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Religiosità e medicina: è un rapporto statutario esplorato nel libro di Giorgio Cosmacini La religiosità della medicina (Laterza 2007), del quale riportiamo il capitolo iniziale, grati alla Casa Editrice Laterza per la gentile concessione. La religiosità della medicina GIORGIO COSMACINI “Non esiste nessuna razza umana che non creda negli dei”: l’affermazione perentoria è nell’opera De natura deorum (libro II, 5-6) di Marco Tullio Cicerone, scritta da questi nel 45 a.C., due anni prima di morire. Nell’asserzione ciceroniana la disposizione al sacro sarebbe una caratteristica antropologica universale che in un recente saggio sulle “orme biologiche nell’esperienza religiosa” viene collegata alla invisibilità del divino, alla interazione tra sovrannatura e natura, al valore supremo insito nei principi di necessità e priorità (1). In principio, dunque, era il sacro? E, per quanto qui è di nostro interesse, il carattere necessitante e prioritario della medicina è la sacralità? Al dire di un grande biologo, “tutto ha avuto inizio con gli dei”, in medicina con Apollo e Asclepio. “Non esiste praticamente popolo al mondo che non abbia avuto - o che non possieda tuttora - il suo empireo di dei” (2). La disposizione richiesta per accostarsi al sacro è, nella Torah o Bibbia ebraica, la tohorah o “purità” del corpo e dell’anima, precondizione indispensabile per mantenersi indenni da tutti i mali, materiali e morali. Tra gli uni e gli altri c’è differenza, ma non separazione. Il mondo ebraico è uno solo, è un tutt’uno come unico è il suo Dio trascendente e al tempo stesso immanente. Ogni cosa che viene da lui è sacra: sacra la malattia, sacra la guarigione. Dal Dio biblico veniva tutto il bene, ma anche, a fin di bene o a scopo di giustizia, tutto il male: tutta la medicina dunque, ma anche tutta la patologia. Dal Dio adirato uomini e donne venivano colpiti con le malattie, così come i loro progenitori erano stati puniti del loro peccato originale, l’uomo con il lavoro che affatica, la donna con il parto che dà dolore. Fatica e dolore costituivano la fisiopatologia del vivere quotidiano, massimizzata su vasta scala nelle malattie incombenti sopra il popolo, cioè nelle epi- 2 demie come la lebbra e la peste. La lebbra descritta nel Levitico (terzo dei “cinque libri” che compongono il Pentateuco) è un male onnipervasivo che riassume in sé ogni corruzione, sia fisica che morale. La peste menzionata nell’Esodo (libro II dello stesso Pentateuco) è la quinta delle dieci “piaghe d’Egitto” con cui il Signore colpì i corpi e le anime del Faraone e dei suoi sudditi. La peste è anche uno dei tre flagelli nominati nel II libro di Samuele (24, 11-13 e 15-16): “Va’ a dire a Davide: così parla il Signore. Ti propongo tre castighi a scelta: […] verrà per tre anni la fame nel tuo paese, o per tre mesi dovrai fuggire davanti ai tuoi nemici che t’inseguiranno, o vi dovranno essere tre giorni di peste nel tuo regno”. La durata dei tre flagelli biblici - fame, guerra, peste -, perché questi siano oggetto di un’equa proposta e quindi di una libera scelta da parte di Davide, è inversamente proporzionale alla loro entità. Questa è massima nel caso della peste, la cui durata è infatti minima: tre soli giorni. Confidando in tale brevità, “Davide scelse dunque la peste […] Morirono fra il popolo settantamila persone [….finché] il Signore si mosse a pietà per tanta sciagura e disse all’Angelo che percoteva il popolo: ‘Basta! Ora ferma la tua mano’”. Dio stesso, come puniva, così guariva. Ancora recita l’Esodo (15, 26): “Se tu veramente ascolterai la voce del Signore Iddio tuo, farai quello che è retto agli occhi suoi, porgerai orecchio ai suoi comandamenti e osserverai i suoi statuti, io non ti colpirò con nessuno dei mali con cui ho afflitto gli Egiziani, perché io sono il Signore, colui che ti guarisce”. Nell’Ecclesiastico, libro di Ben Sira, o Siracide, risalente al II secolo a.C., non incluso nella Bibbia ebraica ma ripreso nel Talmud, “ammaestramento” giuridico ed etico dell’ebraismo, è scritto (38, 1-4 e 9, 