LA PESTE Scuola Elementare

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LA PESTE Scuola Elementare
LA PESTE
Scuola Elementare “Alessandro Manzoni “
Via Manzoni 10 cap 25027 Quinzano d’Oglio (BS)
Fonti:
Riportiamo i consigli del medico bolognese T. Del Garbo, testimone oculare dell' epidemia del 1348 .
“...Ancora si vuole ogni dì bagnare la casa overo camere ove l' uomo sta con aceto fortissimo o con acqua
rosata, overo solo con aceto chi non avesse acqua rosata ... Ancora nel tempo del caldo si deve l' uomo
spesso lavare con l' aceto o con l' acqua rosata o solo con aceto chi non avesse acqua rosata ... E dèsi
guardare di none entrare in quella camere dove sia alcuno infermo, e ancora dove di fresco sia stato
infermo. E dèsi guardare di none approssimarsi a tali infermi, però che , è 'l lor alito velenoso, per mezzo del
quale l' aria della camera diventa putrida e infetta. Per li preti e pe' notai dico, che innanzi ch' eglino entrino
nella camera, facino uscia e finestre aprire, acciò che si rinnovi l' aria.E lavinsi le mani con l' aceto o con l'
acqua rosata, e la faccia allato al naso e alla bocca. E buono sarebbe innanzi ch' eglino entrasseno, tenere
in bocca due granella di gherofani. E quando il prete ode la confessione faccia ogni gente uscire di camere
ac, acciò che non riceva l' aria sua; ... e quando escie di camere, da capo si lavi con l' aceto, o acqua rosata
allato al naso e alla bocca, overo tenghi in mano la spugna bagnata nell' aceto, e odorila spesso, e tenga i
garofani in bocca. E prendonsi o tre o cinque o due, o una al dì ... La ricetta di esse pillole è questa, cioè
brettonica e propinella, di ciascuna oncia mezza, poi camedrios ancia una, e tritinsi minutissimamente come
polvere che si usa nel male degli occhi. Poi ricette mirra eletta oncie due, aloepatico oncia una e mezza,
croci, broli armetrici, di ciascuno drama mezza. E queste due cose si crivellino e espolverezzandosi e con
acqua di vita e buglioso, nella quale stiamo uno dì e una notte disolute, le polvere delle dette erbe si colano
e faccinsi pillole.”
Gli ordinamenti giuridici attuati nella città di Pistoia in occasione della peste:
“Nel nome di Cristo amen. Questi sono gli ordinamenti e le provvisioni fatte e composte da alcuni sapienti
uomini popolari della città di Pistoia, eletti e incaricati dai signori Anziani e dal Gonfaloniere di Giustizia della
detta città di tutelare la salute umana, di reprimere e di prevenire le diverse pestilenze che possano
aggredire il corpo umano. E sono stati scritti da me, Simone di Bonaccorso, notaio ed ora notaio e scriba
degli stessi sapienti , incaricato della loro scrittura nell'anno 1348. In primo luogo i detti sapienti stabilirono,
affinchè no vi fisse occasione alcuna di cintagio dell'infermità dilagante dei territori intorno a Pistoia, che
nessun cittadino o abitante del contado o del distretto della città, di qualunque condizione, stato o autorità,
possa recarsi nelle città di Pisa e di Lucca e nei loro contadi e distretti. E che nessuno possa altrimenti da
questi luoghi venire o tornare nella città di Pistoia o nel suo distretto o contado, sotto pena di una multa di
cinquecento lire di denari. E che nessun cittadino o abitante del contado o del distretto pistoiese osi
accogliere persone provenienti dai detti luoghi e che i custodi alle porte non ne permettano l'ingresso in città
sotto pena del pagamento di dieci lire di denari, di cui dovrà rispondere il responsabile della custodia della
porta, dalla quale è avvenuto l'ingresso. Tuttavia è consentito agli abitanti di Pistoia recarsi nelle città di Pisa
e di Lucca e farne ritorno, con esplicita autorizzazione ottenuta dal consiglio del popolo cittadino, scritta dal
notaio degli Anziani e dal Gonfaloniere di Giustizia.”
Descrizione della peste del 1529
da G. Planerio Quinziano “ Breve descrizione della patria” Venezia 1584
“ Accrebbe le nostre disgrazie ancora, la peste, che l’anno successivo alla morte di mio padre, aveva invaso
quasi tutta l’Italia : in quella circostanza anche mia madre, colpita dal morbo, la perdetti; tutti i nostri beni di
casa si estinsero per i furti, le rapine e gli incendi.
Cominciò in estate la peste, e in autunno, si intensificò: l’aveva preceduta una diffusa carestia e le insistenti
piogge, nell’estate afosissima, avevano contaminato dapprima l’atmosfera, poi il fisico degli animali e di tutti i
viventi. Da qui una repellente pestilenza ben presto seguì: anzitutto febbri insistenti, quindi pustole infette; il
contatto con gli ammalati e il servizio domestico intorno a loro diffondevano il morbo. Così trascurati ed
abbandonati dai vicini per paura, privi di qualunque assistenza, morivano in ogni dove: ecco allora funerali
ogni giorno e la morte faccia a faccia.
Ma anche quanti assistevano gli ammalati, procurandogli da mangiare e da bere, afferrati dalla violenza di
quel male, morivano insieme con loro. Dovunque, di giorno e di notte, si udivano lamenti: alla fine, per
l’assuefazione alla peste, gli animi si erano esasperati a tal punto che non si udiva più alcun lutto di
sopravvissuti, e addirittura, c’era chi, proprio accanto alle salme in decomposizione, mangiava, beveva,
dormiva.
I cadaveri, poi, venivano rimossi senza mesto corteo e non deposti ciascuno nel proprio sepolcro, ma in
fosse scoperte, alla rinfusa, rovesciati uno sull’altro, senza che li si coprisse di un pur sottile strato di terra, e
mandavano un orribile e fetido odore, impestando di quel sentore pestilenziale perfino il cielo ed ogni specie
di animali terrestri e volatili.
E, siccome i becchini non bastavano a seppellirli, giacevano per strada, insepolti, e agli occhi dei moribondi,
che potevano aspettarsi analoga fine,offrivano un tremendo e lugubre spettacolo; qua e là salme occultate:
ci furono di quelli che in casa propria seppellirono i corpi dei loro.
Si videro persino colombe o rondini che, volando in alto per sfuggire a quel fetore di marcio, soffocarono
lassù presso le nubi e caddero, poi, a terra stecchite. Ma anche il bestiame, soprattutto i buoi, si
schiantavano sotto l’aratro con un forte muggito. Cessava ormai anche il destriero di mordere le briglie
schiumanti e di nitrire rampando e , contratto in sé il male, si abbatteva.
I cani, affetti da rabbia,senza un latrato, si avventavano contro i padroni. Perfino le pecore, tra tutte le bestie
le più miti ed utili, con il latte consunto dalla peste nelle mammelle, spiravano nel mezzo dei prati. Il pastore,
allora, bruciava la lana infettata dai liquami malsani.
Quella pestilenza inquinò fiumi, pozzi e fonti saluberrime, tant’è che le acque, che prima agli infermi, se ne
bevevano, recavano salute, in seguito, corrotte dal morbo, gli infliggevano morte.”