silvia sacco stevanella 1. la grotta dei sussurri

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silvia sacco stevanella 1. la grotta dei sussurri
s i l v i a s a c c o s t e va n e l l a
1. l a g ro t ta d e i s u s s u r r i
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A mia madre, Lucia,
e alla mia famiglia
Illustrazioni interne: Michele Frigo
www.ragazzi.mondadori.it
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Prima edizione settembre 2012
Stampato presso Mondadori Printing S.p.A.
Stabilimento N.S.M., Cles (TN)
Printed in Italy
ISBN 978-88-04-61668-9
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Prologo
B
alzò con un ruggito oltre il cespuglio e atterrò sull’erba.
Si fermò solo un attimo per riprendere fiato. Affidò
quel che restava della sua vita a quei pochi, profondi respiri.
Un altro istante e il cuore gli si sarebbe fermato.
Cercò il punto che bruciava, guaì di dolore. Leccò il sangue che brillava dentro la ferita. La scia rossa che si era lasciato dietro non l’aveva certo aiutato a seminarli.
Alzò gli occhi alla luna, fiutò l’aria. Setacciò l’odore della notte, e tra l’umido della terra e il profumo acre dell’erba distinse quello che cercava. Lo trattenne con delicatezza,
come se fosse il capo di un filo fragilissimo. Era l’odore di
lei, quello che doveva seguire.
Tese le orecchie. Era difficile sentirli, ma non per il suo
udito. Uno scalpiccio, un ansimare trattenuto.
Quell’odore di latte acido.
Erano vicini.
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Raccolse le forze e riprese a correre, oltre la foresta. Quattro tonfi si alternavano nel suo galoppare furioso, mentre i
rami più ostinati gli aprivano ferite sulla pancia. Perdeva
bava dalla bocca, sentiva il cuore schiantarsi dalla fatica,
ma non poteva fermarsi.
Un albero, un altro ancora, una salita, su su e ancora su,
e poi giù lungo una discesa ripida, i sassi che schizzavano
al suo passaggio.
Fu in quel momento, mentre spiccava un lungo balzo, che
il dirupo si interruppe sul vuoto.
Gli mancò l’aria, cadde pesantemente.
Il suo corpo rotolò su un terreno duro e granuloso.
Due luci, prima piccole e poi sempre più grandi, vennero verso di lui. Non fece in tempo a spostarsi che qualcosa
lo colpì.
Un lungo stridio, e il grosso oggetto che correva si fermò.
Ne uscì un’ombra che emetteva suoni sconosciuti, ma
quando cercò di avvicinarsi, lui si rialzò e corse via nascondendosi nel buio.
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Un’ombra nel bosco
U
n altro paio di scarpe.
Luce strinse i lacci dei suoi stivaletti rosa come
fossero dei cappi, consegnando i piedi a quella nuova
prigionia. Perché sua madre continuasse a regalarle
scarpe per il compleanno rimaneva un mistero. Proprio a lei, che avrebbe passato la vita a camminare
scalza.
— Grazie, mamma — disse alzandosi dal divano. —
Staranno benissimo con le tende del salotto.
Almeno, le sneaker che le aveva regalato la scorsa
volta erano di un colore esistente in natura: quel rosa
abbagliante sembrava radioattivo.
— Ti vesti come un maschio, ormai sei quasi una
donna — le rispose Zelda, accarezzandole i lunghi capelli castani. — Se non altro, con questo colore non ti
scambieranno per un taglialegna.
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Sua madre, che non aveva mai messo una gonna in
vita sua e portava i capelli cortissimi, sembrava avere
una passione per gli indumenti frivoli, a patto che li indossasse Luce.
A parte questo, però, non era male. Sempre meglio dei
genitori di Zoe, la sua migliore amica, che la costringevano a sorbirsi libri noiosissimi con la scusa che leggere
nutriva la mente, mentre loro si inebetivano davanti alla
tv. O della mamma di Valentina, che le negava qualunque tipo di merendina con la sua mania per il salutismo,
ma poi si sparava settanta chilometri con il suv per comprare una barretta di tofu nella bottega di cibo biologico.
