Corriere InOltre 2010

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Corriere InOltre 2010
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“ …è una memoria di scarso valore
quella che lavora solo per il passato.”
(Da: Alice nel Paese delle Meraviglie)
La formazione come opportunità
È stato un pomeriggio diverso dagli altri quello passato al carcere della Stampa, anche perché il passare attraverso quei muri, quelle porte, quei cancelli in ferro con quel tipico rumore dei chiavistelli un
po’di timore te lo mette addosso. Ma l’incontro con un gruppo di carcerati ha costituito per me un’esperienza simpatica e arricchente. La maggior parte di quegli uomini di ogni età ha ascoltato in silenzio la
mia esposizione e le mie riflessioni, altri le hanno commentate subito anche solo con qualche gesto o con
l’espressione del loro volto. Nella discussione che ne è seguita molti si sono dimostrati interessati, anzitutto
quando si è parlato delle numerose possibilità che vengono offerte per formarsi anche durante il periodo della
privazione della libertà o subito dopo aver scontato la pena.
Sulla scorta delle ottime esperienze di questi ultimi anni parecchi sembravano aver capito che la formazione durante il periodo di detenzione costituisce un’opportunità, anzitutto per migliorare le possibilità di reinserimento nella società e nel mondo del lavoro, che è
poi l’obiettivo primo della misura coercitiva della detenzione, ma anche solo per soddisfare degli interessi personali e migliorare alcune
conoscenze o competenze nei più svariati settori. Ho ad esempio seguito una parte di una lezione di inglese e preso atto che qualche detenuto si preparava per ottenere degli attestati di livello molto alto.
Molto interesse ha suscitato anche la discussione sullo sport, con molti giovani che hanno anche fatto riferimento alle loro esperienze
personali, con qualche rammarico per le occasioni sprecate per delle scelte di vita non propriamente indovinate.
E sì, è stato importante andare sul posto per capire meglio e prendere atto con una certa soddisfazione, non solo del successo dell’iniziativa congiunta del DECS e del DI per organizzare delle opportunità di formazione, anzitutto professionale, all’interno della struttura
carceraria cantonale, ma anche dell’impegno e dell’entusiasmo dei molti addetti ai lavori, docenti, assistenti sociali, agenti della sicurezza e consulenti vari. A loro va il sentito ringraziamento dell’Autorità cantonale per quello che hanno saputo mettere in piedi in poco
tempo e con mezzi finanziari contenuti. L’augurio di un Consigliere di Stato uscente non può che essere quello di incoraggiamento affinché questa esperienza possa essere continuata sulla strada imboccata e affinché si trovino risorse umane e finanziarie per ulteriormente offrire occasioni di formazione a chi, più di altri, ne ha veramente bisogno.
Avv. Gabriele Gendotti
La dignità dei detenuti
Non nascondo di aver affrontato con un po' di preoccupazione l'incontro con i detenuti, propostomi dai responsabili del progetto scuola
In-Oltre. Come direttore del Dipartimento Istituzioni ero infatti consapevole di rappresentare quella parte di Stato che giudica le persone
e, quando le condanna al carcere, le priva della libertà personale. Ho potuto invece constatare che l'incontro non ha posto problemi di
sorta, che alla mia relazione hanno fatto seguito interessanti domande, come si trattasse di una normale manifestazione dove un Consigliere di Stato racconta a un gruppo di cittadini le sue esperienze professionali e politiche. La cosa mi ha fatto molto piacere, perché
in fondo premia lo spirito di chi ha voluto e portato avanti in questi ultimi anni il progetto scuola In-Oltre. Così come l'ho vissuto, infatti,
questo progetto ha il grande merito di considerare i detenuti persone che meritano di essere aiutate, perché al di là delle cause della
carcerazione, mantengono intatta la loro dignità di esseri umani.
Spiegare ai cittadini questo spirito costruttivo nei confronti dei detenuti non è sempre facile, soprattutto di questi tempi. Eppure è necessario. È importante capire che il livello di civiltà di un paese non si misura nella qualità degli alberghi a cinque stelle, che sono bellissimi anche nei paesi più poveri, bensì nel valore delle prestazioni e dei servizi offerti alle categorie più deboli della società. In questo
senso i ticinesi dovrebbero sentirsi fieri di avere carceri dove si cerca di aiutare concretamente il detenuto, dove nel limite delle risorse
disponibili si cerca di favorire concretamente progetti utili per il reinserimento sociale. Come capo del Dipartimento delle Istituzioni durante dodici anni ho avuto per questo grande stima anche per gli agenti di custodia e i loro superiori, nel cui operato ho sempre riconosciuto grande competenza e umanità.
Avv. Luigi Pedrazzini
Disegno di Morena (dettaglio)
Di donne, uomini, ragazzi… e bambini
Cercavamo studenti, apprendisti, o meglio persone in formazione, clienti, utenti, come si usa dire oggi… abbiamo trovato donne, uomini,
ragazzi e bambini.
Cinque anni di straordinaria avventura di In-Oltre non si raccontano in poche righe.
Posso solamente riandare con la memoria a visi, sguardi, sorrisi, risate e pianti meravigliosamente miscelati durante questi incontri con
persone che con la scuola cercano una speranza di un domani migliore che dipenderà, purtroppo o per fortuna, da circostanze non sempre prevedibili e programmabili.
Se penso alle donne vedo gli sguardi preoccupati per ciò che accade all’esterno, a volte, con mariti e figli che a casa aspettano il rientro
di colei che rimane, comunque sempre, saldo punto di riferimento. Penso però pure al piacere immenso del creare con le loro mani vestiti ed oggetti frutto di abilità sconosciute o soffocate da pressanti bisogni di sopravvivenza.
L’illuminarsi dei loro occhi alla scoperta di doti artistiche oppure capacità informatiche impensabili sinora, rappresenta per noi docenti
quell’elemento vitale con il quale nutrire la nostra passione per l’insegnamento.
Vado con la macchina dei ricordi e come non commuovermi di nuovo quando rivivo la partecipazione affettiva, durante la malattia e la
scomparsa dei miei due genitori, ricevuta da uomini, in parte protagonisti di pagine tragiche del loro cammino?
Se rivedo lo splendido documentario di Danilo Catti come non desiderare reincontrare ragazzi che hanno vissuto l’amara esperienza del
carcere finalmente inseriti in quel mondo esterno che cerca comunque di sostenerli e quindi realizzare finalmente propositi e volontà
espressi durante la detenzione.
Ed infine quando prendo fra le braccia uno di quei bambini durante le lezioni con le loro mamme come non sperare per loro un futuro
più sereno come quel sonno che immancabilmente di tanto in tanto li coglie.
Ecco, questo è parte di ciò che porto nel mio cuore di In-Oltre. Naturalmente, e non può essere diversamente, voglio terminare con un
grazie a tutti coloro che giorno dopo giorno, con competenza, passione, impegno, pazienza, entusiasmo e quel pizzico di idealismo, ci permettono di poter trasmettere quelle conoscenze e quei valori che potranno essere di valido supporto, una volta varcata l’uscita di quel
cancello che divide un mondo a sé, ma che cerca il più possibile, anche con la scuola, di essere simile a quello che sta fuori.
Ulteriori buoni giorni, In-Oltre.
Mauro Broggini, ideatore di In-Oltre
Giugno 2011
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Il disagio dei minori è un prisma dalle molte facce dolenti.
La scuola-in-oltre: un progetto di collaborazione interdisciplinare e intersettoriale per ripartire quando il minorenne
è stato posto in detenzione preventiva e nulla sembra più funzionare
I partecipanti al 12° incontro semestrale del progetto Scuola In-Oltre arrivano puntuali alle ore 14.00 di giovedì 24 marzo 2011 nella grande sala riunione
del Carcere giudiziario La Farera di Cadro. Il tasso di partecipazione è eccellente anche questa volta, sono presenti i membri della direzione delle strutture carcerarie, i docenti, il coordinatore della scuola, i rappresentanti della divisione della formazione professionale, gli orientatori scolastico-professionali, gli educatori del Servizio educativo minorile ed i magistrati dei minorenni.
Lo scopo della riunione è di fare il punto della situazione, cosa ha funzionato bene e cosa presenta ancora degli aspetti problematici, ma anche di ascoltare e di scambiare preziose informazioni sulle esperienze accumulate e di approfondire la conoscenza e la fiducia reciproca.
La scuola In-Oltre è stata pensata e creata per i minorenni in detenzione preventiva. L’art. 28 cpv. 1 della PPMin1 stabilisce che la carcerazione preventiva va eseguita in un reparto speciale di uno stabilimento carcerario, dove i minori sono separati dai detenuti adulti. Va garantita un’assistenza appropriata.
Il carcere continuerà ad esistere ed è pertanto necessario che gli istituti penali minorili siano strutture piccole, che custodiscano, ma non escludano, che
sottolineino l’importanza della dignità umana, con personale specializzato e formato da varie professionalità2.
I corsi della scuola In-Oltre sono partiti in contemporanea con l’apertura del Carcere giudiziario La Farera a Cadro nell’autunno del 2006 per soddisfare
gli obblighi stabiliti dal legislatore federale.
Negli ultimi cinque anni la presenza giornaliera media di minorenni in detenzione preventiva è stata di due persone. Il numero massimo di minorenni
contemporaneamente in detenzione è stato di sei, mentre vi sono stati anche dei periodi di diverse settimane senza nessuno in detenzione preventiva.
Disegno di Maribel
Lo scopo dell’arresto non è mai quello di escludere il deviante, il diverso, il non omologato3.
In molti casi l’arresto di una persona minorenne avviene in flagranza di reato: il giovane in quel momento è spesso in balia di un sentimento di onnipotenza, che gli fa credere di poter controllare con il suo desiderio l’intera realtà. La vita nel carcere giudiziario è invece regolata e scandita dalle attività
quotidiane correlate con il motivo del procedimento penale. La maggior parte di questi minorenni, prima dell’arresto, scambiava il giorno con la notte
e quindi deve inizialmente riabituare il corpo e la mente al ritmo naturale di una giornata, in cui la mattina ci si alza, si partecipa alle lezioni della scuola
e alle altre attività previste, e la sera si va a letto.
I minorenni privati della libertà hanno a disposizione una ricca biblioteca mentre non possono utilizzare, durante la prima settimana, mezzi di comunicazione elettronici (radio, televisione, pc). Il lavoro di protezione, di ricupero e di educazione inizia con l’entrata al carcere giudiziario.
È forse opportuno ribadire che non è affatto vero che gli adolescenti4 di oggi sono più maturi che nel passato: è vero semmai il contrario. In una società
complessa come quella odierna, caratterizzata da un impoverimento della funzione educativa e da una assai ritardata assunzione di responsabilità, il
giovane solo apparentemente è più capace che nel passato di opzioni autenticamente libere e veramente coscienti.
Divenire infatti adulti non significa conoscere molte cose della vita: significa saperle interpretare correttamente e avere la capacità di inserirle in una
gerarchia di valori; implica l’essersi saputo dotare di strumenti critici per realizzare opzioni autenticamente libere; esige la capacità di effettuare le proprie scelte fuori dai condizionamenti personali, di gruppo o sociali.
La strada giusta è rispondere al disagio e alla fatica di crescere, oggi tanto difficile, con la comprensione e con il sostegno. Le sanzioni di privazione della
libertà possono forse tranquillizzare e securizzare gli adulti, ma non certo far superare le difficoltà del ragazzo nel suo processo evolutivo.
Ritenere che la mera minaccia di una sanzione penale possa inibire un giovane con forti problemi dalla commissione di reati è una pericolosa illusione:
bisogna essere psicologicamente adulti per orientare le proprie scelte prevedendone con acutezza e razionalità tutte le conseguenze, mentre il giovane
per sua natura è poco razionale, imprevedibile, impulsivo, facile preda della suggestione del momento, portato alla trasgressione, spinto dal suo senso
di onnipotenza ad essere sicuro che la sua azione non avrà ripercussioni su di lui.
Diverse analisi mostrano che i giovani con maggiori difficoltà sono quelli che hanno abbandonato la scuola o che non hanno potuto accedere ad un apprendistato5. Il rischio di finire nella spirale della delinquenza è tanto più importante quanto più l’interruzione è lunga. Ricerche hanno evidenziato a questo proposito che i rischi e le forme di vulnerabilità non dipendono solamente dalla provenienza sociale, ma anche dalle strategie che i giovani attuano
in queste situazioni.
Il compito della società civile e politica è di recuperare e integrare i minori devianti attraverso un intervento di protezione e educazione che ne favorisca
lo sviluppo e la capacità critica.
Per sentirsi appartenenti bisogna essere capaci di “essere parte” e di “prendere parte” alla vita collettiva, di condividerne le esperienze e le prospettive, di contribuire in qualche modo a realizzarle. I docenti della scuola In-Oltre seminano questi elementi che poi vengono coltivati dagli educatori in modo
da far raccogliere ai minori i frutti del cambiamento.
La scuola In-Oltre persegue l’empowerment dei giovani attraverso il quale essi acquisiscono competenza sulle proprie vite, al fine di migliorarne la
qualità. L’empowerment costituisce una modalità dell'operatore sociale di accostarsi a chi ha un problema o a coloro che gli sono vicini, e fare in modo
che questi possano aiutarsi più di quanto potrebbero fare se fossero lasciati da soli,
sopraffatti dalle difficoltà e in preda all'impotenza6.
L’esperienza della Scuola In-Oltre è stata apprezzata da tutti i minorenni che sono
stati obbligati a frequentare i corsi, ed ha permesso a questi giovani di vedere la
scuola da un altro punto di vista e di iniziare a riconciliarsi con l’istituzione scolastica
verso la quale provavano un netto rifiuto.
Possiamo essere orgogliosi di quello che la nostra scuola ha saputo fare e sa fare.
Ma i progressi non sono mai definitivi. Dobbiamo ancora investire affinché funzioni
sempre meglio e ci sia continuità nella fase “oltre” (dopo la scarcerazione), perché
un positivo inserimento socio-economico e professionale è essenziale al futuro del
giovane.
Facciamo nostra la frase di Saint-Exupéry:
“In ogni cosa la perfezione è raggiunta non quando non c’è più nulla da aggiungere
ma quando non c’è più niente da eliminare”.
Reto Medici, magistrato dei minorenni
1
Legge federale di diritto processuale penale minorile (Procedura penale minorile, PPMin) del 20
marzo 2009, RS 312.1
2
Art. 4 PPMin Principi
1 La presente legge s’impronta alla protezione e all’educazione del minore. L’età e il grado di sviluppo del minore vanno considerati adeguatamente.
2 In ogni fase del procedimento le autorità penali rispettano i diritti della personalità del minore e
gli permettono di partecipare attivamente al procedimento. Fatte salve norme speciali di procedura, il minore è sentito personalmente.
3 e 4 omissis.
3
Moro Carlo Alfredo; Sicurezze degli adulti o tutela dei minori, Animazione sociale N. 190 febbraio
2005, Torino
4
Bernardi Marcello, L’adolescente e la cultura, Cooperazione del 2.7.1992. L’adolescenza c’è sempre stata. Una fase evolutiva in parte contemporanea e in parte conseguente alla maturazione sessuale (pubertà) che l’uomo ha sempre attraversato da quando esiste. Una fase in cui l’individuo
passa dal gioco e dal regno dell’illusione al lavoro produttivo al confronto e al confronto con la realtà, cioè dall’impero del mito e del simbolo a quello della logica e della concretezza, da una vita originaria intessuta di emozioni e di affetti a una vita fondata essenzialmente sulle leggi dell’economia
e del mercato.
5
Commissione federale per la gioventù, L’animazione socio-culturale in campo giovanile, Berna
2003
6
Commissione federale per la gioventù, Assumer des responsabilités – les partager, Berna 2001
Disegno di Anna
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3
Più sai, più sei! Scuola In-Oltre: un progetto che non smette di stupire
Passano gli anni, ma Scuola In-Oltre mantiene sempre la sua freschezza. Lo spirito iniziale di coloro che l’hanno voluta, avendo capito che lì poteva nascere qualcosa di
mai visto.
Diciamolo chiaro e tondo. Diciamolo senza alcuna ipocrisia, fuori dai denti. Scuola In-Oltre non trova tutti d’accordo. Se non fosse per il sostegno di alcuni aficionados, pochi o
tanti che siano, il progetto di Scuola In-Oltre sarebbe morto prima di nascere. Una chimera. Fortuna vuole invece che sia andato tutto diversamente, esattamente come doveva essere. Infatti Scuola In-Oltre è nata, sta crescendo ed è in piena fase di maturazione.
E poi… è un bell’esempio di universalità. Di tutti, senza eccezioni. Scuola In-Oltre è specchio di una società aperta e democratica, sia nella politica sia nell’educazione. Perché
mai la formazione dovrebbe essere prerogativa di una parte della popolazione, di quella parte libera che non ha conti in sospeso con la società. La formazione è un bene di
tutti, trasversale. Per l’appunto, universale. È una fonte a cui si devono poter dissetare tutti, senza alcuna distinzione sociale, culturale, etnica, religiosa, geografica… e chi più ne ha più ne metta.
E, credo di averlo detto e scritto in altre sedi, un’istituzione senza frontiere. Scuola In-Oltre è proprio tutto questo. All’epoca l’occasione è stata colta al volo, senza indugi. Forse questo approccio
pragmatico e deciso ha fatto sì che fosse vincente, già dai primi passi. Ha attecchito con forza, rapidamente, su un terreno fecondo. Ed ora è un albero rigoglioso, vigoroso, generoso. Su cui maturano frutti importanti a cui non è più possibile rinunciare. Lo dicono l’entusiasmo dei docenti; la determinazione di chi ha responsabilità di direzione; la consapevolezza di tutti i collaboratori del penitenziario; ma soprattutto la partecipazione dei corsisti: numerosa, costante, convinta. Senza apparenti cedimenti, anzi! All’insegna del mi piego, ma non mi spezzo, soprattutto ai primi segni di
affaticamento o di resa. Come il ciclista che, nel tentativo di raggiungere il traguardo nel tempo più breve possibile – possibilmente prima degli avversari, ma non necessariamente – pedala e pedala, senza sosta, con forza. Rilancia, si disseta e si alimenta, segue i consigli del coach dall’ammiraglia. Scuote la testa per non vacillare, ondeggia sui pedali per non crollare. Si aggrappa al suo
senso tattico e soprattutto alle energie che gli rimangono, sempre di meno man mano che si avvicina alla meta, ma non molla. Con l’obiettivo primo di arrivare in fondo, se possibile vittorioso, ma
con la convinzione di aver dato tutto, proprio tutto. Di aver grattato il fondo del barile delle proprie risorse e mai con lo spietato dubbio di aver perso un’occasione per colpa sua. Con il sospetto che
avrebbe potuto vincere se... È questa l’immagine che mi appare quando penso ai partecipanti di Scuola In-Oltre. Una bella sensazione: appagante, stimolante.
