Il dovere di negoziare

Transcript

Il dovere di negoziare
Il dovere di negoziare
di Lucio Caracciolo
C' è un solo modo per impedire che il Kosovo si avviti nel caos: costringere Belgrado e Pristina a
negoziare direttamente la loro inevitabile convivenza. Senza più citare nemmeno per sbaglio la
questione dello status, su cui per il futuro prevedibile ognuno resterà della sua idea. Ma costruendo
un regime di cooperazione serbo-albanese su tutto ciò che conta: dalla protezione delle minoranze al
commercio, dall' energia al contrasto delle mafie.
Per il Kosovo è la prima, vitale necessità: il baby-staterello non potrebbe sopravvivere se la Serbia
volesse strangolarlo nella culla, destabilizzandolo e infiltrandovi commandos di provocatori contro
cui le forze internazionali potrebbero poco.
Per la Serbia è l' ultima opportunità: invece di eccitarsi nello sterile risentimento contro l'
Occidente, dimostrerebbe nei fatti di assumersi la responsabilità di una terra che considera propria.
Per noi italiani e per quegli altri paesi non solo occidentali che si sono precipitati a riconoscere il
Kosovo "indipendente", esasperando una crisi difficilmente controllabile nelle sue diramazioni
regionali e globali, sarebbe un modo per limitare i danni.
E per ricordare a noi stessi ciò che periodicamente dimentichiamo: questi Balcani sono un malato
cronico. Da trattare con prudente, omeopatica perseveranza.
Esattamente il contrario di quanto abbiamo fatto dagli anni Novanta in poi, oscillando fra oblio e
terapie d' emergenza. Con il risultato di lasciare che i conflitti a lungo trascurati riesplodessero
anche a causa della nostra pretesa di risolverli d'un colpo. Da aspiranti moderatori siamo scaduti a
strumenti delle fazioni locali. Magari illudendoci, in un riflesso tardocoloniale, di esserne i
protettori. Con i nostri spocchiosi "governatori" ridotti a governanti (femminile plurale).
Non è troppo tardi per correggere la rotta. E' possibile, necessario e urgente. L'alternativa, prima o
poi, è la destabilizzazione del Kosovo, la riapertura di ferite superficialmente suturate (Bosnia) o
dimenticate (Sangiaccato serbo-montenegrino, minoranze albanesi della Serbia meridionale e della
Macedonia occidentale, irredentismi magiari nella Vojvodina serba eccetera), per tacere degli effetti
di balcanizzazione su scala mondiale, alcuni già visibili.
In questo clima è improbabile che kosovaro-albanesi e serbi dimostrino spontaneamente tanta
lungimiranza. Solo americani e russi insieme possono inchiodarli al tavolo.
Ma i primi sono in tutt'altre faccende affaccendati e i secondi vogliono godersi fino in fondo lo
spettacolo di un Occidente che, non richiesto, si è ficcato in un tunnel da cui non sa come uscire. E
che ha regalato la Serbia e altri Balcani alla nuova sfera d' influenza moscovita, estesa ormai senza
interruzioni dal Mar Nero all'Adriatico.
Non restiamo che noi europei. Invece di accapigliarci sullo status - ormai è stabilito che ognuno farà
come crede - potremmo premere sui contendenti e sui loro sponsor di Washington e Mosca perché
si impegnino a lenire i traumi conseguenti alla proclamazione unilaterale dell'indipendenza del
Kosovo.
Sapendo che quel territorio può cambiare mille bandiere e mille denominazioni, ma non sfuggirà al
destino che la geografia gli impone. Anche da "indipendente", era, resta e sarà condannato a
convivere con la Serbia. Persino se un giorno dovesse unirsi all' Albania e ai contigui territori
agognati dall' irredentismo illirico.
