo preparato l’omelia su Gesù Cristo Amen
di Dio e Alleluja di Dio, umiltà del Cristo e sua esaltazione.
Avrei finito poi con un discorsetto sulla necessità di essere
umili se si vuole essere graditi a Dio. E predicai al vangelo;
volevo far colpo, dimostrare ancora una volta di essere unico.
E predicavo quando Dio che legge nel cuore dell’uomo scese
in me come a Babele, confondendomi le idee al punto che mi
sentivo perduto, senza alcun pensiero valido, senza alcun ricordo di quanto preparato e arrossendo parecchio sentivo che
non connettevo e così miseramente conclusi, con la percezione netta della figuraccia fatta.
Dopo la messa Alterio ed io eravamo soli nella sacrestia. Alterio deponeva i paramenti sacri ed io ridevo rumorosamente.
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“Perché ridi?”
“Alterio, avete sentito l’omelia?”
“Certo”
“Avete capito qualcosa da quello che ho detto?”
“Niente quanto hai detto non aveva alcun senso, forse questa
mattina sei ubriaco”
“Rido per la figuraccia pessima che ho fatto”.
“Ridi? Dovresti piangere”
“ Rido perché ho capito che cosa vuol dire con: Chi si umilia
sarà esaltato e chi si esalta sarà umiliato”.
“Dio oggi mi ha insegnato che delle virtù non si può parlarne
finché non sono patrimonio del nostro cuore. Predico da
molte domeniche e avrei potuto smarrirmi nel predicare in
una qualsiasi domenica dell’anno, ma è oggi che l’intelligenza
è stata confusa e la lingua si è inceppata, la faccia è diventata
rossa peperone perché il tema di oggi è l’umiltà che io sento
di non possedere”.
La lezione servì, capii che per essere accetto a Dio e simpatico
agli altri devi saper guardare in te per ritrovare se tu l’avessi
perduto il senso della tua nullità perché solo dove c’è il
vuoto Dio lo riempie di sé.
Oggi l’affetto degli altri mi riconosce lo sforzo costante che
metto nel praticare questa virtù.
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Presenze
Mi costa enormemente scrivere questo capitolo e i due successivi perché ho la certezza che sarò considerato un visionario, preda di improvvise allucinazioni e quindi non credibile.
Eppure non credo di rientrare in questa categoria di persone.
Alcuni mesi fa, mentre pronunciavo la preghiera di consacrazione nella solenne eucarestia domenicale avverto accanto a
me, oltre ai due diaconi, una presenza amica anche affettuosa.
Una sensazione strana, non saprei dire, ma l’avverto alla mia
sinistra. Istintivamente mi volto e vedo soltanto i due diaconi,
al loro posto, come sempre. Consacro ma i sensi sono tesi.
Terminate le parole del Cristo, sento che qualcuno mi abbraccia nei fianchi, come è dato di vedere nelle coppie di fidanzati
quando teneramente camminano sorreggendosi l’un l’altro e
stringermi nella vita con un forte pizzicotto, al punto che
chiedo a Gigi che è sulla destra: “Perché mi tocchi?” “Perché
avrei dovuto toccarvi?” risponde. Nel frattempo sento che la
presenza si allontana.
Mesi prima scendo, usando l’ascensore, e con grande fatica
mi reco all’uscita del palazzo dove aspetto una macchina che
mi conduca in chiesa.
Una voce, forte, squillante, proveniente da dietro l’ascensore
mi saluta: “Buongiorno, padre” ed io rispondo:” Buongiorno
anche a te, ma tu chi sei?”. Nessuna risposta e allora incuriosito guardo dietro l’ascensore: non c’è nessuno!
In parrocchia da circa venti anni abbiamo un corso per operatori pastorali, a livello decanale molto frequentato. Lo scopo
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è conoscere meglio la nostra religione per essere all’altezza dei
tempi. Siamo tre insegnanti, consapevoli che in parrocchia
ci debbono essere collaboratori con una fede robusta per poter dialogare con questo mondo che spesso si presenta arrogante, possessore della sapienza.
Un argomento sul quale mi soffermo volentieri perché completamente ignoto anche ai più credenti è l’argomento che
tratta degli angeli. Chi sono? Esistono veramente? Qual è il
loro compito? Ed io parlo con dovizia di particolari, che
spesso affascinano gli ascoltatori che sono abituati a registrare
le mie conferenze.
Certe volte sorrido nel vedere i registratori sul modesto tavolo
al quale mi appoggio. E per un attimo mi sento come un famoso ministro che dà interviste.
In una conferenza parlai della scala di Giacobbe. In fuga dal
fratello trova rifugio in un luogo isolato, solo e impaurito,
poggiando il capo su una pietra si addormenta sognando una
scala che parte dalla pietra guanciale e arriva in cielo sulla
quale salgono e scendono, quasi danzando, miriadi di angeli.
Svegliatosi e fortemente impressionato dal sogno consacrò al
Signore quella pietra pronunciando queste parole: “Quanto è
terribile questo luogo, questa è la casa di Dio, questa è la porta
del cielo”. Questa è in sintesi una parte di quella conferenza.
Qualche giorno dopo una anziana donna, chiese di parlarmi
visibilmente emozionata. Ha con se un registratore e la lezione da me tenuta. Ascoltiamo insieme. La mia voce è chiara
e anche qualche battuta fa ridere clamorosamente fino a
quando mi sento domandare agli ascoltatori: “Parlatemi della
scala di Giacobbe”. A questo punto nel registratore si sente
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una scarica elettrica potentissima e una voce non umana, non
la mia, non di un qualche uomo presente, voce rauca, ultraterrena, che impaurisce me e quanti l’ascolteranno in seguito
che dice:” Questa è la casa di Dio, questa è la porta del cielo,
custoditemi questo luogo”.
