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Chiedi alla polvere
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Sono andato via di casa a dodici anni, quindi non posso dire di aver vissuto finora una vita normale. Per me
le vite normali sono gli amici di scuola, il liceo vicino
a casa, l’università. Mi sarebbe piaciuto avere un’esistenza come quella di Tina, mia sorella, o come quelle di tante persone che conosco nel New Jersey, ma se
avessi scelto un percorso del genere non sarei mai stato un calciatore. La strada che porta a diventare uno
sportivo professionista, inevitabilmente, ti fa perdere
parecchie cose, ma te ne regala altre. Sono stato lontano da casa, a otto ore di aereo, per un sacco di tempo, eppure non ho rimpianti, perché il calcio è sempre stato il mio primo pensiero. Non so che cosa farei
senza: non c’è niente che possa allontanarmi dal pallone. Del resto, non si può pensare di vivere come gli
altri e diventare un atleta di professione. E, se e quando lo diventi, sai che in un certo senso devi difenderti.
Non mi piace dire molto di me: amo la discrezione
e non sopporto che si invada la mia privacy. Ho pochi amici veri, il mio cerchio è molto piccolo. Sono un
calciatore, e so che magari tanti ti stanno vicino per
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questo, perché sei famoso. Non sono uno che dorme
in piedi, a volte è perfino banale... Così va il mondo
di oggi, e non mi metterò certo io a fare della filosofia
su come si comportano gli individui in questa società.
Mio padre mi dava dei consigli, e io ancora li seguo.
La famiglia, come ho già detto, è fondamentale per
me, perché questa avventura l’abbiamo vissuta tutti
uniti, anche se in certi periodi eravamo materialmente separati. A Parma stavo prima con mio padre, poi
sono arrivate mia sorella e mamma, perché papà non
poteva perdere altri giorni di lavoro. Ho vissuto in
modo diverso anche la scuola, perché quando sei un
calciatore trovi tanti insegnanti che, in un certo senso, ti sfidano: io ero americano e giocavo a pallone,
non so se mi avessero preso di mira, ma so che dovevo combattere e fare di più, studiare qualche ora in
più. Non mi davano fiducia, e io lottavo per avere la
sufficienza. Le scuole medie sono state un problema
in questo senso, però mi sono anche abituato a non
mollare mai. Sono riuscito a finire il liceo in Inghilterra. La classe era formata interamente da giocatori dello United. Non avevamo orari come gli altri perché
si dava la precedenza al calcio, ma l’educazione era
molto importante per il club, quanto lo era per me e
per i miei genitori.
Lo United ha rappresentato un lungo momento fantastico della mia esistenza. Il Parma mi ha fatto crescere, ma il mio percorso di professionista del calcio è cominciato a Manchester, con una leggenda come Alex
Ferguson e tante altre intorno a me nello spogliatoio.
Il primo gol è arrivato nell’ottobre 2005, è passato così
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tanto tempo e io sono ancora giovane, quindi mi pare
una cosa inconsueta e importante. Giocavamo contro
il Sunderland. Li chiamano Black Cats, ma chi lo ha
detto che i gatti neri portano sfortuna? Sono entrato al
posto di Ruud Van Nistelrooy sul 2-0 per noi. Avevo
appena messo piede in campo che il Sunderland si è
portato sul 2-1 con Stephen Elliott­. Era l’82’. Dopo cinque minuti ho segnato da fuori area, su assist di Wayne­
Rooney. Van Nistelrooy, che si era seduto in panchina dopo la sostituzione, voleva esultare con me, ma
Ferguson­lo ha trattenuto. Stimo tantissimo Ruud, fin
dal primo giorno in cui sono arrivato a Manchester­, e
tra l’altro io e lui siamo diventati amici e qualche volta
mio padre accompagnava entrambi al centro sportivo.
In campo, subito dopo il mio gol, si è creata una
vera e propria “mischia” di compagni, un gruppo allegro che voleva incoraggiarmi e farmi sentire importante. Insieme a Rooney e agli altri è arrivato perfino
Edwin Van der Sar, e sapete quanta strada deve fare
un portiere per raggiungere i compagni? Era il mio
primo gol in Premier dopo i tanti record raggiunti con
l’Academy­del Manchester, e mi sentivo felice. Ero in
una delle squadre più importanti del mondo e mi trattavano da protagonista. Ma non è finita lì.