Lo sanno bene i capiclan kosovari, che cogestiscono i loro traffici criminali (droga, armi,
prostituzione, contrabbando di petroli eccetera) con i confratelli serbi. Se le mafie collaborano per i
comuni interessi, perché non anche gli Stati
Tanto più che in Kosovo - ma anche in altri paesi della regione - i due livelli tendono a coincidere: i
capi politici sono i capi dei clan mafiosi, i quali a suo tempo erano i capi della guerriglia. Quando
necessario, svestiranno il doppiopetto per la tuta da combattimento. In fondo, il futuro del Kosovo si
gioca sulla capacità dei più intelligenti fra i leader locali ad assumere non solo nell'abito la
mentalità dello statista piuttosto che quella del boss mafioso o del partigiano.
Hashim Thaci sembra averlo capito. Molti dei suoi, non ancora.
Forse si illudono di poter mungere per sempre la vacca degli aiuti internazionali, trafficando
all'ombra dei nostri militari. Nel caso dovremmo illuminarli sull'improbabilità che il loro Stato
campi in eterno a carico del contribuente europeo.
L' Italia può aggiungere la sua piccola pietra al temperamento della crisi kosovara. Lo dobbiamo
agli albanesi e ai serbi, nelle cui vicende ci siamo immischiati per tutto il secolo scorso, con alterne
intenzioni e risultati spesso disastrosi.
Da quando (1915) D' Annunzio scioglieva la sua ode alla "Serbia di Stefano sire, regno di Lazaro
santo" in odio al "boia d' Asburgo", salvo poi trovare, tre anni dopo, il nostro governo a finanziare il
Comitato per la difesa nazionale del Kosovo insediato dai patrioti schipetari a Scutari.
E dopo aver offerto a albanesi e serbi un saggio del nostro imperialismo di cartapesta, abbiamo
utilizzato la Jugoslavia come barriera antisovietica per tutta la guerra fredda, scaduta la quale
abbiamo finito per bombardarla senza avere il coraggio di ammetterlo, giustificandoci dietro un
"genocidio" per fortuna inesistente.
Ma l'impegno nel riportare sotto controllo l'incendio serbo-albanese lo dobbiamo soprattutto a noi
stessi.
Per noi il Kosovo e gli altri Balcani sono questione di sicurezza nazionale. In termini di stabilità
geopolitica, approvvigionamenti energetici in transito dall' Asia all' Europa, connessioni mafiose
transadriatiche.
Non possiamo trattarli a intermittenza, come fanno gli americani, per i quali sono periferie di una
partita globale. Visti dall'Italia i Balcani occidentali sono "estero vicino" da incardinare nel sistema
euroatlantico.
I traffici di eroina in transito dal Kosovo non vanno in America. Vengono da noi. E' naturale che
Washington se ne disinteressi e quindi consideri i Balcani un settore nemmeno secondario sulla
scala imperiale, pur se gli inguaribili dietrologi di Belgrado restano convinti che Bush persegua un
complotto antiserbo escogitato da Clinton.
Ma se il Kosovo fosse al di là del Rio Grande e non dell' Adriatico, possiamo giurare che l'
approccio della Casa Bianca sarebbe molto diverso.
I nostri interessi nei Balcani non sono quelli americani (che quasi non ne hanno).
Ma allora perché dovremmo sempre e comunque seguirvi le peraltro erratiche orme tracciate da
Washington?
O davvero crediamo, a differenza di tutti i nostri partner, che le alleanze siano un fine in sé e non
uno strumento della sicurezza nazionale?
Ciò che conta nel caso Kosovo è salvare il nostro predellino nel Gruppo di Contatto sui Balcani,
spiegano arguti diplomatici.
Ma chi mai vorrebbe farci fuori, se noi contribuiamo con soldi e soldati in cambio di nulla?
Oramai abbiamo tratto il dado kosovaro. Abbiamo esasperato una crisi credendo di chiuderla una
volta per tutte.