Poi un’altra scarica elettrica potentissima e nuovamente risuona la mia voce, limpida che domanda: “E allora chi vuol
parlare degli angeli?”. Quella registrazione è stata fatta sentire
a molte persone e tutte sono rimaste seriamente impressionate. A voler fantasticare dietro quella voce ultraterrena riesco
a sentire che l’eternità è entrata nel mio tempo, mi resta solo
una domanda. “Perché uno solo fra molti ha registrato questa
ingerenza?”
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L’altra dimensione
Era il giovedì santo di alcuni anni fa. Purtroppo non ho familiarità con le date. Iniziamo la liturgia con una chiesa relativamente piena. I miei fedeli sono per abitudine ritardatari nonostante i ripetuti richiami. Nel guardare l’assemblea sentivo
la delusione per un popolo che non aveva capito ancora l’importanza della puntualità. Recitavo l’atto penitenziale quando
“Sogno o son desto?”. E’ l’espressione più appropriata che tu
esclami quando vedi qualcosa che sa di incredibile: vidi tre
defunti entrare in chiesa, due donne e un uomo, tutti e tre da
me conosciuti all’inizio del mio ministero in parrocchia e ottimi amici in seguito.
Le due donne vestivano abiti scuri, come quando erano in
vita, l’uomo con un pantalone chiaro indossava una camicia
bianca.
La prima ad entrare dalla porta destra fu MV che si fermò a
pregare davanti al crocifisso che è all’ingresso del tempio, la
seconda M entrò dalla porta sinistra e si sedette nel banco vicino alla sacrestia. L’uomo entrò dalla porta sinistra e si sedette al primo banco.
Profondamente turbato lo raccontai all’omelia ad una comunità che nel frattempo era diventata assai numerosa.
Avranno ascoltato? Mi avranno creduto? Ma c’erano già state
nel passato esperienze simili.
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Il sisma
Noi tutti ricordiamo il terrore che serpeggiò immane per tutta
Napoli quella sera del 23 novembre 1983 quando una potentissima scossa di circa un minuto e mezzo mosse le fondamenta dei palazzi. Ricordo con forte emozioni la fuga di tutti
all’impazzata, senza una meta, alla ricerca di luoghi ampi, i
volti terrorizzati quasi incoscienti di quanto stava accadendo,
la gente che per le scale scendeva di corsa perché si sentiva
già nell’aria odor di polvere di cemento, il mobilio vomitare il
contenuto e crepe aprirsi nei punti più deboli della casa. In
chiesa il soffitto ballava producendo mille rumori, tanti scricchiolii e poi fuori sulla soglia un pezzo di cornicione che cadeva sfiorando, per grazia di Dio, la mia grossa pancia. Ricordi da bruciare ma son ricordi che non si lasciano bruciare.
Quindici giorni prima del sisma.
E’ una mattina calda come d’estate e come d’estate sono solo
in chiesa.
Non entra un cane e se entra qualcuno è per chiedere dov’è
il water. Finalmente una visita. E chiacchierare ti fa sentire
vivo. E’ un’amica sposata con due figli maggiorenni e un bambino di dieci anni che hanno adottato. Parliamo delle solite
cose, quelle cose che rendono la vita monotona, insopportabile e che fanno sognare fantastiche evasioni mentali.
Quelle cose che tu apprezzi solo quando un ciclone entra nella
tua vita e la sconvolge e allora nasce il rimpianto di quella monotonia.
216
Parlavamo della salute malferma, dei figli che ti impensieriscono, delle critiche tra parenti, di uno stipendio che non è
sufficiente per giungere indenni all’ultimo giorno del mese,
degli affitti che sono abbastanza cari e delle spese di condominio che pesano ulteriormente sull’affitto.
Poi come una rivelazione improvvisa, quasi uno sfogo inconscio:
“Le fondamenta del nostro palazzo sono colme di acqua per
la rottura di alcune tubazioni ma l’amministratore fa orecchi
da mercante”
Ed io senza riflettere risposi e poi mi sentii imbarazzato.
“Dì di provvedere al più presto perché appena verrà il terremoto il palazzo crollerà”.
Silenzio della donna e mio poi: “Scusate, perché dovrebbe venire un terremoto?”
“Non so!” e poi ridemmo sentendomi chiamare “civetta del
cattivo augurio”, a Napoli si dice “cicciuvettola”.
La mattina della domenica del terremoto.
Era seduta nei primi banchi e s’accorse che un cero dell’altare
era consumato e mandò ad avvertirmi. Passando davanti a lei
con il cero acceso da deporre sull’altare mi inchino e scherzando glielo deposi davanti. Al che mi fa, non irritata, ma ridendo: “Camminate che io non sono morta” ed io ridendo
“Non ancora”.
La sera del sisma.
Il cielo è rosso anch’esso spaventato per la durata del sisma.
217
Era crollato un palazzo ed era il suo. Trovarono la morte lei,
il marito e il figlio adottivo, i due più grandi si salvarono perché erano a passeggio con amici.
Ero sconvolto, lasciai la chiesa aperta e corsi a casa, con un
solo pensiero, la mia casa e i miei familiari.
Due mesi dopo.
Un boato nella notte rinnova la paura nel quartiere. Crolla un
solaio del Regio Albergo per tutti i poveri del Regno e seppellisce con le sue macerie alcune donne dell’ospizio. Una nuvola
densa di cemento si eleva invadendo il quartiere fino alla ferrovia e coprendo con un grosso strato di cemento le macchine
ovunque parcheggiate.