A Manchester andava tutto bene, per un americano era l’ambiente perfetto, e la mia anima italiana si
consolava con il ristorante di amici che aveva trovato papà. Fernando era con me, forse si sentiva un po’
solo mentre io mi allenavo. Soprattutto gli mancavano la sua casa, la sua famiglia. Dunque, aveva trovato
il suo gruppo di amici a Manchester. Si era fatto il suo
circolino italiano, potevamo vedere le partite della se59
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rie A, pensare al passato, preparare il futuro e soprattutto commentare il presente. Manchester è una città
piena di gente simpatica, e sarà sempre un luogo speciale per me e per la mia famiglia. Manchester mi ha
confermato che Giuseppe Rossi, non ancora Pepito,
poteva diventare un giocatore top.
Comunque, al momento, la situazione era quella.
Dieci anni fa ero uno che aveva fatto registrare tanti record a livello giovanile, ma come tutti i ragazzi cercavo il mio posto nel mondo. Giocare nel Manchester era bello, mi ricordo del giorno in cui, dopo
un allenamento con la squadra riserve, ho incontrato
Ryan Giggs nello spogliatoio e ho pensato: “Giuseppe, Ryan Giggs, ti rendi­conto? Questo lo vedevi nelle
figurine”. E ora era lì accanto a me, gentile, per niente
spocchioso, sembrava anzi che avesse voglia di mettere i più giovani a proprio agio e di ricordare loro che
cosa sia il Manchester United, cioè una casa del calcio... Certo non l’unica, non voglio dire questo, ché il
calcio fiorisce in ogni angolo del mondo. Io dico che
sono un professionista, che devo trovare il mio spazio in ogni situazione, e che comunque, in quegli anni,
quando ero ancora un ragazzino, ho percepito delle
cose dell’Inghilterra, del Manchester e del football.
Ma poi le cose cambiano, e uno si ritrova magari dal­
l’altra parte del globo. Io, dopo Newcastle e Parma,
mi sono trovato in Spagna. Altro trasferimento, altro
campionato, altra lingua. Per fortuna mia madre insegnava spagnolo, e lo spagnolo è talmente parlato negli Stati­ Uniti che sono arrivato pronto. Ho trovato
una cultura diversa, un clima diverso, e non mi sono
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sentito impreparato. La Spagna in quel periodo si preparava alla serie incredibile di successi della sua nazionale, e la Liga offriva già valide alternative al solito duopolio Real Madrid - Barcellona, basti pensare al
Valencia o al Deportivo di quei primi anni del Ventunesimo secolo. Comunque, io mi sono trovato lì e ho
cercato di fare la mia storia. Ho segnato un gol al Real
Madrid superando Cannavaro, i miei genitori erano
in tribuna fra i tifosi del Madrid e soprattutto Nilde
esultava, e papà ha dovuto tirare per il braccio mamma, che stava esagerando un po’ con l’esultanza... Perché a Madrid sono tranquilli, però non si sa mai, meglio non provocare il lupo in casa propria. «Nilde, è
meglio che stai attenta, in fondo siamo al Bernabéu.»
Mia madre sembrava quasi impazzita. Forse soltanto chi ha vissuto una vita come la sua può capire: si è
fatta largo in un paese straniero, ha tirato su un figlio
che è diventato calciatore e si è affermato in un paese
straniero... Ce n’è abbastanza per provare una felicità
oltre ogni limite.
Un po’ come quella che ho provato io stesso dopo
Fiorentina-Juventus. Non so dire nemmeno se fosse
felicità, o piuttosto una sensazione così forte che mi
riesce difficile trovare la definizione giusta. Era una
partita sentitissima, e dopo il primo tempo, in cui eravamo andati sotto di due gol, era diventata un’impresa
quasi disperata, ma alla fine si è tramutata in una specie di apoteosi. Nella settimana precedente alla gara
avevo capito quanto i fiorentini tenessero a vincere. E
poi, il momento arriva. Una meravigliosa coreografia,
una grande atmosfera: quando sono entrato in cam61
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po mi sono sentito invadere da un’onda di calore, ma
anche da un po’ di nervosismo. Di fronte a noi c’era la
Juve, i rivali di sempre, che la Fiorentina non batteva da
tempo; c’era l’aspettativa di riuscire a farlo, perché la
squadra stava andando molto bene. Spesso, però, succede che tu ti senta sulla cresta dell’onda, e che l’onda ti
butti giù. Nel primo tempo siamo affogati e nello spogliatoio serpeggiava un velo di tristezza. Era davvero
brutto perdere, per i tifosi e perché contro la squadra
più forte della serie A avremmo voluto fare l’impresa,
invece eccoci lì. Non saprei spiegare come e quando è
scattato qualcosa, ma so che nel secondo tempo il nostro atteggiamento è stato diverso, e il segnale è stato una parata fenomenale di Neto su Marchisio. Lì ci
siamo ritrovati, abbiamo pensato: si può fare. Si può
sempre fare, questa è la filosofia giusta. Ho segnato il
primo gol su rigore, poi ho ricevuto palla da Mati Fernández, che l’aveva rubata a centrocampo. Ho superato uno juventino e mi sembrava di volare. Gol sul
secondo palo, pareggio. Una cosa stupenda, riaprire
la partita e pareggiare in pochi minuti. Nessuno sperava in una rimonta, invece eccola servita. Una scena
da film, uno di quei film americani dove il fuoricampo arriva al momento giusto, o dove il cavallo macina
metri su metri, riprende l’avversario e lo passa proprio
sul traguardo. O se preferite un ultimo touchdown da
rivedere mille volte per gustarlo di più, proprio come
succede al cinema, quando l’underdog, l’outsider, batte il favorito con un colpo di coda che non viene dalle gambe ma dalla testa e, più ancora, dal coraggio.