Invece di avvitarci nella discussione su cosa sarebbe stato giusto fare, stabiliamo come affrontare la
realtà che abbiamo contribuito a creare. Ostiniamoci a opporre la prospettiva del dialogo diretto fra i
contendenti al rischio del conflitto.
Serbi e albanesi non sono matti, anche se talvolta sembrano volerci convincere del contrario. Sanno
che i loro destini sono incrociati e che non possono permettersi il lusso del confronto permanente.
Oggi, in parte per nostra colpa o almeno negligenza, pare l' abbiano dimenticato. Vale la pena
provare a ricordarglielo.
Le altre regioni europee in cerca
d’indipendenza
di Cecilia Tosi
Il Kosovo è solo una delle tante (ex) regioni europee popolate da minoranze che reclamano
autonomia o indipendenza dallo Stato centrale. I funzionari di Bruxelles in questi giorni hanno
sottolineato come quella della ex Yugoslavia sia una situazione sui generis, come le politiche
discriminatorie attuate da Milosevic giustifichino svolte impensabili in altri angoli d’Europa, ma
Spagna, Grecia, Cipro, Bulgaria, Slovacchia e soprattutto Russia non la mandano giù. Hanno paura
che il caso Kosovo li coinvolga direttamente. Ecco una lista di alcune regioni-nazione che
impensieriscono gli Stati-nazione.
1) RUSSIA:
Cecenia: Rivendica la sua autonomia da Mosca dal 1991 (prima guerra cecena 1994-1996, seconda
guerra cecena 1999-oggi). Le vittime della lotta per l’indipendenza sono decine di migliaia e quasi
metà della popolazione ha dovuto abbandonare la propria casa per finire nei campi rifugiati.
Attualmente a Grozny è insediato un governo filo russo guidato da Kadyrov e i maggiori leader
della guerriglia, Maskhadov e Basayev, sono stati uccisi. All’indomani della dichiarazione
d’indipendenza kosovara, il ministro degli Esteri del governo ceceno in esilio, Usman Ferzauli, ha
espresso il suo pieno sostegno ai “fratelli” albanesi, sottolineando che le violenze subite durante la
guerra nei Balcani legittimavano pienamente le loro rivendicazioni, così come le aggressioni russe
legittimano la lotta del suo popolo.
Tatarstan: popolato al 53 per cento da musulmani sunniti, la regione del Volga ha lo stesso motto
di Obama: Buldırabız! (We can!). I tatari, ça va sans dire, parlano il tataro e nel 1990, con la
dissoluzione dell’Urss, rivendicarono la loro identità nazionale dichiarando l’indipendenza. Nel
1992 ribadirono la scelta con un referendum, ma negli anni successivi, dietro pressioni del Cremino,
le autorità scelsero di abbandonare la linea dura e di accettare lo status di provincia autonoma. Gli
indipendentisti tatari, però, esistono ancora e possono contare su protettori importanti anche
all’interno dei siloviki, il club di ex Kgb che sostiene il regime putiniano.
Kalmucchia: Il capo della Repubblica è il presidente della federazione di scacchi e il suo territorio
è disseminato di templi buddisti. La popolazione della Kalmucchia preferisce il Dalai Lama a Putin
e riconosce Erdne Ombadykov, un buddista-calmucco-americano, come supremo Lama del Paese.
2) AZERBAIJAN:
Nagorno Karabakh: l’Azerbaijan sostiene che la regione faccia parte integrante del suo territorio,
ma la maggioranza armena (99.7%) che popola la regione ha dichiarato l’indipendenza più di 16
anni fa. A differenza del Kosovo, però, nessuno li sostiene, né l’Unione europea né gli Stati Uniti. I
leader del Nagorno Karabakh affermano che quello balcanico costituisce un precedente importante
e che anche loro, come gli albanesi kosovari, hanno vissuto una guerra sulla propria pelle, quella
che li ha travolti nei primi anni Novanta. Baku ha promesso autonomia, ma la popolazione non
accetterà niente meno dell’indipendenza.