Stupore e dolore.
Bisognava al più presto rimuovere un macigno di alcuni quintali, pericoloso, la cui caduta per qualche lieve scossa avrebbe
potuto provocare un’onda sismica che per effetto domino
avrebbe potuto far cadere i soffitti dei palazzi vicini. Quella
sera eravamo tutti sulla piazzetta adiacente alla chiesa per vedere l’opera di rimozione del macigno, con trepidazione da
parte di tutti. Anch’io ero presente, timoroso per l’edificio
perché la sera del sisma il campanile si era distaccato dal corpo
della chiesa aprendo una crepa largo un metro abbondante.
“Crollerà? Mio Dio non lo permettere”.
Nell’attesa si chiacchiera col vicino, le stesse paure, quando
qualcosa colpisce la mia attenzione, da un vicolo laterale sbuca
una donna. Impallidisco. Una domanda tremenda, “E’ lei?”
Non sbaglio. E’ la donna morta nel crollo del suo palazzo.
Lentamente si avvicina, si ferma tra la folla quasi vicina a me.
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Mi interrogo su ciò che vedo! E’ realtà o fantasia? Poi
piango amaramente, il volto tra le mani, singhiozzo. Il ricordo,
il discorso, l’avvenimento. Poi con gli occhi rossi per il pianto
guardo ma lei non c’è più.
Un’anziana commenta con una amica: “Hai visto il pianto del
parroco?”
“Poverino”.
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Un balcone al secondo piano
E’ il mio, perennemente chiuso al sole e alla vita che scorre
nella via sottostante, movimentata, caotica ogni giorno
dell’anno ma che trova riposo in pochi giorni di agosto e allora che spalanco le imposte al sole perché entri e mi riscaldi.
Amo il caldo e le temperature che per molti sembrano elevate
non mi spaventano troppo. Essere soli d’agosto, aggiungi
pure che non sei portato per vacanze o passeggiate, se non
intimo di Dio, avverti in certi momenti un senso di nullità che
qualche volta rasenta la depressione che si manifesta soprattutto come una profonda tristezza.
Appoggiato alla balconata guardo la strada. E’ quasi deserta,
pochi passanti, i negozi chiusi, il sole che ti riscalda e sogni
viaggi in terre lontane e avventure che potrai raccontare ai
piccoli. Poi spesso una voce, un nome e ti accorgi che sulla
strada di fronte, amici ti chiamano. E’ Davide, la moglie, alcuni familiari che escono per una passeggiata. Un bacio sulle
ali del vento e tu ti senti appagato per questo minuto di comunione.
Davide è un cantore della comunità, voce dolce e maestria nel
pizzicare la chitarra. Gioventù e sogni di gloria: sognava il palcoscenico e il successo e le sue composizioni diventare canzoni famose. E’ per lui che scrissi i testi per la messa e lui poi
li musicò e piacquero a tutti.
Gioventù e sogni, simpatia e tenerezza. Ma i sogni furono infranti e la gioventù venne fulminata, un tumore al cervello e
tantissima sofferenza finché un soffio di Dio spegneva la candela della sua vita.
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Sette giorno dopo la sua morte il 31 gennaio del 2004 viaggiavo verso Giugliano con un amico. Desiderava che io avessi
benedetto il suo studio. A Giugliano non ero mai stato. Era
una bella giornata, le undici del mattino. E nei miei pensieri in
quel momento certamente non era presente il ricordo di Davide.
Guardavo la strada, chiacchieravamo di futilità finché giungemmo nel parco dell’amico che cortesemente mi chiese di
sostare nel cortile il tempo che occorreva nel portare l’auto nel
garage sotterraneo.
E qui inaudito.
Nell’attesa guardavo i particolari del parco, mi attrassero le
mura di cinta, alte quasi dieci metri. “Sproporzionate” pensai,
e al di là delle mura di cinta si ergeva lontano un palazzo
strano, dipinto di giallo, con lunghissimi ballatoi e tante porte
finestra che si aprivano su di esso. Un progetto inusuale per
la nostra città ma che io avevo visto essere comune in Olanda,
unico mio viaggio all’estero.
Quello che ora racconto non era un sogno, è durato circa un
minuto e mezzo, ho seguito tutto con fredda lucidità ponendomi seri interrogativi. “Cosa succede? E’ una allucinazione?”
“E’ realtà oppure è la mia mente che crea?”
E vedo! Al secondo piano di questo strano edificio, si apre la
seconda porta finestra ed esce Davide che si appoggia alla balconata e mi saluta sorridente.
Sono allibito, perplesso, emozionato e ricordo ancora i particolari del suo vestito. Mi guarda e continua a sorridere ma io
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sono di ghiaccio, non capisco che succede. Poi nel mio cervello si forma un pensiero. E’ Davide che dice: “E’ cambiata
la situazione, ora voi siete sulla strada ed io abito al secondo
piano”. Ride. Saluta e poi rientra.
Non mi sono ancora ripreso che una voce dice: “Padre, su,
andiamo”. Senza scendere nei particolari chiesi di informarsi
dove si trovasse quell’edificio giallo perché avrei voluto vederlo da vicino.
Qualche giorno dopo mi ritrovai nello stesso paco per benedire un nuovo appartamento. Grandissima la sorpresa: non
c’erano le mura alte di recinzione e nessun edificio giallo in
lontananza.