Una scena così intensa da diventare indimenticabile. Il pallone che parte, e viaggia, si alza e poi scende­,
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e tu trattieni il respiro finché non è arrivato dove deve
arrivare. Ecco, un po’ così, ma ancora non avevamo
fatto nulla, perché eravamo “solo” sul 2-2 con la Juve.
Ma ormai avevamo ritrovato lo strada, e quando Borja
Valero­e Joaquín hanno cucito il gol del sorpasso è venuto giù lo stadio. Buffon battuto, gioia incontenibile.
Non ci potevo credere. I tifosi erano ancora lì che ballavano, sembrava una festa nazionale, quando Cuadrado
è partito con la sua falcata, e sai che fatica stargli dietro.
Ce l’ho fatta, eravamo due contro uno e ho segnato il
quarto gol, il mio terzo, con un tiro a giro sul secondo
palo. Era il gol che metteva i sogni al riparo dal risveglio, perché dopo momenti così belli pensavamo tutti
di risvegliarci e di dover dire “ok, allora adesso si comincia a giocare”. Sembrava che fosse esplosa tutta la
città, non soltanto lo stadio. E io ero lì, sdraiato sui cartelloni pubblicitari con Cuadrado, perché mi mancava
l’aria. Ero più stanco per l’emozione che per la partita appena giocata. L’emozione mi aveva prosciugato,
era una sensazione stupenda, ma la cosa più bella erano loro, i tifosi. Sembrava di aver vinto la coppa dei
Campioni. Ho visto gente di quaranta o cinquant’anni
che piangeva e l’emozione è stata incredibile. Era una
scossa, un’energia che accendeva la città, un risultato
storico, soprattutto per come era stato raggiunto. Venti
ottobre 2013: difficile scordare quella data.
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Manhattan Transfer
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A New York puoi essere uno nessuno e centomila. Mi
piace il senso di libertà che ti trasmette, non una persona che ti conosce o che si occupa di te. Non dappertutto, ovvio: in alcune zone di Manhattan mi conoscono bene, ma questo non influenza più di tanto
la mia vita. A New York ti vesti come ti pare, sei come
vuoi, nessuno ti giudica. Tutti vanno veloce e nessuno
si sofferma su come sei, come parli, come ti presenti.
New York è la libertà. Quando le Torri Gemelle sono
state attaccate, io ero un ragazzo, un adolescente. Ho
di quei giorni il ricordo della mia famiglia, dei miei
amici. Io non ero a New York, ma questo vuol dire
poco. L’11 settembre è una cicatrice che tutti ci portiamo sulla pelle.
Quando arrivano a New York, molti europei si meravigliano del fatto che i newyorkesi ricordino quel fatto
senza permettere al ricordo di limitare la loro esistenza. Io non ci vedo niente di strano. Gli abitanti della
“Grande Mela” sono usciti da quei giorni sentendosi più forti e più fragili, e liberi. Arrendersi alla paura
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sarebbe come farsi mettere in gabbia. È il sentimento
che accompagna tutte le nostre vite, e giustifica anche i miei sforzi e la mia caparbietà nel rimettermi in
piedi dopo tutte le cose negative che mi sono capitate. Sono tante, ma non sono il male del mondo. Altre
cose sono il male del mondo, e anche a quelle bisogna
rispondere con ardore.