Che cosa c’è di più gratificante per una scuola – dalla direzione agli insegnanti, dai collaboratori alle famiglie – del giudizio degli studenti? Le famiglie… sì! Perché anche le famiglie ne traggono
giovamento. Indirettamente, forse impercettibilmente. Si sentono sollevate sapendo che, il proprio caro, non è solo un numero, ma è un soggetto con tutti i suoi pregi e difetti. Non è lì solo per pagare dazio, ma è lì anche per imparare, per capire, per crescere… per seminare. A raccogliere ci penserà dopo, nella vita libera, quando avrà messo alle spalle questa grigia esperienza della sua
vita. Una persona pensante che, pur nel chiuso del carcere, vive dignitosamente, alla meno peggio. Seppur limitata nei movimenti dal cemento armato e dal filo spinato, gode pur sempre di una
certa libertà: intellettuale, di pensiero, di idee… di conoscenza. Anche quella nel carcere è vita e come tale va vissuta (anche lì dentro il tempo passa, né più né meno come fuori: i minuti sono gli
stessi, le ore idem; ditemi che differenza c’è!). Dignitosamente, positivamente, crescendo e imparando. È anche un modo – non il solo – per alleviare il peso della detenzione. Per sfuggire alla camicia di forza della solitudine, della sensazione di inutilità. Nella convinzione di essere uno fra i tanti, come gli altri. In alcuni casi, più degli altri. Sono convinto che con Scuola In-Oltre si viva meglio. Si respiri aria diversa, fresca, nuova. Dove si percepisce maggiormente un senso comunitario, di appartenenza a qualcosa o a qualcuno. Ad un gruppo che vuole sapere, vuole conoscere. Che
ama il confronto, non lo scontro. Critico e costruttivo non fine a se stesso, ma per sé e per il gruppo a cui si appartiene. Si è costretti, volenti o nolenti, a convivere e condividere sentimenti comuni
e contrastanti. Talvolta dolorosi, laceranti. E qui la scuola è di grande aiuto. Di conforto intellettuale e morale. Può dare delle risposte efficaci, permettendo di andare (in-)oltre. Di allargare l’orizzonte e vedere al di là del proprio piccolo orticello. Di non essere soli e di far parte di un tutto. La scuola quindi come luogo di conoscenza, ma anche di consapevolezza di sé, del saper essere. Il sapere quindi non come fine, ma come mezzo. Veicolo di maturazione e di crescita, di amicizia e di solidarietà, di comprensione di sé e degli altri. Di accettazione e condivisione. Sono profondamente
convinto di ciò. È un convincimento maturato negli anni. Durante una lunga carriera professionale nell’insegnamento – ormai quasi agli sgoccioli – e che si è confermato e fortemente consolidato
con l’esperienza di Scuola In-Oltre.
Permettetemelo, vorrei concludere con uno slogan, forse la sintesi del mio pensiero. Non è farina del mio sacco, non è frutto della mia fantasia. Ma è garbato, simpatico. Che prende. Uno slogan
che ho letto da una qualche parte, ma non ricordo più dove. Credo comunque in un contesto formativo. Concordo, gli slogan lasciano il tempo che trovano. Servono più a vendere aspirapolvere o
viaggi vacanza, che a riassumere concetti profondi, non banali. Spesso sono approssimativi e interpretabili in più modi. Ambigui. Inafferrabili. Hanno però il pregio di essere diretti e istantanei, facilmente fissabili nella memoria. Più sai, più sei! Questo è lo slogan. Non male, vero?
Claudio Zaninetti, Direttore SPAI Locarno
Disegno di Arsim
La pubblicazione del Corriere alla quarta edizione
La scrittura ha un grande pregio, la possibilità di lasciare una traccia, una testimonianza indelebile nel tempo. L’espressione “la carta canta” è quella che più mi piace, la più colorita in quanto
trasmette l’idea che quanto è scritto ha delle variazioni di tonalità, una sorta di melodia che parte da una voce interiore.
La pubblicazione del Corriere è iniziata quattro anni fa, quando, di fronte a questo nuovo ed interessante progetto di formazione in carcere, non si poteva tralasciare la possibilità di far esprimere la viva voce di tutti gli attori, detenuti, docenti, autorità giudiziarie e politiche. Nel tempo, le otto pagine sono diventate ventiquattro, con un inserto dedicato agli apprendistati, creato e
stampato alla Stampa, un bel gioco di parole, vero? Il nostro Corriere In-Oltre quindi è cresciuto nel tempo.
Cosa vuole essere questa pubblicazione? È una sorta di patchwork con molti contributi, con registri che esprimono le più diverse tonalità di voci e colori, preservando così volutamente l’autenticità delle testimonianze. Cosa avverto dopo averlo letto più volte: da un ambiente come è il carcere, che per sua natura nasconde dinamiche molto conflittuali, si è creata una coesione tra
detenuti-docenti o relatori, una sorta di alleanza propositiva. Leggendolo devo ancora trovare una critica mirata al detenuto o una manifestazione di rigetto alla formazione. Un amico mi disse
recentemente, dopo aver letto la bozza di questa pubblicazione: “Pur trovandoci in un carcere, sarà mai possibile che tutti vadano così d’accordo?!”
In questo risultato più che positivo, scopro il valore di quanto la cultura possa dare a tutti, quando è veicolo di comunicazione, d’intesa tra le persone. Occorre comunque sempre tenere alto
l’interesse allo studio, occupare la propria ragione, tema più che attuale in un luogo dove si può soffrire di chiusura verso l’esterno, la claustrofobia. Credo che la Scuola In-Oltre abbia dato
tanto e darà altrettanto se da parte dei docenti si terrà alta la sensibilità per questa condizione. Da parte di chi lavora per organizzare i corsi, si dovranno cercare proposte sempre più attuali
per rispondere alle esigenze strutturali del carcere (dove esistono pure degli interessanti atelier di lavoro) o pensare di investire anche in una formazione individuale di lunga durata, mirata ad
un progetto individuale: una formazione che il detenuto può spendere, rientrando nella società.
C’è una bella citazione che mi piace ricordare, ed è questa: “La civiltà di un popolo può essere misurata dalle sue carceri”. È interessante perché dice che vedendo come è organizzata la detenzione, quali sono le misure adottate verso chi ha commesso una colpa, si può capire il livello di civiltà di un popolo. Con questo parametro la civiltà non è misurata, come si fa molte volte,
dallo sfarzo, dal suo apparire che confonde spesso il prestigio con la ricchezza economica, ma dal come sa curare anche le sue ferite.
Michel Candolfi, Vicedirettore SPAI Locarno
La formazione permette una migliore prognosi penale?
Nel mese di settembre 2010 Valentina Cavadini ha presentato, a conclusione della sua formazione di assistente sociale presso la SUPSI (Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana), un bel lavoro di tesi (disponibile presso la Biblioteca del carcere penale o presso l’Ufficio di Patronato), elaborato durante lo stage di formazione svolto presso il nostro servizio.
Grazie alla partecipazione degli apprendisti allora in formazione, Valentina ha indagato la relazione esistente tra formazione, in particolare quella professionale, e prognosi penale.
Utilizzando un approccio qualitativo, fondato sulle interviste, la ricerca ha cercato di verificare l’ipotesi secondo cui la formazione migliorerebbe la prognosi che l’autorità di esecuzione della
pena (oggigiorno rappresentata dall’Ufficio dei giudici dei provvedimenti coercitivi) considera al momento di decidere sugli alleggerimenti di pena e, infine, sulla liberazione condizionale delle
persone detenute.
Ciò che Valentina ha mostrato in maniera molto chiara è che se in generale la formazione tende a garantire dei cambiamenti alla persona, con un arricchimento di conoscenze e competenze
non solo professionali, ma anche sociali e personali, capaci di determinare una maggiore integrazione socio-professionale, la prognosi penale si fonda proprio su di una richiesta di cambiamento delle persone rispetto al momento della commissione del reato, momento in cui la prognosi è per definizione negativa.
Ecco dunque che il filo conduttore capace di mettere in relazione formazione e prognosi è proprio quello del cambiamento, che per quanto concerne la prognosi penale deve dare una ragionevole certezza all’autorità di esecuzione della pena che una recidiva non si verificherà o avrà scarse possibilità di realizzarsi.
Giustamente, come rileva l’autrice della ricerca, i motivi che conducono al reato possono essere molteplici, non sono sempre facilmente individuabili e rispetto a essi non necessariamente la
formazione può avere un impatto decisivo in termini di riduzione del rischio di recidiva. Tanto per fare un esempio, se i reati sono strettamente connessi ad una malattia psichica, una proposta
terapeutica può forse garantire cambiamenti più decisivi rispetto ad un percorso formativo, che può comunque contribuire a realizzarli.
Per quanto concerne i fattori determinanti ai fini di una prognosi il Tribunale Federale, nella sua prassi, ha sviluppato criteri che corrispondono ai risultati delle ricerche criminologiche più recenti. Per semplicità espositiva citeremo i principali criteri elaborati dal Prof. Volker Dittmann, utilizzati soprattutto nel caso di commissione di reati gravi. I criteri sono: tipo e modalità dei reati
commessi, evoluzione delinquenziale, personalità, competenza sociale, eventuali situazioni di conflitto, confronto con i reati commessi, accoglienza sociale, comportamento dopo i reati.
Come si desume dal breve elenco vi sono aspetti su cui la formazione può solo in parte incidere, ma ve ne sono altri che invece risultano proprio al centro di un percorso formativo.
Durante le sue interviste, in particolare quelle svolte con gli apprendisti in carcere, sono infatti emersi molteplici aspetti che la formazione garantisce in termini di cambiamento, aspetti che
coincidono con i criteri che fondano la prognosi. In particolare gli apprendisti indicano che l’esperienza formativa li ha aiutati a superare l’identità (o etichetta) di detenuto/criminale, a porsi
obiettivi fondati su una quotidianità diversa da quella legata al reato, ad acquisire maggiore fiducia nelle proprie capacità, a dare un senso al periodo di esecuzione della pena, a relazionarsi
con persone “esterne” ed estranee al mondo della delinquenza e del carcere, ad assumere nuove responsabilità (in un luogo, il carcere, che rende inevitabilmente dipendenti dalla struttura e
da chi vi opera) e in definitiva a proiettarsi nel futuro in maniera nuova e diversa, smettendo gli abiti del detenuto/criminale, per indossare quelli del lavoratore/cittadino.
Naturalmente vi sono molti altri modi, oltre alla formazione, per determinare un cambiamento e dunque una modifica della prognosi: un percorso personale, la convinta decisione di non recidivare, una terapia, l’attività lavorativa, ecc.
In conclusione, Valentina ha mostrato come la formazione in carcere costituisca uno strumento fra gli altri per garantire dei processi evolutivi della persona, ma anche per migliorare la prognosi dal punto di vista penale.
Nel ringraziare Valentina per il lavoro svolto e gli apprendisti per la loro partecipazione alla ricerca, non possiamo che terminare facendo gli auguri a tutti i detenuti, studenti e non, per un futuro ricco di soddisfazioni e scevro di ricadute.
Siva Steiner, Ufficio di Patronato
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luned ì nsieme
Cinema dietro le sbarre
L’edificio è imponente. Massiccio e
squadrato. Grigio. Ci arrivi in salita
e, se sei a piedi, col fiatone. Cancelli altrettanto massicci, che devono essere pesantissimi, si
aprono elettricamente. E tu
passi oltre e sei dentro. Prima
di tutto, svuotare le tasche.
Tutte. Tutto ciò che è metallico
o che ti permetta di comunicare
con l’esterno deve essere lasciato lì, in un apposito armadietto. Passi il metal-detector e
sei ancora più dentro. Pareti bianche, prive di qualsiasi decorazione.
Sei avvolto dal bianco. E non ti senti
affatto bene. Cammini in un lungo
corridoio – bianche le pareti, bianco il
soffitto, grigio il pavimento – che pare
non avere mai fine. Mi accorgo di avere il
respiro corto. E mi dico che è logico, è normale: sono in prigione; anche i miei polmoni
se ne sono accorti.
Finalmente il corridoio bianco finisce. L’atmosfera
cambia. Non c’è più il bianco abbacinante e alle pareti ci
sono anche dei quadri. Mi dicono che li hanno dipinti gli
“ospiti”. Sono belli.
Un cancello massiccio: non si apre elettricamente ma alla vecchia maniera, con le chiavi. Cancello aperto. Passo. Cancello
chiuso. Dieci passi e altro cancello. Passo oltre e mi trovo in un
grande cortile, che è un bel campo da calcio. Non fosse per quei
rotoli di filo spinato sulla sommità delle alte pareti che circondano il campo potrebbe benissimo essere il cortile del collegio
dove – un secolo fa – ho studiato e mi sono diplomato. Respiro
meglio.
Ora la mia avventura può incominciare. È una piccola
sfida, almeno per me. Mi hanno invitato, qui al carcere
della Stampa, a tenere un corso di tre giorni sul linguaggio cinematografico. Dovrò spiegare a un
gruppo di carcerati come si “legge” un film: introduzione teorica (la più preoccupante) ed esercitazioni pratiche. Mi accompagnano in un’aula
(un’aula vera!) dove incontro i miei “allievi”.
Sorprendentemente si sono iscritti in molti di
più di quanto ci si aspettava. Sono una ventina e
rappresentano un ventaglio molto ampio di
etnie diverse: ci sono ticinesi, romandi, italiani,
slavi, africani, latino-americani. E il problema
della lingua? Fortunatamente tutti conoscono
(più o meno) l’italiano, e in caso di necessità francese e spagnolo aiuteranno.
Mentre la mia guida mi presenta, io li guardo cercando di cogliere qualche sguardo, qualche atteggiamento che mi consenta di capire come mai abbiano deciso
di frequentare questo corso. Vedo sguardi attenti, sorrisi appena accennati, ma anche atteggiamenti distratti. Quei due giù
in fondo sembrano persi nei loro pensieri. Quei tre a metà sala paiono
molto interessati alle unghie delle loro dita. Quei due in terza fila ridacchiano, chissà perché. La maggior
parte di loro, però, mi guarda con aria educatamente attenta. E ci sono questi quattro che mi puntano gli
occhi addosso come se volessero radiografarmi. D’altra parte è logico: qui mica siamo “fuori”, dove uno
decide se andare o meno ad una conferenza soltanto in base ai suoi interessi; qui siamo “dentro”, qui
siamo in un carcere dove una qualunque occasione è buona per poter uscire un paio d’ore in più dalla
cella, e il manifestare, anche strumentalmente, un interesse culturale può essere una buona scusa. Il
problema non è loro, è soltanto mio, che dovrò cercare di interessarli tutti a prescindere dalle loro motivazioni di base. Ecco perché questa è una sfida. Stimolante.
Inizia la “lezione”, quella più difficile, quella teorica, che potrebbe indurre al sonno i meno motivati innescando un pericoloso effetto domino. Parlo illustro esemplifico con spezzoni
di film famosi. Intervengo a sorpresa con domande dirette “ad
personam”. E l’atmosfera cambia. I due giù in fondo raddrizzano le loro sedie e mi guardano con interesse. I tre a metà
sala tralasciano la manicure e fanno domande, belle domande.
I due in terza fila non ridono più e prendono appunti. E i quattro qui davanti giocano a riconoscere titoli e registi degli spezzoni che vengo via via proponendo a titolo esemplificativo,
dimostrando di essere dei cinéphiles mica da poco. Entusiasmante, a dir poco!
Passa una settimana e li ritrovo tutti per la seconda lezione,
quella pratica. Abbiamo cambiato aula, ora siamo nella sala
computer (sì, c’è anche quella qui alla Stampa) che è meglio
oscurabile. Propongo, in successione, tre cortometraggi graduati su crescente difficoltà di lettura: il primo è a struttura lineare; il secondo è più complesso col suo mescolare momenti
di fiction e di documentario ben integrati; il terzo è addirittura
simbolico e fortemente ellittico. Successo pieno! I miei “allievi” si appassionano, si divertono, ed io ho il mio bel da fare
a mettere ordine nella discussione. C’è vero interesse vivo e
partecipazione attiva. A quanto pare i preliminari teorici sono
stati ben digeriti. Soprattutto c’è una gran bella atmosfera.
Terzo e ultimo incontro. Il test finale: proiezione e lettura di un
lungometraggio. In un primo momento avevo pensato ad un
film classico, strutturalmente abbastanza semplice, ma visto
l’esito della scorsa settimana ho cambiato idea e rischio la visione di “Gran Torino” di Clint Eastwood, un autentico capolavoro complesso, ricco di sfumature, con tematiche forti ed
emotivamente coinvolgente; un gran film fatto di sottigliezze
che si colgono solo analizzando il linguaggio filmico che quelle
sottigliezze costruisce magistralmente.
Durante la proiezione l’attenzione è al massimo. Ogni tanto
parte un commento ad alta voce (ed è comprensibile), che però
viene subito zittito. E alla fine il dibattito, la “lettura”, è semplicemente esemplare. Io rischio l’estasi intellettuale. Hanno
capito tutto e tutti hanno partecipato con gusto.
Quando li saluto è un gran tiramolla di domande e osservazioni – acute e intelligenti – che tendono a prolungare il nostro
stare insieme. C’è la voglia di continuare, di approfondire, c’è
la voglia viva di capire, di conoscere, di discutere, di confrontarsi. Ed io mi dimentico di essere in un carcere, di avere a che
fare con persone che stanno espiando pene per fatti anche gravissimi. Queste sono persone. E basta.
Vale la pena di tornarci in questa strana scuola con le sbarre,
dove il Cinema diventa un momento di libertà interiore.
Gino Buscaglia
Disegno di Carlito
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luned ì nsieme
5
La mia Bolivia
Progetto di scuola professionale
Lo sapevo che all’interno di quella struttura ci avrei passato solo alcune ore, ma ciò nonostante già all’apertura e
immediata chiusura del primo cancello mi sono sentito a
disagio. Dopo la terza e la quarta barriera mi ero ormai
immedesimato nello stato d’animo del detenuto. Seguire i
lunghi corridoi senza finestre, passare davanti alle celle di
rigore mi proiettava sempre più nel mondo della privazione della libertà. Il campetto di calcio intorno al quale si
raggruppano i detenuti nei momenti d’aria è un po’ la metafora di questa realtà; su quest’area la quasi totalità dell’erba è scomparsa e ha lasciato spazio alla terra: il verde,
la speranza, la spensieratezza fuori sui bordi, mentre la
polvere, lo sconforto, le riflessioni, le paure dentro all’interno del rettangolo di gioco.
Mauro Broggini mi aveva invitato a parlare ai carcerati di
una realtà che mi stesse a cuore. Non ho esitato a proporgli una conferenza con diapositive sulla Bolivia. Dopo esserci andato una quindicina di volte questo paese è diventato la mia seconda patria e appena me lo si propone mi è grato mostrare, a chi è interessato, le varie sfaccettature di uno dei paesi più caratteristici e originali del continente americano. A dire il vero in questa occasione ero stato assalito da una perplessità: non era forse una beffa mostrare a dei reclusi gli infiniti e stupefacenti spazi della
Bolivia, i suoi meravigliosi paesaggi?