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A te lettore,
Sento che leggi con una maggiore incredulità questi tre ultimi racconti
pensando che siano frutto di una simpatica fantasia. Ma essi sono incredibili eppure veri. Ho raccontato questi episodi solo ora nella mia tarda
età e prima solamente a pochi fidati amici per paura, che ora non ho più,
di essere preso per un visionario, un allucinato o un malato di mente.
Non ho queste deficienze, ho una mente sana e lo possono testimoniare
tutti, con difetti come tanti, ma sana. Questi dubbi, doni di Dio o frutti
della mente, li ho avuti anch’io onestamente, nel passato, e li ho confidati
ad una psichiatra in un momento di stanchezza mentale. La risposta,
professandosi atea, non poteva che essere a senso unico, ma io sento, per
molteplici strani episodi, quali numerosi casi di veggenza, che siano doni
di Dio, da me immeritati perché attraverso la mia pochezza brillasse la
sua gloria.
E ora un altro incredibile avvenimento della mia gioventù.
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Sulle ali del vento
Ancora più difficile raccontare questi avvenimenti lontani nel
tempo ma tutt’ora vivi in me come se fossero avvenuti ieri.
Era d’estate, la finestra spalancata lasciava penetrare una luce
gioiosa e un caldo afoso, inducendo tutti a sognare o frequentare spiagge assolate e mari azzurri, il dondolio delle barche e
scogli da esplorare per tuffi un po’ più temerari.
Dal letto su cui riposavo, il letto matrimoniale dei miei genitori, a 24 anni, sognavo il presbiterato futuro, ascoltavo le canzoni di quei tempi, diffuse dagli altoparlanti della Birreria Peroni, un caseggiato di grandezza enorme, ora riciclato in un
moderno e gigantesco supermercato.
Canzoni tristi come Buongiorno tristezza, vola colomba, papaveri e papere. Quanta differenza con le canzoni odierne
spesso piene di parolacce e di allusioni volgari.
E’ l’ora del riposo, la siesta pomeridiana come dicono i messicano, l’ora più calda del giorno come si legge nella Scrittura
quando si parla della visita degli angeli ad Abramo, quando
sento il sangue affluirmi al cervello e due sensazioni contrastanti mi pervadono, un piacere fisico fin nelle fibre più profonde del mio essere e la certezza e la paura di essere sul punto
di morire e poi l’avventura difficile da credere.
Sono ancora nella stanza vicino al soffitto e guardo me disteso
sul letto, immobile, nel sonno più profondo. E’ difficile da
spiegare. Esco dalla finestra e volando arrivo a piazza della
ferrovia, guardo la vita dall’alto, i passanti, il traffico caotico,
le bancarelle, ma nessuno si avvede di me.
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Tutto è strano, poi il desiderio del ritorno, la paura di andare
oltre. E per rientrare nel mio corpo, supino sul letto, sento
grosse difficoltà. Come se il mio corpo si rifiutasse di essere
quel che era prima.
In quell’estate calda ed afosa quella strana situazione divenne
abbastanza frequente al punto tale che ero ormai diventato un
esperto, sentivo già molto tempo prima che sarebbe avvenuto
e cosi avveniva. Nel volo diventavo sempre più temerario, di
volta in volto mi allontanavo sempre di più. Sorvolavo via Caracciolo, poi le isole che non ho mai visitato fisicamente, la
Spagna e infine lo stretto di Gibilterra e l’oceano che si presentava immenso ai miei occhi.
La vastità dell’oceano, poiché soffro di claustrofobia e agorafobia, mi terrorizzò al punto che mi rifiutai di andare oltre e
cercai di rientrare nel mio corpo come le altre volte. Ma questa
volta la battaglia per ricomporre l’unità del corpo e dello spirito fu tremenda. Il corpo non accettava la ricomposizione
nell’unità ed impazzivo pensando che sarei rimasto fuori per
sempre. Questo convincimento lo avvertivo chiaramente in
me, supino sul letto finché ebbi la certezza che sarebbe sopraggiunta la morte e con un atto di ribellione schizzai dal
letto, il sangue alla testa, immerso nel sudore, il battito del
cuore enormemente accelerato e la sensazione di essere stato
sul baratro e di esserne uscito per grazia di Dio e mi ritrovai a
dire a voce alta: “Non accadrà mai più”. Da allora non è mai
più accaduto, anche quando a distanza di anni ho cercato di
ricreare l’ambientazione.
Col tempo ho riflettuto su questi avvenimenti ma il coraggio
di adire persone competenti mi è sempre mancato. Più di una
volta ho pensato che il sangue invadesse il mio cervello per
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motivi fisiologici di pressione alta e quindi mi procurava quei
viaggi eterei, finché un giorno un programma televisivo presentava un’esperienza identica alla mia.
Ricordo che presentò una coppia di anziani coniugi in cui la
donna con semplicità raccontava all’intervistatore la mia
stessa esperienza e questo mi rasserenò alquanto.
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Sul monte Dio provvede
Oggi i sogni di un giovane che ha terminato gli studi sono
come quelli che noi nutrivamo alla stessa età. Un lavoro dignitoso e ben remunerato, una ragazza che ti ami e che voglia
stare con te per gli anni a venire, una casa, seppure piccola,
che sia il luogo dei tuoi affetti. Sogni comuni a tutte le generazioni perché toccano i diritti fondamentali della persona
umana e che oggi purtroppo più che ieri sono quasi impossibili.
Grande disoccupazione, il costo eccessivo di una casa, l’etica
matrimoniale cambiata per cui non basta più due cuori in una
capanna come si diceva nel passato, ma solo un amore ad tempus. Starò con te per sempre e poi la rottura per incomprensioni poco tempo dopo, spesso anche dopo pochi mesi di
unione, e i figli crescono senza serenità.
