Il senso dell`umorismo, in effetti, è da considerare un dono
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Il senso dell`umorismo, in effetti, è da considerare un dono
Una rubrica di umorismo su una rivista come GNOSIS, che accoglie argomenti impegnati e autorevoli, potrebbe anche sorprendere… piacevolmente, ci auguriamo. È infatti nostra convinzione che l’approccio al complesso mondo dell’intelligence attraverso la lente dell’umorismo – arte di profonda capacità evocativa e suggestiva di buonumore – disponga l’animo a cogliere gli aspetti anche meno ameni con leggerezza e a sorridere con ironica comprensione, senza inficiare, dietro l’apparente frivolezza di linguaggio, la rilevanza della missione affidata ai Servizi. Anzi, rafforzandola per empatia: Thinking in fun while feeling in earnest. L’arte del sorriso, anche in questo contesto, non sembri quindi fatua e, men che meno, irriverente. Semmai, analogamente ad altre attitudini personali, c’è da riflettere su chi sia capace di ridere e chi no. E «chi è capace di ridere» – per dirla con Giacomo Leopardi – è padrone del mondo». L’umorismo è una risorsa dell’intelligenza che ci appartiene, ma che spesso tendiamo a sacrificare sull’altare della ‘serietà’ precludendoci, così, la possibilità di utilizzare l’energia creativa e stimolante sprigionata dal buon umore verso una direzione costruttiva. Va detto, altresì, che la benefica essenza dello humour ingegnoso e vivace è stata sempre perorata dai sapienti. Non è raro incontrare nella storia della filosofia pensatori che abbiano fatto ricorso all’umorismo per spiegare le loro teorie o chiarire la loro posizione su un determinato argomento. Basti pensare a Socrate, maestro indiscusso dell’ironia, che una volta, a chi si meravigliava del suo atteggiamento paziente verso un tale che lo aveva preso a calci, rispose: «Se mi avesse preso a calci un asino l’avrei forse condotto in giudizio?». Anche Aristotele, il quale sosteneva che pure «agli dei piace scherzare», era dotato di un fine senso dell’umorismo. A un logorroico che lo aveva investito con un fiume di parole e gli chiedeva se le sue chiacchiere lo avessero offeso, rispose: «Niente affatto, per Giove! mentre parlavi ad altro badavo». La propensione al sorriso, l’umorismo come attitudine a uscire fuori dagli schemi (thinking out of the box) hanno contraddistinto la vita e l’operato anche di altri grandi del passato: Cicerone, Seneca, Cervantes, fino a Baudelaire, Pirandello, Freud, passando per l’emblematica figura di Tommaso Moro (1478-1535), canonizzato nel 1935, il quale, per «l’integrità morale, l’acutezza dell’ingegno, il carattere aperto e scherzoso», nel 1529 fu nominato Cancelliere del regno da Enrico VIII e, quindi, impegnato in varie missioni diplomatiche. Proclamato Protettore dei Governanti e dei Politici da Giovanni Paolo II, san Tommaso Moro è autore, peraltro, della celebre Preghiera del buon umore, scritta nel 1534 nella Torre di Londra, che così si conclude: «... dammi il dono di saper ridere di una facezia, e di farne partecipi gli altri... Dammi, Signore, il senso del buon umore». 170 GNOSIS 2/2014 Il senso dell’umorismo, in effetti, è da considerare un dono, una miscela propulsiva, come l’idrogeno per un motore: produce energia pulita, ecologica, vitale. E, in tale prospettiva, andrebbe favorito, coltivato, portato alla luce ove non ancora manifestatosi, in modo da riuscire a dischiudere quell’emozione e quella forte vitalità che ne costituisce il portato naturale. E che non si dica, come nella riflessione manzoniana sul coraggio di Don Abbondio, «... uno, se non ce l’ha, non se lo può dare». Convinti, come siamo, del benessere che il sorriso porta con sé, vogliamo evocare ancora qualche tagliente battuta di sir Winston Leonard Spencer Churchill che del maresciallo Montgomery disse: «Imbattibile nella sconfitta, insopportabile nella vittoria», e che così canzonava il laburista Clement Attlee: «Un taxi è arrivato vuoto a Downing Street e ne è sceso Attlee». E non è da meno – restando nella sfera dell’insuperabile sense of humour di sir Winston – l’ironia diretta a Lawrence d’Arabia: «Ha un modo tutto suo di ritirarsi nella luce della ribalta». Ma per tutte, valga lo scambio intercorso tra l’inglese, il più intelligente ma anche il più maschilista del secolo scorso, con l’acerrima rivale Nancy Astor, prima donna del Parlamento britannico. Un giorno lei sbottò: «Winston, se fossi tua moglie ti metterei il veleno nel caffè». Lui replicò: «Nancy, se fossi tuo marito lo berrei». Anche nel campo dell’intelligence ci sono precedenti illustri di parodie (o di ‘facezie’, come le chiamava san Tommaso Moro), scritte da chi ha conosciuto tale specifica realtà dal di dentro, che aprono uno squarcio sul panorama autentico. Tra le più classiche e famose ricordiamo Water on the brain di sir Compton Mackenzie, che fu direttore dell’Intelligence Service dell’Egeo, un manuale di ciò che si deve e non si deve fare in un servizio segreto, scritto con sagace ironia nel lontano 1933, ritirato dal governo britannico nell’immediatezza della sua pubblicazione e ristampato vent’anni dopo. In quell’opera, la presa in giro riguarda la burocrazia con il suo contorno di burocrati. Lo stesso sir Compton ebbe a dichiarare: «mi è divenuto impossibile immaginare una situazione comica la cui stravaganza non venga automaticamente superata da quella della burocrazia». E «la burocrazia del servizio segreto», ha scritto Allen Welsh Dulles, direttore della Cia dal 1953 al 1961, «è tanto più divertente in quanto si avvolge di segretezza e si prende troppo sul serio». Ecco: con la nuova rubrica intendiamo superare questo eccesso di seriosità affinché – ben oltre il motteggio, semplicemente ludico, e senza indulgere nell’impertinenza – si avvii un percorso di comprensione ‘sorridente’ della realtà. RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE 171 H U M O R TO P S E C R E T STRETTAMENTE CONFIDENZIALE Divagazioni sull’intelligence tra umorismo e ironia MELANTON Per quanto s’interessi esclusivamente di intelligence, questa non vuole essere una rubrica intelligente. Non è, tuttavia, e non potrebbe esserlo, neanche il contrario. Forse, questa non è neppure una rubrica. Credo, anzi, che sia proprio così. Mi piace pensare che sia un incontro speciale tra intelligenza e ironia. Un intermezzo frizzante tra severità e humour, tra riservatezza e sorriso. Nel nome – per una volta – della sostenibile leggerezza dell'essere. Buona lettura, quindi. E attenzione: tutto ciò che leggerete potrebbe essere scritto con inchiostro simpatico. A ben guardare, siamo puntualmente osservati da segugi, investigatori, informatori, detective e confidenti d’ogni genere. Mi riferisco, in particolare, a quella strana genìa di ‘agenti’ – neanche tanto segreti, per quanto il più delle volte insospettabili – dai quali siamo inevitabilmente circondati nelle nostre diverse quotidiane occupazioni. La vecchia signora mia dirimpettaia, per esempio. Che dall’occhiolino magico della sua porta osserva in silenzio i nostri spostamenti di famiglia, controlla le visite di parenti e amici, conosce a menadito orari RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE e abitudini, e quando l’ascensore è guasto sa perfino distinguere il passo (e le espressioni più o meno colorite) di chi viene smoccolando su dalle scale... C’è da scommettere che è anche in grado, l’arzilla veterana, di ricordare meglio di me il mio gruppo sanguigno e la misura del colletto delle mie camicie! Oppure, il solerte portiere del condominio, il quale, alla maniera del magnifico Totò de «La banda degli onesti», mentre dispone la posta nelle varie cassette, accompagnandola col suo immancabile sardonico commento «... plico del Provveditorato agli Studi al professore Bianchi, raccomandata 173 H U M O R TO P S E C R E T MELANTON dell’Assicurazione alla signora Neri, ennesima notifica di multa al cavalier Verdi, lettera al profumo di violetta al ragionier Rossi...», scruta, fiuta, deduce, ammicca, arguisce, giudica, sentenzia... Che