Ma poi mi è sovvenuto che in quella bellezza accattivante e selvaggia vi è anche racchiusa una storia buia e triste. La Bolivia, nazione di un milione di chilometri quadrati posta
al centro del continente sudamericano, è stata anche lei prigioniera per quasi cinque secoli della sopraffazione di oligarchie senza scrupoli. Prima gli spagnoli, poi le oligarchie
imprenditoriali diedero libero sfogo alla loro bramosia di potere e ricchezza. La Spagna, dal 1545 al 1820, si assicurò abbondanza e capacità egemonica grazie alle 31.000 tonnellate di argento estratte dalle miniere del Cerro Rico di Potosi. Purtroppo furono gli indigeni di etnia Incas e Colla (rispettivamente di lingua quechua e aymara) che pagarono il prezzo di questa ricchezza.
Si calcola che 8 milioni di minatori persero la vita a causa dello sfruttamento inumano da parte dei conquistadores. Non andò meglio con l’avvento
dell’indipendenza nel 1825: cambiarono solo le facce dei profittatori. Latifondisti e proprietari di miniere formarono quelle élites che hanno dominato la vita economica e politica del paese. Se il responso delle urne non premiava le mire delle oligarchie era sempre pronto un colpo di stato
militare per rimettere le cose a posto. In questo campo la Bolivia detiene il triste primato mondiale con 185 prese cruenti di potere da parte dei
militari. Dopo la caduta del Muro di Berlino nel paese entrò prepotentemente in auge il dogma del libero mercato. La promessa era di favorire
sì gli investitori e gli azionisti delle varie società commerciali ma di riflesso anche i poveri. Per un paese che era segnalato come quello
più povero del continente americano dopo Haiti, questa speranza di riscatto sembrava un punto essenziale a favore dell’economia di
mercato. I presidenti neo-liberisti che si sono susseguiti alla testa del governo hanno svenduto praticamente tutti gli averi dello
Stato. Sono aumentati di molto gli investimenti stranieri ma non c’è stata l’ombra di un miglioramento per le classi media
e povera.
L’acme della beffa arrivò con la svendita di due risorse naturali essenziali come l’acqua e il petrolio. Nel 2000 un consorzio
multinazionale guidato dall’americana Bechtel si appropriò della distribuzione dell’acqua nella città di Cochabamba.
Senza investire un dollaro nella rete la Bechtel triplicò il prezzo dell’acqua e escluse dalla rete la metà dei consumatori. La rivolta popolare fu massiccia e corale. Dopo alcune settimane di blocco delle strade e di violenti scontri con la polizia con un corollario di sei morti, la Bechtel dovette recedere riconsegnando alla municipalità il
controllo dell’acqua. Nel 2002 fu il turno del gas di cui si sono scoperte riserve che fanno della Bolivia uno dei
paesi più ricchi di questa risorsa. Il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada decise di privatizzarne lo sfruttamento. Un consorzio internazionale, guidato da una compagnia americana, si appropriò dell’affare, pagando
allo Stato boliviano un prezzo sei volte inferiore alle quotazioni internazionali.
Questa volta la sommossa della gente si estese a tutto il paese. La popolazione non capiva come si potesse
regalare a interessi stranieri una risorsa tanto preziosa facendola passare oltre tutto su territorio cileno (il
Cile tolse nel 1879 alla Boliva, con una guerra pretestuosa, l’accesso al mare). L’ampiezza dei disordini e
della rivolta costrinse il presidente Sanchez de Lozada a fuggire negli Stati Uniti. Le due guerre per l’acqua e
il petrolio hanno di fatto consegnato il paese, in modo democratico, al primo presidente indigeno: Evo Morales. Gli indigeni, che rappresentano il 60% della popolazione, hanno finalmente trovato un leader per il quale
votare e che possa difendere le loro prerogative.
Evo Morales si è subito segnalato per il suo attivismo promovendo una vasta campagna di alfabetizzazione, di attenzione medica
nelle campagne, inaugurando un efficace programma di rinnovamento delle infrastrutture. Queste azioni hanno potuto essere finanziate grazie alle cospicue entrate generate dalla nazionalizzazione delle risorse petrolifere e minerarie. In Bolivia è in atto una
rivoluzione con tutte le conseguenze legate a un tale processo: forti resistenze da parte degli oligarchi, tendenze autoritarie e centripete dei governanti, cadute di stile, incomprensioni. Certe scelte possono essere discutibili, alcuni contrasti eccessivi, ma di sicuro il
paese ha imboccato la strada di un processo storico irreversibile che lo sta liberando dalle catene del passato portandolo, lo si spera, verso un
futuro più giusto e dignitoso. In questo quadro di speranza e di nuove opportunità per il paese si iscrive anche l’azione di Bolivia-Ticino, una Organizzazione non governativa,
che dal 1998 si occupa di finanziare dei progetti nella città di Aiquile, distrutta da un terremoto. In dodici anni di attività, grazie ad una raccolta di fondi che ha raggiunto i 300.000
franchi, le autorità della città di Aiquile, con l’aiuto di una ONG partner boliviana, hanno potuto realizzare tre progetti: una scuola, un centro di produzione e di interpretazione del charango (tipica chitarra del folclore andino) e un’azione di rimboschimento con la produzione, in un vivaio, e successiva messa a dimora di 32.000 alberelli.
Dall’attenzione dei presenti, dalle loro domande così perspicaci e intelligenti ho potuto saggiare quanto fosse importante permettere loro di estraniarsi per un momento da
quel mondo chiuso e consuetudinario che subiscono e hanno meritato. Ricevere informazioni, spaziare con la mente fuori dalla stretta realtà quotidiana rappresenta un appiglio, uno stimolo per migliorare il proprio sapere e per pensare a un dopo, là fuori, più costruttivo e positivo. Terminata la conferenza mi si è avvicinato un prigioniero dall’aspetto di un intellettuale, barba ben curata, occhiali rotondi, con l’accento e la cadenza molto riconoscibili dell’argentino.
Mi ha espresso il suo apprezzamento per il lavoro e l’attività di Bolivia-Ticino in un contesto povero e bisognoso come quello di Aiquile e susseguentemente il rammarico per
aver sprecato parte della sua vita in azioni sconvenienti; adesso la sua aspirazione è di poter fare qualcosa per gli altri, una volta uscito dal carcere.
Siamo rimasti fermi e silenziosi per un momento, uno in faccia all’altro e poi, d’un tratto, c’è stato un abbraccio spontaneo. In quella stretta, che ci ha commossi, ho percepito il riassunto di questa esperienza: mi sono portato a casa un po’ del suo dentro, prendendo coscienza di come il carcere sia luogo di sofferenza ma anche di riabilitazione;
lui è rimasto con un po’ del mio fuori in cui forse potrà trovare qualche spunto per reindirizzare la sua vita.
In questo senso “Lunedìncontro” potrebbe far parte del catalizzatore che aiuti il carcerato a ritrovare definitivamente la parte buona di se stesso e a rifarsi una vita degna e
in sintonia con gli altri.
Alain Morgantini
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Un intero universo, fra quei muri e in quelle menti
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Le origini dell’Universo
Siamo soli?
C’è vita nell’Universo
La prigione: lei sta lì, tu stai qui. Sai che esiste,
ma è fuori dal tuo orizzonte degli eventi. Non conosci nessuno che ci sia finito, se non magari alla lontana, l'amico del
collega del cugino. I media ti informano che Tizio è stato arrestato,
Caio condannato. Ma è una realtà remota: la sparizione in un edificio
distante e impenetrabile, in un mondo altro. Perché la vita, la vita
vera, è qui, fra le persone libere. Libere di parlarsi, scriversi, muoversi, incontrarsi. Dov'è il problema? Non c'è problema. Loro là
stanno là e tu non ne sai niente. In fondo neanche t'interessano, ammettilo.
Poi un giorno qualcuno ti chiede di tenere un paio di conferenze. Le
solite: ci sei abituato. Argomenti che conosci come le tue tasche.
Quante volte? Vai tranquillo. Già, ma… lì, stavolta. In prigione. Per i
condannati. E allora non è più così semplice. Allora da un lato sei inquieto e dall'altro intrigato. Se la curiosità ha sempre mosso le tue
scelte, non puoi lasciarti sfuggire quest'occasione. Così accetti.
L'impatto è sconcertante. Devi lasciar fuori un po' del tuo microscopico mondo. Ok, il coltellino svizzero non va bene: potevi immaginarlo,
scemo che sei. La prossima volta nemmeno lo metti in tasca, uscendo.
Anche il cellulare… niente. Pazienza: lo lasci all'ingresso. Senza poter
comunicare col mondo ti senti un po' nudo, però. Proprio tu, immerso
dentro un ininterrotto flusso informativo… vabbe'. Ma le pastiglie per il
mal di testa… neanche quelle? Niente? Niente.
Entri. Corridoi, scale. Poi scale e corridoi. Poi corridoi. E scale. Poi un grande cortile, un corridoio, infine un'aula. Non una bella sala pulita, ordinata, coi suoi banchi lindi e le
sue sedie tutte uguali. Una saletta di fortuna, invece. E loro. Gentili. Quasi timidi. Ti guardano. Le presentazioni di rito… e poi ti tocca. Devi. Vai.
Le solite cose che sai. Le slide, le immagini, i discorsi. Divaghi un po', come sempre. Però stavolta c'è una differenza: gli occhi. I loro occhi. Non ti si schiodano di dosso nemmeno per un attimo. Tu di pubblici ne hai visti tanti. Entusiasti come i ragazzini delle Elementari, scazzati come quelli delle Medie, interessati come quelli del Liceo. Talvolta
stanchi, come gli adulti nelle conferenze serali: comunque gliela racconti, qualcuno finisce sempre per addormentarsi. Ma qui loro… loro sono diversi. Presenti. Sbracati sulle
sedie, magari, ma presenti. Presenti con la testa. Lucidi. Non fiatano. Assorbono ogni parola. E per te è una specie di esame, ma senza voti, senza promozioni o bocciature. Mai
visto un pubblico così concentrato e attento.
Alla fine, come sempre, il momento delle domande. Alcune, in verità, non c'entrano niente con la conferenza. Ma non ce n'è una che non sia profonda. Magari spontanea, non
meditata. Magari ingenua. Ma profonda. Una fra le tante: "Tu ci hai spiegato com'è fatto il Sole, come produce la sua energia, come la libera, quant'è antico e grande. Ma come
fate, voi scienziati, a essere sicuri di quello che dite?".
E allora capisci. Capisci che l'universo è immenso, forse infinito. Che forse altrove, da qualche parte in quell'infinito, c'è vita. Ma soprattutto che c'è vita lì dentro, in prigione.
Che quel mondo ristretto sa essere altrettanto grande e ricco. E che un giovane omicida sa sollevare quesiti profondi degni di un anziano filosofo della scienza.
C'è un intero universo, fra quei muri e in quelle menti.
Marco Cagnotti
lunedì Cultura
Chiedi chi erano i BEATLES
La musica avvicina
le persone sensibili
Portare la nostra musica alle carceri della Stampa è stato per noi come suonare nel più bello dei teatri, a davanti ad un pubblico amico e pulsante. Le nostra canzoni parlano
dell’uomo, delle sue gioie, dei suoi problemi, delle sue preoccupazioni, dei suoi ideali realizzati o anche solamente sognati ed immaginati.
E alla Stampa abbiamo incontrato persone estremamente sensibili che, pur avendo la loro vita momentaneamente segnata dal loro passato, vivono guardando avanti, per un
futuro diverso. Vivono in un luogo particolare, assieme a compagni che condividono una sofferenza vissuta pensando al proprio ieri e al proprio domani.
Le nostre canzoni evocano sensazioni, ricordi e pensieri che ognuno di noi recepisce in un modo estremamente personale e particolare.
Guardando in viso gli uomini che seguivano il concerto, si capiva quanto essi avessero bisogno di nuovi input per poter liberamente pensare alla propria vita, alle proprie relazioni, alle proprie famiglie, ai propri cari, per poter riuscire a sognare concretamente.
E la musica, suonata con veri strumenti acustici, è un linguaggio che arriva direttamente a tutti noi, fa vibrare in sintonia i nostri pensieri.
Renata ed io siamo grati a tutti voi, per quello che voi avete dato a noi, con la vostra attenzione, la vostra partecipazione, i vostri commenti, i vostri sorrisi e ci piacerebbe poter
ritornare al più presto a trovarvi con le nostre nuove canzoni !!!
Marco Zappa e Renata Stavrakakis
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lunedì Cultura
Impressioni da una conferenza alla Stampa
Andare a parlare di cancro in carcere, sembra di primo acchito un'idea un po' peregrina. Chi, come me, sino a quel momento aveva visto l'istituzione carceraria solo nei telefilm, può pensare che sia assolutamente inutile andare a parlare di un tema non propriamente allegro a della gente, che immagino passabilmente depressa ed incavolata.
Però ho accettato volentieri l'invito, anche perché in ognuno di noi c'è probabilmente una certa curiosità, magari un po' morbosa, di "andare a vedere com'è". E veniamo quindi
subito al dunque... come è stato? Devo dire che entrando alla Stampa, uno ha l'impressione di trovarsi "in un altro mondo": si sente immediatamente tutto il peso, l'isolamento, la durezza della separazione dal resto della società: avevo l'impressione che qualcuno m'avesse "virtualmente" messo un pesante sacco di montagna sulle spalle.
Probabilmente queste impressioni non dipendono molto dalla modernità o dalla vetustità del luogo: è l'istituzione carceraria in sé che, in un certo senso, "ti schiaccia". D'altra parte però ho trovato quasi inaspettatamente veramente un pubblico molto interessato a quanto raccontavo: essendo abbastanza abituato a tenere simili conferenze, ho
imparato anche a "sentire il pubblico". Alla Stampa, di fronte all'interesse di chi mi ascoltava, penso che avrei potuto continuare a parlare per ore. E poi sono stato martellato da una serie di domande: da quelle più pratiche, soprattutto per quanto riguarda la prevenzione e la cura dei tumori, ma anche da domande generali e spesso molto ben
poste. Quest'interesse molto intenso, riflettendoci, mi è poi sembrato meno sorprendente: sono abituato a che ci sia più pubblico e presenti più interessati, se la conferenza
sul cancro la tengo a Cevio o a Faido, piuttosto che a Bellinzona o a Lugano. Sicuramente la rarità degli eventi acuisce l'interesse per simili conferenze. Ma alla Stampa avevo
l'impressione (o forse me lo sono immaginato?) che l'isolamento e la solitudine del carcere avesse acuito in un qualche modo l'interesse e la concentrazione degli ascoltatori. Se qualcuno, avendo ricevuto un invito ad andare a parlare ai detenuti della Stampa, mi domandasse quindi in futuro un consiglio, la mia risposta sarebbe: "Vacci assolutamente, vedrai che uscirai contento". Ed oltretutto penso che ne approfittino e ne siano contenti anche i detenuti che assistono a queste conferenze: magari servono,
anche a diminuire un po' la loro solitudine.
Franco Cavalli
Dipingere dentro - Chi è l’artista?
Pierre Casè
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lunedì Cultura
Il direttore sportivo
Qualche tempo fa, incontrai Mauro Broggini al Grottino Ticinese di Bellinzona.
Dopo un breve saluto mi propose di spendere qualche ora con gli allievi della scuola
In-Oltre per parlare del ruolo del direttore sportivo in una società di calcio e della mia
esperienza a Bellinzona.
Mi piace molto passare del tempo parlando di calcio in occasione di incontri o conferenze e quindi non esitai a dare la mia disponibilità.
Qualche giorno prima della data fissata però, mi resi conto che l’ambiente dove mi
sarei andato a proporre e con il quale mi sarei confrontato sarebbe stato per me una
vera novità e non nego che l’incognita era fonte di incertezza.
In un primo momento l’impatto con la struttura ha lasciato ancora spazio alle mie incertezze e mano a mano che visitavo “La Stampa” la mia situazione non migliorava…
le stanze, le zone comuni, i laboratori, le aule, gli uffici… Ma poi ad un tratto, in modo
del tutto inatteso… la svolta.
In mezzo alle mura interne, uno spazio rettangolare, in terra battuta con sui lati corti
due porte da calcio regolamentari… è vero non è il Camp Nou, ma penso che nella
mente dei ragazzi che si cimentano settimanalmente in combattute partite, quel terreno possa diventare San Siro come il Santiago Bernabeu.
E francamente il vedere quel rettangolo di gioco ha aiutato anche me nell’approccio all’incontro, era uno spazio che conoscevo molto bene, era un qualche cosa di estremamente familiare… e allora andiamo a parlare di calcio.
Davanti a me persone interessate, pronte, vive, appassionate a questo sport fantastico, tifose chi del Milan chi dell’Inter e chi dei club che seguivano sin da bambini nei loro paesi
di origine e che non hanno mai tradito, ed allora il supporter del Porto irride il compagno del Benfica che ha appena perso il derby del Portogallo… fantastico il calcio.
Ho avuto la fortuna di fare della mia più grande passione un lavoro. Ci sono arrivato per caso. Mi chiamarono all’AC Bellinzona per fare una revisione di bilancio. Dopo l’università lavoravo infatti in una società di consulenza e revisione. Eseguito l’intervento di qualche giorno presso il club della capitale del Ticino mi chiesero di fermarmi ancora un po’
di settimane che diventarono mesi e poi anni. Ho avuto la fortuna di lavorare con un gruppo splendido e con dei giocatori di grande valore e grazie a questi elementi negli ultimi
anni l’AC Bellinzona ha raggiunto una finale di Coppa Svizzera, la tanto attesa Serie A ed una storica qualificazione per disputare la Coppa Uefa e grazie ad una squadra che è stata
in grado di sfoggiare grandi prestazioni abbiamo superato due turni di Coppa e per ben due anni ci siamo salvati, restando nella massima categoria del campionato svizzero.
Oggi abito ancora in Ticino, che è diventata la mia terra adottiva, ma dopo ben nove anni sono approdato a lavorare nel Canton Vallese e con l’FC Sion proveremo a fare tutto
quanto nelle nostre possibilità per conseguire dei risultati importanti.
Si riparte con una nuova sfida, interessante, emozionante e speriamo vincente: il calcio è anche questo, ti mette davanti, anche in modo inatteso, delle scelte, che possono
arrivare a cambiare di molto la nostra routine, un po’ come la vita; spero di aver fatto delle giuste scelte.
Con Mauro ci siamo lasciati dicendo che avremmo studiato qualche nuova tematica da sviluppare e proporre all’interno delle conferenze proposte dalla scuola In-Oltre. Intento che sicuramente porteremo avanti. Grazie del tempo che mi avete dedicato e di come mi avete accolto.
Marco Degennaro
Durante gli ultimi due anni ho tenuto varie lezioni
presso il carcere “La Stampa” di Lugano. In questo breve articolo vorrei fare alcune considerazioni e riflessioni su questa esperienza. I miei
interventi duravano di regola circa 2 ore: 1 ora di
lezione vera e propria e 1 ora per le domande e
per la discussione. Partecipavano in media circa
20 detenuti, tutti di sesso maschile. Certo, entrare in un carcere e passare tutte le porte di controllo e di sicurezza fa profonda impressione.