12, 14): “Dall’Altissimo infatti viene la guarigione, come si ricevono dei doni dal re”. E inoltre: “Figlio, non irritarti della malattia, ma prega il Signore e ti guarirà. (…) Poi chiama pure il medico perché il Signore l’ha creato; non lo allontanare; c’è bisogno anche di lui. Tempo verrà in cui la salute sarà nelle sue mani”. È qui prefigurata l’eredità del divino sapere-potere di guarire da parte del medico, guaritore vicario. La parola “medico” - rofè - compare nel libro di Geremia (8-22), profeta vissuto nella seconda metà del VII secolo a. C. Di poco anteriore è l’Iliade, scritta da Omero nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. (che però narra di fatti accaduti e di uomini vissuti nella seconda metà del secolo XIII), in cui compare la parola “medico” - ietèr - riferita a Macaone (libro IV, v.194), “l’eroe figliuolo d’Asclepio, guaritore eccellente”, del quale si esplicita il rango eccelso (libro XI, v.514) poiché “l’uomo guaritore vale molti altri uomini”. Il medico guaritore è per i Greci isòtheos, “simile a Dio”. Non dissimile lo era anche nelle terre della “civiltà dei fiumi”, bagnate, oltreché dal Giordano, dal Nilo, dal Tigri, dall’Eufrate. Nell’Egitto dei faraoni il “medico” - sunu -, facendosi indovino delle malattie interne, perciò invisibili e divine, e agendo da manipolatore dei mali esterni, mediante imposizione delle mani, si apparentava o identificava nel sacerdote della dea Sekhmet, titolato a dire se una malattia criptogenetica (da causa nascosta e quindi misteriosa) fosse cosa naturale, correlata all’essere corruttibile proprio del corpo, oppure cosa sacra ed esecranda, dovuta a un démone da esorcizzare. Il carattere sacro della guarigione e dei suoi esercenti, come pure quello della malattia e dei suoi agenti, era tale anche nella Mesopotamia dei tempi anteriori e posteriori al diluvio universale, dove il “medico” asu - derivava il proprio nome da “colui che conosce l’acqua”, intesa come principio di tutte le cose, come è per Talete, il “fisiologo” studioso della natura e “primo filosofo” greco, vissuto tra il VII e il VI secolo, traghettatore del “principio acqueo” dalle antiche culture fluviali, mesopotamica ed egizia, alla teoria umoralista della medicina ippocratica. Quanto alla sacralità al di là dell’Egeo, nella Grecia postomerica e preippocratica, culti e miti della medicina si incarnavano in Asclepio, il semidio adulterino nato da taglio cesareo praticato, a cadavere materno ancor caldo, dal padre Apollo. Recita Pindaro nella terza Ode pitica: “ Asclepio, l’artefice mite che placa le pene e rinsalda le membra, l’eroe che protegge da tutte le specie dei morbi, (…) quanti vennero a lui compagni di piaghe congenite o feriti nelle membra dal lucido bronzo o dal getto di pietre o disfatti nel corpo da febbri estive o dal gelo, li congedava disciolti dall’un dolore e dall’altro”. Apollo, padre del semidio istruito a guarire dal centauro Chirone, è il dio che scaglia dardi mortali nel campo dei Greci, dei quali Agamennone, reo di colpa grave contro la divinità, è il capo supremo. Sotto le mura di Troia, il dio irato “i muli colpiva in principio e i cani veloci, ma poi mirando gli uomini la freccia acuta lanciava, e di continuo le pire dei morti ardevano fitte”. Il quadro, dipinto da Omero all’inizio dell’Iliade (I, 50-52), è quello di una malattia mortale diffusa, sia degli animali (epizoozia) che degli uomini (epidemia). Essa complica gli eventi bellici intorno alla città assediata, poiché “guerra e peste insieme abbatton gli Achei” (I,61). Il dio che punisce è il genitore del semidio che guarisce. Il culto di costui, “eroe protettore da tutte le specie dei morbi”, si impose stabilmente a partire dal VI secolo a. C. Negli “asclepiei”, templi della salute sparsi in Grecia un po’ ovunque, chi operava la guarigione era l’asclepiade, il sacerdote di Asclepio ispirato dalla visione della statua crisoelefantina del semidio, rappresentato come un uomo maturo, barbuto o imberbe (variando l’effige da luogo a luogo), con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata alla testa di