3) GEORGIA:
Ossezia del sud e Abkazia: I russi da anni li spalleggiano, ma al momento del dunque è probabile
che Medvedev freni le loro ambizioni. Abkazia e Ossezia del sud servono a Mosca come spina nel
fianco della ribelle Georgia e sarebbero meno utili una volta indipendenti. Le due regioni, però,
sono in pieno fermento: «Il nostro è un caso ancora più eclatante di quello kosovaro» ha sostenuto
Eduard Kokoity, leader separatista dell’Ossezia del sud, «se ce ne sarà bisogno ci rivolgeremo alle
Nazioni Unite». «Per i popoli come i nostri ci vuole un approccio universale» ha ribadito Sergei
Bagapsh, “presidente” dell’Abkazia, «dopo il Kosovo noi non ci fermeremo».
4) MOLDOVA:
Transnistria: Striscia di terra della Moldova orientale, la Transnistria è già de facto autonoma, per
la gioia di tutti i trafficanti e i contrabbandieri del mondo. Il Cremlino, però, scoppiata la questione
kosovara ha dichiarato che la soluzione alla questione dell’autonomia può risolversi solo «sulla base
della sovranità e dell’integrità territoriale della Moldova». Il ministro degli Esteri russo Zubkov ha
promesso «di costruire un dialogo tra Chisinau e Tiraspol per garantire uno status speciale alla
regione».
5) ROMANIA:
Transilvania: Su 22 milioni di rumeni, 1,4 parla ungherese e si considera magiaro. La maggior
parte di questi vive nella regione occidentale che fu di Dracula e vota l'Udmr, il partito che
rappresenta la minoranza ungherese che nel 2007 ha conquistato il 6.2% dei suffragi. L’Udmr
chiede compensazioni per le confische attuate a danno dei magiari nel primo dopoguerra, mentre
l’Hcv, una formazione più radicale, si batte per l’autonomia della provincia transilvana di Sekely e
la federazione con l’Ungheria .
6) BULGARIA:
Regione dei Pomacchi: Nel sud della Bulgaria vivono da tempo immemorabile 200.000
musulmani, rappresentati in Parlamento dal Movimento per i diritti e la libertà, ma ancora non
riconosciuti come minoranza etnica dal governo. Dopo anni di oppressione, specie durante il regime
filo-sovietico, molti Pomacchi sono emigrati in Turchia, mentre quelli rimasti in Bulgaria vivono
spesso in condizioni di estrema povertà.
7) SPAGNA:
Catalogna: Ricchi, eleganti, trendy. I catalani reclamano l’autonomia, quando non l’indipendenza,
dalla caduta del regime di Franco. Nel 2006 hanno ottenuto lo Statuto di autonomia che definisce la
Catalogna una comunità nazionale che esercita l’autogoverno, ma il documento è stato approvato
con un referendum che ha registrato un alto tasso di astensione, sia da parte di coloro che
pretendevano di più (Esquerra Republicana de Catalunya), che da quelli che lo consideravano già
troppo (il Partito popolare).
Paese Basco: La lotta armata dell’Eta e quella politica di Batasuna non hanno risparmiato neanche
il governo Zapatero. L’organizzazione terroristica ha proclamato una tregua con Madrid per tutto il
2006, ma il 30 dicembre dello stesso anno ha fatto esplodere una bomba nell’aeroporto di Barajas,
uccidendo due persone. Nel 2003 il Partito nazionalista basco ha proposto il Piano Ibarrexte per
modificare in senso autonomista il suo statuto, ma il progetto è stato respinto dalle Cortes. Secondo
la portavoce del governo basco Miren Azkarate «La proclamazione d'indipendenza del Kosovo
rappresenta una lezione sul modo di risolvere in modo pacifico e democratico i conflitti di identità e
di appartenenza»
8) FRANCIA:
Corsica: Nell’isola francese gli indipendentisti sono sempre meno influenti, ma il Cni (Corsica
nazione) ha salutato con «soddisfazione» la dichiarazione unilaterale del Kosovo. E ha inviato una
lettera di congratulazioni al «fratello» Hashim Thaci, nuovo premier di Pristina, invitandolo a
partecipare ai Giorni Internazionali che si terranno a Agosto in Corsica e ai quali parteciperanno le
organizzazioni separatiste basche, catalane, sarde, siciliani, tirolesi e della Bretagna.