Viene spontanea la riflessione sul valore e sul significato della libertà. La libertà va conquistata,
difesa e meritata ogni giorno della vita umana. E
chi l’ha persa per un lungo periodo si rende conto
di aver perso uno dei valori più alti.
di preparare ed affrontare la futura libertà con
maggiore sicurezza, maggiore motivazione, maggiore competenza e maggiore responsabilità.
Presso il carcere “La Stampa” ci sono senza dubbio ottime premesse di migliorare la formazione:
la direzione e i docenti interni sono motivati e
sono riusciti a coinvolgere dei relatori dall’esterno. I risultati di questi sforzi si potranno
ovviamente misurare solamente a lungo termine.
Importante è che la formazione riesca a ridurre i
casi di recidiva. Ma non illudiamoci, il successo
non potrà mai essere totale. Anche un successo
parziale è comunque sempre un successo, sia dal
punto di vista umano che da quello economicosociale.
Raramente ho avuto di fronte un pubblico tanto
interessato e attento quanto in carcere. I carcerati sono attenti ad ogni frase. Sono critici e intervengono con infinite domande e osservazioni.
Il contatto con una persona che viene dall’esterno
suscita in loro fiducia e forse anche un po’ di speranza. Mentre tenevo lezione mi passavano per
la testa tante domande senza risposta: quale è la
storia di ogni singolo detenuto? che cosa ha fatto?
chi l’ha educato? chi l’ha indotto a delinquere? è
stato amato? che cosa farà quando sarà di nuovo
una persona libera? il mio tema lo arricchirà? lo
aiuta a riconquistare una condotta di vita retta e
serena? la società lo accoglierà? gli darà un’altra chance?
Secondo la mia valutazione l’offerta di formazione ai carcerati è fondamentale. È un vero e
proprio investimento. A Lugano si tratta di un’iniziativa assai recente. Ora occorre raccogliere e
analizzare tutte le esperienze, sia quelle dei docenti, sia quelle dei detenuti. A mio parere siamo
ancora all’inizio, c’è ancora molto da fare e da migliorare. Occorrerebbe considerare ogni singolo
carcerato e valutare le sue potenzialità teoriche e
pratiche. Solo in questo modo si potrà offrire a
ciascuno la formazione mirata che gli permetterà
Sono stato docente per molti decenni e non ho
mai portato una classe di studenti in carcere.
Oggi mi rincresce. Per questo motivo incoraggio
gli insegnanti a voler organizzare qualche confronto tra una classe (p.e. liceo o SPAI) e un
gruppo di detenuti. Per gli allievi sarà una forte e
indimenticabile impressione, e anche una prevenzione. Per i detenuti sarà un’occasione di riflettere sul passato, sul presente e sul futuro.
Saranno spronati a sfruttare gli anni in carcere
per prepararsi ad un futuro migliore.
La formazione nel carcere
Nelle mie conferenze non ho finora integrato
l’esercitazione. In futuro inserirei anche questo
aspetto didattico. I carcerati vanno coinvolti attivamente nelle varie tematiche. La vita in carcere
tende a essere passiva. Per questo motivo bisogna promuovere anche l’esercitazione. Molte di
queste persone scopriranno forse per la prima
volta di avere delle capacità e dei talenti mai immaginati. Per alcuni a livello teorico, per altri a
livello pratico. Tutto questo ridurrà la recidiva e
garantirà a molti esseri umani un futuro più sereno, più felice e più sensato.
Arturo Romer
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La stagione agonistica dei Lugano Tigers del basket si è
così brillantemente conclusa la scorsa settimana con la
conquista di uno storico “Triplete”: Coppa della Lega,
Coppa Svizzera e Campionato Nazionale si aggiungono al
brillante comportamento nella Coppa Internazionale Eurochallenge, culminato con la qualificazione alla seconda
fase conquistata con una storica vittoria per lo sport svizzero a Mosca a inizio ottobre. Per noi è la migliore stagione
di sempre e ripaga tutti, giocatori e persone che lavorano
fuori dal campo, per il duro lavoro svolto.
Uno dei momenti significativi e che i giocatori ricordano
come uno degli eventi extrasportivi per i quali si sono
messi a disposizione è stato quello della visita effettuata,
assieme al dirigente Ferruccio Canonica e al sottoscritto
Renato Carettoni, presso il Penitenziario Cantonale della
Stampa il pomeriggio dello scorso 12 aprile.
(la foto è diritta)
lun edì Cultura
Bel pomeriggio di una delegazione dei Lugano Tigers al penitenziario cantonale della Stampa
I giocatori Mohamed Abukar, Dusan Mladjan e Capitan Derek Stockalper hanno
dapprima mostrato un piccolo saggio delle loro capacità tecniche e poi hanno tenuto una conferenza rispondendo alle più svariate domande da parte degli ospiti
della struttura. Il pomeriggio è stato molto interessante e la delegazione ha risposto (Abukar e Stockalper a un gruppo in lingua inglese e Mladjan, Carettoni e
Canonica all’altro gruppo in lingua italiana), raccontando molti episodi ed aneddoti significativi e stimolanti. Come detto è stato un pomeriggio molto proficuo e
interessante per noi e ancora oggi, a più di un mese di distanza, quando ne parlo
con i giocatori lo ricordano con molto piacere come uno dei momenti significativi
che ha lasciato loro moltissimo a livello di arricchimento delle loro esperienze
umane. Il club dei Lugano Tigers si è sentito onorato di essere stato chiamato a
questa attività nell’ambito del sociale: chi vi ha partecipato si è mostrato molto
motivato ed è senz’altro aperto e disposto a ripetere questo genere di attività.
Renato Carettoni
Lo scorso 2 maggio 2011 ho avuto modo di presentare alla Scuola In-Oltre una relazione sugli squali e sul mondo subacqueo in generale. Il motivo che mi ha spinto a parlare
di squali e altro, è un corso che ho frequentato nell’agosto 2006 a Gansbaai, Sud Africa, tenuto dal Dr. Erich Ritter, direttore scientifico dello Shark Research Institute, Princeton, NJ, USA, famoso ricercatore e studioso di squali. Un’intera settimana dedicata alla scoperta dei predatori più temuti del mare che ci affascinano e attirano da sempre
ma che al contempo suscitano paure millenarie.
Dall’uscita nelle sale del film “Lo squalo 1” di Steven Spielberg nel 1975, esso ci viene presentato come un animale pericoloso che attacca l’uomo senza motivo.
Solo la comprensione del comportamento degli squali ci farà capire che questi bellissimi animali non sono degli spietati assassini, e che essi devono essere protetti prima
che sia troppo tardi.
Noi esseri umani, fondamentalmente non siamo nella loro catena alimentare; solo se noi li provochiamo o disturbiamo nel loro habitat, veniamo attaccati.
Nessuno squalo, nemmeno il grande squalo bianco, ci considera una sua preda.
Siamo invece noi con i nostri
comportamenti a distruggere lo
squalo. Ogni anno vengono pescati 75 milioni di squali (fonti:
Dive for Sharks). Ne vengono
uccisi più di quanti ne nascano.
Lo squalo viene infatti cacciato
per la sua carne ma soprattutto
per la sua pinna: (finning). Lo
shark finning è una pratica illegale che consiste nel tagliare le
pinne ad uno squalo ancora
vivo, per poi rigettarlo in mare.
Lo squalo privo di pinne va incontro a morte certa in una
lenta e atroce agonia. La zuppa
di pinne di squalo è una specialità della cucina cinese, popolare sin dai tempi antichi e viene
in genere servita in occasioni
speciali come banchetti e feste.
La zuppa di pinne viene considerata un alimento di lusso,
simbolo di salute e prestigio
nella cultura cinese.
Di squali e altro…
Ma ricordiamoci che quando gli
squali si estingueranno, i mari
moriranno!
La sparizione dei grandi squali
provoca cambiamenti nella catena alimentare, di conseguenza nell’ambiente e di
riflesso anche nell’uomo.
Regula Gnosca
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Docenti
Dalla stampa alla Stampa:
un insegnante si racconta
Provengo dalla stampa, intesa come giornalismo, e mi ritrovo alla Stampa, intesa come Penitenziario cantonale. Bene, dirà qualcuno: finalmente ti han preso! Già: finalmente mi han preso a insegnare! Ricordo ancora – è passato un anno o giù di lì – il giorno in cui Mauro Broggini (oggi il collega Mauro
Broggini, all’epoca semplicemente un conoscente di vecchia data) mi chiese se fossi interessato
a insegnare in carcere. Interessato? Altroché! Avevo appena messo alle spalle una lunga esperienza professionale: ero dunque interessato a fare qualsiasi cosa, purché onesta e remunerata quel tanto che bastava a non dover girare nei boschi per nutrirmi di bacche e di radici...
Così gli risposi subito di sì. Ma lo feci con grande entusiasmo, e tanto entusiasmo quasi stupì
me stesso.
Certo, avevo già insegnato, un quarto di secolo prima, e da anni sognavo di tornare a farlo: ma
chissà perché (la forza dell’abitudine? la pigrizia? l’idea che a quaranta o cinquant’anni non ci si
possa più rimettere in gioco?) non mi decidevo mai a lasciare il giornale. Ora, finalmente, era
successo: smettevo di fare qualcosa in cui non credevo più, e potevo tornare a fare qualcosa in cui
non avevo mai smesso di credere. Insegnare. Adesso però la cosa si prospettava in termini che non
avevo mai preso in considerazione: insegnare in un carcere. Anni fa, in una scuola di Losanna, avevo
un collega che – scherzando – definiva l’aula in cui lavorava «la mia prigione»: ma nel mio caso sarebbe stata una prigione vera... Eppure la mia risposta fu un sì convinto: l’idea mi piaceva!
È passato un anno, e di questa scelta non mi sono mai pentito. Al contrario! Confesso che, prima di
metter piede per la prima volta alla Stampa, della scuola In-Oltre sapevo poco o niente. Del resto, del
carcere stesso sapevo poco o niente: per trovarlo mi ero dovuto far disegnare il percorso da un’amica.
In compenso mi ero informato su ciò che davvero contava: e tutti gli insegnanti che avevo contattato me ne avevano parlato come di un’esperienza unica. Bene, alla fine del primo anno scolastico
posso dire che avevano ragione.
Dal punto di vista strettamente professionale, la scuola In-Oltre è il sogno di ogni docente: classi
piccole, dove puoi seguire con attenzione ogni allievo; nessun problema di disciplina, visto che
tutti capiscono perfettamente quando è il momento di lavorare e quando si può tirare un pochino
il fiato; e motivazione altissima da parte degli studenti. I corsisti (soprattutto quando si tratta di
adulti, come nelle mie classi) non sono lì per obbligo ma per libera scelta, e hanno una voglia di imparare che a momenti è addirittura commovente. Per dirne una: a italiano, quando si fa un test in
classe, ci sono vere competizioni a chi fa più punti, e tutti vogliono saperne di più, propongono altre
soluzioni, chiedono altri esempi. Si rendono perfettamente conto – me l’hanno detto più volte – di essere dei privilegiati rispetto a molte altre persone nelle loro condizioni: capiscono che questa scuola per
loro è una grande fortuna e una grande opportunità, e non vogliono sprecarla.
Dunque, come dicevo, dal punto di vista professionale In-Oltre è il sogno di ogni docente: ma lo è anche
sotto l’aspetto umano. Il coinvolgimento è ancora più forte che in una classe normale,
dove molti studenti darebbero qualsiasi cosa per essere altrove. Qui, invece, senti
davvero l’attesa che c’è nei tuoi confronti, e la lezione è vissuta con gioia. «Dovremmo fare più ore di storia», mi ha detto un giorno un allievo: «in tutta la settimana sono le uniche due ore in cui facciamo qualcosa di veramente interessante».
Non so per quanti anni lavorerò qui, ma so che questa frase non la dimenticherò mai.
Mauro Euro, docente di storia e italiano
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Pensieri …
Docenti
Dal grigiore metallico della sbarra la mia condizione,
dall’apertura verso l’esterno il mio sogno di libertà
…tutto questo è pesante per la mia vita…
Mancano le belle donne
Mi manca una testa nuova, perché dentro la testa non funziona tutto bene
Il sorriso dei
miei figli
Mi manca il mare
Non voglio più assolutamente entrare un’altra volta in carcere
La voglia di
stare con la
mia piccola
figlia Amira
l mio corpo è
qua, la mia
anima è fuori,
il mio cuore
è libero.
Un giorno
saremo insieme
Apprezzo di
più la libertà,
in questo
momento!
Quando sei fuori, c’è tutto, ci sono tante cose, quando sei dentro c’è niente.
La voglia di
…vedo la mia
Camminare
avere una
famiglia
in un prato
bella famiglia,
un bel lavoro
Quando sei dentro è una merda tutto. I giorni passano piano. Tutti i giorni fai le stesse cose,
meglio trovare qualcosa dove passa più veloce il tempo
Manca la mia famiglia, la libertà di andare in strada, avere un vero lavoro, ...mia moglie mi manca molto!
Michel Candolfi, docente di italiano
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Informatica
Corso di informatica, modulo 305
Siamo i processi “oracoli”, allievi del modulo 305, allievi del docente Massimo “Morpheus”.
Ogni mattina, quando premiamo l’avvio del CPU dobbiamo verificare la disponibilità della scheda grafica e verificare quanta
Ram abbiamo a disposizione per il nostro “Windows”. Tutto questo facendo molta attenzione al nostro input energetico
per dargli un bus al trasferimento dati tra il nostro docente “Morpheus” e la nostra memoria volatile per immagazzinare
i dati nella nostra cartella condivisa. Dobbiamo aprire il pannello di controllo e fare un setting al nostro monitor senza perdere di vista il kernel, il quale riceve vari input dai diversi Users. Questo succede simultaneamente all’allacciamento alla
Matrix-rete. Ad un certo punto facciamo una sospensione mettendo in ibernazione il CPU, ci somministriamo la nostra
dose di bites caffeina e di giga nicotina.
Cambio di dimensione.
All’ultimazione di questa ibernazione il nostro Morpheus ci comunica che dobbiamo fare un “F8” per selezionare la nostra
nuova realtà, così “UBUNTU” fa la sua apparizione. In questa nuova matrice il linguaggio binario prevale su tutti gli altri. Per cominciare ci trasformiamo in root con un “sudo –i”. Il nano interviene per fare una connessione remota e ci applica un “/etc/network/interface”. Il tutto
senza aiuto grafico il che velocizza ogni operazione ma rende ogni cosa più complessa.
A questo punto dobbiamo indossare i nostri nuovi abiti digitando “strings” ma facendo
molta attenzione a non digitare “rmdir” che rimuoverebbe ogni directories dalle nostre menti. Tutto questo è magnetizzato in una traccia di un settore dei nostri hard
disk. Per ritornare alla cartella superiore dobbiamo fare un “cd ..” e, una volta raggiunta, digitiamo un “gedit” per modificare ogni cartella in modo che il “DD”, cervello
dei nostri nemici virtuali, non riesca ad individuare le nostre tracce. Va ricordato che il loro scopo è quello di spegnerci definitivamente con un
“kill -9 pid_oracoli”. Se questo dovesse accadere sarebbe comunque possibile, per Morpheus, riattivarci. Comunque, va ricordato
che siamo i “t:/” o “sudo –i”, amministratori di noi stessi.
Dopo quanto evidenziato sopra, in formato “.txt”, consigliamo a
tutti i nostri lettori di mai scrivere su Ubuntu (S.O.) la parola
“format C:/f” seguito dal famigerato tasto “Enter”. In caso
contrario dovremo ricominciare il tutto con la disperazione
del nostro Morpheus.
Se vuoi capire di più del nostro linguaggio Matrix ti consigliamo di lanciarti nel nuovo viaggio virtuale che comincerà il prossimo settembre. Sperando di
avere nuovi software e S.O. per poter essere più potenti ed efficienti ti aspettiamo.
E ricorda… sei parte della Matrix!
≠
Massimo-Morpheus, Papi-Trinity, Marco-Cyber, Sébastien-Neo, Giancarlo-Tank, Lorenzo-Switch
Massimo Sartori, docente di informatica
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a
c
i
t
a
m
r
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In f
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Dalla scuola al posto di lavoro con l’informatica
Anche quest’anno il lavoro svolto mi ha permesso di ricevere attestazioni di gratitudine e, sebbene sia aumentato il lavoro amministrativo, di portare a termine diversi progetti e di pensarne di nuovi.
L’anno scolastico 2009/10 aveva visto la crescita dei moduli di formazione ECDL
con la relativa certificazione dell’aula quale centro competente per il rilascio delle
patenti informatiche.
L’anno scolastico 2010/11 ci ha permesso una continuità e una stabilizzazione
delle ore di formazione erogate e 5 nostri corsisti sono stati certificati avendo brillantemente superato gli esami.
I corsi di base sono sempre seguiti da una buona parte della popolazione carceraria che approfitta dell’aula e delle varie lezioni per imparare ad usare il mezzo
informatico. Quest’anno siamo riusciti ad organizzare corsi di Windows (moduli
ECDL 1 e 2), Word (modulo ECDL 3) ed Excel (modulo ECDL 4) e per la prima volta
siamo riusciti a partire con una formazione in Access, che ci ha portato a costruire,
grazie alle capacità dei corsisti, due database.
Il primo è un programma che ci potrà permettere di gestire la biblioteca interna e
quella presso lo spazio multidisciplinare in sezione aperta, in modo autonomo. Il secondo programma è stato pensato per la gestione di associazioni sportive e con la
possibilità di gestire la sua struttura tramite il sito internet dell’associazione stessa.
Sono in continuo aumento le richieste per le videoconferenze che offrono la possibilità di comunicare con la famiglia in qualsiasi parte del mondo.
Sono stati sostituiti anche i PC di tutte le altre aule con dei mezzi più performanti.
L’aula apprendisti ha a disposizione 6 computer comunicanti con scanner e stampante, stessa cosa per l’aula minorenni alla Farera. Questo permetterà una migliore integrazione tra l’informatica e le conoscenze professionali, specialmente
nella costruzione di documenti di presentazione dei lavori semestrali e annuali.
In ambito informatico, molte cose sono cambiate in questo anno. In effetti dall’inizio del 2010 abbiamo voluto dare la possibilità di locare dei computer che possono
essere utilizzati sia per svago sia come mezzi di lavoro. Il tutto sempre nell’ottica
di fornire gli strumenti per un migliore reinserimento sociale e professionale. Questi mezzi sono quindi a disposizione e regolamentati sia al fine di assicurare la preparazione agli esami ECDL, sia di disciplinare il corretto uso dei sistemi informatici.
Non solo all’interno ma anche presso la sezione aperta, con l’inserimento di due
computer adibiti alla ricerca di lavoro e alla costruzione di candidature professionali, abbiamo inserito nuove possibilità di utilizzare l’informatica.
L’apertura dello spazio multidisciplinare ci ha dato, inoltre, la possibilità di pensare a futuri progetti di integrazione. Per questo stiamo cercando di coinvolgere il
maggior numero di partner radicati sul territorio che ci offrano la possibilità di inserire manodopera all’interno di aziende. Nuovi progetti in questo senso sono al
vaglio per offrire una formazione o un coaching nella futura ricerca d’impiego.