— Ti ho fatto la tua torta preferita — annunciò Zelda
con fierezza. — Mandorle, pistacchi e cioccolato fuso.
Luce la baciò su una guancia. Il profumo di una torta appena sfornata era una delle rare cose capaci di rendere più sopportabile la sveglia mattutina. Pettinarsi,
scegliere i vestiti per la scuola e ricongiungere due calzini dello stesso colore erano attività così noiose che
avrebbe preferito smaterializzarsi ogni sera per essere
clonata la mattina dopo, già lavata e vestita.
Anche Brutus parve apprezzare quel profumino, e
come al solito non mancò di manifestare il suo entusiasmo piazzando le zampone a forma di carciofo sulle
gambe di Luce, con grandi scodinzolii e guaiti.
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— Sei proprio senza dignità quando si tratta di cibo
— disse lei accarezzando il testone color miele del labrador e versandogli nella ciotola una dose extra di
croccantini. — Offro io. È il mio compleanno.
Brutus si avventò sulla pappa come se non mangiasse da giorni. L’avevano trovato in un fossato quando
era cucciolo, tutto sporco e pieno di zecche, e da allora aveva recuperato la salute fin troppo bene: era sempre il primo a svegliarsi, all’alba, e si premurava di farlo sapere a tutti sbatacchiando la coda contro le porte
o qualunque superficie in grado di produrre rumori
molesti.
Era agilissimo, e quando Zelda lo portava per i boschi nei suoi giri di ricognizione spiccava balzi da stambecco e sapeva fiutare il pericolo a distanze incredibili. Ma a casa si trasformava in un cuscino di pelo e se
ne stava tutto il tempo spaparanzato sulla coperta accanto alla poltrona, rianimandosi solo al rumore crocchiante delle confezioni di cibo.
Era bastata la promozione a cane domestico per ridurlo alla versione canina di Homer Simpson, come
talvolta lo apostrofava Luce: mentre prima dormiva
nella cuccia in veranda, dopo gli ultimi tragici eventi era stato ammesso in casa. Sua madre si sentiva più
sicura così.
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— Mangia una bella fetta, Luce, che poi dobbiamo
andare — disse versandosi una tazza di caffè bollente.
Oltre al tempo per preparare qualche torta, Zelda trovava anche quello per accompagnare a scuola
Luce prima di affrontare la dura giornata di lavoro.
Dovevano alzarsi molto presto, perché il liceo era
nella cittadina di Poggio Falco e nessun autobus arrivava abbastanza vicino alla loro casa, arroccata su
una collina nel cuore del Parco della Gola della Rossa e di Frasassi.
Sua madre le aveva raccontato di quando si era sistemata lassù con suo padre, sicuri che la bellezza della vista su quella natura selvaggia, nel cuore delle Marche,
li avrebbe ripagati dalla fatica di sistemare la vecchia
casa appartenuta ai nonni. Giovanni era convinto che
sarebbe stato un posto meraviglioso in cui far crescere sua figlia, e per lui il luogo più adatto ai suoi polmoni, che non sopportavano l’inquinamento della città.
Soffriva di crisi d’asma così forti che tossiva alla sola
vista di una sigaretta o di un tubo di scappamento. E
poi aveva bisogno di un posto tranquillo dove scrivere
i suoi romanzi per ragazzi.
Il preferito di Luce era proprio l’ultimo, quello che
aveva pubblicato prima di lasciarle. Il giovane protagonista scopriva che l’adorabile vecchina della casa di
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fianco, sempre intenta a lavorare all’uncinetto, tesseva
da anni un’enorme ragnatela con cui avrebbe dominato il mondo. Pochi mesi dopo averlo terminato, suo padre era sparito. Ogni volta che Luce rileggeva il libro,
nel silenzio della veranda, cercava un indizio, una parola che spiegassero le ragioni di quella fuga, ma non
ne aveva mai trovati.
Erano passati solo otto mesi da quando suo padre le
aveva abbandonate. Una mattina lei e mamma si erano
svegliate e lui, semplicemente, non c’era più. Aveva lasciato solo una breve lettera sul tavolo di cucina, due righe
che dicevano qualcosa come “perdonatemi, non posso
spiegarvi, ma vi amerò per sempre”, Luce non ricordava bene: aveva voluto rimuovere quelle parole orribili.