9) CIPRO:
Cipro nord: Nonostante gli ordini di Bruxelles, l’isola rimane spaccata in due. I turchi del nord si
sono convinti a accettare l’unità, ma i greci non si fidano e si rifiutano di riconoscere la
dichiarazione d’indipendenza kosovara. La Turchia riconosce solo il governo settentrionale di Cipro
e si rifiuta di aprire collegamenti aerei e navali con il sud. Se Ankara accoglie favorevolmente il
precedente kosovaro per quanto riguarda Cipro, non può dire lo stesso nel caso del Kurdistan e del
Nagorno Karabakh, rivendicato dall’odiata Armenia.
Kosovo: la questione del riconoscimento
di Paolo Quercia
La dichiarazione d’indipendenza del Kosovo è finalmente arrivata, aprendo ora la grande partita
delle conseguenze, delle reazioni e delle ripercussioni.
Sul piano internazionale, i giochi sembrano abbastanza assestati.
Nelle prossime settimane si traccerà la mappa geopolitica dei riconoscimenti internazionali del
Kosovo indipendente.
Da una parte il gruppo dei paesi amici che riconoscono il Kosovo, da subito e qualunque cosa
accada; dall’altro lato quelli decisamente contrari che non riconosceranno mai il Kosovo e che
decideranno quali ritorsioni mettere in atto; in mezzo a questi due blocchi resteranno la maggior
parte dei paesi della comunità internazionale che non hanno in gioco né interessi strategici nei
Balcani né temono effetti Kosovo in altre aree geopolitiche a loro prossime. Questo gruppo è
destinato ad assottigliarsi nel medio lungo termine qualora la statualità del Kosovo dovesse
stabilizzarsi e si risolveranno le potenziali questioni conflittuali aperte dall’indipendenza.
Per il momento il numero di paesi della comunità internazionale che riconoscerà il Kosovo
come stato indipendente sarà importante ma non particolarmente elevato. Alcune stime
prevedono che siano meno di cinquanta. Se guardiamo alla mappa geopolitica dei riconoscimenti
già avvenuti e quelli attesi nelle prossime settimane osserviamo che tre continenti (America Latina,
Africa e Asia) sono per il momento praticamente assenti (con le eccezioni di Afghanistan, Costa
Rica e Senegal).
Per il resto – e per adesso – il riconoscimento del Kosovo è un fatto “occidentale” interno al
blocco geopolitico dell’Unione europea e dell’alleanza atlantica. Ma anche questi due blocchi non
sono compatti, con le importanti defezioni di Spagna, Grecia, Romania e Slovacchia e lo
scetticismo di altri. Il grande vuoto politico è naturalmente rappresentato dall’Unione europea in
quanto tale, che mentre si appresta di varare la sua più importante missione di state building
all’estero (EULEX) non ha trovato il consenso sul riconoscimento dello stato da ricostruire e si
limiterà a prenderne atto.
Da punto di vista interno la posizione dell’Italia è stata molto peculiare e nei mesi scorsi le
nostre opzioni sul riconoscimento sono oscillate tra lo scegliere se far parte della prima ondata o
della seconda.
Nelle scorse settimane la nostra diplomazia ha deciso di sciogliere il nodo allineandoci per dovere
di multilateralismo alle posizioni dei paesi filo-indipendentisti del Gruppo di Contatto.