Mauro Ortelli, docente di informatica
My Own Prison
Un recinto, una zona ben delimitata e molte persone con tante storie, dure, surreali, a volte pure simpatiche, ma sopra ogni cosa, con tanto da raccontare.
Il mio primo anno d’insegnamento per il progetto Scuola In Oltre presso il carcere
giudiziario della Stampa è stata un’esperienza a livello umano unica nel suo genere, che mi ha permesso di ricevere moltissimo dal lato sociale e comprensivo.
Entrare in un ambiente circoscritto e recintato, pieno di limitazioni, è già per sè
un’esperienza avvincente, ancor di più quando si è messi alla prova, dovendo gestire diverse persone con diverse culture e provenienze.
Questa mia prigione, come dice il titolo di questo piccolo scritto, è stata fonte di
grande riflessione personale. Di quanto possa essere semplice e scontato pensare di non sbagliare mai o superare i limiti a noi concessi, ma soprattutto di
quanto sia difficile riuscire a staccarsi dai nostri luoghi comuni… Come quello che
chi sbaglia non ha diritto ad esempio di cercare di ricominciare
per fare meglio.
A mio modo di vedere, e ne ho avuto una splendida conferma tramite quest’esperienza, in questa nuova società del terzo millennio lo sport è un ottimo mezzo (si può dire moneta di scambio?)
per permetterci di evadere un istante dalla realtà, di riprovare
magari sensazioni assopite dal rimorso o dalla carcerazione,
come la gioia di vincere una sfida o l’amarezza di perdere una partita all’ultimo istante. Uno sport che stimola, che piace a questi
ragazzi che hanno partecipato con tanta tanta motivazione e impegno a queste particolari lezioni di educazione fisica.
Vi ringrazio di cuore per questa bellissima esperienza.
Nicola Decarli, docente di educazione fisica
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Moduli di formazione
Quest’anno mi è stato proposto di ripetere il corso “la cura degli spazi comuni”
presso il penitenziario la Stampa di Lugano.
Ho accettato subito visti la buona riuscita, l’apprezzamento da parte dei corsisti
e la mia esperienza positiva sia professionale che umana dello scorso anno.
Per quanto riguarda il programma d’insegnamento, in accordo con la
direzione del penitenziario ed il responsabile degli scopini, ai quali è
destinato il corso, si è deciso di raddoppiare le lezioni rispetto allo
scorso anno e dividerle in cinque incontri teorici e tre pratici, trattando le seguenti tematiche:
Le conoscenze di base della pulizia
La sporcizia non aderente
La sporcizia aderente
Igiene e pulizia
Pulizia dei sanitari
Pulizia del mobilio
Pulizia dei vetri e dei pavimenti
Gli “scopini” hanno reagito bene alle lezioni,
hanno apprezzato il materiale didattico da me
proposto ed ho notato una buona collaborazione tra di loro, aspetto che mi ha colpito in
modo positivo.
Sempre dal lato professionale ho avuto una buona impressione e sono rimasto soddisfatto dalla loro partecipazione, anche
da parte di coloro che hanno dimostrano delle difficoltà nel capire la
lingua italiana, difficoltà che sono scomparse nelle lezioni pratiche.
Dal lato umano posso dire che durante quest’esperienza ho legato molto con i detenuti, come era già successo l’anno scorso, scoprendo in loro un lato che non mi sarei
aspettato di trovare.
Vito De Vito, docente di conoscenze professionali
La mia gratitudine
Impressioni...
Squilla il telefono… l’ormai conosciuto numero dell’amico Michel appare sul mio iPhone,
da anni collaboriamo molto intensamente nella formazione delle pulitrici/pulitori di edifici. Mentre rispondo tolgo il cappello dell’imprenditore e metto quello di presidente dell’Associazione Imprese di Pulizia e Facility Services del Cantone Ticino. Tuttavia la
telefonata è volta ad una richiesta apparentemente strana: partecipare ad una lezione di
“pulizia” presso lo Stampino… Avevo sentito parlare di alcune formazioni che venivano
svolte dai detenuti ma mi sembrava un mondo lontano. Invece il 7 di marzo eccomi sul
piazzale antistante l’entrata delle carceri.
Nei giorni precedenti alcune domande si facevano strada nella mia mente: come mi devo
comportare? cosa dovrò dire? chi vedrò?
Per fortuna le pratiche d’entrata, lo scambio d’esperienza con i miei accompagnatori e le
spiegazioni del vice direttore hanno sciolto di molto la tensione iniziale.
Attraversato l’ultimo controllo eccoci nel cortile dove incrocio le prime persone che mi
tolgono definitivamente ogni apprensione salutandomi cordialmente (per nulla scontato)
ed addirittura rivolgendosi per nome alle persone che erano con me.
Nel tragitto mi vengono spiegate le varie ali e piani della struttura carceraria ma se non
vedi è difficile capire: un corridoio, un locale servizi, un locale pausa e 10 camerette con
la porta blindata… non è la scena di un film!
Possiamo certamente immaginare qualsiasi cosa, al di là di ogni colpa c’è comunque un
essere umano con il suo “fardello” da portare ma ho trovato tutti, indipendentemente dal
colore della pelle, dalla nazionalità, dalla lingua parlata, con la voglia di fare qualcosa. Sicuramente tifo per il settore che rappresento e malgrado questo ho trovato realmente
delle persone interessate e motivate a svolgere un’attività a prima vista umile o addirittura denigrante. Durante la lezione vi era partecipazione attiva e nell’esecuzione pratica
sono pure giunti suggerimenti concreti e validi allo svolgimento del compito. Il rispetto
degli spazi usati da tutti ed in particolare il proprio, pur essendo particolarmente esiguo,
era molto palpabile. Malgrado non fossero presenti i mezzi più moderni per ottenere il
“pulito” sono riusciti anche a raggiungere un risultato finale degno e gratificante.
Forse nella vita di tutti i giorni, dando un po’ la colpa alla fretta o cercando altre “scuse”,
è più facile non notare le qualità dei lavoratori, ma grazie a queste poche ore trascorse in
un ambiente non certamente quotidiano ho potuto riscoprire il piacere di cercare dei lati
positivi in ognuno di noi.
Paolo Thoma, presidente Associazione Imprese di Pulizia del Cantone Ticino
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Moduli di formazione
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Condividendo un pranzo…
Devo premettere che è stata la mia prima esperienza presso la struttura de “La Stampa”.
La prima visita vera e propria è stata per l’organizzazione del corso e la visita dei locali per prendere coscienza
del materiale con cui avrei dovuto lavorare. Non conoscevo assolutamente niente dell’ambiente carcerario. Sono
rimasto subito colpito dalla sicurezza, l’altezza dei muri, il filo di protezione, le guardie, le doppie porte chiuse, il
lungo corridoio… benché libero, avevo l’impressione di essere anch’io chiuso all’interno di questa struttura.
Non nascondo che mi sono presentato alla prima lezione assai nervoso, con un velato senso di panico! Per la
prima volta mi confrontavo con allievi adulti, tutti di cultura diversa, e, fatto non trascurabile, “detenuti”. Non che
la cosa mi infastidisse, ma non sapevo bene come comportarmi, cosa pensavano, cosa si aspettavano e quali fossero i loro interessi riposti in questa esperienza. I timori si sono dissolti immediatamente. Il gruppo si è rivelato
simpatico e dinamico, interagendo con molte domande.
All’interno del gruppo si è formato un buon clima, molto spiritoso. Riporto un esempio che mi sembra simpatico.
Si parlava dell’alimentazione per sportivi. Parlando di questo tema ho fatto l’esempio di come io vado in bicicletta
e dei miei itinerari. Da parte loro mi hanno fatto notare che loro in bici non vanno molto lontano!
Una difficoltà oggettiva per la tenuta del corso è stata rappresentata dalla cucina, che si presenta piccola e con
pochi attrezzi… in sostanza una cucina casalinga! Un dettaglio non da poco che mi ha sorpreso è stato di non
avere a disposizione coltelli, solo quelli da tavola. Per un cuoco è chiaramente un handicap non da niente, ma ce
l’abbiamo fatta ugualmente. Purtroppo per cucinare seriamente eravamo tanti, non tutti hanno potuto partecipare
alla preparazione dei piatti. Per contro, a pranzo tutti hanno trovato il loro posto a tavola. Era molto piacevole.
In conclusione devo riconoscere che mi sono trovato molto bene con loro avendo avuto un buon rapporto. Come
ringraziamento, mi hanno ricompensato lasciandomi dolci e una torta da provare. Regali preparati direttamente
da loro durante la settimana. Con me hanno voluto condividere un po’ della loro vita facendomi visitare una cella
e spiegandomi come ci trascorrono il loro tempo, parlandomi dei loro famigliari, ecc.
Questa esperienza mi porta a una riflessione personale. Differenziando ovviamente la tipologia di reati e cosciente
che attualmente non esista ancora un'altra soluzione praticabile, nutro forti dubbi sull’efficacia della reclusione,
togliendo quindi la libertà e separando queste persone dalle loro rispettive famiglie, per chi si è reso colpevole
di reati minori.
Yves Bussi, docente di conoscenze professionali
Un menù particolarmente apprezzato dai corsisti
Petto di pollo in crosta ai funghi
Pera al caramello con gelato vaniglia
10 piccoli petti di pollo
15 mezze pere sciroppate
2 pz scalogno
200 gr zucchero
500 gr champignons
5 dl panna
1 mz prezzemolo
50 gr burro
10 fette di fontina da 20 gr
10 fette o palline gelato vaniglia
1 dl olio oliva
Sale, pepe
10 foglie pasta brick
Salsa per arrosto (fondo bruno)
2 kg di verdure diverse ( carote, zucchine, peperoni, fagiolini, cavoli rapa, romanesco, ecc.)
Condire e colorare velocemente il pollo nell’olio. Fare rivenire lo scalogno nell’olio, aggiungere gli champignons sminuzzati e saltare velocemente. Disporre sopra il pollo con
il prezzemolo tritato e la fetta di formaggio. Avvolgere nella pasta brick.
Cuocere nel forno a 190C°
Colorare leggermente le mezze pere tagliate in due nel burro e aggiungere lo zucchero. Caramellare lentamente poi aggiungere la panna. Fare bollire una volta e
disporre sul piatto. Accompagnare con gelato vaniglia.
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Nel mese d’agosto 2010 ho ricevuto una proposta di lavoro che ad oggi definirei “una bellissima
esperienza di vita” e metterei in secondo/ultimo piano l’accezione “lavoro”.
Non ho mai risposto in modo così veloce e sicura ad una offerta di lavoro, infatti alla domanda “ti
piacerebbe svolgere delle ore di insegnamento in carcere?” ho risposto immediatamente sì. In
quell’istante dentro di me ho sentito una grande felicità, un’emozione inspiegabile. Mi sono chiesta cosa mi stava succedendo, normalmente ci impiego del tempo a decidere se accettare o meno
nuovi progetti o almeno mi soffermo a riflettere sui lati positivi e su quelli negativi, poi, e solo allora, prendo una decisione. È pure vero che nei giorni seguenti dentro di me sono sorte mille domande, ma l’emozione sentita al momento della proposta le ha dissolte tutte.
Oggi, dopo otto mesi, ho capito l’origine di quella sensazione di felicità: era il mio cuore che parlava e che mi suggeriva senza ombra di dubbio di accettare.
Cosa faccio nella scuola In-oltre?
Insegno a cucire – sartoria – alle donne in attesa di giudizio; il fatto che siano in attesa di giudizio comporta che le donne/allieve variano durante l’anno scolastico e che non sono a conoscenza
del numero di lezioni che svolgeranno con me, di conseguenza quando le saluto lo faccio come
se fosse l’ultima volta che le vedo.
Quando ho preparato gli obiettivi, li ho preparati ragionando con la mente di una docente ma ogni
giorno che passavo con queste signore mi accorgevo che i miei obiettivi, scritti ad agosto, non
erano corretti.
I miei obiettivi si basavano sull’apprendimento e sulla qualità, col tempo ho invece compreso che
queste donne hanno bisogno di ben altro che va molto oltre l’apprendimento. Ho capito che per
loro le ore che passano con me sono ore di “libertà”, se così le si può definire. Alcune signore arrivavano a lezione con le lacrime agli occhi perché non stavano bene, perché erano un po’ depresse e durante le ore di creatività questo dolore si attenuava e sul loro viso tornava un timido
sorriso; purtroppo come finiva la lezione la tristezza tornava a segnare i loro volti. Più volte ho notato questo cambiamento e riuscire a far passare loro gli occhi lucidi, implicava farli venire a me,
ma erano lacrime di felicità. Durante la mia attività in carcere, io per loro non sono un’insegnate
bensì la persona che porta loro un attimo di felicità, di svago.
Ad oggi i miei obiettivi sono completamente cambiati, la mia lezione si basa sul creare, realizzare
vestitini, accessori per loro stesse o per i loro bimbi e non importa se non sono di ottima qualità,
Lavori creati durante le lezioni
Donne
La mia prima esperienza d’insegnamento in carcere
Disegno di Uzo
l’importante è trasformare un pezzo di tessuto in qualcosa che dia spensieratezza e magari un po’ di felicità.
Una domanda che mi ponevo prima di iniziare questa esperienza era: “riuscirò a
essere me stessa con queste donne, riuscirò a trattarle come allieve qualsiasi?”
Non ho mai avuto a che fare con persone che si trovavano in carcere e mi chiedevo
se questo avrebbe influito sul mio modo d’essere. La risposta mi rende molto fiera di
me stessa: sono delle persone come me anche se nella vita hanno fatto degli errori
e se devo essere sincera mi ci affeziono pure.
In questo percorso ho pure incontrato mamme con bimbi piccoli che vivono
in carcere con loro; questa esperienza mi ha regalato tanto sotto l’aspetto
mamma-bambino. Io non sono mamma ma da osservatrice ho visto
quanto un bimbo possa rendere più fragile o più forte una donna, e
tanti altri meccanismi che non avrei mai potuto vedere o capire se
non grazie a loro.
Sono tante le cose che vorrei scrivere per farvi partecipi alla mia esperienza ma termino chiedendovi
“cosa è per voi la libertà?”
Io dopo questi mesi ho ampliato la definizione: libertà di pensiero, libertà d’amare, libertà di dormire o riposare, libertà di scelta, libertà di scelta non solo lavorativa o di studio, ma totale. Non
avevo mai pensato alla libertà intesa come cosa mangiare o meno, per me era una libertà scontata; dopo le prime chiacchiere con queste signore ho capito che ci sono delle libertà cui noi nemmeno pensiamo.
Bisognerebbe soffermarsi un po’ di più su cosa sia realmente la libertà e apprezzarla fino in
fondo, questo porterebbe maggior rispetto per le altre persone e per il mondo nel suo globale.
Concludendo voglio ringraziare tutte quelle persone che hanno creato la “Scuola In-oltre” e ringraziarle per avermi dato la possibilità di insegnarci.
Avete creato una scuola in carcere per aiutare chi è recluso, ed è una cosa grandiosa ma nel contempo avete regalato delle emozioni indescrivibili ed una crescita personale a noi docenti.
Una scuola in cui non apprende solo lo studente ma anche il docente!
Prisca Cattani, docente di attività tessile
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Sono
quasi 3 mesi dal giorno che mi
hanno arrestato, stando in questa situazione ho capito le cose importanti della mia vita.
Dentro di me so che ho sbagliato, che il mio sbaglio ha fatto
soffrire le persone che amo di più al mondo, i miei bambini.
Sono loro che lo sentono di più di tutto questo è vero che quando mi
vengono a trovare, davanti a loro sono la loro mamma che li fa ridere
e scherzare e a volte li sgrida per qualcosa che non devono fare.
Però quando termina il tempo che è piccolo e li vedo andare via, mi sento
una bambina che si chiude in sé stessa. Anche se non lo faccio vedere a
nessuno soffro tantissimo, però così sto imparando che gli sbagli si pagano e cercherò di non sbagliare più. Perché allo stesso tempo mi sbaglio
e soffrono le persone che mi amano e alle quali non voglio fare del male.
I primi giorni sono stati più duri, però dopo 50 giorni sono andata a scuola,
ho conosciuto 3 persone meravigliose che sono i nostri insegnanti.
Con il Malù ho imparato a disegnare, cosa che non ho mai fatto, io stessa mai
mi sarei immaginata di farlo.
Poi abbiamo la Prisca: con lei ho imparato a fare dei bei vestiti per le mie
bambine.
Anche Mauro è il nostro insegnante di italiano.
Poi ci sono le persone che vengono a trovarci anche se loro non sono obbligate lo fanno volentieri.
E ringrazio tutti loro perché mi fanno passare delle ore meravigliose.
Specialmente questi 3 maestri che nonostante io sia una detenuta per
loro sono un essere umano e cercano di farci felici. E ci fanno dimenticare che siamo qua.
Mi è servito questo periodo per riflettere?
Si, ho capito che la libertà è importante nella vita di una persona, spero di non sbagliare più.
Perché le persone che mi stanno accanto non
se lo meritano.
Brighithe
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Testimonianze
donne
Disegno di Morena
Sono
6 lunghissimi mesi, qui
nella Farera, è un carcere per me
molto duro, almeno per la mia poca esperienza, in un carcere, stare lontano dai miei figli,
mio marito, per me vuol dire morire.
Mi sono sentita abbandonata da tutto il mondo, quando in
realtà non è proprio così, io posso solo ringraziare il signor
Mauro Broggini, che ci ha dato la possibilità di poter fare delle attività con persone come me problematiche per poter affrontare la
vita con serenità e armonia. Infine la mia detenzione qui è servita
soprattutto a farmi comprendere che nella vita si può vivere anche
con pochissimo, l’importante è trovare la serenità con sé stessi e con
gli altri.
Socializzare con altre persone, e scoprire i problemi di ognuno mi
ha fatto comprendere che tutti i problemi si possono risolvere
anche con piccoli sacrifici di riflessione prima di agire.
Con una piccola riflessione riesci a dare ancora un senso alla
vita e capire quanto sia preziosa la vita, oltre queste mura.
Ringrazio con tutto il cuore il signor Mauro, Malù, Prisca,
Nicola, Massimo , che hanno creduto in me, dandomi
fiducia e conforto in ogni senso.
Disegno di Jacky
Da due mesi
sono rinchiusa alla Farera e
anche le lacrime e la tristezza mi avvolgono in queste quattro mura. Sento la
speranza della libertà.
So che sto pagando uno sbaglio che ho fatto. Ringrazio Dio per darmi la forza per sopravvivere in questo posto.
Ringrazio il signor Mauro Broggini per darmi la possibilità di partecipare a vari corsi.
Uno di questi corsi che mi è piaciuto, e sto imparando il
cucito e pittura, lo facciamo con il signor Malù e la signora
Prisca.
Sono grata a loro e agli altri docenti che vengono a
farmi imparare delle belle cose.
Io penso che mai, mai dimenticherò ciò che ho
vissuto.
El segnor meu pastor nula mi mancara.