Sua madre aveva sofferto tantissimo per quell’abbandono. C’era stato un periodo, poco dopo il giorno della
sua scomparsa, in cui era così triste e stanca che Luce
aveva dovuto occuparsi della casa praticamente da sola.
Non le era rimasto più molto tempo per studiare e a
scuola aveva cominciato a collezionare insufficienze.
Finché, un giorno, alzandosi, sua madre si era guardata allo specchio e aveva deciso che era arrivato il momento di farsi coraggio.
Da allora era diventata una tale forza della natura che Luce talvolta la chiamava “mammut” anziché
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mamma, e questo era uno dei giorni in cui quel soprannome le si addiceva particolarmente. Dopo aver
preparato una torta spettacolare, era riuscita a farcire il panino più invitante che Luce potesse concepire
– prosciutto, zucchine, fontina e salsa ai funghi – per
la ricreazione.
Perfino la sacca con il binocolo e il piccone era già
pronta sul mobile accanto all’ingresso, e qui Luce si
insospettì. Di solito sua madre impiegava almeno
venti minuti per cercare gli attrezzi da guardacaccia
in giro per casa, maledicendo il tunnel spazio-temporale che se li era mangiati. Doveva essere successo qualcosa.
— Stamattina presto mi ha telefonato il signor Serri, era molto preoccupato — disse a conferma dei suoi
sospetti.
— Perché? — chiese Luce smettendo di masticare.
— Dice di aver investito un animale stanotte. È scappato, ma sembra che perdesse molto sangue.
Luce si rattristò. A volte capitava che gli animali finissero sulla strada e, per quanto i cartelli invitassero
alla prudenza, raramente le auto andavano abbastanza piano per frenare in tempo.
— Che animale era?
— Devo scoprirlo — rispose sua madre. — Serri non
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me l’ha saputo dire. Ha visto solo un’ombra a quattro
zampe, poteva essere un lupo come un cinghiale.
— Devi andare a cercarlo?
— Sì, e in fretta. Potrebbe aver bisogno di cure, o essere pericoloso.
Luce sapeva che un animale ferito poteva diventare
molto aggressivo. Anni prima nel Parco un cinghiale
aveva attaccato un gruppo di turisti, per fortuna senza
gravi conseguenze, a parte il terribile spavento.
Luce finì in fretta la torta e bevve d’un sorso il caffellatte, ormai appena tiepido, poi andò alla specchiera del
salotto per farsi la coda. Sì, l’unica cosa che le piaceva
di lei erano gli occhi. Verdi come quelli di suo padre,
grandi e un po’ malinconici. Non meritavano di finire sopra quel naso a patata e quelle guance paffute, e
forse era quello il motivo per cui sembravano sempre
così tristi. Il loro habitat naturale sarebbe stato il viso
di mamma, con i suoi zigomi ben disegnati e l’accenno
di lentiggini sulla pelle chiara, che si colorava di ambra
sotto il sole e nella cornice dei capelli nerissimi la faceva sembrare una principessa indiana. Luce non andava
pazza nemmeno per la fioritura di foruncoli che ogni
tanto le spuntava attorno all’attaccatura dei capelli, e
che cercava astutamente di coprire con la frangetta,
ma pazienza: secondo i settimanali che ogni tanto sbir13
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ciava da zia Arianna, quello sarebbe stato l’anno della
svolta, in cui il brutto anatroccolo avrebbe riscosso la
sua dose di piume bianche e splendore. O forse, in un
finale alternativo, si sarebbe trasformato in un dodo.
Infilò in tasca il panino avvolto nel cellophane e sollevò lo zaino su una sola spalla, abitudine che non aveva
mai abbandonato e che suscitava la disapprovazione di
sua madre, costretta a rinforzarle la spallina con ago e
filo ogni volta che cedeva. Sulla stoffa consunta si erano stratificati anni di scritte, disegni, macchie e ferite
di guerra che Luce guardava con nostalgia, pensando
a com’era felice quando la dichiarazione d’amore per
Johnny Depp era ancora fresca di pennarello. Suo padre l’aveva presa in giro, dicendo che la sua bambina
meritava di meglio che quel bambolotto di plastica.