La situazione italiana è particolare anche per via della situazione politica interna, con le
camere sciolte e il governo in ordinaria amministrazione che assume una responsabilità politica
straordinaria quale il riconoscimento di uno stato contrariamente al diritto consuetudinario delle
Nazioni Unite.
Infine, desta perplessità una delle motivazione addotte dal Ministro degli esteri in favore del
riconoscimento italiano per cui o riconosciamo il Kosovo indipendente o ritiriamo le truppe dalla
missione KFOR. Questa esplicita dichiarazione getta un ombra preoccupante su tutte le nostre
missioni militari all’estero, che invece di essere uno strumento di politica estera e di sicurezza
rischiano di diventare un ulteriore vincolo di condizionalità per il nostro paese.
Balcani
di Lucio Caracciolo
“Perché devo essere minoranza nel tuo Stato se tu puoi esserlo nel mio?”.
I Balcani in una frase.
Dai primi anni Novanta a oggi, dalle secessioni slovena e croata fino all’indipendenza del Kosovo,
chissà quanti milioni di volte quest’aureo motto è passato per la testa dei protagonisti dei massacri
postjugoslavi.
Certo, non è una specialità esclusiva della marca veterocontinentale nota nell’Ottocento come
“Turchia europea”, e di cui l’ex Jugoslavia è stata, fra la fine del secondo conflitto mondiale e
l’esaurirsi della guerra fredda, la porta verso l’Occidente.
Ma in nessun’altra parte del mondo si è consumata con così feroce acribia la Kleinstaaterei, termine
germanico con cui si designa lo sminuzzamento senza fine dei territori in nome della “purezza”
etnica. E che ormai tutti traducono con “balcanizzazione”.
La pulsione balcanizzante verso il sempre più piccolo in quanto sempre più “puro” ha tagliato un
altro traguardo in questi giorni, con l’autoproclamazione del Kosovo indipendente.
Eppure c’è uno iato fra apparenza e sostanza. Non esiste un solo Kosovo, ma almeno tre.
Uno virtuale, inscritto nella costituzione serba e soprattutto nella risoluzione 1244 del Consiglio di
Sicurezza, con cui Belgrado si garantisce una base di rivendicazione permanente.
E due effettivi: quello albanese, con capitale Pristina, e quello serbo, molto più esiguo, arroccato
oltre il fiume Ibar, con le sue ramificazioni nelle enclavi serbe del Centro-Sud.
Nessuno dei due staterelli è davvero indipendente: il Kosovo nato dalla parziale vittoria della Nato
nella guerra contro la Jugoslavia si regge grazie agli aiuti europei, alla protezione atlantica e ai
traffici di armi e di droga fra Asia ed Europa di cui è uno snodo rilevante; il secondo, altrettanto
torbido e ancora più asfittico, si aggrappa alla madre Serbia, di cui resta parte.
Insieme, questi territori occupano lo spazio dell’Abruzzo e hanno meno abitanti di Roma.
E’ probabile che la produzione di Stati per mezzo di Stati prosegua, nei Balcani e oltre. Il battesimo
del Kosovo si può leggere nel contesto di una tendenza geopolitica alla moltiplicazione delle
frontiere, che dalla fine della guerra fredda ha generato decine di nuovi Stati o sedicenti tali.
E’ la globalizzazione della balcanizzazione.
Oramai chiunque nel mondo si autoassegni il titolo di minoranza oppressa potrà legittimamente
ambire – alla faccia dello pseudo-diritto internazionale e delle Nazioni Unite – a vedersi
riconosciuto come Stato con annessi bandiera e protocollo.
Riusciranno i Balcani a sopravvivere alla balcanizzazione permanente?
Nell’economia-mondo sono una regione marginale. Territori di transito per commerci poco
commendevoli e per gli idrocarburi provenienti dalla Russia e dall’Asia centro-occidentale.