Ardore, una parola stupenda e così antica. Ardore, che
è diverso dal coraggio, perché ardore è anche un po’
incoscienza e soprattutto determinazione, senso della
sfida. La sfida che io sto ancora sperimentando, quella che tanti campioni che vedo in tv o dal vivo hanno
affrontato e vinto.
Un nome per me, anzi due: Kobe Bryant e Roger
Federer. Kobe e Roger sono circondati dalla passione
di milioni di tifosi, gestiscono la passione e la limitano,
ci convivono, come tutti gli abitanti di New York, che
hanno vissuto situazioni difficili e le hanno superate.
Chi ha rischiato la vita per soccorrere quelli che stavano sotto le macerie l’11 settembre ha vissuto un’esperienza di intensità unica, che non può corrispondere
ad alcuna delle sfide che uno sportivo vive. Eppure, io
credo che in questa città, in questo paese, ci sia un’energia che tutti si portano dietro. È un contagio positivo,
ed è un onore lasciarsi conquistare da questa energia.
L’Italia è sempre nella mia mente ed è meravigliosamente bella. È la terra dei miei genitori, dei miei nonni, gente fantastica e forte. L’America è un’idea che mi
sorregge e mi guida, perché io sono un italiano nato nel
New Jersey e questa è la mia doppia dimensione. Amore,
arte, bellezza, novità, coraggio: un cocktail eccezionale.
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Dunque, Kobe e Roger, che, si dirà, è svizzero e con
l’America c’entra poco. Sarà anche vero, ma mi chiedo:
che cos’è l’America, se non una somma di esperienze,
idee, sentimenti? Lacrime e sudore, ma anche ingegno.
Sulla statua della Libertà è riportato quel sonetto di
Emma Lazarus, “Datemi le vostre stanche masse...”.
La Statua della Libertà è in mezzo all’acqua, davanti a casa mia. Non è una statua, per me. È un’idea, un
fatto, è tutto quello che è successo alla mia famiglia,
alle mie famiglie, quella di mamma e quella di papà.
E io dovrei fermarmi di fronte a qualche infortunio?
Impossibile. Io vado avanti.
E lo faccio cercando di rialzarmi ogni volta, perché
soltanto chi cade ha l’opportunità di risorgere. Penso a papà e a quei due campioni eccezionali, che sanno gestire la pressione in maniera incomparabile. È
questo che fa la differenza. Come ci riescano, è difficile da capire, ma io ci provo.
Kobe Bryant e Roger Federer hanno la tranquillità in
loro stessi, la forza viene da lì. Riescono a stare sotto gli occhi di tutti senza perdere la serenità nel momento decisivo. Anche io voglio farlo: a volte ci sono
riuscito nel corso della mia carriera, ma voglio continuare a studiare questi campioni, perché quando arriveranno momenti ancora più importanti del mio
percorso umano e professionale vorrei farmi trovare altrettanto pronto. Non si finisce mai di imparare.
Dominare le situazioni difficili è una dote che dipende dall’esperienza ma anche dal carattere, e io non ho
dubbi: so che potrò fronteggiare e superare i momenti complicati perché l’ho già fatto altre volte. Sono si69
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curo che il successo derivi dal controllo, dalla consapevolezza, dall’intelligenza. Anche il talento, e anche
tutto il resto, e le vite di due campioni come Bryant e
Federer lo dimostrano.
Non so come si possano vivere attimi così decisivi
con serenità, aspetto di esserci per avere l’opportunità di sperimentarlo di persona. Mi preparo studiando. Quello che so è che non bisogna aver paura di sbagliare, da questo nasce la capacità di gestire i momenti
che cambiano la partita o magari la carriera. Anche
Federer sbaglia, e studia e rischia ancora. I campioni
non temono di ritrovarsi lì, nel momento decisivo. Se
sbagli un calcio di rigore, la volta dopo vai ancora sul
dischetto e ci riprovi. Il campione fa così, il campione
non ha paura dei precedenti. Se non rimonti in sella
dopo essere caduto, non saprai mai come potrà essere. Se hai fiducia in te stesso, ci riprovi, e sai che non
sbaglierai più. Per un atleta, la mente è l’organo principale, e io analizzo ogni aspetto del comportamento dei fuoriclasse, per capire come riescano a gestire i
momenti critici. Rivedo fino alle tre o alle quattro del
mattino ogni mia partita, esamino i gesti e gli errori.
Lo facevo con papà e lo faccio ancora. Come tutte le
persone che, in America e nel mondo, riesaminano i
propri errori per migliorare. Si chiama progresso.
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