dire, poi, delle telecamere ben occultate in qualche segreto angolo dell’ipermercato o della nostra banca abituale, che riprendono i nostri tic, le dita nel naso, forse perfino i nostri pensieri, inquadrandoci peraltro sordidamente di spalle, e rivelando al mondo intero la nostra incipiente calvizie? E il famoso (o famigerato) ‘autovelox’? Che testimonia incontestabilmente il nostro sorpasso in autostrada, tanto più azzardato in quanto avvenuto (in quel giorno, a quell’ora, in quel luogo: impossibile negare!) in compagnia di una signora bionda che non è la nostra signora bruna? O, ancora, di quel perfido e misterioso aggeggio noto col nome di ‘auditel’, che controlla il nostro più o meno schizofrenico zapping televisivo, quasi deridendoci di nascosto, quando tentiamo vanamente di scansare la tormentosa sequela di spot pubblicitari, facendo lo slalom da un canale a un altro? Il discorso potrebbe proseguire con innumerevoli altri esempi, ma quelli fin qui forniti immagino che siano più che sufficienti a introdurre – con il sale e il pepe dell’ironia – l’argomento particolarmente serio di questa rubrica, e cioè l’attività di intelligence. Che è funzione estremamente importante, anzi, indispensabile e determinante nella vita di una Nazione. Nell’immaginario collettivo, i ‘servizi segreti’ e la relativa nomenclatura (spie, agenti, informatori, indizi, piste, pedinamenti, investigazioni...) rievocano, da 174 STRETTAMENTE CONFIDENZIALE sempre, significanze misteriose e non di rado velate di diffidenza. Una sorta di timorosa apprensione, forse anche comprensibilmente legittima, laddove si configurino finalità apparentemente improprie al rispetto della privacy, ma di rilevante e meritorio valore, allorché rivolte alla protezione e sicurezza dello Stato e, quindi, alla nostra. È, altresì, evidente che l’assiduo e articolato impegno nell’attività d’intelligence comporti risoluzioni complesse e delicate di alta responsabilità, specialmente in questa nostra epoca di globalizzazione, che vede l’intero pianeta costantemente minacciato dal terrorismo internazionale. Per cui, aderendo allo spirito ludico di questa rubrica, l’invito – sia agli addetti che ai non addetti ai lavori – è quello di guardare all’Intelligence con una certa serena distensione cercando, semmai, di scoprirla più da vicino, attraverso il nostro esclusivo e dilettevole ‘dizionario del perfetto agente segreto’, dal quale sono estratte le prime cinque ‘voci’. Buon proseguimento. AGENTE – letteralmente: «che agisce». Participio presente del verbo ‘agire’, con licenza di diventare, all’uopo, anche aggettivo e, perfino, sostantivo (da sub stantivus, cioè a sé stante). Come nel caso del perfetto agente segreto che, nel panorama degli umani mestieri e professioni, è per l’appunto una figura a sé stante e quasi leggendaria come l’Araba Fenice: «che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa...». Il perfetto agente segreto è, di norma, così segreto da dubitare della propria reale esistenza. Egli vede non visto. Non dà nell’occhio. Ascolta senza essere ascoltato. Non dà nell’orecchio. E, spesso, è muto come GNOSIS 2/2014 un pesce. Segno preciso che si è camuffato da pesce. In definitiva, il suo segreto è il silenzio, sia che operi nell’immensa metropoli come nel borgo più minuscolo e sperduto. È, quindi, da considerare falso il noto detto, secondo cui «il paese è piccolo e l’agente mormora». Il perfetto agente segreto non è come il Piave. Non mormora mai: agisce! CODICE – Chiave di un cifrario o, estensivamente, linguaggio cifrato. Trattasi, in sostanza, del macchinoso e complesso sistema di comunicazione, di cui si serve il perfetto agente segreto per trasmettere le proprie informazioni riservate, utilizzando impenetrabili simboli e segni convenzionali. La chiave del codice è di importanza strategica assoluta: dimenticarla, o peggio, perderla, è estremamente pericoloso, tanto più che non si può andare dal ferramenta per farsene fare un duplicato. A differenza del codice fiscale, del codice