Tra noi studenti dell’unico e prestigioso istituto tecnico di Napoli, il Volta, circolavano voci che parlavano di assunzioni
quasi immediate dopo il diploma, ma non erano esagerazioni.
Venti giorni dopo il diploma eravamo già in crisi per la mancanza di proposte di lavoro ed ecco un mattino, il mio amico
Gaetano ed io, metterci in cammino per chiedere alle industrie
della zona la possibilità di essere assunti. I nostri piedi ci
portano al Corso Meridionale, dove da pochi mesi in un
grosso capannone si producevano cuscinetti a sfere per le
auto: “Durkopp Italia”.
Un portoncino piccolo, una scala angusta, pochi uffici disadorni, molto silenzio, poche persone. Timorosi anche nel parlare ci presentammo illustrando la nostra aspirazione ad un
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lavoro. E la risposta dura frantumò la nostra domanda: “Non
abbiamo assunzioni da fare, siamo al completo”. Un saluto
freddo lasciava trasparire la nostra delusine. Sconfitti ci sentimmo, amareggiati anche nel volto.
Un saluto e poi ci dividemmo, Gaetano ritornò a casa ed io
mi avviai al consolato del Brasile deciso a partire per l’estero,
come un giorno aveva fatto mio padre che allora lavorava in
Irlanda in una fabbrica di cristallo.
Al consolato vistosi cartelloni pubblicitari invitano a trasferirsi in Brasile in una terra ricca e opulenta, di guadagni enormi
e donnine disponibili. Sento una mano che si ferma sulla
spalla destra e un nome, il mio. Mi volto e sorpresa è Salvatore
A. un amico che si è diplomato con me, e che mi sorride. Domanda se nel frattempo avessi trovato un impiego. Al mio diniego racconta che già lavora in una industria, per ora agli inizi
e che il lavoro attuale non era per lui, perché prevalentemente
matematico. Un saluto, un augurio e riprende la sua strada
mentre io immalinconito e un po’ invidioso ritorno lentamente a casa mia.
Nel pomeriggio il riposo pomeridiano è interrotto da un
lungo e insistente scampanellio. E’ Salvatore con un amico, il
suo capo ufficio, uomo che scoprirò rozzo, piuttosto corpulento, sui trent’anni ed ha un invito: “Vieni a lavorare con
noi”.
Un invito gentile, un viaggio di pochi minuti e poi un portoncino piccolo, una scala angusta, pochi uffici disadorni, molto
silenzio, poche persone e un uomo già visto prima, nella mattinata, quando gentilmente ma freddamente ci aveva congedati dicendo che non c’erano assunzioni in programma. Per
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una scaletta anch’essa troppo angusta scendemmo nell’officina dove al silenzio degli uffici subentrò il caos del rumore
delle macchine.
Nei miei pensieri si materializza l’inferno dantesco, uomini
privi di espressione camminavano, si incrociavano senza parlare, ognuno accanto a una gigantesca macchina, anzi sembravano far parte di essa.
Ed io che non avevo mai frequentato un’officina, camminavo
seguendo l’amico, novello Virgilio fino al luogo del giudizio,
lo studio in cui sarei stato giudicato idoneo per quel lavoro.
Minosse mi attendeva. Camminavo pregando: “Speriamo di
superare questa tremenda prova”. Seduto davanti a Minosse
che con la coda avrebbe dovuto indicarmi in quale cerchio
presentarmi ecco la domanda: “Quante volte hai ucciso nella
tua vita?”.
Se fosse stata questa la domanda sarei sobbalzato per la gioia,
ma era un’altra: “Mi dica cosa sa dei cuscinetti a sfera, su mi
faccia dapprima il disegno”. Tacevo, cercando di trovare nei
forzieri della mia memoria, la risposta adatta. Ma non trovai
nessun aiuto perché era un argomento mai esplorato a scuola.
L’unica cosa che seppi fare fu il disegno e mentre cercavo qualche illuminazione, il suono del telefono mi venne in
aiuto, ed io sentii: “Venga, le devo parlare”. Era, Dio benedetto per il suo intervento, il Direttore Generale che chiamava
il Direttore Tecnico a rapporto e i dieci minuti di sosta divennero due ore. Al ritorno era infuriato come una belva, mi
guardò con superiorità e sentii che diceva: “Venga domani per
un mese di prova”. Lavorai in quella fabbrica per due anni.
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In seguito, alimentando la mia fede con la preghiera e coltivando le virtù che dovrebbero essere di tutti i giovani capii
che cosa significava: “Sul monte Dio provvede”. La risposta
che Abramo diede a Isacco quando si recavano sul monte per
un assurdo sacrificio. Non siamo soli, Dio è vicino, ci guarda
con amore paterno e viene incontro alle nostre necessità
quando meno te lo aspetti.
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Per il lettore che ha avuto il coraggio di leggere questo
scritto
Raccontando questi episodi della mia vita ho voluto solo ricordare a me stesso quanto il Signore ha fatto per me e poi
perché la lettura di questi episodi possano consolare chi si
sente abbandonato da lui. Dio è sempre vicino a ciascuno di
noi, è come la tua ombra anche quando per le avversità della
vita non lo avverti più. A un Padre così tenero bisognerebbe
rispondere con una generosità di vita che faccia propria in
ogni momento la sua volontà, unico dono che Lui gradisce.
A questo punto due domande.
Possono i carismi inondare un cuore peccatore?
E tu che racconti hai mai sperimentato il peccato al punto tale
da smarrirti completamente e così rischiare la fuga da Lui.