Sabrina
Disegno di Jacky
Kein
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Riflessioni/Testimonianze
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Attività didattica sul tema
“Il mio sole”
di Malù Cortesi
Sara 15 anni
Elena 15 anni
Un incontro
Come sono felice
con la mia pallina di feltro,
in bilico su tre dita
davanti ad occhi luminosi
d’insospettata felicità.
Sorpresa volgo lo sguardo
verso l’improvvisa voce,
e avvicinandomi
sprofondo nei suoi occhi:
l’intrecciarsi di sguardi
segna l’incontro insperato!
Non siamo più estranee
in questo locale
invaso di luce e colori;
sgorgano parole
e racconti di vita vissuta
che nemmeno il pianto del
bambino
supino sul tappeto
riesce a scalfire.
Vanessa 13 anni
Tutte le nostre creazioni
si dispongono in luminosa prospettiva,
simile a una lunga via
verso la porta del riscatto
e dell’agognata libertà.
Ma un gelido tintinnio di chiavi
annuncia la conclusione
del nostro stare insieme:
i visi delle donne si piegano,
chiusi su se stessi,
come maschere consunte
dalla triste vita di sempre.
Paola 16 anni
Debora 13 anni
Un affettuoso abbraccio
segna il distacco,
e mentre le donne dimesse
percorrono il lungo corridoio
scomparendo nella gelida
porta,
assaporo su di me
il sentore della loro stretta
che non mi abbandonerà
per tutto il tempo che mi separa
dal prossimo atteso incontro.
Valeria Tramèr-Fornera,
docente di cultura generale
Un sogno
Susanna, adulta
Simona 14 anni
“Ho 17 anni, sono in prigione,..., sogno di rendere la mia vita un’avventura... Ho
un sogno, il sogno di diventare un uomo, di poter fare scelte con la mia testa ... Il
mio sogno è quello di non essere una persona normale, di essere qualcosa in più...”
Questi, sono i pensieri di un minorenne che ho incontrato durante il mio percorso di
docente nella scuola In-Oltre. Parole che segnano e fanno riflettere sulla realtà che
vivono questi ragazzi.
Una realtà fatta di sogni e di speranze, dove si lascia il posto all’avventura, al giorno che
arriva, dove si vive di futuro e poco di presente. Queste righe sono state scritte in
carcere, luogo in qualche maniera "protetto", che ripara dagli eccessi, dagli errori e che
probabilmente permette di "rientrare" dentro se stessi e mettere da parte, almeno per un
attimo, le paure.
Questi ragazzi cercano forse di raggiungere obiettivi impossibili? Cosa vuol dire “essere
qualcosa in più”? Domande che difficilmente trovano una risposta. Se non quella che
questi ragazzi a volte si trovano a compiere dei gesti sconsiderati proprio per “darsi” un
senso, un importanza che altrimenti difficilmente riuscirebbero a costruire.
Qual è il mio ruolo di docente? È la domanda che spesso mi sono posta. Credo che il
mio compito sia quello di accompagnarli attraverso l’esperienza, a riconoscere la realtà
che li circonda. Io posso dar loro alcuni strumenti in più affinché, quando l’ambiguo
“portone” oppressivo ma anche protettivo si riaprirà, avranno qualche possibilità in più di
cavarsela, senza ricadere in situazioni violente troppo spesso a quell’età frutto della
disperazione. La mia presenza è quel sottile filo che lega il loro vivere una situazione
irreale, cioè il dentro, con la quotidianità che sta “oltre” le sbarre. Questo è possibile
farlo attraverso lo stare assieme, lavorando, parlando e condividendo privilegiati momenti
di reciproca conoscenza. Non da ultimo la mia materia mi permette di tenerli agganciati
ad una realtà conosciuta e allo stesso tempo, permette loro di imparare a rendersi
autonomi anche nelle piccole cose di tutti i giorni, guadagnarsi con piccoli gesti i primi
passi verso una libertà... il sogno di diventar grande!
“Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e
più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e
portati in alto dalla statura dei giganti.” (Bernardo di Chartres)
Francesca Bernasconi, docente di educazione alimentare
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20
Mi chiamo Anderson e sono nato il 13 gennaio ‘83 a Santo Domingo nella Repubblica Dominicana, ricordo
mio padre come una persona semplice e un gran lavoratore con grande senso di responsabilità. Mia
mamma è la classica donna di casa che si occupa della famiglia, della mia educazione e quella di mia sorella insegnandoci i principi che per tante ragioni noi dimentichiamo, come è capitato a me.
Da piccolo ero un bambino perseverante e sognatore, cercavo sempre di seguire i miei sogni
in modo che si realizzassero. Già da giovane mi dedicavo allo studio con una grande passione
per lo sport, nel crescere verso i 15 anni tutto questo diventava più serio, in quel tempo il mio
allenatore e manager hanno chiamato la mia famiglia, per parlarle del mio futuro come professionista nel Baseball. Questa era la mia prima decisione più importante della mia vita,
che era decidere di lasciare la mia scuola dove erano i miei amici, e la mia vita, e la mia vita
fino a quel momento. Avrei dovuto decidere di iniziare la mia carriera per diventare un
professionista, o tornare a scuola con i miei compagni e amici dove ero stato fino a quel
momento. Dopo che mi sono preso del tempo per pensare ho deciso di cambiare scuola
per conciliare lo studio e la strada come professionista del Baseball.
Ho ricevuto varie offerte di squadre di professionisti, cosa che non ho accettato
fino al 2005, quando ho ricevuto un’offerta da parte del team Smarlin della
Florida. In quel tempo io continuavo nei miei allenamenti nella speranza
che il 15 ottobre 2005 avrei firmato il contratto con la squadra per diventare titolare. In quei giorni pensando già di essere titolare della
squadra e senza avere firmato il contratto ho comprato una macchina,
e una sera di quel periodo andai a una festa di un mio caro amico che
faceva il modello. Inconsciamente consumai diversi alcolici che mi portarono ad avere un incidente con la macchina, in cui mi lesionai le gambe.
Per questa mia imprudenza il 12 ottobre 2005 misi in pericolo la mia vita
ma anche la mia carriera come giocatore professionista di Baseball. Questo fatto accadde alcuni giorni prima del momento in cui dovevo firmare il
contratto con la squadra. Questo è stato un momento troppo difficile per
me, perché mi ha cambiato la vita visto che il Baseball era troppo importante, e quando mi è capitato tutto questo non ho smesso di seguire
i miei sogni e una nuova meta.
Dopo aver recuperato le energie nel 2006 per quello che è accaduto ho
continuato l’università. Nel 2007 ho partecipato come mister modello
dell’anno e sono arrivato primo finalista per il titolo di mister continente:
in seguito sono andato con un’altra modella in Colombia, dove ho partecipato al concorso Parega model internacional Colombia. Dopo di questo nello
stesso anno ho partecipato a un reality televisivo che non è arrivato alla fine, perché è stato sospeso. In seguito ho partecipato a mister Repubblica Dominicana e a mister universo per il 2007/08.
Dopo queste esperienze la mia vita è cambiata ancora, nel senso che ho conosciuto una ragazza, e questa mi aveva prospettato a un futuro insieme con lei, e un matrimonio: così arrivai in Svizzera. Quando arrivai qui io non avevo lavoro e naturalmente io dipendevo da questa
ragazza finanziariamente, nel tempo mi rendevo conto che nascevano dei problemi, e decisi di
tornare a Santo Domingo. Naturalmente la mia ragazza non me lo permetteva e iniziarono una
serie di problemi, ma sapevo che il mio rientro non era facile, riprendere la mia vita a Santo Domingo, perché avevo perso tutti i contatti che avevo.
In precedenza io nel mio paese lavoravo e non mi mancava nulla ma essendo ambizioso cercavo sempre
il meglio per il mio futuro. Nel frattempo io mi sono separato da questa ragazza, e mi sono cercato uno
spazio tutto mio. Cercando di sistemare la mia vita qua in Svizzera, visto che non avevo un lavoro per sostenermi e la mia situazione non era buona, neanche il mio stato d’animo stava bene. Mi rendevo conto
che stavo sempre peggio cosa che non mi capitava a Santo Domingo, cercando di non demoralizzarmi e
di dare il meglio di me cercavo soluzioni. Ho sempre pensato che non sarei mai entrato nel mondo della
droga, ma alla fine l’ho fatto e sono entrato in questo mondo rompendo alcuni miei valori.
Naturalmente non era mia intenzione rimanere in questo ambiente, ma di farci solamente un breve passaggio, per questo cercavo sempre di trovare un lavoro onesto per tornare alla mia strada. Nonostante
tutto io volevo continuare a seguire i miei sogni e i progetti che avevo. Ma dopo tutto quello che avevo passato avevo un lavoro temporaneo, e questo mi permetteva di sistemare la mia situazione e allontanarmi
da quello che è il mondo della droga. Nel frattempo ho così potuto sistemare alcune cose, con le entrate
che avevo ma senza perdere la speranza di trovare un impiego fisso e duraturo. Dopo tutti questi sacrifici e le speranze nel cuore ho ricevuto una lettera, che mi informava che dovevo lasciare il Ticino, questo fece crollare tutti i miei sogni e le speranze che avevo e mi arrabbiai. Mi rendevo conto che per tornare
a Santo Domingo dovevo racimolare del denaro, sia per il viaggio che per iniziare una qualsiasi cosa,
anche se il mio pensiero era di tornare a studiare all’università, ma anche questa richiedeva del capitale.
In questo tempo anche la mia mente pensava di provare a cercare fortuna, o alternative in Spagna, sempre nel mio intento di guadagnare per poter vivere onestamente, ma nel frattempo alcune persone mi
parlarono di fare questo viaggio, che mi avrebbe procurato del denaro per iniziare qualcosa in Europa, o
per un mio possibile ritorno a Santo Domingo naturalmente. Questo denaro in Europa era poco o nulla
per via degli alti costi, ma nel mio paese mi avrebbe consentito un periodo più lungo per sopravvivere e
riprendere gli studi. La disperazione che avevo in quel momento e in cui non sapevo più che fare, mi ha
portato a trovarmi in carcere avendo commesso un reato, che mi farà pentire per tutta la mia vita e che
non faceva parte dei miei insegnamenti e principi ricevuti.
Io nella mia vita ho fatto di tutto per giungere alla mia meta, e ottenere un buon futuro per la via corretta
e giusta fino a questo momento.
Nella vita ci sono decisioni buone, ma si commettono anche gli errori e si deve sempre imparare. Non contano le volte che cadi ma quelle che ti alzi. Stando qui si imparano le cose importanti della vita, i valori
che contano: ringrazio Dio che sono finito in prigione perché potevo essere morto ora.
Al momento desidero solo pagare il mio debito con la società e dopo continuare con una vita normale
lontano da quel momento di falsità e vanità che solo portano alla prigione o a morire. Desidero solo tornare alla mia strada e fare una vita con le persone che amo e continuare a seguire i miei progetti.
Anderson
Disegno di Paolo
Testimonianze di vita
Disegno di Said
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21
Scuola In-Oltre e Sezione B-PT
Da quando sono arrivato nella Sezione B-PT, dopo 6
mesi alla Farera, mi sono sentito molto più “libero”
anche se in prigione, potendo andare a lavorare e soprattutto potendo usufruire della Scuola In-Oltre. La
Sezione B-PT è una sezione messa in disparte dagli
altri detenuti della Stampa. È una sezione nella quale
vengono ospitate quasi esclusivamente persone separate dalla comunità carceraria.
Nel primo anno della mia permanenza nella sezione
ho visto che siamo molto penalizzati in confronto agli
altri detenuti, sia per il nostro passeggio, feste di famiglia, altri eventi proposti nella struttura, sia anche
nelle proposte della scuola In-Oltre.
Fino a poco tempo fa potevamo solo usufruire di 3
corsi, adesso ne abbiamo uno in più, aperto a tutti detenuti. Avevamo anche chiesto per un corso d’inglese
ma sembra che non sia possibile, per via dei costi, formare una nuova classe.
Visto che dobbiamo convivere e dopo un po’ di tempo
ci si conosce bene, ho l’impressione che alle lezioni si
arrivi a un punto d’intesa tra noi che ci permette di lavorare molto bene assieme al maestro e di poter usufruire pienamente delle lezioni.
Mi ha colpito molto che il nostro maestro di disegno
abbia organizzato una mostra a Locarno, con i disegni
dei detenuti per mostrare a tutti di cosa siamo capaci.
Scuola In-Oltre
Le lezioni che potevamo frequentare fino a poco
tempo fa erano informatica, disegno e ginnastica. Recentemente hanno dato il via a un corso d’informatica
avanzato…
Nelle lezioni d’informatica di base si ha l’approccio al
sistema operativo XP e ai programmi di scrittura, fogli
di calcolo e altri programmi di base.
Dalla Sezione B
Nell’informatica avanzata facciamo lezioni approfondite su Access.
A disegno si fanno, dapprima, le conoscenze sui colori
di base e poi si continua individualmente col sostegno
del maestro, visto che i livelli e le capacità variano
tanto da persona a persona.
A ginnastica ci si diverte con dei giochi di gruppo e
delle sfide tra i partecipanti.
La mia opinione sui maestri che ho conosciuto fino a
questo momento è che sono molto competenti e
sanno come lavorare con le persone. Non saprei come
sono arrivati a voler lavorare con dei detenuti, ad insegnar loro qualcosa e soprattutto a stimolarli a fare
qualcosa: penso che anche per i maestri sia una
grande esperienza e, visto che non è il primo anno che
esiste la Scuola In-Oltre, un’esperienza molto bella.
All’inizio dell’anno scolastico si può anche fare
l’esame d’informatica ECDL, patente europea del
computer, a un costo non troppo elevato.
A cosa serve la scuola In-Oltre
Quello che mi ha colpito di più in questa sezione è che
ci sono molte nazionalità e molte opinioni diverse con
le quali si deve convivere, non avendo la possibilità di
evitare nessuno. Non è facile ma con la Scuola InOltre si riesce a conoscere l’altro in maniera semplice
e spesso ridendo e scherzando, soprattutto per il motivo che durante i corsi si possono veramente mettere
da parte i pensieri.
Ma non solo si riesce a conoscere detenuti della nostra sezione ma anche da altre sezioni che vogliono
partecipare ai corsi: spesso sono delle persone che
conosco già dal lavoro. Recentemente ho conosciuto
due nuove persone nel corso d’informatica avanzato.
La scuola In-Oltre aiuta le persone per la reintegrazione nella vita dopo il carcere, avendo un orario giornaliero da rispettare e dei compiti da svolgere: non
solo per uno svizzero che lavorerà dopo aver scontato
la sua pena ma anche per uno straniero che è stato
espulso può essere molto utile per il futuro nel suo
paese.
Secondo me, l’investimento che viene fatto per la
scuola In-Oltre non è perso: lo svizzero che veramente
si dà da fare usa le sue conoscenze acquisite per il suo
futuro lavoro, e lo straniero che ha acquisito delle nozioni potrà svolgere un’attività nel suo paese…
Le Conferenze
Recentemente hanno anche aperto le conferenze organizzate dalla scuola In-Oltre a tutti i detenuti, anche
se c’erano e tuttora ci sono detenuti (e non solo) che
non vorrebbero la nostra partecipazione.
Riassunto
Ci sono tante cose negative ma si devono apprezzare
soprattutto le cose positive che vengono fatte nell’ambito della Scola In-Oltre. Vogliono aprire un po’ la
nostra sezione e recentemente hanno fatto un corso
d’informatica avanzato, nel quale io e un’altra persona
della nostra sezione possiamo partecipare. Come già
citato sopra l’investimento nella Scuola In-Oltre non è
uno “spreco” di denaro ma un’opportunità per i detenuti, sia per la vita nella struttura che per il loro futuro, di usufruire delle conoscenze acquisite durante
la loro privazione della libertà.
--------------La direzione della Stampa vuole aprire un po’ la nostra sezione ma ci vuole del tempo e l’aiuto delle
guardie, e soprattutto quello dei detenuti.
Ognuno ha fatto un errore, più o meno grave, visto che
è qui, ma spero che in futuro i detenuti tra di loro vogliano conoscere la persona e non avere pregiudizi basandosi solo su quello che hanno sentito dire dalle
persone incarcerate o dalle guardie.
Stephan
La Scuola In-Oltre all’interno del Penitenziario Cantonale del Ticino
Agenti di custodia
Come agente di custodia mi sono interessato alla scuola In-Oltre in quanto trovo veramente geniale occupare i detenuti.
Seguire un corso di formazione significa pertanto dare alla propria vita carceraria una dimensione più accettabile, significa
darle un senso anche in quei momenti che possono essere tanti, in cui un detenuto può facilmente perdere il senso della vita.
I detenuti grazie a In-Oltre avranno la possibilità di riappropriarsi di una dimensione culturale e se lo vogliono di riaversi dagli
sbagli fatti, costruire un progetto personale.
La Scuola In-Oltre come tutti i progetti necessita di spazi, materiali, formatori e finanze. La Scuola In-Oltre è presente all’interno del Farera (Carcere Giudiziario) e soprattutto all’interno della Stampa (Carcere Penale).
L’obiettivo primario di Scuola In-Oltre è quello di offrire un’opportunità di formazione più legata agli schemi di una vera
scuola, con ritmi, contenuti ed offerte che poco si distanziano dalle istituzioni scolastiche in Ticino.
Ma soprattutto garantire al carcerato una più facile integrazione nel
mondo del lavoro e quindi all’interno della società.
Per un buon docente confrontarsi con culture diverse è uno stimolo per
far interagire persone con biografie diverse. È una ricchezza che porta ad
uno scambio di opinioni, che non necessariamente sono opposte, perché
di culture diverse. È fondamentale comunque il rispetto che va curato nel
dialogo. Con il dialogo si conoscono sempre meglio gli altri e indirettamente anche sé stessi.
Fuori dal carcere il detenuto è seguito dal Patronato, che ha l’obiettivo di
portarlo ad un progressivo reinserimento nella società.
Il detenuto che ha seguito dei corsi può presentare, una volta fuori dal
carcere, gli Attestati di frequenza ai corsi che certificano una sua formazione, oppure, per le lingue, presentare il superamento di un esame europeo.
I detenuti partecipano a tutti i corsi con interesse. Pur essendo molto eterogenee le capacità (vedi scolarizzazioni diverse, età diverse dei partecipanti, culture diverse,…) si riesce a costruire un clima di lavoro positivo,
con momenti espositivi di lezione, dove il docente è seguito nel suo programma e momenti informali di colloquio, pur importanti anche questi,
perché permettono un contatto tra i detenuti stessi.
Le proposte di In-Oltre, con i corsi di Cultura generale (estesi su tutto
l’anno scolastico), i Moduli e le Conferenze, danno la possibilità di mettere
il detenuto il condizione far uso della ragione, di pensare e di distoglierlo
dai problemi della detenzione (chiusura dal mondo esterno, pensieri ridondanti sulla condizione di detenzione, la distanza dai propri cari, per
alcuni la vergogna di passare un’esperienza lunga o corta che sia in carcere,…).