Ora quella scritta sbiadita era coperta dal testo di una
canzone, Sittin’ on the Dock of the Bay. Zoe le dava della vecchia, e diceva che solo i nonni ascoltavano Otis
Redding o come si chiamava. Ma Luce la trovava bellissima, e questo bastava per passare la selezione all’ingresso del suo Ipod. Certo non disdegnava le hit del
momento, ma non le piaceva seguire le mode solo per
essere updated, come dicevano “quelli avanti”.
— Aspetta un attimo — gridò attraverso la porta
aperta, mentre sua madre faceva salire Brutus sul se14
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dile posteriore della Cherokee e caricava la sacca nel
bagagliaio.
Luce salì le scale in quattro salti e corse in camera,
cercando tra i libri sparsi sulla scrivania la custodia rossa che proteggeva l’iPod. Non poteva affrontare la giornata senza un’adeguata colonna sonora. Non sapeva
ancora cos’avrebbe scelto per quel giorno speciale, ma
di sicuro non avrebbe cliccato su Happy Birthday to You.
All’improvviso, inaspettatamente, l’aveva colta una profonda malinconia, come se il pittore che stava dipingendo quella giornata si fosse accorto di aver scordato il nero e ne avesse spremuto un intero tubetto. Non
aveva ancora realizzato fino in fondo che quello era il
suo primo compleanno senza papà.
Un colpo di clacson dall’esterno la distolse da quel
pensiero. Doveva sbrigarsi.
Ma prima di schizzare fuori dalla porta si fermò a
fare una carezza al bonsai sul comodino, una quercia
giapponese dal fusto massiccio e l’aria solida.
Era il suo preferito tra i quindici che aveva adottato,
uno per ogni anno della sua vita. Il quattordicesimo
bonsai, quello dell’ultimo anno con papà.
Erano stati i suoi a inaugurare quella tradizione, e
da quando aveva compiuto tre anni Luce andava sempre con loro al negozio di fiori per sceglierlo di perso15
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na. La cosa sorprendente era che da allora non ne aveva fatto morire nemmeno uno, nonostante fosse solo
una bambina e l’arte di uccidere i bonsai fosse mediamente più praticata di quella di crescerli. Anzi, tra
le sue mani quegli alberelli germogliavano senza fatica, mettendo frutti e fiori dai colori sgargianti, tanto
che la fioraia che glieli vendeva si era fatta promettere da Luce di andarla ad aiutare in negozio non appena fosse diventata abbastanza grande.
Il quindicesimo bonsai era arrivato da un giorno e se
ne stava in disparte su una mensola lontana dalla finestra, nell’angolo più buio della stanza. Eccezionalmente era stata sua madre ad andare a prenderlo il giorno
prima, per evitare che Luce rivivesse un momento in
cui la presenza di suo padre era sempre stata importante. Luce non l’aveva degnato di uno sguardo, e si era
limitata a un’innaffiatina di circostanza. Così quell’esile ciliegio nano, che sembrava una bambina spettinata
con i rami sparati in tutte le direzioni e i fiorellini rosa
protesi in cerca d’affetto, se ne stava lassù, in attesa che
la sua nuova padrona si accorgesse di lui.
Ma fu alla piccola quercia che Luce rivolse le ultime
parole prima di uscire e raggiungere sua madre: — Almeno tu, non crescere mai.
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Arrivarono rapidi e silenziosi, attraversando la radura con
una traiettoria precisa come il veleno di uno scorpione.
Si fermarono là dove il filo rosso si interrompeva e una
chiazza di sangue si allargava sul terreno.
Si chinarono, tastarono l’erba.
Il primo saggiò con il pollice il contorno tagliente delle proprie unghie. Pregustò il momento in cui si sarebbero conficcate nella carne della preda. Le sarebbe passata presto la voglia di scappare.
Un istante e scattarono in piedi. Il bosco li inghiottì con
un fruscio.
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