I carismi possono inondare un cuore peccatore perché sono
doni che Dio ti dà perché tu li metta a disposizione degli altri
che attraverso questi doni possano sentire l’Amore di Dio.
Per quanto riguarda la seconda domanda ascolta.
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L’ira del Pelide Achille
Nel Barbiere di Siviglia, se ricordo bene, c’è un brano, musica
vivace e gioiosa, in cui si descrive la calunnia. E’ un sussurro,
poi un soffio che avvertono anche altri, infine col tempo è un
venticello che si trasforma in un uragano furioso e impetuoso.
La calunnia ora è sulle labbra di tutti e così distrugge la moralità di una persona ma non gli toglie la vita, gliela rende solo
impossibile.
Non così per l’ira. L’ira è omicida.
Giungemmo in Puglia in uno dei rari viaggi della mia gioventù. Bari ci accolse nella notte, il lungomare illuminato e
frequentato da pochi turisti e coppiette innamorate.
“Fermiamoci e godiamoci la serata”
“Per amor di Dio”, obiettai, “Torneremo, ma ora mettiamoci
in cammino per Treggiamo dove abbiamo prenotato l’albergo”. Fui previdente. Ci vollero due ore per arrivare al paese
e trovare l’albergo.
Intanto l’aria era irrequieta. Due camere per dormire. Spalancai la mia finestra e qualcosa mi colpì nel paesaggio notturno;
in lontananza una nuvoletta nera piccolissima che si avvicinava aumentando di grandezza e lasciando intravedere verso
l’alto un mulinello: era una tromba d’acqua.
Avvertii l’amico, poi chiusi le imposte e fu l’inferno. Mille antifurti suonavano contemporaneamente e una pioggia torrenziale, anche se non vista, comunicava la paura. Il giorno dopo
vedemmo le rovine di una Bari semidistrutta.
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Così è l’ira in te.
All’inizio è un senso di ribellione quasi impercettibile, nel tuo
cuore, per qualche violenza subita, per qualche calunnia sulla
tua persona, per qualche azione finalizzata al tuo annullamento. La riflessione compie il resto. Parli da solo, qualche
volta anche ad alta voce e così ti convinci che sei nel giusto,
che l’altro mente, che ha un unico scopo quello di schiacciarti
e così nel tuo intimo la nuvoletta nera diventa la tromba d’aria
che prima distrugge i tuoi sentimenti trasformando anche il
tuo volto che acquista lineamenti violenti e diverso colore e
poi genera il desiderio di vendetta che qualche volta adempi.
Sui quartieri spagnoli integravo le misere entrate della parrocchia con l’insegnamento della religione nella scuola media Pasquale Scura. Il degrado di questa antichissima isola nel cuore
di Napoli lo misuravi quando per il lavoro eri costretto a rapportarti con i ragazzi. Una classe in particolare era così indisciplinata che il solo pensiero di trascorrere in essa un’ora ti
avviliva tanto che presi l’abitudine di pregare intensamente
prima di affrontare le belve. Entravo nell’arena, novello martire. Forse mi sbaglio. Novello Dante nell’inferno, tra i dannati. Nessuna disciplina, solo un baccano enorme e spesso litigi. Indifferenza assoluta per te che entravi. Poco interesse.
Non attiravano la loro attenzione gli argomenti che a quell’età
li avrebbero dovuto incuriosire. Parolacce, bestemmie e vanto
di azioni particolari commesse a sera in un ritrovo abbandonato tra i vicoli stretti della zona.
Io non ricordo che giorno era ma l’episodio è rimasto indelebile nella mia memoria. Ero sereno quando entrai in classe e
tutto si svolgeva come sempre. Poteva essere un giorno come
un altro e non fu così.
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Al balcone alcuni ridevano sghignazzando, altri negli ultimi
banchi non si erano nemmeno accorti che ero entrato. Sei o
sette tra i più volenterosi si erano seduti accanto a me come
altre volte finché aprendo il diario per le firme dei professori
non notai su una pagina microscopiche macchioline nere. Capire e mettersi le mani nei capelli fu un tutt’uno. Erano pidocchi uccisi dalla chiusura dello stesso diario. E allora apparve
in me lo sdegno, la nuvoletta minuscola che sopra ho descritto. Come si fa a tenere vicino i ragazzi che possono essere
portatori di pidocchi?
Incomincio la lezione e come si dice a Napoli “Con un occhio
friggo il pesce e con l’altro guardo la gatta”. Improvvisamente sono distrutto da un avvenimento che col passare dei
minuti ingrandisce la mia ira. E la mia voce tuona: “smettetela,
ragazzi, vi fate del male” Che vedevo in quel momento?
Un alunno è accovacciato a terra, al primo banco ed è intento
a raccattare molti fogli che erano scivolati via dal suo tavolino,
quando un compagno vedendolo in quella posizione gli salta
addosso, sulla schiena, e stringendolo fortemente con le
gambe gli impedisce così ogni movimento, poi le due mani gli
stringono il collo in una simulazione, credo di strangolamento. Ed ecco il ragazzo sottomesso, mentre io li richiamo
all’ordine e urlo di smetterla, cerca in ogni modo di liberarsi
dalla stretta senza riuscirci perché in una situazione decisamente scomoda rispetto all’assalitore che dominava sulla sua
schiera. Poi un colpo improvviso ed è in piedi, l’assalitore è
vinto, ma il ragazzo nel liberarsi si era procurato una profonda
ferita sulla sopracciglia dell’occhio destro, con fuoriuscita di
sangue. Poteva accadere il peggio, pensando che per qualche
centimetro più giù avrebbe potuto perdere la vista rimanendo
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con un occhio offeso.