Un corso di formazione infonde a chi lo segue l’immagine di una persona
che si sta muovendo in una giusta direzione. Se si vuole si può migliorare
e cambiare, impegnandosi in un obiettivo, per affrontare la vita in modo diverso.
Lo scopo è di reinserire il detenuto nella società civile una volta scontata
la pena.
Agt. Mirko Pellegrini
Disegno di Carlos
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22
Another year on...
My second year of teaching English at La Stampa is coming to an end, so
it’s time to reflect on the past few months.
This year I have had 3 separate classes at different levels, which has made teaching
easier, and hopefully more profitable for the students. Two students will be taking a B2
level Cambridge exam very soon and have worked very hard to that end. I wish them every
success as they truly deserve it. Others are interested in taking exams at different levels some
time next year, some have asked for extra work for the summer months and some are just content
to take part in the lesson, pick up the odd new word or expression, or understand a little more spoken and written English.
But if I look back on this year, what I remember most is the laughter; students laughing at their English,
their situation, themselves rather than at each other and me laughing with them. I finish the year with a
feeling of hope tinged with wistfulness. A number of students whom I had taught for some time are no
longer here. The hope is that they will turn their lives around, the wistfulness that I will probably never
know.
Last year I wrote that teaching at the prison had been “a welcome challenge”. Like most things which
bring satisfaction, it is still a challenge. Teaching people of such varied backgrounds, education
and levels of ability is not always easy. The rewards are immense and yes, there are occasional
disappointments, but I have continued to learn so much. For that and for the laughter, I give
you, students past and present, my thanks.
Linda
Disegno di Orfeo
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What is beauty?
Beauty is something too difficult to explain because it is subjective and not everything is beautiful to everybody or anyway,
not for the same reasons.
Beauty isn’t only aesthetic, it is, above all, harmony. So beauty
might not just be an object but a situation, too. So, if beauty is
harmony, even if the situation is not pleasant, the beauty is in its
aim, to achieve harmony in life. We, the prisoners, have this opportunity; it is inside ourselves.
Pietro Luigi
My name is Ajmal. I am from
Pakistan, I like the English
language. Before I knew a little bit of English, but now I am
studying it. I am improving it.
My teacher is Ms Chiesa. She
is a good teacher. She comes
every Monday to teach us.
Soon the course will be over
and we will start again in September.
Hey, teacher, leave the kids alone!
I like Pink Floyd a lot, but honestly I don’t share this reflection
with them because I have to thank my teachers for inspiring me
to continue studying and finally reaching my goals. It is wonderful how amazing you can feel, learning to speak English and
it is great to be able to study every week with the same motivation as before, and all this is thanks to my incredible teacher,
who put a lot of effort into making me improve my writing,
speaking and comprehension skills. Particularly when I decided
to take the First Certificate of English, a lot of preparation made
me go crazy but in the end, if I pass the exam, I will be extremely
happy.
Carlitos
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Inglese
Linda Chiesa, docente di inglese
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23
Liberté, illusion ou réalité…
Que notre planète est belle,
Mais que faisons nous pour qu’elle soit éternelle.
Quoi de plus beau que ce mot « liberté ». Se sentir libre de ses
L’homme s’est accaparé son destin
mouvements, maître de soi et et de sa vie, pouvoir réaliser ses
Sans penser aux lendemains.
rêves et ses envies sans contraintes. Libre c’est être heureux.
Aujourd’hui elle se meurt
Qui n’a jamais entendu dire « la liberté n’a pas de prix» et c’est
Mais l’Homme s’en fout il n’est pas son sauveur.
Pietroluigi
vrai.
Mais sommes nous vraiment libres?
Dans une société moderne où la technologie a envahi l’espace
et où chacun de nous participe à la course à la technologie on
se rend compte que la liberté est plutôt restreinte ou disons
plutôt que la liberté est un sentiment. Avoir le sentiment
d’être libre.
Aujourd’hui, tout est sous contrôle, le telephone mobile, les
cartes de crédit, les cameras de télésurveillance, partout où
l’on va on se sent observé et donc plus tout à fait libre de ses
mouvements.
Alors oui la liberté a un prix, c’est celui de pouvoir choisir son
mode de vie sans être obligé de suivre ce que nous imposent
nos sociétés.
Eric
Un séjour au ski
Nous sommes partis pour un long week end faire du ski
Lezioni
di francese
dans le massif du Mont blanc. Avec mes copains J…., P….
et G… nous avons réservé un chalet près de Chamonix.
C’est la première fois que nous venons dans les Alpes et
pour mes trois amis c’est un baptème. Ils n’ont jamais
skié, ils vont donc apprendre à descendre les pistes bleues mais aussi à prendre les remontées mécaniques,
quelle rigolade….
La neige est abondante et le soleil généreux, c’est un jour
magnifique pour faire du ski.
Mais comme toutes les bonnes choses ont une fin, notre
séjour s’est terminé et nous sommes rentrés en voiture.
O
Amour…
Amour… sans aucun doute
Moi je ne sais pas ce qui s’est passé.
Le monde des couleurs changeait et toi tu es arrivée comme ça
Liberté
Sans savoir que tu étais entrée en moi…
Que le pouvoir des mots est immense
Laisse mon cœur en liberté… !
Avec seulement deux mots ,
Parce que je ne peux pas vivre sans toi… liberté
Tu peux me détruire ou tu peux me laisser vivre…
Parce que je pense à toi toutes les nuits
Mais tu ne dis jamais rien.
Mais toi tu ne pourras pas vivre sans moi…liberté
Aucune importance si le soleil meurt aujourd’hui,
parce que moi je pense et je penserai à toi tous les jours.
Laisse moi en liberté…
Et si la lune pleurt par amour,
Parce que je me souviens de toi
Je pleurerai avec elle pour toi…
Comme si c’était hier mais pour moi
Carlito
Il n’y a pas de problème
Car je sais que tu reviendras.
Carlito
Eric Tuffery, docente di francese
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Certificazioni
Dall’Università di Siena
le Certificazioni di italiano
La Scuola In-Oltre ha proposto quest’anno per la prima volta, in aggiunta all’Attestato di frequenza, la possibilità di dare un esame di lingua italiana organizzato dall'Università per Stranieri di Siena, che rilascia la Certificazione di
italiano come lingua straniera (CILS).
Verso un riconoscimento internazionale…
Gli esami internazionali di Cambridge ESOL (English for Speakers of Other Languages) vengono sostenuti ogni anno da più di tre milioni di persone in tutto il mondo. Il Centro d’Esami
Cambridge Svizzera Italiana, che ha la sua sede presso la Supsi, contribuisce ad arricchire questo considerevole numero di candidati.
Le certificazioni Cambridge ESOL possono fregiarsi delle caratteristiche seguenti:
sono riconosciute a livello internazionale da moltissime scuole, istituzioni, aziende e enti di
vario tipo; garantiscono qualità, imparzialità e realismo dei materiali utilizzati; sono aperte a
tutti coloro che desiderano affrontarle, senza la richiesta di nessun pre-requisito (sia esso di età,
nazionalità, studi eseguiti, o altro). La prassi comune è comunque che i candidati si rechino
presso un Centro d’Esami per affrontare la prova (non è previsto, ad esempio, che gli esami
vengano portati all’interno di una scuola), perché queste sono le esigenze e le regole di Cambridge. Quest’anno, tuttavia, abbiamo ottenuto il permesso di andare anche in trasferta, più
precisamente al penitenziario “La Stampa”. L’iniziativa è partita proprio dal carcere, grazie alla
docente di inglese Linda Chiesa e al responsabile della formazione Michel Candolfi. La signora
Chiesa ha proposto ai detenuti che hanno seguito il suo corso di provare anche a superare un
esame Cambridge. Due di loro hanno accettato la sfida. E così il 14 giugno 2011 si sono cimentati con l’esame Cambridge English First (FCE), che corrisponde al livello B2 (intermedio superiore).
Per quanto mi riguarda ho avuto il compito di sorvegliare lo svolgimento dell’esame, applicando
le severe e precise regole di Cambridge esattamente come avviene per gli esami che svolgiamo
in sede. I due candidati sono stati molto disciplinati, dimostrando tra l’altro che non si sarebbero mai permessi di copiare o imbrogliare, nemmeno se fossero stati seduti vicini durante il
test. Prima del 14 giugno alcune persone mi hanno fatto le domande di routine: “non hai paura?”
e “per quale motivo sono in prigione i due candidati?”. Devo dire che paura non ne ho mai avuta,
nemmeno quando ho saputo che sarei rimasta sola nell’aula con i due candidati. Mi hanno spiegato che la sala è costantemente sorvegliata da telecamere, e in ogni caso mi è sempre parso
giusto riporre una certa fiducia nelle persone, anche se si tratta di detenuti. Dunque, seppur
fosse per me una situazione totalmente nuova, ero comunque tranquilla. Emotivamente mi ha
colpito sperimentare l’ambiente carcerario. Anche se ho visto molto poco della struttura (solo
un corridoio e l’aula dove si è svolto l’esame), è stata piuttosto forte la sensazione di essere in
un luogo chiuso, isolato, dove non puoi disporre della tua libertà.
Il rapporto con i due candidati è stato molto cordiale. Erano entrambi gentili e simpatici. Non era
per me fondamentale capire perché stiano scontando una pena detentiva. Trovo invece ammirevole che abbiano deciso di affrontare un esame Cambridge. Se accetti di seguire un corso di
inglese, di studiare per un esame non facile, devi avere una forte motivazione. Se i due candidati otterranno la certificazione, essa potrà senz’altro essere loro utile quando saranno fuori dal
carcere. E l’esempio potrà essere seguito anche da altri detenuti, visto che la nostra società dà
sempre più importanza alla formazione continua e alla riqualifica professionale, sia fuori che
dentro una prigione. Da parte nostra, saremo
felici di poter ripetere l’esperienza “in trasferta” anche in futuro.
Karole Costa
Examination Administrator
Centro d’Esami Cambridge
Svizzera Italiana
Disegno di Peter
Fresco di laurea, non ancora ventiquattrenne sono stato pregato dal preside di
accettare l'incarico presso le "Nuove" di Torino. Si trattava di un incarico riservato per forza al sesso maschile che avrebbe dovuto preparare i detenuti all'esame per il conseguimento della licenza di Scuola Media, titolo di studio
indispensabile per poter accedere al mondo del lavoro. Ho accettato, non senza
qualche perplessità, non mi aspettavo certo di compiere un'esperienza così positiva. Devo confessare che mi è servita molto, che mi ha fatto crescere come
uomo e aiutato nel lavoro (oserei dire, senza retorica, "missione") dei successivi 38 anni di insegnamento.
La settimana scorsa nel carcere la "Stampa" di Lugano tre persone si sono presentate per affrontare l'esame di italiano con serenità e preparazione. Sono
parsi subito encomiabili il loro desiderio di affrancarsi e la loro voglia di riscatto
perché anche chiusi in quelle quattro mura la vita deve continuare e in qualsiasi
istante, anche triste, si deve pensare ad un futuro più roseo in seno ad una società che offre sempre un'altra possibilità .
A questo proposito vorrei ricordare che nella scorsa edizione del Festival della
canzone italiana di Sanremo Mauro Ermanno Giovanardi ha presentato un suo
brano dal titolo "Io confesso", una bellissima canzone, purtroppo passata quasi
inosservata nonostante il 6° posto in finale, ma successivamente valorizzata,
unitamente a tutto il CD, in
una recente edizione di
Extra, l'inserto del Corriere del Ticino. Ecco alcuni
versi della canzone:
"...io so di aver sbagliato e
sono qui ..."
"...un'altra possibilità io la
voglio..." ecco prepariamoci anche con la CILS a
cogliere con senso di responsabilità ciò che la vita
ha ancora in serbo per noi.
Mario Muraro
esperto d’esame,
Università per Stranieri
di Siena
I would like to say a few words about my recent experience of giving the Cambridge First Certificate Exam to two inmates at Il Carcere della Stampa. My colleague Jan Hardy and I were greeted politely by the guards and shown to the
examination room, where we met Mr. Michel Candolfi, the person in charge of education and training at the prison. While our colleague Karole Costa completed invigilating the written part of the exam, Mr. Candolfi showed us to a room where we
prepared to administer the speaking part of the exam. Soon after, the candidates
entered the room. They were both very pleasant and the exam went smoothly. Afterwards, Jan Hardy, Karole Costa and I had an interesting conversation with Mr.
Candolfi about classes at the prison and prospects for future educational opportunities for the inmates. All in all, it was an interesting experience for me, and I
hope to be called upon again to represent Cambridge exams at La Stampa.
Jim Kauffman, Cambridge Speaking Examiner
Last week, my SUPSI colleague and I went, for the first time, to La Stampa in
Lugano, in order to conduct an Oral English Examination for 2 students.
The situation was both new and familiar: new because we had to pass through a
series of controls and enter a strange environment, but familiar because we then
found ourselves facing 2 students who were anxious to perform well in an exam.
I was impressed to hear about the educational programme run by the institution
with the aim of helping prisoners to use their time usefully while also preparing for the future. The University of Cambridge ESOL Examinations conducted
by SUPSI cover all levels, from Elementary to Advanced, and make a valuable
addition to the professional development and life skills of successful candidates.
I hope that others will be encouraged by these first 2 students, and that we will
return to examine many more candidates in the future.
Jan Hardie, Cambridge Speaking Examiner
Gli apprendistati in carcere: alcuni dati
A distanza di alcuni anni dall’inizio dell’esperienza della
Scuola In-Oltre, vale la pena fornire alcuni dati su quanto
finora realizzato sul fronte della formazione professionale.
Nell’anno scolastico 2008/2009 hanno iniziato il loro percorso formativo 6 apprendisti: 2 come addetti di cucina
(corso biennale), 2 falegnami (corso biennale), 1 tecnologo
di stampa (corso quadriennale) e 1 operatore post-press
(corso quadriennale).
Di questi sei apprendisti, tre hanno concluso la formazione
con successo, ottenendo il relativo diploma, due hanno ottenuto l’attestato di capacità pur non conseguendo il diploma e uno ha sospeso temporaneamente la formazione.
Un apprendista legatore, la cui formazione era già iniziata
precedentemente, ha anch’egli terminato con successo la
formazione.
Se da una parte non possiamo che complimentarci con tutti
gli studenti per i risultati ottenuti e soprattutto per l’impegno
dimostrato (a volte accompagnato da comprensibili ripensamenti e momenti di difficoltà), dall’altra non possiamo
fare a meno di dare qualche dato più qualitativo. In parti-
colare tutti, anche chi non ha ottenuto il diploma, si sono
dimostrati soddisfatti per l’esperienza vissuta, per le competenze acquisite e per la possibilità di utilizzarle nel proprio
futuro professionale e sociale. Per altri aspetti emersi durante l’esperienza di apprendistato rinviamo all’articolo che
riprende la ricerca di Valentina Cavadini.
Con l’anno scolastico 2010/2011 3 nuovi apprendisti hanno
iniziato la loro formazione in carcere. Ci permettiamo di indicare che per ora la motivazione rimane alta, l’impegno è
notevole e i risultati sono più che soddisfacenti.
Un ringraziamento particolare va naturalmente ai colleghi,
CapiArte e docenti in particolare, che hanno accompagnato
e stanno accompagnando con grande professionalità e serietà, il cammino professionale degli apprendisti.
Un vivo ringraziamento anche agli assistenti sociali e agli
agenti di custodia che, nell’ambito delle rispettive competenze, hanno sostenuto e continueranno a sostenere il progetto della formazione.
La Direzione operativa Scuola In-Oltre per gli apprendistati
Inoltre……..e non solo In-Oltre
Ogni anno nuovo porta delle novità e da gennaio di quest’anno mi hanno passato il testimone per quanto riguarda il coinvolgimento,
quale rappresentante della DFP, nel progetto
In-Oltre.
Ruolo dedicato principalmente alla consulenza nell’ambito della formazione professionale per coloro che intendono qualificarsi
durante il periodo di detenzione.
Prima del mese di gennaio osservavo da lontano i lavori con tutte le questioni che si presentavano periodicamente ed ora ho il
piacere di occuparmene personalmente.
Tale coinvolgimento ha intensificato la collaborazione con i diversi servizi dello Stato, la
conoscenza degli addetti ai lavori ha portato
valore aggiunto alla funzione che svolgo; in
particolare mio occupo della vigilanza del tirocinio, della consulenza alle parti contraenti
del contratto di tirocinio (aziende formatrici,
famiglie, persone in formazione) in merito alla
Legge federale sulla formazione professionale e di interventi per questioni problematiche/delicate, disciplinari, relative al rapporto
di lavoro tra le parti contraenti.
In questi mesi ho avuto l’opportunità di partecipare a diversi momenti; incontri, riunioni,
colloqui, strumenti di lavoro che definisco
statici, se presi individualmente, ma con una
grande dinamicità in quanto la combinazione
tra di loro permette di gestire questi progetti;
sicuramente un vantaggio è quello di poter
“toccare con mano” cosa fanno questi giovani in formazione all’interno della struttura
carceraria.
Mi riferisco in particolare alla visita dei laboratori, la falegnameria, la tipografia, la cucina;
piccole imprese in una grande struttura; postazioni di lavoro dignitose con la presenza
di formatori, ovvero i capi d’arte, che dedicano parte della loro attività alla formazione.
Ma non vorrei tralasciare l’opportunità avuta
a riguardo del pranzo preparato da un giovane al primo anno di formazione, quale addetto di cucina; dove nessun particolare è
stato tralasciato, dalla preparazione della tavola fino al dessert; ma il pranzo oltre ad aver
soddisfatto il palato dei partecipanti ha profuso motivazione a colui che si è dedicato
alla preparazione dei piatti e soddisfazione al
suo formatore.
Ritengo che questi progetti di formazione ma
sicuramente anche educativi possono svilupparsi positivamente unicamente quando le
persone coinvolte in équipe, voglio definire
così il gruppo delle persone che vi operano,
sono collaborative, motivate e interagiscono
positivamente per portare a termine un reinserimento tralasciando i pregiudizi.
Un grazie particolare a chi mi ha dato l’opportunità di inserirmi in questo progetto e a
coloro che mi hanno accolto nel gruppo.
In-Oltre per coloro che colgono un’altra opportunità e Inoltre per la sottoscritta…..
Roberta Bernasconi, ispettrice principale
presso l’Ufficio della formazione industriale,
artigianale e artistica, rappresentante della
DFP nel progetto In-Oltre
Insegnando …
L’anno scolastico 2010 /2011 volge al termine e come spesso accade, giunge il momento di una riflessione su quanto si è svolto.
Il mio proposito, in questo scritto, non è
quello di ripercorrere il tempo passato in aula
con gli apprendisti, portando testimonianze,
aneddoti, dialoghi , che hanno arricchito e
comunque caratterizzato i momenti di cultura
generale, ma quello di fare un piccolo intervento sull’utilizzo dei sussidi didattici e delle
varie tecnologie nello svolgimento delle attività in aula.
In tanti anni di insegnamento, ho vissuto
come tutti, l’evoluzione dei vari strumenti, utili
o ritenuti tali, per l’esercizio della professione.