di avviamento postale, del codice della strada e di altri consimili codici (che sono più o meno di pubblico dominio), il codice di comportamento nell’uso del codice cifrato è codificato in un apposito codice segreto che il perfetto agente segreto, per codice deontologico, deve tenere assolutamente segreto, onde evitare che i messaggi segreti cadano nelle mani di Agenti segreti nemici. Non so se mi sono spiegato. EMERGENZA – Dicesi di circostanza imprevista e, ancora più grave, di situazione critica e di imminente pericolo, da affrontare con tempestività e risolutezza. Preparato a ogni tipo di emergenza (anche quella più scabrosa, come quando il bagno è occu- RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE pato per ore) il perfetto agente segreto non si fa mai prendere in castagna. Da quel magico cappello a cilindro che è la sua mente egli tira fuori conigli, colombe, trombette, palloncini, mazzi di carte, dadi, birilli, campane, fazzoletti colorati, pulci ammaestrate e, finalmente, la soluzione del caso. Nel frattempo, però, il caso è stato già chiuso. L’emergenza è sempre in agguato. Quella volta che non aveva alcun mezzo disponibile per trasmettere le sue importanti e urgenti informazioni in codice, l’agente segreto si mise a fare segnali di fumo, e fu un’idea supergeniale! Che i vigili del fuoco, tuttavia, non seppero adeguatamente apprezzare. E tanto meno le mogli dei Sioux e degli Apaches della vicina Riserva indiana, accorse rapidamente a centinaia sul posto (e poi rimaste deluse), perché avevano decifrato i segnali come l’inizio della stagione dei saldi, con sconti fino al 99%! FASCINO – È l’arma più segreta del perfetto agente segreto. Irresistibile con le donne, ammirato e invidiato dagli uomini, coccolato da tutti (meno che dal suo gatto siamese, che lo considera un perfetto imbranato e gli soffia contro quando rientra a casa senza avergli comprato i croccantini preferiti), il perfetto agente segreto vince spesso le sue partite strategiche con la potenza seduttrice dello sguardo, con un ammiccamento fatto ad arte, a volte semplicemente tirandosi su il ciuffo posticcio alla Elvis Presley (che in un paio di occasioni gli è disgraziatamente cascato per terra, suscitando l’ilarità di alcuni Ambasciatori presenti, ma non del suo inflessibile superiore...). 175 H U M O R TO P S E C R E T MELANTON Lui è l’esemplare unico, il modello originale brevettato con tanto di copyright. Può anche non essere alto, biondo e con gli occhi azzurri ma, ovunque passi, lascia il segno. Di norma è un segno convenzionale lasciato ad arte fra i petali di una rosa, per farsi seguire con discrezione dalla spogliarellista del night, anche se quella – a cagione di un altro segno convenzionale lasciato ad arte sull’astuccio della gioielleria all’angolo – va immancabilmente via con l'agente segreto nemico. Il fascino è tutto! O quasi. MASCHERA – Reale o metaforica, è l’accessorio non accessorio ma, anzi, essenziale che accompagna abitualmente il perfetto agente segreto per non farsi riconoscere da chicchessia. Insieme a creme, unguenti, trucchi e plastilina per i ritocchi, il nostro eroe porta la maschera sempre con sé, in ogni circostanza e, grazie ad essa, perde del tutto la propria identità, al punto che ogni mattina, dopo essersi reso irriconoscibile, guata con crescente sospetto quel tizio che lo guata con crescente sospetto dall’altra parte dello specchio. Frutto di costanti allenamenti, la maschera del perfetto agente segreto è sempre impenetrabile e cangiante meno che a Carnevale quando, in rispetto alla tradizione, essa assume le fattezze di Zorro. In determinati momenti, la maschera è il volto: attraverso sguardi ben simulati e abili giochi espressivi da caciocavallo o da trumeau veneziano del Settecento, il perfetto agente segreto riesce a trasformarsi perfino in se stesso! Egli è e non è. A volte, per controllo e per capire come stanno realmente le cose, si chiama sul proprio telefono. Ma lo trova, ahilui!, immancabilmente occupato. 176 GNOSIS 2/2014