un serpente; accucciato ai suoi 3 piedi un cane. Cani e serpenti avevano lingua per leccare, lenire, guarire le piaghe; con le civette oracolari e le capre nutrici, erano animali sacri. Emulo del semidio guaritore, l’asclepiade sottostava alla maggior sapienza-potenza esistente nel tempio, quella dello ierofante, divino “interprete del sacro”. L’interpretazione rituale, per chi accedeva al tempio, consisteva nella “purificazione” preliminare, seguita dal sacrificio di un animale - “un gallo ad Asclepio”, dice Socrate nel Fedone - accompagnato da invocazione propiziatoria. Dopo tale offerta, il malato si coricava nell’àbaton (da alfa privativo e bàino, “cammino”), “luogo dove non si cammina”, inaccessibile e sacro. Era un luogo di degenza clinica (da klìno, “giaccio”), dove egli passava il giorno e la notte, immerso nel “sonno incubatorio” propiziato da Hypnos, semidio dell’ipnosi, e consolato dalle visioni oniriche propiziate da Oneiros, semidio dei sogni, anche di quelli a occhi aperti. Dai sonni e dai sogni, il malato si ridestava talora miracolato, per suggestione, ma più spesso disponibile a confidarsi con l’asclepiade; e questi era altrettanto disponibile a riceverne le confidenze - confessione, fiducia, speranza - alle quali corrispondere con consigli e conforti, con previsioni e prescrizioni (prognostiche e terapeutiche). Nella Grecia classica “gli asclepiadi assunsero caratteristiche sacerdotali o sacrali e come tali continuarono a disseminarsi. Fra di essi comparve Ippocrate” (3). La sacralità gli fu trasmessa sotto forma di religiosità. L’etica dei medici ippocratici fu formalmente religiosa. L’interpretazione positivista della cultura greca si è compiaciuta nel presentare la medicina ippocratica come una sorta di ‘laicizzazione scientifica’ […]. L’impresa dei fondatori della tèchne iatriké (o ‘arte praticata dallo iatròs’, dal ‘medico’) ebbe senza dubbio come ultimo fondamento un cambiamento dell’atteggiamento religioso dell’uomo greco [...]. Accanto alla vecchia religiosità culturale, olimpica, dionisiaca e orfica (leggi sacralità), apparve, in determinati circoli, una religiosità colta (leggi religiosità ‘tout court’), la cui maggior forza consistette nell’accentuare intellettualmente il carattere divino della physis, (della) natura universale e materna (4). Questa diversa od opposta interpretazione storiografica si presta ad avallare la tesi che la sacralità necessitante e prioritaria delle origini, ancorata al divino, abbia ceduto il passo non a una anacronistica 4 scientificità, bensì a una religiosità radicale, dapprima panteistica e poi sempre più connaturata all’essere medico e da considerarsi, con pieno diritto, tra i caratteri originali della tèchne iatriké o come suo prerequisito antropologico, umano. In medicina, la religiosità è altra cosa dalla sacralità. Essa non è cosa succedanea o vicariante, compensatoria ed estrinseca. È invece intrinseca alla struttura della medicina, che il padre Ippocrate teneva nettamente distinta vuoi dalla sacralità degli “asclepiadi”, mediatori del divino, vuoi dalla pretesa dei “filosofi” di postulare speculativamente le leggi di natura. La religiosità ippocratica era una “antropologia della medicina che si poneva all’origine come un sapere critico delle due sapienze fiancheggiatrici” (5). Bibliografia 1 - Cfr. Walter Burkert, La creazione del sacro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa, trad.it. di Franco Salvatorelli, Adelphi, Milano 2003, pp. 22-24. 2 - Christian de Duve, Come evolve la vita. Dalle molecole alla mente simbolica, trad. it. di Cristina Serra, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 403. 3 - Giacomo Mottura, Il giuramento di Ippocrate. I doveri del medico nella storia, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. 12-13. 4 - Pedro Laìn Entralgo, Il medico e il paziente, trad.it.di Ercole Vittorio Ferrario, Il Saggiatore, Milano 1969, p. 42. 5 - Giorgio Cosmacini, Introduzione alla silloge Medicina e filosofia nella tradizione dell’Occidente, a cura di Giorgio Cosmacini e Chiara Crisciani, Episteme, Milano 1998, p. 5.