Con un’agilità sorprendente ero accanto all’assalitore gridando come un ossesso, pensando al ragazzo ferito e ai problemi che avrei avuto con le autorità scolastiche: “E tu dove
eri quando i due litigavano?”
Lira ora è una tromba d’aria pericolosa per chi la prova e per
chi l’ha causata. L’acchiappo, lo strattono, poi un pensiero fulmineo e una decisione grave. “Ora lo strangolo” e le mani si
trovano istintivamente alla gola e poi l’intervento di Dio che
ci segue nella vita come ombra: una calma e un pensiero:
“Cosa fai? Non ti è lecito”. Le mani caddero inerti, l’ira era
svanita ed io ero salvo.
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La strage
Spesso ascoltiamo notizie raccapriccianti a cui tu non sai dare
una spiegazione.
“Giovane studente armato di fucile entra in una classe di coetanei e spara all’impazzata uccidendo un insegnante e otto
amici”, oppure “Un ufficiale di polizia si affaccia al balcone e
spara sui passanti: tre morti e quattro feriti gravi”. Notizie
che ti sconvolgono e che ti pongono una domanda: Perché?
La risposta più semplice: sono impazziti! Ma hai mai pensato
che dietro a gesti così folli e condannabili non ci sia qualche
gravissimo torto a cui si sono ribellati con questo azione crudele ma lucida. E’ saltato l’equilibrio psicologico e tu diventi
omicida.
Era una domenica di aprile e mamma da alcuni mesi era degente in quella clinica famosa a Napoli e chiamata l’anticamera della morte, il Pascale, centro di cura per i tumori. Le
facevo visita ogni giorno, al pomeriggio, accanto per aiuto e
compagnia le avevo messo una brava donna.
La domenica per il ministero pastorale, e per l’assenza abituale
della badante, era il suo giorno di riposo, le facevano compagnia alcune volontarie della parrocchia i cui nomi sono in benedizione davanti a Dio. Questo mi rendeva sereno: non era
sola.
Quella domenica, l’unica in verità, per diverse circostanze non
ebbi l’aiuto di nessuno. Per quanto chiedessi avevano tutti degli impegni e posso anche capirli, in fondo erano solo amici.
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Chiamai in aiuto mio fratello, non poteva, mio cognato neanche. Ed ecco salire alle 7,30 del mattino le scale dell’ospedale
dopo aver fatto mille raccomandazioni ai collaboratori nel ministero. E la mattinata passa, lentamente passa ed essere lontano dalla comunità che non è mai accaduto per nessun motivo, ti mette dentro una tristezza infinita.
La sala d’aspetto nella quale trascorri il tempo si presenta
come dimora delle lacrime. La visita di mio fratello che porta
il pranzo diventa un momento di tenerezza per noi tre e per
un’ora la solitudine affettiva è completamente distrutta.
Ma al pomeriggio, dopo la visita dei parenti, il corridoio è deserto, gli ammalati riposano, gli infermieri si sono ritirati
nelle proprie stanze e tu ti senti di nuovo solo, e ti brucia
dentro non sapere se l’attività parrocchiale domenicale è
stata serena, ti addolora il pensiero che da quel luogo tua madre non uscirà viva, la sensazione che senza di lei il tuo domani sarà gravoso, ma soprattutto, il pensiero che i tuoi familiari in nome della famiglia che va protetta si sono particolarmente defilati lasciandomi in quella particolare giornata lontano dalla parrocchia.
Non c’è in te ira ma solo un vuoto difficilmente colmabile se
non da Dio e tu in quel momento lo hai allontanato. Non lo
sai ma è così.
I tuoi passi ti portano a percorrere il corridoio, più volte, poi
ti affacci ad un balcone per vedere la vita che è nella strada.
Sono al terzo piano in un terrazzino angusto. Guardo il parcheggio e i passanti. Le auto e gli uomini sono piccoli come i
nani di disneyana memoria. Dentro, lo sento, è nato il rancore,
desiderio lucido di far saltare in aria tutto e tutti.
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Si, colpire da quel terrazzino i passanti. E’ un pensiero di vendetta, ma l’ira non c’è. E questo dà una maggiore gravità alla
decisione. L’ira attenua la colpevolezza e la peccaminosità
dell’atto. Un pensiero lucido come questo non ti dà attenuanti.
Ho deciso, farò una strage, non sarà difficile colpirli. Mi volto
verso la parete del terrazzo a cercare il fucile che chiaramente
non c’era e mi stupisco che non ci sia.
Mi riaffaccio e sono nuovamente sereno e mi godo senza pensieri nefasti il camminare delle persone, la vita che scorre nel
mondo dei sani e lodo il Signore perché ha bruciato col suo
Spirito la follia che stava per dominarmi. Sono innocente del
sangue altrui solo perché non c’era nessun fucile, ma se veramente ci fosse stato ora sarei nella cronaca nera come omicida.
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Benedite e non maledite
Quando l’ira gonfia il tuo cuore fino a farlo scoppiare e non
hai fisicamente la possibilità di reagire al torto subito, diventa
turpiloquio che non è mai stato linguaggio mio, oppure si concretizza nel maledire chi in quel momento consideri avversario o nemico.
Benedite, non maledite. E’ il comando di Dio e gli ebrei e i
cristiani lo mettevano in pratica sapendo che la benedizione o
la maledizione si realizzano poi concretamente nella vita.
Nella mentalità ebraica la parola realizza ciò che esprime, Dio
disse: “Sia la luce e la luce fu”.