In prospettiva, ricongiungendo i territori ex jugoslavi con Bulgaria e Romania sotto il tetto
comunitario, dovrebbero costituire il fianco sud-orientale dell’Unione Europea (e della Nato).
In senso geopolitico, hanno valore diverso per le potenze esterne che vi sono coinvolte. Europei,
americani e russi hanno infatti idee difficilmente conciliabili sui Balcani.
Gli europei vorrebbero dimenticarli. Ma non possono, per ragioni di sicurezza nazionale (mafie e
traffici) e per i corridoi energetici. Sicché ne hanno fatto molto malvolentieri dei semiprotettorati,
dove i protetti sfruttano i protettori. Perché i balcanici sanno bene quello che vogliono – i nostri
soldi e i nostri soldati - gli “internazionali” no.
Inoltre, gli europei sono divisi in ragione della prossimità o lontananza geografica e della presenza
di diaspore balcaniche nei rispettivi paesi. Così Berlino ha sempre sostenuto la causa albanese in
Kosovo anche perché spera che la parte di diaspora kosovara in Germania coinvolta in traffici
criminali voglia tornarsene nella patria liberata.
Infine, per spagnoli, greci, ciprioti, slovacchi, romeni e altri conta soprattutto il rischio
balcanizzazione. E infatti le rispettive minoranze – a cominciare dai baschi – guardano al percorso
del Kosovo come a un incoraggiante modello.
Quanto a noi italiani, il Kosovo e gli altri Balcani sono – o dovrebbero essere – questione di
sicurezza nazionale.
Ci toccano per via dei traffici criminali e degli idrocarburi che attraversandoli puntano verso la
nostra penisola. Negli ultimi quindici anni, peraltro, abbiamo agito di conserva, sulla scia di quanto
deciso dai partner maggiori, anche quando non eravamo d’accordo. Secondo la gloriosa tradizione
diplomatica italiana, per cui conta comunque assicurarsi un posto a tavola anche se il menù lo
fissano gli altri.
Gli americani stentano a individuare i Balcani sulla carta geografica. Quando Clinton decise di
bombardare la Jugoslavia, si presentò in tv con una mappa per spiegare ai connazionali di che cosa
stesse parlando.
A Washington dei tormenti balcanici se ne infischierebbero volentieri. Ma non possono, in quanto
potenza globale con relative necessità geostrategiche (basi militari).
All’intelligence Usa interessa poi tener d’occhio i territori d’impronta islamica – dalla Bosnia al
Sangiaccato serbo-montenegrino, dall’Albania al Kosovo e alla Macedonia occidentale – con le
residue cellule jihadiste ivi incistate.
Per i russi i Balcani sono il tramite verso il Mediterraneo. Grazie alla dissoluzione della Jugoslavia
– bastione antisovietico durante la guerra fredda – e usando della miscela mafie-energia-ortodossia,
veicolo della sua influenza nella regione, la Russia è per la prima volta nella storia una potenza
adriatica a tutto tondo. I Balcani si stanno consolidando come braccio centro-meridionale della
connessione euro-russa. Qualcuno già la chiama “Eurussia”.
Nel 1907, il giornalista Harry de Windt titolò un suo libro sui Balcani Europa selvaggia. Spiegando
che “il termine descrive accuratamente le terre selvagge e senza legge tra Adriatico e Mar Nero”.
E’ passato un secolo, ma lo stereotipo resta. Forse anche per questo molti balcanici non amano
definirsi tali. Da Trieste in giù i Balcani cominciano sempre più a sud di se stessi. D’altronde,
nessuno sa bene dove siano, giacchè la catena montuosa eponima, in Bulgaria, non delimita alcun
territorio.
Forse dovremo rassegnarci all’idea che i Balcani sono una metafora. Non stanno in nessun luogo,
da nessuna parte. Solo dentro di noi.