Carta, penna e lavagna si sono ritirate in
buon ordine per cedere il passo a computer,
proiettori, beamer, lavagne interattive, e tanti
altri mezzi.
Oggi è quasi impensabile trascorrere una
mattina o un pomeriggio scolastico, senza
utilizzare uno o l’altro degli strumenti da me
sopra citati.
Una lezione senza consultare un computer
arrischia di portare gli utenti a ritenerla di una
noia quasi mortale.
In un mondo proiettato sull’immediato e sul
visivo, diventa impresa ardua proporre qualcosa che porta ad attività un po’ meno immediate e soprattutto che non contemplano
l’impiego di mezzi visivi.
Ogni settimana entro in penitenziario per
svolgere le mie ore d’insegnamento e mi confronto con quelle che sono le evidenti e regolari limitazioni nell’utilizzo di sussidi didattici
e tecnologici. Come per incanto mi sembra
di tornare nelle aule delle scuole degli inizi
anni ottanta del secolo scorso. Penna , foglio,
libro e lavagna tornano prepotentemente in
primo piano.
Il docente si ritrova a gestire il messaggio del
sapere e della riflessione senza quegli strumenti , che da utilissimi possono in un attimo
rivelarsi dannosi ed ingombranti.
In sostanza, si assapora o riassapora, il gusto
di chinarsi sull’essenza e sulla focale potenzialità dell’individuo.
In penitenziario, ho trovato e trovo tuttora la
necessaria assistenza e posso far capo a diversi supporti didattici, ma a volte non tutto
procede spedito e quindi bisogna tornare agli
strumenti “primari” dell’insegnante.
Proprio in questi momenti, mi accorgo, come
sia piacevole, arricchente e unica , l’esperienza di organizzare un momento, un percorso, un sapere, assieme agli utenti
facendo capo a utensili di lavoro, da qualcuno definiti fuori corso, ma di particolare fascino.
Il mio privilegio è quello di operare in un
luogo, quello del penitenziario, che mi permette di confrontarmi con modalità e ritmi
non sempre uguali a quelli che si trovano all’esterno di questa struttura.
Gioisco nel muovermi nella mia professione
con approcci strumentali differenziati e nell’
apprezzare le qualità e le variegate potenzialità dei vari sussidi didattici.
In questo mio esposto, mi sono occupato di
questo particolare aspetto della professione
proprio perché essendo impiegato in luoghi
assai diversi uno dall’altro , si sono accentuate alcune differenze.
La riflessione sugli strumenti didattici non
può impedirmi di concludere questo scritto
sottolineando il fatto che al centro dello svolgimento delle attività ci stanno sempre le persone, e ogni passo avanti per miglioramenti
di vario genere ( competenze, relazioni) viene
scandito dall’entusiasmo, dalla dedizione,
dalla convinzione di chi i passi li vuole fare.
Certo è che gli strumenti ci possono dare una
grande mano, sempre se utilizzati in modo
consapevole e oculato.
Patrizio Maggetti
Docente di cultura generale
Il grande chef venuto dall’Albania
Alcuni piatti
e un momento
dei pranzi “prova”
Il men che si può dire è che Stefano Mangili,
responsabile alla Stampa della formazione dei
cuochi, è entusiasta del suo apprendista, un
giovane albanese che gli sta dando enormi
soddisfazioni. Di soddisfazioni, in realtà, Mangili ne ha avute anche dagli apprendisti che ha
formato in passato, sia in carcere che fuori: ma
di questo (che è davvero bravo, possiamo
confermarlo di persona!) parla in termini particolarmente elogiativi.
Ma partiamo dall’inizio: a quando risalgono i
suoi esordi nella ristorazione, signor Mangili?
«Beh, posso dire che ho fatto il cuoco fin da
piccolo: a 14 anni – parliamo della metà degli
anni ’80 – aiutavo già i miei genitori nel loro
grotto a Montagnola».
Dunque, in tema di apprendisti, ne avrà seguiti diversi…
«Sì, prima di iniziare in carcere ne avevo già
formati quattro o cinque. E alla Stampa, cioè
dal 2000 a oggi, ne ho avuti quattro, prima di
quello attuale. Non so se tutti loro hanno trovato lavoro, una volta usciti da qui, ma tutti
hanno concluso positivamente la formazione:
i primi hanno fatto quella triennale, poi si è
passati alla formazione biennale. Questo vale
anche per l’apprendista che ho adesso, che
sta finendo il primo anno».
È più difficile essere maestro di tirocinio in
carcere o fuori? Che differenze ci sono?
«La differenza principale è che qui, alla
Stampa, arrivano più adulti: seguono questa
formazione per una precisa scelta, sono più
motivati, e in questo senso il contatto è più facile. C’è però anche una difficoltà maggiore,
data dal fatto che spesso non hanno una
grande formazione scolastica».
Un problema che con la volontà si può superare…
«Certamente! Guardi il mio apprendista attuale: quando è arrivato qui non sapeva neanche l’italiano, ma si è impegnato tantissimo e
l’ha imparato in prigione. Inoltre ha dimostrato
di voler davvero imparare questo mestiere: all’inizio di quest’anno scolastico c’erano diversi
candidati, ma possiamo prenderne soltanto
uno all’anno:se abbiamo scelto lui è proprio
perché è apparso subito il più motivato di
tutti».
In cucina, però, l’impegno e la volontà non
bastano: ci vuole una vera passione…
«E lui ce l’ha. Già prima di venire qui gli pia-
È solo un apprendista, ma con grandi doti:
ce ne parla Stefano Mangili, capo d’arte dei cuochi
ceva cucinare, ma viveva in Italia, dove la
scuola costava troppo: dunque è stato ben
contento di poterla fare qui, almeno quando
uscirà avrà qualcosa in mano. Perché il fatto è
che lui non ha mai avuto nessuna formazione
professionale: faceva un po’ di tutto, ma nessun lavoro in particolare. In carcere ha avuto
una chance del tutto nuova».
Ne è consapevole?
«Assolutamente! Si rende conto benissimo di
aver avuto una grande fortuna: in Albania, prigione o non prigione, una formazione simile
non avrebbe potuto averla».
Non le chiedo se è capace, perché questo l’ho già sperimentato io stesso: le
chiedo invece se ha qualche specialità,
qualche piatto che gli riesce particolarmente bene.
«Diciamo che ama molto i dolci, i dessert: però
fa veramente bene tutto! E poi è attentissimo,
osserva, chiede: se gli capita di fare un errore,
e può capitare a tutti, la prossima volta che
prepara la stessa ricetta quell’errore non lo rifà
più. Inoltre ha l’atteggiamento giusto anche
verso l’insegnante: accetta le osservazioni, le
Creato e stampato presso le strutture carcerarie cantonali
prende positivamente. Per lui una critica è
un’occasione in più per imparare, e questo è
fondamentale».
E, aggiungo io, non si limita a cucinare
bene, ma cura anche tutti gli aspetti collaterali, che pure sono importanti: come la
presentazione dei piatti, il servizio, il contatto col commensale…
«Certo, lui ci tiene molto. Quando spiega cosa
c’è nel piatto, per esempio, non lo fa per dovere: è veramente contento di avere questo
contatto con le persone sedute a tavola, e parlare con lui è proprio piacevole. Averne, di apprendisti così!».
Sarà un peccato perderlo…
«Davvero! Ma è ugualmente bello poter aiutare
un ragazzo come lui».
Fuori dal carcere che prospettive avrà?
«Quando uscirà verrà espulso dalla Svizzera.
Ma, anche se dovrà rientrare al suo Paese, io
sono ottimista: l’Albania sta cambiando velocemente, stanno investendo dappertutto, e nel
turismo lui troverà sicuramente lavoro».
Noi glielo auguriamo.
M.E.
Falegname, l’uomo che fa… ma prima bisogna fare l’uomo
L’importanza di una formazione che sia professionale, ma che coinvolga anche gli aspetti morali
Alla Stampa è attualmente in formazione un apprendista falegname, un giovane albanese che viene seguito da tre insegnanti:il capo d’arte Alberto Giottonini, che si occupa del
lavoro pratico in laboratorio;SadeghShadlou, che insegna conoscenze professionali, disegno, matematica e tecnica; e Patrizio Maggetti, che impartisce le lezioni di cultura generale a
tutti gli apprendisti. Dei tre, quello con più lunga esperienza
al Penitenziario cantonale è Alberto Giottonini: «Sono qui
da vent’anni», spiega, «di cui i primi come agente di custodia.
In falegnameria lavoro da 11 anni, e durante questo periodo
ho avuto qui con me 170 persone: alcune solo per qualche
settimana o mese, altre anche per diversi anni. Dal punto di
vista lavorativo ho visto di tutto: gente che se la cavava benissimo, altri proprio no; ma di detenuti che quando sono arrivati erano già capaci di fare il falegname ne ho avuti solo
due».
Dunque, a quasi tutti questi 170 ha dovuto insegnare il
mestiere… Ma di apprendisti veri e propri, quanti ne ha
avuti?
*
*
«Tre (più uno, all’inizio, che avevo “ereditato” dal mio predecessore, ma che ha abbandonato subito). I miei primi due li
ho avuti insieme: uno era abbastanza dotato manualmente,
perché aveva già lavorato come fabbro, l’altro decisamente
meno. Il mio terzo apprendista è quello che ho attualmente:
ha iniziato nel settembre scorso. Oltre a lui lavorano con me
altre quattro persone, che però non sono in formazione».
Per chi lavorate? Chi sono i vostri clienti?
«Sono dei privati che sanno che da noi si fanno piccoli lavori
a prezzi concorrenziali».
Solo piccoli lavori?
«Sì: per fare cose più impegnative non avrei il personale qualificato. E poi tenga presente che il nostro scopo non è far lavori, ma far lavorare le persone che sono qua: se portassimo
via il lavoro alle ditte esterne, queste inveirebbero contro il
Cantone!».
Problemi di disciplina, nel suo laboratorio?
«Mai avuti: io ho un carattere piuttosto deciso, e rigano
dritto!».
Progetti di falegnameria
*
Un percorso diverso è quello del docente Sadegh Shadlou, che aveva esordito nel mondo del lavoro come meccanico di precisione: «Ho iniziato l’apprendistato di
falegname nel 1985, a 28 anni», ricorda, «e quattro anni
dopo ho aperto la mia falegnameria a Breganzona; dopo
diversi cambiamenti, oggi lavoro in proprio a Davesco».
Da quanti anni forma apprendisti, e quanti ne ha visti
passare?
«Da 21 anni: in questo periodo ho avuto una quarantina
fra apprendisti e stagiaires (alcuni dei quali han lasciato
subito, avendo visto che non era il loro mestiere). Attualmente con me ci sono due apprendisti».
E alla Stampa?
«Sono appena arrivato: sono qui solo da febbraio. Avevano bisogno, ma non trovavano nessuno: io sono nel Comitato cantonale dei falegnami, così mi hanno chiesto e
io ho accettato. Per me è una cosa assolutamente nuova».
Che differenze ha trovato fra il suo ruolo di formatore
fuori e in carcere?
«Per prima cosa devo dire che in carcere svolgo solo la
parte teorica, mentre nel mio laboratorio a Davesco seguo
anche il lavoro pratico. Ma la grossa differenza sta nei
tempi: un conto è avere degli apprendisti fuori, cioè poterli
seguire per quattro giorni alla settimana (il quinto giorno lorosono a Bellinzona), e un conto è averli solo per due ore
alla settimana come avviene alla Stampa. In quelle due ore
devi insegnare disegno, calcolo e tutto il resto: il tempo è
troppo poco!».
Altre differenze? Gli allievi alla Stampa non sono più
problematici? La loro età non è molto diversa da quella
dei «normali» apprendisti?
«Per me no: anche fuori prendo spesso adulti, che magari
provengono da altri settori e cercano di riciclarsi, opersone
con problemi, soprattutto famigliari. È una scelta mia: sa,
è facile prendere apprendisti bravi, ma per me la grande
soddisfazione è aiutare i giovani che hanno problemi, dar
loro una chance.Non mi piace quando criticano i giovani
senza prima aver dato loro un’occasione. O senza aver cercato di capirli. È facile accusare, quando qualcuno perde
la strada: ma chi li ha ascoltati? Chi li ha aiutati?».
Insegnar loro un mestiere è già una forma di aiuto…
«Ma non basta. Non basta insegnare a prendere questo attrezzo e fare quel lavoro. Bisogna andare oltre, andar dentro la persona. Saper ascoltare. Coinvolgere. Cercare il
dialogo: il dialogo è un’arte da imparare. Spesso non c’è
dialogo, ma solo discussione: nella discussione tutti parlano, nel dialogo c’è l’ascolto. Nella discussione ognuno
cerca di imporre la propria idea, mentre nel dialogo si cerca
insieme la soluzione migliore. Io non mi limito a insegnare
un mestiere: cerco di capirli, di aiutarli a eliminare certe
paure che hanno quando arrivano. Voglio trasmettere la
mia esperienza, e anche i miei errori. Tanti hanno paura di
sbagliare, ma se sbagli hai imparato una cosa nuova, hai
aumentato il tuo bagaglio di esperienza».
È una questione di autostima…
«Sì. E per accrescere la loro autostima cerco di incoraggiarli in quello che fanno; mi metto sul loro piano, spiegando che io non sono superiore a loro: sono solo uno che
ha più esperienza. Inoltre cerco di stimolare la loro autocri-
tica.In questo modo si sentono non giudicati (mai far sentire a una persona che viene giudicata!), aumenta in loro la
fiducia, la stima di sé, e quindi aumenta il dialogo. Ma non
è possibile riuscire a fare tutto ciò in due ore alla settimana!».
Da ciò che mi ha detto traspare un forte senso etico.
«Sì, e aggiungo che una certa etica fa parte della scelta di
chi vuole seguire un apprendistato da me. Quando ne arriva uno nuovo, prima di parlare di orari, o di salari, io fisso
precise regole di comportamento e di linguaggio. Poi
chiedo: sei d’accordo? Sì? Bene, allora parliamo del resto».
Questo suo impegno educativo, che va al di là del semplice insegnamento professionale, viene riconosciuto dai
suoi allievi? C’è un feedback? C’è un apprezzamento?
«Sa, non ne ho bisogno: non pretendo che, siccome do,
poi devo ricevere. Semplicemente, la penso così: il tessuto
sociale si basa sugli artigiani, e io sono contento di formare
nuovi validi artigiani».
M.E.
Tecnologo di stampa: una passione da trasmettere ai giovani
Si chiude una porta, si apre un portone. Lo si
sente dire spesso, e per molti è così davvero.
È il caso, ad esempio, di Mario Pellanda, tipografo da una vita, costretto dalla crisi a chiudere l’attività che gestiva in proprio e
scopertosi – non più ragazzino – appassionato
insegnante. Questa, direbbe Celentano, è la
storia di uno di noi: un maestro che svolge il
suo compito con amore. Tanto amore da vedere nei suoi allievi quasi dei figli, soffrendo
per le difficoltà che incontrano, gioendo per le
prospettive che potranno avere.
In carcere Pellanda cura la formazione di un
tecnologo di stampa («una volta si diceva
stampatore: era tutto più semplice…»). «È il
secondo allievo in formazione che ho», spiega.
«Il primo ha fatto due anni, ha passato l’esame
intermedio (che all’epoca esisteva ancora:
adesso, con le nuove disposizioni federali, non
si fa più), e devo dire che l’ha superato anche
con una bella nota; poi è andato nel carcere
aperto, ma purtroppo non ha trovato un posto
di lavoro e non ha potuto finire la formazione.
Spero davvero che il mio allievo attuale riuscirà
a farlo».
Ci parli di lui.
«È un ragazzo che viene dai Balcani: è al primo
anno, ha iniziato proprio da zero, e ha davanti
altri tre anni. Quattro, in totale: da noi non è
prevista la formazione abbreviata di 2-3 anni,
non c’è la figura dell’aiuto-stampatore. Poi,
quando avrà finito di scontare la sua pena, se
tornerà a casa penso che in questo campo troverà lavoro più facilmente che non qui: al suo
Paese sono in pieno sviluppo, potrebbe aprire
una stamperia. Da noi, invece, per una piccola
attività indipendente non c’è più posto: i pesci
grossi mangiano i pesci piccoli…».
Questa è stata la sua esperienza personale…
«Sì. Io sono qui da sei anni: prima avevo una
tipografia in proprio, ma poi ho dovuto chiudere. A partire dal ’95 è stata durissima nel nostro settore: io ho tirato avanti ancora dieci
anni, ma poi non era proprio più possibile».
Dunque?
«Nel 2005 ho saputo che c’era un posto qui,
alla Stampa: l’ho preso, e sono ben contento!
Lavorare qua è interessante, ti permette di
renderti utile nel sociale. Non c’è il problema
dei finanziamenti, e posso dedicarmi all’insegnamento: e questa è una grande soddisfazione!».
Perché, prima non poteva insegnare ai giovani?
«Quand’ero in proprio, avere un apprendista
era un onere! Un allievo in formazione genera
costi elevati, e fino al terzo anno non rende: in
realtà, è solo una spesa».
Allora, adesso, è fin peccato averne uno
solo…
«Di più non si può. I nostri macchinari sono
cari e delicatissimi: pensi che gli aiutanti che
ho sono qui solo per spostare la carta, i grossi
pesi, ma non possono metter le mani sulle
macchine. Dunque, un solo apprendista, almeno per il momento: poi, quando lui inizierà
il terzo anno, potrà aiutare un altro principiante, e quindi potrò prendere un secondo allievo».
Insegnare in carcere è come farlo fuori?
«No. Oltre a svolgere le funzioni del normale
maestro di tirocinio, come prima, in carcere ho
anche il compito di preparare le lezioni, gli
esperimenti. E per far questo non basta l’esperienza lavorativa, io stesso devo rimettermi a
studiare. Poi ci sono delle difficoltà oggettive:
qui non puoi prendere con te il tuo allievo e
portarlo fuori a vedere come lavorano le ditte,
Creato e stampato presso le strutture carcerarie cantonali
e dunque mi tocca compensare questo handicap con dei filmini, con delle foto… Tutte
cose che devo preparare io, e devo dire che
questo mi piace tantissimo».
Ma è tutto lavoro in più…
«Sì, ma dà grandi soddisfazioni. Io son fatto
così: se non sento di aver dato molto non sono
contento. E qui lo sono: ancor più di prima!
Qui mi sento davvero stimolato ad andare
avanti, e conto di trasmettere questi stimoli
anche ai miei apprendisti. E spero che,
quando usciranno, troveranno lavoro e soddisfazioni».
Lei deve amare molto il suo mestiere!
«Sì, mi piace tantissimo: l’ho imparato nel
1968, e non ho mai pensato di cambiarlo. Ancora oggi faccio tutti i corsi di aggiornamento.
Del resto ce l’ho nel sangue: già mio padre era
legatore e restauratore di libri, io sono cresciuto in quell’ambiente. Per me è una vera
passione, che cerco di infondere nei giovani:
e mi sembra proprio di riuscirci. Sa, io non ho
figli maschi: e allora… mi butto sugli apprendisti!».
M.E.