Due anni sui quartieri come parroco mi avevano debilitato
psicologicamente. Un nonnulla mi irritava.
I ricordi di quei due anni ora mi lasciano sorridere, ma li ho
trascorsi in quella comunità come in un campo di concentramento per i disagi sopportati. Andai via che non ero più io,
psicologicamente ero un altro.
Insofferente soprattutto verso gli adolescenti.
Non dimenticherò il primo Natale. Tutto era preparato perché la celebrazione fosse stata solenne e anche il Bambino
Gesù era nella mangiatoia come è d’uso dalle nostre parti,
quando mezz’ora prima della liturgia notturna sentii dire: “Padre, hanno rubato la statuetta del Bambino Gesù”. Sorpresa,
emozioni e poi “Perché?”. Furenti, eravamo un bel gruppetto,
perlustrammo la zona finché la ritrovammo abbandonata sui
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gradini di un palazzo il cui portone per l’ora era evidentemente chiuso. Tutto questo era un nonnulla?
A sera celebravo con poche vecchiette la messa. Avevo tra le
mani un grosso e nodoso bastone con il quale cacciavo i ragazzi che facevano il Karatè davanti all’altare maggiore e i fedeli ascoltavano il brano del Vangelo frammentato da parolacce, grida e movimenti di Karatè come avevano visto nei
films. Il mio intervento minaccioso impauriva ed eravamo finalmente soli. Veramente li impauriva il bastone.
Una sera vedemmo due più che adolescenti assistere alla liturgia vespertina mangiando voracemente uno sfilatino. Non intervenni. “Lascia che mangino purché non infastidiscano ulteriormente”.
Alla consacrazione si alzarono ed io pensai “Vanno via!” ma
si erano fermati all’ingresso e con fermezza lanciavano quel
che rimaneva dello sfilatino verso di me colpendo il calice
proprio mentre terminavo le parole della consacrazione.
Certo non è un nonnulla sentire bussare alla porta e trovarsi
la talare colpita in varie parti da pomodori. Macchie rosse sulla
talare ma non sarebbe stato meglio se fosse stata completamente rossa come per i cardinali?
Non dico altro, vorrei dimenticare ma non posso, sono emozioni che diventano il tuo bagaglio di vita e spiegano determinati avvenimenti futuri.
Trasferito qui trovai una certa serenità ma un giorno un ragazzo quattordicenne incominciò a infastidirmi pretendendo
di andare senza permesso sul tetto attraverso una scala del
settecento pericolante.
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C’era il rischio di un incidente anche mortale. Al mio diniego
incominciarono i dispetti tanto che dopo qualche giorno ero
così esasperato che se lo avessi avuto tra le mani lo avrei picchiato.
Quando capii che i dispetti e le cattiverie erano un modo per
mettermi in ginocchio, fuori di me, lo minacciai gridandogli tutto il mio rancore, maledicendolo: “Che tu possa morire
di leucemia”.
Questo ricordo mi addolora perché fu una grave mia sconfitta. In seguito il ragazzo si trasferì in un altro quartiere e di
lui per tre anni non ne seppi niente.
Tre anni dopo ero più calmo, avevo ritrovato una pace interiore e le cose passate erano dimenticate. Sul muretto è seduto
un ragazzo sui quindici anni. Il volto è familiare. Una domanda:
“Tu rassomigli a…”
“Sono il fratello”
“Cosa fa tuo fratello, ora?”
Mi guardò e rispose e avrei voluto morire per il dispiacere.
“E’ morto l’anno scorso, una leucemia fulminante”
Rimasi ritto, non una parola, lo sguardo altrove e una domanda retorica: “Ha sofferto molto?”
“Certo, è stato lucido fino alla fine, prima di morire ha ringraziato il dottore per quanto aveva fatto per lui”
E’ un ricordo amaro questo.
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Non maledite mai perché dice la Scrittura la parola che esce
dalla tua bocca opera:
“Dio disse: sia la luce, e la luce brillò nelle tenebre”.
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Un dono immeritato
Il Signore chiama.
E’ un invito a seguirlo. Ti entra dentro, nel pieno della tua
giovinezza quando ti apri alla vita, desideroso di amare,
quando ti senti padrone del mondo, capace di sognare l’impossibile e di gioire per un niente.
E’ un invito nel silenzio del tuo cuore prima come proposta
di vita, poi diventa un ordine imperioso a cui non si può non
obbedire, e poi scopri che sei stato sedotto e che sei contento
di esserti lasciato sedurre.
E poi senti che Egli è l’amore che tu hai cercato, la gioia che
nessuno ti può rubare, che è la pienezza della vita che tu hai
desiderato.
E scopri che servirlo è gratificante, che non hai nulla e non ti
manca niente, che sei un vaso di creta che custodisce una Parola terribile, che sei un povero uomo e compi prodigi.
E allora, anche senza voce, la tua vita diventa un canto di lode
a Lui che chiama all’esistenza le cose che non sono e affida
loro un compito per l’armonia dell’universo.
E quando sarai anziano abbastanza, con molta neve sui capelli
e tremolante nel muoverti, potrai ancora gridare al tuo Dio
che ti ha scelto da sempre: salirò all’altare di Dio, al Dio della
mia gioia e del mio giubilo, al Dio che allieta la mia eterna
giovinezza.
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Don Stefano che mai si è pentito di averlo scelto come suo Signore e Dio,
consapevole della propria miseria, dei propri limiti e peccati, lo loda e lo
esalta per i doni da Lui ricevuti e invocando l’aiuto dell’unico Mediatore
il Signore Gesù, si inabissa fiducioso nell’oceano della sua misericordia.
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